MEDIOEVO DOSSIER
EDIO VO M E Dossier
vita al tempo della la
la vita al tempo DELLA PESTE
Bimestrale - My Way Media Srl
€ 6,90 N°5 2013
Peste
il terrore • la medicina • l’arte
la vita al tempo della
peste
di Chiara Mercuri e Maria Paola Zanoboni
4 Presentazione La peste nella storia Il contesto storico 8 Tra crisi e contagio I lazzaretti 28 Per curare gli appestati Arte e superstizione 50 La fede e il pregiudizio Farmacisti e speziali 76 In cerca di un rimedio I medici 94 I segreti dell’Ars medica Gli ospedali 122 La casa degli ammalati
peste
Presentazione
La peste nella storia di Chiara Mercuri e Maria Paola Zanoboni
La peste in una città antica, olio su tela di Michael Sweerts (1618-1664). 1652-1654. Los Angeles, Los Angeles County Museum of Art. La prima pestilenza in Europa descritta da fonti storiche fu quella che flagellò Atene tra il 430 e il 429 a.C., durante la guerra del Peloponneso, di cui diede conto Tucidide.
PESTE
Presentazione
N
el 1348, portato da navi genovesi provenienti dall’Oriente, un cocktail letale – peste polmonare e peste bubbonica – attecchí in Sicilia, invadendo da lí l’intera Europa occidentale. Per secoli gli Europei erano stati preservati da contagi di tale violenza e ciò contribuí non poco alla diffusione dell’epidemia. Infatti, contrariamente a quanto si pensa, i secoli centrali del Medioevo furono caratterizzati, soprattutto in Italia, dall’assenza di pandemie; inoltre, quando vi furono, esse non ebbero conseguenze paragonabili ai contagi che avevano colpito la Penisola nell’antichità (e che la colpiranno in età moderna). Proprio a seguito di tale assenza, la popolazione medievale aveva sviluppato da generazioni una certa carenza immunitaria nei confronti della gran parte delle malattie da 6
la vita al tempo della peste
contagio. Per non parlare dell’inesperienza dei medici e dell’assenza di nozioni d’igiene pubblica e profilassi. In altre parole, il mondo medievale era del tutto impreparato a un contagio cosí violento e letale. L’Europa ne fu investita senza riuscire – tranne in pochissimi casi – a predisporre le piú basilari difese. Cosí, alcune regioni furono quasi spopolate e intere città annientate; si calcola che almeno un terzo della popolazione europea, nel giro di pochi mesi, morí. Il primo storico a descrivere accuratamente un’epidemia di peste fu Tucidide, il quale, narrando le vicende della guerra del Peloponneso (431-430 a.C.) tra Atene e Sparta, racconta come l’epidemia fosse scoppiata in Etiopia, imperversando poi in Persia e in Egitto prima di raggiungere la Grecia, in un momento critico, durante
Miniatura raffigurante la processione guidata a Roma da papa Gregorio Magno per invocare la fine della pestilenza; in secondo piano, si riconosce l’arcangelo Michele che rinfodera la spada, segno del suo miracoloso intervento in favore della città, da Les Très riches Heures du Duc de Berry, capolavoro dei tre fratelli Limbourg, 1413 circa. Chantilly, Musée Condé.
l’assedio di Atene, e in condizioni igienico-sanitarie disastrose. Migliaia furono i morti, fra cui lo stesso Pericle (429 a.C). Non c’era rimedio che funzionasse: quello che faceva bene in un caso, si rivelava nocivo in un altro e chi guariva non era immune da ricadute. Molti evitavano di soccorrere i loro cari, che rimanevano a gemere abbandonati; si moriva per strada e nei luoghi pubblici; i cadaveri venivano lasciati insepolti o cremati in massa. Gli uomini avevano perduto ogni rispetto per l’onore, la legge e gli dèi, dilapidavano le loro sostanze nel godimento sfrenato, ritenendo ormai effimere la vita e la ricchezza. Acuto e attento osservatore della realtà, lo storico enumera i sintomi e gli effetti della malattia con la precisione di un referto medico, per poi allargarsi alle ripercussioni sull’anima. Lo sconforto, la solitudine, la minaccia alle norme dell’umana convivenza, il venir meno dei freni inibitori e la sfrenatezza nel comportamento da lui descritti, divennero materia di ispirazione diretta non solo per Lucrezio, ma anche per Boccaccio, Manzoni e Camus. Tucidide, che aveva sperimentato personalmente la malattia, e aveva «visto gli altri soffrirne», intendeva descrivere «come la pestilenza si sia manifestata, e con quali sintomi; in modo che, se un giorno dovesse di nuovo tornare a infierire, ognuno conoscendone prima le caratteristiche, abbia modo di sapere di che si tratta». Benchè il morbo venisse dall’Etiopia, Tucidide non nasconde che fu l’avvelenamento dei pozzi perpetrato dagli Spartani a favorirne la diffusione (cosa che ha fatto ipotizzare che si trattasse in realtà di tifo). L’epidemia indebolí Atene a tal punto da essere considerata una delle cause della sua sconfitta. Anche Lucrezio inserí la peste di Atene nel De rerum natura, con una descrizione che riprende molto da vicino quella di Tucidide, anche se con uno scopo completamente diverso: quello di dimostrare l’utilità della dottrina epicurea nello sconfiggere la paura e nel raggiungimento della serenità interiore persino in presenza delle peggiori catastrofi. Dopo di lui Tacito narrò l’epidemia scoppiata a Roma nel 66 d.C., mentre Galeno fu testimone della «peste antonina» del II secolo d.C. Le pestilenze si ripeterono periodicamente fino alla metà dell’VIII secolo. Imperversarono soprattutto tra il V e il VI
secolo, al tempo dell’imperatore Giustiniano (482565): l’epidemia piú grave verificatasi durante il suo regno, quella del 542, venne descritta dallo storico Procopio di Cesarea (De bello Persico, II,22) che ne elenca dettagliatamente i sintomi: «A questo castigo di Dio – scrive – niun divario ponevano il sesso e l’età (…) Incominciava la malattia con febbre improvvisa, e spesso sí lieve da non credere al pericolo se non quando un bubbone nasceva in qualche parte del corpo; accompagnavano non di rado la febbre il sopore o il delirio (…) e per frenesia, non per sete, molti si gettavano nell’acqua. La morte avveniva dopo parecchi giorni, oppure rapidamente, vomitando sangue: anzi taluno era tratto di vita prima ancora d’apparire malato, come preso da apoplessia o da folgore». Il quadro dipinto da Procopio di Cesarea si trasforma in un grande affresco in Paolo Diacono, che nella sua Historia Langobardorum (II, 4), delinea non soltanto i sintomi e il progredire della malattia, ma mette in evidenza anche tutti i risvolti economici e sociali: «In quel tempo, e soprattutto in Liguria, scoppiò una terribile pestilenza. Comparivano improvvisamente macchie nelle case, sulle porte, sui vestiti, sui vasi, e cercando di toglierle diventavano sempre piú grandi. A un anno di distanza da tale fenomeno la gente cominciò ad ammalarsi: le ghiandole inguinali e di altre zone del corpo diventavano grandi come noci, e a tale sintomo seguiva un ardore febbrile intollerabile che portava alla morte nell’arco di tre giorni. Chi riusciva a superare i primi tre giorni aveva speranza di sopravvivere. Ovunque era lutto, ovunque lacrime. Fuggivano i figli, lasciando insepolti i cadaveri dei genitori, e i genitori, dimentichi dell’amore per i figli, li abbandonavano in preda alla febbre. (…) Il mondo era ridotto a un silenzio primordiale: nessuna voce nei campi, nessun fischio di pastori, nessuna insidia di fiere contro le greggi, nessun furto di volatili domestici. Trascorso il tempo del raccolto, le messi aspettavano intatte il mietitore; le vigne, cadute le foglie che coronavano l’uva, restavano senza vendemmia all’avvicinarsi dell’inverno. (...) Per le strade deserte i cadaveri si perdevano a vista d’occhio. I pascoli divennero cimiteri e le dimore umane si trasformarono in tane di belve. La pestilenza si estese a tutta l’Italia, dalle terre romane alla regione degli Alamanni e dei Bavari». Tra le epidemie dell’Alto Medioevo, va ricordata anche quella che colpí Roma nel 590, contrassegnata dalla miracolosa salvezza della città operata dall’arcangelo Michele, dopo una processione guidata da papa Gregorio Magno. A ricordare l’episodio venne posta una statua in cima alla Mole Adriana, ribattezzata per l’occasione «Castel Sant’Angelo». In seguito la malattia scomparve dall’Europa per ripresentarsi tra il 1347 e il 1348... la vita al tempo della peste
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il contesto storico 8
Tra crisi e di Maria Paola Zanoboni
contagio Il flagello che nel 1348 sconvolse l’Europa ebbe effetti devastanti non soltanto sul piano sanitario. La peste, infatti, acuí i problemi di natura economica e sociale innescati dal tracollo delle grandi compagnie bancarie e creò scompensi enormi nella disponibilità di forza lavoro Miniatura attribuita al Maestro «dell’Echevinage» di Rouen, raffigurante i dieci giovani protagonisti del Decameron di Giovanni Boccaccio, da un’edizione francese del XV sec. Parigi, Bibliothèque de l’Arsénal. Nell’illustrazione è rappresentato, a destra, il gruppo di sette donne e tre uomini che, per sfuggire alla Peste Nera, trascorre dieci giorni nelle campagne fiorentine. Sulla sinistra, cinta dalle mura, è la città di Firenze, in cui la morte continua a mietere vittime un giorno dopo l’altro.
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titolo
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PESTE
Il contesto storico
S
econdo la trstimonianza del notaio piacentino Gabriele de’ Mussi (1280 circa-1356 circa), la pestilenza arrivò in Sicilia, a Messina, nell’ottobre del 1347, a bordo di una flotta di galee genovesi in fuga dal porto di Caffa, colonia della Repubblica ligure sulla costa della Crimea, dove il morbo era stato diffuso nel 1346-47 da un esercito mongolo che aveva preso d’assedio la città. Dalla Sicilia l’infezione si propagò al resto della Penisola. Nel giro di tre anni l’intera Europa fu contagiata e, da allora, la peste flagellò il Vecchio Continente fino alla prima metà del XVIII secolo. Proprio con la descrizione dell’epidemia del 1348 Giovanni Boccaccio diede inizio al Decameron, la cui introduzione è un’attenta analisi della molteplicità dei risvolti eziologici, sociali, economici e psicologici del fenomeno e rap-
presenta una testimonianza di primaria importanza sia per la storia della medicina, sia per quella del costume, della società, dell’assistenza. Venuto dall’Oriente nel momento in cui Firenze era piú bella, il morbo – dice il Boccaccio – si diffuse nonostante i provvedimenti igienici presi per cercare di fermarlo: la pulitura della città dalle immondizie e il divieto di entrarvi agli ammalati. Nell’accurata enumerazione dei sintomi della malattia, lo scrittore rivela chiaramente che si trattava di peste bubbonica, distinguendola dalla versione orientale, caratterizzata invece dal flusso di sangue dal naso (forse peste polmonare). Osserva poi che il contagio avveniva non soltanto mediante la vicinanza a un malato, ma anche attraverso il contatto con oggetti, e, soprattutto, con indumenti utilizzati da un infermo, passando indifferentemente dagli uomini
In questa pagina particolare di un capolettera miniato raffigurante un vescovo che benedice quattro clerici appestati, dall’Omne Bonum, enciclopedia del sapere di James le Palmer. 1360-75, Londra, British Library. Nel corso delle epidemie il clero portava assistenza agli ammalati e, talvolta, governava le città abbandonate dai maggiorenti, come fece san Carlo Borromeo durante la peste di Milano del 1576.
CRONOLOGIA DELLE PRINCIPALI EPIDEMIE DI PESTE
430-429 a.C. pestilenza di Atene descritta da Tucidide e da Lucrezio.
66 d.C. epidemia a Roma narrata da Tacito.
542 d.C. «peste di Giustiniano» descritta da Procopio di Cesarea.
V-VI secolo morbo endemico, continuo ripetersi di epidemie.
590 d.C. pestilenza a Roma dopo la quale la Mole Adriana venne ribattezzata «Castel Sant’Angelo».
VIII secolo la malattia scompare dall’Europa.
1348 la peste torna in Europa, epidemia descritta dal Boccaccio.
1524 epidemia durante la quale a Milano venne creato un cimitero apposito per gli appestati.
XIV-XVII secolo morbo endemico, continuo ripetersi di epidemie.
1630 pestilenza narrata nei Promessi Sposi e documentata da Giuseppe Ripamonti.
1576-1577 «peste di San Carlo»: l’epidemia comparve in Trentino nel 1574, contagiò nel 1576 Milano e si diffuse poi in tutta Italia, anche a causa degli spostamenti dei pellegrini per il Giubileo indetto in quell’anno.
agli animali e dagli animali agli uomini. Non c’era rimedio valido, pochissimi guarivano, e la maggior parte degli infettati moriva tre giorni dopo l’apparire dei sintomi.
Reazioni contrastanti
Devastanti erano gli effetti psicologici: gli infermi venivano abbandonati e si evitava ogni contatto con loro e con le loro cose. Venne meno il rispetto per le leggi umane e divine, ciascuno cominciò a ritenere lecito ciò che piú gradiva. Alcuni si chiusero in casa mangiando e bevendo con moderazione, e isolandosi completamente dal mondo, non volendo «di fuori, di morte o d’infermi alcuna novella sentire». Altri si diedero agli eccessi piú sfrenati, vagando da una taverna all’altra senza negarsi nulla, ritenendo «il bere assai e il godere e l’andar cantando attorno e sollazzan-
1665 epidemia di Londra descritta da Defoe.
Mare del Nord
Oceano Atlantico
1720-1721 epidemia di Marsiglia: il morbo viene debellato dall’Europa grazie a un rigido cordone sanitario.
A destra cartina nella quale sono riportate le piú importanti epidemie in Europa. Le pestilenze, naturalmente, non colpirono solo le città indicate, ma ebbero sempre una diffusione ben piú ampia.
do e il soddisfare ogni cosa all’appetito che si potesse, e di ciò che avveniva ridersi e beffarsi esser medicina certissima a tanto male». Altri ancora si illudevano che fiori, erbe odorose e spezie li avrebbero preservati dalla malattia. Altri, infine, fuggirono dalla città per rifugiarsi nelle campagne. Il terrore del contagio si era insinuato cosí a fondo negli animi che «l’un fratello l’altro abbandonava, e il zio il nipote, e la sorella il fratello, e spesse volte la donna il suo marito; e (che maggior cosa è e quasi non credibile), li padri e le madri i figlioli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano». Agli infermi non rimaneva altro aiuto che la carità di pochi amici, e soprattutto l’avidità dei domestici, che, attratti da «grossi salari», si prestavano a svolgere le mansioni piú rischiose, perdendo spesso essi stessi la vita insieme al guadagno.
Mosca
Copenaghen Londra 1629 1665
Lubecca Amsterdam 1663-1664 Varsavia Francoforte
Rouen Parigi
Marsiglia 1720-1721 Barcellona
Praga Caffa 1346 -1347
Vienna Milano 1524 1576 1630
Toledo
Varsavia
Magdeburgo
Firenze 1348 1383
Venezia 1329
Bucarest
Ravenna Salonicco
Ankara
Roma 66 d.C. 590 Atene 430-429 a.C. Messina 1347
Mar Mediterraneo
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PESTE
Il contesto storico
le TIPOLOGIe della malattia E le ipotesi SULLA LORO DIFFUSIONE Può apparire sorprendente, ma si discute ancora oggi sull’esatta individuazione della malattia che solo alla fine dell’Ottocento fu identificata scientificamente come «peste». Il morbo, infatti, endemico dal 1347 all’inizio del Settecento, venne debellato in Europa grazie al «cordone sanitario» di Marsiglia (1720-21), per cui il dibattito clinico non potè proseguire parallelamente all’approfondirsi delle conoscenze mediche. Il bacillo venne isolato soltanto nel 1894 da Alexandre Yersin (dell’Istituto Pasteur di Parigi) quando l’epidemia si
ripresentò a Hong Kong. Il batterio causa di quella pandemia, che imperversò in Asia tra il 1894 e il 1899, e contro la quale Yersin riuscí a produrre un siero, venne battezzato come «Pasteurella pestis» ovvero «Yersinia pestis», ma non c’è modo di sapere se il bacillo isolato alla fine del XIX secolo fosse lo stesso che aveva prodotto le epidemie europee dall’epoca del Boccaccio in poi. La malattia descritta da Yersin si presenta in tre forme, distinte a seconda dei sintomi prevalenti: bubbonica, polmonare e setticemica (in quest’ultima il batterio è localizzato nel sangue). Il contagio colpisce in genere i roditori (soprattutto i topi) e viene trasmesso agli esseri umani dalle pulci, che possono però nascondersi e sopravvivere per un certo periodo (29 giorni circa), anche in
riserve di cibo (carichi di grano soprattutto), abiti, tessuti, balle di lana, pellicce, tappeti. Quasi tutti gli studiosi ritengono che l’epidemia del 1347-48 fosse di peste bubbonica, e che questa forma abbia caratterizzato la maggior parte delle pandemie dei secoli XIV e XV. Le teorie sull’origine e sulla diffusione della peste sono riconducibili a due matrici principali. Quelle filosofiche, che, rifacendosi alle dottrine aristoteliche, ritenevano che una determinata posizione dei corpi celesti potesse provocare perturbazioni nell’atmosfera, le quali, a loro volta, producevano una corruzione dell’aria (miasma) causa della malattia. Il termine greco «loimos», traducibile con «pestilenza», indica appunto l’affezione diffusa dall’inquinamento dell’aria. Oltre a quelli celesti, fattori che potevano provocare il «miasma« erano le esalazioni dagli stagni e dalle paludi prodotte dalla canicola, e quelle dovute alla putrefazione. Ippocrate, per esempio, riteneva che in certe condizioni atmosferiche, soprattutto col prolungarsi di periodi umidi, l’aria potesse corrompersi, avvelenando chi la respirava. Galeno elaborò quest’idea, aggiungendo che anche le acque stagnanti, i cadaveri insepolti, e in genere le materie putride, potessero contaminare l’aria. Avicenna aggiunse un terzo elemento: gli influssi astrologici potevano provocare terremoti che, a loro volta, liberavano aria putrida dalle viscere della terra, corrompendo l’atmosfera. Se la
Particolare di una miniatura raffigurante le cure date agli appestati, da La Franceschina, libro dell’Ordine francescano redatto da Giacomo Oddi e dedicato alla vita di san Francesco e dei primi Francescani. XV sec. Perugia, Biblioteca Comunale Augusta. Le fonti descrivono una gravissima epidemia di peste che colpí, nel 1475 e per cinque anni, il territorio perugino, mietendo numerose vittime.
causa era l’avvelenamento dell’aria, la miglior misura preventiva consisteva nel chiudersi in casa con le finestre ben sprangate, bruciando legni aromatici e cospargendo il pavimento di acqua di rose o di aceto. Le teorie empiriche, invece, basandosi sull’osservazione e sull’esperienza, attribuivano il diffondersi del morbo al contatto diretto con uomini, animali od oggetti infetti. Questo secondo modo di concepire il propagarsi della peste, elaborato compiutamente soltanto verso la metà del Cinquecento dal medico Gerolamo Fracastoro, era in realtà già stato ventilato dal Boccaccio e da Matteo Villani in occasione dell’epidemia del 1348. A tal proposito il Villani scriveva: «Parea che questa impestifera infezione s’appiccasse per la veduta e per lo toccamento», mentre il Boccaccio rilevava come anche il contatto con gli oggetti e soprattutto con gli indumenti degli infermi contribuisse a propagare la malattia. I rimedi, comunque, erano pressochè inesistenti e inutili, se non addirittura dannosi: misture, cataplasmi, aromi, amuleti contenenti arsenico, stagno o mercurio, che avrebbero dovuto far fuoriuscire ed eliminare il morbo, ma che invece erano altamente nocivi alla salute. E ancora: veleno di vipere, rospi o scorpioni, chele di granchio, limatura di zoccoli di cavallo, o impiastri contenenti grasso di anatra, miele, trementina, fuliggine, melassa, tuorli d’uovo e olio di scorpione, da applicare sui bubboni.
Vennero meno il senso del pudore, il decoro nei riti funebri, molti morivano soli senza essere pianti da nessuno, anzi, in luogo delle lacrime «s’usavano per li piú risa e motti e festeggiar compagnevole». Raramente la bara veniva accompagnata in chiesa da piú di 10-12 persone, trasportata non da onorati cittadini amici del defunto, come di consuetudine, ma da «una maniera di beccamorti sopravenuti di minuta gente, che chiamar si facevano becchini, la quale questi servigi prezzolata faceva», e che «con poco lume» e spesso senza alcun seguito, sotterravano poi il feretro nella prima sepoltura che trovavano libera. Se questa era la sorte dei benestanti, molto peggiore era la situazione della povera gente e di gran parte del ceto medio: morivano a migliaia senza alcun aiuto, per strada o imputridendo nelle case. Erano allora i vicini a occuparsi della sepoltura, mossi non da pietà, ma dal timore dei miasmi e del contagio. Molti cadaveri venivano ammucchiati in una stessa bara, e non ci si curava degli uomini che morivano piú di quanto ci si curerebbe delle capre. I corpi erano gettati a centinaia nelle fosse comuni «e in quelle stivati come si mettono le mercatantie nelle navi a suolo a suolo». Tremende erano poi le condizioni del contado i cui abitanti «non come uomini ma quasi come bestie morieno».
Tra il marzo e il luglio del 1348 – conclude Boccaccio - «oltre a centomilia creature umane si crede per certo dentro alle mura della città di Firenze essere state di vita tolte».
Gli antecedenti del flagello
Il disastro descritto nel Decameron veniva a coronare una situazione già di per sé esplosiva. A Firenze, infatti, il decennio 1338-1348 era stato caratterizzato da un netto peggioramento delle condizioni di vita della maggior parte della popolazione: oltre a epidemie di vario genere che precedettero la peste, la città precipitò in una grave recessione economica, dovuta a una complessa combinazione di fattori locali e internazionali, a cui non fu estraneo il mondo dell’alta finanza, il cui tracollo fu proporzionale alle dimensioni che avevano raggiunto le imprese della città. Tra la fine del Duecento e il primo Trecento le compagnie bancarie fiorentine avevano infatti raggiunto proporzioni enormi. I Frescobaldi, gli Scali, gli Amieri, i Bardi, i Peruzzi, gli Acciaioli costituivano ormai vere e proprie multinazionali, dotate di capitali ingentissimi, in grado di commerciare gli articoli piú svariati e di insediare propri rappresentanti in tutti i luoghi strategici dell’attività economica: da Bari a Marsiglia, da Parigi a Bruges, da Londra a Barcellona, a Costantinopoli, Cipro, Rodi, Gerusala vita al tempo della peste
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PESTE
Il contesto storico
lemme. I loro profitti potevano raggiungere il 15-20% del capitale investito. I Frescobaldi avevano anche anticipato ingenti somme di denaro ai sovrani inglesi in cambio di privilegi, come lo sfruttamento delle miniere del Devon, la riscossione dei diritti regi in Irlanda, l’esazione delle rendite di gran parte dei possedimenti inglesi in Francia. Dal 1300 avevano ottenuto addirittura la direzione dell’Exchange, l’ufficio centrale del cambio, incarico che li mise nelle condizioni di controllare l’intera politica monetaria del regno.
L’insolvenza della Corona inglese
Dall’inizio degli anni Trenta i profitti cominciarono a scendere e la congiuntura si deteriorò decisamente dopo il 1340, quando divenne chiaro che il re inglese Edoardo III non era in grado di restituire ai mercanti-banchieri fiorentini le enormi somme che gli erano state anticipate per coprire i costi dell’impegno militare contro i Francesi allo scoppiare della guerra dei Cent’anni (1338). Ad aggravare il quadro si aggiunse il raffreddarsi delle relazioni di Firenze con i sovrani di Napoli e il clima di sospetto che spinse i titolari di depositi presso le compagnie fiorentine a una vera e propria corsa al prelievo. Questi rovesci innescarono una catena di fallimenti inarrestabile. Dal 1341 dichiararono bancarotta gli Acciaioli, i Bonaccorsi, i Cocchi, gli Antellesi, i Corsini, i da Uzzano, i Pedendoli; nel 1343 fallirono i Peruzzi e, tre anni piú tardi, fu la volta dei Bardi. Il crollo delle grandi compagnie travolse anche tutti coloro che avevano continuato a mantenervi i depositi, dai ricchi rentier ai piccoli risparmiatori. Dato che molte compagnie bancarie erano coinvolte anche in attività manifatturiere e mercantili, direttamente, o come finanziatrici, e quindi erogatrici di liquidità, l’impatto della crisi sull’economia urbana fu globale. E negli stessi anni, per analoghi motivi, non stavano affatto meglio i banchieri senesi, ugualmente coinvolti nei prestiti internazionali, soprattutto nei confronti del re di Francia. Il fallimento dei Bardi e dei Peruzzi portò dunque al collasso altre sette importanti compagnie fiorentine, ripercuotendosi poi su svariati settori dell’economia. Nel 1345 il Comune stesso arrivò implicitamente a dichiarare fallimento, stabilendo la negoziabilità dei titoli del debito pubblico (fino ad allora non trasferibili), e
Nella pagina accanto la distribuzione del cibo in tempo di carestia, minatura del Maestro del Biadaiolo. XIV sec., Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana. Nella prima metà del Trecento, l’economia delle città toscane entrò in crisi, causando fallimenti, disoccupazione e aumento dei prezzi. La situazione fu aggravata da un «ciclo infernale» di catastrofi naturali, carestie e poi dalla peste del 1348.
facendone perciò precipitare la quotazione, con effetto analogo a quello degli odierni crolli di borsa: i cittadini persero i propri risparmi e la mancanza di liquidità dovuta alla drastica contrazione del credito colpí tutti i settori del commercio e della manifattura. Come ricorda Giovanni Villani, «non rimase quasi sustanzia di pecunia ne’ nostri cittadini». L’economia già abbondantemente depressa si deflazionò ancora di piú tra il 1345 e il 1347 per l’aumento del prezzo dell’argento (rivalutatosi sull’oro di oltre il 30%), che ridusse drasticamente i profitti dei produttori e dei mercanti internazionali, i quali venivano pagati in oro dai clienti stranieri, ma dovevano far fronte con la moneta argentea alla maggior parte delle spese. La crisi dell’economia portò a una diffusa disoccupazione e a un aumento dei prezzi delle materie prime; a peggiorare la situazione, i governi che si susseguirono nella città imposero la tassazione diretta basata sulla «prestanza» (particolarmente alta tra il settembre 1342 e il luglio 1343 con Gualtieri di Brienne, «duca di Atene»), consistente in un prestito forzoso imposto a ogni singola persona, dai magnati ai ceti piú umili, indipendentemente dal patrimonio immobiliare posseduto. Il lungo periodo di depressione economica, a cui si aggiungevano i disastri naturali (basti pensare all’alluvione causata dallo straripamento dell’Arno il 4 novembre 1333), portò, tra il 1342 e il 1347, a una serie di disordini popolari, spesso messi in atto da lavoratori sottoposti (come il cardatore Ciuto Brandini) e indirizzati contro le gabelle e il «popolo grasso». Le autorità cercarono di reagire soffocando le insurrezioni e istituendo rigorosi controlli sull’importazione e sulla vendita del grano per calmierarne i prezzi. Venne elaborata una legislazione che consentisse di procedere rapidamente contro i venditori che cercavano di frodare gli acquirenti e che permettesse alla gente di comprare il pane a prezzo politico.
La crisi economica dei primi decenni del Trecento fece fallire le piú importanti compagnie bancarie toscane e causò il tracollo finanziario dello stesso Comune di Firenze
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Il grano non basta piú
Il problema dei rifornimenti di grano si fece particolarmente drammatico tra il 1345 e il 1347, quando le piogge autunnali e primaverili fecero marcire il raccolto, producendo in tutta la Toscana la carestia peggiore di tutta la prima metà del secolo. Il raccolto del 1346 si ridusse a 1/4 e talvolta persino a 1/6 del normale, coprendo il fabbisogno di Firenze e del
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PESTE
Il contesto storico
crisi economica e crollo demografico
Dopo tre secoli di crescita quasi continua, all’inizio del Trecento, una serie di disastrosi eventi climatici e le gravi carestie che seguirono indebolirono la popolazione europea, favorendo la diffusione delle epidemie di peste che investirono il continente a partire dal 1348, ripresentandosi piú volte lungo tutto il XV secolo e provocando forti cali nella popolazione. Si stima che, nei primi decenni del Quattrocento, in tutta Italia la popolazione passò, dai 12 milioni e 500 000 abitanti dell’epoca precedente la pestilenza, a 9 milioni nei cinque anni successivi, per scendere fino ai 7 milioni e 300 000 abitanti della metà del Quattrocento. Le ripercussioni sul sistema economico furono gravissime, in quanto la carenza di manodopera provocò l’aumento incontrollato dei salari.
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Milioni di abitanti
1340 1400
16
12,5 11 8,3
7,7 5,3
Italia
Risvolti demografici ed economici
9,5
9
4,4
Germania Inghilterra Francia
Spagna
contado soltanto per qualche settimana. Sebbene le autorità municipali importassero grandi quantità di cereali dalla Sicilia, dalla Sardegna e dalla Tunisia, il prezzo del grano salí costantemente fino a raddoppiare, e paradossalmente, i piú colpiti erano i contadini, costretti a rubare per sfamarsi, mentre la situazione in città era leggermente migliore, appunto grazie alla politica annonaria fatta di massicce importazioni. Nel maggio del 1347 l’ospedale fiorentino di S. Maria Nuova fu sommerso di ammalati poveri, colpiti da un’epidemia di dissenteria dovuta alla malnutrizione, mentre i prigionieri chiusi nel carcere delle Stinche morivano di fame, nonostante gli sforzi delle istituzioni assistenziali per aiutarli. La situazione era tale che le 16
la vita al tempo della peste
compagnie di beneficenza dovevano occuparsi ormai non soltanto dei piccoli artigiani e dei ceti piú umili, ma anche dei religiosi, dei professionisti e persino dei notai, il 23% dei quali riceveva sovvenzioni dalla compagnia di Orsanmichele, una delle principali opere pie della città. Ugualmente ricevevano elemosine gli esponenti di importanti famiglie mercantili le cui compagnie erano fallite. L’epidemia di peste diede il colpo di grazia all’economia fiorentina già cosí martoriata: come ricorda il cronista Marchionne di Coppo Stefani «niuna Arte si lavorava in Firenze: tutte le botteghe serrate, tutte le taverne chiuse, salvo speziali e chiese». Il Comune cercò di far fronte alla situazione soprattutto cercando di prevenire i disordini: presidiando le case vuote per evitarne il saccheggio e incentivando la distribuzione di pane e di elemosine. Vennero poi presi provvedimenti per accelerare la sepoltura dei cadaveri, evitando veglie e riti funebri, e gettando i corpi durante la notte nelle fosse comuni. La pestilenza del 1348, tanto piú tremenda agli occhi dei contemporanei e dei posteri in quanto costituí la prima epidemia di questo tipo in Europa dall’epoca delle invasioni barbariche, viene considerata dagli storici come un momento fondamentale di cesura nell’assetto economico europeo, poiché rappresenta il culmine, nonché l’evento risolutivo di una crisi «malthusiana» in atto già dalla fine del Duecento. Nel periodo compreso tra l’XI e il XIII secolo, infatti, la popolazione europea era complessivamente molto aumentata, tanto da produrre un notevole squilibrio tra le risorse disponibili e la popolazione da nutrire. La situazione si era aggravata alla fine del XIII secolo con l’inizio di un «ciclo infernale» di eventi climatici catastrofici, seguiti da carestie che, indebolendo la popolazione, prepararono il terreno a una massiccia e ripetuta diffusione dell’epidemia che le navi genovesi portarono in Italia dalla colonia di Caffa (sul mar Nero) appunto nel 1348. L’eccessivo affollamento delle città, le precarie condizioni igieniche e l’intensificarsi degli scambi commerciali fecero il resto. Di tali cause erano già perfettamente consapevoli i contemporanei, come ci dimostra chiaramente nei suoi Ricordi il mercante fiorentino Giovanni di Pagolo Morelli, di una generazione posteriore a quella del Boccaccio, il quale, parlando della pestilenza del 1348, cosí si esprime: «Nella nostra città morirono i due terzi delle persone; ché era istimato che in Firenze avesse in quel tempo 120 mila
anime, che ne morirono (…) ottantamila. (…) E le cagioni furono in parte queste, cioè: in Firenze non si conosceva, diciamo pella comunità, questo male, perché a gran tempo non era apparito; era Firenze molto ripiena di gente e di piú quantità ch’ella fusse mai; l’anno dinanzi era suto in Firenze gran fame, e credo non era nel centinaio venti che avessono pane o biada alcuna, e quelli cotanti n’avevono poco: vivettesi d’erbe e di barbe d’erbe e di cattive (…) e beevano acqua, e tutto il contado era pieno di persone che andavano pascendo l’erbe come le bestie. Considera come i loro corpi erano disposti!». Tre erano dunque gli elementi che al mercante apparivano chiarissimi nell’eziologia del contagio: la «novità» della malattia, che da secoli non si presentava, e quindi l’impreparazione assoluta nell’affrontarla; il sovraffollamento demografico di Firenze, direttamente collegato alla carestia, e quindi all’impossibilità per la maggior parte della gente di nutrirsi adeguatamente e di sviluppare – diremmo
oggi, ma il concetto, chiarissimo a Giovanni, è identico – «difese immunitarie» sufficienti: una persona su venti non aveva da mangiare, e chi ne aveva si nutriva poco e male, bevendo acqua potenzialmente inquinata (anziché vino, ritenuto piú sicuro). Il Morelli non poteva ovviamente chiamarla «crisi malthusiana», ma ne aveva perfettamente l’idea, e ne esprimeva da antesignano la sintesi (Robert Malthus [1766-1834] è l’economista inglese secondo il quale la povertà e le carestie erano causate dalla pressione demografica, n.d.r.).
L’Europa si spopola
Sul piano demografico le conseguenze dell’epidemia furono ovunque devastanti: la sola popolazione italiana (che costituiva il 17,9 % del totale europeo esclusa la Russia) passò, nel giro di 5 anni, da 12 milioni e 500 000 a 9 milioni di persone, e il declino continuò fino ai 7 milioni e 300 000 abitanti della metà del Quattrocento. Complessivamente, si stima che la peste abbia
Tavola di registro della Biccherna raffigurante il pagamento dei salariati del Comune di Siena. Opera della bottega di Sano di Pietro, XV sec. Siena, Archivio di Stato. Il declino demografico causato dai cicli epidemici del XIV sec. produsse importanti conseguenze anche sul piano economico. Una delle piú significative fu il rilevante incremento salariale determinato dalla carenza di manodopera in tutto il continente europeo.
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Il contesto storico
ucciso, in tutta Europa, 30 milioni di individui su una popolazione di circa 100 milioni. Molteplici furono i risvolti immediati di tutti questi sconvolgimenti. L’esodo delle masse rurali verso le città, cominciato a causa della carestia, e il gran numero dei morti anche fra i contadini provocarono lo spopolamento delle campagne, che, a sua volta, determinò un aggravamento della situazione economica per la mancata coltivazione della terra. La crisi acuta, la chiusura delle botteghe, il drastico calo della manodopera comportarono una flessione nella produzione manifatturiera e una diminuzione degli scambi commerciali, e, al tempo stesso, un rialzo dei salari e dei prezzi, soprattutto dei generi di prima necessità.
Incentivi all’immigrazione
I provvedimenti governativi immediatamente successivi all’epidemia mirarono a far fronte a questi fenomeni di crisi, con la messa a punto di misure di carattere demografico, finanziario ed economico. Il primo sforzo fu quasi ovunque quello di cercare di rimediare ai vuoti demografici, con una legislazione volta a favorire l’immigrazione. Dato poi che le finanze pubbliche erano sull’orlo del collasso perché i governi avevano dovuto far fronte a spese straordinarie di ogni genere, si tentò in tutti i modi di rimpinguarle, attraverso la riscossione di vecchi crediti, l’imposizione di nuove tasse e di tributi particolari: un’operazione decisamente ardua in quanto si rivolgeva a una popolazione stremata e si sovrapponeva a una situazione pregressa di indebitamento da parte dei pubblici poteri. Amnistie e cancellazione di pene previo esborso di somme ingenti, l’inasprimento delle imposte indirette, l’imposizione di prestiti forzosi rappresentarono il modo con cui le autorità cittadine cercarono di ovviare alla situazione, anche se con scarsi risultati. Un’altra via intrapresa, in Italia e in Europa, per arginare le conseguenze economiche del crollo demografico, fu quella di cercare di stabilizzare il mercato del lavoro, attraverso una legi18
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slazione che disciplinava gli aumenti salariali, e di vincolare ciascuno al proprio mestiere e al proprio posto di lavoro. Tutti questi provvedimenti congiunturali non riuscirono però a incidere sui mutamenti profondi di carattere economico, sociale, demografico della seconda metà del Trecento e del primo trentennio del Quattrocento, e di cui la Morte Nera e gli episodi epidemici successivi furono responsabili solo in parte. La diminuzione drastica della popolazione continuò fin verso il 1430-1450, quando finalmente si ebbe un’inversione di tendenza. L’Europa aveva perso a quell’epoca circa 1/3 degli abitanti rispetto alla fine del XIII secolo. Guerre, saccheggi, carestie, epidemie produssero l’abbandono e la scomparsa di interi villaggi, e molte terre vennero convertite in pascoli per il bestiame transumante.
Nella pagina accanto Tavola delle Arti, con raffigurati gli stemmi delle Corporazioni di Orvieto. 1602, Orvieto, Museo Claudio Faina. In basso, sulle due pagine miniatura raffigurante lavoratori di vari settori, identificabili dai loro attrezzi, da un’edizione francese del De casibus virorum illustrium di Giovanni Boccaccio. 1480 circa. Londra, British Library.
Intorno al 1375 i prezzi dei generi alimentari si stabilizzarono e poi cominciarono a scendere a seguito della diminuzione della domanda in parallelo alla diminuzione della popolazione; tutti gli altri generi, però, continuarono ad aumentare, perché la cronica mancanza di manodopera aveva aumentato il costo del lavoro e di tutto ciò che di esso era frutto, fatto che ebbe a sua volta una serie di conseguenze sulla società nel suo complesso, causando profondi rivolgimenti. Proprio a seguito di tutto questo, infatti, nei cinquant’anni che seguirono l’epidemia del 1348 si ebbe uno scambio di ruoli tra i ceti sociali: i proprietari terrieri cominciarono a vedere i propri redditi decurtati dal basso costo dei generi alimentari e dall’alto costo del lavoro, mentre coloro che si trovavano all’estremità inferiore della scala sociale e la cui situa-
zione occupazionale, prima del crollo demografico, risultava del tutto precaria, si resero conto che il valore del loro lavoro era aumentato, per cui potevano chiedere retribuzioni piú alte, migliorando i propri livelli di vita.
I braccianti soppiantano i padroni
Come osservava Matteo Villani: «In ragione dell’abbondanza di cui gode, la gente comune non vuole piú lavorare alle consuete condizioni; pretende i cibi piú costosi e prelibati (…) mentre i bambini e le popolane si pavoneggiano con gli abiti eleganti e costosi delle persone illustri che sono decedute». E il senese Agnolo di Tura affermava: «Coloro che lavorano la terra e coltivano orti e frutteti, a causa delle loro esorbitanti pretese, hanno rovinato completamente le fattorie senesi». I braccianti si spostavano da una fattoria all’altra in cerca di compensi piú alti, mentre i proprietari terrieri, stretti dalla diminuzione del valore dei terreni, causata dal crollo dei prezzi dei generi alimentari, abbandonavano le campagne, affidando ad altri la loro gestione, o trasformavano in pascoli i terreni coltivati. Di fronte a un tale crollo demografico e quindi a una simile carenza di manodopera, le ripercussioni sui salari erano state dunque immela vita al tempo della peste
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Il contesto storico
Settembre: la vendemmia, miniatura dal Breviario Grimani (Breviarium secundum consuetudinem Romanae curiae), capolavoro dell’arte fiamminga. 1510-1520 circa. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana. I lavoratori delle vigne venivano assunti e pagati a giornata, dal levar del sole fino al tramonto, ma spesso erano a loro volta piccoli proprietari che volevano lavorare qualche ora in meno per dedicarsi ai propri terreni.
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diate, non solo in Italia, ma in tutta Europa, come emerge chiaramente sia dalle testimonianze degli scrittori contemporanei, che non perdevano occasione per stigmatizzare le richieste eccessive dei lavoratori sottoposti, sia dai provvedimenti governativi in materia. Se la tendenza dell’autorità pubblica a una certa disciplina dei salari (almeno per i mestieri ritenuti di interesse fondamentale per la sopravvivenza di una comunità) risale almeno alla seconda metà del XIII secolo, quando apparvero norme in proposito in molti statuti comunali, il lavoro salariato ottenne un’attenzione notevolmente maggiore proprio dopo la peste del 1348, quando il crollo demografico, unito al conseguente incremento delle retribuzioni, diede origine a un’intensa attività legislativa in tutta Europa.
Contro gli sfaccendati e i vagabondi
In Francia l’epidemia del 1348, riducendo drasticamente la manodopera, aggravò ulteriormente la crisi e aprí la strada a due importanti ordinanze governative (del 1351 e del 1354) con le quali si stabiliva che l’ammontare delle retribuzioni non potesse essere superiore di un terzo rispetto ai livelli in vigore prima della
estesa dall’alba al tramonto e si vietavano severamente le migrazioni. Ciononostante le ordinanze degli anni successivi, un po’ in tutte le città francesi, continuavano a lamentare i salari eccessivi, la tendenza degli operai a lasciare il lavoro prima del calar del sole, la nuova abitudine di pretendere la corresposione del pasto. Soprattutto a Tolosa, dove la carenza di lavoratori era cronica anche in tempi normali, si verificò una crisi gravissima. Le ripercussioni sui salari furono immediate, come mostrano chiaramente i compensi richiesti dagli impiegati nell’edilizia negli anni 1348/1350. Contemporaneamente anche in Inghilterra un’ordinanza di Edoardo III (1349), nota come «statuto dei lavoratori», decretava che le retribuzioni fossero fissate ai livelli di 20 anni prima, e che tutti i disoccupati di età inferiore ai 60 anni privi di altri mezzi di sostentamento dovessero trovarsi un lavoro il cui compenso non sarebbe stato superiore a quello percepito prima della peste. Nel 1351 il parlamento inglese, constatando che gli effetti dei provvedimenti erano stati pressoché nulli, li rinnovò, stilando anche un tariffario dettagliato dei salari, ma sempre senza risultato, dal momento che i da-
In Francia, cosí come in Inghilterra, si cercò di risolvere il problema dell’ammanco di manodopera per via legislativa. Ma i risultati furono modestissimi, per non dire nulli peste. Il primo provvedimento era rivolto in particolare contro l’inattività e il vagabondaggio, di cui si sottolineavano gli effetti negativi sull’ordine pubblico. Il secondo si apriva con la constatazione che gli operai agivano ormai contro i buoni costumi antichi, quando si accontentavano del compenso offerto loro e lavoravano lealmente per tutta la giornata; i salari eccessivi ora richiesti – si affermava – rendendo sufficiente lavorare due giorni soltanto per settimana, favorivano l’ozio e riempivano di nullafacenti le taverne. L’ordinanza prescriveva perciò che tutti i prestatori d’opera sui campi, nelle vigne, nell’edilizia, nelle falegnamerie, nelle concerie, nelle manifatture di tessuti, si presentassero ogni giorno, prima del levar del sole, nei luoghi di reclutamento stabiliti e accettassero l’impiego loro proposto e il salario giornaliero previsto. Si ribadiva l’obbligo di una giornata lavorativa
tori di lavoro non esitavano a offrire compensi piú alti pur di accaparrarsi la manodopera. Nel 1361 le autorità londinesi arrivarono al punto di ordinare l’arresto e l’applicazione del marchio «F» («fugitivus») per tutti coloro che avessero lasciato la città o la contea natale alla ricerca di salari piú alti. Ma la volontà del legislatore continuava a rimanere impotente di fronte ai meccanismi del mercato del lavoro e non poteva spezzare la resistenza dei lavoratori.
Provvedimenti pressoché inutili
L’efficacia di tali provvedimenti fu ovunque del tutto irrisoria, dimostrando che l’ammontare delle retribuzioni in un periodo di carenza di manodopera non poteva essere fissato artificiosamente, ma veniva regolato piuttosto dalle leggi della domanda e dell’offerta: gli operai parigini, come quelli londinesi, di fronte ai compensi troppo bassi si rifiutavano di lavorare la vita al tempo della peste
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Il contesto storico
a giornata, preferendo la retribuzione a cottimo, e se qualcuno cercava di costringerli a farsi assumere a tempo – recitava l’ordinanza francese del 1351 – rispondevano che avevano altro da fare. Ugualmente privi di qualsiasi effetto si rivelarono i decreti corporativi in materia. L’ordinanza regia francese del 1354 sottolineava come ogniqualvolta si tentava di far rispettare rigorosamente le tariffe stabilite, i salariati lasciavano la regione e andavano a lavorare là dove le tariffe non erano applicate. Nel 1399 un’altra pestilenza accentuò ulteriormente, in Francia, la carenza di braccia, provocando un nuovo provvedimento del prevosto di Parigi contro il vagabondaggio e i salari troppo elevati richiesti dai sottoposti. Allo stesso modo, a Firenze, dopo l’epidemia del 1348, i salari crebbero di 3-4 volte rispetto ai livelli precedenti la pestilenza, con un’evoluzione discontinua, ma incontestabile, rimanendo sempre molto elevati e producendo in ogni caso effetti duraturi e profondi . Nel periodo successivo alla pestilenza anche l’Arte della Lana fiorentina, che aveva sempre seguito una politica di non intromissione nella determinazione dei livelli salariali (in quanto al problema si ovviava, per cosí dire, «a monte», con l’assoluto divieto di associazionismo per gli operai salariati), fu costretta a intervenire in materia con espliciti provvedimenti per il contenimento delle remunerazioni: il 19 dicembre 1348, in considerazione dei compensi eccessivi richiesti da maestri e lavoranti, i consoli dell’Arte istituirono una commissione deputata a stabilire i compensi di tutte le categorie di lavoratori, e altri provvedimenti simili furono presi ripetutamente negli anni successivi. Nel 1351 la carenza di manodopera era tale che venne stabilito che ogni lanaiolo non potesse avere alle sue dipendenze piú di 4 pettinatori, 4 battitori e 4 scardassieri; se ne avesse tenuti in numero superiore, avrebbe dovuto cederli a coloro che ne avevano bisogno.
Pretese inaudite
Molti scrittori toscani, tra cui Boccaccio e Sercambi, deprecarono aspramente l’abitudine dei servitori di chiedere, dopo la peste, salari eccessivi. In particolare il mercante e cronista fiorentino trecentesco Marchionne di Coppo Stefani osservava con preoccupazione le nuove esigenze dei lavoratori dopo l’epidemia: i sarti e i servitori domestici chiedevano retribuzioni altissime – affermava il cronista – che a fatica si potevano frenare; gli agricoltori imponevano condizioni tali da riuscire a incamerare quasi completamente il raccolto: le 22
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In basso particolare di una miniatura raffigurante una donna-fabbro intenta a preparare i chiodi della croce, dal Livre d’heures di Etienne Chevalier. XV sec. Chantilly, Musée Condé. Con la diminuzione della manodopera, le donne iniziarono a ricoprire attività prima riservate solo agli uomini, spesso molto piú remunerative di quelle femminili, come appunto il lavoro del fabbro. La nuova specializzazione permetteva loro di spostarsi alla ricerca di salari sempre piú alti o anche di diventare «imprenditrici» in alcuni settori.
sementi, i buoi, e gli stessi poderi erano ormai quasi di loro proprietà. Anche tutti gli altri lavoratori chiedevano compensi elevatissimi. Ugualmente Matteo Villani (esponente del ceto dirigente fiorentino) asseriva che dopo la peste il popolo minuto era ingrassato e impoltronito e pretendeva salari quasi tre volte superiori a quelli percepiti in passato. Conseguenze simili si registrano anche a Bologna, dove il 35% della popolazione fu falcidiata e i salari immediatamente lievitarono, soprattutto quelli piú bassi (fino al 250%), ma anche quelli piú elevati (fino al 160%). Per cercare di contenerli, le autorità comunali emanarono nel 1352 un tariffario, seguito, nei decenni successivi e per circa un secolo, da altri provvedimenti dello stesso tipo, ancora una volta tutti ugualmente inefficaci. Anche in questo caso veniva dunque ribadito il principio per cui la variabilità del costo del lavoro sarebbe dipesa, piú che dalla coercizione della legge scritta, dall’effettiva forza contrattuale dei lavoratori, piú o meno consistente a seconda delle mutevoli contingenze economiche, sociali e demografiche generali. La contemporanea diminuzione del prezzo dei generi alimentari e degli affitti produsse un generale miglioramento delle condizioni di vita.
Accanto alle richieste di aumenti salariali, un’altra tendenza si fece strada nei decenni successivi alla peste: quella ad accorciare la giornata lavorativa a parità di compenso, per dedicarsi ad altre occupazioni complementari. È quanto si verificò nel 1383 e nel 1393 a Sens e ad Auxerre, dove i vignaioli incaricati della vendemmia, retribuiti a giornata, erano spesso essi stessi piccoli proprietari, interessati quindi a dedicare qualche ora ai propri terreni. A Sens l’agitazione durò quasi un anno: gli operai delle vigne si riunirono su di un colle di fronte alla città, decisi a difendere una giornata lavorativa di 6-7 ore al massimo, da loro già unilateralmente praticata, come lamentavano i proprietari terrieri. Ad Auxerre,
salari piú alti per le donnE In tempi di grave carenza di manodopera, come quelli che seguirono la peste del 1348, in tutta Europa anche le donne godettero di straordinarie opportunità di impiego. Vennero loro offerti salari piú alti e furono chiamate a esercitare una gamma di occupazioni molto piú varia che in passato, compreso l’apprendistato presso artigiani specializzati, nonché occupazioni maschili e ben remunerate come quella del fabbro. In Inghilterra i verbali dei processi contro i trasgressori dell’ordinanza che limitava l’entità dei salari segnalano anche l’esistenza di donne sole che si trasferivano da un luogo all’altro pretendendo retribuzioni eccessive. Sempre in Inghilterra le donne che lavoravano nel settore tessile, il piú tradizionalmente femminile, furono spesso promosse dal ruolo poco retribuito di cardatrici a quello piú remunerativo di tessitrici, mentre il processo di lavorazione della birra, in cui da sempre prevalevano le donne, divenne interamente femminile.
dieci anni piú tardi, si verificò un episodio analogo, con la richiesta di ridurre la giornata a meno di 8 ore mantenendo gli aumenti salariali già percepiti, ma questa volta la situazione si risolse in 4 mesi.
I vignaioli, «persone semplici»
In entrambi i casi la repressione fu dura solo apparentemente: venne sí ripristinata la giornata lavorativa dal levar del sole al tramonto, ma in termini cosí vaghi da invitare apertamente alla trasgressione; allo stesso modo si procedette a multe e arresti, ma con scarsi risultati e frequenti concessioni di grazie, con la motivazione che – si legge in un indulto di Carlo VI – «i vignaioli sono persone semplici a cui piace scherzare, e non ricadranno nell’errore». Il massiccio decremento demografico causato dall’epidemia di peste del 1348 produsse, a partire dal 1370 circa, effetti positivi dal punto di vista economico: una maggiore disponibilità di risorse, unita a una diminuzione dei prezzi dei (segue a p. 27)
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l’europa del malessere A destra la cartina illustra e riassume alcuni degli eventi che sconvolsero il continente europeo tra il XIV e il XV sec. La micidiale epidemia di peste del 1348 ebbe effetti devastanti, non solo per l’elevatissimo numero di vittime mietute, ma anche per i riflessi socio-economici che andò a innescare. E le rivolte, che
scoppiarono numerose, ebbero spesso, tra le loro cause scatenanti, anche gli scompensi determinati nel mondo del lavoro dall’improvviso ammanco di manodopera o dalle speculazioni di quanti, tra i sopravvissuti, cercavano di trarre vantaggio dall’essere piú che mai indispensabili per lo svolgimento delle diverse attività produttive.
1349 Diffusione della peste nera Aree in cui la mortalità per peste è scarsa o nulla
Fine
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Rivolte contadine Rivolte urbane dal 1250 al 1400
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Statua di Michele di Lando, cardatore a capo degli insorti nel tumulto dei Ciompi scoppiato a Firenze il 22 giugno del 1378, rivolta di natura economica, politica e sociale con cui i salariati dell’arte della lana riuscirono a ottenere per 4 anni il governo della città. Opera di Antonio Bortone nel 1895, Firenze, Loggia del Mercato Nuovo.
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Miniatura raffigurante la morte che prende le vittime della peste, da un manoscritto francese. 1503 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
generi alimentari, nonché un generale aumento dei salari dovuto alla scarsità della manodopera. Eppure, proprio in questo contesto, non di crisi economica, ma di ripresa e di riconversione, alla fine del Trecento, un po’ in tutta Europa – dalla Francia alla Germania, alle Fiandre e all’Inghilterra, e a molte zone dell’Italia –, scoppiarono alcune tra le principali rivolte del secolo. Non si trattò di «tumulti per il pane» (come erano stati quelli, piú sporadici e disorganizzati della prima parte del secolo in Italia), né di sommosse dettate da motivi economici: a motivare i rivoltosi furono piuttosto motivi fiscali, la richiesta di aumenti salariali e di una maggiore rappresentanza politica, e, non ultimo, il problema dall’ingiustizia e della parzialità dei tribunali.
Il tumulto dei Ciompi
Emblematica a tale proposito la piú famosa di queste rivolte, il «tumulto dei Ciompi», scoppiato a Firenze il 22 giugno del 1378, con cui i salariati dell’Arte della Lana (13 000 persone su una popolazione cittadina di 55 000 abitanti) riuscirono a ottenere per 4 anni, fino al 1382, il governo della città. Le petizioni rivolte dai Ciompi all’Arte della Lana fiorentina, che comprendeva soltanto gli imprenditori e i mercanti, e dalla quale i lavoratori di livello piú basso erano esclusi, chiedevano appunto la possibilità di una rappresentanza all’interno della corporazione, e quindi all’interno delle magistrature cittadine, a essa strettamente collegate; la revoca dello «statutum bladi» cioè del provvedimento governativo che sanciva uno stretto controllo dell’autorità centrale sulle arti minori; l’abolizione della figura dell’«ufficiale forestiero», cioè del magistrato dell’Arte della Lana incaricato di giudicare le controversie di qualunque genere sorte nella corporazione, e che «per ogni piccola cosa ci martiria», lamentavano i Ciompi; il mutamento del sistema fiscale mediante l’introduzione anche in città dell’estimo (tassa sui beni), al posto della «prestanza» (tassa sulle persone) e l’abolizione dei prestiti forzosi. In un’ottica analoga si colloca il tumulto dei Ciompi di Siena («rivolta del Bruco» o «di Barbicone», 1371), di poco anteriore a quello fiorentino, che ebbe inizio per una controversia relativa ai salari tra i cardatori e gli imprenditori lanieri, trasformandosi poi in rivolta politica. Le rivolte di Firenze e di Siena avevano in comune alcuni obiettivi di grande importanza: quello di ottenere una revisione dell’entità e del meccanismo di determinazione dei salari, e quello di assicurarsi una rappresentanza corporativa, in modo da poter partecipare al governo della città.
I motivi politici e fiscali, e non quelli economici, furono causa anche delle rivolte contadine in Italia, dirette per la maggior parte contro la rapacità dei ceti dirigenti cittadini, anziché contro i proprietari terrieri. Si intensificarono dopo la peste, nelle aree circostanti le città piú ricche. Ancora i motivi politici, e soprattutto quelli fiscali, scatenarono le rivolte francesi del XIV secolo: principali cause dei tumulti furono l’ingiustizia dei carichi fiscali, nuove imposizioni straordinarie, e in particolar modo l’incertezza sulla destinazione del denaro riscosso. Nel 1378 a Montpellier si scatenò, per esempio, una rivolta fiscale perché – ricorda una fonte – «per la povertà e le condizioni disperate della popolazione, la comunità non poteva pagare le tasse». La questione giudiziaria e la parzialità dei tribunali rappresentarono invece il motore scatenante della rivolta inglese del 1381, sfociata nella distruzione di prigioni, nella decapitazione di giuristi, e in una sequenza impressionante di atti di violenza, nei quali svolsero un ruolo non secondario persino le donne, talora a capo di drappelli di sediziosi. Anche questa volta, comunque, la causa immediata fu quella fiscale, dovuta all’introduzione di una tassa sul reddito a gruppi che in precedenza ne erano esenti, come lavoratori non qualificati e servi. D’altra parte, come si è detto, la carenza di manodopera e l’aumento dei salari del periodo successivo alla peste avevano portato in Inghilterra, con l’ordinanza di Edoardo III, a uno sforzo senza precedenti per cercare di contenere i salari e i prezzi, ma si era riusciti soltanto a frenare il fenomeno, scontando questo risultato con innumerevoli risentimenti, covati a lungo, e divampati appunto con la rivolta. Nelle Fiandre, il dinamismo economico e commerciale di città come Ypres, Bruges e Gand, popolate da un ceto artigianale e mercantile numeroso e potente, ma governate da un patriziato legato al mondo feudale che deteneva saldamente il potere politico e controllava le finanze pubbliche e l’economia, non tardò a produrre contrasti sociali insanabili, sfociati in una serie fittissima di rivolte che afflissero la zona per tutto il XIV secolo. Nelle Fiandre e in Francia, protagonisti delle rivolte successive alla peste furono i mercanti e le élite degli artigiani, anzichè il «proletariato», e le cause sono da individuare nella crescita dell’imposizione fiscale, anziché nell’aumento del prezzo del pane. Nel 1351 a Rouen i mercanti si ribellarono appunto all’introduzione di nuove tasse, mentre nel 1359 a Bruges scoppiarono micidiali conflitti tra gli artigiani. la vita al tempo della peste
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Per curare gli di Maria Paola Zanoboni
appestati
I tentativi di combattere le pestilenze furono quasi sempre inadeguati di fronte alla perniciosità del contagio. Anche perché, spesso, si adottarono rimedi ispirati da criteri che non avevano alcun riscontro scientifico. Una delle poche misure di una qualche efficacia consistette, invece, nell’isolamento dei malati: nacquero cosí i lazzaretti
Venezia, Isola del Lazzaretto Nuovo, olio su tela di Giacomo Guardi (1764-1835). Dopo la ricomparsa della peste in Europa nel 1347-1348, molte città presero provvedimenti volti a limitare il diffondersi del contagio tra cui, dalla metà del 1400, la costruzione dei lazzaretti, appositi ospedali nei quali riunire esclusivamente gli ammalati di peste, spesso con zone separate dedicate agli appestati e alla quarantena.
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I lazzaretti
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lla metà del Trecento, quando la peste ricomparve dopo centinaia di anni, l’Europa era del tutto impreparata ad affrontare la malattia, che produsse perciò un livello elevatissimo di mortalità, arrivando a distruggere circa un terzo della sua popolazione. Dopo l’epidemia diffusasi tra la fine del 1347 e il 1348 la peste rimase endemica, ripresentandosi un po’ ovunque con cadenza pressochè decennale, e divenendo quasi parte integrante del normale ritmo della vita, per cui la società, soprattutto nei centri urbani, fu costretta suo malgrado ad adeguarvisi. Già nel 1348 Venezia, Firenze e Pistoia istituirono comitati per affrontare l’emergenza, le cui misure furono, al momento, quelle tradizionali: stabilirono la profondità delle inumazioni perché l’aria non venisse corrotta da cadaveri seppelliti frettolosamente. A Firenze il Capitano del Popolo vietò ai residenti di venire in contatto con Genovesi e Pisani e di vendere oggetti appartenuti agli appestati; nella lotta contro il flagello si trovarono uniti il Comune, le associazioni di mestiere e quelle caritative.
Proibito entrare in città
Pistoia cercò di salvarsi evitando ogni contatto con i territori infetti di Pisa e di Lucca, stabilendo che nessun pistoiese potesse recarvisi e viceversa che nessun forestiero proveniente da quelle zone potesse entrare in città; fu proibita l’introduzione di stoffe di lino e di lana usate, che sarebbero state altrimenti bruciate sulla pubblica piazza; guardie armate avrebbero sorvegliato le porte cittadine perché le disposizioni fossero rispettate. Per evitare assembramenti, era inoltre proibito entrare nelle case in cui ci fossero persone decedute, e accompagnare i funerali oltre la chiesa. I legislatori pistoiesi presero poi anche altre misure, concernenti in particolare l’igiene nella macellazione e nella vendita della carne. Ciononostante non riuscirono a evitare l’epidemia. Milano, che aveva adottato provvedimenti analoghi, riuscí invece, almeno nel 1348, a sfuggire al contagio, probabilmente favorita anche dalla guerra che in quel momento era in corso tra i Visconti e i A sinistra testa di un giovane, disegno di Hans Holbein il Giovane. 1523. Cambridge (USA), Harvard Art Museums. Sul volto dell’uomo si riconoscono i bubboni causati dalla peste. Nella pagina accanto Vero dissegno con le misure giuste del grande lazzaretto di San Gregorio di Milano, come si trovava nel tempo della grande peste l’anno 1630, incisione di Giovanni Francesco Brunetti. 1631. Milano, Castello Sforzesco, Civiche Raccolte d’Arte Applicata e Incisioni, Civica Raccolta delle Stampe «Achille Bertarelli». 30
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il lazzaretto di milano area di sepoltura La zona adibita al seppellimento di quanti
non sopravvivevano al morbo, situata appena fuori l’uscita posteriore, era costituita da fosse comuni.
Stanze per i malati
Intorno al grande chiostro vi erano 288 camere destinate ad accogliere gli ammalati, dotate di servizi igienici e di un caminetto. In ogni camera si apriva inoltre una finestra che dava sul fossato esterno.
fossato
La struttura era circondata da
Chiesa di S. Carlo
Originariamente si trattava di un altare posto al centro del lazzaretto. L’edificio ecclesiastico, provvisto di aperture su ogni lato per permettere ai ricoverati di assistere alle funzioni da ogni punto del recinto, fu costruito da Pellegrino Tibaldi su incarico di Carlo Borromeo durante la peste del 1576.
un fossato di acqua corrente, oltre il quale i parenti potevano parlare con gli ammalati, che si affacciavano dalle camere, i sacerdoti confessare e i medici impartire disposizioni senza venire a contatto diretto con gli appestati.
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Stampa seicentesca raffigurante l’interno del lazzaretto di Milano occupato dagli appestati nell’anno 1630. Milano, Castello Sforzesco Civiche Raccolte d’Arte Applicata e Incisioni, Civica Raccolta delle Stampe «Achille Bertarelli». Durante la terribile epidemia, nel cortile vennero costruite baracche temporanee per ricoverare circa 16 000 ammalati.
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Gonzaga e bloccava il commercio dei Milanesi in direzione di Mantova. Anche Venezia tentò di evitare la peste, proibendo prima agli stranieri e poi agli stessi Veneziani malati l’ingresso in città, ma sembra che il provvedimento non abbia avuto applicazione a causa del grande traffico commerciale. Si provò allora a chiudere le osterie in cui si riunivano gli stranieri malati o sospetti, ma la disposizione conseguí un effetto peggiore, provocando lo spargersi per la città di persone potenzialmente infette e accelerando la diffusione del morbo. Indipendentemente dal loro esito, questi casi costituirono precedenti di basilare importanza, introducendo il concetto secondo il quale spettava all’autorità pubblica che governava la città sobbarcarsi l’onere di avviare misure preventive
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milano Nel 1630 il capoluogo lombardo pagò alla peste un tributo pesantissimo: si calcola che, alla fine, il morbo avesse causato la morte di 150 000 persone
A destra rilievo in marmo raffigurante Carlo Borromeo che prega perché la pestilenza abbia fine. Opera di Pierre Puget, 1692. Marsiglia, Musée des Beaux-Arts. Oltre a occuparsi degli appestati, il cardinale fu costretto ad assumere la guida di Milano, abbandonata dai suoi governanti.
Gli eventi del 1348 diffusero la convinzione che la gestione delle emergenze sanitarie fosse compito dell’autorità pubblica la vita al tempo della peste
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e di gestire la situazione di emergenza in caso di epidemia. E furono appunto due formazioni statali, Ragusa e Milano, a dare un contributo decisivo al controllo della peste nella seconda metà del Trecento. A Ragusa, nel 1377, fu introdotto un sistema di quarantena marittima che prevedeva il rifiuto di accesso in porto alle navi provenienti da zone appestate, che dovevano prima trascorrere un mese in isolamento al largo della città. Ancor piú notevoli furono le misure introdotte da Gian Galeazzo Visconti, a Milano, tra il 1398 e il 1400: nel 1398 proibí ogni contatto con la località di Soncino, dove infuriava la peste, facendo divieto a chiunque provenisse da lí di attraversare l’Adda in direzione della capitale del Ducato. Questo primo ricorso alla barriera naturale del fiume come cordone sanitario fu seguito, l’anno successivo, da misure – come il rinvio della fiera di sant’Ambrogio – volte a impedire il raduno di folla, e dall’istituzione di centri di ricovero per i malati di peste. Nell’ottobre del 1399 tali provvedimenti erano già in vigore come parte di un sistema di controllo della peste già predisposto, embrione del metodo adottato poi regolarmente in Italia nei due secoli successivi. Furono queste le premesse ai tentativi, condotti soprattutto a partire dal XV secolo, di prevenire l’insorgenza del morbo e di mitigarne gli effetti, con ordinanze e regolamenti che, per tre secoli, sarebbero stati un punto di riferimento per la gestione delle pestilenze in tutta l’Europa occidentale. Le misure adottate si possono ricondurre sostanzialmente a tre categorie. L’autorità pubblica cercò, innanzitutto, di arginare la diffusione della malattia limitando i movimenti di persone e merci; una strategia che si concretizzava attraverso la quarantena, i certificati sanitari e il miglioramento delle condizioni igieniche urbane. In secondo luogo si mise mano alla costruzione (dalla metà del Quattrocento) di edifici appositi, i lazzaretti, nei quali riunire esclusivamente i malati di peste per cercare di curarli ed evitare il propagarsi dell’epidemia. La terza risposta, di carattere religioso, costituita da preghiere e processioni, si rivelò completamente deleteria perché contribuiva ad ampliare il contagio, invece di fermarlo.
Alla ricerca del colpevole
Parallelamente, soprattutto a partire dal secondo Cinquecento, andò radicandosi un altro fenomeno: quello dell’individuazione di un capro espiatorio, ovvero della «caccia all’untore». La gamma di provvedimenti adottata durante le prime epidemie fu piuttosto scarsa: nella maggior parte delle città ci si limitò a pulire le strade e i canali di scolo, a ordinare la rimozio34
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ne di tutto ciò che emanava cattivo odore e a proibire l’attività dei mestieri potenzialmente inquinanti (soprattutto calzolai, conciatori e tintori); si decise anche di espellere vagabondi, mendicanti e prostitute. Contemporaneamente, furono create magistrature sanitarie provvisorie, composte dai cittadini piú eminenti, destinate a gestire la situazione di emergenza, in linea con quanto era già avvenuto per altre malattie epidemiche. Tuttavia, quando fu chiaro che il rischio portato dalla peste era molto superiore a quello di tutte le altre epidemie, i maggiorenti cittadini si rifugiarono nelle campagne, lasciando le città prive di guida ed esposte al pericolo di saccheggi e disordini di ogni tipo. A Firenze, durante l’epidemia del 1383, per esempio, fuggito il ceto dirigente, gli artigiani si diedero a fare scorribande per la città urlando slogan rivoluzionari. Dopo questa esperienza – narra il cronista Marchionne di Coppo Stefani – nella città di Dante vennero emanate portatori ordinanze che proibivano ai godi contagio vernanti di lasciare la città in caso La partenza dei di peste, ma con scarso effetto.
lanzichenecchi,
Gli «Otto di Guardia»
olio su tela di Gustave Jacquet. 1868. Blois, Château, Musée des BeauxArts. La diffusione del contagio era spesso favorita dai movimenti delle truppe, come nel caso della pestilenza del 1630 che, dopo la pausa dell’inverno 1629, riscoppiò con particolare violenza anche a causa del passaggio di 4000 lanzichenecchi diretti nel Novarese e nel Mantovano.
Piú razionali furono i provvedimenti emanati dalla metà del Quattrocento, quando mantenere l’ordine pubblico di fronte a un’epidemia divenne una questione di primaria importanza, al punto che diversi centri urbani affidarono la responsabilità del controllo delle epidemie a magistrature esistenti: cosí avvenne nel 1448 a Firenze, dove fu delegato a tale scopo un ufficio con compiti di sorveglianza e tutela della pubblica sicurezza (quello degli «Otto di Guardia»), nel 1463 a Mantova e nel 1478 a Venezia, dove se ne assunse l’incarico l’ente deputato al monopolio del sale e ai lavori pubblici («Magistrato al Sal»). Questo sistema si rivelò comunque insufficiente per il gran numero di pratiche da cui le magistrature erano oberate, per cui negli anni Ottanta del XV secolo si dovette ricorrere a Provveditorati alla Sanità permanenti, di cui fornirono i primi esempi Venezia e Milano. Fu allora che molte città dell’Italia centro-settentrionale adottarono una serie di norme e regolamenti che fecero da modello per il resto dell’Europa. Si trattava in ogni caso di provvedimenti che non erano – né potevano essere – rivolti alla cura del morbo, ma soltanto a prevenirne e a limitarne la diffusione, nonché a evitare disordini.
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Il cardine di questo sistema fu lo stretto controllo dei movimenti di merci e persone, nonché il monitoraggio continuo delle aree geografiche colpite di volta in volta dall’epidemia, cosa che richiedeva un sistema costante di informazione sui luoghi e i tempi in cui la pestilenza si era manifestata. Le relazioni diplomatiche divennero allora una componente essenziale nel garantire un regolare e veritiero flusso di notizie in proposito. Al tempo stesso anche le grandi compagnie mercantili e bancarie richiedevano costantemente alle proprie filiali l’aggiornamento continuo su eventuali casi di peste. Fu poi istituita la quarantena per le navi e le merci provenienti da località infette. Le famiglie colpite dalla malattia vennero segregate in casa o costrette a trasferirsi nei lazzaretti. La prima struttura permanente di questo tipo fu fondata a Venezia, nel 1423, su di un’isola della laguna, per accogliere sia i malati della città che quelli delle navi in arrivo. Nel 1468 ne venne aggiunto un altro che avrebbe ospitato i sospetti di contagio e i convalescenti. Sul volgere del Quattrocento esistevano lazzaretti nella maggior parte delle principali città della terraferma veneta, tra cui Padova, Vicenza, Brescia e Treviso. A Firenze, durante gli episodi epidemici del Trecento, gli ammalati erano stati ricoverati indiscriminatamente all’ospedale di S. Maria Nuova, dove la mortalità era stata quasi totale. Perciò, nel 1464, il governo fiorentino si espresse in proposito, avendo notato che ricoverare gli appestati negli ospedali ordinari era soltanto dannoso e contribuiva alla diffusione del morbo, e nel 1476 deliberò la costruzione del lazzaretto, con criteri che prevedessero la separazione tra malati e guariti.
venezia La città lagunare fu la prima a dotarsi, nel 1423, di un lazzaretto, fondato su di un’isola, per accogliere sia i malati della città che quelli delle navi in arrivo
Nel luogo dei Promessi Sposi
Di proporzioni enormi, paragonabili a quelle del filaretiano Ospedale Maggiore (costruito tre decenni prima), era il lazzaretto di Milano (nel quale Manzoni ambientò l’ultima parte dei Promessi Sposi), realizzato alla fine del XV secolo (fu iniziato nel 1488), grazie a un lascito, e sacrificato alla fine del XIX secolo dalla speculazione edilizia. Ne rimangono oggi soltanto la chiesa centrale e una piccola parte del muro di recinzione. Per avere un’idea delle proporzioni dell’edificio, basti pensare che sul chiostro, che delimitava un cortile quadrato di 377 x 370 m, si aprivano ben 288 camere destinate a ospitare gli ammalati, dotate di servizi igienici e di caminetto. Nei momenti critici di un’epidemia anche il cortile poteva ospitare gli infermi ricoverati in capanne temporanee, come avvenne nel 1630, quando circa 16 000 pazienti vi trovarono posto. L’edificio era circondato da un fossato di acqua 36
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Nella pagina accanto, in basso Venezia. La basilica di S. Maria della Salute sulla Punta della Dogana, edificata per sciogliere il voto fatto durante la pestilenza del 1630, affinché la Vergine intervenisse a favore della città per liberarla dal contagio. Avviata nel 1631, la costruzione della chiesa fu portata a termine nel 1687.
Nel 1478 Venezia affidò il controllo delle epidemie al «Magistrato al Sal», l’ente già deputato al monopolio del sale e ai lavori pubblici
Il doge alla basilica della Salute, olio su tela di Francesco Guardi. 1775 circa. Parigi, Museo del Louvre. Il dipinto rappresenta la cerimonia che, ogni anno, si svolgeva presso la chiesa veneziana per commemorare la fine della peste del 1630.
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napoli Giunta nella città partenopea probabilmente dalla Sardegna, la violentissima epidemia del 1656 si estese a tutta la Campania e allo Stato Pontificio, provocando la morte del 50-60% della popolazione
Piazza del Mercatello durante la peste del 1656, olio su tela di Domenico Gargiulo (detto Micco Spadaro). 1657 circa. Napoli, Museo Nazionale di San Martino. Il dipinto mostra il largo, l’odierna Piazza Dante, appena fuori dalle mura segnate da Port’Alba e Porta dello Spirito Santo, ridotto a un lazzaretto a cielo aperto, pieno di moribondi e corpi senza vita. corrente e da una strada dalla quale i visitatori potevano parlare con i ricoverati (ogni camera aveva infatti una finestra che dava sul fossato), i sacerdoti ascoltare le confessioni, i notai redigere i testamenti e i medici impartire consigli terapeutici, senza venire a contatto con il malato. Verso la metà del Seicento anche Genova disponeva di una struttura analoga a quella di Milano. L’edificio era pattugliato da mercenari tedeschi e dotato di due distinte aree di quarantena, di cui una destinata alla convalescenza degli appestati veri e propri, e l’altra riservata a coloro che avevano avuto contatti con gli infermi senza contrarre il morbo o che provenivano da zone infette. In totale il lazzaretto poteva ospitare circa 300 persone. In quello stesso periodo venne anche ipotizzata un’alleanza sanitaria a scopo preventivo tra Genova, Firenze, Roma e Napoli, per l’organizzazione di una rete internazionale di quarantena mirante al contenimento della peste. Ogni città avrebbe dovuto uniformare le proprie regole a un’unica norma e, di comune accordo, sottoporre le aree dichiarate infette al blocco delle esportazioni e della circolazione degli individui. Il tentativo fallí sul nascere, ma appare comunque notevole la consapevolezza dell’importanza di organizzare quarantene e blocchi preventivi su ampie aree geografiche.
Sepolture di massa
Si stabilí poi che i morti di peste non potessero essere seppelliti all’interno delle mura cittadine, ma fuori dall’area urbana, in fosse comuni che venivano poi ricoperte abbondantemente di calce per disinfettare la zona. A Milano, per esempio, dopo la pestilenza del 1524, fu creata un’immensa fossa comune poco lontano dalla città, nella località detta «Gentilino», di proprietà dei Borromeo, in un’area prima occupata da giardini e frutteti. Nel 1576, all’epoca della «peste di san Carlo», il Gentilino era ormai un cimitero ben organizzato e un punto di riferimento per le successive epidemie, tanto che durante quella del 1630 fu addirittura necessario aprire una nuova strada per condurre in quel luogo i carri con le vittime della pestilenza. L’uso delle fosse comuni si scontrava però con l’opposizione delle comunità, che rifiutavano decisamente l’anonimato e la barbarie delle sepolture di massa, al punto che, nel 1710, la la vita al tempo della peste
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popolazione della cittadina svedese di Blekinge fece riesumare i corpi sepolti in una fossa comune per tumularli nuovamente nel cimitero locale. Neppure la paura del contagio, dunque, poteva troncare i legami di affetto con i defunti. Altro provvedimento preso nella maggior parte dei centri colpiti dall’epidemia, e che incontrò una notevole resistenza, fu la distruzione degli oggetti e degli indumenti appartenuti ai malati di peste: soprattuto i becchini, infatti, avevano l’abitudine di chiedere come ricompensa parte degli abiti dei morti per poi rivenderli. Anche il divieto di libera circolazione delle merci, e dei tessuti soprattutto, trovava spesso la strenua opposizione dei mercanti, che disponevano di mezzi alquanto efficaci per impedire l’applicazione delle norme. Dal canto loro, i consigli cittadini tendevano a evitare la dichiarazione di inizio dell’epidemia per il timore dei danni che ne
i costi della peste Anche se talvolta le difficoltà finanziarie delle amministrazioni pubbliche ostacolavano l’attuazione di molte misure, i costi della lotta contro le epidemie di peste furono ovunque e in ogni epoca enormi: le perdite o il mancato reddito causati dalla riduzione dei traffici e dalle quarantene, la distruzione col fuoco di case e arredi infetti o sospetti, le spese della disinfezione delle abitazioni mediante fumigazioni, le retribuzioni degli ufficiali di sanità, dei funzionari a custodia delle porte, dei medici, dei chirurghi, dei barbieri e dei becchini, rendevano smisurato lo sforzo dell’autorità pubblica. A tutto questo si aggiungeva la resistenza della popolazione, timorosa di veder distrutti i propri beni, di rimanere segregata in casa o chiusa nei lazzaretti, di vedere interrotte le proprie attività e i propri commerci.
Particolare di una delle Cere dalla peste di Giulio Zumbo. 1691-1695 circa. Firenze, Museo della Specola.
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firenze Nel 1630 anche la città di Dante fu colpita dalla pestilenza. Si dice che il contagio fosse arrivato dal Bolognese, trasmesso da un pollaiolo ospite di una famiglia di parenti che abitava in una frazione del capoluogo
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londra Colpita dalla micidiale epidemia del 1664-65, la capitale inglese si trovò del tutto impreparata: negli anni precedenti, infatti, aveva indugiato nell’adottare le misure precauzionali di isolamento degli appestati già vigenti in Italia e in Francia, tanto che, nel 1563, non esisteva ancora una struttura sanitaria adeguata avrebbe subito il commercio. In genere si cercava di minimizzare e di nascondere i primi casi sospetti. Nel 1629, a Venezia, questo atteggiamento ritardò l’organizzazione di un efficace cordone sanitario, permettendo alla peste di diffondersi in città. Lo stesso avvenne nel 1630 a Milano, nel 1665 a Londra e nel 1720 a Marsiglia. Paradossalmente, l’attuazione dei provvedimenti contro la peste fu molto piú rapida nelle città italiane (dove le magistrature sanitarie deputate alla gestione dell’emergenza vennero quasi subito rese permanenti), che nei grandi Stati nazionali come la Francia e l’Inghilterra. L’istituzione delle magistrature sanitarie permanenti costituí appunto il caposaldo di questa politica di prevenzione. A Milano esisteva un ufficio di questo tipo già prima del 1450, a Venezia nel 1486, nel 1527 a Firenze e nel 1549 a Lucca. Dai primi anni del Seicento anche i centri italiani piú piccoli disponevano di un funzionario permanente deputato alla gestione dei problemi sanitari. A questo si accompagnava la redazione di rapporti statistici sulle cause dei decessi, compilati, a partire dalla seconda metà del Quattrocento, ancora una volta nelle città dell’Italia centro-settentrionale, nonché la realizzazione di vere e proprie reti di informazione sulle epidemie in corso, attuati, a partire dal Cinquecento, mediante contatti assidui tra i magistrati deputati alla sanità dei vari centri italiani. Tra il 1576 e il 1577, per esempio, Firenze inviò rapporti regolari a Lucca, Genova, Ancona, Bologna, Ferrara e Napoli sull’epidemia scoppiata a Venezia. Genova trasmetteva informazioni sulle pestilenze in 42
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Illustrazione raffigurante le sepolture settimanali nella città di Londra, da un giornale sulla peste del 1665. Nell’inverno 1664-65 i sobborghi di Londra vennero colpiti da un’epidemia di peste che durante l’estate 1665 contagiò l’intera città causando la morte di circa 70 000 persone (il 20% degli abitanti), e si espanse anche ai villaggi vicini. L’epidemia finí nel 1666, stroncata dal grande incendio che devastò la città.
corso in Spagna e Francia; Milano su quelle in Svizzera e in Germania, Venezia sul Mediterraneo orientale, sui Balcani e sull’Austria. Venivano emanati bandi sulle zone infette e comunicati agli altri centri della regione. L’obiettivo diventò sempre di piú la difesa di ampi tratti del territorio presidiando i confini politici e le barriere naturali (ponti, passi, guadi).
La «peste di san Carlo»
L’epidemia nota come «peste di San Carlo» comparve in Trentino nel 1574, contagiò nel 1576 Milano e si diffuse poi in tutta Italia, an-
che a causa degli spostamenti continui dei pellegrini per il Giubileo indetto in quell’anno. A Milano provocò la morte di oltre 18 000 persone, corrispondenti a 1/10 della popolazione cittadina, ed ebbe un impatto devastante anche a Venezia e a Mantova. Nel capoluogo lombardo i maggiorenti fuggirono, lasciando la città in mano al vescovo Carlo Borromeo, che, in quell’occasione, assunse i poteri assoluti per poter governare la città. Il futuro san Carlo prese immediatamente una serie di provvedimenti urgenti come quello di far terminare il lazzaretto; scrisse al papa per
ottenere aiuto, indirizzò una serie di consigli pratici alla popolazione, compilò un opuscolo da distribuire ai sacerdoti sul comportamento da tenere con gli ammalati e sulle norme igieniche da rispettare; proibí di trasportare i cadaveri sui carri per evitare ulteriori veicoli di infezione; assegnò ai frati Cappuccini l’incarico di gestire il lazzaretto; mandò gruppi di sacerdoti in giro per la città per dare aiuto agli infermi. Il morbo venne debellato soltanto all’inizio del 1578, e l’evento fu celebrato con una solenne processione durante la quale Carlo Borromeo pronunciò un’omelia, poi data alle stampe, che la vita al tempo della peste
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marsiglia La peste scoppiata nella città francese nel 1720, l’ultima grande epidemia europea, fu incontenibile. Il morbo si era propagato al punto tale che il lazzaretto non bastava piú ad accogliere i malati, che vennero segregati in casa
Veduta del Corso (di Marsiglia) durante la peste del 1720, olio su tela di Michel Serre (1658-1733). 1721. Marsiglia, Musée des Beaux-Arts. rappresenta la prima descrizione di quell’epidemia, e, al tempo stesso, un atto d’accusa nei confronti del lusso, del malcostume e dei riti del carnevale, nonché un proclama dell’importanza dell’autorità civile della Chiesa, soprattutto in situazioni di emergenza.
La peste del 1630 a Milano
La pestilenza del 1630 rimase nella memoria dei posteri per le sue dimensioni (si parlò di 150 000 morti nella sola Milano) e per la sua estensione geografica: da Lione a Berna, a Milano, a Venezia, a Mantova, a Modena, a Bologna, a Pistoia, a Pescia e a Lucca. La principale descrizione di un contemporaneo è la Storia della peste (1640) del sacerdote e dottore della Biblioteca Ambrosiana Giuseppe Ripamonti (1577-1643), opera nella quale compare per la prima volta un intero capitolo dedicato agli «untori», di cui non si era fatta invece quasi menzione all’epoca di san Carlo. L’autore cerca di spiegare razionalmente le origini dell’epidemia individuando una serie di cause che la precedettero: l’assedio di Casale Monferrato da parte del duca di Savoia, modesto episodio militare dalle innumerevoli conseguenze (che si inquadra nelle guerre combattute per la successione dinastica nel Monferrato e che rientrano nel piú vasto quadro del conflitto tra Francia e Spagna, n.d.r.); l’imposizione fiscale eccessiva su una popolazione già sfibrata dalla carestia; l’aumento dei mendicanti che furono ospitati nei lazzaretti, e il loro afflusso dalla campagna in città; l’indebolimento degli organismi dovuto alla fame; i disordini e i tumulti per il pane. A coronare il tutto, la processione voluta dal cardinale Federico Borromeo quando si manifestarono i primi casi di peste, che non fece che diffondere enormemente il contagio. Anche questa epidemia, come le precedenti, non arrivò all’improvviso: già nel 1628 il Tribunale della Sanità, date le poco rassicuranti notizie sui contagi che dilagavano in Europa, aveva emanato una grida per cercare di salvaguardare Milano. In seguito vennero pubblicati alcuni bandi per vietare il commercio con Friburgo e Berna. La situazione venne aggravata dalla carestia e dalla guerra di successione nel Monferrato, per cui l’esercito spagnolo prese d’assedio Casale. Ciononostante, nell’ottobre del 1629, nessun provvedimento era ancora stato preso, a causa dello scetticismo delle autorità sulla possibilità che il contagio raggiungesse Milano. La paura la vita al tempo della peste
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Acquerello raffigurante il lazzaretto di Marsiglia e i ricoveri degli appestati. XIX sec. Marsiglia, Musée du vieux Marseille. Al sorgere dell’epidemia del 1720-21, la città era dotata di un lazzaretto per la quarantena situato sull’isola di Jarre, dove veniva alloggiato chiunque provenisse dall’Oriente, sotto il controllo di personale che indossava abiti appositi per evitare eventuali contagi.
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cominciò a diffondersi davvero solo verso la metà di ottobre, con la notizia che poco lontano erano morte dodici persone. Alla fine dello stesso mese il morbo era ormai in città. Dopo il primo caso di peste conclamata, furono pubblicate numerose gride che proibivano baratti con i soldati tedeschi di passaggio, mentre il Tribunale della Sanità milanese decretò l’utilizzo obbligatorio delle «bollette personali di sanità», una sorta di passaporto medico che accertava la provenienza di chiunque volesse entrare in Milano da territori non toccati dall’epidemia. Il rigore dell’inverno arrestò momentaneamente il diffondersi del contagio, ma, nei primi mesi del 1630, i festeggiamenti del carnevale, quelli per la nascita dell’erede al trono di Spagna e i movimenti di truppe (dalla Valsassina scesero 4000 lanzichenecchi, diretti nel Novarese e nel Mantovano), causarono il riacutizzarsi dell’epidemia, che si diffuse ovunque. Nel maggio del 1630, il lazzaretto era ormai incapa-
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ce di accogliere altri appestati. Si ventilò persino l’ipotesi di chiudere l’intero borgo di Porta Orientale, la zona di Milano col piú alto numero di malati e di decessi. L’indifferenza delle autorità, gli interessi commerciali e l’atteggiamento psicologico della popolazione avevano dunque reso la situazione irrimediabile. In questo clima si scatenò la caccia agli untori, descritta dal Manzoni nella Storia della colonna infame, sulla base degli atti di un processo coevo contro due barbieri accusati di avere volutamente diffuso il morbo mediante gli unguenti da loro prodotti.
Sostanze appiccicose ovunque
La processione organizzata dal cardinale Federico Borromeo diede il colpo di grazia alla città, amplificando la caccia agli untori. La situazione si era fatta a questo punto ingestibile: il numero dei decessi aumentava ogni giorno di piú, cosí come le tracce di sostanze appiccicose, rinvenute ormai dappertutto, nonostante le gride
contro coloro che andavano ungendo porte, catenacci, e muri della città. Alla fine di maggio, con quaranta decessi al giorno e centinaia di malati, venne allestito un secondo lazzaretto, al Gentilino, affidato ai Carmelitani. Ormai la situazione appariva drammatica: migliaia di case deserte o abbandonate ai saccheggi, infermi lasciati senza conforto e senza alcun tipo di aiuto, un passaggio continuo di carri colmi di cadaveri. I maggiorenti cittadini si erano dati alla fuga, diretti nelle piú sicure dimore di campagna, nonostante le gride che proibivano di lasciare Milano, pena la confisca dei beni. Nell’agosto del 1630, anche a causa del caldo opprimente, l’epidemia toccò il suo picco massimo. I morti giornalieri ammontavano ormai a 600, e almeno 4000 cadaveri insepolti giacevano lungo le strade o abbandonati nelle case. Iniziarono a mancare i generi di prima necessità e a scarseggiare i monatti, al punto che venne emanata un’ordinanza per intimare di non
«gettare, far gettare dalle finestre, lasciare o far lasciare in strada alcun cadavere, se non nell’atto che i monatti li ricevono». Secondo una missiva del 31 agosto 1630 «ormai a Milano è rimasta assai poca gente, e vi sono case disabitate, e i morti, dall’inizio del contagio, ammontano a settantaduemila». Quando, nel dicembre del 1630, l’epidemia era ormai quasi cessata, si calcolava che a Milano fossero rimasti soltanto 50 000 abitanti, e che L’epopea del cid l’epidemia avesse prodotto 150 000 morti, pari campeador ai 3/4 della popolazioneCava cittadina. diventa uno dei temi ricorrenti nella vedutistica napoletana dell’Ottocento: i pittori
L’epidemia di Londra della(1665) scuola di Posillipo riprendono i suoi scorci
Nell’inverno del 1664-1665 il morbo arrivònelle in infinite sfumature di collinari declinandoli verde, con undai occhio di riguardo per i valori lirici Inghilterra, probabilmente portato marinai e romantici. Partendo da un disegno realizzato olandesi fatti prigionieri dagli Inglesi: nei Paesi gli fin artisti accostano talvolta al gusto Bassi, infatti, la peste sidal eravero, diffusa dalsi1663pittoresco, 64, facendo 35 000 vittime nella per soladipingere Amster-opere che incontrano il favorefurono del mercato. Tra quanti hanno dam. I primi a essere colpiti i sobborghi immortalato angoli del borgo nato attorno al di Londra, nei quali la concentrazione di poveri monastero figurano Giacinto Gigante, in condizioni igieniche disastrose non poteva Domenico Morelli, e poi i fratelli Palizzi, Achille Vianelli, Achille Carelli e De Tra il XIX e il XX secolo sono invece i fotografi a rimanere abbagliati dalla luce cavese: si sono spinti qui Alinari, Brogi, Mauri, che hanno siglato immagini di forte suggestione. E il XX secolo sono invece i fotografi a rimanere abbagliati dalla luce cavese: si sono spinti qui Alinari, Brogi, Mauri, che hanno siglato immagini di forte suggestione. E il XX secolo sono invece i fotografi a rimanere abbagliati.
L’epopea del cid campeador Cava diventa uno dei temi ricorrenti nella vedutistica napoletana dell’Ottocento: i pittori della scuola di Posillipo riprendono i suoi scorci collinari declinandoli nelle infinite sfumature di verde, con un occhio di riguardo per i valori lirici e romantici. Partendo da un disegno realizzato dal vero, gli artisti si accostano talvolta al gusto pittoresco, per dipingere opere che incontrano il favore del mercato. Tra quanti hanno immortalato angoli del borgo nato attorno al monastero figurano Giacinto Gigante, Domenico Morelli, e poi i fratelli Palizzi, Achille Vianelli, Achille Carelli e De Tra il XIX e il XX secolo sono invece i fotografi a rimanere abbagliati dalla luce cavese: si sono spinti qui Alinari, Brogi, Mauri, che hanno siglato immagini di forte suggestione. E il XX secolo sono invece i fotografi a rimanere abbagliati dalla luce cavese: si sono spinti qui Alinari, Brogi, Mauri, che hanno siglato immagini di forte suggestione. E il XX secolo sono invece i fotografi a rimanere abbagliati.
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PESTE
I lazzaretti
Incisione che ritrae il dottor Chicogneau, rettore dell’Università di Medicina di Montpellier, inviato a Marsiglia per aiutare la popolazione, vittima dell’epidemia di peste. 1720. L’abbigliamento, ideato nel XVI sec., è composto da una tunica cerata, guanti e una maschera con occhiali protettivi e un lungo becco contenente sostanze aromatiche, che si credeva proteggessero dal contagio. Il bastone permetteva di sollevare coperte e indumenti dei malati, evitando il contatto diretto. che favorire il contagio. Il caldo estivo fece precipitare la situazione portando la peste in città, e provocando la fuga del re Carlo II. I mercanti lasciarono Londra, molte società commerciali fallirono. Anche in quest’occasione, come già avvenuto durante le principali epidemia della storia, solo l’arcivescovo di Canterbury e il vescovo londinese, insieme a un piccolo gruppo di religiosi e ad alcuni medici e farmacisti, rimasero nella capitale inglese. Tra le misure prese per cercare di arginare l’epidemia, va ricordato il divieto di vendere abiti usati e tessuti, nonché di esporli in pubblico; il massiccio sterminio di cani e gatti, nel cui pelo poteva annidarsi la malattia; l’incentivo a bruciare nelle case zolfo, luppolo, incenso, ambra e soprattutto tabacco, ritenuti adatti alla disinfezione dell’aria. Vennero addirittura collocati per le strade barili di pece da far ardere anche di notte. Nella sola Londra morirono circa 70 000 persone (oltre il 20% della popolazione), ma furono colpiti anche i villaggi vicini. Nel 1666 lo scoppio di un incendio che devastò gran parte della città pose fine alla pestilenza, che fu l’ultima in Inghilterra. Forse anche per questo (oltre che per la maggiore abbondanza di fonti) l’epidemia del 1665 rimase, piú delle altre, nell’immaginario popolare. L’epidemia di Londra venne narrata da Daniel Defoe (1660-1731) la cui opera (il Journal of the Plague Year), oltre a costituire l’importante testimonianza di un contemporaneo, offre un vero e proprio trattato medico sulla tipologia e le modalità di diffusione del contagio. Rifiutando categoricamente le teorie fantasiose che attribuivano le origini della malattia all’influsso degli astri e ai miasmi, e il contagio all’opera degli untori, lo scrittore cercava invece di mettere in evidenza le cause concrete e materiali dell’epidemia attraverso la descrizione delle disastrose condizioni in cui viveva la parte piú povera della popolazione londinese, nonché il ruolo degli interessi commerciali nel 48
la vita al tempo della peste
ritardare le informazioni sulla presenza del morbo, e quindi nel provocare una catastrofe irrimediabile.
Marsiglia, l’ultima epidemia
L’epidemia scoppiata nel 1720 a Marsiglia, che causò la morte di circa la metà della popolazione cittadina (50 000 decessi su 100 000 abitanti), segnò, pur senza diminuire affatto la sua virulenza, il ritirarsi del morbo dall’Europa. Sebbene la peste fosse endemica nella città da circa 370 anni, i suoi abitanti, come quelli di tutte le altre località in cui il contagio si era manifestato, non davano il minimo segno di immunizzazione alla malattia. Il morbo, anzi, dimostrò di non essersi in alcun modo evoluto verso una forma meno virulenta. Della pestilenza rimane la dettagliatissima documentazione del principale medico cittadino attivo al tempo dell’epidemia, il dottor Jean-Baptiste Bertrand, incaricato, tra l’altro, di ispezionare i cadaveri in caso di morti sospette per appurare l’eventuale presenza di una malattia a carattere epidemico: si trovava perciò nella condizione ideale per studiare l’epidemia dal suo inizio. L’episodio morboso fu estremamente virulento e con percentuali di mortalità altissime, nonostante la città fosse straordinariamente ben preparata ad affrontarlo: era infatti dotata di un lazzaretto per la quarantena situato in mare di fronte alla città, sull’isola di Jarre, in cui veniva fatto sostare chiunque provenisse dall’Oriente. Il personale incaricato di far rispettare la quarantena indossava abiti e calzature appositi. L’opera di Bertrand, che si apriva con una rassegna delle principali pestilenze, sottolineava in particolare l’atteggiamento psicologico della popolazione di fronte all’epidemia, il rifiuto iniziale di ammetterne l’esistenza, diffuso per motivi diversi sia tra la gente comune (motivata dalla paura), sia tra i funzionari pubblici, che speravano in questo modo di scongiurare il blocco del commercio e la crisi economica; la convinzione dell’efficacia dei principi curativi erboristici; la credulità e la psicosi collettiva contro gli untori. Circa le cause della malattia, il medico francese, opponendosi alla teoria dei «miasmi» che avrebbero corrotto l’aria e a quella del morbo derivante dalla frutta troppo matura, sosteneva la teoria del contagio. Era convinto, perciò, che se le rigide misure di quarantena di cui Marsiglia era dotata fossero state realmente osservate, la peste non avrebbe mai potuto colpire la città. La malattia in effetti si diffuse perché non erano state adottate tutte le precauzioni necessarie con alcune navi provenienti da Sidone, dove il morbo si era appena manifestato: il chirurgo
Una grande pinza per il trasporto dei cadaveri degli appestati, ideata al fine di compiere l’operazione senza dover toccare direttamente i corpi. XVI sec. Marsiglia, Musée du vieux Marsille.
che aveva esaminato i casi sospetti, infatti, aveva ritenuto che si trattasse semplicemente di febbre. Soltanto quando molti scaricatori del porto, venuti a contatto con i carichi di cotone infetti, si ammalarono, si prese finalmente coscienza della gravità della situazione. Le autorità pubbliche tentarono però in ogni modo di scongiurare una quarantena generale della città, consapevoli degli effetti dirompenti che un tale provvedimento avrebbe avuto sull’economia di Marsiglia. La reticenza delle autorità e del chirurgo dell’ospedale illusero la popolazione che la situazione non fosse particolarmente grave: nessuno voleva prendere in considerazione la prospettiva di un collasso del commercio e dell’ordine sociale.
I medici sotto accusa
Solo quando la notizia del contagio cominciò a diffondersi spontaneamente fuori dalla città, le autorità furono costrette a prendere provvedimenti adeguati. Il parlamento della Provenza proibí ogni contatto con la città e i suoi abitanti; venne nominato un comitato di persone qualificate a gestire l’epidemia; a ogni quartiere della città vennero assegnati un medico, un chirurgo, un vice-chirurgo e un farmacista. Ciononostante nel volgere di una settimana l’epidemia si era tanto diffusa che il lazzaretto non bastava piú e si fu costretti a segregare i malati in casa. Eppure la popolazione continuava a rimanere incredula e ad accusare i medici di aver esagerato per sete di guadagno. Le autorità della regione continuarono in ogni caso a imporre la quarantena, al punto che i fornai non erano ormai piú in grado di produrre una quantità di pane sufficiente, cosa che provocò tumulti e rivolte. Per i rifornimenti di generi alimentari si venne poi a un compromesso con l’istituzione di mercati fuori dalla città nei quali i mercanti avrebbero deposto i loro prodotti e i bottegai di Marsiglia, i soli autorizzati ad accedervi, li avrebbero ritirati. In questa situazione già di per sé disperata, un altro problema non trascurabile riguardava il mantenimento della flotta, indispensabile a contrastare gli attacchi dei pirati nordafricani e quelli degli Spagnoli. Anche in questo caso, come a Londra, furono accesi fuochi per la città per «purificare l’aria» e scavate immense fosse comuni subito fuori dalle mura. Il cordone sanitario predisposto a livello provinciale si dimostrò estremamente efficace nell’impedire il diffondersi dell’epidemia all’intera regione, per cui, dopo aver raggiunto il suo picco massimo durante l’estate del 1720, la pestilenza cessò spontaneamente all’inizio del 1721. la vita al tempo della peste
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arte e superstizione 50
La
fede e il
Per cercare di sfuggire alla malattia, si invoca l’aiuto divino e quello di una folta schiera di santi protettori: un culto da cui nascono opere d’arte colta e anche popolare. Al tempo stesso, la disperata ricerca di un colpevole si fa cieca e ossessiva, dando luogo a tragiche persecuzioni Perugia, cattedrale di S. Lorenzo. Particolare dello stendardo processionale dipinto da Berto di Giovanni nel 1526 in occasione di una grave pestilenza. Sotto una veduta della città di Perugia, si vede il popolo agitato, sul quale svolazza un cartiglio con la scritta «SALUS NOSTRA IN MANU TUA EST ET NOS ET TERRA NOSTRA TUI SUMUS» («La nostra salvezza è nelle tue mani e noi e la nostra terra siamo tuoi»), indirizzata alla Vergine, raffigurata nella parte alta dell’opera (non compresa nella foto).
la vita al tempo della peste
di Chiara Mercuri
pregiudizio
PESTE
Arte e superstizione
L’
orrore improvviso generato dalla Peste Nera non poteva non rispecchiarsi nell’arte. Le maggiori ripercussioni, però, si ebbero solo un secolo dopo la prima grande ondata. Non possiamo quindi parlare di un unico riflesso, ma dobbiamo distinguere tra due diverse fasi: una prima fase, quella immediatamente successiva alla grande ondata del 1348, quando ancora la mentalità collettiva era orientata a elaborare razionalmente il trauma, e una seconda fase, quando ormai il ripetersi delle pestilenze diffuse definitivamente l’idea di insicurezza e instabilità. Il primo secolo, quello successivo alla peste del 1348, fu ancora proteso alla ricerca di una spiegazione: una causa medico-sanitaria o una causa morale. Per la prima si decise di correre ai ripari adottando alcune buone pratiche igieniche che avrebbero dovuto arginare la possibilità di aprire nuovamente le porte al morbo (vedi nel capitolo precedente, alle pp. 28-49). Per quella
cavano in che modo si dovessero impiegare i soldi della donazione, lasciando la scelta del tipo di opera, del tema e dell’ubicazione ai religiosi beneficiari. Inizialmente infatti, l’intento era quello di affermare con tale lascito il proprio disprezzo per il mondo, la rinuncia ai beni materiali, tema che ritornava puntualmente nei sermoni dei predicatori. Dopo il 1363, quando si comprende che il pericolo non è affatto scongiurato, ma che è anzi destinato a ripresentarsi, la mentalità cambia. Consapevoli di non poter meritare la salvezza attraverso le cospicue donazioni, si cerca allora di lasciare ricordo di sé nel mondo. Si lascia scritto il tema da rappresentare, si pretende l’inserzione delle insegne di famiglia nell’opera e si richiede di esservi ritratti. Il senso di assoluta precarietà si traduce in un’accanita ricerca della sopravvivenza post mortem, entrando con la propria identità terrena nelle opere d’arte. (segue a p. 56)
Il ripetersi delle pestilenze favorisce il diffondersi degli ex voto, sia di privati appartenenti a tutte le classi sociali, sia di intere città morale ci si affidò alla spiegazione data dai predicatori nelle piazze di tutta Europa, i quali additavano il vizio e i cattivi costumi, come i colpevoli del castigo divino. In questi anni il numero degli iscritti alle confraternite lievita fino a decuplicare, come pure quello dei Terzi Ordini religiosi, fondati per permettere ai laici di condurre una vita di maggiore perfezione e penitenza, senza abbandonare la propria condizione nel mondo. Si cerca poi di guadagnare merito attraverso una committenza pia che si esprime in particolare attraverso i lasciti testamentari destinati a opere di abbellimento degli edifici religiosi e caritativi. In altri termini, si spera ancora di scongiurare il riapparire del flagello attraverso la carità, la moralizzazione dei costumi e una vita di maggiore preghiera e penitenza. Con il dilagare di nuove epidemie, a partire dal 1363, anche la committenza testamentaria inizia però a riflettere un sentimento piú individualista della morte. Prima di tale data, i lasciti pro picturis non specifi52
la vita al tempo della peste
Ex voto di una donna e dei suoi figli per la guarigione dalla peste. Tempera su legno, XV sec. Dal 1363, dopo ripetute pestilenze, in Europa cambia la sensibilità nel percepire la morte, con un sentimento piú individualistico che si riflette anche nell’arte: si inizia a pretendere di venire ritratti nelle opere commissionate (o di inserire gli stemmi della propria casata), per lasciare un ricordo di sé e guadagnarsi una sorta di immortalità.
la vita al tempo della peste
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PESTE
Arte e superstizione San Rocco visita gli appestati, particolare del dipinto di Jacopo Bassano. 1560-1580. Milano, Pinacoteca di Brera. Il culto di san Rocco, santo francese, noto per le cure portate agli appestati e perchĂŠ, dopo aver contratto egli stesso il morbo, guarĂ miracolosamente, si diffuse in Europa di pari passo col propagarsi delle epidemie.
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la vita al tempo della peste
san rocco
L L
a nascita del culto di san Rocco coincide con il propagarsi in Occidente delle epidemie. Possediamo poche notizie su questo santo, che fu invece uno dei piú venerati nella storia europea. Visse probabilmente tra la seconda metà del XIV e la prima del XV secolo. La Vita piú antica ci è stata tramandata da un anonimo che la redasse nel 1430 in Lombardia. Secondo tale biografia – nota come Acta Breviora – Rocco nacque a Montpellier, in seguito a un voto formulato da genitori sterili. Rimasto orfano, vendette tutti i suoi beni e si recò in pellegrinaggio verso Roma. Il viaggio di andata e ritorno alla città degli Apostoli è ben raccontato negli Acta, in quanto lungo la strada egli si fermò piú volte lungo la via Francigena, dedicandosi alla cura degli ammalati nei vari ospizi per pellegrini, dove ottenne guarigioni giudicate miracolose. Giunto infine a Roma, Rocco fu ricevuto dal papa proprio grazie
all’interessamento di un cardinale da lui guarito lungo la via. Ripresa la via del ritorno, all’altezza di Piacenza, il santo stesso contrasse la peste e ciò giustifica la sua acquisizione a patrono celeste degli appestati. Nella stessa Piacenza si verificò l’episodio che caratterizza l’iconografia di san Rocco. Il santo si rifugiò in un bosco nelle vicinanze della città, dove sarebbe stato nutrito ogni giorno dal suo cane, che si recava a Piacenza per rubare il pane per lui. Un facoltoso Piacentino, Gottardo Pallastrelli, incuriosito dalle «rapine» quotidiane del cane, avrebbe deciso di seguirlo e, scoperto Rocco malato nella foresta, lo avrebbe ospitato a casa sua per curarlo. Influenzato dall’esempio del santo, anche Gottardo avrebbe iniziato a mendicare. L’apparizione di un angelo inviato da Dio, portò la guarigione a Rocco, il quale decise di riprendere la strada verso casa. La Vita riporta poi che sulla via del ritorno, presso il Lago Maggiore, sarebbe stato arrestato
con l’accusa di essere una spia e dopo cinque anni di prigionia morí senza ottenere mai il rilascio. Il racconto della Vita, all’interno della quale sembrano convergere dati veri e spunti leggendari, non ci dice dove furono sepolti i suoi resti. Il suo culto conobbe da subito un incredibile successo devozionale e fu ufficialmente approvato da Urbano VIII nel 1629, data a partire dalla quale l’epiteto di «santo» gli venne attribuito a giusto titolo. Il fatto che fosse vissuto proprio negli anni immediatamente successivi alla comparsa del morbo in Europa e che lo avesse curato in strutture caritative fino a contrarlo in prima persona ne fece l’emblema della Peste Nera. L’iconografia stessa di san Rocco ben riflette l’epoca in cui visse: egli è infatti rappresentato come un romeo, cioè in abiti da viandante, col bastone e la bisaccia, come uno di quei tanti pellegrini che in età bassomedievale si mettevano in viaggio per raggiungere Roma, sia in occasione degli anni santi, sia per rendere visita alla tomba degli Apostoli. Sul suo cappello a larghe falde infatti è visibile l’immagine della «Veronica», la celebre reliquia romana divenuta simbolo dei romei. Per ricordare la specializzazione di Rocco nella cura della peste, sulla base della sua stessa vicenda biografica, viene poi presentato nell’atto di scoprire una gamba sulla quale è visibile il bubbone della peste, una ferita verticale di forma ovale, dalla quale in alcuni casi sgorga qualche goccia di sangue. Dalla fine del XV secolo accanto a Rocco, compare il fedele cane, ritratto con un pane in bocca nell’atto di porgerlo al santo. In qualche caso viene anche rappresentato l’angelo che, nella sua agiografia, figura sia come annunciatore del flagello, sia come salvatore dal morbo. Nonostante fosse l’ultimo tra i santi entrati nel novero dei protettori dalla peste, Rocco superò in fama e devozione gli altri patroni nel giro di poco tempo, giungendo persino a surclassare la fama del santo da sempre associato alla malattia, Sebastiano.
la vita al tempo della peste
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PESTE
Arte e superstizione
Nel testamento di un giurista aretino, si chiede espressamente di essere rappresentato «a dimensioni reali» ai piedi della Vergine. Un’analoga richiesta «di essere ritratta secondo verità» si trova nel testamento, redatto nel 1389, da una vedova di Perugia, la quale lascia i suoi terreni per realizzare una cappella intitolata a S. Maria dell’Annunziata presso gli Olivetani di monte Morcino. Il mercante aretino Lazzaro de Braccis cerca addirittura di trasformare l’altare maggiore della chiesa di S. Francesco ad Arezzo nel proprio monumento funebre. Come disposizione lascia scritto che vi siano rappresentate scene della vita di san Lazzaro, con evidente richiamo onomastico. Pretende inoltre l’inserzione degli stemmi di famiglia nelle vetrate della chiesa, precisando che tali disposizioni non sono motivate da «vanagloria ma per dare l’esempio ai posteri». Il cognato di Lazzaro invece guadagna «l’immortalità» lasciando, sempre alla chiesa di S. Francesco, una somma talmente esorbitante che servirà a realizzare il meraviglioso ciclo di affreschi di Piero della Francesca.
Per la gloria del casato
A partire dal 1363 la richiesta di cappelle e monumenti funebri che celebrino il committente diviene dunque endemica. Un simile boom provoca però nel tempo la saturazione degli spazi disponibili negli edifici religiosi. Cosí, agli inizi del Quattrocento, per esaudire le nuove richieste, ha inizio la cancellazione dei blasoni delle vecchie casate. I nuovi committenti però, intuendo il pericolo che può derivare da tale pratica, cominciano a introdurre nei dettati testamentari la clausola secondo la quale lo spazio acquistato tramite il lascito deve restare proprietà della propria famiglia nei secoli a venire. Il mecenatismo artistico-religioso finalizzato alla sopravvivenza post mortem non fu solo appannaggio dei piú ricchi; a fianco dei capolavori maggiori, si realizzavano infatti anche opere a buon mercato, che permettevano a tutti gli strati della società di avere accesso a tale pratica devota. In particolare a seguito della peste, aumentarono esponenzialmente le richieste di ex voto dipinti. Rispetto all’affresco tradizionale a tema, si tratta di opere di minor pregio che, oltre al prezzo abbordabile, avevano il vantaggio di richiedere uno spazio decisamente piú ridotto. Generalmente una superficie media di 1 m per 50 cm, che poteva essere ricavata in spazi marginali: sulle colonne della navata centrale, al di sotto dei cicli di affreschi maggiori, nelle pareti delle cappelle laterali. Il diffondersi di questo tipo di opere diede luogo in molti casi all’apparire di veri e propri patchwork di ritratti di santi, ancora oggi visibili 56
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san sebastiano
L L
a specializzazione di Sebastiano nella guarigione della peste si deve alle circostanze leggendarie del suo martirio. L’uomo apparteneva alle guardie pretoriane di Diocleziano e, durante la persecuzione del 288, aderí al cristianesimo, venendo per tale ragione condannato a morte dall’imperatore. Secondo la versione di Jacopo da Varazze, il grande agiografo bassomedievale, Diocleziano avrebbe dato
ordine di legare Sebastiano in mezzo a un campo, dove un gruppo di arcieri gli avrebbero inflitto la condanna a morte tramite il lancio delle frecce. Sopravvissuto miracolosamente al supplizio, Sebastiano si sarebbe rialzato dal campo e si sarebbe recato presso la scalinata del palazzo imperiale al fine di redarguire un attonito Diocleziano. Riavutosi dalla sorpresa
Lanslevillard (Savoia), cappella di S. Sebastiano. Il martirio di San Sebastiano, affresco del ciclo con le storie della vita del santo e di Cristo. Secondo la tradizione, un ricco abitante del luogo, Sebastian Turbil, avrebbe commissionato la realizzazione della cappella e delle pitture in segno di riconoscenza per il suo santo protettore, che l’aveva salvato dalla peste. la vita al tempo della peste
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PESTE
Arte e superstizione
di vederlo sopravvissuto al supplizio e interamente ricoperto di pustole putrescenti, l’imperatore avrebbe nuovamente comminato la sentenza di morte, da applicare stavolta tramite flagellazione. Una volta eseguito l’ordine, i soldati romani avrebbero poi gettato il corpo del martire in una fogna affinché i cristiani non potessero venerarlo. Un nuovo miracolo, tuttavia, avrebbe fatto sí che un’apparizione
Qui accanto ancora un particolare delle pitture murali nella cappella di S. Sebastiano a Lanslevillard in cui si vede un personaggio (forse il committente) che prega di fronte a san Sebastiano. Il santo, una guardia pretoriana sotto l’imperatore Diocleziano, subí il martirio durante la persecuzione del 288, tramite il lancio di frecce. Miracolosamente sopravvissuto al supplizio, fu ucciso tramite flagellazione. Le ferite delle frecce, che provocarono pustole putrescenti su tutto il corpo, ne fecero associare la figura alla peste, di cui divenne un santo guaritore.
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la vita al tempo della peste
A destra Lanslevillard, cappella di S. Sebastiano. Un altro particolare degli affreschi, raffigurante san Sebastiano che appare a santa Lucina. Dopo il martirio, i soldati gettarono il corpo di Sebastiano in una fogna, perché i cristiani non potessero recuperarlo e venerarlo come martire, ma il santo apparve a Lucina (santa che sosteneva economicamente la Chiesa, visitava i cristiani in carcere e provvedeva a seppelirne i corpi), e le indicò dove trovarlo.
rivelasse ai cristiani l’ubicazione del suo corpo, che fu subito recuperato e sepolto accanto agli altri martiri. L’essere sopravvissuto alcuni giorni dopo l’esecuzione, ricoperto dalle pustole provocate dalle ferite delle frecce, fece sí che Sebastiano venisse associato alle piaghe della peste. Nella leggenda, infatti, si narra che nei giorni intercorrenti tra il primo e il secondo supplizio le sue ferite dovettero essere continuamente medicate. Secondo diverse testimonianze, tra cui la sopravvivenza di un antico ex voto che lo rappresenta anziano e barbuto (a differenza di come fu ritratto in seguito), egli fu invocato per far cessare la peste a Roma nel 680. In tale occasione a lui si rivolse la cittadinanza per impetrare la fine del contagio e gli fu attribuita la successiva sparizione del morbo nella città. Per grazia ricevuta, il popolo di Roma fece realizzare un suo ritratto a mosaico che fu posto su un altare votivo nella chiesa di S. Pietro in Vincoli a Roma, dove è oggi ancora visibile. Numerosissimi sono poi gli ex voto dipinti per grazia ricevuta su committenza di privati durante la Peste Nera. L’esempio piú noto è quello di un Sebastian Turbil, omonimo del santo, il quale, scampato alla peste, lo fece ritrarre nella cappella del villaggio di Lanslevillard in Francia, dove in onore del martire venne realizzato un intero ciclo di affreschi che lo ritraggono impegnato in vari episodi di guarigione operati durante la pestilenza nel piccolo villaggio francese. A favorire l’associazione della figura di Sebastiano alla Peste Nera, fu il fatto che i predicatori usavano dire che la peste venisse propagata tramite il lancio di dardi infestati da parte della morte. Anche le piaghe della peste venivano avvicinate alle ferite provocate dai dardi avvelenati scagliati da Dio a castigo degli umani peccati. Ciò si riflesse anche nell’iconografia che rappresentò spesso la peste non armata di falce, ma di arco e frecce.
nelle nostre chiese piú antiche e meno rimaneggiate. Nello spazio ristretto, infatti, trova generalmente posto l’immagine di un santo o di una Madonna particolare (Vergine del Latte, della Misericordia, ecc.). Anche qui, in molti casi, compare l’immagine del committente, inginocchiato oppure ai piedi del patrono celeste a cui si offre il dipinto per grazia ricevuta.
L’avvento dei santi guaritori
Fino alla prima metà del Quattrocento, furono questi i cambiamenti piú significativi fatti registrare dalla produzione artistica e non l’ingresso di temi e motivi macabri o tesi a richiamare la morte. Quanto alle tematiche, si assiste invece a un mutamento decisivo del pantheon dei protettori celesti che si sceglie di rappresentare. I santi tradizionali vengono soppiantati dai santi guaritori della peste, nati con tale specializzazione o che l’acquisiscono per estensione delle proprie capacità taumaturgiche. Rocco, Sebastiano, Lazzaro, Cosma e Damiano, Antonio eremita, Adriano: sono loro i santi della peste, quelli richiesti sia per i grandi affreschi che per gli ex voto. Fra tutti, Rocco diviene il santo per antonomasia della Peste Nera. Di fronte a un male nei confronti del quale la medicina si rivelava impotente, il bisogno di sila vita al tempo della peste
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curezza e di protezione si fece lancinante. La peste mise in discussione la fiducia in un mondo ordinato e stabile, avvelenando l’immaginario collettivo con la paura del non-senso, dell’ingovernabilità degli eventi, dell’ineluttabilità del caso. Tuttavia, a provocare un decisivo cambiamento di mentalità, tale da riflettersi nell’arte, non fu tanto, come si è visto, il primo grande endemico attacco di peste, quanto il fatto che ondate, piú o meno violente, di contagi pestilenziali si ripresentarono nel corso del XV secolo e
oltre. La reiterazione del fenomeno, dunque, piú che il suo apparire, diffuse un senso d’insicurezza e d’instabilità. Il presentarsi poi di guerre sanguinose – prima fra tutte quella dei Cent’anni – e l’aggiungersi di crisi cicliche di carestia portò – soprattutto nel Nord Europa – a quell’incupimento nell’immaginario e nelle arti visive che siamo soliti considerare come conseguenza della grande peste del 1348, e che si produsse invece solo uno o due secoli piú tardi. Dobbiamo pensare a un mutato quadro sociale,
Il ricco Epulone, olio su tela di Bonifacio Veronese (al secolo Bonifacio de’ Pitati). 1543-1545. Venezia, Gallerie dell’Accademia. San Lazzaro, divenuto protettore dalla peste per le bende in cui appariva avvolto, era in realtà un lebbroso che mendicava cibo alla porta del ricco Epulone.
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in cui guerra, miseria ed epidemie sono all’ordine del giorno. Ciò suscitò un’inquietudine permanente che non poteva non riflettersi al livello delle credenze e dei comportamenti religiosi, come mostra anche il fatto che, nel Quattrocento, scemò il successo dei predicatori apocalittici, delle processioni di flagellanti, dei fustigatori di costumi. Si interiorizzò l’idea che non vi fosse alcun rapporto di causa-effetto tra comportamenti retti e salvazione. Il morbo colpiva incurante dei meriti o dei demeriti morali
san lazzaro
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azzaro è il mendicante di cui si parla nella parabola di Epulone (Luca, 16,19-31). Fu spesso confuso, anche nella pittura, con il san Lazzaro di Betania resuscitato da Gesú, poiché le bende con cui appare avvolto in quanto cadavere furono ritenute simbolicamente adatte a rappresentare la malattia pestilenziale. In realtà il Lazzaro protettore dalla peste è, nella parabola evangelica, un lebbroso che stazionava alla porta della dimora del ricco Epulone e mendicava gli avanzi della sua lauta mensa. Alla sua malattia furono anche associati nel nome i lazzaretti, gli ospedali per la cura degli appestati.
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delle vittime. A predominare in questa seconda fase fu allora l’idea della morte come livella, come falce che colpisce a caso, in alto come in basso nella gerarchia sociale, in tenera come in avanzatissima età, in uomini gaudenti e in religiosi di specchiata condotta. L’arte cominciò cosí a presentare motivi meno comprensibili, a volte tragici e morbosi, perfino beffardi. Nel Medioevo la tematica che piú si legava all’idea della morte era quella del giudizio universale, che tuttavia veniva letta, oltre che come «memento mori», anche come garanzia della giustizia divina: le rappresentazioni tormentate dei dannati perdevano il loro mordente tragico nell’ottica di fondo, che rimaneva finalizzata alla celebrazione del premio concesso a coloro i quali avevano ben operato. Nel Quattrocento, la morte inizia invece a essere rappresentata non tanto nei suoi caratteri allegorico-morali quanto nei suoi dettagli macabro-realistici. Essa è dipinta come uno scheletro animato, spaventoso e aggressivo, irridente e vessatorio, collerico contro tutti, incapace di distinzione tra buoni e cattivi. Non ci troviamo ancora di fronte a quello che fu il vero e proprio trionfo del funebre dell’età del Barocco, quando scheletri e teschi diventeranno addirittura elementi di decorazione di chiese e cappelle; si assiste comunque al successo di tematiche quali «L’incontro dei tre vivi con i tre morti» e «Il trionfo della Morte». Essi venivano rappresentati anche prima dell’arrivo della peste, ma ora la loro richiesta aumenta e, mutano i caratteri iconografici della loro rappresentazione.
Non scordarti di noi...
L’incontro de «i tre vivi e i tre morti» è un motivo duecentesco, tratto dall’opera omonima Dict de trois morts et des trois vifs del francese Baudouin de Condé. I tre morti hanno il compito di ricordare ai tre cavalieri vivi: «Ciò che sarete voi, noi siamo adesso, chi si scorda di noi, scorda se stesso». Si tratta dunque – piú che di un soggetto macabro – di un tema moraleggiante, un composto «memento mori», teso a incitare a una buona condotta. Stesso discorso vale per il trionfo della morte rappresentato dal pittore Buonamico Buffalmacco nel Camposanto di Pisa sette anni prima della peste, tra il 1336 e il 1341 (vedi foto a p. 69). Se mettiamo a confronto gli affreschi pisani con quelli di uguale tematica successivi alla peste, notiamo un significativo cambiamento. A Pisa, per esempio, l’incontro dei tre vivi con i tre morti è stemperato dal fatto che i tre morti (uno solo dei quali è rappresentato come scheletro) non sono in piedi, in atteggiamento beffardo, a bloccare il passaggio dei tre cavalieri, ma sono adagiati, quasi imprigionati, dentro i rispettivi sacelli. Stesso discorso vale per «il trionfo della Morte», nel qua62
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sant’adriano
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driano fu ufficiale dell’esercito imperiale in servizio a Nicomedia, dove avrebbe conosciuto e sposato la cristiana Natalia (o Anatolia), dalla quale sarebbe stato in seguito convertito alla fede cristiana. Per tale ragione sarebbe stato giustiziato insieme ad altri 23 martiri durante la persecuzione di Massimiano, dopo essere stato sottoposto a tortura. Interrogato dall’imperatore fu condannato alla prigione, dove passò molto tempo confortato dalla visita della moglie e delle altre pie donne che cercavano di portare sollievo ai prigionieri cristiani. Fu infine condannato al taglio delle mani e dei piedi e non sopravisse alle ferite.
Nell’iconografia è rappresentato in abiti militari, a volte con l’incudine sulla quale gli furono tagliati gli arti. Le torture subite e la sopravvivenza in carcere ferito e piagato motivarono la sua associazione con le piaghe provocate dalla peste. Adriano era inoltre considerato protettore dalla morte improvvisa proprio a motivo del fatto che non sopravvisse alle ferite che gli furono inferte; e cosí fu assunto come uno dei grandi protettori della Peste Nera, periodo in cui il morbo portava alla morte nel giro di pochi giorni o addirittura ore. Il culto come protettore dalla peste si diffuse soprattutto nell’Europa del Nord.
le non troviamo scheletri armati di falce e saette che seminano, sadici, scompiglio e terrore nel mondo dei vivi, ma anime dannate cui viene assegnato il meritato castigo. Piú che di trionfo della Morte, infatti, per Pisa si dovrebbe parlare di una sorta di giudizio universale. A partire dalla metà del Quattrocento invece, si assiste a un vero e proprio cambiamento a iniziare dalle tinte. Inizia infatti a predominare un’oscurità pervasiva che giunge al suo acme in pittori come Hieronymus Bosch (1450-1516) e Pieter Brueghel (1525-1569). Nei piú noti «trionfi della Morte» quattrocenteschi inoltre, l’atmosfera di fondo è profondamente mutata e siamo lontani dai toni – tutto sommato pacati – del giudizio universale. A Clusone, in val Seriana, troneggia una Morte, rappresentata come imperatrice del mondo, incoronata e mantellata di porpora, sarcastica e amara, compiaciuta nel colpire a caso (vedi foto a p. 68). Essa raccoglie, dentro un’arca gremita, papi e imperatori, principi e alti prelati. Con crudeltà canzonatrice respinge i molti e ricchi doni che le vengono offerti da un’umanità supplice e disperata, ricordando come si legge nei cartigli che tiene tra le falangi della mano destra: «Gionto per nome chiamata Morte ferischo a chi tocharà la sorte; non è homo cosí forte che da mí non po’ schapare»; e nella mano sinistra: «Gionto la Morte piena de equalenza solo voi voglio e vostra richeza e digna sono da portar corona perché signorezi ognia persona». (segue a p. 66)
Il martirio di Sant’Adriano, olio su tela di Adrien Sacquespee. 1659. Rouen, Musée des Beaux-Arts. Ufficiale dell’esercito dell’imperatore Massimiano, Adriano venne torturato per la sua fede e subí il martirio tramite l’amputazione delle mani e dei piedi. L’associazione del santo alla peste deriva dalle piaghe dovute alla tortura, assimilate a quelle causate dalla malattia, e il fatto che non sopravvisse al taglio degli arti ne fece il protettore dalla morte improvvisa.
PESTE
Arte e superstizione
sant’antonio eremita
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ant’Antonio era un eremita egiziano, vissuto tra il III e il IV secolo, ritenuto uno dei fondatori del monachesimo orientale. La sua vita ci è stata tramandata da Atanasio, vescovo di Alessandria insieme al quale condusse una dura battaglia contro l’eresia ariana. Nella sua biografia, Atanasio descrive soprattutto le lotte sostenute da Antonio nel deserto contro le tentazioni del demonio. Anche san Girolamo, nella Vita di Paolo di Tebe, parla di Antonio, descrivendone la vita ascetica nel deserto della Tebaide. Il santo fu associato alla peste proprio durante la Peste Nera, a seguito di vicende complesse, che ebbero inizio in età medievale. Secondo una tradizione locale infatti, nell’XI secolo
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un feudatario francese di ritorno da un pellegrinaggio in Terra Santa avrebbe portato nella zona nei dintorni di Vienne alcune reliquie del santo anacoreta. Cosa per altro probabile dal momento che era pratica comune per le persone facoltose acquistare od ottenere in omaggio dall’imperatore d’Oriente reliquie da riportare in patria. I sacri resti furono deposti nel villaggio di Motte-aux-Bois che a seguito della traslazione mutò il suo nome in Saint-Antoine de Viennois. Qui, per ordine del vescovo di Vienne, s’installarono anche alcuni monaci benedettini, preposti alla cura del pellegrinaggio che negli anni fiorí attorno alle reliquie del santo. Per rendere grazie dei miracoli che si
verificavano attorno ai suoi resti fu anche creata una confraternita di religiosi che si dedicarono alla cura degli ammalati e presero il nome di Ordine Ospedaliero degli Antoniani. Gli Antoniani aprirono vari ospizi sulle Alpi francesi e quando tali ospedali furono usati durante la Peste Nera per curare gli appestati, Antonio fu assunto nell’iconografia come protettore dal morbo insieme ai tradizionali santi curatori della peste, Sebastiano e Rocco. I suoi attributi iconografici lo rappresentano in abiti monacali con un campanello e un maialino e il «tau»,
Sulle due pagine veduta di Saint-Antoine-l’Abbaye (Isère, Francia), cittadina sul cammino di Santiago di Compostella, la cui magnifica abbazia (foto a sinistra) custodisce le reliquie di sant’Antonio Abate (detto anche d’Egitto). Secondo la tradizione, l’abbazia, inizialmente un mausoleo, sarebbe sorta nel 1070, dopo che un feudatario locale, Jocelin, aveva riportato dalla Terra Santa alcune reliquie del santo egiziano. Affidata ai Benedettini nel 1083, l’abbazia divenne anche sede dell’Ordine Ospedaliero di Sant’Antonio, dedito alla cura degli ammalati, soprattutto di ergotismo e del fuoco di sant’Antonio, ma anche di peste. L’ordine fu sciolto nel 1776 da papa Pio VI e i suoi membri si fusero coi Cavalieri di Malta.
assunto anche come simbolo della confraternita. Dopo la peste però si iniziò anche a rappresentarlo colpito da frecce come san Sebastiano. Ciò sia a motivo di una confusione tra i due santi, sia per via del fatto che, come si è detto, la peste veniva spesso simbolicamente rappresentata come un dardo infetto.
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Nel Quattrocento, poi, l’apparire di una nuova tematica segna la mutata sensibilità dell’epoca: la danza macabra. In tale rappresentazione trovano la completa definizione una visione individualistica della morte e il sentimento della caducità della vita. Le schiere di uomini costretti al loro ultimo e tragico ballo con gli scheletri sono senza speranza, vittime inermi di un destino che li domina dall’alto. Sono abbigliati in modo da rappresentare tutte le categorie sociali, a ricordare che la fine arriva per tutti.
Il flagello divino
La Peste Nera del 1348 portò ovunque distruzione e morte; tuttavia, essa non agí solo per via diretta, tramite i velenosi bacilli rilasciati sulla pelle e nell’aria, ma si diffuse, indirettamente, come trauma da rimuovere, nell’inconscio collettivo. Poiché essa si presentava come giustiziera di ogni famiglia ed era capace di serpeggiare fin nei villaggi piú isolati, di superare qualsiasi cinta muraria, qualsiasi barriera naturale o architettonica, fu considerata da molti come un flagello divino. Si arrivò poi a superare l’idea della peste come manifestazione della collera divina, e a scorgere invece dietro l’endemica diffusione del flagello la colpevole volontà di qualcuno. Sorsero vigorosi tutti i fantasmi che, in altre parole, potevano nascere da una catastrofe di tale portata. E s’iniziò allora a guardare, prima con sospetto, poi con rancore, agli emarginati della società: solo loro – che non avevano nulla da perdere – potevano avere interesse a seminare morte e distruzione. E chi erano questi emarginati, questi miserabili che avevano odio e disprezzo per le stesse comunità in seno alle quali vivevano? Erano i reietti, gli svantaggiati, i mendicanti, i vagabondi, le prostitute, i lebbrosi. Tra questi – si pensò – dovevano esserci anche gli Ebrei, da sempre corpi estranei della Respublica Christiana. Il percorso dell’epidemia, di città in città, di villaggio in villaggio, fu accompagnato prima da eccidi isolati di mendicanti ed Ebrei, poi da raptus collettivi. Folle di disperati circondavano i lazzaretti dei lebbrosi, le case delle prostitute, i quartieri degli Ebrei e davano loro fuoco. Com’era già accaduto, in alcune regioni dell’Europa, gli Ebrei finirono per diventare l’obiettivo privilegiato di tali dicerie e violenze: la causa di un simile odio risedeva nel fatto che la società dell’epoca, soprattutto a partire dalle classi popolari, aveva assorbito in maniera rozza la secolare predicazione cristiana centrata sull’accu66
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sa – piú o meno velata – di «deicidio» nei confronti di Gesú di Nazareth; tale predicazione aveva attecchito soprattutto nelle aree urbane, dove i mercanti ebrei si erano inoltre rivelati dei veri e propri protagonisti in ambito economico, finanziario e commerciale. L’ascesa di tali capaci mercanti era percepita – soprattutto dai ceti concorrenti – con un misto di invidia e sospetto. A tali componenti si aggiunse un ulteriore sentimento di astio, quando gli Ebrei divennero gli unici a praticare il prestito a usura, quando cioè tale pratica fu vietata – dalle autorità religiose – ai cristiani e permessa – insieme a pochi altri mestieri – proprio agli Ebrei. Se questo era il retroterra che favorí l’attecchire dell’antigiudaismo, c’è da dire che esisteva poi un elemento ulteriore: in una società cristiana per educazione e storia qual era quella medievale, la presenza degli Ebrei costituiva un’eccezione. Essi erano un corpo estraneo, un elemento marginale eppure sempre presente, dotato di una propria religione, di propri costumi, di peculiari istituzioni, tutti tratti difesi con
La guarigione del diacono Giustiniano, tempera su tavola, in origine facente parte della predella con le Storie dei santi Cosma e Damiano della Pala di San Marco, di Giovanni da Fiesole detto il Beato Angelico. 1443 circa. Firenze, Museo di San Marco. Secondo la leggenda i due santi, medici originari dell’Arabia, subirono il martirio durante la persecuzione di Diocleziano del 303. L’episodio raffigurato racconta un miracolo postumo: una notte Cosma e Damiano apparvero in sogno a Giustiniano e gli sostituirono la gamba malata con quella di un uomo morto poco prima (un vero e prorpio intervento di trapianto ante litteram), ma il nuovo arto era scuro in quanto di un etiope.
santi cosma e damiano
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osma e Damiano erano due medici originari dell’Arabia vissuti nel IV secolo. La loro fama di santi guaritori si deve al fatto che prestavano la loro arte senza pretendere compenso, mettendosi al servizio dei piú poveri e bisognosi. Le antiche Passiones attestano che i due studiarono medicina in Siria e si sarebbero solo successivamente spostati a Egea, città della Cilicia nella quale avrebbero esercitato la loro professione fino al martirio. In questo modo avrebbero fatto molti proseliti e diffuso il cristianesimo a partire dai loro pazienti. Per tale
ragione però finirono vittime della persecuzione di Diocleziano del 303. Secondo la testimonianza di Teodoreto, vescovo di Ciro in Siria, essi subirono il martirio in questa città e non a Egea, come attestano le Passiones. I loro corpi vennero qui sepolti e furono da subito venerati, anche se il maggior centro di culto fu Cipro, dove Giustiniano fece costruire una splendida basilica in onore dei due martiri, dai quali avrebbe ottenuto una miracolosa guarigione. La diffusione del loro culto in Occidente si deve a papa Simmaco,
che per loro edificò un oratorio, e, soprattutto, a papa Felice IV (526-530), che trasformò due edifici del Foro Romano nella basilica dei SS. Cosma e Damiano. Da Roma il culto si diffuse in tutto l’Occidente. L’associazione dei due santi alla peste fu dettata dal fatto che essi furono sempre invocati come guaritori di tutti i tipi di malattie e rappresentati in abiti da medico, con gli strumenti da lavoro: la cassetta da chirurgo, la valigia con gli unguenti, a volte col mortaio per la lavorazione delle erbe medicinali. Il fatto poi che essi fossero rappresentati sempre nell’atto di visitare o curare gli ammalati doveva farli prediligere nelle invocazioni in situazioni di malattia endemica e contagio. Alla diffusione del culto contribuí poi il fatto che la famiglia dei Medici li elesse a propri patroni, impegnandosi in una promozione iconografica per mezzo di artisti di altissimo livello, quali Filippo Lippi, Beato Angelico e Sandro Botticelli.
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orgoglio ed efficacia. Gli altri credi e le forme eterodosse del cristianesimo erano stati espiantati o venivano combattuti senza alcuna pietà; le comunità ebraiche, invece, poterono mantenere la propria religione e coabitare con i cristiani. Tale tolleranza aveva radici profonde nel pensiero religioso e filosofico cristiano dell’età antica e tardo-antica, ed era stata difesa da papi e imperatori. 68
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Nel Basso Medioevo, invece, con l’ascesa di nuovi ceti – commercianti, banchieri, piccoli proprietari –, tale antico privilegio fu dimenticato: quell’eccezione fu vissuta come eredità di una sensibilità religiosa meno pura di quella che la società bassomedievale intendeva perseguire. Le masse cittadine ascoltavano i richiami dei predicatori alla purezza della Chiesa, si commuovevano dinnanzi agli esempi eroici delle vite dei
loro stessa volontà, l’effetto indiretto delle loro prediche fu l’acuirsi del fastidio nei confronti degli Ebrei, come – di lí a qualche decennio – accadrà per le «streghe» e per gli eretici. Tra i ceti meno istruiti, soprattutto in Europa centrosettentrionale, attecchí un sentimento antigiudaico particolarmente rozzo e violento.
La colpa degli Ebrei
martiri dei primi secoli del cristianesimo, morti per aderire – senza compromessi – alla fede fino all’estremo sacrificio. Si iniziò a vagheggiare una Chiesa ortodossa, ferma nella difesa dei suoi principi, povera e pura. Insomma – come spesso accade inseguendo il fantasma della purezza – ci si preparava a fare strage dei «non puri». Un notevole influsso nell’eccitare gli animi l’ebbero i frati predicatori. Spesso, al di là della
Quando si diffuse il contagio, in alcune città, folle analfabete iniziarono a indicare negli Ebrei i colpevoli, in quanto presunti avvelenatori di pozzi e untori; secondo alcuni, era sufficiente addirittura la loro semplice presenza per attirare sulle città dov’essi vivevano la collera divina e quindi la pestilenza. Nell’uno e nell’altro caso, dal fastidio si passò agli atti. La condanna valeva per tutti, li coinvolgeva come popolo, e non piú come singoli individui o come gruppi. Fu a Tolone, tra il 13 e il 14 aprile del 1348, che per la prima volta una quarantina di Ebrei – l’intera minuscola comunità locale – vennero indicati come responsabili della pandemia e trucidati senza esitazione. A partire dal mese successivo gli episodi si moltiplicarono: a Barcellona e in altre città catalane colpite dall’epidemia, interi quartieri ebraici furono dati alle fiamme. Le autorità cittadine, sia in Provenza che in Catalogna condannarono i pogrom e cercarono di arrestare i colpevoli, come avvenne a Tolone. Nel luglio, da Avignone, il pontefice emanò una bolla in cui sosteneva che la pestilenza non era portata dagli esseri umani, né tantomeno diffusa appositamente da alcuno, ma dovuta a fatti naturali, oltre che, naturalmente, alla collera divina. Tuttavia, nella Francia me-
In alto Pisa, Camposanto. L’incontro dei tre vivi e i tre morti, particolare del Trionfo della Morte di Buonamico Buffalmacco. 1336-1341. Il motivo, moraleggiante, era un incitamento alla buona condotta, stemperato dal fatto che i tre morti giacciono nei loro sacelli. Di tenore ben diverso è il Trionfo della Morte (foto a sinistra) dipinto nel 1485 da Giacomo Borlone de Buschis per l’Oratorio dei Disciplini di Clusone (Bergamo). Qui la morte è rappresentata come grande sovrana che sottomette tutti a sé, uno scheletro con corona e mantello di porpora che falcia e raccoglie dentro una macabra arca i potenti del mondo, incurante dei doni offerti dai supplici disperati, che colpisce con i suoi strali.
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La Chaise-Dieu (Francia), abbazia. Particolare della danza macabra affrescata nel XV sec. La scena incarna una visione individualistica della morte e la consapevolezza della caducità della vita, con l’umanità rappresentata da personaggi appartenenti a tutte le classi sociali. Da sinistra si vedono, alternati a scheletri: un frate infermiere, un menestrello, un teologo, un contadino, un cistercense.
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ridionale, iniziarono a tenersi i primi processi contro gli «untori». Non si trattava piú solo delle reazioni isteriche delle folle ignoranti; furono istituiti processi veri e propri. Nella prima fase, come si è già accennato, furono incolpati gli indigenti, i girovaghi senzatetto. Poi, nel luglio, sempre in Francia meridionale, iniziò a prendere forma l’accusa contro gli Ebrei, ai quali venne imputato l’avvelenamento dei pozzi, attuato allo scopo di diffondere il contagio. Si trattava di un’ipotesi in qualche modo già formulata contro alcuni gruppi di Ebrei nei decenni precedenti.
Un’accusa infamante
Già prima della peste, si iniziò ad accusarli di avvelenare laghi e fiumi per impedire ai cristiani di avere pesce da mangiare durante il venerdí, giorno in cui era prescritto loro di non mangiare carne. Tale idea, singolare e fantasiosa, divenne però la base per i processi isti-
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tuiti durante la peste. Le autorità, che sulle prime avevano cercato di resistere, dovettero cedere e dare luogo ai processi: durante uno di questi, a Chatel, sul lago di Ginevra, un mercante di seta ebreo, sottoposto a tortura, «confessò» di aver diffuso il morbo – nientemeno che su incarico di un rabbino – in numerosi pozzi nel corso di suoi viaggi d’affari: in Puglia e Calabria, a Venezia e a Tolosa. Un riassunto della sua confessione, copiato da volenterosi amanuensi, fu inviato alle autorità di Strasburgo e a quelle di altre città svizzere e tedesche. Mano a mano che l’epidemia si diffondeva, il velenoso scritto l’accompagnava, dando la stura alle paure piú irrazionali. Ci fu chi cercò di fermare l’ondata: qualche intellettuale, alcuni alti magistrati cittadini, l’alto clero e il pontefice su tutti. Nell’ottobre del 1348 Clemente VI emanò una nuova bolla che ribadí – a questo punto in maniera esplicita – l’inno-
cenza degli Ebrei, argomentando che non si vedeva quale vantaggio avrebbero avuto a diffondere il morbo visto che la morte infieriva all’interno della loro comunità nelle stesse proporzioni che tra i cristiani. Si trattava di un approccio troppo razionale per poter risultare efficace in quei mesi di follia e terrore. Cosí i massacri di Ebrei si ripeterono e anzi si estesero alla Svizzera e alla Germania, divenuta, già dalla fine del XIII secolo, la culla dell’antigiudaismo.
Il furore dei Flagellanti
In molte città tedesche si ebbero pogrom, corroborati da processi sommari; ampio fu l’uso della tortura tramite la quale furono strappate le confessioni. Alla furia degli strati sociali piú derelitti si aggiunsero, con conseguenze catastrofiche, i fanatici che aderirono al movimento dei Flagellanti. Si trattava di individui che, a migliaia, si mettevano in cammino formando
processioni di penitenti che si frustavano a sangue sulla schiena impetrando il perdono divino. Essi cominciarono a circolare per i villaggi e le città tedesche, chiedendo che gli Ebrei fossero trucidati, sostenendo che fosse l’unico modo per purificare i cristiani dal contagio e placare il castigo divino. Era un movimento che la Chiesa guardava con un misto di sgomento e terrore, in quanto pauperista, sovversivo e con un enorme seguito. Contro di esso scatenò l’Inquisizione, ma fu troppo tardi. Come un’onda, i Flagellanti investirono il Centro dell’Europa, e ovunque giunsero non lasciarono scampo. A Strasburgo, il consiglio cittadino rifiutò di aprire loro le porte della città, ma fu subito deposto da pii borghesi, i quali ne elessero uno nuovo che li accolse e seguí il loro incitamento a mandare al rogo gli Ebrei. Duemila persone – intere famiglie – furono uccise. Si salvarono solo in cento,
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Arte e superstizione Il massacro degli Ebrei di Strasburgo, opera in cui Eugène Beyer immagina i fatti avvenuti nella città alsaziana il 14 febbraio 1349, in occasione della peste. 1857. Strasburgo, Museo Storico. Il diffondersi della peste portò tra le sue conseguenze a dicerie e credenze fantastiche che cercavano presunti colpevoli del morbo, identificati tra i reietti e, soprattutto, tra gli Ebrei.
convertendosi. I Flagellanti lasciarono una scia di sangue anche a Francoforte, Magonza, Colonia, Bruxelles e negli interi Paesi Bassi, finché, dichiarati eretici, iniziarono a essere essi stessi perseguitati da benemeriti inquisitori. Il loro passaggio in occasione della Peste Nera fu una vera e propria tragedia per il mondo ashkenazita (tedesco) medievale, cioè per le comunità ebraiche che sin dal X-XI secolo si erano stanziate nel cuore dell’Europa, tra Francia e Germania. Da quel momento la storia degli Ebrei tedeschi fu un susseguirsi di espulsioni, eccidi e, soprattutto, emigrazioni. Le belle sinagoghe gotiche furono date alle fiamme, i libri liturgici furono in gran parte distrutti, la raffinata cultura rabbinica cancellata per sempre.
Dalla Spagna alla Polonia
Le persecuzioni antiebraiche infierirono particolarmente in Spagna, Francia meridionale, Svizzera, Germania, Paesi Bassi, Ungheria, Boemia e Polonia. In altre regioni, come
Francia centrale e settentrionale – l’area posta sotto il diretto controllo della monarchia – e in Inghilterra, tali violenze furono invece circoscritte. Non perché lí non vi fossero folle potenzialmente antisemite, ma perché i re d’Inghilterra e di Francia avevano espulso le comunità ebraiche già intorno al 1300. Tali espulsioni, quella inglese del 1290 e quella francese del 1306, erano avvenute piú per motivi legati agli interessi mercantili e allo status giuridico degli Ebrei all’interno di tali nascenti monarchie nazionali che per questioni religiose. Vi fu tuttavia una eccezione significativa, una regione europea, colpita dalla Peste Nera, in cui le comunità ebraiche, pur presenti, non furono praticamente toccate, né da violenze, né da accuse paragonabili a quelle che si videro in altre regioni: l’Italia. Non si può dire che qui, a differenza che altrove, il contagio non avesse infierito, uccidendo moltitudini e creando psicosi di massa. Né l’Italia fu immune dal passaggio dei Flagellanti o dalla predicazione dei Mendicanti; anzi nella Penisola la predicazione antigiudaica era una tradizione antica, soprattutto in occasione della Settimana Santa, quando si ripercorreva il dramma della Passione. Nei racconti dei predicatori, i soldati romani erano sempre piú frequentemente sostituiti dagli Ebrei. Sia come fustigatori che come crocifissori del Cristo. L’accusa di «deicidio», dunque, era ben nota. Episodi di intolleranza e vessazione delle comunità ebraiche si erano verificati – anche se meno frequentemente che in altre zone d’Europa – a partire dal papato di Innocenzo III (1198-1216), quando la propaganda nei confronti degli Ebrei – e di altre minoranze – si era fatta piú dura. La nascita dell’Inquisizione, che ebbe come cassa di risonanza quella degli Ordini mendicanti, suscitò casi d’intolleranza fino a quel momento quasi sconosciuti.
Una presenza diffusa
Non vale nemmeno l’ipotesi di una loro presenza ridotta, tale da evitare la loro identificazione come colpevoli del contagio. Il numero degli Ebrei in Italia non raggiungeva le proporzioni di altre regioni europee, ma le comunità erano diffuse in ogni area della Penisola. Le comunità piú popolose erano in Germania e in Spagna (patrie delle due grandi famiglie dell’ebraismo, rispettivamente degli Ashkenazi e dei Sefarditi) dove risiedevano circa 120 000 Ebrei. Tuttavia il numero degli Ebrei in Italia non era poi cosí ridotto e superava le 60 000 presenze; la vita al tempo della peste
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Miniature di scuola fiamminga, da un manoscritto del XIV sec. In alto una processione di Flagellanti durante un’epidemia. Vestiti con saio e cappuccio, sfilavano per le città cantando lodi al Signore e percuotendosi con lunghe fruste, persuasi di placare l’ira divina che doveva essere all’origine dell’epidemia mortale. A sinistra Ebrei mandati al rogo durante una pestilenza. Negli anni della Peste Nera, soprattutto in Germania, si ebbero gravissime persecuzioni contro gli Ebrei, rei, secondo la popolazione, di avvelenare fonti e pozzi per diffondere il contagio.
si deve inoltre evidenziare che non fu la quantità numerica delle comunità ebraiche a provocare reazioni antigiudaiche: come nel corso della storia si è spesso evidenziato – sia nel caso di Ebrei che di altre minoranze – le due variabili sono sovente indifferenti. Si tenga conto, per esempio, che nella Francia meridionale, dove si ebbero le prime violenze in reazione al diffondersi del contagio, alla metà del Trecento, gli Ebrei non erano piú di 10/20mila. Un altro elemento scatenante era il prestito a usura, presente e noto nelle dinamiche città mercantili italiane. Infine, bisogna ricordare che l’epidemia in Italia ebbe effetti terribili: preservò solo poche città – Milano e Roma –, ma infierí al Sud, in Toscana e Umbria, e nelle aree urbane del Nord, piegando Venezia e Genova, le sue piú popolose città. Insomma, nel complesso, non mancavano certo i presupposti per scatenare anche in Italia quant’era avvenuto in altre regioni d’Europa. Perché allora ciò non accadde? Fornire una risposta è difficile, si possono tuttavia formulare alcune ipotesi. La prima deve ricollegarsi al fatto che la presenza ebraica nella Penisola esisteva ab antiquo. Inoltre, la pluralità delle culture presenti sul territorio italiano favoriva maggiormente la convivenza con la «diversità». Salentini, Calabresi, Napoletani e Amalfitani erano greci. Il resto dei Meridionali era un miscuglio formato da Italici, Longobardi e Normanni; ampia parte della popolazione siciliana era di discendenza araba. L’Italia centrale era forse la piú coesa dal punto di vista etnico, ma in compenso era ancor piú frammentata in città concorrenti che vantavano un passato romano – spesso preromano – e si combattevano e contrastavano tra loro. L’area padana, poi, era abitata da una popolazione, in buona sostanza, di origine celtoromana che era stata germanizzata, soprattutto in Friuli e Lombardia, sin dai primi secoli del Medioevo. Venezia guardava a Oriente, la Lombardia al Nord Europa, Genova era un piccolo e vivace impero con colonie nell’intero Mediterraneo.
Una diversità fra tante
Quanto agli Ebrei, essi erano presenti nella Penisola da ben prima dell’avvento del cristianesimo, da prima che si formasse l’impero romano. Insomma, era difficile avvertire i soli Ebrei come un corpo estraneo, visto che non era neppure stato avviato nel Paese alcun processo di creazione di un’identità nazionale che non fosse quello linguistico. Le culture italiane erano molteplici e se è vero che la religione cristiana era il retroterra comune di tali culture da secoli, la presenza di mercanti greci, ebrei, arabi e poi turchi era un fatto talmente consolidato da rendere meno evidente la diversità degli Ebrei.
Altre spiegazioni di questa circostanza attengono alla struttura economico-sociale della Penisola che nel Basso Medioevo appare dominata dalle città piú che in qualunque altra parte d’Europa. L’Italia – come sostiene Jacques Le Goff – è il Paese dei Comuni, il Paese delle città. Non esiste un Paese che abbia conosciuto un uguale sviluppo cittadino in età medievale, dato confermato dal fatto, banale, che in ognuna delle nostre città – anche le piú piccole – troviamo un palazzo comunale, un torrione, una cinta muraria risalente all’epoca medievale di sfavillante bellezza e imponenza. La città bassomedievale italiana viveva della presenza di commercianti, di prestatori di denaro e di artigiani. Le comunità ebraiche che di tali mestieri – imposti loro per restrizione – fecero la base del loro sostentamento, si rivelarono presto presenze dinamiche, estremamente vantaggiose per le comunità urbane.
Banchieri e usurai
Va aggiunto, poi, riguardo al prestito a usura, che anche gli Italiani erano banchieri formidabili, e tra prestito a usura e prestito a interesse, come pure cercheranno di far capire – con scarso successo – i predicatori nelle piazze, la differenza era praticamente inesistente. Occorre infatti ricordare che quando nel 1306 si decise in Francia l’espulsione degli Ebrei con l’accusa di essere prestatori a usura, la stessa accusa era stata ventilata anche per i mercanti italiani – dediti anch’essi al prestito a interesse –, che solo per poco scamparono alla stessa condanna. Infine, un’altra spiegazione plausibile, concerne la diversità italiana nell’approccio culturale del suo ceto intellettuale. Non che la società italiana fosse del tutto immune dal veleno dell’antigiudaismo, ma rispetto a quanto avveniva in Germania e Francia, in Italia i cronisti della Peste reputavano le accuse di contagio mosse agli Ebrei come assurde e irragionevoli. In altre parole, se in Italia esistevano rigurgiti antigiudaici, vi era nondimeno una consolidata tradizione di contrasto e ridimensionamento di tali aberranti posizioni. Era forte nei maggiori esponenti del clero italiano, ma rispondeva anche a un moderno interesse verso un approccio laico e pragmatico alla realtà, provocato dalla diffusione delle università e da un certo livello di alfabetizzazione seguito al precoce sviluppo urbano. Tutto ciò, va sottolineato, non per delineare un quadro troppo edulcorato a proposito dell’Italia e delle persecuzioni. Ci saranno troppi episodi – soprattutto negli anni a venire – a smentirlo, ma, nel caso della Peste Nera, questi rimasero circoscritti. la vita al tempo della peste
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In cerca di un di Maria Paola Zanoboni
rimedio Di quali mezzi poteva disporre l’uomo del Medioevo per combattere la peste e gli altri mali, grandi e piccoli, che potevano minarne l’esistenza? La gamma dei prodotti era ampia, ma non sempre la loro efficacia era garantita... Miniatura raffigurante l’interno di una farmacia, da un’edizione del Canone redatto dal filosofo, medico e letterato persiano Avicenna. 1438. Bologna, Biblioteca Universitaria. La preparazione di medicamenti era, in realtà, solo una delle molte attività abitualmente svolte dagli speziali.
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Farmacisti e speziali
L’
attività di uno speziale costituiva un vero e proprio universo, molto piú articolato e complesso di qualsiasi altra attività artigianale o commerciale del Medioevo. Imprenditore, artigiano e mercante contemporaneamente, lo speziale praticava la compravendita di svariati prodotti e materie prime, affiancando alla cultura e all’esperienza tecnica nella pratica farmaceutica, la conoscenza delle altrettanto complesse pratiche mercantili. La sua figura faceva da tramite tra la scienza popolare, basata su nozioni pratiche – ma infarcita anche di credenze e superstizioni –, e i saperi della scienza medica. Sul piano del prestigio sociale, la professione dello speziale può essere considerata intermedia tra occupazioni intellettuali, quali quelle del medico o del notaio, e attività legate al commercio e all’artigianato. Pur non richiedendo, infatti, un elitario corso di studi universitari, ma soltanto alcuni anni di apprendistato in bottega, l’esercizio dell’attività implicava un vasto patrimonio di conoscenze e una professionalità che godeva ovunque di un notevole riconoscimento, sia sociale che giuridico. Dal punto di vista deontologico gli speziali erano equiparati ai medici: a Firenze, in particolare, facevano parte della medesima corporazione che rappresentava anche una delle Arti Maggiori della città.
L’Ordinanza di Federico
I precedenti storici in materia di legislazione farmaceutica trovano una matrice comune nell’Ordinanza medicinale emanata da Federico II intorno al 1240. Il provvedimento federiciano non fu comunque il primo testo legislativo in proposito: probabilmente, infatti, l’imperatore si rifece agli statuti di Arles, compilati fra il 1162 e il 1202. Conformandosi in misura maggiore o minore a queste disposizioni, dalla seconda metà del XIII secolo gli statuti degli speziali di tutte le città della Penisola prescrivevano l’obbligo di iscrizione alla corporazione per tutti coloro che maneggiavano spezie e confezionavano medicinali, proibendo al tempo stesso a chiunque di tenere in casa materie prime atte a realizzare medicamenti, con l’eccezione dei mercanti che importavano e rivendevano all’ingrosso le singole materie prime. Della corporazione degli speziali potevano far parte, in modo diverso a seconda della città, anche artefici minori, come i ceraioli e i fabbricanti di candele, i droghieri, i produttori di dolciumi e confetti. A Firenze, invece, i farmacisti costituivano il membro minore della potente corporazione dei medici e degli speziali. L’iscrizione all’albo professionale comportava 78
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Qui accanto miniatura raffigurante un medico che, in un erbario, seleziona piante utili alla preparazione di farmaci, da un’edizione del Roman de la Rose. 1400 circa. Gli erbolai erano fornitori abituali degli speziali, che, spesso, si dotavano di un proprio appezzamento di terra per la coltivazione delle specie utili alle loro preparazioni. In basso illustrazione raffigurante una pianta di cannella, da una traduzione in arabo del De materia medica, trattato scritto dal medico e naturalista greco Pedanio Dioscoride, attivo nel I sec. XI sec. Leida, Biblioteca Universitaria.
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Farmacisti e speziali
una professione remunerativa L’esercizio della pratica farmaceutica richiedeva un cospicuo bagaglio di conoscenze tecniche, dal momento che spesso lo speziale coltivava e raccoglieva in prima persona gli ingredienti necessari alla composizione dei medicamenti, intervenendo poi nelle molteplici operazioni di lavorazione. Nella raccolta delle erbe i farmacisti avevano come validi collaboratori gli erbolai, che cercavano i vegetali particolarmente ricchi di principi attivi oppure li coltivavano in appositi orti, e i serpari, che cercavano le vipere e le vendevano agli speziali, i quali ne utilizzavano la parte centrale per preparare ricostituenti e impiastri. Gli speziali particolarmente benestanti (è il caso, per esempio, di un farmacista romano della seconda metà del Quattrocento) coltivavano nei propri poderi le erbe
In basso due albarelli (vasi da farmacia o per spezie) di manifattura senese. 1500-1550. Siena, S. Maria della Scala.
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medicamentose, e talvolta si dedicavano anche all’apicoltura, cosí da poter disporre sia del miele, ingrediente importante di molte medicine, sia della cera, utilizzata dai farmacisti per i «cerotti» (vedi box alle pp. 90-91), e anche per fabbricare candele e fiaccole, della cui produzione detenevano il monopolio. Per gli speziali romani, naturalmente, la lavorazione della cera era un vero e proprio business, piú che in altre città, dato il gran numero di cerimonie solenni, feste religiose e banchetti che richiedevano un’imponente illuminazione. Accanto alla produzione diretta da parte di alcuni farmacisti, altre volte, in occasione di cerimonie particolari, era la spezieria pontificia a fare incetta di cera e a distribuirla poi agli speziali perché la lavorassero. Sempre a Roma, nel XV secolo, le farmacie piú attrezzate e
specializzate rifornivano dei propri prodotti le botteghe piú piccole, pratica invece espressamente vietata dagli statuti degli speziali di altre città (Siena, per esempio), preoccupati di poter identificare facilmente chi aveva confezionato un determinato prodotto, e di evitare quindi che i medicamenti passassero di mano in mano, perdendo le tracce del produttore e col rischio che si adulterassero. Solo nelle botteghe piú importanti, situate nei rioni cittadini piú ricchi, si effettuavano la lavorazione e la vendita delle spezie, prodotti di grande valore, importate dall’Oriente dai grandi mercanti, e che solo i farmacisti piú affermati e abbienti erano in grado di acquistare. La maggior parte delle spezierie, invece, si dedicava a un commercio di minore entità, trattando generi di tipologia svariata. Soprattutto tra la fine del Quattrocento e il secolo successivo queste botteghe potevano trasformarsi in laboratori di pasticceria per la preparazione di
confetti, panpepati, mostarde e marzapani, in occasione di nozze, battesimi, o banchetti: a Siena la revisione statutaria del 1509 consentiva appunto agli speziali di lavorare nei giorni festivi per «servire a baptesimi, noze o collationi». E ugualmente a Roma le svariate occasioni offerte dai banchetti ufficiali del papa, procuravano continuamente ai maggiori farmacisti cittadini commissioni di questo tipo, per ottemperare alle quali erano dotati di un’attrezzatura specifica, costituita da stampi per confetti di varia tipologia, marmo per pinolata, forme di piombo per cotognata, oltre all’attrezzatura per lavorare la cera e confezionare torce di varie forme e dimensioni. Per quanto riguarda il funzionamento della bottega, lo speziale poteva avere capitali propri, derivanti magari dalla gestione di proprietà terriere, oppure farsi finanziare da un
socio che svolgeva la stessa o un’altra attività. Aveva alle dipendenze alcuni aiutanti (apprendisti o salariati), il cui numero variava a seconda delle dimensioni dell’esercizio commerciale, e si preoccupava in prima persona di aggiornarsi, assumendo maestri, spesso stranieri, affinché gli insegnassero le novità farmaceutiche piú esotiche. È il caso di uno speziale romano che, nel 1480, prese alle proprie dipendenze un maestro spagnolo (di Valencia), perché gli tenesse un corso di perfezionamento insegnandogli le tecniche produttive della «polvere di Cipro» e di altri prodotti di bellezza. Quest’ultimo era un settore in espansione, soprattutto nella Roma del XIVXV secolo, al punto che l’autorità pontificia dovette emanare disposizioni per porre un freno all’uso sempre piú dilagante di tali prodotti presso l’alto clero.
sempre alcuni anni di tirocinio, variabili a seconda della città, l’approvazione dei maestri dell’Arte – che a volte diventava un vero e proprio esame –, il giuramento di esercitare la professione bene e lealmente, il pagamento della tassa alla corporazione. Ottenuta l’idoneità a esercitare, il nuovo farmacista veniva dotato di un marchio con cui doveva sigillare i prodotti che uscivano dalla sua bottega, in modo che ne fosse facilmente rintracciabile la provenienza e accertabile la responsabilità in caso di problemi.
Meglio un salario modesto, ma sicuro
Quella dello speziale era un’attività alquanto articolata, comprendente un’ampia gamma di operatori commerciali, che andava dai rivenditori piú modesti ai grandi mercanti importatori di materie prime ed erogatori di prestiti (vedi box in queste pagine e alle pp. 82-83). A Firenze nel Tre/Quattrocento gli speziali rappresentavano una categoria moderatamente abbiente, con un tenore di vita superiore a quello della maggior parte della popolazione, anche se lontano da quello dell’élite mercantile e bancaria che dominava l’economia della città. La situazione poteva naturalmente variare a seconda della congiuntura e del luogo: sempre a Firenze, negli anni Ottanta del Quattrocento, l’attività subí una crisi tanto grave che alcuni speziali, progrediti alla condizione di soci da quella di lavoratori sottoposti, rimpiangevano amaramente il proprio status precedente. La situazione era dunque tale che un salario sicuro, anche se modesto, era preferibile a una quota di utili incerti, col rischio di un bilancio passivo. A Roma, invece, negli stessi anni, numerosi speziali collegati alla curia pontificia erano anche banchieri, prestatori, commercianti all’ingrosso di preziose materie prime. Nel XIV e nel XV secolo investivano i profitti sia in terre, sia in una svariata gamma di attività collaterali: l’acquisto di taverne, botteghe, macelli; la creazione di società per il commercio dei pellami e la lavorazione del cuoio; la stipulazione di contratti di soccida (contratto agrario secondo cui le due parti, soccidante e soccidario, si associano per l’allevamento e lo sfruttamento di una certa quantità di bestiame e per l’esercizio delle attività connesse, cosí da ripartire l’accrescimento degli animali e gli altri prodotti utili che ne derivano, n.d.r.); la gestione di mulini idrauMiniatura raffigurante un medico (al centro), tra uno speziale che pesta nel mortaio uno dei suoi preparati e un erbolaio che raccoglie piante officinali, da un’edizione de L’antidotaire di Bernard de Gordone. 1461. Parigi, Bibliothèque nationale de France. la vita al tempo della peste
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Il «secondo lavoro» degli speziali Gli speziali piú importanti si occupavano anche del commercio all’ingrosso di materie prime molto pregiate e costose, che andavano dalle spezie vere e proprie (pepe, zenzero, cannella, chiodi di garofano, zafferano, anice, zucchero, rabarbaro, legno di sandalo, aloe, ambra, incenso), e dagli altri ingredienti per le medicine (ammoniaca, arsenico), ai coloranti (robbia, gomma arabica, «sangue di drago» [prodotto resinoso che si ottiene dai frutti del Calamus draco e di altre specie congeneri, palme rampicanti che crescono nelle foreste delle isole della Sonda, delle Molucche e della penisola di Malacca, n.d.r.]) e ai loro fissativi (allume), alle pietre e ai metalli preziosi. Nel 1456, quando venne allestita la flotta per la crociata contro i Turchi che avevano conquistato Costantinopoli, alcuni speziali romani rifornirono l’Arsenale di spugna, pece, sapone e zolfo. Ugualmente, nel 1460, furono ancora due aromatari a fornire la foglia d’oro e i colori necessari ad affrescare il Palazzo Apostolico. Negli anni Sessanta/Settanta del Quattrocento uno speziale aretino trapiantato a Venezia esportava nel Levante vetrerie di Murano prodotte nella celebre manifattura dei Barovier (canne colorate, specchietti, calici dorati, smalti, cristalli), stoffe lombarde e venete, metalli e oggetti di basso costo provenienti d’Oltralpe (aghi, ditali, fibbie). In direzione opposta importava dalla Siria spezie, pietre preziose, articoli esotici e cotone per vendere queste merci al dettaglio o riesportarle in Catalogna. Vendeva partite di cotone ai mercanti tedeschi dai quali acquistava occhiali in legno o in osso che esportava a Damasco. Molti farmacisti già nel Trecento e ancor piú nel Quattrocento, svolgevano anche l’attività creditizia, sia in modo «informale», con prestiti dissimulati dietro l’apparente acquisto di un immobile, sia in modo palese, come attività collaterale, tenendo banchi di prestito e arrivando ad accedere alle massime cariche della corporazione dei «campsores», come avvenne a Roma per uno speziale-banchiere della metà del Quattrocento. Concedevano poi piccole sovvenzioni per le necessità quotidiane e anticipavano le medicine ai clienti ritenuti solvibili, anche se la cosa non era poi cosí scontata, soprattutto nel caso della nobiltà e delle corti principesche. Le spese per il medico e le medicine, del resto, gravavano in modo pesantissimo soprattutto sui ceti medio-bassi, come viene spesso ricordato nei testamenti e l’aiuto di un parente stretto si rivelava in questi casi indispensabile a onorare il debito con il farmacista. Proprio per l’elevato costo delle cure, i contratti di apprendistato prevedevano quasi sempre che le spese per il medico e le medicine fossero a carico del padre del discepolo, anziché del maestro, che si limitava a farsi carico di vitto e alloggio.
Spesso impegnati su piú fronti, gli speziali videro i loro ambiti di competenza definiti dagli statuti corporativi 82
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niente cera per i morosi La difficoltà di ottenere il denaro loro dovuto per le medicine rappresentava per i farmacisti un problema endemico, ma a Roma, in particolare, era una piaga dilagante e un malcostume diffuso non tanto tra i meno abbienti, che avevano oggettive difficoltà a pagare, quanto piuttosto tra i nobili e l’alto clero. Gli statuti degli speziali romani emanati alla fine del Quattrocento (1473 e 1487), a differenza e molto piú di quelli di altre città, erano rivolti infatti a tutelare gli aderenti alla corporazione nelle controversie che potevano sorgere con i clienti. Quelli del 1473, in particolare, cercavano di tutelare gli interessi
dei farmacisti nei confronti dei debitori fuggiti o in procinto di fuggire, e decretavano inoltre che nel caso in cui un convento, un nobile, o chiunque altro avesse contratto un debito con uno speziale rifiutandosi poi di onorarlo, i maggiorenti della corporazione avrebbero imposto a tutti i farmacisti della città di non vendere altri medicinali al debitore insolvente finché non avesse pagato il dovuto. Se poi il cliente moroso fosse passato a miglior vita senza onorare il debito, nessuno degli speziali romani avrebbe dovuto fornire ai parenti le candele e la cera per le esequie del defunto.
lici; l’attività estrattiva, esercitata mediante l’acquisto di quote di miniere La pratica farmaceutica non era dunque la sola attività degli speziali e la maggior parte degli statuti corporativi cittadini, dal Trecento in poi, si preoccupava perciò di definire dettagliatamente quali fossero i loro ambiti di competenza e i prodotti sui quali essi avevano l’esclusiva di vendita, e quali invece le merci che potevano essere trattate anche da altri commercianti (definiti «pizzicagnoli» in Toscana, e «droghieri» in Lombardia).
Dalle medicine alla frutta secca
La corporazione degli speziali di Milano, i cui primi statuti risalgono al 1389, comprendeva, accanto ai farmacisti veri e propri, anche coloro che lavoravano la cera e i droghieri (che trattavano, tra l’altro, frutta secca, canditi e confetti). Agli speziali spettavano la produzione e la vendita in esclusiva non solo di medicine, unguenti, lassativi, acqua distillata, ma anche di cera, Castello di Issogne (Valle d’Aosta). Particolare di un affresco raffigurante un farmacista nella sua bottega. L’opera viene tradizionalmente attribuita a un artista noto come Colin (e che talvolta si firma Magister Collinus), al quale si devono anche le altre pitture murali che ornano l’edificio. Fine del XV-inizi del XVI sec.
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candele, confetti, datteri, cannella, pepe, mandorle, riso, liquirizia, zafferano, noce moscata. Particolarmente dettagliati in proposito sono i trecenteschi statuti della corporazione senese (1356) con le successive revisioni quattrocentesche, che, dopo avere proclamato l’importanza della professione per la salute umana e la necessità quindi di svolgerla col massimo rigore e precisione – che solo il costante controllo dell’organismo corporativo poteva garantire –, stabilivano in primo luogo l’obbligo tassativo di iscrizione all’Arte (accompagnato da un giuramento solenne) per chi confezionasse e maneggiasse medicinali. Erano altresí previste severe sanzioni per quei farmacisti o garzoni che, abbandonata la corporazione e non piú in possesso di una bottega propria o di riferimento, andavano a confezionare medicinali nelle case e nelle botteghe altrui, con grave pregiudizio per la qualità del prodotto, e rendendo evidentemente impossibile rintracciarne il responsabile. Dopo avere ribadito a piú riprese la necessità di una divisione delle competenze con i pizzicagnoli, sia per motivi di igiene, sia per la necessità di rispettare la scienza medica, gli statuti prescrivevano poi di controllare ogni mese le botteghe di questi ultimi per accertarsi che non tenessero alcun medicinale o merce di cui non
farmacie di turno e aperture straordinarie Una regolamentazione particolarmente precisa e puntuale caratterizzava gli statuti delle città toscane, sensibili molto piú delle altre alle esigenze degli ammalati. Il piú completo in proposito è il trecentesco Breve degli speziali di Siena (1356) con le successive modifiche quattrocentesche e dell’inizio del Cinquecento, in cui, pur nel rispetto della chiusura nei giorni festivi, erano previste deroghe volte a garantire ugualmente la fornitura delle medicine agli ammalati, fino all’istituzione, nel 1452, di 3 farmacie di turno, una per ogni terziere (la ripartizione territoriale in cui era suddivisa Siena) della città, estratte a sorte di volta in volta. La legislazione senese non si fermò qui, divenendo sempre piú articolata nella seconda metà del Quattrocento e all’inizio del Cinquecento, non tanto per volontà della corporazione degli speziali, ma soprattutto per imposizione dei consoli dei mercanti e delle autorità che detenevano il governo cittadino. Si stabilí dunque che, dato che le farmacie di turno spesso non avevano i medicamenti adatti a curare una determinata affezione, era lecito a qualunque speziale, su presentazione di ricetta medica (e in seguito anche semplicemente su richiesta di chiunque ne avesse bisogno), aprire e fornire le medicine ai casi urgenti. Una serie di norme tutelava anche gli stranieri di passaggio che non conoscevano la città e l’ubicazione delle botteghe, e ai quali fu dunque consentito, in caso di necessità, di rifornirsi da chiunque anche nei giorni di festa. Naturalmente queste aperture straordinarie dovevano avvenire soltanto per la vendita di medicinali, facendo entrare soltanto il cliente che ne aveva bisogno, e richiudendo subito la porta. A Firenze, gli statuti del 1349, che prevedevano la chiusura delle
fosse consentita loro la vendita. Un controllo mensile non meno rigoroso da parte di tre ufficiali della corporazione era previsto anche per le botteghe degli speziali, per accertarsi che tutto funzionasse secondo le regole. Nel 1423, sempre a Siena, venne stilato un elenco delle merci che potevano essere trattate esclusivamente dai farmacisti: oltre che spezie, erbe, pillole, medicine e cose destinate agli infermi, anche semi, confetture e composte, colori per dipingere, sapone, zolfo, riso. A loro volta, i pizzicagnoli potevano adoperare, ma non vendere, trementina, pece nera, cinabro, e verderame, con cui coloravano la cera e lo zolfo. Entrambe le categorie potevano tenere in bottega e vendere al minuto carta per scrivere, carta da imballo, filo, «bossoli da spezie» (vasetti o barattoli per unguenti o profumi).
La lotta alle contraffazioni
Le disposizioni corporative di ogni città erano particolarmente preoccupate di tutelare la qualità dei prodotti, sia che si trattasse di medicinali, che di altre merci vendute dai farmacisti. Cosí si proibiva di vendere zafferano adulterato «alla maniera genovese» (statuti di Milano, 1389), cera di cattiva qualità, mescolata a grassi, oli e trementina (statuti di Pisa, 1496, e di Mila84
la vita al tempo della peste
botteghe nei giorni festivi, concedendo però di fornire medicinali agli ammalati gravi, vennero aggiornati nel 1481 con l’istituzione di quattro farmacie di turno. Lo stesso avveniva a Pontremoli (1481) dove era prevista l’estrazione a sorte di quattro botteghe di speziale (una per quartiere) aperte nei giorni festivi. Anche gli statuti degli speziali pisani (1496) prevedevano nei giorni festivi due farmacie di turno, una su ciascuna riva dell’Arno, estratte a sorte di volta in volta. Norme come queste non si trovano, invece, nei regolamenti degli speziali di Milano (1389), né in quelli di Roma (1473 e 1487), che si limitavano a prescrivere la chiusura festiva e la vendita, a bottega chiusa, dei soli medicinali indispensabili, ma soltanto fino a mezzogiorno (statuti di Roma, 1473). Quelli, piú tardi, di Verona (1596) non prevedevano neppure una normativa in proposito.
In basso e nella pagina accanto due illustrazioni tratte dal Tacuinum sanitatis, che rispettivamente raffigurano l’interno di una farmacia gestita da uno speziale ebreo (in basso) e la vendita dello zucchero (nella pagina accanto). Con la denominazione di Tacuinum sanitatis si indica la traduzione in latino di un manuale redatto a Baghdad per iniziativa del medico e letterato Abu al-Hasan al-Mukhtar Ibn Butlan nell’XI sec. e intitolato Taqwim al Sihha (Almanacco della salute).
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Farmacisti e speziali dei medicinali, prevedendo che «veditori» e «saggiatori» appositamente designati facessero ispezioni periodiche, testandoli e verificando al tempo stesso la condizione dei locali e delle scaffalature della farmacia. Le merci non confezionate secondo i dettati statutari venivano bruciate in pubblico, e i colpevoli condannati ad aspre multe. Persino le pere cotogne, utilizzate per confezionare la cotognata, dovevano essere pesate e pestate in presenza degli ispettori, e la lavorazione veniva rigorosamente controllata. E, naturalmente, precauzioni particolarissime venivano imposte per la produzione, l’esposizione e la vendita dei veleni, che non potevano assolutamente essere consegnati a schiavi, a servitori o a ragazzi di età inferiore ai vent’anni, né a prostitute. Potevano essere venduti soltanto dal maestro speziale o dal capo dell’officina e sempre dietro prescrizione medica.
La verifica delle bilance
no, 1389), confetture contenenti amido o riso, e soprattutto medicinali contraffatti (statuti di Siena, 1356, di Milano e di Pisa), pena aspre multe e il sequestro dei beni. I medicinali – e soprattutto teriache (vedi box a p. 90), unguenti, lattovari (vedi box alle pp. 9091), cerotti, sciroppi – dovevano essere confezionati secondo quanto disposto dal collegio dei fisici (cioè dei medici: statuti milanesi del 1389), o secondo quanto prescritto dai consoli degli speziali, e venire sigillati col marchio della bottega che li aveva prodotti, in modo da poter identificare facilmente chi avesse venduto medicamenti adulterati e nocivi (statuti milanesi, 1389, e statuti pisani, 1496). Per lo stesso motivo, gli statuti pisani in particolare proibivano severamente di vendere teriaca che non fosse prodotta in città, davanti ai consoli dell’Arte e con tutte le buone regole che la complessa confezione di questo medicinale richiedeva. I farmacisti pisani, come anche quelli milanesi, aborrivano soprattutto la teriaca e i prodotti (cera, candele, zafferano) provenienti da Genova, considerandoli di qualità scadente. A Firenze e a Pistoia (XIV-XV secolo) la corporazione esercitava un rigido controllo sulla qualità 86
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Firenze, Orsanmichele. Medaglione in maiolica smaltata raffigurante l’insegna dell’Arte dei Medici e degli Speziali. Opera di Luca della Robbia, 1460 circa.
A evitare frodi miravano le norme su pesi e misure e sulla precisione delle bilance, soggette al controllo della corporazione ogni tre mesi, e adeguate alle bilance di riferimento della corporazione, a loro volta tarate su quelle del Comune (statuti di Milano, 1389). A Pisa (1496) l’Arte era dotata di funzionari appositi, i «taratori», incaricati di verificare la purezza e la buona qualità delle materie prime che i farmacisti avrebbero acquistato dai mercanti, e con cui dovevano essere confezionati i medicamenti, mentre a Roma (1473 e 1487) era prevista una periodica taratura delle bilance, e a Firenze il compito di controllarle era demandato ai revisori incaricati delle periodiche ispezioni. L’ubicazione dei locali costituenti la farmacia (di solito almeno due, uno per il laboratorio e uno per la vendita) aveva poi un’importanza notevole nel garantire la buona riuscita dei prodotti e la loro corretta conservazione. Il delicato processo di preparazione di unguenti, sciroppi, medicinali, creme di bellezza, richiedeva infatti una particolare attenzione sia alla pulizia dei locali, sia alla loro ampiezza, luminosità e aerazione, nonché al fatto che non vi fossero nelle vicinanze esercizi commerciali inquinanti (tintorie, macellerie, concerie). Perciò alcuni statuti (tra cui quelli romani della fine del Quattrocento) prescrivevano che le botteghe fossero ubicate in ambienti adatti. La facoltà per i medici di gestire in proprio del-
Illustrazione raffigurante una pianta di liquirizia, molto usata dagli speziali nelle loro preparazioni, da un’edizione del Tacuinum sanitatis. XV sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
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Farmacisti e speziali
il corpo umano? È come un alambicco... Tra la fine del XV e il XVI secolo, grazie anche alla scoperta del Nuovo Mondo e all’introduzione in Europa di sostanze fino a quel momento sconosciute, si verificò in ambito medico e farmaceutico una rivoluzione epocale, che portò a un cambiamento completo nella produzione di svariati tipi di medicamenti: la «medicina dei semplici», basata sull’utilizzazione e sulla combinazione delle sostanze come esistono in natura, e senza alcuna manipolazione, veniva affiancata dalla farmacologia, basata invece sul tentativo di isolare, o almeno di concentrare, il principio attivo attraverso vari procedimenti (distillazioni, infusioni, sublimazioni).
In quest’epoca infatti, grazie al mecenatismo di molti signori della Penisola (e primo fra tutti quello di Cosimo I in Toscana), vennero creati orti botanici, si realizzarono laboratori in cui distillare le piante e compiere esperimenti alchemici, grazie ai quali potè nascere e diffondersi la nuova disciplina della farmacologia, ideata dal tedesco Paracelso (nella prima metà del XVI secolo), che, associando la chimica alla botanica e alle conoscenze mediche, conferiva una netta svolta alla medicina, trasformandola da scienza filosofica e descrittiva in disciplina sperimentale in cui la chimica veniva posta a fondamento delle pratiche mediche.
Secondo le idee paracelsiane il corpo umano è simile a un alambicco, al cui interno avvengono continue reazioni chimiche, da contrastare, se danneggiate dalle malattie, con altrettante reazioni chimiche. I farmaci andavano perciò creati attraverso distillazioni e sublimazioni (di vegetali, ma anche di metalli e di minerali) che selezionassero soltanto i principi attivi effettivamente utili a una determinata terapia, diversamente dalla medicina tradizionale, che utilizzava invece solo le erbe come si trovano in natura. L’influsso della cultura e della lingua greca, favorito, verso la metà del Quattrocento, dalla fuga di molti intellettuali da Costantinopoli
Ancora un’illustrazione dal Tacuinum sanitatis raffigurante uno speziale con il suo garzone di bottega. XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.
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minacciata dai Turchi, si rivelò determinante per il rinnovamento delle discipline scientifiche dell’età rinascimentale e per il progressivo superamento dell’aristotelismo col passaggio al metodo sperimentale. E fu proprio l’apporto dei classici una delle principali caratteristiche della scienza italiana rinascimentale rispetto a quella degli altri Paesi europei: il confronto continuo di matematici, medici e naturalisti con gli autori greci e latini, affiancato dal lavoro di edizione dei testi, si intrecciò a quello di verifica dei loro contenuti su base sperimentale, dando un contributo determinante soprattutto agli studi di medicina.
le farmacie, e le società tra medici e speziali, già vietate da Federico II, e proibite durante il Trecento dai governi di molte città (Napoli, Parma, Cremona, Verona, Venezia, Pisa), vennero invece consentite a Firenze dove sia gli statuti cittadini che quelli corporativi ne permettevano la costituzione, autorizzando i farmacisti a tenere nelle loro botteghe medici per curare gli ammalati che vi si recavano, e consentendo ai dottori di gestire in proprio le spezierie. Era però vietato l’accordo tra farmacista e medico per vendere i medicinali dividendo gli incassi. Il piú antico accordo di questo tipo a Firenze risale al 1279, quando un fisico e un chirurgo si associarono per curare gli ammalati in una bottega comune e vendere le medicine. Società di questo tipo erano in ogni caso ammesse di buon grado anche in molte altre città della Toscana (Siena, Pistoia, Lucca), e dell’Emilia (Bologna, Ferrara). Gli speziali associati con un medico non potevano però curare i feriti, né somministrare farmaci senza l’autorizzazione del medico stesso. Era consentito anche agli stranieri aprire una bottega di speziale, purché si iscrivessero alla corporazione versando una tassa doppia rispetto a quella pagata dai cittadini (statuti di Milano, 1389, di Siena in modifica di fine Quattrocento, e di Pisa, 1496), e a Roma addirittura tripla (1473).
I farmaci: «semplici» e composti
Le trattazioni medievali distinguevano i farmaci in due categorie: quelli «semplici», costituiti da erbe, polveri minerali e spezie, e quel-
Il medico, alchimista e filosofo svizzero Paracelso (al secolo Philipp Theophrast Bombast von Hohenheim), in una incisione del 1597.
li composti, come elettuari (o lattovari), unguenti, sciroppi e ogni medicinale composto artificialmente. Gli speziali dovevano chiedere l’intervento di un medico prima di procedere alla preparazione di qualsiasi medicinale, o, almeno, questo è quanto si desume da alcuni statuti dei collegi dei medici, mentre, nella maggior parte dei dettati statutari corporativi dei farmacisti, essi sembrerebbero dotati della piú ampia autonomia. A Novara (stando a quanto sostenevano i medici) gli speziali erano obbligati a ottenere il consenso preliminare del collegio dei fisici per la preparazione dei farmaci complessi, e ad accettare che un medico assistesse personalmente alla confezione del preparato. Sempre secondo i dettati statutari dei medici, il controllo di questi ultimi sull’attività degli speziali talvolta giungeva persino a imporre l’obbligo per i farmacisti di tenere sempre attivo un grande orto per l’approvvigionamento costante di erbe e piante medicinali, da affidare alle cure di un erborista esperto. Questo appunto stabilivano gli statuti trecenteschi dei medici di Milano (ma non quelli degli speziali), e quelli tardo-quattrocenteschi del collegio dei medici di Novara. A Roma, invece, erano i medici a essere sottoposti alla corporazione degli speziali, secondo quanto disposto dagli statuti di questi ultimi nel 1473. Le medicine venivano confezionate secondo le norme dettate dai numerosi ricettari che circolavano all’epoca. In particolare l’antidotario di Nicolò Salernitano era considerato nel la vita al tempo della peste
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una pozione disgustosa, ma «intelligente» La teriaca era un elettuario aromatico-eccitante che doveva la sua fama alla virtú narcotica dell’oppio, e quindi al «rito» della sua fabbricazione intervenivano medici e pubblici ufficiali. Era considerato un antiveleno e per questo, a Roma e a Venezia nel Cinquecento, lo si preparava durante una cerimonia pubblica in presenza del Collegio dei Fisici, dei Priori degli Speziali e del Magistrato della Sanità. I suoi componenti dovevano essere esposti per tre giorni in modo che chiunque potesse vederli: a Venezia erbe, cortecce, fiori e radici erano confezionati con eleganti nastri di seta colorati, mentre resine, gomme, balsami e oppio venivano esposti in preziosi vasi di vetro di Murano. Nel «medicinale» entravano anche le vipere, che venivano debitamente mostrate chiuse in gabbie di ferro. L’esposizione comprendeva infine le grandi caldaie in cui cuocere il miele nel quale venivano versati tutti gli altri ingredienti. Facchini con berretti adorni di piume o di fiori di carta, debitamente istruiti svolgevano le varie operazioni. Questa disgustosa pozione, secondo le credenze dell’epoca, avrebbe rappresentato una materia per cosí dire «intelligente» capace di attirare a sé come un magnete la malattia, assorbendola per «affinità». Il «farmaco» avrebbe agito estraendo dal corpo i fluidi corrotti che vi circolavano. Della teriaca esistevano numerose varianti, tra cui quella di Galeno che su di essa scrisse ben due trattati.
XV secolo il testo ufficiale di farmacopea. Sul finire del Quattrocento iniziò a diffondersi anche il Nuovo ricettario composto dal Collegio dei dottori di Firenze (1498): si trattava della prima farmacopea nell’accezione moderna del termine, cioè di un codice di norme scritto per ordine delle autorità cittadine e da esse vidimato, che elencava i medicamenti da tenere nelle farmacie e il modo di prepararli. In volgare e corredato di illustrazioni, era finalizzato a por fine alla confusione e all’approssimazione nella preparazione delle medicine, causati dall’eccessivo numero di ricettari in circolazione. A Firenze infatti queste compilazioni erano numerosissime, ma si trattava sempre di raccolte private, non ufficializzate dall’autorità pubblica. La nuova farmacopea, invece, venne redatta dal collegio medico di Firenze su istanza dei consoli dell’Arte, per uniformare le molte raccolte di ricette allora in uso, e per evitare gli inconvenienti e i pericoli che potevano derivare da un cattivo dosaggio dei componenti del farmaco, o da una sua cattiva conservazione. L’opera, che tutti gli speziali avrebbero dovuto possedere e i medici tener presente nelle prescrizioni, si divideva in tre parti: nella prima si dettavano norme generali sull’ubicazione della 90
la vita al tempo della peste
i prodotti piú venduti Ecco alcuni tra le medicine e i rimedi medicamentosi piú citati negli inventari medievali:
♦ cerotti forme farmaceutiche per uso esterno costituite da olio e da cera; ♦ elettuari polveri di vario genere a cui (o lattovari) venivano aggiunti sciroppo o miele;
A sinistra l’interno del Museo Farmacia di Roccavaldina (Messina), che custodisce una preziosa raccolta di ceramiche del XVI sec. In basso particolare di un albarello di manifattura senese. 1500-1550. Siena, S. Maria della Scala. Nella pagina accanto vaso da farmacia per teriaca. XVII-XVIII sec. Aix-en-Provence, Musée Arbaud.
♦ empiastri medicamenti per uso esterno, costituiti da sapone di piombo e da altre sostanze terapeuticamente attive; fragili a temperatura ambiente, si ammorbidivano col calore, acquisendo resistenza e capacità adesiva; si applicavano caldi sulla superficie corporea da trattare;
♦ colliri forme farmaceutiche destinate alla cura degli occhi e delle palpebre: si distinguevano in colliri solidi (polveri insufflate negli occhi attraverso un piccolo tubo), molli (o pomate oftalmiche) e liquidi; ♦ «conserve» fiori, semi, frutti, radici e simili o «conditi» canditi con miele o zucchero. la vita al tempo della peste
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Dipinto raffigurante un aspirante farmacista che sostiene l’esame per potersi avviare alla professione. Scuola francese, XVIII sec. Parigi, Biblioteca della Facoltà di Farmacia.
farmacia (lontana dal sole, dal vento, dalla polvere e dall’umidità) e sui libri di cui doveva essere fornita (un dizionario botanico e due trattati sulla preparazione delle erbe). Erano poi indicati mese per mese le erbe, i fiori, i semi e le cortecce che lo speziale doveva raccogliere; le norme per la conservazione dei «semplici», dei grassi, degli elettuari, degli sciroppi, dei canditi, e per distinguere le merci buone da quelle contraffatte o adulterate; l’elenco delle materie prime (i «semplici») da tenere in farmacia, tra cui figuravano cera, miele, liquirizia, assenzio, oppio, colla di pesce, gomma, semi di dattero, noccioli di ciliegie, amarene e pesche, avorio, dente di lupo, corno, osso, perle, coralli, antimonio, zolfo, allume, bolo armeno, vetriolo, ocra, arsenico.
Ricette e ingredienti
Venivano poi date indicazioni sulla composizione degli elettuari, cioè dei farmaci «ex electis rebus confectis», ovvero frutto della combinazione di diverse e determinate materie prime (=«semplici»), degli sciroppi, delle pillole, dei colliri, degli unguenti, degli empiastri, consentendo di realizzare, oltre alle medicine esplicitamente indicate, anche quelle che fossero state ideate dal medico che le prescriveva. L’ultima parte della farmacopea fiorentina dava ricchissime informazioni sulla preparazione, sul lavaggio e sul dosaggio delle spezie nella confezione dei medicamenti, nonché sulla soluzione di numerosi problemi di pratica farmaceutica. Tra le spezie piú utilizzate che gli operatori del settore dovevano sempre tenere in bottega c’erano il pepe e la cannella, quest’ultima impiegata sia per aromatizzare i cibi, sia come medicina, prevalentemente per i disturbi gastrici. Proveniente dalla Cina, dall’India e dall’isola di Ceylon, la si otteneva dalle foglie triturate di un vegetale, il cinnamomo, oppure dalla sua corteccia. Molto usati erano anche la canfora (sempre ottenuta da un vegetale), i chiodi di garofano, la noce moscata, lo zafferano (prodotto anche in Toscana, nelle Marche e in Abruzzo) e lo zenzero, proveniente dall’India e dalla Cina, e dal quale gli speziali ricavavano conserve e, con l’aggiunta di altri ingredienti, un medicinale oppiato. Lo si utilizzava poi ampiamente nella preparazione di vini aromatici. Come eccipiente per rendere piú appetibili la maggior parte delle medicine si impiegava lo zucchero, di cui le farmacie erano sempre abbondantemente provviste. Tra le materie medicamentose principali figurava poi l’olio d’oliva, usato come eccipiente, come medicinale e come rimedio principale nella cura delle ferite. la vita al tempo della peste
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di Maria Paola Zanoboni
I segreti
i medici
Francesco Petrarca ebbe per loro parole di fuoco, e a Marsiglia, di fronte alla strage causata dalla peste del 1720, finirono sul banco degli accusati. Ma i professionisti della salute meritavano davvero simili trattamenti? E quali erano le loro reali capacitĂ ?
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dell’Ars medica Miniatura raffigurante un chirurgo che cura un paziente mentre un altro analizza un flacone (forse di urina), da un’edizione del Livre de la propriété des choses, opera enciclopedica composta dal francescano Bartholomeus Anglicus nel XIII sec. 1482, Londra, British Library.
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I
n epoca medievale la figura del medico nel senso vero e proprio del termine andò delineandosi solo a partire dal XII/XIII secolo, cioè da quando i decreti emanati dai concili di Montpellier (1162 e 1195) e di Parigi (1212) proibirono l’esercizio della professione – in quanto comportava pratiche cruente – ai religiosi che, fino a quel momento, si erano presi cura degli infermi. Inizialmente, perciò, i medici continuarono a identificarsi con i «clerici vagantes», portando l’abito talare e assumendo atteggiamenti gravi e alteri. Nel periodo altomedievale infatti, la pratica medica era stata riservata quasi esclusivamente a due categorie di persone: in primo luogo gli ecclesiastici, che, assicurando l’assistenza agli
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infermi, garantivano la conservazione della cultura medica attraverso la continuità delle tradizioni monastiche; in secondo luogo i guaritori, categoria eterogenea di illetterati, che si tramandavano il mestiere di padre in figlio, sulla base di credenze superstiziose e di pratiche antiche suggerite dal buon senso. Solo nel XIII secolo, parallelamente allo sviluppo economico e urbano e al proliferare delle università, ci si indirizzò in modo sempre piú deciso verso una piú marcata professionalità dei medici, sorretta da un patrimonio di cognizioni teoriche. Nelle università ebbe inizio l’insegnamento delle dottrine mediche, sorsero nella maggior parte dei centri urbani le corporazioni dei Medici e Speziali. Molti centri della
Anagni (Frosinone), Cattedrale, cripta. Affresco raffigurante Galeno di Pergamo, filosofo e medico romano, e Ippocrate, famoso medico greco. XIII sec. Nel Medioevo, i medici seguivano un percorso di studi intermedio tra la filosofia e la medicina, apprendendo la fisiologia umana secondo i canoni del sistema ippocraticogalenico.
Penisola, come Padova, Bologna, Vercelli, Pavia, Parma, Lucca, Siena, Firenze, Perugia, poterono vantare studi di medicina celebri in tutta Europa. Alla novità delle strutture non corrispose però quella rivoluzione dell’insegnamento che avrebbe potuto portare a un effettivo progresso della scienza, che rimase legata in modo dogmatico ai testi classici e totalmente lontana dall’esperienza. La medicina che si insegnava nelle università consisteva ancora nel sistema fondato da Ippocrate sulle teorie aristoteliche e perfezionato da Galeno, a cui il pensiero arabo aveva aggiunto nozioni alchimistiche, astrologiche e di farmacopea. La scienza veniva precipuamente intesa come disputa filosofica e speculazione dialettica, e queste conoscenze dovevano appunto essere insegnate ai medici («fisici»), mentre l’esperienza empirica veniva svalutata come arte manuale e «meccanica», e affidata ai chirurghi (questo almeno a partire dal XIV secolo, mentre in precedenza le due
cattedre erano distinte. Anche la medicina pratica manteneva però un aspetto esclusivamente manualistico, che finiva per creare modi uniformi di agire e di pensare, senza prevedere alcun rapporto diretto con l’esperienza. Una formazione dunque prevalentemente teorica, strettamente connessa al profondo disprezzo del ceto medico per le attività manuali. Lo studio diretto dell’anatomia in ambito universitario tardava a decollare per la rarità delle dissezioni, concesse, a partire dal XIV secolo, nel migliore dei casi, due volte all’anno. Gli studi di filosofia, dialettica e logica venivano percepiti come indispensabili e complementari a quelli di medicina, al punto che molte università prevedevano un «piano di studi» basato piú sulle prime che sulla seconda, conferendo una laurea congiunta in entrambe le materie. Non erano rari, perciò, i casi di medici chiamati a occupare cattedre di filosofia, come avvenne a Ferrara nel 1431, a Padova, a Firenze, a Genova.
Solo a partire dal XIII secolo la figura del medico divenne professionale, sorretta da un patrimonio di conoscenze acquisite nelle università, anche se principalmente a livello teorico attività erano equiparate). Le pratiche piú umili erano lasciate ai barbieri, ai quali competevano salassi, estrazioni dentarie, incisioni di ascessi, l’applicazione di sanguisughe, la cura delle ferite piú semplici, e che spesso rappresentavano gli unici operatori sanitari nelle campagne e nei villaggi. Da tutto questo derivava una notevole separazione sociale e di censo fra le tre categorie.
Come diventare medici
Il medico per eccellenza, designato come «fisico», svolgeva un percorso di apprendimento intermedio tra la filosofia e la medicina, con rudimenti di logica, grammatica, filosofia, impadronendosi, solo in un secondo momento, della conoscenza della fisiologia umana secondo i canoni del sistema ippocratico-galenico nella rielaborazione fattane dagli Arabi, e nella piú generale visione impregnata di aristotelismo e di stoicismo. Nello Studio bolognese il corso durava quattro anni e si basava sui testi di Galeno, Ippocrate, Averroè, Avicenna. L’insegnamento era diviso in medicina teorica e medicina pratica: la prima si riferiva allo studio dei principi medici e alla classificazione delle malattie, mentre la seconda concerneva la descrizione dei sintomi e dei possibili interventi terapeutici cosí come erano illustrati nei testi classici; le due
E le conoscenze speculative prevalevano sicuramente su quelle scientifiche, tanto che persino Francesco Petrarca si lamentava di come i medici fossero troppo infarciti di dialettica, retorica, politica, astrologia e alchimia, e di come studiassero Aristotele, Seneca, Virgilio, ignorando invece l’arte che professavano pubblicamente. La precarietà, e la consapevolezza della precarietà, delle conoscenze in campo terapeutico emerge del resto in modo lampante in una vignetta raffigurante un medico nell’atto di dispensare le prescrizioni agli ammalati, incisa sul frontespizio di un’opera filosofica del 1531: sotto la scena appariva la scritta «Dio te la mandi bona». Alle cognizioni filosofiche si aggiungevano talora quelle giuridiche, per cui non era raro imbattersi in medici che svolgevano anche la funzione di notaio: un «phisicus» aretino della seconda metà del Duecento, già docente di medicina a Bologna, si ritrova in seguito come notaio e autore di un trattato sull’arte notarile, mentre a Perugia per tutto il XIII secolo abbondano le notizie sulla presenza di professionisti che svolgevano entrambe le attività. Lo stesso fenomeno è stato riscontrato a Firenze, ad Assisi, a Padova, e persino a Parigi. A tale proposito è significativo il fatto che il «piano di studi» stabilito nel 1387 per gli studenti di medicina di la vita al tempo della peste
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Bologna, chiesa di S. Francesco. Il sepolcro di Michele da Bertalia, medico teoretico, realizzato da Bettino da Bologna nel 1328. Nella città felsinea, il corso di studi per diventare medico durava quattro anni ed era diviso tra medicina teorica, riferita alla studio dei principi medici e alla classificazione delle malattie, e medicina pratica, ovvero la descrizione dei sintomi e dei possibili metodi di intervento, appresi però sempre dai testi classici, non da una vera esperienza con i pazienti.
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Firenze comprendesse, accanto a filosofia, logica, retorica, chirurgia, anche l’arte notarile. Il titolo universitario non era indispensabile per esercitare, ma era necessario comunque dimostrare una sufficiente formazione di base e una certa esperienza pratica, che si potevano acquisire esercitando accanto al proprio padre, o frequentando scuole di phisica gestite da medici.
L’obbligo degli esami...
Nell’Italia centro-settentrionale l’accesso alla professione e il codice di comportamento a cui ci si doveva attenere erano controllati dalle corporazioni, e in seguito dai collegi medici. A Firenze, una disposizione dello statuto dell’Arte dei Medici e degli Speziali del 1314 prescriveva per l’esercizio della professione l’obbligo di un esame davanti a una commissione competente. Lo statuto del 1349 escluse dalla commissione esaminatrice gli ecclesiastici, e prescrisse invece che la prova si svolgesse davanti a sei medici, due dei quali dovevano essere i consoli dell’Arte, mentre gli altri quattro (tra cui un chirurgo) sarebbero stati scelti liberamente tra i professionisti fiorentini. L’obbligo dell’esame, sanzionato anche dalla legislazione comunale, si estendeva anche a coloro che non ave-
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vano seguito un regolare corso di studi. A Pisa, secondo gli ordinamenti del 1318, chi voleva esercitare l’attività ed essere accolto nel collegio dei medici doveva far riconoscere la propria preparazione da due frati e da un notaio. In seguito, nel 1375, gli ordinamenti pisani richiesero una prova d’idoneità piú ardua della precedente, essendo – affermavano testualmente – l’errore in fatto di medicina tra i piú gravi che si potessero commettere, data la nobiltà del soggetto. Esclusero perciò gli ecclesiastici dalla partecipazione alle commissioni esaminatrici, riservandone la composizione ai soli medici piú esperti. A Milano la necessità di superare un esame per poter entrare a far parte del collegio medico venne sancita dagli statuti corporativi del 1396, che prevedevano anche la frequenza con profitto dello studio generale per le materie mediche per 4 anni o piú, prima di sostenere la prova. Le materie d’esame vertevano sugli aforismi di Ippocrate e sui libri di Galeno, di cui il candidato discuteva con gli esaminatori il giorno successivo alla scelta dell’argomento. Approvato con scrutinio segreto, il medico riceveva dal rettore a nome del collegio, nella chiesa di S. Tecla o in quella Maggiore, pubbli-
In basso miniature che raffigurano interventi medici di Ippocrate e Galeno. XII sec. Milano, Biblioteca Ambrosiana. A Milano, dal 1396, per esercitare la professione medica era necessario seguire un corso di studio della durata di quattro anni, concluso da un esame che verteva sugli aforismi di Ippocrate e sui libri di Galeno.
lungo il corso di studi obbligatorio, portandolo da 4 a 7 anni, aumentate le tasse d’iscrizione, rese piú complesse le prove d’esame. Un esame era obbligatorio anche a Venezia, salvo che nel caso di approvazione diretta da parte del Maggior Consiglio, a Torino, secondo le disposizioni del 1360, a Bologna e a Salerno. Nell’Italia meridionale, dove alle autonomie comunali si sostituiva un’amministrazione statale centralizzata, la disciplina della professione medica veniva regolata dalle ordinanze regie: soprattutto le Costituzioni di Melfi, emanate da Federico II nel 1231, ne dettavano in buona parte la normativa. L’imperatore aveva inserito nelle Costituzioni un decreto che vietava a chiunque di esercitare la professione se non si fosse laureato alla Scuola Medica di Salerno e comminava pene severe ai ciarlatani che avessero fatto commercio di medicamenti falsi e pericolosi. Si arrivava a prevedere la pena capitale per chi avesse venduto veleni o
ca licenza di tenere una cattedra. Anche i professionisti già famosi avevano l’obbligo di iscrizione al collegio se volevano esercitare a Milano: non erano tenuti a sottoporsi all’esame, ma toccava loro, comunque, il versamento di una tassa e l’offerta di un pranzo prelibato, con ottimo vino e ottimi dolciumi a tutti gli appartenenti al collegio, oltre al dono di un paio di guanti per ciascuno. E mentre altrove non sussistevano vincoli particolari per essere ammessi ad affrontare la prova e poi a esercitare la professione, nella capitale del ducato sforzesco, invece, gli statuti del collegio dei fisici della seconda metà del Quattrocento (1470 e 1498) deliberarono che non potesse diventare medico chi non fosse cittadino milanese nato da legittimo matrimonio, e appartenente a famiglia residente in città o nel ducato da almeno 120 anni.
...e le tasse d’iscrizione
Il provvedimento era motivato dal fatto che, essendo molto aumentato il numero di coloro che si dedicavano agli studi di medicina, se si fosse lasciata anche agli stranieri la possibilità di esercitare, i professionisti milanesi avrebbero corso il rischio di dover emigrare. Venne anche reso piú la vita al tempo della peste
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Lanslevillard (Francia), cappella di S. Sebastiano. Un medico cura gli appestati, incidendone i bubboni, particolare di un affresco dalle Storie di San Sebastiano. 1450-1480 circa.
medicamenti nocivi che avrebbero potuto ottenebrare le facoltà mentali. Venivano poi definiti i rapporti tra medici e farmacisti, proibendo ogni forma di associazione tra le due categorie, che avrebbe portato a inevitabili conflitti di interesse. Ai medici era anche proibito avere una propria bottega per la vendita dei farmaci. Gli aromatari, che si impegnavano a preparare i medicamenti secondo le disposizioni dei medici, dovevano osservare precise norme per l’apertura e la chiusura del proprio esercizio. Il medico poteva denunciare il confectorarius che avesse tenuto un comportamento inadeguato nello svolgimento delle proprie mansioni. Sia i medici che gli speziali dovevano prestare giuramento di sottostare al controllo dell’autorità pubblica messo in atto da due ispettori competenti in materia e di nomina imperiale. Ogni infrazione alle regole era punita con sanzioni molto severe che andavano dalla confisca dei beni alla pena capitale.
Le Costituzioni di Melfi
Molti statuti delle Arti di Medici e Speziali di numerose città dell’Italia centro-settentrionale, come quelli di Firenze e di Siena, si ispiravano ai principi contenuti nelle Costituzioni di Melfi, comprendendo, tra i principi fondamentali su cui basare l’esercizio della professione, l’obbligo del giuramento, l’osservanza di un codice di comportamento, il divieto di costituire società tra medici e speziali, la proibizione per questi ultimi di esercitare l’arte medica, l’obbligo di osservare un tariffario, il controllo periodico delle botteghe per la vendita dei medicinali da parte di ispettori imperiali. Nella pratica quotidiana le cognizioni teoriche dei medici erano comunque estremamente ridotte: appena elementari le conoscenze di fisiologia, mentre la pratica dell’anatomia rimase a lungo sporadica. Federico II l’aveva resa ob(segue a p. 106) la vita al tempo della peste
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L’insegnamento dell’anatomia
L’ L
apprendimento dell’anatomia rimase eminentemente teorico almeno fino al Trecento, e basato solo sui trattati di Galeno, giunti in Europa soprattutto attraverso le traduzioni e i commenti dei medici arabi, privi però di contributi originali a causa del divieto alla dissezione dei cadaveri imposto dalla religione islamica. Applicata dunque in maniera acritica da medici arabi e cristiani l’anatomia di Galeno fu considerata per secoli opera suprema e infallibile, non suscettibile di approfondimenti, al punto che le fu imputata la colpa di aver impedito ogni nuova ricerca in materia, fino al XVI secolo. La riforma degli studi di medicina, iniziata dal re normanno Ruggero II nel 1140, sulla scia delle teorizzazioni del medico Costantino l’Africano (1020-1087; uno dei principali esponenti della Scuola Medica Salernitana), segnò l’inizio di un piú severo controllo sugli aspiranti
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medici. Rifacendosi ai decreti di Ruggero II e degli altri re normanni, l’imperatore Federico II (1194-1250) ribadí, fin dal 1231, nelle Costituzioni di Melfi, non solo l’obbligo, per chi voleva esercitare la medicina sui suoi territori, di sottoporsi a un esame pubblico davanti ai maestri della Scuola Medica di Salerno, ma stabilí anche che nessun medico né chirurgo poteva essere ammesso all’esercizio della professione se prima non avesse studiato anatomia, rendendo obbligatoria la dissezione (seppure praticata su animali e non su esseri umani), e lo studio della chirurgia considerata – recitano testualmente le Costituzioni federiciane – «parte della medicina». Durante il Trecento, in molte città, si cominciarono a praticare dissezioni, soprattutto a partire dall’epidemia di peste: a Firenze i primi esempi di autopsie a scopo scientifico su cadaveri umani risalgono appunto al
1348, quando la città chiese e ottenne dal Papa una lettera d’indulgenza per quei medici che avessero sezionato i cadaveri dei morti di peste per cercar di chiarire le cause della malattia e del contagio. E autopsie finalizzate allo stesso scopo furono effettuate a Perugia, sempre nel 1348. La pratica venne poi istituzionalizzata a Firenze con la riforma del 1372 della Facoltà di Medicina (lo «Studio», istituito nel 1324), prevedendo dissezioni umane due volte all’anno, non in periodi fissi, ma quando «il caso e la fortuna» avessero messo a disposizione un cadavere. Tale normativa elevava dunque a obbligo giuridico quello che fino a pochi decenni prima era riservato esclusivamente a situazioni eccezionali, in linea, del resto, con quanto già stabilito in altre città italiane. A Bologna, infatti, le autopsie su individui di sesso maschile venivano effettuate fin dal 1281, e dal
In alto André Vésale a Padova nel 1546, dipinto di Edouard Jean Hamman. 1859. Marsiglia, Musée des Beaux-Arts. Medico fiammingo, Vésale, noto anche come Andreas Vesalius, è considerato il fondatore dell’anatomia moderna. A sinistra miniatura raffigurante una lezione di anatomia alla scuola di medicina di Montpellier, da Chirurgia Magna di Guy De Chauliac. 1363. Montpellier, Musée Atger. la vita al tempo della peste
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L’anatomia delle ossa umane, in una incisione del De Humani Corporis Fabrica, grande opera anatomica di André Vésale (noto anche come Andreas Vesalius o Andrea Vesalio), professore a Padova, che mise in discussione i dogmi degli antichi ed evidenziò gli errori di Galeno. 1542, Parigi, Bibliothèque des Arts Dècoratifs.
1315 su soggetti di sesso femminile, mentre a Venezia dal 1324 almeno. Nella città lagunare il collegio dei chirurghi decretò nel 1368 l’obbligo di praticare un’autopsia una volta all’anno «de aliquo humano de recenti defuncto», a spese anche del collegio dei medici, in modo che questi ultimi, assistendo alla dissezione, – recitava la normativa – potessero aver cognizione della struttura del corpo umano. La disposizione si prefiggeva, tra l’altro, di introdurre il concetto secondo il quale l’autopsia non costituiva un vilipendio, ma un vantaggio per il genere umano, e cercava di indurre i parenti a cedere il corpo del loro congiunto obbligando gli studenti a una colletta per pagarne le esequie. A Bologna, invece, erano gli studenti a procurarsi i cadaveri necessari, ma siccome ne derivavano frequenti risse e tumulti, nel 1405 venne stabilito che non potessero procacciarli senza il consenso del rettore, che non si tenessero piú di due autopsie di uomini e una di donne all’anno, e che non potessero assistervi piú di 20 studenti nel primo caso e non piú di 30 nel secondo (di cui 5 od 8 lombardi, 4 o 7 toscani, 4 o 7 romani, 3 bolognesi, 3 oltremontani). Per l’acquisto del cadavere non si dovevano spendere piú di 16 lire bolognesi per gli uomini e piú di 20 lire bolognesi per le donne. Sempre nel XIV secolo, a Padova veniva concesso di notomizzare solo i giustiziati, purchè non fossero della città, né di Venezia o del territorio veneziano, e il rettore si impegnava a fornire alla scuola due cadaveri all’anno, e la stessa prassi vigeva a Genova, dove il podestà concedeva al collegio medico il corpo di un giustiziato di ceto sociale umile e non nativo di Genova né del distretto, e neppure concittadino del podestà stesso. Ugualmente a
Perugia e a Ferrara l’autorità pubblica cittadina procurava uno o due cadaveri di forestieri all’anno per le autopsie, e anche a Milano gli statuti cittadini del 1396 prevedevano che una volta all’anno il podestà fornisse al collegio medico il corpo di un giustiziato. Il fervore degli studi anatomici dava adito, nonostante i severi divieti, alla violazione dei sepolcri per procurarsi soggetti da notomizzare: nel 1318, per esempio, fu intentato un processo contro un professore dello Studio di Bologna e alcuni suoi discepoli per il disseppellimento di una salma. L’insegnamento dei classici – e in particolare di Galeno, il principale medico sistematico dell’antichità (II-III secolo d.C.) – aveva dunque stimolato, fin dall’inizio del Trecento, molti chirurghi a propugnare la necessità assoluta di conoscere perfettamente l’anatomia umana per poter eseguire correttamente gli interventi, senza il pericolo – come diceva appunto Galeno – di scambiare un legamento per una membrana o per un nervo. Questo aveva portato a Parigi, all’inizio del Trecento, all’istituzione di lezioni di anatomia pubbliche, grazie all’impegno in tal senso del chirurgo Henry de Mondeville, uno dei maggiori sostenitori della conoscenza pratica del corpo umano. Si trattava in ogni caso di lezioni teoriche, senza dissezione, ma supportate dall’illustrazione di modellini realizzati sulla base di osservazioni reali. Se l’esame autoptico del corpo di chi era morto in circostanze dubbie veniva praticato fin dal XIII secolo, e anzi esplicitamente previsto dagli statuti di molte città, all’inizio del Trecento si assiste dunque a un mutamento di prospettiva: la necessità della dissezione a scopo didattico, come insegnavano i medici dell’antica Grecia. Molti trattati trecenteschi presentavano la conoscenza del corpo umano, microcosmo rispecchiante l’universo, come argomento fondamentale della medicina, che veniva cosí promossa a sezione della filosofia naturale. E proprio la presentazione del corpo come opera meravigliosa del Creatore che la lezione di anatomia
permetteva di apprezzare e glorificare, a far sí che determinati settori ecclesiastici promuovessero le dissezioni – affermano gli studi piú recenti – invece di osteggiarle, come tradizionalmente sostenuto dalla storiografia. Nel Quattrocento la lezione di anatomia divenne anzi parte integrante dei programmi universitari. Durante il XV secolo i piú illustri artisti italiani, tra cui Raffaello, Michelangelo e Leonardo, coltivarono gli studi anatomici, tracciandone immagini dettagliate (basti pensare a quelli universalmente noti di Leonardo) cosa che ebbe come conseguenza la progressiva elaborazione di testi illustrati come indispensabile complemento e sussidio all’insegnamento dell’anatomia. Fu André Vésale (1514-1564) a Padova a dare inizio, tra gli anni Trenta e Quaranta del Cinquecento, a un esercizio dell’anatomia ancora piú marcato, che prevedeva numerose dissezioni ogni giorno, in modo che la teoria e la pratica fossero costantemente in contatto e si stimolassero reciprocamente. Propugnando un nuovo metodo di insegnamento, basato sulle conoscenze tratte dell’analisi materiale del corpo umano, Vesalio rimise in discussione i dogmi dei testi di Galeno e Avicenna. Il suo merito principale fu quello di aver riaffermato la concezione della medicina greca che non contemplava una separazione tra mente e mano, tra medico e chirurgo. Fino a quel momento, infatti, la dissezione aveva previsto la divisione dei ruoli: il medico, a volte accompagnato da un suo pari, «leggeva» e «dimostrava» l’anatomia, commentando i testi delle autorità, mentre a tagliare il corpo era il chirurgo. Con Vesalio si ebbe dunque una riabilitazione delle ricerca prodotta in prima persona e con le proprie mani dall’anatomista chirurgo. Grazie alla sua perfetta conoscenza dei testi di Galeno (che piú volte aveva ammesso non essergli stato possibile – nella Roma del II secolo – dissezionare sistematicamente
L’autopsia, miniatura dal Liber notabilium di Guido da Vigevano, codice contenente 16 tavole illustrative, estratti di traduzioni latine delle opere di Galeno, un Regimen sanitatis e una Anathomia Philippi septimi con 18 figure che illustrano il metodo anatomico, secondo l’insegnamento bolognese di Mondino dei Liuzzi. 1345 circa. Chantilly, Musée Condé.
cadaveri umani, per cui aveva dovuto limitarsi ad animali), e ripetendone le esperienze, Vesalio aveva potuto constatare i numerosi errori sull’anatomia umana (piú di 200) commessi dal Maestro. Applicare il messaggio di Galeno significava allora riprendere dall’inizio l’anatomia del corpo umano, e controllare le antiche descrizioni con dissezioni sistematiche. Gli studenti dovevano seguire da vicino e verificare la
notomizzazione con i propri occhi, come Galeno aveva insegnato. Convinto assertore dell’indispensabilità delle immagini per fissare le osservazioni, Vesalio corredò poi di un ricco apparato iconografico la sua opera De humanis corporis fabrica, dotandola di un perfezionato sistema di rimandi tra testo e illustrazione in grado di competere con l’osservazione diretta, e anche questo costituí un elemento decisivo per il successivo sviluppo degli studi anatomici. Il nuovo modo di intendere e praticare l’anatomia quale fondamento indispensabile all’esercizio della medicina si dimostrò essenziale alla progressiva nobilitazione della chirurgia, fino ad allora ritenuta arte meccanica piú che disciplina scientifica, nonché parte «ignobile» della medicina stessa, degna di essere praticata solo da cerusici, salassatori e barbieri. Nella seconda metà del Cinquecento, cattedre di anatomia e di chirurgia, oltre che a Padova e Bologna, principali sedi di partenza della cosiddetta «rinascita anatomica», vennero istituite nelle piú prestigiose università italiane. Se dunque nelle città della Penisola, fin dalla seconda metà del Trecento, le dissezioni costituivano una pratica sempre piú frequente, Oltralpe la situazione appare molto diversa: a Vienna la prima autopsia risale al 1404, e durante tutto l’arco del XV secolo vennero effettuate soltanto sei dissezioni. Praga ebbe un insegnamento di anatomia solo nel 1460, e, nel Cinquecento inoltrato, le città tedesche e spagnole, mentre a Parigi, ancora nel XVI secolo, la chirurgia veniva esercitata dai barbieri.
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bligatoria per la Scuola Medica di Salerno fin dal XIII secolo, ma altrove in Italia si diffuse molto lentamente: a Bologna nel 1315, a Perugia nel 1348, a Venezia nel 1368, a Firenze nel 1372. Oltralpe la sua pratica ebbe inizio soltanto a partire dalla fine del Trecento: la prima dissezione anatomica a Montepellier risale al 1376, a Vienna al 1404, mentre Praga ebbe un insegnamento di anatomia solo nel 1460. Anche la diagnostica si basava su elementi alquanto scarsi: l’aspetto del malato, l’esame del polso, delle urine, del sangue. Elaborata la diagnosi, il medico, nel prescrivere la terapia, doveva tener conto di considerazioni che andavano dal temperamento del malato alla posizione degli astri, e basarsi infine su una serie di regole empiriche. I rimedi consistevano in salassi, bagni e soprattutto diete opportune, mentre la
In basso particolare della riproduzione di una carta da gioco della metà del Quattrocento, raffigurante un barbiere. Le pratiche piú umili dell’arte medica, tra cui, per esempio, i salassi, le estrazioni di denti, le incisioni di ascessi o l’applicazione di sanguisughe, venivano lasciate ai barbieri (o cerusici).
terapia medicamentosa era in gran parte basata su sostanze di origine vegetale, sulle quali invece le conoscenze abbondavano.
I chirurghi
Inizialmente chi si dedicava alla medicina esercitava indifferentemente anche la chirurgia, della quale, fin dal XII secolo, la Scuola Medica salernitana aveva riconosciuto l’importanza e il valore. Allo stesso modo, nelle Costituzioni di Federico II lo studio della chirurgia, considerata parte della medicina, venne reso obbligatorio per i medici, e lo studio per almeno un anno dell’anatomia per i chirurghi. Una piú decisa svalutazione dell’attività del chirurgo si ebbe a partire dal XIV-XV secolo, sulle scorta delle teorie che contrapponevano le arti liberali a quelle meccaniche, declassando queste ultime in quanto manuali e frutto di un’attività meramente pratica, priva di risvolti intellettuali . Su queste basi, all’inizio del Quattrocento, Coluccio Salutati aveva declassato persino la disciplina medica nel suo complesso, anteponendole le scienze giuridiche in quanto riguardanti soltanto l’intelletto, per cui – affer106
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Un chirurgo tedesco, in un’incisione attribuita a Hans Holbein il Giovane, da un’edizione tedesca della Consolazione della Filosofia di Boezio. XVI sec. Inizialmente i medici esercitavano anche la chirurgia, considerata parte della medicina, ma tra il XIV e il XV sec. l’attività dei chirurghi venne declassata in quanto ritenuta meccanica, meramente pratica e priva di risvolti intellettuali. Solo dal XV sec. alcune università accolsero nuovamente gli insegnamenti di chirurgia, ma soprattutto dal XVI se ne riconobbe la vera importanza.
mava – «è inoppurtuno che i medici antepongano la loro disciplina a tutte le altre». A questi postulati si oppose, alla fine del XV secolo Leonardo da Vinci, propugnando che le arti «meccaniche» rappresentavano un momento di sperimentazione e di indagine conoscitiva, ed elaborando il celebre postulato in base al quale la vera scienza non è un’operazione puramente mentale, ma trova la sua base nell’esperienza, «madre di ogni certezza». Non andavano perciò definite «meccaniche» le arti fondate sull’esperienza, asseriva Leonardo, né scientifiche quelle aventi nella mente il loro inizio e la loro fine, e atte solo a «pascere di sogno li suoi investigatori». Anche in campo teorico qualche grande maestro, come Lanfranco da Milano (autore di una Chirurgia magna, stampata nel 1499), insegnava che non si poteva essere un buon medico se non si era un buon chirurgo, e viceversa. In ogni caso, a partire almeno dal Trecento, la figura del chirurgo venne decisamente sminuita: a Venezia questi professionisti non potevano medicare mai, neppure in casi gravi, mentre a Pisa non veniva loro consentito di essere eletti priori dell’Arte dei Medici, e versavano una
Per garantire la serietà del proprio impegno, i chirurghi erano costretti a presentare una fideiussione tassa d’immatricolazione pari alla metà di quella di chi apparteneva all’Arte a tutti gli effetti. Gli statuti corporativi quattrocenteschi di alcuni centri piemontesi stabilivano che i chirurghi non potessero dispensare farmaci, né praticare salassi senza il consenso del medico, mentre a Milano nella stessa epoca, si impedí loro di prescrivere qualsiasi terapia senza l’intervento di un fisico.
Un lavoro pericoloso
Durante le epidemie di peste erano i chirurghi (e i barbieri), molto piú dei fisici, a provvedere all’assistenza agli infermi e a sobbarcarsi le mansioni piú onerose e pericolose. Per evitare che fuggissero in preda alla paura, venivano la vita al tempo della peste
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spesso costretti a presentare un fideiussore che si impegnava finanziariamente a garantire che il chirurgo compisse il proprio dovere con serietà, rispettando i patti. A rendere piú onerosa la loro condizione, era anche il fatto che talvolta venivano obbligati a non avere alcun contatto con le persone sane non solo durante l’epidemia, ma anche per un lungo periodo successivo. A Vercelli nel 1466 e nel 1485, il Comune assunse appunto due chirurghi che si impegnarono a rimanere segregati in casa per un periodo di almeno un mese dal termine del contagio. Durante il XV secolo gli statuti di alcune università accolsero gradualmente insegnamenti di chirurgia, inserendoli progressivamente tra le discipline accademiche: a Pavia e a Torino si richiedeva la frequenza biennale alle lezioni di questo insegnamento oltre a due anni di tirocinio con medici che lo praticassero. Una maggiore rivalutazione della chirurgia si ebbe soltanto a partire dalla seconda metà del Cinquecento, quando Andrea Vesalio (forma italiana del nome del medico fiammingo André Vésale, noto anche come Andreas Vesalius; 1514-1564, n.d.r.), dando un impulso fondamentale agli studi di anatomia, contribuí in modo determinante anche al riconoscimento dell’importanza della chirurgia.
I barbieri (o cerusici)
Come già accennato, le pratiche piú umili venivano lasciate ai cerusici, ai quali competevano salassi, estrazioni dentarie, incisioni di ascessi, l’applicazione di sanguisughe, slogature e fratture. Si trattava di persone che non avevano 108
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Intervento di ernia allo scroto, miniatura da un manoscritto della Chirurgia Magistri Rogerii di Ruggero Frugardo (o Rogerius Salernitanus), opera redatta dal suo allievo Guido d’Arezzo verso la fine del XII sec. XIV sec. Montpellier, Musée Atger. Tra i tanti primati della Scuola Medica Salernitana vi fu quello, codificato nelle Costituzioni di Federico II, di inserire lo studio obbligatorio della chirurgia per i medici e lo studio di almeno un anno dell’anatomia per i chirurghi.
seguito alcun corso di studi, ma che esercitavano sulla base di quanto appreso facendo pratica presso un medico o uno speziale, o delle nozioni tramandate di padre in figlio. Si prestavano anche a servizi di assistenza come frizioni e clisteri. Anche quest’attività veniva severamente regolamentata: a Modena il barbiere doveva dare prova davanti al priore del collegio dei medici di saper adoperare i ferri per i salassi. A Parma, prima di aprire bottega, i cerusici dovevano sostenere un esame, in cui dimostrassero di conoscere tutte le vene coi loro nomi, e di saperle preparare per l’estrazione del sangue. A Pisa, nel 1286, era proibito loro salassare i lebbrosi. A Roma, gli statuti cittadini del 1368-69 prescrivevano che barbieri e «minuitores sanguinis» tenessero esposto al pubblico davanti alla bottega il sangue tolto ai loro pazienti. A Sarzana, come sancito dall’autorità pubblica nel 1269, non potevano portare fuori città il sangue estratto, ma dovevano sotterrarlo a una profondità tale che i cani non potessero scavarlo. Talvolta i cerusici ricevevano persino incarichi ufficiali dal Comune per medicare le ferite, o erano assunti come medici condotti. Nel 1283, a Volterra, una persona che aveva riportato una ferita lavorando per il Comune venne fatta medicare da un barbiere pagato appunto dalle autorità cittadine, e nel 1465 il medesimo centro toscano assunse come medico condotto un «cerusico e barbitonsore». Esistevano poi i «medici-barbieri», citati in buon numero, durante il XIV secolo, nell’elenco degli iscritti alla corporazione fiorentina dei medici e speziali. Dovevano però adattarsi ai
mestieri piú umili, a volte estranei alla loro professione ufficiale: nel 1260, poco prima dello scontro tra Firenze e Siena conclusosi con la battaglia di Montaperti, uno di loro fu dispensato dal seguire l’esercito e adibito alla custodia del leone simbolo del Comune di Firenze. Si trattava insomma di una categoria sempre indaffarata e onnipresente, come ce la descrive con efficacia uno scrittore fiorentino del Trecento, mostrandoci i cerusici che accompagnavano gli ammalati ai bagni pubblici, o intenti a salassi e cauterizzazioni, oppure ancora in corsa per le strade con una rete piena di ventose pendente dalla spalla.
I doveri e i compensi
«E quando va a lo infermo principalmente il dee fare confessare e poi dee senza alcuna nigrigenza o avarizia operare ciò che sa e puote per guarirlo, pagato o non pagato che sia; e dee medicare li poveri per l’amor d’Iddio piú lietamente che’ ricchi per danari; de’ fuggire ogni piato e ogni lite e dee essere a ogni gente piacevole e mansueto e non in-
Ancora una miniatura tratta dalla Chirurgia Magistri Rogerii raffigurante un chirurgo che opera al collo. XIV sec. Montpellier, Musée Atger. In alcune città italiane ai chirurghi fu proibito di medicare, perfino in casi gravi, mentre in altre la loro attività fu posta sotto il controllo dei medici, ai quali dovevano rivolgersi per prescrivere terapie e dispensare farmaci. Ma, durante le pestilenze, erano di fatto i chirurghi (e i barbieri) a occuparsi dei malati e a farsi carico delle mansioni piú pericolose.
gordo di pagamento». Cosí, nel Trecento, il novelliere fiorentino Antonio Pucci delineava quale dovesse essere il comportamento del medico, ispirandosi alla sua epoca, quando la professione si rivelava probabilmente, nella maggior parte dei casi, particolarmente redditizia, ma inaugurando anche un cliché che ancora oggi ha il suo peso. Naturalmente, allora come oggi, compensi e onorari potevano variare molto ed erano fortemente individualizzati, a seconda della fama, del successo e del prestigio di ogni singolo professionista, ma senza dubbio la corporazione dei Medici e Speziali occupava un posto di rilievo nella vita economica urbana e nella gerarchia delle arti, e tra i suoi affiliati, i medici costituivano il ceto piú agiato e di maggior reddito. Questo derivava, oltre che dall’esercizio della professione in se stessa, anche da una molteplicità di fattori a monte: il fatto, cioè, che godeva concretamente della possibilità di accedere alla professione soltanto chi abitava nei pressi di un centro universitario, (segue a p. 114)
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I medici
La scuola medica di salerno
L L
a tradizione medica salernitana trae la sua origine dal sincretismo culturale generato dal fondersi di elementi del mondo antico, bizantino e islamico, che caratterizzò il Mezzogiorno d’Italia durante il Medioevo e che diede luogo a espressioni culturali e artistiche di respiro internazionale. Salerno, importante centro commerciale nel cuore del Mediterraneo e capitale del principato longobardo, occupò in tale contesto un ruolo di assoluta centralità. La cultura salernitana negli anni successivi al Mille assunse connotati che la posero in spiccata evidenza nell’Europa occidentale, e durante la dominazione normanna la città mantenne una posizione di grande importanza e prestigio nel cuore del Mediterraneo occidentale. La fortuna della tradizione medica salernitana
trae la sua ragion d’essere proprio da questa straordinaria sintesi culturale, che favorí lo sviluppo di quell’Ars medica che, già dal X secolo, era divenuta di respiro internazionale. La leggenda che attribuisce la fondazione della Scuola Medica Salernitana a quattro maestri – Helinus, Adela, Pontus e Salernus: un ebreo, un arabo, un greco e un salernitano – ha proprio il suo significato nella individuazione dei quattro indirizzi culturali che contribuirono alla definizione dell’Ars medica. Va sottolineato, in ogni caso, che fino a quando, nel 1231, Federico II non ne codificò ufficialmente l’esistenza nelle Costituzioni di Melfi, la Scuola rappresentò sicuramente un fenomeno culturale di ampia diffusione dell’esercizio sia pratico che teorico della medicina in ogni suo aspetto, ma non un’istituzione organizzata e dotata di una propria sede, di uno statuto e di programmi di studio. Ciononostante, proprio in quest’epoca essa raggiunse il suo
Costantino l’Africano esamina le urine dei pazienti, miniatura da un manoscritto medievale. Medico musulmano, divenuto monaco a Montecassino, Costantino tradusse moltissimi testi medici dall’arabo al latino, contribuendo allo sviluppo della Scuola Medica Salernitana.
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massimo splendore, mentre il riconoscimento ufficiale da parte dell’autorità pubblica arrivò proprio nel momento in cui la fase di decadenza già in atto causava ormai seri problemi di sopravvivenza alla scuola, sopravanzata dalle istituzioni universitarie di Bologna, Padova, Parigi e Montpellier. La Scuola venne favorita in modo determinante dalla presenza in città di una forte tradizione monastica, e del monachesimo benedettino in modo particolare, per il quale prendersi cura degli ammalati era un preciso obbligo: «Prima di tutto e soprattutto ci si deve prendere cura dei fratelli malati servendoli veramente come Cristo in persona» sanciva infatti la Regola di san Benedetto che poneva cosí tra i primi impegni dei monaci quello di assistenza ai malati e di studio dell’arte medica. In ogni monastero, come comanda la Regola, il monaco infirmarius si occupava dell’infermeria, curava gli ammalati e somministrava i medicamenti, sapientemente confezionati con le erbe coltivate nel giardino dei semplici del convento. Il ruolo dei monasteri si dimostrò fondamentale anche per la trasmissione dei testi scientifici, e significativa fu la loro funzione nella determinazione della cultura scientifica salernitana, caratterizzata, tra l’altro, dalla presenza tra i medici di numerosi monaci e chierici che costituirono una componente fondamentale della Scuola. Altra caratteristica importante era rappresentata dalla rilevante presenza di donne. La presenza a Salerno di una consolidata cultura scientifica e di importanti medici è documentata fin dai secoli X-XI, con la compilazione, tra l’altro, di importanti manuali destinati all’insegnamento. Tra i medici va ricordato soprattutto Costantino l’Africano (1015-1086), musulmano proveniente dalla Tunisia, che ebbe il merito di tradurre buona parte dei testi arabi che compendiavano la scienza medica degli antichi, dando un contributo di primaria importanza alla conoscenza dei trattati e delle tecniche della medicina araba e allo sviluppo successivo della scuola salernitana
L’«Uomo melotesiaco», da un prontuario della Corporazione dei Barbieri e dei Chirurghi di York. XV sec. Londra, British Library. La melotesia è la teoria secondo la quale esiste un rapporto diretto tra gli organi e i corpi celesti, qui espresso dalla raffigurazione dei segni dello Zodiaco in corrispondenza di varie zone del corpo. che raggiunse il suo apogeo nel XII secolo, grazie anche all’incremento degli scambi commerciali con la Spagna, l’Africa e la Terra Santa. Costantino fu poi autore di numerose opere mediche tra cui i Libri duo de melancholia, i «dieci capitoli sull’occhio», il De Anatomia, la Practica, la Cyrurgia, il De Ginecia. Un discepolo dell’Africano, Giovanni Afflacio, seppe invece avvicinarsi a una visione piú scientifica e filosofica della medicina, che cosí definiva: «La medicina pratica si divide in due parti: la scienza che conserva la salute e quella che cura la malattia. La scienza che conserva la salute è stata molto coltivata dai medici antichi, dal momento che conservare la salute è cosa che si può fare meglio e con piú certezza che non ripristinare la salute, una volta che è andata perduta. La scienza che cura la malattia si divide in tre parti: conoscenza delle malattie, conoscenza delle condizioni morbose da cui derivano le malattie, conoscenza di come e dove si deve intervenire per curare le malattie». Per il resto, l’evoluzione degli studi durante il XII secolo fu segnata da un rapporto piú critico con i testi precedenti, portando al passaggio dal compendium, pura e semplice raccolta di norme e principi medici, al commentarium, consistente nella rielaborazione critica dei modelli, arricchita da osservazioni e glosse e aggiornata con il frutto delle nuove esperienze. Vennero compilati in quell’epoca anche prontuari farmacologici e manuali di terapia che si avvalevano essenzialmente dei «semplici» vegetali, di cui i maestri salernitani erano profondi conoscitori. Ne risultò l’elaborazione di trattati (modello per quelli delle epoche successive) in cui le erbe venivano scientificamente indagate e classificate in base alle loro proprietà la vita al tempo della peste
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I medici
medicamentose, diversamente combinate e dosate secondo le varie applicazione terapeutiche. Anche la chirurgia cominciò a rientrare in quest’epoca nelle pratiche dei medici di Salerno, pienamente riconosciuta nella sua valenza medica, mentre l’anatomia veniva studiata sui testi, ma praticata, in questa fase, solo sugli animali. Vero vanto della Scuola di Salerno fu la medicina e chirurgia oculistica, branca di derivazione araba, con la compilazione di due opere, la Pratica oculorum e il Liber pro sanitate oculorum, su cui si sarebbe basata tutta la dottrina oftalmoiatrica successiva. Gli insegnamenti della Scuola ebbero grande diffusione grazie al Regimen Sanitatis Salernitanum, opera di grande divulgazione, in cui è racchiusa la summa dei precetti della Scuola Medica Salernitana, che andò ampliandosi nel tempo. Scritto in versi in modo da poter essere ricordato facilmente, contiene rimedi e consigli per preservare la salute uniformando la condotta di vita ai ritmi naturali del proprio ambiente e del proprio organismo: dieta rigorosa, passeggiate, riposo e misura nel gestire se stesso: «Se vuoi star bene, se vuoi vivere sano, // scaccia i gravi pensieri,l’adirarti ritieni dannoso. // Bevi poco, mangia sobriamente; non ti sia inutile // l’alzarti dopo pranzo; fuggi il sonno del meriggio; non trattenere l’urina, né comprimere a lungo il ventre; // se questi precetti fedelmente osserverai, tu lungo tempo vivrai. // Se ti mancano i medici, siano per te medici // queste tre cose: l’animo lieto, la quiete e la moderata dieta». L’Ars medica salernitana si fondava sulle teorie umorali ippocraticogaleniche, e riprendendo il concetto di armonia che governa la composizione della materia, proposto già dal VI secolo da Pitagora di Samo e dalla scuola di Crotone, individuava nel disequilibrio tra quattro umori il generarsi della malattia. Cosí come quattro sono gli elementi costitutivi della materia – aria, terra, acqua e fuoco –, con le rispettive qualità fondamentali – caldo, freddo, secco, umido –, anche l’organismo umano è provvisto di quattro entità, gli umori, che ne formano la costituzione 112
la vita al tempo della peste
strutturale: sangue, flegma, bile gialla e bile nera. Le terapie adottate per ristabilire l’equilibrio umorale dovevano tendere dunque a eliminare o ad accrescere le secrezioni, tenendo conto dell’età del paziente, della parte del corpo in cui esse si producono, della stagione dell’anno in cui si è verificata la malattia. L’armonia corporea sta nella ricerca costante di bilanciare modi di essere e quantità, situazioni del corpo ed età della natura, mentre il compito della medicina sta nel ristabilire l’armonia tra i quattro elementi, attraverso lo studio preciso delle sintomatologie, avvalendosi dell’esame dei polsi,
cosiddetti temperamenti, ossia il carattere, l’indole, la complessione di ogni persona: il sanguigno, il flemmatico, il collerico, il malinconico. Dopo l’istituzionalizzazione avvenuta con le Costituzioni di Melfi, nel 1252 la scuola ricevette la qualifica ufficiale di Studium da Corrado II di Svevia, che tentò anche di aggregarvi l’Università di Napoli fondata dal padre nel 1224, ma nel 1258 Manfredi ripristinò lo stato precedente. L’evoluzione istituzionale della Scuola, tuttavia, non serví a colmare la distanza che si era andata creando con le altre scuole di medicina; a
collerici
«I collerici: la collera è l’umore che si riscontra negli impetuosi e uomini siffatti bramano prevalere su tutti; facilmente imparano, molto mangiano, presto crescono; sono magnanimi, generosi, avidi di onori. Il collerico è ruvido, fallace, irascibile, prodigo, audace, astuto, gracile, magro e di colorito giallo».
delle urine, del tipo di alterazione febbrile. La terapia individuata deve contrastare l’umore in eccesso utilizzando un rimedio di natura opposta tratto dal mondo vegetale, semplice o composto. Erano i semplici vegetali, infatti, alla base di ogni terapia, e venivano studiati in tutte le loro caratteristiche e classificati nelle loro qualità: caldi, umidi, secchi e freddi. Dalla varia commistione degli umori derivano i
partire dal XIV secolo, quando il centro del potere e dell’elaborazione culturale si spostò dal Mediterraneo al cuore dell’Europa, la Scuola Salernitana perse definitivamente la sua funzione trainante di grande richiamo internazionale, entrando in una nuova, lunga fase di stagnazione e decadimento. (tratto da Maria Pasca, La Scuola Medica Salernitana dalle origini alle Costituzioni di Melfi, Napoli 1988).
flemmatici
«I flemmatici: hanno le forze fiacche, sono tarchiati, ma di bassa statura; la flemma li rende pingui e di sangue moderati, non si danno allo studio, ma all’ozio e al sonno, il flemmatico è debole di ingegno, lento nel muoversi, amante della pigrizia e del sonno, sputacchioso, di scarso ingegno, con la faccia grossa, e il colorito bianco».
malinconici
«I malinconici: resta ora a parlare della nera collera, che rende gli uomini tristi, deboli e poco loquaci; sono questi attivi nello studio e non inclini al sonno; sono costanti nei propositi, giudicano che nulla sia loro sicuro. Il malinconico è invidioso e triste, cupido e avaro, è fraudolento, timido e di colore terreo».
sanguigni
«I sanguigni: sono di natura pingui e gioviali, e sempre amano udire nuove parole, provano diletto in Venere e Bacco, nei pranzi e nel ridere, sono ilari e loquaci, di dolci parole. Sono versatili in ogni cosa; per qualunque ragione non li muove facilmente l’ira. Il sanguigno è generoso, appassionato, allegro, sorridente, rubicondo, amante del canto, muscoloso, molto audace e benevolo.
Sulle due pagine le vignette di un manoscritto medievale raffiguranti i quattro caratteri dell’uomo. la vita al tempo della peste
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I medici
I compensi di medici e chirurghi variavano a seconda della loro fama Firenze, S. Martino. Opera di Misericordia: visitare gli infermi, affresco facente parte del ciclo delle Sette opere di Misericordia, attribuito alla bottega del Ghirlandaio o, piú probabilmente, a Francesco d’Antonio del Chierico. XV sec.
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o aveva la possibilità di trasferirvisi, ed era in grado di acquistare i costosissimi manuali, di mantenersi agli studi, e, in seguito, di comprare gli strumenti indispensabili all’esercizio della professione, e di procurarsi una clientela necessariamente altolocata (la sola in grado di pagare il medico e i farmaci), la cui fiducia si poteva conquistare unicamente attraverso una salda rete di relazioni ai vertici della società. Riusciva
a diventare medico, insomma, solo chi godeva di tutte le possibilità economiche e di tutte le relazioni e i contatti sociali che solo una famiglia già molto agiata, conosciuta e affidabile poteva garantirgli. E non di rado, dunque, gli «artis medicine doctores» (cosí come anche gli «iuris utriusque doctores») erano figli di grossissimi imprenditori o mercanti che cercavano in questo modo di conferire una patina nobilitan-
te alla propria famiglia. Il fenomeno è molto evidente, per esempio, nella Milano degli ultimi decenni del Quattrocento, ma lo stesso si può dire per Parma, Lucca, Firenze.
20 soldi e un carro di fieno
I compensi dei medici, come accennato, potevano variare molto, e dipendevano non solo dalla fama del professionista, ma anche dal tipo e dalla lunghezza della malattia, dalle condizioni economiche del paziente, e dall’ubicazione della sua abitazione. A Bologna nel XIII secolo, per esempio, il chirurgo stipendiato dal Comune curava gratuitamente i casi ordinari, ma per piaghe gravi, fratture o lussazioni aveva il diritto di chiedere ai malati agiati una carretta di legna, e a quelli ricchi 20 soldi e un carro di fieno. Nel 1285 a Venezia i medici non potevano percepire piú di 20 soldi per le patologie comuni, ma avevano il diritto a una retribuzione maggiore per quelle piú complesse. E mentre i professionisti del contado fiorentino venivano compensati con cacio, polli, uova e frutta (accompagnati a volte da una piccola somma in denaro), quelli della città avevano onorari assai spesso molto piú alti: a Firenze nel 1371 un mercante che era stato curato da due medici li retribuí con 16 fiorini d’oro, somma enorme se si pensa che poteva corrispondere al pagamento di 80 giornate lavorative di un maestro muratore o al salario di 4 mesi di un semplice manovale. Nella prima metà del Trecento, per la cura di una ferita in un paese dell’Appennino pistoiese, un medico riscosse 10 lire bolognesi, somma equivalente al valore di 7 staia di grano, o di 200 libbre di carne di maiale, di un cavallo o di un bue, di 40 giornate di lavoro di un muratore, di un fabbro o di un falegname. Verso la metà del Trecento, a Venezia, il medico che aveva assistito la famiglia Morosini, una delle piú ricche della città, venne retribuito 15 grossi al giorno per 19 giorni, cioè 12 ducati d’oro in totale, somma decisamente elevata se la si confronta con quella del precettore dei ragazzi della medesima famiglia, che percepiva invece soltanto 6 grossi all’anno, oltre a vitto e alloggio. Il compenso del professionista era sufficiente ad acquistare 22 chilogrammi di carne al giorno. A Milano gli statuti corporativi del 1396 fissavano il costo di ciascuna visita in 6 soldi, somma corrispondente alla retribuzione media giornaliera di un lavoratore salariato, mentre in caso di peste il compenso poteva variare dai 16 soldi alle 2 lire e 10 soldi per ciascun consulto. Le visite fuori città, che impegnavano tutta la giornata, avevano una tariffa variabile dai 2 ai 4 fiorini giornalieri, oltre al rimborso delle spese di viagla vita al tempo della peste
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Peste
I medici
gio e di soggiorno per il professionista e gli eventuali aiutanti. Se il malato era povero, il medico era però tenuto a curarlo gratuitamente. Gli statuti del collegio risalenti al 1470-1498, pur mantenendo questa disposizione, portarono da 12 a 20 soldi la tariffa per le visite ordinarie, e aumentarono anche quelle fuori città e in caso di peste, con un’aggiunta importante: in quest’ultima situazione veniva proibito al medico di avvicinare altri pazienti se non fossero trascorsi almeno 4 giorni dalla visita all’appestato.
Il banchiere operato
Anche per gli interventi chirurgici l’onorario subiva oscillazioni a seconda delle possibilità economiche del cliente e dell’entità dell’operazione: il banchiere fiorentino Bonifacio Peruzzi nel 1353, per un intervento alla gola praticatogli da un importante maestro bolognese, spese 60 fiorini d’oro. In caso di epidemia i compensi crescevano, talvolta esageratamente. Il cronista fiorentino Marchionne di Coppo Stefani afferma che durante la pestilenza del 1348 i medici, prima di entrare da un ammalato, esigevano una forte ricompensa sull’uscio; poi tastavano il polso in fretta, volgendo la testa altrove, ed esaminavano da lontano le urine, tenendo sotto il naso boccette odorose. Spesso medici e farmacisti correvano il pericolo di venire defraudati del loro compenso, per cui si premunivano chiedendo pegni per riuscire poi a farsi pagare. A Firenze e a Pisa la corporazione intervenne ufficialmente per cercare di tutelarli da eventuali frodi, riconoscendo il valore di documento pubblico alle loro scritture e ai loro libri contabili in cui fossero annotate le medicine o altri generi somministrati ai pazienti. Qualcosa di simile avvenne a Milano, dove gli statuti del 1396 proibivano a tutti i membri del collegio medico di visitare il malato che non
avesse corrisposto il compenso a uno di loro, e prescrivevano che, sentiti i testimoni, l’autorità pubblica potesse obbligare il paziente o gli eredi al pagamento di quanto dovuto. Un altro sistema a tutela, questa volta, di entrambe le parti, consisteva nella stipulazione tra medico e paziente di contratti di cura minuziosissimi che includevano tutti i casi possibili e immaginabili, persino quello che il medico si desse alla fuga se la situazione volgeva al peggio. Ciononostante liti e controversie erano all’ordine del giorno. I farmaci rappresentavano poi spesso un costo molto piú oneroso della parcella del medico, tanto che per farvi fronte si ricorreva a volte a soluzioni fantasiose: un professionista che aveva somministrato medicine per un totale di 40 ducati d’oro (cifra stratosferica), si vide rimborsare con 8 ducati e una schiava di 16 anni valutata per l’importo rimanente di 32 ducati.
Molte città si dotarono di un vero e proprio «servizio sanitario pubblico» con dottori stipendiati dal Comune
Guarire con la dieta
Accanto alle medicine, per ottenere la guarigione venivano consigliate diete particolari dai costi esorbitanti: cibi nutrienti e delicati, vini raffinati, pane bianco e fresco, polli, starne, capponi, pavoni. Le cure termali, anch’esse caldamente raccomandate, costarono nel 1336 al fiorentino Iacopo Baroncelli 43 lire e 10 soldi, cioè quasi un quarto della somma destinata dal suo facoltoso padre al mantenimento dell’intera famiglia per un anno. Secondo la maggior parte degli statuti corporativi, i medici dovevano attenersi a un codice deontologico volto in primo luogo a evitare comportamenti indecorosi, come il gioco, la bestemmia, la frequentazione di taverne e lupanari; in secondo luogo modi di agire scorretti, come quello di accorrere al letto di un infermo già visitato da un altro collega senza averlo interpellato, oppure quello di curare un paziente insolvente verso un altro professionista. Miniatura raffigurante alcuni ferri chirurgici, da un manoscritto latino che ne illustra l’uso. XV sec. Venezia, Biblioteca Marciana.
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la vita al tempo della peste
Quando la situazione era delicata, o in caso di particolari infermità, quali lesioni alla testa o grandi ferite, la legislazione di molte città imponeva al fisico di chiamare il chirurgo, e di tenere un consulto comune in cui ciascuno dei due prendesse in considerazione i consigli dell’altro. In tali circostanze e in caso di morte violenta, bisognava denunciare l’accaduto alle autorità, cosa che doveva essere effettuata dai parenti della vittima. A Milano (1396) se un professionista veniva invitato a curare un malato già assistito da un collega, non doveva assolutamente cambiargli le cure prima di essersi consultato col medico curante, salvo in caso di grave pericolo di vita. Il numero dei medici era in genere sufficiente, ma non eccessivo, e, anzi, in tempo di peste del tutto scarso. Milano nel 1288 contava 28 «fisici» e 150 chirurghi, nel 1339 a Firenze i medici erano 60; a Venezia nel 1324 lavoravano 28 medici privati e 3 a spese pubbliche, e qualche decennio piú tardi 70 fra medici e chirurghi. Brescia nel XV secolo ne aveva 50, e nello stesso periodo abbondavano a Pavia, mentre a Lucca se ne lamentava la mancanza.
Privilegi ed esenzioni fiscali
Erano nettamente insufficienti soprattutto nei periodi di epidemia, per cui le autorità cittadine dei principali centri urbani della Penisola cercavano di premunirsi attirandoli con concessioni di cittadinanza, esenzioni fiscali e privilegi di vario genere. Il Comune di Firenze riconosceva loro onori e segni distintivi pari a quelli dei giudici e dei notai, accogliendoli, anche se forestieri, nei principali consigli cittadini; i medici che avevano ottenuto una cattedra avevano poi diritto al titolo di «maestro», e gli altri a quello di «dominus». Ancora, nella città di Dante, venivano loro concessi sussidi, premi in denaro o l’alloggio gratuito se si erano resi particolarmente meritevoli. A Pisa si concedeva talvolta un vitalizio a medici inabili al lavoro o anziani. A Milano, a Casale Monferrato, Volterra e Sarzana godevano dell’esonero dal servizio militare, e da altri obblighi – come la guardia di giorno e di notte alle porte della città – che gravavano sugli altri abitanti, mentre a Mantova, Verona, Como, Ancona, Civitavecchia, Genova, Lucca, Siena usufruivano di esenzioni fiscali. La necessità di limitare le conseguenze sociali (epidemie e disordini) derivanti dalla presenza nei centri urbani di masse di infermi indigenti e abbandonati a se stessi, privi di qualsiasi forma di assistenza medica e dei piú elementari mezzi di sussistenza, e al tempo stesso le carenze degli enti ospedalieri rispetto al fenomeno del pauperismo, spinsero le magistrature cittadine fin dal XIII secolo a mettere in atto
Santa Elisabetta fa esaminare le urine da un medico per sapere se è incinta, miniatura dalla Bibbia di Giovanni XXII. XV sec. Montpellier, Musée Atger. Il dottore indossa una veste scarlatta, simbolo di distinzione sociale.
provvedimenti adeguati. Si ricorse perciò, un po’ ovunque, a sistemi sostanzialmente simili. In alcune città la cura dei poveri venne resa obbligatoria per tutti i medici abilitati alla professione, mentre in altre (Firenze, Prato, Lucca, Volterra, Ferrara, Bologna, Bari e nel Veneto) operava, almeno a partire dal XIII secolo, e piú diffusamente nel XIV, un vero e proprio «servizio sanitario» pubblico a spese del comune che retribuiva con un emolumento fisso annuo uno o piú medici condotti, perché si occupassero dell’assistenza alla popolazione meno abbiente del centro urbano e del circondario. Per questo ufficio non competeva loro la vita al tempo della peste
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Peste
I medici
trotula e le altre L’accesso alla professione era teoricamente concesso anche alle donne, ma rare in genere erano quelle iscritte alla corporazione. Fa eccezione Firenze, dove gli elenchi trecenteschi e quattrocenteschi degli iscritti all’Arte dei Medici e Speziali annoveravano un buon numero di elementi femminili, alcune delle quali ebree, altre figlie o vedove a loro volta di medici, e quindi a conoscenza di molti segreti dell’attività gelosamente custoditi. Non sono rari gli elogi a queste donne, ufficialmente encomiate dai maggiorenti cittadini per le loro buone cure, e autorizzate a esercitare medicando «bolle velenose» e carbonchi, fratture e slogature, e curando la cataratta agli occhi. Sempre a Firenze, qualcuna di loro riusciva persino ad aprire da sola uno studio medico. La maggior parte di loro, in ogni caso, esercitava il mestiere senza autorizzazione e senza una vera preparazione, praticando le cure piú semplici. Rarissime erano quelle a cui venne
riconosciuta una dignità professionale: a Venezia, nel Trecento tre donne esercitavano autorizzate da una licenza ufficiale rilasciata loro dalla magistratura preposta alla sanità, e una di loro era specializzata nella cura della podagra e delle malattie degli occhi. A Pistoia, nel Quattrocento, viene testimoniata una «medica»che curò la ferita al capo a un frate olivetano, compensata con un onorario di 6 lire e 9 soldi. Di una posizione di particolare rilievo in questo campo godevano le donne spagnole che, accanto ai consueti compiti di assistenza alle partorienti, erano spesso in grado di entrare in contatto (grazie al marito o a qualche parente) con saperi medici piú vasti, sebbene il divieto di accesso alle università impedisse loro di esercitare legittimamente l’attività. Talvolta, però, quando il personale sanitario mancava e la congiuntura lo richiedeva, potevano persino ottenere un riconoscimento ufficiale: cosí avvenne nel 1492 quando il Consiglio municipale di
altro compenso se non la retribuzione assegnata dall’autorità comunale, che a Firenze nel 1344 ammontava, per esempio, a 5 lire mensili, e ad altrettanto per il mantenimento del cavallo con cui il professionista si spostava. A Milano nel 1351, invece, l’assistenza gratuita ai poveri era affidata al chirurgo delle carceri e degli ospedali di città e sobborghi. Anche le retribuzioni dei medici condotti alle dipendenze del Comune non erano sempre fisse, ma talvolta venivano assegnati loro compensi «ad personam», motivati dalla necessità delle autorità cittadine di assicurarsi determinati professionisti particolarmente validi. Emblematico è il caso di un medico di San Miniato chiamato nel 1369 a Volterra con lo stipendio del tutto ragguardevole di 100 fiorini d’oro annui. Quando poi si trattava di uno specialista, o di un professionista da inviare in zone di guerra, il compenso aumentava ancora: a Lucca nel 1214 e nel 1216 il Comune assunse un ortopedico (definito «medicus qui sciat reaptare brachia fracta et alia membra personarum pauperum»), con la retribuzione di 600 lire bolognesi per sei mesi. Mentre nel 1260 il medico che accompagnava le milizie fiorentine nella guerra contro 118
la vita al tempo della peste
Malaga concesse a una donna di esercitare come medico e chirurgo, e a un’altra, per la provata esperienza che aveva acquisito da due validi maestri, di svolgere ufficialmente l’incarico di ortopedico. Un discorso a parte merita la Salerno del XII secolo, dove la presenza di donne in questa professione era decisamente rilevante. Molte di loro appaiono citate come autrici di testi medici, il cui interesse scientifico, non esclusivamente attinente a problemi femminili, aveva in ogni caso come interlocutrici privilegiate altre donne. Sicuramente il personaggio piú noto fu Trotula, donna medico e moglie di un celebre archiatra della città, vissuta nell’XI secolo, alla quale si attribuisce la compilazione di un trattato sulle malattie femminili, il De mulierum passionibus ante in et post partum, in cui ogni aspetto della vita femminile viene attentamente preso in considerazione, la malattia, la maternità, il parto, la
Siena (che si sarebbe conclusa con la battaglia di Montaperti), percepiva 3 lire al giorno, e i chirurghi 2 lire al giorno ciascuno. A Venezia lo stipendio dei medici pubblici variava dai 15 ai 100 ducati d’oro annui, e quello dei chirurghi dai 20 ai 130. A Pistoia medici e chirurghi percepivano compensi oscillanti tra le 400 e le 1000 lire all’anno. A Palermo, fin dal XIV secolo, i medici condotti erano retribuiti 50 once d’oro annue circa.
Onorari in aumento
In Piemonte, dove la documentazione consente un raffronto dei salari su un ampio arco cronologico, si è potuto appurare che, dal 1380 in poi, gli onorari dei professionisti al servizio dei Comuni furono in continuo aumento per motivi dovuti, oltre che al valore personale del singolo, anche a fattori demografici e al diritto, concesso loro o meno, di pretendere, accanto all’assegno fisso della condotta, anche compensi da privati. Soprattutto dall’inizio del Quattrocento, alcuni Comuni piemontesi fissavano esplicitamente le somme che potevano essere richieste ai pazienti, in proporzione alle disponibilità eco-
Nella pagina accanto, in alto un’edizione del De Ornatu mulierum, opera di cosmetica medievale di Trotula de Ruggiero. XV sec. Parigi, Musée national du Moyen age. Nella pagina accanto, in basso miniatura tratta da un’edizione di un’altra opera di Trotula, il De passionibus mulierum ante in et post partum, in cui viene analizzato ogni aspetto della vita femminile, dalla malattia all’aspetto fisico.
puericoltura, l’aspetto fisico: il corpo femminile viene analizzato nella sua interezza e complessità, in una dimensione globale. L’aspetto fisico assume,infatti, nell’opera di Trotula un ruolo determinante per la salute della donna. Trotula non trascurò neppure la cosmetica – fu autrice anche di un’opera specifica, il De Ornatu –, in cui dispensava consigli sulle tecniche indispensabili a sottolineare ed esaltare la bellezza o a mascherare piccoli difetti con unguenti, balsami, profumi e tinture ricavati dal mondo vegetale. Pare poi che la moglie di Roberto il Guiscardo fosse esperta nelle arti dei degli archiatri salernitani, tra i quali era cresciuta.
In caso di ferite particolari, molte città obbligavano i medici a chiamare un chirurgo e a confrontarsi con lui sul da farsi nomiche di questi ultimi: si trattava di tariffe da intendere come compenso giornaliero massimo, indipendentemente dal numero delle visite effettuate allo stesso soggetto. Talvolta venivano previsti onorari diversi, a seconda che la visita fosse stata effettuata in città o nel territorio, di giorno o di notte, e a seconda che si trattasse di un’uroscopia, di un esame clinico, o della compilazione di una ricetta. L’entità dei compensi aggiuntivi era piuttosto rilevante in rapporto al salario fisso che il professionista percepiva dal Comune, ma nettamente inferiore rispetto agli onorari praticati da chi esercitava la libera professione e fissati nei tariffari dei collegi medici. Ciononostante, i pazienti in genere non pagavano con puntualità: da qui la prassi diffusa di chiedere loro oggetti e capi di vestiario da riscattare entro un periodo concordemente stabilito. I medici «convenzionati» con i Comuni piemontesi avevano l’obbligo di residenza nel luogo in cui prestavano servizio, dal quale non potevano allontanarsi se non dietro autorizzazione dei maggiorenti cittadini che avrebbero la vita al tempo della peste
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procurato loro un sostituto, e per un periodo non superiore ai due o tre giorni al mese. Altre volte il medico poteva assentarsi, sempre per un periodo brevissimo (che a volte si riduceva addirittura soltanto a una notte), ma unicamente a patto che non avesse pazienti in pericolo di vita. In alcuni centri era previsto persino che fossero i pazienti in condizioni particolarmente gravi a dover concedere licenza o meno al medico di assentarsi. In caso di inadempienza, il Comune aveva il diritto di rivalersi sul compenso del professionista, decurtandogli il salario per i giorni di assenza eccedenti quanto consentito. Ciononostante, data la condizione di «libertà vigilata» in cui erano ridotti, non furono rari, fra Tre e Quattrocento, gli esempi di medici al servizio dei Comuni piemontesi rimossi dall’incarico per non aver ottemperato ai patti: molti, infatti, avevano l’esigenza di allontanarsi, non solo per arrotondare gli introiti curando pazienti agiati residenti altrove, ma anche perché avevano spesso la famiglia lontana, o perché dovevano seguire corsi di studio. Nel 1424, per esempio, il medico di Chivasso chiese e ottenne dalle autorità cittadine il permesso di recarsi a Pavia durante l’inverno, per lunghi periodi, per poter seguire i corsi uni-
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Un dottore estrae un calcolo della vescica, miniatura dal Jardin de Santé del medico Cubas De Jean. 1501. Parigi, Petit Palais, Musée des Beaux-Arts de la Ville de Paris. Tra il XIII e il XIV sec. iniziarono ad affermarsi medici specializzati nella cura di particolari malattie, che operavano privatamente o per conto dei Comuni: in Sicilia, in particolare, gli specialisti erano divisi tra «medici di urina» e «medici di piaga».
versitari. Altri chiedevano di poter tornare a casa per qualche giorno a Natale. Naturalmente la situazione era migliore e l’impegno meno oneroso quando i medici condotti al servizio di uno stesso Comune erano due e potevano sostituirsi a vicenda, contemperando cosí le proprie esigenze con quelle degli ammalati.
Professionisti di grido
Da parte loro, le autorità cittadine piemontesi, sempre alle prese con problemi di bilancio (come del resto avveniva ovunque nella Penisola), non si accontentavano dei medici alle prime armi, ma cercavano di assicurarsi i servigi dei professionisti di grido, pagandoli però il meno possibile. Da qui una perenne condizione di malcontento, che, unita alle clausole particolarmente asfissianti dei contratti che li vincolavano, inducevano, e a volte costringevano, molti di loro a non tener fede ai patti. A questo si aggiungevano i continui ritardi nel pagamento dei salari, le frequenti manovre, da parte delle amministrazioni comunali, per ridurre i compensi, o addirittura per recedere dai contratti; il mancato rispetto di esoneri fiscali o di privilegi
precedentemente accordati. I medici si trovavano dunque spesso a dover arginare i tentativi di diminuire le loro retribuzioni, se non di revocarle del tutto: nel 1453 il consiglio comunale di Pinerolo nominò una commissione incaricata di valutare gli emolumenti dei dipendenti pubblici, tra cui i medici, e di diminuirli dove possibile; tre mesi dopo lo stesso Comune deliberò di tagliare del tutto gli stipendi dei medici, e in particolare quello del luminare Antonio da Modena. Nel 1469 persino il Comune di Torino, vista la povertà delle finanze pubbliche, licenziò un celebre chirurgo alle sue dipendenze. Quando poi i compensi venivano pagati (non senza innumerevoli sollecitazioni per ottenerli), erano costantemente soggetti a forti ritardi, sicchè non potevano costituire né per i medici, né per gli altri dipendenti comunali, un introito sicuro e costante su cui fare affidamento. Anche quando la loro liquidazione veniva stabilita in piú rate annue, era poi realmente versata a distanza di un anno se non di due o tre. Rimanere per lunghi periodi senza stipendio costituiva dunque la norma per i medici e per gli altri dipendenti comunali, nonostante le continue e spesso vane suppliche all’autorità pubblica. Anche le esenzioni fiscali teoricamente concesse a molti medici per invogliarli ad accettare il servizio per il Comune, molto spesso venivano disattese, tanto che non mancano, nel Piemonte del XV secolo, reiterate proteste di professionisti tassati ingiustamente per rimpinguare le magre finanze comunali, proteste alle quali l’autorità pubblica locale faceva fronte scovando cavilli giuridici di vario genere. Ne seguivano cause e liti a non finire, con appello all’autorità centrale che ristabiliva gli equilibri, in genere dando ragione ai medici. Tutto questo si ripercuoteva sui pazienti, sia per le frequenti assenze dei medici comunali, sia per le non rare richieste agli ammalati di compensi supplementari, che non sarebbero stati loro dovuti, ma che la situazione costringeva i professionisti a sollecitare. Per la scarsa puntualità con cui giungevano i loro compensi, sia dall’autorità pubblica che dai privati, molti medici erano dunque costretti a indebitarsi, assottigliando cosí i propri introiti col pagamento degli interessi. Era dunque frequente il ricorso all’esercizio contemporaneo di altre attività: il commercio, in società con qualche farmacista (anche se molti statuti corporativi lo proibivano), la gestione del patrimonio immobiliare e fondiario di famiglia (quando c’era), i proventi di cariche pubbliche, e persino l’esercizio dell’arte notarile. Tra il XIII e il XIV secolo cominciarono a com-
parire anche medici specializzati, che potevano esercitare privatamente, o al servizio del Comune. Già nel 1255 gli statuti di Parma imponevano al podestà di assumere, entro due mesi dall’inizio del suo mandato, specialisti nella cura delle piaghe, mentre quelli lucchesi del 1308 prescrivevano l’assunzione di un ortopedico. In Sicilia gli specialisti venivano distinti in «medici di urina» e «medici di piaga», e frequenti ovunque, fin dal Duecento, erano gli esperti nella cura delle ferite, e quelli nella cura degli occhi. La documentazione fiorentina trecentesca, particolarmente generosa in proposito, testimonia poi, oltre alle specializzazioni già ricordate, anche «medici di bocca», esperti nell’estrazione di calcoli e pietre, cavadenti, specialisti nella diagnosi di particolari malattie. Esistevano poi cerusici con molteplici specializzazioni: uno di loro, assunto dal comune di Firenze nel 1360, era esperto nella cura delle ferite agli occhi, in quella dell’antrace, nonché in fratture e distorsioni.
Curare nelle carceri
In alcune città l’autorità pubblica retribuiva anche i medici che si prendevano cura dei detenuti. Fin dagli anni Venti del Trecento il carcere fiorentino delle Stinche disponeva di un dottore, residente all’interno della prigione, che fungeva anche da medico dei poveri del Comune, e per il medesimo compenso di 50 lire all’anno svolgeva entrambe le funzioni, consentendo cosí alle finanze pubbliche un certo risparmio. Nonostante la posizione non prestigiosa e lo stipendio poco allettante, questi professionisti tendevano a rimanere a disposizione del carcere per periodi piuttosto lunghi (intorno ai 5 anni), dimostrando probabilmente anche notevoli capacità professionali, come lasciano intuire i bassi indici di mortalità registrati tra i detenuti. A Venezia, invece, nel carcere cittadino non venne creata un’infermeria fino all’epidemia di tifo del 1563: ci si limitava a rilasciare i soggetti malati, a isolarli dagli altri, o a cercare di mantenerli in condizioni di vita migliore. Gli abusi connessi a tale pratica convinsero però presto i magistrati a dichiarare che il tempo trascorso in queste particolari condizioni non poteva essere computato nella durata della condanna. L’assistenza medica disponibile era in ogni caso alquanto scarsa, tanto che spesso si concedevano particolari permessi di visita ai parenti dei detenuti perché potessero curare i loro congiunti. A Milano, infine, esisteva fin dal 1389 almeno un medico nominato dal Comune per curare gli infermi della Malastalla e degli altri istituti carcerari cittadini. la vita al tempo della peste
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La «casa» di Maria Paola Zanoboni
gli ospedali
Le grandi pestilenze del Medioevo favorirono la creazione dei lazzaretti. Prima dei quali, però, l’età di Mezzo aveva già tenuto a battesimo l’istituzione assistenziale per eccellenza: l’ospedale
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Particolare di una miniatura raffigurante le quattro Virtú cardinali – Prudenza, Temperanza, Fortezza e Giustizia – che insegnano a un gruppo di suore in che modo prendersi cura degli ammalati, dal Livre de vie active. 1482-1483. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
la vita al tempo della peste
degli ammalati
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PESTE
Gli ospedali
A
ll’origine dell’ospedale che si affermò nel Medioevo è il sentimento cristiano dell’aiuto materiale e spirituale al prossimo bisognoso, secondo l’insegnamento evangelico: l’hospitalitas, percepita dagli antichi soltanto come attitudine individuale e come obbligo giuridico nei confronti dell’ospite, si affermò invece, a partire dalla tarda latinità, come comandamento condiviso, nonché come servizio reso al bisognoso e al sofferente nell’ambito di un cristianesimo che si proclamava religione dei poveri. E fu la Chiesa primitiva, appunto, ad amministrare la distribuzione di viveri ed elemosine, a preoccuparsi dell’assistenza a vedove e orfani e dell’alloggio di poveri e malati. Le prime «case ospitali», o domus episcopi, sorte accanto alle residenze vescovili, costituirono gli archetipi delle istituzioni ospedaliere. Una matrona romana convertita al cristianesimo fondò a Roma, nel 380, la prima «casa ospitale». A partire dal IV secolo i primi monasteri, inizialmente soprattutto in Oriente (Egitto, Palestina, Siria, Armenia, Asia Minore), aprirono le loro porte ai forestieri e agli infermi, dotandosi di strutture adeguate: gli «xenodochi» per ospitare gli stranieri, e i «nosocomi» per gli ammalati, strutture che si tradussero, in Occidente, in «foresterie» e «infermerie». Nel mondo occidentale il concetto di «xenodochio» andò poi sempre piú a inglobare i soggetti che si trovavano all’alba o al tramonto della vita, come i vecchi e i bambini, nonché gli infermi e tutti coloro che vivevano in una condizione di debolezza, quindi anche i poveri, a cui la categoria degli infermi veniva assimilata, includendo tutti coloro che, colpiti da patologie invalidanti, o comunque privi di aiuto, non erano in grado di guadagnarsi da vivere, ed erano costretti dunque a vagabondare mendicando: ciechi, storpi, malati di mente, vecchi indeboliti dall’età, orfani. Da qui il fiorire di «case ospitali» urbane, sotto la guida del vescovo, e di «foresterie» monastiche nelle campagne. Nel VI secolo, la Regola benedettina in particolare sottolineò l’importanza del prendersi cura degli infermi, e con il diffondersi a macchia d’olio del monachesimo benedettino, anche tale pratica ne ebbe un impulso determinante. Tra il VI e il VII secolo Isidoro, vescovo di Siviglia (560-636) dettò una regola monastica che prevedeva l’affidamento dei malati a un uomo assennato e pio (il medico) che si prendesse cura di loro, e stabilí i criteri di ubicazione dei locali per gli infermi: a grande distanza dalla chiesa e dalle celle dei frati, in modo che canti e orazioni non potessero recare loro disturbo. Verso il IX secolo l’organizzazione sanitaria dei grandi monasteri doveva corrispondere approssimativamente a quella del convento di
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la vita al tempo della peste
In alto Beaune (Borgogna, Francia). Gli Hospices de Beaune (noti anche come Hôtel-Dieu de Beaune), complesso fatto costruire alla metà del XV sec. da Nicolas Rolin, cancelliere del duca di Borgogna. Utilizzato come nosocomio fino agli anni Sessanta del Novecento, è stato trasformato in Museo della Medicina. Nella pagina accanto una sala del Museo della Medicina allestito negli Hospices de Beaune. Nella ricostruzione sono inseriti i manichini di due suore dell’ordine delle Ospedaliere di Santa Maria, che hanno gestito ininterrottamente la struttura fin dalla sua fondazione.
San Gallo (Svizzera): un’infermeria con sala di degenza per malati gravi; un locale per clisteri e salassi; un altro ambiente contenente l’armadio dei libri e quello delle medicine confezionate dai monaci con le erbe; un giardino per la coltivazione delle piante medicinali. L’ospitalità misericordiosa da parte di vescovi e abati, che ripartivano cosí a favore dei poveri i proventi di elemosine e donazioni, oltre a costituire un dovere morale per i religiosi, serviva anche a colmare il vuoto di potere lasciato dall’autorità pubblica nei secoli precedenti la formazione del Comune.
Dall’accoglienza all’assistenza
L’ospedale medievale fu quindi inizialmente un organismo dalle funzioni generiche e difficilmente definibili: il termine corrispondeva approssimativamente a quello di ospizio e non indicava un’istituzione finalizzata alla cura degli infermi (e non lo fu in questo senso esclusivo fino al XVIII secolo), ma designava piuttosto un luogo destinato prevalentemente all’ospitalità, funzione che viene confermata dall’uso del termine xenodochium (cioè luogo dove si accoglieva uno straniero o un ospite), in alternativa a quello di hospitale. L’idea di soccorso e della natura reli-
giosa dell’istituzione è insita nei termini con cui ancora oggi in molte lingue europee essa viene designata: Maison-Dieu o Hôtel-Dieu, God’s House, e Godshuis in olandese. La sua funzione principale consisteva nell’accoglienza ai pellegrini, ai poveri e ai vagabondi. Per questo motivo tali istituzioni si trovavano spesso lungo le strade che portavano verso le grandi mete della cristianità: Roma, Gerusalemme, Santiago di Compostella, ubicati all’interno delle città, o fuori le mura; nel XII secolo furono spesso gestiti dagli ordini ospedalieri cavallereschi. I malati non vi erano accolti in quanto tali, ma perché spesso era lo stato di malattia a determinare quello di bisogno, e quindi la necessità di essere accolti e curati. La malattia rappresentava soltanto uno degli aspetti della povertà. Il momento strettamente terapeutico non ricopriva dunque un ruolo determinante negli ospedali medievali, il cui scopo primario consisteva nel fornire agli ospiti vitto, alloggio e assistenza spirituale. L’intervento di medici e operatori sanitari era casuale e discontinuo, e legato solo a necessità contingenti, in quanto l’attività nosocomiale non veniva contemplata nelle funzioni degli ospedali, e la disponibilità continua di un medico o di un chirurgo avrebbe comportato una spesa eccessiva per enti che spesso non erano in grado neppure di assicurare il pane quotidiano ai loro
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Gli ospedali
assistiti. Tra il XIV e il XV secolo, le condizioni di alcuni istituti erano infatti cosí disastrose che i degenti si vedevano costretti a mendicare. Persino in ospedali specializzati nel ricovero di particolari malati, come i lebbrosari (gestiti dall’ordine di San Lazzaro), l’assistenza terapeutica si rivelava alquanto modesta. Anche qui l’intento primario consisteva soltanto nell’offrire un soccorso morale e materiale a infermi che l’esigenza di salvaguardare la salute pubblica costringeva ad allontanare dalla comunità, cosa che si concretizzava talvolta in una vera e propria segregazione. Soltanto fra il XIII e il XIV secolo, l’autorità laica cominciò a introdursi nell’ambito dell’assistenza ospedaliera, facendone un caposaldo nel controllo del pauperismo, percepito ormai come una potenziale minaccia per la comunità, e quindi come una piaga sociale. L’esperienza aveva insegnato, infatti, che le epidemie (prima 126
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ancora della peste, la lebbra) colpivano per primi i poveri e i mendicanti, e si diffondevano ovunque mediante il loro vagabondaggio: perciò molte città avevano già da tempo proibito a lebbrosi e ciechi di risiedere entro le mura, di andarvi elemosinando, e di essere accolti e ospitati dalla popolazione.
Un pubblico servizio
A partire dalla prima metà del Duecento, dunque, parallelamente alla crescita della razionalizzazione politica e amministrativa messa in atto dai governi «popolari», in molti Comuni dell’Italia centro-settentrionale l’ospedale si era visto riconoscere, consapevolmente e sempre di piú dalle autorità cittadine, il ruolo di pubblico servizio orientato a sopperire alle necessità di coloro che, per vari motivi, non erano in grado di farvi fronte. E il modo concreto di renderlo tale fu quello di indirizzare verso di
In alto una camerata degli Hospices di Beaune destinata ai malati meno abbienti. Nella pagina accanto particolare della cucina degli Hospices de Beaune, con la ricostruzione di una scena di vita quotidiana.
esso le varie forme di carità, in denaro, in beni, o in prestazioni gratuite di lavoro. Dalla presa di coscienza che l’assistenza fosse una necessità, e quindi un dovere, dell’autorità pubblica, nacque dunque una faticosa e lenta ridefinizione dell’istituto ospedaliero. Ancor piú a partire dalla seconda metà del Trecento, in una società che, parallelamente allo sviluppo di una nuova concezione dell’indigenza, aveva elaborato una legislazione contro la marginalità e la mendicità, gli ospedali, contribuendo al recupero sociale degli elementi piú deboli, rispondevano a esigenze di equilibrio e di «buon governo». Da qui l’intervento sempre piú accentuato dell’autorità pubblica nel campo delle strutture assistenziali, con misure che andavano dalla generica protezione alla parte-
cipazione attiva alla gestione e amministrazione dell’ente, attraverso la nomina di rappresentanti nel suo consiglio, alle sovvenzioni. Molte città emanarono norme apposite a proposito del ricovero ospedaliero: Venezia lo rese obbligatorio per i poveri solo in tempo di epidemia; Genova preferí invece costringere gli indigenti ad abbandonare il territorio cittadino; Milano istituí un servizio permanente di sei uomini col compito di andare per la città e il circondario a cercare i poveri e gli ammalati per obbligarli al ricovero all’ospedale. Accanto alla carità, questi enti svolgevano dunque un ruolo importante di controllo sociale, come ricorda Leon Battista Alberti che nel 1440 scriveva: «in questo modo si evita che costoro [poveri e malati] disturbino gli (segue a p. 130)
In tempo di epidemie, alcune città disposero il ricovero ospedaliero obbligatorio
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Gli ospedali
lebbrosi e lebbrosari Ampiamente diffusi per tutto il Medioevo, i lebbrosari sorsero in Oriente probabilmente verso il III-IV secolo, e circa cento anni piú tardi in Occidente. In Italia la malattia si era presentata in forme preoccupanti
In basso particolare di una miniatura raffigurante un lebbroso che si annuncia suonando un campanaccio, dal Livre des propriétés des choses di Bartholomaeus Anglicus. XV sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
verso il VIIVIII
secolo, tanto che se ne era occupato l’editto di Rotari, decretando principi di segregazione e negazione dei diritti civili che furono poi recepiti dalla legislazione carolingia. Ma la diffusione piú massiccia dell’infezione si ebbe nel XII secolo, probabilmente a causa delle crociate, dell’intensificarsi dei traffici con l’Oriente, e dell’espansione delle rotte commerciali. A partire da quest’epoca, le città italiane ed europee misero a punto misure di isolamento e di segregazione che condizionavano completamente la vita dei contagiati e di coloro che erano sospettati di contagio, fino a escluderli del tutto dall’umana convivenza, come se fossero già morti. Prima ancora della segregazione nei lebbrosari, istituiti un po’ ovunque tra il XII e il XIII secolo, quello che colpisce sono le crudeli misure di isolamento a cui venivano assoggettati anche coloro che non avevano ancora la malattia,
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A sinistra particolare di una miniatura che, nelle intenzioni del suo autore, doveva raffigurare un ospedale dell’antica Roma: in realtà, l’immagine è piú vicina a una struttura ospedaliera del tipo di quella che dobbiamo immaginare in uso nella Spagna medievale. Da un’edizione manoscritta delle Cantigas de Santa Maria. XIII sec. San Lorenzo de El Escorial, Real Biblioteca del Monasterio de San Lorenzo de El Escorial.
ma che si temeva la potessero sviluppare (si credeva infatti che la lebbra potesse essere ereditaria), togliendo cosí anche ai sani qualsiasi speranza di un futuro: ancora nel Trecento lo scrittore Paolo da Certaldo raccomandava di assicurarsi, prima di prender moglie, che la futura sposa non discendesse da una famiglia di lebbrosi. L’isolamento avveniva dopo la diagnosi (basata su prove spesso insussistenti) e il parere inappellabile formulato da una commissione che poteva stabilire la completa sanità dell’individuo, oppure la sua predisposizione alla malattia, oppure ancora l’ordine immediato di isolamento. L’internamento vero e proprio prevedeva un cerimoniale simile a un rito funebre, volto a simboleggiare il distacco definitivo dalla comunità e la morte civile dell’individuo; gli oggetti e le vesti che gli appartenevano venivano bruciati, i beni confiscati (fatto che si
traduceva nel furto legalizzato a favore di altri soggetti, come avvenne a Firenze per le ruberie perpetrate dall’Arte di Calimala che aveva in custodia la gestione dei beni dei questi ammalati). Il lebbroso non aveva diritto di possedere piú nulla, né di esistere: strappato alla famiglia e agli affetti, il suo unico mondo di relazione diventava la comunità del lebbrosario, nel quale viveva della carità pubblica. Anche quando gli si concedeva di entrare in città per chiedere l’elemosina (portando una campanella che ne annunciasse l’arrivo), gli veniva comunque preclusa qualsiasi occasione di vita collettiva: entrare in chiesa, al mulino, nelle taverne, al mercato. Non poteva intrattenersi con i passanti, né bere alle fonti. E sebbene la Chiesa avesse ribadito – non prima di aver dibattuto a lungo la questione – l’indissolubilità del matrimonio per il coniuge di chi avesse contratto la malattia, di fatto coniuge e figli venivano separati dal lebbroso (a meno che non avessero scelto deliberatamente di vivere nel lazzaretto col proprio congiunto per il resto dei loro giorni). Anche i nati da unioni di lebbrosi venivano tenuti isolati. Né erano rari altri tipi di accanimento contro questi sventurati, soprattutto in tempi di carestia, quando la psicosi collettiva li accusava di aver avvelenato le acque e distrutto i raccolti, perpetrando su di loro crudeli
massacri. Rispetto alla peste, la lebbra rappresentava dunque una rinuncia alla vita, una «non vita» alla quale si era condannati per sempre, e questo si rifletteva sulle strutture destinate a ospitare gli ammalati. Nonostante la funzione apparentemente simile, consistente nella segregazione di individui infetti allo scopo di limitare la diffusione della malattia, la concezione e la «filosofia» del lebbrosario apparivano in realtà ben diverse rispetto a quelle dei lazzaretti. Nel primo infatti venivano reclusi malati irrecuperabili, colpiti da una malattia invalidante, potenzialmente ma non dirompentemente contagiosi, mentre nel secondo i pazienti, passibili – se non morivano – di recupero completo in tempi piuttosto brevi, erano invece altamente contagiosi, tanto da richiedere l’isolamento piú totale e assoluto (loro, delle loro cose, nonché dei loro cadaveri) durante la malattia e per il periodo di quarantena successivo. Tutto questo si rifletteva sulla struttura e sull’organizzazione delle due istituzioni: la prima, segregata e fuori dalla città, non le si contrapponeva, ma riproduceva, pur nell’ambito della segregazione, il contesto urbano: luoghi di lavoro, di vita associata, di culto, di sepoltura. Un cronicario, dunque, in cui trascorrere un tempo indefinito, per gli affetti da una patologia invalidante, ma non mortale. Completamente diverse erano la struttura e la funzione del lazzaretto, assai piú simile, anche nelle forme organizzative, ai moderni ospedali (vedi anche il capitolo «Curare gli appestati», alle pp. 28-49). Concepito come isola di temporanea permanenza e di soggiorno transitorio verso un episodio risolutivo fausto o infausto, ma previsto in tempi brevi, non riproduceva il contesto urbano, ma gli si contrapponeva completamente, avviandosi verso un tipo di organizzazione che avrebbe portato l’ospedale medievale alla trasformazione da semplice luogo di accoglienza/segregazione, in struttura nosocomiale vera e propria.
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Gli ospedali onesti cittadini inutilmente con l’accattonaggio e li infastidiscano col loro aspetto ripugnante». In ogni caso, nonostante l’intervento del potere civile, gli ospedali rimasero soprattutto luoghi di assistenza all’indigenza in tutte le sue forme, tra cui quella della cura degli infermi, proprio perché questa era appunto l’intenzione dell’autorità laica. Non si trasformarono dunque in nosocomi veri e propri: spesso la presenza del personale sanitario rimase occasionale e saltuaria, almeno sino alla fine del XV secolo, e l’assistenza venne affidata a frati e suore laiche. L’intento precipuo rimase quello di segregazione degli individui potenzialmente sovvertitori
dell’ordine pubblico, che perciò vedevano le strutture ospedaliere con sospetto. Fra il XIII e il XIV secolo, dunque, nonostante il fiorire delle università, i centri europei produttivi di scienza medica erano pochissimi, e paradossalmente, gli ospedali erano privi di medici, mentre le facoltà universitarie in cui i medici si formavano erano prive di malati. Le università erano luoghi di sola dottrina e gli ospedali luoghi di sola assistenza che non avevano come scopo la cura e la guarigione dei malati, ma soltanto il loro ricovero. L’incontro tra medico e paziente avveniva altrove, nelle dimore degli uni o degli altri. A finanziare gli ospedali, nella nuova forma che
assistenza e carità Fondato nel XII sec., l’Ospedale del Ceppo di Pistoia fu arricchito agli inizi del Cinquecento, per iniziativa dell’allora Spedalingo Leonardo Buonafè o Buonafede, da un portico ornato da un magnifico fregio in terracotta policroma raffigurante le sette opere
alloggiare i pellegrini
Da sinistra si vedono quattro personaggi vestiti in abiti sgargianti, un dialogo tra due personaggi la cui identità è tuttora dibattuta, una lavanda dei piedi da parte di Leonardo Buonafede, e, infine, la scena in cui un ricco signore accoglie un pellegrino e gli mette a disposizione il suo comodo letto.
di misericordia alternate alle virtù cardinali e teologali. L’opera fu commissionata a Giovanni Della Robbia, ma vide anche la partecipazione di Santi Buglioni, e, per l’ultima formella, di Filippo Lorenzo Paladini.
visitare gli infermi
Al centro della scena, come sempre, si riconosce Messer Buonafede, intento ad ascoltare le raccomandazioni dei medici. Ai due lati vi sono i letti con gli ammalati. L’intera composizione si staglia su uno sfondo bianco, che verosimilmente allude agli interni dell’ospedale.
visitare i carcerati
A sinistra si vedono le grate di due celle, con uno dei carcerati confortato da un anziano visitatore; nella parte centrale vi sono un Cristo in catene e un santo, forse Lorenzo o Leonardo, che guida Messer Bonafede verso il compimento delle opere di misericordia; la scena si chiude con la figura di un altro visitatore, accompagnato da due servitori che portano provviste per i detenuti.
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andarono assumendo a partire dal XIII secolo, furono le comunità cittadine, attraverso lasciti e donazioni, che, dal Duecento in poi, crebbero vertiginosamente, favorite soprattutto dalla straordinaria accelerazione della circolazione del denaro e dell’accumulazione della ricchezza che caratterizzò in quell’epoca le città dell’Italia centro-settentrionale.
L’importanza dei lasciti testamentari
Dato che «poveri» non erano soltanto coloro che erano dotati di scarsi mezzi economici, ma tutti quelli che si trovavano in una condizione di debolezza e avevano bisogno di essere aiutati (ve-
dove, orfani, anziani, persone sole e malate, fanciulle senza dote), lasciare i beni a un ospedale significava donarli alla comunità cittadina perché mettesse in atto una forma di protezione sociale, per far fronte alle fasi di debolezza che potevano travolgere alcuni dei suoi componenti. In tale contesto, soprattutto tra il XIV e il XV secolo, assunse sempre maggior rilievo l’importanza del ruolo del denaro come mezzo concreto di aiuto, in grado di garantire il funzionamento efficiente delle strutture assistenziali. E, di conseguenza, nella fondazione degli ospedali e nell’elargizione di lasciti assunse un ruolo fondamentale il ceto dei mercanti, che portarono
dar da mangiare agli affamati
Nel quadro di sinistra, lo Spedalingo invita un povero ad accomodarsi al desco imbandito nella sua casa, mentre in quello di destra lo ritroviamo all’esterno dell’abitazione, intento a elargire cibi e bevande.
seppellire i defunti
La prima scena, a sinistra, mostra la deposizione di un defunto; la seconda, sulla destra, l’ufficio funebre di una defunta, probabilmente una monaca; al centro, anche in questo caso, Lorenzo Buonafede assiste agli eventi.
dar da bere agli assetati
Con uno stile che si differenzia dai precedenti, Paladini compone una scena vivace e affollata, in cui la distribuzione delle bevande si svolge sotto la supervisione di un nuovo Spedalingo, Bartolomeo Montechiari.
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all’interno degli enti assistenziali non solo forze economiche nuove, ma anche una piú corretta e oculata gestione delle risorse. Per avere un’idea dell’entità dei patrimoni che venivano talvolta donati, basti pensare al lascito che nel 1410 il mercante pratese Francesco Datini mise a disposizione della sua città per la fondazione dell’ospedale del Ceppo, destinato ai «poveri di Cristo», ma dalle connotazioni esclusivamente laiche, in quanto gli ecclesiastici – affermava il Datini – erano poco affidabili perchè intenti a spendere «in disfare debiti, e in cavalli, e in conviti». Stabiliva perciò la nascita di un’istituzione «non sacra, in niuno modo sottoposta alla Chiesa, o ecclesiastici ufici, o prelati ecclesiastici, o altra persona ecclesiastica, e che in niuno modo a ciò si possa ridurre; ma sempre sia dei poveri e a perpetuo uso de’ poveri di Giesú Cristo», nominando il Comune di Prato dispensatore di tutte le sue ricchezze come «alimento et emolumento perpetuo» dell’ospedale. I proventi di tutte le sue vastissime attività, che sarebbero cessate nel giro di cinque anni, venivano destinati all’istituzione.
Sull’isola della Senna
Tra il XIII e il XIV secolo una miriade di ospedali costellava le città dell’Europa, dando origine a una fioritura di statuti per ciascun ente, in applicazione delle norme previste da almeno tre Concili del secolo precedente (quello di Parigi del 1212, quello di Rouen del 1314 e soprattutto il IV Concilio Lateranense del 1215). A Parigi una sessantina di istituzioni ospedaliere bastavano appena per una popolazione che, verso il 1328, superava i 200 000 abitanti, e l’ospedale maggiore della città poteva contenere dai 400 ai 600 degenti. Fondato probabilmente verso il VII secolo, sull’isola al centro della Senna, l’Hôtel Dieu parigino divenne nel corso del Medioevo il maggior ospedale della Francia, e serví a lungo come modello. A Firenze, nel 1339, circa 30 ospedali di differenti dimensioni disponevano complessivamente di un migliaio di letti. Pisa, che alla fine del Duecento contava circa 40 000 abitanti, vide sorgere tra l’XI e il XV secolo ben 55 ospedali, mentre Siena, con 35-40 000 abitanti all’inizio del Trecento ne aveva una decina, e Lucca, con 15-20 000 abitanti, ne contava 13. Fra Tre e Quattrocento, Perugia, con una popolazione di 30 000 abitanti e 25 ospedali poteva contare su circa 100 posti letto. Il «Santo Spirito» a Roma aveva una capienza di 300 letti, cosí come i principali istituti di Londra e di Barcellona. Milano, secondo le stime (sicuramente esagerate) di Bonvesin de la Riva (1288), alla fine del XIII secolo (quando contava circa 100 000 abitanti) poteva vantare 10 132
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ospedali, tutti adeguatamente dotati di beni, tra cui primeggiava quello del Brolo, ricchissimo di possedimenti terrieri, che poteva ospitare talvolta, soprattutto nei periodi di carestia, fino a 500 malati poveri costretti a letto e un numero ancora maggiore di infermi non costretti a letto, tutti mantenuti a spese dell’ospedale. Dava poi asilo a piú di 350 bambini con altrettante balie. Vi erano accolti, ristorati e nutriti con generosità tutti i malati poveri, eccetto i lebbrosi, ai quali era destinato invece un ospedale apposito, quello di S. Lazzaro, fuori le mura di Porta Romana. Un’altra quindicina di ospedali si trovava nel circondario della città. Svariate erano poi le istituzioni assistenziali gestite in tutta Europa dagli ordini ospedalieri e cavallereschi. Ogni ospedale ha la sua storia, la sua struttura architettonica, il suo fondatore, il suo posto particolare nella tradizione di ciascuna città, e di ogni singola istituzione si potrebbero scrivere innumerevoli capitoli, affrontandone l’analisi dal punto di vista delle origini dell’edificio, della sua struttura, dei suoi architetti, delle sovvenzioni e dei benefattori che ne fecero nel corso dei secoli un’opera d’arte, dei ceti sociali cittadini che presero parte all’impresa, del suo ruolo come motore, a sua volta, dell’economia cittadina. Proprio per questo, al di là delle nozioni generali sulla funzione dell’ospedale nel Medioevo, è impossibile effettuare una sintesi, dato che ogni ente appare immerso nel particolare contesto urbano di
In basso Firenze, Ospedale di S. Maria Nuova. La lunetta raffigurante la Pietà, opera di Giovanni della Robbia, collocata nel chiostro del complesso, fondato nel 1285-88 per iniziativa di Folco Portinari, il padre della Beatrice amata da Dante.
firenze, S. maria nuova
L’ L
ospedale fiorentino di S. Maria Nuova, tuttora esistente e funzionante nel centro della città, alle spalle del Duomo, sebbene profondamente modificato tra il XVI e il XVIII secolo nel suo assetto originario e nella sua estensione primitiva, venne fondato tra il 1285 e il 1286 da Folco Portinari, padre della Beatrice amata da Dante. Per la costruzione, che la tradizione vuole ispiratagli dalla fantesca Monna Tessa (distintasi per il suo fervore nella cura degli infermi e fondatrice delle Oblate francescane attive nell’ente caritativo-assistenziale), il Portinari aveva acquistato il 24 aprile 1285 un appezzamento di terra sul quale si trovava un casolare, nel rione («popolo») di S. Maria in Campo. Il 21 maggio 1286, quando Folco ottenne una bolla pontificia che autorizzava i frati del preesistente convento di S. Egidio a permutare con lui un terreno, in modo da poter continuare l’edificazione dell’ospedale, la costruzione era ormai a buon punto, tanto da poter essere definita «opere sumptuoso (…) ad opus pauperum et infirmorum». Il 23 giugno 1288, davanti al vescovo di Firenze Andrea dei Mozzi, venne stilato l’atto di fondazione dell’ospedale, che Folco dotò
In alto particolare di una veduta prospettica dell’ospedale fiorentino di S. Maria Nuova. A destra rilievo raffigurante Monna Tessa, la domestica di Folco Portinari, al quale, secondo la tradizione, avrebbe ispirato la fondazione (1285-88) dell’ospedale fiorentino di S. Maria Nuova. abbondantemente di beni mobili e immobili, ottenendone al tempo stesso il patronato per la sua famiglia, anche se l’istituto era di personalità ecclesiastica. In questo modo cioè i Portinari si assicuravano poteri assai ampi nella gestione del luogo assistenziale: l’elezione dello spedalingo (preposto a tutta l’organizzazione ospedaliera) e del rettore della chiesa, e, soprattutto, il controllo completo della gestione finanziaria dell’ente, cosa che provocò durante il Trecento l’opposizione dei religiosi che si occupavano della conduzione materiale dell’ospedale, e quindi un progressivo svuotamento del contenuto effettivo del patronato, fino a farlo diventare una carica puramente onorifica quando le nomine e il controllo finanziario dell’istituto passarono in mano al vescovo di Firenze. Nel 1617 i Portinari, ormai rovinati economicamente, cedettero il patronato (in cambio di una rendita) al granduca di Toscana che aveva tutto l’interesse a evitare che l’ospedale passasse direttamente sotto il controllo della Santa Sede. Il legame della famiglia con l’ente assistenziale era tale che tutti i suoi principali esponenti vennero sepolti nella cappella di S. Egidio, annessa al complesso di S. Maria Nuova, a la vita al tempo della peste
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partire da Folco (del quale si conserva ancora la lapide con l’iscrizione e lo stemma di famiglia), fino al XVII secolo. E, per ornare la chiesetta, nel Quattrocento, i banchieri Pigello e Tommaso Portinari, discendenti di Folco, inviarono da ogni parte d’Europa i capolavori dei migliori artisti dell’epoca (tra i quali tra il trittico dell’Adorazione dei pastori di Hugo Van Der Goes proveniente da Bruges e attualmente conservato agli Uffizi, che suscitò un grandissimo interesse, ed ebbe un notevolissimo influsso sugli artisti toscani). Al momento della fondazione, l’istituto era dotato di 17 letti atti a ospitare circa una cinquantina di ammalati, mentre nel 1347, subito prima dello scoppio della peste, i ricoverati in S. Maria Nuova arrivavano a 220, alla fine del Quattrocento erano ormai 600 e un migliaio del Cinquecento. Dotato di corsie separate per uomini e donne, di refettorio, cucina, quartieri per il personale, farmacia, chiesa e cimitero, fin dai primi decenni del Trecento il S. Maria Nuova venne destinato precipuamente all’accoglienza dei poveri, purchè fossero malati, e dotato di un servizio medico permanente formato da 7
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In alto il Trittico Portinari, dipinto su tavola di Hugo van der Goes. 1477-1478. Firenze, Galleria degli Uffizi. L’opera, che ha per tema l’Adorazione dei pastori, giunse a Firenze da Bruges e fu in origine collocata nella chiesa di S. Egidio, facente parte del complesso ospedaliero di S. Maria Nuova. A sinistra Firenze, cappella di S. Egidio. La tomba di Folco Portinari, fondatore dell’Ospedale di S. Maria Nuova, che, come tutti i principali esponenti della famiglia, trovò sepoltura nel luogo di culto annesso al nosocomio. specialisti con ruoli differenti (un medico fisico, 2 chirurghi, un barbiere), oltre ad altri consulenti interpellati di volta in volta, tra i quali un esperto nella cura di ferite, ulcere e piaghe e un medico degli occhi. L’epidemia di peste del 1348 e quelle successive contribuirono con un numero sempre maggiore di lasciti alla crescente medicalizzazione dell’ospedale.
cui faceva parte nel modo piú completo e assoluto. Gli ospedali, insomma, «erano fondati dalla comunità, e a essa appartenevano di diritto», come ben sintetizza un documento parmense del 1328.
Casi emblematici
Si possono perciò prendere in considerazione soltanto alcuni dei casi sui quali la storiografia si è soffermata maggiormente in quanto le fonti lo consentivano, e in quanto costituivano comunque modelli ai quali si ispirò tutto il sistema ospedaliero successivo. Ospedali modello sia dal punto di vista organizzativo e gestionale che da quello architettonico, da esso conseguente (S. Maria della Scala a Siena in primo luogo), e talvolta anche ragguardevoli per la figura del fondatore (come l’ospedale fiorentino di S. Maria Nuova, istituito verso il 1286 da Folco Portinari, padre della Beatrice dantesca, e funzionante tuttora), oppure che ebbero caratteristiche particolari (l’ospedale interamente femminile di Monna Agnese, ancora una volta a Siena), o che, infine, rappresentarono il fulcro della la vita al tempo della peste
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Siena, s. Maria della Scala
S S
riforma ospedaliera per un’intera area geografica (come l’Ospedale Maggiore di Milano nel secondo Quattrocento).
I dipendenti degli enti assistenziali
Rapporti di lavoro del tutto particolari, e dalle caratteristiche decisamente arcaiche, regolavano il trattamento del personale salariato degli ospedali e degli enti religioso-assistenziali in genere: nonostante le diverse prescrizioni degli accordi pattuiti per iscritto, erano all’ordine del giorno retribuzioni corrisposte in modo discontinuo e irregolare, spesso solo in seguito a esplicita richiesta del dipendente, incalzato dal bisogno di acquistare generi di prima necessità, e pagamenti in natura. La caratteristica principale dei salariati degli enti assistenziali era rappresentata dall’assoluta mancanza da parte del lavoratore di una consapevolezza del proprio diritto a un compenso. I dipendenti degli ospedali cercavano prima di tutto la sicurezza materiale: vitto, alloggio e il necessario per vestirsi, ma questo aveva come conseguenza l’emarginazione della categoria dalla scena sociale. Ignoravano infatti qualsiasi forma di divisione del lavoro e ogni pur rudimentale coscienza dei propri diritti. I rapporti (segue a p. 140) 136
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In alto Siena. Particolare della facciata dell’Ospedale di S. Maria della Scala, con uno degli ingressi. Secondo la tradizione il nosocomio avrebbe aperto i battenti addirittura prima dell’anno Mille. La struttura è stata oggi trasformata in museo. Nella pagina accanto Siena, S. Maria della Scala, Pellegrinaio. La costruzione dell’ospedale in un affresco di Domenico di Bartolo. 1442-1443.
orto nel X secolo e divenuto nel Trecento una delle maggiori istituzioni ospedaliere europee, l’ospedale senese di S. Maria della Scala ospitava i pellegrini, si prendeva cura degli infermi, accoglieva e allevava i bambini abbandonati, elargiva elemosine e generi di conforto ai «poveri vergognosi», procacciava la dote alle fanciulle povere, e compiva tutte quelle opere di carità che gli splendidi affreschi del suo «pellegrinaio» ci illustrano ancora. Concepito per la città e nel cuore della città, sulla piazza del Duomo, fin dalle origini fu sostenuto e completamente permeato da quello spirito caritativo cittadino che portava i grandi banchieri senesi a costituire lasciti ingenti in suo favore, per prendersi cura dei concittadini meno abbienti dando loro la speranza, e spesso la possibilità concreta di un futuro migliore. L’ente rappresentava un vero e proprio mediatore tra la carità che riceveva e quella che donava, e come tale, anche un’impresa economica di primaria importanza, impegnata nella gestione e amministrazione di quello che nel Trecento era ormai un patrimonio vastissimo, e nella sua erogazione ai soggetti bisognosi. E in tutto questo intervenivano al massimo grado i criteri di «gestione aziendale» dettati dagli stessi amministratori/banchieri, ai vertici del ceto dirigente cittadino e del «consiglio di amministrazione» dell’ospedale, criteri che riecheggiano chiaramente negli statuti trecenteschi dell’ente (1318): chi non si prende cura adeguatamente, e con efficaci strumenti di revisione dei conti, delle proprie entrate e delle proprie uscite – scrivevano – è destinato a veder fallire miseramente la propria impresa e a veder svanire anche i patrimoni piú grandi. E di fallimenti, in quel periodo, i banchieri senesi avevano una notevole esperienza. Amministratori, dunque, dotati di una spiccata mentalità imprenditoriale ospedaliera, che, dando all’ente i caratteri di una vera e propria impresa, intendevano gestirne al meglio le risorse, in modo da poter garantire adeguatamente l’assistenza ai bisognosi, rispettando la volontà dei donatori. In linea con tutto questo si può interpretare quella che
Dida da scrivere, rinvenuto nel 1877 a Decima di Gossolengo, nei pressi della città emiliana. Databile tra la seconda metà del II e gli inizi del I sec. a.C., è un modello in bronzo del fegato di una pecora sul quale sono definite caselle recanti i nomi delle divinità del pantheon etrusco. Simili modelli erano utilizzati dai sacerdoti che praticavano l’epatoscopia, cioè la predizione del futuro basata appunto sull’osservazione del fegato.
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rappresentava forse la principale peculiarità dell’ospedale: svolgere anche, a tutti gli effetti, le funzioni di un vero e proprio istituto di credito, cosa che, allo stato attuale delle ricerche è abbastanza unica. Sebbene le fonti non parlino mai, esplicitamente, dell’esistenza di un «banco» dell’ospedale, di fatto l’istituzione accolse in modo continuato e consistente, dal 1326 al 1377 almeno, il risparmio dei cittadini, che poteva reinvestire, sul quale pagava interessi, e che gestiva in conti correnti. Prestava poi il denaro ricevuto sia, moderatamente, a privati, sia, in larga misura, al Comune di Siena. Anche l’ospedale, espressione suprema dello spirito caritativo cittadino, gestito secondo criteri imprenditoriali razionali, contribuiva quindi in modo non trascurabile a mettere in pratica quei principi di «Buon Governo», volto al raggiungimento del «bene comune», tanto efficacemente illustrati da Ambrogio Lorenzetti sulle pareti di Palazzo Pubblico, a celebrazione di quello che era allora il governo cittadino, il «Buon Governo» appunto, cioè il governo «dei Nove» (1287-1355),
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Nella pagina accanto Siena, S. Maria della Scala, Pellegrinaio. Particolare dell’affresco di Domenico di Bartolo raffigurante la distribuzione delle elemosine. 1442-1443. In basso ancora un affresco realizzato da Domenico di Bartolo per il Pellegrinaio del S. Maria della Scala, raffigurante il governo e la cura degli infermi. 1442-1443.
il cibo come cura Il cibo e le diete particolari destinate ai malati misero in atto in molti grandi ospedali un sistema economico di forniture e approvvigionamenti che ne fecero spazi proiettati verso l’esterno in continuo contatto con ogni tipo di struttura cittadina, con un impatto non trascurabile sul tessuto sociale, economico e urbanistico. Il S.Maria della Scala, che nel Trecento divenne uno dei principali complessi nosocomiali d’Europa, consente un punto di vista privilegiato di questi meccanismi, grazie all’imponente quantità di documentazione inedita conservata nei suoi libri contabili che consente di ricostruire gli aspetti della vita materiale e quotidiana dell’istituzione. Spazio
interno, ma al contempo proiettato verso l’esterno, attraverso una miriade di fornitori e una fitta rete di transazioni, la cucina dell’ospedale rappresentava un indizio di quanto l’istituzione caritativo-assistenziale fosse profondamente coinvolta nella vita economica della città. Una vita materiale i cui multiformi aspetti partono proprio dal cibo, elemento fondamentale per la cura degli infermi in una società dominata dal principio aristotelico della «giusta misura» e in cui le medicine non esistevano ancora. Essenziale, perciò, risultava la dieta che per gli ammalati doveva essere leggera, ma varia e nutriente, cosa che permetteva, tra l’altro, di
combattere quelle patologie dovute alla carenza di determinati alimenti (e quindi di determinati principi nutritivi). Erano dunque banditi dal desco degli infermi (con un’intuitiva capacità terapeutica che non ha nulla da invidiare a quella dei dietologi attuali) tutti i formaggi e la maggior parte dei condimenti (fatta eccezione per l’olio d’oliva e l’aceto), i dolci (salvo lo zucchero), spezie e salse, carni rosse (e la carne di maiale soprattutto); il loro vitto comprendeva carni bianche bollite (pollame in primo luogo, ma anche vitello), uova, pane, cereali, molta verdura (aglio, ancora una volta con grande intuizione molto apprezzato per le sue capacità terapeutiche, cipolle, cavoli, erbette, insalata) e molta frutta (pere, mele, cocomeri e mandorle, ma non le arance, difficili da digerire e riservate ai sani), il tutto sempre rigorosamente fresco, vino rosso (ancora oggi viene considerato piú digeribile di quello bianco), vino cotto e vino annacquato (acquerello). Oltre che col cibo, gli ammalati venivano curati anche con preparati a base di erbe e spezie, sebbene nel Trecento l’aspetto assistenziale-caritativo dell’ente prevalesse ancora nettamente su quello medico-sanitario. Molto piú vasta era la tipologia degli alimenti riservati ai sani (cioè ai frati e alla componente laica dell’ospedale addetta alla cura degli infermi): carne di ogni tipo, e soprattutto pesce, molto consumato nelle vigilie e durante la Quaresima (gli ammalati invece erano esentati dall’obbligo di astinenza
dalla carne in tali periodi), spezie, salse, condimenti (tra i quali spicca la grande abbondanza di grassi animali come lardo e strutto), formaggi, pasta (lasagne e vermicelli), dolci, vino anche bianco, frutta (tra cui castagne, uva, fichi, susine, meloni, arance), verdura e moltissimi legumi. La divisione tra sani e malati non riguardava soltanto il tipo di dieta, ma anche la cucina in cui il pasto veniva preparato, e naturalmente l’ambiente in cui lo si consumava. L’ospedale era infatti dotato di almeno 5 diverse cucine (per i sani, per gli infermi, per l’infermeria dei frati, per l’abitazione del rettore, per le donne), gestite da personale ordinato gerarchicamente. Frati e suore mangiavano nel refettorio, mentre gli infermi nel «pellegrinaio» (la grande sala affrescata nel Quattrocento da Domenico di Bartolo con episodi sui momenti salienti della vita dell’istituto e dell’assistenza erogata). Appositi ambienti erano destinati alla conservazione del cibo: il «guardaroba» (dispensa), il granaio, il locale per la produzione e conservazione del pane, il «celliere», cioè la cantina. All’acquisto delle provviste erano deputati appositi ufficiali: i «pellegrinieri» per gli ammalati e i «castaldi» per i sani. Anche attraverso la sua cucina, il S. Maria della Scala costituiva un motore primario per l’economia cittadina, non soltanto grazie agli acquisti delle materie prime per la preparazione dei cibi, ma anche per l’impulso dato alla produzione di oggetti e suppellettili di ogni tipo, necessarie agli ospiti
dell’istituto. Da qui la commissione alle botteghe cittadine, in primo luogo di materiale ceramico, rappresentato da brocche, boccali, catini, ciotole, pentole di ogni dimensione, teglie, tegami, e pentolame di ogni genere (a volte di dimensioni enormi – come le olle – e realizzabile solo con particolari artifici tecnici), grandissime conche per il bucato o per il bagno degli ammalati, fuseruole per la lana, lucerne, borracce per l’acqua, e persino salvadanai, materiale che gli scavi archeologici ci restituiscono ancora generosamente (dando modo, tra l’altro, di approfondire lo studio delle caratteristiche peculiari alla
ceramica invetriata senese trecentesca). Molto piú modeste, ma pur sempre presenti, le ordinazioni di oggetti in legno (di cucchiai soprattutto), e in metallo (forbici, chiavi, pale, zappe, vanghe, candelieri, bacili, qualche paiolo e pentola in rame, spiedi, grattugie, bilance, candelieri, alari, catene), che dato il loro costo elevato (sia per il valore intrinseco della materia prima, sia perché comportavano un lungo e articolato processo di lavorazione), venivano raramente acquistati, ma davano comunque origine a un indotto di botteghe che riparavano e riciclavano le suppellettili metalliche permettendone il riutilizzo.
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Gli ospedali
tra gli enti assistenziali e i loro dipendenti erano improntati a un evidente paternalismo: i primi avrebbero provveduto alla maggior parte delle necessità dei loro salariati, procrastinando però il piú possibile il pagamento dei compensi stabiliti, e, una volta sborsato il denaro, cercando di assicurarsi che venisse speso bene, in generi necessari.
Un’esistenza grama
Dalla documentazione rimasta emerge in sostanza il quadro di un gruppo sociale modesto che conduceva un’esistenza grigia senza potersi permettere nulla oltre ai beni di prima necessità. Questi lavoratori erano afflitti da un indebitamento costante nei confronti del datore di lavoro e dalla necessità continua di chiedere nuovi prestiti, che venivano detratti dalle paghe successive, al punto che ci si è chiesti se alcuni enti assistenziali non fungessero anche da prestatori di denaro e da banchi dei pegni (come accadeva realmente per il S. Maria della Scala) che riducevano in una condizione di semischiavitú coloro che non erano in grado di restituire il denaro ricevuto in prestito. ovvero del ceto mercantile di livello medio, alla guida della città. All’inizio del secolo XIV lo statuto dell’ente assistenziale prevedeva l’ammissione di tutti coloro che si trovassero in stato di bisogno, con l’esclusione di alcune categorie di malati, come i lebbrosi e i paralitici. Alla fine del secolo lo statuto dello stesso ospedale dimostra come esso potesse ormai essere considerato un luogo di cura: i malati potevano esservi ospitati fino alla guarigione, erano presenti medici che visitavano i pazienti due volte al giorno e avevano un chirurgo sempre a loro disposizione. L’ospedale nel Quattrocento era dotato anche di una farmacia, con uno speziale fisso, stipendiato dall’ente e assunto con contratto annuale, in genere rinnovato piú volte. Il suo compenso poteva essere contrattato e aumentare notevolmente nei periodi di epidemia. Aveva l’obbligo del servizio notturno, ed era tenuto ad alzarsi durante la notte per somministrare di persona le medicine a chi ne aveva bisogno. Poteva essere aiutato da uno o due apprendisti, scelti tra i fanciulli abbandonati dell’ospedale, che venivano cosí avviati alla professione.
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In alto Siena, S. Maria della Scala. Una veduta dell’antica corsia riservata alle donne. Nella pagina accanto miniatura raffigurante quattro donne che si prendono cura di un bambino, dall’edizione manoscritta di un trattato di puericultura. Inizi del XIII sec. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana.
siena, lo
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ondato tra il 1270 e il 1274 nel cuore religioso e pubblico di Siena, non lontano dal Duomo, l’ospedale di Monna Agnese si caratterizzò per ben tre secoli, (dalle origini alla fine del Cinquecento), per la sua conduzione e amministrazione interamente femminili, a opera di donne laiche, cosa raramente documentata per le istituzioni ospedaliere medievali. La componente maschile esisteva, ma era numericamente inferiore e totalmente priva di potere decisionale. L’universo femminile che ne caratterizzava la struttura organizzativa contribuí a indirizzare le attività dell’istituto (che accoglieva non solo vedove e nubili, ma anche donne sposate) verso la specializzazione nell’aiuto alle partorienti e ai neonati, anche se non mancò, fino a tutto il Cinquecento, l’assistenza ai poveri, ai malati e ai pellegrini. L’istituto poteva contenere fino a oltre 40 persone, e non era dotato di un medico fisso, neppure alla metà del Quattrocento, quando tale consuetudine andava sempre piú affermandosi. I professionisti venivano chiamati di volta in volta, quando necessario, retribuiti a prestazione (cosa che probabilmente preferivano), e tra loro figuravano anche numerose donne medico
«spedale» di Monna Agnese soprattutto per l’assistenza alle partorienti, ma non soltanto: i documenti citano per esempio una di loro specializzata nell’«acconciare le ossa». Le loro retribuzioni erano in genere inferiori, anche se non di molto, a quelle degli uomini. Oltre a essere diretto costantemente da laiche, l’ente non aveva alcuna dipendenza di carattere religioso: l’unica forma di controllo ecclesiastico consisteva nella conferma della rettrice da parte del vescovo, referente dell’ospedale. Il suo successo fu tale che, anche nei secoli XV-XVI, quando la tendenza all’accorpamento portava spesso a inglobare i piccoli ospedali in strutture piú grandi, e quello vicinissimo di S. Maria della Scala aveva da tempo iniziato a farlo, lo «spedale» di Monna Agnese riuscí a mantenere la propria autonomia. Alla fine del Cinquecento, quando si specializzò nella sola assistenza alle partorienti, riuscí addirittura a diventare esso stesso punto di riferimento per molti altri enti assistenziali urbani e delle campagne. Evidentemente tra i due ospedali non c’era rivalità ma dialogo, e le loro relazioni dovevano fondarsi su accordi e compromessi, piuttosto che su un rapporto di
soggezione e sottomissione. E a volte gestivano insieme donazioni ricevute in comune. La fondazione senese rivestí una particolare importanza anche per un altro suo aspetto: il ruolo fondamentale rivestito dal lavoro femminile, organizzato in veri e propri laboratori, e i cui proventi venivano utilizzati per integrare i redditi derivanti dalla gestione dei beni fondiari. La filatura di lana, lino, cotone, la tessitura, i lavori di cucito, e dal 1440 anche la lavorazione della seta, venivano esercitate dalle «donne di Monna Agnese» a livello collettivo, in piccoli opifici dove molte di loro potevano alternarsi nell’arco della giornata ai fusi e ai filatoi, garantendo una certa continuità produttiva, in primo luogo per far fronte alle necessità dell’ospedale con la realizzazione di abiti, fasce, bende, tovaglie; in secondo luogo per la vendita. Si produceva anche per conto terzi, un’attività dalla quale, soprattutto a partire dalla metà del Quattrocento (in concomitanza con l’inizio della lavorazione della seta), vennero realizzati guadagni di una certa entità. Per il resto, l’ospedale si reggeva su un’attenta e oculata amministrazione degli immobili che possedeva in città e nelle campagne, nonché (anche se in misura minima) sulla gestione del denaro depositato dai pellegrini.
milano, Ospedale Maggiore
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partire dal XV secolo, a causa dell’incapacità delle piccole istituzioni di rispondere alle esigenze della società, andò affermandosi un po’ ovunque un’ulteriore evoluzione delle strutture ospedaliere, tesa a una loro riorganizzazione mediante l’accorpamento delle istituzioni minori e la centralizzazione amministrativa e gestionale sotto un unico ospedale, un fatto che ebbe ripercussioni notevoli anche sull’architettura e sulle strutture materiali dei nuovi edifici costruiti a tale scopo, e che si tradusse in primo luogo nell’elaborazione della struttura cruciforme (ancor oggi visibile alla «Ca’ Granda», l’Ospedale Maggiore di Milano), che consentiva un sistema piú razionale di accoglienza dei poveri e degli ammalati. Modello di tali mutamenti, tanto dal punto di vista amministrativo che da quello architettonico, furono gli ospedali toscani, e in particolare quello senese e quello fiorentino, ai quali si rifanno esplicitamente e ripetutamente i documenti e le bolle pontificie per l’approvazione delle nuove istituzioni centralizzate lombarde che si volevano «ad instar
florentinensis et senensis hospitalium». Il ducato di Milano costituí un ambiente privilegiato per la messa a punto di tali trasformazioni. I problemi affrontati furono dunque quello della centralizzazione dell’amministrazione che venne affidata a un capitolo di soli laici; quello conseguente di una piú accentuata laicizzazione delle strutture ospedaliere (anche se, a tale proposito, ogni istituzione aveva le sue caratteristiche peculiari non generalizzabili), e quello della necessità di una loro crescente medicalizzazione (nel senso dell’assunzione di personale medico fisso e retribuito). Una delle novità principali di tale processo è da ravvisare nella collegialità della direzione delle nuove istituzioni ospedaliere, in precedenza sottoposte a un unico rettore, fatto che consentí l’intervento diretto nella gestione degli enti caritativo-assistenziali degli esponenti delle principali famiglie cittadine che ne fecero un mezzo per ampliare le proprie clientele e un trampolino di lancio verso vantaggi e privilegi di ogni tipo. Tutto questo aveva talvolta come esito pratiche ambigue: elemosine, doti, ricoveri,
sussidi agli infanti venivano decisi in base alla segnalazione di persone influenti, spesso appartenenti alla corte ducale. Per Milano il cardine di tale processo è costituito dall’edificazione dell’Ospedale Maggiore, fondato nel 1456 da Francesco Sforza affidandone la costruzione all’architetto toscano Antonio Averlino detto il Filarete, che ne realizzò il progetto a struttura cruciforme e il cortile principale in cui fuse i modelli costruttivi della sua terra con la tradizione della scultura in cotto, tipica dell’area lombarda. Alla nuova fondazione faceva capo lo smistamento di tutti coloro che dovevano essere ricoverati nelle strutture assistenziali milanesi: un medico dell’ospedale Maggiore era infatti incaricato di visitare i malati poveri e di destinarli, in base alla patologia diagnosticata, ai vari centri ospedalieri della città, ai quali venivano indirizzati in particolare gli infermi cronici. Il numero dei ricoverati superava complessivamente le 2000 unità, oltre a un migliaio di bambini abbandonati. Il capitolo dell’Ospedale filaretiano gestiva al tempo stesso anche tutti gli
Milano. Il chiostro dell’Ospedale Maggiore, detto anche Ca’ Granda, fondato nel 1456 per iniziativa di Francesco Sforza.
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altri principali ospedali cittadini, e nella nomina dei suoi rappresentanti rivestiva un peso preponderante l’autorità ducale, che interferiva cosí pesantemente nelle decisioni e nell’indirizzo della politica dell’ente assistenziale, e degli altri ospedali da esso amministrati, nonostante il formale rispetto dell’autorità religiosa da cui lo Sforza ostentava di dipendere. Quest’ingerenza costituí non di rado motivo di attrito con la Curia romana. Un piú marcato intervento delle comunità cittadine nel caldeggiare la riforma e la centralizzazione ospedaliera si riscontrò negli altri centri del ducato sforzesco, dove furono i ceti dirigenti locali a prendervi parte attiva, spinti da un pauperismo crescente che le vecchie istituzioni non riuscivano piú a fronteggiare né a controllare. A Piacenza, per esempio, fu proprio il consiglio cittadino a farsi promotore del movimento che sfociò nella riforma: nel 1467, in seguito alle lamentele di molti per il cattivo funzionamento degli
ospedali, venne nominata una commissione per chiedere al vescovo di porvi rimedio. Ugualmente a Pavia, nello stesso periodo, i cittadini furono artefici in prima persona della fondazione di un nuovo «ospedale grande», amministrato da una confraternita di laici, e che «accogliesse i pellegrini e i poveri, si prendesse cura degli ammalati, allevasse e nutrisse i bambini abbandonati». In quest’ambito si fece dunque strada l’idea di ospedale come luogo di ricovero in cui poveri e malati fossero accolti e accuditi da personale salariato (tra cui anche i medici, oltre a inservienti e a uno svariato numero di erogatori dei servizi piú diversi), organizzato e controllato da un consistente numero di amministratori, dediti a una razionale e oculata gestione dei beni e delle risorse dell’istituzione e incaricati di provvedere al funzionamento della struttura stessa.
In tale situazione si trovavano per esempio, tra il XIV e il XV secolo, gli inservienti del S. Maria della Scala a Siena, di quello a esso affiliato di Poggibonsi e dell’ospedale di S. Gallo a Firenze. Tra loro c’erano gli addetti al «Pellegrinaio» (che a Siena accudivano i viaggiatori, i poveri e gli ammalati ricoverati al S. Maria della Scala), i cuochi, le lavandaie, i manovali assunti per la manutenzione degli edifici, i trasportatori, gli addetti alle stalle e i salariati agricoli incaricati della coltivazione delle terre dell’ente. Buona parte di questi lavoratori veniva reclutata in una fascia di sbandati che facevano capo all’ospedale per sopravvivere Dipendenti delle istituzioni assistenziali erano anche i medici: il S. Maria della Scala metteva a disposizione degli infermi un «fisico», un chirurgo e uno speziale, scelti tra i frati dell’ospedale stesso o designati dal Rettore e retribuiti con «convenevoli salarii». Oltre a questi professionisti fissi, in caso di necessità l’ente poteva ricorrere anche ad altre prestazioni occasionali. Non è chiaro però se i medici adottassero una gamma unica di tariffe o se ciascuno avesse un suo particolare onorario.
Il giudizio di Lutero
Tra i salariati degli ospedali si possono annoverare infine le balie, alle quali venivano affidati i trovatelli fino allo svezzamento (3 anni circa) e talvolta anche per periodi piú lunghi. Si preferivano quelle di campagna perché avevano pretese economiche inferiori e piú tempo per i neonati, soprattutto durante l’inverno, quando erano libere dal lavoro nei campi. I loro compensi, sebbene alquanto modesti, erano comunque in grado di contribuire al reddito familiare, e passibili di incrementi notevoli in periodi di loro carenza: negli ultimissimi anni del Trecento e nei primi del Quattrocento, in seguito alla pestilenza che aveva colpito Firenze, le balie dipendenti dall’Ospedale di S. Gallo furono in grado di chiedere retribuzioni notevolmente piú alte. Il prodotto finale di tutta questa complessa evoluzione delle strutture, delle forme gestionali e organizzative, dell’amministrazione, della tipologia dei finanziamenti, che aveva caratterizzato, con modalità e tempi diversi, gli ospedali della Penisola tra il XIII e il XV secolo, riscosse un tale successo da essere frequentemente elogiato ed esaltato, quale modello di efficienza e di funzionalità, da insigni personaggi d’Oltralpe tra la fine del Quattrocento e il Cinquecento. Martin Lutero, ricordando l’accoglienza ricevuta all’ospedale fiorentino di S. Maria Nuova nel 1510-11, affermava: «gli ospedali sono provvisti di tutto ciò che è necessario, sono ben costruiti, vi si mangia e beve bene e vi si è serviti con sollecitudine; i medici sono abili, i letti e la mobilia puliti e ben tenuti». la vita al tempo della peste
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Per saperne di piú
da leggere Per i capitoli La peste nella storia (pp. 4-7), Tra crisi e contagio (pp. 8-27) e Curare gli appestati (pp. 28-49):
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Per il capitolo La fede e il pregiudizio (pp. 50-75):
Millard Meiss, La pittura a Firenze e Siena dopo la morte nera, Einaudi, Torino 1982
Per il capitolo In cerca di un rimedio (pp. 76-93):
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