Medioevo Dossier n. 5 - 2014

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MEDIOEVO DOSSIER

EDIO VO M E Dossier

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anni fa moriva il piú potente imperatore del Medioevo. Lasciando un testamento politico di straordinaria attualità...

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carlo magno un uomo alla conquista dell’europa

€ 6,90 N°5 2014

carlo magno un uomo alla conquista dell’europa



carlo magno

L’impero franco e la nascita dell’europa di Federico Marazzi 6 Prologo L’Augusto dei Germani 12 Pipino il Breve Da maestro a sovrano 36 L’ascesa Natale di gloria 68 Lo Stato franco L’esercizio del potere 96 L’economia Il motore della «rinascenza» 120 La cultura Un impero fatto ad arte 136 L’eredità Quel che resta di Carlo 144 Bibliografia Per saperne di piú


L’Augusto dei

prologo

Germani L’avvento di Carlo Magno segna una svolta epocale nella storia europea, da alcuni ritenuta il primo passo verso una visione unitaria del continente. Ma qual era il contesto politico in cui il re franco salí al potere? E quali i modelli a cui il figlio di Pipino il Breve scelse di ispirarsi?

«N

onostante l’età, va a cacciare non lontano dalla reggia di Aquisgrana, come era sua abitudine; trascorre in quella occupazione il resto dell’autunno e rientra in Aquisgrana all’inizio di novembre, per passarvi l’inverno. Ma in gennaio, colpito da una forte febbre, fu costretto a letto. Come era solito fare quando aveva disturbi del genere, stabilí di astenersi dal cibo, credendo che in questo modo la malattia potesse passare, o almeno attenuarsi. Ma alla febbre si aggiunse un dolore al fianco, quello che i Greci chiamano “pleuresis” e, mentre ancora proseguiva il digiuno, nutrendosi solo di liquidi, e anche questi molto di rado, nel settimo giorno da quando era stato costretto a letto, ricevuta la santa comunione morí, a settantuno anni d’età, nel quarantasettesimo anno di regno, il 28 gennaio all’ora terza». Cosí il biografo


Statuetta equestre in bronzo dorato proveniente dal tesoro della Cattedrale di Metz, tradizionalmente identificata come ritratto postumo di Carlo Magno (o talvolta come Carlo il Calvo). Il cavaliere è databile al IX sec., mentre il cavallo è di epoca tardo-imperiale o altomedievale. Parigi, Museo del Louvre.


carlo magno

Prologo

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Canterbury

Vannes

Rennes

Oceano Atlantico

Bourges

Tolosa

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CORSICA Ajaccio

SARDEGNA Impero romano d’Oriente

Conquiste di Pipino il Breve

Musulmani

Conquiste di Carlo Magno

Spartizione di Verdun (843)

Aree di influenza carolingia

Regno di Ludovico

Massima espansione carolingia

Regno di Lotario

carlo magno

SERBI

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Roma

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Benevento

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Regno dei Franchi nel 751

Eginardo, che aveva trascorso buona parte della propria esistenza accanto al re, suo «signore e patrono», racconta gli ultimi giorni di vita di Carlo, re dei Franchi, dei Longobardi, dei Sassoni e di molti altri popoli e imperatore augusto, coronato a Roma la notte di Natale dell’anno 800. Il 28 gennaio in cui egli andò incontro alla morte cadde nell’anno 814, dunque mille e duecento anni fa. E, in tutta Europa, la ricorrenza è stata salutata da celebrazioni ed eventi

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REGNO DEI BULGARI

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Siracusa

Regno di Carlo il Calvo

Cartina geopolitica dell’Europa carolingia e post-carolingia, VIII e IX sec.

espositivi, inclusa l’emissione di due francobolli da parte del Vaticano. Per comprenderne le ragioni, basterebbe già dare uno sguardo a una carta politica dell’Europa e del Mediterraneo intorno all’anno 800 e confrontarla con una di cinquant’anni prima, alla metà dell’VIII secolo, quando Carlo era ancora un bambino e suo padre Pipino non era ancora diventato re dei Franchi. Sebbene già profondamente trasformata rispetto ai tempi


immediatamente successivi alla caduta dell’impero di Roma, intorno all’anno 750 la mappa geopolitica del nostro continente mostrava ancora qualche somiglianza con il mosaico di regni sorto sulle rovine dello Stato romano. In Italia resisteva il regno dei Longobardi, nella Germania sopravvivevano il ducato di Baviera – a sud – e il regno dei Sassoni – a nord – e nell’area danubiana dominavano ancora gli Avari, che, alla fine del VI secolo, avevano preso il posto proprio dei Longobardi al momento della loro migrazione verso la nostra Penisola. Infine, ai lembi estremi dell’Occidente europeo, rimanevano autonome la Bretagna e la Frisia, lungo le coste degli attuali Paesi Bassi.

L’impero bizantino, che aveva dominato incontrastato su questo mare sino alla prima metà del VII secolo, si era asserragliato fra l’Anatolia e la penisola ellenica, il cui entroterra (come del resto quasi tutta l’area balcanica) era però lentamente scivolato nelle mani degli Slavi e dei Bulgari. L’Europa occidentale non era rimasta del tutto isolata dal mondo bizantino e da quello arabo, ma i contatti si erano assai diluiti rispetto al tempo in cui tutto il mondo mediterraneo era in mano romana. Si è molto discusso sulle «responsabilità» che l’espansione araba avrebbe avuto nel lacerare i legami fra Oriente e Occidente del Mediterraneo, a causa della diversità della sua cultura, della sua lingua e della sua religione rispetto a quelle dei popoli eredi del mondo romano. In realtà, per valutare correttamente le cose, andrebbero considerati due fattori, fra loro simmetrici. Da un lato, il mondo arabo era a quei tempi fortemente proiettato verso scenari piú lontani e probabilmente piú promettenti, come quelli che si aprivano verso l’Asia centrale e l’Oceano Indiano, e non vedeva necessariamente nell’Europa occidentale il fulcro dei propri interessi. Specularmente, quest’ultima, colpita da una lunga e profonda recessione economica, non era stata piú in grado di attivare significativi flussi di domanda e di offerta in direzione del mondo mediterraneo orientale, né, tanto meno, poteva esprimere strategie politiche sistematiche e ad ampio raggio nei confronti di realtà geograficamente lontane.

Piccoli regni al di là dei monti

Certo, vi erano stati anche grandi mutamenti, come per esempio la scomparsa del regno dei Visigoti nella penisola iberica, cancellato all’inizio dell’VIII secolo dall’espansione araba, precedentemente impadronitasi anche di tutte le aree del Mediterraneo meridionale e orientale. Solo all’estremo nord, lungo le coste atlantiche delle Asturie, della Galizia e del Paese Basco, resistevano piccoli regni cristiani, protetti dalle catene montuose che separano queste regioni dalle pianure della Castiglia e della Navarra.

Una nuova Europa In alto reliquiario del braccio di Carlo Magno, in argento dorato, contenente il frammento osseo di un braccio dell’imperatore. 1481 circa. Aquisgrana, Tesoro della Cattedrale. Qui accanto il busto reliquiario di Carlo Magno, in oro e argento. Metà del XIV sec. Aquisgrana, Tesoro della Cattedrale.

Questo stato di cose fu letteralmente travolto dalla comparsa in scena di Carlo Magno e dalle conseguenze delle sue azioni politico-militari. Nel primo quarto del IX secolo la carta politica dell’Europa Occidentale si era radicalmente modificata. I Franchi avevano conquistato tutti i territori degli Stati e dei popoli ancora indipendenti, o quanto meno avevano loro imposto la propria supremazia politica, costruendo un impero che andava dalla Catalogna a ovest ai confini della Polonia e alla Croazia a est e dall’Italia centrale a sud sino ai confini della Danimarca a nord. L’estensione dello Stato franco non ricalcava i confini né le dimensioni dell’impero di Roma, ma rappresentava un’entità politica di estensione inedita sulla scena europea degli ultimi tre secoli. Un’entità che, allo stesso tempo, guardava al passato, ma includeva quello che era stato il «futuro» postromano dell’Europa, all’interno del quale erano confluite genti di diversa provenienza, costituite anche da popolazioni di origine slava e gercarlo magno

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carlo magno

Prologo

manica, che mai avevano fatto parte della «comunità di genti» incluse nell’impero romano. In realtà, già prima della notte di Natale dell’800, quando nella basilica di S. Pietro ricevette da papa Leone III la corona imperiale, Carlo era di fatto un imperatore. Da un paio di decenni, infatti, i suoi domini si estendevano ormai ben oltre i confini dell’antico regno dei Franchi. Soprattutto, con la conquista dell’Italia, essi erano arrivati a includere Roma, l’antica sedes imperii. Su di essa il re franco esercitava già una sorta di protettorato in virtú dell’investitura a «patrizio dei Romani» ricevuta da suo 10

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Il cronista franco Eginardo, biografo di Carlo Magno, scrive la Vita Karoli, miniatura da un manoscritto de Les Grandes Chroniques de France. 1370-1400. Bruxelles, Bibliothèque Royale de Belgique.

padre Pipino negli anni Cinquanta dell’VIII secolo da parte del papa Stefano II. Ma anche la conquista della Catalogna, della Baviera, dell’Austria e della Sassonia e i protettorati imposti alle popolazioni della Bretagna e della Croazia e sul principato longobardo di Benevento avevano permesso a Carlo di esercitare un’autorità indiscussa su un mosaico di popolazioni assai eterogenee. La corona imperiale costituiva, quindi, un suggello a tale realtà, che riconosceva al sovrano franco il ruolo di supremo garante in terra di un ordine universale voluto da Dio e benedetto dalla Chiesa.


In questo senso, Carlo si poneva sí sulle orme dei Cesari dell’antica Roma, ma i suoi modelli non erano i grandi sovrani conquistatori del primo e medio impero, come Augusto o Traiano, quanto piuttosto coloro – come Costantino, Teodosio e Giustiniano – che avevano contribuito a trasformare la Res Publica Romanorum nella Res Publica Christiana, posta sotto l’ala protettrice di Cristo.

La rottura con Costantinopoli

La serie degli imperatori cristiani d’Occidente si era interrotta nel 476, con la deposizione di Romolo Augustolo. Sulle prime, la vacanza dell’autorità imperiale a Roma era stata colmata dalla sua continuità presso la Nuova Roma d’Oriente – Costantinopoli – e dalla riconquista bizantina dell’Italia, avvenuta sotto Giustiniano alla metà del VI secolo, che aveva sottratto l’antica capitale (e il papa) al dominio dei barbari. Ma nei decenni inziali dell’VIII secolo lo scenario era di nuovo mutato. I papi avevano consumato una rottura profonda con gli imperatori di Costantinopoli, a causa della decisione presa da questi ultimi di proibire il culto delle immagini sacre. Sconfessata dai pontefici, in Italia (tranne che nelle enclave bizantine dell’estremo Sud della Penisola) l’autorità degli imperatori «romani» si era rapidamente dissolta. Questo nuovo stato di cose aveva regalato ai papi un’improvvisa primazia politica su Roma, ma aveva creato anche un pericoloso vuoto di potere che i Longobardi, da decenni convertitisi al cattolicesimo, intendevano colmare mirando alla conquista delle regioni sin lí rimaste in mano all’impero. Fra queste, oltre a Ravenna, la preda piú ambita era proprio Roma, il cui controllo avrebbe permesso ai re longobardi di acquisire sullo scenario europeo una posizione di prestigio paragonabile a quella raggiunta, all’inizio del VI secolo, dal re goto Teodorico. Questa possibilità terrorizzava i pontefici, non tanto perché avrebbe comportato la loro sottomissione alla tutela di un sovrano «barbaro», quanto piuttosto per la prossimità fisica con cui questi l’avrebbe potuta esercitare. Se una simile eventualità si fosse materializzata, i papi temevano che il prestigio della propria autorità universale sulle Chiese di tutta la cristianità sarebbe stato seriamente limitato dalle interferenze dei re di Pavia (che, chissà, avrebbero potuto addirittura decidere di spostare la propria sede a Roma) e che il proprio rango si sarebbe ridotto a quello di «vescovi dei Longobardi». L’appartenenza all’impero bizantino – sino a che i rapporti con gli imperatori di Costantinopoli si erano mantenuti in buoni termini – costituiva per i papi una condizione ideale: abbastanza lontani da non poter interferire nell’a-

zione politico-religiosa quotidiana della Chiesa romana, essi le fornivano però un ombrello protettivo, morale e istituzionale del massimo prestigio. A ben vedere, le cose non andarono molto diversamente anche nell’imminenza della riunificazione di Roma all’Italia in età risorgimentale, quando giunse al suo approdo finale una lunga storia iniziata proprio al tempo di Carlo Magno. Pio IX, che aborriva l’idea di vedersi imprigionato nella morsa del controllo dei Savoia, dal 1861 divenuti re d’Italia, si affidò alla tutela dell’imperatore dei Francesi, Napoleone III, che dislocò a Roma un contingente di zuavi a protezione del pontefice e della città. L’attacco dei bersaglieri a Roma fu sferrato solo dopo che Napoleone fu sconfitto dai Prussiani a Sedan e fu quindi costretto ad abdicare e, di conseguenza, i soldati francesi furono ritirati da Roma.

Nel luogo piú sacro della cristianità

Al contrario di quanto accadde a Pio IX, i papi dell’VIII secolo poterono giocare le proprie carte con maggior fortuna. La rescissione dei legami con l’impero bizantino, avendoli di fatto resi padroni di Roma, consentí loro di rivendicare una sorta di legittimazione nella successione al potere sulla città che era, al contempo, la culla del potere politico universale e – dopo Gerusalemme, ormai in mano araba – il luogo piú sacro della cristianità, in quanto sede del sepolcro di Pietro, delegato dal Cristo a presiedere, dopo la sua morte, la comunità dei credenti. Gli storici, da Lorenzo Valla nel XV secolo in poi, hanno potuto ampiamente dimostrare che le pretese papali riguardo la sovranità su Roma non avevano alcuna reale legittimità e che non vi era mai stata alcuna delega a ciò da parte di Costantino o di altri imperatori romani. Ma nell’VIII secolo, come del resto accade anche oggi, una bugia ripetuta piú volte e con toni perentori poteva essere presa per buona. E ciò era particolarmente vero se a pronunciarla era qualcuno, come il papa, a capo di un’istituzione antica, circonfusa di sacralità e, soprattutto, dotata degli archivi meglio organizzati di tutto l’Occidente, in cui erano depositate memorie antiche di secoli. Soprattutto, la storia dell’accreditamento della Chiesa romana a proporsi come depositaria della sovranità su Roma e, per conseguenza, della custodia delle chiavi della potestà imperiale, poteva piú facilmente essere creduta da interlocutori in grado di trarre da un dialogo con il papa precisi e concreti vantaggi, per essere a loro volta pienamente riconosciuti a ricoprire un ruolo politico nuovo e di non semplice legittimazione. carlo magno

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pipino il breve

Da

maestro a sovrano Alla metà dell’VIII secolo Pipino III, passato alla storia come «il Breve», sale al trono di Francia, spodestando i Merovingi. Con lui ha inizio il dominio carolingio. Il suo potere ottiene una sanzione decisiva grazie all’appoggio del papa, Stefano II, che lo incorona solennemente nell’abbazia di Saint-Denis

N

el capitolo precedente abbiamo tracciato il quadro della situazione in cui, intorno all’anno 750, si trovava il padre di Carlo Magno, Pipino, detto «il Breve». I suoi destini s’incrociarono alla perfezione con quelli di Stefano II, il papa in carica negli stessi anni. Di fronte al pontefice si trovava il re dei Longobardi Astolfo, appena impadronitosi di Ravenna e intenzionato a condurre in porto la conquista di Roma. In caso di confronto armato, il papa non avrebbe avuto alcuna chance di vittoria e aveva un disperato bisogno di alleati. Al di là delle Alpi, Pipino, succeduto nel 741 al padre Carlo Martello, governava il regno dei Franchi insieme al fratello Carlomanno, ma nessuno dei due era re. Entrambi, infatti, ricoprivano la carica di «maestri di palazzo», (segue a p. 16)


L’incoronazione di Pipino il Breve da parte di papa Stefano II a Saint-Denis, il 28 luglio 754, olio su tela di François Dubois. 1837. Versailles, Châteaux de Versailles et de Trianon. Già eletto re dei Franchi nel 751, Pipino venne ufficialmente consacrato dal pontefice con i figli Carlo e Carlomanno.


carlo magno

Pipino il Breve Pipino III, detto il Breve, re dei Franchi (714768), olio su tela di Louis-Félix Amiel. 1837. Versailles, Châteaux de Versailles et de Trianon. Nella pagina accanto particolare della statua di Berta o Bertrada di Laon, moglie di Pipino il Breve e madre di Carlo Magno, opera dello scultore Eugène André Oudiné (1810-1887). Parigi, Giardino del Lussemburgo.

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carlo magno


gli antenati di carlo magno S. Arnolfo (ca. 580-641) Vescovo di Metz dal 614 al 627. Sposa nel 611 Oda (o Doda).

S. Clodulfo (599-696) Vescovo di Metz dal 656.

Pipino il Vecchio (o di Landen) († 639) Maggiordomo di Austrasia. Sposa Itta d’Aquitania.

Ansegiso († 685) Maggiordomo di Austrasia. Sposa S. Begga († 698).

S. Begga († 698)

S. Gertrude (623-656) Badessa di Nivelle dal 651.

Grimoaldo († 656) Maggiordomo di Austrasia dal 642.

Childeperto († 656) Re usurpatore d’Austrasia nel 656.

Pipino II d’Héristal (635?-714) Maggiordomo di Austrasia verso il 679 e di Neustria nel 687. Sposa [1] verso il 673 Piectruda, ripudiata († post 714); [2] Alpaide (o concubina?).

[1] Grimoaldo († 714) Maggiordomo d’Austrasia nel 696.

[2] Carlo Martello (689-741) Maggiordomo d’Austrasia e di Neustria. Sposa: [1] Crotrude († 724); [2] Sonnechilde (chiusa in monastero nel 741).

[1] Chiltrude († 754) Sposa nel 741 Odilone († 748), duca di Baviera.

Teobaldo († 715)

[1] Carlomanno (715-755) Maggiordomo d’Austrasia dal 741 al 747.

Drogone

[2] Childebrando († 743) Conte.

[1] Pipino il Breve (715-768) Maggiordomo di Neustria dal 741 e d’Austrasia dal 747, re dei Franchi dal 752 al 768. Sposa Berta o Bertrada († 783).

[2] Grifone († 753) Duca di Baviera dal 749 al 753.

Altri figli la cui sorte è sconosciuta.

Carlomanno (751-771) Re di Borgogna, Provenza, Settimania e Aquitania orientale dal 768 al 771. Sposa nel 770 Gerberga figlia di Desiderio re dei Longobardi.

Carlo Magno (742-814) Re di Austrasia e di Neustria dal 768, di tutto il regno dal 771, re dei Longobardi dal 774. Imperatore dall’800. Dopo un rapporto di concubinaggio con [1] Imiltrude (†?), sposa: [2] nel 770 Ermengarda (o Desiderata) figlia di Desiderio re dei Longobardi, ripudiata nel 771; [3] nel 771 Ildegarda (758-783); [4] nel 783 Fastrada († 794); [5] post 796 Liutgarda († 800).

Gisella (757-811) Suora.

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Pipino il Breve

cioè di dignitari che presiedevano al funzionamento della casa reale franca. In realtà, già dalla fine del VII secolo il loro nonno, Pipino II di Heristal, era riuscito a trasformare questo ufficio in una posizione dalla quale – di fatto – si manovravano le principali decisioni politiche del regno franco, estromettendo i re della dinastia merovingia dall’esercizio del potere effettivo. Con la battaglia Tertry, nel 687, Pipino – che inizialmente era maestro di palazzo del solo regno di Austrasia, la parte nordorientale del regno dei Franchi – era riuscito a rafforzare la propria posizione, acquisendo anche il controllo della corte del regno di Neustria (corrispondente alle regioni nordoccidentali della Francia odierna).

Due fratelli per un trono

Da questo momento in poi, la posizione dei legittimi re merovingi venne assumendo un ruolo sempre meno operativo, al punto che, quando nel 737 morí il re Teodorico IV, Carlo Martello non fece nominare un successore, agendo apertamente come vero e proprio dominus del regno. Solo nel 743 fu insediato un nuovo re, Childerico III, poiché Carlo Martello, morendo, aveva suddiviso la responsabilità della cura palatii fra i suoi due figli. La presenza di un sovrano, sebbene privo di un’autorità effettiva, serví molto probabilmente ai giovani eredi di Carlo per «coprirsi le spalle» da eventuali tentativi di delegittimazione da parte di esponenti dell’aristocrazia franca loro ostili. Tuttavia, qualche anno piú tardi, la situazione mutò improvvisamente, fornendo a Pipino il Breve l’opportunità per regolarizzare definitivamente la propria posizione. Nel 747, suo fratello Carlomanno, forse attanagliato dal rimorso per le stragi compiute nelle campagne militari contro gli Alamanni, decise di rinunciare al potere e di farsi monaco, scegliendo come rifugio prima l’abbazia di S. Benedetto sul Monte Soratte, a nord di Roma, e poi quella di Montecassino. Proprio questo episodio forní l’occasione per i primi contatti diretti tra il papato e la famiglia dei maestri di palazzo del regno franco, giacché Carlomanno compí la sua professione monastica a Roma al cospetto di papa Zaccaria, nel corso di una cerimonia solenne. Giova ricordare che in quegli stessi anni, il re dei Longobardi, Ratchis, stava avviando una profonda riforma del regno, la cui idea-guida era quella di trasformare definitivamente l’immagine del sovrano da monarca «dei Longobardi» a monarca «dell’Italia», con il chiaro intento di evocare figure come quella del re goto Teodorico, ma aggiungendo una forte connotazione cristiana e cattolica all’immagine della sua autorità. Sulla scorta delle gesta compiute 16

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Miniatura raffigurante Grifone, terzo figlio di Carlo Martello e duca di Baviera, che si arrende ai fratellastri Pipino il Breve e Carlomanno dopo l’assedio di Laon (741), da un manoscritto de Les Grandes chroniques de France (o de Saint Denis). XV sec. Tolosa, Bibliothèque municipale de Toulouse. dal suo predecessore Liutprando, Ratchis intendeva insomma dichiarare che i Longobardi erano ormai pronti a candidarsi al dominio di tutta l’Italia, avendone pienamente assimilato tradizioni e cultura. Come abbiamo già visto, questa svolta non era particolarmente gradita ai pontefici e, qualche anno prima, già il predecessore di Zaccaria – Gregorio III – si era lamentato del dinamismo di Liutprando con Carlo Martello, chiedendogli di intervenire in Italia per arrestare i tentativi che il re longobardo aveva messo in atto per estendere i suoi domini alle terre ancora in mano ai Bizantini. Carlo aveva ignorato le lamentele del papa, sia perché Liutprando lo aveva aiutato a scacciare gli Arabi dalla Provenza e aveva stretto con lui profondi legami personali, sia perché il re dei Longobardi non sarebbe stato un nemico di cui avere facilmente ragione. Ma una quindicina di anni piú tardi le cose erano radicalmente cambiate. Al di là delle Alpi, Pipino era rimasto l’unico padrone del regno, pur non essendo ancora in grado di esercitare legittimamente il proprio potere. Sebbene ridotto a una figura poco piú che simbolica, il re in carica era comunque l’esponente della famiglia che regnava da oltre due secoli e che s’identificava con la storia stessa dei Franchi. La sua definitiva sostituzione richiedeva, dunque, oltre che un’ampia condivisione politica da parte dell’aristocrazia franca, anche un supporto ideologico tale da mettere al riparo l’operazione dal sospetto che si trattasse di una mera usurpazione.

Interessi convergenti

In Italia, Ratchis aveva infelicemente concluso il suo regno con una campagna militare condotta senza una sufficiente determinazione contro i Romani e aveva dovuto infine abdicare, per poi ritirarsi anch’egli a Montecassino. Suo fratello Astolfo, che gli era succeduto sul trono, aveva avviato una politica meno ideologicamente paludata e piú aggressiva verso i Bizantini e il papato, con l’esplicito obiettivo di mettere Ravenna e Roma sotto il proprio controllo. A quel punto, per ragioni diverse ma tra loro convergenti, il papa e Pipino avevano bisogno l’uno dell’altro. La prima mossa fu compiuta nel 751 da Pipino. Deciso a farsi riconoscere come sovrano dall’assemblea dei maggiorenti del regno, inviò a Roma una delegazione guidata da


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Pipino il Breve

Burcardo, vescovo di Würzburg, e da Fulrado, abate di Saint-Denis. I due ambasciatori posero al papa il quesito se, nel regno dei Franchi, il titolo regio dovesse essere detenuto da chi gestiva effettivamente il potere o da chi avesse nelle vene sangue reale. Il papa ovviamente rispose che la corona sarebbe dovuta appartenere a chi aveva realmente la capacità di gestirne il potere e cosí Pipino fu legittimato a sostituirsi a Childerico alla testa del regno franco. Il nuovo monarca non mancò di restituire il favore quando, un paio di anni dopo, il nuovo pontefice Stefano II, minacciato da Astolfo, si recò in Francia per chiedergli aiuto contro i Longobardi (vedi box alle pp. 20-22). Il soggiorno del pontefice al di là delle Alpi si protrasse per oltre un anno, perché la disamina delle diverse questioni da discutere con Pipino necessitava di particolare attenzione. Era la prima volta che un papa valicava le Alpi, ma, come si suole dire, alla

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In basso miniatura raffigurante Astolfo, re dei Longobardi, che conferma le disposizioni emanate dal duca Gisulfo a favore del monastero di S. Vincenzo al Volturno, dal Chronicon Vulturnense. 1130 circa. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

fine il gioco valse la candela. Pipino ottenne dal papa l’unzione regia per sé e per i suoi due figli Carlo (il futuro Carlo Magno) e Carlomanno e, insieme a loro, fu nominato «patrizio dei Romani». Era questo un titolo onorifico dai connotati ambigui, ma che richiamava analoghe attribuzioni conferite dagli imperatori tardo-antichi a capi barbari – come per esempio Oreste, Odoacre e Teodorico – con l’intento di riconoscerne l’alto rango individuale e l’appartenenza alla ristretta cerchia dei prossimi al sovrano.

L’imperatore eretico

Considerando quanto si è detto in precedenza, il papa non avrebbe avuto alcun diritto di conferire simili titoli, la cui concessione spettava agli imperatori. Ma Stefano II si presentò di fronte a Pipino come il custode della città di Roma, sulla quale l’imperatore di Costantinopoli era ormai impossibilitato a esercitare un potere effettivo


(ed essendo per di piú indegno a farlo poiché eretico, dato che aveva proibito la venerazione delle immagini sacre). Inoltre, al re dei Franchi dovevano essere state anche presentate credenziali documentarie, sulla base delle quali si voleva accreditare il papa come destinatario di una legittima sovranità sulla città, frutto della delega ricevuta da Costantino. In realtà, non sappiamo davvero come e quanto i contenuti che di lí a poco furono riuniti nella cosiddetta «Donazione di Costantino» (vedi box alle pp. 24-26) fossero stati utilizzati nel corso delle trattative tra Stefano e Pipino, ma è lecito immaginare che quest’ultimo avesse tutta la convenienza ad accettarne i principi generali.

astolfo, il longobardo

Miniatura raffigurante il re longobardo Astolfo, dal Codex matritensis leges langobardorum. XI sec. Madrid, Biblioteca Nacional. Il sovrano tentò piú volte di prendere Roma e la minaccia fu scongiurata dall’intervento di Pipino il Breve, al quale il papa aveva chiesto aiuto.

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Pipino il Breve

In cambio del decisivo aiuto ricevuto per consolidare la propria posizione nel regno franco, Pipino promise ufficialmente al papa d’intervenire in sua difesa qualora i Longobardi avessero minacciato Roma. In questo impegno rientrava anche qualcosa di piú e cioè il riconoscimento, da parte del re franco, dell’esistenza di una «zona di sovranità» papale che superava ampiamente la città di Roma e si estendeva su tutta l’Italia centrale, comprendendo però anche Ravenna e i territori circostanti, nonché la parte dell’Italia meridionale dominata dai Longobardi. Sulla base di questi accordi, Stefano II intendeva affermare ancor piú nettamente il diritto del papato alla propria successione nel governo della Res Publica Romanorum, sulla base del presupposto che il potere papale scaturiva dal sacro dominio esercitato da san Pietro su Roma. E su questo principio si basava anche il valore dell’accordo stretto fra Stefano e Pipino, poiché il re franco – legandosi a doppio filo al papa – si ergeva a difensore della sopravvivenza stessa della fede cristiana, incardinata sull’endiadi fra Roma e Pietro.

La spartizione dell’Europa

Insomma, se volessimo fare un paragone con la storia piú recente, gli incontri fra il nuovo re e il papa e gli accordi che ne derivarono furono una sorta di Yalta dell’Alto Medioevo, in cui si definirono, suddividendo le rispettive aree d’influenza, compiti e funzioni dei due contraenti (il riferimento è alla località della Crimea in cui, nel 1945, Gran Bretagna, USA e Russia, dopo l’avvio dell’ultima offensiva contro la Germania, s’incontrarono per coordinare il piano d’attacco e la successiva spartizione in zone d’influenza dei territori liberati, n.d.r.). Ciò avvenne in un’ottica che vedeva il regno dei Longobardi già oggetto di spartizioni e, se non candidato a uscire definitivamente di scena, certamente destinato a essere ridotto a una posizione scarsamente influente. Già con gli accordi del 753-754 erano stati gettati i semi per gli sviluppi che si sarebbero visti al tempo di Carlo. Ma, al contempo, erano state anche create le premesse per problemi di enorme portata, che si sarebbero trascinati per i successivi quattro-cinque secoli della storia europea. In effetti, benché l’intento dei patti fosse chiaro rispetto alle circostanze immediate – permettere da un lato a Pipino di occupare legittimamente il trono franco e dall’altro spuntare le armi ai Longobardi – «non è possibile dire fino a che punto Stefano II e Pipino si rendessero conto delle ultime conseguenze degli atti compiuti». Con queste parole Ottorino Bertolini, uno dei piú grandi storici novecenteschi della Roma al20

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Il viaggio in Francia di papa stefano ii

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ell’Alto Medioevo si viaggiava piú di quanto non s’immagini e può stupire come fosse possibile organizzare, anche in tempi rapidi, spostamenti complessi di cose e persone, seppure a prezzo di fatiche notevoli. Il viaggio compiuto da papa Stefano II in Francia, presso Pipino il Breve e i suoi giovani figli, Carlo e Carlomanno, rappresenta un caso emblematico delle capacità logistiche che, anche nelle condizioni difficili di quei secoli, era possibile mettere in campo. Il pontefice decise di muoversi da Roma in un momento dell’anno poco favorevole, poiché si era ormai alla metà di ottobre dell’anno 752. Considerando che egli avrebbe dovuto fare tappa a Pavia presso il re dei Longobardi Astolfo, era ben possibile che la Francia sarebbe stata raggiunta ormai alle soglie dell’inverno. Racconta l’anonimo autore del Liber Pontificalis della Chiesa romana che il popolo di Roma accompagnò Stefano per un lungo tratto al di fuori delle mura. Lo spostamento di un papa dall’Urbe era allora un evento eccezionale e, lungo la via Cassia, il corteo papale fu oggetto ovunque di manifestazioni di giubilo e sorpresa da parte delle popolazioni. Giunti a circa 40 miglia dalla città, fra Blera e Sutri, nella notte apparve in cielo una meteora che disegnò una traiettoria da nord a sud e che fu interpretata dagli astanti come il segno che

Qui accanto il papa Stefano II in una incisione ottocentesca. Collezione privata. Nella pagina accanto, in alto cartina con l’itinerario della via Francigena, che fu quello verosimilmente seguito da Stefano II nel suo viaggio alla volta della Francia. Nella pagina accanto, in basso veduta di Saint-Maurice-d’Agaune, località presso il cui monastero il corteo papale si fermò in attesa di ricevere il re di Francia. Incisione di Matthäus Merian (1593-1650).


Stade Amsterdam Utrecht Londra

Canterbury

Bruxelles Sombre

Praga

Arras Lussemburgo Laon Reims Châlons-sur-Marne Parigi Troyes

Bar-sur-Aube

Magonza

Strasburgo

Basilea

Besançon Pontarlier

Berna

Vaduz

Losanna St. Maurice

Bourg-Saint-Pierre Aosta Ivrea Pavia Piacenza Vercelli

Lione

Tolosa Verso Compostela

Arles

Andorra

Lubiana

Susa Berceto Pontremoli Luni Lucca San Gimignano Siena San Quirico Bolsena Viterbo Sutri

Roma Verso Gerusalemme

Madrid

Napoli

qualcosa di prodigioso sarebbe dovuto accadere tra la Francia e l’Italia. Seguendo probabilmente l’itinerario della cosiddetta «via Francigena», il pontefice giunse finalmente nella capitale del regno longobardo. Il soggiorno, che si protrasse per diverse settimane, fu particolarmente faticoso a causa della resistenza mostrata da Astolfo ad autorizzare la prosecuzione del viaggio papale verso la sua meta finale. La partenza avvenne finalmente il 15 di novembre. Come ricorda lo storico del papato Ottorino Bertolini, «incombeva ormai l’inverno, e se le nevi avessero bloccato i valichi alpini, il papa ne avrebbe dovuto rimandare il passaggio almeno all’anno successivo». Si dovevano perciò bruciare le tappe. Per accorciare il percorso si scelse di attraversare le Alpi passando per Aosta e il passo del Gran San Bernardo (allora chiamato Mons Iovis), a quasi 2500 m di quota. In pieno novembre non dovette trattarsi di quella che definiremmo una «passeggiata di salute», se ancora due anni (segue a p. 22) carlo magno

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Pipino il Breve

Disegno ricostruttivo del palazzo di Ponthion, la località nella valle della Marna nella quale Pipino il Breve si preparò a ricevere papa Stefano II, incontro al quale fu mandato, a Langres, il giovane Carlo Magno. dopo Stefano serbava il ricordo dei pericoli, delle nevi, del gelo, dei fiumi impetuosi attraversati e dei «monti atrocissimi» che aveva dovuto valicare. Dopo ben quindici giorni dalla partenza da Pavia (e ormai a un mese e mezzo dall’uscita da Roma), il corteo papale giunse nell’alta valle del Rodano, approdando al venerabile monastero di Saint-Maurice-d’Agaune (località dell’odierna Svizzera sud-occidentale, nel Vallese, situata sulla sinistra del Rodano; il sito era meta di pellegrinaggio, poiché vi erano custodite le reliquie di san Maurizio e di altri soldati della legione tebana, martirizzati ad Agaunum tra il 280 e il 290, n.d.r.), dove, in teoria, Pipino sarebbe dovuto venire loro incontro. Ma il re non si vide e solo dopo alcuni giorni giunse l’abate di Saint-Denis per annunciargli che l’abboccamento con il suo signore sarebbe avvenuto nel cuore del regno franco, e cioè a Ponthion, nella valle della Marna. Si trattava quindi di percorrere ancora decine e decine di chilometri all’interno dei territori del regno franco. Ma la partenza da Saint Maurice non avvenne subito, perché le fatiche del viaggio avevano fiaccato molti dei compagni del papa, uno dei quali, il capo dei notai apostolici Ambrogio, venne a morte proprio durante la sosta al monastero. La sosta si protrasse quindi fino a Natale, quando il viaggio riprese a tappe forzate sino a Langres, dove il giorno di Capodanno Stefano venne finalmente accolto dal giovane Carlo Magno, inviato da suo padre in avanscoperta. Dopo la lunga permanenza in Francia, il papa riprese la strada di casa solo nell’estate del 755, recando ancora su di sé i segni delle fatiche patite nel viaggio d’andata. 22

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tomedievale, ragionava sugli esiti dei colloqui tenutisi in quel cruciale biennio fra l’abbazia di Saint-Denis e presso le residenze regie di Ponthion sulla Marna e di Quierzy sull’Oise. E aggiungeva: «Certo, il papa agiva nella convinzione sincera che la Chiesa di Roma e l’Italia romana, per salvarsi dall’asservimento totale sotto i Longobardi, come dall’imposizione di dottrine contrastanti con la fede cattolica da parte degli imperatori, non avevano altra via se non quella di mettersi sotto la protezione dei re franchi. Sotto la protezione, non la sovranità: sovrani sarebbero continuati a essere, come prima, gli imperatori. Né gli accordi e i patti comportavano che i territori i quali ne erano oggetto si dovessero intendere trasferiti, col riconoscimento dei re franchi, dalla sovranità dell’impero a quella della Chiesa di Roma». I papi, insomma, non intendevano usurpare la potestà dell’impero bizantino, ma al contempo era come se la esercitassero pro tempore in ragione del suo assenteismo e della posizione eretica dell’imperatore. Dall’altra parte, continua sempre Bertolini, «Pipino aveva agito nella convinzione che ad accordi sempre piú intimi con la Chiesa di Roma era legato il consolidamento suo e della sua famiglia sul trono. Sapeva di aver acquistata la corona con un colpo di stato, che solo la sanzione religiosa di Zaccaria


era valsa a legittimare davanti ai Franchi; ma anche sapeva che non tutte le resistenze erano ancora vinte e che egli aveva quindi bisogno che un’altra e piú solenne manifestazione della Chiesa di Roma rendesse ai suoi popoli visibile testimonianza che, al posto dei Merovingi, la nuova dinastia era data dalla famiglia dei Carolingi e in essa dalla linea di Pipino».

Dipendenza reciproca

Quello stretto fra Pipino e Zaccaria prima, e consolidato poi dal viaggio di Stefano II in Francia, era un legame in cui era evidente che il papa aveva bisogno della protezione di un nuovo braccio armato per pilotare senza troppi traumi il suo distacco dall’obbedienza all’impero. D’altra parte, il nuovo re doveva appoggiarsi all’autorità della Chiesa per recuperare il sacro carisma – oltre che la legittimità a regnare – che era stato proprio dei monarchi merovingi. Si prospettava, insomma, un condominio di autorità in cui il bisogno reciproco poteva potenzialmente mutarsi in reciproca insofferenza e generare la voglia di enfatizzare la dipendenza di uno dei partner dall’altro. Già leggendo le cronache che raccontano, da parte franca e da parte papale, lo svolgimento degli incontri del 753-754, si può notare una divergenza di accenti: se le prime, infatti, accen-

tuano lo stato di bisogno che aveva spinto il papa ad affrontare il lungo viaggio verso la Francia e quindi la necessità di rivolgersi ai Franchi per domandare il loro aiuto, le seconde sottolineano invece la deferenza con cui Stefano venne accolto da Pipino e dai suoi figli, con il re che, al momento del primo incontro con il papa, sarebbe sceso da cavallo per andare verso di lui a piedi, prostrandosi dinanzi alla sua persona. Vista dalla prospettiva del re dei Franchi – quale Pipino in effetti già era – l’ipotesi della subordinazione di quella regia a un’altra autorità era assolutamente fuori discussione. Nei due secoli e piú in cui la dinastia dei Merovingi aveva regnato, i suoi esponenti si erano sempre interessati alle questioni ecclesiastiche e ciò era divenuto ancor piú evidente a partire dallo scorcio finale del VI secolo. I sovrani convocavano concili, nominavano vescovi, fondavano e sostenevano monasteri, riunivano intorno a sé ecclesiastici che li assistevano nel governo del regno, ma, soprattutto, ritenevano la loro autorità investita di una profonda sacralità, che aveva tratto esempio dalle analoghe prerogative godute dagli imperatori romani. D’altra parte, benché nel corso del VI e del VII secolo fossero stati sempre in contatto con l’episcopato del regno franco, i papi non avevano mai esercitato su di esso

Accordandosi con la Chiesa, Pipino mirava al consolidamento del proprio potere Olifante (corno da caccia) detto «di Carlo Magno», dall’abbazia di S. Arnolfo a Metz. XI-XII sec. Parigi, Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge. All’indomani della missione di papa Stefano II in Francia, Pipino il Breve ottenne l’elevazione della stessa Metz da diocesi ad arcivescovado, permettendo cosí al vescovo Chrodegang di acquisire una posizione di spicco nell’episcopato del regno. carlo magno

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Pipino il Breve

poteri particolarmente stringenti, ed era piuttosto l’autorità del re a essere avvertita come la piú influente e condizionante. Anche questa tradizione venne accolta e potenziata dalla nuova dinastia carolingia, sin dal tempo in cui i suoi esponenti avevano iniziato a occupare la posizione di maestri di palazzo. Essi si erano già distinti come promotori di fondazioni monastiche e avevano collocato diversi loro membri alla testa di importanti diocesi del regno. Si capisce quindi che, pur con tutta la reverenza che gli fu tributata, il papa non poteva essere accolto da Pipino come un suo «superiore». Tuttavia, non va dimenticato che l’avvicinamento della monarchia franca al papato produsse effetti «collaterali» importanti: Roma era considerata pur sempre la mater ecclesia di tutta la cristianità e il prestigio dei suoi vescovi direttamente discendenti da Pietro, e dei suoi martiri che avevano permesso il trionfo della vera fede in tutto l’impero, era sinceramente avvertito e considerato con profonda reverenza. Ciò determinò progressivamente sia l’accrescimento dell’influsso romano sulle consuetudini della chiesa franca, sia la maggiore interazione del papato con l’episcopato locale, senza però – come vedremo tra breve – che il ruolo dei sovrani perdesse per questo la centralità avuta nei secoli precedenti.

Chrodegang, il vescovo voluto dal re

Sin dai primi anni della sua ascesa al potere, infatti, Pipino si dedicò alla capillare riorganizzazione della struttura della Chiesa del regno e delle sue consuetudini. Con una sistematicità fino ad allora sconosciuta convocò sinodi, emanò provvedimenti legislativi e intervenne in prima persona nella nomina di personaggi a lui graditi alla testa delle maggiori sedi episcopali. Fra questi, spicca senz’altro la figura di Chrodegang, vescovo di Metz (l’antica capitale dell’Austrasia, regione d’origine dei Carolingi). Questi aveva già detenuto cariche importanti alla corte di Carlo Martello e fu poi destinato da Pipino alla testa della diocesi di Metz. Era stato scelto per accompagnare papa Stefano durante il suo viaggio in Francia e, nel 754, probabilmente anche in virtú del successo di questa missione, il re impose l’elevazione della sua diocesi ad arcivescovado, permettendo quindi a Chrodegang di occupare una posizione di spicco all’interno dell’episcopato del regno. L’azione condotta da Pipino, con l’essenziale apporto di Chrodegang, si sviluppò in due direzioni. Da un lato, fu compiuto uno sforzo per l’omologazione delle pratiche liturgiche fra le chiese del regno e per la loro compenetrazione con quelle seguite dalla Chiesa Romana. Dall’altro, il re intervenne su un piano 24

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la falsa donazione di costantino

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ochi documenti della storia europea hanno suscitato dibattiti e polemiche piú accesi quanto il cosiddetto Constitutum Constantini o, come si è usi definirlo in italiano, la Donazione di Costantino. Smentito nella sua autenticità dallo studio condotto dall’umanista Lorenzo Valla nel XV secolo – considerato per questo uno dei padri fondatori della moderna filologia e della diplomatistica (ovvero la disciplina che studia i caratteri formali e compositivi dei documenti storici) –, per secoli questo testo è rimasto, in realtà, una sorta di «protocollo segreto», partorito nelle cancellerie pontificie intorno al 760 ma, a quanto consta, ufficialmente esibito dai papi solo a partire dalla metà dell’XI secolo. Esso descrive l’atto con cui Costantino avrebbe donato in favore del papa Silvestro I «sia il nostro palazzo che la città di Roma, che tutte le province, contrade e città d’Italia nonché delle regioni occidentali, (…) consegnando[li] e accordando[li] alla potestà e al dominio di lui e dei pontefici suoi successori per irremovibile giudizio imperiale» e «mediante questo sacro diploma e costituzione dommatica decretiamo che siano resi disponibili e che permangano nel potere della santa Chiesa romana» (traduzione di Girolamo Arnaldi). Il testo ricorda che l’imperatore avrebbe concesso al pontefice anche tutti gli oggetti e gli indumenti che simboleggiavano il potere imperiale, e cioè il diadema, il copricapo frigio (vale a dire la tiara), il manto, la clamide di porpora e la tunica scarlatta, mentre ai chierici della Chiesa romana sono attribuiti le dignità e gli onori che spettano al senato, in un parallelismo perfetto tra le istituzioni imperiali e quelle ecclesiastiche romane.

Ma il testo della donazione va anche oltre l’elencazione di queste già rilevanti concessioni, quando afferma che l’attribuzione al papa del potere sulle terre d’Occidente andava di pari passo con la decisione dell’imperatore di «trasferire il nostro impero e il potere del regno nelle regioni orientali e di edificare in un ottimo luogo nella provincia di Bisanzio una città con il nostro nome e lí di stabilire il nostro impero». Questo gesto di rinuncia sarebbe stato motivato dal fatto che «dove è stato costituito dall’imperatore celeste il principato dei sacerdoti e il capo della religione cristiana, non è giusto che in quel luogo l’imperatore terreno abbia potere» (traduzioni di Giovanni Maria Vian). Come ha giustamente sottolineato lo storico Girolamo Arnaldi, basterebbe leggere questi pochi ma significativi passi della Donazione per capire che un testo del genere non avrebbe mai potuto essere esibito davanti a Carlo Magno o a suo padre Pipino; e forse i due, pur essendo piuttosto ben disposti ad ascoltare le versioni date dai pontefici sulla situazione politica italiana, non avrebbero neppure potuto seriamente credere alla veridicità di quel documento. In che modo i due re franchi avrebbero infatti potuto digerire l’idea che il papa fosse il vero sovrano dell’Occidente e quindi, di fatto, il loro signore? Come avvenne al momento di eleggere il figlio Ludovico come proprio erede e successore, senza che il papa vi fosse minimamente coinvolto, Carlo mostrò di non avere nessuna intenzione reale di considerare la possibilità che altri potessero considerarsi al di sopra della propria autorità. Se esso non poté essere usato come strumento operativo per l’azione politica dei pontefici della seconda metà dell’VIII


L’epopea del cid campeador Cava diventa uno dei temi ricorrenti nella vedutistica napoletana dell’Ottocento: i pittori della scuola di Posillipo riprendono i suoi scorci collinari declinandoli nelle infinite sfumature di verde, con un occhio di riguardo per i valori lirici e romantici. Partendo da un disegno realizzato dal vero, gli artisti si accostano talvolta al gusto pittoresco, per dipingere opere che incontrano il favore del mercato. Tra quanti hanno immortalato angoli del borgo nato attorno al monastero figurano Giacinto Gigante, Domenico Morelli, e poi i fratelli Palizzi, Achille Vianelli, Achille Carelli e De Tra il XIX e il XX secolo sono invece i fotografi a rimanere abbagliati dalla luce cavese: si sono spinti qui Alinari, Brogi, Mauri, che hanno siglato immagini di forte suggestione. E il XX secolo sono invece i fotografi a rimanere abbagliati dalla luce cavese: si sono spinti qui Alinari, Brogi, Mauri, che hanno siglato immagini di forte suggestione. E il XX secolo sono invece i fotografi a rimanere abbagliati.

L’epopea del cid campeador secolo, perché allora fu redatto e a quale scopo? Sempre Girolamo Arnaldi, escludendo che possa essere considerato come un semplice «divertimento erudito», ritiene che lo si debba analizzare piuttosto come segno della coscienza di sé raggiunta dal papato al momento in cui questa istituzione stava impegnando un tornante decisivo della propria storia. In altre parole, la Donazione getterebbe qualche squarcio di luce sul clima ideologico e culturale di Roma dei decenni centrali dell’VIII secolo, per noi oggi non semplice da esplorare a fondo, nel quale maturò la consapevolezza della possibilità di gestire lo strappo

da Bisanzio e l’avvicinamento ai Franchi, dribblando abilmente l’ostacolo rappresentato dalla presenza dei Longobardi. In questa fase, il papato si presentò come il legittimo detentore della signoria su Roma, in virtú dell’inscindibile legame esistente fra la Città Eterna e l’apostolo Pietro, la cui autorità celeste ormai scalzava e sostituiva quella degli antichi imperatori romani, assenti da secoli. Ciò era avvenuto ben prima della deposizione di Romolo Augustolo nel 476, visto che essi risiedevano altrove (a Milano e a Ravenna) e, in effetti, sin dai tempi di Costantino stesso. Agli occhi di chi scrisse il testo del Constitutum poteva

Cava diventa uno dei temi ricorrenti nella vedutistica napoletana dell’Ottocento: i pittori della scuola di Posillipo Roma, monastero dei SS.riprendono Quattro i suoi scorci collinari infinite sfumature di Coronati,declinandoli oratorio di S.nelle Silvestro. verde, condel unciclo occhio di riguardo per i valori lirici La scena affrescato edella romantici. Partendo da un disegno realizzato Leggenda di San Silvestro dal vero, gli artisti si accostano raffigurante Costantino che offre altalvolta al gusto pittoresco, persimbolo dipingere opere che incontrano il papa la tiara, del potere favore del mercato. Tra quanti hanno temporale. 1246. immortalato angoli del borgo nato attorno al monastero figurano Giacinto Gigante, perciò apparire plausibile che ciPalizzi, Achille Domenico Morelli, e poi i fratelli si fosse predisposti a una Vianelli, Achille Carelli e De Tra il XIX e il XX successione del potere sullaa rimanere secolo sono invece i fotografi Città Eterna sin dal tempo abbagliati dalla luce cavese:del si sono spinti qui primo imperatore cristiano. Alinari, Brogi, Mauri, che hanno siglato Pietro, quindi, s’identificava con immagini di forte suggestione. E il XX secolo Roma; e il papa, in quanto sono invece i fotografi a rimanere abbagliati successore dell’Apostolo, ne qui Alinari, dalla luce cavese: si sono spinti perpetuava l’eterna signoria Brogi, Mauri, che hanno siglato immagini di sullasuggestione. città. Da Roma forte E il all’intero XX secolo sono invece i Occidente, in via teorica, il balzo fotografi a rimanere abbagliati. (segue a p. 26)

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carlo magno

Pipino il Breve

era breve, nel senso che, essendo Roma l’antica capitale dell’impero, chi dominava su di essa poteva reclamare una legittima primazia sui territori che le erano appartenuti. Analoga pretesa non poteva essere accampata sui territori dell’Oriente, poiché qui un legittimo imperatore (quello di Costantinopoli) aveva continuato a esistere. Riguardo a queste aree, la Donazione si limita perciò ad attribuire al papa solo la primazia sulle quattro sedi patriarcali (Gerusalemme, Antiochia, Alessandria e la stessa Costantinopoli). Per tutte queste ragioni, l’attuabilità dello scenario delineato dal testo attribuito a Costantino era a dir poco utopica. Essa poté però servire a inquadrare idealmente le ragioni sulla base delle quali i pontefici dell’VIII secolo sottoposero a Pipino e a Carlo rivendicazioni territoriali molto piú modeste, ma in questo caso piú concretamente accessibili, che si limitavano a parti dell’Italia centrale e meridionale. Carlo fu assai prudente anche nel dare corso a queste richieste, soddisfacendole alla fine solo in minima parte, ma è anche vero che la nascita in sé di un potere temporale pontificio (ma, in genere, di una signoria territoriale a guida ecclesiastica) costituiva un fatto giuridicamente e politicamente del tutto inedito. Per questa ragione, anche le limitate acquisizioni territoriali effettivamente raggiunte possono essere considerate un successo rilevante. Soprattutto, però, era il fatto stesso di avanzare tali rivendicazioni ad aver bisogno di un retroterra concettuale complesso, che le puntellasse e le giustificasse. Forse la fabbricazione del Constitutum Constantini si può proprio interpretare come un «prodotto» dell’officina attiva all’interno delle cancellerie pontificie, pronta a corroborare con argomenti e citazioni

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erudite il difficoltoso cammino verso la definizione di una nuova identità del potere papale. La datazione del documento al tempo di papa Paolo I (757-767) è stata anche proposta in relazione al fatto che questo pontefice rilanciò in Roma il culto di papa Silvestro, erigendo in suo onore un monastero la cui chiesa ancora oggi si affaccia sull’omonima piazza del centro cittadino. Sebbene il testo del Constitutum non sia mai stato utilizzato ufficialmente in età carolingia, il dato curioso è che il codice piú antico che lo ha tramandato proviene da uno dei monasteri piú vicini a Carlo Magno e alla sua famiglia, ovvero quello di Saint-Denis, presso Parigi, dove fu sepolto Pipino il Breve. Come si è già detto, la vita del documento rimase sottotraccia per tutto il periodo carolingio e anche al tempo degli imperatori tedeschi della famiglia degli Ottoni. Anzi, proprio sotto Ottone III, intorno al 1000, appare la prima ufficiale smentita della sua autenticità. Ma esso tornò prepotentemente alla luce (peraltro attraverso versioni testuali differenziate) nel corso della seconda metà dell’XI secolo. Il 2 settembre del 1053, papa Leone IX lo citò esplicitamente nella lettera indirizzata al patriarca di Costantinopoli, nella quale si affermava che le prerogative temporali della Chiesa romana si fondavano proprio su questo documento, che Costantino avrebbe deposto sull’altare di Pietro. Da allora esso giocò un ruolo di primo piano soprattutto nei due secoli successivi, quando i pontefici affrontarono la sfida per affermare la loro primazia universale sulla cristianità e il loro ruolo egemone sui poteri terreni in essa presenti (sulle origini e le vicende del documento, si veda Giovanni Maria Vian, La donazione di Costantino, Il Mulino, Bologna, 2004).

piú prettamente giuridico-finanziario, chiarendo i suoi poteri d’intervento sui patrimoni delle chiese. Impose loro di contribuire economicamente alle attività belliche del regno, ma al contempo stabilí che esse avrebbero avuto diritto d’imporre ai fedeli una contribuzione – la cosiddetta «decima» – per il sostegno della cura delle anime.


Il legame fra le chiese e il re venne accentuato anche su un piano piú prettamente simbolico: gli ecclesiastici dovevano pregare per la salute materiale e spirituale del monarca e della sua famiglia e per la prosperità del regno, in modo da innalzare intorno a essi una specie di barriera protettiva contro le forze del male e, indirettamente, per riconoscerne

Una scena di vita monastica, miniatura dal De universo di Rabano Mauro. 1023. Montecassino, Biblioteca Statale del Monumento Nazionale di Montecassino.

il ruolo di fautori e difensori della vera fede e, in definitiva, della Chiesa stessa. Quest’ultimo compito riguardava tutti gli ecclesiastici, ma la sua esecuzione sarebbe stata cura particolare delle comunità dei monaci, i quali, vivendo reclusi dal mondo e in perenne colloquio con Dio, avrebbero potuto rivolgere a Lui piú efficacemente di chiunque i propri carlo magno

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Pipino il Breve

voti affinché la Sua grazia non mancasse mai di toccare il sovrano e tutto il regno che gli era stato affidato. A sua volta, il mondo monastico fu interessato da provvedimenti specifici inerenti la disciplina delle comunità e i contatti che i loro membri potevano avere con il mondo esterno, avviando un’opera che produsse frutti duraturi. Se tutti i monaci dovevano pregare per il re e dovevano condurre un’esistenza sottoposta ai medesimi criteri di disciplina e onorabilità, era d’uopo che ciò avvenisse attraverso l’osservanza di norme organizzative uguali per tutti i monasteri. Per questo, sin dai provvedimenti adottati nei primi anni, quando ancora non era stato ufficialmente proclamato re dei Franchi, Pipino iniziò a insistere affinché in ogni monastero la vita ascetica si conformasse ai precetti della Regola di Benedetto da Norcia. Anche riguardo alla vita del clero secolare vennero intraprese iniziative analoghe, soprattutto da parte di Chrodegang, con lo scopo di imporre ai preti che officiavano presso le cattedrali di abitare in comunità. Al contrario di quanto avvenne riguardo la vita delle comunità monastiche, non sembra che questi tentativi abbiano sortito effetti particolarmente duraturi e condivisi, ma essi costituirono un importante precedente a cui avrebbero fatto riferimento esperienze analoghe, sviluppatesi nei secoli centrali e finali del Medioevo.

I monasteri finanziano le guerre

Anche i monasteri avrebbero dovuto contribuire alle finanze del regno, soprattutto se questo era impegnato in attività militari. Pipino non mancò di ribadire che i patrimoni di cui essi disponevano erano per la maggior parte costituiti da beni di cui il re poteva disporre in casi di eccezionale necessità. In cambio, le comunità piú importanti (e quindi anche quelle piú ricche) avrebbero potuto godere della diretta protezione regia nei confronti di chiunque avesse attentato alla tranquillità della loro vita. Proprio nei decenni del regno di Pipino prese le mosse anche una legislazione (sviluppata soprattutto al tempo di Carlo Magno e del figlio Ludovico il Pio), volta a garantire alle abbazie protette dal re condizioni particolarmente favorevoli dal punto di vista giudiziario e fiscale, in grado di consentire agli abati e alle loro comunità di godere di rendite stabili e al riparo da interferenze di ufficiali pubblici troppo solerti. La legislazione emanata riguardo la vita del clero e la sua organizzazione trovava ragioni profonde nell’esigenza – allo stesso tempo pratica e simbolica – di riunire le forze della Chiesa all’azione politica del re e di rafforzare 28

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Cofanetto in avorio decorato a rilievo con scene dell’infanzia di Cristo, prodotto della scuola tarda di Metz. IX sec. Parigi, Museo del Louvre. Sulla cassa: i Magi al cospetto di Erode; sul coperchio: l’Adorazione dei Magi.


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l’autorevolezza di quest’ultimo. Indirettamente, data la capillare presenza di chiese e monasteri sul territorio del regno, ciò avrebbe fornito anche un supporto importante al controllo delle sue diverse regioni da parte del potere centrale. Inoltre, essa avrebbe dovuto contribuire a rendere piú stabile ed efficiente la vita delle istituzioni ecclesiastiche, consentendone lo sviluppo materiale. Le chiese dovevano glorificare il Dio protettore del re e del suo regno e, per farlo efficacemente, avrebbero dovuto disporre di risorse sufficienti per apparire degnamente agli occhi di Colui al quale si rivolgevano, indirettamente celebrando anche il loro protettore terreno.

il tempio dei re A sinistra documento con la trascrizione di un privilegio accordato da Clodoveo III all’abbazia di Saint-Denis. 691. Parigi, Musée de l’Histoire de France.

Una stagione di grandi innovazioni

Gli effetti di questo indirizzo furono particolarmente rilevanti, se si considera l’enorme sviluppo dell’architettura ecclesiastica all’interno di tutti i territori dominati dai Franchi tra la seconda metà dell’VIII e tutto il IX secolo. Uno sviluppo rilevante non solo in termini di quantità degli edifici realizzati in questa fase, ma anche sotto il profilo dell’innovatività tecnica e formale e della grandiosità che caratterizzò molti di essi. Ma su questo tema torneremo piú avanti, poiché esso offre gli spunti di riflessioni piú interessanti soprattutto guardando ai decenni in cui regnò Carlo Magno. Il viaggio di Stefano II presso Pipino non produsse subito gli effetti che il papa avrebbe voluto. Nell’immediato furono poste in essere trattative diplomatiche per costringere il re longobardo Astolfo a desistere dai suoi propositi aggressivi contro Roma. Ma questi comprendeva che, se avesse rinunciato a sottometterla, si sarebbe trovato nella medesima situazione che aveva condotto all’abdicazione di suo fratello Ratchis, il quale, con i suoi tentennamenti, si era inimicato l’aristocrazia che lo aveva reputato un codardo. Astolfo decise quindi di agire, forse confidando nel fatto che Pipino non avrebbe davvero osato attaccarlo; ma cosí non avvenne. Nella primavera del 755 l’esercito franco valicò le Alpi e costrinse Astolfo alla resa, cosa che si ripeté l’anno dopo, poiché il re longobardo aveva immediatamente riacceso le ostilità contro Roma, non appena le truppe franche avevano ripreso la strada di casa. La spedizione del 756 condusse a una sconfitta molto piú pesante per Astolfo e i suoi, poiché determinò la «restituzione» di Ravenna al papa e la dichiarazione di Pipino agli ambasciatori bizantini (venuti a reclamare – legittimamente – l’antica capitale dell’esarcato (segue a p. 35) 30

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l tempo di Pipino il Breve, nella basilica francese di Saint-Denis (situata in quella che è oggi la periferia settentrionale di Parigi, n.d.r.), si era già depositata la coltre di quasi quattro secoli di storia cristiana della Gallia e dei Franchi. Il tempio commemorava il luogo in cui era stato sepolto Dionisio, primo vescovo di Parigi e martire nel corso delle persecuzioni patite dai cristiani nella seconda metà del III secolo. Nella necropoli, databile a partire dal III secolo, all’interno della quale si trovavano le sue spoglie, fu eretto un mausoleo che le indagini archeologiche piú recenti datano al IV secolo.

Per l’elevazione sul posto di una vera e propria aula di culto si dovette però attendere la fine del V secolo, quando la nobile gallo-romana Geneviève, votatasi a vita ascetica, intervenne con una propria somma di denaro per promuoverne la costruzione. Da questo momento, la nuova chiesa iniziò a divenire luogo di pellegrinaggio, prescelto da molti per la propria sepoltura e in particolare da esponenti della nobiltà franca ormai convertitasi alla fede cattolica. Tra questi, spicca la presenza della regina Aregonda, moglie del re merovingio Clotario I (524-561), l’esponente piú importante della casa regnante franca di tutto il VI secolo. Il suo pronipote Dagoberto I (629-639) le attribuí però un ruolo assai piú importante, poiché la fece ampliare significativamente, trasformandola apparentemente in una basilica a tre navate, riccamente decorata, facendovisi poi seppellire. Nel tempio vollero farsi inumare anche sua moglie, la regina Nantilde, e il loro figlio, il re Clodoveo II (morto nel 657). Dagoberto dispose anche l’instaurazione presso la chiesa di una comunità monastica, che avrebbe avuto il compito di pregare perennemente per la salute del re. Il luogo in cui Pipino decise di organizzare la cerimonia dell’unzione regia per sé e per i propri figli per mano di papa Stefano II, non fu quindi scelto a


caso, ma rappresentava fisicamente il nesso fra la monarchia franca e la sua dimensione piú sacra. Facendosi consacrare re in quel tempio, Pipino intendeva perciò mostrare a tutti la raggiunta legittimità della sua posizione e dissipare definitivamente ogni ombra che potesse ancora gravargli addosso in merito all’estromissione dal potere dell’ultimo rappresentante della dinastia merovingia. Il legame fra la nuova dinastia regnante e

la chiesa di Dionisio non si limitò tuttavia a questo episodio. Poco tempo dopo (siamo nella seconda metà degli anni Sessanta dell’VIII secolo), all’abate Fulrado, che aveva avuto un ruolo di primo piano nelle trattative e nei contatti tra Pipino e il papato, furono dati mezzi sufficienti per intraprendere un intervento di radicale ricostruzione e ampliamento della chiesa del VII secolo.

Il nuovo edificio – una basilica a tre navate, con un vasto transetto e un’unica abside – è considerato quasi unanimemente dagli storici dell’architettura come l’esempio piú fulgido della diffusione in terra franca di modelli architettonici «importati» dalla tradizione architettonica romana, sull’onda dell’infittirsi dei legami con il papato e le costumanze liturgiche in voga nell’Urbe. (segue a p. 32)

Miniatura raffigurante il re Dagoberto I in visita al cantiere di Saint-Denis, da Les Chroniques de France. XIV sec. Londra, British Library.

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Pipino il Breve

In realtà, considerando quanto poco conosciamo dello stile e delle tendenze dell’architettura cristiana di età merovingia, è difficile dire se tale parallelismo, che pure è per molti versi evidente, sia da attribuirsi in toto al clima del momento o non poggiasse anche su basi autoctone piú antiche. Tuttavia, un elemento inserito nella basilica carolingia e assente

in quella anteriore è sicuramente frutto dell’imitazione intenzionale di modelli romani. Si trattava della cripta realizzata al di sotto del presbiterio e dell’abside, che riprendeva quasi alla lettera quella fatta realizzare alla fine del VI secolo da papa Gregorio Magno nella basilica vaticana. Questo tipo di ambiente sotterraneo è denominato dagli storici

Abbazia di Saint-Denis. Particolare del monumento funebre di Pipino il Breve, morto nel 768.

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dell’architettura «cripta semianulare», poiché è caratterizzato da un corridoio che segue la curva della soprastante abside principale della chiesa (assumendo quindi una forma a «U»). Da esso in genere si diparte un altro ambulacro che segue l’allineamento dell’edificio basilicale e che si apre di solito in un vano, posizionato in corrispondenza del soprastante altare maggiore, destinato a ospitare reliquie o (come nel caso della basilica vaticana e anche in quella di SaintDenis) posto in vicinanza della sepoltura del santo eponimo della basilica stessa. Tale sistemazione del sottosuolo della zona presbiteriale era stata ideata al tempo di Gregorio Magno per consentire ai devoti e ai pellegrini di avvicinarsi piú facilmente alla tomba dell’Apostolo Pietro e pregare in diretta prossimità alle sue spoglie mortali. Il corridoio semianulare era stato pensato per permettere che l’accesso alla zona sotterranea avvenisse da un lato della zona presbiteriale e l’uscita da quello opposto, cosí da evitare che il flusso dei devoti si accavallasse in modo disordinato e pericoloso. La cripta di S. Pietro fu seguita, a Roma, da una analoga edificata nella chiesa di S. Pancrazio, al tempo di papa Onorio I (625-638), sorta presso il cimitero in cui il martire era stato sepolto. Un secolo dopo, papa Gregorio II (715-731) ne fece costruire una sotto la chiesa di S. Crisogono, in Trastevere. Essa rappresenta il primo esempio realizzato non per facilitare l’avvicinamento alla sepoltura di un martire già preesistente sul posto, bensí concepito come un vano per il ricovero di reliquie traslate dai cimiteri suburbani della città, che in quel tempo iniziavano a essere


di nuovo interessati da un’intensa frequentazione, mirante proprio al recupero di corpi santi. Infatti, proprio in quel periodo, i resti materiali dei santi che avevano sparso il proprio sangue in difesa della fede cristiana anteriormente alla pace costantiniana iniziavano a essere oggetto d’interesse non solo da parte del clero romano, che desiderava ricoverarli nelle chiese urbane, ma analogo interesse era avvertito anche dalle comunità di fedeli fiorite in altre aree d’Europa e, soprattutto, nei territori transalpini dominati dai Franchi. (segue a p. 34)

Qui sopra ricostruzione dell’abbazia di Saint-Denis in età carolingia (IX sec.), con la basilica, la cappella di Ilduino e gli edifici conventuali. In alto l’abbazia di Saint-Denis in una foto aerea. A sinistra il complesso abbaziale, cosí come doveva presentarsi in epoca romanica (XII sec.), con la basilica carolingia ampliata dall’aggiunta del Westwerk (il corpo che precede l’ingresso) e dell’abside con le cappelle a raggiera. carlo magno

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Pipino il Breve

Molte delle cripte anulari presenti al di sotto delle chiese costruite in età carolingia in tutta Europa furono pensate proprio per ospitare le spoglie di santi romani acquistate da ecclesiastici in missione presso la Città Eterna. Uno dei piú celebri fu il biografo di Carlo Magno, Eginardo, che si procurò a Roma le reliquie di san Marcellino (martire del III secolo il cui corpo era stato sepolto nel cimitero «Ad Duas Lauros» sulla via Casilina, presso il mausoleo dell’imperatrice Elena, madre di Costantino), per deporle nella chiesa eretta all’interno del monastero che fondò presso l’attuale città tedesca di Seligenstadt, in Renania. Tornando a Saint-Denis, la consacrazione della nuova chiesa avvenne il 24 febbraio del 775,

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alla presenza di Carlo Magno. Successivamente, intorno all’800, egli fece ristrutturare la zona della facciata, facendovi costruire una sorta di contro-abside, che doveva servire a rendere piú monumentale il luogo in cui era stata collocata la sepoltura di suo padre. Infine, nell’832, l’abate Ilduino aggiunse alle spalle dell’abside una sorta di cappella, anch’essa a pianta basilicale, dedicata alla Vergine, al Battista, agli Apostoli e ai martiri, all’interno della quale gruppi di otto monaci avrebbero dovuto celebrare perennemente le lodi a Dio, secondo il costume romano. Con questo intervento si completa la vicenda della chiesa abbaziale di Saint-Denis nell’Alto Medioevo. Di essa sfortunatamente non resta piú nulla, poiché l’intero edificio fu abbattuto quando,

nella prima metà del XII secolo, l’abate Suger (1081-1151) ne intraprese la ricostruzione, creando il capolavoro architettonico che ancora oggi si ammira e che costituisce il piú celebre monumento della transizione dallo stile romanico a quello gotico. Le forme e la storia della chiesa carolingia sono state individuate dal lavoro degli archeologi che a piú riprese, dal tempo dell’architetto Eugène Viollet-le-Duc (1814-1879), sino ai giorni nostri, hanno indagato il sottosuolo dell’edificio tardomedievale e i suoi dintorni, contribuendo a riportare in vita un tempio che, a buona ragione, può essere considerato come la prima espressione della grande stagione dell’architettura carolingia europea.


d’Italia) che quei territori erano ormai parte di una nuova «Respublica Romanorum» di cui era rappresentante il papa. L’abate Fulrado di Saint-Denis rivelò loro che egli aveva deposto sull’altare di S. Pietro un diploma con il quale il re dei Franchi riconosceva solennemente questo stato di cose.

Le pretese del pontefice

Abbazia di Saint-Denis. Un settore della cripta del XII sec.

Alla metà degli anni Cinquanta, insomma, il regno longobardo era divenuto, se non proprio un protettorato franco, sicuramente l’ombra della potenza regionale che per un momento era riuscito a essere al tempo di Liutprando. L’intesa politica tra Pipino e il papato era giunta a un punto tale da rendere impossibile pensare che si potessero verificare nuovamente da parte dei Longobardi seri tentativi per stabilire la propria egemonia sull’Italia. Dall’altra parte si era affacciato sulla scena un nuovo protagonista: seppur in termini ancora piuttosto fluidi e ambigui, il papa non era piú solo il vescovo di Roma e il detentore di un cospicuo patrimonio terriero, bensí qualcuno che avanzava diritti di signoria politica su vaste aree dell’Italia. Essi, come abbiamo visto, erano costruiti in parte sulla base della pretesa a succedere all’impero bizantino sulle regioni che esso controllava in Italia centrale, e in parte su rivendicazioni ancor meno chiare, che avrebbero avuto i loro antecedenti in un passato piú lontano, risalente all’età di Costantino. Nonostante la labilità di tali presupposti, la posizione del papato sullo scenario italiano si era comunque modificata, e ciò era avvenuto con il sostegno del soggetto politico piú influente nell’ambito della cristianità occidentale. L’ingresso in Italia aveva aperto ai Franchi anche un fronte diretto di confronto politicodiplomatico con l’impero bizantino che, sebbene espulso dai possedimenti dell’Italia centrale, conservava ancora il controllo sulle lagune venete e su importanti territori del Meridione, incluse le due isole maggiori. Contatti diretti sul suolo italiano tra Franchi e Bizantini mancavano dalla fine del VI secolo, quando si era stabilita un’alleanza fra i due Stati per contrastare l’insediamento dei Longobardi nella Pianura Padana e i loro tentativi di espansione in direzione della Provenza. Ma quello era un altro tempo, in cui l’impero romano d’Oriente controllava ancora tutto il Mediterraneo e in cui in Europa occidentale erano per buona parte ancora presenti i regni che s’erano installati nelle province dell’impero romano. I Franchi, per quanto già piuttosto politicamente rilevanti, non ricoprivano ancora il ruolo egemone che

potevano vantare nell’VIII secolo, anche di fronte a un impero bizantino che aveva visto ridurre significativamente le proprie aree d’influenza a seguito dell’espansione araba nel Mediterraneo orientale e meridionale e delle invasioni slave nei Balcani. Adesso però le cose erano cambiate e il rapporto tra Franchi e Bizantini poteva essere impostato su nuove basi, soprattutto grazie al prestigio derivante dal ruolo di «difensore di san Pietro» che Pipino aveva ritagliato per se stesso e per il suo popolo. Non si deve però pensare che all’interno del regno mancassero i problemi. Anche se, con la scomparsa di Carlomanno e l’unzione papale, Pipino aveva guadagnato il controllo sulla corona, il suo potere effettivo si esercitava solo sulle aree centrali e settentrionali della Francia attuale e sulle propaggini che il regno aveva esteso nelle regioni della moderna Germania centro-occidentale. Le vaste aree a sud della Loira (quella che allora veniva denominata Aquitania) e tutta la Provenza erano di fatto autonome, mentre le zone costiere fra Nîmes e Narbonne costituivano ancora un avamposto degli Arabi spagnoli in terra di Gallia. Negli ultimi anni del regno Pipino avviò perciò campagne militari rivolte proprio in queste direzioni, mediante le quali riuscí a ridimensionare drasticamente la presenza musulmana e inflisse un duro colpo all’indipendenza dei duchi di Aquitania.

Resistenza visigota

Particolarmente dure furono le guerre condotte proprio in quest’ultima regione, la cui sovranità i Franchi avevano strappato nel 507 ai Visigoti con la battaglia di Vouillé, ma su cui non erano poi riusciti a stabilire un controllo politico diretto. In queste regioni, lontane dal cuore delle terre piú densamente occupate dai Franchi, era infatti rimasta al potere un’aristocrazia locale formata da elementi di origine romana e visigota, che seguiva ancora le leggi emanate dal re Alarico II all’inizio del VI secolo. Le guerre di Pipino, che si succedettero in quest’area senza sosta fra il 761 e il 768 – anno della sua morte – piegarono definitivamente la resistenza degli Aquitani, obbligandoli per la prima volta ad accettare sul loro territorio la presenza stabile di comandanti militari franchi con le loro guarnigioni. Come ha affermato lo storico francese Michel Rouche, autore dello studio forse piú completo sull’Aquitania altomedievale, solo dopo la fine di quelle azioni belliche si può cogliere in quell’area «la vera rottura fra l’Antichità, le cui strutture si erano sin allora quasi completamente preservate, e il Medioevo». carlo magno

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Natale di gloria Quando nella basilica di S. Pietro, nella notte tra il 24 e il 25 dicembre dell’800, papa Leone III cinse il capo di Carlo Magno con la corona imperiale, il disegno egemonico del sovrano carolingio poteva dirsi compiuto. La solenne consacrazione suggellava un percorso a dir poco trionfale, che vedeva (quasi) tutta l’Europa nelle mani di un solo uomo

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tanco e malato, probabilmente anche a causa delle lunghe guerre condotte negli ultimi anni, nell’estate del 768 Pipino si avvicinava alla conclusione del suo percorso terreno. Tornò dai campi di battaglia roso dalla febbre e si acquartierò a Saintes, da dove si fece condurre a Tours per trattenersi in preghiera presso il venerato monastero di S. Martino. Constatato il peggiorare delle proprie condizioni di salute, il re decise di farsi trasferire a Saint-Denis, dove riuní i maggiorenti laici ed ecclesiastici del regno, annunciando loro la divisione del regno fra i suoi figli maschi sopravvissuti, Carlo e Carlomanno. Al primo, il maggiore d’età, consegnò la Neustria, l’Austrasia e la parte nord-occidentale dell’Aquitania appena conquistata; al secondo assegnò invece la Borgogna, la parte meridionale dell’Aquitania, l’Alsazia e la zona sud-occidentale dell’attuale Germania. Pochi giorni dopo il re spirò e fu


Carlo Magno valica le Alpi, 773, olio su tela diEugène Roger. XIX sec. Versailles, Musée National des Châteaux de Versailles et de Trianon. L’artista immagina un momento della spedizione decisa dal re franco per combattere Desiderio, che ebbe come esito la definitiva sconfitta dei Longobardi nel 774.


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seppellito nella chiesa abbaziale di Saint-Denis, nella quale da tempo venivano interrate anche le spoglie dei re merovingi. La scelta non era casuale e rappresentava la riaffermazione della continuità della nuova dinastia rispetto a quella appena spodestata. La spartizione del regno fra gli eredi costituiva anch’essa la continuazione di una prassi tradizionalmente seguita dai monarchi merovingi. Ma le modalità della divisione rendevano chiaro a chiunque che la place d’honneur era stata assegnata a Carlo, il maggiore dei due figli, che aveva allora ventisei anni e dunque – per i parametri dell’epoca – era considerato un adulto nel pieno delle sue facoltà. A lui, infatti, erano stati affidati i territori che costituivano da sempre il cuore del re-

Desiderio diede un aiuto significativo a Carlo per passare all’azione e permettergli di scardinare gli equilibri raggiunti negli anni precedenti. Approfittando degli impegni di Pipino in Aquitania e della situazione abbastanza incerta determinatasi dopo la sua morte, il re longobardo aveva infatti ripreso l’iniziativa, ricominciando a tessere la trama già ordita da Liutprando, Ratchis e Astolfo. Era prima intervenuto sui ducati periferici di Spoleto e Benevento, imponendovi uomini a lui fedeli e si era poi abilmente introdotto nei giochi politici romani, profittando della crisi accesasi tra le diverse fazioni formatesi nella città e nei dintorni dopo la morte di papa Paolo I, fratello di Stefano II, avvenuta nel 767. Per alcune settimane era riuscito addirittura a far nominare al soglio

gno, ai quali fu aggiunta la parte superiore dell’Aquitania che con essi era in diretta continuità geografica. A Carlomanno, di nove anni piú giovane e quindi appena alle soglie dell’età adulta, era toccato un coacervo di terre assi meno omogenee fra loro, alcune delle quali, come la Provenza, vivevano ancora una situazione simile a quella dell’Aquitania prima che le guerre che vi aveva condotto Pipino l’avessero ricondotta all’obbedienza.

pontificio un candidato a lui personalmente gradito, Filippo; ma anche con il suo successore, Stefano III (768-772), privo del sostegno unanime delle componenti politiche cittadine, era stato in grado di giocare un ruolo assai influente, immaginando quindi di preparare il terreno per una revanche delle mire annessionistiche su Roma, che a un certo punto sembrarono prossime al successo. Ma proprio quando stava per passare all’azione, la morte di Carlomanno e, nell’anno seguente, quella di Stefano III, determinarono per Desiderio una situazione che si fece presto assai complicata. Il nuovo papa, Adriano I (772-795) denunciò a Carlo che i termini della pace stipulata fra Pipino e Astolfo nel 756 erano stati violati e che Roma rischiava nuovamente d’essere annessa al regno longobardo. Le lamentele del papa forse non sarebbero state ascoltate con la massima attenzione se Desiderio, insieme alle sue truppe, non avesse portato con sé la vedova e il figlio di Carlomanno, con l’intento di far consacrare quest’ultimo re dei Franchi, allo scopo di creare dissidi all’interno dei domini di Carlo. Ciononostante, Carlo ebbe ancora qualche esitazione prima di prendere la via dell’Italia, forse perché una parte dell’aristocrazia franca non era totalmente convinta di dare manforte a un’impresa che, se coronata da successo, avrebbe conferito a Carlo un potere sconfinato. Ma il rifiuto di Desiderio a recedere dai suoi proposi-

Lotta per la successione

Questa evidente disparità alimentò ben presto sordi dissidi fra i due giovani monarchi, che vennero alla luce di fronte allo scoppiare delle prime situazioni critiche. Nel 769 l’Aquitania era di nuovo in rivolta, sotto la guida di un personaggio che si proclamava erede del duca Waifrus, che si era opposto a Pipino; ma Carlomanno si rifiutò di inviarvi il proprio esercito a fianco di quello del fratello. Tuttavia, la partita della rivalità fra i due fratelli si giocò soprattutto sul fronte italiano. Considerando che le terre di Carlomanno confinavano con quelle del regno longobardo e temendo che il fratello potesse allearsi con il re di Pavia, Desiderio, succeduto nel 759 ad Astolfo, Carlo accettò di sposarne la figlia. Gli attriti sarebbero potuti presto degenerare in un conflitto aperto se Carlomanno non fosse improvvisamente deceduto nel 771. A questo punto le carte sul tavolo dei giochi politico-diplomatici europei cambiarono radicalmente. 38

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A sinistra la croce astile (processionale) detta «di Desiderio», in legno rivestita da lamina d’oro con un’esuberante decorazione di pietre dure, paste vitree, cammei e medaglioni di epoca romana, longobarda e carolingia. Età carolingia (fine VIII-IX sec.), con integrazioni apportate tra il IX-X e il XVI sec. Brescia, Museo di Santa Giulia.


ti lo spinse nella primavera del 774 a valicare le Alpi. Nonostante la resistenza di Pavia e di Verona, dove si erano asserragliati rispettivamente Desiderio e suo figlio Adelchi, la conquista definitiva del regno fu raggiunta nel mese di luglio.

A Roma, da trionfatore

Fu questa la prima grande estensione territoriale del regno ottenuta da Carlo nel corso del suo lungo regno e fu sicuramente la piú prestigiosa di tutte quelle che seguirono, poiché gli portò in dote l’ultimo regno sopravvissuto in Europa al collasso dell’impero romano. Soprattutto, oltre a consegnargli buona parte dell’Italia, la vittoria permise al re franco, primo sovrano «barbaro» dopo Teodorico, di mettere piede a Roma in pace

Pavia, chiesa di S. Teodoro. Carlo Magno prega per la resurrezione del nipote colpito da una freccia durante l’assedio di Pavia (774), particolare di un affresco del ciclo con le Storie di San Teodoro, attribuito a Bernardino Lanzani. Inizi del XVI sec.

e da trionfatore. La visita a Roma fu compiuta il giorno di Pasqua del 774, mentre era ancora in corso l’assedio di Pavia e, stando a quanto racconta la biografia di Adriano I nel Liber Pontificalis della Chiesa romana, il papa approfittò della circostanza per farsi ribadire dal re le promesse sulle «restituzioni» territoriali in favore del papato, fatte nel 754 da Pipino a Stefano II. In realtà, Carlo, pur con tutto l’amore e la deferenza verso la Città Eterna, fu abbastanza scaltro e avveduto da concedere concretamente ben poco alle pretese di Adriano. La conquista del regno longobardo non significò la sua annessione tout-court a quello franco. Entrato in Pavia e preso possesso del palazzo (dopo aver esiliato Desiderio nel monastero francese di carlo magno

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Corbie), Carlo si fece proclamare re dei Longobardi, mantenendo cosí formalmente in vita il regno appena conquistato, e non operò avvicendamenti drastici nelle alte sfere dell’aristocrazia e dell’amministrazione locali. Solo a seguito di una serie di rivolte scoppiate in seno alla nobiltà longobarda – soprattutto quella capitanata dal duca del Friuli nel 776 – Carlo iniziò a introdurre in Italia quadri amministrativi venuti d’Oltralpe. Furono cosí inviati conti franchi al posto dei duchi longobardi e alla testa delle diocesi vennero via via imposti vescovi graditi e fedeli, molti dei quali anch’essi di origine non locale, mentre si provvide anche a sguinzagliare sul territorio agenti di controllo alle dirette dipendenze del re (i missi dominici). Non meno rilevante fu anche l’opera di assorbimento dei maggiori monasteri italiani, compiuta agendo sul doppio binario dell’imposizione di abati considerati fedeli (talora anch’essi di origine franca) e del rafforzamento delle loro condizioni economiche e giuridico-fiscali.

Carlo Magno incoronato re d’Italia a Milano, 774, olio su tela di Claude Jacquand. 1837. Versailles, Musée national des châteaux de Versailles et de Trianon. Nel 774, mentre era ancora in corso l’assedio di Pavia, il sovrano si recò a Roma, dove ribadí ad Adriano I le promesse sulle «restituzioni» territoriali fatte nel 754 dal padre Pipino.

L’importanza di un titolo

Soprattutto, senza mai rinunciare alla titolatura regale longobarda, Carlo istituí nel 781 un regno «d’Italia» e uno «di Aquitania», alla testa dei quali pose rispettivamente i figli Carlomanno (ribattezzato da allora Pipino) e Ludovico, facendoli consacrare dal papa a Roma, in occasione della sua seconda visita alla città avvenuta proprio in quell’anno. La creazione di queste due nuove entità aveva lo scopo di presidiare in

la corona ferrea

Composta da piastre in oro ornate da rosette, gemme e smalti, reca all’interno un cerchio metallico che sarebbe stato ricavato da uno dei chiodi della Crocifissione. Capolavoro dell’oreficeria ostrogota e carolingia, è stata usata per incoronare i re d’Italia fino al XIX sec. Realizzata in successivi interventi tra il IV-V e il IX sec. Monza, Duomo, Cappella di Teodolinda.

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modo particolarmente attento due aree di recente conquista, ma di strategica rilevanza. La differenza rispetto ad analoghe iniziative adottate in passato dai sovrani franchi risiedeva nel fatto che, questa volta, non si trattava di porre le premesse per l’istituzione di due entità autonome, ma piuttosto di costituire due entità regionali deputate al disbrigo dell’amministrazione locale (una sorta di vicereami), laddove la direzione politica generale rimaneva saldamente nelle mani di Carlo. Questa impostazione apparve chiara proprio nella gestione delle faccende italiane. Carlo continuò a pilotare in prima persona il rapporto con il papa, garantendogli sempre il proprio sostegno, ma guardandosi bene, al contempo, dall’attuare in suo favore le cessioni territoriali promesse da suo padre. Contemporaneamente, egli si preoccupò di dirigere personalmente il definitivo assorbimento del ducato di Spoleto all’interno del regno longobardo e di stabilire patti con il duca (autonominatosi principe) di Benevento, Arechi II, secondo cui questi avrebbe dovuto riconoscere la sua suprema autorità. Il riassetto dell’Italia fu completato con la conquista dell’Istria, nel 792; questa regione era ancora formalmente appartenente all’impero bizantino e la sua annessione rappresentò l’unico atto di aperta aggressione condotto nei confronti di un territorio appartenente all’altra grande potenza cristiana del tempo, anche se condotto in un’area del tutto periferica, che Costantinopoli non aveva piú vero interesse né mezzi per mantenere entro la propria orbita. L’attività bellica di Carlo fu particolarmente intensa nel quarto di secolo trascorso fra

l’annessione dell’Italia e la fine dell’VIII secolo. Le guerre furono condotte in tutte le direzioni, in alcuni casi con l’esplicito obiettivo della conquista e dell’espansione territoriale, in altri con l’intento di mettere al riparo alcune aree di frontiera da azioni di disturbo provenienti dall’esterno.

Evangelizzare la Germania

La prima, la piú importante e la piú prolungata nel tempo fra le guerre di conquista fu quella contro i Sassoni. La spinta verso l’annessione delle regioni abitate da questo popolo trovava le sue premesse nell’intensa attività di colonizzazione da tempo avviata dai Franchi nelle regioni della Germania centrale. Un’attività che era stata affiancata e supportata da un altrettanto intenso movimento di evangelizzazione e di disseminazione di chiese e monasteri all’interno di quei territori. In Assia, Turingia, BadenWürttenberg e Franconia fu incoraggiato il sistematico insediamento di lignaggi aristocratici franchi, prevalentemente provenienti dall’Austrasia e legati alla famiglia reale da forti rapporti di fedeltà personale, che vennero invogliati dalla possibilità di acquisire vasti possessi terrieri. Gli esponenti di questi gruppi furono a loro volta fondatori di monasteri, contribuendo cosí a riprodurre in queste aree allora periferiche i sistemi di sfruttamento e di gestione del territorio tipici delle loro zone di origine. L’incunearsi della colonizzazione franca in queste aree le apriva ai contatti, ma anche ai contrasti, con il popolo dei Sassoni che abitava i

san bonifacio

Magonza. Particolare della statua settecentesca di san Bonifacio, nella piazza del Duomo. Di origini anglosassoni, il suo nome di battesimo era Winfrid, Bonifacio venne inviato da papa Gregorio II a evangelizzare le genti pagane di Frisia (716), Turingia (719) e Assia (722). Nel 745 gli fu affidata l’archidiocesi di Magonza.

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territori a nord-est di esse. Nel 754 per mano loro era stato ucciso Bonifacio, il promotore dell’evangelizzazione delle aree al di là del Reno durante la prima metà dell’VIII secolo, condotta in nome della corona franca ma anche della Chiesa di Roma. Il suo assassinio gli impedí di vedere realizzato l’incontro fra Pipino e Stefano II, che trovava nella sua azione missionaria uno dei presupposti di maggiore convergenza tra il papa e il re franco.

Azioni di rappresaglia

Come già i Merovingi e gli antenati di Carlo, anche quest’ultimo all’inizio si limitò a condurre contro i Sassoni raid di rappresaglia, in risposta alle razzie che essi compivano periodicamente tra la Renania e l’Assia. Ma nella seconda metà

degli anni Settanta egli attuò una strategia piú radicale, che comprese da un lato interventi diplomatici volti a dividere i capi sassoni fra loro e, dall’altro, a condurre (nel 775 e nel 780) due campagne al di là del fiume Weser. Esse produssero una prima sottomissione delle popolazioni e l’avvio del processo di colonizzazione e di organizzazione amministrativa dei loro territori già posto in atto nelle altre aree della Germania. Ma nel 782 un capo sassone, Widukind, capeggiò una rivolta sia contro i Franchi, sia contro chi, fra i Sassoni, ne aveva accettato la dominazione. La reazione di Carlo si concretizzò in una nuova e brutale spedizione militare, alla fine della quale fu imposto ai Sassoni non solo di piegare definitivamente il capo ai conquistatori, ma anche di accettare la conversione in massa al cristiane-

San Bonifacio (l’inglese Winfrid), detto l’«Apostolo dei Germani», mentre converte al cristianesimo una tribú barbarica. Illustrazione della fine dell’Ottocento di Johannes Gehrts.

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simo. Tuttavia, la partita si concluse solo negli ultimi anni dell’VIII secolo, poiché i territori piú remoti della regione, in direzione degli estuari dell’Elba e del Weser, tra la Frisia e la Danimarca, si rivolsero nuovamente contro i Franchi, obbligando Carlo a nuove campagne militari, messe in atto fra il 792 e il 796 e seguite da deportazioni di intere popolazioni.

Nuove sedi episcopali

Alla fine di questo ventennale conflitto, la Sassonia era definitivamente domata (salvo un’altra insurrezione, avvenuta nell’804) e ciò indusse i Franchi ad alleggerire progressivamente il regime di terrore e repressione instaurato negli 44

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anni Ottanta e a procedere alla definitiva riorganizzazione amministrativa di quelle aree, condotta anche attraverso la creazione di una rete di nuove sedi episcopali, quali Paderborn, Münster, Brema e Osnabrück. La Germania settentrionale con le sue città, quale oggi la conosciamo, nacque con la conclusione delle sanguinose guerre sassoni che sottomisero l’ultima gens sino ad allora sfuggita all’assorbimento entro il sistema politico mano a mano creatosi dopo la fine dell’impero. Negli intervalli delle campagne contro i Sassoni, Carlo portò a termine l’altra impresa militare grazie alla quale divenne infine padrone dell’intera Germania. Nel corso del VI secolo, nei terri-

Miniatura raffigurante Carlo Magno che sconfigge i Sassoni, da un manoscritto francese delle Grandes Chroniques de France. 1332-1350. Londra, British Library.


tori dell’attuale Baviera, si era formato un ducato indipendente, che aveva raggiunto una certa stabilità politica dopo il 550, con l’affermazione di una dinastia – quella degli Agilolfingi – che perdurò sino ai tempi di Carlo Magno. Vale la pena ricordare che i Bavari erano stati una presenza non secondaria sul palcoscenico politico dei primi secoli dell’Alto Medioevo. Essi avevano intessuto legami diplomatici con Franchi e Longobardi (di lí proveniva per esempio la regina Teodolinda) e avevano rappresentato il primo interlocutore delle popolazioni slave e centro-asiatiche che si erano insediate a est dei loro territori. Furono proprio i rapporti intrattenuti con una di esse, gli Avari (stanziati nell’area dell’odierna Ungheria), a offrire a Carlo il destro per abbattere lo Stato autonomo della Baviera. Il duca Tassilo III, che era fra l’altro cugino di Carlo in quanto nipote di Carlo Martello, aveva infatti cercato di contrastare la sempre piú stretta tutela imposta dai Franchi stringendo un’alleanza con gli Avari che fu considerata come un’insubordinazione. L’abbattimento della dinastia indipendente costò poca fatica.

Il favoloso tesoro degli Avari

Nel 788 la Baviera fu conquistata e assorbita del regno franco e affidata al cognato di Carlo, Gerold, che avrebbe dovuto tenere d’occhio gli Avari. Il passo successivo, e cioè lo scontro con quest’ultima popolazione, fu intrapreso a tambur battente. Nel 791 erano già iniziate le operazioni militari, che si conclusero cinque anni dopo con la presa e il saccheggio del campo trincerato posto presso la confluenza tra il Danubio e il Tibisco (nell’odierna Serbia settentrionale), in cui risiedeva il loro re. La guerra fu condotta sul campo dal duca del Friuli, Enrico, e dal figlio di Carlo, Pipino, a cui aveva affidato la reggenza dell’Italia. La resa del campo nemico fruttò un immenso bottino, costituito dai tesori accumulati per secoli dai monarchi avari, che venne trasportato trionfalmente ad Aquisgrana – dove allora già risiedeva Carlo – con un corteo composto da quindici carri carichi di oggetti preziosi di ogni genere. La scomparsa degli Avari come entità politica avrebbe potuto letteralmente aprire di fronte ai Franchi praterie sconfinate da conquistare. Ma, al contrario, le scelte adottate furono improntate a estrema prudenza. Mentre nel corso dei primi anni del IX secolo venivano sgominate le ultime sacche di resistenza avara, a sud-est della

Ricostruzione dell’armamento di un guerriero franco dell’età di Carlo Magno. Parigi, Musée de l’Armée.

Baviera fu organizzata una nuova circoscrizione di confine denominata Östmark (marca dell’Est), che occupava le aree collinari digradanti verso la pianura pannonica, ma senza che quest’ultima venisse a sua volta permanentemente occupata. Anche questo provvedimento sarebbe stato gravido di conseguenze sulla futura storia europea. La Östmark costituí il bastione a difesa delle terre germaniche dell’Europa centrale e fu primo embrione dell’odierna Austria. Di lí a poco, invece, lo spazio rimasto vuoto nelle piane del medio Danubio venne occupato dai Magiari, anch’essi, come gli Avari, di origine centro-asiatica, il cui insediamento diede origine all’attuale Ungheria. Ma anche l’avanzata dei Franchi sino ai confini settentrionali dei Balcani sortí un effetto di lunga durata sulla geopolitica europea. Esso costituí infatti un elemento di attrazione nei confronti delle popolazioni slave che avevano occupato ormai da qualche tempo le aree interne della Dalmazia, favorendo la formazione di nuove entità politiche «croate», che, anche in seguito, continuarono a gravitare in direzione del mondo franco-tedesco. Si apriva cosí la via alla demarcazione fra i Croati e i gruppi slavi (tra cui i Serbi) la cui storia si svolse invece in piú stretto contatto con il mondo greco-bizantino, adottandone la religione e – attraverso la mediazione dell’alfabeto cirillico – il sistema scrittorio.

Missione in Spagna

L’ultimo orizzonte in direzione del quale Carlo Magno sviluppò una vera e propria azione di conquista si trovava in un’area dell’Europa diametralmente opposta. Sin dai primi decenni dell’VIII secolo, la penetrazione araba nella penisola iberica aveva prodotto ripetuti sconfinamenti oltre i Pirenei e le campagne condotte dall’Islam ispanico nell’Aquitania, nella Linguadoca e sino alla Provenza possono essere considerate come veri e propri «assaggi» di un progetto di conquista delle regioni meridionali dell’antica Gallia. Approfittando delle discordie sorte fra l’emiro di Saragozza e il califfo di Cordova, nel 778 Carlo ritenne propizio il momento per lanciarsi in una spedizione militare al di là delle montagne e riprendere, stavolta però con intenti apertamente aggressivi ed espansionistici, la politica di contenimento degli Arabi che era stata già di suo nonno e di suo padre. L’armata franca era stata divisa in carlo magno

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due colonne: una che passò lungo la costa, in direzione di Barcellona, e l’altra, diretta da Carlo in persona, che valicò i Pirenei attraverso il passo di Roncisvalle, raggiungendo Pamplona, dove i Baschi fecero atto di sottomissione. Ma la situazione sul campo prese rapidamente una piega negativa, poiché il governatore arabo di Saragozza, che avrebbe dovuto aprire le porte ai Franchi, mutò opinione, obbligando Carlo a cingere la città d’assedio. Poco dopo, Carlo ricevette la notizia di una nuova insurrezione scoppiata in Sassonia e si trovò quindi obbligato ad abbandonare il campo e riprendere la strada del ritorno, non prima però di aver assalito la città basca di Pamplona, danneggiandone le fortificazioni. Lungo la via del ritorno, proprio nel passo di Roncisvalle, i Baschi si presero la loro vendetta, assalendo la retroguardia dell’esercito franco e uccidendo diverse persone, fra cui il conte Rolando, marchese della marca di Bretagna. L’episodio fu narrato nella celebre Chanson de Roland – poema scritto tra la fine dell’XI e gli inizi del XII secolo – e costituí una delle poche sconfitte conclamate patite dai Franchi nella lunga serie di fortunate imprese militari capitanate da Carlo (vedi box alle pp. 49-51).

Ludovico guida la rivincita

La rilevanza dei suoi effetti si può misurare soprattutto considerando che trascorsero molti anni prima che fosse ripresa qualsiasi iniziativa in direzione dei territori spagnoli. Ciò avvenne solo agl’inizi del IX secolo, quando era stata sufficientemente consolidata l’organizzazione del regno di Aquitania e, sul versante mediterraneo, era stata creata la marca di Tolosa, affidata al cugino di Carlo, Guglielmo. Nell’801 Ludovico il Pio, re di Aquitania, condusse quindi una nuova spedizione al di là dei Pirenei, stavolta prediligendo la direttrice costiera mediterranea per evitare i territori baschi, e conquistando Barcellona, che divenne capitale di una nuova marca il cui territorio si estese intorno all’810 sino a comprendere anche Tarragona e la valle dell’Ebro. Non sfugge, anche in questo caso, come la precoce affiliazione di queste aree ai territori del regno franco abbia prodotto effetti avvertibili a lungo nella fisionomia politico-culturale della penisola iberica, contribuendo a delineare quell’ «alterità» della Catalogna (ma indirettamente anche del Paese Basco) rispetto alle regioni circostanti, che costituisce un elemento caratteristico della Spagna odierna. 46

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Quanto a conseguenze di lunga durata sugli assetti geopolitici determinati dalle guerre e dalle conquiste compiute (o non compiute) da Carlo Magno, ce n’è una che riguarda direttamente il territorio italiano. Infatti, rispetto a quanto avevano fatto i re di Pavia da Liutprando in poi, il re franco ripensò radicalmente la strategia da tenersi nei confronti del nostro Meridione, producendo uno spartiacque decisivo nella storia della Penisola. Carlo rinunciò a qualsiasi seria iniziativa militare volta a estendere il proprio diretto controllo sulle terre beneventane. Trascorsero ben tredici anni, infatti, prima che Carlo, nella primavera del 787, si decidesse a compiere una sortita all’interno dei loro confini, fermandosi però a Capua (e quindi evitando di addentrarsi in quei territori).

Il principe sottomesso

In quella circostanza, il sovrano franco ottenne una formale sottomissione alla propria autorità del principe di Benevento, Arechi II, gli impose di consegnargli in ostaggio il proprio figlio Grimoaldo. Soprattutto, dichiarò sottoposti al suo mundiburdium i monasteri di S. Vincenzo al Volturno e Montecassino, collocati nella fascia di confine fra i territori beneventani e quelli del ducato di Spoleto, sul quale egli aveva invece operato con decisione per ridurlo sotto il suo completo controllo. Arechi, quindi, fu salvo e conservò l’autonomia dei propri domini. Quando, pochi mesi dopo, la sua esistenza terrena giunse al termine, Carlo concesse che il figlio Grimoaldo tornasse a Benevento per succedere al padre (sempre sub condicione che riconoscesse l’alta autorità di Carlo medesimo), ma sostanzialmente optando per garantire continuità allo status quo ante. Perché Carlo agí in questo modo? Non bisogna dimenticare che Arechi lo aveva apertamente sfidato, all’indomani della caduta di Pavia, attribuendosi il titolo di «excellentissimus princeps gentis Langobardorum», con ciò dichiarando di assumere su di sé la legittimità a rappresentare la continuità con l’autorità sovrana dello spodestato re Desiderio. Le ipotesi in campo sono molte per cercare di decifrare l’atteggiamento del monarca franco, e tutte da ricercarsi su un terreno squisitamente politico. In effetti, al di là delle prese di posizione sul piano simbolico, la condotta di Arechi negli (segue a p. 52)

Nella pagina accanto parte inferiore di dittico in avorio, con raffigurato Carlo Magno vittorioso sui barbari. VIII-IX sec. Firenze, Museo Nazionale del Bargello. A sinistra spada di epoca carolingia. Norimberga, Museo Nazionale Germanico.


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A destra miniatura raffigurante Carlo Magno che invia Gano di Magonza come ambasciatore ai sovrani saraceni Marsilio e Baligante, da Les Chroniques de Saint-Denis. 1275-1280. Parigi, Bibliothèque interuniversitaire Sainte-Geneviève.

Orlando a roncisvalle

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A sinistra Cordova. La «selva» di colonne della Mezquita (moschea), oggi Cattedrale dell’Immacolata Concezione di Maria Santissima, iniziata nel 785 per volere dell’emiro Abd al-Rahman I sul suolo dell’antica basilica visigota di S. Vincente. Nelle sue forme attuali risale al XVII sec.

olver la derrota en victoria» («trasformare la sconfitta in vittoria»). Questo aforisma spagnolo può ben adattarsi a descrivere la fortuna letteraria goduta dall’episodio – in sé non particolarmente onorevole – di cui fu protagonista nel 778 la retroguardia franca di ritorno dalla prima campagna condotta nella Penisola Iberica. In effetti, nella lunga storia delle imprese di Carlo Magno, sono pochi gli episodi in cui il suo esercito abbia dovuto cedere il passo sul campo. Soprattutto, stupisce che l’avversario in questione fosse un gruppo probabilmente non molto numeroso di guerrieri baschi, evidentemente capace, però, di padroneggiare l’aspro scenario delle valli dei Pirenei in modo cosí sicuro da mettere in scacco il potente corpo di spedizione condotto da Carlo contro gli Stati islamici del Nord spagnolo. Forse, proprio perché il fatto d’arme era stato cosí poco onorevole non si tardò a rielaborarlo e, senza negare la sua imbarazzante conclusione, lo si fece tuttavia apparire come un episodio di eroismo e di valore militare esibito da un gruppo di campioni della nobiltà piú vicina a Carlo. Il poema che narra quanto avvenne nelle gole di Roncisvalle nel giorno di Ferragosto del 778 è la Chanson de Roland, la cui versione scritta piú antica data alla fine dell’XI secolo. Ma il nucleo portante della storia si è quasi sicuramente formato per via orale, forse proprio nelle aree in cui i fatti erano realmente avvenuti. Una delle ipotesi piú accreditate vuole infatti che esso si sia inizialmente formato come una sorta di canovaccio per spettacoli e intrattenimenti riservati ai pellegrini in viaggio verso Santiago de Compostela. La Chanson narra che, quando Carlo decise di intraprendere una campagna militare contro i Saraceni, fra i nobili del regno si formarono due partiti: uno capitanato da Gano di Magonza, che riteneva inutile intraprendere

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questa pericolosa impresa e l’altro che aveva alla testa Rolando – suo figliastro – che voleva invece a tutti i costi che essa fosse affrontata, a onore e gloria delle virtú militari del popolo franco. Rolando, a cui il re avrebbe affidato un’importante responsabilità nell’organizzazione della missione, compí l’errore di nominare proprio Gano come ambasciatore presso il capo saraceno Marsilio. Gano, infatti, per oltraggio al figliastro, tradí i suoi, rivelando come e quando le truppe franche sarebbero passate per le gole di Roncisvalle e, non contento, fece in modo che proprio a Rolando fosse affidata la guida della retroguardia dell’esercito. Questo permise ai Saraceni di appostarsi e, nel momento in cui il grosso della spedizione con alla testa il re era già transitato, di piombare addosso ai dodici nobili (i paladini) che presidiavano la retroguardia. Nonostante l’impari numero delle loro forze, i guerrieri resistettero a lungo prima di essere uno dopo l’altro uccisi dagli assalitori. Rolando, rimasto l’ultimo sopravvissuto, ma già ferito a morte, decise infine di lanciare l’allarme al resto dell’esercito ricorrendo al celebre olifante, il corno in avorio il cui potente suono riecheggiò fra le gole montane, richiamando indietro Carlo che, come si conviene a questo genere di racconti, giunge sul posto proprio mentre il paladino rende l’anima a Dio, prontamente raccolta da un gruppo di angeli. Segue il combattimento di Carlo contro gli infedeli che, ben presto, dal piccolo iniziale gruppo di assalitori, si rafforza con l’arrivo delle truppe guidate dal potente emiro Baligante. La vittoria finale riscatta

Orlando (Rolando) suona l’olifante, copia moderna di una miniatura facente parte di un’edizione duecentesca della Chanson de Roland, conservato nella Kantonsbibliothek di San Gallo (Svizzera).

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L’olifante (corno da caccia) noto come «corno di Rolando», ricavato da una zanna d’elefante, forse di produzione iberica, proveniente dal tesoro dell’abbazia di St. Denis. XI sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.


In alto ancora un particolare della replica di una miniatura duecentesca, raffigurante Orlando che colpisce un saraceno deciso a sottrargli la durlindana, la leggendaria spada che, secondo la tradizione, sarebbe stata donata al paladino dallo stesso Carlo Magno.

l’onta dell’iniziale sconfitta e ribadisce la protezione celeste accordata al popolo dei Franchi. La decrittazione in chiave storica del racconto del poema di Rolando è stata impresa tutt’altro che semplice, anche se oggi si tende a ritenere che siano stati piuttosto i Baschi ad aver organizzato la trappola di Roncisvalle. Alcuni credono però che non sia da escludere la possibilità che i Baschi, che pure avrebbero avuto proprie ragioni di ostilità verso i Franchi, abbiano anche potuto agire per conto di alcuni potentati islamici spagnoli. Il dato di fatto è che, nel suo complesso, la campagna del 788 fu un totale insuccesso per i Franchi che, da liberatori delle popolazioni cristiane quali ritenevano di essere, si videro invece accolti con la diffidenza riservata agli invasori e agli occupanti. Essi erano penetrati, forse senza conoscerne bene le dinamiche, all’interno di un contesto politico assai complesso, in cui i rapporti fra cristiani e musulmani erano probabilmente meno radicalmente ostili di quanto non si credesse al di là dei Pirenei. Qualcosa di simile è avvenuto di frequente in Italia meridionale, nel corso del IX secolo, nelle circostanze in cui l’imperatore Ludovico II vi discese per condurre una serie di campagne militari contro i Saraceni, trovando però in piú di un’occasione resistenze e ostilità da parte delle popolazioni locali e dei loro governanti. La narrazione delle vicende di Roncisvalle forse è nata come una sorta di «controstoria» popolare di fronte al sostanziale silenzio su questo episodio che si registra nelle cronache ufficiali del periodo carolingio. Tuttavia, la versione del racconto che approda all’onore della pagina scritta verso la fine dell’XI secolo, nel clima in cui era maturata l’impresa della I Crociata, rielabora l’insieme delle memorie legate a quell’episodio in una chiave in cui buoni e cattivi possono essere distinti nettamente anche sulla base delle loro connotazioni religiose. Soprattutto, si evidenzia il fatto che la rotta militare subita dai cristiani non sarebbe derivata dalla loro inferiorità sul campo di fronte al nemico, ma dal tradimento compiuto da uno dei loro.

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Miniatura raffigurante Carlo Magno che piange la morte di Orlando, da un’edizione delle Grandes Chroniques de France. XIV sec. Bruxelles, Bibliothèque Royale de Belgique. 52

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anni seguenti la caduta di Pavia era stata molto prudente. Nel 775-776, quando parte della nobiltà longobarda del Nord Italia si era ribellata contro i Franchi, egli non prese parte attiva ai moti, evitando quindi a Carlo l’apertura di un doppio fronte di guerra. Carlo, d’altra parte, si trovava a dover fronteggiare le richieste del papa Adriano I, il quale,

secondo le promissiones del 774 (e forse già a partire da quelle di suo padre Pipino, negli anni Cinquanta), avrebbe dovuto vedersi consegnare dal re franco la sovranità, oltre che su altre zone d’Italia, anche sul ducato di Benevento. Inoltre, si deve considerare che buona parte dei territori a esso appartenenti costituiva il frutto di conquiste effettuate in tempi relativamente


recenti ai danni dell’impero bizantino. Infine non va dimenticato che i territori beneventani confinavano ancora con quanto restava dei possessi bizantini sulla Penisola italiana. In considerazione di tutto ciò, Carlo preferí molto probabilmente mantenere in vita uno Stato longobardo nel Sud, in qualche modo a lui sottomesso e comunque posto in condizione di non nuocere agli equilibri delle aree centro-settentrionali dell’Italia, assai piú rilevanti per i propri interessi. Questa scelta dovette apparirgli preferibile a quella di intraprendere impegnative campagne militari in un’area lontana, che avrebbero rischiato di attivare anche pericolosi fronti di frizione con l’impero bizantino, nonché riaccendere le richieste di ampliamento territoriale avanzate dai pontefici.

Belligeranza «a bassa tensione»

La sconfitta di Roncisvalle, una delle poche patite da Carlo Magno, fu di fatto taciuta dalle fonti contemporanee

La strategia adottata dai Franchi nei confronti dei Beneventani fu quindi quella di mantenere, fra il 791 e l’810, uno stato di belligeranza «a bassa tensione» lungo il lato adriatico della frontiera, e cioè quello che separava da due secoli i territori del ducato di Spoleto da quelli di Benevento. Ciò sortí l’effetto di tenere sotto costante pressione i Longobardi e fruttò anche un modesto ampliamento verso sud della frontiera, con l’acquisizione al regnum Italiae (cosí ormai si definiva quella parte della Penisola caduta sotto il dominio franco) delle aree dell’attuale Abruzzo meridionale corrispondenti alla provincia di Chieti, separando quindi per lungo tempo i destini di questa regione da quelli del confinante Molise. Sul piano della fisionomia geopolitica generale dell’Italia, le conseguenze delle scelte adottate da Carlo ebbero ricadute assai profonde e – a ben vedere – di lunghissima durata per la storia d’Italia. Se, infatti, già dopo la metà del VII secolo i Bizantini avevano fortemente ridimensionato le proprie ambizioni nei riguardi dell’intero territorio della Penisola, i re longobardi succedutisi sul trono pavese fra il 711 e il 774 avevano al contrario tentato di attuare su di esso un progetto di egemonia, che sembrava poter avere qualche buona chance di successo anche nei confronti del periferico ducato beneventano. Per Carlo, invece, l’Italia finiva lungo la linea tracciata dai corsi dei fiumi Liri (sul versante tirrenico) e Trigno (su quello adriatico) includendo, al di là di essa, solo gli avamposti rappresentati dalle due grandi abbazie di Montecassino e S. Vincenzo al Volturno. In un’epoca in cui molto contava il valore, anche solo simbolicamente riconosciuto, dell’auctoritas sovrana considerata dominante su un determinato territorio, oltre quella frontiera si stendevano regioni che, sotto questo profilo, carlo magno

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l’abate epifanio

San Vincenzo al Volturno. Il ritratto dell’abate Epifanio nella cripta che porta il suo nome. IX sec. A quell’epoca il monastero vulturnense raggiunge la sua massima espansione: con Giosué e Talarico, Epifanio trasformò il cenobio in una vera e propria città monastica. Nel secondo quarto del secolo il complesso ospitava circa 350 monaci, contava ben 10 chiese e possedeva terre in gran parte dell’Italia centro-meridionale. mostravano un’identità che si può considerare quanto meno contraddittoria. Sulle terre formanti il ducato (e poi principato) di Benevento, infatti, si sovrapponevano le antiche pretese di sovranità dell’impero bizantino e quelle, piú recenti, imposte da Carlo Magno ad Arechi II e a suo figlio Grimoaldo III. Ma non si deve dimenticare che i pontefici, a loro volta, si consideravano candidati ad avere voce in capitolo sul dominio di quelle regioni, poiché per loro faceva testo il fatto che i re franchi avessero avallato la tesi (codificata e radicalizzata nel Constitutum Constantini) che al papato andasse trasferita la titolarità dell’antica sovranità imperiale romana su tutta l’Italia appenninica. Infine, gli stessi principi di Benevento, in base a quanto asserito da Arechi II dopo la caduta di Pavia, accampavano diritti piú che legittimi per sostenere la loro autorità su quei territori. Essi, infatti, si ritenevano gli eredi del regno longobardo che, come abbiamo visto, includeva anche il ducato di cui Benevento stessa era capitale.

Un groviglio di ambizioni e interessi

Non si pensi che questo intrico di diritti rivendicati dai soggetti appena elencati, scaturito dalla complessa situazione politica della fine dell’VIII secolo, avesse valore solo sulla carta. Sulla base delle proprie prerogative, infatti, ciascuno di questi attori agí concretamente nel quadro delle vicende del Meridione italiano, e le conseguenze di ciò si avvertirono almeno sino alla seconda metà del XIII secolo. Fra il X e l’XI secolo, gli imperatori della casa di Sassonia e di Franconia s’impegnarono ripetutamente per includere il Sud nei confini del Regnum Italiae e si può dire che anche la parabola politica di Federico II (1198-1250), nella duplice veste di rex Italiae e di Sicilia (oltre che di imperatore), si sia svolta a partire dalle premesse poste da Carlo Magno. Sulla base dei propri antichi diritti, gli imperatori bizantini, tra la fine del IX e la prima metà dell’XI secolo, tentarono a loro 54

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La chiesa del monastero di S. Vincenzo al Volturno (Isernia), con il portico antistante, del XV sec. Il complesso conventuale venne fondato all’inizio dell’VIII sec. e, dopo la conquista franca, continuò a far parte del ducato longobardo di Benevento, sebbene dal 787 fosse stato posto sotto la protezione diretta di Carlo Magno. In basso l’estensione del ducato di Benevento nel VII-VIII sec.

DUCATO DI SPOLETO

Ortona Pavia

DUCATO ROMANO

SAN VINCENZO AL VOLTURNO

MARERavenna Larino

ADRIATICO Spoleto

Siponto Lucera

Venafro Bojano

MONTECASSINO

Roma

Canne

Alife Capua

DUCATO DI SPOLETO

Bari

BENEVENTO

Territori longobardi Territori bizantini Capitale del regno longobardo

Consa Potenza

Salerno

DUCATO Benevento DI Napoli BENEVENTO

Reggio

Palermo

MARE TIRRENO IL DUCATO DI BENEVENTO

Velia

Buxentum

DUCATO DI CALABRIA

MARE IONIO carlo magno

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volta di riconquistare tutte le regioni del Sud. Anche i papi agirono nella stessa direzione sin dal tempo di Giovanni VIII (872-882), ma soprattutto dalla metà dell’XI secolo in poi, rivestendo un ruolo fondamentale nella legittimazione della presenza normanna nel Meridione, e ancora nel XIII secolo, per contrastare gli Svevi e favorirne il rimpiazzo da parte degli Angioini. I dinasti longobardi eredi di Arechi II, che continuarono a governare buona parte dell’Italia del Sud sino a oltre il 1050 (seppure in un quadro di progressiva frammentazione politica), consideravano la propria autorità pienamente sovrana, come testimoniano l’opera legislativa dei principi di Benevento durante il IX secolo (in continuità con quella dei re di Pavia) e una cospicua produzione documentaria, che prova la loro at56

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titudine a deliberare su cose e persone la cui esistenza ricadeva entro i territori sottoposti al loro dominio. Il quadro qui brevemente riassunto mostra che il corso degli eventi che, fra l’VIII e il IX secolo, si conclusero con gli accordi raggiunti tra Franchi e Beneventani costituí il vero e proprio crogiolo entro il quale si formò lo spazio geografico definito «Meridione italiano».

La fine dell’espansione

L’inarrestabile dinamismo dei primi decenni fu seguito da una fase finale di relativa calma. Gli ultimi anni del regno di Carlo, potremmo dire l’ultima decade, furono caratterizzati da un’attività bellica molto piú contenuta e da scarsi ampliamenti delle grandi espansioni territoriali già portate all’incasso. Questo cambio di passo


sfera d’influenza dell’impero bizantino, mentre, in direzione est e nord-est, gli spazi dovevano apparire di dimensioni troppo ampie e indefinite per le forze a disposizione, anche considerando il fatto che l’occupazione delle terre strappate ai Sassoni era ancora in corso di consolidamento. Solo dopo diverse generazioni, e precisamente nel corso del X secolo, la nobiltà guerriera tedesca avviò nuovi tentativi di slancio verso est, dovendo però confrontarsi con i progressi dell’organizzazione politica avviata dalle popolazioni slave, e in primo luogo dalla Polonia. Lo scorcio conclusivo del lungo regno di Carlo si caratterizza perciò piuttosto per le iniziative in campo istituzionale e amministrativo e, soprattutto, per l’incombere del problema della successione al comando di un organismo politico del tutto inedito per caratteristiche e dimensioni. Si trattava di una questione assai delicata, resa ancora piú complessa dal fatto che Carlo – per gli standard dell’epoca – aveva detenuto il potere supremo per un tempo lunghissimo, assumendone le redini effettive (e cioè senza sottostare a periodi di reggenza) sin dal primo momento del suo accesso al trono. Inoltre, la sua personalità e la portata delle sue imprese costituivano un’eredità assolutamente fuori dal comune, con la quale sarebbe stato difficile per chiunque misurarsi, senza rimanerne schiacciato.

Notte di porpora

può forse essere attribuito all’avanzare dell’età del sovrano, la cui salute non gli permetteva piú di sostenere in prima persona le fatiche e le durezze delle spedizioni militari. In realtà, è piú probabile che i problemi fossero di ordine diverso: com’era già avvenuto per l’impero romano alla fine del II secolo d.C., i Franchi (pur se in condizioni molto diverse) avevano raggiunto in breve tempo il limite fisiologico delle loro possibilità di espansione. A meno di ingaggiare scontri con potenze quali il califfato di Cordova e l’impero bizantino, non erano possibili altri progressi sul quadrante meridionale. Verso nord e verso ovest i domini erano delimitati dal mare. Restava il fronte orientale, il cui ulteriore ampliamento era però precluso ancora una volta, verso sud-est, da un avvicinamento alla

Città del Vaticano, Stanza dell’Incendio di Borgo. Giuramento di Leone III, affresco di Raffaello e della sua scuola. 1514-1517. Il dipinto raffigura il pontefice che, davanti al clero e al popolo, risponde alle accuse di alcuni nobili romani parenti del predecessore Adriano I, giurando di non aver commesso alcun crimine.

Infine, non dobbiamo dimenticare che, insieme all’espansione territoriale che aveva portato i domini franchi a raggiungere un’estensione quasi doppia rispetto a quella lasciata da Pipino al momento della sua morte, vi era stato un altro tipo di ampliamento della sfera del potere detenuto da Carlo, rappresentato dal suo innalzamento alla porpora imperiale, avvenuto nella notte di Natale dell’anno 800. Tale evento, lungi dal rappresentare solo un abbellimento «cosmetico» dell’immagine del sovrano, costituí in realtà un passaggio quasi inevitabile di fronte all’evoluzione che il ruolo dei Franchi aveva conosciuto sulla scena europea, a partire dal momento in cui Carlo aveva occupato il trono paterno. Tranne piccole e marginali realtà territoriali, l’autorità di Carlo era esercitata direttamente o era indirettamente riconosciuta all’interno di tutta la cristianità occidentale. Proprio nell’800, il re aveva anche ricevuto dal patriarca di Gerusalemme le chiavi del Santo Sepolcro, insieme alla designazione di protettore dei luoghi santi. Si trattava, è vero, di un gesto puramente simbolico; ma, considerando che, sino alla conquista araba, quei luoghi erano stati sottoposti alla giurisdizione dell’impero romano d’Oriente, la scelta nei confronti di Carlo doveva carlo magno

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Sulle due pagine miniatura raffigurante papa Leone III che, nella notte di Natale dell’800, incorona imperatore Carlo Magno, dalle Chroniques des empereurs di David Aubert. 1462. Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal. Nella pagina accanto, in alto il talismano «di Carlo Magno», prezioso manufatto che sarebbe stato donato all’imperatore dal califfo Harun ar-Rashid. IX sec. Reims, Palais du Tau, Trésor de la Cathédrale.

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suonare come una sconfessione dell’imperatore bizantino quale detentore del tradizionale ruolo di monarca cristiano universale.

Irene, l’«imperatore»

L’atto del patriarca di Gerusalemme costituiva probabilmente una delle conseguenze dell’insolita situazione venutasi a creare proprio al vertice dell’impero bizantino. L’imperatrice Irene, vedova dal 775 di Leone IV e madre dell’erede Costantino VI, dopo aver duramente avversato la presa del potere del figlio al momento del raggiungimento della sua maggiore età, nel 797 riuscí infine a eliminarlo e a farsi proclamare imperatore al suo posto. Irene, infatti, adottò il titolo di basileus e non di basilissa, indicando con ciò che essa non era consorte o madre di un sovrano, ma depositaria della piena autorità imperiale. La notizia di questo inaudito avvicendamento

si propagò rapidamente e, nel giugno del 799, Alcuino di York, uno dei consiglieri piú vicini a Carlo e da lui piú ascoltati, scriveva al re: «Sino a oggi, tre persone si sono trovate al sommo della gerarchia mondiale. Il rappresentante della dignità apostolica, vicario del beato Pietro, principe degli Apostoli, del quale egli occupa il soglio. Ciò che è accaduto all’attuale detentore di questa carica, la Vostra Bontà ha avuto cura di farmelo sapere. Viene quindi il titolare della dignità imperiale, che esercita il potere secolare nella Seconda Roma. Ovunque si è sparsa la notizia del modo empio in cui è stato deposto il capo di questo impero, non per opera di stranieri, bensí dei suoi familiari e concittadini. In terzo luogo la dignità regale che Nostro Signore Gesú Cristo ha riservato a Voi affinché Voi governiate il popolo cristiano. Essa si pone al di sopra delle due altre dignità e le eclissa in saggezza e le sorpassa. È perciò in Te solo che oggi le Chiese di Cristo trovano sostegno, da Te solo attendono la


salvezza, da Te la vendetta dai crimini, la guida per coloro che errano, la consolazione dalle afflizioni e il sostegno per coloro che operano nel bene». Con queste parole, che fanno riferimento anche alla difficile situazione in cui si trovava allora il papato – retto dal 795 da Leone III e su cui torneremo fra un momento – Alcuino affermava la superiorità di Carlo sulle altre potestà.

I cristiani allo sbando

Qui sotto la Gioiosa (o Altachiara), spada che la tradizione identifica come appartenuta a Carlo Magno, con il suo fodero, dal tesoro dell’Abbazia di Saint-Denis. IX-XII/XIII sec. Parigi, Museo del Louvre.

Tale asserzione poteva essere possibile non tanto perché la sua posizione fosse per principio superiore alle altre, quanto perché, in quel frangente, il re franco era l’unico in condizione di esercitare degnamente il proprio mandato. In altre parole – e forse con una certa malizia – Alcuino sembrava sussurrare all’orecchio di Carlo che la cristianità (e cioè, ai suoi occhi, l’ordine mondiale) viveva un momento di sbandamento e di vacanza di autorità. «Qualcuno» sarebbe perciò dovuto intervenire, in un caso per rimettere ordine e nell’altro per colmare il pericoloso vuoto che si era creato nella gerarchia terrena. Alcuino lo dice senza troppi giri di parole e rivolgendosi sem-

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pre a Carlo gli dice: «A questo punto la salvezza delle chiese di Cristo riposa solo sulle tue spalle». Nell’anno 800 il papa non era piú, da cinque anni, quell’Adriano I che fra il 772 e il 774 aveva costruito le premesse per l’intervento di Carlo in Italia, chiudendo abilmente il re dei Longobardi in uno scacco matto politico che lo aveva obbligato ad agire in modo tale da provocare l’intervento armato dei Franchi. Questo papa – al soglio per ben ventitré anni – riuscí a riunire in sé doti tali da permettergli di gestire l’ingresso di Carlo Magno sulla scena politica romana, senza conoscere eccessive opposizioni da parte dei suoi concittadini. Adriano, infatti, era membro di una delle famiglie aristocratiche piú in vista di Roma, ascrivibile al novero di quelle che avevano certamente contribuito a sostenere il distacco definitivo della città dall’impero Bizantino e che sicuramente avevano avversato i tentativi compiuti dal re Desiderio, alla fine degli anni Sessanta, di imporre un proprio candidato sul soglio di Pietro. Con Carlo Magno, Adriano dovette piú volte giocare «in difesa», soprattutto in rapporto al mancato rispetto da parte del sovrano franco delle promesse relative alle cessioni territoriali in favore del papato e alle ripetute ingerenze del re dei Franchi in questioni di natura ecclesiastica. Tuttavia, il papa era indubbiamente riuscito nell’intento di «agganciare» il papato alla nuova dimensione europea raggiunta dal regno franco e di rilanciarne il ruolo d’istanza spirituale suprema della cristianità. Inoltre, profittando delle elargizioni economiche effettuate in suo favore dal re franco, aveva avviato in Roma una serie di cospicui interventi di abbellimento e risistemazione e delle infrastrutture materiali della città e delle sue chiese, tali da farlo apparire come il primo pontefice in grado di agirvi come vero e proprio principe e mecenate.

Un papa sgradito alla nobiltà

Il suo successore, Leone III, cresciuto all’ombra di Adriano, ne condivideva pienamente obiettivi e strategie, ma portava tuttavia con sé un «vizio d’origine» che, sin dall’inizio, ne rese il potere meno solido. Egli, infatti, non apparteneva alla cerchia delle famiglie nobili romane e il suo intento di dirigere l’azione politica del papato in modo autocratico, ma, allo stesso tempo, fortemente legato alla linea politica del re franco, pare avesse causato a Roma profondo scontento. Tale sentimento era presente soprattutto fra molti esponenti di quelle stesse famiglie che temevano di essere estromesse dal governo della città qualora il papato si fosse collocato in una posizione politicamente troppo succube nei confronti dei Franchi. (segue a p. 65) 60

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la roma carolingia

N

ell’Alto Medioevo, Roma era un luogo capace di esercitare suggestioni potentissime sulle genti dell’Europa del Nord. Senza contare la miracolosa fioritura del cristianesimo in luoghi remoti come l’Irlanda, dalla fine del VII secolo s’iniziò ad avvertire un sempre piú profondo interesse per le memorie sacre presenti nell’Urbe. La scintilla scoccò nelle Isole Britanniche e si propagò poi sul continente. In quel tempo si registrano le prime notizie di pellegrinaggi presso la tomba di Pietro da parte di sovrani provenienti dai regni anglosassoni insediatisi

nell’antica Britannia, seguite poi dalla comparsa delle possenti figure di Willibrord (658-739) e Winfried-Bonifacio (680-754). Costoro, monaci originari delle Isole, furono i promotori dell’evangelizzazione delle regioni oltre le frontiere orientali del regno franco. Il primo si dedicò alle terre corrispondenti agli attuali Paesi Bassi, alle Fiandre e alla Frisia, mentre il secondo portò la dottrina crtistiana nelle regioni della Germania centrale. Ambedue, però, operarono sotto la congiunta protezione dei primi Carolingi (Carlo Martello e Pipino il Breve) e dei pontefici, che li elevarono alla dignità episcopale


nel nome dell’apostolato da essi esercitato sulle terre che andavano a evangelizzare. Il supporto alle attività missionarie di Willibrord e di Bonifacio costituí il primo momento d’interazione diretta fra il papato e i Carolingi. In questa occasione divenne forse piú chiaro a coloro che ormai dominavano il regno dei Franchi quale forza propulsiva potesse esprimere il nome di Roma in una prospettiva di egemonia all’interno della cristianità occidentale. Carlo Magno venne a Roma solo quattro volte durante il suo lungo regno: nel 774, quando era ancora in corso l’assedio di Pavia; nel 781, per farvi battezzare il figlio Carlomanno;

nel 787, quando poi proseguí verso il Meridione; e infine nell’800, quando intervenne nella riconferma di Leone III sul soglio pontificio e ricevette la corona imperiale. Pur nella loro brevità, queste visite marcarono momenti decisivi della storia d’Italia e d’Europa del tempo. Soprattutto, esse evidenziarono il legame indissolubile istituitosi fra l’antica capitale imperiale e il progetto di ricostituzione, in Occidente, di un’autorità politica universale. Il legame stabilitosi fra i Franchi e il papato, il sostegno economico che i primi elargirono al secondo e la nascita del governo temporale su Roma e la regione circostante permisero ai

pontefici in carica fra la seconda metà dell’VIII secolo e la prima metà del successivo d’avviare un rinnovamento materiale della città che ebbe pochi paragoni sino al Rinascimento. Ancora oggi, a Roma sopravvive un numero di edifici risalenti a questo periodo (soprattutto di carattere ecclesiastico) superiore a quello presente in qualsiasi altro luogo dell’Occidente cristiano.

Roma, basilica di S. Prassede. Gli apostoli Pietro e Paolo, angeli ed eletti vicino alla porta della Gerusalemme celeste, particolare del mosaico dell’arco trionfale, eseguito durante la riedificazione della chiesa voluta da papa Pasquale I (817-824), grazie al sostegno economico garantito dai sovrani carolingi.


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Ma molti altri, le cui tracce materiali sono perlopiú perdute, sono noti dalle fonti scritte. Ciò che è ancora visibile e quanto ci è noto indirettamente compone un quadro sorprendente, che testimonia le accresciute possibilità economiche dei papi, ma, soprattutto, ne illustra l’ambizione di far apparire Roma di nuovo come una capitale, sovrapponendo però la sua identità cristiana all’eredità antica. Invero, l’exploit d’imprese architettoniche a cui assistiamo nell’età carolingia non era nato dal nulla. Già i pontefici della prima metà dell’VIII secolo avevano mostrato doti notevoli nel campo del mecenatismo artistico e della promozione di attività di recupero e riadattamento di edifici preesistenti, di natura sia sacra sia profana. Oltre ad aver iniziato il processo di traslazione entro le mura della città delle sacre reliquie dei martiri della Chiesa dei primordi – ben esemplificato dalla costruzione della nuova cripta anulare sotto la chiesa di S. Crisogono in Trastevere – l’impresa piú importante fu quella (relativamente poco nota) del trasferimento della residenza pontificia dal Laterano al Palatino, dove i papi risiedettero per quasi tutta la prima metà dell’VIII secolo. Il ritorno al Laterano, ai tempi di papa Zaccaria (741-752), corrispose all’avvio di una trasformazione dell’antico episcopio in un vero e proprio palatium, portato avanti nei decenni successivi soprattutto da Leone III (795-816) e Gregorio IV (827-844). I papi dell’età carolingia intesero con ciò rendere la residenza pontificia, attigua alla cattedrale cittadina, un complesso che simboleggiasse concretamente il loro potere sulla città. Ne modellarono cosí gli spazi a imitazione di quelli del palazzo imperiale di Costantinopoli, soprattutto con la costruzione di triclini e sale di udienza

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dall’architettura particolarmente complessa e monumentale. Peraltro, Leone III edificò anche una residenza sul lato settentrionale della basilica vaticana, affiancata da un altro edificio utilizzato dallo stesso Carlo durante i suoi soggiorni romani. Queste due costruzioni costituiscono, si può dire, gli antenati degli odierni palazzi vaticani nei quali i pontefici fissarono definitivamente la propria residenza a partire dal periodo rinascimentale, relegando il Laterano a una posizione secondaria. Ma le attività edilizie piú consistenti, patrocinate dai pontefici, furono quelle inerenti la costruzione ex novo o, piú di frequente, la radicale ricostruzione di edifici di culto. Dalla metà dell’VIII secolo sino al termine del pontificato di Leone IV (855), sono attestati quasi novanta interventi di restauro condotti su chiese preesistenti, che non di rado condussero alla loro completa ricostruzione. Il primo di questi cantieri attribuibile a età pienamente carolingia fu quello allestito sotto Adriano I (772-

In alto Roma, basilica di S. Crisogono. San Benedetto guarisce il lebbroso, affresco delle Storie del santo, facente parte del ciclo della chiesa inferiore. X-XI sec. Nella pagina accanto una delle due valve in avorio intagliato della copertina dell’Evangeliario di Lorsch (Codex Aureus di Lorsch), un vangelo miniato considerato un capolavoro della Scuola Palatina Carolingia. IX sec. Città del Vaticano, Musei Vaticani. 795) per il rinnovamento della chiesa di S. Maria in Cosmedin al Foro Boario. Esso fu seguito (per citare solo gli edifici piú importanti e ancora oggi visibili) dalla riedificazione della chiesa dei SS. Nereo e Achilleo, presso le terme di Caracalla, avvenuta al tempo di Leone III, alle chiese di S. Maria in Domnica al Celio, di S. Cecilia in Trastevere e di S. Prassede sull’Esquilino, sotto Pasquale I (817-824), di S. Marco presso il Campidoglio, durante il pontificato di Gregorio IV, di S. Martino ai Monti, sotto Sergio II (844-847) e dei SS. Quattro Coronati al Celio, al tempo di Leone IV. L’architettura delle chiese romane d’età carolingia non spicca per innovatività, ma per lo sforzo di replicare modi e tendenze di

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quelle della tarda antichità. In effetti, oltre al prestigio in sé goduto da questi antichi modelli, occorre considerare che molti degli interventi di ricostruzione effettuati in questo periodo miravano a recuperare e risistemare in modo idoneo le spoglie dei martiri che ancora giacevano nei cimiteri suburbani, da tempo poco frequentati e dei quali era ormai impossibile garantire la manutenzione regolare. Le chiese via via restaurate e ricostruite si legavano perciò direttamente e

quasi fisicamente alle epoche piú remote e venerabili in cui Roma era divenuta la città santa per eccellenza dei cristiani d’Occidente, grazie al sangue versato dai martiri, che ne aveva benedetto e purificato ogni luogo. Il progetto perseguito dai papi dell’VIII e del IX secolo era quindi quello di rappresentare la città come uno spazio tutto permeato da segni di santità. Essi erano legati fra loro da un’invisibile rete connettiva, che si materializzava agli occhi dei fedeli grazie alla cosiddetta «liturgia stazionale»

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(i cui rituali vennero perfezionati proprio in età carolingia), che prevedeva che il pontefice peregrinasse da una chiesa all’altra in occasione delle principali festività e ricorrenze annuali. In questo periodo la città si attrezzò quindi per divenire un centro di pellegrinaggio le cui mete, al di là delle basiliche principali, comprendevano anche una pluralità di luoghi sparsi in di tutto il perimetro urbano e nei dintorni della basilica vaticana. Il flusso dei devoti provenienti da ogni angolo delle terre cristianizzate era evidentemente in crescita e il fenomeno è testimoniato anche dalla comparsa, sempre nei dintorni del Vaticano, delle cosiddette scholae peregrinorum. Questi erano edifici predisposti

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per fornire accoglienza e ospitalità ai pellegrini provenienti da tutta Europa. La presenza di tali strutture avrebbe evitato loro di doversi anche preoccupare di trovare in città un luogo in cui dormire, cosa che a sua volta rappresentava un costo aggiuntivo e non mancava di esporre i devoti turisti di allora a ulteriori pericoli. Le fonti ci ricordano che esistevano istituzioni di questo tipo a servizio dei Franchi, dei Longobardi, dei Sassoni e dei Frisoni, che rappresentavano evidentemente i gruppi di pellegrini piú consistenti. La frequentazione a scopo religioso della città non mancò di suscitare, negli spiriti piú evoluti e acculturati, anche interessi verso i resti degli edifici dell’antichità, che fra l’VIII

e il IX secolo dovevano ancora torreggiare nel paesaggio urbano di Roma. È molto probabilmente testimonianza di ciò un curioso documento, l’Itinerario di Einsiedeln, dal nome dell’abbazia svizzera in cui esso è custodito, nel quale si fornisce a un immaginario visitatore una sorta di guida d’orientamento alla città. Esso comprendeva non solo i luoghi di culto cristiano, ma anche i principali monumenti romani, distribuiti in itinerari che si dipanavano attraverso il centro cittadino lungo i suoi principali assi viari (sulla presenza di Carlo a Roma e i suoi rapporti con la città si veda Walter Brandmüller, Francesco Buranelli, a cura di, Carlo Magno a Roma, Retablo, Roma 2001).

la basilica di s. pietro nel x secolo

Secondo la tradizione, san Pietro

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sarebbe stato martirizzato «iuxta obeliscum», cioè presso l’obelisco del Circo di Caligola e Nerone (1). Nei pressi del monolite era il mausoleo di Teodosio (2), poi trasformato da papa Stefano II, su richiesta di Pipino il Breve, in cappella dedicata a santa Petronilla, vergine romana alla quale i Franchi erano particolarmente devoti. Due secoli e mezzo dopo la morte dell’Apostolo, l’imperatore Costantino fece costruire sopra la sua sepoltura la prima basilica di S. Pietro (3). Iniziato nel 324 e consacrato da papa Silvestro il 18 novembre del 326, l’edificio fu ultimato solo nel 349. La tomba del Santo (4) venne a trovarsi al centro del presbiterio. La basilica era preceduta da un ampio quadriportico (5) con al centro una fontana (6) e una vasca per le abluzioni abbellita da una pigna di bronzo (7), ora nei Palazzi Vaticani. Il campanile (8) venne costruito nel 752. Nel 781, durante la sua seconda visita a Roma, Carlo Magno vi fece costruire un palazzo imperiale (9), mentre Leone III faceva allestire una nuova residenza pontificia.

Paradossalmente, la concessione fatta da Carlo al papa di cospicue ricchezze provenienti dal bottino ottenuto dalla vittoria sugli Avari, se per un verso procurò a Leone mezzi ingenti per proseguire nell’azione di rinnovamento materiale di Roma, dall’altro gli attirò probabilmente ulteriori invidie e risentimenti. Tra le opere di Leone vi furono interventi volti a trasformare la residenza pontificia del Laterano in un sontuoso palazzo. Dei lavori fatti eseguire dal papa nel palazzo resta oggi (molto rimaneggiata) solo l’abside del grande triclinio costruito a imitazione di quello del palazzo imperiale di Costantinopoli. Nel catino di quest’ultima compare un mosaico nel quale Leone e Carlo ricevono da san Pietro rispettivamente il pallio, simbolo del supremo potere spirituale, e uno stendardo che alludeva all’autorità del re in quanto difensore della Chiesa e della fede. Come ha sottolineato lo storico del Medioevo Paolo Delogu, attraverso quelle raffigurazioni «è evidente che Leone intendeva esprimervi la concezione di un potere papale parallelo e associato a quello militare del re franco; una concezione che tra l’altro ricordava ai Romani che il papa poteva contare sul potente aiuto del re».

La congiura contro il pontefice

Questa linea politica dovette procurare a Leone III non poca ostilità all’interno degli ambienti romani, ivi compresi quelli dello stesso palazzo del Laterano. Per queste ragioni, il 25 aprile del 799 il papa fu vittima di una congiura organizzata da personaggi appartenenti alla stessa famiglia del defunto Adriano, dalla quale si salvò a stento dopo aver subito anche un tentativo di accecamento. Leone dovette a quel punto fuggire precipitosamente da Roma, recandosi da Carlo Magno che a quel tempo si trovava nella nuova residenza di Paderborn, in Germania. Il sovrano tenne verso il papa un atteggiamento abbastanza ambiguo, anche in considerazione del fatto che da Roma gli erano giunte notizie sulla base delle quali la sua fuga sarebbe stata causata da una serie di colpe di cui egli si era macchiato di fronte ai Romani. Il re ne approfittò per agire con grande scaltrezza, lucrando il miglior risultato possibile dalla situazione. Fece riportare Leone a Roma nell’autunno del 799, obbligando i Romani a riconoscerlo ancora come il legittimo occupante del soglio pontificio, ma lasciando apparire quanto il suo reinsediamento dipendesse dalla sua protezione. Ciò non evitò al pontefice un vero e proprio processo, nel quale i messi inviati da Carlo lo obbligarono a discutere del suo operato. Il caso fu chiuso in favore del papa, ma da questi episodi risultò ben chiaro quali fossero in quel momento i rapporti di forza. Carlo attese sino carlo magno

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Roma. Il Triclinio di Leone III. Il mosaico, collocato all’interno di una nicchia nei pressi della Scala Santa, è l’unica traccia dell’antica sala tricliniare di Leone III nel Palazzo del Laterano. IX sec.

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all’estate seguente per scendere in Italia e si presentò a Roma verso la fine di novembre. Il papa gli andò incontro fuori della città, per rendergli omaggio secondo un rituale fino ad allora riservato solo agli imperatori. Il re obbligò Leone a una nuova disamina delle accuse che gli erano state mosse, conclusasi con la dichiarazione – avallata dagli ecclesiastici franchi del suo seguito – che il pontefice non potesse essere sottoposto al giudizio di un tribunale, ma anche con un solenne e pubblico giuramento con cui quest’ultimo ribadiva la propria innocenza. In questa situazione si erano evidenziati tutti gli aspetti rilevati da Alcuino nella lettera inviata a Carlo nel 799, probabilmente nel periodo in cui Leone III era stato costretto a trovare ri-

fugio in Germania. Il potere effettivamente esercitato dal monarca andava ormai ben oltre le prerogative insite nelle cariche di re dei Franchi e dei Longobardi e di Patrizio dei Romani. Il papa – come dimostrerebbe il cerimoniale allestito in occasione del suo arrivo – trattava Carlo come detentore di un potere effettivo sulla città e sulla stessa Sede Apostolica.

«Un’autorità di livello superiore»

D’altra parte, come afferma ancora Paolo Delogu, «anche i Franchi dovevano considerare che l’intervento di Carlo Magno a Roma, in difesa dell’ordine e della legalità compromessa, richiedeva che al loro re fosse riconosciuta un’autorità di livello superiore a quello di re o di patrizio. Si


giuramento di discolpa dalle sue presunte malefatte, l’assemblea di Franchi e Romani avrebbe formalmente offerto a Carlo l’elevazione alla dignità imperiale e che egli l’abbia accettata.

Schermaglie procedurali

osservava anche che Carlo Magno esercitava su tutto l’Occidente il potere degli antichi cesari, sicché com’era già accaduto al tempo della promozione di suo padre Pipino da maestro di palazzo a re dei Franchi, diventava opportuno che al potere effettivo corrispondesse un appropriato titolo d’autorità, nel momento in cui Carlo Magno si accingeva a esercitare funzioni sovrane anche in Roma». In altre parole, l’arrivo di Carlo a Roma alla fine dell’800 doveva già apparire, agli occhi dei contemporanei, legato a discussioni inerenti la natura e la ridefinizione giuridica del suo immenso potere. Come che sia, una fonte di parte franca alluderebbe al fatto che il 23 dicembre, in S. Pietro, dopo che il papa ebbe pronunciato il solenne

In alto, a destra frammento di mosaico raffigurante un volto maschile, proveniente dal triclinio del Laterano, residenza pontificia trasformata da papa Leone III in sontuoso palazzo, utilizzando le ricchezze donate dal sovrano franco. IX sec. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

La proclamazione ufficiale, tenutasi nello stesso luogo la sera di Natale, non fu pertanto improvvisata, come sembra affermare Eginardo, ma dovette essere il frutto di un’attenta preparazione. Forse è però vero – e in questo senso si possono interpretare le parole di Eginardo – che lo svolgimento dell’evento potrebbe non essersi svolto come Carlo avrebbe voluto, creando quindi nel sovrano una certa irritazione e fornendo invece al papa l’occasione per prendersi una piccola rivalsa, che peraltro ebbe conseguenze storiche di enorme portata. Leone, infatti, prima dell’acclamazione collettiva del nuovo imperatore, gli pose sul capo la corona, mostrando in tal modo che spettava al papa la prerogativa di sanzionare l’elezione della suprema autorità. Lo svolgimento della cerimonia, mentre riconosceva a Carlo il ruolo che in Occidente nessuno aveva piú ricoperto dopo il 476, lasciava anche intendere che la legittimità di tale potere dipendeva sí dal fatto che la sua fonte risiedeva ancora nella città di Roma, ma anche che la sua natura sacrale doveva essere in qualche modo riconosciuta e validata da chi ricopriva la carica di vescovo di quella città, in virtú del suo ruolo di custode del solium imperii. In buona sostanza, quell’atto avvalorava quanto affermato sul ruolo del papa nella falsa Donazione di Costantino e istituiva al contempo un condominio di poteri fra il papa e l’imperatore, che nei decenni e nei secoli a venire sollevò a piú riprese problemi e contestazioni da ambo le parti. carlo magno

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LO STATO FRANCO

L’esercizio del

potere

Acquisito il controllo del regno e poi dell’impero, Carlo Magno non può limitarsi alla sua semplice amministrazione: deve misurarsi con una realtà che pone problemi notevoli, dovuti all’enorme estensione dei territori dominati e all’ineludibile e costante confronto con il potere ecclesiastico

L

a consacrazione di Pipino il Breve aveva rafforzato i connotati del monarca franco in quanto re-sacerdote. Ma l’elevazione di Carlo al soglio imperiale ne aveva in qualche modo suggellato il ruolo di rappresentante di Dio presso i popoli sui quali egli esercitava il suo dominio, che grosso modo corrispondevano all’insieme che oggi chiamiamo «cristianità occidentale». Per comprendere la natura e il funzionamento dello Stato franco, è essenziale tenere ben presente questa profonda compenetrazione fra i due livelli del potere del sovrano. Egli era al contempo depositario dell’autorità di supremo comandante degli uomini liberi del suo popolo, in grado di portare le armi, ma anche detentore di un carisma piú Aquisgrana. Il soffitto a mosaico della Cappella Palatina, nucleo originario della Cattedrale, costruita per volere di Carlo Magno tra la fine dell’VIII e i primi anni del IX sec.



CARLO MAGNO

Lo Stato franco

profondo, derivante dal fatto di costituire il perno terreno di un ordine voluto da Dio. L’autorità dello Stato e del suo supremo reggitore, insomma, si basavano sí sulla forza delle armi, ma si legittimavano definitivamente grazie all’avallo divino. Sarebbe quindi errato, come si potrebbe fare utilizzando parametri di giudizio contemporanei, interpretare il rapporto e il confronto tra il papa e il re – poi imperatore – come una dialettica tra una sfera terrena (oggi diremmo «laica») del potere e una religiosa, poiché esse erano considerate tra loro inscindibili. Del resto, questo aspetto è in un certo senso rappresentato dal convergente cammino del papato verso l’acquisizione di un dominio temporale e da quello compiuto dai re franchi verso la «smaterializzazione» della loro connotazione originaria di monarchi «etnici» (cioè di re di un popolo) per acquisire il carattere di sovrani custodi di un ordine universale benedetto da Dio. L’investitura ricevuta a Roma nel Natale dell’800 costituiva un involucro poderoso sul

corpo dell’entità politica che l’eredità della storia aveva consegnato a Carlo e che le sue conquiste avevano espanso sino a limiti impensabili. Ma per il novello imperatore il problema principale era rappresentato proprio dalla struttura di questo corpo, non perché fosse troppo gracile per sostenere il peso della nuova missione, ma perché era conformato in maniera tale da adattarsi con qualche difficoltà ai compiti e alle funzioni che essa presupponeva.

Eredità effimera

Questa considerazione generale può aiutare sia a capire perché l’eredità dell’immenso impero abbia iniziato a dissolversi già nel corso della generazione successiva a quella di Carlo, sia a introdurre la descrizione degli apparati che avrebbero dovuto governarlo, ma anche per comprendere perché l’idea che esso incarnava sia stata – e per molti secoli – piú forte delle debolezze che ne avrebbero minato l’attuazione concreta.

GLI ANNI DI CARLO MAGNO

561. Alla morte di Clotario I (detto «il Vecchio») il dominio merovingio viene di nuovo suddiviso tra i suoi figli.

613-639. Clotario II e suo figlio Dagoberto ripristinano l’unità del regno merovingio.

481-511. La Francia diventa una potenza in Europa grazie al re merovingio Clodoveo I, convertitosi al cristianesimo. Alla sua morte, il dominio viene suddiviso tra i suoi quattro figli Teodorico, Clodomiro, Childeberto I e Clotario I. Quest’ultimo rimarrà per alcuni anni (dal 558 al 561) unico sovrano di tutto il regno.

791. Campagna contro gli Avari.

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CARLO MAGNO

687. Pipino (detto «il Giovane»), già maestro di palazzo del regno di Austrasia, lo diviene anche in quello di Neustria, a seguito della vittoriosa battaglia di Tertry.

791-792. Congiura contro Carlo da parte di alcuni aristocratici franchi. Il primogenito di Carlo, Pipino (detto «il Gobbo»), nato da un’unione non ufficiale del sovrano con una nobile alsaziana, fu considerato coinvolto nel tentativo di rivolta e rinchiuso in un monastero.

789. Attraverso l’ordinanza Admonitio generalis, Carlo inaugura le sue riforme della Chiesa e del sistema educativo.

795-796. Vittoria dei Franchi sugli Avari.

732. Nella battaglia di Poitiers, Carlo Martello sconfigge i musulmani di Spagna.

742. Il 2 aprile nasce Carlo («Magno»), figlio di Pipino.

751. Pipino il Breve depone e relega in monastero l’ultimo re della dinastia merovingia, Childerico III.

741. Il figlio di Carlo Martello, Pipino III (detto «il Breve»), succede nella carica di maestro di palazzo (di Neustria) insieme al fratello Carlomanno (insediato in Austrasia), che però nel 747 si ritira in monastero, lasciando Pipino unico maestro di palazzo per tutto il regno.

800. A Roma, il 25 dicembre, Leone III incorona Carlo imperatore.

812. L’imperatore di Bisanzio, Michele I, riconosce l’impero occidentale di Carlo.

799. Papa Leone III, insidiato a Roma da una congiura mossa contro di lui da nobili della città, si rifugia da Carlo, nella sua residenza di Paderborn.

754. Papa Stefano II, recatosi in Francia, unge come nuovi re dei Franchi Pipino e i suoi figli Carlo e Carlomanno. Campagna contro i Longobardi.

817. Ludovico il Pio proclama la Ordinatio Imperii, un editto che stabilisce l’unità dell’impero e la spartizione della successione imperiale tra i suoi figli Lotario, Pipino e Ludovico.

814. Il 28 gennaio, Carlo muore ad Aquisgrana, dove verrà seppellito. Gli succede il figlio Ludovico (detto «il Pio»).


Per comprendere la natura e il funzionamento dello Stato franco edificato da Pipino e da Carlo, sarà bene fare prima qualche passo indietro nel tempo e riflettere su alcune caratteristiche del «modello» al quale la renovatio imperii realizzata da Carlo e Leone III inevitabilmente faceva riferimento, e cioè l’impero romano vero e proprio. Esso aveva costituito un organismo in forte e continua mutazione. Per essere piú chiari, lo Stato governato da Augusto all’inizio del I secolo d.C. aveva caratteristiche ben poco comparabili rispetto a quello retto da Diocleziano e Costantino all’inizio del IV o a quello, tutto sbilanciato verso Oriente, alla cui testa si trovò Giustiniano due secoli e mezzo dopo. E quello inaugurato da Carlo, a sua volta, a parte i richiami presenti nel nome dell’autorità che gli era stata conferita, aveva tratti totalmente diversi da quelli dello Stato governato dai Cesari di Roma e di Costantinopoli. In particolare, l’impero romano progressivamente cristianizzatosi nel corso del IV secolo

768. Morte 773-774. Carlo di Pipino il attraversa le Breve, gli Alpi e conquista succedono il regno sul trono i longobardo. due figli Primo soggiorno di Carlo a Roma.

775-782. Campagna contro i Sassoni e loro capitolazione.

771. Alla morte di Carlomanno, fratello di Pipino, Carlo diventa unico monarca dei Franchi.

Stele funeraria con scena di pagamento delle tasse, da Neumagen (Germania). II sec. d.C. Treviri, Rheinisches Landesmuseum.

787. Carlo giunge fino a Capua e impone al principe Arechi II di sottomettersi alla sua autorità.

781. Papa Adriano unge re i figli di Carlo, Pipino (in Italia) e Ludovico (in Aquitania), confermando cosí i voleri di Carlo stesso.

era un organismo politico sorretto da una struttura amministrativa e burocratica pesante e ramificata, che governava il proprio immenso territorio attraverso una rete capillare di città. Questa complessa macchina funzionava grazie a un sistema – messo a punto proprio a partire dall’età di Diocleziano e Costantino – regolato dal principio secondo il quale lo Stato forniva una serie di servizi ai suoi sudditi in cambio delle tasse che essi avrebbero dovuto corrispondere in base alle ricchezze prodotte dai beni posseduti e attraverso il proprio lavoro (costituiti in misura determinante dalla terra e dai frutti delle attività agricole). Le tasse permettevano cosí allo Stato di funzionare, garantendo in primo luogo il mantenimento delle forze armate e della stessa burocrazia, la gestione, la manutenzione e il rinnovamento di una serie di infrastrutture (come le strade, le mura e tutti gli edifici pubblici concentrati soprattutto nelle città) e, infine, l’erogazione di altri servizi essenziali, quali per esempio la distribuzione dell’acqua, l’istruzione, distribuzioni di generi alimentari alle popolazioni delle città piú importanti e il finanziamento di spettacoli.

Una sorprendente modernità

Tasse in cambio di servizi: su questo principio era imperniato il funzionamento dello Stato tardo-romano. Al di là della sua natura intimamente autoritaria e della gestione spesso brutale del potere, al di là dell’inefficienza dei suoi apparati – spesso lamentata dalle fonti di quei secoli, insieme alla corruzione e alle reti di connivenze politiche attraverso cui i ceti dominanti difendevano i loro privilegi –, la struttura organizzativa dell’impero tardo-antico conteneva tratti indubbi di modernità. Essi derivavano soprattutto dal significato nuovo assunto dalla tassazione: da tributo pagato dalle popolazioni vinte ai Romani conquistatori, essa si era trasformata in esazione imposta a tutti i cittadini liberi dell’impero (ormai presenti in tutte le sue aree) in rapporto all’entità dei loro possessi e delle rendite che essi potevano fruttare. Il calcolo della tassazione era stato irreggimentato in un sistema previsionale – altrettanto moderno, nei suoi principi ispiratori – articolato in cicli di quindici anni, che considerava le esigenze dello stato in rapporto alle presumibili redditività dei beni tassabili, permettendo cosí di istituire una programmazione del bilancio fra entrate e uscite. Complessivamente, questo sistema era di gran lunga piú oneroso di quello in vigore nei secoli dell’alto e del medio impero, e ciò perché in età tardo-antica lo Stato romano non poteva piú contare sui cespiti generati dalle guerre di conquista che avevano drenato enormi risorse, prima esclusivamente in direzione di CARLO MAGNO

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CARLO MAGNO

Lo Stato franco

Roma e dell’Italia e poi anche verso le province di piú antica inclusione all’interno del sistema imperiale. Inoltre, le spese per tenere in funzione le forze armate assorbivano quote rilevanti del bilancio statale; l’intero sistema gravava pesantemente sulla vita delle persone, soprattutto di quelle che non disponevano di mezzi economici e politici per schivare, in tutto o in parte, l’azione degli esattori pubblici e privati che agivano per conto dello Stato. La struttura organizzativa e il funzionamento complessivo dell’agricoltura romana, basati su sistemi tutto sommato poco sviluppati tecnologicamente – se confrontati con quelli odierni – mettevano continuamente a repentaglio la produzione e, con essa, la possibilità che i contribuenti (rappresentati soprattutto da contadini) riuscissero a far fronte agli obblighi fiscali. Il disagio causato da tutto ciò sconfinava spesso in aperta insofferenza, quando non in vere e proprie ribellioni nei confronti del potere imperiale.

Burocrati e soldati

Ma la delega per l’organizzazione della cosa pubblica rilasciata al governo attraverso il pagamento delle imposte aveva (almeno in linea di principio) il pregio indiscutibile di collocare l’azione di chi lo rappresentava nelle sue diverse funzioni in una posizione di terzietà. In altre parole, l’esercito e la burocrazia operavano, rispetto ai sudditi dell’impero, nel quadro di un rapporto mediato dal fatto che le risorse con cui essi erano pagati per svolgere il proprio servizio provenivano dal budget complessivo dello Stato, alimentato dal pagamento delle tasse. Burocrati e soldati erano quindi, a tutti gli effetti, dipendenti stipendiati dall’erario pubblico che svolgevano un servizio e non erano perciò detentori in prima persona né del potere derivante dall’esercizio delle armi, né della potestà d’imporre o applicare delle leggi. Il denaro che essi ricevevano per espletare le loro mansioni imponeva l’obbligo di una fedeltà prestata all’imperatore in quanto rappresentante supremo dello Stato. Questo aspetto è della massima importanza e va tenuto in considerazione quando si passerà a discutere delle medesime materie nell’ambito dell’impero franco. L’alleanza dell’impero romano con la Chiesa, che costituiva una forza in grado di controllare o quanto meno d’influenzare profondamente e in modo crescente gli umori delle masse di popolazione che vivevano nelle città, aveva costituito una scelta vincente allo scopo di garantire consenso all’azione imperiale. Inoltre, essa consolidò l’idea che l’esistenza del potere imperiale, incarnata da Roma e dal suo dominio esteso ai quattro angoli del mondo, costituisse il riflesso terreno di un disegno 72

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Sedia pieghevole in bronzo dorato nota come «trono di Dagoberto II» (652-678), re di Austrasia della dinastia merovingia. IX sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Il giovane sovrano cadde vittima di una congiura tra nobili che si contendevano il maggiordomato, da cui uscí vincitore Pipino di Heristal, nonno di Pipino il Breve, che rese la carica ereditaria nella sua famiglia.

divino e quasi rispecchiasse l’ordine celeste. Di qui discendeva quella che potremmo definire l’«inevitabilità» dell’esistenza dell’impero, la sua prospettiva di eternità e la necessità che ogni sforzo fosse compiuto per la sua conservazione. Date le premesse appena ricordate, l’alternativa sarebbe stata il caos, rappresentato dall’irrompere di forze estranee al disegno provvidenziale che Dio aveva posto in essere, trasformando l’impero empio che aveva perseguitato per secoli Cristo e i suoi seguaci nel suo piú strenuo difensore e propugnatore. Al tempo di Giustiniano, nel pieno VI secolo, quest’idea fu pervicacemente difesa e rilanciata attraverso le guerre scatenate contro i popoli che avevano usurpato il suolo dell’impero, anche se alcuni di essi – e tra questi proprio i Franchi – si erano insediati in terre ormai troppo lontane per


essere raggiunte dalle armate bizantine. Al contempo, la profonda compenetrazione fra norme giuridiche e fede cristiana, incarnata dallo spirito e dal dettato del Corpus Iuris Civilis emanato sempre da Giustiniano alla vigilia delle campagne militari contro i regni barbarici dell’Occidente, manifestava in maniera compiuta il nesso fra autorità imperiale e potestà celeste. In esso si stabiliva che non vi poteva essere certezza del diritto (e quindi civiltà) al di fuori della provvidenziale e unitaria azione di entrambe. Che cosa era rimasto di tutto ciò al tempo di Carlo? Il suo tempo, in realtà, raccoglieva i frutti di cambiamenti che si erano prodotti su scala plurisecolare, almeno a partire dal V secolo in poi. Negli ultimi decenni si è svolto un acceso dibattito fra gli storici sulla sopravvivenza del sistema di tassazione ereditato dallo Stato roma-

Miniatura raffigurante Carlo Martello (689 circa-741), nobile franco e maggiordomo di palazzo di Austrasia, padre di Pipino il Breve, da un manoscritto de Les Grandes Chroniques de France. 1375-1400. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

no nei regni barbarici. Nonostante alcuni tentativi fatti per dimostrarne la continuità, soprattutto all’interno del regno franco, è però ormai chiaro che una delle differenze piú evidenti (forse la piú importante), rilevabili tra il «prima» e il «dopo» il momento in cui le monarchie barbariche si sostituirono al governo imperiale nel controllo dell’Occidente romano, fu proprio il piú o meno rapido inceppamento della regolare esazione delle imposte.

Un sistema non piú sostenibile

Essa comportò la progressiva semplificazione del sistema burocratico-amministrativo, di cui non era piú possibile sostenere i costi. Si è molto discusso sui perché di questo cambiamento, e cioè se esso sia da imputare all’incapacità delle nuove classi dirigenti a gestire il funzionaCARLO MAGNO

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mento della macchina amministrativa romana ovvero ai danni causati dal perdurare dell’instabilità politico-militare, o, ancora, al disinteresse dei «barbari» verso tale sistema, avvertito come estraneo alle loro precedenti tradizioni. Sicuramente, nei casi in cui la collaborazione fra «Romani» e «barbari» fu piú intensa e la transizione da un assetto politico all’altro fu piú morbida – come accadde, per esempio, nell’Italia ostrogota e nella Spagna visigota – la durata in vita dei sistemi amministrativi romani fu piú lunga e il loro deteriorarsi meno immediatamente avvertibile. Nell’Alto Medioevo, quindi, viene normalmente a cessare l’esazione di quelle che oggi noi chiamiamo imposte «dirette», e cioè quelle che gravano il patrimonio e il reddito delle persone, mentre troviamo ancora attestata la riscossione di alcune imposte «indirette», quali per esempio dazi e pedaggi, che erano evidentemente di piú facile applicazione.

Terre alle truppe

Il dato di fatto è però che la dissoluzione o, quanto meno, l’estrema semplificazione del sistema di tassazione comportò mutamenti radicali nella concezione stessa dello Stato e dell’esercizio del potere. Venendo a mancare per buona parte le risorse provenienti dal gettito fiscale, fun-

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Sulle due pagine miniature raffiguranti le quattro stagioni (in basso) e una città (nella pagina accanto), dal De universo di Rabano Mauro. 1023. Montecassino, Biblioteca Statale del Monumento Nazionale di Montecassino.

zioni come la difesa militare dovettero essere riorganizzate su basi completamente diverse. I capi guerrieri che costituivano l’entourage dei re barbari e fornivano loro buona parte degli effettivi in armi non potevano essere piú generali «a stipendio», come lo erano stati ancora personaggi quali Stilicone, Ezio o Belisario, con truppe al soldo dello Stato ed eventualmente gratificate con i bonus derivanti dal provento di saccheggi e prede di guerra. L’unica soluzione che i re barbari potevano escogitare per garantire il mantenimento delle truppe e assicurarsene la fedeltà era perciò quella di cedere loro parte delle terre conquistate – comprensive delle persone che vi abitavano e vi lavoravano –, con le cui rendite avrebbero potuto coprire i costi degli armamenti e del proprio vettovagliamento, sia in pace, sia in caso di guerra. Inoltre, venendo a mancare un inquadramento di queste persone all’interno di una gerarchia stabile di tipo militare e amministrativo, diventava fondamentale il rapporto di fedeltà personale che il re stringeva con esse. Tale rapporto poteva eventualmente essere consolidato (ma questo non fu un costume proprio solo delle aristocrazie barbariche) anche attraverso la creazione di legami matrimoniali, che permettevano


ad alcuni lignaggi di entrare a pieno titolo a far parte dell’ambito familiare del sovrano. In assenza di un regolare gettito fiscale, lo stesso potere dei re si basava in larga parte sulle risorse che essi traevano dai beni fondiari di cui erano direttamente titolari e presso i quali insediavano persone che ne formavano la personale clientela e dalla quale, al momento opportuno, attendevano di ricevere anche diretto supporto in caso di guerra. Solidarietà personali (costruite soprattutto sul piano familiare e militare) e possesso della terra costituivano quindi le basi fondamentali delle nuove realtà politico-istituzionali. Come ha efficacemente evidenziato lo storico francese Stéphane Lebecq, nel regno franco «il servizio pubblico di stato si era lentamente andato confondendo con il servizio privato nei confronti del principe. E siccome il personale che ne costituiva le fila era prevalentemente reclutato tra le alte sfere dell’aristocrazia delle singole regioni, esso ne difendeva gli interessi e ne esprimeva la coscienza». I maestri di palazzo, tra i quali, come abbiamo visto, si annoverano gli antenati di Carlo Magno, rappresentavano la figura di collegamento fra il potere del re e gli interessi dell’aristocrazia. Alla fine il loro ruolo oscurò e travolse quello dei sovrani, ma paradossalmen-

te tutto ciò creò le condizioni per la ricostruzione dell’autorità regia, pilotata proprio da coloro che avevano personalmente eclissato quella plurisecolare dei monarchi merovingi.

La paralisi dei catasti

Al fine di inquadrare ancor meglio queste dinamiche, si deve inoltre considerare il mutato ruolo delle città. La disarticolazione del sistema fiscale produsse anche l’effetto collaterale di porre fine alla vita delle istituzioni municipali che, per secoli, avevano garantito l’amministrazione dei centri urbani e dei loro territori, con il compito precipuo (divenuto sempre piú oneroso in età tardo-antica) di organizzare l’esazione delle tasse presso le comunità locali. L’estinzione di queste articolazioni periferiche dello Stato determinò, fra le molte conseguenze, la paralisi dell’aggiornamento dei catasti pubblici, innescando quindi una spirale dalla quale, per secoli, fu impossibile uscire. I catasti, infatti, fornivano le informazioni essenziali per stabilire le basi degli imponibili che avrebbero dovuto gravare sui beni immobili. Senza la tenuta a giorno di questi strumenti, anche il solo parlare di un ripristino della tassazione costituiva poco piú che un esercizio accademico. Ma l’indebolimento (quando non la vera e proCARLO MAGNO

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Miniatura raffigurante l’incoronazione di un principe, identificato con lo stesso Carlo il Calvo o con Carlo Magno, tra due arcivescovi o, piú probabilmente, papa Gelasio e papa Gregorio Magno, dal Sacramentario di Metz (detto anche di Carlo il Calvo). 869-870 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

pria cessazione) delle tradizionali funzioni amministrative delle città comportò anche conseguenze piú profonde a livello sociale. In primo luogo, si assiste alla definitiva scomparsa di quella che, forse con una qualche inesattezza, è stata definita la «borghesia urbana» del mondo romano. Questo svuotamento funzionale delle città nel corso del VI secolo produsse in Occidente anche il loro generale tracollo economico. Esso costituí l’approdo conclusivo di un processo di lunga durata, in atto almeno dal III secolo d.C., determinato dalle trasformazioni della struttura amministrativa dell’impero e dal trend tendenzialmente in ribasso delle sue condizioni economiche. Tale tendenza fu aggravata dal fatto che i nuovi ceti egemoni, rappresentati dalle aristocrazie dei popoli germanici conquistatori, raramente amarono insediarsi nelle città, preferendo piuttosto abitare all’interno delle proprietà rurali ottenute al momento della conquista o in tempi successivi.

Dinamiche diversificate

A questo proposito è bene ricordare – come le indagini archeologiche degli ultimi decenni hanno ampiamente dimostrato – che condizioni di vita urbana ancora collegate a modelli e stili di vita prossimi a quelli dell’età tardo-antica persistettero piú a lungo nelle aree in cui l’impatto dell’insediamento delle popolazioni germaniche fu numericamente meno significativo e quindi piú mediato nei confronti di quanto sopravviveva della società locale. È il caso della Gallia meridionale (dove, come si è visto, il potere dei Franchi si affermò stabilmente solo nella seconda metà dell’VIII secolo), ma anche di buona parte della penisola iberica e dell’Italia, prima che quest’ultima fosse sconvolta dalla guerra fra Goti e Bizantini e dalla successiva invasione longobarda. All’estremo opposto troviamo le aree piú periferiche dell’impero romano d’Occidente, come quelle danubiane, l’Inghilterra e anche le zone della Gallia settentrionale piú densamente occupate dai Franchi, dove la vita dei centri urbani declinò significativamente o si estinse già nel corso del V secolo. In genere, le città rimasero in vita in quanto centri religiosi – poiché ospitavano le sedi episcopali – e come presidi militari, nei casi in cui si ritenne opportuno mantenerne

Nei secoli della tarda antichità, l’importanza di molte realtà urbane fu drasticamente ridimensionata

in funzione le strutture difensive, anch’esse in genere di origine tardo-romana. L’egemonia dei vescovi sulle città, dagli inizi dell’Alto Medioevo, giocò un ruolo decisivo nelle scelte compiute da Pipino e Carlo Magno (ma in realtà già praticate dai re merovingi) in direzione di un rapporto stretto e organico con le gerarchie ecclesiastiche e spiega una volta di piú perché i sovrani franchi avvertissero la necessità di rappresentarsi come un’autorità accreditata anche in ambito religioso. La forte riduzione del ruolo delle città e la cessazione di un sistema regolare di riscossione delle tasse produsse anche altri effetti. Gli Stati barbarici non furono piú in grado di mantenere in vita programmi di lavori pubblici volti al mantenimento e al rinnovamento del sistema d’infrastrutture presenti sul territorio (quali strade, acquedotti, porti e ponti) pari a quello che, per esempio, Giustiniano aveva attuato nell’impero d’Oriente ancora nella prima metà del VI secolo. L’assenza d’investimenti pubblici diffusi e la scomparsa di una burocrazia stipendiata dallo Stato aveva influito pesantemente anche sulla produzione e la circolazione della moneta. Le coniazioni dei regni barbarici (e quello franco in tal senso non fa eccezione) sono numericamente assai meno rilevanti rispetto a quelle tardoromane e sono anche molto meno diversificate dal punto di vista tipologico.

La moneta cade (quasi) in disuso

Esse sono anche caratterizzate, quasi ovunque, dall’assenza della moneta bronzea, che costituiva la base degli scambi quotidiani. Da ciò discende che l’uso della moneta era molto piú limitato e circoscritto ed era condizionato dalla poca flessibilità degli strumenti di cui si poteva disporre. Per fare un paragone immediatamente comprensibile, è come se oggi – in assenza della moneta elettronica – si avessero a disposizione solo banconote di tagli dai 100 euro in su. In queste condizioni, le transazioni riguardanti gli scambi minuti e quotidiani finirebbero per essere affidate a mezzi diversi dalla moneta vera e propria, quali il baratto o le prestazioni di servizi. E cosí molto verosimilmente iniziò ad accadere in modo sempre piú diffuso nell’Europa di quel tempo. È anche probabile (ma è piú difficile a questo proposito stabilire relazioni di causa ed effetto valevoli allo stesso modo per ogni territorio) che lo stato della circolazione monetaria sia indizio di una situazione generale di decrescita del livello degli scambi commerciali. Certamente, oltre a tutti i fattori già indicati, anche il frazionamento dell’unità politica dell’impero romano aveva contribuito a rendere meno agevoli gli scambi fra le diverse regioni e aveva CARLO MAGNO

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fortemente ridotto le dinamiche della domanda e dell’offerta. Tuttavia, come vedremo piú avanti, il nuovo quadro geopolitico contribuí ad aprire, seppur lentamente, nuove prospettive di contatti commerciali con aree in precedenza rimaste al di fuori dei confini del mondo già dominato da Roma. Questo breve excursus aiuta a capire come la complessa (e dispendiosa) macchina costituita dal sistema amministrativo e dalla compagine sociale dell’impero tardo-antico non avesse potuto conservare alcuna sostanziale continuità nel corso dei primi secoli dell’Alto Medioevo presso i regni barbarici. Ciò non significa che l’eredità dell’antico fosse stata dimenticata. Al contrario, tutte le monarchie che guidavano questi Stati attinsero a piene mani al repertorio di simboli e di riferimenti ideologici che avevano caratterizzato gli imperatori tardo-romani allo scopo di rafforzare l’immagine della propria autorità.

Brema, Municipio, Sala Superiore. Affesco attribuito a Bartholomäus Bruyn il Vecchio, raffigurante la fondazione della diocesi della città, avvenuta nel 787, per volere di Carlo Magno e del vescovo Willehad. 1532 circa.

Nuove figure di re

In origine, i sovrani barbarici erano i capi militari scelti all’interno delle assemblee degli uomini in armi per guidare il proprio popolo nel corso delle migrazioni e per affrontare gli ostacoli e i conflitti incontrati lungo tale percorso. Man mano che la fase migratoria venne a concludersi e che i diversi popoli si stabilizzarono nei territori conquistati, anche il ruolo dei re si trasformò progressivamente. Essi presero ad agire come istanze di raccordo delle diverse forze presenti sul territorio, tentando allo stesso tempo, con piú o meno successo, di sovrapporre all’originaria condizione di capi militari un’autorevolezza di carattere religioso. Tale processo mirava a sganciare, per quanto possibile, la legittimazione del potere del re dal consenso (e dal condizionamento) ricevuto dai componenti dell’aristocrazia militare presente in ciascun regno. Come si diceva, il modello di sovranità assoluta e intrisa di connotazioni sacrali, offerto dal potere imperiale tardo-romano e bizantino, costituí sicuramente un riferimento concettuale di primaria importanza. Non è un caso che, presso tutti i principali regni barbarici che godettero di vita piú lunga (quello franco, visigoto e longobardo), il consolidamento dell’autorità regia e la legittimazione della trasmissione dinastica del potere abbia ricevuto un supporto significativo dall’adesione dei re al cattolicesimo. Essa permise loro di acquisire consenso anche presso le popolazioni autoctone, superando quindi la condizione iniziale di capi dei soli popoli «invasori». Non è da escludere – anche se non è di per sé dimostrabile – che la precoce conversione al cattolicesimo da parte dei re franchi 78

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(avvenuta alla fine del V secolo) abbia contribuito a consolidare per tempo il potere della dinastia merovingia che sarebbe rimasta al potere per i successivi duecentocinquanta anni. Un altro canale sfruttato dai re germanici per accreditare e rafforzare il proprio potere fu quello delle emissioni monetali. Abbiamo visto come e perché esse si fossero notevolmente ridotte rispetto all’età tardo-antica, ma ciò non significa che se ne fosse interrotta la continuità. Fra il VI secolo e prima metà dell’VIII, tutte le coniazioni emesse nei regni barbarici si man-


tennero sempre entro gli standard delle zecche imperiali e, per un certo periodo, ne imitarono i tipi monetali. L’obiettivo era evidentemente quello di garantire che i nuovi conî fossero accettati e s’inserissero a pieno titolo nella circolazione monetaria del tempo.

Emissioni a nome dei sovrani

Pian piano, però, a queste prime emissioni se ne sostituirono altre che, pur mantenendosi entro le tipologie e i valori ponderali di quelle imperiali, se ne distinguevano per il fatto di apparire

direttamente a nome dei re germanici. Questo avviene nell’Italia ostrogota, nella Spagna visigota (a partire dalla seconda metà del VI secolo) e nell’Italia longobarda (a partire dagli ultimi due decenni del VII secolo) e non può sfuggire il fatto che, in questi ultimi due casi, la mutazione delle emissioni monetali e la loro attribuzione al re avvenga contemporaneamente all’adesione della monarchia al cattolicesimo. È quindi possibile immaginare che vi sia stato un nesso tra l’aperta avocazione al sovrano di un potere sino a quel momento esercitato quaCARLO MAGNO

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si in supplenza di quello imperiale e il fatto che i monarchi, una volta allineatisi all’ortodossia religiosa, ritenessero ormai possibile apparire in prima persona sulle emissioni monetali. Non si deve infatti dimenticare che nell’impero romano d’Oriente esse proponevano ormai da molto tempo richiami espliciti alla protezione divina nei confronti dell’autorità dell’imperatore e alla sacralità della sua persona. Curiosamente, però, a contrappeso di questa possibile lettura, sta il fatto che, proprio nel regno franco, il rapporto fra i sovrani e la moneta rimase molto piú ambiguo e sfumato. Sino all’ultimo ventennio circa del VI secolo anche nel regno franco si coniarono perlopiú monete auree d’imitazione imperiale, sostituite poi – per circa un secolo – da emissioni effettuate a nome di soggetti privati (i cosiddetti «monetieri»), che in alcuni casi sembra agissero su delega del re o nell’ambito delle città (e quindi forse sotto il controllo di ufficiali regi). In molti altri, però, esse sembrano essere state effettuate in modo del tutto sganciato da qualsiasi avallo pubblico e la situazione non cambia molto quando, verso la fine del VII secolo, la coniazione in oro viene affiancata da quella di monete in argento (i cosiddetti denarii). Molto inchiostro è stato versato per cercare di fornire una spiegazione a tutto ciò. Senza dubbio, ciò che emerge è che il panorama monetario del regno franco è il primo, in Europa occidentale, a distaccarsi marcatamente dalla tradizione romana, cosa che si percepisce sia guar-

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A destra capolettera miniato, con l’imperatore Carlo Magno in trono, prima pagina del manoscritto della Cronaca di Turpino (o De vita Karoli Magni et Rolandi historia). XII sec. Santiago De Compostela, Archivio De La Catedral De Santiago De Compostela. In basso denari d’argento di epoca carolingia. IX sec. Francoforte, Deutsche Bundesbank, Geldmuseum. dando alla varietà tipologica delle emissioni auree, sia alla loro rarefazione, avvenuta verso lo scorcio conclusivo del VII secolo, e al loro rimpiazzo con la moneta d’argento.

Il ricorso all’argento

In ogni caso, sebbene l’immissione in circolo della moneta d’argento – determinata anche dalla crescente penuria d’oro – permettesse di disporre di uno strumento che, per il suo minore valore intrinseco, poteva risultare piú flessibile nell’uso quotidiano, non dobbiamo dimenticare che anche la coniazione dell’argento era affidata a un unico taglio monetale (il denarius, appunto), senza che fossero resi disponibili multipli o sottomultipli: anch’esso, quindi, poteva essere impiegato per una gamma limitata di utilizzi. Fra questi, non va però sottovalutato il fatto che – piú o meno contemporaneamente – la coniazione dell’argento si affermava anche nell’Inghilterra anglosassone. È dunque plausibile immaginare che tale mutamento del sistema monetale fosse stato indotto anche dal bisogno di agevolare gli scambi nel nuovo «spazio mediterraneo» costituito dalle aree affacciate sul


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Lo Stato franco stata espressione, ma che, progressivamente, aveva ancorato le radici del proprio potere anche su presupposti ideologici di carattere fortemente sacralizzato, mutuati dagli attributi propri degli imperatori cristiani della tarda antichità. I sovrani merovingi, che erano anche i maggiori proprietari terrieri di tutto il regno, sin dal VI secolo avevano iniziato a concepire il medesimo quasi come una sorta di appannaggio personale, non avendo problemi a spartirne il territorio fra i diversi rami della famiglia regnante, cosí che esso appare sistematicamente ripartito, fra il VI e l’VIII secolo, in una serie di sub-regni (Austrasia, Neustria, Borgogna e Aquitania – quest’ultima caratterizzata da una condizione di forte autonomia rispetto al potere centrale), la cui geografia ed estensione variavano frequentemente, spesso anche in modo significativo, a ogni passaggio di consegne fra una generazione di sovrani e l’altra.

Differenze regionali

Mare del Nord, nel cui scenario iniziavano ad agire anche le popolazioni delle regioni scandinave. Non è forse un caso che, mentre la coniazione dell’oro veniva rapidamente meno nelle regioni settentrionali del regno, essa resistesse invece ancora per qualche decennio a Marsiglia (almeno sino al 700 circa), e cioè nella città che aveva a lungo svolto la funzione di porta d’ingresso di quanto rimaneva dei commerci intrattenuti dai territori franchi con il mondo mediterraneo, dove l’oro continuava a circolare, sia presso gli Arabi, sia presso i Bizantini. Volendo tracciare un quadro riassuntivo, si può dire che il regno franco, alla vigilia dell’avvento dei Carolingi, si presentava come una società fortemente ruralizzata, caratterizzata dalla presenza di un’aristocrazia dai connotati decisamente marziali e dominata da una monarchia che di tale aristocrazia era originariamente 82

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Miniatura raffigurante Carlo Magno e il figlio Pipino nell’atto di promulgare leggi, da un manoscritto della Lex Salica. X sec. Modena, Archivio Capitolare.

Nel mondo franco non erano venute meno le città ereditate dall’età romana, ma il loro ruolo istituzionale e il loro peso politico ed economico si erano fortemente ridimensionati. In questa prospettiva dovevano essere percepibili differenze tra le aree settentrionali e quelle meridionali del regno, laddove le prime dovevano mostrare un maggior distacco rispetto al passato anche in considerazione del fatto d’includere regioni che, in origine, si trovavano all’esterno del territorio imperiale e quindi non avevano mai visto svilupparsi insediamenti urbani veri e propri. Il ridimensionamento del ruolo delle città e il gravitare delle aristocrazie sulle aree rurali può anche aiutare a spiegare come mai, a partire dalla prima metà del VII secolo e sempre nelle aree piú settentrionali del regno, si sia sviluppata un’inedita tipologia di insediamenti monastici, fortemente sostenuti dai re e dalla nobiltà e caratterizzati dal radicamento nelle campagne. Irrobustiti dalla disponibilità di cospicue dotazioni di beni terrieri, si distinsero sia per la vocazione a proporsi come centri culturali di un certo rilievo, sia per la consistenza materiale e monumentale. Abbiamo visto in precedenza che Carlo – sulle orme del padre – aveva provveduto a rafforzare il carattere sacrale del potere del re e, per farlo, aveva saldato ancor piú strettamente a sé le diocesi e le comunità monastiche presenti nel territorio dell’impero. Esse avrebbero dovuto costituire una rete di istituzioni e persone legate al sovrano, in grado riverberare in ogni luogo la fama del suo nome e la provvidenzialità della sua azione, benedetta da Dio per il conforto dell’umanità. La Chiesa costituí per tali ragioni una macchina di propaganda a servizio


e supporto del nuovo impero, d’importanza ed efficacia assolutamente comparabile a quella che, da Costantino in poi, aveva accompagnato l’attività degli imperatori tardo-antichi.

Al servizio del sovrano

Ma l’azione di Carlo si dispiegò energicamente anche nel campo della struttura amministrativa civile e dell’apparato militare. Innanzitutto, fu riorganizzato il sistema amministrativo centrale, che doveva assistere direttamente il sovrano nel coordinamento della sua azione di governo. I due organismi palatini principali erano costituiti dalla cappella e dalla cancelleria. La prima aveva il compito di rendere tangibile la sacralità della persona del monarca e permeare in tal senso tutto l’ambiente in cui egli risiedeva. L’arcicappellano, che ne aveva la direzione, era uno dei personaggi piú vicini al re e rappresentava uno dei suoi piú importanti consiglieri spirituali. Il secondo organismo costituiva invece il ganglio da cui si dipartiva ogni contatto ufficiale che il sovrano intratteneva con il mondo esterno. Alla cancelleria – il cui personale era composto interamente da chierici, gli unici che sapessero leggere e scrivere correntemente – toccava infatti il compito di redigere gli atti legislativi promulgati dal

IL MONOGRAMMA DEL RE

Diploma di Carlo Magno, datato

14 settembre 774, con la cessione della foresta di Kinsheim al priore di Liepvre. Parigi, Musée de l’Histoire de France. Qui sopra: la firma del sovrano (il celebre monogramma), posta in calce al documento; a sinistra: particolare del sigillo.

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re e scrivere le lettere e i documenti ufficiali (come diplomi e privilegi) attraverso cui quest’ultimo interloquiva con tutti coloro che gli si rivolgevano. Tra le figure di maggior rilievo vi era poi il conte di palazzo, che aveva il compito di presiedere in nome del sovrano le assise giudiziarie e dirimere ogni questione portata alla sua attenzione. Il re era circondato da altri personaggi che si prendevano cura della sua persona e dell’organizzazione della sua vita quotidiana: il siniscalco, che aveva il compito di gestire la mensa; il connestabile (dal latino comes stabuli) che si occupava delle scuderie; il preposito alle cantine; il camararius, che si occupava del tesoro regio. Accanto a loro dobbiamo immaginare la presenza di inservienti che eseguivano materialmente le diverse mansioni e di coloro che si 84

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Accompagnato dal suo seguito, Carlo Magno fa il suo ingresso in una chiesa, miniatura da un’edizione delle Grandes Chroniques de Saint-Denis. XIV sec. Chantilly, Musée Condé.

occupavano direttamente della persona del sovrano e dei suoi familiari, accudendoli, curandone il guardaroba e la pulizia e la manutenzione dei loro appartamenti. Ma non mancava anche una componente di natura schiettamente militare, costituita dalle guardie di palazzo che sorvegliavano gli ingressi della dimora regia e avevano il compito di proteggere il sovrano e filtrare gli accessi alla sua presenza. Ma la caratteristica che rendeva la corte di Carlo assolutamente particolare era la presenza a palazzo di un gruppo di intellettuali, quasi sempre di provenienza monastica o ecclesiastica (ma ciò non implicava che non sapessero ragionare e agire da persone «di mondo»), che animavano la vita di corte con i loro studi e con la produzione di componimenti poetici e di opere letterarie di carattere sia sacro che profano.


Il servizio presso il re costituiva un onore di particolare rilevanza. Come già al tempo dei sovrani merovingi, anche sotto Carlo Magno le famiglie aristocratiche consideravano un privilegio far crescere i propri figli presso la residenza del sovrano. Ciò affinché essi potessero compiervi una sorta apprendistato su quello che sarebbe dovuto essere il codice di comportamento di un rappresentante della nobiltà, ma anche per apprendere l’arte del governare e il funzionamento delle diverse componenti in cui si articolava la corte. Infine, la residenza del re era anche un luogo di accoglienza e di ascolto: vi giungevano funzionari provenienti da ogni parte dell’impero, e poi vescovi, abati e altri personaggi appartenenti alla cerchia degli intellettuali prediletti dal sovrano, ma non residenti abitualmente presso di lui.

Schema che illustra i rapporti di potere e di ceto venutisi a creare con la dissoluzione del sistema burocraticoamministrativo di epoca tardo-antica e l’affermarsi del sistema feudale.

Spostamenti frequenti

mentali eretti in pietra. Ma altri rimanevano probabilmente poco piú che grandi corti rurali, e la loro funzione abituale doveva anche essere quella dell’amministrazione delle proprietà direttamente funzionali al finanziamento delle attività del re e del suo entourage.

L’importanza delle abbazie

Ma la rete dei punti d’appoggio su cui Carlo poteva fare affidamento era potentemente integrata dalle grandi abbazie. Come abbiamo già avuto modo di sottolineare, quelle sottoposte alla protezione del sovrano erano considerate a tutti gli effetti nella sua disponibilità e uno dei diritti che egli poteva esercitarvi era proprio quello di ricevere da esse vitto e alloggio per sé e per il proprio seguito. Il training offerto a palazzo ai rampolli delle maggiori famiglie aristocratiche serviva loro anche come percorso di formazione per un futuro in cui essi sarebbero stati chiamati a collaborare con il sovrano al governo dell’impero. Questo percorso era funzionale a un disegno di portata piú vasta, che prevedeva l’istituzione di un sistema di governo omogeneo di tutte le aree di cui si componevano gli immensi domini sottoposti all’autorità di Carlo. Fu cosí sistematizzata ovunSOVRANO que l’istituzione dei comitati, che costituivano una maglia di circoscrizioni territoriali (circa duecento in tutto l’impero) sottoposti all’auVASSALLI torità di un comes (conte), che vi rappresentava il sovrano, esercitandone i poteri militari, finanziari, giudiziari e amministrativi. Il conte non doveva solamente far entra(conti, marchesi, re nelle casse dello Stato margravi, vescovi, abati) le rendite delle terre e i zion ari fun ilit no e m lgo tive svo istra in amm

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Questo entourage alle dirette dipendenze di Carlo ebbe certamente una base preferenziale presso la residenza fissata ad Aquisgrana, ma non va dimenticato che – con l’esclusione degli ultimi anni di vita, quando la salute aveva iniziato a declinare – egli fu un sovrano «itinerante». Inaugurando un costume che divenne abituale per gli imperatori occidentali durante tutto l’Alto e il pieno Medioevo, Carlo si spostava frequentemente; ciò non avveniva solo in occasione delle campagne militari, ma anche in tempo di pace. Era infatti necessario che la sua presenza fosse tangibilmente avvertita in tutti i territori del regno, affinché vi fossero mantenuti la pace e l’ordine. Per questo motivo, Carlo poteva disporre di residenze sparse in ogni regione, pronte ad accoglierlo qualora se ne fosse presentata l’occasione. Alcune di esse, come quelle di Querzy-sur-Oise, di Attigny, di Ponthion e di Héristal esistevano già prima del suo avvento al trono; altre, come quelle tedesche di Ingelheim e di Paderborn, furono erette al suo tempo. In Italia, Carlo utilizzò il palazzo dei re longobardi a Pavia, mentre a Roma poteva disporre di una residenza situata VASSALLI MINORI in prossimità della basilica di S. Pietro. (valvassori, cavalieri, I suoi successori eressero altre resialtri prelati minori) denze, tra cui merita di essere ricortributi, tasse, decime,corvées protezione e distribuzione data quella fatta costruire da suo della terra da coltivare nipote Carlo II il Calvo a Compiègne, a sud di Parigi. SERVI DELLA GLEBA Alcuni di questi luoghi raggiunsero una rilevante consistenza architettonica, pari a quella del palazzo di AquiUOMINI LIBERI sgrana, che contava al (preti di campagna, artigiani, proprio interno anche piccoli proprietari) SCHIAVI diversi edifici monu-

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CARLO MAGNO

Lo Stato franco

dei diritti fiscali, ma anche, e soprattutto, garantire il rispetto dell’ordine e della pace prescritti dal potere supremo del monarca. Per svolgere le loro mansioni, i comites erano affiancati da personale a ciò deputato, che poteva comprendere anche un loro vicario o sostituto (vicecomes o visconte) e includeva agenti subalterni, quali per esempio i centenarii, ai quali erano affidate circoscrizioni piú piccole all’interno dei territori dei comitati. In linea di principio, i conti ricoprivano funzioni non troppo dissimili da quelle dei governatori provinciali dell’impero tardo-antico. In realtà, tra le due situazioni correvano molte differenze. Innanzitutto, i conti carolingi concentravano nelle loro mani sia l’autorità civile, sia quella militare, assomigliando in ciò piuttosto ai funzionari delle riformate province in cui fu progressivamente suddiviso l’impero bizantino a partire dalla metà circa del VII secolo.

Nella cerchia dei vassalli

Ma la divergenza maggiore dipendeva sostanzialmente da un aspetto già esaminato in precedenza. Poiché nello Stato carolingio non esisteva piú una regolare esazione dei tributi diretti, il re non era in grado di corrispondere uno stipendio a questi suoi alti funzionari. Il compenso per il servizio prestato proveniva perciò da una serie di cespiti di altro tipo, che comprendevano una percentuale sui diritti esatti in occasione delle cause giudiziarie e l’usufrutto di una parte delle rendite derivanti dai terreni demaniali presenti nell’area del comitato. Soprattutto, però, i comites potevano godere normalmente anche di un’altra importante fonte di reddito. Essi, infatti, erano in genere legati al sovrano non solo dal rapporto gerarchico derivante dalla funzione amministrativa svolta, ma anche da un vincolo personale e fidelitario nei suoi confronti, discendente dal fatto di fare parte della cerchia dei suoi «vassalli». Essere «vassallo» del re significava essere una persona che, avendo pronunciato un solenne e pubblico giuramento di dedizione e lealtà nei confronti del monarca, diventava da quel momento in poi persona a lui soggetta, con l’obbligo di seguirlo in battaglia e combattere al suo fianco, ma anche con il privilegio di essere incluso nel suo diretto entourage. Normalmente, alla formalizzazione del rapporto di vassallaggio seguiva la concessione da parte del re di un beneficium, costituito dal godimento delle rendite provenienti da porzioni delle terre costituenti il demanio regio. Le terre ricevute in uso per questo motivo non corrispondevano a quelle concesse in seguito all’assunzione della funzione comitale, poiché i due (segue a p. 93) 86

CARLO MAGNO

I PALAZZI DI CARLO MAGNO

I

l lungo regno di Carlo, a eccezione degli ultimi anni in cui la salute declinante obbligò il sovrano a una vita piú sedentaria, condotta prevalentemente ad Aquisgrana, fu caratterizzato da spostamenti continui. Essi erano determinati sia da esigenze di carattere militare, sia dalla necessità di essere fisicamente presente nelle diverse regioni del regno, al fine di controllarne personalmente la situazione e consolidare cosí i rapporti politici e personali con coloro che lo rappresentavano nei diversi territori. Ciò spiega perché nelle fonti siano ricordate diverse residenze, di volta in volta utilizzate dal sovrano. L’impero di Carlo non era perciò caratterizzato dalla presenza di una capitale stabile, com’era stata Costantinopoli per i Bizantini, ma lo si può in certo senso definire una «monarchia itinerante». L’azione di Carlo in tal senso potrebbe essere perciò paragonata a quella degli imperatori romani in carica fra il tardo III e il IV secolo. Prima che le loro residenze si stabilissero definitivamente a Ravenna e Costantinopoli, essi preferirono guidare personalmente gli eserciti nelle campagne militari, utilizzando come proprie basi logistiche diverse città sparse nei territori dell’impero, che meglio si prestavano a tale scopo per la loro vicinanza alle frontiere. Cosí, in questo periodo, vediamo sorgere residenze imperiali a Treviri (in Germania), York (in Gran Bretagna), Arles (in Francia), Milano e Aquileia (in Italia), Sirmium (in Serbia), Salonicco (in Grecia), Nicomedia e Antiochia (in Turchia). La differenza fra i due periodi appare però evidente soprattutto guardando a un non

secondario dettaglio. Mentre le residenze degli imperatori tardoantichi si erano tutte installate all’interno di città, quelle fatte costruire da Carlo – compresa la stessa Aquisgrana – sorsero invece in aree rurali, presso siti nei quali in precedenza non esistevano insediamenti di particolare rilevanza. Questo dato si spiega anche tenendo conto del fatto che alcune di queste residenze sorsero in zone non comprese nell’impero romano e che quindi mai avevano sperimentato processi di vera e propria urbanizzazione. Ma esso riflette anche una mutazione piú


profonda, caratteristica di questa fase della storia europea, che investí il significato e la funzione stessa delle città. In questo periodo la civitas non è piú un insediamento caratterizzato da una funzione amministrativa civile e dalla presenza di una popolazione socialmente articolata, direttamente responsabile dell’autogoverno proprio e della gestione del territorio circostante. Piuttosto, essa è la sede di residenza di un rappresentante del potere, laico o religioso, intorno alla quale si raccolgono persone direttamente impiegate al suo

servizio. Tale differenza rispetto al mondo antico (di cui peraltro si scorgeva già qualche segno in età tardo-romana) rende possibile, in questo periodo, identificare come «città» anche insediamenti come i siti palaziali regi o perfino i maggiori monasteri sorti in ambito rurale. A riprova di ciò, si consideri che anche le sedi vescovili sorte ex novo in terre, come la Germania, esterne all’antico mondo romano, furono considerate a tutti gli effetti civitates. Esse divennero in seguito veri e propri insediamenti urbani, ma

all’inizio bastava per definirle tali la presenza della sede di un’autorità dotata di un ruolo istituzionale cosí rilevante. Tornando alle residenze regie dell’età di Carlo, fra gli insediamenti citati dalle fonti, ve ne sono tre – tutti localizzati nell’odierna Germania – di cui si conosce almeno in parte l’aspetto materiale. La piú celebre di esse, Aquisgrana, si sviluppò a partire dagli ultimi due decenni dell’VIII secolo, probabilmente ingrandendo e monumentalizzando una preesistente villa già utilizzata da Pipino. Di tutti gli edifici

Aquisgrana. L’interno della Cappella Palatina di Aquisgrana, costruita per volontà di Carlo Magno nel complesso palaziale della residenza regia, su modello della basilica di S. Vitale a Ravenna. Luogo di sepoltura dello stesso Carlo, l’edificio sacro fece da cornice all’incoronazione dei sovrani del Sacro Romano Impero fino al 1531.

CARLO MAGNO

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CARLO MAGNO

Lo Stato franco Normanni

Oceano Atlantico Scoti

Pitti Svedesi e Goti

Irlanda Gallesi

Inghilterrra

Londra

Quierzy-sur-Oise Orlèans Tours

Bordeaux

Oviedo

Regno delle Asturie

Cordova

Vienna

Regno degli Avari

Impero di Carlo Magno Pavia

Saragozza

Emirato di Cordova

b ú T r i

Chalons

Genova

Tolosa

Toledo

Polacchi

Cechi

Ingelheim I Longlier Thionville T Ponthion P

Compiègne

Poitiers

Paderborn P Sorbi

Colonia

Barcellona

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Xeres

Verona

Venezia

Ancona

Corsica

Croati

Ravenna

M Firenze

Marsiglia

Prussiani

Venedi

Veleti

Aquisgrana

Lisbona

Tribú baltiche

Danesi

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Roma

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Tribú Slave

Napoli

Mar T ir r e n o

Ducato di Benevento Atene

costruiti al tempo di Carlo, oggi si conserva solo la cosiddetta «Cappella Palatina», un edificio a pianta centrale, di cui sono state poste in evidenza le stringenti somiglianze planimetriche e dell’elevato con la basilica di S. Vitale a Ravenna. La Cappella era preceduta da un grande atrio a pianta rettangolare, movimentato da 88

CARLO MAGNO

esedre sui due lati lunghi e i due spazi erano connessi fra loro da una sorta di avancorpo monumentale che aveva funzione di nartece. Gli scavi hanno anche rivelato che essa era fiancheggiata da altri due edifici, probabilmente da interpretare come sacelli accessori dell’aula di culto principale. Se questa parte del complesso ne costituiva il

«cuore sacro», sul lato opposto si trovava un corpo di fabbrica altrettanto monumentale deputato a svolgere funzioni di rappresentanza, di carattere prevalentemente profano. Si trattava di una grande aula a nave unica, conclusa da un’abside e articolata sui lati lunghi da due ampie esedre, che aveva funzione di sala per le udienze concesse dal

Sulle due pagine cartina in cui sono evidenziate le piú importanti località scelte da Carlo Magno per la costruzione dei suoi palazzi o come residenza.


Bulgari del Volga Mordvini Tribú Turche

a S l

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Peceneghi

e

Regno dei Cazari

Polacchi iari

Mag

Regno dei Bulgari

Mar

Iberia

C a sp io

Mar N ero

a Armeni

Adrianopoli Costantinopoli

Azerbaigian Impero Romano d’Oriente Aleppo

Cipro Creta

sovrano. I due edifici – distanti fra loro circa 130 m – erano collegati da un corridoio porticato, interrotto a metà del suo percorso da una struttura a Alessandria pianta rettangolare, che è stata interpretata come una sorta d’ingresso monumentale al complesso palaziale. Anche per essa si possono trovare confronti precisi con l’edilizia dei palazzi imperiali

Emesa Damasco

romani, prima fra tutte la cosiddetta «Aula Palatina» della vicina Treviri. Nell’area Gerusalemme intermedia fra la Cappella e questa grande sala sono stati individuati i resti di altri edifici e altri ancora sono stati intercettati a un paio di centinaia di metri di distanza, in direzione sud-est. Non è possibile definire con certezza la funzione di queste

Baghdad

altre costruzioni (sicuramente realizzate in muratura), ma dobbiamo immaginare che all’interno del palazzo fossero concentrate diverse attività, alle quali dovevano essere assegnati spazi idonei e, in alcuni casi (come in quello del quartiere in cui il re risiedeva), dotati di una certa rilevanza architettonica. La Cappella Palatina fu edificata

Qui sopra Aquisgrana. La Pala d’Oro (l’altare maggiore, 1020 circa) della Cappella Palatina e il coro (sullo sfondo), costruito tra il 1355 e la prima metà del XV sec.

CARLO MAGNO

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CARLO MAGNO

In alto il trono di Carlo Magno, nella Cappella Palatina di Aquisgrana. A destra prospetto del fronte occidentale del Palazzo e della Cappella Palatina di Aquisgrana. Il lungo portico collegava l’aula regia (1), a sinistra, con l’atrio della cappella, sulla destra (3). A metà circa della sua lunghezza era interrotto da una porta monumentale (2) che dava l’accesso al palazzo.

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Lo Stato franco

Qui sopra batacchio bronzeo a testa di leone di un portale della Cattedrale di Aquisgrana. Nella pagina accanto, in alto spaccato assonometrico della Cappella Palatina, costituita da un nucleo a pianta ottagonale, coperto a cupola. In basso, a sinistra disegno ricostruttivo del complesso palaziale carolingio di Aquisgrana.

1


grossolanamente quadrata. La parte piú settentrionale dell’insediamento era occupata dalle strutture palaziali vere e proprie. Di esse si è individuato un edificio a pianta rettangolare, di circa 30 m di lunghezza per 10 in altezza, articolato su due piani, interpretato come una grande aula di rappresentanza ma il cui livello inferiore era probabilmente destinato a svolgere funzioni meno ufficiali. Questo corpo di fabbrica sorgeva direttamente sulle polle sorgive del fiume Pader, raggiungibili direttamente dai suoi sotterranei. Accanto a esso fu eretto un monastero la cui comunità aveva la funzione di pregare per il re all’interno di un’attigua basilica a tre navate, di grandi dimensioni, che dopo l’836 fu dotata di una contro-

2

3

rispettando livelli di qualità architettonica generale e di finitura dei dettagli assolutamente eccellenti: marmi ed elementi scultorei di spoglio furono inviati ad Aquisgrana direttamente da Roma e Ravenna, per esaltare la nobiltà dell’edificio e il simbolico legame del suo augusto committente con le memorie delle antiche capitali imperiali; i finimenti bronzei – come le transenne e i battenti delle porte – sebbene eseguiti localmente, attestano una

imitazione quasi alla lettera di modelli romani. Le altre due residenze regie per le quali le indagini archeologiche hanno rivelato dettagli sufficientemente esaurienti sono quelle di Paderborn, in Westfalia, e di Ingelheim, in Renania, non lontano da Magonza. A Paderborn, la cui costruzione doveva essere già stata avviata verso la fine degli anni Settanta dell’VIII secolo, il complesso palaziale si estendeva su un’area di circa 10 ettari, cinta da mura e di forma

abside al di sotto della quale fu inserita una cripta anulare. L’edificio era quindi pienamente di foggia «romana» (e lo era anche prima degli ampliamenti ricevuti dopo la morte di Carlo) e in questa cornice, nel 799, fu ricevuto papa Leone III in fuga da Roma. La residenza di Ingelheim, invece, aveva una planimetria del tutto particolare, che richiama alcune grandi ville dell’età tardo-antica, caratterizzata da una pianta quadrata alla quale, a CARLO MAGNO

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CARLO MAGNO

Lo Stato franco

A sinistra Aquisgrana. La statua di Carlo Magno sulla fontana di fronte al Municipio, che ingloba l’antica aula regia del palazzo carolingio, edificata forse dopo l’anno 80O. Nella pagina accanto Carlo Magno con il modellino della Cattedrale di Aquisgrana. Olio su tavola, 1485 circa. Aquisgrana, Tesoro della Cattedrale. un’estremità, fu aggiunto un corpo curvilineo. Il tutto misurava circa 150 m di lunghezza per 110 circa di larghezza. Gli edifici del complesso si affacciavano verso l’interno e, in particolare, l’ala a pianta ricurva – che probabilmente ospitava la parte residenziale del complesso – si apriva su una corte interna tramite un ampio portico colonnato. All’estremità opposta si trovava l’aula palatina, a pianta basilicale mononave, conclusa da un’unica abside. Lungo il lato lungo ovest sorgevano altri edifici, tra cui una chiesa e un piccolo complesso termale e tutti i corpi di fabbrica erano fra loro connessi da percorsi colonnati e porticati. Questi tre palatia esprimono in modo probabilmente esemplare l’interesse degli architetti carolingi per gli edifici di età classica e tardo-antica; ma forse non tutte le residenze utilizzate da Carlo erano state realizzate con la stessa cura e con il medesimo dispendio di risorse. Se alcune, come quelle di Ponthion e di Quierzy-sur-Oise, che ebbero la funzione di ricevere ospiti illustri e di tenere importanti convegni politici, furono sviluppate analogamente a quelle tedesche, è probabile che altre avessero invece mantenuto un aspetto piú «rustico», funzionando essenzialmente come centri gestionali delle grandi proprietà appartenenti al demanio regio ed eventualmente come residenze di caccia, attività della quale Carlo era particolarmente appassionato. 92

CARLO MAGNO


piani rimanevano ben distinti fra loro. Si poteva, cioè, essere vassalli del re anche senza mai prestargli pubblico servizio come conte o rivestendo altre cariche. Ma le due cose, messe insieme, potevano rappresentare – per chi ne fruiva – un’occasione di notevole incremento delle fortune personali. Va detto che, al tempo di Carlo Magno, sia le rendite derivanti dall’assunzione della funzione comitale, sia quelle legate al rapporto vassallatico-beneficiario, costituivano un cadeau concesso ad personam e a tempo, di cui il re si riservava il recupero. Il primo era concesso al destinatario per la durata dell’incarico e il secondo – in genere – per la durata della sua vita. Trascorsi questi termini, le terre che costituivano l’oggetto della concessione tornavano nella piena disponibilità del re, che era quindi libero di attribuirle a qualcun altro. È chiaro che l’interruzione di questi benefici poteva avvenire anche nei casi in cui il loro fruitore si fosse dimostrato indegno della fiducia del re o avesse comunque agito in difformità da quanto questi si aspettava da lui.

Che nessuno sia ricco come il re

Tale regola impediva che il demanio regio s’impoverisse e, soprattutto, che i beneficiari accumulassero potere e ricchezze tali da poter competere con il sovrano. A essa si accompagnava anche l’accorgimento, di norma adottato riguardo l’attribuzione della funzione comitale, di evitare di nominare responsabile di un comitatus una persona che avesse già, nella stessa zona, cospicui interessi patrimoniali e, quindi, anche una posizione politicamente ed economicamente rilevante. Si voleva con ciò scongiurare, ancora una volta, la possibilità che una singola persona o un certo gruppo familiare potessero acquisire su un determinato territorio un predominio tale da competere con l’autorità regia. Questo sistema offrí spesso l’opportunità a coloro che erano stati preposti all’amministrazione di regioni anche lontane da quelle di cui erano originari di compiervi investimenti rilevanti, diversificando la base territoriale dei loro possedimenti e costituendo patrimoni familiari la cui distribuzione geografica assumeva proporzioni mai piú viste in Europa dal tempo del tardo impero romano. Per controllare l’azione (e la fedeltà) dei conti, Carlo istituí anche una categoria di funzionari itineranti – i cosiddetti missi dominici – che, inviati periodicamente nei vari comitati, avevano il compito di monitorarne la situazione e riferire al sovrano. Un compito simile, seppur in via non ufficiale, svolgevano spesso i vescovi e gli abati dei grandi monasteri, in virtú del rapporto privilegiato stretto da Carlo con le gerarchie CARLO MAGNO

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CARLO MAGNO

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ecclesiastiche e che permetteva agli esponenti di queste ultime di operare come sue longae manus nello sterminato territorio dell’impero. Simmetricamente, i conti venivano di quando in quando richiamati al cospetto del sovrano per riferire sul loro operato e spesso ciò avveniva pubblicamente, in occasione delle annuali assemblee dei grandi del regno che si tenevano ogni primavera per discutere di questioni politiche e iniziative militari. Come si è già accennato, il rapporto vassallatico94

CARLO MAGNO

beneficiario fu sviluppato da Carlo per rinsaldare e, in certo senso, personalizzare i rapporti con gli esponenti di maggior spicco della società del regno. Questo tipo di relazione interpersonale esisteva in embrione già prima dell’avvento dei Carolingi, ma la storiografia è abbastanza concorde nel giudicare che proprio a partire da Pipino essa fu sviluppata e giuridicamente meglio definita. Essa ebbe lo scopo di creare una rete connettiva solida ed estesa, cementata da un elemento, quale quello della fedeltà personale


pubblicamente giurata da uno junior (il vassallo) nei confronti di un senior (il re), che nella mentalità del tempo rivestiva un valore simbolico di altissimo significato. L’obbligo di fedeltà dietro corresponsione di un beneficio fu esteso quanto piú possibile tra i medi e grandi possidenti terrieri, al fine di garantirne la partecipazione alle attività belliche e amministrative del regno. E, dato che i vassalli del re (i cosiddetti vassi dominici) si trovavano a loro volta a capo di clientele locali piú o meno estese, il sistema sortiva l’effetto di legare indirettamente alla fedeltà verso il re tutti coloro che potevano contribuire al funzionamento e alla difesa dei domini franchi. Questo meccanismo – che molti storici hanno considerato rappresentativo della quintessenza delle relazioni politiche e personali della società medievale – si fondava su relazioni di tipo privato e personale, ma le utilizzava, in realtà, come architrave per il funzionamento dello Stato. Il servizio pubblico dovuto al re dai suoi sudditi, quindi, si mischiava e si sovrapponeva al servizio privato che un gruppo di uomini aveva giurato di rendere a un altro in virtú di un patto individuale.

Pro e contro

Carlo Magno depone nella cattedrale di Aquisgrana il piatto d’argento e il calice della cena di Cristo, dipinto di Bernard van Orley. XVI sec. Torino, Galleria Sabauda.

Tale dinamica includeva alcuni indiscutibili elementi di forza, ma anche germi d’instabilità e di debolezza. La forza stava nel fatto che l’istituzione di vincoli come quelli appena descritti suppliva alla fragilità delle strutture statali e al fatto che il loro funzionamento era ostacolato dalla carenza di infrastrutture e dalla difficoltà delle comunicazioni. Inoltre, la fidelizzazione di personaggi rilevanti presenti nelle singole aree dell’impero avrebbe dovuto garantire, «a cascata», quella delle loro famiglie e di quanti componevano il loro entourage locale. Si creava quindi una sorta di «piramide sociale» virtuale, al cui vertice si trovava il monarca, attorniato dalla cerchia dei suoi diretti fedeli, dai quali dipendeva a sua volta la rete delle clientele locali. I tratti di debolezza sono altrettanto evidenti. La saldezza e la durata nel tempo del legame interpersonale dipendeva molto dal carisma e dall’autorevolezza del senior. Personaggi di eccezionale statura politica e prestigio come Carlo e suo padre Pipino non ebbero difficoltà a imporsi in un contesto di questo tipo. Ma, come dimostrarono le vicende dei decenni successivi, nel momento in cui l’equilibrio tra le parti in causa non fosse stato cosí definito a favore del re, gli interessi individuali potevano facilmente prevalere sulla tenuta del sistema nel suo insieme. A corollario di questa osservazione, vanno ricordate alcune altre cose. La rete dei legami vassallatici poteva facilmente entrare in corto circuito con il sistema delle istituzioni pubbli-

che, sovrapponendosi a esse e non operando piú solo come una rete di relazioni volta a supportarne il funzionamento. In altre parole, la relativa esiguità della struttura burocratica pubblica e il fatto che chi ne componeva i livelli piú alti fosse abitualmente «pescato» fra i ranghi della grande aristocrazia conteneva il rischio potenziale che gli interessi specifici delle diverse componenti di quest’ultima prevalessero su quelli del bene comune dello Stato.

Retaggi tribali

Le conseguenze di questo dato si comprendono ancora meglio se si considera che lo stesso servizio militare prestato agli ordini del re, pur rientrando nella sfera dei doveri «pubblici» dei sudditi, era di fatto garantito in larga misura dalle forze costituite dalle clientele armate alle dipendenze dei maggiori gruppi aristocratici, che si presentavano in battaglia e combattevano al fianco del sovrano sulla base del patto personale di lealtà e di sottomissione individuale stretto con quest’ultimo. Questo strumento, benché al tempo di Pipino e Carlo fosse stato progressivamente meglio definito dal punto di vista giuridico, costituiva comunque ancora il retaggio delle antiche solidarietà tribali esistenti all’interno dei popoli germanici e rimaneva saldo soprattutto sino a che il re disponeva di sufficiente carisma personale e mostrava di avere la capacità di fornire al suo seguito opportunità favorevoli di conquista, arricchimento e, non ultimo, di avventura. Come dicevo poc’anzi, le qualità fuori dal comune possedute da Carlo e il fatto che, sotto la sua guida, il regno franco per diversi decenni avesse potuto ampliare continuamente i propri territori, avevano permesso di mantenere il sistema in equilibrio. Ciò aveva infatti consentito che il re, incamerando continuamente nuove terre e prede di guerra, potesse manovrare il consenso e il sostegno delle aristocrazie laiche e al contempo beneficiare la Chiesa, del cui appoggio – come abbiamo visto – aveva ugualmente necessità. Tuttavia, già negli ultimi anni del regno di Carlo, quando il processo di espansione territoriale si era via via attenuato per poi arrestarsi definitivamente, avevano iniziato a profilarsi problemi di gestione degli equilibri interni, che sarebbero progressivamente emersi nel corso del regno del figlio di Carlo, Ludovico, detto «il Pio». Tutto ciò dipendeva dal fatto che, se non vi erano piú possibilità di ampliamento della base terriera attraverso guerre e conquiste, era inevitabile che – prima o poi – le aspirazioni al miglioramento del proprio status si rivolgessero verso il fronte interno, alimentate dalla vocazione sostanzialmente guerriera propria dell’aristocrazia franca. CARLO MAGNO

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CARLO MAGNO

Lo Stato franco

GLI ANNI DI CARLO MAGNO

561. Alla morte di Clotario I (detto «il Vecchio») il dominio merovingio viene di nuovo suddiviso tra i suoi figli.

613-639. Clotario II e suo figlio Dagoberto ripristinano l’unità del regno merovingio.

481-511. La Francia diventa potenza in Europa grazie al merovingia Clodoveo I, convertitosi al Cristianesimo. Alla sua morte, il dominio viene suddiviso tra i suoi quattro figli Teodorico, Clodomiro, Childeberto I e Clotario I. Quest’ultimo rimarrà per alcuni anni (dal 558 al 561) unico sovrano di tutto il regno.

791. Campagna contro gli Avari.

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CARLO MAGNO TITOLO

687. Pipino (detto «il Giovane»), già maestro di palazzo del regno di Austrasia, lo diviene anche in quello di Neustria, a seguito della vittoriosa battaglia di Tertry.

791-792. Congiura contro Carlo da parte di alcuni aristocratici franchi. Il primogenito di Carlo, Pipino (detto «il Gobbo»), nato da un’unione non ufficiale del sovrano con una nobile alsaziana, fu considerato coinvolto nel tentativo di rivolta e rinchiuso in un monastero.

789. Attraverso l’ordinanza Admonitio generalis, Carlo inaugura le sue riforme della Chiesa e del sistema educativo.

795-796. Vittoria dei Franchi sugli Avari.

732. Nella battaglia di Poitiers, Carlo Martello sconfigge i musulmani di Spagna.

742. Il 2 aprile nasce Carlo («Magno»), figlio di Pipino.

751. Pipino il Breve depone e relega in monastero l’ultimo re della dinastia merovingia, Childerico III.

741. Il figlio di Carlo Martello, Pipino III (detto «il Breve»), succede nella carica di maestro di palazzo (di Neustria) insieme al fratello Carlomanno (insediato in Austrasia), che però nel 747 si ritira in monastero, lasciando Pipino unico maestro di palazzo per tutto il regno.

800. A Roma, il 25 dicembre Leone III incorona Carlo a imperatore.

812. L’imperatore di Bisanzio, Michele I, riconosce l’impero occidentale di Carlo.

799. Papa Leone III, insidiato a Roma da una congiura mossa contro di lui da nobili della città, si rifugia da Carlo, nella sua residenza di Paderborn.

754. Papa Stefano II, recatosi in Francia, unge come nuovi re dei Franchi Pipino e i suoi figli Carlo e Carlomanno. Campagna contro i Longobardi.

817. Ludovico il Pio proclama la Ordinatio Imperii, un editto che stabilisce l’unità dell’impero e la spartizione della successione imperiale tra i suoi figli Lotario, Pipino e Ludovico.

814. Il 28 gennaio, Carlo muore ad Aquisgrana, dove verrà seppellito. Gli succede il figlio Ludovico (detto «il Pio»).


768. Morte 773-774. Carlo di Pipino il attraversa le Breve, gli Alpi e conquista succedono il regno sul trono i longobardo. due figli Primo soggiorno di Carlo a Roma.

775-782. Campagna contro i Sassoni e loro capitolazione.

771. Alla morte di Carlomanno, fratello di Pipino, Carlo diventa unico monarca dei Franchi.

787. Carlo giunge fino a Capua e impone al principe Arechi II di sottomettersi alla sua autoritĂ .

781. Papa Adriano unge re i figli di Carlo, Pipino (in Italia) e Ludovico (in Aquitania), confermando cosĂ­ i voleri di Carlo stesso.

CARLO MAGNO TITOLO

97


l’economia

Il motore della «rinascenza» A che cosa fu dovuta la straordinaria fioritura economica dell’impero carolingio? Determinante fu, di certo, lo sfruttamento delle risorse agricole, gestite da proprietari grandi e piccoli e, spesso, anche dagli stessi monasteri. Non meno importante, però, fu lo sviluppo delle attività commerciali, condotte anche a raggio molto ampio, fino alle favolose terre dei califfi...

C

ome in ogni epoca anteriore a quella contemporanea, anche nell’Europa carolingia la ricchezza derivava sostanzialmente dal possesso della terra. Chi piú ne possedeva piú poteva ambire a primeggiare. Le aristocrazie laiche ed ecclesiastiche del mondo franco erano considerate tali perché possedevano grandi patrimoni fondiari su cui lavoravano (spesso in condizioni miserabili) masse di contadini, la cui opera forniva ai signori le rendite necessarie per vivere in agiatezza. Per i signori laici questo significava anche e soprattutto poter disporre di risorse necessarie per allestire e mantenere le clientele che avrebbero dovuto affiancarli, soprattutto sui campi di battaglia.


Pagina miniata di un Calendario dei mesi, ciascuno dei quali simboleggiato dalle attività stagionali, dall’abbazia di S. Pietro a Salisburgo. Età carolingia. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.


carlo magno

L’economia

REGNO DI SCOZIA

POPOLAZIONI

Nord

D

REGNO DI bovini DANIMARCA

Novgorod Reval Dorpat

N

del

Newcastle argento piombo York Chester

FINNICHE

Mar Baltico

A

Mare

REGNO lana D’IRLANDA Dublino

lan Bristol

ferro rame

Stoccolma

Edimburgo

cuoio

pellicce

AL G ÖT

Bergen

OCEANO

IA EG V

REG NO

DI NO R

RISORSE E PRODUZIONI NELL’ALTO MEDIOEVO

Visby

Riga

ambra, birra, canapa cereali, legno pellicce, pesce

Schleswig

Polock

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Tripoli lana, frutta oro, schiavi

Per i rappresentanti delle principali istituzioni ecclesiastiche (vescovati e monasteri), ciò si traduceva nella possibilità di conferire sempre maggior splendore alle sedi (chiese e residenze) del loro magistero spirituale. Con ciò essi indirettamente glorificavano anche i sovrani, in quanto patroni e protettori delle loro imprese architettoniche. Ma le rendite tratte dai patrimoni fondiari permettevano anche agli alti ecclesiastici di partecipare – al pari degli aristo98

carlo magno

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cotone, lana, frutta, cuoio

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cratici laici – alle campagne militari, fornendo al sovrano vettovagliamenti, quando non anche propri contingenti di uomini armati. Pipino, Carlo e ancora i successori di quest’ultimo selezionarono con attenzione i gruppi familiari e le istituzioni ecclesiastiche a cui – per ragioni politiche, strategico-militari o di vicinanza familiare – accordare maggiormente il proprio favore. E il favore, come abbiamo visto, si concretizzava in attribuzioni di cariche e lar-

Sulle due pagine cartina con le principali risorse e attività produttive nell’Alto Medioevo. Nella pagina accanto ricostruzione dell’abbigliamento contadino di epoca carolingia.


Volga

pellicce

pellicce

Bulgar

MORDVINI pellicce

Volga

dall’Asia centrale: cavalli, miele, oro, pellicce, schiavi

schiavi

Don

gizioni di terre. Date le dimensioni assunte dal regno e poi dall’impero franco, questo determinò il formarsi di potentati che, pur non potendo rivaleggiare con il re, quanto a mezzi economici e influenza politica, assunsero una rilevanza e un respiro territoriale inediti per i secoli successivi alla caduta dell’impero romano. Come abbiamo visto, la gestione di questi immensi patrimoni fondiari da parte dei maggiori esponenti dell’aristocrazia laica ed ecclesiastica forniva loro rendite che erano innanzitutto investite direttamente per il mantenimento di clientele e residenze, ma generava anche surplus che permettevano iniziative piú ambiziose, quali la ricerca di beni rari e preziosi che nell’Europa del tempo non erano disponibili, ovvero la promozione di attività intellettuali.

Affari e mecenatismo Tana

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D’ORIENTE

Una conseguenza di tutto ciò fu, soprattutto per quanto riguarda i signori ecclesiastici, la possibilità di investire risorse fino ad allora impensabili nella produzione di libri, che contenevano sia testi di autori contemporanei, sia di autori antichi (cristiani e non). Gli esemplari piú antichi, giunti sino a noi, delle opere di letteratura, filosofia, scienze applicate prodotte in età romana risalgono, non a caso, proprio al tempo di Carlo Magno e dei suoi immediati successori. Ciò è il segno del fatto che in quel periodo fu possibile mobilitare uomini e mezzi per intensificare in modo significativo la copiatura di quei testi, utilizzando manoscritti piú antichi poi andati perduti.

La cosiddetta «rinascenza carolingia», che produsse i suoi effetti in ogni campo delle manifestazioni artistiche e culturali fu dunque resa possibile dalla felice concomitanza di diversi fattori. I piú importanti possono essere considerati il clima ideologico che voleva richiamare in vita l’età d’oro dell’impero di Roma e la sua cultura, la possibilità – certamente riservata a una ristretta minoranza di soggetti, politicamente assai influenti – di disporre di accumuli di capitale notevolissimi e la maggiore facilità con cui cose e persone potevano circolare, grazie all’unificazione politica di cui l’Europa occidentale, dopo piú di tre secoli, poté di nuovo godere per alcune generazioni. Tuttavia, come dicevamo, questi cambiamenti influirono positivamente sulla vita di una ridotta percentuale della popolazione. La schiacciante maggioranza di essa era infatti costituita dalle masse contadine le cui condizioni di vita, in questo periodo, non solo non conobbero particolari miglioramenti, ma forse divennero addirittura piú dure e faticose. Studi condotti sui contratti agrari dimostrano, infatti, che il rovescio della medaglia delle note positive appena ricordate fu rappresentato sia da una radicalizzazione del processo di concentrazione della proprietà agraria in poche mani, sia dal fatto che la popolazione rurale conobbe spesso regimi di sfruttamento piú duri, che dovevano servire ad assicurare ai signori le rendite necessarie all’attuazione del tenore di vita e delle imprese costruttive di cui si è appena parlato. (segue a p. 105)

lino, metallurgia

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i monasteri, scrigni del potere

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l sostegno dato da Carlo Magno alle comunità monastiche, in continuità con la linea già seguita da suo padre Pipino, poggiava sia su ragioni squisitamente spirituali e religiose, sia su valutazioni di natura prettamente politica. Le comunità monastiche erano considerate come accolite di persone «speciali» che, grazie alla loro rinuncia al mondo e ai

suoi beni, alla vita improntata alla castità, alla conoscenza approfondita dei testi sacri e all’incessante pratica della preghiera, erano come angeli in terra, capaci di dialogare con Dio meglio di chiunque. La tendenza all’incremento del culto per le reliquie, e la capacità di molti monasteri di dotarsi dei resti materiali di santi venerati e prestigiosi,

rafforzava la convinzione sull’efficacia della preghiera elevata dai monaci all’Onnipotente. Da ciò derivava l’opinione che essi potessero operare come intercessori verso di Lui per la salvezza di altri, che affidassero loro il compito di pregare per la propria anima. Questo sarebbe già stato un motivo sufficiente per investire

Müstair (Svizzera). Il monastero benedettino di S. Giovanni, la cui fondazione, nell’VIII sec., sarebbe opera di Carlo Magno.

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denaro e risorse al fine di promuovere la vita dei monasteri e incrementarne le condizioni di vita materiale. Ma, in realtà, le comunità monastiche svolgevano anche altre funzioni di estrema rilevanza. Il fatto che al loro interno vi fosse una percentuale altissima di persone in grado di leggere e scrivere li rendeva partner indispensabili per l’amministrazione del regno, che della parola scritta aveva bisogno per dare consistenza e affidabilità all’attività amministrativa. Inoltre i monasteri, distribuiti sul territorio di ogni regione, rappresentavano un riferimento logistico sicuro per il sovrano, nei momenti in cui egli doveva spostarsi con il suo seguito da 102

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L’economia

un luogo a un altro e aveva bisogno di basi di sosta adeguatamente attrezzate. Ma i monasteri erano anche le piú grandi «casseforti» del regno, poiché molti di essi, sviluppatisi su terre concesse loro dai sovrani, le avevano messe a coltura, rendendole redditizie e accumulando cosí enormi ricchezze. A esse la monarchia poteva attingere, sia in via ordinaria (per esempio ingiungendo agli abati di fornire mezzi e uomini in occasione delle campagne militari), sia in via straordinaria ed emergenziale, attraverso prelievi forzosi dai tesori delle abbazie. Ma ciò poteva avvenire anche in modo piú mediato, per esempio indirizzando gli abati a stringere patti di locazione delle proprie terre con soggetti ai

quali, per ragioni politiche, s’intendesse offrire ricompense per servigi offerti direttamente o indirettamente agli interessi del re. Sebbene questi doveri possano apparire piuttosto onerosi, in realtà il bilancio fra il dare e l’avere era a tutto vantaggio dei monasteri. Proprio perché essi svolgevano funzioni cosí importanti, la concessione della protezione regia, accordata a quelli che, fra essi, erano stati in grado di interloquire direttamente con il re e il suo entourage, permetteva loro di godere di uno scudo possente, che li rendeva fisicamente inviolabili e attribuiva loro uno status giuridico e fiscale privilegiato. Inoltre, tali condizioni, insieme al loro prestigio spirituale, facevano dei monasteri i

In alto Müstair, chiesa di S. Giovanni. La statua di Carlo Magno (1165), e (sullo sfondo) un particolare del ciclo di affreschi risalente all’epoca del sovrano, con la decapitazione di Giovanni Battista. Nella pagina accanto l’abbazia imperiale di Corvey (Germania) fondata all’inizio del IX sec. da Adalardo e Wala, cugini di Carlo Magno.


candidati ideali a ricevere donazioni, anche cospicue, di beni materiali, soprattutto sotto forma di proprietà terriere. Esse permettevano alle comunità monastiche di incrementare il proprio patrimonio e d’intessere relazioni con i settori piú influenti della società locale e, limitatamente ai monasteri piú importanti che ricevevano spesso donazioni di beni dislocati in aree distanti dalla propria sede, anche con le aristocrazie di vaste aree del regno. Va poi ricordato che questo «circolo virtuoso» si rafforzava ulteriormente grazie al fatto che i monasteri erano anche luoghi verso cui le famiglie piú importanti indirizzavano parte della propria prole, «offrendola» al Signore come dono in cambio del quale attendevano di ricevere la Sua celeste protezione. E non è un caso che, nella maggior parte dei casi in cui ne conosciamo i tratti biografici, gli abati dei maggiori monasteri dell’età carolingia fossero essi stessi esponenti dell’aristocrazia, quando non della stessa famiglia reale. Le condizioni di particolare privilegio e la centralità sociale e spirituale goduti dai monasteri in questa fase storica ne agevolarono lo spettacolare sviluppo materiale. Di esso ci parlano alcuni monumenti (soprattutto chiese) sopravvissuti sino a oggi e le tracce riportate alla luce dagli scavi archeologici che, negli ultimi tre decenni, hanno incrementato notevolmente le nostre conoscenze sulla realtà di questo tipo di insediamenti. Le indagini condotte in siti come Corvey (Germania), Saint-Germain di Auxerre (Francia), Müstair (Svizzera), Novalesa e San Vincenzo al Volturno (Italia) hanno mostrato che i monasteri dell’età carolingia erano realtà complesse e articolate, in cui le enormi risorse disponibili vennero spese per condurre in

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porto imprese architettoniche fuori dal comune. Per esempio, era frequente che all’interno di un’abbazia, accanto a quella principale usata dai monaci per le orazioni quotidiane, sorgessero molte altre chiese. Esse erano utilizzate per custodirvi parte delle sacre reliquie acquisite dai monaci e che – al pari di quanto accadeva a Roma – divenivano periodicamente stazioni di sosta all’interno dei percorsi seguiti da elaborate liturgie, che trasformavano lo spazio monastico nel suo insieme in una sorta di topografia sacra. 104

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Ma i monasteri, con le loro aspirazioni a riprodurre in terra lo splendore del Paradiso, erano via via divenuti anche centri ad alta specializzazione tecnologica e manufatturiera, oltre che intellettuale. In questi luoghi vi era continuo bisogno di muratori, carpentieri, cuoiai, maestri d’ascia, vetrai, fabbri, orafi, pittori, scultori e scalpellini: artigiani che servivano i monaci in pianta stabile per gestire i cantieri aperti per la costruzione e la manutenzione degli edifici – sacri e profani – presenti all’interno dei grandi plessi architettonici in cui si

articolavano gli insediamenti monastici. La celebre «Pianta di san Gallo» – lo schema progettuale di un monastero ideale tracciato su pergamena e risalente all’820830 circa, conservato nella biblioteca dell’omonima abbazia svizzera – enumera dettagliatamente la presenza di tutto questo personale specializzato e ne descrive gli spazi destinati allo svolgimento delle rispettive attività. Della presenza di tali maestranze, che dobbiamo immaginare prevalentemente di estrazione laica, fanno menzione anche fonti

Corvey. Una veduta dell’interno dell’abbazia che, nelle sue forme attuali, risale al XVII sec.


provenienti dai monasteri francesi di Centula e Corbie; ma del loro lavoro danno indirettamente la prova i ritrovamenti delle strutture produttive (vetrerie e fornaci per il metallo e per i laterizi) rinvenute nell’abbazia italiana di S. Vincenzo al Volturno. Il personale intento a queste attività era costituito in prevalenza da laici, e questo doveva creare non pochi problemi di convivenza con i monaci che, tenuti al regime della clausura, in teoria non avrebbero dovuto intrattenere rapporti con individui provenienti dall’esterno. La distribuzione spaziale delle officine era infatti studiata in modo che tali attività interferissero il meno possibile con la vita quotidiana della comunità, che però delegava propri rappresentanti alla loro supervisione. Ma dobbiamo immaginare che anche in altri settori del monastero, come per esempio le cucine, i magazzini per il ricovero delle derrate, gli orti e i giardini, i monaci fossero coadiuvati da personale laico, com’è detto chiaramente nel testo delle «Consuetudini» del monastero di Corbie, risalenti all’anno 822. All’epoca di Carlo Magno, nelle maggiori abbazie dell’Occidente dovevano apparire assai lontani i tempi dell’ora et labora. Secondo questo principio, come recita la Regola di Benedetto, i monaci erano chiamati a vivere del lavoro delle proprie mani, intervallando le fatiche manuali alla preghiera. Gli insediamenti monastici erano però divenuti realtà troppo complesse perché i monaci potessero gestirne direttamente ogni aspetto. Non che i monaci avessero voluto rinunciare consapevolmente al laborare, ma il ritmo e la diversificazione delle attività presenti in un monastero del IX secolo sconsigliavano che essi vi si dedicassero direttamente. Ciò anche in considerazione del fatto che, allo stesso tempo,

l’impegno quotidiano della preghiera era andato progressivamente crescendo. Dobbiamo quindi immaginare i grandi complessi monastici di quest’epoca come vere e proprie cittadelle. Al loro centro si trovavano gli edifici utilizzati esclusivamente dai monaci (come il dormitorio e il refettorio), gravitanti intorno alla chiesa maggiore, ove la comunità si riuniva per pregare piú volte al giorno, intonando canti incessanti di lode al Signore, la cui composizione e recitazione richiedeva perizia e sensibilità artistica. In quest’area si trovavano anche spazi come gli archivi, la biblioteca e lo scriptorium, in cui operava prevalentemente personale monastico. Anche il cimitero dei monaci, che spesso era collocato non lontano dalla chiesa maggiore, rientrava negli spazi preclusi all’accesso di quanti provenivano dall’esterno. Al di fuori di questo «cerchio interno» si dislocavano tutte le attività artigianali e le strutture per l’accoglienza di visitatori e pellegrini, il cui posizionamento e le cui qualità architettoniche erano accuratamente differenziate a seconda del rango sociale degli ospiti che bussavano alle porte del monastero. In questo spazio intermedio si trovavano abitualmente anche altri edifici di culto, fra cui la chiesa dedicata al servizio pastorale per i laici che gravitavano intorno alla comunità monastica. Un terzo cerchio, piú ampio e immateriale, poteva ulteriormente delimitare l’areale dell’insediamento monastico. Esso consisteva in una sorta di «confine sacro» il cui passaggio poteva essere per esempio interdetto alle donne (qualora il monastero ospitasse una comunità maschile) e che spesso si materializzava attraverso la presenza di cappelle poste lungo gli itinerari di accesso al complesso abbaziale vero e proprio.

La realtà della maggior pressione esercitata sulle masse rurali è ben leggibile nella documentazione giunta sino ai nostri giorni, che proviene soprattutto dagli archivi dei grandi monasteri. Meticolosi inventari delle terre da essi possedute, e dei contadini che vi lavoravano, attestano la rigorosa amministrazione dei grandi patrimoni. L’istituzione di nuovi regimi contrattuali mostra che divenne piú diffusa la consuetudine di richiedere ai contadini stessi, accanto alla corresponsione dei canoni d’affitto, prestazioni d’opera gratuite e donativi obbligatori in favore del padrone delle terre su cui essi abitavano.

Gerarchie ben definite

Indagini archeologiche condotte in Italia nei siti di Poggibonsi (nel Senese) e di Sant’Agata Bolognese (in Emilia, entro una proprietà appartenente al monastero di Nonantola) e in Francia nei villaggi circostanti l’abbazia di Saint-Denis, hanno portato alla luce villaggi agricoli – interamente costruiti in legno – realizzati secondo criteri pianificatori che provano il coordinamento «dall’alto» dell’insediamento della comunità contadina che li abitava. Nel caso di Poggibonsi, per esempio, è stata accertata l’esistenza di una gerarchia precisa fra le costruzioni del villaggio, fra le quali spicca la presenza di un grande edificio (del tipo della cosiddetta longhouse, ben attestato nell’Europa centro-settentrionale) interpretato come residenza dell’intendente del proprietario, all’interno del quale venivano ammassate le derrate corrisposte come canone dai contadini. Questi dati, desumibili dalle fonti scritte e da quelle materiali, sarebbero indizio della penetrazione, almeno nelle aree dell’Italia entrate nell’orbita franca, del cosiddetto «sistema curtense», già ben strutturatosi Oltralpe prima del 774 (ma perfezionatosi ulteriormente nell’età carolingia), che nel regno longobardo, invece, non aveva mai raggiunto piena maturazione. Esso prevedeva che la grande proprietà agraria fosse organizzata in maniera bipartita, con una porzione gestita personalmente dal padrone (detta pars dominica o dominicum), attraverso manodopera servile alle sue dirette dipendenze e con il lavoro forzato dei contadini. Essi vivevano all’interno di poderi ritagliati nella seconda porzione dell’azienda (detta pars massaricia o massaricium) e dovevano versare al padrone, a titolo di canone d’affitto, anche una percentuale sulla produzione ottenuta lavorando le terre loro assegnate. Nella pars dominica ricadeva abitualmente la maggior parte delle aree non destinate alle attività agricole, ma lasciate a bosco o a pascolo. Se l’utilità delle aree a pascolo ci appare immecarlo magno

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diatamente evidente, non va dimenticato che anche i boschi svolgevano una funzione economica essenziale: essi infatti erano riserve di legname – che era il materiale da costruzione piú diffuso –, ma anche di selvaggina, a beneficio delle attività venatorie che costituivano il passatempo preferito dei nobili. Infine, non va dimenticato che alberi come il castagno e le querce produttrici di ghiande fornivano risorse fondamentali sia per l’alimentazione umana, sia per quella animale. Il centro direzionale della proprietà era rappresentato dal luogo di residenza del padrone delle terre, detto curtis; ma poiché in generale i grandi proprietari di quest’epoca (come per esempio i principali monasteri) di curtes ne possedevano assai piú di una sola, di solito in questo luogo abitava personale amministrativo delegato dal signore a gestire le terre che formavano l’azienda dipendente dalla curtis stessa.

la curtis

Il disegno ricostruisce una curtis, elemento chiave del primo feudalesimo, cosí come possiamo immaginarla agli inizi del X sec.: 1. stalle; 2. abitazioni per contadini liberi, legati al signore da un rapporto di dipendenza; 3. abitazioni per i servi; 4. magazzini; 5. dimora signorile, con torre ancora in costruzione; 6. cappella.

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Nell’Italia centro-meridionale

Non tutta l’Europa conquistata da Carlo o quanto meno posta sotto la sua influenza adottò tuttavia questi metodi di gestione della proprietà agraria. Nelle regioni dell’Italia centro-meridionale, per esempio, non sembra che essi abbiano avuto applicazione puntuale, anche se, nella documentazione relativa a queste aree, il termine curtis è ampiamente utilizzato e rivesta sostanzialmente lo stesso significato che in quelle piú settentrionali. La differenza piú importante sta però nel fatto che la divisione fra dominicum e massaricium non è cosí rilevante e che la gestione diretta da parte del dominus si limita, apparentemente, soprattutto alle aree a uso silvo-pastorale. Di conseguenza, anche se non del tutto assente, è però meno diffusa l’abitudine da parte dei proprietari di richiedere ai rustici la corresponsione di servizi di manodopera gratuiti e il numero di giornate destinate a questo tipo di lavori è in genere inferiore a quello riscontrabile nell’Italia settentrionale o nel resto dell’Europa d’Oltralpe. Come abbiamo già visto per il periodo longobardo, anche nell’età carolingia le rendite terriere rappresentavano l’unico cespite sicuro per i rappresentanti dei pubblici poteri, poiché in Italia il sistema di tassazione romano, basato sull’imposizione di pubblici tributi su persone e beni immobili, non si era mai piú ricostituito. Sebbene possa apparire come un costume tipicamente «medievale», l’uso di esigere prestazioni d’opera dalle popolazioni rurali era in realtà ben presente sin dall’età tardo-antica. Nel tardo latino il termine angaria (che è giunto quasi inalterato nell’italiano moderno, con il significato di «abuso» e di «imposizione arbi106

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i villaggi e il territorio

Il disegno in alto ricostruisce l’abitato medievale di Poggibonsi (Siena) in età carolingia (IX-X sec.), quando si trasforma in una curtis, un grande villaggio-azienda rurale. A destra è invece ricostruita la gestione della

proprietà fondiaria: i villaggi evidenziati appartengono alla medesima curtis, mentre quelli «velati» fanno parte di altre unità aziendali.

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traria» nei confronti di qualcuno) designava i servizi che lo Stato richiedeva, soprattutto agli abitanti delle campagne, per la riparazione di strade e ponti e per fornire aiuto logistico agli eserciti. Tuttavia, se nella tarda antichità era lo Stato a richiedere tali servizi, al tempo di Carlo Magno a farlo era di solito il privato che deteneva in regime di proprietà o di concessione le terre su cui lavoravano i contadini.

L’approvvigionamento delle truppe

Come si è già accennato, nelle regioni transalpine dell’impero la prassi di imporre prestazioni d’opera ai contadini era non solo piuttosto diffusa, ma assumeva frequentemente proporzioni rilevanti con l’obbligo, per questi ultimi, di dedicare una parte cospicua delle giornate lavorative annuali al diretto servizio del padrone. L’applicazione sistematica di questo modello di gestione della terra permetteva ai proprietari di disporre direttamente di una maggior quantità di beni. La sua diffusione geografica dipende, probabilmente, dal fatto che proprio

agli aristocratici laici ed ecclesiastici delle aree poste a nord delle Alpi toccò piú frequentemente l’onere di organizzare e vettovagliare gli eserciti formati per affrontare le campagne militari che il regno franco condusse, per diversi decenni, con cadenza quasi annuale. Le cosiddette «Consuetudini» del monastero di Corbie, situato nella regione della Piccardia (Francia settentrionale), redatte nell’anno 822 dall’abate Adalardo, cugino di Carlo Magno, descrivono in modo minuzioso il continuo viavai di persone che conducevano carri trainati da buoi dalle proprietà sparse nella regione circostante verso i magazzini dell’abbazia. Buona parte di questi trasporti doveva essere garantita proprio dai contadini, come parte delle prestazioni gratuite d’opera che essi era-

la casa del signore Assonometrie ricostruttive della residenza

padronale, intorno alla quale si organizzava l’intero insediamento di Poggibonsi. Gli scavi condotti nel sito hanno permesso di interpretare la struttura come dimora dell’intendente del proprietario, che fungeva anche da magazzino per le derrate fornite dai contadini.

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no tenuti a offrire alla comunità monastica dalla quale dipendevano. In tale quadro, anche se da un punto di vista formale la maggior parte della popolazione rurale era composta da persone di stato libero, all’atto pratico la loro vita si svolgeva in un regime di pesante sottomissione al signore. Alcuni di essi potevano riuscire a migliorare le proprie condizioni, facendo carriera nell’organizzazione amministrativa delle aziende agrarie in cui erano nati e cresciuti, ma indubbiamente la maggior parte di essi conduceva un’esistenza abbastanza priva di prospettive.

Verso la crescita demografica

Nonostante tutto ciò, l’età carolingia è considerata quasi unanimemente dagli storici come un momento in cui la curva demografica della popolazione europea s’incamminò lentamente lungo un trend ascendente. Un indizio indiretto in tal senso è il fatto che in diversi documenti dell’epoca troviamo accenni ad attività di dissodamento di terre sin allora coperte da foreste. In un celebre documento datato tra la fine dell’VIII secolo e gli inizi del IX, Carlo Magno raccomandava che gli abbattimenti degli alberi fossero tenuti sotto controllo, affinché l’esigenza di guadagnare nuovi spazi per le coltivazioni non venisse soddisfatta danneggiando in modo irreparabile il patrimonio boschivo. Questo

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Sulle due pagine miniature raffiguranti il lavoro del falegname e del fabbro (a destra) e l’aratura (in basso), dal De universo di Rabano Mauro. 1023. Montecassino, Biblioteca Statale del Monumento Nazionale di Montecassino.


documento è il cosiddetto Capitulare de Villis, che rappresenta una testimonianza fondamentale per la conoscenza dell’organizzazione del mondo rurale in età carolingia, o almeno di quella parte di esso situata nel cuore dell’impero, ricadente nelle regioni comprese fra l’Aquitania e la Germania centrale. Esso contiene, infatti, disposizioni e raccomandazioni emanate dal sovrano inerenti la buona pratica nella gestione delle proprietà direttamente appartenenti al demanio regio. Come si è ricordato in precedenza, esse fornivano la base delle risorse su cui il re poteva contare e costituivano anche parte della rete utilizzata per compiere soste e soggiorni nelle frequenti circostanze in cui egli si spostava all’interno del regno.

Combattere gli abusi

Come ricorda il grande storico francese Georges Duby, il Capitulare aveva degli scopi ben precisi. Innanzitutto, esso dettava regole chiare sul comportamento di coloro che erano preposti alla gestione di queste proprietà. Distribuite su vastissime aree geografiche, esse potevano rischiare di sfuggire al controllo del governo centrale e diventare teatro di abusi, malversazioni e arricchimenti illeciti da parte del personale amministrativo. A questo proposito, il re si preoccupava

soprattutto che le terre che costituivano queste aziende non diventassero oggetto di favori e scambi illeciti nei confronti di amici e sodali degli amministratori; ma la sua sollecitudine rivolgeva le proprie attenzioni anche al fatto che i contadini non subissero vessazioni e richieste arbitrarie, cosa che – all’interno di regimi contrattuali come quelli appena descritti – poteva facilmente accadere. In secondo luogo, il testo si preoccupa che le aziende demaniali forniscano con regolarità le rendite che da esse ci si aspetta. Come avviene con le Consuetudines dell’abbazia di Corbie, anche nel Capitulare de Villis è descritto un mondo popolato da diverse figure – tra cui schiavi –, occupate nei lavori con l’aratro, i carri e il bestiame, nella cura dei boschi e nel lavoro di trasformazione dei prodotti offerti dall’agricoltura, dalla silvicoltura e dall’allevamento. Un’attenzione particolare è dedicata ai prodotti della selva e dell’allevamento e, tra questi ultimi, ai cavalli, per la loro funzione di bestie da guerra, da tiro e da carne. Le aziende curtensi, come quelle descritte nel Capitulare, erano concepite come una rete di cellule capaci di garantire l’autosufficienza alle popolazioni che vi vivevano e, soprattutto, a chi le possedeva. La diversificazione del loro posizionamento geografico era funzionale a far sí carlo magno

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che quanto non fosse reperibile o producibile in una certa zona, si potesse produrre altrove. Due casi italiani aiutano bene a comprendere questo concetto. Il monastero di S. Giulia di Brescia possedeva un vasto insieme di proprietà distribuito fra le pianure e le Prealpi venete e lombarde. Alcune di esse, situate nelle valli alle spalle di Brescia, avevano la specifica funzione di gestire l’estrazione e la lavorazione del ferro (attività che ha tradizionalmente caratterizzato quel territorio), mentre altre, che si trovavano lungo il Po e suoi principali affluenti, avevano il ruolo di rifornire il monastero di pesce, ma anche di scali per l’attracco di imbarcazioni.

Una dieta ricca e variegata

Un altro monastero, quello di S. Vincenzo al Volturno, stavolta collocato alle frontiere meridionali delle terre conquistate da Carlo, nell’attuale Molise, possedeva numerose corti lungo le sponde dei laghi costieri di Lesina – in Puglia – e di Patria – in Campania – e sulle rive dell’Adriatico, nel territorio della città di Siponto, ai piedi del Gargano. Gli scavi archeologici condotti nell’abbazia hanno dimostrato che la funzione di queste proprietà era quella di rifornire i monaci con pesce di mare e di laguna delle piú diverse varietà, insieme a molluschi come seppie e cozze. Poter disporre di cibo cosí ricercato ed esotico, in un ambiente montano quale quello in

cui si trova il monastero vulturnense, doveva costituire uno dei privilegi piú evidenti riservati a chi apparteneva a istituzioni e ceti sociali che potevano disporre di patrimoni fondiari estesi e sapientemente distribuiti sul territorio. A lungo si è ritenuto che quello «curtense» fosse un sistema chiuso, costituito da tanti microcosmi autosufficienti e sostanzialmente ripiegati su se stessi. Tuttavia, ormai da qualche tempo, questa interpretazione è stata superata, in favore di una visione piú equilibrata che, senza negare l’evidente rilevanza dei circuiti di produzione e consumo locali (o comunque interni a uno stesso insieme di proprietà), individua però proprio nelle dimensioni e nella distribuzione geografica dei grandi patrimoni terrieri dell’età carolingia la prima grande opportunità di ripresa di comunicazioni e commerci a lunga distanza goduta dall’Europa occidentale dopo la fine del mondo antico. Ciò che sembra piú ipotizzabile è l’esistenza, in questo periodo, di un’economia che marciava a due velocità, molto diverse fra loro, che producevano altrettanti circuiti che non sempre entravano in reciproco contatto. Da un lato vi era quello dei grandi spostamenti di patrimoni e ricchezze, che riguardava i ceti egemoni e coinvolgeva anche coloro che operavano nel commercio dei beni che gli aristocratici erano interessati a vendere (i cospicui surplus prodotti nei

Nei grandi monasteri operavano in pianta stabile numerosi artigiani: vetrai, fabbri, mastri d’ascia...

Sulle due pagine ancora una coppia di miniature dal De universo di Rabano Mauro, raffiguranti in questo caso la confezione degli abiti (a destra) e la soffiatura del vetro (in basso), 1023. Montecassino, Biblioteca Statale del Monumento Nazionale di Montecassino.


loro patrimoni fondiari) o a comprare (beni esotici e di lusso). All’interno di questo circuito potevano anche registrarsi spostamenti piuttosto veloci di beni e disponibilità economiche, i cui flussi talora erano determinati non solo da dinamiche di carattere prettamente commerciale, ma anche da eventi politico-militari, come per esempio la conquista del tesoro di un nemico sconfitto in guerra (e la sua successiva redistribuzione tra i vincitori) o la confisca e la successiva riallocazione dei beni di un avversario caduto in disgrazia presso il re.

L’autosufficienza dei ceti subalterni

Dall’altro lato, vi era il circuito degli scambi economici che interessava la schiacciante maggioranza della popolazione, che viveva in condizioni che sarebbe forse errato considerare in sé miserabili, ma che si può sicuramente definire dai bisogni assai piú limitati. Tali bisogni erano coperti in buona parte dalla capacità che i ceti subalterni, dediti principalmente alle attività agricole, avevano nel provvedere autonomamente alla sussistenza personale, producendo in proprio la maggior parte di ciò che serviva loro per sfamarsi, ma anche per costruirsi gli edifici in cui vivere, per scaldarli e arredarli. L’esigenza di rivolgersi «al mercato» per queste persone si limitava essenzialmente agli acquisti di parte del

vestiario, degli utensili necessari a svolgere i lavori agricoli e casalinghi e di alcune suppellettili, come per esempio il vasellame per la cottura e la conservazione dei cibi. Il piú delle volte, la maggior parte di queste (limitate) necessità poteva essere soddisfatta rivolgendosi ad artigiani che vivevano entro un areale d’immediata prossimità, generando quindi numerosissimi circuiti di scambio a corto o cortissimo raggio. Questa realtà è ben rispecchiata dalle produzioni ceramiche dei secoli VIII e IX che presentano, nello stesso tempo, scarsa varietà tipologica e grande diversificazione produttiva, un fenomeno che testimonia per un verso la semplificazione delle esigenze degli acquirenti, e per l’altro che vi erano molti piccoli e piccolissimi laboratori artigianali che lavoravano per clientele molto localizzate. Solo pochi tipi di vasellame con caratteristiche materiche e formali assai particolari (e quindi destinati a soddisfare esigenze piú specifiche) sono commerciati a piú lungo raggio. Tra questi, si annoverano (in Italia) la ceramica ricoperta di una spessa invetriatura piombifera di colore verde (la cosiddetta ceramica «a vetrina pesante»), usata come vasellame da tavola di pregio, e i recipienti realizzati con una pietra scistosa tipica delle regioni alpine (la cosiddetta «pietra ollare»), apprezzati per la loro capacità di carlo magno

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L’economia

cuocere i cibi ad alta temperatura. Piú in generale, la produzione del vasellame in terracotta è limitata principalmente ai recipienti per la conservazione e la cottura dei cibi e dei liquidi (piccole anfore, olle e testi per la cottura del pane) ed è contrassegnata dall’assenza pressoché totale del vasellame da tavola (piatti, scodelle e piatti da portata), assai diffuso in età classica e tardo-antica, ma che nell’alto medioevo era stato sostituito da stoviglie realizzate in legno. In questi secoli si registra anche la progressiva scomparsa dei grandi contenitori da trasporto in terracotta – le anfore – in parte sostituiti dalla maggiore diffusione delle botti in legno, ma la cui assenza è anche sintomo della forte contrazione dei commerci a lunga distanza di grandi volumi di prodotti alimentari – fiorenti nel Mediterraneo sino alla fine del VI secolo – e la loro sostituzione con l’approvvigionamento locale delle derrate. L’Occidente dei secoli VIII e IX, insomma, era in grado di esportare materie prime, costituite in primo luogo da parte delle eccedenze delle 114

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produzioni agroforestali generate dai grandi patrimoni fondiari, ma anche da una categoria merceologica meno «presentabile», come gli schiavi, anch’essa particolarmente ricercata presso i mercati delle ricche città dell’Oriente bizantino e islamico. Ciò che s’importava, come abbiamo già visto, erano soprattutto beni di lusso che trovavano acquirenti solo presso la ristretta cerchia delle persone piú ricche. I territori europei, per la prima volta dopo molti secoli, erano però di nuovo in grado di produrre piú di quanto non consumassero e di esprimere un’aristocrazia ricca e capace di spendere per affermare il proprio status attraverso il possesso di beni rari e preziosi.

Alla corte del califfo

Rispetto all’età classica e tardo-antica, il commercio a lunga distanza aveva completamente mutato fisionomia: non era scomparso, ma riguardava quantità di merci e un pubblico di consumatori completamente diversi e assai piú ridotti rispetto al passato, veicolati da navigli in genere di piccole dimensioni. Alcuni episodi particolari ricordati dalle fonti aiutano a comprendere che anche in questo periodo era pos-

In alto Harun ar-Rashid riceve gli ambasciatori di Carlo Magno, 786. Olio su tela di Julius Köckert. 1864. Monaco, Maximilianeum. Nella pagina accanto brocca in oro, smalti e pietre preziose, uno dei doni offerti dal califfo Harun ar-Rashid a Carlo Magno. VIII sec. Abbazia di Saint-Maurice (Svizzera), Tesoro dell’Abbazia.

sibile intrattenere contatti a lunga distanza. Basterà menzionare, a tale proposito, i viaggi diplomatici compiuti da emissari di Carlo in Terra Santa e presso il califfo di Baghdad e l’invio a Carlo, da parte di quest’ultimo, di un elefante come dono speciale, in cambio degli omaggi che l’imperatore franco gli aveva fatto recapitare da parte dei suoi ambasciatori. Quindi, se le merci e le persone si muovevano, qualcuno (come si direbbe oggigiorno) doveva essere in grado di gestire la logistica di questi spostamenti. Trasporti di elefanti e di diplomatici non potevano essere improvvisati ed evidentemente si poteva contare su qualcuno in grado di organizzarli in modo adeguatamente sicuro ed efficiente. L’Italia rappresenta un laboratorio privilegiato per comprendere chi e in che modo si assunse il compito di gestire i contatti fra l’Europa occidentale e l’Oriente mediterraneo, dominato dall’impero bizantino e dal califfato di Baghdad. Ai margini dei territori controllati da Carlo Magno, resistevano alcune enclave che, sebbene formalmente dipendenti dall’impero bizantino, stavano mano a mano sviluppando una sempre piú spiccata autonomia. carlo magno

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L’economia

un euro ante litteram?

D

opo il 2002, all’indomani della comparsa dell’euro, la nuova moneta unica è stata spesso paragonata al denarius d’argento che Carlo Magno stabilí come moneta di corso legale nei suoi immensi domini. In realtà, il parallelo si basa sul sentimento piú che sulla realtà. Ciò dipende non solo dal lungo lasso di tempo trascorso tra la fine dell’VIII secolo e i nostri giorni e dalle immense differenze esistenti tra il sistema economicofinanziario di allora e quello odierno, ma anche da una diversità insita nella natura stessa delle due monete. L’euro, infatti, è una divisa emessa da una banca centrale che però, a oggi, non costituisce ancora l’emanazione di un potere sovrano vero e proprio (le istituzioni europee) e la sua esistenza deriva da un accordo fra Stati indipendenti. Il denaro carolingio era invece emanato da un’autorità che deteneva il dominio assoluto sui popoli a essa soggetti. Inoltre, se è vero che nel regno franco il denaro d’argento aveva già iniziato a sostituirsi alle monete d’oro prima che iniziasse la stagione delle conquiste realizzate da Carlo, è d’altra parte altrettanto chiaro che, al momento in cui queste furono portate a termine, ai popoli che ne furono l’oggetto non fu chiesto se volessero accettare la moneta dei conquistatori, ma essa fu loro semplicemente imposta. Questo meccanismo appare particolarmente chiaro nell’Italia longobarda, dove la coniazione aurea emessa fino al 774 fu progressivamente abolita e sostituita d’imperio con quella argentea. Si potrebbe obiettare che anche per l’istituzione dell’euro nessuna 116

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consultazione è stata fatta presso i cittadini europei e che i tecnicismi che ostacolano l’eventuale suo abbandono da parte di una nazione stanno a confermare che anche ai nostri giorni il governo della moneta è saldamente tenuto al di fuori dei poteri democraticamente esercitati dai popoli. Ma, volendo guardare le cose con una certa obbiettività, apparirà abbastanza chiaro che, al tempo di Carlo, questo tipo di provvedimenti veniva adottato in modi ancor piú verticistici e autoritari. L’introduzione della coniazione dell’argento e la definitiva sanzione di questo indirizzo, avvenuta con il cosiddetto «capitolare di Francoforte» del 793, derivava in realtà da due esigenze primarie: fare fronte alla carenza dell’oro, divenuta sempre piú evidente in Europa nei secoli successivi alla fine dell’impero romano, e riportare sotto il totale controllo regio l’emissione monetale. In età merovingia la produzione di monete era infatti divenuta spesso appannaggio di soggetti privati rispetto ai quali è ancor oggi difficile capire se e a quale titolo fossero autorizzati dai re a svolgere tale attività. I provvedimenti presi da Carlo non posero fine all’esistenza di coniazioni effettuate anche da zecche diverse da quelle regie, ma obbligarono comunque a rispettare l’obbligo che ogni moneta circolante fosse emessa sotto il controllo diretto dell’autorità sovrana. Il dettaglio interessante è che le riforme introdotte da Carlo misero fine a un sistema

secolare di calcolo ponderale delle monete, che risaliva all’età romana. La coniazione argentea avviata da Pipino aveva infatti ancora come base la libbra romana di 327,45 grammi. Il peso del denaro di Pipino, pari a 1,24 grammi, era stimato pari a 1/12 del solido (la vecchia moneta d’oro dell’impero romano), il quale, a sua volta, valeva 1/22 di libbra. Carlo mutò questo sistema, introducendo una nuova libbra del peso di circa 410 grammi ed elevando il denaro a un peso di 1,7 grammi e riducendo il suo rapporto (nominale) con il solido da 1/22 a 1/20. L’Europa carolingia si sganciava quindi dall’eredità del sistema monetale romano (che ancora sopravviveva nell’impero bizantino e in parte anche nel mondo arabo) ed entrava definitivamente, anche in questo campo, nel Medioevo. Tuttavia, a conferma dell’estrema delicatezza della materia monetaria, almeno sotto il profilo nominale, il sistema di pesi e misure e il nome stesso del nuovo conio si mantenevano fedeli al passato, traghettando sino ai nostri giorni termini assai familiari nella nostra lingua (libra/lira; solidus/soldo; denarius/denaro).

In alto denari in argento di epoca carolingia, battuti al tempo di Carlo Magno e di Pipino I (o II), re d’Aquitania. VIII-IX sec. Norimberga, Germanische Nationalmuseum. Nella pagina accanto, in basso brocche «a vetrina pesante», rivestite da una invetriatura piombifera monocroma verde, usate come vasellame da mensa di pregio. XII sec. Salerno, Castello di Arechi, Museo delle ceramiche del Castello medievale di Arechi.


Esse includevano le lagune venete e ferraresi e una striscia di costa in Campania che andava da Gaeta, a nord, sino alla Penisola Sorrentina a sud, comprendendo quindi anche Napoli e il litorale vesuviano. Agli estremi di questa zona si svilupparono Gaeta e Amalfi che, nel corso della prima metà del IX secolo, si resero a propria volta indipendenti dalla città partenopea. Nell’area lagunare adriatica, invece, si assiste alla formazione di una serie di villaggi, quali Torcello, Rialto e Malamocco (nel territorio veneto) e Comacchio (nelle lagune ferraresi). Si trattava d’insediamenti che tra loro presentavano notevoli differenze. Mentre Napoli era una vera e propria città, che già al tempo di Carlo vantava una storia millenaria, Amalfi e Gaeta erano invece siti che in età antica non avevano mai raggiunto uno status urbano.

Il mare come risorsa

Gli abitati sorti nelle lagune adriatiche, sebbene forse preceduti nelle stesse aree da tracce di frequentazione risalenti all’epoca romana, rappresentavano tuttavia una novità assoluta, poiché nel corso dell’VIII secolo si costituirono rapidamente in agglomerati stabili. Ad accomunarli era però il fatto di essere proiettati verso il mare e di trovare in esso (ed eventualmente nei bacini lagunari) l’unica vera risorsa per il loro sviluppo. Ciò non significa che la loro vocazione fosse stata da subito solo quella di fungere da scali per la navigazione marittima. Anche altre attività, come la pesca o l’estrazione del sale (ben attestata, per esempio, nel caso di Comacchio) ne avevano favorito la crescita. Tuttavia, la posizione di contiguità (ma, allo stesso tempo, di autonomia) che questi centri assunsero rispetto alle aree dei domini franchi, e i loro

In alto pedina del re, parte degli scacchi in avorio «di Carlo Magno», opera di una bottega salernitana. XI sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

contatti con l’impero bizantino, li resero ben presto luoghi ideali per lo sviluppo dei commerci e degli scambi fra l’uno e l’altro mondo. I centri campani avevano iniziato a svolgere nel mar Tirreno, a partire dal secondo quarto del secolo, lo stesso ruolo che Venezia era andata assumendo nell’Adriatico, sia pur organizzando le proprie rotte commerciali in modo differente. Mentre Venezia e gli altri centri lagunari si trovavano a diretto contatto con il bacino territoriale della Val Padana, dal quale traevano e verso il quale indirizzavano il grosso delle merci che transitavano attraverso i propri scali, per le tre città campane (e in particolare Gaeta e Amalfi) gli scambi con l’adiacente territorio della Langobardia beneventana rappresentavano solo una parte dei traffici gestiti dai loro navigli. L’attività dei mercanti di queste città era infatti piú itinerante e giungeva almeno sino alla foce del Tevere, anche se non si può escludere che essi si siano spinti anche piú a nord, come potrebbe testimoniare la circolazione di alcune produzioni ceramiche native di Roma e di Napoli (quale la cosiddetta ceramica «a vetrina pesante»), attestata a raggio piuttosto ampio nel bacino del Tirreno. carlo magno

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L’economia

Il successo del dinamismo commerciale delle città costiere italiane profittò sicuramente dell’offuscamento del predominio militare di cui in precedenza godevano le flotte arabe. Fra la metà dell’VIII e il primo ventennio del IX secolo, in seguito alla vittoria conseguita dai Bizantini nelle acque di Cipro, l’impero d’Oriente recuperò il controllo di quest’isola strategicamente posizionata sulle rotte che si dipartivano dai territori islamici. Questa nuova situazione aprí ai mercanti delle città «bizantine» del basso Tirreno opportunità quanto mai favorevoli per la riapertura di flussi commerciali dall’Italia verso l’Africa e l’Oriente, interrottisi non solo in seguito alla conquista araba della sponda meridionale del Mediterraneo, nel corso del VII secolo, ma, soprattutto, in ragione dello stato di collasso economico in cui aveva a lungo versato tutto l’Occidente europeo. Nell’ambito dell’impero franco, in posizione geograficamente speculare rispetto a questi centri mediterranei, si venne a trovare l’area costiera della Manica e del Mare del Nord. Abbiamo già visto che, almeno a partire dalla seconda metà del VII secolo, da questi litorali avevano iniziato a svilupparsi nuove rotte commerciali che legavano il mondo franco alle isole britanniche e alle regioni scandinave. L’età carolingia vide crescere significativamente l’importanza e l’attività di alcuni scali commerciali (che gli archeologi hanno efficacemente denominato emporia) posti presso le foci di alcuni dei corsi d’acqua che si gettano nel Mare del Nord. Tra questi, Quentovic (nella Francia nord-orientale), presso l’estuario della Canche, e Dorestad (in Olanda), cresciuto fra l’intricato dedalo dei rami del delta del Reno.

I Frisoni, grandi mediatori

Analogamente a quanto avveniva nelle aree venete e romagnole d’Italia, un posto particolare nell’animazione dei commerci lungo il Mare del Nord fu svolto da una popolazione, i Frisoni, che viveva lungo le aree costiere e lagunari degli odierni Paesi Bassi e della Germania nord-occidentale, ai margini dei territori dominati dai Franchi. Partendo da quelle basi, essi furono in grado di operare efficacemente come mediatori fra le aree dell’impero carolingio, quelle scandinave e quelle insulari britanniche. Anche in queste due ultime zone si svilupparono ulteriormente centri sorti già fra il VII e l’VIII secolo (e ciò vale soprattutto per le coste inglesi) o ne nacquero di nuovi. Questo fenomeno interessò non solo le aree rivierasche del Mare del Nord, ma si estese anche a quelle del Mar Baltico, come testimoniano i ri118

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La punta di un pastorale di produzione irlandese, ritrovato a Helgö, presso l’insediamento vichingo di Birka (Svezia). Stoccolma, Statens Historiska Museum.

trovamenti compiuti a Birka, sulle coste svedesi a nord di Stoccolma, e a Hedeby, su quelle al confine tra Danimarca e Germania. Ciò ha permesso agli archeologi di comprendere che i traffici che si svolgevano nel Mare del Nord costituivano il terminale di collegamenti commerciali fra l’impero franco e il mondo islamico e bizantino che si erano sviluppati su distanze enormemente piú vaste. Essi avevano messo in contatto – attraverso le pianure russe e i grandi corsi d’acqua che le attraversano – il Baltico con il Mar Nero e con gli itinerari terrestri che, percorrendo l’Asia centrale, giungevano sino in Cina. L’aprirsi di queste nuove rotte era stato possibile in quanto, a loro volta, erano state le stesse popolazioni scandinave a impegnarsi progressivamente nelle attività commerciali, affiancandosi ai navigatori frisoni. Questi scali portuali apparsi lungo le coste settentrionali dell’Europa raggiunsero talora dimensioni ragguardevoli, trasformandosi da luoghi frequentati solo periodicamente in insediamenti stabili e complessi. I documenti d’archivio dei grandi monasteri italiani e francesi mostrano che questi centri costieri – sia quelli italiani, sia quelli fioriti lungo le coste settentrionali dell’impero franco – ebbero contatti continui con i grandi possidenti terrieri delle aree limitrofe. Le abbazie si dotarono, infatti, di dipendenze poste nelle loro vicinanze o, come accade piú di frequente in Italia, di propri scali marittimi e fluviali. Attraverso questi avamposti potevano entrare in contatto con i navigli commerciali gestiti da coloro che operavano all’interno degli emporia, per vendere i prodotti delle loro aziende e acquistare quanto i mercanti erano in grado di reperire nelle lontane piazze d’Oriente o nelle terre dell’estremo Nord europeo. Non va tuttavia dimenticato che i monasteri non rinunciarono completamente anche a giocare un ruolo attivo all’interno di questi traffici, sia – come si è appena visto – allestendo propri scali portuali, sia talora assumendo alle proprie dipendenze personale mercantile o armando in proprio navi in grado di gestire, almeno in parte, il processo di commercializzazione dei propri prodotti. L’impegno dei monasteri in queste attività emerge dalla cospicua mole di documenti provenienti dai loro archivi, ma non vi è motivo di dubitare che allo stesso modo agissero anche gli altri soggetti che componevano i vertici della società del tempo, come la monarchia, i grandi proprietari laici e i principali vescovadi presenti nell’impero franco. L’aprirsi di questi contatti commerciali ampliò


notevolmente gli orizzonti europei, permettendo però anche alle popolazioni che vivevano al di fuori dei confini dell’impero franco di imparare a conoscerne meglio la società, con i suoi punti di forza e debolezza e, soprattutto, a capire dove si trovassero i luoghi che, con le loro ricchezze, avevano permesso a quegli stessi rapporti commerciali di svilupparsi e prosperare.

Razzie e conquiste

Forse per questo motivo, già nella prima metà del IX secolo, profittando delle lotte apertesi all’interno dell’impero e del suo progressivo indebolimento militare, Arabi e Scandinavi riuscirono con notevole facilità a penetrare all’interno dei suoi territori per compiervi ripetute razzie e perfino per tentare vere e proprie azioni di conquista delle sue aree piú periferiche. Nel corso della seconda metà del IX

La fibula di Dorestad, splendido gioiello carolingio in oro, perle, pietre dure e smalti. 800 circa. Leida, Rijksmuseum van Oudheden.

secolo, in particolare, aree come tutta la Francia del Nord e l’attuale Benelux e, quelle della Francia mediterranea e dell’Italia centro-meridionale furono sottoposte a una pressione pressoché continua da parte di questi popoli, che le fonti occidentali denominano rispettivamente Vichinghi e Normanni e, sul fronte meridionale, Saraceni o Agareni. A essi si aggiunsero anche i Magiari, che, attestatisi nei territori precedentemente controllati dagli Avari e che corrispondono a quelli dell’attuale Ungheria, iniziarono a compiere scorrerie sempre piú frequenti e perniciose nelle regioni della Germania meridionale e dell’Italia padana. Poche aree dell’impero franco rimasero dunque al riparo da queste nuove minacce esterne, acuite dalla crescente instabilità politica interna, accresciutasi dopo la morte del figlio di Carlo, Ludovico il Pio, avvenuta nell’840. carlo magno

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Un

impero la cultura

fatto ad

arte

Gli anni di Carlo Magno fanno registrare importanti sviluppi anche in campo culturale. Numerose sono le grandi realizzazioni architettoniche e non meno significative le creazioni artistiche e di alto artigianato. Ma una menzione speciale merita l’intensa attività degli amanuensi, ai quali si deve perfino l’invenzione di una nuova scrittura

A

giudizio degli storici, dopo la fine del mondo antico, le due-tre generazioni vissute al tempo di Carlo Magno e del suo rinato impero sono le prime ad aver assistito a un moto di risveglio del clima culturale europeo che avrebbe generato una stagione di potente rilancio degli investimenti in opere d’arte di ogni genere, dall’architettura, all’oreficeria, alla scultura, alla pittura murale e alla miniatura. Un rilancio che attinse a piene mani al repertorio di età classica e tardo-antica e che perciò intese riecheggiare i riferimenti al passato imperiale romano richiamati in vita dall’azione politica di Carlo Magno e dalla


Carlo Magno, attorniato dai suoi funzionari piĂş importanti, riceve Alcuino che gli porta in dono alcuni manoscritti, (particolare) del soffitto dipinto da Victor Schnetz in una sala della Galleria Campana del Museo del Louvre, Parigi. 1833.


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La cultura


sua promozione al soglio imperiale. Un fenomeno consegnato alla storia sotto il nome di «Rinascenza Carolingia». Le opere d’arte, di letteratura, di poesia, di teologia databili ai decenni compresi fra la seconda metà dell’VIII secolo e la prima metà del IX sono quantitativamente superiori rispetto a quelle del periodo precedente. Limitandoci all’architettura, si può anche osservare una tendenza alla dilatazione delle dimensioni degli edifici (avvertibile soprattutto in quelli a destinazione ecclesiastica) che richiama la stagione delle grandi costruzioni patrocinate soprattutto da imperatori e vescovi in età tardo-antica. Tuttavia, questa impressione – e i luoghi comuni che ne sono frequentemente derivati – nei decenni piú vicini a noi è stata sottoposta a un riesame critico che, pur senza negarne l’attendibilità, ne ha focalizzato meglio i contorni e i rapporti con quanto avvenuto in precedenza.

Fu vera «rinascenza»?

Nella pagina accanto coperta in avorio di Evangelario raffigurante la Crocifissione e scene della Passione e Resurrezione di Cristo. Inizi del IX sec. Narbona, Tesoro della cattedrale di S. Giusto. In basso Carlo Magno in trono tra papa Leone III e Turpino, vescovo di Reims, fronte del Karlsschrein, il prezioso sarcofago dell’imperatore fatto realizzare da Federico Barbarossa. 1183-1215. Aquisgrana, Cappella Palatina.

potenziamento e abbellimento della chiesa fu completata con l’istituzione di una comunità monastica, residente nei suoi pressi, incaricata di provvedere alla sua gestione e di pregare per la salute del re e della sua famiglia, attraverso l’intercessione del martire Dionisio (Denis). Gli interventi di Dagoberto sono stati però obliterati dalle ricostruzioni promosse da Pipino il Breve, poco dopo la metà dell’VIII secolo, impedendoci di comprendere appieno la portata di quella fase piú antica. Una situazione analoga si registra presso altri importanti monasteri in realtà fioriti in età carolingia, ma nati tra la seconda metà del VII e gli inizi dell’VIII secolo, quali, per esempio, quelli di Jumièges e di Fontenelle – in Normandia – o di Stavelot-Malmédy, fondato nell’attuale Belgio proprio dagli antenati di Carlo.

Innanzitutto, è opportuno stabilire se questa «rinascenza» delle arti e delle lettere sia stata veramente tale. Il confronto non è del tutto agevole, poiché se, per esempio, proviamo a istituirlo prendendo come parametro le opere architettoniche realizzate nei regni franco e longobardo nel secolo precedente l’avvento di Pipino il Breve e la conquista dell’Italia, ci troviamo di fronte alla difficoltà rappresentata dall’estrema scarsità dei resti materiali attribuibili a questo periodo. Tuttavia, apprendiamo dalle fonti scritte che, nel regno d’Oltralpe, da oltre un secolo, l’aristocrazia laica e i principali vescovadi erano stati committenti molto attivi nella fondazione o nel rinnovamento di edifici e luoghi di culto. Fra questi ultimi, si annoveravano numerosi monasteri per la creazione dei quali, almeno a partire dal secondo quarto del VII secolo, si erano attivati personalmente e di frequente sia re e regine della dinastia merovingia, sia molte importanti famiglie di aristocratici, fra cui gli stessi antenati di Pipino e Carlo. In un caso, quello della basilica di Saint-Denis, che sin dalla tarda antichità era uno dei santuari cristiani piú importanti della Gallia, possediamo una descrizione dettagliata dello splendore che essa aveva raggiunto poco prima della metà del VII secolo, grazie all’intervento promosso del re Dagoberto I, il quale ne fece il proprio luogo di sepoltura (seguito in ciò da molti dei suoi successori). L’intervento dell’orafo di corte, Eligio, aveva contribuito a dotare il tempio di preziose suppellettili e decorazioni. L’opera di carlo magno

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La cultura

Anche nel regno longobardo i decenni precedenti la conquista franca erano stati particolarmente vivaci sotto il profilo della committenza di nuove costruzioni, soprattutto di natura ecclesiastica. I Longobardi, per via della tardiva adesione al cattolicesimo romano, non furono significativamente coinvolti in attività di questo tipo prima dell’ultimo quarto del VII secolo, ma recuperarono rapidamente il ritardo. È stato per esempio calcolato che, tra fondazioni piú o meno importanti, sino al fatidico anno 774, quando il regno indipendente cessò di esistere, nell’Italia longobarda erano stati fondati circa cento monasteri, tra maschili e femminili.

Una vasta platea di committenti

Nella sola capitale, Pavia, si concentra quasi una ventina fra chiese e monasteri, molti dei quali sorti per il diretto intervento dei sovrani. Ma l’aspetto che caratterizza l’Italia rispetto al regno franco è quello di aver visto coinvolta nella creazione di nuovi luoghi di culto una platea di committenti piú vasta di quella che vediamo attiva Oltralpe e che comprendeva anche personaggi non appartenenti alle sfere piú alte della società del tempo. Questo dettaglio rimanda forse a una realtà sociale che da noi doveva essere meno polarizzata rispetto a quella del regno dei Franchi, divisa fra il re 124

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e potenti gruppi aristocratici da un lato e la massa dei contadini dall’altro, e che doveva quindi comprendere anche una rilevante presenza di proprietari terrieri e ufficiali pubblici di medio rango, in grado tuttavia di sostenere iniziative volte a promuovere la pietà cristiana. Alcune chiese sopravvissute sino ai nostri giorni (purtroppo assai poche, per dire la verità), edificate nella fase piú matura del regno longobardo, mostrano che tutta l’Italia presentava – sotto il profilo artistico – un panorama vivace e raffinato, caratterizzato dalla presenza di maestranze in grado di padroneggiare ancora con sicurezza tradizioni formali e saperi tecnici di origine tardo-antica. Ancor piú nascosta ai nostri occhi, ma anch’essa testimoniata da fugaci accenni presenti nelle fonti scritte, è la realtà rappresentata da palazzi e residenze di monarchi e aristocratici. I re merovingi, anche in seguito alla suddivisione interna del regno, scelsero nel tempo come propria sede diverse città distribuite soprattutto tra il Centro e il Nord dell’attuale Francia, come Sens, Soissons, Orléans, Reims, Metz, Châlon e, ovviamente, Parigi, senza contare le numerose residenze rurali delle quali si è già fatto cenno in precedenza. In Italia le cose andarono diversamente, poiché per la maggior parte della sua durata il regno longobardo ebbe come

Nella pagina accanto l’evangelista Giovanni e il frontespizio del suo Vangelo, pagine miniate dell’Evangelario dall’abbazia di S. Medardo di Soissons. Inizi del IX sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France. In basso, sulle due pagine formelle in avorio, originariamente parte di un dittico, raffiguranti Cristo con il Libro e l’angelo simbolo dell’evangelista Matteo, che presenta tracce di colorazione. Inizi del IX sec. Ravenna, Museo Nazionale.

unica sua capitale Pavia, anche se nei primi decenni i sovrani abitarono per brevi periodi anche a Verona, Milano e Monza. Si deve però considerare che, di fatto, i due ducati periferici di Spoleto e Benevento godettero di molta autonomia rispetto al potere centrale e che, pertanto, le sedi dei loro duchi vanno considerate come veri e propri «palazzi», al pari di quello in cui risiedeva il re. Di tutti questi luoghi nulla rimane oggi visibile, cosí come altrettanto ignoto ci appare l’aspetto delle residenze degli ufficiali periferici dei due regni. In ogni caso, questo breve excursus permette di affermare con sufficiente sicurezza che l’avvicendamento al potere dei Carolingi e la loro conquista dell’Italia non avvennero nel quadro di un panorama artistico statico, né che le committenze promosse dai nuovi dominatori e dagli esponenti di piú alto livello della società del loro tempo abbiano resuscitato da zero tradizioni artistiche e capacità esecutive del passato. Anche la produzione libraria dell’età longobarda e merovingia – sebbene consegnata alla testimonianza di pochi esemplari superstiti – riflette un panorama in cui è possibile individuare la presenza di diversi centri scrittori e di officine in grado di realizzare prodotti di buona qualità.

Ripensare lo spazio sacro

Se tutto ciò è vero, in cosa è allora davvero consistita la «rinascenza» delle arti nell’età di Carlo Magno e dei suoi immediati successori? A voler scegliere i parametri per un giudizio, i piú corretti sarebbero probabilmente quelli delle dimensioni, della complessità progettuale e della diffusione. Partendo dall’analisi delle creazioni architettoniche, l’età carolingia vide infatti apparire – un po’ ovunque in Europa – edifici di proporzioni e forme che nei due secoli precedenti non sembra fossero state né concepite, né osate e che, soprattutto, si distaccavano anche nella mera riproposizione di repertori di ascendenza antica. Soprattutto nei territori transalpini, la progettazione degli edifici di culto (che sono piú facilmente valutabili perché sopravvissuti in numero piú cospicuo) portò a ripensamenti profondi dello spazio sacro, che solo in parte riprendevano temi già elaborati dall’architettura paleocristiana. Lo sviluppo del culto dei santi e delle reliquie (e i conseguenti mutamenti nelle pratiche liturgiche) condussero a soluzioni che dilatarono e trasformarono soprattutto le aree terminali delle chiese, verso la facciata e verso le absidi. Partendo inizialmente dall’imitazione del modello romano della cripta anulare, le zone absidali furono frequentemente dotate di altari multipli e di cripte sempre piú articolate ed elaborate dal punto di vista planimetrico, in carlo magno

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La cultura

grado di soddisfare esigenze di devozione nei confronti dei resti dei corpi santi custoditi dalle singole chiese e permettere la celebrazione di messe private presso gli altari a essi dedicati. Nel settore della facciata fu sviluppata la presenza di elementi architettonici monumentali, capaci di mediare il passaggio fra l’esterno e l’interno delle chiese e di enfatizzarne la presenza nello spazio circostante. Cosí vediamo sorgere veri e propri avancorpi ed elementi turriti, concepiti quasi come simbolici presidi della sacralità delle aule di culto. Queste sperimentazioni sono evidenti soprattutto presso le chiese presenti all’interno dei monasteri, come conseguenza della liturgia particolarmente elaborata attuata dalle comunità monastiche e del desiderio di mantenere netta la divisione fra gli spazi riservati a queste ultime, rispetto a quelli accessibili ai laici. A tali elementi (e forse anche in conseguenza del loro innesto) si deve aggiungere il fatto che, nel periodo carolingio, apparvero chiese di dimensioni certamente non piú tentate nei seco126

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Fontana della Vita e frontespizio del Vangelo della Vigilia di Natale, pagine miniate dell’Evangelario di Godescalco, il piú antico esempio a oggi noto di miniatura carolingia. 781-783. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

li immediatamente precedenti e che, sotto questo profilo, certamente intendevano gareggiare con quelle ereditate dall’età tardo-antica. A tal proposito, basti ricordare edifici (soprattutto di ambito monastico) come le chiese abbaziali di Fulda (Germania), Centula e S. Germano di Auxerre (Francia), S. Gallo (Svizzera) e S. Vincenzo al Volturno (Italia).

Nel segno della grandiosità

Paradossalmente, il risultato fu quindi l’opposto di quello che si potrebbe immaginare quando si evoca un concetto come quello di «rinascenza», applicato all’architettura sacra europea del periodo carolingio. Con l’eccezione dell’Italia, dove in genere prevalsero forme piú conservatrici e tradizionaliste, l’architettura ecclesiastica delle regioni transalpine trasformò profondamente il retaggio formale di ascendenza antica che, apparentemente, si era perpetuato in modo abbastanza immutato nel corso dei primi secoli del dominio franco sulle Gallie. In questo ambito,


quindi, se di «rinascenza» si vuole parlare, la si deve trovare soprattutto nella rinnovata possibilità di allestire cantieri complessi e costosi, destinati a «partorire» edifici di grandi e grandissime dimensioni. Un altro elemento che può essere incluso nella discussione su cosa sia effettivamente stata la «Rinascenza Carolingia» delle arti è quello della diffusione. È infatti ben chiaro che all’espansione politica si accompagnò una moltiplicazione dei centri in grado di patrocinare e realizzare imprese artistiche e culturali rilevanti. Aree come la Germania centrale e centro-settentrionale, per esempio, la cui cristianizzazione era avvenuta in tempi relativamente recenti, tra la fine dell’VIII secolo e tutto il IX conobbero una significativa fioritura di centri solo in piccola parte già esistenti, che divennero propulsori di imprese artistiche e architettoniche rilevanti. Essi furono prevalentemente di natura ecclesiastica, come per esempio le abbazie di Fulda (poc’anzi già ricordata), Corvey, Lorsch, Kornelimünster e Seligenstadt, e sedi vescovili quali Colonia, Halberstadt e Hildesheim. Ma non mancarono anche luoghi scelti dal sovrano come propria residenza: accanto a quella celeberrima di Aquisgrana, fu proprio nel territorio tedesco che ne sorsero altre caratterizzate una certa imponenza materiale, come quelle di Paderborn in Westfalia e di Ingelheim in Renania.

In basso decorazione di un contenitore-reliquiario in argento parzialmente dorato raffigurante Gesú in trono tra gli apostoli Pietro e Paolo. 817-824. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

novative dell’architettura sviluppatasi nelle aree piú centrali dell’impero. Anche l’Italia appare un territorio interessato, alla pari di altre regioni dell’impero, dall’apertura di nuovi cantieri e dalla realizzazione di edifici di proporzioni rilevanti. Tuttavia, come si accennava poc’anzi, ciò che la caratterizza è il volto sostanzialmente conservatore che l’architettura (soprattutto quella ecclesiastica, su cui siamo meglio informati) presenta rispetto ai modelli tardo-antichi. Questa caratteristica appare particolarmente evidente a Roma, città in cui si conserva una decina di chiese risalenti (interamente o in parte) al periodo carolingio. Il tradizionalismo dell’architettura romana di questo periodo è comprensibile in ragione del prestigio goduto dai modelli delle chiese tardo-antiche, talora direttamente legate alla memoria dei primi imperatori cristia(segue a p. 131)

Dalla Svizzera alla Croazia

Ma nel movimento di rinnovamento materiale generato dal clima e dalle disponibilità economiche del periodo carolingio furono coinvolti anche territori che, pur avendo già fatto parte dell’impero romano, nei secoli immediatamente precedenti erano rimasti un po’ in ombra, poiché relegati ai margini dei domini longobardi e franchi o del tutto esterni a essi: tra i primi si deve ricordare l’area dell’odierna Svizzera, mentre fra i secondi merita una menzione particolare quella dell’attuale Croazia. Nella prima sorsero o si svilupparono in misura assai superiore rispetto al passato alcuni monasteri che divennero fra i piú importanti di tutto l’impero, come S. Gallo e Reichenau. Ma vi si annoverano anche centri piú piccoli, come Müstair, nel territorio dei Grigioni, che però è giunto intatto sino ai nostri giorni in molte sue parti e che oggi si presenta come uno dei siti piú rilevanti per la conoscenza dell’arte carolingia, anche grazie agli accurati scavi che vi sono stati eseguiti. In Croazia, invece, si assiste alla comparsa di un numero davvero rilevante di nuovi edifici di culto che, se non raggiungono quasi mai dimensioni particolarmente ragguardevoli, riproducono con raffinatezza tutte le tendenze incarlo magno

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La cultura

una scrittura per l’europa

T

roppo spesso, quando digitiamo sulla tastiera del computer, pensiamo di appartenere a un mondo che si è lasciato definitivamente alle spalle le fatiche della scrittura manuale. Se ciò è vero da un punto di vista tecnico, non altrettanto si può dire dal punto di vista formale. La maggior parte dei font disponibili e maggiormente utilizzati nei moderni programmi di scrittura riproduce, infatti, ancora per buona parte canoni estetici stabiliti in tempi molto antichi, che proprio nell’età di Carlo Magno furono rinnovati e resi uniformi nei territori dell’impero. In età romana, oltre alla scrittura capitale (cioè quella normalmente utilizzata nelle epigrafi pubbliche e private), per le necessità quotidiane s’impiegavano vari tipi di scritture corsive. Quando, nel IV secolo, s’impose progressivamente l’uso del libro con pagine di pergamena al posto del volumen (il rotolo di papiro su cui si scrivevano i testi giuridici, scientifici e letterari), le grafie utilizzate nell’Occidente latino furono di norma quelle denominate dai paleografi «onciale» e «semionciale» che comprendevano segni derivati sia dalla capitale, sia dalla corsiva. Nei primi secoli dell’Alto Medioevo, accanto a questi due tipi di scrittura se ne svilupparono molti altri (spesso da essi derivati), tipici delle diverse regioni: troviamo cosí scritture dette «visigotiche», «merovingiche», «retiche» e «insulari», a seconda delle aree geografiche in cui ciascuna di esse si sviluppò. Spesso, da ogni ceppo principale, si diramarono poi stili grafici caratteristici di singoli centri scrittori. Questo panorama estremamente variegato rendeva talora complessa la lettura e la comprensione dei testi fra un’area e un’altra, moltiplicando fra l’altro i rischi di errori nella loro copiatura e riproduzione. Questi problemi furono alla base della reazione che portò, tra la fine dell’VIII secolo e i primi decenni del IX, all’elaborazione di un nuovo tipo grafico di scrittura minuscola a uso librario, caratterizzata da un tratto ampio e arioso, dall’eliminazione quasi totale dei legamenti fra le singole lettere e dalla tendenza alla limitazione dell’uso delle abbreviazioni, che risultò di lettura particolarmente gradevole e chiara. Non vi sono documenti ufficiali che certifichino un impulso diretto da parte di Carlo all’adozione di questo nuovo modulo grafico. Ma il fatto che i codici piú antichi che lo attestano si collochino tutti nell’area francese e, soprattutto, che siano stati prodotti in monasteri posti sotto protezione regia (S. Martino di Tours, Corbie, Saint-Denis) e forse presso la stessa scuola palatina di Aquisgrana, ha indotto molti studiosi a ritenere che la sua codificazione non sia stata casuale. Altrettanto incomprensibile, senza immaginare una qualche volontà politica per la sua promozione, sarebbe la rapida diffusione che essa ebbe in tutti gli altri principali centri scrittori dell’impero, distribuiti tra Germania, aree alpine e Italia centro-settentrionale. 128

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Nel corso del IX secolo questa scrittura, detta dai paleografi«minuscola carolina», venne progressivamente adottata da notai e cancellerie per redigere documenti privati e pubblici. Essa persistette come tipo grafico prevalente sino a tutto il pieno Medioevo e fu poi rilanciata in Italia dagli umanisti del Quattrocento, in opposizione alla cosiddetta scrittura «gotica». Di lí essa entrò nei torchi dei primi tipografi, generando poi molti dei font utilizzati dalla stampa moderna.


Nella pagina accanto pagina con capolettera miniato da un trattato teologico di scuola tedesca, scritto in tarda minuscola carolingia. XI sec. Norimberga, Germanisches Nationalmuseum. In questa pagina Milano, chiesa di S. Maria presso S. Satiro. Testa di santo, frammento degli affreschi originari che ornavano l’edificio sacro, fondato dall’arcivescovo Ansperto nel IX sec.

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Miniatura raffigurante l’abate Viviano insieme ai suoi monaci che dona la Bibbia a Carlo il Calvo, assiso in trono e circondato dai dignitari e dalle guardie del corpo e sovrastato da simboli di protezione divina. Dalla cosiddetta Prima Bibbia di Carlo il Calvo (nota anche come Bibbia di Viviano). 845-846. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

ni come Costantino e Teodosio. Questo retaggio fece sí che, almeno sino a tutto il XII secolo, nell’architettura delle chiese romane si vide poco di nuovo. Ma anche altre aree della Penisola mostrano connotati non molto diversi. Di fronte alle ardite e originali sperimentazioni compiute nelle regioni transalpine soprattutto nelle zone di facciata e absidali delle chiese e nella sistemazione delle cripte, l’Italia offre in genere soluzioni piú compassate e consolidate, come mostrano per esempio i casi delle chiese abbaziali di Farfa, Montecassino e della già ricordata S. Vincenzo al Volturno, ma anche chiese secolari come la cattedrale di Aquileia ed edifici (solo dimensionalmente) minori come il sacello di S. Satiro a Milano e la cappella di S. Maria Foris Portas a Castelseprio, vicino Varese.

Alle origini del Romanico

In ogni caso, gettando lo sguardo all’insieme dei territori imperiali, l’ambizione e la possibilità di realizzare edifici di grandi dimensioni, congiunta con la propensione a sperimentare nuove forme architettoniche, produsse il risultato di rinverdire e diffondere capacità e arditezze tecnico-operative che, se non erano del tutto scomparse, si erano certamente in parte sopite nei due secoli precedenti. Non è scorretto perciò riaffermare, come troviamo asserito in molti manuali di storia dell’arte medievale, che l’exploit dell’età carolingia abbia posto le basi per il successivo sviluppo della stagione del Romanico europeo. Un altro elemento – a cui in precedenza si è accennato – che permette di valutare l’impennata vera e propria di investimenti operati in ambito culturale al tempo di Carlo Magno e nei decenni immediatamente successivi, è quello della produzione e della circolazione dei libri. Sebbene non manchino manufatti di questo tipo databili ai secoli precedenti, la sopravvivenza di un numero cospicuo codici manoscritti databili tra la seconda metà dell’VIII e il IX secolo è indizio di una produzione cresciuta in misura significativa. Da ciò si può anche desumere che era aumentato il numero dei luoghi in cui vi erano persone in grado di confezionarli e l’interesse ad acquistarli e custodirli nelle biblioteche. Sebbene spesso questo dato non venga messo sufficientemente in rilievo, non si deve mai dimenticare che, nell’Alto Medioevo, il libro era considerato un oggetto raro e prezioso, al pari di come poteva esserlo, per esempio, un manufatto di arte orafa. Ciò dipendeva dal fatto che molti degli esemplari prodotti contenevano testi sacri – in primo luogo quelli appartenenti al Vecchio e Nuovo Testamento –, tramandando quindi la parola di Dio e di coloro

che ne avevano commentato i contenuti. Ma, in un mondo caratterizzato da una scarsissima alfabetizzazione, era proprio la parola scritta in sé a essere guardata con reverenza. I libri erano quindi oggetti la cui realizzazione necessitava di cure particolari, che richiedevano l’intervento di artigiani con competenze diverse ed erano perciò faticosi e dispendiosi da confezionare. La stessa produzione della pergamena, ottenuta dalla lavorazione delle pelli di pecore macellate in giovane età, rappresentava un processo lungo e costoso, poiché questo materiale era accessibile solo a chi disponeva di greggi numericamente rilevanti e poteva stipendiare gli artigiani in grado di seguire tutte le fasi di lavorazione o che, quanto meno, aveva risorse sufficienti per procurarsi il prodotto finito. All’esecuzione del libro nel suo insieme contribuivano poi altri specialisti, quali in primo luogo gli amanuensi, che vergavano materialmente i testi, ma anche i miniatori, che li decoravano, e coloro che provvedevano alla loro legatura e al confezionamento delle coperture. Queste ultime, nel caso di libri di particolare pregio, potevano essere a loro volta vere e proprie opere d’arte, poiché le loro superfici venivano in questi casi impreziosite da lavori di oreficeria che comprendevano la stesura di basi in metallo su cui erano apposte applique in smalti, avorio o pietre preziose, con inserti in oro e argento. Non è dunque esagerato affermare che gli scriptoria dell’età carolingia erano veri e propri laboratori nei quali il lavoro di copiatura e controllo dei testi, eseguito da persone in grado di padroneggiare tutte le difficoltà della lingua latina, era affiancato dall’opera di conciatori, legatori, pittori e orafi.

Trattati scientifici e opere letterarie

Come si diceva, i testi sacri costituiscono il nucleo principale della produzione libraria di età carolingia. Il loro contenuto ha offerto ampi spunti alla creatività degli artisti chiamati a commentarne i passi salienti attraverso le immagini. Ma un caleidoscopio altrettanto ricco di raffigurazioni si può trovare anche nei libri nei quali furono copiate opere di carattere scientifico o letterario, scritte da autori antichi o da intellettuali contemporanei, come Alcuino, Rabano Mauro, Arno di Salisburgo, Eginardo e Teodulfo di Orléans, per citare alcuni dei nomi piú celebri fioriti nell’età di Carlo o nella generazione successiva. L’ampio repertorio figurativo presente nei codici illustrati ci offre la possibilità di supplire alle scarse tracce superstiti della pittura murale, cosí da comprendere meglio le tendenze presenti nell’arte pittorica di questo periodo. Esaminancarlo magno

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La cultura lo avevano immediatamente preceduto, benché sia davvero difficile compiere in tal senso valutazioni precise, data la scarsità delle testimonianze superstiti. In ogni caso, attributi ritenuti caratteristici dell’arte «classica», quali la capacità di ambientare le figure e gli oggetti nello spazio, la costruzione dell’impianto prospettico, la resa della materialità dei corpi e delle forme delle cose e il trattamento naturalistico del loro movimento o del loro posizionamento, sono padroneggiati con sicurezza da molti artisti di epoca carolingia. Questi risultati sono raggiunti – com’era costume sempre nella tradizione «classica» –, sia attraverso la tecnica dello schizzo, sia con la solida resa plastica e tridimensionale dei corpi. Sono particolarmente emblematici, tra i molti che si potrebbero citare, i casi di prodotti come il Salterio di Urecht, l’Evangelario di Ebbone, il Salterio di San Gallo e l’Evangelario di Vienna, detto «del Coronamento».

Tendenza all’astrazione

do le produzioni di maggiore pregio, legate prevalentemente all’alta committenza regia ed ecclesiastica, si coglie bene come il linguaggio formale della tradizione figurativa del tardo ellenismo fiorente alla fine dell’antichità fosse ancora ben vivo nell’età di Carlo. Indubbiamente, questa eredità, per quanto rilanciata dagli artisti che vissero in questo periodo, doveva essere sopravvissuta attraverso i secoli che 132

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Naturalmente, le tendenze stilistiche proposte dalle scuole di miniatori attive nell’Europa carolingia non si esauriscono nella mera imitazione e riproposizione di forme e modi dell’arte antica, poiché troviamo anche esempi che esprimono gusti profondamente diversi, legati, per esempio, ai canoni formali propri delle miniature presenti nei libri prodotti nelle Isole Britanniche fra il VI e il VII secolo. Essi sono caratterizzati dal tratto fortemente grafico e da una decisa tendenza all’astrazione di oggetti ed elementi figurativi, come mostrano, per esempio, codici dalla datazione abbastanza alta, quali gli Evangelari di Godescalco e di Flavigny e il Sacramentario di Gellone, tutti realizzati nello scorcio conclusivo dell’VIII secolo. La pittura libraria offre informazioni interessanti anche sulla rappresentazione dei simboli della regalità, trattati con ricchezza di riferimenti alle iconografie dei sovrani romani tardo-antichi. Sfortunatamente non disponiamo di raffigurazioni risalenti all’epoca di Carlo Magno. Tuttavia, tale ispirazione appare chiara in alcune pagine miniate che ritraggono suo nipote Carlo il Calvo, re dei Franchi occidentali dall’840 all’877 e imperatore negli ultimi due anni della sua vita. Le scene in cui compare assiso in trono in un’ambientazione che doveva alludere allo spazio di una sala per le udienze, circondato di dignitari e di guardie del corpo e sovrastato dai segni della protezione divina, richiamano assai da vicino l’esempio del cosiddetto missorium dell’imperatore Teodosio, della fine del IV secolo. Un parallelo altrettanto stringente può essere


Nella pagina accanto valva in avorio del celebre Dittico di Stilicone, con la raffigurazione del generale vandalo. Primi anni del V sec. Monza, Museo e Tesoro del Duomo. In alto miniatura raffigurante Ludovico il Pio, da un manoscritto di scuola tedesca delle Lodi della Santa

Croce di Rabano Mauro. Primo quarto dell’XI sec. Montpellier, Musée Atger. La palese somiglianza tra le due raffigurazioni è una delle prove di quanto i modelli dell’età tardo-antica fossero una fonte di ispirazione assai apprezzata da artisti e miniatori dell’età carolingia. carlo magno

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istituito tra il ritratto a figura stante del padre di Carlo il Calvo e figlio di Carlo Magno, Ludovico il Pio, eseguito sulla pagina del codice viennese contenente il testo delle Lodi della Santa Croce, e una famosa raffigurazione del generalissimo romano Stilicone, eseguita su un dittico in avorio agli inizi del V secolo. A riconferma dell’importanza di questi riferi134

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Roma, S. Prassede. Particolare dei mosaici del sacello di san Zenone (voluto da papa Pasquale I), raffiguranti Cristo tra due Apostoli e la Madonna col Bambino tra due santi. IX sec.

menti iconografici, non si può omettere di ricordare un oggetto che tramanda forse il ritratto piú fedele – oltre che la sua raffigurazione piú decisamente «imperiale» – dello stesso Carlo. Si tratta di una celeberrima statuina in bronzo, alta poco piú di 20 cm ed esposta al museo del Louvre, che propone il ritratto equestre di un sovrano carolingio, la cui postura è


si attinse a piene mani per sostenere una produzione artistica che, dal punto di vista quantitativo, rappresentò un vero salto in avanti rispetto al passato piú recente. Ma, per ben comprendere quanto davvero accadde, vanno tenuti presenti alcuni aspetti. Innanzitutto questo stretto rapporto con l’arte antica non fu ricostruito ex novo, ma si sviluppò su un terreno di continuità: l’architettura e le altre arti avevano conservato, in Europa, nel VII e nel primo VIII secolo, forti legami con il passato antico, soprattutto quando ci si riferisce alle opere commissionate dagli ambienti – sia laici, sia ecclesiastici – di maggiore rilievo sociale e di piú ampie disponibilità economiche.

Rileggere il passato

modellata su prototipi romani, come per esempio quello del celebre Marco Aurelio fatto collocare da Michelangelo sul Campidoglio di Roma (vedi foto a p. 7). Volendo dare uno sguardo d’insieme alla produzione artistica e intellettuale dell’età carolingia, si può affermare che Roma e il suo mondo furono il serbatoio a cui in quest’epoca

In secondo luogo, continuità non è sinonimo di staticità. L’arte dell’età carolingia non fu sempre e solo mera imitazione delle forme del passato, ma ne costituí una rilettura originale che si può cogliere soprattutto nell’ambito delle realizzazioni architettoniche dell’Europa al di là delle Alpi, ma che appare anche quando si guardi ai prodotti delle cosiddette «arti minori». Anche nell’ambito della pittura, il panorama è assai variegato. Se in molti casi assistiamo alla riproposizione di capacità rappresentative e di schemi compositivi che rivelano un’osservazione puntuale dell’arte antica, in altri casi questi elementi appaiono mescolati a tratti di indubbia originalità. Paradossalmente, ciò si nota, per esempio, nelle pitture e nei mosaici eseguiti a Roma tra la fine dell’VIII e la prima metà del IX secolo per decorare chiese che, al contrario, erano state progettate secondo canoni di forte aderenza ai modelli architettonici della tarda antichità. I mosaici di S. Prassede o di S. Cecilia in Trastevere e le pitture della chiesa inferiore di S. Clemente se, da un lato, richiamano iconografie proprie di opere piú antiche (romane e non), dall’altro esprimono, sotto il profilo stilistico, una forte carica innovativa – come per esempio si nota nel trattamento «divisionista» delle superfici musive – e, nel contempo, risentono anche dei frequenti contatti che Roma aveva avuto nei secoli precedenti con l’arte dell’Oriente mediterraneo. Il terzo e ultimo punto da considerare è che le opere d’arte giunte sino a noi dal periodo carolingio sono in massima parte quelle espresse dalla committenza di piú alto livello sociale (e principalmente dalla corte e dai circoli ecclesiastici a essa piú prossimi), che del rapporto con il passato romano (e soprattutto di quello tardo-romano) avevano fatto una bandiera ideologica, mentre ci sfugge per gran parte la conoscenza delle forme artistiche espresse in ambiti diversi da questi. carlo magno

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Quel che

l’eredità

resta di Carlo Non si può negare che il grande imperatore carolingio abbia segnato un’epoca. Ma fu davvero il «primo artefice dell’Europa unita» (come molti sostengono)? E oggi, a piú di mille anni di distanza, quali sono le tracce piú vivide della sua azione politica e della sua volontà di plasmare una nuova visione del mondo?

U

na fragile eredità politica e un duraturo lascito ideologico e istituzionale: si può tentare di riassumere cosí l’esito della lunga parabola percorsa da Carlo Magno sullo scenario dell’Europa altomedievale. Se, infatti, l’integrità territoriale dell’impero si dissolse dopo una sola generazione, l’ideale modello di «governo universale» che esso aveva riportato in vita permeò l’orizzonte di buona parte del Medioevo occidentale. Anche la struttura dello Stato definitasi nei lunghi decenni del regno di Carlo, con i suoi intrecci tra gerarchie di natura pubblica e solidarietà personali, avrebbe costituito un asse portante del funzionamento degli Stati medievali. Miniatura raffigurante Ludovico I il Pio incoronato imperatore da papa Stefano IV a Reims, il 5 ottobre 816, da un’edizione delle Grandes Chroniques de France. XIV sec. Castres, Bibliothèque Municipale.



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L’eredità

Altrettanto duraturi e incisivi furono i rapporti disegnati in questo periodo fra potere sovrano e istituzioni ecclesiastiche. Almeno sino al tempo della lotta per le investiture (e cioè fino al pieno XI secolo) nessuno mise mai seriamente in discussione il diritto-dovere del re a interferire nel loro funzionamento, in ragione degli attributi sacrali del proprio potere e in considerazione del ruolo di supporto che esse esercitavano, in favore 138

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dei sovrani, per il controllo del territorio. Anche altri interventi, come quelli sulla riforma della monetazione e della scrittura, ebbero una portata secolare, proiettata sin entro il Basso Medioevo.

Un grande catalizzatore di intelletti

Queste considerazioni basterebbero a sancire l’assoluta rilevanza del segno lasciato da Carlo e dalla sua epoca. È forse improprio ed

Miniatura di scuola francese che evoca la spartizione dell’impero tra Lotario, Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico, figli di Ludovico il Pio, in base al trattato di Verdun (843).


In basso particolare di una miniatura di scuola francese raffigurante la morte di Carlo Magno. XIV sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

esagerato ricondurre tutte queste trasformazioni epocali al nome di una sola persona. Ma sarebbe anche complesso immaginarle senza considerare la visione politica di Carlo e la sua capacità di catalizzare e proiettare verso nuovi obiettivi le energie e gli intelletti del regno franco. Un regno che, nel primo scorcio dell’VIII secolo, sembrava aver esaurito la spinta propulsiva che, fra il VI e il VII secolo, lo aveva portato a divenire la maggior

Dopo Carlo Magno, tutti gli Stati del Medioevo si ispirarono al suo modello di gestione del potere carlo magno

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L’eredità La parte terminale dello scettro detto «di Carlo V», culminante con la figura di Carlo Magno seduto in trono. Realizzato probabilmente tra il 1370-1380, appunto per la consacrazione di Carlo V, il manufatto ha subito ripetute modifiche in età moderna. Parigi, Museo del Louvre. potenza dell’Europa occidentale post-romana. Sicuramente, però, le capacità dimostrate da Carlo nel promuovere e governare un processo di espansione senza precedenti dai tempi della prima Roma imperiale vanno analizzate alla luce del processo di rinnovamento impresso al regno franco da suo padre Pipino e da suo nonno Carlo Martello. Specularmente, si deve anche riflettere su come e quanto i suoi immediati successori siano stati all’altezza del compito immenso di succedere a Carlo e di consolidare i risultati che egli aveva ottenuto. La successione al trono di Ludovico il Pio era stata raggiunta quasi come extrema ratio, dopo che altre soluzioni erano venute meno a causa della morte precoce dei candidati precedentemente individuati e forse inizialmente piú graditi a Carlo: il suo primogenito e omonimo, detto Carlo il Giovane, morto alla fine dell’811 (dopo essere stato designato dal padre re dei Franchi nel 781) e il secondogenito Pipino, morto nell’810, al quale Carlo aveva attribuito la reggenza dell’Italia.

Una consuetudine antica

Ludovico, il terzo dei figli maschi che Carlo aveva avuto dalla terza moglie, Ildegarda, aveva ricevuto inizialmente in dote l’Aquitania. Carlo, in realtà aveva perseguito l’idea di replicare la tradizionale consuetudine del regno franco, sistematicamente attuata in epoca merovingia, di gestire la successione al trono come un affare di famiglia, e cioè come un’eredità da spartire fra i diversi figli del re in carica. Del resto, tale pratica era stata seguita anche da Carlo Martello e da Pipino; la circostanza che aveva visto quest’ultimo e suo figlio Carlo Magno reggere a lungo e come unici sovrani le sorti del popolo franco fu determinata solo dalla precoce scomparsa dalla scena dei loro fratelli, per abdicazione (nel primo caso) e per morte (nel secondo). Le decisioni prese nell’806 da Carlo nel corso di una dieta tenutasi presso la residenza regia di Thionville andavano esattamente in questa direzione, visto che l’immenso impero era stato spartito fra i tre eredi legittimi viventi. Apparentemente, tale decisione sembrava contraddire il fatto che, con la trasformazione del regno in impero, la trasmissione del potere alla futura generazione avrebbe dovuto tenere conto della nuova e indivisibile natura acquisita dallo Stato di cui Carlo era a capo. In real-


Carlo si trovò a essere unico titolare della corona in seguito all’improvvisa morte del fratello La Corona del Sacro Romano Impero, capolavoro d’oreficeria in oro, smalti, perle e pietre preziose, realizzata per l’incoronazione di Ottone I (912-973). 962 circa (la croce è un’aggiunta degli inizi dell’XI sec.). Vienna, Hofburg, Camera del Tesoro.

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L’ereditĂ


Carlo Magno in un ritratto eseguito da Albrecht Dürer. 1512 circa. Norimberga, Germanisches Nationalmuseum. L’artista immagina il sovrano come un uomo anziano e fiero dai lunghi capelli e barba bianca, con la corona del Sacro Romano Impero sul capo, e la spada cerimoniale e il globo dell’impero in mano. Sullo sfondo si notano il blasone imperiale con l’aquila e i gigli, simbolo del re di Francia.

tà, come ha acutamente rilevato lo storico Alessandro Barbero, la strategia seguita da Carlo presentava tratti di distinzione rispetto alle spartizioni del regno attuate in passato, proprio perché teneva conto del «fatto nuovo» rappresentato dalla nascita dell’impero. Nella dieta di Thionville, Carlo aveva infatti disegnato per il futuro un assetto in cui vi era un’evidente sproporzione fra la rilevanza dell’eredità attribuita a Carlo il Giovane – insieme al titolo di re dei Franchi – rispetto a quella assegnata agli altri due figli. Costoro, infatti, erano stati dichiarati titolari solo, rispettivamente, delle terre italiane e dell’Aquitania, mentre a Carlo il Giovane, che era il maggiore d’età, andava tutto il resto. È presumibile quindi che, data la posizione di evidente preminenza in cui questi si sarebbe un giorno venuto a trovare rispetto ai fratelli, Carlo Magno avesse in mente di trasmettergli anche la corona imperiale, assicurandogli quindi una forza sufficiente per contrastare eventuali moti centrifughi attivati dagli altri eredi.

Un’incoronazione «autogestita»

La morte di Carlo il Giovane e Pipino mutò il quadro definito nell’806 e obbligò il vecchio imperatore a rivolgere tutte le sue attenzioni sull’unico figlio legittimo sopravvissuto, Ludovico, che fu incoronato imperatore ad Aquisgrana nel settembre dell’813. È stato anche notato che quest’atto presentava delle differenze importanti rispetto all’evento della notte di Natale dell’anno 800. L’incoronazione di Ludovico fu organizzata come un fatto del tutto «interno» alla dinastia carolingia e alla nobiltà franca, senza che nella cosa fossero stati minimamente coinvolti il papa e la Chiesa romana. Carlo, evidentemente, voleva chiarire che la potestà di trasmettere la dignità imperiale era pienamente nelle mani sue e della propria famiglia e che non vi era necessità alcuna che altri soggetti intervenissero per convalidarla o, peggio, per arrogarsi poteri riguardo alla sua attribuzione. Questo passaggio è molto importante, poiché rappresentava una decisa presa di posizione rispetto alle ambiguità insite nell’atto d’incoronazione di Carlo e inaugurava una fase (che si sarebbe estesa almeno alle due successive generazioni di sovrani della dinastia carolingia) in cui gli imperatori franchi avrebbero – se non apertamente marginalizzato – tenuto in una posizione d’implicita subordinazione il ruolo dei papi nel processo di legittimazione degli imperatori. Ciò non significa che si sarebbe attenuato l’interesse di questi ultimi per Roma e per la sua Chiesa, ma che nell’entourage imperiale era maturato un sentimento di crescente consapevolezza del ruo-

lo di potestà universale che la carica comportava. Il regno di Ludovico meriterebbe forse una trattazione altrettanto dettagliata di quella riservata a Carlo. La sua figura fu politicamente e ideologicamente molto piú complessa di quanto il cliché d’inadeguato successore di tanto padre abbia troppo spesso accreditato, sottolineandone gli insuccessi politici e il tragico finale del regno, segnato dai dissidi con i tre figli, sfociati in aperti conflitti e nella sua temporanea estromissione dal potere, verificatasi nell’830 e poi di nuovo negli anni fra l’833 e l’834. A Ludovico la storiografia ha spesso imputato una gestione del potere troppo condizionata dall’influsso esercitato su di lui da un gruppo di consiglieri di estrazione ecclesiastica (soprattutto monastica) e da una concezione della propria autorità eccessivamente sbilanciata sulle sue connotazioni sacrali, prestando poca attenzione agli equilibri politico-militari interni al regno. Forse andrebbero valutate con attenzione le condizioni di debolezza interna della struttura amministrativa dell’impero e giudicati sotto questa luce i tentativi compiuti da Ludovico di potenziare il ruolo delle istituzioni ecclesiastiche e di conferire una maggiore rilevanza al ruolo del monarca, in quanto «re sacro» della cristianità.

Se la storia si «materializza»...

Ma, come si suol dire, questa è un’altra storia, la cui narrazione ci spingerebbe ben oltre i confini temporali della vita di Carlo Magno e del tempo in cui egli dominò la scena europea. In tempi come i nostri, in cui le scienze storiche hanno imparato ad analizzare sotto molti punti di vista i tratti peculiari e caratterizzanti di un’epoca, appare difficile accettare supinamente l’idea che un’unica figura – per quanto carismatica – possa averne singolarmente deciso i destini. Forse, come ha felicemente sintetizzato lo storico tedesco Dieter Hägermann (1939-2006) a conclusione della sua affascinante biografia del sovrano franco (vedi bibliografia alle pp. 144-145), è piú corretto dire che «la storia si è “materializzata” in Carlo», che «nella sua figura si sono concentrate le tendenze convergenti della sua epoca» e che, per buona parte, «fu lui stesso a determinare queste tendenze». Indubbiamente, come si è detto in precedenza, i lasciti del suo operato hanno gettato un ponte poderoso verso il futuro dell’Europa e hanno rappresentato il tornante che, pur in un quadro di potenti rievocazioni del passato romano, ha lanciato il continente lungo un percorso del tutto nuovo, gettando semi che avrebbero fruttificato lungo tutti i secoli del Medioevo e anche oltre. carlo magno

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Bibliografia

per saperne di piÚ La figura di Carlo Magno compare, con ruolo da protagonista, in tutti i testi di storia generale dell’Alto Medioevo, dai manuali scolastici alle trattazioni piú erudite. Altra cosa sono le opere specificamente dedicate alla sua vita, nei suoi risvolti politici, militari, culturali, spirituali e anche familiari. Anche su questo tema la letteratura abbonda; ma si deve precisare che, rimanendo nei confini nazionali, non vi è una scelta cosí ampia come si potrebbe immaginare. Fortunatamente, in tempi recenti, sono apparse in lingua italiana quattro importanti monografie che permettono di affrontare lo studio del grande re franco e del suo tempo in maniera adeguatamente approfondita. In ordine di tempo, troviamo: Carlo Magno. Un padre dell’Europa, di Alessandro Barbero, pubblicato da Laterza nel 2000; Carlo Magno. Il signore dell’Occidente, dello storico tedesco Dieter Hägermann, edito da Einaudi nel 2005 (ma l’edizione originale è del 2000); Carlo Magno. Primo europeo o ultimo romano, a opera del francese Georges Minois, pubblicato in italiano da Salerno Editrice nel 2012 (edizione francese del 2010); Carlo Magno. Barbaro e imperatore, di Derek Wilson, pubblicato da Bruno Mondadori nel 2012 (originale inglese del 2005). Sorprendentemente, l’anniversario della sua morte, celebrato nel 2014, non ha visto l’apparizione in Italia di ulteriori opere monografiche. Sempre nel 2000, Laterza ha ristampato un’opera ancora fondamentale sull’età carolingia, e cioè L’Impero carolingio del tedesco Heinrich Fichtenau, apparso in origine nel 1949 e poi tradotto in italiano nel 1958. L’edizione attuale del volume, che riprende la ristampa del 1986, è arricchita da una ricca nota bibliografica di Paolo Delogu, che però, purtroppo, non è stata aggiornata con quanto apparso fra il 1986 e il 2000. Il quadro delle opere di sintesi disponibili in italiano sull’età carolingia non sarebbe però completo senza citare altri quattro titoli, purtroppo oggi introvabili in libreria, che tuttavia si distinguevano per la qualità dei contenuti e la chiarezza dell’esposizione: La civiltà carolingia, di Jacques Boussard, pubblicato dal Saggiatore nel 1968, dall’originale francese edito nello stesso anno; I Carolingi. Una famiglia che ha fatto l’Europa, di Pierre Riché, originariamente apparso in Francia nel 1983 e tradotto in italiano da Sansoni nel 1988; Carlo Magno, di Giuseppe Banchio (con prefazione di Giuseppe Sergi), pubblicato da Giunti nel 1994; Carlo Magno, di Matthias Becher, edito da Il Mulino nel 2000 (originale tedesco del 1999). Per concludere, in ragione della sua autorevolezza di classico senza tempo sulla storia dell’Europa altomedievale, ma in cui l’epoca carolingia riveste un ruolo di primaria importanza, deve essere

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necessariamente ricordato il Maometto e Carlomagno del belga Henri Pirenne (apparso nel 1937), attualmente disponibile in edizione economica presso Laterza. Un testo preziosissimo per l’inquadramento delle dinamiche economiche e produttive dell’età carolingia, ma con approfondimenti importanti sulle loro implicazioni politiche e sociali, è Economia carolingia di Adrian Veerhulst, anch’egli belga, che Salerno Editrice ha tradotto in italiano nel 2004 (l’originale in inglese era del 2002), corredato di una presentazione di Alessandro Barbero. Alla lettura di questo libro può essere utilmente affiancata la lettura di un altro classico della letteratura storica, Nascita dell’Europa (edizione originale del 1962, ristampato dal Saggiatore nel 2004), dello storico italiano Roberto Sabatino Lopez che, pur trattando dell’Europa altomedievale in generale, dedica molte importanti pagine all’età carolingia. Sui rapporti fra Carlo Magno e l’Italia e sull’impatto della conquista franca sulla Penisola si possono utilizzare L’Italia carolingia di Giuseppe Albertoni (Carocci, 1997) e i capitoli finali del libro di Stefano Gasparri Italia longobarda. Il regno, i Franchi, il papato (Laterza 2012). A essi si può affiancare anche il volume 774. Ipotesi su una transizione, curato da Stefano Gasparri ed edito nel 2008 da Brepols, in cui si tratta sotto diversi aspetti il passaggio dal regno longobardo alla dominazione franca. Anche se difficilmente reperibile, è molto importante il catalogo della mostra Carlo Magno a Roma (pubblicato nel 2001 da Retablo), sia per la qualità dei saggi introduttivi, sia anche per gli approfondimenti sulla cultura e l’arte del periodo, soprattutto nello scenario romano. Rimanendo nell’ambito delle manifestazioni artistiche, si deve riscontrare ancor oggi una carenza di opere di sintesi in italiano sull’argomento, a fronte della copiosa bibliografia esistente soprattutto in inglese e in francese, spesso rappresentata dai monumentali cataloghi di grandi mostre allestite sull’argomento. Si è perciò costretti ancora a utilizzare il vecchio (anche se per molti versi ancora accettabile) volume di Jean Hubert, Jean Porcher e Wolfgang Volbach, L’Impero carolingio, pubblicato da Rizzoli nella collana Il mondo della figura nel 1968 e poi riedito in versione economica nel 1981. Accanto a esso, i saggi sull’arte carolingia apparsi nell’Enciclopedia dell’Arte Medievale della Treccani possono costituire una valida introduzione all’arte europea di questo periodo. L’arte militare dei Franchi e l’organizzazione dell’esercito di Carlo sono ben presentate nel volume di David Nicolle Il sogno europeo di Carlo Magno, pubblicato dalla casa specializzata in tematiche militari Osprey Publishing nel 2012.


A destra coperta in avorio appartenente alla rilegatura di un volume con l’immagine del Cristo Re. Seconda metà dell’VIII sec. Bruxelles, Musées Royaux d’Art et d’Histoire. Nella pagina accanto particolare di una placchetta in avorio, con tracce della coloritura originaria, raffigurante un’aquila, simbolo dell’evangelista Giovanni. Produzione italiana, 800 circa. Londra, Victoria and Albert Museum.

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