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MEDIOEVO DOSSIER
EDIO VO M E Dossier
♦ La cavalcata delle Valchirie ♦ Tutti gli dèi di Asgard ♦ La profezia delle rune ♦ Sigfrido e i Nibelunghi ♦ Nani, draghi e giganti ♦ Il Natale pagano
Bimestrale - My Way Media Srl
miti nordici nel mondo di odino e thor
€ 6,90 N°6 2014
MITI NORDICI
Nel mondo di Odino e Thor
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MITI NORDICI Nel mondo di Odino e Thor di Francesco Colotta
••••••••••••••••••••• Presentazione 6. Gelidi e arcani, rozzi e pagani? Cosmogonia
La fine del mondo
8. Il nulla come inizio
76. Quando muore un dio
14. Il delitto che generò l’universo
86. Il giorno del giudizio
Le divinità
Uomini delle saghe
24. Uno strano viandante
96. Vivere per la vendetta
32. Un tuono contro il caos Popoli La guerra degli dèi
108. Dai Germani ai Vichinghi
44. Asi contro Vani 50. Intrighi e giganti
Tradizioni 120. A banchetto con gli dèi
l’oro maledetto 58. Il tesoro dei nani
Appendice
66. Sigfrido e l’inganno fatale
132. Quel che resta di Odino...
Gelidi e arcani, rozzi e pagani?
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l Nord, questo sconosciuto. Nonostante le trasposizioni cinematografiche e letterarie, i miti dei popoli settentrionali restano ancora una materia in gran parte misteriosa, confinata perlopiú nei trattati di filologia e nelle disquisizioni degli appassionati. Una delle ragioni di questa mancata diffusione – che «Medioevo» intende colmare con questo Dossier – deriva da pregiudizi che serpeggiavano già in età classica. Nel Sud del continente europeo, sulla base di una sorta di teoria «geoclimatica», si tendeva a sminuire il valore delle culture nordiche: piú d’uno scrittore greco e latino, (tra cui Ippocrate, Posidonio, Plinio il Vecchio e Vitruvio) riteneva che le temperature molto rigide incidessero negativamente sul carattere dei popoli e, conseguentemente, sullo sviluppo delle loro civiltà. Un analogo pregiudizio antinordico circolò, come reazione alle invasioni barbariche, alimentato dai missionari cristiani, la cui attività evangelizzatrice trovava le piú grandi resistenze proprio nelle regioni «fredde» del continente, in Scandinavia, nella Germania settentrionale 6
miti nordici
e nei Paesi baltici: la Chiesa considerava gli irriducibili pagani di quelle terre primitivi e violenti. Il vescovo Adamo di Brema aggiunse una connotazione economicista, mettendo in relazione la bellicosità, la mancanza di cultura e di raffinatezza delle genti scandinave con le condizioni di indigenza in cui versavano molti abitanti di quelle latitudini. Qualche voce fuori dal coro si registrò nelle tesi di alcuni storici che collocavano nel gelido settentrione europeo la terra d’origine di alcune popolazioni (celebre in questo contesto è la definizione della Scandinavia come «vagina nationum», «grembo dei popoli», coniata dal bizantino Giordane). Ma la prima, autentica riabilitazione del mito del Nord si ebbe solo con lo storico danese Saxo Grammaticus (1150 circa-1220 circa), il quale, nei Gesta Danorum, narrò la storia del suo popolo con accenti di epica cavalleresca, spostando nel contempo a est la patria dei veri barbari. La demonizzazione continuò, contagiando anche la letteratura italiana (da Dante a Petrarca e a Boccaccio) e facendo leva sul simbolismo delle notti perenni
Tavola a colori di Peter Nicolai Arbo raffigurante l’Åsgårdsreien, versione norrena della «caccia selvaggia». 1873.
invernali che si manifestavano alle estreme latitudini, un fenomeno interpretato come tenebroso e maligno. La riscoperta moderna dei miti nordici, frutto delle rielaborazioni operate dal romanticismo tedesco raggiunse il suo culmine nella metà del XIX secolo con la saga musicale wagneriana dell’Anello del Nibelungo. Nel periodo della seconda guerra mondiale, l’associazione tra miti nordici e nazionalsocialismo relegò ancora una volta l’antica civiltà pagana germanica al rango di fenomeno oscuro e violento, stravolgendone l’essenza. Gli dèi e gli eroi della contestata mitologia si rivelano, in realtà, spiriti indisciplinati e ingannevoli, posseggono identità multiple, addirittura schizofreniche, e la loro epopea appare difficilmente assimilabile a una precisa etica di riferimento, ancor meno a un’ideologia. Essi, con il loro universo, compongono la trama di un romanzo affascinante dal quale emerge, al contrario, un sistema di valori frammentario e enigmatico. Fin dall’inizio, una prospettiva incombe sull’intera trattazione: su tutti gli attori
dei miti grava una tragica sorte, che contiene in sé i germi della distruzione. Non a caso, in antico nordico, il verbo utilizzato per descrivere l’atto della creazione (skepja) è apparentato con un termine che esprime il concetto di destino (skop). Procedendo nella lettura delle medievali Edda e delle saghe islandesi – le principali fonti della mitologia germanico-norrena – si ha la sensazione di essere catturati da un incantesimo. Proprio questa dimensione arcana costituisce una delle idee-guida dell’intero sistema mitologico. La magia si rivela sempre strettamente connessa alla religione e incarna uno dei principali attributi delle divinità: Odino, Thor e Freyr si materializzano con forme e comportamenti umani, ma, grazie ai sortilegi e agli incantesimi, riescono a governare il mondo. Un’ultima notazione: la trattazione di questo Dossier è circoscritta alle credenze dell’area germanica, scandinava e islandese, che rientrano nella classica definizione di «miti nordici»: sono escluse, quindi, le tradizioni legate alla cultura celtica, anglosassone, finnica e slava. miti nordici
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Cosmogonia
Città del Vaticano, Cappella Sistina. La Sibilla cumana, particolare degli affreschi della volta, realizzati da Michelangelo nel 1508-1510. Le sibille erano profetesse, spesso legate al culto oracolare di un santuario: la cumana era connessa con una pratica divinatoria istituzionale dei Romani, che consisteva nella consultazione di libri che si dicevano scritti da lei, i Libri sibillini.
Agli albori dell’universo esisteva solo un immenso buco nero, circondato da masse gelide e incandescenti. Poi, un giorno, senza l’opera di alcuna mente divina, il ghiaccio e il fuoco si scontrarono generando la prima, spaventosa creatura. Ma la nascita del mondo era ancora lontana…
Il ghiaccio, insieme al fuoco, era uno degli elementi primigeni dell’universo nordico e si concentrava nella massa fredda del Niflheimr, spazio posto a settentrione del nulla cosmico chiamato Ginnungagap. titolo
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n principio era il nulla. Non esistevano il mare, la terra, il cielo, né, ovviamente, alcun essere umano, ma solo un baratro «spalancato» che portava un nome oscuro, tuttora di difficile decrittazione: il Ginnungagap. La presenza di un infinito buco nero nell’atmosfera durante l’epoca precedente la creazione ricorre in vari brani delle due principali fonti letterarie sulla mitologia nordica, l’Edda poetica e in prosa (XIII secolo). Ma davvero, prima della creazione, non esistevano forme di vita? O una mente ordinatrice stava già procedendo a plasmare l’universo? Gli studi comparati dei miti assegnano un profilo singolare alla cosmogonia norrena (relativa, cioè, alla letteratura norvegese e islandese del Medioevo), in particolar modo alla fase antecedente alla creazione. Il baratro «spalancato» non corrisponderebbe alla dimensione classica del chaos, che precede la nascita del cosmo in altre importanti tradizioni, prima fra tutte quella ellenica. L’abisso nordico non somiglierebbe, pertanto, allo stato primordiale descritto da Esiodo: nella cosmogonia descritta dal porta greco, in origine, fluttuava una materia indistinta che, però, già possedeva in potenza gli elementi costitutivi di tutte le cose. Il Ginnungagap, al contrario, presenterebbe una vaga analogia con il prologo della creazione bi-
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Il dio Odino in un dipinto di Hermann Hendrich. 1909. Era la principale divinità del pantheon nordico, nonché uno dei tre demiurghi del mondo. Il suo avvento si materializzerà, però, solo dopo la nascita della prima creatura e non all’inizio dei tempi.
blica – compiuta ex nihilo –, forse spiegabile con l’influenza cristiana esercitata dagli autori medievali dell’Edda, primo fra tutti l’islandese Snorri Sturluson (1178 circa-1241). Appare difficile, tuttavia, supporre che tali rielaborazioni abbiano stravolto il dettato cosmogonico pagano.
Giochi di parole in uno spazio aperto
Che cosa significa, dunque, Ginnungagap? La risposta risulta ampiamente condivisa, sebbene l’etimologia del termine – composto dalle espressioni norrene ginnunga e gap – sia controversa: entrambe le locuzioni indicano presumibilmente uno spazio aperto, quindi una sorta di abisso, un concetto che si trova espresso anche nelle forme metaforiche dei kenningar (giochi di parole in un componimento poetico). Interpretazioni meno condivise individuano, invece, nel verbo antico islandese ginna (nell’accezione di «compiere incantesimi») la chiave di volta del mistero etimologico. Prima della nascita del mondo, quindi, forze magiche indefinite avrebbero colonizzato l’atmosfera. Nel mezzo del nulla, nello iato «senza vento» – come riferito nel Gylfaginning (L’inganno di Gylfi) – sarebbe, poi, sorto il mondo delle creature viventi. Non differisce dal significato di vuoto assoluto anche il termine Ghimmendegop che compare nel testo sulla storia e i costumi
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Il nulla come inizio
Le regioni nordiche nel Septentrionalium Terrarum Descriptio del cartografo fiammingo Gerardus Mercator. 1595. Il nulla del Ginnungagap ebbe anche una 12
miti nordici
collocazione geografica nel Medioevo e nel Rinascimento, comparendo in alcune mappe nella zona compresa tra la Groenlandia e l’isola di Terranova.
delle popolazioni scandinave Gesta Hammaburgensis Ecclesiae Pontificum (Le Gesta dei vescovi della Chiesa di Amburgo), scritto del vescovo tedesco Adamo di Brema. Proprio in Scandinavia e in genere nei Paesi nordici, alla fine del Medioevo, il mito del Ginnungagap ha trovato un’ambientazione non piú fantasiosa, ma geografica grazie ad alcuni cartografi che hanno collocato il baratro primordiale delle origini in due parti ben definite dell’emisfero nord-occidentale: in una mappa contenuta nel compendio enciclopedico del XV secolo Gripla, il nulla norreno è posto tra la Groenlandia e il Vinland (una zona dell’America Settentrionale che si ritiene sia stata scoperta dai Vichinghi nell’XI secolo); mentre il vescovo islandese Gudbrandur Thorlaksson, nel XVII secolo, la collocò in corrispondenza dello Stretto di Davis, che separa la Groenlandia dal territorio canadese di Nunavut.
Il mistero del demiurgo
Un brano del Gylfaginning cita letteralmente un «Dio Padre» (Allfödr), creatore di ogni fenomeno naturale e di tutte le cose, una figura che forse esisteva all’inizio del tempo ed era chiamato con altri undici nomi. Alcuni storici, primo fra tutti il britannico Brian Branston, hanno intravisto nel «Dio Padre», un’identità diversa rispetto al padre degli dèi norreno, Odino, in seguito all’unione di due giganti e ugualmente in possesso di dodici appellativi. Ma resta poco credibile ipotizzare la presenza di una divinità primordiale (Allfödr viene comunemente identificato con Odino), nonostante il dubbio venga alimentato anche da Snorri nell’introduzione all’Edda in prosa, in relazione alle credenze dell’umanità: «Si agitava nella loro mente l’idea che dovesse esistere qualcuno che governasse gli astri del cielo; qualcuno che ne regolasse il corso secondo il proprio volere; e che fosse molto forte e pieno di potenza. E consideravano verità anche questo: che se egli dominava le cose piú grandi del creato, doveva esistere prima degli astri del cielo». A settentrione del Ginnungagap si formò, in seguito, una massa gelida definita Niflheimr (letteralmente «mondo della caligine»), al centro della quale sgorgava una sorgente, Hvergelmir, che, a sua volta, dava origine a undici fiumi, tutti curiosamente battezzati con nomi femminili: Svöl («Fredda»), Gunnthrá («Battagliera»), Fjorm («Rapida»), Fimbulthul («Scrosciante»), Slidr («Terrificante»), Hrid («Tempestosa»), Sylgr («Ingurgitante»), Ylgr («Lupa»), Víd («Ampia»), Leiptr («Balenante») e Gjöll («Risonante»). Le stesse fonti eddiche riferiscono dell’esistenza, nel Niflheimr, di un’altra serie di corsi d’acqua noti come Élivágar, «flutti
tempestosi». L’acqua riusciva a procedere nel gelo solo per un percorso limitato e, una volta allontanatasi dalla sorgente, si solidificava, anche in virtú dell’azione di detriti «velenosi» che trascinava lungo il tragitto. Alla fine il corso dei fiumi assumeva l’aspetto di un blocco di lava, sopra il quale spesso si depositava una fitta coltre di brina proveniente da continue precipitazioni atmosferiche. La scarsa chiarezza delle fonti fa ritenere che gli Élivágar possano in realtà essere identificati con gli stessi fiumi provenienti da Hvergelmir.
L’incontro degli opposti
A meridione del Ginnungagap si sviluppò, invece, il Múspellsheimr, una massa costituita da fuoco e elementi incandescenti. Conseguentemente, sull’abisso, dalle zone confinanti, piovevano residui di materiali di opposta natura: brina ghiacciata e grandine da una parte e tizzoni ardenti dall’altra, che si scontravano annullandosi tra loro, secondo quanto narrato ancora da Snorri: «Cosí come il freddo proveniva da Niflheimr insieme a tutto ciò che è temibile, quanto si volgeva verso Múspell era caldo e luminoso e Ginnungagap era mite come aria priva di vento». Il nulla sembrava quindi prevalere anche sugli impetuosi fenomeni naturali che lo circondavano, ma qualcosa, in verità, in quell’abisso andava generandosi, proprio grazie all’incontro del ghiaccio con il magma incandescente. La brina gelida, a contatto con le temperature delle masse d’aria bollenti, si sciolse producendo gocce fecondatrici. E da quella violenta reazione caldo-freddo, fuoco-acqua sorsero le prime forme di vita, un fenomeno già noto e ampiamente descritto nell’antichità dai filosofi greci e romani. Per esempio da Ovidio, nelle Metamorfosi, riferendo che «nel compenetrarsi calore e umidità si fecondano e dalla coppia nasce il creato», un prodigio manifestatosi nonostante «il fuoco sia nemico dell’acqua». A creare tutto «è il vapore umido ed è una concordia discorde a propiziare le nascite». Una delle dinamiche ricorrenti nella letteratura norrena è «un movimento di scontro», per usare una efficace espressione della filologa Ludovica Koch. Ma la natura, nella mitologia nordica, ha nel proprio «patrimonio genetico» un’occulta capacità di rendere complementari i contrasti. Fu cosí che «dalle gocce che fermentavano sciogliendosi nella vita per virtú della forza che sprigionò il calore, fu plasmata la forma dell’uomo», si legge nella Völuspá (La profezia della veggente), il carme piú celebre dell’Edda poetica. Dalle gocce, che nelle culture del Grande Nord evocano il potere vivificante del disgelo, nacque quindi la prima creatura. Dalle sembianze, però, non proprio umane… miti nordici
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La creazione
Il delitto che generò l’universo L’essere primordiale, Ymir, aveva le dimensioni di un gigante. Generò una stirpe di esseri mastodontici dai quali discendevano i fratelli Odino, Víli e Vé. I tre assassinarono Ymir creando l’universo con le parti del suo corpo: un mito cosmogonico che presenta sorprendenti analogie con le tradizioni estremo-orientali
Secondo i testi norreni, dall’incontro della massa incandescente del Muspellsheimr con la brina del Niflheimr nacque la vita, un prodigio termico affine alla dinamica cosmogonica descritta nelle Metamorfosi del poeta latino Ovidio.
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La creazione
l prodigio si era compiuto. Dalla brina e dal fuoco nacque la prima forma di vita, sotto le spoglie di un essere di nome Ymir, che presentava sembianze mostruose. «Egli non era un Dio – rileva Snorri – bensí una creatura del male e cosí tutta la sua stirpe: li chiamiamo Giganti del gelo». La stessa natura lo aveva plasmato come un’entità dal profilo oscuro, visto che le sue membra derivavano dalle particelle «velenose» presenti sulla brina del Niflheimr. Un seme maligno che si sarebbe poi trasmesso non solo ai suoi discendenti ma anche all’intero creato nel momento della nascita del mondo, del cielo e degli altri elementi dell’universo. Ymir, che preferí stabilirsi sui ghiacci del Niflheimr, traeva nutrimen-
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to da una mucca, Audhumla, nata anch’essa dalla collisione delle particelle di fuoco e di brina avvenuta nell’abisso del Ginnungagap. Il latte che fluiva dalle mammelle dell’animale aveva formato quattro fiumi, consentendo all’essere primordiale di sopravvivere e di dare origine a una specie iniziale.
Il mistero dell’ermafroditismo
Il termine «Ymir» potrebbe derivare dal verbo norreno ymja con il significato di «mugghiare» e metaforicamente raffigurerebbe il gigante come un vitello, in quanto era stato allattato da una mucca. Un’altra interpretazione, messa tuttavia in discussione da molti germanisti, fa derivare il nome della creatura originaria da
un’espressione nordica paragonabile al termine latino geminus, ovvero «gemello». La tesi etimologica in questione renderebbe sovrapponibili le figure di Ymir e dell’antico dio nordico Tuisto, il cui nome si ritiene derivi dalla radice protogermanica *tvai- o *tvis-, ovvero «doppio» (dalla quale si sarebbe poi formato anche il termine inglese twin, cioè «gemello»). Le evidenti differenze tra i due personaggi mitologici rendono, però, forzata l’associazione: la prima figura, Ymir, è un’entità prettamente cosmogonica, preesistente alla creazione del mondo e dell’universo, mentre Tuisto, che tra l’altro è un dio, compare nelle narrazioni quando esisteva già la terra. L’allusione al «doppio» potrebbe rife-
Il carro solare di Trundholm (Danimarca). Età del Bronzo, XIV sec. a.C. Copenaghen, Nationalmuseet. Nella cosmogonia nordica il sole guida un carro trainato da cavalli e solca il cielo, inseguito da lupi ferocissimi.
L’essere primordiale Ymir sopravvisse grazie ai fiumi di latte forniti dalla prodigiosa mucca Audhumla
rirsi al presunto carattere ermafrodita di Ymir, elemento in comune con figure mitologiche – investite del ruolo di capostipiti del genere umano – di altre culture. Il gigante un giorno si addormentò e da alcune sue gocce di sudore nacquero altri due esseri mastodontici, mentre lo sfregamento dei suoi piedi generò una creatura a sei teste di nome Thrúdgelmir. Il sudore, prodotto dall’azione termica del calore, evoca simbolicamente il potere fecondatore della goccia, che nel corso della primavera nordica segna il disgelo e la resurrezione della natura. Un’altra creatura, poi, venne alla luce senza essere concepita da Ymir e dai suoi figli, ma direttamente dalla massa fredda presente nel Ginnungagap. Il neonato, però, giaceva, sotto la spessa coltre di brina, come intrappolato. E fu la mucca Audhumla, leccando lo strato di ghiaccio, a liberarlo: prima emersero i capelli, poi il volto e infine tutto l’imponente corpo, dall’aspetto, questa volta, gradevole. La creatura, di nome Búri, generò a sua volta un figlio, Borr, che si uní, poi, con Bestla, primogenita del gigante Bölthorn («Spina di sventura»). Dal loro incontro nacquero tre figli: Odino, Víli e Vé.
L’assassinio di Ymir
Nel nulla del Ginnungagap e nelle regioni di ghiaccio e di fuoco si era formata, quindi, una piccola comunità composta dall’essere primordiale Ymir, dalla mucca Audhumla, dal gigante Bölthorn, dalla figlia Bestla, da Búri, Borr, Odino, Víli e Vé. I tre nuovi nati nutrivano ambizioni di comando, ma per affermarsi in quell’universo originario avrebbero dovuto sottomettere i giganti piú anziani. Decisero allora di passare all’azione e, un giorno, colpirono violentemente alla testa l’essere primordiale Ymir – considerato il piú forte della comunità – uccidendolo. Poi ne fecero a pezzi il corpo, ricavando dalla sua carne la terra, dal sangue il mare, dalle ossa i monti, dai denti e dalle dita le rocce e i declivi. Infine ne lanciarono in aria il cranio e in modo istantaneo si formò il cielo, che, per restare in alto aveva bisogno del sostegno di quattro nani: Austri, Vestri, Nordri e Sudri (Est, Ovest, Nord e Sud). Con i frammenti del cervello del gigante, infine, vennero create le nuvole. Anche la morte di Ymir presenta affinità con altri miti. La formazione dell’universo con il corpo di un essere primordiale è un topos cosmogonico che ricorre, per esempio, in diverse tradizioni estremo orientali. Nei Veda (testi sacri indiani) la creazione origina dal sacrificio di un individuo, il Purusa, anch’egli di dimensioni miti nordici
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La creazione
immense. Simile al mito di Ymir si rivela, inoltre, la figura del demiurgo taoista Pangu: confinata per migliaia di anni nel guscio di un uovo, questa creatura diventa nel tempo gigantesca e le parti del suo corpo si trasformano in terre, montagne, mari, sole, luna, nuvole e vento. Siamo senza dubbio di fronte a un vero e proprio archetipo incentrato sul profilo del cosiddetto «macrantropo», l’uomo cosmico.
Un’alluvione biblica?
Nel lago di sangue fuoriuscito dalle ferite di Ymir, Odino, Víli e Vé affogarono gli altri giganti, tranne uno, Bergelmir che, con la moglie, era riuscito a fuggire arrampicandosi su un mulino. Alcuni commentatori moderni scorsero nel particolare del lago di sangue una similitudine con il racconto biblico dell’alluvione. Sicché Bergelmir, scampato alla catastrofe – secondo diverse letture grazie a un barca e non a un mulino – fu conseguentemente identificato con una sorta di Noè nordico. Nell’Edda in prosa, per la precisione nel Gylfaginning (che riporta l’episodio della fuga di Bergelmir) non vi è traccia, tuttavia, di una possibile arca: l’oggetto sul quale il gigante si arrampicò è definito lúdr, ovvero «mulino», «bara» o anche «corno». Il sopravvissuto, comunque, fuggí con la moglie e ripopolò la propria stirpe generando molti discendenti. I creatori tollerarono la nuova crescita demografica dei giganti, ma li confinarono nelle terre periferiche del regno di Jötunheimr, un luogo freddo e tenebroso. La parte centrale del mondo venne, invece, destinata agli uomini e prese il nome di Midgardr («terra di mezzo»). L’espressione Midgardr indica piú propriamente un «vallo mediano», forse in riferimento alle mura che presidiavano la regione, erette dai tre creatori con le sopracciglia di Ymir. Una fortificazione resa necessaria dalla minaccia di future invasioni da parte dei giganti. La nascita del Midgardr – cosí come appare descritta nelle fonti norrene – rivela nel suo significato simbolico un’ulteriore possibile influenza biblica. Nella Völuspá, infatti, la terra degli uomini risulta «innalzata», come sollevata dalle acque, un concetto che riecheggia il tema veterotestamentario del mare che si ritira per far emergere i continenti. Delimitato il Midgardr, occorreva popolarlo di esseri umani. Gli dèi li crearono plasmando due alberi trovati in riva al mare, un frassino e
un olmo: il primo assunse l’aspetto di un uomo, Askr, il secondo di una donna, Embla. Ai due Odino diede lo spirito e la vita, Víli la saggezza e il movimento e Vé la parola, la vista e l’udito. In apparenza, la vicenda di Askr ed Embla sembra presentare notevoli analogie con l’episodio della nascita di Adamo ed Eva riportato nella Genesi, a partire da un dato non del tutto trascurabile: le iniziali dei nomi. Anche in questo caso, però, affiorano alcune profonde incongruenze esegetiche e narrative: Eva nasce da una costola di Adamo, creato in precedenza dalla polvere, quindi da un elemento non considerato sacro come, invece, risultano essere gli alberi per la tradizione norrena.
Alberi contro terra
La cosmogonia nordica si rivelerebbe alla fine incompatibile non solo con il dettato biblico, ma anche con le credenze dell’intera area delle civiltà del Vicino Oriente, nella quale il mito antropogonico si lega quasi sempre, come fa notare lo (segue a p. 22)
In alto illustrazione del pittore danese Lorenz Frølich raffigurante l’assassinio del gigante Ymir per mano dei fratelli Odino, Víli e Vé. 1875-77. Nella pagina accanto le prime creature viventi dell’universo nordico sopravvissero traendo nutrimento dalla vacca Audhumla, che produceva quattro fiumi di latte dalle proprie mammelle. Tavola realizzata da Ólafur Brynjúlfsson per un’edizione del Sæmundar og Snorra Edda, manoscritto islandese del XVIII sec.
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Yggdrasill Ogni regno nella mitologia norrena è sorretto dall’albero cosmico Yggdrasill, che con i suoi rami attraversa l’intero mondo, arrivando a coprire il cielo. La sua imponenza rappresenta il legame simbolico tra tutte le parti dell’universo che si rivelano interdipendenti tra loro. Le radici, infatti, penetrano in tre mondi opposti (Ásaheimr, Jötunheimr e Helheimr) e conducono ad altrettante fonti che esprimono un evidente contrasto di valori: in quella sacra di Urdarbrunnr gli dèi si riuniscono in consiglio e tre norne (divinità femminili che raffigurano il passato, il presente e il futuro) vegliano sui destini del creato, oltre a nutrire costantemente la radice del frassino; nella fonte di Mímisbrunnr, nella terra dei giganti, sono nascoste le virtú della saggezza e della conoscenza; nell’ultima sorgente, infine, l’infera Hvergelmir si abbevera il serpente che erode la radice dell’albero, mettendo a rischio la sua stabilità. Altri animali dimorano sul frassino, l’aquila sulla sommità della chioma simboleggia lo sguardo della sapienza e del controllo, mentre lo scoiattolo Ratatoskr, attraversando di continuo il tronco raffigura la lotta tra la luce e le tenebre. Quattro cervi, infine, rosicchiano le foglie.
Yggdrasill e i nove mondi
••••••••••••••••••••• ••• I nove mondi ÁSaheimr
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Mondo celeste separato dalle terre dei mortali, che comprende Ásgardr, dimora degli dèi Asi.
••••••••••••••••••••• ••• VANAHEIMR
Situato a ovest di Ásgardr, vi risiede l’altra famiglia divina, i Vani.
ÁLFHEIMR
Dimora degli elfi chiari (o della luce, Liósálfar), situata nei pressi di Ásgardr.
JÖTUNHEIMR
La patria dei giganti di fuoco e di brina, posto
MIDGARDR
NIDAVELLIR
NIFLHEIMr HELHEIMR
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nella periferia dell’universo.
«Recinto mediano», il mondo degli umani.
Circondato dal mare, fu creato dalle sopracciglia del gigante Ymir.
«Pianura oscura». Regione in cui dimorano i nani (dvergar). In altre versioni è definito Svartálfaheimr e ospita gli elfi neri.
Regno dei ghiacci, in cui vivono i giganti e i
malati che non possono partecipare alle guerre.
Mondo degli inferi posto nel sottosuolo. Vi
transita chi è morto senza gloria. MÚSPELLSHEIMR Dimora dei giganti di fuoco capeggiati da Surtr, i distruttori del mondo. Si trova a sud.
Il frassino cosmico Yggdrasill che sorregge l’intero sistema dei nove mondi norreni. La fauna presente nel fusto, nella chioma e nelle radici nutre l’albero, ma contemporaneamente lo erode: in cima alla chioma (1) un’aquila vigila insieme al falco Vedrfölnir; il serpente, Nidhöggr (4), invece, rosicchia le radici,
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minandone la stabilità; quattro cervi (2) gironzolano fra i rami e mangiano le foglie; lo scoiattolo Ratatoskr (3), infine, corre lungo il fusto e riporta all’aquila e al serpente gli insulti che questi si scambiano vicendevolmente, a simboleggiare l’eterna contrapposizione tra bene e male.
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A
BifrÖst. Il ponte arcobaleno
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••••••••••••••••••••• • ••••••••••••••••••• C
G
D E
I
B F
H
L’albero cosmico e i nove mondi a esso collegati: A. Ásaheimr; B. Vanaheimr; C. Álfheimr; D. Jötunheimr; E. Midgardr; F. Nidavellir; G. Niflheimr: H. Helheim; I. Múspellsheimr.
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storico svedese delle religioni Anders Hultgård, a racconti che «fanno derivare l’origine dell’uomo dall’argilla, dalla terra o dal sangue per mezzo di un atto di creazione divina». Si rivela, invece, sostenibile, in questo caso, il confronto con le credenze cosmogoniche dei popoli antichi dell’Asia Minore, in particolare con la tradizione iranica (nella religione zoroastriana Mashya e Mashyana, il primo uomo e la prima donna, nascono proprio da un frassino). Il legame primordiale tra esseri umani e alberi è un concetto ricorrente nella religiosità nordica e se ne trova spesso traccia nel linguaggio poetico, secondo l’interpretazione di Snorri: gli scaldi (poeti-cantori attivi tra il IX e il XV secolo, n.d.r.) – sosteneva lo scrittore islandese – «hanno chiamato l’uomo frassino, acero, bosco ovvero con altri nomi di albero maschili» e la donna «è chiamata con le kenningar di tutti i nomi d’albero femminili». L’albero sacro della tradizione norrena, il piú bello del cosmo, il simbolo della sapienza e dell’inesorabile destino che non risparmia nemmeno gli dèi ha un nome: Yggdrasill (vedi box alle pp. 20-21) Con i suoi rami sorregge tutti e nove i mondi di cui risulta composto l’universo. Le sue radici affondano nella regione piú profonda e oscura, quella dei morti, ma conducono anche nelle regioni dove abitano gli uomini e in quelle celesti.
I lupi che rincorrono il sole
Gli dèi dotarono il Midgardr di un clima temperato e di una vivace vegetazione. Nella tetra Jötunheimr nacquero, invece, la notte e il giorno che si estesero, poi, su tutto l’universo appena creato. Nella patria dei giganti, infatti, era venuta alla luce una bambina dai capelli e dagli occhi scuri a cui fu dato il nome di Nótt («Notte»), la quale poi partorí un figlio, Dagr («Giorno»). Ai due, che avevano ricevuto in dono dagli dèi un carro e un cavallo, venne affidato il compito di solcare i cieli del creato: la madre partí per prima e il figlio si lanciò al suo inseguimento. Erano muniti di carri e cavalli anche il sole e la luna, generati nel Midgardr sotto forma di due creature bellissime, Sól e Máni. Collocate in cielo e inseguite da lupi ferocissimi, Sköll e Háti, erano quindi costrette a fuggire ancora piú rapidamente, come riferisce Snorri a proposito di Sól: «Non correrebbe piú veloce neppure se avesse paura della morte». Nell’immaginario nordico il sole si materializza spesso insieme a un carro trainato da cavalli. Prima testimonianza di tale connessione è il celebre carro scoperto a Trundholm, in Danimarca (vedi foto alle pp. 16/17 e capitolo alle pp. 132-143) nel 1902, risalente all’età del Bronzo (XIV secolo a.C.). Sempre in età antica, Tacito, nella Germania, descrisse la Scandinavia come 22
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Per Tacito, la Scandinavia era una terra estrema, in cui si poteva sentire il rumore del sole che sorge dalle acque
•••••••••••••• IL PONTE BIFRÖST Nell’accezione comune il ponte che collega il mondo degli uomini (Midgardr) a quello degli dèi (Ásgardr) è di colore arcobaleno. Il termine Bifröst significa letteralmente «via dai molti colori», (tra i quali il rosso) o «via tremula» e fu costruito dagli dèi, i soli a poterlo attraversare senza correre pericoli. A una divinità, Thor, l’accesso sul ponte non era consentito, perché con le ruote del suo fulmineo carro avrebbe rischiato di incendiarlo. Perciò era costretto a raggiungere Ásgardr guadando i fiumi sottostanti, il Kormt, l’Ormt e i Kerlaugar.
una terra estrema, nella quale «si narra anche che vi possa udire il rumore del sole quando si leva dalle onde e vedere la forma dei suoi cavalli e i raggi del suo capo». Il sole, nei miti dei popoli settentrionali, si svela simbolicamente come un principio di vita, di fertilità, come un baluardo contro le forze demoniache. La luna, invece, è intrisa di forza magica: «Il sole non sapeva, dove avesse dimora – si legge nella Völuspá – le stelle non sapevano, quale fosse la loro fede, la luna non sapeva, quanta potenza avesse». A sud del Midgardr, in una terra chiamata Nidavellir, i tre creatori collocarono la stirpe dei nani, esseri sovrannaturali nati dalle larve che si erano formate nel cadavere del gigante primordiale. Queste creature, che si stabilirono in caverne umide difficilmente raggiungibili, avevano un’indole maligna.
Un palazzo nel cielo
Creata la terra e divisa in regioni, gli dèi elessero la loro dimora: Ásgardr. Una descrizione del regno delle divinità è fornita da un brano del Gylfaginning, nel resoconto della visita in quel luogo sacro di Gylfi, re leggendario della Svezia: «Salí alla loro roccaforte e vide un edificio che torreggiava cosí alto che riusciva a stento a vedere al di sopra di esso». Un palazzo «rivestito di scudi d’oro, come un tetto coperto di assi» che, in base a quanto descritto, non si sarebbe trovato in cielo, ma su un’altura che probabilmente sfiorava le nuvole, sulle cime di un Olimpo nordico. Le sole informazioni esplicite su Ásgardr sono contenute nell’Edda in prosa. Mentre nell’antecedente versione poetica si fa riferimento esclusivamente a una sede degli dèi Asi, «borgar ása», intendendo con il termine borg una vera e propria fortezza, circondata da possenti mura difensive. Il poema Grímnismál (Il discorso di Grímnir) riferisce che la cittadella degli eletti era composta da 12 palazzi, riservati alle principali divinità: Odino si trovava nel Válaskjálf; Freyr nell’Alsheimr; Baldr nel Breidablik; Freyja nel Folkvangar e Heimdallr nell’Himinbjörg. Quest’ultimo edificio funge-
Nella pagina accanto La discesa degli dèi norreni, dipinto di William Collingwood (1854-1932). Collezione privata. Il pittore immagina alcune delle divinità del pantheon nordico mentre attraversano Bifröst, il ponte arcobaleno che collega il regno divino di Ásgardr con il Midgardr, la regione in cui vivono gli uomini.
va da anticamera al regno divino, nella quale si approdava dopo aver attraversato il ponte multicolore Bifröst che univa la cittadella fortificata o celeste al mondo degli uomini. Era un ponte solidissimo, ma pericoloso per gli estranei. Per accedere alla residenza degli dèi occorreva, poi, varcare i cancelli di Ásgrindr, solitamente spalancati, ma che si chiudevano nei momenti di particolare pericolo e in caso di attacchi esterni. Superato lo spiazzo dell’Idavöllr, si giungeva al santuario del Gladsheimr, interamente rivestito d’oro, che ospitava il salone del Valhalla (dal norreno Valholl, «residenza degli scelti», n.d.r.) destinazione finale per gli eroi uccisi in guerra. A differenza del Paradiso cristiano, esso risultava talvolta contiguo al mondo reale. All’origine dei tempi, gli dèi erano fabbri e produssero grandi quantità di un metallo, l’oro, che, in quanto purificato dal fuoco primordiale, conteneva i segreti della natura e dell’essere.
Guerra tra uomini?
Il pantheon nordico è composto da due comunità: gli Asi e i Vani. Alcuni studi tendono a desacralizzare le due famiglie divine, ritenendole il residuo di antichi culti in omaggio agli eroi, come in fondo credeva lo stesso Snorri. Questa teoria «storicistica» vedeva nella separazione degli dèi in categorie la metafora, in chiave religiosa, dell’epopea di due popolazioni un tempo in guerra tra loro. Gli Asi vengono descritti come genti provenienti dalla Scizia o, addirittura, dalla città omerica di Troia. Interpretazioni successive sostengono che gli Asi, emigrati in Germania, si spinsero poi ancora piú a nord, in Scandinavia, e in quella turbolenta regione entrarono in conflitto con una popolazione autoctona, i Vani appunto. Le due comunità avevano tradizioni religiose diverse: gli Asi adoravano divinità guerriere, mentre i Vani erano legati a culti agricoli. Grazie agli studi di mitologia, in particolare quelli del grande storico delle religioni e linguista francese Georges Dumézil (1898-1986), si sviluppò, al contrario, una tesi «funzionalista»: ne Les dieux des Germains, essai sur la formation de la religion scandinave (Gli dèi dei Germani: saggio sulla formazione della religione scandinava), Dumézil sosteneva che gli Asi e i Vani rappresentavano in realtà un sistema unico di credenze religiose, assimilabili all’antica tradizione indoeuropea: secondo la sua visione di un ordinamento tirpartito dell’universo e delle società umane nelle funzioni di potere sacrale, militare e riproduttivo, gli Asi incarnano soprattutto i valori delle prime due funzioni, mentre i Vani, legati ai culti della fertilità, potevano essere assimilati ai valori della terza. miti nordici
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Uno strano viandante
Città del Vaticano, Cappella Sistina. La Sibilla cumana, particolare degli affreschi della volta, realizzati da Michelangelo nel 1508-1510. Le sibille erano profetesse, spesso legate al culto oracolare di un santuario: la cumana era connessa con una pratica divinatoria istituzionale dei Romani, che consisteva nella consultazione di libri che si dicevano scritti da lei, i Libri sibillini.
le divinità
Dall’identità ambivalente, maligna e rassicurante al tempo stesso, il «padre degli dèi» nordici rispecchiava la mutevolezza dell’universo. Secondo gli storici delle religioni, il profilo mitologico di Odino, guerriero e poeta, si rivela affine ai valori delle classi aristocratiche Il padre degli dèi nordici Odino, raffigurato in una pietra runica databile all’VIII-IX sec., mentre si reca con il suo cavallo a otto zampe nel Valhalla (uno dei palazzi di Ásgardr) ricevendo l’accoglienza delle Valchirie. Stoccolma, Historiska Museet.
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Odino
I
Guerriero, mago, viandante, poeta, individualista, generoso, leale, ingannatore, saggio, furente, distinto, scortese: nessuno meglio di Odino rappresenta gli innumerevoli contrasti che attraversano l’universo mitologico della tradizione nordica. È «il padre degli dèi» e governa il creato dal suo sfarzoso palazzo d’argento, Válaskjálf, accomodato su un grande trono dal quale scorge la terra intera. Indossa un anello, Draupnir, dal quale ogni nove notti se ne riproducono altri otto, del medesimo peso rispetto all’originale. L’identità piú autentica di Odino si trova celata nel significato della radice indoeuropea del termine Ódinn (il suo nome norreno che anticamente presentava la semiconsonante W davanti alla vocale Ó), ovvero *WAT-, che esprime uno stato di furore e contemporaneamente di ispirazione. Secondo lo storico e geografo tedesco Adamo di Brema (morto tra il 1081 e il 1085), tra i pochi a fornire testimonianze dirette sulla religione germanico-scandinava, il profilo dominante del re del pantheon nordico si rivelava proprio in questa duplice e temibile inclinazione: «Wodan, is est furor», scriveva nelle Gesta Hammaburgensis ecclesiae pontificum, riferendosi, verosimilmente, alla collera del dio che assumeva, però, i contorni di un invasamento estatico. Anche la derivazione protogermanica della radice indoeuropea, *Wod-, ha un significato multiforme, descrivendo sia l’eccitazione che l’essere posseduto, o anche il manifestarsi di una particolare forma di ispirazione poetica.
Nella pagina accanto Odino rappresentato nelle sue comuni sembianze di anziano viandante, cieco da un occhio, con indosso un grosso cappello e in groppa al suo fedele cavallo Sleipnir. Illustrazione di Ólafur Brynjúlfsson, tratta dalla Sæmundar og Snorra Edda. XVIII sec.
Un «suicidio» iniziatico
Figli di un dio maggiore
Odino è la divinità che, nel tempo primordiale, aveva stabilito in modo cruento un nuovo ordine costituito, uccidendo il gigante Ymir. Rivoluzionario e demiurgo, conosce tutti i segreti dell’universo, eppure non riesce sempre a indirizzare il destino secondo i propri proponimenti. Ebbe piú mogli e con la prima, Jörd, concepí un figlio che divenne una delle figure dominanti del paganesimo nordico: Thor, il dio del tuono. Ma la sposa «ufficiale» di Odino era Frigg, dal cui legame nacquero Baldr, il piú avvenente degli dèi, e Hodr, il cieco. La lista dei discendenti diretti comprende, poi, anche Týr, Váli, Vídarr e Hermódr, concepiti con altre amanti. In alcune fonti norrene Odino viene descritto come un uomo anziano, barbuto, con un ampio cappello, che vaga per il mondo in groppa a un inquietante cavallo grigio a otto zampe, Sleip26
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nir, e spesso in compagnia di due corvi, Huginn e Muninn. I volatili sono i suoi informatori, migrano nel mondo degli umani e tornano di nuovo dal loro padrone per riferirgli i fatti significativi a cui hanno assistito. La conoscenza di Odino su tutti i segreti dei nove mondi non deriva solo dal suo ruolo di creatore e in virtú delle ricognizioni dei fedeli corvi, ma anche da una sapienza sovrannaturale acquisita a caro prezzo. In viaggio a Jötunheimr, attraverso le radici dell’albero Yggdrasill, riuscí, infatti, ad abbeverarsi alla fonte magica della sapienza del gigante Mímir, ma, in cambio, fu costretto a cedere in pegno un occhio. Altre versioni del mito riportano, invece, che i Vani, nel periodo della guerra con gli Asi, fecero recapitare la testa di Mímir a Odino e che quest’ultimo era solito interrogarla spesso sugli eventi presenti e futuri, considerata non solo la fama da indovino, ma anche l’autorevolezza della vittima. La cecità di un essere divino, nella tradizione indoeuropea, viene interpretata come segno di sviluppo della conoscenza interiore, in particolare della capacità di prevedere eventi futuri. Nella mitologia greca, un caso emblematico è quello del re della Tracia Fineo, cieco e nello stesso tempo dotato di grandi facoltà di preveggenza. Nell’Iliade anche Tiresia, punito con l’accecamento per aver visto Atena nuda, si ritrova dotato per compensazione di eccezionali qualità profetiche.
In alto Odino era maestro nell’arte delle trasformazioni: per rubare la bevanda sacra dell’idromele al gigante Suttungr si tramutò in aquila. Illustrazione di Ólafur Brynjúlfsson tratta anch’essa dalla settecentesca Sæmundar og Snorra Edda. Copenaghen, Det Kongelige Bibliotek.
Non sazio della sapienza e della capacità di vaticinio ottenute, Odino si addentrò nella radice dell’albero cosmico che conduceva nel mondo dell’oltretomba. Come descritto in modo suggestivo nel poema eddico Hávamál (La canzone di Harr, l’eccelso), per acquisire ulteriore conoscenza volle sperimentare la dimensione della morte umana, ferendosi con la sua lancia Gungnir e restando appeso a testa in giú per nove giorni e nove notti su un albero, dai piú identificato nell’Yggdrasill. L’immolazione produsse subito l’effetto sperato, consentendogli di apprendere i segreti di una scrittura misteriosa, le rune (vedi box a p. 28), grazie alla quale potenziò la sua abilità nelle arti magiche. Trascorsi i nove giorni di morte apparente, Odino tornò in vita. Simbolicamente, il sacrificio del padre degli dèi non sembra evocare assonanze cristiane (nonostante la crocifissione e la ferita inferta da una lancia), bensí l’accesso a una dimen-
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Odino
•••••••••••••••• •••••••••••••••• le rune: l’alfabeto del mistero L’antica forma di scrittura e di divinazione adottata dalle genti germaniche, le rune, rappresenta uno dei grandi enigmi non del tutto risolti della mitologia nordica. Le popolazioni dell’Europa settentrionale utilizzavano una forma particolare di alfabeto, il futhark, cosí chiamato perché riassume la sequenza dei primi 6 segni (Fehu, Uruz, Thurisaz, Ansuz, Raido, Kenaz). Inizialmente composto da 24 caratteri fu, poi, ridotto a 16. Sono state formulate varie tesi sull’origine di questi antichi segni. In un primo momento gli studiosi ritenevano fossero una derivazione dell’alfabeto greco e latino. In seguito, invece, si è fatta strada l’ipotesi secondo la quale potrebbero derivare dall’alfabeto etrusco settentrionale. Ma cos’erano davvero le rune? Un semplice sistema di segni che serviva per comunicare? O dietro quei misteriosi simboli si nascondevano credenze religiose e sistemi segreti di divinazione? I rilievi archeologici suggeriscono che il futhark non assolvesse solo una funzione linguistica. Le pietre runiche rinvenute in molte località della Scandinavia e della Gran Bretagna riportano narrazioni di grande imprese, ma anche iscrizioni di tipo propiziatorio. Le popolazioni germaniche hanno utilizzato vari tipi di futhark, a partire da quello cosiddetto «antico», in voga almeno fino all’VIII secolo. Diffuse erano anche le rune «gotiche», piú comuni, però, tra le popolazioni dell’Europa nord-orientale. In particolare in Scandinavia, nel periodo vichingo, invece, l’alfabeto di riferimento era il «futhark giovane», poi soppiantato a partire dal XIII secolo da quello latinizzato, frutto
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dell’influenza cristiana. Esisteva, poi, un sistema di rune segrete, le cosiddette Lønnruner, che servivano per criptare importanti documenti in materia commerciale, ma anche formule magiche o semplici messaggi privati. Altri metodi cifrati erano costituti dalle «rune dei Rami», «Tenda», e «Legate». Alcune letture di carattere esoterico dividono la famiglia degli alfabeti futhark di 24 lettere in tre gruppi di rune da otto ciascuna, ispirandosi ai profili di tre divinità norrene: nel primo, legato alla figura della dea Freyja, il significato dei simboli esprimerebbe un primo approccio gioioso alle esperienze della vita; il secondo, invece, connesso con la figura del dio Heimdallr, delineerebbe il passaggio obbligato attraverso le difficoltà, i dolori e i grandi dilemmi dell’esistenza; il terzo gruppo di rune, infine, associato al nome di Týr, rappresenterebbe la maturazione interiore dell’individuo, dopo la fase di sofferenza, e la sua completa integrazione nella comunità.
Futhark antico: i 6 segni iniziali Fehu associata alla fecondità della natura, può significare «bestiame» simboleggiando nutrimento e ricchezza. Uruz indica la forza primordiale selvaggia, l’energia elementare che necessita di essere plasmata dallo spirito. Thurisaz messa in relazione, secondo alcune letture, con l’uccisione dei giganti da parte di Thor, può simboleggiare la difesa contro le forze del caos. Ansuz associata a Odino, avrebbe un significato analogo – secondo alcuni studiosi – alla radice indoeuropea *ansu- («spirito»). Raido tradotta comunemente come «viaggio», «cavalcata», può rappresentare la corretta via da percorrere nella vita. Kenaz significherebbe «fiaccola» e, in senso simbolico, può indicare la vittoria della luce contro l’oscurità, la fine delle difficoltà.
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mersi con il canto. Un tipico esempio di magia odinica era il seidr, violento sortilegio attraverso il quale il dio si metteva in comunicazione con alcuni spiriti per leggere nel futuro e per provocare malattie e disgrazie altrui. Con lo sguardo, inoltre, riusciva a confondere chi lo incontrava, rendendosi irriconoscibile agli umani.
La lancia del destino
In alto il Codex Runicus, testo svedese di argomento giuridico, scritto in caratteri runici utilizzando una variante dell’alfabeto futhark giovane. XIII-XIV sec. A sinistra una delle piú celebri raffigurazioni di Odino scolpita nella pietra runica di Sanda (G 181): nella parte superiore del reperto il padre degli dèi norreni appare, munito di lancia, accanto a Thor e Freyr che impugnano, invece, rispettivamente un martello e una falce. XI sec. Stoccolma, Historiska Museet. A destra pietra runica vichinga raffigurante Odino con il cavallo Sleipnir, dall’isola svedese di Gotland. VIII sec. Stoccolma, Historiska Museet.
sione spirituale superiore, come uno stato di illuminazione: «L’impiccagione – nota la germanista Gianna Chiesa Isnardi – è segno di schiavitú psichica, di magico asservimento, di sottomissione totale nell’anima e nel corpo. È la fine di un ciclo di vita, la condizione che precede il risveglio iniziatico». Vanno interpretati allo stesso modo i suoi lunghi viaggi nel mondo degli inferi, durante i quali veniva sostituito sul trono di Ásgardr dai fratelli Víli e Vé. Alcuni attribuiscono ai poteri acquisiti da Odino dopo l’impiccagione un carattere sciamanico (la capacità di viaggiare ovunque con lo spirito). Secondo lo storico delle religioni Mircea Eliade (1907-1986), anche il cavallo a otto zampe è un simbolo sciamanico «per eccellenza».
Odino ha una certa familiarità con l’idea della guerra, ma non solo nella veste di protagonista diretto. La sua principale occupazione è quella di stabilire chi dovesse prevalere in battaglia, servendosi della sua lancia munita di rune magiche sulla lama. Quando punta l’arma sull’esercito che doveva soccombere, l’incantesimo si compie, e il destino dello scontro è già deciso. I combattenti che capitolavano, se caduti in modo eroico, potevano ascendere insieme ai vincitori al Valhalla, il sontuoso salone dorato dell’Ásgardr nel quale trovavano posto i figli prediletti del padre degli dèi, destinati a vivere in un eterno stato di beatitudine in attesa della guerra finale, il Ragnarök. Come guerriero, Odino fa ricorso all’astuzia e alla magia piú che alla forza, qualità, quest’ultima, incarnata invece dal figlio Thor. Con i suoi incantesimi è solito trasformarsi in animale, rendere innocue le armi nemiche e accecare chi le porta.
Il segreto dell’idromele
Odino utilizza i tanti poteri a sua disposizione in modo spesso imprevedibile, senza una precisa sistematicità e una logica morale. Per questo alcuni dei suoi soprannomi evocano le sue capacità di «stregone» portato a ingannare, talvolta anche solo per gioco, i propri interlocutori: Ginnar («Incantatore»), Skollvaldr («Potente nell’ingannare»), Svipall («Mutevole»). Basti pensare all’artificio con il quale riuscí a sottrarre l’idromele – bevanda sacra creata dai nani – al gigante Suttungr, trasformandosi prima in serpente e poi in aquila per poter fuggire con il prezioso bottino. Grazie al furto, Odino acquisí il dono della poesia, che utilizzava in ogni sua singola espressione, ma che talvolta elargiva anche agli uomini piú valenti. Una tradizione sostiene che, in uno slancio di generosità, versò un po’ di idromele sulla terra per regalare alla specie umana la capacità di esprimiti nordici
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Odino
Il mito di Odino è anche una forma di culto per il regno dell’aldilà. I suoi fedeli non devono temere la morte e possono perciò secgliere di immolarsi o essere sacrificati, come il loro dio: con una ferita inferta da un colpo di lancia e attraverso l’impiccagione. Numerose sono le testimonianze, riportate in particolare nelle saghe medievali islandesi, di sacrifici umani di questo genere compiuti per ingraziarsi il favore del re del pantheon nordico. Un rituale forse celebrato fin dall’età del Ferro nella regione dello Jutland, in Danimarca, dove nel 1950 venne rinvenuta la celebre mummia di Tollund, risalente al IV secolo a.C. Il cappio ritrovato intorno al collo del cadavere ha spinto alcuni studiosi del mondo nordico – in particolare il danese Christian Fischer – ad affermare che la vittima fosse stata sacrificata in nome di Odino dopo una battaglia.
A destra stampa islandese raffigurante il Valhalla. XVII sec. Reykjavik, Stofnun Árna Magnússonar. In basso pendente di età vichinga che ritrae una Valchiria nell’atto di offrire un corno potorio. VI sec. Stoccolma, Historiska Museet. Le Valchirie erano le ancelle di Odino, incaricate di accudire gli eroi caduti in battaglia accompagnandoli nel Valhalla, l’aldilà dei valorosi guerrieri.
Una figura ambigua
Filologi, archeologi e storici hanno dibattuto per secoli sulla «vera identità» di Odino. La rielaborazione medievale in chiave evemeristica di Snorri (l’evemerismo è la dottrina, te-
•••••••••••••••• IL vALHaLLa
Nel Valhalla risiedevano i morti caduti gloriosamente in battaglia (altri trovano accoglienza nel campo Fólkvangr della dea Freyja). Situato nel santuario di Gladsheimr, era un salone munito di 540 porte, con le pareti rivestite d’oro, una fila di lance per colonne e il tetto composto da scudi con incise scene di guerra. Da ogni porta potevano passare 800 guerrieri. Gli eroi morti in guerra giungevano in questo sontuoso palazzo accompagnati dalle Valchirie, le ancelle di Odino. All’ingresso, presidiato da un lupo e da un’aquila, li accoglieva Bragi, il dio della poesia, mentre le Valchirie offrivano loro bevande e cibi prelibati, in particolare carne e idromele. Di solito veniva cucinato il maiale Sæhrímnir, che si ricostituiva ogni sera per potere essere di nuovo consumato il giorno successivo. Una volta ammessi al Valhalla, i guerrieri defunti entravano nell’esercito degli einherjar, destinati ad affiancare gli dèi nella guerra finale contro le forze del caos. Per esercitarsi alla futura battaglia si affrontavano in combattimenti accaniti, e si ferivano spesso gravemente, ma alla fine della giornata riacquistavano una salute perfetta.
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orizzata dallo scrittore Evemero di Messene, attivo nel IV-III secolo a.C., secondo cui gli dèi non sarebbero altro che uomini divinizzati per il loro coraggio e le loro virtú, n.d.r.) indurrebbe a vedere in Odino la trasposizione mitologica di un eroe realmente esistito. Nell’Ottocento, in seguito ai rilievi dello scandinavo Henri Petersen, si diffuse la tesi che Odino, in realtà, fosse una divinità non germanica, e che il suo culto derivasse dal Meridione d’Europa. Forse era proprio il Mercurius di cui parlava Tacito, definendolo la principale divinità degli antichi Germani? Le due figure avevano in comune la funzione di «psicopompi» (ossia di traghettatori di anime), di divinità della poesia e della magia, oltre ad alcuni attributi con i quali venivano raffigurati (la lancia, il cappello e il bastone). Anche lo storico medievale Paolo Diacono riteneva contigui i profili di Odino e Mercurio, sostenendo, poi, che i loro miti avessero un’origine ellenica. Secondo la leggenda della cosiddetta «caccia selvaggia», Odino nelle notti successive al solstizio d’inverno si pone alla testa di un corteo di eroi morti in battaglia e compie irruzioni in varie zone della terra.
Sopravvivenze toponomastiche
Tra gli storici delle religioni c’è chi ritiene che all’interno delle società germaniche il culto di Odino sia cresciuto in modo lento e progressivo. Anticamente potrebbe aver rivestito il ruolo di divinità minore, prendendo il soprav-
La mummia di Tollund (Danimarca). IV sec. a.C. Silkeborg, Museum Silkeborg. Secondo alcuni studiosi l’uomo, i cui resti si sono conservati in condizioni eccezionali per aver giaciuto in una palude, ha un cappio intorno al collo e potrebbe essere stato vittima di un rito sacrificale in onore di Odino.
vento con il tempo su altre figure piú importanti, come, per esempio, Týr, il vero dio della guerra, e Ullr. Lo dimostrerebbe la diffusione minore nella toponomastica scandinava del nome Odino, rispetto per esempio a quello di Thor. Solo in qualche sparuta città della Danimarca, della Svezia e della Norvegia meridionali, si può rintracciare una caratteristica etimologia odinica nel nome degli abitati, segno di una penetrazione solo periferica del culto proveniente dalle terre germaniche. La toponomastica ispirata al nome di Thor, al contrario, si propagò in modo piú capillare, anche nelle zone piú interne della Scandinavia, comprese le regioni settentrionali. L’ipotesi sul possibile culto tardo di Odino, ripresa anche in epoche recenti, si scontra con le tesi «classiche» di Georges Dumézil, che, come già visto, considerava il pantheon nordico come uno dei modelli antichi di tripartizione funzionale comune a tutta la civiltà indoeuropea: secondo lo studioso francese, Odino apparteneva alla prima categoria ed era un dio venerato dai ceti aristocratici, mentre Thor conquistò maggiori simpatie tra gli strati popolari, il che spiegherebbe ulteriormente la presenza del suo nome nella toponomastica di molte città scandinave. Forse la verità sull’evoluzione del culto di Odino si trova nel mezzo: non fu una divinità tarda – considerando le molte affinità con il Mercurius citato da Tacito e anche con il celtico Lug –, ma senza dubbio e col tempo, avocò a sé un numero crescente di funzioni. miti nordici
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Un tuono contro il caos Figlio di Odino e Jörd, Thor era il difensore della società divina dalla minaccia dei giganti. Descritto come forte e generoso, traeva gran parte della sua possanza dal martello Mjöllnir. In Scandinavia il suo culto, molto popolare tra le classi contadine, perdurò anche dopo la cristianizzazione
A sinistra statuetta in bronzo raffigurante Thor che impugna il martello Mjöllnir. XI sec. Reykjavik, Museo Nazionale d’Islanda. A destra Thor lotta con il serpente di Midgard, olio su tela di Johann Heinrich Füssli. 1790. Londra, The Royal Academy of Arts Il dio del tuono, nella barca del gigante Hymir, pesca il mostro marino Midgardsormr, una delle creature generate dal malefico Loki. 32
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Thor
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ra il secondo tra gli dèi, ma fu l’ultimo a resistere di fronte all’avanzata del cristianesimo nelle terre del Grande Nord. Il suo antico culto continuò a dimorare nel sentimento religioso di alcuni popoli germanici, anche dopo la loro conversione, portata a compimento nel Medioevo. Forse perché era il dio delle persone comuni, che nell’ elezione immaginaria di un parlamento sacro – come ipotizzò lo studioso tedesco Rudolf Pörtner – «avrebbe concentrato su di sé gran parte dei voti». Questa popolarità, solo in pochi casi, lo portò a rivestire il ruolo di vero e proprio re del pantheon nordico, a scapito del padre Odino, il cui profilo aristocratico di sovrano, guerriero scelto, mago e poeta affascinava categorie piú ristrette di fedeli, spesso d’élite. Non a caso nel tempio pagano svedese di Uppsala, in base ai resoconti di Adamo di Brema (XI secolo), la statua del dio con il martello occupava una posizione centrale, mentre le immagini di Odino e Freyr l’affiancavano rispettivamente sulla destra e sulla sinistra.
Nella pagina accanto Thor, con il suo martello e la cintura Megingjörd in una illustrazione tratta dal manoscritto Stofun Árna Magnússonár á Íslandi. XVIII sec. In basso Mjöllnir, il martello di Thor, monile-amuleto rinvenuto nella regione svedese della Scania. XI sec. Stoccolma, Historiska Museet.
Quel martello che torna indietro...
Thor era figlio di Odino e di Jörd, una divinità della terra. Sposatosi con Sif, una dea bellissima chiamata «la sibilla», ebbe due figli: una femmina, Thrúdr, futura valchiria e un maschio, Módi, che ereditò parte dei poteri paterni. Aveva anche un altro discendente diretto, Magni, concepito, però, fuori dal matrimonio. La letteratura e l’immaginario popolare lo raffigurarono come un uomo muscoloso, dalla chioma e la barba di colore rosso vivo. Lo ritrassero sempre con il martello in mano (Mjöllnir), i guanti in
ferro (Járngreipr) e una speciale cintura (Megingjörd) dispensatrice di forza fisica aggiuntiva. Il micidiale martello, che era stato fabbricato dai nani, emetteva fulmini e aveva le proprietà di un boomerang: se lanciato, tornava subito indietro tra le mani del padrone. Proverbiale era anche la dimora di Thor, ad Ásgardr, un immenso e luminoso castello chiamato Bilskirnir, che conteneva centinaia di camere. Per viaggiare si serviva di un carro, trainato da due capre (Tanngnjóstr e Tanngrisnir), in grado di solcare il cielo. Aveva un appetito sovrumano, che lo portava a divorare ogni giorno interi buoi, decine di salmoni, accompagnati da botti di idromele. Mangiava talvolta anche le sue capre, ma stando ben attento a non intaccarne le ossa, condizione necessaria affinché Tanngnjóstr e Tanngrisnir potessero resuscitare il giorno dopo. Spesso portava con sé anche un servitore, Thjalfi, addestrato anch’egli per farsi valere in battaglia. Quando, invece, doveva affrontare viaggi lunghi e particolarmente insidiosi, si faceva accompagnare dall’astuto Loki, divinità ambigua della quale, in seguito, divenne nemico. Thor peccava talvolta d’ingenuità, risultando vulnerabile di fronte alla malizia dei suoi nemici. Ma dava anche prova di astuzia, come nella
•••••••••••••••• ••••••••••••••••••••• IL GIORNO DEL TUONO
Tracce di Thor in epoca contemporanea emergono anche nel nome di uno dei giorno della settimana: giovedí. Nell’antichità, i popoli del Nord optarono per il calendario romano, senza però travasarne le stesse credenze religiose che a esso erano legate: attraverso la cosiddetta interpretatio germanica, il giovedí, «il giorno di Giove», divenne thórsdagr in norreno, «il giorno di Thor». Ancora oggi, per esempio, in svedese, danese e norvegese giovedí è torsdag. Anche in lingua inglese la corrispondenza è diretta: Thursday, infatti, è un’espressione che deriva dal nome con cui in anglosassone veniva identificato il dio del tuono, ovvero Thunor. In Germania, infine, il giovedí è chiamato Donnerstag (letteralmente, «giorno del tuono»), che deriva dal termine Donar, Thor in tedesco antico.
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miti nordici
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le divinità
Thor Thor alla guida del suo carro, condotto dalle capre Tanngnjóstr e Tanngrisnir, in una tavola a colori realizzata da Carl Emil Doepler junior per l’opera di Wilhelm Ranisch Walhall: Die Götterwelt der Germanen, pubblicata nel 1903.
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Thor era anche il dio della fertilità, le sue folgori assicuravano la prosperità dei raccolti disputa con uno dei nani piú arguti della mitologia, Alvis. Quest’ultimo, d’accordo con gli dèi, aveva ottenuto la mano della figlia di Thor, Thrúdr, in cambio di un’ingente quantità di armi. Il padre della ragazza, assente da casa, non gradí i termini della transazione e, una volta tornato, sfidò il nano a superare alcune prove di abilità. Volutamente l’«esame» venne portato alle lunghe, fino allo spuntare delle prime luci dell’alba, cosí da annientare Alvis che, come tutti i nani, a contatto dei raggi del sole si trasformò in pietra.
Una saetta nel caos
Il cliché del martello Mjöllnir, della cintura magica, della forza e delle altre conclamate capacità sovrumane non fornisce l’immagine piú autentica dal punto di vista storico-mitologico del «dio del tuono». Proprio a partire da questo attributo si può procedere all’identificazione di un profilo che si innesta in un patrimonio religioso comune ad altre culture, lontano dall’immagine del «supereroe» trasposto nei fumetti e sul grande schermo. I fulmini che sprizzano dalla sua arma rappresentano la potenza dell’energia celeste pronta a scagliarsi contro i demoni del caos e dell’oscurità, come la folgore della divinità induista Indra e di quella iranica Mitra. Tacito, invece, nella Germania, mette in relazione Thor con il semidio Ercole della popolazione nordica dei Suebi, munito di bastone e non di martello. Altre similitudini lo avvicinano a Giove, che in alcuni racconti in lingua anglosassone dell’VIII secolo risulta citato con il nome di Thunor, l’espressione in inglese antico con cui si identifica anche lo stesso Thor. Il nome Thor (in norreno Thórr) significa «tuono». E l’attraversare il cielo da parte del dio con un carro riecheggia tuttora nell’etimologia di alcune parole scandinave che descrivono quel fenomeno atmosferico. Nelle regioni della Svezia orientale, per esempio, è tuttora in voga l’espressione åsen kör (letteralmente «il dio (ase) guida il carro») per indicare che in realtà «sta tuonando». In norvegese, invece, il fragore del tuono viene ben descritto dal vocabolo toredønn, ossia «colpo di Thor». Le saette che scaturiscono dal martello segnano non solo l’ingresso in battaglia contro le forze demoniache del caos, ma assicurano allo
stesso tempo prosperità ai raccolti attraverso la pioggia. Thor, pertanto, incarna anche la funzione di dio della fertilità, senza però detenere alcun potere «germinatore» diretto. Il suo intervento dirompente crea solo le condizioni ideali per un ricco sfruttamento del terreno. Thor si serve dei suoi poteri e delle sue armi per combattere soprattutto i giganti, che spesso insidiavano il regno divino di Ásgardr. Talvolta, nelle saghe e nei poemi, la figura del dio del tuono assume sembianze curiose, che rasentano la comicità. Proverbiale, in questo senso è l’episodio del gigante Skrymir che Thor cercò in ogni modo di uccidere nel sonno a bastonate, con risultati, tuttavia, miseri per un campione della sua forza. All’ennesimo colpo in testa, infatti, il gigante aprí gli occhi, avvertendo soltanto un leggero solletico: «Maledizione a quegli sporchi uccelli che stanno appollaiati sull’albero – esclamò – Mi sono appena accorto, nel dormiveglia, che questi disgraziati straccioni mi hanno fatto piovere addosso le loro sozzure attraverso i rami!». Alcune superficiali analisi storico-mitologiche interpretarono alla lettera il furioso litigio tra Odino e Thor, descritto nell’Hárbardsliód (Il canto di Hárbard), ipotizzando uno scontro tra culti. In quel contesto le due divinità discutono animatamente, ciascuna vantandosi di possedere qualità superiori. Odino soprattutto afferma di rappresentare i nobili che cadono in battaglia, le arti, le lettere e bolla il collega come il dio della «razza dei servitori», simile al contadino rozzo, laborioso e poco incline alla guerra.
Scherma verbale
Ma nelle intenzioni dell’autore quello screzio al vertice di Ásgardr rivestiva un carattere allegorico, come ha sottolineato Georges Dumézil: «Si è voluto vedere in questo un documento dal quale traspare un conflitto di culti, una rivalità di gruppi religiosi, il regredire o il progredire di uno dei due dèi nel favore dei fedeli. È certamente falso, come lo sono le conclusioni analoghe tratte talvolta a proposito degli inni dialogati omologhi del Rg Veda, dove il sovrano Varuna e il guerriero Indra si rivolgono frasi agrodolci. Nei due casi, i poeti hanno soltanto utilizzato lo schema del dialogo, i mezzi della scherma verbale, per far risaltare meglio le differenti nature dei due dèi e i servizi diversi, talvolta contrari, che essi rendono in luoghi diversi di una medesima struttura teologica stabile». La figura di Thor appare affine alla dimensione della Sippe, ossia a quello spirito comunitario che presso i popoli del Nord era fondato su un legame di tipo familiare. Odino, invece, sembra incarnare maggiormente – come sostiene Gianna Chiesa Isnardi – «il modello dei commiti nordici
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le divinità
Thor
portamenti del comitatus», ovvero di «un nucleo di persone, ribelli alla tradizione comunitaria, che, unendo i propri sforzi per il conseguimento di un’affermazione personale, seguivano un condottiero con il quale condividevano il proprio ideale di vita». Con Thor, insomma, la tradizione assestava gli ultimi colpi di coda tentando di rigenerarsi «dal basso», a partire dalle consuetudini sociali piú diffuse.
Severo e mai magnanimo
Non a caso quel dio con il martello era adorato soprattutto in Islanda, la cui storia medievale venne segnata dalla massiccia immigrazione di coloni norvegesi desiderosi di restaurare nella loro nuova patria l’antico patrimonio di usi pagani. Anche dal punto di vista caratteriale le differenze tra le due principali divinità di Ásgardr si rivelano marcate. Odino appare sempre con un’espressione severa e non si mostra mai magnanimo. Thor, al contrario, pur inalberan-
dosi facilmente, talvolta si mostra capace di perdonare, come riportato nel Gylfaginning: in quell’occasione graziò un contadino che aveva spezzato l’osso della coscia delle sue due capre. Thor piú di Odino, quindi, risultava connesso a vecchie usanze popolari, messe fuorilegge dai cristiani, che continuavano tuttavia a garantire il funzionamento e gli equilibri del vivere civile. Anche per questo il suo culto aveva radici piú solide. «Un cambiamento degli dèi – osserva lo storico danese Johannes Brøndsted – al vertice della società poteva avvenire senza troppe difficoltà, ma piú in basso, nella scala sociale, ogni nuova religione che tentasse di intaccare anche consuetudini e pratiche (basate sulle piú elementari esigenze della vita e su tutta una millenaria esperienza) era destinata a incontrare resistenza per cosí dire naturale». Ecco perché alcuni missionari considerarono quel dio che sprizzava saette il loro nemico numero uno. Eppure, nel Medioevo, vi fu un tempo in cui i simboli della croce e del martello quasi si sovrapposero in quelle terre settentrionali. Probabilmente per una scelta strategica dei vescovi che, per rendere piú agevole la penetrazione del nuovo verbo messianico nelle comunità vichinghe, si convinsero a tollerare il culto di Thor, anzi in alcuni casi lo accolsero. Il caso dell’ambivalente Helgi in Islanda, descritto nel Landnámabók (Il libro dell’insediamento), non fu isolato: «Egli credeva in Cristo, ma invocava Thor per i viaggi in mare e per ottenere coraggio. Quando Helgi fu in vista dell’Islanda, consultò l’oracolo di Thor, per sapere quale terra dovesse occupare, e l’oracolo gli indicò la terra settentrionale della regione». La fede piú profonda di Helgi, però, era per Cristo.
Simbolo delle consuetudini civili
Il dio del tuono, invece, rappresentava la sopravvivenza di alcune consuetudini civili, che risultavano ancora indispensabili per garantire valore legale ad alcuni atti. Per il germanista Marco Scovazzi «il ricorso all’usanza pagana è da attribuirsi esclusivamente a esigenze pratiche, di natura giuridica». Se Helgi avesse trascurato di consultare il dio e di porre poi in atto la cerimonia rituale dell’acquisto simbolico col fuoco, «i suoi possessi terrieri non sarebbero divenuti sacri alla sua persona, non avrebbero acquistato, cioè, quelle prerogative d’inviolabilità e di libera disponibilità che, sole, valevano a trasformarle in una proprietà effettiva». Molte altre divinità antiche, invece, vennero subito prese di mira dall’evangelizzazione della 38
miti nordici
A sinistra pietra che ritrae il sovrano e santo norvegese Olaf Haraldsson, l’evangelizzatore della Scandinavia, dall’isola di Gotland. XIII sec. Stoccolma, Historiska Museet.
Scandinavia. Freyja, per esempio, definita «prostituta» dai missionari, fu presto esautorata dal ruolo di protettrice dei raccolti e delle gestanti, come sostiene la storica delle religioni svedese Britt-Marie Näsström.
Il commiato dalla storia
Tuttavia, nella maggior parte dei casi, anche il culto di Thor venne sradicato dai missionari e dai re cristiani, senza alcun riguardo alle vecchie tradizioni. Il sovrano Olaf II Haraldsson di Norvegia, per esempio, per convertire i pagani fece ricorso a metodi molto bruschi, spesso intimidatori e anche ad alcuni miracoli. Una volta, venendo a sapere che ogni sera i suoi sudditi mettevano cibo davanti a una statua di Thor, ordinò ai soldati di fare a pezzi quel simulacro. Dai frammenti dell’immagine del dio uscirono topi, vermi e altri tipi di animali, convincendo
Per sradicare il culto di Thor, Olaf Haraldsson fece talvolta ricorso anche alla forza. In questa immagine novecentesca, realizzata dal pittore inglese John Harris Valda (1874-1942), il monarca viene immaginato mentre distrugge una statua del dio del tuono.
cosí gli inorriditi spettatori del prodigio a cambiare le proprie credenze. Con la piena conversione di tutto il mondo germanico, la figura di Thor venne sempre piú spesso paragonata a quella di un essere demoniaco. Nell’islandese Flateyjarbók (Libro dell’isola piatta) si assiste alla sua ultima apparizione letteraria in una delle navi che il re di Norvegia Olaf II utilizzava per le missioni evangelizzatrici in Scandinavia. Uno straniero affascinante si trovava a bordo e aveva intrattenuto molti membri dell’equipaggio con racconti suggestivi. L’eco di quelle narrazioni era giunto all’orecchio anche del sovrano, il quale, incuriosito, convocò il forestiero. L’uomo, che portava una folta barba rossa, fissò il monarca negli occhi e, dopo averlo elogiato, lo ammoní: «Ora sembra che tu abbia l’intenzione di ripudiare Thor. Bada a te, re Olaf!». miti nordici
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le divinità
Tutti gli Dei
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Asi odino
Thor
Baldr
Týr
Divinità suprema. Violento e astuto,
appariva nel corso delle battaglie ed era anche amante della poesia. Per amore della sapienza, ottenuta attraverso la conoscenza magica delle rune, rimase appeso all’Yggdrasill per nove giorni.
La seconda divinità in ordine di importanza nel pantheon nordico. Combatteva spesso contro i giganti, munito del suo caratteristico martello Mjöllnir. Viaggiava con un carro volante che era trainato dalle capre Tanngnjóstr e Tanngrisnir.
Era una figura insolitamente mite, geniale
e di una bellezza abbagliante. Dio dal cuore generoso abitava in una zona irraggiungibile, dove la malignità non poteva arrivare.
Dio della guerra e della giustizia.
Proverbiale era il suo coraggio, che lo portò a nutrire il terribile lupo Fenrir, del quale tutti avevano timore, perdendo una mano.
Gli dèi del Nord
••••••••••••••••••••• ••• Loki
Hel
Figlio di un gigante, aveva una natura
ambivalente di divinità e di demone ingannatore. Concepí mostri quali il lupo Fenrir, la dea Hel e il serpente Midgardsormr.
La dea degli inferi. Figlia dell’ingannatore Loki e di una
Odino
••••••••••••••••••••• ••• gigantessa, fu confinata nel mondo sotterraneo da Odino.
Heimdallr
Sorvegliava il ponte Bifröst. Una tradizione voleva che, sotto le spoglie del viandante Rig, fosse stato il progenitore delle principali categorie sociali.
Hœnir
Alto, forte e molto temuto. Era uno dei pochi destinati a
Idunn Forseti Vídarr Frigg
Fulla Gná Hlín Hódr
sopravvivere dopo il Ragnarök.
Era la custode delle mele dell’eterna giovinezza che gli dèi spesso mangiavano per evitare l’invecchiamento.
Figlio di Baldr, ereditò la mansuetudine dal padre. Dio della
giustizia e della pace, cercava sempre di mediare i conflitti.
Figlio di Odino e di una gigantessa, era considerato il dio piú forte dopo Thor.
Sposa di Odino e «signora del cielo», talvolta non fedele al marito. Dea dell’amore, possedeva anche doti di chiaroveggenza.
Ancella di Frigg. Portava un nastro d’oro sui capelli ed era considerata la dea della pienezza e dell’abbondanza.
Un’altra ancella di Frigg. Si serviva di un cavallo che correva sul mare e nel cielo.
La terza ancella di Frigg. Era incaricata di proteggere gli uomini. Figlio di Odino, cieco, appare come lo strumento delle forze maligne per combattere le divinità della luce.
Thor
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miti nordici
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Sól
Sága Sif
Nanna Rindr Váli Bragi Sýn
con la gigantessa Járnsaxa. Aiutò il padre a sconfiggere Hrungnir.
Altro figlio di Thor. È considerato il dio del coraggio.
Dea del sole, figlia del gigante Mundilfœri,
viene raffigurata su un carro in cielo, trainato da due cavalli.
«Colei che vede». Divinità della storia e della poesia.
Moglie di Thor. Avvenente e dai lunghi capelli dorati, aveva poteri da indovina ed era considerata anche un’abile guerriera.
Moglie di Baldr, morí di dolore dopo l’uccisione del marito.
ea e gigantessa, è una delle amanti di Odino. D F iglio di Odino, fu generato per vendicare la morte di Baldr.
Marito di Idunn, era il dio della poesia nonché consigliere di Odino nel Valhalla.
Dea della verità e della giustizia, sorveglia le soglie, per respingere chi non può varcarle.
Módi
Loki
Uno dei figli di Thor, nato dalla relazione
Magni
••••••••••••••••••••• • ••••••••••••••••••• Abigor
Signore della guerra, ma con sembianze demoniache.
Bil
Divinità dei boschi e della crescita
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Valchiria
Sulle due pagine raffigurazioni delle piú importanti divinità norrene: le immagini di Odino, Thor e Loki sono tratte da bozzetti disegnati da Carl Emil Doepler per una versione teatrale ottocentesca dell’Anello del Nibelungo di Richard Wagner, andata in scena a Bayreuth; la Valchiria è invece proposta nella versione immaginata dal pittore Peter Nicolai Arbo (1831-92). Stoccolma, Nationalmusem.
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le divinità
Tutti gli Dei
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Hilda Snotra VÖr Vár Gefjun SjÖfn Lofn JÖrd NjÖrun Thorgerdr HÖlgabrÚdr Irpa
ea della prosperità e della salute. D alchiria e dea della salute, con poteri di guarigione. V Dea della guerra, valchiria, aveva la capacità di far resuscitare i morti nel campo di battaglia.
i aspetto nobile, è la dea della saggezza e dell’educazione. D I l suo nome esprime «attenzione», ha funzioni di controllo sul mondo. È la dea del matrimonio e della fedeltà.
Dea dei patti e dei giuramenti, vigilava affinché fossero rispettati. In caso contrario puniva i responsabili.
Dea della fecondità che secondo la tradizione formò il lago Mälaren in Svezia e l’isola danese di Sjælland.
ea dell’amore che favorisce le relazioni sentimentali. D ea della consolazione e della dolcezza. Poteva unire in D matrimonio chiunque.
Dea della terra, da una sua avventura amorosa con Odino nacque Thor.
ea della terra, con le stesse funzioni di Jörd. D ea della fertilità. Alcuni studiosi ritengono che D il suo culto sia una variante di quello di Freyja. Apparentata al culto di Thorgerdr Hölgabrúdr, ha la connotazione di divinità del mondo ctonio e la fama di maga.
Eostre
Eir
••••••••••••••••••••• ••• Meili
Figlio di Odino. Sapiente e riflessivo, viene identificato da alcuni studiosi con Baldr.
LÓDURR
Citato come colui che animò per primo gli uomini. Il suo ruolo
ilmr
è comunque poco chiaro.
Dea citata nell’Edda in Prosa. Secondo lo studioso Jacob Grimm il suo nome significherebbe «profumo piacevole».
Midgardsormr ••••••••••••••••••••• ••• ••••••••••••••••• ••••••••••••••••••••• ••••••••• LA STIRPE SEMIDIVINA DEI MOSTRI
Nel regno degli dèi comparvero un giorno tre creature spaventose, nate dall’unione di Loki con la gigantessa Angrboda: il lupo Fenrir, il serpente Midgardsormr e la dea degli inferi Hel (vedi box alle pp. 84-85). Il lupo Fenrir Venne alla luce nello Járnvidr, il bosco popolato di alberi di ferro, e nacque per effetto dell’ingestione del cuore di Angrboda da parte di Loki. Nonostante fosse di aspetto mostruoso, di dimensioni enormi e ferocissimo, gli dèi lo lasciarono crescere ad Ásgardr. Tutti avevano paura del lupo, tranne Týr, che ricevette pertanto l’incarico di incatenarlo. Il dio della guerra provò, senza successo, a legarlo con le catene Lódingr e Drómi. Chiese allora ai nani, massimi esperti di metalli, di fabbricare una catena indistruttibile, ma gli fu preparata una corda (Gleipnir) non molto spessa che sembrava composta di un tessuto simile alla seta, fatto di da barba di donna, sputo d’uccello, radici di
A destra Midgardsormr, il mostruoso serpente marino, in una stampa islandese del XVII sec. Reykjavik, Stofnun Árna Magnússonar. Nella pagina accanto, in basso Freyja in un dipinto di Nils Blommér. 1852. Stoccolma, Nationalmuseum.
montagna, tendini d’orso e rumore di passo felino. Dotato della furbizia del padre e della parola, Fenrir intuí che si trattava di una sorta di catena magica e tentò uno stratagemma. Pose, quindi, una condizione: mentre veniva legato, uno degli dèi avrebbe dovuto infilare una mano nelle sue fauci. Si fece avanti di nuovo Týr. E quando il lupo si rese conto che era impossibile liberarsi dalla corda, serrò le mascelle, tranciando di netto la mano del dio della guerra. Fenrir fu allora messo in condizione di non
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miti nordici
••••••••••••••••••••• • ••••••••••••••••••• Freyr
Vani
Il dio Freyr in un altro bozzetto di Carl Emil Doepler per l’Anello del Nibelungo di Richard Wagner.
Dio della fecondità. Indossava un elmo a forma di cinghiale e possedeva l’imponente nave Skídbladnir che poteva essere ripiegata e messa in tasca.
Njördr
Dio del mare e del vento, decideva
la sorte dei navigatori; era ricchissimo, perché s’impossessava dei tesori delle navi inabissate. Freyja
Figlia di Njördr, è bellissima ed è
dea della seduzione e della guerra. Skadi
Gigantessa e moglie di Njördr,
legata ai culti della montagna e dell’inverno. Ullr
Figlio di Sif e figliastro di Thor, aveva un grande talento con l’arco e con gli sci. Dio della caccia, è invocato da chi si batte in duello.
Gerdr
Gigantessa, sposa Freyr e diventa una divinità del suolo e della fertilità
••••••••••••••••••••• • ••••••••••••••••••• Freyr
Ódr
Marito di Freyja, è spesso in viaggio. Alcuni studiosi lo considerano molto simile a Odino.
Gullveig
Figura semidivina, che incanta con le sue arti magiche.
••••••••••••••••••••• • ••••••••••••••••••• ••••••••••••• Freyja nuocere e, per maggior sicurezza, gli dèi gli fecero applicare una spada nel palato, per immobilizzarne le fauci. Dalla sua bava si formò un grande fiume, il Ván. IL SERPENTE MIDGARDSORMR Si chiamava anche Jormungandr ed era un serpente di dimensioni mastodontiche. Gli dèi lo cacciarono da Ásgardr (insieme alla sorella Hel), subito dopo la nascita, confinandolo nelle profondità dell’oceano che circondava il creato. Un giorno Thor, sfidando il gigante Hymir in una gara di pesca, catturò il mostro marino in alto mare. Midgardsormr aveva un aspetto terrificante, vomitava sangue, si dibatteva e i suoi movimenti stavano per provocare una tempesta. Il dio del tuono non riuscí a trascinare il serpente fuori dall’acqua e quindi, brandendo il suo martello Mjöllnir, gli scagliò un colpo violento sulla testa, senza tuttavia ucciderlo. A quel punto, temendo di essere travolto dalle onde, Hymir tagliò la lenza di Thor, facendo inabissare di nuovo il mostro. Il Midgardsormr sarebbe rimasto sul fondo nell’oceano fino all’avvento del Ragnarök.
••••••••••••••••••••• • ••••••••••••••••••• miti nordici
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la guerra degli dèi
Odino si abbevera alla fonte della saggezza di Mímir, gigante decapitato dagli dèi Vani nel corso della guerra fratricida contro la rivale famiglia degli Asi. Illustrazione di Carl Emil Doepler junior per l’opera di Wilhelm Ranisch Walhall: Die Götterwelt der Germanen, pubblicata nel 1903.
Asi contro Vani
La prima guerra della mitologia nordica fu uno scontro «fratricida»: le truppe degli Asi, guidate da Odino, Týr e Baldr, sfidano l’esercito dei Vani, al cui comando figurano Njördr e Freyr. Un conflitto che si rivelò alla fine «pacificatore», sancendo l’integrazione tra i due gruppi rivali titolo
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la guerra degli dei
N
Asi contro Vani
ell’età dell’oro nordica, gli Asi e i Vani convissero inizialmente in modo pacifico, ngli uni accanto agli altri: i primi chiusi nel sontuoso regno di Ásgardr, i secondi nella loro roccaforte piú periferica di Vanaheimr. L’armonia, però, era destinata presto a incrinarsi e sfociò in una guerra dagli esiti imprevedibili. Tutto iniziò con la visita ad Ásgardr di una misteriosa e bellissima donna di nome Gullveig, proveniente dalla comunità dei Vani e che si diceva fosse dotata di un grande talento nelle arti magiche. In effetti, sbalordí tutti con i suoi incantesimi, trasformando il fuoco in oro e predicendo eventi che puntualmente si verificarono il giorno dopo. Con il passare del tempo gli Asi si resero conto che la donna attraverso le piú raffinate e rischiose tecniche di seidr, stava cercando di seminare zizzania all’interno dell’Ásgardr.
In basso, a sinistra amuleto vichingo raffigurante Baldr, uno dei condottieri dell’esercito degli dèi Asi, da Birka (Svezia). Stoccolma, Historiska Museet.
A destra bronzetto vichingo raffigurante il dio dei Vani Freyr, che contro gli Asi fece spesso ricorso alle sue arti magiche. XI sec. Stoccolma, Sjöhistoriska Museet. 46
miti nordici
Lo stesso nome Gullveig (in lingua norrena «potenza» o piú verosimilmente «bramosia dell’oro») riflette la natura pericolosa dell’ospite misteriosa che, con la sua avidità, mirava a corrompere gli animi degli dèi e anche degli umani. Odino e le altre divinità decisero, allora, di prendere immediati provvedimenti contro la perfida maga e, dopo lunga discussione, la condannarono al rogo.
Il primo conflitto del mondo
Nel salone di Odino, Gullveig, dopo essere stata «rizzata sulle lance», venne arsa sul rogo, ma il suo corpo, incredibilmente, si ricompose dalle ceneri. Per una seconda volta gli Asi procedettero a bruciarla: la maga, però, resuscitò di nuovo e altrettanto accadde anche dopo il terzo tentativo. Gli dèi alla fine riuscirono comunque a ucciderla, provocando la reazione dei suoi congiunti Vani, in particolare del loro re Njördr. Secondo una lettura tradizionale l’uccisione di Gullveig rappresenta la causa
The Ravager (Il devastatore), acquarello di John Charles Dollman (1851-1934). Londra, Royal Watercolour Society. L’opera mostra gruppi di guerrieri norreni in battaglia e può evocare Il conflitto che oppose Asi e Vani, e che – secondo alcune interpretazioni – fu uno scontro tra simbolismi: divinità solari contro divinità telluriche.
principale dell’improvviso scoppio della guerra tra gli Asi e i Vani. Il germanista Marcello Meli, invece, nel suo commento al poema eddico Völuspá, individua la motivazione nella «disparità di prestigio tra etnie diverse», deducibile dalla controversa strofa 23. Il conflitto può essere, cioè, divampato in conseguenza della grande crescita di popolarità dei Vani nel mondo del Midgardr: gli Asi, sentendosi minacciati nella loro autorità sugli uomini, avrebbero reagito con le armi. Si può ipotizzare, pertanto, l’esistenza di una rivalità ab origine tra gli Asi e i Vani nelle narrazioni eddiche? Alcuni studiosi affermano che la guerra tra le due famiglie si configuri come la derivazione della loro radicale differenza di identità: i primi possono essere, infatti, associati alle divinità di tipo solare, i secondi, invece, a quelle telluriche. Un indizio, in questo senso, lo forniscono, ancora una volta, i rilievi etimologici: il termine Asi deriverebbe dalla radice indoeuropea *ANSU-*NSU, con il signimiti nordici
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la guerra degli dei
Asi contro Vani
ficato di «spirito», mentre il nome Vani sarebbe l’evoluzione della radice *WEN, ossia «aspirare», «desiderare», «amare», sentimenti tipici della natura umana. Georges Dumézil rintraccia anche nella vicenda di Gullveig un tema tipico della tradizione indoeuropea, paragonando la figura della maga alla vestale romana Tarpeia che, per bramosia di ricchezze, cospirò per favorire l’attacco dei Sabini alla città. Questi ultimi, per culto e caratteristiche sociali, sono paragonati da Dumézil ai Vani e i Romani agli Asi. Il racconto prosegue con la guerra, che ebbe inizio dopo varie schermaglie. Il suo esordio si manifestò nel momento in cui Gungnir, la micidiale lancia di Odino, piovve dall’alto sul terreno dove erano schierati i rivali. I Vani, sentendosi provocati, attaccarono Ásgardr riuscendo, con un incantesimo, ad abbatterne le mura. Penetrati all’interno, gli invasori non trovano un esercito schierato ad attenderli, ma il solo Odino che li avvisa di avere, nel frattempo, inviato un’armata a Vanaheimr, con a capo il figlio Týr. Le truppe degli Asi erano giunte nel regno nemico, occupando agevolmente il palazzo dei Vani e, poi, lo avevano raso al suolo. Týr era affiancato nel comando delle truppe da un altro figlio di Odino, Baldr, da Hœnir, oltre che da Frigg, in grado di curare qualsiasi ferita.
La controffensiva di Freyr
Il condottiero vano Njördr teme di perdere la guerra e si rivolge al valoroso figlio Freyr, che aveva pochi eguali nell’uso delle arti magiche. Il giovane si diresse subito verso la fortezza di Ásgardr, ma trovò ad attenderlo il piú abile guerriero degli Asi: il dio del tuono, Thor, che irruppe sul campo di battaglia con il suo carro trainato dalle capre. I due si sfidarono a duello e Thor attaccò per primo, mettendo in difficoltà l’avversario. Freyr, però, disponeva di un’arma segreta e la lanciò contro il nemico. Era una spada che fluttuava da sola nell’aria per poi scagliarsi contro l’obiettivo, lasciando scarsi margini di difesa all’avversario. Dopo le schermaglie iniziali, i capi delle rispettive parti in conflitto, Odino e Njördr, ebbero la percezione di quanto rovinoso potesse rivelarsi un lungo impegno bellico e sottoscrissero una tregua. Il trattato di pace prevedeva una sorta di scambio di ostaggi tra le due famiglie divine, in segno di garanzia per gli accordi sottoscritti: Njördr avrebbe dovuto stabilirsi per sempre ad Ásgardr, insieme ai figli Freyr e Freyja, nonostante li avesse concepiti con 48
miti nordici
la sorella (nel regno degli Asi, solitamente, non erano ammesse unioni tra stretti consanguinei). Nella terra dei Vani, invece, si sarebbero trasferiti un dio degli Asi, Hœnir, considerato da Odino un ottimo consigliere, e Mímir, il grande indovino dei giganti.
La delusione dei Vani
Le fonti letterarie medievali risultano discordanti su numerosi dettagli relativi alla guerra tra Asi e Vani. In particolare sul loro trattato di pace e sugli ostaggi inviati da Odino. La versione ritenuta piú logica riporta che i Vani, insoddisfatti dell’operato dell’indeciso Hœnir, riaprirono le ostilità. Decapitarono poi Mímir, il grande indovino e, in segno di sfida, inviarono la sua testa a Odino. Di contro, il re degli dèi sfruttò a suo vantaggio la provocazione, conservando la testa del veggente in modo che potesse aiutarlo nella prosecuzione del conflitto. E Njördr, intuendo di avere poche chance in
In basso pietra runica funeraria di età vichinga (Ardre VIII) nella quale appaiono alcuni protagonisti della mitologia norrena: nel pannello superiore si nota Odino con il cavallo Sleipnir, mentre in quello inferiore sono visibili Thor con il gigante Hymir e Loki insieme alla moglie. VIII sec. Stoccolma, Historiska Museet.
quella seconda fase di guerra, piegò la testa e divenne un fedele alleato di Odino.
Una pace duratura
La guerra, nella visione del mondo nordica, si rivela un momento tragico, ma in un certo senso predeterminato e necessario. Solo attraverso una contrapposizione violenta, gli dèi, gli eroi e quindi le società trovano un equilibrio stabile per fondare una possibile convivenza. Anche la pace giungeva con la guerra, per merito delle armi. Né è un caso che i principali protagonisti di queste vicende belliche – e in un certo senso i responsabili dello scoppio delle ostilità – siano divinità legate ai Vani, protettori della prosperità della terra, delle genti e della pace. A dimostrazione che anche chi aveva meno familiarità con le battaglie, utiliz-
La Festa degli Asi, olio su tela di Constantin Hansen. 1855-57. Il pittore immagina lo scontro dialettico tra Loki (in primo piano) e le altre divinità della famiglia: Thor, con il martello, e Odino sullo sfondo, insieme alla moglie Frygg.
zava i conflitti come possibile soluzione politica o per rafforzare l’armonia interna. Gli Asi e i Vani, a ogni modo, erano destinati a non scontrarsi piú e sancirono la loro pax con un rito: riunitisi a convegno in un bosco, sputarono dentro un grande bacile. Dalla loro saliva nacque un essere sovrannaturale, Kvasir, che incarnava in sé tutta la saggezza delle divinità. La sua, però, fu una vita davvero breve. Due nani, Fjalarr e Galarr, dopo averlo invitato a una festa, lo uccisero e raccolsero il suo sangue in un recipiente. Lo mischiarono, quindi, con il miele, ricavandone una bevanda sacra, l’idromele, capace di trasmettere il dono della poesia a chiunque lo avesse sorseggiato. Una bevanda, poi, requisita da Odino con l’inganno: per questo, nella tradizione norrena, la poesia è definita come «dono» o «furto». miti nordici
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Intrighi e giganti
Intrighi e giganti Siglata la pace, gli Asi e i Vani furono coinvolti in un’altra lunga guerra, questa volta, però, come alleati. Il comune nemico erano i giganti di brina e di fuoco che tentarono con ogni mezzo di sottrarre agli dèi il controllo sull’universo
A sinistra particolare di un ritratto di Freyja (vedi immagine intera a p. 55). 50
miti nordici
Thor lotta con i giganti, olio su tela di Mürten Eskil Winge. 1872. Stoccolma, Nationalmuseum. Il dio del tuono era il principale nemico dei giganti e spesso salvò il regno divino di à sgardr dalle loro incursioni.
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Intrighi e giganti
P
oco dopo la creazione, i giganti già meditavano vendetta. Odino aveva sterminato il loro capostipite Ymir e gran parte dei discendenti, decimandone la stirpe. I pochi sopravvissuti, confinati nella periferica terra di Jöthuneimr, maturarono un odio profondo per gli Asi e sognavano di distruggere la loro roccaforte di Ásgardr. Nel paganesimo nordico i giganti rappresentano l’anima autodistruttiva della natura, che fa regredire l’universo allo stato informe e oscuro delle origini, al periodo in cui proprio queste colossali creature dominavano il cosmo. Sognavano una controrivoluzione, ambendo, non a caso, a impossessarsi dei pilastri che sostenevano l’equilibrio del creato, in particolare il sole e la luna o le mele della giovinezza di Idunn, i frutti in grado non far invecchiare gli dèi. Dotati anche di particolari qualità di saggezza e conoscenza, i giganti erano, pertanto, l’espressione della natura piú bruta, associata a notevoli doti intellettive. E si rivelavano i nemici piú insidiosi per Ásgardr. Tuttavia, alla fine, nelle loro azioni, prevaleva sempre l’indole selvaggia e materiale, un attributo di natura opposta alla superiore capacità ordinatrice dello spirito, propria degli dèi. In norreno, infatti, i giganti vengono detti Jötunn, termine imparentato con il verbo eta, «mangiare», in riferimento alla capacità di fagocitare e distruggere tutto ciò che li circonda. «I giganti emanavano perversione e sciagura – osserva lo storico danese Vilhelm Grønbech – sicché una loro alitata o un semplice sguardo era sufficiente a provocare la morte».
L’inganno delle mura
Un giorno – narra il Gylfaginning – un gigante travestito da muratore, si presentò all’ingresso del regno degli dèi e chiese di poter conferire con Odino. Il visitatore si offrí di ricostruire le mura di Ásgardr, distrutte dopo la guerra tra Asi e Vani, ma pretendeva un compenso molto elevato: promise di finire il lavoro in 18 mesi, ma in cambio voleva il sole, la luna e la mano della bellissima dea della fertilità, Freyja. In un primo momento il consiglio dei dèi rifiutò la proposta, ma poi, convinto dall’ambiguo Loki, accettò, a condizione di veder finito il lavoro entro soli 6 mesi. Loki era sicuro che il forestiero non avrebbe completato l’opera e che, con questo stratagemma, gran parte delle mura di Ásgardr sarebbero state restaurate senza alcuna spesa. Al muratore fu concesso l’uso di un cavallo, Svadilfœri, per il trasporto dei materiali. In prossimità della scadenza dei tempi pattuiti, gli dèi si resero conto, con grande disappunto, che il misterioso operaio stava per terminare la colossale opera di ricostruzione. Temendo di dover pagare 52
miti nordici
l’esoso compenso, convocarono Loki e lo obbligarono a trovare una soluzione. L’ambiguo dio, allora, si trasformò in una puledra e riuscí ad attirare il cavallo Svadilfœri lontano dal cantiere. Il muratore, disperato, cercò il suo destriero a lungo e senza il contributo del suo aiutante non poté finire il lavoro nei tempi stabiliti. Infuriato per il contrattempo, fu colto all’improvviso da un accesso di jötunmódr (la tipica furia dei giganti) e rivelò la sua vera identità. Gli dèi invocarono allora Thor, il quale fece la sua comparsa e fracassò il cranio del gigante con il suo martello Mjöllnir. L’assalto ad Ásgardr fu cosí sventato. Come spesso accade nelle fonti norrene, le versioni appaiono equivoche e suscettibili di diverse interpretazioni. La storiografia moderna, per esempio, sostiene in prevalenza che gli Asi ignorassero la reale identità del misterioso muratore, non sospettando la sua appartenenza alla stirpe dei giganti. Ma tale inconsapevolezza non si evince in modo chiaro.
Una rivelazione fatale
Una vicenda simile figura in una leggenda sulla cattedrale di Nidaros (oggi Trondheim, in Norvegia), contenuta nella raccolta Norske Folkesagn (Leggende popolari norvegesi). A farsi avanti come muratore, in questo caso, è un troll (creatura mostruosa dei boschi a volte associata ai nani, altre ai giganti), che, per portare a termine i lavori, chiese come compenso il sole e di non veder rivelato pubblicamente il suo nome. Il committente dell’opera, sant’Olaf infranse alla fine la promessa e pronunciò a voce alta il nome del troll, che morí subito dopo.
Nella pagina accanto Skadi, figlia del gigante Thiazi, sceglie il marito tra un gruppo di dèi in base alla bellezza dei loro piedi. La possibilità di unirsi con una divinità fu offerta alla donna come risarcimento morale per la morte del padre, ucciso durante un assalto ad Ásgardr. Illustrazione realizzata da Louis Huard per The Heroes of Asgard: Tales from Scandinavian Mythology, pubblicato a Londra nel 1893. In basso testa del dio Loki in una pietra vichinga dell’VIII-X sec. Aarhus, Kunstmuseum. Dal profilo contraddittorio e in gran parte maligno, Loki ordí trame che danneggiarono le divinità di Ásgardr, favorendo spesso gli attacchi dei giganti.
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•••••••••••••••••••••
I giganti piú celebri
Ymir
Buri
Bergelmir
STARKADR
ANGRBODA ThJAZI
Gigante primordiale, ucciso
da Odino, dal cui corpo ha tratto origine il creato.
Gigante primordiale nato nel
ghiaccio del Ginnungagap e liberato dalla vacca Audhumla.
L’unico sopravvissuto allo sterminio dei giganti perpetrato dagli dèi nell’era della creazione.
Uno dei giganti piú forti della
mitologia nordica, dotato di quattro braccia. Dopo aver rapito una ragazza, viene ucciso da Thor, chiamato a intervenire dal padre della giovane.
Figura centrale della stirpe dei
JÁRNSAXA
Amante di Thor, generò con il dio del tuono due figli: Magni e Módi.
SKRÝMIR
«Colui che si vanta». Gigante che si salva dalla furia di Thor grazie a eccezionali doti magiche.
SURTR
Guardia e re del mondo di fuoco di Múspellsheimr. Protagonista della battaglia finale del Ragnarök.
THRYMR
Letteralmente «Baccano».
Ruba il martello di Thor per farsi consegnare in cambio la bella dea Freyja. ÆGIR
Gigante del mare, viveva in un
sontuoso palazzo illuminato dall’oro. È considerato l’inventore della birra.
giganti, moglie del dio malvagio Loki.
Ruba le mele della longevità a
Idunn. E ferisce Thor alla testa in un furioso duello.
••••••••••••••••••••• GEIRRÖD
Imprigiona Loki che lo aveva scambiato per una roccia. Poi, insieme alle figlie Greip e Gjálp, affronta Thor, che era sprovvisto del martello. Ma viene ucciso dal dio del tuono con un tizzone ardente.
Gigante tra i piú spavaldi. Sfida
••••••••••••••••••••• HRUNGNIR
BELI
Odino a una gara di velocità con i cavalli.
Fratello di Gerdr, corteggiata da
Freyr, viene ucciso a mani nude dal dio della fertilità.
FENJA E MENJA Su un’imbarcazione macinarono un’eccessiva quantità di sale con un mulino. In questo modo la barca affondò. Ecco perché, secondo la tradizione il mare è salato… GREIP
HYMIR
HRÆSVELGR
HYRROKKIN
Gigantessa, cercò di sopraffare Thor quando questi era sprovvisto del martello Mjöllnir. Ma il dio del tuono la uccise con un bastone.
Celebre timoniere della barca infernale Naglfar, che attaccò il regno di Ásgardr durante la fine del mondo.
Gigante con sembianze di aquila
che, dal cielo, con le sue immense ali fornisce il vento al Midgardr.
Gigantessa che aiutò gli dèi durante il rito funerario di Baldr. Cavalcava spesso un lupo.
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miti nordici
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A destra Freyja, la bellissima dea che i giganti tentarono spesso di sedurre, intenta a raccogliere le mele da un albero, con i suoi gatti ai piedi. Illustrazione di Arthur Rackham per una versione scenica dell’Oro del Reno di Richard Wagner. 1910. Nella pagina accanto il gigante Skrýmir osserva dall’alto in basso il dio del tuono, pronto a colpirlo con il martello Mjöllnir. Illustrazione di Louis Huard per The Heroes of Asgard: Tales from Scandinavian Mythology, pubblicato a Londra nel 1893.
Un giorno i giganti cercarono, invece, di colpire gli dèi in modo piú subdolo, sottraendo loro l’eterna giovinezza e l’immortalità. Fonti eddiche narrano che Odino, Loki e Hœnir si trovavano in un luogo impervio, sulle montagne, ed erano affamati. I tre trovarono un cinghiale e lo uccisero, ma non riuscirono a cucinarlo, nonostante i numerosi tentativi di cottura. All’improvviso si materializzò un gigante sotto forma di aquila, che garantí di poter cucinare quella carne, a patto di ricevere una parte di cinghiale in cambio. Gli Asi accettarono l’offerta e il rapace si avventò sulla carcassa dell’animale, divorandola quasi interamente. Loki, di fronte all’inganno, cercò di farsi giustizia con un bastone, ma l’arma rimase conficcata nel corpo dell’aquila che, spaventata, prese il volo portando con sé il suo assalitore. Terrorizzato, Loki implorò il rapace di riportarlo sulla terra, ma si sentí imporre una condizione: la consegna della dèa Idunn e delle sue speciali mele. Loki, di fatto, avrebbe dovuto favorire il rapimento della dea da parte dei giganti. Tornato ad Ásgardr, conivinse Idunn a recarsi in un campo di mele nel Midgardr, per valutare la qualità di alcune specie e confrontarle con quelle sacre.
Mentre la dea si stava recando nel luogo indicatole da Loki, fu ghermita da una grande aquila che la portò nel regno di Jötunheimr. Sotto le spoglie del rapace, infatti, si nascondeva un gigante, Thjazi, signore di Thrymheimr («la casa del frastuono»).
Gli dèi invecchiano
Privati del loro elisir di giovinezza, gli dèi cominciarono a deperire e si riunirono in consiglio. Vedendo che Loki – l’ultimo ad aver mangiato le mele – era ancora longevo e in forze, gli imposero di andare alla ricerca della depositaria dei segreti della longevità divina e di riportarla nel regno di Ásgardr. Loki, travestito da falco, si diresse allora verso le regioni fredde di Jötunheimr e dopo un lungo viaggio giunse a destinazione, trovando Idunn rinchiusa nella dimora di Thjazi. Approfittando del fatto che era sola, la trasformò in una noce per poterla meglio afferrare con gli artigli e si alzò in volo dirigendosi verso Ásgardr. Tornato a casa, il gigante intuí cosa fosse accaduto e si lanciò all’inseguimento di Loki, assumendo di nuovo l’aspetto di un’aquila. Ad Ásgardr gli dèi videro quindi arrivare in lontananza un falco, seguito miti nordici
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miti nordici
Intrighi e giganti
Nella pagina accanto ancora una tavola di Louis Huard raffigurante Skadi, figlia del gigante Thiazi, che sceglie il marito tra un gruppo di dèi in base alla bellezza dei loro piedi. La possibilità di unirsi con una divinità fu offerta alla donna come risarcimento morale per la morte del padre, ucciso durante un assalto ad Ásgardr.
a breve distanza da un’aquila e consentirono l’accesso solo al primo. L’aquila invece fu arsa viva con alcuni trucioli mentre cercava di oltrepassare le mura. L’epilogo della vicenda non si era ancora consumato. Adirata per l’uccisione di Thjazi, infatti, la figlia Skadi si presentò armata di tutto punto nella dimora degli Asi, decisa a vendicare il padre con l’aiuto della sua stirpe. Dopo una lunga trattativa, alla donna fu offerto come risarcimento il matrimonio con uno degli dèi. Odino e il suo consiglio invitarono Skadi a scegliersi un marito valutando solo la bellezza dei piedi dei candidati, senza conoscerne prima l’identità. La figlia del gigante in cuor suo desiderava Baldr – la cui avvenenza era nota anche fuori da Ásgardr – e, individuando i piedi migliori, credette di aver scelto proprio lui. In realtà si trovò di fronte Njördr, il dio del mare, e il loro matrimonio non si rivelò felice per motivi «ambientali»: alla gigantessa piaceva vivere in montagna, mentre Njördr soffriva il freddo e preferiva stare nel suo habitat naturale, sulla costa. Come ulteriore risarcimento per la morte di Thjazi, gli dèi, poi, utilizzarono il cadavere del gigante per formare alcune stelle. Cosí gli Asi e i Vani salvarono la loro longevità.
Le mele tornano ad Ásgardr
La mela ricorre nelle narrazioni della mitologia nordica e riveste prevalentemente un significato di fecondità: dai citati frutti della longevità di Idunn agli undici pomi d’oro regalati da Freyr all’amata Gerdr, fino alla nascita di Volsung da una madre sterile, resa possibile dall’assaggio di una mela. Nel caso di Idunn e dei suoi frutti miracolosi, tuttavia, il simbolismo sembra travalicare lo stretto ambito dei culti della fertilità – associabili invece a altre figure come Freyr e Freyja – risultando piú contiguo al mito delle coppiere degli dèi, dispensatrici dell’immortalità: Ebe, per esempio, nella mitologia greca. Secondo quanto riporta il Thrymskvida (Il carme di Thrymr), i giganti si spinsero addirittura a rubare il martello di Thor, Mjöllnir. Ci provò appunto Thrymr, approfittando del sonno profondo in cui era caduto il dio del tuono, durante la notte. Al risveglio Thor, disperato per il furto, capí immediatamente chi fosse stato a sottrargli l’arma e decise di interpellare Loki, contando sulla furbizia e sulla conoscenza della terra dei giganti da parte di quest’ultimo. Loki partí utilizzando il vecchio travestimento da falco e, giunto a destinazione, vide Thrymr sopra una collina. Gli intimò di restituire il maltolto al figlio di Odino, ma il gigante rispose che aveva sotterrato Mjöllnir a una profondità di otto miglia, in un luogo impossibile da raggiungere. Promise di restituirlo solo se in cambio avesse ricevuto la mano di Freyja, ma la dea
rifiutò sdegnosamente la proposta di matrimonio. La bella figlia di Njördr mostrò in questo caso di non essere malata di ninfomania, accusa rivoltale per alcuni comportamenti scabrosi che aveva tenuto: in cambio di alcuni monili si era infatti concessa a una comunità di nani.
Un travestimento sospetto
A quel punto restava solo un’ultima soluzione per recuperare il martello: uno stratagemma rischioso e… imbarazzante. Thor si vestí da donna, fingendosi Freyja, e fu accolto con tutti gli onori dai giganti. Per quanto perfetto, il travestimento ingenerò presto qualche dubbio in Thrymr, stupito dalla voracità con la quale la ragazza aveva per esempio divorato buoi e salmoni. Il gigante, inoltre, si era spaventato per il bagliore fiammeggiante che emetteva lo sguardo della sua futura sposa, ma, nonostante tutto, non intendeva rinunciare alle nozze. Il rito, che prevedeva la benedizione della coppia con il martello di Thor, però, non ebbe mai luogo. Perché il dio del tuono, il giorno del matrimonio, giunto a poca distanza dalla sua arma, l’afferrò e uccise Thrymr all’istante. I giganti, però, non si arresero: volevano distruggere il regno di Ágsardr e sfidarono Odino, che si trovava con il suo cavallo Sleipnir a Jöthuneimr. Il gigante piú forte tra tutti, Hrungnir, lo notò e gli disse che aveva un destriero, di nome Gullfaxi, molto piú rapido del suo. Per dimostrarlo, si lanciò in una gara di velocità con il padre degli dèi, che si concluse all’ingresso delle mura di Ásgardr, ma che non ebbe un vincitore. Al traguardo i due cavalli erano giunti appaiati, con grande sorpresa di Odino e anche degli altri Asi. Per rendere omaggio all’impresa il gigante fu invitato a bere nella sala del Valhalla e, sotto gli effetti dell’idromele, rivelò quale fosse il suo piú grande desiderio: far sprofondare Ásgardr, uccidere tutti gli abitanti e portare il Valhalla a casa propria. Viste le segrete intenzioni di Hrungnir, gli dèi chiamarono Thor, che, all’inizio, affrontò solo verbalmente contro l’ospite. Il gigante, per nulla intimorito, lo sfidò quindi a duello in un luogo neutrale, in una terra di confine. Il confronto avrebbe potuto rovesciare i rapporti di forza tra i due mondi nemici. I giganti affiancarono a Hrungnir un uomo di fango alto ben nove miglia e gli innestarono un cuore di cavallo. Thor arrivò sul luogo della battaglia insieme a Thjalfi e si avventò subito sul nemico lanciando il martello, ma il suo colpo venne neutralizzato. Contemporaneamente Hrungnir sferrò un colpo con la sua cote, colpendo Thor alla testa con una scheggia staccatasi dalla sua arma. Il dio del tuono, seppur ferito, riuscí a centrare l’avversario, frantumandogli il cranio. Subito dopo anche la creatura di fango venne abbattuta. miti nordici
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l’oro maledetto
Il tesoro dei nani Una comunità di esseri piccoli e malvagi deteneva grandi quantità di metalli preziosi, forgiati con incredibile talento. Peccando di egoismo e di cupidigia, lanciarono una maledizione su chiunque ne fosse entrato in possesso…
Un gruppo di nani in un bozzetto di Carl Emil Doepler per una messa in scena dell’Anello dei Nibelunghi di Richard Wagner. Nella tradizione nordica, i nani non godettero mai di buona reputazione. Il loro ruolo di forgiatori e custodi di metalli preziosi li portò spesso a peccare di avidità, scatenando conflitti nel mondo degli uomini e anche in quello divino.
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l’oro maledetto
Il tesoro dei nani
L’
inizio della fine per l’universo nordico si profilò per colpa di un metallo: l’oro, divenuto una mera materia, priva di significati cosmogonici, corruppe le anime e intaccò gli equilibri dei mondi, generando bramosia e faide. Eppure ab origine rappresentava il simbolo piú potente del legame tra terra e cielo, il materiale prezioso perfetto, uno degli arredi con cui gli dèi amavano abbellire le proprie dimore. Identificato con la saggezza sovrannaturale e con la luce che rischiara il mondo, l’oro incarnava l’aspetto, anche solo esteriore, di antidoto contro le forze dell’oscurità. Allo stesso tempo era anche connesso – per effetto della creazione – con le specie ctonie e demoniache che vivevano a contatto con le rocce e nel sottosuolo. In particolare con i nani (dvergar), abitualmente residenti in luoghi sotterranei e per questo considerati vicini al mondo dei morti (lo storico francese Claude Lecouteux, ritiene che fossero «la trasposizione mitologica dei defunti malvagi»). La loro predilezione per le dimore del sottosuolo e per i luoghi bui ha probabilmente ispirato la tradizione che li vede in pericolo qualora si trovino esposti al sole. Nell’Alvíssmál (Il racconto di Alvíss) si narra, infatti, che i nani, se investiti dalla luce del giorno, diventavano all’istante di pietra.
I segreti dei metalli
In origine, i nani dovevano essere dotati di un fisico possente, visto che Odino, all’atto della creazione, assegnò a quattro di loro il ruolo di sostenere il cielo. Il Reginsmál (Il discorso di Regin), li descrive, invece, come creature di piccole dimensioni, in parte deformi, forse per accentuare il profilo negativo del loro carattere. A differenza dei giganti, che simboleggiano la forza bruta e incontrollata del suolo terrestre, i nani rappresentano l’inganno, le possibili trappole e la tendenza all’egoismo della natura umana, che, però, sa anche essere astuta nell’esercitare la sua cupidigia. Erano, anch’essi, dotati di grande saggezza e conoscevano gli incantesimi legati all’utilizzo delle rune. I nani, poi, sapevano tutto dell’oro, in quanto avevano appreso fin dalla creazione i segreti del fuoco primordiale che aveva forgiato ogni singolo metallo. Erano quindi i migliori fabbri in assoluto e avevano una sorta di monopolio nella lavorazione di oggetti preziosi. I piú noti della stirpe erano i pionieri Modsognir e Durinn, poi c’erano i figli di Ivaldi (che avevano realizzato la nave di Freyr, la lancia di Odino e la chioma d’oro di Sif), poi Eitri e Brokk (autori dell’anello magico Draupnir, del martello di Thor e del cinghiale d’oro 60
miti nordici
Raffigurazione di aspetto demoniaco di Loki, uno dei responsabili dello scatenarsi della maledizione dell’oro. Manoscritto islandese del XVIII sec. Reykjavik, Stofnun Árna Magnússonar.
Gullinbursti), oltre a Fjalarr e Galarr (che ricavarono la bevanda magica dell’idromele dal sangue di Kvasir). Compito dei nani era anche quello di custodire i tesori destinati ai prescelti degli dèi, una funzione che non svolgevano sempre in modo diligente. Che i nani non fossero considerate creature benigne e affidabili lo dimostra anche l’origine del termine norreno dvergar. L’etimologia dell’espressione, pur essendo controversa, evidenzia in modo inequivocabile l’identità
A destra illustrazione di Ólafur Brynjúlfsson raffigurante Odino, Loki e Hœnir, le tre divinità che furono imprigionate dal re dei nani Hreidmarr in seguito all’uccisione del figlio Ótr perpetrata dal maligno Loki, dalla Sæmundar og Snorra Edda. XVIII sec.
tenebrosa della stirpe: deriverebbe, infatti, dall’antico germanico *dwergaz con il significato di «esseri demoniaci», «deformi» o «di dimensioni rattrappite».
La lontra che mangiava il salmone
Ci fu un giorno in cui l’oro divenne maledetto. Numerose versioni letterarie attestano come il metallo piú prezioso andò incontro alla danna-
zione eterna nella mitologia norrena: la prima e piú ridotta si trova nel Reginsmál, mentre piú circostanziate sono le narrazioni dell’Edda in prosa e del poema tedesco Nibelungenlied (La saga dei Nibelunghi). Tutto ebbe inizio per gioco, con una scommessa tra Odino e Loki. I due osservavano una lontra intenta a mangiare un salmone. Loki, particolarmente affamato, era convinto di pomiti nordici
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l’oro maledetto
Il tesoro dei nani
ter colpire e uccidere l’animale prima che divorasse il pesce, proprio mentre lo teneva stretto tra i denti. Tirò un sasso, allora, centrando la lontra sulla testa e riuscí a sottrarle il salmone. Consumato il pasto, i due, accompagnati da Hœnir, chiesero ospitalità presso una piccola casa situata nelle vicinanze e, per non farsi riconoscere, si travestirono da esseri umani. Furono accolti non proprio cordialmente, ma poterono comunque trascorrere la notte in quell’umile abitazione. Al risveglio, però, trovarono una spiacevole sorpresa. Il padrone di casa, Hreidmarr, che era 62
miti nordici
il piú potente mago del Midgardr, li aveva legati alle sedie e non intendeva liberarli. Li accusò dell’assassinio di suo figlio, che aveva nei giorni precedenti trasformato in lontra per poter pescare piú salmoni nel torrente. Colti alla sprovvista, Odino, Loki e Hœnir si scusarono ripetutamente, rivelando anche la loro identità divina, ma non furono liberati. Proposero al mago, allora, un riscatto molto generoso con l’oro della migliore qualità e forgiato dai nani di maggior talento. Hreidmarr accettò all’istante l’offerta, ma pretese una quantità d’oro tale da coprire tutto il corpo del figlio morto.
A sinistra Hylestad (Norvegia). Particolare dei rilievi sul portale ligneo della chiesa locale con scene tratte della leggenda di Sigurdr nelle quali compare il drago Fáfnir, il ladro del grande tesoro di Hreidmarr. XIII sec.
Calando la rete nella cascata, Loki riuscí a catturare il nano e si fece condurre nel luogo in cui teneva nascosto il tesoro. Ne prese la quantità necessaria per coprire il cadavere della lontra, ma alla fine non si accontentò e pretese che gli fosse consegnato anche il bellissimo anello che Andvari portava al dito. Il nano fece resistenza, spiegando che senza quell’anello sarebbe diventato l’essere vivente piú povero del mondo (quel gioiello, infatti, aveva il potere di far moltiplicare continuamente le ricchezze). Loki, tuttavia, non si lasciò intenerire e glielo strappò con la forza. A quel punto, disperato, Andvari lanciò la sua maledizione. L’anello da quel momento in poi sarebbe stato fonte delle peggiori sciagure per chi l’avesse posseduto: «Nessuno godrà del mio tesoro!», promise a se stesso.
L’anello maledetto
Gli dèi non intendevano attingere alle risorse di Ásgardr, sacrificando gli oggetti che avevano un valore sacro, e pertanto pensarono di donare al mago un tesoro da prelevare nella terra degli dvergar. Uno in particolare, nascosto sotto una cascata, sembrava sufficientemente cospicuo da soddisfare le richieste di Hreidmarr, ma apparteneva a un nano molto difficile da scovare, Andvari, uno dei piú anziani della stirpe, che era solito assumere le sembianze di un luccio. Loki si rivolse allora alla gigantesca dèa del mare, Ran, che gli forní una rete speciale, in grado di far cadere in trappola qualsiasi pesce.
Qui sopra anello vichingo in oro. X sec. Collezione privata. Il tesoro, originariamente custodito dal nano Andvari e poi finito nelle mani di Hreidmarr, comprendeva uno speciale anello in grado di moltiplicare le ricchezze di chiunque lo portasse al dito. Quel gioiello, però, divenne presto la causa di incredibili sventure per i suoi possessori.
Tornato nella casa del mago, Loki pagò il riscatto, sistemando l’oro sul corpo della lontra, ma non riuscí a coprirlo interamente. Restava scoperto un baffo e perciò provvide a completare l’operazione utilizzando l’anello che nel frattempo era finito nelle mani di Odino. Il padre degli dèi si trovò costretto a malincuore a restituirlo a Loki, in modo da poter essere liberato dalla prigionia. Hreidmarr, con gli altri suoi due figli Regin e Fáfnir, si godette dunque l’inestimabile tesoro, ma venne subito colpito in modo inesorabile dalla maledizione: infatti, al momento di decidere come dovesse essere spartito il bottino tra i membri della famiglia, il mago fu ucciso dal figlio Fáfnir con un colpo di spada al petto. Hreidmarr, agonizzante, chiamò le sue due figlie, Lofnheid e Lyngheid, accanto a sé, pregandole di vendicarlo, come riportato nel Reginsmál: «Che tu abbia almeno una figlia – mormorò – , se non avrai da un principe un figlio. Per l’inesorabilità del fato, dalle poi un marito; allora il loro figlio vendicherà il tuo dolore». Subito dopo l’assassino Fáfnir si trasformò in un drago enorme e fuggí con il bottino, rifugiandosi in una caverna. Anche i mostri, in varie tradizioni mitologiche, custodiscono tesori: la filologa Marina Cometta ritiene che la tradizione sia una forma evoluta dell’antica credenza secondo la quale l’anima poteva assumere la forma di una serpe, per porsi «a guardia della propria tomba e del corredo in essa custodito». Odino, Loki e Hœnir, invece, tornarono ad Ásgardr nella notte, impazienti di consumare un pasto degno del loro lignaggio. Ma la maledizione dell’oro e dell’anello avrebbe colpito ancora… miti nordici
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la maledizione dell’oro
Il tesoro dei nani
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elfi
troll
Tra le figure piú misteriose della mitologia norrena. Amici e
nello stesso tempo nemici degli uomini. Sono divisi in due categorie: gli elfi chiari (ljósálfar) e gli elfi scuri (dokkálfar). I primi sono «piú belli del sole», come racconta Snorri, mentre i secondi sono «piú scuri della pece», amano soggiornare nel sottosuolo e presentano un identikit simile a quello dei nani, vivendo nei tumuli e conoscendo alla perfezione i metalli. Nelle fonti norrene si parla poco di loro, se non per testimoniarne l’appartenenza a una stirpe vicina a quella degli dèi Asi. Seguendo il folclore piú del mito, invece, emergono le qualità piú note degli elfi: la loro incredibile velocità, la vista da falco e le tipiche orecchie a punta.
La mitologia norrena assimila, inizialmente,
questi esseri sovrannaturali mostruosi ai giganti: una donna troll compare nello Skáldskaparmál (Il linguaggio della poesia), mostrando un’indole aggressiva. Allo stesso modo nelle saghe islandesi sono descritti come creature enormi, che vivono all’estremo nord del mondo e usano mangiare le ragazze piú avvenenti delle fattorie. In altri casi sono ritratti come potenti maghi, meno ostili però agli uomini. Nelle «Saghe del tempo antico» il figlio di Ketill, un parziale troll, si invaghisce di una gigantessa della Lapponia e concepisce con lei Grimr, dal quale derivò poi la stirpe di un eroe celebre, alto e robusto: Egill Skallagrimsson. In età moderna questi esseri sovrannaturali vennero raffigurati in modo negativo, quasi come orchi. Vuole una tradizione che gli Islandesi, per neutralizzarli, lascino una bellissima donna nuda all’esterno di una caverna. E i troll, sensibili al fascino femminile, si precipitano fuori dalle tane. Ma a contatto con la luce, per loro letale, restano letteralmente di sasso e diventano pietra, mostrando similitudini, in questo caso, con la stirpe dei nani.
Altri esseri sovrannaturali
Elfo
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DÍSIR
Sono considerate divinità femminili e nelle fonti norrene
assumono diverse identità: spiriti protettori delle case, simboli della fecondità, norne e anche valchirie. La loro presenza si manifesta in prossimità della morte e possono rivelarsi creature benevole o maligne nei confronti degli uomini. La loro funzione originaria sembra comunque legata ai culti della fertilità, come dimostrato dalla celebrazione di riti in loro onore svolti in inverno in un tempio a loro dedicato, il Disarsalr. In Islanda erano venerate anche in età moderna e contemporanea: le pietre che le simboleggiavano, disseminate in varie parti del Paese, non dovevano essere toccate ed era vietato anche tagliare l’erba che cresceva nelle vicinanze.
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miti nordici
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VALCHIRIE
delle creature pericolose. Proteggono il paese e agiscono in modo invisibile. Nell’islandese Libro degli insediamenti vengono prescritti alcuni accorgimenti per non incorrere nelle loro ire: non avvicinarsi, per esempio, alle coste con una polena montata sulla nave.
Sono tre, Urdr, Verdandi e Skuld (ossia, «Passato», «Presente»
e «Futuro»). Presidiano la radice dell’albero cosmico che conduce nel regno degli dèi e – come le Parche – tessono la tela del destino, orientando il fato in una direzione o nell’altra. Alle loro determinazioni temporali sono soggetti non solo gli uomini, ma anche gli dèi. La loro comparsa nei racconti mitologici segnerebbe la fine dell’età dell’oro.
Divinità femminili che scelgono gli eroi caduti in battaglia e li conducono nella sontuosa sala del Valhalla. Considerate le «figlie adottive» del padre degli dèi, sono comunemente rappresentate come donne bellissime, luminose e in groppa a un cavallo, forse perché emissarie del regno celeste. In realtà, l’iconografia della valchiria bionda, alta e androgina appartiene all’età moderna. Nelle fonti norrene, infatti, il loro aspetto non è delineato in modo chiaro e appaiono raffigurate come cigni o anche come creature simili a corvi, che non viaggiano sul dorso di eleganti destrieri, ma di lupi feroci. I loro nomi evocano sempre qualità guerresche: Reginleif («amica degli dèi»), Thrudi («forte»), Mist («nebbia»), Gunnr («battaglia»), Skogul («la furia»), Hild («combattimento»), Göndul («portatrice di bacchetta magica»), Gjoll («urlante»), Randgrid («colei che distrugge gli scudi»), Gejrönul («portatrice di lance») e Skeggjöld («porta stendardo»).
NORNE
Sono esseri sovrannaturali che non appartengono alla lista
LANDVÆTTIR
Ancora due bozzetti realizzati di Carl Emil Doepler per L’Anello dei Nibelunghi e raffiguranti il re degli elfi e le tre Norne, esseri sovrannaturali che decidevano il destino di ogni essere vivente, anche degli dèi, un ruolo affine a quello delle Parche romane e delle Moire greche.
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FYLGJA
MARGYGR
Spirito che appare nell’imminenza della
morte di una persona, qualora si manifesti sotto forma di animale. Se si presenta, invece, con le fattezze di una donna, riveste la funzione di entità protettrice delle singole persone o di una comunità
Nel Flateyjarbók si racconta di un essere simile alla sirena
omerica (con la testa di cavallo e il corpo di una foca), detta margygr, che con la sua voce soave era in grado di far addormentare o impazzire l’equipaggio, provocando naufragi.
Norne
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l’oro maledetto
Sigfrido e l’inganno fatale
Sigfrido e l’inganno fatale Un guerriero s’impossessò del tesoro maledetto e venne colpito dalla sventura: promesso sposo di una Valchiria, fu vittima di un incantesimo che gli fece dimenticare l’amata e lo espose a una catena di vendette
Füssen (Germania), castello di Neuschwanstein. Pittura murale raffigurante Sigurdr, piú noto come Sigfrido, mentre si fa forgiare dal nano Regin la spada che gli servirà per affrontare in un duello il drago Fáfnir. 1882-83.
titolo
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L
Sigfrido e l’inganno fatale
e ultime volontà di Hreidmarr, che aveva espresso il desiderio di essere vendicato dalle sue figlie o dalla loro diretta progenie, non vennero soddisfatte. A caccia del drago, infatti, andò un collaterale acquisito, un giovane adottato da Regin, il fratello di Fáfnir: si chiamava Sigurdr, ma piú comunemente passò alla storia e alla leggenda con il nome di Sigfrido. Secondo una versione del mito, il suo padre naturale, Sigmund, aveva estratto da un tronco d’albero la celebre spada Gram, conficcata in precedenza da Odino, morendo poi in combattimento per volere dello stesso padre degli dèi. Con Sigurdr e con Helgi si apre un’epoca di grandi metamorfosi in seno alla mitologia norrena, una fase di transizione che segna un primo processo di decadenza del ruolo degli Asi e dei Vani. Sulla scena irrompono gli eroi, che
In basso Hylestad (Norvegia). Particolare del rilievo del portale ligneo della chiesa locale con Sigurdr-Sigfrido (la figura a destra) che si succhia il pollice sporco del sangue del drago Fáfnir. XIII sec.
•••••••••• wagner e i miti norreni Quand’era ancora un ragazzo, Richard Wagner (1813-1883) leggeva avidamente libri sui miti nordici, sospinto da una ricerca spasmodica delle proprie radici. Quando divenne un musicista maturo e irrequieto, elaborò questo deposito di valori collettivi, traendone una delle piú alte e complesse creazioni musicali di sempre, carica di motivi civili su cui tutt’oggi dibattono storici ed esegeti. L’opera basilare a questo riguardo è Der Ring des Nibelungen (L’Anello del Nibelungo) ovvero la Tetralogia, costituita da un Prologo, Das Rheingold (L’oro del Reno), e tre Giornate: Die Walküre (La Valchiria), Siegfried (Sigfrido) e Götterdämmerung (Il crepuscolo degli dèi). Un colossal, si direbbe oggi, per il quale Wagner aveva attinto al trattato Deutsche Mythologie (Mitologia tedesca) di Jacob Grimm (pubblicato per la prima volta nel 1835), alle saghe germaniche e ai poemi eddici dell’antica Islanda, associati con lo studio dei tragici greci. La vicenda elaborata dal musicista presenta, infatti, notevoli similitudini con il mito norreno di Sigurdr. L’oro del titolo giace in origine sul fondo del Reno, secondo il volere degli dèi, e a chi lo avesse posseduto assicurava il dominio universale. Il nano Alberico si immerge nell’acqua e apprende dalle Ondine, custodi del tesoro, che per impadronirsene si deve rinunciare all’amore. Il nano accetta e con l’oro si forgia un anello e un elmo capaci di trasformare chi l’indossa in qualsiasi cosa. Col suo nuovo potere tiranneggia altri nani per lavorare l’oro. Ma di questo universo fa parte l’altra razza, gli dèi, di cui Wotan-Odino è il principe. Sono loro a decidere di risiedere in una dimora immensa, il Valhalla, affidandone la costruzione ai giganti, i quali come compenso pretendono Freyja, dea dell’eterna giovinezza. Di fronte al rifiuto, si accontentano dell’oro.
oscurano gradualmente le divinità, imponendosi con doti prettamente umane (vedi box a p. 74). Questo processo di «secolarizzazione» del paganesimo nordico manifesta i suoi prodromi in diversi racconti che coinvolgono Thor, l’ambiguo Loki e anche lo stesso Odino, spesso ritratti con toni farseschi, quasi dissacratori. Proverbiale è la gara tra Thor e il gigante Útgarda-Loki, durante la quale il dio del tuono, non riuscendo a vuotare una cornucopia piena di birra in un solo sorso, subí lo scherno dei presenti: «Ma voi non siete un uomo!». 68
miti nordici
•••••••••••• ••••••••••••• Per procurarlo, Wotan discende nell’antro di Alberico dove, con un inganno, recupera il prezioso metallo, e Alberico lancia una tremenda maledizione: sventura a chiunque sarà padrone dell’oro. I giganti per primi ne sono colpiti. Per tutelare il tesoro dalla tremenda profezia Wotan ha generato, con Erda, spirito della terra, una stirpe di donne guerriere, le Valchirie, e una prole di eroi. Dall’accoppiamento con una mortale dà seme per due gemelli, Siegmund e Siglinde, quest’ultima costretta da nemici a sposare Hunding. Dopo un’unione d’amore con Siegmund la donna, che ignora il loro legame di sangue, indica all’amante una spada immersa fino all’elsa in un frassino, infissavi da un viandante sconosciuto (Wotan) il quale predisse che solo un fortissimo eroe poteva estrarla. Siegmund la estrae e fugge con la donna. Dalla loro unione incestuosa nascerà Sigfrido, l’eroe senza paura a cui la spada del frassino è destinata. La brandirà vittoriosamente contro il gigante custode dell’oro. Ma, caduto in un inganno non può salvare gli dèi dal crollo del Valhalla: riuniti in una sala del castello, vengono interamente avvolti dal fuoco. Cosí svanisce l’incantesimo dell’oro. Ben piú che un grande racconto teatrale in poesia e musica, Der Ring des Nibelungen è una vera e propria cosmogonia. Inizialmente, Richard Wagner aveva concepito il progetto in due drammi, ma lo studio della Völsunga Saga (Saga dei Volsunghi) e dell’Edda norrena lo spinse ad ampliare la sua indagine, attingendo anche al tedesco Nibelungenlied. Con Sigfrido che restava sempre la chiave di volta.
Sigfrido in un’illustrazione di Carl Emil Doepler, utilizzata come modello per i costumi di una versione teatrale ottocentesca dell’Anello del Nibelungo di Richard Wagner.
Per la sua Tetralogia, Wagner attinse a piene mani alle saghe islandesi e ai poemi eddici miti nordici
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Sigfrido e l’inganno fatale
Sigurdr viene invece descritto come un guerriero valoroso, dal fisico robusto, che si esercitava quotidianamente con la spada, in vista del grande scontro con Fáfnir. Un giorno, dopo aver neutralizzato un feroce branco di lupi, decise che era tempo di andare a caccia del drago e dell’oro rubato a Hreidmarr. Ma, per scovare Fáfnir aveva bisogno di un cavallo e ne cercò inutilmente un esemplare selvaggio nella foresta. Dopo tanto peregrinare, trovò un destriero eccellente, che apparteneva, però, a un anziano con la barba bianca. Avvicinatosi, Sigurdr notò che all’uomo mancava un occhio e capí immediatamente di aver dinnanzi Odino. L’anziano ammise di essere il padre degli dèi e consegnò al giovane quel cavallo, di nome Grani, capace di raggiungere velocità eccezionali. Gli ricordò, poi, che, per uccidere Fáfnir, occorreva colpirlo con una spada speciale, quella che Sigurdr aveva ricevuto dalla madre.
L’oro torna da Regin
Si trattava, però, di un’arma inoffensiva, in quanto la lama era spezzata. Il padre adottivo di Sigurdr, Regin, allora, gli promise di forgiare una nuova spada, ma al primo collaudo, posta sull’incudine, andò in pezzi. Regin provvide a fabbricarne un’altra e il risultato fu lo stesso. Tentò, infine, di aggiustare la vecchia arma indicata da Odino e, dopo un lungo lavoro, la ricostruí. Posta sull’incudine, questa volta, la lama resse all’impatto e Sigurdr poté finalmente andare alla ricerca di Fáfnir. Dopo un viaggio faticoso, individuò la grotta in cui il mostro dimorava, ma non lo trovò. Si appostò, quindi, in una fenditura della caverna e dopo una lunga attesa lo vide finalmente tornare nella tana. Sigurdr non ebbe alcuna esitazione ad attaccarlo e con un gesto fulmineo, sguainata la spada, colpí Fáfnir con un fendente al cuore. Prima di spirare, Fáfnir suggerí al suo assassino di diffidare di Regin: un gesto premuroso, che propone il drago come essere depositario di doti sovrannaturali e non totalmente maligno, attestando un profilo ricorrente nella letteratura germanica. Prese, poi, il tesoro, dal quale sottrasse l’anello, che lo aveva come irretito, e consegnò il bottino al padre adottivo. Regin, però, gli chiese di tornare subito nella tana del drago e di bruciargli il cuore, probabilmente per fini propiziatori. Sigurdr, dunque, si recò di nuovo nella caverna, estrasse il cuore dalla carcassa di Fáfnir, ma, arrostendolo, si sporcò di sangue e ne bevve inavvertitamente qualche goccia. Il contatto con il plasma del drago lo dotò della facoltà di capire il linguaggio degli uccelli, i quali lo avvertirono dell’arrivo di un pericolo imminente: avevano visto Regin dirigersi con una spada verso la grotta. Ma quali intenzioni aveva? 70
miti nordici
Fßssen. Castello di Neuschwanstein. Ancora una scena dal Ciclo con le storie di Sigfrido raffigurante Gudrun che piange sul corpo dell’eroe. 1882-83.
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Sigfrido e l’inganno fatale
••••••••••••••••••••• la canzone dei nibelunghi Secondo la tradizione, i Nibelunghi non erano esseri umani reali, ma una stirpe mitologica. Le loro gesta vennero diffuse dalla letteratura germanico-norrena e dalle rielaborazioni ottocentesche della Tetralogia di Wagner. La leggenda li definisce creature assimilabili ai nani, che vivevano in zone sotterranee recondite perché in possesso di un tesoro di inestimabile valore. Ma la loro epopea, seppur fantasiosa, incrocia in qualche modo la storia: in alcune fonti, infatti, i Nibelunghi sono considerati discendenti dei Burgundi, originari della Scandinavia poi stabilitasi nella Germania orientale. La rovinosa sconfitta di questi ultimi contro gli Unni di Attila nel 437 è il punto di partenza di un’intricata trama che trae origine da un poema norreno, l’Atlakvida (Il canto di Attila). Nel testo eddico, Attila uccide i capi burgundi per impossessarsi delle ricchezze dei Nibelunghi e sposa una delle loro donne, la bella Gudrun. Intorno al XII secolo, la vicenda originaria subí un vero e proprio stravolgimento nelle narrazioni di area germanica, in particolare nel Nibelungenlied (La canzone dei Nibelunghi). Gudrun diventa Crimilde, sorella di Gunther re dei Burgundi, data in sposa dal sovrano per motivi politici al potente guerriero Sigfrido, che possedeva il tesoro dei nani. Assumendo le vesti di Gunther, Sigfrido riesce a fargli conquistare la regina islandese Brunilde (una versione che richiama la figura norrena di Sigurdr che si traveste da Gunnar per favorirne il matrimonio con Brunilde). Scoperto l’inganno, Brunilde spinge il vassallo del monarca, Hagen, a vendicarla. Hagen, allora, uccide Sigfrido e ruba il tesoro dei Nibelunghi, gettandolo poi nelle profondità del Reno. Nasconde quelle ricchezze per impedire alla moglie dell’eroe assassinato, Crimilde, di finanziare l’allestimento di un esercito e di vendicarsi anch’essa. In seguito Crimilde sposerà Attila, re degli Unni, e sterminerà la sua vecchia famiglia, prima di cadere a sua volta vittima di un’infinita faida. La versione del Nibelungenlied contiene meno elementi mitici e fantastici (la maledizione dell’oro appare molto piú sfumata) e risulta influenzata dalle suggestioni dell’epica cavalleresco-cortese.
L’immersione solo praziale nel sangue del drago lasciò Sigfido vulnerabile, proprio come era accaduto ad Achille con il tallone 72
miti nordici
Nella pagina accanto due pagine miniate del manoscritto della Canzone dei Nibelunghi noto con il titolo di Hundeshagenscher Kodex o Hundeshagens Handschrift. Venne composto nel XV sec. in dialetto svevo (Schwäbisch) appartenente al ceppo linguistico dell’Alto Tedesco e rappresenta l’unico esemplare medievale illustrato sulla leggenda dei Nibelunghi.
Il padre adottivo voleva uccidere Sigurdr perché era intenzionato, come Hreidmarr e Fáfnir, a tenere tutto il tesoro per sé. L’eroe sventò per poco l’agguato e ferí mortalmente Regin al petto. L’oro, quindi, da quel momento apparteneva soltanto a lui e, con esso, la maledizione. Nella versione del Nibelungenlied, Sigurdr (in questo caso Sigfrido) si immerge volutamente nel sangue del drago per acquisire doti d’immortalità, ma non riesce a bagnarsi un punto della schiena, sul quale si era posata una foglia. Si tratta di un’aggiunta operata nella variante tedesca della leggenda, che introduce il topos dell’invulnerabilità parziale, sconosciuto al mondo nordico e che presenta una chiara assonanza con il mito greco del tallone d’Achille.
Brunilde circondata dalle fiamme
Gli uccelli preannunciarono a Sigurdr anche l’incontro con una donna bellissima, Brunilde, che versava in una situazione di estrema sofferenza. Era una Valchiria, una delle ancelle di Odino incaricate di trasportare nel Valhalla gli eroi, ma un giorno aveva aiutato in battaglia l’uomo che il padre degli dèi voleva, invece, veder morire. Il soldato si chiamava Sigmundr ed era il padre naturale di Sigurdr. Per punire quella debolezza, Odino aveva deciso di confinarla nel Midgardr, condannandola a un sonno pressoché perenne all’interno di un anello di fuoco. Solo se un uomo valoroso avesse attraversato le fiamme deciso a sposarla, si sarebbe svegliata, perdendo, però, per sempre il suo profilo divino. E sarebbe diventata mortale. Per destarla dal sonno giunse Sigurdr, che le donò il suo anello in cambio di una promessa di matrimonio. Poi corse a casa, per prendere il suo tesoro. Nel tragitto, tuttavia, si perse e vide un palazzo sontuoso nel quale entrò per chiedere informazioni sulla strada da percorrere. Fu accolto dal re e dalla regina dei Burgundi, i quali, dopo essersi complimentati con lui per l’uccisione del drago, lo invitarono a un banchetto. A servirlo provvide una giovane e avvenente principessa di nome Gudrun, alla quale Sigurdr raccontò il suo incontro con Brunilde e la promessa di nozze. La regina e Gudrun, che sapevano delle sterminate ricchezze del giovane, fecero di tutto per sabotare il suo futuro matrimonio e per attirarlo, piuttosto, nella loro famiglia. A tale scopo versarono l’idromele nel bicchiere di Sigurdr con l’intento di fargli dimenticare quanto era accaduto negli ultimi giorni della sua vita. Realizzato l’incantesimo, il giovane guerriero dimenticò Brunilde e decise di sposarsi con Gudrun. Il passato, però, non era svanito del tutto e Sigurdr si sentiva spesso preda di una misteriosa malinconia. Gudrun, allora, nel ti-
more che lo sposo potesse un giorno ricordarsi della sua vecchia amata, pensò di far incontrare il fratello Gunnar con Brunilde, favorendo la loro unione. Sigurdr in questo modo, per evitare dissidi con il cognato, pur volendolo, non sarebbe mai potuto tornare con l’ex Valchiria. Lo stesso Sigurdr accompagnò Gunnar da Brunilde e, nei pressi dell’anello di fuoco, affiorarono in lui vaghi ricordi di quel luogo, che gli appariva stranamente familiare. Gunnar si preparò, dunque, a incontrare la donna, ma al momento di oltrepassare le fiamme, il suo cavallo si bloccò. Provò, in seguito, con il destriero di Sigurdr, Grani, che però si imbizzarrí di fronte al fuoco. Restava un’ultima possibilità: far provare direttamente Sigurdr, con il suo cavallo, trasformandolo con un incantesimo in Gunnar. Lo stratagemma riuscí e Brunilde poté uscire dalla sua prigionia, sposando, poi, il vero Gunnar. Tutto sembrò filare liscio, ma le due coppie non erano felici, soprattutto Brunilde, che desiderava rivedere quel guerriero dal quale molti anni prima aveva ricevuto in dono un bellissimo anello. Quell’uomo era poi scomparso, nonostante la promessa di matrimonio e piú volte si chiedeva perché l’avesse abbandonata. Un giorno, per caso, ebbe sue notizie, ma non ne fu felice. Le apprese da Gudrun, discutendo con lei sul coraggio dei loro rispettivi mariti. Gudrun, volendo sminuire il fratello, rivelò a Brunilde che a salvarla, passando in mezzo alle fiamme, era stato in realtà Sigurdr.
La morte dell’eroe
Affranta da quella rivelazione, Brunilde scoprí la vera identità di Sigurdr e cominciò a covare rancore per l’uomo che ancora amava, maturando il proponimento di ucciderlo, con l’aiuto del marito. Gunnar, però, non se la sentí di assassinare il consorte di sua sorella e commissionò l’omicidio a un servitore, in alcune versioni denominato Högni o Hagen, il quale sorprese Sigurdr nel sonno. Brunilde, in seguito, si pentí del crimine commesso e, in preda alla disperazione, si uccise con un colpo di spada nel petto, esprimendo il desiderio di essere incenerita insieme al corpo di Sigurdr. I due amanti realizzarono, poi, il loro sogno d’amore nel Valhalla, dove Odino aveva deciso di destinarli, premiandone il valore dimostrato e la sofferenza patita. Il padre degli dèi volle Brunilde e Sigurdr nel suo paradiso di eroi e reclutò altri valenti guerrieri in vista della terribile battaglia che stava per sconvolgere il regno di Ásgardr. Nel mondo dei mortali, intanto, le macchinazioni continuavano e gli odi si rinfocolavano. Gudrun, che aveva ereditato l’oro maledetto, giurò anche lei di vendicare la morte del marito. miti nordici
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Sigfrido e l’inganno fatale
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Altri eroi
helgi
SVIPDAGR
Di nobile stirpe, figlio del re di Norvegia
Hjörvardr, incontrò quando era ancora giovanissimo una valchiria, Svava, che gli predisse una vita da guerriero, soprannominandolo Helgi. Grazie a una spada magica, l’eroe predestinato si rese protagonista di numerose imprese, soprattutto contro i giganti. Sposò, poi, Sváva, ma nonostante la protezione della Valchiria, venne ucciso dal danese Alf, uno dei suoi piú acerrimi nemici. Si chiama Helgi anche un altro eroe che si invaghí, invece, della Valchiria Sigrún.
Il ritorno di Helgi nel Valhalla in una tavola a colori realizzata per l’opera Teutonic Myth and Legends di Donald A. Mackenzie, pubblicata per la prima volta nel 1912.
Uno dei piú celebri eroi solari, che dopo
un viaggio pieno di insidie giunge nella dimora di Menglöd, una donna bellissima, di origine sovrannaturale. Per poterla avvicinare, è costretto a superare in un duello di indovinelli il guardiano Fjölsvidr. Alla fine riesce a prevalere e a conquistare il cuore di Menglöd.
••••••••••••••••••••• HADINGUS
Amico del gigante Wagnofthus e della figlia Harthgrepa con la quale ha una relazione amorosa. Desideroso di andare in battaglia, Hadingus viene frenato nelle sue ambizioni bellicose da Harthgrepa che, poi, muore. Il giovane incontra allora Odino e si mette al suo servizio. Porta a termine con successo svariate imprese militari e conquista la corona di Danimarca. Si impiccherà davanti al suo popolo per onorare il re di Svezia che aveva perso la vita nell’organizzazione di una festa in suo omaggio, credendolo morto.
••••••••••••••••••••• AURVANDILL Detto il coraggioso, seguiva Thor nelle sue missioni contro i giganti a Jötunheimr. Un giorno il dio del tuono lo aveva salvato, portandolo dentro una gerla, ma ad Aurvandill si congelò un dito del piede. Thor, allora, dopo averlo spezzato, lo lanciò verso il cielo facendolo diventare una stella. VÖLUNDR
SKJALDMÆR
Conosciuto come il Dedalo norreno. Vive
una relazione con una Valchiria, Alvit, che in seguito lo abbandona. Diventa fabbro e realizza un gioiello di finissima fattura con il quale ritiene di riconquistare l’amata. Un re di nome Nidud, però, glielo sottrae e Völundr si vendica sterminandone la famiglia.
Giovane vergine che decise di prendere le armi e diventare un guerriero.
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miti nordici
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Il tesoro e la ricchezza sono interpretati come metafora del potere e del suo fascino ambivalente. Il potere può tradursi in una nobile ambizione, come nel caso di Sigurdr, che utilizza l’oro per conquistare e riscattare il cuore di una Valchiria punita dagli dèi solo per aver mostrato compassione. Oppure può rivelarsi una fonte di dissidi e tradimenti, se considerato un valore fine a se stesso.
Un destino già scritto
L’affascinante sequenza di odi e passioni che attraversa il fitto svolgersi della vicenda ha, in realtà, un registro prevedibile e già stabilito a priori. I sentimenti umani, nella incontrollata contraddittorietà, fanno precipitare i protagonisti in una spirale di disillusioni e di violenze: l’amore di Brunilde che si trasforma in un desiderio di vendetta, l’assassinio commesso per meri motivi di avidità (Fáfnir che vuole il tesoro del padre, anch’egli malato di cupidigia), l’attrazione per ciò che appare rischioso e proibito (la maledizione dell’oro di cui tutti sono consapevoli) e l’uso delle arti magiche per fini d’inganno. «Sempre la gioia si volge in dolore», si legge nell’epilogo del Nibelungenlied. Ma il perverso intrecciarsi di tragedie – che simboleggiano l’insidioso potere maligno insito nella natura umana, «il principio cupo della vita», secondo la definizione del filologo Giorgio Dolfini – trova una sua composizione nel profilo mitologico di Sigurdr. Complice, suo malgrado, di un bieco inganno, ha in sé però le stigmate del giusto, che gli derivano da un’infantile inconsapevolezza, quasi una sorta di candore. Tanto che è capace di fare del male e di mentire solo quando viene drogato a tradimento con una bevanda (l’idromele somministratogli da Gudrun). Sigurdr riveste in modo inequivocabile il ruolo del nemico delle forze oscure, e non a caso, in una delle versioni della leggenda, viene ucciso dai Nibelunghi, «gli esseri della nebbia», spesso associati ai malvagi nani. E il suo destino tragico rappresenta un passaggio obbligato per celebrarne l’ascesa al rango divino. Sebbene premiata con il ritorno al Valhalla, Brunilde, invece, perde la sua innocenza. A differenza di Sigurdr, infedele perché obnubilato da una bevanda magica, la Valchiria rinnega un suo espresso giuramento, disponendo della piena «capacità di intendere e di volere». Aveva promesso di amare una sola persona, quella che fosse riuscita a oltrepassare l’anello di fuoco dove era prigioniera, ma ne sposò un altro, seppur abbandonata da chi amava. Inoltre, per poter attuare in modo piú agevole la vendetta, non esitò a mentire a Gunnar, rivelandogli che la sua verginità era stata violata da Sigurdr. miti nordici
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la fine del mondo
Quando muore un dio Colpito da un ramoscello di vischio, Baldr, il dio piú mansueto e generoso, perse la vita: per l’universo nordico fu l’inizio della fine. L’assassinio, orchestrato dal perfido Loki, segnò il prevalere delle forze del caos su quelle della luce
Illustrazione di Carl Emil Doepler raffigurante Loki, reo dell’uccisione di Baldr, punito dagli dèi: legato a una roccia, viene colpito dal veleno di un serpente. Sigyn, sua moglie, cerca di alleviarne le sofferenze, raccogliendo il siero in una ciotola. 1905. titolo
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la fine del mondo
U
Quando muore un dio
n tragico destino gravava anche sugli dèi. Odino percepiva come imminente la guerra delle forze del caos contro Ásgardr e temeva un esito infausto. Uno dei prodromi del conflitto si rivelò l’assassinio del migliore tra le divinità: Baldr, bello, gentile e amato da tutti. Per certi versi la sua fisionomia risulta controversa – come quella del suo principale nemico, l’enigmatico e perfido Loki – e ha ispirato tre modelli interpretativi: l’assimilazione alla figura del dying god («dio morente») correlata al mito simbolico di caduta e rinascita dei culti mediterranei; l’identificazione con il Hvitekrist, il Cristo nell’accezione norrena; e l’ipotesi del dio destinato, fin dalle origini, al sacrificio per fini propiziatori (tesi mitico-rituale). Lo stesso Baldr, come gli altri dèi principali, captò segnali premonitori sul tetro futuro di Ásgardr e in alcuni sogni apprese che egli stesso, presto, sarebbe morto. Nella versione della vicenda riportata dalla Völuspá e dal Baldrs Draumar (I sogni di Baldr), Odino si reca negli inferi, presso la dimora di Hel, per interrogare un’indovina riguardo agli incubi premonitori del figlio. Si finse un viandante e chiese alla donna chi sarebbe arrivato nel prossimo futuro nel mondo dei morti. La donna informò Odino che presto in quella terra oscura avrebbe trovato posto Baldr, ucciso dal fratello cieco Hödr. Appresa l’infausta premonizione, Odino e Frigg cercarono con ogni mezzo di impedire che si avverasse: Frigg, in particolare, si fece promettere da ogni forma vivente nel Midgardr – dagli animali feroci alle piante e anche alle malattie – di non fare del male al figlio Baldr. Si accordò con ogni ogget-
to e creatura, anche ad Ásgardr, tralasciando solo un piccolo ramoscello di vischio. Venuto a conoscenza del fatto, Loki volle mettere alla prova l’acquisita invulnerabilità dell’odiato rivale e gli lanciò contro un sasso. La pietra rimbalzò sul corpo di Baldr, senza provocare alcuna ferita. Altri dèi, un po’ per gioco, lo colpirono con altre armi ben piú insidiose, prima una spada, poi una lancia, infine anche alcuni oggetti infuocati, e nessuna tra queste risultò letale. Loki, però, covando una bruciante invidia, non credeva che l’odiato dio della luce fosse davvero divenuto immortale e volle verificare. Travestito da donna anziana, si recò da Frigg, mostrando preoccupazione per la sorte di Baldr, visto che gli dèi lo stavano lapidando. La dea la rassicurò, spiegando che si era fatta promettere da ogni forma di vita esistente e da ogni malattia di non colpire il figlio. «Tutte le cose hanno promesso di risparmiare Baldr?», chiese poi insistentemente la vecchia. Frigg, allora, le svelò: «Cresce una pianticella a ovest della Valhalla che ha un nome vischio; mi parve troppo giovane per pretenderne il giuramento».
A destra miniatura raffigurante l’uccisione di Baldr, trafitto da un ramoscello di vischio per mano del cieco e inconsapevole Hödr. XVIII sec. Copenaghen, Det Kongelige Bibliotek. In basso testa di drago che orna la nave funeraria di Oseberg. IX sec. Oslo, Vikingskipshuset. I funerali del dio Baldr, secondo le fonti eddiche, si svolsero con il tradizionale rito di cremazione su una barca-sarcofago spinta verso il largo.
Quella freccia di vischio
Loki si congedò subito da Frigg e si diresse verso il Midgardr per cercare una pianta di vischio. Trovatone un ramoscello, l’appuntí e tornò dagli dèi che, nel frattempo, avevano continuato a bersagliare di colpi Baldr. Si avvi-
Frigg svelò al perfido Loki che la sola forma di vita a non aver giurato di risparmiare Baldr era il vischio...
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cinò, quindi, a Hödr, il figlio cieco di Odino e gli disse: «Come mai non tiri anche tu su Baldr?». Hödr gli rispose che il suo problema alla vista gli impediva di partecipare al gioco e che, poi, non disponeva nemmeno di un’arma da poter lanciare. Loki allora si offrí di aiutarlo: «Fai come fanno gli altri, rendi onore a Baldr, ti indicherò io dove si trova. Colpiscilo con questo bastoncino». Guidato da Loki, il dio cieco lanciò il vischio con un arco e centrò Baldr al cuore, uccidendolo all’istante. Gli altri dèi, dopo aver assistito alla tragedia, caddero in uno stato di prostrazione: Odino si incupí, Frigg inondò il corpo del figlio di lacrime, mentre la moglie di Baldr, Nanna, perse i sensi. Nessuno tra i presenti credeva all’ipotesi che ad assassinare Baldr fosse stato il cieco e innocuo Hödr. In molti, invece, sospettavano che dietro quel colpo di freccia cosí preciso e micidiale si nascondesse un esecutore piú furbo e malizioso. Gran parte degli indizi si concentrarono subito su Loki.
Nel regno dei morti
In apparenza Hödr si delinea solo come un’inconsapevole mano omicida. Tuttavia alcune interpretazioni del mito lo raffigurano come il vero artefice dell’assassinio. I sospetti si rivelano, in parte, fondati. Perché proprio lui fu scelto come esecutore? Nell’analisi funzionale del pantheon nordico, Hödr presenta un’identità opposta a quella di Baldr, e tra loro potrebbe essersi generata una genetica forma di incompatibilità. Il primo, dall’aspetto inquietante, possiede un profilo divino solo per nascita ed è associato al lato oscuro del creato; mentre il secondo incarna in modo attivo le doti ideali di un dio, giusto, saggio e solare. Dopo la tragedia, Frigg si rivolse agli dèi piú potenti, implorandoli di correre nel regno dei morti e di riportare a casa Baldr. Tutti convennero che l’ipotesi migliore fosse inviare il velocissimo Hermódr, altro figlio di Odino, a Helheimr, dotandolo dell’altrettanto rapido cavallo a otto zampe Sleipnir. Dopo un viaggio di nove giorni e nove notti l’emissario di Ásgardr giunse sul fiume Gjöll, nei pressi del ponte dal tetto d’oro dove i defunti transitano prima di accedere alla loro dimora sotterranea. Proseguí verso nord e, finalmente, arrivò dinnanzi alle sbarre della porta di Hel, oltrepassate le quali vide Baldr seduto su un trono. Hermódr supplicò la dea 80
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Sculture sulla poppa della nave vichinga di Oseberg con figure animali e umane intrecciate tra loro, simbolo della natura maligna del dio Loki. IX sec. Oslo, Vikingskipshuset.
degli inferi di risparmiare il fratello, ma la sua richiesta non venne del tutto accolta. Hel si disse disposta ad accontentare Odino e Frigg, ma pretendeva una prova inconfutabile dell’affetto che tutte le creature dell’universo nutrivano per Baldr: «Se tutte le cose nei mondi, vive e morte – disse – lo piangeranno, allora ritornerà presso gli Asi, ma rimarrà presso Hel se qualcuno si rifiuta di farlo e non vuol piangerlo». Gli dèi, allora, si mobilitarono. Numerosi messi partirono alla volta dei vari mondi per convincere tutte le creature a spendere qualche lacrima per Baldr. Tutti sembrarono rispondere con entusiasmo al loro appello: si disperarono gli uomini nel Midgardr, i giganti malvagi di Jötunheimr, i perfidi nani del Nidavellir, insieme alle pietre, alla terra, agli alberi e a ogni metallo. Tornando dalla loro missione, gli inviati di Odino incontrarono poi una vecchia strega, seduta all’ingresso di una grotta. Anche a lei chiesero di piangere per Baldr, ma non riuscirono a convincerla: «Non ho mai amato il figlio di quel meschino – rispose – E Hel si tenga ciò che possiede». Le sembianze della vecchia apparvero agli dèi dell’Ásgardr vagamente familiari e capirono che si trattava di un altro travestimento di Loki, del suo ennesimo raggiro. Ritennero perciò di doverlo punire una volta per tutte. Nel frattempo, dopo l’assassinio di Baldr, Loki si era rifugiato su una montagna impervia. Su quell’altura aveva costruito una casa, fornendola di ben quattro porte, cosí da poter tenere sotto controllo tutto il circondario. Inoltre, per non farsi trovare, era solito trasformarsi spesso in salmone e nuotare nelle cascate Fránangr.
La tortura della grotta
Gli dèi riuscirono a localizzare il suo rifugio e accorsero in massa per catturarlo: c’erano Odino, Thor, Skadi e altre figure minori. Sapevano che Loki si mutava spesso in salmone e per questo gettarono una rete da pesca nella cascata. Dopo vari tentativi andati a vuoto Thor riuscí a scorgere il pesce e lo afferrò con le mani. Per Loki, non ci fu piú scampo. Gli dèi lo rinchiusero in una caverna nel Midgardr legandolo con le budella di due suoi figli (Váli e Nari) e sopra la testa gli posero un serpente che sputava continuamente veleno. Per il dolore, talvolta, il suo corpo si scuoteva a tal punto da provocare terremoti. E lí fu costretto a restare «fino alla fine del Mondo», accudito dalla moglie Sigyn, che cercava di imperdire al veleno di colare sul volto dell’amato. Anche Hödr,
Kirkby Stephen (Cumbria). Particolare di una croce in pietra sulla quale compare un personaggio battezzato The Bound Devil («Il Diavolo legato»). Età vichinga. Si tratta di una figura demoniaca controversa, da alcuni studiosi identificata in Loki. Nelle fonti eddiche le sfumature maligne del carattere dell’ambiguo dio si rivelano prevalenti rispetto ai suoi stratagemmi contro le forze del caos.
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l’esecutore materiale, venne punito: fu ucciso da Vali, fanciullo messo al mondo da Odino solo per compiere il delitto «riparatore». Baldr rimase, quindi, a Hel, nel mondo dei morti, e agli dèi, affranti, non rimase altro che celebrarne il funerale. Tale era la loro tristezza, che non riuscirono a spingere la grande barca Hringhorni con la sua salma in acqua, per il rituale previsto. Fu perciò necessario chiamare una gigantessa, Hyrrokkin, che giunse ad Ásgardr cavalcando un ferocissimo lupo. Portò con sé alcuni serpenti che gli servirono da briglie per far muovere la nave. Il rito infine si compí e le spoglie di Baldr bruciarono sopra l’imbarcazione, che lentamente prese il largo. Molti dèi ed esseri sovrannaturali assisterono alla cerimonia funebre: Thor, che benedí la nave con il suo martello Mjöllnir, Odino che lasciò sulla pira l’anello Draupnir, Frigg, Freyr con il carro Gullinbursti, Heimdallr il guardiano di Bifröst, Freyja, insieme a corvi, valchirie e numerosi giganti. Anche le creature maligne, quindi, gli resero omaggio, a dimostrazione di quanto il dio ucciso fosse amato in tutto l’universo nordico.
Un mito ancora aperto
La morte di Baldr si sarebbe, però, rivelata transitoria, come risulta da una lettura allegorica della vicenda. Per esempio, il vischio che lo uccise – un sempreverde – simboleggiava l’eternità del ciclo naturale e quindi era in grado di «trasmettere una morte nella quale siano contenuti i germi della rinascita», come sostiene Gianna Chiesa Isnardi. Le ricognizioni sul mito di Baldr, tuttavia, non sono univoche. Il suo assassinio risulta tra i temi piú complessi e dibattuti di tutta la letteratura medievale norrena. Escludendo le tesi evemeriste di Saxo Grammaticus – che identifica le figure di Baldr e Hödr con due personaggi storici danesi del Medioevo, Balderus e Hotherus – trova sempre piú credibilità tra gli studiosi l’interpretazione mitico-rituale e iniziatica della vicenda. Baldr, in sostanza, era nato solo per morire e il suo sacrificio avrebbe rivestito la funzione di propiziare un nuovo inizio nel creato. Il suo trapasso poteva anche raffigurare in senso simbolico la rinascita di un individuo dopo il compimento di un processo iniziatico, una tesi sostenuta dalla filologa svedese Folke Ström e dall’olandese Jan de Vries. C’è, poi, chi intravede un parallelo del mito con le tradizioni legate ai culti stagionali, in particolare con quelli dell’area mediterranea (Osiride, Adone e Orfeo). Altri storici scandinavi, invece – Anne Holtsmark, Gro Steinsland e Kari Vogt – vedono la morte di Baldr come il compimento di un disegno orchestrato da Odino, che voleva propiziare in senso rituale un’invulnerabilità ad Ásgardr in vista dello scontro finale: come modello interpretati82
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Disegno ricostruttivo del rito di cremazione di un eroe nordico. La scena può essere associata al racconto del funerale del dio Baldr, il cui corpo, bruciato su una nave funeraria, venne poi spinto al largo dalla gigantessa Hyrrokkin.
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••••••••• nel regno di hel Una delle figlie predilette del malvagio Loki, Hel regna sul mondo degli inferi, una terra buia e umida, dove soffia sempre un vento fortissimo e gelido. Metà del suo corpo ha l’aspetto terrificante di un cadavere in decomposizione, mentre l’altra parte è di un colore pallido. In questo regno lugubre, detto Helheimr, sono rinchiusi i defunti che hanno commesso gravi crimini e tutti gli uomini deceduti senza aver mostrato valore e coraggio. Anticamera di Helheimr è una grotta, Gnipahellir, custodita dal ferocissimo cane Garmr, un mastino dal pelo orribilmente macchiato. La tradizione narra che con un pezzo di pane dolce, inzuppato nel sangue, la belva poteva essere resa inoffensiva. Superata la caverna, si percorre una strada che costeggia il tempestoso fiume sotterraneo Gjöll, sulla cui superficie scorrono spade. Il vero e proprio ingresso di Helheimr si trova al di là del ponte d’oro Gjallarbrú, presidiato da una donna di nome Módgudr. Oltrepassato il ponte si accede a una spiaggia, Nastrandir, dove si ammassano i cadaveri giunti a destinazione. A ridosso della spiaggia si trovano,
Baldr in un’incisione di scuola inglese del XIX sec. Il suo profilo mitologico è oggetto di rilievi interpretativi contrastanti da parte degli studiosi: alcuni germanisti ritengono che la figura del dio norreno ucciso da Loki e Hödr sia una trasposizione nordica di Cristo.
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••••••••••••• finalmente, i cancelli del regno di Hel. Il palazzo ha un’apparenza tetra e gli interni sono rivestiti da serpenti che sputano veleno. Emblematico per la simbologia del luogo si rivela un particolare architettonico, ovvero la posizione delle porte dell’edificio. Sono rivolte verso nord, per contrastare la tradizione, molto diffusa nella Scandinavia medievale, che vedeva gli ingressi delle costruzioni orientate, invece, verso sud, in segno benaugurante. A Helheimr i morti che in vita si sono resi responsabili di assassini e adulteri, subiscono torture terribili: vengono dilaniati da un drago e sottoposti alla violenta asportazione delle unghie, poi utilizzate per la costruzione della nave Naglfar. Atroci sono anche le sofferenze riservate alle anime che oltrepassano Naigrindr (la «porta dei morti»): all’interno, le Vilgemir, creature del male, raffigurano il contraltare delle Valchirie, dando da bere agli ospiti non il sublime idromele, ma urina di capra. La dea Hel esce di rado dalla sua residenza e quando decide di fare un viaggio genera disgrazie e malattie nei villaggi in cui transita.
vo, in questo caso, viene citata la vicenda dello jarl norvegese Haakon Sigurdsson (935-995), il quale sacrificò agli dèi il proprio primogenito per vincere la battaglia di Hjørungavåg (in ambito scandinavo, lo jarl era normalmente il capo riconosciuto della grande nobiltà terriera, guidava la flotta e l’amministrazione statale e aveva il comando supremo in guerra; il suo potere fu spesso superiore a quello del re, n.d.r.).
Un nuovo Cristo?
Nel corso del Medioevo, per effetto di evidenti influenze cristiane, la figura di Baldr cambia in buona parte fisionomia: la sua morte viene interpretata come la naturale conseguenza della corruzione e della malvagità di un mondo che colpiva i giusti e i piú nobili d’animo. E, alle soglie della catastrofe dell’universo divino, la scomparsa di Baldr preannuncia la nascita di un nuovo ordine delle cose, di nuovi equilibri sociali e di nuovi dèi. Proprio Baldr, infatti – il simbolo della giustizia e della luce, «il pacificatore di tutti i nemici», come lo definisce lo studioso tedesco Rudolf Pörtner – sopravviverà
alla grande battaglia, conservando, anche nella nuova era, le doti di rettitudine, di purezza e di generosità. Nell’età di Mezzo apparve del tutto naturale associare i lineamenti di un dio pagano dell’innocenza, dell’amore e della giustizia con l’emergente figura di Cristo. Questa discussa chiave di lettura del mito di Baldr conobbe una certa fortuna nella Scandinavia dell’Ottocento, grazie ai contributi degli storici e linguisti norvegesi Sophus Bugge e Magnus Olsen. Il pianto della madre Frigg sul corpo sanguinante di Baldr fu, per esempio, interpretato come uno stereotipo cristiano. In anni piú recenti, la comparazione minuziosa tra testi biblici e narrazioni mitologiche, ha, tuttavia, reso meno sostenibile il parallelismo. Nella morte e resurrezione di Baldr, manca in primo luogo la dimensione soteriologica, l’evento rivoluzionario del dio che si sacrifica per la salvezza degli altri. Baldr si rivela soltanto una vittima sacrificale, l’ennesimo attore di un piano portato a compimento dal destino o forse come metafora della morte e della resurrezione del sole nell’estremo Nord.
Illustrazione novecentesca di John Charles Dollman raffigurante la dea Hel, guardiana degli inferi. Al suo cospetto, in un regno sotterraneo e gelido, giungevano tutti i morti, tranne quelli caduti eroicamente in battaglia.
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Il giorno del giudizio Annunciata da profezie e da un inverno gelido, si compí l’«apocalisse nordica», il Ragnarök, la guerra finale tra gli dèi e un’alleanza di creature mostruose. Odino, Thor e Freyr, affiancati in battaglia dalle Valchirie, andarono incontro a un tragico destino. Ma la loro stirpe non si estinse…
Tavola a colori di Carl Emil Doepler raffigurante Odino che, con la lancia Gungnir in pugno, affronta il ferocissimo lupo Fenrir nella battaglia finale (il Ragnarök) che vede contrapposti gli dèi ai giganti e ad altre forze del caos. Sullo sfondo a destra, Freyr con un bastone lotta contro Surtr, armato di una spada fiammeggiante. 1905 86
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el mondo nordico, l’apocalisse giunse con il freddo. Un inverno chiamato Fimbulvetr si abbatté sull’universo, con venti fortissimi e tormente di neve provenienti da tutti i punti cardinali. «Il sole non avrà piú forza – si legge nel Gylfaginning – Tre inverni si seguiranno e fra essi non vi sarà estate. Ma a essi precederanno tre altri inverni in cui vi saranno per tutto il mondo grandi lotte: allora i fratelli si abbatteranno l’un l’altro per avidità e nessuno rispar-
In basso miniatura raffigurante Heimdallr, guardiano di Bifröst e Ásgardr, che suona il grande corno Gjallarhorn per segnalare agli dèi l’arrivo dell’esercito nemico nel giorno della battaglia finale. XVIII sec. Reykjavik, Stofnun Árna Magnússonar.
mierà padri o figli nell’assassinio o nell’incesto». Odino capí che la fine del mondo era arrivata e convocò il figlio Thor. Dall’alto dei palazzi di Ásgardr videro il caos inghiottire il Midgardr e i lupi affamati raggiungere i carri del sole e della luna. Presto le tenebre sarebbero calate su tutti i regni, già squassati da ripetute catastrofi naturali. Anche l’albero cosmico Yggdrasill dava segni di cedimento e cominciò a oscillare in modo pericoloso. Il mondo degli uomini fu colpito, inoltre, da forti terremoti, che
distrussero anche le roccaforti sotterranee dei nani e le regioni dei defunti. Tuttavia, nel pieno del cataclisma, in una zona recondita del Midgardr, si levò una voce insolitamente gioiosa: era quella di Loki, tornato libero grazie al crollo del soffitto della caverna in cui era rinchiuso. Ora poteva consumare la sua vendetta contro gli dèi.
La marcia dei demoni
Loki allestí un esercito di giganti per marciare su Ásgardr e arruolò anche i suoi figli, il lupo Fenrir, che era riuscito a liberarsi dalle eterne catene, e la dea degli inferi, Hel. Alla grande armata si uní il dio del fuoco Surtr di Múspellsheimr, con le sue truppe di demoni che incendiarono gran parte del Midgardr. Anche i mari si unirono all’azione devastatrice del fuoco, abbattendosi sulla terra con onde gigantesche provocate dai movimenti del grande serpente cosmico Midgardsormr. Parte delle truppe accorsero da Loki a bordo dell’inquietante nave Naglfar, costruita con le unghie non tagliate dei morti e pilotata dal gigante di brina Hyrimr (per questo, nella tradizione norrena, si invitava a inumare i defunti con le unghie tagliate corte, in modo da rallentare la costruzione delle imbarcazioni delle forze del male). Riunito l’esercito, Loki diede ordine di marciare verso la dimora degli dèi. La rivolta delle potenze elementari – il fuoco dell’esercito di Múspellsheimr, il ghiaccio e le rocce di cui sono composti i giganti, l’acqua che inonda il Midgardr – preannunciava un rove88
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Disegno raffigurante il lupo Fenrir che divora la mano destra del dio Týr. XVIII sec. Copenaghen, Det Kongelige Bibliotek.
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A destra una delle antiche raffigurazioni del Rágnarök si trova incisa nella cosiddetta Croce di Thorwald (X-XI sec.), pietra eretta nella località di Kirk Andreas, sull’isola di Man. Nel reperto medievale si intravede la fisionomia del lupo Fenrir che divora Odino.
sciamento dell’equilibrio gerarchico dei mondi, la regressione dell’universo allo stato primigenio (Ginnungagap), al tempo in cui le forze della natura potevano scatenarsi con la loro furia distruttiva, in mancanza di una mente ordinatrice. Potenze elementari come gelo e fuoco sono protagonisti della fine del mondo in altre mitologie di radice indoeuropea: nella tradizione greca, zoroastriana ed estremo orientale l’eccesso di freddo e di caldo generano, infatti, l’esaurirsi dei tempi.
Bifröst crolla
Asserragliati nei loro palazzi, gli dèi sentirono il suono del corno di Heimdallr che li avvertiva del pericolo e si schierarono a difesa di Ásgardr. Del loro esercito facevano parte gli Asi, i Vani, i guerrieri del Valhalla e anche le Valchirie, tra cui Brunilde, affiancata dall’amato Sigurdr. Odino, prima di indossare l’elmo d’oro, chiese un responso al piú potente degli indovini, alla testa oracolare di Mímir, poi si diresse sul campo di battaglia. Le truppe di Loki riuscirono a varcare Bifröst e penetrarono nelle mura. Al passaggio dei guerrieri di fuoco provenienti da Múspellsheimr, il ponte crollò, togliendo un’importante via di fuga agli dèi. La distruzione di Bifröst ha un forte significato simbolico, perché segnò la perdita di contatto tra il mondo umano e divino, sancendo l’inizio di un’età oscura nella quale la terra venne abbandonata a se stessa. Il grande scontro si svolse sulla grande piana di Vigridr e, dopo giorni di intensi combattimenti, vide prevalere l’esercito di Loki. Nella fase finale della battaglia le piú importanti divinità degli Asi e dei Vani si trovarono a fronteggiare i loro rispettivi storici antagonisti, come in una simbolica nemesi. Odino ingaggiò un duello con il lupo
Nella pagina accanto miniatura raffigurante Thor che pesca il serpente Midgardsormr, uno dei mostri generati da Loki, da un’edizione dell’Edda in prosa. XVIII sec. Reykjavik, Stofnun Árna Magnússonar.
Fenrir e venne inghiottito dal predatore, le cui fauci spalancate toccavano nella parte inferiore la terra e in quella superiore il cielo. Odino, tuttavia, fu subito vendicato da uno dei suoi tanti figli, Vidarr che, dopo aver bloccato le mascelle del lupo, trafisse il cuore dell’animale con un colpo di spada. Thor, invece, era impegnato in furiose lotte con il serpente Midgardsormr (che una volta il dio del tuono aveva cercato di uccidere nell’oceamiti nordici
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no) e sembrò avere la meglio, sferrando un colpo mortale al mostro marino. Ma, dopo pochi istanti, stramazzò anch’egli al suolo, ucciso dal veleno letale che il serpente gli aveva spruzzato. Freyr si trovò faccia a faccia con Surtr, il gigante del fuoco, e fu annientato, anche perché non poté utilizzare la sua spada, che aveva regalato alla moglie Gerdr, come pergno d’amore. Il dio della guerra Týr cadde per mano del cane infernale Garmr, e il duello finale, che vide protagonisti Loki e Heimdallr, si concluse con la morte di entrambi. Terminata la battaglia, il regno degli dèi e gli altri mondi non esistevano piú. Sopravvissero solo alcune case, che accolsero i morti, divisi in buoni e malvagi.
Loki sconta la condanna comminata dagli dèi, legato a una roccia e vittima degli attacchi del serpente velenoso. Tavola a colori realizzata per l’opera Teutonic Myth and Legends di Donald A. Mackenzie, pubblicata nel 1912. Il dio maligno riuscí a liberarsi prima della battaglia finale e guidò l’esercito delle forze del caos contro Ásgardr.
Dopo la tempesta
Quando nell’universo norreno non erano rimaste che cenere e rovine, iniziò un nuovo ciclo. La terra, inondata dai mari, riaffiorò dalle acque, fertile e piena di verde. Il sole sorse di nuovo e diede subito linfa all’albero Yggdrasill, facendolo tornare a fiorire. I pochi dèi sopravvissuti al Ragnarök si stabilirono di nuovo nel luogo in cui un tempo sorgeva Ásgardr. Ma chi era scampato alla battaglia finale? Due figli di Odino, Vidarr e Váli, due figli di Thor, Módi e Magni, mentre dall’aldilà riapparvero Baldr, Hödr, Hœnir e Nanna. Da un buco nella corteccia dell’albero Yggdrasill, inoltre, vennero fuori Líf e Lífþrasir, i due reduci del genere umano chiamati a ripopolare la specie. Nella versione del Ragnarök contenuto nella Völuspá appare un personaggio enigmatico, «l’onnipossente» (inn riki), che governò su quel nuovo regno, una figura da molti identificata con Gesú. Il termine Ragnarök, nonché il suo significato mitologico, è oggetto di intense dispute. La comune espressione di «crepuscolo degli dèi» non trova piú molti consensi. Secondo alcune indagini filologiche sarebbe piú appropriato tradurre Ragnarök con «Giudizio degli dèi»: la parola, originariamente, deriverebbe dal vocabolo norreno rok («giudizio», appunto), mentre in epoca medievale sarebbe stata associata all’espressione røkkr («crepuscolo»). La differenza si rivela non solo formale, ma anche sostanziale, poiché implica una possibile corrispondenza con il Giudizio Universale cristiano. Anche nella narrazione della Völuspá norrena la
Non si può escludere che il Ragnarök abbia un valore simbolico affine a quello del Giudizio Universale 92
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•••••••••• prometeo o satana? Un po’ dio e un po’ demone, Loki è la figura piú ambigua del pantheon norreno. Alcuni studiosi lo hanno paragonato a Satana, altri a Prometeo. Il suo comportamento, però, risultava privo di orgoglio o di volontà di potenza e si traduceva in atti di sottile malizia, per il gusto di colpire il prossimo nel suo lato debole, spesso con l’inganno. Sebbene sia molto spesso ritratto come una creatura del male, Loki rientra nella tipologia del trickster, un essere semidivino o un animale antropomorfo che in molte mitologie riesce a risolvere situazioni complicate grazie a una serie di inganni. A questo proposito Georges Dumézil lo ha paragonato a Syrdon, una delle principali divinità della mitologia osseta. Non sempre, però, il raggiro si rivela fine a se stesso o perpetrato per fini egoistici. Piú di una volta Loki, con i suoi stratagemmi e i suoi trucchi, aiuta gli dèi a sbrogliare faccende intricate o li salva da gravi pericoli, dimostrandosi indispensabile per conservare lo status quo nei vari mondi. In un passo dell’Edda poetica Loki si rivolge a Odino, ricordandogli che qualcosa li univa in modo indissolubile: «Non dimenticare Odino // che nei tempi andati // mescolammo il nostro sangue…». Il giudizio sul dio piú enigmatico del paganesimo nordico, tuttavia, è prevalentemente negativo, come puntualizza lo storico Claude Lecouteux: «Molti tratti di Loki sono semplici epifenomeni e il personaggio è soprattutto l’incarnazione del male, lo spirito cattivo che impedisce al mondo di essere felice, il sobillatore di torbidi, il seminatore di disordini e discordie, e si capisce perché non abbia lasciato alcuna traccia nella toponomastica e nell’onomastica. La punizione di Loki è equipollente alla sua malignità». In fondo anche lo stesso Snorri, nel Gylfaginning, lo introduce in modo inquietante: «Tra le potenze celesti si conta anche un dio chiamato Attaccabrighe e primo padre della menzogna: è una vergogna vivente per tutti, sia per i mortali che per gli immortali. Il suo vero nome è Loki, ovvero Loptr, figlio di Fárbauti il gigante (cioè Colpi di pericolo), la madre è Isola Frondosa (Laufey) o Needle Nál». Nonostante l’indole distruttiva, Loki viene talvolta ritratto come un essere magnetico e attraente, forse per mettere in evidenza l’insidioso fascino del male che irretisce gli uomini. Possiamo allora ipotizzare che fosse questa la ragione per cui era particolarmente amato dai Vichinghi?
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Ancora un rilievo raffigurante il Ragnarök, scolpito sulla pietra di Kirk Andreas, sull’isola di Man, in cui si nota il lupo Fenrir. XI sec. Nella battaglia finale, il feroce predatore, dopo aver sbranato Odino, fu ucciso da uno dei figli del padre degli dèi, Vidarr, con un colpo di spada al cuore.
fine del mondo è seguita – come descritto nei testi biblici – dalla valutazione dei giusti e dei malvagi, destinati, poi, a occupare due dimore differenti (Paradiso e Inferno nella tradizione cristiana, e le diverse residenze per i morti in quella norrena).
L’enigma dell’essere supremo
Quali simbolismi prevalgono, allora, nel Ragnarök? Le eventuali influenze cristiane del Medioevo o i retaggi dell’antico paganesimo? La maggior parte degli storici delle religioni e dei germanisti concordano nel ritenere predominanti le influenze cristiane nei testi della Völuspá, individuando molti elementi in comune tra le due tradizioni religiose: la resurrezione del dio buono (Baldr), il corno con cui Heimdallr dà inizio alla battaglia (che riecheggia la tromba dell’arcangelo Michele), la distinzione tra giusti e malvagi operata nel nuovo inizio e, soprattutto, il citato annuncio dell’avvento dell’inn riki «l’onnipossente», vera chiave di volta del poema. Si tratta, tuttavia, di suggestioni e le citate similitudini necessitano di un’ indagine esegetica piú rigorosa, alla stessa stregua delle possibile analogie riferite all’Apocalisse di Giovanni. Il manifestarsi di un essere supremo, tuttavia, potrebbe richiamare anche la figura dell’Avatara induista, che ristabilisce l’ordine delle cose e la giustizia divina. Restando nella medesima tradizione estremo orientale, sono state proposte letture del Ragnarök affini al cosiddetto kali yuga – fase terminale di un ciclo di decadenza descritta nei testi sacri induisti dei Veda – durante il quale il mondo è funestato da guerre e da un buio spirituale, un’età oscura che però preannuncia la nascita di nuova età dell’oro. Il Ragnarök, a ogni modo, contiene anche numerosi temi riferibili a un’autentica tradizione nordico-pagana: l’inverno interminabile, la guerra come ultimo atto del mondo, l’annientamento delle divinità e il simbolismo del lupo che divora il sole. La fine del mondo norrena presenta, inoltre, affinità con altre tradizioni pagane, in particolare con quella celtica, ma anche con alcuni miti dell’antica Grecia. La celtica seconda battaglia di Mag Tuired, per esempio, si svolge tra divinità che rappresentano l’ordine e il caos, concludendosi con la vittoria delle prime, nella prospettiva di un ripristino della giustizia. Mentre nella tradizione greca gli dèi olimpici sono costretti a scendere in guerra contro i giganti e i titani. Il Ragnarök si profilò anche come una sorta di sanzione comminata agli dèi dal destino. Per difendersi dai loro nemici – i giganti e i nani –, non avevano, infatti, esitato a ricorrere a menzogne, astuzie e inganni. miti nordici
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Vivere per la vendetta
Il mitico mondo del Nord non era popolato solo da divinità ed esseri sovrannaturali, ma anche da uomini comuni: tra questi, spiccano la figura di Leifr Eiriksson, il primo «scopritore» dell’America e di un enigmatico danese di nome Amleto…
Le tre grandi spade nella roccia (Sverd i fjell) che si stagliano sulla collina dell’Hafrsfjord, nella periferia della città di Stavanger (Norvegia), in memoria della grande battaglia dell’872, descritta nella celebre saga di Snorri Sturluson Heimskringla. La vittoria del sovrano Harald I Bellachioma segnò l’unificazione del regno norvegese sotto una sola corona.
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Vivere per la vendetta
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i sono altri racconti nordici che parlano non solo di dèi e di eroi dai tratti soprannaturali, ma soprattutto di uomini reali e di fatti presumibilmente accaduti nel periodo in cui il Settentrione d’Europa stava convertendosi al cristianesimo. Li riportano alcune saghe islandesi, un prodigio letterario che, a distanza di secoli, affascinò scrittori moderni e contemporanei, uno su tutti l’argentino Jorge Luis Borges (1899-1986): «A partire dal XII secolo – affermò un giorno – gli Islandesi scoprono il romanzo, l’arte di Cervantes e di Flaubert, senza che il resto del mondo se ne accorga». Saga in lingua norrena, significa proprio «racconto». L’origine della parola riporterebbe alla misteriosa figura dell’omonima dea, definita come «colei che vede» e affiliata alla stirpe degli Æsir (Asi). Per ogni islandese l’espressione è familiare fin dai racconti dell’infanzia, nei quali non mancano descrizioni crude e dettagliate di brutalità efferate. Come quella consumata da Egill Skallagrímsson, un bambino che commette un omicidio a soli sette anni. Raggirato da alcuni suoi coetanei, corre a casa livido di rabbia. Trova un’ascia e torna fuori, dirigendosi verso gli amici con i quali stava giocando. Ne punta uno e con un colpo secco gli sfracella il cranio, inaugurando una lunga serie di violenze che culmineranno in età adulta con il massacro di 20 uomini armati, perpetrato con un braccio solo. Si dice che in combattimento si trasformasse in belva, come un vero e proprio berserkr («guerriero dalla pelle d’orso»; vedi box alle p. 112-113). E che avesse una testa enorme.
Un passato che ritorna
Una parte delle saghe testimonia di un esilio avvenuto intorno al X secolo. Quello di alcune potenti famiglie norvegesi refrattarie alla politica accentratrice del loro re, Haraldr I Hårfagre, cioè Bellachioma. Dopo la vittoriosa battaglia di Hafrsfjord dell’872, il sovrano aveva esautorato i suoi oppositori, costringendoli di fatto all’esilio. Si era appropriato delle loro terre, estirpando, tra l’altro, i culti religiosi locali in applicazione del suo progetto di «paganesimo di Stato» con sede centrale a Hladir, nei pressi dell’odierna Trondheim. I fuggiaschi approdarono in Islanda, con la speranza di riprodurre in quella landa sconosciuta il microcosmo politico e religioso nel quale avevano vissuto in Norvegia. Le cose, però, andarono ben diversamente in quella terra cosí separata dal resto del mondo. Gli esuli e i loro discendenti si trovarono immersi in una fase di grandi trasformazioni politiche e sociali, segnata dall’irruzione del cristianesimo. I vecchi dèi insieme a una buona parte delle antiche consuetudini, uscirono progressivamente di scena nella vita quotidiana dell’isola e soprav98
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In alto la prima pagina di un’edizione manoscritta della Hrafnkels saga. XVII sec. Reykjavik, Stofnun Árna Magnússonar. Nella pagina accanto miniatura raffigurante il sovrano Harald I Bellachioma che taglia le catene che tenevano prigioniero il gigante Dofri, suo padre adottivo, dalla raccolta di saghe islandesi, Flateyjarbok. XIV sec. Reykjavik, Stofnun Árna Magnússonar.
vissero solo nella memoria delle generazioni successive come tradizione orale da preservare. Nacquero cosí le saghe degli Islandesi, «recitate» prima in pubblico nel corso delle sedute dell’althingi (il primo parlamento). E solo in seguito, nel XIII secolo, trascritte da talentuosi narratori che ne sgrezzarono la forma. «Quando, dopo l’anno 1000 – sottolinea uno dei primi traduttori italiani delle saghe, il germanista Marco Scovazzi – si diffuse la convinzione che la grande illusione fosse finita e che l’Islanda dovesse affrontare una lunga battaglia dall’esito ormai segnato, la «tradizione popolare», non piú attuabile nella vita quotidiana già inquinata da fazioni politiche e religiose, si trasferí nel ricordo e nel racconto». Si riversò appunto nelle saghe, che fornivano il resoconto un po’ romanzato di questa sorta di «sogno infranto».
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Vivere per la vendetta
•••••••••• uno zombi norreno
Il cadavere di Áran viene sistemato in un tumulo con l’armatura indosso. Lo vegliano l’inseparabile cavallo, il cane e il falcone. Ma la notte accade un fatto agghiacciante. Il defunto improvvisamente si rianima e divora due suoi animali: il falcone e il cane. La seconda notte va in scena lo stesso copione, con il morto che si alza e mangia, questa volta, il cavallo. La terza notte l’amico Ásmundr si addormenta vicino al cadavere e, nel sonno, viene sopraffatto da Áran che gli strappa entrambe le orecchie. Ásmundr riesce comunque a divincolarsi e con la spada taglia la testa all’aggressore. Non avendo la certezza d’averlo ucciso, ne brucia infine il corpo. Nell’immaginario medievale nordico esistevano esseri simili agli zombi, secondo quanto «testimonia» la Egils saga einhenda
A costituire i primi nuclei narrativi su carta dei componimenti furono due preziose opere cronachistiche, scritte verosimilmente nel XII secolo: l’Íslendingabók (Il libro degli Islandesi) e il Landnámabók (Il libro degli insediamenti), entrambe ricche di particolari sugli anni della colonizzazione. Salvo qualche rara eccezione, gli autori delle saghe rimasero del tutto sconosciuti. Forse di proposito, per evidenziare il carattere popolare di quei racconti, costruiti pezzo per pezzo da contadini, pescatori, giudici, guerrieri, almeno nella struttura di base. Quasi a sancire che la letteratura apparteneva a tutti e a nessuno, come sembra in fondo suggerire anche l’etimologia della parola «autore» nell’islandese di oggi: höfundur, che richiama la radice di hefia, cioè «iniziatore», o «chi inizia una storia».
Vendette legalizzate
Molte saghe presentano tòpoi abbastanza precisi. Tutto ruota, spesso, intorno al concetto di vendetta come reazione passionale e come istituto giuridico. La faida appare talvolta giustificata da un nobile senso dell’onore, ma in altri casi determina la messa al bando del «giustiziere». Proprio il labile equilibrio tra onore ed espiazione è al centro di tre importanti racconti, la Gísla saga Súrssonar (Saga di Gisli, figlio di Surr), la Grettis saga Ásmundarsonar (Saga di Grettir) e la Saga Hardar ok Hólmverja (Saga di Hördr e Hólmverja), che riportano un susseguirsi di violenze, riconciliazioni, liti giudiziarie e fughe. 100
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•••••••••••• ••••••••••••• ok Ásmundar berserkjabana (Saga di Egill il monco), ma non è l’unica traccia della presenza di morti viventi nella letteratura islandese dell’età di Mezzo. Anche nella Grettis saga Ásmundarsonar il protagonista deve fronteggiare un draugr, una sorta di spettro proveniente dall’aldilà. Secondo la mitologia nordica, però, dal regno dei morti non si poteva fuggire facilmente. Era un’impresa quasi impossibile, infatti, scavalcare i suoi muri altissimi ed eludere la guardia della dea Hel. Ma la paura che i defunti potessero tornare tra i vivi con intenzioni non proprio pacifiche era molto diffusa a quelle latitudini. Per questo in alcune saghe si elencavano alcuni accorgimenti per evitare che i cadaveri potessero riprendere vita. Per esempio attraverso la decapitazione, oppure infilzando i corpi con un palo.
Anche le amicizie piú strette vengono minate dall’inarrestabile catena di atrocità, che spesso si scatenano non certo per volere dei protagonisti. È quanto accade nella Njáls Saga (Saga di Njáll), storia di un rapporto di speciale empatia tra Gunnarr e Njáll, nonostante la loro estrema diversità. L’uno, vichingo tutta forza e passione. L’altro, gracile, ma dotato di un intelletto fuori dal comune, soprattutto in fatto di giurisprudenza. La loro amicizia quasi commovente, entra però in crisi per colpa della moglie di Gunnarr, Hallgerdr, che pianifica lo sterminio della famiglia di Njáll. Ha inizio cosí una faida interminabile che porta alla morte dei due ex amici e di quasi tutti i loro discendenti, tranne due, Kári e Flosi, protagonisti di una storica riconciliazione, in un’Islanda ormai cristianizzata. Ricorre piú di una volta il cliché della donna come causa di lite tra due gruppi familiari o anche tra pretendenti. Nella Laxdæla saga, Gudrún innamorata di Kjartan, si concede invece a Bolli, perché accecata da una gelosia senza motivo. In un baleno la passione diventa odio e fa pronunciare alla donna una frase emblematica dell’era delle saghe, simbolo della tipica dissennatezza e labilità emotiva dei personaggi: «Sono stata piú spietata con chi ho piú amato». Le conseguenze dei sentimenti contradditori di Gudrún saranno catastrofiche: Kjartan viene assassinato per mano di Bolli, che poi subisce lo stesso infausto destino nel classico gioco di ritorsioni e vendette.
Nella pagina accanto miniatura raffigurante uno dei personaggi piú celebri delle saghe islandesi, Egill Skallagrímsson, poeta dal carattere irascibile e dalla forza sovrumana. XVII sec. Reykjavik, Stofnun Árna Magnússonar.
Un altro protagonista delle saghe islandesi, Grettir il Forte, descritto come un guerriero ribelle, ma dall’indole non malvagia. Reykjavik, Stofnun Árna Magnússonar.
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••••••••••••••••• IL vulcano che portava all’inferno Anche nel Medioevo i vulcani islandesi terrorizzavano la popolazione, in particolare l’Hekla, e non solo per le frequenti eruzioni. Secondo la tradizione, infatti, nel monte era situata la porta per l’inferno. In alcuni racconti antichi, invece, la parola Hekla risulta associata a un feroce drago. Probabilmente, l’agghiacciante credenza sull’accesso al regno di Satana (molto diffusa fino addirittura al XVII secolo) trasse ispirazione dalla potenza delle eruzioni del vulcano, che, fin dal Medioevo, avevano distrutto villaggi e ucciso centinaia di persone. Una delle piú catastrofiche si verificò nel 1104, proprio nel periodo in cui le saghe cominciavano a essere trascritte. Seppellí l’intera area circostante. Allora le ceneri ricoprirono, con una coltre che variava dai pochi centimetri a diversi metri, un’area del diametro di circa 50 km. Altre terribili eruzioni si susseguirono nel 1300, nel 1341 e nel 1389. L’Hekla è ritenuto un vulcano piú pericoloso del vicino Eyjafjallajökull, balzato alle cronache nel 2010 per aver paralizzato il traffico aereo. Delle catastrofi naturali provocate dall’antica «porta dell’inferno» parlò anche Giacomo Leopardi nelle Operette morali: nel capitolo intitolato Dialogo della natura e di un islandese, il protagonista originario dell’isola nordica si lamenta per i capricci del vulcano: «Né anche potea conservare quella tranquillità della vita, alla quale principalmente erano rivolti i miei pensieri: perché le tempeste spaventevoli di mare e di terra, i ruggiti e le minacce del monte Ecla, il sospetto degl’incendi, frequentissimi negli alberghi, come sono i nostri, fatti di legno, non intermettevano mai di turbarmi».
A sinistra illustrazione che raffigura un episodio della Njáls saga: l’uccisione di Thrainn da parte di Skarphédinn, ennesimo atto di violenza in un’infinita faida tra famiglie, dal saggio Vore Fædres Liv: Karakterer og Skildringer fra Sagatiden dello scrittore norvegese Nordahl Rolfsen. 1989.
Nelle saghe, ogni svolta drammatica del racconto ha un responsabile ben definito: è il fato, la cui presenza determinante aleggia spesso all’inizio di ogni narrazione, attraverso sogni premonitori o in genere eventi sovrannaturali.
Lotta fra poeti
Le prime pagine della Gunnlaugs saga ormstungu (Saga di Gunnlaugr, lingua di serpente) descrivono un’apparizione profetica: due aquile bisticciano per un cigno, preconizzando la lotta tra i poeti Gunnlaugr e Hrafn, invaghiti entrambi di Helga la Bella, nipote di Egill Skallagrímsson. Pianificano il destino dei guerrieri, invece, le valchirie 102
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della Njáls Saga, lavorando su un telaio composto da teschi, frecce, spade e interiora umane. Anche nelle saghe islandesi tutto appare in gran parte prevedibile dall’inizio, sulla scia di un destino misteriosamente svelato. L’unica incertezza riguarda il modo in cui il fato a un certo punto si manifesterà, o meglio, si scatenerà con la sua violenza. Bastano una parola di troppo, un contrasto d’interessi solo accennato, un’offesa involontaria all’onore per innescare il meccanismo perverso delle uccisioni e delle vendette a catena: «Gli uccisi sono vendicati e i vendicatori uccisi, in un crescendo di fatti cruenti», osserva il filologo Mario Gabrieli. E tutti i
Mappa cinquecentesa dell’Islanda, dall’atlante Theatrum Orbis Terrarum di Abraham Ortelius. Le frequenti e catastrofiche eruzioni vulcaniche verificatesi nell’isola fecero ritenere fin dal Medioevo che a quelle estreme latitudini settentrionali si trovasse la porta di accesso all’inferno.
L’ULISSE NORVEGESE Il re Hjörleif di Norvegia era un esperto navigatore. Un giorno – narra la Hàlfs saga ok Hàlfsrekka – sbarcò con il suo equipaggio in una terra sconosciuta. In quella landa sperduta dovette difendersi dall’aggressione di un gigante e lo accecò con una lancia arroventata. La vicenda presenta similitudini con il mito greco di Ulisse e Polifemo.
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Vivere per la vendetta A sinistra illustrazioni della Olaf Tryggvason saga contenute nella raccolta trecentesca islandese del Flateyjarbok, nelle quali vengono raffigurate l’uccisione di un cinghiale e di un’orchessa di mare. Reykjavik, Stofnun Árna Magnússonar. Nella pagina accanto Addio vichingo, olio su tela di Herbert Gandy. 1905. Collezione privata. In alcune saghe l’elemento guerresco si mescola a vicende di natura sentimentale, talvolta anche a sfondo erotico.
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protagonisti vanno incontro, consapevolmente, a un destino terribile «senza speranza e senza paura». La dinamica potrebbe far pensare a Omero e alle tragedie greche, ma solo in apparenza. A loro modo, i protagonisti delle saghe sono sostenuti da una forma piú estrema di fatalismo tragico, con il quale vanno incontro al proprio annientamento: «Di qui la solenne impassibilità dell’eroe germanico – sottolinea Gabrieli – la rigidità quasi ieratica delle sue parole quando muove incontro alla prova estrema, quasi atto rituale e cultuale d’iniziazione all’immortalità». Assecondare il fato con virile rassegnazione fa assumere al sogno e alla profezia, alla vendetta e all’onore, alla fortuna e alla sfortuna una «dignità magico-sacrale».
Addio al mondo pagano
La Hrafnkels saga Freysgoda (Saga di Hrafnkell), incentrata su una disputa legale, fornisce un quadro dettagliato su alcune procedure che si tenevano davanti ai giudici supremi dell’althingi nel Medioevo, oltre a far luce sul 104
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quando il puledro s’abbevera di vino... Magia, vendetta, mitologia, giganti, guerre, cronache, processi, morti viventi e... sesso. Nelle saghe islandesi non mancano le pagine proibite, dall’accento pruriginoso, trattate però con raffinatezza e con un’originalissima dose di ironia. Componimento simbolo del genere è la Bósa saga ok Herrauds (Saga di Bósi), in cui osceno e fantastico si alternano nelle peripezie del corpulento vichingo Bósi, chiamato «lo storto». Cacciato dalla comunità per aver commesso violenze durante un partita a palla, si segnala fin da giovane per le sue doti amatorie sotto le coperte. Vittime sono le figlie di alcuni contadini, comunque ben impressionate dalla sua potenza sessuale. I dettagli piú scabrosi nella saga sono descritti spesso con largo uso di metafore. L’organo genitale maschile, per esempio, viene soprannominato «nobile guerriero», «puledro». Mentre quello femminile «fonte di vino», «pozzo», «antro oscuro». I dialoghi tra Bósi e le sue compagne di letto assumono sempre un tono scherzoso, talvolta esilarante, richiamando certe atmosfere boccaccesche. L’autore, a cui certo non doveva mancare il talento, volle evidentemente esplorare un genere non molto sfruttato, puntando sull’intrattenimento di maniera.
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Vivere per la vendetta
••••••••••••••••• ••••••••• •••••••• leifr eiriksson, il navigatore I Vichinghi scoprirono l’America diversi secoli prima di Cristoforo Colombo? È quanto sembrano suggerire la Eiríks saga rauda (Saga di Eirík il Rosso) e la Grœnlendinga saga (Saga dei Groenlandesi), ambientate intorno all’anno 1000. Raccontano di un gruppo di Norvegesi, guidati da un ex esiliato, Eirík il Rosso, il quale si trasferisce dall’Islanda alla Groenlandia. Un giorno Leifr Eiríksson, suo figlio, decide di esplorare le terre che si trovano a Occidente, sulle quali si favoleggiano mirabilie. Dopo giorni di
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Reykjavik. Il monumento a Leifr Eiriksson, che, secondo le saghe, sbarcò in America intorno al Mille. La statua, opera di Alexander Stirling Calder, fu donata dagli Stati Uniti all’Islanda nel 1930 in occasione del millenario della nascita dell’althingi, il parlamento medievale dell’isola.
•••••••••••••• navigazione, il giovane vichingo e il suo equipaggio approdano in un luogo pieno di verde e dal clima temperato. Esplorando quella terra sconosciuta, probabilmente l’odierna isola di Terranova, scoprono molti vitigni e per questo battezzano il luogo Vinland (la «terra del vino»). Alla fine, di comune accordo, Eiríksson e i suoi amici decidono di stabilirvisi per un periodo, prima di tornare a casa. Nel tempo, la tesi della colonizzazione vichinga del Nuovo Mondo ha acquisito piú credibilità. Non tanto per un’accertata attendibilità storica delle due saghe islandesi, ma grazie ad alcune sorprendenti evidenze archeologiche: una fra tutte quella di Anse aux Meadows, resti di un antico villaggio vichingi scoperto dall’esploratore norvegese Helge Ingstad nel 1960, nella parte settentrionale dell’isola di Terranova.
pragmatismo politico dominante. Hrafnkell, protagonista della storia, uccide il servitore Einarr perché aveva trasgredito all’ordine di non montare su un cavallo consacrato a Freyr, dio della fertilità. Il padre del giovane ucciso, Thorbiörn, chiede allora un risarcimento giudiziale, all’epoca previsto dalla legge islandese nei casi di omicidio. Ne consegue una controversia che porterà Thorbiörn, con l’aiuto del nipote Sámr, a trovare alleati politici potenti in grado di indirizzare il verdetto dei magistrati nel verso a lui desiderato. E cosí fu. Hrafnkell subisce la condanna e viene privato del grado di uomo libero.
I segni della conversione
La vicenda di Hrafnkell mette a nudo anche il declino del paganesimo tradizionale nella mentalità corrente di quell’epoca. Il protagonista della saga, devotissimo al culto di Freyr, perde all’improvviso la fiducia nel suo dio, dopo essere caduto in disgrazia. Assiste impotente all’uccisione del suo cavallo sacro e all’abbattimento del tempio che aveva dedicato al pro-
prio «idolo» celeste. Impreca allora contro il fato, nel quale non scruta piú un disegno sovrannaturale. E diventa ateo. Quando Hrafnkell otterrà di nuovo tutto quello che possedeva in precedenza, si renderà conto di averlo riscattato non con l’aiuto divino, ma solo con la sua tenacia e con la forza della disperazione. Secondo Marco Scovazzi, che alla saga ha dedicato un ampio saggio, il comportamento di Hrafnkell ritrae la deriva in senso individualista del vecchio paganesimo: «È l’uomo che vuol elevarsi sulla collettività, che vuol distinguersi dalla massa e affermare una propria supremazia indiscutibile e senza contrasti. Siamo in quella fase acuta delle relazioni sociali che il germanesimo attraversò, quando, di contro ai valori tradizionali della “Sippe”, della collettività, si venne affermando la personalità dell’individuo, capace di forgiare la propria esistenza e di determinare, a volte, con l’audacia e con i voti solenni il proprio destino». Era la fine di un’epoca. Il cristianesimo aveva cominciato a penetrare in modo silente, amalgamandosi con i vecchi culti, ma, in realtà, li fagocitava lentamente, in vista di una conversione di massa.
Una letteratura cristiana?
Gran parte delle saghe furono composte nel Duecento e nel Trecento, presumibilmente da scrittori cristiani che, come nei casi dell’Edda poetica e in prosa, inserirono elementi narrativi tali da giovare alla loro predicazione. Nelle varie trame non sono pochi gli esempi di guerrieri pagani che mostrano una certa sensibilità per i propri nemici. O che, all’improvviso, si rivelano incapaci di fare del male al prossimo. Come Kjartan che, nella Laxdæla saga, urla a Bolli, suo assassino: «Stai commettendo un atto infame, parente, e certo preferisco ricevere la morte da te, parente, piuttosto che essere io a dovertela dare». La stessa perfida Gudrún, intorno alla quale ruota l’intero racconto, alla fine si redimerà con una clamorosa conversione, forse pentita per le atrocità commesse. Esprime in modo ancor piú evidente un sentimento di misericordia cristiana, nella Njáls Saga, Hölskuldur, quando sta per essere trucidato: «Dio mi aiuti – esclama ai suoi carnefici – e vi perdoni». Anche il protagonista Njáll, nel corso del racconto, mostra fiducia per la nuova religione: «Felice sarà chi a essa si convertirà». Lo storico islandese Jónas Kristjánsson, tuttavia, esclude che i trascrittori «antipagani» delle saghe abbiano manipolato i racconti della tradizione orale per fini predicatori: «Le antiche saghe – afferma – sono letteratura cristiana, nate da una società del tutto cristiana. Tuttavia, non si tratta affatto di scritti propagandistici della fede o di opere religiose, ma di documenti storici e insieme di capolavori letterari».
••••••••••••••••••• AMLETO, IL VENDICATORE William Shakespeare si ispirò a un personaggio della tradizione nordica per la stesura dell’Amleto (1600-1602). Secoli prima, infatti, lo aveva ritratto Saxo Grammaticus nei Gesta Danorum, attingendo a sua volta a racconti perduti dell’Edda e delle saghe, in particolare la Skjöldunga saga. La trama è simile all’opera sheakspeariana. Fendi, che contende al fratello Horvendill il governo dello Jutland danese, uccide quest’ultimo e ne sposa la moglie. L’omicida, però, deve fare i conti con il figlio di Horvendill, Amleto, che attua la sua vendetta. Nella versione di Shakespeare, Amleto muore quasi subito dopo Feng, mentre in quella di Saxo governa per diversi anni.
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popoli
Dai Germani ai Vichinghi
Chi erano le genti che professavano l’antica religione nordica? Nell’odierno territorio tedesco la stirpe dei Germani praticava culti considerati affini al paganesimo norreno. Ma furono soprattutto i Vichinghi e le popolazioni scandinave a venerare gli Asi e i Vani, diffondendo credenze che tuttora possono contare su non pochi adepti
La battaglia di Svolder, olio su tela di Nils Bergslien. 1900. Collezione privata. Lo scontro, uno dei piú celebri della storia vichinga, si combatté nell’anno Mille tra il re Olaf Tryggvason di Norvegia e la vittoriosa alleanza tra i re di Danimarca e di Svezia e lo jarl di Lade.
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popoli
Dai Germani ai Vichinghi
l’espansione vichinga
GROENLANDIA Lofoten
MAR DI NORVEGIA
Reykjavik Thingvellir
Mappa che riporta le regioni e le roccaforti originarie dei Vichinghi (in rosso) e le principali rotte che li condussero a conquistare diversi territori nel Nord e nel Sud Europa nel ristretto arco di tempo compreso tra l’VIII e il IX sec.
Trondheim
Fær Øer Shetland
Helgö
Sigtuna
Birka
Kaupang Fyrkat Roskilde
Ebridi Isola di Man Dublino
Hedeby Haithabu Amburgo
Dorestad
no
Re
Londra Hastings Bayeux
Lund
Ribe
York
Dunmore
ATLANTICO
Oslo
Haugesund
Lindisfarne
OCEANO
Uppsala
Bergen
Senn
a Parigi Loira
Stammlande Territorio d'origine Espansione Pamplona Zuge Incursione
Lisbona Tago Cordoba Cadice
Roma
Palermo
MAR MEDITERRANEO 110
miti nordici
C
hi erano i devoti del paganesimo nordico nel Settentrione d’Europa? Attribuendo una certa attendibilità agli scrittori romani dell’età antica e a quelli cristiani del Medioevo, si possono includere nell’elenco diverse genti dell’area scandinavo-germanica. Occorre tuttavia precisare che le credenze diffuse nell’odierno territorio tedesco erano in parte diverse dal ricco e complesso politeismo norreno: secondo testimonianze di autori latini (Cesare e Tacito) la religiosità dei Germani si esprimeva con i culti dedicati al sole, alla luna e al fuoco e solo in età piú tarda comprese un vasto gruppo di divinità, che avevano elementi in comune con quelle dell’Edda. Per Germani si intende un vasto gruppo di popolazioni che abitavano il Nord del continente europeo molti secoli prima della nascita di Cristo. Si presume che i gruppi piú numerosi occupassero in origine la Scandinavia meridionale e, solo in seguito, fossero migrati verso l’odierna Germania del Nord.
Un mosaico di genti e culture
Novgorod Dü
na
Rostow
Volga Bolgar
Kiev
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ubio
Dan
Itil
MAR NERO Costantinopoli
MAR CASPIO
Intorno al I secolo a.C. molte popolazioni occupavano le regioni settentrionali: i Cimbri e i Teutoni (originari dello Jutland), i Suebi (provenienti dalle coste del Mar Baltico), gli Ambroni (stanziati in origine nelle isole Frisone, tra l’Olanda e la Germania) e i Marcomanni (che occupavano le zone tra il Reno e il Danubio e si espansero verso la Boemia). Della stessa famiglia dei Suebi erano, poi, i Quadi che, nel II secolo d.C., invasero la Pannonia (l’odierna Ungheria). Sulla riva destra del Reno c’erano poi gli Usipeti e i Tenteri, mentre nel territorio compreso tra le attuali città tedesche di Hannover e Osnabrück risiedevano i Cherusci. In Olanda erano stanziati i Catti, con il gruppo «affiliato» dei Batavi. Sempre nel I secolo d.C. i Longobardi, un popolo di origine scandinava, abitavano la regione dell’Elba inferiore, nell’odierno Schleswig-Holstein, accanto ai Sassoni, che poi colonizzarono parte dell’isola britannica. Nella parte nordorientale della Germania si trovavano, invece, i Vandali (lungo l’Odra), i Burgundi (sulla Vistola), insieme ai Goti e ai Gepidi. La regione sudoccidentale tedesca era controllata dagli Alamanni. C’erano poi i Franchi, nelle zone del Reno inferiore e gli Angli, che occuparono i territori costieri del Mare del Nord. Un variegato mosaico di popoli che può, dal punto di vista dei costumi e delle credenze religiose, presentare una certa omogeneità. Dal III e dal IV secolo queste genti si spinsero verso sud, penetrando nell’impero romano: i Goti invasero l’Italia nel V secolo e altre comunità bellicose li seguirono, dando vita ai cosiddetti regni romano-barbarici. In Scandinavia, (segue a p. 114) miti nordici
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Dai Germani ai Vichinghi
••••••••••••••••••••• •• i guerrieri-orso di odino: i berserkir Prima di combattere urlavano come ossessi e mordevano il bordo dei loro scudi in preda a un furore spaventoso, quasi in uno stato di trance. Erano i berserkir, i guerrieri scandinavi devoti a Odino, dotati – secondo la tradizione – di invulnerabilità e di una sorta di occhio maligno capace di piegare le spade avversarie. Vuole la leggenda che il loro capostipite fosse nipote del gigante a otto mani Starkadr. Una delle raffigurazioni piú note di questi crudeli combattenti è fornita da alcuni ritrovamenti archeologici, prime fra tutti le matrici di Torslunda, scoperte sull’isola svedese di Öland, nel 1870. Su questi preziosi reperti sono impresse figure di guerrieri che indossano una pelle d’animale. Ancor piú vicine alle descrizioni riportate dalle saghe sono le 78 pedine di scacchi norvegesi dell’XI secolo, ritrovate a Uig, sull’isola scozzese di Lewis. I berserkir vengono descritti come caratterialmente ombrosi, poco amanti della vita sociale e inclini a compiere le loro missioni in piccoli gruppi. Si sa, inoltre, che nella loro «epoca d’oro» svolgevano mansioni di guardia per alcuni sovrani scandinavi. Nel caso poi fossero stati affetti da malattie a prognosi infausta si facevano colpire a morte di proposito con la
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•••••••••••••••••••• ••••• A sinistra e a destra lamine in bronzo che ritraggono alcuni guerrieri assimilati ai berserkir, da Torslunda, sull’isola svedese di Öland. VI-VII sec. Stoccolma, Historiska Museet. Nella pagina accanto, in basso pedine di scacchi norvegesi sagomate in forma di berserkir che mordono gli scudi, dall’isola di Lewis, in Scozia XI sec. Londra, British Museum.
cosiddetta «ferita di Odino», o se la infliggevano da soli in modo da compiacere il dio ed essere ammessi al corteo trionfale del Valhalla, nell’aldilà. Il loro mestiere delle armi non era però sinonimo di eroismo. I guerrieri-orso avevano una fama negativa, che si contrapponeva, in un certo senso, alla solarità sovrumana degli eroi. Da una parte, come conferma lo storico Georges Dumézil, vi erano i berserkir «partecipi del dono della metamorfosi, della magia» di Odino. Dall’altra, invece, i «nobili, cavallereschi, seducenti, gli eroi», di cui Sigurdr è «l’esempio piú celebre». I berserkir si identificavano in un animale, un orso o un lupo, attraverso un processo magico-religioso. Non al fine di spaventare gli eserciti avversari, ma per entrare in contatto con forze misteriose, beneficiando poi del loro influsso. Per entrare nell’esercito dei berserkir occorreva superare terribili rituali iniziatici, che frequentemente prevedevano l’ingestione di determinati organi di animali per poterne interiorizzare la forza. In alcuni frangenti anche un semplice bagno nel sangue dell’animale poteva trasferire la forza dalla belva feroce all’uomo, in assonanza con quanto descritto nel Nibelungenlied: Sigfrido si immerge nel sangue del drago appena ucciso per diventare invincibile in battaglia. Ma dietro il rituale di battaglia dei berserkir si celerebbe qualcosa di ancor piú misterioso: l’irrompere della «caccia selvaggia», cioè del corteo composto da esseri sovrannaturali, da divinità pagane e dalle anime dei migliori soldati morti in guerra. Chi lo avvistava nel bosco, nel corso di giornate tempestose, era condannato a subire conseguenze catastrofiche. Per questo, nel Nord Europa si racconta ancora che nei periodi a rischio di comparsa del corteo, nelle dodici notti sante dal Natale all’Epifania, tutti si chiudevano in
casa, sbarrando porte e finestre. L’arcana tradizione scandinavo-germanica fu evocata da Lily Weiser, nel saggio Altgermanische Jünglingsweihen und Männerbünde (Riti misterici giovanili e confraternite maschili antico-germaniche) del 1927, con riferimento ai berserkir, appunto. I guerrieri dalla pelle d’orso, per la studiosa tedesca, impersonavano l’esercito dei defunti guidato da Odino in groppa al suo cavallo a otto zampe, Sleipnir. Facevano rivivere una milizia che tornava dall’oltretomba per riaffermare sulla terra l’ordine esistente all’origine di ogni cosa, nell’era mitica della tradizione. Il collegamento tra i guerrieri-orso e la caccia selvaggia rivestiva un significato soprattutto militare, svelando le modalità di un’ipotetica forma di iniziazione guerriera indoeuropea, cosí come avveniva nell’era primordiale. Inoltre ribadiva la profonda simbiosi tra Odino e i suoi piú affezionati miliziani, che una versione mitologica ritiene componessero l’esercito del dio al tempo in cui egli stesso in prima persona regnava sull’Uppland svedese, l’odierna provincia di Stoccolma. Questo legame privilegiato tra il principe delle divinità nordiche e i berserkir è sorretto inoltre da una solida radice etimologica. Il nome Odino, infatti – in lingua germanica Wotan e in norreno Ódinn – esprime il manifestarsi di un comportamento affine al berserksgangr («furore»): ossia rispettivamente il gotico woths, «invasato», e l’antico nordico ódr, «furore». Con i berserkir, depositari di un radicato culto pagano, dovettero fare i conti i missionari cristiani giunti nel Nord Europa per attuare il loro progetto di conversione di massa. Dalla fine del X secolo furono compiuti diversi tentativi di convincere le popolazioni di quelle terre gelide ad abbracciare la nuova religione, proprio screditando la figura dei guerrieri dalla pelle d’orso.
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dalla danimarca all’america: i secoli dell’epopea vichinga 5 d.C. Una flotta romana esplora l’estremità dello Jutland (Danimarca).
100-200. Espansione del commercio romano. Le fonti citano diverse tribú del Nord, tra cui i Gautar (Geati), autori della Saga di Beowulf.
350 a.C. circa. Il navigatore Pitea, di Marsiglia, parla di Thule, creduta una grande isola del Nord.
300 circa. Diffusione degli alfabeti runici (futhark) mutuati da alfabeti greci, etruschi e nord-italici.
nell’odierna Svezia, due popolazioni occupavano le regioni meridionali: gli Sueoni (i cui re, secondo la tradizione, discendevano dal dio Freyr), i Gotlandi e i Geati. Tra la Svezia e la Danimarca, invece, erano stanziati i Dani. Il Medioevo fece registrare una consistente crescita demografica in alcune regioni a nord del continente, costringendo tribú piú o meno bellicose a emigrare. A partire dall’VIII secolo i Vichinghi, bande di predoni scandinavi, si diressero verso tre direttrici: a sud-ovest verso l’isola britannica, a sud verso il regno franco e a est verso la Russia.
Il mondo dei Vichinghi
Ma chi erano davvero i Vichinghi? La loro filosofia di vita si manifesta come un sistema tortuoso, nel quale convivono principi opposti. I guerriericommercianti venuti dal Nord consideravano lo sprezzo del pericolo, insieme al «dovere morale della vendetta», come uno dei principali segni distintivi dell’uomo dotato di onorabilità. Il saper giocare con la morte occupava un posto preminente nella scala dei valori, come prova la testimonianza di Adamo di Brema, quando racconta di un condannato alla pena capitale che in Scandinavia si recò al patibolo «allegro come a un banchetto». In alcuni casi anche l’omicidio era consentito, a patto che l’esecutore rischiasse la vita mentre attuava il suo proponimento. Uno dei testi sacri per i Vichinghi, Hávamál, invitava, invece, a tenere un atteggiamento piú prudente nella propria quotidianità, ispirato a un ideale utilitaristico: «È meglio esser cieco – si legge nel poema – che esser messo nel mucchio dei naufraghi; poco vale l’uomo morto». In questa contraddizione traspare la doppia faccia della società vichinga: guerriera e quindi indifferente ai rischi della battaglia, ma al tempo 114
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789. La prima nave danese approda sulle coste inglesi.
Giugno 793. Saccheggio e strage alla chiesa di St. Cuthbert, nell’abbazia di Lindisfarne, Northumbria (Inghilterra nord-orientale).
400-800. La civiltà scandinava matura in piena autonomia. 800 circa. Inizio della conquista vichinga d’Irlanda.
841-844. Saccheggio di Nantes e Rouen (Francia).
860-862. Nelle cronache russe compaiono i Rus’ o Variaghi (probabilmente capi scandinavi).
865-867. Gli Inglesi pagano il Danegeld (il «soldo danese», un tributo politico) ai Danesi; saccheggio di York.
850-851. Una flotta di 350 navi vichinghe attracca nel Tamigi. Nella pagina accanto elmo vichingo in ferro e bronzo con lungo nasale, detto anche «normanno», dall’abitato di Gamla Uppsala in Svezia. Età di Vendel, VI-VIII sec. Stoccolma, Historiska Museet. In basso spada vichinga in ferro, con elsa ageminata in argento. X sec. Leida, Rjiksmuseum van Oudheden.
stesso contadina, legata al succedersi delle stagioni. Ancora una volta, valori guerrieri da una parte e riti della fertilità dall’altra, quasi a rispecchiare l’ambivalenza della religiosità nordica, divisa tra dèi Asi e Vani,
Individualisti e comunitari
Attraverso una simile coincidentia oppositorum, i Vichinghi esaltavano una filosofia di vita individualista e nel contempo comunitaria. L’essere liberi e indipendenti era uno dei principi fondanti della loro identità, che non tollerava la «soffocante e invadente onnipotenza dello Stato», per citare il germanista svizzero Andreas Heusler. La tendenza individualista si rivelava in un certo senso affine alla visione del mondo del paganesimo nordico. Nella natura forze misteriose, divinità e uomini, convivevano in una dinamica competitiva. Lo stesso Odino, il padre degli dèi del Nord, non giganteggiava come potenza assoluta alla quale tutto era subordinato. Ma talvolta, nella sua solitudine eroica, doveva impegnarsi in lotte titaniche contro gli stessi umani. L’istinto di autoaffermazione doveva, però, conciliarsi con un altro principio sacro nordico, quello dei rapporti familiari della Sippe (termine che indica persone legate da vincoli di parentela; alla Sippe era demandata la vendetta di sangue, n.d.r.), che vincolavano al rispetto di un corpus di consuetudini. Per gli esclusi dalla Sippe esisteva un’altra forma di comunione tra individui, le «fratellanze di sangue» (fóstbrœdralag), sodalizi di amicizia che poi costituirono la base delle prime società commerciali del Nord Europa (la Lega Anseatica su tutte) e delle gilde. Per i Vichinghi, in sostanza, il gruppo veniva prima del singolo, ma si trattava di (segue a p. 119)
980. Erik e Thorval sono banditi dall’Islanda e iniziano a esplorare la Groenlandia. 878. Alfred, re del Wessex, sconfigge i Vichinghi danesi. 885-886. Fallito attacco vichingo a Parigi. 850-900. Vichinghi norvegesi esiliati occupano l’Islanda.
985. Bjarni Herjólfsson salpa dall’Islanda per la Groenlandia, si perde e per caso avvista Vinland (la costa nordamericana).
1016. Il sovrano danese Canuto, cristiano, diviene re d’Inghilterra.
1000. Thorgeir, all’Althing (assemblea) islandese, dichiara la conversione al cristianesimo.
960 circa. Il re Aroldo Dente Azzurro converte i Danesi al cristianesimo. 920. Riconquista anglosassone della Britannia meridionale. 911. I Norvegesi conquistano la Normandia.
1008. Olaf Skötkonung, re di Norvegia, accetta formalmente la nuova religione.
1014. Battaglia di Clontarf: sconfitta degli Scandinavi di Irlanda.
1066. Battaglia di Stamford Bridge: re Aroldo II d’Inghilterra respinge l’armata del norvegese Harald III. Poco dopo si combatte la battaglia di Hastings e Guglielmo il Conquistatore prende l’Inghilterra. 1492. Cristoforo Colombo riscopre l’America nelle isole caraibiche. 1347. Ultima menzione di Markland (= Labrador) negli annali islandesi. 1000-1100. Insediamento scandinavo a L’Anse aux Meadows (Newfoundland), possibile scena della saga di Leifr Eriksson a Vinland.
La filosofia di vita dei Vichinghi si caratterizza per la convivenza di principi tra loro opposti miti nordici
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La conversione al cristianesimo della Scandinavia non cancellò completamente le tracce della religione pagana
Un’antica croce in pietra e i resti di una cappella sull’isola di Öland (Svezia).
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••••••••••••••••••••• •• il ritorno di odino: luci e ombre del neopaganesimo
Sotto la spinta della filosofia romantica ottocentesca, la mitologia nordica e le sue divinità sono riapparse nella memoria collettiva, non solo sotto forma di suggestione intellettuale. Agli inizi del Novecento, in alcune aree del Nord Europa, principalmente in Scandinavia, in Germania e in Gran Bretagna, sorsero movimenti religiosi di ispirazione neopagana, che si richiamavano al politeismo germanico-norreno. In terra tedesca queste comunità religiose, denominate in modo generico etene (da etenismo, termine di etimologia incerta), crebbero accanto alle correnti ideologiche pangermaniste che teorizzavano la riscoperta delle radici primigenie della nazione. I gruppi neopagani, tuttavia, non si mostravano attratti dalle rielaborazioni in chiave politica delle antiche credenze e si limitarono a battersi per la restaurazione dei vecchi culti. Ai primi del Novecento il poeta e occultista austriaco Guido Von List propose la costruzione di un tempio dedicato al dio Odino. Un altro movimento, l’Irminismo wiligutiano (secondo il quale la Bibbia sarebbe stata la rielaborazione di due antiche religioni germaniche!) fece proseliti nel clima culturale dell’epoca. Della stessa retorica sul «ritorno alle origini» si nutrí il Partito Nazionalsocialista, salito al potere nel 1933. Ma il nazionalsocialismo e i movimenti neopagani non trovarono un punto d’incontro: Hitler e il suo entourage, seppur affascinati dagli antichi miti, mostrarono una maggiore predilezione per alcune forme moderne di esoterismo e non condannarono mai in modo esplicito la religione cristiana. Tentarono, invece, di «arianizzare» la figura di Gesú, esaltando il suo ruolo nella storia quale contestatore dell’ebraismo ufficiale. Tuttavia, secondo un rapporto dell’Office of Strategic
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In alto il castello di Wewelsburg, nell’omonima cittadina del land tedesco della Renania-Settentrionale Vestfalia. In una sala denominata Walhalla, i capi delle Schutzstaffel (SS) celebravano riti neopagani in onore dei caduti in guerra. Nella pagina accanto, in alto Odino che richiama il fuoco in una litografia a colori di Franz Stassen (1869-1949). Parigi, Bibliothèque nationale de France. Nella pagina accanto, in basso un rito celebrato dall’Ásatrúarfélagid, comunità neopagana islandese. Services (l’organizzazione del controspionaggio USA attiva nella seconda guerra mondiale), alcuni gerarchi del Terzo Reich – con in prima fila Baldur von Schirach, capo della Hitlerjugend – avevano stilato un progetto che prevedeva lo sradicamento dei culti cristiani e, al contempo, la diffusione di credenze neopagane. Di ispirazione chiaramente pagana si rivelavano, poi, alcuni rituali delle paramilitari Schutzstaffel-SS: nel castello di Wewelsburg si trovava una sala denominata Walhalla, nella quale venivano celebrati i funerali degli ufficiali caduti in guerra. Per molti «odinisti» ed eteni in genere, la vita sotto il regime hitleriano non fu facile. Numerose comunità vennero perseguitate e alcuni loro leader furono internati nei campi di concentramento (emblematici furono i casi di Siegfried Adolf Kummer e di Friedrich Marby). Gli stessi etenisti filohitleriani non gradivano la divinizzazione di un capo politico e l’assenza di liturgie religiose. Un movimento di restaurazione del paganesimo germanico germogliò addirittura in Australia, dove, nel 1930, venne fondata la Chiesa odinista.
•••••••••••••••••••• ••••••••••••••••••••• Alexander Rud Mills, che ne era la guida spirituale, fu arrestato perché sospettato di collaborazionismo con i nazisti (le accuse si rivelarono in seguito infondate). La piú significativa affermazione del neopaganesimo nordico si registrò proprio nella patria dei miti norreni, in Islanda, dove gli eteni dell’Ásatru (letteralmente «fedeli agli Asi») ottennero nel 1973 il formale riconoscimento dallo Stato come comunità religiosa. Anche nel Nord America il politeismo germanico contava numerosi adepti: cosí, per iniziativa di una ex sindacalista danese, Else Christensen, perseguitata in patria ai tempi dell’occupazione tedesca, nacque in Canada e negli Stati Uniti la Congregazione odinista. E, piú tardi, venne fondata una Chiesa degli Ásatru, dalla quale originò un’altra corrente, il teodismo (in un primo momento ispirato al paganesimo anglosassone e poi aperto anche ai fedeli dell’antica religione germanica). Dal teodismo si sviluppò poi una dottrina strettamente legata alla tradizione norrena, il Fyrnsidu. In Norvegia le comunità possono oggi celebrare liberamente matrimoni secondo il proprio rito. In Italia esiste una Comunità Odinista che si richiama all’antica religione dei Longobardi.
un’etica comunitaria applicata a un piccolo microcosmo di legami, non al concetto di collettività e di cosa pubblica.
Un paganesimo tollerante
Gran parte dei movimenti neopagani mostrano una natura «pacifica» e cosmopolita e sono lontani dalla mistica della guerra e della selezione della razza. Di segno opposto è, invece, il movimento statunitense del Wotanismo, che combina temi tipici della tradizione norrena a teorie sulla superiorità dei bianchi.
La religiosità dei Vichinghi, descritti tradizionalmente come un popolo dalla visione del mondo bellicosa e crudele, può, secondo alcuni storici contemporanei, essere considerata in un certo senso tollerante. Il pluralismo delle credenze era assicurato da una schiera nutrita di divinità, anche locali, capaci di sacralizzare ogni singolo aspetto della vita quotidiana. Odino, Thor, Freyr e Baldr erano gli dèi piú venerati, ma anche il furbo e perfido Loki riscuoteva molta popolarità. Santi e figure cristiane, nel periodo precedente la conversione, entrarono talvolta a far parte dell’universo devozionale vichingo, testimoniando l’assenza di un «integralismo» pagano che si opponeva al nuovo culto. Forse proprio la natura pluralista del paganesimo nordico permise alla figura di Cristo di conquistarsi un posto accanto gli dèi rivali. miti nordici
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A banchetto con gli dèi
Una delle feste piú misteriose dei popoli nordici cadeva nel periodo corrispondente al Natale cristiano e si chiamava jól. Altre celebrazioni erano dedicate ad alcune delle principali divinità norrene, in particolare Odino, Thor, Freyr e Frigg
Una festa vichinga, olio su tela di Ferdinand Leeke. 1925. Collezione privata. Le credenze dell’antica religione pagana nell’area scandinavo-germanica erano scandite da una serie di celebrazioni nel corso dell’anno: tra le piú importanti, oltre allo jól «natalizio», figuravano il Sigrblòt, in onore di Odino, l’equinozio di primavera, la notte di Valpurga e il solstizio d’estate.
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A banchetto con gli dèi
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el Grande Nord del Medioevo si festeggiava una sorta di «Natale pagano», le cui radici affondano nella notte dei tempi. Veniva chiamato jól, con un’espressione che rievoca misteriosi festeggiamenti allora in voga tra le genti di quelle terre, soprattutto prima dell’avvento del cristianesimo: sacrifici umani, roghi di cibo e bevande, battaglie simulate, furti rituali di pietanze, uccisioni di maiali... Nota anche con il termine di origine anglosassone yule, l’antica ricorrenza si svolgeva nel periodo corrispondente agli odierni mesi di dicembre e gennaio, ma che cosa si celebrasse in quell’occasione non è chiaro, nonostante la mole di studi prodotti sull’argomento. Con molta probabilità si officiavano riti volti a propiziare la fertilità, ma, nel contempo, anche cerimoniali oscuri in omaggio al mondo dei defunti e delle divinità infere.
Nella pagina accanto disegno raffigurante Baugi, fratello del gigante Suttungr, che viene spinto da Odino a trivellare la roccia in cui è nascosta la bevanda sacra, l’idromele. XVIII sec. Copenaghen, Det Kongelige Bibliotek. Nella festa pagana dello jól molti brindisi venivano dedicati al padre degli dèi norreni.
Un vocabolo misterioso
Quel retaggio precristiano sopravvive nell’Estremo Nord del Vecchio Continente, anche se solo dal punto di vista etimologico, ed è un caso unico nel panorama linguistico europeo. Nell’area nordica e baltico-finnica, infatti, l’espressione «Natale» ha conservato ancora la sua radice pagana: in islandese, per esempio, è tuttora Jól; in svedese, norvegese e danese ha assunto la forma derivata di Jul, mentre in finlandese quella di Joulu. Ancora oggi, l’origine del termine jól è avvolta nel mistero. La parola comparve per la prima volta nel V secolo, tra le pagine del Calendario gotico, un testo che svela preziose informazioni sulle piú importanti feste liturgiche dell’era antica: novembre viene definito come fruma jiuleis, «il mese che precede quello di jiuleis», ossia dicembre. Testimonianze simili sono fornite da Beda il Venerabile (dottore della Chiesa e «padre» della storia inglese, 672-735) nel De temporum ratione, un trattato che risale invece al 725 e illustra il criterio di suddivisione dell’anno in vigore nell’Alto Medioevo presso i popoli anglosassoni, in base al quale dicembre e gennaio si chiamavano entrambi giuli. La curiosa ripetizione è dettata, secondo lo stesso Beda, 122
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da un motivo strettamente astronomico: «I mesi giuli prendono i nomi dal mutamento di percorso del sole verso l’aumento del giorno, perché uno di loro lo precede e l’altro lo segue». Anche in un calendario ecclesiastico piú tardo, il Martyrologium, i due mesi invernali vengono citati sostanzialmente con la stessa espressione, in questo caso geola, con una sola piccola differenza: dicembre assume il nome di ærra (cioè «precedente a») geola e gennaio di æftera («successivo a») geola, in relazione, appunto, alla giornata in cui il sole supera la fase del proprio piú profondo letargo, quindi al solstizio d’inverno. Le testimonianze sullo jól compaiono nella letteratura scandinava solo a partire dal 900, in un periodo in cui il cristianesimo non aveva ancora attecchito del tutto a quelle latitudini. La prima menzione è contenuta nell’Haraldskvædi (Il poema di Harald), scritto dallo scaldo Törbjorn Hornklöfi e dedicato al re norvegese Harald Bellachioma: in una delle strofe si fa riferimento a un brindisi del sovrano nel corso della festa dello jól (iól drekka), tenuta sulla propria imbarcazione. Notizie sulla ricorrenza si trovano anche in alcune saghe islandesi. Snorri Sturluson, nella Ynglinga saga (Saga degli Ynglingar), cita uno jól tenutosi intorno all’840, senza però fornire chiare indicazioni sul periodo dell’anno in cui veniva festeggiato. Né colma questa lacuna la Svarfdæla saga (Saga dei valligiani di Svarfadardalr) nel brano in cui riporta il caso di un berserkr, un guerriero dalla pelle d’orso, che rinvia un duello perché fissato in prossimità della celebrazione di quella festa pagana.
Il ritorno delle anime dei defunti
In alto il teschio di una mucca nel museo all’aperto di Lejre, in Danimarca. La mucca, uno degli esseri primordiali della mitologia nordica, veniva spesso immolata nei riti sacrificali.
Lo jól si lega alla credenza, molto diffusa nella Scandinavia precristiana, di un ritorno dei morti sulla terra, talvolta sotto forma di animali. Per questo motivo si consumavano riti che in qualche modo dovevano stabilire un contatto con le anime dei defunti, soprattutto nel periodo in cui si riteneva fossero solite ricomparire nel mondo dei vivi, cioè in pieno inverno. Lo dimostrerebbe il brindisi principale della celebrazione, che veniva dedicato a
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Odino soprattutto nella veste di divinità dei morti, non solo perciò come propiziatore di vittorie in battaglia. Gli altri brindisi, invece, erano in onore di Njördr e Freyr, associati rispettivamente alla fortuna e alla fertilità. Secondo alcuni studiosi, la festa dello jól cadeva nel periodo invernale, aveva la durata di tredici giorni e dodici notti ed era connessa con la credenza relativa ai morti che tornano sulla terra, oltre che a culti della fecondità. Concorda sulla durata e sul carattere descritto della festa lo studioso tedesco Rudolf Pörtner, citando una cerimonia vichinga di mezzo inverno della durata di dodici giorni che «consisteva nell’imbandire una tavola per i morti o nell’invitarli a un comune banchetto».
Quando il re ordinò di fare festa...
Anche nei periodi in cui il cristianesimo cominciava a far proseliti, continuarono ad affluire testimonianze sulla celebrazione dello jól nordico, come evidenziato nella Hákonar saga góda (Saga di Hakon il Buono). Protagonista è il sovrano norvegese Haakon I, che «legiferò affinché si festeggiasse lo jól in coincidenza con la festa dei cristiani», invitando i partecipanti a «preparare una birra, o altrimenti pagare per essa, e tenere un banchetto». In precedenza, secondo quanto svela la stessa saga, lo jól si teneva qualche giorno dopo l’attuale festività natalizia, «in coincidenza di hökunótt», che era la notte di metà inverno, corrispon-
Nella pagina accanto, a sinistra un corno potorio celtico in bronzo, con applicazioni in oro e corallo. 450-370 a.C. Darmstadt, Hessisches Landesmuseum. Simili recipienti venivano utilizzati per consumare le bevande considerate sacre dai popoli settentrionali, come l’idromele e la birra. Nella pagina accanto, a destra due momenti di una celebrazione natalizia svedese nella città di Gävle che prevede il rogo dello julbock, una capra di paglia in origine legata al culto di Thor. In basso un gruppo di grandi bevitori nordici nella replica ottocentesca di una xilografia realizzata per l’opera Histoire des Pays Septentrionaux di Olao Magno, pubblicata ad Anversa nel 1560. Collezione privata.
dente alla prima metà di gennaio secondo il calendario islandese dell’epoca. Ancora Snorri Sturluson allude a riti sacrificali che si tenevano nel periodo di metà inverno per propiziare la fertilità dei raccolti. Altri componimenti, come l’Helgakvida Hjörvardssonar (Canto di Helgi Hjörvardsson) e la Hervarar saga ok Heidreks (La saga di Hervör), specificano che le modalità di alcuni sacrifici erano cruente, accennando all’uccisione di un maiale sul quale poi si prestavano giuramenti. Di solito si immolava l’esemplare piú grande, per omaggiare il dio Freyr, nonché il mondo dei defunti. La scelta del maiale si accordava con la credenza mitologica che la sua carne rappresentasse il nutrimento preferito dagli eroi morti del Valhalla, una sorta di cibo di immortalità dei trapassati. Probabilmente però, durante le feste pagane invernali, i sacrifici non erano solo animali. Lo suggerisce in particolare il Chronicon (1012-1018) del cronista e poi vescovo Thietmar di Merseburgo, che descrive un grande sacrificio in calendario ogni nove anni in Danimarca, a Lejre, nel periodo dell’Epifania cristiana. Un rito cruento, durante il quale si uccidevano 99 persone e altrettanti cavalli, insieme a cani e galli, per propiziare il comportamento benevolo delle divinità. La cerimonia danese presenta modalità simili al rito sacrificale che si teneva nella capitale pagana della Svezia, Uppsala, descritto dal teologo Adamo di Brema nella Storia degli arcive-
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scovi della Chiesa di Amburgo, la cui redazione viene fissata tra il 1072 e il 1076. Anche in questo caso il rito si svolgeva ogni 9 anni e comportava l’immolazione di decine di uomini, per un totale massimo di 72. I corpi venivano poi appesi in un bosco nelle vicinanze: «Questo bosco per i pagani è cosí sacro – scrisse il religioso – che ogni suo albero è considerato divino a causa della morte e del sangue decomposto delle vittime». Adamo di Brema individua il periodo di celebrazione del sacrificio nel periodo dell’equinozio di primavera.
Una triplice esecuzione
Piú di uno studioso, tuttavia, ritiene che l’indicazione sia imprecisa, viste le similitudini con il sacrificio invernale descritto nel Chronicon di Thietmar. «Le coincidenze tra i due brani sono notevoli – osserva il filologo Tiziano Daniotti –, al punto da far sospettare che si tratti dello stesso sacrificio e che uno dei due autori sia in
•••••••••••••• reminiscenze pagane Nel Nord Europa il vecchio jól e le feste pagane non hanno lasciato solo un’eredità etimologica. Durante le feste natalizie, infatti, in Scandinavia compare oggi un simbolo non proprio riconducibile alla tradizione cristiana: il cosiddetto «caprone di Natale». L’oggetto, solitamente realizzato con la paglia, richiama probabilmente il culto del dio Thor, che possedeva un carro trainato proprio da due caproni. Nel 1800, sempre nei Paesi scandinavi, la maschera dell’animale veniva indossata dal membro della famiglia incaricato di dividere i regali natalizi. In seguito il caprone (julbock in svedese, julebukk in norvegese e julebuk in danese) divenne solo un ornamento. Alcuni studiosi di mitologia hanno trovato similitudini tra la figura del caprone e le maschere indossate dai Goti nel corso dell’ipotetico jól che si svolgeva presso la corte bizantina. C’è, invece, chi l’ha associata alle anime dei morti che nei mesi di dicembre e gennaio tornavano sulla terra, assumendo l’aspetto di vari animali. Altre figure tipiche di derivazione precristiana del Natale nordico sono il nisse (in Danimarca e Norvegia) e il tomte (in Svezia), piccoli folletti incaricati di proteggere le fattorie.
••••••••••••••••• La birra dà forza Usata per i brindisi dello jól, la birra nel mondo nordico rappresentava un elemento sacro soprattutto per il guerriero, che, attraverso quella bevanda, poteva assumere le piú potenti e benefiche energie vitali. L’influsso magico della bevanda proveniva dal processo di fermentazione, attraverso il quale si manifestava la forza purificatrice della natura. Il grano, dal quale la birra si ricava, era considerato un frutto nobile della terra generosamente concesso agli uomini e, in un certo senso, doveva quindi essere restituito alla natura o propiziare interventi divini. Da qui i riti sacrificali che comprendevano l’offerta della birra e il suo spargimento anche sul terreno. In base ad alcune interpretazioni la bevanda era associata in particolare al culto di Thor.
errore riguardo alla sua collocazione nel calendario». Di solito la vittima prescelta per il rito sacrificale veniva impiccata. Talvolta però doveva subire una triplice esecuzione: prima era strozzata con un cappio, poi annegata e infine trafitta con una lancia. Il sangue dei cadaveri, sia umani che animali, veniva infine sparso sugli alberi, sulle statue delle divinità e anche spruzzato sui presenti al rito. Un’altra possibile testimonianza collegata alla celebrazione dello jól nordico è contenuta nel Libro delle cerimonie (959), scritto dall’imperatore d’Oriente Costantino VII Porfirogenito. Nel primo libro vengono minuziosamente descritte le modalità di svolgimento di un «gioco gotico» che si teneva nella Sala dei Diciannove Letti della corte di Bisanzio il 2 gennaio di ogni anno. Ne era protagonista un gruppo di Goti che alcuni storici, come lo svedese Nils Sjöberg, identificano con i Variaghi, reparto di Vichinghi al servizio del sovrano come guardia del corpo personale. Il miti nordici
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«gioco gotico», quindi, altro non sarebbe stato che un’usanza importata dal Nord, in particolare dalla Svezia. I Variaghi in terra bizantina si fecero apprezzare molto, tanto da occupare nel corso dei secoli un ruolo di prestigio nella corte dei vari imperatori: si diceva all’epoca che solo a loro venissero affidate le chiavi della città, nei periodi in cui il sovrano era fuori sede. Il gioco si caratterizzava in una sorta di partita rituale tra due squadre: gli «Azzurri» da una parte, reclutati tra le fila dei membri della flotta, e i «Verdi» dall’altra, selezionati, invece, tra i componenti della guardia imperiale. Ogni compagine aveva nel proprio organico due personaggi chiamati appunto «Goti», muniti di scudo e bastone, che indossavano pellicce e maschere. A un segnale convenuto, le due squadre simulavano uno scontro, avvicinandosi minacciosamente l’una all’altra e scandendo il loro grido di battaglia, che per Rudolf Pörtner corrispondeva all’espressione «jul».
Sia lode all’imperatore! Miniatura raffigurante la guardia variaga dell’imperatore di Bisanzio, composta da truppe scelte di Vichinghi, dal Codex Graecus Matritensis Ioannis Skyllitzes, manoscritto greco di produzione siciliana che riporta la Sinossi della Storia di Giovanni Scilitze. XII sec. Madrid, Biblioteca Nazionale.
Il secondo atto della festa prevedeva una disposizione diversa delle fazioni, che si schieravano intorno alla mensa imperiale, formando due cerchi concentrici. Una delle due squadre, raccolta nel cerchio piú piccolo, veniva circondata dagli avversari che accennavano un attacco sotto forma di danza. L’epilogo della cerimonia era caratterizzato da canti con vocaboli latini, germanici ed ebraici mescolati tra loro, che facevano forse parte di un linguaggio segreto, esoterico. L’ultimo atto si consumava dopo aver intonato un inno all’imperatore, intervallato da grida di battaglia dei quattro Goti e dal loro ritmico battere con i bastoni sugli scudi. La tradizione legata alle due squadre in lotta, invece, trae probabilmente spunto da vicende storico-politiche bizantine, dalla divisione di Costantinopoli in fazioni all’epoca di Giustiniano, nel VI secolo: i «Verdi» su un versante, seguaci del monofisismo (eresia che negava a Cristo attributi umani) e gli «Azzurri» sull’altro, in rappresentanza di una sorta di movimento popolare che sosteneva l’ortodossia religiosa, oltre che l’imperatore. Nella cerimonia presso la corte bizantina si consumavano grandi quantità di birra, che aveva sempre un ruolo centrale nei rituali del festeggiamento. Non a caso l’espressione drekka iól, contenuta nel già citato Haraldskvædi, collega il senso del «festeggiare» al consumo di una bevanda. Drekka, in antico nordico, significa letteralmente «bere», ma ha un’accezione piú ampia, che si riferisce all’atto di «consacrare mediante una bevuta». Nella tradizione scandinava, infatti, la bevuta rituale, si propone di attivare un contatto con le divinità. L’assumere sostanze che avevano effetti eumiti nordici
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forizzanti consentiva «una rigenerazione delle energie vitali». Lo stato di ebbrezza, pertanto, separava «lo spirito dalla realtà quotidiana» e lo metteva in comunicazione «con l’altro mondo», dove esso veniva a contatto «con le energie vegetative». Una condizione paragonabile agli stati di trance, in virtú dei quali si poteva compiere un percorso iniziatico, qualora si fosse mantenuta una forte coscienza di sé. Del resto lo stesso Odino nell’Edda poetica invitava comunque i suoi fedeli a usare una certa moderazione nel bere: «Poiché è eccellente la birra, purché dopo riacquisti // ciascun uomo il suo senno». Durante i sacrifici la bevanda veniva distribuita dall’officiante, cioè da uno jarl (un capo militare aristocratico) o un godi (un sacerdote), non prima, però, di aver pronunciato una formula rituale: con la mano tracciava il segno del martello di Thor sulla birra per ottenere fertilità per le terre e altri eventi fausti per la comunità. Beveva quindi egli stesso il primo sorso e, subito dopo, porgeva il corno ai presenti, secondo un rigoroso ordine gerarchico, seguendo il senso di rotazione solare. Dalle pagine della Hákonar saga góda si evince che in alcuni sacrifici si tenevano tre brindisi separati: uno in onore di Odino, un altro di Freyr e infine un terzo, chiamato bragafull, forse in omaggio al dio della poesia Bragi, nel quale veniva prestato un giuramento.
I «dispetti» di Odino
In occasione dello jól, come anticipato, si preparava anche un banchetto, che in alcuni casi però non poteva essere consumato. Nelle saghe islandesi, infatti, si raccontano strani casi di vivande che sparivano dalla tavola imbandita, con il disappunto anche degli stessi sovrani. Si trattava, con ogni probabilità, di un rito in omaggio a Odino o di un «intervento diretto» del dio stesso, spesso rappresentato nella mitologia come poco incline alla generosità e alla temperanza, anche nei riguardi dei suoi adoratori. Lo «denuncia» in un certo senso il compendio di saghe islandesi Flateyjarbok (Libro dell’isola piatta), seppur da un’ottica di parte cristiana: «Ora parleremo di come i pagani festeggiano il Natale, perché è molto diverso da come fanno gli uomini cristiani, i quali festeggiano con il loro Natale la nascita di Signore Gesú Cristo, mentre i pagani tengono la loro riunione in onore del malvagio Odino, il quale reca questi soprannomi: egli si chiama Vithrir («ventoso»), Hárr («alto»), Thrithi («terzo») e Jólnir (…) Jólnir perché da lui viene la festa dello jól». Odino era il dio che rubò l’idromele (la bevanda in grado di donare ispirazione nella poesia) al gigante Suttungr, dopo aver sedotto e abbandonato Gunlod, l’avvenente guardiana della sacra bevanda. E, secondo alcune interpretazioni mitologiche, Odino pote128
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La notte delle madri Non senza cautela, qualche storico ha avvicinato lo jól a una delle piú misteriose feste pagane invernali del Nord Europa, la «notte delle madri». Secondo Beda il Venerabile in Britannia veniva celebrata proprio nel giorno della Vigilia di Natale: «È la stessa notte ora per noi cosí santa, allora con parola pagana [gli Anglosassoni] chiamavano Modranicht, vale a dire notte delle madri, a causa delle cerimonie che in essa tenevano vegliando». Le madri indicate dal santo anglosassone potrebbero corrispondere alle Dísir della mitologia nordica, anch’esse divinità femminili connesse con il culto della fertilità. In questo caso, però, la ricorrenza dell’eventuale festa non coinciderebbe con il periodo natalizio, ma con ottobre, quando nel mondo germanico si celebravano sacrifici in onore di quelle divinità.
Particolare del calderone celtico di Gundestrup raffigurante una «divinità madre». II sec. a.C. Copenaghen, Nationalmuseet. Rinvenuto in Danimarca nell’Ottocento, il manufatto era usato a scopo rituale nel corso di particolari ricorrenze. Il culto della madre era celebrato in terra anglosassone nell’antica festa del Modranicht o Modraniht che, secondo alcuni studiosi, presentava elementi in comune con la ricorrenza norreno-germanica del Dísablót legata alle Dísir.
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Le altre feste pagane
thORRABLÓT Gennaio Festa che nel Medioevo si celebrava in onore di Thor, ma anche di Thorri, una divinità locale islandese che personificava l’inverno. Con l’avvento del cristianesimo fu sostanzialmente abolita e solo di recente è stata ripristinata in Islanda. Disting Febbraio La ricorrenza veniva celebrata soprattutto in Svezia e coincideva con il periodo di riunione del thing, il parlamento. Era propiziatoria per l’arrivo della primavera e la buona riuscita dei raccolti. Inizialmente era legata ad un altro importante rito del periodo invernale, il Disablót. VÁli Metà febbraio La festa rievocava l’uccisione di Hodr (l’assassino del dio piú amato, Baldr) per mano del fratellastro Váli. In memoria di quella vendetta, si celebrava il ritorno della luce dopo un periodo di tenebre.
Equinozio di primavera - ostara 21 marzo Ricorrenza dedicata all’arrivo della stagione calda che preludeva alla rinascita della natura. L’antico nome della festa, Ostara, derivava dalla figura di Eostre, dea della salute e della prosperità. Il cristianesimo accorpò la celebrazione nella Pasqua, ma in alcune lingue le tracce dell’antica celebrazione pagana sono ancora ben visibili: Pasqua, in tedesco, è infatti Ostern e in inglese Easter.
••••••••••••••••••••• Sigrblòt Metà aprile Celebrazione in onore di Odino. Serviva per propiziare fortune e glorie nelle battaglie, che di solito erano disputate nel periodo in cui il clima lo consentiva. Nel corso del rito erano previsti anche sacrifici di animali.
notte di valpurga 30 aprile- 1° maggio Una delle feste piú antiche della tradizione nordica che rientrava nel novero dei riti della fertilità. Secondo antiche credenze diffuse nelle regioni germaniche, nella notte tra il 30 aprile e il 1° maggio le streghe danzavano al chiarore di luna nella catena montuosa dell’Harz. La ricorrenza, connotata dall’accensione di grandi falò, venne progressivamente sovrapposta alla festa in onore di santa Valpurga, religiosa inglese che visse e morí in terra tedesca nell’VIII secolo.
••••••••••••••••••••• Friggblòt Fine di maggio In omaggio a Frigg, moglie di Odino, dea dell’amore e della prosperità, veniva celebrata la primavera e si compivano sacrifici.
Solstizio d’estate 20-21 giugno Il giorno piú lungo dell’anno era festeggiato nelle civiltà germaniche e norrene con falò magici e danze intorno agli alberi. Entrambi i riti sono tuttora al centro delle diverse celebrazioni della «festa di mezza estate» nelle nazioni del Nord Europa.
Equinozio d’autunno-haustblÓt 21 settembre Sacrificio d’autunno che si compiva in onore delle tre divinità principali: Odino, Thor e Freyr. In questo caso si cercava di propiziare non la fecondità dei raccolti, ma una protezione per l’imminente arrivo del gelo e dell’oscurità. DÍsablÓt Periodo imprecisato di autunno Ricorrenza dedicata alle Disír, esseri sovrannaturali che spesso apparivano in sogno alle persone destinate a morire presto. Talvolta venivano identificate con le valchirie e le norne. vetrnætr 12 ottobre Secondo Snorri Sturluson, era una delle tre feste principali della tradizione norrena medievale. Vi si celebrava l’inizio dell’inverno rendendo omaggio soprattutto a Odino, Freya e alle Dísir. Una antica tradizione narra che chi riusciva a trascorrere la notte del Vetrnætr nei pressi di una tomba acquisiva straordinari poteri magici.
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va possedere, di conseguenza, una sorta di «diritto sacrale al furto». I festeggiamenti dello jól si concludevano con una libagione, con lo spargimento rituale di bevande e cibi: il rito prendeva il nome di eldbjörg («protezione dal fuoco»), attraverso il quale si chiedeva alle divinità di salvare la popolazione dagli incendi. La cerimonia, comunque, richiamava anche un antico culto dei defunti celebrato in famiglia, in cui alimenti e bevande erano arsi nel fuoco. Dall’aspetto delle fiamme si potevano ricavare previsioni per il futuro, mentre le ceneri venivano poi usate come una sorta di fertilizzante magico per i campi, oltre che per fini terapeutici su bambini e bestiame.
La fine delle festività
Piú di una saga fa presumere che, originariamente, la festa dello jól si celebrasse in coincidenza con i nostri 13 o 14 gennaio, fornendo una possibile spiegazione storica al vecchio detto popolare svedese Tjugondag Knut dansas julen ut («Il ventesimo giorno di Knut porta via il Natale»). Si tratta dell’ultimo atto delle vacanze natalizie, che in alcuni Paesi della Scandinavia corrisponde al 13 gennaio e rappresenterebbe perciò un residuo della tradizione dell’antico jól. Non sembra solo un caso che, a partire dal XVIII secolo, proprio la Chiesa svedese e quella norvegese abbiano deciso di spostare la fine delle festività, dal 7, proprio al 13 gennaio, forse in segno del legame ancora esistente tra la popolazione e la vecchia ricorrenza di metà inverno. Fin dai primi periodi di compiuta conversione del Nord Europa, le Chiese locali evitarono di sradicare del tutto i culti pagani, operando una sorta di sincretismo religioso all’interno delle nuove feste cristiane. Un metodo necessario per vincere le forti resistenze degli popoli nordici ad abbracciare la nuova religione, soprattutto in Islanda e in Svezia. I vecchi riti sopravvissero pertanto, con i necessari adattamenti, in quanto per secoli erano stati il fondamento della vita sociale, come evidenziato dallo storico Franco Cardini nel suo saggio sulla cavalleria medievale: «Miti e riti stavano alla base della coesione della famiglia e delle tribú: erano indispensabili alla coesione di queste e alla comunicabilità fra i loro membri. E come tali permeavano di sé gli usi giuridici: era dunque facile – entro certi limiti – annunziare ai pagani germani la «Buona Novella»; ma meno facile era però indurli ad abbandonare quei costumi che mantenevano l’equilibrio della loro società e che erano posti sotto l’egida dei vecchi dèi. Da qui il carattere ambiguo, indeciso, trascolorante quasi, di certe conversioni». In Danimarca, per esempio, il
sovrano Aroldo I Dente Azzurro tentò, nel X secolo, di modificare il nome ufficiale del Natale cristiano, da Jul a Kristmess («Messa di Cristo»). Non ci riuscí per le resistenze della popolazione, che voleva mantenere in vita quell’espressione paganeggiante. Una parte della storiografia moderna tende a rappresentare lo jól come una festa etimologicamente legata in modo esclusivo alla ricorrenza del solstizio d’inverno, recuperando cosí le antiche tesi di Beda il Venerabile. A distanza di secoli si sviluppò di nuovo quindi la cosiddetta «teoria astronomica», della quale il linguista svedese del Seicento, Samuel Columbus, fu uno dei principali sostenitori. Lo studioso si soffermò in particolare sulla similitudine, nell’idioma del suo Paese, tra il termine natalizio jul e la parola hjul, cioè «ruota», nel significato di un ciclo delle stagioni. Alla stessa conclusione giunse il connazionale e contemporaneo di Columbus, Olof Rudbeck, uno dei discussi teorici del «goticismo», movimento culturale che nel XVII secolo si batté per glorificare l’identità dei popoli del Grande Nord, rintracciandone anche avi illustri nella storia europea.
Ruota o scherzo?
Altri linguisti si spinsero oltre, arrivando a isolare una radice comune tra le lingue germaniche per la parola «ruota», dalla quale sarebbe appunto derivata l’espressione jól. La suggestiva idea fu sostenuta soprattutto dal filologo tedesco dell’Ottocento Jacob Grimm, che nella Deutsche Mythologie mette a confronto l’antico inglese hveol o hveohl, l’antico nordico hvël, lo svedese e danese hjul, l’islandese hiol, il neerlandese wiel e il frisone fial. La stessa radice, sempre secondo Grimm, sarebbe rintracciabile nella parola latina che indica il mese successivo al solstizio d’estate, iulius (luglio), altro momento di rotazione dell’anno. Altre teorie si fecero strada nel dibattito moderno, prima fra tutte quella del filologo norvegese Sophus Bugge: nel XIX secolo evidenziò la similitudine del termine jól con il sostantivo latino joculus, derivato da jocus nel senso di «gioco», «scherzo». L’associazione condurrebbe pertanto a identificare l’antica festa scandinava precristiana come una celebrazione gioiosa, in contrasto con la tesi dominante che ne profila l’identità di ricorrenza in onore dei defunti. Curiosa, infine, è la posizione dello storico Nils Lid, che in alcuni saggi pubblicati tra il 1928 e il 1934 mise in relazione lo jól con l’omonima espressione usata in norvegese per indicare una pianta, la Angelica silvestris. Una coincidenza singolare, che nasconderebbe una pratica pagana legata all’antica divinità germanica della natura *Rauzaz, comunemente identificata in Freyr. miti nordici
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Dobbiamo alle ricerche archeologiche tutta una serie di testimonianze sull’origine delle antiche religioni nordiche. Una fonte di informazioni preziosa, che si affianca al ricco patrimonio della letteratura medievale e rinascimentale
Backa (Lysekils, Svezia). Incisioni rupestri risalenti all’età del Bronzo. Le 600 figure umane che appaiono nel sito si alternano a navi e, in alcuni casi, a simboli solari, spesso presenti nell’arte scandinava protostorica.
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icercare le tracce storiche dei miti nordici nel Settentrione d’Europa non è compito agevole. Le prime testimonianze sulla cultura e le usanze dei popoli nordici risalgono al Neolitico superiore e appartengono all’area della Scandinavia settentrionale: si tratta di incisioni e pitture rupestri che raffigurano temi faunistici (le piú celebri sono quelle di Alta, in Norvegia, attribuite a una popolazione affine ai Sami della Lapponia o da genti che provenivano dall’Asia), presumibilmente scene di caccia. Dalla Svezia, invece, provengono varie testimonianze riferibili al’età del Bronzo, pitture che rappresentano imbarcazioni e scene di aratura, oltre a tumuli funerari (molto noti sono quelli di Kivik, di Sagaholm e di Håga, nelle vicinanze di Uppsala, che attesta lo svolgimento di sacrifici umani durante il rito della sepoltura).
Un carro per il dio del sole
Il reperto scandinavo piú importante dell’età del Bronzo è, però, il cosiddetto carro solare di Trundholm, rivenuto in Sjælland (Danimarca) e conservato oggi nel Nationalmuseet di Copenaghen. Sul carro (vedi foto alle pp. 16/17) sono visibili un cavallo collegato a un disco che alcuni studiosi ritengono simboleggi un dio della mitologia norrena, Sól. Le raffigurazioni dei piú importanti protagonisti dei miti norreni sono, invece, medievali, a
A destra l’epopea di Sigurdr raccontata attraverso le immagini incise sulla pietra di Ramsund (Svezia). XI sec. Cardine della composizione è l’uccisione del drago Fáfnir da parte dell’eroe norreno. Nella pagina accanto, in basso bratteato scandinavo in oro che raffigura Odino con un cavallo. V-VI sec. New York, The Metropolitan Museum of Art. In diversi manufatti altomedievali di questa tipologia, rinvenuti in Svezia e in Danimarca, compare l’immagine del padre degli dèi norreni. In basso la pietra runica U 1163, risalente all’epoca vichinga e ritrovata nell’Uppland svedese, nella quale sono ritratti alcuni episodi della leggenda di Sigurdr/Sigfrido.
partire dal bratteato di Vadstena (VI secolo), esposto oggi nell’Historiska Museet di Stoccolma: il reperto ritrae un uomo a cavallo comunemente associato alla figura di Odino (i bratteati sono monete battute su un tondello molto sottile, che recavano lo stesso tipo su entrambe le facce, su una a rilievo e sull’altra a incavo, n.d.r.). Simile è il bratteato di Sjælland 2, risalente allo stesso periodo. Il padre degli dèi nordici sarebbe ritratto anche nella pietra svedese di Ledberg, nell’Östergötland, mentre lotta con il lupo Fenrir. Odino, insieme a Thor e Freyr, appare, poi, nella pietra runica G 181 (IX secolo), scoperta in Gotland e ora ospitata anch’essa nell’Historiska Museet di Stoccolma: in quest’ultimo caso, Odino impugna una lancia, Thor il suo martello e Freyr una falce. Alle tre divinità, sempre in Svezia, fu dedicato un tempio nella zona di Gamla Uppsala, di cui, secondo l’archeologo Sune Lindqvist (1887-1976), sarebbero visibili le fondamenta. 134
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Raffigurazioni di Thor compaiono in altre pietre runiche, prima fra tutte la Altunastenen, rinvenuta in un villaggio dell’Uppland in Svezia e sulla quale il dio del tuono figura mentre pesca il serpente Midgardsormr. Thor appare anche nella pietra svedese di Velanda (Västergötland), ma solo in una breve invocazione. Nelle vicinanze, a Stora Noleby, una pietra runica del VII secolo riporta un testo in futhark che corrisponde a frasi contenute nell’Hávamál dell’Edda poetica, una testimonianza letteraria molto preziosa: «Io preparo le divine rune (…) per Hakobuz». Freyr è raffigurato da solo in una statuetta rinvenuta in Svezia a Rällinge nel 1904 e che risale all’XI secolo.
Mentre è piú antica la pietra runica di Kilver, ritrovata in Gotland, che cita il dio della guerra Týr. Ricca di particolari si rivela, poi, la raffigurazione del mito di Sigurdr impressa in diverse pietre – tutte di epoca vichinga – disseminate sul territorio svedese. Nell’Uppland la U 1163 ritrae Sigurdr che infilza il drago con la spada, mentre una valchiria e il nano Andvari gli porgono un corno con una bevanda (vedi foto a p. 134). Si trova invece nel Södermanland la Sö 40, nella quale è visibile Gunnar che suona l’arpa nella grotta del drago. Sempre nel Södermanland, a Ramsund, un’incisione su roccia (vedi foto in alto) descrive le varie fasi del ciclo di Sigurdr: l’attesa nella grotta del drago Fáfnir, gli uccelli che avvertono l’eroe miti nordici
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dell’arrivo di Regin, l’uccisione di Regin e di Fáfnir per mano dello stesso Sigurdr. Ulteriori episodi della leggenda sono raffigurati nelle pietre di Gästrikland (a Ockelbo) e di Hunninge (in Gotland): si notano un uomo che porta un anello, una donna che osserva la tana del drago e un’altra figura identificata con Gunnar. L’immagine di Gunnar si profila anche nella pietra norvegese di Væsterljung, mentre lotta con alcuni serpenti. Altri capitoli delle leggende norrene si possono ritrovare nel monumento di Hunnestad in Scania, dove appare impressa l’immagine di una donna (presumibilmente Hyrrokkin, la gigantessa che spinse la barca con le spoglie di Baldr in mare) in groppa a un lupo.
Le prime fonti scritte
Il primo a citare le popolazioni germaniche, ma senza descriverne le tradizioni e la religione, fu Giulio Cesare, nel De bello gallico (58-50 a.C.). I Germani sono paragonati ai Galli e considerati meno evoluti: «Ma oggi mentre i Germani, 136
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che conducono sempre la stessa vita di privazioni e di povertà, tollerate pazientemente, sono rimasti sempre fermi allo stesso grado di civiltà, i Galli invece, per la vicinanza con la nostra provincia e la conoscenza delle cose importate dalle terre d’oltremare, molto hanno appreso riguardo agli agi della vita». Cesare, a ogni modo, temeva i Germani, ben conoscendo la loro ferocia in battaglia. Ben piú dettagliata è l’analisi di un altro scrittore romano, Publio Cornelio Tacito, che nel De origine et situ Germanorum (98 d.C) fornisce una descrizione dei Germani non solo dal punto di vista etnico-geografico, ma anche antropologico, compiendo un excursus sulle loro tradizioni religiose. Forniscono ulteriori notizie sul profilo dei Germani Posidonio, Plutarco, Ammiano Marcellino e Svetonio, ma senza la profondità di analisi di Tacito. Maggiori dettagli si possono ricavare dai resoconti sulle genti settentrionali riportati da autori cristiani nell’Alto Medioevo, che descrivono la religiosità germanica come rozza superstizione
in alto pagina miniata del Flateyjarbók nel quale sono raccolte alcune saghe islandesi, che narrano in gran parte faide tra famiglie e imprese di condottieri, regnanti e navigatori. XIV sec. Reykjavik, Stofnun Árna Magnússonar. Nella pagina accanto una pagina di una versione dell’Edda in prosa di Snorri Sturluson. XIV sec. Uppsala, Universitetsbibliotek. La possibile influenza cristiana sulla letteratura medievale relativa al paganesimo norreno è tuttora molto dibattuta.
Molti autori cristiani considerarono la religiositĂ nordica alla stregua di una rozza superstizione o, peggio, di una invocazione del demonio miti nordici
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o, peggio, come una forma di invocazione del demonio. Tra i testi piú ricchi di informazioni vi sono la Vita Colombani, la Vita Willibordi, gli Historiarum ad versus paganos libri septem, il De origine artibusque Getarum, l’Historia Francorum e l’Historia Langobardorum. Ma, come già sottolineato, è dalle fonti autoctone che si possono apprendere in modo organico quali fossero le comuni credenze dei popoli settentrionali. Il merito principale va allo scrittore islandese Snorri Sturluson (11781214), che raccolse il patrimonio di antiche tradizioni mitologiche della sua terra e lo rielaborò nella Snorra Edda (Edda in prosa). Attin-
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gendo a frammenti in versi altomedievali, l’opera è composta da quattro sezioni: Fyrirsögn ok Formáli (Intestazione e introduzione), Gylfaginning (L’inganno di Gylfi), Skáldskaparmál (Dialogo sull’arte poetica) e Háttatal (Enumerazione dei versi poetici). Il Gylfaginning e lo Skáldskaparmál sono le fonti principali per ricostruire l’architettura mitologica norrena. Entrambe le Edda furono scritte in norreno (dal norvegese norrøn), la lingua parlata in Islanda e Norvegia nel Basso Medioevo e detta impropriamente anche Dønsk tunga («lingua
danese) dai popoli occidentali. In Danimarca, infatti, come in Svezia, veniva allora usata, invece, la variante antico-nordica orientale.
Una poesia pagana?
Fino all’inizio del XVII secolo l’Edda in prosa e alcune saghe rappresentavano i soli testi autoctoni di riferimento per approfondire la mitologia nordica. In seguito, nel 1643, un vescovo islandese, Bryniollur Sveinsson scovò un manoscritto, il Codex Regius, contenente venticinque canti di argomento mitologico-religioso che venne ribattezzato Ljóda Edda (Edda poetica). I testi si rivelarono piú ricchi di notizie
sulle credenze pagane dell’Edda in prosa (IXXII secolo). Il piano dell’opera in versi si rivela piú coerente e schematico: è divisa sostanzialmente in due parti, i carmi mitici e quelli eroici, tra i quali figurano i celebri Völuspá (La profezia della veggente), Hávamál (Il discorso di Hár), Grímnismál (Il discorso di Grímnir), Lokasenna (Gli insulti di Loki), Vafthrúdnismál (Il discorso di Vafthrúdnir), Skírnismál (Il discorso di Skírnir), Alvíssmál (Racconto di Alvíss) e Völundarkvida (Il carme di Völundr). (segue a p. 143)
I Norvegesi sbarcano in Islanda nell’872, olio su tela di Oscar Wergeland (1844-1910). Collezione privata. L’isola di ghiaccio, secondo i racconti delle saghe, venne colonizzata nel IX sec. da comunità in fuga dal regno di Norvegia.
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Il Grande Nord: un fascino senza tempo
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••••••••••••••••••••• ••• L’attore australiano Chris Hemsworth, protagonista di Thor. The Dark World (2013) diretto dal regista statunitense Alan Taylor. Nel film il dio del tuono stringe un’alleanza con il malefico Loki.
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A sinistra una delle piú celebri rappresentazioni cinematografiche del mito di Sigfrido fu resa dal regista tedesco Fritz Lang nel 1924 nel film I Nibelunghi. Nella foto l’attore Paul Richter nelle vesti dell’eroe germanico. In basso ne La fontana della vergine (1960), il regista svedese Ingmar Bergman rappresenta una società medievale nella quale i poveri risultano ancora legati agli antichi culti pagani. Nella foto, la protagonista, Birgitta Pettersson.
••••••••••••••••••••• • ••••••••••••••••••• I miti nordici sono spesso apparsi sul grande schermo, nei fumetti, nella narrativa contemporanea, nei testi della musica rock e, per finire, nei videogiochi. Le tradizioni norrene e germaniche hanno trovato spazio in pellicole di successo, alcune di notevole pregio stilistico. Nel 1924 il grande regista austriaco Fritz Lang girò due film muti su una delle leggende piú celebri: I Nibelunghi: Sigfrido e I Nibelunghi: la vendetta di Crimilde. Piú tardi, Giacomo Gentilomo presentò una versione italiana del mito, con la pellicola Sigfrido. La leggenda dei Nibelunghi (1957). I Vichinghi (1958) di Richard FIeischer, con protagonista Kirk Douglas, racconta, invece, l’epopea dei predoni scandinavi. In uno dei capolavori del regista svedese Ingmar Bergman, La fontana della vergine (1959), la figura di una giovane serva adoratrice del dio Odino viene contrapposta a quella dei suoi padroni, agiati e cristiani. Il tedesco Sigfrido (1966) di Harald Reinl, si distingue, invece, per l’ampio affresco narrativo e la spettacolarità di alcune sequenze.
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Thor, dai fumetti al grande schermo
Con un notevole salto temporale si arriva, poi, all’inizio del XXI secolo. In Berserker (2001), pellicola di marca sudafricana, diretta da Paul Matthews, si narra la storia del vichingo Barek, colpito da una maledizione di Odino che lo trasforma in un uomo-bestia. Nel 2011 il regista inglese Kenneth Branagh ha realizzato Thor, ispirandosi alla saga fumettistica degli anni Sessanta concepita dai disegnatori Stan Lee e Jack Kirby. Nel film di Branagh, come del resto nei fortunati comics, il dio del tuono assume le vesti di un vero e proprio supereroe. Il regno divino di Ásgardr, nella
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Nella pagina accanto, in alto la copertina di un’edizione del 1950 di Conan il barbaro, per il quale lo scrittore statunitense Robin Ervin Howard (1906-1936) si è ispirato alla mitologia norrena. Nella pagina accanto, in basso la copertina dell’album Valkyrja (2013) inciso dal gruppo faroese Týr. In basso lo scrittore John Ronald Reuel Tolkien (1892-1973), autore de Il signore degli anelli.
scenografia, è immerso in un’atmosfera futuribile, mentre i personaggi assumono una fisionomia affine alla grande drammaturgia epica rinascimentale. Punito dal padre Odino per la sua imprudenza, il dio viene privato del martello e costretto a combattere sulla terra come un normale umano. Nel 2013, nel sequel dal titolo Thor: The Dark World, il dio del tuono stringe un’alleanza con il perfido Loki contro i bellicosi Elfi Oscuri che minacciano di distruggere i nove mondi.
Mitologia norrena in salsa fantasy
Anche la letteratura contemporanea ha attinto in modo frequente al patrimonio di storie della mitologia norrena, a partire dal poema La ballata del cavallo bianco (1911) dell’inglese Gilbert Keith Chesterton, nel quale Odino e Thor si rivelano personaggi sinistri. A citare in modo sistematico le divinità e le leggende nordiche è stata, però, soprattutto la narrativa di genere fantasy, i cui primi echi risalgono al ciclo di Conan il barbaro di Robert Ewin Howard, concepito in un arco di tempo che va dagli anni Trenta al 1967. Ásgardr e il Ragnarök fanno, invece, da vero e proprio scenario in alcuni racconti contenuti nella raccolta L’incantatore incompleto (1941) degli statunitensi Lyon Sprague de Camp e Fletcher Pratt. Altri classici del genere che traggono ispirazione dal paganesimo norreno sono: La spada spezzata (1954) di Poul Anderson; la celeberrima saga de Il signore degli Anelli (1954) e La leggenda di Sigurd e Gudrún (pubblicato postumo) di John Ronald Reuel Tolkien, che presentano affinità con alcuni passi dell’Edda poetica e con la Völsunga saga; L’epopea dei giganti (1959) di Lester del Rey; La pietra magica di Brisingamen (1960) di Alan Garner; l’umoristico La vita, l’universo e tutto quanto (1982) di Douglas Adams. Anche nel ciclo di romanzi Harry Potter della scrittrice inglese J.K. Rowling sono rintracciabili riferimenti ai miti nordici, in particolare nel personaggio del lupo mannaro Fenrir Greyback che appartiene alla genia di maghi malvagi detti «Mangiamorte». Due divinità norrene (Loki e Hel) compaiono in un’altra grande serie fantasy, Everworld (1999-2001), di Katherine Alice Applegate. Mentre Odino riveste un ruolo di primo piano nel romanzo American Gods (2001) di Neil Gaiman. Tra le piú recenti opere di narrativa ispirate all’antica religione nordica si possono infine ricordare: Il mare dei Troll (2004) di Nancy Farmer; Le parole segrete (2007) di Joanne Harris, ambientato all’indomani del Ragnarök; Skulduggery Pleasant (2007) di Derek Landy; Le streghe di East End (2011) di Melissa de la Cruz; e il ciclo La ragazza drago (2008-2012) dell’italiana Licia Troisi. Ricca è anche la produzione narrativa sui Vichinghi, della quale si ricordano Le navi dei Vichinghi (1941) di Frans Gunnar Bengtsson, I mangiatori di morte (1977) di Michael Crichton e la Serie vichinga (2005-2009) di Tim Severin. Dagli anni Novanta i miti nordici sono tornati in auge anche nel panorama della musica rock, in seguito alla nascita di generi come il viking metal e il folk metal (in precedenza tracce del paganesimo germanico erano disseminate in alcuni brani di gruppi hard rock come i Led Zeppelin e i Manowar). Pionieri di queste nuove tendenze sono considerati gli svedesi Bathory e i norvegesi Enslaved, i cui testi risultano spesso ispirati alla mitologia norrena. Gran parte delle altre band, proliferate sulla scia dei precursori scandinavi, provengono dal Nord Europa: tra le piú note si citano gli Ensiferium, i Moonsorrow, i Korpiklaani, gli Amon Amarth, i Finntroll e i Faun. Alcuni gruppi riportano nei loro stessi nomi evidenti tracce dell’antica religione (Thor, Odin, Týr, Hel, Valkyria, Ginnungagap, Bifröst, Naglfar, Heimdallr, Yggdrasil, Fenrir, Ymir e Asgard, solo per fare qualche esempio).
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miti nordici
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Il mondo mitologico, ma soprattutto le storie degli eroi sono narrate anche nelle saghe islandesi, ricchissima produzione bassomedievale che ambienta le narrazioni nel periodo compreso tra l’età vichinga e l’avvento del cristianesimo (700-1050). Questa sterminata produzione in prosa, tra le piú ricche del Medioevo, non aveva nulla da invidiare alle contemporanee tradizioni letterarie provenzali, tedesche e italiane. Viene comunemente classificata in sette categorie, perlopiú distinte in base al genere. Le opere storicamente piú interessanti sono le Íslendingasögur (Saghe degli Islandesi), appassionanti epopee dedicate ad alcune famiglie norvegesi che, dalla fine del IX secolo, si trasferirono sull’isola. Di notevole suggestione si rivelano, poi, le cosiddette Fornaldarsögur (Saghe dei tempi passati), nelle quali prendono il sopravvento contenuti leggendari e magici. Le Konungasögur (Saghe dei re), invece, tratteggiano i profili dei sovrani medievali perlopiú norvegesi, con la stessa attendibilità storica delle Íslendingasögur. Le piú «cosmopolite» sono le Riddarasögur (Saghe cavalleresche), scritte sempre in Islanda, ma su imitazione di generi francesi.
Dalle saghe ai mostri marini
Un caso a parte è costituto dalla Sturlunga saga (Saga degli Stulungar), unico racconto «contemporaneo», insieme a quelli del gruppo delle Biskupasagör (Saghe dei vescovi), ovvero scritto nello stesso periodo degli eventi dei quali si occupa. Mentre tutte le altre saghe risultano posteriori rispetto all’epoca della loro ambientazione. L’ultima categoria in ordine di importanza comprende, infine, le Heilagramannasögur (Saghe dei santi), di carattere sostanzialmente agiografico. Anche in questo caso, però, sono emersi dubbi sull’autenticità dei racconti, sulla presunta stratificazione di interventi posteriori. In epoca moderna si scatenò la polemica tra fautori della cosiddetta Freiprosa («prosa libera», quindi priva di contaminazioni) e sostenitori della Buchprosa («prosa libresca», frutto di manipolazione successive). Una ulteriore panoramica storico-religiosa della Scandinavia medievale si delinea nei Gesta Hammaburgensis ecclesiae pontificum (Gesta dei vescovi della Chiesa di Amburgo) del vescovo Adamo di Brema, scritto nell’XI secolo. Nei Gesta Danorum (Gesta dei Danesi) di Saxo Grammaticus, pubblicato nel XII secolo, viene invece ritratto un mondo mitologico piú umano, affollato soprattutto di eroi e sovrani. Tradizioni e miti, infine, sono presenti anche nella rinascimentale Historia de gentibus septentrionalibus (Storia dei popoli settentrionali) dello scrittore svedese Olao Magno, con un particolareggiato bestiario sulle creature dei mari settentrionali. miti nordici
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