Medioevo Dossier n. 11, Novembre 2015

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IL MISTERO DELLE

RELIQUIE N°11 Novembre 2015 Rivista Bimestrale

IL MISTERO DELLE RELIQUIE

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Dalle Alpi alla Sicilia, passando per le chiese giubilari di Roma: in viaggio alla scoperta di uno straordinario patrimonio di storia e di fede

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IL MISTERO DELLE

RELIQUIE

Viaggio in Italia, alla scoperta di un patrimonio straordinario di storia e di fede di Chiara Mercuri

8 Presentazione Sulla via delle reliquie 32 Roma: le sette chiese La strada del perdono 66 Altre chiese di Roma Catene, prodigi e altre storie 88 Italia La penisola delle reliquie


Una «rete segreta» della venerazione percorre l’intera nostra Penisola: sono gli antichi itinerari della fede, scanditi dalla presenza di immagini miracolose, di indumenti, di frammenti della Croce, di chiodi e pietre, degli stessi corpi dei santi. La ricerca di questi oggetti, custoditi in luoghi nascosti, animava tanti cristiani dell’età di Mezzo, disposti ad affrontare viaggi interminabili pur di avere un contatto ravvicinato con le spoglie dei grandi martiri, confidando nella loro intercessione. Oggi, invece, quanto conosciamo di questo patrimonio davvero immenso – di devozione ma anche di storia (e di storie!) – racchiuso nelle nostre città, nei nostri borghi e nei santuari? Con questo Dossier di «Medioevo» invitiamo i lettori a compiere un viaggio attraverso i luoghi delle reliquie in Italia, dalle piú celebri a quelle sconosciute: dal Sacro Morso alla Madonna di San Luca, dal Santo Chiodo alla Corona Ferrea, dalla Sindone ai resti dei Magi, dalla lingua di Antonio da Padova alla Sacra Cintola di Maria, dal Santo Volto al Corporale di Bolsena, dal sangue di san Gennaro all’impronta di Michele Arcangelo, dai resti di san Nicola alle reliquie che affollano le chiese giubilari romane e tante altre ancora. A partire dalla tarda antichità, e poi durante tutto il Medioevo e oltre, il culto di questi «sacri resti» ha profondamente inciso nella storia del nostro Paese. Rievocare oggi quel fenomeno onnipresente, seppure nascosto, permetterà al lettore – credente o laico – di rivivere un’epoca avventurosa, di grande passione devozionale e di fede. Il nostro Medioevo, infatti, spogliato delle sue tantissime reliquie, sarebbe non solo poco autentico, ma anche meno comprensibile…



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SULLA VIA DELLE

RELIQUIE Il Medioevo fu l’epoca del culto dei «sacri resti», una particolare forma di devozione che alimentò fortemente il sentimento religioso dell’intero Occidente. Gli itinerari della venerazione per i corpi dei grandi martiri cristiani conducevano innanzitutto a Roma, ma anche in numerosi altri luoghi della Penisola. Dove possiamo scoprirli, tuttora custoditi da chiese e conventi...

Miniatura raffigurante un astronomo, da un trattato di astrologia del XIV sec. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana.

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Processione della reliquia della Croce in Piazza San Marco, tempera e olio su tela di Gentile Bellini, 1496. Venezia, Gallerie dell’Accademia. RELIQUIE

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ggetti inaspettati, frammenti di corpi, vesti, legni della Croce, chiodi, immagini e pietre miracolose. L’intera Penisola è attraversata da una rete invisibile di oggetti prodigiosi, chiusi nelle cripte delle chiese, dietro le nicchie, occultate dagli altari. Una storia antica, nata con la vittoria della fede cristiana in seno all’impero romano, ma che mostra chiari antecedenti nelle credenze dell’Italia preromana e, a volte, perfino nel retroterra protostorico. Confidare nell’intercessione dei santi, poter vedere con i propri occhi gli strumenti che hanno torturato un martire, o il Cristo stesso: ecco i sogni coltivati per secoli da moltitudini di pellegrini e fedeli. Ecco intorno a cosa sono sorti santuari e monumenti e si sono formate intere città: sulle speranze, sui bisogni piú urgenti, sulla ricerca continua del riscontro della benevolenza divina, sulla testimonianza di un esempio celebrato.

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È perciò inevitabile che nei cataloghi delle reliquie convivano leggende grottesche e tradizioni storicamente attestate, cosí come superstizioni e riscontri scientifici inattesi.

Quando la fede è cieca

L’avvicendarsi dei culti e i processi storici in seno ai quali si sono sviluppati i fenomeni di devozione hanno spesso frainteso le reliquie che ne erano oggetto, finendo per distorcerle o tradirle. Ma anche a scorrere tale frastagliato e vario elenco con un occhio poco indulgente, o guidati dal pregiudizio che tutto ciò sia da derubricare al rango di «credulità popolare» – ammesso che si possa supporre l’esistenza di tale categoria – ci si rende conto di quanto valore, quanta importanza e quanta fiducia molte di tali reliquie abbiano avuto nel corso dei secoli. Un bisogno ineludibile dell’uomo, forse – e da sempre, per quello medievale – qualcosa di piú:

In basso pannello in avorio raffigurante Pulcheria (imperatrice romana d’Oriente e poi santa) che riceve le reliquie di san Giovanni Crisostomo. Manifattura bizantina, VI sec. Trier, Tesoro della Cattedrale. Nella pagina accanto Modena, Duomo. Le reliquie di san Geminiano.


una necessità, un obbligo, una caratteristica precipua. Eliminando le reliquie dal paesaggio del Medioevo italiano, tutto diventerebbe piú scuro, incomprensibile, irragionevole.

Poteri soprannaturali

Il termine latino reliquia significa «resto», «parcella». Nella letteratura cristiana esso indica il frammento corporeo di un santo e ha assunto, quindi, un significato positivo nell’accezione in cui esso è ormai inteso, ovvero come oggetto sacro, raro, prezioso, in molti casi dotato di poteri soprannaturali. Nei primi secoli dell’era cristiana, quando i martiri testimoniavano con il sacrificio della vita la propria fede, i loro corpi, oggetto di grande devozione, venivano deposti nei sarcofagi e rispettati nella loro integrità. In un secondo tempo, la necessità di moltiplicare i poli cultuali e di rispondere alle crescenti richieste

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di reliquie da parte di principi e prelati, fece sviluppare la pratica di smembrarli in parcelle, che furono inviate nelle varie diocesi e nei vari regni d’Europa. Nacque cosí un’altra categoria di oggetti sacri, i reliquiari, atti a contenere i frammenti dei corpi santi, che, essendo fatti di metalli e pietre preziose, accrebbero il potere evocativo della nozione di «reliquia»; nell’immaginario collettivo quest’ultima si legò, infatti, alla preziosità delle teche, che, inoltre, avevano un notevole valore pecuniario. Secondo quanto sostenuto già nel V secolo dal vescovo Paolino di Nola, le reliquie avevano la prerogativa di mantenere tutta la virtú dell’intero corpo del santo. Quanti si fossero dunque recati in pellegrinaggio presso i «resti» dei corpi santi, avrebbero potuto ottenere lo stesso tipo d’intercessione impetrabile nei grandi centri martiriali della cristianità. 12

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A destra esterno di un reliquiario della Vera Croce. Manifattura bizantina, 955 circa. Limburg, Tesoro della Cattedrale. Nella pagina accanto illustrazione da un manoscritto raffigurante il doge e i Veneziani in preghiera davanti alle reliquie di san Marco. XV sec. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana. In basso reliquia di una larga porzione della calotta cranica di san Giovanni Battista. L’iscrizione indica una fattura bulgara, pertanto potrebbe essere stato un dono per la corte di Bisanzio. Istanbul, Museo di Topkapi.

L’uso di oro, argento e gemme per la fabbricazione dei reliquiari accrebbe il valore dei sacri resti in essi custoditi RELIQUIE

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un’altra forma di culto, resa alle immagini di Cristo e della Madonna che dovevano supplire alla mancanza dei loro corpi ascesi al cielo. Tali raffigurazioni, che solo impropriamente possono essere affiancate alle reliquie vere e proprie, assunsero un’uguale importanza dal punto di vista della venerazione popolare e del significato storico culturale. Il potere taumaturgico riconosciuto alle reliquie dalle stesse gerarchie cattoliche fu infatti esteso anche alle immagini sacre, alcune delle quali considerate acheropite, ovvero non realizzate da mano umana (dal greco acheiropoietos, derivante dall’unione tra la alfa con funzione privativa, cheir, mano, e poiein, fare, n.d.r.). Spesso queste ultime giunsero in Occidente per sfuggire alla furia iconoclasta che si scatenò nel mondo bizantino a partire dall’VIII secolo.

Fondamenti dell’identità cittadina

Sulle due pagine Lentate sul Seveso, oratorio di S. Stefano. Due scene dal ciclo di affreschi con le Storie di Santo Stefano, opera di scuola di Giovanni da Milano, eseguita intorno al 1370. La scoperta del corpo di Santo Stefano (in alto) e La traslazione del corpo di Santo Stefano.

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Nella classificazione delle reliquie, la Chiesa cattolica pose al vertice quelle associabili alla vita di Cristo: parti della Santa Croce, i chiodi della crocifissione, i frammenti della mangiatoia, la Sindone. Seguirono i resti dei santi: corpi interi, ossa, capelli, sangue, carne, nonché gli oggetti loro appartenuti – tuniche, scarpe, guanti, libri, breviari, immagini sacre, scritti autografi – e, nel caso dei martiri, gli stessi strumenti del martirio. Vennero infine considerate reliquie quelle «ex contactu», frammenti di stoffa posti a contatto con la tomba o con il corpo di un santo. Fin dai primi decenni dell’era cristiana, accanto al culto dei «resti sacri», si sviluppò anche

Il grande successo del culto delle reliquie non può essere spiegato solo attraverso il tenace attaccamento dei fedeli ai propri martiri e santi di riferimento, ma, soprattutto, con il valore civico che molti di questi culti assunsero: basti pensare ai celebri esempi di sant’Ambrogio a Milano o di san Marco a Venezia, dove la devozione resa ai patroni divenne un elemento costitutivo dell’identità cittadina. I riti collegati al culto delle reliquie – quali processioni, traslazioni, benedizioni, ostensioni, prediche – avevano una presa enorme sull’immaginario collettivo ed erano in grado di sviluppare un’efficace azione di propaganda su tematiche religiose e politiche. Le reliquie di Pietro a Roma, per esempio, offrirono il supporto ideologico per la costruzione della primazia del vescovo di Roma in Occidente. Il culto delle icone di Maria, invece, s’indirizzava contro le nascenti «eresie». Ogni culto del resto, cittadino e non, veicolava un messaggio precipuo che non è sempre facile decifrare, poiché non è infrequente che il trascorrere del tempo ne abbia occultati i contenuti giudicati urgenti solo al momento della sua affermazione. Usciti dalla clandestinità grazie all’imperatore Costantino, i cristiani organizzarono subito i primi santuari martiriali, che divennero presto oggetto della devozione dei fedeli; il legame con i martiri e le loro reliquie aveva tuttavia già preso forma durante l’epoca delle persecuzioni. Ne è evidente testimonianza il culto reso alle spoglie di Pietro e Paolo. I primi secoli di vita


della comunità cristiana a Roma furono segnati da una condizione di semiclandestinità, a cui si alternarono brevi ma crudeli persecuzioni. Sin dalla prima, promossa da Nerone nel 64 d.C., i cristiani cercarono di raccogliersi intorno alla memoria dei primi martiri, gli apostoli Pietro e Paolo, che ne furono vittime. Nel corso del II secolo la comunità crebbe, fino a diventare, nel secolo successivo, una presenza significativa nel variegato panorama cittadino. In questa fase, proprio tra la metà e la fine del III secolo, essa subí le persecuzioni piú violente e sanguinose, durante le quali furono uccise decine e decine di suoi appartenenti. E, nei momenti piú bui, i cristiani trovarono la forza per resistere guardando all’esempio dei martiri.

I «trofei» degli apostoli

Le sepolture di Pietro e Paolo, per esempio, erano visitate dai fedeli già in epoca antichissima. Nelle parole del presbitero Gaio, giunto a Roma all’epoca di papa Zefirino, e cioè tra il 199 e il 217, si allude a «trofei» (probabilmente piccole strutture a forma di edicola) che segnalavano le tombe degli apostoli: «Io posso mostrarti i trofei degli apostoli. Se vorrai recarti nel Vaticano o sulla via di Ostia, troverai i trofei di coloro che fondarono questa Chiesa». Il trofeo di Pietro si trovava infatti nel vasto cimitero che sorgeva sul fianco del Colle Vaticano, nel quale era stato deposto dopo l’esecuzione avvenuta nel prospiciente circo di Caligola, mentre quello di Paolo lungo la via Ostiense, poco distante dal luogo dell’esecuzione sulla via Laurentina. Il culto dei martiri si intensificò anche con la nascita, quasi sempre nei luoghi del martirio (sebbene in alcuni casi fossero invece legati anche alla loro abitazione, o al luogo della predicazione), dei santuari-memoria, nei quali, quindi, non vi erano vere e proprie reliquie, intese come resti del corpo. Dopo la pace religiosa imposta da Costantino, la Chiesa riorganizzò le tombe dei martiri e iniziò a segnalarle, affinché potessero essere distinte da quelle degli altri defunti. Le primitive scarne iscrizioni furono sostituite da lapidi piú monumentali ed elogiative. Sono famose le iscrizioni di papa Damaso (metà del IV secolo), che, oltre al valore memoriale, rivestono anche una notevole importanza artistica per lo sforzo compiuto nell’elaborazione di un tipo di scrittura chiara ed elegante. RELIQUIE

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Forlí Reliquiario contenente un frammento della Vera Croce. XIV sec. Forlí, Tesoro del Duomo. La chiesa cattedrale della città romagnola, sorta nei primi secoli del cristianesimo e originariamente intitolata alla Santissima Trinità, fu ri-dedicata alla Santa Croce dopo l’acquisizione del frammento del sacro legno. Nella classificazione delle reliquie, la Chiesa pose al vertice quelle piú strettamente riferibili alla vita di Cristo, come parti della Santa Croce, appunto, chiodi della Crocifissione, frammenti della mangiatoia o la Sindone.

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Sempre a partire dall’età di Costantino, su alcune tombe furono costruite vere e proprie basiliche. Le commemorazioni annuali della morte del martire assunsero una solennità particolare e tali luoghi divennero anche importanti mete di pellegrinaggio. In particolare, tra il V e il VI secolo, si diffuse la pratica di commemorare il «dies natalis», il giorno della morte del santo, ritenuto perciò il giorno «natale» – di nascita – in Cristo. Sul luogo della sepoltura, alla vigilia di tali celebrazioni, si accendevano luci e si trascorreva la notte in preghiera. Si diffuse anche la consuetudine di leggere testi che raccontavano la vita e la «passione»; da queste letture prese avvio la letteratura agiografica: le Passioni – cioè i racconti delle torture e del martirio –, da semplice affiancamento della celebrazione liturgica, divennero un genere romanzesco, capace di colpire a fondo l’immaginario del pellegrino medievale.


Le celebrazioni sulla tomba del martire segnarono anche l’affermarsi dell’invocazione ai santi. Sebbene si trattasse di una consuetudine esistente anche tra i primi cristiani, essa era assai limitata dal punto di vista liturgico. Fu il vescovo di Milano, Ambrogio, alla fine del IV secolo, a esortare invece i fedeli a indirizzare le loro preghiere ai martiri, affinché intercedessero per il perdono dei propri peccati. La preghiera ai martiri entrò cosí a far parte della Preghiera Eucaristica, e il Canone Romano è ancora testimone di tale tradizione. Il legame tra sangue dei martiri ed eucaristia è testimoniato anche dal costume, divenuto poi obbligatorio, d’includere reliquie nell’altare di ogni chiesa al momento della dedicazione. Questa pratica favorí lo smembramento dei resti sacri e la traslazione

Bologna Trittico reliquiario di Simone dei Crocifissi (al secolo Simone di Filippo Benvenuti). 1361-1370. Parigi, Museo del Louvre. La presenza dell’opera è documentata a Bologna nel 1399. Le reliquie erano originariamente custodite nelle piccole nicchie ricavate nella base del manufatto. Sulle ante sono raffigurati una Madonna con Bambino, san Giovanni Battista (a sinistra) e santa Maria Maddalena.

Bagnoregio Teca in argento nella quale si conserva il braccio di san Bonaventura da Bagnoregio. 1491. Bagnoregio (Viterbo), cattedrale di S. Nicola. Il sacro resto fu portato nella cittadina laziale da Francesco Sansone, Ministro Generale dell’Ordine dei Francescani, all’indomani della della ricognizione e della traslazione del corpo del santo operate a Lione il 14 marzo 1490. Nato nel 1217 nella frazione di Civita di Bagnoregio, Bonaventura morí nel 1274 e venne canonizzato il 14 aprile del 1482 da papa Sisto IV.

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Presentazione


Roma, basilica di S. Pietro. Il monumentale baldacchino, opera di Gian Lorenzo Bernini, sovrastante l’altare papale, a sua volta posizionato esattamente sopra la tomba di san Pietro. Sullo sfondo, si distingue la Cathedra Petri, reliquiario barocco in bronzo, anch’esso realizzato dal Bernini, contenente all’interno una cattedra in legno di quercia che, secondo un’antica tradizione, veniva usata dal principe degli apostoli durante le prediche.

di numerose reliquie. Tuttavia, soprattutto agli inizi, il principio dell’intangibilità delle sepolture, eredità della legislazione romana, costituí a lungo un forte ostacolo a tale pratica. Ancora nel 594, papa Gregorio Magno affermava che non fosse «consuetudine dei Romani» staccare parti del corpo dei defunti; e su tale base argomentativa respinse la richiesta dell’imperatrice bizantina Costantina di consegnarle la testa dell’apostolo Paolo per la grandiosa basilica, in via di realizzazione, a Costantinopoli in onore del santo.

Il potere in mano ai vescovi

Nell’Alto Medioevo, però, l’uso di smembrare i corpi per prelevarne reliquie, finí per prevalere, soprattutto per motivi squisitamente politici. Il declino del potere imperiale – unito all’urgente necessità di gestire la cosa pubblica – elevò i vescovi al ruolo di amministratori del potere civile. La sintesi tra funzione religiosa e civile dei vescovi cittadini raggiunse l’espressione piú evidente nella gestione dei santuari, che divennero non solo centri di pellegrinaggio e devozione, ma anche poli di aggregazione della vita rurale e urbana, di formazione di una coscienza civica, di protezione sociale. Tra i pensatori cristiani che, piú di altri, promossero il culto delle reliquie figura il già citato Paolino di Nola, vescovo in Campania alla fine del V secolo. La sua azione orientata alla costruzione del grandioso santuario di Cimitile va letta proprio nell’ambito della battaglia condotta dai vescovi per imporre il culto delle reliquie nelle rispettive città a partire dal IV e per tutto il V secolo, periodo durante il quale furono edificati santuari che divennero simbolo dell’autorità politica assunta dai presuli. Paolino si rallegrava di aver costruito sulla tomba di san Felice un cimitero talmente grande da sembrare una città, capace di attirare folle di pellegrini. Anche in Oriente si assistette a un fenomeno analogo: a Gerusalemme, per esempio, il ruolo del patriarca si definí anche in relazione al culto della Vera Croce; solo il patriarca aveva la facoltà di esporla alla venerazione dei fedeli, di portarla in processione il Venerdí Santo, e nel giorno anniversario della dedicazione della basilica costantiniana del Martyrium. Soprattutto, egli era il solo che poteva frammentarla e inviarne piccoli campioni negli altri centri della cristianità.

Proprio come il papa e i vescovi nelle rispettive regioni, il patriarca di Gerusalemme divenne quindi protagonista nella diffusione del culto della Croce attraverso un’intensa attività di frammentazione e scambi di reliquie che, tra il V e il VI secolo, non conobbe confini, né divisioni tra Oriente e Occidente. Da Gerusalemme a Costantinopoli, da Roma a Tours, il mondo cristiano si legò in un invisibile e arcano intreccio di minuscole tessere: le reliquie. Per i pellegrini medievali, recarsi a Roma significò sempre giungere «ad limina apostolorum». Il carisma e la capacità attrattiva della città si costruí infatti su due pilastri: l’eredità dell’impero romano e il sangue dei martiri. Le guide bassomedievali dell’Urbe – i mirabilia – dimostrano che si andava a Roma per pregare sulla tomba dei martiri, ma si visitavano anche le stupefacenti rovine dell’antichità. Nelle altre città della Penisola, invece, il culto dei santi martiri si legò presto al primo vescovo cittadino, colui che spesso aveva dato vita alla originaria comunità locale cristiana e ne aveva quasi sempre, all’epoca delle persecuzioni, pagato le conseguenze fino al martirio. Importanti luoghi di venerazione di protovescovi martiri furono quelli dedicati ad Agrippino e Efebo a Napoli, Marciano a Siracusa, Romano e Tolomeo a Nepi, Agostino a Capua, e Apollinare a Classe, presso Ravenna.

«Sepolture privilegiate»

A partire dal corpo del primo vescovo, cominciarono a sorgere i cimiteri comunitari, e le famiglie piú facoltose facevano a gara per esservi seppellite piú vicino possibile, dando vita al fenomeno delle «sepolture privilegiate». La propensione a farsi tumulare presso i santi riguardò anche i grandi vescovi del mondo antico: come Paolino di Nola, Ambrogio di Milano e Giovanni di Napoli. Particolarmente significativa fu la nascita del culto di Gennaro a Napoli, destinato poi ad avere enorme successo; nella città partenopea, il culto dei santi acquisí una connotazione particolare, poiché la mancanza di martiri locali indusse alla venerazione di testimoni di altre comunità campane e, successivamente, di santi orientali. Le reliquie di Gennaro – vescovo di Benevento e martire dell’epoca dioclezianea – furono traslate dal Marcianum (un villaggio rurale localizzabile agli inizi della regione vulcanica dei Campi Flegrei, RELIQUIE

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Sulle due pagine miniatura raffigurante pellegrini e infermi risanati per opera della reliquia del Chiodo della Santa Croce, da un’edizione manoscritta di scuola francese de Les Grandes chroniques de France. XIV sec. Londra, British Library.

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n.d.r.) a Capodimonte dal vescovo Giovanni, determinando lo sviluppo della Catacomba Superiore. Il legame che accomunava vescovi e santi riscoperti, indusse Giovanni – come si accennava – a predisporre per se stesso e i propri successori un ambiente di sepoltura privilegiato, la cosiddetta «Cripta dei Vescovi». Lo sviluppo delle catacombe di Capodimonte, dunque, fu incoraggiato dalla traslazione delle reliquie di Gennaro dal territorio puteolano. A Milano, invece, il culto delle reliquie venne potentemente rilanciato da una delle figure

centrali dei primi secoli dell’era cristiana: Ambrogio. Fu lui, vescovo della capitale politica dell’impero d’Occidente, a dare il via a scavi nei cimiteri milanesi e a porre al centro della sensibilità cristiana la riscoperta dei corpi dei martiri. Ogni scoperta portava alla costruzione di un santuario e ogni nuovo edificio di culto segnava una vittoria sul fronte della lotta all’eresia ariana e alla politica laicista, che Ambrogio si trovò a contrastare piú volte in seno alla corte imperiale. Ulteriori invenzioni (qui intese come


A destra Cimitile, basilica di S. Felice. Uno scorcio dell’interno della chiesa con, in primo piano, l’edicola mosaicata contenente la tomba con le spoglie del santo.

ritrovamenti, dal latino invenire, trovare, n.d.r.) e valorizzazioni di reliquie si susseguirono in altre regioni d’Italia, come a Bologna con i santi Vitale e Agricola. I piú importanti vescovi scoprivano e davano valore alle reliquie: nelle diocesi di Capua, Trento, Nomentum e Amiterno il ricordo dei santi fu curato da personaggi del calibro di Simmaco, Vigilio, Orso e Quodvultdeus.

Le città cambiano volto

Ogni città tendeva a realizzare il proprio centro vescovile – la cattedrale che custodiva la sedia episcopale – a partire dalla memoria di martiri locali o provenienti da altre aree. In tale fase, dunque, i centri vescovili sorgevano spesso appena fuori e sul margine dell’area abitata, nel rispetto all’antica legge romana che vietava le sepolture tra le case. Presso tali centri si esercitava gran parte dell’attività religiosa dei fedeli, essendovi la coincidenza topografica tra sede episcopale, battistero e cimitero comunitario. La storia cultuale di ogni città era ancora una storia di aggregazione intorno al proprio cimitero di riferimento, attorno al martire, presso cui erano sepolti – quanto piú possibile vicino a esso – i propri congiunti. In ciò si stava stabilendo una vera e propria rottura con il mondo antico. Nuovi centri di aggregazione nacquero ai bordi delle aree urbane, le decentrarono, spesso frammentandole e favorendo la decadenza di quelli che erano stati un tempo i nuclei di attività, i fori. Nella costruzione delle chiese cimiteriali, per far sí che i pellegrini potessero avvicinarsi il piú possibile alla tomba del martire, gli architetti escogitarono soluzioni complesse, come, per esempio, la cripta semianulare che permetteva ai fedeli di scendere presso la tomba e osservarla da una finestrella (fenestella) e su RELIQUIE

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Sulle due pagine Napoli. Il vestibolo superiore della catacomba di S. Gennaro, le cui volte conservano affreschi databili al II sec. Di questo ambiente fa parte la Cripta dei Vescovi, nella quale furono appunto tumulati alcuni dei primi presuli della città partenopea.

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di essa, anche per un solo istante, appoggiare pezzi di tessuto o piccole croci, in modo che divenissero, esse stesse, reliquie per contatto (ex contactu). Accanto alle chiese martiriali si svilupparono poi importanti monasteri dotati di vari servizi; si aprirono strutture di carattere commerciale (botteghe per l’acquisto di souvenir – ampolle, chiavi, eulogie –, alberghi e locande), affiancate da luoghi di accoglienza e caritativi, promossi a partire da papa Simmaco. S. Pietro in Vaticano acquisí una vera e propria specializzazione in tal senso: con le sue cinque diaconie garantiva un

efficace servizio nell’assistenza ai poveri e ai pellegrini. Presto, tali cambiamenti portarono alla sovrapposizione di una nuova topografia cristiana sul corpo delle città antiche. Tale processo si protrasse per secoli, fino all’Alto Medioevo, quando le città conobbero una nuova e brusca trasformazione, che coincise con le fasi piú acute – tra il VII e l’VIII secolo – di emergenza militare. Le aree suburbane si spopolarono, salvo alcuni luoghi, che vennero fortificati. Le antiche chiese martiriali furono perlopiú abbandonate, le reliquie dei martiri trasferite nelle aree


A destra San Carlo e Sant’Ambrogio in adorazione del Santo Chiodo. Olio su tela, di autore anonimo. XVII sec. Milano, Pinacoteca Ambrosiana.

Accanto alle mete di pellegrini e fedeli sorsero botteghe e locande, ma anche luoghi per l’accoglienza e l’assistenza RELIQUIE

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Molte reliquie, però, non trovarono collocazione e finirono con l’essere accumulate in quello che divenne il grande deposito pontificio di resti sacri, la chiesa di S. Prassede all’Esquilino, edificata appositamente da Pasquale. Qui egli realizzò una cripta semianulare sul modello di quella di S. Pietro, per consentire il diretto contatto tra fedeli e reliquie. S. Prassede, dunque, fu destinata alla conservazione delle reliquie dei martiri estratti dalle catacombe romane, a differenza dell’altro grande deposito cittadino, quello del Sancta Sanctorum, in Laterano, nel quale si accumularono le reliquie gerosolimitane. La chiesa fu intitolata alla martire Prassede, perché la giovane era stata a suo tempo martirizzata proprio per aver dato, insieme alla sorella Pudenziana, sepoltura ai primi martiri: si prestava quindi a simboleggiare lo sforzo di recupero delle reliquie compiuto dallo stesso Pasquale.

Saccheggio in basilica

Roma, basilica di S. Prassede. Particolare del mosaico che orna il catino absidale, in cui compare la santa martire a cui la chiesa è intitolata. IX sec.

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urbane e le catacombe svuotate di buona parte dei corpi. Le traslazioni si resero necessarie a partire dalla metà dell’VIII secolo, di fronte alla sempre piú aggressiva pressione longobarda e alle prime incursioni arabe. Tali massicci trasferimenti segnarono la fine della devozione religiosa tardo-antica e l’inizio di quella medievale. A Roma, com’è immaginabile, il fenomeno fu particolarmente imponente, sia per motivi quantitativi – altissimo era il numero di martiri sepolti nelle catacombe –, sia per la sua portata politica e simbolica. Artefice della traslazione piú imponente fu papa Pasquale I (817-824). Egli si trovò costretto a cercare per le reliquie una nuova collocazione, tale da garantirne il culto. In alcuni casi vi riuscí, fondando nuove chiese entro le mura.

Con la traslazione delle reliquie nelle città, non tutte le chiese cimiteriali furono, però, abbandonate. Laddove la traslazione del martire non era opportuna – per il prestigio della chiesa, per la presenza di grandi monasteri o per la sacralità stessa della memoria –, la funzionalità religiosa perdurò o addirittura conobbe un grande rilancio. È il caso di S. Pietro in Vaticano, che non era stata abbandonata, ma, trovandosi fuori dalle mura, fu messa a sacco con facilità da una spedizione araba nell’846. Dopo tale evento, la chiesa fu annessa alle antiche mura cittadine grazie alla realizzazione di una nuova cinta. Nella stessa Roma – sempre tra il IX e il X secolo – furono fortificate anche S. Lorenzo e S. Paolo, che rimasero isolate nella campagna, ormai vere e proprie città-satellite: Laurenziopoli e Giovannipoli. Nel X secolo, a Napoli, minacciata dalle incursioni saracene, i maggiorenti cittadini furono costretti a malincuore a distruggere il castello luculliano, che sorgeva sull’altura di Pizzofalcone e che, se fosse stato occupato, avrebbe trascinato nell’insicurezza l’intera città. All’interno del castello sorgeva un santuario dedicato a san Severino, costruito per esso dall’esule Romolo Augustolo e da sua madre, nativi del Norico, rinserrati in quel luogo da Odoacre. Le spoglie di Severino furono quindi portate all’interno della città – dando vita alla chiesa di S. Severino e Sossio – e il castello che


aveva ospitato l’ultimo imperatore, insieme al mausoleo originario del santo, venne raso al suolo. Dopo le traslazioni, molti dei culti tributati ai primi martiri cristiani, pur restando importantissimi patroni delle città, conobbero un inevitabile declino.

Il culto di Maria

L’unico esempio di devozione paragonabile, per intensità, a quello rivolto verso i martiri, fu il culto della Vergine. Cosí come quello tributato alla figura di Gesú Cristo, esso escludeva il culto dei corpi, dal momento che le loro tombe – com’è noto – erano sepolcri vuoti. La piena affermazione della centralità teologica della Madre di Dio si ebbe nella prima metà del V secolo con il Concilio di Efeso (431). La maternità virginale di Maria – che la innalzava dalla semplice condizione umana – concludeva di fatto la discussione sulla doppia natura, umana e divina, dello stesso Cristo. Molti pensatori cristiani, quali Ambrogio, Agostino e Girolamo, contribuirono poi ad affermare, attraverso Maria, l’importanza del battesimo. Col sacramento del battesimo, i cristiani, fecondati a nuova vita dallo Spirito Santo, divenivano «fratelli in Cristo, cioè nello spirito»; venivano cosí a cadere anche le discussioni sui presunti fratelli di sangue di Cristo di cui parlavano i Vangeli apocrifi. In Occidente, quindi, la devozione nei confronti di Maria si affermò proprio con la fondazione di una prima grande chiesa a Roma, per volontà

Roma, basilica di S. Prassede. La lapide marmorea che ricorda la colossale opera di traslazione promossa da papa Pasquale I agli inizi del IX sec.

di papa Sisto III (432-440), S. Maria Maggiore. Tuttavia, la devozione nei confronti di Maria fu sempre condizionata dalla preminente attenzione teologica verso il Figlio, e, per tale motivo, la stessa chiesa fondata da Sisto divenne nota come S. Maria ad presepem, in riferimento all’elemento di culto centrale della basilica, che, a partire dal VII secolo, fu la reliquia della «culla del Signore». Perfino nel giorno dell’Ascensione in Cielo di Maria, tra il 14 e il 15 agosto, quando si svolgeva una intensa processione – alla cui testa si portava la venerata icona della Vergine custodita nella chiesa –, il cardine della liturgia restava la figura del Figlio: l’immagine sacra incontrava, infatti, l’icona del Salvatore, portata in processione dalla Scala Santa. L’esplosione del culto di Maria in Occidente ebbe – in particolare a Roma – un altro grande effetto: la nascita della devozione verso le icone mariane. Come si è accennato, non si può, nel caso delle icone, parlare di vere e proprie reliquie, ma, come per altri oggetti di venerazione, al livello della devozione i due fenomeni cultuali s’intrecciarono, si sovrapposero, s’interscambiarono, divenendo di fatto indistinguibili. Le icone si diffusero in Occidente per effetto di una precisa contingenza storica: la guerra dichiarata alle immagini, nel 726, dall’imperatore bizantino Leone III, detta, appunto, iconoclastía (dai termini greci eikon, immagine, e klao, rompere, n.d.r.). La nuova legge vietava di ritrarre ciò che a RELIQUIE

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Terra invetriata raffigurante la consegna delle reliquie della Madonna alla collegiata di S. Lorenzo. Scuola robbiana, XV-XVI sec. Montevarchi, Museo della Collegiata di S. Lorenzo. motivo della sua divinità non poteva essere rappresentato: Gesú, la Madonna, i santi e gli angeli. Le immagini esistenti dovevano inoltre essere distrutte, per far cessare quello che veniva giudicato come culto idolatrico dell’immagine, in luogo della persona sacra. La Chiesa di Roma si oppose strenuamente all’iconoclastia, favorendo l’afflusso massiccio in Occidente di molte venerate icone, in fuga dalle sconsiderate distruzioni imperiali.

Influenze greco-orientali

Sin dal VII secolo, dunque, in particolare a Roma, fiorí il culto delle icone sacre, ritenute fino a pochi decenni fa di origine orientale, ma che in molti casi, si sono invece rivelate di fattura autoctona, seppur fedeli all’impianto iconografico bizantineggiante. Molte delle icone mariane venerate a Roma, infatti, furono dipinte in città, quando gran parte dell’Italia mediterranea si trovava sotto l’influsso della cultura greco-bizantina. Tra il 678 e il 752, del resto, ben 11 dei 15 papi eletti erano greci. I monasteri orientali diffusero la venerazione di nuovi santi, quali Anastasio, Ciro e Giorgio, e, soprattutto, incrementarono la diffusione del culto mariano. In quei decenni ogni chiesa romana si dotò di una icona mariana: S. Maria in Portico a Campitelli, S. Maria in Trastevere, S. Maria ad Martyres (il Pantheon), S. Maria Antiqua al Foro Romano e S. Maria Maggiore, la cui icona mariana, la Salus Populi Romani, divenne presto la piú venerata della città. Il culto delle icone si diffuse in ogni ambito di devozione, anche tra quelli che non erano strettamente legati ai martiri. Per fare un esempio, fra i culti piú sentiti nel Medioevo romano vi era quello di Alessio, sull’Aventino, uno dei pochi santi non martiri del cristianesimo primitivo. Quando sul colle si stabilí un monastero abitato da monaci orientali, il suo culto conobbe una deformazione in senso sempre piú mariano, finché, nel santuario a lui dedicato, il suo culto non si traspose in quello di una icona di Maria. Con la fine della persecuzione iconoclasta, alla metà del IX secolo, nelle aree bizantine del Mediterraneo riprese in modo massiccio

la produzione di icone,che smisero di essere una caratteristica eminentemente romana. Molte chiese dell’Italia meridionale e delle altre regioni di influsso greco-orientale se ne dotarono. Particolarmente significativa fu l’adozione, a Venezia, di una preziosissima Icona di San Michele, un vero e proprio capolavoro dell’oreficeria medievale, interamente lavorata in oro, argento, pietre preziose, cristalli e smalti colorati, e oggi conservata nel Tesoro della Basilica. Come vedremo, la realizzazione di alcune di queste immagini fu attribuita ad azione angelica, ovvero a «mano non umana», come l’icona lateranense del Salvatore o il Volto Santo di Lucca. Nell’Italia medievale, la devozione verso i poteri taumaturgici degli angeli conobbe un altro grande filone cultuale, legato in questo caso alla presenza longobarda in alcune aree della Penisola. In Puglia fiorí il celebre culto di san Michele Arcangelo, sul Gargano, che richiamava arcaiche simbologie della religiosità rupestre e attirava pellegrini da ogni parte d’Europa. I Longobardi, e poi i Normanni, vedevano in san Michele – angelo guerriero – una figura assai vicina alle divinità di cui erano adoratori.

Una devozione imposta «dall’alto»

Nel corso del Medioevo, le città italiane – e dell’Europa occidentale in genere – non vollero piú limitarsi a mostrare con orgoglio le reliquie dei propri martiri paleocristiani e le misteriose icone mariane. Esse vollero stabilire un legame privilegiato con la Terra Santa, con la figura di Cristo e con la vicenda della Passione. È interessante osservare come alla base della nascita di tali culti non vi sia stato alcun fenomeno di devozione spontanea, come avvenne invece per le icone, venerate dapprima in piccole cappelle, poi ampliate per il grande concorso di popolo. Le reliquie della Passione furono sempre connesse al potere, civile o religioso che fosse; si trattò cioè di culti imposti «dall’alto», piuttosto che di devozioni sviluppatesi «dal basso». A Roma, come a Costantinopoli, tali reliquie erano venerate in due punti emblematici della mappa topografica del potere: la cappella privata del papi e quella dell’imperatore. Le reliquie imperiali di Costantinopoli – giunte dalla Terra Santa dopo le invasioni arabe – si diffusero in Occidente dopo la IV crociata, quella RELIQUIE

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che nel 1204 i Veneziani deviarono sulla capitale dell’impero bizantino, permettendo il saccheggio delle sue chiese. Molte di queste reliquie furono anche vendute o donate dai nuovi imperatori latini della città, o giunsero a seguito di viaggi e pellegrinaggi dalla Terra Santa. In questo periodo si diffusero a Roma reliquie inverosimili quali l’ombelico di Cristo, il prepuzio, le spine dei pesci moltiplicati nel deserto, il pane e le dodici lenticchie dell’Ultima Cena, che – nella quasi totalità – andarono a incrementare il tesoro della cappella privata dei papi al Laterano. Ma la lista può essere facilmente ampliata, se si fa un censimento complessivo in tutta Europa: accanto agli oggetti di piú antica venerazione e tradizione – come i frammenti della Croce, i chiodi e la corona di spine –, si trovano la lancia di Longino, il titulus con i motivi della condanna, il mantello rosso della derisione, il Santo Graal usato da Giuseppe d’Arimatea per raccogliere il sangue sgorgato dal costato di Cristo, la tunica, i dadi con i quali i centurioni giocarono la sorte, la canna con cui si porse la spugna imbevuta d’aceto (anch’essa divenuta reliquia), la scala per la deposizione dalla Croce, il martello per i chiodi, il gallo che cantò al mentire di Pietro...

In basso il mantello di Chiara d’Assisi. La reliquia è conservata, assieme ad altre, nella basilica intitolata alla santa, ad Assisi.

Beni redditizi

Possedere una reliquia voleva dire acquisire prestigio, visibilità o anche attirare pellegrini, con conseguente afflusso di donazioni, a cui si accompagnava – per gli abati e i vescovi – la crescita del potere religioso e politico. Una certa parte di tali reliquie era legata inoltre alla tradizione dei Vangeli apocrifi: in particolare il sudario posseduto dall’emorroissa, denominato «Veronica» (la «vera icona»), o il Santo Graal. Allo stesso Vangelo apocrifo – il Vangelo dello Pseudo-Giuseppe d’Arimatea, inoltre, si deve la venerazione per la «Sacra Cintola» – la reliquia donata dalla Vergine a Tommaso al momento dell’Assunzione –, venerata a Prato. Cosí, mentre la Chiesa, definendoli «apocrifi», aveva da tempo espulso i Vangeli scritti secoli dopo quelli ufficiali, vicende ed episodi in essi narrati continuarono a generare interesse e a far 28

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Nella pagina accanto icona raffigurante san Michele, da Costantinopoli. Smalto, argento, oro e pietre preziose. XI sec. Venezia, Tesoro della basilica di S. Marco.

nascere un numero incredibile di nuove reliquie e devozioni. Anche per tali ragioni, la Chiesa finí per guardare con sempre maggior sospetto a ritrovamenti, traslazioni e devozioni poco ortodosse a esse legate.

Dai testimoni ai predicatori

Nei primi secoli del cristianesimo, come abbiamo visto, furono i martiri, coloro i quali avevano «testimoniato» (martyr, cioè testimone) la fede cristiana con il sacrificio supremo, a essere oggetto di devozione e venerazione. Con lo scorrere dei secoli, si passò poi a prendere in considerazione anche coloro che avevano contribuito a diffondere la fede cristiana in maniera eccezionale. Del resto, terminata la cupa epoca delle persecuzioni, era divenuto sempre piú raro che si fosse costretti a testimoniare con la vita il proprio credo. Si assistette cosí al naturale passaggio dal culto dei martiri a quello dei santi, i quali furono trattati allo stesso modo, venerando i loro corpi e, in alcuni casi, smembrandoli in reliquie. Il passaggio «fisiologico» dal culto dei martiri a quello dei santi non impedí, tuttavia, che essi fossero spesso riscoperti e reinterpretati come icone del sentimento identitario cittadino. La proliferazione di reliquie in età bassomedievale, infatti, va messa in relazione con l’azione di propaganda dei rinascenti Comuni italiani. Esse furono usate in funzione polemica per affermare l’autonomia o la supremazia del proprio centro cittadino rispetto ad altri. Ne nacquero documenti e leggende volti a magnificare le reliquie appartenenti al proprio campanile, spesso con l’intento di rivendicare l’indipendenza dal potere imperiale, da un potere comunale antagonista o dal mai tramontato potere episcopale. Con la ripresa dell’attivismo mercantile urbano, le rifiorenti città italiane – per prime le città costiere protagoniste del commercio marittimo, cioè le «repubbliche marinare» – sentirono il bisogno di possedere reliquie sempre piú prestigiose, da trasformare in simbolo delle posizioni acquisite e segno di potere e ricchezza. In tale ottica, i corpi degli apostoli divennero le reliquie piú ambite. Fu cosí che, nell’828,


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Madonna della Cintola (particolare). Tempera su tavola di Filippo Lippi e aiuti. Il maestro iniziò il dipinto nel 1456, che fu però completato dai suoi collaboratori dieci anni piú tardi. Prato, Museo di Palazzo Pretorio. L’opera ritrae la Vergine che dà la Cintola a san Tommaso, tra la committente, Bartolommea de’ Bovacchiesi, e i santi Gregorio, Agostino, Margherita, Tobiolo e l’angelo Raffaello.

un gruppo di mercanti veneziani riuscí a trafugare da Alessandria d’Egitto le spoglie dell’evangelista Marco, nascondendole sotto la carne di maiale in una cesta, che – come nelle previsioni degli astuti «rapitori» – i doganieri musulmani si rifiutarono di perquisire. Episodi per certi versi simili segnarono l’arrivo a Bari, nel 1087, delle spoglie di san Nicola, vescovo di Myra in Anatolia. Alcuni marinai baresi scesi da una nave per il trasporto del grano si fecero consegnare, spade in pugno, le reliquie dai quattro custodi terrorizzati. Il saccheggio di Costantinopoli da parte dei Veneziani, nel 1204, permise, poi, alle reliquie di Luca di giungere a Padova; e alle ossa di sant’Andrea di essere traslate dal cardinale Pietro Capuano ad Amalfi.

Personaggi amati dal popolo

Negli ultimi secoli del Medioevo, una nuova sensibilità si sovrappose all’attaccamento ai primi martiri della Chiesa e alla devozione per le reliquie fantastiche e immaginifiche provenienti dalla Terra Santa. Iniziarono a diffondersi nuovi culti: meno leggendari, meno misteriosi, piú legati alla presenza del cristianesimo nella vita di tutti i giorni, e, in particolare, ai nuovi santi bassomedievali – i confessori appunto –, i quali, attraverso la loro azione di predicazione nelle piazze e di sostegno verso gli indigenti, avvicinavano a Dio piú degli oscuri martiri o delle incomprese icone. In tal modo si affermarono rapidamente le devozioni rese alle tombe di penitenti, predicatori, confessori e laici, che, a vario titolo, avevano vissuto la loro vita tra i fedeli ed erano amati anche da quella parte della popolazione che aveva in odio le alte gerarchie ecclesiastiche. Santi come Omobono da Cremona, Francesco d’Assisi, Antonio da Padova, Domenico di Guzman, Nicola da Tolentino, Caterina da Siena, Rita da Cascia e Francesca Romana divennero i nuovi poli d’attrazione della religiosità bassomedievale. I loro corpi, i vestiti, i libri, i luoghi nei quali avevano vissuto furono fatti oggetto d’intensa devozione. Alle soglie dell’età moderna, in un paesaggio sempre piú urbano e ormai profondamente diverso da quello rurale dell’Italia altomedievale, il culto di tali personaggi finí per imporsi, oscurando cosí la secolare devozione tributata agli antichi martiri paleocristiani. RELIQUIE

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La strada del perdono

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l pellegrinaggio detto delle «sette chiese» a Roma è attestato con certezza almeno a partire dalla seconda metà del Trecento e va messo in relazione con l’istituzione dell’anno giubilare da parte di Bonifacio VIII, nel 1300. L’indulgenza concessa a chi, in occasione del Giubileo, si fosse recato a pregare sulla tomba di Pietro, si trasformò, nel tempo, in un perdono accordato a quanti – godendo di condizioni di salute tali da poterlo compiere – avessero effettuato l’intero percorso delle sette chiese giubilari: S. Pietro, S. Paolo, S. Giovanni in Laterano, S. Maria Maggiore, S. Lorenzo, Santa Croce in Gerusalemme, S. Sebastiano.

In alto replica della fronte di un sarcofago con gli apostoli Pietro e Paolo. II sec. d.C. Roma, Museo della Civiltà Romana. Sulle due pagine Le sette Chiese di Roma, incisione di Antonio Lafrery da Speculum Romanae Magnificentiae. 1575. Roma, Istituto Nazionale per la Grafica. Risalgono agli inizi del Trecento i primi itinerari in cui si citano le indulgenze che potevano ottenersi compiendo il percorso che, partendo dalla basilica di S. Pietro (1), conduceva verso S. Paolo fuori le Mura (2), S. Sebastiano sull’Appia (3), S. Giovanni in Laterano (4), Santa Croce in Gerusalemme (5), S. Lorenzo fuori le Mura (6), per concludersi alla basilica di S. Maria Maggiore (7). 32

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Sette secoli di devozione 1300 Per la prima volta nella storia del cristianesimo, Bonifacio VIII concesse il perdono ai fedeli pentiti confessati che avessero visitato le basiliche di S. Pietro e S. Paolo.

1350 Indetto dal Clemente VI, il Giubileo si celebrò in assenza della Curia pontificia, in esilio ad Avignone. 1390 Urbano VI dispose che il Giubileo si celebrasse ogni 33 anni e stabilí che alla visita delle basiliche di S. Pietro, S. Paolo e S. Giovanni si aggiungesse quella di S. Maria Maggiore.

1423 Mai indetto ufficialmente, si svolse sotto il pontificato di Martino V, che concesse comunque l’indulgenza plenaria a coloro che avessero visitato le basiliche.

1450 Niccolò V fissò la periodizzazione degli Anni Santi ogni 25 anni. 1475 Si registrò una scarsa affluenza a causa delle inondazioni del Tevere e della pestilenza, che costrinse lo stesso Sisto IV a lasciare Roma. Il Giubileo fu protratto fino alla Pasqua del 1476.

1500 Alessandro VI introdusse la cerimonia dell’apertura della Porta Santa nella basilica di S. Pietro. 1525 Contro Clemente VII i Luterani diffusero libelli polemici sulla differenza fra il Giubileo di Cristo, concesso a tutti gratuitamente, e quello del papa, teso solo a rimpinguare le finanze della Chiesa.

1550 Indetto da Paolo III, si svolse sotto il pontificato di Giulio III. 1575 Indetto da Gregorio XIII, si caratterizzò per il notevole afflusso di confraternite. 1600 Clemente VIII nominò due commissioni prelatizie per gli aspetti spirituali e materiali. 1625 Urbano VIII concesse l’indulgenza anche a carcerati e suore di clausura. 1650 Innocenzo X fu immmortalato dall’Algardi nella statua bronzea in Campidoglio. Fu il trionfo dell’arte: Bernini scolpí L’Estasi di S. Teresa e Borromini provvide al restauro di S. Giovanni in Laterano.

1675 Indetto da Clemente X. La mattina di Pasqua, a piazza Navona, si svolse una grandiosa cerimonia alla presenza della regina Cristina di Svezia.

1700 In settembre Innocenzo XII morí e nei due mesi di sede vacante diminuí l’afflusso di pellegrini; in novembre

una piena del Tevere rese impraticabile la via Ostiense, per cui si commutò la visita a S. Paolo con quella alla chiesa di S. Maria in Trastevere. 1725 Celebrato sotto il pontificato di Benedetto XIII, fu un Anno Santo molto austero in cui venne vietato qualsiasi divertimento. 1750 Benedetto XIV riempí Roma di predicatori. 1775 La Porta Santa fu aperta con la sede papale vacante e solo il 26 febbraio il neoeletto Pio VI diede inizio all’Anno Santo, emanando disposizioni in materia religiosa e annonaria. 1825 Fu celebrato durante il pontificato di Leone XII, in un clima tutt’altro che tranquillo: nel novembre di quell’anno salirono sul patibolo di piazza del Popolo due carbonari, Targhini e Montanari. 1850 Pio IX era reduce da Gaeta dopo la breve parentesi della Repubblica Romana e gli Stati nazionali risentivano ancora le conseguenze delle rivoluzioni del 1848; perciò non ebbe luogo alcuna celebrazione, anche se il papa concesse la possibilità di acquistare l’indulgenza plenaria. 1875 Fu un Giubileo in tono minore, con Pio IX «prigioniero» in Vaticano e Roma occupata dal nuovo Stato italiano. 1900 Furono riprese le celebrazioni liturgiche e Leone XIII riuscí a riavvicinare le masse alla Chiesa. Ma cause politiche (uccisione di re Umberto I e polemiche anticlericali) e cause naturali (una terribile piena del Tevere) turbarono l’afflusso dei fedeli. 1925 Sotto il pontificato di Pio XI, Roma vide l’afflusso di 401 889 pellegrini italiani e 582 234 stranieri. 1950 Indetto da Pio XII, che annunciò l’apertura della Porta Santa al mondo ancora sconvolto dagli ultimi eventi bellici. Si evidenziano sempre di piú gli aspetti commerciali dell’evento e l’esigenza di fornire ai pellegrini un soggiorno confortevole. 1975 Paolo VI fu tentato di non indire il Giubileo, perché poteva apparire poco conforme all’indirizzo del Concilio Vaticano II, che puntava piú al recupero dell’autenticità religiosa che all’esteriorità delle devozioni. 2000 Il Grande Giubileo di fine millennio, che iniziò, come tradizione, con l’apertura della Porta Santa da parte di Giovanni Paolo II la vigilia di Natale, fu molto diverso dai precedenti, sia per la sua scadenza epocale, sia per il significato religioso, con la straordinaria apertura alle altre fedi che gli conferí carattere di universalità e di ecumenicità.

Sono omessi dal presente elenco i numerosi Giubilei straordinari indetti in particolari occasioni, tra cui (nei secc. XVI-XVIII) anche l’elezione dei nuovi pontefici. A sinistra Giorgio Vasari, Clemente VII apre la Porta Santa nel Giubileo del 1525. Affresco, 1560 circa. Firenze, Palazzo Vecchio.

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S. Giovanni in Laterano

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urante il Medioevo e fin quasi all’età rinascimentale, la residenza dei pontefici non era situata in Vaticano, ma presso S. Giovanni al Laterano. Proprio a fianco della basilica edificata dall’imperatore Costantino, infatti, sorgevano i palazzi pontifici e la cappella privata del papa, denominata prima S. Lorenzo in Palatio e poi Sancta Sanctorum. La basilica lateranense, prima e piú importante chiesa del cristianesimo, era inizialmente dedicata al Salvatore. L’area si chiamava Laterano perché in quella zona avevano vissuto i Laterani, una famiglia aristocratica i cui beni, in seguito ad acquisizioni forzate, erano divenuti patrimonio imperiale. Costantino cedette cosí quest’area alla Chiesa, guidata all’epoca da Silvestro I († 335), per farvi edificare una cattedrale, stabilire la residenza (qui i pontefici vissero fino al XIV secolo, quando – al rientro da Avignone – si spostarono al Vaticano) e una sala per i battesimi, che nei primi secoli soltanto il vescovo poteva amministrare (nel caso di Roma, quindi, la cerimonia poteva essere officiata solo dal papa). Info www.vatican.va/various/basiliche/ san_giovanni/index_it.htm

Le teste di Pietro e Paolo

Chiuse in preziosi reliquiari, le teste degli apostoli Pietro e Paolo sono custodite nella basilica di S. Giovanni in Laterano. Si tratta delle reliquie forse piú importanti della città, ma anche delle piú discusse. I corpi dei due apostoli sono sepolti l’uno in S. Paolo fuori le Mura e l’altro in S. Pietro. Secondo la tradizione riportata alla fine del Cinquecento dal teologo gesuita Ottavio Panciroli (1554-1629), essi sarebbero stati dissepolti e momentaneamente custoditi presso la catacomba di San Sebastiano per essere salvati da una delle piú feroci persecuzioni contro i cristiani condotte nel III secolo. A partire dall’erezione delle basiliche costantiniane di S. Pietro e di S. Paolo, la collocazione dei corpi degli apostoli al loro interno è ben documentata. Le numerose ricerche condotte nel corso del Novecento sembrano confermarne la presenza. Secondo Panciroli, tuttavia, al momento della deposizione nelle rispettive basiliche, i corpi sarebbero stati divisi e collocati nell’una e nell’altra chiesa, per tutelarsi da un possibile furto, che avrebbe potuto causarne la 36

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Sulle due pagine l’altare maggiore della basilica di S. Giovanni in Laterano, sormontato dal ciborio gotico, opera di Giovanni di Stefano (1370 circa), che custodisce due reliquiari, contenenti le teste di san Pietro e san Paolo. Piú in basso, l’altare maggiore incorpora un’altra preziosa reliquia, una tavola di legno usata come altare da san Pietro e dai suoi successori fino a Silvestro I. A destra particolare della sommità del ciborio, al cui interno si distinguono i due reliquiari. Gli esemplari attuali sono opera di Giuseppe Valadier, realizzati nel 1804. Gli originali trecenteschi, eseguiti da Giovanni di Bartolo intorno al 1370, furono fusi nel 1799 per far fronte al riscatto imposto da Napoleone.

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perdita completa. Secondo una tradizione facente agio su una ricca letteratura ecclesiastica, ma non suffragata da alcun documento ufficiale, le teste sarebbero state invece deposte nella basilica di S. Giovanni al Laterano. Il primo documento che ne segnali la presenza al Laterano, nel tesoro del Sancta Sanctorum, è l’inventario della basilica lateranense, redatto nel XII secolo da un canonico della stessa. Da allora in poi, la presenza delle teste degli apostoli in S. Giovanni in Laterano è sempre ricordata nelle fonti itinerarie. Nel Settecento, Giovanni Maria Crescimbeni, arciprete della basilica di S. Maria in Cosmedin, decise di raccogliere e trascrivere le testimonianze atte a ricostruire la vicenda cultuale delle due reliquie. Dopo la loro prima segnalazione nell’inventario del XII secolo, le teste sarebbero state trasferite all’interno della basilica, poiché il Sancta Sanctorum era stato pesantemente danneggiato dal terremoto che aveva colpito la città nel 1360. In tale occasione, l’orafo senese Giovanni di Bartolo (la cui attività è documentata dal 1364 al 1404, n.d.r.) realizzò i due busti-reliquiari, per ornare i quali il re di Francia Carlo V inviò una considerevole quantità di pietre preziose. I reliquiari furono posti nel monumentale ciborio gotico collocato sopra l’altare maggiore e, da quel momento, non piú spostati, nemmeno in occasione dei numerosi interventi di restauro. Nel 1803, papa Pio VII incaricò lo storico erudito Francesco Cancellieri (1751-1826) di redigere un documento nel quale si attestava l’autenticità delle teste degli apostoli requisite pochi anni prima dalle truppe napoleoniche. Secondo quanto dichiarato nella relazione, i reliquiari erano stati requisiti, ma non le teste degli apostoli, consegnate invece ai prelati del capitolo della basilica: «Essendo che nell’anno 1799 per le luttuose vicende di quel tempo furono depredati i due antichi preziosi busti fatti fare da Urbano V per la custodia delle insigni reliquie delle teste dei santi apostoli Pietro e Paolo, le quali furono perciò collocate in una cassetta di latta con fettuccia e munita dai sigilli di monsignori Passeri, Mattei e Marini, allora camerlenghi del reverendissimo capitolo lateranense». La ricognizione, registrata dal Cancellieri agli inizi dell’Ottocento, confermò che i sigilli apposti sui teli che chiudevano le teste erano quelli che la tradizione faceva risalire a Urbano V. Nuovi reliquari d’argento furono ordinati a seguito della ricognizione e le teste vennero ricollocate nel luogo originario, in cui sono tuttora ubicate. 38

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Nella pagina accanto le ante in bronzo della porta principale d’accesso alla basilica lateranense, che provengono dalla Curia Iulia e furono poste qui per volere di papa Alessandro VII. In basso uno scorcio del chiostro della basilica di S. Giovanni in Laterano, dove, intorno al 1660, papa Alessandro VII fece relegare alcune reliquie da lui ritenute di dubbia autenticità. Tra queste, una tavola in porfido sulla quale i soldati romani si sarebbero giocati ai dadi le vesti di Cristo e la «Mensura Christi», una tavola in marmo su cui sarebbe stata segnata l’altezza del Salvatore.

L’Altare di Pietro

Nella chiesa del Laterano, sotto il ciborio in cui Urbano V fece traslare le teste di Pietro e Paolo, si venera l’Altare Papale. Si tratta di una tavola di legno che sarebbe stata usata come altare da Pietro e dai suoi successori fino a Silvestro I, cioè sino alla fine delle persecuzioni. E proprio Silvestro l’avrebbe fatta condurre qui, al momento della consacrazione della basilica, la prima a essere edificata. La reliquia sarebbe sopravvissuta miracolosamente agli incendi e ai crolli che funestarono la chiesa lateranense. Ancora Panciroli, nel Seicento, ricorda che nella basilica i pontefici celebravano messa su quest’altare, e solo loro avevano facoltà di farlo. Presso il ciborio, oltre alle sacre teste e all’altare ligneo, Innocenzo XI (1676-1689) fece sistemare, portandola dal contiguo Sancta Sanctorum, una cassetta che custodiva numerose reliquie, quasi tutte legate alla Passione di Cristo. Parte di questi sacri resti andò distrutta durante gli incendi e di tali eventi si trova traccia in un’annotazione del già citato Crescimbeni, secondo il quale la testa di san Pancrazio avrebbe sanguinato per tre giorni a motivo «dell’offesa recata dal fuoco alle reliquie del Salvatore».

La Colonna del Gallo e la Mensura Christi

La fondazione del Battistero Lateranense risalirebbe all’età di Costantino e, sin dall’inizio, l’edificio ebbe la funzione di luogo in cui si dava il battesimo agli adepti della nuova religione trionfante. Al suo interno si custodivano alcune reliquie che conobbero un grande successo nei


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primi secoli del Medioevo. Tra di esse, figura la «Colonna del Gallo», che sarebbe appartenuta alla casa di Caifa e sopra la quale avrebbe cantato il gallo nel momento in cui Pietro rinnegò Cristo. Essa svolgeva un ruolo centrale nella cerimonia del «possesso lateranense» (la lunga cavalcata con cui il papa, appena nominato, partendo dal Vaticano, prendeva appunto possesso dei palazzi lateranensi), poiché veniva mostrata al pontefice per ricordargli che Pietro aveva rinnegato Cristo e mai, dunque, poteva venire meno al dovere dell’umiltà. La colonna rimase fino al 1600 nel Battistero, accanto all’entrata della cappella intitolata alle sante Rufina e Seconda, e sulla sua sommità fu posto un gallo in bronzo. Intorno al 1660, papa Alessandro VII, ritenendo tale reliquia inverosimile, la fece spostare, relegandola in un angolo insieme ad altre ritenute dubbie, come la tavola di marmo chiamata «Mensura Christi», su cui sarebbe stata annotata la statura di Gesú; la lastra in porfido sulla quale i soldati romani avrebbero tirato a sorte le sue vesti; due colonne provenienti dal palazzo di Pilato; e due colonne che si sarebbero infrante al momento della morte del Salvatore. Le reliquie furono sistemate dapprima nell’atrio della Canonica e si trovano oggi nel Chiostro Lateranense, salvo la Colonna del Gallo, che

In basso la cosiddetta Sedia stercoraria, una lussuosa sedia balneare su cui il pontefice neo-eletto sedeva durante la cerimonia dell’intronizzazione. In precedenza collocata nel portico della basilica di S. Giovanni in Laterano, è oggi conservata ai Musei Vaticani.

scomparve nel 1798 all’arrivo dei Francesi, forse rubata per l’assonanza simbolica tra il gallo e il popolo transalpino. In una delle cappelle del Battistero, la piú antica e meglio conservata, intitolata a san Giovanni Battista, posta sul lato ovest, si trovano le porte bronzee, note come «porte melodiose» e venerate anch’esse nel Medioevo come reliquie, per via di una loro caratteristica, ritenuta prodigiosa: girando sui cardini, emettevano un suono di organo, considerato celestiale. Il suono di queste porte affascinò anche Dante Alighieri e fu attestato nei secoli fino all’attentato del 27 luglio del 1993, quando una bomba della mafia deflagrò nella piazza antistante: da quel momento, il suono non è piú stato udito.

L’ombelico e altre reliquie del Cristo

La cappella del Sancta Sanctorum rivestí per lunghi secoli un’importanza enorme per le reliquie che vi erano conservate. Nella seconda metà del XVI secolo, però, essa fu inglobata nell’edificio oggi comunemente chiamato Scala Santa, assai noto e frequentato per la presenza della Scala Pilati (vedi alle pp. 42-43). Il piccolo ambiente che invece si trova in cima alla scala è proprio l’antica cappella privata dei papi, chiamata Sancta Sanctorum a partire dal Basso Medioevo. Individuarne il momento

La Sedia stercoraria Attualmente conservata nei Musei Vaticani, la Sedia stercoraria si trovava in origine presso il portico della vecchia basilica di S. Giovanni in Laterano. Il nome deriva dal fatto che su di essa sedeva il pontefice appena eletto, durante la complessa cerimonia d’intronizzazione. Nel corso della funzione, il coro cantava il versetto «Suscitans a terra inopem et de stercore erigens pauperem» («Egli che solleva l’indigente da terra e dall’immondizia rialza il povero»), e da ciò trasse origine la credenza. In realtà, il manufatto era una lussuosa sedia balneare, di quelle che si usavano nelle terme, e in particolare nelle latrine, come suggerisce l’apertura nel sedile. Nel Medioevo, a motivo della sua fattura in porfido rosso, era ascesa a piú solenni funzioni, ma divenne motivo di grande attrazione per i pellegrini, che ne fecero un oggetto di culto, poiché si riteneva che l’apertura praticata nel sedile venisse usata per verificare che il neoeletto papa fosse un uomo. Un accertamento teso a scongiurare un nuovo scandalo, come quello della papessa Giovanna. Alla metà del IX secolo, infatti, spacciandosi come Giovanni Anglico, una donna si sarebbe fatta passare per uomo e, sotto falsa identità, avrebbe intrapreso gli studi religiosi. L’intelligenza vivace le fece fare grandi passi

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nella carriera ecclesiastica, fino a raggiungere la carica piú alta: nell’853, fu eletta pontefice, con il nome di Giovanni VIII. Su tale punto le versioni della leggenda divergono: per alcuni l’inganno sarebbe stato scoperto e Giovanna sarebbe stata linciata, per altri, invece, avrebbe partorito nel corso di una processione e quindi esiliata. Seppur leggendaria, tale figura fu a lungo ritenuta reale, almeno dai pellegrini romani, che ne tramandarono la vicenda. Giovanna fu addirittura ritratta in un dipinto quattrocentesco nel Duomo di Siena, raffigurante la successione dei papi. E in S. Pietro a Roma, secondo la tradizione, l’imberbe Innocenzo VIII del monumento funebre realizzato dal Pollaiolo, sarebbe proprio la papessa Giovanna.


esatto di fondazione è difficile: appare menzionata per la prima volta nella seconda metà dell’VIII secolo, sotto il pontificato di Stefano III († 772); molto tempo dopo, il diacono Giovanni, canonico del Laterano, redasse un inventario dedicato ad Alessandro III (1159-1181), nel quale elencò minuziosamente tutte le reliquie che vi erano conservate: «Una croce reliquario contenente reliquie di Cristo, un frammento della Vera Croce, l’asta e la spugna con l’aceto che fu posta sulla bocca del Signore, la santa colonna dove fu legato e flagellato, parte della terra del sepolcro dove riposò morto; la lancia che perforò il Signore sul fianco; un frammento del legno della croce, una pietra del Santo Sepolcro». Una delle cerimonie menzionate era l’ostensio-

ne del prepuzio e dell’ombelico di Gesú, contenuti in una croce-reliquiario che il 14 settembre, giorno dell’esaltazione della Vera Croce, il pontefice estraeva dalla cappella per mostrarla ai fedeli. Tale singolare reliquia sarebbe stata donata a papa Leone III da Carlo Magno, in occasione della sua incoronazione a imperatore del Sacro Romano Impero, nel Natale dell’800. Carlo, a sua volta, l’avrebbe ricevuta in dono dall’imperatrice bizantina Irene. La reliquia sarebbe stata poi trafugata dai lanzichenecchi nel 1527 (vedi anche a p. 119). Alla fine del Cinquecento, Sisto V fece demolire le strutture medievali del suo palazzo privato, conservando solo l’antico oratorio, il Sancta Sanctorum, davanti al quale fece trasportare la Scala Santa. Nel 1905 venne effettuata una ricognizione delle reliquie che avrebbe confermato la lista redatta dal diacono Giovanni nel XII secolo. Furono trovati anche reliquiari, avori, stoffe, teche e pergamene. Tra di essi, la croce aurea gemmata del VI secolo, l’arca in cipresso di Leone III su cui era incisa la scritta «Sancta Sanctorum», e la croce aurea smaltata

A sinistra croce aurea smaltata risalente al pontificato di Pasquale I (817-824). Città del Vaticano, Bibilioteca Apostolica Vaticana.

La verifica compiuta nel 1905 confermò la presenza delle reliquie elencate nel XII secolo dal diacono Giovanni

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ROMA

Le sette chiese

dei tempi di Pasquale I; gran parte di tali oggetti si trovano oggi ai Musei Vaticani, nella sezione cristiana.

L’immagine Acheropita del Salvatore

La piú preziosa icona romana del Salvatore si trova sopra l’altare pontificio della cappella del Sancta Sanctorum. È venerata come immagine acheropita, cioè non dipinta da mano umana (da acheiropoietos, derivante dall’unione tra la alfa con funzione privativa, cheir, mano, e poiein, fare, n.d.r.) e una lastra d’argento istoriata, fatta applicare da Innocenzo III (1198-1216), ne lascia intravedere solo il volto. La sua prima menzione compare nel Liber Pontificalis, nella vita di Stefano II (752-757), il quale la portò in processione per scongiurare il pericolo di un attacco longobardo. Da allora, l’icona venne condotta ogni anno in processione insieme a una famosa icona mariana, la Salus populi Romani, custodita nella basilica di S. Maria Maggiore (vedi alle pp. 56-57). Ogni anno, il 14 agosto, vigilia della festa dell’Assunta, dopo i Vespri, una processione di migliaia di fedeli si muoveva dietro l’icona del Salvatore, che per l’occasione veniva appunto prelevata dal Sancta Sanctorum. Il corteo raggiungeva S. Maria Maggiore, dove, al canto del Kyrie eleison, l’icona di Cristo incontrava quella di Maria. La tradizione sosteneva che la sacra immagine, iniziata dall’evangelista Luca, sarebbe stata trovata prodigiosamente terminata il mattino seguente. Secondo una delle numerose versioni leggendarie, essa sarebbe stata gettata in mare ai tempi dall’iconoclastia e miracolosamente recuperata sulla costa laziale dal pontefice, avvertito in sogno. Alla reliquia si attribuiva il trasudare di «umore acqueo» che, applicato agli infermi, dimostrava virtú terapeutiche. Quando tale presunta effusione cessò, divenne uso lavare i piedi dell’icona con acqua e basilico: la mistura cosí ottenuta veniva poi aspersa sui fedeli, per allontanare pestilenze, serpenti e spiriti maligni. Tali virtú taumaturgiche furono attribuite all’icona al tempo di Leone IV (847-855), quando essa venne portata in processione per liberare la città da un presunto dragone, installato nella zona di S. Lucia in Selci, alle pendici dell’Esquilino, che ammorbava la cittadinanza sprigionando la peste con il suo fiato. Nel 1907, quando si procedette alla prima ricognizione della reliquia, la tavola fu datata al pontificato di papa Ilaro (461-468), anche se per alcuni studiosi si dovrebbe farne risalire la fattura al secolo successivo. La sua origine si confermò essere gerosolimitana o bizantina. 42

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In alto l’icona del Salvatore, venerata come acheropita e datata al VI sec., è conservata nella Cappella del Sancta Sanctorum, protetta dietro una grata alla sommità della Scala Santa. Per volere di Innocenzo III, nel XIII sec., l’immagine fu ricoperta da una lamina d’argento decorata, che ne lasciò visibile solo il volto.

La Scala Pilati

L’edificio della «Scala Santa», che sorge su piazza del Laterano, custodisce una delle reliquie piú importanti della città, la Scala Pilati. Secondo la tradizione medievale, si tratterebbe della scala del palazzo del pretorio del governatore romano di Palestina, Ponzio Pilato. Recandosi in giudizio da lui, il Venerdí della Passione, Cristo avrebbe lasciato sui suoi gradini – e precisamente sul secondo, sull’undicesimo e sul ventottesimo contando dal basso – alcune gocce di sangue. Elena, madre dell’imperatore Costantino, l’avrebbe riportata da Gerusalemme a seguito degli scavi da lei condotti sul Calvario. Deposta accanto alla nascente chiesa del Laterano, sarebbe divenuta subito oggetto di culto e,


già in età tardo-antica, i fedeli avrebbero preso l’abitudine di salirla in ginocchio. Secondo un’altra tradizione – meno seguita –, la Scala Pilati sarebbe invece giunta a Roma ben prima, insieme al bottino di guerra di Tito, dopo il saccheggio di Gerusalemme (70 d.C.). Al manufatto si riferisce un inventario del 1242, che lo segnala tra le proprietà del Capitolo Lateranense. Tuttavia, la sua fama non doveva essere ancora diffusa, visto che non è ricordata nelle piú importanti guide medievali. Le prime menzioni certe si trovano solo a partire dal 1450, e ne parla dettagliatamente l’Itinerarium Urbis Romae del francescano Mariano da Firenze, scritto nel 1517, che la presenta come la scala del pretorio portata dall’imperatrice Elena

a Roma. A partire dalla pubblicazione dell’itinerario del francescano fiorentino, la reliquia fu sempre menzionata e divenne uno dei piú importanti centri d’attrazione per i pellegrini che si recavano a Roma. Alla fine del Cinquecento, Sisto V fece demolire l’antica residenza papale, conservando solo il Sancta Sanctorum, davanti al quale fece trasportare la Scala Santa. Domenico Fontana, incaricato dal pontefice della risistemazione, realizzò l’attuale l’edificio a due piani, oggi comunemente chiamato appunto Scala Santa. Nel 1723 Innocenzo XIII fece ricoprire i gradini con tavole di legno di noce, per evitarne l’usura. In essi furono però aperte alcune feritoie da cui possono essere osservati.

La Scala Santa con alcuni fedeli in preghiera, mentre, inginocchiati, salgono la rampa. Secondo la tradizione, questi gradini proverrebbero dal palazzo del governatore della Palestina, furono calpestati da Cristo condotto in giudizio da Ponzio Pilato e trasportati a Roma dall’imperatrice Elena, madre di Costantino, nel IV sec.

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ROMA

Le sette chiese S. Sebastiano. Con ogni probabilità, si voleva evitare che le ossa dei due apostoli fossero disperse, in quanto rappresentavano il punto di riferimento per la comunità cristiana di Roma e per i pellegrini che giungevano da altre città del Mediterraneo. I corpi sarebbero stati comunque riportati nelle tombe originarie, una volta cessata la fase piú acuta dell’emergenza. Esiste anche una versione piú leggendaria, secondo la quale le traslazioni sarebbero state due (vedi alle pp. 64-65). Papa Silvestro I, per evitare la perdita dell’intero corpo degli apostoli, avrebbe deciso di dividerli, cosí da portare parte delle ossa di Paolo al Vaticano, e parte di quelle di Pietro nella

S. Pietro

L

a tradizione secondo la quale la chiesa vaticana è stata edificata sulla tomba di Pietro si basa su coerenti indicazioni storiche e topografiche. Scavi, ricognizioni e analisi – molti dei quali condotti sotto la guida dell’archeologa Margherita Guarducci (1902-1999) – hanno prodotto prove archeologiche ed epigrafiche sulla base delle quali si può affermare che nei sotterranei della chiesa, sotto l’altare moderno che perpendicolare lo sovrasta, si trova il sepolcro che accolse le spoglie dell’apostolo Pietro, dopo il martirio avvenuto nell’antistante circo di Caligola (nel 64 o 67 d.C.). A quel tempo l’area era occupata da una vasta necropoli, oggi in parte scavata, nella quale anche Pietro era stato deposto, probabilmente in una semplice fossa terragna. Info www.vatican.va/various/basiliche/ san_pietro/index_it.htm

Il corpo di san Pietro

Già nei primi secoli del cristianesimo, la tomba di Pietro era stata abbellita da un’edicola, sopra la quale, cessate la persecuzioni, era sorta la basilica vaticana. Resta aperta la discussione sulla possibilità, anch’essa riportata da documenti molto antichi, che, durante una delle fasi piú dure delle persecuzioni, il corpo di Pietro – cosí come quello di Paolo – sia stato rimosso dal sepolcro originario per essere portato al sicuro nelle catacombe di 44

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In alto la cripta della basilica di S. Pietro, che custodisce le sepolture della maggior parte dei pontefici della Chiesa cattolica romana. A destra particolare della statua bronzea di san Pietro, conservata nella basilica (per la descrizione, vedi a p. 47).


Una suggestiva veduta interna della basilica di S. Pietro, nell’area della crociera. Sotto l’altare maggiore si trova la tomba di san Pietro, che costituisce il fulcro di tutto l’impianto architettonico della basilica.

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ROMA

Le sette chiese

basilica ostiense. Forse in tale occasione (o piú verosimilmente dopo la scorreria saracena dell’846 che colpí il Vaticano) sarebbero state anche traslate le teste dei due apostoli nel Sancta Sanctorum (vedi alle pp. 36-38). A ricordo dell’episodio, nella chiesa del Vaticano, si mostrava ai pellegrini la pietra su cui papa Silvestro avrebbe smembrato e diviso i corpi degli apostoli.

La Veronica

Nel Medioevo, la reliquia piú importante di Roma era la Veronica, descritta come un telo di lino sul quale sarebbe rimasto miracolosamente impresso il volto di Gesú. I pellegrini che si recavano nell’Urbe – soprattutto in occasione degli anni santi – ne applicavano una piccola riproduzione sul cappello, cosicché essa finí per diventare l’emblema del pellegrinaggio alla città degli Apostoli, come lo erano divenute la conchiglia per San Giacomo di Compostella e la palma per Gerusalemme. Nel 1289, papa Niccolò IV giunse ad affermare che tale reliquia fosse piú importante della stessa tomba di Pietro. L’enorme popolarità del suo culto è attestata anche da Dante, il quale ne parla sia nella Vita Nuova che nella Divina Commedia, e da Giovanni Villani, dal quale apprendiamo che durante il Giubileo essa veniva mostrata ai fedeli nei giorni festivi e ogni venerdí, in omaggio alla Passione di Cristo. La sua presenza a Roma è segnalata per la prima volta in una cronaca della fine del X secolo redatta dal monaco Benedetto del monastero di S. Andrea del Monte Soratte, il quale ne attesta la sua custodia nell’oratorio di Giovanni VII, nella basilica vaticana. L’apparizione della reliquia nell’Urbe va messa in relazione con l’acquisizione da parte dell’imperatore bizantino, Costantino VII, del Mandylion di Edessa, avvenuta pochi decenni prima. Il Mandylion (fazzoletto da testa) sarebbe stato usato da una pia donna, identificata con l’emorroissa citata nel Vangelo di Luca, per asciugare il volto di Cristo impegnato nella faticosa ascesa al Calvario: sul tessuto ne sarebbe rimasta impressa l’immagine. Secondo una leggenda greca risalente al VI secolo (e basata su un apocrifo del III secolo noto come Ciclo di Pilato), l’immagine sarebbe stata conservata a Edessa, dove avrebbe compiuto numerosi miracoli, finché, per volere dell’imperatore Costantino VII, sarebbe stata trasferita nella capitale dell’impero d’Oriente, il 16 agosto del 944, con solenne processione e concorso di popolo. Tale traslazione ebbe un effetto notevole nell’immaginario dei contemporanei e ciò 46

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spiegherebbe l’apparizione in altri luoghi di reliquie similari. Infatti, sebbene nelle fonti medievali la Veronica romana non venga mai messa in relazione con il Mandylion di Edessa, la sua presenza a Roma si faceva risalire alla stessa leggenda riportata nel Ciclo di Pilato. Secondo tale narrazione, tramandata con piccole ma significative varianti, l’imperatore Tiberio (nella versione greca il governatore di Edessa), ammalatosi di lebbra e venuto a conoscenza delle facoltà taumaturgiche di un certo Gesú di Nazaret, avrebbe inviato in Palestina un messo di sua fiducia, per chiedergli di guarirlo. Appresa la notizia della morte di Cristo, il messo avrebbe mostrato tutta la sua disperazione, muovendo a compassione una pia donna, la quale si sarebbe offerta di inviare all’imperatore il panno con il volto di Gesú. In una versione latina, la Vindicta Salvatoris, redatta prima del IX secolo, la leggenda assume contenuti antigiudaici. In tale forma fu accolta e tramandata a Roma, come attesta l’erudito gesuita Ottavio Panciroli, il quale la inserisce alla fine del Cinquecento nel suo testo sui «tesori» di Roma: «I giudei ricantavano la favola del corpo rubato dai suoi discepoli e della finta risurretione (…) il che non potendo soffrire Santa Veronica mostrò a gl’ambasciatori di Tiberio quella sacra immagine e sofferse di venir con essi a Roma». Piú o meno nello stesso periodo in cui il Panciroli consegnava alle stampe la sua versione della leggenda, per reagire alle critiche dei protestanti riguardo al proliferare di culti falsi e risibili, il cardinal Baronio, incaricato da Gregorio XIII di effettuarne la revisione, la espunse dal Martirologio romano. Si accettava ancora la venerabilità del sudario, ma la figura di Veronica venne cancellata in quanto, come scrisse lo storico francese e benedettino Jean Mabillon: «Veronica – Vera icona – vocabulum esse imaginis, non mulieris» («Veronica è il nome dell’immagine e non della donna»). In ogni caso, da alcuni decenni, la reliquia non veniva piú mostrata durante i giorni di festa e un alone di mistero calò sulla sua effettiva presenza all’interno della basilica vaticana. Secondo lo storico Arsenio Frugoni, la Veronica sarebbe stata distrutta durante il «sacco dei lanzichenecchi» del 1527. Lo stesso Panciroli annotava che la reliquia era stata rubata in quell’occasione, anche se recuperata in un secondo momento. È probabile, invece, che essa non sia stata mai piú ritrovata, come suggerirebbero il diradarsi delle sue ostensioni e il fatto che in età moderna venisse sempre mostrata dall’alto. L’ultima ostensione è avvenuta nel 1854, in oc-

In alto San Pietro. Opera attribuita ad Arnolfo di Cambio. Bronzo, XIII sec. Roma, basilica di S. Pietro. È stato anche ipotizzato che la statua sia un originale romano del V sec., poi rilavorato dal maestro toscano. Nella pagina accanto La Santa Veronica, olio su tavola di Rogier van der Weyden. 1443-45. Vienna, Kunsthistorisches Museum. Assieme ad altri due pannelli raffiguranti La Crocifissione e La Maddalena, il dipinto compone il Trittico della Crocifissione.

casione della definizione dogmatica dell’Immacolata Concezione. Dopo tale epifania è rimasta chiusa nelle stanze del Vaticano.

La statua bronzea di Pietro

La basilica di S. Pietro conserva una statua di bronzo che raffigura l’apostolo seduto, con la mano alzata in gesto benedicente. La tradizione impone che sia atto devoto renderle omaggio baciandole il piede destro, oggi visibilmente usurato, nonostante sia stato piú volte rinnovato. La statua fu da sempre oggetto di venerazione per i pellegrini e per i prelati che visitavano la basilica. Anche il cardinale Cesare Baronio, che vi si recava ogni giorno, baciava quotidianamente il piede della statua. Sulla datazione della scultura si è discusso a lungo. La tradizione – riportata dallo scrittore seicentesco Torrigio – sostiene che si tratterebbe di un’opera della metà del V secolo, voluta dal pontefice Leone Magno, che l’avrebbe fatta realizzare fondendo il metallo della statua di Giove Capitolino, quando Roma fu liberata dalla minaccia di Attila che aveva appena distrutto la città di Aquileia. RELIQUIE

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ROMA

Le sette chiese Colonna degli Indemoniati All’interno della basilica vaticana, alla sinistra della cappella che custodisce la Pietà di Michelangelo, si venerava – protetta da una grata – un’antica colonna detta «degli Indemoniati». Secondo la tradizione quattrocentesca, sarebbe stata portata a Roma da Gerusalemme, dal distrutto tempio di Salomone. Su di essa si sarebbe appoggiato Cristo quando predicava nel Tempio. Era molto famosa e la si riteneva capace di liberare gli indemoniati, tanto che in origine era anche

chiamata «degli spiritati». Non era l’unica colonna del genere proveniente da Gerusalemme; se ne contavano ben dodici (le colonne vitinee), disposte intorno all’altare maggiore della vecchia basilica e tutte provenienti, secondo la tradizione, dal tempio gerosolimitano. Anch’esse, nel Medioevo, si sarebbero rese protagoniste di miracoli. La Colonna degli Indemoniati (nota anche come «Colonna Santa» e che, in realtà, risale al IV secolo d.C.), si trova oggi nel Museo del Tesoro di San Pietro.

La tesi piú accreditata, tuttavia, è quella della storica dell’arte Angiola Maria Romanini, che ne attribuí la fattura ad Arnolfo di Cambio, facendola quindi risalire alla fine del XIII secolo. Tale attribuzione è stata confermata dalle analisi al Carbonio 14, anche se alcuni studiosi ritengono che potrebbe comunque trattarsi di una statua tardo-antica, riattata nel V secolo e successivamente in parte rilavorata da Arnolfo di Cambio. Oggi la statua si trova nella navata centrale della basilica, nell’ultimo pilone a destra vicino all’altare maggiore.

La Cattedra di Pietro

Nell’abside della basilica di S. Pietro è custodita la Cattedra di Pietro, che, secondo la tradizione, sarebbe stata usata dall’apostolo. Si tratta di una sedia curule di età romana, intarsiata d’avorio con colonne e figurine lavorate. Pietro l’avrebbe trovata nella casa del senatore Pudente, sua prima residenza in città, e l’avrebbe usata in quel periodo. In realtà, si tratta di un manufatto del IX secolo – o almeno in tale epoca risistemato – donato nell’875 dal re dei Franchi Carlo il Calvo, rappresentato sullo schienale della cattedra; il sovrano l’avrebbe inviata a papa Giovanni VIII, in occasione della sua discesa a Roma per l’incoronazione. Oggi il trono è inserito nel monumento realizzato da Gian Lorenzo Bernini nel quale si trova 48

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Nella pagina accanto, in alto, a sinistra San Pietro risana lo storpio. Arazzo della manifattura di Bruxelles su cartone di Raffaello. XVI sec. Città del Vaticano, Pinacoteca Vaticana. Nella pagina accanto, in alto, a destra la Colonna degli Indemoniati. IV sec. d.C. Città del Vaticano, Tesoro della basilica di San Pietro.

incassato, ma un tempo veniva esposto due volte l’anno, in occasione delle festività della cattedra antiochena (18 gennaio) e della cattedra romana (22 febbraio). Nel corso delle celebrazioni medievali, la cattedra veniva portata a spalle dai canonici nella Cappella del Coro, dov’era esposta ai devoti. In età moderna era invece condotta presso l’altare maggiore, offrendola alla visione dei fedeli, che cercavano di baciarla, toccarla e porvi a contatto nastri di seta considerati efficaci per favorire il felice esito dei parti. Quando si celebrava la messa in Vaticano, il pontefice sedeva su questa cattedra e ciò avveniva anche al momento dell’elezione al rientro dal già citato «possesso lateranense» (vedi a p. 40). Tali cerimonie furono abolite da Alessandro Qui accanto la Crux Vaticana, un reliquiario in oro e pietre preziose che contiene un frammento della Vera Croce, custodito nel Tesoro della basilica di San Pietro.

Nella pagina accanto, in basso la replica della Cathedra Petri, commissionata da Clemente VII nel 1705. Roma, Tesoro della basilica di San Pietro. L’originale è custodito all’interno del trono bronzeo opera di Gian Lorenzo Bernini, nella basilica di S. Pietro.

VII (1655-1667), a causa delle pessime condizioni di conservazione della reliquia. Una copia fu realizzata contestualmente ed è oggi esposta nel Museo del Tesoro di San Pietro.

La Crux Vaticana e altre reliquie della Sagrestia

L’antica Sagrestia vaticana, il grande ambiente poi ristrutturato da Pio VI (1775-1799), era destinata – oltre alle funzioni proprie di questi ambienti – a custodire le principali reliquie della basilica di S. Pietro, tra le quali si annoverano la Lancia, il Volto Santo, parte della Vera Croce e la testa di san Luca. La Lancia di Longino, cioè l’arma con cui sarebbe stato colpito il costato di Cristo, fu donata a papa Innocenzo VIII dal sultano ottomano Bayazid II, alla cui corte la reliquia era giunta all’indomani della presa di Costantinopoli (1453) da parte del padre, Maometto II. Come altre reliquie gerosolimitane, piú luoghi ne rivendicavano il possesso: nel caso della Lancia, la piú famosa è quella custodita a Vienna, detta «di Ottone I». Il frammento della Vera Croce custodito in Vaticano (da non confondersi con quello di Santa Croce in Gerusalemme), era noto come «Crux Vaticana» e sarebbe stato donato dall’imperatore bizantino Giustino II alla Chiesa di Roma: potrebbe trattarsi del medesimo resto proveniente da Costantinopoli e venerato da papa Sergio I (687-701). La testa di san Luca sarebbe giunta a Roma da Gerusalemme grazie a papa Gregorio I, che l’avrebbe portata a seguito di una missione diplomatica compiuta presso la corte orientale. Queste e altre reliquie erano custodite in S. Pietro, che però – piú di altre chiese – subí il saccheggio nel 1527, quando Roma cadde nelle mani delle milizie dell’imperatore Carlo V. Le truppe, formate anche da protestanti animati dall’odio nei confronti del clero romano e verso le «false reliquie dei santi», si diedero al loro sistematico saccheggio. Negli anni successivi, il papa cercò di recuperarle, ma con scarsi risultati. La testa di san Luca e il braccio di sant’Andrea si sarebbero salvati, perché gettati in un pozzo da un servitore della basilica al momento dell’ingresso delle truppe nemiche in città; la reliquia della Croce, invece, sarebbe stata riscattata al prezzo di cento ducati d’oro, a Napoli, da inviati papali. Le reliquie recuperate furono sistemate nella Cappella del Crocifisso, all’interno della chiesa. Attualmente, la Crux Vaticana è esposta nella Sala II del Museo del Tesoro di San Pietro. RELIQUIE

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S. Paolo

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econdo gli Atti di Paolo, ritenuti apocrifi ma seguiti da tutte le guide per pellegrini del Medioevo, questi fu decapitato nel 67 d.C. sulla via Laurentina, presso la località denominata Aquae Salviae, l’odierna abbazia delle Tre Fontane. Il suo corpo sarebbe poi stato tumulato dal discepolo Timoteo nell’area sepolcrale che sorgeva poco distante, sulla via Ostiense. Sul luogo della sepoltura, meta di pellegrinaggio sin dai primi secoli dell’era cristiana, sorse in età costantiniana una piccola basilica ad corpus. Il numero crescente dei fedeli rese insufficiente tale edificio, che fu infatti demolito nel 386. Una seconda basilica, detta «dei Tre imperatori», venne iniziata sotto Teodosio (384-386) e terminata nella prima metà del V secolo. Per la sua posizione prossima al fiume e distante dalle mura urbane, la basilica sulla via Ostiense si trovava esposta a saccheggi e ad assalti. Nel IX secolo, a seguito delle incursioni saracene, si decise di fortificarla come un vero e proprio castello. Nell’864, Giovanni VIII la dotò di bastioni che dovevano proteggere la basilica, i monasteri e le strutture caritative e commerciali che vi erano sorte a ridosso. Il santuario prese cosí il nome di Giovannipoli. Nel 1823 un devastante incendio distrusse il complesso cultuale, che venne immediatamente ricostruito. Info www.basilicasanpaolo.org

Sulle due pagine uno scorcio della basilica di S. Paolo fuori le Mura. Si distinguono, sull’abside, il mosaico con Cristo benedicente e apostoli, del XII sec.; il ciborio, attribuito ad Arnolfo di Cambio; il candelabro pasquale, in marmo finemente scolpito, del XII sec.; in primo piano, la statua di san Paolo, opera barocca in marmo. RELIQUIE

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Il corpo dell’Apostolo Paolo

Secondo la tradizione, le ossa dell’apostolo furono frammentate e deposte in due luoghi separati, una parte sotto l’altare della basilica sull’Ostiense e una parte in Vaticano. Anche per Pietro si procedette a una tumulazione separata delle ossa al fine di garantire che non tutte andassero perdute in caso di profanazione delle tombe. Altrettanto si fece con le teste dei due apostoli, tumulate, sempre secondo la tradizione, al Laterano (vedi alle pp. 36-38). Di recente, attraverso una sonda, si è operata una ricognizione della tomba di Paolo, posta nella basilica, accertando la presenza di ossa, frammenti di lino con filamenti d’oro e alcuni grani d’incenso. Minuti frammenti ossei sono stati sottoposti all’esame del radiocarbonio, che li ha assegnati a un individuo vissuto tra il I e il II secolo d.C., confermando almeno la loro presenza nella basilica durante l’età medievale. In alto, a destra sarcofago in marmo del IV sec. d.C., rinvenuto sotto l’altare maggiore della basilica e considerato la tomba di san Paolo. Vi sono stati recuperati frammenti di ossa databili tra il I e il II sec. d.C. Nella pagina accanto una veduta della Cappella delle Reliquie nella basilica di S. Paolo fuori le Mura. A destra la chiesa di S. Paolo alle Tre Fontane, in un’incisione di Giuseppe Vasi. 1772 circa.

Le Tre Fontane Vuole la tradizione che l’apostolo Paolo sia stato ucciso lungo la via Laurentina, per decapitazione: essendo cittadino romano, gli sarebbe stata infatti risparmiata la crocifissione, come era invece accaduto con Pietro. Quando la testa fu tagliata, si sarebbero verificati tre miracoli: dalla ferita sgorgò latte e non sangue; la testa rimbalzò tre volte sul terreno, dando origine ad altrettante sorgenti d’acqua; e si assistette alla miracolosa conversione delle guardie che lo avevano condotto al martirio. Le tre sorgenti dettero origine al toponimo «Tre Fontane» e presso tale luogo sorse un santuario, già nel V-VI secolo. Esso fu realizzato sotto forma di portico che monumentalizzava le tre fonti da cui i pellegrini bevevano con devozione. Nel Medioevo, tale portico, che discendeva di qualche gradino per captare le sorgenti, fu piú volte restaurato, finché, nonostante la presenza dell’abbazia, venne quasi abbandonato a causa della malaria e dei briganti. Nel 1599, il cardinale Pietro Aldobrandini, abate delle Tre Fontane, costruí sui ruderi del portichetto una nuova chiesa, l’attuale S. Paolo alle Tre Fontane, che inglobava

le tre sorgenti, sistemandole entro altari distinti, anch’essi leggermente discendenti. Secondo quanto sostenuto dagli eruditi del Cinque e Seicento, le tre fonti, seppur distanti l’una dall’altra appena uno o due metri, stillavano acque diverse per sapore e composizione: piú dolce la prima perché mescolata con il latte uscito dalla ferite di Paolo, meno la seconda e la terza piú lontane dalla prima. All’interno della chiesa oggi non sgorgano piú le tre fontane, ma l’intera area del santuario è fornita dall’acqua di una sorgente che scaturisce al limite tra campagna e città: è l’acqua Salvia, che i fedeli usano ancora bere in ricordo di Paolo. In un angolo della chiesa si venera ancora un frammento della colonna sulla quale l’apostolo sarebbe stato decapitato.

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S. Maria Maggiore

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apa Sisto III († 440) volle la realizzazione di questo primo grande centro di culto mariano, a seguito della definizione dogmatica della maternità divina della Madonna, avvenuta durante il Concilio di Efeso del 431. Pur avendo sempre mantenuto la dedicazione originaria, la chiesa è talvolta indicata come S. Maria ad Praesepem, in riferimento alle reliquie della culla di Gesú (vedi a p. 57). Dal VII secolo viene per la prima volta citata come «Maria Maior», appellativo che nei secoli si è imposto, fino a diventarne il titolo esclusivo. In età bassomedievale, si diffuse la leggenda secondo la quale la Madonna indicò a papa Liberio († 366)– uno dei predecessori di Sisto III – il luogo in cui avrebbe dovuto costruire la sua basilica, facendo cadere la neve sul colle Esquilino, nella notte tra il 4 e il 5 agosto. Nel XIII secolo, a ricordo del «Miracolo della Ne-

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Sulle due pagine basilica di S. Maria Maggiore. Il mosaico absidale raffigurante L’incoronazione della Vergine. Opera di Jacopo Torriti. XII sec. In basso, a sinistra la Fondazione di Santa Maria Maggiore, opera di Masolino da Panicale dipinta su uno dei pannelli del Polittico di Santa Maria Maggiore. Oro e tempera su tavola, 1428 circa. Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte.


RELIQUIE

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ROMA

Le sette chiese ve», Onorio III dichiarò il 5 agosto festività solenne della basilica. Nel XVII e XVIII secolo, il miracolo veniva rievocato con una «nevicata» di petali di fiore, lasciati cadere dall’alto della navata centrale, mentre, dalla fine del secolo XX a oggi, viene piú prosaicamente ricordato, sparando neve artificiale davanti al sagrato della chiesa con appositi cannoni. Info www.vatican.va/various/basiliche/ sm_maggiore/index_it.html

L’icona della Salus populi Romani

L’icona della Salus populi Romani, dipinta su tavola, rappresenta Maria come Theotokos (Madre di Dio) con il Bambino. Un’antica tradizione la vuole dipinta dall’evangelista

La basilica esquilina sorse nel luogo indicato da una nevicata miracolosa, caduta in una notte d’agosto 56

RELIQUIE

Luca e, originariamente, essa era stata posta nel tabernacolo della navata centrale da Sisto III. L’opera sarebbe databile al 1100-1200, anche se alcuni studiosi ritengono sia quella originaria del V secolo, mentre altri la considerano un rifacimento, ma di età carolingia. Essa viene indicata come «Salus populi Romani» («Salvezza del popolo romano»), a motivo della protezione che avrebbe esercitato nei secoli sulla città. Nell’età di Mezzo, nella notte che precedeva la festa dell’Assunta (15 agosto), l’icona veniva


A destra il reliquiario contenente la Culla del Presepe. Reliquia proveniente da Gerusalemme e conservata nella basilica di S. Maria Maggiore, sarebbe la mangiatoia dove venne adagiato Gesú appena nato. Nella pagina accanto, a sinistra veduta della Cappella Borghese, nella basilica di S. Maria Maggiore. Sull’altare è venerata l’immagine della Madonna conosciuta come Salus populi Romani, che la tradizione vuole dipinta da san Luca. Nella pagina accanto, a destra una raffigurazione della Vergine col bambino sul tipo della Salus populi Romani.

esibita in processione davanti alla chiesa dove incontrava l’immagine del Salvatore portata dal papa dalla cappella del Sancta Sanctorum in Laterano (vedi a p. 42). Secondo il Liber Pontificalis, fin dai tempi di papa Leone IV (874-885), la processione sfilava tra migliaia di fedeli, che si muovevano alla luce delle fiaccole. Secondo altre fonti, l’incontro tra le due icone non avveniva davanti a S. Maria Maggiore (dove in ogni caso la processione terminava), ma nel Foro Romano, presso la chiesa di S. Maria Nova (nota anche come S. Francesca Romana; vedi a p. 69). La consuetudine della processione cessò negli anni del pontificato di Pio V (1566-1572).

La culla del Presepe

Oltre all’icona della Salus populi Romani, nella basilica di S. Maria Maggiore si conserva anco-

ra oggi una reliquia legata alla nascita del Salvatore: si tratta della mangiatoia nella quale il Bambino appena nato sarebbe stato adagiato da Maria. A questa reliquia la chiesa deve il suo nome altomedievale di S. Maria ad Praesepem, nella quale erano conservati e venerati anche altri oggetti sacri legati alla prima infanzia di Cristo, tra cui il panno nel quale sarebbe stato avvolto al momento della nascita. Secondo la tradizione, la culla sarebbe stata portata nella basilica sull’Esquilino da papa Liberio, il pontefice che, come già ricordato, avrebbe edificato la chiesa a seguito della nevicata miracolosa. È tuttavia piú probabile che la reliquia sia giunta a Roma nel VII secolo, forse grazie al papa di origine palestinese Teodoro (642-649), o, piú tardi, fra i resti sacri portati in Europa dai crociati che tornavano dalle spedizioni in Terra Santa. RELIQUIE

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S. Lorenzo

I

l corpo di Lorenzo, martirizzato nel 258 sotto l’imperatore Valeriano, è da sempre custodito nella basilica della via Tiburtina, presso il Verano. Qui, all’epoca del martirio, possedeva vasti terreni Ciriaca, una nobile vedova attiva nel sostegno ai poveri, nella cui casa sul Celio Lorenzo si recava spesso e presso la quale il futuro martire l’avrebbe guarita miracolosamente da persistenti dolori alla testa. Il martirio di Lorenzo fu feroce e travagliato. Il 10 agosto del 258, dopo lunghi tormenti, morí mentre veniva torturato su una graticola rovente. Ippolito, suo ex carceriere (vedi a p. 72), recuperò e inumò, con l’aiuto di Giustino, i suoi resti nei terreni di Ciriaca sulla Tiburtina, dove sorge la chiesa attuale. Nel giro di poco tempo, anche 58

RELIQUIE


Sulle due pagine I funerali di San Lorenzo. Opera di Francesco Grandi, è il bozzetto preparatorio per l’affresco – oggi caduto – eseguito nella basilica di S. Lorenzo fuori le Mura, nel 1868. Nella pagina accanto, in basso mosaico dell’arco absidale della basilica di S. Lorenzo fuori le Mura. VI sec. Sono raffigurati Cristo in Maestà, benedicente, apostoli, santi, e papa Pelagio II nell’atto di dedicare la chiesa.

Ippolito, Ciriaca e Giustino furono vittime delle persecuzioni e, alla morte di Ciriaca, le terre vennero confiscate insieme a tutte le sue proprietà. Piú tardi, Costantino donò i terreni in cui sorgeva il cimitero di Ciriaca e di Lorenzo alla Chiesa, che vi fece edificare una grande basilica cimiteriale e un oratorio ad corpus, proprio sulla tomba del martire. Mentre la grande basilica costantiniana declinava fino a essere abbandonata, l’oratorio divenne via via piú importante, soprattutto grazie a due pontefici: Pelagio II (579-590), che edificò al suo posto una chiesa, e Onorio III (1216-1227), il quale – riutilizzando e ingrandendo la piú antica chiesa pelagiana – diede alla basilica il suo volto attuale. Contrariamente a quanto accadde per molti altri santi sepolti nelle catacombe, il corpo di Lorenzo non fu mai traslato entro le mura cittadine, forse a causa di un episodio, riportato da Gregorio Magno, che segnò il rapporto tra il martire e la popolazione romana. Al momento della realizzazione della basilica ad corpus, alcu-

ni cavatori avrebbero inavvertitamente aperto il sepolcro del martire. I monaci accorsi per vedere le reliquie, nei dieci giorni successivi, sarebbero morti insieme ai cavatori. Il corpo di Lorenzo venne quindi reputato inamovile (statuto che lo metteva al riparo da possibili furti o richieste di reliquie), mentre quello di Ciriaca fu portato da Sergio II nella chiesa esquilina di S. Martino ai Monti. Il ricordo dell’episodio rimase talmente vivo che alla metà XVI secolo, quando il priore del monastero tentò di scendere nelle gallerie inesplorate che portavano ai corpi di Ippolito e Lorenzo, fu preso da un imprevedibile tremore. Ritentò piú volte, ma il tremore del corpo continuava ad attanagliarlo. Solo dopo molti giorni di orazioni e digiuni riuscí finalmente a scendere, fino ad arrivare a vedere il corpo di sant’Ippolito e dei suoi familiari, che trovò tutti sepolti a cerchio attorno alla tomba di Lorenzo, che si guardò bene dal toccare. Info www.basilicasanlorenzo.it RELIQUIE

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ROMA

Le sette chiese

Santa Croce in Gerusalemme

S

econdo una tradizione romana, codificata alla fine del Medioevo, l’imperatrice Elena, di ritorno dal suo viaggio a Gerusalemme, avrebbe condotto con sé diverse reliquie della Passione e una grande quantità di terra prelevata sul Calvario. L’avrebbe sparsa su un’area posta all’interno della sua residenza imperiale, il Sessorium, sulla quale avrebbe fatto costruire una chiesa palatina (destinata a custodire le reliquie raccolte), che prese il nome – nei secoli successivi – di Santa Croce in Gerusalemme. Info www.santacroceroma.it

La Vera Croce e il Titulus Crucis

Santa Croce in Gerusalemme custodisce varie reliquie legate alla Passione, che, come anticipato, sarebbero state ritrovate da Elena madre di Costantino. Secondo una leggenda riportata da Ambrogio, alla fine del IV secolo, l’imperatrice, convertitasi al cristianesimo prima del figlio, si sarebbe recata a Gerusalemme, dove avrebbe fatto condurre uno scavo sul Golgota, alla ricerca della Croce. In seguito, lo scrittore bizantino Sozomeno, per giustificare la presenza di una parte della Vera Croce a Costantinopoli, aggiunse a questa narrazione la tradizione secondo la quale Elena, dopo il ritrovamento, avrebbe diviso la reliquia in due parti, inviandone metà a Costantinopoli. Nella versione romana, Elena avrebbe frammentato la reliquia addirittura in tre parti, una delle quali, insieme al Titulus Crucis (cioè la scritta INRI), avrebbe recato a Roma. Il ricordo della leggenda dello scavo di Elena conobbe un reale successo solo a partire dal 1250, quando venne illustrata da un celebre ciclo di affreschi ancor oggi visibile nel complesso della chiesa dei Ss. Quattro Coronati. Grazie alle reliquie di Elena (oltre alla Croce anche un chiodo e alcune spine della corona), la chiesa sessoriana divenne allora un vero e proprio santuario gerosolimitano a Roma, nonostante il Titulus fosse stato rinvenuto solo molti secoli piú tardi, nel 1492, nel corso di alcuni restauri che rilanciarono l’edificio religioso come uno dei piú importanti della città. Il ritrovamento del Titulus, nascosto entro le mura che sorreggevano un arco interno alla basilica, come attesta il diarista romano Stefano 60

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In questa pagina basilica di Santa Croce in Gerusalemme. Teca con reliquiari ottocenteschi in oro, argento e pietre preziose, fra cui un reliquiario con frammenti della Vera Croce realizzato su disegno di Giuseppe Valadier nel 1803. Nella pagina accanto statua di sant’Elena. Opera in marmo di un anonimo del XVII sec. Roma, basilica di Santa Croce in Gerusalemme.

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ROMA

Le sette chiese

A sinistra capolettera miniato nel quale è raffigurata Elena, madre di Costantino, che guida gli scavi sul Calvario, da un breviario dell’abbazia di Chertsey (Surrey, Inghilterra). Primo quarto del XIV sec. Oxford, Bodleian Library. A destra ritratto di papa Silvestro II (al secolo Gerberto d’Aurillac). Incisione a colori, XIX sec.

Lo spargimento di terra prelevata a Gerusalemme, insieme all’acquisizione delle reliquie, rispondeva al desiderio di creare un «doppione» della Città Santa Infessura, ebbe luogo nello stesso giorno in cui arrivò a Roma la notizia della conquista di Granada, ultima roccaforte musulmana in Spagna. Le reliquie della Passione in tale contesto dovevano ricordare che il Santo Sepolcro era ancora in mani musulmane e che quindi l’impegno verso la crociata doveva restare vivo.

La terra di Gerusalemme

La terra di Gerusalemme, sparsa da Elena al momento della fondazione della basilica è venerata ab antiquo come reliquia. Tale traslazione non deve considerarsi come una pura leggenda, 62

RELIQUIE

ma va ascritta alla pratica iniziata proprio nel IV secolo, di recare oggetti di culto dalla Terra Santa per creare altrettante «Gerusalemmi» occidentali, nelle quali poteva recarsi in pellegrinaggio chi non poteva affrontare il lungo viaggio via mare. La denominazione della chiesa «in Hierusalem» intendeva stigmatizzare tale simbolismo. Era del resto pratica comune, tra il IV e il VI secolo, riportare da Gerusalemme «la terra bagnata dal sangue di Cristo». Gregorio di Tours, alla fine del VI secolo, parla dell’usanza dei pellegrini cristiani di riportare dalla Terra Santa torte di terra prelevate nell’a-


rea del Santo Sepolcro, a cui si attribuivano virtú taumaturgiche. Assai significativa in tale senso è la leggenda che si diffuse pochi decenni dopo la morte del pontefice Silvestro II (999-1004). Gerberto d’Aurillac, questo il suo nome prima di ascendere al soglio pontificio, ebbe la sorte di portare la tiara nell’anno Mille, che, secondo molti, doveva rivelarsi denso di avvenimenti apocalittici. Le sue vaste conoscenze – accresciute dall’aver frequentato le scuole arabe di Spagna – lo fecero scegliere come precettore della famiglia imperiale degli Ottoni, grazie al cui favore divenne pontefice nel 999. La sua enorme cultura soprattutto nel campo astronomico e matematico, gli valse, dopo la morte la fama di mago. Secondo il cronista medievale di origine gallese Gualtiero Map (1140 circa-1208-1210), sarebbe stato aiutato da una donna misteriosa e luciferina, Meridiana a ottenere ricchezze e onori, e soprattutto a rivestire le cariche di vescovo di Reims, arcivescovo di Ravenna e infine pontefice. La donna gli avrebbe anche consigliato di non accostarsi piú ai sacramenti, cosa che egli fece fino a quando avrebbe cominciato a essere ossessionato dalla paura della morte. Meridiana aveva predetto che essa non sarebbe avvenuta fino a quando il papa non avesse celebrato «una messa a Gerusalemme». Gerberto si sarebbe allora risolto a non mettere piede in Terra Santa, ma, recatosi a celebrare messa in Santa Croce, avrebbe avuto la visione, tra i banchi della navata, di Meridiana che si trasformava in un mostro, applaudendolo divertita. Spaventato da quella visione, il papa chiese il nome per intero della chiesa dove si trovava: «Santa Croce in Gerusalemme» gli fu risposto. Silvestro comprese: la profezia si stava avverando, era giunto il suo momento, confessò a tutti il proprio peccato, e poi spirò. Dopo il decesso nella chiesa sessoriana, il papa fu sepolto nella vicina basilica di S. Giovanni in Laterano, dentro un’arca in marmo dalla quale, secondo un’altra leggenda medievale, trasudava acqua e, ogni qualvolta stesse per morire un papa, sgorgava addirittura un rigagnolo. Una leggenda smentita nel 1648, in occasione dei rifacimenti delle fondamenta della chiesa, quando la tomba di Silvestro venne aperta e il pontefice fu trovato «intero e illeso, vestito degli abiti pontificali, con le braccia in croce, e la tiara in capo». Tuttavia, non appena la tomba fu aperta, «sentí l’aria e si sciolse in polvere». Allo stesso modo svaní la sua macabra leggenda. RELIQUIE

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ROMA

Le sette chiese

S. Sebastiano

L

a chiesa dedicata a Sebastiano martire, sepolto in quel cimitero, fu dedicata in origine a Pietro e Paolo, poiché i loro corpi vi sarebbero stati tenuti nascosti per quarant’anni, prima di essere deposti nelle rispettive basiliche di S. Pietro in Vaticano e S. Paolo fuori le Mura. Gregorio Magno scrive, infatti, che durante la feroce persecuzione del 258, la comunità romana nascose i corpi dei due apostoli a S. Sebastiano. Secondo gli archeologi, il fatto che S. Sebastiano fosse denominata in età medievale

«Memoria Apostolorum» (Memoria degli apostoli), potrebbe confermare la veridicità di tale tradizione. Info www.catacombe.org

Il pozzo di Pietro e Paolo

Secondo Gregorio Magno, i corpi di Pietro e Paolo furono nascosti presso le catacombe di S. Sebastiano in ben due occasioni: durante la già ricordata persecuzione di Valeriano del 258 e poco dopo il martirio, quando alcuni cristiani provenienti dall’Oriente ne avrebbero rivendicato i corpi. Al rifiuto opposto dalla comunità romana, gli Orien64

RELIQUIE

In basso una veduta della Cripta di S. Sebastiano, all’interno delle omonime catacombe, situate sulla via Appia Antica.


Sulle due pagine uno dei corridoi delle catacombe di S. Sebastiano. Lungo le pareti si distinguono le nicchie per la sepoltura dei defunti.

Per ben due volte, le catacombe di S. Sebastiano furono scelte come nascondiglio nel quale mettere al sicuro i corpi degli apostoli Pietro e Paolo

tali avrebbero trafugato le spoglie, nascondendole presso la catacomba sull’Appia, in attesa di imbarcarsi. Si sarebbe allora scatenata una tempesta di fulmini, che impedí ai trafugatori di prendere il mare e diede tempo alla comunità romana di mettersi in allarme e farsi riconsegnare i corpi. Il luogo in cui i resti degli apostoli vennero nascosti – in piú occasioni, forse anche durante le incursioni saracene dell’VIII-IX secolo – fu identificato dalle guide bassomedievali come il «pozzo di Pietro e Paolo».

Le reliquie di san Sebastiano

Il corpo di Sebastiano fu traslato nell’VIII secolo in Vaticano, ma poi ricondotto sull’Appia. Divenne oggetto di venerazione e devozione, anche a motivo del fatto che quella a lui intitolata fu una delle poche chiese cimiteriali che rimase sempre aperta nel corso dei secoli. La testa del martire, però, fu portata ai Ss. Quattro Coronati, sul Celio. Nella basilica che ne porta il nome, oltre al corpo, si custodivano due delle frecce che avrebbero trapassato le carni di Sebastiano durante una delle fasi del martirio. RELIQUIE

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SS. Maria del Popolo

S. Silvestro iin Capite

CITTĂ€ DEL VATICANO

S. Maria in Via Lata

S. Prassede

Ss. Vito e Modesto

S. Lorenzo in Fonte S. Giuseppe dei Falegnami

S. Bibiana S. Pietro in Vincoli

S. Francesca Romana

S. Maria in Trastevere

Ss. Quattro Coronati

S. Cecilia

S Barbara al Celio S.

Ss. Bonifacio e Alessio S. Prisca

S. Giovanni in Oleo

Chiesa del Domine quo vadis

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RELIQUIE


CATENE, PRODIGI

E ALTRE STORIE Accanto al percorso delle «sette chiese», Roma offriva al pellegrino medievale la possibilità di rendere omaggio a una vera e propria moltitudine di sacri resti: testimonianze spesso legate alle vicende della prima comunità cristiana dell’Urbe e che, ancora oggi, sono oggetto di sincera venerazione

D OMINE QUO VADIS Impronte di Gesú

S. MARIA NOVA ● Silices apostolici

S. GIUSEPPE DEI FALEGNAMI ● Impronta del capo di san Pietro ● Fonte del Carcere Mamertino S. PIETRO IN VINCOLI ● Catene di san Pietro S . LORENZO IN FONTE Fonte miracolosa

S . MARIA IN TRASTEVERE ● Fonte d’Olio ● Madonna della Clemenza

S . MARIA IN VIA LATA ● Madonna di S. Maria in via Lata

S. GIOVANNI IN OLEO Caldaia di Giovanni Evangelista

S. SILVESTRO IN CAPITE Testa di Giovanni Battista

S. MARIA DEL POPOLO ● Icona di S. Maria del Popolo

SS. BONIFACIO E ALESSIO Reliquie di sant’Alessio

S. PRISCA Fonte battesimale di san Pietro

S. CECILIA Corpo di santa Cecilia S. BARBARA AL CELIO Mensa Pauperum S. BIBIANA Colonna e corpo di santa Bibiana SS. VITO E MODESTO Pietra Scellerata SS. QUATTRO CORONATI Testa di san Sebastiano

S. PRASSEDE Duemilatrecento martiri

RELIQUIE

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ROMA

Le altre chiese

LE IMPRONTE DI GESÚ Chiesa del Domine quo vadis (S. Maria delle Piante o in Palmis) Via Appia Antica, 51 Info tel. 06 5120441

A

ll’interno della piccola chiesa, si conserva la pietra sulla quale – secondo la leggenda – rimasero impresse le impronte dei piedi di Gesú, nel momento in cui incontrò Pietro che usciva da Roma, durante la persecuzione neroniana del 64. Negli Atti dei martiri Processo e Martiniano, redatti tra il V e il VI secolo, si racconta che Pietro, fuggito dal Carcere Mamertino grazie all’aiuto di alcuni fedeli che intendevano porlo in salvo, si incamminò sulla via Appia, forse per raggiungere il mare e di lí imbarcarsi per l’Oriente. Giunto al bivio tra la regina viarum e l’Ardeatina, avrebbe incontrato un uomo che in fretta camminava alla volta di Roma. Pietro vi avrebbe riconosciuto Gesú, ponendogli la celebre domanda: «Domine quo vadis?» («Signore, dove vai?»). Secondo gli Atti, l’uomo, avrebbe risposto «Venio Romam iterum crucifigi» («Vado a Roma per essere crocifisso una seconda volta») e sarebbe quindi scomparso. Spinto da quelle parole, Pietro sarebbe tornato sui suoi passi, pronto al martirio. Secondo una leggenda tarda, al momento della scomparsa, Cristo avrebbe lasciato l’impronta dei In alto Domine, quo vadis?, olio su tavola di Annibale Carracci, 1601-02. Londra, The National Gallery. A sinistra chiesa del Domine quo vadis. La pietra recante le impronte attribuite a Gesú: si tratta, in realtà, della copia di dell’ex voto di un viaggiatore, databile all’età imperiale romana. suoi piedi; la pietra sulla quale si può ancora oggi vedere è, in realtà, la copia di un ex voto che un viaggiatore dell’antichità aveva offerto in segno di ringraziamento per essere giunto sano e salvo a

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RELIQUIE

Roma alla fine di un lungo viaggio, il cui originale si trova a S. Sebastiano. Rinvenuto probabilmente nei dintorni del santuario, l’ex voto dovette dare adito alla leggenda, che nacque in età medievale, mentre il luogo dell’apparizione di Cristo conobbe, sin dai tempi piú antichi, prima della fine delle persecuzioni contro i cristiani, una sentita devozione. La presenza di un piccolo santuario, chiamato ubi Dominus apparuit, è attestata a partire dal IX secolo. Nel Trecento, la chiesa fu ribattez-


zata S. Maria delle Palme (o del Passo), finché nei primi decenni del XVII secolo venne completamente ristrutturata, assumendo l’aspetto attuale. In tale occasione, dentro l’edificio fu sistemato il facsimile delle presunte impronte dei piedi di Gesú. I SILICES APOSTOLICI Chiesa di S. Maria Nova (detta anche di S. Francesca Romana) Piazza di S. Francesca Romana, 4 Info tel. 06 6795528

N

el transetto destro della chiesa di S. Maria Nova (nota anche come S. Francesca Romana), sono conservate le pietre in basalto

che la tradizione indica come quelle su cui si sarebbe inginocchiato san Pietro al momento della sfida lanciatagli da Simon Mago. Si tratta di basoli stradali in selce («silices»), visibili dietro una grata, su cui le ginocchia dell’apostolo avrebbero lasciato l’impronta. La leggenda è riportata da un Vangelo apocrifo, gli Atti di Pietro, nel quale si racconta che Simon Mago, anch’egli proveniente dalla Terra Santa, volle sfidare Pietro per mostrare alla popolazione romana i propri poteri soprannaturali, segno della predilezione divina di cui sarebbe stato oggetto. Simon Mago spiccò il volo dalla Velia, il colle tra l’area del Foro e

l’attuale piazza del Colosseo (oggi non piú esistente, perché spianato al fine di consentire la realizzazione di via dei Fori Imperiali, n.d.r.), alla presenza dello stesso imperatore Nerone. Ma Pietro, inginocchiandosi in quello stesso luogo, con la preghiera dissolse la sua magia, facendolo precipitare al suolo. E sul posto sarebbe appunto rimasta l’impronta delle sue ginocchia (i Silices apostolici). Nel Medioevo, là dove oggi sorge la chiesa dei Ss. Cosma e Damiano, Miniatura raffigurante la caduta di Simon Mago, da un’edizione dello Speculum historiale di Vincenzo di Beauvais. XIV sec. Cava de’ Tirreni, Biblioteca statale del Monumento Nazionale Badia di Cava.

RELIQUIE

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ROMA

Le altre chiese

si mostravano anche quattro basoli sui quali i pellegrini ravvisavano i segni delle quattro parti del corpo di Simon Mago impressi frangendosi al suolo. Sebbene gli Atti di Pietro fossero stati presto espunti dai Vangeli, il ricordo dell’episodio del volo di Simon Mago fece sí che papa Paolo I, intorno al 760, edificasse sulla Velia, un piccolo oratorio, proprio nel punto in cui si trovavano i Silices apostolici. Nello stesso luogo, nei secoli successivi, si sviluppò la chiesa di S. Maria Nova, che mantenne al suo interno le singolari reliquie. L’IMPRONTA DEL CAPO DI SAN PIETRO Carcere Mamertino (chiesa di S. Giuseppe dei Falegnami) Clivo Argentario, 1 Info www.sanmarcoevangelista.it

L

a pietra è conservata nel Tullianum, chiamato anche Carcere Mamertino. In queste segrete, alle pendici del Campidoglio, poste tra il Foro Romano e il Foro di Cesare, sorgevano lugubri stanze scavate nel tufo e adibite a carcere in età repubblicana e imperiale. In esse, nel corso della persecuzione neroniana, fu imprigionato Pietro. Secondo la leggenda riportata negli Atti di Processo e Martiniano, redatti tra V e VI secolo, ma basati su una tradizione piú antica, Pietro avrebbe convertito i suoi carcerieri (Processo e Martiniano, appunto), che lo avrebbero fatto evadere per salvarlo dalla condanna capitale disposta da Nerone. Prima della conversione, spinto da una delle guardie, avrebbe battuto contro la roccia, lasciando su di essa un’impronta (ancora visibile) che suscitò grande venerazione. Ispirato da Gesú durante il successivo incontro sull’Appia (vedi a p. 68), l’apostolo avrebbe compreso la necessità del proprio martirio, tornando sui suoi passi e consegnandosi al carnefice. Papa Silvestro I (314-335) realizzò,

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RELIQUIE

nell’antica cella, un piccolo oratorio, piú volte ristrutturato nel corso dei secoli. Al tempo di Carlo Magno, com’è testimoniato dall’Itinerario di Einsiedeln (nome sotto il quale si indica una serie di 11 itinerari cristiani di Roma contenuta in un codice membranaceo, probabilmente dell’epoca di Carlo Magno, e oggi conservata, appunto, nel monastero svizzero di Einsiedeln, n.d.r.), il luogo era visitato da molti pellegrini. Alla metà del Quattrocento, l’oratorio si era sviluppato in una vera e propria chiesuola, chiamata S. Pie-

Carcere Mamertino. La pietra che recherebbe l’impronta lasciata dalla testa di san Pietro, che vi avrebbe sbattuto dopo essere stato spintonato da uno dei suoi carcerieri, il quale, poco dopo, sarebbe stato convertito dall’apostolo. tro in Carcere. Dal XVI secolo su di essa sorse una nuova piccola chiesa, dedicata a san Giuseppe, e tenuta dalla Confraternita dei Falegnami, perciò nota come S. Giuseppe dei Falegnami, tuttora in funzione. Scendendo nel sotterraneo, si può visitare l’antico Carcere Mamertino, con la presunta impronta del capo dell’apostolo.


La fonte del Carcere Mamertino Chiesa di S. Giuseppe dei Falegnami

Tra le reliquie del Carcere Mamertino figura la fonte, di cui parlano gli itinerari medievali, che sarebbe miracolosamente sgorgata dalla roccia per permettere a Pietro e Paolo di battezzare i loro guardiani, Processo e Martiniano, i quali convertiti, li avrebbero lasciati fuggire. La fonte fu sempre oggetto di venerazione e non se ne perse mai la memoria. L’Itinerario di Einsiedeln la cita come la «Fons s. petri ubi est carcer eius». Recenti indagini archeologiche hanno mostrato come la sala ipogea poi utilizzata come segreta fosse in origine una cisterna, probabilmente rifornita da una polla di acqua sorgiva che – tra il V e il III secolo a.C. – era stata anche regolarizzata con una canaletta.

LE CATENE DI SAN PIETRO Chiesa di S. Pietro in Vincoli Piazza di San Pietro in Vincoli, 4/A Info tel. 06 97844952

L’

apostolo Pietro sarebbe stato incatenato, cioè posto «in vincoli» (da cui il nome della chiesa), in due diverse occasioni. La prima volta dal re di Giudea, Erode Agrippa – come si legge negli Atti degli Apostoli –, quando venne poi liberato miracolosamente grazie all’intervento di un angelo. La seconda, a Roma, nel Carcere Mamertino, per ordine di Nerone. Nella prigione ai piedi del Campidoglio, fu relegato con Paolo e da lí i due apostoli, dopo nove mesi di detenzione, vennero condotti al martirio. Le catene di Gerusalemme e di Roma sono custodite da secoli nella chiesa esquilina di S. Pietro in Vincoli, che da esse prende nome e In basso l’altare maggiore della chiesa di S. Pietro in Vincoli, sotto il quale si conserva la teca contenente le catene di san Pietro.

RELIQUIE

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ROMA

Le altre chiese

che sarebbe stata costruita per iniziativa dello stesso san Pietro, il quale l’avrebbe dedicata al Santissimo Salvatore. In realtà, S. Pietro in Vincoli sorse per iniziativa dell’imperatrice Eudossia, moglie di Valentiniano III, intorno al 440. Secondo la tradizione, Eudossia aveva ricevuto in dono le catene dell’apostolo dalla madre, recatasi in Terra Santa nel 438. Il sacro cimelio sarebbe stato quindi consegnato al pontefice Sisto III (secondo altre versioni al suo successore, Leone Magno), che lo avrebbe posto accanto alle catene che avevano rinserrato Pietro nel Carcere Mamertino: le due diverse catene si sarebbero allora fuse in una sola, per prodigio divino. La testimonianza di Gregorio Magno mostra come nell’Alto Medioevo si usasse inviare ai re e ai principi cristiani la limatura delle preziose catene, inserita in piccole chiavi d’oro e di argento da portare al collo. In una lettera a Childeberto, re dei Franchi, Gregorio scrisse: «Vi mandiamo le chiavi di san Pietro, e in esse la limatura delle sue catene, affinché portandole al collo vi difendano da tutti i mali». LA FONTE MIRACOLOSA Chiesa di S.Lorenzo in Fonte Via Urbana, 50 Info tel. 06 4882120

I

n una piccola chiesa in via Urbana, nel rione Monti, si nasconde la cella in cui fu detenuto san Lorenzo. Si tratta probabilmente di uno scantinato della casa di Ippolito, un soldato incaricato di sorvegliare Lorenzo durante la persecuzione dell’imperatore Valeriano, nella seconda metà del III secolo. Secondo la leggenda, nella cella, già da tempo, viveva segregato un certo Lucillo, il quale, a causa dell’oscurità perenne dello scantinato, aveva perso la vista. 72

RELIQUIE

Quando Lorenzo, condannato perché cristiano, divenne suo compagno di prigionia, riaccese nell’uomo la speranza, che gli fece scoprire la fede e recuperare la vista. Lucillo avrebbe quindi chiesto a Lorenzo di battezzarlo e, per permettere al futuro santo di amministrare il sacramento, apparse miracolosamente una fon-

te d’acqua che, secondo quanto scriveva Ottavio Panciroli nel 1600: «Fin al giorno d’hoggi senza mai crescere ne calare nella stessa perfettione sua si conserva con gran meraviglia di ognuno». La teca contenente le catene di san Pietro. Secondo la tradizione, la reliquia sarebbe il risultato della fusione miracolosa fra le catene della prigione di Gerusalemme e quelle del Carcere Mamertino.


Il fonte battesimale di Pietro

Chiesa di S. Prisca – Via di Santa Prisca, 11 – Info: www.santaprisca.it Posta sul fianco orientale dell’Aventino, la chiesa di S. Prisca è strettamente legata, secondo una tradizione antichissima, alla predicazione romana di Pietro. In tale area sorgeva originariamente una fonte pagana, connessa al mito di Evandro e del re Numa. La fonte potrebbe essere stata poi utilizzata da Pietro, che – come Paolo, ma forse in tempi diversi – fu ospite nella casa di Prisca e Aquila, che sorgeva qui. Proprio nell’angolo della casa di Prisca e Aquila in cui Pietro aveva battezzato e predicato, sarebbe stato fondato un oratorio, poi divenuto un’«ecclesia domestica», forse la piú antica della città. Un’altra tradizione vuole che Prisca sia stata la prima («prisca») donna in Occidente a subire il martirio: si sarebbe cioè trattato di una ragazza convertita da Pietro e uccisa poi durante la persecuzione antiebraica di Claudio (41-54; all’epoca i cristiani erano percepiti come una setta minoritaria dell’ebraismo). In realtà, secondo alcuni studiosi, la confusione tra i titoli deriverebbe dall’esistenza di un’altra martire, anch’essa di nome Prisca, uccisa due secoli piú tardi, durante la persecuzione di Claudio il Gotico (268-270). La ragazza – una tredicenne romana – sarebbe stata condannata a essere divorata dalle belve al Circo Massimo (o al Colosseo), ma miracolosamente le avrebbe rese mansuete. Sopravvissuta ad altri supplizi, fu infine decapitata lungo la via Ostiense; il suo corpo insepolto venne difeso – sempre secondo la leggenda – da un’aquila, che la protesse dai cani selvatici, fino al giorno della tumulazione. Sarebbe stato il pontefice Eutichiano (275-283) a trovarne le spoglie (rivelategli da Dio) e a traslarle nella cripta della basilica di S. Prisca, che avrebbe scelto proprio per l’omonimia tra l’originaria Prisca e la moglie di Aquila e tra quest’ultimo e l’animale che l’aveva protetta dai cani selvatici. Documenti del IX secolo definiscono la chiesa Titulus Priscae et Aquilae. Tale doppia dedicazione rimase fino al XV secolo, come riportava la scritta sull’architrave dell’antico ingresso, oggi perduta. Indagini archeologiche hanno provato che, prima della costruzione della basilica paleocristiana, esisteva un luogo di culto, un oratorium rinvenuto sotto la piazzetta antistante la chiesa. Tra la fine del IV e l’inizio del V secolo venne poi costruita la basilica con cripta sotterranea alla quale si accedeva mediante una scala di 34 gradini. Le reliquie della chiesa sono legate a questa complessa vicenda e alla presenza di Pietro sul sito. Le guide cinquecentesche segnalano come qui fossero conservati i corpi di Prisca, della madre Priscilla e di Aquila. Il luogo era famoso perché Pietro vi aveva abitato e vi si conservava anche la sua stola. Ma l’oggetto piú importante era senza dubbio il vaso con cui l’apostolo aveva battezzato i primi conversi alla nuova fede. Si trattava di un vero e proprio fonte battesimale, ricavato da un antico capitello dorico cavo, un tempo custodito nella cripta, e oggi invece posto nella prima cappella della navata destra della chiesa.

Il capitello-fonte del I sec. d.C. che un tempo si conservava nella cripta della chiesa di S. Prisca e sul quale san Pietro avrebbe battezzato la santa titolare del tempio.

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Quando Ippolito andò a ispezionare i suoi prigionieri, sperando di potersi intrattenere in conversazione con Lorenzo, del quale subiva il fascino intellettuale, scoprí il prodigio e la miracolosa guarigione di Lucillo. Anche il carceriere, allora, volle convertirsi, insieme alla sua numerosa famiglia. Nel Medioevo, nella chiesa si venerava la fonte usata da Lorenzo per battezzare i congiunti di Ippolito. Attualmente, alcune gallerie sono state chiuse per i lavori della linea metropolitana, ma l’ambiente in cui furono imprigionati Lucillo e Lorenzo è accessibile. Si tratta di una piccola stanza circolare, nella quale, a livello del suolo, si può vedere il pozzetto riempito dalla sorgente che sarebbe miracolosamente scaturita. Il pozzo è decorato da un bassorilievo della prima metà del XVII secolo, che ritrae Lorenzo mentre battezza Ippolito. L’acqua limpida che riempie il pozzetto è sempre stata ritenuta miracolosa e veniva bevuta dai devoti a scopo terapeutico. Probabilmente deriva da un antico rivus che scende dalle pendici del Quirinale. LA FONTE D’OLIO Basilica di S. Maria in Trastevere Piazza di Santa Maria in Trastevere Info tel. 06 5814802

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econdo una tradizione antichissima, S. Maria in Trastevere sarebbe una delle prime chiese fondate in città. Papa Callisto I (217-222) sarebbe riuscito a ottenere dall’imperatore Alessandro Severo (quasi un secolo prima dell’editto di Costantino, quindi) alcuni locali a Trastevere, presso quella che era nota come Taberna La Natività, uno dei mosaici facenti parte dalle Storie della Vergine realizzate da Pietro Cavallini per l’abside di S. Maria in Trastevere. Ultimi decenni del XIII sec. In basso, si vede la Taberna Meritoria, da cui scorre un fiume d’olio, in ricordo dell’evento miracoloso legato alle origini della basilica.

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Meritoria, una sorta di ospizio per veterani dell’esercito. Altre fonti, del resto, testimoniano la tolleranza di questo imperatore nei confronti della fede cristiana. Lo scrittore Elio Lampridio (IV secolo), per esempio, sostiene che Alessandro teneva, tra le altre statue degli dèi, una raffigurazione del Cristo. Piú probabilmente, Callisto riuscí a ottenere in quel luogo la concessione di un’aula per le sinassi e le assemblee dei fedeli. I cambiamenti politici susseguiti alla morte di Alessandro e le pressioni dei sacerdoti pagani portarono a una brusca reazione, che sfociò nell’uccisione di Callisto, gettato da una finestra di un edificio accanto all’attuale chiesa. La chiesa sarebbe stata dedicata a Maria e, in questo caso, si tratterebbe del primo edificio romano intitolato alla madre di Dio. Il luogo scelto da Callisto per la fondazione non sarebbe stato casuale:

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nella notte della nascita di Gesú, da una polla apertasi nel terreno, sarebbe stillata miracolosamente un’abbondantissima fonte di olio, che avrebbe continuato a sgorgare per un giorno intero, formando un rivo, che poi sfociò nel Tevere (doveva probabilmente trattarsi di un affioramento di olio naturale, di petrolio). Quando Innocenzo II, nel 1130, ristrutturò la chiesa dalle fondamenta, si trovò terra che «stretta nella mano ungeva». Sotto l’altare realizzato da Innocenzo, vicino alla confessione entro la quale riposa Callisto (con il martire Calepodio), v’è il luogo da cui sarebbe scaturita la fonte d’olio. Tra il Basso Medioevo e il Cinquecento la devozione verso quel sito, che vantava un legame con la nascita di Cristo, vi fece affluire numerose reliquie legate alla vita di Gesú: frammenti del legno della Croce, della spugna e della culla di Cristo, capelli e velo della Maddalena.

La basilica trasteverina custodisce anche una delle piú antiche icone conservate in città, che – per la tipologia iconografica della «Maria Regina» – costituisce un unicum, se si eccettuano l’icona del monastero del Monte Sinai e l’immagine dipinta nella chiesa romana di S. Maria Antiqua, databile agli anni 530-540. È nota come Madonna della Clemenza e Maria vi appare vestita da Basilissa, seduta su un trono gemmato, circondata da due angeli che le fanno da guardia. La Vergine viene quindi rappresentata come Regina degli angeli e dei santi. La sua origine è comunque assegnabile agli inizi dell’VIII secolo. In età medievale l’icona era nota per i suoi miracoli e conobbe un’indiscussa popolarità. Nel 1991, fu spostata nella sacrestia, dov’è tuttora visibile, anche se protetta da un vetro e da un sistema per il controllo dell’umidità.


Nella pagina accanto Roma, basilica di S. Maria in Trastevere. Il luogo in cui sarebbe scaturito prodigiosamente l’olio, oggi situato sotto uno scalino nella parte destra di accesso al presbiterio, segnalato dall’iscrizione Fons Olei. A sinistra l’icona della Madonna della Clemenza, tavola a encausto. Inizi dell’VIII sec. Roma, basilica di S. Maria in Trastevere, cappella Altemps. L’immagine, ritenuta di origine divina, è venerata come una reliquia.

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Icone miracolose L’ICONA DI S. MARIA DEL POPOLO Chiesa di S. Maria del Popolo Piazza del Popolo, 12 Info www.santamariadelpopolo.it

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ffacciata sulla piazza omonima, S. Maria del Popolo sorse per esortazione della Madonna stessa. Nel sito in cui venne edificata, alle pendici del Monte Pincio, si trovava nel Medioevo un gigantesco albero di noce, perennemente abitato da grandi stormi di corvi e altri uccelli che molestavano e aggredivano i passanti. I Romani leggevano nel fenomeno un segno della presenza del demonio. Nel 1099, Pasquale II decise di riconsacrare l’area per allontanarne la presenza diabolica. In sogno gli sarebbe apparsa la Vergine, la quale gli avrebbe rivelato che nelle radici dell’albero era sepolto il cadavere di Nerone, persecutore dei primi cristiani. Maria suggerí di tagliare l’albero, recuperare le ceneri dell’imperatore dalla terra e gettarle nel Tevere. Dopo tre giorni di orazioni e digiuni, Pasquale II si portò allora in processione fino al noce, che venne abbattuto. Sotto di esso fu trovata la tomba di Nerone – nell’area esisteva in effetti il mausoleo della famiglia dell’imperatore – che sarebbe stata distrutta, e, al suo posto, venne realizzato un piccolo altare in mattoni. Nel 1227, Gregorio IX vi edificò la chiesa attuale, conducendo entro il nuovo edificio una delle immagini di Maria attribuite all’evangelista Luca e conservata nel Sancta Sanctorum del Late-

Nella pagina accanto la maestosa icona bizantina che papa Gregorio IX fece portare nella chiesa di S. Maria del Popolo, prelevandola dal Sancta Sanctorum del Laterano.

rano. Da allora, l’icona si rese protagonista di numerosi miracoli e divenne una delle immagini piú venerate in città. LA MADONNA DI S. MARIA IN VIA LATA Chiesa di S. Maria in via Lata. Via del Corso, 306 Info tel. 06 83396276

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a tradizione fissa in questo luogo la casa in cui san Paolo, nel corso della sua prima venuta a Roma, sarebbe stato tenuto prigioniero per due anni. Da qui l’apostolo avrebbe scritto le sue epistole piú note e dalla sua cella avrebbe continuato a predicare. Accanto a lui avrebbe anche vissuto, per un certo tempo, san Luca, che sempre in questo luogo avrebbe dettato gli Atti degli Apostoli. Secondo quanto riportato da Ottavio Panciroli, nei primi secoli dell’era cristiana venne fondato un piccolo oratorio a ricordo della presenza di Paolo, il quale, al momento della partenza, vi avrebbe lasciato un’immagine di Maria dipinta da san Luca. Piú tardi, intorno al 700, papa Sergio I trasformò l’oratorio – chiamato di S. Paolo e S. Luca – in una chiesa dedicata a Maria, che, nel tempo, crebbe d’importanza insieme al quartiere nel quale era sorta. Il primo tratto della via Flaminia, chiamato in età romana via Lata – da cui il nome della chiesa – stava diventando, infatti, uno degli assi viari principali della città. L’icona di S. Maria in via Lata, che rappresenta la Madonna orante o «Madonna avvocata», secondo uno dei tipi iconografici piú antichi, risale probabilmente al secolo XI ed è esposta sopra l’altare maggiore. Originariamente era invece custodita in una cappella laterale sulla cui porta era scritto: «Una e septem a Luca dipictis» («Una delle sette dipinte da Luca»). Altre icone presenti a Roma vengono infatti attribuite all’evangelista: la Madonna del Rosario, conservata nel

Qui sopra l’icona di S. Maria in via Lata. XI sec. Si tratta di una Madonna «avvocata», cioè mediatrice tra la Madre di Dio, da lei invocato, e gli uomini che a lei si rivolgono. monastero di Monte Mario; la Madonna di Edessa, venerata nella chiesa dei Ss. Bonifacio e Alessio sull’Aventino; la Madonna dell’Aracoeli; la Madonna della Concezione, esposta nella chiesa di S. Lorenzo in Damaso; la Madonna di S. Maria in Campo Marzio. Secondo la tradizione, quella posta in S. Maria in via Lata, sarebbe, però, la prima dipinta da san Luca, come proverebbe la presenza, al dito della Vergine, dell’anello che l’evangelista le avrebbe visto quando la conobbe. RELIQUIE

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Altri culti medievali LA CALDAIA DI GIOVANNI EVANGELISTA Tempietto di S. Giovanni in Oleo (S. Giovanni a Porta Latina) Via di Porta Latina, 17 Info www.sangiovanniaportalatina.it

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antica chiesa di S. Giovanni a Porta Latina e la contigua cappella di S. Giovanni in Oleo sono legate alla memoria dell’evangelista. Secondo la leggenda, Giovanni, con le proprie preghiere, avrebbe provocato il crollo del tempio di Diana a Efeso e, come supplizio, avrebbe bevuto del veleno, al quale sarebbe miracolosamente sopravvissuto. Sarebbe stato allora rasato e condotto in catene a Roma, per essere martirizzato. Nella basilica del Laterano, intitolata ai due Giovanni (Evangelista e Battista), si conservavano nel Medioevo tre reliquie legate all’episodio: la catena con la quale Giovanni fu legato, il calice del veleno e le forbici con le quali, per scherno, gli erano stati tagliati i capelli. A Roma si sarebbe deciso di ucciderlo davanti al tempio di Diana che sorgeva nel luogo in cui fu poi edificata la chiesa di S. Giovanni a Porta Latina. Per rendere esemplare l’esecuzione, si escogitò di immergere Giovanni in un calderone pieno di olio bollente, pratica mai adottata in precedenza, e Tertulliano (apologista cristiano, 155-222 circa) sostiene che il liquido fu posto in tini di legno. Piú verosimilmente, però, il supplizio dovette consistere in una pratica allora in uso, quella dell’ingestione forzata di olio bollente. Giovanni sarebbe, comunque, uscito illeso e si decise allora di confinarlo nell’isola greca di Patmos, dove avrebbe scritto l’Apocalisse, finendo i suoi giorni in solitudine eremitica. 80

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In ricordo dell’episodio, alla fine del V secolo, papa Gelasio (492496) costruí l’attuale chiesa di S. Giovanni, detta di Porta Latina, perché prossima, appunto, alla porta delle Mura aureliane che si apriva in corrispondenza dell’omonima via consolare. La chiesa venne riedificata da Adriano I nel 772 e poi nuovamente ricostruita e riconsacrata da Celestino III, nel 1190. Nei suoi pres-

Tempietto di S. Giovanni in Oleo. L’immersione di san Giovanni Evangelista nel calderone pieno d’olio bollente nell’affresco di Lazzaro Baldi (1624-1703). si, lungo la via Latina, fu eretta una piccola memoria, nel punto in cui Giovanni sarebbe stato immerso nell’olio. Si trattava di un oratorio, chiamato S. Giovanni in Oleo, che fu poi riedificato nel 1509 – al tempo di Giulio II – con architettura bramantesca e che si può tuttora


visitare. All’interno vi sono custoditi, oltre al calderone nel quale il santo sarebbe stato immerso, l’olio stesso del supplizio, alcuni capelli e alcune gocce di sangue scaturite dalla sua fustigazione. LA TESTA DI GIOVANNI BATTISTA Chiesa di S. Silvestro in Capite Piazza di San Silvestro 17/A Info tel. 06 6977121

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uole la tradizione che la testa del Battista sia conservata nella chiesa romana di S. Silvestro in Capite. Una denominazione che deriverebbe appunto dalla presenza di tale reliquia, che viene però rivendicata da piú centri religiosi. In origine, a rivendicare la reliquia della testa del Battista, era la contigua chiesa di S. Giovanni in Capite, officiata da monaci greci, che affermarono di averla por-

tata dall’Oriente. Tale chiesa, però, fu sconsacrata e la reliquia (insieme alla denominazione) sarebbe passata a S. Silvestro. Sorta presso un monastero fondato intorno al 260, quest’ultima sarebbe una delle piú antiche chiese romane, fondata ben mezzo secolo prima che Costantino concedesse la libertà di culto. In realtà, i primi documenti che attestano la presenza di un monastero in quella zona sono molto piú tardi e relativi ai rifacimenti di Paolo I del 757. La chiesa probabilmente fu eretta in quegli anni, con la dedica ai papi Silvestro e Stefano. Nel XII secolo, venne completamente ricostruita da papa Innocenzo III, dopo un lungo periodo di abbandono, e una cappella fu eretta per custodire la testa del Battista, dove ancora si conserva, inserita in un sontuoso reliquiario del XIV secolo.

In alto S. Silvestro in Capite. La teca nella quale è custodita la testa di san Giovanni Battista. Il sacro resto sarebbe stato portato a Roma dai monaci greci che officiavano nella vicina e piú antica chiesa di S. Giovanni in Capite. In basso La testa di san Giovanni Battista posata su un vassoio, olio su tela della scuola di Philippe de Champaigne (1602-1674). XVII sec. Magny les Hameaux, Musee de Port-Royal des Champs.

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Le altre chiese

I DUEMILATRECENTO MARTIRI Basilica di S. Prassede Via di Santa Prassede, 9/a Info tel. 06 4882456

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papa Pasquale I (817-824) si deve la piú imponente operazione di traslazione di reliquie martiriali dalle catacombe alla città. Il suburbio, infatti, era ormai divenuto malsicuro a causa delle scorrerie saracene e longobarde. Molte reliquie furono accumulate in quello che divenne un grande deposito di pignora sacra: la chiesa di S. Prassede all’Esquilino, edificata appunto a tale scopo dallo stesso Pasquale. La tradizione voleva che Prassede, insieme alla sorella Pudenziana, durante il periodo delle persecuzioni fosse stata la prima a recuperare e seppellire i martiri cristiani. Proprio per tale ragione, ancora giovinetta, aveva subito il martirio. Una vicenda che si ricollegava simBasilica di S. Prassede. L’altare maggiore coronato dal magnifico mosaico del catino absidale (in alto) e il disco di porfido al centro del pavimento che copre il pozzo nel quale Prassede avrebbe raccolto con una spugna il sangue dei martiri. bolicamente allo sforzo di recupero delle reliquie che Pasquale stava compiendo, ricollocandole entro le mura cittadine. La chiesa, ancora oggi sostanzialmente integra nel suo aspetto medievale, conserva numerosi resti sacri. Oltre alla Colonna della Flagellazione (vedi box a p. 84), vi si trovano reliquie legate in modo vario alla memoria di Prassede: in fondo alla navata sinistra, si può vedere il letto in cui la giovane soleva dormire per mortificare il suo corpo, una tavola marmorea. Al centro della chiesa, da sempre oggetto di intenso interesse da parte dei fedeli, vi è la grande pietra bianca destinata a coprire il pozzo usato da Prassede per rac-

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cogliere – con una spugna – il sangue dei martiri. Un’iscrizione ricorda che Pasquale fece trasferire nella chiesa le ossa di 2300 martiri: il numero risulta esorbitante, ma è probabile che, durante le traslazioni, molti dei corpi rinvenuti nelle catacombe venissero considerati di martiri e anch’essi portati nelle chiese cittadine. Secondo le guide cinquecentesche, nell’oratorio di S. Zenone, fatto decorare da Pasquale I con splendidi mosaici e destinato in origine a custodire i corpi di Zenone e Valentino, si troverebbe una pietra rotonda sotto la quale riposerebbero le ossa di quaranta martiri, tra cui undici pontefici. Nel Basso Medioevo, l’oratorio era anche chiamato «libera nos a poenis inferni», perché la tradizione voleva che Pasquale I, mentre stava tenendo qui la celebrazione funebre per il nipote, avesse visto da una finestra la Madonna che portava in paradiso il giovane. Le reliquie di Prassede, invece, si trovano tuttora sotto l’altare maggiore, in una piccola cappella. LE RELIQUIE DI SANT’ALESSIO Chiesa dei Ss. Bonifacio e Alessio Piazza Sant’Alessio, 23 Info tel. 06 5743446

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l culto di Alessio ebbe grande importanza nel Medioevo e si rivolse, oltre che alle reliquie del corpo, anche alla «scala» sotto la quale il santo avrebbe soggiornato: sia le prime che la seconda sono custodite nella chiesa dei Ss. Bonifacio e Alessio. Alla scala è dedicata una cappella, nella quale si venerano in particolare alcuni gradini (visibili dentro un’urna di cristallo sospesa dietro l’altare) provenienti dalla casa paterna del santo, sotto i quali, secondo la leggenda, Alessio avrebbe vissuto per 17 anni. La vita di questo santo di origine siriana è stata peraltro oggetto di diversi racconti leggendari. Una versione di matrice greca o bizan-

tina, del secolo IX, ne fece una delle figure piú venerate a Roma nel Medioevo. Questa tradizione, infatti, ne situava la nascita e la morte a Roma al tempo degli imperatori Arcadio e Onorio (395408). Secondo tale leggenda, l’icona della Vergine, venerata nella chiesa sull’Aventino, avrebbe parlato al sacrestano, rivelandogli che il mendicante che sostava fuori la basilica era un santo. La voce si sarebbe diffusa rapidamente fra il popolo dei fedeli, che iniziarono a venerarlo. Alessio, che non amava gli onori, fuggí dalla città per poi farvi ritorno,

Chiesa dei Ss. Bonifacio e Alessio. La teca nella quale si conservano alcuni gradini della scala sotto la quale sant’Alessio avrebbe vissuto, nella casa paterna, per 17 anni, sotto mentite spoglie dopo varie vicissitudini. Sotto anonimato, si sarebbe recato nella casa paterna, dove avrebbe chiesto ospitalità. Il padre, memore del figlio lontano e in difficoltà, lo avrebbe accolto con benevolenza in casa, dove Alessio sarebbe rimasto senza farsi riconoscere per 17 anni, dormendo nel sottoscala dell’abitazione, fra le umiliazioni e gli scherni dei servi. Sentendo avvicinarsi il momento del trapasso, avrebbe deRELIQUIE

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Le altre chiese La Colonna della Flagellazione Basilica di S. Prassede

Con l’avvio delle crociate, affluí in Occidente un gran numero di reliquie gerosolimitane, molte delle quali provenivano dal palazzo imperiale di Costantinopoli, dove erano state inviate – tra il IX e il X secolo – per porle al riparo da possibili violazioni a opera dei nuovi padroni arabi di Gerusalemme. Molte di esse giunsero quindi a Roma, in seguito al saccheggio di Costantinopoli, compiuto dalle truppe cristiane nel 1204. Le prime attestazioni della presenza della Colonna della Flagellazione, tuttora venerata in S. Prassede, nell’oratorio di S. Zenone, risalgono alla metà del Quattrocento, ma il suo arrivo in città è attribuito al cardinale Giovanni Colonna, che fu legato d’Oriente e cardinale titolare della basilica sotto il pontificato di Onorio III (1216-1227). La tradizione quattrocentesca riporta che il cardinale, all’epoca in cui era legato apostolico e condottiero dell’esercito crociato, sarebbe caduto prigioniero dei Saraceni, i quali avrebbero espresso l’intenzione di segarlo vivo. Per virtú divina, però, il suo volto si sarebbe illuminato ed essi, atterriti dall’inspiegabile prodigio, l’avrebbero liberato regalandogli parte della colonna.

ciso di scrivere le sue memorie su un rotolo di papiro, ritrovato al momento della morte, quando le campane di Roma avrebbero suonato spontaneamente, e un monito sarebbe stato udito dalla popolazione: «Cercate l’uomo di Dio affinché egli preghi per Roma». Il culto di Alessio ebbe dunque enorme diffusione in città e, per venire incontro alla grande venerazione che i suoi resti ricevettero, nel 1217, papa Onorio III decise di dedicare anche a lui la chiesa di S. Bonifacio. Dal X secolo vi si venera anche un dipinto che raffigura l’immagine acheropita della Madonna dell’Intercessione (o Madonna di Sant’Alessio), la stessa che avrebbe parlato al sagrestano. Di fattura bizantina, l’icona sarebbe stata portata da Edessa dall’ar84

RELIQUIE

civescovo di Damasco Sergio, giunto a Roma per fuggire alle invasioni arabe. IL CORPO DI SANTA CECILIA Basilica di S. Cecilia Piazza S. Cecilia, 22 Info www.benedettinesantacecilia.it

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ecilia subí il martirio nella propria abitazione nel 222. Durante l’agonia, durata tre giorni, avrebbe espresso al pontefice il desiderio di far sorgere una chiesa sulla sua casa. Nel IX secolo, Pasquale I decise di riedificare la chiesa voluta da Cecilia dalle fondamenta. In quegli anni le campagne intorno a Roma erano infestate da scorrerie e saccheggi e molte reliquie provenienti dalle catacombe erano state o erano sul punto di

essere traslate in città, entro le mura. Le reliquie di Cecilia, tuttavia, cercate sulla base di alcuni passi evidentemente male interpretati della sua Passione, non erano state ancora ritrovate. Essa sarebbe allora apparsa in sogno a Pasquale per comunicare l’esatta ubicazione del suo corpo, che fu poi trovato nel cimitero di Callisto


Basilica di S. Cecilia. La statua della santa realizzata da Stefano Maderno. Secondo lo scultore, l’opera ritraeva il corpo della martire, trovato miracolosamente intatto in occasione della ricognizione del sepolcro. sull’Appia e portato al sicuro nella chiesa appena realizzata. Durante i restauri del 1599, la cassa

in cui era sepolta la santa fu aperta per procedere alla ricognizione delle reliquie. Secondo la testimonianza dello scultore Stefano Maderno (1576 circa-1636), il corpo di Cecilia sarebbe stato trovato ancora integro, nella posizione ricordata negli atti del suo martirio e nella testimonianza di Pasquale I. L’artista ne «fotografò» allora la posizio-

ne nel marmo, oggi visibile in una copia della statua originale, posta sotto l’altare, sopra la tomba di Cecilia. In quell’occasione, la salma fu esposta al popolo e si registrò un enorme concorso di fedeli. Nel Medioevo, fu allestita una cripta negli ambienti della chiesa inferiore in cui la santa aveva vissuto e subito il martirio. RELIQUIE

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Le altre chiese

LA MENSA PAUPERUM Oratorio di S. Barbara al Celio (Monastero di S. Gregorio al Celio) Piazza San Gregorio, 1 Info tel. 06 7008227

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ccanto alla chiesa di S. Gregorio al Celio, ricca di reliquie legate al pontefice altomedievale, si conservano tre antichi oratori, restaurati per iniziativa del cardinale Cesare Baronio (1538-1607) all’inizio del XVII secolo. Uno di essi, posto sulla sinistra per chi entra, è dedicato a santa Barbara. All’interno, vi si conserva la Mensa pauperum, una lastra in marmo di epoca romana databile al III secolo d.C., che poggia su sostegni marmorei decorati da grifoni e palme. Si tratterebbe della tavola attorno alla quale Gregorio Magno e la madre Silvia avrebbero riunito ogni giorno dodici poveri, che personalmente sfamavano. Secondo la tradizione, un giorno si sarebbe presentato un tredicesimo invitato, sotto le sembianze di mendicante, al quale Gregorio avrebbe offerto da mangiare e che subito dopo sarebbe svanito. Gregorio e i presenti vi avrebbero riconosciuto un angelo, e nella sua apparizione l’espressione della presenza divina. La tradizione entrò a far parte della liturgia romana e, fino al 1870, i pontefici vi servivano da mangiare

a tredici pellegrini ogni Giovedí santo. A ricordo dell’episodio leggendario, alla metà del XV secolo, fu incisa sulla Mensa una frase in latino: «Bis senos hic Gregorius pascebat egentes / angelus et decimus tertius accubuit» («Qui san Gregorio nutriva i poveri / e un angelo sedette come tredicesimo»). Secondo la tradizione romana, l’idea che sia nefasto sedere in tredici a tavola non deriverebbe dal ricordo del tredicesimo commensale dell’Ultima Cena, Giuda, ma dalla credenza che non si deve voler emulare ciò che per miracolo fu compiuto da Dio al Celio. LA COLONNA E IL CORPO DI SANTA BIBIANA Chiesa di S. Bibiana Via Giovanni Giolitti, 154 Info www.santabibiana.com

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ibiana fu martirizzata il 2 dicembre del 362, durante il breve regno di Giuliano l’Apostata (360-363), quando si registrò un’effimera ripresa del paganesimo. Prima di ricevere il martirio sarebbe stata legata alla colonna ancor oggi venerata nella chiesa a lei intitolata e flagellata. Il tempio era sorto per volere di una sua parente, Olimpina, nel luogo dove la santa aveva abitato e dove fu poi portato anche il corpo. 86

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In alto l’oratorio di S. Barbara al Celio, con la Mensa pauperum (vedi anche foto in basso, a sinistra). Qui sotto la colonna a cui santa Bibiana sarebbe stata legata per essere poi flagellata.


Durante la prigionia, Bibiana era stata accusata di avere disturbi mentali ed epilettici e divenne perciò protettrice delle malattie di nervi e di mente. Nel Medioevo, inoltre, secondo una falsa etimologia, si fece derivare il suo nome dal latino «bibere», bere, e ciò ne fece anche la protettrice degli etilisti. Presto si diffuse la pratica di raschiare un po’ di polvere dalla colonna di marmo rosso antico (tuttora conservata dietro una grata accanto all’entrata), per poi ingoiarla, e vicino alla chiesa si raccoglieva un’erba che, una volta essiccata, veniva mescolata all’acqua e bevuta per combattere l’epilessia. Anche all’acqua del pozzo che si trovava nell’orticello della chiesa si attribuiva un potere particolare. Del resto, si deve ricordare che S. Bibiana sorge sul luogo nei pressi del quale, in età imperiale, si trovava il tempio di Minerva Medica, che assolveva a funzioni curative e presso il quale si eseguivano riti e pratiche a sfondo terapeutico. Ciò spiegherebbe la trasposizione dal rito pagano alla martire curatrice. Il corpo di Bibiana si trova sotto l’altare della chiesa, insieme a quello della madre e delle sorelle: è però privo della testa, conservata invece a S. Maria Maggiore. Le reliquie, rinvenute nel 1624 sotto l’altare primitivo, furono sistemate in una vasca di alabastro orientale di età costantiniana. La chiesa subí un notevole rifacimento nel Seicento, grazie al disegno di Gian Lorenzo Bernini, che le ha conferito l’aspetto attuale. Qui accanto la statua di santa Bibiana scolpita da Gian Lorenzo Bernini negli anni 1624-26 e collocata in una nicchia sopra l’altare maggiore della chiesa intitolata alla martire.

LA PIETRA SCELLERATA Chiesa dei Ss. Vito e Modesto (S. Maria Maggiore in S. Vito) Via Carlo Alberto, 47 Info www.sanvito-roma.it

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a Pietra Scellerata è conservata nella chiesa dei Ss. Vito e Modesto, sul colle Esquilino, non distante dall’attuale piazza Vittorio accanto all’arco di Gallieno (noto nel Medioevo come arco di San Vito). Fino al IX secolo, la chiesa fu detta anche «in Macello» dal grande edificio romano che dava il nome alla zona, il Macellum Liviae (un mercato fatto costruire da Augusto e poi intitolato a sua moglie

Livia, n.d.r.). La sua fondazione risalirebbe al IV secolo, ma agli inzi del Basso Medioevo cadde in rovina e fu abbandonata. Nel 1477 Sisto IV la riedificò completamente, poco distante dall’originaria. La Pietra Scellerata si trova entrando in chiesa, sulla destra, elevata su due rocchi di colonna e protetta da una grata di ferro. Il fraintendimento del termine «Macellum» diffuse la tradizione secondo la quale su di essa sarebbero stati uccisi diversi martiri. Era perciò definita «scellerata» e, come l’intero culto di san Vito, aveva una enorme importanza nella cura delle morsicature dei cani rabbiosi. Qui sotto incisione di Giuseppe Vasi che mostra la chiesa dei Ss. Vito e Modesto, alla cui destra è l’arco di Gallieno (detto nel Medioevo «di San Vito»).

Secondo la tradizione, chi fosse stato morso doveva mangiare del pane benedetto nella chiesa e quindi passare sotto la Pietra Scellerata per tre volte, chiedendo la grazia. Nel 1620, la chiesa venne restaurata a spese di Federico Colonna, duca di Paliano, che volle cosí rendere grazie per avere ottenuto la guarigione a seguito del morso di un cane. Nelle guide per pellegrini si ricorda anche un olio che si ricavava dalle reliquie di san Vito, probabilmente ex contactu, anch’esso ritenuto utile contro i morsi dei cani rabbiosi. RELIQUIE

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RELIQUIE

Frutto degli «scavi» dell’imperatrice Elena sul Calvario, bottino di crociati o anche esito di eventi miracolosi, i cimeli dei grandi protagonisti della religione cristiana affluirono e si diffusero copiosi in Italia, alimentando un culto che non conosce flessioni

LOMBARDIA

MILANO ● Santo Chiodo ● Reliquie dei Re Magi ● Santa Ganassa ● Sacra Fascia della Vergine MONZA ● Corona Ferrea TORNO (Como) ● Santo Chiodo

VENETO

V ENEZIA ● Reliquie di san Marco ● Spoglie di san Rocco PADOVA ● San Luca evangelista ● Lingua di Antonio da Padova

PIEMONTE TORINO ● Sacra Sindone

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RELIQUIE

LIGURIA GENOVA ● Mandylion (Santo Mandillo)

EMILIA-ROMAGNA F ERRARA ● Liquido prodigioso di Beatrice d’Este IMOLA ● Sacro Velo BOLOGNA ● Madonna di San Luca

TOSCANA LUCCA Volto Santo PRATO ● Sacra Cintola AREZZO ● Bastone di san Giuseppe

OFFIDA (Ascoli Piceno) ● Reliquia eucaristica,

UMBRIA PERUGIA Santo anello di Giuseppe ORVIETO ● Corporale di Bolsena

ABRUZZO ORTONA (Chieti) Corpo di san Tommaso MANOPPELLO (Pescara) ● Volto Santo

LAZIO CALCATA (Viterbo) ● Prepuzio di Gesú

MARCHE

CAMPANIA

LORETO (Ancona) ● Casa di Loreto

NAPOLI Sangue di san Gennaro

F R A N C I A

LA PENISOLA DELLE

AMALFI Corpo di sant’Andrea BENEVENTO ● Ossa di san Bartolomeo S ALERNO ● San Matteo

PUGLIA BARI Icona Odigitria ● Resti di san Nicola MONTE SANT’ANGELO (Foggia) ● Impronta di san Michele Arcangelo

SICILIA MESSINA Capelli di Maria C ATANIA ● Sant’Agata

ALGERIA


AUSTRIA

SVIZZERA

UNGHERIA

Bolzano Sondrio

Como Torno zza Monza

Brescia

Novara

Verona

Vicenza

Milano M Mi Mil il

Torino

Asti A Alessandria

Pordenone Gorizia

Trento

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Mantova

Piacenza

Genova La Spezia G

Albenga

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Carrara Pistoia PPis Pisto Pistoi ist sto

Lucca Pisa

Trieste

Chioggia

Bologna Imolaa

BOSNIA-ERZEGOVINA

Ravenna

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Rimini Pesaro Fano Urbino

Prato Firenze

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Siena

Base 21. Grosseto

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Loreto

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Teramo

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Perugia

Piombino

CORSICA

CROAZIA

Venezia

Ferrara F

Parma Reggio nell’Emilia

Cuneo

Treviso eviso ev v so

SLOVENIA

Sulmona

Monte Sant'Angelo Campobasso

Frosinone Latina

Caserta

Olbia

Avellino

Napoli

Sassari

Brindisi Matera Taranto Lecce Otranto Gallipoli Sibari

Cosenza

Cagliari

Crotone Catanzaro Vibo Valentia

Messina Trapani

MARE MEDITERRANEO

Palermo

Reggio di Calabria

Cefalù

Mazara del Vallo

Enna Agrigento

TUNISIA

Bari

Palinuro

MARE TIRRENO

Carbonia

Potenza

SSalerno

Amalfi Battipaglia

Nuoro Oristano

Barletta Trani ani n

Benevento

Gela

MARE IONIO

Catania

Augusta Siracusa Ragusa Noto

TTITOLO TI TIT ITOL OO

RELIQUIE

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RELIQUIE

Italia del Nord

LOMBARDIA MILANO

IL SANTO CHIODO Duomo Info www.duomomilano.it

A

mbrogio, vescovo di Milano (333 o 340-397), è l’inventore della leggenda secondo la quale Elena, madre dell’imperatore Costantino, nel corso di uno scavo mirato presso il Golgota e l’area circostante il giardino di Pietro d’Arimatea, avrebbe rinvenuto i chiodi e la Croce di Cristo. Sempre secondo Ambrogio, Elena avrebbe poi fatto incastonare uno dei chiodi nel diadema imperiale, per conferire all’imperatore una sorta di presidio morale sulla cristianità, tramite la Croce posta «in capo al regno». Il secondo chiodo, invece, sarebbe stato fuso nel morso del cavallo, per «frenare» l’orgoglio degli imperatori: «E perché mai sul freno, se non per reprimere l’orgoglio degli imperatori, per frenare la licenza dei tiranni, che si lasciano andare ai piaceri come cavalli imbizzarriti cosí da commettere impunemente il male?». Questa reliquia si conserverebbe oggi nel Duomo di Milano, ed è chiamata «Santo Chiodo» (o anche «Sacro Morso»). Si tratta, in effetti, di una punta metallica lunga 24 cm circa, su una delle cui estremità non si trova una «testa», bensí un anello agganciato a un secondo anello piú grande. La tradizione ne attribuisce l’arrivo in città proprio al vescovo Ambrogio, al quale sarebbe stata donata dall’imperatore Teodosio. Alcune fonti, però, attestano la presenza del Santo Chiodo, ancora a Costantinopoli, nel VI secolo. Nei documenti della Chiesa milanese esso compare solo nel 1389, in un atto relativo all’antica cattedrale di Milano, S. Tecla, nel quale si afferma che la reliquia vi è conservata da tempo e che è molto venerata dai fedeli. La reliquia fu trasferita in Duomo nel 1461, dopo la demolizione dell’antica cat-

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RELIQUIE

tedrale. Qui fu sistemata entro una croce, sospesa presso l’abside, a un’altezza di circa 40 m. Durante l’epidemia di peste del 1576-77, l’arcivescovo di Milano Carlo Borromeo (1538-1584) la fece discendere per condurla in processione al fine di propiziare la fine dell’epidemia. Agli inizi del Seicento, per consentirne l’annuale esposizione ai fedeli nel corso della Festa dell’Esaltazione della Croce (14 settembre), fu costruita una sorta di ingegnoso ascensore, mosso da argani a mano, che permetteva di salire, prendere la reliquia e riporla alla fine delle celebrazioni. Chiamato Nivola – in quanto simile a una nuvola –, il macchinario viene tuttora usato. In alto Milano, Duomo. Il Santo Chiodo nella sua croce-reliquiario. Già nella chiesa di S. Tecla, il sacro resto fu trasferito in Duomo nel 1461, sospendendolo a 40 m d’altezza, sopra l’abside; ogni anno, in settembre, viene fatto scendere grazie a una macchina detta Nivola (in basso).


MILANO

In alto Milano, basilica di S. Eustorgio. Il sepolcro dei re Magi, le cui reliquie, prelevate dal Barbarossa, sono state in parte restituite alla città ambrosiana.

N

portate a Colonia, dove ancora si conservano. Solo in tempi recenti, nel 1904, Milano è riuscita a ottenere la restituzione di alcuni frammenti trafugati dall’imperatore: due fibule, una tibia e una vertebra, ricondotti a S. Eustorgio e posti in un’urna di bronzo, accanto all’antico sacello vuoto. Oltre ai frammenti restituiti, a Milano si conserva e si espone – nel giorno dell’Epifania – una medaglia, che la tradizione vuole sia stata realizzata con l’oro donato dai Magi a Gesú Bambino.

LE RELIQUIE DEI RE MAGI Basilica di S. Eustorgio Orari www.santeustorgio.it el transetto della basilica romanica di S. Eustorgio a Milano si trova la cappella detta «dei Magi», poiché al suo interno si conserva un colossale sarcofago di pietra vuoto, risalente al tardo impero romano, identificato appunto come tomba dei re Magi. La basilica fu costruita intorno all’anno 344 dal vescovo Eustorgio, di ritorno da Costantinopoli, da dove – secondo la tradizione – avrebbe traslato le spoglie dei tre sapienti, donategli dall’imperatore Costante. A Costantinopoli, esse sarebbero giunte da Gerusalemme, dove sarebbero state in origine tumulate. Appena entrati a Milano, i buoi che trainavano il carro contenente il tesoro portato da Eustrogio si sarebbero arrestati nel luogo in cui il vescovo decise poi di far sorgere la basilica destinata a ospitare la tomba dei tre re, secondo quello che lesse come un segno divino. La leggenda era nota a Federico Barbarossa, il quale, nel 1162, impossessatosi della città ribelle, ordinò che le reliquie dei Magi fossero

la Legenda Aurea di Iacopo da Varazze, Cristoforo, infatti, sarebbe stato un Cananeo di corporatura gigantesca, che un pio eremita aveva iniziato all’attività caritativa di traghettatore. Sfruttando la sua stazza, e senza chiedere compenso, si sarebbe specializzato nel condurre sulle sue spalle i pellegrini e i viaggiatori che dovevano attraversare un fiume dalle acque perigliose. Una notte, trasportando un ultimo avventore, insolito per essere solo un bambino, a metà del guado si sentí atterrire dall’incredibile peso esercitato dal suo piccolo corpo. Alla fine della difficile traversata, il bimbo gli si sarebbe rivelato come Gesú, che voleva metterlo alla prova appunto come «portatore di Cristo» (tale è il significato letterale del nome Cristoforo), caricandolo di un peso smisurato. Nel 1400, per rafforzare la fede nell’autenticità della reliquia milanese, alcuni pellegrini offrirono in dono alla chiesa sul Naviglio un enorme molare, che si diceva fosse appartenuto al santo traghettatore e che avrebbe corrisposto perfettamente alla mascella. Nella chiesa, In basso S. Cristoforo sul Naviglio. La chiesa custodisce una mascella che si dice appartenuta a san Cristoforo.

MILANO

LA SANTA GANASSA S. Cristoforo sul Naviglio Orari www.chiesasancristoforo.it

L

a piccola e suggestiva chiesa milanese di S. Cristoforo sul Naviglio Grande è legata al culto – molto sentito tra Trecento e Quattrocento – della reliquia della «Santa Ganassa» di san Cristoforo, smisurata mascella di un uomo di proporzioni fisiche eccezionali, qual era considerato il santo. Secondo il racconto duecentesco delRELIQUIE

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RELIQUIE

Italia del Nord L’intercessione presso il santuario era impetrata soprattutto in occasione della peste. La protezione del gigante Cristoforo era considerata particolarmente efficace contro le epidemie, perché i viaggiatori (che lo avevano eletto a proprio patrono), girando per le strade d’Europa, erano le vittime designate del morbo letale. Proprio a seguito dello scampato pericolo, durante la peste del 1389, l’edificio fu notevolmente ampliato e abbellito «per grazia ricevuta». A riprova della grande devozione tributata dai Milanesi alle reliquie contenute nella chiesa, dal 1401 fu istituita una processione solenne lungo il Naviglio, che si concludeva con una benedizione davanti a S. Cristoforo, dov’era «la ganassa del tabernàcol d’or». Il vescovo di Milano, Carlo Borromeo (1538-1584), contestò la veridicità delle reliquie – quelle della Passione su tutte – favorendo il declino delle celebrazioni in S. Cristoforo, anche se, una nuova ondata di peste rilanciò di lí a poco la venerazione nei confronti del santo e della sua «ganassa».

MILANO

LA SACRA FASCIA DELLA VERGINE Chiesa di S. Marco Info www.to.chiesadimilano.it

L

San Cristoforo in una incisione di Albrecht Dürer. 1521. La leggenda lo descrive in riva a un grande fiume, dove aiutava i viandanti nel traghetto: dopo aver portato sulle spalle un bambino, rivelatosi poi Gesú, ebbe il nome di Cristoforo. Larghissimo fu il suo culto nel Medioevo, come protettore dei viandanti. 92

RELIQUIE

inoltre, la devozione era accresciuta dalla presenza di importanti reliquie gerosolimitane: frammenti della Croce, del sepolcro di Gesú, della colonna della Flagellazione e di una spina della corona.

a Sacra Fascia della Vergine è un indumento violaceo recante una croce ricamata in oro al centro. L’oggetto fu venerato da principi e personaggi famosi, tra cui Ferdinando IV d’Ungheria e la regina Margherita d’Austria, ma poi, con il passare degli anni, la sua ostensione divenne sempre piú rara. Secondo una tradizione tarda, attestata per iscritto solo dal 1708, la reliquia sarebbe stata condotta a Milano da Pietro Guicciardi, nel 1234. Con la fascia, Maria avrebbe avvolto Gesú durante la fuga in Egitto e Guicciardi l’avrebbe acquistata presso il Santo Sepolcro, pagandola 10 monete d’oro. In un primo momento, l’avrebbe portata


A sinistra Apparizione miracolosa della Sacra Fascia, olio su tela del Legnanino. 1708-1710. Milano, chiesa di S. Marco. La reliquia consiste nel panno con cui Maria avrebbe avvolto Gesú Bambino durante la fuga in Egitto.

MONZA

LA CORONA FERREA Duomo Orari www.museoduomomonza.it

N

a Tortona, da dove poi sarebbe giunta a Milano nella chiesa di S. Maria in Brera. Tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, l’incorporazione della chiesa negli edifici museali, impose la sua nuova traslazione in S. Marco, dove è tuttora custodita.

In basso la Corona Ferrea. Gioiello di oreficeria del IV-V sec., è venerata come una reliquia, poiché, secondo la tradizione, sarebbe stata realizzata con uno dei chiodi usati per la Crocifissione.

ell’altare della Cappella di Teodolinda, nel Duomo di Monza, si custodisce la Corona Ferrea, collegata strettamente al Santo Chiodo di Milano (vedi a p. 90), poiché entrambi conterrebbero un chiodo della Croce. La tradizione identifica la corona come «anello ferreo» proprio a motivo di questa presunta fusione. In realtà, essa si compone di sei piastre d’oro, ornate da rosette a rilievo, smaltate e incastonate di gemme. Solo l’interno è costituito da un cerchio di metallo, che potrebbe essere messo in relazione con il ferro fuso del chiodo. Le indagini effettuate farebbero pensare che si tratti di un’insegna di epoca tardo-antica, sulla quale furono realizzati diversi in-

RELIQUIE

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RELIQUIE

Italia del Nord

Una vita travagliata La Corona Ferrea subí pesanti manomissioni nel Basso Medioevo, che ne ridussero le dimensioni: da otto piastre alle attuali sei, che la rendono troppo piccola per essere calzata da una testa, se non con uno speciale copricapo. Fu trafugata dal cardinale Bertrando del Poggetto durante l’occupazione crociata di Monza (1323-24) e inviata a suo zio, papa Giovanni XXII ad Avignone. Nel 1345, al momento della sua restituzione a Monza, la si trovò danneggiata e si vide appunto che due delle otto placche erano state sottratte. La reliquia fu allora affidata all’orafo Antellotto Bracciforte, il quale la rinforzò con una corona interna in argento, in seguito erroneamente identificata con quella in cui sarebbe stato fuso il Santo Chiodo.

Qui accanto Monza, Duomo. Affresco di Carlo Innocenzo Carloni raffigurante Clemente XI che benedice la Corona Ferrea, autorizzandone il culto. 1739. Nella pagina accanto, in basso pagina di un volume in cui viene descritto e rappresentato il Santo Chiodo conservato a Torno, presso Como. terventi, prima tra il IV-V secolo e poi nel IX; si tratterebbe, dunque, di un manufatto di età ostrogota, passato ai re longobardi e pervenuta poi nelle mani dei Carolingi al momento della sconfitta di re Desiderio. Oltre a rivestire il valore di reliquia, la corona fu usata come simbolo di regalità sin dall’inizio del Medioevo e per suo tramite, infatti, furono celebrate diverse incoronazioni di sovrani d’Italia, in genere insigniti anche della dignità imperiale, come Corrado di 94

RELIQUIE

Lorena (1093), Enrico VI (1186), Carlo V (1530), Napoleone (1805), Ferdinando d’Austria (1838). Con i Savoia, la Corona Ferrea divenne simbolo dello Stato italiano.

TORNO (COMO)

IL SANTO CHIODO Chiesa di S. Giovanni Info www.comune.torno.co.it

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a chiesa di S. Giovanni di Torno, nei pressi di Como, fu costruita nel XII secolo per essere poi ampliata nel 1464. All’interno

si conserva uno dei presunti chiodi della Crocifissione. Una tradizione locale vuole che, dopo la conquista di Gerusalemme nel 1099, un arcivescovo tedesco, detto l’Allemanno, che aveva preso parte alla crociata, fosse entrato in possesso di uno dei chiodi della Croce di Cristo (che a quella data risultavano trasferiti a Costantinopoli). Secondo la leggenda, l’Allemanno, sulla via del ritorno a casa, si sarebbe fermato a Como, con l’intenzione di risalire in barca il Lario, pas-


Torno (Como). La facciata della chiesa di S. Giovanni, in cui si conserva il Santo Chiodo.

sare le Alpi, e, infine, raggiungere la Germania. A Como avrebbe trovato la città scossa dagli scontri tra due fazioni: quella schierata con il papa che parteggiava per il vescovo regolarmente eletto da Roma e quella che voleva invece l’insediamento, sulla sedia vescovile, di un prelato scelto dall’imperatore Enrico IV. Fuggito dalla città, si fermò una notte a Torno, e l’indomani riprese il cammino. Tempeste improvvise, però, gli impedirono ripetutamente di salpare. Convinto si trattasse di segnali di-

vini, l’arcivescovo decise di lasciare la reliquia a Torno, dove da allora fu sempre conservata, fino al 1522, quando un soldato di ventura la rubò durante il saccheggio della città. Il ladro, però, fu a tal punto perseguitato dalla sorte, da decidere di restituire la reliquia. Il Santo Chiodo è oggi custodito in una cassa collocata dietro l’altare maggiore nella splendida chiesa di S. Giovanni. La cassa è difesa da sette serrature, le cui chiavi sono in consegna al parroco e a sei famiglie di devoti. RELIQUIE

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RELIQUIE

Italia del Nord

Venezia, basilica di S. Marco. Particolare del mosaico con il trafugamento del corpo dell’evangelista, compiuto ad Alessandria d’Egitto nell’828 da un gruppo di mercanti veneziani, tra cui si distinsero Buono da Malamocco e Rustico da Torcello. Sulla sinistra compaiono Staurazio e Teodoro, custodi del santuario alessandrino, che incoraggiarono l’impresa, poiché sapevano che il governatore arabo della città intendeva distruggere la chiesa.

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RELIQUIE

VENETO VENEZIA

LE RELIQUIE DI SAN MARCO Basilica di S. Marco Info www.basilicasanmarco.it

L

a chiesa originaria, da cui sorse l’attuale basilica di S. Marco, nacque per accogliere il corpo dell’evangelista, trafugato da Alessandria d’Egitto nell’828 da due mercanti veneziani, Buono da Malamocco e Rustico da Torcello. Il

trafugamento va riferito alla volontà della Serenissima di affermare la propria autonomia civile e religiosa, dopo che il sinodo di Mantova dell’827 aveva dichiarato la supremazia del patriarcato di Aquileia su quello veneziano di Grado. In quell’occasione, il patriarca aquileiese Massenzio aveva sostenuto che solo il titolare del patriarcato di Aquileia poteva essere considerato successore di Marco, basandosi su una leggenda della fine dell’VIII


L’ampolla del sangue miracoloso e altre reliquie costantinopolitane Nella Cronaca di Venezia, il doge Andrea Dandolo (1343-1354), discendente di Enrico Dandolo (doge tra il 1192 e il 1206 e condottiero della IV crociata, che si risolse nel saccheggio di Costantinopoli), narra che un suo antenato ottenne il privilegio – vero eufemismo – di poter portare via da Costantinopoli quattro importantissime reliquie: la meravigliosa Croce «racchiusa in oro che Costantino, dopo il ritrovamento fatto dalla madre, aveva portato con sé in guerra»; un braccio di san Giorgio martire; parte del capo di san Giovanni Battista; «un’ampolla del sangue miracoloso di Gesú Cristo». Le reliquie andarono ad arricchire una cappella a loro dedicata presso la basilica di S. Marco, che però subí un disastroso incendio nel 1231. Ciononostante – raccontano le cronache dell’epoca – tra i carboni furono trovate «la Santissima Croce del Legno di N.S. in tutto e per tutto immacolata et illesa dal foco, et continuando fu ritrovato l’ampolla de cristallo del vero Sangue del Signor, con una cartolina legata nel collo sulla quale era scritto “Sanguinis Christi”. Molte altre ampolle et altre cose cristaline furno ivi trovate tutte convertite in cenere». In considerazione della loro miracolosa sopravvivenza, la natura delle reliquie fu ritenuta autentica e la devozione si accrebbe proprio in relazione all’incendio. Pur avendo cambiato reliquiario, la Croce si conserva tuttora nel Tesoro della basilica, cosí come l’«ampolla del sangue miracoloso». Qualche secolo piú tardi, si aggiunse una seconda ampolla, nella quale sarebbe stato raccolto il sangue sgorgato a Beirut da un crocifisso trafitto per dileggio da un Ebreo. L’inventario del 1732 identifica questa seconda ampolla come «sangue pretiosissimo et acqua del Costato di N.S.G.C. raccolto a piè della croce dalla Santissima Maria e ricevuto da San Giovanni Evangelista», mentre la prima come il «sangue miracoloso di N.S.G.C. che uscí da un crocefisso trafitto da mano ebrea in Baruto, posta in un reliquiario d’oro». In altre parole, si confusero i due reliquiari. L’equivoco fu probabilmente generato dalla maggiore importanza conferita – soprattutto nel Cinquecento – alla seconda delle due fiale, per la sua valenza antigiudaica. Secondo la lezione del Vangelo di Giovanni, il sangue sgorgato dal costato del Cristo veniva inequivocabilmente attribuito alla ferita causata dalla lancia di un soldato romano, poi

Due manufatti facenti parte del Tesoro di S. Marco: un reliquiario della Croce dell’imperatrice Irene Ducas (a sinistra) e una teca a balaustro con fiala del sangue di Cristo.

indicato come Longino dai Vangeli apocrifi. Esso aveva dunque minor efficacia per la propaganda antigiudaica del Senato della Repubblica, che preparava la strada all’apertura del ghetto. Il sangue zampillato, invece, dai molti dipinti e crocifissi che, dalla fine del Medioevo agli inizi dell’età moderna, sarebbero stati il bersaglio prediletto degli Ebrei, era un’arma efficace per l’antigiudaismo cinquecentesco. La fattura assai piú preziosa del reliquiario costantinopolitano contenente il sangue del costato di Cristo dovette farlo ritenere quello del sangue del crocifisso di Beirut, assai piú noto e venerato in età moderna. Va infine ricordata la presenza nel Tesoro di S. Marco, di una spina della corona di Cristo. Le fonti duecentesche attestano che il re di Francia Luigi IX, nel 1239, riscattò dai Veneziani l’intera corona di spine, ricevuta da Baldovino di Fiandra, imperatore di Costantinopoli, a garanzia di un ingente prestito. Per poterla riscattare, il re di Francia dovette lasciare in dono ai veneziani una delle sue spine, che si conserva oggi in un reliquiario a pisside trecentesco. Il suo valore è accresciuto dal fatto che la reliquia da cui fu stornata venne distrutta a Parigi, nel corso della Rivoluzione francese.

RELIQUIE

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secolo, secondo la quale, prima di fondare il patriarcato di Alessandria d’Egitto, l’evangelista avrebbe creato quello di Aquileia, insediandovi Ermagora come primo vescovo. Tutti i patriarcati, del resto, dovevano avere origine apostolica e dunque la versione aquileiese subordinava a sé la sede di Grado. Tale subordinazione avrebbe significato per Venezia la fine dell’indipendenza dalla terraferma. A seguito del trafugamento, forte del possesso delle sue reliquie, Venezia rielaborò la tradizione, affermando che Marco, nel viaggio verso Aquileia, si sarebbe fermato in un’isola della Laguna, dove, tra l’altro, avrebbe ricevuto il felice presagio della sua sepoltura proprio in quel luogo.

VENEZIA

LE SPOGLIE DI SAN ROCCO Chiesa di S. Rocco Info www.scuolagrandesanrocco.org

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el 1485, dopo alterne vicende, i resti di un pellegrino francese di Montpellier, vissuto nel XIV secolo, Rocco, trovarono una collocazione definitiva nella chiesa veneziana a lui dedicata. Al momento della deposizione del suo corpo a Venezia, già godeva di fama universale, in quanto Rocco era il santo piú venerato dai pellegrini dell’Europa bassomedievale. All’indomani della morte, per oltre un secolo, le sue reliquie furono a lungo contese, finché Venezia riuscí ad aggiudicarsele integralmente, concedendo solo parte di un braccio alla città di Voghera, dove Rocco aveva operato molti miracoli in vita. Nel 1575, papa Clemente VIII si fece quindi consegnare un’altra parte del braccio per la chiesa romana di S. Rocco, mentre altri resti furono inviati nella città natale del santo, Montpellier. La visita del doge alla chiesa di San Rocco, olio su tela di Gabriel Bella. 1779-1792. Venezia, Fondazione «Querini-Stampalia». 98

RELIQUIE


RELIQUIE

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RELIQUIE

Italia del Nord

PADOVA

SAN LUCA EVANGELISTA Basilica di S. Giustina Orari www.abbaziasantagiustina.org

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a oltre un millennio, nella basilica di S. Giustina a Padova, si venera la tomba di Luca, autore del terzo Vangelo. In verità, nella chiesa patavina, in un’arca marmorea costruita nel 1313, si conserva soltanto il corpo, privo del capo, prelevato nel 1354 dall’imperatore Carlo IV e portato a Praga, dov’è tuttora custodito. Un documento della fine del II secolo (il cosiddetto Prologo antimarcionita) riporta che Luca morí in tarda età a Tebe, in Beozia (attuale Grecia), dove venne in seguito venerato. Secondo Gregorio di Nazianzo sarebbe stato invece martirizzato a Patrasso e da qui traslato a Costantinopoli, nella basilica poi intitolata ai Santi Apostoli, perché depositaria anche delle spoglie degli apostoli Andrea e Mattia.

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RELIQUIE

Molti sostengono che l’arrivo a Padova dei resti di Luca sia una delle conseguenze della IV crociata, anche se la loro presenza nell’abbazia benedettina collegata al santuario, è già attestata nel 1177, anno in cui si colloca il suo disseppellimento nel cimitero di S. Giustina. La cassa rinvenuta conteneva, in realtà, diversi altri corpi di martiri e sarebbe stata nascosta durante una delle molte incursioni ungariche a cui l’area era sottoposta. Le reliquie di Luca, allora, potrebbero essere state portate a Padova nell’VIII secolo, durante il periodo iconoclasta (741-770). La leggenda racconta, infatti, che un sacerdote di nome Urio, custode della basilica dei Ss. Apostoli a Costantinopoli, per salvarle, le avrebbe portate con sé fuggendo a Padova, dove avrebbe traslato anche i resti di san Mattia e un’immagine lignea della Madonna, tuttora presenti nella basilica. Un’altra tradizione, tutta-

via, ritiene che le spoglie di Luca siano giunte a Padova nel IV secolo, a seguito delle persecuzioni dell’imperatore Giuliano l’Apostata, il quale voleva distruggerle per interrompere la devozione che veniva loro tributata. Il 9 novembre 1354 l’arca marmorea contenente le reliquie fu aperta per volere dell’imperatore Carlo IV, il quale, come già ricordato, pretese il capo dell’apostolo, da portare a Praga. Sul corpo di Luca nacquero aspre contese, e diverse sedi lo rivendicarono. A Venezia, nel 1463, la presunta tomba Padova, basilica di S. Giustina. Il sarcofago di san Luca, opera di scuola pisana realizzata a cura dell’abate Mussato. 1313. Alle spalle dell’arca, la copia cinquecentesca della Madonna Costantinopolitana (affiancata da una coppia di angeli in volo di Amleto Sartori, 1960), una preziosa icona bizantina, la cui presenza è attestata nel monastero di S. Giustina dal XII sec.


dell’evangelista fu aperta, ma si constatò che conteneva le spoglie di un giovane, morto da appena un paio di secoli. In tempi recenti, invece, analisi di laboratorio effettuate sui resti conservati a Padova sembrano confermare la tradizione locale: lo scheletro patavino risulta essere appartenuto a un uomo morto in età avanzata, vissuto all’incirca duemila anni fa. Rilevante è anche il fatto che – tra i molti rivendicati come quello di san Luca – il cranio conservato a Praga sia l’unico compatibile con il corpo di Padova. Ulteriori indagini hanno rilevato la presenza, nell’originaria cassa di piombo contenente le spoglie di Luca, dei resti ossei di una trentina di bisce, che vi avevano probabilmente posto la loro tana nel V secolo e, probabilmente, morirono soffocate nel corso dell’alluvione che interessò il cimitero paleocristiano di S. Giustina. Le bisce, che sono tipiche del territorio patavino, attesterebbero, dunque, che i resti del corpo venerato furono traslati a Padova prima del V secolo. Un’altra indicazione è scaturita dalla presenza sulla bara di un simbolo giudaico-cristiano in uso sin dal I secolo d.C. Infine, l’analisi del DNA ha indicato come probabile che il corpo dell’uomo in questione sia appartenuto a un individuo di etnia siriaca, qual era appunto san Luca.

PADOVA

LA LINGUA DI ANTONIO DA PADOVA Basilica di S. Antonio da Padova Info www.basilicadelsanto.org

A

ntonio da Padova nacque a Lisbona, nel 1195, con il nome di Fernando. Nel 1220 divenne frate francescano e prese il nome di Antonio, ricevendo poi dallo stesso Francesco, verso il 1223, il permesso di «insegnare teologia» ai frati dell’Ordine. La sua eloquenza e dottrina lo resero

Disegno ottocentesco raffigurante il reliquiario nel quale si conserva la lingua di sant’Antonio da Padova, custodito nella basilica patavina a lui intitolata. subito famoso; divenne predicatore instancabile e riuscí, in molti casi grazie alla sola forza di persuasione della parola, a sanare le frequenti contese cittadine che caratterizzavano la vita dei Comuni bassomedievali. Si spense a soli 36 anni, e, nel 1232, ad appena un anno dalla morte, fu proclamato santo da Gregorio IX. Per sua stessa richiesta, venne sepolto nella città di Padova, dove, piú tardi, fu traslato in un santuario a lui dedicato, che iniziò a richiamare folle di pellegrini già all’indomani della canonizzazione. Fu probabilmente il santo piú invocato dell’Italia bassomedievale e moderna, a motivo dei grandi poteri taumaturgici che gli vennero da subito attribuiti. Spesso raffigurato con il giglio tra le mani, si ritiene possa operare fino a 13 grazie per ogni devoto. La Cronaca dei XXIV generali, scritta nel XIV secolo, riporta che l’8 aprile del 1263, Bonaventura da Bagnoregio – allora ministro generale dell’Ordine francescano –, alla presenza di un gran numero di fedeli, avrebbe compiuto una ricognizione sul suo corpo, trovando la sua lingua incorrotta, in mezzo ai frammenti ormai inceneriti del corpo. Ciò fu interpretato come segno della volontà divina di proteggere l’organo con il quale il santo aveva a lungo predicato in difesa della fede. In realtà, si trattò della volontà del nuovo generale dell’Ordine di valorizzare l’attività di predicazione, a cui Francesco aveva invece guardato con sospetto, temendo che potesse sottrarre tempo al lavoro e alla preghiera dei frati. La reliquia della lingua incorrotta fu inserita poi nella Cappella del Tesoro, all’interno della basilica di S. Antonio, dov’è da allora esposta ai fedeli. RELIQUIE

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Italia del Nord


Nella pagina accanto particolare della Sacra Sindone, nome con il quale si identifica il telo che sarebbe stato utilizzato per avvolgere il corpo di Gesú Cristo dopo la deposizione dalla Croce.

PIEMONTE TORINO

LA SACRA SINDONE Basilica cattedrale di S. Giovanni Battista Info www.duomoditorino.it La Sacra Sindone è attualmente conservata nel Duomo di Torino, in una cappella a essa dedicata, costruita alla fine del Seicento su disegno dell’architetto Guarino Guarini (1624-1683). La reliquia consiste nel telo di lino che avrebbe avvolto Gesú al momento di essere deposto nel sepolcro, e sul quale sarebbe rimasta impressa – per miracolo – la sua intera effigie. Il primo documento che ne comprovi l’esistenza è del 1353, epoca alla quale lo fanno risalire le analisi di laboratorio, che lo indicano come un manufatto realizzato tra la fine del XIII e la metà del XIV secolo. Contestando le analisi scientifiche e le attestazioni documentali, alcuni studiosi vorrebbero piuttosto legare la Sindone di Torino al Mandylion di Edessa, venerato almeno dal VI secolo e trasferito a Costantinopoli nel X. Tale reliquia, ben attestata dalle fonti, non venne piú menzionata a partire dal XIII secolo, quando andò probabilmente perduta a seguito del saccheggio veneziano della IV crociata. Come accennato, la Sindone di Torino fece la sua prima apparizione nel 1353 in un villaggio della Champagne, dov’è segnalata tra i beni del conte Goffredo di Charny. Rimasta proprietà della famiglia del nobiluomo per circa un secolo, dopo essere stata a lungo guardata con sospetto dalle autorità religiose, entrò, nel 1452, in possesso di Anna, moglie del duca Ludovico I di Savoia. Nel 1467, papa Paolo II autorizzò il

nobile a costruire una cappella in onore della Sindone all’interno della sua residenza privata a Chambéry. Nel 1506, infine, papa Giulio II ne autorizzò la devozione come «sacra reliquia». Una trentina di anni piú tardi, il sacro lenzuolo fu salvato a stento da un incendio; subí danni marginali che furono subito restaurati, fornendo ai sostenitori della sua autenticità l’appiglio per attribuire i risultati delle analisi di laboratorio a campioni di stoffa usati nel corso delle varie riparazioni a cui la reliquia venne sottoposta. Nel 1578, il duca Emanuele Filiberto di Savoia (1528-1580) la fece trasferire da Chambéry a Torino, dove il culto del sacro lenzuolo conobbe il suo pieno sviluppo.

LIGURIA GENOVA

IL MANDYLION (SANTO MANDILLO) Chiesa di S. Bartolomeo degli Armeni Info tel. 010 8392496

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el 1362, l’imperatore Giovanni V Paleologo avrebbe espresso la sua gratitudine verso Leonardo Montaldo, capitano di una piccola flotta che aveva combattuto al fianco dei Bizantini contro i Turchi, attraverso il dono della reliquia «del Santo Sudario», ovvero il famoso Mandylion di Edessa, dove sarebbe stata impressa per In alto il Mandylion di Genova, che l’imperatore Giovanni V Paleologo avrebbe donato al capitano genovese Leonardo Montaldo nel 1362. RELIQUIE

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virtú divina l’effigie di Cristo. L’immagine era un tempo conservata a Edessa, dove aveva fama di aver compiuto numerosi miracoli. Risulta, però, storicamente attestato l’ordine dell’imperatore Costantino VII di spostarla nella capitale imperiale, dove giunse il 16 agosto del 944, scortata da una solenne e affollatissima processione. L’eco della traslazione giunse fino in Occidente, dove produsse sui contemporanei un fascino tale da provocare l’improvvisa apparizione di sue copie; tra di esse va probabilmente annoverata la Veronica di Roma. Forse, anche nel caso del Mandylion di Genova, si trattò di una copia dell’originale, realizzata dallo stesso imperatore d’Oriente in tempi antichi. Al rientro in patria, Montaldo, al

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contrario di quanto ci si sarebbe attesi, data l’importanza dell’eccezionale omaggio ricevuto, non rese pubblico l’evento, ma lo tenne nascosto per vent’anni, custodendo gelosamente la reliquia nella propria cappella privata e rivelandone l’esistenza solo sul punto di morire di peste, nel 1384, quando era ormai divenuto doge della città. Sembra l’impianto di una novella boccaccesca, in cui la confessione in punto di morte diviene l’espediente usato dal doge per omaggiare i Genovesi di un grande dono. Rivelando, infatti, di possedere la piú preziosa reliquia di Costantinopoli, egli, senza muoversi dal suo letto di malattia, compie una straordinaria traslazione di carisma e di prestigio dalla capitale imperiale d’Oriente alla città ligure.

Date le premesse, l’operazione sortisce l’effetto desiderato e il culto esplode presso i Genovesi, come dimostra anche il fatto che nel 1514 gli iscritti al «Consorzio del Santo Sudario» – nelle cui fila era entrata l’intera aristocrazia locale – giunsero a 15 000. L’ostensione della reliquia diviene il momento di maggiore coesione della popolazione cittadina, cementandone il sentimento identiMiniatura raffigurante la consegna, nel 944, all’imperatore bizantino Romano I Lecapeno del Mandylion, proveniente da Edessa, dal Codex Graecus Matritensis Ioannis Skyllitzes, manoscritto greco di produzione siciliana che riporta la Sinossi della Storia di Giovanni Scilitze. XII sec. Madrid, Biblioteca Nazionale.


tario che si esprime in una partecipazione endemica e commossa. Conservata nel monastero di S. Bartolomeo degli Armeni, la reliquia lasciata da Leonardo Montaldo non presenta, però, i caratteri con cui le fonti bizantine delineano quella costantinopolitana, ovvero come un telo di lino. Il Mandylion genovese, infatti, è costituito da una tavoletta in legno di cedro, recante un’immagine di Cristo realizzata con la tecnica della tempera a uovo. L’indagine radiografica ha evidenziato, sotto l’attuale, la presenza di un volto differente e dallo stile piú arcaico, databile a un periodo anteriore al Mille e una sottile tela di lino applicata su due terzi della superficie (dalla fronte al mento), che fornirebbe argomenti ai sostenitori dell’identità tra la reliquia genovese e quella costantinopolitana. Piú interessante ai fini della storia del culto – unico elemento che si può attestare con certezza – si è rivelato, invece, il ritrovamento, nella parte posteriore del supporto in cui è inserita l’antica tavoletta, di minuscoli frammenti di tessuto antico che farebbero pensare a «reliquie per contatto» di varia origine: da broccati genovesi dei secoli XV e XVI a rarissimi tessuti sasanidi e fatimidi – di fattura persiana e araba, dunque – risalenti a un’epoca precedente l’anno Mille, che attestano la venerazione antichissima tributata all’immagine e l’attendibilità storica della sua traslazione da Costantinopoli nel XIV secolo.

EMILIA-ROMAGNA FERRARA

IL LIQUIDO PRODIGIOSO Monastero di S. Antonio in Polesine Info tel. 0532 64068

N

el monastero ferrarese di S. Antonio in Polesine, che si estende suggestivo lungo il fiume Po, riposa Beatrice II d’Este (1226 circa-1262), donna nobile e fer-

vente cristiana, che vi si era ritirata a vita religiosa all’età di 31 anni, dopo aver contribuito alla sua fondazione. Figlia di Azzo VII il Novello, primo signore di Ferrara, Beatrice vantava tra i suoi nobili consanguinei anche la zia, Beatrice I d’Este, alla quale si fa risalire la fondazione della comunità monastica del Monte Gemmola a Calaone, presso Padova. A partire dall’anno del suo prematuro decesso, all’età di 36 anni, nel 1262, una grande devozione si sviluppò sulla sua tomba, sulla quale le consorelle iniziarono a distribuire, a mo’ di reliquia, alcune gocce dell’acqua utilizzata per lavare il corpo della religiosa, prima della sepoltura. I destinatari del dono attestarono che l’acqua ricevuta avesse virtú taumaturgiche, spingendo le consorelle a ripetere l’operazione. Nel giorno anniversario della morte, si continuò a lavare il corpo della religiosa – che, anno dopo anno, si presentava sempre incorrotto – per distribuire l’acqua ai molti devoti che ne facevano richiesta. Secondo la testimonianza della badessa del monastero, il rito fu ripetuto fino al 1512, quando in luogo del corpo, all’apertura del sarcofago, si trovarono solo le ossa. I fedeli e le monache attestano, però, che, da allora, la pietra collocata sopra alla tomba (che non sarebbe mai piú stata aperta), iniziò, nei giorni in cui ricorreva il suo anniversario, a stillare acqua miracolosa.

venuta durante il regno dell’imperatore Leone I, fra il 457 e il 474, a Cafarnao, in Palestina, dai patrizi Galbio e Candidus. Il manto sarebbe appartenuto a una donna ebrea, che lo avrebbe a lungo custodito in un’arca di legno, e i due patrizi l’avrebbero rubato, sostituendo l’arca originale con una vuota delle stesse dimensioni. Da Cafarnao, il Maphorion sarebbe stato poi inviato a Costantinopoli, insieme ad altre reliquie gerosolimitane, per paura che fosse trafugato dai Persiani (come era accaduto alla reliquia della Croce). Nel 626, fonti bizantine attestano che la popolazione costantinopolitana resistette all’assedio avaro e persiano, confidando nella protezione offerta della reli-

IMOLA

IL SACRO VELO DI IMOLA Chiesa di S. Maria in Regola Info tel. 0542 23512

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l Maphorion, o Manto della Vergine, di colore rosso porpora, simbolo della regalità acquisita attraverso l’incarnazione di Cristo, ha impresse sul capo e sulle spalle tre stelle, simboli siriaci di verginità. Secondo la tradizione bizantina, la reliquia mariana sarebbe stata rin-

Ritratto di Beatrice II d’Este. Tempera su tavola di ambito padovano. XV sec. La nobildonna, che prese il velo nel 1254 e fondò il monastero di S. Antonio in Polesine, fu venerata già all’indomani della morte, sopraggiunta nel 1262, e papa Clemente XIV ne confermò il culto il 16 luglio 1774. RELIQUIE

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La Madonna di San Luca raggiunse Bologna grazie al pellegrino Teocle 106

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quia. Essa divenne nei secoli la piú venerata della città, finché nel 944 le fu affiancato il Mandylion, condotto a Costantinopoli dalla città di Edessa; da quel momento le due reliquie divennero i simboli della lotta contro i nemici della cristianità e la loro presenza è at-

In alto e nella pagina accanto due immagini della Madonna di San Luca, icona che la tradizione attribuisce appunto alla mano dell’evangelista. Dal 1625 una lastra d’argento copre il dipinto, con l’eccezione dei volti della Vergine e del Bambino.


come dono all’esarca di Ravenna, Longino, il quale si sarebbe fatto carico della ricostruzione della chiesa nel 568, proprio per ospitare la reliquia.

BOLOGNA

LA MADONNA DI SAN LUCA Santuario della Madonna di San Luca Info www.sanlucabo.org

L’

testata a Costantinopoli fino alla IV crociata del 1204. Esiste, però, un’altra tradizione, di matrice occidentale, che fissa la presenza del Sacro Velo a Costantinopoli non oltre il 568, quando sarebbe stato trasferito a Imola nella chiesa di S. Maria in Regola,

icona della Madonna di San Luca, conservata nell’omonimo santuario di Bologna, appartiene al gruppo delle cosiddette immagini «Odigitrie», nelle quali la Vergine Maria è rappresentata a mezzo busto, con Gesú Bambino in braccio in atto benedicente. Secondo la tradizione, sarebbe opera dell’evangelista Luca e deriverebbe invece il titolo di «odigitria» dalla tipologia costantinopolitana legata al monastero degli

Odeghi («coloro che indicano la strada, le guide»); un’altra interpretazione la vedrebbe in connessione alle icone delle basiliche presenti lungo la strada principale di Costantinopoli (da cui «della via»); infine, il titolo di «odigitria» sarebbe da intendersi nel suo significato allegorico: «Maria indica la via», cioè mostra la via della salvezza attraverso il Bambino Gesú che le è accanto. La tradizione bolognese vuole che il dipinto fosse stato portato nella città emiliana da un pellegrino greco di nome Teocle, nel 1150. Entrato nella chiesa di S. Sofia a Costantinopoli, l’uomo avrebbe deciso di rispondere al comando posto nella didascalia apposta al ritratto della Vergine: «Questa tavola, dipinta da san Luca, è da portare nella sua chiesa sul Monte della Guardia». Quest’ultimo era all’epoca una piccola collina, alta circa 300 m, a sud-ovest del centro di Bologna, disabitata e coperta di vegetazione. Teocle avrebbe cercato e, infine, identificato il colle bolognese, recandovi l’icona, che avrebbe suscitato la devozione dei locali e la nascita dell’annesso santuario intitolato all’autore della tavola. È probabile che l’icona fosse giunta in Italia a seguito della partecipazione dei Bolognesi ai pellegrinaggi in Terra Santa o alle crociate del XII-XIII secolo. Dal 1625 il dipinto è ricoperto da una lastra d’argento che lascia intravedere solo i volti di Maria e di Gesú Bambino. La Vergine indossa una tunica blu-verde, sotto la quale ne sporge un’altra di colore rosso. Indagini radiografiche, condotte nel 1991, hanno mostrato come al di sotto dell’immagine attuale ne esista un’altra di scuola bizantina, databile al X-XI secolo. L’icona sarebbe stata dunque ridipinta – probabilmente in Italia – fra il XII e il XIII secolo. La leggenda locale dell’origine costantinopolitana dell’icona, troverebbe cosí, una parziale conferma. RELIQUIE

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Italia Centrale

TOSCANA LUCCA

IL VOLTO SANTO Cattedrale Info www.museocattedralelucca.it

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l Volto Santo (o Santa Croce) è una statua-reliquiario, intagliata in legno di noce di grandi dimensioni (2,24 x 2,65 m). È custodito nella cattedrale di S. Martino e raffigura il Cristo crocifisso, tunicato e con corona, con gli occhi aperti, secondo l’iconografia del Christus triumphans, il Cristo ancora vivente che trionfa simbolicamente sulla croce. Una tradizione leggendaria, già attestata nel XII secolo, ne attribuisce la fattura a Nicodemo, l’uomo che, secondo il Vangelo di Giovanni, insieme a Giuseppe d’Arimatea, depose Gesú nel sepolcro. Secondo la leggenda lucchese, Nicodemo avrebbe voluto raffigurare il Signore, senza riuscirci: poco tempo dopo, però, avrebbe trovato il suo volto e il suo corpo miracolosamente scolpiti nel legno. In seguito, per salvarlo dall’iconoclastia, il crocifisso sarebbe stato affidato ai flutti del mare, che lo avrebbero condotto fino a Luni, dove sarebbe entrato in possesso dei Lucchesi, guidati dal vescovo Giovanni. Fu quindi portato nella chiesa di S. Frediano, da cui però scomparve misteriosamente. Ritrovato nel terreno accanto alla Cattedrale di S. Martino, fu da allora conservato al suo interno e non piú riportato a S. Frediano, poiché si attribuí alla volontà divina la sua sparizione e il suo ritrovamento nei pressi della Cattedrale. Ogni anno, il 13 settembre, si ricorda l’evento della traslazione del crocifisso, con una solenne processione, che ripercorre l’itinerario da S. Frediano alla Cattedrale. È possibile che la tradizione leggendaria contenga traccia della vicenda storica: la traslazione del crocifisso a Lucca potrebbe essere avvenuta proprio in concomitanza dell’iconoclastia e l’iniziativa di recupero dei Lucchesi sarebbe forse attribui-

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bile non al vescovo Giovanni (780800), ma a un suo predecessore. La datazione del manufatto, però, è assai incerta. Per alcuni studiosi risalirebbe al V secolo e, in questo caso, il suo arrivo a Lucca potrebbe essere riferito alla grande diaspora delle immagini sacre dall’Oriente; per altri, invece, esso sarebbe stato realizzato dopo il Mille, come pure farebbe pensare l’impianto iconografico del Cristo tunicato con corona che si diffuse in età ottoniana per esaltare la maestà del Salvatore

e dell’imperatore. A questo periodo, del resto, si deve anche far risalire lo sviluppo del culto, attestato proprio a partire dal 1100. Nel Basso Medioevo, il Volto Santo divenne il simbolo della città, tanto da essere apposto sui sigilli dei cambisti e sulle monete. Fra il XIII e il XV secolo, la devozione per la statua-reliquiario conobbe una straordinaria diffusione nel resto d’Italia e d’Europa, sia per l’azione dei mercanti lucchesi, sia grazie ai pellegrini, i quali, percorrendo la


A destra il Volto Santo conservato nella Cattedrale di Sansepolcro (Arezzo). Si tratta di un crocifisso ligneo databile al IX sec. che alcuni considerano una replica dell’omonima statua-reliquiario custodita a Lucca (vedi foto in basso, sulle due pagine), mentre altri ritengono possa essere stato il prototipo a cui si sarebbe ispirato l’esemplare lucchese.

via Francigena per raggiungere Roma o passare in Terra Santa, facevano tappa nel santuario lucchese. Copie del crocifisso di Lucca si trovano in Francia, in Germania, in Austria, in Svizzera e in Spagna e un po’ ovunque in Italia. A Sansepolcro, presso Arezzo, nella basilica concattedrale di S. Gio-

vanni Evangelista si trova un crocifisso analogo, che potrebbe essere una copia del Volto Santo, oppure il suo originale. Sottoposto alla datazione a radiocarbonio, l’esemplare aretino ha restituito una «forchetta» temporale compresa tra il 700 e l’850, che lo classifica come molto antico, forse piú antico di quello lucchese. In ogni caso, nel Basso Medioevo il Volto Santo di Lucca divenne una delle piú famose reliquie italiane, di fama pari o poco inferiore alla Veronica di Roma. Ne è testimonianza il fatto che Dante lo citi nel canto XXI della Divina Commedia, quando narra di Martino Bottario, magistrato di Lucca, che viene schernito da alcuni diavoli, i quali lo torturano dicendo «qui non ha luogo il Santo Volto», cioè nell’inferno è ormai inutile pregare il Volto Santo.

PRATO

LA SACRA CINTOLA Duomo Info www.diocesiprato.it

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a Sacra Cintola (o Sacro Cingolo) conservata a Prato è una striscia di finissima lana caprina, di color verde, intessuta con alcuni fili d’oro, lunga 87 cm. Fasce simili venivano impiegate in epoca antica dalle donne per legare le vesti. Secondo un testo apocrifo attribuito a Giuseppe di Arimatea, l’eRELIQUIE

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Prato, Cattedrale, Cappella della Cintola. Particolare delle Storie della Vergine e della Sacra Cintola, ciclo affrescato dipinto nel 1392-95 da Agnolo Gaddi e dalla sua bottega. La sequenza raffigura Michele Dagomari che consegna la Cintola al proposto Uberto, mentre una processione porta la reliquia nella pieve di S. Stefano (purtroppo, l’immagine della chiesa fu distrutta nel 1454 dall’apertura della mostra per l’organo a canne).

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semplare pratese sarebbe stato consegnato dalla Madonna a san Tommaso come prova della sua assunzione, quando egli l’avrebbe vista ascendere al cielo. Prima di partire per la missione evangelizzatrice in India, il santo l’avrebbe lasciata a Gerusalemme, da dove la reliquia avrebbe quindi vagato a lungo, prima di tornare nella Città Santa. Sarebbe poi finita nelle mani di Michele Dagomari, un mercante di Prato che si trovava a Gerusalemme nel 1141, il quale l’avrebbe ricevuta tra i beni dotali

della moglie, figlia di uno degli uomini che l’avevano in custodia. Quando Dagomari tornò in patria, portò con sé la reliquia, custodendola in una cassapanca. Solo in punto di morte, nel 1173, in un afflato di civismo, avrebbe deciso di consegnarla nelle mani di un magistrato, affinché il suo Comune potesse esserne magnificato. Nei mesi seguenti, la Sacra Cintola fu infatti trasportata con processione solenne nella Cattedrale e collocata all’interno dell’altare maggiore. L’affluire ininterrotto dei fedeli por-


tò all’ampliamento della chiesa, fino a farle assumere le dimensioni attuali. Le storie di Michele Dagomari e della Sacra Cintola vi furono narrate per immagini, nel XIV secolo, da Agnolo Gaddi. Il culto della Sacra Cintola di Prato ben riflette le contingenze storiche in cui maturò, ovvero quella fase del Basso Medioevo caratterizzata dalle lotte tra Comuni vicini, antagonisti nell’accaparrarsi traffici e opportunità. Secondo la versione dei Pratesi, infatti, l’invidia di Firenze e Pistoia portò a vari tentativi di furto, a

cui il Comune rispose sottraendo la cintola al controllo ecclesiastico e assumendolo in sua vece, come ancora oggi dimostra il fatto che solo una delle tre chiavi del vano d’accesso alla reliquia sia in possesso del vescovo. Fra i ripetuti tentativi di impossessarsi della Sacra Cintola, ci fu quello, assurto a emblema nella leggenda pratese, di un Pistoiese detto Musciattino, il quale avrebbe tentato di sottrarla nel luglio del 1312. A causa di una nebbia fittissima, però, uscendo dalla città con il sacro re-

sto, sarebbe tornato indietro senza accorgersene. Raggiunte le mura che egli pensava fossero quelle di Pistoia, iniziò a gridare: «Aprite, aprite, ho la cintola de’ pratesi». Catturato dai Pratesi, gli venne tagliata la mano destra e fu arso vivo a mo’ di esempio per i futuri rapinatori. La sua mano mozzata sarebbe stata lanciata per disprezzo e, battendo contro la parete della chiesa, avrebbe lasciato la sua impronta di sangue, ancora visibile su una pietra d’angolo del fianco destro della Cattedrale. RELIQUIE

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AREZZO

IL BASTONE DI SAN GIUSEPPE Eremo di Camaldoli Info www.camaldoli.it

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ell’eremo di Camaldoli (Arezzo) si venera il bastone di san Giuseppe, che vi sarebbe stato portato da Nicea dal cardinal Bessarione nel 1439. La tradizione del bastone fiorito di Giuseppe risale ai Vangeli apocrifi, secondo i quali il falegname, ormai in età avanzata, venne convocato dal sacerdote Zaccaria, insieme ad altri celibi, per la scelta dello sposo di Maria, che aveva vissuto per nove anni nel tempio. La prova per la scelta consisteva nel recare una verga che, appoggiata insieme a quella degli altri sull’altare del tempio, sarebbe fiorita, indicando il prescelto da Dio. Dopo aver a lungo pregato, Zaccaria restituí i bastoni non germogliati ai legittimi proprietari, consegnando infine quello in piena fioritura a Giuseppe; da esso sarebbe allora uscita una colomba che si sarebbe posata sul capo del prescelto, a meglio indicarne la designazione. Malgrado questi volesse rinunciare a causa della differenza d’età con la giovanissima Maria, fu convinto da Zaccaria a non opporsi alla volontà divina.

MARCHE

LORETO (ANCONA) LA SANTA CASA Santuario della Santa Casa Info www.santuarioloreto.it

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edificio che a Nazaret si venerava come casa di Maria era costituito da due parti: una grotta scavata nella roccia, oggi inserita nella basilica dell’Annunciazione, e una camera in muratura antistante, composta da tre pareti di pietre 112

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A destra la Santa Casa di Loreto, identificata dalla tradizione con l’abitazione di Maria a Nazaret. In basso Padova, Cappella degli Scrovegni. Giuseppe riceve l’anello nuziale durante la celebrazione del matrimonio con Maria, particolare degli affreschi eseguiti da Giotto tra il 1303 e il 1305. Lo sposo della Vergine tiene nella mano sinistra il bastone fiorito che lo aveva indicato come il prescelto.

poste a chiusura della grotta. Quest’ultima sarebbe stata portata nelle Marche, nel 1291, dai crociati espulsi dalla Terra Santa o, secondo un’altra versione, sarebbe stata trasferita miracolosamente in volo dagli angeli, il 10 dicembre 1294. Analisi condotte sulle pareti della Santa Casa di Loreto ne hanno dimostrato la compatibilità – per tipologia, materiali e perimetratura – con l’edificio originario addossato alla grotta di Nazaret; una compatiblità che sarebbe confermata anche da alcuni graffiti, che risultano simili ad altri giudaicocristiani presenti su diversi monumenti della città palestinese.


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La leggenda «del volo degli angeli» potrebbe aver tratto origine dal fatto che della traslazione fu protagonista la famiglia bizantina degli Angeli. Essa decise di strappare le pareti della casa dal sito originario, probabilmente per porle al sicuro in Occidente, e forse, come farebbe supporre un documento del settembre 1294, anche per inserirle nei beni dotali della figlia di Niceforo Angeli, Ithamar, che andò in sposa a Filippo di Taranto, quartogenito di Carlo II d’Angiò, re di Napoli. Fu allora che il despota bizantino, all’epoca governatore dell’Epiro, nel concedere la figlia in matrimonio trasmise al genero anche «le sante pietre portate via dalla Casa della Nostra Signora la Vergine Madre di Dio». La costruzione della basilica che oggi custodisce l’inconsueta reliquia fu promossa nel 1468 da papa Paolo II, il quale, proprio, a Loreto avrebbe ricevuto la grazia di una guarigione miracolosa.

OFFIDA (ASCOLI PICENO)

IL MIRACOLO EUCARISTICO DI LANCIANO Chiesa di S. Agostino Info www.comune.offida.ap.it

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e reliquie di Offida sono legate al Miracolo Eucaristico di Lanciano, che segue di dieci anni quello celebre di Bolsena (vedi a p. 116). Una leggenda, codificata nel XVII secolo, narra che una donna di nome Ricciarella, per riconquistare l’affetto del marito, dietro suggerimento di una fattucchiera, avrebbe trafugato un’ostia consacrata. Tornata a casa, avrebbe messo l’ostia su un coppo rovente per polverizzarla e condirla nel cibo del coniuge. L’ostia, però, si sarebbe fatta carne sanguinante e Ricciarella, l’avrebbe allora sotterrata in una buca nella stalla, sotto il deposito del letame. Da allora, il cavallo del marito avrebbe rifiutato di entrare nella stalla, inginocchiandosi ogni volta presso l’uscio.

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A sinistra il Miracolo Eucaristico di Lanciano in un dipinto settecentesco. Offida, chiesa di S. Agostino. In basso il reliquiario nel quale si custodisce il Santo Anello, identificato dalla tradizione con quello nuziale di Maria e Giuseppe.

Dopo sette anni di straordinari prodigi e cocenti rimorsi, Ricciarella avrebbe deciso di confessare il sacrilegio all’allora priore del convento agostiniano di Lanciano. Recatosi sul luogo indicatogli dalla donna, il frate avrebbe rinvenuto il coppo e l’ostia intatti, che avrebbe poi deposto in parte a Lanciano e in parte nel santuario di S. Agostino di Offida. Nel luogo del ritrovamento, invece, fu costruita una cappella dedicata alla Santa Croce che, alla data del 3 maggio, giorno commemorativo dell’evento, viene coinvolta nella celebrazioni di Offida. Il Miracolo Eucaristico di Lanciano, come quello di Bolsena deve iscriversi nelle dinamiche devozionali suscitate all’istituzione della festa del Corpus Domini nel 1247.

UMBRIA PERUGIA

IL SANTO ANELLO Cattedrale di S. Lorenzo Info www.cattedrale.perugia.it

L

a cattedrale perugina di S. Lorenzo custodisce un anello fatto di una pietra poco diffusa, che l’analisi gemmologica condotta nel 2004 ha identificato come calcedonio, una varietà microcristallina del quarzo. Secondo una tradizione locale, si tratterebbe dell’anello di nozze di Maria e Giuseppe, mentre gli studiosi, sulla base delle sue caratteristiche, ritengono sia un anello-sigillo, pro-


babilmente risalente al I secolo d.C., forse di origine orientale. Narra la leggenda che sarebbe stato conservato sin dal 989 a Chiusi, dove appariva legato al culto della martire Mustiola, protettrice della città. Nel XIII secolo sarebbe stato traslato nella chiesa francescana della città, da dove il frate Vinterio da Magonza lo portò poi a Perugia, nel luglio del 1473. Collocato dalle autorità cittadine nella cappella dei Decemviri del palazzo comunale dei Priori, fu in seguito trasferito nella cattedrale di S. Lorenzo. Chiusi cercò di farsi riconsegnare la reliquia, ma l’allora papa, Sisto IV, che da giovane aveva studiato a Perugia, decise di favorire la città umbra. Attualmente la reliquia è conservata nella Cappella del Santo Anello della Cattedrale, all’interno di una cassaforte sospesa sopra l’altare. Per aprirla occorrono piú di dieci chiavi, tenute dall’arcivescovo, dal Capitolo dei Canonici della Cattedrale, dal Collegio della Mercanzia, dal Collegio del Cambio e da altre autorità municipali. Ogni anno, alla fine di luglio, la chiesa perugina celebra la festività del «Santo Anello», con l’apertura della cassaforte e la «calata» della reliquia nella cappella, dove i fedeli possono venerarla da vicino.

A destra Orvieto, Duomo. Reliquiario in oro, argento e smalto del Corporale di Bolsena, conservato nell’omonima cappella. 1337-1338. Nella teca è custodito appunto il corporale (il panno di lino usato nelle funzioni per appoggiare e poi ricoprire gli elementi consacrati) sul quale vi sarebbero le tracce del sangue stillato dall’ostia spezzata per fugare i dubbi di Pietro da Praga sulla sua effettiva presenza nella particola consacrata. In basso Orvieto, Duomo. Affresco raffigurante il Miracolo Eucaristico di Bolsena. Scuola umbra, XIV sec.

ORVIETO

IL MIRACOLO EUCARISTICO DI BOLSENA Duomo Info www.opsm.it

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el Duomo di Orvieto si trova una cappella dedicata al Miracolo Eucaristico di Bolsena. La sua costruzione fu iniziata nel 1350, ma nel corso dei secoli la decorazione pittorica venne piú volte sottoposta a rifacimenti e nuovi interventi, che testimoniano la grande devozione tributata a uno dei culti piú importanti e popolari dell’età di Mezzo. Nell’estate del 1263 un sacerdote RELIQUIE

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Italia Centrale

In alto papa Urbano IV si reca incontro alla delegazione guidata dal vescovo Giacomo Maltraga, che sta portando il Corporale di Bolsena a Orvieto, particolare dell’affresco di Ugolino di Prete Ilario nella Cappella del Corporale del Duomo di Orvieto. 1357-1364. Nella pagina accanto Ortona, cattedrale di S. Tommaso. La lapide tombale sulla quale, ai lati dell’immagine di un uomo benedicente, si legge il nome del santo scritto in caratteri greci (OSIOS THOMAS). boemo, Pietro da Praga, tormentato dal dubbio sull’effettiva presenza del corpo e del sangue di Cristo nell’ostia consacrata, si sarebbe recato in pellegrinaggio a Roma per rafforzare la propria fede. Sulla via del ritorno, fermatosi nella cittadina laziale di Bolsena, non distante da Orvieto, assalito nuovamente dai dubbi, avrebbe celebrato la 116

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messa nella chiesa di S. Cristina. Al momento della consacrazione, l’ostia avrebbe iniziato a sanguinare, bagnando il corporale da allora venerato come reliquia. La notizia del prodigioso evento avrebbe raggiunto papa Urbano IV, che si trovava a Orvieto e che incaricò il vescovo della città di portare il corporale nella vecchia cattedrale, S. Maria Prisca. La grande risonanza che fu conferita al presunto miracolo e alla venerata reliquia concorsero a rafforzare la diffusione in tutto il mondo cristiano dell’appena istituita festa del Corpus Domini, con la quale il pontefice intendeva rispondere alle tesi di Berengario di Tours, il quale aveva sostenuto la simbolicità della celebrazione eucaristica, negando che vi fosse una reale consustanzialità tra l’ostia consacrata e il corpo di Cristo. La propa-

ganda al nuovo miracolo fu accompagnata dalla costruzione del Duomo di Orvieto, atto a contenere la reliquia. I pellegrini diretti a Roma, che percorrendo la via Francigena facevano tappa a Bolsena, iniziarono a visitare, sempre piú numerosi, il santuario di S. Cristina, dove si conservava il tabernacolo della messa, e la Cattedrale di Orvieto, dov’era custodito il corporale.

ABRUZZO

ORTONA (CHIETI)

LE OSSA DI SAN TOMMASO Cattedrale di S. Tommaso Info www.tommasoapostolo.it

U

na tradizione venata di leggenda vuole che l’arrivo a Ortona del corpo dell’apostolo Tommaso si sia compiuto nell’ambito della contesa dell’i-


sola di Chio (possesso dell’impero bizantino) tra Genova e Venezia. Nel 1258, tre galee ortonesi fecero parte della spedizione che aveva per scopo la conquista dell’isola. Secondo una tradizione risalente al XVI secolo, dopo la presa della città, il comandante della flotta ortonese si sarebbe recato in preghiera presso la chiesa principale di Chio, attratto da un oratorio risplendente di luci, dove – come avrebbe scoperto in seguito – si venerava il corpo di san Tommaso. Tornato alla sua galea, avrebbe maturato la decisione di trafugarlo insieme al compagno Ruggiero di Grogno. Nottetempo, dopo aver sollevato la pesante lapide posta sopra la cassa contenente le reliquie, i due uomini sottrassero il corpo dell’apostolo, insieme alla pietra tombale. Il 6 settembre del 1258, la galea contenente il prezioso carico, sarebbe approdata a Ortona, dove il corpo dell’apostolo fu deposto nella cripta della basilica a lui intitolata. Analisi condotte sulle reliquie di Ortona hanno dimostrato che la

lapide tombale è un prodotto dell’arte siro-mesopotamica, databile tra il III e il V secolo. Su di essa è raffigurata l’immagine a mezzo busto di uomo nimbato e benedicente ai cui lati è scritto, in caratteri onciali greci, OSIOS THOMAS, «san Tommaso». La lapide appare perfettamente coerente con tipologie coeve, diffuse nell’area cimiteriale di Edessa, dove il corpo dell’apostolo era conservato, prima di essere trasferito a Chio. Una ricognizione sul corpo, effettuata nel 1984, ha rivelato che il corpo di Ortona risulta privo di un radio sinistro. Un’indagine effettuata poi sul radio sinistro di san Tommaso venerato a Bari, lo ha rivelato compatibile col corpo di Ortona. La tradizione barese attribuisce il dono della reliquia a un periodo precedente al trafugamento ortonese. Essa sarebbe stata portata nella città pugliese, nel 1102, come dono di un vescovo francese, cugino di Baldovino di Le Bourcq, signore di Edessa, di ritorno dalla Terra Santa.

MANOPPELLO (PESCARA) IL VOLTO SANTO DI MANOPPELLO Basilica del Volto Santo Info www.voltosanto.net

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el santuario di Manoppello, in provincia di Pescara, si venera un panno di 17 x 24 cm, rappresentante il volto di Gesú, visibile da entrambi i lati. L’importanza storica e cultuale della reliquia è legata al mistero della sua apparizione. Il suo culto, infatti, decolla in concomitanza con lo scemare del culto della Veronica a Roma. E tale coincidenza ha fatto ritenere che si tratti del medesimo oggetto. Infatti, nonostante la presenza a Roma della Veronica sia tuttora rivendicata dalla Chiesa cattolica, diversi sono i sostenitori della sua sparizione al momento del sacco dei lanzichenecchi del 1527. In realtà, le fonti storiche indicano RELIQUIE

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Italia Centrale


l’arrivo del telo a Manoppello nel 1506, e cioè in anni precedenti al sacco di Roma. Potrebbe allora trattarsi di una copia della Veronica romana, alla quale si avvicina molto per tipologia.

LAZIO

CALCATA (VITERBO)

IL SANTO PREPUZIO Chiesa dei Ss. Cornelio e Cipriano Note la reliquia è stata trafugata nel 1983 e mai piú ritrovata

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ella circoncisione di Gesú, rito che fa parte dei precetti della religione ebraica, parla, in un breve cenno il Vangelo di Luca. Nel Vangelo arabo dell’infanzia di Gesú, un testo apocrifo dell’VIII secolo, invece, si legge che una delle donne che vi avrebbero assistito, conservò il prepuzio del Bambino in un’ampolla piena di olio, poi acquistata dalla Maddalena. Come abbiamo già osservato, i Vangeli apocrifi suscitarono la nascita di molte fantasiose reliquie tratte da altrettanto fantasiose leggende circa l’infanzia, la vita e la morte di Cristo e in questo filone si inserisce dunque il prepuzio che papa Leone III avrebbe ricevuto come omaggio da Carlo Magno, in occasione della sua incoronazione a imperatore nella basilica di S. Pietro nel Natale dell’800. Altre versioni, anch’esse di alcuni secoli posteriori ai fatti narrati, vorrebbero invece che la reliquia fosse stata donata a Carlo dall’imperatrice di Costantinopoli Irene. Nell’XI secolo si iniziò ad attribuire la traslazione a Roma del Santo Prepuzio all’imperatore Carlo il In alto Beato Angelico, Circoncisione di Gesú, riquadro del pannello dell’Armadio degli Argenti con scene della vita di Cristo. 1448-1455. Firenze, Museo di S. Marco. A sinistra il Volto Santo di Manoppello. La reliquia consiste in un panno sul quale compare l’effigie del Cristo, visibile da entrambi i lati.

Calvo, il quale, nella realtà storica, aveva trasferito le reliquie raccolte ad Aquisgrana da Carlo Magno nell’abbazia parigina di Saint-Denis. In ogni caso, in un inventario dell’XI secolo, essa figura tra le reliquie della cappella privata dei papi del Laterano. La tradizione romana lo vuole qui conservato per tutto il Medioevo, ma si moltiplicarono, invece, i prepuzi di Gesú venerati in tutta la Penisola e al di là delle Alpi. Nel XV secolo, ne esistevano almeno 14, rivendicati da altrettante chiese e monasteri d’Europa, i piú famosi dei quali si trovavano in Francia, a seguito, come si è visto, della nascita della leggenda che assegnava a Carlo Magno la traslazione del prepuzio dall’Oriente. Il prepuzio romano andò probabilmente perduto durante il sacco della città del 1527 e della fine della sua attestazione a Roma si avvalse il paese di Calcata, situato una trentina di chilometri a nord dell’Urbe. Qui si disse che la

reliquia era stata nascosta per sottrarla alle rapine dei lanzichenecchi e qui sarebbe stata ritrovata nel 1557. La reliquia del prepuzio fu tra quelle che maggiormente suscitarono le critiche e le ironie dei protestanti e, per la Chiesa stessa, si trattava di ammettere che una porzione del corpo di Cristo fosse rimasta sulla terra, mentre il resto del suo corpo era asceso al cielo. Anche per tale motivo, essa s’impegnò in età moderna a contrastarne il culto, fino al divieto, emanato nel 1901, di effettuarne l’ostensione e di portarlo in processione. Piú tardi, il Concilio Vaticano II (1962-1965) si spinse a cancellare del tutto la celebrazione della circoncisione di Gesú. La resistenza del culto di Calcata fu, infine, risolta con la sparizione nel 1983 della reliquia, che molti attribuirono a un’iniziativa della Chiesa stessa al fine di sradicare una devozione giudicata priva di fondamento. RELIQUIE

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Italia del Sud e isole

CAMPANIA NAPOLI

IL SANGUE DI SAN GENNARO Duomo Info www.chiesadinapoli.it

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a figura storica di Gennaro, vescovo di Benevento, cosí come l’antichità del suo culto, sono ben documentati storicamente. Dopo il martirio, subíto intorno al 305, il suo corpo fu portato a Napoli, per essere sepolto nelle catacombe della città, dove la sua presenza era attestata a partire dal V secolo. Nel IX secolo, le sue reliquie furono trafugate dalla città partenopea e condotte a Benevento, e successivamente, nel XII secolo, da Benevento al cenobio di Montevergine. Infine, nel 1497, fecero rientro a

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A sinistra Napoli. Una delle ampolle contenenti il sangue di san Gennaro viene capovolta per mostrarne l’avvenuta liquefazione. Nella pagina accanto Amalfi, Duomo. Il reliquiario con i resti di sant’Andrea. In basso Napoli, Duomo. Il bustoreliquiario di san Gennaro, «vestito» in occasione delle celebrazioni annuali in suo onore. Napoli, accompagnate da una processione solenne, e vennero deposte nel Duomo della città, dove sono tuttora conservate. Nel Basso Medioevo, però, la devozione verso il martire si orientò sul suo sangue, che sarebbe stato conservato ab antiquo in due balsamari, forse databili all’età tardoantica. Dal 1389, quel sangue si sarebbe liquefatto, ogni anno, il 19 settembre, anniversario del martirio, e il 14 gennaio, giorno del ritor-


no delle spoglie da Montevergine. Il primo caso di liquefazione, verificatosi il 17 agosto 1389, è attestato dal Chronicon Siculum, in cui si legge che, in occasione della processione dell’Assunta, il sangue delle ampolle esposte al pubblico si liquefece «come se fosse sgorgato quel giorno stesso dal suo corpo». La fama del cerimoniale della liquefazione è universalmente nota, non solo per la sua antichità, ma per l’intensità della partecipazione dei Napoletani, di cui san Gennaro è patrono. Sin dalla fine del XVIII secolo, si è cercato di trovare spiegazioni scientifiche al fenomeno. Il passaggio del contenuto, o di parte del contenuto dei balsamari dallo stato solido a quello liquido, tuttavia, non è costante; avviene, cioè, a temperature differenti, con diversa durata di tempo e senza relazione con la temperatura esterna; inoltre, la sostanza contenuta varia di volume e di peso – fino a raddoppiare – senza che vi sia rapporto diretto tra l’uno e l’altro. Il fenomeno, in ogni caso, non è privilegio solo del sangue di san Gennaro, e non avviene solo a Napoli. Nella stessa città partenopea se ne registrano altri: il sangue di santo Stefano, custodito nel monastero di S. Chiara, quello di sant’Alfonso Maria de’ Liguori, conservato nella chiesa della Redenzione dei Captivi, quelli di san Pantaleone e di san Luigi Gonzaga, nel Gesú Vecchio, e quello di santa Patrizia, conservato in S. Gregorio Armeno. Infine va ricordato il sangue del Battista, che si sarebbe sciolto per la prima volta nel 1554, a Baiano, appena giunto dalla Francia, dove, però, non aveva mai mostrato segno di tale prodigio. La liquefazione del sangue di san Gennaro è ritenuta di buon auspicio per la città; dunque l’insuccesso – evento raro, ma accaduto – viene, al contrario, interpretato come segno di mancato apprezzamento da parte del patrono nei confronti della condotta delle autorità civili o religiose della città.

AMALFI

iú di una fonte storica, Girolamo su tutte (fine del IV secolo), segnala la tomba dell’apostolo Andrea nella città greca di Patrasso. Una cronaca del VII secolo riporta

corso dell’evangelizzazione promossa da papa Gregorio Magno, la Scozia, nazione che ne ha fatto il proprio patrono, adottando la croce del suo martirio come emblema della propria bandiera. Le reliquie, venerate nell’omonima Cattedrale di Edimburgo, finirono comunque disperse nel 1559, quando l’edificio fu saccheggiato dai protestanti.

che nel 357, l’imperatore Costanzo II ne traslò il corpo a Costantinopoli, dove, insieme a quello dell’evangelista Luca, fu collocato nell’Apostoleion, la basilica dedicata agli apostoli. Fonti successive indicherebbero, però, che il capo sarebbe rimasto a Patrasso. Una tradizione leggendaria vorrebbe che parte delle reliquie di Andrea abbia invece raggiunto, nel

All’inizio del XIII secolo, le reliquie di Andrea conservate a Costantinopoli giunsero ad Amalfi, portate dal cardinale Pietro Capuano, legato pontificio di Innocenzo III presso la nuova corte dell’impero latino d’Oriente, nato a seguito della IV crociata. Per ospitarle degnamente, l’alto prelato fece costruire la cripta della Cattedrale di Amalfi, dove, l’8 maggio del 1208,

IL CORPO DI SANT’ANDREA Duomo Info www.parrocchiaamalfi.com

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furono deposte con grande concorso di popolo. Lo scrittore e cronista Gregorio di Tours (VI secolo) racconta che nel giorno della festa dell’apostolo, sulla sua tomba a Patrasso, si formava una sostanza miracolosa, in parte liquida e in parte granulosa, che veniva chiamata «manna» e che gli ammalati bevevano o utilizzavano come unguento curativo. L’evento prodigioso si sarebbe verificato anche dopo il trasferimento delle reliquie da Patrasso a Costantinopoli. Il 29 novembre 1304, quasi cento anni dopo la traslazione nella città campana, nella cripta della Cattedrale amalfitana, gremita di fedeli, un anziano pellegrino con una lunga barba bianca – per alcuni lo stesso Andrea apostolo – avrebbe visto riprodursi il miracolo della manna, che da allora si ripete costantemente.

BENEVENTO

LE OSSA DI SAN BARTOLOMEO Cattedrale di Maria Santissima Assunta Info www.diocesidibenevento.it

D

opo il martirio per scuoiamento – subíto nella città di Albanopoli nel 507 –, le spoglie dell’apostolo Bartolomeo furono trasferite a Darae (Anastasiopoli) per volere dell’imperatore Anastasio I (491-518). Il vescovo Vittore di Capua (V secolo), nel Codice Fuldense, le dice in Frigia nel V secolo, a Lipari nel VI e a Benevento a partire dal IX. Gregorio di Tours narra che le sue ossa sarebbero state gettate in mare con il sarcofago, per bloccare l’enorme afflusso di cristiani presso la sua tomba, e poi portate dalla corrente fino all’isola siciliana di Lipari, nelle Eolie. Piú tardi, il monaco e poi santo Teodoro Studita (VIII secolo) e lo scrittore bizantino Niceta Paflagone (IX secolo) narrarono di un loro trasferimento a Benevento, a seguito dell’invasione 122

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A sinistra Il martirio di san Bartolomeo, olio su tela attribuito a Petruccio Perugino (al secolo Pietro Montanini). XVII sec. Todi, chiesa dei Cappuccini. A destra Salerno, Duomo. L’altare maggiore della cripta, nella quale è compreso il sepolcro di san Matteo. L’aspetto attuale è frutto degli interventi seicenteschi condotti da Domenico Fontana e dal figlio Giulio Cesare, ma la struttura doveva essere già completa quando, nel 1081, vi furono deposte le reliquie dell’evangelista e di altri martiri. musulmana dell’isola. Gli invasori avrebbero gettato in mare le ossa dell’apostolo, ormai venerato nell’isola come patrono, ma queste si sarebbero di nuovo salvate, riportate a riva dalla marea. Nell’838, l’apostolo sarebbe apparso in visione al monaco Bertario di Montecassino, invitandolo a spingere il principe Sicardo di Benevento a recuperare le sue ossa disperse sulle spiagge dell’isola. Fu cosí che esse approdarono a Benevento, dove furono collocate provvisoriamente in S. Lorenzo extra moenia e poste quindi nella chiesa costruita per ospitarle e a lui intitolata, dove ancora si venerano. Nel Medioevo, molti principi e imperatori provarono a farsi consegnare dai Beneventani frammenti del corpo di Bartolomeo: l’imperatore Ottone III, nel 983, ne depose alcuni nella chiesa romana di S. Bartolomeo sull’Isola Tiberina; nel 1026, a seguito dell’acquisizione di alcune reliquie inviate da Benevento, fu edificato a Limoges il monastero dedicato a san Bartolomeo; in Francia, nacque quello di Bénéventl’Abbaye, che mantiene nell’intitolazione traccia della provenienza delle sue reliquie; a partire dal 1238, parte della calotta cranica del santo fu invece portata nel duomo dedicato a san Bartolomeo a Francoforte; nel 1249, quando Benevento venne distrutta dagli imperiali, le sue reliquie furono nascoste dai monaci di Cava, ai quali, al ristabilimento della pace, fu lasciata un’altra porzione del cranio.

SALERNO

IL CORPO DI SAN MATTEO Duomo Info www.cattedraledisalerno.it

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econdo la tradizione, il corpo di san Matteo, apostolo ed evangelista, è conservato a Salerno, nella Cattedrale della città, da piú di mille anni. Vi sarebbe stato portato dal duca longobardo Gisulfo, il quale si distinse per aver fatto assurgere la città (all’epoca inserita nel ducato longobardo di Benevento), al ruolo di porto ducale, ampliandola e quasi rifondandola del tutto. Come per altri apostoli, le reliquie di san Matteo sono rivendicate da

molte città e le fonti antiche riportano diverse versioni. Secondo alcuni, il corpo di Matteo, martire in Etiopia, tre secoli dopo la morte sarebbe stato trasportato da mercanti bretoni a Legio, città della Bretagna occidentale. Rimasto lí per quarant’anni, nel 452 avrebbe fatto parte del bottino di guerra del comandante imperiale Gavinio, che guidò una spedizione punitiva contro gruppi di ribelli bretoni. Egli avrebbe quindi condotto le reliquie nella sua città natale, Velia, in Campania, dove furono venerate per lungo tempo. Con il passare dei secoli, però, in seguito a crisi militari e a fenomeni naturali, la città di Velia si spopolò RELIQUIE

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e fu abbandonata; e perfino la memoria della tomba dell’apostolo fu dimenticata. Nel 954, però, Matteo sarebbe apparso in sogno a una donna residente nel circondario, Pelagia, alla quale avrebbe fornito indicazioni sull’ubicazione della sua tomba, pregandola di spingere il monaco Atanasio a cercare il suo corpo. Quest’ultimo, avido di denaro, una volta trovate le reliquie, progettò di venderle prima in Oriente e poi a Roma. Improvvise e prodigiose tempeste gli avrebbero tuttavia impedito di realizzare il suo proposito. Costretto, dunque, a conservare i resti di Matteo, Atanasio li depose infine in una chiesa dedicata alla Vergine, non lontano da Velia. Dopo complesse vicende, il principe Gisulfo, venuto a conoscenza del loro ritrovamento, decise a sua volta di deporle nella città di Salerno, dove giunsero il 6 maggio del 954, suscitando grande devozione e concorso di popolo.

PUGLIA BARI

LA MADONNA ODIGITRIA Cattedrale Info www.arcidiocesibaribitonto.it

L’

icona della Madonna Odigitria, fino ad allora venerata a Costantinopoli, giunse a Bari in seguito alla decisione di Leone III l’Isaurico di distruggere tutte le immagini sacre, facendosi promotore del fenomento passato alla storia con il termine di «iconoclastia». Il ritratto si trova oggi nella cripta della Cattedrale di Bari e la sua realizzazione viene tradizionalmente assegnata all’evangelista Luca. Dapprima venerata a Gerusalemme, l’icona fu trasferita dall’imperatrice Pulcheria (V secolo) nella capitale dell’impero romano d’Oriente, dove venne conservata nella basilica sulla via Odilonica (la «strada retta»), che diede all’immagine il nome di Santa Maria Odigitria («che mostra la via», dal greco odos, «via» ed egheomai, «condurre»).

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In alto Bari, Cattedrale. L’icona della Madonna Odigitria («che mostra la via»), la cui presenza è attestata nel capoluogo pugliese dal XII sec. All’indomani del suo arrivo, il Capitolo della Cattedrale dispose, all’interno della cripta, la realizzazione dell’altare sul quale è tuttora collocata. Per preservarla dall’iconoclastia, i monaci che la custodivano avrebbero deciso, come in molti altri casi, di inviarla a Roma, a papa Gregorio III. A partire da tale dato storico, ovvero l’invio a Roma delle icone greche durante lo scoppio della furia iconoclasta, si costruirono numerose leggende che nell’impianto si somigliano tutte: la nave atta a trasportare la preziosa tavola incontra sempre una fatidica tempesta che le fa cambiare rotta. In questo caso, l’approdo fortunoso nel porto di Bari diviene la destinazione finale della reliquia in luogo della sede pontificia. La presenza dell’icona nel capoluogo pugliese è attestata con certezza a partire dal XII secolo, quando le fonti liturgiche ci segnalano l’istituzione della festa a essa dedicata.

Qui sopra Bari. La basilica di S. Nicola, che conserva i resti del santo, prelevati da una spedizione barese a Myra (nell’odierna Turchia). Nella pagina accanto Bari, basilica di S. Nicola. Ritratto ad affresco del santo. XII sec. Nel 1099, anche una missione veneziana si recò a Myra e annunciò di aver recuperato altri resti: recenti indagini hanno provato che potrebbero appartenere allo stesso individuo di cui si conservano le spoglie a Bari.


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Italia del Sud e isole A sinistra Bari. La statua di san Nicola che ogni anno viene esposta e portata in processione in occasione delle solenni celebrazioni in onore del santo. secoli una venerazione continua. Pochi anni dopo l’incursione barese – nel 1099 – anche i Veneziani approdarono a Myra, dove fu loro indicato il sepolcro vuoto del santo, dal quale i Baresi avevano trafugato le ossa. Secondo quella che per molti secoli venne ritenuta una mistificazione dei Veneziani, essi vi avrebbero trovato, ancora nascosti, alcuni frammenti, che si affrettarono a traslare in patria e deporre nell’abbazia di S. Nicolò del Lido, all’imbocco della laguna. Da quel momento, san Nicolò divenne a pieno titolo protettore della flotta della Serenissima e la chiesa a lui dedicata fu scelta come tappa finale del rito dello Sposalizio del Mare. Ricognizioni effettuate sulle reliquie – a Bari nel 1956 e a Venezia nel 1992 – dimostrarono che i resti conservati nelle due città sono, in realtà, compatibili e potrebbero davvero appartenere alla stessa persona. In età moderna, il culto del san Nicola benefattore dei bambini fu esportato a New York – all’epoca New Amsterdam – da coloni olan-

BARI

I RESTI DI SAN NICOLA Basilica di S. Nicola Info www.basilicasannicola.it

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enerato sia dalla Chiesa cattolica che da quella ortodossa, san Nicola è una figura storicamente attestata. Fu vescovo di Myra, in Licia (nei pressi dell’odierna Demre, sulla costa meridionale della Turchia), dove morí presumibilmente il 6 dicembre del 343. Già in vita gli furono attribuiti numerosi miracoli, che lo resero popolare soprattutto come benefattore dei bambini. Le sue spoglie furono conservate, con grande devozione, nella cattedrale di Myra, fino al 1087, anno in cui la città 126

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cadde, di nuovo, in mani musulmane. Sebbene ciò non comportasse una minaccia per la sua tomba, affrettò, nondimeno, i progetti di Bari e di Venezia, desiderose di impadronirsi delle sue reliquie. I Baresi arrivarono per primi: una spedizione composta da 62 marinai e da alcuni sacerdoti, partita con tre navi per il trasporto dei cereali, deviò su Myra, costringendo i custodi del sepolcro a consegnare loro le spoglie del santo. L’arrivo del corpo di Nicola fu accolto il 9 maggio del 1087 dalla città di Bari, in festa. Due anni piú tardi, la cittadinanza faceva consacrare una nuova chiesa intitolata al santo, nella quale furono sistemate le sue reliquie, che ricevettero nei


desi, con il nome di «Sinterklaas», che nel corso del XIX secolo si trasformò in Santa Claus, dando origine alla figura di Babbo Natale.

MONTE SANT’ANGELO (FOGGIA) L’IMPRONTA DI SAN MICHELE ARCANGELO Santuario di S. Michele Arcangelo Info www.santuariosanmichele.it

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’affermarsi, nel territorio campano-pugliese, del ducato longobardo di Benevento non poteva non avere riflessi sulla vita religiosa e sui culti locali. I nuovi dominatori riadattarono il culto germanico di Odino – dio della guerra, nonché protettore degli eroi e dei guerrieri nell’aldilà – a quello di san Michele, l’angelo che difende, spada in pugno, la fede in Dio contro le orde di Satana. Epicentro del culto micaelico presso i Longobardi fu il santuario di Monte Sant’Angelo, nel Gargano, dal quale s’irradiò poi in tutto il regno longobardo con una serie di santuari costruiti sul modello di quello pugliese; l’arcangelo guerIn basso, sulle due pagine la Sacra Grotta del santuario di S. Michele Arcangelo a Monte Sant’Angelo.

riero fu presto considerato il santo patrono dell’intero popolo. Poiché il culto di Odino si situava sempre in luoghi naturali, posti in altura o all’interno di grotte, l’affermazione del culto micaelico pugliese fu particolarmente favorita dalla morfologia del sito garganico, formato da una grotta naturale che si erge su uno sperone di roccia a strapiombo sul mare, già sede di culti in età preistorica e nel periodo tardo-antico. A partire dal VII secolo, il santuario iniziò ad attirare pellegrini da ogni parte d’Europa e, in questo periodo, oltre al reiterarsi delle apparizioni dell’arcangelo, se ne sarebbe scoperta l’orma del piede impressa nella roccia. Per i duchi longobardi, desiderosi di integrarsi con le popolazioni conquistate attraverso il passaggio alla confessione cristiana di rito romano, il santuario ebbe soprattutto la funzione di favorire la conversione del proprio popolo, grazie alla ricordata vicinanza iconografica e funzionale tra Michele Arcangelo e le divinità pagane del pantheon germanico. Prodigi e apparizioni – voli di aquile smisurate, tuoni e fulmini anche nei giorni di sole – continuarono a segnalare la presenza dell’arcange-

lo sul suggestivo monte, nella cui grotta trasudava acqua dalle presunte virtú terapeutiche e miracolose; con le loro munifiche donazioni, i pellegrini resero il santuario uno dei piú famosi luoghi di devozione altomedievale, suscitando la nascita di una basilica atta a ospitare le solenni celebrazioni del 29 settembre, festa che nel calendario romano è dedicata appunto all’arcangelo con la spada.

SICILIA

MESSINA

IL SACRO CAPELLO E LA MADONNA DELLA LETTERA Duomo Info www.diocesimessina.it

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econdo un’antica tradizione della chiesa messinese, nel 42 d.C., il Senato della città avrebbe inviato una delegazione a Gerusalemme per comunicare a Maria la volontà di convertirsi al cristianesimo. Della conversione si sarebbe reso garante l’apostolo Paolo, accompagnando la delegazione messinese dalla Vergine. I delegati avrebbero fatto ritorno l’8 settembre, recando una lettera vergata dalla stessa Maria – la quale assicurava la sua speciale protezione sulla città –, legata con una ciocca

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Italia del Sud e isole dei suoi capelli. La missiva sarebbe stata tradotta dall’ebraico nel XV secolo, dall’umanista bizantino Costantino Lascaris (1434-1501). In essa compariva la formula «Vos et ipsam civitatem benedicimus», successivamente adottata come una sorta di motto cittadino e posta alla base della statua della Madonna all’ingresso del porto. Nel Medioevo la lettera e la ciocca di capelli divennero oggetto di contesa: esse costituivano motivo di orgoglio per Messina, ma, grazie a esse, si intendeva anche formulare una pretesa di supremazia rispetto alle altre città siciliane: una simile rivendicazione non poteva essere accettata, in particolare, da Palermo, che obiettò – con argomenti piú che solidi – che la lettera fosse un falso di età bizantina. Ciononostante, ogni 3 giugno, a Messina si celebra la festa della Madonna «della Lettera», portando in processione il reliquiario del Sacro Capello. Uno di questi capelli è venerato a Palmi, in Calabria, dove sarebbe stato inviato come ringraziamento, da parte dei Messinesi, per l’aiuto dato alla città in occasione della terribile peste del 1575.

CATANIA

SANT’AGATA Basilica cattedrale di S. Agata Vergine e Martire Info www.cattedralecatania.it

S

In alto La Madonna della Lettera, dipinto di Onofrio Gabrieli. 1658-1662. Siracusa, chiesa del monastero di S. Maria. A destra particolare del reliquiario del Sacro Capello di Palmi, città che l’avrebbe ricevuto in dono dai Messinesi. 128

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econdo la Passio, composta nella seconda metà del V secolo, Agata sarebbe nata a Catania da una nobile famiglia di confessione cristiana, intorno al 230. Tra il 250 e il 251, divenne proconsole della città Quirino, il quale si fece volenteroso interprete della persecuzione promossa dall’imperatore Decio. Agata sarebbe stata allora arrestata e brutalmente torturata. La tradizione vuole che le siano state strappate le mammelle, ricresciute prodigiosamente grazie all’intervento di


san Pietro. Nell’iconografia medievale la santa è spesso rappresentata col vassoio recante i seni strappati. Dopo il supplizio, la donna morí in carcere il 5 febbraio 251. Tumulato nelle catacombe cristiane presso la collina di San Domenico, il suo corpo fu in seguito portato nella chiesa di S. Maria di Betlemme, per poi essere di nuovo trasferito, tra il IV e il V secolo, nella chiesa di S. Agata la Vetere. Nel V secolo sant’Agata era venerata sia in Oriente che in Occidente, e inserita nel canone religioso di Roma, Milano e Ravenna. All’arrivo degli Arabi, i Bizantini posero in salvo le sue reliquie, portandole a Costantinopoli. Nel 1126, però, due soldati bizantini le ricondussero in Sicilia, consegnandole al vescovo di Catania, Maurizio, che le depose nel castello di Aci. Da lí, il 17 agosto 1126, le reliquie rientrarono definitivamente In alto capolettera miniato di Sano di Pietro raffigurante il martirio di sant’Agata. 1470-1473. New York, The Metropolitan Museum of Art. A sinistra Catania. Il reliquiario in cui si custodiscono parte del cranio, del torace e alcuni organi interni di sant’Agata. nella Cattedrale di Catania, dove sono tuttora conservate in reliquiari antropomorfi trecenteschi; nel mezzobusto in argento si custodiscono parte del cranio, del torace e alcuni organi interni; in uno scrigno del Quattrocento, invece, si conservano braccia, mani, gambe, piedi, una mammella e il velo. La seconda mammella si troverebbe a Galatina, presso Lecce, dove l’avrebbero lasciata i due soldati bizantini, in segno di riconoscenza per l’ospitalità ricevuta. Il velo è da sempre considerato un potente talismano contro le minacce dell’Etna. Già nel V secolo, il sepolcro e l’altare in onore di Agata erano coperti da un velo chiamato «glimpa», invocato contro le eruzioni dell’irrequieto vulcano. RELIQUIE

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