Medioevo Dossier n. 15, Luglio 2016

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Dossier

SULLE VIE DEI

PELLEGRINI IN VIAGGIO TRA FEDE E AVVENTURA ♦

€ 7,90 N°15 Luglio 2016 Rivista Bimestrale

SULLE VIE DEI PELLEGRINI

My Way Media Srl - Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c.1, LO/MI.

MEDIOEVO DOSSIER

EDIO VO M E

A Gerusalemme sui luoghi della Passione ♦ Miracoli, tombe e reliquie ♦ Tutte le chiese di Roma ♦ 1300. Il primo Anno Santo ♦ A Santiago in nome dell’apostolo ♦ Sulle orme dell’arcangelo Michele



SULLE VIE DEI

PELLEGRINI a cura di Francesco

Colotta

testi di Andrea Augenti, Anna Benvenuti, Vito Bianchi, Vincenzo Calò, Amedeo De Vincentiis, Domenico Gambardella, Marina Montesano, Renata Salvarani 6 Presentazione Tra devozione e avventura Terra Santa 10 Sui luoghi della Passione 12 «Stranieri» di Dio 18 La piú venerata delle tombe 36 Santi, prodigi e altre storie

70 Turisti per fede Santiago de Compostela 76 Cercando il «campo stellato» 80 Nel nome dell’apostolo 94 Dai Pirenei alla Galizia

Roma

Santuari micaelici

44 Pietro, un richiamo irresistibile

104 L’arcangelo vittorioso

46 Le vie dei «romei»

106 Tra Roma e Gerusalemme

52 1300: il primo Anno Santo

116 Un baluardo sul mare

62 Una città e le sue chiese

124 Michele in Val di Susa


PELLEGRINAGGIO

Presentazione

Pistoia, Ospedale del Ceppo. Alloggiare i pellegrini, uno dei pannelli del fregio in terracotta dipinta e invetriata realizzato da Santi di Buglioni che illustra le Sette Opere di Misericordia. 1526-1528.


Tra devozione e avventura I

l viaggio verso un luogo santo fu sempre al centro dell’immaginario collettivo nell’Età di Mezzo ed era uno dei momenti piú intensi dell’esperienza dell’uomo medievale. Ricostruire in modo compiuto gli itinerari degli antichi pellegrinaggi cristiani è compito arduo. Infatti, l’antologia documentaria sui viaggi devozionali – soprattutto per quel che riguarda le destinazioni meno note – risulta spesso incompleta nei riferimenti bibliografici. Tuttavia, con questo Dossier, «Medioevo» intende fornire ai propri lettori un quadro ampio ed esauriente del fenomeno, dedicando spazio anche ai luoghi meno frequentati. Il «romanzo dei viaggi» che raccontiamo in queste pagine non riveste un contenuto solo devozionale e penitenziale, ma ripercorre anche le rivoluzioni politiche che si agitavano sullo sfondo dei cammini della fede. Questa narrazione itinerante segue le tracce dei cambiamenti epocali dei regni e delle comuni abitudini di vita attraverso gli occhi dei viandanti. Perché il pellegrinaggio – come ha osservato lo storico Giovanni Cherubini – costituisce una sorta di «grimaldello per penetrare nel profondo della società medievale, in molti dei suoi aspetti mentali e materiali». Viaggiare alla volta dei luoghi santi fu un’esperienza di fede che mobilitò migliaia, se non milioni, di uomini. Ma che cosa spingeva masse di persone ad avventurarsi in spedizioni rischiose, dalle quali talvolta non tornavano piú? Certamente il bisogno di espiare i peccati e di ottenere un aiuto, magari una guarigione. Studi recenti, però, hanno evidenziato un aspetto piú «intimo» del pellegrinaggio, che spesso coesisteva con una motivazione profana. Si partiva per cercare un rapporto diretto, vissuto da protagonisti, con il trascendente, visitando i luoghi di Cristo e dei grandi martiri, ma, nello stesso tempo, si era irretiti dallo spirito di evasione, dalla curiosità di vedere «cosa c’era al di là della collina». È indubbio, comunque, che le notizie sul manifestarsi di miracoli provenienti dai luoghi santi abbiano svolto un ruolo determinante nella moltiplicazione delle destinazioni. Accanto a Roma, Santiago de Compostela e Gerusalemme, proliferarono itinerari verso città o anche piccoli villaggi che vantavano il possesso delle reliquie di santi piú o meno celebri. A partire dal XIV secolo la dimensione dell’«avventura» si manifestò con maggiore evidenza. E fu in parte testimoniata dalla pubblicazione del misterioso manoscritto I Viaggi di sir John Mandeville, che invitava i lettori a seguire la strada dei pellegrini perché «molti uomini provano un grande piacere a sentir parlare di Paesi diversi». Il tramonto del pellegrinaggio coincise con l’affermarsi dell’umanesimo cristiano del Quattrocento. Al posto della devozione per le reliquie e i santuari, stroncata spesso come deriva superstiziosa, si incoraggiavano pratiche piú utili per la vita sociale: la carità, i doveri educativi. All’orizzonte si profilava la Riforma che condannò le visite ai luoghi santi lontani come una tradizione pagana, restauratrice dell’idolatria: «Accade che un uomo – accusò Martin Lutero – compia il pellegrinaggio a Roma, spenda cinquanta, cento fiorini, a volte di piú, a volte meno, senza che nessuno glielo abbia ordinato, e lasci a casa la moglie, i figli o, perlomeno, il suo prossimo alle prese con la miseria». Ma i cammini della fede tornarono in seguito ad affollare quegli stessi itinerari tracciati nel Medioevo, come del resto accade ancora oggi.

DOSSIER PELLEGRINAGGIO

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PELLEGRINAGGIO

Presentazione

I PERCORSI PRINCIPALI Cartina dell’Europa e del Vicino Oriente nella quale sono indicati gli itinerari dei pellegrinaggi piú importanti e le principali città toccate dai diversi percorsi. In basso un pellegrino, particolare di una miniatura da Les Trois Pèlerinages di Guillaume de Digulleville. 1355. Parigi, Biblioteca di Sainte-Geneviève.

Stoccolma

Amburgo Brema

Northampton

Wilsnack

Londra Brugge Canterbury Gent Colonia 6 Calais Ypres

Lipsia

Francoforte

Parigi Provins Chartres Bar-sur-Aube Troyes 5 Offenburg Vezelay

Oceano Atlantico

Santiago de Compostela

Lione

Bordeaux

3

Le Puy Tolosa

Ginevra Milano

Beaucaire Marsiglia

Saragozza

Danzica

Lubecca

Friburgo

Vierzehnheiligen Cracovia Norimberga Eichstätt Vienna

Verona Venezia

Tersatto

Piacenza Genova Lucca Firenze Siena

Montserrat Barcellona

Breslavia

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4

Monte Sant'Angelo Roma Barletta Bari

Sardegna

Sicilia

AFRICA 8

DOSSIER PELLEGRINAGGIO

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DOSSIER PELLEGRINAGGIO

Mar Mediterraneo


1. Gerusalemme

Novgorod

Sulla collina del Golgota sorge la Basilica del Santo Sepolcro, fatta erigere da Costantino e dalla madre Elena nel IV secolo, per venerare il luogo della morte e resurrezione di Cristo.

Riga

2. Roma

La basilica di S. Pietro, iniziata da Giulio II nel 1506 e consacrata nel 1626 da Urbano VIII, sorse sui resti della basilica eretta da Costantino sulla tomba dell’apostolo. La basilica di S. Giovanni in Laterano, consacrata agli inizi del IV secolo da papa Silvestro I e madre di tutte le chiese della cristianità. Il Giro delle Sette Chiese, itinerario tradizionale poi formalizzato da San Filippo Neri nel XVI secolo.

Kiev

3. Santiago de Compostela

La cattedrale di S. Giacomo, consacrata nel 1211, si erge sulla tomba dell’apostolo. Grande centro devozionale, nell’XI secolo fu il fulcro della ricostruzione della città dopo la distruzione operata da Al Mansur.

EUROPA

Mar Nero

4. Monte Sant’Angelo

Il Santuario di Monte Sant’Angelo sul Gargano è importante meta di pellegrinaggi fin dal V secolo. Papa Gelasio I (492-496) vi fece costruire una basilica in conseguenza delle numerose apparizioni dell’Arcangelo Michele intorno al 490, riportate anche nella Legenda Aurea.

ASIA

Costantinopoli Tessalonica

Efeso

Seleucia

Antiochia

Tripoli Damasco

Candia

1 Gerusalemme Alessandria

5. Chartres

La Cattedrale di Notre-Dame, fu costruita tra il 1145 e il 1250. Considerata uno degli esempi migliori dello stile tardo gotico, è patrimonio dell’UNESCO dal 1979.

6. Canterbury

Grande centro della predicazione benedettina in Inghilterra. Nella cattedrale di Christ Church si consumò, nel 1170, l’assassinio dell’arcivescovo Thomas Becket.

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TERRA SANTA

Introduzione

Sui luoghi della passione Gli itinerari devozionali in Terra Santa hanno origini antichissime, legate all’epoca delle tribú d’Israele. Solo all’indomani della conversione di Costantino, però, hanno inizio i primi pellegrinaggi, indirizzati, innanzitutto, al Santo Sepolcro

Il volto di Cristo in uno dei mosaici che ornano la Cappella del Calvario, nel Santo Sepolcro di Gerusalemme, considerato il luogo in cui avvenne la crocifissione di Gesú. XII sec.

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n Terra Santa le strade del pellegrinaggio erano percorse fin dall’età antica, per la precisione dall’epoca dei «Giudici», compresa tra il 1200 e il 1050 a.C., alla quale risale la prima testimonianza di un viaggio religioso, citata nella raccolta di leggi chiamata Codice dell’Alleanza. Sebbene fossero unite dalla fede nello stesso Dio, le tribú israelite, frequentavano santuari diversi: i piú noti erano Galgala, Bersabea, Sichem, Silo e Betel. Con le conquiste militari di Davide, nel 1000 a.C., e la liberazione dell’intera terra d’Israele, Gerusalemme divenne la capitale religiosa del «popolo eletto». Nella città trovò collocazione l’Arca dell’Alleanza, la celebre scatola di legno costruita da Mosè nella quale erano contenute le Tavole della Legge di Dio. In seguito anche le tre feste di pellegrinaggio furono spostate a Gerusalemme, acquisendo un valore vitale per la comunità. Israele, però, non era piú libera e attraverso quei riti gli Ebrei tenevano in vita le loro tradizioni, minacciate dalla dominazione babilonese. Il pellegrinaggio ebraico a Gerusalemme rivestiva un significato diverso rispetto alle manifestazioni devozionali delle altre religioni: si andava al tempio non per placare l’ira della Provvidenza o per ottenere vantaggi, ma per mettere in pratica le norme contenute nel dettato divino. Non si trattava, quindi, di un percorso devozionale, ma morale: solo il giusto e chi aveva il cuore puro poteva superare le porte del tempio. Non bastava invocare Dio per poterlo compiacere. La morte e la resurrezione di Gesú attirarono a Gerusalemme i primi gruppi di fedeli cristiani, ma in gran parte nella veste di «studiosi», interessati a rintracciare documenti e testimonianze storiche nel luogo della Passione. Il cristianesimo delle origini non invitava, infatti, i credenti ad accorrere nel luogo in cui il Messia era vissuto, ma li spingeva ad andare in giro per il mondo a predicare la sua parola seguendo un itinerario «centrifugo». La svolta verso la nascita di un pellegrinaggio organizzato si palesò con la conversione dell’imperatore Costantino che, insieme alla madre Elena, aveva patrocinato la ricerca delle reliquie di Gesú in Terra Santa e la costruzione della chiesa del Santo Sepolcro. La presenza dei Vandali nel Mediterraneo durante il V secolo e la conquista araba di Gerusalemme nel 638 comportarono un calo vertiginoso dell’afflusso dei pellegrini. Solo nel IX secolo, grazie alla protezione di Carlo Magno, i cristiani tornarono in massa a visitare la Terra Santa, favoriti anche dalla tolleranza dei sovrani arabi, che traevano profitti commerciali notevoli dall’arrivo di viaggiatori dall’Europa. Con la conversione dell’Ungheria, il percorso verso la Terra Santa divenne piú agevole e poteva essere intrapreso anche per via di terra, passando per Costantinopoli. L’XI secolo comportò una brusca interruzione degli accessi cristiani al Santo Sepolcro a causa della linea politica dei nuovi padroni di Gerusalemme, i Turchi selgiuchidi, meno tolleranti degli Arabi nei riguardi degli «infedeli». Poi fu il tempo delle crociate, che iniziarono proprio come un pellegrinaggio.

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TERRA SANTA

I primi pellegrini cristiani

«Stranieri di Dio»

L’avvento del cristianesimo porta con sé la pratica del viaggio devozionale a Gerusalemme. In molti suoi aspetti, esso riprende piú antiche tradizioni pagane, manifestando affinità significative con usanze analoghe, diffuse presso altre grandi religioni

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DOSSIER PELLEGRINAGGIO


di Anna Benvenuti

F

in dall’antichità, nell’area meridionale del Mediterraneo, esistevano santuari consacrati a varie divinità, i cui sacerdoti avevano il compito di interpretare gli oscuri messaggi degli dèi. Sebbene nella lingua greca non esistesse un termine che poteva tradursi con «pellegrinaggio», la presenza di un tale costume devozionale era sintetizzata nella parola theoria, la processione sacra verso i santuari piú importanti: Delfi, Epidauro, Delo, Pergamo ed Eleusi. In questo contesto geografico e culturale si diffuse il cristianesimo, che dalla religiosità greco-romana ereditò atteggiamenti e pratiche di culto. La classicità aveva cercato di avvicinarsi al capriccioso mondo delle sue divinità, olimpicamente indifferenti al destino degli uomini, mentre il cristianesimo intendeva contrapporre alla dimensione mitica del culto pagano la commemorazione delle proprie origini storiche, conservando inoltre il senso della propria diversità dalla

Nella pagina accanto, nel riquadro Anagni, cripta della Cattedrale. Particolare del ciclo affrescato dell’Arca dell’Alleanza, che ne raffigura il passaggio attraverso le cinque città cananee: Ashdod, Gaza, Ascalon, Gat, Ekron. Prima metà del XIII sec. Sulle due pagine la Cappella della SS. Trinità, eretta in cima al Monte Sinai, in Egitto, negli anni Trenta del Novecento, su un piú antico luogo di culto del IV sec.

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TERRA SANTA Roma, chiesa dei Ss. Quattro Coronati, cappella di S. Silvestro. Affresco raffigurante Elena, madre dell’imperatore Costantino, che scopre la croce di Cristo a Gerusalemme. 1246.

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I primi pellegrini cristiani

religione ebraica, con la quale, peraltro, condivideva molti valori e simboli, a cominciare dalla città santa. Tuttavia, la Gerusalemme cristiana non era quella terrena, teatro passivo della Passione di Cristo, bensí la città celeste che l’apostolo Giovanni, nell’Apocalisse, aveva visto discendere dal cielo risplendente della gloria di Dio: la città dei giusti e dei santi, verso la quale si indirizzava la nostalgia dei credenti che si sentivano esuli e pellegrini in terra straniera, perché lontani dalla «casa del Padre», meta ultima del loro errare (in origine la parola peregrinus significava, infatti, «estraneo», «straniero», e ben si adattava alla condizione del cristiano che, sentendosi cittadino del Cielo temporaneamente confinato nella terrena valle di lacrime, anelava alla purificazione e al ritorno alla patria celeste). I pochi pellegrini che, nei primi secoli dell’era cristiana, raggiungevano Gerusalemme, in gran parte distrutta dall’imperatore Tito nel 70 d.C.,

erano motivati da una curiosità devozionale che li spingeva a cercare, nel contatto fisico con i luoghi già testimoni del messaggio evangelico, una conferma alla loro fede. Tra questi credenti ben pochi partivano disponendo di mezzi idonei per il viaggio: la stragrande maggioranza si muoveva a piedi, ed era facile morire per la strada; senza contare che l’itinerario verso i luoghi santi era reso difficoltoso anche da motivi di ordine politico, poiché le autorità romane non vedevano di buon occhio l’afflusso di questi devoti nostalgici a quella città in cui, a partire da Tito, si era voluto «cancellare» ogni traccia della identità nazionale di Israele.

Un nuovo baricentro

La prima massiccia ondata di pellegrini diretti ai luoghi santi si verificò in età costantiniana, quando il cristianesimo divenne religione ufficiale dell’impero e iniziò la sua vicenda istituzionale. Inoltre, il trasferimento della capitale


da Roma a Costantinopoli determinava un generale spostamento verso est dell’impero, favorendo un rinnovato interesse per le coste asiatiche del Mediterraneo che, insieme a tutta la parte orientale, rappresentava ormai l’area economicamente e culturalmente piú avanzata del dominio romano. A questo periodo risale, grazie all’attività archeologica di sant’Elena, madre di Costantino, la ricerca di quella Gerusalemme

DA ASCLEPIO ALLA VERGINE MARIA Dalla piú remota antichità è attestato l’uso di recarsi a un tempio nel quale una divinità «specializzata» assicurava ai malati la guarigione. Nel mondo greco conobbero particolare fortuna i santuari di

Epidauro e Pergamo, entrambi dedicati ad Asclepio, dio della medicina. Nel mondo cristiano sopravvissero anche le credenze relative ai poteri purificatori di certe acque e si mantennero consuetudini devozionali legate alla sacralità idrica. Alla virtú di alcune fonti, ritenute utili all’allattamento, si rivolgevano le donne in attesa di partorire o subito dopo il parto. Attraverso la continuità di questi usi, le divinità del mondo pagano che presiedevano alle sorgenti salutari cedettero il posto alla Vergine Maria, la «madre» che si invoca durante il puerperio. Questo adattamento cristiano trovò il suo apice nel Quattrocento, determinando la fortuna del culto della Vergine nelle campagne, dove si moltiplicarono i santuari mariani cari all’uso del pellegrinaggio.

Reliquiario della Vera Croce, in legno dorato decorato con cristallo di rocca e pietre semipreziose, dall’abbazia di Valasse (Normandia). XII sec. Rouen, Musée Departemental des Antiquites. Secondo la tradizione, dopo il ritrovamento, i frammenti della Croce di Cristo, furono distribuiti da Costantinopoli in Europa.

cristiana scomparsa in seguito alla distruzione di Tito e alla trasformazione urbanistica voluta da Adriano. Elena, col miracoloso ritrovamento della Vera Croce, e il conseguente impulso dato al suo culto, pose le basi per l’identificazione dei primi «luoghi sacri»; avviando la sistemazione architettonica delle grandi basiliche, da quella del Santo Sepolcro a quella della Natività di Betlemme, l’imperiale pellegrina dava il via, oltre che DOSSIER PELLEGRINAGGIO

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TERRA SANTA

I primi pellegrini cristiani

A OGNUNO IL SUO SANTUARIO Il pellegrinaggio come fenomeno religioso ha privilegiato nel tempo e nello spazio luoghi differenti: alcuni sono consacrati a una sola religione (come La Mecca), ma altri, come Gerusalemme, sono frequentati da credenti di diversa professione. La stessa pluralità di fedi si incontra al Picco di Adamo a Ceylon (Sri Lanka) – frequentato da buddhisti, induisti, musulmani e cristiani – o a Goa, alla tomba di San Francesco Saverio, il gesuita spagnolo considerato il primo missionario dell’era moderna. Alcuni santuari, inoltre, sono divenuti aree di incontro «nazionale», come Kiev per la Russia, Santiago de Compostela per la Spagna, Assisi per l’Italia, Czestochowa per la Polonia; altri hanno assolto al ruolo di luogo di culto specializzato per gruppi professionali (come gli aviatori a Loreto) o per categorie distinte (gli ammalati a Lourdes). Carattere specifico del pellegrinaggio è stato quello di svilupparsi sia a piccolo che a medio e grande raggio, creando, nel tempo, una capillare catena di santuari minori o maggiori in tutta l’area culturale delle grandi religioni storiche. Nel mondo non cristiano partecipano della diffusione del pellegrinaggio anche l’India, con la sua piú famosa meta, la città santa di Benares – l’attuale Varanasi, dove milioni di pellegrini si recano annualmente per purificarsi nelle acque del fiume sacro, il Gange –, il Giappone e, soprattutto, il Madagascar, nella cui cultura religiosa esso è particolarmente compenetrato alle consuetudini sociali: va infatti ricordato che in alcuni casi la pratica del pellegrinaggio si è rivelata funzionale agli usi nomadi delle popolazioni.

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DOSSIER PELLEGRINAGGIO

all’edilizia cristiana della città, alla definizione di una topografia sacra della Gerusalemme terrena che, nel corso dei secoli, sarebbe venuta precisandosi, grazie al costume di «cercare» i luoghi di cui i Vangeli o le leggende apocrife tramandavano il ricordo. In questo modo le varie scritture della tradizione cristiana si incardinavano nei luoghi, che si trasformarono in monumenti e tappe di un percorso di commemorazione: cosí dapprima Gerusalemme, poi parte della Galilea e infine le rive del lago di Tiberiade divennero la «Terra Santa». Progressivamente i luoghi della memoria cristiana coincisero sempre piú con la terra del popolo di Israele, dove le orme dei profeti si erano mescolate con quelle degli apostoli, nella sintesi culturale e religiosa dei due Testamenti.

Avvicinarsi alla patria celeste

I pellegrini che raggiungevano la Palestina in questo periodo sovrapponevano alla topografia reale di quei luoghi quella ideale delle Scritture: cosí, per esempio, Eteria, monarca spagnola che alla fine del IV secolo peregrinava per i luoghi santi, lesse ai piedi del monte Sinai i brani dell’Esodo che a esso facevano riferimento. Questa prassi valeva per tutte le tappe di un itinerario che non solo consentiva di meglio comprendere,


Pellegrini indú si bagnano nelle acque del Gange, nella città santa di Benares (attuale Varanasi), la piú importante meta di pellegrinaggio in India.

con il contatto fisico, le Scritture, ma addirittura di riviverle in una sorta di ripetizione rituale che ben presto avrebbe originato una specifica liturgia. I riti che si svolgevano a Gerusalemme durante la Settimana Santa tendevano a rafforzare questa immedesimazione e, anche se il pellegrinaggio di devozione non era ancora nato, il recarsi a Gerusalemme per viverci o per morire significava avvicinarsi spiritualmente a quella patria celeste la cui porta si apriva sulla valle di Giosafat, il luogo in cui si attendeva la concentrazione del giorno del Giudizio. Paradossalmente, questi pellegrini costruirono, con il loro patrimonio culturale e religioso, la «forma» cristiana di Gerusalemme e della Terra Santa tutta, proiettando sui luoghi della tradizione ebraica sconvolta dall’intervento romano la memoria storica e leggendaria del Vangelo. Contemporaneamente, si ponevano anche le condizioni che trasformarono Gerusalemme in un modello universale da trasferire, imitandone i monumenti, nelle lontane periferie del mondo cristiano. Se Elena aveva potuto identificare e ricostruire il Santo Sepolcro appoggiandosi ai dati offerti dal Vangelo, adesso erano i monumenti da lei fatti edificare a divenire il prototipo da imitare in Occidente, un calco su cui riprodurre copie che evocassero, in terre lontane dai luoghi santi, gli stessi valori che là si andavano a cercare. In questo modo la nostalgia che aveva creato la Gerusalemme cristiana animava il tentativo di dare a ogni città d’Occidente lo stesso fondamento sacrale.

La condanna dei Padri della Chiesa

La grande affluenza ai luoghi santi provocò reazioni negative da parte dei Padri della Chiesa, sia latini sia greci: sant’Agostino denunciò apertamente il pellegrinaggio come inutile e dannosa espressione religiosa, cosí come Giovanni Crisostomo o Gregorio di Nissa, che dipinse Gerusalemme come un covo di mercenari e di prostitute nel quale le anime innocenti potevano facilmente compromettere la loro purezza. A dispetto di queste critiche, la fortuna popolare del pellegrinaggio non accennava a diminuire, anzi andava aumentando, incentivata dall’afflusso di reliquie dalla Terra Santa alle chiese d’Occidente. Anche di fronte al problema delle reliquie l’atteggiamento dei Padri non fu affatto univoco: se per taluni, come Prudenzio, esse non potevano sostituire il valore spirituale della visita ai luoghi santi, per altri, come Ambrogio o Basilio, la loro efficacia era fuori discussione, purché ne fosse comprovata l’autenticità. Cosí, in quegli

anni, agli obiettivi devozionali del viaggio d’Oltremare si aggiunse, come scopo non secondario, l’acquisto di reliquie. Con la conquista araba il pellegrinaggio, pur non interrompendosi, ebbe comunque una flessione; tra il VII e il X secolo la navigazione tra Oriente e Occidente – un Occidente sempre piú impoverito, spopolato, ruralizzato – divenne rara e problematica; difficile era anche lo spostarsi a piedi, date la mancanza di vie di comunicazione e l’insicurezza delle strade, specialmente nell’area balcanica percorsa da Slavi, Avari e Ungari.

Il nuovo primato di Roma

La crisi dei rapporti tra Oriente e Occidente significò poco per il primo, che restava la parte piú civile del mondo di allora e in contatto, per giunta, con la grande civiltà asiatica, ma molto per il secondo che dal distacco guadagnò barbarie e provincializzazione. È bene però ricordare che tale distacco non fu mai assoluto: la cristianità occidentale rispetto a quella orientale ed entrambe rispetto all’Islam rimasero mondi comunicanti. Per esempio tutta l’area adriatica, da Venezia al basso corso del Po (navigabile fino a Pavia) e alle coste pugliesi, era una linea di sutura tra Oriente e Occidente dove il commercio internazionale, sia pure limitato a pochi generi di lusso, continuava, e con esso il pellegrinaggio. I tragitti marinari, dunque, per quanto ostacolati dalla pirateria musulmana, continuavano e si svolgevano per piccoli segmenti, da porto a porto, per brevi rotte, sempre in contatto visivo con la costa. Traffici del genere difficilmente potevano essere del tutto interrotti e, segmento dopo segmento, come accade per le carovaniere del deserto, finirono con il collegare punti lontanissimi tra loro. Tuttavia la drastica riduzione dei traffici ebbe pesanti ripercussioni sul movimento dei viaggiatori diretti verso il Levante, favorendo la crescita d’importanza di un altro dei poli storici del cristianesimo: Roma. Se il trasferimento dell’impero aveva innalzato l’oscura Bisanzio al rango di capitale, Roma conservava, accanto al suo decaduto prestigio imperiale, anche il primato dell’eredità apostolica e il privilegio di un’indiscussa superiorità spirituale, fondata sul sangue dei martiri. Da Roma doveva infatti partire un intenso programma di cristianizzazione dell’Occidente che avrebbe giustificato l’uso sempre piú massiccio di reliquie nella fondazione delle chiese d’Europa e anche una progressiva definizione del ruolo del pontefice romano quale unica e sovrana autorità ecumenica. DOSSIER PELLEGRINAGGIO

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TERRA SANTA

Il Santo Sepolcro

La piú venerata delle tombe Da quasi duemila anni, il luogo nel quale culmina la vicenda terrena del Salvatore è oggetto di venerazione. Un fenomeno quasi paradossale, dal momento che si tributa il culto a un’idea, piú che a un luogo concreto. Eppure il richiamo del Santo Sepolcro è, ancora oggi, fortissimo

Miniatura raffigurante il Santo Sepolcro di Gerusalemme, da un manoscritto greco degli Oracula Leonis. XVI sec. Palermo, Biblioteca Comunale. Nella pagina accanto cartina della Terra Santa con i principali luoghi legati alla tradizione cristiana. 18

DOSSIER PELLEGRINAGGIO


di Renata Salvarani

«N

on est ibi». Non è qui. Si concludono cosí le liturgie della Settimana Santa e le Vie Crucis celebrate al Santo Sepolcro a Gerusalemme. Si attualizzano nel tempo vissuto del rito le parole dei Vangeli: «Perché cercate tra i morti Colui che è vivo? Non è qui, è resuscitato. Ricordatevi come vi parlò quando era ancora in Galilea, dicendo che bisognava che il Figlio dell’uomo fosse consegnato in mano ai peccatori, che fosse crocifisso e il terzo giorno resuscitasse» (Lc. 24, 5-7; Mc. 16,6; Mt. 28, 6-7; Gv. 20, 15-18). Queste frasi, proclamate in tutte le lingue, constatano un’assenza e affermano, insieme, che nella teologia cristiana è irrilevante il luogo in cui si adora Dio («Dio è spirito e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità», Gv. 4,24). Eppure la ricerca di quel Luogo, l’ipsissimus Locus, proprio quello che è stato teatro della Crocifissione, della Sepoltura e della Resurrezione continua ad attirare innumerevoli fedeli. Il loro desiderio fisico, la loro voglia di vedere e tastare la stessa terra, la roccia, la pietra che furono toccate dal corpo di Gesú, ha dato origine al santuario piú importante della cristianità.

Una struttura «incomprensibile»

Attraverso i secoli, devozioni, spazi, architetture si sono nutriti di questo paradosso, in un processo di costruzione continua che riflette la vita, le trasformazioni e la complessità dell’ecumene cristiana tutta. Il Santo Sepolcro, cosí come lo vediamo oggi, con la sua struttura composita e incomprensibile, con le sue decorazioni mutilate, con la ricchezza contraddittoria delle sue cerimonie, è il risultato di edificazioni, distruzioni, ricostruzioni che testimoniano la storia della Chiesa di Gerusalemme, nell’intreccio profondo dei suoi rapporti con le altre Chiese, con i popoli del Medio Oriente e del Mediterraneo, con il mondo intero. La sua poligenesi corrisponde a una ricerca di autenticità, al bisogno di individuare i punti dello spazio in cui Dio è entrato nel tempo e nella storia dell’uomo e ha dato vita a forme di devozione che hanno alimentato la sensibilità cristiana. Per questo, ancora oggi ci si chiede: quali sono quei Luoghi? Dov’è il discrimine fra elementi storici e componenti devozionali? A che cosa corrispondono le singole pietre? A quali testimonianze, quali culti, quali liturgie? I Vangeli sinottici indicano che il Golgota e il loculo scavato nella roccia in cui il Corpo del Cristo è stato deposto erano a nord della città, fuori dalle mura, ma poco lontano da queste. SappiaDOSSIER PELLEGRINAGGIO

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TERRA SANTA

Il Santo Sepolcro

mo che divennero ben presto luoghi di venerazione spontanea da parte dei primi discepoli e dei cristiani di Gerusalemme. Non vi furono innalzati edifici veri e propri, ma piccoli santuari differenziati, probabilmente all’aperto, poco piú che segni marcati sulla superficie della terra. Nel 60 d.C. le mura della città furono allargate verso nord e verso ovest e arrivarono a includerli. Le fonti scritte che raccontano l’assedio, la

Due pagine miniate da Historia Anglorum di Matteo Paris, con l’itinerario percorso dai pellegrini da Londra verso Gerusalemme, la rappresentazione delle città attraversate e le indicazioni sulla lunghezza del viaggio. 1250. Londra, British Library.

Qui è riprodotto il castello di Acco, che con la sede dell’Ordine dei Cavalieri Teutonici e quella dei Cavalieri di San Giovanni era una delle piazzeforti piú importanti della città. Poco sopra è indicata la Torre Maledetta, il punto piú vulnerabile del sistema di difesa.

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DOSSIER PELLEGRINAGGIO

In questa parte della pagina è disegnata la città di Acco (oggi San Giovanni d’Acri, in Israele), duramente contesa tra cristiani e musulmani. Numerosi sono i particolari, tra cui, per esempio, il circuito delle mura che cingevano l’abitato e alcune delle torri e delle porte principali.


distruzione e la deportazione degli abitanti sotto il comando di Tito Flavio Vespasiano, nel 70, non fanno menzione di un culto cristiano in quest’area. Sessantacinque anni piú tardi, la creazione di Aelia Capitolina, la città ideale dell’imperatore Adriano, prevedeva la cancellazione dei culti e dei luoghi sacri, sia giudei sia cristiani, che i Romani non riuscivano a distinguere. Cosí un tempio nel quale si venerava un’immagine di

Venere fu innalzato proprio nella zona del Golgota e del Sepolcro, in prossimità del foro settentrionale, alla convergenza degli assi viari principali. Un maestoso edificio dedicato a Giove capitolino fu creato – forse – nell’area del distrutto Tempio. Questa stessa cancellazione, impressa nella memoria della comunità locale per la sua violenza e per la sua imposizione (segue a p. 25)

In questo settore è invece rappresentata la città di Gerusalemme e, in corrispondenza di uno degli angoli del quadrilatero delle mura, è indicato il Santo Sepolcro.

Lungo la costa sono indicate varie località, tra cui Haifa, Château Pèlerin (noto anche come fortezza di Atlit), Cesarea e Giaffa.

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TERRA SANTA

Il Santo Sepolcro

IL SANTO SEPOLCRO E I SUOI RAPPORTI CON IL TESSUTO URBANISTICO Secondo i Vangeli, Gesú venne crocifisso fuori dalle mura di Gerusalemme, ma a poca distanza dalla città, tanto che coloro che vi si recavano per celebrare la Pasqua potevano leggere la motivazione dell’esecuzione: Iesus Nazarenus Rex Iudeorum. Sempre lí nei pressi, in un giardino, si trovava la tomba nuova, scavata nella roccia, che Giuseppe di Arimatea mise a disposizione per accogliere il corpo del Cristo. Le prime devozioni cristiane hanno fissato i due punti in un’area settentrionale, poi inclusa nel perimetro

Pianta della città di Gerusalemme, con l’indicazione dei principali monumenti e luoghi santi. Gli edifici costruiti nel periodo che va da Costantino a Giustiniano furono in gran parte distrutti dall’invasione persiana del 614. Restano, fortemente alterate, le chiese di S. Giovanni Battista e della Tomba della Vergine, entrambe del V sec. Il monumento musulmano piú importante è la Cupola della Roccia, costruita dal califfo omayyade ‘Abd al-Malik tra il 687 e il 691, sulla spianata dell’antico tempio salomonico. Alle epoche omayyade e abbaside risale anche la monumentale Moschea (al-Aqsa). Al periodo della conquista cristiana risalgono la chiesa di S. Anna (1130-40), quella di S. Giacomo (XII sec.) e il rifacimento del Santo Sepolcro. Anche le mura merlate, intervallate regolarmente da torri e da porte, risalgono alla ricostruzione fattane dai crociati.

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DOSSIER PELLEGRINAGGIO

murario, verso il 60 d.C. Nella struttura di Aelia Capitolina, la città ideale dell’imperatore Adriano, nella parte nord era collocato il mercato: l’intero settore urbano ruotava intorno a questo fulcro funzionale. Vi era collegato anche il tempio fatto innalzare in corrispondenza dei santuari cristiani creati sui Luoghi della Crocifissione e Resurrezione. Quest’area divenne, invece, centrale nel riassetto voluto da Costantino, il quale vedeva proprio nel Santo Sepolcro il perno visivo della Gerusalemme cristiana e imperiale.

S. Anna

d S.

Chiesa di S. Marco

Cattedrale S. Giacomo


L’allargamento delle mura nella prima fase islamica, nel corso del VII secolo, riformulò i rapporti spaziali fra la rete viaria e il complesso, che risultò ancora piú centrale, ma fu relegato a un ruolo funzionale del tutto secondario. Le cose mutarono all’indomani dell’occupazione crociata: la basilica tornò a essere la meta di flussi consistenti di pellegrini. Tuttavia, il regno latino di Gerusalemme non durò abbastanza a lungo per modificare la rete viaria in funzione del centro devozionale.

Monte degli Ulivi. Ai piedi del colle, la tradizione cristiana colloca l’Orto dei Getsemani. In questo luogo Gesú Cristo avrebbe trascorso la notte precedente alla condanna. Il monte è, inoltre, indicato come il luogo da cui Gesú ascese al cielo, quaranta giorni dopo la Resurrezione.

Prima la dominazione mamelucca, e, piú tardi, quella ottomana trasformarono definitivamente il cuore murato di Gerusalemme in una città islamica, dominata dalla mole della Spianata del Tempio (con le sue due moschee principali) e sviluppata intorno ai suk, collegati alle porte da vicoli che non ricalcavano piú l’andamento ortogonale degli assi viari costantiniani. Il complesso del Santo Sepolcro finí per inserirvisi e per perdervi definitivamente la sua centralità simbolica.

Santo Sepolcro. Sul Golgota, secondo la testimonianza dei Vangeli, Gesú morí, fu sepolto e risorse. Qui, nel 325, Costantino diede avvio alla costruzione di un enorme complesso religioso, pensato come un grande luogo di pellegrinaggio. Per l’edificazione del santuario, l’imperatore fece demolire un tempio pagano di epoca adrianea, dedicato alla dea Venere.

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TERRA SANTA

Il Santo Sepolcro

IL SANTO SEPOLCRO AL TEMPO DI COSTANTINO

Il complesso religioso costantiniano di Gerusalemme era composto da tre sezioni

L’ANASTASIS

una grande rotonda colonnata, coronata da una cupola, costruita intorno alla camera sepolcrale.

IL TRIPORTICO

un vasto cortile colonnato che ospitava la Roccia del Golgota

Roccia del Calvario

IL MARTYRION

una basilica a cinque navate che segnava il luogo della Crocifissione

Pianta del complesso costantiniano (IV sec.)

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DOSSIER PELLEGRINAGGIO


dall’esterno, si trasformò in una sorta di obliterazione di autenticità dei luoghi. Cosí, nel 325, quando Costantino avviò a un’imponente operazione edificatoria di creazione della Terra Santa cristiana, commissionò una vera e propria campagna archeologica. Ne dà conto il vescovo e scrittore cristiano Eusebio di Cesarea (265 circa-339 o 340), nella Vita di Costantino. Ricorda la fatica di riportare in superficie quanto gli architetti imperiali avevano nascosto: «È questa grotta salvifica che alcuni atei ed empi avevano pensato di far sparire, credendo stoltamente di nascondere in tal modo la verità. E cosí con grande fatica vi avevano scaricato della terra portata da fuori e coperto tutto il luogo; lo avevano poi rialzato e pavimentato con pietre nascondendo cosí la divina grotta sotto quel grande terrapieno».

Quegli «altari impuri e maledetti»

Il testo continua: «Quindi, come se non bastasse ancora, sulla terra avevano eretto un sepolcreto veramente fatale per le anime edificando un recesso tenebroso a una divinità lasciva, Afrodite, e poi offrendovi libazioni abominevoli su altari impuri e maledetti. Perché solo cosí, e non altrimenti, pensavano che avrebbero attuato il loro progetto, nascondendo cioè la grotta salvifica con simili esecrabili sporcizie». La realizzazione voluta da Costantino si basò su uno scavo in profondità dell’area sulla quale Adriano aveva fatto erigere il tempio, fino a portare in luce la roccia sottostante. La roccia in

cui era stata aperta la tomba usata per il corpo di Gesú fu isolata dalla parete di cui faceva parte, in un blocco a parallelepipedo. Intorno a esso fu poi innalzata la rotonda dell’Anastasis, la basilica della Resurrezione. La pianta prevedeva colonne disposte a corona intorno all’edicola che conteneva la Tomba, in modo che quest’ultima fosse libera tutt’intorno e visibile da piú punti. Il deambulatorio era molto vasto e dotato di tre piccole absidi, a nord, est e sud. Era adatto alle processioni e, nello stesso tempo, grazie alle colonne, teneva i pellegrini a distanza dal Sepolcro. La rotonda era dotata di una sorta di facciata, con sei o otto portali, aperti in modo che i pellegrini entrassero da un lato e uscissero dall’altro, dopo avere compiuto l’ambulatio intorno al Sepolcro. La basilica e gli spazi (aperti e chiusi) a essa collegati dovevano essere un segno importante nel tessuto urbano di Gerusalemme. L’imperatore voleva ridisegnare la città come emblema della religione in ascesa, al centro della Terra di Israele, che avrebbe dovuto diventare un unico grande santuario cristiano, anche perché lí – a differenza di Roma – non esisteva un’aristocrazia forte, in grado di opporsi al nuovo ordine religioso e politico che si voleva affermare. Il complesso venne consacrato nel 335, con una solenne cerimonia della quale resta il testo dell’omelia, pronunciata dallo stesso Eusebio. Si trovava collegato, sia verso sud sia verso sudest, alla strada che attraversava la città in senso

Disegno ricostruttivo della Stanza della Tomba. Al centro della Rotonda, l’Edicola costantiniana custodiva la Tomba di Cristo, liberata su tutti i lati dalla roccia. La camera sepolcrale, di forma circolare o poligonale all’esterno, aveva copertura conica ed era sormontata da una croce. L’interno era decorato da marmi. La stanza era preceduta da un portico a quattro colonne, con frontone e tetto a capanna, collocato al posto dell’atrio scavato nella roccia.

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TERRA SANTA

Il Santo Sepolcro

est-ovest e che sboccava in un arco onorario a tre fornici sul cardo maximus. Era concepito come un grande luogo di pellegrinaggio, un luogo prima di tutto accessibile per chi si recava a Gerusalemme da ogni area dell’ecumene cristiana. Al contempo, si definí come luogo di nascita e sviluppo delle liturgie della madre di tutte le Chiese, fulcro dello svolgimento dei riti gerosolimitani, elaborati nella loro unicità anche in relazione con lo spazio dei santuari stessi. Per questo le devastazioni provocate dai Persiani quando conquistarono Gerusalemme, nel 614, indussero alcune trasformazioni anche nei riti, che andarono via via avvicinandosi a quelli di Costantinopoli, perdendo qualche specificità.

Il saccheggio e poi l’incendio

In basso una nave a remi disegnata su una lastra, databile al IV sec., inglobata nella muratura della basilica del Santo Sepolcro. L’iscrizione sotto il disegno recita «DOMINE IVIMUS», cioè «Signore siamo arrivati», espressione che indicava l’arrivo dei pellegrini al luogo santo.

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DOSSIER PELLEGRINAGGIO

I danneggiamenti resero necessario un pesante intervento di restauro e di ricostruzione, messo in atto tra il 625 e il 630 per volontà dell’imperatore bizantino Eraclio, su impulso di Modesto, che poi divenne patriarca di Gerusalemme. Il complesso del Santo Sepolcro era stato saccheggiato. Eutichio, nei suoi Annali, ricorda che seguí un disastroso incendio, che si estese all’Anastasis, al Calvario e al Martyrion. Quest’ultimo, che aveva una vastissima copertura di cassettoni lignei, travature e tetti in piombo, subí il danno maggiore. La ricostruzione, sia pur onerosa rispetto all’esiguità della comunità cristiana, si limitò al ripristino delle strutture murarie, che avevano resistito alle fiamme. La conclusione dei lavori fu solennizzata il 21 marzo 630 con la ricollocazione del santo legno della Croce da parte dell’imperatore. Otto anni dopo, la Terra Santa fu conquistata dagli Arabi: il patriarca Sofronio dovette aprire loro le porte della città, in cambio di alcune garanzie per la popolazione. Dopo un breve

periodo di mantenimento dello status quo, la comunità cristiana andò assottigliandosi sempre piú. La riduzione delle sue possibilità economiche e la contrazione del flusso dei pellegrinaggi ebbero conseguenze pesanti sulla conservazione del complesso del Santo Sepolcro, danneggiato anche da alcuni terremoti.

Il restauro ridisegna il complesso

Ma la distruzione pressoché totale delle parti in elevato si deve all’intervento deliberato nel 1009 dal califfo al-Hakim (vedi box a p. 22). Subito dopo, il patriarca Niceforo andò a Costantinopoli per cercare fondi da impegnare nella ricostruzione, ma solo piú tardi, con il successore di al-Hakim, Daher al-Azaz, si arrivò a un accordo che permettesse l’apertura del cantiere per il restauro. I lavori iniziarono solo con l’avvento di Costantino IX Monomaco, il 12 giugno 1042. Terminarono nel 1048. L’intervento mutò pesantemente l’assetto del complesso costantiniano, ripristinato da Modesto. Rispetto all’assetto costantiniano, sparirono definitivamente sia la basilica del Martyrion con le sue navate, sia l’atrio orientale. Rimase il triportico, rifatto e dotato di gallerie al piano rialzato. La roccia del Calvario rimase come era stata sistemata da Modesto, con scala di accesso sul fianco nord. La cappella di Adamo, anch’essa risalente alla fase precedente, fu leggermente ampliata. Tra l’Anastasis e il triportico fu innalzato un ciborio, in corrispondenza del «centro del mondo». Sul lato orientale del triportico vennero innalzate tre cappelle, poste di fronte alla rotonda (poi sostituite dalle cappelle create in epoca crociata). Si verificò una frantumazione dello spazio, con la creazione di piú ambienti piccoli, destinati alle singole funzioni e ai diversi misteri, venerati nello sviluppo di liturgie stazionali. Nel sottosuolo, piú a est rispetto a queste cappelle, tra le rovine della chiesa precedente, fu creato un nuovo luogo di venerazione: la grotta del ritrovamento della Croce. Solo l’Anastasis rimase sostanzialmente immutata. Tuttavia, le fu aggiunta un’abside, verso est, e furono chiuse due porte poste sullo stesso lato. Al suo interno, la roccia della tomba di Gesú era stata scalpellata e probabilmente abbassata, ma non completamente distrutta. Fu inglobata in una nuova edicola. Verso nord, tra l’Anastasis e il patriarchio, sparí il cortile precedente e fu creata la cappella di Santa Maria, dotata di nartece. Il patriarchio fu ampliato e vi fu inserito un battistero. Tutte le coperture furono realizzate in muratura, per scongiurare il rischio di nuovi incendi, perlopiú con nuove volte a crociera.


La Pietra dell’Unzione. Ricavata da un blocco di marmo, la lastra è circondata da candelieri e lampade, ed è considerata il luogo sul quale il corpo di Cristo fu adagiato e preparato per la sepoltura. Conformemente al rito della sepoltura ebraica, il corpo del Redentore venne spalmato di olii aromatici, in particolare l’aloe e la mirra, da Giuseppe d’Arimatea, membro del Sinedrio, che, divenuto discepolo di Gesú, secondo la testimonianza dei Vangeli, provvide alla rimozione del Salvatore dalla Croce e al suo seppellimento.

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TERRA SANTA

Il Santo Sepolcro

AL TEMPO DEI CROCIATI 1. La Rotonda venne

ricostruita dall’imperatore bizantino Costantino IX Monomaco nel 1048, con un tetto conico aperto al vertice.

2. Fin dai primi tempi dell’esistenza della chiesa, il sepolcro di Cristo fu protetto da un’edicola. 3. Attorno al perimetro della Rotonda, Costantino IX Monomaco aveva fatto costruire un ambulacro a volta. 4. La torre campanaria venne eretta accanto all’ingresso della chiesa sulla piú settentrionale delle tre cappelle che si trovavano nel cortile d’entrata. Nel 1545 fu parzialmente distrutta da un terremoto.

5. Il Katholikon

fu costruito sul sito del Giardino Sacro dei tempi di Costantino.

6. All’epoca dei crociati entrambi gli ingressi nel transetto erano ancora aperti. 7. Il coro è attualmente separato dal resto della chiesa dall’iconostasi del Katholikon. 8. L’abside è preceduta

da alcuni ripidi scalini.

9. Tutto intorno all’abside corre un ambulacro.

Nei quasi quarant’anni necessari a ricreare quanto era stato demolito, le celebrazioni non ebbero un adeguato spazio proprio: con ogni probabilità continuarono nell’area, anche dentro il cantiere, ma si perse la configurazione originaria dello spazio e, insieme, si modificarono i riti stessi, tanto che si può ipotizzare una vera e propria cesura negli usi liturgici (vedi box alla pagina accanto). Fino ad allora, infatti, il complesso aveva mantenuto la connotazione originaria di area unica su cui insistevano santuari e luoghi di devozione diversi, percepiti in modo consequenziale, ma separatamente, dai pellegrini. Le diverse chiese e cappelle sono state inglobate in un unico, imponente e complesso edificio solo con l’apertura del cantiere crociato. Da allora in poi, i fedeli cominciarono ad avere l’impressione di «entrare» in un’unica chiesa, dopo avere oltrepassato il doppio portale di accesso.

In alto pianta della chiesa crociata di Gerusalemme (XII sec.), che comprendeva la zona del Calvario, quella del Sepolcro e della Resurrezione di Gesú Cristo. In basso, sulle due pagine sezione della chiesa crociata. Nel XII sec., dopo la conquista crociata di Gerusalemme, venne ricostruita sullo stesso sito che aveva ospitato quella di Costantino e consacrata nel 1149.

Un impegno ingente

La creazione di quella che avrebbe dovuto essere la basilica piú grande e piú sontuosa della cristianità richiese uno sforzo economico e organizzativo ingente e rispose a un preciso programma celebrativo dei re di Gerusalemme. I

10. La Cappella

di S. Elena commemora la madre dell’imperatore Costantino e il ritrovamento della Vera Croce.

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11. Un grande chiostro

venne edificato sul sito della basilica costantiniana.

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ULTIMA DIMORA DEI SOVRANI DEL REGNO LATINO La basilica del Santo Sepolcro avrebbe dovuto connotarsi anche come cappella funeraria dei re latini. Cosí avvenne tra il 1100 e il 1185: nell’area della Cappella di Adamo e nei pressi del Calvario furono infatti sepolti l’advocatus Sancti Sepulchri Goffredo di Buglione (1060 circa-1100), suo fratello Baldovino I (1100-1118), Folco d’Angiò (1131-1143), Baldovino II (1118-1131), Baldovino III (1143-1162), Amalrico I (1162-1174) e Baldovino IV (1174-1185). Le spoglie di un altro Baldovino, figlio della regina Sibilla, morto bambino, furono deposte probabilmente poco distante. Le lastre e le decorazioni delle tombe sono ricostruibili in base agli studi e ai disegni dei padri francescani Francesco Quaresmi, Eleazaro Horn e Sabino De Sandoli. Infatti, dopo la conquista di Gerusalemme da parte di Saladino e nei secoli successivi, furono lesionate, asportate, forse utilizzate come materiale da costruzione o in altri contesti. Ne restano alcuni frammenti, oggi conservati nel Museo dello Studium Biblicum Franciscanum e nel Museo del Patriarcato Greco Ortodosso (che hanno entrambi sede a Gerusalemme); altri sono stati ricollocati in punti diversi del complesso del Santo Sepolcro.

In alto Innsbruck, Hofkirche. Statua cinquecentesca che ritrae Goffredo di Buglione.

lavori si protrassero per molti anni, contemporaneamente alla strutturazione istituzionale del regno latino. Furono conclusi, con una solenne consacrazione, solo nel 1149, nel cinquantesimo anniversario della presa della città. Spiega bene la complessità dell’operazione Gugliemo di Tiro, nella Storia degli avvenimenti d’Oltremare (scritta intorno al 1169): «Prima dell’ingresso dei nostri Latini, il luogo della Passione del Signore, chiamato Calvario o Golgota, e dove pure si dice che fu trovato il legno della vivifica Croce, e il posto

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Gerusalemme. Santo Sepolcro. Facciata del transetto meridionale. XII sec. L’imponente facciata era l’entrata principale della chiesa crociata. I fedeli potevano accedere alla chiesa attraverso il doppio portale d’ingresso, ornato da colonne, lesene e modanature a disegni floreali. Sopra le porte erano collocati due architravi scolpiti, sormontati da archi ogivali.

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dove anche si dice che fu deposto dalla Croce il Corpo del Salvatore (...) erano cappelle molto piccole, fuori dell’ambito della predetta chiesa. Perciò, dopo che i nostri presero la città a viva forza, col soccorso della divina clemenza, parve loro che la predetta costruzione fosse molto stretta; perciò fu ingrandita la chiesa precedente con una costruzione interamente solidissima e alta; e inserendo in continuazione il vecchio edificio nel nuovo, inclusero mirabilmente tutti i sopradetti luoghi».

Il cronista tiene a mettere in evidenza la stretta continuità della nuova realizzazione con l’immutabilità dei Luoghi Santi, che furono soltanto rivestiti di una splendida veste architettonica, ma rimasero gli stessi venerati nei secoli precedenti. Il fulcro del complesso restò l’Anastasis: «Sullo stesso monte [indicato come Sion], (...) sulla discesa che guarda verso est, si trova la chiesa della Santa Risurrezione, di forma rotonda, è situata sul declivio del predetto monte in maniera che lo

UN’ANTICIPAZIONE DELLA REDENZIONE La basilica crociata del Santo Sepolcro «era una delle meraviglie del mondo», come scrisse nel 1154 il cronista arabo al-Idrisi, dopo averla visitata. Della sontuosa decorazione scultorea restano soltanto frammenti. I piú significativi sono i due bassorilievi collocati in origine sugli architravi del doppio ingresso sulla parete sud (lo stesso da cui si entra oggi), creato proprio dai crociati.

L’architrave posto sulla destra, sopra L’architrave di sinistra, a cui i fedeli

potevano guardare come a un’anticipazione di redenzione, riporta una precisa sequenza di eventi della Salvezza: a partire da sinistra, la Resurrezione di Lazzaro (Gesú con Marta e Maria e l’apertura della tomba), l’ingresso di Gesú a Gerusalemme con l’invio di due discepoli a cercare l’asina, l’Ultima Cena.

la porta dalla quale entravano i pellegrini, raffigura grandi ed elaborati girali geometrici di foglie in cui sono inseriti esseri umani, mostri e animali che si contorcono. Nello spazio scolpito si dibatte una folla di dannati che rappresenta i vizi e la dimensione del peccato a cui ancora i viandanti della fede appartenevano e che avrebbero potuto rinnegare proprio compiendo il viaggio penitenziale al Calvario e al Sepolcro.

Le due grandi lastre in pietra si inserivano come elementi figurati eminenti nella ricca e complessa decorazione plastica della basilica, realizzata nell’arco di circa quarant’anni, tra l’inizio del XII secolo e il 1149. La si deve a una vera e propria scuola di scultori e scalpellini che uní personalità francesi e – con ogni probabilità – persone di diversa provenienza formate in loco. I bassorilievi oggi sono conservati in deposito al Rockefeller Museum di Gerusalemme.

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COLUI CHE GOVERNA PER DECRETO DI DIO Chi era davvero il «califfo pazzo» che, nel 1009, diede l’ordine di distruggere il Santo Sepolcro, assoldando squadre di demolitori che risparmiarono «soltanto le parti in pietra che erano troppo difficili da abbattere»? Al-Hakim bi-amri llah, «colui che governa per decreto di Dio», sesto imam fatimita del Cairo, regnò dal 1000 al 1021. Impresse una svolta religiosa al dominio della sua dinastia, attuando misure tese a imporre l’Islam nella versione ismailita. I primi vincoli furono rivolti ai musulmani, sia sunniti che sciiti, che componevano esercito e burocrazia di corte e costituivano la maggioranza della popolazione. Al Cairo al-Hakim ordinò di uccidere tutti i cani, considerati animali impuri. Vietò alle donne l’ostentazione di gioielli, l’apertura dei negozi in orari notturni o le riunioni in cui si chiacchierava, proibí il gioco degli scacchi, che era praticatissimo. Molto piú pesanti furono i provvedimenti nei confronti di cristiani ed Ebrei che decidevano di mantenere la propria fede. Proprietà religiose e luoghi di culto cominciarono a essere confiscati dal 1003. Furono costretti a indossare abiti che rendessero visibili la loro discriminazione: in genere una cintura o un copricapo nero. Il califfo diede impulso all’affermazione di una cultura improntata all’Islam: nel 1005 creò la Dar al-hikma («Casa della Sapienza») dotata di oltre 600 000 volumi. La distruzione del Santo Sepolcro a Gerusalemme, che rientrava allora nei suoi domini, si inserisce nel quadro di questa politica. La notizia si diffuse rapidamente in tutta la cristianità, suscitando la forte reazione emotiva che alimentò la nascita dello spirito di crociata.

stesso declivio, essendo cosí alto e vicino da superare l’altezza della chiesa, la rende oscura; ha un tetto con le travi erette verso l’alto e connesse con meravigliosa perizia in forma di corona; nel centro, che è sempre libero e aperto, s’introduce la necessaria luce alla chiesa: sotto questa larga apertura è posto il Sepolcro del Salvatore». E il monaco benedettino Gugliemo di Malmesbury (1090/1096-1143 circa), nel De gestis regum Anglorum, parla di «una chiesa complessa, ornata artisticamente, che contiene il Santo Sepolcro». Proprio per la sua sacralità, la parte della Tomba non fu oggetto di trasformazioni rilevanti; fu invece interessato dalle modifiche maggiori il Calvario, dove furono collocate le tombe dei re di Gerusalemme.

L’effimera parabola latina

La conquista crociata fu accompagnata dalla latinizzazione del clero, nella quale si inserí anche l’insediamento di canonici presso il Santo Sepolcro. La celebrazione delle liturgie fu affidata esclusivamente a loro, mentre le altre comunità cristiane – che nel XII secolo avevano ormai sviluppato riti diversificati – si ritirarono in spazi secondari o mantennero i propri usi all’interno dei monasteri sparsi intorno alla città e nel Deserto di Giuda. Ma il controllo politico cristiano latino su Gerusalemme ebbe breve durata: nel 1187 la vittoria

LE VICENDE DEL SANTO SEPOLCRO E DELLA TERRA DI ISRAELE Primi decenni del I secolo Devozioni spontanee si sviluppano nell’area del Golgota e intorno al cimitero a nord di Gerusalemme, in cui era stato deposto il corpo di Gesú.

70 d.C. Tito Flavio Vespasiano conquista Gerusalemme dopo un duro assedio, deporta i suoi abitanti e impone agli Ebrei il divieto di ritornare in città.

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135 L’imperatore Adriano fa costruire la sua città ideale, Aelia Capitolina, e, al posto dei santuari cristiani collocati in corrispondenza del Calvario e del Sepolcro, fa innalzare un tempio che conteneva una statua di Afrodite.

325 L’imperatore Costantino avvia la creazione della Gerusalemme cristiana; incarica un gruppo di «archeologi» e di architetti di riportare alla luce la Tomba di Gesú sotto le fondazioni del tempio pagano.

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335 In quel luogo fa erigere la basilica dell’Anastasis, solennemente consacrata.

614 I Persiani conquistano Gerusalemme e distruggono l’edificio costantiniano innalzato sopra il Santo Sepolcro. La comunità cristiana superstite viene sostenuta dall’imperatore di Costantinopoli. Modesto, che poi divenne patriarca e avviò la ricostruzione del complesso del Santo Sepolcro.

630 Il nuovo edificio fu consacrato con la ricollocazione della reliquia della Croce (che era stata messa in salvo) da parte dell’imperatore Eraclio.

638 Gli Arabi conquistano Gerusalemme. Il patriarca Sofronio ottiene che la comunità cristiana sia risparmiata e possa continuare ad abitare dentro la città in cambio del versamento di un pesante tributo. Nella Terra di Israele si insediano popolazioni provenienti dalla Penisola arabica. I musulmani diventano la maggioranza della popolazione di Gerusalemme.

1009 Il califfo fatimita del Cairo al-Hakim distrugge il Santo Sepolcro, radendolo al suolo. 1042 L’imperatore di Costantinopoli, Costantino IX Monomaco, finanzia la riedificazione del complesso, che diventa un unico edificio che include piú santuari.


SPAZI CONDIVISI

di Saladino e la nuova islamizzazione implicarono la cacciata dei latini e aprirono la strada alla stipula di singoli accordi con le altre Chiese cristiane. Cosí, nei secoli successivi, l’area della basilica e i suoi diversi santuari interni furono divisi nell’uso liturgico, in base allo spazio e alle ore del giorno, fra i vari gruppi, ai quali, dalla metà del Trecento, si aggiunsero i Francescani, la cui presenza fu istituzionalizzata con la creazione della Custodia di Terra Santa. A loro rimase il compito di officiare le liturgie latine romane, fino al 1847, quando Pio IX riuscí a istituire di nuovo un Patriarcato latino in città e a inserire il clero secolare anche nelle celebrazioni al Santo Sepolcro. In tutti questi secoli, durante la lunga dominazione ottomana (e oltre), il complesso del Santo Sepolcro ha vissuto un lento e profondo declino, scandito da terremoti, prolungati pe(segue a p. 35)

1048 Viene consacrato il riedificato complesso del Santo Sepolcro.

Gli spazi del Santo Sepolcro si sono formati e trasformati in relazione alle liturgie. Quella gerosolimitana delle origini è intrisa di elementi memoriali e legata anche agli aspetti spaziali del ricordo degli eventi della Salvezza. Dopo la distruzione persiana, alla trasformazione degli spazi nella ricostruzione di Modesto si accompagnò la grecizzazione delle liturgie. L’appartenenza della comunità cristiana gerosolimitana alla koiné di Costantinopoli fu accentuata con la ricostruzione di Costantino IX Monomaco. Nel frattempo, alla metà dell’XI secolo, l’allontanamento ecclesiologico e liturgico fra Roma e Costantinopoli si accentuò, mentre le altre Chiese mantenevano tradizioni e liturgie proprie. Cosí, quando i crociati presero la Città Santa, le liturgie della pars orientis e della pars occidentis erano ormai differenziate e un rito gerosolimitano proprio non era piú distinguibile. L’insediamento di canonici regolari al Santo Sepolcro e l’affidamento a loro delle celebrazioni implicò la latinizzazione del clero e delle liturgie. Dopo il 1187, Saladino, per meglio dividere e assoggettare i cristiani rimasti a Gerusalemme, stipulò accordi bilaterali con le diverse comunità e concesse privilegi a quelle piú penalizzate dai latini, concedendo loro di officiare in modo esclusivo in alcuni ambienti, che furono invece preclusi ai sacerdoti latini. Tornarono con il diritto di celebrare solo grazie all’accordo stipulato da Federico II nella prima metà del XIII secolo. A quell’epoca risalirebbe la prima presenza dei Francescani, poi istituzionalizzata con la Custodia di Terra Santa. La pluralità di riti e culti divenne una costante per il Santo Sepolcro e la comunità cristiana di Gerusalemme. Faticosamente si affermò il regime di ripartizione di spazi e tempi tuttora in vigore.

1517 Gerusalemme e la Terra Santa sono incluse nell’impero ottomano.

1048 1099, 15 luglio I crociati conquistano Gerusalemme e creano il Regno Latino di Gerusalemme. Con la latinizzazione del clero, la celebrazione delle liturgie al Santo Sepolcro è affidata ai Canonici del Santo Sepolcro. Inizia il cantiere della basilica dei crociati. 1149 Viene consacrata solennemente la basilica dei crociati. 1187 Saladino batte i latini a Hattin e riconquista Gerusalemme, che non tornerà piú in mano cristiana. Cristiani greco ortodossi, etiopi e armeni ottengono alcune concessioni e il diritto di celebrare all’interno del Santo Sepolcro.

1260 I Mamelucchi d’Egitto conquistano Gerusalemme. 1342 La celebrazione delle liturgie latine all’interno del Santo Sepolcro è affidata ai Francescani. Le bolle papali Gratias agimus e Nuper carissime pongono i presupposti formali per l’istituzione della Custodia di Terra Santa.

1948 Guerra di indipendenza e proclamazione dello Stato di Israele. 1847 Re-istituzione di un patriarcato latino a Gerusalemme.

In alto il patriarca ortodosso presiede al rito della Lavanda dei piedi, all’interno del Santo Sepolcro. La cerimonia rappresenta uno dei principali eventi della Pasqua di Gerusalemme.

1520-66 Solimano il Magnifico fa costruire le nuove mura di Gerusalemme e dà un nuovo assetto alla città. 1918 Crollo dell’impero ottomano. La Terra di Israele diventa Protettorato Britannico.

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9 8 4 5 3 2 Il cuore del complesso. L’Edicola al cui interno è custodito il Sepolcro di Cristo (11), preceduto da un vestibolo, detto anche Cappella dell’Angelo (10). L’aspetto attuale della struttura è frutto della ricostruzione del 1810, in stile ottomano barocco, resasi necessaria in seguito all’incendio che due anni prima aveva colpito la chiesa.

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Cappella dell’agonia della Vergine (5). Databile al XII secolo,

consentiva l’accesso diretto al Calvario. Nella foto ne è illustrato l’arco interno, riccamente decorato con rilievi marmorei e un mosaico, uno dei pochi riferibili all’epoca dei crociati.

1. Parvis o cortile anteriore 2. Cappella di S. Giacomo Minore 3. Cappella di S. Giovanni Battista 4. Cappella dei Quaranta Martiri 5. Cappella dell’Agonia della Vergine 6. Cappella d’Adamo 7. Roccia del Golgota 8. Cappella greco-ortodossa del Golgota 9. Pietra dell’Unzione

10. Cappella dell’Angelo 11. Sepolcro di Cristo 12. Rotonda 13. Cappella di S. Maria Egiziaca 14. Centro del Mondo 15. Katholikón 16. Archi della Vergine 17. Scalinata per la Cappella di S. Elena 18. Cappella di S. Elena 19. Passaggio per la Cappella del Ritrovamento della Santa Croce

Per la madre di Costantino. La

Cappella armena dedicata a sant’Elena (18), eretta nei sotterranei della basilica. I muri esterni risalgono alla fabbrica costantiniana, mentre gli altri elementi architettonici sono riferibili alla ricostruzione operata dai crociati nel XII sec.

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riodi di incuria, restauri mal condotti, rifacimenti parziali, messi in atto da comunità cristiane sempre piú povere, sempre meno collegate con il resto del mondo e piú incapaci di gestire unitariamente un insieme di edifici cosí imponente e diversificato. Per questo ciò che vediamo oggi è poco piú di un guscio vuoto rispetto alla magnificenza della creazione costantiniana e, soprattutto, rispetto allo splendore di mosaici, sculture e volte che i crociati impressero alla grande architettura che doveva includere i Luoghi della Salvezza.

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DOSSIER PELLEGRINAGGIO

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TERRA SANTA

Eventi miracolosi

Santi, prodigi e altre storie

Miniatura raffigurante il Santo Sepolcro di Gerusalemme, da un manoscritto greco degli Oracula Leonis. XVI sec. Palermo, Biblioteca Comunale. Nella pagina accanto cartina della Terra Santa nella quale sono indicati i principali luoghi legati alla tradizione cristiana. 36

DOSSIER PELLEGRINAGGIO


Dai viaggi devozionali a Gerusalemme i pellegrini non riportano soltanto reliquie, ma anche impressioni che in molti fissano sulla carta. Una tradizione che ci ha lasciato un patrimonio documentario con notizie spesso ai limiti del verosimile...

Arezzo, basilica di S. Francesco, cappella maggiore. Affresco di Piero della Francesca raffigurante Elena, madre di Costantino, che assiste al ritrovamento della Croce di Cristo, considerata la reliquia piú importante della cristianità, e di quelle dei due «ladroni», dal ciclo della Leggenda della Vera Croce. 1452-1466.

di Marina Montesano

L

e testimonianze dei pellegrini-scrittori che nel tardo Medioevo affrontavano il viaggio verso la Terra Santa sono ricchi di racconti preziosi, essenziali per comprendere usi e costumi di quel tempo; le condizioni materiali del viaggio, i costi, le aspettative, i pericoli e il modo di affrontarli, le descrizioni dei paesaggi, dei luoghi e delle genti che si incontrano: tutti questi aspetti sono raccontati con toni vividi, in grado di affascinare il lettore contemporaneo. Un tema emerge spesso da questo genere di letteratura: i pellegrini partivano verso la Terra Santa per cercarvi le memorie del racconto biblico, e, in particolare, neotestamentario. Le «cerche», come si definivano le visite ai luoghi santi, erano spesso intrecciate con leggende che i pellegrini apprendevano in loco o di cui avevano letto in patria; era comune la ricerca di reliquie ritenute miracolose, e quindi da acquistare o trafugare; i pericoli del viaggio, infine, inducevano una serie di pratiche apotropaiche a carattere magico, che spesso coinvolgevano le reliquie stesse.

Pomi paradisiaci e animali esotici

Le leggende fantastiche, il senso del meraviglioso non influenzano i diari dei pellegrini in modo paragonabile alle narrazioni dei viaggiatori dell’Asia profonda. Fra le terre d’Oltremare, l’Egitto provocava le reazioni piú stupite: città immense e vitali, deserti alternati a fertili piane, monumenti misteriosi e cosí via. I diari dei pellegrini parlano dei suoi frutti meravigliosi, quali i «fichi del faraone», cioè i sicomori, e i «pomi paradisiaci», ossia le banane, che, se aperte, rivelano all’interno una piccola croce. Cercano inoltre di descrivere gli animali esotici, ponendoli a confronto con specie piú comuni nell’Europa di quei secoli; per esempio, secondo il fiorentino Simone Sigoli, che compie il pellegrinaggio insieme al seguito di Lionardo Frescobaldi nel 1384-85, la giraffa è «fatta quasi DOSSIER PELLEGRINAGGIO

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TERRA SANTA

Eventi miracolosi Statua di Venere. Copia romana di un originale greco del IV sec. a.C. dello scultore Prassitele. Roma, Musei Capitolini. Molti pellegrini descrivono nei loro «itinerari» lo stupore al cospetto degli immensi resti della Roma imperiale, e considerano l’arte romana e pagana un frutto del demonio.

come lo struzzolo salvo non à penne, anzi à lana biancha et fine et à coda et piedi di cavallo salvo che lle ghanbe di dietro sono alte intorno di braccia 1 1/1 et quelle dinanzi braccia III o piú come ghanbe d’ucciello. Il collo sottile et lungo braccia III - 1/1 o piú, il capo di cavallo et cosí i crini et à nella testa due cornicella piccole come di castrone. Et mangia biada et pane come cavallo, et veramente pare cosa troppo contraffatta».

Un pesce con la testa di un uomo

A sua volta, il francescano Niccolò da Poggibonsi (che compie un lungo pellegrinaggio tra il 1346 e il 1350), giunto al Mar Rosso, narra di alcuni animali in apparenza fantastici, ma probabilmente davvero visti o intravisti, e semmai descritti con tratti un po’ naif. Un suo compagno avvista «un pesce, c’avea fatto lo capo come l’uomo, e cosí lo viso, colla bocca, co’ denti, col naso e cogli occhi e co’ capelli e cogli orecchi, e cosí avea uno poco di collo». Il frate non pensa a una sirena o a un animale mitologico; si limita a

GREGORIO E LA «MAGICA PERSUASIONE» Non solo da Gerusalemme e dal Vicino Oriente, ma anche da Roma i pellegrini riportarono testimonianze di fatti prodigiosi. Diversi Itinerari di viaggio redatti nel XII secolo descrivono i monumenti della Roma cristiana e le reliquie della città pagana. Una Roma pagana della quale si ammirano i resti immensi, senza che però vi siano ancora strumenti adeguati per comprendere la struttura d’insieme della città antica, per collegare i singoli edifici alla loro funzione e alla loro storia. Il testo piú celebre è la Narracio de mirabilibus urbis Romae, composta verso la fine del XII secolo (o forse agli inizi del successivo) da un pellegrino inglese noto con il nome di Magister Gregorius. Nonostante l’ammirazione per queste memorie perdute o deturpate, Gregorio è convinto che la storia dell’antica città sia una storia fantastica, nella quale le statue si muovono magicamente e la leggenda è l’elemento portante di ogni narrazione. La fascinazione dell’antico è filtrata dalla coscienza cristiana, abituata da secoli a leggere nella Roma precostantiniana il marchio del paganesimo, e dunque del demonio. La statua di Venere, ammirata al punto da essere indotto a tornare a vederla tre volte, esercita, a detta dello stesso Gregorio, una «magica persuasione». Egli racconta inoltre la storia delle statue che erano un tempo a Roma, ciascuna delle quali dedicata a uno dei popoli sottomessi, in una corrispondenza magica in cui la dedicazione era un auspicio sulle guerre di annessione che si andavano a intraprendere. Infatti, quando un popolo sottomesso maturava la volontà di insorgere, la statua corrispondente faceva suonare un campanello d’argento che recava al collo. Nell’edificio che conteneva tutte queste statue vi era anche un fuoco inestinguibile – il simbolo dell’impero – che una profezia diceva si sarebbe spento quando una Vergine avesse partorito; nota quindi Gregorio come «nella notte in cui Cristo nacque da una Vergine (...) si estinse quel lume falso e magico: giustamente, perché aveva cominciato a brillare la luce vera e eterna».


Due pagine miniate (a sinistra) e la rilegatura in pelle (in basso) del Mirabilia Romae, Historia et Descriptio Urbis Romae, una guida ai luoghi di pellegrinaggio di Roma, con la descrizione di chiese e reliquie in esse contenute, scritta dallo Pseudo-Egidio Romano e pubblicata a Roma tra il 1485 e il 1489. Collezione privata.

registrare l’insolito aspetto dell’animale, che potrebbe essere in effetti un mammifero semiacquatico della famiglia dei sirenidi, dotati di un capo arrotondato unito al corpo da un breve collo, di orecchie e di denti. Ugualmente per i «castroni che avevano la coda larga parecchie spanne, e era tonda a modo d’uno tagliere: e è sí grave, che nolla possono portare se none poco allunga»: potrebbe trattarsi di una varietà di capra realmente presente in Asia, dalla coda ampia, larga e schiacciata, che risponde grossomodo alla descrizione. L’immenso Nilo attira descrizioni ammirate; ancora Niccolò da Poggibonsi racconta come «secondo che si recita nella Scrittura e nel Testamento vecchio, del Paradiso terresto escono quatro fiumi. El primo si chiama Phison, e va in India e per Civalach; l’altro si chiama Tigris, e va per la Soría; l’altro si chiama Eufrates, e va per la Caldea; l’altro si chiama Gion, e questo circuisce Etiopia e una parte d’Egitto; e questa parte si chiama Nilo, e questo circuisce terra d’Egitto»; e il Frescobaldi lo ritiene parte «del fiume Degion che esce dal Paradiso terresto».

L’irresistibile fascino delle piramidi

L’osservazione diretta non era probabilmente meno stupefacente delle leggende: molti pellegrini, infatti, si soffermano a descrivere, a volte nei dettagli, il sistema delle piene e dei suoi effetti sull’agricoltura e il paesaggio. Fra gli edifici monumentali erano ovviamente le piramidi a incuriosire i viaggiatori; nei secoli si

era consolidata una spiegazione tradizionale circa la loro natura e funzione: si sarebbe trattato dei granai nei quali era stato ammassato il grano al tempo della grande carestia – se ne parla nella Genesi – alla quale il solo Egitto si sottrasse grazie al suo viceré, l’ebreo Giuseppe. Non tutti i pellegrini si spingevano sino a Giza; fra quanti lo fanno, le opinioni sono discordi. Alcuni ventilano l’ipotesi che siano tombe e non granai: un’ipotesi destinata a rafforzarsi nel corso del Quattrocento. La Santa Croce del Cristo era considerata la piú importante delle reliquie della cristianità. Tra le leggende che la circondano, si incontra spesso quella del suo ritrovamento insieme alle croci degli altri due suppliziati: la madre dell’imperatore Costantino, Elena, non sapendo quale fosse quella Santa, vi fece posare soDOSSIER PELLEGRINAGGIO

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TERRA SANTA

Eventi miracolosi

pra un morto che, al contatto con la vera, risuscitò. La storia è narrata nei Viaggi del Mandeville, un testo che riserva molto spazio agli elementi fantastici e che ebbe grande diffusione a partire dalla metà del Trecento; fra i viaggiatori italiani, viene ripresa sia da Luchino da Campo, autore nel secondo decennio del Quattrocento di un resoconto del pellegrinaggio di Niccolò d’Este, sia dal nobile milanese Santo Brasca, il quale compí il suo pellegrinaggio nel 1480.

Quattro legni per la Croce

Un’altra leggenda della Santa Croce, pure narrata dal Mandeville e dalla Legenda aurea di Iacopo da Varazze, parla dei quattro tipi di legno usati per costruire la croce: la base in cedro, perché non marcisse, né in terra, né in acqua; il braccio piú lungo in cipresso odorifero per combattere le esalazioni del corpo in putrefazione; la trave orizzontale di legno di palma, nel Vecchio Testamento simbolo di vittoria, per indicare la presunta vittoria sul Cristo; la tavoletta in cima d’olivo, auspicio di pace. Come si può immaginare, ad attrarre l’interesse dei pellegrini era il ricordo dei luoghi neotestamentari e la memoria dei primi santi della Chiesa. Ad Alessandria, Lionardo Frescobaldi e compagni si fermano per riposare e

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In alto ampolla «del pellegrino», in piombo e stagno. VII-VIII sec. Monza, Tesoro del Duomo. Le ampolle dei pellegrini servivano per raccogliere olio santificato per i sacramenti o olio proveniente dalle lampade che ardevano vicino ai luoghi santi.

far provviste, ma anche «per far fare certe fette di seta alla misura del Sepolcro le quali sono buone a donne che fussono sopra a partorire»: l’analogia funzionale con certe reliquie – pensiamo, su tutte, alla Sacra Cintola di Prato – appare evidente. Nelle acque del Giordano non ci si bagnava solo per il battesimo, ma anche per guarire da molte malattie. San Willibaldo, pellegrino fra il 723 e il 736, racconta di una fune sospesa sul fiume alla quale, nel giorno dell’Epifania, i malati si aggrappavano per meglio calarsi nelle acque taumaturgiche; riferiscono della diffusa fiducia circa i suoi poteri anche Ludolfo di Sudheim, nel 1336, e il francescano Francesco Suriano, nel 1485: quest’ultimo leggermente perplesso di fronte all’aspetto delle acque del sacro fiume, ma sicuro dei suoi effetti: «E per ben che la predicta aqua è sempre torbida e lutosa, tamen reposata doi miserere deventa limpida et al bere delectevole, e sana, e potente ad far myracoli». Un ruolo importante è rivestito dalle reliquie, oggetti e frammenti che si conservavano devotamente, ma che pure si rubavano e si commerciavano. Fra i luoghi piú noti vi era certamente


Saidnaya presso Damasco (nei testi dei pellegrini italiani Sardana, Serdana o Serdinale), nel quale si trovava un’immagine miracolosa della Madonna. L’icona era nota almeno a partire dalla testimonianza resa dal pellegrino Arculfo e scritta da Adamnano nel 670. Il Mandeville – pur non nominando la località – si riferisce a essa quando narra di una immagine di nostra Signora «che si cambia in carne»; la tavola, dice, è sempre unta, come d’olio d’oliva, e sotto è posto un vaso nel quale si raccoglie il liquido da distribuire ai pellegrini che passano; il contatto con l’olio guarisce da molte malattie e, se lo si conserva, nel giro di sette anni si tramuta in carne e in sangue. Anche Niccolò da Poggibonsi ricorda questo santuario; ma è il Frescobaldi a mostrare l’interesse maggiore: egli espone una versione della storia leggendaria dell’immagine, secondo la quale la reliquia sarebbe appartenuta a un prete che l’aveva portata con sé in pellegrinaggio al Santo Sepolcro. Dopo esser miracolosamente scomparsa e poi riapparsa, l’immagine cominciò a emettere un liquido organico, una sorta di manna, d’allora in poi considerata

miracolosa. Con il balsamo di Saidnaya il Frescobaldi afferma di aver guarito, al ritorno, uno dei suoi figli da una grave infezione cutanea che l’aveva colpito alla gamba. In altre occasioni il Frescobaldi ci sorprende per la sua spudoratezza: come quando, attraversando la Valle di Josafat, la guida mostra al gruppo di pellegrini l’enorme pietra sulla quale santo Stefano sarebbe stato lapidato, ed egli commenta: «E di questa pietra (...) ne recai grande quantità». O ancora, quando a Betania asporta – a suo stesso dire «furtivamente» – dalla casa di Lazzaro «una spranga».

Il latte della Vergine

La polvere d’ottone grattata dalla Porta Aurea era venduta a carissimo prezzo, come testimonia Mariano da Siena, pellegrino nel 1431: «Soleva essere foderata d’actone dorato e questo actone à grande virtú contra al male chaducho; quando si può avere di quello proprio, vendesi a peso d’oro». Fra le reliquie di grande diffusione, anche perché facilissime da falsificare, v’erano le ampolle contenenti il «latte della Vergine», cioè residui calcarei che i pellegrini grattavano

In alto Betlemme. La cappella della «Grotta del Latte», presso la basilica della Natività. Qui, secondo la tradizione, Maria si sarebbe fermata ad allattare Gesú bambino. Nella pagina accanto, in basso miniatura con scena di pellegrinaggio alla chiesa del Santo Sepolcro di Gerusalemme, dal Livre des Merveilles du Monde. XIII-XIV sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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TERRA SANTA

Eventi miracolosi

«AVVISTAMENTI»... SOSPETTI Fra le reliquie dei santi che i pellegrini veneravano maggiormente v’erano quelle di santa Caterina. Il suo santuario sul Monte Sinai era infatti una meta comune a quasi tutti gli itinerari di viaggio in Terra Santa, e anche il Mandeville ne tratta, assicurando che nel monastero si conservava per intero il corpo della martire, traslato miracolosamente dagli Angeli sino al monte. Ma l’osservazione diretta dei pellegrini quattrocenteschi contraddice questa versione; se la testimonianza di Roberto da Sanseverino, il quale scrive di averne visto un braccio a Rodi, al Castello dell’Ammiraglio, non è conclusiva, perché sappiamo come la proliferazione di sante reliquie avesse riempito il Mediterraneo e l’Occidente di copie, l’attendibile frate francescano Francesco Suriano – veneziano, custode di Terra Santa nel 1493 e nel 1513 – afferma che nel monastero del Sinai «de sancta Caterina non hanno altro che le mano bianche come lacte cum le deta, longe e piene de anella»; una delle due, a suo dire, sarebbe anche falsa. Con questo non si vuol dire che i pellegrini non fossero interessati alle leggende, ma solo alla realtà osservata: tanto il Frescobaldi quanto un altro suo compagno di viaggio, Simone Sigoli, raccontano rispettivamente che il corpo della santa era stato condotto in volo dagli Angeli in cima al Sinai e che sul monte ci sarebbero ancora le impronte degli Angeli che ne vegliarono le spoglie per cinquecento anni. Ma certo, l’osservazione diretta, quando davvero lampante, poteva indurre a smentire alcune delle tradizionali leggende.

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dalla grotta sottostante la Basilica della Natività di Betlemme. Felix Faber, pellegrino tedesco della fine del Quattrocento, parla apertamente di «apocrypho», ma altri paiono molto meno scettici di lui. Alla luce degli strumenti di navigazione moderni, siamo abituati a considerare sicuri gli spostamenti nel Mediterraneo, ma al tempo la situazione era ben diversa: le tempeste erano temute e potevano causare naufragi. Per questo motivo viaggiatori e marinai sviluppavano pratiche magico-apotropaiche a cui ricorrere in caso di tempeste. Racconta il conte di Caiazzo Roberto da Sanseverino, pellegrino nel 1458, di una tempesta spaventosa verificatasi nel mese di maggio e che l’equipaggio giudica insolita


per il periodo: «Et perché se ingrossava continuamente, non videndo altro rimedio, lo patrono feze scrivere molti nome de sancti in brevi et ponerli un una bireta, et dixe ad alcuni peregrini, tra li quali forono dicti Sig.re Roberto et compagni, che ogni homo togliesse uno de dicti brevi et facesse voto al sancto che gli trovaria suso scripto, che, come fusse in terra firma, gli fariano dire una messa ad suo honore, et gitasseno li brevi in mare. Et cossi fu facto, et come a dio piaque, la sira cesso la piogia et lo vento». Il rito si ripete al ritorno, durante un’altra tempesta. Il narratore chiama «breve» il bigliettino da gettare ritualmente in mare, usando forse un termine improprio, dal momento che ge-

neralmente si intendeva un amuleto con scritte segrete da portare indosso a scopo profilattico, taumaturgico. Il Sanseverino lo chiama cosí probabilmente in rapporto al fatto che si tratta di una scrittura su supporto cartaceo, ma ci si domanda se non affiori una sorta di coscienza del carattere per cosí dire «magico» del rituale.

Insegne gettate nell’acqua

In alto tre insegne di pellegrinaggio dedicate a St. Jean d’Amiens. VIII sec. Parigi, Museo di Cluny. I santi raffigurati rappresentavano il santuario di destinazione, in questo caso Amiens. A sinistra il santuario di S. Caterina di Alessandria sul Monte Sinai. Il sito era meta obbligata di pellegrinaggio, perché si credeva che gli Angeli avessero traslato qui il corpo della santa. La fondazione del monastero si deve all’imperatrice Elena nel IV sec. d.C.

Comunque, la pratica di gettare in acqua immagini votive è molto comune nel pellegrinaggio medievale: molti dei circa 700 pezzi che compongono la collezione di insegne di pellegrinaggio del Museo di Cluny sono stati rinvenuti nei fiumi, nelle sorgenti, nei laghi, nei pozzi in cui erano state gettate con un probabile significato rituale. In Toscana, molti santuari mariani delle aree rurali hanno mostrato la stessa continuità di culto. Si tratta di un uso che – come le celebri lustrazioni delle statue dei santi – affonda le sue radici in culti precristiani. Felix Faber scrive di come fosse consuetudine dei marinai votarsi ai santi che tradizionalmente si dicono protettori dei naviganti: alla Vergine, naturalmente, come pure a santa Cecilia, santa Caterina, santa Lucia, san Clemente, sant’Andrea, san Nicola, santa Barbara. Per quest’ultima, in particolare, ricorda di come, non avendo evitato una tempesta nonostante il voto, i marinai si rifiutassero di partecipare alla messa in suo onore, rivolgendosi anzi contro di lei con espressioni pesanti. È ancora il Faber a ricordare che i pellegrini che volevano recare con sé ampolle d’acqua del Giordano erano obbligati dai marinai a svuotarle nel mare per evitare tempeste: il pellegrino forse non comprende appieno l’uso e crede che il problema sia la presenza dell’acqua a bordo; mentre, al contrario, l’acqua del Giordano deve essere gettata in mare, con la stessa logica che presiedeva il rituale dei bigliettini con il nome dei santi, o sulla barca stessa come benedizione. Lo conferma una lunga tradizione di pellegrini: dall’anonimo piacentino del 570 circa fino almeno a santo Brasca: «Unde ch’el patrono vedendo questa [la tempesta], domandò tuti li peregrini, et si fece portare tuta quela aqua del fiume Iordano che havevano, et la gettò i mare». La stessa funzione poteva avere il balsamo di Saidnaya, già ricordato: tanto Niccolò da Poggibonsi quanto Lionardo Frescobaldi riferiscono ch’era costume dei marinai gettarne qualche goccia in mare per sedare le tempeste, e di averlo fatto essi stessi. DOSSIER PELLEGRINAGGIO

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ROMA

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Introduzione

DOSSIER PELLEGRINAGGIO


Pietro, un richiamo irresistibile Culla del cristianesimo fin dai tempi delle prime predicazioni, Roma, già in età tardo-antica, fu meta irrinunciabile per fedeli provenienti da ogni parte del mondo

I pellegrini incontrano papa Ciriaco a Roma, dalle Storie di Sant’Orsola. Tempera su tela di Vittore Carpaccio (1460 circa-1526). 1492. Venezia, Gallerie dell’Accademia.

L

a seconda grande direttrice di pellegrinaggio, in ordine cronologico, conduceva a Roma, la città nella quale erano sepolti due grandi santi e apostoli: Pietro e Paolo. I cristiani avvertivano un obbligo interiore a recarsi in quel luogo per rafforzare la propria fede, secondo quanto espresso già nel II secolo dal teologo Ireneo di Lione nel testo antignostico Adversus Haereses. Fin dal 258 a Roma si celebravano le ricorrenze dei due martiri: il 22 febbraio la festa di Paolo e il 29 giugno quella di entrambi i santi. Anche sullo sviluppo del pellegrinaggio nella Città Eterna incise l’imperatore Costantino, con la costruzione delle basiliche dedicate ai due apostoli. Il culto dei santi ottenne la definitiva consacrazione nel IV secolo, con le disposizioni di papa Damaso che consentí il libero accesso dei fedeli alle catacombe. La massa crescente di visitatori, in quel periodo, poteva reperire in loco tutte le informazioni sugli anniversari della morte dei santi e sui luoghi di sepoltura, consultando alcuni calendari ufficiali. Si trattava, a tutti gli effetti di guide ante litteram, con indicazioni anche sui luoghi pagani di maggior pregio della città. Un’altra grande ondata di arrivi in città si verificò nell’VIII secolo in seguito alla decisione del pontefice Paolo I di far distribuire alle chiese le reliquie dei santi che si trovavano nelle catacombe. Roma accolse un maggior numero di visitatori anche nei periodi di crisi del pellegrinaggio a Gerusalemme, quando il Mediterraneo era minacciato dai Vandali e, in particolar modo, nel periodo di dominio in Terra Santa dei Turchi selgiuchidi. Nonostante l’attrazione esercitata dalle reliquie, a partire dall’anno Mille gli arrivi dei pellegrini registrarono un calo a causa della turbolenta situazione politica della città, dilaniata dalla lotta tra papato e impero. L’Urbe, oltre a essere luogo di continui scontri armati tra partiti di nobili schierati dalla parte del pontefice o dei sovrani, subiva anche azioni di boicottaggio. Nel XII secolo Enrico II d’Inghilterra ordinò ai suoi sudditi di non andare a Roma: era il periodo della disputa con il vescovo Tommaso Becket e il monarca britannico temeva l’influenza della Chiesa negli affari temporali. Nella stessa epoca Riccardo I Cuor di Leone, transitando nelle vicinanze, non ritenne opportuno entrare in città e visitare i luoghi che esponevano le sacre reliquie. Con la rivoluzione teocratica di Innocenzo III, nel XIII secolo, Roma tornò a popolarsi. La pratica dei viaggi ad limina apostolorum da parte dei vescovi di tutto il mondo, per esporre al pontefice i problemi delle loro diocesi, venne intensificata. Contemporaneamente, aumentarono i pellegrinaggi a scopo penitenziale, nel tentativo di espiare peccati gravi per i quali solo il papa in persona poteva concedere l’assoluzione. Ma fu con l’introduzione del Giubileo, all’inizio del XIV secolo, che Roma visse la sua stagione d’oro, il massimo affollamento. Masse di pellegrini si riversarono nei luoghi santi della Città Eterna, attratti dall’ipotesi di ottenere l’indulgenza plenaria. Alla ripresa contribuirono anche il perfezionamento dell’impianto viario e un periodo di relativa calma nella guerra tra i Comuni. La fine del Medioevo coincise con una nuova crisi di presenze a Roma e con una delle piú grandi tragedie della storia del pellegrinaggio cristiano: nel 1450 piú di 200 fedeli morirono per il crollo di una parte di Ponte Sant’Angelo. DOSSIER PELLEGRINAGGIO

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ROMA

Gli itinerari della fede

Le vie dei «romei» di Amedeo De Vincentiis

I

Si dice, da tempi immemorabili, che tutte le strade portino a Roma: un’affermazione che trova riscontro anche nella pratica dei pellegrinaggi, poiché alla Città Eterna conduceva un fittissimo reticolo di percorsi, battuti da masse di fedeli che divennero sempre piú imponenti, soprattutto dopo l’invenzione dei Giubilei In alto miniatura raffigurante un pellegrino, da Les Trois Pèlerinages di Guillaume de Digulleville. 1355. Parigi, Biblioteca di Sainte-Geneviève. Nella pagina accanto la città di Roma in una miniatura su pergamena di Pietro del Massaio. 1469. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. 46

DOSSIER PELLEGRINAGGIO

l pellegrinaggio cristiano nacque legato a un luogo, Gerusalemme, e già nei primi secoli del cristianesimo il viaggio in Terra Santa conobbe una straordinaria fortuna. Fin da allora il pellegrinaggio diventò un percorso in cui viaggio fisico e spirituale si fondevano nella coscienza individuale. Si trattava, dunque, di un fenomeno collettivo, ma, allo stesso tempo, vissuto in modo molto personale che, per la varietà delle esperienze possibili durante i lunghi spostamenti, era difficile da inquadrare in regole e precetti. Tale libertà, in un periodo in cui la Chiesa si organizzava dal punto di vista dottrinale e istituzionale, destò anche preoccupazione. Cosí san Girolamo ricordava che il pellegrinaggio non era di per sé sufficiente ad assicurare la salvezza, inaugurando in tal modo un filone polemico interno al cristianesimo contro i pellegrini che trovò eco fino in età moderna, per esempio in un intellettuale cristiano come Erasmo da Rotterdam. Ma quando e perché i cristiani dell’Occidente medievale cominciarono a dirottare i loro viaggi devozionali dalla Terra Santa a Roma?

La nuova Gerusalemme

La svolta avviene gradualmente, tra il VII e il X secolo: allora i grandi pellegrinaggi intercontinentali subirono una crisi legata ai grandi assestamenti geopolitici del Mediterraneo, che vedevano l’Occidente, se non isolato, certo piú decisamente delimitato nei suoi confini meridionali dal mondo bizantino e, soprattutto, dall’espansione musulmana. Si svilupparono cosí nuovi itinerari nazionali, diretti a luoghi di culto locali particolarmente venerati. Sempre in questa epoca si moltiplicarono in Europa le costruzioni di monumenti che ricordavano quelli della Terra Santa, e Roma in questo campo assunse un ruolo protagonista. Fin dal IV secolo l’Urbe iniziò a essere considerata come una nova Jerusalem e, in seguito, tale equivalenza venne sempre piú sottolineata, e non solo negli edifici. La basilica romana di S. Croce in Gerusalemme, per esempio, nata per conservare la reliquia gerosolimitana di un frammento della Vera Croce di Cristo, nel periodo pasquale offriva ai pellegrini celebrazioni li-


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ROMA

Gli itinerari della fede Cripta di S. Pietro in Vaticano. Particolare di un mosaico di scuola bizantina che ritrae lo stesso san Pietro. 700 d.C. circa.

IL SEPOLCRO DI ACQUAPENDENTE Tra le stationes, i luoghi di sosta nel viaggio verso Roma, un posto di rilievo ebbe la cittadina di Acquapendente, oggi al confine tra il Lazio e la Toscana. Lí, infatti, era stata eretta una «memoria» del Santo Sepolcro di Gerusalemme, nell’omonima chiesa locale. Si tratta di un sacello quadrangolare, posto nella cripta (foto in alto), che al suo interno richiama il modello del Sepolcro gerosolimitano. La sua costruzione non è databile con certezza, ma è probabile che sia anteriore all’XI secolo. I pellegrini che vi sostavano potevano cosí immaginare cosa li avrebbe aspettati in Terra Santa, se mai fossero giunti a Gerusalemme.

turgiche analoghe a quelle che si tenevano nelle comunità cristiane a Gerusalemme. Un successivo momento di svolta si ebbe alla fine del XIII secolo: negli anni Novanta del Duecento, infatti, l’offensiva mamelucca, guidata dal sultano Ashraf Khalil, aveva neutralizzato gli ultimi centri di resistenza dei crociati cristiani sulle coste siriache e palestinesi. Tali conquiste provocarono un’ulteriore contrazione del flusso dei pellegrinaggi a Gerusalemme, proprio quando papa Bonifacio VIII rilanciava Roma come centro di pellegrinaggio universale, 48

DOSSIER PELLEGRINAGGIO

indicendo il Giubileo del 1300. Come ha scritto lo storico Franco Cardini, «con il Giubileo, Roma finí con l’occupare definitivamente quel posto centrale nell’immaginario e nel sistema giuridico e sacrale della Chiesa latina che fino ad allora era spettato a Gerusalemme».

Come orientarsi?

Il pellegrinaggio a Roma nel X secolo era un fenomeno cosí diffuso che furono chiamati «romei» i fedeli che vi si recavano e via Romea la strada percorsa nel viaggio. Dunque la massa enorme di pellegrini che durante il 1300 si recò nell’Urbe si trovò a percorrere itinerari ben consolidati da una tradizione secolare, con percorsi definiti, tappe quasi d’obbligo e strutture di accoglienza relativamente organizzate. Ma, in concreto, un cristiano del Nord Europa che avesse voluto intraprendere il lungo viaggio per lucrare l’indulgenza giubilare, come avrebbe potuto orientarsi? La prima risorsa era certamente chiedere ad altri piú esperti. Non c’è dubbio, infatti, che in questo campo, rispetto all’abbondanza di carte stradali, guide e itinerari scritti nell’antichità, durante tutto il Medioevo ci si affidò soprattutto al sapere orale. La prima descrizione scritta dell’itinerario che conduce dal Nord a Roma risale soltanto alla fine del X secolo; e per un aggiornamento successivo si dovette attendere fino alla metà del XII. Dal Duecento invece le guide aumentano.


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MAR TIRRENO

Sicilia

In alto la via per Roma secondo il geografo arabo Al-Idrisi. Dopo aver studiato a Cordova e viaggiato in Spagna, in Francia, in Inghilterra e in Africa, fu chiamato da Ruggero II a Palermo dove, nel 1154, ultimò, su una lastra d’argento, l’incisione di un gran planisfero. Completò l’opera con un libro, noto fra gli Arabi col nome di Kitab Rugiar (Il libro di Ruggero), un documento di grande interesse sulle conoscenze geografiche dell’epoca. A sinistra e nella pagina accanto due particolari di una miniatura tratta da Historia Anglorum di Matteo Paris, con l’itinerario percorso dai pellegrini da Londra a Gerusalemme. 1250. Londra, British Library. Il monaco inglese compose anche un itinerario da Londra verso Roma, considerata una nuova Gerusalemme e meta di pellegrinaggio fin dal IV sec.

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DOSSIER PELLEGRINAGGIO

Il monaco inglese Matteo Paris, cronista e disegnatore, redasse un itinerario da Londra a Roma, e poi fino alla Sicilia, corredandolo addirittura di immagini. L’autore presenta infatti il percorso verso Roma con una sequenza di miniature che raffigurano singole città o insediamenti, la cui distanza viene accuratamente calcolata in giornate di viaggio. Ma, come oggi d’altronde, la consultazione di tali itinerari necessitava di una buona dose di avvedutezza da parte dei viaggiatori. La perizia stradale del nostro autore, infatti, comincia a difettare una volta oltrepassati i confini della Francia. A partire dalle Alpi abbondano le lacune e gli errori tanto che, in alcune versioni dell’opera, non vengono piú indicati i collegamenti tra le differenti località, lasciando al viaggiatore il compito di trovare da solo i percorsi piú opportuni tra una tappa e l’altra.

Tre, poi cinque e infine uno

Piú o meno contemporaneo è l’itinerario suggerito da un anonimo monaco del monastero di Stade, in Germania. Anche in questo caso le possibilità indicate variano di zona in zona, secondo le conoscenze dell’autore. Vengono indicati tre percorsi fino ai confini dell’Italia: uno che attraversa il Moncenisio, un altro il Brennero, un altro ancora il San Gottardo. Dalle Alpi alla Toscana i tre percorsi si suddividono, a loro volta, in cinque itinerari possibili. A mano a mano che ci si avvicina a Roma, invece, le strade indicate si riuniscono, e, finalmente, da Bolsena fino all’Urbe, il cammino ridiventa unico. Un colto pellegrino del 1300 ci conferma che questi percorsi erano realmente seguiti dai romei. Gilles di Muisis, abate del monastero belga di S. Martino a Tournai, riportò nella sua crona-


ca l’itinerario da lui seguito per raggiungere Roma in occasione del Giubileo. Seguendo il suo percorso si notano solo piccole variazioni rispetto a quelli tradizionali, probabilmente dovute a necessità personali dell’abate. Come si sarà notato anche da questi pochi esempi, per tutto il Medioevo non si può certo parlare di una moltitudine di strade che dal Nord Europa conducono a Roma, ma neanche di un percorso univoco. Se i percorsi divergevano, a seconda delle provenienze, fino alle Alpi, una volta varcati i monti, in Italia le vie per Roma tendevano a restringersi a mano a mano che ci si avvicinava alla meta. Si può senz’altro dire che i pellegrini dell’Occidente diretti a Roma, passati gli Appennini, avevano molte possibilità di fare insieme l’ultimo tratto di viaggio.

In basso gli itinerari per Roma dal Nord Europa secondo gli Annales Stadenses, titolo attribuito alla cronaca universale, dalla Creazione al 1256, di cui fu autore il cronista tedesco e frate minore Alberto di Stade.

MARE DEL NORD

Stade Brema Celle Münster

o

Ren

Duisburg Colonia Bonn

Sen

na

Neufchateau

Reims

Châlons-sur-Marne

Coblenza

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Elb

Ghota

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Meiningen

Worms Spira

Troyes Strasburgo Châtillon-sur Seine

Loi

Nordhausen

Rothenburg Augusta

Dan

ubi

o

Shongau Châlon-sur-Saône Tournus

Basilea Neuchatel Losanna

Innsbruck Brennero

Roda

no

Bolzano Pusterdal-Pusteria Gran San Bernardo Lione Trento Aosta Treviso Chambery Bassano Ivrea Vercelli Pavia Padova Moncenisio Venezia Piacenza Mortara Susa Po Rovigo Torino Fidenza Cisa Bologna Ravenna Sarzana Luni Firenze Forlì Lucca Alpe di Serra Arezzo Poggibonsi Siena SanQuirico Orvieto MA Bolsena RA DR Viterbo IAT Corsica Sutri ICO Roma

Sardegna

MAR TIRRENO

Sicilia

DOSSIER PELLEGRINAGGIO

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ROMA

Il Giubileo

1300: il primo Anno Santo Il 22 febbraio del 1300 papa Bonifacio VIII istituisce il primo Giubileo, accordando a tutti coloro che vi parteciperanno l’indulgenza plenaria. Nasce cosí una delle ricorrenze piú importanti della religione cristiana, dai significativi risvolti sul piano sociale ed economico Nella pagina accanto Roma, basilica di S. Giovanni in Laterano. Affresco che raffigura la promulgazione dell’indulgenza dell’anno centenario 1300 da parte di Bonifacio VIII. L’opera viene attribuita dalla tradizione storiografica a Giotto, senza che però vi sia alcun dato storico-documentario. In origine, la scena faceva parte del ciclo pittorico della Loggia delle Benedizioni, costruita per volere dello stesso papa Caetani.

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DOSSIER PELLEGRINAGGIO

di Amedeo De Vincentiis

I

l Giubileo è uno dei rari grandi fenomeni della storia a cui si possano attribuire un luogo e una data di nascita esatti: Roma, 22 febbraio del 1300. Si trattò di una vera e propria invenzione, tanto che il papa Bonifacio VIII, avendone deciso la proclamazione, ordinò che si ricercassero carte, testi, documenti di qualsiasi natura che attestassero i precedenti. Infatti, una delle strategie costanti della Chiesa, e non solo in epoca medievale, è stata quella di innovare rifacendosi sempre alla tradizione. Ma in questo caso le ricerche furono vane. Le parole iniziali della bolla di proclamazione del Giubileo, emanata il 22 febbraio 1300, attestano la mancanza di precedenti accertati. «Antiquorum habet fida relatio»: «Esiste attendibile asserzione degli antichi», recita il documento, lasciando cosí nella totale indeterminatezza il riferimento a un vago passato, tramandato forse oralmente. Ma come nasce l’iniziativa del Giubileo? E qual è il ruolo del pontefice in tale creazione, quale il peso della tradizione e quello delle aspettative dei fedeli? Iniziamo dalla tradizione. Senza risalire all’intricata questione del valore dell’antico Yobel ebraico, cioè l’annuncio e la celebrazione di una particolare festività periodica anche in epoca precristiana, soffermiamoci senz’altro

sui primi secoli del Medioevo. Nel VII secolo Isidoro di Siviglia, nella sua celebre opera enciclopedica, le Etimologie, che ebbe larga fortuna durante tutta l’età medievale, scriveva: «Il Giubileo si intende come anno di remissione. Sono ebraici sia il termine che il numero composto da sette settenati, cioè quarantanove anni, in cui risuonavano le trombe; a tutti era restituita l’antica proprietà, estinti i debiti e confermate le libertà. Anche noi celebriamo questo numero nel giorno della Pentecoste».

La remissione delle pene

Nel corso dei secoli, la concessione dell’anno di remissione indicato come Giubileo si svincolò dal ciclo temporale dei cinquant’anni e fu inteso come momento di remissione delle pene concesso dalla Chiesa ai fedeli: si entra cosí nel delicato ambito della concessione delle indulgenze. Alla vigilia del 1300, il termine «giubileo» viene dunque usato come una metafora sia di indulgenze parziali, sia di indulgenze plenarie, come quelle concesse a coloro che partivano crociati in Terra Santa. Ma perché il Giubileo venne istituito proprio nell’anno 1300? Il medievista Arsenio Frugoni ha dimostrato come tutte le spiegazioni monocausali siano insufficienti. Alla spiegazione storica del fenomeno contribuisce piuttosto un insieme di fattori. Innanzitutto, il clima spirituale della fine del XIII secolo, percorso da correnti escatologiche che attendevano un forte segno di rinnovamento e rigenerazione. Lo scadere del secolo, il centesimo anno, rappresentava un riferimento cronologico di particolare attrazione per chi si attendeva un segnale di questo tipo. Che si trattasse di un sentimento diffuso tra i fedeli lo conferma il racconto di un testimone privilegiato, il cardinale Iacopo Stefaneschi, che cosí descrive un grande pellegrinaggio spontaneo a Roma nei primi giorni dell’anno 1300, prima che venisse proclamato il Giubileo: «Sempre piú la fede dei cittadini e dei forestieri


DOSSIER PELLEGRINAGGIO

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ROMA

Il Giubileo

aumentò. Certuni affermavano che nel primo giorno del centesimo si cancellava la macchia di tutte le colpe, nei rimanenti che vi fosse un’indulgenza di cento anni; e cosí, per quasi due mesi conservavano ambe le speranze insieme col dubbio, per quanto accorressero numerosi». In questo clima generale, l’elemento decisivo fu la capacità del pontefice di interpretare le esigenze dei fedeli e di rappresentarle in una nuova istituzione. Ma quella di Bonifacio VIII non fu certo una risposta passiva. Al contrario, si inserí con determinazione nella linea politica e pastorale del suo pontificato.

Una cavalcata solenne

Appena eletto papa, Benedetto Caetani entrò a Roma con una solenne cavalcata, si fece consacrare in S. Pietro e presiedette a un sontuoso festino nel palazzo del Laterano. La magnificenza della cerimonia rimase impressa nei contemporanei perché manifestò la chiara volontà del pontefice di riaffermare il ruolo della città come sede del papato universale, dopo la parentesi del papato politicamente debole del suo predecessore Celestino V.

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DOSSIER PELLEGRINAGGIO

Il nuovo pontefice puntò subito a rafforzare il proprio potere. Sia all’interno dei domini temporali della Chiesa, attraverso l’accrescimento dei beni fondiari della propria casata, in modo da consolidare anche la propria posizione di sovrano pontefice; sia sul piano internazionale, opponendosi al re di Francia, Filippo il Bello, che gli contendeva alcune importanti prerogative giurisdizionali sul clero francese. Lo scontro si concluse con la sostanziale capitolazione del papato nell’episodio di Anagni. Ma, ancora alle soglie dell’anno 1300, era possibile immaginare che, come aveva affermato Bonifacio in una

IDENTIKIT DI UN EVENTO La piú completa ricostruzione storica del Giubileo del 1300 e del suo significato si deve al medievista Arsenio Frugoni e al suo lavoro intitolato Il Giubileo di Bonifacio VIII, pubblicato per la prima volta nel 1950 e piú volte ristampato. Lo storico articola la ricerca in varie domande (che significato aveva il termine «giubileo»? Come nacque l’idea di promulgare l’indulgenza nel 1300? Quale il valore dei precedenti? E cosí via); rispondendo, Frugoni interpreta il Giubileo come un momento storico privilegiato per analizzare le varie forme in cui si manifestava concretamente una credenza religiosa nel Medioevo, dalle elaborazioni teologiche ai fatti piú materiali, come i problemi legati al viaggio e al soggiorno a Roma, o le ricadute economiche dell’afflusso dei pellegrini.

In basso particolare di una miniatura di scuola italiana raffigurante alcuni pellegrini che incontrano papa Bonifacio VIII, da un’edizione della Divina Commedia di Dante Alighieri. XIV sec. Chantilly, Musée Condé.


LIBERI DALLA PENA E DALLA COLPA bolla, la Chiesa realmente «esercitasse un libero dominio sui popoli fedeli, affinché, come madre sui figli, avesse potere sui singoli e tutti con filiale reverenza l’onorassero come madre e signora universale». Indicendo una celebrazione di portata universale come il Giubileo il papato poteva riaffermare anche sul piano della fede il proprio ruolo di autorità suprema.

Lettere circolari a tutta la cristianità

Il 22 febbraio del 1300, festa della Cattedra di San Pietro, il pontefice dall’ambone centrale della basilica vaticana pronunciò una solenne allocuzione alla massa dei fedeli, con cui proclamava l’indulgenza del Giubileo. Dopo la proclamazione, la bolla di indizione venne deposta sull’altare maggiore della basilica e, in seguito, il testo venne diffuso attraverso lettere circolari per tutta la cristianità. In concreto Bonifacio concedeva l’indulgenza plenaria a tutti coloro che avessero visitato la basilica di S. Pietro e quella di S. Paolo fuori le Mura, dopo un pentimento sincero e la confessione. Per lucrare l’indulgenza, i cittadini di Roma avrebbero dovuto visitare le basiliche durante trenta giorni; per i pellegrini venuti da fuori invece il termine era accorciato a quindici giorni.

Veduta della basilica di S. Paolo fuori le Mura, particolare di una pianta di Roma. XVII sec. La bolla pontificia che indiceva l’inizio del Giubileo del 1300 concedeva ai fedeli l’indulgenza plenaria soltanto dopo la visita alle basiliche di Pietro e Paolo, in un arco di tempo stabilito in 30 giorni per i Romani e in 15 per gli stranieri.

Ma che cosa guadagnavano esattamente per le loro anime coloro che si recavano a Roma per la grande indulgenza del 1300? La questione non parve immediatamente chiara neanche ai contemporanei. In particolare, il dubbio consisteva nell’interpretare il significato dell’espressione teologica «a poena et culpa», «dalla pena e dalla colpa»: l’indulgenza giubilare poteva di per sé liberare sia dalla pena che si sarebbe dovuta scontare per i propri peccati, sia dalla colpa che derivava da tali peccati? In realtà no. L’indulgenza giubilare poteva solamente condonare la pena che si sarebbe dovuta scontare nell’aldilà, mentre l’assoluzione dalla colpa vera e propria poteva avvenire solo tramite il sacramento della confessione. Ma poiché per lucrare l’indulgenza bisognava preliminarmente essersi «pentiti e confessati», ecco che allora una volta ottemperati gli obblighi giubilari i pellegrini si ritrovavano di fatto liberi sia dalla pena che dalla colpa. Naturalmente finché non avessero ricominciato a peccare di nuovo.

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ROMA

Il Giubileo

A sinistra san Severo, dodicesimo vescovo di Ravenna, morto nel 344 circa. Particolare della decorazione musiva della fascia inferiore del catino absidale di S. Apollinare in Classe, Ravenna. 535-538. Secondo la tradizione, il corpo del santo vescovo fu trafugato da un monaco nella prima metà del IX sec. e venduto all’arcivescovo di Magonza. Nella pagina accanto la Loggia delle Benedizioni di S. Pietro a Roma, in un disegno di Maarten van Heemskerck (1498-1574). Berlino, Staatsbibliothek.

SACRI COMMERCI La ricerca frenetica delle reliquie alimentò un vero e proprio commercio fra alcune città desiderose di allargare il loro santo tesoro e quelle, come per esempio Roma, ricca dei sepolcri dei martiri, che ne erano particolarmente fornite. Alcuni chierici romani non esitarono a trasformarsi in autentici mercanti di reliquie. Uno dei trafficanti piú conosciuti, nel IX secolo, è un certo Deodato, diacono della Chiesa di Roma e responsabile di una delle zone cimiteriali della città. In realtà, Deodato e i suoi soci – tra i quali i suoi due fratelli – gestivano una società di commercio molto organizzata. Durante i mesi invernali, raccoglievano le reliquie nei cimiteri romani e poi, nelle stagioni piú miti,

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DOSSIER PELLEGRINAGGIO


quando era piú facile passare le Alpi, inviavano convogli per portare la merce ai loro clienti. Deodato chiedeva un prezzo alto per le sue reliquie e, finché non aveva ricevuto la certezza di un pagamento immediato, rimandava le consegne. Uno dei suoi clienti piú famosi – grazie al quale conosciamo cosí bene questo strano mercante – fu Eginardo, il famoso biografo di Carlo Magno – che acquisí le reliquie dei santi Pietro e Marcellino per la sua fondazione di Seligenstadt. Il campo d’azione di Deodato non si limitava alla Germania e alle regioni settentrionali sotto controllo franco, ma comprendeva anche il Sud Italia, come attesta la presenza e l’attività sua e dei suoi soci a Benevento. Alcuni di questi mercanti non esitavano, per

accontentare i loro clienti, a compiere autentici furti sacri. Cosí, nella prima metà del IX secolo, un certo Felice – un chierico franco che viaggiava attraverso l’impero commerciando reliquie – vendette all’arcivescovo di Magonza il corpo di san Severo, vescovo di Ravenna. Per dimostrare l’autenticità delle reliquie, raccontò di averle rubate nel monastero ravennate di S. Apollinare. E lí sarebbe avvenuto l’incontro con l’arcivescovo che gli avrebbe ceduto il suo cavallo per consentirgli di sfuggire ai monaci che si erano nel frattempo accorti del furto. In cambio, Felice concluse con il prelato un accordo garantendogli la vendita del prezioso corpo. Cécile Caby

Il primo Giubileo nacque come punto di incontro tra le aspirazioni spirituali dei fedeli, la rivendicazione del primato di Roma e le esigenze della politica papale. Si trattò della fondazione di una tradizione eccezionalmente duratura e vitale, come dimostrano le celebrazioni successive fino ai giorni nostri. Ma in quel tempo si trattò di una celebrazione sperimentale, sottoposta a progressive precisazioni e modifiche. Infatti, durante l’anno 1300, lo stesso Bonifacio intervenne piú volte per definire il valore e le caratteristiche della celebrazione. In aprile, il giovedí santo, il pontefice decretò che i pellegrini avrebbero goduto dell’indulgenza giubilare anche se avevano visitato una volta sola le due basiliche apostoliche. Allo stesso tempo, riconfermò l’esclusione dall’indulgenza dei nemici della Chiesa, tra cui erano allora il re di Sicilia, i Colonna e i loro seguaci. A Natale, invece, dichiarò ufficialmente che tutti i pellegrini che si trovavano a Roma a quella data avrebbero acquisito la piena remissione dai peccati, anche senza completare il ciclo dell’indulgenza. Lo stesso era concesso a tutti i pellegrini morti per via o prima di avere terminato il numero delle visite prescritte. L’anno giubilare venne inderogabilmente dichiarato concluso dal pontefice nel Natale 1300. DOSSIER PELLEGRINAGGIO

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ROMA

Il Giubileo

RELIQUIE DI GESÚ LA CORONA di spine, conservata a Costantinopoli, e acquistata da re Luigi IX di Francia, si trova a Parigi, nel Tesoro della cattedrale di Notre-Dame. Molte delle sacre spine furono donate nel corso dei secoli e sono oggi venerate in diverse chiese d’Italia e del mondo. Firenze, convento di S. Marco. Gesú crocifisso e Longino, affresco del Beato Angelico (fra Giovanni da Fiesole, al secolo Guido di Pietro). 1440-1443.

LA LANCIA

con la quale il centurione Longino trafisse il costato di Cristo è oggi custodita nella Schatzkammer dell’Hofburg di Vienna.

IL SANGUE

di Cristo, secondo la tradizione, fu portato a Mantova in un’ampolla da Longino. La preziosa reliquia è custodita nella cripta della basilica di S. Andrea, anche se altre fiale contenenti il sangue venerato si trovano in diverse città d’Italia e d’Europa.

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DOSSIER PELLEGRINAGGIO

TITULUS CRUCIS L’iscrizione posta sulla Croce, secondo i Vangeli, è custodita nella basilica di S. Croce in Gerusalemme a Roma.

I TRE CHIODI Rinvenuti, secondo la tradizione, dall’imperatrice Elena, sono custoditi nella basilica di S. Croce in Gerusalemme a Roma e nel Duomo di Milano, mentre il terzo si troverebbe a Monza, inserito nella Corona Ferrea o, a Vienna, nella Lancia di Longino. Molte altre chiese ne vantano il possesso.


LA SACRA CULLA Un reliquiario in cristallo e

argento, custodito nella basilica romana di S. Maria Maggiore, contiene le assicelle in legno appartenute, secondo la tradizione, alla mangiatoia in cui fu deposto Gesú bambino a Betlemme dopo la nascita.

IL PREPUZIO Circoncisione di Gesú. Tempera su

tavola di Bernardino Butinone (1450-ante 1510). 1470/1485 circa. Bergamo, Pinacoteca dell’Accademia Carrara. Il possesso del prepuzio di Gesú fu rivendicato da diverse chiese in Europa. La tradizione piú accreditata lo vuole custodito sin dall’epoca carolingia nella basilica lateranense a Roma, dalla quale, nel 1527, sarebbe stato trafugato e portato nel borgo viterbese di Calcata. Della venerata reliquia, custodita fino al 1984 nella chiesa dei Ss. Cornelio e Cipriano, e nuovamente rubata, non vi è piú traccia.

LA CROCE

Ritrovata da Elena sul Calvario a Gerusalemme, e qui custodita fino al XII sec., è oggi in diversi frammenti all’interno della basilica di S. Croce in Gerusalemme a Roma. Altre reliquie del legno della Santa Croce sono sparse in tutto il mondo.

LA COLONNA DELLA FLAGELLAZIONE Portata a Roma da Gerusalemme dal cardinale Giovanni Colonna nel 1223, si trova nella basilica di S. Prassede a Roma.


ROMA

Il Giubileo SETTE SECOLI DI GIUBILEI

1300 Bonifacio VIII, per la prima volta nella storia del cristianesimo, concesse il perdono ai fedeli pentiti e confessati che avessero visitato le basiliche di S. Pietro e S. Paolo. 1350 Indetto da Clemente VI, il Giubileo si celebrò in assenza della Curia pontificia, in esilio ad Avignone. 1390 Urbano VI dispose che il Giubileo si celebrasse ogni 33 anni e stabilí che alla visita alle basiliche di S. Pietro, S. Paolo e S. Giovanni si aggiungesse S. Maria Maggiore. 1423 Mai indetto ufficialmente si svolse sotto il pontificato di Martino V, che concesse comunque l’indulgenza plenaria a coloro che avessero visitato le basiliche. 1450 Niccolò V fissò la periodizzazione degli Anni Santi ogni 25 anni. 1475 Si registrò una scarsa affluenza a causa delle inondazioni del Tevere e della pestilenza che costrinse lo stesso Sisto IV a lasciare Roma. Il Giubileo fu protratto fino alla Pasqua del 1476. 1500 Alessandro VI introdusse la cerimonia dell’apertura della Porta Santa nella basilica di S. Pietro. 1525 C ontro Clemente VII i Luterani diffusero libelli polemici sulla differenza tra il Giubileo di Cristo, concesso a tutti gratuitamente, e quello del papa, teso solo a rimpinguare le finanze della Chiesa. 1550 I ndetto da Paolo III si svolse sotto il pontificato di Giulio III. 1575 I ndetto da Gregorio XIII, si caratterizzò per il notevole afflusso di confraternite. 1600 C lemente VIII nominò due commissioni prelatizie per gli aspetti spirituali e materiali. 1625 U rbano VIII concesse l’indulgenza anche a carcerati e suore di clausura. 1650 Innocenzo X fu immortalato dall’Algardi nella statua bronzea in Campidoglio. Fu il trionfo dell’arte: Bernini scolpí l’Estasi di Santa Teresa e Borromini provvide al restauro di S. Giovanni in Laterano. 1675 Indetto da Clemente X. La mattina di Pasqua, a piazza Navona, si svolse una grandiosa cerimonia alla presenza della regina Cristina di Svezia. 1700 I n settembre Innocenzo XII morí e nei due mesi di sede vacante diminuí l’afflusso dei pellegrini; in novembre una piena del Tevere rese impraticabile la via Ostiense, per cui si commutò la visita a S. Paolo con quella della chiesa a S. Maria in Trastevere. 1725 Celebrato sotto il pontificato di Benedetto XIII, fu un Anno Santo molto austero in cui venne vietato qualsiasi divertimento.

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DOSSIER PELLEGRINAGGIO

1750 Benedetto XIV riempí Roma di predicatori. 1775 La Porta Santa fu aperta con la sede papale vacante e solo il 26 febbraio il neoeletto Pio VI diede inizio all’Anno Santo emanando disposizioni in materia religiosa e annonaria. 1825 Fu celebrato durante il pontificato di Leone XII, in un clima tutt’altro che tranquillo: nel novembre di quell’anno salirono sul patibolo di piazza del Popolo due carbonari, Targhini e Montanari. 1850 Pio IX era reduce da Gaeta dopo la breve parentesi della Repubblica romana e gli Stati nazionali risentivano ancora delle conseguenze delle rivoluzioni del 1848; perciò non ebbe luogo alcuna celebrazione, anche se il papa concesse la possibilità di acquistare l’indulgenza plenaria. 1875 Fu un Giubileo in tono minore, con Pio IX «prigioniero» in Vaticano e Roma occupata dal nuovo Stato italiano. 1900 Furono riprese le celebrazioni liturgiche e Leone XIII riuscí ad avvicinare le masse alla Chiesa. Ma cause politiche (uccisione di re Umberto I e polemiche anticlericali) e cause naturali (una terribile piena del Tevere) turbarono l’afflusso dei fedeli. 1925 Sotto il pontificato di Pio XI, Roma vide l’afflusso di 401 889 pellegrini italiani e 582 234 stranieri. 1950 Indetto da Pio XII, che annunciò l’apertura della Porta Santa al mondo ancora sconvolto dagli ultimi eventi bellici. Si evidenziano sempre piú gli aspetti commerciali dell’evento, e l’esigenza di fornire ai pellegrini un soggiorno confortevole. 1975 Paolo VI fu tentato di non indire il Giubileo perché poteva apparire poco conforme all’indirizzo del Concilio Vaticano II che puntava piú al recupero dell’autenticità religiosa che all’esteriorità delle devozioni. 2000 Il Grande Giubileo di fine millennio, indetto da Giovanni Paolo II, è stato caratterizzato dalla straordinaria apertura della Chiesa alle altre fedi. 2015 Con la bolla Misericordiae Vultus, papa Francesco ha indetto il Giubileo della Misericordia, che, aperto l’8 dicembre, si chiude il 20 novembre 2016.

Veduta del Vaticano, particolare della pianta del Lazio e della Sabina, dal ciclo di affreschi eseguito sulla base dei cartoni del geografo Ignazio Danti. 1580-1585. Città del Vaticano, Musei Vaticani, Galleria delle Carte Geografiche.


DOSSIER PELLEGRINAGGIO

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ROMA

I luoghi della fede

Una città e le sue chiese

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DOSSIER PELLEGRINAGGIO


Dall’età di Costantino in poi, molte zone della Città Eterna si trasformano in altrettanti cantieri. Sorgono chiese e basiliche, che celebrano le figure piú importanti della cristianità. Le grandi fabbriche hanno un elemento comune: il riuso sistematico dei materiali, soprattutto quelli di pregio, con cui era stata modellata l’immagine della capitale dell’impero di Andrea Augenti

I

mmaginiamo di trovarci a Roma nell’anno 350. È una radiosa mattina di ottobre, il gradevole ottobre romano, e l’aria è tersa. Comincia la nostra visita alla città, che naturalmente ci colpisce subito per il suo aspetto monumentale. Una passeggiata attraverso le zone centrali, come il Campo Marzio, con i suoi grandi teatri in mattoni e marmo, e i Fori Imperiali, ampi spiazzi porticati, ci trasmettono tutta la grandiosità del luogo, ma, soprattutto, indicano a chiare lettere una cosa molto evidente: siamo ancora nella Roma dell’antichità. La città mantiene, infatti, le caratteristiche fondamentali del suo passato ed è letteralmente dominata dai complessi monumentali, dai templi, dalle terme, dai circhi, dagli anfiteatri (dal Colosseo, ovviamente), piú o meno abbondanti a seconda delle zone, intercalati alle abitazioni: le domus, ovvero le residenze degli aristocratici (vere e proprie ville unifamiliari), e le insulae, cioè i grandi condomini in cui possono risiedere fino a svariate decine di persone. Questa è l’impressione generale, sicuramente veritiera. Ma è tutto qui? Non tutto. Se, infatti, dal Colosseo ci spingiamo verso la periferia sud della città, arrivati in prossimità delle Mura Aureliane, all’altezza di Porta Asinaria (all’epoca ancora non esisteva Porta S. Giovanni, che fu aperta, a poca distanza, nel 1574, n.d.r.), ci colpisce un edificio che dentro la città non trova eguali, finora. È la cattedrale, la grande basilica intitolata al Salvatore (poi passata alla storia come S. Giovanni in Laterano). Da un portale al centro Città del Vaticano, Stanze Vaticane, Sala di Costantino. Affresco raffigurante la donazione di Roma nel ciclo sulla vita dell’imperatore, realizzato dalla scuola di Raffaello, su cartoni del maestro. 1520-1524. Il dipinto evoca l’offerta della città, simboleggiata da una statuetta, da parte di Costantino a papa Silvestro I, atto su cui si era basata la fondazione dello Stato della Chiesa e del potere temporale dei papi.

della facciata disadorna si entra in un ampio spazio rettangolare, suddiviso in cinque navate da quattro file di colonne. Sul fondo, una grande abside decorata con un mosaico senza raffigurazioni, di colore oro, oggi perduto.

Il paesaggio cambia volto

Questo monumento è la traccia piú eloquente che qualcosa di nuovo sta accadendo in città: con l’affermazione del cristianesimo, anche il paesaggio inizia a modificarsi. Tuttavia, come abbiamo detto, la cattedrale si trova in periferia. Come spiegare una simile scelta? I motivi sono essenzialmente due. Il primo è di natura materiale. Qui, nel vasto spiazzo che ancora oggi ospita la basilica, prima si ergeva la caserma degli equites singulares, un corpo scelto dell’esercito: la guardia a cavallo dell’imperatore. L’unica colpa degli equites fu quella di schierarsi dalla parte sbagliata nella battaglia che segnò la vittoria di Costantino appunto contro Massenzio, la battaglia di Ponte Milvio, combattuta nel 312. Dopo quello scontro, Costantino prese il potere a Roma, e, per tutta risposta, demolí la caserma degli equites, fedeli al suo antagonista, e al suo posto fece costruire la cattedrale. Il secondo motivo è di natura ideologica: la città era ancora saldamente in pugno a un nucleo ristretto di persone molto influenti, i senatori e le loro famiglie. Questi personaggi si sentivano a tutti gli effetti eredi del passato glorioso di Roma ed erano per la maggior parte seguaci delle religioni che i cristiani definivano «pagane». Questa tendenza fu dura a morire: basti pensare che ancora nel 387, quando ormai il cristianesimo si era definitivamente affermato già da qualche anno (380) come religione di Stato, un aristocratico, Tamesius Olympios Augentius, fonda un tempio dedicato al dio Mitra. Costantino non aveva alcuna intenzione di arrivare a uno scontro con la classe dirigente romana, che avrebbe molto mal tollerato una «invasione» cristiana dell’antico centro storico, e dunque preferí costruire la cattedrale della città dentro le mura, ma bene ai margini. DOSSIER PELLEGRINAGGIO

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A sinistra affresco raffigurante l’interno della basilica di S. Pietro, cosí come doveva apparire in età costantiniana, nel IV sec. Città del Vaticano, Biblioteca Vaticana. In basso pianta della città di Roma, con l’indicazione delle principali chiese e basiliche, nonché dei complessi catacombali. I numeri romani indicano le regioni ecclesiastiche. 1. S. Pietro 2. SS. Cosma e Damiano 3. Colosseo 4. S. Pudenziana 5. S. Maria Maggiore 6. S. Giovanni in Laterano 7. S. Stefano Rotondo 8. SS. Giovanni e Paolo 9. S. Sabina 10. S. Paolo fuori le Mura 11. Catacombe di Commodilla 12. Catacombe di Domitilla 13. Catacombe di S. Callisto 14. S. Sebastiano 15. Catacomba di Pretestato 16. Catacomba della via Latina 17. Catacomba dei SS. Marcellino e Pietro 18. S. Lorenzo 19. S. Agnese fuori le Mura 20. Cimitero Maggiore 21. Cimitero anonimo di via Anapo 22. Catacomba di Priscilla 23. Catacomba dei Gordiani 24. Catacomba di Panfilo. 64

DOSSIER PELLEGRINAGGIO

Basiliche

22

Catacombe Mausolei

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23 21 24

4 2

1

19

5 18

3 7

6

8

17

9 16 13 10

11

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15


In alto Roma, Battistero Lateranense, cappella di S. Venanzio. Voluta da papa Giovanni IV (640-642) per accogliere le reliquie martiriali, la cappella fu decorata sotto Teodoro I (642-648).

In basso Roma. Il braccio di croce nord-orientale della basilica di S. Stefano Rotondo, con il pavimento marmoreo del V sec. e l’abside mosaicata del VII sec.

Se proseguiamo la nostra visita immaginaria, per cogliere altri elementi di novità occorrerà spingerci oltre le mura. Qui furono infatti costruite, nella prima metà del IV secolo, le piú grandiose basiliche della capitale. Generalmente si tratta di chiese martiriali, ovvero di edifici costruiti al di sopra delle tombe dei piú importanti martiri delle persecuzioni contro i cristiani. La piú nota, naturalmente, era quella dedicata all’apostolo Pietro, nella zona del Vaticano. Anche in questo caso lo schema architettonico adottato fu quello di una grande basilica rettangolare a cinque navate, stavolta concluse con un transetto e con una grande abside al termine di quella centrale. Ma una caratteristica differenziava S. Pietro dalla cattedrale: un grande atrio collocato davanti alla facciata, uno spazio rettangolare circondato da portici. Questo elemento aumentava di gran lunga la grandiosità della chiesa e la dotava di un importante spazio per la socialità. I fedeli potevano incontrarsi e sostare nell’atrio, cosí come fino ad allora i Romani avevano fatto nelle terme, nei fori o nei portici antistanti ai teatri.

Un modello comune

Fuori le mura lo spazio era dominato anche da un altro tipo di edificio, molto particolare: le cosiddette basiliche circiformi. Queste erano grandi chiese dalla forma molto simile a quella di un circo antico, con tre navate che terminavano in una grande abside. A queste basiliche era associato un mausoleo a pianta circolare, spesso la tomba di un membro della dinastia imperiale, come nel caso del mausoleo di Elena (la madre di Costantino) e la basilica dei SS. Marcellino e Pietro, lungo l’antica via Labicana. L’impianto di questi complessi si rifà a un modello comune: il mausoleo di Romolo e il circo e la villa di Massenzio, sulla via Appia. Ma, ancora piú indietro nel tempo, il vero modello è il palazzo imperiale del Palatino, strettamente collegato al Circo Massimo. E dietro a queste scelte architettoniche, come spesso accade, ci sono motivi ideologici. Esisteva, infatti, un complesso simbolismo secondo il quale l’imperatore era identificato con il dio Sole, che nelle iconografie dell’epoca compiva il suo percorso nel cielo su un carro, in un circo. Queste chiese rappresentavano, in poche parole, i concetti della regalità imperiale e dell’eternità. Dell’eternità al di là della morte. E infatti la loro funzione era molto specifica: le basiliche circiformi erano edifici funerari, dentro i quali si potevano far seppellire i propri cari nelle immediate vicinanze dei martiri sepolti proprio lí, DOSSIER PELLEGRINAGGIO

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I luoghi della fede

Roma. I resti della basilica circiforme di papa Marco, nel comprensorio delle catacombe di S. Callisto, venuti alla luce nel settembre 1991.

nelle catacombe che si trovavano nel sottosuolo. E questa era una delle massime aspirazioni, per i cristiani dell’epoca. Proprio per i motivi politici che abbiamo sottolinenato, ma anche per l’ovvia considerazione riguardo alla maggior disponibilità di spazio, il cristianesimo cominciò dunque a modificare soprattutto le periferie della città, dentro e fuori le mura. Prese cosí il via un lento movimento centripeto, grazie al quale, progressivamente, la nuova religione prese possesso dell’area urbana.

UNA SCOPERTA INATTESA Tutto ebbe inizio nel settembre del 1991, quando qualcuno si rese conto che l’erba cresceva in modo diverso in un prato accanto alla via Ardeatina, nell’immediata periferia di Roma; e che quell’erba sembrava disegnare dei muri. Venne avvertita la Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, che si occupa della gestione delle catacombe italiane, ed ecco che, in poco tempo, uno scavo portò alla luce una basilica circiforme fino ad allora mai vista. Si tratta della chiesa di S. Marco, costruita verso il 336 grazie a un contributo dell’imperatore Costantino. L’edificio trae il nome dal papa che la fondò, e che vi si fece seppellire.

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Tra il IV e il V secolo le esigenze della comunità cristiana si fecero sempre piú pressanti e nacquero nuovi e numerosi luoghi di culto. I piú diffusi erano i cosiddetti tituli, cioè le parrocchie dei singoli quartieri. Molte di queste chiese furono costruite sfruttando edifici che già esistevano: in piú occasioni si è notato che le grandi sale absidate delle domus (proprio quelle dei senatori) si adattavano perfettamente alla bisogna e con poche modifiche (soprattutto l’aggiunta di pitture, mosaici e sculture).

Donatori eccellenti

Altre volte le nuove chiese rimpiazzarono completamente luoghi di culto precedenti, come nel caso di S. Clemente, costruita a spese di un tempio dedicato a Mitra. Piú tardi la Chiesa, a partire dal V secolo, riuscí, grazie alle donazioni delle ricche famiglie romane o degli imperatori, a progettare edifici di grandi dimensioni, che ancora oggi sono punti fermi della topografia della città. È il caso di S. Sabina, la grande basilica del colle Aventino che ha conservato uno dei rari esempi della ricca decorazione parietale spesso in dote a questi edifici: una serie di riquadri multicolori ed elegantissimi, realizzati con marmi intagliati, soprattutto porfido rosso e serpentino verde. Ma è anche il caso di una delle piú importanti basiliche romane, S. Maria Maggiore, le cui pareti sono impreziosite da mosaici che raccontano le storie del Vecchio e del Nuovo Testamento. E risale a questo periodo un’altra chiesa di grande valore architettonico, S. Stefano Rotondo. In questo caso l’eleganza è in buona parte demandata all’involucro, una scatola circolare divisa in tre zone da due colonnati concentrici e sormontata da una cupola centrale. Ma anche le pareti e i pavimenti di S. Stefano erano riccamente decorati con marmi colorati, in origine. Nel VI secolo la storia di questa progressiva conquista dello spazio urbano, avvenuta in modo figurato mediante la costruzione di chiese, sembra ormai compiuta. A quest’epoca il papa è ormai il vero signore della città, che i Bizantini gestiscono quasi esclusivamente dal punto di vista militare. La costruzione di S. Maria Antiqua alle pendici del colle Palatino costituisce un altro passaggio importante. La chiesa ha miracolosamente conservato gran parte delle sue pitture, tra le quali spicca una parete con sovrapposizione di strati ormai nota a tutti come «il palinsesto». Qui si distingue, tra le altre cose, una splendida raffigurazione di Maria seduta su un trono ricoperto di gemme.


BASILICA VATICANA

La basilica vaticana nella prima metà del V sec. (in alto) e lo spaccato assonometrico del presbiterio (a destra) con il monumento che racchiudeva la «memoria petrina» (il luogo di sepoltura dell’apostolo Pietro), nella sistemazione di epoca costantiniana.

BASILICA LATERANENSE

Spaccato assonometrico della basilica lateranense.

BASILICA DI S. CROCE IN GERUSALEMME Pianta (a sinistra) e spaccato assonometrico (a destra) della basilica di S. Croce in Gerusalemme.


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Ma per vedere giunto a conclusione il processo centripeto di cui abbiamo parlato si deve attendere il secolo successivo. Soltanto adesso, nel Foro Romano, uno degli edifici piú rappresentativi della stessa idea di Roma, la Curia, e cioè la sede del Senato, con poche modifiche viene trasformato in chiesa: S. Adriano, nata per volontà di papa Onorio I (625-638). Questo passaggio davvero epocale fa il paio con un altro evento di pochi anni prima, la trasformazione in chiesa del Pantheon. E anche qui il valore simbolico dell’evento è potente quanto esplicito: il tempio dedicato a tutti gli dèi (pantheon, in greco) diviene S. Maria ad Martyres, ovvero la chiesa dedicata a tutti i Martiri. Roma, adesso, è davvero una città cristiana.

Disegno ricostruttivo della basilica di S. Pietro, a Roma, cosí come doveva apparire in epoca medievale.

1. L’obelisco, fatto trasportare dalla città egiziana di Eliopoli da Caligola, rimase nel luogo originario fino al 1586, quando venne trasferito al centro della piazza di S. Pietro, chiusa dal colonnato del Bernini. 2. Nei pressi dell’obelisco era il mausoleo di Teodosio, successivamente trasformato da papa Stefano II, su richiesta di Pipino il Breve, in una cappella dedicata a santa Petronilla, vergine romana alla quale i Franchi erano particolarmente devoti.

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3. Due secoli e mezzo dopo la morte dell’apostolo Pietro, l’imperatore Costantino fece costruire sopra la sua sepoltura la prima basilica di S. Pietro. L’edificio, iniziato nel 324 e consacrato da papa Silvestro il 18 novembre del 326, venne portato a termine solo nel 349. La grande chiesa costantiniana aveva le caratteristiche della basilica paleocristiana (120 x 60 m), divisa in cinque navate. 4. La tomba di San Pietro era posizionata al

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centro del presbiterio.

5. La basilica era preceduta da un ampio quadriportico.

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6. Al centro del quadriportico si trovava una fontana. 7. Poco distante, vi era anche una vasca per abluzioni, abbellita da una pigna di bronzo ora nei Palazzi Vaticani. 8. Il campanile fu innalzato nel 752. 9. Nel 781 Carlo Magno fece costruire un palazzo imperiale, mentre Leone III faceva allestire una nuova residenza pontificia.


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I tesori della Città Eterna

Turisti per fede

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Un pellegrinaggio a Roma aveva come motivazione principale l’omaggio ai luoghi dei martiri e dei santi e la visita delle basiliche. Naturalmente, però, ci si poteva beare anche delle meraviglie della Città Eterna, la cui descrizione diede origine a resoconti che possiamo considerare come guide turistiche ante litteram di Amedeo De Vincentiis La città di Roma, particolare dalle Storie di Sant’Agostino affrescate da Benozzo Gozzoli (1420-1497). 1465. San Gimignano (Siena), chiesa di S. Agostino.

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trade, piazze, edifici pubblici come pure abitazioni private, tutte cosparse di viscere, interiora, carcasse e scheletri, sangue rappreso, pelli, brandelli di carni, pesci putrefatti, fango, escrementi, corpi fetidi e in decomposizione». Non si tratta della descrizione di un qualche autore noir, ma del linguaggio impersonale di un documento amministrativo dei primi decenni del XV secolo in cui si denunciava l’aspetto quotidiano del centro di Roma, sperando di rimediarvi con l’istituzione dei magistri viarum, qualcosa di simile a una moderna Azienda Sanitaria Locale. A fronte, certo, possiamo ricordare le descrizioni affascinanti di una città di maestose rovine, monumenti fantastici e chiese sontuose proposte da non pochi intellettuali contemporanei. Ecco dunque i due poli dello spazio romano in cui si muovevano i pellegrini del tempo, che accorrevano in città in occasione delle ricorrenze giubilari.

E, di notte, ululano i lupi...

Alla fine del Trecento Roma non contava piú di 25 000 abitanti. Se si esclude l’ansa del Tevere tra il Campidoglio e il Vaticano, area in cui era concentrata la maggior parte della popolazione cittadina, l’antico centro della città, delimitato dalle Mura Aureliane, era un’alternanza di spazi verdi – vigne, pascoli e boscaglia – e insediamenti non troppo dissimili da piccoli villaggi. Non ci stupiamo allora della testimonianza di un pellegrino inglese che non riusciva a prendere sonno, per quanto protetto in un alloggio sicuro presso il palazzo apostolico, a causa della inquietante presenza notturna dei lupi. Naturalmente, il soggiorno a Roma consentiva di visitare un gran numero di luoghi di culto, ben al di là di quelli prescritti dall’indulgenza giubilare, ma la specificità della devozione giubilare era comunque legata alla visita quotidiana delle basiliche apostoliche di S. Pietro e S. Paolo fuori le Mura e, dal 1350, anche S. Giovanni in Laterano. Ma come venivano visitati questi luoghi, con quale spirito e aspettative? Itinerari, vere e proprie guide per il pellegrino, e DOSSIER PELLEGRINAGGIO

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ROMA

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resoconti di viaggio ci forniscono vari indizi. Prendiamo il caso della basilica di S. Pietro, che allora era ancora, sostanzialmente, l’antico edificio di epoca costantiniana. Ciò che piú colpisce nelle guide è il rapporto diretto con il sacro, svincolato dagli aspetti materiali o estetici: l’edificio in sé interessa poco. Fuori della basilica, nel grande portico antistante, il pellegrino era avviato a un percorso devozionale guidato direttamente dai santi: «Nella rotonda di S. Petronilla ti accoglierà il Salvatore del mondo che ti consegna a Sant’Anastasia, e quella alla madre di Dio, che ti affida a Santa Petronilla, perché ti guidi a suo figlio il Salvatore del mondo, che con l’aiuto del beato Teodoro ti manda a San Michele Arcangelo, perché con il suo suffragio tu sia guidato di nuovo alla Madre di Dio, perché lei ti conduca dai XII Apostoli che, con la guida del beato Pietro principe degli Apostoli, di nuovo ti mandano dalla Santa Maria». All’interno della basilica, poi, il ritmo non era meno frenetico: «A sinistra ti accoglierà papa Leone, che ti riporterà di nuovo dalla Madre di Dio, con il suo aiuto giungerai percorrendo una galleria al capo di S. Pietro». E cosí via, concedendo ben poco all’estro dei visitatori. Ma questi, rispetto agli itinerari prefissati, si concedevano ampi margini di autonomia, come mostrano resoconti, racconti o diari di viaggio veri e propri. Cosí il lombardo Bartolomeo Bayguera, agli inizi del Quattrocento, annotava nel suo resoconto come lui e i suoi amici, sempre a S. Pietro, fossero rimasti colpiti da ben altri aspetti. Non si aspettavano, infatti, di trovare un vero mercato che arrivava fino alla scalinata della basilica, con banche di spezie, stoffe, borse e piccole tavarne. Il mercato poi continuava sulla scalinata e diventava addirittura piú affollato nel chiostro della basilica: un merciaio, undici orefici, un libraio, molti venditori di immagini sacre, per un totale di venticinque botteghe.

Il fascino della città dei Cesari

La presenza degli aspetti profani della città colpiva moltissimo anche i pellegrini piú devoti, e spesso in positivo. È difficile valutare quanto la curiosità di vedere una città considerata meravigliosa anche per le vestigia del suo passato abbia influito sull’affluenza dei pellegrini in occasione dei Giubilei. È certo, comunque, che

Nella pagina accanto Pellegrini sulla tomba di S. Sebastiano a Roma. Olio su tavola di Josse Lieferinxe, pittore francese attivo tra il 1493 e il 1508. Roma, Galleria Nazionale d’Arte Antica.

In alto l’interno del Mausoleo di S. Costanza, eretto agli inizi del IV sec. da Costantina (o Costanza), figlia di Costantino. L’edificio presenta pianta centrale con ambulacro voltato a botte e decorato da mosaci che alternano motivi geometrici, scene di vendemmia e ritratti inseriti in clipei.

questi aspetti affascinavano i fedeli che, di frequente, si trasformavano in visitatori di monumenti e opere d’arte. Già all’inizio del Duecento abbiamo tracce evidenti di tale sensibilità. Il chierico inglese, maestro Gregorio, ha lasciato una descrizione del suo viaggio a Roma esemplare in tal senso, anche perché composta proprio per i suoi confratelli religiosi. La sua attenzione è quasi tutta rivolta alla Roma antica, con una particolare curiosità per gli aspetti piú tecnici e materiali di ciò che vedeva. Cosí Gregorio misurò a passi il diametro del Pantheon, indicò che le colonne delle terme di Diocleziano erano cosí alte che non riuscí a colpirle con un sassolino; immerse le mani nell’acqua sulfurea di un’antica vasca di bronzo. Una simile attenzione, anche se espressa in un linguaggio molto diverso, la ritroviamo circa due secoli e mezzo dopo, nello Zibaldone quaresimale, del mercante fiorentino Giovanni Rucellai che, nel 1450, venne a Roma per lucrare l’indulgenza giubilare. Il programma del soggiorno di Giovanni e dei suoi compagni era equamente diviso tra esigenze devozionali e curiosità d’altro tipo. Cosí scrive infatti: «E nel tempo che noi stemo a Roma, oservamo questa regola, che la mattina montavamo a chavallo andando a visitare le 4 chiese (…) et di poi drieto a mangiare rimontavamo a chavallo et andavamo cerchando et vegiendo tutte quelle muraglie antiche et cose degni di Roma». S. Pietro era il centro dell’itinerario spirituale, ma colpiva il pellegrino soprattutto per gli aspetti artistici e monumentali: la porta centrale di bronzo del Filarete, i marmi, la pigna, i pavoni di bronzo, i mosaici e «colonne sedici di marmi bianche istoriate, alquanto ritonde, molto gentili», come scrive piú avanti. Ma per questo raffinato visitatore, alle soglie del Rinascimento, l’aspetto religioso era comunque essenziale. Rucellai baciava e toccava gli oggetti sacri, le reliquie, credeva nei loro poteri taumaturgici, ed era pienamente consapevole di doversi essere «confesso et contrito et sa disfatto et con avere vero dolore et vero pentimento et vero dispiacere di tutti e’ peccati». Al di là delle singolarità legate alle specifiche situazioni, questa oscillazione tra la dimensione spirituale e quella estetica ha segnato piú profondamente la presenza a Roma di tanti pellegrini medievali. DOSSIER PELLEGRINAGGIO

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Le sette Chiese di Roma, incisione in rame di Antonio Lafrery da Speculum Romanae Magnificentiae. 1575. Roma, Istituto Nazionale per la Grafica. La tradizione di percorrere l’itinerario devozionale ed espiatorio che comprendeva la visita alle sette chiese maggiori di Roma si diffuse dalla metà del XIV sec., consolidando un uso, quello del pellegrinaggio ai luoghi santi, che risaliva agli albori dell’era cristiana. All’inizio del Trecento compaiono i primi itinerari che menzionano le indulgenze che potevano ottenersi compiendo il percorso che, partendo dalla basilica di S. Pietro (1), conduceva verso S. Paolo fuori le Mura (2), S. Sebastiano sull’Appia (3), S. Giovanni in Laterano (4), S. Croce in Gerusalemme (5), S. Lorenzo fuori le Mura (6), per concludersi alla basilica di S. Maria Maggiore (7).

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Introduzione

Cercando il «campo stellato» Il luogo in cui furono riportate alla luce le spoglie di san Giacomo non tardò a trasformarsi in una meta di pellegrinaggio: nacque cosí un «cammino» ancora oggi battutissimo

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a questione religiosa occupò sempre un posto di rilievo nella storia della Spagna. Nel V secolo i Visigoti, tendenzialmente seguaci dell’arianesimo, avevano deciso di ignorare le loro tradizioni in terra iberica, optando per la fede cattolica. Da quel momento in poi la Spagna fu uno dei principali teatri di scontro tra il cristianesimo occidentale e l’espansione islamica. Proprio l’insidia musulmana coinvolse la Chiesa di Roma e gli imperatori cattolici in una missione difficile: favorire la nascita di culti cristiani ben radicati nello scacchiere iberico, specie dopo la conquista dei Mori portata a termine nel 711. Appena un secolo piú tardi, mentre gli Spagnoli erano in lotta contro il dominio musulmano, un eremita di nome Pelagio vide una stella luminosa lampeggiare nel cielo di una zona della Galizia. In quel luogo fu poi rinvenuto un sarcofago che conteneva una salma risalente all’era antica: il vescovo locale non ebbe alcun dubbio e affermò che il corpo era


di san Giacomo, uno dei primi discepoli di Gesú. Il ritrovamento costituiva una perfetta evoluzione della leggenda secondo la quale Giacomo, dopo la morte di Cristo, si era trasferito in Galizia. Il luogo in cui le spoglie del santo erano state riportate alla luce venne ribattezzato con il nome di Compostela («campo stellato»). Il culto si diffuse presto non solo in terra iberica, ma anche nel resto d’Europa, amplificato dai racconti sui prodigi che stavano accompagnando la guerra della Spagna cattolica contro i Mori. Si diceva che il santo, apparso al sovrano Alfonso II il giorno prima della battaglia di Clavijo dell’844, avesse guidato dall’alto l’affermazione militare spagnola. Fino al X secolo le visite di fedeli non furono numerosissime. Solo con il procedere della Reconquista prese il via la vera epopea del «cammino di Compostella», che culminò con la costruzione della cattedrale, tra l’XI e il XIII secolo. Successivamente, nel luogo del sepolcro di Giacomo, fecero tappa personaggi illustri, fra cui Francesco d’Assisi, Brigida di Svezia, il duca di Lancaster Giovanni di Gand e il comandante scozzese James Douglas, che portò il cuore imbalsamato del re Robert I Bruce. Compostela divenne anche un’opzione alternativa per i cavalieri e i pellegrini che erano chiamati a partecipare alle crociate in Terra Santa. Per il suo valore simbolico, il viaggio in Spagna rappresentava un titolo di grande merito per chi vi partecipava. In Inghilterra prima e poi in altre zone d’Europa si costituirono vere e proprie gilde di san Giacomo che garantivano agli affiliati una posizione di grande prestigio nella società. Fu cosí che Compostela nei secoli divenne la meta di pellegrinaggio per antonomasia, superando in ordine di importanza sia Roma che Gerusalemme.

Pellegrini a cavallo in Galizia, lungo il Cammino di Santiago, presso una statua che li celebra.

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SANTIAGO DE COMPOSTELA

Introduzione

TUTTE LE STRADE PORTANO A... SANTIAGO

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Come si può vedere dalla cartina, nel tratto principale del Cammino di Santiago, evidenziato dal colore rosso, confluivano numerosi percorsi, battuti dai pellegrini che si mettevano in viaggio per la città galiziana da tutta l’Europa. Gli itinerari erano in piú casi gli stessi che si utilizzavano anche per altri grandi viaggi devozionali, come nel caso della via Francigena, il percorso tracciato dal vescovo Sigerico quando, nel X sec., si mise in marcia da Canterbury alla volta di Roma.

Aquisgrana

Augusta

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SANTIAGO DE COMPOSTELA

La città

Nel nome dell’apostolo Sorta intorno al presunto sepolcro di san Giacomo, la città galiziana si arricchí di monumenti importanti, tra i quali spicca la grandiosa cattedrale. Oggi la vediamo nelle sue forme barocche, ma nella struttura conserva ancora ampie porzioni della fabbrica che ne ha fatto la piú grande chiesa romanica in terra di Spagna di Domenico Gambardella A sinistra statuetta in calcare raffigurante san Giacomo in abiti da pellegrino, dalla regione francese della Borgogna. Fine del XV sec. Parigi, Museo del Louvre. Nella pagina accanto Santiago de Compostela. La facciata barocca della cattedrale, dovuta alle trasformazioni sei-settecentesche dell’originario edificio romanico.

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ignore (…) bruciare Santiago significa far bruciare il simbolo della Spagna cristiana contro cui combattiamo (…) non lasciamoci sfuggire questa occasione!». Al Mansur, «il Vittorioso», primo reggente in luogo del califfo omayyade Hisham II, ascolta i consigli di uno dei suoi generali, ma non ne ha bisogno. Passano alcuni istanti e ordina di incendiare quel santuario posto all’estremità della Galizia. Mancavano solo tre anni all’anno Mille, e la chiesa di Santiago de Compostela (San Giacomo di Compostella) venne per la prima volta rasa al suolo. Al Mansur sapeva bene che cosa significasse Santiago per la Spagna cristiana: da poco piú di mezzo secolo erano tanti i pellegrini che giungevano davanti alle reliquie di san Giacomo, il solo apostolo, con Pietro, le cui spoglie erano custodite in terra d’Occidente. Quando «il Vittorioso» prese la decisione di distruggere Santiago de Compostela erano trascorsi piú di quattro secoli da quel 638, anno in cui un altro omayyade, il califfo Omar, conquistò un importante


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I percorsi per Santiago de Compostela ricostruiti sulla base della mappa disegnata da un anonimo veneziano alla metà del XIV sec. les Ar ier ell ntp Mo

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SANTIAGO DE COMPOSTELA La città


Venezia Bologna

Fre jus

Genova

Pisa

Firenze Siena

Corsica

A destra conchiglia di san Giacomo, in piombo, fabbricata a Santiago de Compostela. Fine del XV sec. Parigi, Musée de Cluny. A sinistra mappa del Cammino di Santiago e di tutti i percorsi che in esso confluivano. 1648. luogo sacro per i cristiani: Gerusalemme. Ma Omar in quell’occasione non ordinò la distruzione, rispettò il patriarca ortodosso Patronio, le sue chiese, i suoi abitanti, e fu cosciente di trovarsi al cospetto di una città millenaria. Al Mansur non provò quelle stesse sensazioni perché probabilmente non percepí Santiago de Compostela come un luogo intriso di storia. Non aveva tutti

i torti: il villaggio contava poco piú di un secolo di vita e fino al IX secolo il nome Santiago de Compostela ancora doveva vedere la luce. Per contadini ed eremiti quella era Iria Flavia.

Lo stupore delle pecore

Per la tradizione cristiana Santiago de Compostela «mosse i suoi primi passi» in una notte dell’814, quando Pelagio, un eremita che viveva in una grotta sul monte Libredon, nel corso di una meditazione notturna, vide per primo una stella rischiarare il cielo. Si racconta che nello stesso campo in cui apparve quel bagliore un gregge si fosse rifiutato di pascolare e le pecore si fossero fermate impietrite. In quel terreno s’iniziò a scavare ed emersero numerose tombe del I secolo, fra le quali una che portava incisa sulla pietra l’iscrizione: «Qui giace Jacopo, figlio di Zebedeo e Salomè». Quella località, già chiamata Compostum (luogo di sepoltura, cimitero), divenne da quel momento il Campus Stellae, il campo della stella, da cui Compostela. Per il vescovo Teodomiro non c’erano dubbi: quella era la tomba dell’apostolo Giacomo il Maggiore, il primo evangelizzatore della Spagna, giustiziato da Erode Attico nel 44, il cui corpo fu portato nel punto piú remoto dell’universo allora conosciuto, quel Finis Terrae che indicava allora le attuali coste galiziane. L’approvazione regale del ritrovamento arrivò quasi immediatamente. Il promontorio di Capo Finisterre, primo centro di culto per la venerazione di san Giacomo, venne abbandonato, e Alfonso II «il Casto», re delle Asturie – che diede un contributo notevole alla Reconquista –, auspicò subito la fondazione di una chiesa e la costru-

PERCORSI CONVERGENTI Cammino Francese, Portoghese, Inglese o del Nord: sono molti oggi i percorsi che i pellegrini attraversano per giungere a Santiago de Compostela. Il primo itinerario, o Cammino Primitivo, partiva da Oviedo, la capitale del regno delle Asturie, e fu quello percorso da Alfonso II «il Casto» nel primo terzo del IX secolo per confermare come i resti scoperti a Iria Flavia fossero quelli appartenenti all’apostolo Giacomo. Un percorso sicuro, ma impegnativo, visto che lungo i 300 e piú chilometri si dovevano attraversare tratti isolati di alta montagna, dove le frequenti nevicate potevano mettere a dura prova il viandante. Piú tardi, nel X secolo, si consolidò l’attuale Cammino Francese, che, ricalcando in parte l’antica strada romana Leonesa, attraversa la Meseta a sud, toccando Burgos e León.

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SANTIAGO DE COMPOSTELA

La città

IL CODICE DI CALLISTO Sono ancora molti gli interrogativi circa la datazione del Codex Calixtinus, contenente il Liber Sancti Jacobi, una raccolta di testi in onore di san Giacomo il Maggiore e del suo culto compostellano. La tradizione cristiana ne attribuisce la paternità a papa Callisto II ed è questa la ragione per la quale il codice viene detto Calixtinus, ma, probabilmente, il pontefice non ebbe nulla a che fare con la redazione del testo e sembra piú verosimile che l’autore sia stato il chierico Aimery Picaud, indicato come il donatore del codice alla cattedra compostellana in una lettera apocrifa di Innocenzo II, datata 1138. Il Liber è distinto in cinque parti o «libri»: la prima, Anthologia liturgica (hymni et homiliae), è una raccolta di testi agiografici e liturgici dedicati alla formalizzazione del

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culto giacobeo; la seconda, De miraculis Sancti Iacobi, contiene le descrizioni di ventidue miracoli compiuti in Europa e Terra Santa grazie all’intercessione di san Giacomo. Il Liber de translatione (scil. corporis Sancti Iacobi ad Compostellam) spiega come e perché il corpo del santo sia arrivato in Galizia; l’Historia Karoli Magni et Rotholandi è una cronaca attribuita a Turpino (Cronaca dello Pseudo Turpino), arcivescovo di Reims, nella quale si narrano le leggendarie campagne in Spagna e Galizia di Carlo Magno contro i Mori. L’ultima parte, Iter pro peregrinis ad Compostellam, Aimery Picaud ascriptum, è una vera e propria «guida del pellegrino», con tutte le indicazioni necessarie per intraprendere il pellegrinaggio a Santiago de Compostela.


in un monastero della reliquia di un santo si traduceva in una crescita esponenziale per la comunità: nel giro di pochi anni anche un piccolo centro poteva trasformarsi in una città inondata da un fiume di pellegrini e questo significava ricchezza e ripopolamento per le terre da essi attraversate. In poche parole, tutti volevano sostenere e trarre benefici dallo sviluppo della nuova Mecca cristiana.

Un santo uccisore dei Mori

In alto particolare della statua di san Giacomo in veste da pellegrino, ritratto tra i suoi discepoli, i santi Atanasio e Teodoro sulla Porta Santa della basilica compostellana (nella pagina accanto), costruita nel 1611 e aperta per la prima volta nel 1666.

zione di un villaggio chiamato Santiago de Compostela, e concesse privilegi e donazioni alla comunità a cui fu affidato il culto dell’apostolo. L’impeto della fede fu decisivo per l’iniziale crescita del neonato villaggio. Per un uomo di fede pregare davanti alle ossa dell’apostolo piú vicino a Gesú significava avvicinarsi a Dio. Ma dietro alla crescita di Santiago oltre a quel fermento di devozione ci fu dell’altro. Ossessionati dalla minaccia musulmana, papa Leone III e l’imperatore Carlo Magno erano ben coscienti di quale forte segnale e simbolo nella lotta contro i Moriscos rappresentasse quel ritrovamento. E, infine, l’arrivo in una chiesa o

Dal suo gesto distruttivo il reggente omayyade Al Mansur non riuscí a trarre particolari benefici: dopo poco tempo Santiago de Compostela tornò in mani cristiane e fu ricostruita; san Giacomo divenne il «Matamoros», l’uccisore dei Mori, l’alfiere soprannaturale e vessillo della Reconquista e, negli anni seguenti, durante i quali i luoghi santi d’Oriente cadevano in mano ai Turchi selgiuchidi (1076), Alfonso VI di Castiglia (1040-1109) assicurò nuovi e piú sicuri percorsi ai pellegrini che ormai arrivavano da tutta Europa. Uomini e donne, nobili e contadini, vescovi e borghesi, giungevano a piedi o a cavallo, e, anno dopo anno, Santiago de Compostela divenne un simbolo cristiano cosí forte, che papa Callisto II (1119-24) proclamò il pellegrinaggio nella «città di San Giacomo» importante quanto quelli a Gerusalemme e a Roma, concedendo un’indulgenza secondo la quale un cristiano morto a Santiago avrebbe ottenuto la vita eterna. Nei suoi cinque anni di pontificato, Callisto II si adoperò come nessun altro allo sviluppo di Santiago e del suo pellegrinaggio. Nel 1120 trasferí da Mérida a Compostela il titolo arcivescovile e «consigliò» all’arcivescovo Diego Gelmirez l’edificazione di una cattedrale, che per la sua magnificenza doveva rimanere ben impressa nella memoria di chiunque avesse avuto la fortuna di ammirarla dopo tanto cammino. L’intraprendente arcivescovo non perse tempo e si mise subito all’opera. Non tutti a Santiago amavano Gelmirez. Investito da enormi poteri, si sentiva il principe di quel mondo, un intoccabile, a tal punto che nel 1116 una hermandad («confraternita») di borghesi e di canonici si oppose al suo eccessivo potere organizzando una congiura. Ma furono sforzi inutili: Gelmirez ne uscí vincitore ed esiliò un centinaio di persone. Anche la cittadina cresceva. «Compostela è posta fra due fiumi, il Sar e la Sarella (…). Le porte e le entrate della città sono sette: la prima è detta Porta Francigena, la seconda Porta de la Pena, la terza Porta Subfratribus, la quarta Porta del Santo PelleDOSSIER PELLEGRINAGGIO

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SANTIAGO DE COMPOSTELA

La città

L’ANNO GIACOBEO Il 25 luglio è la festa di san Giacomo. Quando questo giorno cade di domenica viene istituito l’Anno Santo Giacobeo. Il primo Anno Giubilare fu istituito nel 1126 dal pontefice Callisto II, l’ultimo è stato il 2010, mentre il prossimo sarà il 2021 (la ricorrenza, infatti, si verifica con una cadenza regolare di 6, 5, 6 e 11 anni). Per ottenere la bolla giubilare con il perdono dei peccati, i cattolici devono recarsi in pellegrinaggio alla cattedrale di Santiago de Compostela, recitare alcune preghiere assistendo alla messa e infine ricevere il Sacramento della Penitenza e la Comunione. Se il pellegrino dispone delle credenziali che attestino il suo pellegrinaggio a piedi (non meno di 100 km), a cavallo o in bicicletta (non meno di 200 km), acquisisce il diritto di chiedere all’ufficio del pellegrino la «Compostela», il documento concesso dal Capitolo della Cattedrale, che accredita il suo pellegrinaggio nella «città di San Giacomo».

In basso pellegrini in sosta davanti alla cattedrale di Santiago.

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grino, la quinta Porta de la Falera», cosí Aimery Picaud, un chierico del Poitou che si era recato a Santiago nel 1130 circa, descriveva Santiago nella sua Guida del pellegrino. Oggi la situazione è un po’ diversa, ma non piú di tanto. Le principali strade medievali del cen-

tro confluiscono tutte davanti alle quattro piazze (Obradoiro, Platerias, Quintana, Azabacheria) che, armoniosamente disegnate, circondano la cattedrale, il cuore pulsante di Santiago de Compostela. «La basilica di S. Giacomo, dalla porta occidentale all’altare del Salvatore, misura in lunghezza cinquantatré volte l’altezza di un uomo; in larghezza, dalla Porta Francigena a quella meridionale, trentanove volte; la sua altezza interna è quattordici volte l’altezza di un uomo».

I timori di un chierico

Per vederla con i propri occhi, durante il cammino, quando ancora mancavano molti chilometri, i pellegrini sbirciavano appena la descrizione che il chierico del Poitou faceva della cattedrale, tanto era il timore di non avere la fortuna di poter vedere con i propri occhi la piú grande chiesa romanica in terra di Spagna. Se la facciata barocca oggi risente dei cambiamenti subiti nel corso dei secoli, soprattutto nel Settecento, all’interno le cose sono andate diversamente. L’architetto, il «mirabilis magister Bernardus senex» (la cui identità è, a tutt’oggi, assai discussa) agli inizi del XII secolo, disegnò (segue a p. 90)


LA VITA E I TESORI DI UNA CATTEDRALE 1

2

1. Il botafumeiro. Il botafumeiro della 2.

3 3.

cattedrale, un grande incensiere in ottone ricoperto d’argento, del XIX sec. Le reliquie. Il Sancta Sanctorum della cattedrale, la cripta sotto l’altare maggiore, con, in fondo, l’urna d’argento in cui si conservano le reliquie dell’apostolo Giacomo. L’interno. Uno scorcio delle decorazioni barocche della cattedrale.


SANTIAGO DE COMPOSTELA

La città IL PORTICO DELLA GLORIA

Ora nascosto dalle strutture barocche, in età medievale, era il portale della facciata principale. Capolavoro dell’arte romanica, questa porta monumentale fu scolpita dal Maestro Mateo dal 1168. I lavori terminarono nel 1211.

Disegno ricostruttivo della cattedrale di Santiago de Compostela nel XIV sec.

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LA FACCIATA BAROCCA

della cattedrale quasi interamente ricostruita nel XVII e XVIII secolo.

LA PORTA DE LAS PLATERIAS

(cioè degli Orefici), in stile romanico, prende nome dalle botteghe di orafi e argentieri che si trovavano nella piazza antistante.

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una pianta a cui dovettero attenersi tutti i suoi successori. Si tratta di un complesso a tre navate, con un transetto e un coro – dotato di cinque cappelle –, circondato da navate piú piccole con funzione di deambulatorio.

Imponente e agile al tempo stesso

Al centro si trova l’altare maggiore con la cripta sottostante, ovvero il Sancta Sanctorum, il luogo in cui sono conservate le reliquie dell’apostolo Giacomo. Nonostante le dimensioni monumentali, l’architettura, all’interno dell’edificio, è caratterizzata da un’articolazione agile in ogni singolo elemento, soprattutto nei pilastri, che si presentano sottili e alti. La navata centrale sembra in penombra, dal momento che la luce penetra dalle finestre delle navate laterali, dai matronei e dalla torre di crociera. Ma la straordinarietà della catUna delle due torri campanarie della cattedrale, con (a destra) un particolare degli orologi che le decorano.

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In basso un particolare del Portico della Gloria, che dal nartece introduce i pellegrini alla cattedrale.

tedrale va oltre e basta soffermarsi davanti ai capitelli o ai grandi portali che la avvolgono per trovarsi davanti ai migliori esempi del primo Romanico spagnolo. Un capolavoro di tale stile è il Portico della Gloria nell’atrio monumentale. Si tratta di un portale marmoreo romanico, che è stato definito «il monumento iconografico piú completo della scultura medievale». Grazie a un ricco vitalizio del re Ferdinando II, fu Maestro Mateo a iniziarne i lavori nel 1168. La complessità dell’opera richiese tempi lunghi, quasi mezzo secolo, e il Portico fu terminato nel 1211. Formato da tre archi, contiene decine di figure ispirate alle piú importanti vicende della Bibbia: quello centrale, il piú maestoso, è presieduto da un Cristo in trono circondato dai quattro Evangelisti e otto Angeli; intorno all’archivolto si trovano raffigurati i 24 vegliardi dell’Apocalisse i quali, rivolti a coppie l’uno verso l’altro, suonano strumenti musicali; la colonna centrale raffigura, invece, la storia genealogica di Cristo, ed è sormontata dalla statua dell’apostolo Giacomo, che sostiene una pergamena con la scritta «Mi mandò il Signore». In un pellegrinaggio occorreva saper partire, ma, soprattutto, saper accogliere. E a Santiago era necessario farlo ancora di piú. Tra il XII e il

XVI secolo, nella città i monasteri si moltiplicarono e anche i re vollero dare il loro contributo. Negli stessi anni in cui furono esplorate le coste americane, il re Ferdinando e Isabella di Castiglia, per accogliere pellegrini e ammalati, disposero la costruzione dell’Hostal de los Reyes Catolicos, un edificio situato sul lato nord della piazza, che operò come ospedale fino al secolo scorso.

L’occultamento delle reliquie

I momenti bui a Santiago iniziarono nel 1589, quando il pirata Francis Drake attaccò le coste galiziane e violò la cattedrale. L’arcivescovo Juan de Sanclemente Torquemada decise di nascondere le reliquie dietro l’altare maggiore, e a chi lo aiutò fece giurare di portare il segreto nella tomba. Cosí fu. Delle reliquie del santo per trecento anni si persero le tracce, e il cammino subí un lento declino, tanto che a Santiago giungevano ogni anno solo poche decine di pellegrini. Le cose cambiarono nel 1879, quando lavori di restauro portarono alla luce un sepolcro contenente tre corpi, e per papa Leone XIII non ci furono dubbi: le ossa del santo erano state ritrovate. Da quel momento i pellegrini hanno ripreso a percorrere le tante strade che giungono a Santiago de Compostela.

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La città

I VESTITI DEL PELLEGRINO I fedeli in marcia per raggiungere Santiago de Compostela avevano una sorta di «divisa»: tra i loro accessori, infatti, non potevano mancare alcuni elementi identificativi essenziali

Mantello del pellegrino in feltro e pelle di manifattura tedesca che Stefan Praun indossò durante il suo pellegrinaggio a Santiago de Compostela. XVI sec. Norimberga, Germanisches Nationalmuseum.

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Cappello del pellegrino, di manifattura tedesca, con le conchiglie di san Giacomo, simbolo del pellegrinaggio, cucite sulle falde. XVI sec. Norimberga, Germanisches Nationalmuseum. Detta anche cappa santa o ventaglio, la conchiglia, un Pecten jacobaeus, stava a indicare che il pellegrino aveva raggiunto e visitato la tomba dell’apostolo, poiché questa si trovava non lontano dalle spiagge dell’Atlantico sulle quali era facile trovare le valve del mollusco appartenente a questa specie.


Ritratto di Stefan Praun (1544-1591), figlio di un uomo d’affari di Norimberga, in abbigliamento da pellegrino. Olio su pannello di scuola tedesca. Seconda metà del XVI sec. Norimberga, Germanisches Nationalmuseum. Praun si recò in pellegrinaggio a Santiago de Compostela nel 1571.

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La via di Navarra

Dai Pirenei alla Galizia

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Tra le direttrici seguite dai pellegrini in viaggio verso Santiago, quella che aveva origine nella regione francese dell’Aquitania era una delle piú battute. E, a ripercorrerla oggi, molte sono le tracce legate al transito dei fedeli

Il Puente la Reina che, tra Pamplona ed Estella, unisce le due sponde del Río Arga. Qui le due tratte pirenaiche, la via di Navarra e la via di Aragona, confluiscono a formare un unico tragitto, chiamato Cammino Francese.

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La via di Navarra

di Vincenzo Calò

N

ella Vita Nova (XL, 6), Dante parla delle tre grandi vie del pellegrinaggio medievale. La prima conduceva a Gerusalemme, i cui pellegrini avevano per simbolo la palma e che, per questa ragione, venivano chiamati «palmieri». La seconda portava a Roma: i viandanti che percorrevano questa strada erano detti «romei» e indossavano la Croce come segno distintivo. E vi era infine una terza via, che raggiungeva il punto piú estremo del mondo conosciuto: i viatores che seguivano questo lunghissimo cammino ripercorrevano l’itinerario che aveva compiuto l’apostolo Giacomo per portare il messaggio del Vangelo nelle terre piú lontane dell’Occidente. Dante definisce questi viandanti come «i pellegrini» per eccellenza. Il loro simbolo era la conchiglia.

Cartina che mostra il tracciato del percorso noto come «via di Navarra», compreso nella rete che aveva come destinazione finale Santiago de Compostela.

A dire il vero, queste tre grandi direttrici non costituivano un percorso fisso, ma si presentavano al viaggiatore come un insieme di tracciati che, dopo aver attraversato pianure e valicato montagne, convergevano in punti ben precisi. Il cammino che conduceva a Roma, per esempio, partiva da differenti regioni europee e confluiva in Italia nella via Francigena. Il pellegrino che si recava in Terra Santa compiva il medesimo percorso lungo la Francigena ma, giunto a Roma, proseguiva lungo la via Appia e raggiungeva i porti della Puglia, dai quali era possibile imbarcarsi per le terre d’oltremare. Il cammino inverso, che partiva da Roma e proseguiva per la via Francigena, segnava invece la rotta dei viandanti che si recavano a visitare la tomba dell’apostolo Giacomo, nella lontana

Biarritz

Golfo di Biscaglia San Sebastian

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FRANCIA

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Passo di Ibañeta

Roncisvalle Zubiri

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NAVARRA Clavijo Martes

Via di Santiago Logrono

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Via di Aragona

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ARAGON

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A


Galizia. In Francia l’itinerario proseguiva fino ai valichi pirenaici. Superate le nevi dei Pirenei, i pellegrini di Compostela convergevano anch’essi in luoghi che costituivano tappe obbligate: i passi di Valcarlos, una sorta di corridoio naturale a cavallo tra la Francia e la penisola iberica, e di Ibañeta. Da qui, si poteva proseguire seguendo altre due rotte: la via di Aragona e la via di Navarra. Esistevano anche altri tragitti, percorribili ancora oggi, come per esempio il Cammino Portoghese e il Cammino del Nord. Quest’ultimo segue per diversi chilometri la costa dei Paesi Baschi, della Cantabria e delle Asturie, e si inoltra nelle regioni piú selvagge e affascinanti della Spagna del Nord.

Il percorso piú frequentato

Oggi come allora, però, la via di Navarra è l’itinerario piú battuto. Si tratta di un percorso che attraversa per intero la regione spagnola e si ricongiunge con la via d’Aragona nei pressi di un ponte dell’XI secolo, chiamato Puente la Reina, dove prende il nome di Cammino Francese. Un po’ piú a valle del passo di Ibañeta c’è la località di Roncisvalle. Lungo la strada, una cappella funeraria ricorda la famosa battaglia dei paladini di Carlo Magno contro i Mori. È il Silo di Carlo Magno, detto anche Cappella San-

In alto Roncisvalle, Collegiata. Il volto del re di Navarra Sancho VII il Forte, ritratto sul sarcofago conservato, con quello della moglie, nella Sala capitolare. In basso il Silo di Carlo Magno, detto anche cappella Sancti Spiritus, eretto, nel XII sec., nel luogo in cui, secondo la tradizione, morí, nel 778, il paladino Orlando.

cti Spiritus, una costruzione che risale al XII secolo. Secondo la leggenda, ricordata nella Chanson de Roland e riproposta nel teatro popolare delle marionette siciliane, il cavaliere Orlando perdette la vita a Roncisvalle, nel 778, in seguito a un’imboscata dei Mori che aggredirono a sorpresa la retroguardia del re. Da tempo, però, gli storici hanno stabilito che l’esercito franco non fu assalito dai Mori, ma dai Baschi, in un’azione di rappresaglia volta a vendicare la distruzione di Pamplona da parte delle truppe di Carlo Magno. La costruzione piú maestosa di Roncisvalle è l’Hospiz Real Colegiata, dai tetti in metallo e la facciata imponente, che in età medievale svolgeva la funzione di ristoro e di ospedale per i

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La via di Navarra A sinistra l’Hospiz Real Colegiata di Roncisvalle, che, nel Medioevo, svolgeva la funzione di ospedale per i pellegrini.

In basso il ponte che dà accesso alla Ciudadela di Pamplona, una struttura difensiva eretta nel XVI sec. pellegrini, che qui giungevano stremati dopo aver valicato i Pirenei attraverso il passo di Valcarlos. In un certo senso, l’Hospiz ha mantenuto l’antico ruolo: qui, infatti, i moderni pellegrini diretti a Santiago si fermano una notte e si fanno apporre il timbro sulla Credencial, una sorta di visto che attesta l’inizio del viaggio sulla via di Navarra. A pochi passi dall’Hospiz sorge l’Iglesia Colegial, una chiesa gotica in cui i pellegrini ricevono la benedizione prima di affrontare gli 800 chilometri che li separano dalla cattedrale di Compostela. Nell’Iglesia Colegial sono custoditi due tesori: il primo è uno splendido baldacchino, nella zona dell’altare, il secondo è la tomba di Sancho VII il Forte (11501234), re di Navarra. Vuole la tradizione che la scultura sul sepolcro, lunga 2,25 m, riproduca le reali dimensioni del sovrano.

Fra boschi e altopiani

Dopo un giorno di marcia tra i boschi e gli altopiani della Navarra, si giunge a Zubiri, un villaggio a 25 km da Pamplona. Il ponte medievale a tre arcate, chiamato Puente de la Rabia, collega il paese al Camino de Santiago, ed è il primo dei molti che segnano il percorso (vedi box a p. 99). Si procede quindi verso i sobborghi di Pamplona; primo fra tutti Erra, che si affaccia 98

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sul Río Arga, con un altro ponte in pietra, a cinque arcate, risalente al XII secolo. Pamplona è la prima grande città che si incontra nel Cammino. A cominciare dall’anno 738, quando la città fu occupata dai Mori, la storia di Pamplona (Iruñea in basco, Iruña in navarrino) è legata a doppio filo con quella dei vicini Paesi Baschi. Furono proprio i Baschi, infatti, a liberarla dai Mori, sfruttando l’alleanza, che poi si rivelò piuttosto fragile, con Carlo Magno. Il dissidio tra i Baschi e i Franchi culminò quando i primi rifiutarono di appoggiare i piani di conquista di Carlo nella sua campagna bellica nella penisola iberica. Il re dei Franchi fece radere al suolo Pamplona. Un gesto di cui i Baschi si vendicarono il 15 agosto 778, quando assaltarono la retroguardia franca mentre attraversava il passo di Roncisvalle. Dopo quella tremenda rappresaglia, la storia di Pamplona si fece decisamente piú tranquilla. Nel 905, la città divenne capitale del regno di Navarra. A Pamplona è legato un avvenimento che cambiò il volto della storia del cristianesimo: nel 1521, in seguito a una grave ferita, il capitano Iñigo Lopez de Recalde, ufficiale e gentiluomo, rischiò la morte proprio nei dintorni della città. Abbandonata la divisa e i divertimenti mondani, il capitano Lopez de Recalde


impresse una svolta alla sua vita, fondando la Compagnia di Gesú e prendendo il nome di Ignazio di Loyola. Per tutto il Medioevo, Pamplona fu un importante centro di scambi culturali e commerciali lungo le vie che conducevano sia a nord, verso i passi pirenaici e la Francia, sia a sud, in direzione dei regni d’Aragona e di Castiglia. Il fatto che la città fosse poi una tappa pressoché obbligata per i viaggiatori della fede, fece sí che, negli anni, Pamplona si attrezzasse di strutture come ospizi, locande e monasteri in grado di ospitare i viandanti.

Una variante locale del gotico

Risale alla fine del XIV secolo la splendida cattedrale, una costruzione gotica a tre navate, nascosta dalla facciata rifatta nel Settecento in stile neoclassico. Nel 1390, in seguito a un crollo, Carlo III il Nobile fece ricostruire l’edificio secondo i dettami gotici del tempo, ma gli architetti non si limitarono a replicare i canoni artistici dell’Europa centrale. Al contrario, applicarono alla costruzione soluzioni originali, tanto che, in riferimento alla cattedrale di Pamplona, è oggi possibile parlare di uno stile gotico-navarrino. All’interno, davan-

In alto il Puente de la Rabia, a Zubiri. In uno dei suoi piloni la tradizione vuole siano custodite le reliquie di santa Quiteria.

PONTI E PRODIGI Il Cammino di Navarra (e, in generale, tutto il percorso che conduce a Santiago) è costellato da ponti medievali in pietra che guadano ruscelli e piccoli fiumi. Il piú celebre è il Puente la Reina, tra Pamplona ed Estella, che, con sei eleganti arcate, unisce le due sponde del Río Arga. Il Puente la Reina è un punto di riferimento per chiunque compia il Cammino: si tratta, infatti, del luogo in cui le due tratte pirenaiche, la via di Navarra e la via di Aragona, si uniscono per formare un unico tragitto, chiamato Cammino Francese, il piú battuto dai pellegrini che si recano in visita alla tomba dell’apostolo. La reina (regina), a cui fa riferimento il nome, è, con ogni probabilità, Doña Mayor, la sposa di re Sancho Garcés III, che nell’XI secolo ne commissionò i lavori di costruzione. Altri ponti famosi, in cui il pellegrino si imbatte durante la marcia, sono il Puente Santa María, a Estella, e il Puente de la Rabia, a Zubiri. Il primo è una solida costruzione che, con un’unica arcata, congiunge le due sponde del Río Ega, e il secondo è un ponte a cinque arcate, risalente al XII secolo. Attorno al Puente de la Rabia sono fiorite diverse leggende: si racconta che gli animali ammalati guarivano se compivano un giro attorno al pilone centrale e inoltre, sempre stando a quanto dice la tradizione, in uno dei suoi piloni sarebbero custodite le reliquie di santa Quiteria.

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La via di Navarra

In alto e a destra il chiostro, in stile gotico, della cattedrale di Pamplona. A sinistra un particolare della decorazione scultorea della cattedrale di Pamplona.

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ti all’altare maggiore, sono custoditi i corpi del sovrano e della sua sposa. Le tombe sono in alabastro e furono scolpite dal fiammingo Janin Lomme, nel XV secolo. Dopo una bella passeggiata si arriva alla Plaza del Castillo, il «salotto buono» di Pamplona, una piazza orlata di portici e alberi, con alberghi e bar alla moda frequentati anche da Ernest Hemingway. Ancora pochi passi e si arriva alla chiesa di S. Nicolás, una costruzione del XIII secolo caratterizzata dal robusto campanile simile a una torre fortificata e inespugnabile. Un esempio di vera e propria architettura militare è invece la Ciudadela, una struttura difensiva eretta nel XVI secolo, che sorge a sud-ovest rispetto a S. Nicolás e alla Plaza del Castillo.

Quell’ospizio perduto nel grano...

Lasciata Pamplona, il cammino dei viandanti prosegue in direzione di Estella (Lizarra, in basco e navarrino). Qui è possibile fare una deviazione che porta a S. María de Eunate, una cappella dal fascino misterioso, sperduta tra i campi di grano. Si tratta di una costruzione ottagonale, dalle forme armoniche, circondata da un porticato costruito tra la fine dell’XI e gli inizi del XII secolo. È probabile che la cappella fosse in origine un minuscolo ospizio per i pellegrini, ma alcune fonti ne attribuiscono la costruzione ai Templari che, con un servizio di scorta e protezione, si occuparono spesso della salvaguardia dei viandanti, e che, secondo la leggenda, eressero la cappella sul modello della chiesa del Santo Sepolcro di

EQUIPAGGIAMENTO E PRECAUZIONI I pellegrinaggi a Compostela cominciarono subito dopo la scoperta del sepolcro attribuito all’apostolo Giacomo. I fedeli, che affluivano da ogni parte d’Europa, dovevano sottoporsi, prima della partenza, al rituale della vestizione e della consegna della bisaccia. Il rito cominciava con questa formula: «Ricevi questa bisaccia, che sarà l’abito del tuo pellegrinaggio affinché, purificato e vestito nel modo piú opportuno, tu sia degno di attraversare la porta di San Giacomo, e, terminato il tuo viaggio, torni da noi sano e salvo». Una formula analoga si recitava al cospetto del viandante quando gli veniva consegnato il bordone, un bastone di legno definito «sostegno del viaggio» («sustentacio itineris»), che poteva essere utilizzato sia per alleviare la fatica, sia per percuotere chiunque si avvicinasse animato da cattive intenzioni («ut devicere valeas omnes atervas inimici»). Visti i pericoli in cui si imbattevano lungo il tragitto, alcuni viaggiatori facevano testamento e, nel caso in cui disponessero di un cospicuo patrimonio, davano istruzioni alla famiglia per la corretta gestione degli affari durante la loro assenza. I pellegrini piú facoltosi, però, godevano di un altro vantaggio, dal momento che avevano la possibilità di delegare un’altra persona a compiere il pellegrinaggio al posto loro. Spesso la Chiesa interveniva in maniera attiva nella tutela dei beni materiali di chi intendeva compiere il viaggio. Lo status di pellegrino, del resto, conferiva un particolare prestigio personale all’interno della comunità dei fedeli.

Gerusalemme. Nei dintorni, gli archeologi hanno riportato alla luce tombe in cui erano deposte conchiglie (conchas), ancora oggi simbolo del santo di Compostela e dei pellegrini erranti. Le conchiglie erano usate per fermare il mantello dei viaggiatori, come dimostrano i due fori praticati sui bordi. Durante l’epoca medievale, il Camino de Santiago doveva essere molto piú pericoloso di quanto non sia al giorno d’oggi. Briganti, picari, ladri e avventurieri infestavano la via che conduceva DOSSIER PELLEGRINAGGIO

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SANTIAGO DE COMPOSTELA

La via di Navarra

In basso Puente la Reina. La chiesa parrocchiale, intitolata all’apostolo Giacomo.

IL VIAGGIO DI UN CROCIFISSO Il percorso della via di Navarra consente numerose varianti e deviazioni. Una delle piú affascinanti è quella che raggiunge i borghi di Puente la Reina e di Olite. Lungo la Calle Mayor di Puente la Reina ci si imbatte nell’Iglesia de Santiago, del XII secolo, e nell’Iglesia del Crucifijo, eretta nel XIII secolo. Quest’ultima prende il nome da un Crocifisso biforcato che, secondo la leggenda, fu lasciato qui da un pellegrino tedesco che, in segno di devozione, lo aveva trascinato, con sforzi immani, dalla Renania attraverso tutta la Francia e i valichi dei Pirenei. Olite si trova invece 42 km a sud di Pamplona e costituisce un’altra interessante variazione rispetto al percorso originario. A Olite ci si può fermare per visitare il Castillo-Palacio, un’antica fortezza con torrioni merlati, feritoie e frontoni possenti. Nel 1406, Carlo III il Nobile chiamò artigiani e maestranze arabe per trasformare in un palazzo sontuoso quello che era un avamposto difensivo. Gli artigiani islamici realizzarono interni di gusto andaluso, con stucchi multicolori e magnifici giardini. Da non perdere, sempre a Olite, è la chiesa di S. María la Real, con un magnifico portico sul lato ovest, arricchito da figure di grande plasticità, tra cui quella che rappresenta un cavaliere con l’armatura.

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Sancho I Ramirez aveva conferito a Estella il titolo onorifico di «Città sulla Via di Santiago», dando in questo modo l’impulso alla costruzione di una serie di strutture volte alla ricezione dei viandanti. Tra le due sponde del Río Ega sorsero cosí chiese e monasteri in cui era possibile sostare di notte. L’operazione compiuta da Sancho I fu un vero e proprio atto di strategia commerciale: in origine, infatti, il tracciato passava qualche chilometro piú a nord, ma, nel 1090, il re lo deviò su Estella, per far sí che la cittadina beneficiasse dei vantaggi economici di cui godevano gli altri siti in cui sostavano i viandanti. Sotto la spinta economica innescata dal pellegrinaggio, Estella diventò sempre piú competitiva dal punto di vista commerciale, tanto da rivaleggiare in ricchezza con Burgos e Pamplona. Ben presto gli sfiniti viaggiatori dovettero considerare la cittadina come un punto di riferimento lungo la strada, una sorta di oasi in cui riposare prima di riprendere la marcia. Per questa ragione, la città, denominata dapprima col nome basco di Lizarra, assunse l’appellativo popolare di Estella («stella»), con chiaro riferimento al nome della lontana città dell’Apostolo: Compostela («Campus Stellae»).

Orlando e il gigante Ferraú

alla tomba dell’apostolo Giacomo. Nel 1150 Aimery Picaud, probabile autore del Codex Calixtinus lamentava la presenza di borsaioli e taccheggiatori lungo la tratta che andava dai Pirenei alla Bassa Navarra, nonché di fonti dall’acqua putrida e di locande che servivano cibo di qualità scadente. A Estella, però, Aimery Picaud dovette avere un tuffo al cuore: «Qui il pane è ottimo e si produce un vino eccellente. Carne e pesce sono abbondanti». In quegli anni, infatti, re

In alto Estella. La chiesa romanica di S. Pedro de la Rua, utilizzata nel Medioevo come luogo di sepoltura per i pellegrini che qui morivano durante il loro viaggio. Nella pagina accanto, in alto un particolare della decorazione del portale.

Anche dal punto di vista artistico, Estella non aveva niente da invidiare a Burgos e a Pamplona: il Palacio de los Reyes è uno dei piú splendidi esempi di architettura romanica in Spagna. Sulla facciata, sul primo capitello a sinistra, è raffigurato uno scontro leggendario, quello tra il cavaliere Orlando e il gigante moro Ferraú. Il paladino di Francia e l’avversario arabo, scolpiti da Martin Logrofio, sono raffigurati a cavallo, nel momento culminante dello scontro, con il loro corredo di lance, scudi, clave e giavellotti. Di fronte al Palacio si erge maestosa la chiesa romanica di S. Pedro de la Rua, con l’alto campanile e la scalinata. Sulla sponda occidentale del fiume, raggiungibile grazie al Ponte Santa María, si può ammirare un vero e proprio gioiello romanico: la Iglesia de S. Miguel, costruita in un arco di tempo tra il XII e il XIV secolo. Sul portale Nord sono raffigurate scene del Nuovo Testamento, tra cui, particolarmente espressive, l’Infanzia di Cristo e la Fuga in Egitto. A Estella, sulle rive del Río Ega, termina la via di Navarra, una delle numerose tratte che conducono alla cattedrale di Santiago de Compostela e al suo Portico della Gloria, che da qui distano ancora 650 km. DOSSIER PELLEGRINAGGIO

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SANTUARI MICAELICI

Introduzione

L’arcangelo vittorioso Messaggero celeste, cavaliere indomito e difensore delle porte del Paradiso: molti sono i panni vestiti da Michele, al quale, fin da epoche assai antiche, fu tributato un culto molto sentito. Da cui hanno avuto origine chiese e santuari importanti

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l culto di san Michele risale alla tarda antichità, ma per molto tempo non fu riconosciuto dalla Chiesa di Roma, poco favorevole alla venerazione popolare nei riguardi degli angeli. Ciononostante, dal V secolo, la devozione per Michele, il messaggero di Dio, il capo delle milizie celesti, il protettore del popolo d’Israele, si diffuse nei territori cristiani della Palestina, dell’Egitto, della Siria e anche in Europa. Il principale santuario dell’arcangelo si trovava allora in una grotta del Gargano, in Puglia, ed era già frequentato da gruppi di pellegrini. La popolarità del culto in Italia crebbe notevolmente dopo la vittoria dei Longobardi sui Saraceni, ottenuta a Siponto (cittadina pugliese ai piedi del Gargano), proprio nel giorno della festa dell’arcangelo (l’8 maggio del 663) e nelle vicinanze dell’altura pugliese. I Longobardi interpretarono la coincidenza come il segno di un intervento di Michele sulle sorti della battaglia e decisero di abbellire il santuario, dotandolo anche di strutture di accoglienza per i pellegrini. Nel X secolo il Monte Gargano finí sotto l’influenza dei Bizantini che trasformarono l’immagine tradizionale di san Michele, raffigurandolo come un taumaturgo e un condottiero di anime. L’influenza di Costantinopoli durò comunque poco. Già dall’XI secolo il santuario tornò nell’orbita della cristianità latina, grazie all’arrivo I. Tremiti dei Benedettini. In seguito la Chiesa di Roma pose sotto la Peschici protezione di san Michele la crociata che stava per intraprendeVieste Termoli Torre Mileto Vico del re contro i Normanni nell’Italia meridionale. Gli stessi NormanCampomarino Gargano ni, però, si recarono piú volte al santuario nella speranza di otCagnano tenere una protezione dall’alto. Poggio Varano Imperiale In Italia esisteva un altro importante polo devozionale, sul A14 Ururi monte Pirchiriano in Val di Susa. Ma, a partire dal Duecento Monte Sant’Angelo il centro del pellegrinaggio micaelico si spostò ancora piú a Manfredonia S. Croce S. Severo nord, in Francia, in un luogo di culto attivo fin dall’VIII secolo: di Magliano E55 Bonefro Mont-Saint-Michel, in Normandia. Si racconta che nel 708 Castelnuovo l’arcangelo fosse apparso al vescovo francese Oberto, chiedenZapponeta di Daunia FOGGIA dogli piú volte di edificare un santuario. Dopo la costruzione della chiesa, il borgo si affollò di visitatori, ma gli arrivi si diradarono nel secolo successivo a causa delle invasioni normanne. Nell’XI secolo a Mont-Saint-Michel sorse un’abbazia. Fu il preludio dei fermenti religiosi che richiamarono nella cittadina grandi personalità politiche in veste di umili pellegrini: dal duca Roberto di Normandia ad Alano III conte di Bretagna, da Guglielmo il Bastardo al re sassone Aroldo, da Filippo il Bello di Francia a Luigi IX, da Filippo IV il Lungo a Enrico II In alto cartina dell’area del Gargano, d’Inghilterra. È citata tra i pellegrini illustri anche una donna partoriente, uno dei principali centri del culto micaelico. sorpresa dall’alta marea. La tradizione racconta che l’arcangelo frenò l’aNella pagina accanto Monte Sant’Angelo (Foggia). vanzata dell’acqua, consentendo alla futura madre di salvarsi e di dare alla La statua dell’arcangelo Michele collocata sulla luce un bambino. Quel neonato, da adulto, entrò poi nel locale convento facciata del santuario a lui dedicato. con il nome di Péril, cioè «pericolo». 104

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Tra Roma e Gerusalemme In un quadro storico e religioso caratterizzato da tradizioni di matrice pagana, il Gargano fu eletto a luogo simbolo della presenza dell’arcangelo Michele. Nel nome del quale sorse uno dei piú celebri santuari dedicati al suo culto 106

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di Vito Bianchi

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aranto e Otranto, Brindisi ed Egnazia, Bari e Trani, Barletta e Siponto: le città portuali della Puglia fra tardo-antico e Alto Medioevo reiteravano ancora i contatti col Mediterraneo orientale. Sulle rotte millenarie che solcavano il mare viaggiavano uomini, mercanzie, idee. E religioni: Iside, Cibele, Attis, la dea Syria Atargatis, i culti pagani piú importanti e lo stesso cristianesimo avevano velocemente attecchito nelle contrade pugliesi, provenienti dall’Egitto, dalla Siria, dalla Grecia e dalla Frigia. Erano, quelle regioni, il crogiuolo di un Oriente fervido di religiosità, in cui s’era diffusa e radicata una profonda venerazione per gli angeli. La devozione per quegli esseri che mediavano fra l’umano e il divino dovette farsi subito molto intensa. Tanto che, nel 336, il canone 35 del Concilio di Laodicea vietò recisamente il culto degli angeli, che si stava propagando fra le popolazioni cristiane e che era malvisto dalle gerarchie ecclesiastiche. In teoria, quindi, non sarebbe stato piú lecito nominare e adorare le creature alate. In pratica, le proibizioni non servirono a nulla, giacché l’adorazione delle entità angeliche si protrasse ulteriormente.

«Chi è come Dio?»

A essere venerato era innanzitutto l’arcangelo Michele, il cui nome, tradotto dall’ebraico, significa «Chi come Dio?» (o anche «Chi è come Dio?»). Micha’el, esplicitamente menzionato nelle Sacre Scritture, era lo stratega dell’esercito celeste che, al servizio dell’Onnipotente, schiacciava il Male. Ma era anche il guardiano delle porte, era colui che assisteva i devoti in vita e che introduceva i defunti al cospetto del Signore, armato d’una bilancia con cui soppesare le anime: mansione, quest’ultima, ereditata dallo psicopompo Hermes/Mercurio dell’antichità classica, come pure da divinità egizie quali Anubis, accompagnatore ultramondano dalla testa di sciacallo, o il babbuino cinocefalo Thot, che presiedeva al trapasso dei mortali in qualità di scriba del tribunale dell’Oltretomba. Soprattutto, però, la fama dell’arcangelo nelle contrade mediorientali era legata alle sue capacità di taumaturgo: a Cherotopa, Colosse e Konya (in Turchia), Michele era venerato come medico, guaritore dei vivi, e spesso il suo ruolo era espletato in stretta connessione con le virtú salutifere di acque miracolose. In Bitinia funzionava un tempio micaelico caratterizzato dalla presenza di fonti termali, meta di pellegrini che

Sulle due pagine Monte Sant’Angelo. L’ingresso al santuario di S. Michele arcangelo, costruito, tra la fine del V e l’inizio del VI sec., per iniziativa del vescovo di Siponto, Lorenzo Maiorano, sopra una grotta naturale, sul luogo delle apparizioni dell’arcangelo Michele. A sinistra una statuetta in pietra di san Michele, conservata nel Museo Devozionale del santuario dedicato all’arcangelo.

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Nella pagina accanto particolare dell’icona dell’arcangelo Michele realizzata da un orafo bizantino. XI-XII sec. Venezia, Tesoro della basilica di S. Marco.

provenivano soprattutto da Costantinopoli. E nella stessa capitale bizantina è attestato, per il IV secolo, un Michaelion, che, sulla sponda europea del Bosforo, Costantino fece consacrare in sostituzione di un precedente edificio dedicato alla dea Vesta. Nel santuario costantinopolitano si praticava, giustappunto, il rito taumaturgico dell’incubatio, per cui il soggiorno nell’area santuariale consentiva di guarire anche da violenti attacchi febbrili. Il «male» che si scacciava era insomma molto piú fisico che metafisico, e forse anche in ciò risiedeva il segreto del successo di Michele presso i fedeli.

Da Bisanzio alla Daunia

In piú, l’arcangelo guerriero era ritenuto il protettore degli imperatori bizantini, nel loro ruolo di supremi condottieri militari sulla Terra: cosicché nella reverenza per l’angelo poteva altresí rispecchiarsi la deferenza da prestare alla sovranità imperiale. Da Bisanzio, per la fitta rete di contatti marittimi col litorale pugliese, il culto di san Michele dovette approdare in Daunia. In quel comprensorio insisteva il grande promontorio garganico, luogo impervio, ricco di foreste e caverne, in cui allignava uno strenuo paganesimo. Le notizie tramandate da Licofrone e Strabone ne facevano il ricetto dell’indovino Calcante, celebre personaggio omerico, e del terapeuta Podalirio, figlio di Asclepio, il patrono della medicina.

Dunque il Gargano era sede di profezie e guarigioni liturgiche: non poteva che svilupparsi qui la cultualità per un arcangelo che aveva nelle funzioni taumaturgiche alcune fra le sue prerogative principali, e che perciò era in grado di surrogare col messaggio cristiano le credenze

In alto la cripta di S. Michele arcangelo.

LE COMPAGNIE DEI PELLEGRINI Da secoli, i pellegrini salgono al Gargano in comitive dette «Compagnie». Ciascuna ha i suoi rituali: la Compagnia di Atina si fa accompagnare da uno zampognaro e da un pifferaio; quella di Bitonto reca l’olio per la lampada posta innanzi alla statua di san Michele; da Potenza arriva al santuario un gruppo con la «ferrizze», una cassetta fatta di ferule, cinta da candele con nastri colorati; da Boiano e Toritto muovono Compagnie di fedeli che raccolgono sassi sul sentiero e li trasportano sulle spalle fino al santuario. Di questa usanza sono testimoni piú autori, compreso Leandro Alberti, che nel Cinquecento rilevava l’uso di appendere le pietre penitenziali agli alberi di un boschetto vicino al sacrario. Lo stesso fenomeno fu riscontrato in seguito dallo scrittore e viaggiatore inglese Swinburne (1743-1803), dallo storico francese Jean-Louis Huillard-Bréholles (1817-1871), dalla scrittrice inglese Janet Ross (1842-1927) e agli inizi del Novecento dal poeta e giornalista Antonio Beltramelli (1879-1930). Chiunque avesse visto quel brulicare di devoti, non poteva che restarne colpito. Per comprendere l’entità del pellegrinaggio, basti dire che, nel primo dopoguerra, da San Marco in Lamis si muoveva una comitiva che riuniva quasi un migliaio di persone.

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LA GROTTA SANTA DI CAGNANO Vuole la tradizione che, ascendendo il Gargano, l’arcangelo Michele si sia fermato con il suo cavallo a Cagnano Varano. Qui, all’interno di una grotta frequentata dall’uomo sin dalla preistoria, avrebbe lasciato alcuni pignora: l’impronta di un’ala e quella di uno zoccolo, accanto a una fonte. Col risultato che anche a Cagnano Varano esiste una spelonca dotata di altari e d’un «pozzillo» d’acqua miracolosa, alimentato dallo stillicidio della roccia. I pellegrini vi hanno graffito nomi, sigle, croci, mani e piedi, e persino una barca a vela, simbolo del viaggio penitenziale. È, insomma, un luogo di culto che riproduce piuttosto fedelmente il santuario di Monte Sant’Angelo, anche nei festeggiamenti popolari che si celebrano l’8 maggio.

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idolatre. Oltretutto, la montagna costituiva di per sé l’axis mundi, naturale collegamento fra il piano terrestre e quello celeste, frontiera fra il visibile e l’invisibile, ed era pertanto destinata a riaccostare i credenti alla divinità, secondo una dimensione religiosa che è tipica di svariate culture (e non solo della cristianità).

Il volo verso l’Altissimo

Piú vicino all’Empireo, eppure praticabile, il Gargano era il trampolino ideale per avvicinarsi al Cielo e per spiccare il volo verso l’Altissimo, almeno spiritualmente. E poi l’ascensione purificatrice lungo i tortuosi sentieri montani doveva risultare carica di insidie e suggestioni, fra gole, dirupi e passaggi impervi, che riproduce-


vano fisicamente le asperità da superare nel personale cammino di fede. Ma il premio, alla fine delle fatiche, era una fresca sorgente che ristorava col suo zampillo dolce e fresco gli assetati, e che elargiva guarigioni ai malati, tramite l’aspersione o l’ingestione di un liquido miracoloso e soave, capace di alleviare ogni sofferenza: dietro l’altare di S. Maria del Suffragio, nel santuario garganico c’è ancora un «pozzillo», atto a distribuire l’acqua limpida e pura sgorgante dalla roccia. Del resto, la virtus taumaturgica fu propria del culto garganico sin dalle origini. La tradizione indica per il 490, il 492 e il 493 gli anni delle epifanie di san Michele sul Gargano, benché già da qualche decennio il processo di cristianizzazione avesse cominciato a espandersi dalle piane della Capitanata alle malagevoli alture dell’entroterra, sovrapponendo modelli cristiani a vecchie credenze paganeggianti. Cosí, nel racconto del Liber de apparitione Sancti Michaelis in monte Gargano (operetta agiografica interpolata e variamente datata fra il V e il IX secolo, che consterebbe di un paio di redazioni), ritornano alcuni fra gli elementi peculiari delle saghe micaeliche. Dapprincipio vi compare in effetti un pastore eponimo, il mitico Gargano, che ritrova un toro disperso della sua mandria dinanzi a una grotta, e che, mosso dall’ira, cerca di colpire la bestia con una freccia: ma il dardo flette la traiettoria e torna addosso al mandriano, finendo per ferirlo.

L’arcangelo come il dio Mitra

Grotte e tori erano componenti fondamentali nei misteri di Mitra, il dio persiano, il Sol Invictus: invitto al pari dell’angelo che fa trionfare la Luce sulle Tenebre. Ma, a prescindere dal substrato di precedenti e ipotetici riti misterici, nell’episodio si è voluta piuttosto leggere una forma di esaugurazione, con cui il cristianesimo sostituiva l’idolatria. A ogni buon conto, impressionati dall’evento, i Sipontini si sarebbero rivolti al loro vescovo, chiedendogli lumi sull’accaduto. Il presule avrebbe allora indetto un triduo di digiuno, al termine del quale gli sarebbe apparso l’arcangelo: con quell’apparizione, Michele confermava di aver messo sotto la propria protezione luoghi e abitanti del Gargano. E in un’altra ierofania, di fronte alle esitazioni dei fedeli, avrebbe aggiunto che a nessuno spettava dedicare la basilica ricavata nell’antro sacro, poiché essa godeva già della santità conferitale personalmente dal principe degli angeli. L’attribuzione liturgica si sostanziava non di

SCRIVERE SULLA ROCCIA

Se non si era capaci di incidere il proprio nome nella pietra, o semplicemente se si era analfabeti, ma si intendeva comunque lasciare un segno del proprio passaggio dalla Grotta dell’Angelo, nel Medioevo c’erano due soluzioni: o si graffiva nella roccia l’impronta della mano o del piede, o ci si affidava agli esperti lapicidi del posto. Su committenza dei visitatori, infatti, abili incisori venivano incontro alle esigenze dei pellegrini iscrivendone i nomi nel santuario. Uno dei tanti «artigiani della parola» era Sàbilo, che in calce a una sfilza di cinque antroponimi volle specificare la propria mansione di ypographeus col termine «fecit». Per non creare equivoci, il presbitero Anseghisilus pretese invece di sottolineare la firma autografa, faticosamente intagliata nella pietra, con il verbo «scripsit». Al di là di Monte Sant’Angelo, la presenza di scrivani che incidono epigrafi per conto terzi è un fenomeno sconosciuto nelle aree sacre di età altomedievale.

reliquie nel senso tradizionale del termine, in quanto, diversamente dai santi «comuni», un arcangelo non aveva frammenti di scheletro da esibire al pubblico ossequio. Piuttosto, il capo delle milizie celesti manifestava se stesso con pignora, dei segni della sua presenza o del suo passaggio: nel santuario garganico, questi consistevano in un mantello rosso lasciato sull’altare, e in un frammento di roccia santificata dall’impronta angelica. L’intento di trasporre anche altrove il modulo cultuale e le prerogative taumaturgiche che tanto fortemente s’erano palesate sul Gargano condusse a trarne oggetti e testimonianze sacre: pezzi di pietra o di stoffa, prelevati dal santuario, fecero della montagna pugliese la matrice ideale per la fondazione di nuove chiese intitolate a san Michele. La spelonca garganica fu, insomma, il lievito di una devozione che si diramò un po’ dovunque nell’Occidente, toccando i limiti settentrionali del continente europeo e alimentando vivaci pellegrinaggi. Dell’intensità dei flussi di viatores sono testimoni le iscrizioni epigrafiche, raccolte in un corpus che ne svela spesso la notevole originalità. Fra

In alto iscrizione dedicatoria del duca Romualdo I, incisa sulla roccia nel santuario di Monte Sant’Angelo. VII sec. Nella pagina accanto Gargano, ferito dal rimbalzo della freccia scagliata contro il toro, dalla Leggenda di San Michele dipinta su tavola dal Maestro di Arguis. XV sec. Madrid, Museo del Prado.

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le circa 200 epigrafi, incise o tracciate a sgraffio sulle strutture murarie del santuario fra il VI e il IX secolo, incuriosiscono le firme di Hereberecht, Leofwini, Wigfuss e Herrad: sono scritte in runico (nella forma detta «futhorc»), coi tratti di un alfabeto in uso nell’Inghilterra anglosassone e in Olanda, e risultano tanto piú preziose se si considera l’esiguità numerica di simili documenti, estremamente rari persino nel Nord Europa (mentre in Italia se ne conoscono pochi altri esempi, a Roma, presso la cripta dei martiri Felice e Adautto, dove campeggia l’autografo di un tale Eadbald, e nella catacomba dei SS. Pietro e Marcellino).

In un secondo momento, invece, il santuario divenne piú strettamente dipendente dai Longobardi di Benevento, soprattutto dopo che l’opera del presule Barbato e della duchessa Teoderada ebbe indotto la dinastia beneventana alla conversione dall’arianesimo al cattolicesimo. Di conseguenza, il controllo del complesso micaelico rientrò appieno nella sfibrante contesa che opponeva la componente longobarda ai Bizantini per il dominio di buona parte del Mezzogiorno.

Tra leggenda e realtà

Da ogni parte del mondo

La ricorrenza di nomi goti, franchi, alemanni, angli e sassoni è l’indice dell’internazionalità della peregrinatio intrapresa per adire il Gargano. Accanto ai pellegrini nordici appaiono quelli di origine semitica quali Eliyah, Lia, Gabriel, Moises, e quelli latino-cristiani come Tarquinius, Valerianus, Flavianus, Felix, Paulus, Petrus... Né poteva mancare l’onomastica greca, con i vari Basilius, Dionysius, Georgius, Theodorus o Teophanes: del resto, sulle prime il sacrario dovette essere connesso alla Chiesa bizantina, considerato anche che, fra il V e il VI secolo, il vescovo Lorenzo venne espressamente inviato a reggere l’episcopio sipontino dall’imperatore orientale Zenone (476-491).

La cattedra episcopale, detta «Sedia di san Lorenzo» perché appartenuta, secondo la tradizione, al vescovo Lorenzo Maiorano. In realtà, risale alla prima metà dell’XI sec. e venne realizzata dallo scultore Acceptus per l’arcivescovo Leone, originario di Monte Sant’Angelo.

NUOVE STRADE E NUOVE FONDAZIONI L’impulso conferito dai Longobardi al santuario dell’angelo ebbe ripercussioni anche sul sistema viario. Prolungando la rinomata Francigena, la via sacra Langobardorum divenne l’asse principale fra Sannio e Gargano. L’arteria fu punteggiata di monasteri, chiese e ricoveri per pellegrini, per esempio in S. Maria di Stignano, S. Matteo, S. Giovanni Rotondo o S. Lorenzo di Siponto. Presso Monte Sant’Angelo sorgeva poi l’abbazia benedettina di S. Maria di Pulsano, fondata da Giovanni da Matera (1071-1139), e fiorita con l’abate Gioele (1145-77). Nel 1177 papa Alessandro III vi consacrò una nuova basilica, che ebbe cornici, portali, rosoni, finestre e capitelli (in parte in situ e in parte al Museo Lapidario di Monte Sant’Angelo) evocanti apporti abruzzesi e francesi. Un unicum è la fontana lustrale, affine al fonte battesimale di S. Frediano in Lucca. Sul volgere del XII secolo, il re normanno Guglielmo II incluse il monastero nell’Honor Montis Sancti Angeli. Ma l’abbazia conobbe decadenza e disordini disciplinari, che richiesero l’intervento di abati toscani, purtroppo infruttuoso, perché alla fine del XIV secolo il cenobio fu abbandonato.

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A tal proposito, un altro episodio del Liber de apparitione Sancti Michaelis narra dello scontro campale e della vittoria che, per intercessione dell’arcangelo, avrebbe arriso a una coalizione di Beneventani e Sipontini contro i Napoletani, vale a dire i rappresentanti di un ducato gravitante nell’orbita bizantina. Il racconto imbeve di leggenda un reale fatto d’armi: all’incirca nel 650 Grimoaldo I, duca beneventano, sconfisse le truppe bizantine. La trionfale affermazione, conseguita ai danni degli strenui rivali, sancí il legame del popolo longobardo con l’arcangelo, la cui figura ben replicava gli attributi pagani di Wothan, il supremo dio della guerra, tanto caro alle stirpi germaniche. Il Michaelion garganico assurse perciò a santuario nazionale dei Longobardi e conobbe una serie di radicali rimaneggiamenti. A quelle imponenti risistemazioni, che le ricognizioni archeologiche hanno parzialmente evidenziato, fa esplicito riferimento l’iscrizione dedicatoria di Romualdo I (663-687). In seguito, è presumibile un intervento edilizio commissionato da Cuniperto (688-700), re dei Longobardi di Pavia, che, fra l’altro, volle far rappresentare san Michele sulle sue insegne militari e che, per primo, coniò la figura dell’angelo guerriero su un tremisse aureo della zecca pavese. È inoltre certa una visita al Gargano di Romualdo II (706-731) con la moglie Gunperga, testualmente citati da una memoria iscritta nella pietra: il che conferma la rilevanza attribuita al santuario pugliese dai regnanti beneventani.

Festeggiato due volte

Le trasformazioni longobarde originarono una struttura composta da un lungo porticato e da un ambiente con due scalinate divise da arcate, con cui incanalare le visite e agevolare la fruizione del sacro speco. A catalizzare l’attenzione dei proseliti erano essenzialmente quei settori


UNA DONAZIONE INTERESSATA Erano di fattura bizantina le due ante bronzee, lavorate a niello e agemina, che il mercante amalfitano Pantaleone, della ricca famiglia dei Mauroni, volle donare nel 1076 al santuario garganico di san Michele. La donazione sottendeva forse l’intento d’ingraziarsi i Normanni, nuovi padroni del Mezzogiorno, nel timore che, con la cacciata dei Bizantini, potesse crollare il giro d’affari fin lí garantito dai buoni rapporti con Costantinopoli. Del resto, alla munificenza dei Mauroni si devono anche le porte in bronzo della cattedrale di Amalfi, dell’abbazia di Montecassino e della basilica di S. Paolo Fuori le Mura a Roma. A Monte Sant’Angelo, il portone consta di pannelli in oricalco (una lega di rame, zinco, piombo e poco argento), che accolgono scene con l’epopea dell’arcangelo, accompagnate da didascalie esplicative. Curiosa, fra tutte, è la dicitura che raccomanda di strofinare ben bene le valve, «ut sint semper lucide et clare».

san Giacomo di Compostella), Angelus (il santuario del Gargano) e Deus (Gerusalemme con i suoi monumenti sacri).

Un lungo abbandono

dell’antro direttamente toccati da Michele, e cioè la Cavernetta delle Impronte e il cosiddetto «Altare del Mantello». Sull’onda della crescente pietas popolare, nel IX secolo, si decise perciò di stabilire all’8 maggio il dies festus dell’angelo garganico, aggiungendolo alla canonica data del 29 settembre: sicché, ancora oggi, san Michele viene festeggiato sul Gargano per due volte all’anno. Divenuta una delle località piú frequentate dell’età altomedievale, la montagna dell’angelo costituí un’ineludibile tappa intermedia fra Roma e la Terra Santa, inserendosi alla perfezione lungo l’itinerario penitenziale che si svolgeva secondo il trinomio salvifico Homo (la tomba romana degli Apostoli Pietro e Paolo, oppure

Le porte bronzee realizzate a Costantinopoli su commissione dal mercante amalfitano Pantaleone nel 1076.

La cronaca del monaco franco Bernardo, artefice intorno all’866 di un Itinerarium, registra un’ecclesia micaelica capace di accogliere una cinquantina di persone fra altari, simulacri e doni votivi, sotto l’egida dell’abate Benignato, preposto alla testa di molti confratelli. Di lí a poco, nell’869, il santuario di S. Michele venne saccheggiato e compromesso dai Saraceni di Sawdan, il wali che aveva in Bari la sede di un emirato islamico. Per diverso tempo la grotta dell’angelo rimase in stato di abbandono e, sebbene l’imperatore franco Ludovico II avesse concesso ad Aione, vescovo di Benevento, finanziamenti per la ricostruzione, i lavori di riedificazione dovettero protrarsi a lungo. A quei rifacimenti sono ascrivibili alcuni frammenti di affreschi, frutto di palinsesti non sempre omogenei. Su tutti s’impone l’enigmatico Custos ecclesiae, forse da identificare con il Leone «episcopo e peccatore» menzionato dai resti di un’iscrizione che ne correda l’immagine. Alcuni studiosi lo assocerebbero al pontefice Leone IX, che per tre volte visitò il santuario fra il DOSSIER PELLEGRINAGGIO

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Monte Sant’Angelo

DA LIMOGES AL GARGANO La chiesa di S. Leonardo in Lama Volara, con convento e domus hospitalis, costituiva l’ultima tappa prima dell’ascesa alla grotta sacra. Il complesso dovette essere fondato fra l’XI e il XII secolo dai canonici di S. Agostino, monaci di osservanza benedettina, scesi in Puglia dal monastero di S. Leonardo in Limoges. Nel 1137 il cenobio ottenne l’autonomia dal vescovado di Siponto, e coi priori Riccardo (1154-67) e Pietro (11841224) godette di grande prosperità. Ma vennero tempi bui: nel 1250, S. Leonardo era in rovina. Ecco perché, nel 1260, papa Alessandro IV ne affidò le sorti ai Cavalieri Teutonici. Fino al 1482, essi si curarono del convento e ne preservarono la chiesa col fastoso portale settentrionale: quello che i pellegrini, arrivando, intercettavano con lo sguardo, mirandone i rilievi ispirati al Romanico francese. Splendeva la lunetta del Cristo cinta da tralci col Tetramorfo, mentre la lotta fra Bene e Male contrapponeva il cervo al dragone, e un centauro con lira a un centauro col corno. Non mancavano le immagini dell’arcangelo apparso a Balaam, dell’Adorazione dei Magi e di San Michele trionfante sul Dragone, in un romanzo iconografico che estendeva la sua eburnea levigatezza a capitelli e stipiti.

1049 e il 1051; altri vi ravviserebbero piuttosto l’arcivescovo Leone di Siponto, che, nel 1034, ottenne l’indipendenza dalla diocesi beneventana. Di fatto, dal IX all’XI secolo il Meridione conobbe il disfacimento dei principati longobardi, la temporanea restaurazione dei domini bizantini e l’avvento dei Normanni.

L’ambone di Acceptus

Non inganni l’omaggio reso all’antro garganico nel 999 dall’imperatore tedesco Ottone III: il ritorno della Capitanata ai Bizantini vi aveva infatti ripristinato l’ingerenza di Bisanzio. Con agiografie ad hoc, come la Vita Sancti Laurentii episcopi sipontini, si vollero allora rivendicare le origini greco-orientali del santuario, che venne peraltro arricchito di raffinati ornamenti architettonici e squisite suppellettili. Lo scultore Acceptus realizzò nel 1041 un magnifico ambone, adorno di un’aquila sormontata da leggío, successivamente smembrato: e qualche residuo capitello è quanto rimane dei sostegni di un 114

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pulpito «a cassa» che assommava echi bizantineggianti e accenti occidentali. Sempre all’XI secolo è ascrivibile l’arcangelo Michele in rame dorato, probabile ex voto, scoperto nel 1900 nei recessi della «cava delle pietre». Ma anche la prima età normanna apportò cambiamenti: nel nuovo sontuoso portale trovò una superba collocazione la splendida porta in bronzo eseguita nel 1076 a Costantinopoli su commissione dell’amalfitano Pantaleone: la donazione del ricco mercante suggellava in qualche misura l’operato di quei Normanni che, stando a Guglielmo Appulo, proprio dal Gargano, in seguito a un incontro col nobile barese Melo, avevano preso a intromettersi nelle vicende politiche del Sud. Dalla montagna dell’angelo era incominciata l’epopea dei conquistatori, e all’angelo furono quindi rivolte le cure di Roberto il Guiscardo e dei suoi continuatori: non sappiamo con certezza, però, se anche il trono vescovile, di controversa attribuzione (è datato all’XI-XIII secolo), o le formelle litiche risalgano effettivamente alla facies normanna.

Il prezioso dono dello Stupor Mundi

Meno perspicuo appare l’apporto svevo, avvolto com’è nelle brume leggendarie di un Federico II che dona un reliquiario in filigrana e cristallo di rocca, contenente un pezzetto della Vera Croce. Una piú vigorosa impronta angioina è viceversa percepibile nella monumentalizzazione che, dalla seconda metà del XIII secolo, fagocitò parecchie delle precedenti architetture. Non prima del 1271 vennero impostate all’imbocco del Santo Speco tre alte campate a costoloni di gusto proto-gotico, mentre nel 1274 un campanile ottagonale sorse (o fu riattato?) a ridosso del piazzale esterno, per mano del protomagister Giordano di Monte Sant’Angelo e di suo fratello Marando, menzionati in un’iscrizione. Col prolungamento e l’ampliamento di una scalinata si realizzò poi un collegamento migliore fra la grotta e il centro abitato che, per l’effetto poleogenetico del santuario, s’era sviluppato attorno a S. Maria Maggiore. Sempre in epoca angioina per la basilica dell’angelo si produssero rilievi di composta bellezza, come quello della Madonna col Bambino incoronata dagli angeli, o di soggetto fortemente didascalico, come una Trinità trifronte, scalpellata nei volti del Padre e del Figlio per i divieti, susseguenti al Concilio tridentino, di raffigurare il «mostruoso» tricefalo. A statue in pietra di san Michele e della Vergine si aggiunsero, fra il XIV e il XV secolo, simulacri e altorilievi del Cristo e di san Sebastiano, incorniciati

LA «TOMBA DI ROTARI» Oltre alla basilica micaelica, Monte Sant’Angelo possiede un secondo polo monumentale che riunisce tre edifici sacri. Resti della chiesa di S. Pietro si riconoscono nell’abside di un tempio i cui arredi scultorei (conservati al Museo Lapidario) richiamano la cultura figurativa diffusa nel XII secolo fra la Borgogna e la Francia meridionale. S. Giovanni in Tumba, noto erroneamente come «Tomba di Rotari», è invece un probabile battistero, sorto forse su un precedente mausoleo, che dovette trasformarsi in una torre campanaria rimasta incompiuta. Un documento del 1109 cita tale Pagano di Parma e Rodelgrimo del Gargano quali fondatori di quello che doveva essere un edificio cubico e absidato, a cui via via si sovrapporranno un prisma ottagono, due cilindri a sezione ellittica e una cupola ad anelli concentrici. Portale, capitelli e cornici di S. Giovanni esprimono un repertorio plastico che riecheggia St. Pierre di Moissac, S. Isidoro a León, il chiostro della Daurade (oggi Musée des Augustins) a Tolosa, e la chiesa di Lubersac, nel Limosino. I rapporti con l’Oltralpe trovano conferma in S. Maria Maggiore, dove peraltro si avverte un apporto della scuola abruzzese del XII e XIII secolo. La chiesa fu ristrutturata al tempo di Costanza d’Altavilla, madre di Federico II di Svevia, e contiene un affresco con l’effigie di san Francesco: vuole infatti una leggenda che il santo abbia visitato il santuario garganico nel 1216.

talvolta da nicchie finemente ricamate nel marmo: e, d’altronde, gli interni della Grotta dell’Angelo continuarono a essere abbelliti fino ai nostri giorni. Fuori dalle viscere della montagna, sulla soglia della scala d’accesso alla caverna, le premure degli Angiò per san Michele produssero, nel 1395, un portale gotico, voluto da una principessa (che potrebbe essere Margherita, madre di Ladislao) e compiuto dal magister Simeone (firmatosi sulla cornice dell’architrave): la committente vi compare scolpita nella lunetta archiacuta come orante, ai piedi di una Madonna con Bambino fra i santi Paolo e Pietro. L’uno con la spada, l’altro con le chiavi del Paradiso: in perfetta sintonia con quella che, per il tramite delle ali di Dio, poteva davvero dirsi la porta dei Cieli.

In alto Monte Sant’Angelo. L’interno del battistero di S. Giovanni in Tumba, meglio noto come «Tomba di Rotari». Nella pagina accanto Siponto (Foggia). Il magnifico portale della chiesa romanica di S. Leonardo.

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Mont-Saint-Michel

Un baluardo sul mare L’abbazia di Mont-Saint-Michel, costruita sulla sommità di un isolotto granitico che affiora nella baia di Avranches, a poca distanza dalla costa bagnata dalle acque della Manica. Durante l’alta marea, il sito viene completamente circondato dal mare.

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Visto da lontano, sembra un’apparizione fantastica, quasi un miraggio: è lo spettacolare complesso innalzato in Normandia, per volere di Oberto, vescovo di Avranches. Anche a lui Michele era apparso in sogno e aveva dato istruzioni precise sul luogo in cui celebrare la sua memoria, a dispetto di una posizione geografica a dir poco estrema...

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Mont-Saint-Michel

di Vito Bianchi Gli archi rampanti e i doccioni zoomorfi della chiesa micaelica, tipici della fase costruttiva gotica.

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U

n’altura fra terra, acqua e cielo, alle propaggini nord-occidentali dell’Europa. Un’appendice del continente, un alto scoglio scontornato e a tratti isolato dal gioco delle maree, «au péril de la mer», in balia delle onde: qui, nel 708-709, nacque un altro santuario dedicato a san Michele. Nella tradizione della Revelatio ecclesiae Sancti Michaelis (risalente, secondo studi recenti, all’inizio del IX secolo), si narra che l’arcangelo apparve a Oberto, vescovo di Avranches, e gli indicò il

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luogo preciso in cui costruire il sacrario: la sommità del monte Tumba, dove era stato nascosto un toro rubato da un brigante. In quel posto avrebbe preso corpo un complesso micaelico a uso dei pellegrini. Lo si volle a guisa di cripta rotonda, roccioso, trasudante acqua: insomma, espressamente simile al Gargano. Come in Puglia, anche in Normandia ritornava un toro, forse un’allusione ai culti pagani praticati in onore del dio celtico Belenos, assimilati in età romana a riti che, con altari preposti al


UNA ROCCA INESPUGNABILE La conformazione orografica e le fortificazioni che racchiudono l’isolotto granitico dal diametro di appena 950 m hanno reso Mont-Saint-Michel praticamente inespugnabile durante la Guerra dei Cent’Anni: una fortezza in piena regola, e non solo della fede. Oltre alla cinta quattrocentesca e a elementi duecenteschi come la Tour Nord, gli apprestamenti difensivi del Monte Tumba hanno avuto varie fasi costruttive e non pochi rimaneggiamenti, anche in età moderna. Tre torri vennero aggiunte alla fine del XV secolo (la Tour Boucle, la Liberté o Béatrix, e la Cholet, oggi Tour Basse), mentre al Cinquecento inoltrato possono essere assegnate la Tour Gabriel, lo sperone detto Avancée a sud (non lontano dalla Tour du Roi e de l’Arcade) e la Torre dei Pescatori. Nessuna, tuttavia, ha lo slancio e la bellezza delle due Torri dello Châtelet, realizzate per difendere l’ala orientale dell’abbazia con l’armoniosa alternanza di conci litici disposti in filari alternati di granito rosa e grigio.

In basso una delle torri di guardia di Mont-Saint-Michel. Le fortificazioni aggiunte nel corso dei secoli hanno reso il complesso abbaziale inespugnabile durante la Guerra dei Cent’Anni.

taurobolion, omaggiavano Attis o Mitra, divinità orientali connesse al sacrificio dell’animale. Ancora alla grotta garganica Oberto fece riferimento quando inviò alcuni chierici a prelevare un lembo del mantello dell’angelo, oltre a un frammento della pietra su cui questi s’era posato. I pignora di Monte Sant’Angelo completavano la sacralizzazione di una località che, nel IX secolo, accolse una comunità benedettina, e che, in breve, assurse a centro di pellegrinaggio penitenziale: fu cosí visitata verso l’870 dal monaco bretone Bernardo, in viaggio fra santuari europei e medio-orientali. A quel tempo Mont-Saint-Michel era anche un rifugio dalle scorrerie dei pirati scandinavi che infestavano le coste settentrionali della Francia. La turbativa della pirateria venne parzialmente

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Mont-Saint-Michel

attutita nel 911 con l’assegnazione della regione normanna al norvegese Rollone, divenuto dux Normannorum per concessione della corona francese. Cosí, dopo un iniziale legame con i re franchi, dall’XI secolo furono i Normanni a estendere il protettorato al santuario dell’arcangelo, che venne eletto a patrono della loro stirpe. Lo stesso Guglielmo il Conquistatore, lanciato alla conquista dell’Inghilterra, volle che a Mont-Saint-Michel fosse affiliato un omonimo monastero in Cornovaglia. 120

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Ai decenni che precedono il Mille si datano edifici come la chiesa a due navate di NotreDame-sous-Terre, attribuita all’abate Mainardo, e in parte distrutta da un incendio nel 992.

Poco spazio a disposizione

L’esiguità dell’area disponibile nell’angusto contesto montano imponeva di risparmiare spazio nelle ricostruzioni. Sicché, col cantiere che nel 1023 doveva portare alla piú grande basilica trinave, alcune delle architetture pree-


mo da Volpiano che, nella diocesi eporediese, aveva fondato il convento di S. Benigno di Fruttuaria e che aveva ricostruito l’abbaziale di Notre-Dame a Bernay, da cui discende l’articolazione delle navate della chiesa romanica del Mons Tumba, terminata nel 1085. La riorganizzazione monastica seguente alla svolta di Cluny si estrinsecava dunque nella ristrutturazione degli spazi cultuali. Ma i lavori non si esaurirono lí: i crolli di alcune murature nel 1103 e un incendio nel 1176 portarono alla costruzione di strutture conventuali su tre lati dell’abbaziale, comprendenti dormitorio, cucina e infermeria, locali amministrativi e una cappella trasformata in ossario. La seconda metà del XII secolo fu quindi segnata da un’intensa attività edilizia, che ebbe nell’abate Robert de Thorigny (1154-86) uno fra i principali artefici. Si cercò, allora, di risvegliare l’amore dei confratelli per le lettere e per l’arte della miniatura, e molte delle ristrutturazioni furono cagionate dall’impellente necessità di ottenere un maggior isolamento fra i monaci e i numerosi pellegrini.

L’arcangelo si fa sentinella

sistenti finirono per fungere da sostruzione. L’arte italiana ne era la matrice: il bel coro poligonale, realizzato nella circostanza su due livelli, riprese infatti un modello utilizzato nella cattedrale di Ivrea e in S. Stefano a Verona, mentre alla coeva architettura lombarda si guardò per la struttura del transetto bipiano, voltato a botte. All’opera di rifacimento non furono forse estranei Teoderico di Jumièges e Suppone, al governo di Mont-Saint-Michel nell’XI secolo: erano i discepoli di quel Gugliel-

Il duecentesco chiostro di Mont-Saint-Michel fa parte del complesso di edifici detto «Merveille», la Meraviglia, costruito lungo il lato nord dell’abbazia.

Poi, all’alba del Duecento, sul sacrario micaelico si riflessero i rivolgimenti politici in atto: nel 1204 (anno di un vano assalto a Mont-SaintMichel dei Bretoni di Guy de Thouams), Filippo II Augusto, re di Francia, strappava la Normandia al suo vassallo Giovanni d’Inghilterra: il ruolo dell’arcangelo acquisiva ancor piú rilievo nella sfera celebrativo-devozionale francese. Mont-Saint-Michel rappresentò da allora una sorta di sentinella in faccia all’Inghilterra e nel 1216-18 si impreziosí con l’elevazione della Merveille, un’architettura gotica, sostenuta da possenti contrafforti ancorati nella roccia, che inglobava su tre livelli la cappellania, la cantina, la sala degli ospiti e la «Sala dei Cavalieri», il refettorio e il chiostro. In seguito, aggiunte protrattesi fino all’età moderna fecero degli appartamenti dell’abate e dei locali giuridicoamministrativi il nucleo residenziale di un isolotto ben fortificato: una viva immagine del magnifico complesso è peraltro riscontrabile nelle Très riches heures du duc de Berry. E se già il priore Riccardo Turstin aveva provveduto nel XIII secolo a munire il comparto orientale del Monte, al Quattrocento risale invece la cinta muraria che serra l’isolotto, eretta da Luigi d’Estouteville per rafforzare la piú modesta cortina fin lí costituita dalle pareti del caseggiato. In effetti, la rovina di una parte del santuario micaelico nel 1421, durante DOSSIER PELLEGRINAGGIO

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SANTUARI MICAELICI Miniatura dei fratelli Limbourg raffigurante san Michele che uccide il drago su Mont-Saint-Michel, dalle Très riches heures du duc de Berry. 1412-1416. Chantilly, Musée Condé.

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Mont-Saint-Michel


un assedio inglese, aveva lasciato il segno, e nella Guerra dei Cent’Anni Mont-Saint-Michel fu sede di una guarnigione e di un governatorato militare indipendente dall’abbazia, capace di resistere agli attacchi avversari: due bombarde, tolte agli assedianti inglesi nel 1427 e conservate ancora nell’abbazia col nome di michelettes, sono la traccia di come il rimbombo delle armi avesse soppiantato il sussurro delle preghiere. Fra la Francia e l’arcangelo si rinsaldò comunque un legame non meno forte di quello che univa gli Inglesi a san Giorgio, e, secondo un’usanza sempre piú consolidata, al re francese spettò il ruolo di primo dei miquelots. Luigi IX aveva reso omaggio al Monte Tumba nel 1256. Filippo IV il Bello lo aveva fatto nel 1307. E Carlo VI nel 1395 compí un pellegrinaggio a MontSaint-Michel impetrando il soccorso angelico contro il nemico d’Oltremanica, per poi dare il nome del protettore a una figlia e a una porta urbica di Parigi. Né si può dimenticare che san Michele dovette parlare a quella ragazza del villaggio lorenese di Domrémy che divenne poi Giovanna d’Arco, invitandola a liberare la sua terra dall’invasore. L’angelo apparve, secondo la tradizione, a Mont-Saint-Michel nel 1427 e nel 1434, a Talomont nel 1429, a Bayonne nel 1451: era il simbolo della riscossa francese che, nel 1453, ridusse le pertinenze inglesi al solo porto di Calais. Eppure, le armi non tacevano ancora.

Contro gli infedeli

La caduta di Costantinopoli in mano turca e l’assedio ottomano di Belgrado nel 1456 alimentarono altre angosce in territori che a stento si stavano riprendendo dalle devastazioni del conflitto anglo-francese. Per effetto delle predicazioni dei Francescani e dei Domenicani, gli adulti partirono alla difesa dei confini orientali dell’Europa, mentre i fanciulli vennero instradati al pellegrinaggio a Mont-Saint-Michel. Il fenomeno assunse proporzioni amplissime soprattutto fra il 1457 e il 1459, allorché dalla Germania renana, dalla Svizzera e dai Paesi Bassi schiere interminabili di giovanetti mossero al santuario normanno per chiedere la protezione dell’arcangelo contro gli infedeli. E per tre volte, nel 1462, nel 1470 e nel 1473, re Luigi XI si recò pellegrino al santuario micaelico, tanto caro alla monarchia di Francia. Amato al punto che, nel 1469, s’ebbe la creazione del Reale Ordine di Saint-Michel, un ordine di corte destinato a premiare i personaggi che si erano particolarmente distinti per la fedeltà al trono dei Valois. Successivamente i

TRE E NON PIÚ DI TRE Secondo la tradizione angelologica gli arcangeli erano sette. Un po’ troppi, per i teologi della Chiesa, che temevano deviazioni poco ortodosse nell’estrinsecazione cultuale. Certo, il culto degli angeli aveva avuto un’importanza notevole nel processo di cristianizzazione delle genti che uscivano dal paganesimo. Tuttavia, negli ambienti delle alte sfere ecclesiastiche c’era il timore che la devozione per gli arcangeli potesse prendere una piega magico ereticale. Ecco perché il Concilio lateranense del 746 ridusse il culto consentito ai soli arcangeli Michele, Gabriele e Raffaele. Tre, e piú che sufficienti.

pellegrinaggi dei ragazzini non scomparvero, dapprima trasformandosi, nel XVI secolo, in itinerari di fede dai connotati antieretici, e infine qualificandosi quale semplice rito di passaggio fra l’infanzia e l’età adulta, con aspetti, se si vuole, un po’ folclorici. Ma ciò non tolse che ancora per qualche tempo restassero vive le pratiche devozionali originarie, quelle che avevano reso Mont-Saint-Michel la proiezione nordica del Monte Sant’Angelo pugliese. Cambiamenti cominciarono a intravedersi agli inizi del XVII secolo, col cardinale di Béville che introdusse nell’abbazia la riforma di san Mauro. Un modesto portale neoclassico sostituí la facciata pericolante della chiesa romanica nel 1780. La Rivoluzione Francese portò fin sul Tumba fuoco e fiamme, prima che, nel 1811, divenisse un centro penitenziario. Poi, la badia fu restituita al culto e affidata ai religiosi di St.Edme de Pontigny, e ulteriori lavori di ricostruzione si protrassero nel XX secolo. Finché, nel 1979, Mont-Saint-Michel non fu inserito dall’UNESCO nella lista dei beni considerati Patrimonio dell’Umanità.

In alto angeli che incatenano Satana, particolare di un’icona raffigurante La discesa agli Inferi. Vologda, Museo.

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Sacra di San Michele

Michele in Val di Susa

Stazione intermedia nel percorso micaelico che unisce il Gargano a Mont-Saint-Michel, la Sacra innalzata sul Monte Pirchiriano è un altro dei principali luoghi intitolati all’arcangelo di Vito Bianchi

P

iú o meno a metà strada fra il Gargano e la Normandia sorse il terzo anello nella catena dei grandi santuari riservati a san Michele: la Sacra (o Chiusa) di Val di Susa, al crocevia dei traffici sviluppati lungo i principali passi alpini. Anche stavolta un monte, il Pirchiriano. Una miracolosa apparizione dell’Angelo. E un cenobio, cresciuto per graduali aggregazioni e ampliamenti del primigenio insediamento eremitico: la Chronica monasterii Sancti Michaelis Clusini (redatta da un anonimo monaco della Chiusa nel 1058-61, anni del pontificato di Niccolò II) vuole infatti che l’iniziatore del culto micaelico della Sacra sia stato l’eremi-

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ta Giovanni Vincenzo, indotto dalla visione dell’arcangelo a dedicargli un tempio. L’anacoreta, che viveva sul vicino monte Caprasio, fu esortato dall’Angelo a darsi da fare per erigere una chiesa in suo onore nella zona in cui, di giorno, erano stati avvistati alcuni colombi che trasportavano fuscelli e, di notte, s’era sprigionato un fuoco enorme. Là il buon romito costruí una chiesetta lignea e intagliò in un macigno l’altare per san Michele. Decisivo fu però l’arrivo in vetta alla montagna, intorno al 987, al rientro da un viaggio a Roma, del nobile alverniate Ugo di Montboissier, che acquisí terre da Arduino il Glabro, conte d’Auriate e di


Veduta del complesso abbaziale di S. Michele sorto sul monte Pirchiriano, in Val di Susa. Anche all’origine di questo grande santuario micaelico vi fu una miracolosa apparizione dell’arcangelo. In basso san Michele in un dettaglio degli affreschi del Sacro Speco di Subiaco. XIII sec.

Torino e, con l’appoggio di personalità eminenti come il vescovo torinese Amizone, l’imperatore Ottone III e papa Silvestro II, fondò il monastero alpino, affidandolo ad Atverto, già abate di Lézat (nella diocesi di Tolosa).

Un cantiere in continuo fermento

Per approntare il monastero e renderlo agibile a religiosi e fedeli si resero necessarie intense ristrutturazioni. I lavori svolti fra il X e il XII secolo lasciano supporre diverse fasi edilizie, che dovettero fare del monte Pirchiriano un cantiere in continuo fermento, con la sovrapposizione di strutture piú recenti agli ambienti piú antichi. DOSSIER PELLEGRINAGGIO

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SANTUARI MICAELICI

In alto una veduta della Sacra (o Chiusa) di S. Michele dall’alto. A destra il cosiddetto «Scalone dei Morti», perché in passato fiancheggiato da tombe, scolpito nella roccia all’interno del santuario micaelico. Nella pagina accanto il sacrario di Saint-Michel d’Aiguilhe, eretto a Le Puy-en-Velay a circa 85 m d’altezza. La suggestiva collocazione fu scelta nel 961 dal vescovo Godescalco, il primo pellegrino francese a Santiago de Compostela.

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Sacra di San Michele

Emergono, in questo frangente, le figure degli abati Benedetto I (995-1039) e Benedetto II (1066-91), celebrati per lo spiccato senso d’ospitalità riservato a quanti, dopo una faticosa arrampicata, riuscivano a issarsi fin lassú per omaggiare il Principe degli Angeli. Dall’esigenza di alloggiare i monaci e di accogliere i pellegrini derivarono una grande chiesa, arricchita di continuo da arredi sacri, e un complesso cenobitico corredato da oratori, biblioteche, solarium, foresterie, ospedali con balnea e officine artigiane: il tutto difeso da un sistema di fortificazione che sfruttava l’asprezza e l’altezza del luogo. Gli avanzi monumentali di tanta intraprendenza architettonica delineano un’originaria abbazia a «cappelle dislocate», con un corpo compatto di tre chiesette monoabsidate poste presso la chiesa principale e i rimanenti edifici religiosi dislocati nell’area monastica circostante. È probabile che la collocazione delle varie architetture non fosse casuale, ma rispettasse un preciso percorso devozionale che i pellegrini erano tenuti a seguire. In ogni caso, se l’apporto


del maestro Niccolò, attivo in ambito padano agli inizi del XII secolo, introdusse i dettami del Romanico lombardo nelle soluzioni decorative della nuova basilica, ai piedi del monastero le vestigia del cosiddetto «Sepolcro dei Monaci» – un ottagono con absidi rettilinee ed emisferiche (forse dedicato al culto del Santo Sepolcro di Gerusalemme) – rimandano a un ambito provenzale e catalano. D’altronde, la stessa abside triloba nella nuova chiesa santuariale guardava all’Aquitania e alla Catalogna. E la cosa non è strana, visto che sia i fondatori, sia alcuni dei primi abati del cenobio clusino provenivano proprio dalla Francia. In piú, nel 1172 le abbazie di Cluny, della Chiusa e di Vézelay strinsero un patto di fratellanza e reciproca assistenza con Mont-Saint-Michel, a riprova dei rapporti fecondi intrattenuti dalla Sacra non solo con ambienti cluniacensi, ma anche con il famoso santuario normanno.

Un patrimonio immenso

La generosità espressa nell’accoglienza dei viatores, la regolarità della vita monastica e l’azione riformatrice svolta dai monaci fruttarono all’abbazia della Sacra ricche donazioni di monasteri, priorati, chiese e beni fondiari disseminati nella Catalogna settentrionale, nel Mezzogiorno francese, nel Massiccio Centrale, nelle valli del Rodano e della Durance, in territorio svizzero, nella Pianura Padana, nel Piemonte, in Liguria e nel Parmense, per un totale di 108 dipendenze distribuite in 38 diocesi. Il centro di questo esteso patrimonio erano naturalmente la Sacra di San Michele e i suoi tenimenti nelle Valli di Susa e del Sangone, area di giurisdizione compatta, che si provvide a guarnire coi castelli di Sant’Ambrogio e di Giaveno, nell’ambito di un potenziamento economico e politico perseguito con particolare dedizione dall’abate Decano (1260-80). Nondimeno, nella seconda metà del XIII secolo tanta prosperità cominciò a declinare. L’affermarsi dei Cistercensi e dei Certosini che professavano una regola benedettina piú incline all’eremitismo e all’agricoltura, il consolidarsi degli Ordini ospedalieri sui tragitti dei pellegrinaggi, la diffusione dei movimenti pauperistici e la rivalutazione del sacerdozio inflissero duri colpi alle prerogative clusine. A ciò si uní il mutato atteggiamento dei patrocinatori laici, specialmente i Savoia, che, per rafforzare le proprie posizioni politiche, non esitarono a sminuire il prestigio accumulato da S. Michele della Chiusa, imponendo abati «di fiducia», graditi al casato. Al culmine di un lungo processo di depotenzia-

UN SANTO IN LOCO ALTISSIMO Le ricerche condotte da Giorgio Otranto, direttore del Centro studi micaelici e garganici di Bari, hanno dimostrato come la caratteristica silvestre, montana e rupestre del culto riservato a san Michele ricorra in molti agiotoponimi. Presso il fiume Biferno era la chiesa di S. Angelo de loco altissimo (VIII secolo). Non lontano da Formia è noto l’oratorio di S. Angelo de monte Altino (VIII-IX secolo). Vicino Foligno era il santuario di S. Angelo de gruttis (oggi Madonna del Riparo, IX-X secolo). In Basilicata si trovano inoltre la cripta (poi abbazia) di S. Angelo sul monte Rapàro (X secolo), il monastero di S. Michele Arcangelo in monte Vulture (in seguito abbazia di Monticchio), risalente al X secolo, e il monastero di S. Michele Arcangelo de monte Caveoso (divenuto Montescaglioso), databile all’XI secolo. Nel Barese era la chiesa di S. Angelo de silva nigra (XI secolo), e nello Spoletino quella di S. Angelo inter saxa (XI-XII secolo). Per non parlare dei tanti centri abitati sorti su alture, specie nel Mezzogiorno, e dedicati proprio all’arcangelo, o di quei luoghi intitolati a san Michele sui rilievi posti al confine settentrionale della Calabria, che marcavano le competenze territoriali dei Longobardi del Sud: come se il santo nazionale fosse stato messo a guardia della frontiera.

mento, nel 1381 l’abbazia perse di fatto la propria autonomia, passando sotto il diretto controllo savoiardo e ridimensionando definitivamente il suo raggio d’azione. Pure, benché attenuati, i pellegrinaggi sulla «Via dell’Angelo» (l’itinerario che andava dal Gargano a Mont-Saint-Michel passando per la Sacra) e sui suoi diverticoli non si estinsero. Lo spoglio dei notarili umbri, marchigiani e laziali ha mostrato come fra il Tre e il Quattrocento fosse sempre di moda l’iter magnum, il pellegrinaggio che, passando per Roma, toccava il Gargano. L’autunno del Medioevo aveva affievolito, ma non cancellato il culto micaelico. Troppo ramifiDOSSIER PELLEGRINAGGIO

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Sacra di San Michele

TRASFORMAZIONI Spesso, come nella chiesa ipogea della Madonna del Parto di Sutri (foto qui accanto), i luoghi del culto micaelico si sono tramutati in santuari della Vergine che, come san Michele, è ritratta mentre calpesta il Male: ancora una volta, i prodromi di una simile iconografia possono ritrovarsi nell’antichità, in rilievi con scene della Nemesis che schiaccia la Superbia. Esistono inoltre sacrari dell’Angelo dedicati al Salvatore (in effetti, Michele non significa forse «Chi è come Dio»?), oppure a santi medici, che hanno preso dall’arcangelo le virtú taumaturgiche. E non mancano le pluristratificazioni dei culti: a Norchia, un originario santuario di san Michele fu successivamente intitolato a Maria e, in ultimo, a Vivenzio, santo guaritore.

cato era il reticolo di località preposte alla venerazione dell’arcangelo, sulle vie delle peregrinationes che davvero «fecero l’Europa». Con i pignora prelevati da Monte Sant’Angelo erano stati infatti glorificati un po’ dovunque santuari micaelici, come quello di S. Michele a Verdun, che fu concepito dal principe Wolfando, recatosi personalmente nel 722 alla grotta pugliese. Altre reliquie, compreso un pezzetto del pallium garganico, giunsero nel X secolo al celebre convento pirenaico di S. Michele de Cuxa. Non necessariamente, tuttavia, si dovevano possedere pignora per consacrare un tempio all’arcangelo. Il piú delle volte poteva bastare un rilievo montuoso, una caverna e delle stille d’acqua per ottenere un santuario ad instar, modellato cioè sull’archetipo del Gargano, imponente e possibilmente un po’ silvestre.

Sulla cima di un obelisco

Una suggestione enorme suscita quindi ancor oggi il sacrario di Saint-Michel d’Aiguilhe, che si leva a Le Puy-en-Velay sulla punta di un obelisco di granito, a circa 85 m d’altezza, all’apice di 270 gradini. La cappella eretta sulla sommità del poggio fu consacrata nel 961 dal vescovo Godescalco (noto per esser stato il primo pellegrino francese a Santiago de Compostela), e consta di almeno un paio di fasi edilizie, ascrivibili al X e al XII secolo. Le ristrutturazioni erano del resto d’obbligo, laddove si intendesse migliorare la fruizione dei santuari micaelici, 128

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specie nei centri religiosi amministrati dagli Ordini monastici, impegnati a garantire i flussi dei pellegrini anche nelle dipendenze piú importanti. I Benedettini di Farfa gestivano, per esempio, il sacrario rupestre della Tancia, a sudovest di Rieti, che conobbe la sua maggiore fortuna fra X e XI secolo e che, al pari del S. Michele di Olevano sul Tusciano, in provincia di Salerno, pare avesse un carattere esaugurale rispetto a persistenze pagane. Storia nota, del resto, simile a quella della chiesa che fra il 1072 e il 1099 l’abate Desiderio di Montecassino volle in S. Angelo in Formis, alle pendici del Monte Tifata, culla di un paganesimo atavico e sede di un tempio dedicato a Diana Tifatina. In ambito centro-italico, un propulsore precoce del culto micaelico dovette poi essere il monastero di S. Angelo de Barregio, un cenobio sito allo snodo dei ducati di Spoleto e Benevento: sembra che l’impulso alla devozione per l’Angelo fosse derivato dal re longobardo Liutprando (712-44), deciso a riaffermare anche a livello religioso, col «longobardo Michele», la propria autorità regia sulla dinastia dei riottosi duchi spoletini (Trasmondo in primis), devoti di san Sabino. E quando non erano le istituzioni monastiche a incoraggiare il culto dell’arcangelo, lontano dalle arterie piú frequentate la propagazione avveniva sui sentieri della transumanza: i pastori che si muovevano fra Lazio, Abruzzo, Marche, Molise, Umbria e Puglia, sapevano infatti scovare in un anfratto sperduto o in un


In basso Capua, S. Angelo in Formis. Il ritratto dell’arcangelo Michele nell’affresco absidale. XI sec.

antro praticabile da pochi temerari il rifugio in cui effondere le ansie religiose. Qualche volta vi si trovava annesso anche un eremita alla ricerca della penitenza e immerso nelle preghiere: e allora c’erano i presupposti per fare di un santuario semi-sconosciuto un locum attrezzato per un minimo di pellegrinaggio e affidato a frati. La diffusione del culto dell’arcangelo era tale che, nella sola Langobardia Minor, sono stati censiti oltre duecento luoghi dedicati a san Michele. Va poi sottolineato che in molti casi la dedicazione micaelica è stata col tempo trasformata nell’intitolazione alla Vergine Maria, dato che la Madonna ripeteva l’atteggiamento dell’angelo nell’atto di schiacciare il dragone sotto i piedi (Apocalisse, capitolo XII): è quanto rilevabile a Montevergine d’Avellino. Non sempre, inoltre, la devozione per l’arcangelo prevedeva una caratterizzazione silvo-montano-grottale, potendosi esprimere anche presso contesti piú specificamente urbani.

L’arcangelo e la Mole Adriana

A Perugia, la chiesa di S. Angelo fu costruita verosimilmente nei decenni iniziali del VII secolo (anche se altri studi ne retrodatano l’erezione), in coincidenza con la presenza politicomilitare bizantina. A Roma, invece, il radicarsi del culto micaelico risalirebbe a papa Gregorio Magno e sarebbe connesso con la salvaguardia dell’Urbe da una pestilenza: è Jacopo da Varazze, nella sua Legenda Aurea, scritta verso il 1260, a ricordare che le apparizioni di san Michele avvennero non solo sul Gargano e sul MontSaint-Michel, ma anche sulla Mole Adriana, al termine d’una processione penitenziale organizzata per implorare la fine della peste. Si suppone che all’inizio del VII secolo una cappella a forma di cripta venisse realizzata in onore dell’arcangelo all’apice del grandioso mausoleo dell’imperatore Adriano, appannaggio delle milizie bizantine che utilizzavano l’immane sepolcro a mo’ di fortezza. In realtà, la chiesetta di Castel Sant’Angelo fu riconosciuta come santuario micaelico soltanto in occasione del sacco dei lanzichenecchi del 1527, da quel Clemente VII (1523-34) che vi si era rifugiato con la corte pontificia e che ne ordinò la monumentalizzazione, a ringraziamento dello scampato pericolo. Fu tuttavia Paolo III (1534-49) a far apporre la statua dell’Angelo sul mastodontico cilindro dell’età romana imperiale: un monumento che, scorticato dell’antica e marmorea bellezza, giganteggiante ed eminente sulla Città Eterna, un po’ doveva dar l’idea d’una montagna rocciosa. DOSSIER PELLEGRINAGGIO

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