Medioevo Dossier n. 16, Settembre 2016

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Dossier

ORDINI

CAVALLERESCHI UN’EPOPEA FRA STORIA E LEGGENDA

I Templari ♦ L’Ordine teutonico ♦ I Cavalieri di Malta ♦ I soldati di Cristo ♦L e roccaforti ♦L e battaglie ♦

€ 7,90

GLI ORDINI CAVALLERESCHI

N°16 Settembre Rivista Bimestrale

My Way Media Srl - Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c.1, LO/MI.



Gli Ordini cavallereschi UN’EPOPEA FRA STORIA E LEGGENDA di Franco Cardini, con un contributo di Furio Cappelli

6 Presentazione La fede e la spada

70 La persecuzione Caccia al Templare

8 L’eredità Una storia nobilissima

76 Chiese templari Fondazioni eccellenti

18 La metamorfosi Soldati di Cristo

96 Con i re cattolici Una penisola inquieta

30 Il mito Guerra «santa»

104 I Cavalieri teutonici Signori del Baltico

42 Bernardo di Chiaravalle L’elogio dei «malicidi»

112 I Cavalieri di Rodi L’isola degli eroi

52 I luoghi Roccaforti del potere

118 Tradizione e fortuna moderna Un mito che non muore

62 Nuovi scenari Orizzonti di ignominia

128 Cronologia I cavalieri nei secoli


Siena, Duomo, cappella di S. Giovanni. Particolare di uno degli affreschi del Pinturicchio raffigurante Alberto Aringhieri e, sullo sfondo, il porto di Rodi. 1504-05. Il cavaliere indossa l’abito «di punta» (o conventuale), formato da una veste nera – con la croce biforcata bianca sul lato sinistro del petto – e dal mantello con lo stesso emblema sulla spalla sinistra.


ORDINI CAVALLERESCHI

Presentazione

La fede e la spada N

ella società medievale, gli Ordines erano propriamente i livelli sociali e istituzionali in cui si immaginava organizzato e distinto il corpus christianorum, la società stessa: gli oratores – quelli che pregavano e che studiavano –, i bellatores – coloro che assicuravano l’ordine interno ed esterno, difendendo la comunità con le armi e amministrando la giustizia – e i laboratores – quanti ne assicuravano la prosperità con la fatica delle loro braccia. Ma questo schema, che cominciò rapidamente a invecchiare fin dal XII secolo – anche se sopravvisse formalmente fino al XVIII –, non basta a spiegare il termine «Ordine», né a dar ragione della sua complessa problematica. Quelli che noi definiamo «Ordini» erano, piú propriamente, i sodalizi fondati sulla base di una «Regola», una carta che disciplinava l’esistenza di uomini e donne intenzionati a vivere da soli o insieme (cioè come eremiti o come cenobiti) un’esperienza religiosa. Fin dall’Alto Medioevo, si crearono infatti gli Ordini monastici, il cui principale modello, in Occidente, è quello fondato nel VI secolo da Benedetto da Norcia e detto perciò benedettino, piú tardi scanditosi in diverse «Congregazioni» che ne riformarono alcuni aspetti (cluniacense, cistercense e via discorrendo). Degli Ordini facevano parte monaci che erano anche chierici o addirittura sacerdoti, e monaci che invece, non avendo alcun adito all’ordinazione canonica, possono essere definiti «laici» ed erano adibiti alle mansioni piú umili e pesanti. Naturalmente, però, tutti erano religiosi, tenuti cioè a rispettare la Regula caratteristica, appunto, di quel che noi chiamiamo «Ordine» e che essi, piú propriamente, definivano Religio. Nacquero poi anche Ordini canonicali – fatti di preti secolari che conducevano vita comune – e Ordini mendicanti (Domenicani, Francescani).

A difesa dei piú deboli

All’inizio del XII secolo, sia in Terra Santa che in Spagna, l’esigenza di difendere i territori strappati all’Islam dal rischio di una controffensiva musulmana e di tutelare viandanti e pellegrini consigliò la fondazione di un altro tipo di Religio, a cui afferirono molti milites (cavalieri) che fino ad allora, spesso in espiazione dei loro peccati, si erano riuniti in fraternitates (confraternite), aventi appunto come scopo la vita comune in preghiera e in povertà e la difesa dei piú deboli contro l’arroganza dei prepotenti o il rischio del viaggio tra gli infedeli. Dotati di un’alta specializzazione militare, questi laici armati si riunirono in un tipo nuovo di Religio – che comprendeva anche sacerdoti per l’assistenza spirituale, laici armati di condizione non cavalleresca e laici disarmati con funzioni subalterne –, che in genere fu definita Militia (anche se presto si cominciò in effetti a qualificarla con il termine Ordo). Nacquero cosí i Pauperes Milites Christi et Salomonici Templi, che noi definiamo Templari; i Fratres Hospitalis Sancti Johannis in Jerusalem – in origine un «Ordine» di gente che volontariamente serviva negli ospizi per i pellegrini, quindi un «Ordine ospitaliero», che divenne poi anche «militare», i Fratres Sanctae Mariae Teutonicorum, un Ordine riservato a membri provenienti dal mondo germanico. Nel corso del XII secolo, si svilupparono nella Penisola Iberica e nel Nord-Est europeo analoghi Ordini – che possiamo definire «militari» – con scopi specifici. In alcuni casi, come in quello dell’Ordine Teutonico in Prussia, essi furono un elemento costitutivo dell’identità regionale o addirittura nazionale. Gli Ordini militari vissero destini differenti. I Templari furono sciolti all’inizio del Trecento in seguito a un drammatico processo inquisitoriale avviato per volontà del re di Francia; gli Ospitalieri di San Giovanni si trasferirono a Rodi nel XIV secolo e a Malta nel XVI, e si riproposero come combattenti di mare; i Teutonici aderirono in parte alla Riforma protestante e furono laicizzati, in parte si trasformarono in Ordine religioso, restando cattolici; gli Ordini iberici vennero di fatto assorbiti dalle istituzioni monarchiche spagnola e portoghese. Frattanto, a partire dal Trecento, il diffondersi della cultura cavalleresca e il bisogno dei principi dei nascenti Stati assoluti di collegare strettamente a sé le élite aristocratiche avevano determinato il sorgere di «Ordini cavallereschi di corte», sovente dotati di simboli, emblemi e liturgie sfarzosi, che avevano principalmente il ruolo di costituire titoli di onore e di dignità che ricompensassero la fedeltà al sovrano. Anche gli Ordini pontifici, come quello «del Santo Sepolcro» (che nasce in Gerusalemme, ma dai canonici della basilica della Resurrezione e non da cavalieri), «del Cristo» e «dello Speron d’Oro», hanno origini analoghe e da essi sono nati i moderni Ordini cavallereschi di Stato. ORDINI CAVALLERESCHI

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Una storia

nobilissima

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Nel corso del Medioevo le acque del Mediterraneo furono ripetutamente teatro di battaglie accanite: tra i protagonisti di questi scontri, figurarono spesso le galee biancocrociate dei Cavalieri di Malta

L’attacco dei Saraceni all’isola di Malta difesa dai cavalieri nel 1565, olio su tela di scuola italiana. XVII sec. Valletta, Museo di Belle Arti. La scena evoca un momento dei furiosi combattimenti che si svolsero durante il lungo assedio delle truppe ottomane che, dopo quattro mesi di strenua resistenza, venne infine respinto. ORDINI CAVALLERESCHI

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L’eredità Il cavaliere con l’orologio, olio su tela di Tiziano Vecellio. 1550 circa. Madrid, Museo del Prado. Il personaggio ritratto, di cui si ignora l’identità, indossa una veste sulla quale è cucita la croce argentea «a coda di rondine», emblema dell’Ordine di Malta. Nella pagina accanto decorazione del titolo di Balí Cavaliere di Gran croce di onore e devozione, che viene conferita dal Sovrano Militare Ordine di Malta. 1850.


«D

a Malta si parteru li galeri / guerra contra fu Turcu vannu a fari». Può capitare ancora oggi, tra Calabria e Sicilia, di sentire le strofe belle, alte, disperate dell’Allarmi allarmi la campana sona, che si cantava con infinite varianti. Una di esse narra di un assalto di Turchi o, piú verosimilmente, di barbareschi «alla marina», del pronto giungere delle galee di Malta, del loro soccombere nell’impari confronto con un piú forte nemico, del pianto accorato del comandante della flotta biancocrociata che «nun chianci li galeri / cà su’ di lignu e si ripozzon fari / ma chiangi li su amati Cavaleri / li chianci accisi in fondu de fu mari». Ricordi tragici eppure gloriosi, che oggi – in mezzo a tante forme di «revisionismo» e «pentitismo» – sarebbe ingiusto dimenticare. Un grande storico, Fernand Braudel (1902-1985), ci ha ricordato nella sua celebre opera dedicata al Mediterraneo del Cinquecento (Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, pubblicato in Italia per la prima volta nel 1953, n.d.r.) come le torri di avvistamento, erette un po’ dappertutto sulla costa dalla Spagna alla Grecia per difendere le popolazioni rivierasche cristiane dalle incursioni turche e barbaresche, avessero il loro corrispettivo nelle torri analoghe, erette fra Marocco e Albania, per tutelare le genti dei litorali musulmani contro le incursioni delle navi di Malta e di Santo Stefano; e come la povera carne battezzata che languiva nelle sentine di Tangeri e di Tunisi non soffrisse piú della povera carne circoncisa che soffriva nei sotterranei di Malta e di Livorno.

Fede e abnegazione

È questa la storia del nostro mare e dei nostri difficili eppure proficui e sovente anche amichevoli rapporti con il vicino Islam, a cui pure tanto dobbiamo sotto il profilo culturale, economico e tecnologico. Ma le bandiere verdi e nere e le insegne dalla coda di cavallo, strappate in battaglia agli «infedeli», fanno parte integrante di una storia che è ben lungi dall’esser fatta solo

di violenza: ma che è anche storia di fede, di abnegazione, di carità, di moderazione, di prudenza diplomatica, di mecenatismo artistico e letterario. Per questo, sono stati benemeriti gli studi che hanno cominciato con lo sfatare il principale e forse piú pericoloso dei luoghi comuni al riguardo: che sulla crociata – intesa nella sua longue durée, tra XI e XVIII secolo, con qualche sia pur malinteso e occasionale revival – non si sappia abbastanza, che non vi siano adeguate fonti storiche. Prendiamo un solo esempio: il Sovrano Militare Ordine di Malta. In tempi in cui i falsi Ordini cavallereschi sono molto di moda, l’Ordine oggi detto «di Malta» è il piú antico e il piú autorevole tra quelli autentici; ed è anche il solo Ordine religioso ad aver mantenuto una sua continuità e una sua coerenza di vocazione. I Cavalieri di Malta altro non sono che i discendenti e gli eredi diretti, senza soluzione di continuità, di quei monaci che, nei primi anni del XII secolo, crearono in Terra Santa un Ordine che aveva come scopo la difesa dei pellegrini e la creazione di ospizi adatti ad albergarli e a curare quanti di essi fossero caduti ammalati; monaci che accolsero nel loro seno anche nuclei di cavalieri con il ruolo, dettato dalla necessitas del luogo e del momento storico, di difendere, anche con le armi, gli insediamenti cristiani, gli ospizi, le strade, i pellegrini.

Profilo internazionale

Il Sovrano Militare Ordine di Malta ha le prerogative di uno Stato sovrano: per quanto fin dal 1834 abbia fissato la sua sede definitiva a Roma, sotto la protezione pontificia, rinunziando alla sovranità territoriale, esso batte bandiera, emette valori bollati, possiede una flotta aerea e gestisce circa cento ospedali in tutto il mondo, oltre a vari ospedali mobili da campo. Tutto il mondo conosce l’Ordine di Malta e la sua gloriosa insegna: la bandiera scarlatta dall’argentea croce «a coda di rondine» (o «amalfitana»). Riconosciuto in oltre 100 Stati con i quali ORDINI CAVALLERESCHI

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L’eredità quantità di situazioni drammatiche e urgenti in tutto il mondo in tempi recenti e recentissimi: dal Kosovo alla Macedonia ai teatri dei terremoti che negli ultimi anni hanno colpito l’Italia. Profondamente riformato dal 1961, l’Ordine è attualmente governato da un Gran Maestro, la cui elezione è soggetta all’approvazione pontificia e al quale spetta nel cerimoniale vaticano dignità pari a quella cardinalizia; egli è assistito da un Sovrano Consiglio e coadiuvato da un Gran Cancelliere con ruolo e dignità di Capo di Governo. I cavalieri si riuniscono in «nazioni» o «lingue», secondo la loro origine.

Destini diversi

intrattiene regolari rapporti diplomatici, l’Ordine conta oggi nel mondo oltre 10 000 «cavalieri»: distinti tuttavia tra quelli detti «di giustizia», che pronunziano i tradizionali voti religiosi di povertà, castità e obbedienza e quelli detti «d’onore e devozione» e «di grazia e devozione». All’Ordine sono aggregati 80 000 volontari impegnati in 40 gruppi di primo soccorso. L’attività dell’Ordine è davvero benemerita: esso si è distinto nelle due guerre mondiali (e conta tra le sue file numerosi caduti), nonché in una 12

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Ritratto del poeta e crociato Tannhauser (o Tanhuser), particolare di una miniatura del Codice Manesse. 1310-1340 circa. Heidelberg, Biblioteca Universitaria.

Fra gli Ordini cosiddetti «religioso-militari», quelli che nel linguaggio canonistico sono le speciali Religiones definite come Militiae, quello di Malta è l’unico autentico superstite. Il cosiddetto Ordine del Santo Sepolcro, venerabilissima istituzione, è nato tuttavia in ambito vaticano, sviluppandosi da un Ordine canonicale e solo di recente ha rivestito insegne cavalleresche; altri Ordini nati nel XII secolo con caratteri guerrieri sono stati soppressi – come i Templari – o sono divenuti Ordini a carattere onorifico, gestiti dagli Stati (come quelli spagnoli). Un caso particolare è l’Ordine teutonico, secolarizzato nel XV secolo, in quanto il suo Gran Maestro aderí alla Riforma protestante, anche se una parte di esso rimase cattolica e sopravvive ancora oggi come Ordine ecclesiastico con centro a Vienna. Altri casi particolari sono gli Ordini dedicati a San Giovanni, che mantengono parte dell’apparato simbolico e conservano la vocazione dell’Ordine di Malta dal quale si sono staccati, e che sono presenti nei Paesi protestanti. Ma ha davvero 900 anni, l’Ordine che oggi si chiama «di Malta»? E da dove trae il suo carattere «militare»? E come si collega agli altri Ordini militari che oggi non esistono piú, o dei quali resta solo qualche traccia giuridico-istituzionale? Leggende e malintesi presiedono a queste peraltro illustri tradizioni: per ripercorrerle e immettere nella loro pur complessa congerie un ordine storico che esiste nei fatti, ma che troppi equivoci e troppe mistificazioni hanno confuso e adulterato, si deve tornare indietro di un millennio.


Nel segno della croce

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on pochissime eccezioni, l’insegna comune a tutti gli Ordini militari è una croce: può essere di forma e colore diversi e – da quando, con il DueTrecento, hanno cominciato a formalizzarsi precise consuetudini araldiche – di differenti dimensioni all’interno dello «scudo d’arme», che è l’abituale supporto dell’insegna araldica. Croci di forma, colore, dimensione diversi erano dipinte o ricamate anche sui differenti abiti dei membri degli Ordini, a seconda ch’essi fossero cavalieri, sergenti o sacerdoti, o che portassero vesti e armamento da battaglia oppure abiti da preghiera. Appuntata, cucita o ricamata, la croce, era una delle insegne piú frequenti dei pellegrini diretti a Gerusalemme, forse fin dall’Alto Medioevo. Ma tutte le notizie relative a fogge o a colori differenti delle croci dei crociati a seconda della loro provenienza o della destinazione corrispondono a informazioni sospette, tardive o comunque poco sicure. Queste considerazioni valgono a smentire le tesi volte a ritenere che la croce degli Ordini militari possa essere attribuita al fatto che i loro membri si potessero considerare in qualche modo «crociati perpetui». La croce che si assumeva formalmente, con una benedizione e un rito solenne, insieme col bordone e la scarsella, era simbolo del pellegrinaggio: e il voto di partire per il passagium (la «crociata»), simile a quello di pellegrinaggio, corrispondeva a un impegno rigorosamente determinato nel tempo.

Solo alla metà del XII secolo Templari e Ospitalieri vennero autorizzati a portare una croce di colore rosso sulle loro vesti. Si trattava di croci semplici, di solito a bracci simmetrici («croci greche»); non prima del XIII secolo si registrano con sicurezza croci «patenti» o «a otto punte» («a coda di rondine»), che poi divennero tipiche dell’Ordine giovannita (soprattutto a partire dal primo periodo dell’insediamento in Rodi, nel Trecento, quando le norme araldiche andavano ormai configurandosi con maggior rigore). Nella chiesa perugina di S. Bevignate, una delle poche fonti sicure per l’iconografia templare,

In alto l’emblema dell’Ordine spagnolo di Calatrava. A destra Perugia, S. Bevignate. Particolare di un affresco raffigurante un cavaliere templare: dalla foggia dell’elmo e dalla condizione appiedata si tratta probabilmente di un sergente. XIII sec.

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gli scudi, gli abiti e vari altri oggetti appaiono contrassegnati dai due colori, bianco e nero, disposti in fasce sovrapposte («troncato») Il celebre vessillo dell’Ordine, il beausseant (incerta la grafia: comunque, da tale termine deriva l’italiano «balzano»), era appunto troncato di bianco e di nero. Che invece vi sia un rapporto tra la croce dell’Ordine ospitaliero di San Giovanni e quella dell’arme cittadina di Amalfi, dipende dal fatto che, in realtà, sembra esservi un legame obiettivo tra Amalfitani e Ospitalieri nell’edificio dell’ospedale di San Giovanni a Gerusalemme, presso la basilica della Resurrezione, appartenente prima agli Amalfitani e passato poi agli Ospitalieri. Nella Penisola Iberica prevalsero croci di tipo

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L’eredità

In alto vignette raffiguranti re Artú con la sua corte, Lancillotto guidato da una damigella, la vestizione di Galaad e l’apparizione del Graal, da un’edizione del Romanzo del Cavalier Tristano e della regina Isotta. XV sec. Chantilly, Musée Condé. A destra L’Ordine di San Giovanni prende possesso dell’isola di Malta, 26 ottobre 1530, olio su tela di René-Théodore Berthon. 1838-1839. Versailles, Musée National des Châteaux de Versailles et du Trianon.


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L’eredità

leggermente diverso, di solito a bracci «gigliati»: rossa gigliata per Calatrava, verde gigliata per Alcantara; mentre quella rossa di Santiago, dal braccio inferiore allungato e appuntito a foggia di lama, è rimasta nell’emblematica delle forze armate spagnole moderne. L’arme tipica dei «guerrieri del Cristo», secondo la tradizione iconica europea, a partire almeno dal Duecento, è una croce vermiglia in campo d’argento: quella che appare a Dante nel cielo di Marte secondo la Divina Commedia. In origine, era forse una delle insegne

In alto Valletta, Malta. Uno scorcio dell’interno del palazzo fondato dal Gran Maestro Jean de la Valette nel 1566. Per lungo tempo residenza dei Gran Maestri, è adesso sede del Parlamento maltese. Sulle due pagine Valletta, Malta. Una veduta panoramica del porto vecchio.

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dell’impero romano-germarnico; ma dal Duecento la vediamo spesso effigiata nelle scene di Resurrezione del Cristo, quindi in quelle del martire-cavaliere san Giorgio. Il bianco evoca la purezza della fede, il rosso il sangue versato per la causa del Signore. Il testo letterario che fece divenire famoso questo simbolo è un romanzo del ciclo del Graal scritto tra il primo e il secondo quarto del XIII secolo, la Cerca del Graal, in cui la croce vermiglia in campo d’argento è effigiata sullo scudo e sulla cotta d’arme del

cavaliere piú puro, eletto protagonista della ricerca del Graal, cioè Galaad. Lo stendardo bianco caricato della croce rossa divenne anche, alla metà del XIII secolo, simbolo frequente delle varie «società» armate che – sovente organizzate e inquadrate da membri degli Ordini mendicanti – lottavano anche militarmente, nelle città italiche, contro gli eretici, ma che, di fatto, servivano come strumento di violenza nelle lotte politiche contro i Ghibellini. Per questo, in parecchi centri urbani, uno scudo crociato divenne anche simbolo delle

organizzazioni popolari, appoggiate dalla Chiesa nella contesa politica contro i gruppi aristocratico-magnatizi. La croce sopravvisse anche dopo la fine degli Ordini militari – salvo quello di Rodi – come simbolo delle onorificenze cavalleresche e solo in periodo napoleonico si preferí sostituirla – per la Legion d’Honneur – con un segno a cinque bracci, simile a una stella, di ascendenza massonica. Naturalmente, la croce non era usata nelle onorificenze dell’Unione Sovietica e non viene usata in quelle dei Paesi musulmani.

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Soldati di Cristo

Fra l’XI e il XII secolo ha luogo una svolta decisiva nella storia della cavalleria, che vede imporsi con prepotenza la componente guerriera. Per assicurare il trionfo della fede cristiana non si smette di pregare, ma diviene lecito ricorrere, se necessario, all’uso delle armi

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l tema della militia Christi non percorre solo la storia delle crociate, ma, piú in generale, quella della pace e della guerra nel mondo medievale; e, a un livello ancora piú ampio, il problema della «guerra santa» e delle militiae sacrae, cioè delle forme di sacralità e di sacralizzazione della guerra nelle differenti culture. Un tema storico-religioso e antropologico-religioso di ampio respiro e di delicatissima trattazione, a causa degli interrogativi etici che esso propone. Tuttavia, in questa sede ci interessa semplicemente la genesi del concetto cristiano-medievale di militia sacra quale si è concretamente presentato nelle Militiae, appunto, cioè nelle Religiones, negli Ordini religioso-militari fondati nella Chiesa latina a partire dagli inizi del XII secolo in Siria e nella Penisola Iberica. Uscita dalla riforma dell’XI secolo, la Chiesa dovette fronteggiare due problemi di fondo, rispetto al fenomeno che, a posteriori, si convenne di definir «crociata»: la funzionalizzazione della cavalleria ai valori e alle esigenze scaturiti dalla dinamica del rinnovamento e il mantenimento delle conquiste in Terra Santa dopo la fine della peregrinatio culminata nel 1099 con la conquista di Gerusalemme. Per comprendere l’itinerario percorso è però opportuno cominciare dal bellator precedente la conversio.

Un modello e il suo contrario

Quando s’intenda studiare il definirsi etico-sociologico della figura del cavaliere medievale in rapporto col (e, in un certo senso, in contrapposizione al) guerriero della prima età feudale, si finisce con l’imbattersi non tanto nel cavaliere, quanto con qualcuno che è tale sul piano sociale, ma su quello etico-comportamentale, è piuttosto il suo contrario. In effetti, il miles del X e Xl secolo era un guerriero violento, privo di leggi e di freno, che combatteva contro i suoi antagonisti 18

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Miniatura raffigurante una scena di battaglia dal De Universo (o De Rerum Naturis) di Rabano Mauro. XI sec. Montecassino, Abbazia.


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ORDINI CAVALLERESCHI In basso la fronte di un’acquasantiera raffigurante la purificazione di un cavaliere. 1099-1106. Modena, Musei Civici. Nei vari riquadri, l’opera, attribuita a uno scultore emiliano indicato come Maestro della Porta dei Principi, narra la Leggenda del patto tra il cavaliere e il diavolo.

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La metamorfosi

appartenenti al suo stesso livello socio-politico e istituzionale, ma che era ancora ben lontano da quell’immagine dello chevalier – per molti versi destinata a restare un Idealtypus – che si definí poi sul piano morale e comportamentale. Ciò pone, beninteso, la questione del definirsi storico e della storica plausibilità concreta dell’etica cavalleresca. Ma essa, ancor prima di venir proposta in termini positivi, venne delineata nel corso dell’XI e XII secolo dal suo contrario, cioè da quello che il cavaliere, per poter dirsi tale, non deve fare. Se le prime e piú chiare espressioni dell’etica cavalleresca si possono leggere nei canoni espressi dalla Chiesa dell’XI

secolo – che sono poi i veri e propri modelli dell’ideologia cavalleresca –, ne consegue che il latro, il raptor, il praedo, l’effractor pacis – insomma il violatore della Pax e della Tregua Dei stabilite dalla Chiesa per radicare la riforma morale e istituzionale della sua stessa compagine e per dare sollievo a un’Europa dilaniata dai contrasti – è il precedente e il modello del Raubritter, il cavaliere-predone che piú tardi si trasformò nell’«anticavaliere», l’avversario del guerriero cristiano. Non si deve sottovalutare il lavoro anche propagandistico attraverso il quale la Chiesa riuscí a imporre questa rivoluzione etica, dalla quale


A destra uno dei pannelli laterali dell’acquasantiera raffigurante la Leggenda del patto tra il cavaliere e il diavolo. 1099-1106. Modena, Musei Civici.

nacque un miles concettualmente nuovo, al punto da potersi definire con l’espressione – sin lí usata nel linguaggio monastico e mistico – di miles Christi. Alla demonizzazione del Raubritter concorse la mobilitazione di tutta una serie di valori e di risorse, ivi compresa la rilettura di leggende e di apparizioni che affondavano le radici nella mitologia celtico-germanica e che costituivano parte di un patrimonio folclorico diffuso nell’Europa altomedievale.

Il sistema dei valori

Tra l’XI e il XIII secolo, le cronache e la letteratura epica registrano sovente, con molte variabili, il caso del cavaliere che, pur condividendo con i fratelli d’arme la dignità cavalleresca iniziaticamente (o quanto meno cerimonialmente) acquisita e il complesso socio-culturale della conoscenza dei riti e della detenzione delle competenze professionistiche che ciò comporta, non ne condivide però l’ossequio alla normativa etica. D’altronde, egli conosce bene tanto tale normativa quanto il rapporto che a essa lo lega e la cui inosservanza ne fa un trasgressore. Una normativa che ancora non corrisponde ad alcunché di rigorosamente professato, ma che fa comunque parte di quell’insieme etico-comportamentale dal quale nacque (allorché e nella misura in cui si cristallizzò in precise norme scritte e in una letteratura a ca-

La figura del trasgressore si riverbera sull’intera produzione letteraria cavalleresca

rattere parenetico) quello che si è ormai convenuto di definire il ritterliches Tugendsystem, il «sistema dei valori cavallereschi». La complessa figura del trasgressore proietta la sua ombra sull’intera letteratura cavalleresca medievale e rinascimentale, fino a cristallizzarsi in personaggi e addirittura in dinastie precise. E si caratterizza in modo ben altrimenti negativo che non semplicemente quello di antagonista dell’eroe cavalleresco, di solito a sua volta consapevolmente compartecipe del ritterliches Tugendsystem e al quale, semmai, mancano altri elementi: per esempio, la fede cristiana. Anzi, vi è un rapporto speculare in questo senso – e non a caso – fra letteratura cavalleresca da una parte, canonistica e propaganda religioso-popolare dall’altra. Se l’anticavaliere è peggiore del leale pagano che, consapevolmente o no, si adegua ORDINI CAVALLERESCHI

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La metamorfosi

alle norme della cavalleria cristiana, non si deve dimenticare, d’altronde, che l’immaginario che andava costituendosi sulla base dei testi cavallereschi e dell’elaborazione di corrispondenti idee diffuse procedeva di pari passo, per esempio, con la lotta all’eresia e il definirsi del rapporto – a tutto svantaggio del primo – fra eretico, da una parte, e pagano-infedele, dall’altra. Né si dimentichi che, in pieno Duecento, grazie alla meditazione di canonisti illustri quali Enrico di Susa, la crux cismarina (la crociata come spedizione punitiva contro eretici o nemici della Chiesa in un modo o nell’altro equiparati agli eretici) sarebbe divenuta piú meritoria che non la crux transmarina, la crociata vera e propria. L’ideologia della lotta contro l’anticavaliere legittima la riveicolazione all’interno della cristianità, sotto forma di iustitia, di quella forza positivamente impiegata nella quale, alla fine dell’XI secolo, il papato aveva cercato – almeno in buona parte riuscendovi – di trasformare, attraverso la crociata, la violenza endemica dei ceti militari.

tovalutato l’impegno delle Chiese locali e della congregazione cluniacense, teso a mettere in qualche modo un riparo alla polverizzazione dei poteri pubblici e al relativo dilagare dell’arbitrio, della violenza, delle guerre private e delle soperchierie ai danni dei pauperes. Beninteso, non è corretto leggere il movimento della Pax e della Tregua Dei riduttivamente, vale a dire come una grande operazione di polizia diretta contro le guerre private. La linfa che lo anima è quella, ben piú ricca, che, in tutto l’XI secolo, circola nelle vene della riforma ecclesiastica. Si può anzi dire che la Pax Dei sia in sé un aspetto oltre che una componente di tale riforma, soprattutto nella misura in cui tendeva a sottrarre al potere o all’arbitrio e alla violenza dei ceti dirigenti laici persone e beni aventi qualche rapporto con la Chiesa. Per esempio, tutto l’ampio arco delle persone che si potevano definire pauperes. D’altronde, fautori della Pax Dei e riformatori preoccupati di riaffermare la libertas Ecclesiae non trovarono, per imporre le loro prerogative, altro sistema se non l’uso della forza contro tyranni e infractores pacis. Anzi, proprio attraverso questo uso della forza si andò configurando – non diversamente da quanto, per esempio, avvenne nella Milano patarinica –, contrapposta alla militia saeculi che perseverava nelle violenze e nelle lotte fratricide, una militia Christi, compito della quale era il frenare con le armi la riottosità dell’altra. Il carattere a suo modo rivoluzionario di questa militia Christi non va frainteso. Fino ad allora, tale espressione aveva posseduto un contenuto non solo antimilitare, bensí uno antilaicale tout

Norme in via di definizione

Si può dire che, ai primi del XII secolo, l’etica cavalleresca fosse già fissata nelle sue linee portanti, per quanto forme iniziatico-rituali e prerogative istituzionali connesse all’assunzione della dignità cavalleresca dovessero ancora esser precisate: e tali forme, tali prerogative, lo sarebbero state soltanto nella seconda metà del secolo, soprattutto attraverso le regolamentazioni dell’accesso alla dignità cavalleresca, caratteristiche della legislazione sveva, anglonormanna e siculo-normanna. Non va poi sot22

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Nella pagina accanto miniature che illustrano la scomunica degli Albigesi e la successiva crociata contro di loro, da un’edizione dalle Chroniques de France ou de Saint Denis. XIV sec. Londra, British Library.

In basso miniatura raffigurante tre cavalieri che smettono le armature e indossano abiti talari per entrare in un monastero, da un’edizione del Recueil de Traites de Devotion. 1371-1378. Chantilly, Musée Condé.

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La metamorfosi

court. Essa qualificava, dapprima, la testimonianza dei martiri; poi, era passata a indicare quella dei monaci. Il militare Christo si opponeva in tal modo al militare saeculo, cioè al se implicare in civilibus negotiis. Ma le forze riformatrici avevano a loro volta ridefinito, rivalutandolo, il ruolo della militia laica, chiamandola a sua volta militia Christi: a condizione che e nei casi in cui le spade dei guerrieri passassero al servizio dei loro programmi. Tale posizione si affermò su una linea polemistica e canonistica che da Burcardo di Worms e da Manegoldo di Lautenbach giunge fino al Liber ad amicum di Bonizone da Sutri e allo stesso papa Gregorio VII. Spetta insomma agli uomini della riforma l’aver teorizzato una militia Christi che tale potesse essere svolgendo il suo compito in temporalibus. Il paradosso di tutto ciò, e la logicità fatale di questo paradosso, si leggono con drammatica evidenza confrontando due testi (e due date): quello relativo al celebre sinodo di Narbona del 1056, nel quale si sanziona che nessun cristiano può versare il sangue di un fratello perché ciò equivale a versare quello di Gesú Cristo; e il si-

nodo romano del 1078, in occasione del quale, con un radicale rovesciamento della questione, si stabilisce che i laici pentiti di aver ostacolato la riforma potranno legittimamente assoggettarsi a una penitenza armata pro defendenda iustitia, cioè combattendo gli avversari della nuova Chiesa.

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Tiranni che si dicono cristiani

A Narbona si direbbe ripresa e continuata la piú radicale tradizione pacifista della Chiesa, rigogliosa e profonda non solo nei primi tempi della storia ecclesiastica, ma anche verso la fine dell’Alto Medioevo. Tuttavia, il sinodo di Narbona cadeva nel momento cruciale del movimento della Pax Dei e delle tregue, le quali avevano a disposizione e di solito usavano un mezzo solo per impedire ai tyranni di versare il sangue cristiano: cioè, appunto, versavano a loro volta il sangue dei tyranni. Ma questi ultimi – tutto sommato – non erano a loro volta, o quanto meno non si dicevano, cristiani? Certo, ma lo erano di un tipo speciale: erano scomunicati. E i teorici della riforma andavano appunto teorizzando, o l’avrebbero fatto di lí a poco, che ucci-

Miniatura di Giovanni di Paolo raffigurante l’episodio di Dante e Beatrice che incontrano Pier Damiani (Divina Commedia, Paradiso XXI). Londra, British Library.


né il sorgere degli Ordini religioso-militari sarebbero stati possibili. Non si deve però credere che questa linea sia passata senza incontrare resistenze durissime tra i riformatori. Resistenze che attingevano a una linea tradizionale all’interno della Chiesa, molto sensibile al rapporto fra guerra, vita pubblica e testimonianza cristiana e altrettanto restia ad abbandonare le posizioni per le quali l’uso delle armi era e restava comunque, per il fedele del Cristo, qualcosa di illecito. Il grande mistico camaldolese Pier Damiani, per esempio, associava costantemente vita dei laici, vita profana e vita di peccato. Per lui l’esercitare la vendetta o anche solo l’ottenere giustizia con le armi era non solo peccato, ma anche degra-

dere uno scomunicato – pur cadendo sempre sotto il tabú del sangue ed essendo quindi cosa che di per sé abbisognava di una purificazione – era meno grave che uccidere un infedele. Tale contesto consente di non ritenere che a Roma nel 1078 si siano radicalmente rovesciate le posizioni di Narbona nel 1056, ma che, al contrario, si sia continuato sulla stessa strada, sviluppando logicamente quelle istanze che avevano nel frattempo condotto alla ierocrazia gregoriana. Cosí, in pieno XI secolo, i milites venivano autorizzati a intraprendere la strada di una conversio che, contrariamente alla tradizione, non li disarmava, ma che, anzi, consentiva loro di mantenere gli originari connotati professionali. D’altronde, ciò comportava un mantenimento della loro posizione e del loro ruolo ad bellum; ma il loro passaggio alla causa della riforma incideva – per quanto su ciò si sia poco informati – sul loro comportamento in bello, secondo appunto i dettami sinodali della Pax e della Tregua Dei. Concettualmente parlando, senza il sinodo romano del 1078, né la crociata intesa come peregrinatio paenitentialis,

A destra Gregorio VII, in una miniatura del XII sec.

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dazione: significava agire alla maniera del saeculum, il «mondo» in opposizione al magistero e alla prassi della Chiesa. Pier Damiani non simpatizzava mai e in nessun caso con l’uso delle armi terrene: nemmeno se a usarle erano esclusivamente i laici, né se e quando la causa difesa fosse o sembrasse giusta. Molto lontane da queste erano le posizioni del pontefice, Gregorio VII, il quale addirittura si doleva con l’abate Ugo di Cluny per il fatto che questi aveva facilitato la conversio e quindi l’entrata nel monastero del duca Ugo di Borgogna, giudicando quale vero bellum Christi l’azione politica ma anche militare da compiersi nel mondo, in appoggio alla Chiesa; e con un audace rovesciamento dei consueti piani, la ricerca della quiete monastica – che era poi, quello, il bellum Christi tradizionale – veniva presentata dal pontefice, come una colpevole diserzione e un atto di egoismo. È un fatto che le posizioni ascetiche e tradizionalistiche di Pier Damiani furono messe da canto dalla linea pre-

A destra acquamanile in forma di cavaliere. Scuola francese. XIII-XIV sec. Firenze, Museo Nazionale del Bargello.

Nella pagina accanto miniatura dal codice Descriptio Terrae Sanctae, raffigurante l’assedio di Gerusalemme. XIV sec. Padova, Biblioteca del Seminario.

valente della riforma ecclesiastica dell’XI secolo a vantaggio di quelle gregoriane. L’idea del miles al servizio della libertas Ecclesiae nacque all’interno di questa fase della Riforma come sviluppo e adattamento di una tendenza, già da alcuni decenni viva in Francia, a piegare i bellatores (un Ordo composito, all’interno del quale v’erano tanto i potentes detentori di signorie, quanto i membri del loro comitatus e magari i liberi guerrieri), che la polverizzazione dei pubblici poteri e la destrutturazione sociale conseguente alle incursioni del IX-X secolo avevano privato di qualunque freno, alle esigenze di una nuova sicurezza.

Un limite all’uso delle armi

Il programma dei promotori della Pax Dei era, in sintesi, quello della creazione di un nuovo equilibrio, che, a sua volta, servisse quale presupposto per la rinascita della compagine sociale. E appunto a tale scopo i vari sinodi regionali elaborarono una normativa inibitoria, che includeva proibizioni che si andarono rapidamente trasformando in altrettanti imperativi etici che limitavano la liceità dell’uso delle armi da parte del cristiano. Proprio nel movimento della Pax Dei vanno ricercate le immediate radici dell’etica cavalleresca, il loro contrapporsi al vecchio costume guerriero e le contraddizioni che in tale contrapposizione erano insite. D’altro canto, la campagna di normalizzazione della cristianità intrapresa dal movimento della Pax Dei si basava appunto su una pax sostitutiva, in tempi di vacanza dei pubblici poteri, dell’antica pax regis. Ne deriva che la Pax Dei, al di là dei suoi caratteri legati all’emergenza, non poteva esimersi dallo stabilire una discriminante fra giusto e ingiusto, fra lecito e non-lecito: e sarebbe difatti approdata a una distinzione etica secondo la quale, per dirsi miles, non sarebbe piú stato sufficiente detenere cavallo e armamento pesante e compartecipare a una societas – un Männerbund (Società d’Uomini) – per accedere alla quale si doveva sottostare a un rito d’iniziazione. Ora, la discriminante per dirsi miles era etica: occorreva accettare un programma a carattere socio-politico e attenersi a determinate norme comportamentali. Conseguenza di ciò, fu uno spostarsi del livello discriminante fra chi era miles e chi non lo era: dal mondo dei rapporti sociali e delle competenze tecnologiche a quello dell’accettazione di schemi etico-comportamentali, senza la quale non si era miles, bensí tyrannus, praedo, infractor pacis. ORDINI CAVALLERESCHI

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L’importanza delle parole

N

oi siamo soliti parlare di «Ordini cavallereschi»; ma la definizione è ormai troppo generica, poiché, dalla fine del Medioevo, è stata utilizzata sia per indicare gli «Ordini militari» – meno propriamente detti «monasticocavallereschi» –, sia per qualificare gli «Ordini cavallereschi di corte» creati da

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molti sovrani per raccogliere – e ricompensare onorificamente – i loro sudditi privilegiati, legandoli a un ulteriore rapporto di fedeltà con la loro dinastia. Da tali istituzioni derivano in genere gli «Ordini cavallereschi» moderni, come sodalizi di detentori di onorificenze, concesse come ricompensa per servigi speciali. Tali

Ordini sopravvivono anche negli Stati contemporanei e il loro accesso viene considerato un premio per un lungo o qualificato servizio. Gli Ordini cavallereschi di questo tipo nacquero nel corso del TreQuattrocento: sono noti quello francese «della Stella», quello angioino «della Nave», quello borgognone «del


Toson d’Oro» e via discorrendo. Nei loro statuti, esiste sempre un elemento religioso, correlato all’etica cavalleresca e al concetto di fedeltà alla dinastia fondante. Essi sorsero uniformandosi al modello degli Ordini militari veri e propri, ma non ne assunsero mai i caratteri religiosi sostanziali.

Per i membri degli Ordini nati nel XII secolo, piú che di «monaci», si dovrebbe parlare di «religiosi»: l’Ordine militare fu una Religio od Ordo di laici – assistiti tuttavia, al loro interno, da un corpo di sacerdoti con funzioni di cappellani – che avevano l’obbligo di combattere per la fede contro gli «infedeli». Per questo, tali

Ordini vennero comunemente indicati, nelle fonti del tempo, con la parola Militia. È in effetti improprio, per quanto purtroppo comune, il trattare le espressioni «Ordine monastico» e «Ordine religioso» come sinonimiche: quelli monastici sono un tipo specifico di Ordine religioso, ma il concetto di «Ordine religioso» è di per sé piú ampio, comprendendo anche altri tipi di esso, per esempio gli «Ordini mendicanti». Sarebbe piú preciso parlare degli «Ordini militari» come di «Ordini religiosi» regolari, in quanto caratterizzati da una Regola. Sappiamo che, nel caso di Templari e Ospitalieri, le rispettive Regole furono influenzate innanzitutto da quella canonicale di Agostino – rivista dal Franco Crodegango, vescovo di Metz –, quindi da quella monastica di

Benedetto attinta tuttavia attraverso la lettura cistercense. Analoghe imprecisioni si registrano abitualmente a proposito dei rapporti tra fratres templari e ospitalieri e movimento crociato: quella che noi moderni siamo abituati a definire «crociata» – e la cui sistemazione canonica non data prima del XIII secolo – corrispose sempre a un evento straordinario proclamato dal papa che poteva esser diretto anche contro cristiani, mentre i membri delle Militiae potevano combattere solo contro gli infedeli ed era loro proibito prendere voti specifici – come quello appunto di cruce signatus – senza il permesso dei loro superiori. Si deve anche ricordare che non tutti i fratres delle Militiae erano anche milites: nel Tempio, all’atto del suo scioglimento ai primi del XIV secolo, i membri della seconda condizione erano pochissimi. Per esempio, in Francia, fra i Templari ascoltati durante il celebre processo loro intentato tra il 1307 e il 1312, erano milites soltanto il 10%: appena 14 sui 138 inquisiti nel 1307. Oltre ai milites, le Militiae – cioè appunto gli Ordini religiosi caratterizzati da una presenza di cavalieri qualificante, ma né esclusiva, né maggioritaria – ospitavano fratres di altra condizione: che potevano essere sacerdoti, oppure servientes laici, di solito di bassa condizione socio-culturale, ai quali andavano aggiunti vari tipi di persone associate a differente titolo all’Ordine, come donati, oblati, confratres.

In alto un sigillo dei Templari. Parigi, Centre Historique des Archives Nationales. Sulle due pagine Il capitolo dell’Ordine del Tempio tenutosi a Parigi il 22 aprile 1147, olio su tela di François-Marius Granet. 1844. Versailles, Musée National des Châteaux de Versailles et du Trianon.

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Guerra «santa»?

Della mobilitazione dell’Occidente in difesa dei Luoghi Santi della cristianità i cavalieri furono protagonisti «naturali». E molti degli Ordini piú importanti nacquero nel contesto delle crociate: spedizioni che, a ben vedere, furono probabilmente assai meno nobili di quanto la Chiesa volle far credere Dipinto di Édouard Cibot raffigurante il Gran Maestro Raymond de Puy che guida i cavalieri nella difesa della Celesiria (territorio racchiuso tra le catene del Libano e dell’Antilibano, oggi compreso tra Siria e Libano). 1844. Versailles, Musée National des Châteaux de Versailles et du Trianon.

L

e varie situazioni descritte nei capitoli precedenti trovarono uno sbocco nel «movimento crociato». Dal discorso di Urbano II a Clermont (pronunciato in occasione del concilio tenutosi nella città francese nel 1095, n.d.r.), appare chiaro il carattere penitenziale che la Chiesa voleva attribuire all’impresa, pensata solo come una spedizione militare in appoggio ai Bizantini; d’altronde, il papa si riferiva con precisione anche alle necessità dei bellatores, che avrebbero potuto legittimamente ricavare dalla lotta contro gli infedeli quel che erano abituati a estorcere ai cristiani. E, dal canto suo, l’iter Hierosolymitanum fu anche il sintomo di un malessere diffuso, che si presentava sotto le spoglie stesse del brigantaggio. In qualche caso – subito divulgato a scopo paradigmatico – anche nel brigantaggio si trovavano del resto occasioni di conversio. Come quei sei cavalieri-briganti che, appostati presso la strada maestra, rapinavano tutti i viandanti, mercanti o pellegrini che fossero; e che poi si sarebbero convertiti e fondarono il monastero di Affligem nel Brabante presso quello che era stato il teatro delle loro gesta criminose. All’appello di Urbano II l’aristocrazia europea rispose dunque, fra 1095 e 1096, in modo inatteso. Oltre e al di sopra degli sbandati in cerca ORDINI CAVALLERESCHI

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In alto Papa Urbano II consacra la basilica di S. Saturnino a Tolosa, olio su tela di Antoine Rivalz. 1715. Tolosa, Musée des Augustins. A sinistra miniatura raffigurante il papa Urbano II che indice la prima crociata, dall’Histoire des Croisades di Guillaume de Tyr. XV sec, Ginevra.

di fortuna o dei milites che i meccanismi feudosignorili connessi col mantenimento della coesione dei lignaggi avevano spogliato d’eredità e costretti a correre le vie dell’aventure, v’erano i «grandi» che organizzarono la partenza e ai quali si accodò un imprecisato, certo alto, numero di pauperes, desiderosi di proseguire il pellegrinaggio per Gerusalemme.

Nobili in cerca di riscatto

Si trattava di principi come il marchese di Provenza, signore di gran parte del Sud della Francia, il duca di Normandia, fratello del re d’Inghilterra, il fratello del re di Francia, il duca della Bassa Lorena e il conte di Fiandra – che controllavano gran parte della popolosa area del basso corso dei grandi fiumi che tra Francia e Germania si gettano nel Mare del Nord – il principe di Taranto, figlio del Guiscardo. Vero è che si trattava di un’alta aristocrazia in crisi: o perché avversata da parenti o da scomodi potenti vicini, o perché aveva scelto negli anni precedenti di appoggiare la «parte sbagliata» (cioè quella perdente) nel conflitto tra papato e impero romano-germanico. Un’alta aristocrazia ORDINI CAVALLERESCHI

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Il mito

vogliosa e bisognosa di cambiare aria per qualche anno o magari per sempre, desiderosa quindi di trovar davvero – secondo l’Apocalisse – «un cielo nuovo e una terra nuova», di ricostruirsi potere e ricchezza altrove. In tal modo l’esodo della crociata favorí, tra l’altro, il nascere dell’Europa delle grandi monarchie feudali. La folla di guerrieri armati e di pellegrini originariamente seminermi – e detti cruce signati dal simbolo di pellegrinaggio e di penitenza che Urbano II aveva loro assegnato a Clermont (e che era anche il segno visibile dell’indulgenza spirituale e delle prerogative temporali accordate loro dal papa) – attraversò Anatolia e Siria in due lunghi anni di marcia, tra peripezie e sofferenze inaudite. Alla fine, si abbatté su Gerusalemme tra la primavera e il principio dell’estate 1099, conquistando d’assalto la città il 15 luglio di quell’anno. Fra i primi e piú gravi problemi che i «crociati» dovettero affrontare vi furono il consolidamento delle loro posizioni e la difesa delle conquiste compiute fino ad allora. A uno stabile insediamento dei pellegrini-guerrieri in Terra Santa, i componenti della bizzarra spedizione che siamo ormai abituati a chiamare «prima crociata» non avevano in realtà pensato: e non si capisce nemmeno bene quando cominciarono a farlo. All’indomani della presa della Città Santa, quindi, molti pellegrini (armati o no che fossero) ritennero sciolto il loro voto e, dopo aver pregato sulla pietra del Santo Sepolcro, si accinsero a tornare a casa.

Il timore della controffensiva

Tuttavia, c’era, tra loro, chi voleva restare e chi riteneva di non poter fare ormai altrimenti. Il circostante mondo islamico, riavutosi dalla sorpresa, si andava riorganizzando: e le notizie relative alla sanguinosa ferocia che aveva accompagnato la conquista di quella che per i musulmani era (ed è) al-Quds, «la Santa», facevano prevedere una controffensiva molto dura. D’altro canto, i principi che avevano guidato la spedizione europea non intendevano cedere le loro conquiste all’imperatore bizantino, il solo che, dal punto di vista cristiano, avrebbe avuto legittimità di governarle; avevano provato a offrirne la sovranità eminente al papa, magari per farsele poi ritrasferire a titolo vassallatico (cosí era accaduto, per esempio, nell’Italia meridionale con i Normanni). Ma il pontefice non voleva usurpare un palese diritto del sovrano di Costantinopoli, per non aggravare e rendere irreversibile lo scisma allora in corso (e mai, fino a oggi, sanato). Infine, 34

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alcuni grandi principi (Goffredo, duca della Bassa Lorena, Raimondo, marchese di Provenza, Boemondo d’Altavilla) e un numero forse notevole di cavalieri e di gente di minor conto si erano bruciati, per cosí dire, i ponti dietro le spalle: e l’Oltremare doveva ormai essere la loro nuova patria, la terra della loro seconda vita e la base per ulteriori conquiste o comunque per un’esistenza nuova. In questo variegato insieme di personaggi e di condizioni, un gruppo di particolare interesse doveva essere costituito da gente d’arme di varia posizione, ma accomunata da un forte disagio socio-economico oppure (e magari, al tempo stesso) da una vocazione al servizio dei pellegrini che si era rivelata in viaggio. Le fonti chiamano questi guerrieri dotati di pochi mezzi – o che, affascinati dall’ideale della conversio al servizio alla Chiesa e dei deboli, si erano volontariamen-


dere a legittimare e ad accogliere questi sodalizi come vere e proprie Religiones dotate di relativa Regula. Nacquero cosí Ordini religiosi nuovi, nei quali il gruppo qualificante era costituito da laici che, per il fatto di avere abbracciato una Regola, non deponevano le armi, ma facevano del loro esercizio in difesa dei cristiani parte integrante della loro esperienza di conversio. Nel centro della Gerusalemme dell’XI secolo, subito a sud della basilica del Santo Sepolcro, un gruppo di questi «convertiti» si stabilí attorno alla chiesa di S. Giovanni, adiacente a quella detta «di S. Maria Latina». Apparteneva alle strutture protette dai primi del IX secolo da Carlo Magno, grazie ai suoi rapporti con il califfo di Baghdad Harun ar–Rashid? Può darsi: ma, al solito, nulla di certo. La croce a coda di rondine che campeggia sia sulle insegne araldiche di Amalfi sia su quelle dell’Ordine non è casuale, ma non prova nulla: si tratta di tradizioni radicate piú tardi. Dall’ospizio nel quale si erano insediati, che sembra essere stato fondato dai mercanti amalfitani verso il 1070 e servito appunto da un gruppo di fratres ospitalieri, essi assunsero il nome: lo conosciamo, infatti, come Ordine ospitaliero di San Giovanni di Gerusalemme, che piú tardi divenne «di Rodi» e, infine, «di Malta». Suo compito era ospitare i pellegrini, guidarne e proteggerne il circuito attraverso i Luoghi Santi di Palestina, curare quelli di loro che si ammalavano. Le notizie sicure sulla nuova compagine datano dai primi del XII secolo.

L’approvazione del papa te disfatti dei loro beni – con l’espressione paradossale, quasi ossimorica, di pauperes milites. Ora che la Terra Santa era conquistata, occorreva difenderla: i pellegrini erano minacciati dalla guerriglia musulmana che arrivava alle porte di Gerusalemme, il nuovo regno – fondato unilateralmente da alcuni capi crociati nel 1100 – era insicuro, molti arrivati di fresco dall’Europa si ammalavano e bisognava ospitarli e curarli.

Nuovi sodalizi

Nacquero cosí sodalizi, fraternitates, di cavalieri che si votavano per un certo periodo o per sempre a una vita comune – sul modello dei canonici regolari o addirittura dei monaci – e all’assistenza dei poveri, dei pellegrini, degli ammalati. In un primo tempo, la Chiesa guardò al fenomeno con una certa inquietudine e non poche riserve: ma, di lí a poco, si lasciò persua-

Pellegrini che pagano per accedere al Santo Sepolcro, miniatura del Maestro della Mazarine e collaboratori, dal Liber de quibusdam ultramarinis partibus di Guillaume di Boldensele. 1410-1412. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

Fosse o no amalfitano il primo Magister, Gerardo, alla storia documentata appartengono tanto l’approvazione da parte di Pasquale II, nel 1113, di un Ordine religioso disciplinato dalla Regola agostiniana e dedito alla cura dei pellegrini e degli ammalati, sia l’immissione in esso per ragioni contingenti, nel 1120-1121, di alcuni armati, da parte del Magister Raymond du Puy. L’uso della Regola agostiniana venne confermato da Eugenio III nel 1153. Intanto, verso il 1118, un oscuro cavaliere originario della Champagne, Ugo di Payens, riuscí a farsi cedere da re Baldovino I un’ala dell’ex moschea di al-Aqsa (situata, come quella della Roccia, sulla spianata del Tempio di Salomone) per alloggiarvi i membri di un’altra di queste fraternitates, che si era autoaggiudicata il compito di mantenere sgombra dai briganti, pattugliandola, la strada che dalla costa conduceva a Gerusalemme. Questo fu il primo nucleo del futuro Ordine religioso che – dalla sua residenORDINI CAVALLERESCHI

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IL RACCONTO DELL’EMIRO Usama ibn Mouqidh, emiro di Shaizar (1095-1188), fu anche un arguto e spiritoso autobiografo. Nel suo Kitab al-l’hibar (Libro della riflessione) egli narra, fra molte altre cose, anche questa: «Quando visitavo Gerusalemme, ero solito entrare nella moschea di al-Aqsa, a fianco della quale c’era un piccolo oratorio da cui i Franchi avevano ricavato una chiesa. Quando entravo dunque nella moschea di al-Aqsa, dov’erano insediati i miei amici Templari, essi mettevano a mia disposizione quel piccolo oratorio per compiervi le mie preghiere. Un giorno entrai, recitai la formula Allah akbar (“Allah è grande”) e mi disposi a iniziar la preghiera quando un Franco mi si precipitò addosso, mi afferrò e, obbligandomi a volgere la faccia a Oriente, mi disse: “Cosí si prega”. Subito intervennero alcuni Templari, lo bloccarono, lo allontanarono; e io potei raccogliermi di nuovo per la

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preghiera, Ma quegli, colto un loro momento di distrazione, mi si buttò di nuovo addosso, volgendomi la faccia a Oriente e ripetendo: “Cosí si prega”. I Templari intervennero di nuovo, lo allontanarono e si scusarono con me dicendo: “È un forestiero arrivato in questi giorni dal Paese dei Franchi: non ha mai visto nessuno pregare, se non con la faccia volta a Oriente”». Usama descrive una vera e propria «società coloniale» avant la lettre: una moschea trasformata in chiesa dove però i monaci cristiani hanno ricavato un oratorio per i musulmani; monaci-cavalieri, che hanno il dovere della battaglia a oltranza contro gli islamici e che un musulmano chiama «i miei amici Templari»; e quegli «amici Templari» che, rivolti a un Siriano, lo trattano per certi versi da compatriota, definendo invece «forestiero» il cristiano occidentale giunto di fresco dall’Europa.


Litografia di David Roberts raffigurante alcuni musulmani in preghiera a Gerusalemme e, in secondo piano, la spianata del Tempio, dominata dalla Cupola della Roccia. 1840 circa. Collezione privata.

za – fu detto «templare»: e, molto probabilmente, questo fu l’esempio che indusse gli Ospedalieri di San Giovanni a modificare la loro primitiva struttura, assumendo esplicitamente anche l’uso delle armi che forse avevano messo in un primo tempo da parte, com’era ovvio e consueto quando attraverso la conversio si mutava vita. In quel caso, invece, la necessitas del momento prescriveva che si agisse altrimenti. Non deve stupire che re Baldovino cedesse con tanta facilità la bella moschea meridionale della Spianata del Tempio – che era stata adattata alla meglio a residenza regia – a questi nuovi venuti, forse abbastanza scarsi di numero e non troppo ben in arnese. Il fatto è che aveva bi-

sogno di armati validi; e poi si era ormai procurato una nuova reggia, piú consona alla sua dignità di sovrano e alle necessità militari, nella fortezza di Erode, vale a dire la «Torre di David», all’estremità occidentale della città. Né stupirà il nome di «Templari» attribuito al nuovo sodalizio, ove si consideri che esso veniva cosí a occupare un edificio comunemente noto ai Latini come il «Tempio di Salomone» (la vicina Cupola della Roccia veniva chiamata, con curioso sdoppiamento, il «Tempio del Signore»): era abituale che Ordini e congregazioni assumessero il nome della località nella quale erano stati fondati: si pensi ai Cassinesi, ai Cluniacensi, ai Vallombrosani, ai Camaldolesi, ai Certosini, ai Cistercensi e via dicendo.

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Il mito

Oslo Uppsala

Novgorod Jaroslavi

Edimburgo

Svezia Arhus Lund

Danimarca

York

Dublino

Chester

Inghilterra Ultrecht Londra

Colonia

Boulogne

Normandia

Tours

Fiandre

Gand

SACRO ROMANO IMPERO Praga Lorena GERMANICO

Blois

Francia

Saint-Gilles Saragozza

Kiev Cracovia

Marsiglia

Ungheria

Aquileia

Belgrado Pisa

Nis

Roma Montecassino

Toledo Valencia

Napoli

Granada Tangeri

Trebisonda Sofia

Adrianopoli

Durazzo Taranto

Normanni Palermo

Algeri

Cherson

Peceneghi

Serbia Ragusa

Lisbona

Halych

Buda

Genova

Tolosa

Cernihiv

Rus’ di Kiev

Vienna

Milano

Leon

Regno di León

Varsavia

Breslavia

Pontarlier

Cluny

Clermont Le Puy

Bordeaux

Polonia

Ratisbona

Strasburgo

Smolensk

Minsk

Danzica Amburgo Stettino Gniezno Magdeburgo

Costantinopoli Nicea Dorylaeum

Impero bizantino

Sultanato ato ddi Iconio at Smirne

Tunisi

Iconio

Almoravidi

Marrakech

Danishmendidi Cesarea

Armeni Maras

Edessa

Tarso Antiochia Tripoli

Damasco

San Giovanni d’Acri Tripoli Cristianità cattolica

Ugo di Vermandois

Cristianità ortodossa Cristianità monofisita

Goffredo di Buglione Boemondo di Taranto

Islam sunnita Islam sciita

Raimondo di Tolosa Roberto II di Normandia

Battaglia

Percorso comune Baldovino di Boulogne

Via Egnatia

Il gruppo radunatosi attorno a Ugo di Payens assunse una denominazione paradossale: essi si definirono infatti pauperes milites Christi. Se l’espressione milites Christi rinviava alla nuova concezione, avviata dalla proposta gregoriana, secondo la quale era necessario adesso esercitare la milizia divina nel mondo, combattendo con le armi, anziché nel silenzio del chiostro secondo la tradizione monastica, l’accostamento delle parole pauperes e milites suonava quasi 38

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Ascalona

Homs

Gerusalemme

Alessandria d’Egitto Il Cairo

Fatimidi

assurdo. Almeno dalla seconda metà del X secolo, i due termini erano per definizione antitetici. Vero è che ai livelli piú bassi dello strato dei bellatores, nel corso della spedizione verso Gerusalemme del 1096-99, erano emersi personaggi che associavano all’esercizio delle armi una forte scarsità di mezzi, magari perché si erano votati a una povertà penitenziale volontaria aderendo al programma riformatore della Chiesa: era questo forse il senso profondo

Petra Aqaba


LE DATE DA RICORDARE 1096-1099. Prima crociata in Siria-Palestina. Vi partecipano quattro eserciti: Goffredo di Buglione, duca di Lorena, comanda i Lotaringi; Roberto, duca di Normandia, e Roberto, conte di Fiandra, capeggiano i cavalieri della Francia settentrionale; Raimondo, marchese di Provenza, guida i cavalieri della Francia meridionale; Boemondo d’Altavilla è alla testa dei Normanni venuti dall’Italia meridionale.

Bulgar

1099, 15 luglio. I crociati conquistano Gerusalemme.

Itil

1099, 10 luglio. El Cid Campeador muore a Valencia. 1098, giugno. I crociati conquistano Antiochia, della quale si appropria Boemondo d’Altavilla.

Nomadi

1045-1146. Papa Eugenio III emana, in due differenti successive redazioni (1° dicembre 1145 e 1° marzo 1146), la Quantum praedecessores, prima bolla pontificia regolatrice del movimento crociato.

1128. Concilio di Troyes: la fraternitas dei Pauperes milites Christi et salomonici Templi si trasforma in militia (Ordine religioso-cavalleresco). 1100. Baldovino di Boulogne diviene il primo sovrano del regno «franco» di Gerusalemme.

1147, ottobre. I crociati prendono Almeria e poi Lisbona.

dell’epiteto con cui era conosciuto uno dei capi dei populares di quella spedizione, Gualtieri «Senza Averi». Nell’epica, sarebbero difatti piú tardi stati attestati, appunto, i pauvres chevaliers.

Tbilisi

Regno di Georgia

L’esigenza di un esercito stabile Mossul

Selgiuchidi Baghdad

Nomadi

Medina

A sinistra particolare di una minatura che ritrae Baldovino I, conte di Edessa, re di Gerusalemme. XV sec. Vienna, Nationalbibliothek. Sulle due pagine cartina che mostra la suddivisione confessionale dell’Europa e del Vicino Oriente e i tragitti percorsi dai condottieri al tempo della prima crociata.

Gli Ordini religioso-militari (chiamiamoli ormai cosí, non senza qualche approssimazione) furono largamente apprezzati e favoriti da Baldovino I e poi da Baldovino Il, che fecero loro conferire terre e decime in denaro, gettando cosí le basi del loro futuro strapotere politico ed economico nel regno. Peraltro, essi rispondevano a necessità precise: non solo perché il secondo decennio del secolo era stato particolarmente duro per i principati franchi, ma perché la loro situazione militare era angustiata dalla mancanza di combattenti e dall’insicurezza delle comunicazioni tra città. I pellegrini, che arrivavano soprattutto verso Pasqua, fornivano un esercito stagionale; ma, alla fine dell’estate, il regno restava di nuovo sguarnito. C’era bisogno di un esercito stabile, cosí da trasformare la lotta agli infedeli in un impegno fisso. Potremmo dire che la «crociata permanente» sia stata lo scopo della fondazione degli Ordini e la ragione del loro successo. Ma queste cose potremmo affermarle solo con una buona dose di volontà semplificatoria. Le Regole, sia templare sia ospitaliera, furono, sulle prime, influenzate soprattutto da quella canonicale di Agostino, rivista da Crodegango di Metz; quindi da quella monastica di Benedetto, attinta tuttavia attraverso la rilettura cistercense. ORDINI CAVALLERESCHI

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Il mito

Gli statuti gerarchici aggiunti alla Regola nel 1165, quando l’Ordine del Tempio era ormai pienamente operativo, mostrano che la sua struttura rispecchiava quella della società feudale. Esso era cosí diviso:

gerarch StatutoTemplari ico d ei

SERGENTI Uomini liberi, che potevano essere o artigiani o agricoltori. Portavano il mantello marrone e disponevano di un cavallo. CAVALIERI Provenienti dalla

classe dei proprietari terrieri. I cavalieri indossavano il mantello bianco e disponevano di quattro cavalli.

SERGENTI

SCUDIERI A ogni cavaliere era assegnato uno scudiero. Portavano il mantello nero o marrone e disponevano di un cavallo. CAPPELLANI I preti dell’Ordine. SERVITORI Civili che ricevevano vitto e alloggio presso le precettorie dell’Ordine in cambio del servizio.

CAVALIERI

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SCUDIERI

VESSILLIFERO

CAPPELLANI

Le autorità superiori dell’Ordine erano: IL GRANDE MAESTRO Comandante supremo dell’Ordine. IL SINISCALCO Sostituto del gran maestro, che doveva subentrargli

qualora questi rimanesse ucciso.

IL MARESCIALLO Capo del versante militare delle attività dell’Ordine.

IL TESORIERE Responsabile delle finanze dell’Ordine. IL DRAPPIERE Responsabile della fornitura degli abiti e della

biancheria da letto.

IL VESSILLIFERO Chi aveva l’incarico di portare in battaglia lo stendardo nero e bianco. I MAESTRI E COMANDANTI PROVINCIALI Ufficiali al

comando delle province dell’Ordine, per esempio l’Inghilterra, la Scozia o l’Aragona.

I VISITATORI Ispettori nominati dal gran maestro con il compito di visitare e ispezionare ciascuna provincia.

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L’elogio dei «malicidi» La nascita dell’Ordine del Tempio suscitò reazioni di segno discorde: a salutarla con favore vi fu, forse inaspettatamente, Bernardo di Chiaravalle. Che giunse perfino a comporre un’opera in lode dei Templari, non senza stigmatizzare la tendenza di molti cavalieri alla vanità e allo sfarzo

A

bbiamo detto nel capitolo precedente di come Templari e Ospitalieri fossero stati ampiamente favoriti da Baldovino I e poi da Baldovino II e di come si fossero trasformati negli strumenti con i quali attuare una «crociata permanente». Tuttavia, l’idea che questi Ordini abbiano costituito una sorta di esercito crociato in servizio permanente (qualcuno è arrivato a paragonarli a una «legione straniera») è sviante: in realtà, per essere tali, i crociati formulavano un voto la cui validità era ben circoscritta nel tempo e nei fini specifici di ogni singola spedizione cosí come – a partire dalla fine del XII secolo – veniva bandita da una speciale bolla pontificia, mentre il voto monastico aveva un valore permanente. Ciò che invece collegava i crociati ai membri degli Ordini militari era il simbolo della croce, assunto dai secondi a partire dalla metà circa del XII secolo, a significare la disponibilità al martirio e il rapporto con la Città Santa. Gli insediamenti europei dei due Ordini – astraiamo qui gli altri Ordini militari oppure ospitalieri, come quello teutonico o quelli iberici – cominciarono a venir fondati presto, ma in seguito a un imprevisto e imprevedibile successo delle due Militiae, che raccolsero lasciti, donazioni, privilegi ed esenzioni nell’Occidente europeo. Era un successo pericoloso, come sempre è il successo: il rischio a esso sotteso era un piú o meno rapido e intenso snaturamento dei compiti delle Militiae. Tuttavia, i vantaggi di esso erano tali e tanti da suggerire una cura speciale, anzi un costante sforzo teso a incentivare gli insediamenti cismarini di Ordini nati con una precisa vocazione oltremarina. Si trattava, infatti, di rafforzare una presenza attraverso la quale i rapporti diploma-

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Ugo di Payens, primo Gran Maestro dell’Ordine del Tempio, olio su tela di Henri Lehmann. 1841. Versailles, Châteaux de Versailles et de Trianon.

tici e politici con le gerarchie ecclesiastiche e laiche d’Occidente sarebbero stati piú forti e piú stretti; di diffondere nella società civile europea la conoscenza e l’apprezzamento degli Ordini, in modo da favorire ulteriormente elemosine, donazioni, lasciti; di preparare i pellegrini che transitavano per le strade europee diretti in Terra Santa a fruire della carità, dell’assistenza, della protezione guerriera e dei servizi che gli Ordini


San Bernardo predica la seconda crociata alla presenza del re Luigi VII e della regina Eleonora, olio su tela di Émile Signol. 1840. Versailles, Châteaux de Versailles et de Trianon.

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Bernardo di Chiaravalle

CERCANDO LA VERA GERUSALEMME Il monaco cistercense Bernardo, abate di Clairvaux (1090-1153, canonizzato nel 1174), al pari di tutti i monaci, diffidava del pellegrinaggio e riteneva che la vera Gerusalemme andasse cercata nel cuore del cristiano. Tuttavia, s’interessò alla fraternitas di alcuni cavalieri che in Terra Santa cercavano la conversione e collaborò cosí alla fondazione dell’Ordine templare. Per i Templari scrisse anche un Liber de laude novae militiae in cui paragonava i vizi della cavalleria mondana con le virtú di quella dei convertiti alla vita monastica e descriveva la Terra Santa come paesaggio allegorico e spirituale. Per obbedienza al papa e per desiderio di vedere

convertiti i cattivi cristiani d’Europa, Bernardo predicò nel 1146-1147 la crociata in Terra Santa e sostenne anche analoghe iniziative per la Spagna e il Nord-Est europeo. Avendo impegnato la sua straordinaria autorità per appoggiare la spedizione del 1147-1148 (che era stata pur guidata dai re di Francia e di Germania), Bernardo subí il contraccolpo del suo fallimento. La spedizione andò male e si concluse lasciando una scia di rancore fra i suoi partecipanti e i baroni crociati di Terra Santa; anzi, essa provocò la reazione dell’Islam siriaco che cominciò a organizzarsi per cacciare i «Franchi». Ebbe allora inizio, anche contro Bernardo, quel movimento di critica alla crociata che si sviluppò fortemente nel secolo successivo coinvolgendo – con voci differenti – mistici, politici, eretici e poeti. Bernardo reagí con un doloroso trattato, il De consideratione, nel quale si chiedeva perché Dio potesse aver umiliato i suoi fedeli accordando la vittoria ai «pagani» e puntava l’indice contro i peccati dei cristiani, che li avevano resi indegni della vittoria.

Miniatura raffigurante san Bernardo di Chiaravalle, primo patrono dell’Ordine templare. XV sec. Bruxelles, Bibliothèque Royale. mettevano a loro disposizione e a promuovere la loro gratitudine che – di ritorno dal viaggio – si sarebbe tradotta in gesti concreti; di produrre ricchezze e di ammassare uomini e denaro da utilizzare in Terra Santa.

Al riposo nelle «case» europee

Ne consegue che il ruolo e l’attività militare degli insediamenti degli Ordini in Europa – a eccezione ovviamente della Penisola Iberica, dove lo stato di guerra contro i musulmani si protrasse sino alla fine del XV secolo – erano assenti; le «case» non erano fortificate – non piú di quanto, almeno, non lo fossero di solito nel Basso Medioevo gli insediamenti produttivi rurali o quelli urbani, del resto meno frequenti salvo che nei centri portuali – e i milites presenti erano pochi, non portavano armi ed erano spesso anziani o mutilati che avevano raggiunto l’Europa provenienti dalla Terra Santa, mandati nelle «case» cismarine come in una specie di riposo, alla fine del loro servizio e negli ultimi anni della loro vita. Tutto questo va però detto – ed è opportuno farlo per chiarire il carattere dell’esperienza religioso-militare – senza peraltro dimentica44

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re di chiarire l’origine dei «cavalieri templari», le difficoltà da essi incontrate nel farsi accettare e legittimare dalla Chiesa, la primitiva Weltanschauung che andò sviluppandosi all’interno e attorno al nuovo Ordine e che era destinata a segnare profondamente tanto la storia istituzionale quanto la spiritualità del mondo cristiano latino. L’idea che tra coloro che accettavano la conversio e intendevano con ciò far vita di preghiera e di penitenza soggetti a una Regola vi fossero armati che non rinunziavano all’esercizio della forza era in sé non solo estremamente pericolosa, ma addirittura contraddittoria: le armi facevano parte proprio di quel saeculum che chi voleva convertirsi a vita religiosa respingeva da sé. Abbiamo visto per quali ragioni essa poteva esser salutata con entusiasmo in Terra Santa: il che non toglie che dovesse per forza venir considerata con attenzione e preoccupazione sotto altre latitudini. Per la Chiesa latina, che nella vita del suo clero rimaneva rigorosamente abhorrens a sanguine, si trattava di accettare nel suo seno alcuni monaci che contemplavano la guerra come parte del loro voto. Ugo di Payens, che veniva spesso in Europa alla ricerca di vo-

lontari per la sua fondazione, dovette rendersi conto di urtare contro un muro di dubbi e di riserve peraltro piú che giustificati.

Un’influenza decisiva

Ma la sua fortuna fu di trovare un apologista d’eccezione in san Bernardo di Clairvaux (in italiano Chiaravalle), per opera del quale il papa Onorio II, al concilio di Troyes del 1128, riconobbe la Militia Christi et Templi Salomonici, che noi chiamiamo di solito Ordine del Tempio. Non sappiamo con certezza quale sia stata la reale influenza di Bernardo nel fissare concretamente la regola templare: sembra non improbabile che egli abbia contribuito in parte a ispirarla, e le due fondamentali caratteristiche di essa – a parte i consueti voti di castità, obbedienza e povertà personale –, cioè l’obbedienza assoluta al papa e al capo dell’Ordine, al Magister, e la guerra senza quartiere e senza compromesso contro l’infedele, corrisponderebbero alle sue aspirazioni. Il suo trattato De Laude novae militiae, scritto alla fine degli anni Venti o nei primissimi anni Trenta del secolo su richiesta di Ugo di Payens, offre al

Qui sopra croce di un cavaliere della prima crociata. 1096-1099. Parigi, Musée national du Moyen Âge. In alto Roma, chiesa dei Ss. Quattro Coronati. Affresco raffigurante sant’Elena che scopre la croce di Cristo a Gerusalemme. 1246. ORDINI CAVALLERESCHI

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nuovo Ordine giustificazioni estremamente significative, assegnandogli un ruolo davvero innovatore nella società del suo secolo. Anche nei confronti della cavalleria, Bernardo appare continuatore e al tempo stesso superatore degli ideali cluniacensi (posizione che giustifica ampiamente anche l’atteggiamento polemico che egli talora assunse nei suoi rapporti col celebre Ordine). Cluny si era accontentato di cristianizzare la forma, la superficie della cavalleria, patrocinandone l’ordinazione sacra e indicandole un santo scopo nella lotta contro gli infedeli. Ma la sostanza spirituale del cavaliere rimaneva, nonostante tutto, barbara e acristiana. Il cavaliere delle guerre spagnole e della prima crociata, uscito dalla manipolazione ideale di Cluny, somiglia nella descrizione della Chanson de Roland – scudi ben dipinti a fiorami, armi rilucenti, pennoncelli dorati – alla chiesa cluniacense, al suo trionfo 46

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di colori e d’arredi, alla sua liturgia solenne. Contro questo sfarzo, che denunziava l’amore mondano della guerra per la guerra, si erge Bernardo (vedi box a p. 47).

Armi di ferro puro

Il suo cavaliere combatte una battaglia su due piani paralleli, lo spirituale e il temporale. Le sue armi di ferro puro, senza ornamenti, sono il simbolo dell’arma vera con cui egli lotta, la fede. I suoi nemici sono i pagani e il peccato: lottando contro i primi e vincendo conquista la gloria, cadendo martire e guadagnandosi la vita eterna sconfigge il secondo. Vittorioso sul peccato, il Templare è sicuro della salvezza oltremondana e non ha perciò paura della morte: ciò lo rende invincibile ai pagani. Il miles Christi combatte e muore quindi con giustizia, dispensando da parte di Dio la punizione ai malvagi e la protezione ai buoni. Il

In alto miniatura raffigurante la flotta crociata in navigazione verso la Terra Santa, da un’edizione del Roman de Godefroi de Bouillon di Guillaume de Tyr illustrata da Richard de Montbaston. 1337. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Nella pagina accanto un cavaliere (a sinistra) e un cappellano dei Templari: l’Ordine poté fregiarsi della croce rossa in seguito all’autorizzazione concessa da papa Eugenio III nel 1147.


PRECETTI DEL VERO CAVALIERE «Ma qual è dunque il fine e il frutto di questa non dirò “milizia”, ma piuttosto “malizia” mondana, se l’uccisore pecca mortalmente e l’ucciso muore eternamente? Invero, a dirla con l’Apostolo, “chi ara deve arare con speranza, e chi trebbia con speranza di avere parte al frutto” (I Cor., 9,10). Che cos’è dunque, o cavalieri, questa incredibile passione, questa intollerabile pazzia di guerreggiare con tante spese e tante fatiche senza alcun altro guiderdone che la morte o il peccato? Coprite di seta i cavalli e rivestite (...) di straccetti colorati le corazze; dipingete lance, scudi e selle; ornate d’oro, d’argento e di gemme le briglie e gli sproni; e in tanta pompa correte, con vergognoso furore e impudente stupidità, alla morte. Sono insegne militari, queste, o femminei ornamenti? Forse che il ferro del nemico avrà paura dell’oro, rispetterà le

gemme, non potrà attraversare la seta? In fondo (...) al combattente sono soprattutto necessarie tre cose: che sia abile, alacre e circospetto nel guardarsi, rapido nel cavalcare, pronto nel ferire. Voi al contrario vi curate come donne i capelli (...), vi coprite con sopravvesti lunghe e drappeggiate che vi impacciano i movimenti, seppellite le tenere e delicate mani in ampi e comodi guanti (...) Né tra voi sorge quasi mai guerra o contesa che non sia originata da un moto irrazionale d’ira o da un vuoto desiderio di gloria o dall’avidità di ricchezze terrene. Certamente, uccidere o morire per motivi del genere non è cosa da fare con tranquillità. I cavalieri di Cristo combattono invece le battaglie del loro Signore e non temono né di peccare uccidendo i nemici, né di dannarsi se sono essi a morire: poiché la morte, quando è data o ricevuta nel nome di Cristo, non comporta alcun peccato e fa guadagnare molta gloria. Nel primo caso infatti si vince per Cristo, nell’altro si vince Cristo stesso: il quale Cristo accoglie volentieri la morte del nemico come atto di giustizia, e piú volentieri ancora offre se stesso come consolazione al cavaliere caduto. Il cavaliere poi, posso affermarlo, uccide sicuro e muore piú sicuro ancora: giova a se stesso quando muore, a Cristo quando uccide. Non è infatti senza ragione che porta la spada: egli è ministro di Dio in punizione dei malvagi e in lode dei buoni. Quando uccide il malvagio egli non è “omicida”, ma – per cosí dire – “malicida”, ed è stimato senza dubbio vindice di Cristo su quelli che fanno il male e difensore dei cristiani. E quando muore, si sa che egli non è perito; ma è – piuttosto – giunto alla meta. La morte ch’egli dispensa è infatti un guadagno per Cristo: quella che egli riceve è il guadagno suo personale. Nella morte del pagano il cristiano si gloria, perché Cristo è glorificato. Nella morte del cristiano si dimostra quanto magnanimo sia stato il re che ha ingaggiato il cavaliere» (Bernardo di Clairvaux, Per i Cavalieri del Tempio. Elogio della nuova milizia, traduzione di Franco Cardini, in Idem, La nascita dei Templari, Rimini 1999; pp. 122–124).

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Bernardo di Chiaravalle

CAVALIERI LEBBROSI In Terra Santa, era relativamente facile, contrarre la lebbra. E, dato il periodo d’incubazione della malattia, molti pellegrini rientrati in Europa dall’Oriente la portavano ignari con sé. Anche il re di Gerusalemme, Baldovino IV, ne morí giovane. Nella Città Santa esisteva un grande lebbrosario, la «casa dei lebbrosi di San Lazzaro»; al pari di quelli occidentali, era sito fuori della cinta muraria urbana ma non lungi da essa. Vi convivevano ammalati e sani che liberamente li assistevano: tutti erano posti sotto l’autorità di un Maestro e seguivano la regola canonicale di sant’Agostino. Le «case dei lebbrosi» si trasformarnno in Ordini militari e sotto la pressione della necessità di un’ora grave. Dopo la caduta di Gerusalemme nelle mani del Saladino, nel 1187, gli ammalati del lebbrosario della «torre di San Lazzaro» di

pagano non merita la morte in quanto pagano, ma perché non c’è altro mezzo per liberarsi e liberare la Terra Santa dalla sua minaccia. In questo senso egli è supporto dell’ingiustizia: e la sua soppressione – afferma Bernardo nel De laude, in una pagina che è per la verità piuttosto reticente – va considerata non homicidium, bensí malicidium. Con tale espressione, egli non intende minimizzare il fatto – fin lí inaudito – che i religiosi siano abilitati a portare le armi e addirittura legittimati nell’uccidere: ma vuol sottolineare che la lotta dura nei confronti dell’infedele è una necessitas. La parte del De Laude riguardante le funzioni specifiche del Templare come crociato e il panegirico dei Luoghi Santi, che potrebbe sembrare quella fondamentale e che certamente tale fu considerata dai contemporanei, ha per noi minore importanza. Di certo, in essa il doctor mellifluus ha modo di scrivere alcune pagine di un’armonia biblica degna del suo celebre commento al Cantico dei Cantici, ma a noi interessa maggiormente il rapporto instaurato fra vecchia e nuova cavalleria che fa da contrappunto a tutto il trattato. La vecchia cavalleria era malvagia: non militia, sed malitia, sentenzia Bernardo riprendendo un’espressione di sant’Anselmo d’Aosta. I cavalieri mondani, vestiti d’oro e di seta – eccoli, 48

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Acri, spinti dalla loro stessa componente aristocratica e appoggiati dai Templari – che, secondo la loro regola, quando si scoprivano lebbrosi passavano alle «case di San Lazzaro» –, chiesero di trasformarsi in vero e proprio «Ordine dei Fratelli Cavalieri di San Lazzaro», che verso la metà del Duecento fu definitivamente legittimato da papa Innocenzo IV. Come insegna ricevettero una croce trifogliata verde. Dopo la caduta delle ultime piazzeforti crociate, nel 1291, i cavalieri lebbrosi ripiegarono in Europa, dove si ordinarono sotto la guida formale del Gran Maestro che risiedeva a Boigny, presso Orléans; nel 1489, Innocenzo VIII ne decretò la soppressione, ma essi sopravvissero in vari modi e in vari luoghi d’Europa. Da una delle molte successive risistemazioni di quel che ne restava nacque l’Ordine sabaudo dei Santi Maurizio e Lazzaro.

come li ritraggono chansons de gestes e romanzi «cortesi» –, dediti ai piaceri e amanti del lusso, combattono le loro guerre ingiuste fra cristiani per cupidigia di denaro, per collera, per vanagloria, come nei tornei. Al contrario i milites Christi, armati et non ornati combattono contro i pagani e soprattutto contro il peccato una guerra giusta.

Salvare le anime dei fedeli

È sintomatico che per i Templari Bernardo usi appunto il termine milites Christi, altrove da lui e prima di lui usato per designare i monaci. Ecco che la guerra templare diviene cosí, in fondo, antiguerra, perché mira alla pace e alla sicurezza della cristianità come alla salvezza dell’anima. Il cavaliere templare, l’abito bianco come il cistercense e le armi di schietto ferro senza smalti né dorature, somiglia alla Chiesa voluta dalla riforma architettonica e liturgica di Cîteaux, che trae i suoi unici ornamenti dalla pietra spoglia e dalla luce filtrante pura dalle finestre che non conoscono vetrate policrome. Spogliamoci delle opere delle tenebre e indossiamo l’armatura della luce, diceva san Paolo ai Romani. A questo punto appare chiaro che, nonostante quanto abitualmente si dica e si ripeta, non era la crociata a interessare direttamente Bernardo: la Gerusalemme terrestre lo riguardava soprattutto come simbolo di quella celeste, e alla

In alto croce dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, nato nel 1573 per volere di Emanuele Filiberto duca di Savoia, affinché si dedicasse agli «uffici pietosi verso gli infermi». Nella pagina accanto la battaglia di Montgisard in un dipinto di CharlesPhilippe-Auguste de Larivière. 1842 circa. Versailles, Châteaux de Versailles et de Trianon. Il pittore francese immagina Baldovino che guida le truppe malato e steso su una lettiga: in realtà, secondo le fonti, il re, pur afflitto dalla lebbra, sarebbe stato ancora in grado di cavalcare.


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Accoglienza dei postulanti

Bernardo di Chiaravalle

Aspiranti Templari

L’ammissione all’Ordine del Tempio veniva valutata sulla base delle risposte fornite a una serie di quesiti miranti a stabilire la sincerità della richiesta

Domanda (dell’accogliente) rivolta ai postulanti: Desiderate unirvi alla confraternita dell’Ordine del Tempio e partecipare ai beni spirituali e temporali che sono in esso?

(RISPOSTA…) Se la risposta era affermativa proseguiva: Voi cercate una grande cosa, e non conoscete i rigidi precetti che sono nell’Ordine, poiché dall’esterno vedete che siamo forniti di buoni abiti, di buoni cavalli e di buone armature, mentre non conoscete l’austerità dell’Ordine e dei rigidi precetti che lo regolano; poiché quando desidererete stare da questa parte del mare sarete inviati dall’altra e viceversa, quando vorrete dormire dovrete rimanere svegli e quando vorrete mangiare dovrete patire la fame. Siete in grado di sopportare tutto questo per amore di Dio e per la salvezza della vostra anima?

(RISPOSTA…)

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Prosegue: Desideriamo sapere da voi se siete liberi dalle cose che vi chiediamo. In primo luogo desideriamo sapere se credete veramente nella fede cattolica della chiesa di Roma, se appartenete a ordini religiosi oppure siete legati dal vincolo di matrimonio, dal giuramento a un altro Ordine, se appartenete alla classe dei cavalieri e se siete nati da una unione legittima, se siete scomunicati per qualche vostra colpa o per altro motivo, se avete promesso o fatto un dono a un fratello dell’Ordine del Tempio o ad altri per essere accolti in questo Ordine, se avete qualche malattia che vi impedisca di servire la casa e indossare le armi, se avete contratto debiti per vostro conto o per conto di altri che non potete pagare da soli o con l’aiuto di amici senza ricorrere ai beni del Tempio.

(RISPOSTA…)

Dopo i postulanti vengono fatti voltare verso l’altare e invitati a domandare a Dio, alla Santa Vergine e a tutti i santi di Dio che, se l’ingresso nell’Ordine avesse salvato la loro anima, il loro onore e quello degli amici, allora volesse Dio esaudire la loro richiesta e il loro desiderio. I postulanti sono lasciati da soli per pregare. Dopo veniva chiesto ai postulanti se avevano riflettuto su quanto detto e se insistevano nella loro richiesta di essere accolti.

(RISPOSTA…) I postulanti sono invitati a togliersi i berretti e le calotte e a presentarsi in ginocchio e a mani giunte di fronte al fratello piú alto in grado, per leggere la formula di rito: Signore veniamo qui di fronte a voi e ai fratelli che sono con voi per chiedere di accoglierci nella confraternita dell’Ordine e di farci partecipare ai benefici spirituali e temporali in esso presenti, desiderando servire per sempre (Dio), rinunciando alla nostra volontà per quella di altri. Il fratello piú alto in grado precisa: dovete capire bene ciò che vi stiamo dicendo; dovete giurare e promettere a Dio e alla Vergine Maria che obbedirete sempre al Maestro del Tempio e a qualunque fratello dell’Ordine che occupi una posizione piú elevata della vostra, che rispetterete le buone usanze e i buoni costumi dell’ordine, che vivrete in


Nella pagina accanto, in basso Cressac (Charente, Francia), Cappella dei Templari. Particolare di un affresco raffigurante un episodio riferibile alle battaglie combattute in Terra Santa tra le milizie cristiane e gli «infedeli» all’epoca delle crociate. XII sec. In basso ricostruzione dell’abbigliamento da battaglia di un Templare. Secondo Bernardo di Chiaravalle, i cavalieri dell’Ordine erano tenuti a rifuggire da qualsiasi orpello, poiché il combattente doveva curarsi soltanto di essere «abile, alacre e circospetto nel guardarsi, rapido nel cavalcare, pronto nel ferire». castità e senza possedere nulla, eccetto quello che può esservi concesso dal vostro superiore, e che contribuirete per quanto possibile a conservare ciò che il regno di Gerusalemme ha acquisito e a conquistare ciò che non è stato ancora acquisito, che non vi troverete mai in nessun luogo dove, per vostro desiderio o inclinazione, siano uccisi o diseredati ingiustamente un cristiano o una cristiana e che, se vi verranno affidati i beni del Tempio, ne renderete conto in modo corretto e conforme alla legge, nell’interesse della Terra Santa e che non lascerete quest’Ordine per uno migliore o peggiore, senza il permesso dei vostri superiori.

(I POSTULANTI GIURANO…) Il fratello piú alto in grado dichiara: noi accogliamo voi che avete scelto di partecipare alle opere spirituali compiute o da compiere nell’Ordine dall’inizio alla fine. Dopo pone sulle spalle dei postulanti il mantello e li benedice. Viene intonato il Salmo «Ecce quam bonum et quam iucundum habitare fratres in unum». E i versetti «Mitte eis auxilium de sancto, et nihil proficiat inimicus in eis». Segue la preghiera dello Spirito Santo (...) Deus, qui corde fidelium». Segue l’abbraccio di Fratellanza.

crociata come avvenimento storico egli pensava come a un’occasione provvidenziale per salvare le anime di tanti fedeli. A differenza del suo amico Ugo di Payens, che aveva problemi contingenti da risolvere, per lui i Templari erano importanti non tanto perché difendevano i pellegrini sulla via del Sepolcro, quanto piuttosto perché offrivano alla Chiesa la possibilità di ricondurre integralmente l’ideale cavalleresco nell’ambito degli ideali cristiani e di sistemarlo nell’Ordine monastico facendone, oltretutto, un efficace strumento della teocrazia.

Oltre le volontà di Bernardo

Ma l’influenza di Bernardo sulla crociata e sulle modificazioni della civiltà cristiana che ne scaturirono andò addirittura oltre la sua volontà. Se è vero, per esempio – e la cosa, pur discussa a lungo, è se non altro verosimile – che il culto bernardiano della Vergine espresso nei termini feudali di «Nostra Signora» ha favorito al loro nascere quegli ideali di poesia cortese che erano d’altro canto proprio espressione della cavalleria mondana che il santo condannava, è vero altresí che il culto patrocinato da Bernardo al Cristo Bambino, al Cristo Crocifisso e al Cristo Re è stato, su tre diverse dimensioni, incentivo al culto stesso della Terra Santa in cui Gesú era nato, era stato piú volte salutato re, aveva versato il Suo sangue e da dove sarebbe tornato a regnare, secondo la tradizione apocalittica circostanziata dai numerosi testi escatologici noti a quei tempi. Superate le prime e forti perplessità nella Chiesa, la formula della Militia ebbe grande successo. Fu presto fondato un Ordine dedicato a san Lazzaro, che raccoglieva i cavalieri colpiti dalla lebbra; verso la fine del XII secolo, a Gerusalemme, nel quartiere meridionale della città, venne fondato l’Ordine ospitaliero di Santa Maria, riservato a membri di esclusiva nazione tedesca e perciò detto «dei Teutonici» o, semplicemente, «Teutonico»; dal canto loro, durante la terza crociata, gli Inglesi fondarono un altro Ordine esclusivo per la loro Nazione e dedicato alla città di San Giovanni d’Acri e a san Tommaso Beckett. La pratica delle fondazioni di Ordini militari si stava espandendo un po’ in tutta la cristianità «di frontiera», dalla Penisola Iberica al Nord-Est baltico: ma di ciò dovremo riparlare. Seguiamo per adesso le vicende dei Templari e degli Ospitalieri di San Giovanni sino al radicale cambiamento d’orizzonti del primo Trecento dovuto alla soppressione del primo di questi due Ordini. ORDINI CAVALLERESCHI

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Roccaforti del potere Ogni Ordine militare si dotò di fortezze, rilevando strutture già esistenti oppure realizzandole ex novo. Un fenomeno oggi ben leggibile nel patrimonio monumentale conservato nel Vicino Oriente e in Europa

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C

ome abbiamo già ricordato, i Templari si insediarono nella moschea di al-Aqsa – che per loro e per gli altri cristiani «franchi» era il «Tempio di Salomone» – e in un certo senso si considerarono peraltro anche i custodi del vicino Kubbet as-Sakra (Cupola della Roccia), il santuario fatto costruire alla fine del VII secolo dal califfo omayyade Abd al-Malik sullo stesso impianto sul quale, subito dopo la conquista musulmana della città, nel 638, il califfo Umar aveva fatto erigere un modesto oratorio. Lo splendido edificio, forse piú noto ormai sotto il nome di «moschea di Umar», era stato dai crociati riconsacrato come chiesa, dedicato alla Vergine e affidato a una comunità di canonici regolari. I Templari si ritenevano comunque i custodi dell’intero Haram

esh-Sharif: e si è a lungo ritenuto – non senza qualche forzatura – che la stessa architettura dei loro edifici, anche in Occidente, s’ispirasse alla forma del Templum Domini. Loro residenza specifica, comunque, restava la moschea di al-Aqsa. Ed essi ne facevano un uso che con la solita approssimazione potremmo definire quello a metà strada fra la residenza ufficiale e di servizio, il monastero, la caserma, il deposito. La moschea di al-Aqsa, peraltro, costituisce un autentico puzzle archeologico. Al di sotto di essa si estende un sotterraneo di 500 mq circa, le volte del quale sono sostenute da 88 pilastri ordinati in 12 campate. L’ambiente è d’origine composita e controversa: in alcune parti, e secondo gli archeologi, potrebbe risalire davvero al Tempio di Salomone, mentre vi si ravvisano sezioni d’origine erodiana

Siria. Il Krak dei Cavalieri, situato presso Homs, sulla cima di una collina isolata a circa 700 m di quota, in collegamento visuale con la vicina fortezza di Chastel Blanc (Safita). Fondato dall’emiro di Homs nel 1031, passò piú volte di mano, fino a che, nel 1142, il conte Raimondo II di Tripoli lo cedette agli Ospitalieri, che rafforzarono e ampliarono le fortificazioni.

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I luoghi

PUGNALE SPADA

ELMO E CAPPELLO

Le armi dei Templari MAZZA FERRATA SCURE

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ELMO CON NASALE


La Cupola della Roccia di Gerusalemme in una illustrazione ottocentesca elaborata sulla base di una foto d’epoca. L’edificio fu costruito da artisti bizantini in soli tre anni, fra il 688 e il 691, per il califfo omayyade Abd al-Malik.

o addirittura giustinianea. Certo, Baldovino di Gerusalemme prima e i Templari poi lo adibirono alla custodia dei cavalli: e difatti esso è noto come «scuderie di Salomone». Ma su tutto il luogo aleggiano antiche e nuove leggende: che giungono a ipotizzare che sotto la superficie dell’attuale Haram esh-Sharif possa ancora celarsi l’Arca dell’Alleanza, nascosta al tempo della profanazione e del saccheggio del sacro edificio da parte dei Babilonesi di Nabuchodonosor nel 587, e mai ritrovata (a parte la leggenda etiope che la dice trasportata nella Città Santa abissina di Lalibela). Fantaromanzieri e neotemplari si sono impadroniti di queste leggende, le hanno dilatate e manipolate, vi hanno costruito sopra numerosi best seller. (segue a p. 58)

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Il Krak dei Cavalieri

I luoghi CROCE BIANCA IN CAMPO ROSSO

Gli Ospitalieri entrarono in possesso del Krak nel 1142 e lo tennero fino al 1271. Sulle torri della fortezza sventolava il loro vessillo.

LA SOBRIETÀ DEL COMANDANTE

L’appartamento del comandante si trovava nella parte piú alta del castello: arredato in modo spartano, aveva come unico lusso un letto a baldacchino.

ACQUA A VOLONTÀ Un acquedotto in pietra garantiva

l’approvvigionamento delle nove cisterne di cui il Krak era provvisto.

RIFORNIMENTO E DIFESA

La grande cisterna scoperta realizzata all’esterno del castello vero e proprio poteva funzionare anche come fossato difensivo.

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UNA STRUTTURA POLIVALENTE

Com’era d’uso in complessi del genere, il castello non aveva funzioni solo difensive e residenziali, ma era anche dotato di impianti produttivi, come il mulino, e disponeva di varie proprietà rurali.

LA PRATICA DEL CULTO

Nel XII secolo, il Krak si dotò di una cappella, costruita in stile normanno, per la preghiera dei cavalieri e la celebrazione delle messe.

TUTTI A TAVOLA

Un vasto salone in stile gotico, situato nel cuore del complesso, era utilizzato come luogo di ritrovo e come refettorio.

UNA FORTEZZA INESPUGNABILE

Al castello si poteva accedere per una rampa coperta: grazie a questo e altri accorgimenti, la difesa del Krak richiedeva 200 uomini.

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Acri (Israele). La città venne affidata nel 1229 ai cavalieri dell’Ordine di San Giovanni, che vi costruirono una fortezza, le cui strutture furono poi parzialmente riutilizzate dalle fortificazioni ottomane. 58

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I luoghi

Fin dal suo nascere, l’Ordine del Tempio si era distinto per pietas e per valore, al punto da raccogliere un’ingente messe di nuove vocazioni: nei suoi ranghi entrarono anche personaggi di rilievo dell’aristocrazia europea del tempo. Inoltre, piovvero da ogni parte sulla nuova istituzione doni e lasciti testamentari, che rapidamente lo arricchirono in termini sia di danaro liquido, sia di beni immobiliari e fondiari al di

qua e al di là del mare; mentre la fama di efficienza e di onestà che i Templari avevano saputo in poco tempo costruirsi fece sí che venissero loro affidate – affinché li custodissero e li gestissero – importanti somme di danaro e perfino pubblici depositi finanziari. Troviamo cosi, ben presto, Templari amministratori e tesorieri, o quanto meno garanti, di enti e istituzioni varie, mentre si deve al Tempio


sempre piú importante nella rinascita del commercio dei secoli XII-XIII. Si andò intanto rafforzando anche la loro straordinaria importanza in quanto mediatori diplomatici. Soggetti alla diretta autorità del pontefice romano, ma presenti – oltre che nei territori crociati d’Oltremare – in tutti i Paesi d’Europa proprio nei cruciali decenni nei quali stavano affermandosi le monarchie feudali, i Templari assunsero quasi naturalmente il ruolo di tramite fra autorità ecclesiastica e poteri secolari. Naturalmente, il loro prestigio e il loro successo li esponevano a pericoli: troviamo cosí il Tempio invischiato nelle lotte tra il re di Francia e il suo scomodo vassallo, il re d’Inghilterra, e il fatto che vi fossero Templari nel novero dei consiglieri dell’uno e dell’altro poteva sí procurare vantaggi all’Ordine, ma anche far nascere tensioni ed equivoci.

Alleanze e inimicizie

il primo istituirsi, nell’Europa del pieno Medioevo, d’una rete creditizia. Le varie sedi dell’Ordine, sparse in Europa e in Terra Santa, fungevano da basi per la circolazione di «lettere di credito» che permettevano il trasferimento a distanza di somme di danaro senza correre il rischio dello spostamento materiale di masse di metallo prezioso. I Templari furono cosí i primi «banchieri» d’Europa e il loro ruolo divenne

Analogo sviluppo aveva, intanto, l’Ordine degli Ospitalieri di San Giovanni: il che non mancò di determinare fra le due istituzioni religiosomilitari attriti e rivalità, che in Terra Santa si complicarono, in quanto finirono con il costituire l’ingrediente di un complesso sistema – fluido e infido sempre, ma dotato in fondo di una sua solida coerenza – di alleanze e d’inimicizie. Templari, Veneziani, Pisani, Francescani e alleati degli Angioini di Napoli rappresentavano, negli ultimi quattro decenni del Duecento, un fronte compatto, che agiva di concerto nelle questioni politiche e diplomatiche, nonché in quelle concernenti il rapporto con le potenze islamiche e con quelle tartare. Dall’altra parte gli Ospitalieri avevano ormai costituito una solida alleanza con i Genovesi, i Domenicani, gli Aragonesi e gli Armeni; il primo blocco manteneva rapporti privilegiati con i Mamelucchi d’Egitto, il secondo con gli Ilkhan («principi territoriali») mongoli di Persia. La superbia e la violenza dei monaci-cavalieri, sia templari sia ospitalieri, divennero da allora in poi proverbiali; era risaputo, anche se le notizie circolavano con molte esagerazioni, che gli intrighi dei Templari e degli Ospitalieri rendevano precaria la sopravvivenza del Regno di Gerusalemme, minacciato anche dalle rivalità tra le città marinare italiche mentre l’Islam premeva dal di fuori; e non mancarono i poeti, come il famoso Rutebeuf (poeta francese forse originario della Champagne, attivo nel XIII secolo, n.d.r.), che s’incaricarono di tradurre l’antipatia e la diffidenza ormai diffusa contro i monaci-cavalieri in temi rapidamente divenuti popolari. ORDINI CAVALLERESCHI

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I luoghi

Le fortezze degli Ordini

I

castelli non sono caratteristici degli Ordini, ma tutti ne ebbero. Le tre regioni interessate dalla vita degli Ordini militari del Medioevo corrispondono ad altrettante aree nelle quali il fenomeno dell’incastellamento – già proprio dell’Europa tra il IX e l’XI secolo, ma

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ripreso e prolungato almeno fino a tutto il Duecento nelle zone in questione – è stato particolarmente significativo: sono la Siria-LibanoPalestina (una regione in parte corrispondente all’odierno Israele), la Prussia-Livonia e la Penisola Iberica, soprattutto nella sua parte centrale.

Non si può dire che gli Ordini abbiano elaborato una propria architettura castellana. In Occidente, quest’ultima nasce e si sviluppa sulla base di una pluralità di sperimentazioni, che soprattutto a partire dall’XI secolo conduce a risultati originali e di grande efficacia, grazie al rinnovato


In alto Ponferrada (León, Spagna). Il castello che i Templari costruirono sul sito di un piú antico insediamento romano. A sinistra i resti del castello crociato di Monfort, nell’Alta Galilea (Israele).

contatto con l’Oriente nel quale – tramite Bisanzio – i modelli romani avevano avuto un’evoluzione successiva e arricchita dagli apporti dell’Islam siro-iraniano. In Terra Santa, a Templari e a Ospitalieri toccò la difesa castellana delle coste e di alcune vie interne, nonché di quella via settentrionale che dalla Siria, costeggiando la riva sinistra del Giordano e passando a est del Mar Morto, giungeva fino al golfo di Aqaba. Gli Ordini ereditarono talora difese castellane da signori laici, oppure, piú di rado, le cedettero loro: sono quindi largamente leggendarie, oppure fondate su ipotesi tese a impressionare, le idee relative al fatto che i Templari prediligessero, per esempio, un tipo speciale di pianta per i loro donjon («torrioni») e gli Ospitalieri un’altra. Abbiamo comunque resti di castelli degli Ordini in area vicino-orientale, come gli ospitalieri Krak dei Cavalieri (Siria) e Belvoir (Israele), i templari Athlit (Israele), Tortosa (Libano) e Safita (Siria), il teutonico Montfort (Libano). Degli Ospitalieri ci restano anche le fortificazioni urbane di Acri. Semmai, a caratterizzare l’architettura castellana degli Ordini sono la maggiore ampiezza degli insediamenti fortificati – adibiti a residenze e a centro di produzione, oltre che a vera e propria sede di guarnigione – e la presenza di aree

specifiche adibite alla preghiera e alle necessarie attività comuni dei religiosi: per esempio la sala capitolare, che, come nel Krak dei Cavalieri, è particolarmente ampia e severamente fastosa nella sua gotica eleganza (rispetto a questo quadro, si deve purtroppo considerare che la conservazione delle fortezze situate nell’odierna Siria è stata gravemente compromessa dai danni subiti nel corso della guerra civile scoppiata nel Paese nel 2011, n.d.r.) In Spagna una certa dislocazione territoriale dipende dal fatto che gli Ordini di Terra Santa furono presenti in Aragona, mentre quelli specifici di Spagna si riscontrano semmai in Navarra e in Castiglia. L’influsso dell’architettura militare arabo-africana (dove forte è l’ispirazione siriaca, importata dai califfi omayyadi) vi è evidente. Abbiamo esempi illustri di architettura templare, come a Ponferrada in León, mentre importanti testimonianze di Alcantara restano a Valencia de Alcantara, a Trujillo, a Moron de la Frontera. In Portogallo, è celebre il castello «templare» di Tomar, piú volte modificato e restaurato. Le testimonianze dell’Ordine teutonico sono particolarmente impressionanti a Marienburg e a Konigsberg, le antiche città-fortezza-convento capitali dell’Ordine. Ma che esistesse una vera e propria architettura delle Ordensburgen («Castelli dell’Ordine»), caratterizzata da linee di semplice e severa forza, è piuttosto un’invenzione moderna legittimata da restauri e ricostruzioni degli anni Trenta del Novecento, condizionati da un evidente messaggio ideologico. Ma la memoria del carattere guerriero che, a causa della presenza dell’Ordine, la Chiesa romana aveva assunto agli occhi delle popolazioni slave, è ben rappresentato dalla parola russa che tuttora designa le chiese cattoliche: kastiol.

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Orizzonti di ignominia Il prestigio degli Ordini piú importanti cominciò a vacillare sotto i colpi delle accuse che da piú parti vennero mosse contro di loro. Si trattava, in realtà, di una sorta di resa dei conti, che non mirava a ripristinare una rettitudine che si presumeva perduta, ma puntava alle fortune accumulate dai cavalieri

S

ull’Ordine del Tempio – e, forse in misura minore, anche sugli Ospitalieri – prese nel tempo a circolare ogni sorta di calunnie: i fratres furono accusati di connivenza con i Saraceni, di simpatie per questa o quella setta ereticale, d’intemperanze varie (proverbiale divenne l’espressione bibere templariter, «bere come un templare»), di peccati carnali e, soprattutto, di sodomia. Alcune voci – come quelle relative all’ultima di queste accuse – erano per la verità abbastanza diffuse nei confronti di un po’ tutti gli Ordini religiosi: e, come sovente accade, alla base potevano esservi in effetti episodi reali oltre che verosimili. Tuttavia, il punto è che eventuali fatti sporadicamente verificatisi finirono con l’ingigantirsi e il distorcersi, passando attraverso le dilatazioni subite dai racconti orali, e che narrazioni basate su casi sporadici e mai comunque verificati con attenzione si trasformarono in valutazioni paradigmatiche. È di speciale interesse l’insieme delle voci raccolte e circolanti a proposito dei disordini sessuali e delle pratiche erotiche affermatesi tra i fratres e che avrebbero avuto addirittura un carattere rituale e iniziatico. A parte il richiamo tipologico a usanze di quel genere sovente diffuse in tutte le «società d’uomini» – dall’antica Grecia ai giorni nostri –, va detto che l’accusa di rituali segreti fondati sull’indiscriminata pratica sessuale – magari di gruppo – corrisponde a un’antica accusa, che già si 62

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formulava da parte pagana nei confronti dei primi cristiani e che poi passò a venir addossata a varie sette ereticali prima di approdare a un tema che sovente si ritrova nei processi di stregoneria. Ne troviamo un modello appunto nel processo ai Templari del 1307-1312, ma si deve dire che ancora oggi analoghe dicerie corrono tra Siria e Libano a carico di gruppi musulmani minoritari, come i Drusi. È questa una linea di ricerca che andrebbe approfondita, anche dati i rapporti piuttosto stretti intercorsi nei secoli XII-XIII fra i Templari di Tortosa e gli Sciiti ismailiti di quella che gli occidentali chiamavano (e chiamano) la «Setta degli Assassini», che aveva le sue rocche sui Monti Nusairi tra Siria e Libano.

Trasferimento forzato

A causare innanzitutto e soprattutto il tracollo del prestigio degli Ordini militari di Terra Santa fu però la liquidazione da parte degli eserciti dei sultani mamelucchi d’Egitto, alla fine del Duecento, di quel che restava del Regno di Gerusalemme. Gli Ospitalieri trasferirono allora la loro sede principale nell’isola di Rodi, i Templari in quella di Cipro: ebbe luogo una sorta di riciclaggio delle attività militari dei due Ordini che – a parte la Penisola Iberica – si videro ormai costretti a trasformarsi in marinai. Gli Ospitalieri di San Giovanni vi riuscirono brillantemente, imponendosi come una


Il ritorno del crociato, olio su tela di Karl Friedrich Lessing. 1835. Bonn, Rheinisches Landesmuseum.

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Il castello di Paphos, che domina la baia omonima, sulla costa occidentale di Cipro. Edificata dai Bizantini, la fortezza venne ricostruita nel XIII sec., quando l’isola era sotto il controllo dei Lusignano.

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Nuovi scenari


delle principali potenze cristiane sul Mediterraneo fino al Settecento; i Templari non ebbero altrettanta fortuna. Nel 1274, papa Gregorio X, che era stato legato pontificio in Terra Santa, indiceva il II Concilio di Lione. La crociata era al centro delle sue preoccupazioni: i Musulmani stavano eliminando quel che restava del Regno di Gerusalemme e l’Europa cristiana mostrava molta disaffezione per l’ideale della riconquista dei Luoghi Santi. Anche alcuni pensatori francescani e domenicani – Adamo di Marsh, Gilberto di Tournai, Ruggero Bacone, Umberto di Romans – registravano questa diffusa sfiducia, proponendo di puntare semmai sulla missione. Il concilio lionese provocò comunque una nutrita serie di trattati de recuperatione Terrae Sanctae, che si protrasse nel secolo successivo: ne scrissero, fra gli altri, Raimondo Lullo, che si dedicò molto anche alla missione, l’ammiraglio genovese Benedetto Zaccaria, il consigliere del re di Francia Pietro Dubois, il principe armeno e monaco Hetoum, il Gran Maestro dei Templari Giacomo di Molay, il veneziano Marin Sanudo il Vecchio, e piú tardi, uno strano tipo di mistico e sognatore di nuovi Ordini cavallereschi, Filippo di Mézières. La propaganda crociata giunge all’età moderna: scritti del genere furono composti alla fine del Cinquecento dal protestante francese François de la Noue e, nella prima metà del Seicento, dallo scrittore e viaggiatore romano Pietro della Valle.

La seconda vita degli Ospitalieri

Tuttavia, nel 1291, la fine dei domini crociati in Terra Santa obbligò gli Ordini militari a trovare un altro centro. I Templari lo individuarono nell’isola di Cipro, ma, tra il 1307 e il 1312, vennero soppressi dall’autorità pontificia in seguito a un celebre processo voluto dal re di Francia; gli Ospitalieri si trasferirono nel 1309 a Rodi e da lí, come già accennato, seppero splendidamente «riciclarsi». Papa Clemente V procedette ai primi del Trecento a un nuovo «giro d’opinioni» sul rilancio della crociata. Tra i primi a essere interpellati furono gli Ordini militari, dei quali da tempo e da piú parti si ventilava l’esigenza di una unificazione e di una generale ristrutturazione, cosí da renderli nuovamente atti ai loro primitivi compiti e che facessero cessare gli scandali e le liti che li vedevano protagonisti. Nel giugno 1306 Clemente ne invitò presso di sé i Gran Maestri, in segreto, al fine di discutere sugli aiuti da recare ai re di Cipro e d’Armenia, minacciati sia dai Mamelucchi d’Egitto, sia dai ORDINI CAVALLERESCHI

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Nuovi scenari

potentati turchi dell’Asia Minore. In realtà, si trattava di saggiare il terreno a proposito dei progetti crociati formulati da Carlo di Valois, fratello di Filippo IV re di Francia, che, di fatto, miravano a far sí che gli occidentali si radicassero ancor piú profondamente in quel che restava dell’impero bizantino. Frutto di quei colloqui furono due memorie, redatte rispettivamente dal Gran Maestro degli Ospitalieri Folco di Villaret e dal Gran Maestro dei Templari Giacomo di Molay. Il primo consigliava prudentemente di non fissare termini troppo ravvicinati per la partenza del passagium: ciò avrebbe favorito i pretesti sollevati da quanti erano in realtà intenzionati a dilazionarlo, sortendo quindi un effetto opposto alle intenzioni. A capo della spedizione egli avrebbe visto con favore un legato papale coadiuvato da una persona esperta nelle cose militari: ciò avrebbe impedito i litigi tra le Nazioni cristiane. Villaret raccomandava che il pontefice s’impegnasse a fondo nella raccolta del denaro necessario alla spedizione e sconsigliava di indire un concilio, che avrebbe dilapidato quel denaro: in realtà, forse, temeva piuttosto una decisione pontificia o conciliare che – com’era ormai orientamento di molti – determinasse la fusione degli Ordini. Quanto alle operazioni militari vere e proprie, ne proponeva l’articolarsi in tre fasi. Nella prima, sarebbero state sufficienti

venticinque galee armate dal re di Cipro, dagli Ospitalieri e dai Templari, che avrebbero dovuto attuare il blocco economico nei confronti dell’Egitto e intercettare i convogli degli «empi cristiani», cioè dei mercanti europei che vendevano armi e materiale bellico ai musulmani sebbene tale pratica fosse passibile di scomunica. Nella seconda, una sessantina fra galee e navi avrebbe dovuto condurre una guerra d’incursioni sulle coste egiziane e siriache, fino a provocarne il collasso economico. Nella terza, il vero e proprio esercito crociato sarebbe entrato in azione di sorpresa, piombando inaspettatamente sui musulmani.

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I consigli del Gran Maestro

A questa strategia, basata sull’articolazione delle operazioni in un parvum o particulare passagium contrapposto a quello magnum o generale e a esso propedeutico, si opponeva Giacomo di Molay. Negato che fosse utile portare aiuto al regno d’Armenia, la cui gente egli giudicava in modo assai duro (in realtà gli Armeni erano molto legati agli Ospitalieri), consigliava senza esitazioni un passagium generale, suggerendo inoltre di usare per il trasporto delle truppe le grosse navi da carico, economicamente piú vantaggiose: «Nam una navis portabit plus quam quatuor galee, et una galea constabit plus quam tres naves». Per il resto, Molay si associava all’idea

In alto Rodi. La Porta d’Amboise, uno degli accessi alla città medievale. I cavalieri di San Giovanni sbarcarono sull’isola nel 1307 e, nel 1310, dopo averne completato l’acquisizione, ne fecero la propria sede. Nella pagina accanto Castel del Monte (Andria). Si tratta del piú famoso tra i castelli fatti costruire dall’imperatore Federico II di Svevia. A oggi, non si hanno notizie certe sulla data di realizzazione dell’edificio, ma è probabile che i lavori abbiano avuto inizio nel 1240, come proverebbe la lettera inviata dall’imperatore a un suo funzionario, affinché assicuri la fornitura del materiale necessario.


TEMPLARI, OSPITALIERI E STUPOR MUNDI: UNA RELAZIONE TORMENTATA La propaganda politica dovette avere il suo peso nel diffondersi delle chiacchiere e nell’affermarsi delle calunnie a carico dei Templari. Può esserne un esempio il complesso sviluppo dei rapporti dell’Ordine con Federico II di Svevia, un sovrano che si serviva sistematicamente della propaganda per legittimare le sue scelte politiche. Nel 1228-29 i castelli e le costruzioni militari del Regno di Sicilia erano poste sotto la sorveglianza di due «maestri e provveditori dei castelli imperiali» che erano un Templare e un Ospitaliere: il che può aver dato origine, per esempio, alle leggende relative a un impianto templare dell’enigmatica rocca di Castel del Monte presso Andria. Tuttavia, la vicenda è abbastanza ingarbugliata e i rapporti tra l’imperatore e gli Ordini non poterono essere idilliaci, dato che i fratres mai vennero meno – pur nei momenti piú confusi – alla loro fedeltà nei confronti della Santa Sede.

Le relazioni tra gli Ordini e Federico furono pertanto subordinate a questo dato costante e il loro andamento irregolare va posto in correlazione con le oscillazioni del rapporto fra papa e imperatore. Sembra che il sovrano avesse confiscato i beni dei Templari e degli Ospitalieri già nel 1226; ed è certo che, dalle Costituzioni di Melfi del 1231 in poi, i provveditori delle opere di difesa del regno non sarebbero mai piú stati reclutati fra i monaci-cavalieri. Il periodo corrispondente al 1229-31 coincise con un momento di confische e di persecuzioni; e anche dopo la riconciliazione dell’imperatore col papa, le pur previste restituzioni di beni agli Ordini non ebbero luogo. La situazione migliorò un po’, in seguito, nei rapporti con gli Ospitalieri, ma rimase tanto tesa con i Templari che solo nel suo testamento Federico dispose la restituzione dei beni e delle case del Tempio che la sua amministrazione aveva incamerato.

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Sulle due pagine miniatura raffigurante un gruppo di Templari al cospetto di Filippo il Bello e Clemente V, da un’edizione delle Croisades de France. XV sec. Londra, British Library.

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A destra incisione settecentesca che raffigura le galee dei cavalieri di San Giovanni mentre catturano due imbarcazioni turche.

che fosse necessario reprimere il commercio degli «empi cristiani» e riteneva che una decina di galee sarebbero state a ciò sufficienti. 15 000 cavalieri e 5000 fanti gli sembravano bastanti all’impresa, base della quale avrebbe dovuto essere Cipro dove in quegli anni regnava Amalrico di Lusignano, che si era impadronito del trono appoggiato dai Templari, con un colpo di mano contro il fratello Enrico II (in effetti, di lí a poco, la crisi del Tempio ebbe ripercussioni immediate sulla politica cipriota: quando Amalrico fu assassinato, il 5 giugno 1310, corse voce che gli Ospitalieri fossero responsabili della sua fine; il 10 settembre di quel medesimo anno Enrico II entrava di nuovo in Cipro).

Un paragone avventato

Un confronto fra le due memorie, l’ospitaliera e la templare, sarebbe rischioso e risulterebbe in realtà forzato. Piú d’uno storico della crociata ha amato ravvisare – e certo, nelle linee generali, a ragione – una duplice contrapposta linea politico-diplomatica nelle cose d’Oriente: da un lato Venezia e gli Angioini, appoggiati da Templari e Francescani, e prevalentemente orientati contro l’impero bizantino; dall’altro, Genovesi e Aragonesi, appoggiati da Ospitalieri e Domenicani, auspicanti una larga coalizione antimusulmana comprendente Bizantini, Georgiani, Armeni, Mongoli di Persia. Alla linea antibizantina del primo blocco, si sarebbe contrapposta quella antimamelucca del secondo. Contingenze commerciali, geopolitiche e missionarie avrebbero favorito questa dicotomia, alla radice della quale vi sarebbero stati, peraltro, motivi e interessi molto antichi nella storia dei rapporti tra l’Occidente e l’Oltremare. Va da sé che il vero scopo di entrambe le coalizioni (tutt’altro che coerenti e monolitiche, poi...) non sarebbe stata l’azione tendente a costringere il sultano d’Egitto a «restituire» la Terra Santa, anche se tale obiettivo poteva rimanere come primario o come uno

dei primari, almeno in sede teorica. La partita si giocava in realtà in Occidente e la posta effettiva non era la riconquista di Gerusalemme, bensí l’egemonia economico-politica in Europa e sul bacino mediterraneo. Il fatto è che, dopo le sconfitte in Siria-Palestina, la già pericolante fama degli Ordini era ancor piú messa in discussione. La crescente ondata di discredito su di loro e, in particolare, sul Tempio era connessa proprio con la questione dell’opportunità della loro stessa sopravvivenza. Se loro compito fondamentale era stato la difesa della Terra Santa, la caduta di quest’ultima in mano agli infedeli costituiva, da sola, una denunzia del loro fallimento e della loro inutilità. Restava allora difficile capire perché mai gli Ordini dovessero conservare tanto prestigio e mantenere tante ricchezze mobili e immobili, i cui proventi non potevano piú servire alla Palestina crociata. Agli occhi degli Europei, i Templari cominciarono ad apparire come parassiti imbelli e corrotti: tanto piú che nelle loro molte commende europee non v’era ombra di quell’attività guerriera che aveva reso l’Ordine noto, ammirato e temuto in tutta la cristianità. Pochi erano in Europa i fratres che fossero anche milites: e quei pochi erano in prevalenza anziani o mutilati messi a riposo. Ormai il prestigio dei Templari era definitivamente scosso: dal Roman de Renart a poeti come Rutebeuf e a cronisti come Matteo Paris i sarcasmi e le insinuazioni, quando non addirittura le vere e proprie accuse, piovevano con violenza. I Templari erano stati nel 1291 gli ultimi, eroici difensori della piazzaforte di Acri, estremo baluardo crociato in Oltremare: il Maestro dell’Ordine, frate Guglielmo di Beaujeu, era caduto con l’arma in pugno sugli spalti della città in fiamme; e l’Ordine aveva poi tenuto a lungo una posizione avanzata, su un’isoletta dirimpetto alla città perduta. Ma nemmeno ciò bastava ormai al riscatto di un’immagine irreversibilmente compromessa. ORDINI CAVALLERESCHI

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Caccia al Templare

Una lettera circolare inviata ai suoi funzionari nel 1307 da Filippo IV di Francia segna l’inizio di una vera e propria persecuzione contro l’Ordine del Tempio. Ai cavalieri vengono mosse accuse di ogni genere, la cui infondatezza appare oggi palese, ma che, all’epoca, non venne nemmeno ipotizzata. E la condanna al rogo del Gran Maestro, Giacomo di Molay, pone fine a una parabola gloriosa

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I

l dissidio tra papa Bonifacio VIII e re Filippo IV di Francia – durante il quale le sedi dell’Ordine in terra di Francia avevano preso posizione a favore del sovrano, a differenza degli altri Templari – e l’opposizione del Maestro Giacomo di Molay a un prestito di 400 000 fiorini d’oro che il Tesoriere del Tempio di Parigi aveva concesso al re di Francia furono tra le cause prossime del processo intentato contro l’Ordine: che ebbe comunque la sua origine immediata dalle confessioni e dalle confidenze di un «pentito», tale Esquieu de Floyran, priore templare di Montfaucon, che, a partire dal 1305, cominciò a mettere in giro presunte rivelazioni su infiltrazioni ereticali nell’Ordine. Il papa e il re d’Aragona, messi a parte di quelle voci, non vi dettero importanza: ma il re di Francia, che doveva del denaro al Tempio e che era del resto ben deciso a ridurre la Chiesa transalpina sotto il suo controllo, eliminando tutte le forze sospettate di essere troppo strettamente fedeli al papa, aveva tutto l’interesse a lasciarsi convincere che davvero i Templari – come recita la lettera regia indirizzata ai funzionari della corona il 14 settembre 1307, festa dell’Esaltazione della Croce – al momento dell’ammissione all’Ordine venissero indotti a rinnegare il Cristo, a sputare sul segno della croce, a darsi a esecrabili pratiche oscene.

Eresie e nefandezze inimmaginabili

Elaborate nei primi mesi dopo gli arresti eseguiti un po’ in tutta Europa tra il 1307 e il 1308, le accuse contro i Templari, si cristallizzarono in piú punti: essi avrebbero rinnegato il Cristo, definito falso profeta crocifisso per le sue colpe e non per riscattare l’umanità; sputato sulla croce, in piú modi vilipesa nel corso delle loro cerimonie; adorato idoli – gatti o teste – sostituiti al Salvatore; non avrebbero creduto ai sacramenti, e i sacerdoti dell’Ordine avrebbero «dimenticato» le formule di consacrazione durante la messa; i Maestri e i dignitari dell’Ordine, per quanto laici, si sarebbero arrogati il potere di assolvere i peccati dei confratelli; avrebbero esercitato pratiche oscene e omosessuali; avrebbero procurato l’arricchimento dell’Ordine senza badare ai mezzi; si sarebbero riuniti segretamente la notte; ogni rivelazione fatta all’esterno Giacomo di Molay, Gran Maestro dei Templari, olio su tela di François Richard Fleury (17771852). Malmaison, Musée national des châteaux de Malmaison et de Bois-Préau. L’artista ha immaginato Molay a confronto con uno dei religiosi incaricati degli interrogatori condotti durante il processo all’Ordine. ORDINI CAVALLERESCHI

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La persecuzione


Miniatura raffigurante l’arresto dei Templari nel 1308, da un’edizione delle Chroniques de France ou de St. Denis. Fine del XIV sec. Londra, British Library.

a proposito delle loro pratiche sarebbe stata severamente punita, anche con la morte. In seguito, la lista di queste accuse – precisatasi in 127 articoli – si allungò e si arricchí: per esempio, nelle Grandes Chroniques de France, tra gli undici capi d’accusa contro i Templari il generico riferimento all’adorazione di gatti si precisava in quella di un gatto nero, mentre, fra le pratiche oscene richiamate, il bacio del novizio sull’ombelico del Maestro diviene il vero e proprio osculum infame sull’ano. Per la verità, l’elenco dei reati contestati ai Templari appare ben poco «misterico» e «iniziatico». Sia che gli avvocati del re di Francia s’inventassero di sana pianta gli addebiti, sia che raccogliessero ed elaborassero confessioni in qualche modo «autentiche», sebbene estorte, l’insieme delle pratiche attestate non ha alcuna coerenza e che ciascuna di esse, singolarmente presa, sembra rinviare a un contesto noto a livello piú generico e popolare che non teologico o politico.

Echi di usanze pagane

L’accusa di idolatria sembra ricalcare quella che, soprattutto nella poesia epica o nel romanzo cavalleresco, si muoveva ai musulmani; quella del ritenere Gesú un criminale comune sembra arieggiare fonti ebraiche; altri rilievi paiono ispirarsi a echi di usanze catare o rituali magici. Quanto al riscontrarsi insieme di elementi come l’adorazione di animali quali il rospo o il gatto, le pratiche sessuali e i convegni notturni, si può pensare, come diretta o indiretta fonte degli accusatori dei Templari, a un documento pontificio del 13 giugno 1233, una bolla edita da Gregorio IX per condannare il movimento degli «Stedinger», i contadini della diocesi di Brema ribelli al loro vescovo. La storia della «testa magica» si riallaccia invece, a quanto pare, a un antico racconto, piú volte riecheggiato nel Medioevo – da Gervaso di Tilbury a Gualtiero Map, che attingeva a fonti celtiche nelle quali le pratiche cefalolatriche erano frequenti – prima di essere ridefinito durante la sua deposizione al processo contro i Templari il 10 marzo del 1311 dal notaio Antonio Sicci da Vercelli, che era stato per quarant’anni al servizio dell’Ordine in Siria e sosteneva di averlo sentito raccontare a Sidone. Un nobile di quella città amava in segreto una donna armena, ma non aveva mai palesato la sua passione. Quando essa però venne a morire, lo sciagurato ne violò la sepoltura e la possedette. Dopo l’atto peccaminoso, l’uomo udí una voce che gli intimava di tornare quando fosse stato maturo il tempo del parto; violata di nuo-

vo la tomba nove mesi dopo, trovò in grembo alla donna morta una testa, e la solita voce lo ammoní che, se l’avesse conservata con cura, da essa gli sarebbe giunto ogni bene. Il notaio Antonio aggiungeva di aver udito la storia al tempo nel quale era precettore dei Templari di Sidone il piccardo Matteo, detto «la Sarmage», che era divenuto fratello di sangue del sultano del Cairo in seguito a una cerimonia di reciproca suzione del sangue. Quella testa sarebbe stata in seguito custodita da alcuni cavalieri, segretamente convertiti all’Islam e che adoravano il misterioso talismano chiamandolo «Maometto»: nome poi deformato in quello, destinato a diventar celebre, di Baphomet. Nell’ordine d’arresto dei Templari del 14 settembre del 1307 si alludeva a voci secondo le quali i Templari apostati portavano sul loro corpo alcune cordicelle che, dopo essere state poste attorno al collo di un idolo a forma di testa maschile con una lunga barba, erano state loro distribuite; e pare che con quest’allusione alle cordicelle si volesse indicare un riferimento all’eresia catara, dal momento che tali oggetti, tra gli adepti a essa, significavano che si era ricevuto il consolamentum. I vari elementi del coacervo di accuse finivano con l’indicare due direzioni, e poco ci si preoccupava della loro compatibilità: i Templari sarebbero stati in qualche modo sedotti dall’Islam e attirati dall’eresia catara. Come Islam e catarismo potessero accordarsi, era lasciato in ombra: gli avvocati del re di Francia non erano tenuti a costruire un edificio accusatorio coerente; a loro interessava che esso fosse efficace e credibile al livello di opinione pubblica. Le accuse erano in realtà un segnale inviato al papa: la volontà regia voleva che l’Ordine fosse soppresso e poco importava la verifica delle prove; quanto alla regolarità procedurale, se ne sarebbe venuti a capo in un modo o nell’altro. Si trovarono, certo, alcuni che confermarono le accuse, comprese quelle che riguardavano i rituali sacrileghi, ma – fermo restando che nell’Ordine potevano ben esservi inquinamenti ereticali, come ce n’erano anche in altri Ordini religiosi – occorre tener presente che alcuni interrogatori si svolsero sotto tortura, tutti comunque in condizioni d’intimidazione; e da piú di un indizio risulta anche che, in qualche caso, si può pensare a cerimonie scherzose, quasi «goliardiche», delle quali il Medioevo era molto ricco. In un certo senso, durante le cerimonie di ammissione al Tempio non è escluso si verificassero episodi di «nonnismo» anche pesanti e brutali. In ambito ecclesiastico e cavalleresco ORDINI CAVALLERESCHI

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La persecuzione

Teste e cordicelle

S

econdo una testimonianza, l’idolo detto Baphomet che i Templari furono accusati di adorare durante il processo a loro carico aveva l’aspetto di una testa. Il tema della sacralità della testa e del teschio, da cui il suo uso nelle tecniche di cefalomanzia, è noto a livello antropologico. Ve ne sono esempi antichi in area indo-iranica, greca, nonché latina: è il caso della leggenda della fondazione del Tempio di Giove sul Campidoglio, cosiddetto appunto perché, come narra Tito Livio, scavando sul colle prima della costruzione, si sarebbe trovata la testa di un tale Olon, che richiamerebbe al tema dell’Uomo Universale (Olon in greco significa «Tutto» e somiglia molto al tema mitico-simbolico della testa di Adamo sepolta ai piedi del Calvario). Altri esempi chiamano in causa l’area germanica (si pensi alla Völuspá, il «Canto [profetico] della veggente», e alla Saga degli uomini di Eyr) e soprattutto celtica (a tale complesso è stata ricondotta la simbologia della testa mozza, centrale nel Sir Galvano e il Cavaliere Verde). Si pensi poi al valore archetipico delle teste nelle scene mitiche, bibliche ed evangeliche di decapitazione e nelle leggende e reliquie a esse variamente correlati: Orfeo, Perseo e Medusa, David e Golia, Giuditta e Oloferne, Giovanni Battista, o all’importanza dei santi cefalofori, soprattutto nei miti di fondazione di edifici o città (Dionigi a Parigi, Miniato a Firenze). Un famoso caso di testa-talismano viene presentato da Guglielmo di Malmesbury a proposito del «papa-mago» Gerberto d’Aurillac, cioè Silvestro II, di cui si dice che avesse fatto fondere il capo di una statua e che a questo si rivolgesse interrogandolo, dopo aver esaminato

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con attenzione la posizione degli astri. Un giorno Gerberto domandò alla testa «Sarò apostolico?» e questa rispose «Anche»; poi, alla domanda «Morirò prima di cantare Messa in Gerusalemme?», la testa rispose «No». Cosí Gerberto, ingannato da quell’equivoco responso, ritenne che gli fosse dato in sorte ancora un lungo tempo da vivere («Fudisse sibi statue caput, certa inspectione siderum, cum videlicet omnes planetae exordia cursus sui meditarentur, quod non nisi interrogatum loqueretur, sed verum affirmative vel negative pronuntiaret. Verbi gratia, diceret Gerbertus: “Ero apostolicus?”, responderet statua: ‘‘Etiam”. “Moriar antequam cantem missam in Jerusalem?”, “Non”. Quo illum ambiguo deceptum ferunt, ut nihil excogitaret poenitentiae qui animo blandiretur suo de longo tempore vitae» (cit. in M. Oldoni, A fantasia dicitur fantasma, «Studi medievali», s. III, vol. XXI, II, 1980. p. 534). Un legame, questo, fra ambiguo responso tratto dalle arti magiche e testa umana, che richiama quello ricevuto secondo Giovanni Villani da Provenzano Salvani, signore di Siena, il quale, alla vigilia della battaglia di Colle del 1269, avrebbe interrogato i demoni sull’esito dello scontro, avendone in risposta che la sua testa avrebbe sovrastato quella degli altri: il che fu vero, ma non nel senso che egli trionfò, bensí in quello che egli fu sconfitto, decapitato, e la sua testa issata su una picca. Nel Macbeth di William Shakespeare, una delle forme nelle quali si manifestano i demoni è quella di teste armate. Per le decapitazioni, si può consultare il catalogo della mostra Visions capilales (Parigi 1998), che tiene presente anche il richiamo che

il simbolo della testa ha costituito nella psicanalisi, nella psicologia del profondo e in genere nella cultura moderna (Freud, Jung, Bataille, e soprattutto il Léo Frobenius autore del saggio Der Kopf als Schicksal). Francesco Tommasi si è chiesto se questo «idolo» non fosse, in realtà, la cefaloteca contenente la testa e il busto del primo Maestro del Tempio, Ugo di Payns: quindi un reliquiario (Francesco Tommasi, I Templari e il culto delle reliquie, in AA.VV, I Templari: mito e storia, Sinalunga-Siena 1989; p. 192). Il tema delle cordicelle è stato da molti accostato al racconto della cordicella con la quale Dante, nella Divina Commedia, attira Gerione.


era abituale accadessero cose del genere, e il confine con il blasfemo e lo scurrile, in questi casi, doveva facilmente superarsi. D’altronde, la stessa soggezione sessuale fa parte consueta di episodi di questo tipo. Va, inoltre, tenuto presente che – contrariamente alla visione esoteristico-romantica affermatasi negli ultimi due secoli – l’impressione che si ha dei Templari, soprattutto nell’ultimo periodo di vita dell’Ordine, è che si trattasse di persone di livello mediamente piuttosto basso, facili da ingannare e disorientare. Il pontefice comprese bene la sostanza dei messaggi del re di Francia, che cioè il destino dell’Ordine era comunque segnato ed era bene accettare il male minore ed evitare scandali: e, com’è noto, sciolse d’autorità l’Ordine, in modo che esso non fosse condannato, ma che neppure una sua assoluzione compromettesse i rapporti tra Regno di Francia e Santa Sede.

Quale destino per i Templari?

Con lo scioglimento dell’Ordine nel 1312 e il rogo dell’ultimo Maestro, Giacomo di Molay, nel 1314, cessa la vita istituzionale del Tempio. Si aprí davvero il lungo capitolo della sua sopravvivenza sotterranea e del suo carsico, periodico riemergere sotto differenti spoglie? Bisogna dire anzitutto che molti Templari avevano lasciato l’Ordine prima del processo, e che tensioni e discordie al suo interno lo avevano da tempo minato. Molti Templari si lasciarono ridurre allo stato laicale oppure accettarono di entrare nell’Ordine ospitaliero – che ereditò e incamerò i beni del Tempio – o in differenti Ordini della Chiesa. Molti altri continuarono a vivere nelle case templari, nel frattempo ereditate da altri enti oppure lasciate a se stesse e lentamente oggetto di un processo di usucapione. Qualcuno gettò alle ortiche ogni residuo riserbo, prese moglie e visse come poté la sua vita. Altri, meno fortunati, passarono in prigione piú o meno lunghi periodi. In Aragona si stabilí che i beni del Tempio sarebbero andati al nuovo Ordine di Montesa, in Portogallo al nuovo Ordine del Cristo: e, in entrambi i casi, ex Templari si riciclarono come membri di tali nuove istituzioni: ma non consta affatto che essi tentassero in qualche modo di perpetuare all’ombra di esse la vita del loro vecchio Ordine di appartenenza. Del resto, non risulta che il Tempio lasciasse un’eredità intellettuale, per quanto qualche Templare sia stato cronista o poeta: passati i primissimi tempi, caratterizzati dallo stretto rapporto con Bernardo di Clairvaux, non si può dire che l’Ordine

In alto miniatura raffigurante Giacomo di Molay e altri Templari condotti al rogo alla presenza del re Filippo IV di Francia, detto il Bello, da un’edizione del De casibus virorum illustrium di Giovanni Boccaccio. XIV sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Nella pagina accanto l’immagine di una testa, identificabile con il Baphomet che i Templari avrebbero adorato, scolpita su un capitello della chiesa romanica di Santa María de Eunate, in Navarra (Spagna).

abbia mai sviluppato una sua vera e propria cultura. Lo stesso vale per l’architettura: ormai nessuno studioso serio ripete piú la vecchia lezione dell’esistenza di un’architettura specificamente «templare». Vero è che es­sa è, purtroppo, divenuta patrimonio di una folta letteratura esoterico-dilettantesca, che sembra avere un pubblico che le mode connesse con la new age hanno moltiplicato. All’indomani della dissoluzione dell’Ordine, l’opinione pubblica della cristianità appariva divisa. Se personaggi come Dante presero posizione in favore dell’innocenza dei Templari (e lo fecero senza dubbio anche in odio al re di Francia e in termini di pesante critica nei confronti di Clemente V), altri – per esempio Raimondo Lullo e Arnaldo di Villanova – si espressero in senso opposto. Tuttavia – per quanto sia relativamente facile riscontrare brevi cenni all’Ordine e alla sua fine in molti autori tardo-medievali, ecclesiastici e non –, si può dire che, in linea di massima, fino alla Riforma, dell’affare del Tempio ci si andò progressivamente disinteressando e dimenticando. La passione per tutto quel che riguardava i Templari sarebbe ripresa nel Settecento, anche grazie alla pretesa di alcune logge massoniche di averne raccolto l’eredità spirituale, sapienziale e in qualche caso anche istituzionale e materiale. ORDINI CAVALLERESCHI

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Fondazioni eccellenti La presenza dell’Ordine del Tempio in Europa è oggi testimoniata da numerose fabbriche. Si tratta perlopiú di chiese, accomunate dalla volontà di evocare il teatro delle prime gesta dei cavalieri: la Terra Santa e Gerusalemme di Furio Cappelli

D A sinistra restituzione grafica della lastra tombale del sepolcro di Guglielmo il Maresciallo (1145-1219), nobile cavaliere entrato nell’Ordine del Tempio in punto di morte, dopo un lungo soggiorno in Terra Santa. Nella pagina accanto Londra, Temple Church. L’interno della chiesa eretta dai Templari nel 1128. In primo piano, alcune lastre tombali dei cavalieri che vi furono sepolti. 76

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urante una riunione di corte, il re di Francia Filippo II (1180-1223), che aveva ben meritato l’epiteto di Augusto per la vastità dei suoi domini, volle rendere omaggio alle virtú di un cavaliere d’oltremanica da poco deceduto: Guglielmo il Maresciallo (11451219), primo conte di Pembroke. Tutti i dignitari presenti al cospetto del re si trovarono uniti nel tesserne le lodi e fu cosí che egli poté essere proclamato «il miglior cavaliere del mondo». Guglielmo era ancora reggente del sovrano d’Inghilterra, il re bambino Enrico III Plantageneto (1216-1272), quando sentí ormai vicino il momento della dipartita. Lasciò allora la residenza reale, la Torre di Londra, e, trasportato in barca lungo il Tamigi, venne condotto nel suo castello di Caversham. Giunto all’ultimo approdo, ebbe cura di sistemare le pendenze della sua esistenza terrena, e, al momento delle disposizioni sul rito funebre, chiese a uno dei suoi fedeli accoliti di portargli due drappi di seta tenuti da parte proprio per quella occorrenza. Si trattava di preziose stoffe che il conte Guglielmo si era procurato in Terra Santa trent’anni prima. A quel punto il figlio gli chiese dove volesse essere sepolto. L’anziano cavaliere non ebbe dubbi e, memore della sua esperienza in Palestina, rispose: «Caro figliolo, quando ero oltre-


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Chiese templari

mare donai il corpo al Tempio per riposarvi dopo morto». La salma sarebbe stata dunque sepolta nel Tempio di Londra, la residenza dei Templari che rappresentava oltremanica un preciso corrispettivo della casa madre dell’Ordine, il Tempio di Gerusalemme. E le sete della Terra Santa, al tempo stesso reliquie e ricordi di quel pellegrinaggio – fondamentale per un valoroso cavaliere quale egli era – sarebbero state stese sulla bara durante le esequie. Con il dono di se stesso al Tempio, il conte di Pembroke sciolse un voto in extremis. Come evidenziato da Georges Duby nel libro che gli ha dedicato, Guglielmo, trovandosi per lunghi mesi a contatto dei Templari, nel 1185, era rimasto colpito dal coraggio e dalla fede di quei monaci guerrieri. Conducendo uno stile di vita rigoroso, senza abbandonarsi a lussi o comodità, combattevano «con gioia», e potevano senz’altro aspirare al paradiso. Guglielmo era deciso a entrare nell’ordine, ma non voleva abbandonare il mondo e si riservò perciò di compiere il passo al momento della sua morte.

A destra incisione (successivamente colorata) raffigurante la Temple Church di Londra e pubblicata dal periodico Ackermann’s Repository of Arts il 1° settembre 1809. All’epoca, il tempio aveva già subito vari rimaneggiamenti e, di lí a pochi anni, sarebbe stato oggetto di un ulteriore restauro, che lo rimodellò in forme medievaleggianti. Nella pagina accanto, in basso particolare della lastra tombale di Guglielmo il Maresciallo. La sua inumazione fu preceduta da una lunga veglia e da un funerale grandioso.

Come uno stendardo trionfale

Dopo aver dato l’ultimo bacio alla moglie – da quel momento in poi ogni contatto carnale gli sarebbe stato negato – si affidò cosí al Tempio, rappresentato al suo capezzale da Eimerico (Aymeric) di Saint Maur, che reggeva la commenda londinese, un personaggio assai influente presso la corona, al punto da essere stato determinante nell’approvazione della Magna Charta. In previsione di questa cerimonia, appena un anno prima Guglielmo aveva fatto confezionare la propria veste bianca con la grande croce rossa dei Templari, che venne condotta nella stanza per essere esposta ai piedi del letto come uno stendardo trionfale. Il morituro, infatti, rimase coricato e non fu in grado di indossarla. Le esequie si svolsero in modo sontuoso e coinvolgente. Il corpo fu accolto a Londra e, nella chiesa del Tempio, la notte prima della sepoltura si tenne una lunga veglia. La tomba venne a trovarsi di fianco a quella del maestro Eimerico: aveva accolto il morituro Guglielmo nell’Ordine dei Templari, ed era morto egli stesso poco prima del valoroso conte. Compiuta la sepoltura, torme di poveri si riversarono sul Tempio per godere della liberalità del pio Guglielmo. Egli aveva infatti disposto che si desse da bere e da mangiare a cento persone, e aveva anche destinato una somma di denaro ai bisognosi. Il banchetto era stato a lungo atteso – un signore del suo rango non poteva esimersi 78

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da un atto del genere – e il protrarsi dell’agonia aveva moltiplicato il numero dei convenuti, tanto che si dovette trasferire la distribuzione del cibo e del denaro negli ampi spazi intorno all’abbazia di Westminster.

La rotonda con i sarcofagi

La tomba di Guglielmo, con il ritratto del cavaliere a figura intera (gisant), eseguito ad altorilievo sulla lastra di chiusura, come se la salma fosse esposta, si può tuttora ammirare nella chiesa del Tempio, in un gruppo di sarcofagi concentrato nella «rotonda», la parte piú antica e piú importante della costruzione. La Temple


nastasis («resurrezione») è infatti una costruzione a pianta circolare, con un corridoio anulare intorno al vano centrale, aperto lungo il perimetro da una serie di arcate. Il fulcro della costruzione è costituito dall’edicola che protegge la roccia del sepolcro di Cristo. Nella configurazione originaria, l’edicola era costituita da un frontone e da una struttura retrostante coronata da una cupoletta, impostata su un circuito di arcate su colonne. Ebbene, questa struttura di base presentava sei sostegni, e la rotonda della Temple Church mostra proprio sei colonne lungo il perimetro del vano centrale. Difatti, il numero di colonne che si ritrova piú facilmente in questo genere di costruzioni ammonta a otto. La scelta sembra ricollegarsi consapevolmente all’edicola del Santo Sepolcro, come ha sostenuto lo storico dell’architettura Antonio Cadei (1944-2009). Non a caso, la medesima soluzione si riscontrava in un’altra importante commenda templare, a Parigi.

L’aggiunta del coro

Sulla riva destra della Senna, fuori dalla prima cinta muraria del XIII secolo, i monaci avevano edificato un quartiere delimitato da mura, il Tempio, fortificato da due torri dominanti, oggi scomparso. Come a Londra, la cappella aveva ricevuto nel Duecento l’aggiunta di un coro e, ancora una volta, la forma risultante rimanda a Gerusalemme. Infatti, a seguito delle ricostruzioni di epoca crociata, il Santo Sepolcro vide innestarsi il coro della Crocifissione, che venne sostanzialmente a sostituire l’antica basilica costantiniana a cinque navate. La «rotonda» e la basilica, originariamente distinte e suddivise dal Triportico, furono cosí saldate a formare un complesso costituito da una struttura circolare e da un corpo rettangolare. L’aggiunta di un coro alle rotonde originarie, a Parigi come a Londra, consentiva cosí di allacciare maggiormente le Church si compone infatti di un corpo a pianta circolare, con un ambulacro interno che si sviluppa intorno a un vano centrale, e di un coro a tre navate che si innesta sulla costruzione piú antica (vedi box alle pp. 80-81). L’aggiunta fu inaugurata nel 1240 alla presenza del re Enrico III, lo stesso sovrano di cui il conte Guglielmo aveva assunto la reggenza. La costruzione originaria, invece, era stata solennemente consacrata l’11 febbraio 1185 (nello stesso anno in cui Guglielmo era in Terra Santa) alla presenza del patriarca di Gerusalemme, Eraclio. La forma della chiesa rimandava in modo lampante al Santo Sepolcro della Città Santa. L’AORDINI CAVALLERESCHI

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UNA VICENDA ARCHITETTONICA TRAVAGLIATA Il quartiere londinese dei Templari occupava un’ampia area sulla sponda settentrionale del Tamigi. La commenda vi si trasferí dopo essersi già insediata a Holborn, alla periferia della città, dove rimase fino al 1163. Il monastero originario era stato istituito grazie a Ugo di Payns (1128), lo stesso cavaliere della Champagne che

In alto una veduta della Temple Church, cosí come si presenta oggi. A destra, sulle due pagine sezione della chiesa londinese dei Templari pubblicata dal periodico The Building News nel 1879.

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pochi anni prima, nel 1120, aveva fondato l’Ordine del Tempio a Gerusalemme. E anche la piú antica fondazione londinese era dotata di una cappella a pianta circolare, edificata con la pietra calcarea proveniente dalla Normandia, da cave situate nel territorio di Caen. L’attuale Temple Church è il risultato, in primo luogo, di profonde ristrutturazioni compiute nell’Ottocento, quando si volle «recuperarne» l’aspetto originale anche ricorrendo a rifacimenti in stile neogotico del tutto arbitrari, secondo una pratica allora corrente. La cappella è stata poi largamente ripristinata a seguito dei bombardamenti subiti dalla capitale inglese nel corso del secondo conflitto mondiale. La sua popolarità è


stata di recente ravvivata dall’essere stata scelta come sfondo degli intrighi esoterici del Codice Da Vinci di Dan Brown, ma già William Shakespeare aveva voluto ambientare nell’ampio giardino del Tempio londinese una scena emblematica del suo Enrico VI (parte I, scena IV). Lasciata una riunione che si teneva nell’aula del complesso, i nobili di due opposti schieramenti si trovano a confronto. Ognuno di loro decide da che parte stare cogliendo una rosa dal pruneto: una rosa rossa per chi sta dalla parte dei Lancaster (la famiglia del re Enrico VI), una rosa bianca per chi invece si schiera con gli York (la famiglia del ribelle Riccardo). Il Bardo immaginò cosí le premesse della famosa Guerra delle Due Rose (1455-1485).

In alto La chiesa del Santo Sepolcro, Gerusalemme, incisione tratta dalle vedute della Palestina di Luigi Mayer. XIX sec. Parigi, Bibliothèque des Arts Décoratifs. L’assetto dell’edificio costituí il modello ispiratore di molti dei luoghi di culto sorti in Occidente per iniziativa dell’Ordine templare.

cappelle templari al modello della Terra Santa. Il ruolo dei Templari come difensori del Santo Sepolcro, cosí come orgogliosamente riaffermato nelle loro cappelle di Londra e di Parigi, farebbe immaginare che il loro quartier generale a Gerusalemme si trovasse nei pressi dell’illustre santuario cristiano. In realtà, il Santo Sepolcro, gestito da un’autonoma comunità di canonici dopo la presa della Città Santa, era semmai nelle vicinanze degli Ospitalieri, noti anche come Giovanniti o Cavalieri di San Giovanni (gli attuali Cavalieri di Malta): quei «concorrenti» dei Templari, che, nati come gestori di un ospizio per i pellegrini istituito nel 1070, dettero vita del 1113 a un Ordine religioso ben presto connotato in senso militare.

Luogo di venerazione e pellegrinaggio

I Templari si trovavano sul lato opposto della città, su una spianata priva di presenze cristiane prima delle crociate. Quando Gerusalemme fu conquistata dagli Arabi (638), quel luogo era pressoché deserto. Manteneva la memoria e i resti, cari all’ebraismo, del tempio che Erode (40-4 a.C.) aveva edificato in onore di Yahweh, raso al suolo da Tito (70 d.C.) e mai piú ricostruito. L’Islam trasformò la spianata del tempio distrutto in un fulcro di venerazione e di pellegrinaggio. E proprio la collocazione a est dell’impianto urbano, sul monte Moria, in un punto emergente contrapposto al Santo Sepolcro, suggeriva la creazione di un polo religioso ORDINI CAVALLERESCHI

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B A

e identitario («un nobile santuario»), tale da contrapporsi al celebre complesso edificato da Costantino Magno. Nacque cosí, intorno al 692, la Cupola della Roccia, la splendida costruzione a pianta centrale (una risposta dunque all’Anastasis del Santo Sepolcro) che custodisce al suo interno una propaggine di pietra viva legata all’ascensione in cielo del Profeta, cosí come la pietra viva del Calvario è custodita nell’edicola della sepoltura di Cristo.

La «moschea piú lontana»

A sud di questo santuario, che non è propriamente definibile come moschea, già nel 675 esisteva un primo luogo di culto islamico. Su questa semplice struttura venne poi realizzata la moschea al-Aqsa, che acquisí la sua forma sotto al-Walid I (705-715), e che ha fornito l’antica denominazione islamica della spianata: alMasjid al-Aqsa, «moschea piú lontana», in riferimento al viaggio compiuto dal Profeta dalla Mecca alla Città Santa. Qui si era insediato re Baldovino I dopo la prima crociata, e fu questo il luogo che il successore, suo cugino Baldovino II (1118-1131), concesse ai Templari per la costituzione del loro quartier generale. A seguito degli interventi di «ripristino» pro82

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In alto Gerusalemme. La Spianata delle Moschee (in arabo, al-Haram al-Sharif, «nobile recinto sacro»), con la moschea al-Aqsa (A) e le cosiddette «scuderie di Salomone» (B).

MOSCHEA AL-AQSA


LA CASA MADRE SULLA SPIANATA DEL TEMPIO La moschea al-Aqsa, separata in due settori da un diaframma, dette luogo a una chiesa sulla parte orientale. I monaci si insediarono poi in due complessi situati ai lati della moschea stessa, sulla propaggine sud della spianata. Come testimonia il pellegrino germanico Teodorico (1175 circa), il corpo est era il piú antico. Lí erano ubicate le «scuderie di Salomone», dove i Templari, a loro volta, ricavarono i ricoveri per i propri destrieri. Il corpo ovest era la curia, laddove si concentravano gli spazi di riunione e di rappresentanza. Si segnalava facilmente nel paesaggio urbano già soltanto con i suoi tetti a spioventi, insoliti per Gerusalemme. Spiccava in particolare l’ampio refettorio a tre navate edificato a ridosso del muro della spianata, con un apparato murario a bugnato. È in parte ancora oggi conservato. Le due navate superstiti, con volte a crociera su pilastri, di gusto prettamente occidentale, accolgono oggi l’Islamic Museum al-Haram al-Sharif. Completava il quadro la fortificazione allestita di fronte alla spianata, poi demolita.

SCUDERIE DI SALOMONE

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ORDINI CAVALLERESCHI mossi dal Saladino, sin dal 1187 la moschea ha perso ogni superfetazione cristiana. Rimane tuttavia un forte segno della presenza templare nell’assetto del portico d’ingresso, risalente all’epoca abbaside (inizi del IX secolo), e che mostra tuttora una conformazione «franca» (un misto di architettura occidentale e di esotismo orientale), grazie ai rimaneggiamenti promossi dai monaci guerrieri. E proprio la moschea «cristianizzata» aveva assunto il ruolo del Tempio di Salomone, da quando gli stessi monaci si definivano milites templi Salomonis. In sostanza, l’origine islamica del monumento veniva occultata. Esso diveniva il simbolo tangibile di quel favoloso santuario testimoniato dalle Scritture, gigantesco e rutilante di materie preziose, storicamente ricollegabile a un tempio ebraico di tutt’altro tenore, distrutto nel 587 a.C. dai Babilonesi. D’altro canto, la moschea era stata realizzata sui resti del portico reale (Stoà) del tempio di Erode, quel porticus Salomonis che gli esegeti cristiani identificavano con il luogo di riunione degli Apostoli. La sede dei Templari corrispondeva dunque al piú antico e autorevole monastero della cristianità.

Duplice allusione

Anche la Cupola della Roccia, di pari passo alla sua conversione al culto cristiano, assumeva un’immagine sospesa e impalpabile, come un tempio edificato in epoche remotissime, il Tempio del Signore (Templum Domini). La chiesa che vi era stata istituita era gestita dai Canonici di Sant’Agostino, ma i Templari considerarono comunque questo edificio come un corollario del «loro» tempio salomonico. D’altronde, la sua forma architettonica favoriva un gioco di rispondenze con il Santo Sepolcro, mentre la moschea al-Aqsa, di semplice forma rettangolare, non aveva un simile fascino iconografico. Tanto che alcuni sigilli dei Templari, che continuarono a raffigurare la sede di Gerusalemme anche dopo la caduta della Città Santa, ricorrono all’immagine araldica di un edificio a pianta centrale, che può alludere sia al sepolcro di Cristo, sia al «Tempio del Signore», soprattutto se la cupola si presenta con una forma a bulbo. Torniamo cosí al tema della pianta centrale come elemento significativo della simbologia architettonica templare, con una premessa importante. Non tutte le chiese dei Templari si conformano al modello del Santo Sepolcro, e molte copie dell’illustre santuario reperibili in Occidente non hanno alcun rapporto con quei 84

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Chiese templari


UN PATRIMONIO CONDIVISO L’Anastasis faceva parte del patrimonio iconologico dell’architettura europea già nell’Alto Medioevo. Un primo esempio di «copia» accertato dallo storico dell’arte Richard Krautheimer (1897-1994) è la chiesa di S. Michele a Fulda (820-822). Sempre in area germanica, d’altronde, è documentato che per edificare la chiesa del Santo Sepolcro di Paderborn, consacrata nel 1036, il vescovo Meinwerk inviò a Gerusalemme un suo

PADERBORN

GERUSALEMME

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Secolo IV Circa 1045 Secolo XII

SAN MAROTO

fiduciario, l’abate Wino di Helmarshausen, allo scopo di prendere le misure della «rotonda» e dell’edicola del Calvario, per imitarle con la dovuta fedeltà. La stessa avventura crociata, poi, con la presa di Gerusalemme (1099), aveva ispirato l’imitazione del Santo Sepolcro in vari edifici di tipo e di importanza assai diversificati, in qualsiasi contesto: dal Battistero di Pisa, avviato nel 1152, sino al caso sorprendente della «rotonda» di S. Giusto di San Maroto (Macerata), nell’alta Val di Chienti, forse chiesa-mausoleo dei feudatari locali. Se a Pisa il riferimento era piú che naturale, visto il ruolo di apripista della città marinara nella lotta contro gli «infedeli», il caso della chiesa marchigiana evidenzia come i simboli della Terra Santa costituissero un patrimonio condiviso a ogni livello e in ogni realtà, sebbene l’imitazione architettonica restava sempre appannaggio di una committenza di prestigio.

Qui accanto la «rotonda» di S. Giusto di San Maroto (Macerata). A sinistra Fulda (Germania). La chiesa di S. Michele.

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Chiese templari monaci. L’allusione all’Anastasis era anche prerogativa di diverse chiese monastiche di ordini legati anch’essi alla Città Santa, come gli Ospitalieri, i Teutonici o gli stessi Canonici del Santo Sepolcro. Nel caso problematico della Vera Cruz di Segovia, nella Spagna centrale, tradizionalmente ritenuta templare, c’è per esempio la possibilità che la chiesa fosse in realtà appartenuta proprio ai Canonici del Santo Sepolcro. La particolarità dell’edificio è che il vano centrale risulta chiuso da mura, anziché essere cinto da arcate, in modo da fortificare l’area sacra. In questo modo si allude anche all’edicola del Santo Sepolcro, che racchiude nella sua struttura la roccia del Calvario. Nella Francia del Nord si segnalano poi le cappelle di Laon (Piccardia) e di Metz (Lorena), sicuramente legate a insediamenti templari. Ma un caso assai rappresentativo è costituito dalla cappella portoghese di Tomar, lungo la strada

Sulle due pagine l’esterno, uno scorcio dell’interno e la planimetria della chiesa della Vera Cruz (Vera Croce) di Segovia, tradizionalmente attribuita ai Templari, ma piú probabilmente riferibile ai Canonici del Santo Sepolcro. XIII sec. Al di là della paternità effettiva, appare innegabile l’affinità con l’impianto del monumento gerosolimitano.

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che da Lisbona conduce a Braga, capoluogo della Galizia. Si trova dunque nel cuore dei territori che videro un forte apporto dei Templari nella lotta contro gli Arabi insediati nella Penisola iberica (Reconquista).

Come una fortezza

È situata al vertice occidentale della corte alta di una illustre residenza fortificata dei Templari, poi ampliata e trasformata dai Cavalieri di Cristo, che ne presero possesso nel 1319, dopo il traumatico scioglimento dell’Ordine (si chiama attualmente Convento de Cristo). Il coro rettilineo si deve ai nuovi custodi del monastero-fortezza, ma la «rotonda» originaria, databile agli anni 1160-1190, è stata disposta dal quarto maestro della provincia portoghese dei Templari, Gauldim Pais (1156/57-1195). Si compone di un prisma articolato su 16 lati intorno al nucleo centrale ottagonale. La poderosa struttura esterna, corredata da contrafforti sugli spigoli e dotata di terrazze che potevano fungere da spalti per esigenze di controllo e di difesa, fa corpo con la cinta fortificata del castello, e si qualifica cosí come un vero e proprio bastione. Ma come si presentavano le sedi dei Templari, al di là delle loro forme architettoniche? C’era spazio per l’ornamento e per l’immagine? Se prendiamo alla lettera il brano del De laude novae militiae (1128) in cui Bernardo di Chiara-

SEGOVIA, VERA CRUZ

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valle decanta le virtú dei monaci guerrieri, abbiamo la sensazione di ambienti spogli, perfettamente conformi all’estetica di quello stesso movimento cistercense che proprio san Bernardo aveva ispirato. Il Tempio di Gerusalemme nel quale i monaci risiedono (e che il santo di Clairvaux non vide mai con i propri occhi) è ben altra cosa rispetto all’antico e celeberrimo tempio di Salomone. Ma se l’illustre tempio ebraico rifulgeva grazie allo splendore dei materiali, il nuovo tempio è adorno di fede. La stessa rigorosa disciplina di chi lo abita ne è prezioso ornamento. Questo naturalmente non significa che il Tempio sia spoglio, tutt’altro. Anch’esso, in realtà, sfoggia una veste ben adorna, «ma di armi, non di gemme, e, in luogo delle antiche corone d’oro, la parete è carica di scudi che pendono tutt’intorno; al posto di candelabri, incensieri e vasi sacri, la casa è provvista di briglie, selle e lance». E san Bernardo prosegue evocando la cacciata dei mercanti dal tempio raccontata nelle Scritture: seguendo l’esempio di Cristo, i Templari hanno purificato il luogo sacro, eliminando ogni orpello che si frappone a un autentico contatto con Dio.

Come tante cittadelle

Effettivamente lo stile architettonico delle loro sedi era assai rigoroso, e le dimensioni delle cappelle piuttosto contenute. Anche adottando una semplicissima pianta rettangolare, infatti, esse tendevano a conformarsi al dettato assai scarno delle cappelle annesse alle fortificazioni (e ogni sede templare era simile a una cittadella, anche al di fuori degli scenari di guerra, a Londra come a Parigi). Tuttavia, e lo stesso discorso vale per gli Ospitalieri, nonché per i Cistercensi di san Bernardo, la decorazione non era affatto bandita, soprattutto nelle fasi storiche piú recenti. Un caso emblematico e tuttora ben leggibile si trova in Italia centrale: è la chiesa di S. Bevignate di Perugia. Apparteneva a un’importante precettoria templare, che ebbe modo di stabilire un forte legame con la realtà cittadina, in un momento segnato per giunta da una grande vitalità sia sul fronte politico che su quello religioso. Quando la chiesa dei Templari venne realizzata, tra il 1256 e il 1262, il libero Comune di Perugia, di solido impianto popolare e di chiaro orientamento filopapale, aveva raggiunto già la sua piena affermazione, e la città pullulava di chierici e di monaci delle piú diverse congregazioni. Non mancavano esperienze di religiosità alternativa, con eremiti di ambo i 88

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In alto Tomar (Galizia, Portogallo). Una veduta dell’interno della chiesa del complesso oggi noto come Convento de Cristo.

sessi che si insediavano anche in spazi non lontani dalla cinta urbica. Il sito stesso di S. Bevignate, nel sobborgo di Porta Sole, a est del centro storico, era noto come la Tebaide della città: rappresentava il corrispettivo del deserto dei monaci egiziani, con gli abitacoli dei religiosi sparsi qua e là, nell’area solcata da una delle «strade regali» che giungevano nel capoluogo umbro. Il dedicatario della chiesa, Bevignate, era appunto un eremita locale morto a Perugia in odore di santità, e subito eletto a patrono cittadino, ben prima che le autorità religiose potessero esprimersi al riguardo. Fra’ Bonvicino, l’autorevole leader dei Templari perugini, tra l’altro cubicularius (addetto alla camera da letto) e dunque uomo di stretta fiducia del pontefice, curò la fondazione della chiesa e si attivò personalmente perché fosse avviato il processo di canonizzazione di Bevignate. Il santo perugino non venne mai «regolarizzato» dalla curia romana, ma Bonvicino non esitò a dedicargli subito la chiesa, in modo da legarlo strettamente all’immagine stessa dei Templari. Due episodi della sua vita furono narrati ad


A destra S. Bevignate, Perugia. Affresco della parete centrale raffigurante Bevignate che riceve la benedizione del vescovo. In basso la facciata della chiesa di S. Bevignate.

affresco sulla parete di fondo dell’abside, di fianco alla Crocifissione. Nel riquadro meglio leggibile, a destra, Bevignate è in atteggiamento reverente al cospetto di un vescovo che molto probabilmente gli concede il luogo in cui edificare il suo eremo, e indossa un manto bianco che verosimilmente allude all’abito stesso dei Templari: come ha ipotizzato Chiara Frugoni, il dipinto implica una «cooptazione» dell’eremita nell’Ordine del Tempio.

La processione dei flagellanti

Un altro segno forte del legame stabilito con la realtà locale è dato poi dal Giudizio Universale dipinto sulla parete destra della medesima abside. In modo del tutto inconsueto, sotto alla raffigurazione del risveglio delle anime dei defunti si snoda una processione di flagellanti. È uno squarcio sulla vita religiosa nella Perugia del tempo, che si trova cosí trasposta in modo assai significativo nel quadro eloquente della fine dei tempi. Come ha suggerito lo storico dell’arte Pietro (segue a p. 92) ORDINI CAVALLERESCHI

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PERUGIA, S.BEVIGNATE

Sulle due pagine uno scorcio dell’interno e alcuni particolari degli affreschi del complesso monumentale di S. Bevignate, edificato tra il 1256 e il 1262. Le pitture della chiesa perugina sono di grande interesse, poichÊ costituiscono una documentazione ricca e dettagliata sulla storia dei Templari.

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Particolare del corteo dei flagellanti, il piú evidente dei quali si può forse identificare con Raniero Fasani, che nel 1260 introdusse a Perugia questo rito di espiazione.

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MONTSAUNÈS (FRANCIA) Particolare della volta della chiesa di Saint-Christophe-desTempliers a Montsaunès (Alta Garonna, Francia). In questo caso, come dimostra la foto, la decorazione pittorica è giocata su schemi eminentemente geometrici, spesso arricchiti da figure simboliche. Tra queste ultime, si nota la rosetta a sei punte iscritta in una circonferenza, verosimilmente identificabile con un’immagine del Sole, a sua volta associabile al Cristo.

nità e la sofferenza di Gesú. È evidente quindi come la processione sia un invito all’identificazione con il Signore, nella prospettiva di un riscatto e di una purificazione dei Perugini. Naturalmente, quanto piú forte fosse stata la presa sull’ambiente locale, tanto piú efficace sarebbe risultata l’azione dei Templari, e altre immagini eloquenti, sottolineando la particolarità della loro missione, ne mettono in luce l’asprezza delle scelte e l’esposizione ai pericoli, in chiara connessione alla Passione di Cristo. Lo scopo è di sensibilizzare i fedeli, affinché forniscano l’adeguato sostegno alle imprese militari che l’Ordine attua in Terra Santa. Ecco allora, in controfacciata, una sorta di memorandum sulla dura vita del Templare. I frammenti ancora leggibili offrono una nave in balia delle onde di un mare agitato, con gli abissi gremiti da pesci enormi; un gruppo di monaci alle prese con un leone gigantesco, che si è arrampicato su un palmizio; un lungo fregio con la scena di una battaglia ingaggiata contro gli «infedeli». Il tutto con uno stile corsivo, immediato, fluido, quasi «fumettistico», inconsueto in una chiesa, ma facilmente ricollegabile alle decorazioni profane dei palazzi civici e delle residenze nobiliari.

Come un fregio babilonese

Scarpellini (1927-2010), uno dei penitenti raffigurati, il capofila del gruppo, che spicca per giunta grazie al volto ben definito, potrebbe addirittura essere identificato con Raniero Fasani: colui che, nel 1260, coinvolse il Comune perugino e l’intera cittadinanza nella pratica delle processioni con la flagellazione delle carni, oltreché con l’intonazione di canti e con l’ostensione dei simboli della Passione di Cristo (una pratica che proprio da Perugia si diffuse poi nel resto d’Italia e oltralpe). Sulla stessa parete spicca il Cristo giudice che mostra le ferite del supplizio, secondo quella sensibilità nuova, già evidente nelle teofanie delle cattedrali gotiche, dove si esaltano l’uma92

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Alla fine del XII secolo, temi analoghi erano già stati scelti nella cappella templare di Cressac (Charente), nel Sud-Ovest della Francia, dove la battaglia contro gli «infedeli» è impaginata su due registri sovrapposti. In alto, su uno sfondo bianco uniforme punteggiato da gigli araldici, i Templari mettono in fuga i nemici, costringendoli a trincerarsi fra le mura di una città posta sotto il controllo musulmano; in basso si succedono singoli episodi con le figure che risaltano su uno sfondo scuro, e l’intero campo è quadrettato, a fingere un apparato murario a conci regolari. In questo modo, il dipinto sembra costituito da grandi tavole di mattoni smaltati, come un fregio babilonese. Inoltre, la bicromia bianco/nero allude ai colori del gonfalone templare. La scena della fuga del nemico allude probabilmente alla battaglia di La Boquée, combattuta nel 1163 in Siria, nei pressi del Crac-des-Chevaliers, quando la cavalleria templare mise a segno un attacco a sorpresa ai danni dell’accampamento dell’emiro Nur ed-Din. I prodi cristiani venivano dalle schiere della nobiltà dell’Aquitania, e ciò spiega la celebrazione dell’episodio in una cappella di quella regione storica. A Perugia, a Cressac e negli altri complessi pit-


CRESSAC (FRANCIA) L’esterno e un particolare delle pitture murali della cappella templare di Cressac (Charente, della Francia). Adibito dal 1923 al culto protestante, il piccolo edificio faceva parte, nel XII sec., di una commenda dei Templari. Presenta un’architettura sobria, con un impianto a navata unica. Gli affreschi che ne ornano le pareti (e ne fanno un monumento di straordinario valore artistico e documentario) sono in parte dedicati a episodi delle guerre combattute in Terra Santa tra le milizie cristiane e gli «infedeli» all’epoca delle crociate. È questo il soggetto, in particolare, del lato settentrionale della cappella. Qui, tra le altre, compare la scena di fuga (foto in alto) che viene tradizionalmente identificata con la battaglia di La Boquée, combattuta nel 1163 in Siria, nei pressi del Crac-des-Chevaliers.

torici superstiti (per esempio a Montsaunès, nell’area dei Pirenei), i cavalieri del Tempio lasciano poi ampio spazio alla decorazione aniconica, priva cioè di qualsiasi requisito figurativo. A completamento delle scene o in insiemi a sé stanti, talvolta apparentemente caotici, si moltiplicano forme di geometrica essenzialità. Abbiamo già incontrato il giglio, antico simbolo di purezza, assai noto in araldica perché assunto nello stemma di Firenze e nell’arme degli Angiò. Nel caso di Montsaunès, i gigli corredano un’essenziale evocazione della Gerusalemme celeste. Ricorre poi con frequenza la rosetta iscritta in una circonferenza, il piú delle volte a sei petali, facilmente eseguibile

con l’ausilio di un compasso. Si tratta di un simbolo plurimillenario, di carattere cosmologico. È un’immagine del Sole, associabile alla croce di Cristo (tante volte paragonato alla stella che dispensa la luce), oppure assumibile come un astro indeterminato in una rappresentazione del cielo. In ogni caso, sarebbe inutile tentare di leggere questi complessi decorativi come pagine da decrittare.

Alla ricerca dell’essenzialità

Gli stessi formulari e le stesse impaginazioni si impiegavano ovunque, per decorare muri, soffitti o pavimenti, senza ricorrere a progetti o tecniche particolarmente impegnativi. E gli arORDINI CAVALLERESCHI

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ORDINI CAVALLERESCHI In questa pagina il Trittico Marzolini, dalla chiesa di S. Bevignate. 1270-75. Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria.

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Chiese templari


La «sobrietà» delle chiese templari è presunta piú che reale, poiché è in parte causata dai ripetuti saccheggi

tefici di queste opere probabilmente sorriderebbero, se ci vedessero intenti a codificare i presunti «enigmi» dei loro motivi decorativi. E se la rosetta veniva utilizzata come elemento di spicco, per esempio nei capitelli interni di S. Jacopo del Tempio a San Gimignano, ciò non stava a indicare l’appartenenza del simbolo a un vocabolario di esclusiva pertinenza templare. Piuttosto, si ribadiva in quel modo come la ricerca dell’essenzialità, in perfetta aderenza con gli ideali dell’ordine, consentisse di attingere alla purezza dei contenuti della fede. Tuttavia, non si deve ridurre la realtà dei Templari a questo cliché, anche perché di essi rimangono tracce spesso frammentarie e discontinue. E l’impegno profuso nei loro programmi decorativi superstiti è di per sé eloquente. Anche se le chiese dell’Ordine non si conformano ai linguaggi aulici delle cattedrali e delle grandi realtà monastiche, sono comunque affidate ad artisti specializzati, e il loro attuale aspetto spoglio non rende conto di una presumibile dotazione di arredi e di tesori andati dispersi o perduti.

Modi bizantini

In alto Presentazione al Tempio, soggetto di una delle scene dello scomparto destro del Trittico Marzolini. 1270-1275. A destra reliquiario della Vera Croce. 1230 circa. Astorga, Tesoro della Cattedrale.

Quante reliquie della Vera Croce saranno state racchiuse in opere di oreficeria come la bellissima stauroteca (custodia della croce) di Astorga (Spagna nord-occidentale)? Quanti dipinti su tavola e quanti codici miniati erano custoditi nelle sedi dell’Ordine? Nel caso perugino di S. Bevignate, in una seconda campagna decorativa, intorno al 1280, la chiesa si arricchí di monumentali figure ad affresco di Apostoli che reggono croci di consacrazione, con uno stile «classico» perfettamente aderente ai modi bizantini piú avanzati, e l’altare era forse corredato dal pregevole Trittico Marzolini, oggi conservato nella Galleria Nazionale dell’Umbria, con una Madonna centrale che ricorda un’icona del Monte Sinai. Prestando fede al gran maestro Giacomo di Molay (1245 circa-1314), il cui rogo chiuse tragicamente la storia dell’Ordine, le cappelle dei Templari erano seconde solo alle cattedrali per quantità e pregio di reliquie, oggetti liturgici e ornamenti. L’immagine epica dei Templari di san Bernardo, allergici all’oro e all’argento, si era dissolta. O forse quei Templari, cosí scabri e irreprensibili, non erano mai esistiti. ORDINI CAVALLERESCHI

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Una penisola inquieta Al tempo della Reconquista, i cavalieri furono in prima linea negli scontri fra gli occupanti musulmani e le forze cristiane, spinti dall’eterno imperativo della lotta all’«infedele»

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A

bbiamo fin qui seguito le vicende di Ospitalieri e Templari sino ai primi del Trecento: allorché la caduta degli ultimi presidi militari degli Europei in Terra Santa e il Giubileo romano del 1300 – che estendeva ai pellegrini verso Roma l’indulgenza plenaria fin lí destinata a chi accettasse di collaborare con il viaggio armato alla riconquista di Gerusalemme – obbligarono la cristianità a riconsiderare e a ridefinire le prospettive tattico-strategiche nei confronti dell’Islam da una parte, ad abbandonare i progetti connessi con quel che noi moderni definiamo «crociata» dall’altra. Con tali premesse, ci si chiese se, in che misura e fino a che punto potessero essere ancora funzionali e al limite legittimi gli Ordini militari, se non là dove si trattava di contrastare sul serio il pericolo islamico o la presenza di «pagani». Le Militiae nascevano su un presupposto di difesa armata della cristianità contro gli infedeli: per loro natura potevano sostanzialmente evol-

versi accumulando ruoli differenti, ma non potevano formalmente e istituzionalmente allontanarsi da tale scopo. Per questo, l’Ordine di San Giovanni aveva potuto trovare un ruolo e una legittimità nuovi facendo centro in Rodi e riciclando le sue forze militari come forze navali, nella guerra mediterranea contro i pirati saraceni e le marinerie dei nuovi sultanati turchi che si stavano creando in Anatolia; mentre il Tempio non aveva saputo fare altrettanto ed era in un modo o nell’altro ambiguamente sopravvissuto solo nella Penisola Iberica, là dove c’erano ancora musulmani da combattere. Diverso, come vedremo, è il problema dell’Ordine teutonico, che si era fortemente insediato nell’area baltica d’Europa, guadagnandosi una legittimità – nonostante la «minaccia» pagana in quelle regioni fosse del tutto scomparsa almeno dalla metà del Duecento – che solo il suo indebolimento politico e militare avrebbe potuto compromettere nel giro di un paio di secoli. (segue a p. 100)

Il monastero di Uclés, presso Toledo. Il 23 ottobre 1086, questa cittadina della Nuova Castiglia fu teatro della vittoria conseguita dagli Almoravidi nel corso della travolgente avanzata contro i Castigliani, culminata nell’assedio di Barcellona nel 1114.

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Con i re cattolici A sinistra particolare di una miniatura raffigurante una battaglia fra Arabi e cristiani, da una delle Cantigas de Santa Maria composte dal re Alfonso X, detto il Saggio. XIII sec. El Escorial (Madrid), Biblioteca di S. Lorenzo. Sulle due pagine Monastir (Tunisia). Il ribat di Harthema, la cui costruzione venne avviata alla fine dell’VIII sec. Il termine ribat designa strutture fortificate volontariamente custodite da fedeli che si impegnavano a condividere la medesima esistenza secondo norme precise.

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UNA QUESTIONE (QUASI) SUPERATA Si è ormai esaurita – salvo sporadiche riprese – la polemica sui rapporti tra Ordini cavallereschi medievali e ribat musulmano. Gli studiosi occidentali hanno definito – forse con qualche leggerezza, e comunque riferendosi senza dubbio al modello delle istituzioni cavalleresche – il ribat come un «monastero fortezza»; cosí come, con altrettanta leggerezza, hanno definito «Ordini religiosi» i gruppi di Dervisci e le confraternite religiose musulmane. Questo comparativismo sbrigativo e un po’ grossolano ha confuso le acque e forse ostacolato un piú serio confronto. In effetti, il ribat è una struttura fortificata volontariamente custodita da fedeli che si impegnano a condividere la stessa esistenza secondo norme precise. Ciò non basta a qualificare il ribat come un monastero e le confraternite religiose musulmane come «Ordini», tuttavia, in passato ci si è chiesti– e si torna talvolta a farlo – se il loro modello non abbia determinato o influenzato la nascita degli Ordini militari. Erano al-murabitun, «gente del ribat», appunto, quelli che noi chiamiamo «Almohadi», e che invasero la Spagna nel 1086. Potevano averne conosciuto e osservato gli usi i cavalieri che circa trenta-quarant’anni dopo, in Terra Santa, dettero vita alle fraternitates poi divenute Militiae? La coincidenza cronologica e qualche somiglianza superficiale non autorizzano ad affermarlo: si tratta al massimo di indizi, non di prove. Una certa influenza, qualche motivo ispiratore musulmano accettato dai cristiani, non si possono escludere. Ma non si può dire di piú.

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ORDINI CAVALLERESCHI In basso tavola ottocentesca con cavalieri di vari Ordini: da sinistra, del Tempio, di Alcantara, di Santiago e di Calatrava.

Con i re cattolici

Fra il XIV e il XV secolo, prima che la conquista ottomana di gran parte dell’ex impero bizantino e il suo dilagare nella Penisola Balcanica mutassero di nuovo il quadro, due erano le aree critiche di confronto tra cristianità e Islam: il litorale mediterraneo e la Penisola Iberica. Solo lí poteva legittimarsi l’attività degli Ordini: la scelta dell’Ospedale riguardava il mare. Ma restava aperto il problema della Penisola Iberica. Occorre quindi fare qualche passo indietro, e tornare agli inizi della Reconquista, la controffen-

siva cristiana – avviata fino dal X secolo dal Regno asturiano nella Spagna settentrionale – all’islamizzazione (e, almeno sul piano culturale, all’arabo-berberizzazione) della Penisola Iberica prodottasi nella prima metà dell’VIII secolo.

Un’avanzata travolgente

Ma dopo la conquista di Toledo, nel 1085, da parte delle armate castigliane di Alfonso VI, la manifesta incapacità degli emirati ibero-musulmani nei quali la penisola si era divisa do-

LE DATE DA RICORDARE 711. Gli Arabi sconfiggono il Regno visigoto e occupano quasi l’intera Penisola Iberica. Molti cristiani trovano rifugio nelle regioni montuose del Nord.

929. Abd al-Rahman III (889-961) si rende indipendente da Baghdad e viene proclamato califfo di Cordova (929-961). Il suo regno segna l’apogeo della potenza musulmana in Spagna e il periodo di massimo splendore artistico-culturale.

756. Abd al-Rahman I (731-788) sfugge al massacro degli Omayyadi perpetrato dagli Abbasidi e conquista Cordova e Siviglia; si proclama emiro di al-Andalus.

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1035. Il califfato di Cordova si frantuma in una serie di piccoli Stati musulmani indipendenti (i taifas).

1037. Ferdinando I unisce i Regni di Léon e Castiglia.

1043-75. Al-Mamún governa la taifa di Toledo, centro di un’intensa attività letteraria e artistica.

1075. Alfonso VI conquista Toledo e il suo dominio si estende anche su Valencia, Murcia e le taifas meridionali.

1072. Alla morte di Ferdinando I, il figlio Sancho II, re di Castiglia, cerca di uccidere il fratello Alfonso VI, re di León, che trova rifugio presso il re arabo di Toledo. Al suo ritorno, Alfonso VI unifica di nuovo le corone di Castiglia e Léon.

1108. Il 30 luglio gli Almoravidi vincono le truppe cristiane a Uclés. Nella battaglia muore Sancho, figlio di Alfonso VI.

1086. Il 23 ottobre a Sagrajas (Zalaca) le truppe almoravidi di Yusuf Ibn Tashfin infliggono una clamorosa sconfitta ad Alfonso VI. I Castigliani sono costretti a ritirarsi da Valencia, riconquistata soltanto nel 1094 da Rodrigo Diaz de Vivar, il «Cid Campeador».


po la caduta del califfato di Cordova li obbligò a chiedere aiuto a una confraternita di rigoristi musulmani provenienti dalla Mauritania e dal Marocco meridionale, i cosiddetti «Almoravidi», che passarono lo Stretto di Gibilterra e sbarcarono ad Algésiras nel 1086, decisi a intraprendere un jihad, una santa impresa, nel nome e per volontà di Dio. Essi travolsero i Castigliani nella battaglia di Zallaca, il 23 ottobre di quell’anno, e da lí proseguirono la loro offensiva, che li condusse a una nuova

rale l’impegno guerriero in Terra Santa a quello nella Penisola Iberica.

Nasce il regno del Portogallo

La Reconquista riprese presto lena, anche grazie all’appoggio marinaro di Genovesi e Pisani che condusse, tra il 1113-1115 e il 1147, alla conquista delle Baleari, di porti musulmani importanti come Almeria e perfino di Lisbona. Quest’ultima città venne presa nel 1147 da Alfonso-Enrico conte del Portogallo, il quale, facendosi vassallo

1146. Gli Almohadi sconfiggono gli Almoravidi e occupano la parte sud della Penisola Iberica. 1158. Alla morte di Alfonso VII, dopo il breve regno di Sancho III, sale al trono castigliano Alfonso VIII. 1109. Muore Alfonso VI, Imperator Toletanus Magnificus Triumphator. Il regno rimane nelle mani della figlia Urraca.

1173. Nel Regno di Castiglia si conia la prima moneta d’oro, il maravedí, sul modello del dinar arabo.

In basso tavola ottocentesca raffigurante i resti del conventocastello di Calatrava La Nueva, costruito dall’Ordine omonimo all’indomani della battaglia di Las Navas de Tolosa (1212), presso Aldea del Rey (CastigliaLa Mancia, Spagna).

1212. Con la vittoria di Alfonso VIII nella battaglia di Las Navas de Tolosa (16 luglio) crolla il potere degli Almohadi e le città musulmane si arrendono una dopo l’altra: Cordova (1236), Valencia (1238), Murcia (1243), Jaén (1246) e Siviglia (1248). Fino al 1492 il Regno di Granada è l’unico a rimanere nelle mani dei musulmani. 1195. Alfonso VIII viene sconfitto dagli Almohadi nella battaglia di Alarcos. I cristiani riescono a mantenere il controllo dei centri urbani (Toledo, Madrid, Alcalá, Cuenca).

1172-82. Gli Almohadi conquistano Valencia.

vittoria, a Uclés, presso Toledo, nel 1108, e a conquistare Lisbona nel 1111. Finalmente, nel 1114, assediarono Barcellona. Non sfuggirà a questo punto il rapporto simmetrico tra i due fronti della contesa islamocristiana, l’Ovest iberico e l’Est siro-palestinese. Piú o meno negli stessi anni nei quali i crociati si impadronivano di Gerusalemme e vi fondavano il loro Regno, gli Almoravidi ricacciavano i cristiani a nord del Tago e passavano l’Ebro: la cristianità si sentiva accerchiata e infatti i cristiani iberici non parteciparono alle crociate dei secoli XI-XII in quanto avevano già a casa loro una crociata da combattere. I papi – che del resto avevano modellato la nascente normativa crociata, nelle loro bolle, su quella a suo tempo concessa da papa Alessandro II, nel 1064, per i combattenti contro i musulmani in Aragona – non ebbero in effetti difficoltà a equiparare sul piano giuridico e religioso-moORDINI CAVALLERESCHI

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INSURREZIONE A TEATRO Nel Quattrocento, mentre infuria la guerra fra i pretendenti al Regno di Castiglia, Fuenteovejuna è nelle mani di un rapace e prepotente «commendatore» di Calatrava, che pretende di esercitare anche un discutibile ius primae noctis. Fuenteovejuna insorge, il tirannello viene ucciso e dinanzi al Gran Maestro dell’Ordine, che, spalleggiato dalla corona, indaga sul delitto, gli abitanti della cittadina si addossano, compatti, la relativa responsabilità. Alla fine, si esprime l’augurio che sia il sovrano a reggere finalmente i possedimenti dell’Ordine, per sanare le ingiustizie. Questa, per sommi capi, è la trama della commedia drammatica in versi e in tre atti di Lope Felix de Vega Carpio (1552-1635), redatta nel 1618, quando lo Stato assoluto spagnolo, nella sua marcia verso il centralismo e il burocratismo moderni, aveva ormai già compiuto quasi del tutto il suo cammino di «cattura» di quel che restava degli Ordini. Ciò non toglie che l’Ordine di Calatrava sia ancora oggi circondato di molto rispetto, anche in ricordo delle pagine di sofferenza che esso ha scritto: come nel caso del suo vescovo-priore, don Narciso de Estenaga, barbaramente ucciso nel luglio del 1936 e il cui sacrificio continua a essere ricordato.

In alto monsignor Narciso de Estenaga y Echevarria (1882-1936), vescovo-priore dell’Ordine di Calatrava. A destra miniatura raffigurante Luis González de Guzmán, nobile castigliano che fu Maestro dell’Ordine di Calatrava tra il 1407 e il 1443, dalla Bibbia d’Alba, traduzione in spagnolo dell’originale ebraico commissionata dallo stesso Guzmán. XV sec. diretto della Santa Sede, poté con la legittimazione pontificia erigere in regno la sua contea e proclamarsene sovrano. Alcuni anni prima, nel 1135, Alfonso VII re di Castiglia era giunto a pretendere l’egemonia dell’intera Reconquista, la supremazia sugli altri monarchi e signori iberocristiani e addirittura il titolo imperiale. I musulmani cercarono di reagire con l’appoggio di una nuova setta politico-militare rigorista, quella degli Almohadi: ma ciò non impedí che la controffensiva cristiana proseguisse e che gli Aragonesi, nel 1171, conquistassero Teruel. L’avanzata cristiana verso il Sud si accompagnava con il restringersi delle aree messe a coltura nell’arido interno (i musulmani 102

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erano maestri nelle tecniche dell’irrigazione) e con i progressi della pastorizia, favorita dai cristiani perché piú semplice e foriera di guadagni immediati. Essa veniva garantita dall’incastellamento, cioè dal progressivo estendersi, dal Settentrione al Meridione, di una rete di fortezze a presidio delle conquiste fatte e per ostacolare nuove ondate islamiche provenienti dall’Africa come a due riprese ve n’erano state tra la fine dell’XI e la metà del XII secolo. La regione centrale del Paese, fra Duero – già confine dell’avanzata musulmana verso la metà del IX secolo – e Tago, assunse il suo nome, «Castiglia», proprio dalla frequenza dei castelli eretti a presidiare il territorio corrispondente, l’alta e arida Meseta. Le stesse questioni connesse con l’incastellamento richiamavano, ancora una volta, l’analogia con la Terra Santa (e, lo vedremo, con la Prussia-Livonia). Anche nella Penisola Iberica le forze dei cristiani locali, con l’occasionale appoggio di cavalieri volontari provenienti dalla Francia, non erano sufficienti a tutelare le conquiste fatte e a metterle al riparo dalle controffensive di quelli che, in Spagna, erano detti i moros. Sarebbero state opportune anche lí Militiae in grado di assicurare un servizio permanente di presidio di fortezze e di strade.

Dubbi e polemiche

Dagli anni Trenta del XII secolo, Templari e Ospitalieri si stabilirono pertanto in Aragona e in Catalogna e fecero anche qualche esperienza di radicamento in Portogallo. Nacquero però immediatamente dubbi e polemiche: un’estensione del loro impegno in terra iberica non avrebbe impedito – o quanto meno ostacolato e reso meno efficace – di esercitare quella tutela sulla Terra Santa, sui luoghi che avevano visto svolgersi la vita del Salvatore, fulcro dell’esperienza spirituale e religiosa di Templari e Ospitalieri? A differenza del loro collega aragonese, i re di Castiglia e di Navarra preferirono incoraggiare l’istituzione di Ordini militari locali: vennero cosí fondati quelli di Calatrava in Castiglia, di Santiago in León, di Alcantara e di Avis in Portogallo. Altri Ordini meno importanti, come quello di Montjoie, di San Giorgio d’Alfama e di Santa Maria, furono in seguito assorbiti da quelli piú grandi. Alcune importanti sedi monastiche europee parteciparono in qualche modo all’insediamento delle nuove Militiae iberiche: cosí, per esempio, l’abbazia cistercense di Morimond in Lorena, alla quale si affiliò l’Ordine di Calatrava. In genere – come già in Terra Santa – fu la congre-

gazione benedettina riformata dei Cistercensi la piú interessata a fornire appoggio e patronato agli Ordini spagnoli. Piú tardi, ai primi del Trecento, lo scioglimento del Tempio condusse nel Regno di Valencia – che faceva parte della Corona d’Aragona – alla fondazione d’un nuovo Ordine, quello di Montesa, che nacque nel 1317 e che, in realtà, era il risultato della fusione degli ex Templari e degli Ospitalieri ivi insediati. In Portogallo, il nuovo Ordine del Cristo perpetuava in realtà sotto altro nome e con insegna leggermente mutata l’Ordine del Tempio. Anche nella Penisola Iberica si ebbe il comune destino degli Ordini: la fine delle lotte contro gli infedeli ne esauriva la ragion d’essere ed essi passavano presto a venir considerati – con i ricchi possedimenti dei quali a vario titolo erano stati dotati, la pompa nella quale sovente vivevano, l’arroganza dei loro modi, la crescente fama di oziosità – inutili e parassitari, mentre i ceti subalterni ne detestavano l’opulenza e l’alterigia. Con il ridursi del ruolo militare degli Ordini, molti loro beni e insediamenti erano passati in «commenda», cioè il beneficio ecclesiastico che veniva considerato temporaneamente vacante e affidato in custodia o in temporanea amministrazione ad altro beneficiario che magari si trovava a risiedere vicino a esso. Le «commende» affidate agli Ordini divennero sempre piú frequenti nel corso del XV secolo, dando luogo ad abusi e a forme varie di contenzioso o di rivolta, una delle quali è narrata in una nota commedia di Lope de Vega, scritta nel 1618: Fuenteovejuna (vedi box a p. 102). Nel corso del Cinquecento, questi problemi determinarono l’incorporazione degli Ordini alla corona attraverso un procedimento abbastanza semplice: i «Re cattolici» prima, i sovrani di casa Asburgo poi, fecero in modo di farsi nominare «amministratori perpetui» degli Ordini. Comunque la vita e i problemi connessi con le «commende» continuarono, mentre si complicarono notevolmente, fino al Seicento inoltrato, le questioni legate alla gestione delle case degli Ordini che, dopo la scoperta e la conquista del Nuovo Mondo, erano state fondate anche oltreoceano. Ancora oggi, comunque, gli Ordini militari spagnoli sopravvivono, ridotti a poco sul piano religioso e piuttosto come distinzioni onorifiche gestite dalla corona: Gran Maestro di tutti gli Ordini è il re di Spagna. Tipiche della Spagna sono le istituzioni femminili degli Ordini, che tuttora possiedono pochi ma celebri e venerati conventi, come quello della «Calatravas» di Madrid. ORDINI CAVALLERESCHI

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Riproduzione dell’acquerello (oggi perduto) raffigurante la morte e il cavaliere teutonico. 1649. Berna, Bernisches Historisches Museum. L’opera originale apparteneva al ciclo di pitture sul tema della Danza Macabra realizzato, tra il 1516 e il 1520, da Albrecht Kauw nel cimitero del convento domenicano di Berna, distrutto nel 1660.

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Signori del Baltico

Riconoscibile dalla croce nera apposta sui candidi mantelli dei suoi membri, anche l’Ordine teutonico nacque in Terra Santa, ma visse il suo momento di gloria all’indomani del trasferimento nell’Europa del Nord

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ino ai giorni nostri l’esercito tedesco non ha mai rinunciato alla piú tradizionale delle sue insegne, la croce nera in campo d’argento che Federico il Grande assunse nel XVIII secolo a simbolo dell’Ordine militare della Eisernes Kreuz, la «Croce di Ferro», e che quindi – attraverso l’elevazione del re di Prussia a imperatore di Germania nel 1870 – divenne uno dei riconoscimenti onorifici di Stato dell’impero federale passando poi (attraverso una serie di modificazioni grafiche) alla Repubblica di Weimar, al Terzo Reich e, infine, alla Repubblica Federale. La damnatio memoriae che ha minacciato di travolgere quel simbolo – indebitamente associato al nazismo – non era altro che l’ultima tappa d’una «leggenda nera» dura a morire, avviata nella Francia della Terza Repubblica che non aveva mai perdonato alla Germania l’umiliazione di Sedan e rafforzata poi dal fatto che il mondo liberale aveva sostenuto i sentimenti della nazione polacca, che nell’Ordine teutonico vedeva l’espressione piú esplicita dell’imperialismo germanico, suo «secolare nemico».

Soccorso ai pellegrini e preghiera

Cerchiamo allora di riepilogare la vicenda: la croce nera patente (cioè allargata alle estremità dei bracci) in campo d’argento, poi divenuta parte dell’arme araldica della famiglia degli Hohenzollern, era in origine, piú semplicemente, l’insegna dei «Fratelli dell’Ospedale di Santa Maria dei Teutoni di Gerusalemme», un Ordine ospitaliero fondato in Terra Santa secondo alcuORDINI CAVALLERESCHI

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I cavalieri teutonici

ni nel 1189-1191, secondo altri nel 1198, ma che in effetti sembra essere stato piú antico, o derivare da una precedente fraternitas fondata nell’Europa settentrionale probabilmente attorno al 1130 e affiliata agli Ospitalieri di San Giovanni. Una fraternitas con compiti di soccorso ai pellegrini e di preghiera, dunque in origine disarmata: ma alla quale erano stati concessi possedimenti terrieri. Affiliati alla fraternitas dovettero comunque partecipare alle prime imprese contro i pagani del Nord-Est europeo, equiparate agli itinera armati a Gerusalemme (da noi detti «crociate»), e quindi prendere parte alle varie spedizioni di pellegrinaggio armato che, nella seconda metà del XII secolo, videro affluire genti tedesche in Siria.

Un nuovo sodalizio ad hoc

I Giovanniti erano perlopiú francesi e italiani; i Templari quasi tutti francesi; si pensò di avviare qualcosa di speciale per i «Teutonici», il cui Ordine fu approvato dal papa con una bolla del 1198. Pur collegato ai Giovanniti, il nuovo sodalizio assunse dai Templari il mantello bianco, mentre scelse una semplice croce nera, poiché quella degli altri due colori fondamentali dell’araldica del tempo, il rosso e il bianco, era già inalberata dagli altri due Ordini. È probabile che il diverso colore delle croci si collegasse proprio alla differenza tra nazioni, come ci avverte un cronista della terza crociata. L’esperienza degli Ordini militari «nazionali», che avrebbe potuto rimanere soltanto iberica, si

Regno di Svezia

In alto la porta della Città Vecchia di Tallinn, uno dei centri piú importanti dell’Ordenstaat teutonico. In basso i territori dominati dall’Ordine teutonico, dal granducato di Lituania e dal regno di Polonia, protagonisti della battaglia di Tannenberg.

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Confine dei territori occupati dal granducato di Lituania, dal regno di Polonia e dagli Stati vassalli Città principali Livonia Territorio o regione Feudi della corona polacca Terre dei cavalieri dell'Ordine Teutonico Prussia reale, incorporata nella Polonia nel 1466 Feudo della corona polacca dopo il 1466


radicò dunque anche nella stessa Terra Santa: i cavalieri e pellegrini tedeschi individuarono la loro nuova residenza in una chiesa situata nel settore di sud-est della Città Santa e della quale sono affiorati e sono stati restaurati i resti archeologici. È la chiesa di S. Maria, che diede nome all’Ordine. Riservato ai membri della Nazione tedesca, esso fu molto favorito da Federico II e fondò anche varie fortezze lungo la dorsale libanese-giordana a difesa del litorale siro-palestinese. Importante, per la vita e lo sviluppo dell’Ordine, fu l’attività del maestro Hermann von Salza, vissuto al tempo dell’imperatore Federico II e suo grande, fedele amico. Egli ottenne dal sovrano nel 1226 un grande privilegio che accordava all’Ordine teutonico la sovranità di tutte «le terre senza signore» del Nord-Est europeo insediate da tribú pagane. Fino dal XII secolo, infatti, nel Nord–Est europeo si era avviato – proseguendo il Drang nach Tavola ottocentesca raffigurante un imperatore che concede privilegi ai cavalieri dell’Ordine teutonico. Stoccarda, Landesmuseum Württemberg.

Osten, la «spinta a oriente», del X-Xl secolo – il movimento di colonizzazione e di conquista da parte di genti tedesche nei confronti delle terre al di là dell’Elba e quindi dell’Oder e dei loro originari abitanti slavi e balti. Abbiamo già ricordato come volontari cavalieri tedeschi avessero collaborato a questo sforzo missionariocoloniale, forse in qualche modo inquadrati nell’Ordine degli Ospitalieri di San Giovanni. L’Ordine teutonico e un suo emulo sorto per iniziativa dei monaci cistercensi e di Alberto vescovo di Livonia nel 1202 – la Militia Christi, che dalla sua insegna (due spade vermiglie incrociate in campo rosso) divenne noto come «Ordine dei Portaspada» – s’incaricarono di appoggiare il movimento di colonizzazione contadino, monastico e anche borghese; dal XIII secolo in poi gli Ordini furono affiancati dai marinai e dai mercanti delle città tedesche della Lega anseatica, interessati a rafforzare i loro traffici sulle coste baltiche.

Un processo inevitabile

La Livonia era un’area importante, in quanto controllava il tracciato della via commerciale da Lubecca a Novgorod, una città, quest’ultima, i cui abitanti erano peraltro ortodossi e legati a Bisanzio. Nel 1201, per controllare il commercio verso i centri russi del Volga, Alberto aveva fondato Riga. La Livonia venne assoggettata nel 1207 al regno di Germania. Nel 1228, Corrado di Masovia, signore dei territori posti nel bacino della Vistola, consentí ai Teutonici di insediarsi in una regione allora abitata dai Prussiani slavi, e che fu progressivamente germanizzata. Essa restò comunque un territorio di frontiera, come tutta la regione costiera del Baltico sud-orientale, esposta alle incursioni dei Prussiani slavi e dei Baltici, entrambi pagani. In queste condizioni, colonizzazione, insediamento commerciale dei borghesi tedeschi della Lega anseatica, cristianizzazione e guerra missionaria – un altro volto della crociata – erano inevitabili. Nel 1237 i Portaspada vennero inglobati nell’Ordine teutonico. Un calcolo abbastanza preciso ha indotto gli studiosi a concludere che nel XIII secolo i quattro quinti dei membri dell’Ordine provenivano dalla classe dei ministeriales, un ceto di uomini originariamente non-liberi che, tuttavia, attraverso il servizio pubblico e l’esercizio delle armi, avevano assunto posizioni di potere e facevano vita cavalleresca. Dal punto di vista delle origini regionali, la maggior parte dei Teutonici proveniva dalla Turingia; ma molti anche dalla Franconia, dalla Renania, dalla Svevia. ORDINI CAVALLERESCHI

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I cavalieri teutonici

LA DISFATTA DI TANNENBERG Jan Dlugosz, il maggiore cronista del Medioevo polacco, narra cosí la vittoria degli eserciti polacco-lituani, anch’essi cristiani, sui crociati a Grunwald (nome polacco di Tannenberg), nel 1410: «Da quando la battaglia era iniziata, i due eserciti combattevano da piú di un’ora senza un risultato. (...) [I crociati] rivolsero (...) tutte le loro forze verso l’ala destra, costituita dall’esercito lituano (...) che aveva cavalli e armamenti piú deboli, e sembrava un avversario piú facile da sgominare. (...) I reparti lituani (...) cominciarono a vacillare e a ritirarsi. (...) I disertori erano in preda a un tale terrore che alcuni di loro si fermarono soltanto in Lituania dove diffusero la notizia che re Ladislao e il granduca Alessandro erano periti e che i loro eserciti erano stati completamente annientati. (...) Dopo la fuga dei Lituani (...) i crociati incalzavano, cercavano di trascinare la vittoria dalla loro parte e nel furore della mischia finí a terra persino il grande stendardo del re di Polonia Ladislao con l’insegna dell’aquila bianca, portato da Martin di Wrocimovic, portabandiera di Cracovia, nobile che aveva nello stemma mezza capra. Quando però gli altri cavalieri che combattevano sotto la stessa insegna videro ciò, immediatamente lo presero, lo rialzarono e lo portarono via. (...) Volendo lavare questa vergogna, la cavalleria polacca attaccò quindi con grande slancio il nemico, sbaragliandolo, e disperse e annientò tutti i nemici che avevano iniziato la battaglia contro di loro».

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Sotto il profilo strettamente religioso, l’Ordine teutonico strinse presto rapporti privilegiati con l’Ordine domenicano; grazie soprattutto al favore di alcune nobili europee animate dall’ interesse per la mistica – sant’Elisabetta di Turingia, sant’Edvige di Slesia, santa Cunegonda di Polonia –, esso poté radicarsi in tutto l’Est europeo, dalla Polonia alla Transilvania. Ciò, d’altronde, fece dei due Ordini altrettanti avamposti della cristianità nei confronti delle genti uralo-altaiche delle steppe eurasiatiche: prima i Cumani o Polovzi, quindi, verso il 1240, i Mongoli al comando di alcuni familiari di Gengis Khan che parvero travolgere l’Europa orientale, al punto che si temette di vederli arrivare fino alla pianura del Reno. Fra il 1230 e il 1260 circa, avvenne l’incastellamento da parte dei Teutonici di tutta l’area posta sotto il loro dominio.

Baluardo germanico e cristiano

Fra il XIII e il XV secolo l’Ordine, baluardo dell’identità germanica e della civiltà cristiana ma anche duro garante dell’una e dell’altra, si scontrò non solo con i pagani Balti e Slavi, ma anche con i Mongoli che nel Duecento avevano invaso le pianure sarmato-polacche e quindi con i principati russi e il regno polacco. Nel 1242 i Russi del principato di Novgorod, guida-


ti da sant’Aleksandr Nevskij, batterono i Teutonici nella battaglia del lago Peipus (o dei Ciudi, oggi al confine fra l’Estonia e la Russia, n.d.r.). Tuttavia, il potere dell’Ordine si affermò in un’ampia area tra Tallinn (Revel) e Danzica. Si creò cosí un vero e proprio «Stato dell’Ordine» (Ordensstaat; vedi box a p. 110). L’Ordine trovò sempre piú il suo centro nella regione prussiana che, col tempo, acquistò anche una sua specificità amministrativa all’interno della compagine teutonica. Distinta in province e distretti, l’amministrazione dell’Ordíne – centralizzata e ben organizzata – poté sviluppare una complessa attività economica, finanziaria, commerciale, agricola e militare che si giovò molto anche di forze e di risorse esterne: dai coloni tedesco-occidentali agli specialisti olandesi per la coltivazione delle aree paludose e la costruzione di dighe, fino ai mercanti nelle città (Danzica, Thorn, Riga, Ravel) in contatto con i porti anseatici di Brema e di Lubecca e a molti cavalieri laici che accettavano di far parte come mercenari delle periodiche incursioni in territorio pagano e che talvolta si radicavano in quella specie di Far West baltico che era il territorio controllato dall’Ordine.

Una situazione anomala In alto La battaglia di Grunwald, olio su tela di Jan Matejko. 1878. Varsavia, Muzeum Narodowe. Lo scontro (detto «di Tannenberg» dai Tedeschi e «di Zalgiris» dai Lituani) si combatté, il 15 luglio del 1410, tra le forze alleate polacco-lituane, guidate da Ladislao II di Polonia, raffigurato al centro vestito di rosso, e i cavalieri dell’Ordine teutonico, comandati dal gran maestro Ulrich von Jungingen, dipinto a sinistra, vestito di bianco con la croce nera.

Venne cosí a crearsi una situazione anomala: l’Ordine dominava città, campagne e paludi messe a coltura, castelli-fortezze; aveva un’organizzazione religiosa, militare e amministrativa rigorosa e centralizzata; riceveva grandi ricchezze dai proventi dei diritti a vario titolo versatigli dai mercanti nelle città (alla metà del Quattrocento il 20% dei circa 400 000 abitanti dell’area risiedeva in città: era la massima concentrazione urbana dell’Europa orientale del tempo, salvo quella registrabile in Boemia) e dai coloni nelle aree rurali. Ciononostante, stavano maturando le condizioni che, di lí ad alcuni decenni, fecero nascere e crescere, in seno all’Ordensstaat, movimenti tesi alla conquista dell’autonomia gestionale se non addirittura politica. L’economia dell’Ordine era florida. Le sue grandi proprietà terriere, organizzate in belle fattorie (circa 1500 nel periodo di massima espansione), assicuravano forniture di cereali a cui si aggiungevano l’allevamento di animali da battaglia, da lavoro e da carne (soprattutto cavalli e bovini) e la pesca; il commercio delle eccedenze (cereali, carni e pesci conservati sotto sale o affumicati) garantiva buoni proventi. Nelle città si concentravano i prodotti esportati dal Nord-Est europeo, che venivano smistati verso l’Occidente: legname, pellicce, miele, ce-

ra, ceneri, catrame, che costituivano alcune fra le materie prime di fondamentale importanza nella manifattura bassomedievale. Si estraeva anche l’ambra, che era monopolio statale. Famose erano anche le manifatture gestite o controllate dall’Ordine: vetrerie, mulini, fucine, fabbriche di malto, forni per laterizi. Accanto ai religiosi e ai loro funzionari si sviluppò cosí, per assicurare adeguati livelli di gestione e di produzione di tutte queste attività, una «borghesia» di mediatori, di sensali, di imprenditori privati, disposti a forme differenti di cogestione. Le basi storiche per il futuro grande sviluppo sia industriale, sia rurale della Prussia stanno proprio nelle istituzioni messe a punto e nelle tradizioni di rigore e di correttezza imposte dall’Ordine. I Teutonici hanno gettato anche le basi del futuro «militarismo prussiano», nel bene e nel male: l’ordine, la gerarchia, la disciplina, il senso dell’onore fondato sulla fedeltà, ma anche il culto della forza e la fredda spietatezza. Si mise a punto un’organizzazione ammirabile, che dal 1362 cominciò a dotarsi di artiglieria e che disponeva anche di una flotta. La Regola prescriveva rigorose norme di comportamento militare, anche sull’ordine di marcia e di combattimento. Alle periodiche spedizioni-razzie in territorio lituano pagano prendevano parte anche cavalieri – spesso d’alto rango, piú sovente poveri avventurieri – provenienti un po’ da tutta Europa (soprattutto da Germania, Inghilterra, Francia, Boemia, Ungheria; piú raramente anche da Spagna e Italia) che tecnicamente erano, per il periodo corrispondente alla durata delle campagne militari a cui partecipavano, «crociati» provvisti del voto corrispondente solennemente formulato e delle prerogative spirituali e temporali ch’esso comportava. Alla lunga, comunque, il disordine politico dell’impero germanico – garante feudale dei diritti dei Teutonici –, la pressione della nuova e potente compagine regia di Polonia – a cui si aggiungevano le problematiche relative allo sviluppo, a Est, dei principati russi e, a Sud, del khanato tartaro «dell’Orda d’Oro» in Crimea – e le spinte autonomistiche dei mercanti cittadini e delle aristocrazie cavalleresche laiche dell’Ordensstaat misero in crisi una compagine organizzativa di ammirevole funzionalità, nella quale si era tuttavia sviluppata la contraddizione fra un centralismo fin troppo moderno, dettato dalla disciplina religioso-militare, e una selva di casi e situazioni gestiti e regolati secondo accordi temporanei e soggetti a forte dinamica. Nacquero organizzazioni indipendentiORDINI CAVALLERESCHI

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I cavalieri teutonici

Lo Stato della croce nera

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ra il XIII e il XVI secolo, sul litorale del Baltico, in territori oggi compresi – nella loro massima espansione – fra Germania, Polonia, Lituania, Estonia, Lettonia e Russia, i cavalieri teutonici crearono un loro Ordensstaat («Stato dell’Ordine»). Esso era costituito da un insieme di terre, governate e amministrate dai Teutonici in quanto istituzione ecclesiastica direttamente dipendente dal papa, titolare di concessioni feudali che provenivano loro dall’imperatore e diretto proprietario di possessi fondiari. L’Ordine era diviso in sei province (nel XIII secolo erano Prussia, Livonia, Germania, Apulia, Acaia, Armenia; le ultime tre si atrofizzarono col tempo, anche per la perdita di poteri reali dei cavalieri su di esse). In ogni provincia esisteva un numero variabile di castelli-conventi, residenze dei Teutonici che vivevano secondo la Regola e gli Statuti, distinti – come gli altri Ordini militari – in cavalieri, sergenti e sacerdoti. Ogni castello-convento era centro di un’unità amministrativa gestita con puntualità professionale e

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rigorosamente accentrata. A capo dell’Ordine e dello «Stato» era il Magister generalis, eletto a vita dal Capitolo generale dell’Ordine che raggruppava i Magistri provinciales e tutto l’Ordine rappresentato attraverso un sistema di cooptazione. Il Magister generalis poteva di fatto essere dispensato dal potere o dimettersi e nei periodi di vacanza magistrale se ne eleggeva un supplente; il Capitolo generale si riuniva una volta all’anno. Col tempo si svilupparono anche i Capitoli provinciali e, fra tutti, assunse l’egemonia quello prussiano, che pian piano divenne una sorta di governo effettivo dell’Ordine, con l’apparizione di un organo non previsto dagli Statuti, un consiglio speciale, di cui facevano parte il Maestro generale, il Komtur (l’Economo generale), il Maresciallo generale capo dell’armata, l’Ospedaliere generale capo degli ospedali gestiti dall’Ordine, il Drappiere generale che presiedeva alla logistica; successivamente s’insediarono anche un Dispensiere preposto alle necessità della vita materiale dei Cavalieri, nonché alle funzioni commerciali, e un Tesoriere,

con incarichi primariamente finanziari. La Prussia, cuore dell’0rdensstaat, andò costituendo progressivamente alcuni distretti (Komturei, al plurale Komtureien), ciascuno dei quali aveva indipendenza e autosufficienza amministrativa e svolgeva una complessa attività economica e finanziaria: nei villaggi agricoli l’Ordine insediava coloni provenienti in genere dalla Germania dell’Ovest ma, nelle zone paludose, anche dall’Olanda. Non tutto, nell’Ordensstaat, era rigorosamente subordinato ai Teutonici; l’amministrazione ecclesiastica era organizzata in diocesi con a capo vescovi legati all’Ordine, ma non affiliati; e nelle città soggette all’Ordine si erano insediate anche altre istituzioni ecclesiastiche, come i conventi francescani e domenicani. Questo ben strutturato organismo entrò in crisi dopo la guerra fra Teutonici e Regno di Polonia del 14091410. Nel 1440 le città di Thorn e Kulm si costituirono in «Unione prussiana» e, pur dichiarando leale fedeltà al Maestro generale e all’Ordine, cominciarono a darsi


stiche piú o meno represse e non si poté evitare la crescente invadenza del re di Polonia, ora mediatore fra opposti interessi, ora sostenitore esterno di forze centrifughe interne. Il 15 luglio del 1410 l’esercito polacco di re Ladislao V batté le milizie dell’Ordine a Tannenberg (che i Polacchi chiamano Grunwald). Tre anni dopo, con la dieta di Vilna del 1413, il re di Polonia – che già era anche granduca di Lituania, Paese che del resto era formalmente cristiano almeno dalla metà del XIII secolo – associava definitivamente il granducato alla corona regia. Nasceva la grande potenza polacco-lituana, una delle protagoniste del Rinascimento europeo.

Risucchiati nell’orbita polacca

organismi e a svolgere funzioni sul modello della Lega anseatica delle città marinare e mercantili baltiche, estromettendo progressivamente i membri dell’Ordine dai ruoli di governo. All’Unione prussiana aderirono anche Danzica e vari gruppi di cavalieri laici. L’Ordine cercò di ottenere dall’imperatore lo scioglimento dell’Unione, ma la crisi sfociò in una guerra, combattuta tra il 1454 e il 1466, in cui entrò anche la Polonia, naturalmente a fianco dei Prussiani. La guerra si trascinò fino a un trattato di pace sulla base del quale i Teutonici perdevano la Pomerania e altre terre, compresi i polders (aree agricole protette dal mare mediante dighe) della Vistola, ed erano costretti a trasferire la loro cittàfortezza capitale da Marienburg a Konigsberg, nonché a rendere omaggio feudale al re di Polonia. Dopo un ulteriore conflitto teutonicopolacco, fra il 1519 e il 1521, l’ultimo Maestro Generale, Alberto del Brandeburgo, aderí alla Riforma luterana, sciolse l’Ordine in Prussia e si proclamò duca di quella regione: come tale, nel 1525 accettò la sovranità di Sigismondo I re di Polonia.

In alto statue in bronzo di Grandi Maestri dell’Ordine teutonico collocate nei giardini del castello di Marienburg (Malbork): da sinistra, Hermann von Salza (1209-1239), Siegfried von Feuchtwangen (1303-1311), Winrich von Kniprode (1352-1382) e Alberto del Brandeburgo-Ansbach (1510-1525). Le sculture appartenevano in origine a un monumento in onore di Federico il Grande, poi smembrato. Nella pagina accanto il castello dell’Ordine teutonico di Marienburg (l’odierna Malbork), sul fiume Nogat, in Polonia.

La fine del paganesimo nel Nord-Est dell’Europa aveva nel frattempo determinato la cacciata degli ultimi presidi crociati dalla Terra Santa: veniva a cadere la necessità funzionale di mantenere in piedi l’organizzazione degli Ordini militari. Da allora, nonostante la sua residua potenza, l’Ordine cominciò ad avvertire come delegittimato il suo ruolo. I Teutonici entrarono progressivamente nell’area d’influenza del nuovo Regno di Polonia – che alternava nei loro confronti la guerra con la pressione politicodiplomatica – finché l’ultimo Gran Maestro, Alberto di Brandeburgo, s’ infeudò al re polacco per passare poi nel 1525 alla Riforma luterana laicizzando l’Ordine e impossessandosi come duca dell’intera Prussia. Piú tardi, nel 1701, il suo discendente Federico III, margravio di Brandeburgo e Principe Elettore dell’impero, venne incoronato primo re di Prussia. Intanto, quanto restava dell’Ordine teutonico rimasto fedele alla Chiesa cattolica seguí a sua volta un articolato processo di trasformazione. Dopo la riforma-scissione di Alberto di Brandeburgo in Prussia, il ramo dei Teutonici di Livonia continuò a vivere in modo molto stentato finché – minacciato dalla Moscovia, dalla Svezia, dalla Danimarca e dalla Polonia, a cui si era intanto unita la Lituania – seguí l’esempio del ramo di Prussia. I pochi cavalieri superstiti, e rimasti cattolici, si ridefinirono come semplice Ordine religioso e spostarono il loro centro a Vienna, sotto la protezione asburgica. Soppresso nel 1809 da Napoleone, l’Ordine venne rifondato nel 1834. A Vienna ancor oggi rimane la sua bella chiesa, non lontano dalla cattedrale di S. Stefano. Lí risiede il Gran Maestro di un’ormai piccola compagine, che esplica un’attività di devozione e di ricerca storica legata al suo passato. ORDINI CAVALLERESCHI

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L’isola degli eroi

Agli inizi del XIV secolo, gli Ospitalieri di San Giovanni si fecero protagonisti di una brillante «riconversione»: trasferendo il loro impegno assistenziale e militare dalla Terra Santa a Rodi, in breve tempo si affermarono come una delle maggiori potenze marinare del Mediterraneo Rodi. Il palazzo del Gran Maestro dell’Ordine dei Cavalieri di Rodi, già Ospitalieri di San Giovanni, che acquisirono il controllo dell’isola nel 1307 e lo mantennero per circa due secoli.

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o scioglimento del Tempio aveva comportato anche la ridefinizione dell’Ospedale, a cui papa Clemente V aveva assegnato tutti i beni del sodalizio disciolto, con esclusione di quelli nella Penisola Iberica, anche, se in realtà, gli Ospitalieri non poterono mai entrare in possesso in modo totale dell’eredità, che era molto contesa. Definitivamente installatisi nell’isola di Rodi, essi poterono trasformare la loro organizzazione militare in marittima. L’Ordine ebbe anche modo di definire meglio il suo assetto interno. Assistito dal «convento» dei grandi funzionari, il Maestro governava l’Ordine. Al «convento» si aggiungevano occasionalmente i Priori, riuniti nelle sette grandi circoscrizioni («Lingue») nelle quali la compagine ospitaliera si ripartiva: in tal modo si riuniva il «Capitolo». Le «Lingue» corrispondevano

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I cavalieri di Rodi

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Nella pagina accanto Rodi in una litografia tratta da una miniatura del XV sec. 1. Torre dei Mulini Detta anche «di Francia» o «di S. Angelo», prende nome dai mulini un tempo presenti sul molo naturale. 2. Torre di Naillac Oggi scomparsa a causa di un terremoto, sorse al tempo di Philibert de Naillac, Gran Maestro dal 1396 al 1421. 3. Torre e forte di S. Nicola La torre fu costruita, tra il 1464 e il 1467, dal Gran Maestro Piero Raimondo Zacosta, e integrata da una fortezza dal Gran Maestro d’Aubusson. 4. Collachium Situato su una collina che scendeva al mare, il Collachium coincideva con la cittadella bizantina dell’isola e vi erano riuniti il palazzo del Gran Maestro, la cattedrale conventuale di S. Giovanni, il cui campanile serviva anche come punto di avvistamento, la loggia di S. Giovanni, l’Ospedale, gli Alberghi delle Lingue e le abitazioni dei cavalieri. In alto, a destra Pisa. La facciata della chiesa di S. Stefano. Qui accanto particolare di una miniatura raffigurante il Gran Maestro dei Cavalieri di Rodi, Pierre d’Aubusson, che impartisce istruzioni per la difesa dell’isola dall’attacco degli Ottomani di Maometto II, dal Gestorum Rhodie obsidionis commentarii... 1482-83. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

in senso ampio ad aree geografiche in cui si usava lo stesso idioma: Provenza, Francia, Alvernia, Inghilterra, Italia, Spagna, Germania. Le Lingue erano ripartite, appunto, in Priorati, e ogni Priorato in Preceptoriae (o «commende»), la vera unità di base che comprendeva un’abitazione per i fratres (cavalieri, sergenti e preti), una cappella, un cimitero e sovente anche un ospizio per pellegrini e ammalati.

Accordi diplomatici

L’attività militare dei Cavalieri era accompagnata anche da una serie di altre forme di presenza nella società mediterranea del tempo. Lo si vide bene allorché, nel luglio del 1482, il principe ottomano Gem, figlio del sultano da poco defunto Maometto II, fuggí presso di loro per evitare di essere fatto uccidere dal fratello Bayazet, preoccupato di assicurarsi l’eredità paterna. I Cavalieri assicurarono la loro protezione al principe, ma, al tempo stesso, s’impegnarono con il nuovo sultano a custodirlo in modo da impedirgli d’insidiarne la posizione; in cambio, Bayazet non esitò a versare all’Ordine una lauta pensione. La diplomazia dei Cavalieri e quella ottomana si trovarono del tutto d’accordo per mantenere questo stato di cose, conveniente a entrambi, e il sultano non esitò ad assicurare che non avrebbe attaccato Rodi. Le galee dell’Ordine di Rodi contrastarono comunque valorosamente i Turchi e i loro sudditialleati, i corsari barbareschi, finché Solimano il Magnifico ritenne fosse giunto il momento di disfarsi di quella spina nel fianco che era per lui

L’ORDINE DI SANTO STEFANO Nel Duomo di Pisa, il 15 marzo del 1562, si era solennemente fondato il Sacro Militare Ordine Marittimo dei Cavalieri di Santo Stefano. La sua arme, la croce patente vermiglia in campo d’argento, richiamava quella dei Cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme (poi di Rodi e infine di Malta), ma i colori erano invertiti e in araldica l’inversione cromatica è un messaggio ambiguo: può indicare fratellanza e complementarità, ma anche rivalità e opposizione. D’altro canto, i colori di Santo Stefano erano i medesimi di Firenze. L’Ordine fece le sue brave prove sul mare, nella guerra di corsa, magari disturbando le potenze cristiane nei periodi di tregua. Filippo II di Spagna, che tra l’altro non perdonava al duca Cosimo di aver accettato il titolo granducale di Toscana dalle mani del pontefice, non amava Santo Stefano e gli aveva impedito di combattere a Lepanto sotto le proprie insegne: i cavalieri toscani si erano dovuti adattare a unirsi alla flotta pontificia. Piú tardi, il duca Francesco I aveva risposto con qualche petulanza al re di Spagna che lo esortava a tenere a freno i cavalieri-marinai in un altro momento di distensione con gli infedeli: «La Religione [l’Ordine] è povera: non può lasciare di andare in corso [fare la guerra di corsa] in Levante». Ma il grande principe dell’Ordine cavalleresco-marinaro era stato Ferdinando I, l’autentico fondatore del porto di Livorno: le sue glorie cristiane e corsare sono ancora celebrate in quella città, nel monumento dei «Quattro Mori» che lo ritrae nell’armatura di Gran Maestro di Santo Stefano.

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L’ABITO FA IL CAVALIERE L’abito «di punta» (o conventuale) contraddistingue nei secoli i cavalieri professi. Si compone di una lunga veste nera con la croce biforcata bianca sul lato sinistro del petto e di un mantello con lo stesso emblema sulla spalla sinistra. Dal Cinquecento si aggiunge una croce coniata in metallo smaltato di bianco e bordata d’oro, appesa al collo con una catena d’oro o un nastro nero. Fino a oggi la veste non è cambiata in modo significativo, mentre il copricapo si è adeguato alla moda del periodo: nel Trecento si sceglie generalmente una berretta, che rimane in voga tanto a lungo che, ancora nel primo Cinquecento, è indossata dal cavaliere Alberto Aringhieri raffigurato da Pinturicchio. Dal Quattrocento si affaccia anche un piú complesso cappuccio, e copricapi di altre fogge appaiono utilizzati dai cavalieri, come quello indossato dallo stesso Aringhieri, che sbuca dietro a Enea Silvio che presenta Eleonora d’Aragona al futuro sposo Federico III, nella Libreria Piccolomini. Quando l’Ordine gerosolimitano assume anche compiti militari, all’ingombrante veste talare nera si affianca una corta tunica (o sopravveste) rossa, dalla croce piana bianca, indossata al di sopra della corazza e con il «cingulum militare», una larga fascia di cuoio che i cavalieri stringono attorno alla vita per sospendervi la spada. Questa cintura fa parte dell’armamento d’onore e rappresenta, con gli speroni e la spada, la dignità di cavaliere: si cinge al novello insignito e si toglie nella cerimonia di degradazione, per cui la sua perdita in battaglia costituisce un terribile disonore. Indossa l’uniforme militare il cavaliere Bartolomeo Palmieri, affrescato nel 1398 dal pittore senese Martino di Bartolomeo in S. Giovanni dei Cavalieri a Cascina, presso Pisa. Uguale abbigliamento guerresco presenta il ritratto idealizzato di Alberto Aringhieri da giovane, riproposto da Pinturicchio all’inizio del Cinquecento. Oltre alla grande spada, proprio a sottolineare la doppia connotazione militare e religiosa, i cavalieri portano il rosario, che appare spesso tra le loro mani in dipinti e lastre tombali.

l’isola egea. La necessità di favorire i suoi reparti militari scelti, i giannizzeri, ma anche di tenerli occupati, determinò almeno in parte la sua intensa attività offensiva. Il sultano cominciò con lo scatenare una campagna balcanica che, nel 1521, si concluse con la conquista di Belgrado. Intanto, i Turchi si mobilitavano anche sul mare e conquistarono l’isola di Rodi nel 1522.

Una nuova isola per i cavalieri

L’imperatore Carlo V provvide immediatamente a fornire i Cavalieri di San Giovanni, ormai potente Ordine marinaro – ma che aveva dovuto abbandonare l’isola che da oltre due secoli era la sua sede centrale – di una nuova base a Malta. Tra il 1526 e il 1533, approfittando della divisione tra gli Europei e delle guerre che tormentavano la cristianità, Solimano lanciò una feroce campagna tra i Balcani e il Danubio, culminata nell’assedio di Vienna del settembre-ottobre 1529; nello stesso tempo il corsaro Khaired-Din, dalla sua base tunisina, terrorizzava la Sicilia e l’Italia meridionale. I cavalieri-marinai ripararo-

Due ritratti di Alberto Aringhieri, entrambi del Pinturicchio, con abito «di punta» e berretta (in alto) e in veste guerresca. Eseguiti tra il 1502 e il 1507, i dipinti si conservano nel Duomo di Siena: nella Libreria Piccolomini e nella cappella di S. Giovanni.

no dunque a Malta, loro concessa nel 1530 in feudo dall’imperatore Carlo V (in cambio del tributo simbolico di un falcone), e continuarono la loro attività guerreggiando contro le flotte turche e i corsari «barbareschi» d’Africa. Soprattutto a partire da allora, si scrissero splendide pagine di gloria. Come a Lepanto, quando le galee di Malta furono parte fondamentale del trionfo cristiano; o nel grande assedio dell’isola durante il 1565, che venne respinto e fu l’estrema umiliazione del grande Solimano. Fedeli alla loro promessa di restare neutrali nelle guerre tra Nazioni cristiane, i Cavalieri non si difesero nel 1798, allorché il generale Bonaparte – allora impegnato in Egitto – occupò Malta, che gli Inglesi, a loro volta prendendo l’isola nel 1801, non restituirono all’Ordine nonostante il trattato di Amiens del 1802 lo avesse esplicitamente previsto. Dal 1831 l’Ordine trasferí la sua sede a Roma, dove da allora è rimasto, per quanto di recente abbia fondato un Centro Studi di nuovo a Malta, nel Forte Sant’Angelo. ORDINI CAVALLERESCHI

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Un mito che non muore

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Fra realtà e leggenda, l’epopea degli Ordini cavallereschi è stata tramandata anche grazie alla letteratura, che ha contribuito alla nascita di piú di un epigono moderno degli antichi sodalizi

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a seconda metà del Trecento corrispose a un periodo molto duro per l’Europa. Dopo una catena di carestie e di epidemie, culminata nella grande peste del 1347-50, e l’avvio della guerra «dei Cent’anni», il ritorno, nel 1377, della corte papale da Avignone a Roma, lungi dal dare l’avvio alla rigenerazione della Chiesa, apriva uno scisma destinato a protrarsi quasi per un quarantennio. La grande fautrice della crociata in quel periodo, santa Caterina da Siena, si vide costretta – accantonato il sostegno al passagium in Terra Santa, che secondo lei doveva esser preceduto da una generale pacificazione dei cristiani: mai lontana come in quel momento – a spendere le ultime ore della sua breve giornata terrena a difendere la legittimità del pontefice romano contro quello avignonese. L’Inghilterra e la Francia, ancora angustiate dalla loro interminabile guerra, videro ascendere ai loro troni un fanciullo, Riccardo Il, e un povero demente, Carlo VI; intanto i tessitori di Gand avevano iniziato una loro rivolta sociale, che fu sanguinosamente repressa nel 1382, ma i cui postumi riaffiorarono nelle sommosse di Parigi e di Rouen; già il 1381 aveva visto in lnghilterra l’accendersi del moto di Wat Tyler, mentre una nuova epidemia flagellava l’Europa per un intero triennio. I territori dell’impero germanico erano anch’essi in preda al disordine, e in Italia le uniche due potenze marinare che avrebbero potuto intervenire contro i Turchi – Genova e Venezia – combattevano accanitamente fra loro.

Anni difficili

In un’Europa cosí ridotta, alla crociata non v’era modo nemmeno di pensare: e infatti per un certo periodo tacquero anche gli appelli formali in tal senso, mentre i Turchi, dopo aver distrutto nel 1375 ciò che restava del regno armeno, continuavano ad avanzare nei Balcani. Genovesi e Veneziani, pur mantenendo cordiali rapporti con la corte di Costantinopoli, ormai ridotta a un’ombra di quel che era stata, facevano a gara per entrare nelle grazie ottomane. Il papato avignonese e quello romano cercavano, è vero, di assicurarsi anche sul piano profetico-escatologico, abituale alla propaganda politica del tempo, oltreché su quello teologico e Veduta a volo d’uccello di Parigi con il ritratto equestre di Pépin des Essarts, dipinto di scuola francese. 1645. Parigi, Musée Carnavalet. L’opera commemora l’eroico ruolo del cavaliere nella difesa della città, nel 1358, nel corso dei tumulti scoppiati a causa della politica perseguita da Étienne Marcel. ORDINI CAVALLERESCHI

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giuridico, la certezza della rispettiva legittimità; tra il 1378 e il 1380 circolava in Francia una profezia che presentava nel papa di Avignone e nel re francese i protagonisti della renovatio mondiale: insieme avrebbero distrutto quel seggio di falsi chierici che era Roma, dopo di che il sovrano avrebbe proseguito per Gerusalemme e deposto la sua corona sul Monte degli Olivi. Un trattato pieno di questi elementi fu scritto dall’eremita Telesforo di Cosenza e dedicato nel 1386 al doge di Genova, con la scoperta mira politica di attirare la città ligure nella sfera d’influenza francese: è chiaro che gli accenni alla liberazione del Sepolcro contenuti in questo genere di scritti non hanno in se stessi alcun valore, essendo parte obbligata d’un normale bagaglio di luoghi comuni noto e codificato in quanto tale. Solo alcuni spiriti di élite continuavano a coltivare le speranze d’un prossimo passagium: ma, anche in loro, esse erano diventate a poco a poco parte d’un contesto ideologico ed espressivo sempre piú rarefatto. A quel tempo, passata la stagione dei canonisti e quella dei teorici, il mondo della teoria crociata – e ciò costituisce un’ulteriore prova della sua crescente perdita di concretezza storica – era dominato da quella curiosa figura di mistico della cavalleria che fu Filippo di Mézières, ex cancelliere di Pietro I di Lusignano re di Cipro,

Nella pagina accanto ritratto del Minnesänger («cantore d’amore») Heinrich von Rugge, vissuto al tempo di Federico I, miniatura del Codice Manesse. 1310-1340 circa. Heidelberg, Biblioteca Universitaria. In basso miniatura raffigurante Philippe de Mézières al suo scrittoio, da un’edizione del Songe du vieil pélerin, opera da lui stesso composta. 1465. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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passato a Parigi sotto la protezione di Carlo V e rimastovi. Egli seppe sintetizzare le sue cognizioni politiche sull’Oriente con i frutti del lungo lavoro compiuto dalla trattatistica crociata fra i secoli XIII e XIV a cui aggiunse un suo argomentare immaginoso, di un simbolismo che ricorda spesso Raimondo Lullo: e compose quel Songe du vieil pélerin che ha il medesimo gusto prezioso del frutto fuori stagione che si può assaporare anche nel gotico fiammeggiante, l’arte a lui contemporanea.

La Passione come centro propulsore

Gli elementi dell’utopia sono, in Mézières, i consueti dell’ideale cavalleresco: speranza in una pace di tutta la cristianità basata sul concorde volere dei re, sulla riconquista di Gerusalemme e sulla lotta contro i Turchi. A questo programma si sarebbero dovuti convertire i due giovani re di Francia e d’ Inghilterra sacrificando anche, laddove fosse stato opportuno, una briciola del loro interesse politico pur di rendere alla cristianità la pace necessaria a preparare l’impresa. Strumento del nuovo slancio verso la Terra Santa sarebbe stato un nuovo Ordine religioso-militare risultato dalla fusione e dal rinnovamento degli altri: l’Ordine della Passione, o Nova Religio Passionis Jesu Christi. Anzi, piú che un Ordine puro e semplice, quello della Passione sarebbe stato il centro propulsore di uno sforzo a cui tutta la società cristiana, nei suoi strati sociali gerarchicamente ordinati, avrebbe dovuto collaborare: la nobiltà fornendo i combattenti, il clero i ministri del culto, la borghesia e il contadinato gli addetti alle diverse funzioni manuali. Alla lunga, comunque, il disordine potato non dell’azione di un sodalizio di monaci-cavalieri, ma piuttosto dell’impegno integrale di tutta una società, era corroborato dal fatto che Mézières non chiedeva a chi avesse aderito all’Ordine il voto del celibato, bensí quello della castità coniugale: il cavaliere crociato restava quindi inserito nel suo nucleo familiare e, a sua volta, inseriva quest’ultimo nell’impegno al quale aveva dedicato tutta l’esistenza. Tutto sommato, le idee di Mézières non erano in se stesse molto piú fantastiche delle grandi costruzioni politiche d’un Dubois o di un Nogaret, alle cui tesi strategico-tattiche sulla crociata egli doveva molto: ma contribuisce a farle apparire piú strane e meno giustificatamente fondate il tono fra il mistico ed l’estetizzante con il quale sono esposte, che contrasta violentemente con quello, almeno in apparenza realistico fino al cinismo, di Dubois.


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PELLEGRINI IMPENITENTI Le testimonianze del cavaliere de la Tour-Landry, di Nicola di Clemanges, delle Quinze Joyes de Mariage e, in generale, degli scritti che possono aiutarci a gettare un’occhiata sulla vita cortese del tempo, sono concordi in questo: i pellegrinaggi erano spesso pretesto agli amanti per incontrarsi indisturbati, e a tutti per piú liberamente peccare; i Luoghi Santi rigurgitavano di gente di malaffare. Ma la prova letteraria piú evidente della contaminazione tra sacro e profano compiuta dalla civiltà cavalleresca tardomedievale è il Livre de Voir-Dit, di Guglielmo di Machaut, nel quale il poeta narra con accenti delicatissimi una sua avventura: a lui, vecchio e malato, è successo d’innamorarsi di una fanciulla diciottenne e di esserne, almeno per un po’, ricambiato; un pellegrinaggio ha dato alla coppia l’occasione di soddisfare il desiderio. Per quanto l’idillio sia descritto con levità impareggiabile, non può sfuggire il tono carnale dell’atmosfera nella quale si muove: e il fatto che proprio il pellegrinaggio abbia fornito il pretesto al coronamento dell’amore è trattato con estrema naturalezza.

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Miniatura raffigurante Guglielmo di Machaut e sua moglie, da un’edizione del Livre de Voir-Dit, opera da lui stesso composta. 1390-1400. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

Abbiamo già fatto osservare quanto illusoria fosse in verità l’ostentata sicurezza politica dell’avvocato di Filippo IV, che era in fondo un teorico perentorio quanto isolato e inascoltato e che quindi non ebbe mai bisogno di porsi responsabilmente il problema della possibilità di applicare o meno le sue teorie.

Un Paese debole e in crisi

Tuttavia, in Mézières l’astrazione colpisce ancor di piú se si pensa che – a differenza di Dubois – egli scriveva in una Francia debole, straziata dalla crisi politica e attraversata da quella, parimenti intensa e per giunta di portata europea, economico-religiosa, determinata soprattutto dallo «Scisma d’Occidente» e dai nuovi movimenti eretico-sociali nati attorno a quegli anni. Noi moderni crediamo di cogliere il punto debole di Mézières, oltre che negli errori di valutazione storica, nel minuzioso attardarsi a descrivere in ogni dettaglio le caratteristiche del suo inesistente Ordine, le vesti dei cavalieri, la gerarchia


simbolica dei loro colori, la qualità e il tipo degli ornamenti. Questo tono da bella fiaba appassita, da Libro d’Ore sbiadito, finisce a lungo andare con l’indisporci, col sembrarci l’assurdo e gratuito giocherellare con la propria fantasia di un vecchio dal temperamento femmineo: e fatichiamo a convincerci che proprio queste che ci sembrano oziose elucubrazioni sono viceversa la parte piú valida del suo messaggio. Pure, bisogna prenderne atto: ché, mentre il resto non è altro che una ripetizione di idee storico-politiche di cui gli avvenimenti avevano dimostrato l’inconsistenza e di schemi strategici falliti, il vistoso e pesante simbolismo nel quale l’Ordine della Passione è avvolto risponde, in realtà, al desiderio di convincere, di dimostrare con i mezzi piú persuasivi sia della cultura letteraria e cortigiana sia di quella religiosa e devozionale del tempo, fino a che punto l’ideale crociato fosse connesso con valori nei quali la morente cavalleria era chiusa come in una perfetta e impermeabile turris eburnea. Mézières non era, come Dubois, un intellettuale ruvido e negato al colloquio: era, al contrario, un gentiluomo colto e affascinante, che, dalla sua oasi serena e austera, seppur lussuosa, del convento dei Celestini di Parigi – dove viveva come frate laico –, non si negava contatti con la corte e molti spiriti eletti. La sua religiosità misticamente vissuta, i suoi dolori e le sue delusioni di antico crociato al servizio di re Pietro, esposti in termini squisitamente cavallereschi – nel senso anche mondano del termine – non potevano In alto miniatura raffigurante le armate del sultano Bayezid I che combattono contro l’esercito cristiano a Nicopoli, sul Danubio, nel 1396. XV sec. Istanbul, Museo Topkapi. Lo scontro si concluse con la vittoria ottomana. A sinistra cofanetto in avorio raffigurante una scena ispirata ai temi tipici del romanzo cortese. Prima metà del XIV sec. Parigi, Musée national du Moyen Âge.

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Tradizione e fortuna moderna L’ultima dimora di Filippo di Mézieres, il convento dei Celestini, era stata prediletta anche da Christine de Pizan, la poetessa che si era opposta alla nuova concezione dell’amore come raffinato gioco sensuale quale veniva presentato dal Roman de la Rose e aveva riproposto, con una piú forte accentuazione dell’elemento etico, il tema dell’amore cortese come servizio fedele e disinteressato alla dama.

Amore divino e amore terrestre

mancare di attrarre la nobiltà laica. La sua presenza al convento dei Celestini, polo attorno al quale si svolgeva la vita religiosa dei potenti di Francia, seppe influenzare le personalità piú varie e le esperienze spirituali piú disparate. Cosí il piccolo Pietro di Lussemburgo, morto a diciotto anni nel 1387 e beatificato nel 1527, per il quale la perfezione interiore da raggiungere attraverso la continua disciplina di ogni atto esterno era diventata un’autentica ossessione: la sua massima aspirazione sarebbe stata, se il suo stato di salute precario e il rango elevato gliel’avessero concesso, di uscire fra la gente e predicare la crociata. Cosí il dissoluto e tenebroso duca d’Orléans, dedito ai vizi e alla magia eppure non alieno egli stesso dai sogni cosmici di pace e di passagium, nello stesso modo in cui non ne era alieno il suo grande avversario, il duca di Borgogna Giovanni Senza Paura, che pure non amava Mézières e considerava anche lui versato nelle arti occulte. 124

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In alto miniatura raffigurante Luigi XI che presiede una seduta del Capitolo dell’Ordine di San Michele, da un’edizione degli statuti dello stesso sodalizio illustrata da Jean Fouquet. 1469-1470. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Nella pagina accanto, in alto onorificenza dell’Ordine del Toson d’Oro, fondato nel 1431 dal duca di Borgogna Filippo il Buono.

Ligio al medesimo ideale permaneva quel curioso miscuglio di valore militare, di spesso sfortunata temerarietà e di fantasia sognatrice che fu Giovanni Le Meingre, meglio noto come il Maresciallo Boucicaut. Lodato da Christine de Pizan per il suo degno sentire in materia d’amore, fondò l’Ordine cavalleresco «de l’écu vert à la dame blanche» per la difesa delle donne oppresse. Al pari dei poeti cortesi di due secoli prima, considerava il pellegrinaggio in Terra Santa un topos insostituibile nel rapporto amoroso con la dama, al tempo stesso simbolo tutto terreno della sofferenza del vivere lontano dall’amata e desiderio religioso d’ascesi, d’affinare con l’esperienza dell’amore divino lo stesso amore terrestre. In un suo pellegrinaggio ai Luoghi Santi, Boucicaut scrisse appunto una raccolta di liriche amorose, il Livre de cent ballades, in cui signorilmente e sottilmente discuteva della vecchia e della nuova ars amandi, propendendo naturalmente per la prima. Pure, Boucicaut era uomo di profonda religiosità, per quanto molti aspetti di essa possano oggi apparire formali e stilizzati: ma non per questo poteva esimersi, nell’atto stesso in cui riportava ogni sua esperienza personale – e soprattutto quelle tipiche del cavaliere, la guerra e l’amore – alla sfera del divino, dall’immettere nelle cose di Dio una pesante massa di elementi profani. La soluzione amorosa e poetica del suo pellegrinaggio sta a provarlo. I pellegrinaggi erano sempre stati fatti segno, da parte di taluni pensatori della Chiesa, di un certo sospetto che, pur senza mai sfociare in aperta condanna, faceva da contrappunto alla loro generale valutazione in senso positivo. Agostino, Gerolamo e Bonifacio avevano avuto parole dure contro i pellegrini, soprattutto perché, lungo le vie da essi battute, facevano inevitabilmente la loro comparsa, accanto agli esempi edificanti, i mali della strada: le truffe, i furti, la prostituzione, il brigantaggio, gli stravizi di ogni tipo. I nobili poi tendevano a fare del pellegrinaggio una gita di piacere, un viaggio elegante per la raffinatezza dei corteggi ed eccitan-


A destra Ritratto di Carlo d’Amboise, olio su tavola forse attribuibile ad Andrea di Bartolo, detto il Solario. 1507 circa. Parigi, Museo del Louvre. Il nobiluomo, che fu signore di Chaumont e governatore dei ducati di Genova e Milano, indossa il collare dell’Ordine di San Michele.

te per il suo sapore d’avventura. Già durante la seconda crociata, Eleonora d’Aquitania aveva colorato con la nota di gaia frivolezza del suo seguito la marcia delle schiere francesi. Da allora, non si cessò di considerare il pellegrinaggio come un pretesto per un bel passatempo e magari per una libera avventura d’amore. Stando cosí le cose, è ovvio che gli spiriti piú elevati del misticismo trecentesco e in particolare di quella che fu chiamata la Devotio Moderna, da Tommaso da Kempis a Federico di Heilo, fossero avversari convinti del pellegrinaggio come pratica religiosa. Parrebbe quindi che fra i moralisti fautori del rinnovamento religioso da un lato e le costumanze cavalleresche dall’altro vi fosse un baratro incolmabile. Quest’impressione sembrerebbe confermata, nello scorcio del secolo XIV, dal rinnovarsi delle condanne, canonistiche come morali, a un’altra celebrata usanza cavalleresca: il torneo, da tempo proibito dalla Chiesa, biasimato dagli spiriti pii perché sovente occasione di scandalose relazioni erotiche, deriso dai borghesi come un folle, inutile e soprattutto costoso rischio. In realtà, però, occorre guardarsi dallo stringere il problema nei limiti di questo facile schema. Prima di tutto perché in quelle che a noi possono sembrare profanazioni, come la mescolanza di elementi erotici e devozionali nella pratica del pellegrinaggio, «bisogna vedere – osserva ORDINI CAVALLERESCHI

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Filippo V insignisce del Toson d’Oro il maresciallo Berwick, olio su tavola di Jean-Auguste-Dominique Ingres. 1818. Madrid, Collezione della Fondazione Casa d’Alba.

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Johan Huizinga – piú una ingenua familiarità con la religione che vera irriverenza. Soltanto una società tutta compenetrata dal senso religioso e che accetta la fede senza discutere conosce tali eccessi e degenerazioni». Si può approfittare del pellegrinaggio per godere i generosi favori dell’amante, è vero, ma non per questo si trascurano le pratiche pie del viaggio.

Le ultime volontà di Filippo

Si deve inoltre tener presente che tra la spiritualità stilizzata del morente costume cavalleresco e quella Devotio Moderna che fu l’estremo frutto della religiosità trecentesca ci fu, in realtà, un rapporto osmotico. Filippo di Mézières, il maestro di quanti volevano vivere da cavalieri la loro vita interiore, era stato profondamente toccato dal clima nel quale la Devotio prosperava. La minuziosa istruzione testamentaria da lui lasciataci – sull’esempio del suo direttore spirituale Pietro de Thomas – circa le umiliazioni alle quali il suo corpo avrebbe dovuto essere esposto immediatamente dopo l’agonia, respira la stessa atmosfera di analitiche prescrizioni 126

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devozionali che anima gli scritti di Tommaso da Kempis, di Enrico Suso, di Giovanni Tauler. In quest’ambiente, percorso dalle utopie cavalleresche e lievitato da una delle piú profonde esperienze religiose del cristianesimo, maturò l’ultima grande e sfortunata impresa crociata del Trecento, quella che avrebbe condotto alla battaglia di Nicopoli del 1396 e alla sconfitta umiliante dell’orgogliosa cavalleria cristiana. Furono la cattiva coscienza europea dopo Nicopoli e la necessità politica dei sovrani di collegare a sé sempre piú strettamente le loro aristocrazie, mentre i modelli di governo andavano incamminandosi verso lo Stato assoluto moderno, a determinare la nascita di «Ordini cavallereschi di corte». Essi erano in genere frutto dell’iniziativa dei singoli sovrani e servivano a raccogliere attorno al «Gran Maestro», il principe o il re, i rappresentanti dell’aristocrazia e talora del ceto dirigente di ciascun Paese, qualche volta non senza aperture a forme di «nuova nobiltà», risultato di un’ascesa sociale che insegne araldiche e adesione a un genere di vita cavalleresco fatto di cerimonie, di giostre e di


tornei si incaricavano di legittimare dinanzi all’opinione pubblica. Il fine di queste istituzioni era politico: garantire, presentandola come parte del modo di vivere e di sentire cavalleresco, la fedeltà dei sudditi prominenti al sovrano. Il loro modello era chiaro: la Tavola Rotonda di Artú secondo i romanzi cavallereschi del tempo, il circolo dei paladini di Carlo Magno nella tradizione della poesia epica. Le corti tardo-medievali e rinascimentali fecero a gara nell’elaborare vesti e arredi di lusso abbaglianti, splendide cerimonie, insegne dall’elaborato contenuto allegorico e titoli altisonanti come cornice per vere e proprie «sacre rappresentazioni laiche», che venivano sovente tradotte in gare-spettacolo cavalleresche, i cosiddetti «tornei a tema».

Una vita fragile, ma lunghissima

Nacquero in questo modo Ordini come quelli «di San Michele» e «della Stella» in Francia, «della Nave» nella Napoli angioina, «della Giarrettiera», «di San Giorgio» e «del Bagno» in Inghilterra, «del Crescente» nel ducato d’Angiò, «dell’Annunziata» e «dei Santi Maurizio e Lazzaro» nella contea e poi ducato di Savoia. Grande importanza, fino ad assurgere a paradigma, ebbe quello «del Toson d’Oro» in Borgogna, fondato per volontà del duca Filippo il Buono, che sarebbe poi passato all’impero asburgico e sarebbe rimasto un modello insuperabile di gusto per le cerimonie fastose e di accorta politica regia tendente a legare a sé le aristocrazie. Ai primi del Seicento, Enrico IV di Francia fondò l’«Ordine dello Spirito Santo» per insignirne i suoi fedeli e in segno di riconciliazione tra i cristiani dopo la lunga guerra di religione che aveva devastato il Paese. Attraverso gli «Ordini di corte», che ebbero una vita fragile ma lunghissima, si giunse in età moderna agli Ordini cavallereschi di Stato, ancora oggi attivi: da tali istituzioni dipende tuttora l’assegnazione di decorazioni onorifiche a cittadini che abbiano ben meritato. Un ruolo particolare spetta anche all’Ordine canonicale del Santo Sepolcro, nato all’interno del Capitolo canonicale della basilica del Santo Sepolcro e riorganizzato nel 1103. I canonici seguivano la Regola di Sant’Agostino e si costituirono in effettivo Ordine canonicale nel 1156. In seguito alla caduta di Gerusalemme, l’Ordine ricevette vari possedimenti in Occidente e vi si radicò. In tempi moderni, sotto l’egida vaticana, esso ha assunto l’aspetto dell’Ordine cavalleresco e, come tale, svolge una benemerita attività di promozione assistenziale e culturale.

Per saperne di piú Citiamo alcuni studi fondamentali, da cui non si può prescindere. AA.VV., «Militia Christi» e crociata nei secoli XI-XIII. Atti della undecima Settimana internazionale di studio, Mendola, 28 agosto-1 settembre 1989, Vita e Pensiero, Milano 1992 Alphonse Dupront, Il sacro. Crociate e pellegrinaggi. Linguaggi e immagini, Bollati Boringhieri, Torino 1993 Enzo Coli, Maria De Marco, Franceso Maria Tommasi (a cura di), Militia sacra. Gli ordini militari tra Europa e Terrasanta, S. Bevignate, Perugia 1994 Benedetto Vetere, Il«monacus miles» nell’epoca crociata, in AA.VV., Verso Gerusalemme, Congedo, Martina Franca 1999; pp. 201-44. Sui Templari Mario Roncetti, Pietro Scarpellini, Francesco Tommasi, Templari e Ospitalieri in Italia: la chiesa di San Bevignate a Perugia, Electa, Milano 1987 Franca Sardi, Giovanni Minnucci (a cura di), I Templari: mito e storia. Atti del Convegno internazionale di studi alla magione templare di Poggibonsi-Siena, 29-31 Maggio 1987, Viti-Riccucci, Siena 1987 Peter Partner, I Templari, Einaudi, Torino 1991 Fulvio Bramato, Storia dell’Ordine dei Templari in Italia, 2 voll. Atanòr Editrice, Roma 1991-92 Régine Pernoud, I Templari, Effedieffe, Milano 1993 Alain Demurger, Vita e morte dell’Ordine dei Templari, Garzanti, Milano 1996 Malcolm Barber, La storia dei Templari, Piemme, Casale Monferrato 1997 Franco Cardini, La nascita dei Templari. San Bernardo di Chiaravalle e la cavalleria mistica, Il cerchio, Rimini 1999 Sugli Ospitalieri di San Giovanni Anthony Luttrell, The Hospitallers in Cyprus, Rhodes, Greece and the West, 1291-1440, London 1978 Elias Kollias, I Cavalieri di Rodi. Il palazzo e la città, Ekdotike Athenon Atene 1991 Sugli Ordini iberici Francis Gutton, L’Ordre de Calatrava, Parigi 1955 Francis Gutton, L’Ordre de Santiago, Parigi 1972 Francis Gutton, L’Ordre de Montesa, Parigi 1974 Francis Gutton, L’Ordre d’Alcantara, Parigi 1975 Sull’Ordine teutonico e il Nord Europa Karol Górski, L’Ordine teutonico. Alle origini dello stato prussiano, Einaudi, Torino 1971 Eric Christiansen, Le crociate del Nord. Il Baltico e la frontiera cattolica (1100-1525), Il Mulino, Bologna 1983 Henryk Samsonowicz, I Cavalieri teutonici, Giunti, Firenze 1987

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Cronologia

I CAVALIERI NEI SECOLI 982 A Capo Colonna, in Calabria, i Saraceni battono Ottone II. 985-1003 Ripetuti attacchi saraceni a Barcellona. 997 Al-Mansur attacca e saccheggia la città di Santiago di Compostella. 1009 Il califfo fatimide al-Hakim fa distruggere la chiesa del Santo Sepolcro, a Gerusalemme. 1015-1021 circa Guerre genovesi-pisane contro Mujahid. 1020 Attacco saraceno a Narbona. 1031 Fine del califfato omayyade di Cordoba. 1034 Spedizione pisana contro Bona. 1062 Fondazione di Marrakesh. 1063-1064 Campagna di Barbastro in Aragona. 1064 Presa castigliana di Coimbra. Napoli, Cappella Minutolo. Particolare di un affresco raffigurante un cavaliere in preghiera. Metà del XIV sec.

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1085 6 maggio Alfonso VI di Castiglia conquista Toledo. 1086 I Castigliani sono sconfitti dagli Almoravidi a Zallaca. 1087 Spedizione pisana contro al-Mahdiyah. 1090 Ruggero d’Altavilla occupa Malta e Gozo. 1094 15 giugno Il Cid Campeador conquista la città di Valencia. 1095 18-27 novembre Concilio di Clermont in Alvernia. 1095-1099 Prima crociata in Siria-Palestina. 1099 15 luglio Il Cid Campeador muore a Valencia. 15 luglio I crociati conquistano Gerusalemme. 1102 Gli Almoravidi occupano Valencia. 1108 Vittoria degli Almoravidi sui Castigliani a Uclés. 1113-1115 Spedizione pisano-catalana contro le Baleari. 1118 19 dicembre Gli Aragonesi conquistano Saragozza. 1146 1° marzo Papa Eugenio III emana, in due differenti successive redazioni, la Quantum praedecessres, vera e propria prima enciclica regolatrice del movimento crociato. 1147 13 aprile Enciclica papale Divina dispensatione. luglio-agosto Campagna tedescodanese contro i Wendi. 17 ottobre I crociati prendono Almeria. 24 ottobre I crociati prendono Lisbona. 1147-1148 Seconda crociata in Siria-Palestina. 1148 I crociati prendono Tortosa. 1149 I musulmani sgombrano le residue piazzeforti di Catalogna. 1157 Gli Almohadi riconquistano Almeria. 1187 Vittoria saracena ai Corni di Hattin; il Saladino conquista Gerusalemme; enciclica Audita tremendi. 1187-1192 Terza crociata. 1195 19 luglio Gli Almohadi battono i Castigliani ad Alarcos. 1198 Fondazione formale dell’Ordine di Santa Maria dei Teutonici. 1201 Fondazione dei cavalieri Portaspada in Livonia. 1202-1204 Quarta crociata. 1212 17 luglio Battaglia di Las Navas de Tolosa.


1217-1221 Quinta crociata; visita di Francesco d’Assisi al sultano d’Egitto. 1226 «Bolla d’Oro» di Rimini: Federico II concede ai Cavalieri teutonici in feudo i territori «senza sovrano» e relativi regalia (diritti regi). 1228-1229 Sesta crociata (crociata di Federico Il); Gerusalemme recuperata per mezzo di un accordo diplomatico con il sultano d’Egitto al-Malik al-Kamil. 1229-1231 Crociata aragonese contro le Baleari. 1232-1253 Crociata aragonese contro il regno di Valencia. 1236 29 giugno San Ferdinando III di Castiglia prende Cordoba. 1237 Fusione tra Teutonici e Portaspada. 1242 Aleksandr Nevskij sconfigge i Teutonici nella battaglia del lago Peipus. 1248 23 novembre San Ferdinando III di Castiglia conquista Siviglia. 1248-1254 Settima crociata (prima crociata di Luigi IX). 1258 I Mongoli conquistano Baghdad, fine del califfato abbaside. 1267 Completata la conquista cristiana del Portogallo. 1270 Ottava crociata (seconda di Luigi IX, che vi trova la morte). 1274 Concilio di Lione, convocato da Gregorio X per la ricomposizione dell’unità cristiana; emanate le Constitutiones pro zelo fidei. 1291 Caduta di Acri. 1340 30 ottobre Alfonso XI di Castiglia vince i Merinidi del Marocco nella battaglia del Rio Salado. 1344-1346 «Crociata di Smirne». 1355 Assalto genovese a Tripoli. 1365 10-16 ottobre Pietro di Lusignano, re di Cipro, assale e saccheggia Alessandria. 1380 Dimitri Donskoi, gran principe di Mosca, batte i Tatari a Kulikovo. 1388 Genovesi, Pisani e Siciliani occupano l’isola di Jerba. 1389 15 giugno Battaglia della Piana dei Merli (o del Kosovo): Murad I annienta la potenza serba, ma muore nello scontro. 1390 Crociata franco-genovese contro al-Mahdiyah, guidata da Luigi Il duca di Borbone.

1396

25 settembre Battaglia di Nicopoli: sconfitta dei crociati. 1410 I Teutonici sono sconfitti dai Polacchi a Tannenberg-Grunwald. 1415 I Portoghesi conquistano Ceuta. 1444 10 novembre Battaglia di Varna: sconfitta dei crociati. 1448 17-19 ottobre Seconda battaglia del Kosovo: Murad II batte i crociati ungheresi. 1453 29 maggio Il sultano ottomano Maometto II prende Costantinopoli. 1454-1466 Guerra fra Teutonici e Regno di Polonia. 1456 6 agosto Janos Hunyadi conquista Belgrado. 1470 I Turchi prendono Negroponte. 1471 I Portoghesi conquistano Tangeri. 1475 6 giugno I Turchi prendono Caffa. 1480 agosto Una flotta turca assalta e conquista Otranto. 1481 3 maggio Il sultano Maometto II muore sulla sponda asiatica del Bosforo. 1492 2 gennaio I Re Cattolici conquistano Granada. 1522 I Turchi conquistano Rodi; gli Ospitalieri riparano a Malta. 1525 Fine dell’Ordensstaat in Prussia.

Il Cavaliere di Bamberga, statua equestre conservata nella Cattedrale della città tedesca, per la quale sono state avanzate varie ipotesi di identificazione: è stato proposto che ritragga il re Stefano d’Ungheria, Federico II di Svevia o perfino il Messia. 1230-1235.

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