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MEDIOEVO DOSSIER
EDIO VO M E Dossier
NEI LUOGHI DEL
SILENZIO ALLE ORIGINI DEL MONACHESIMO NELL’EUROPA ALTOMEDIEVALE
EREMITI E CENOBITI LE PRIME COMUNITÀ COLOMBANO E GLI ABATI IRLANDESI LA REGOLA DI BENEDETTO CONVERTIRE I LONGOBARDI L’ ETÀ DI CARLO MAGNO IL NUOVO MONDO DI CLUNY
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NEI LUOGHI DEL SILENZIO
N°17 Novembre Rivista Bimestrale
My Way Media Srl - Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c.1, LO/MI.
NEI LUOGHI DEL
SILENZIO
ALLE ORIGINI DEL MONACHESIMO NELL’ EUROPA ALTOMEDIEVALE di Federico Marazzi 6 Gli esordi Ab Oriente lux Gli esordi di una lunga storia
92 I monasteri carolingi Come una città ideale
20 L’Oriente mediterraneo I primi rifugi
108 Dopo il Mille Il nuovo mondo di Cluny e Cîteaux
30 L’età tardo-antica Fuggire dal mondo
122 L’Italia dei monasteri Sulle orme dei monaci
42 Il mondo «barbarico» Passaggio a Nord-Ovest 56 Tra Longobardi e Bizantini Una nuova spiritualità 72 Al tempo di Carlo Magno Palazzi celesti Capolettera miniato raffigurante due monaci benedettini che piegano una pezza di lino, da un’edizione dei Moralia in Iob, da Cîteaux. XII sec. Digione, Bibliothèque Municipale.
Eremita in preghiera, olio su tela di Jean Lemaire (1601-1659). 1637-1638. Madrid, Museo del Prado. Seguendo lo stile che gli era proprio, il pittore francese inserisce la figura del pio uomo in un paesaggio di rovine romane, assemblando elementi reali, come l’obelisco, e costruzioni immaginarie.
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Il fenomeno del monachesimo affonda le proprie radici nel cristianesimo delle origini e i suoi precursori si possono individuare in una folta schiera di personaggi che scelse di isolarsi dalla societĂ . Un percorso che veniva considerato indispensabile per riuscire a stabilire il contatto con Dio
Ab Oriente lux Gli esordi di una lunga storia MONACHESIMO
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er parlare di monasteri, ovvero dei luoghi che immaginiamo deputati per eccellenza a una vita di solitudine e d’isolamento, e della vita che vi si conduceva, dobbiamo paradossalmente partire da realtà che erano il loro opposto. Luoghi animati e rumorosi, ma attraverso i quali il cristianesimo si diffuse in tutto il Mediterraneo: le città, spina dorsale dell’impero romano. Fondate in seguito alla conquista di nuovi territori o ereditate (soprattutto in Oriente) dagli Stati via via soggiogati e assorbiti nella res publica, esse costituivano il perno dell’amministrazione civile e militare e il cuore della vita politica ed economica delle diverse province imperiali. Nei centri urbani si concentrò una popolazione le cui attività prevalenti non erano direttamente connesse alla produzione agraria e pastorale, ma piuttosto alla produzione manufatturiera e ai servizi, nonché quelle legate all’amministrazione e al governo della cosa pubblica. Ciò determinò la formazione di ceti la cui ricchezza poteva anche e in buona parte derivare dal possesso della terra e dallo sfruttamento delle sue risorse, ma che si occupavano di attività diverse
Nella pagina accanto statua di Constantino proveniente dalle terme dell’imperatore e oggi nel portico della basilica romana di S. Giovanni in Laterano. IV sec. d.C. Qui sotto fondo di piatto in vetro e foglia d’oro con l’immagine del Buon Pastore. IV sec. d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani, Museo Cristiano.
A sinistra statuetta in marmo di pastore crioforo (portatore di ariete, dal vocabolo greco krios, che designa l’animale). III sec. d.C. Roma, Musei Capitolini.
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da quelle agricole e ambivano a differenziare il proprio stile di vita da quello dei rustici. La progressiva comparsa, nelle città di ogni regione dell’impero, di spazi destinati allo svago, all’intrattenimento, al benessere personale e alla formazione intellettuale contribuí a determinare uno «stile di vita» urbano che, nonostante tutte le differenze esistenti con l’età contemporanea, ci appare ancora oggi familiare.
I vantaggi della vita di città
In realtà, sebbene in età antica la percentuale di popolazione residente nelle città sia rimasta sempre minoritaria rispetto al totale, le leve attraverso cui si governava la società del tempo erano in mano soprattutto a persone che vivevano nei centri urbani. Ovviamente, non tutti i loro abitanti godevano in pari misura dei vantaggi che essi potevano offrire, ma non per questo vivervi era meno attraente. I disagi erano infatti ricompensati dalle molte opportunità e risiedere in città consentiva di recepire, condividere ed elaborare in modo piú immediato i fermenti del mondo contemporaneo. Grazie a queste condizioni, il cristianesimo iniziò a diffondersi proprio negli ambienti urbani, partendo dalle popolose città del Mediterraneo orientale. Le mete della predicazione di Paolo di Tarso e i destinatari delle sue epistole delineano una geografia del primitivo proselitismo cristiano che trova sempre nei centri urbani il proprio ancoraggio sul territorio. Non per niente, già in epoca tardo-antica, il termine «pagano» – cioè abitante dei pagi, vale a dire dei villaggi rurali – assunse il significato di «non cristiano». Il fedele della nuova religione, insomma, s’identifica con l’abitante della città. Per tutto il III secolo, le fasi acute di conflitto fra i cristiani e le autorità dello Stato romano furono intervallate da periodi relativamente pacifici, che permisero alle comunità di crescere numericamente e di radicarsi all’interno del tessuto sociale urbano. Due erano le differenze principali del cristianesimo rispetto alle altre religioni diffuse nell’impero: l’avere rapidamente consolidato una struttura gerarchica e organizzativa in grado di tenere insieme le diverse comunità; e l’aver saputo superare presto la dimensione «settaria» degli esordi, proponendosi come un credo aperto all’adesione delle componenti sociali ed etniche piú diverse. Queste peculiarità furono certamente tra i fattori che spinsero Costantino e Licinio alla svolta con cui, nel 313, essi dichiararono la fede in
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In alto Roma, ipogeo di via Dino Compagni (noto anche come catacomba della via Latina). Affresco raffigurante Sansone che uccide i Filistei con una mascella d’asino. IV sec. d.C. La composizione ha caratteristiche simili alle scene che rappresentano la cacciata dei mercanti dal tempio da parte di Gesú. A destra la fronte del sarcofago dell’Anastasis raffigurante, da sinistra verso destra: il cireneo che porta la croce di Cristo; Cristo coronato di spine; l’Anastasis (Resurrezione), simboleggiata dalla croce sormontata dal monogramma cristologico entro corona, con ai piedi due soldati vinti; Cristo condotto davanti a Pilato. IV sec. d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani, Museo Pio Cristiano.
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Cristo religione pienamente legittima. La cessazione di rapporti conflittuali con la componente cristiana della popolazione dell’impero portò rapidamente a una reciproca attenzione fra il potere imperiale e le gerarchie ecclesiastiche, suggellata dalla presenza di Costantino al Concilio che si riuní a Nicea (325) per definire e ufficializzare i fondamenti dogmatici e organizzativi della Chiesa cristiana.
La Chiesa si rafforza
Sebbene la capillare penetrazione del cristianesimo presso tutti gli ambienti e gli strati sociali dell’impero non si verifichi prima del V secolo, già nel IV la legislazione era andata progressivamente, ma decisamente, orientandosi verso la concessione alle Chiese di prerogative e privilegi sempre piú ampi. Ne derivò il rapido rafforzamento economico della Chiesa, consentito sia da vantaggiose condizioni fiscali e dalla munificenza degli stessi imperatori, sia dal sempre piú ampio concorso di benefattori privati, che attivarono in suo favore donazioni di beni mobili e immobili. Tale rafforzamento si rese d’altra parte necessario perché le singole diocesi dovevano gestire servizi e spazi sempre piú ampi, come le vecchie e nuove aree cimiteriali, gli edifici di culto e i loro annessi (battisteri, cappelle, sacrestie), ma anche complessi residenziali per l’alloggio dei vescovi e del clero e luoghi nei quali espletare servizi assistenziali e sanitari che costituirono uno dei campi in
cui la Chiesa operò con sempre maggiore capillarità ed efficacia. La ricchezza di molte sedi episcopali – soprattutto le piú importanti – crebbe vertiginosamente nel IV secolo, non senza suscitare critiche e provocare scandali. L’evoluzione del ruolo sociale e politico della Chiesa nel mondo tardo-antico – e le sue implicazioni economiche – non mancarono di sollevare dibattiti e riflessioni all’interno della comunità dei credenti. Il trionfo garantito dalla svolta costantiniana determinò una inevitabile mondanizzazione che alcuni videro come un allontanamento insopportabile dai sobri costumi «primitivi», considerando che il trionfo terreno della Chiesa non aveva prodotto una società piú capace di ridurre le enormi disuguaglianze economiche e sociali del tempo e di moderare la deriva autoritaria intrapresa dal potere statale e dai suoi apparati. Questo disagio, esistenziale e ideologico al tempo stesso, contribuí certamente in maniera decisiva alla nascita e al successo del fenomeno monastico. L’idea che il mondo fosse un luogo in cui era difficile attuare la giustizia, nonostante la vittoria in esso conseguita dalla Chiesa di Cristo, dovette indurre diversi fedeli a nutrire sfiducia nella possibilità di una sua autentica redenzione. L’unica soluzione per vivere un’esistenza coerente con i precetti del Vangelo poteva perciò essere solo la fuga dal consesso sociale, diri(segue a p. 15)
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Gli esordi
Il primo monachesimo orientale rya
Ancira
Sebaste
Pessino
Terme
Lago Tuz Iconio
Perge
Nissa
Cesarea di Cappadocia
Nazianzo
Antiochia
Lago Beysehir
A sinistra cartina della regione anatolica con i luoghi del primo monachesimo: l’area in verde indica la Cappadocia. In basso i luoghi del primo monachesimo orientale in Egitto, Palestina e Siria.
Melitene
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Listra Tarso
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Antiochia Nella pagina accanto San Girolamo che legge in un paesaggio, tempera su tavola attribuita alla cerchia di Giovanni Bellini (1431/1436–1516). Oxford, The Ashmolean Museum. In basso rilievo bizantino in basalto raffigurante san Simeone lo Stilita che siede sulla sua colonna mentre riceve la visita di un uomo recante un oggetto, forse un incensiere. V-VI sec. Berlino, Staatliche Museen.
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Gli esordi
Un baluardo del paganesimo Plastico ricostruttivo del Serapeion di Alessandria d’Egitto, costruito al tempo di Tolomeo III Evergete (246–221 a.C.) su una collina situata a ovest della città, immediatamente al di là dei limiti dell’area urbana di epoca tolemaica, nella zona oggi corrispondente al distretto di Kom el-Shoqafa. Considerato la roccaforte della resistenza pagana alla cristianizzazione di Alessandria, il tempio era stato dedicato a Serapide, una divinità sincretica che univa i tratti degli dèi egiziani Osiride e Api alle sembianze fisiche dello Zeus greco. Il dio fu molto venerato sia dagli Egiziani che dai Greci e il suo culto fu uno dei piú importanti fra quelli praticati
ad Alessandria. Secondo le descrizioni tramandate dalle fonti, il Serapeion era il tempio piú sontuoso della città e comprendeva anche gli altari di Arpocrate e Iside che, insieme a Serapide, formavano la Trinità alessandrina. Sul finire del I sec. d.C., il Serapeion venne gravemente danneggiato da un incendio e nell’età imperiale romana nell’area fu ricostruito un tempio di maggiori dimensioni. Piú tardi, nel 391, il santuario venne completamente distrutto, applicando la disposizione emanata due anni prima dall’imperatore Teodosio, il quale aveva ordinato la chiusura di tutti i luoghi dell’impero romano nei quali ancora si praticavano culti pagani.
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Nella pagina accanto, a sinistra particolare della pagina di un manoscritto nella quale è raffigurato il vescovo alessandrino Teofilo, sopra il Serapeion, dal Papiro Goleniscev. V sec. Mosca, Museo Pushkin. Nella sua lotta contro il paganesimo, il presule si fece promotore della distruzione del grande complesso templare.
gendosi verso luoghi marginali e solitari, rompendo i vincoli – anche affettivi – che in esso si generavano e preparandosi a entrare autenticamente nel mondo promesso da Cristo dopo la fine della vita terrena. Le persone che scelsero di abbandonare la propria comunità di origine e, come allora si diceva, di ritirarsi nel «deserto» per perseguirvi una vita dedicata alla preghiera nell’isolamento, rinunciando ai beni terreni con l’obiettivo di una «vita perfecta», furono dette «monaci» (dal latino tardo monachu(m), a sua volta derivato dal greco monachós, «unico», n.d.r.) Abbandonando il legame con il «secolo», inteso come tutto ciò che vive nella dimensione effimera e mortale della materialità, si cercava di raggiungere la vita perfecta, e cioè la scelta dei beni imperituri dello spirito, sull’esempio del Cristo, che visse per annunciare il Padre e nell’attesa di ricongiungersi a Lui dopo la morte corporea. Non stupisce, per le ragioni ricordate in precedenza, che le aree dell’Oriente mediterraneo abbiano costituito la culla di questo movimento che si espresse in maniera assai variegata. Le esperienze di vita ascetica cristiana che si affermarono in queste regioni (Egitto, Siria, Palestina, aree sud-orientali dell’Asia Minore) presentano tratti comuni: l’abbandono dei beni materiali, la lotta contro i desideri carnali (soprattutto quelli sessuali e quelli legati al cibo) e la ricerca di una capacità di dominio dei sentimenti di antagonismo verso il prossimo. Il fine era il raggiungimento di un colloquio diretto con Dio, attraverso un esercizio continuo (l’ascesi), volto a trasformare chi lo praticava in un essere già interamente votato alla vita che sarebbe iniziata dopo la conclusione del transito terreno.
Pagani e cristiani sulla via dell’ascesi
Il multiforme paesaggio dell’ascetismo cristiano, che inizia a prendere forma storica fra il III e il IV secolo, non si nutre solo di suggestioni e riferimenti nati nell’alveo della nuova religione, ma trova riferimenti in una lunga tradizione di spiritualità cresciuta sia nel mondo genericamente definito «pagano», sia in quello giudaico. Anche nelle tradizioni mediterranee anteriori a quella del monachesimo cristiano, l’idea del perseguimento di una vita di perfezione spirituale trovava forte caratterizzazione nei concetti dell’allontanamento dalle sedi umane e nella definizione – in luoghi lontani o quanto meno separati da esse – di uno spazio «altro», riservato solo a chi avesse intrapreso tale percorso. Nella letteratura cristiana tardo-antica che tratta le tematiche della vita monastica, il concetto
dell’abbandono del mondo si caratterizza quasi sempre come un percorso di allontanamento dalla città, rappresentata come luogo-simbolo della sottomissione dell’uomo alle lusinghe della vita terrena. Il raggiungimento di un luogo dalle caratteristiche completamente diverse si guadagna attraverso un processo di distacco – al contempo fisico e mentale – da quanto si è deciso di abbandonare (fama, onori, ricchezza, appagamento sessuale, piaceri del cibo), ed è quindi innanzitutto caratterizzato da un’assenza: è ciò che gli autori latini definiscono desertum, termine che contiene in sé tanto la nozione della carenza di qualcosa, quanto della libertà, dello scioglimento (de-serere) da questo qualcosa, rappresentato dalla vita anteriore da cui ci si è estraniati. Uno spazio nuovo e vuoto, quindi, che dovrà essere riempito con lo slancio spirituale di chi si avvia verso la nuova vita.
Sulla cima di una colonna
Il luogo deserto nel quale il monaco trova la propria sede viene spesso descritto non soltanto come antitetico alla città, ma anche remoto e inaccessibile. Tuttavia, l’isolamento non necessariamente si realizza solo ritirandosi in luoghi difficili da raggiungere, ma perché, ovunque esso si trovi, il monaco lo definisce e lo delimita come uno spazio precluso a chiunque. Si potrebbe dire che egli costruisce intorno a sé una sorta di pomerium (vocabolo latino che, in età romana, indicava il limite di una città, n.d.r.), che ha la funzione di rendere visibile la diversità della dimensione nella quale ha scelto di vivere: un isolamento tangibile ed evidente e, al contempo, sebbene fragile, invalicabile per gli altri, proprio in ragione del distacco raggiunto, nello spirito, dalle cose del mondo. La scelta effettuata dall’asceta siriano Simeone lo Stilita, vissuto nel V secolo, di collocarsi in cima a una colonna, simboleggia in modo estremo l’isolamento del monaco proteso verso Dio e per questo irraggiungibile dagli altri uomini, anche se mai superbo e vanaglorioso nei loro confronti e comunque pronto a dialogare con loro. La dipartita (anacoresi) del monaco dalla città non era considerata solo come un atto di rifiuto verso ciò che ci si lasciava alle spalle, bensí soprattutto come l’aprirsi di una nuova prospettiva di vita: quella della creazione di una dimensione nella quale si potesse dare un’altra possibilità a chi avesse voluto realizzare l’obiettivo di un’esistenza piú giusta e conforme agli insegnamenti divini e, soprattutto, governata dal comune intendimento di abbandonare qualsiasi interesse per i beni terreni. MONACHESIMO
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Gli esordi
Trittico degli eremiti, olio su tavola di Hieronymus Bosch. 1493 circa. Venezia, Gallerie dell’Accademia. Nella prima metà del IV secolo, in alcune regioni dell’Oriente, un numero rilevante di persone decise di fuggire nel «deserto» per incontrarvi Cristo. I luoghi di eremitaggio scelti dai personaggi piú carismatici divennero presto ricercati da altri che speravano di poter emulare, con la vicinanza, le virtú spirituali di coloro che consideravano come i propri maestri. L’agglomerazione nello stesso luogo di piú persone che condividevano il medesimo obiettivo esistenziale generò rapidamente l’idea che la prossimità si potesse trasformare in una convivenza piú strutturata. In altre parole, che si potesse costituire una vera e propria vita comune (koinos bios, in greco, da cui «cenobio»), preferibilmente sotto la guida di un «maestro», al quale si riconoscevano virtú superiori e quindi la capacità di indicare, attraverso la definizione di precise norme comportamentali, la via per attuare nel modo migliore gli ideali e le speranze che avevano spinto a scelte di vita cosí radicali.
In cerca di una «città nuova»
La formazione di insediamenti stabili composti da comunità di monaci, coordinati da un capo riconosciuto e dove ciascun membro riveste precisi ruoli e funzioni, costituisce un’opportunità per incanalare il crescente flusso di vocazioni alla vita monastica e rappresenta anche il momento in cui si definisce – da un punto di vista sia normativo, sia materiale – lo spazio in cui queste persone vivono. Il cenobio, quindi, si configura come l’alternativa possibile alla polis per una convivenza associata, scevra dai disvalori e dagli stili di vita che caratterizzano il mondo di coloro che non hanno saputo rinunciare ai beni terreni. Tuttavia, i progetti di costruzione di città «nuove» non liberarono molti monaci dalla tentazione di tornare in quelle che essi avevano abbandonato, con l’intento di sradicarvi i cattivi costumi e ogni tipo di devianza religiosa. Le vicende della filosofa alessandrina Ipazia, vissuta tra la fine del IV e i primi decenni del V secolo, mostrano come gruppi di monaci invasati e fanatici potessero irrompere sulla scena cittadina – spesso incoraggiati dalle stesse gerarchie ecclesiastiche – per colpirvi obiettivi «sensibili», come per esempio il Serapeion, considerato la roccaforte della resistenza pagana alla definitiva cristianizzazione della città (vedi box a p. 14), o per ridurre al silenzio la locale comunità ebraica. Questa componente integralista e militante della MONACHESIMO
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Gli esordi
Cappadocia, Turchia. Una suggestiva immagine dei rifugi scavati nella roccia dagli eremiti. Chiesa, polemicamente distaccatasi dalle sedi della vita associata (e in primo luogo dalle città), si sentiva in dovere di influire sul mondo che aveva abbandonato, anche operando in esso azioni radicali e destabilizzanti, che i pubblici poteri cercavano in tutti i modi di contrastare, chiamando il clero secolare a collaborare a tal fine. Tuttavia, non mancano circostanze che mostrano come i vescovi stessi non si facessero scrupolo di avvalersi della collaborazione di monaci per abbattere i propri avversari, magari sotto il pretesto che essi fossero sostenitori di posizioni eretiche, oppure semplicemente per eliminare le resistenze di parte della popolazione alla piena e totale adesione al cristianesimo. Fra ambienti monastici e gerarchia ecclesiastica, insomma, non vi era un fossato incolmabile, bensí numerose e articolate occasioni di interazione. Alcuni vescovi ritenevano che evocare i costumi di vita e le virtú dei monaci potesse dare impulso all’opera di evangelizzazione delle città e quindi accrescere il proprio controllo su di esse, nonché rafforzare il profilo morale del clero.
Luoghi inviolabili
Come afferma lo storico Peter Brown, «grazie al monachesimo, l’idea cristiana aveva allargato il suo campo d’azione nelle province orientali. Aveva accolto copti e siriaci come eroi della fede e, con l’aiuto di traduzioni, i vescovi delle città avevano incoraggiato i non greci a prendere un interesse vivo per i loro problemi teologici». In altre parole, le «città dei monaci» sorte nelle terre piú marginali di quelle province, avevano aiutato il cristianesimo fiorito nelle città del sæculum a uscire dalle proprie mura e a propagarsi. Se i monaci vedevano le città come il luogo da cui rifuggire o, eventualmente, da purificare, specularmente, nel desertum monastico non poteva introdursi chi non avesse abbandonato il secolo e le sue abitudini. A maggior ragione, nel caso di una comunità di monaci che conducevano un’esistenza comune secondo norme prestabilite, il luogo in cui essi vivevano non poteva essere violato da chi non avesse compiuto la loro identica professio. Il principio dell’aderenza del monaco cenobita alla regola vigente nello spazio della comunità a cui egli appartiene è precisato al punto da porre stretti limiti alla possibilità che, oltre ai laici, persino monaci di comunità differenti – e quindi soggetti a regole diverse – potessero introdursi tra i confratelli del monastero in cui egli viveva. MONACHESIMO
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Città del Vaticano, Cappella Sistina. La Sibilla cumana, particolare degli affreschi della volta, realizzati da Michelangelo nel 1508-1510. Le sibille erano profetesse, spesso legate al culto oracolare di un santuario: la cumana era connessa con una pratica divinatoria istituzionale dei Romani, che consisteva nella consultazione di libri che si dicevano scritti da lei, i Libri sibillini.
I primi rifugi Condizione ritenuta indispensabile per raggiungere la «vita perfetta» era l’organizzazione degli spazi secondo criteri ben precisi. Le «città dei monaci» dovevano essere accuratamente pianificate, cosí da permettere ai loro occupanti la pratica religiosa, ma anche lo svolgimento di attività produttive e l’esercizio dell’accoglienza
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isitando verso il 370 le inospitali lande della Tebaide egiziana (la regione, con capitale Tebe, che si estende a nord dell’attuale Assuan, n.d.r.), l’autore della Historia Monachorum (un occidentale identificato da molti studiosi con Rufino di Concordia), s’imbatté inaspettatamente nel monastero edificato dall’abate Isidoro. Alle severe sembianze dell’esterno faceva da pendant l’atmosfera di serena amenità dell’interno: un’oasi naturale, nella quale l’isolamento dei monaci dal mondo non era meno radicale rispetto a quello garantito dalle aspre rupi fra le quali si rifugiavano gli eremiti, ma dove era possibile contemplare ogni giorno i doni di Dio, accresciuti dal lavoro dei
confratelli, e nutrire cosí con essi lo spirito e il corpo. Isidoro e i suoi monaci avevano ben scelto il loro angolo di deserto, per dimostrare che l’ascesi comunitaria poteva partorire un nuovo modello di societas umana, piú giusta e in armonia con il creato e perciò piú vicina a Dio. L’elemento di maggior interesse è l’evidente diversità «qualitativa» dello spazio del cenobio, rispetto ai luoghi in cui trovano rifugio gli eremiti. Quanto questi ultimi sono caratterizzati da condizioni ambientali di evidente e a volte quasi estrema durezza – contro le quali si misura la titanica e solitaria ascesa alla perfezione dell’atleta di Dio –, tanto i cenobi spiccano per l’atmosfera quasi amena che vi si respira. Quest’ambiente
Tebaide, olio su tavola di Gherardo Starnina pittore attivo dal 1387 al 1409. 1350-1413. Firenze, Galleria degli Uffizi.
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L’Oriente mediterraneo
Wadi al-Natrun, Egitto. Una veduta panoramica di un monastero copto tra le dune del deserto del Sahara.
rassicurante e funzionale è però rigorosamente separato dal resto dello spazio circostante e, come abbiamo già visto parlando dei luoghi di ritiro degli eremiti, inaccessibile per chi non abbia compiuto l’irreversibile scelta dell’appartenenza alla comunità che abita questo eden dello spirito. Il confine fisico del muro di recinzione e lo snodo cruciale della soglia d’entrata – costantemente sorvegliata – costituiscono l’elemento indispensabile affinché gli equilibri interni non siano turbati dall’irruzione di elementi esterni e grazie al quale chi si trova entro le mura non abbia piú ragione d’immischiarvisi.
Vietato parlare
La minuziosa descrizione dei confini dello spazio cenobitico occupa tutta la seconda parte del testo della Regola di Pacomio, il «padre» egiziano del IV secolo ritenuto il fondatore del monachesimo comunitario. I limiti fra l’esterno e l’interno di esso sono costituiti al contempo da elementi fisici (muri, soglie, porte) e da barriere piú immateriali che i monaci erigono fra sé e gli altri, per esempio attraverso il divieto di parlare con le persone del mondo esterno e perfino di guardarle o condividere con esse oggetti e cibo. L’esigenza di un’organizzazione spaziale e, 22
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potremmo dire, ambientale della casa in cui risiede la comunità, atta a garantire standard di vivibilità meno estremi rispetto a quelli dei rifugi eremitici, discende direttamente dalla necessità di permettere una convivenza agevole nel medesimo luogo tra molti individui e consentire lo svolgimento di attività produttive (artigianali e agricole), indispensabili alla sopravvivenza della comunità stessa. Il sostentamento materiale del monaco eremita (o di piú monaci eremiti) in un determinato luogo è rappresentato, in sede letteraria, come il frutto di un concorso di elementi dipendenti da una miscela di miracolosi interventi divini e di capacità del monaco di farsi bastare le risorse offerte dalla natura circostante e di svolgere in proprio attività lavorative, i cui prodotti vengono contraccambiati dal monaco stesso con il poco cibo necessario alla sua sopravvivenza. Di solito, si tratta di oggetti di semplice artigianato, come stuoie e cestini, la cui realizzazione riempie e accompagna il tempo delle lunghe giornate che l’eremita trascorre in solitudine. Nel caso, invece, di un insediamento cenobitico, nel quale vivano decine, se non centinaia di persone, questo problema può essere risolto solo attraverso l’organizzazione di una solida
base produttiva, il cui funzionamento è assicurato dai monaci stessi e i cui frutti sono destinati alle necessità comunitarie e allo scambio con altri beni di prima necessità. Tutto ciò comporta che all’interno dello spazio monastico siano predisposti ambiti nei quali svolgere le attività destinate a garantire il raggiungimento di questi obiettivi (laboratori e orti) e che, allo stesso tempo, nel corso della giornata siano previsti tempi, precisamente scanditi, dedicati al loro adempimento.
Uno spazio per la preghiera
Il testo della Regola di Pacomio e i capitoli a essa aggiunti in un secondo momento (probabilmente scritti dal suo discepolo preferito Orsiesi) forniscono numerose indicazioni sulla presenza di strutture, ambienti e servizi necessari alla vita della comunità, presenti nel chiuso dell’area a essa riservata: le celle individuali collocate all’interno di «case» abitate da gruppi di monaci, il refettorio, le cucine con i locali annessi per la custodia dei cibi e la preparazione del pane, le stalle, i magazzini. Ma un elemento da mettere in particolare risalto è quello dello spazio destinato alla preghiera, che viene definito synaxis, cioè «luogo della riunione».
Anch’esso costituisce un luogo assolutamente privato ed è l’ultimo, in ordine di tempo, a cui una persona candidata a unirsi alla comunità può avere accesso, dopo avere superato tutte le prove ed essere stato abbigliato con la veste monastica, una volta dismessi i vestimenti con cui si era presentato alla porta del monastero. Questo aspetto è della massima importanza, poiché definisce una differenziazione radicale fra l’aula di preghiera esistente all’interno di un monastero e le chiese di altro tipo, aperte alla frequentazione dei fedeli. Naturalmente – ed è questo un elemento destinato a riproporsi costantemente nella storia del monachesimo sia orientale sia occidentale – come e da chi dovessero essere sostenuti gli oneri necessari a organizzare la «vita perfetta» di chi abitava in un cenobio costituiva un problema continuamente assillante. Il tema della sopravvivenza quotidiana di una comunità, e cioè dei suoi componenti e delle strutture in cui essa si era stabilita, s’intersecava strettamente con quello dell’impegno dei monaci in attività produttive. L’obiettivo ideale era ovviamente quello di poter raggiungere la totale autonomia rispetto al mondo esterno, organizzandosi in modo da procurarsi con il proprio MONACHESIMO
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lavoro tutto quanto fosse necessario per se stessi e per i propri confratelli. Ma tale possibilità rimaneva relegata entro i confini dell’utopia, mentre la realtà imponeva ai monaci d’istituire reti di contatti piú o meno stabili con il mondo che li circondava, al fine di veicolare sul mercato i beni da essi prodotti, in cambio di quanto non fosse disponibile sul posto o che, per vari motivi, essi non fossero in grado di realizzare con le proprie forze e competenze. Coordinare vita monastica, lavoro manuale e proiezione sul mercato dei frutti di quest’ultimo era un’operazione assai complessa, sia sul piano concettuale sia su quello eminentemente pratico. L’impegno del monaco nel lavoro manuale fu avvertito da subito come un aspetto essenziale affinché la vita ascetica potesse avere pieno compimento. La sua pratica e la gestione dei suoi frutti costituiscono quindi un ingrediente fondamentale affinché la vita monastica possa svolgersi in pienezza, armonia e concentrazione. La questione rivestiva una valenza morale e 24
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pratica al tempo stesso, nel senso che il lavoro garantiva sia la sopravvivenza, sia l’indipendenza di una comunità ascetica, sia, infine, teneva occupati i monaci nei momenti liberi dalla preghiera, evitando che nei loro cuori penetrasse l’accidia. Nel monastero di Panopoli, fondato da Pacomio lungo il medio Nilo, si contavano diversi artigiani, fra cui sarti, fabbri, carpentieri, cammellieri, gualcherai, ma anche falegnami, conciatori, calzolai, calligrafi e artigiani intenti a fabbricare canestri e panieri in fibre vegetali. Inoltre, sappiamo che vi erano monaci impegnati in lavori agricoli e di giardinaggio e nella panificazione.
Un ideale, tante soluzioni
Sebbene dettagliati ed evocativi, i racconti delle fonti letterarie sono comunque il frutto di visioni soggettive. Soprattutto su un tema cosí fortemente influenzato da motivazioni di carattere ideologico come è quello della definizione dei profili agiografici dei santi monaci, è possibile che determinati aspetti relativi ai luoghi e agli
In alto Sucevita (Romania), chiesa della Resurrezione di Sucevita. Particolare di un affresco con san Pacomio che riceve la Regola dell’Ordine da un angelo. Opera di un artista anonimo della cerchia di Gheorghe Movila. 1595-1596.
Tra il fiume e il deserto Lago di Bourlos
Alessandria Alessandr ri ri ria
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Lago di Edkou Lago Mareotide
A sinistra cartina dell’area del Delta del Nilo, con, in evidenza, l’area in cui si insediò la comunità dei Kellia. Qui sotto disegno ricostruttivo di un eremitaggio dei Kellia. Il modulo ricorrente, pensato
per adeguarsi a uno stile di vita sostanzialmente eremitico, consisteva in una struttura destinata a ospitare un monaco di solito assistito da un novizio. La massima fioritura dell’insediamento si ebbe fra il VI e il VII sec.
Deserto di Nitria
Kellia Baramus uss
Wadi al-Natrun
S.. Bishoi Bisho hoii
In basso veduta a volo d’uccello dell’area dei Kellia: sono ben leggibili i resti delle strutture occupate dai monaci, che sorsero l’uno accanto all’altro nell’assolata piana stepposa.
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ambienti in cui essi vivevano siano stati adattati a beneficio dell’identità del personaggio che s’intendeva trattare. Per queste ragioni è importante un riscontro con i resti materiali dei numerosi insediamenti monastici di questo periodo sopravvissuti fra Egitto, Siria e Palestina e indagati dagli archeologi. Una delle zone che conservano tracce di maggiore antichità è quella che ospitò la comunità
Sulle due pagine Monte Nebo. Giordania. Una veduta esterna della basilica di Mosé, eretta sul presunto sito della morte e sepoltura del profeta. Nella pagina accanto Saqqara, monastero di S. Geremia. Affresco raffigurante la Vergine che allatta il Bambino. VI-VII sec. 26
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dei Kellia, a sud-ovest di Alessandria, ai margini del Delta del Nilo: un’immensa area archeologica che costituisce parte di una vera e propria «regione monastica». I primi monaci vi si stabilirono come eremiti, già durante la prima metà del IV secolo, andando a occupare, al seguito dell’abba Ammone, terre abbastanza prossime al corso del Nilo. Successivamente, queste comunità fiorirono sin oltre l’arrivo degli Arabi.
L’area dei Kellia si sviluppò soprattutto fra il VI e il VII secolo, quando l’originaria organizzazione eremitica si trasformò progressivamente in un insieme composto da decine e decine di piccoli eremitaggi autonomi, sorti l’uno accanto all’altro nell’assolata pianura stepposa. La cellulabase dell’insediamento – che ne costituisce presumibilmente la piú antica tipologia architettonica, confacente a uno stile di vita sostanzialmente eremitico – è una struttura destinata a ospitare un monaco di solito assistito da un novizio. A partire dal pieno V secolo, si assiste però al sorgere di agglomerati piú articolati, che sembrano rappresentare un’evoluzione verso l’affermarsi di forme di vita comunitaria, adottate almeno da una parte dei monaci.
Una caratteristica costante
La presenza della recinzione o comunque di elementi naturali atti a isolare l’insediamento monastico dall’esterno e la posizione appartata della chiesa rispetto all’ingresso costituiscono una costante della conformazione dei primi insediamenti cenobitici del Mediterraneo orientale. Ciò accade, per esempio, nel grande monastero fiorito sul Monte Nebo, in Giordania, fra il VI e l’VIII secolo, e in quello siriano di Deir Turmanin, eretto tra la fine del V e l’inizio del VI secolo, la cui chiesa – circondata dagli edifici residenziali della comunità – si
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Aleppo, Siria. I resti della «Rocca di S. Simeone», il primo convento cristiano del Paese, edificato tra il 476 e il 491 per volontà dell’imperatore bizantino Zenone sul luogo della vita e della morte di san Simeone Stilita. Nel VII sec., dopo la conquista della città, venne trasformato in fortezza dagli Arabi.
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trova nel lato opposto dell’insediamento rispetto a quello riservato all’accoglienza dei visitatori. Nel grande monastero di Apa Geremia a Saqqara, in Egitto, la chiesa è letteralmente circondata dagli altri edifici. In quello di Bir-el-Qutt, in area palestinese, essa non solo è disposta tra le altre fabbriche, ma è anche priva di un accesso frontale.
Un quartiere per i visitatori
Nei monasteri orientali d’età tardo-antica l’ingresso appare spesso come una struttura complessa, nel senso che può essere caratterizzato dalla presenza di una torre, nonché dall’attiguità di ambienti destinati a ospitare il guardiano e gli eventuali visitatori. Cosí accade nel mona-
stero palestinese di Martyrios, dove l’entrata è presidiata dalla cella del portinaio, e, accanto a essa, è edificato anche un intero quartiere destinato all’accoglienza dei visitatori, collocato però in una posizione nettamente distinta ed esterna rispetto al recinto murario che racchiude l’area destinata all’insediamento dei monaci. Quanto agli altri edifici, è spesso attestata la presenza di un ambiente adibito a refettorio, mentre gli alloggi dei monaci possono essere costituiti sia da ambienti comunitari – e cioè veri e propri dormitori –, sia da raggruppamenti di celle individuali. L’obiettivo dell’autosufficienza della comunità rispetto all’esterno si rispecchia nella presenza di strutture per la preparazione dei pasti, per lo stoc-
a partire dall’Egitto, hanno conosciuto il fiorire della vita ascetica e soprattutto di quella in vario modo associata in comunità stabili. In questo senso, la concezione dello spazio monastico come luogo «altro», rivendicato a una funzione di palingenesi spirituale, non può non aver influito sulla definizione della morfologia materiale di questi insediamenti. E, infatti, anche nei cosiddetti «monasteri di servizio» – e cioè quelli costruiti per fornire alloggio a monaci che operavano in assistenza a grandi santuari di pellegrinaggio – non solo lo spazio residenziale della comunità monastica è separato in modo netto da quelli accessibili ai pellegrini e destinati alla loro accoglienza, ma al suo interno vi può essere un’aula per la preghiera specificamente riservata ai monaci. È il caso, per esempio, dei santuari di Qalaat Simaan (la Rocca di Simeone, n.d.r.) e di Deir Simaan nella Siria settentrionale e dell’immenso complesso di Abu Mina nel Basso Egitto.
La santità attira i pellegrini
caggio delle provviste e, in alcuni casi, di spazi destinati a orto e frutteto. La presenza dei diversi elementi funzionali archeologicamente riscontrabili negli insediamenti monastici orientali tardo-antichi e la loro corrispondenza con quanto prescritto da testi normativi non approda però alla definizione di un modello architettonico standardizzato. Ogni monastero, in effetti, rappresenta un caso a sé quanto alla disposizione degli edifici, alla loro reciproca connessione e alla loro qualità architettonica. Esistono, tuttavia, elementi di affinità tra i vari insediamenti, e ciò si evidenzia nella misura in cui alcuni principi ispiratori del senso e delle finalità della vita monastica sono stati evidentemente oggetto di condivisione nelle regioni che,
In sostanza, benché costituisca uno spazio alternativo e rigorosamente distinto da quello delle città secolari e inaccessibile ai piú, la città dei monaci non è uno spazio invisibile. Essa non solo agisce su un piano generale come punto di riferimento spirituale ma, soprattutto quando al proprio interno si affermino figure alle quali viene riconosciuto il carisma della santità, si può proporre anche come un vero e proprio luogo di pellegrinaggio. Le esperienze monastiche maturate nell’Oriente tardo-antico costituiscono il contesto di riferimento per quanto accadde in Occidente a partire dalla fine del IV secolo. Ed è ben chiaro, scorrendo i testi normativi del monachesimo cenobitico occidentale apparsi fra il V e il VI secolo, quanto la loro redazione sia stata ispirata dagli autori orientali nel delineare i principi organizzativi della vita comunitaria e delle condizioni ambientali ottimali in cui essa si sarebbe dovuta praticare. In Occidente esso conoscerà una paradossale fortuna quando – venuti meno il quadro istituzionale e sociale del tardo impero – la dialettica città-campagna sperimenterà equilibri del tutto nuovi. Ruralizzandosi la città, l’«urbanesimo monastico» delle campagne giocò allora un ruolo inedito: anziché porsi come antagonista al potere secolare tese piuttosto a dialogare e a collaborare con esso. E la sua organizzazione intellettuale e operativa contribuí in modo significativo a definire l’assetto economico e culturale dell’Europa altomedievale. MONACHESIMO
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Fuggire dal mondo Nei primi secoli del cristianesimo si rafforza la tendenza a cercare luoghi lontani e appartati per praticare la comunione con Dio: molti eremiti scelgono isole o altre zone defilate. Tuttavia, proprio perché conducono un’esistenza esemplare, questi spiriti illuminati vengono presi a esempio: il loro isolamento è spesso di breve durata, trasformandosi in esperienze di vita comunitaria dalle quali nascono le prime grandi congregazioni Isola di Montecristo, Livorno. I resti del monastero intitolato a san Mamiliano, vescovo palermitano che qui si rifugiò in eremitaggio intorno al 450. Fra il V e il VI sec. sono numerose le testimonianze di simili presenze nell’arcipelago toscano, anche se spesso si basano su fonti agiografiche di incerta cronologia.
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I
l poeta Claudio Rutilio Namaziano credeva fermamente che l’impero fosse una creazione eterna e che servire Roma fosse il piú grande degli onori. Era nato nella Gallia Narbonese, ma si sentiva romano quanto un nativo dell’Urbe. Nel 414, solo quattro anni dopo il sacco compiuto dai Visigoti di Alarico, si trovò a ricoprire la difficile funzione di prefetto di Roma, ma, nell’anno successivo, dovette frettolosamente lasciare la città, perché le proprietà familiari in Gallia correvano il pericolo di essere devastate dal passaggio dei Goti che si erano ritirati Oltralpe dopo la scorreria compiuta in Italia. Forse per mitigare la malinconia di dover lasciare Roma, Rutilio cantò in un breve poema (De Reditu Suo) il viaggio di ritorno nelle sue terre, alternando la tristezza per l’abbandono in cui vedeva versare le città della costa tirrenica agli aneliti di speranza per il futuro dell’impero. A un certo punto della sua navigazione, l’ex prefetto fece però un incontro che, piú di altri, gli apparve come il segno di un disfacimento della cultura e dello spirito stesso del suo mondo, assai piú pericoloso di quello causato dalle scorrerie dei barbari, perché generatosi all’interno della società romana. Quando era in vista della Corsica, Rutilio ricorda che: «Mentre avanziamo per mare, ci lasciammo indietro Capraia, un’isola mal tenuta e abitata da uomini che aborrono la luce del sole. Usando
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L’età tardo-antica
Nella pagina accanto Elemosina di San Martino, predella realizzata da Lorenzo di Bicci per la Corporazione delle Arti di Firenze e originariamente collocata nella chiesa di Orsanmichele. 1385-1389 circa. Firenze, Galleria dell’Accademia. Sulle due pagine Isola di S. Onorato, Cannes. Una veduta dell’abbazia di Lérins, la cui prima fondazione risale agli inizi del V sec.
una parola greca, si fanno chiamare monaci, perché desiderano vivere da soli senza vedere nessuno. Hanno paura dei favori della fortuna, cosí come ne temono gli oltraggi: potrebbe un uomo, ragionevolmente, per sfuggire l’infelicità, vivere per sua scelta in essa? Che tipo di stupido fanatismo partorito da una mente distorta è quello di essere perfino incapaci di accettare i doni del destino per timore dei suoi rovesci? Non so se essi siano come prigionieri che domandano la punizione appropriata per le loro azioni, o se invece i loro cuori siano alimentati da bile nera» (De reditu Suo, I, 439-448).
Una vita da condannare
L’aristocratico gallo riteneva che il rifugiarsi dei monaci nelle isole toscane fosse da considerarsi sostanzialmente come un atto di viltà verso la vita e verso i doveri civici che essa impone, nonché un insulto ai favori che la fortuna può dispensare e di cui fare giusto uso. A maggior ragione, la scelta di una vita eremitica era da condannare senza appello in un momento in cui le istituzioni dell’impero erano minacciate nella loro stessa esistenza. Naturalmente, il punto di vista monastico è diametralmente opposto e parte dal presupposto che le
leggi che governano la società degli uomini – e in particolare le città - siano improntate all’ingiustizia e al rifiuto di Dio e che colui che ricerca la solitudine lo fa anche per costruire l’opportunità di una società alternativa che, a buon bisogno, possa gettare luce riflessa su quella del secolo, per spronarlo a migliorarsi. Le isole sembrano svolgere la medesima funzione del deserto nelle preferenze dei primi monaci che, dalla seconda metà del IV secolo, iniziarono a comparire nelle regioni occidentali dell’impero, come testimonia la biografia di Martino di Tours. Martino era un ex soldato romano di origine illirica convertitosi al cristianesimo in Gallia, dove era stato inviato a svolgere il proprio servizio. Era divenuto monaco quasi per caso, poiché costretto a lasciare il clero di Poitiers, all’interno del quale era stato ordinato sacerdote, dal momento che in città prevaleva l’eresia ariana sostenuta dal figlio di Costantino, Costante II. Dopo una tappa a Milano, si spostò quindi nell’attuale Liguria, dove, come si legge nella Vita di S. Martino composta dallo scrittore ecclesiastico Sulpicio Severo: «Si ritirò nell’isola denominata Gallinaria, in compagnia di un prete, uomo di grandi virtú. Qui per alquanto tempo si sostentò con le radici delle erbe».
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MONACHESIMO In basso Alatri (Frosinone). Il monastero di S. Sebastiano, edificato sulle proprietà donate da un illustre senatore, Pietro Marcellino Felice Liberio, un contemporaneo di Cassiodoro. Lo stesso Liberio incaricò dei lavori un monaco di nome Servando e la costruzione del complesso fu ultimata agli inizi del VI sec. Poco piú tardi, nel 528, vi sarebbe stato ospitato Benedetto da Norcia, in viaggio da Subiaco verso Montecassino.
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Trionfata di nuovo la fede cattolica nella sua Tours, Martino vi fece ritorno e, pur contro la sua volontà, vi fu acclamato vescovo. Costretto ad accettare la nomina, cercò di contemperare i doveri della carica con la preghiera e contemplazione. Decise quindi di continuare a vivere fuori città, costruendosi un rifugio sulle rive della Loira, collocato in una posizione tale da farlo ancora sentire nella remota isola della Liguria in cui la sua vocazione all’ascesi si era formata e consolidata. Sono numerose le testimonianze di presenze, soprattutto di tipo eremitico che, fra il V e il VI secolo, abitano principalmente le isole dell’arcipelago toscano – anche se, purtroppo, esse dipendono in buona parte da fonti agiografiche di cronologia incerta –, ma il caso piú eclatante di secessus monastico insulare d’Occidente è sicuramente rappresentato dall’insediamento sorto sull’isola di Lérins, posta di fronte alla città di Cannes. Esso venne fondato nei primi anni del V secolo da Onorato, un giovane cristiano «di buona famiglia» della Gallia meridionale, suggestionato dalla fama degli asceti orientali. Sin dagli inizi, però, il ritiro lerinese intrattenne un dialogo continuo con la terraferma e in particolare con i rappresentanti della gerarchia episcopale. Il riferimento di Onorato sul territorio fu il vescovo della vicina città di Fréjus, Leonzio, che agí da protettore e garante della vita monastica sull’isola. Lo stesso Onorato nel 426 abbandonò la sua fondazione per essere chiamato «nel secolo» a ricoprire la cattedra vescovile di Arles, che a quel tempo era la città piú importante della Gallia romana. Per molti membri della comunità di Lérins, la permanenza nel «deserto» rappresentò, quindi, un transito in attesa di un rientro nel sæculum,
per testimoniarvi e cercar di diffondervi il rovesciamento di valori che l’esperienza dell’ascesi aveva nel frattempo insegnato loro. Nel celebre monastero provenzale ricevettero la loro prima formazione diversi personaggi, divenuti in seguito titolari di cattedre vescovili in Provenza, Aquitania, Alvernia e in altre regioni della Gallia centrale e meridionale. Tuttavia, la vita di Lérins, vivacissima sino alla metà del VI secolo, iniziò a offuscarsi nei decenni successivi quando, come vedremo piú avanti, un nuovo tipo di monachesimo venuto dal Nord iniziò a farsi strada nelle regioni transalpine.
Anche i ricchi pregano
Poco prima della metà del IV secolo, l’esilio in Italia e in Gallia di Atanasio, patriarca di Alessandria d’Egitto e autore della biografia di Antonio, aveva diffuso in alcune importanti città di quelle regioni – come Treviri, Aquileia e Roma – informazioni di prima mano sulle esperienze di vita anacoretica (dal verbo greco anachoreo, «ritirarsi») fiorite soprattutto in Egitto. Qualche anno piú tardi, la conoscenza del mondo monastico orientale vi fu veicolata anche dalle testimonianze di Rufino di Concordia e di san Girolamo. In particolare, quest’ultimo, nel corso del suo soggiorno romano avvenuto fra il 382 e il 384, ebbe modo di stringere rapporti importanti con personaggi, soprattutto femminili, provenienti dagli ambienti aristocratici della città. Girolamo ebbe la capacità di trasmettere un forte entusiasmo e un sincero desiderio di emulazione nei confronti delle figure che egli aveva direttamente avvicinato nei suoi viaggi in Oriente. Il futuro santo sosteneva che la conversione alla vita ascetica dovesse costituire una provocazione permanente nei confronti della società ro-
Miniatura raffigurante il possibile aspetto del Vivarium, il monastero fondato presso Squillace, in Calabria, negli anni Cinquanta del VI sec. da Cassiodoro, da un’edizione manoscritta delle Institutiones divinarum et saecularium litterarum scritte dallo stesso Cassiodoro. VIII sec. Bamberga, Staatsbibliothek.
mana, a suo avviso materialista e gaudente nonostante la formale adesione al cristianesimo anche di buona parte dei suoi ceti egemoni. La clamorosa conversione alla vita monastica di Demetriade, figlia di Ermogeniano Olibrio (console nel 395, uno dei personaggi piú potenti della città), gli sembrava la risposta piú convincente in direzione di un rinnovamento culturale della società romana dopo il trauma del sacco subito dai Visigoti nel 410. Nel 414, Girolamo scrisse a Demetriade dicendole che la sua adesione alla vita monastica e l’abbandono di tutte le consuetudini mondane della vita cittadina avrebbe potuto, paradossalmente, riscattare a nuova dignità la stessa Roma, tramortita dal colpo ricevuto dai barbari. La «provocazione» di scelte come quella di Demetriade poteva essere tanto piú efficace e capace di determinare consenso, in quanto proveniente da esponenti del ceto egemone in grado di garantire anche per altri, attraverso i mezzi di cui disponeva, l’attuazione materiale di un pro-
getto di vita che aveva bisogno di risorse per poter essere sostenuto nel tempo. Le parole di Girolamo dovevano aver trovato un qualche ascolto fra i ricchi romani convertiti al cristianesimo. Accanto alle splendide chiese destinate al culto dei fedeli, tra la fine del IV secolo e l’inizio del V a Roma nacque anche un mecenatismo cristiano indirizzato al potenziamento delle presenze monastiche e che ne utilizzava gruppi di asceti per realizzare opere di carità. Nel periodo compreso fra il sacco di Alarico (410) e lo scoppio della guerra greco-gotica (535), in città si registrano varie fondazioni monastiche, dovute sia ad aristocratici, sia a pontefici, alcune delle quali destinate a coadiuvare il clero nella gestione del funzionamento dei grandi santuari cittadini e a svolgere funzioni di assistenza per i malati, gli indigenti e i pellegrini. Esponenti dell’aristocrazia cittadina fornirono capitali e terreni per la realizzazione, fra Roma e Portus, di xeno(segue a p. 38) MONACHESIMO
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Qui accanto Roma, S. Gregorio al Celio.La cattedra di età romana che la tradizione venera come la sede dalla quale Gregorio Magno insegnava e pronunciava le sue omelie. La chiesa sorge in prossimità del clivus Scauri, nella stessa area in cui, nel VI sec., lo stesso Gregorio aveva fondato il monastero di S. Andrea.
I PADRI DELLA CHIESA Dal I al VII secolo emersero figure di scrittori cristiani, di lingua latina e greca, che per la qualità delle loro riflessioni in ambito dottrinario e teologico vennero definiti «Padri della Chiesa». Tra i pensatori latini piú autorevoli sono da menzionare: Ilario, vescovo di
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Poitiers (315-367); Ambrogio, vescovo di Milano (339-397); il teologo e traduttore della Bibbia Gerolamo (347-420); Agostino, vescovo di Ippona (354-430) e papa Gregorio I Magno (540-604). Tra gli scrittori greci si distinsero, invece: Ireneo di Lione
I percorsi della predicazione Le tracce dei Padri della Chiesa nei luoghi dove operarono, diffondendo le loro dottrine.
In alto l’oratorio di S. Barbara, compreso nel complesso della chiesa di S. Gregorio al Celio. Al centro è collocata una mensa marmorea del III sec. che Gregorio Magno avrebbe utilizzato per dar da mangiare ogni giorno a dodici poveri. In basso il clivus Scauri in un disegno a penna e bistro su carta eseguito da Jan Brueghel, detto «dei Velluti», nel novembre del 1594. Parigi, Fondation Custodia.
(140-208); Atanasio, vescovo di Alessandria (296-373); Basilio il Grande, vescovo di Cesarea (329-379); Gregorio di Nazianzo (329-390), vescovo di Costantinopoli; Gregorio, vescovo di Nissa (335-394) e Giovanni Crisostomo, vescovo di Costantinopoli (345-407).
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San Benedetto nella caverna nutrito dal monaco Romano, particolare di una predella dipinta da Neroccio de’ Landi (forse con la collaborazione di Francesco di Giorgio Martini). 1470-1472. Firenze, Galleria degli Uffizi.
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dochia, ovvero di istituzioni destinate a fornire ospitalità a viaggiatori e stranieri. I monasteri installati nelle dimore aristocratiche, di cui parlano Girolamo e Agostino, dovevano però essere diversi poiché si può immaginare che, in questi casi, la trasformazione investisse non tanto le strutture materiali, quanto piuttosto i costumi e i ritmi di vita che si conducevano all’interno delle domus i cui proprietari avevano deciso di abbracciare la vita monastica. Uno di questi fu il monastero di S. Andrea ad Clivum Scauri, fondato da Gregorio Magno sul Celio negli anni Settanta del VI secolo nella sua dimora familiare. L’antica domus era stata adattata per soddisfare i bisogni di una vera e propria comunità: vi dovevano essere tre oratori e una biblioteca, ma si era conservato un triclinium che probabilmente si utilizzava come refettorio. Gli stessi munifici aristocratici potevano essere talvolta non soltanto i fondatori di un santuario e gli istitutori di una comunità di monaci che vi prestassero servizio, ma perfino divenirne personalmente i custodi. Un caso emblematico è
quello verificatosi, fra il IV e il V secolo, a Cimitile, presso Nola, nella piana alle spalle del Vesuvio, presso un santuario divenuto meta di intensi pellegrinaggi.
Cassiodoro, grande mediatore
Al milieu monastico di matrice «aristocratica» e fortemente caratterizzato sotto il profilo dell’impegno intellettuale appartiene a pieno titolo anche la fondazione calabrese del Vivarium, sorta presso Squillace negli anni Cinquanta del VI secolo, a opera di Cassiodoro. Questi viene spesso ricordato, insieme a Boezio, come uno degli Italiani che con piú slancio cercarono di istituire un rapporto di collaborazione con gli Ostrogoti, padroni della Penisola dal 493. Nel 540, dopo che i Bizantini ebbero riconquistato Ravenna, Cassiodoro comprese che era giunto il momento di abbandonare la vita pubblica. Nel 554 tornò definitivamente in Calabria, sua terra d’origine, dove fondò, all’interno di una sua proprietà, un luogo di ritiro intellettuale e spirituale. L’idea-guida era quella di convertire in una prospettiva cristiana l’antica tradizione
sterno, ottenuta mediante l’erezione del muro di cinta e l’ulteriore distinzione dell’area riservata alle funzioni piú rilevanti della vita ascetica: la preghiera, la refezione e il riposo.
Benedetto da Norcia e la sua Regola
romana della «vita in villa». La bellezza del paesaggio e l’isolamento da luoghi troppo frequentati avrebbero dovuto ispirare non solo la preghiera e la meditazione, ma anche lo studio, elemento centrale nella concezione cassiodoriana della vita consacrata a Dio. Accanto a questi monasteri impiantati nelle ville dei loro aristocratici fondatori, che spesso vi si ritiravano per seguire la propria vocazione, molti altri dovevano essere abitati da monaci dai natali meno nobili. Il sito di uno di essi è stato individuato nel territorio di Alatri, costruito sulle proprietà donate da un illustre senatore, Pietro Marcellino Felice Liberio, un contemporaneo di Cassiodoro. Il monastero di Alatri, dedicato a san Sebastiano, non sorse negli spazi di una preesistente villa riadattata ai bisogni dei monaci, ma sembrerebbe essere stato edificato ex novo, secondo principi architettonici assai spartani. La semplice articolazione del complesso monastico di S. Sebastiano di Alatri ripropone alcuni degli elementi tipici degli insediamenti monastici visti nell’Oriente mediterraneo e, cioè, la marcata separazione dall’e-
Negli atti del concilio tenutosi nel 380 a Saragozza, in Spagna, troviamo un passo in cui i vescovi riuniti definiscono polemicamente monachi i chierici che rifiutano di partecipare agli uffici ecclesiastici come forma di protesta nei confronti della rilassatezza morale della Chiesa secolare. Si è visto che, durante il V secolo, in ambito sia romano sia gallico, l’istituzione di monasteri con finalità di servizio presso i santuari urbani, ovvero presso le istituzioni caritative e assistenziali, aveva visto protagonisti papi e vescovi. In sostanza, la posizione assunta dalla Chiesa nel V e VI secolo fu di riconoscere la peculiarità del percorso spirituale monastico e la condizione di separatezza che esso persegue rispetto al mondo secolare. Allo stesso tempo, si cercava di evitare di subire alcuni contraccolpi che lo sviluppo della religiosità monastica avrebbe potuto determinare nella gestione degli affari ecclesiastici (e soprattutto in quella dell’attività pastorale), scongiurando l’eventualità che i monasteri agissero come una sorta di «chiesa parallela» che pretendesse però d’immischiarsi nelle faccende di quella secolare. Si cercò quindi di fare sí che il controllo sulle fondazioni monastiche rimanesse nelle mani dei vescovi, i quali avrebbero perfino potuto impegnarsi per definire essi stessi le modalità migliori di attuazione della vita ascetica, magari anche «contaminando» gli stili di vita del clero secolare con quelli che essa proponeva. Tuttavia, se uno dei problemi è rappresentato dall’esigenza delle strutture ecclesiastiche secolari di definire il proprio rapporto con il mondo monastico, è altrettanto vero che quest’ultimo, nel V secolo, definí in maniera piú precisa i propri compiti e la propria identità. A partire dal V secolo si assiste a un moto convergente – che coinvolge Italia, Gallia e Penisola Iberica – diretto verso un’elaborazione originale di parametri e profili di configurazione della vita ascetica e della sua organizzazione. In questo periodo compare cosí un genere letterario nuovo che si propone di definire, piú o meno sistematicamente, principi etici e precetti pratici d’ausilio alla vita quotidiana delle comunità monastiche: sono le cosiddette «Regole», che compongono un corpus di circa trenta testi, non sempre facilmente databili, ma di natura MONACHESIMO
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A sinistra Subiaco, Roma. Il monastero di S. Benedetto (o «del Sacro Speco»). A destra miniatura raffigurante Desiderio, abate di Montecassino, che offre a san Benedetto un volume riccamente miniato, assieme ad altri libri da lui commissionati, deposti a terra. XI sec. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. molto simile e spesso legati da intricati rapporti d’interdipendenza. Essi mostrano evidenti derivazioni da modelli orientali, ma la loro redazione ex novo in Occidente rappresenta un momento decisivo di meditata e originale rielaborazione di quegli stessi modelli. I testi delle Regulæ monastiche prodotti all’interno di comunità attive nelle principali regioni dell’Occidente romano si occuparono abbastanza sistematicamente di come dovesse essere strutturato lo spazio dei cenobi e di come i monaci dovessero vivere al suo interno. Probabilmente, tale sollecitudine derivò proprio dalla consapevolezza che la professione monastica si doveva trasformare in una proposta di vita religiosa dai connotati pienamente riconoscibili.
Insofferente ai costumi di Roma
La vita di Benedetto da Norcia rappresenta per molti aspetti il compimento di questo passaggio, scandito nelle diverse fasi entro cui – nell’arco di quasi un cinquantennio – si dipana la sua esperienza ascetica. I suoi esordi si collocano nel primo decennio del VI secolo, periodo in cui in Italia si consolidava il dominio di Teodorico e in cui iniziava a dispiegarsi l’azione politica del sovrano goto, caratterizzata da forti accenti celebrativi nei confronti della romanità e, soprattutto della sua civilitas urbana. Racconta Gregorio Magno che Benedetto era giunto a Roma adolescente, poco dopo il 500, per compiervi la sua istruzione, e la sua decisione, maturata poco dopo, di intraprendere l’ascesi monastica sarebbe derivata proprio dall’insofferenza per i costumi immorali di cui aveva constatato la diffusione in città e, soprattutto, fra i suoi compagni di studi. Lasciata Roma per le aree del Lazio interno gravitanti intorno alla valle dell’Aniene, Benedetto intraprese un’esistenza vocata al piú rigoroso eremitismo, la cui esemplarità rese però il giovane asceta rapidamente noto e venerato presso coloro che abitavano nei dintorni del suo rifugio. Com’era accaduto a Pacomio, anche Benedetto fu richiamato dalla sua solitudine per mettere le proprie virtú a servizio di altri monaci, al fine di praticare l’ascesi in forma cenobitica. Tuttavia, le sue prime esperienze di leadership comunitaria,
praticate a Subiaco, furono costellate di insuccessi e di scontri con i confratelli, soprattutto per via delle incoerenze comportamentali dei monaci e delle resistenze che essi opponevano a Benedetto, il quale, al contrario, operava affinché fra teoria e prassi della vita ascetica non s’insinuassero contraddizioni. Il primo cenobio di cui Benedetto divenne abate esisteva già e Gregorio Magno afferma che la sua comunità viveva secundum regulam, il cui contenuto Benedetto aveva accettato senza battere ciglio, incaricandosi semplicemente di fare in modo che i monaci ne rispettassero le prescrizioni. Che i membri della sua comunità dovessero organizzare la propria vita sulla base di un testo partorito dalla sua penna, come egli fece quando scrisse la sua Regula negli ultimi anni di vita, a Montecassino, doveva perciò apparirgli cosa naturale, alla luce delle esperienze maturate sin dalla sua giovinezza. Nelle Regole tardo-antiche si distilla quindi il senso dell’esperienza ascetica che i loro redattori avevano o personalmente vissuto, o di cui erano a conoscenza attraverso le testimonianze di altri. E certamente, nel comporsi di queste esperienze, doveva rivestire un ruolo fondamentale la capacità di organizzare materialmente spazi e ambienti in cui le comunità avrebbero dovuto trascorrere la propria esistenza. MONACHESIMO
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Passaggio a Nord-Ovest Nell’Alto Medioevo, la diffusione del cristianesimo in Europa fu ampia e toccò anche le aree piú settentrionali del continente. Un’opera di evangelizzazione che ebbe fra i suoi artefici un manipolo di infaticabili abati irlandesi
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ato poco dopo il 540 nella regione del Leinster, nel Sud-Est dell’Irlanda, Colombano, appena adolescente, aveva già maturato la decisione di consacrare la sua vita al Dio morto sulla Croce cinque secoli prima nella lontana Gerusalemme, la cui fama aveva raggiunto l’isola neanche cento anni addietro. Il giovane era però pieno di dubbi e, benché si stesse impegnando per dotarsi di un’istruzione adeguata – probabilmente presso un monastero della sua regione natale –, sentiva venire meno la giusta ispirazione per trovare
Contea di Galway, Irlanda. Una veduta delle rovine dell’abbazia di Kilmacduagh.
ancora motivazioni sufficienti a continuare il proprio cammino spirituale. Vagando per le campagne, giunse un giorno presso un eremo nel quale viveva in segregazione ascetica una donna, ormai non piú giovane, alla quale si rivolse per chiedere consiglio sul proprio futuro. Le sue parole rivolte a Colombano furono piuttosto dure, anche se pronunciate con affetto: perché si tormentava, lui che era maschio e giovane? Lei che era donna e ormai anziana non aveva piú molte carte da giocare e, ormai, sarebbe rimasta per
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MONACHESIMO In basso placca in bronzo dorato raffigurante la Crocifissione di Cristo, dalla chiesa di St. John a Rinnegan (Contea di Roscommon, Irlanda). Fine del VII sec. Dublino, National Museum of Ireland. In basso, ai lati del Salvatore stanno Longino e un altro soldato romano, mentre in alto volteggiano due angeli.
Il mondo «barbarico»
sempre lí nel suo eremo. Ma a lui, Colombano, la vita poteva dischiudere ancora tutto e, se il posto in cui si trovava non gli offriva piú gli stimoli necessari, non doveva fare altro che andarsene per mare, peregrinando verso terre piú lontane. Con l’aiuto di Dio avrebbe infine trovato il luogo in cui avrebbe potuto dare piena soddisfazione alle proprie aspirazioni. Colombano prese alla lettera i consigli della veneranda asceta e, lasciata l’Irlanda, iniziò una vita di peregrinazioni che lo condusse prima nel Galles, poi in Francia e infine in Italia, dove chiuse i suoi giorni nel 615. La sua peregrinatio durò per mezzo secolo, e in tutti i luoghi da essa attraversati (soprattutto in Francia e in Italia) lasciò dietro di sé un’eredità di nuove fondazioni monastiche destinate ad affermarsi come altrettanti capisaldi della vita spirituale dell’intero continente durante tutto l’Alto Medioevo.
Esperienze originali
Irlanda, Gran Bretagna, Francia e infine Italia: la vita di Colombano percorse tutti gli scenari principali di una nuova stagione del monachesimo cristiano che, sebbene fiorito sul terreno delle tradizioni e dei principi di quello tardo-antico, sviluppò esperienze e realizzazioni profondamente originali, espressioni di una fase storica ormai molto diversa da quella degli ultimi secoli dell’impero romano. Il monachesimo «venuto dal Nord» produsse una nuova generazione di cenobi, che modificò profondamente gli epicentri della vita ascetica dell’Europa occidentale. Dall’area mediterranea, dove fra i secoli V e VI si erano sviluppate tutte le principali esperienze monastiche, il fermento delle nuove fondazioni si spostò, fra il VII e l’VIII secolo, verso quelle che costituiscono il cuore del regno dei Franchi, compreso fra l’attuale Francia del Nord, i Paesi Bassi e il Belgio, la Germania renana, per poi ampliarsi, con il progredire delle conquiste franche verso est, alle regioni della Germania centro-settentrionale. Al tempo di Carlo Magno, e cioè tra la fine dell’VIII e gli inizi del IX secolo, tutti i piú importanti monasteri europei si trovarono entro questo perimetro geografico. Anche l’Italia forní un apporto importante alla nuova fase storica, ma su basi completamente diverse rispetto al passato: furono infatti i Longobardi, quando alla fine del VII secolo il processo di cristianizzazione delle loro aristocrazie poté dirsi compiuto, a farsi promotori di una nuova ondata di fondazioni che, nella maggior parte dei casi, non avevano alcuna 44
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diretta continuità con quelle esistenti prima della loro discesa nella Penisola. Tutto questo rinnovamento, però, come simboleggia efficacemente la parabola di Colombano, ha il suo punto di partenza nelle isole britanniche e in particolare in Irlanda. Una terra che, in età classica e tardo-antica, si era trovata nella posizione piú remota e periferica rispetto all’ecumene romana, non essendo neppure mai entrata a far parte dell’impero. Nella vicenda irlandese, stupisce non tanto il fatto che la sua popolazione sia stata particolarmente ricettiva alla predicazione del cristianesimo, quanto piuttosto che la cristianizzazione dell’isola abbia a sua volta prodotto, nel corso del VI secolo, almeno due generazioni di persone in grado di operare non solo in direzione del consolidamento delle strutture ecclesiastiche locali, ma anche di espri-
mere uno sforzo missionario di notevoli proporzioni. Esso fu diretto sia alla propagazione della nuova religione verso regioni ancora pagane – come la Scozia e l’Inghilterra settentrionale –, sia verso aree che, come la Francia del Nord, mostravano ampie smagliature nella rete della cura d’anime soprattutto in ambito rurale.
Una stretta sinergia
Il tramite di questo exploit del crstianesimo irlandese, dentro e fuori i confini dell’isola, fu sicuramente il monachesimo. Esso recava con sé l’idea di un’organizzazione ecclesiastica in cui la componente monastica era chiamata a svolgere un ruolo fondamentale sia nella formazione culturale del clero, sia come «incubatore» dei suoi quadri dirigenti. La sinergia fra i due ruoli fu cosí stretta che i capi di alcune delle maggiori
comunità monastiche rivestirono anche la carica episcopale, tanto che l’appellativo con i quali li si definiva era biscop, ovvero bishop, vescovo. Un altro aspetto rilevante della diffusione del monachesimo in Irlanda, ma piú in generale della primitiva cristianizzazione dell’isola, è rappresentato dal fatto che i promotori della nuova fede, tra cui lo stesso san Patrizio, operarono cercando innanzitutto il consenso e il sostegno dei leader dei piccoli regni (tuath) in cui essa era suddivisa, al fine di poter svolgere la propria predicazione in condizioni di maggior sicurezza e anche per ricevere da loro il necessario supporto materiale, ivi compreso il permesso di potersi insediare sul territorio e costruirvi le prime chiese. Il risultato di tutto ciò fu la formazione di un monachesimo irlandese dai caratteri peculiari, non solo fortemente votato a
Isola di Skellig Michael, Kerry, Irlanda. Una delle strutture facenti parte del complesso monastico fondato nel VII sec.
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I predicatori venuti dal Nord L’Irlanda fu la patria di quattro celebri santi: Patrizio (385-461), originario della Britannia, Brandano (484-583), Colomba (521-597) e Colombano (542-615). La loro missione evangelizzatrice si svolse non solo nell’«isola verde», ma anche in altre terre del continente. L A C R I S T I A N I Z Z A Z I O N E D E L L’ E U R O PA ISLANDA
DIFFUSIONE DELLA CHIESA PRIMITIVA
intorno al 600 fino al 700 fino all’800 fino al 1054
OCEANO
ltic
Ba
Armagh
o
DIFFUSIONE DELLA CHIESA IN ORIENTE
Ma
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fino all’800 fino al 1054 MISSIONI
Bizantine Canterbury Rouen Romane ATLANTICO Reims Franche Treviri Sens Tedesche Tours Irlandesi Bourges Besançon Bordeaux Milano Anglosassoni Braga Vienne Ravenna Arles Narbona Mar Nero Mar Toledo Spalato Mérida Caspio Neocesarea Adrianopoli Tarragona Roma Siviglia Sebaste Gangra Durazzo Tessalonica Nicea Cagliari Melitene Tangeri MAR Anazarbus Perge Siracusa Corinto Tarso Antiochia Fès TlemcenTiaret Bona Tunisi Rodi Myra ME Gortina DIT ERRA NEO Gerusalemme Alessandria Cyrene
A sinistra miniatura raffigurante san Brandano di Clonfert e i suoi compagni che approdano sull’isola di Jasconio, che, in realtà è una balena di enormi dimensioni. IX sec. Augsburg, Bibliotheca Augustana. Noto come Brandano il Navigatore, il santo fu un abate irlandese vissuto nel VI sec. Le sue avventure in mare, alla ricerca del Paradiso Terrestre, sono narrate nella Navigatio sancti Brendani, scritta da un anonimo. Durante il viaggio il santo fondò numerosi monasteri, contribuendo notevolmente alla diffusione del cristianesimo.
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A sinistra le tappe e le direttrici della cristianizzazione dell’Europa. Qui sotto la croce dei santi Patrizio e Colomba, eretta nel IX sec. nel monastero di Kells.
una rigorosa vita ascetica, ma anche propenso a impegnarsi in attività di evangelizzazione e, soprattutto, a conferire alle comunità una posizione di assoluta paritarietà rispetto alla gerarchia ecclesiastica secolare. Alcuni dei centri episcopali piú importanti dell’isola – certamente già attivi nel VI secolo – come Armagh e Kildare, erano la sede di comunità monastiche, ma anche i fulcri organizzativi della cura pastorale. Altri monasteri, invece, non sembrano aver avuto alcuna interferenza con questo tipo di attività e si caratterizzarono quindi come luoghi votati interamente all’ascesi: sono questi i casi estremi di eremitaggio su isole inospitali, come Skellig Michael o Iona (di fondazione irlandese, sebbene costruito su una delle isole scozzesi piú prossime all’Irlanda).
L’evoluzione del modello orientale
Ritratto di San Colombano (particolare), olio su tela attribuito a Giuseppe Franchi (1565-1628). Ante 1611. Milano, Pinacoteca Ambrosiana.
Per i monaci irlandesi, il monastero è, innanzitutto, un luogo riconoscibile per i segni che lo delimitano rispetto allo spazio che lo circonda. In ambito irlandese, il concetto, formulato già ai primordi del monachesimo orientale tardoantico, trova una definizione ancora piú netta. La maggior parte dei siti si presenta infatti racchiusa da un perimetro, che si materializza sotto forma di un recinto murario o di un vallo in terra e pietra, eventualmente rafforzato dalla presenza di un fossato, al cui interno sono racchiusi gli edifici nei quali la comunità vive, la chiesa in cui prega, il sepolcro-memoria che custodisce i resti mortali del fondatore o di un santo particolarmente venerato, e, talvolta, anche un edificio turrito. Gli insediamenti piú grandi – compresi quelli che, come Kildare, svolgono funzione di centro di coordinamento pastorale del territorio – mostrano una topografia piú complessa, articolata in piú aree concentriche, di solito due o tre, le piú interne delle quali sono circoscritte da veri e propri recinti, che le fonti designano con i termini latini di sæptum o circuitum e che le ricerche archeologiche hanno accertato essere costituiti da terrapieni, palizzate o muri. La piú esterna, invece, prende l’aspetto di un pomerium, il cui perimetro è segnalato da cippi, croci o altri tipi di segnacoli e che le fonti talora indicano con il vocabolo celtico termon, che chiaramente deriva dal latino terminus. A questo tipo di suddivisione corrisponde una precisa ripartizione funzionale delle varie aree: la zona piú interna contiene l’edificio di culto principale, grandi croci commemorative in pietra ed eventualmente il luogo di sepoltura del fondatore con l’area sepolcrale della comunità; la zona MONACHESIMO
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Nella chiesa dell’abate Canizio Kilkenny, una delle capitali religiose dell’Irlanda, è chiamata Cill Chainnigh («chiesa di Canizio») in gaelico, poiché, secondo la tradizione, sarebbe stato appunto l’abate Canizio di Aghaboe (520 circa-599 o 600) a porre la prima pietra della locale cattedrale (a lui intitolata), affiancata dalla caratteristica torre circolare. A oggi non si hanno riscontri certi del fatto, ma sono state effettivamente riconosciute almeno tre fasi di costruzione piú antiche di quella della chiesa oggi visibile, le cui forme conservano in larga parte tratti duecenteschi. L’edificio fu verosimilmente realizzato in due fasi: il primo «fondatore» sarebbe stato il vescovo Hugh de Mapilton (1251-1260), dopo il quale sarebbe intervenuto Geoffrey de St Leger (1260-1286). In ogni caso, il termine dei lavori viene convenzionalmente posto nel 1285. Nei secoli successivi, la cattedrale visse non
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poche traversie, fra cui il crollo della torre centrale nel 1332 e, soprattutto, al tempo della Guerra Civile (1641-1651), le devastazioni che fecero seguito alla presa di Kilkenny da parte di Oliver Cromwell nel 1650 e lasciarono S. Canizio in abbandono e priva del tetto per dodici anni. Nel disegno ricostruttivo, viene proposta la situazione che dobbiamo immaginare fra il XII e il XIII secolo, dunque all’epoca in cui la cattedrale era stata appena terminata. A un’altra celebre abbazia irlandese, quella fondata a Bangor, nel 559, dall’abate Comgall, si ispira invece la foto, che documenta la ricostruzione a scala reale della cella di un monaco, realizzata dal North Down Museum, allestito nei pressi del castello della stessa Bangor. L’abbazia ospitò per un certo tempo anche Colombano, che vi si formò.
intermedia è occupata dagli edifici residenziali dei monaci, come il dormitorio (suddiviso in cellæ singole o costituito da un locale comunitario), il refettorio e gli spazi destinati a conservare beni e provviste; in quella piú esterna, invece, troviamo edifici con funzionalità decisamente piú profane, come le attività artigianali, i luoghi per l’accoglienza di coloro che, in pericolo per la loro vita, cercavano nei monasteri asilo e protezione e, infine, lo spazio che le fonti irlandesi denominano con il termine latino di platea monasterii. Quest’ultimo costituiva una sorta di diaframma fra le parti piú interne e quelle piú periferiche del monastero, ove i laici erano autorizzati a entrare per assistere a cerimonie religiose e ricevere la benedizione dai monaci ed eventualmente presentarsi al loro cospetto per consegnare i frutti delle terre di loro pertinenza che essi coltivavano. Per questi motivi, le fonti irlandesi altomedievali descrivono spesso i monasteri alla stregua di «città». In questa parte dell’arcipelago britannico, mai entrata a far parte dell’impero romano, le città intese come aggregati abitativi con precise caratteristiche urbane non erano mai esistite e quindi una denominazione di questo tipo poteva facilmente essere attribuita a insediamenti che concentravano al loro interno caratteristiche che si potevano immaginare proprie di un centro urbano: la densità abitativa, l’eccellenza e la stabilità della vita spirituale; la custodia e la promozione della conoscenza attraverso l’uso della scrittura; la concentrazione di saperi tecnico-pratici di alto livello necessari per la produzione di beni di qualità; la firmitas materiale dell’insediamento, che diviene punto di riferimento per tutto il territorio a esso circostante, talora anche in relazione alla sua funzione di coordinamento della cura animarum della popolazione che vi abita. In altre parole, il monastero era una civitas perché era un luogo nel quale Cristo trionfava e che Cristo proteggeva e in cui si concentrava ciò che di meglio l’uomo sapeva produrre dal punto di vista spirituale, culturale e materiale.
Viaggi della speranza
Alla metà del VI secolo, il regno dei Franchi controllava ormai tutto il territorio dell’attuale Francia, con l’eccezione di una piccola lingua di terra nel Sud-Ovest del Paese e della Bretagna, e si estendeva stabilmente anche su buona parte dell’attuale Svizzera e su quella porzione della Germania odierna che si trova a occidente del fiume Reno. Tuttavia, oltre al fatto di essere sovente sottoposto a suddivisioni derivanti
dall’assegnazione contemporanea a esponenti diversi della dinastia merovingia di porzioni del suo territorio, il regno mostrava al proprio interno diversificazioni di carattere piú profondo e antico. Le aree affacciate sul Mediterraneo, come la Provenza, quelle atlantiche piú meridionali come l’Aquitania, quelle gravitanti sul corso del Rodano, come la Borgogna meridionale, e quelle centrali a sud del corso della Loira, erano piú densamente urbanizzate e piú profondamente latinizzate. Al Nord, invece, non solo la rete diocesana aveva maglie molto piú larghe, ma, in conseguenza della piú profonda «franchizzazione», le sedi vi appaiono piú precocemente occupate da personaggi caratterizzati da un’onomastica germanica. Inoltre, in esse – e soprattutto ai margini o all’esterno dei territori già romani – non mancavano ancora forti resistenze a una generalizzata accettazione del cristianesimo. Sino al tardo VI secolo l’interesse dei sovrani franchi nella promozione della vita ascetica fu molto limitato e solo alla metà del secolo troviamo la prima fondazione direttamente promossa da un monarca franco. Si tratta del monastero della Vergine (poi della Santa Croce) sorto a Poitiers per opera della regina Radegonda (519587), moglie del re Clotario I (511-561). Alla fine del VI secolo la monarchia merovingia visse però una fase assai travagliata. Per un quarantennio circa, tra la metà degli anni Sessanta e il primo decennio del VII secolo, tre generazioni di regnanti combatterono tra loro quasi ininterrottamente una guerra feroce e, in piú di un frangente, apparentemente motivata solo da vendette e odi personali. L’esito finale di questi scontri modificò profondamente e sotto diversi punti di vista l’assetto del regnum Francorum. Le lunghe guerre avevano infatti portato all’affermazione politica di un’aristocrazia fortemente legata al territorio e radicata nelle campagne, in grado di fornire ai re il necessario supporto politico e militare. Attingendo a tale ceto si reclutavano i componenti della gerarchia ecclesiastica e quelli di un’embrionale struttura burocratico-amministrativa alla testa della quale, in ciascuno dei sub-regni, si trovava un maior domus, cioè un amministratore della casa reale. Inoltre, già nell’ultimo quarto del VI secolo, si notano la progressiva franchizzazione dell’episcopato e il piú deciso coinvolgimento dei monarchi nel controllo delle sedi vescovili. In questo scenario di aspre lotte intestine, ma anche di profonda ristrutturazione e ridefinizione degli equilibri politici e sociali del regnum Francorum, s’innesta, a partire dagli ultiMONACHESIMO
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mi anni del VI secolo, l’arrivo dall’Irlanda di un gruppo di tredici monachi peregrini, capeggiati da quello stesso Colombano che abbiamo incontrato precedentemente. Sbarcato verso il 590 sulle coste occidentali della Neustria, fra Saint-Malo e il luogo in cui venne poi fondato il celebre monastero di Mont Saint-Michel, egli ne attraversò tutto il territorio per giungere infine nella Borgogna nord-orientale, allora parte del regno di Gontrano (561-592), uno dei tre figli di Clotario I, le cui discordie avevano acceso la lunga guerra civile.
L’avvento degli asceti celtici
L’affermazione di Colombano sul suolo franco ha del miracoloso, anche se la sua peregrinatio ad Galliam non costituí, in sé, una novità assoluta. Oggi, infatti, si è in grado di provare con sufficiente sicurezza che egli non era stato il primo monaco celtico ad aver messo piede sul continente: già nei decenni precedenti vi erano stati altri sbarchi di gruppi di asceti provenienti dalla Cornovaglia, dal Galles e dalla stessa Irlanda. L’impatto dell’arrivo di Colombano determinò tuttavia sviluppi diversi, resi possibili dal suo carisma e dalle sue peculiari idee sulla conduzione della vita monastica, caratterizzata da un accentuato senso della disciplina e della coesione comunitaria, con il riflesso di una decisa tutela della vita spirituale dei monaci da qualsiasi intromissione esterna. Per fondare il monastero di Luxeuil, alla testa del quale rimase per circa venti anni, Colombano scelse perciò un’area rurale, ma non deserta, della Borgogna, rivolgendosi direttamente al re, affinché la nuova comunità fosse dotata di mezzi sufficienti per sopravvivere e di una protezione politica adeguata, che ne garantisse l’indipendenza. Il coinvolgimento diretto dei ceti aristocratici e degli stessi monarchi franchi nella promozione dei monasteri, attraverso l’installazione di questi ultimi sulle loro proprietà sparse nelle campagne, si dimostrò una scelta vincente e, potremmo dire, al passo con i tempi. Un altro tratto caratterizzante del monachesimo ispirato da Colombano fu quello di concepire la vita ascetica non solo come percorso di perfezione da svolgersi all’interno delle comunità di appartenenza, ma anche come testimonianza esemplare di un’esistenza cristiana da proiettare sulla realtà circostante, sia verso quanti avevano già aderito alla fede – ma non la praticavano piú con lo zelo necessario –, sia verso coloro che a essa dovevano essere ancora guadagnati. Que50
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sta caratterizzazione della professio monastica assicurò a Colombano vasti consensi, ma gli procurò anche molta avversione. La comunità di Luxeuil si arricchí rapidamente di elementi franchi, molti dei quali di nascita aristocratica. Essa fu, inoltre, a sua volta ispiratrice e madrina di altre fondazioni sorte nei territori della Neustria e dell’Austrasia e promosse da personaggi assai rilevanti sulla scena politica del tempo. Nonostante i numerosi sostenitori guadagnati alla propria causa, Colombano dovette però fronteggiare un’ostilità sempre crescente, alimentata soprattutto dai vescovi di Austrasia, irritati dal suo atteggiamento intransigente e risoluto, che, alla fine, provocò la sua espulsione dal regno. Tuttavia, il ripiego di Colombano non comportò la dissoluzione del suo lascito. Gli abati succedutisi alla testa di Luxeuil dopo la sua dipartita, infatti, non furono
Sulle due pagine i resti dell’abbazia di Jumièges (Alta Normandia, Francia), la cui fondazione, nel 654, fu ispirata da Colombano. In basso, a sinistra statua in bronzo di san Colombano collocata all’esterno dell’abbazia di Luxeuil. 1947.
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Il mondo «barbarico» soltanto suoi discepoli, ma soprattutto espressione di un «lievito monastico» sviluppatosi tra coloro che, nell’aristocrazia franca, condividevano i principi ispiratori della vita ascetica propugnati dal fondatore. Durante il VII secolo vi fu un vero e proprio exploit di nuove fondazioni di monasteri, soprattutto nelle regioni settentrionali del regnum Francorum. Molti di essi ebbero un rapporto diretto con Luxeuil, nel senso che i loro fondatori avevano talora ricevuto la loro prima formazione proprio in quel monastero o in altri cenobi, come Jumièges e Fontenelle, di cui il santo irlandese era stato iniziatore o ispiratore, promossi da rappresentanti dell’aristocrazia franca. Cosí com’era avvenuto a Lérins piú di cento anni prima, Luxeuil non solo divenne un centro monastico di primaria importanza, ma assurse al ruolo di luogo di formazione di almeno due generazioni di protagonisti di questa nuova stagione del monachesimo gallico che, per la compresenza al suo interno della componente insulare e di quella autoctona, è stato giustamente definito «iro-franco».
Liberi da ogni ingerenza
Durante il VII secolo, seguendo l’impronta data da Colombano, si estese notevolmente la consuetudine, da parte dei sovrani franchi, di rendere i monasteri immuni dalle ingerenze delle istituzioni territoriali, tanto di quelle laiche (i rappresentanti locali del re) quanto di quelle ecclesiastiche (i vescovi). Tali prerogative immunitarie permettevano che una comunità potesse eleggere autonomamente il proprio abate senza che il vescovo della diocesi entro cui il monastero ricadeva avesse il potere di intromettersi, imponendo un proprio candidato; il diritto dell’abate di rivolgersi a un vescovo di suo gradimento per far consacrare chiese e altari del proprio monastero e per far conferire gli ordini sacri a membri della propria comunità; la possibilità che l’abbazia godesse di esenzioni dalle imposte sui patrimoni e dai dazi per la movimentazione delle merci che essi producevano, e che le fosse garantita l’immunità giudiziaria, e cioè che monaci e abati non potessero essere trascinati in giudizio davanti a tribunali secolari. In questi casi, ai sovrani interessava stabilire un legame diretto e personale con la fondazione monastica, su cui essi avrebbero potuto continuare a influire attraverso la propria generosità e quindi in modo piú informale, ma non meno efficace, riuscendo a pilotare le elezioni degli abati. Un paio di generazioni dopo Colombano, que52
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In alto miniatura raffigurante san Bonifacio che battezza i Frisoni (a sinistra) e riceve il martirio. X sec. Udine, Biblioteca del Seminario Arcivescovile. Nella pagina accanto Parigi, cripta della basilica del Sacro Cuore. Statua raffigurante san Dionigi (Denis) che regge la propria testa, secondo un’iconografia tipica dei personaggi che, come lui, avevano subito il martirio per decapitazione. Nel luogo in cui venne sepolto fu costruito il complesso abbaziale che porta il suo nome e la cui basilica divenne il sacrario dei re di Francia.
sto quadro politico e giuridico aveva consentito che in Gallia fossero già sorte diverse decine di nuovi monasteri. Dagli inizi dell’VIII secolo, alcuni di essi andarono a popolare anche le regioni piú orientali del regnum Francorum, accompagnandone l’espansione verso est con un’opera di «presidio cristiano» del territorio che forniva anche il proprio attivo contributo al processo di conversione delle popolazioni germaniche piú periferiche, come i Sassoni e i Turingi, anche in questo caso con l’apporto decisivo di monaci venuti dalle isole britanniche. In questo frangente, però, non si trattò piú di Celti, come Colombano e i suoi discepoli, bensí di Anglosassoni, quali Wilibrord e Bonifacio-Winfrid, che dei loro predecessori condividevano tuttavia il medesimo ideale di vita e organizzazione monastica. Essi agirono in stretto raccordo con il papato ed erano animati dalla convinzione che la disciplina monastica dei missionari dovesse formare, nelle regioni in cui si andava a operare, un clero capace di intraprendere con zelo e competenza l’evangelizzazione delle popolazioni che stavano entrando nell’orbita franca.
Le Regole di Colombano e Benedetto
Ma come erano organizzati e, soprattutto, quale aspetto avevano i monasteri nati e sviluppati in Gallia a partire dall’età di Colombano? Il santo irlandese compose una propria Regula, che venne sicuramente seguita a Luxeuil, ma sappiamo che fra i testi che in molti monasteri nord-gallici del VII secolo godevano una certa considerazione, vi era sicuramente quello scritto in Italia da Benedetto nel secolo precedente. Sia la Regola di Colombano, sia quella di Benedetto (benché con accenti diversi, soprattutto sul piano dell’esercizio della disciplina) propugnavano il modello di un monachesimo cenobitico che individuava il
proprio habitat in ambito rurale e appartato, in modo tale che ai monaci fosse consentita un’esistenza tranquilla e libera, cosí da godere quotidianamente della gioia del confronto con il creato e senza coinvolgimenti in attività diverse dalla preghiera e dall’esercizio della carità verso i bisognosi che, occasionalmente, si fossero presentati ad solium monasterii.
Il paradosso della Gallia
Benedetto, inoltre, sosteneva con decisione l’idea che il monastero dovesse ospitare tutte le attività volte a soddisfare anche le necessità materiali e organizzative della comunità. Partendo da queste premesse, i monasteri che, seguendo l’esperienza di Colombano, iniziano a sorgere in un mondo ruralizzato come quello della Gallia centro-settentrionale del VII secolo incarnano un paradosso. Da un lato, scegliendo di installarsi nelle campagne, essi realizzano alla lettera l’intento di un’esistenza dedita alla spiritualità e alla contemplazione di Dio, vissuta in una dimensione di isolamento rispetto alle dinamiche del sæculum. Dall’altro, venuta meno la centralità culturale e sociale del mondo urbano, essi riuniscono al proprio interno persone che in genere sono provviste di una precisa formazione intellettuale, realizzano un modus vivendi dettato da norme scritte e, in virtú del sostegno politico ed economico offerto loro dai ceti egemoni della società del tempo, si candidano a costituire snodi centrali dell’assetto dei territori entro cui sorgono. Il paradosso sta quindi nel fatto che un tipo di esperienza spirituale, nato come contraltare al coinvolgimento della Chiesa nelle dinamiche del secolo e spinto dalle vicende appena descritte, diviene, in questa fase storica, altrettanto collaterale ai poteri temporali, quanto lo era stata la gerarchia episcopale nel IV secolo dopo la svolta costantiniana. MONACHESIMO
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Di questi grandi monasteri merovingi purtroppo non ci resta alcuna testimonianza materiale. La loro lunga vita, spesso protrattasi fino al tempo della Rivoluzione Francese, ha determinato la scomparsa delle loro primitive costruzioni, cosí che possiamo trarne un’impressione solo attraverso quanto ci raccontano le fonti scritte. Un elemento che li rende assai simili fra loro e, allo stesso tempo, diversi da qualsiasi cosa si fosse vista prima, è la presenza al loro interno di una pluralità di edifici di culto. Quello utilizzato dalla comunità nel suo insieme per le quotidiane sessioni di preghiera era il piú importante. Ma a cosa servivano gli altri e quali potevano essere i presupposti per la loro presenza? Sicuramente, uno di essi può essere visto nell’idea che i monasteri (soprattutto quelli dotati di maggiori mezzi economici e di piú solide protezioni politiche) dovessero costituire una nuova tipologia di città, destinata a essere popolata da persone che erano in grado, meglio di altri, di parlare con Dio, e di farlo in favore e per conto di coloro che avevano il compito di reggere le cose terrene.
Uno spazio speciale
Oltre a quelle di tipo prettamente spirituale, alla moltiplicazione di chiese e cappelle potevano perciò presiedere altre motivazioni di carattere piú pratico. Innanzitutto, i nuovi monasteri raccolsero rapidamente comunità di dimensioni significative: era dunque necessario predisporre 54
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un luogo per la loro sepoltura e per gli uffici funebri. Inoltre, i loro fondatori spesso acquisivano già in vita fama di santità, il che portava allo sviluppo di un intenso culto post mortem nei loro confronti. Infine (ed è questo un aspetto direttamente collegato al precedente), le comunità sorte sull’onda dell’esperienza di Colombano ritenevano che l’assistenza spirituale alle popolazioni che vivevano nel proprio territorio fosse parte dei propri doveri: a tale scopo dovevano quindi essere deputati spazi specifici, in grado di consentire che l’attività pastorale potesse essere svolta senza interferenze con la preghiera dei monaci. Ciò, tuttavia, non cambiava la questione di principio: il sacro recinto di un monastero delimitava uno spazio speciale, il cui accesso agli esterni poteva essere consentito solo a patto che la vita dei monaci non ne subisse turbamento alcuno. In questo panorama vi sono tuttavia alcune eccezioni interessanti, rappresentate da monasteri sorti accanto a importanti chiese di pellegrinaggio, visitate per la presenza dei sepolcri o di reliquie di santi venerati e divenuti anche luoghi scelti dai re franchi per la loro sepoltura. Sono questi i casi di S. Vincenzo a Parigi (noto oggi come Saint-Germain-des-Prés), di Saint-Denis, sorto appena a nord della capitale francese, e di S. Medardo a Soissons, città scelta spesso dai re merovingi come propria residenza. In queste circostanze, i monasteri sorsero innanzitutto come istituzioni a sussi-
In alto, a sinistra plastico ricostruttivo del monastero di Hamage, sorto nelle regioni nord-orientali del regno merovingio, corrispondenti all’attuale Pas-de-Calais francese. Douai et Râches, Musée archéologique Arkéos.
La navata della basilica di Saint-Denis, che costituisce una delle realizzazioni architettoniche piú ardite fra quelle che, nel tempo, si sono succedute sul sito della sepoltura del vescovo e martire parigino.
dio dei santuari, che i sovrani, durante il VII secolo, ingrandirono e resero splendidi, erigendoli a veri e propri luoghi di celebrazione delle memorie della propria dinastia. Ma tutti i monasteri sviluppatisi nel regno merovingio durante il VII secolo rispondevano a queste caratteristiche? Probabilmente no, e comunque non tutti sembrano essere stati in grado di prosperare con la stessa rapidità sotto il profilo dimensionale e architettonico. Come questi monasteri «minori» potessero effettivamente apparire, ci aiutano a comprenderlo gli scavi condotti negli anni Ottanta e Novanta del XX secolo presso il monastero di Hamage, nelle regioni nord-orientali del regno, corrispondenti all’attuale Pas-de-Calais francese. Delimitato da una palizzata, a cui si affiancava verso l’esterno anche un fossato, lo spazio del monastero era
riempito da capanne di legno e frasche che costituivano le cellulæ in cui abitavano le monache e anche la sua chiesa era costruita in materiali deperibili. Solo intorno alla metà dell’VIII secolo il monastero ricevette una ristrutturazione, con la costruzione di una chiesa in pietra, lunga poco piú di 15 m e dotata di finestre vetrate. Anche in età carolingia, quando i grandi centri monastici raggiunsero dimensioni e monumentalità sino ad allora sconosciute, poteva ancora accadere, come successe ai confini con la Bretagna nel monastero di Redon, che i monaci costruissero i primi edifici destinati a ospitare la comunità recuperando il legname proveniente dallo smantellamento della casa di un nobile benefattore e trasportandolo essi stessi con i carri sino al sito in cui avevano deciso di stabilirsi. MONACHESIMO
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All’indomani del loro arrivo in Italia, la conversione al cattolicesimo dei Longobardi ricevette un impulso decisivo grazie anche ai proficui rapporti stabiliti con il mondo monastico
Bobbio, Piacenza. Una veduta del Ponte Vecchio detto anche «Gobbo» o «del Diavolo». Essenziale collegamento con la sponda destra della Trebbia, misura 273 m e la sua esistenza è attestata dal 1196. L’assetto attuale è frutto di interventi succedutisi fino al XVII sec. 56
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Una nuova spiritualità
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el 568, al momento di varcare le Alpi Giulie, Alboino, il re dei Longobardi, salí su un monte che sovrastava il passo attraverso il quale, alla testa del suo popolo, si apprestava a invadere la pianura del Friuli. Di lí, racconta Paolo Diacono (il monaco e poeta autore dell’Historia Langobardorum, n.d.r.), egli «contemplò parte dell’Italia, quanto piú lontano poté arrivare con lo sguardo». Per i Longobardi, la Penisola poteva rappresentare la «terra promessa», il luogo in cui concludere una migrazione secolare che, partita forse addirittura dalla Scandinavia meridionale, li condusse fin sulle sponde del Mediterraneo. Nel corso di questa lunga peregrinazione, la stessa identità etnica dei Longobardi aveva avuto modo di conoscere una sua genesi e un suo progressivo consolidamento, permettendo a questo popolo di entrare in Italia alla guida di una confederazione di gentes di diversa origine: Gepidi, Bulgari, Sarmati, Pannonici, Svevi e nativi del Norico. Ma il loro ingresso fu tutt’altro che pacifico. L’immagine che le fonti trasmettono è quella di una strategia di conquista del territorio italiano il cui principio ispiratore sarebbe stato quello di sottomettere le popolazioni italiche senza troppo curarsi – come invece avevano fatto ottanta anni prima gli Ostrogoti – di guadagnarne il sostegno e la collaborazione.
Colombano a Bobbio
Dopo due o tre generazioni – siamo all’inizio del VII secolo – avvenne però un fatto nuovo: nell’estate del 614, il re Agilulfo concesse a Colombano, appena giunto in Italia dopo le difficili vicissitudini vissute nel regno dei Franchi (come abbiamo raccontato nel capitolo precedente, la sua esperienza in quelle terre si concluse con l’espulsione dal regno; vedi a p. 50), il sito di Bobbio, nella valle del Trebbia, insieme a una cospicua estensione di terre situate nei dintorni. Già al tempo del primo successore di Colombano, Attala (615-627), dovevano essere visibili i primi frutti del progetto avviato dall’abate irlandese e l’insediamento doveva aver acquisito una certa articolazione. Pochi anni piú tardi, nel 625-626 i monaci ricevettero la visita della regina Teodolinda, vedova di Agilulfo, insieme al figlio Adaloaldo, il quale, sotto l’influsso della madre, aveva abbracciato la fede cattolica. I due monarchi confermarono all’abate il possesso dei beni concessi da Agilulfo, ribadito ancora dal re Rodoaldo nel 652, con un diploma in cui si precisava che il monastero sarebbe dovuto ri58
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manere autonomo nei confronti del vescovo territorialmente competente (quello di Piacenza), evidenziando piuttosto un suo legame preferenziale e diretto con i papi di Roma. Come già abbiamo visto accadere Oltralpe, anche in Italia sembrò cosí prendere forma la possibilità che i sovrani individuassero nelle comunità monastiche i partner ideali per l’esercizio di una pietas che li vedeva protagonisti indiscussi e visibili. Forse Colombano aveva saputo illustrare adeguatamente al re Agilulfo e alla regina Teodolinda – che aveva incontrato a Milano – quanto aveva realizzato Oltralpe e come il monastero di Luxeuil avesse potuto prosperare recando al cospetto di Dio, attraverso le preghiere dei suoi monaci, il nome dei sovrani e ricevendone in cambio protezione e
benedizioni. Tuttavia, il successo colto da Colombano a Bobbio non fu seguito da una disseminazione monastica paragonabile a quella che si verificò in Francia nei decenni successivi.
Un rapporto indispensabile
Nell’ultimo trentennio del VII secolo si verificò però una svolta profonda. Nel 671 il re Grimoaldo (662-671) fu stroncato da un’emorragia interna, poiché aveva deciso di andare a caccia nonostante fosse ancora debilitato a causa dei postumi di una flebotomia. Sebbene non si fosse manifestamente dichiarato cattolico, come invece aveva fatto il suo predecessore e suocero, Ariperto I (653-661), fu sepolto nella chiesa pavese di S. Ambrogio, che aveva fatto ricostruire o restaurare, segno che il rapporto con la Chiesa
cattolica era ormai giudicato indispensabile anche da un re che non si era espresso ufficialmente in materia. Grimoaldo non doveva piú ritenere che mantenere la diversità di confessione fra Longobardi (pagani o ariani) e Romani (cattolici) dovesse costituire una discriminante decisiva a fini politici. All’indomani della sua morte, il suo successore e cognato Pertarito (671-688) fece il passo decisivo, proponendosi definitivamente come un monarca cattolico. Nel decennio compreso fra il 671 e il 680, con il sostegno del re e in un clima di sostanziale collaborazione con il papato, si ripristinò la funzionalità della rete delle sedi episcopali. Ma la conversione ufficiale della monarchia longobarda poté avere successo perché era evidente che tale orientamento trovava
Bobbio. L’abbazia di S. Colombano, fondata dal santo nel 614 e ordinata secondo la Regola benedettina. Primo monastero occidentale posto sotto la sovrintendenza del papa (628), fiorí soprattutto sotto i Franchi; il suo scriptorium fu, con quello di Montecassino, all’avanguardia nel trascrivere e conservare preziose opere antiche. MONACHESIMO
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Tra Longobardi e Bizantini modello che prevale è quello del monachesimo cenobitico, anche se è impossibile comprendere con quali declinazioni esso fosse praticato nelle singole comunità. Nell’Italia longobarda, sebbene lo slancio di singoli personaggi verso la vita ascetica poté rivestire un ruolo non secondario nella nascita e nello sviluppo di comunità monastiche, l’affermazione e la stabilità nel tempo di queste ultime fu quindi resa possibile principalmente dal sostegno politico di cui potevano godere, soprattutto se espresso dalle massime autorità del regno. È questo, per esempio, il caso di Anselmo (725/730-802), fondatore del monastero di Nonantola, nella bassa pianura modenese. Questi, secondo quanto le fonti permettono di ricostruire, era doppiamente imparentato con stirpi regali longobarde. Per parte di madre, era legato alla famiglia del re Liutprando, mentre sua sorella aveva sposato il re Astolfo (749-756), ed egli stesso aveva probabilmente rivestito la carica ducale, presiedendo al territorio di Ceneda, in Veneto, o forse a quello del Friuli. La sua conversione monastica avvenne prima del 750 poiché proprio Astolfo, verso il 752, lo convinse a lanciarsi nell’impresa della fondazione di Nonantola. Il sito non fu scelto a caso, ma secondo una precisa strategia di controllo degli assi viari che ponevano in comunicazione l’Emilia e il Veneto longobardi con la Romagna bizantina, di cui il re stava in quegli anni portando a termine la conquista. La fondazione del monastero fu accompagnata dall’attribuzione a esso di un cospicuo patrimonio fondiario che gli permise di diventare in breve tempo uno dei piú ricchi d’Italia e, di conseguenza, anche uno dei piú rilevanti dal punto di vista monumentale.
ormai un consenso ampio nella società del regnum e in primo luogo nella sua élite. Questo rimodellamento delle strategie politiche fece sí che anche gli esponenti dell’aristocrazia fossero coinvolti nella fondazione e dotazione di chiese e monasteri. In particolare, le comunità monastiche si offrivano come áncora di salvezza religiosa, mezzo di acquietamento morale, garanzia di conservazione sociale per i possessori piú trepidanti, mentre vescovi e abbaziati aprivano all’inquieta aristocrazia longobarda nuove vie di promozione individuale e familiare. Per questi motivi, a partire dall’ultimo ventennio del VII secolo, in tutta l’Italia longobarda si assiste a un’ondata di fondazioni monastiche che continuò a ritmo sostenuto sino alla vigilia della caduta del regno, avvenuta nel 774. Il 60
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La rinascita di Montecassino Nonantola (Modena), abbazia di S. Silvestro. Formella del portale realizzato da Wiligelmo raffigurante Astolfo, re dei Longobardi, che dona le terre di Nonantola all’abate Anselmo, già duca del Friuli e suo cognato. XII sec. Astolfo tentò di sancire la sua supremazia sull’intera Penisola con la forza delle armi, arrivando a impadronirsi definitivamente di Ravenna nel 751.
Un altro caso rilevante è quello del monastero femminile del Salvatore, fondato a Brescia da Desiderio, ultimo re longobardo (756-774), quando era ancora duca di Tuscia. In suo favore, una volta cinta la corona, Desiderio si affrettò a concedere la defensio del sacrum palatium contro chiunque attentasse alla sua libertà e all’integrità dei suoi beni. Provvedimenti come questi consentivano ai monasteri uno sviluppo materiale rapido e talora grandioso, come avvenne per esempio nel caso della rifondazione di Montecassino, sostenuta dai duchi di Benevento. Negli anni Trenta dell’VIII secolo, a meno di un ventennio dalla sua «rinascita», Montecassino era già un insediamento composto da due nuclei: uno situato sull’«alta collina» (e che non è difficile riconoscere, oggi, in quello bombar-
dato nell’ultima guerra), dove ancora risiede la comunità benedettina, e l’altro a valle, in corrispondenza dell’attuale città di Cassino. Tornando al caso di Brescia, nel 759 il re Desiderio e la moglie Ansa trasferirono alla proprietà del monastero del Salvatore i terreni su cui esso era stato fondato, nominandovi come badessa la propria figlia Ansilperga. Il documento che riporta la memoria di questa decisione descrive chiaramente che i due sovrani erano intervenuti direttamente per edificare tutti gli ambienti necessari alla vita della comunità.
Frammenti di paradiso
Le indagini archeologiche degli anni Ottanta del secolo scorso hanno fornito riscontri importanti a quanto descritto nella carta desideriana. Il monastero, infatti, sorse in seguito alla drastica ristrutturazione di tutto il quadrante urbano di Brescia (quello nord-orientale) che gli era stato assegnato. L’area, che ancora in età tardo-antica era occupata da un fitto tessuto di eleganti domus, fra il VI e il VII secolo si era progressivamente trasformata in un quartiere ancora a vocazione residenziale, ma dall’aspetto completamente mutato. Le abitazioni in pietra erano state via via smantellate, sepolte nel terreno e sostituite da capanne di legno di varie dimensioni, in genere parzialmente interrate rispetto al piano di calpestio e talvolta circondate da muretti e cortili. Al centro di quest’area, intorno alla metà del VII secolo, fu costruita anche una piccola chiesa in muratura. Al momento dell’impianto del monastero, di tutto ciò fu fatta tabula rasa, per poi procedere all’edificazione ex novo di una sorta di vero e proprio compound, allineato sul decumano maggiore e su uno dei cardines superiori del reticolo viario della città romana. Lo spazio destinato ad accogliere la comunità monastica femminile affidata alla figlia di Desiderio venne quindi a trovarsi isolato dal resto del territorio cittadino e gli edifici che lo costituirono formarono una sorta di vera e propria «città nella città». Lungo l’allineamento del decumano maggiore, a partire dall’angolo che esso formava con il cardine e in direzione della porta urbana, sorsero blocchi architettonici, contigui l’uno all’altro e disposto ciascuno intorno a un cortile centrale a pianta quadrangolare e circondati da edifici.
Nonantola (Modena), abbazia di S. Silvestro. Un’altra formella del portale raffigurante Anselmo nell’atto di fondare l’abbazia. XII sec.
Al di là di questi edifici fu costruita la nuova chiesa abbaziale dedicata al Salvatore, che sostituiva quella del VII secolo e costituisce la sola parte del monastero desideriano giunta sino a noi sostanzialmente intatta. Essa si presenta con un impianto assolutamente classico: è articolata in tre navate, ciascuna conclusa da un’abside; al di sotto di quella centrale è ricavata una cripta a sala, pensata per deporvi delle reliquie. Le navate sono separate da colonnati realizzati con materiale di spoglio di qualità elevatissima. Altrettanto raffinata era la decorazione interna della chiesa: le pareti erano completamente affrescate, mentre stucchi arricchiti da inserti vitrei abbellivano i sottarchi, le ghiere dei colonnati, quelle delle finestre e, molto probabilmente, anche altre parti dell’edificio; anche la decorazione scultorea in pietra era del massimo livello qualitativo, sebbene sia impossibile – dato che nessuno dei frammenti sopravvissuti si trova ancora nella sua posizione originaria – ricostruire esattamente come essi fossero collocati all’interno dell’edificio, suddividendone lo spazio per ospitarvi le diverse funzionalità liturgiche. Alcune sepolture presenti all’interno della chiesa vengono tradizionalmente identificate come i sepolcri riservati al re Desiderio e a sua moglie, facendo cosí della chiesa monastica una sorta di mausoleo della famiglia reale se l’infelice conclusione del suo regno non avesse deciso per i due sovrani un destino diverso. Una chiesa pur cosí splendida costituiva una sorta di gioiello nascosto, la cui valenza risiedeva nel suo essere il dono piú prezioso che gli augusti committenti avevano offerto alla comunità monastica, che ne era la quotidiana fruitrice, per riceverne in cambio continua attenzione per la sorte delle loro anime. Casi come quello del monastero di Brescia non erano isolati, poiché la piú significativa differenza che il panorama italiano presenta – rispetto a quello francese – è che molte importanti fondazioni sorsero in ambito urbano. Soprattutto la capitale del regno, Pavia, e quella del ducato piú meridionale, Benevento, ospitarono, sin dalla fine del VII secolo, monasteri sorti per volontà di re e duchi, posti entro la cerchia delle mura o nell’immediato suburbio. Si trattava prevalentemente di luoghi destinati a ospitare comunità femminili, che evidenteMONACHESIMO
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mente potevano trovare in un contesto urbano o suburbano condizioni di maggiore protezione e di piú agevole raggiungibilità da parte delle famiglie da cui le monache provenivano. Abbazie come S. Agata al Monte, S. Maria Teodote e S. Pietro in Ciel d’Oro, fondate rispettivamente dai re Pertarito, Cuniperto e Liutprando a Pavia o quelle beneventane di S. Pietro presso il fiume Sabato, di cui fu promotrice la duchessa Teodorada alla fine del VII secolo, e di S. Sofia, creata dal duca Arechi II negli anni Cinquanta dell’VIII, erano sicuramente destinate – come quella del Salvatore di Brescia – a ospitare candidate piuttosto ben selezionate dal punto di vista sociale e che probabilmente, nonostante la segregazione claustrale, non si voleva recidessero completamente i propri legami familiari. 62
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A sinistra Brescia, Monastero del Salvatore. La cripta a sala che si trova sotto la navata centrale della chiesa abbaziale.
In alto Brescia. L’interno della basilica del Salvatore, compresa nel complesso monastico di S. Giulia (oggi sede del Museo della Città). Voluta da Desiderio intorno al 750 la chiesa riutilizzava colonne e capitelli di età romana, ma presentava arredi scultorei realizzati ex novo secondo il gusto dell’epoca. A sinistra un disegno ricostruttivo del complesso monastico bresciano.
Un altro caso emblematico è il monasterium puellarum di Cividale del Friuli, sorto probabilmente poco dopo la metà dell’VIII secolo all’interno del complesso della curtis regia, installatasi nell’angolo sud-orientale del recinto urbano. Il celeberrimo «Tempietto», che ne occupa la parte piú recondita posta a strapiombo sul fiume Natisone, è considerato, seppur non unanimemente, come il possibile oratorium della comunità monastica che lo abitava. Purtroppo, la scarsità dei dati archeologici permette di cogliere solo in minima parte gli aspetti architettonici di queste fondazioni urbane. In alcuni casi, come in quello del monastero beneventano di S. Sofia, è sopravvissuta la chiesa, la cui raffinatezza e originalità progettuale dimostrano, forse ancor piú di quanto visto per il Salvatore di Brescia, l’alto livello dell’investimento attuato dal duca Arechi II. Ma tutto quanto rimane del monastero vero e proprio risale a epoche assai piú tarde, il che rende impossibile comprendere come esso si articolasse in età longobarda, né quali connessioni vi potessero essere – se effettivamente ve n’erano – con il vicino palatium dei duchi.
La campagna si addice ai monasteri
L’importanza degli impianti monastici sorti entro le città non deve però far dimenticare che la maggior parte delle fondazioni note si trovava al di fuori di esse. Nelle campagne i complessi monastici avevano maggiore possibilità di svilupparsi senza sottostare a particolari costrizioni spaziali, e la loro espansione dipendeva sostanzialmente dalle risorse su cui potevano contare e sulla valutazione che gli abati elaboravano riguardo alle esigenze della
propria comunità e al progetto di vita consacrata verso cui esse tendevano. Il già ricordato monastero di Nonantola sembra essersi caratterizzato, nelle sue fasi iniziali, come un insediamento libero di occupare un’area vasta, ma interdetta alle interferenze esterne. La presenza di una pieve dedicata a san Michele, fondata nella seconda metà del IX secolo dall’abate Teodorico e posta a circa 200 m dalla chiesa abbaziale, potrebbe costituire il segno di un limite stabilito in direzione del nucleo centrale dell’insediamento, costituito dal castrum monastico. Collocata in quella posizione, la pieve avrebbe consentito ai monaci di offrire assistenza pastorale alle popolazioni che vivevano nei dintorni del monastero, evitando che fossero utilizzati gli spazi di preghiera della comunità. Qualcosa in piú sappiamo sul monastero molisano di S. Vincenzo al Volturno. Riccamente dotato di beni fondiari dal duca di Benevento sin dall’indomani della sua fondazione avvenuta intorno al 700, esso crebbe rapidamente e Paolo Diacono, che lo visitò negli anni Settanta dell’VIII secolo, lo vide già «risplendere di una grande comunità di monaci». L’insediamento si sarebbe sviluppato riutilizzando quanto rimaneva di un borgo rurale di età tardo-antica, nel quale doveva sorgere una cappella che probabilmente costituí il primo luogo di culto utilizzato dalla comunità. Ma già verso il 720, l’abate Taso lo dotò di una nuova chiesa, il cui altare principale era dedicato alla Vergine: l’edificio doveva avere tre absidi, perché il cronista specifica che, al suo interno, erano stati elevati anche altri due altari, in onore, rispettivamente, dei santi Benedetto e Pancrazio. Non piú di una quindicina di anni dopo, Ato, sucMONACHESIMO
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cessore di Taso, fece costruire un’altra chiesa dedicata a san Pietro e che, sino alla fine del IX secolo, ebbe funzione cimiteriale, ospitando le spoglie di monaci e abati. Infine, poco dopo il 780, comparve presso il fiume Volturno una terza chiesa, dedicata anch’essa alla Vergine e che, per essere distinta da quella già esistente, prese il nome di S. Maria Minore.
Luoghi di culto e luoghi di lavoro
Alla fine dell’VIII secolo, il monastero vulturnense era quindi dotato di ben quattro chiese. Di queste, gli scavi hanno potuto identificare quella di S. Maria Minore e, forse, i resti del sacello che i tre monaci fondatori avevano già trovato sul posto. Delle altre non sono state ancora individuate le tracce ed è quindi da immaginare che non fossero sorte vicino a queste due. Tale dettaglio fa presumere che il complesso monastico in pochi decenni si fosse esteso a coprire un’area abbastanza vasta, anche se non necessariamente tutta interamente edificata. Nella porzione piú settentrionale di quest’area fu costruita la chiesa identificata come S. Maria Minore e, accanto a essa, si impiantarono ap-
Benevento, chiesa di S. Sofia. Zaccaria muto davanti al popolo, particolare del ciclo ad affresco delle Storie di Cristo, opera di maestranze bizantine. VIII-IX sec. La chiesa venne fondata intorno al 758 (e ultimata nel 768) per volere di Arechi II, duca di Benevento.
parentemente il primo refettorio e la cucina. Le crescenti esigenze prodotte dai continui ampliamenti del monastero imposero però di organizzare un quartiere interamente dedicato alla produzione dei materiali necessari alla costruzione dei nuovi edifici – come tegole e mattoni – e all’approvvigionamento degli strumenti, quali, per esempio, gli utensili in ferro, utilizzati dagli artigiani che operavano nel cantiere abbaziale, svolgendovi mansioni di fabbri, carpentieri, decoratori e muratori. Esso fu collocato a debita distanza da quello in cui i monaci si riunivano per le preghiere e i pasti quotidiani, in un’area posta circa 100 m piú a sud, evitando quindi, allo stesso tempo, che persone estranee alla comunità interferissero con luoghi e ritmi della vita consacrata e che rumori e odori sprigionati dalle attività artigianali ne infastidissero la tranquillità e il decoro. Alla vigilia della conquista dell’Italia da parte dei Franchi i territori longobardi mostravano dunque una fioritura numericamente e qualitativamente rilevante di fondazioni monastiche. Molte di esse non raggiunsero mai il rilievo spirituale, economico e politico che caratterizzò quelle che qui abbiamo descritto. Nonostante queste differenze, nella seconda metà dell’VIII secolo la presenza dei monasteri doveva costituire un dato caratterizzante del panorama religioso di tutte le regioni entrate nell’orbita longobarda.
Monaci dell’altra Italia
L’invasione longobarda dell’Italia, avvenuta nel 568, e le successive espansioni territoriali realizzate dai re di Pavia e dai duchi di Spoleto e Benevento non assicurarono la totale sottomissione della Penisola. I Bizantini conservarono sino alla metà circa dell’VIII secolo il controllo di diverse aree, dalla costa veneta alla Romagna e alle Marche settentrionali, dal Lazio ad alcuni settori dell’Umbria, dalla regione napoletana alla Calabria, dalla Puglia meridionale alla Sicilia. Anche dopo la conquista di Ravenna, avvenuta nel 751 per mano del re Astolfo, le enclave bizantine del Centro-Sud rimasero immuni dalla soggezione ai Longobardi, anche se in alcuni casi (come a Roma e Napoli) s’incamminarono verso lo scioglimento dei propri legami di diretta dipendenza da Bisanzio. Una parte consistente della Penisola seguí quindi un percorso che, sul piano politico-istituzionale, si poneva in continuità con gli equilibri raggiunti all’indomani della riannessione all’impero avvenuta in seguito alle guerre scatenate dall’imperatore Giustiniano contro i Goti e che avevano previsto il ripristino del funzionaMONACHESIMO
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mento delle istituzioni statali tardo-romane. Le aree italiane rimaste in mano all’impero si trovarono però relegate in una posizione periferica e instabile. Pertanto, non solo non fu possibile ripristinarvi condizioni di vita civile paragonabili a quelle dei decenni anteriori alla guerra gotica, ma esse conobbero anzi una progressiva militarizzazione della società, determinata dall’esigenza di resistere alla costante minaccia rappresentata dalla presenza longobarda.
Una fase di regressione
Date queste precarie condizioni generali, anche nelle aree non assoggettate ai «barbari» il periodo tra lo scorcio finale del VI secolo e la prima metà del VII fu caratterizzato da un sensibile e generalizzato regresso materiale, tanto che, per molti aspetti, le condizioni concrete di vita degli abitanti – sia delle regioni longobarde dell’Italia sia di quelle bizantine – non dovevano differire tra loro in maniera significativa. Ciononostante, si possono cogliere alcune diversità tra le due aree. Per quel che qui ci interessa, la piú rilevante è il destino toccato alle istituzioni ecclesiastiche. La rete delle sedi diocesane, infatti, non subí lacerazioni significative e, soprattutto nelle città principali – prime fra tutte Roma, Ravenna e Napoli –, questo significò una sostanziale continuità delle forme organizzate della vita religiosa.
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Ravenna, per esempio, tra la fine del VI e la metà dell’VIII secolo, offre, attraverso le testimonianze delle fonti scritte, varie attestazioni di monasteria dislocati fra l’area urbana e il sobborgo di Classe. Analizzato caso per caso, il senso che in esse assume il termine monasterium oscilla però fra quello di semplice annesso di un edificio religioso di maggiore importanza, quello di edificio religioso di fondazione privata e di utilizzo ristretto alla cerchia del fondatore, e quello di luogo di residenza di piccoli gruppi di persone impegnate in attività assistenziali ovvero in mansioni di servizio presso le chiese urbane. Roma presenta un quadro simile, anche se piú articolato, forse in ragione della maggiore ricchezza di fonti disponibili. Esse attestano che, fra il VI e l’VIII secolo, l’Urbe si popolò di diverse decine di insediamenti monastici il cui numero fu in costante crescita, sino a raggiungere quasi le quaranta unità all’inizio dell’età carolingia. Tuttavia, la maggior parte di quelli censiti risulta costituita soprattutto da istituti destinati a fungere da supporto alla gestione delle basiliche suburbane e delle chiese titolari romane, in virtú della loro funzione di luoghi di pellegrinaggio, che anche molte chie-
se urbane andarono acquisendo fra il tardo VII e il IX secolo. Nel caso del monastero sorto verso il 720 nella Suburra, presso la basilica di S. Agata dei Goti, la comunità s’installò all’interno di un preesistente edificio abitativo, che dovette subire interventi di ristrutturazione necessari a ricavarvi le celle che avrebbero dovuto ospitare i monaci. Circa un secolo piú tardi, anche presso la chiesa di S. Maria in Trastevere fu compiuta un’operazione analoga, con l’edificazione di habitacula per i monaci posti in aree aperte e inutilizzate adiacenti alla basilica.
A beneficio di pellegrini e bisognosi
Durante il VII secolo sulla scena romana appare anche un altro tipo d’istituzione, operante entro il quadro organizzativo della Chiesa secolare,
ma che si caratterizzò per la stretta connessione con ambienti monastici: si tratta delle cosiddette diaconiæ, la cui prima menzione si trova al tempo di papa Benedetto II (684-685). Esse avevano il compito di fornire servizi assistenziali alla popolazione cittadina e, probabilmente, anche ai pellegrini che affluivano sempre piú numerosi in città per visitare le tombe dei martiri. Come avveniva presso le basiliche, anche le diaconie utilizzarono personale monastico per lo svolgimento delle proprie funzioni. Ma la funzione dei monasteri romani sembra essersi spinta oltre la sfera dei servizi di accoglienza e assistenza alle persone. Alla fine dell’VIII secolo papa Adriano I (772-795) ricostruí un monastero, detto di S. Lorenzo in Pallacinis, posto tra le rovine di edifici residenziali adiacen-
Sulle due pagine Roma, chiesa di S. Saba. Affreschi raffiguranti la guarigione del paralitico (in alto) e alcune teste di monaci. Le pitture si datano all’Alto Medioevo, fra l’VIII e il IX sec. MONACHESIMO
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Zungri (Vibo Valentia). Le Grotte degli Sbariati, un insediamento rupestre composto da case-grotte occupate da monaci basiliani fra il XII e il XIV sec. ti al complesso del teatro di Balbo, nel Campo Marzio. Le sue origini dovevano tuttavia risalire almeno al pieno VII secolo, poiché le indagini archeologiche condotte nell’adiacente esedra del giardino porticato che affiancava l’edificio del teatro hanno riportato alla luce una discarica di rifiuti, formatasi a due riprese tra la fine del VII secolo e il 730 circa, nella quale è stata rinvenuta un’incredibile varietà di materiali. Per molti di essi (per esempio, finiture in metallo per l’abbigliamento e l’armamento individuale, oggetti in osso per la cura personale e piccola gioielleria) si è ritenuto che potessero essere riferibili a produzioni realizzate in laboratori artigianali attivi all’interno dello stesso monastero e che operassero su committenza pontificia.
Fondazioni «papali-aristocratiche»
La presenza monastica nell’Urbe altomedievale si sostanzia tuttavia anche di monasteri sorti per aggregare comunità dedite solo alla vita ascetica, senza che a essa si sovrapponessero altre mansioni. Il caso forse piú interessante tra queste fondazioni che potremmo definire «papali-aristocratiche» è quello del monastero intitolato ai santi papi Stefano e Silvestro. Esso nacque intorno al 760 per volere del papa Paolo I (757-767), fratello del suo predecessore sul soglio di Pietro, Stefano II (752-757). Era situato nell’area della via Lata, che costituiva il tratto urbano della via Flaminia corrispondente all’attuale via del Corso, dove i due pontefici possedevano un imponente complesso residenziale, da tempo proprietà della loro famiglia. L’area ove la comunità si stabilí è ben nota, poiché la chiesa e il monastero di S. Silvestro, benché profondamente trasformati, sono quelli che si affacciano sulla piazza omonima, nel pieno centro di Roma. La Vita di Paolo I inserita nel Liber Pontificalis fornisce alcuni particolari sulla struttura del monastero. L’area del complesso, definita claustra monasterii, era delimitata da mura (mœnia); al suo interno, oltre alla basilica dedicata a Stefano e Silvestro, che il papa aveva fatto edificare senza badare a spese, abbellendola con marmi e mosaici, fu costruito anche un oraculum, posto in superioribus monasterii, nel quale vennero collocate le reliquie dei due santi. Dei due luoghi di culto, uno – la basilica dei Ss. Stefano e Silvestro – era probabilmente utilizzato per servizi religiosi aperti al pubblico, mentre l’altro – l’oraculum – custodiva MONACHESIMO
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le reliquie e doveva costituire un ambiente di dimensioni piú piccole rispetto alla basilica. Esso era riservato ai soli monaci e doveva essere stato ricavato in locali posti al primo piano della domus donata da Paolo I. Il monastero dei Ss. Stefano e Silvestro de Capite merita interesse anche perché andarono a risiedervi monaci di origine orientale e di lingua greca. Non fu questa l’unica fondazione romana abitata da persone provenienti dai territori del Mediterraneo orientale perché, tra la metà del VII e la metà del IX secolo, le fonti ne attestano quasi una quindicina distribuiti nelle varie regiones della città, piú uno situato nel suburbio, lungo la via Laurentina, detto dei Ss. Vincenzo e Anastasio ad Aquas Salvias (o delle Tre Fontane) L’origine geografica di queste comunità era assai variegata, cosí come furono fattori storici diversi a determinare l’arrivo e l’impianto a Roma di monaci grecofoni. Esse erano composte di indi70
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vidui provenienti dall’Armenia, dalla Cilicia, dall’Alta Mesopotamia, dalla Palestina e dalla stessa Costantinopoli. Sicuramente la migrazione dall’Oriente di queste persone, avvenuta a ondate successive, è da collegarsi ai maggiori sconvolgimenti politici e militari attraversati dall’impero bizantino fra il VII e l’VIII secolo.
Fede e diplomazia
Questi monasteri «orientali» sembrano aver costituito il vero fulcro della vita ascetica della città. Le comunità ellenofone di Roma hanno infatti costituito presenze intellettuali rilevanti e, fra l’VIII e il IX secolo, sono stati frequenti i casi in cui loro membri sono stati utilizzati dai pontefici per riceverne consiglio e assistenza, sul piano diplomatico e teologico, nella gestione delle frequenti crisi apertesi con l’impero bizantino. Tra questi, spiccano i monaci del monastero di S. Saba, fondato sul Piccolo Aventino nella
sorti per iniziativa vescovile – che agivano a supporto delle attività del clero secolare –, sia da comunità di origine orientale. L’elemento che dunque accomuna a lungo le metropoli dell’Italia bizantina è senz’altro, ma non solo, il ruolo predominante dei vescovi nell’organizzazione e nel controllo dei monasteri e nel loro utilizzo come elemento di supporto alla funzionalità di istituzioni e luoghi di culto sotto il controllo della Chiesa secolare.
Una presenza capillare
seconda metà del VII secolo da esuli provenienti dalla Palestina, che furono coinvolti in delicate missioni diplomatiche a Costantinopoli durante il periodo della crisi iconoclasta. Il monastero di S. Saba è anche uno dei pochi di cui siano stati riconosciuti alcuni resti materiali, che hanno permesso di stabilire che la comunità si era installata all’interno di una domus tardo-antica. La sala di rappresentanza del complesso, a pianta basilicale, fu trasformata in una cappella utilizzata anche per seppellire i monaci defunti, le cui tombe, per mancanza di spazio all’interno dell’edificio, andarono a occupare pure uno spazio aperto adiacente. Come a Ravenna e a Roma – e forse con tratti di rassomiglianza soprattutto con la situazione romana – anche Napoli e Cagliari, fra il VI e il IX secolo, mostrano un analogo panorama di fondazioni aristocratiche di origine tardo-antica, affiancate progressivamente sia da monasteri
Giurdignano (Lecce). I ruderi della basilica dei Ss. Cosma e Damiano, nota come Le Centoporte. La chiesa sorse fra il V e il VI sec. e fu poi trasformata in monastero.
Il panorama monastico delle regioni bizantine dell’Italia non si esaurisce, però, solo nelle esperienze fiorite nelle città. Soprattutto in aree come la Puglia meridionale, la Sicilia e la Calabria – piú profondamente ellenizzate e piú stabilmente legate a Bisanzio in virtú della loro maggiore vicinanza geografica –, la presenza di cellule di vita ascetica è diffusa su tutto il territorio, comprese quindi anche le aree rurali. Accanto alle comunità cenobitiche vere e proprie, risulta ben attestata la presenza di «laure», i cui componenti dividevano la loro esistenza fra segregazione eremitica e momenti di vita comune, come per esempio accadde presso le comunità calabresi del Merkourion, situate nella valle del fiume Lao, nella parte piú settentrionale della Calabria. Nelle fasi piú mature della presenza bizantina in Italia (X-XI secolo), i monasteri si svilupparono con modalità simili a quelle viste nelle aree latine, nel senso che anche in questi contesti la committenza di personaggi appartenenti agli strati piú alti della società (soprattutto funzionari di alto grado dell’amministrazione statale) rivestí un ruolo centrale nella loro fondazione e nello stabilimento per essi di una condizione di autonomia giuridica rispetto alle interferenze di soggetti esterni, e in particolare del clero diocesano. Queste fondazioni di età piú avanzata riuscirono a raggiungere una certa rilevanza economica e culturale e talune di esse sopravvissero anche dopo la conquista normanna del Meridione d’Italia. Peraltro, il monachesimo di matrice greca si espanse anche in aree geografiche esterne ai territori controllati dai Bizantini, come per esempio accadde nei settori piú meridionali del principato longobardo di Salerno, fra Basilicata e Campania meridionale. Nel Salento, l’insediamento dei Ss. Cosma e Damiano delle Centoporte propone, per esempio, il curioso esperimento, attuato presumibilmente durante l’VIII secolo, della creazione di un recinto monastico all’interno delle rovine di una grande chiesa, che si data al VI secolo. MONACHESIMO
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Palazzi celesti L’ascesa della dinastia carolingia ebbe, sul mondo monastico, un impatto rivoluzionario: concepite, ormai, come espressioni dirette del potere regio, le istituzioni religiose divennero esse stesse uno strumento di controllo politico e militare del territorio. E, per ottenere questo risultato «strategico», alle comunità dei monaci venne imposta l’osservanza di una Regola comune per tutti: quella di Benedetto da Norcia
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el 754, quando papa Stefano II venne in Francia per consacrare come nuovo re dei Franchi il maestro di palazzo Pipino III detto il Breve (741-768), figlio di Carlo Martello (714-741), il luogo scelto per la cerimonia di unzione che marcava l’ascesa al potere dei Carolingi e la fine della dinastia dei Merovingi – al potere da oltre duecentocinquant’anni –, fu l’abbazia di Saint-Denis, alle porte di Parigi. Già da tempo essa era il luogo prediletto dai sovrani merovingi per la propria sepoltura e aveva da essi ricevuto piú volte dimostrazioni concrete di sostegno politico ed economico. La scelta di questo glorioso monastero per consacrare ufficialmente l’avvento di una nuova dinastia, cresciuta però in seno al vecchio sistema di potere franco, prova che tale avvicendamento, pur costituendo un momento di svolta politica radicale rispetto al passato, si collocasse per molti versi in stretta continuità con esso. Sicuramente, un altro elemento di forte legame con il passato era proprio la centralità che, nella visione politica di Pipino come già di suo padre Carlo Martello, rivestiva il rapporto del potere regio con il mondo ecclesiastico e, in particolare, con la sua componente monastica. Il nesso tra la famiglia dei Pipinidi-Carolingi e il mondo delle abbazie franche aveva tuttavia origini assai piú antiche. Gli antenati di Pipino, infatti, erano stati esponenti perfetti dell’aristocrazia franca che, sin dalla metà
Nella pagina accanto miniatura di Jean Stavelot (1388-1449) raffigurante san Benedetto che predica ai suoi discepoli presso Montecassino, dalla raccolta degli scritti di san Benedetto. 1432-1437. Chantilly, Musée Condé.
del VII secolo, a imitazione di quanto facevano i re, si era attivamente impegnata nella fondazione e nella promozione di monasteri su cui la famiglia tendeva a conservare un patronato diretto, attraverso la scelta dei loro abati e badesse. Cosí era stato nel caso dei monasteri di Nivelles, Stavelot-Malmédy ed Echternach, situati nei territori degli attuali Belgio e Lussemburgo, dove la famiglia deteneva grandi proprietà. Nei confronti di monaci e abbazie, insomma, i nuovi re esibirono un atteggiamento pienamente in linea con l’azione dei loro predecessori e dei propri pari tra gli aristocratici del regno, almeno a partire da un secolo prima del fatidico anno 754. Tuttavia, giudicare il passaggio di consegne fra le due dinastie regnanti solo in una prospettiva di continuità porterebbe a un errore di sottovalutazione dell’impatto che esso produsse sul mondo monastico.
La «scommessa» dei nuovi re
Nel giro di pochi decenni, infatti, l’avvento dei Carolingi determinò un’evoluzione radicale del quadro fin lí maturato. Non costituiva una novità il fatto che il potere del re dei Franchi avesse una forte connotazione religiosa, che permetteva loro di interessarsi attivamente delle questioni ecclesiastiche. Tuttavia, i nuovi sovrani interpretarono questa loro prerogativa in modo piú ampio rispetto al passato. Nella loro prospettiva, la scommessa consisteva nel riorganizzare il MONACHESIMO
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funzionamento delle istituzioni religiose, concependole come vere e proprie diramazioni del potere regio in grado di supportarne l’opera di controllo dei territori a esso sottoposti. Vescovati e abbazie, insomma, non potevano solo costituire presenze di cui il re si occupava di favorire l’esistenza e lo sviluppo, ma dovevano cooperare attivamente con lui per garantire l’ordinata gestione del regno. Per farlo, Pipino e Carlo attivarono strumenti operativi che si espressero sia sotto forma di atti legislativi aventi valore generale, sia attraverso azioni di carattere piú mirato, ma che riflettevano una visione unitaria e omogenea del tema della riforma delle istituzioni ecclesiastiche. La posta in gioco era tanto quella del consolidamento del prestigio e dell’autorevolezza della potestà sovrana in un ambito – quello religioso – che ormai permeava di sé la società del regno franco nel suo insieme, quanto l’esercizio del controllo su istituzioni che avevano anche accumulato patrimoni considerevoli e che, perciò, si riteneva dovessero contribuire concretamente, con le proprie risorse, al perseguimento degli obiettivi politico-militari della monarchia.
In basso capolettera miniato raffigurante un monaco mietitore, da un’edizione di Moralia in Iob, commento al Libro di Giobbe in 35 libri, di Gregorio I Magno, proveniente dall’abbazia di Cîteaux. XII sec. Digione, Bibliothèque Municipale.
La Regola del successo Verso il 529, Benedetto da Norcia fondò sul monte di Cassino l’oratorio conventuale di S. Martino, primo nucleo del futuro celebre monastero, culla e centro dell’Ordine benedettino. Negli anni e nei secoli successivi la sua Regola divenne uno dei pilastri del monachesimo e, parallelamente, si moltiplicarono le fondazioni improntate al suo esempio.
Uniformare il linguaggio
A tale scopo, occorreva però che anche la galassia di esperienze e di stili di vita – sviluppatasi nei monasteri franchi in oltre un secolo – fosse spinta verso una maggiore omogeneità: si voleva cioè che la preghiera che i monaci levavano a Dio in favore del re parlasse ovunque con il medesimo linguaggio. Tale intento si evidenzia sin dai primissimi interventi di Pipino III che furono attuati prima ancora che egli cingesse la corona di re dei Franchi, dopo aver definitivamente spodestato l’ultimo re merovingio. Pipino, infatti, si espresse su quale dovesse essere, per tutte le comunità esistenti nel regno, il testo di riferimento a cui attenersi nella pratica della vita ascetica, individuandolo nella Regola di Benedetto da Norcia. Sino a quel momento, nessuno aveva ritenuto necessario mettere in discussione il fatto che esistesse una pluralità di Regole e che le comunità scegliessero piú o meno liberamente quale seguire. Puntare però sull’adozione di un’unica regola di vita da parte di tutti i monasteri significava, in primo luogo, mirare a un maggiore controllo su di essi. Per i Carolingi, l’atto del qualificare un monastero come regalis non comportava soltanto la concessione sovrana dell’immunità dall’intromissione di soggetti terzi nelle sue faccende interne, ma anche l’istituzione di un vincolo 74
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piú stretto, in base al quale i monaci e la loro casa erano dichiarati sotto la protezione del re. Tale protezione – che nei diplomi regi è definita con i termini tuitio, defensio o con la parola di origine germanica mundiburdium – affianca cosí alla tradizionale linea d’azione dei re merovingi incentrata sulla cessione di diritti ai monasteri una nuova e piú attiva strategia,
nell’ambito della quale il monarca si fa garante della loro quiete e incolumità, in cambio della fedeltà che gli abati gli assicurano, a nome delle comunità loro affidate. Giunto al potere nel 768, alla morte del padre, divenuto unico re dei Franchi nel 771 e poi nel 774 anche re dei Longobardi, Carlo Magno riprese, ampliò e sistematizzò ulteriormente la
legislazione riguardante le questioni ecclesiastiche e, in particolare, quella concernente lo status e l’organizzazione dei monasteri. La vita monastica si doveva svolgere nel rispetto di norme univoche per tutte le comunità e fu ribadito che la Regola di Benedetto avrebbe dovuto fornire il quadro di riferimento in tal senso. Inoltre, il re si preoccupò di stabilire MONACHESIMO
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che vi fosse una precisa demarcazione fra lo stato monastico e quello laicale, per cui chiunque avesse desiderato entrare in una comunità monastica avrebbe innanzitutto dovuto provare di esserne degno e di saper perseverare in un’esistenza condotta all’interno dei recinti claustrali. Questa norma venne ripetuta dal sinodo di Francoforte del 793, con la prescrizione che l’oratorio dei monaci avrebbe dovuto sempre essere collocato intra claustra, e quindi in un’area inaccessibile a chiunque non facesse parte della comunità; ciò perché l’ufficio religioso dei monaci doveva svolgersi con modi e tempi distinti da quelli dei laici e, soprattutto, al riparo da qualsiasi interferenza.
Un elenco minuzioso
Ma il coinvolgimento dei monasteri nella vita del regno andò ben oltre la sfera prettamente sacrale. In una celebre lettera inviata poco dopo l’800 a Fulrado, abate di Saint-Quentin (e poi di Lobbes), Carlo elencava minuziosamente tutto quello che questi avrebbe dovuto predisporre a proprie spese per partecipare a una campagna militare di prossima effettuazione: dal numero degli armati al loro equipaggiamento, dagli animali ai carri, per finire con una lista dettagliata di tutti gli utensili e le provviste necessarie a fare fronte alle necessità che si sarebbero potute presentare durante le operazioni belliche. Nell’817, inoltre, quando a Carlo era già succeduto il figlio Ludovico il Pio, fu emanato un documento intitolato Notificazione sul servizio dei monasteri, che conteneva una lista di monasteri distribuiti nei territori transalpini dell’impero, suddivisi in tre gruppi secondo il contributo che ciascuno di essi avrebbe dovuto fornire al sovrano. Il primo di questi, costituito da quattordici monasteri, era chiamato all’impegno piú gravoso, consistente nella corresponsione di «dona et militia» e cioè di donativi e di uomini atti al servizio armato; il secondo gruppo, in cui troviamo sedici fondazioni, doveva fornire solo donativi; per il terzo, infine, che è il piú numeroso, poiché ne comprende ben cinquantaquattro, si prevedeva un impegno limitato solo alla preghiera per la salute dell’imperatore e della sua famiglia. Anche l’obbligo di garantire la preghiera perpetua per il sovrano e la sua famiglia rappresentava qualcosa di piú concreto e impegnativo di quanto si possa in prima battuta immaginare, poiché si doveva garantire la celebrazione quotidiana di officia religiosi e quindi sia la disponibilità di spazi in cui svolgerli, sia che 76
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essi fossero caratterizzati da un decoro che rispecchiasse la dignità di coloro in favore dei quali le orazioni venivano elevate. Per garantirsi l’obbedienza delle abbazie, capitava di frequente che il re vi imponesse abati esterni, talora ricorrendo perfino a personaggi di condizione laica. Il criterio di base era che alla testa di questi complessi organismi ci dovesse essere qualcuno che non solo desse garanzie di fedeltà al sovrano, ma che fosse anche in grado di comprendere, condividere e attuare il progetto complessivo di potenziamento delle istituzioni poste al servizio della gloria e dello sviluppo dell’impero. Questa prossimità fra il potere sovrano e i monasteri, pur incrementando l’importanza e il prestigio dei secondi, non mancava di suscitare risvolti problematici. Gli abati dei monasteri piú importanti si trovavano spesso a gestire un potere immenso che travalicava la sfera prettamente spirituale per entrare in quella economica e politica, determinando l’assunzione di stili di vita e la frequentazione di luoghi molto diversi da quelli consoni a un monaco. Essi erano spinti a uscire spesso dai monasteri e ad allontanarsene anche per lunghi periodi, magari per frequentare la corte e condividerne le abitudini, come per esempio quella di partecipare a battute di caccia, o essere coinvolti nella diretta partecipazione alle azioni belliche.
Pretese contraddittorie
Considerata nel suo insieme, la politica seguita dai sovrani carolingi nei confronti del mondo monastico sembra cosí aver prodotto quasi una sorta di «schizofrenia comportamentale»: per un verso, essa puntava a razionalizzare la vita delle abbazie, spingendole verso l’adozione di un’unica Regola e sorvegliando che i suoi precetti fossero rigorosamente rispettati; d’altro lato, il ruolo che esse erano chiamate a svolgere nella società, ne determinava inevitabilmente il coinvolgimento in situazioni come quelle appena descritte. Alle abbazie si chiedeva insomma di essere, allo stesso tempo, luoghi di rigore e di splendore e agli abati di essere custodi delle norme della vita monastica e di saper agire da protagonisti
Una scena di vita monastica, miniatura dal De universo di Rabano Mauro. 1023. Montecassino, Biblioteca Statale del Monumento Nazionale di Montecassino.
nel secolo: è evidente che questi equilibri non erano di semplice attuazione. Carlo non riuscí a vedere l’approdo del percorso al cui avvio tanto aveva contribuito. La sua tappa fondamentale fu raggiunta infatti subito dopo la sua morte (avvenuta nell’814), quando la corona imperiale era passata nelle mani del figlio Ludovico. Il tema dell’applicazione della Regola benedettina alla vita di tutti i monasteri
dell’impero venne infatti affrontato tra l’816 e l’817, nel corso di due sinodi celebrati ad Aquisgrana, compiendo al contempo una riflessione critica su tale testo. In ogni caso, benché nei sette decenni trascorsi fra l’avvento al potere dei Carolingi e le deliberazioni dei sinodi di Aquisgrana si fosse molto parlato della Regola di Benedetto da Norcia, ciò
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L’abbazia di Saint-Riquier (nota anche come Centula) con l’imponente chiesa abbaziale, in una incisione del 1672. Il complesso venne fondato dall’abate Richarius (Riquier in francese), in epoca merovingia, nella regione della Somme, a nord-est di Parigi. non aveva impedito che all’interno dei singoli monasteri perdurasse una grande varietà di declinazioni nell’organizzazione della vita monastica e che si fosse quindi ben lontani da quella unitarietà di comportamenti che i sovrani auspicavano. Risulta dunque facile comprendere come nei monasteri di età carolingia si generasse spesso una tensione fra l’intento di attuarvi il rigoroso rispetto dei precetti della Regula Benedicti, l’esigenza che spesso le comunità manifestavano di non abbandonare peculiari consuetudini nell’organizzazione della vita ascetica e, infine, la volontà di materializzare il proprio prestigio spirituale attraverso l’attuazione di ambiziosi programmi di ampliamento edilizio della sede in cui esse vivevano. Queste imprese, in particolare, se da un lato contribuivano non poco ad accrescere lo splendore esteriore di un monastero e la fama dell’abate che ne era stato il promotore, potevano però essere allo stesso tempo motivo di distrazione nel perseguimento degli ideali piú autentici della vita consacrata.
La «Roma celeste»
Nei monasteri carolingi, la tendenza a fare della recita delle preghiere quotidiane un rituale che occupava spazi temporali sempre piú lunghi (quando non continui, entro le ventiquattro ore della giornata) e l’inserimento delle preghiere stesse in cerimoniali liturgici complessi, fu l’esito inevitabile dell’affermarsi della concezione dello spazio claustrale come un luogo impregnato della presenza divina. Le sacre reliquie dei santi riposte negli altari delle chiese interne alle abbazie (e in particolare in quella principale), che mediavano la preghiera rivolta dai monaci a Dio, andavano onorate tutti i giorni. Inoltre, le comunità delle diverse abbazie, che si legavano tra loro da vincoli di fratellanza, s’impegnavano a pregare quotidianamente le une per le altre e il tributo dell’orazione doveva essere corrisposto anche in favore delle autorità terrene (in primis i regnanti e i pontefici romani) e dei benefattori che ai singoli monasteri avevano offerto protezione e risorse. Soddisfare queste esigenze significava dover espandere significativamente il tempo delle orazioni rispetto a quanto previsto dalla Regula Benedicti e costituire comunità numerose, sufficien78
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temente istruite nella conoscenza dei testi da recitare durante le celebrazioni e in grado di concepire la complessa mise en scène che questi rituali richiedevano. Visti in questa luce, i richiami all’austerità che i partecipanti ai sinodi di Aquisgrana lanciarono al mondo monastico sembrano a tutta prima incongrui e irrealistici. Un elemento macroscopicamente visibile nello sviluppo dei monasteri dell’Europa carolingia (e non solo di quelli d’Oltralpe) sicuramente trasse ispirazione da quanto la scena romana contemporanea offriva: la sacralità di Roma non si esprimeva solo in quanto al suo interno sorgevano uno o piú luoghi specificamente destinati alla devozione religiosa, ma era data dal fatto che questi luoghi erano fra loro idealmente interconnessi. I templi dedicati ai singoli martiri (o a episodi della loro vita, come nei casi di Pietro e Paolo) raccontavano insieme la storia di un sacrificio collettivo che era servito al trionfo della vera fede e simboleggiavano quindi la completa «presa di possesso» che il cristianesimo aveva attuato su tutto lo spazio della capitale imperiale.
Cerimoniali solenni
La cosiddetta «liturgia stazionale», che a Roma come in altre città dell’impero si sviluppò già in età tardo-antica, divenne lo strumento attraverso il quale questa interconnessione fra i diversi luoghi sacri si fece evidente. Il papa visitava le chiese della città nel corso dell’anno, con cadenze calendarizzate in modo preciso e queste visite si svolgevano secondo cerimoniali solenni, che prevedevano lo spostamento del vescovo e del clero dalla cattedrale verso di esse, con processioni che attraversavano lo spazio cittadino, seguite e accompagnate dalla popolazione urbana, sancendo cosí l’unitarietà sacrale di Roma nel suo insieme. Le maggiori festività del calendario liturgico – in particolare quelle pasquali – rappresentavano per intensità e solennità il momento clou di queste celebrazioni. È forse proprio sul terreno di questa ispirazione generale, piú che su quello del dettaglio delle costumanze liturgiche, che si possono perciò trovare alcuni dei riscontri piú pregnanti al desiderio d’imitazione del mos romanus («uso romano») che le fonti di questo periodo storico attribuiscono a molti protagonisti delle piú grandi imprese di fondazione o ricostruzione di centri monastici avvenute nell’Europa franca. In alcuni casi, il riscontro incrociato delle testimonianze materiali e di quelle testuali permette di raggiungere un livello di dettaglio davvero impressionante nella comprensione di
quanto gli spazi architettonici e loro funzionalità liturgiche costituissero un nesso inscindibile di funzioni e significati.
Il mistico splendore di Centula
Il primo di questi esempi è fornito dal monastero di Centula, sorto in età merovingia nella regione della Somme, a nord-est di Parigi, per opera di Richarius (Riquier, in francese). L’abbazia visse in posizione abbastanza defilata sino al 790, quando Carlo Magno vi nominò abate suo genero Angilberto, che da tempo collaborava con lui a corte rivestendovi incarichi di notevole importanza. In particolare, egli era stato inviato spesso a Roma per compiervi delicate missioni politiche e aveva tenuto la reggenza dell’Italia durante la minorità del figlio di Carlo, Pipino. Allievo di Alcuino di York e di Paolino di Aquileia, ma di stato laico, Angilberto si mostrò tuttavia sufficientemente competente da poter attendere al sacro incarico che il re gli aveva affidato; ma si rivelò soprattutto abbastanza dotato d’immaginazione e di ambizione da interpretarlo come un’opportunità per concepire e realizzare un progetto mirato a rendere Centula un luogo in cui celebrare Dio in una cornice di mistico splendore, adeguata a quanto ci si sarebbe aspettati da un membro della famiglia reale. Angilberto dispiegò la propria azione negli anni a cavallo tra la fine dell’VIII e gli inizi del IX secolo (morí nell’814): un periodo relativamente breve, se si considera la grandiosità delle opere da lui promosse. Di esse ci parlano due fonti: la prima è un testo di cui fu autore egli stesso (la Institutio Angilberti abbatis de diversitate officiorum), che ci lascia intravedere una serie di dettagli relativi alla struttura del monastero e soprattutto alle sue chiese che egli aveva rinnovato, apparentemente riedificandolo ex novo sul sito occupato dal vecchio complesso merovingio. Il breve scritto dell’abate di Centula non aveva lo scopo di descrivere come dovesse apparire il nuovo monastero, bensí di fornire una serie piuttosto meticolosa di prescrizioni su come organizzarvi le cerimonie religiose, con particolare attenzione per quelle previste in occasione delle festività maggiori. I riferimenti agli edifici e alla loro articolazione spaziale sono quindi funzionali a tale intendimento; ma forse per questo ci appaiono ancor piú interessanti, poiché ci aiutano a comprendere meglio il fine per cui lo spazio delle chiese e di altri ambienti presenti nell’abbazia era stato pensato e progettato. La seconda fonte è una cronaca del XII secolo, MONACHESIMO
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il cosiddetto Chronicon Centulense. Il suo autore, il monaco Ariulfo, dedica ampio spazio alle imprese edilizie di Angilberto e, al contrario di quest’ultimo, il suo fine è proprio quello di descrivere ed esaltare la grandiosità del programma architettonico che il grande abate carolingio aveva concepito e portato a realizzazione. Dal codice di questa cronaca (o meglio da alcune sue copie redatte nel XVI e nel XVII secolo) proviene una veduta di come il monastero si sarebbe presentato nel IX secolo. La narrazione di Angilberto si dispiega davanti ai nostri occhi 80
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come un film. Le sue parole dovevano servire a tracciare i percorsi processionali che i trecento monaci e i cento pueri che la comunità educava nella propria scuola avrebbero dovuto compiere nelle chiese e negli altri edifici. La veduta inserita nella cronaca di Ariulfo ritrae a volo d’uccello un complesso a pianta trapezoidale, articolato su tre poli architettonici (vedi a p. 78). Lo sfondo è interamente occupato da una chiesa di grandi proporzioni e dalla complessa articolazione volumetrica, che una didascalia denomina «S. Richarius», mentre sul lato
Particolare di un disegno raffigurante l’abbazia benedettina di Montecassino e il sottostante borgo di S. Germano, dall’opera Ad historiam Abbatiae Cassinensis Accessiones. 1734.
destro vediamo un’altra chiesa, identificata con la dicitura «S. Benedictus», molto piú piccola della prima. In basso troviamo infine una terza chiesa, denominata «S. Maria», che si presenta come un edificio composto di due corpi giustapposti: quello anteriore è una struttura basilicale a tre navate, mentre il secondo è un volume cilindrico, evidentemente a pianta circolare.
Un complesso vasto e articolato
Le tre chiese erano collegate fra loro da quattro bracci porticati stretti e lunghi, aperti da un loggiato a colonne verso l’interno, che delineano un’ampia area aperta che essi stessi e le tre chiese delimitano e racchiudono. Uno dei tre bracci del portico si addossa alla grande chiesa ritratta sullo sfondo; gli altri tre, invece, rimangono liberi sul lato esterno, verso il quale sembrano presentarsi come un muro cieco e continuo, privo di qualsiasi apertura. A un primo colpo d’occhio, lo spazio racchiuso dalle ali porticate sembrerebbe corrispondere a una sorta di corte addossata alla grande chiesa di S. Ricario; nella realtà, tuttavia, esso costituisce qualcosa di ben piú articolato e imponente, e il perimetro totale dell’area racchiusa dalle ali porticate doveva superare abbondantemente i 700 m. La grande chiesa che la veduta del monastero ritrae sullo sfondo era in realtà un tempio multiplo: al proprio interno conteneva quattrodici altari (sei lungo l’allineamento della navata centrale e quattro rispettivamente per ciascuna di quelle laterali). Un quindicesimo altare, dedicato al Salvatore, si trovava invece nell’ambiente posto al piano superiore del corpo turrito occidentale, che costituiva quindi una sorta di vera e propria «chiesa nella chiesa». Gli altari principali erano i due posti nella zona presbiteriale, dedicati l’uno a san Pietro e l’altro a san Ricario; ma anche gli altri erano regolarmente utilizzati e visitati dai monaci, sia per dirvi messa, sia nel corso di processioni che coinvolgevano tutto lo spazio della chiesa, all’interno della quale stazionavano in permanenza due cori di monaci, in maniera da produrre un suono che si potrebbe definire «stereofonico». Nell’edificio si svolgeva la preghiera quotidiana dei monaci, ma ogni giorno, dopo il mattutino e dopo i vespri, alcuni di loro si dipartivano da esso per recarsi in processione presso le altre due chiese dedicate alla Vergine e a san Benedetto. Nel suo insieme, l’insediamento funzionava come una sorta di triplice cerchio concentrico. Il piú interno era costituito dall’area delimitata dal recinto ai cui vertici si trovavano le tre chiese di S. Ricario/del Salvatore, di S. Maria e di S.
Benedetto, collegate fra loro dai porticati percorsi dalle processioni quotidiane. Questo settore del monastero doveva evidentemente contenere anche tutti gli edifici profani necessari alla vita quotidiana della comunità (dormitorio, refettorio, cucine, dispensa). Il secondo cerchio, piú ampio, era anch’esso delimitato da un muro di cinta; al suo interno si trovavano spazi a destinazione decisamente piú profana. Il primo e il piú importante era l’asse della via publica, che percorreva l’intero insediamento e si apriva verso l’esterno tramite due porte presenti nel muro di cinta. Sul lato est della strada si aprivano gli accessi al paradisus della chiesa maggiore (tramite la porta di S. Michele) e un percorso che conduceva alla chiesa della Vergine, mentre su quello ovest si trovava l’accesso al plesso delle officine dei fabbri e degli altri artigiani, collocato nell’area piú vicina alla porta meridionale. In prossimità del ponte che scavalcava il corso del torrente Scardone e a meridione di esso si apriva una platea, apparentemente circondata da portici. Angilberto non lo dice, ma è molto probabile che questo spazio, contiguo alle officine monastiche, in determinate circostanze fosse utilizzato anche come luogo di mercato. Sul lato est della piazza si trovava un altro slargo recintato, il broilus, di cui non è chiarita la funzione, ma che si può ipotizzare fosse destinato a fungere da luogo-cerniera tra la piazza stessa e gli spazi in cui viveva la comunità: probabilmente veniva utilizzato come una sorta di corte di servizio per far sostare i carri e gli animali da sella e da soma usati sia per trasportare le merci al mercato, sia per condurre ospiti in visita al monastero. Dal broilus, infatti, tramite il giardino dei monaci (hortus) si poteva accedere direttamente alla curticella e alla sala dell’abate.
«Quattro polli e trenta uova»
Sull’articolazione della zona del burgus dell’abbazia di Centula e sui suoi abitanti ci offre preziose informazioni un documento che si ritiene databile all’anno 831, redatto dal monaco Eirico, su incarico dell’imperatore Ludovico il Pio, per fornire uno stato delle entrate di cui il monastero poteva disporre, imponendo censi sulle attività di coloro che vivevano nei suoi immediati dintorni. L’enumerazione di Eirico si apre dichiarando che «a Centula ci sono 2500 case abitate da secolari e che ciascuna di esse corrisponde annualmente dodici denari, quattro polli e trenta uova». Tutti gli abitanti delle case avrebbero inoltre dovuto prestare all’abate e ai monaci la propria opera in ogni occasione in cui MONACHESIMO
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ciò fosse stato loro richiesto. Il documento prosegue menzionando la presenza di quattro mulini e del mercato (che doveva svolgersi nella platea prima ricordata), dalle cui attività la comunità monastica traeva guadagni enormi, cosí come dall’amministrazione della cura delle anime e dagli altri servizi religiosi che la comunità offriva ai secolari (come per esempio la celebrazione dei matrimoni). Ma rendite importanti erano conferite anche dalle diverse categorie di artigiani che lavoravano presso il monastero. A ciascuna di esse era assegnato un vicus, all’interno del quale erano riuniti tutti gli artigiani specializzati in una specifica ars: fabbri, fabbricatori di scudi, sellai, fornai, calzolai, macellai, fulloni, pellai e vinificatori. L’ultima categoria di persone radunate presso uno specifico vicus, menzionata da Eirico, è quella dei 110 milites, ai quali era fatto obbligo di farsi sempre trovare dotati di armamento completo, comprendente un cavallo, uno scudo, una spada, una lancia e tutte le altre armi che fossero loro necessarie. Il terzo e piú esterno cerchio che formava lo spazio monastico di Centula era quello costituito dalla corona dei quattro villaggi, con le loro rispettive chiese, raggiunti dalle processioni dell’Ascensione. Alcuni dei centri nominati nell’Institutio sono ancora chiaramente individuabili nella topografia attuale degli immediati dintorni di Centula, e intorno al sito dell’abbazia, entro una distanza di circa 4-5 km, si può riconoscere una cintura di piccoli villaggi, che probabilmente costituivano il limite di quello che potremmo definire l’«areale ampio» del plesso monastico, ove risiedevano le comunità i cui abitanti erano alle dirette dipendenze dell’abbazia e di cui le chiese, utilizzate come stationes delle processioni, costituivano i segnacoli piú visibili.
Montecassino, il monastero «delle origini»
All’opposto geografico di Centula, all’interno della mappa dell’impero franco, un’altra grande abbazia sviluppatasi altrettanto rapidamente dal punto di vista materiale tra la fine dell’VIII e gli inizi del IX secolo ci offre informazioni preziose sulle proprie consuetudini liturgiche al tempo di Carlo Magno e quindi, indirettamente, sugli spazi che le ospitavano. È Montecassino, monastero fondato da Benedetto da Norcia e luogo considerato a quei tempi il centro di origine del monachesimo che Carlo voleva unificato nelle proprie costumanze organizzative e liturgiche. L’abate Petronace, promotore della 82
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rinascita del cenobio cassinese negli anni Trenta dell’VIII secolo, aveva patrocinato una serie di lavori presso i due oratori già esistenti sulla sommità del colle cassinese e la cui origine rimontava al tempo di Benedetto. Probabilmente, la rifondazione di Montecassino comportò da subito anche la creazione di una sorta di succursale del monastero, situata ai piedi della collina su cui si era insediato san Benedetto nel VI secolo, occupando il nucleo centrale dell’antica città di Casinum, comprendente l’area forense. Il primo edificio di culto di una certa entità eretto ex novo in quest’area compare al tempo dell’abate Teodemaro. Si tratta della chiesa di S. Maria delle Cinque Torri, un edificio a pianta mista basilicale-centrale, i cui quattro vertici erano sormontati da altrettanti piccoli tiburi, ai quali se ne aggiungeva un quinto, al di sopra dello spazio centrale, dando cosí origine all’appellativo con cui la chiesa si trova denominata nelle fonti. Al tempo del successore di Teodemaro, Gisulfo, a essa si affiancò una basilica dedicata al Salvatore. Si trattava di un edificio lungo oltre 36 m, a tre navate e tre absidi, riccamente decorato con il copioso impiego di marmi di pregio. Sui due lati della chiesa, Gisulfo fece erigere una serie di costruzioni (officinæ) che dovevano servire all’utilitas, sia sua propria, sia dei confratelli. Esse ospitavano i locali di abitazione dei monaci e spazi destinati ad accogliere gli uffici amministrativi del monastero, che già a quel tempo gestiva un patrimonio fondiario enorme, che spaziava dal Lazio alla Campania e dall’Abruzzo al Molise.
Una fortificazione insufficiente
Poco dopo la metà del IX secolo questo insediamento fu cinto di mura vere e proprie, per timore che potesse essere assalito e depredato dai Saraceni che imperversavano nel Meridione italiano, cosa che poi effettivamente avvenne nell’883, quando lo stesso abate Bertario fu raggiunto e ucciso dai saccheggiatori all’interno della chiesa del Salvatore. In seguito a questo intervento, l’insediamento «basso» assunse l’aspetto di una vera e propria civitas, che le fonti cassinesi chiamano con il pomposo nome di Eulogimenopolis, e cioè – in forma grecizzata – «la città di Benedetto». L’azione di Gisulfo poteva profittare di un momento assai favorevole per il monastero dal punto di vista economico e politico. L’abate non si limitò agli interventi compiuti nell’area dell’attuale Cassino, ma intervenne anche sul nucleo monastico originario, e cioè quello «al-
Re Dagoberto I visita il cantiere di Saint-Denis, miniatura di Robinet Testard, da un’edizione delle Grandes Chroniques de France. 1471. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
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to», posto sulla collina soprastante. Qui fece ricostruire interamente la chiesa entro cui si trovava il sepolcro di san Benedetto e che a quest’ultimo da quel momento in poi sarebbe stata intitolata. Similmente a quella eretta a valle, anche la chiesa sul monte era un edificio a pianta basilicale e a tre navate, lungo fra i 30 e i 40 m. Questa chiesa sopravvisse sino alle ricostruzioni effettuate alla fine dell’XI secolo dall’abate Desiderio e rappresentò quindi per tutto l’Alto Medioevo il luogo piú sacro di tutta l’abbazia. Al tempo dell’abate Bertario anche l’insediamento «alto» fu dotato di opere di difesa (mura e torri) che lo fecero apparire «in modum castelli». La Cronaca di Montecassino descrive i due nuclei insediativi come realtà ben distinte fra loro e funzionalmente autonome, ciascuna con le proprie chiese e la propria comunità. In realtà, esse costituivano parti di un insieme retto da un solo abate, che non è improprio definire come un monastero «bicefalo».
Pompei monastiche
Se a Montecassino e a Centula sono le fonti scritte a illustrarci la complessità strutturale e funzionale di un grande monastero dell’età carolingia, in altri due casi sono soprattutto i dati archeologici a consentirci di comprenderne aspetti importanti. Ancora una volta abbiamo di fronte un caso italiano e uno francese che, per una casuale coincidenza, si trovano geograficamente non lontano dai due insediamenti sui quali ci siamo sin qui soffermati: S. Vincenzo al Volturno, in Molise, sul versante opposto delle montagne che delimitano a est la piana di Cassino, e Saint-Denis, situato ai margini settentrionali dell’odierna conurbazione parigina, ma che nell’Alto Medioevo costituiva un centro ben distinto dalla capitale francese. Ancor prima che Carlo Magno portasse a compimento la conquista del regno longobardo, S. Vincenzo al Volturno costituiva una delle realtà monastiche di maggiore importanza nel panorama italiano. Già dagli anni Ottanta dell’VIII secolo, era stato avviato un programma di ampliamento dell’insediamento originario che aveva portato alla costruzione di un sistema di corridoi porticati che delimitavano al loro interno un’ampia area centrale, di forma grossolanamente trapezoidale (60-70 x 40-50 m circa di lato), che occupava uno spazio pianeggiante compreso fra il corso del fiume Volturno e la collina retrostante. Lungo i lati esterni delle ali porticate si erano sviluppati plessi di edifici che – sebbene esplorati solo parzialmente – mostrano ciascuno una ben distinta destinazione. 84
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Il gruppo posto sul lato nord comprende due chiese, alcuni spazi probabilmente destinati all’accoglienza dei visitatori e il refettorio dei monaci; quello sul lato est costeggiava il corso del fiume e ospitava le cucine e, attigui a esse, probabilmente anche i magazzini per la conservazione delle derrate alimentari; quello sul lato sud/sud-ovest includeva l’area produttiva e artigianale del monastero; quello sul lato settentrionale, infine, comprendeva un’area a giardino animata da giochi d’acqua e due grandi ambienti che probabilmente fungevano da depositi. Fra l’VIII e il IX secolo, l’abate Giosuè (792-817) decise di intraprendere la costruzione di una nuova, grandiosa chiesa abbaziale, dedicata al martire spagnolo Vincenzo di Saragozza, il cui culto era divenuto prevalente nel monastero almeno a partire dalla metà dell’VIII secolo. Per elevare la nuova chiesa fu scelto un pianoro posto a una quota di 3-5 m piú elevata rispetto allo spazio delimitato dai corridoi porticati e qualche decina di metri a sud-ovest rispetto a essi. Esso presentava il vantaggio di permettere all’edificio di elevarsi su un rialzo naturale, cosí che da farlo svettare su tutte le altre fabbriche del monastero e da renderlo visibile con molto anticipo a chi vi si fosse avvicinato lungo la strada che percorreva la valle del Volturno.
Al di là e al di qua del fiume
Ancora ci sfuggono numerosi aspetti dell’assetto topografico di S. Vincenzo al Volturno, ma un dato che sembra certo è che il complesso situato sulla riva sinistra del fiume – dove sorse anche la chiesa fatta erigere dall’abate Giosuè – costituiva l’area in cui risiedeva la comunità monastica; qui, infatti, sono stati individuati alcuni edifici a essa riservati, come per esempio il refettorio. Per accedere a questa parte del monastero, si doveva attraversare il fiume utilizzando pontili e passerelle lignee apprestati presso il gruppo di edifici sorti a nord del grande quadriportico. La chiesa maggiore era posizionata a un centinaio di metri da quest’area e, apparentemente, non aveva un collegamento diretto con l’accesso dal fiume. Per raggiungerla si doveva perciò attraversare una serie di spazi interni alla clausura monastica, ed è quindi difficile immaginare che un itinerario di questo tipo potesse essere abitualmente percorso da persone esterne alla comunità, a meno di non essere state esplicitamente autorizzate a farlo. Come Montecassino, anche S. Vincenzo al Volturno era stato probabilmente concepito come un monastero bipartito; ma, a differenza di
Miniatura raffigurante il Sogno di Dagoberto, da un’edizione delle Grandes Chroniques de France. 1420-1460. Parigi, Bibliothèque nationale de France. La scena illustra la leggenda secondo la quale il giovane re, per sfuggire alla collera del padre, Clotario II, si rifugiò in una cappella nella quale s’addormentò: gli apparvero allora in sogno Dionigi, Rustico ed Eleuterio, che erano stati vescovi di Parigi (il cui profilo si riconosce sullo sfondo), e la visione avrebbe acceso in Dagoberto la devozione per il primo dei tre, in onore del quale promosse la costruzione dell’abbazia di Saint-Denis.
quanto accadde nell’abbazia laziale, il confine che separava le due parti dell’insediamento non era marcato dal dislivello che separava l’insediamento sorto in pianura da quello posto sulla collina soprastante. A svolgere questa funzione di demarcazione era invece il corso del Volturno, allora molto piú ampio di quanto non sia oggi.
Sul sepolcro di Dionigi
Posto poco a nord di Parigi, il monastero sorto già in età merovingia intorno al santuario martiriale di Dyonisius (Dionigi) conobbe una nuova fase di sviluppo sin dalla primissima età carolingia – e quindi subito dopo la metà dell’VIII secolo – poiché Pipino III ne fece il proprio luogo di sepoltura. I lavori di ampliamento vi proseguirono però almeno sino alla fine
degli anni Sessanta del IX secolo quando Carlo il Calvo, nipote di Carlo Magno e re dei Franchi occidentali, si fece nominare abate laico del monastero e ordinò che a sua protezione fosse costruito un recinto fortificato in legno e pietra contro la minaccia dei raid vichinghi. Nell’862 Carlo emanò in favore dell’abbazia un precetto il cui testo fornisce molte preziose informazioni sulla presenza di una serie di edifici annessi alla chiesa in cui era sepolto il martire. Quest’ultima era stata fatta ricostruire negli anni Settanta dell’VIII secolo dall’abate Fulrado e aveva l’aspetto di una basilica a tre navate, con transetto e cripta anulare ricavata sotto l’unica abside, per poter consentire di raggiungere piú agevolmente la tomba di Dyonisius-Denis. MONACHESIMO
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I monaci operai del Volturno A destra planimetria del complesso monastico di S. Vincenzo al Volturno (Isernia). Gli scavi condotti nel sito hanno rivelato l’esistenza di una vera e propria «città», nella quale, accanto alle strutture destinate alle attività spirituali, operavano laboratori e officine (come quelle per la produzione di manufatti in vetro). p ercorso refettorio-loggia-dormitorio percorso dormitorio (?)-basilica percorso claustrum-basilica ali porticate del claustrum percorso claustrum-ingresso sul fiume
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Ricostruzione grafica di una scena di vita nelle cucine monastiche nella seconda metà del IX sec. (disegno S. Carracillo).
In basso ricostruzione grafica del monastero. cosí come doveva presentarsi alla metà del IX sec. (disegno S. Carracillo).
Il præceptum di Carlo il Calvo ricorda che nelle vicinanze della basilica esistevano un refettorio, un dormitorio, un guardaroba, una sala riscaldata, un edificio per ospitare i novizi, una cucina, bagni, officine, una panetteria e un magazzino per le derrate alimentari. Accanto a spazi sicuramente pertinenti al claustrum vero e proprio (refettorio, cucine, panetteria, dispensa e dormitorio), ne sono poi menzionati altri, come la sala riscaldata e i balnea, che forniscono indizi sull’alto livello delle infrastrutture di cui il monastero era stato dotato e che si poterono realizzare anche grazie al fiumicello che lambiva il sito della basilica. Altre indicazioni, quali la presenza di un edificio riservato ai novizi e di un quartiere per le officine, lasciano presumere l’esistenza di aree edificate poste esternamente al claustrum, ancorché a esso strettamente connesse. Le lunghe campagne di scavi che hanno interessato l’area urbana di Saint-Denis sono riuscite solo in minima parte a intercettare la presenza di edifici prossimi alla basilica e databili all’Alto Medioevo. Accanto alla chiesa è stata però riconosciuta un’aula a destinazione profana che gli archeologi hanno ritenuto di interpretare come il palatium, nel quale venivano ospitati i sovrani in visita al monastero. Il palazzo e la cappella sembrano quindi comporre i lati di una sorta di spazio privilegiato, prossimo alla basilica, di cui quest’ultima costituiva il versante orientale. Questa zona aveva apparentemente assunto l’aspetto di una curtis monumentale e porticata che permetteva la connessione fra la chiesa e gli edifici adiacenti, destinati a residenza del sovrano. Essa si trovava al termine del percorso che,
giungendo dalla porta ovest del recinto murario costruito intorno all’abbazia, conduceva in linea retta alla chiesa; cosí posizionata, essa avrebbe potuto perciò costituire il punto di arrivo di una sorta di «itinerario trionfale» riservato alle visite che i personaggi piú importanti – i re in primo luogo – compivano presso il sepolcro di Dionysius. Nell’abbazia tedesca di Lorsch, situata nella media valle del Reno, un arco trionfale di età carolingia, la cosiddetta Torhalle, posto esattamente sull’asse della chiesa abbaziale a una distanza di circa 60 m, lascia pensare che apprestamenti di questo tipo potessero essere stati adottati in piú casi nei grandi monasteri di quest’epoca. La lista degli edifici enumerati nel precetto di Carlo il Calvo dell’869, da cui si traggono molte delle informazioni sul monastero-santuario di Saint-Denis, comprende anche la panetteria (pistrinum) e i magazzini (cellarium): queste presenze, come abbiamo visto a Centula e a S. Vincenzo al Volturno, erano tutt’altro che inconsuete all’interno di un grande monastero altomedievale e rispondevano al comandamento di Benedetto da Norcia che raccomandava alle comunità di essere il piú possibile indipendenti dall’esterno nel garantirsi gli approvvigionamenti essenziali.
Con i piedi per terra
Sempre dalla Francia del Nord e precisamente dal monastero di Corbie, situato immediatamente a est di Amiens (e quindi non lontano da Centula), proviene un documento preziosissimo, che getta una luce nitida su come un gran(segue a p. 90) MONACHESIMO
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La «fabbrica» dei certosini «Arrivati al sommo della scala entrammo, per il torrione orientale, allo scriptorium e quivi non potei trattenere un grido di ammirazione. Il secondo piano non era bipartito come quello inferiore e si offriva quindi ai miei sguardi in tutta la sua spaziosa immensità. Le volte, curve e non troppo alte (...) racchiudevano uno spazio soffuso di bellissima luce, perché tre enormi finestre si aprivano su ciascun lato maggiore, mentre cinque finestre minori traforavano ciascuno dei cinque lati esterni di ciascun torrione; (...) L’abbondanza di finestre faceva sí che la gran sala fosse allietata da luce continua e diffusa, anche se si era in un pomeriggio d’inverno. Le vetrate non erano colorate come quelle delle chiese, e i piombi di riunione fissavano riquadri di vetro incolore, perché la luce entrasse nel modo piú puro possibile, non modulata dall’arte umana, e servisse al suo scopo, che era di illuminare il lavoro della lettura e della scrittura (…). I posti piú luminosi erano riservati agli antiquarii, gli alluminatori piú esperti, ai rubricatori e ai copisti. Ogni tavolo aveva tutto quanto servisse per miniare e copiare: corni da inchiostro, penne fini che alcuni monaci stavano affinando con un coltello sottile, pietrapomice per rendere liscia la pergamena, regoli per tracciare le linee su cui si sarebbe distesa la scrittura. Accanto a ogni scriba o al culmine del piano inclinato di ogni tavolo, stava un leggío, su cui posava il codice da copiare, la pagina coperta da mascherine che inquadravano la linea che in quel momento veniva trascritta. E alcuni avevano inchiostri d’oro e di altri colori. Altri invece stavano solo leggendo libri, e trascrivevano appunti su loro privati quaderni o tavolette» (Umberto Eco, Il Nome della Rosa). In età altomedievale, il centro della produzione del libro manoscritto è lo scriptorium, posto generalmente all’interno di una grande abbazia e, piú raramente, a fianco di una chiesa cattedrale. Accanto allo scriptorium sorgeva la biblioteca, che però,
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Il copista, scrittore e traduttore Jean Miélot al lavoro nello scriptorium, miniatura di Jean Le Tavernier. 1456 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
nell’Alto Medioevo, non era un luogo organizzato in maniera funzionale alla consultazione e allo studio, quanto alla conservazione dei libri. Nello scriptorium si preparava la pergamena, si rigavano le pagine, si copiava il testo, lo si decorava con illustrazioni e, infine, se ne eseguiva la legatura. Per la copiatura – generalmente –, erano gli stessi monaci a eseguire il paziente lavoro (da cui l’espressione «certosino», colui che esegue un lavoro paziente e preciso), al quale erano stati preparati fin da giovanissimi, non appena si mostravano inclini a padroneggiare una grafia chiara e leggibile. Negli scriptoria potevano lavorare anche persone esterne al monastero, soprattutto per ciò che atteneva alla miniatura. Di solito, infatti, erano i laici a illustrare i manoscritti, una volta terminata l’opera di copiatura, anche se nei codici la distinzione tra calligrafo (scrittore) e miniatore (illustratore) rimane ambigua. Nell’Alto Medioevo, gli scrittori, in genere chiamati «copisti», eseguivano i testi in maniera non uniforme tra i vari centri di produzione. Ciascuno seguiva un proprio canone, che finiva per contraddistinguerlo. A partire dal IX secolo, gli scriptoria divennero vere e proprie scuole di scrittura, presso le quali maestri specializzati inventarono canoni codificati, che diedero vita a vere e proprie tipologie grafiche. Ancora oggi, da una semplice analisi grafica, è possibile comprendere da quale centro scrittorio provenga un determinato manoscritto.
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de monastero dell’età carolingia provvedesse a gestire le risorse del proprio patrimonio fondiario, su come le conservasse e le trasformasse e, infine, su come sviluppasse al proprio interno competenze tecniche e, potremmo dire, manageriali di alto livello. Si tratta delle cosiddette Consuetudines Corbeienses, emanate dall’abate Adalardo (751-822), cugino primo di Carlo Magno per parte di madre che, dal 781, resse il monastero per un quarantennio. Adalardo apparteneva alla cerchia piú ristretta ed esclusiva dei potentes del regno franco. La
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redazione delle Consuetudines risale all’ultimo periodo della sua vita, fra l’821 e l’822. Come in un gioco di specchi fra due destini incrociati tra loro, la storia consegna per l’opera di Adalardo la parte che manca nel dossier di Angilberto – tutto incentrato sugli aspetti della vita liturgica – completando cosí, sotto il profilo economico e organizzativo, le nostre conoscenze su un grande monastero sviluppatosi nel cuore dell’impero carolingio. Il primo capitolo del documento si occupa dei provendarii, cioè del personale che si trovava
Corbeia vetus illustrata, Veduta dell’abbazia di Corbie nel 1677. Riproduzione eliografica di un’antica incisione, 1886. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
alle dirette dipendenze del monastero, ricevendone vitto e alloggio e che costituiva la forza-lavoro incaricata di assolvere a tutte le mansioni tecnico-pratiche di cui la comunità abbisognava quotidianamente.
Incarichi differenziati
Le mansioni variavano in rapporto alla condizione personale: alcuni, di stato clericale, erano adibiti alle necessitates interiores, e cioè ai compiti da svolgersi nella parte piú interna del monastero, dove viveva la comunità, in modo da evitare che in quegli spazi si verificasse un andirivieni di laici, che veniva comprensibilmente reputato inopportuno. In particolare, essi operavano nel cellarium, ossia la dispensa dei monaci, nella lavanderia in cui si lavavano i loro capi di vestiario, nella curticula (e cioè nel giardino) dell’abate e nell’infermeria monastica. I laici prestavano invece la propria opera in luoghi meno riservati, ma pur sempre collocati all’interno del monastero. Essi erano divisi in tre gruppi distinti fra loro in rapporto agli spazi in cui svolgevano le loro attività. Il primo comprendeva gli addetti a un laboratorio di calzoleria, a una fullonica (un’altra lavanderia, evidentemente distinta da quella in cui si lavavano i panni dei monaci), e alla scuderia dei cavalli; la seconda includeva gli addetti all’officina dei fabbri e a quelle degli orafi, degli armaioli, dei fabbricanti di pergamene, degli arrotini e dei fonditori; nel terzo gruppo, infine, erano riuniti quanti lavoravano presso il cellarium (la dispensa posta presso l’alloggio del portiere, ove si sfamavano i visitatori e i questuanti) e l’infermeria e comprendeva anche i gararii, e cioè coloro che si occupavano di portare la legna al forno del pane e all’ingresso principale del monastero, i falegnami, i muratori, i medici e i serventi della casa vassallorum, vale a dire l’alloggio delle persone legate al monastero da un rapporto di fedeltà personale e che operavano al suo servizio con mansioni varie. A questo nutrito parterre di operatori che agivano infra monasterio si aggiungevano le persone impegnate extra monasterium, ma che svolgevano funzioni altrettanto essenziali per la sua sopravvivenza quotidiana. Si trattava del personale destinato a lavorare presso il mulino, le peschiere e i vivai dei pesci, il bestiame da stalla, le greggi, gli orti, i frutteti, i pozzi e le strutture per l’adduzione dell’acqua. L’alimentazione dei monaci di Corbie non si componeva solo di quanto le aziende agricole inviavano all’abbazia; una parte la producevano essi stessi, lavorando negli horti che circondava-
no l’insediamento. Tutti i generi alimentari, indipendentemente dalla loro provenienza, avevano il loro naturale punto di arrivo nella cucina, spazio in cui si lavorava quasi a ritmo continuo dovendo provvedere alla preparazione dei pasti quotidiani, sia per le decine di monaci che appartenevano alla comunità, sia per l’abate e i suoi eventuali ospiti, sia infine per il personale ausiliario che vi operava. Ai laici era tassativamente proibito accedere alla cucina quando i monaci preparavano i pasti e perciò Adalardo prescriveva che essi lavorassero in un locale separato dalla cucina vera e propria, comunicante con quest’ultima attraverso una finestrella, in modo che cibi e legname potessero essere consegnati ai monaci, senza che i laici entrassero in contatto con i monaci e questi ultimi uscissero dalla cucina per recarsi dai primi.
Una dieta variegata
Gli spazi e l’atmosfera di una cucina monastica del IX secolo sono stati ben messi in luce dai ritrovamenti avvenuti a S. Vincenzo al Volturno, dove si è potuto constatare che essa era direttamente in comunicazione con il refettorio, attraverso un ambiente che probabilmente fungeva da locale per il ricovero di stoviglie e tovagliati. Nella cucina del monastero molisano erano stati predisposti due punti di cottura: in un lato dell’ambiente vi era un piano in mattoni e terra battuta ove si allestiva il fuoco che consentiva di far cuocere minestre e cibi simili, posti all’interno di pignatte sospese su corde attaccate a un’impalcatura di travi in legno; sul lato opposto era stata invece costruita una struttura in muratura, alla cui base vi erano gli incassi entro cui collocare le braci ardenti che servivano ad arroventare un piano di pietra o di mattoni soprastante su cui arrostire le carni e il pesce. Alle spalle di questa struttura fu sistemata un’antica mensa ponderaria in pietra, originariamente proveniente dal Foro di qualche città romana dei dintorni (tali mensae erano i blocchi utilizzati per il controllo delle misure di capacità e di peso, n.d.r.), che i monaci dovevano utilizzare per calcolare le quantità esatte dei cibi da cuocere. Canalette e botole permettevano di avere adduzioni d’acqua corrente per il loro lavaggio e per lo scarico dei rifiuti; al loro interno è stata recuperata una grande quantità di resti alimentari che hanno consentito di ricostruire minuziosamente la dieta dei monaci vulturnensi alla fine del IX secolo, che prevedeva un massiccio consumo di pesce (anche marino), pollame, uova, legumi e frutta. MONACHESIMO
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Saint-Wandrille-Rançon, Francia. Le imponenti rovine dell’abbazia di Fontenelle, fondata in età merovingia da Wandregisilus (Wandrille, in francese) nella valle di un affluente del basso corso della Senna, non lontano dalla città di Rouen.
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Come una città ideale Un eccezionale documento risalente ai primi decenni del IX secolo, la cosiddetta Pianta di San Gallo, rappresenta il modello di riferimento dell’architettura monastica dell’età carolingia
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L’
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ambizione degli abati dell’età carolingia e i cospicui mezzi economici di cui essi avevano spesso potuto disporre portò in molti casi a rimodellare profondamente – se non a rivoluzionare totalmente – l’aspetto fisico di monasteri che avevano sulle loro spalle già piú di un secolo di vita. Cosí accadde a Fontenelle, un’abbazia sorta in età merovingia nella valle di un affluente del basso corso della Senna, non lontano dalla città di Rouen. Fondata da Wandregisilus (Wandrille, in francese), essa si era sviluppata su uno spazio piuttosto esteso e riparato dalle colline che racchiudevano la valle solcata dal fiumicello che le aveva dato il nome. Già in età merovingia il complesso monastico si era sviluppato in modo piuttosto cospicuo, ospitando al suo interno ben quattro chiese, la piú grande delle quali – dedicata a san Pietro – era una basilica di notevoli dimensioni, dotata di transetto. Dal momento della fondazione erano però trascorsi molti decenni e gli edifici avevano evidentemente bisogno di restauri, se non di vere e proprie ricostruzioni; la favorevole contingenza economica della fine dell’VIII secolo permise all’abate Gerwold (787-806) di intraprendere vari lavori, tra cui il rifacimento, con l’impiego di tegole plumbee, del tetto delle chiese di S. Pietro e di S. Michele, la ricostruzione della caminata fratruum (ovvero di una sala munita di riscaldamento), il restauro delle cucine e l’edificazione ex novo del sacrarium ecclesiæ, ossia molto probabilmente la sacrestia della chiesa maggiore. Ma le opere fatte eseguire da Gerwold furono solo l’inizio di una campagna assai piú consistente di ricostruzioni del complesso monastico promossa dal suo successore Ansegiso, che resse il monastero fra l’822 e l’832 e che faceva parte della cerchia dei piú stretti amici e collaboratori di Eginardo, il biografo di Carlo Magno. La prima costruzione di cui si parla è il «dormitorium fratruum nobilissimum» (il «dormitorio dei nobilissimi fratelli»). Successivamente, il biografo passa a descrivere l’alia domus («altra casa») «che è detta refettorio». A questi due edifici Ansegiso ne fece aggiungere un altro, detto «domus maior» («casa maggiore»). Rivolto a oriente, esso era prossimo al dormitorio e direttamente connesso con il refettorio; al suo interno aveva una camara («camera») e una caminata («camino»), nonché altri ambienti, che però non vengono enumerati nel dettaglio. Gli edifici del dormitorio, del refettorio e della domus maior costituivano quindi tre grandi corpi di fabbrica rettangolari, prossimi l’uno all’altro.
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Il biografo di Ansegiso passa quindi a descrivere proprio l’edificio di culto, affermando che esso si trovava nella parte meridionale del monastero e aveva l’abside rivolta a oriente. L’abate ordinò che fosse allungato verso occidente, aggiungendovi un corpo di fabbrica di 30 piedi in lunghezza per altrettanti in larghezza, «nella parte superiore del quale fece costruire un cenacolo, che venne dedicato in onore del Signore Iddio e Salvatore nostro Gesú Cristo». Siamo evidentemente di fronte a qualcosa che, dal punto di vista architettonico richiama il corpo turrito, diviso all’interno in due livelli, che a Centula Angilberto aveva dedicato al Salvatore e che al piano superiore ospitava proprio uno spazio destinato al suo culto. Il biografo aggiunge che Ansegiso fece edificare, sempre nella basilica di S. Pietro, sul culmine della sua torre, «una piramide quadrangola alta trentacinque piedi, costruita con elementi lignei scolpiti; e ordinò che fosse coperta di piombo, stagno e rame dorato e su di esse fece porre tre croci».
Una domus per discutere
Le opere promosse da Ansegiso non si limitarono alla ricostruzione della chiesa e dei tre edifici già ricordati, ma compresero anche l’erezione di un’altra domus, anch’essa prossima all’abside di S. Pietro, ma questa volta posizionata sul suo fianco settentrionale. Il biografo c’informa del fatto che l’abate volle che essa, con termine erudito di origine greca, si chiamasse bouleuterion (l’edificio per le riunioni del consiglio, la boulé, n.d.r.) Come si precisa subito dopo, l’edificio, era anche detto «conventus sive curia» («convento o curia») ed era stato concepito per dotare il monastero di una sala di riunione in cui i monaci potessero incontrarsi per discutere sulle faccende di ordinaria amministrazione e dove l’abate potesse comunicare ai confratelli le proprie deliberazioni. Il complesso dettagliatamente descritto dal cronista di Fontenelle era stato organizzato in maniera piuttosto razionale. I tre edifici maggiori erano allineati fra loro su assi ortogonali andando cosí a delimitare uno spazio aperto, di forma che dobbiamo immaginare quadrata o rettangolare, di una sessantina di metri di lato, lungo i cui margini est, nord e sud correvano corridoi porticati sui quali affacciavano sicuramente il dormitorio, la domus maior e il refettorio. La documentazione fontenellense permette di conoscere l’esistenza di numerose chiese situate al di fuori del plesso principale che costituiva l’area claustrale vera e propria. Tutta la valle attraversata dal piccolo corso d’acqua costituiva perciò parte integrante dell’insediamento e le
L’abbazia di Fontenelle in un’incisione pubblicata nell’opera Monasticon Gallicanum. XVII sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
cappelle presenti al suo interno rappresentavano luoghi legati a specifiche memorie stratificate all’interno della storia della comunità, quali, per esempio, ritiri ascetici scelti da personaggi venerabili: è il caso della chiesa trichora di S. Saturnino, l’unico edificio di età altomedievale di Fontenelle giunto piú o meno intatto sino a oggi. Qualcosa di piú preciso in questo senso raccontano alcune fonti scritte relative all’abbazia di Farfa, situata nella valle del Tevere, una cinquantina di chilometri a nord di Roma, nel territorio
dell’antica Sabina. Farfa si era notevolmente sviluppata nel corso dell’VIII secolo e in quell’epoca intorno a essa era stata istituita un’area di rispetto i cui limiti costituivano un confine invalicabile per le donne. Una fonte preziosa per capire come l’organizzazione spaziale di questo monastero si fosse evoluta nella piena età carolingia è la cosiddetta Destructio Monasterii Farfensis, attribuita all’abate Ugo (998-1039). Si tratta, quindi, di un testo risalente a circa due secoli dopo rispetto ai fatti narrati, ma al tempo della MONACHESIMO
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Fara in Sabina, Rieti. Una veduta aerea dell’abbazia di S. Maria di Farfa, la cui fondazione risale al VI sec. Il complesso monastico era cinto da un muro di difesa rafforzato da torri, la cui costruzione venne avviata nel tardo IX sec. a causa delle turbolente condizioni politiche dell’Italia di allora.
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sua redazione la maggior parte degli edifici che vi sono descritti non dovevano ancora avere subito trasformazioni di particolare rilievo rispetto alla situazione del IX secolo. L’intento di Ugo era di celebrare la bellezza e lo splendore raggiunti dal suo monastero in quell’epoca lontana, prima di essere ignominiosamente profanato dai saccheggi subiti agli inizi del successivo, quando fu bersaglio d’incursioni da parte di bande di predoni che infestavano le campagne laziali, a cui l’abate Pietro (890-919) e i monaci, privi ormai della protezione imperiale, avevano inutilmente tentato di opporsi. Racconta la Destructio che nel IX secolo il monastero contava al proprio interno sei chiese. La maggiore, riservata ai monaci, era intitolata alla
Vergine, culto al quale era dedicato tutto il complesso. Per le altre cinque, Ugo indica con precisione a quale utenza fossero destinate: la prima, intitolata a san Pietro, era «in usu canonicorum», mentre due erano a uso dei monaci infermi e di quelli moribondi e una quarta era riservata all’uso dei visitatori piú illustri, primi fra tutti i sovrani. Queste quattro chiese erano tutte interne al monastero, benché evidentemente posizionate in modo diverso: quella officiata dai canonici era probabilmente utilizzabile anche dai laici, ma solo da quelli di sesso maschile; alle donne, infatti, era riservata una sesta chiesa, dedicata anch’essa alla Vergine, che però si trovava al di fuori delle mura del monastero. L’intero complesso monastico era poi cinto da un muro di
In alto a destra San Lorenzo Siro, tradizionalmente considerato il fondatore dell’abbazia di Farfa, tempera su tavola di Cola dell’Amatrice (al secolo Nicola Filotesio). XVI sec. Fara in Sabina, abbazia di Farfa.
difesa rafforzato da torri la cui costruzione, come a Montecassino, fu intrapresa nel IX secolo avanzato a causa delle turbolente condizioni politiche dell’Italia di allora. Come a Centula, anche a Farfa il muro di cinta proteggeva ambedue le zone in cui il monastero era suddiviso e cioè quella piú interna riservata ai monaci e quella piú esterna in cui erano ammessi anche i laici.
La città perfetta
I casi fin qui esaminati documentano soluzioni fra loro diversissime e, si può dire, peculiari a ogni fondazione, ispirate dalla topografia e dalle condizioni ambientali dei luoghi in cui ciascuna comunità si stabilisce, dai mezzi economici disponibili, nonché dall’ambizione per-
sonale, dagli apparentamenti politici e dall’ispirazione estetica e spirituale dei loro abati. Capita cosí, per esempio, che due monasteri, come quelli di S. Gallo, nella Svizzera nordorientale, e quello di Reichenau, appena entro il confine dell’attuale Germania, distanti pochi chilometri l’uno dall’altro e uniti in età carolingia da forti legami spirituali e culturali, in questo stesso periodo fossero visibilmente diversi dal punto di vista architettonico e planimetrico. Il monastero di Reichenau era sorto nella prima metà dell’VIII secolo su un’isola bassa e di forma allungata che affiora dalle acque del lago di Costanza. Nella seconda metà del secolo tutto il complesso – chiesa inclusa – venne interamente ricostruito, mantenendo tuttavia l’orientamento della fase precedente e non differenziandosi troppo da essa neppure dal punto di vista dimensionale. Una piccola chiesa a navata unica era affiancata, sul lato nord, da un plesso di edifici claustrali disposti in maniera ortogonale rispetto a essa e gravitanti su un’area aperta centrale. Nel primo decennio del IX secolo la chiesa fu ricostruita e ingrandita (raggiungendo ora i 60 m circa di lunghezza), conMONACHESIMO
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servando però sempre lo stesso rapporto con gli edifici claustrali ed essendo apparentemente accessibile solo attraverso di essi, una caratteristica che rimase inalterata anche quando, nel corso del IX secolo, il monastero subí ulteriori trasformazioni e ampliamenti. Benché la chiesa della piena età carolingia fosse un edificio di dimensioni non disprezzabili, il complesso rimaneva comunque abbastanza compatto e probabilmente non superava i 3000 mq di superficie complessiva. La storia dello sviluppo materiale dell’abbazia di S. Gallo nell’epoca carolingia è in un certo senso speculare a quella di Reichenau: quanto quest’ultima ebbe uno sviluppo progressivo che portò al risultato finale di un complesso di dimensioni abbastanza contenute, tanto invece il monastero svizzero all’inizio del IX secolo (quando fu abate Gozbert) divenne in pochi anni un insediamento grandioso, soprattutto grazie alla costruzione al suo interno di una chiesa di dimensioni eccezionali, ove furono riposte le spoglie del fondatore. Lunga 90 metri circa e larga circa 30, essa era uno degli edifici cristiani piú grandi di tutta l’Europa carolingia. Reichenau e S. Gallo rappresentano quindi un tipo d’insediamento ispirato da criteri organizzativi analoghi, in cui un nucleo centrale sviluppa intorno a sé un irraggiamento di chiese satelliti che ne estende i confini su un territorio piuttosto esteso. Se lo sviluppo dei due monasteri era stato per molti aspetti differente, le comunità di S. Gallo 98
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e di Reichenau – e in particolare i loro due abati, Gozbert (816-837) e Haito (806-823) – sicuramente intesserono un dibattito piuttosto serrato su come ai loro tempi dovesse essere concepita la costruzione di un monastero e come imprese di tal genere potessero fruttuosamente conciliarsi con il dibattito svoltosi ai Sinodi di Aquisgrana dell’816 e dell’817.
Un documento eccezionale
Il frutto piú prezioso giunto sino a noi di questa discussione è uno dei documenti piú singolari di tutto l’Alto Medioevo europeo: si tratta di un collage di cinque fogli di pergamena, unito a comporre un’unica superficie di 112 x 77,5 cm, sui quali fu vergato in inchiostro rosso lo schema planimetrico di un monastero le cui singole componenti appaiono identificate e descritte da dettagliate didascalie tratteggiate in inchiostro nero. Questo eccezionale manufatto è noto universalmente come Pianta di San Gallo (vedi alle pp. 102 e 104), sia perché è rimasto conservato sino a oggi nella biblioteca dell’abbazia svizzera, ma anche perché esso era stato prodotto proprio per il suo abate Gozbert e a lui fu personalmente inviato da un personaggio il quale, benché non si firmi con nome e cognome, è stato da molti studiosi identificato con Haito di Reichenau. Dato che la compresenza di questi due personaggi alla testa delle loro rispettive abbazie si ha negli anni fra l’816 e l’823, è molto probabile che la Pianta sia stata redatta proprio in questo periodo.
In alto Isola di Reichenau, Germania. Veduta aerea del monastero benedettino. VIII sec. Nella pagina accanto particolare di una pagina dell’Evangeliario di Reichenau con vignette raffiguranti un uomo sottoposto a processo, condannato e messo in prigione. XI sec. Monaco, Staatsbibliothek.
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In tempi in cui le ricerche sull’archeologia monastica altomedievale erano molto meno avanzate di quanto non lo siano oggi, l’opinione prevalente fra gli studiosi era che la Pianta rappresentasse lo schema planimetrico di un monastero effettivamente esistente o che, perlomeno, avesse avuto direttamente a che fare con le opere realizzate proprio a S. Gallo dall’abate Gozbert. Il progresso degli studi ha però dimostrato che ambedue le ipotesi non hanno riscontro e attualmente si preferisce ritenere che questo documento costituisca piuttosto una sorta di piano ideale per un insediamento monastico, senza che esso abbia mai trovato una sua concreta e puntuale realizzazione.
Un modello piú che realistico
Il fatto che la Pianta non sia apparentemente riferibile a un complesso monastico realmente esistito nulla toglie alla sua importanza, poiché gli elementi di cui essa si compone non presentano alcunché di irreale o di inconsueto rispetto a quanto, sulla base delle fonti scritte e dei dati archeologici, sappiamo esisteva davvero nei monasteri di epoca carolingia. Ciò che invece piú colpisce, se la confrontiamo con quanto che di quei monasteri conosciamo, è innanzitutto la ratio secondo la quale tali elementi nella Pianta sono organizzati e tra loro disposti sull’immaginario terreno su cui il complesso che essa rappresenta si sarebbe dovuto costruire. Nella Pianta di San Gallo tutti i settori funzionali sono raggruppati entro un unico insieme. L’area centrale include tutti gli spazi in cui si svolge la vita quotidiana della comunità: la chiesa, il refettorio, il dormitorio, la dispensa e i locali di servizio a essi piú direttamente collegati, come le cucine, i balnea, le latrine, la sala riscaldata. Tutti gli edifici principali che compongono questo settore – compresa la chiesa - sono imperniati su uno spazio quadrato, aperto al centro e fiancheggiato da quattro corridoi porticati, che costituisce quindi l’area di disimpegno e d’intercomunicazione fra i diversi corpi di fabbrica, ma che è anche un luogo di sosta in cui i confratelli, sotto la guida dell’abate, avrebbero potuto riunirsi per le discussioni e le deliberazioni quotidiane. Questa sorta di corte costituisce in certo senso l’umbilicus di tutto il complesso monastico, poiché si trova esattamente al centro dello schema rappresentato nella Pianta. Gli edifici presenti in tale settore sono descritti con grande accuratezza dalle didascalie che ne accompagnano e ne riempiono gli spazi; da esse apprendiamo per esempio che i tre grandi 100
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San Gallo, Svizzera. La facciata della cattedrale intitolata all’omonimo santo, nata come chiesa abbaziale del monastero medievale. L’edificio si presenta oggi nelle forme assunte in seguito alla ricostruzione settecentesca. fabbricati del refettorio, della dispensa (cellarium) e del dormitorio erano a due piani. Nel fabbricato che ospitava il dormitorio, quest’ultimo si trovava al livello superiore, mentre al piano terreno si trovava una sala riscaldata, collegata all’esterno a un camino per lo smaltimento dei fumi; in quello attiguo, il piano superiore era adibito a vestiarium, e cioè a guardaroba per gli abiti e la biancheria, mentre il refettorio vero e proprio era direttamente accessibile dal livello del patio quadrato. L’edificio del cellario, infine, è rappresentato ingombro di botti che, dato il loro peso, occupavano lo spazio del pianterreno; al primo piano, invece, si trovava il lardarium, ovvero il deposito delle carni messe a seccare e a salare. Tra il refettorio e il cellario si trovava la cucina, entro il cui spazio è delineata la disposizione di forni e bancali per la cottura e la preparazione dei cibi. La cucina a sua volta – e per evidenti ragioni di comodità – era direttamente connessa, sul lato opposto al refettorio e al cellario, alla panetteria e al laboratorio per la preparazione della birra, bevanda che nei monasteri dell’Europa centro-settentrionale sostituiva abitualmente il vino sulla tavola dei monaci. L’abate non condivideva tutti questi spazi con gli altri monaci, ma gli era assegnata una residenza a parte, separata dal presbiterio della chiesa – con la quale comunicava direttamente tramite un passaggio riservato – e dotata di una cucina per la preparazione dei pasti che, evidentemente, egli consumava spesso insieme agli ospiti di riguardo in visita al monastero.
Spazi produttivi e strutture ricettive
Intorno a questo nucleo centrale si trova una serie di quartieri, ciascuno chiamato a svolgere funzioni specifiche. Il primo occupa la parte bassa a destra della Pianta, ed è delimitato dal camminamento che consentiva l’accesso all’atrio della chiesa per chi provenisse dall’esterno del monastero. Questo settore era riservato al ricovero degli animali (vacche, pecore, capre, maiali e, infine giumente e puledri) e ad alloggio del personale addetto alla loro cura. La parte bassa di sinistra era invece destinata all’accoglienza degli ospiti, distinti in categorie corrispondenti al loro rango sociale e alle loro funzioni. Qui si trovava un grande edificio a
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pianta rettangolare, la foresteria per gli ospiti di riguardo, articolato al suo interno in vani che affacciavano su un’aula centrale divisa in tre navate da colonnati. A nord e a sud di questo ambiente vi erano due grandi stanze da letto, ciascuna dotata di quattro letti (due piú grandi e due piú piccoli), di un camino e di una latrina aggettante verso l’esterno. Di ben altro tenore erano i locali che dovevano offrire ricetto ai pellegrini e ai poveri che chiedevano ospitalità ai monaci. A essi era riservato un edificio posto sul lato sud della chiesa, in posizione speculare a quello che abbiamo appena visitato e che si raggiungeva seguendo un percorso simile al precedente, salvo che, una volta entrati nel paradisus (termine con cui si indicava il portico antistante la chiesa, n.d.r.) si doveva svoltare verso destra. Varcato un vestibolo identico a quello ricavato sul percorso degli ospiti di riguardo, si entrava in un altro spazio aperto, al centro del quale si trovavano due edifici, uno destinato a ricovero e l’altro a cucina-panificio. Il ricovero era piuttosto spartano, dotato di due semplici stanzoni adibiti a dormitorio; l’assenza al loro interno di qualsiasi vignetta che indichi la presenza di letti o panche lascia pensare che si dormisse per terra, magari utilizzando pagliericci per rendere il riposo meno disagevole. Sul lato sinistro della Pianta, rimangono da ricordare due edifici. Il primo accoglieva la schola del monastero ed era articolato in una grande sala centrale, illuminata dall’alto da
due lucernari, attorniata da dodici stanze piú piccole in cui alloggiavano gli scolari. I giovani ammessi a frequentarla, che vi accedevano attraverso lo stesso vestibolo annesso alla navata nord della chiesa utilizzato dagli ospiti di riguardo, sono definiti «pulchra juventus»: un’espressione che tradurremmo in italiano, un po’ gergalmente, come «la meglio gioventú» e che sembra alludere al fatto che essi fossero selezionati nell’ambito dell’aristocrazia che con il monastero aveva piú stretti contatti. Infine, immediatamente a est dell’alloggio del maestro delle scuole, si trovava un’altra coppia di ambienti la cui funzione era quella di accogliere i monaci di altre comunità in visita al monastero e di fornire loro un letto. Gli ambienti loro riservati avevano accesso diretto alla chiesa, attraverso un ingresso che immetteva nel transetto nord e cioè nel settore in cui i monaci abitualmente sedevano per celebrare gli uffici quotidiani.
Nella pagina accanto particolare del recto del Codex Sangallensis 1092, meglio noto come Pianta di San Gallo. IX sec. San Gallo, Stiftsbibliothek. In basso disegno ricostruttivo ipotetico dell’aspetto del complesso monastico di S. Gallo realizzato nel 1876 da Karl Lasius sulla base del Codex Sangallensis 1092.
Il quartiere delle officine
Il quarto grande settore funzionale omogeneo individuabile all’interno del monastero occupa tutto il lato destro della Pianta, che corrispondeva alla parte piú meridionale dell’intero insediamento. Si tratta del quartiere delle officine, che ambienta in un contesto tipicamente altomedievale la raccomandazione di Benedetto da Norcia di rendere il monastero il piú possibile autonomo rispetto all’esterno nel soddisfare sia le proprie necessità di approvvigionamento, sia
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Il monastero «perfetto»
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quelle relative alla manutenzione della sua complessa struttura materiale. Le officine comprendono ben sette blocchi di edifici. Il primo occupa lo spazio posto immediatamente a est delle stalle per i buoi e i cavalli ed è costituito da tre moduli quadrati, i primi due dei quali includono le officine dei bottai e dei tornitori del legno, mentre il terzo ospita il deposito delle materie prime per la produzione della birra. La dislocazione di queste due attività è a breve distanza dal laboratorio per la pre104
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Restituzione grafica della Pianta di San Gallo, con l’indicazione di alcuni degli ambienti piú importanti e delle loro funzioni: 1. Tomba del santo (sotto l’altare maggiore); 2. Scriptorium (al piano terra) e biblioteca (al piano superiore); 3. Sagrestia (al piano terra) e sala dei paramenti (al piano superiore); 4. Chiostro dei monaci; 5. Alloggi per i monaci in visita; 6. Alloggio del precettore; 7. Alloggio del Padre guardiano; 8. Cellarium e lardarium; 9. Ostello per i pellegrini; 10. Sala riscaldata (al piano terra) e dormitorium (al piano superiore); 11. Refettorio (al piano terra) e guardaroba per gli abiti e la biancheria (al piano superiore) 12. Cimitero e frutteto; 13. «Giardino dei semplici»; 14. Stanza per i salassi; 15. Alloggio dell’abate; 16. Scuola; 17. Alloggi per gli ospiti; 18. Ricoveri per ovini e bovini; 19. Cucina; 20. Panetteria e birreria; 21. Granaio. 22. Alloggi dei novizi e dei malati.
parazione della birra e dal cellarium, ingombro delle grandi botti utilizzate per conservarla. Esse sono attigue alla panetteria, alle spalle della quale troviamo anche le tre costruzioni che ospitavano, rispettivamente, il luogo in cui il grano era messo a seccare in attesa di essere macinato e poi, ridotto in farina, conservato entro due piccoli silos. Accanto a questi spazi troviamo l’edificio piú grande di quest’area del monastero, nel quale abitavano gli artigiani. È suddiviso in due aree
separate fra loro da un corridoio e il suo accesso si trovava sul lato nord, in direzione della chiesa. Appena varcata la soglia, si entrava in un vestibolo che a sua volta immetteva in due grandi stanze, che ricevevano la luce del giorno dall’alto, attraverso lucernai, essendo prive di affacci diretti sull’esterno. Dalla stanza di sinistra si accedeva ai laboratori dei calzolai, dei tornitori e dei politori e smerigliatori delle armi; da quella di destra, invece, si entrava nei locali utilizzati da sellai, cuoiai e fabbricatori di scudi.
Laboratori e magazzini
Utilizzando le porte aperte nelle pareti sud delle due stanze del camerarius, si oltrepassava un corridoio e, attraversato un vestibolo, si entrava in tre ambienti separati, nei quali operavano i fabbricatori di panni, i fabbri ferrai e gli orefici. Accanto vi era un altro edificio, anch’esso abbastanza grande, utilizzato come magazzino per il grano, che da qui veniva poi trasportato negli edifici retrostanti la panetteria, dove si provvedeva alla sua asciugatura e alla molitura. Procedendo ancora verso est, entriamo in un quinto quartiere, l’unico del monastero nel quale gli spazi aperti prevalgono su quelli edificati: era questa la zona degli orti e degli spazi per l’allevamento degli animali da cortile. Sul lato sinistro dell’orto – e cioè sul suo versante settentrionale –, troviamo il cimitero, al cui in-
terno era prevista la presenza di alberi da frutto: melo, pero, prugno, sorbo, nespolo, lauro, castagno, fico, cotogno, pesco, nocciolo, mandorlo, gelso, noce. In un’aiuola al centro dell’area era piantata una Croce, albero della vita per eccellenza nella visione cristiana, che arricchiva di ulteriore simbolismo la scelta di collocare nello stesso spazio le sepolture dei monaci e alberi fruttificanti. Il frutteto-cimitero costituisce uno spazio condiviso con l’area posta alla sua sinistra. È questo il sesto quartiere, destinato alla cura degli infermi e all’alloggio dei novizi. Esso è progettato come una sorta di versione raddoppiata, ma su scala piú piccola, della parte centrale del monastero, nel senso che su ambedue i lati di una chiesa – divisa in due parti a formare altrettante distinte aule di culto – troviamo due blocchi simmetrici di edifici, raggruppati intorno a un’area aperta centrale circondata da portici. Quello di destra era riservato ai novizi e affacciava direttamente sul cimitero, per ricordare agli aspiranti monaci che essi, una volta varcata la soglia del monastero, sarebbero stati come morti al mondo, vivendo esclusivamente per prepararsi all’incontro con Dio, una volta lasciato il corpo terreno. La metà del complesso destinata a ospedale è organizzata in modo identico, con la sola differenza di una diversa destinazione delle singole stanze, che prevede, accanto a quella del re-
In basso falegname e fabbro, miniatura dal De universo di Rabano Mauro. 1023. Montecassino, Biblioteca Statale del Monumento Nazionale di Montecassino.
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sponsabile della struttura, un ambiente per il ricovero di coloro che versavano in condizioni piú gravi. Anche questa parte del complesso aveva un accesso diretto alla piccola chiesa. Gli ambienti a destinazione sanitaria comprendevano altri tre spazi, posti a nord dell’edificio principale, allineati lungo un asse est-ovest. Il primo dal basso era l’edificio per i salassi, presso cui si doveva anche fornire il vitto sia a coloro che erano sottoposti a tale trattamento, sia, piú in generale, a quanti stessero assumendo preparati medici. In questo ambiente erano collocati ben quattro focolari ed erano disposte sei mensæ, sulle quali far distendere coloro ai quali erano applicate le sanguisughe. Subito oltre questo edificio era la «domus medicorum», nella quale – intorno a un ambiente centrale che probabilmente fungeva da ambulatorio – vi erano tre altre stanze, di cui una destinata a riporvi i pigmenta, e cioè i preparati che nell’antica terminologia farmacologica italiana erano chiamati «tinture», ossia i galenici che i medici utilizzavano per curare gli ammalati. Gli altri due locali laterali, dotati di focolare e latrina privata, servivano come alloggio per i medici e come reparto di «terapia intensiva» per i malati che si trovavano in condizioni piú critiche. L’ultimo elemento del nosocomio monastico era uno spazio aperto che occupava l’angolo all’estremità nord-est del complesso. Si trattava del cosiddetto «giardino dei semplici» e cioè lo spazio in cui erano coltivate le piante che costituivano gli ingredienti singoli (simplices) per la preparazione dei farmaci.
Il cuore del complesso
Nel compiere questo periplo immaginario del monastero rappresentato dalla Pianta di San Gallo, abbiamo ripetutamente lambito l’edificio piú grande, che costituiva il cuore e in un certo senso il simbolo del complesso: la chiesa abbaziale. Essa è collocata in una posizione leggermente decentrata a sinistra, ma l’imponenza delle sue dimensioni le avrebbe comunque dovuto consentire di spiccare su tutte le altre costruzioni. Come abbiamo già visto, a questo edificio erano addossate varie strutture, che però, dal punto di vista funzionale, ricadevano per la maggior parte all’interno di altri quartieri del monastero. Alcune possono invece essere considerate piú direttamente collegate alle attività che si svolgevano nella chiesa. Quella che si trova sul lato destro (sud) della chiesa è utilizzata al pianterreno come sacrestia e in quello superiore come guardaroba per i paramenti sacri 106
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da indossare durante le funzioni. Questo ambiente era attiguo un altro, da esso leggermente distanziato, ma collegato tramite un corridoio, in cui si preparavano il pane e l’olio consacrati per le funzioni. L’edificio collocato sul lato opposto ospitava invece lo scriptorium al piano terra e la biblioteca a quello superiore. Nello spazio della
Miniatura raffigurante la vestizione di un monaco, da un’edizione manoscritta del Decretum Gratiani. XIV sec. Siena, Biblioteca Comunale degli Intronati.
biblioteca sono disegnate le vignette che rappresentano gli scaffali con i libri, mentre i muri perimetrali appaiono traforati da numerose finestre per consentire alla luce diurna di penetrarvi e illuminare gli scrittoi degli amanuensi. La sacrestia e la biblioteca erano collegate alla chiesa da passaggi che immettevano nel transetto, ma la seconda disponeva apparentemente anche di un accesso diretto alla zona presbiteriale, in modo che i pesanti libri utilizzati nelle cerimonie religiose potessero esservi trasportati piú agevolmente.
Una facciata senza ingressi
La chiesa era l’edificio piú grande dell’abbazia: le è stata attribuita una lunghezza di 110 m circa, per una larghezza di circa 30, che si amplia di altri 10 m, se si prende in considerazione l’area del transetto. Era a pianta basilicale, divisa in tre navate separate da due file di otto colonne poggianti su basi quadrate. Entrambe le estremità terminavano con un’abside semicircolare di uguale profondità, mentre le navate laterali ne erano prive. La chiesa non aveva quindi accesso in facciata (una facciata vera e propria in realtà non esisteva) e i suoi ingressi si aprivano al termine delle due navate laterali. L’estremità orientale era organizzata in modo assai piú monumentale di quella opposta. Dalla crociera del transetto si dipartivano due rampe di sette gradini che permettevano di raggiungere un presbiterio sopraelevato, al di sotto del quale era stata ricavata una cripta. Vi si accedeva per altre due scale, poste al termine delle navate laterali che introducevano in un corridoio voltato, a forma di «U», dalla cui base si dipartiva un braccio rettilineo che conduceva sino al luogo nel quale erano riposte le spoglie di san Gallo, esattamente sotto l’altare maggiore elevato nel presbiterio e dedicato allo stesso Gallo e alla Vergine. Come già detto, la sistemazione dell’estremità opposta era molto meno complessa ed enfatica, poiché l’abside si sollevava dal piano della navata di soli tre gradini. Tuttavia, l’interno della chiesa, ampio e solenne, era tutt’altro che percepibi-
le come uno spazio unitario. La Pianta, infatti, lo mostra frazionato da numerose recinzioni e altari, che interrompevano il percorso sia della navata centrale, sia di quelle laterali. Gli altari, distribuiti fra le navate, il transetto e i due presbiteri, erano ben diciassette e intorno a ognuno di essi era stato creato uno spazio delimitato da transenne, cosí da fare della grande chiesa una sorta di contenitore di piú microchiese. Immediatamente all’esterno delle due absidi, che concludevano la chiesa a oriente e a occidente, erano stati predisposti spazi i cui perimetri riprendevano l’andamento curvilineo delle absidi stesse. All’interno dell’esedra che incorniciava quella orientale era stato allestito un piccolo giardino. L’esedra occidentale nella parte piú esterna era coperta e serviva da camminamento per chi voleva entrare in chiesa o desiderava raggiungere le aree per l’accoglienza degli ospiti, poste sui fianchi sud e nord della medesima.
I custodi della sacralità
Sui due lati del paradisus, leggermente distaccate da esso e collegate da corridoi che si dipartivano dal braccio porticato di quest’ultimo, si ergevano due torri a pianta cilindrica. Nell’attico di ciascuna di esse era stata ricavata una cappella, dedicata rispettivamente agli arcangeli Michele e Gabriele. Tale disposizione rispecchia l’idea che alle potestà angeliche fosse affidato il compito della custodia dell’inviolabile sacralità della chiesa da parte delle forze diaboliche e, quindi, il «pattugliamento» ideale del suo ingresso, che costituiva il luogo piú esposto dell’edificio, in cui il mondo esterno e l’interno del claustrum monastico venivano inevitabilmente a contatto fra loro. Nella Pianta di San Gallo non era previsto che la chiesa fosse preceduta da un avancorpo (sul tipo di quello che doveva esistere a Centula e che è ancora visibile nell’abbazia tedesca di Corvey), tale da frapporsi metaforicamente ma anche fisicamente tra lo spazio della navata e del santuario e quello esterno. Qui era stata adottata la soluzione della contro-abside, che gli storici dell’architettura ritengono ispirata da esempi dell’architettura cristiana mediterranea. Il risultato complessivo non era però dissimile, poiché la sua mole (fiancheggiata dalle due torri dedicate agli Arcangeli) opponeva una barriera altrettanto visibile verso il mondo di fuori, che norme e percorsi per l’accesso alla chiesa si preoccupavano di far rispettare. MONACHESIMO
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Il nuovo mondo di Cluny e Cîteaux Dopo l’anno Mille, il mutato quadro politico e istituzionale richiede un ripensamento del proprio assetto giuridico e organizzativo anche all’universo monastico. Nascono cosí nuovi modelli, destinati a durare nel tempo
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Müstair, Svizzera. Il monastero di S. Giovanni, sorto alla fine dell’VIII sec., lungo un itinerario di strategica rilevanza nei collegamenti tra la Baviera e l’Italia.
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e si osserva la Pianta di San Gallo nel suo insieme, una differenza netta s’impone nel confronto tra l’ideale monastero che essa rappresenta e le realtà di quelli che abbiamo incontrato in precedenza: il numero degli edifici adibiti al culto. Nella Pianta essi sono solo due: la chiesa maggiore e quella prevista a uso dei novizi e dei malati (anche se suddivisa al suo interno in due aule autonome). L’abbazia di S. Gallo, quale essa era veramente agli inizi del IX secolo, ne contava invece molte di piú, similmente a quanto abbiamo visto presso tutti i principali monasteri contemporanei. Un’altra differenza significativa tra la Pianta e gli altri monasteri carolingi riguarda la posizione e le dimensioni del peristilio quadrato intorno al quale si dispongono tutti gli edifici – compresa la chiesa – nei quali i monaci trascorreva-
no la maggior parte del proprio tempo. In base ai dati di cui disponiamo si può affermare che tale soluzione non era universalmente adottata nei monasteri sorti tra la fine dell’VIII e gli inizi del IX secolo. A S. Vincenzo al Volturno, per esempio, troviamo sí un quadriportico intorno al quale gravitavano vari edifici, ma le sue dimensioni erano piú che doppie rispetto a quello della Pianta di San Gallo e la funzione stessa di quest’area era diversa, poiché nel monastero molisano era previsto che vi si connettessero anche gli spazi destinati alle attività produttive. La chiesa, inoltre, non era direttamente accessibile da quest’area, ma la sua posizione leggermente defilata, a una quota superiore rispetto a quella dell’area racchiusa dai bracci porticati, obbligò ad allestire complicati percorsi di raccordo per poterla raggiungere.
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Dopo il Mille
Tuttavia, altri casi mostrano che in età carolingia sembra essersi affermata l’idea di raggruppare gli edifici principali destinati alla residenza della comunità monastica intorno a uno spazio di disimpegno di forma quadrata o rettangolare, che però non sempre si disponeva a fianco della chiesa. A Fulda (Germania) e a Farfa, per esempio, l’area claustrale si sviluppava alle spalle dell’abside della chiesa maggiore, mentre a Fontenelle, sebbene la sua posizione fosse probabilmente analoga, si scelse di farvi affacciare anche altri edifici, come la biblioteca e l’archivio, collocati altrove nella Pianta.
In posizione strategica
In un altro cenobio svizzero, quello di Müstair, sorto alla fine dell’VIII secolo, forse per intervento diretto di Carlo Magno, lungo un itinerario di strategica rilevanza nei collegamenti tra la Baviera e l’Italia, troviamo ancora un’altra soluzione. Qui, l’accesso dall’esterno avveniva sul lato ovest e gli edifici erano disposti intorno a due aree aperte a pianta rettangolare, formando altrettanti e distinti blocchi architettonici. Il primo è stato interpretato come una sorta di area di servizio per la ricezione di merci, persone, animali e veicoli. Due ingressi che si aprivano nel suo lato occidentale permettevano di accedere a un secondo blocco di edifici, imperniato su un altro spazio aperto centrale, fiancheggiato da portici e da edifici che originariamente si elevavano su due piani. Qui trovavano posto gli spazi residenziali della comunità (lungo le ali sud ed est), una residenza per l’abate e gli ospiti di riguardo (sul lato nord) e una foresteria (sul lato ovest). L’unica chiesa del monastero sorgeva in corrispondenza dell’angolo nord-est del peristilio interno, e quindi in posizione leggermente defilata rispetto a esso. La chiesa non aveva porte in facciata e non era perciò direttamente accessibile dai portici del cortile centrale; vi si poteva entrare solo dall’ala orientale degli edifici claustrali, il che ha fatto ritenere che proprio su questo lato – probabilmente al primo piano – dovesse collocarsi il dormitorio dei monaci. In sostanza, essa occupava il luogo piú recondito di tutto il monastero e i diaframmi che la separavano dall’esterno erano ben piú tangibili di quelli previsti per la grande chiesa della Pianta di San Gallo. La topografia degli edifici monastici di Müstair evidenzia quindi un’organizzazione topografica e puntuali destinazioni funzionali che, al di là di assonanze generali, non coincidono pressoché in nulla con quelle viste nella Pianta di San Gallo. Nonostante tutte queste diversità che l’ar110
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chitettura monastica carolingia ci propone, lo schema progettuale della Pianta parlava comunque un linguaggio concreto e proponeva soluzioni tali da coniugare il decoro monumentale che ci si aspettava di trovare in un grande monastero, con criteri capaci di evitare eccessive proliferazioni di edifici – in particolare delle chiese – che potevano costituire imprese eccessivamente dispendiose. Una sola, grande chiesa, articolata al proprio interno in piú foci devozionali, avrebbe potuto certamente soddisfare l’esigenza di ospitare una varietà di culti sufficiente a garantire ai monaci un’adeguata forza alla preghiera da essi rivolta a Dio. Analogamente, anche la scelta di compattare l’area claustrale vera e propria accanto alla chiesa, parla il linguaggio della razionalizzazione spaziale, consentendo di ottenere anche il risultato del suo isolamento complessivo dall’esterno. L’impressione generale è che la Pianta di San Gallo possa aver costituito un cortese suggerimento rivolto a Gozbert, affinché riflettesse sulla possibilità di costruire un monastero in grado di far bella figura di fronte a quelli piú importanti del suo tempo, tenendo però presenti, sin dall’inizio e con esattezza, gli obiettivi da perseguire ed evitando cosí di aprire un cantiere interminabile e smisurato. Se un’interpretazione del genere è ammissibile, la sua ragion d’essere doveva trovarsi all’interno di una serie di riferimenti chiari tanto a chi la Pianta l’aveva redatta, quanto a chi l’aveva ricevuta.
Gli spazi della clausura
A partire dal X secolo, la planimetria della parte centrale dei cenobi occidentali assume un formato standard, che rimase sostanzialmente invariato sino a tutto il pieno Medioevo, includendo le abbazie che furono espressione della straordinaria fioritura dell’Ordine cistercense, avvenuta fra il XII e il XIII secolo. Tale standard riprende in modo quasi puntuale – sia pure con varianti di dettaglio – quello della Pianta di San Gallo, incentrato sul plesso costituito da una chiesa affiancata da un peristilio intorno al quale si distribuiscono i locali della vita comunitaria. L’identificazione di questo schema planimetrico con gli spazi della clausura monastica è divenuta cosí profonda, che, in tutte le maggiori lingue europee occidentali, l’equivalente della parola latina claustrum designa non solo il monastero nel suo insieme, ma anche, e soprattutto, l’area aperta e circondata da portici che di esso costituisce il cuore. La Pianta, insomma, se non costituí alla lettera il
Müstair, Svizzera. ancora una veduta del monastero di S. Giovanni.
modello dei complessi monastici dei secoli successivi, propose tuttavia soluzioni divenute in seguito assai popolari. Se sotto diversi profili la Pianta di San Gallo affianca e quasi sembra anticipare tendenze e soluzioni che l’architettura monastica dell’Europa occidentale adottò in età carolingia e anche oltre, vi è invece un aspetto in cui essa si dimostra abbastanza conservatrice e che, soprattutto nelle chiese d’Oltralpe, venne poi sviluppato in modo piuttosto creativo. Per esempio, nella chiesa era presente anche una cripta, che sulla Pianta appare disegnata come una variante della cosiddetta cripta anulare, una tipologia comparsa a Roma alla fine del VI secolo, rilanciata dai papi nel corso dell’VIII e di qui diffusasi nel resto d’Italia e in tutta Europa. La cripta dell’immaginaria chiesa di S. Gallo era molto semplice e aveva la sola funzione di consentire l’accesso al luogo in cui erano deposte le spoglie del fondatore.
Nelle chiese monastiche del pieno e tardo IX secolo, principalmente nelle aree transalpine, furono invece sperimentati nuovi tipi di spazi ipogei, che iniziarono a espandersi ben oltre i confini dell’edificio soprastante. Ai primi esperimenti, databili entro la prima metà del IX secolo (Saint-Denis, Saint-Philibert-de-Grandlieu e prima fase della chiesa di Corvey), seguí, fra gli anni Cinquanta e Ottanta, la costruzione di cappelle multiple a pianta basilicale, cruciforme o circolare, connesse fra loro da ambulacri e vestiboli, quali quelli identificati presso le chiese dei monasteri di Flavigny e Halbertstadt.
Razionalizzare gli spazi
Tuttavia, lo sviluppo di queste nuove soluzioni nell’organizzazione delle cripte suggerisce che si stesse riflettendo sull’utilizzo degli spazi delle chiese soprastanti. In effetti, se guardiamo a come l’architettura delle chiese monastiche si evolve fra il X e l’XI secolo, noteremo la tendenMONACHESIMO
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za a svilupparne in diversi modi la zona absidale, con l’ampliamento in profondità del coro/ presbiterio e con la distribuzione intorno alla sua curva di corone di cappelle sussidiarie collegate fra loro da un deambulatorio. Talora questo processo comporta anche l’aggiunta di un secondo transetto, a sua volta dotato di cappelle. Simili mutamenti consentirono di razionalizzare lo spazio della chiesa, che si sarebbe trovato diviso in tre parti fisicamente riunite all’interno dello stesso contenitore, ma funzionalmente indipendenti tra loro: le navate, destinate ad accogliere l’ecclesia dei fedeli; il coro, in cui i monaci potevano isolarsi per pregare; il deambulatorio che, accessibile dalle navate laterali della chiesa, permetteva di raggiungere le cappelle che s’irradiano intorno all’abside, passando alle spalle del coro, e quindi di visitarne gli altari, oppure di accedere alle cripte, dove si trovavano altri luoghi di culto.
Un nuovo ordine politico
Dopo il Mille, insomma, il mondo monastico iniziò a valutare la possibilità di aprire il segreto dei propri edifici di culto a una frequentazione piú consueta da parte del mondo esterno. Un po’ in tutta l’Europa occidentale, infatti, i grandi monasteri fioriti nel IX secolo dovettero adattarsi ai cambiamenti politici sopravvenuti nel frattempo. Con la parziale esclusione dei territori tedescoorientali, da cui proveniva proprio la nuova famiglia regnante degli Ottoni, il resto del continente era ormai caratterizzato dall’eclissi dell’autorità imperiale e delle monarchie sovraregionali che gli erano succedute, e con la conseguente accentuata frammentazione del potere politico, che comportò la formazione di una miriade di signorie aristocratiche a carattere fortemente locale. Questo stato di cose non mancò di produrre mutamenti significativi nel mondo monastico. Per un verso, il moltiplicarsi dei centri di potere locali portò i lignaggi aristocratici che li rappresentavano a voler imitare i comportamenti dei sovrani dei secoli passati, facendosi promotori della fondazione di monasteri legati alla propria famiglia e sottoposti alla propria protezione politica. Ciò produsse sostanzialmente due risultati: il primo fu che l’aumento del numero dei committenti determinò di conseguenza un’impennata di nuove fondazioni; il secondo, che i monasteri divennero mediamente piú piccoli (per dimensioni e per numero dei componenti la comunità) rispetto, per esempio, a quelli fondati da sovrani e dagli alti dignitari carolingi dell’VIII-IX secolo, date le minori disponibilità economiche di cui la nuova catego112
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ria di committenti poteva disporre e la piú ristretta base territoriale su cui essa fondava il suo potere. È possibile che queste condizioni abbiano favorito nel tempo il successo di quella tipologia compatta di insediamento monastico che abbiamo visto presente, fra le molte, già nell’età carolingia e che fu resa paradigmatica dall’uso che ne fece la Pianta di San Gallo. Ma anche dal proprio interno il mondo monastico offrí risposte originali alle condizioni imposte dal mutato quadro politico-istituzionale. La ricerca dell’autonomia spirituale, soprattutto nei confronti delle strutture episcopali diocesane, era già emersa a piú riprese nei secoli precedenti. Ma nella fase che stiamo ora considerando essa fu affrontata con maggiore sistematicità e con un affinamento degli strumenti giuridici che avrebbero dovuto facilitarne l’ottenimento. Primo fra tutti, il ricorso alla protezione pontificia, che doveva servire a garantire il riconoscimento della legittima esistenza di un monastero all’interno della Chiesa cattolica, evitando che di ciò si dovessero occupare i vescovi a esso territorialmente piú vicini, cosa che avrebbe potuto piú facilmente implicare intromissioni nella vita di un cenobio, non solo di carattere spirituale, ma anche di natura economica. Nello scorcio iniziale dell’XI secolo si registrano anche i primi raggruppamenti fra monasteri sotto l’egida di un cenobio e/o di un personaggio dotato di particolare carisma, in grado di proporre modelli di vita organizzativa e spirituale particolarmente convincenti. Essi avevano l’obiettivo di costruire stili comuni nella pratica della vita ascetica e di creare reti di solidarietà tra le comunità, anche al fine di conferire loro una maggiore capacità di reagire ai problemi che, come abbiamo appena visto, la scena politico-sociale del tempo poneva in modo pressante al mondo monastico. Le esperienze dell’XI secolo gettarono i semi che, nel secolo successivo, sbocciarono nello sviluppo di vere e proprie reti di comunità monastiche assai piú solide, codificate e gerarchizzate, quale in primis quella generata dal monastero borgognone di Cîteaux e diramatasi in tutto il continente sotto l’egida di san Bernardo da Chiaravalle.
Cluny: un prestigio esemplare
Il luogo in cui presero corpo in modo piú precoce tutte queste istanze di autonomia spirituale – del suo rafforzamento attraverso l’edificazione di una giurisdizione signorile e di volontà intenzionale d’irraggiamento di uno specifico modello di organizzazione della vita ascetica – fu senz’altro Cluny. Questo monastero era sorto
agli inizi del X secolo, nel cuore della Borgogna, per iniziativa del duca di Aquitania e conte di Mâcon, Guglielmo III, e da questi affidato a Bernone, già abate della comunità di Baumeles-Messieurs, nel Giura francese. Nella carta di fondazione, il duca dichiarava di rinunciare a ogni diritto sulla nuova comunità, che sarebbe dovuta rimanere libera anche da ogni altra intromissione esterna e rimanere sottoposta, per il tramite del pontefice, solamente alla protezione degli Apostoli Pietro e Paolo. Il prestigio spirituale guadagnato dagli abati in carica fra gli anni Quaranta e la fine del X secolo – Oddone e Maiolo – produsse il duplice esito di una crescita imponente della comunità di Cluny e delle frequenti richieste, rivolte da re e aristocratici ai suoi abati, affinché intervenissero presso altri monasteri per riformarne la vita e la disciplina regolare secondo i costumi e l’organizzazione adottata dalla loro comunità. Ai monaci che chiedevano di condividerne le costumanze fu imposto di dipendere dal monastero e di riconoscere come proprio abate quello della stessa
Cluny. Nello stesso modo fu definito lo status dei monasteri direttamente generati da Cluny, che assumevano la denominazione di priorati e cioè di comunità rette da un prior, figura che agiva come una sorta di vice-abate, rappresentando in loco quello dell’abbazia fondatrice.
Gli stessi privilegi della casa-madre
Verso la fine dell’XI secolo, sotto l’abate Ugo di Semur (1049-1109), l’idea che Cluny e i monasteri da essa dipendenti formassero una vera e propria congregatio, gerarchicamente organizzata alle dipendenze di una casa madre, prese ulteriore consistenza. Alla fine del secolo, nel 1096, papa Urbano II (che era stato monaco e priore di Cluny) forní alla congregatio cluniacense uno status giuridicamente riconosciuto, dichiarando che alle abbazie dipendenti da Cluny si estendevano tutti i privilegi d’immunità e autonomia di cui godeva la casa-madre. Il sistema sviluppato dall’abbazia francese si differenziava da qualsiasi esperienza precedente perché si basava sul presupposto che l’affiliazio-
Müstair, Svizzera. Una veduta dell’abside della chiesa del monastero di S. Giovanni. In primo piano, a destra, la statua raffigurante Carlo Magno, che potrebbe essere stato il promotore della costruzione del complesso.
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MONACHESIMO In basso miniatura raffigurante papa Urbano II che consacra, nel novembre del 1095, l’altare del monastero di Cluny, in cui fu priore prima di diventare papa, dalla Cronaca dell’abbazia di Cluny. Scuola francese, XII sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
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ne a essa di altri monasteri avvenisse in primo luogo in ragione della condivisione di comuni modalità organizzative della vita spirituale, a partire dalle costumanze liturgiche e di preghiera. Nello scorcio finale dell’XI secolo, questi sviluppi permisero di avviare un cantiere che mirava alla completa ricostruzione dell’abbazia innalzata dall’abate Maiolo cento anni prima – già di cospicue proporzioni – e, soprattutto, a edificarvi una chiesa che ambiva a essere il tempio piú grande della cristianità occidentale.
La triste sorte di un capolavoro
Purtroppo, di tutto quanto venne allora realizzato restano oggi pochissime tracce. Le strutture dell’abbazia di Cluny, soppressa al tempo della Rivoluzione, furono smantellate pezzo dopo pezzo all’inizio del XIX secolo, dopo che il governo francese cedette il monastero a privati affinché lo utilizzassero come cava di materiale da costruzione. In pochi anni, del cenobio borgognone – e in particolare della chiesa edificata dall’abate Ugo – non rimase in piedi quasi piú nulla. La possibilità di conoscerne la morfologia materiale è perciò rimasta affidata essenzialmente alle indagini archeologiche. Osservando la planimetria del monastero voluto da Maiolo (la cosiddetta Cluny II), si ha la sensazione di trovarsi di fronte a
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qualcosa che, avendo in mente la Pianta di San Gallo, appare molto familiare. Il cuore del monastero era costituito dal plesso formato dalla chiesa e dal chiostro che le si affiancava sul lato sud, intorno al quale si disponevano gli alloggi dei monaci. Se lo schema planimetrico generale sembra sostanzialmente simile a quello della Pianta, non mancano tuttavia varie differenze. Le piú evidenti riguardano il piano terra dell’ala est: a Cluny troviamo infatti una sala capitolare – il luogo in cui la comunità si riuniva sotto la guida dell’abate per discutere le questioni piú rilevanti – che nella Pianta non era ancora prevista. Sempre sul lato est del chiostro, accanto alla sala del capitolo, doveva presumibilmente trovarsi una cappella sussidiaria, dedicata alla Vergine. Attigua all’ala est, sul lato meridionale degli edifici che gravitavano intorno al chiostro, era stata collocata una grande latrina, dotata di 45 sellulæ, sulle quali i monaci potevano sedere per espletare le proprie necessità corporali. Accanto alle latrine si trovava anche un balneum, articolato in 12 stanzette, ciascuna delle quali provvista di una tinozza (dolium). Questi due fabbricati di servizio separavano il quartiere dei monaci da quello dei novizi, già compreso nella cerchia esterna di edifici che circondavano la clausura vera e propria, anche se dobbiamo immaginare che esso gravitasse verso
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In alto la diffusione dei Cuniacensi. L’Ordine si organizzò in diversi gruppi di priorati e abbazie dipendenti, ricevendo grande impulso soprattutto da Oddone (926-943) e da Pietro il Venerabile (1122-1156), e raggiunse il suo massimo sviluppo intorno alla metà del XIII sec.
«Quinque filiae», i cinque monasteri «Quinque filiae», i cinque monasteri direttamente dipendenti da Cluny direttamente dipendenti da Cluny I Itre monasteri hanno adottato adottato tre monasteri che che hanno lalaregola modificandola regola di di Cluny Cluny modificandola Altri importanti Altri monasteri monasteri importanti Zone densità monastica monastica Zone di di grande grande densità cluniacense cluniacense e cistercense cistercense Nel cluniacense Nel 1109 1109 l’Ordine l’Ordine cluniacense comprende 1184 1184 conventi conventi comprende
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Cluny, regina di Borgogna A destra disegno ricostruttivo dell’abbazia di Cluny, riferito alla fase III. Il complesso venne fondato nel 910, per volere di Guglielmo il Pio, duca d’Aquitania. 1. Terza chiesa abbaziale (Cluny III) 2. Seconda chiesa abbaziale (Cluny II) 3. Chiesa di S. Maria 4. Cimitero dei monaci 5. Cappella di Notre-dame-du-Cimetière 6. Infermeria di Pietro il Venerabile 7. Chiostro dell’infermeria
8. Chiostro 9. Edificio del priore 10. Chiostro dei professi 11. Refettorio dei monaci 12. Noviziato 13. O spizio dell’abate Ugo (e scuderie) 14. Ospizio di Pietro il Venerabile 15. Muro di cinta dell’abate Ugo
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A sinistra planimetria dell’abbazia di Cluny II. 1. Avancorte 2. Scuderie 3. Ospizio 4. Alloggi per gli ospiti 5. Galilea 6. Cellarium 7. Panetteria 8. Chiostro 9. Refettorio 10. Cortile 11. Alloggi 12. Chiesa abbaziale 13. Cimitero dei laici 14. Laboratorio 15. Cimitero dei monaci 16. Sala del Capitolo 17. Oratorio di S. Maria 18. Infermeria 19. Parlatorio (piano terra) e dormitorio (piano superiore) 20. Latrine
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quest’ultima e non verso altri edifici attigui, a destinazione prettamente profana. Alle spalle del refettorio e di fronte al quartiere dei novizi, un ampio spazio era adibito allo svolgimento di alcune attività artigianali, dei cui preziosi prodotti la comunità riteneva necessaria l’immediata disponibilità: troviamo cosí le officine degli orafi, degli incastonatori e dei vetrai. La collocazione su questo lato degli ambienti per le attività produttive e artigianali richiama lo schema della Pianta di San Gallo, rispetto alla quale a Cluny una parte di esse era stata localizzata anche in una zona situata sul lato opposto della chiesa maggiore e a quest’ultima direttamente adiacente. Qui, un’apposita domus accolse i laboratori dei sartores et sutores, che operavano a ciclo continuo per produrre i tessuti necessari ad arredare non solo la chiesa e a vestire i monaci, ma anche il palazzo nel quale si accoglievano gli ospiti piú importanti (quelli ricchi e potenti, che arrivavano a Cluny «a cavallo») e che perciò andavano accolti in modo appropriato fornendo loro, per esempio, letti dotati di guanciali in seta.
La rinuncia ai beni terreni
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In basso miniatura nella quale compare Odilone di Cluny (962-1049), che fu il quinto abate del monastero, dal 994 sino al 1048, e venne poi canonizzato, da Le Miroir Historial di Vincenzo de Beauvais. XV sec. Chantilly, Musée Condé.
La storia di Cluny era nata e si era sviluppata nel solco del piú assoluto rigorismo spirituale e l’aspirazione all’autonomia dai poteri locali, che l’abbazia borgognona aveva espresso sin dalle sue origini, testimoniava della volontà di far sí che i monaci vi potessero condurre un’esistenza il piú possibile scevra dai condizionamenti del sæculum. Com’era sempre accaduto sin dai primordi del movimento monastico, anche i monaci di Cluny non possedevano nulla di proprio e la loro vita, una volta accolti nella comunità, era in tutto e per tutto una rinuncia al mondo. Ma quest’ultimo bussava alle porte del monastero e i grandi abati del X e dell’XI secolo, per perseguire il disegno di farne un faro della cristianità occidentale la cui luce potesse irradiarsi sulla vita di molte altre comunità, avevano dovuto costruire una fitta rete di alleanze con i potenti del secolo per ottenere da essi il sostegno politico e materiale necessario affinché la presenza dell’abbazia fosse accolta senza problemi sul territorio ed eventuali minacce che da esso potevano provenire alla sua tranquillitas fossero il piú possibile arginate. Oltre al fatto che gli edifici riservati ai monaci erano rigorosamente confinati e reclusi rispetto anche alle costruzioni destinate all’ospitalità e alle attività artigianali, è soprattutto la forma della chiesa a esprimere in modo chiaro l’intento della creazione di un filtro tra monaci e secolari. L’edificio, a pianta basilicale, era articolato MONACHESIMO
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su tre navate intersecate da un transetto sulle cui terminazioni s’innestava ortogonalmente una cappella per lato. Il presbiterio, assai profondo, era a sua volta suddiviso in tre navate, ciascuna conclusa da un’abside. L’impostazione generale riprende, sistematizza e amplifica tendenze che s’intravedevano già nel tardo periodo carolingio.
Una chiesa ante litteram
L’elemento piú innovativo che la planimetria della chiesa presenta si riscontra però nella sua terminazione occidentale. Abbiamo una descrizione di età medievale di quest’area che recita: «La galilea ha una lunghezza di sessantacinque piedi e due torri sono state costruite nella sua parte frontale e, al di sotto di esse, vi è un atrio ove sostano i laici, affinché non impediscano lo svolgimento della processione». Il testo descrive uno spazio abbastanza ampio (lungo poco piú di 30 m), addossato alla facciata della chiesa e reso monumentale nella parte frontale dalla presenza di due torri, definito come un «atrio», termine che potrebbe far pensare a esso come a uno spazio aperto. Tuttavia, attualmente prevale l’idea che la «galilea» fosse uno spazio coperto suddiviso in tre navate e articolato su due piani, che costituiva una sorta di «anticipazione» della chiesa vera e propria, verso la quale esso si affacciava attraverso i portali d’accesso alle navate e le aperture praticate nella parete del livello superiore. Il nome attribuito a questo elemento architetto118
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nico contribuisce a spiegare la funzione per cui esso era stato pensato. Nel Vangelo di Matteo, la regione palestinese della Galilea rappresenta il luogo in cui Cristo apparve dopo la morte ai suoi discepoli prefigurando loro la visione della beatitudine eterna a cui anch’essi sarebbero stati associati una volta abbandonata la vita terrena. Attribuita allo spazio liminare della chiesa abbaziale, questa denominazione allude chiaramente alla condizione di coloro che, avendo il privilegio di assistere di lí alla liturgia processionale celebrata dai monaci e di scorgere lo splendore della chiesa, proprio come gli Apostoli davanti a Cristo risorto potevano godere l’anticipazione della beatitudine celeste alla quale già partecipavano i membri della comunità monastica. La galilea è quindi concepita come uno spazio intermedio fra il mondo della beatitudine monastica e il travaglio di quanto accade all’esterno e ha la funzione di consentire, sia pure in modo indiretto, la partecipazione del laicato alla liturgia monastica. La ricostruzione del monastero alla fine dell’XI secolo, avvenuta per impulso dell’abate Ugo di Semur (la cosiddetta Cluny III), nonostante avesse proiettato su una scala sensibilmente maggiore le dimensioni del complesso monastico nel suo insieme, e soprattutto della sua ecclesia maior, non ne modifica però in maniera sostanziale l’assetto organizzativo e funzionale quale era emerso al tempo di Maiolo. In altre parole, giunta all’apice della sua parabola,
A sinistra, in alto Cluny, Francia. Una veduta del chiostro dell’abbazia. In secondo piano, il campanile.
In alto Cluny, Francia. Veduta del museo allestito nel palazzo fatto costruire nel XV sec. da Giovanni III di Borbone, abate di Cluny dal 1456 al 1485. Vi sono conservate opere facenti parte della III fase dell’abbazia e reperti provenienti dalle case medievali del borgo.
Cluny celebra il proprio successo, ma lo fa perpetuando un ideale di vita monastica che i testi e le tracce archeologiche della fase anteriore avevano già definito e che era ricco di riferimenti a spunti e modelli che affondavano le loro radici nel cuore dell’età carolingia. Alla fine dell’XI secolo, l’accesso al soglio pontificio di Urbano II, già monaco dell’abbazia borgognone, rappresentò in un certo senso l’approdo piú alto del prestigio raggiunto da Cluny in seno alla Chiesa. All’inizio del XII secolo, la Cluny di pietra si presentava come un grande monastero, la cui imponenza rifletteva l’autorevolezza spirituale della comunità e dei suoi abati: lunga quasi 190 m, la chiesa fatta costruire da Ugo di Semur era, insieme alla basilica vaticana di Roma, di gran lunga il piú grande e ricco edificio di culto di tutta la cristianità occidentale.
Ascesi per sottrazione
I monasteri cistercensi, la cui diffusione raggiunse l’apice tra la seconda metà del XII se-
colo e la prima metà del successivo, replicarono di fatto lo schema planimetrico e funzionale portato a perfezione da Cluny. Ma lo fecero con la non trascurabile differenza di parlare un linguaggio formale totalmente differente, caratterizzato da un’architettura che proponeva un percorso di avvicinamento all’assoluto, giocato sulla sottrazione delle suggestioni di piú immediato impatto visivo e sulla presentazione della grandezza di Dio attraverso la perfezione dell’essenziale. La scelta di tornare «nel deserto» che i monaci bianchi adottarono con polemica veemenza nei confronti di un monachesimo ai loro occhi troppo concentrato sull’esteriore celebrazione di se stesso, costituí una chiusura del cerchio apertosi nella Francia del VII secolo, quando sul mondo dei monasteri aveva iniziato a proiettarsi l’attenzione di re e aristocratici. Il «deserto» ricercato dai monaci di Cîteaux non era in sé un luogo diverso dalle campagne nelle quali le abbazie erano sorte a migliaia da quasi cinquecento anni, ma voleva caratterizzarsi per l’abbandoMONACHESIMO
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Hovedøya Hovedøya
Mare Mare Boyle Boyle
Melrose Nord Melrose deldel Nord
Vitskøl Vitskøl
Alvastra Alvastra Gudvala Nydala Gudvala Nydala
Ba B al t i c o ltic o
Kinloss Kinloss
Rievaulx Rievaulx
Oceano A O c e a n o At l a n t l a nt i c t i co o
Reno Reno
L’ORDINE CISTERCENSE L’ORDINE CISTERCENSE
ii ili monasteri li monasteri dipendenti PPrincipali i PPrincipali i dipendenti dii di d d da:da: Clairvaux (80 femminili) Clairvaux (80 femminili) Cîteaux femminili) Cîteaux (28(28 femminili) Morimond (28 femminili) Morimond (28 femminili) Pontigny (16 femminili) Pontigny (16 femminili) Ferté (5 femminili) La La Ferté (5 femminili) Zona di grande densità monastica Zona di grande densità monastica cluniacense e cistercense cluniacense e cistercense
M e d ietrerrarna enoe o ar Medit r M a M
L’Ordine cistercense comprende L’Ordine cistercense comprende 525 abbazie alla fine del 525 abbazie alla fine del XII XII sec.sec. e 694 abbazie e 694 abbazie allaalla finefine del del XIIIXIII sec.sec.
Cîteaux e le altre In alto cartina con la diffusione in Europa dell’Ordine cistercense, che conobbe un notevole sviluppo sotto la guida di san Bernardo di Chiaravalle (1090-1153).
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Dünamünde Dünamünde
Herrevad Esron Herrevad Esron r ar a Sorø MM Sorø
Oliva Eldena Oliva Eldena E Kolbatz Vi Visto Elb lba Kolbatz la st a Lond ola Fermoy Loccum Tintern Lond Fermoy Loccum Tintern Sulejow Waverley Altenkamp Sulejow Altenkamp Buckfast Waverley Buckfast Leubus Leubus Pforta Ford Nivelles Ford Eberbach Pforta Nivelles Eberbach Molesmes Saar Ebrach Molesmes Saar Ebrach Orval Orval Savigny Maulbronn Savigny Les Vaux Zwettl Les Vaux Zwettl Clairvaux Maulbronn Carnoët Clairvaux Carnoët La Trappe Melleray La Trappe Morimond Heiligenkreuz Heiligenkreuz Melleray Morimond Zircz Pontigny Zircz a Loir Pontigny Loira Viktring Cîteaux Notre Dame d’ll Ré Viktring Cîteaux Lucedio Notre Dame d’ll Ré Sept Fons Sept Fons Lucedio Ferté La Grace Dieu La La Ferté La Grace Dieu Hautecombe Chiaravalle Milanese D ubio Cadouin Hautecombe Chiaravalle Milanese Danuban Cadouin io Morimondo Aiguebelle Morimondo Aiguebelle Sobrado Le Garde-Dieu Valsainte Sobrado Le Garde-Dieu Sénanque Valsainte Sénanque Castagnola Monte Acuto Castagnola Monte Acuto Silvacane Silvacane S. Galgano S. Galgano Moreruela La Oliva Fontfroide Moreruela La Oliva S. Martino Fontfroide Le Thoronet S. Martino Le Thoronet Valbuena Roma Casamari Tarouca Valbonne Valbuena Roma Casamari Tarouca Valbonne Fossanova Tago Fossanova Tago Santes Creus Monsalud Santes Creus Alcobaça Monsalud S. Maria Alcobaça S. Maria delle Paludi delle Paludi S. Stefano S. Stefano Mellifont Mellifont
Falkenau Falkenau
S. Spirito S. Spirito
Wonchock Wonchock Jedrzejów Jedrzejów
Belapatfalva Belapatfalva Kerz Kerz Egres Egres
no di una consuetudine che legava il successo della vita ascetica alla simbiosi che le comunità riuscivano a istituire con patroni secolari che, anche se mossi dalle motivazioni piú nobili, chiedevano, in cambio della loro protezione sui monasteri, di esercitarvi piú o meno direttamente la propria influenza.
L’importanza dell’identità
I Cistercensi – che pure per larga parte reclutarono i loro adepti in seno all’aristocrazia – ritenevano invece che tale nesso andasse scisso e che i monaci dovessero basare il successo del loro percorso ascetico solo sulle proprie forze. Essi dovevano puntare quindi sulla capacità di costruire una forte connessione fra le comunità, capace di produrre, oltre a un legame di solidarietà fra ciascuna di esse, anche e soprattutto una forte identità di gruppo. Ciò avrebbe dovuto consentire alle abbazie sorte su impulso della comunità-madre (Cîteaux, in latino Cistercium) e delle sue prime quattro filiazioni (La Ferté, Pontigny, Clairvaux e Morimond), di rimanere il piú possibile unite ed essere quindi meno soggette al bisogno di dipendere da forze esterne, che avrebbero potuto interferire sull’autentica attuazione dei principi della vita regularis, ispirata in primo luogo dal testo di Benedetto da Norcia. I primi monaci radunatisi a Cîteaux negli anni Novanta dell’XI secolo avevano costruito il loro rifugio ascetico quasi come un eremitaggio condiviso, un luogo in cui la fuga mundi potesse attuarsi in maniera radicale e dove la vita potesse trascorrere entro una cornice di perfetta integrazione tra la meditazione e l’attività manuale. Nella seconda metà del XII secolo, grazie all’impulso fornito da Bernardo di Clairvaux, le abbazie cistercensi si erano ormai diffuse in ogni parte dell’Europa e la loro struttura materiale si era definita secondo un modello organizzativo di cui si ritiene che Bernardo stesso fosse stato un decisivo ispiratore. Anche in questa fase di trionfo, gli elementi che le caratterizzavano in modo preminente rimasero soprattutto l’attenzione alla funzionalità delle strutture preposte alla gestione della produzione agricola e delle risorse idriche e l’organizzazione dei quartieri destinati ai monaci come uno spazio assai compat-
Nella pagina accanto, in basso Cîteaux, Francia. Una veduta esterna dell’abbazia. Situata a sud di Digione, in Borgogna, fu fondata nel 1098 dal monaco Roberto da Molesme.
to e poco permeabile dall’esterno. Con l’eccezione delle abbazie che costituirono le case-madri dell’Ordine, il tipo di monastero concepito dai Cistercensi e da essi diffuso in tutte le regioni europee era caratterizzato da dimensioni non particolarmente ragguardevoli. Ciò che contava non era tanto la monumentalità, quanto la razionalità e la funzionalità dell’insediamento nel suo insieme. Il monastero doveva servire ai monaci per compiere l’opus Dei in modo efficiente e in condizioni ottimali d’isolamento e di quiete. Nel XII secolo, l’Europa attraversava un periodo di grande sviluppo economico e culturale: le città stavano tornando a costituire i centri propulsori della produzione e nuovi ceti sociali, che avevano costruito le proprie fortune sulle attività legate al commercio e alla manifattura, si candidavano a un nuovo protagonismo politico che generò inedite forme di governo degli insediamenti urbani e una rinnovata proiezione dell’egemonia di questi ultimi sul territorio.
Ritorno al passato
In alto due monaci tagliano la legna, particolare di un capolettera istoriato da un’edizione di Moralia in Iob, dall’abbazia di Cîteaux. XII sec. Digione, Bibliothèque Municipale.
La scelta dei Cistercensi di puntare al radicamento delle proprie comunità nelle aree rurali e, in particolare, in quelle piú marginali ebbe forse proprio il significato di una risposta ai tumultuosi cambiamenti che si verificavano nella società circostante: i monasteri dovevano tornare a essere luoghi sottratti tanto alla crescente pressione delle città sulla campagna, quanto alle contese che le aristocrazie rurali ingaggiavano per il controllo del territorio. I siti in cui le comunità cistercensi si andavano a stabilire dovevano avere le qualità per proporsi allo stesso tempo come claustrum et heremus: essere cioè rifugi in cui gruppi di persone cercavano di attuare comunitariamente la perfezione della vita cristiana nell’isolamento e nella rinuncia a qualsiasi rappresentazione altisonante e trionfalistica del mistero divino. Cluny aveva invece tenacemente perseguito questo obiettivo, esaltando l’immagine stessa dei monaci che, nello splendore del loro monastero, dovevano apparire come creature già trasmigrate verso la contemplazione della beatitudine celeste. MONACHESIMO
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L’Italia dei monasteri
L’Italia è una terra di monasteri, monumenti che connotano il patrimonio culturale e architettonico di ogni regione. Ecco un itinerario tra i luoghi simbolo della spiritualità, dall’Alto Medioevo fino all’affermazione degli Ordini Mendicanti, che per la comunanza di aspirazioni e per la loro pratica ascetica si posero in continuità con le forme antiche di monachesimo cristiano. Trino
ITALIA SETTENTRIONALE ABBAZIA DI S. MICHELE Sant’Ambrogio di Torino (TO) Il complesso della Sacra di S. Michele fu fondato sul finire del X secolo sul sito nel quale sorgeva l’eremo di san Giovanni Vincenzo, seguace di san Romualdo, e divenne presto tappa obbligata per i pellegrini francesi in viaggio verso Roma. Appartenuto poi ai Benedettini, il monastero è oggi gestito dai Rosminiani. ABBAZIA DI NOVALESA Novalesa (TO) Risalente all’VIII secolo, fu uno dei centri religiosi piú attivi della regione. Gestita dai Benedettini, l’abbazia ottenne numerosi privilegi dai sovrani franchi. ABBAZIA DI S. MARIA DI LUCEDIO Trino (VC) Nel XII secolo, alcuni monaci cistercensi provenienti dalla Borgogna fondarono l’abbazia su un terreno concesso loro dal marchese aleramico Ranieri I del Monferrato. Dell’antico complesso, costruito in stile gotico lombardo, sopravvivono varie strutture.
ABBAZIA DI S. ANDREA Borzonasca (GE) L’inizio della costruzione, secondo alcune fonti, risalirebbe al periodo longobardo, su iniziativa del re Liutprando. L’attuale complesso presenta architetture del XIII e del XIV secolo.
F R A N C I A
Sulle orme dei monaci
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ABBAZIA DI S. FRUTTUOSO Camogli (GE) Un gruppo di monaci greci la fondò, nel X secolo, Torino su una roccia a ridosso del mare. In seguito vi si stabilí una comunità di Benedettini che ampliò il complesso, poi ulteriormente ristrutturato nel XIII secolo, con l’aggiunta di uno splendido loggiato a due ordini di trifore. ABBAZIA DI CHIARAVALLE Milano Uno dei primi capolavori dell’architettura gotica in Italia. Venne fondata nel XII secolo su iniziativa di san Bernardo. ABBAZIA DI MORIMONDO Morimondo (MI) Trasse il nome dall’abbazia francese di Morimond, luogo dal quale provenivano i primi monaci che si stanziarono nel XII secolo in quella zona della Lombardia. Il complesso, costruito in stile gotico, venne ampliato e fiorí nel Rinascimento, soprattutto grazie all’iniziativa del cardinale Giovanni de’ Medici (il futuro papa Leone X). ABBAZIA DI VIBOLDONE San Giuliano Milanese (MI) Considerata tra le piú pregevoli architetture religiose della Lombardia, venne eretta nel XII secolo e in seguito ampliata da un gruppo di monaci appartenente all’ordine degli Umiliati. A sinistra alcuni monaci leggono un testo sacro, particolare di una miniatura di Paolo Soldini (1342-1386) dal Salterio di Santa Maria Novella. 1379. Firenze, Museo di San Marco.
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L’Italia dei monasteri
ABBAZIA DI MAGUZZANO Lonato del Garda (BS) Di fondazione benedettina (IX secolo), subí un devastante attacco da parte degli Ungari e venne distrutta. Ricostruita, fu di nuovo pesantemente danneggiata nel XIV secolo e, infine, ristrutturata nel Quattrocento. ABBAZIA DI NOVACELLA Varna (BZ) Sorse nel 1142, per volere del vescovo di Bressanone Hartmann. Il complesso subí nel corso dei secoli una serie di rimaneggiamenti che ne modificarono l’originale fisionomia gotica, oggi in parte sopravvissuta accanto a forme barocche e rococò. ABBAZIA DI S. MARIA IN SILVIS Sesto al Reghena (PN) L’originaria struttura risale all’VIII secolo. Divenuta benedettina, l’abbazia fu pesantemente danneggiata dagli Ungari nell’899. Nel complesso, costruito in stile romanico-bizantino, sono visibili i rimaneggiamenti realizzati nel Quattrocento. ONVENTO DELLA MADONNA C DI BARBANA Grado (GO) Nel VI secolo, secondo la tradizione, in seguito a una tempesta venne trovata sulla costa della laguna di Grado una tavola di legno sulla quale era impressa l’immagine della Vergine. Su quel sito, per celebrare il miracolo, sorse un convento. MONASTERO DI S. GIORGIO MAGGIORE Venezia Nell’isola di San Giorgio Maggiore, di fronte a piazza San Marco, sorse nel X secolo un monastero, per iniziativa di un religioso benedettino, Giovanni Morosini. Caduto in rovina, il complesso fu ristrutturato nel XX secolo dalla Fondazione Giorgio Cini e oggi ospita eventi culturali.
Treviso, Seminario Vescovile (ex convento di S. Nicolò), Sala del Capitolo dei Domenicani. Particolari dell’affresco di Tommaso da Modena raffigurante personaggi dell’Ordine domenicano. 1352.
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ITALIA CENTRALE EREMO E MONASTERO DI CAMALDOLI Poppi (AR) Fondati nell’XI secolo in uno degli angoli naturalistici piú suggestivi del centro Italia da san Romualdo, costituirono un unico centro religioso e culturale, tuttora gestito dai frati camaldolesi. Il monastero fu sede di un’importante accademia umanistica. CONVENTO SANTUARIO DELLA VERNA Chiusi della Verna (AR) Nel celebre monte sul quale san Francesco ricevette le stimmate, donato all’Assisiate dal nobile Orlando Cattani, sorse nel XIII secolo un complesso di edifici religiosi, tra cui un convento. La Verna è uno dei principali luoghi sacri del francescanesimo. ABBAZIA DI S. ANTIMO Montalcino (SI) Eretta nel IX secolo, divenne un’importante abbazia benedettina. Rappresenta uno degli esempi piú pregevoli di architettura religiosa di stile romanico. ABBAZIA DI POMPOSA Codigoro (FE) Sorta nel VI-VII secolo, ospitò religiosi benedettini e assunse le attuali dimensioni a partire dall’anno Mille. Costruita in stile romanico, fu un importante centro di cultura nel Medioevo, grazie all’attività dei suoi amanuensi.
ABBAZIA DI MONTE OLIVETO MAGGIORE Asciano (SI) Imponente abbazia benedettina costruita nel Trecento, vide affluire nei suoi locali studiosi provenienti da tutta Europa, attratti dalla ricchezza della sua biblioteca.
ABBAZIA DI NONANTOLA Nonantola (MO) Fondata nel 752 dall’abate benedettino Anselmo, su un territorio concessogli dal cognato Astolfo, re dei Longobardi, si distinse anch’essa come importante centro culturale.
ABBAZIA DI VALLOMBROSA Reggello (FI) Nell’XI secolo Giovanni Gualberto vi fondò la Congregazione vallombrosiana. L’attuale struttura, frutto di ricostruzioni quattrocentesche, venne gravemente danneggiata dalle truppe di Carlo V nel 1529 e, nelle successive ristrutturazioni, assunse un aspetto barocco.
ABBAZIA DI S. COLOMBANO Bobbio (PC) Uno dei principali centri monastici dell’Europa medievale. Un primo complesso nella città sorse nel VII secolo, per iniziativa del futuro santo irlandese Colombano. In seguito fu sede di un importante scriptorium.
ABBAZIA DI CHIARAVALLE DI FIASTRA Tolentino (MC) Nel XII secolo, furono alcuni religiosi cistercensi provenienti dall’omonima abbazia milanese a fondarla. Nel corso del Medioevo divenne uno dei principali complessi monastici delle Marche.
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Il monastero e i suoi spazi Le attività quotidiane all’interno degli ambienti monastici erano scandite da rigorosi criteri organizzativi, come illustra il disegno ricostruttivo di un complesso benedettino di epoca basso-medievale.
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1. Negli scriptoria i monaci amanuensi si dedicano alla copiatura dei testi. I libri sono conservati nella biiblioteca, in questo caso collocata al piano superiore dell’edificio. 2. La chiesa, piú o meno grandiosa a seconda delle possibilità economiche della comunità monastica a cui appartiene, è l’edificio principale. 3. Il chiostro, con giardino, fontana e porticato, è il centro della vita monastica; qui i monaci meditano e trovano un po’ di svago. 4. La foresteria od ostello è il luogo di accoglienza dei pellegrini e di altri ospiti di passaggio. È collegata all’edificio in cui si trovano la cantina e la dispensa. 5. La cucina e il ripostiglio per gli abiti sono situati sul lato ovest dell’abbazia. 6. Il chiostro può non essere unico: in questo caso ne esiste un altro per i novizi. Sul lato sud del chiostro si trova il refettorio comune. 7. I monasteri sono dotati di tutti i servizi per l’igiene. Accanto alle latrine si trovano i bagni; al piano superiore, la lavanderia. 8. Nella Sala del Capitolo, al piano terra, l’abate tiene le riunioni amministrative. Al piano superiore, si trova il dormitorio dei monaci.
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ONASTERO DI SANTA CROCE M DELLA FONTE AVELLANA Serra Sant’Abbondio (PU) Nel X secolo, un eremo venne fondato nella zona dell’odierna abbazia, presumibilmente su iniziativa di san Romualdo e si sviluppò in seguito, grazie all’attivismo di Pier Damiani e dei monaci camaldolesi. S ACRO CONVENTO DI S. FRANCESCO DI ASSISI Assisi (PG) Dopo la morte dell’Assisiate, papa Gregorio IX dispose l’edificazione di un imponente edificio nel quale custodire il corpo del santo. Fu, poi, frate Elia da Cortona a procedere alla vera e propria fondazione di una chiesa, accanto alla quale cominciò a sorgere il primo nucleo del convento. EREMO DELLE CARCERI Assisi (PG) Nelle anguste grotte in cui san Francesco e i suoi discepoli erano soliti ritirarsi per meditare e pregare, sorse nel Trecento un convento che presto divenne uno dei principali centri monastici dell’Ordine dei Minori. SACRO SPECO DI S. FRANCESCO Narni (TR) San Francesco fondò presso Narni un eremo, in un luogo dove in precedenza gruppi di eremiti benedettini erano soliti ritirarsi in preghiera. ABBAZIA DI MONTECASSINO Cassino (FR) Nel VI secolo, san Benedetto da Norcia individuò nella sommità di Montecassino il posto ideale per la fondazione di un’abbazia, in un luogo dove un tempo sorgeva un tempio pagano dedicato ad Apollo. Distrutta dai Longobardi, dai Saraceni e poi dai bombardamenti alleati nel 1944, venne sempre ricostruita. ABBAZIA DI FOSSANOVA Priverno (LT) Costruita dai Benedettini nel VII secolo, venne trasformata radicalmente nel XII secolo. Vi morí san Tommaso d’Aquino nel 1274. Dichiarata monumento nazionale, rappresenta uno dei più antichi esempi di architettura gotico-cistercense italiana
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ABBAZIA DI VALVISCIOLO Sermoneta (LT) Fondata, secondo la tradizione, su un eremo frequentato da monaci greci, nel XIII secolo divenne un centro templare. Dopo la soppressione dell’ordine cavalleresco, passò ai monaci cistercensi. ABBAZIA DI S. MARIA DI FARFA Fara in Sabina (RI) Uno dei complessi monastici piú importanti dell’età di Mezzo. La sua fondazione risale, secondo alcuni rilievi archeologici, al VI secolo. Nell’VIII secolo, ottenne da Carlo Magno lo status di abbazia imperiale. L’odierna struttura, frutto di numerose ristrutturazioni, conserva rare testimonianze di architettura carolingia. ABBAZIA DI S. PAOLO FUORI LE MURA Roma Uno dei piú antichi centri monastici di Roma, sorto accanto alla omonima basilica. Dal X secolo vi si istituí la Regola benedettina. ABBAZIA DI S. GIOVANNI IN VENERE Fossacesia (CH) Fu eretta all’inizio del Basso Medioevo. Secondo la tradizione, un primo nucleo del monastero era attivo fin dal VI secolo, con la presenza dei Benedettini.
ITALIA MERIDIONALE ABBAZIA DI S. VINCENZO AL VOLTURNO Castel San Vincenzo e Rocchetta a Volturno (IS) Uno degli storici monasteri medievali d’Europa. La sua fondazione – secondo il Chronicon Vulturnense – sarebbe attestata intorno all’VIII secolo, a opera di alcuni nobili beneventani. Ottenne da Carlo Magno esenzioni fiscali e un significativo margine di autonomia. ABBAZIA DEL GOLETO Sant’Angelo dei Lombardi (AV) Fondata da Guglielmo da Vercelli nel XII secolo. Negli anni crebbe di prestigio, ma nel Cinquecento venne soppressa. Ridotta a un cumulo di rovine, fu restaurata nel Novecento. ABBAZIA DI S. MARIA DI MONTEVERGINE Mercogliano (AV) La sua nascita, a opera di Guglielmo di Vercelli, risa-
le al XII secolo. Divenne un importante centro religioso dei Benedettini verginiani, congregazione che fondò numerosi luoghi di culto nel meridione. ABBAZIA DI S. ANGELO IN FORMIS Capua (CE) Nel periodo longobardo, su un «terreno sacro» nel qual sorgeva un’area pagana dedicata alla dea Diana, venne edificata una chiesa. Nel X secolo vi si insediò una comunità di monaci benedettini. Le prime notizie sulla presenza di un monastero risalgono all’XI secolo. BBAZIA DI S. MARIA MADDALENA A IN ARMILLIS Sant’Egidio del Monte Albino (SA) Antica abbazia di origine altomedievale, fondata da una comunità benedettina su un luogo dove si presume sorgesse una villa romana. La struttura fu ampiamente rimaneggiata nel Cinquecento. CONVENTO DI MONTE SANT’ANGELO Monte Sant’Angelo (FG) Uno dei principali centri religiosi di culto micaelico. Un santuario sorse tra la fine del V e l’inizio del VI secolo per iniziativa del vescovo di Siponto, sopra una grotta in cui la tradizione ritiene sia apparso l’arcangelo Michele. Il convento è oggi gestito dai monaci micaeliti. MONASTERO DI S. GIOVANNI EVANGELISTA Lecce Eretto nel XII secolo su iniziativa del conte normanno Accardo, rivestí alle origini la funzione di luogo di incontro tra fedi diverse, nell’intento di far convivere forme di rito latino, con quelle di cultura greca, longobarda e araba. ABBAZIA DI S. MICHELE ARCANGELO Montescaglioso (MT) Altro importante centro di culto micaelico, la cui originaria struttura venne edificata presumibilmente nel V secolo. L’attuale complesso presenta una commistione di architetture romaniche e barocche. ABBAZIA FLORENSE San Giovanni in Fiore (CS) Sorta nel XII-XIII secolo nei luoghi della predicazione di Gioacchino da Fiore, divenne uno dei principali centri religiosi della Calabria.
Federico Marazzi è uno dei maggiori esperti europei di archeologia dei monasteri medievali e ormai da oltre trent’anni si occupa degli scavi del grande monastero altomedievale di S. Vincenzo al Volturno, in Molise. Accanto a questo, si è occupato dello studio di diversi altri insediamenti monastici dello stesso Molise, della Campania, delle Marche e della Germania. I suoi studi in questo campo, oltre che in decine di pubblicazioni di carattere scientifico e divulgativo, sono confluiti in un importante volume apparso nel 2015 (Le città dei monaci. Storia degli spazi che avvicinano a Dio, pubblicato dalla Jaca Book di Milano), del quale il presente Dossier di «Medioevo» riprende le principali tematiche e il filo narrativo. A sua cura è inoltre di prossima pubblicazione, presso la Volturnia Edizioni, l’Atlante degli insediamenti monastici del Molise (secoli VIIIXII), nel quale viene offerta per la prima volta una panoramica del ricchissimo – quanto per gran parte sconosciuto – patrimonio artistico ed archeologico monastico di questa regione.
CERTOSA DI SERRA SAN BRUNO Serra San Bruno (VV) San Bruno di Colonia fondò una prima abbazia verso la fine dell’XI secolo. Il complesso in seguito si ampliò e fu gestito dai Cistercensi. MONASTERO DI S. SPIRITO Agrigento Il complesso monastico, situato nel cuore del centro storico di Agrigento, sorse nel XIII secolo per volere della marchesa Rosaria Prefoglio, moglie di Federico I di Chiaramonte. Fu un centro benedettino. ONVENTO MARIA SANTISSIMA C DI GIBILMANNA Cefalú (PA) Secondo la tradizione fu san Gregorio Magno a fondare il convento nel VI secolo. Gestito in un primo momento dai Benedettini, passò poi ai Francescani. A cura della redazione
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