Medioevo Dossier n. 18, Gennaio 2017

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EDIO VO M E Dossier

IL PENSIERO

MEDIEVALE

LA BATTAGLIA DELLE IDEE DA SANT’AGOSTINO A PICO DELLA MIRANDOLA

€ 7,90

IL PENSIERO MEDIEVALE

N°18 Gennaio 2017 Rivista Bimestrale

IN EDICOLA IL 20 DICEMBRE 2016 My Way Media Srl - Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c.1, LO/MI.



IL PENSIERO MEDIEVALE

LA BATTAGLIA DELLE IDEE, DA SANT’AGOSTINO A PICO DELLA MIRANDOLA di Francesco Colotta, con contributi di Leonardo Capezzone e Chiara Mercuri 48. Protagonisti 6. Presentazione Un presagio di modernità Al Kindi, Al Farabi, Avicenna, Al-Ghazali, Ibn-Badja 8. Il tempo dei Padri 10. Sant’Agostino Dubito, dunque sono 18. Protagonisti Pseudo-Dionigi l’Areopagita, Giovanni Damasceno, Severino Boezio 22. L’avvento della scolastica 24. Giovanni Scoto Eriugena «Intelligente» e di pronta parola 33. Protagonisti Alcuino di York, Rabano Mauro, Pier Damiani, Anselmo d’Aosta, Roscellino di Compiègne, Pietro Abelardo, Bernardo di Chiaravalle, Ugo di San Vittore, Pietro Lombardo, Giovanni di Salisbury 40. La versione dell’Islam 42. Averroè L’ultimo pensatore

52. Tra fede e ragione 54. Maimonide Il dottore dei perplessi 60. Protagonisti Isacco, Saadja, Ibn-Gebirol 62. In guerra per Aristotele 64. Bonaventura da Bagnoregio Le speculazioni di un Francescano 72. Protagonisti Michele Scoto, Guglielmo d’Alvernia, Alessandro di Hales, Giovanni de la Rochelle, Roberto Grossatesta

Matteo di Acquasparta, Enrico di Gand, Ruggero Bacone, Giovanni Duns Scoto 96. Ragionamenti rivoluzionari 98. Guglielmo di Ockham Pensieri di una mente affilata 106. Protagonisti Pietro d’Abano, Marsilio da Padova, Giovanni di Buridano, Nicola d’Oresme 110. Meister Eckhart Maestro di eresie 116. Protagonisti Giovanni Taulero 118. Una nuova visione del mondo

76. Alberto Magno L’uomo che sapeva tutto

120. Niccolò Cusano Testimone del tempo

86. Protagonisti Tommaso d’Aquino, Sigieri di Brabante, Boezio di Dacia, Pietro Ispano, Raimondo Lullo,

128. Protagonisti Marsilio Ficino, Pico della Mirandola


Firenze, Palazzo Vecchio. Affresco di Giorgio Vasari raffigurante Lorenzo il Magnifico circondato da filosofi e letterati: da sinistra, Marullo Tracagnotto, Giovanni Lascari, Leonardo Bruni, Leon Battista Alberti, Cristoforo Landino, Marsilio Ficino, Gentile da Urbino, Demetrio Calcondila, Francesco Accolti, Pico della Mirandola, Agnolo Poliziano e Luigi Pulci. 1556-1558.

UN PRESAGIO DI MODERNITÀ «M

i accorgo di essere entrato in un labirinto», osservò nel XII secolo il teologo francese Ugo di San Vittore, scandagliando il vasto terreno d’indagine della filosofia, che riteneva potesse estendersi a «tutte le attività umane». Sebbene militasse in una scuola di studi incline al misticismo, il pensatore riconosceva un ruolo essenziale e autonomo alla riflessione speculativa, sostenendo una tesi non conforme all’abusato assunto delle dispute storico-critiche di epoca successiva, che vedeva la filosofia dell’età di Mezzo come una mera «ancella» dei dogmi religiosi, succube delle immutabili verità di fede e declassata nella gerarchia dei saperi. Lo stereotipo prese forma dal convincimento che l’intera tradizione del pensiero medievale riflettesse il teorema agostiniano della reductio artium ad theologiam, sviluppato nel Duecento da

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Bonaventura di Bagnoregio. Di tale paradigma, tuttavia, si è fornita spesso un’interpretazione superficiale. La reductio in questione, infatti, non implicava un asservimento passivo della filosofia e delle scienze al dettato religioso, ma promuoveva altresí forme di sintesi tra conoscenze, in un ambizioso disegno di unità dei saperi che culminò, a cavallo tra il Medioevo e il Rinascimento, nel colossale progetto dell’umanista Pico della Mirandola, volto ad accorpare ogni dottrina succedutasi nella storia in una sorta di ideologia della «concordia». Anche la «scolastica» – pur servendosi solo strumentalmente delle discipline filosofiche, al fine di dimostrare con maggiore incisività le verità trascendenti – assegnò piena autorevolezza ai saperi «profani»: rielaborando il pensiero della Grecia classica, in particolare di Aristotele, contribuí alla diffusione


degli studi sulla logica, la matematica, la fisica, la medicina, l’economia, il diritto, la politica. L’homo religiosus medievale cominciò, quindi, progressivamente a interpretare la realtà che lo circondava con metodi scientifici e imparò, alla fine, a camminare da solo nel suo nuovo habitat, divenendo titolare di uno spazio cosmologico intermedio tra il mondo divino e quello della natura. Ecco perché il pensiero dell’età di Mezzo, seppur intriso di teologia tradizionale, nasconde nel suo DNA un patrimonio genetico moderno, quasi «rivoluzionario». A dimostrarlo sono anche i numerosi tributi ai filosofi medievali espressi dalla cultura contemporanea, che spesso ha riconosciuto loro il ruolo di «precursori» di cambiamenti epocali: «Qui abbiamo trovato davvero quello che vogliamo», affermò un giorno Georg Wilhelm Friedrich Hegel riferendosi ad al-

cuni scritti del mistico trecentesco Meister Eckhart; mentre sono noti i richiami al teologo medievale Giovanni Duns Scoto da parte di uno dei piú celebri pensatori del XX secolo, Martin Heidegger. Ma i casi sono davvero molteplici. Questo nuovo Dossier di «Medioevo» compie un viaggio affascinante attraverso i lunghi e tortuosi itinerari filosofici dell’età di Mezzo. Non solo seguendo le tracce dei grandi pensatori, da sant’Agostino a Scoto Eriugena, da Averroè a Maimonide, da Alberto Magno a Tommaso d’Aquino, da Bonaventura di Bagnoregio a Guglielmo di Ockham, ma indagando anche su numerosi altri profili ingiustamente considerati minori. Una folta schiera di ingegni, ai piú sconosciuta, che tanta parte ebbe, invece, nel processo di modernizzazione del pensiero occidentale e del Vicino Oriente. PENSIERO MEDIEVALE

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Il tempo dei Padri

Il tramonto dell’impero romano e la diffusione della fede cristiana segnano l’età tardo-antica. Un’epoca travagliata e di forti contrasti, di cui divengono eco anche le formulazioni dei campioni della patristica

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lle soglie del Medioevo la cultura cristiana era dominata dalla figura dei cosiddetti Padri della Chiesa, pensatori ed esponenti delle gerarchie ecclesiastiche che cercarono di riordinare il corpus teologico della dottrina. La «patristica» – che da loro prese nome – aveva già iniziato a operare nel I e II secolo d.C., in un periodo di drammatiche persecuzioni per i fedeli che vivevano nei territori dell’impero romano, e fu caratterizzata da una prima fase apologetica (Giustino, Tertulliano), volta principalmente a preservare il patrimonio di fede contro i potenziali nemici, primi fra tutti i pagani e gli gnostici. Una seconda fase prese avvio dopo la promulgazione dell’Editto di Costantino del 313, che sanciva la libertà di culto per ogni confessione religiosa all’interno dei confini imperiali. Potendo agire nella legalità, gli scrittori cristiani si impegnarono in un’attività piú dinamicamente evangelizzatrice e cominciarono a rielaborare in modo sistematico la materia dottrinaria. Il nuovo corso della patristica, che vide protagoniste figure dello spessore di Gregorio di Nissa e Agostino d’Ippona, comportò la predisposizione di mezzi piú efficaci per diffondere le verità rivelate dai testi sacri. Discipline «secolari» di divulgazione del sapere, come la filosofia e la letteratura, potevano rivelarsi funzionali ad adempiere al compito, anche contemplando possibili sintesi con la tradizione pagana. Una terza fase, infine, si registrò nel V secolo, nell’imminenza del crollo dell’impero romano, al tempo delle invasioni barbariche. La decadenza culturale che fece seguito a tali stravolgimenti politici, rallentò anche la diffusione del pensiero cristiano, il cui patrimonio scritto rimase confinato nei monasteri. In quest’ultimo periodo della patristica, altre grandi personalità provarono ad armonizzare filosofia e fede: lo Pseudo-Dionigi l’Aeropagita, Severino Boezio, Cassiodoro e Isidoro di Siviglia.

Nella pagina accanto Distomo (Grecia), monastero di Osios Loukas. Gregorio di Nissa raffigurato in un particolare della decorazione parietale a mosaico del Katholikon. XI sec. Originario della Cappadocia, Gregorio fu il piú speculativo dei Padri greci del IV sec. Scrisse importanti opere teologiche, come il Contro Eunomio, e vari trattati, sermoni e lettere. In alto manoscritto copto su pergamena riportante una versione del De Anima et Resurrectione, di Gregorio di Nissa. Il Cairo, Institut Français d’Archéologie Orientale.

CRONOLOGIA 410

I Visigoti guidati da Alarico compiono il sacco di Roma.

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La Deposizione di Romolo Augustolo sancisce la caduta dell’impero romano d’Occidente.

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Giustiniano I diventa imperatore d’Oriente.

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Benedetto da Norcia detta la Regola, composta da un prologo e da 73 capitoli.

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Viene promulgato l’Editto di Rotari, prima raccolta di leggi longobarde in vigore nel territorio italiano.

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I Padri della Chiesa

DUBITO, DUNQUE SONO Originario della Numidia, sant’Agostino studiò a Cartagine per poi trasferirsi a Milano, dove fu determinante l’incontro col vescovo Ambrogio. Esperienze che posero le basi per lo sviluppo di un pensiero filosofico di straordinaria acutezza e che ha lasciato un’eredità ancora oggi vivissima

TAGASTE, 354-IPPONA, 430

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onsiderato il precursore della filosofia medievale, sant’Agostino è fra i piú grandi pensatori di ogni tempo. La sua determinante influenza sulla cultura cristiana dell’età di Mezzo prevale sul rispetto delle datazioni convenzionali e lo pone di diritto in un’epoca posteriore al tardo-antico. Aurelio Agostino nacque nel 354 in un territorio attraversato da intensi fermenti religiosi – nell’Africa romana, a Tagaste (l’odierna città algerina di Souk Ahras) –, in una famiglia di piccoli proprietari, nella quale convivevano tradizioni e credenze conflittuali: il padre, Patrizio, era un fervente pagano, mentre la madre, Monica, professava la fede cristiana. Quest’ultima esercitò l’influenza maggiore sul futuro santo, tanto da fargli ammettere in età adulta: «Debbo a lei tutto ciò che sono». Dopo i primi studi nella città natale, Agostino si trasferí a Cartagine per seguire i corsi di eloquenza, e in quella città, si invaghí di una donna, che gli diede un figlio, Adeodato («dato da Dio»). Pur conducendo una vita sregolata, finalizzata perlopiú al soddisfacimento dei piaceri materiali, a Cartagine Agostino si appassionò alla grammatica, a tal punto da fargli ritenere – come ebbe poi a dire nella sua opera piú cele-

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Pavia, basilica di S. Pietro in Ciel d’Oro. Un particolare della decorazione scultorea dell’arca marmorea di sant’Agostino, raffigurante il filosofo defunto circondato da discepoli e sapienti. Attribuita a una bottega campionese, l’opera reca incisa sul basamento la data del 1362, da alcuni considerata il momento d’inizio della sua realizzazione, che, in ogni caso, dovette concludersi prima del 1402, quando il monumento, in occasione dell’orazione funebre per Gian Galeazzo Visconti, viene definito «opus egregium».


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bre, Le Confessioni – che un solecismo (errore di costrutto o sintassi) fosse «piú grave di un peccato mortale». Il suo primo vero approccio con la filosofia si manifestò con la lettura dell’Hortensius di Cicerone (un’opera perduta, che invitava allo studio delle discipline filosofiche), nel quale, tuttavia, aveva riscontrato la mancanza di una prospettiva religiosa.

Soluzioni insoddisfacenti

Il successivo approfondimento dei testi sacri, però, produsse in Agostino una certa delusione, in quanto quegli scritti presentavano il difetto opposto rispetto all’Hortensius: ossia, professare verità non dimostrabili razionalmente. Si avvicinò, allora, al manicheismo (credenza religiosa sorta nell’antica Persia, che identificava la dimensione divina come lotta eterna tra bene e male; vedi box a p. 15), che giudicava maggiormente compatibile con l’indagine filosofica e ne divenne seguace. In particolare, considerava piú verosimile, in confronto alle tesi del cristianesimo ufficiale, un mondo popolato da forze opposte e inserito in una cosmologia connotata da rilievi di tipo naturalistico. Tuttavia, a una piú profonda analisi, anche le tesi manichee sull’origine del mondo gli apparvero poco dimostrabili con metodi rigorosamente razionali. L’ennesima delusione teologica lo spinse ad approfondire di nuovo gli scritti dei filosofi e, mosso da una tendenza sempre piú accentuata al dubbio, sembrò condividere le tesi del probabilismo scettico della Nuova Accademia greca di Carneade e Filone. A minare i suoi, fino ad allora, tiepidi sentimenti religiosi aveva contribuito anche la difficoltà nell’interpretazione del concetto di male, il non accettare l’idea che Dio ne tollerasse la diffusione nel mondo. Nel 387, ultimati gli studi, si trasferí a Milano, dove, grazie al prefetto romano Simmaco, poté insegnare retorica. Nella città lombarda ebbe l’opportunità di ascoltare le prediche di sant’Ambrogio, allora vescovo, e ne rimase profondamente suggestionato. Ma le sue incertezze sulle verità della fede non si dipanavano. Decisiva, nel cammino spirituale di Agostino, fu la scoperta di alcuni testi del filosofo neoplatonico Plotino, che gli svelarono il mondo della metafisica. Da quegli scritti trasse la convinzione dell’«incorruttibilità» e della «incorporeità» di Dio – come osserva lo storico della filosofia Nicola Abbagnano – «e ciò lo liberò definitivamente dal materialismo al quale era rimasto sin allora attaccato, fino a credere che l’universo fosse pieno di Dio al modo di una gigantesca spugna che occupi il mare». 12

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Pavia, basilica di S. Pietro in Ciel d’Oro. Ancora un particolare della decorazione scultorea dell’arca di sant’Agostino, raffigurante il santo che predica ai fedeli. Post 1362-ante 1402. Il 25 aprile del 387, Agostino volle farsi battezzare dallo stesso sant’Ambrogio, insieme al figlio Adeodato. Alla fede cristiana era giunto ormai in età avanzata, come egli stesso ammise con un certo rimpianto, nelle Confessioni: «Tardi ti amai, bellezza cosí antica e cosí nuova, tardi ti amai. Sí, perché tu eri dentro di me e io fuori. Lí ti cercavo. Deforme, mi gettavo sulle belle forme delle tue creature. Eri con me, e non ero con te. (...) Mi chiamasti, e il tuo grido sfondò la mia sordità; balenasti, e il tuo splendore dissipò la mia cecità; diffondesti la tua fragranza, e respirai e anelo verso di te, gustai e ho fame e sete; mi toccasti, e arsi di desiderio della tua pace». Prologo della sua definitiva conversione fu anche un evento sovrannaturale che si materializzò durante il suo periodo milanese. Un giorno, mentre era in un giardino, Agostino fu colto all’improvviso da un’inspiegabile crisi di pianto e contemporaneamente avvertí una voce infantile che, canticchiando, lo invitava a dedicarsi alla lettura: «Prendi e leggi, prendi e leggi», sentí sussurrare. Una volta tornato a casa, cercò un libro e tra le mani si ritrovò la Bibbia.

In guerra contro il passato

Rientrato in patria, si dedicò alla vita eremitica, ricevette l’ordinazione sacerdotale e fu poi nominato vescovo. Da prelato, si impegnò subito a combattere la vecchia e un tempo professata, dottrina manichea e sfidò in un confronto pubblico uno dei suoi sostenitori piú influenti, Felice. Agostino uscí vincitore dalla disputa e lo sconfitto, soggiogato dalle argomentazioni del rivale, rinnegò il manicheismo e decise immediatamente di convertirsi. In Africa, la diffusione del cristianesimo stava trovando molti ostacoli, non solo per la resistenza dei culti pagani, ma soprattutto per il dilagare di movimenti scismatici. Anche da anziano, perciò, Agostino continuò a impegnarsi nella lotta contro le eresie: prima contro i donatisti (movimento religioso nato in Africa, che riteneva non validi i sacramenti dispensati da ecclesiastici poco degni della carica rivestita), e in seguito contro i pelagiani (che negavano la fondatezza del peccato originale, teorizzando l’assoluta libertà dell’uomo nella ricerca del bene). Nelle sue battaglie contro gli eretici alternò il rigore alla tolleranza, mirando sempre a trovare, alla fine, una mediazione. L’ultima sua disputa teo-


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logica fu contro gli ariani (che riconoscevano solo al Padre una natura pienamente divina e non a Gesú), il cui numero di adepti stava progressivamente crescendo in Africa.

Contro gli dèi dell’antichità

Un’altra insidia, intanto, si stava profilando: il ritorno in auge del paganesimo, forte dei consensi maturati dalla tesi che vedeva nel verbo cristiano una delle principali cause dell’indebolimento dell’impero romano, travolto dalle invasioni barbariche. Agostino si scagliò contro il mondo degli antichi dèi in una delle sue opere piú note, La città di Dio. Durante l’assedio della feroce popolazione dei Vandali a Ippona, sua sede vescovile, il futuro santo si ammalò gravemente e morí nel marzo del 430. Il suo corpo, prima trasportato in Sardegna da alcuni esuli cristiani a lui fedeli, nell’VIII secolo – per volere del re longobardo Liutprando – venne traslato a Pavia, nella basilica di S. Pietro in Ciel d’Oro, dove tuttora si trova. Per comprendere appieno il complesso sistema dottrinario di sant’Agostino occorre prendere le mosse da un assunto fondamentale: la speculazione teologica, in precedenza formulata solo con criteri di oggettività e di astrazione, con le sue intuizioni si lega strettamente, invece, all’individuo che la concepisce. Siamo dinnanzi a una vera e propria svolta epocale nella storia della filosofia occidentale: la questione delle 14

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In alto Sant’Agostino nello studio (o Visione di sant’Agostino), olio su tela di Vittore Carpaccio. 1502-1507. Venezia, Scuola di San Giorgio degli Schiavoni. L’artista ha immaginato il santo nel proprio studio, mentre viene distratto dalla lettura dalla voce di Girolamo, che gli appare in forma luminosa dalla finestra accanto allo scrittoio.

verità spirituali e della presenza di Dio non poteva piú essere disgiunta dall’interiorità dell’individuo, dal suo specifico microcosmo. Nel trattato Contra Academicos, ma anche in altri suoi scritti, Agostino indica la strada attraverso cui, dai dubbi iniziali, egli stesso era giunto ad apprendere le verità. Presupposto di ogni ricerca della verità è una certezza incontestabile: l’esistenza dell’individuo, proprio perché costui è un essere che dubita («si fallor, sum», «se mi inganno vuol dire che esisto»). Agostino precorre cosí uno dei temi fondanti della filosofia moderna, che sarà poi alla base della elaborazione razionalista di Cartesio, esemplificata nell’espressione «cogito, ergo sum» («penso dunque sono»).

Il «Platone cristiano»

Una parte significativa del sistema di idee agostiniano è contenuta nelle Confessioni, testo che, sotto forma di invocazione a Dio, ripercorre il travaglio dell’autore e le tappe verso la maturazione delle proprie convinzioni religiose. La filosofia, attraverso il dubbio, stimola la ricerca, obbliga l’individuo a un’attività di ricognizione, a un approfondimento sulla natura delle proprie incertezze. Definito da alcuni studiosi il «Platone cristiano», Agostino opera una iniziale sintesi tra la tradizione del pensiero greco antico – sotto la cui influenza si era formato negli studi – e la teologia: la cono-


LOTTA ALLE ERESIE MANICHEISMO Un profeta iranico di nome Mani, nato nel 215, fondò un movimento religioso che combinava elementi dottrinari del cristianesimo, dello zoroastrismo e dello gnosticismo. Dalla Persia, questa credenza si diffuse presto nei territori dell’impero romano e anche in Estremo Oriente, in alcune zone dell’India e della Cina. Il manicheismo professa una visione dualista che pervade l’universo: due principi, il bene e il male (simboleggiati dalla luce e dalle tenebre) si contrappongono, determinando il destino di ogni realtà vivente. La dottrina di Mani fu osteggiata da molti regnanti e dalla Chiesa e scomparve, in Occidente, nel V secolo. DONATISMO Sorto nel IV secolo in Africa, in seno al cristianesimo, il donatismo trae nome dal vescovo di Numidia, Donato di Case Nere (270-355). Il movimento religioso prese spunto dalla decisione di alcuni vescovi i quali, per timore di persecuzioni, avevano ceduto alla magistratura romana i libri sacri: per i donatisti, che consideravano quell’atto un vero e proprio tradimento, ogni ecclesiastico colpevole di una condotta indegna, doveva essere privato della propria funzione. Di conseguenza, i suoi sacramenti risultavano nulli. Considerato scismatico dalla Chiesa, il donatismo fu condannato dal Concilio di Cartagine del 411. ARIANESIMO Nel IV secolo, un prete di nome Ario professò in Oriente una dottrina religiosa trinitaria che negava l’identità di Cristo come avente la stessa sostanza del Padre e ritenendolo, invece, solo un essere prediletto dal Creatore. Influenzate dal neoplatonismo, queste tesi vennero condannate dal Concilio di Nicea del 325 come eretiche, ma continuarono a diffondersi anche dopo la morte di Ario. PELAGIANESIMO Il monaco britannico Pelagio (360-420) sostenne che il peccato originale non aveva comportato la dannazione del genere umano. L’individuo, quindi, non doveva pagare le conseguenze della trasgressione adamitica e poteva liberamente scegliere il bene, con piena cognizione di causa. Condannato dalla Chiesa con il Concilio di Efeso del 431, il pelagianesimo vedeva comunque in Cristo il simbolo della redenzione per l’umanità. Ma dal Messia, dalla concessione della sua grazia, l’uomo poteva ricevere solo un aiuto per le sue scelte.

Disputa e trionfo di Sant’Agostino sugli eretici, olio su tavola di Marco Cardisco. 1532-1533. Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte.

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scenza del divino della ragione platonica viene integrata dall’incontro diretto con Dio, che diviene oggetto di esperienza. Per la prima volta si nega alla ragione un’autonomia rispetto alla fede: è la tappa iniziale di un processo dottrinario, e in seguito politico, destinato a fornire le basi per l’affermazione della supremazia della Chiesa sullo Stato. In Agostino, però, i principi eterni e immutabili di natura divina non sono frutto delle reminiscenze di idee, come in Platone, ma di un’illuminazione che deriva direttamente dal Creatore, che ha generato ogni cosa attraverso la Parola. Il profilo del divino, pertanto, non si rivela indeterminato, astratto, ma come un’essenza dall’identità ben precisa. Un’altra cesura epocale con la tradizione antica si produce con la teoria della creazione, avvenuta ex nihilo secondo Agostino: Dio creò l’universo dal nulla e prima di questo atto era inesistente anche il tempo. Viene rigettata in blocco la tesi di una sostanza eterna, intellegibile o puramente materiale.

La rivelazione di Dio

Per giungere all’illuminazione, occorre seguire una disciplina introspettiva rigorosa, integrata da profonde riflessioni, un processo che non ammette approssimazioni di sorta e affronta le contraddizioni della realtà con l’intento di chiarire ogni aspetto dei misteri della fede. La verità, tuttavia, non può essere identificata totalmente con la dimensione interiore dell’uomo, con l’anima, quanto con alcuni principi di emanazione divina che l’individuo è in grado di recepire e di elaborare, anche grazie alla ragione («tu non puoi essere la luce a te stesso», si legge nel Sermo 182). L’anima è solo il luogo che ospita la rivelazione di Dio: «La verità abita nell’uomo interiore – scrive Agostino nella Vera religione – e, se troverai che la tua natura è mutevole, trascendi anche te stesso». Secondo una riflessione rigorosamente filosofica di Agostino, Dio esiste perché alcune realtà di carattere oggettivo sono immutabili e si impongono anche sulla volontà degli individui: gli esempi sono l’incontrovertibile logica dell’algebra (dell’addizione 2 + 2 = 4), oppure la necessità avvertita di fare il bene anziché il male. Per usare un’espressione dello storico francese della filosofia Étienne Gilson (1884-1978), «c’è qualcosa nell’uomo che trascende l’uomo», un’entità presente in ogni giudizio incontrovertibile relativo alla scienza, alla morale e all’estetica, la cui natura però «ci sfugge». Ma perché Dio dev’essere ricercato proprio 16

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nell’interiorità dell’individuo? Secondo le Scritture, l’uomo è stato creato a immagine e somiglianza del suo Creatore, pertanto possiede affinità con chi l’ha generato, nonché gli strumenti – attraverso le verità di fede – per «tornare a lui». La libertà umana, applicata alla ricerca filosofica, si caratterizza come un cammino che percorre un itinerario prestabilito. È Dio, infatti, a concedere di sua iniziativa – attraverso la grazia – i segni della sua presenza, lasciando tracce che l’uomo ha la facoltà di seguire o meno. Sta all’individuo scegliere il bene. Per Agostino, a differenza di quanto sostenevano i manichei, il male non esiste in sé e rappresenta solo una carenza di volontà dell’uomo, il quale talvolta si allontana dalla propria natura piú autentica, optando per un’esistenza improntata a valori di profilo degradante. Cade

Pavia, basilica di S. Pietro in Ciel d’Oro. Veduta d’insieme dell’arca di sant’Agostino, collocata a ridosso dell’altare maggiore.


Pavia, basilica di S. Pietro in Ciel d’Oro. Ancora un particolare della decorazione scultorea dell’arca di sant’Agostino, raffigurante la traslazione del corpo del santo dentro la basilica. Post 1362-ante 1402.

cioè nel peccato, ignorando che ogni cosa creata, proprio perché diretta emanazione di un’entità divina, è espressione del bene.

Il libero arbitrio

Una volta individuato l’itinerario che conduce all’elevazione spirituale, occorre stabilire se l’uomo possieda le qualità interiori e intellettive per orientare le proprie scelte. Agostino combatté una delle battaglie dottrinarie piú accese contro il pelagianesimo (vedi box a p. 15), una disputa che si innestò nell’elaborazione del concetto di grazia nell’ambito del pensiero cristiano. In ferma opposizione a Pelagio, Agostino ritiene l’individuo incapace di scegliere il bene con un certo giudizio, in quanto irrimediabilmente macchiato dal peccato originale, frutto dell’abuso del «libero arbitrio»

che Dio assegna a ogni creatura. Solo l’intervento di Dio, attraverso la grazia, può indirizzare l’uomo verso la vera libertà, che nella concezione piú autentica, coincide appunto con la sua elevazione spirituale. Dio, però, non a tutti concede la salvezza attraverso la grazia, ma solo a un gruppo di eletti. Questa tesi, che introduce il discusso concetto di predestinazione, fu elaborata da Agostino negli ultimi anni di vita e viene interpretata come un ritorno alla giovanile tendenza al pessimismo sulla condizione umana da parte del pensatore. Secondo lo studioso tedesco di filosofia medievale, Kurt Flasch, il Dio amoroso che emana grazia a tutte le sue creature, adotta in questi caso rigorosi criteri selettivi, assume «i tratti dell’arbitro personale e diventa sempre piú simile a un imperatore di età tardo-antica». PENSIERO MEDIEVALE

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PROTAGONISTI PSEUDO-DIONIGI L’AREOPAGITA Figura fondamentale ed enigmatica nella storia del pensiero altomedievale, il siro Pseudo-Dionigi l’Areopagita (V-VI secolo) elaborò un originale tentativo, nel solco della patristica, di innestare temi neoplatonici nell’ambito della dottrina cristiana. Firmava i suoi scritti con lo pseudonimo di Dionigi l’Areopagita, identificandosi con il membro del tribunale ateniese, convertito da san Paolo con il discorso che l’apostolo tenne all’Areopago, la collina situata tra l’Acropoli e l’agorà. Forse, scegliendo quel nome, il misterioso pensatore medievale intendeva incarnare in modo simbolico l’incontro tra la tradizione greca antica e l’annuncio di Cristo. Altri, invece, ipotizzano che avesse utilizzato quell’identità per fornire maggior rilevanza alle sue argomentazioni speculative, retrodatandole al periodo in cui le testimonianze dell’avvento del Messia risultavano ancora dirette. Ispirandosi alle tesi neoplatoniche di Proclo (filosofo bizantino vissuto nel V secolo), lo Pseudo-Dionigi tentò di convertire l’apologia del cosmo di matrice politeista in una esaltazione di Dio come unico creatore, che dona una misteriosa armonia al mondo della natura. Nell’opera a lui attribuita, il Corpus Aeropagiticum, illustra le fasi attraverso le quali si può entrare in contatto con la dimensione divina: optare per la «teologia affermativa», seguendo le tracce di Dio in ogni fenomeno della realtà che ha creato; oppure praticando la «teologia negativa», e trovare Dio nel silenzio, dopo aver svuotato di attributi tutti gli oggetti e le idee presenti in natura. Tuttavia, l’unico vero modo di incontrare Dio trascende i due percorsi teologici e si manifesta in un atto puramente mistico, che conferma l’aspetto inconoscibile del Padre celeste: «Se uno, avendo visto Dio, ha capito ciò che ha visto – afferma Dionigi –, non ha visto Dio, ma qualcuna delle sue opere che esistono e che si conoscono». Nell’evoluzione del pensiero medievale, si rivelò fondamentale la sua interpretazione della mistica non nel senso tradizionale di sacramento («mystèrion»), ma di esperienza individuale, intima.

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GIOVANNI DAMASCENO L’ultimo periodo della patristica fu caratterizzato da un certo fervore anche a Bisanzio, nonostante la diffidenza delle autorità nei riguardi dell’elaborazione filosofica di temi religiosi, che era vista come potenziale forma di sovversione. Tra i principali pensatori bizantini si distinse Giovanni Damasceno (670-749), considerato il piú importante teologo della Chiesa d’Oriente. Combatté l’iconoclastia e compilò una sintesi del pensiero patristico greco nella sua opera fondamentale, la Fonte della conoscenza. Damasceno sostenne il primato dell’analisi teologica sulla filosofia, ma riteneva quest’ultima una valida integrazione razionale alla fede, in particolare sul tema dell’esistenza di Dio.

In alto miniatura raffigurante Giovanni Damasceno che scrive, dal Menologio di Basilio II. X-XI sec. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. A sinistra San Dionigi l’Areopagita, olio su tela di Giuseppe Franchi. XVII sec. Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana.

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SEVERINO BOEZIO «L’ultimo degli antichi», come alcuni storici lo hanno definito, è in verità un filosofo pienamente immerso nelle prime controversie dottrinali del Medioevo. Severino Boezio (480-526) si impegnò nel tentativo di trasmettere ai suoi contemporanei il patrimonio della filosofia greca, in particolare le opere di Platone, Aristotele e dei neoplatonici. Esponente di rilievo dell’ambiente senatorio romano, si batté per favorire una collaborazione fra i suoi concittadini e i nuovi padroni di Roma, i Goti. Fatto arrestare da Teodorico, dedicò le sue giornate in carcere alla stesura della sua opera principale, il De consolatione philosophiae, un trattato in prosa e in versi di cui è protagonista la Filosofia, sotto forma di una nobile dama, che offre conforto all’autore, fornendo alcune risposte alle sue incertezze di carattere speculativo. Ispirato dal neoplatonismo, Boezio riuscí solo in parte a saldare le tesi agostiniane alla ragione filosofica. Di notevole importanza per la cultura medievale si rivelò il suo meritorio lavoro di traduzione in latino di classici del pensiero greco. Fondamentale, in quest’ambito, fu la sua traduzione dell’Isagoge di Porfirio di Tiro (III secolo), che avviò il dibattito sugli universali (dissertazione sulla prevalenza dei termini generali di specie e di genere sulla molteplicità dei fenomeni della realtà). Delineò anche i nuovi confini della metafisica, servendosi dei criteri della logica di Aristotele. La rivelazione assume, nel suo pensiero, un incompiuto tentativo di conciliare il platonismo, l’aristotelismo e il cristianesimo: Dio e le cose sono poste in relazione con i concetti dell’«esse» (l’infinita bontà di Dio) e dell’«id quod est» (le cose alle quali il Creatore ha comunque fornito il proprio benefico sigillo).

A destra Asciano, abbazia di Monte Oliveto Maggiore. Come Benedetto fa scaturire la sorgente di un fiume, affresco dal ciclo delle Storie di San Benedetto di Monte Oliveto Maggiore, opera del Sodoma. 1505 circa.

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A sinistra miniatura raffigurante le muse che visitano Severino Boezio in prigione, da un’edizione del De consolatione philosophiae. XV sec. Rouen, Bibliothèque Municipale de Rouen, Cabinet d’Estampes. In basso Venezia, battistero della Basilica di S. Marco. Particolare della decorazione musiva raffigurante san Basilio. XII-XIII sec.

IL MONACHESIMO E LA CULTURA Il monachesimo fu una scelta di vita, ricorrente in tutte le tradizioni religiose, caratterizzata da una totale dedizione al mondo spirituale, lontana da ogni contatto con la vita mondana. Fin dai tempi antichi, nel mondo orientale molti uomini scelsero di ritirarsi in solitudine per praticare la meditazione e la penitenza. Nacquero, in seguito, cenobi o monasteri che riunirono comunità anche numerose dedite alla vita eremitica. Dall’Oriente, il monachesimo si diffuse successivamente anche in Occidente. Differenti erano i principi a cui si ispirarono i monasteri: in Oriente, san Basilio (329-379) professava un ritiro caratterizzato solo dalla preghiera e dalla meditazione; in Occidente, san Benedetto da Norcia (480-547), che aveva fondato il monastero di Montecassino, concepí invece una vera e propria Regola, di carattere piú pratico, ispirata al motto dell’ora et labora. I monaci svolsero un ruolo fondamentale nella difesa e nella trasmissione della cultura, trascrivendo non solo testi religiosi, ma anche scritti profani, opere letterarie, scientifiche e tecniche. In tal modo gran parte del patrimonio filosofico antico non fu condannato all’oblio.


L’ avvento della scolastica Oltre a mutare i destini dell’Europa, la nascita del Sacro Romano Impero innesca una stagione di grande fermento culturale. E la filosofia si adopera al fine di fornire un supporto razionale alla fede

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ell’VIII secolo, l’avvento di Carlo Magno, il cui progetto era la restaurazione degli splendori dell’impero romano d’Occidente su fondamenta cristiane, generò un grande fermento negli ambienti piú eruditi. Incoronato dal papa nella notte di Natale dell’800, il sovrano franco fondò presso la sua corte di Aquisgrana un vero e proprio cenacolo di intellettuali – per la maggior parte monaci e pensatori cristiani –, che assunse il nome di Schola Palatina, con l’intento di imprimere un nuovo sviluppo alla cultura. Grande impulso venne dato all’insegnamento delle arti liberali, ovvero di quelle discipline (grammatica, logica, retorica, geometria, aritmetica, astronomia e musica) che costituivano il trivium e il quadrivium dell’istruzione, propedeutici allo studio della filosofia e della teologia. Proprio negli ambienti didattici nacque la filosofia scolastica, che intendeva fornire una soluzione a uno dei temi piú dibattuti: la possibile sinergia tra rivelazione divina e il metodo scientifico delle arti liberali, con l’obiettivo di dotare la fede di una base razionale. A tal fine, le dottrine concepite dai filosofi greci di età classica – in particolare Platone, Aristotele e Plotino – potevano costituire un valido terreno d’incontro, come già era stato ipotizzato nella tarda patristica. Nell’XI e nel XII secolo la cultura non fu piú monopolio esclusivo dei monasteri e delle chiese, ma ebbe i suoi centri di elaborazione nelle scuole e nelle nascenti università, mentre sullo sfondo infuriava la disputa sugli universali.

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Miniatura raffigurante Henricus de Alemannia durante una lezione all’Università di Bologna, da un’edizione del Liber ethicorum des Henricus de Alemannia. XIV sec. Berlino, Staatliche Museen, Kupferstichkabinett.

CRONOLOGIA 742 Nasce ad Aquisgrana la Schola Palatina, cenacolo di eruditi che si propongono di rielaborare la cultura classica.

800

Nella notte di Natale, in Vaticano, papa Leone III incorona imperatore Carlo Magno.

1059

Papa Niccolò II condanna l’ingerenza imperiale nell’elezione degli ecclesiastici. Inizia la lotta per le investiture.

1075

Gregorio VII promulga il Dictatus Papae, raccolta di 27 proposizioni che assegna maggiori poteri politici al pontefice. È il preludio alla teocrazia.


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«INTELLIGENTE» E DI PRONTA PAROLA

Originario della Scotia Maior, Giovanni Scoto Eriugena ebbe modo di farsi conoscere e apprezzare dopo essere stato ammesso alla corte di Carlo il Calvo. Con la fine dell’età carolingia, venne per lungo tempo dimenticato. Un oblio a cui hanno posto fine la riscoperta del suo pensiero e la riabilitazione da parte delle gerarchie ecclesiastiche

IRLANDA, 810 circa-INGHILTERRA (?), dopo l’877

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el IX secolo, dall’Irlanda funestata dalle invasioni vichinghe giunse nel cuore dell’Europa carolingia un erudito, esperto di grammatica e di arti liberali. Si chiamava Giovanni Scoto Eriugena e con i suoi scritti rivoluzionò la storia del pensiero occidentale. Poco sappiamo dei suoi primi anni di vita, trascorsi nel Paese d’origine, all’epoca chiamato Scotia Maior, dove era nato presumibilmente intorno all’810. Notizie piú circostanziate riguardano, invece, la sua permanenza in Francia, durante la quale riuscí ad accedere agli ambienti di corte del sovrano Carlo il Calvo e a farsi apprezzare: il vescovo Pardulo di Laon riferisce che «a quello Scoto che vive nel palazzo del re» venne affidato il delicato incarico di replicare alle tesi del teologo tedesco Godelscalco sul tema della doppia predestinazione (l’esistenza di un destino prestabilito da Dio sia per i piú meritevoli che per i malvagi). Nel De divina praedestinatione Giovanni Scoto evidenziò l’assurdità dell’assunto in questione, che negava finanche il minimo margine al libero arbitrio dell’individuo e risultava, inoltre, in contrasto con il dogma della natura unica di Dio, espressione soltanto del bene assoluto. Tuttavia, le argomentazioni contro Godescalco vennero a loro volta contestate dagli stessi ecclesiastici che ne avevano commissionato la stesura, i vescovi

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In alto allegoria della Grammatica che spiega le regole della lingua latina agli allievi, da un’edizione de Le nozze di Filologia e Mercurio di Marziano Capella commentata da Remigio di Auxerre. X sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

Nella pagina accanto miniatura raffigurante Carlo II, il Calvo, in trono, dal Salterio di Carlo il Calvo. IX sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France. La corte del re francese accolse Giovanni Scoto Eriugena, che fu sollecitato a intervenire nella controversia contro Godescalco.


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Capolettera miniato tratto da un manoscritto contenente brani dello Pseudo-Dionigi l’Areopagita tradotti da Scoto Eriugena con commentario di san Massimo confessore. XI-XII sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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Pardulo di Laon e Incmaro di Reims: secondo il parere dei prelati, infatti, quelle argomentazioni, oltre a rivelarsi poco efficaci, affrontavano la questione su un piano meramente filosofico-razionale e non teologico. Alla bocciatura dei vescovi, seguí una doppia condanna ufficiale dell’opera di Giovanni Scoto, sancita dai concili di Valencia e di Langres, rispettivamente nell’855 e nell’859.

Nelle grazie del sovrano

Stando al cronista Guglielmo di Malmesbury, il filosofo irlandese sarebbe stato in stretti rapporti di amicizia con Carlo il Calvo e avrebbe goduto, come erudito, della massima stima del monarca. Lo storico riferisce, a riguardo, che

«Giovanni Scoto, uomo intelligente e di pronta parola» era trattato dal sovrano franco con «rispetto e familiarità» e nel suo resoconto riporta anche un episodio curioso, a conferma di tali informazioni. Un giorno, durante una cena ufficiale, il sovrano avrebbe lanciato una scherzosa provocazione al pensatore – seduto all’estremo opposto della tavola –, chiedendogli quale fosse la differenza tra un Scoto e uno sciocco. Al che Giovanni avrebbe risposto ironicamente: «C’è di mezzo soltanto una tavola, sire!». Carlo il Calvo stimava il suo collaboratore irlandese e gli offrí di rivestire il prestigioso incarico di direttore della Scuola palatina. Lo stesso monarca, inoltre, gli affidò il compito di tradur-


re il Corpus aeropagitus dello Pseudo-Dionigi l’Areopagita. La pubblicazione in latino della discussa opera suscitò reazioni negative in ambito ecclesiastico e addirittura lo sdegno di papa Nicola I, perché il testo non era stato sottoposto al vaglio della censura. Secondo alcuni cronisti, negli ultimi anni di vita, Giovanni Scoto si sarebbe trasferito in Inghilterra su invito del sovrano Alfredo il Grande, che lo avrebbe chiamato a dirigere la Scuola di Oxford, da poco fondata. Il piú fitto mistero avvolge, infine, la morte del pensatore, avvenuta forse nell’877: una tradizione probabilmente leggendaria vuole che il filosofo sia stato ucciso da un gruppo di monaci di Athelney – suoi studenti – a colpi di stiletto, in quanto le argomentazioni contenute nelle sue opere contenevano tracce di eresia.

I «miracoli» della cultura

Tra i principali esponenti della «rinascita carolingia», Giovanni Scoto cercò di conciliare le tesi agostiniane con temi propri della cultura greca classica. Ritenuto, con eccessi semplicistici, un «razionalista» dell’età di Mezzo, teorizzò la superiorità della filosofia rispetto alla teologia, tracciando le linee di un nuovo percorso dottrinario che, dopo di lui, venne seguito da molti altri pensatori medievali. Secondo Nicola Abbagnano, «Nella povertà culturale e speculativa del suo tempo, quest’uomo, dotato di spirito estremamente libero, di eccezionale capacità speculativa e di vasta erudizione greco-latina, appare come un miracolo». Prodromo della radicale svolta speculativa fu la prima opera attribuita al filosofo, le Annotationes in Marcianum, brevi glosse al celebre De nuptiis Philologiae et Mercurii (V secolo), un trattato didattico dello scrittore pagano di origini cartaginesi Marziano Capella che esaltava la funzione delle arti liberali attraverso la vicenda allegorica di Filologia, chiamata a superare prove di erudizione per poter sposare il dio Mercurio. Nell’analisi di questo scritto non cristiano, Giovanni Scoto intendeva attribuire al sapere umano un ruolo fondamentale e autonomo nella ricerca di Dio, indipendentemente dal rapporto che poteva ingenerarsi con le Sacre Scritture, elaborando cosí una tesi piú «ardita» rispetto alle linee espresse fino ad allora sul tema dalla cultura carolingia. «Nessuno entra in cielo se non per mezzo della riflessione filosofica», si legge nelle Annotationes. Nelle opere piú tarde, invece, asserí sempre la necessità dell’emanazione della grazia divina per la salvezza dell’anima umana.

Pagina di un manoscritto del De Coelesti Hierarchia dello Pseudo-Dionigi l’Areopagita tradotto da Giovanni Scoto Eriugena. XII sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

Contestando il teorema tardo-antico attribuito a Tertulliano del «credo quia absurdum» («io credo perché è assurdo») – con cui si sosteneva un puro atto di fede con perentorietà proprio perché inconciliabile con la ragione –, il pensatore irlandese concepí un sistema dialettico nel quale la dimensione umana e divina si armonizzano: la cosiddetta dottrina delle quattro nature. La prima, «natura non creata e (segue a p. 30) PENSIERO MEDIEVALE

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Germigny-des-Prés, chiesa della SS. Trinità. Mosaico della cupola absidale raffigurante l’Arca dell’Alleanza, gli angeli e la mano di Dio, realizzato per volere di Teodulfo, vescovo di Orléans e abate di Saint-Benoit-sur-Loire. IX sec. Nella filosofia di Giovanni Scoto, lo iato tra Dio e il mondo si attenua, in quanto il Creato si manifesta come teofania del Padre. PENSIERO MEDIEVALE

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creante» è identificata in Dio, principio di ogni cosa; la seconda, «natura creata e creante» rappresenta il figlio di Dio, origine dell’uomo; la terza, «natura creata e non creante», si riferisce al mondo dei fenomeni e degli individui; la quarta, infine, «natura non creata e non creante» è ancora Dio, verso il quale confluisce di nuovo ogni elemento creato. Conseguenza del complesso sistema filosoficoteologico di Giovanni Scoto – formulato in gran parte nel De divisione naturae (opera in cinque libri nota anche con il termine greco di Periphýseon, che si struttura in forma di dialogo tra un maestro e un suo allievo) – è la sensibile attenuazione dello iato fra Dio e il mondo, in quanto il creato si manifesta, al termine dei succitati quattro stadi di evoluzione, come teofania del Padre. Insieme alla De consolatione philosophiae di Severino Boezio, il De divisione naturae è considerata la prima grande opera di metafisica della storia del pensiero occidentale. Nella visione di Giovanni Scoto, a differenza che in sant’Agostino, l’uomo ha in sé un profilo divino, partecipa alla perfezione spirituale del suo Creatore e si pone come protagonista di un universo affine a quello immaginato dai neoplatonici, in particolare da Plotino. Ogni creatura, una volta esaurito il suo completo ciclo cosmico, si ricongiunge con il principio dal quale è stata generata. Subisce, quindi, un processo e un destino che si manifestano ineluttabili, esemplificati dall’inclinazione dell’uomo che nel profondo della propria interiorità tende a inseguire la bontà, la bellezza, la verità, ovvero la nostalgia di quella perfezione originaria alla quale aspira a tornare.

Un falso panteismo

La stretta connessione tra Dio e il mondo nelle opere di Giovanni Scoto venne da alcuni superficialmente configurata come una forma di panteismo. Un’interpretazione contestata dai suoi piú autorevoli esegeti, poiché è il mondo ad ascendere verso Dio e non viceversa. E pur esistendo una comune matrice tra i due elementi, il Padre trascende il creato e si colloca in una posizione di assoluta superiorità su ogni manifestazione umana. La dottrina di Giovanni Scoto fu all’epoca condannata da numerosi pensatori cristiani – in particolare dai filosofi della Scuola di Chartres – e anche dalle gerarchie ecclesiastiche. Analizzando le motivazioni di un simile accanimento, si può oggi affermare che si trattò di un giudizio eccessivamente severo, dettato dall’errata lettura delle opere del filosofo, con30

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tro il quale venne comminata anche una condanna conciliare postuma con cui si dispose la messa al rogo di numerose copie del De divisione naturae. Nel 1225, in Francia, i vescovi ricevettero, direttamente da papa Onorio III, l’ordine di bruciare tutti gli esemplari esistenti nelle loro rispettive diocesi. Anche i seguaci del pensatore irlandese vennero presi di mira: uno fra tutti, Almarico di Bene, accusato in vita di aver assunto posizioni panteiste e il cui cadavere venne riesumato e poi gettato in terra non consacrata. In età contemporanea la figura di Giovanni Scoto è stata in gran parte riabilitata non solo dalla cultura cattolica, ma anche dalla Chiesa ufficiale, come si evince dalla disamina del suo pensiero resa da papa Benedetto XVI in occasione dell’Udienza Generale del 10 giugno 2009.

Carlo Magno, circondato dai suoi dignitari, riceve Alcuino, che gli presenta alcuni manoscritti opera del suo scriptorium, olio su tela di Jean-Victor Schnetz. 1833. Parigi, Museo del Louvre.

LA RINASCITA CAROLINGIA L’ascesa di Carlo Magno, nell’VIII secolo, segnò un periodo di grande fervore nella cultura, caratterizzato dalla rinascita di discipline umanistiche come l’arte, la letteratura e la filosofia. Il fenomeno fu denominato «rinascita carolingia» dallo storico francese dell’Ottocento Jean-Jacques Ampère, per magnificarne lo splendore, dopo un’epoca di oblio dei saperi. Il sovrano promosse anche la nascita di un esteso sistema scolastico, al fine di favorire l’integrazione culturale all’interno del suo vasto impero. Oltre all’uniformità degli studi, si provvide a varare un progetto di unità linguistica, adottando la «minuscola carolina», una forma comune di trascrizione dei testi, cosí da renderne piú agevole la copiatura e la fruizione. Nella sontuosa sede di Aquisgrana, dove sorse la celebre Cappella Palatina, Carlo Magno si circondò dei migliori intelletti disponibili in quel periodo in Europa, tra i quali molti monaci, che nel periodo delle invasioni barbariche avevano preservato nel chiuso dei loro monasteri il patrimonio umanistico e scientifico delle opere di epoca classica. Sfruttando la presenza di questa élite intellettuale nella sua corte, il monarca promosse la costituzione della Schola Palatina, cenacolo di eruditi che venne fondato ufficialmente dal filosofo Alcuino di York e dallo storico longobardo Paolo Diacono.


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PROTAGONISTI ALCUINO DI YORK Il teologo anglosassone Alcuino di York (735-804) fu il caposcuola della fioritura culturale patrocinata da Carlo Magno e manifestatasi in Occidente dopo le invasioni barbariche. In quel periodo, alla corte dell’imperatore, affluirono uomini di grande profilo intellettuale, che diedero impulso agli studi dei testi classici cristiani e latini. Alcuino rappresentò anche l’artefice della rinascita dell’istruzione all’interno dell’impero franco. La sua opera filosofica si pone in sostanziale continuità con le tesi di sant’Agostino e delinea un universo controllato da una divinità totalizzante, artefice di ogni manifestazione reale del creato. Un Dio che nella sua piú autentica essenza si rivela inconoscibile. Tra le sue opere si ricordano il De virtutibus et vitiis e il De animæ ratione.

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In basso miniatura raffigurante Alcuino di York che presenta a Otgar, vescovo di Magonza, il suo allievo Rabano Mauro. IX sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.


RABANO MAURO Il pensiero cristiano poteva trovare un punto d’incontro con la filosofia classica, anche attingendo al patrimonio delle credenze pagane. La tesi «provocatoria» del monaco ed erudito tedesco Rabano Mauro (780-856) incontrò presto le ostilità delle autorità ecclesiastiche, a partire dall’abate del monastero di Fulda, dove Rabano insegnava: il superiore dispose la sospensione del maestro, il sequestro dei suoi scritti e dei compiti degli alunni, condannando i piú valorosi tra questi a lavori pesanti, in modo da allontanarli da quelle teorie ritenute sovversive. Gli scolari protestarono, rivolgendosi direttamente al re e, grazie alla loro mobilitazione, il maestro di Fulda poté tornare ad insegnare. Rabano considerava utile approfondire lo studio dei filosofi antichi e pagani, in quanto sosteneva che alcuni di essi fossero approdati inconsapevolmente alle verità cristiane attraverso un «ingiusto possesso»: era stato Dio ad agire su di loro e pertanto quel sapere non gli apparteneva. Nel De institutione clericorum, il religioso scrive in proposito che «se i filosofi hanno detto cose vere e d’accordo con la fede, non bisogna temere di riprenderle a loro come a ingiusti possessori».

PIER DAMIANI Alle soglie dell’anno Mille, dopo la dissoluzione dell’impero carolingio e la sua rinascita grazie a Ottone il Grande, la cultura occidentale fu investita da grandi mutazioni. In ambito filosofico, all’interno della scolastica, si scatenò la lotta tra due correnti: i dialettici (che miravano a spiegare la fede con il contributo della ragione e della scienza) e gli antidialettici (impegnati a difendere le verità di fede attraverso i testi sacri e le opere dei santi). Tra le due fazioni, emersero rispettivamente le figure di Berengario di Tours (998-1088) e di Pier Damiani (1007-1072). Quest’ultimo, nella sua opera piú nota, il De divina omnipotentia, sottolinea la superiorità della dottrina e della pratica religiosa sulle argomentazioni della ragione filosofica: «Spesso la divina virtú distrugge i sillogismi armati dei dialettici e le loro sottigliezze e confonde gli argomenti che sono stati dai filosofi giudicati necessari o inevitabili». Alla curiosità degli scienziati e dei dialettici, Pier Damiani contrappone la sancta simplicitas, le salde credenze dei fedeli e degli asceti, giudicando la fame di sapere alla stregua di una forma demoniaca. Le sue riflessioni si intrecciano con lo sviluppo degli Ordini monastici, all’interno dei quali anch’egli militò, ritirandosi in eremitaggio presso l’abbazia di Fonte Avellana.

In alto illustrazione miniata raffigurante la creazione dell’uomo, dal De universo di Rabano Mauro. 1023. Montecassino, Biblioteca Statale del Monumento Nazionale di Montecassino. In basso miniatura, raffigurante l’incontro di Dante e Beatrice con Pier Damiani, da un’edizione della Divina Commedia illustrata da Giovanni di Paolo. 1450. Londra, British Library.

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ANSELMO D’AOSTA Il progetto innovativo della scolastica, volto a dipanare i misteri del verbo cristiano servendosi di dimostrazioni razionali, ebbe nel teologo Anselmo d’Aosta (1033-1109) uno degli esponenti piú autorevoli. Desideroso fin dall’adolescenza di farsi monaco, entrò nell’abbazia benedettina del Bec, in Normandia, e divenne in seguito arcivescovo di Canterbury, rivestendo anche un significativo ruolo politico nella gestione dei turbolenti rapporti tra Chiesa e Stato. Accanto alla sua naturale vocazione mistica, infatti, convivevano spiccate qualità da diplomatico, che lo fecero apprezzare nelle corti europee, in particolare dal sovrano inglese Guglielmo il Conquistatore. «Con grande impegno – scrisse uno dei suoi biografi, Eadmero di Canterbury –, cercava di cogliere con il proprio intelletto, in accordo con la fede, quanto sentiva celato nelle Scritture, avvolto da fitta oscurità». Le argomentazioni di Anselmo invitano a operare un proficuo confronto tra fede e ragione, ma collocano le verità religiose in un ruolo dominante rispetto agli strumenti messi a disposizione dalla tradizione filosofica. Il teologo di Aosta si muove, infatti, sul terreno della mistica agostiniana, dove è Dio a dover illuminare la ricerca umana delle verità di fede. «Insegnami a cercarti – scrive nel Proslogion – e mostrarti a me che ti cerco. Io non posso cercarti, se tu non mi insegni, né trovarti se tu non ti mostri». In reazione alla prima scolastica, che aveva razionalizzato radicalmente la teologia fino alle soglie dell’eresia, Anselmo contrappone una scienza filosofica al servizio del dogma, utile solo a imprimere maggior chiarezza e perentorietà ad alcuni concetti base del messaggio cristiano. Si parte dal cosiddetto «argomento cosmologico», per provare l’esistenza di Dio, tesi formulata nel Monologion: se nel mondo sono presenti esseri finiti, contingenti, deve esistere qualcosa di eterno che rende possibile il definire i confini dei loro limiti. Un altro postulato fondamentale di carattere teologico viene dimostrato ricorrendo, invece, all’«argomento ontologico»: Dio, essere perfetto in confronto al quale non si può pensare un’entità maggiore, deve esistere, altrimenti il concetto della sua perfezione sarebbe insensato.

In alto miniatura che illustra due episodi della vita di sant’Anselmo, da Le Miroir historial di Vincent de Beauvais. XV sec. Chantilly, Musée Condé. In alto, l’ingresso al Bec; in basso, la guarigione di un monaco, scena in cui la malattia è raffigurata allegoricamente dai due lupi che attaccano l’uomo.

LA DISPUTA DEGLI UNIVERSALI In un passo dell’Isagoge (o Le cinque voci) di Porfirio di Tiro, scritto tra il 268 e il 270, il filosofo e teologo di origine fenicia si chiedeva se esistessero realtà universali di genere e di specie dimostrabili oggettivamente oppure se fosse solo la mente umana ad attribuire a esse un criterio di carattere generale, assegnando loro dei semplici nomi. Nel V secolo, Severino Boezio indica una soluzione, ispirata ad Aristotele, e afferma che genere e specie sono proprietà dell’individuo, sussistono in unione con le cose, ma sono

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conoscibili dal nostro intelletto separatamente dai corpi. La questione degli universali esplose in pieno Medioevo, generando una polemica tra due principali fazioni: i realisti, fautori dell’esistenza di manifestazioni oggettive di carattere universale (tra i quali si menzionano Giovanni Scoto Eriugena, Anselmo d’Aosta e gli esponenti della Scuola di Chartres); e i nominalisti (Roscellino di Compiègne, Pietro Abelardo e Guglielmo di Ockham), che consideravano le categorie e le specie come un mero flatus vocis.

Nella pagina accanto particolare di una miniatura tratta dalla Bibbia di Souvigny, raffigurante la creazione degli uccelli e dei pesci durante la Genesi. XII sec. Moulins, Bibliothèque Municipale.


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ROSCELLINO DI COMPIÈGNE Le tesi del monaco francese Roscellino di Compiègne (1050-1120) minarono alla radice le certezze dei dogmi cristiani, generando la dispute piú accese sul problema degli universali. Schierato su posizioni «nominaliste», il religioso considerava reali soltanto i singoli individui e non la loro appartenenza a un genere astratto – il concetto di «umanità» –, ritenendo ogni categorizzazione una «sententia vocum», mera emissione di voce che non riveste alcun fondamento. Le sue convinzioni ebbero anche un riflesso teologico, in quanto contestavano il concetto di essenza comune della trinità divina: Padre, Figlio e Spirito Santo, conseguentemente, venivano identificate con tre diverse entità, pur mantenendo il loro profilo trascendente.

PIETRO ABELARDO Spirito irrequieto e battagliero, Pietro Abelardo (1079-1142) fu allievo di Roscellino di Compiègne e fautore di una svolta radicalmente razionalista nel contesto della filosofia cristiana. Nato in Francia, nei pressi di Nantes, compí gli studi a Parigi e, dopo aver fondato una scuola di logica, venne accusato delle autorità religiose di eresia per le sue tesi eccessivamente «dialettiche». Divenne celebre anche per la relazione amorosa con Eloisa, bellissima e colta ragazza parigina, conclusasi tragicamente a causa della cattiva reputazione che il pensatore aveva presso la famiglia dell’amata e nell’ambiente ecclesiastico. In una delle sue opere principali, Sic et non, il filosofo sostiene che la fede deve fondarsi sulla ragione; in caso contrario, credere nella trascendenza sarebbe un mero esercizio verbale. Non basta, pertanto, fondare le proprie convinzioni religiose solo sui dogmi stabiliti da Dio e sulle testimonianze della rivelazione. Tuttavia, la posizione di Abelardo non giunge a negare ruolo e autorevolezza alla teologia, ma sottolinea l’esigenza di sottoporre quest’ultima a una rigorosa verifica, vagliando i suoi assiomi attraverso la logica, anche se solo in parte sono dimostrabili. Sulla questione degli universali, Pietro Abelardo prende le distanze dal suo maestro Roscellino e giudica fondata, sempre secondo la logica, una classificazione della realtà per generi, dal valore però puramente teorico. Riguardo al problema etico, infine, il filosofo francese attirò su di sé ulteriori accuse di eresia, definendo il peccato tangibile solo quando accompagnato dall’intenzione di commetterlo. Corollario del contestato assunto è che chi agisce in buona fede, inconsapevole quindi di infrangere norme religiose, non può subire una condanna morale: da qui il paradosso che anche gli accusatori di Gesú, pur se convinti in modo erroneo di trovarsi davanti a un ingannatore, agirono secondo una logica compiutamente etica.

In alto Santissima Trinità, pannello centrale del Trittico con la Trinità e i Santi Romualdo e Giovanni Evangelista, tempera e oro su tavola di Nardo di Cione. 1365. Firenze, Galleria dell’Accademia. In basso Parigi, cimitero del Père-Lachaise. La tomba di Abelardo ed Eloisa. XII sec.


BERNARDO DI CHIARAVALLE Principale avversario delle tesi razionaliste di Pietro Abelardo, il monaco francese Bernardo di Chiaravalle (1090-1153) nacque in una famiglia che apparteneva al ceto nobiliare della Borgogna. Entrato giovanissimo nel monastero di Cîteaux, divenne in seguito una delle guide spirituali dell’Ordine cistercense. Visse per un periodo a Parigi, dove tenne alcune prediche in ambito scolastico: da ricordare il celebre sermone De conversione ad clericos sermo seu liber, atto di accusa contro l’empio sapere accademico e le tesi di Pietro Abelardo, definite inaccettabili in quanto concepivano la fede come una mera opinione. Grande oratore – per questo particolare talento fu chiamato doctor mellifluus –, si batté per la difesa dei valori tradizionali del cattolicesimo, esaltandone il profilo essenzialmente mistico. Nel De gradibus humilitatis et superbiae Bernardo sostiene che l’uomo, marchiato dal peccato originale, può avvicinarsi a Dio attraverso uno stile di vita che ripudi la carnalità dell’io e professi l’umiltà, una condotta che il monaco francese non esitò a raccomandare anche ai pontefici. L’incontro con il divino può, quindi, avvenire seguendo un itinerario che prevede di approdare a quattro gradi progressivi della dimensione dell’amore: «l’amore di se stessi per sé», stadio iniziale in cui l’individuo manifesta sentimenti egoistici che poi si estendono ad altri uomini; «l’amore di Dio per sé», rivolto a Dio, ma solo per interesse personale, stabilendo un primo contatto costante con l’Essere Supremo; «l’amore di Dio per Dio», tappa nella quale l’uomo prova sentimenti esclusivamente per il Padre celeste; e «l’amore di sé per Dio», tappa finale alla quale pochissimi sono in grado di approdare, dove l’amore per se stessi si identifica con quello per Dio, in una fusione spirituale nella quale viene dissolta la dimensione individuale. Il lungo cammino verso Dio è un percorso di redenzione dell’uomo, incapace da solo

In alto particolare della Pala di San Bernardo, raffigurante il santo di Chiaravalle che scrive, tempera su tavola di autore anonimo. 1290. Palma di Maiorca, Museo di Maiorca. A sinistra un’edizione manoscritta delle Sententiae di Pietro Lombardo. 1280 circa. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana.

di volgere al bene e quindi bisognoso di beneficare dell’azione della grazia. Di notevole importanza furono anche le tesi politiche di Bernardo, espresse nel trattato De consideratione, nel quale si fa riferimento al simbolismo delle «due spade», ovvero al potere spirituale della Chiesa e quello temporale dello Stato, e si teorizza una forma, seppur vaga, di teocrazia papale.

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L’avvento della scolastica

UGO DI SAN VITTORE

In alto ritratto di Ugo di San Vittore, teologo e mistico del XII sec. Incisione tratta da una raccolta biografica francese della metà del Cinquecento.

Mistica e passione per il sapere umano convivono armoniosamente nella visione del mondo di Ugo di San Vittore (1096-1141), filosofo e religioso tedesco che si oppose alle tesi di Bernardo di Chiaravalle. Nelle sue opere principali, il De sacramentis e il Didascalion, teorizza la funzionalità della ragione come chiave interpretativa dei misteri teologici. «Imparate tutto – sosteneva – e vedrete poi che non esiste nulla di inutile». Partendo da una premessa agostiniana secondo la quale l’uomo ha una destinazione che solo la luce divina può svelargli, Ugo di San Vittore definisce la filosofia il mezzo fondamentale con cui avvicinarsi alla rivelazione. Il sapere umano diviso in quattro discipline (teoretica, pratica, tecnica e logica) consente all’individuo di rigenerarsi, in virtú dell’esempio del sacrificio di Cristo. Tutti gli oggetti del creato sono, a loro volta, divisi in quattro categorie: le cose derivanti dalla ragione (necessarie), quelle conformi alla ragione (probabili), quelle al di sopra della ragione (mirabili), e quelle contrarie alla ragione (impossibili). Le prime e le ultime sono inconciliabili con la fede. In base a questa classificazione, la ragione non è in grado di spiegare compiutamente le verità trascendenti, ma può comunque avvicinarsi alla loro comprensione, contribuendo all’incontro dell’uomo con Dio: in Ugo di San Vittore, la fede – osserva Nicola Abbagnano – «non si oppone alla ragione, perché il suo oggetto non è l’incredibile, ma il probabile o il mirabile, ciò che si avvicina alla ragione o la trascende pur non negandola».

PIETRO LOMBARDO Uno studioso piemontese, Pietro Lombardo (1100-1160), raccolse e organizzò tutte le dottrine filosofiche dei pensatori cristiani nei Libri quattuor sententiarum, principale opera di riferimento per lo studio della teologia negli ambienti

LE GRANDI SCUOLE LA SCUOLA DI CHARTRES Chartres, una delle piú feconde capitali della cultura carolingia e sede di una prestigiosa schola episcopale, fu il luogo di nascita di un movimento filosofico che teorizzava la stretta connessione tra le idee platoniche e la teologia. Sviluppatasi tra il X e il XII secolo, la Scuola di Chartres rappresentò uno dei centri propulsori di rinnovamento nel mondo cristiano, favorendo lo studio dei testi attraverso il rigoroso procedimento della lectio e della quaestio. Grazie a questa tecnica di analisi degli scritti filosofici e religiosi, tra gli esponenti del movimento si affinò una sensibilità per il metodo scientifico e per le dottrine che inerivano al campo della fisica e della cosmologia. Discipline che venivano indagate ricercando le cause razionali del loro ordine e non attraverso la lettura dei fenomeni in chiave prettamente allegorica. L’interpretazione del Timeo di Platone (opera che affronta il problema cosmologico sotto forma di dialogo) fu in questo

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caso emblematica: le idee eterne e immutabili del filosofo greco venivano considerate coincidenti con quelle presenti nella mente di Dio, mentre l’uomo era visto come un perfetto microcosmo, una sorta di universo in miniatura. L’interesse per le materie scientifiche produsse all’interno della Scuola una ricca attività di studio anche su materie come l’astronomia e, soprattutto, la medicina. Da qui, la definizione di «umanesimo chartriano» per

Particolare di una miniatura che mostra un medico che esamina l’occhio di un malato, da un’edizione della Chirurgia di Enrico di Mondeville, professore di anatomia e chirurgo di Filippo il Bello. XIV sec. Parigi, Bibliothèque nationale Francaise.


accademici fino al termine del Cinquecento. Definito «il libro piú commentato dell’Occidente cristiano», venne inserito come testo obbligatorio in ogni facoltà di teologia in seguito a una disposizione del concilio lateranense IV del 1215. Pietro Lombardo fu allievo di Abelardo, si trasferí in Francia e divenne vescovo di Parigi. Il suo orientamento filosofico, ricavabile nel criterio utilizzato per selezionare i temi del corposo compendio, è contraddistinto da un certo equilibrio fra le posizioni piú conflittuali generatesi all’interno della scolastica: riconosce l’utilità della dialettica e della ragione nel rappresentare le verità di fede, ma, nello stesso tempo, assegna grande autorevolezza alle tesi agostiniane.

GIOVANNI DI SALISBURY Esponente di rilievo della Scuola di Chartres, Giovanni di Salisbury (1120-1180) formulò il concetto del «probabilismo accademico», ispirato dallo studio minuzioso della logica aristotelica. Nato in Inghilterra e trasferitosi poi in Francia, vide nella cultura e in particolare nelle materie umanistiche la vera fonte di conoscenza per l’individuo, come evidenziò nel Metalogicon. Pur se limitate nella loro ambizione di spiegare ogni mistero dello scibile umano, queste discipline – secondo Giovanni – si rivelano uno strumento soddisfacente per comprendere la dinamica oggettiva degli eventi. Egli ammette, tuttavia, che esiste un confine oltre il quale la ragione e il criterio della logica non possono approdare. Giudica la teologia una materia di interesse minore, pur riconoscendo validità ad alcune prove sull’esistenza di Dio, come quella cosmologica. Il suo contributo al pensiero medievale si pone, quindi, su un versante «critico» rispetto al dogmatismo, stabilendo limitazioni sostanziali alle argomentazioni di natura mistica e teologica. Di notevole originalità si rivelano, infine, le considerazioni contenute nel Policraticus, che rappresenta il primo vero trattato di politica scritto dopo l’epoca aristotelica.

In alto Cattedrale di Chartres, acquaforte di Émile Rouargue su disegno di Adolphe Rouargue. XIX sec. Parigi, Collezione privata.

A sinistra l’abbazia di S. Vittore, che fu sede dell’omonima Scuola, nella pianta di Parigi realizzata per l’opera Civitates orbis terrarum (1572-1616), una raccolta di mappe delle città di tutto il mondo curata dai geografi tedeschi Franz Hogenberg e Georg Braun.

l’indirizzo disciplinare che l’istituzione aveva definitivamente assunto. La Scuola di Chartres fu il principale centro culturale di Francia, prima dell’avvento dell’Università di Parigi. Tra i suoi principali rappresentanti vi sono il fondatore Fulberto, Bernardo di Chartres, Guglielmo di Conches, Clarembaldo d’Arras, Alano di Lilla e Giovanni di Salisbury.

LA SCUOLA DI SAN VITTORE Parigi, invece, fu il centro di sviluppo della Scuola di San Vittore, movimento filosofico dal carattere piú specificamente misticoagostiniano, che teorizzava il primato della fede. Per contro, la scienza e il sapere profano erano valutati come meri strumenti, in grado solo di contribuire alla conoscenza delle realtà trascendenti. In un libello attribuito a uno degli esponenti della Scuola, il Contra quattuor labyrinthos Franciae, la filosofia veniva condannata. Tuttavia, l’indirizzo del movimento si orientò complessivamente su posizioni piú moderate, riconoscendo alla ragione una significativa utilità. Fondata nel XII secolo da

Guglielmo di Champeaux, la Scuola di San Vittore ebbe tra i suoi esponenti piú celebri Ugo e Riccardo di San Vittore.

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La versione dell’Islam

I pensatori musulmani offrirono un contributo significativo al dibattito filosofico, teorizzando la dipendenza di Dio e dell’uomo da un ordine eterno e immutabile. Mutuata dalla speculazione greca di epoca classica, la tesi ebbe a sua volta una grande influenza sulla cultura occidentale

T

ra l’VIII e il XIII secolo, nei territori controllati dagli Arabi, maturò un processo di integrazione tra dottrine islamiche e differenti tradizioni culturali. Luoghi simbolo di questo incontro furono Baghdad, Il Cairo e Damasco, città nelle quali il rispetto della teologia coranica conviveva con lo studio e la rielaborazione del pensiero filosofico della Grecia classica. Si trattava di un processo epocale, simile a quello che stava manifestandosi in Occidente con la scolastica e che trovò terreno fertile soprattutto nelle vaste regioni governate dal califfato abbaside, dove il mutazilismo (scuola di pensiero che ammetteva l’analisi e la spiegazione razionale dei precetti divini, avversata dalle interpretazioni dei musulmani ortodossi, legati invece all’esclusivo dettato letterale dei testi sacri) contava molti adepti. Anche la cultura araba vide in Platone e in Aristotele le due principali fonti a cui attingere per la formulazione di un sistema dottrinario di natura speculativa – che venne denominato falsafa –, capace di fornire un’interpretazione del Corano alla portata delle facoltà razionali dell’intelletto. Le originali sintesi dialettico-religiose operate dalla filosofia araba suscitarono un significativo interesse in Occidente, tanto da influenzare generazioni di pensatori cristiani del XIII e del XIV secolo, che attinsero soprattutto agli scritti di Al Farabi, Averroè e Avicenna. Un solco, tuttavia, separò sempre le «scolastiche» araba e occidentale, indipendentemente dall’appartenenza a contesti religioso-teologici diversi: secondo i pensatori della falsafa, la «necessità» dominava la realtà divina e umana, rendendole entrambe parte di un ordine eterno e immutabile; mentre il pensiero cristiano tendeva a dotare sia Dio che gli individui di uno spazio di volontà e di libero arbitrio. Gli incontri tra Europa cristiana e Islam filosofico nel corso dell’età di Mezzo furono molteplici, in particolar modo nella Spagna sotto il dominio arabo (VIII-XIII secolo) e nella Sicilia conquistata dai musulmani (X secolo). Nell’isola, anche nel successivo periodo normanno, continuarono a operare generazioni di eruditi arabi. In alcune circostanze, infine, il fenomeno delle crociate favorí scambi culturali tra i due mondi.

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CRONOLOGIA 711

Gli Arabi sbarcano in Spagna, dando inizio alla dominazione musulmana nella Penisola iberica.

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Ha inizio l’era della dinastia dei Fatimidi, che governerà su Egitto, Siria, parte dell’Arabia e Nord Africa.

1099

I crociati sconfiggono i Fatimidi e conquistano Gerusalemme.

1187

Saladino, fondatore della dinastia degli Ayyubidi, trionfa contro i crociati nella battaglia di Hattin e occupa la Terra Santa.

Miniatura raffigurante un maestro di filosofia che discute con i suoi discepoli. XIII sec. Istanbul, Biblioteca del Topkapi.

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L’ ULTIMO PENSATORE

Filosofo, giurista, medico e astronomo, Averroè fu il massimo commentatore di Aristotele, del quale seppe restituire il pensiero piú autentico. Ma la sua grandezza risiede soprattutto nella capacità di incarnare il modello di un Islam progressista e tollerante

CORDOVA, 1126-MARRAKESH 1198

di Leonardo Capezzone

I

bn Rushd, «Figlio della rettitudine», piú noto come Averroè, apparteneva a un’importante famiglia di giuristi andalusi. Tanto suo padre quanto suo nonno avevano ricoperto la prestigiosa carica di qadi (giudice supremo) di Cordova; ad Averroè fu assegnato il medesimo incarico. I biografi musulmani medievali lasciano un po’ in ombra i suoi studi filosofici, accennando quasi di sfuggita alla sua inclinazione verso le «scienze degli antichi» (cosí gli Arabi usavano riferirsi alle conoscenze del pensiero greco antico). In queste biografie si insiste piuttosto sull’eccellente formazione giuridica del giovane Averroè e sullo spiccato interesse del futuro commentatore di Aristotele verso gli aspetti teorici e speculativi del diritto. Di fatto, per comprendere appieno il profondo impatto di Averroè nella storia e nella cultura del suo tempo, si deve vedere in lui il tipico intellettuale medievale musulmano, la cui figura è caratterizzata da una formazione a tutto tondo. Da un lato, tale formazione era basata sugli studi giuridici – conseguiti nella madrasa, il corrispondente islamico delle grandi università medievali europee; dall’altro, essa spaziava en-

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Averroè e l’assemblea ecclesiastica, particolare del Trionfo di San Tommaso d’Aquino, tempera su tavola di pioppo di Benozzo Gozzoli. 1470 circa. Parigi, Museo del Louvre. tro i confini delle discipline umanistiche e delle scienze naturali, comprendendo anche lo studio della sapienza greca. Proprio entro questo ideale encidopedico di conoscenze, Averroè fu anche un grande giurista, nonché medico e commentatore di Galeno; questo versante della sua attività intellettuale è stato in gran parte oscurato dal ruolo «crepuscolare», di ultimo pensatore della Spagna musulmana (se non dell’Islam nel suo complesso), assegnato ad Averroè dalla sua stessa fortuna in quell’Occidente che ha accolto, non senza incomprensioni e censure, la sua opera capitale di commentatore di Aristotele.

Le osservazioni del cielo

Da alcuni passi del commento al De Caelo di Aristotele, sembra certo che Averroè, in gioventú, dedicasse molte delle sue notti alle osservazioni astronomiche; a questo periodo della sua vita egli allude forse nel Commento alla Metafisica, quando parla di un auspicabi-


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le sviluppo delle ricerche sui movimenti dei pianeti, allo scopo di porre basi piú solide allo studio dell’astronomia fisica; va ricordato, infatti, che la grande tradizione arabo-islamica di studi astronomici (particolarmente fiorente, ai tempi di Averroè, nei domini persiani), si fondava essenzialmente sulla teoria matematlca del moto dei pianeti. Alludendo ai suoi studi giovanili di astronomia, cosi scriveva Averroè: «Speravo, in gioventú, di portare a compimento quelle mie ricerche (...) Ma ormai, essendo cosí avanti negli anni, ho perduto ogni speranza». La biografia intellettuale di Averroè fu profondamente segnata, o meglio favorevolmente condizionata, dall’avvento della dinastia berbera degli Almohadi che, dopo aver spodestato la precedente monarchia degli Almoravidi in Marocco, impose il suo dominio anche sull’Andalusia. Con la presa del potere da parte degli Almohadi sí verificò una profonda riforma religiosa promossa dal capo spirituale della dinastia, Ibn Tumart († 1130 circa). La riforma di Ibn Tumart intervenne in maniera decisiva sulla società magrebina (Andalusia inclusa) sul duplice fronte giuridico e teologico.

Il grande commentatore

In giurisprudenza, Ibn Tumart invocava un ritorno alle fonti prime del diritto – il Corano e la Sunna del Profeta – contro il conformismo imitativo della scuola giuridica malikita, spesso ridotta a una sterile casistica. In teologia, egli dava grande rilievo alla conoscenza razionale del Creatore, con criteri ispirati alla teologia dialettica dei grandi maestri orientali del razionalismo islamico. Tutti questi caratteri si ritrovano nell’opera giuridica e teologica di Averroè. Come ha scritto uno studioso francese, Alain de Libera, «per diventare il piú grande filosofo aristotelico del XII secolo, quello che l’Occidente cristiano ha chiamato “il Commentatore”, Averroè ha avuto intorno a sé condizioni particolari, create dalla politica del secondo sovrano almohade: Abu Ya’qub Yusuf». In effetti, sotto il regno di questo sovrano, cosí come già era avvenuto un secolo prima nei centri orientali del mondo islamico, la filosofia torna a essere un momento capitale della riflessione sullo statuto dell’intellettuale nella società civile. La dinastia almoravide aveva avuto il suo filosofo: Ibn Badja (Avempace, 1090-1138), che, con la Regola del solitario, sembrava indicare in un esilio spirituale l’unica condizione possibile per essere filosofo. Grazie al sostegno del nuovo sovrano, il periodo almohade ne avrà due: Ibn Tufayl (1105-1185) e Averroè. 44

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È probabile che il cambiamento di interessi, dall’astronomia alla filosofia, sia stato determinato dall’incontro di Averroè, allora giurista in carriera, con Ibn Tufayl, già allora esponente di spicco della filosofia andalusa e autore di un romanzo filosofico, Hayy ibn Yaqzan, all’origine di quella letteratura di naufragi e di «filosofi autodidatti» che in Occidente raggiunse – non senza influenze – il suo apice con il Robinson Crusoe (1719) di Daniel Defoe. Ibn Tufayl ha giocato un ruolo determinante nella carriera filosofica di Averroè, presentandolo al sovrano almohade Abu Ya’qub Yusuf. L’incontro tra il futuro filosofo e il sovrano, incluso nella cronaca che lo storico al-Marrakushi dedicò alla dinastia almohade, poggia sulla testimonianza di un discepolo di Averroè. Intro-

In alto vignetta in cui si immagina un dialogo fra Averroè e Porfirio di Tiro, da un’edizione del Liber de Herbis et plantis di Manfredo di Monte Imperiale. 1330-1340. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Nella pagina accanto Cordova. Particolare del monumento ad Averroè.


dotto a corte da Ibn Tufayl, e intimidito dalla solennità della circostanza, Averroè venne colto di sorpresa dal sovrano, il quale cominciò a interrogarlo a proposito della natura del cielo: è una sostanza che esiste dall’eternità, o che ha avuto un inizio nel tempo? La domanda aveva alle spalle una lunga tradizione di controversie ben nota agli Arabi. Posto a bruciapelo di fronte a una questione tanto spinosa, Averroè rimase interdetto. Yusuf se ne accorse, e rivolse la domanda a Ibn Tufayl, facendo sfoggio delle sue conoscenze dei filosofi antichi e dei teologi. Messo cosí a proprio agio, Averroè prese la parola ed ebbe la possibilità di mostrare la vastità delle sue competenze in materia. La fortuna di Averroè presso il sovrano almohade iniziò cosí; l’evento viene datato generalmente al 1169. Al di là dell’aneddoto, sappiamo ancora dallo storico al-Marrakushi che in quel periodo Yusuf si lamentò con Ibn Tufayl dell’eccessiva oscurità dei testi di Aristotele e delle loro traduzioni, che gli rendevano spesso difficile comprendere

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CERCANDO IL «VERO» ARISTOTELE Commentando Aristotele, Averroè ha reimpostato la comprensione dell’opera dello Stagirita in una chiave interpretativa piú fedele al pensiero originale del filosofo greco. In effetti, è pur vero – e oggi gli studiosi di filosofia islamica insistono giustamente su questo punto – che la storia dell’interpretazione di un pensiero classico è parte integrante della storia complessiva di quello stesso pensiero; tuttavia, i filosofi dell’Oriente islamico, in lingua araba e persiana, pur riconoscendo in Aristotele il fondamento delle proprie riflessioni, avevano intrapreso un percorso interpretativo che in molti punti sostanziali si era allontanato dal pensiero originale a cui essi si riferivano. La storia della diffusione della filosofia aristotelica nel mondo arabo-islamico appare particolarmente movimentata. Essa è infatti intessuta di testi spesso apocrifi ma attribuiti all’autorità di Aristotele o di Platone, di tradizioni testuali tese a stabilire il testo autentico e a scartare le contraffazioni, e di traduzioni continuamente aggiornate al fine di restituire ai dotti del tempo la vera parola dei saggi della Grecia. Nel Medioevo islamico circolava un nutrito corpus di testi pseudo-aristotelici; ricordiamo qui forse il falso piú famoso, la cosiddetta Teologia di Aristotele, che in realtà raccoglieva la parafrasi di alcune parti delle Enneadi del neoplatonico Plotino, o anche il Secretum Secretorum che tanta fortuna ebbe anche nell’Occidente latino. Quella che a prima vista potrebbe essere scambiata per facile confusione, di fatto rifletteva l’eredità greca tardo-antica, cosí come gli Arabi, venuti a contatto con le ex province dell’impero bizantino, l’avevano ricevuta. La lettura neoplatonica di Platone, e in parte di Aristotele, era infatti l’approccio di «tendenza» fin dalla scuola di Alessandria, e tale si trasmise agli Arabi; con tutto il ricco patrimonio dei commentatori greci neopitagorici. Quando, in pieno X secolo, la cultura arabo-islamica poté infine disporre di buone edizioni/ traduzioni dei grandi classici, un tema cardinale della filosofia islamica era la sostanziale conciliazione fra il pensiero platonico e quello aristotelico; un tema che veniva dispiegato grazie a una interpretazione che tendeva a platonizzare non poco, spesso in chiave mistica, l’Aristotele fisico e metafisico. Gli esempi piú

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alti di questa linea filosofica sono senz’altro quelli di al Farabi (870-950) e di Avicenna (980-1037). Con Averroè si constata una linea interpretativa dell’opera aristotelica decisamente in polemica con Avicenna e i rappresentanti orientali di quella corrente. Nel pensiero di Aristotele, egli coglie essenzialmente il carattere sistematico piuttosto che quello tematico; vede in lui il logico della dimostrazione rigorosa, che parte dal dato concreto della realtà per spiegarlo ricorrendo a proposizioni generali. Il suo metodo di lavoro, alle prese con il testo aristotelico, contempla sempre un confronto fra diverse traduzioni: al suo tempo se ne contano tre, ma Averroè sembra spesso alludere a una quarta, rimasta ignota; in parallelo; si avvale dei grandi commenti di Alessandro di Afrodisia, Temistio e Giovanni Filopono. Per Averroè, cogliere il carattere sistematico del pensiero aristotelico significa mettere a punto un criterio di coerenza che sta alla base della sua riscoperta del vero Aristotele. Grazie a questo criterio, Averroè può colmare alcune lacune testuali, dovute in genere al cattivo stato delle copie a sua disposizione, ricorrendo alla propria conoscenza dell’intera opera aristotelica, o all’ausilio dei commentatori greci. Ma, soprattutto, Averroè avverte il significato filologico dell’incongruenza o della contraddizione di un passaggio testuale con la coerenza del testo intero: l’idea che un autore «può aver detto» una cosa, e «non può aver detto» qualcos’altro, oggi forse ovvia, nel XII secolo era una vera rivoluzione filologica. Per una forma di ossequio verso l’autorità antica, si tendeva abitualmente a conciliare a tutti i costi contraddizioni e anacronismi che, piú o meno inevitabilmente, facevano parte del viaggio dei testi aristotelici nel tempo e nello spazio. L’ossequio che Averroè nutre nei confronti del Filosofo è talmente grande da consentirgli di mettere in dubbio non già la verità del testo, ma la verosimiglianza della traduzione; proprio quell’ossequio consente ad Averroè di mettere in luce il fondamentale principio aristotelico di «non contraddizione», ma anche di fare una scoperta fondamentale: la critica interna di un’opera.


il pensiero dello Stagirita, ed espresse il desiderio di patrocinare un’opera di commento che fosse davvero chiara. Ibn Tufayl, sentendosi troppo vecchio per assumersi un incarico cosí gravoso, volse l’invito ad Averroè.

La nostalgia dei libri

Proprio nel 1169, Averroè viene nominato qadi di Siviglia: fu il primo di una serie di atti ufficiali con i quali Yusuf, per tutta la durata del suo regno (1163-1184), sancí il favore dimostrato nei suoi confronti. In un passo del quarto libro delle Parti degli animali, Averroè accenna alle gravose responsabilità della sua carica giuridica, cosí come alla mancanza dei suoi libri rimasti a Cordova, che rendono difficile la stesura della sua parafrasi. Nel 1171, egli torna finalmente a Cordova; in questo periodo, la sua attività di commentatore attraversa una fase particolarmente prolifica, malgrado l’intimità col sovrano spesso lo costringa a seguirlo nei suoi spostamenti da Cordova a Marrakesh, seconda capitale dell’impero almohade. Nella città marocchina, nel 1182, Averroè sostituisce il vecchio Ibn Tufayl nella carica di primo medico del sovrano. L’ultimo segno di stima espresso da Yusuf verso il suo sapientissimo amico è la nomina a gran qadi di Cordova. Il nuovo sovrano,Ya’qub al-Mansur (1184-1199),

In alto incisione raffigurante il «filosofo, teologo, razionalista islamico, giurista, matematico e medico musulmano andaluso Averroè caduto in disgrazia, giudicato come eretico dalla corte del califfo berbero Abu Yusuf Yaqub al-Mansur intorno al 1195», da Vies des savants illustres di Louis Figuier. 1867. Nella pagina accanto frammento di papiro sul quale sono riportati brani della Politica di Aristotele. II sec. d.C. Ann Arbor, University of Michigan.

rinnova ad Averroè il favore accordatogli dal padre; purtroppo la situazione favorevole non dura troppo a lungo. Negli ultimi anni del suo regno, Ya’qub fu impegnato nella difesa dei confini andalusi dagli attacchi dei vicini cristiani, e costretto a raccogliere consensi facendo leva sulle fronde piú conservatrici del partito dei giuristi: un partito che mai aveva gradito l’avvento (e le riforme) della dinastia almohade, e che ora ricorreva all’argomento dell’ortodossia dottrinale per screditare in maniera indiretta la legittimità del sovrano. Un’ovvia mistura di avversione dottrinale e di rancori personali sortí un effetto disastroso per la credibilità politica e intellettuale di Averroè. In cambio del loro appoggio, gli esponenti della fronda reazionaria pretesero non solo la revoca della sua nomina a giudice supremo, ma anche il rogo delle sue opere e la condanna delle sue dottrine filosofiche, giudicate nocive per la religione. A Marrakesh, una corte meno interessata ai cavilli dottrinali, e sicuramente piú in sintonia con la politica illuminata del suo sovrano, spinse Ya’qub, rientrato in Marocco, ad annullare l’editto di condanna promulgato a Cordova. Egli richiamò presso di sé il filosofo; Averroè non ebbe però la possibilità di godere a lungo dei privilegi ritrovati. Morí in quella città l’11 dicembre 1198. PENSIERO MEDIEVALE

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PROTAGONISTI AL KINDI Al Kindi (801-873) tentò per primo di conciliare la tradizione filosofica della Grecia antica con i principi religiosi dell’Islam. Nato forse a Bassora, nell’odierno Iraq, si trasferí a Baghdad, allora capitale del califfato abbaside. Gravitò negli ambienti della cosiddetta «Casa della Sapienza» (Bayt al-Hikma), una delle principali istituzioni culturali del mondo musulmano, nella cui biblioteca erano catalogati migliaia di testi in greco, siriaco, ebraico, copto, medio-persiano e sanscrito. Con un gruppo di traduttori della Scuola, si impegnò nella trasmissione del sapere greco e bizantino al mondo arabo, in particolare studiando i testi di Platone, Aristotele, Plotino, Euclide e Proclo: «Non dobbiamo avere ritegno – sostiene nella sua opera piú celebre, l’al-Falsafa al-Ula (Filosofia Prima) – ad apprezzare la verità e a farla nostra da qualunque parte venga, anche se viene da popoli lontani e da nazioni differenti da noi». La visione del mondo di Al Kindi scaturisce da un presupposto dogmatico, fedele al dettato coranico, che vede in Dio la causa di ogni fenomeno, creato ab origine dal nulla. Su questa certezza si innesta la complessa questione dell’intelletto – ispirata alle rigide schematizzazioni aristoteliche –, un sistema composto da quattro livelli: «l’intelletto sempre in atto» (fonte principale della conoscenza umana, distinto e superiore all’anima individuale); «l’intelletto in potenza» (la facoltà concessa in genere all’uomo di apprendere concetti e verità); «l’intelletto che passa dalla potenza all’atto» (frutto dell’unione tra la prima forma superiore di conoscenza e la facoltà di percepirla); e «l’intelletto dimostrativo» (l’insieme delle conoscenze acquisite dall’individuo). A dominare ogni attività percettiva è pertanto la prima forma, «l’intelletto sempre in atto», che riecheggia le interpretazioni neoplatoniche sulla causa prima di ogni cosa, vista come entità separata dal mondo degli uomini. Una visione, quest’ultima, che meglio sembrava accordarsi con i dogmi coranici, rispetto alla dottrina aristotelica.

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AL FARABI A compiere un passo ulteriore verso la sintesi tra la tradizione filosofica della Grecia antica e le credenze dell’Islam fu Al Farabi (870-950), anch’egli frequentatore della «Casa della Sapienza» di Baghdad. Il suo contributo al pensiero medievale arabo non si limita solo alla logica, alla metafisica e alla cosmologia, ma spazia anche sui terreni della fisica, della medicina, della morale e della politica. Con lui, il pensiero medievale arabo-islamico assume una forma piú compiuta, perfezionando le tesi di Al Kindi sui gradi dell’intelletto. Nel Liber de causis, Al Farabi ne distingue tre («intelletto in atto», «intelletto in potenza» e «intelletto acquisito»), ed evidenzia ancor di piú la dipendenza del conoscere umano dall’«intelletto in atto», di diretta emanazione divina, secondo un’ottica neoplatonica. Risulta poi notevole l’affinità delle argomentazioni politiche del filosofo arabo con le tesi contenute nella Repubblica e nelle Leggi di Platone. Al Farabi distingue vari tipi di forme di governo: la «città corrotta» (in cui dominano l’inganno e le false speranze), la «città cangiante» (decaduta da una condizione di splendore), la «città immorale» (nella quale gli uomini volutamente scelgono di aderire a una condotta di vita degradante), la «città insipiente» (simbolo del perseguimento di fini materiali, di lussuria, di idolatria del corpo), e infine, come modello ideale la «città virtuosa» o «felice». Quest’ultima è regolata da norme rigorose e alla sua guida devono alternarsi uomini illuminati, sapienti e di grande moderazione.

Miniatura raffigurante un dialogo tra due filosofi (il personaggio sulla destra potrebbe essere Al Kindi). XIII sec. Istanbul, Biblioteca del Topkapi.


A sinistra vignetta allegorica raffigurante un Arabo che apre la porta della Sapienza, da un manoscritto che sarebbe stato redatto e miniato dall’alchimista francese Nicolas Flamel. XIV sec. Zurigo, Zentralbibliothek. In basso miniatura di scuola persiana raffigurante Avicenna al capezzale di un malato. 1431. Istanbul, Museo d’Arte Islamica.

AVICENNA Chiave di volta del pensiero medievale arabo fu l’opera di Avicenna (adattamento occidentale dell’arabo Ibn Sina; 980-1037), filosofo e scienziato persiano. Nelle sue intuizioni si accentuò il rapporto di dipendenza della realtà e dell’intelletto umano da un processo di emanazione divina. Sin dagli anni giovanili, si dedicò agli studi enciclopedici, spaziando dalla fisica alla medicina, dalle lettere alla geometria, dalla giurisprudenza alla teologia. Si appassionò presto alle dottrine filosofiche e lesse ripetutamente – si dice quaranta volte – La metafisica di Aristotele, che riuscí infine a comprendere grazie ai commenti di Al Farabi. In vita conquistò una certa fama come medico, ma furono soprattutto i suoi scritti filosofici a renderlo celebre sia in patria che in Occidente. Avicenna distingue un «essere necessario» e un «essere possibile»: il primo, che possiede in se stesso la sua ragione di esistere, si identifica con l’opera divina; il secondo, invece, ha sempre bisogno di un’azione proveniente dall’essere necessario per poter esistere. Viene delineato, perciò, un sistema gerarchico di intelligenze che dall’essere necessario procede per gradi

fino agli esseri materiali, secondo una rigorosa concatenazione casuale. L’uomo può entrare in contatto con l’essenza divina attraverso l’anima, che è immortale e individuale, e per naturale disposizione aspira a congiungersi con quanto percepisce di superiore. Questa costruzione filosofico-teologica, contestata dall’islamismo piú ortodosso, si diffuse in Occidente e venne apprezzata da vari pensatori cristiani, che interpretarono la dottrina dell’emanazione dell’essere necessario come uno sviluppo piú articolato della filosofia agostiniana: nella visione mistica di entrambi, l’incontro con l’essenza divina risultava possibile ripiegandosi nei meandri della propria interiorità. La netta separazione ontologica tra essenza (emanazione divina) ed esistenza (mondo creaturale) avrebbe invece, in seguito, influenzato Tommaso d’Aquino. Grande clamore suscitarono in Occidente anche le opere di medicina di Avicenna, in particolare il rimomato Kitab al-Qanun fi al-Tibb (Il canone della medicina), che rappresentò, con dettagliate descrizioni delle malattie e delle loro cause, uno dei testi piú consultati sull’argomento fino all’avvento dell’epoca moderna.

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La filosofia araba

A sinistra pagine di un’edizione manoscritta del Corano. Fine del IX-inizi del X sec. Parigi, Museo del Louvre. In basso pagina di un’edizione del Kitab al-Qanun fi al-Tibb (Il Canone della medicina) di Avicenna, impreziosita da una miniatura di scuola selgiuchide. Istanbul, Süleymaniye Kütüphanesi.

AL GHAZALI Il teologo, mistico e giurista musulmano Al Ghazali (1058-1011) si contrappose radicalmente all’apertura del mondo islamico verso altre tradizioni filosofiche e religiose, condannando qualsiasi esperimento di sintesi tra la cultura musulmana e la dialettica greca, e ritenendo la falsafa una forma di tradimento del dogma coranico. Criticò aspramente le conclusioni a cui quest’ultima era approdata e la divise in tre scuole di pensiero: i materialisti, che arrivavano addirittura a negare l’esistenza di un dio; i naturalisti, che credevano nell’esistenza di una mente ordinatrice nell’universo, ma non nell’immortalità dell’anima; e infine i teisti, i quali, nonostante qualche deragliamento dogmatico,

rappresentavano gli unici possibili interlocutori del mondo dell’Islam ortodosso. Nella sua opera fondamentale, Tahafut al-falasifa (L’incoerenza dei filosofi), Al Ghazali si scaglia in particolare contro l’«aristotelismo» di Al Farabi e Avicenna, accusandoli di aver sottoposto lo stesso Dio al criterio della necessità. Secondo le loro teorie, anche l’essere supremo era soggetto a una legge eterna che ne stabiliva il ruolo, privandolo cosí della libertà di azione. Occorreva quindi restituire il primato della volontà a Dio, la cui potenza era in grado di esprimersi con manifestazioni improvvise e imprevedibili, come nei miracoli.

LA CULTURA SCIENTIFICA Nel mondo islamico medievale, l’approfondimento dei testi greci di epoca classica non determinò soltanto l’incontro tra ragione e fede, ma anche lo sviluppo di una vera e propria cultura scientifica. Attingendo soprattutto al pensiero ellenico, il mondo musulmano produsse gli studi piú avanzati su materie come l’algebra, la chimica, la geologia, la medicina, l’astronomia, un patrimonio di conoscenze di cui beneficiò di riflesso anche l’Occidente. Nell’ambito dell’algebra, il metodo di calcolo con il sistema numerico decimale, introdotto nel XIII secolo in Europa dal pisano Leonardo Fibonacci (1175 circa-1235 circa), era stato in verità concepito precedentemente dallo studioso persiano al-Khwarizmi (780-850). Non a caso, termini come «algoritmo» e «algebra» derivano rispettivamente dalla latinizzazione del nome e di un’opera dello stesso al-Khwarizmi. Nell’ambito della scienza ottica, poi, le scoperte dell’arabo Ibn al-Haytham (965-1039) – che

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IBN-BADJA Conosciuto in Occidente con il nome di Avempace, Ibn-Badja (1090-1138) nacque a Saragozza e si distinse per l’attività di visir presso la corte almoravide della sua città, dalla quale poi si trasferí in Africa. Fu il piú celebre filosofo fra gli Arabi di Spagna e ripercorse le tracce della falsafa di Al Kindi e Avicenna, formulando un sistema dottrinario volto a spiegare razionalmente l’approdo dell’intelletto umano a forme di conoscenza divina, secondo un’ottica aristotelica: attraverso i sensi esterni, l’uomo percepisce la realtà corporea e, in seguito, grazie alla ragione, giunge a conoscere le forme intellegibili dei corpi stessi e le loro qualità universali. Con il metodo dell’astrazione, sintetizzando in categorie ciò che lo circonda, l’individuo è in grado di entrare in contatto con la forma piú universale esistente, Dio, con il quale può instaurare un’interazione mistica. Grazie all’aiuto della fisica, Ibn-Badja ritiene poi possibile dimostrare l’esistenza dell’essere divino: come nelle argomentazioni relative al «motore immobile» aristotelico e neoplatonico, nel processo di ricerca «a ritroso» delle origini dei fenomeni si giunge a un punto in cui non è piú possibile concepire una causa superiore che genera le altre. Tuttavia, per approdare all’incontro con l’essenza divina – come sottolineato nel Tadbir al-mutawahhid (La regola del solitario) – l’individuo deve ritirarsi in uno stato di isolamento, lontano dalle tentazioni e dai vizi della società.

A destra Saragozza. Un esempio della ricca decorazione che orna il palazzo-castello arabo dell’Aljaferia costruito nella città natale di Ibn-Badja nella seconda metà del IX sec. In basso Khiva (Uzbekistan). Il monumento in onore dello studioso persiano al-Khwarizmi.

provò l’infondatezza della tesi antica secondo la quale le immagini visive erano un’elaborazione soggettiva della mente umana – vennero utilizzate da Keplero nella stesura delle sue teorie innovative. Solo nel XII secolo, inoltre, l’Occidente conobbe uno dei testi fondamentali di astronomia, l’Almagesto di Tolomeo, traducendo edizioni arabe dell’opera databili al IX secolo. Anche nel campo dell’alchimia e della chimica, l’Europa apprese le opere fondamentali grazie alla cultura araba: nel caso della prima, si trattò di una riscoperta di conoscenze elaborate già nel periodo della Grecia classica e reso possibile, nel XII secolo, dalla traduzione dall’arabo del Liber de compositione alchimiae a opera di Roberto di Chester. Uno degli ambiti scientifici in cui la cultura araba incise maggiormente nel progresso delle conoscenze fu senza dubbio la medicina. Il Kitab al-Qanun fi al-Tibb (Il canone della medicina) di Avicenna (XI secolo) rappresentò fino all’epoca moderna il manuale di base per lo studio della materia. Ma anche altre due personalità musulmane del Medioevo, Muhammad ibn Zakatiya al-Razi (854-925) e Abu al-Qasim al-Zahrawi (936-1013), fornirono un apporto ai progressi delle scienze mediche, in particolare sulle malattie infettive e le tecniche chirurgiche.

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Tra fede e ragione Le teorie filosofiche elaborate nel mondo ebraico maturarono attraverso l’esigenza di conciliare la visione razionale delle cose con i dettami della religione. Una sfida vinta soprattutto grazie all’opera di alcuni grandi pensatori, come Maimonide e Saadja

A

partire dal IX secolo e con forme simili a quelle cristiane e arabe, anche il mondo ebraico visse un periodo di grandi fermenti filosofici. L’utilizzo della scolastica fu significativo nella cultura giudaica, che in precedenza aveva sempre respinto i sistemi della filosofia, nel rispetto dei codici morali di comportamento imposti dai testi biblici e dal Talmud. L’ebraismo, quindi, recepí con difficoltà le nuove forme speculative che tendevano a conciliare le verità di fede con la ragione. Il Dio biblico, che con un preciso atto di volontà aveva creato il mondo e incideva sui destini dell’uomo, risultava poco conciliabile con il concetto di «motore immobile» di derivazione greco-antica. Eppure da Isacco a Saadja, da Ibn Gebirol a Maimonide, il giudaismo visse la propria stagione filosofica – facendo propri e confrontandosi con i principi basilari della tradizione ellenica –, in modo meno lacerante rispetto al mondo musulmano. Mentre i pensatori arabi vennero duramente avversati dall’islamismo conservatore e ortodosso, i filosofi ebrei riuscirono a mantenere un maggiore equilibrio tra il rispetto della propria tradizione mistica e le aperture al sapere mondano, pur contestando l’indirizzo delle scuole talmudiche piú ortodosse. Secondo gli storici, la cultura ebraica conobbe il pensiero greco attraverso i testi della filosofia araba: gli scritti dei musulmani, nel loro fondere logica e misticismo, affascinarono molti eruditi giudaici. Analizzando le ragioni dell’incontro tra ebraismo e Islam, Étienne Gilson evidenzia un’affinità genetica tra le due grandi civiltà e la «somiglianza del loro genio».

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Due pagine riccamente miniate della raccolta di testi biblici e liturgici oggi nota come Rotschild Miscellany. 1460-1480. Gerusalemme, The Israel Museum. Il prezioso manoscritto è opera di una bottega dell’Italia settentrionale, probabilmente veneta, e si compone di 946 pagine, corredate da oltre 200 vignette, che illustrano i vari argomenti trattati.


CRONOLOGIA 700 circa

760

912

1280

Gran parte della popolazione ebraica vive in territori controllati dagli islamici, in Nord Africa, Andalusia, Palestina e nell’odierno Iraq.

La setta ebraica dei Caraiti si stacca dalla tradizione ufficiale rabbinica.

Nel califfato di Cordova, l’avvento di Abd-al-Rahman III inaugura un’epoca di tolleranza nei riguardi degli Ebrei di Spagna, che dà luogo a forme di interazione tra cultura araba e giudaica.

In Spagna viene pubblicato lo Zohar, testo fondamentale della Cabala, dottrina esoterica dell’ebraismo.

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IL DOTTORE DEI PERPLESSI

Originario di Cordova, Maimonide – filosofo, giurista e medico – si affermò come uno dei maggiori pensatori del suo tempo. Fra i suoi meriti, vi fu il recupero della dottrina aristotelica, di cui volle dimostrare la compatibilità con le Sacre Scritture

CORDOVA, 1135-IL CAIRO, 1204

di Chiara Mercuri

L’

invasione araba della Penisola Iberica del VII secolo coincise con la fase espansiva dell’Islam e si tradusse in una forma di governo tollerante. La popolazione romanza e la tradizione culturale cristiana non ne furono travolte ma, semmai, rapidamente assorbite. E del nuovo clima di tolleranza religiosa poté avvalersi in modo insperato un’altra comunità: quella ebraica. Una popolazione alfabetizzata e numerosa, che per la prima volta poteva dispiegare tutto il proprio potenziale culturale. In nessun altro luogo dell’Europa e del Mediterraneo medievale, grazie al fortunato incrocio fra queste tre grandi scuole di pensiero (cristiana, araba ed ebraica), si assistette a un simile impulso alla scienza, alla matematica, e agli studi tecnici. Il mondo cristiano che si affacciava appena al di là dal mare, rispetto alla Spagna presentava invece tutt’altro scenario: era contadino, semianalfabeta e guerriero. In breve, le scuole della Spagna divennero la punta di diamante della cultura medievale. Qui si ebbe lo sviluppo di nuove teorie e invenzioni (una su tutte: l’abaco con l’uso dello zero, la «calcolatrice»

dell’uomo medievale), a cui si accompagnò il grande recupero della filosofia antica. Tra la fine dell’XI e l’inizio del XII secolo, i pensatori arabi ed ebrei di Spagna – tra cui Averroé e Mosé Maimonide – si dedicarono, in particolare, al recupero e alla rielaborazione del pensiero greco. Aristotele, col suo approccio razionale allo studio della tecnica e della fisica, costituiva un’eredità ritenuta indispensabile al progresso. Il grande ostacolo che però i filosofi impegnati in tale impresa dovettero affrontare, ciascuno all’interno della propria tradizione, riguardò la conciliazione tra i dogmi della fede e la speculazione filosofico-scientifica. Lo studio della natura, infatti, poteva entrare in contrasto con gli ordinamenti divini trasmessi dai testi sacri e la grande sfida era quella di seguire la strada della conoscenza del mondo e dell’uomo senza perdere la via della fede. Tale questione appariva in età medievale centrale e ineludibile per le tre grandi religioni monoteiste, spesso ancora in via di definizione dogmatica e teologica. Di fronte a tali questioni sia il mondo arabo, che quello ebraico, ebbero reazioni contrastanti. La ten-

In alto Cordova. Particolare del monumento in onore del filosofo e medico ebreo Mosheh ben Maimon, meglio noto come Maimonide. 1964. Nella pagina accanto miniatura raffigurante un profeta che tiene un rotolo, da un’edizione del Mishneh Torah di Maimonide. XIV sec. Gerusalemme, The National Library of Israel.

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denza piú diffusa fu quella di rigettare il pensiero filosofico come nemico delle verità coraniche o bibliche. Proprio nelle scuole iberiche, tra l’VIII e il XII secolo, si fece però strada l’idea che la ricerca e la filosofia non fossero altro che uno dei modi di declinare le verità assolute contenute nei testi sacri, le quali dovevano essere disvelate attraverso un paziente lavoro di esegesi, che necessitava di una robusta griglia interpretativa mutuata dalla filosofia antica.

L’«illuminato» di Cordova

Il filosofo ebreo che cercò di affrontare tale cruciale questione fu Mosé Maimonide, al secolo Mosheh ben Maimon, nato a Cordova intorno al 1135. Nel 929, la fondazione a Cordova del califfato dell’omayyade Abd el-Rahman III aveva inaugurato un particolare clima di tolleranza e fermento culturale, da cui prese avvio una sorta di «età dell’oro della cultura ebraica», testimoniata anche dalla nascita della piú importante scuola talmudica dell’epoca. Se, da una parte, rappresentò l’incubatrice del pensiero europeo moderno, proprio a motivo della sua particolare varietà etnica, la Spagna fu anche teatro di cicliche ondate di fanatismo religioso, che si scatenarono anche prima di quelle tristemente note dell’Inquisizione spagnola. Tra il XII e il XIII secolo, infatti, si assistette alla diffusione di una vera e propria febbre dell’islamismo, promossa da alcune tribú berbere del Sahara occidentale, ortodosse e intolleranti. Essa sbaragliò – in tutta l’area del Mediterraneo occidentale – le vecchie dinastie arabe, che avevano costruito sulla tolleranza e sulla promozione della cultura la propria prosperità economica e che ora si videro travolte dall’avanzare degli Almohadi, espressione politica delle idee delle tribú berbere. L’irrigidimento integralista fu il segno di una crisi politica e culturale profonda e coincise – non a caso – con l’inizio dell’inarrestabile declino del mondo arabo in Europa. Tale ondata si tradusse in politiche di repressione nei confronti di cristiani ed Ebrei, fino ad allora ritenuti intoccabili, in quanto «gente del Libro». Proprio in Spagna, si scatenarono le piú dure persecuzioni, molte chiese e sinagoghe vennero chiuse, anche se la secolare tradizione culturale consentí che si mantenessero in vita alcuni importanti centri di studio. Tra il 1158 e il 1159, molti intellettuali cristiani ed ebrei, come il giovane Maimonide, dovettero lasciare per sempre la penisola, a causa del mutato clima. Maimonide si trasferí prima a Fez, dove compí gli studi di medicina e diritto e co56

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minciò a scrivere un commento alla Mishneh, poi in Egitto, dove esercitò l’arte medica alla corte del Saladino, di cui divenne medico di fiducia. Al Cairo fu eletto capo della comunità ebraica, che gli conferí il titolo di nagid («principe») degli Ebrei d’Egitto. Proprio al Cairo, intorno al 1190, compose in lingua araba la sua maggiore opera filosofica, dal titolo programmatico di Dalala al-ha’irim (Guida dei perplessi). Agli inizi del XIII secolo, essa fu poi tradotta in ebraico col titolo di Moreh Nevoukhim e, successivamente, in latino. L’opera è scritta in forma di lettera, in tre volumi, indirizzata al suo allievo prediletto, Rabbi Joseph ben Jadah ibn Aknin. Nella sua guida, il Rabbi Mosè Maimonide (detto Rambam, acronimo di Rabbi Mosheh ben Maimon), si sforzò di conciliare la filosofia aristotelica con gli insegnamenti della religione, cercando di dimostrare che l’una fosse capace di supportare l’altra e viceversa. L’esistenza di Dio vi è qui infatti dimostrata con l’argomento aristotelico per eccellenza di Dio motore primo e immobile. Dal neoplatonismo Maimonide trasse invece la teoria secondo la quale Dio è conoscibile all’uomo solo per via negativa e, per tale ragione, non descrivibile, né rappresentabile in alcun modo.

Tra fede e scienza

L’originalità del pensiero dispiegato nella Guida dei perplessi consiste però nell’affermazione che la Bibbia può essere interpretata in senso sia letterale che allegorico, e che, per tale ragione, non esiste contrapposizione tra verità filosofiche e verità di fede. «Perplessi» sono per Maimonide coloro i quali, avendo intrapreso il cammino dello studio della filosofia, si trovano spesso di fronte all’inconciliabilità tra le verità di fede e verità filosofiche. Secondo Maimonide, il filosofo è in tal caso legittimato ad attribuire alle verità di fede un valore allegorico. Tale rivoluzionaria concezione doveva risolvere per sempre il problema atavico del rapporto tra fede e scienza, tra religione e filosofia, tra dogma e ricerca. La Sacra Scrittura, per il filosofo di Cordova, deve essere interpretata in quanto presenta, velate sotto il manto dell’allegoria, verità a cui non tutti sono in grado di accedere in maniera diretta. Il compito della filosofia consiste proprio in questo: permettere il loro pieno disvelamento e impedire alla fede religiosa di cadere in devianze che conducono alla superstizione, alla magia, al panteismo o all’antropomorfismo. Un analogo tentativo di conciliare la filosofia di Aristotele con l’Islam fu compiuto, negli stessi anni, dal filosofo arabo Averroè. Entrambi erano

La moschea di Amr ibn al-’As a Fustat, primo nucleo del Cairo, in un disegno di Pascal Coste. 1839 circa.


cresciuti a Cordova, nello stesso clima di apertura culturale, ed entrambi erano stati influenzati dal filosofo islamico Avicenna, il quale, per primo, si era interrogato sulla possibilità di conciliare la speculazione filosofica con le verità di fede. Averroé dovette combattere un’uguale ostilità all’interno del mondo islamico e anch’egli, come Maimonide per la Bibbia, sostenne che la filosofia concorre armonicamente alla ricerca delle verità enunciate dal Corano. A differenza di Maimonide, però, Averroè sosteneva che tale ricerca è riservata solo a un’élite di iniziati, mentre per Maimonide il metodo dell’interpretazione esegetica doveva essere esteso a tutti, nel senso che tutti dovevano essere aiutati a raggiungere quel minimo livello di preparazione filosofica che permettesse loro una migliore intelligenza del testo sacro. Proprio per facilitare l’interpretazione della Bibbia, egli scrisse un’opera destinata al vasto pubblico, il «Codice delle Leggi» (Mishneh Torah), nella cui introduzione cosí si presentava: «Io

sono Mose’ Maimonide sefardita. Per voi ho scritto, ho tratto dal mare del Talmud». Nella Guida dei perplessi dichiarava invece di voler venire incontro a quei sudditi «i quali arrivati presso la reggia del re e volendo arrivare al suo cospetto, iniziano a girarle intorno senza riuscire a trovare la porta d’ingresso». Questi, secondo Maimonide, sono coloro i quali «in virtú di tradizione nutrono opinioni veritiere e studiano le pratiche del culto, ma non sono avvezzi alla speculazione sui principi fondamentali della Torah, né indagano sulle verità di una credenza». Con la sua opera, quindi, Maimonide vuole indurre a progredire nella ricerca e nella speculazione filosofica, che può e deve essere messa a servizio della fede, e liberare il campo da quelle che, solo a un primo approccio, appaiono come insanabili antinomie tra fede e ragione. Le comunità ebraiche – piccoli ma instancabili centri di cultura presenti in ogni regione – rilanciarono le sue idee sull’interpretazione della Scrittura, per la prima volta aperta a tutti e PENSIERO MEDIEVALE

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La filosofia giudaica

TRA I SEGRETI DI UNA DOTTRINA Le informazioni biografiche e, in parte, quelle relative al pensiero di Maimonide provengono da testimonianze conservate nella Genizah del Cairo, perlopiú sotto forma di lettere, responsa e frammenti. La Genizah della capitale egiziana era il magazzino o il ripostiglio della sinagoga Ben Ezra di Fustat, nel quale anticamente si trovavano conservati manoscritti in ebraico, arabo, giudeo-persiano e aramaico, databili dall’XI al XIII secolo, di contenuto piú disparato: dalla giurisprudenza alla filosofia, dalla letteratura all’economia, dalla politica alle questioni di carattere privato. Questo prezioso corpus di documenti venne alla luce alla fine dell’Ottocento, grazie all’iniziativa di uno studioso rumeno di letteratura rabbinica, Solomon Schechter, al quale due erudite britanniche, Agnes Smith Lewis e Margaret Dunlop Wilson, avevano chiesto di analizzare alcuni frammenti di antichi manoscritti ebraici acquistati al Cairo. Il docente, una volta accertato che i reperti erano tratti dal libro sapienziale dell’Ecclesiastico, si recò in Egitto e scoprí che provenivano dalla sinagoga di Ben Ezra, al cui interno trovò altre migliaia di manoscritti. Trattando con le autorità locali, riuscí a portarne una cospicua parte in Inghilterra e decise poi di donarli – d’intesa

con Charles Taylor del St John’s College, che aveva finanziato il suo viaggio in Vicino Oriente – all’Università di Cambridge. Oggi quelle preziose testimonianze sulla cultura giudaica antica e medievale, sono sparse in varie biblioteche nel mondo: oltre a Cambridge, a Londra, Oxford, Parigi, Francoforte, Vienna, Budapest, San Pietroburgo e Filadelfia. Lo studio dei manoscritti ha permesso di ricostruire non solo il profilo di alcune antiche tradizioni dottrinarie, ma ha fornito anche preziose informazioni sulla società egiziana del tempo, sotto il governo ismaelita dei Fatimidi (X-XII secolo). In un’epoca in cui Ebrei, islamici e cristiani diedero vita a vere e proprie forme di cogestione societaria in ambito commerciale, favoriti da un clima politico di sostanziale tolleranza.

In alto modello ricostruttivo della Genizah, il ripostiglio della sinagoga di Ben Ezra a Fustat. A sinistra frammento di una pagina appartenente a una trascrizione del Moreh Nebukim (Guida dei perplessi) di Maimonide, dalla Genizah di Fustat. Cambridge, Cambridge University Library.

orientata alla conoscenza universale. Secondo Maimonide, infatti, non solo le Sacre Scritture contenevano messaggi allegorici che andavano interpretati e compresi, ma la filosofia – cioè la libera ricerca scientifica – doveva essere quanto piú possibile insegnata e diffusa.Vi furono anche, come inevitabile, dure reazioni al suo pensiero, ritenuto pericoloso per l’ortodossia ebraica. Nel 1233, dopo la sua morte, alcuni correligionari, riuscirono a convincere gli inquisitori di Montpellier che le idee espresse nella sua Guida fossero pericolose tanto per il pensiero ebraico quanto per quello cristiano. Come spesso accade nella storia, per combattere quello che viene percepito come «nemico interno», si offre il pretesto per l’intervento del nemico esterno. tale meccanismo portò al rogo dell’opera di Maimonide e, di lí a poco, alla ben piú feroce stagione dei roghi del Talmud voluta da Luigi IX, re di Francia, a partire dal 1239.


Su un punto gli avversari di Maimonide avevano ragione. L’impatto della sua opera sulla cultura mediterranea fu enorme, non solo per ciò che attiene al pensiero ebraico che, grazie a Maimonide, fu per sempre svincolato dai dogmi della fede e poté imboccare la via della ricerca e della speculazione filosofica. Secondo la Guida dei perplessi, infatti, le Sacre Scritture potevano convivere con la scienza, con il progresso delle leggi e dei costumi e non costituire appigli per l’integralismo ortodosso e la conservazione. Ma la soluzione adottata da Maimonide per conciliare fede e ragione serví come base anche per lo sviluppo del pensiero cristiano. Innegabile fu l’influsso sulla scolastica, in particolare su Tommaso d’Aquino, il quale, vincendo anch’egli una forte opposizione interna, riuscí infine a saldare la filosofia di Aristotele al pensiero cristiano. L’approccio razionale di Maimonide fu anche volto a potenziare lo sviluppo della cultura medica a discapito di pratiche magico-religiose, da lui disprezzate perché considerate come drammatica forma di arretratezza. Tale formazione lo portò a essere identificato come il peggiore avversatore di quel magismo naturalistico diffuso attraverso un uso superficiale e primitivo della Cabala, molto esteso tra le comunità ebraiche del Mediterraneo. La Cabala consisteva nell’elaborazione simbolica (e non razionale) dei testi sacri. Taluni hanno voluto contrapporre l’«aristotelico» Maimonide alla cultura cabalistica «neoplatonica», operando cosí una contrapposizione tra razionalisti e spiritualisti che appare però troppo rigida e semplicistica.

L’influsso sulla Cabala

Maimonide agí indirettamente da pungolo critico per tutte le componenti dell’ebraismo. Il suo approccio razionalista, infatti, esercitò un’influenza positiva sulla cultura cabalistica, la quale reagí procedendo a una «sistemazione del mondo cabalistico» improntata a un maggiore rigore critico. Secondo alcuni studiosi, tra cui Moshé Idel, il metodo interpretativo proposto nella Guida dei perplessi, se da una parte provocò la veemente opposizione dei cabalisti di Spagna e Provenza, dall’altra li spinse a inseguirlo sul suo stesso terreno. Quando, il 13 dicembre 1204, dopo una vita dedicata allo studio e alla guida della sua comunità, Maimonide morí, fu pianto da Ebrei e musulmani. Il suo impatto sulla cultura ebraica fu enorme, poiché riuscí a scuoterla, sia per ciò che attiene alla sua componente razionalistica, di cui egli fu fondatore, sia per ciò che concerne la sua componente mistico-cabalistica, che, per reazione

In alto miniatura raffigurante un uomo che viene condotto dinnanzi al sinedrio, il tribunale rabbinico, da un’edizione del Mishneh Torah di Maimonide realizzata da una bottega dell’Italia settentrionale. 14571465. Gerusalemme, The Israel Museum.

alle sue critiche, si depurò dalle scorie legate alle degradazioni di matrice magica e astrologica. Il suo pensiero, in generale piú accolto che avversato, conobbe il suo pieno successo e la sua piú larga diffusione nel XVIII secolo, quando venne, a ragione, considerato come precursore dell’illuminismo ebraico. L’influsso del suo pensiero fu forte anche nella cultura islamica – travagliata, anche per colpa della rivoluzione degli Almohadi, da una prima, lunga, fase di declino – e, infine, penetrò a fondo anche nel pensiero cristiano, attraverso la sua diffusione alla corte siciliana di Federico II. L’idea di far camminare insieme rispetto della cultura religiosa e filosofia della razionalità, e di vedere il pensiero umano come applicazione di capacità per spiegare i fenomeni della natura e della psiche nacque in quei decenni. Il fatto che si diffondesse in un Mediterraneo squassato dall’integralismo dei nomadi del deserto e dalla violenza cieca e sanguinosa dei crociati – di cui Maimonide ebbe occasione di conoscere e aborrire la crudeltà – lo rende ancora piú significativo. Aveva scritto il grande pensatore di Cordova: «L’uomo ha come proprietà qualcosa di molto strano, che non si trova in nessuno degli enti che stanno sotto la sfera della luna: è la comprensione intellettuale, nella quale non interviene né un senso, né una mano, né un braccio» (dalla Guida dei perplessi, Parte Prima, Capitolo I). PENSIERO MEDIEVALE

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PROTAGONISTI

ISACCO Isacco Ben Salomon Israeli (845-940) fu il primo filosofo giudaico a interessarsi alle tesi «razionaliste» proprie della scolastica. Visse a lungo in Egitto e si trasferí poi a Kairuan, in Tunisia, dove esercitò la professione di medico presso la corte dei califfi. Il suo apporto al pensiero medievale fu sostanzialmente compilatorio, ma contribuí comunque a innestare il pensiero greco, la fisica e la medicina nell’alveo della tradizione ebraica.

SAADJA Un’elaborazione compiuta dei temi tipici della «scolastica ebraica» si compí nel X secolo, grazie agli scritti di Saadja Gáon (892-932), in particolare con Il libro della fede e della scienza, che il filosofo concepí negli ultimi anni di vita. Nato in Egitto, venne nominato presidente dell’Accademia di Sora, uno dei principali centri della cultura rabbinica del Vicino Oriente. Saadja evidenziò l’importanza di spiegare razionalmente la dottrina religiosa derivante dalla tradizione e dalle scritture, al fine di rafforzarne le verità. Subí l’influenza dei filosofi arabi che già da un secolo avevano teorizzato il fecondo incontro fra teologia e pensiero filosofico. Non attinse, però, ad Aristotele, del quale contestava le tesi cosmologiche sull’eternità del mondo

A destra miniatura raffigurante un sapiente, dalla raccolta di testi biblici e liturgici oggi nota come Rotschild Miscellany. 1460-1480. Gerusalemme, The Israel Museum.

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In alto miniatura raffigurante lo studio di un medico, da un’edizione in lingua araba del De materia medica di Dioscoride realizzata a Baghdad. 1224. Copenaghen, The David Collection.


e la non precisa allusione a un’origine divina dell’atto della creazione (secondo il dettato biblico, invece, la creazione avvenne ex nihilo, dal nulla, per opera di Dio). Né condivideva le tesi neoplatoniche sull’emanazione divina. Dio, secondo Saadja, ha un’identità incorporea e si manifesta attraverso i suoi principali attributi che sono la Verità, la Potenza e la Sapienza, strettamente correlati tra loro e in perfetta unità. Il filosofo ebreo ammetteva comunque l’esistenza dell’anima, anch’essa creata da Dio.

IBN-GEBIROL Le tesi aristoteliche e neoplatoniche penetrarono definitivamente nella cultura ebraica grazie al poeta religioso e mistico Ibn Gebirol (1021-1058), che nacque e morí in Spagna, in un territorio in cui il pensiero giudaico era entrato in contatto da tempo con la filosofia araba e le dottrine della Grecia classica. Secondo la tradizione, sarebbe stato ucciso da un musulmano che ne invidiava l’eccezionale talento come scrittore e l’erudizione. La sua opera principale, il Meqor Hayyim (La fonte della vita), si articola sotto forma di dialogo tra un maestro e un discepolo sul tema della distinzione aristotelica tra materia e forma. La tesi conclusiva del testo ebbe una portata rivoluzionaria: tutte le sostanze, anche quelle di emanazione divina, sono il prodotto di una coesistenza di materia e forma, ossia di un ilomorfismo universale. Dio, creatore di ogni cosa, genera, attraverso la sua volontà, un moto di attrazione tra materia e forma, che unendosi in varie combinazioni danno vita a sostanze piú o meno complesse. Si tratta dello sviluppo di una visione già presente in Aristotele e che in seguito esercitò grande influenza sul pensiero cristiano, in particolare sui filosofi francescani del XIII secolo.

In alto, a destra miniatura raffigurante l’influsso della luna sulla lettura dei segni della Cabala, da un trattato di cabalistica. XVI sec. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana. A destra Aristotele (particolare), olio su tavola di Giusto di Gand. 1476 circa. Parigi, Museo del Louvre.

LA CABALA Una lettura superficiale potrebbe rappresentare l’ebraismo come una tradizione di tipo morale che esprime un formalismo regolato soltanto dalla legge sacra, escludendo la presenza di una componente mistica nella storia religiosa del popolo d’Israele. La Cabala (Kabbalah), complesso di dottrine esoteriche ebraiche, smentisce questo assunto, pur traendo ispirazione dal patrimonio «razionale» di un testo classico della religione di Mosè: la Torah. L’enigmatica dottrina cabalistica opera un’esegesi particolare della legge ebraica con due diversi livelli di lettura: una esteriore e solo letterale del sistema normativo; l’altra piú autentica e segreta, accessibile a pochi iniziati. Attraverso la seconda, il fedele può stabilire un contatto diretto con Dio. La Cabala cominciò a diffondersi anche in Occidente, soprattutto in Spagna nel XII secolo, in seguito alla pubblicazione di due testi mistici, lo Zohar (Lo splendore) e il Sefer Yetzirah (Libro della formazione). Contemporaneamente, in Germania, andava affermandosi il movimento dei chassidím, che teorizzava una forma mistica di ebraismo con evidenti influenze neoplatoniche. Nello stesso periodo in Francia veniva redatto il Sefer haBahir, testo ebraico che rappresentava l’universo secondo un’ottica gnostica. I secoli in cui la Cabala prese piede in Europa corrispondono al periodo di sviluppo delle correnti gnostiche e teosofiche del cristianesimo, anch’esse informate all’esistenza di un percorso spirituale in grado di far conoscere all’uomo i misteri dell’identità divina. Il ruolo dell’esoterismo nell’età di Mezzo compí, in seguito, un salto di qualità radicandosi in ambienti religiosi che non tolleravano il proliferare di dottrine segrete. L’esoterismo mistico ebraico, però, fu in un certo senso moderato: i cabalisti ortodossi, infatti, rifiutarono sempre le forme estatiche, eccessivamente visionarie, optando per un rapporto piú razionale con l’essenza divina, guidato da una rigorosa interpretazione dei testi. PENSIERO MEDIEVALE

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Busto in marmo di Aristotele. Copia romana di un originale greco della fine del IV sec. a.C. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

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In guerra per Aristotele Sebbene sia stata poi definita «bassa», la scolastica del Duecento è il momento piú felice della filosofia cristiana medievale. È l’epoca in cui salgono alla ribalta personaggi del calibro di Tommaso d’Aquino e Alberto Magno, ma, soprattutto, sono anni nei quali si rinnovano le dispute, spesso molto accese, sulle idee del grande Stagirita

N

el XIII secolo, il pensiero cristiano fu dominato dalla figura di Aristotele, la cui influenza generò un conflitto insanabile all’interno della scolastica. Grazie al contributo dei filosofi arabi, i cui scritti erano stati tradotti in latino nel XII secolo, molte opere inedite dello Stagirita si diffusero in Occidente, che ne conosceva soprattutto i testi dedicati alla logica. Questioni come la metafisica, la fisica, l’etica e la politica, viste dall’ottica aristotelica, irruppero nel dibattito intellettuale del tempo, in particolare nelle scuole e nelle università, coinvolgendo anche gli studenti. In un primo momento, l’impatto di questi scritti sulla cultura cristiana non fu positivo e determinò una reazione da parte degli ambienti conservatori, che si opposero al dilagare del razionalismo aristotelico. In particolare il mondo francescano denunciò la dilagante tendenza ad accentuare la connessione tra fede e scienza, rivalutando la tradizione neoplatonica e i testi di sant’Agostino. Figure di spicco della polemica antiaristotelica furono i Minori Alessandro di Hales, Roberto Grossatesta e, soprattutto, Bonaventura di Bagnoregio. Anche le autorità ecclesiastiche assunsero inizialmente una posizione di netta chiusura alla rivoluzione in atto: nel 1210, il sinodo di Parigi decretò di bruciare i Quaderni di Davide di Dinant (un traduttore di Aristotele, schierato su posizioni radicalmente materialiste), mentre nel 1215 si vietò lo studio dei testi naturalisti di Aristotele nell’Università di Parigi. Con la promulgazione della bolla Parens scientiarum del 1231, Gregorio IX autorizzò la parziale circolazione dei testi incriminati, che però nel 1272 finirono di nuovo nel mirino della repressione: il vescovo di Parigi Étienne Tempier condannò alcune tesi contenute negli scritti dello Stagirita, valutandole come eretiche. Al tentativo francescano di «restaurazione» e al pugno di ferro di alcuni ambienti della Chiesa, si opposero due grandi maestri dell’Ordine domenicano, il tedesco Alberto Magno e il suo allievo Tommaso d’Aquino. Con essi, la sintesi tra aristotelismo e religione si realizzò seguendo uno straordinario rigore speculativo. Mosaico con il ritratto di papa Gregorio IX, dalla facciata della basilica di S. Pietro. Prima metà del XIII sec. Roma, Museo di Roma.

1155

Federico I, detto il Barbarossa, viene incoronato imperatore.

1215

Viene promulgata la Magna Charta, il primo atto di tutela delle libertà individuali nella storia del Medioevo.

1223

Papa Onorio III approva la Regola dell’Ordine Francescano.

1300

Papa Bonifacio VIII indice il primo Giubileo della Chiesa cattolica.

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LE SPECULAZIONI DI UN FRANCESCANO Formatosi nel solco dell’insegnamento di san Francesco, Bonaventura da Bagnoregio riprese e ampliò la portata del messaggio elaborato dall’Assisiate. Infatti, oltre ad adoperarsi per una sorta di rifondazione dell’Ordine, si dedicò con energia e assiduità alla filosofia. Frutto delle sue riflessioni sono trattati importanti che, al di là dei meriti religiosi, ne fanno uno dei massimi pensatori del Medioevo

BAGNOREGIO, 1217/1221-LIONE, 1274

B

onaventura da Bagnoregio (al secolo Giovanni Fidanza), passato alla storia come il «doctor seraphicus», era un contemplativo, un mistico e nello stesso tempo un uomo d’azione, capace di governare con sorprendente pragmatismo l’Ordine Francescano dei Frati Minori. Predicava fondamentalmente tesi agostiniane, il trovare Dio attraverso «l’illuminazione», ma propugnava anche la stretta connessione dell’uomo con la realtà mondana. Con lui scienza e fede, filosofia e teologia, storia e profetismo trovarono molti punti di contatto, in una costruzione dottrinale che rappresenta un unicum nell’ambito del pensiero medievale cristiano. A suo modo fu un teorico moderno, sensibile al tema della libertà individuale e all’esigenza di rendere piú razionali le argomentazioni religiose. Cercò di conciliare categorie che sembravano opposte tra loro e forse non riuscí pienamente nell’impresa come parte della critica filosofica sostiene. Non si può concepire una biografia di Bonaventura senza considerarne la «dipendenza» da san Francesco. Da Francescano e ancor piú da ministro generale dei Frati Minori, egli operò sempre per dare concretezza al messaggio dell’Assisiate, salvaguardandone

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San Bonaventura e la porpora cardinalizia, olio su tela del pittore francese Albert Pierre Dawant. 1897. Rouen, Musée des Beaux-Arts. Un alto funzionario del Vaticano porta la berretta cardinalizia al monaco,raffigurato mentre svolge le attività quotidiane dell’abbazia.


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la purezza fra gli scogli delle deviazioni. Tuttavia, la portata rivoluzionaria di quest’opera si può cogliere appieno solo valutandola nell’ambito del clima culturale che dominava il XII secolo, segnato profondamente dall’avvento del Poverello. La passione per la «scienza» regolava la cultura, nel senso di ridurla in schemi preordinati, entro la logica, la matematica, e anche la fede religiosa ne fu condizionata: il prevalente intellettualismo, con il contributo dell’aristotelismo, riuscí a fare del messaggio cristiano una grande scienza teologica. A ciò si aggiungevano il contatto e il confronto con altre culture, la greca-bizantina, la giudaica e quella arabo-islamica, che si ripercuotevano sull’Occidente pur senza alterarne la radice cristiana. Il francescanesimo abbracciato da Bonaventura si nutrí dunque di questo rigoglio intellettuale, in cui ebbero funzione motrice le nascenti Università, a Bologna come a Parigi e a Oxford. Nel 1235, quando Bonaventura si recò a Parigi per frequentare quell’Università, aveva 18 anni. Era nato nel 1217 a Bagnoregio (Viterbo), da un medico forse di origini nobili e da una donna devota di san Francesco. Giovanissimo, era stato subito inserito in un itinerario formativo francescano.

Tra povertà e politica

Nel 1248 nell’ateneo parigino raggiunse il grado di baccalaureus biblicus («baccelliere biblico») e solo due anni dopo ottenne quello di baccalaureus sententiarum («baccelliere sentenziario»), avendo mostrato di conoscere in modo approfondito le Sacre Scritture e i piú importanti autori di teologia di quell’epoca. Poi, nel 1253, ottenne la licentia docendi, l’abilitazione all’insegnamento. Quattro anni piú tardi, Bonaventura fu costretto a lasciare la prestigiosa cattedra francese, perché richiamato dai Frati Minori in qualità di ministro generale. Tra i Francescani, nel frattempo, infuriavano le polemiche, in particolare fra chi pretendeva la fedeltà alle origini, accentuando il carattere di movimento culturale, e chi invece si batteva per la clericalizzazione. Proprio in questa tempestosa crisi istituzionale, Bonaventura venne eletto all’unanimità ministro generale. Il suo primo impegno fu quello di rifarsi al fondatore, ricostruendone fedelmente la biografia, depurandola delle deformazioni che nel frattempo avevano inciso 66

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Nella pagina accanto miniatura raffigurante una seduta di dottori all’Università di Parigi. XVI sec. Parigi, Bibliothèque des Arts Decoratifs. Nel 1235, a soli 18 anni, Bonaventura si recò a Parigi per frequentare l’Università di Teologia, dove, nel 1253, ottenne l’abilitazione all’insegnamento.

sulla fisionomia intellettuale del santo di Assisi. In seguito concepí la sua opera piú famosa, l’Itinerarium mentis in Deum, mentre si trovava sul monte della Verna, nel luogo in cui l’Assisiate aveva ricevuto le stigmate. Nel 1273 papa Gregorio X lo nominò cardinale-vescovo di Albano e lo volle presso di sé nella curia. Prima di lui, nessun Francescano aveva ricevuto la porpora cardinalizia. Raggiunto il papa, ricevette subito l’incarico di contribuire alla preparazione del II Concilio di Lione, nel ruolo di vicario del pontefice, legatus a latere. Il Concilio doveva deliberare, oltre che sulla possibile unione con gli ortodossi d’Oriente, sulla riforma della Chiesa, in un periodo in cui dai prelati era già partita l’offensiva contro gli Ordini Mendicanti, dei quali si profilava ormai lo scioglimento. Con la mossa politica dell’alleanza con i Domenicani, Bonaventura riuscí però a sventare l’attacco, ottenendo l’impegno del papa a evitare l’abolizione di entrambi gli Ordini. Nell’estate del 1274, in seguito a una improvvisa malattia, il filosofo morí. Un suo illustre confratello, papa Sisto IV, diede poi avvio alla canonizzazione nel 1482, mentre, un secolo dopo, Sisto V proclamò san Bonaventura doctor seraphicus.

Mistico o razionalista?

Per molti storici della filosofia, l’indirizzo speculativo di Bonaventura pensatore era sostanzialmente un «ritorno a sant’Agostino», come risposta al minaccioso diffondersi delle tesi aristoteliche, inconciliabili con la fede. Malgrado l’apparente scelta di campo, però, il doctor seraphicus approfondí i testi degli «avversari», traendone anche spunti per rafforzare il proprio imponente edificio dottrinale. Un’operazione ambiziosa, che lo portò a utilizzare spesso argomentazioni puramente filosofiche, a differenza di altri teorici cristiani medievali. Nella sua ricca produzione di prediche, sermoni, commenti biblici, opuscoli mistici e opere di teologia, emergeva il tentativo di spiegare razionalmente la fede, screditando le posizioni «pagane» proprio sul piano speculativo, sul loro terreno, con l’obiettivo di rafforzare le convinzioni dei credenti e per attirare gli atei. In fondo, la «sensibilità razionale» di Bonaventura rispondeva anche a un’esigenza ormai diffusa, in A sinistra teca in argento nella quale si conserva il braccio di san Bonaventura da Bagnoregio. 1491. Bagnoregio (Viterbo), cattedrale di S. Nicola.



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Bergamo, basilica di S. Maria Maggiore. Albero della Vita, affresco realizzato su commissione di Guidino de’ Suardi, che chiese al pittore di adeguarsi al Lignum Vitae di Bonaventura da Bagnoregio. 1347. quel periodo, di vivere la religiosità non piú come una tradizione imposta, sotto il terrore di una punizione divina. Non solo in ambito politico, infatti, ma anche in quello delle «questioni dello spirito», si avvertiva il bisogno di partecipare piú attivamente alla determinazione del proprio destino, con scelte davvero meditate. Tuttavia, nonostante il tentativo di trattare le questioni religiose fuori dall’ambito della pura mistica, Bonaventura fu giudicato da una buona parte della cultura moderna e contemporanea (soprattutto illuminista e romantica) come irrazionalista, dogmatico, se non addirittura incline alla superstizione. Solo in età piú recente lo studio dei suoi testi ha portato alla rivalutazione in senso filosofico delle sue tesi.

Quella pittura un po’ sbiadita

Nelle sue argomentazioni, Bonaventura aveva sempre cercato di legare strettamente l’uomo al mondo, tratteggiando in modo anche suggestivo il profilo dell’esperienza terrena. Tentò di farlo indagando, nell’Itinerarium mentis in Deum, sui primi contatti che l’individuo allaccia con la realtà esterna, dopo la nascita, valutati sempre come piacevoli e intensi (oblectatio). Tanto gradevoli, da spingere con il passare del tempo a scoprirne le ragioni, i principi guida (diiudicatio). Il mondo conquista l’uomo anche in virtú della propria bellezza, che deriva da due qualità oggettive, la proporzione e la luminosità: cioè rispettivamente dall’ordine quasi matematico delle cose terrene e dall’impressione di brillantezza degli oggetti. Quest’ultimo aspetto è legato a una proprietà che Dio ha infuso nella materia prima: la luce, la forma iniziale di ogni manifestazione vivente. Ben presto, poi, l’individuo si rende conto che all’origine della bellezza del mondo c’è un’entità «suprema», divina, rintracciabile nelle cose terrene, seppure sotto forma di pittura un po’ sbiadita. Una prova ulteriore dello stretto legame tra il mondo e il suo Creatore è la tesi secondo cui Dio non si sarebbe incarnato solo per redimere l’individuo dal peccato, ma anche per perfezionare la natura umana. Secondo Bonaventura l’uomo nasce come tabula rasa: Dio lo ha fornito dell’intelletto per approdare alla conoscenza della realtà e delle forme di sapere piú elevato, attraverso una dinamica che non prevede solo l’esperienza quale 68

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bussola per orientarsi, ma anche la percezione di contenuti provenienti dalla sfera interiore. I sensi forniscono solo il materiale, l’oggetto della riflessione. A imprimere la forma, a dare gli attributi agli oggetti, a far vivere le proposizioni, provvede poi l’intelletto con il suo intervento. La conoscenza risulta sempre attiva, quindi, non limitandosi a registrare quello che è già formato e compiuto in natura, come si può leggere in alcuni passi dei Commentaria in quattuor libros sententiarum. Anche questo specifico aspetto suscitò qualche perplessità nella critica filosofica moderna, che ne denunciò un’insufficiente valenza razionale, autenticamente «umana». Rispetto alle costruzioni teoriche di Alberto Magno e di Tommaso d’Aquino, per esempio, il pensiero del doctor seraphicus «non esiste affatto come filosofia», secondo Étienne Gilson. Perché «rifiutando di accettare il terreno comune della pura ragione, essa si pone fuori dalla comunione degli intelletti semplicemente umani».

Nella pagina accanto Assisi, basilica di S. Francesco. Il Miracolo della fonte, una delle ventotto scene che compongono il ciclo delle Storie francescane affrescato da Giotto nella Chiesa Superiore. 1290-1295 circa.

Quattro livelli

Simili al Supremo

Bonaventura non voleva che le sue tesi sconfinassero sul terreno del platonismo piú estremo. Sosteneva, invece, che l’analogia, la somiglianza tra le cose create e il trascendente non devono comportare una partecipazione dell’uomo alla sostanza divina. La collocazione giusta di ogni essere umano è lo spazio intermedio ricavato tra Dio e la natura, un ruolo di grande rilievo, sostanzialmente quasi allo stesso livello degli Angeli. Una posizione che fornisce all’individuo gli strumenti per modellare la natura, rendendolo simile all’Essere Supremo. L’anima umana, infatti, esprime qualità intellettive e affettive (ossia ragione e volontà) che generano il libero arbitrio, in sostanza la capacità di decidere senza coazioni e di non essere solo spettatore nel disegno divino. Questo concetto chiave, espresso nei Commentaria in quattuor libros sententiarum, pone l’uomo al centro del mondo, munendolo di quella superiore dignità che forse solo il Rinascimento gli avrebbe poi attribuito. Il potere di scelta è davvero totale nell’uomo, 70

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secondo Bonaventura, risultando incoercibile anche da Dio stesso. Soprattutto sul terreno della fede, che ha il suo fondamento proprio nel libero arbitrio, atto del tutto volontario, ben lontano da una passiva accettazione di una volontà superiore, di un dogma precostituito. È l’animo umano, infatti, che, per indole, si sente attratto dalla fede, perché cerca una verità appagante alla quale affidarsi in modo assoluto, con un’adesione quasi ardente. Bonaventura maturò le proprie convinzioni dopo un lungo studio della psicologia umana, nel tentativo di captarne gli intimi bisogni e le piú autentiche aspirazioni. Alla fine di questo percorso introspettivo giunse alla conclusione che la potente energia scaturita dalla combinazione delle due componenti dell’anima (ragione e volontà) genera la fede. Ma sempre alla fine di un processo guidato dal libero arbitrio e da scelte autonome, che potevano variare da un individuo all’altro.

In alto particolare di uno scomparto di polittico raffigurante san Bonaventura, opera attribuita al Maestro dei polittici crivelleschi. Seconda metà del XV sec. Teramo, Pinacoteca Civica.

Il pensatore di Bagnoregio si serví certamente dei metodi e delle categorie filosofiche, denunciandone però alla fine i limiti. Per dimostrare l’esistenza di una causa superiore, trascendente, poteva bastare un ragionamento di tipo speculativo, ma, per afferrarla meglio, occorreva varcare una soglia, entrando nel terreno della sapientia perfecta. Nel De reductione artium ad theologiam, Bonaventura distingue quattro livelli per giungere alla comprensione della verità: l’«esteriore» (le arti meccaniche), l’«inferiore» (ossia della conoscenza attraverso i sensi), l’«interiore» (rappresentato dalla filosofia) e il «superiore» (campo della teologia). Anche la categoria piú in basso nella graduatoria, quella delle arti meccaniche, viene comunque elevata ad attività degna, in sostanza allo stesso livello della qualità intellettiva. Bonaventura, in definitiva, considera la filosofia come una branca importante del sapere umano. In un passo delle Collationes in Hexaëmeron, fornisce al riguardo indicazioni sul metodo da utilizzare per gli studi teologici: oltre alla Bibbia e agli scritti dei Padri, risultano consigliati anche i testi dei pensatori «pagani», quelli dell’età classica.


LA RIVOLUZIONE FRANCESCANA Dopo avere rinunciato ai beni materiali di cui disponeva, Francesco, figlio di un facoltoso mercante d’Assisi, raccolse intorno a sé alcuni compagni che chiamò Frati Minori. Con loro condivise un cammino religioso la cui essenza si esprimeva nella pratica della disciplina e della povertà assoluta, contro la corruzione e i fasti dei costumi ecclesiastici dell’epoca. Nel 1212, insieme a Chiara d’Assisi, il futuro santo costituí l’Ordine femminile delle Clarisse, monache di clausura e un terzo Ordine laico. La Regola francescana venne approvata da papa Onorio III nel 1223, ma, alla morte del fondatore, la confraternita si divise, a causa dei forti contrasti interni tra i conventuali e gli spirituali, questi ultimi piú inclini all’osservanza rigorosa della Regola originaria. Alla capillare opera di predicazione, i frati francescani associarono la pratica dello studio. Alcuni di loro divennero professori di teologia all’Università di Parigi, mentre l’Ordine – pur con tutti i dissidi interni – si espanse molto rapidamente in tutta Europa. A Francesco d’Assisi, uomo della pace, poeta e santo, viene assegnato anche un profilo filosofico, sebbene in vita non avesse manifestato una particolare predisposizione per gli

studi e per l’attività dialettica. Il pensiero francescano influenzò notevolmente la filosofia medievale, che, tuttavia, continuò a interrogarsi per secoli sull’autentica eredità spirituale lasciata da Francesco. La stessa biografia dell’Assisiate, letta come testimonianza di vita, di santità incarnata e storicamente determinata, ebbe il potere di generare nuovi indirizzi teologici nella cultura cristiana. Collocato nel solco della tradizione agostiniana, il pensiero francescano non costituí solo una radicale alternativa al dilagare delle concezioni aristoteliche e, in seguito, tomistiche, ma indicò anche un possibile approdo al dialogo tra ragione e fede, in virtú di una teologia dai contorni eminentemente pratici. Dio produce una realtà che rappresenta il suo logos e l’uomo con le azioni ne imprime il modello nel creato. La Scuola filosofica francescana, che si sviluppò tra il XIII e il XIV secolo, entrò in rotta di collisione con l’emergente aristotelismo, ma in alcune derivazioni dialettiche – una fra tutte quella dei maestri dell’Università di Oxford - rappresentò il prologo del razionalismo scientifico, introducendo addirittura metodi sperimentali nello studio della realtà.

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PROTAGONISTI MICHELE SCOTO L’intensa attività di translatio dei testi arabi in lingua latina, che riportavano le opere di Aristotele, ebbe tra i suoi artefici principali Michele Scoto (1175-1232), filosofo e teologo, nonché alchimista e mago. Di presumibile origine scozzese, fece conoscere in Europa Avicenna e Averroè e fu uno degli eruditi piú stimati dal sovrano Federico II, su incarico del quale tradusse l’Historia animalium di Aristotele e il commentario di Averroè ad altre due opere del pensatore ellenico, il De coelo e il De anima. Michele Scoto scrisse anche alcune opere, perlopiú di argomento alchemico e astrologico, tra le quali il Liber introductorius, il Liber Phisionomiae e il Liber particularis.

GUGLIELMO D’ALVERNIA Un’iniziale ostilità all’ingresso delle opere naturalistiche di Aristotele in Occidente attraverso la cultura araba si manifestò con gli scritti del francese Guglielmo d’Alvernia (1180-1249), che in vita rivestí le prestigiose cariche di maestro di teologia presso l’Università di Parigi e di vescovo. Il suo, tuttavia, fu un atteggiamento solo in parte critico verso il maestro greco, come ebbe egli stesso a precisare: «Benché in molte cose si debba contestare Aristotele, come in realtà è conveniente e giusto, e ciò in tutti i discorsi nei quali fa affermazioni contrarie alla verità; cosí bisogna accettarlo e difenderlo in tutte quelle affermazioni in cui sembra che abbia pensato rettamente». Schierato su posizioni agostiniane, teologo della «vecchia scuola», Guglielmo respinge la tesi aristotelica della creazione necessaria ab aeterno e le interpretazioni arabe sull’ilomorfismo (coesistenza di materia e forma in ogni sostanza umana e divina), riprendendo, invece, le tesi di Maimonide. La sua opera principale è il Magisterium divinale, divisa in sette parti.

ALESSANDRO DI HALES Fra i numerosi pensatori cristiani che accolsero con un certo spirito critico la diffusione delle opere di Aristotele e dei filosofi arabi in Occidente, figura anche il teologo inglese e francescano Alessandro di Hales (1185-1245), denominato doctor irrefragabilis. Trasferitosi a Parigi, fu il primo esponente dell’Ordine dei Minori a sedere sulla cattedra di teologia dell’Università della capitale francese. La matrice neoplatonica e agostiniana del suo pensiero, affine anche alle reazioni «conservatrici» di Anselmo d’Aosta e della Scuola di San Vittore, non gli impedí

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di studiare a fondo Aristotele. Nelle opere del filosofo greco trovò una serie di spunti interessanti, che evidenziò nella sua monumentale Summa Theologiae, compilata a piú mani. Secondo Alessandro, la dottrina aristotelica poteva aiutare l’individuo a ricercare le tracce divine nei fenomeni della realtà e nella propria sfera interiore, attraverso il processo di astrazione che pone le immagini percepite all’interno di concetti generali, di categorie. Non è, però, l’intelletto umano la parte attiva di questa elaborazione sintetica che procede dal particolare all’universale. È Dio, con la sua emanazione spirituale, che sovrintende su ogni facoltà intellettiva, rendendo possibile qualsiasi


forma di astrazione. L’originale ipotesi di connessione tra agostinismo e aristotelismo formulata nella Summa Theologiae costituí una base di partenza per le successive fasi della scolastica che ridimensionarono il predominio della mistica.

GIOVANNI DE LA ROCHELLE Discepolo di Alessandro di Hales, al quale successe sulla cattedra di teologia dell’Università di Parigi, Giovanni de La Rochelle (1200-1245), nella sua opera principale, la Summa de anima, si prodigò in una decisa perorazione delle scienze filosofiche. In un sermone condannò l’ostracismo di alcuni ambienti nei riguardi dello studio della filosofia,

Miniatura raffigurante una lezione di teologia alla Sorbona di Parigi, da un’edizione delle Postillae alla Bibbia del francescano Nicola da Lira (1270-1349). XV sec. Troyes, Bibliothèque municipale. ritenendo questo atteggiamento un prodotto dell’influenza di Satana, che non voleva l’arricchimento della cultura cristiana. In campo metafisico, tuttavia, Giovanni de La Rochelle si pone in continuità con la tradizione agostiniana, cercando di far coesistere i principi dell’illuminazione divina con le tesi arabo-aristoteliche sull’intelletto attivo: «L’anima umana non intende nulla se non è illuminata dal principio di ogni illuminazione, Dio padre nostro».

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ROBERTO GROSSATESTA Tra i maggiori contestatori della diffusione dell’aristotelismo nella cultura cristiana, il teologo e scienziato inglese Roberto Grossatesta (1175-1253) fu francescano, docente presso l’Università di Oxford, vescovo e vivace polemista. Accusò, senza alcuna remora, il pontefice Innocenzo IV di avarizia, di esibizione del lusso e di essere sostanzialmente un tiranno, subendo per questa invettiva la scomunica. Nell’analisi del problema teologico, seguendo Guglielmo d’Alvernia e Alessandro di Hales, partí dagli assunti della tradizione, ovvero da sant’Agostino: «Dio è forma ed è la forma delle creature», afferma il pensatore inglese nel De unica forma omnium. L’espressione, in apparenza, evoca suggestioni panteiste, ma non sconfina in quella contestata fattispecie. La forma divina di Roberto Grossatesta, piuttosto, è una sorta di stampo impresso sulla materia per poterne determinare la fisionomia. Dio, pertanto, non può essere consustanziale alle sue creature, ma ne determina la forma dall’esterno, come causa efficiente; non si manifesta direttamente con un processo di illuminazione, ma, tramite la luce, rende partecipi gli uomini alla propria dinamica di emanazione divina. La luce, come prima forma, si estende per inclinazione naturale nell’universo guidata da leggi che possono essere definite matematiche e geometriche: secondo Grossatesta, «la proporzione del mondo – ha osservato il semiologo e filosofo Umberto Eco (1932-2016) – altro non è dunque che l’ordine matematico in cui la luce nel suo diffondersi creativo, si materializza secondo le diversificazioni impostele dalla materia nelle sue resistenze». L’applicazione dei principi della fisica alla metafisica (la distribuzione della luce attraverso criteri proporzionali) rappresenta una significativa innovazione nella storia del pensiero medievale e anticipa un concetto che sarà alla base della filosofia moderna: lo studio della natura non può prescindere dall’applicazione di una logica matematica, secondo un metodo sperimentale.

NEI TEMPLI DELLA LECTIO E DELLA DISPUTATIO Il dibattito spesso aspro intorno all’aristotelismo, seguito anche da una serie di atti repressivi da parte della Chiesa, si sviluppò soprattutto nelle università, in particolare in quella parigina. Dal XIII secolo, Aristotele fu il protagonista assoluto delle dispute filosofiche e venne progressivamente «riabilitato» dalla cultura cattolica, anche sull’onda del grande interesse e delle passioni che le sue opere avevano suscitato negli atenei. Celebri furono gli scioperi attuati dagli studenti di Parigi negli anni tra il 1229 al 1231, in segno di protesta contro i tentativi delle autorità ecclesiastiche e di alcuni maestri di depurare i corsi di studi dalle tracce di Aristotele e dei suoi commentatori arabi, considerati ingegni pericolosi, quando non addirittura eretici. Lo scontro si compose grazie all’atteggiamento tollerante assunto da papa Gregorio IX, che revocò in parte i divieti. Di lí a pochi anni, l’intera opera del

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In alto ritratto di Roberto Grossatesta, vescovo di Lincoln, da un manoscritto compilato in Inghilterra. XIII sec. Londra, British Library. Il presule è raffigurato seduto, con mitra e pastorale, in atteggiamento benedicente.


pensatore greco trovò ampio spazio nei libri di testo. Insieme a quella di Oxford, l’Università di Parigi era l’istituzione piú prestigiosa per materie come la filosofia e la teologia. Comprendeva quattro indirizzi di studio: la facoltà delle arti (dove furono introdotti per la prima volta i contestati testi di Aristotele), che riuniva le sette arti liberali; la facoltà di teologia; la facoltà di diritto; e la facoltà di medicina. La nascita delle università si attesta tra il XII e il XIII secolo. In tutte le facoltà l’insegnamento si sostanziava in due fasi fondamentali: la lectio, attraverso cui il maestro spiegava i testi fondamentali di una materia; e la disputatio, con la quale l’insegnante poteva soffermarsi su un tema in particolare relativamente a quanto illustrato nella lezione. A partire dal XIII secolo si diffuse una forma diversa di disputatio, definita quodlibet, che consentiva anche agli studenti e ai frequentatori esterni delle università di chiedere al maestro approfondimenti su uno specifico argomento. Le forme dell’insegnamento universitario rivestirono un’importanza centrale nella storia della pensiero medievale: gran parte della letteratura filosofica del XIII e XIV secolo, infatti, riportava fedelmente, attraverso dettagliati resoconti, le lezioni e le discussioni che si svolgevano nelle aule. In seguito venne affinata una forma sintetica di trascrizione di quegli «appunti», che prese il nome di quaestio.

In alto incisione raffigurante il New College di Oxford, fondato nel 1379 da William di Wykeham (1324-1404), vescovo di Winchester, con il nome di College of St Mary of Winchester at Oxford. 1675. Nella pagina accanto, in basso sigillo dell’Università di Parigi. XIII sec. Parigi, Centre Historique des Archives Nationales. Nel tondo compaiono, al centro, dall’alto, la Madonna con il Bambino in trono, due professori allo scrittoio e sei studenti che leggono; sulla sinistra, un vescovo, e, a destra, un santo che tiene una palma.

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L’ UOMO CHE SAPEVA TUTTO

Dotato di un intelletto finissimo, Alberto Magno assunse ruoli di primo piano tra i Domenicani e nella gestione di importanti questioni ecclesiastiche. E, accanto all’impegno in campo religioso, coltivò sempre una passione fortissima per la speculazione scientifica. Meritandosi, non a caso, l’appellativo di doctor universalis

LAUINGEN, 1193/1206-COLONIA, 1280

Alberto Magno (a sinistra) e Tommaso d’Aquino, particolare del dipinto San Paolo appare a Sant’Alberto Magno e San Tommaso d’Aquino, olio su tela di Alonso Antonio Villamor (1661-1729). Salamanca, Convento di San Esteban.

I

l Domenicano e santo Alberto Magno, noto anche come doctor universalis, è l’incarnazione ideale del filosofo rivoluzionario. Egli, infatti, riuscí nell’impresa di avvicinare due universi che apparivano ancora distanti: l’aristotelismo e il pensiero cristiano. Fino all’inizio del Duecento la tradizione scolastica latina aveva monopolizzato l’ambito della teologia, cercando di stabilire un equilibrio dialettico tra ragione e fede, ma non era riuscita a fornire un supporto compiutamente razionale alle verità rivelate della religione. I tempi per un’inversione di rotta erano, però, maturi. Già nel XII secolo, attraverso le crociate, i popoli dell’Occidente erano entrati in contatto con il Vicino Oriente, subendo l’influenza di culture imbevute di saperi scientifici: nel mondo arabo, per esempio, il medico Avicenna, nell’XI secolo, aveva saputo conciliare la scienza con i dogmi dell’islamismo, proprio servendosi delle argomentazioni di Aristotele. Alberto Magno lo fece nell’Europa cattolica sentendo il bisogno insopprimibile – come sottolinea il suo biografo italiano, Angiolo Puccetti – «di accorrere sui campi sterminati della vita pratica, dove gli uomini gemono, si agitano, furoreggiano, cadono, nel quotidiano, estenuante combattimento».

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ARCHITETTO E CAPOMASTRO Che cosa lega Alberto Magno al Duomo di Colonia? Secondo una tradizione popolare fu il filosofo tedesco a progettare la cattedrale e anche a dirigerne i lavori. La leggenda racconta che l’arcivescovo della città renana chiese ad Alberto di tracciare il piano di una grande chiesa. Chiuso nella sua cella a meditare, il domenicano chiese alla Vergine di aiutarlo nella realizzazione della difficile impresa. La Madonna apparve insieme ai Santi Quattro Coronati (Claudio, Nicostrato, Simproniano e Castorio, protettori degli scultori e degli architetti), che con squadre, regoli, compassi e livelle disegnarono il piano dettagliato di uno splendido duomo. La tradizione prese, a ogni modo, spunto da alcuni indizi reali. Il filosofo era ferrato anche in edilizia e potrebbe aver partecipato, come semplice osservatore o consulente, alla progettazione dell’edificio.

Nella pagina accanto Alberto Magno nel ritratto dipinto da Giusto di Gand per lo studiolo del duca di Montefeltro. 1472-76. Urbino, Galleria Nazionale delle Marche. A sinistra il Duomo di Colonia. Alberto Magno ebbe molti seguaci tra i suoi studenti e nella città tedesca si formò in suo onore una scuola, detta «albertina». Tra i suoi maggiori esponenti si possono ricordare Ugo Ripelin di Strasburgo, Ulrico di Strasburgo, Teodorico di Vriberg e Bertoldo di Moosburg.

L’anno di nascita di Alberto Magno viene fissato comunemente tra il 1193 e il 1206. Era originario di una piccola città dell’odierna Baviera, Lauingen, e discendeva da una famiglia facoltosa, i Bollstäd, appartenente alla nobiltà militare. Gli studi lo portarono lontano dalla terra d’origine: in compagnia dello zio, si trasferí a Padova dove si era formato il primo nucleo di quello che, nel 1222, divenne un vero e proprio ateneo, specializzato in materie come la filosofia e le scienze naturali. In questo clima culturale Alberto sviluppò la sua inclinazione per la ricerca empirica, approfondendo le opere di Aristotele. Di pari passo cresceva in lui la vocazione religiosa che, all’età di 16 anni, si era radicata nei suoi sentimenti piú profondi dopo un’apparizione mariana. La Vergine, in quella circostanza, gli aveva indicato la strada da percorrere in futuro: l’ingresso in convento nelle fila dei Domenicani.

Libri proibiti

Alberto visse con un certo disagio il suo primo periodo di militanza tra i Domenicani, a causa della distanza culturale con i maestri. Si sentiva in parte frustrato per non poter coltivare in modo compiuto la sua inclinazione verso le scienze positive in un ambiente nel quale dominavano le dispute teologico-esegetiche. I libri dei filosofi, dei naturalisti non erano oggetto di discussione e potevano essere consultati solo su dispensa delle massime autorità dell’Ordine. Di norma venivano considerati PENSIERO MEDIEVALE

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1245 si uní alla cerchia dei suoi studenti un giovane italiano, Tommaso dei conti d’Aquino, anch’egli destinato a rivoluzionare la filosofia medievale. Il 1245 segnò anche la consacrazione accademica con il conseguimento del magistero in teologia presso l’Università di Parigi. Alberto si fermò per tre anni nella capitale francese e, poco prima di lasciarla, insieme ad altre personalità del mondo cristiano francese, sottoscrisse un documento che condannava il Talmud, uno dei testi sacri dell’ebraismo: quel libro, secondo gli accusatori, conteneva «innumerevoli errori, abusi, bestemmie, cose nefande che offendono il pudore di chi riferisce e ascolta». Un giudizio pesante, in seguito al quale molte copie del testo rabbinico furono bruciate in piazza a Parigi nel 1248. Tornato in Germania, Alberto ricevette l’incarico di dirigere lo Studium Generale di Colonia, che poi divenne uno dei centri universitari piú importanti d’Europa. Accanto a sé, come principale collaboratore, volle il suo allievo prediletto, Tommaso d’Aquino. Nel frattempo proseguiva instancabilmente la sua esplorazione dell’universo scientifico, e non solo nel campo della pura teoria. Talvolta Alberto si chiudeva nel suo laboratorio di fisica e chimica per compiere esperimenti con alambicchi e altri strumenti da lui inventati per l’occorrenza. L’Inquisizione guardava con sospetto queste pratiche, sebbene volte a fini empirici, e le assimilava ad atti di stregoneria.

Una nomina forse poco gradita In alto pagina miniata di un’opera scritta da Alberto Magno proveniente dall’abbazia di Saint-Amand. XIII sec. Valenciennes, Bibliothèque municipale. Nella pagina accanto Predicazione di Sant’Alberto Magno, dipinto di artista anonimo. XV sec. Bellagio, chiesa della SS. Annunziata

testi pericolosi ed erano letti solo di sfuggita, per alcune, rare esigenze di documentazione. Demonizzare i saperi profani rispondeva a una logica eccessivamente «monastica», secondo la quale il raggio d’azione di un frate doveva esplicarsi soprattutto nella sfera mistica. Tuttavia, lo studio dei testi sacri non mancò di affascinare Alberto, contribuendo a fargli superare il difficile impatto iniziale. Poté comunque studiare a fondo le scienze naturali e, in poco tempo, sbalordí i suoi maestri per il livello complessivo del suo sapere. Per questo motivo, nel 1228, l’Ordine lo promosse al ruolo di lettore nel convento di Colonia.

La consacrazione accademica

Alberto si fece valere nell’attività didattica tanto da meritarsi l’assegnazione di altri importanti incarichi come lettore, nei conventi di Hildesheim, Friburgo, Ratisbona e Strasburgo. Nel

Il filosofo renano aveva un’indole modesta, come del resto prescriveva l’etica domenicana, e possiamo immaginare che abbia accettato malvolentieri l’elezione a provinciale di Germania, votata nel 1254 dai superiori dei conventi tedeschi. Tuttavia, sebbene umile e incline soprattutto allo studio, il pensatore domenicano aveva già dato prova di saper gestire eventi politici complessi e cosí, nel 1260, papa Alessandro IV gli affidò la diocesi di Ratisbona, diventata vescovato, che stava vivendo un momento di gravissima tensione interna. Era una carica di enorme importanza strategica e dotava il titolare di rilevanti poteri civili: la diocesi, infatti, possedeva il profilo giuridico di Stato temporale del Sacro Romano Impero. Ligio ai costumi domenicani, Alberto si tenne lontano, anche da prelato, da ogni lusso e per la sua abitudine di indossare sempre abiti modesti venne ribattezzato «vescovo scarpone». Al vertice della diocesi non intendeva restare a lungo e, nel momento in cui comPENSIERO MEDIEVALE

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Particolare di una miniatura raffigurante Alberto Magno intento all’osservazione degli astri celesti, dall’edizione di un’opera scritta dallo stesso filosofo e teologo tedesco proveniente dall’abbazia di Saint-Amand. XIII sec. Valenciennes, Bibliothèque municipale. I testi del doctor universalis, in virtú dell’enciclopedismo del suo autore, possono essere considerati come una autentica summa dei saperi del suo tempo, e rivelano il suo valore di scienziato oltre che di filosofo. prese di avere nemici interni, decise di rassegnare le dimissioni. Altre importanti missioni politiche lo impegnarono in seguito, in particolare nel 1263, quando ricevette la convocazione del neopontefice Urbano IV a Roma. Il papa gli chiese di reclutare in Germania il maggior numero possibile di fedeli per una crociata in Terra Santa che stava pianificando, ma il progetto naufragò quasi subito per la scomparsa prematura del pontefice. Nel 1274 morí Tommaso d’Aquino, e la notizia lo turbò a tal punto da fargli affermare che la luce della Chiesa ormai si era «estinta». In omaggio al geniale alunno, Alberto compí nel 1277 il suo ultimo faticoso viaggio, a Parigi, per difendere Tommaso dalle accuse di eresia che in quella sede gli aveva mosso l’arcivescovo Étienne Tempier. Gli anni finali dell’esistenza di Alberto segnarono un ritorno al passato, con la predicazione nei conventi dell’Ordine e una nuova, profonda immersione nello studio delle scienze naturali. Morí nel 1280 e fu sepolto nella chiesa di S. Andrea a Colonia, la città che sentiva piú sua. Nel 1622 venne beatificato, ma la sua canonizzazione si ebbe, invece, solo nel 1931, sotto il pontificato di Pio XI.

Il «Varrone germanico»

L’azione intellettuale esercitata da Alberto Magno sul Medioevo «è stata probabilmente la piú potente di tutte, senza eccettuare san Tommaso d’Aquino, la cui opera si estende a un dominio meno vasto, ma fu piú profonda e durevole». Quest’opinione, espressa dal medievista belga Pierre Mandonnet, fu condivisa da molti storici e filosofi in età contemporanea. Alcuni definirono Alberto il «Varrone germanico» perché, come lo scrittore dell’antica Roma, vantava un sapere enciclopedico. Gran parte dello scibile umano aveva trovato spazio negli studi del pensatore domenicano, che si documentava su testi greci, arabi, ebreaici ed egiziani, vista l’assenza di una tradizione scientifica nel mondo latino e germanico. PENSIERO MEDIEVALE

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MAESTRO DI DANTE ALIGHIERI Dante Alighieri considerava Alberto Magno uno dei suoi maestri. Grazie al pensatore tedesco l’autore della Divina Commedia conobbe la storia della filosofia greca. Dante maturò, poi, convinzioni simili a quelle del domenicano di Lauingen sui rapporti tra teologia e studio delle scienze naturali: esistevano una verità di fede e una di ragione, anche se alla fine, a prevalere era la prima. Nel Convivio, il poeta fiorentino teorizzò la similitudine tra luce e bontà divina riprendendo la tesi di Alberto Magno contenuta nel De intellectu et intelligibili. Per entrambi, poi, l’anima umana era posta a un livello intermedio tra la materia e il puro intelletto divino. Nella Divina Commedia Dante collocò Alberto Magno nel Paradiso, tra gli spiriti sapienti, accanto a Tommaso d’Aquino, Pietro Lombardo, il re Salomone e il giurista Graziano.

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Questo amore sconfinato per lo studio della natura perseguiva un obiettivo ben preciso: dotare la cultura cattolica di una base filosoficorazionale. Si trattava non soltanto di un’esigenza dottrinale, ma di una necessità storica imposta dalle grandi trasformazioni in atto nella società medievale che avevano reso accessibile il potere alle forze produttive. I dogmi imposti dall’alto, recepiti solo con un atto di fede, non potevano garantire una predicazione efficace di fronte al diffondersi delle logiche mercantili e del sapere scientifico.

Dispute appassionanti

Le nuove élite borghesi, ma anche altri ceti sociali, si appassionavano intorno alle dispute sulla fisica, l’astronomia, il diritto, l’arte, l’etica, la medicina, l’economia, la letteratura. E la cultura cristiana non poteva rischiare di perdere il


Non mancarono, comunque, resistenze da parte dei teologi tradizionalisti che vedevano con sospetto il diffondersi di una dottrina scientifica arricchita da influssi arabo-islamici. In fondo la diffidenza della cultura cattolica occidentale era comprensibile, considerato che per la prima volta nella storia della Chiesa una sapienza «pagana» si affiancava alla teologia con la pretesa di spiegare il mistero della vita. Alberto Magno, però, non aveva compiuto un’operazione spregiudicata di fusione tra le tesi di Aristotele e le verità della fede. Nei suoi scritti tenne sempre a precisare che l’ambito della filosofia e della teologia dovevano restare separati: per le questioni religiose, il punto di riferimento restavano sempre i padri della Chiesa, mentre per le discipline scientifiche occorreva prestare fede agli studiosi della realtà fisica.

Il tributo a Platone

Miniatura raffigurante Dante e Beatrice che incontrano Tommaso d’Aquino e Alberto Magno, da un’edizione della Divina Commedia illustrata da Giovanni di Paolo. 1450. Londra, British Library. Sotto di loro siedono dieci Dottori della Chiesa, tra cui Beda, Ambrogio, Isidoro e Boezio.

contatto con i sentimenti popolari piú diffusi. Anche la rigida tradizione scolastica, pertanto, sebbene ancorata alle ferree tesi volontaristiche di sant’Agostino, seguí il corso della storia. Alberto Magno e in seguito Tommaso d’Aquino individuarono nella logica aristotelica il sistema ideale per costruire una teoria razionalista dell’universo, culminante con la figura di un motore immobile divino. Questa intuizione, osserva lo storico della filosofia Cesare Vasoli, «operò all’interno dello stesso aristotelismo, e nell’ambito di una pura discussione filosofica, una delle piú geniali “conquiste” che sia mai stata compiuta dal pensiero cattolico ortodosso». La rivoluzione introdotta dai due domenicani incise in modo indelebile sul destino del pensiero cristiano che molti secoli dopo adottò il tomismo di derivazione albertina come filosofia «ufficiale».

La ragione filosofica poteva, quindi, procedere in modo autonomo nel suo campo specifico senza alcuna interferenza? In realtà, la separazione tra i due ambiti non appariva assoluta, poiché le conoscenze razionali e l’ordine delle cose contenevano sempre riflessi di origine trascendente. Sebbene ispirato dalla logica aristotelica, Alberto non cancellò la tradizione neoplatonica, che è ben individuabile nella sua teoria degli universali ante rem (idee del creatore) e in re (forme rintracciabili nelle cose): attraverso la conoscenza, le forme in re potevano essere riportate in una dimensione simile allo stato originario, cioè alla loro pura essenza contenuta nella mente di Dio. Un altro tributo a Platone è contenuto nell’analisi della controversa tesi sull’eternità del mondo, sostenuta da Aristotele. Pur restando nel dubbio, Alberto dichiarò piú verosimile l’ipotesi che la creazione fosse avvenuta in un determinato momento della storia. Le informazioni storiche riportate dal domenicano tedesco sulla filosofia greca non furono esenti da critiche. Pur riconoscendo la sua originalità speculativa, piú di un commentatore sottolineò i refusi che Alberto aveva compiuto nella sua analisi sulla sapienza ellenica: definí Pitagora e Platone stoici, Socrate un macedone, Anassagora ed Empedocle epicurei. Ad Alberto Magno si contestò, inoltre, la timidezza nel tentare un’organica riforma del pensiero aristotelico in modo da renderlo perfettamente conciliabile con i dogmi cristiani. Ma di quest’operazione aveva solo gettato i semi: le piante germogliarono grazie alle intuizioni del suo discepolo Tommaso d’Aquino. PENSIERO MEDIEVALE

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PROTAGONISTI TOMMASO D’AQUINO «Ah, voi lo chiamate bue muto! Io vi dico, quando questo bue muggirà, i suoi muggiti si udranno da un’estremità all’altra della terra». Cosí, nel 1245, Alberto Magno difese il suo studente prediletto, Tommaso d’Aquino (1225-1274), davanti ai compagni di classe, che ironizzavano sull’indole taciturna di quest’ultimo. Nato in Ciociaria da una famiglia aristocratica, l’allievo avrebbe poi superato il maestro nell’ambizioso disegno dottrinario di conciliare le verità rivelate con la logica aristotelica. Tommaso, che sin da piccolo aveva manifestato l’intenzione di entrare in un Ordine religioso, trascorse diversi anni della sua adolescenza nel monastero di Montecassino, come oblato e, nel 1239, si trasferí a Napoli per compiere gli studi presso la facoltà delle arti della locale Università fondata da Federico II. Il soggiorno nella città campana incise profondamente sui suoi futuri orientamenti filosofici. L’ateneo campano, infatti, era un polo didattico aperto ai contributi derivanti da ogni disciplina e tradizione culturale, anche ai contestati testi aristotelici di metafisica e filosofia naturale che a Parigi, invece, avevano subito la censura delle autorità ecclesiastiche. In un ambiente contrassegnato dalla libera circolazione dei saperi, Tommaso lesse avidamente i testi «proibiti» dello Stagirita e dei pensatori arabi che li avevano esportati in Occidente, maturando le linee guida della sua dialettica: l’applicazione rigorosa dell’epistemologia aristotelica al dettato teologico, un «esperimento» dottrinario che sancí il definitivo distacco della cultura cristiana dall’antica tradizione del neoplatonismo. Nel 1244, contro il volere dei genitori, decise di entrare nell’Ordine domenicano e si recò a Parigi per completare la propria formazione. In terra francese seguí le lezioni del filosofo tedesco Alberto Magno, un incontro che risultò determinante per affinare le sue tesi, e divenne anch’egli docente. Insegnò in un primo momento all’Università parigina e successivamente a Napoli, città che amava moltissimo.

La verità a posteriori Con Tommaso d’Aquino l’annosa questione del confronto tra ragione e fede trovò la sua piú compiuta composizione, sia sul piano concettuale che metodologico. Secondo il filosofo domenicano, entrambi gli ordini di verità possono giungere, nei loro distinti campi d’indagine, a dimostrare l’esistenza di un’entità divina che governa le sorti dell’universo. Per rintracciare la presenza di Dio, oltre che al dettato teologico, si può ricorrere a ragionamenti a posteriori, ossia a tecniche di ricognizione della realtà sensibile proprie delle discipline di ispirazione naturalistica, partendo da un assunto elementare: ogni movimento suppone una causa, un atto che lo attivi (come per esempio una fila di palle che si spostano in quanto ognuna di esse viene urtata dalla precedente) e, alla base di qualsiasi fenomeno della realtà, esiste quindi una «propulsione». Accertato, inoltre, che gli oggetti non possono spostarsi da soli, occorre risalire a ritroso nella catena delle cose in movimento per comprenderne la dinamica iniziale. Ma che cosa c’è alla base di tutto? Solo la presenza di un motore immobile può dare il via al processo. Queste argomentazioni volte a fornire la prova cosmologica dell’esistenza di Dio vengono espresse da Tommaso mediante la dottrina delle «cinque vie», contenuta nella Summa theologiae, il piú importante trattato di teologia del Medioevo.

Oltre Aristotele Per giungere alla conoscenza piú profonda del reale, l’individuo deve attivare innanzitutto le sue facoltà sensibili, in quanto l’anima ha solo una vaga percezione della luce divina che informa i primi principi. L’esperienza sensibile viene poi «aristotelicamente» rielaborata attraverso un processo di astrazione delle species, sulle quali l’intelletto attivo proietta la propria capacità di rendere universale ciò che si rivela multiforme. Il punto di approdo del problema metafisico separa, invece, il pensatore domenicano da Aristotele: il mondo non si manifesta come eterno e necessario, ma è stato creato ex nihilo da una mente ordinatrice, identificata appunto in Dio. Anche sul problema antropologico, Tommaso procede da una base speculativa aristotelica, per poi distaccarsene: l’uomo si compone di un «sinolo» di materia e forma, ossia di corpo e anima, ma quest’ultima è dotata di un profilo superiore e sopravvive alla morte del corpo.

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Scomparto del Polittico Demidoff raffigurante san Tommaso d’Aquino, tempera su tavola di Carlo Crivelli. 1476. Londra, National Gallery.


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SIGIERI DI BRABANTE Nel XIII secolo, in alcuni suoi sviluppi, l’aristotelismo assunse forme dialettiche cosí radicali da risultare inconciliabili con la dottrina ufficiale della Chiesa. Il pensatore fiammingo Sigieri di Brabante (1240-1280), ispirandosi alle rielaborazioni di Averroè sulla metafisica del filosofo di Stagira, affermò perentoriamente che «coloro che intraprendono l’esposizione delle opere di Aristotele non ne debbono nascondere il pensiero anche se contrario alla verità». Era un atto d’accusa nei riguardi degli orientamenti dottrinari piú diffusi all’interno della Scolastica e, in particolare, delle argomentazioni di Tommaso d’Aquino, che venivano valutate come una forzatura della tradizione aristotelica. Sigieri afferma che la ragione e la fede, procedendo lungo strade diverse, non possono approdare a conclusioni concordanti in grado di provare la fondatezza delle verità teologiche. La prima, infatti, tende a dimostrare con assoluta certezza assiomi contrari alla fede, ma si deve poi sottomettere alla superiore autorevolezza delle verità divine. Per la cultura cattolica, asserire l’esistenza di realtà incontrovertibili in grado di negare fondamento ai dogmi religiosi apparve subito inaccettabile: contro questa argomentazione si scagliò in modo veemente Tommaso d’Aquino, contestandone alla radice la fondatezza nel De unitate intellectus contra Averroistas. Anche altre argomentazioni del pensatore fiammingo vennero bollate come «eterodosse»: per esempio il ritenere, in senso averroistico, che l’universo sia guidato da leggi della necessità, alle quali lo stesso Dio si sottomette; l’affermare, inoltre, che i fenomeni della realtà si riproducono in modo indefinito, dando luogo a un processo storico caratterizzato da eventi ciclici (chiara anticipazione del concetto di «eterno ritorno», derivante dalla mitologia classica, e secoli dopo formulato in modo piú sistematico da Giambattista Vico e da Friedrich Nietzsche). Sigieri insegnò alla facoltà delle arti dell’Università di Parigi e, nel 1276, venne accusato di eresia dall’inquisitore di Francia, Simone du Val. Trasferitosi in Italia, a Orvieto, fu assassinato – secondo la tesi piú accreditata – da un chierico psicopatico, ma c’è chi sospettò che i mandanti dell’omicidio fossero alcuni Francescani e Domenicani. Tra le sue opere, si ricordano il De intellectu, in risposta a Tommaso d’Aquino, le Quaestiones in tertium de anima e il De anima intellectiva. Alla sua figura si attribuisce una terzina della Divina Commedia, nella quale il filosofo viene definito come colui «che sillogizzò invidiosi veri», espressione dal significato incerto: per alcuni studiosi indicherebbe colui che teorizzò verità pericolose per la Chiesa, per altri invece un pensatore avversato per tesi controverse.

BOEZIO DI DACIA La guerra dialettica all’«averroismo latino» di derivazione aristotelica colpí anche il teologo danese Boezio di Dacia (1245-1290), accomunato nelle persecuzioni al suo maestro, Sigieri di Brabante. Anch’egli insegnante nella facoltà delle arti dell’Università di Parigi, sosteneva che ragione e fede indagano su verità diverse, inconciliabili (la cosiddetta «dottrina della doppia

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In basso il filosofo islamico Averroè, particolare del Trionfo di San Tommaso, affresco di Andrea di Bonaiuto realizzato per il Cappellone degli Spagnoli, antica sala capitolare della chiesa fiorentina di S. Maria Novella. 1365-1367.


verità»). Il pensatore scandinavo, pur assegnando – come Sigieri – maggiore autorevolezza alle argomentazioni teologiche, asserisce che l’uomo può raggiungere la felicità in terra anche con l’esercizio dell’attività intellettiva: «La felicità si conquista in questa vita e non in un’altra», scrisse in uno dei suoi trattati piú noti – il De summo bono sive de vita philosophi – , attirandosi la condanna delle autorità ecclesiastiche. Di fronte alle certezze affermate dal pensiero cristiano – sottolinea Boezio di Dacia – il filosofo non ha la capacità di esprimere valutazioni razionali in quanto «i principi della scienza non giungono a illuminare un tale oggetto» e può solo percepire che il sommo bene si trova in una dimensione trascendente. Ne consegue che il bene massimo realmente raggiungibile è quello prodotto dalla ricerca speculativa: «Non c’è condizione di vita superiore a quella dedicata alla filosofia».

PIETRO ISPANO Piú noto per le sue funzioni istituzionali, lo scienziato e filosofo portoghese Pietro Ispano (1210-1277) fu autore di fondamentali testi in diversi ambiti disciplinari. Eletto papa con il nome di Giovanni XXI, morí a pochi mesi dalla nomina in circostanze tragiche, schiacciato dal cedimento del soffitto del proprio palazzo. Il decesso divenne oggetto di illazioni e leggende, legate alle competenze mediche del pontefice, da alcuni ritenute affini a pericolose pratiche di magia. Proprio alla medicina Pietro Ispano dedicò il fortunato Thesaurus pauperum – in cui sono raccolte ricette e terapie per combattere le patologie maggiormente conosciute all’epoca – che rappresentò uno dei testi di riferimento in materia almeno fino al Seicento. Pubblicò anche altri trattati medici: i Problemata, la Summa medicinae e il Liber de conservanda sanitate. In ambito filosofico si schierò contro le piú radicali tendenze naturalistiche dell’aristotelismo, interessandosi solo alle opere di logica del filosofo greco. Di logica – definita «l’arte delle arti e la scienza delle scienze» – scrisse diffusamente nella sua opera piú importante, le Summulae Logicales, destinata a divenire, – osserva Cesare Vasoli – nel corso di pochi anni, il piú diffuso manuale sull’argomento delle scuole occidentali, «oggetto di commento dei filosofi di tutte le tendenze». Nei suoi 12 libri, il trattato illustra un metodo utile per distinguere i vari tipi di sillogismi formulati da Aristotele, servendosi di parole, vocali e versi. Nell’ultima parte delle Summulae viene, poi, elaborato un sistema interpretativo che precorre la «logica modernorum», fornendo le basi allo sviluppo della semantica attraverso l’applicazione di un significato ai singoli termini (terminismo). L’idea tradizionale della «significatio» ne risulta trasformata, non riferendosi piú solo alla cosa e alle forme, ma al suo concetto, a ciò che l’oggetto evoca nei pensieri: la parola «uomo» può riferirsi singolarmente a una serie di individui; oppure, per citare un altro esempio, il termine «Platone» mantiene un suo significato anche se il soggetto citato non è piú in vita. Alla significatio si affianca poi la suppositio, con la quale un termine che riveste un significato specifico, acquista una serie di proprietà collegate.

Stemma papale di Giovanni XXI, al secolo Pietro di Giuliano e piú noto come Pietro Ispano, scienziato, archiatra di Gregorio X e filosofo di origine portoghese che salí al soglio pontificio nel 1276.

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RAIMONDO LULLO In un’epoca di grandi fermenti speculativi, durante i quali la logica formale e le scienze erano progressivamente avviate a ritagliarsi uno spazio di autonomia, il pensatore catalano Raimondo Lullo (1232-1316) perseguí l’obiettivo di porle al servizio della teologia e della fede. La sua Ars magna – sistema di logica simbolica formulato al fine di fornire una chiave di lettura a ogni fenomeno della realtà – si prospettava come una missione di respiro religioso, volta a dotare di armi dialettiche la Chiesa per convertire gli infedeli, in un periodo in cui la cristianità occidentale era minacciata dalle imprese militari di Mongoli e islamici. Nato da una famiglia aristocratica e destinato a una brillante carriera negli ambienti di corte, Raimondo Lullo si convertí al cattolicesimo intorno ai trent’anni di età, in seguito a una visione, durante la quale gli era apparso un crocifisso, episodio che egli stesso raccontò nella Vita coetanea. Da missionario laico, viaggiò in molte regioni d’Europa, in particolare sul versante meridionale del continente, dove, unitamente ai propositi evangelizzatori, cercò anche di favorire il dialogo tra cattolici, islamici ed Ebrei. Secondo la leggenda, Lullo, proprio a causa della sua attività missionaria e dei tentativi di convertire gli «infedeli», sarebbe stato lapidato dagli Arabi e ucciso, ma è invece piú probabile che sia morto a Maiorca, dopo esservi tornato intorno al 1315 (o 1316). Nella sua opera principale, Ars magna generalis et ultima, il filosofo individua un sistema analitico, composto di termini semplici, attraverso il quale ogni fenomeno può essere scientificamente interpretato: sono nove predicati assoluti (bontà, grandezza, eternità, potenza, sapienza, volontà, virtú, verità, gloria), nove relativi (differenza, concordanza, contrarietà, principio, mezzo, fine, maggioranza, eguaglianza, minoranza), nove questioni (se? che? di che? perché? quanto? quale? quando? dove? in che modo?), nove soggetti (Dio, Angelo, cielo, uomo, l’immaginativo, il sensitivo, il vegetativo, l’elementativo, e lo strumentativo), nove vizi e nove virtú. Dalla combinazione dei vari elementi, come criterio applicabile caso per caso, si giungerebbe a definirne la verità scientifica, ma non solo: i passaggi e le relative interazioni conducono, alla fine, al superamento delle mere capacità intellettuali e a stabilire un contatto con le verità divine, le «cause prime» di ogni cosa. Questo ingegnoso tentativo di fondare una tecnica interpretativa valida per tutti gli aspetti dell’esistenza, attraverso una complessa rete di parametri, affascinò numerosi filosofi di epoca rinascimentale e moderna, in particolare Giordano Bruno e Leibnitz.

Nella pagina accanto illustrazione realizzata per un’edizione manoscritta della grande opera enciclopedica di Raimondo Lullo Arbre de ciència (1296). Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana. In basso Firenze, chiostro grande della chiesa di Ognissanti. Medaglione con il ritratto di Matteo di Acquasparta. 1602.

MATTEO DI ACQUASPARTA All’interno del movimento di opposizione al tomismo si teorizzò anche la restaurazione dell’antica filosofia patristica, principalmente delle tesi di sant’Agostino. Il teologo umbro Matteo di Acquasparta (1240-1302), Francescano fervente e allievo di Bonaventura di Bagnoregio, sostenne che ogni disciplina utilizzata per lo studio della realtà è in grado di fornire una compiuta conoscenza solo se ispirata dalla luce divina. Contro l’argomentazione di Tommaso d’Aquino – secondo il quale è l’intelletto umano a compiere in autonomia il processo di astrazione dei caratteri universali delle cose – il pensatore umbro rimarca la necessità di conoscere l’essenza dei fenomeni piú in profondità rispetto a quanto possano coglierla gli individui. L’intelletto umano – sottolineò nel suo Commentarius in libros sententiarum – «è soggetto a mutamenti e non ha gli strumenti per astrarre ciò che, come la verità, riveste un carattere immutabile e eterno». Matteo di Acquasparta, a ogni modo, non rigetta in toto l’aristotelismo: la verità divina ha, comunque, bisogno anche di forme a posteriori – i sensi – per essere compiutamente percepita.

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ENRICO DI GAND Il doctor solemnis, soprannome con cui è noto il teologo fiammingo Enrico di Gand (1217-1293), portò alle estreme conseguenze la polemica antitomistica, negando la distinzione tra essenza ed esistenza. L’essenza divina – afferma nei suoi scritti principali, i Quodlibeta e la Summa theologica – possiede già in sé l’essere di riferimento che informa ogni singolo fenomeno e oggetto della realtà. E, per dare vita all’umanità, all’essere insito in ogni individuo, Dio si prodiga in un continuo atto di creazione. Enrico di Gand, che fu maestro di teologia presso l’Università di Parigi, nega anche la fondatezza di qualsiasi tesi sulla necessità della manifestazione divina: ogni atto di emanazione del creatore è libero e non soggetto ad altre leggi eterne che ordinano l’universo.

RUGGERO BACONE I prodromi della rivoluzione scientifica che nel Rinascimento si affermò come principale metodo di indagine della realtà, si manifestarono in modo eclatante nelle opere del filosofo inglese e frate francescano Ruggero Bacone (1214-1294). Conosciuto con l’appellativo latino di doctor mirabilis, subí l’influenza di un altro precursore anglosassone dell’empirismo, Roberto Grossatesta, e frequentò sia l’Università di Oxford che quella di Parigi, appassionandosi ai testi di Aristotele. In età adulta conquistò grande fama come studioso e fu molto apprezzato da papa Clemente IV, il quale gli chiese di poter consultare uno dei suoi scritti, l’Opus maius. Dopo la morte del pontefice, che era divenuto suo protettore, il pensatore inglese dovette fronteggiare le critiche del generale del suo Ordine, il francescano Gerolamo d’Ascoli, e fu condannato a un periodo di clausura, con l’accusa di aver diffuso idee assimilabili all’alchimia. Bacone definí la metafisica la piú eccelsa delle scienze ed elesse la ricerca a criterio guida di ogni filosofia, non ritenendo sufficientemente rigorosi i metodi aristotelici di indagine della realtà oggettiva e trascendente. Per giungere a una conoscenza compiuta non basta affidarsi alla

Qui accanto miniatura raffigurante Dio come il grande architetto dell’universo, dal Codex Vindobonensis 2554. 1250 circa. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek. Sulle due pagine Ruggero Bacone conduce un esperimento, illustrazione tratta dall’opera Symbola avreæ mensæ dvodecim nationvm, stampata per la prima volta a Francoforte nel 1617.

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ragione, ma è necessario fare ricorso all’esperienza: una dimostrazione razionale, per quanto inattaccabile sul piano logico, non può dimostrare con assoluta certezza una verità, mentre il «viverla» sí. Secondo il filosofo inglese esistono tre tipi di esperienza: quella «interna» che si compie entrando in contatto con l’emanazione divina; quella «esterna», ricavabile con la ragione; e quella «sensibile», che si realizza appunto tramite i sensi. Sperimentare l’esperienza interna rappresenta un atto mistico, che evoca non solo l’illuminazione agostiniana, ma anche il contesto di pratiche esoteriche, delle quali Bacone fu un appassionato studioso. Quanto all’esperienza esterna e sensibile, invece, egli ritiene la matematica la disciplina ideale dalla quale attingere in funzione di uno studio oggettivo della realtà.

GIOVANNI DUNS SCOTO

I primi segni del dissolvimento della scolastica si registrarono con le tesi del teologo scozzese Giovanni Duns Scoto (1265-1308), il doctor subtilis, noto per la sua arguzia. Entrato giovanissimo nell’Ordine dei Minori, studiò dapprima a Oxford e in seguito all’Università di Parigi, dove ottenne il baccellierato. Nel 1303 fu però costretto a lasciare la Sorbona, insieme ad alcuni suoi confratelli, per essersi schierato al fianco di Bonifacio VIII nella guerra diplomatica che stava contrapponendo il pontefice a Filippo il Bello. Morí in Germania, a Colonia, a soli 40 anni, lasciando tuttavia numerosi scritti, perlopiú basati su appunti tratti dalle sue lezioni, tra i quali il De primo principio, l’Ordinatio, la Reportatio Cantabrigiensis, e la Reportata Parisiensia. Schierato su posizioni antitomiste, Duns Scoto teorizzò la netta separazione tra ragione e fede, l’impossibilità di conciliarle a fini teologici: alla filosofia – secondo il pensatore scozzese – mancano gli strumenti per indagare sulle verità di fede, in quanto l’uomo non ha la capacità di conoscere da solo le rivelazioni contenute nei Vangeli. Le scienze filosofiche, perciò, la cui suprema forma di conoscenza è la metafisica, studiano l’«essere» (principio o sostanza che unifica tutte le cose) attraverso le categorie ontologiche, giungendo a determinare l’evidenza di un fenomeno grazie a metodi sillogistici e con il piú alto grado di astrazione, in modo da poter ricomprendere «tutto ciò che è». In nessun caso, però, la filosofia ha la facoltà di indagare piú in profondità, di dimostrare l’esistenza di una dimensione divina. La teologia si presenta, invece, come una disciplina pratica, che trascende la ragione e seleziona norme, credenze, valori, a cui uniformarsi per raggiungere la salvezza. Pertanto, mentre la teologia si prefigge uno scopo edificante, la filosofia persegue la pura conoscenza e le strade delle due discipline sono destinate a non incontrarsi mai. Tra Creatore e creature c’è, tuttavia, un rapporto di «univocità», ovvero di identità di termine: entrambi agiscono nella sfera dell’«essere» e, conseguentemente, assumono qualità trascendentali applicabili a tale identificazione. Il ruolo centrale assegnato all’«essere» rappresenta uno degli elementi piú moderni del pensiero di Duns Scoto, un concetto che molti secoli piú tardi trovò una compiuta rielaborazione, in particolare nell’ambito dell’esistenzialismo tedesco. Nella visione di Duns Scoto prevale il carattere volontaristico rispetto a quello intellettualistico che dominò gran parte della scolastica: «La volontà in quanto atto primo, è libera ad atti opposti; è libera pure di tendere, mediante tali atti opposti, a opposti oggetti e inoltre di produrre effetti opposti». Sia nell’uomo che in Dio la volontà è libera. Grazie all’intelletto, l’individuo apprende quali sono i dogmi religiosi e può decidere in modo arbitrario se rispettarli o meno. Netta si rivela, quindi, la distanza con il tomismo, che definiva necessari i precetti divini, il loro essere oggettivamente giusti. Per Duns Scoto, al contrario, le verità di fede non vanno seguite in quanto conformi a principi eterni, ma perché provengono da Dio, il quale, con un atto volontaristico le ha poste. Si ripropone la questione sollevata da Platone nell’Eutifrone, sotto forma di dialogo, sul primato dell’intelletto o della volontà: nell’opera, Socrate si chiede se «ciò ch’è bene fare piace agli dèi perché è bene di per sé, o è bene perché piace agli dèi». Se sia cioè la sola volontà a produrre il bene o quest’ultimo a incidere su di essa.

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Nella pagina accanto Eterno benedicente, tempera su tavola a fondo oro attribuita alla cerchia di Piermatteo d’Amelia. 1490-1500. Orte, Museo Diocesano d’Arte Sacra. In basso miniatura raffigurante Giovanni Duns Scoto con alcuni allievi.


LW’ ESSERE Fin dall’età classica, uno dei problemi fondamentali della filosofia fu stabilire l’identità dei principi ultimi delle cose, l’esistenza di un «predicato» per ogni manifestazione della realtà che risultasse eterno e immutabile. Il primo a introdurre il concetto di «essere» fu, nel V secolo a.C., il greco Parmenide, il quale, nel poema Sulla natura, coniò la definizione «l’essere è e non può non essere», un concetto formulabile solo dalla ragione al fine di ordinare le molteplici percezioni dei sensi. Una tesi che confutava le affermazioni di un suo illustre contemporaneo, Eraclito, sulla realtà interpretata come «divenire», principio di eterno mutamento. Piú tardi, Platone criticò la visione totalizzante di Parmenide, affermando tuttavia che l’essere può identificarsi con l’ordine delle cose: secondo il pensatore ateniese esiste anche un «non essere», che si differenzia dall’essere, pur non mettendolo in discussione. Aristotele si pose in continuità con Platone, definendo l’essere come un principio unificante della realtà, ma riconobbe anch’egli la presenza di un non essere (come ente che deve ancora passare dalla potenza all’atto). Lo Stagirita fornisce un profilo concreto all’essere, identificandolo con la sostanza, e ne tratteggia una definizione piú razionale. In età medievale il tema tornò in auge, innestandosi nelle elaborazioni dei Padri della Chiesa: l’essere fu identificato con Dio da sant’Agostino e Severino Boezio, come ipsum esse (essere in sé), che si differenzia da quello delle creature, dipendente invece da un soggetto superiore. Nel XIII secolo Tommaso d’Aquino, ispirandosi alla teoria aristotelica, interpretò l’essere come una perfezione assoluta prodotta dall’atto puro (cioè Dio), che si differenzia dal non essere della mera potenza (gli enti creaturiali). Ne deriva che gli uomini sono solo in minima parte ricompresi nella nozione di essere, esclusivamente per il loro rapporto analogico con il Creatore. Con Giovanni Duns Scoto, l’essere venne definito nella sua totale univocità, oltre le manchevolezze e le imperfezioni della realtà sensibile, riconoscendo all’uomo la capacità di accertarne l’esistenza. La visione di Duns Scoto rappresentò la base strutturale dalla quale la filosofia moderna rielaborò la questione: da Cartesio (1596-1650), che riteneva l’essere formulabile dalle facoltà razionali dell’intelletto, a John Locke (1632-1704), che ne collocava il campo di indagine nella realtà sensibile, quindi su un terreno naturalistico. In età contemporanea, Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) sostenne invece

che l’essere rappresenta solo l’inizio di un processo dialettico, e quindi non il principio ultimo delle cose o il limite invalicabile della conoscenza umana. Friedrich Nietzsche (1844-1900) diede all’essere un significato piú dinamico, connettendolo al concetto di «volontà di potenza» inteso come impulso a rinnovare continuamente la propria prospettiva esistenziale e i riferimenti valoriali. L’ultimo importante contributo in materia venne dall’esistenzialismo tedesco, in particolare da Martin Heidegger (1889-1976), il quale contestò le interpretazioni empiriste dell’essere orientate a oggettivarlo nella realtà. Heidegger sottolinea, a riguardo, la profonda differenza tra il concetto di «ente» (ciò che ci circonda) e l’«essere» (la condizione che permette agli enti di manifestarsi), in un loro rapportarsi ai vari tempi della storia. L’essere, pertanto, non è Dio, né una sostanza eterna e immutabile, ma rappresenta una misteriosa apertura all’esperienza, una scintilla pronta a determinare una realtà mutevole. PENSIERO MEDIEVALE

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Ragionamenti rivoluzionari Fra Tre e Quattrocento, la filosofia assume connotazioni quasi eversive: si fa sempre piú arduo, infatti, conciliare la visione razionale delle cose con i dogmi della fede. Tanto che, per alcuni studiosi, è questa l’epoca che pone le basi dell’ateismo

L

a crisi della scolastica si manifestò nel momento del suo massimo sviluppo, per effetto della prima reazione al tomismo maturata negli ambienti francescani. Il ritorno in auge delle tesi agostiniane – con le quali si privilegiava la teologia, mettendo in discussione l’equilibrio raggiunto tra ragione e fede – finí con il generare una netta separazione di ambiti: lo studio dei fenomeni della realtà da una parte e la rivelazione divina dall’altra, in una prospettiva di incomunicabilità. Questa «tempesta culturale», che esplose in tutto il suo fragore nel XIV secolo, avviò inconsapevolmente un vero e proprio processo di «laicizzazione della fede». Recisi i legami di dipendenza dalla teologia, la filosofia rafforzava le proprie prerogative, invadendo il campo delle verità rivelate, con la pretesa di sottoporle a una validazione dialettica. Con il risultato di secolarizzarle. Secondo alcuni studiosi di età contemporanea, la crisi del sentimento religioso e le radici dell’ateismo moderno non andrebbero ricercate nelle argomentazioni razionaliste di Cartesio e in quelle empiriste di Hume, ma proprio nell’ultima fase della scolastica. Anche la storia e il naturale corso degli eventi avevano comunque contribuito al cambiamento di prospettiva nel pensiero medievale. Con l’affermarsi delle monarchie nazionali e la conseguente ascesa della borghesia, varie categorie professionali avevano acquisito potere nella gerarchia sociale: dai banchieri agli imprenditori, dagli armatori ai proprietari terrieri, dagli architetti ai maestri, dai burocrati ai notai, dai medici ai precettori; una moltitudine di soggetti interessati alla crescita e al diffondersi dei «saperi profani», delle scienze, della tecnica. Si assisté, pertanto, alla proliferazione di discipline e di competenze, che contribuirono alla frammentazione della cultura e a far diluire quel tradizionale collante – costituito dalle immutabili verità di fede e dagli universali creati da Dio – che teneva serrate le varie realtà fenomeniche. La crisi del papato, nel pieno della cosiddetta «cattività avignonese», indebolí inoltre l’autorità religiosa, sancendo l’ascesa del pensiero politico, nel quale predominavano gli studi giuridici, economici, sociali. In questo contesto, emerse con progressiva incidenza un protagonista nell’ambito delle riflessioni filosofiche: l’esperienza. Ogni conoscenza divenne sensibile, oggettiva. Indipendente non solo dagli influssi trascendenti, ma anche dall’astratto intellettualismo della ragione.

MIniatura raffigurante una zecca, da un’edizione dell’Etica Nicomachea di Aristotele tradotta in lingua francese da Nicola d’Oresme, pensatore della tarda scolastica. XV sec. Rouen, Bibliothèque municipale. 96

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CRONOLOGIA 1304

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Dante comincia a scrivere la Divina Commedia.

Il papato trasferisce la propria sede da Roma ad Avignone.

Inizia la guerra dei Cent’Anni che vede contrapposti i regni di Francia e d’Inghilterra.

Si consuma il Grande Scisma.Urbano VI cerca di sottrarre il papato all’influenza francese e i cardinali, quasi tutti transalpini, si ribellano ed eleggono un antipapa. PENSIERO MEDIEVALE

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La crisi della scolastica

PENSIERI DI UNA MENTE AFFILATA

Guglielmo di Ockham, uno dei maestri del pensiero filosoficoreligioso del Trecento, associò all’amore per la speculazione quello per la sobrietà e il rigore dell’Ordine francescano: inclinazioni che innescarono contrasti durissimi con papa Giovanni XXII

OCKHAM, 1285 circa-MONACO DI BAVIERA, 1349 o 1350

N

ella primavera del 1349, Guglielmo di Ockham, il Francescano inglese che aveva impresso un nuovo corso alla storia del pensiero cristiano, moriva nella sua casa di Monaco. Dopo aver funestato l’Olanda e l’Austria, la peste era giunta anche in Germania, decimando la popolazione e colpendo anche il filosofo. Nonostante il freddo, giaceva con indosso solo la tunica, quasi a voler simboleggiare l’appartenenza fino in fondo al «partito della povertà», una scelta che nella sua esistenza aveva segnato una profonda frattura con il papato avignonese. Dopo di lui, la filosofia medievale non fu piú la stessa. Il «venerabilis inceptor» o il «doctor invincibilis», come veniva chiamato dai suoi contemporanei, aveva rimosso alcuni pilastri metafisici che apparivano indistruttibili: da quel momento in poi, l’ordine naturale, eterno e immutabile, di fronte al quale l’individuo manifestava tutta la sua impotenza, entrò in crisi, lasciando il posto ai primi fondamenti del pensiero scientifico moderno. Guglielmo nacque a Ockham un piccolo villaggio della contea del Surrey, nei pressi di Londra, intorno al 1285 e completò la sua formazione a Oxford, nel locale convento dei Frati Minori. Fin dai primi anni di

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A sinistra disegno raffigurante Guglielmo di Ockham, da un’edizione della Summa Logicae da lui composta prima del 1324, anno in cui, costretto a trasferirsi ad Avignone, interruppe la carriera universitaria. 1341. Cambridge, Gonville and Caius College. Nella pagina accanto Ockham, All Saints Church. Guglielmo di Ockham ritratto in una vetrata policroma. XV sec. studio, si interessò a una materia destinata a diventare uno degli argomenti-chiave della sua futura speculazione, la logica, sulla quale produsse due trattati: l’Expositio aurea super totam artem veterem e la Summa logicae. Cominciò presto a insegnare e sembrava destinato a una brillante carriera universitaria, soprattutto dopo il conseguimento del titolo di Baccalaureus Sententia-


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La crisi della scolastica dell’utilità di una «grande sintesi» tra trascendente e scienza per limitare le spinte centrifughe presenti in seno alla Chiesa. Di lí a poco, la contrapposizione con il papa si acuí ancor di piú, in seguito all’incontro di Ockham con un altro Francescano in odore di eresia che era stato convocato ad Avignone: Michele da Cesena, ministro generale dell’Ordine dei Frati Minori dal 1316. Quest’ultimo era finito nel mirino della repressione papale in seguito alla redazione del cosiddetto «manifesto di Perugia» del 1322, con il quale il capitolo francescano intendeva riaffermare la verità storica circa la povertà di Cristo e degli Apostoli. Lo stesso proclama apparve due anni piú tardi tra i punti dell’«appello di Sachsenhausen», ispirato dallo stesso Michele da Cesena, e sottoscritto anche dall’imperatore Ludovico il Bavaro, da tempo in conflitto con il pontefice.

Il pontefice è un «eretico»

rum e di Baccalaureus formatus. Ma un impegno ben piú delicato lo costrinse a trasferirsi ad Avignone, nel 1324. Si trattava di una chiamata in giudizio con la quale il pontefice francese Giovanni XXII intendeva mettere all’indice alcune tesi poco ortodosse del Francescano: alla fine, soltanto 6 delle 51 proposizioni che avevano fatto scandalo furono condannate per eresia, mentre altre 30 vennero considerate solo «false». La scientificità che Ockham applicava al problema della conoscenza nelle questioni filosofiche rendeva impossibile spiegare logicamente le rivelazioni religiose: la fede, perciò, non poteva essere giustificata con argomentazioni razionali, al contrario di quanto sostenevano Giovanni XXII e la sua curia, convinti 100

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In alto San Francesco sposa la Povertà, dipinto su tavola di Domenico Veneziano. XV sec. Monaco, Alte Pinakothek. Nella pagina accanto Firenze, chiesa di S. Maria Novella. La Chiesa militante e trionfante, particolare dell’affresco di Andrea di Bonaiuto. XIV sec. In basso, a sinistra, sono raffigurati Guglielmo di Ockham e Michele da Cesena.

Ad Avignone i due accusati, discutendo tra loro, rafforzarono le proprie convinzioni antipapiste, incuranti del pericolo che stavano correndo. Ockham le espresse violentemente ancora nel 1334, criticando le costituzioni con cui Giovanni XXII si era scagliato contro il concetto di «povertà francescana»: in una lettera indirizzata al capitolo generale di Assisi, il filosofo osservò che le tesi del pontefice erano «eretiche» e le riteneva pericolose, perché «diffamavano la retta fede, erano contrarie ai buoni costumi, alla ragione naturale degli uomini, all’esperienza e alla carità fraterna». Il papa, al contrario, riteneva un sacrilegio l’attrazione per la vita umile da parte degli Ordini Mendicanti, soprattutto dei Francescani. Non tollerava che i monaci descrivessero Gesú e i suoi discepoli come indigenti, controbattendo con la tesi che «Cristo teneva del denaro di cui era proprietario nella sua borsa». Lo stesso Ordine dei Frati Minori, secondo il papa, faceva uso di vesti e si procurava pietanze, entrando in possesso di beni consumabili che valevano come un atto di proprietà. Ockham replicò, facendo notare al pontefice che l’uso di un indumento o di un oggetto non implicava sempre la titolarità sullo stesso: «Vediamo ladri e delinquenti – scrisse – utilizzare beni altrui senza detenerne il possesso». Agli occhi degli accusatori avignonesi, Michele da Cesena rappresentava il caso piú grave da trattare, soprattutto dopo la sua conferma alla guida della famiglia francescana sancita dal capitolo generale di Bologna nel 1328, nonostante le pressioni contrarie del papa. Poiché il livello


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dello scontro con il pontefice andava innalzandosi, Michele e l’amico Ockham – decisi a non ritrattare le proprie convinzioni –, pianificarono la fuga dal convento di Avignone. Insieme ad altri due confratelli, Bonagrazia da Bergamo e Francesco d’Ascoli, lasciarono la città della Provenza diretti a Pisa, dove si trovava in quel momento il quartier generale dell’imperatore tedesco Ludovico il Bavaro. Al monarca i fuggiaschi chiesero protezione contro le prevedibili ritorsioni da parte del pontefice e l’ottennero, offrendo in cambio il loro contributo intellettuale alla battaglia imperiale. Ockham decise poi di seguire Ludovico anche in terra germanica, una scelta politica alla quale rimase fedele sino alla fine. Tuttavia, non per questo si sentiva un traditore della Chiesa. Ai suoi occhi Giovanni XXII era una sorta di usurpatore che doveva «essere privato di ogni autorità» e addirittura scomunicato: «Finché avrò mani, carta e calamaio – scrisse – nulla potrà mai impedirmi di impugnare e condannare gli errori dello pseudopapa, né le menzogne né le accuse infamanti né qualsiasi genere di persecuzione né il numero di persone che si schiera in sua difesa». Dopo la redazione di un saggio sulla povertà francescana (l’Opus nonaginta dierum), Ockham si dedicò esclusivamente a studi politico-istituzionali, teorizzando la netta distinzione tra il potere dell’imperatore e quello del papa: spettava al sovrano governare le sorti dell’umanità, mentre la Chiesa si sarebbe dovuta occupare solo di questioni inerenti al bene spirituale dei credenti, come sottolineato nel De imperatorum et pontificum potestate. Si trattava di una tesi rivoluzionaria, che spazzava via ogni tendenza teocratica a lungo in auge nel Medioevo, dopo le teorizzazioni assolutiste di Innocenzo III e Bonifacio VIII. Per Ockham l’impero, in quel periodo in mano ai sovrani germanici, era nato a Roma prima della nascita di Cristo e quindi aveva il diritto di governare in modo indipendente.

Nel regno dell’esperienza

Da cristiano, comunque, egli vedeva nell’autorità civile uno strumento solo necessario «per una vita ordinata e tranquilla», ma non certo uno Stato ideale. Per evitare lo scatenarsi di istinti fratricidi, le comunità dovevano giocoforza ser102

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In alto incisione raffigurante Guglielmo di Ockham. Versailles, Musée National des Châteaux de Versailles et du Trianon. Nella pagina accanto Ludovico IV di Baviera raffigurato in un rilievo dal ciclo degli Elettori di Magonza. Copia di un originale del XIV sec. conservato nel Mittelrhein Landesmuseum di Magonza.

virsi di un’entità superiore, che però mostrava tutti i difetti e i limiti propri di un’umanità discendente dal peccato originale. Nel 1347, dopo la morte di Ludovico il Bavaro, Ockham riallacciò i contatti con il papato, esprimendo il desiderio di trascorrere l’ultimo periodo della sua vita nell’Ordine francescano, lontano dagli echi delle lotte politiche a cui aveva assistito negli anni di soggiorno a Monaco di Baviera. Secondo alcuni storici, nel 1349, il filosofo abiurò anche le sue scelte filo-imperiali per ottenere dal nuovo pontefice, Clemente VI, la cancellazione delle numerose pene canoniche che gli erano state comminate. Lo dimostrerebbe un documento datato 10 giugno 1349, la cui autenticità è però molto dubbia. Il pensiero politico di Ockham non fu il frutto di un’illuminazione estemporanea, ma di un approdo coerente che traeva spunto dalle sue considerazioni giovanili sulla logica e sul problema gnoseologico. La separazione netta di


competenze tra papato e impero appariva come una specie di corollario delle sue idee sulla conoscenza e sul rapporto tra fede e ragione: solo la filosofia poteva spiegare la realtà, al contrario della teologia, confinata nel ristretto ambito di una «disciplina pratica», che forniva risposte solo in presenza di un atto di fede. Si consumava un vero e proprio «divorzio» tra filosofia e teologia, dopo una lunga «luna di miele», per usare la celebre espressione di Étienne Gilson. Il fondamento della scolastica ne risultava demolito. La parola d’ordine di Ockham era «ricorrere all’esperienza», senza la quale nessuna forma conoscitiva si mostrava praticabile. Qualsiasi oggetto poteva dirsi reale solo se percepibile in modo del tutto certo, sulla scia di quanto affermato nel XIII secolo da Ruggero Bacone: «Il ragionamento non prova nulla; tutto dipende dall’esperienza». Solo la conoscenza intuitiva è in grado di accertare con la massima precisione se una cosa esiste o meno, indipendentemente da qualsiasi concetto astratto.

Sulla lama del rasoio

L’operazione di taglio degli elementi superflui nell’analisi della realtà assunse il curioso nome di «rasoio di Ockham», proprio per indicare la precisione e la nettezza con cui il procedimento veniva effettuato. In questo modo, con un colpo deciso, l’intelletto umano eliminava tutte le astrazioni illusorie che avevano caratterizzato la filosofia cristiana del Medioevo. «Non moltiplicare gli elementi piú del necessario – raccomandava il pensatore inglese –. Non considerare la pluralità piú del necessario. È inutile fare con piú ciò che si può fare con meno». Le speculazioni filosofiche di Guglielmo di Ockham rinfocolarono la «disputa (o questione) degli universali», controversia dibattuta nel Medioevo, soprattutto nel XII secolo (ma che, grazie al Francescano inglese, ebbe appunto significative propaggini fino a tutto il XIV secolo), che verteva intorno al quesito se i generi e le specie fossero solo realtà mentali, oppure avessero una realtà oggettiva al di fuori della mente e, in quest’ultimo caso, qualora fossero realtà corporee e incorporee, se esistessero separate o solo nelle cose sensibili. Con il suo empirismo ante litteram, Ockham incise notevolmente anche sulle successive evoluzioni delle dottrine fisiche, svincolando innanzitutto la conoscenza scientifica dall’ambito «iniziatico» e «magico», come accadeva ai tempi di Bacone. Il procedere a esperimenti nell’analisi della realtà diventava quindi un’attività nella quale qualsiasi essere umano si potePENSIERO MEDIEVALE

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va dilettare. Inoltre, risultò fondamentale la sua visione sui fenomeni di moto e di trasformazione nella fisica. Anche in questo caso, in perfetta coerenza con lo spirito dello scienziato che seziona il singolo fenomeno oggettivo, Ockham concepí il movimento delle cose come un procedimento da valutare per stationes: ovvero caso per caso, perché frutto di un radicale passaggio da uno stato all’altro, senza un concorso di cause che regoli l’intero processo.

Il disordine come dono

Nella visione di Guglielmo di Ockham, l’assenza di principi eterni e immutabili non era altro che l’espressione della libertà assoluta di Dio, della sua onnipotenza nel momento della crea-

Nella pagina accanto miniatura raffigurante un consiglio presieduto da papa Clemente V, da un’edizione del Fleur des histoires de la Terre d’Orient. 1403. Parigi, Bibliothèque nationale de France. In basso ritratto di papa Clemente VI, particolare di un’illustrazione realizzata per La storia dei papi di Joseph Hergenröther. 1898.

zione. Con un atto «volontaristico» e con modalità del tutto arbitrarie, aveva pensato il mondo senza un modello metafisico ideale. La generosità infinita dell’essere supremo non poteva che condurre al concepimento di creature e oggetti irripetibili, unici nella loro originalità, frutto della continua reiterazione di un dono dietro al quale si rivelava inconcepibile immaginare la presenza di un copione. Per Ockham, un mondo ideale, disegnato ab origine, avrebbe ridimensionato la libertà divina, rendendo tra l’altro grigia e piatta la manifestazione della natura, confinata nel limitato ruolo di copia un po’ sbiadita di una perfezione inafferrabile. La contingenza delle creature, nella felice definizione del medievista Orlando Todisco, rapportata all’onnipotenza divina, diventava allora intrigante perché «cifra di un abisso metafisico tutto da esplorare, ben diverso per estensione e profondità da quello, pur rilevante, collegato alla potenza infinita, intravvisto dai filosofi pagani». Le creature «sono tutte inedite e il loro artefice dà prova di infinita fantasia».

Dalla parte del popolo

Al centro delle riflessioni politiche di Ockham vi è anche il singolo individuo. Nella sua moderna analisi emerge il rifiuto della concezione gerarchica derivante da un ipotetico ordine naturale e applicabile alla gestione della cosa pubblica: ne traggono beneficio gli individui, la cui sfera di azione si trova ampliata a dismisura, anche nell’ambito della titolarità del potere. Ockham, come già accennato, assegna ai sovrani il gravoso compito di amministrare le comunità, ma senza affidare loro in toto il potere politico, che, di fatto, spetta ai cittadini. Questi ultimi, con il loro dissenso, avevano il diritto di sfiduciare un governante oppure, al contrario, legittimarlo attraverso l’arma del consenso. Con modalità del tutto teoriche, si configurava nell’età di Mezzo un prototipo di sovranità popolare, anche se di stampo «elitario»: Ockham, infatti, immaginava una forma di controllo di una cerchia di sudditi in grado di valutare con sufficiente attendibilità l’operato di un governante. La Chiesa stessa, il cui compito si limitava alla tutela dei propri fedeli, non poteva assumere un ruolo assoluto relativamente alle questioni di sua stretta pertinenza. Anche in questo specifico ambito il fondamento e la fortuna di un’organizzazione si costruiscono dal basso. Sono i fedeli ad assegnare al papa il compito di difendere le legittime libertà di culto di una comunità storica, destinata, soprattutto per questo, a sopravvivere nei secoli.


IL PENSIERO POLITICO Agli inizi del Medioevo, lo Stato veniva ritenuto quasi un «male necessario», come un elemento meramente funzionale alla volontà divina, al quale era precluso perseguire fini materiali, secondo quanto sostenuto in particolare da sant’Agostino. Anche l’inglese Giovanni di Salisbury (1120-1180), nel Policraticus, aveva rimarcato il ruolo della legge di Dio come fondamento di ogni forma di governo. Con la traduzione in latino della Politica di Aristotele, ultimata alla metà del XIII secolo, si compí una vera e propria palingenesi nella storia del pensiero concernente il governo temporale: da quel momento in poi lo Stato cominciò ad assumere dottrinariamente una propria, specifica dignità istituzionale. Anche le aspirazioni e i bisogni della società civile trovarono piú spazio nei testi dei filosofi, a cominciare dal De regimine principum di Tommaso d’Aquino, opera in cui il pensatore domenicano sottolinea la necessità per le società organizzate di perseguire il bene comune e identifica nella politica lo strumento migliore per realizzarlo, pur sempre nella prospettiva di difendere i principi ispirati dalle rivelazioni cristiane. Tuttavia, il bene comune, pur se stabilito dall’alto, rappresenta allo stesso tempo un valore tipicamente umano, che ogni individuo istintivamente è portato a perseguire. Un altro esponente della scuola domenicana, Remigio de’ Girolami (1235-1319), descrive l’uomo come un essere

incline alla politica, che è portato, per sua natura, a edificare istituzioni pubbliche nel segno dell’eguaglianza e della giustizia, sempre in applicazione dei principi evangelici. Una minore dipendenza tra la politica e l’etica cristiana si registra, invece, nelle tesi di Egidio Romano (1243-1316), che vede nella monarchia l’ideale forma di governo, in grado di incarnare le virtú del bene sommo divino, ma fornita di margini di autonomia. In coincidenza con l’affermarsi dei regni nazionali, si affermò una visione del potere pubblico ancor piú svincolata da condizionamenti di natura ecclesiastica e divina, come risulta nel De potestate regia et papali di Giovanni da Parigi (1255-1306): nel testo si accenna anche all’esigenza di garantire un sistema di giusti contrappesi tra autorità del sovrano e comunità dei cittadini. Su posizioni simili si schierò Dante Alighieri (1265-1321), il quale, nella Monarchia, sottolinea il ruolo primario del re nell’amministrazione della cosa pubblica, una responsabilità non soggetta all’influenza della Chiesa ma al controllo del popolo e della legge di Dio. Con Marsilio da Padova, invece, lo Stato, immune da preoccupazioni di carattere etico-religioso, diviene diretta emanazione della comunità – come sostenuto nel trattato Defensor pacis – e si prefigge solo l’obiettivo di tutelare la pace sociale, profilandosi come istituzione democratica.

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PROTAGONISTI PIETRO D’ABANO Pensatore simbolo delle numerose tendenze culturali che investirono l’epoca di passaggio dal Duecento al Trecento fu Pietro d’Abano (1250-1316), filosofo, mago, negromante, medico e poliglotta. Nacque nei pressi di Padova e fin dall’età giovanile si appassionò ai grandi classici del pensiero ellenico e arabo, che lesse in lingua originale. Accusato di eresia e, secondo alcuni biografi, anche di omicidio, soggiornò a Costantinopoli, prima di subire la persecuzione del tribunale ecclesiastico. Le sanzioni si abbatterono sul pensatore

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veneto anche post mortem, statuendo la riesumazione del suo cadavere e la successiva cremazione. Amico di Marco Polo, fu soprattutto uno stimato medico ed ebbe come pazienti personalità del calibro di Azzo d’Este (signore di Ferrara, Modena e Reggio), nonché il pontefice Onorio IV. Notevoli furono le sue scoperte nel campo dell’anatomia – studiata praticando autopsie, secondo le testimonianze rese nel Liber de veneris –, un indirizzo didattico che avrebbe preso definitivamente piede a inizio Rinascimento. Allo studio della medicina associò quello dell’astrologia, disciplina che riteneva degna di essere accomunata a un sapere scientifico: i pianeti come corpi fisici, «cause intermedie» tra il Creatore e i fenomeni della natura, sono in grado – secondo Pietro d’Abano – di generare influenze sugli individui e, conseguentemente, anche sul loro stato di salute. Si schierò contro la teologia ufficiale, accusandola di essere irrazionale e incapace di effettuare una connessione tra l’imperscrutabilità dell’azione divina e le creature viventi. La polemica si inseriva nella temperie culturale caratterizzata dalla diffusione del sapere scientifico e dal nuovo ruolo assunto dall’uomo, compartecipe del Creatore nello svelare i segreti della natura. Una funzione fondamentale in questa attività di ricerca sul senso piú autentico dell’esistenza, è rivestito dalla medicina, la quale – come scrisse il filosofo nel Conciliator differentiarum philosophorum et praecipue medicorum – rappresenta «la piú eccellente tra le arti», legata in modo indissolubile alle altre scienze e parte di un sistema fenomenico all’interno del quale è possibile individuare qualche traccia della presenza divina: «Dio nulla opera nelle cose inferiori se non attraverso qualche causa intermedia».

In basso incisione raffigurante Pietro d’Abano. 1688. Londra, Wellcome Library.


MARSILIO DA PADOVA Alle soglie del XIV secolo, la cultura cattolica piú ortodossa aveva molti nemici: innanzitutto il dilagare delle discipline scientifiche, dominate dal metodo sperimentale che negava validità non solo alle verità di fede ma anche alle categorie «universali» dell’intelletto; poi il crescente ruolo assunto dalla filosofia, a detrimento della teologia, nell’indagare sulle cause prime della natura e sull’interiorità dell’uomo; infine, il diffondersi di dottrine esoteriche, astrologiche e alchemiche. Un nuovo avversario, però, si stava profilando all’orizzonte e si materializzò con gli scritti del teologo Marsilio da Padova (1275-1342) che colpirono il cattolicesimo come entità «politica», demolendo la concezione teocratica propugnata dalla Chiesa. Formatosi all’Università di Parigi, della quale divenne poi rettore, il pensatore patavino entrò in contatto con Guglielmo di Ockham, Giovanni di Jardun e altri intellettuali sgraditi alle autorità ecclesiastiche per le loro tesi radicalmente naturaliste. Trovò quindi rifugio in Germania, presso il sovrano Ludovico il Bavaro, e in terra tedesca morí. Nella sua

opera fondamentale, il Defensor pacis, sostenne la tesi della separazione tra il potere politico e l’autorità spirituale della Chiesa, introducendo un principio destinato a informare la scienza giuridica dei secoli successivi: l’autonomia dello Stato che riceve la propria legittimità di governo non da Dio, ma dalla universitas civium (la totalità dei cittadini), con il compito di sanare ogni discordia all’interno della comunità. Lo Stato – altro tema essenziale in Marsilio – svolge la propria attività amministrativa informandosi allo spirito della legge (legislator), definito come «la scienza o la dottrina o il giudizio universale di quanto è giusto e civilmente vantaggioso e del suo opposto». Alcuni commentatori dell’opera marsiliana hanno colto nelle argomentazioni del pensatore un evidente «apologia» del sistema democratico. Altri, invece, ritengono questa ipotesi eccessivamente semplificatoria ed evidenziano, al contrario, la presenza di inclinazioni «aristocratico-autoritarie» nei suoi scritti. Il riferimento è al controverso passo del Defensor pacis che introduce la categoria della pars valentior – una sorta di élite dei cittadini – alla quale è demandato il compito di istituire le leggi. Quanto fosse estesa in termini numerici questa «parte prevalente» della comunità non appare certo, ma si può presumere che corrispondesse alla maggioranza dei cittadini, cioè a coloro definiti «naturalmente sani e non deformati». Per contro, dalle considerazioni del Defensor pacis, si evince in modo certo il ridimensionamento del ruolo della Chiesa nella gestione del potere pubblico. Ai papi spetta solo la competenza del governo sui fedeli, la nomina degli ecclesiastici e la verifica degli atti conciliari. Le tesi di Marsilio di Padova sono inquadrabili nella prospettiva di sviluppo del cosiddetto «positivismo giuridico», una dottrina della filosofia del diritto che cominciò a diffondersi solo a partire dall’età moderna.

A sinistra pagina da un manoscritto contenente una copia del Defensor pacis di Marsilio da Padova. Ultimo decennio del XIV sec. Friburgo, Convento dei Francescani.

GIOVANNI DI BURIDANO Nonostante l’azione repressiva della Chiesa, le tesi di Guglielmo di Ockham riscossero grande interesse negli ambienti accademici europei. Uno dei principali seguaci del pensatore

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La crisi della scolastica


francescano, il filosofo e logico francese Giovanni di Buridano (1295-1361), accentuò ulteriormente il profilo naturalistico della dottrina del maestro. Rettore dell’Università di Parigi, definí la conoscenza «concettuale» come un atto meramente intellettivo, che produce un’analisi confusa della realtà. Per giungere, invece, all’accertamento oggettivo di un fenomeno o di una cosa si deve ricorrere alla conoscenza «determinata», che l’individuo esercita attraverso la percezione sensibile. Nei commenti al De anima di Aristotele, Buridano paragona la conoscenza concettuale, basata su criteri universalistici a priori, alla visione di un oggetto da lontano, per il quale si possono solo formulare ipotesi di tipo probabilistico; quella «determinata», invece, si identifica con l’osservare una cosa da vicino. I concetti e le categorie si formano, quindi, con la percezione sensibile che dal particolare procede all’universale, mediante un procedimento progressivo di astrazione, chiaro richiamo, anch’esso, alle tesi di Ockham. Il pensatore francese assegna, poi, un ruolo rilevante alla fisica nello studio della realtà. A Buridano viene attribuita la formulazione del celebre «paradosso dell’asino», secondo il quale un equino, posto di fronte alla scelta tra due fasci di fieno di eguale consistenza, muore di fame perché incapace di decidere. In realtà nei suoi scritti non si trova traccia della parabola. Alcuni storici della filosofia hanno, pertanto, ipotizzato che si tratti di un apologo anonimo teso a ironizzare sull’eccessiva dipendenza della volontà dall’intelletto, contenuta nella filosofia di Buridano, secondo il quale voluntas est intellectus et intellectus est voluntas.

NICOLA D’ORESME Uno dei discepoli prediletti di Giovanni Buridano, il pensatore francese, nonché ecclesiastico, Nicola d’Oresme (1323-1382) esercitò un grande influsso sulla cultura scientifica del XIV secolo. Consigliere politico di Carlo V, studioso di matematica, geometria e fisica, concepí una prima forma di rappresentazione grafica di una funzione,

per analizzare le variazioni di un fenomeno, un’intuizione che venne poi utilizzata come base per lo sviluppo della geometria analitica cartesiana: «Qualsiasi cosa misurabile – scrisse nel Tractatus de configurationibus qualitatum et motuum –, eccetto i numeri, viene concepita nella maniera di una quantità continua». Nicola d’Oresme si impegnò nella redazione di una serie di scritti specialistici in materia scientifica e meno in compendi generali, o in summe di carattere dottrinario. Oltre al già citato saggio Tractatus, redasse in lingua francese il Livre du ciel et du monde d’Aristote, nel quale avanzò l’ipotesi dell’esistenza di un moto rotatorio della Terra e si scagliò contro le pretese di chiaroveggenza dell’astrologia. Forní un importante contributo allo sviluppo dell’economia politica, disciplina che sarebbe poi sorta «ufficialmente» nel XVI secolo: fu il precursore della cosiddetta «Legge di Gresham», secondo la quale, in un regime di doppia circolazione di valuta, in presenza di una variazione artificiosa degli equilibri di mercato, la moneta «cattiva» può soppiantare quella «buona». Le sue innovative teorie economiche approdarono a un’affermazione – espressa nel trattato De origine, natura, iure et mutationibus monetarum – che fece scalpore: «La moneta appartiene alla comunità produttiva e alle leggi di mercato, e non deve essere alterata da interventi dei regnanti di turno».

In alto due pagine da un manoscritto miniato contenente le Quaestiones super octo Physicorum libros Aristotelis, di Giovanni di Buridano. Francia, 1395. Collezione privata. Nella pagina accanto miniatura raffigurante il conio delle monete, da un’edizione del De origine, natura, iure et mutationibus monetarum

di Nicola d’Oresme. 1485 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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MAESTRO DI ERESIE

Guardato con sospetto dalle autorità ecclesiastiche del suo tempo e perfino processato dall’Inquisizione, il domenicano Meister Eckhart fu uno dei piú grandi teologi e filosofi del tardo Medioevo tedesco

TAMBACH (?), 1260 circa-COLONIA, 1328 circa

I

ncredulo e indispettito, attendeva il giudizio dei magistrati ecclesiastici. Non si capacitava del fatto che proprio lui, dopo una vita dedicata alla fede, dovesse subire l’onta dell’Inquisizione. A nulla era servito il tentativo di delegittimare i suoi accusatori, definendoli «invidiosi», «cattivi» e muniti solo di «grossolana ignoranza». Il verdetto sembrava indirizzato verso la condanna piú infamante: l’eresia. È il 1326. Il teologo Meister Eckhart si avvia a diventare un buco nero nella storia del pensiero cattolico. Per secoli, di lui si parlò davvero poco e il piú delle volte per denigrarlo. «Un uomo diabolico», lo definí l’eremita agostiniano Giovanni da Lovanio alla fine del Trecento, mentre Guglielmo di Ockham bollò come «assurdità» le sue tesi mistiche, che profilavano la sostanziale identità tra spirito umano e divino. Ma gli scritti eckhartiani si diffusero ugualmente attraverso il coraggioso sforzo di due suoi discepoli, Giovanni Taulero ed Enrico Suso. Grazie a loro, le sue teorie «proibite» approdarono anche in ambienti filosofici umanistici, affascinando per esempio un pensatore del calibro di Niccolò Cusano. In seguito, la fama di Eckhart crebbe note-

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Nella pagina accanto pagina di un manoscritto contenente l’Opus sermonum di Meister Eckhart appartenuto a Niccolò Cusano, che inserí varie annotazioni a margine del testo. In questa pagina la Santissima Trinità raffigurata in una miniatura dal Mystischen Traktat aus dem EckhartKreis. Alsazia, XV sec. L’unità del Padre e del Figlio è rappresentata dal mantello che avvolge entrambe le figure.

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Londonderry

Dublino

Limerick Cork

Eckhart nacque a Tambach (forse, o a Hocheim, presso Gotha), nella regione tedesca della Turingia, probabilmente nel 1260. Intorno al 1275, entrò giovanissimo nel convento domenicano di Erfurt, uno dei piú prestigiosi di tutta la Germania. In seguito, il procedere degli studi lo portò a Parigi, città destinata a incidere in modo determinante nella sua vita. Conseguí il baccalaureato presso la facoltà teologica della Sorbona e, poco dopo, divenne lector sententiarum, un ruolo di prestigio che consisteva nella spiegazione dei Libri quattuor sententiarum di Pietro Lombardo. Nel 1294, fece ritorno Erfurt, divenne priore del suo vecchio convento e, contemporaneamente, vicario generale dell’intera Turingia per l’Ordine domenicano. Aveva ormai maturato in grandi linee la visione di un cristianesimo antidualista, in cui Dio non è un’entità lontana alla quale il fedele si rivolge con spirito utilitarista, «come un cane segue la donna che porta le salsicce». In questo periodo concepí la sua prima opera significativa, le Istruzioni spirituali, che contengono qualche anticipazione delle tesi piú «radicali» dal punto di vista metafisico. Lo pubblicò in lingua tedesca per evidenti fini divulgativi, considerato che si trattava di una raccolta di discorsi tenuti davanti ai «figli spirituali» del con112

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Bristol

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Un incarico di prestigio

In alto xilografia raffigurante la città di Erfurt, dalle Cronache di Norimberga di Hartmann Schadel. 1493. In basso Erfurt, Predigerkirche, portale ovest. Un’immagine dell’opera di Marc Oschmann che riporta pensieri di Meister Eckhart. 2013.

Rennes Nantes

LLoira

Oce

volmente, soprattutto a partire dal XIX secolo. A lui riconobbero il ruolo di precursore dell’idealismo illustri figure della cultura tedesca, primo fra tutti Georg Wilhelm Friedrich Hegel. «Qui abbiamo trovato davvero quello che vogliamo», esclamò un giorno a Berlino davanti al collega Franz von Baader, al quale doveva la scoperta degli scritti del teologo dimenticato.

Wexford

Santiago de Compostela

La Coruña Santander León

Porto

Valladolid Palencia

Tolosa

Salamanca

Coimbra Lisbona

Bayonne

Batalha Évora

Saragozza

Tago

Lérida Madrid

Trujillo

Toledo

Cuenca SPAGNA 1232

Tavira

Siviglia

Córdoba

Jerez de la Frontera

A destra La carta mostra la diffusione, nel continente europeo, delle comunità francescane e domenicane tra il XII e il XIV sec., segnalando le località con presenza di monasteri e le aree di estensione delle eresie catara e valdese.

Huesca

Valencia

Jaén Granada Málaga Almería

Murcia

Mar

LE ERESIE IN EUROPA E I TENTATIVI Zone di origine dei vari dissensi religiosi Aree di diffusione dell’eresia valdese Aree di diffusione dell’eresia catara/albigese III e IV Concilio Lateranense (1179 e 1215) Istituzione del tribunale dell’Inquisizione Crociata contro gli Albigesi (1208-1213)


Turku

Oslo

Territori cattolici romani

Inveness

Territori musulmani

Aberdeen Dundee

Concordato di Worms

M a re

Skara Visby Kalmar

Viborg

Newcastle u. Tyne

Ribe

Copenaghen

Lancaster York Tanchelmo (inizi XII sec.)

Kiel

Norwich

Amburgo

Ipswich Oxford Londra Bruges Lollardi Lilla dal 1380 Amiens

Brema Hannover

Re no Maastricht

Parigi

Orléans Bourges

FRANCIA 1235 Digione

Catari/Albigesi (XIII sec.) ClermontFerrand Valdesi (1170) Cahors Allb A bi bi Albi

Monaco Costanza Lindau

Verona

Milano

Nizza

Siena

Barcellona Bonifacio

Medi terran

Sassari

eo

Pest Oradea

Villach

Oristano Cagliari

Dakovo

Danu Otok bio Spalato

Arnaldo Benevento da Brescia Napoli (1150 circa) Matera

DI REPRESSIONE Distribuzione dei monasteri degli Ordini mendicanti

Gioacchino da Fiore (fine XII sec.)

Sibiu

Izmail

Alba Iulia Irig

Visoko

Bogomili (X-XIV sec.)

Ragusa Scutari

Brindisi Otranto Corfù

Cefalonia Reggio

Costantinopoli

Durazzo

Bari

Cosenza

Palermo Agrigento

Tîrgo Mures

Cluj

Polju

Zara

Ascoli Piceno ITALIA XIII sec. L’Aquila

Roma

Seghedino

Pécs

Venezia

Orvieto Viterbo

Košice

Vienna Bratislava

Leoben

Fano Ancona Assisi

Lvov

Hussiti (fine XIV sec.)

Brno

BOEMIA 1257

Pola Ravenna

Firenze

Genova

Tolone

Palma de Maiorca

Cracovia

Praga Norimberga Ratisbona

Zagabria

Albenga Marsiglia M Ma arsigli igliaa Perpignano Carcassonne

Lublino

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Cottbus

Zurigo Coira Losanna Patarini Bolzano (XI sec.) Vercelli

LLion on n Lione

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Poznan

Erfurt

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Basilea

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Berlino

Lipsia

Worms

Troyes

Stralsund

1227

Liegi Colonia Bruxelles Treviri Reims

Caen Rouen

Vilnius

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GERMANIA

Anversa

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Lund

Leicester

Riga

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Aalborg

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Edimburgo

Laval

Territori cattolici ortodossi

Stoccolma

Zante

Tebe Corinto

Negroponte Atene

Siracusa

Località con presenza di conventi francescani Località con presenza di conventi domenicani Località con presenza di conventi di entrambi gli ordini

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La crisi della scolastica (della razionalità) sulla voluntas (la volontà), perciò sull’amore. Un’asserzione in accordo con le tesi domenicane e pertanto in linea con la polemica antifrancescana in voga in quel periodo. Eckhart si uní alla disputa, definendo nel sermone numero 9 i predicatori dell’Ordine rivale come «maestri dallo spirito rozzo». L’intellectus eckhartiano non è assimilabile al concetto di razionalità della filosofia moderna, ma indica una facoltà piú alta, capace di percepire cosa si nasconde dietro le rappresentazioni sensibili. Smascherando le false creazioni dell’io che portano fuori strada. Anche la definizione di Dio appare legata in qualche modo all’antinomia tra intellectus e voluntas. Dio è Unwesen («Non essere»), come nella teologia negativa neoplatonica, in quanto rappresenta qualcosa che sta sopra all’essere tradizionale. Parimenti, le attribuzioni comunemente applicate a Dio sono un nulla, cioè false. L’uomo ritiene «buono» il Creatore per definizione, ma sbaglia. Dio, invece, andrebbe pensato nella sua «nudità», nel suo «non essere», senza supposizioni arbitrarie sull’aspetto e il carattere. In base alle affermazioni di Eckhart, la stessa Scrittura porterebbe fuori strada, frapponendosi come una sorta di schermo che non lascia intravedere il vero volto della dimensione divina.

vento in occasione delle riunioni per la cena. La platea di giovani ascoltatori restava sempre affascinata dalla forza rivoluzionaria di alcune sue argomentazioni. Sentiva parlare della dimensione del «distacco» come strada da percorrere per chi vuol abbracciare la fede. Uno stato che richiedeva il rigetto non solo della natura sensuale tipica dell’uomo comune, ma dell’intera personalità, in sostanza un annientamento dell’«io» e di qualsiasi genere di volontà espressa nel vivere quotidiano, insieme al modo di percepire le cose. Tali affermazioni fecero scandalo, come quella che, in buona sostanza, svalutava le opere meritevoli compiute da un credente. Per il teologo tedesco aveva piú valore lo spirito con cui le buone azioni si esercitano, l’«essere» alla base di ogni fervore religioso. «Non sono le opere che santificano, siamo noi che dobbiamo santificare le opere». L’inizio del Trecento condusse Eckhart di nuovo a Parigi, dove divenne professore ordinario e da quel momento assunse il nome proprio di magister, quindi meister in tedesco. Nel contempo, sviluppò in modo piú compiuto la sua filosofia e in alcuni sermoni tedeschi, riuniti sotto il titolo Paradisus anime intelligentis, teorizzò il primato, nella religione, dell’intellectus 114

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Miniatura raffigurante Agnese d’Ungheria, che intrattenne uno stretto rapporto d’amicizia con Meister Eckhart. Il teologo le dedicò il Liber benedictus, un’opera incentrata sul tema del dolore e del superamento della sofferenza terrena. Agnese, figlia di re Alberto I d’Asburgo, aveva scelto di rinchiudersi nel convento delle Clarisse di Königsfelden dopo una serie di eventi luttuosi.

Il prestito del divino

Frutto diretto del suo secondo magistero parigino è la summa teologica dal titolo Opus tripartitum, scritta questa volta in latino, perché rivolta a una platea piú dotta, quella universitaria. Ispirata dal punto di vista strutturale alla tendenza enciclopedica dell’epoca, approfondisce alcuni temi già trattati, sempre secondo un’ottica speculativa. Con quest’opera Eckhart tenta di giustificare in modo piú articolato la dottrina cristiana attraverso le rationes naturales dei filosofi. La metafisica eckhartiana si basa sul principio dell’analogia: chi trova Dio non possiede in sé l’essere supremo, ma lo prende in prestito. Nell’uomo, però, questa sostanza divina non attecchisce mai, figurando sempre come qualcosa di aggiunto. Ogni perfezione quindi dipende «completamente da un essere al di fuori» con il quale l’individuo è «in relazione analogica». Eckhart si serve di una metafora abbastanza curiosa per spiegare meglio il suo concetto: «La medesima salute che è nell’essere animato è nel cibo e nell’urina, e tuttavia in modo tale che della salute in quanto tale non v’è niente nel cibo e nell’urina, non piú di quanto vi sia nella pietra». Inoltre, l’unione di Dio con lo spirito umano non è frutto


di eventi spettacolari dell’anima o di teofanie celesti improvvise, ma una presenza duratura. Nel suo terzo periodo francese Eckhart soggiorna nello stesso convento domenicano dell’inquisitore che condannò Margherita Porete, Guglielmo da Parigi. Una strana coincidenza, viste le affinità tra il pensiero eckhartiano e quello della beghina di Parigi, morta sul rogo nel 1310. Il teologo di Tambach difese le beghine perseguitate, come conferma uno dei suoi biografi, lo svizzero Kurt Ruh: «In sintonia con il suo Ordine e con la sua vocazione di predicatore di una vera vita spirituale in Dio, egli fu dalla parte di chi era colpito e perseguitato e inoltre ne fu certamente consolatore e difensore». Le stesse teorie di Eckhart sembra abbiano fornito una base per lo sviluppo del movimento delle beghine in Francia, Svizzera e Germania, soprattutto nei dieci anni in cui visse a Strasburgo, per assolvere al nuovo incarico di vicario generale del maestro dell’Ordine domenicano. Un impegno di grande responsabilità, che comprendeva la cura delle anime dei monasteri femminili. Meister Eckhart aveva una particolare sensibilità per gli oppressi e i sofferenti. Lo dimostra lo stretto rapporto che intrattenne con la figlia del re Alberto I d’Asburgo, Agnese di Ungheria. Colpita da una serie di eventi traumatici, la

Miniatura di scuola francese raffigurante un maestro di diritto canonico che insegna ai suoi alunni, da una edizione dell’Apparatus in quinque libros Decretalium, opera composta da papa Innocenzo IV. XIV sec. Parigi, Biblioteca della Sorbona.

donna era entrata nel convento delle Clarisse di Königsfelden, nel Cantone svizzero dell’Argovia, ma non prese mai i voti. Eckhart le dedicò il Liber benedictus, un’opera incentrata sul tema della consolazione, come tecnica per metabolizzare i dolori della vita. L’opera rispecchia l’anima in parte «popolare» del cristianesimo medievale, rintracciabile anche in ambito non strettamente francescano. Eckhart, infatti, invita a «piangere con quelli che piangono», esortando tutti gli uomini che hanno un amico sofferente a stare accanto a lui e a consolarlo con la loro presenza. Nel Liber benedictus Eckhart traccia una strada per il superamento del dolore, che prevede il distacco dalle cose terrene e dall’io, ma invita anche a considerare il dolore come un segno della presenza di Dio: «C’è ancora un’altra consolazione. San Paolo dice che Dio castiga tutti quelli che accoglie come figli. Bisogna dunque soffrire se si vuole diventare figli».

Sul banco degli accusati

Dopo il decennio strasburghese tornò a Colonia per svolgere l’incarico di lector primarius della cattedra teologica nello Studio generale dei Domenicani della città renana. Sono gli anni in cui affiorano i primi sospetti di eresia nei suoi confronti. Il 1326 segna uno dei momenti piú drammatici della vita di Eckhart. È l’anno in cui ha inizio il processo di inquisizione, istruito a Colonia, dall’arcivescovo Enrico II di Virneburg. Un procedimento non ex officio, ma un atto dovuto in seguito alle accuse di eresia mosse contro il teologo da parte di alcuni suoi confratelli. Il teologo reagí, non mancando di essere pungente nei riguardi dei suoi accusatori e parlò di una loro «ristrettezza mentale», del fatto che consideravano sbagliato tutto quello che non capivano. Li riteneva colpevoli di «manifesta bestemmia contro Dio ed eresia», perché la loro posizione contraddiceva «la dottrina di Cristo, dei Vangeli, dei Santi e dei Dottori». Pur consapevole di essere giudicato da un tribunale non imparziale, Eckhart volle comunque sottoporsi alla sua autorità «per non sembrar fuggire» di fronte alle accuse. Alla fine, ammise che la forma di alcune sue argomentazioni era di controversa interpretazione. E che qualcosa poteva apparire un po’ «inusuale e sottile». La condanna di Eckhart comportò l’uscita temporanea dalla storia di un grande pensatore. Una punizione esemplare nei riguardi dell’unico teologo processato per eresia nel Medioevo. Ma il tempo fu galantuomo. E alla riscoperta filosofica dei suoi scritti seguí la parziale riabilitazione anche in ambito ecclesiastico. PENSIERO MEDIEVALE

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PENSIERO MEDIEVALE

La crisi della scolastica

PROTAGONISTI IL MISTICISMO Lo sviluppo del misticismo nell’età di Mezzo si mosse inizialmente sulla scia del monachesimo e degli scritti di Giovanni Cassiano e Benedetto da Norcia. La ricerca di un contatto con Dio attraverso l’estasi e il rapimento mistico trovò ampia trattazione nelle opere di sant’Agostino e dello Pseudo-Dionigi l’Areopagita, nelle forme dell’illuminazione e della teologia negativa che culmina nel silenzio, oltrepassando le facoltà razionali. Nel XII secolo, invece, la cosiddetta «mistica affettiva» ebbe una sua compiuta espressione in Bernardo di Chiaravalle e nelle tesi dei Cistercensi, che tracciarono un percorso spirituale in cui le manifestazioni di amore creaturiale simboleggiano l’unione di Dio con l’anima umana. Negli stessi anni, la religiosa tedesca Ildegarda di Bingen (1098-1179) raccontò le sue visioni celesti. Nel Duecento, la Scuola di San Vittore teorizzò una forma di «mistica speculativa», che fondeva la contemplazione con le qualità intellettive dell’individuo e operava un potenziamento delle capacità umane. Al tempo della grande diffusione del francescanesimo, il Minore Bonaventura di Bagnoregio descrisse le tappe per giungere a una completa ascesi: sono sei, numero corrispondente alle ali dei Serafini, gli angeli piú vicini a Dio. Figure di riferimento della mistica duecentesca furono anche Jacopone da Todi (1236-1306), con le sue laudi ascetiche in cui predicava il disprezzo del corpo e Angela da Foligno (1248-1309).

Nel solco della tradizione legata alla «mistica affettiva» rientra la figura della religiosa scandinava Brigida di Svezia (1303-1373), che si definiva «sposa di Cristo»: raccolse le visioni ricevute da Gesú e dalla Vergine in otto volumi, che contenevano anche rivelazioni su eventi storici. Sempre nel XIV secolo riemersero forme di «mistica speculativa», percorsi spirituali compiuti per raggiungere uno stato superiore di coscienza grazie all’aiuto dell’intelletto e della filosofia: rappresentanti piú noti di questa tendenza spirituale furono alcuni pensatori tedeschi, tra cui Meister Eckhart, Margherita Porete (1250-1310), Meister Dietrich (1250 circa-1310 circa), Teodorico di Freiberg (1250 circa-1310 circa) e Giovanni Taulero: nella loro prospettiva ascetica, l’incontro con Dio avviene nel fondo dell’anima dopo aver raggiunto la «via del distacco», che prevede il totale annientamento dell’io, operando una serie complessa e lunga di negazioni, fino alle soglie del nulla. Un cammino che piú di uno studioso contemporaneo ha associato ad alcune forme di spiritualismo estremo orientale, in particolare al buddhismo, sulla scia delle affermazioni del filosofo Arthur Schopenhauer: «Quello che Buddha, Eckhart e io insegniamo è essenzialmente la stessa cosa, sebbene Eckhart sia oppresso dai vincoli della sua mitologia cristiana». La testimonianza di vita di Caterina da Siena (1347-1380), infine, con il suo cammino ascetico del «perfetto amore» trova numerose affinità con il «folle amore» di Angela da Foligno.

GIOVANNI TAULERO Discepolo di Eckhart, il teologo tedesco Giovanni Taulero (1300-1361) fu uno dei principali esponenti del misticismo medievale. Entrato in età giovanile nell’Ordine domenicano, decise di dedicare la propria vita alla predicazione, aderendo anche al movimento dei Gottesfreunde (gli «amici di Dio»), composto da cristiani che si votavano a un’unione mistica con Dio. Si narra che durante i suoi sermoni riuscisse ad affascinare gli uditori, al punto da provocare svenimenti e convulsioni. Il racconto rasenta la leggenda, ma conferma quanto fosse trascinante l’oratoria di Giovanni. Nella dottrina della cosiddetta visio essentiae Dei, Taulero traccia l’itinerario che il cristiano deve compiere nella ricerca del significato piú autentico della propria esperienza terrena, ripercorrendo le orme del maestro Eckhart e di sant’Agostino. Per stabilire un contatto con le verità di fede, occorre calarsi nel «fondo dell’anima», una destinazione dello spirito che, tuttavia, non comporta alcuna conoscenza oggettiva. In questo recondito luogo dell’interiorità, in una dimensione di silenzio e beatitudine, si può essere investiti dall’emanazione divina in una contemplazione mistica: «Questa favilla – sostenne in un sermone – fugge verso le vette dov’è il suo vero posto, fino al di là di questo mondo, dove l’intelligenza non può seguirla perché essa non si riposa prima di essere tornata nel Fondo donde proviene e dove stava quando era increata». La mistica di Taulero si distingue da quella di Eckhart, perché non contempla la perfetta identità tra essere divino e creato. Nessuno potrà mai raggiungere quell’altezza assoluta, ma solo averne una nebulosa percezione, perdendosi in essa e annegando «nel mare senza fondo della divinità».

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In basso Strasburgo, chiesa protestante di Saint Pierre le Jeune. Particolare della statua di Giovanni Taulero. 1898.


Miniatura raffigurante una delle visioni di Ildegarda di Bingen, dall’edizione del Liber Divinorum Operum della stessa Ildegarda contenuta nel Codice lucchese 1942. XIII sec. Lucca, Biblioteca Statale. Nell’immagine si ammira una città cinta da una doppia muraglia, l’una luminosa, l’altra scura, a simboleggiare la predestinazione divina, fatta di splendore, ma anche di tenebra.

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Una nuova visione del mondo Fra il XIV e il XV secolo, la cultura vive una stagione di grande fermento, alimentato da spinte innovative che abbracciano tutte le espressioni dell’ingegno umano. Il fenomeno coinvolge anche la filosofia, le cui elaborazioni, tuttavia, non accantonano l’eredità delle epoche precedenti, mantenendo vivo, in particolare, il legame con la religione

A

lla fine del Medioevo, parallelamente allo «scontro» tra nominalismo logico e misticismo – dei quali Guglielmo di Ockham e Meister Eckhart furono i protagonisti –, si affermò una visione del mondo destinata a influenzare l’intera cultura moderna. Questo movimento di idee, nato in ambienti italiani, si proponeva di fondare una nuova civiltà del pensiero, ispirata ai piú autentici valori classici, collocando l’uomo al centro dell’universo, nella piena titolarità del proprio ruolo di «essere razionale». Tali suggestioni dottrinarie vengono convenzionalmente poste nel quadro della tradizione rinascimentale, sottolineando la loro radicale avversità ai modelli speculativi affermatisi durante l’età di Mezzo. La frattura tra le due epoche – postulata dalle tesi dello studioso svizzero Jacob Burckhardt (1818-1897) – non fu, però, cosí brusca. A cavallo fra il Trecento e il Quattrocento maturò, infatti, una tendenza culturale che costituí una sorta di transizione all’affermarsi del naturalismo e dell’immanentismo nell’era del Rinascimento. Definita con il termine Umanesimo, essa trasse origine dalle tesi del poeta Francesco Petrarca (1304-1347), che esprimevano un elogio della cultura classica, delle humanae litterae come nutrimento dell’anima e fondamento del vivere civile. Questo nuovo laboratorio ideale – che fu soprattutto artistico-letterario, ma anche filosofico – non apparve inizialmente orientato a recidere i legami tra sapienza mondana e tradizione religiosa. Tanto da prefigurare l’Umanesimo come una forza che in realtà «combatte e ritarda l’avvento del vero spirito rinascimentale», per usare un’espressione di Nicola Abbagnano. La libertà dell’individuo e il suo ruolo da protagonista si trovano, quindi, ancora inglobati in un contesto religioso, ma in una dimensione che esula dai canoni tipici del teocentrismo medievale. L’«uomo nuovo» dell’Umanesimo, in un disegno cosmologico, occupa un posto «mediano» tra mondo celeste e fenomenico, spazio in cui poteva ritagliarsi una certa autonomia. A ispirare le nuove generazioni di filosofi, soprattutto nel XV secolo, non sono piú i testi di Aristotele, ma quelli neoplatonici, che teorizzano la separazione di ambiti tra Dio e il creato: agli uomini viene riconosciuto il privilegio di essere depositari assoluti del sapere, ma è loro preclusa la reale conoscenza di Dio, il cui profilo rimane absconditus, percepibile solo attraverso le sue opere. Gli studi aristotelici non vennero abbandonati del tutto, ma indirizzati verso una lettura «diretta» dei testi originali – in particolare alla luce dei commenti di Alessandro di Afrodisia (II-III secolo) – in modo da depurarli dai rimaneggiamenti dell’età di Mezzo. Proprio in relazione all’analisi delle opere classiche, l’Umanesimo concepí un’interpretazione «scientifica» del testo, improntata a rigorosi criteri filologici, in antitesi alla tendenza medievale di rielaborare strumentalmente il pensiero degli antichi al fine di avvalorare alcuni concetti. L’accentuazione di tale approccio metodologico si tradusse in eccessi formalistici in ambito linguistico, che portarono a una maggiore attenzione alla purezza tecnica del testo rispetto al suo reale contenuto.

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L’uomo vitruviano, celebre disegno di Leonardo da Vinci, intende illustrare la perfezione delle proporzioni del corpo umano, inscrivibile nelle forme geometriche del cerchio e del quadrato. Penna e inchiostro su carta, 1490 circa. Venezia, Gallerie dell’Accademia, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe.


CRONOLOGIA 1417

1429

1453

1492

Il Concilio di Costanza sana il Grande Scisma d’Occidente.

Giovanna d’Arco guida l’esercito francese alla vittoria contro gli Inglesi nella battaglia di Orléans.

Maometto II conquista Costantinopoli. Cade l’impero romano d’Oriente.

Cristoforo Colombo sbarca sulle coste del continente americano.

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Tra Umanesimo e Rinascimento

TESTIMONE DEL TEMPO

Teologo, filosofo e scienziato, Niccolò Cusano può essere considerato come la personalità piú compiuta del pensiero quattrocentesco. Originario della Germania, viaggiò molto e soggiornò a piú riprese in Italia, presenziando ai maggiori eventi di cui la Chiesa fu protagonista KUES, 1401-TODI, 1464

L’

ignorantia è l’arma del vero sapiente: da questo assunto, in apparenza paradossale, nascono le riflessioni di uno dei maggiori filosofi dell’Umanesimo, il tedesco Nikolaus Krebs – nome poi latinizzato in Niccolò Cusano –, che nacque nel 1401 nei pressi di Treviri da una facoltosa famiglia di mercanti e armatori. Il luogo d’origine rivestí una rilevanza significativa nello sviluppo della sua dottrina, che rimase sempre ancorata alla tradizione della scolastica: nel XV secolo, infatti, la Germania era una realtà culturalmente «periferica», lontana dall’epicentro dei maggiori dibattiti dottrinari, e recepí con ritardo le istanze umanistiche, provenienti dal Sud del continente. Dopo aver frequentato la facoltà di lettere dell’Università di Heidelberg, il giovane studioso completò la sua formazione a Padova e, nel suo soggiorno italiano, entrò in contatto con alcune personalità della cultura del tempo, da Vittorino da Feltre a Francesco Filelfo, da Domenico Capranica a Enea Silvio Piccolomini. A Roma, assisté alle predicazioni di un altro grande protagonista della nuova stagione dell’Umanesimo, il futuro santo Bernardino di Siena, e ne rimase affascinato. Ai precoci successi universitari, fece seguito

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Bernkastel-Kues, ospedale di S. Nicola. La cappella in cui si conserva il Trittico della passione che, nello scomparto centrale, in basso, mostra Niccolò Cusano, inginocchiato; davanti al filosofo compare il suo stemma cardinalizio, lo scudo con il cancro, animale ispirato al suo cognome, «Krebs», in tedesco, «granchio». 1460.


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Tra Umanesimo e Rinascimento

una brillante carriera ecclesiastica, che nel giro di pochi anni lo portò a conseguire l’ordinazione vescovile. Nel 1433 fu tra i partecipanti al Concilio di Basilea, sinodo che avrebbe dovuto soprattutto dirimere la questione della supremazia all’interno della Chiesa tra papa e vescovi, ma in quel consesso si occupò perlopiú dell’ambizioso progetto di ricomporre il Grande Scisma con la cristianità orientale. 122

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Per perorare la causa dell’unità delle due Chiese, venne inviato dal pontefice Eugenio IV a Costantinopoli e svolse la sua missione con profitto, convincendo l’imperatore bizantino Giovanni VIII di Bisanzio a partecipare al concilio di Ferrara, indetto per il 1438. Alla convocazione dell’assise, Cusano prese una posizione definitiva sul tema del conciliarismo (la pretesa dei vescovi di detenere un’autorità

Bernkastel-Kues. La casa natale di Niccolò Cusano. 1570.


In alto, a destra Bernkastel-Kues. Edicola recante lo stemma cardinalizio di Niccolò Cusano, collocata sulla sua casa natale. 1570.

superiore rispetto al successore di Pietro) e si pose alla testa della minoranza di ecclesiastici che intendevano appoggiare il papa, garantendone la somma autorità. La maggioranza dei vescovi, invece, che era riunita a Basilea, promulgò un atto di deposizione del pontefice Eugenio IV, eleggendo al suo posto Amedeo VIII di Savoia che prese il nome di Felice V. Un altro scisma si era ormai materializzato. L’esautorato pontefice si appellò ad Alberto II d’Asburgo, imperatore de facto e, per conquistarne il favore, fece ricorso alla propria élite diplomatica, nelle cui fila militava Niccolò Cusano. Il vescovo tedesco si applicò alacremente al delicato incarico e, per il fervore con il quale svolse il compito, ricevette dal cardinale Enea Silvio Piccolomini – futuro papa Pio II – l’appellativo di Hercules Eugeniorum («l’Ercole di Eugenio»). I suoi sforzi e quelli dei collaboratori furono alla fine premiati. Nel 1447, in occasione della dieta

di Aschaffenburg, il sovrano e i principi tedeschi scelsero di appoggiare Eugenio IV, non riconoscendo la legittimità di Felice V.

A un passo dal soglio di Pietro

Giunto all’apice del suo prestigio, Cusano entrò nella rosa dei papabili per la nomina a pontefice, ma sul soglio di Pietro salí Tomaso Parentucelli, che assunse il nome di Niccolò V. Il nuovo papa stimava il prelato tedesco e provvide subito a nominarlo cardinale, assegnandogli, in seguito, anche un delicato incarico politico, come vescovo-principe di Bressanone. Insediatosi in Tirolo, il neo-cardinale si trovò a fronteggiare l’invadenza politica del duca Sigismondo d’Austria, contro il quale combatté una guerra su tutti i fronti, dialettica, diplomatica e militare. Per l’ecclesiastico l’epilogo della battaglia fu però infausto: nel 1458, per il timore di essere ucciso, si rifugiò nel caPENSIERO MEDIEVALE

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stello di Andraz, nel Bellunese, ma non riuscí comunque a sfuggire alla cattura. Dopo varie peripezie, venne liberato e riprese la sua attività presso la Curia, come legato pontificio, durante il papato di Pio II. In questo periodo contribuí alla stesura di un grande piano di riforme per la Chiesa che, tuttavia, non trovò mai attuazione. Il fallimento politico del progetto generò in lui un grande disappunto: «Quando sono al Concistoro per parlare di riforma, mi sento ridicolo», si lamentò un giorno. Negli ultimi anni di vita, il suo destino si legò sempre piú alle declinanti fortune di Pio II. Redasse un testo di commento al Corano (il De Cribratione Alchorani), che rappresentò un preludio all’apertura all’Islam, poi suggellata nel 1460 dalla celebre lettera del pontefice a Maometto II. Nell’approssimarsi della crociata contro i Turchi, Cusano, come il papa, si ammalò e 124

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La biblioteca dell’ospedale di S. Nicola a Bernkastel-Kues. XV sec.

morí: era l’11 agosto del 1464. Tre giorni dopo, ad Ancona, spirò anche Pio II, il quale poté solo intravedere dalla finestra della sua stanza i soldati in partenza verso il Vicino Oriente. Le spoglie del cardinale tedesco vennero tumulate a Roma, nella basilica di S. Pietro in Vincoli, mentre il suo cuore trovò sepoltura nella sua terra natale, a Kues, in Renania.

La «dotta ignoranza»

Niccolò Cusano fu un testimone «globale» del suo tempo. Egli presenziò non solo ai principali eventi storico-politici che investirono la Chiesa nel Quattrocento, ma incise anche in modo profondo sull’evoluzione del pensiero occidentale. Conciliò tre tradizioni filosofiche differenti: il neoplatonismo, ispirandosi allo Pseudo-Dionigi l’Areopagita, a Scoto Eriugena, alla Scuola di Chartres e a Bonaventura di Bagnoregio; al-


todologie del suo sapere: ogni limite nell’indagine, infatti, genera il desiderio di superarlo, in un circolo virtuoso che determina un progresso inarrestabile delle conoscenze.

Il pensiero illustrato

Qui sopra alcuni strumenti astronomici appartenuti a Niccolò Cusano. In alto, a destra la prima pagina del De Docta Ignorantia di Niccolò Cusano, dalla prima edizione a stampa realizzata a Strasburgo nel 1488.

cuni aspetti del misticismo di Meister Eckhart; e le innovazioni introdotte dall’Umanesimo. Punto di partenza del suo impianto dottrinario è la denuncia dei limiti dell’intelletto umano nell’assimilare i principi regolanti l’universo, una incapacità che si traduce nell’inadeguato apprendimento delle verità divine, come enunciato nel De docta ignorantia. Tuttavia, la conoscenza umana non resta confinata entro gli angusti confini della tradizionale «teologia negativa», non si rassegna davanti alla constatazione della propria impotenza nel comprendere ciò che la trascende, ma si apre alla sfida dell’«approssimazione» verso le verità di Dio, alla ricerca delle loro tracce nella natura. Per scoprire i segni della presenza mondana del divino, l’individuo compie un enorme sforzo intellettivo, costantemente stimolato dal manifestarsi di inevitabili manchevolezze nelle me-

Nel primo libro del De docta ignorantia, Cusano raffigura graficamente le proprie riflessioni gnoseologiche, servendosi dei metodi matematico-geometrici della proporzione, applicati ai concetti di noto e ignoto. Un poligono (il conoscere umano) inscritto in un cerchio (l’ambito del divino), cerca di estendersi il piú possibile aggiungendo lati alla propria figura, ma non riesce mai a raggiungere le dimensioni della circonferenza entro il quale è compreso. Il poligono, però, aumentando sempre di superficie, acquisisce nuovi saperi e si approssima alle verità trascendenti, la cui confusa fisionomia potrà poi essere percepita grazie all’ausilio di paradossi. C’è un’altra possibilità, tuttavia, per ridurre la distanza tra conoscenza umana e divina, e Cusano la illustra nel De coniecturis, opera considerata complementare al De docta ignorantia. Il sapere mondano, definito «congettura», è raffrontato in senso analogico alle potenzialità dell’intelletto di Dio, in quanto entrambi affermano delle verità, seppur di diversa natura e «grandezza». Il Creatore rappresenta una forma di «implicazione» delle cose (complicatio), cioè PENSIERO MEDIEVALE

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Tra Umanesimo e Rinascimento

la riduzione a unità di tutto ciò che nel mondo si presenta come molteplice, ma nello stesso tempo si manifesta anche come «esplicazione» (explicatio), generando l’universo nella sua frammentarietà, nella miriade di singoli oggetti e manifestazioni della realtà.

Spirito, forma e materia

Riflettendo sull’apparente incongruenza dell’argomentazione, Cusano deduce che il creato può essere definito come una «contrazione» (contractio) di Dio, il quale condensa i tre modi essendi dello spirito, della forma e della materia nelle cose dell’universo. Tra l’uno e il molteplice, perciò, esiste un legame di proporzione, matematicamente riproducibile con i rapporti numerici che intercorrono, per esempio, tra 1, 10, 100, 1000, ecc…: il numero inferiore si trova contenuto in tutti quelli superiori – pur mantenendo una propria specificità – da qui l’affermazione che ogni cosa riporta tracce di Dio. Per evitare il rischio di uno sconfinamento nel panteismo, Cusano sottolinea la profonda differenza ontologica tra l’essere divino e la natura, tra l’unità e il molteplice. Nella dimensione trascendente si verifica una piena coincidentia oppositorum, dinamica che rende 126

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ogni principio armonico con il proprio contrario, mentre nella realtà dei viventi vige il «principio di non contraddizione», secondo il quale una proposizione è falsa in presenza di un elemento che la nega. In definitiva, riguardo alla relazione tra l’individuo e la sfera divina, Cusano afferma che «anche l’uomo è un Dio, seppure non assolutamente perché uomo»; è un Dio «umano» o «umanamente un Dio», l’immagine solo riprodotta a imitazione di ciò che non si può conoscere. Un Dio «creato». Immaginato come una creazione celeste che compenetra ogni singola manifestazione fenomenica, l’universo si rivela necessariamente infinito, allo stesso modo di chi l’ha concepito. Ne deriva una sconfessione radicale della visione tolemaico-aristotelica di un cosmo limitato nello spazio, il cui centro è rappresentato dal profilo immobile della terra, intorno al quale ruotano numerosi corpi celesti. Per Cusano, invece, la terra ruota sul proprio asse e, armonizzandosi con il movimento degli altri pianeti, garantisce a determinare l’equilibrio dell’intero sistema. La tesi, che apparve all’epoca decisamente originale, aprí la strada alla rivoluzione cosmologica teorizzata prima da Giordano Bruno e poi da Copernico.

Roma, basilica di S. Pietro in Vincoli. Un’immagine della tomba di Niccolò Cusano, che ebbe l’ufficio ecclesiastico della basilica tra il 1449 e il 1464. Nella pagina accanto Dante e Virgilio nella bolgia dei barattieri, miniatura che illustra il canto XXI dell’Inferno in una edizione della Divina Commedia. Parigi, Bibliothèque nationale de France.


L’EREDITÀ DI DANTE Dante Alighieri tratteggiò nelle sue opere una vera e propria «visione del mondo» che affondava le radici nella scolastica, ma ne innovò profondamente i principi guida. Rispettoso del legame dogmatico con la fede, introdusse elementi immanentisti e razionalisti che avrebbero poi contraddistinto l’era dell’Umanesimo: in Dante, l’uomo occupa il centro dell’universo ed è mosso da una volontà di autoaffermazione che lo spinge a superare continuamente se stesso. Nella visione dantesca si possono cogliere gli evidenti segni del graduale passaggio dalla cultura medievale al Rinascimento, come ha sottolineato il critico letterario Natalino Sapegno: «Dante partecipa, anzi, è tra gli artefici piú notevoli di questo momento della civiltà che conclude il Medioevo e prepara il Rinascimento. In lui la religiosità medievale e la sapienza teologica si accordano con la curiosità degli umani contrasti e delle cose naturali; l’anelito del trascendente non distrugge né soffoca l’ansiosa considerazione degli eventi politici; il lungo studio dei filosofi scolastici non contrasta con il grande amore della letteratura e della lingua nuova e insieme con l’appassionata ricerca e imitazione dei poeti classici». La Divina Commedia è viaggio immaginario, un Itinerarium mentis in Deum, che riveste un profilo eminentemente umano. Metafora dell’epos dantesco è la libertà assegnata da Dio all’individuo, un dono che il

destinatario può valorizzare elevandosi nello spirito o cadendo nel precipizio della degradazione. L’uomo è il miracolo della libertà, l’impegno di un’eterna lotta intrapresa per sanare le proprie imperfezioni. Anche sul piano piú strettamente politico – come espresso nella Monarchia – Dante compie una «rottura». Teorizza un ritorno all’ideale antico dell’impero, ispirandosi ai fasti della Roma augustea, ma ne rielabora il contesto. L’impero romano, attualizzato nelle battaglie politiche della fine del Medioevo, diventa il simbolo di una auctoritas necessaria per garantire unità e concordia tra le nazioni. Indubbia fu l’influenza di Dante su alcuni grandi pensatori umanisti del Trecento e del Quattrocento, a partire dal fiorentino Coluccio Salutati (1331-1406). Cultore del mondo antico, egli coltivava per Dante una vera e propria venerazione e ribadí nei suoi scritti il valore fondante della libertas umana, nell’ottica di una prevalenza della volontà sull’intelletto. Anche l’umanista aretino Leonardo Bruni (1370-1444) fu profondamente influenzato dal pensiero dantesco: sostenitore di una forma di humanitas di matrice fortemente antiscolastica, criticò tuttavia anche gli eccessi formalisti della cultura quattrocentesca. Opera una lettura di Dante in chiave teologica, infine, il filosofo fiorentino Cristoforo Landino (1424-1498), che ne evidenzia la matrice neoplatonica del pensiero.

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Tra Umanesimo e Rinascimento

PROTAGONISTI MARSILIO FICINO

Ritratto di Marsilio Ficino, olio su tela attribuito ad Antonio Maria Crespi, detto il Bustino. 1613-1621. Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana.

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Teorizzato da numerosi umanisti, l’orientamento speculativo di un «ritorno a Platone» ebbe come figura simbolo il toscano Marsilio Ficino (1433-1499). Nato a Figline Valdarno, si dedicò fin da giovane allo studio dei testi del filosofo ateniese, manifestando invece uno scarso interesse per gli scritti aristotelici. Grazie al mecenatismo di Cosimo de’ Medici, poté approfondire ulteriormente le opere di Platone e si dedicò, inoltre, alla traduzione di testi ermetici, tra cui il Corpus Hermeticum. Nel 1462 fondò l’Accademia neoplatonica – stabilendone la sede presso la splendida villa Medicea di Careggi –, un’istituzione che contribuí notevolmente alla diffusione del suo sistema dottrinario. Il principale intento di Marsilio Ficino era conciliare la filosofia con la religione attraverso il contributo del pensiero antico, nel quale riteneva di aver trovato le ideali premesse metodologiche per la realizzazione di una tale e complessa sintesi. Espresse il progetto speculativo nella sua opera principale, la Theologia platonica de immortalitate animorum, polemizzando con gli aristotelici, accusati di aver distrutto la fede, ma anche con l’eccessivo formalismo filologico degli umanisti, che – secondo Ficino – sottovalutavano il significato piú autentico, spesso allegorico, degli scritti classici. Fondamenti delle sue riflessioni sono la redenzione, vista come perenne nutrimento del sentimento religioso, e una visione dell’universo caratterizzato da una rigorosa gerarchia, la cosiddetta «pentarchia ontologica»: al vertice si trova Dio, poi gli Angeli, l’anima razionale, la qualità e il corpo. L’anima rappresenta la copula mundi e unifica, attraverso l’amore, tutti i diversi livelli di perfezione: l’amore, identificato da Ficino con l’eros platonico ma in chiave cristiana, fluttua nel mondo per emanazione divina e spinge gli uomini a elevarsi spiritualmente nel tentativo di avvicinarsi al Padre. Appassionato di dottrine esoteriche, il filosofo toscano venne accusato di aver diffuso pericolose pratiche di magia con la pubblicazione del suo testo ermetico Liber de vita. A contribuire alla sua assoluzione fu la tendenza culturale dell’epoca, orientata a valorizzare la magia e l’astrologia come


discipline legittime, dotate anche di fondamento scientifico e utili per dominare la natura.

PICO DELLA MIRANDOLA Il Quattrocento volse al tramonto con l’ingegnoso tentativo di fondere le principali tradizioni filosofiche prodotte dalla storia in un unico, colossale sistema speculativo. A concepire l’ardua impresa fu Giovanni Pico della Mirandola (1463-1494), insigne umanista, cultore delle lingue vicino-orientali e anch’egli, come numerosi eruditi della sua epoca, studioso di scienze esoteriche. Formatosi a Bologna e Ferrara, si trasferí a Padova, all’epoca frequentata da numerosi intellettuali di ispirazione aristotelica e averroiana. A Parigi, invece, si concentrò nello studio della scolastica, valutandone la rielaborazione in chiave umanistica, esperimento complicato in un’epoca che sembrava aver dimenticato i grandi dibattiti dottrinari di appena un secolo prima. Fece scalpore la sua polemica contro l’umanista Ermolao Barbaro, che accusò di eccessivo formalismo nello studio dei pensatori medievali. Pico maturò un progetto «eclettico», con cui intendeva accorpare gran parte dei sistemi speculativi succedutisi nella storia, per formulare una vera e propria «filosofia della concordia»: le tesi di Pitagora, Platone, Aristotele, dei neoplatonici, dei Padri della Chiesa, della scolastica, di Averroè, della Cabala e delle dottrine esoteriche avevano diversi elementi in comune – secondo il pensatore emiliano – e la loro sinergia poteva garantire all’uomo una rigenerazione spirituale. Per illustrare il progetto organizzò un convegno a Roma e, per l’occasione, scrisse un testo composto da 900 tesi, che avrebbe dovuto rappresentare la base della discussione, le Conclusiones philosophicae, cabalisticae et theologicae. Ma il pianificato consesso alla fine non si tenne, anche per il sospetto di eresia che gravava su alcune delle tesi da dibattere. A compendio del trattato scrisse anche un’orazione, il De hominis dignitate, nella quale si esalta il ruolo dell’uomo, posto da Dio al centro dell’universo, e dotato della piú

ampia libertà di scelta che può esplicarsi in un’ascesa verso uno stato di beatitudine o in una caduta nella condizione piú degradante. Pico difese la magia, definendola il «compimento della filosofia naturale», mentre condannò l’astrologia in quanto limitava, attraverso il condizionamento delle stelle, la piena libertà dell’individuo.

Ritratto di Pico della Mirandola, olio su tela attribuito ad Antonio Maria Crespi detto il Bustino. 1613-1621. Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana.

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