LE
LE GRANDI DINASTIE DELL’ITALIA MEDIEVALE
DELL’
N°29 Novembre/Dicembre 2018 Rivista Bimestrale
DINASTIE GRANDI
ITALIA MEDIEVALE
♦ NORMANNI ♦ SVEVI ♦ ANGIOINI ♦ ARAGONESI
€ 7,90
IN EDICOLA IL 31 OTTOBRE 2018 Timeline Publishing Srl - Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c.1, LO/MI.
ST ND IE I
DE IL M L DI LE G EDIO NA RA EVO
MEDIOEVO DOSSIER
Dossier
EDIO VO M E
LE GRANDI
DINASTIE
DELL’ITALIA MEDIEVALE di Tommaso Indelli
Introduzione 6 Parenti d’Italia I Normanni 8 Quei cavalieri venuti dal Grande Nord Gli Hohenstaufen 52 La discesa dell’aquila Gli Angioini 78 Napoli, caput mundi Gli Aragonesi 100 Mezzogiorno aragonese Da leggere 128 Bibliografia
Parenti d’Italia R iguardo le lunghe vicende della nostra Penisola è opinione diffusa che una parte significativa della sua storia, soprattutto quella che si fa coincidere con l’inizio e la fine della cosiddetta «età di Mezzo», sia ampiamente caratterizzata – e sia stata determinata in maniera significativa – dall’avvento di genti straniere, popolazioni, eserciti, condottieri e re provenienti da terre al di là dei confini naturali dell’unico vero impero «autoctono» dell’Italia (autoctono per origine, «internazionale» per vocazione politica e, successivamente, culturale), ovvero quello di Roma. Una communis opinio del tutto legittima, ben sostanziata dall’insegnamento della storiografia moderna e contemporanea, eppure ancora oggi non scevra di discordanze tra gli stessi storici circa i meccanismi di quel lungo e articolato processo e la qualità intrinseca dei suoi esiti. Non che quell’unanimità di giudizio sia da auspicare a tutti i costi: la storiografia, infatti, non è una scienza esatta e, soprattutto, come insegnava Benedetto Croce, «il bisogno pratico, che è nel fondo di ogni giudizio storico, conferisce a ogni storia il carattere di “storia contemporanea”». E i «bisogni pratici», come sappiamo, non sono uguali per tutti. Resta, tuttavia – e questa sí che si pone come condizione imprescindibile di ogni parlare della storia –, la necessità di conoscere i fatti… Nelle pagine che seguono, Tommaso Indelli, giovane studioso con una ragguardevole produzione scientifica e divulgativa già a suo credito (e ben noto ai lettori di «Medioevo»), affronta la non facile sfida di esporre, in una grande sintesi, la successione degli accadimenti che, per circa 500 anni, hanno scandito la storia dell’Italia: incontreremo una schiera infinita di personaggi (tale da imporre al lettore la necessità di periodiche «pause di riflessione», ma, si sa, la storia è fatta di persone) dai nomi perlopiú germanici, franchi e spagnoli, spesso italianizzati all’uopo. Viaggeremo nelle terre del Meridione della Penisola (già, è proprio lí, tra Palermo e Napoli, che i protagonisti del nostro racconto hanno scritto la storia del Paese), rimarremo sbalorditi di fronte alla grandiosità della produzione artistica e architettonica di quel mezzo millennio, le cui immagini accompagnano il testo. E, alla fine, volendo, potremmo interrogarci nuovamente, questa volta con maggior cognizione di causa, su chi fossero, veramente, questi grandi attori della nostra storia: stranieri o italiani in nuce? O entrambe le cose? Andreas M. Steiner
Sulle due pagine particolare della Tavola Strozzi, olio su tavola di incerta attribuzione, che raffigura una rara immagine della Napoli del Quattrocento. XV sec. Napoli, Museo Nazionale di San Martino. In questo dettaglio dell’opera si vede il ritorno a Napoli della flotta di Ferdinando d’Aragona, reduce dalla vittoria su Giovanni d’Angiò nella battaglia combattuta presso l’isola d’Ischia, nel 1465.
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Quei cavalieri venuti
Tutto ebbe inizio con quegli uomini d’armi che, reduci dalla Terra Santa, scelsero di far sosta negli ameni paesaggi del nostro Meridione. Presto furono raggiunti da gruppi sempre piú numerosi, provenienti dalla Normandia. Prese cosí forma il dominio dei Normanni, per secoli protagonisti della storia della Penisola
A
ll’inizio dell’XI secolo, il Mezzogiorno d’Italia era caratterizzato da un’estrema frammentazione politica, in quanto sottoposto a tre dominazioni distinte: longobarda, bizantina e saracena. Nel 774, con la conquista franca di Pavia, capitale del regno longobardo, Arechi II (758-787), duca di Benevento, si proclamò principe, facendosi ungere dai vescovi con il sacro crisma, alla maniera dei re. Il duca affermava cosí la continuità dinastica e politica del regno longobardo e il suo radicamento nel principato beneventano. Arechi esercitava la sua sovranità su una compagine molto vasta che si estendeva, a nord ovest, fino al corso del Garigliano, e, a nordest, fino al fiume Pescara, inglobando l’attuale Campania, il Molise e parte dell’Abruzzo, mentre a sud il confine era particolarmente labile, a causa della presenza bizantina. Il principato comprendeva anche la Lucania e parte della Calabria, fino a Cosenza, oltre che una
Palermo, Palazzo dei Normanni, camera di Ruggero II. La ricca decorazione a mosaico della parete meridionale della sala. XII sec. 8
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dal Grande Nord
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I Normanni
DAI VICHINGHI AI NORMANNI L’immigrazione dei Normanni nel Mezzogiorno fu l’esito finale di un lungo e complesso fenomeno espansivo delle popolazioni scandinave iniziato alla fine dell’VIII secolo. L’«Età vichinga» è convenzionalmente compresa fra il 793 e il 1066, tra il primo saccheggio vichingo perpetrato ai danni dell’abbazia di Lindisfarne, sulle coste orientali della Northumbria anglosassone, e la battaglia di Hastings – 14 ottobre 1066 –, in cui i Normanni sconfissero gli Anglosassoni e conquistarono il regno inglese. L’etimologia del nome «Vichinghi» è incerta e si suppone che abbia una duplice origine, derivando dal norreno vik – baia – oppure dal sassone wic – borgo, città – con chiari riferimenti, nel primo caso, all’attività predatoria di queste popolazioni e, nel secondo, a quella commerciale. Oltre al termine «Vichinghi», nelle fonti dell’epoca, le genti del Nord erano anche indicate con l’etnonimo di Northmanni, uomini del Nord, oppure di Vareghi, Rus (Varangoi, Rhos in greco, Rus in slavo, «Russi»), nomi derivanti, presumibilmente, da var, giuramento, o da rodhr, remo, con riferimento, nel primo caso, alle confraternite militari – vikingelag – che riunivano i guerrieri e, nel secondo, alle imbarcazioni – drakkar – con cui questi predoni solcavano i mari. Nelle fonti arabe del periodo era adoperato l’etnonimo al Majus – adoratori del fuoco – gentili, pagani, con riferimento ai culti politeistici di queste genti, mentre in quelle irlandesi veniva adoperato l’etnonimo Lochlannach o Gaill, rispettivamente, «abitanti dei laghi» e «stranieri».
parte del territorio pugliese, escluso il Salento, che restava in mano imperiale. Questo principato unitario sopravvisse fino al IX secolo, quando, morto il principe Sicardo (832-839), una grave crisi dinastica, dopo una lunga guerra intestina, portò alla sua scissione nei due principati distinti di Salerno e Benevento (849). Intorno all’860, da Salerno si distaccò Capua, capoluogo di contea e, infine (900), principato indipendente (vedi box alle pp. 14-15). Soltanto durante il governo di Pandolfo I Capo di Ferro (961-981), principe di Capua e duca di Spoleto, i tre principati furono riunificati, ma, dopo la sua morte, tornarono a dividersi, seguendo politiche autonome, mentre i rimanenti possedimenti bizantini nel Sud vennero riorganizzati in una nuova provincia, detta catepanato (metà del X secolo), con capitale Bari, costituita dai tre temi di Lucania, Puglia e Calabria. Sulla costa del basso Lazio e campana, sorgevano i ducati di Gaeta, Napoli, Sorrento e Amalfi, formalmente sottoposti a Bisanzio (vedi box a p. 19). Intanto, in Sicilia, già dominio bizantino, si erano insediati i Saraceni, che, dopo una secolare guerra di conquista (827-902), avevano trasformato l’isola in un 10
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Particolare di una miniatura, raffigurante un contingente di soldati normanni durante l’attraversamento della Manica, da un’edizione de La Vie de Saint Aubin d’Angers. XI sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
emirato autonomo, senza però riuscire a estendere il loro potere sul Mezzogiorno peninsulare (vedi box a p. 13).
La conquista
L’arrivo dei Normanni nel Sud si può collocare tra la fine del X e l’inizio dell’XI secolo. Discendenti dei Vichinghi che, tra l’VIII e il X secolo, avevano fatto tremare l’Europa, con le loro scorrerie, questi cavalieri erano originari del ducato di Normandia, nella Francia nordoccidentale, dove avevano, già da tempo, subíto un lungo processo di «deculturazione»: avevano abbandonato la lingua norrena, in favore della lingua d’oil, nonché gli antichi «culti pagani» e si erano convertiti al cristianesimo (vedi box alla pagina precedente). Il ducato di Normandia era una vera e propria enclave in terra franca, che i Vichinghi erano riusciti a costituire nel X secolo, grazie alla concessione (911) di alcuni territori da parte del re di Francia, Carlo il Semplice (898-923). I Normanni giunti nel Sud della Penisola erano perlopiú cavalieri che tornavano dai Luoghi Santi e che, attratti dall’amenità e dalle risorse economiche del Mezzogiorno d’Italia, decisero di stabilirsi in quelle terre alla ricerca di migliori condizioni di vita. Essi furono ben presto seguiti da altri nuclei di combattenti, attratti dalle medesime possibilità, ma il loro numero doveva essere esiguo, se confrontato con la popolazione residente nel Mezzogiorno, e, pertanto, non si può parlare di una «migrazione di massa», bensí di un’occupazione progressiva da parte di una minoranza guerriera, insediatasi a piccoli gruppi nel territorio come aristocrazia militare. L’esperienza normanna, comunque, dimostrò come una minoranza guerriera abile, spregiudicata e senza scrupoli, favorita dalle debolezze e divisioni degli autoctoni, potesse facilmente assumere un ruolo dominante e modificare, profondamente, le strutture politico-sociali del Mezzogiorno italiano (vedi box a p. 22). La guerra rappresentava l’unico strumento per accumulare onori e ricchezze e per costituire, attraverso l’insediamento nel Sud, «signorie» politico-territoriali a cui venne dato il nome di «contee», utilizzando una denominazione desunta dall’articolazione politico-istituzionale dei principati longobardi. I nuovi signori si appropriarono di gran parte delle terre per «diritto di conquista» e le distribuirono ai milites che costituivano le loro «bande», sotto forma di benefici feudali, pur continuando a persistere la proprietà privata. Attraverso l’uso sistematico GRANDI DINASTIE
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I Normanni
Gli anni degli Altavilla
999 circa Un gruppo di cavalieri normanni sbarca a Salerno dalla Terra Santa. 1017-1018 Seconda rivolta di Melo, aristocratico barese, contro il potere bizantino. Al suo servizio ci sono alcuni cavalieri normanni. 1027 Guaimario IV diventa principe di Salerno. Fra il 1038 e il 1047 sarà anche principe di Capua e dal 1043 porterà il titolo di duca di Puglia. 1030 circa Fondazione di Aversa a opera di Rainulfo e altri cavalieri normanni. Nel 1038 Rainulfo fu investito della contea di Aversa dall’imperatore germanico Corrado II, dietro richiesta di Guaimario IV di Salerno. 1042 circa I maggiori capi normanni si dividono a Melfi le principali città della Puglia, quelle già conquistate, e quelle ancora da conquistare. 1047 circa Arrivo in Italia di Riccardo Quarrel e Roberto il Guiscardo. 1052 Guaimario IV, principe di Salerno, viene ucciso da una congiura di palazzo. Suo figlio, Gisulfo II, riesce poco dopo a riprendere il controllo della città, con l’aiuto determinante dei Normanni. 1053 I Normanni sconfiggono le truppe papali a Civitate, nella Puglia settentrionale. 1058 Riccardo Quarrel conquista Capua e ne diventa principe. 1059 A Melfi il Guiscardo giura fedeltà al papa Niccolò II, assume il titolo di duca e viene 12
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investito dei territori di Puglia e Calabria (ancora in gran parte in mano ai Bizantini) e della Sicilia ancora araba. 1071-1072 Il Guiscardo conquista Bari, capoluogo dei domini bizantini nell’Italia meridionale (1071); Ruggero I conquista, con l’aiuto del Guiscardo, Palermo, capitale dell’emirato arabo di Sicilia (1072). 1073 L’ultimo principe beneventano, Landolfo VI, si sottomette al papa. Benevento si sottrae in tal modo alla conquista normanna; rimarrà per secoli sotto il dominio pontificio. 1077 Il Guiscardo conquista Salerno. 1081 Il Guiscardo inizia la sua impresa di conquista dei Balcani: sbarca a Valona, conquista Corfù e assedia Durazzo. 1085 Il Guiscardo si ammala e muore nei Balcani; il suo corpo viene poi riportato in Puglia e sepolto a Venosa, nell’abbazia della Ss. Trinità. 1087 Alcuni marinai baresi trafugano le reliquie di san Nicola a Mira, in Asia Minore, e le portano a Bari. 1089 Al termine di un’aspra lotta il ducato di Puglia viene diviso fra i due figli del Guiscardo. Ruggero, il nuovo duca, conserva la Campania meridionale, la Puglia settentrionale, la Calabria e la parte occidentale della Basilicata. Boemondo I acquisisce la Puglia centro-meridionale e
LA SICILIA MUSULMANA Le prime incursioni musulmane in Sicilia risalgono al VII secolo. La prima, ai danni di Siracusa, sede del governatore bizantino, si data al 652, la seconda, piú devastante della prima, al 669. Si badi che i Saraceni, nuclei di razziatori arabi e berberi, mai si autodefinirono con questo nome, che gli fu invece attribuito dai cristiani. Tra l’altro, il termine «Saraceni» è di etimologia incerta: probabilmente indicava, in origine, una specifica tribú araba che dimorava nella penisola del Sinai, oppure si riferiva ai figli di Sara, moglie di Abramo, capostipite degli Ebrei. Ma accanto a questa supposta genealogia, ve n’era anche un’altra, che è forse alla base dell’etimologia del nome Agareni, che voleva gli Arabi, e quindi tutti i Musulmani, discendenti di Agar, la concubina egizia di Abramo, che generò Ismaele. La conquista musulmana dell’isola era avvenuta nel corso di un lungo arco di tempo, tra l’827 e il 902, a opera degli Aghlabiti, dinastia musulmana regnante sull’attuale Tunisia. Nell’827, infatti, le prime truppe arabe erano sbarcate a Mazara, nella Sicilia occidentale, al comando di Asad ibn al Furat, agli ordini dell’emiro tunisino aghlabita, Ziyadat Allah, al fine di sostenere le pretese dinastiche del turmarca bizantino, Eufemio, che si era ribellato al governatore bizantino dell’isola, proclamandosi imperatore. Nel 902 era caduta l’ultima roccaforte bizantina, Rometta. Nel 949, il governatore dell’isola, al-Hasan al-Kalbi, proclamò la propria indipendenza dal governo tunisino, costituendo la Sicilia in un emirato pienamente indipendente, quello kalbita, destinato a durare fino alla conquista normanna. La duratura presenza islamica nell’isola favorí importanti progressi culturali, artistici ed economici, come la razionalizzazione dell’agricoltura, con
la parte orientale della Basilicata.
1111 Muore il duca di Puglia Ruggero. Gli succede il figlio Guglielmo.
1127 Muoiono quasi contemporaneamente il duca di Puglia Guglielmo e Boemondo II, figlio di Boemondo I. Entrambi non hanno eredi maschi. Ruggero II, conte di Sicilia, rivendica la successione, in quanto appartenente al ceppo degli Altavilla. 1130 Ruggero II, dopo aver esteso la sua autorità all’Italia meridionale continentale, si fa incoronare re con il consenso dell’antipapa Anacleto II. 1139 Ruggero II viene riconosciuto re dal pontefice legittimo Innocenzo II, dopo la morte di Anacleto II. 1154 Muore Ruggero II. Gli succede il figlio Guglielmo I.
bonifiche, introduzione di piú evolute tecniche di irrigazione e nuove colture – zafferano, canna da zucchero, gelso, agrumi e palma da dattero – e lo sviluppo di nuovi settori manifatturieri, riguardanti la carta e la seta. I dominatori musulmani erano portatori di una cultura decisamente piú avanzata rispetto agli autoctoni e alle stirpi germaniche longobarde e normanne, oltre che di una religione rivelata ed esclusivista. Pertanto non fu possibile alcuna assimilazione degli stessi, come era avvenuto per altri nuclei allogeni. Né, però, accadde il contrario, anche se le conquiste tecniche, scientifiche e civili, dovute alla dominazione musulmana, furono notevoli e rimasero patrimonio comune degli isolani, anche dopo la fine del dominio islamico. In Sicilia, infatti, la dominazione saracena non riuscí ad attuare quanto le era riuscito altrove – per esempio, in Medio Oriente e nel Maghreb – ovvero la conversione alla fede islamica della maggioranza della popolazione, che assunse anche l’arabo come prima lingua, determinando cosí un mutamento epocale della cultura e della composizione etnica di quei territori che persiste ancora oggi.
In alto miniatura raffigurante l’assedio e la conquista di Siracusa dal Codex Graecus Matritensis Ioannis Skyllitzes, manoscritto greco di produzione siciliana che riporta la Sinossi della Storia di Giovanni Scilitze. XII sec. Madrid, Biblioteca Nazionale. Nella pagina accanto incisione raffigurante papa Leone IX fatto prigioniero dai Normanni dopo l’annientamento del suo esercito. Parigi, 1780 circa. dei legami vassallatici «importati» dalla Francia, i conti riuscirono a costituire un complesso sistema di gerarchie di potere, basate sulla fedeltà personale, coinvolgendo anche i ceti dirigenti locali normanni e bizantini che, ben presto, si sottomisero ai conquistatori. Gran parte dei Normanni eccelleva nei combattimenti a cavallo, con armatura pesante, ma non mancavano i fanti, per quanto le informazioni GRANDI DINASTIE
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in nostro possesso siano poche e non consentano di delineare un quadro esauriente. Il cavaliere normanno era solitamente armato di elmo conico con nasale, di scudo lungo dalla caratteristica forma «a mandorla», spada e lancia lunga, gambali e usbergo, una «maglia» di ferro fino al ginocchio, munita di cappuccio e costituita da anelli metallici intrecciati tra loro. In origine – come si è detto – si trattava, probabilmente, di pellegrini-guerrieri, in visita al santuario garganico di S. Michele, i quali, di ritorno dal pellegrinaggio, raggiunsero Salerno, assediata dai Saraceni – tra il 999 e il 1016 –, dove fornirono un valido aiuto militare per respingere l’assalto islamico, e vennero perciò ricompensati dal principe, Guaimario III (9991027), con armi, terre e vettovagliamento. Dopo un breve rientro in Normandia, alcuni di essi tornarono a Salerno, con altri conterranei, e si misero al servizio, come mercenari, del principe 14
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LE CAPITALI LONGOBARDE Le tre capitali longobarde del Mezzogiorno avevano alle spalle una lunga storia. Benevento e Salerno erano centri urbani fortificati, già dall’epoca romana, sedi di colonie fondate, rispettivamente, nel 268 e nel 197 a.C. I Romani avevano ribattezzato «Benevento» il preesistente centro sannita di Maleventum, dove i loro eserciti avevano riportato la vittoria definitiva, sui Greci di Pirro, nel III secolo a.C. La città era ubicata nella valle dei fiumi Calore e Sabato ed era al centro di un importante snodo stradale, perché vi confluiva la via Appia antica e ne partiva la via Traiana – o Appia nuova – in direzione dei porti pugliesi. Salerno era attraversata anch’essa da un’importante strada romana – la via Popilia – che da Capua, lungo la costa, conduceva a Reggio, in Calabria. Radicalmente trasformata dagli interventi urbanistici di Arechi II – le mura, la reggia principesca –, la città era anche un importante centro economico e commerciale sul Tirreno. Capua, capoluogo di contea e, poi, di principato, nella fertilissima
Terra di Lavoro, fu invece una vera e propria fondazione longobarda (856), dopo la distruzione della Capua romana – Santa Maria Capua Vetere – a opera dei Saraceni, nell’841. La Langobardia meridionale aveva alle spalle una storia complessa. Il ducato longobardo di Benevento si costituí nel 570-575 circa, a opera di Zottone (o Zotto, † 590 circa), condottiero longobardo di cui si conosce molto poco. L’occupazione del Mezzogiorno avvenne nello stesso periodo in cui il resto dei Longobardi, varcando le Alpi orientali, penetrava nell’Italia settentrionale e, sotto la guida del re Alboino (560 circa-572), occupava i territori bizantini dell’esarcato. Il ducato di Benevento fu una realtà sostanzialmente autonoma da Pavia e politicamente dinamica, che andò progressivamente espandendosi, a danno dei domini bizantini, fino alla fine del VII secolo. In quel periodo, il duca Arechi I (590-641), di origine friulana e imposto da re Agilulfo (590-616), già conquistatore di Capua (594), occupò Salerno (635-640 circa), dando al ducato il suo sbocco sul mare. Alcuni anni piú tardi, Romualdo I (671-687) conquistò l’intero Mezzogiorno, fino alla valle del Crati e al Salento, impose la conversione definitiva della sua stirpe al cattolicesimo, favorendo l’apostolato di san Barbato († 683 circa) – vescovo di Benevento – e favorí il culto di san Michele, ampliando, in chiave monumentale, il suo santuario rupestre ubicato a Monte Sant’Angelo. Con Romualdo il ducato raggiunse la massima estensione, rimasta invariata fino all’epoca di Arechi II. Nel 774, la proclamazione di Arechi a princeps segnò, ufficialmente, l’atto di nascita della Langobardia minor come entità politica indipendente ma, nel secolo successivo, la compagine unitaria era destinata a dividersi in entità politiche distinte, dopo una lunga e cruenta guerra civile (839-849), il cui esito fu la nascita di due distinti principati: Benevento e Salerno. Nel IX secolo, i due principati furono in costante guerra tra loro, mentre la situazione politica generale si complicava a causa di una terza forza – l’Islam –, che faceva la sua comparsa nel Mezzogiorno. Ben presto, a Benevento e Salerno si aggiunse Capua, che, capoluogo di contea appartenente al principato di Salerno, divenne indipendente (metà del IX secolo), costituendosi in un terzo principato (900). Solo nella seconda metà dell’XI secolo, al momento della conquista normanna – che semplificò la geopolitica del Mezzogiorno italiano –, i tre principati cessarono di essere indipendenti e furono inglobati nelle compagini statali normanne – principato di Capua e ducato di Puglia prima, regno normanno poi – e nello Stato pontificio.
Capua (Caserta). Capitello longobardo del IX sec. decorato con motivi geometrici e floreali, riutilizzato nel porticato del cortile del Palazzo Fieramosca, il cui primo impianto viene datato al XIII sec.
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I Normanni
I DUCHI DI BENEVENTO 570-590? ZOTTONE 590-641 ARECHI I 641-642 AIONE I 642-647 RADOALDO 647-662 GRIMOALDO I 662/663-687 ROMUALDO I 687-687 GRIMOALDO II 689-706 GISULFO I 706-731 ROMUALDO II 731-732 GISULFO II 732 AUDELAIS 732-739 GREGORIO 739-742 GODESCALCO 742-751 GISULFO II 751-758 LIUTPRANDO 758-774 ARECHI II Guaimario; altri, invece, andarono a cercare fortuna piú a sud, in Puglia, dove divampavano alcune rivolte contro gli occupanti bizantini. Tra i raggruppamenti di questi avventurieri se ne distinsero subito due: il primo faceva capo ai fratelli d’Altavilla, figli di Tancredi, il secondo gruppo faceva capo al clan dei Drengot-Quarrel, guidato dai fratelli Osmondo e Rainulfo (vedi box alle pp. 24-25).
Le mire dell’impero germanico
Questi avventurieri riuscirono a crearsi una solida base di potere militare, territoriale e politico, attraverso la razzia, il saccheggio e la forza, oltre a un’abile capacità di mettersi al servizio dei potentati piú diversi. A partire dall’XI secolo, la Puglia era attraversata da fermenti di rivolta antibizantina, fomentati da Melo di Bari – un notabile barese forse di origine longobarda – ribellatosi al governo. Nei suoi propositi rivoluzionari, Melo era sostenuto dall’imperatore tedesco, Enrico II (10021024), il quale lo aveva investito del titolo di «duca di Puglia», auspicando la formazione, nel Mezzogiorno, di una compagine politico-territoriale che avrebbe dovuto gravitare nella sfera d’influenza dell’impero germanico. Con l’aiuto delle truppe normanne, Melo mosse guerra all’impero d’Oriente e riportò alcune vittorie, ma venne infine sconfitto dal nuovo catapano, Basilio Bojannes, nella battaglia di Canne (1018). Dopo quella tragica giornata, Melo fuggí in Germania dove sperava, con l’aiuto dell’imperatore, di riorganizzare una spedizione militare nel 16
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Mezzogiorno, ma la morte lo colse prima che potesse riuscire nel suo intento e fu sepolto nel duomo di Bamberga, in Germania (1020). Intanto, morto il principe di Salerno, Guaimario III, gli successe il figlio, Guaimario IV (1027-1052), che intraprese una politica espansionistica in direzione dell’intero Mezzogiorno, con l’intento di ricostituire l’unitario principato di Benevento dell’epoca di Arechi II, servendosi proprio dell’aiuto dei cavalieri normanni. Guaimario IV, infatti, piú del padre, intuí subito l’utilità che questi cavalieri avrebbero potuto avere nel perseguire i suoi obiettivi di espansione verso il Mezzogiorno, al fine di combattere i Bizantini ed eroderne i precari possessi. I Normanni avevano nel frattempo sconfitto piú volte l’esercito imperiale a Canne, Montemaggiore e Montepeloso, e
A sinistra Benevento, S. Sofia. Affresco che ritrae Zaccaria muto davanti al popolo, dalle Storie di Cristo, opera di un artista di probabile formazione siro-palestinese, che forse la portò a termine entro il 768. ampliato i propri domini in Puglia e in Lucania. Sprovvisti di una guida politica, accettarono che tale ruolo fosse assunto da Guaimario IV, il quale si avvicinò al clan emergente degli Altavilla. Per cementare l’alleanza, Guaimario favorí le nozze di una sua nipote, figlia del fratello Guido, con Guglielmo d’Altavilla, detto Braccio di Ferro (1043-1046), uno dei capi piú prestigiosi, che era riuscito a costituirsi un cospicuo possedimento territoriale in Puglia e in Basilicata.
Rapporti di fedeltà e di parentela
Guaimario si proclamò inoltre «duca di Puglia e Calabria», facendo dell’Altavilla un suo vassallo, e lo investí della contea di Puglia o Melfi, dal nome del capoluogo amministrativo, ai piedi del Vulture, a qualche chilometro da Venosa, dove sorgeva l’abbazia benedettina della Ss. Trinità, voluta dagli Altavilla e destinata alla loro sepoltura. Gli Altavilla cominciavano a emergere sugli altri clan normanni, attraverso un
rapporto speciale di fedeltà politica e di parentela con la piú importante dinastia longobarda del Mezzogiorno. Intanto, a nord di Salerno, Guaimario era riuscito a inglobare nel suo principato anche Gaeta, Sorrento e Amalfi. Tuttavia, la Puglia non fu il solo teatro delle imprese normanne, poiché anche Pandolfo IV, principe di Capua (1026 circa-1049), aveva intrapreso una politica di espansione militare ai danni del ducato di Napoli. Impossessatosi di Napoli, Pandolfo costrinse il duca Sergio IV (1005-1038) a fuggire e a trovare aiuto presso il clan normanno dei Quarrel-Drengot. Grazie all’aiuto dei Drengot, il duca di Napoli ritornò in possesso del ducato (1028) e ricompensò i suoi alleati con la concessione, in feudo, del castrum di Aversa, ubicato nell’ attuale Terra di Lavoro (1030). Affidata al governo di Rainulfo Drengot († 1045), capo del clan Quarrel, la contea di Aversa fu posta alle dipendenze del duca di Napoli, e costituí il primo nucleo territoriale e militare dell’insediamento normanno nel
In alto e nella pagina accanto, in basso fibula a disco in lamina aurea lavorata a sbalzo e anello in oro con castone quadrangolare in pasta vitrea visto dall’alto e di profilo. Noti come «Ori di Senise», questi e altri gioielli furono rinvenuti nel 1916 in alcune tombe longobarde a Senise (Potenza), in località Salsa. Inizi del VII sec. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
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Miniatura tratta dal manoscritto liturgico Exultet, raffigurante l’allegoria della terra. X sec. Bari, Archivio Capitolare.
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I BIZANTINI NEL MEZZOGIORNO Al momento della conquista normanna, i possedimenti bizantini in Italia erano organizzati in una sorta di «governatorato generale» – il catepanato – che prendeva il nome dal governatore che risiedeva a Bari. La sua istituzione (metà del X secolo) ebbe finalità non solo politiche e amministrative, ma anche difensive e militari, tanto contro le ingerenze dell’impero tedesco, quanto contro i Saraceni. Del catepanato non faceva parte la Sicilia, sottoposta a uno stratega dipendente da Costantinopoli, fino all’epoca della conquista saracena. Il catepanato si ripartiva in ulteriori circoscrizioni amministrative – temi – che erano tre: tema di Langobardía, di piú antica istituzione, tema di Lucania e tema di Calabria. L’intero Mezzogiorno bizantino risultava quindi soggetto a una forte autorità amministrativa e militare, accentrata nelle mani del catapano, mentre l’ordinamento amministrativo fondato sui temi consisteva nella ripartizione del territorio imperiale in vaste province – governate da strateghi – investiti di piena autorità sulle comunità ivi stanziate. Ogni provincia era tenuta a fornire un tema, ovvero un’armata imperiale, attraverso l’arruolamento di contadini-soldati, che avevano ricevuto, in proprietà, terreni del demanio siti nella provincia stessa. Il tema di Langobardía, con capoluogo Bari, aveva come confini territoriali il Garigliano e il Fortore, rispettivamente a nord-ovest e a nord-est, e si estendeva sulle coste dell’Adriatico e dello Ionio, comprendendo l’attuale Puglia. In teoria, includendo tutti gli ex possedimenti longobardi nel Sud, esso era comprensivo anche della Campania e del Sannio. Si trattava, però, di una falsa percezione, poiché i ducati bizantini campani – Amalfi, Sorrento, Napoli – erano indipendenti da Bisanzio, cosí come i principati longobardi di Capua, Benevento e Salerno. Era il tema piú vasto e popoloso, con circa 120 000 abitanti. Il tema di Lucania, che aveva per capoluogo Tursi, o Cassano Ionio, occupava una superficie pari a circa 15-20 000 kmq, era popolato da circa 30 000 abitanti e comprendeva il territorio corrispondente, approssimativamente, all’attuale Basilicata. I suoi confini erano segnati, a nord, dal Vulture, a sud, verso la Calabria, dal massiccio montuoso del Pollino, a ovest, dal vallo di Diano e a est, verso il tema di Langobardía, dal fiume Tanagro. Il tema di Calabria fu costituito intorno al 905-910, con capoluogo Reggio. Era esteso per 20 000 kmq circa, comprendeva il territorio dell’attuale Calabria, a sud del Massiccio del Pollino, che la separava dalla Basilicata. I tre temi avevano caratteristiche geografiche e territoriali molto differenti: il tema di Langobardía era perlopiú pianeggiante, incentrato com’era sul territorio pugliese, mentre i territori calabro e lucano erano prevalentemente collinari e montuosi. Questa diversa morfologia influenzava anche le attività produttive e agricole dei luoghi. A fronte di un’economia fondata essenzialmente sull’orto, sul pascolo e sull’arboricoltura, in Basilicata e Calabria – ci troviamo, nel tema di Langobardía, nella zona pianeggiante tra Barletta e Terra d’Otranto – si sviluppò una vastissima produzione di cereali, olio e vino.
Mezzogiorno, ben prima della contea di Puglia, costituita da Guaimario (1043). Nel frattempo, morto Guglielmo d’Altavilla (1046) gli successero, nel governo della contea di Puglia, i fratelli Drogone († 1051) e Umfredo († 1057). Alla morte di Umfredo, la contea passò al fratellastro Roberto, detto il Guiscardo – dal francese dell’epoca guischart, «astuto» –, che estromise i figli di Umfredo, Ermanno e Abelardo, dalla successione. Roberto aveva avuto già modo di distinguersi in battaglia, comandando l’ala sinistra dell’esercito normanno che, nel 1053, aveva inferto una durissima sconfitta alle truppe papali e bizantine. Infatti, mentre i Normanni si espandevano nel Mezzogiorno, papa Leone IX (1049-1054) intervenne per supplire all’assenza dell’iniziativa militare degli imperatori germanici.
Le promesse del pontefice
Personalità energica, Leone apparteneva a quei «papi tedeschi» che ascesero al trono di Pietro, tra il 1046 e il 1058, e che promossero il processo di riforma interna alla gerarchia ecclesiastica. Sostenuto dall’imperatore Enrico III (10391056) e dal catapano bizantino Argiro, figlio di Melo, Leone IX promosse pertanto una vasta campagna militare contro i Normanni, a cui partecipò anche il principe di Salerno, Gisulfo II, figlio di Guaimario IV e da poco salito al trono (1052). Il papa riuscí a mettere insieme un esercito di oltre 20 000 uomini, a cui promise la remissione dei peccati se avessero combattuto, sotto il vessillo della Santa Sede, contro i Normanni. Nell’estate del 1053, gli alleati marciarono verso la Puglia, ma l’esercito pontificio fu duramente sconfitto a Civitate, il 18 giugno, anche perché non era riuscito a ricongiungersi con le truppe di Argiro, che i Normanni avevano battuto presso Siponto, costringendo il catapano a riparare a Vieste e, poi, a Bari. Il papa, sconfitto, venne fatto prigioniero, condotto a Benevento e liberato dai Normanni solo dopo il pagamento di un cospicuo riscatto. Tornato a Roma, Leone IX morí il 19 aprile del 1054. Tra l’altro, i rapporti tra l’impero d’Oriente e il papato erano irrimediabilmente compromessi dopo lo scisma del luglio 1054 e, per questa ragione, era improbabile ogni possibilità di dialogo tra Costantinopoli e Roma, anche in funzione anti-normanna (vedi box a p. 26). La disfatta di Civitate, d’altro canto, aumentò il prestigio degli Altavilla che, negli anni successivi, collezionarono altre vittorie ai danni dei Bizantini e, precisamente, Matera (1054), Oria (1055), Taranto (1056). L’avvento di Roberto alla GRANDI DINASTIE
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IL SINODO DI MELFI Il sinodo di Melfi, che vide la partecipazione di buona parte dei conti normanni, ma anche di numerosi ecclesiastici del Mezzogiorno, tra cui l’arcivescovo di Salerno, Alfano (1058-1085), nacque dall’esigenza del papa riformatore di convocare un’assemblea per esaminare i problemi che affliggevano in quel tempo la Chiesa – «simonia» e «nicolaismo» – e per emanare canoni, al fine di disciplinare e moralizzare il clero, imponendo costumi piú sobri, proibendo simonia e concubinato e favorendo la vita in comune del clero secolare. Nella stessa occasione, Niccolò II cercò di rimediare all’«assenza», sullo scenario politico del Sud Italia, dell’impero germanico e, con l’investitura dei conquistatori normanni, si appropriò di potestà che gli imperatori germanici avevano esercitato fin dall’epoca degli Ottoni. La Santa Sede si serví dello strumento dell’«investitura feudale», a favore dei Normanni, per porre «ordine e disciplina» nel Mezzogiorno italiano. Investito da Niccolò II del titolo di «duca di Puglia e Calabria e futuro duca di Sicilia», il Guiscardo otteneva una sorta di «legittimazione formale» della conquista dei territori bizantini e saraceni da parte di una delle due massime «potestà universali» della Respublica Christiana.
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Egli si definí, pertanto, «Dux Apuliae gratia Dei et Sancti Petri», e la sua legittimità era indiscutibile, perché riposava sulla volontà del «vicario di Cristo». Una superiorità che l’Altavilla poteva vantare non solo sui sudditi di estrazione bizantina o longobarda, ma anche nei confronti di tutti gli altri capi normanni. Il sinodo di Melfi sancí, ufficialmente, la nascita di due grandi compagini politico-territoriali – il ducato di Puglia e il principato di Capua –, rette dai supremi capi militari di tutte le bande normanne che avevano fino ad allora agito nel Mezzogiorno e, precisamente, tra la Puglia e la Calabria e nel territorio del principato longobardo di Capua. Le due vaste «signorie» normanne inglobarono le precedenti contee che si erano costituite nel corso della conquista e, da quel momento, i conti si ritrovarono subordinati, al Guiscardo e al Drengot, con legami vassallatici che costituivano l’ossatura organizzativa delle due grandi signorie territoriali istituite dal papa. Ogni conte aveva come superiore diretto il duca, o il principe, ed era tenuto ad adempiere agli obblighi feudali, in primo luogo al servizio militare, mentre il duca di Puglia e il principe di Capua avevano come dominus feudale, almeno formalmente, il romano pontefice.
In alto miniatura raffigurante papa Niccolò II che incorona Roberto il Guiscardo, dall’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Nella pagina accanto Veduta di Melfi, acquaforte tratta da Il Regno di Napoli in prospettiva di Giovanni Battista Pacichelli, edito da Domenico Antonio Parrino e Michele Luigi Mutio. Napoli, 1703.
guida della contea di Puglia coincise con un ulteriore impulso all’espansione militare in direzione della Puglia, della Calabria e della Campania. Il giovane Altavilla si imparentò con il figlio e successore di Guaimario IV, Gisulfo II (10521077), di cui sposò la sorella, Sichelgaita (vedi box alle pp. 28-29). Negli stessi anni, anche il conte normanno di Aversa, Riccardo Drengot (1049-1078), consolidava ed espandeva i suoi domini in Campania, impadronendosi di ciò che restava del principato longobardo di Capua. Alla morte di Pandolfo IV (1049), il principato risultava fortemente indebolito e avviato a una rapida decadenza politica, che i Normanni contribuirono ad accelerare: nel 1058, assediarono Capua, che cedette definitivamente il 21 maggio del 1062, mentre Landolfo VI, l’ultimo principe, prendeva la via dell’esilio. Poco dopo, anche Gaeta cadeva nelle mani di Riccardo Drengot.
Dalle armi alla diplomazia
L’evento piú significativo, nell’affermazione dei Normanni nel Mezzogiorno, si era però verificato tre anni prima, nel 1059: alla vigilia della presa di Reggio Calabria da parte del Guiscardo, il nuovo papa, Niccolò II (10591061), nel corso di un sinodo ecclesiastico te-
nuto a Melfi (giugno-luglio del 1059), aveva investito Roberto il Guiscardo del ducato di Puglia e Calabria, conferendogli anche la sovranità sulla Sicilia, nel caso di vittoria sui Saraceni. Dall’azione militare fallimentare di Leone IX, si passò all’azione diplomatica con cui Niccolò II riportò un brillante successo. Pertanto, il 24 giugno del 1059, il Guiscardo venne solennemente investito, con lancia e vessillo, del ducato di Puglia e Calabria, e della Sicilia, che, all’epoca, era in mano musulmana, non ancora sottomessa dal duca. L’investitura feudale di vasti domini al Guiscardo prevedeva, come corrispettivo, l’assunzione di un obbligo di fedeltà assoluta verso il papa. Il Normanno si impegnò, con giuramento, a fornire al Santo Padre truppe vettovagliate ed equipaggiate, se necessario, a difendere la fede cattolica da ogni nemico della Chiesa, a garantire, con ogni mezzo, il libero svolgimento delle elezioni pontificie a opera del collegio cardinalizio e a corrispondere un censo annuale di 12 denari pavesi, per ogni iugero di terra ecclesiastica dei suoi domini. Con l’investitura del ducato, la posizione di preminenza del Guiscardo, nei confronti del clan degli Altavilla e di tutti i Normanni del Sud, era pienamente definita e il papa non solo GRANDI DINASTIE
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LE CAUSE DELLA MIGRAZIONE La presenza dei Normanni nel Mezzogiorno, agli inizi dell’XI secolo, è incontestabile; piú problematico è ricostruire le motivazioni che li spinsero a stabilirsi nel Sud Italia, e permangono dubbi anche sulle loro direttrici di marcia. Molto probabilmente seguirono il tracciato della via Francigena, praticato dai pellegrini diretti a Roma, oppure, abili navigatori, si servirono della navigazione di cabotaggio, lungo le coste franco-spagnole, fino a Gibilterra, per entrare nel Mediterraneo e raggiungere le coste italiane. Le cause che, nell’XI secolo, determinarono la seconda espansione normanna furono di ordine economico, sociale e politico. Dal punto di vista economico-sociale, l’espansione normanna va collegata alla ripresa demografica, economica e produttiva che, in quel periodo, attraversò l’Europa occidentale. Molto probabilmente, il ducato di Normandia fu travolto dalla crescita demografica. Lo squilibrio tra demografia e risorse, aggiunto alla trasmissione in senso «patrilineare» dei beni feudali e allodiali, spinse molti esponenti «cadetti» della nobiltà normanna a cercare altrove migliori opportunità e
riuscí a contenere l’espansionismo dei conquistatori, ma anche a indirizzarlo verso obiettivi precisi, che coincidevano con i reali interessi della Santa Sede nel Meridione, coinvolgendo i Normanni nel processo di «ricattolicizzazione» dei territori del Mezzogiorno, bizantini e musulmani. Il papa adottò una politica analoga nei confronti dei Drengot di Aversa, il cui capo, Riccardo, si era impossessato da poco di Capua (1058), sebbene la conquista definitiva della rocca della città – come poc’anzi ricordato – ebbe luogo solo nel 1062. Riccardo venne solennemente investito dal pontefice del dominio del territorio capuano con il titolo di principe. Cosí facendo, il papa si arrogava una forte sovranità sui territori concessi che, in realtà, non possedeva, a meno che, come è molto probabile, Niccolò II non facesse riferimento giuridico alla «Donazione di Costantino» del IV secolo (un falso elaborato dalla cancelleria pontificia nell’VIII secolo, che attribuiva al papa la sovranità sui territori dell’Occidente europeo, già appartenuti all’impero romano; vedi box a p. 20).
Quasi una crociata
Dopo il sinodo di Melfi la conquista normanna del Mezzogiorno subí un’accelerazione. Il Guiscardo si accordò con il fratello Ruggero, per una ripartizione degli impegni militari. Ruggero fu investito dal Guiscardo del governo della 22
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condizioni di vita. Il «fenomeno normanno», quindi, coinvolse l’intera Europa, e non solo il Mezzogiorno italiano. Come non ricordare figure quali Roussel de Bailleul, abile cavaliere, che si pose al servizio dei Bizantini contro i Turchi selgiuchidi, o Ruggero de Tosny, che si uní ai conquistatori di Barbastro, nel 1064, durante una delle piú importanti imprese della Riconquista? Altrettanto può dirsi per i Drengot e gli Altavilla. Accanto a cause di ordine economico e demografico, vi erano però motivi, ben piú gravi, di ordine politico. Tra il 1035 e il 1066, il ducato di Normandia fu travolto dalle guerre civili che opponevano il duca, Guglielmo il Bastardo (1035-1066), all’aristocrazia, poiché il primo perseguiva una «centralizzazione politica» che urtava gli interessi delle piú potenti famiglie del ducato. Tra il 1047 e il 1060, Guglielmo il Bastardo combatté le sue prime e piú importanti battaglie – Val ès Dunes, Mortemer, Varaville – contro l’aristocrazia che minacciava il suo potere. Questi conflitti civili alimentarono l’emigrazione dal ducato verso il resto d’Europa, in particolar modo verso il Mezzogiorno d’Italia.
Sicilia e di parte della Calabria, a sud del fiume Sinni, con il titolo di conte e con il compito di muovere guerra ai Saraceni, in una sorta di crociata. Roberto, invece, si riservò il possesso e la conquista della terraferma, che procedette spedita. Nel 1071 cadde Bari, capitale del catepanato, e, poco dopo, caddero in mano del Guiscardo Amalfi (1073) e Salerno (1077). La conquista di Salerno – dove fu trasferita la capitale del ducato di Puglia – pose fine al secolare principato longobardo, costringendo all’esilio l’ultimo principe e cognato del Guiscardo, Gisulfo II. Il duca di Puglia, invece, non riuscí a impossessarsi di Benevento – dal 1051 sotto la protezione del papa – che, a seguito dell’estinzione della dinastia principesca (1077), fu incorporata nei domini pontifici. Mentre il Guiscardo occupava Salerno, il conte Ruggero procedeva alla conquista della Sicilia, che poté definirsi conclusa solo nel 1091, con la caduta della piazzaforte di Noto in mano normanna. Ruggero, cosí, acquistò il possesso dell’isola, anche se stabilí a Mileto, in Calabria, la capitale della contea. La Sicilia conservò, in buona parte, le strutture amministrative precedenti, ma bisogna ricordare che, in base agli accordi intercorsi col Guiscardo prima dell’inizio della conquista, Ruggero era vassallaticamente sottoposto al fratello e non era titolare di una piena sovranità sull’isola.
Miniatura raffigurante Guglielmo il Conquistatore, attorniato da fanti e cavalieri. XIV sec. Londra, British Library.
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Da Tancredi allo Stupor Mundi TANCREDI (980/990-1040?)
ALTAVILLA E DRENGOT
Serlone I (1010 circa-?) rimane in Normandia Guglielmo Braccio di Ferro (1010 circa-1046), 1° conte di Puglia (1042)
= (1) Muriella
Drogone (1015 circa-1051), 2° conte di Puglia (1046) = Gaitelgrima di Salerno (Altrude) Umfredo (1020 circa-1057), 3° conte di Puglia (1051)
Riccardo d’Altavilla (1045 circa 1110 circa)
Goffredo (1020 circa-1071), conte di Capitanata = (2) Fredesenda
Roberto il Guiscardo (1025 circa-1085), conte di Puglia e di Calabria (1057), poi duca di puglia, di Calabria e di Sicilia (1059) Malgerio (1025 circa-1064), conte di Capitanata (1057) Guglielmo (1030 circa-1080 circa), conte del Principato di Salerno (1056) Alveredo o Alfredo, rimasto in Normandia Tancredi, venuto in Italia e scomparso
Escluse le femmine, Tancredi ebbe in tutto undici figli. Muriella, la prima moglie, gli aveva dato: Guglielmo, Drogone, Umfredo, Serlone. Da Fredesenda: Roberto, detto il Guiscardo, Maugerio, Ruggero, Guglielmo (II), Tancredi, Uberto, Alveredo. Nulla sappiamo di Muriella, mentre di Fredesenda lo storico Goffredo Malaterra dice che era donna «di nobili costumi» e che aveva allevato i figli «accuratissime et materno affectu», compresi quelli di primo letto del marito. Come gli Altavilla, i Quarrel-Drengot venivano dalla Normandia, guidati da Osmondo e Rainulfo, fuggiti dal loro borgo natio, perché ricercati per l’omicidio di un nobile del luogo, Guglielmo Repostel, di cui avevano violentato la figlia. Quarrel doveva essere un cognomen toponomasticum derivante dall’omonimo borgo, identificabile con l’attuale Les Carraux, Comune d’Avesnes-en-Bray, ubicato nel dipartimento di Seine-Maritime. Si conoscono soltanto i nomi di cinque fratelli Quarrel, Rainulfo, Rodolfo, Asclettino, Osmondo e Gilberto.
Beatrice (1030 circa-?) Emma (1030 circa-?) Fredesenda (1030-1097) Ruggero I (1031 circa-1101), conte di Sicilia (1062) =
Matilde (1062-1094) (1) 1061 Giuditta di Evreux (1050-1076)
Adelicia Emma Malgerio, conte di Troina (1080 circa-1100 circa)
(2) 1077 Eremburga di Mortain (†1087)
Busilla (Felicia) (1080 circa-1102) Costanza (1080 circa-?) Violante (Iolanda) Giuditta
(3) 1087 Adelaide del Vasto (1074-1118)
Simone di Sicilia (1093-1105) Matilde (1090 cica-11119) Ruggero II (1095-1154), conte (1105) poi re di Sicilia (1130) =
A sinistra Coutences (Francia), Cattedrale. Particolare della statua raffigurante Roberto il Guiscardo. La scultura, posta sull’esterno, è una copia ottocentesca dell’originale gotico, distrutto durante la rivoluzione francese. 24
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Ruggero (1175-1193) Costanza Valdrada Maria Albina (1175 circa-1234), contessa di Lecce
Palermo, Palazzo dei Normanni, Cappella Palatina. Particolare del mosaico del Trono Reale raffigurante lo stemma del Regno di Sicilia con le insegne della Casa d’Aragona e le aquile imperiali sveve. XII sec.
Ruggero (1118-1148), duca di Puglia e Calabria = Bianca di Lecce Tancredi (1120 circa-1138), principe di Bari
(1) 1116 Elvira Alfonso di Castiglia (1097-1135) (2) 1149 Sibilla di Borgogna (1126-1150) (3) (N) Simone di Taranto (4) 1151 Beatrice di Rethel (1135 circa1185)
Alfonso (1122 circa-1144), duca di Napoli Guglielmo I il Malo (1131-1166), re di Sicilia (1154-1166) = Margherita di Navarra Adelicia (1130 circa-?)
Costanza (1154-1198) = Enrico VI, imperatore (1165-1197)
Guglielmo III (1185-1198), re di Sicilia (1194)
Tancredi (1138-1194), conte di Lecce, re di Sicilia (1189-1194) = Sibilla di Medania Ruggero (1150-1161), duca di Puglia Guglielmo II il Buono (1153-1189), re di Sicilia (1166-1189) Enrico (1158-1172), principe di Capua Matina
FEDERICO II (1194-1250), imperatore
A definire meglio la posizione del conte, anche nei confronti della Chiesa siciliana, intervenne, il 5 luglio 1098, una bolla – la Quia propter prudentiam tuam – promulgata da papa Urbano II (1088-1099). Con quel pronunciamento – di cui ci sono pervenute copie del XVII e XVIII secolo –, la Santa Sede, ratificando l’avvenuta conquista, nominò Ruggero «legato apostolico», cioè massimo rappresentante ecclesiastico nell’isola, con diritto di portare anello, dalmatica e mitra vescovile, pur non essendo un ecclesiastico. Il papa si impegnava a non nominare legati pontifici senza il consenso del sovrano e a ottenere da costui l’autorizzazione a che prelati, abati e vescovi abbandonassero l’isola per partecipare a eventuali concili, o perché convocati dal pontefice. La designazione di abati, arcivescovi e vescovi non poteva avvenire senza il consenso del conte. Pur essendo riservato al solo Ruggero, il privilegio venne fatto proprio anche dai suoi successori e abolito del tutto solo con il concordato di Gravina del 1192 (vedi box alle pp. 32-33).
La nascita del regno
In base alla sistemazione politica del Mezzogiorno, data a Melfi nel 1059, le compagini statali normanne risultavano tre: il principato di Capua, retto dai Drengot, il ducato di Puglia e Calabria e la contea di Sicilia, retti da rami distinti degli Altavilla, che facevano capo, rispettivamente, a Roberto il Guiscardo e al fratello Ruggero. Il Guiscardo morí il 17 luglio del 1085 a Cefalonia, mentre conduceva una campagna militare contro l’impero bizantino dal 1081. Nel 1074, il duca di Puglia, tessendo abilmente relazioni diplomatiche con l’impero d’Oriente, diede in moglie la figlia, Olimpia – ribattezzata Elena – al giovane principe Costantino, erede al trono imperiale, figlio dell’imperatore Michele VII Ducas (1071-1078). Quando Michele fu deposto con la forza dall’esercito (1078), Costantino fu estromesso dal trono e Olimpia venne relegata in un monastero. Il Guiscardo mosse allora guerra al nuovo imperatore, Niceforo III Botaniate (1078-1081), pretendendo la liberazione della figlia e il ritorno di Michele – costretto a monacarsi – sul trono imperiale. Mentre si svolgeva la guerra nei Balcani – i Normanni avevano attaccato Durazzo – il Guiscardo aveva espugnato Roma (1084), sottoponendola a un duro saccheggio, per liberare il papa, Gregorio VII (1073-1085), prigioniero dell’imperatore Enrico IV (1056-1106), mentre infuriava «la lotta per le investiture». Gregorio fu condotto a Salerno, dove morí il 25 maggio GRANDI DINASTIE
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del 1085. Il Guiscardo lasciò due figli, Marco – detto Boemondo – e Ruggero, detto Borsa (vedi box a p. 30). Ruggero ereditò il ducato di Puglia e Calabria, che governò, pacificamente, fino al 1111, quando gli successe il figlio, Guglielmo, che resse il ducato fino alla morte, nel 1127. In Sicilia, nel frattempo, morto il conte Ruggero (1101), gli successe uno dei figli, Simone. Alla sua morte (1105), gli successe il fratello, Ruggero II (1105-1154), per circa un settennio sotto la reggenza (1105-1112) della madre, Adelasia del Vasto († 1118). Ma è sull’opera del «creatore del regno normanno», comprendente tutto il Mezzogiorno peninsulare, su cui occorre ora soffermarsi. Ruggero trasferí da Mileto a Palermo la capitale della contea e, alla morte del duca di Puglia, Guglielmo, nel 1127, sbarcò a Salerno e si proclamò duca. Papa Onorio II (1124-1130) – che rivendicava l’alta sovranità su quelle terre – promosse subito una coalizione militare contro Ruggero, comprendente i Drengot di Capua e altri conti normanni che non accettavano di buon grado l’usurpazione di Ruggero. La coalizione, però, si sfaldò già nell’estate del 1129 e il papa fu costretto a riconoscere a Ruggero il ducato di Puglia, con bolla pontificia promulgata a Benevento, il 22 agosto 1128.
Doppia elezione
Nel 1130, tuttavia, si verificò uno scisma gravissimo, che ebbe pesanti conseguenze nella storia del Mezzogiorno italiano. In quell’anno, infatti, a causa dei conflitti in seno al conclave, fomentati dall’aristocrazia romana, vennero eletti ben due pontefici: Innocenzo II (1130-1143) e l’antipapa Anacleto II (1130-1138). Ruggero II si schierò con l’antipapa, aiutandolo a insediarsi a Roma, e costringendo alla fuga il suo rivale, che trovò rifugio a Pisa. Anacleto, allora, riconobbe il titolo regio a Ruggero, con bolla promulgata il 27 settembre del 1130 ad Avellino e, nella notte di Natale di quell’anno, l’Altavilla si fece ungere re, nella cattedrale di Palermo, dal cardinale di S. Sabina, alla presenza dell’arcivescovo e degli alti dignitari del regno. Per tutta risposta, Innocenzo II sobillò l’aristocrazia contro Ruggero, arrivando a scomunicarlo nel 1135. Innocenzo II ottenne anche il riconoscimento della propria elezione dai principali regni europei e dal re di Germania, Lotario III (1125-1137). Anche san Bernardo di Chiaravalle († 1153), esponente di spicco dell’Ordine cistercense, riconobbe l’elezione di Innocenzo come la sola legittima. Nel 1133, Lotario scese in Italia e riuscí a insediare a Roma Innocenzo II, da cui 26
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1054: LO SCISMA D’ORIENTE Lo scisma tra la Chiesa di Costantinopoli e quella di Roma contribuí a rendere ancor piú complessi i rapporti tra il papato e l’impero, anche in vista di una collaborazione contro i Normanni che, infatti, non ebbe mai piú luogo. Ma che cosa era avvenuto? Il 16 luglio del 1054 intervenne la rottura definitiva, con reciproche scomuniche, tra la Santa Sede e il patriarcato di Costantinopoli, retto da Michele Cerulario (1043-1058), a causa di alcune divergenze di dottrina, liturgia e disciplina ecclesiastica. I dissensi tra Roma e Costantinopoli riguardavano il problema del pieno controllo ecclesiastico sulle diocesi del Mezzogiorno che entrambi i patriarcati rivendicavano a sé, in modo esclusivo. Vi erano, poi, ulteriori conflitti, in materia di liturgia, come l’uso del pane non lievitato, nella celebrazione eucaristica cattolica, o l’uso della lingua greca, al posto del latino, nelle celebrazioni officiate dai Bizantini. Il matrimonio del clero, consentito dagli ortodossi, era un’altra fonte di conflitto, ma anche la concezione della dottrina trinitaria separava i due patriarcati. Riguardo la concezione trinitaria, la Chiesa d’Oriente considerava illegittima l’aggiunta, alla formula ufficiale del Credo cattolico, dell’espressione «Filioque» relativa alla processione dello Spirito Santo – terza persona trinitaria – non solo dal Padre, ma anche dal Figlio. Inoltre, per il patriarcato di Costantinopoli, le pretese di supremazia assoluta che il papato vantava, su labili basi scritturistiche (Matteo, 16, 17-19), sull’intera Chiesa universale, con connessi poteri di controllo e di veto, erano assolutamente inaccettabili. Agli inizi del 1054, mentre papa Leone IX era prigioniero dei
Normanni, a Benevento, fu inviata una legazione a Costantinopoli con il compito di appianare le divergenze dottrinali. Lo spunto fu offerto da una lettera che Leone, vescovo di Ochrida, in Bulgaria, aveva inviato, sul finire del 1053, a Giovanni, arcivescovo di Trani, in cui condannava severamente gli usi liturgici «occidentali», chiedendo al presule – che rientrava nella sfera di influenza bizantina – di bandirli dalla propria diocesi. La lettera era stata consegnata al papa, che la considerò un’indebita ingerenza del patriarcato costantinopolitano nella sfera di influenza della Chiesa di Roma. Della legazione facevano parte il lorenese Umberto di Moyenmoutier († 1061), cardinale di Silva Candida e arcivescovo di Sicilia (1050), tenace assertore della «Riforma ecclesiastica», Federico di Lorena, cancelliere del papa e abate cassinese, e l’arcivescovo amalfitano, Pietro. L’incontro tra gli inviati pontifici e il patriarca Michele Cerulario fu burrascoso e si concluse con la scomunica reciproca fra le parti. La notizia degli eventi giunse a Roma solo nell’autunno del 1054, quando la legazione rientrò in Italia e papa Leone era già morto (il pontefice era spirato nell’aprile del 1054, prima che i legati ritornassero in patria e prim’ancora delle scomuniche reciproche). In teoria, morto il papa che l’aveva organizzata, la legazione costantinopolitana non aveva piú legittimità, nel momento in cui le scomuniche venivano pronunciate dai legati pontifici. Si trattò, inoltre, di un’iniziativa autonoma dei legati, senza espresso mandato del pontefice.
A sinistra e a destra miniature raffiguranti la scomunica di Michele Cerulario, dal Codex Graecus Matritensis Ioannis Skyllitzes. XII sec. Madrid, Biblioteca Nazionale.
In alto vignetta raffigurante san Leone IX che libera un vecchio posseduto dagli spiriti maligni, dal Passionario di Weissenau, raccolta di vite di santi latini trascritta in Germania. 1200 circa. Colonia, Bibliotheca Bodmeriana.
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ottenne, in S. Pietro, la corona imperiale, ma solo nel 1137 si decise a un intervento piú serio contro Ruggero, conducendo una grande campagna nel Mezzogiorno, conclusasi con la disfatta dell’Altavilla a Rignano, in Puglia. Nel corso di una cerimonia solenne, a Melfi, il papa e l’imperatore investirono del ducato di Puglia Rainulfo, conte di Alife, uno dei piú valorosi conti normanni, imparentato con Ruggero, di cui aveva sposato la sorella Matilde. Nel 1137 Amalfi – antica e gloriosa «repubblica marinara» – venne orrendamente saccheggiata dai Pisani, alleati del papa e dell’imperatore contro Ruggero, e ciò determinò il progressivo decadimento della città, che perse definitivamente il ruolo di potenza commerciale mediterranea di cui aveva fino ad allora goduto. Il saccheggio rappresentò un duro colpo nella storia economica della città, già priva, da tempo, della sua autonomia politica, soppressa dal Guiscardo nel 1073. Da quel momento, Genova e Pisa si contesero ferocemente il dominio del
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SICHELGAITA, DONNA GUERRIERA Nata intorno al 1040, Sichelgaita venne data in sposa dal fratello, Gisulfo II, a Roberto il Guiscardo, dopo l’annullamento delle prime nozze con Alberada († 1111 circa). Le nozze furono celebrate a Melfi, nel 1058. Sichelgaita era la primogenita di Guaimario IV e della seconda moglie Gemma. Il primogenito del Guiscardo, Ruggero, venne alla luce intorno al 1060, mentre cinque anni piú tardi nacquero altri figli, Guido e Roberto. Sono attestate anche figlie, tra cui Olimpia e Matilde,
spose, rispettivamente, di Costantino, figlio dell’imperatore d’Oriente, Michele VII Ducas (10711078), e di Raimondo Berengario III, conte di Barcellona. Un’altra figlia, di cui non si conosce il nome, andò sposa a Ugo, marchese d’Este. Sichelgaita svolse una funzione importantissima nel processo di «integrazione» – etnico-culturale e politica – della stirpe normanna nel Mezzogiorno. Donna energica, fu al fianco del Guiscardo anche nei momenti piú difficili, come durante
l’assedio di Durazzo, nel corso della guerra contro l’impero d’Oriente (1081-1085), svolgendo un ruolo importantissimo nel galvanizzare le truppe, venendo persino ferita da una freccia nemica. Durante l’assedio di Salerno, continuò a esperire tentativi di riappacificazione tra il marito e il fratello, facendo la spola tra la rocca cittadina e il campo degli assedianti. Nel 1085, alla morte del Guiscardo, riuscí a ottenere che il primogenito, Ruggero, succedesse al marito nel
ducato di Puglia. Morí intorno al 1090 e venne sepolta a Montecassino. Secondo lo storico normanno Orderico Vitale (XII secolo), Sichelgaita fu responsabile di un tentativo di avvelenamento ai danni del primogenito del Guiscardo, Boemondo, figlio di Alberada, ma alla fine lo salvò, somministrandogli l’antidoto del veleno, cosí da sfuggire alla condanna a morte.
In alto pedina di scacchi raffigurante una regina, realizzata in denti d’avorio e tricheco, dal Sud Italia. XII-XV secolo. Berlino, Bode Museum. Sulle due pagine il castello di Melfi, edificato in epoca normanna, nell’XI sec., e poi ampliato da Federico II. Fu una delle capitali politiche del governo federiciano nel Mezzogiorno d’Italia: qui vennero promulgate le Costituzioni di Melfi, codice legislativo del regno di Sicilia.
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BOEMONDO, L’EROE DEI DUE MONDI Marco, detto Boemondo, era il primogenito del Guiscardo, figlio del suo primo matrimonio con la normanna Alberada, zia di Gerardo, conte di Buonalbergo, presso Benevento. A quanto pare, il «Guiscardo» sarebbe stato appellato cosí, per la prima volta, proprio da Gerardo di Buonalbergo, poco prima della battaglia di Civitate, nel 1053, a cui Gerardo partecipò con circa 200 cavalieri. Il Guiscardo divorziò da Alberada intorno al 1058, ottenendo l’annullamento ecclesiastico per legami di parentela con la sposa, per contrarre nuove nozze con Sichelgaita, sorella di Gisulfo II di Salerno e madre di Ruggero Borsa. Al momento della morte del padre, Boemondo ne rivendicò l’eredità, opponendosi con le armi al fratello Ruggero Borsa. Nel 1089, però, decise di arrivare a un compromesso, rinunciando al ducato di
In alto Canosa di Puglia, mausoleo di Boemondo. Uno scorcio della parte inferiore del complesso architettonico, con la porta in bronzo che chiude l’accesso alla tomba. XII sec. Puglia e accettando il governo di una nuova compagine, il principato di Taranto, comprendente buona parte del territorio pugliese, calabro e lucano. Nel 1096, Boemondo decise di intraprendere la crociata per liberare i Luoghi Santi dai Turchi e, nell’estate dell’anno successivo, era in Asia Minore. Si distinse nelle battaglie di Nicea e Dorileo (giugno-luglio 1097) e nell’assedio di Antiochia, caduta in mano crociata nel giugno del 1098. Proclamato signore di Antiochia con il rango di principe, Boemondo fu poi catturato dai Selgiuchidi nel 1100 e liberato tre anni dopo. Nel 1105 intraprese un viaggio in Europa, al fine di reperire fondi e uomini per la crociata e, alla corte del re di Francia Filippo I (1060-1108), incontrò e sposò Costanza, figlia del re. Nel 1106 era di nuovo nel
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Mezzogiorno, per intraprendere una campagna militare contro l’impero d’Oriente, come aveva fatto suo padre. L’esito di quell’impresa fu però disastroso. Boemondo fu costretto a stipulare il trattato di Devol con l’imperatore (1108) e a riconoscerlo supremo signore del principato di Antiochia. Non fece mai piú ritorno in Oriente e morí in Italia, a Bari, dove venne sepolto nel mausoleo annesso al transetto della cattedrale di S. Sabino, a Canosa, ancora oggi esistente (1111). Suo figlio, Boemondo II († 1130), ereditò il principato di Taranto e quello di Antiochia, dove fece ritorno solo nel 1126, lasciando per sempre l’Italia.
Mediterraneo e la gestione delle complesse relazioni diplomatiche con Costantinopoli. Poco tempo dopo, morti l’imperatore (1137), l’antipapa (1138) e lo stesso conte di Alife (1139), Innocenzo II rimase da solo a fronteggiare Ruggero, il quale, tornato sulla terraferma con un vasto esercito, dopo la fuga in Sicilia, seguita alla disfatta di Rignano, sconfisse duramente il papa a Galluccio, nella valle del Garigliano, il 22 luglio del 1139. Innocenzo II venne fatto prigioniero e dovette riconoscere a Ruggero, con titolo regio, la Sicilia, il ducato di Puglia e il principato di Capua – sottratto ai Drengot – con apposita bolla emanata il 27 luglio di quell’anno. Nel 1140 l’Altavilla annetteva ai suoi domini anche il ducato di Napoli, il cui duca, Sergio VII (1120 circa- 1137) – che aveva preso posizione contro Ruggero – era morto, lasciando il governo della città nelle mani dell’arcivescovo e dell’aristocrazia (1137; vedi box alle pp. 42-44). Ruggero II costituiva cosí un regno vastissimo, di circa 70 000 kmq, esteso dalla Sicilia a Gaeta, a ovest, fino al fiume Pescara, a est. La capitale amministrativa, sede della curia regia, ovvero degli uffici centrali dell’amministrazione, rimase Palermo (vedi box a p. 38).
«Potente per mezzo di Dio»
Miniatura raffigurante il ritorno in Puglia di Boemondo I, da un’edizione della Historia di Guglielmo di Tiro. XV sec. Ginevra, Bibliothèque de Genève.
In politica estera Ruggero II cercò di porre le fondamenta di un vasto «impero» mediterraneo normanno, conducendo campagne in direzione dell’Africa settentrionale e dell’Oriente bizantino. In Africa riuscí a sottomettere e annettere Gerba, Tripoli, Mahdia, Sfax, Tunisi e Bona, ovvero tutta una serie di località estese dalla Libia all’Algeria, i cui emiri fecero atto di sottomissione al sovrano, pagando un tributo. Ruggero mostrò sempre grande tolleranza nei confronti delle comunità islamiche siciliane, lasciando loro la possibilità di professare liberamente la propria fede, in cambio del pagamento di un tributo e della fedeltà al nuovo regime. Il re si richiamò espressamente a simbologie politiche islamiche, quando si trattò di legittimare la sua autorità verso i sudditi di fede musulmana, per esempio assumendo – tra i numerosi titoli che definivano la sua autorità – quello di al-Mu’tazz bi-llah, ovvero «Potente per mezzo di Dio», che volle apparisse su molte monete di conio arabo come i tarí. Tra il 1146 e il 1149, Ruggero fu attivo in una serie di campagne contro i Bizantini che consentirono l’annessione delle Isole Ionie, tranne Corfú, riconquistata dall’impero, grazie all’aiuto veneziano, nel 1149. In politica interna, con vaste riforme legislative, Ruggero pose le premesse di un solido appara-
to amministrativo, che fece del regno normanno del Mezzogiorno uno dei regimi piú centralizzati ed efficienti del Medioevo europeo, con un organigramma istituzionale decisamente evoluto per gli standard dell’epoca e che, probabilmente, risentí dell’influenza dell’esempio istituzionale dell’Inghilterra plantageneta. Ruggero II può considerarsi, a buon diritto, il fondatore di un regno destinato a durare a lungo e capace, pur sotto dinastie diverse, di conservare intatto l’assetto territoriale del Mezzogiorno, nonché la sua estensione, fino all’unificazione della Penisola nel 1860. Sebbene manchino prove certe in tal senso, a Ruggero vengono attribuite anche le Assise di Ariano, il vasto codice legislativo pervenutoci in due manoscritti, posteriori all’epoca in cui furono promulgate: il Codice Vaticano 8782 e il Codice Cassinese 468. In seguito, buona parte del contenuto delle Assise fu trasfuso da Federico II di Svevia (1198-1250) nel Liber Augustalis (1231). La normativa ruggeriana costituí il pilastro della vita giuridica del regno normanno, costituendo una raccolta di norme di diritto pubblico e privato che pose ordine al marasma giuridico dei secoli precedenti, imponendo il principio della volontà sovrana quale unica fonte del diritto della comunità, e riducendo il precedente diritto – longobardo e bizantino – a fonte normativa sussidiaria, destinata a supplire le lacune della legge regia, senza alcuna possibilità di derogare da essa. La disciplina delle Assise risultava per l’epoca incredibilmente moderna, grazie alla civiltà dei concetti giuridici in essa espressi: nella materia penale, per esempio, fu dato ampio riconoscimento non solo alla condotta criminosa, ma anche al concetto di «colpevolezza» del reo, cioè al disvalore della volontà dell’agente, ovvero al nesso psicologico fra condotta criminale e volontà del reo, ai fini della punibilità del crimine. Notevolissima fu l’influenza esercitata sul legislatore dai principi giuridici desunti dal diritto romano e bizantino, anche nella tipologia di sanzioni previste. Unificato il Mezzogiorno, Ruggero si diede a un’intensa opera di organizzazione amministrativa, cercando, per quanto possibile, di non alterare la fisionomia istituzionale degli Stati preesistenti. Le antiche formazioni politiche – principato di Capua, ducato di Puglia e contea di Sicilia – sopravvissero solo come articolazioni geografiche del regno, mentre la capitale fu fissata a Palermo, sede della Magna Curia Regis, ovvero del re e degli ufficiali dell’amministrazione centrale dello Stato, tra cui vanno menGRANDI DINASTIE
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Miniatura raffigurante l’abate Desiderio di Montecassino che offre codici e possedimenti a san Benedetto, dal Codice Vaticano Latino 1202. XI sec. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.
LA POLITICA RELIGIOSA NORMANNA
zionati il cancelliere – la cancelleria era divisa in tre sezioni, latina, greca e araba – il gran connestabile, il grande ammiraglio, il maestro giustiziere e il maestro camerario. Un ruolo direttivo nella gestione del governo fu riservato al «Grande ammiraglio», una sorta di primo ministro. A Palermo risiedeva anche la Dogana – Dohana – ufficio supremo di amministrazione finanziaria e tributaria. A livello periferico il regno era suddiviso in circoscrizioni minori, rette da camerari, giustizieri e connestabili, con competenze diverse. I camerari amministravano il demanio regio ed esercitavano la giustizia negli affari riguardanti i feudatari del re, i giustizieri amministravano la giustizia civile e penale, riservando a sé la cognizione delle cause di un certo rilievo o dei reati piú gravi, punibili con ammende elevatissime, con la morte o con pene che comportavano lesioni all’integrità fisica del reo, come la sedizione. I connestabili si occupavano dell’arruolamento e del comando delle truppe regie, del loro approvvigionamento e della disciplina militare. Al di sotto di questi organi periferici erano le università – le città –, che conservarono, in genere, gli ordinamenti amministrativi precedenti alla conquista e le proprie consuetudini.
Per rafforzare l’autorità regia
Il regno normanno non disdegnò di ricorrere ai rapporti feudali come strumento di organizzazione del territorio e di inquadramento delle popolazioni, sebbene tali rapporti fossero sempre inseriti nelle strutture burocratiche dello Stato. Sotto questo punto di vista, lo Stato di Ruggero II fu realmente un «regno feudale», non dominato dal disordine politico e dalla frammentazione istituzionale, ma capace di servirsi dell’istituto del feudo – e della connessa delega di poteri – per rafforzare, anziché indebolire, l’autorità regia. I vassalli regi, tenuti al sevizio militare o al pagamento di un’imposta sostitutiva – adiutorium – erano divisi in due categorie – conti e semplici baroni – e potevano essere singoli milites, quanto enti ecclesiastici. Con il consenso regio, conti e baroni potevano procedere a ulteriori sub-infeudazioni nell’ambito dei rispettivi domini, ma ogni vassallo era tenuto all’«omaggio ligio» verso il sovrano, dominus supremo. La successione nei feudi, l’alienazione e la costituzione in dote degli stessi 32
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L’emanazione della bolla Quia propter prudentiam tuam rappresentò il coronamento di un’importante «politica religiosa» intrapresa dai Normanni già dopo il sinodo di Melfi. La politica normanna di «ricattolicizzazione» del Mezzogiorno si tradusse, essenzialmente, nella fondazione di nuovi cenobi benedettini (Ss. Trinità di Venosa, S. Eufemia, Ss. Trinità di Mileto) e di nuove diocesi di rito latino (Messina, Palermo), ma anche nell’abolizione di vecchie diocesi di rito greco (Vibo Valentia) o nel cambio dei loro titolari che furono sostituiti con presuli di rito latino (Reggio). Molti monasteri greci vennero trasformati in priorati di cenobi latini, afferenti a Montecassino, a S. Vincenzo
A destra Venosa (Potenza). Veduta a volo d’uccello della chiesa, rimasta incompiuta, dell’abbazia della Ss. Trinità. La realizzazione del complesso ebbe inizio nel V sec., con la costruzione della chiesa. Si susseguirono poi vari rimaneggiamenti, fino a quando, nel XII sec., i Benedettini non avviarono l’opera di ampliamento che non venne portata a termine.
al Volturno o alla Ss. Trinità di Cava. Attraverso questa «ricattolicizzazione», il papato intendeva riaffermare la propria potestà spirituale e liturgico-disciplinare sulle diocesi e sulle comunità monastiche del Sud, ma anche rientrare in possesso dei patrimoni ecclesiastici, immensi, di cui il patriarcato di Costantinopoli si era impossessato fin dal 726, all’epoca della «questione iconoclasta», che aveva prodotto un lungo scisma tra le due Chiese. Nell’opera di «ricattolicizzazione» ebbero un’importanza determinante alcuni ecclesiastici, che si posero come intermediari tra il crescente potere normanno e la Santa Sede. Si ricordino, tra tutti, le importanti figure di Alfano di Salerno e Desiderio di Montecassino. Alfano fu, in gioventú, monaco a Salerno e a Montecassino, amico di tutti i papi della sua epoca e degli abati cassinesi Federico di Lorena († 1058) e Desiderio, divenuti entrambi papi. Fu consacrato arcivescovo di Salerno nel 1058, e fu uno dei protagonisti indiscussi della storia, non solo del Mezzogiorno, ma dell’intera Chiesa del suo tempo. Patrocinò la costruzione della splendida cattedrale romanica di Salerno, in cui vennero traslate anche le reliquie del patrono cittadino, san Matteo. Per quanto non ancora completata, la cattedrale fu consacrata solennemente da papa Gregorio VII, amico di Alfano, nel 1085, in occasione della sua permanenza a Salerno, dopo l’occupazione di Roma da
parte delle milizie imperiali dell’imperatore Enrico IV. Scrittore versatile, in versi e in prosa, autore di inni, odi ed epitaffi, medico e agiografo, teologo, fu una delle personalità piú brillanti del suo tempo. Morí nel 1085. Desiderio, di nobile famiglia beneventana, fu abate di Montecassino dal 1058 al 1087 e, poi, papa (1086-1087), col nome di Vittore III. Al momento della sua elezione ad abate, fu incaricato dai pontefici di gestire i difficili rapporti con i potentati normanni del Mezzogiorno, fungendo da «cinghia di trasmissione» tra i papi e i conquistatori. Venne nominato cardinale presbitero, col titolo di S. Cecilia in Trastevere, a Roma, e «vicario papale» per la riforma dei monasteri nel Mezzogiorno, nell’area territoriale dei principati di Salerno e Benevento. Assolse a questa funzione con dignità e capacità fino al 1086, quando, nel conclave di Terracina, fu eletto papa. Nel 1071, nel corso di un’assise solenne, Desiderio inaugurò la nuova basilica cassinese alla presenza di Alfano, Gisulfo II di Salerno e del normanno Riccardo Drengot, principe di Capua (1059-1078). La nuova abbazia, chiaro esempio di romanico, dalla struttura monumentale, danneggiata gravemente nel 1349 da un sisma, andò distrutta a seguito dei bombardamenti alleati del 1944. Alla sua costruzione parteciparono anche maestranze di provenienza costantinopolitana, esperte nell’arte del mosaico.
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I Normanni A sinistra Venosa, abbazia della Ss. Trinità, Chiesa Vecchia. La tomba degli Altavilla. Alla metà del XV sec. vi furono riunite le spoglie di vari membri della famiglia, tra cui quelle di Roberto il Guiscardo. Nella pagina accanto Palermo, chiesa della Martorana. Mosaico raffigurante Cristo che incorona Ruggero II. XII sec. erano rigidamente disciplinate dalla legislazione regia, per evitare l’eccessiva dispersione del patrimonio, con conseguente difficoltà ad adempiere gli obblighi verso la curia. Solo i conti – appartenenti alle stirpi piú antiche e prestigiose – detenevano i pieni poteri di governo sui propri sudditi, ma, in genere, non potevano mai spingersi fino all’erogazione della pena di morte, riservata ai giustizieri. Le Assise di Ariano si preoccuparono di stabilire, fin nei minimi dettagli, le facoltà pubbliche esercitabili dai baroni nei propri feudi, prevedendo sanzioni gravissime ai contravventori responsabili di abusi (vedi box in questa pagina).
I successori di Ruggero
Ruggero II si spense il 26 febbraio del 1154, lasciando il trono al figlio Guglielmo I, associato al potere già dal 1151. Guglielmo I, detto il Malo (1154-1166), aveva sposato Margherita di Navarra († 1182) da cui aveva avuto Enrico, principe di Taranto, premorto al padre, e Guglielmo, che fu il suo successore. Il regno di quest’ultimo fu denso di eventi di rilevanza sociale, politica e militare. Da subito, il sovrano dovette affrontare una grave ribellione che vedeva coinvolti esponenti della feudalità sobillati
LA REGALITÀ E LA SIMBOLOGIA DEL POTERE NORMANNO La concezione della regalità elaborata dalla cancelleria normanna – il cui prototipo risaliva a Ruggero II – fondeva mirabilmente elementi della simbologia e dell’ideologia della sovranità imperiale tardo-romana e bizantina con elementi desunti dalla tradizione politica araba e dall’universo cavalleresco-feudale dell’Europa nordica. D’altronde, tutto ciò non deve stupire, in una terra permeata, da secoli, da stirpi e civiltà diverse, in cui avevano coesistito – spesso in modo violento – regimi e influenze politiche contrastanti. Questa fusione di simboli ed elementi politici diversi è desumibile, innanzitutto, dall’esame dei sigilli utilizzati dalla cancelleria normanna – bolle in oro e bronzo e sigilli in cera – nei quali il sovrano era rappresentato con i tipici attributi della sovranità imperiale d’Oriente, generalmente a figura intera, in piedi o seduto, con labaro e globo, lunga e folta barba, corona massiccia, tunica e mantello 34
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intessuti di pietre preziose, spesso con il loros, la caratteristica «sciarpa» adoperata dai sovrani di Costantinopoli. Per ricostruire la Herrschaftssymbolik (simbolismo del potere) normanna, riveste grande importanza anche l’esame degli splendidi mosaici della chiesa della Martorana, a Palermo, e dell’abbazia di Monreale, in cui sono rappresentati, rispettivamente, Ruggero II e Guglielmo II. Opere che rendono bene l’idea del fasto e dello splendore della corte palermitana. Nei due mosaici, raffiguranti Ruggero II e il nipote, Guglielmo II, incoronati da Cristo, colpisce la somiglianza delle fattezze – barba e capelli lunghi – tra incoronante e incoronato, che richiamava, indubbiamente, la concezione «cristomimetica» della sovranità bizantina, fondata sull’idea che il re – garante della giustizia e della pace – fosse il «rappresentante visibile», sulla terra, della potenza e della gloria di Cristo, alla cui imitazione doveva tendere.
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dal pontefice Adriano IV (1154-1159). Tra essi figuravano Roberto, conte di Loritello e Conversano, Riccardo d’Aquila, conte di Fondi, Ugo II, conte di Molise, Andrea di Rupecanina e Roberto, conte di Alife. Dopo due anni di scontri, i ribelli furono sconfitti dal regio esercito, guidato dall’ammiraglio Asclettino (1156). Con il pontefice, Guglielmo stipulò un accordo a Benevento, il 18 giugno del 1156, con cui otteneva il riconoscimento del regno e si impegnava a rispettare gli obblighi, verso il papa, contratti dai suoi predecessori. Nel 1158, fu conclusa anche una pace trentennale con l’impero d’Oriente che, in quegli stessi anni, aveva approfittato della rivolta dei baroni per impossessarsi di alcuni porti pugliesi. Una nuova rivolta, ben piú grave della prima, esplose nel 1160, proprio a Palermo, contro la cattiva amministrazione del grande ammiraglio Maione di Bari, sorta di «primo ministro» del sovrano che fu prontamente eliminato. L’ispiratore della rivolta fu il nobile Matteo Bonello, marito di Clemenza, contessa di Lecce, e signore di Caccamo, in Sicilia, il quale venne a sua volta catturato e fatto uccidere per ordine del re nel marzo del 1161. Guglielmo I, tuttavia, non riuscí a conservare i possedimenti africani annessi dal padre che, tra il 1156 e il 1159, andarono tutti perduti, in seguito all’espansione militare della dinastia berbera degli Almohadi.
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Alla morte di Guglielmo I, il 7 febbraio 1166, salí al potere il figlio Guglielmo II (1166-1189). Il regno di Guglielmo II cominciò sotto la reggenza della madre, Margherita di Navarra, che durò fino al 1171 ed ebbe un’importanza determinante per riequilibrare i rapporti, già tesi, tra la corte e la nobiltà del regno.
Una dimensione europea
Questa politica di distensione favorí anche lo sviluppo di importanti fermenti culturali, in parte già diffusi sotto il governo dei predecessori. Il regno aveva ormai assunto una rilevanza culturale, diplomatica e politica mediterranea, se non europea, come dimostra la presenza, a corte – già dall’epoca di Ruggero II – di molti prelati e ufficiali di origine inglese, come il cancelliere Thomas Brown, il cappellano regio Roberto di Selby, i prelati Giovanni di Lincoln e Riccardo di Hereford, e lo stesso arcivescovo di Palermo Walter of the Mill, meglio noto come Gualtiero Offamilio (vedi box alle pp. 46-51). Tuttavia, nel 1168, si registrò, ancora una volta, una pericolosa ribellione, le cui cause furono l’autoritarismo esasperato del cancelliere del regno e arcivescovo di Palermo, Stefano di Blois (1166-1168), cugino e amante della regina, che aveva disposto il trasferimento della capitale da Palermo a Messina. Il cancelliere fu costretto a fuggire dalla Sicilia, assieme ai suoi favoriti, e
In basso manto purpureo appartenuto a Ruggero II, con oro, perle e smalti. 1133-1134. Vienna, Kunsthistorisches Museum. Al centro è raffigurato l’albero della vita, su entrambi i lati si notano alcuni leoni che divorano cammelli. Nel bordo inferiore, invece, è visibile un’iscrizione in caratteri cufici.
Pagina con vignette raffiguranti episodi della vita di Ruggero II, la nascita e le nozze di Costanza e la partenza di quest’ultima e di Enrico VI alla volta della Germania, dal Liber ad honorem Augusti di Pietro da Eboli. Fine del XII sec. Berna, Burgerbibliothek.
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PALERMO, LA CAPITALE DEL REGNO
Nel 1139, dopo la fondazione del regno, Ruggero II stabilí la capitale a Palermo, città che, a quell’epoca, contava 300 000 abitanti circa ed era il centro urbano piú popoloso del Mezzogiorno e uno dei piú vasti d’Europa. Palermo sostituí le precedenti città che, man mano che la conquista normanna si estendeva, avevano svolto la funzione di «capitali provvisorie» – Melfi, Venosa, Salerno, Mileto – e divenne sede di tutti gli uffici della burocrazia centrale di Stato, cosí che il baricentro politico-amministrativo del regno fu spostato in Sicilia, dove rimase fino al XIII secolo, quando Carlo d’Angiò (1266-1285) decise di trasferire la capitale a Napoli. Nonostante i Normanni abbellissero la città con un nuovo programma di opere edilizie, Palermo conservò, prevalentemente, l’assetto urbano e topografico di epoca musulmana. Importante centro portuale e commerciale, la città si sviluppava lungo il mare, dove erano il porto e gli arsenali. Nel Tirreno si gettavano i due corsi d’acqua, Papireto e Kemonia, oggi interrati, che ne delimitavano i confini, a ovest e a est, e costituivano le due principali fonti di approvvigionamento idrico per la città e per gli hammam, i bagni pubblici. Sebbene la conquista di Palermo fosse stata violenta, i Normanni consentirono agli islamici residenti di continuare a professare il culto nelle molte moschee della città, fatta eccezione per la piú grande, quella del Venerdí – masjid jami’, che poteva ospitare piú di 7000 fedeli –, che tornò a
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svolgere la funzione di chiesa cattedrale. La città era divisa in due grandi blocchi urbanistici, quello sul porto, la Kalsa – al Khalisa – la «Splendente», l’«Eletta», di piú recente costruzione, e quello piú antico, nell’interno, il Cassero – al Qasr – la «Fortezza», in origine sede dell’emiro e degli apparati di corte, e dove i Normanni, piú tardi, edificarono la reggia. Nella cinta muraria si aprivano ben nove porte, ognuna della quali aveva un nome specifico, in genere collegato al quartiere a cui dava immediato accesso: Bab al Bahr, «Porta del mare», che conduceva al porto e agli arsenali, Bab as Sudan, «Porta dei negri», che conduceva al quartiere dove risiedevano schiavi o commercianti dell’Africa subsahariana, Bab as Saqaliba, «Porta degli schiavoni», cioè degli Slavi, che prestavano servizio militare come mercenari o veri e propri schiavi. Suddivisa in cinque quartieri, la città presentava un assetto urbanistico caotico, perché la topografia ortogonale di epoca romana era andata scomparendo, e poche erano le grandi strade percorribili – per esempio l’attuale corso Vittorio Emanuele – e molti i vicoli, alcuni dei quali erano vere e proprie vie a fondo cieco. Fatta eccezione per le mura e le strutture monumentali, le abitazioni – in genere a due piani con cortile interno – avevano strutture molto semplici. Nel perimetro urbano vi erano molti giardini e padiglioni forniti di buona acqua, grazie alle complesse tecniche di irrigazione introdotte dai musulmani.
Nella pagina accanto mappa di Palermo del cartografo olandese Joan Blaeu. Amsterdam. 1663. A sinistra pittura su legno in stile arabo-normanno raffigurante il sovrano Ruggero II di Sicilia circondato da alti dignitari. XII sec. Palermo, Cappella Palatina. Margherita istituí una direzione collegiale del regno che faceva capo a tre illustri personalità della corte: Gualtiero Offamilio, arcivescovo di Palermo, Riccardo Palmer, vescovo di Siracusa, Matteo d’Aiello, vicecancelliere. Nel 1171, terminata la reggenza, il re assunse direttamente il potere, continuando a usufruire del contributo di questi preziosi collaboratori.
Dalla parte del Barbarossa
Al di là della ribellione del 1168, fu soprattutto la politica estera a interessare il sovrano. Nel 1160 era ufficialmente iniziato lo scontro tra l’imperatore Federico I Barbarossa (1152-1190), i Comuni e il papa Alessandro III (1159-1181), e Guglielmo II decise di parteciparvi, militarmente e finanziariamente, schierandosi contro il Tedesco. Guglielmo II fu anche molto attivo contro l’Oriente bizantino e i Saraceni nel Mediterraneo. Queste sue azioni militari non sortirono particolari successi, per quanto il re fosse supportato da una grande flotta, comandata da Margheritone di Bari, abile ammiraglio, e da un numeroso esercito. Tra il 1180 e il 1185, il re attaccò ripetutamente i possedimenti bizantini in Grecia, saccheggiando il Peloponneso, l’Attica e la Beozia, ma, nel 1185, le sue truppe furono battute in Macedonia e, rinunciando a un’ulteriore espansione, conservò il possesso delle Isole Ionie: Zante, Cefalonia e Itaca. Il pretesto per l’attacco all’impero fu trovato nel rifiuto dell’imperatore Manuele (1143-1180) di dare in sposa la figlia Maria a Guglielmo, che ripiegò su Giovanna Plantageneto († 1199), figlia di Enrico II d’Inghilterra (1154-1189), sposata nel 1177. Nel 1175, la flotta normanna comparve al largo di Alessandria d’Egitto, ma le truppe non riuscirono a sbarcare e dovettero ritirarsi, limitandosi a saccheggiare il litorale egiziano. In quegli stessi anni vennero stipulati importanti accordi commerciali con le repubbliche di Genova, Pisa e Venezia, che ottennero privilegi fiscali e commerciali nel territorio del regno. Nel 1187, caduta Gerusalemme nelle mani del Saladino († 1193), Guglielmo cominciò a preparare l’esercito per la crociata indetta dal papa e inviò la flotta lungo la costa palestinese, il che impedí l’ulteriore espansione dei musulmani in direzione del Mediterraneo. Nel frattempo, urgeva risolvere altri problemi. GRANDI DINASTIE
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In alto Palermo, Palazzo dei Normanni, Cappella Palatina. La facciata occidentale con il trono, sormontato da un mosaico raffigurante Cristo affiancato da Pietro e Paolo. XII sec. A sinistra il versante sud-occidentale del Palazzo dei Normanni. La prima fondazione del complesso risale al IX sec., al tempo della dominazione araba. In seguito, a partire dall’età normanna, si susseguirono gli interventi che hanno conferito all’edificio il suo assetto attuale.
Sprovvisto di discendenza, il re iniziò a predisporre la successione, facendo sposare la zia, Costanza d’Altavilla († 1198) – figlia di Ruggero II – con Enrico di Hohenstaufen (1190 -1197), duca di Svevia e figlio di Federico I Barbarossa. Il fidanzamento ufficiale venne annunciato ad Augusta, nel 1184, e le nozze celebrate a Milano, nel 1186, mentre il re, nell’assise solenne di Troia, in Puglia, si faceva promettere dall’aristocrazia del regno di accettare, alla sua morte, il nuovo sovrano. Morto Guglielmo II (18 novembre 1189), e sepolto, come il padre, a Monreale, la dinastia degli Altavilla si estinse e, a dispetto degli auspici di Guglielmo, iniziò un lungo periodo di guerre civili che lacerarono il regno fino al 1194. Infatti, Tancredi, conte di Lecce († 1194), nipote di Ruggero II, si mise a capo del «partito normanno» che riuniva tutta l’aristocrazia del regno ostile al cambio di dinastia a favore dei Tedeschi, ma il disegno politico di Tancredi fu interrotto dalla sua morte improvvisa ed Enrico VI di Hohenstaufen divenne re. GRANDI DINASTIE
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NAPOLI E LE «REPUBBLICHE DEL MEZZOGIORNO» Conquistata Napoli, Ruggero legò a sé l’aristocrazia cittadina, e, conferendo l’onore della cavalleria ai suoi piú importanti rappresentanti, la cooptò nell’aristocrazia feudale del regno. Poco tempo dopo la presa della città, Ruggero s’impossessò anche di Sorrento, mentre Gaeta entrò a far parte dei suoi domini con l’annessione del principato di Capua di cui la città faceva parte. Fino a quel momento, Gaeta (oggi nel Lazio), Napoli, Sorrento e Amalfi costituivano le «gloriose repubbliche» del Mezzogiorno, ovvero «Stati sovrani», economicamente floridi, retti da regimi oligarchici con al vertice un duca, molto diversi dalla monarchia centralizzatrice che Ruggero d’Altavilla si apprestava a costituire. Queste città costituivano i capoluoghi di altrettanti ducati estesi lungo la costa e nell’entroterra, formatisi a seguito della disgregazione dell’originario ducato unitario di Napoli. Quest’ultimo, infatti, rappresentava il «residuo» della presenza bizantina sulla costa laziale e campana che, dopo le conquiste longobarde del VI-VII secolo, continuò a svolgere una funzione di contenimento dell’espansione longobarda. A partire dal X secolo, i principali centri urbani dell’indiviso ducato napoletano diedero vita a ducati autonomi in perenne conflitto tra loro e con i Longobardi dei principati di Capua e Benevento. Nell’XI secolo, completato il loro processo di formazione, i ducati bizantini erano, in ordine di prossimità territoriale e procedendo da nord verso sud, il ducato di Gaeta, il ducato di Napoli, il ducato di Sorrento e il ducato di Amalfi. Nell’VIII secolo, a quanto sembra, il ducato di Napoli si era già reso indipendente dall’impero bizantino, sotto la guida di Stefano II, il quale fu, al contempo, duca (755-799) e vescovo della città (768-799). In origine, Gaeta, Sorrento e Amalfi non costituivano ducati indipendenti, ma erano semplici castra, retti da un magister militum, o un tribuno, alle dipendenze del duca napoletano. Erano borghi fortificati, compresi nel ducato napoletano. Gaeta si staccò da Napoli nel corso del X secolo, ma le premesse della sua autonomia risalgono al IX secolo, quando l’ipato Docibile I (872
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circa-906) fondò la sua dinastia, rendendosi indipendente da Bisanzio. Originariamente, i sovrani di Gaeta erano denominati ipati, non duchi, nome che assunsero nel corso del X secolo. L’ultimo esponente della stirpe ducale fu deposto dai Capuani nel 1032 e, da quel momento, Gaeta divenne una pertinenza di Capua e ne seguí i destini. Sorrento si rese indipendente intorno all’870, sotto il governo del suo primo praefecturius, Pietro I (870-898 circa). A Sorrento, il titolo di praefecturius fu abbandonato per quello di duca solo nell’XI secolo. Sorrento fu occupata da Guaimario IV di Salerno, nel 1039, e affidata al fratello, Guido di Conza. Tornato indipendente dopo la morte di Guaimario IV (1052), il ducato fu occupato dai Normanni nel 1137. Amalfi fu il primo ducato a rendersi autonomo da Napoli, agli inizi del IX secolo, poiché, dopo la morte del principe di Benevento Sicardo (832-839), Amalfi recuperò la sua indipendenza ed elesse, per la prima volta, un supremo magistrato alla guida della «repubblica», il comes Pietro. La città divenne pienamente autonoma nel X secolo, quando il praefecturius Mansone Fusile (898-914) fondò la sua dinastia, destinata a durare fino al 958, e un suo discendente, Mastalo II (953-958), si autoproclamò, per primo, duca vitalizio della repubblica. I duchi amalfitani governarono fino alla conquista normanna (1073). Con l’eccezione di Napoli, che era un ducato preesistente, i ducati nacquero quindi dallo scioglimento dei legami di dipendenza politica con il capoluogo napoletano. Essi avevano un’importanza strategica fondamentale, sorvegliavano la costa da incursioni saracene, fornivano flotte e rappresentavano enclave di cultura romana in un contesto politico e territoriale longobardo. Al vertice di questi organismi politici c’erano magistrati, solitamente vitalizi, ipati, praefecti, praefecturii, che, nel X secolo, assunsero tutti il titolo di duchi. La particolarità di questi ducati fu quella di rendersi indipendenti dal potere del duca napoletano e dell’impero d’Oriente, di costituirsi in organismi autonomi e sovrani, retti da vere e proprie dinastie locali che si trasmettevano ereditariamente il potere.
Scultura raffigurante Ruggero II di Sicilia, opera del fiorentino Emilio Franceschi, collocata in una nicchia del Palazzo Reale di Napoli. XIX sec.
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Ci si riferisce spesso ai ducati bizantini, quasi fossero mere città-stato, in realtà la loro estensione territoriale era piú ampia, non ricostruibile con certezza. Il controllo delle terre era affidato a ufficiali di varia denominazione – prefetti, conti, giudici – e al sistema dell’incastellamento. Questi dinasti erano espressione delle aristocrazie locali, mercantili e fondiarie, e dei relativi interessi egemonici, continuarono a conservare i vecchi titoli onorifici bizantini – patrizi, protospatari, antipati – e, almeno formalmente, a ricevere l’approvazione imperiale, alla loro nomina e designazione, ma si trattava di retaggi puramente formali, di un lontano passato di dipendenza da Costantinopoli. Non a caso, la lingua ufficiale degli atti delle rispettive cancellerie era il latino e non il greco. L’assetto istituzionale dei singoli ducati era quello di vere e proprie monarchie ereditarie, fondate sull’autorità assoluta del duca, il cui potere era trasmissibile, ereditariamente, secondo il principio della successione maschile in linea retta, in primo grado, o in gradi ulteriori. Soltanto se questo principio non fosse stato applicabile, la scelta del successore era rimessa alla volontà del duca, attraverso il meccanismo dell’adozione o associazione al potere, e fatte salve le eventuali usurpazioni. Le donne erano escluse dal potere ducale, tuttavia la loro influenza nelle vicende politiche fu notevole, ma sempre indiretta, per quanto, talvolta, si fregiassero di cariche onorifiche altisonanti, come senatrix, patrizia e ducissa. Data la vocazione marittima di queste compagini politiche, si deve concludere che, al loro governo, vi fosse un ceto di armatori e imprenditori marittimi, un’aristocrazia del mare che fondava i propri redditi, essenzialmente, sul commercio marittimo, sulla pesca, sulla cantieristica navale, ma anche sulla guerra da corsa e sulla rapina; il resto della popolazione si componeva di artigiani, pescatori, braccianti e lavoratori alla giornata. Poiché l’estensione dei predetti ducati era anche interna alle coste, non è improbabile che l’aristocrazia mercantile investisse parte dei propri introiti marittimi nell’acquisto e nello sfruttamento di terre. La presenza di religiosi e di un cospicuo numero di monasteri, greci e latini, ebbe un ruolo di primo piano nella vita dei ducati sede di diocesi e arcidiocesi.
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Veduta dall’alto dell’antica torre di avvistamento di Erchie, in Campania, una delle piú celebri fortificazioni medievali della costiera amalfitana.
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La cultura nel regno normanno
I Normanni ebbero la grande capacità di assimilare le culture dei popoli sottomessi, contribuendo alla propria acculturazione e, nello stesso tempo, rielaborando in forme nuove e creative gli elementi piú disparati delle civiltà autoctone. Tutto il Mezzogiorno, e in special modo la Sicilia, mostra, ancora oggi, tracce straordinarie del passato normanno, sotto il profilo architettonico, letterario e, in senso piú generale, artistico. Si pensi al bellissimo «mantello di re Ruggero» – conservato oggi a Vienna, presso il Kunsthistorisches Museum – opera raffinata di maestranze arabe attive presso i laboratori tessili della curia palermitana. Realizzato in seta di importazione bizantina, il mantello era decorato da scritte arabe e raffigura due leoni – simboli del potere normanno – che sovrastano due cammelli, simbolo della potenza saracena, sottomessa dai conquistatori. All’epoca di Ruggero II risalgono gli splendidi mosaici della Cappella Palatina (1131-1143) di Palermo, collocata all’interno dell’attuale Palazzo dei Normanni, sede della curia regia e, attualmente, dell’Assemblea Regionale Siciliana. Articolata in tre navate, la cappella svolgeva la funzione di servizio liturgico per la corte, ed era ornata da magnifici mosaici, raffiguranti scene dell’Antico e del Nuovo Testamento, con uno splendido Cristo Pantocratore nella cupola e la tipica decorazione araba a muqarnas – a nicchie – di alcune parti del soffitto. Allo stesso periodo risale anche la chiesa palermitana della Martorana – meglio conosciuta come «chiesa dell’Ammiraglio» – voluta del Grande Ammiraglio di Ruggero, il greco Giorgio d’Antiochia († 1151). 46
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In alto Salerno, Duomo. Il portale d’accesso al quadriportico. La realizzazione della cattedrale è direttamente riconducibile a Roberto il Guiscardo. XII sec. A destra l’interno della cattedrale di Cefalú (Palermo), la cui edificazione ebbe inizio nel 1131, per volere di re Ruggero II. La magnifica decorazione a mosaico è dominata dalla solenne figura del Cristo Pantocratore.
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I Normanni Monreale, Duomo. Particolare della decorazione a mosaico, raffigurante Guglielmo II che dedica la cattedrale alla Vergine. XII sec.
Anche qui sono visibili splendidi mosaici di fattura bizantina, tra i quali spicca quello raffigurante l’incoronazione, a opera di Cristo, di re Ruggero, ritratto con le stesse fattezze del Salvatore, probabilmente a suggerire l’origine divina del suo potere. Dell’età ruggeriana è anche il duomo di Cefalú (1131), originariamente destinato a sepoltura del re, con i mosaici del presbiterio che culminano nella raffigurazione del Pantocratore, nel catino absidale. Il fervore edilizio caratterizzò il regno di Guglielmo II, al quale viene attribuita l’edificazione dell’abbazia di Monreale (1166- 1178) – a 10 km circa da Palermo – piú tardi promossa al rango di arcidiocesi, retta dal vescovo-abate (1182). La chiesa abbaziale, con annesso lo splendido chiostro a pianta quadrata, con porticato ornato di archi a sesto acuto, retti da colonnine decorate con mosaici, rappresenta la totale fusione di elementi architettonici e artistici romanico-normanni e arabo-bizantini. Basti pensare alle caratteristiche torri che inquadrano la facciata, alla pianta longitudinale a tre navate, separate da colonne, terminanti in tre absidi con, nell’abside centrale, il Cristo Pantocratore, e all’ampio uso dell’arco a 48
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sesto acuto o degli archetti intrecciati, o alla decorazione musiva. Pregevoli sono anche le porte di bronzo, opera di Bonanno da Pisa († 1183 circa) e Barisano da Trani († 1189 circa), in cui si fondono, mirabilmente, elementi dell’arte figurativa romanico-bizantina e la maestria nordica nella lavorazione dei metalli. Le realizzazioni architettoniche di età normanna dimostrano come, nel Mezzogiorno, stentassero a trovare ampia diffusione i moduli dell’«architettura gotica», che, nel frattempo, andavano diffondendosi nel resto d’Europa, a partire dalla Francia. Facevano resistenza a tale diffusione, le tradizioni arabo-bizantine, ma anche quelle tardo-imperiali e romaniche, che continuavano a influenzare l’operato delle maestranze che lavoravano nei cantieri delle basiliche e dei monasteri. Le basiliche normanne rispecchiavano le caratteristiche degli edifici religiosi romanici e bizantini: le mura spesse, la struttura imponente dei corpi di fabbrica, l’assenza quasi totale delle decorazioni – pitture, mosaici, sculture – esterne agli edifici, mentre abbondavano di mosaici e decorazioni interni. Apparteneva infatti alla «concezione bizantina» degli edifici sacri – e anche alla cultura islamica – l’idea che la potenza e la maestà del divino – e tutto lo sforzo estetico – dovessero concentrarsi nello spazio interno delle costruzioni religiose, che lo scintillio dei mosaici, degli ori, degli smalti, avevano il compito di trasfigurare, conferendogli l’immagine della Gerusalemme celeste e tentando di dare forma all’Invisibile. Si pensi all’abbazia della Ss. Trinità di Venosa, alla Ss. Trinità di Mileto, o al Duomo di Salerno – dedicato a san Matteo, patrono della capitale del ducato di Puglia – edificato da Roberto il Guiscardo, in collaborazione con l’arcivescovo Alfano, attingendo al proprio tesoro personale. Il duomo di Salerno costituisce uno dei maggiori esempi del romanico meridionale, con il suo portico ornato di 28 colonne di spoglio e il policromo loggiato superiore – riservato al clero del capitolo cattedrale – realizzato in pietra calcarea, tufo grigio, arenaria e laterizio. Al regno di Guglielmo I, seppure completate sotto Guglielmo II, sono attribuibili due caratteristiche costruzioni, in perfetto stile arabo: la Zisa e la Cuba, ubicate nei sobborghi di Palermo, nel parco reale – Genoardo –, il cui nome, in arabo, significa «Paradiso sulla Terra». Ricco di giardini, agrumeti, peschiere, fontane e riserve di caccia, il Genoardo era destinato al piacere dei re e dei membri della curia. La Zisa – «la Splendida» – e la Cuba – «la Cubica» – erano padiglioni di caccia e di riposo, a forma di parallelepipedo, che presentano, ancora oggi, i caratteristici elementi architettonici arabi: decorazioni in marmi policromi intarsiati, atri, soffitti a muqarnas, archetti intrecciati a fondo cieco per conferire profondità alla volumetria delle pareti. Il Genoardo, la Zisa e la Cuba dimostrano come i re Normanni, pur avendo combattuto gli infedeli in nome di Cristo, avessero, poi, assunto uno stile di vita tipicamente «arabo», fatto dei dolci piaceri degli harem da Mille e una
Notte, che richiamavano un’idea di Paradiso molto «terrestre», tipicamente coranica. Alla corte di Ruggero II operarono molte e illustri figure di intellettuali, tra cui l’arabo Edrisi († 1165) e il greco Nilo Dossopatre († fine del XII secolo). Il primo fu autore di un importante manuale di geografia – il Libro di Ruggero – illustrato da un planisfero argenteo che non ci è pervenuto, in cui era sintetizzato il meglio della scienza geografica araba e greca, mentre il secondo fu retore e poeta, forse monaco e diacono di S. Sofia, autore di un Trattato sui cinque Patriarcati – opera di geografia e storia ecclesiastica, commissionatagli da re Ruggero – in cui l’autore prendeva posizione contro la teocrazia dei papi, e di omelie, inni e componimenti poetici. Durante il regno di Guglielmo I, Palermo si distinse come importante centro di traduzione, in
Monreale, Duomo. Ancora un particolare del mosaico, raffigurante Cristo in trono che incorona Guglielmo II. XII sec. latino, di opere letterarie, filosofiche e scientifiche greche e arabe. Tra le personalità piú attive in questo campo, sono da ricordare Enrico Aristippo († 1162), arcidiacono di Catania, ed Eugenio l’Ammiraglio († fine del XII secolo), un Greco al servizio della curia. Il primo tradusse – dal greco in latino – i dialoghi platonici Fedone e Menone, oltre che l’Almagesto dell’astronomo e matematico alessandrino Tolomeo; il secondo realizzò la traduzione in latino dell’Ottica di Tolomeo, della favola di origine indiana Kalila e Dimna, oltre a comporre molte poesie. Nell’ambito della produzione letteraria di epoca normanna, grande diffusione ebbe anche la storiografia in lingua latina, grazie a molti autori, laici ed GRANDI DINASTIE
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ecclesiastici, che scrissero opere di chiaro intento apologetico nei confronti dei Normanni e del loro regno. D’altronde, la storiografia era il genere letterario che, piú di ogni altro, consentiva di celebrare ed esaltare la nuova realtà statuale normanna sorta dalla conquista. Tra gli autori – tutti fioriti tra l’XI e il XII secolo – sono da ricordare Amato di Montecassino, Guglielmo di Puglia, Goffredo Malaterra, Alessandro di Telese, Ugo Falcando, Romualdo Guarna. Amato fu monaco cassinese, autore di una Historia Normannorum – pervenuta in un volgarizzamento francese del XIV secolo – che giungeva fino al 1078. L’opera ha carattere celebrativo dei Normanni e della loro opera conquistatrice, ed è molto critica verso i principi longobardi – soprattutto Gisulfo II –, ritratti come persecutori della Chiesa ostili al progetto provvidenziale divino, volto a favorire 50
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lo stanziamento dei Normanni nel Mezzogiorno. Guglielmo di Puglia, nativo della Puglia e forse chierico, fu autore di un poema epico, in lingua latina, sulla vita e le imprese del Guiscardo – Gesta Roberti Wiscardi – che giungeva fino alla morte del condottiero (1085). Lo stile dell’opera, colto e denso di classicismi, denota la buona cultura dell’autore. Molto poco si sa di Goffredo Malaterra, forse monaco di origine normanna proveniente dal cenobio di St-Évroult, in Normandia, giunto in Italia al seguito dei conquistatori e poi stabilitosi nel cenobio di S. Agata di Catania. Goffredo fu autore del De rebus gestis Rogerii Calabriae et Siciliae comitis et Roberti Guiscardi ducis fratris eius, opera celebrativa – in prosa intercalata da versi – delle gesta del Guiscardo e del fratello, il conte Ruggero. Autore di buona
In alto Palermo, Palazzo dei Normanni. Il Cortile Maqueda, ornato da un portico e due ordini di logge in stile rinascimentale. XVII sec. A sinistra Palermo, Palazzo della Zisa. Veduta panoramica ripresa dal versante delle vasche d’acqua. Magnifico edificio voluto da Guglielmo I, è chiaramente ispirato ai canoni dell’architettura araba. XII sec. cultura, Goffredo concepisce la conquista normanna come un evento provvidenziale. A suo avviso, il volere divino ha conferito ai Normanni la strenuitas – il coraggio in battaglia – che è la chiave del loro successo politico. Alessandro di Telese fu monaco, abate del monastero di S. Salvatore di Telese, e autore del De rebus gestis Rogerii Siciliae regis libri quattuor, una storia delle imprese di Ruggero II – che arrivava fino al 1135 – scritta con chiaro intento apologetico su invito di Matilde, sorella del sovrano normanno e moglie del conte di Alife, Rainulfo, suo acerrimo nemico. L’opera, di carattere smaccatamente encomiastico, è di gradevole lettura, ma spesso tace su fatti di rilievo, perché finalizzata a offrire un’immagine positiva di Ruggero, fondatore del regno. L’opera di Ugo Falcando è la fonte piú preziosa per conoscere
eventi e personaggi della storia del regno unitario, successivo alla conquista. Probabilmente di origine normanna e ufficiale a corte, Ugo fu autore della Historia (o Liber) de Regno Siciliae, che narrava gli eventi compresi tra il 1154 e il 1169, tra la morte di Ruggero II e la reggenza di Margherita di Navarra. La Historia è preziosissima per conoscere fatti e personaggi del tormentato periodo compreso tra il governo di Guglielmo I e quello di Guglielmo II, caratterizzato da profonde tensioni politiche tra le varie componenti del regno – sociali (popolo-nobiltà) ed etniche (cristiani-musulmani) – brillantemente analizzate dall’autore. A Romualdo Guarna, arcivescovo di Salerno (1153-1181), consigliere e diplomatico durante il regno di Guglielmo I e Guglielmo II, si deve il Chronicon, cronaca universale in lingua latina che andava dalla creazione del mondo fino ai suoi tempi (1178). L’opera è di notevole importanza per conoscere le vicende connesse al regno di Sicilia di cui l’autore fu, nella gran parte dei casi, testimone diretto, e gli eventi sono descritti con maggiore puntualità ed esattezza man mano che ci si avvicina all’epoca dello storico. Alla schiera degli storici esaltatori della conquista e della monarchia normanna, si contrappone Falcone, notaio e giudice beneventano, autore di un Chronicon – che giungeva fino al 1140 –, prevalentemente incentrato sulle vicende della città di Benevento, all’epoca dominio pontificio. L’opera è di grande importanza, soprattutto perché fornisce una ricostruzione non conformista delle vicende che portarono all’affermazione di Ruggero II. La descrizione dei fatti non è appiattita sugli intenti apologetici degli altri storici del periodo: per Falcone, Ruggero II è un despota peggiore di Nerone e il suo disegno politico è pericoloso per la libertà di Benevento e dell’intero Mezzogiorno. GRANDI DINASTIE
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La discesa dell’aquila Dopo l’avvento dei Normanni, il Mezzogiorno d’Italia assiste all’affermarsi di una seconda dinastia nordica, quella degli Hohenstaufen, gli Svevi, originari della Germania. Una stirpe che ebbe nell’imperatore Federico II, lo Stupor mundi, il suo esponente piú celebre
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uglielmo II (1166-1189), ultimo esponente della dinastia normanna degli Altavilla, morí il 18 novembre del 1189, senza discendenza, e, secondo le sue disposizioni, la corona di Sicilia andò alla zia, Costanza d’Altavilla, figlia del fondatore del regno normanno, Ruggero II (1105-1154), e di Beatrice di Rethel († 1185). Nel 1186, per espressa volontà del nipote, Costanza sposò Enrico VI di Hohenstaufen, figlio dell’imperatore Federico I Barbarossa (vedi box a p. 54). In virtú di quelle nozze, il regno di Sicilia passò a Enrico, che, nel 1190, morto il padre durante la terza crociata, divenne anche duca di Svevia, re di Germania e imperatore, accentrando nella sua persona enormi poteri. A contrastare i piani dello Svevo, sorse nel Mezzogiorno una fazione antitedesca, guidata dal nipote di Costanza, il conte di Lecce Tancredi, nipote di Ruggero II, in quanto figlio di Ruggero di Puglia e di Emma, contessa di Lecce. Si schierarono con Bitonto (Bari), Cattedrale. Particolare dell’ambone, datato 1229 e firmato da Nicolaus, sacerdos e magister. La lastra in bassorilievo riutilizzata nella scaletta raffigura quattro personaggi, uno seduto e tre in piedi, che molti studiosi ritengono membri della dinastia sveva, anche per la presenza di un uccello piumato, forse un’aquila, al margine inferiore sinistro. 52
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Gli Hohenstaufen
Tancredi la gran parte dei baroni e degli ecclesiastici e alcuni ufficiali del regno come il vicecancelliere Matteo d’Aiello († 1193), e suo figlio Nicola (1182-1221), vescovo di Salerno. Il Normanno era appoggiato anche dal papa Clemente III (1187-1191), che, come sovrano feudale del regno di Sicilia, ne legittimò l’incoronazione avvenuta, nel 1190, a Palermo. Il pontefice sapeva che se la corona del regno di Sicilia fosse stata attribuita a Enrico VI, l’unione con l’impero avrebbe prodotto un vero e proprio accerchiamento del Patrimonium Beati Petri, restringendo i margini di manovra del papa. Nel frattempo, Tancredi associò subito al potere Ruggero – il figlio avuto da Sibilla, contessa di Acerra – e ottenne anche l’appoggio dell’imperatore d’Oriente, Isacco II Angelo (1185-1195), suocero di suo figlio. L’opposizione allo Svevo rese inevitabile la guerra: nel 1191, Enrico scese a Roma e si fece incoronare imperatore dal nuovo papa, Celestino III (1191-1198), e poi, passato il Garigliano, entrò nel regno di Sicilia. L’invasione tedesca venne respinta grazie alla resistenza di Napoli e delle altre città campane poste sotto il controllo del giustiziere di Terra di Lavoro, Riccardo di Acerra, cognato di Tancredi e la diffusione di un’epidemia tra le truppe ger-
maniche fece il resto. Riccardo di Acerra appoggiò il cognato anche contro un altro usurpatore, Ruggero, conte di Andria, un barone imparentato con gli Altavilla, il quale, a un certo punto, rivendicò la corona di Sicilia per sé. Ruggero fu catturato da Riccardo e messo a morte.
Nomi beneauguranti
Nella primavera del 1194 Enrico VI tentò, con l’aiuto della flotta pisana, una nuova invasione del Mezzogiorno, che questa volta ebbe esito favorevole. Infatti, morti Tancredi e il figlio Ruggero, la corona andò all’altro figlio, Guglielmo, privo delle capacità politiche e militari del padre e del fratello. Dopo aver occupato il Mezzogiorno, la notte di Natale del 1194 Enrico venne incoronato in duomo dall’arcivescovo di Palermo. Il giorno successivo all’incoronazione – era il 26 dicembre – a Iesi, nelle Marche, Costanza d’Altavilla dava alla luce l’erede svevo – Federico Ruggero –, al quale, non a caso, furono imposti i nomi beneauguranti degli illustri ascendenti. Conquistato il regno, Enrico mise in atto una repressione spietata, di cui fecero le spese tutti i membri della famiglia di Tancredi: Riccardo di Acerra, Sibilla, il figlio Guglielmo e molti dei loro sostenitori furono imprigionati e de-
Nella pagina accanto, in alto, a sinistra Federico II in trono, raffigurato nell’arca reliquiario in oro, pietre e smalti, di Carlo Magno. XII sec. Aquisgrana, Renania. Cappella Palatina. L’immagine di Federico II, scolpita tra quelle degli imperatori romani d’Occidente, ricorda la sua incoronazione a re di Germania e re dei Romani, avvenuta ad Aquisgrana, antica capitale carolingia, nel luglio del 1215. In basso Palermo, Palazzo dei Normanni, camera di Ruggero II. Particolare del mosaico del soffitto raffigurante l’aquila, simbolo della dinastia degli Hohenstaufen. XII sec.
ORIGINE DI UNA DINASTIA Della dinastia sveva non si hanno notizie certe prima dell’XI secolo, quando Federico von Büren († 1105), signore del castello di Hohenstaufen – da cui il nome della stirpe – ottenne dall’imperatore, Enrico IV (1056-1106), il ducato di Svevia come ricompensa per l’aiuto prestato contro i principi tedeschi alleati del papa, Gregorio VII (1073-1085), durante la «lotta per le investiture». Il ducato di Svevia – o Alamannia – era uno dei piú importanti principati territoriali del regno germanico e comprendeva, approssimativamente, i territori degli attuali Württemberg e Baden, dell’Alsazia, della Svizzera e della Baviera occidentale, inglobando la Selva Nera e parte della catena montuosa del Giura. Il nome del ducato derivava dalla tribú dei Suebi – o Alamanni –, che si era stanziata tra alto Reno e Danubio fin dal III secolo d.C. Il ducato rimase nelle mani degli Hohenstaufen sino
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all’estinzione della stirpe, alla fine del XIII secolo, quando si frantumò in una serie di compagini politiche distinte – contea del Württemberg, ducato del Baden, confederazione elvetica – e in una molteplicità di principati ecclesiastici e leghe cittadine spesso in conflitto fra loro. Nel 1137, il duca Corrado di Hohenstaufen fu eletto re di Germania e, alla sua morte, nel 1152, la corona passò al nipote, Federico Barbarossa (1152-1190). Entrambi gli imperatori parteciparono a una crociata e furono quasi sempre in lotta con i duchi di Baviera e di Sassonia, appartenenti alla stirpe dei Welfen. Dal conflitto tra i Welfen e i duchi di Svevia – possessori del castello di Waiblingen – hanno tratto origine le due fazioni – perennemente in conflitto – che animarono la vita urbana dell’Italia medievale: i «guelfi» – sostenitori del papa – e i «ghibellini», sostenitori dell’impero.
Un lignaggio illustrissimo HOHENSTAUFEN
ALTAVILLA
Federico I Barbarossa † 1190
Ruggero II 1095 - 1154
Enrico VI 1165-1197 imperatore nel 1191; sposa Costanza d’Altavilla nel 1186; re di Sicilia nel 1194
Filippo † 1208
Costanza 1154-1198
Guglielmo I † 1166 Guglielmo II † 1189
Le nozze tra Enrico VI di Germania e Costanza d’Altavilla, celebrate a Milano il 27 gennaio del 1186 in una miniatura dall’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.
FEDERICO II 1194-1250 = (1) Costanza d’Aragona † 1222 (2) Iolanda (o Isabella) di Brienne † 1222 (3) Isabella d’Inghilterra † 1241
(1) Enrico (VII) 1220-1242
(2) Corrado IV re di Sicilia 1250
(3) Margherita sposa Alberto Iangravio di Turingia
Corradino (1252-1268)
Federico «de Stuffa» † 1323
(3) Enrico II (Carlotto)
DISCENDENTI ILLEGITTIMI (Bianca Lancia d’Agliano)
(?)
(Adelaide d’Urslingen)
(?)
(Maria/Matilda d’Antiochia)
Manfredi † 1266
Violante sposa Riccardo conte di Caserta
Enzo † 1272 sposa Adelasia di Sardegna
Federico di Pettorano
Federico d’Antiochia sposa Margherita di Poli
A sinistra camaleuco di Costanza d’Aragona in oro, argento dorato, smalti, perle e pietre. Palermo, Tesoro della Cattedrale. Il camaleuco (greco kamelaukion) era un copricapo a cuffia di derivazione bizantina, poi assimilato dalla cultura normanna e utilizzato dai primi re di quella stirpe. Il matrimonio con Costanza d’Aragona, a Messina nell’agosto del 1209, fu imposto a Federico da Innocenzo III. Il re aveva 15 anni, mentre Costanza, che era in seconde nozze, ne aveva già 30.
A destra spada con fodero utilizzata per l’incoronazione di Federico II, proclamato imperatore del Sacro Romano Impero da papa Onorio III, in S. Pietro a Roma, il 22 novembre 1220. XIII sec. Vienna, Kunsthistorisches Museum. Sulla spada è raffigurato lo stemma della casata sveva: l’aquila nera spiegata. Sul pomo dell’impugnatura l’aquila si staglia su campo d’argento, mentre sul fodero è in campo d’oro.
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portati in Germania, da cui non fecero piú ritorno. Nel 1195, in occasione di una dieta tenuta a Bari, Enrico deliberò l’imposizione di nuove tasse e annunciò una prossima crociata per la liberazione del Santo Sepolcro. Nella primavera dell’anno successivo, tornò in Germania per riorganizzare i domini tedeschi e contrattare nuovi contributi finanziari con i 56
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principi, mentre Costanza fu lasciata in Sicilia con funzioni vicarie. L’immensità dei suoi domini lo obbligava a spostarsi di continuo, per far fronte a problemi di gestione non indifferenti, determinati anche dal fatto che si trattava di territori diversi per tradizioni amministrative, strutture politiche, lingua e cultura, tenuti insieme solo dall’unione dinastica nella persona del
GLI ANNI DI FEDERICO Una vita di successi 1194 Nasce a Jesi il 26 dicembre 1211 Viene eletto re di Germania 1215 Viene incoronato ad Aquisgrana re dei Romani
1220 Onorio III lo incorona a
Roma imperatore del Sacro Romano Impero 1228 Viene scomunicato da Gregorio IX 1229 Si incorona re di Gerusalemme 1231 Emana le Costituzioni Melfitane 1237 Vittoria di Cortenuova sulla Lega Lombarda 1245 Seconda scomunica a opera di Innocenzo IV 1249 Sconfitta di Fossalta 1250 Muore il 13 dicembre
non era estranea la regina Costanza. Tra i congiurati, la personalità piú in vista fu il barone di Castrogiovanni, Guglielmo Monaco, che pagò con la vita la sua partecipazione al complotto. Nell’estate del 1197, infatti, sconfitti i ribelli a Paternò, Enrico scatenò una feroce repressione che colpí anche Guglielmo Monaco, giustiziato dopo orrendi supplizi. Il 28 settembre di quello stesso anno Enrico morí, lasciando la corona al figlio, Federico, assistito da un consiglio di reggenza presieduto dalla regina. Costanza indusse Federico a fare atto di omaggio feudale al papa, Innocenzo III (1198-1216; al secolo Lotario dei conti di Segni), legittimando cosí la posizione sua e di Federico, ma non poté svolgere un’azione politica significativa perché morí, a Palermo, il 27 novembre 1198.
«Re dei preti»
Miniatura raffigurante papa Onorio III che incorona Federico II, da un’edizione del Miroir Historial di Vincent de Beauvais. XV sec. Chantilly, Musée Condé.
sovrano. Una struttura policentrica, dunque, molto difficile da governare. Dopo aver ottenuto dai principi tedeschi, nella dieta di Francoforte, l’incoronazione del figlio Federico a «re dei Romani» – candidato alla corona imperiale –, l’imperatore fece ritorno in Sicilia, dov’era stata scoperta una congiura organizzata dalla nobiltà normanna e alla quale, molto probabilmente,
Con la morte di Costanza si apriva una lunga fase di conflitti tra Innocenzo III – tutore di Federico e, pertanto, tenuto a difenderne i diritti – e alcuni ufficiali di origine germanica che, giunti nel regno di Sicilia al tempo di Enrico VI, intendevano sottrarre il giovane re alla tutela del papa. Essi agivano, almeno formalmente, su mandato dello zio di Federico, Filippo di Hohenstaufen, che si trovava in Germania. Non si possono comprendere le vicende del Mezzogiorno di quegli anni, se non si guarda a quanto stava allora avvenendo nel regno tedeGRANDI DINASTIE
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sco, dilaniato dalla guerra civile tra i diversi pretendenti alla corona. Morto Enrico VI, alcuni principi scelsero come re suo fratello Filippo, duca di Svevia, mentre altri – sobillati dal papa – preferirono Ottone, duca di Brunswick. Legittimato dal pontefice, Ottone continuò a combattere contro Filippo fino al suo assassinio, nel 1208. Rimasto unico re di Germania, nel 1209 Ottone venne incoronato imperatore da Innocenzo III, il quale, però, lo scomunicò l’anno successivo, quando il re invase lo Stato pontificio e il regno di Sicilia, che il papa intendeva mantenere separato dall’impero.
La crociata contro i tutori
In quegli anni, il piccolo Federico risiedeva a Palermo, mentre nel regno infuriava la guerra tra i sostenitori del papa e quelli di Filippo di Svevia. Nel 1201, un ufficiale tedesco fedele a Filippo, Marcovaldo di Annweiler – duca di Ravenna e marchese d’Ancona – si recò in Sicilia e si proclamò reggente e tutore di Federico. Alla sua morte, nel 1202, la tutela passò a un altro tedesco, Guglielmo Capparone. Il papa bandí contro Marcovaldo e Guglielmo una crociata, affidandola al francese Gualtieri di Brienne – marito di Albiria, figlia di Tancredi d’Altavilla –, che ottenne pochi successi e, alla fine, fu anche ucciso (1205). Capparone rinunciò alla tutela di Federico solo nel 1206, sottomettendosi a Innocenzo III, che, nel 1208, dichiarò Federico maggiorenne e l’anno dopo gli diede in moglie Costanza d’Aragona (vedi box in queste pagine). Poiché Ottone di Brunswick era stato scomunicato, il papa individuò in Federico il nuovo candidato alla corona germanica. Cosí l’appoggio di Innocenzo III valse al giovane re l’ironico appellativo di «re dei preti». Nel 1211 Federico partí per la Germania, promettendo al papa che non avrebbe mai cumulato la corona dell’impero con quella di Sicilia e che, al piú presto, avrebbe rinunciato a quest’ultima. Ottone – che non intendeva rinunciare ai suoi titoli – si oppose a Federico con la forza e si alleò con il re d’Inghilterra, Giovanni Senza Terra (11991216), ma, il 27 luglio del 1214, a Bouvines, nelle Fiandre, fu battuto dall’esercito dello Svevo, che aveva ottenuto l’aiuto del re di Francia, Filippo II Augusto (1180-1223). Ottone si ritirò dalla vita pubblica e morí pochi anni dopo, nel 1218. E cosí, il 25 luglio del 1215, nel duomo di Aquisgrana, Federico poté essere incoronato re di Germania. Qualche anno piú tardi, dopo aver richiamato dalla Sicilia il figlio Enrico e averlo fatto incoronare re dei Romani, Federico ritornò in Italia per cingere la corona imperiale. L’inco58
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GLI AMORI DI
FEDERICO La vita sentimentale di Federico II fu senz’altro influenzata dal suo ruolo sociale. Nel 1209 sposò, per volontà del papa, Costanza, figlia del re d’Aragona, Alfonso II il Casto (1162-1196), e di Sancia di Castiglia (1174-1208). Costanza partorí Enrico, primogenito di Federico, e morí nel 1222, a Catania. Le sue spoglie furono tumulate nella cattedrale di Palermo. Nel 1225, sempre su indicazione del pontefice, l’imperatore sposò Isabella – detta anche Jolanda – figlia di Giovanni di Brienne († 1237) e di Maria del Monferrato († 1212), sovrani di Gerusalemme. Questo titolo, grazie alle nozze, fu, poi, acquisito da Federico. Isabella fu madre del secondogenito dell’imperatore, Corrado, e morí nel 1228, per i postumi del parto. La terza e ultima consorte dell’imperatore fu Isabella, sorella del re d’Inghilterra, Enrico III (1216-1272), e madre di Enrico – detto «Carlotto» († 1254) – e di Margherita († 1270). Isabella morí a Foggia, nel 1241, e fu sepolta – proprio come Isabella – nel duomo di Andria. Oltre alle mogli, Federico ebbe un gran numero di amanti e altrettanti figli
«illegittimi». Tra le donne dell’imperatore sono da ricordare la ben nota Bianca Lancia – che partorí Manfredi e Costanza – Adelaide d’Urslingen († 1267) – madre di Enzo – e Maria d’Antiochia († 1250 circa), che diede alla luce Federico. Bianca Lancia († 1256 circa) è l’unica amante di cui si abbiano maggiori informazioni biografiche, ma resta incerta la sua genealogia. Era figlia del conte Bonifacio d’Agliano e di una Lancia o, secondo un’altra ipotesi, del marchese Manfredi Lancia, piemontese di illustre famiglia ghibellina, che fu «lanciere» dell’imperatore, funzione che diede poi nome alla famiglia. Probabilmente, Bianca fu sposata da Federico dopo la morte della terza moglie e i figli avuti da lei legittimati per susseguente matrimonio. Se Federico sposò realmente Bianca – ma persistono dubbi – Manfredi, contrariamente a quanto solitamente si sostiene, non fu certamente figlio illegittimo.
Nella pagina accanto pagina miniata da un’edizione del De arte venandi cum avibus (Sull’arte di cacciare con gli uccelli), il trattato di falconeria composto da Federico II. XIII sec. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. A destra miniatura raffigurante le nozze tra Federico II e Isabella d’Inghilterra, celebrate nel 1235.
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Gli Hohenstaufen L’IMPERATORE E LA FONDAZIONE DI LUCERA
ronazione avvenne nella basilica di S. Pietro, il 22 novembre 1220, per mano di papa Onorio III (1216-1227), che era personalità meno energica di Innocenzo III e accettò che Federico cumulasse le corone di Sicilia e dell’impero, in cambio dell’impegno a partire, al piú presto, per la crociata. Nonostante la promessa, l’imperatore non si allontanò dall’Italia fino al 1227, anche perché dovette affrontare alcune rivolte nobiliari – come quella promossa da Tommaso da Celano, conte di Boiano – e, in Sicilia, una pericolosissima insurrezione dei sudditi di fede musulmana (vedi box in queste pagine). Intanto lo Svevo consolidava il suo potere anche da un punto di vista amministrativo, fondando, nel 1224, l’università di Napoli – specializzata negli studi giuridici – promulgando un (segue a p. 68) 60
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Nel 1091, la conquista normanna della Sicilia sancí la fine dell’emirato islamico kalbita, ma non annientò la presenza di nuclei musulmani sull’isola. Soprattutto nella parte centrale e occidentale – val di Noto, val di Mazara – sopravvissero consistenti nuclei allogeni islamici ai quali, in cambio del pagamento di un testatico e di una imposta fondiaria – se proprietari o affittuari di terre – il governo normanno concesse libertà religiosa e, in parte, anche autonomia giurisdizionale e amministrativa. Questa situazione
durò fino al 1223 quando, a causa di una vasta ribellione capeggiata da Muhammad ibn Abbad – detto Mirabetto –, Federico non fu costretto a intervenire duramente. Nel 1225, pacificata l’isola e messo a morte Mirabetto, l’imperatore ritenne necessario deportare in Puglia tutti i musulmani. Nacque, cosí, l’insediamento di Lucera – vera e propria enclave nel territorio del regno di Sicilia – sulla cui organizzazione interna, politica e amministrativa, si hanno ancora oggi scarse notizie. Gli abitanti della «colonia» musulmana non
superavano le 60 000 unità – frammisti a elementi «cristiani» autoctoni – e traevano sostentamento prevalentemente dalle attività artigianali e agricole. Lucera, però, fu anche un prezioso serbatoio di reclutamento di truppe, soprattutto fanteria leggera e arcieri. I musulmani affittuari di fondi rustici erano tenuti a corrispondere un tributo in natura – terragium – corrispondente a una percentuale del raccolto, alla curia regia o ai privati, a seconda della natura demaniale o non della terra affittata. Inoltre, ogni musulmano pagava al fisco regio una capitazione dell’ammontare di un tarí, in segno di sottomissione. Gli abitanti avevano propri luoghi di culto e autonomia amministrativa com’è confermato dalla presenza di un qaid lucerino, cioè un governatore di origine musulmana, scelto tra i notabili del posto, e dai qadi, cioè giudici che amministravano la giustizia in conformità delle norme coraniche. Lucera presentava una complessa gerarchia sociale e un ceto dirigente spesso coinvolto nelle dinamiche di potere del regno. Tra i leader lucerini si può
ricordare Giovanni Moro († 1254) – Johannes Niger – probabilmente originario del Marocco, e che, sotto Federico II e Corrado IV, ricoprí le cariche di camerario regio e castellano di Lucera, accumulando un discreto patrimonio. Nei tragici eventi che seguirono la morte di Federico II, il Moro si schierò dalla parte del papa, spingendo Lucera alla ribellione contro Manfredi, ma senza successo. Fu infatti assassinato ad Acerenza, da altri musulmani rimasti fedeli allo svevo. Dopo la morte di Corradino, Lucera si ribellò a Carlo d’Angiò, al quale occorsero circa tre anni per reprimere la rivolta, e decise perciò di privare la città dell’autonomia amministrativa e di sottoporla al capitano regio e al giustiziere di Capitanata, potenziando il castello cittadino e la guarnigione ivi stanziata. Nel 1300, Carlo II d’Angiò (1285-1309) decise di distruggere l’insediamento musulmano, perché la sua politica mirava all’assimilazione forzata delle minoranze etnico-religiose del
regno, cosa che aveva già prodotto i suoi frutti con gli Ebrei, posti davanti alla scelta di accettare il battesimo o emigrare. Le motivazioni della distruzione non furono solo religiose, ma anche politiche ed economiche, poiché Lucera era un importante centro artigianale e agricolo, ma anche un serbatoio di reclutamento di mercenari che, in gran parte, continuavano a essere fedeli alla memoria degli Hohenstaufen, come prova l’assassinio del Moro. Cosí, nell’agosto del 1300, il conestabile e notaio regio, Giovanni Pipino († 1316), ebbe dal re l’incarico di rimuovere quella che appariva, ormai, un’ingombrante presenza, in un regno che si definiva cattolico. Esclusi quanti accettarono di farsi battezzare, i musulmani furono deportati, in gran parte uccisi o venduti come schiavi e i loro beni confiscati. La topografia urbana fu mutata: Lucera cambiò nome – adottando quello di Civitas Sancte Mariae – e fu trasformata in capoluogo di diocesi, mentre si favorí lo stanziamento di ordini religiosi che vi edificarono le proprie chiese.
In alto, a sinistra incisione raffigurante la città di Lucera. XVII sec. Foggia, Biblioteca Provinciale. In questa pagina la fortezza svevo-angioina di Lucera (XIII sec.), con il profilo della torre della Leonessa e parte della cinta muraria che avvolge il complesso per 900 m.
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ISTITUZIONI FEDERICIANE
L’immensità dei domini di Federico II imponeva non solo di spostarsi continuamente, ma anche di conoscere il funzionamento dei differenti sistemi costituzionali vigenti nei territori sottoposti alla sua sovranità. Il regno tedesco era una monarchia formalmente elettiva, perché la scelta del sovrano – che riceveva dal papa la corona imperiale – era demandata ai principi laici ed ecclesiastici. La Germania, quindi, era simile a una «confederazione» di principati il cui assetto, tra l’altro, Federico rafforzò con l’emanazione di due provvedimenti: la Confoederatio cum principibus ecclesiasticis e lo
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Statutum in favorem principum, promulgati, rispettivamente, nel 1220 e nel 1231. I decreti – il primo destinato ai principati ecclesiastici e il secondo a quelli laici – concedevano ai principi pieni poteri di governo nei rispettivi feudi – giustizia, tasse, leva militare – relegando il sovrano tedesco a un ruolo sovraordinato che, però, era puramente simbolico. Nel regno di Sicilia, invece, ereditando una corona non elettiva e una struttura amministrativa fortemente accentrata fin dall’epoca normanna, Federico II agí in modo totalmente diverso. Nel 1231, promulgando le Costituzioni di Melfi – monumentale codice legislativo
A sinistra miniatura raffigurante l’incontro tra Federico II e il sultano d’Egitto, dall’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. A destra lettera autografa di Federico II ai Siciliani. 1246. Parigi, Musée d’Histoire de la France. L’imperatore sollecita i suoi sudditi a fornire a un prezzo ragionevole cavalli, armi e viveri al re di Francia Luigi IX in occasione della settima crociata. È visibile la bolla d’oro con l’effigie dello Svevo. articolato in tre libri –, Federico pose le premesse di un solido apparato burocratico che fece del regno di Sicilia uno dei sistemi politici piú centralizzati ed efficienti del Medioevo europeo, con un organigramma istituzionale decisamente evoluto per gli standard dell’epoca. Le normative melfitane costituirono il pilastro della vita giuridica del regno, raccogliendo norme di diritto pubblico e privato che misero ordine al marasma dei secoli precedenti, imponendo il principio della volontà sovrana quale unica fonte del diritto della comunità e riducendo il precedente diritto longobardo e bizantino a fonte normativa sussidiaria destinata a supplire le lacune della legge regia, senza alcuna possibilità di derogare da essa. A Palermo – la capitale – aveva sede la Magna Curia, l’insieme degli ufficiali dell’amministrazione centrale, tra cui sono da menzionare il cancelliere, il gran connestabile e il grande ammiraglio. A livello periferico la compagine federiciana era suddivisa in circoscrizioni minori, rette da camerari, giustizieri e connestabili, con diverse competenze. I camerari amministravano il demanio regio ed esercitavano la giustizia in tutti gli affari riguardanti i feudatari del re, i giustizieri amministravano la giustizia civile e penale, riservando a sé la cognizione dei reati piú gravi che era sottratta ai feudatari e alle città. I connestabili si occupavano del comando delle truppe, del loro approvvigionamento e della disciplina militare. Al di sotto di questi organi erano le università – le città – suddivise in demaniali e feudali, a seconda che rientravano sotto la potestà regia o sotto quella di un barone. Le città conservarono generalmente gli ordinamenti amministrativi del periodo normanno e le proprie
consuetudini, mentre al loro vertice fu posto un baiulo o capitano di nomina regia o signorile, con compiti di vigilanza delle amministrazioni cittadine, riscossione delle imposte e amministrazione della giustizia. Federico II non disdegnò di ricorrere ai rapporti feudali come strumento di organizzazione del territorio e di inquadramento delle popolazioni, inserendoli, però, nelle strutture dello Stato. I vassalli regi, tenuti al sevizio militare o al pagamento di un’imposta sostitutiva – adiutorium – potevano procedere a ulteriori sub-infeudazioni nell’ambito dei rispettivi domini solo col consenso regio, ma ogni vassallo era tenuto all’«omaggio ligio» verso il sovrano, supremo signore. La successione nei feudi e la loro alienazione erano rigidamente disciplinate dalla legislazione, per evitare la dispersione del patrimonio, con conseguente difficoltà ad adempiere gli obblighi verso la curia. Nell’Italia centro-settentrionale – regno italico – che pure rientrava nei suoi domini, Federico perseguí obbiettivi centralizzatori, ma con scarso successo, a causa della presenza dei Comuni solidamente organizzati nella Lega Lombarda. Nel 1239, per esempio, designò suo figlio, Enzo, vicario generale del regno. Sotto la sua autorità erano poste le città, in cui Federico inviò podestà o capitani da lui nominati. Le città, a loro volta, erano inserite in compagini piú vaste – vicariati o marche – con a capo vicari di nomina imperiale, dipendenti da Enzo, vicario generale. Tra queste circoscrizioni si ricordi la «marca trevigiana», affidata al governo di Ezzelino III da Romano († 1259), marito della figlia naturale dell’imperatore, Selvaggia († 1244).
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LA CULTURA NEL REGNO Dal punto di vista storiografico, non appare piú condivisibile l’idea di Ernst Kantorowicz (1895-1963), il quale vedeva in Federico II un precursore dello statista «rinascimentale» che, come un artista, imprimeva alla società e allo Stato l’immagine delle proprie virtú. Prevale oggi, sotto l’impulso di nuove interpretazioni storiografiche – Abulafia, Houben, Stürner – una storicizzazione della figura, indubbiamente carismatica, dell’imperatore che andrebbe inserita nel contesto dell’Europa del suo tempo, senza inopportuni anacronismi e sovrapposizioni diacroniche. Tuttavia – nonostante il maggiore disincanto con cui oggi si guarda allo Svevo – non è possibile cancellare il fascino reverenziale che promana dalla sua figura. La versatilità intellettuale dell’imperatore è nota. Come i suoi predecessori normanni, Federico II fece della corte palermitana un centro di promozione e di diffusione di cultura sotto tutti i punti di vista. La corte ospitò illustri figure di medici, astronomi e alchimisti quali Michele Scoto († 1236) – di origine britannica – e Teodoro di Antiochia († 1246), di origine siriana. Teodoro Termoli Fiorentino
S. Lorenzo in Pantano Foggia Ordona
Lucera Capua
Barletta Trani
Benevento
Melfi Lagopesole
Napoli
Salerno
Mare Adriatico
Monte Sant’Angelo
Castel del Monte Bari Brindisi
Gravina Gioia del Colle
Potenza Matera Palazzo San Gervasio
Oria
Taranto
Lecce
Mar Ionio
Mar Tirreno Cosenza Catanzaro
Milazzo Messina
Palermo
Reggio Calabria
Catania Enna Augusta
Agrigento Gela
Siracusa
I castelli e le residenze di Federico II castello residenza torre
Mar Mediterraneo
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porta
dedicò all’imperatore un trattato sull’igiene e si distinse come abilissimo traduttore – dall’arabo in latino – di testi filosofici e scientifici, tra cui spicca il noto trattato di ornitologia e falconeria dell’arabo Moamin, in servizio presso la corte: De scientia venandi per aves. Il trattato di Moamin fu fonte di ispirazione per il piú noto De arte venandi cum avibus, altro trattato di falconeria, in latino, probabilmente scritto di pugno da Federico. Il trattato federiciano, ornato di splendide miniature, fu in gran parte frutto dell’osservazione empirica dei fenomeni naturali in esso descritti e, pertanto, molto diverso dal simbolismo allegorico e moralistico dei ben noti bestiari medievali. Al De arte venandi, quindi – e nonostante i suoi limiti – può essere riconosciuto un vero e proprio carattere di «scientificità».
A sinistra e sulle due pagine vedute di Castel del Monte, in Puglia, il piú celebre castello federiciano. Realizzato entro la metà del XIII sec., l’edificio sorge isolato su una collina nel territorio delle Murge, tra Andria e Corato, in provincia di Bari. Nella pagina accanto, in basso cartina con i castelli e le residenze di Federico II nell’Italia meridionale. Federico fu anche il promotore del movimento poetico noto come «Scuola siciliana» che, anticipando il Dolce stil novo e la lirica toscana, rappresentò, nella storia della letteratura italiana, la prima forma elaborata e intellettualmente raffinata di poesia in volgare. Nella «Scuola» federiciana si poetava in siciliano «illustre», cioè nella lingua parlata a corte dai funzionari o, comunque, dai ceti piú elevati della popolazione e modellata, dal punto di vista grammaticale e lessicale, sul latino
cancelleresco e sul provenzale della lirica trobadorica, che fu fonte di ispirazione per i temi amorosi oggetto dei componimenti. Il sonetto – la forma metrica prevalentemente utilizzata – fu, senz’altro, una creazione della «Scuola» federiciana. Gran parte dei rappresentanti della «Scuola» furono ufficiali di corte: Stefano Protonotaro fu notaio, Giacomino Pugliese e Iacopo d’Aquino, falconieri, Cielo d’Alcamo, giullare. Federico II, inoltre, ebbe rapporti epistolari con altri grandi intellettuali dell’epoca, come il matematico pisano Leonardo Fibonacci († 1240) – che gli dedicò il Liber quadratorum – e il medico e filosofo andaluso Ibn Sab’in († 1271), autore del trattato Questioni siciliane, in cui, servendosi della logica, rispondeva ad alcuni quesiti postigli dall’imperatore e attinenti ad argomenti quali l’eternità della materia, l’esistenza di Dio e l’immortalità
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dell’anima. Anche le arti plastiche e l’architettura del regno conobbero un grande sviluppo e furono caratterizzate dal richiamo a stilemi della classicità romana che, per l’imperatore, fu anche modello di riferimento politico. Si pensi alle raffigurazioni e alle leggende degli augustali o alla Porta di Capua che, a sud del Volturno, simboleggiava l’ingresso simbolico nei confini del regno. Era una struttura monumentale, ispirata gli archi di trionfo romani, ornata da torri e statue allegoriche – una delle quali raffigurante l’imperatore – demolita durante il viceregno spagnolo. Accanto agli stilemi architettonici desunti dalla classicità, non mancarono quelli ispirati all’edilizia monumentale musulmana – archi a sesto acuto, arabeschi – di cui sono testimonianza alcuni dei castelli federiciani. Tra essi spicca Castel del Monte, presso Andria, edificato in bianca pietra calcarea, con la caratteristica planimetria ottagonale che, ancora oggi, sembra occultare un’oscura e arcana simbologia.
A sinistra calco di una statua di Federico II. L’originale, mutilato nel XVIII sec. e oggi privo della testa, proviene dalla Porta di Capua, costruita da Federico II tra il 1234 e il 1239. Capua, Museo Provinciale Campano. A destra La corte dell’imperatore Federico II a Palermo, olio su tela di Arthur Georg von Ramberg. 1865. Monaco, Neue Pinakothek. Nel dipinto l’imperatore, accompagnato da Pier delle Vigne e da Hermann von Salza, gran maestro dell’Ordine Teutonico, riceve una delegazione di ambasciatori orientali. La corte palermitana di Federico accolse scienziati, matematici e letterati provenienti da tutto il Mediterraneo. 66
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nuovo codice legislativo e coniando l’augustale, una moneta d’oro dall’elevato potere d’acquisto, del peso di 5 g (vedi box alle pp. 62-63). Finalmente, nel settembre del 1227, su insistenza del nuovo papa, Gregorio IX (1227-1241), l’imperatore partí per la crociata. La necessità di parteciparvi dipendeva anche dal fatto che, in 68
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virtú del secondo matrimonio con Isabella di Brienne, Federico era diventato anche «re di Gerusalemme». Subito dopo aver lasciato Brindisi, lo scoppio di una pestilenza tra le truppe lo costrinse a rientrare e il papa, questa volta, lo scomunicò. Incurante della scomunica, Federico partí lo stesso, nel giugno dell’anno successivo,
A sinistra Palermo, Cattedrale. Il sarcofago in porfido rosso, sormontato da baldacchino, in cui sono conservate le spoglie di Federico II. In basso miniatura raffigurante la morte di Federico, dall’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Vuole la leggenda che l’imperatore sia stato ucciso dal figlio Manfredi; in realtà, morí il 13 dicembre del 1250, a Fiorentino di Puglia, per una grave infezione intestinale.
e, in autunno, sbarcò in Terra Santa. Scomunicato e senza combattere una sola battaglia, l’imperatore, grazie al trattato di Giaffa ratificato nel febbraio del 1229, ottenne dal sultano d’Egitto, Malik al Kamil (1218-1238), la restituzione per un periodo di dieci anni di Gerusalemme, Nazareth, Betlemme e della costa palestinese.
Sbarcato a Brindisi nel settembre del 1229, Federico intraprese subito una nuova guerra contro le armate pontificie che, nel frattempo, avevano occupato buona parte del regno di Sicilia. Nel luglio del 1230, a San Germano, fu possibile raggiungere un accordo col papa: in cambio di una reiterazione dell’omaggio e della concessione di maggiore libertà alla Chiesa del regno, il pontefice revocò la scomunica e Federico riottenne la corona.
Una stagione tormentata
Gli anni successivi, però, non furono particolarmente tranquilli per l’imperatore. Nel 1233 intervenne a Roma per sedare una rivolta che aveva costretto il papa alla fuga e, l’anno successivo, dovette recarsi in Germania, perché Enrico si era ribellato, alleandosi con i Comuni italiani contro il padre. Nel 1235, deposto Enrico – che morirà suicida nel 1242 – Federico fece eleggere re l’altro figlio, Corrado. Pacificata la Germania, nel novembre del 1237 l’imperatore ritornò in Italia, dove i Comuni avevano costituito una seconda Lega Lombarda, che Federico sconfisse a Cortenuova, vicino Bergamo. Tuttavia, l’imperatore non accettò la proposta d’arbitrato del
papa nella lotta contro le città e diede in moglie al figlio, Enzo, Adelasia († 1259), signora del giudicato sardo di Torres. Gregorio IX considerò le nozze un’ingerenza intollerabile perché considerava la Sardegna di esclusiva pertinenza della Santa Sede, probabilmente in forza della «Donazione di Costantino» (VIII secolo). GRANDI DINASTIE
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Manfredi riconosciuto davanti ai suoi familiari da Carlo d’Angiò, olio su tela del pittore vicentino Pietro Roi. 1855. Sandrigo (Vicenza), Municipio. Figlio naturale di Federico II e di Bianca Lancia, poi legittimato, Manfredi trovò la morte sul campo, nella battaglia combattuta contro l’Angioino nel 1266. Nel 1239, Federico fu perciò nuovamente scomunicato e la guerra col papato riprese. Il conflitto si combatté non solo con le armi, ma anche a colpi di propaganda politica. La pubblicistica dell’epoca interpretò lo scontro tra papato e impero con tinte apocalittiche, dipingendo l’imperatore come l’Anticristo o come un eretico. In realtà, Federico non fu né eretico, né scismatico, ma contrastò l’ingerenza del papato negli affari temporali, poiché riteneva la sua autorità di rango uguale a quello della Chiesa. Inoltre, l’ortodossia dell’imperatore è testimoniata dalle disposizioni legislative – da lui promulgate – che, per la prima volta, stabilivano la pena del rogo per gli eretici.
La fine triste di un uomo eccezionale
Dopo la morte di Gregorio IX, sopraggiunta nel 1241 dopo circa due anni di vacanza pontificia, il conclave elesse, nel 1243, un nuovo papa, Innocenzo IV († 1254). Non disposto ad accordarsi con l’imperatore, il pontefice fuggí da Roma e riparò a Lione, dove, nel 1245, nel corso di un concilio ecumenico, scomunicò Federico e sciolse i sudditi dal vincolo di obbedienza. In Germania il papa appoggiò l’elezione dell’antire Enrico Raspe – langravio di Turingia – contro Federico, mentre si aggravava lo scontro con i Comuni italiani. L’esercito imperiale fu battuto dalla Lega Lombarda a Parma, nel 1248, e a Fossalta, nel 1249. In questa battaglia fu catturato Enzo che morí in cattività, a Bologna, nel 1272. Nel 1246, fu scoperta una congiura contro l’imperatore, fomentata dal pontefice: Federico reagí con durezza e i traditori furono puniti. Tra questi è da ricordare Pier della Vigna – logoteta e protonotaro del regno – che, incarcerato in S. Miniato, si suicidò nel 1249. Amareggiato e deluso, Federico si ritirò a Castelfiorentino, in Puglia, dove morí il 13 dicembre 1250. Si concludeva cosí la parabola umana dello Stupor mundi, una personalità straordinaria, come anche i suoi contemporanei ebbero modo di riconoscere (vedi box alle pp. 64-67). Secondo le ultime volontà dell’imperatore, il regno di Sicilia fu assegnato al figlio, Corrado, che, in quanto re di Germania, al momento della morte del padre non si trovava in Italia. In attesa della sua discesa in Italia, la reggenza fu 70
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Gli Hohenstaufen
Miniatura raffigurante Corradino di Svevia, in trono, mentre riceve due messi pontifici che gli recapitano l’ordine di papa Clemente IV di non combattere contro Carlo d’Angiò, pena la scomunica, dall’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.
assegnata a Manfredi, principe di Taranto e – secondo la vulgata comune – figlio naturale di Federico. Papa Innocenzo IV non approvò le disposizioni imperiali e quando, nel 1252, Corrado scese nella Penisola per rivendicare la corona venne scomunicato. Tuttavia, lo scontro con la Santa Sede non era il solo problema che Corrado si trovò a dover affrontare, perché, nel 1247 – morto l’antire Enrico Raspe – i principi tedeschi avversi agli Hohenstaufen scelsero come re Guglielmo, conte d’Olanda († 1256). Neppure quest’ultimo, però, riuscí a farsi incoronare imperatore e anche nel regno di Sicilia la situazione si era complicata, perché, morto Federico II, molte città si erano sottomesse al papa, disconoscendo l’autorità di Corrado. Giunto nel Mezzogiorno, lo Svevo esautorò Manfredi dalla reggenza e si impossessò del principato di Taranto, iniziando l’opera di pacificazione che proseguí fino al maggio del 1254, quando morí a Lavello, forse a causa della malaria. Tuttavia, dati i pessimi rapporti con Manfredi, alcuni sostennero l’ipotesi di un suo avvelenamento, sebbene non vi siano prove in tal senso.
Non c’è pace per la Sicilia
Nel frattempo, mentre in Germania i principi fedeli alla memoria di Corrado elessero re suo figlio, Corrado V – detto anche Corradino – nel regno di Sicilia, secondo le disposizioni dettate dal defunto re – e non riconosciute dal papa – la reggenza fu assunta dal marchese Bertoldo di Hohenburg che entrò subito in conflitto con Manfredi, facendo nuovamente precipitare il regno di Sicilia nella guerra civile. Impossessatosi del principato di Taranto e bandito l’avversario, Manfredi riuscí anche a ottenere il perdono di Innocenzo IV, che lo riconobbe reggente, in attesa di trovare un sovrano adeguato a cingere la corona di Sicilia. I buoni rapporti con il papa, però, si guastarono quasi subito e, nel 1254, Manfredi fu nuovamente scomunicato, con l’accusa di essere il mandante dell’assassinio di Borrello d’Anglona, signore di Agnone, un sostenitore del pontefice. Lo Svevo fuggí a Lucera, dove arruolò un esercito – in gran parte composto da Saraceni –, sconfisse le armate papali guidate da Bertoldo di Hohenburg – nel frattempo passato al partito guelfo – e si assicurò il controllo del regno. Manfredi sottomise, inoltre, i baroni fedeli al papa e l’11 agosto del 1258 – dopo aver diffuso la falsa notizia della morte di Corradino –, si fece incoronare re. Il nuovo papa, Alessandro IV (1254-1261), reiterò la scomunica e assegnò la GRANDI DINASTIE
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Passo della Cisa Genova
Pontremoli
Varazze Pistoia Lucca In basso ancora due miniature tratte da un’edizione illustrata della Nuova cronica di Giovanni Villani redatta tra il 1350 e il 1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. La prima, in alto, raffigura la sconfitta di Giovanni di Braiselve, maresciallo di Carlo I, nella battaglia di Ponte a Valle presso Laterina il 25 giugno 1268; nella seconda, si vede l’esercito di Corradino partito da Roma e in marcia verso il Sud Italia, attraverso le montagne abruzzesi.
Firenze
Pisa Poggibonsi
Siena
Colle
corona di Sicilia a Edmondo di Lancaster († 1296), figlio del re d’Inghilterra. In quel mentre, Corradino era impegnato contro Guglielmo d’Olanda e, dopo la sua morte, contro un nuovo pretendente al trono tedesco: Riccardo di Cornovaglia († 1272), fratello di Enrico III, re d’Inghilterra. Corradino risiedeva in Baviera, ospite dello zio materno, Ludovico di Wittelsbach, presso il quale erano anche la madre, Elisabetta († 1273), e il suo secondo marito, Mainardo II, conte del Tirolo (12581295). Manfredi intanto tesseva alleanze contro il pontefice, estendendo la sua influenza all’intera Penisola. Nelle città dell’Italia centro-settentrionale, per esempio, il sovrano favorí le fazioni ghibelline a danno di quelle guelfe. A Firenze, nel 1260, il governo guelfo fu rovesciato e sostituito da uno ghibellino: i ghibellini, in 74
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Ponte a Valle
Arezzo
25 giugno 1268
Buonconvento In alto i resti dell’abbazia cistercense di S. Maria della Vittoria, fatta erigere da Carlo d’Angiò a Scurcola Marsicana (L’Aquila), presso il luogo della battaglia combattuta nel 1268 contro Corradino di Svevia.
Bolsena
Viterbo
TAGLIACOZZO 23 agosto 1268 12
Tivoli Roma
Disegno che ricostruisce le tappe della discesa in Italia di Corradino di Svevia, nonché il suo tentativo di fuga, all’indomani della sconfitta patita a Tagliacozzo, conclusosi con la cattura ad Astura. Il percorso marittimo tratteggiato in verde si riferisce all’itinerario della flotta che il Comune di Pisa armò per sostenere lo Svevo e della quale affidò il comando al nobile Guido Bocci e al rappresentante del re, Federico Lancia. GRANDI DINASTIE
Astura
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Un’altra miniatura tratta dalla Nuova Cronica di Giovanni Villani (Ms Chigiano L VIII 296) raffigurante l’esecuzione di Corradino e dei suoi compagni. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.
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esilio dal 1250, guidati da Farinata degli Uberti († 1264) – e con l’aiuto dei Senesi – sconfissero i Fiorentini a Montaperti e rientrarono in città, instaurando un governo filosvevo. Il raggio d’azione di Manfredi non si limitava alla Penisola, ma era molto piú vasto: nel 1262, diede in sposa la figlia, Costanza († 1302) – nata dalle prime nozze con Beatrice di Savoia († 1259) – a Pietro d’Aragona, principe ereditario e futuro re. L’unione fu gravida di conseguenze, perché, molti anni dopo, consentí a Pietro di rivendicare il possesso della Sicilia, cingendone la corona. Intanto il nuovo papa di origine francese, Urbano IV (1261-1264), si mise in cerca di un candidato per la corona di Sicilia, poiché Edmondo di Lancaster non si era mai mosso dall’Inghilterra per venire in Italia. Alla fine la scelta cadde su Carlo d’Angiò, fratello del re di Francia, Luigi IX il Santo (1226-1270), e conte d’Angiò, Maine e Provenza. Nel 1263 fu finalmente raggiunto un accordo con il pretendente francese: Carlo si impegnò a scendere al piú presto in Italia per eliminare Manfredi e, in cambio dell’investitura regia, assunse l’obbligo di pagare alla camera apostolica un censo annuo di 8000 once d’oro e, in caso di necessità, di fornire un contingente di 300 cavalieri. Il nuovo sovrano, tuttavia, si mosse con lentezza e solo nell’estate del 1265 giunse a Roma, col sostegno della flotta genovese. Il 6 gennaio del 1266, un collegio di cardinali lo incoronò in S. Pietro e Carlo si mise in marcia solo un mese dopo: varcato il Garigliano ed entrato nel regno di Sicilia, il 26 febbraio si scontrò con l’esercito di Manfredi presso Benevento. Dopo un’aspra battaglia, lo Svevo fu sconfitto e ucciso e, cosí, l’Angioino poté raggiungere Napoli e prendere possesso del trono. In ricordo della battaglia di Benevento e come ringraziamento alla Vergine per la vittoria conseguita, Carlo fece erigere a Scafati, presso Salerno, l’abbazia cistercense di S. Maria di Realvalle. Il corpo di Manfredi, sepolto presso il fiume Calore, fu individuato qualche tempo dopo da Bernardo Pignatelli, vescovo di Cosenza, suo acerrimo avversario. Il prelato, probabilmente col consenso del papa, Clemente IV (1264-1268), lo disseppellí e ne ordinò la sepoltura in terra sconsacrata. Ad appena due anni dalla vittoria, Carlo fu costretto ad affrontare una nuova minaccia: Corradino scese in Italia per rivendicare il trono paterno, incoraggiato dai ghibellini italiani e da molti sostenitori di Manfredi – Corrado Capece, Roberto Filangieri, Galvano Lancia – che avevano trovato rifugio in Baviera. Alcune rivolte scoppiate in Sicilia e a Lucera lo persua-
sero che il momento era propizio e, cosí, nell’autunno del 1267, Corradino giunse in Italia e fu subito scomunicato dal papa. L’anno successivo, dopo aver soggiornato per breve tempo a Roma, lo Svevo penetrò nel regno di Sicilia seguendo la via Valeria che conduceva in Abruzzo, varcando gli Appennini. Il 23 agosto del 1268, presso Tagliacozzo, fu combattuta la battaglia che, inizialmente, sembrò volgere a favore di Corradino. Carlo d’Angiò evitò di farsi vedere, ma inviò sul campo un nobile del suo seguito – Enrico di Courances – vestito con le sue insegne araldiche, per creare confusione tra gli avversari. Enrico, infatti, fu ucciso quasi subito e le truppe angioine sbandarono, ma l’improvviso arrivo di circa 800 cavalieri francesi, fino a quel momento tenuti nascosti come riserva, determinò la sconfitta di Corradino.
Esecuzione in piazza
Qualche tempo dopo, presso il luogo della battaglia – a Scurcola Marsicana – Carlo fece erigere l’abbazia cistercense di S. Maria della Vittoria in onore della Vergine e come ringraziamento per la vittoria concessagli. Sconfitto, Corradino fuggí a Torre Astura, vicino Nettuno, ma, riconosciuto, fu denunciato al signore del luogo, Giovanni Frangipane, che lo consegnò a Carlo. Con il consenso del papa e applicando alla lettera le costituzioni di Federico II – che lo consideravano un invasor regni, responsabile di crimen laesae maiestatis –, Carlo d’Angiò lo fece condannare a morte, senza formale processo. La sentenza venne eseguita a Napoli, il 29 ottobre del 1268, in Campo del Moricino – attuale Piazza del Mercato –, davanti a una vasta platea, destando viva impressione tra i contemporanei sia per la giovane età del condannato, sia perché, per la prima volta, un re autorizzava l’esecuzione di un suo «pari» come fosse un delinquente comune. Qualche tempo dopo, Elisabetta, madre di Corradino, fece riesumare i resti del figlio e ne dispose la tumulazione nella vicina chiesa del Carmine. In pieno romanticismo, il re di Baviera Massimiliano II di Wittelsbach (†1864) – casato da cui discendeva Elisabetta – commissionò allo scultore danese Bertel Thorvaldsen († 1844) il monumento funebre in onore del giovane sovrano, completo di una sua statua, ancora oggi collocato nella chiesa del Carmine, a Napoli, e visibile al pubblico. Nel 1847, le spoglie di Corradino furono inumate nel basamento del monumento, sul quale fu apposta un’epigrafe in cui il giovane sovrano era definito, a ragione, l’«ultimo degli Hohenstaufen». GRANDI DINASTIE
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Napoli, caput mundi
Con la vittoria di Tagliacozzo del 1268 e l’esecuzione, lo stesso anno, dell’ultimo degli Hohenstaufen, il disegno egemonico di Carlo I d’Angiò poteva dirsi compiuto. Fra i primi provvedimenti adottati dal nuovo padrone del Mezzogiorno d’Italia vi fu lo spostamento della capitale del regno da Palermo a Napoli. E, cosí, la città campana divenne il cuore del potere angioino Napoli vista dal mare. In primo piano, il Castel dell’Ovo, sorto sull’isolotto di Megaride, e, sullo sfondo, la sagoma inconfondibile del Vesuvio. Con l’ascesa al potere di Carlo d’Angiò, la città divenne capitale delle terre del Meridione d’Italia.
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Gli Angioini
A
ll’indomani della pubblica esecuzione, a Napoli, di Corradino di Svevia (1268), Carlo d’Angiò poté finalmente consolidare il suo potere nel Mezzogiorno, imponendo ai sudditi onerosi tributi e trasferendo la capitale del regno da Palermo alla città partenopea. Iniziava cosí, ufficialmente, la storia del «regno di Napoli», sempre piú sbilanciata, dal punto di vista amministrativo, verso la parte peninsulare dello Stato. La nuova denominazione della compagine politica angioina – «regno di Napoli» – soppiantò presto la precedente – «regno di Sicilia» –, ma divenne di uso comune solo nel XIV secolo, quando la Sicilia si staccò definitivamente dal resto del Paese. Al fiscalismo opprimente, Carlo aggiunse il rafforzamento dei poteri feudali del baronato, in buona parte composto dalle nuove stirpi signorili, di origine provenzale e angioina, stabilitesi nel Sud Italia dopo la conquista. In cambio della fedeltà piú assoluta, l’Angioino concesse ai feudatari il «mero e misto imperio», cioè pieni poteri di governo sui rispettivi sudditi, anche in ambito giurisdizionale, fino all’erogazione delle condanne a morte, e creò le premesse per il rafforzamento del potere dell’aristocrazia.
TUTTO COMINCIÒ CON UN OSCURO CAVALIERE...
Conseguenze durature
Carlo si dedicò anche alla gestione dei «problemi economici», favorendo l’investimento di capitali fiorentini nel Mezzogiorno, vero e proprio «prezzo» pagato alle grandi compagnie toscane guelfe che finanziarono la sua spedizione antisveva. La politica economica del sovrano ebbe conseguenze durature nella storia del Mezzogiorno, perché il regno di Napoli si avviò a diventare una «colonia» del capitalismo finanziario dell’Italia centro-settentrionale, sviluppando una vocazione economica prevalentemente agricolo-pastorale, basata su un sistema commerciale strutturato sull’esportazione di generi alimentari – grano, vino, olio, noci – e sull’importazione di manufatti e merci di lusso. Il re promosse anche grandi interventi di ristrutturazione urbana, sia a Napoli che nel resto del regno. Nella nuova capitale, affidò a Pierre de Chaule i lavori per la costruzione del «Maschio Angioino» – Castel Nuovo – dove fissò la sede della corte, abbandonando il vecchio Castel Capuano, che, assieme alle altre fortificazioni di epoca normanna – Belforte, Castel dell’Ovo – fu anch’esso interessato da impoIn alto, sulle due pagine la poderosa fortezza di Angers (capoluogo dell’Anjou, Francia), sede dei duchi d’Angiò. 80
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La stirpe degli Angiò prende il nome dalla contea della Francia occidentale – capoluogo Angers – di cui era titolare fin dal X secolo. L’origine della signoria è incerta, ma va probabilmente ricercata nel IX-X secolo, durante il processo di disgregazione politico-territoriale del regno di Francia a seguito del conflitto tra Capetingi e Carolingi per la corona. In questo contesto di totale anarchia, un oscuro cavaliere – Ingelger – iniziò a ritagliarsi una base di potere nel territorio della futura contea. I possedimenti signorili furono organizzati in contea e consolidati dai suoi successori, tra cui sono da ricordare Folco il Rosso (929-942) e Goffredo Martello (1040-1060). Agli inizi del XII secolo, Folco V d’Angiò (1109-1129) abbandonò la contea per recarsi in Terra Santa e cingere la corona del regno di Gerusalemme, lasciando al figlio, Goffredo V «il Bello» († 1151), i possedimenti familiari. Goffredo fu conosciuto anche come «Plantageneto» – nome poi utilizzato per indicare l’intera stirpe
– e Carlo d’Angiò, anche la Provenza e la contea di Forcalquier – un’enclave nell’Alta Borgogna, territorio di pertinenza imperiale – passarono nelle mani di Carlo. La conquista di Napoli, nel 1266, rese Carlo d’Angiò signore di un’enorme compagine, i cui pezzi, però, mantenevano proprie distinte identità istituzionali e linguistiche, oltre che differenti vocazioni economiche, trovando l’unità solo nella persona del sovrano. Contrariamente alla Provenza, che seguí il destino del regno di Napoli fino all’estinzione della dinastia angioina, Angiò e Maine tornarono alla Francia, in seguito al matrimonio tra Margherita († 1299), figlia di Carlo II di Napoli, e Carlo, duca di Valois († 1325), fratello del re di Francia, Filippo IV il Bello (1285-1314). Carlo trasmise Angiò e Maine ai suoi discendenti, finché il re di Francia, Giovanni II il Buono (1350-1364), non decise di innalzarli a ducato e di concederli, in appannaggio, a suo figlio, Luigi d’Angiò, futuro pretendente al trono di Napoli.
Statua di Carlo d’Angiò, re di Sicilia e senatore di Roma. Opera di Arnolfo di Cambio, 1277 circa. Roma, Musei Capitolini.
angioina – dalla pianta di ginestra, plante de genêt – nella simbologia araldica familiare. Attraverso il matrimonio di Goffredo con la normanna Matilde († 1167), regina d’Inghilterra, e la nascita di un figlio – il futuro re Enrico II (1154-1189) – gli Angioini riuscirono ad acquisire il trono inglese. Da quel momento l’Angiò – con Poitou, Normandia e Aquitania – rimase in possesso della corona inglese fino al 1214, quando il re di Francia, Filippo II Augusto (1180-1214), sconfitto Giovanni Senza Terra (1199-1216), incorporò nel demanio regio quei possedimenti. Nel 1246, l’Angiò riacquistò la sua autonomia, perché il re di Francia, Luigi IX, lo concesse in appannaggio al fratello, Carlo, assieme alla contea del Maine. In quello stesso anno, dopo la morte del conte di Provenza, Raimondo Berengario IV († 1245), e il matrimonio tra la figlia del conte, Beatrice († 1267) – sorella di Margherita († 1295), moglie di re Luigi
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Gli Angioini
I re di Sicilia e Napoli Beatrice contessa di Provenza † 1267
Carlo II lo Zoppo (principe di Salerno) conte d’Angiò e del Maine 1285-1290 conte di Provenza, principe di Acaia 1285-1289 re di Sicilia 1285-1309
=
=
Luigi (s. Ludovico) vesc. di Tolosa † 1297
Bertrando del Balzo conte di Montescaglioso di Squillace e d’Andria
Isabella di Villehardouin principessa d’Acaia e di Morea † 1312
Iolanda d’Aragona = † 1302
Eleonora † 1341 = Federico II d’Aragona re di Sicilia
Caterina d’Austria = Carlo = † 1323 duca figlia di Alberto I di Calabria re di Germania † 1328
Luigi principe di Taranto † 1362 Giacomo III d’Aragona-Maiorca † 1375 Ottone duca di BrunswickGrubenhagen † 1399
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Margherita di Borgogna contessa di Tonnerre † 1308
Beatrice
= Filippo di Courtenay imp. tit. di Costantinopoli † 1283
Roberto = duca di Calabria 1307 conte di Provenza 1309 re di Sicilia 1309-1343
Giacomo = Maria = Sancio d’Aragona d’Aragona re di Maiorca signore di Xerica
Andrea d’Ungheria † 1355
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=
Ladislao IV = Isabella re d’Ungheria † post 1300
In alto reale d’oro di Carlo I d’Angiò. Zecca di Messina, 1266-1285. Al dritto, il busto coronato del sovrano; al rovescio, lo stemma della casata angioina.
Maria D’Aquino † 1382
Filippo = principe di Acaia 1267 † 1277
Maria d’Ungheria figlia di Stefano V re d’Ungheria
Carlo Martello re tit. d’Ungheria
Azzo VIII = Beatrice d’Este † ante. signore di 1321 Ferrara
CARLO I Conte di Provenza 1245, d’Angiò e del Maine 1246 princ. di Acaia 1278, re di Gerusalemme 1278 re di Sicilia 1266-1285
=
=
Giacomo II re d’Aragona
=
Bianca † 1310
Sancia d’Aragona † 1345
Giovanni duca di Durazzo
Carlo = di Valois
Filippo principe di Taranto
Margherita † 1299
Margherita di Valois † 1328 figlia di Carlo di Valois
Giovanna I contessa di Provenza regina di Sicilia (1343-1371) e poi di Napoli dep. 1381 † 1382
Maria † 1366
=
Carlo duca di Durazzo † 1348 Roberto del Balzo Conte di Avellino † 1353 Filippo II princ. di Taranto † 1373
GLI ANGIÒ D’UNGHERIA L’origine del ramo ungherese della stirpe angioina va ricercata nella complessa politica matrimoniale perseguita da Carlo II d’Angiò. Presagendo l’estinzione della dinastia magiara degli Arpad, Carlo – che aveva sposato la principessa Maria († 1323), figlia del re Stefano V (1270-1272) – candidò al trono ungherese il figlio, Carlo Martello. La morte improvvisa di Carlo Martello, nel 1295, spinse il sovrano di Napoli a trasferire i diritti dinastici al nipote Carlo Roberto, il quale, a partire dal 1301, dopo la morte dell’ultimo Arpad – Andrea III – iniziò la conquista del regno magiaro. I pretendenti, infatti, non erano pochi, poiché sia il re di Boemia, Venceslao III († 1306), che il conte di Tirolo e di Carinzia, Enrico († 1335), aspiravano al trono. La guerra si concluse nel 1308, con la vittoria di Carlo Roberto. Per consolidare i rapporti tra i due rami della stirpe ed evitare conflitti violenti per la successione, il nuovo re di Napoli, Roberto d’Angiò, decise di combinare le nozze tra la nipote, Giovanna, e uno dei figli di Carlo Roberto, Andrea. Le nozze furono celebrate a Napoli, nel 1333, ma non ebbero l’esito sperato, perché i coniugi si detestavano e i loro pessimi rapporti, alla fine, sfociarono nell’assassinio di Andrea, nel 1345. L’uccisione del principe consorte fu, molto probabilmente, ordita negli ambienti di corte con la complicità di Giovanna. Il fratello di Andrea, Luigi il Grande – nel frattempo diventato re di Ungheria (1342-1382) – invase il regno di Napoli per catturare la cugina, ma non riuscí nel suo intento. In quei tristi frangenti morí – non si sa se assassinato o di morte naturale – anche Carlo, il figlio che Giovanna aveva avuto da Andrea. La regina riuscí a tornare a Napoli alcuni anni dopo ma, per le pressioni che Luigi esercitò sul papa, Clemente VI (1342-1352), signore feudale del regno, fu messa sotto processo per omicidio. Il processo si risolse in una farsa e presto Giovanna fu assolta grazie alla rinuncia, a favore del pontefice, della città di Avignone che, fino a quel
In alto Napoli, chiesa di S. Maria Donnaregina Vecchia. Il monumento funebre di Maria d’Ungheria, eseguito nel 1325, su commissione del figlio Roberto d’Angiò, da Tino di Camaino con la collaborazione di Gagliardo Primariore.
momento, rientrava nei suoi domini. Nel 1370, alla morte – senza discendenti – del re di Polonia, Casimiro III (1333-1370), Luigi il Grande assunse anche la corona di questo regno con la complicità della madre, Elisabetta († 1380) sorella di Casimiro. Fu anche questa un’unione personale tra compagini che conservarono istituzioni e culture distinte e destinata a durare appena un decennio. Infatti, nel 1382, alla morte di Luigi, i regni di Polonia e Ungheria si separarono: la Polonia fu portata in dote da Edvige († 1399) – figlia del defunto – al marito Jagellone (1386-1434), granduca di Lituania. Poiché Jagellone era ancora «pagano», gli fu imposto il battesimo e solo allora poté sposarsi e diventare, ufficialmente, re di Polonia (1386). La corona d’Ungheria, invece, andò nel 1387 al duca di Lussemburgo, Sigismondo, marito dell’altra figlia di Luigi, Maria († 1395).
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Sulle due pagine Pernes-les-Fontaines (Francia meridionale), Tour Ferrande. Due scene facenti parte del ciclo di affreschi che racconta le gesta di Carlo I d’Angiò. XIII sec. In questa pagina, Carlo riceve da papa Clemente IV l’investitura ufficiale a re di Sicilia; nella pagina accanto, Carlo combatte contro Manfredi di Svevia per il possesso della Sicilia.
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nenti ristrutturazioni. Carlo favorí il trasferimento degli Ordini mendicanti nella nuova capitale, promuovendo anche la costruzione di nuove chiese e complessi religiosi come S. Eligio al Mercato e S. Agostino alla Zecca. Dal punto di vista politico, nel resto della Penisola l’Angioino favorí sempre le fazioni guelfe a danno di quelle ghibelline, fornendo loro aiuti economici e militari, fu riconosciuto «signore» di molte città e riuscí a farsi eleggere senatore di Roma, il piú importante ufficio dell’amministrazione dell’Urbe. Carlo fu agevolato nell’impresa dal fatto che la fine della dinastia sveva – e del suo sostegno finanziario e militare – determinò il crollo di molti governi ghibellini nelle città centro-settentrionali, come accadde a Firenze dove i Guelfi – banditi dal Comune fin dal 1260, dopo la sconfitta di Montaperti – tornarono al potere, scacciando la fazione avversa. Nel 1269, Carlo inviò truppe a sostegno della guelfa Firenze contro la ghibel-
lina Siena che, sconfitta a Colle Val d’Elsa, fu travolta da un improvviso cambio di regime. Ma le ambizioni del re di Napoli erano mediterranee e non limitate all’Italia.
Mire espansionistiche
Nel 1267, Carlo approvò le nozze del figlio, Filippo di Taranto († 1277), con Isabella di Villehardouin († 1312), principessa di Acaia – attuale Peloponneso –, mentre sua figlia, Beatrice († 1275), andò sposa a Filippo di Courtenay († 1283), erede della corona dell’impero latino d’Oriente, creando le premesse per una futura espansione degli Angiò in quei territori. L’impero latino era sorto all’indomani della quarta crociata (1204), quando Costantinopoli era stata occupata da Veneziani e crociati e il territorio dell’impero era stato diviso: il principato d’Acaia era una delle «signorie crociate» nate da quella conquista. Molti anni dopo, nel 1261, Bisanzio fu rioccupata dai Bizantini, l’impero
d’Oriente restaurato e Filippo di Courtenay mandato in esilio. Nel 1270, Carlo pose la Tunisia sotto protettorato, obbligandola a versargli un tributo, nel 1271 occupò Durazzo, nominandosi re d’Albania e, nel 1277, si incoronò re di Gerusalemme. Nel 1282, mentre preparava una «crociata» contro Costantinopoli – per ristabilirvi l’autorità del genero Filippo – la Sicilia insorse e i baroni offrirono la corona al re d’Aragona che, prontamente, occupò l’isola (vedi box alle pp. 86-87). La nuova guerra con l’Aragona iniziò con gravi perdite per gli Angioini che, nel 1284, nel golfo di Napoli, subirono una pesante sconfitta navale, e il figlio del re – Carlo «lo Zoppo», principe di Salerno – fu catturato e deportato in Aragona. Carlo d’Angiò morí a Foggia, nel gennaio del 1285, lasciando il regno in balia degli eventi. Alla morte di Carlo I, il successore era ancora prigioniero in Spagna e vi rimase fino al 1289, quando fu liberato dopo essersi impegnato, con
giuramento, a rinunciare alla Sicilia e a non prendere le armi contro l’Aragona. Raggiunta l’Italia e incoronato dal papa a Rieti, Carlo II violò il giuramento e riprese la guerra. Nel frattempo, morto Niccolò IV († 1292), il conclave, riunito a Perugia, per circa tre anni non riuscí a designare un nuovo papa, finché, sotto pressione di Carlo, nel luglio del 1294 non fu eletto Celestino V († 1296) – l’eremita molisano Pietro da Morrone –, il quale trasferí la sede della curia in Castel Nuovo, a Napoli.
La pace di Anagni
La guerra intanto proseguiva e solo nel giugno del 1295, con la mediazione del nuovo pontefice – Bonifacio VIII (1294-1303) – si arrivò alla pace di Anagni. Il trattato stabiliva la restituzione della Sicilia a Carlo d’Angiò, in cambio della cessione al re d’Aragona – Giacomo II (12911327) – della Sardegna e della Corsica. La pace, (segue a p. 89) GRANDI DINASTIE
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LA RIVOLTA DEL VESPRO Nell’immaginario collettivo, e nel giudizio della storiografia, la rivolta del Vespro ha sempre rappresentato un momento di drammatica «frattura», politica e territoriale, nella storia del Mezzogiorno. Per molti anni gli storici hanno visto in quell’episodio l’origine della frammentazione e del particolarismo autonomistico che, per secoli, avrebbero impedito la formazione di un autentico spirito nazionale, ostacolando il processo di unificazione politica dell’Italia. Cosí la pensarono Benedetto Croce (18661952) – nella sua Storia del regno di Napoli – e Michele Amari (1806-1889), storico di epoca risorgimentale che, pur apprezzando il valore dei «patrioti» siciliani, condannò le conseguenze politiche della loro azione. Ma che cosa avvenne realmente nel 1282? Ancora oggi le reali dinamiche del moto insurrezionale non sono chiare. Esse sono state individuate nel centralismo amministrativo angioino, negli abusi fiscali, nel trasferimento della capitale da Palermo a Napoli, nelle segrete manovre dell’impero bizantino interessato – poco prima dell’inizio della crociata – all’apertura di un «secondo fronte» mediterraneo. Quali che siano state le cause reali, l’inizio della rivolta si tradusse in un vantaggio per l’impero che poté cosí evitare la crociata. Nel 1282, infatti, Carlo d’Angiò era pronto a intraprendere una campagna militare contro l’impero bizantino, nel quale, dopo la parentesi dell’impero latino d’Oriente e grazie a Michele VIII Paleologo (1261-1282), il nuovo imperatore, era stata ripristinata la legittima successione dinastica. Carlo godeva dell’appoggio di Venezia e del nuovo papa, Martino IV, un francese che era stato cappellano e cancelliere del re di Francia, Luigi IX. Prima che la spedizione avesse inizio, il 30 marzo del 1282 – lunedí di Pasqua – scoppiò a Palermo un’insurrezione. Secondo la tradizione storiografica, il pretesto per la rivolta fu la perquisizione personale eccessivamente invadente che un drappello di soldati francesi, capitanato dall’ufficiale Drouet, avrebbe compiuto ai danni di alcune signore, all’uscita dalla chiesa del Santo Spirito, dopo la funzione del Vespro. I padri e i mariti avrebbero protestato e reagito con le armi, uccidendo i soldati. Ben presto la rivolta si estese a tutta l’isola, le guarnigioni e i funzionari angioini furono massacrati o costretti a rientrare in Italia, mentre il papa condannava senza appello i rivoltosi, costringendo i baroni siciliani a trovare un nuovo re. Alla fine la corona fu offerta a Pietro III, re d’Aragona (1276-1285), che si affrettò a sbarcare in Sicilia e a farsi incoronare dall’arcivescovo nella cattedrale di Palermo. La scelta di Pietro non fu casuale, perché il re era il marito di Costanza di Svevia († 1302), figlia di Manfredi, nelle cui vene scorreva il sangue degli
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I Vespri Siciliani, olio su tela di Michele Rapisardi. 1864-65. Catania, Museo Civico di Castello Ursino. Casus belli della rivolta, scoppiata nel Lunedí dell’Angelo del 1282, sarebbe stata, secondo la tradizione, la perquisizione personale operata con eccessiva invadenza da alcuni soldati francesi ai danni delle donne che uscivano dalla chiesa del Santo Spirito di Palermo, dopo la funzione. Hohenstaufen. Inoltre, non è casuale che ben prima del Vespro, presso la corte aragonese, avessero trovato rifugio molti partigiani filosvevi, costretti ad abbandonare l’Italia dal regime angioino. Tra di loro vi erano Giovanni da Procida († 1298), medico di fiducia di Federico II, e l’ammiraglio Ruggero di Lauria († 1304), che ebbero entrambi grande rilievo nei fatti che seguirono all’insurrezione. La ribellione e il massacro dei soldati provocarono la guerra tra i regni di Napoli e Aragona, il papa scomunicò Pietro III e bandí la crociata contro di lui, affidandone la guida al re di Francia, Filippo III l’Ardito (1270-1285), nipote dell’Angioino. Sebbene la progettata crociata non avesse dato i risultati sperati, i combattimenti si trascinarono fino al 12 giugno del 1295, quando fu stipulata la pace di Anagni. In base all’accordo, il nuovo re d’Aragona, Giacomo II, rinunciava alla Sicilia, ricevendo la Sardegna e la Corsica, su cui il papa vantava diritti probabilmente derivanti dalla Donazione di Costantino. A suggellare l’accordo intervenne anche il matrimonio tra Giacomo II e Bianca d’Angiò († 1310), figlia di Carlo II, e tra la sorella di Giacomo, Iolanda († 1302), e Roberto, terzogenito del re di Napoli. Ma i baroni siciliani, decisi a non tornare sotto il giogo angioino, elessero un nuovo sovrano nella persona di Federico III, il fratello di Giacomo, che si trovava a Palermo, in qualità di vicario dell’isola. Il 26 febbraio, nella cattedrale, Federico fu incoronato re e subito scomunicato dal papa, mentre riprese la guerra con il regno di Napoli alleato dell’Aragona contro il nemico comune. Il papa, allora, fu costretto a rivolgersi a Carlo
di Valois, fratello del re di Francia, che nel 1301 scese in Italia con un grande esercito diretto in Sicilia. Il 31 agosto del 1302, a Caltabellotta, fu stipulata la pace: Federico III avrebbe conservato la Sicilia fino alla morte, col titolo di «re di Trinacria» – il titolo di «re di Sicilia» spettava al solo sovrano di Napoli –, ma doveva fare atto di omaggio feudale a Carlo. A rafforzare il patto, intervenne un nuovo matrimonio tra Federico III ed Eleonora d’Angiò († 1343), figlia di Carlo II. In base al trattato, alla morte del re di Trinacria, l’isola sarebbe dovuta ritornare agli Angiò, ma quando a Federico nacque un figlio, l’associò al trono e lo designò erede, violando la pace. La nuova guerra tra Napoli e Palermo durò fino al 1372, quando la pace di Catania riconobbe definitivamente l’indipendenza della Sicilia, in cambio di un congruo risarcimento delle spese di guerra a favore degli Angiò.
Dopo la morte di Pietro II, nel 1342, gli successero Ludovico (1342-1355) e Federico IV (1355-1377) e, alla morte di quest’ultimo, la figlia Maria fu fatta regina. Incapace di contenere le velleità autonomiste dei baroni, Maria si pose sotto la protezione del re d’Aragona, Pietro IV il Cerimonioso (1336-1387), che le fece sposare il nipote, Martino il Giovane. Nel 1392, guidato da Martino, un esercito aragonese sbarcò nell’isola e, nel giro di cinque anni, ridusse alla ragione i baroni, ripristinando l’ordine, e Maria e Martino ne furono consacrati sovrani. Defunta la moglie nel 1402, Martino continuò a governare fino al 1409, quando morí, dopo aver contratto la malaria nel corso della guerra in Sardegna. Intervenne allora in Sicilia il padre, Martino I il Vecchio (1395-1410), re d’Aragona, che affidò il governo dell’isola a un viceré di sua nomina, ponendo fine all’esperienza del regno autonomo.
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Verona, S. Fermo, Chiesa Superiore. Particolare di un affresco attribuito all’artista noto come Maestro dell’Annunciazione raffigurante la vestizione di Ludovico d’Angiò, figlio di Carlo II, re di Sicilia, che rinunciò al trono in favore del fratello ed entrò nell’Ordine dei Minori. XIV sec. però, fu di breve durata, poiché i baroni siciliani designarono come re il fratello di Giacomo, Federico III, e le ostilità ripresero, protraendosi fino al 1302, quando fu stipulata la pace di Caltabellotta. Federico III fu riconosciuto re dell’isola, ma, alla sua morte, la Sicilia sarebbe tornata a far parte del regno di Napoli. Durante la guerra, si distinsero per la crudeltà nei confronti delle popolazioni civili le armate mercenarie catalane al servizio di Federico, denominate «Almogaveri», probabilmente dall’arabo al-mughawir, «razziatore». Dopo la pace di Caltabellotta, quegli uomini, al comando del condottiero di origine tedesca, Ruggero de Flor († 1305), si traferirono in Asia Minore per combattere, al servizio dell’impero d’Oriente, contro i Turchi. Non avendo ricevuto il compenso pattuito, si ribellarono e, trasferitisi in Grecia, si impossessarono di Atene, organizzando la città – e il suo territorio – in un ducato, che fu offerto a Federico III di Sicilia.
La Sicilia ottiene l’indipendenza
Nel frattempo, era ripresa la guerra per il possesso della Sicilia poiché alla morte di Federico, il figlio, Pietro II – che gli era successo – aveva violato i patti di Caltabellotta. La guerra continuò fino al 1372, quando la pace tra i contendenti riconobbe l’indipendenza siciliana. Proprio come il padre, anche Carlo II perseguí obiettivi politici di vastissimo respiro, ponendo le premesse per l’espansione dei domini angioini nell’Europa orientale. Nel 1301, quando morí il re d’Ungheria, Andrea III (1290-1301), ultimo esponente della dinastia magiara degli Arpad, Carlo II fece eleggere re il nipote, Carlo Roberto († 1342) – detto anche Caroberto –, dando cosí origine al «ramo ungherese» degli Angiò (vedi box alle pp. 86-87). Il ramo ungherese non fu l’unica diramazione dinastica della stirpe angioina. La politica di Carlo II, basata sulla distribuzione di vasti appannaggi tra i figli, favorí la formazione di altre linee genealogiche, spesso in conflitto tra loro. Per esempio, Carlo II attribuí al figlio Giovanni († 1333) il principato d’Acaia e il ducato di Durazzo, mentre al figlio Filippo († 1332) venne riservato il principato di Taranto. Giovanni e Filippo furono i capostipiti, rispettivamente, del GRANDI DINASTIE
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ramo degli Angiò-Durazzo e degli Angiò-principi di Taranto, che si affronteranno piú volte, per il possesso del regno. Al figlio terzogenito, Roberto, Carlo riservò la corona, dopo che il naturale successore, il primogenito Carlo Martello era improvvisamente deceduto nel 1295 e il secondogenito, Ludovico († 1297), aveva rinunciato al trono, preferendo la carriera religiosa. Ludovico – oggi venerato come santo – entrò infatti nell’ordine francescano e fu consacrato vescovo di Tolosa. Il re di Napoli proseguí l’azione di rinnovamento urbanistico della capitale del regno, già intrapresa dal padre, commissionando l’edificazione della chiesa di S. Domenico Maggiore, il completamento del duomo, la costruzione, in Castel Nuovo, della cappella palatina di S. Barbara e, nel 1306, la costruzione della Certosa di S. Martino, che ancora oggi domina la città. Tra le iniziative politiche piú celebri del sovrano, bisogna 90
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senz’altro rammentare la «distruzione» dell’insediamento musulmano di Lucera, in Puglia, voluto da Federico II.
Un «re di pace»
Nel 1309, Carlo II morí e, secondo le sue disposizioni, gli successe Roberto, il «re sermone» di dantesca memoria, forse definito cosí per il suo zelo religioso, in parte dovuto all’influenza della regina Sancia d’Aragona († 1345), morta clarissa e oggi venerata come beata. Anche Roberto – che fu, essenzialmente, un «re di pace» – continuò sulla strada del rinnovamento edilizio della capitale, patrocinando la costruzione del complesso religioso di S. Chiara – sede delle Clarisse – destinato a «necropoli» della dinastia. La corte di Napoli si trasformò in un importante cenacolo culturale, con ospiti del calibro di Giotto († 1337) – che lavorò in Castel Nuovo e in S. Chiara – di Francesco Petrarca († 1374) – esaminato
In alto Lucera. Lo stemma angioino che sormonta il portale della chiesa di S. Francesco, oggi santuario. Inizi del XIV sec. A sinistra e nella pagina accanto Lucera (Foggia). La facciata e il portale della cattedrale, magnifico esempio di stile gotico-angioino, sorta agli inizi del Trecento per celebrare la vittoria degli Angioini sui Saraceni e dedicata a santa Maria, patrona della città.
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GRANDI DINASTIE Nella pagina accanto Napoli, S. Maria Incoronata. Particolare di un affresco raffigurante Giovanna I d’Angiò e Luigi di Taranto. XIV sec. In basso, sulle due pagine Napoli, basilica di S. Chiara. Particolare del monumento funebre di Carlo, duca di Calabria, con i nobili del regno che gli rendono omaggio. Opera di Tino di Camaino, 1333 circa.
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da Roberto, prima di essere incoronato «poeta» in Campidoglio – e Giovanni Boccaccio († 1375), che trascorse la sua giovinezza proprio a Napoli, come agente della compagnia fiorentina dei Bardi e, molto probabilmente, amò Fiammetta, la figlia naturale del re. Oltre all’interesse per la cultura, Roberto si preoccupò di consolidare la posizione del regno di Napoli nello scacchiere politico italiano, estendendone l’influenza anche in molte città del Settentrione, in cui fu riconosciuto come «signore». I Comuni di Genova e Brescia riconobbero la sua sovranità e anche la guelfa Firenze accettò la signoria di Roberto, che vi inviò, come suo rappresentante, il figlio Carlo, duca di Calabria. Inoltre, dal momento che il
papato si era trasferito in Provenza, ad Avignone, Roberto fu designato vicario pontificio per Roma e per il Patrimonium beati Petri e, in questa veste, occupò piú volte l’Urbe, in occasione della discesa in Italia degli imperatori germanici, ma dovette sempre ritirarsi (vedi box a p. 96). Nel 1328, per esempio, si scontrò con lo scomunicato imperatore Ludovico IV il Bavaro (1313-1347), quando questi venne in Italia. Ludovico citò Roberto in giudizio e poi lo fece deporre dal tribunale imperiale, alleandosi con Federico III di Sicilia, ma, ovviamente, la deposizione non ebbe alcun effetto. In un’ottica politica anti-imperiale, il re sostenne finanziariamente e militarmente le città guelfe contro le coalizioni ghibelline, ma, anche in
questo caso, senza successo. Nel 1315 e nel 1325, per esempio, la lega guelfa toscana – guidata da Firenze – fu sconfitta a Montecatini e ad Altopascio dalla lega ghibellina toscana, guidata dai capi ghibellini Uguccione della Faggiola († 1319) – signore di Pisa e Arezzo – e Castruccio Castracani († 1328), signore di Lucca e Pistoia. Nel 1328, l’improvvisa morte del figlio, Carlo, privò il regno di Napoli del naturale successore, cosí Roberto fu costretto a ripiegare sulla nipote, Giovanna, che fu designata a succedergli. Nel 1343, alla morte di Roberto, Giovanna I fu dunque incoronata regina e si aprí una delle fasi piú tragiche nella storia del regno di Napoli. Tutto iniziò nel 1345, quando il marito di Giovanna, il principe consorte, Andrea, fu as-
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Qui accanto Napoli, basilica di S. Chiara. Il monumento funebre di Roberto d’Angio, realizzato dagli scultori fiorentini Giovanni e Pacio Bertini tra il 1343 ed il 1345
A sinistra Napoli, Duomo (S. Maria Assunta). Uno dei leoni stilofori collocati ai lati del portale centrale, opera di Tino da Camaino. XIV sec.
sassinato nella reggia di Aversa in circostanze poco chiare. Andrea apparteneva al «ramo magiaro» degli Angiò, perché figlio di Carlo Roberto e fratello di Luigi (1342-1382), all’epoca re d’Ungheria. Il matrimonio con Giovanna era stato celebrato nel 1333 e voluto da Roberto, che voleva cosí rafforzare i rapporti tra i due rami della medesima stirpe, ma l’incompatibilità tra i coniugi portò alla tragedia. L’assassinio di Andrea provocò la reazione del fratello, Luigi, che nel 1347 invase il regno di Napoli e l’occupò, mentre Giovanna fuggiva in Provenza, ad Avignone, che, all’epoca, era anche sede della curia pontificia. Ad Avignone Giovanna rimase fino al 1352, quando tornò a Napoli, dopo il ritiro delle truppe magiare, causato dalle continue rivolte popolari e dal dilagare della peste. Nel 1349, con la 94
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vendita di Avignone al papato per 80 000 fiorini, la regina si guadagnò l’assoluzione per il presunto omicidio del marito.
Gli amori della regina
All’indomani del suo ritorno, Giovanna iniziò a tessere relazioni amorose con personaggi ambigui, uomini incapaci ma ambiziosi, che si servirono di lei per ottenere il potere. Dopo il secondo matrimonio con il cugino Luigi di Taranto († 1362), la regina si risposò prima con Giacomo di Maiorca († 1375) e, poi, con Ottone di Brunswick († 1399), senza rinunciare a una relazione extraconiugale col fiorentino Niccolò Acciaiuoli († 1365), senescalco del regno. Da nessuna di queste unioni Giovanna ebbe figli e ciò determinò gravi ripercussioni politiche. Inizialmente, la regina aveva pensato di designare come erede il nipote, Carlo d’Angiò-Durazzo, esponente del
ramo durazzesco della stirpe angioina, oltre che marito della nipote Margherita d’Angiò († 1412). Le cose, però, non andarono secondo i progetti della sovrana e tutto si complicò a seguito del «grande scisma». Nel 1378, dopo il ritorno dei papi a Roma dall’«esilio» avignonese, vennero eletti due pontefici, Urbano VI e Clemente VII, che si stabilirono, con le rispettive curie, a Roma e ad Avignone (vedi box a p. 98). Seguendo l’esempio della Francia e di altri regni europei, Giovanna riconobbe Clemente come papa legittimo, sebbene Urbano VI fosse suo suddito, perché di origine napoletana. Urbano scomunicò e depose Giovanna, offrendo la corona al nipote, Carlo di Durazzo. La regina, a sua volta, diseredò Carlo e designò erede Luigi, duca d’Angiò, fratello del re di Francia Carlo V (1364-1380). La reazione di Carlo di Durazzo fu immediata: nel 1381 occupò Napoli e fece
Napoli, Duomo (S. Maria Assunta). La lunetta che sormonta il portale centrale, con sculture di Antonio Baboccio da Piperno che raffigurano i santi Pietro e Gennaro e il cardinale Minutolo adorante ai lati della Madonna col Bambino, opera di Tino da Camaino. XIV sec.
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IL PAPATO AVIGNONESE Nel 1305, all’indomani della morte di papa Bonifacio VIII (1294-1303) e di quella del suo successore, Benedetto XI (1303-1304), dopo circa undici mesi di vacanza, il conclave elesse papa l’arcivescovo di Bordeaux, Bertrand de Got, che assunse il nome di Clemente V (1305-1314). Guascone di lingua e cultura «francese» – e non appartenente al collegio cardinalizio – Bertrand si pose sotto la protezione del re di Francia, Filippo IV il Bello (1285-1314) e, consacrato nel duomo di Lione, fissò lí la sua residenza fino al 1309, quando decise di stabilirsi ad Avignone, in Provenza, presso il locale palazzo episcopale. La città francese fu sede del papato e della curia pontificia dal 1309 fino a quando, nel 1377, papa Gregorio XI (1370-1378), non decise di trasferirsi a Roma ponendo fine, cosí, a quel periodo della storia della Chiesa noto come «cattività» o «esilio babilonese», in ricordo della permanenza in Mesopotamia degli antichi Israeliti. Avignone, città di 40 000 abitanti situata alla confluenza del Rodano con la Durance, fu annessa al demanio regio nel 1226,
prigioniera la zia, ordinandone la reclusione nel castello di Muro Lucano, dove, un anno piú tardi, la fece probabilmente sopprimere.
Fine di una dinastia
La morte di Giovanna I segnò il momento piú basso nella storia degli Angioini. Il nipote, Carlo, si impossessò della corona con l’appoggio del papa, ma, già nel 1383, dovette affrontare l’invasione dell’altro pretendente, il duca d’Angiò Luigi I, che morí a Bari nel 1384. Nel frattempo, il nuovo re ruppe con Urbano VI, che lo scomunicò e privò del trono, e fu imprigionato, da Carlo, nel castello di Nocera – presso Salerno –, da cui riuscí a fuggire, trovando rifugio a Genova. Carlo si trasferí poi in Ungheria, dove tentò di impossessarsi anche del trono magiaro, poiché, nel 1382, alla morte di Luigi il Grande, il regno era passato al genero Sigismondo († 1437), duca di Lussemburgo, e si era interrotta la successione angioina. Nel 1386, prima che potesse stabilmente insediarsi nel regno, Carlo fu assassinato e cosí l’Ungheria andò a Sigismondo. Intanto, a Napoli, il trono passò al figlio di Carlo – Ladislao – sotto la reggenza della madre, 96
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all’epoca della «crociata» contro gli Albigesi. Intorno al 1290, entrò a far parte della contea di Provenza che, con quella d’Angiò, era fra i possedimenti francesi della dinastia angioina che governava il regno di Napoli. Il trasferimento ad Avignone della corte papale rappresentò per la città una straordinaria opportunità di crescita economica ed edilizia. I cardinali e i funzionari pontifici vi si trasferirono facendovi edificare le loro sontuose dimore. Tra gli edifici che si possono tuttora ammirare, spicca il Palazzo dei Papi – attualmente nella lista del Patrimonio mondiale dell’Umanità – magnifico esempio di «architettura gotica», edificato tra il 1334 e il 1360. Dopo il ritorno dei papi a Roma, nel 1377, Avignone fu affidata al governo di un cardinale-legato e il palazzo entrò in uno stato di progressivo abbandono. La città e il suo contado rimasero un’enclave pontificia in terra straniera fino al 1792, quando furono occupati dalle truppe rivoluzionarie, che li ricongiunsero alla Francia.
Margherita. La situazione del regno era caotica, dopo che Luigi II d’Angiò († 1417), figlio del primo pretendente, aveva occupato gran parte del Paese, relegando il giovane Ladislao nelle estreme propaggini della Calabria. Il piccolo re, inoltre, dovette anche rinunciare a ogni pretesa sul trono ungherese, concentrandosi nella riconquista di Napoli, che lo impegnò per oltre dieci anni. Nel 1399, Ladislao riuscí a entrare nella «sua» capitale e a essere incoronato re, anche grazie all’appoggio del papa, Bonifacio IX (1389-1404) – il napoletano Pietro Tomacelli –, che aveva disconosciuto Luigi II. Gli anni successivi furono impiegati a pacificare il regno con continue campagne contro i riottosi baroni che continuavano a sostenere Luigi II, tra i quali spiccava il potente principe di Taranto, Raimondo Orsini del Balzo. Morto nel 1406, sua moglie, Maria d’Enghien († 1446), contessa di Lecce, si mise alla testa del principato e non abbandonò la resistenza, finché non fu persuasa a sposare Ladislao, diventando regina. Il re incorporò cosí nel demanio regio sia la contea di Lecce che il principato tarantino. Negli anni a seguire, Ladislao fu impegnato in conflitti inter-
Avignone. Il cortile interno del Palazzo dei Papi. Costruito a partire dal 1335, in meno di vent’anni, è essenzialmente opera di due papi, Benedetto XII e il suo successore Clemente VI. Ospitò i pontefici della Chiesa d’Occidente fino al 1377, anno in cui ebbe fine la cosiddetta «cattività avignonese».
minabili per espandere i confini del regno in direzione dell’Italia centrale. Con il pretesto di proteggere il papa legittimo che risiedeva a Roma, nella complicata fase dello scisma, il re di Napoli occupò il Lazio e l’Umbria, minacciando le città toscane ed emiliane che si coalizzarono, costituendo la lega antiangioina. Scomunicato da papa Giovanni XXIII (1410-1415) – il napoletano Baldassarre Cossa – e sconfitto dalle milizie angioine di Luigi II – tornato a invadere il regno – Ladislao dovette sottomettersi, nel 1413, evacuando i territori occupati. Il re si spense nel 1414 e, non avendo avuto figli, designò a succedergli la sorella, Giovanna II (1414-1435). Il regno di Giovanna II, attraversato da guerre e crisi dinastiche, fu la vera e propria parabola conclusiva della lunga stagione del governo angioino. Sia per nome che per stile di vita, la nuova regina richiamò alla mente dei contemporanei l’infelice Giovanna I. Come lei, si circondò di personaggi mediocri e, in genere, inaffidabili, mentre le sue scelte sentimentali contribuirono ad accrescere l’instabilità generale del regno. Imprigionò la cognata Maria d’Enghien con i figli da lei avuti dal primo matrimo-
nio e solo nel 1420, dopo l’esborso di un enorme riscatto, acconsentí a rimetterli in libertà, restituendo loro i feudi. Morto il primo marito, Guglielmo d’Asburgo († 1406), Giovanna contrasse nuove nozze con Giacomo di Borbone, marchese de La Marche († 1438), un avventuriero francese. Questi, non disposto a rassegnarsi al ruolo di «principe consorte», rivendicò ben presto i pieni poteri e iniziò a cospirare con la collaborazione dei numerosi baroni, di origine francese, giunti a Napoli al suo seguito. Nel 1415, dopo aver assassinato l’amante della regina, Pandolfello Piscopo – gran camerario del regno – la relegò in Castel Nuovo, estromettendola, di fatto, dall’esercizio delle sue funzioni. Solo nel 1418, grazie alla reazione della nobiltà partenopea, Giacomo fu cacciato e Giovanna riacquistò la libertà. Da quel momento, pur senza aver mai ottenuto l’annullamento del secondo matrimonio, la regina si legò al gran senescalco del regno, Sergianni Caracciolo († 1432), ma dall’unione non ebbe alcuna discendenza. Nel 1421, Giovanna adottò e designò come erede il re d’Aragona, Alfonso V (1416-1458), che giunse a Napoli e prese alloggio in Castel GRANDI DINASTIE
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Gli Angioini
A sinistra miniatura raffigurante una delle riunioni del Concilio di Costanza, da un’edizione della Cronaca del Concilio di Costanza di Ulrich Richental. 1438 circa. Praga, Biblioteca Nazionale.
LO SCISMA Il ritorno dei papi a Roma dopo la lunga «cattività avignonese» (1309-1377) non pose fine ai problemi che dilaniavano la cristianità. Nel marzo del 1378, morto il papa che aveva riportato la sede a Roma – Gregorio XI, al secolo Pierre Roger de Beaufort – i cardinali si divisero sulla nomina del suo successore. I Francesi, infatti, ambivano a veder eletto papa uno di loro, capace di garantirne meglio le posizioni di potere presso la curia e cosí, non riconosciuta l’elezione di Urbano VI – Bartolomeo Prignano (1378-1389), già vescovo di Acerenza e Bari – si trasferirono a Fondi, dove elessero il francese Clemente VII – Roberto di Ginevra (1378-1394), già vescovo di Thérouanne e Cambrai – che trasferí la sede pontificia ad Avignone, sotto la protezione della Francia, mentre Urbano restava a Roma. Ebbe cosí inizio il «grande scisma»,
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cioè la lacerazione della Respublica Christiana in due «obbedienze» distinte, mentre i papi in carica non esitarono a scomunicarsi reciprocamente. I Paesi europei, infatti, riconobbero come papa solo uno dei due contendenti, giurando fedeltà all’uno o all’altro. Nel 1409, la situazione si complicò perché, a seguito di un nuovo conclave tenuto a Pisa, riunito con l’obiettivo di sanare lo scisma, fu eletto un terzo papa, Alessandro V (1409-1410) – Pietro di Candia, già vescovo di Milano – e i papi in carica divennero tre! Solo nel 1414, con la convocazione del concilio ecumenico di Costanza, a opera del re d’Ungheria e imperatore, Sigismondo di Lussemburgo, con l’elezione a papa del cardinale Oddone Colonna – che assunse il nome di Martino V (1417-1431) – e la deposizione degli altri papi, fu possibile ricomporre lo scisma.
Nuovo, mentre la regina fissò a Castel Capuano la sua residenza. Tuttavia, l’autoritarismo di Alfonso e i pessimi rapporti con Giovanna degenerarono presto in guerra civile, proprio come ai tempi di Giacomo. Nel 1423, la regina tornò sui suoi passi, diseredò Alfonso e designò come erede Luigi III d’Angiò († 1434), figlio del secondo pretendente francese, che decise di invadere il regno per ottenere quanto gli sembrava dovuto. La guerra tra Alfonso e Luigi III imperversò fino al 1425, quando l’Aragonese abbandonò Napoli e ritornò in Spagna. Durante la guerra, nel 1424, presso l’Aquila morirono, a poca distanza l’uno dall’altro, due dei piú celebri capitani di ventura dell’epoca: Braccio da Montone e Muzio Attendolo Sforza.
Il primo – già signore di Perugia – si era schierato dalla parte di Alfonso, al quale intendeva portare aiuto penetrando in Abruzzo, il secondo – gran conestabile del regno – era schierato dalla parte della regina e l’Angioino. Nel 1432, anche Caracciolo fu assassinato e ciò contribuí ad aumentare l’isolamento umano e politico di Giovanna che pensò bene di richiamare Alfonso e di diseredare Luigi III. Nel 1434, però, la regina cambiò nuovamente idea e, morto nel frattempo Luigi III, ne adottò il fratello, Renato († 1480). L’anno successivo Giovanna morí e il regno sprofondò in una seconda lunga guerra tra Alfonso d’Aragona e Renato d’Angiò, che si concluse solo nel 1442, con l’ingresso trionfale, a Napoli, dell’Aragonese.
Napoli, basilica di S. Chiara, Coro delle Clarisse. Frammento di un affresco della Crocifissione, attribuito a Giotto, che decorò le pareti della chiesa nel 1326. Le pitture furono quasi totalmente distrutte fra il 1604 e il 1611. Le parti superstiti vennero scoperte grazie a restauri condotti negli anni Cinquanta del Novecento. GRANDI DINASTIE
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Mezzogiorno aragonese Sul finire del Medioevo, l’egemonia angioina cade sotto i colpi dei d’Aragona. Saranno i protagonisti della casata d’origine castigliana – primo fra tutti il re Alfonso il Magnanimo – a riunire, in un unico, grande impero mediterraneo, territori e popoli tra i piú diversi. E a fare di Napoli una capitale della cultura architettonica, artistica e letteraria
L
a conquista del regno di Napoli da parte di Alfonso V d’Aragona va inserita nel piú ampio contesto politico italiano della prima metà del XV secolo, caratterizzato dalla formazione degli «Stati regionali», che determinò un’incisiva semplificazione dell’assetto politico-territoriale della Penisola. Alfonso V, detto «il Magnanimo», venne incoronato re nel 1416, dopo la morte del padre, Ferdinando I (1412-1416), fondatore di una dinastia – i Trastamara d’Aragona – di origine castigliana. A quell’epoca appartenevano ai possedimenti aragonesi anche la Sardegna e la Sicilia: la prima era stata ceduta all’Aragona dal papato col trattato di Anagni, nel 1295; mentre la seconda
Napoli, Arco Trionfale di Castel Nuovo. Il rilievo dell’attico nella sezione dell’arco inferiore, che raffigura l’ingresso trionfale in città di re Alfonso, ritratto come un conquistatore romano su un carro tirato da quattro cavalli. XV sec. 100
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Gli Aragonesi
Napoli. La fortezza medievale di Castel Nuovo, denominata anche Maschio Angioino, uno dei monumenti simbolo della città, con la mole delle torri di Mezzo e di Guardia che affiancano l’Arco Trionfale. si era definitivamente staccata dal resto del Mezzogiorno – retto dalla dinastia dei conti d’Angiò – nel 1302, quando la pace di Caltabellotta pose fine al lungo periodo di guerre – tra Angioini e Aragonesi – iniziato con la rivolta del Vespro (1282): da quel momento la Sicilia costituí un «regno autonomo» retto da un ramo collaterale della dinastia d’Aragona. Nel 1409, quando quest’ultimo si estinse, l’Aragona provvide all’annessione diretta dell’isola. Della corona d’Aragona facevano parte anche la contea di Catalogna – incorporata dopo le nozze tra la regina Petronilla (1137-1173) e il conte Raimondo Berengario IV (1131-1162) – e il regno di Valenza, sottratto ai Mori nel 1238. Nel 1435, alla morte di Giovanna II d’Angiò, Alfonso iniziò la conquista del regno di Napoli, adducendo a pretesto l’adozione che la regina, priva di discendenza, aveva disposto in suo favore. Tuttavia, un anno prima di morire, Giovanna aveva revocato l’adozione, designando erede Renato, duca d’Angiò e conte di Provenza (1434-1480), potente vassallo del re di Francia, con cui il Magnanimo avrebbe dovuto fare i conti.
Un voltafaccia inaspettato
La guerra di successione al trono di Napoli volse inizialmente a favore di Renato d’Angiò che riuscí a insediarsi nella capitale del regno, contando sull’appoggio militare e finanziario dello Stato pontificio, della Firenze medicea, della repubblica veneziana e del duca di Milano, Filippo Maria Visconti (1412-1447). Nell’agosto del 1435, sconfitto al largo di Ponza dalla flotta di Genova – all’epoca sottomessa al Visconti –, Alfonso venne fatto prigioniero e consegnato al duca di Milano. Nell’occasione avvenne un fatto tuttora inspiegabile: il duca Filippo cambiò improvvisamente bandiera e si schierò dalla parte di Alfonso, che fu liberato dietro l’esborso di un riscatto di 30 000 ducati. Lo Sforza mise a disposizione dell’Aragonese il potenziale militare del ducato di Milano e, grazie a questa alleanza, nel giugno del 1442, le truppe aragonesi riuscirono a penetrare nella città di Napoli, sfruttando i vecchi acquedotti, costringendo Renato alla fuga. Il 26 febbraio del 1443, Alfonso fece il suo ingresso trionfale, per la Porta del Mercato, in quella che sarebbe divenuta la futura capitale dei suoi domini, su un carro tirato da quattro 102
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Gli Aragonesi
cavalli, abbigliato da conquistatore romano, come si vede negli splendidi rilievi, di gusto classicheggiante, dell’arco di trionfo scolpito nelle mura del Castel Nuovo, opera degli scultori dalmati Francesco († 1502), e Luciano Laurana († 1479; vedi box alle pp. 108-109). Entrato in città, Alfonso – I di Napoli – la elesse a sede del suo governo e non fece piú ritorno in Aragona. La Sardegna e la Sicilia furono governate da viceré da lui nominati, mentre il governo dell’Aragona fu affidato alla moglie, Maria di Castiglia († 1458). Nello stesso anno, il Magnanimo stipulò la pace con il papa, Eugenio IV (1431-1447), e si impegnò ad adempiere ai consueti doveri feudali dei re di Napoli nei confronti della Santa Sede, corrispondendole un censo di 8000 once d’oro e rispettando l’autonomia di Benevento, Terracina e Pontecorvo, vere e proprie enclave papali all’interno del regno. Il papa riconobbe Alfonso 104
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come re, garantendogli il diritto di designare il figlio naturale Ferrante – che fu prontamente «legittimato» – come successore.
Un conflitto senza sbocchi
Negli anni seguenti, Alfonso si dedicò alla riorganizzazione burocratico-amministrativa del regno, ma, nel 1447, alla morte dell’alleato Filippo Visconti, pretese per sé il ducato milanese, nel frattempo conquistato dal genero del Visconti, il condottiero Francesco Sforza (14501466), fondatore di una nuova dinastia ducale. Assieme a Firenze e a Venezia, Alfonso mosse guerra allo Sforza, senza però conseguire alcun risultato significativo e cosí, a Lodi, il 9 aprile 1454, i contendenti firmarono la pace, ponendo fine a circa mezzo secolo di guerre tra gli Stati italiani. Nel marzo dell’anno successivo fu costituita la Lega italica – sotto la «presidenza» (segue a p. 108)
Sulle due pagine particolari di due rilievi collocati sull’Arco Trionfale di Castel Nuovo. In alto, il rientro vittorioso di re Alfonso con i suoi soldati; nella pagina accanto, il sovrano con alcuni congiunti e ufficiali in partenza per la guerra.
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In principio fu «il Giusto» FERDINANDO IL GIUSTO 1380-1416 Re di Aragona, Valencia, Sardegna, Corsica, Maiorca e Sicilia, Reggente di Castiglia Giovanni II = Maria di Trastamara di Trastamara 1397-1479 1396-1445 Re di Castiglia
Enrico di Trastamara 1400-1445
Leonello = d’Este 1407-1450 Marchese di Ferrara
Trogia Gazzella =
Alfonso II 1448-1495 Re di Napoli
=
Maria di Trastamara 1425-1449
Ippolita Maria Sforza
=
Maria = di Castiglia 1401-1458
Alfonso I = «il Magnanimo» 1394-1458 Re d’Aragona, Valencia, Sardegna, Maiorca, Sicilia, Corsica, Gerusalemme, Ungheria e Napoli
Isabella di Chiaromonte 1424-1465 Principessa di Taranto
Ercole I d’Este 1431-1505 Duca di Ferrara
ELEONORA D’ALBUQUERQUE 1374-1435
=
=
Giraldona Carlino
Ferdinando I 1424-1494 Ra di Napoli
Eleonora di Trastamara 1450-1493
=
Giovanna di Trastamara 1455-1517
Federico di Trastamara 1452-1504
In questa pagina, dall’alto, a sinistra, in senso orario dipinti e medaglie che ritraggono Ferdinando I d’Aragona, detto il Giusto; Eleonora d’Albuquerque; Alfonso I, re di Napoli; Federico d’Aragona; Alfonso d’Aragona, duca di Calabria.
Ferdinando II 1469-1496 Re di Napoli Goffedo Borgia 1481-1517
=
Sancia d’Aragona 1478-1506
Alfonso = d’Aragona 1481-1500
=
Giovanna di Trastamara 1478-1518
Pietro di Trastamara 1472-1491
Lucrezia Borgia 1480-1519
Gian Galeazzo Sforza 1469-1494 Duca di Milano
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=
Isabella di Trastamara 1470-1524
A destra dritto e rovescio di un ducatone d’oro di Alfonso I d’Aragona. XV sec. Padova, Musei Civici. In basso l’11 settembre 1477 Giovanna d’Aragona entra a Napoli, via mare, e in questa miniatura, quasi coeva, sono raffigurati il Castel Nuovo e il Molo Grande con l’arrivo delle barche, dall’edizione della Cronaca del Ferraiolo conservata presso la Pierpont Morgan Library di New York. 1498 circa.
Pietro di Trastamara 1406-1438
Eleonora di Trastamara 1400-1445 Regina del Portogallo
Eleonora di Trastamara 1450-1493
Ladislao Jagellone 1456-1516 Re di Boemia e Ungheria
Beatrice d’Este
Giovanni II il grande 1397-1479 Re di Navarra, Aragona, Valencia, Sardegna, Maiorca e Sicilia
=
Giovanna Enriquez 1425-1458
Ferdinando II il Cattolico 1452-1516 Re di Navarra, Aragona, Valencia, Sardegna, Maiorca, Sicilia e Napoli
Carlo di Trastamara 1480-1486
Giovanni di Trastamara 1456-1485
Isabella d’Este
Sancho di Trastamara
=
Beatrice di Trastamara 1457-1508
Francesco di Trastamara 1461-1486
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Gli Aragonesi
del papa –, una vasta confederazione politicomilitare che aveva il compito di mantenere la pace tra gli Stati della Penisola contro eventuali aggressioni esterne e di preservare la sicurezza interna – in caso di conflitto tra i membri –, favorendo il ricorso all’arbitrato.
Un argine contro i Turchi
Il Magnanimo si adoperò anche per contenere l’espansione turca nei Balcani che, proprio in quegli anni, dopo la presa di Costantinopoli (1453) e la fine dell’impero d’Oriente, era divenuta sempre piú preoccupante. Poiché la minaccia turca poteva estendersi all’Italia, Alfonso, nel 1451, con il trattato di Gaeta, si alleò con il principe d’Albania – Giorgio Castriota († 1468) –, fornendogli aiuti militari e finanziari contro gli Ottomani. Nel 1458, poco prima di morire, il re dettò le disposizioni per la sua successione e stabilí che Aragona, Sicilia e Sardegna andassero a suo fratello, Giovanni II (1458-1479), e il regno di Napoli al figlio, Ferrante (1458-1494). Da quel momento, il Mezzogiorno peninsulare fu pertanto separato dalle isole e dai possedimenti iberici della Corona d’Aragona. La successione al trono napoletano di Ferrante fu inizialmente approvata anche da papa Callisto III (1455-1458) – al secolo Alfonso Borgia –, suddito valenzano di cui Alfonso aveva favorito l’elezione. Ferrante – che assunse il nome di Ferdinando I – era nato da una relazione extra108
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RINASCIMENTO NAPOLETANO In epoca aragonese Napoli fu al centro di un vero e proprio Rinascimento, che riguardò l’intera società nel suo complesso. Mentre si perfezionavano le istituzioni politiche, la corte divenne un serbatoio di creatività e dinamismo culturale, allineandosi a quanto andava avvenendo nel resto della Penisola con la «riscoperta» della civiltà classica e dei suoi valori. La capitale fu urbanisticamente rinnovata, grazie all’apporto di ingegni come l’architetto catalano Guillermo Sagrera († 1454), incaricato da Alfonso di ricostruire il Maschio Angioino, danneggiato dopo la guerra di successione nel regno. Proprio grazie al Sagrera, il Maschio assunse la conformazione attuale, con planimetria trapezoidale e le caratteristiche torri circolari. La cinta urbana fu ampliata verso est, inglobando sobborghi prima ubicati al di fuori delle mura, e furono perfezionate le difese con la riedificazione, sulla costa, di Castel dell’Ovo e della Torre di S. Vincenzo e, sulla collina del Vomero, di Belforte – attuale castello di S. Elmo – che domina la città. La bellezza della capitale aragonese è visibile grazie al dipinto a olio, realizzato su legno, e noto come Tavola Strozzi – oggi conservato al Museo Nazionale di S. Martino –, che è tra le piú antiche immagini di Napoli vista dal mare. Molto probabilmente la Tavola serviva da spalliera da letto e fu donata a Ferrante, intorno al 1473, dal finanziere fiorentino Filippo Strozzi († 1491). Se non sussistono dubbi sulla committenza, non è ancora chiaro a chi vada attribuito il dipinto, se al pittore toscano Francesco Rosselli († 1513 circa) o a un esponente della «Scuola Napoletana». Riguardo al soggetto rappresentato sulla Tavola, non si può escludere che si tratti della flotta aragonese, al suo ritorno in porto, dopo la battaglia di Ischia del 1465.
Il Rinascimento napoletano riguardò anche la letteratura in latino e in volgare, e illustri personalità della cultura si trasferirono a Napoli, presso la corte, per prestare servizio nella burocrazia regia. Da ricordare Antonio Beccadelli († 1471) – detto il Panormita – fondatore dell’Accademia Napoletana, meglio conosciuta come «Pontaniana», da Giovanni Pontano († 1503), che ne assunse la direzione dopo la morte di Beccadelli. Mentre il Panormita fu autore di una raccolta di epigrammi erotici e di un’opera storica dedicata al Magnanimo – De dictis et factis Alphonsi regis – il secondo, invece, scrisse trattati politici – De principe, De fortuna – e poemi allegorici e didascalici come il De Hortis Hesperidum. Da ricordare anche Jacopo Sannazzaro († 1530), autore del poema idillico-pastorale Arcadia, in lingua volgare, e Lorenzo Valla († 1457) – autore della nota De falso credita et ementita Constantini donatione –, in cui smascherò come falsa la «Donazione di Costantino», e fu, per qualche tempo, ospite alla corte aragonese come segretario particolare del Magnanimo. A questi va attribuita anche la fondazione dell’Università di Catania e la costituzione della «Biblioteca Aragonese» – custodita a Castel Nuovo –, ricca di manoscritti in latino e in volgare, di cui il re aveva disposto la trascrizione, a uso della corte, e che andarono in gran parte dispersi nel 1495, dopo la conquista di Napoli a opera dei Francesi. La gran parte dei codici superstiti è oggi conservata nelle Biblioteche nazionali di Parigi e Valenza.
In alto, sulle due pagine la celebre Tavola Strozzi, olio su tavola di incerta attribuzione, che raffigura una rara immagine della Napoli del Quattrocento. XV sec. Napoli, Museo Nazionale di San Martino. Qui sopra miniatura su pergamena raffigurante l’abate Antonio Beccadelli, detto il Panormita, mentre spiega diritto canonico. Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana.
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Gli Aragonesi A sinistra Saepinum (Sepino, in località Altilia, Campobasso). La faccia interna di Porta Boiano, che si apre a una delle estremità del decumano massimo, il cui tracciato ricalca quello del tratturo Pescasseroli-Candela. Sulle due pagine particolare di una delle mappe disegnate dagli agrimensori Antonio e Michele Nunzio per l’Atlante delle locazioni della Dogana delle pecore di Foggia. 1686-1697.
coniugale tra Alfonso e una donna di origine catalana, Giraldona Carlino. L’assenza di Maria di Castiglia da Napoli, infatti, aveva incoraggiato Alfonso a ripetuti tradimenti, il piú noto e romanzato dei quali ebbe per protagonista l’amalfitana Lucrezia D’Alagno († 1479), figlia di Nicola, signore di Torre Annunziata. La donna conquistò il sovrano, che pensò anche di sposarla, chiedendo al papa l’annullamento delle nozze con Maria, ma la richiesta venne respinta.
Un impero mediterraneo
Se si considerano le difficoltà connesse all’amministrazione di un impero cosí esteso e complesso, il bilancio dell’operato del Magnanimo fu senz’altro positivo. Da un punto di vista costituzionale, infatti, i territori e i popoli sotto la sovranità della corona aragonese non costituirono mai un amalgama realmente omogeneo, ma furono piuttosto un’unione personale – nella persona del re – di compagini molto diverse sotto il profilo giuridico e politico: si pensi, solo per fare un esempio, all’esistenza di differenti organi assembleari come le Cortes aragonesi e catalane o i Parlamenti di Napoli, Sicilia e Sardegna. Ogni territorio della corona, quindi, conservò le sue specificità e i suoi organi di governo, in genere preesistenti alla conquista. La costruzione politica alfonsina può, a ragione, essere definita un impero mediterraneo, e non solo sotto l’aspetto istituzionale, ma anche economico, perché basata sull’integrazione tra differenti aree macroeconomiche, che però con110
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Gli Aragonesi
servarono le proprie specifiche vocazioni produttive. Mentre l’Aragona e la Catalogna esportavano – nel regno di Napoli e nelle isole – lana grezza, cuoio, ferro e pesce, ricevevano, in cambio, grano, vino, olio, armi e carne. Alfonso fu un sovrano attento e straordinariamente «moderno», sensibile anche ai «problemi» economici. Per esempio, in materia di allevamento del bestiame, promosse l’istituzione di organi di controllo e disciplina della transu112
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La mappa della locazione di Casalnovo, tratta anch’essa dall’Atlante di Antonio e Michele Nunzio. 1686-1697.
manza che, all’epoca, era molto diffusa sia in Spagna che in Italia. Il re favorí l’introduzione nella Penisola delle pecore merinos – specie particolarmente diffusa in Marocco –, che fornivano lana di ottima qualità.
Una «Dogana» per le greggi
E in tale ambito si colloca, nel 1447, la fondazione della Regia Dogana della mena delle pecore, un ente pubblico, con sede a Foggia, diretto dal fi-
LOCAZIONI Lesina 1 Procina Lesina Arignano Lago di Lesina Casalvecchio San Andrea 2 Casalnuovo Castelnuovo 5 Candelaro Procina 3 Castiglione San Tressanti 23 4 Severo Pontalbanito Montagna di Cave Monte Sant’Angelo Lucera Orta Ordona Feudo 7 10 Corleto Foggia Vallecannella 6 Salsola Manfredonia San Giuliano Salpi 9 Trinità 8 Canosa 11 Orta Camarda Tressanti Andria 13 12 Guardiola
RE
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Confini della dogana
18 Cerignola Trinità 15 19 Canosa 20 22
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Minervino
Tratturi
nanziere catalano Francesco Montluber, che aveva il compito di disciplinare la transumanza del bestiame lungo i tratturi che conducevano dai pascoli estivi dell’Appennino abruzzese a quelli invernali del Tavoliere. La Dogana reprimeva l’abigeato, riscuoteva la «fida», cioè l’imposta dovuta – in proporzione al tipo e alla quantità di bestiame al pascolo – dagli allevatori e giudicava le vertenze tra questi e i proprietari dei fondi su cui passavano le greggi.
Morto Alfonso, gli successe il figlio Ferdinando destinato a diventare, assieme a Lorenzo il Magnifico (1469-1492), signore di Firenze, protagonista indiscusso della politica italiana della seconda metà del Quattrocento. Sovrano di uno degli Stati piú vasti e popolosi della Penisola, Ferdinando fu ufficialmente incoronato re il 4 febbraio del 1459, nella cattedrale di Barletta. Proprio quel giorno, tuttavia, scoppiò una vasta insurrezione, fomentata dai baroni che godevano dell’appoggio del papa, Pio II (1458-1464), al secolo Enea Silvio Piccolomini. Il pontefice, per prima cosa, revocò il testamento di Alfonso e la legittimazione di Ferrante, che tornava perciò a essere un «bastardo» senza pretese dinastiche. I baroni riconobbero re Giovanni d’Angiò († 1470), figlio del pretendente Renato, che giunse nel Mezzogiorno con un proprio esercito per dare loro man forte: iniziava cosí una guerra destinata a protrarsi per circa cinque anni. Inizialmente sconfitto a Sarno, nel 1460, grazie all’aiuto militare fornito dall’albanese Giorgio Castriota Scanderbeg, nell’agosto del 1462 Ferdinando ottenne una grande vittoria a Troia di Puglia, annientando le forze ribelli. L’Angioino
In alto mappa delle 23 locazioni, cioè dei lotti principali, in cui fu diviso il territorio del Tavoliere, adibito al pascolo delle greggi.
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LA CONGIURA DEI PAZZI Nel 1478, Lorenzo il Magnifico rifiutò a papa Sisto IV – al secolo Francesco della Rovere – un prestito per l’acquisto – dal duca di Milano – di Imola che, assieme a Forlí, avrebbe dovuto costituire un appannaggio per suo nipote, Gerolamo Riario († 1488). Quando il Magnifico si oppose anche alla nomina di Francesco Salviati ad arcivescovo di Firenze, il pontefice decise di reagire. Innanzitutto privò i Medici dello sfruttamento dei giacimenti di allume di Tolfa, presso Civitavecchia, e, poi, gli sottrasse l’incarico di banchieri ufficiali della Santa Sede. Tali privilegi furono invece attribuiti alla famiglia fiorentina dei Pazzi – da sempre oppositori dei Medici –, da cui il papa ottenne il danaro necessario per acquistare Imola e costituire un ducato per il nipote. Fu poi deciso di organizzare una congiura per eliminare fisicamente il Magnifico, sfruttando la collaborazione dei Pazzi e dell’opposizione fiorentina repubblicana e antimedicea. Alla congiura aderirono anche Siena e il duca di Urbino, Federico da Montefeltro (1444-1482), uno dei massimi condottieri dell’epoca. Il piano scattò il 26 aprile 1478, in occasione della messa tenuta a Firenze, in S. Maria del Fiore, dal cardinale Raffaele Riario – altro nipote di Sisto IV – durante la sua visita ufficiale nella città. Nel corso della celebrazione, Lorenzo e suo fratello Giuliano furono aggrediti dai congiurati, e mentre il primo riuscí a fuggire e a trovare rifugio in sagrestia – dove si barricò – il secondo fu ucciso. Il cardinale Riario e gli altri congiurati decisero di sollevare la popolazione contro i Medici e di impossessarsi del governo fiorentino – la «Signoria» – con l’aiuto delle milizie papali, al comando di Giovanni Battista da Montesecco, capitano pontificio, ma il piano fallí e furono tutti arrestati. La reazione medicea fu dura e implacabile, come racconta il Pactianae coniurationis Commentarium, tragico resoconto dei fatti scritto da Angelo Poliziano († 1494). Raffaele Riario fu incarcerato, mentre Francesco Salviati fu impiccato a una finestra di «Palazzo Vecchio»,
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Montesecco fu decapitato e la famiglia Pazzi sterminata, mentre i cadaveri di Iacopo e Francesco de’ Pazzi furono fatti a pezzi dalla folla e gettati nell’Arno. L’ira del Magnifico raggiunse anche Costantinopoli, dove Bernardo Bandini Baroncelli – che aveva colpito mortalmente Giuliano – era fuggito, trovando ospitalità tra gli Ottomani. Bandini venne estradato a Firenze e impiccato a una finestra del Bargello, vestito degli abiti «turchi» che indossava al momento dell’arresto, come si vede in uno schizzo del cadavere realizzato dal giovane Leonardo da Vinci († 1519). L’uccisione dell’arcivescovo Salviati attirò sui Medici la scomunica e, sulla città di Firenze, l’interdetto papale, che imponeva il divieto di intrattenere relazioni commerciali e diplomatiche con chi ne fosse colpito. Ferdinando d’Aragona inviò un esercito in Toscana al comando del figlio Alfonso per impartire ai Medici una dura lezione. Furono occupate Poggibonsi e Colle val D’Elsa e l’indipendenza fiorentina fu seriamente minacciata. Lorenzo decise allora di passare all’azione e, nel novembre del 1479, si imbarcò a Pisa alla volta di Napoli, dove giunse agli inizi di dicembre e fu accolto e ospitato da Ferdinando fino alla primavera successiva. Nel marzo del 1480, il Magnifico ritornò a Firenze, dopo aver concluso una pace proficua con l’Aragonese e aver ottenuto la carica onoraria di camerario del regno. Gli argomenti con cui Lorenzo rabboní Ferdinando furono probabilmente di natura finanziaria, ma è certo che il re decise di evacuare la Toscana, nonostante le proteste del papa, e, poco tempo dopo, anche la scomunica e l’interdetto furono revocati. I rapporti tra Napoli e Firenze continuarono a essere buoni fino alla morte del Magnifico, avvenuta l’8 aprile del 1492. Tali buoni rapporti sono confermati anche dalla cosiddetta Raccolta Aragonese, vasta antologia di liriche di poeti toscani – di cui sopravvivono manoscritti nelle biblioteche nazionali di Parigi e Firenze – che, con lettera di accompagnamento vergata dal Poliziano, fu inviata al re di Napoli dal signore di Firenze.
Nella pagina accanto dritto e rovescio della medaglia della congiura dei Pazzi, realizzata in bronzo da Bertoldo di Giovanni e Andrea Guazzalotti nel 1478 per celebrare l’evento sanguinoso avvenuto a Firenze il 26 aprile del medesimo anno. Vi sono raffigurati i vari episodi della rivolta e si notano i profili di Lorenzo de’ Medici e del fratello Giuliano, quest’ultimo ucciso dai congiurati durante i tumulti. resistette a Ischia fino al 1465, quando, dopo una battaglia combattuta al largo delle coste dell’isola, fu costretto ad abbandonare il regno e a tornarsene in Francia. Nel 1463, l’uccisione di uno dei ribelli, il principe di Taranto Giovanni Antonio Del Balzo-Orsini – probabilmente su mandato del re – consentí a Ferdinando di annettere il piú vasto e potente dominio feudale del regno.
Un’intensa attività diplomatica
Pacificato il Paese, il sovrano si concentrò nell’opera di consolidamento delle istituzioni amministrative, non senza trascurare la politica estera, che fu il suo grande banco di prova. Infatti, nel 1468 – alla morte del Castriota – l’Albania venne conquistata dai Turchi e, in quella occasione, Ferdinando concesse ospitalità a molti profughi albanesi – le cui comunità sussistono ancora oggi – tra i quali era anche Giovanni Castriota († 1514), figlio del principe albanese, a cui assegnò la contea di Monte S. Angelo. Ferdinando consolidò inoltre le relazioni diplomatiche con i potentati della Penisola e strinse solidi rapporti con gli Sforza, dando in sposa al suo primogenito – Alfonso, duca di Calabria – Ippolita Maria Sforza († 1484), figlia del duca di Milano, Francesco, mentre Eleonora († 1493), la figlia che il re aveva avuto dalla prima moglie, Isabella di Chiaromonte († 1465), fu data in sposa a Ercole I (1471-1505), duca di Ferrara. Poco tempo dopo, un’altra figlia, Beatrice († 1508), andò sposa a Mattia Corvino, re d’Ungheria (1457-1490), e si distinse nella promozione di uno dei circoli umanistici piú brillanti dell’epoca. Nel 1473, il re di Napoli profittò della crisi dinastica che attanagliava il regno di Cipro per rivendicare l’isola, ma gli altri Stati italiani gli si coalizzarono contro, spronati da Venezia, che pose la regina cipriota, Caterina Cornaro († 1510), sotto la propria protezione, fino ad annettere l’isola nel 1489. Nel 1475, in occasione del Giubileo, Ferdinando intraprese il consueto pellegrinaggio a Roma, dove stipulò un’alleanza con il nuovo papa, Sisto IV (1471-1484). Proprio negli anni di governo di Ferrante, sembra essersi consolidata l’usanza di pagare il censo dovuto al ponte-
Rilievo in marmo raffigurante il re di Napoli Ferdinando I (Ferrante) d’Aragona a cavallo, da Porta Nolana. XV sec. Napoli, Museo Nazionale di S. Martino.
fice facendolo trasportare da una cavalla bianca, detta «chinea» – dal francese haquenée –, addestrata a inchinarsi quando, in occasione della festività dei Ss. Pietro e Paolo, sarebbe apparsa alla presenza del papa. Nel 1476, rimasto vedovo, il re contrasse nuove nozze con la cugina, Giovanna († 1517), mentre l’assassinio del duca Galeazzo Maria Sforza, a seguito di una congiura, destabilizzava non poco l’equilibrio politico italiano. Al duca di Milano successe il figlio, Gian Galeazzo (1476-1494), presto esautorato dallo zio Ludovico il Moro (14801500), il quale, con la sua politica, contribuí ad allentare i rapporti esistenti tra il ducato lombardo e il regno di Napoli. Nel 1478, Ferdinando fu anche costretto a entrare in guerra contro Firenze, su ordine di Sisto IV, che aveva lanciato l’interdetto sulla città, dopo l’uccisione GRANDI DINASTIE
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dell’arcivescovo di Pisa, implicato in una congiura antimedicea (vedi box a p. 114). Conclusa la pace con Firenze nel 1480, nel luglio dello stesso anno Ferdinando dovette affrontare una nuova emergenza: l’occupazione di Otranto da parte di una flotta ottomana guidata dall’ammiraglio Gedik Ahmed Pascià († 1482). Circa 800 abitanti furono massacrati per non aver voluto abiurare al cristianesimo – canonizzati nel 2013 come «martiri otrantini» – e a nulla valsero i tentativi di arrivare a un accordo con i Turchi. Solo nell’autunno del 1481, alla morte del sultano Maometto II (1451-1481) – il conquistatore di Costantinopoli –, le forze turche si ritirarono, per essere impiegate nella imminente guerra civile tra i discendenti del sultano defunto. Ma le difficoltà maggiori, per il re, dovevano ancora arrivare.
In alto particolare del frontespizio del Libro d’ore di Ferrante d’Aragona. XV sec. Napoli, Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele III. A sinistra Alessio (Albania). Busto del patriota albanese Giorgio Castriota Scanderbeg (1405-1468), collocato sulla sua tombamausoleo.
I baroni in rivolta
Nel 1485 scoppiò una nuova rivolta dei baroni – ben piú pericolosa di quella del 1459 – contro l’eccessiva politica fiscale, causata dalla «guerra di Ferrara» che il regno aveva dovuto combattere contro Venezia (1482-1484), in alleanza col papa. Conclusosi il conflitto con la pace di Bagnolo – che aveva assegnato Rovigo e il Polesine alla Serenissima –, mentre il regno cercava di risollevarsi dallo sforzo bellico, la feudalità insorse per la seconda volta, proprio con l’appoggio del papa, Innocenzo VIII (1484-1492). I baro(segue a p. 123) Nella pagina accanto rilievo in marmo raffigurante Beatrice d’Aragona, regina d’Ungheria. Scuola lombarda, XV sec. Budapest, Magyar Nemzeti Galéria. GRANDI DINASTIE
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Un regno mediterraneo Se nel 1458, dopo la morte del Magnanimo, la Sardegna e la Sicilia furono aggregate all’Aragona e ne seguirono le vicende politiche, sotto il profilo istituzionale il regno di Napoli rimase uno Stato indipendente, e l’azione di Ferrante e dei suoi successori si tradusse nel potenziamento delle competenze dell’amministrazione statale e nell’intenso sforzo di contenimento delle prerogative baronali. I re favorirono l’insediamento di funzionari di origine spagnola, in gran parte di estrazione aristocratica, com’è suggerito dall’onomastica – Avalos, Claver, Guevara, Cardenas, Centelles –, senza però rinunciare ad assumere personale autoctono, di estrazione baronale o borghese, in quest’ultimo caso appartenente al ceto dei giuristi, finanzieri, commercianti. Il ceto funzionariale andò a costituire, accanto alla piú antica nobiltà «di spada», la nuova aristocrazia dei «togati», di estrazione borghese. La presenza di personale burocratico straniero favorí la diffusione di un linguaggio amministrativo e di pratiche cancelleresche – in parte nuove –, ma molti uffici rimasero gli stessi dell’epoca normanno–sveva, sia nelle denominazioni che nelle funzioni. Gli organi del governo centrale furono potenziati e – salvo marginali cambiamenti – assunsero la fisionomia che avrebbero conservato anche durante il viceregno spagnolo. Si ricordino il grande ammiraglio, il vicecancelliere, il pronotaro e gran logoteta, il gran conestabile, ma anche il Sacro Regio Consiglio, la Gran Corte della Vicaria, la Camera della Sommaria e la Tesoreria Generale. A livello periferico il regno di Napoli conservò la ripartizione in dodici province, governate da giustizieri di nomina regia a capo delle regie udienze, organi giudiziari di primo o secondo grado di giudizio, a seconda della gravità dei crimini. Al di sotto di questi organi periferici erano le città – università – suddivise in demaniali e feudali, a seconda che fossero poste sotto la potestà regia o sotto quella di un barone. Le università conservarono, in genere, gli ordinamenti amministrativi precedenti la conquista aragonese e le proprie consuetudini, mentre al vertice delle stesse fu posto un ufficiale – baiulo – di nomina regia o signorile, con compiti di vigilanza delle amministrazioni cittadine, riscossione delle imposte e amministrazione della giustizia nei casi meno gravi non devoluti ai giustizieri. Il sistema tributario fu reso piú efficiente e razionale con l’abolizione delle imposte straordinarie di epoca sveva e angioina – collette – e l’istituzione del focatico, un’imposta diretta che gravava, annualmente, su ogni nucleo familiare del regno – «fuoco» – il cui ammontare fu fissato in 10 carlini. Nel periodo aragonese acquisí una fisionomia sempre piú definita il «Parlamento» napoletano, convocato dal Magnanimo per la prima volta il 28 febbraio del 1443, al momento della conquista di Napoli, al fine di legittimare, con
Il Regno di Napoli in una delle tavole realizzate per il Theatrum Orbis Terrarum sive Atlas Novus di Willem e Joan Blaeu. 1635. Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana. 118
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A CIASCUNO IL SUO SEDILE
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Gli stemmi dei Sedili (o Seggi) di Napoli sulla facciata dell’ingresso del Museo dell’Opera di San Lorenzo. Dall’alto, a sinistra, in senso orario: 1. Capuana trae nome dalla famiglia Capuano e ha come simbolo un cavallo su fondo azzurro; 2. Nilo (o Nido) prende nome dalla statua del fiume posta nell’area occupata in età romana da una comunità di Alessandria d’Egitto e ha come simbolo un cavallo rampante su fondo oro; 3. Porto reca l’immagine di un personaggio che impugna un coltello, identificato con il mitico Orione o, popolarmente, con Cola Pesce; 4. Portanova mostra una porta d’oro su fondo azzurro; 5. Popolo presenta una grande «P», per popolo, su fondo oro e rosso; 6. Forcella vi è scolpita una «Y», che potrebbe alludere a un’antica scuola pitagorica o forse alla forca per le esecuzioni, che si trovava in quella zona; 7. Montagna mostra tre monti verdi su fondo d’argento.
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una specifica delibera in tal senso, il suo insediamento in un regno, frutto di una conquista manu militari. In quella sede, il Magnanimo ottenne anche il riconoscimento delle giuste aspirazioni del figlio Ferrante alla successione. Il Parlamento napoletano era un’assemblea di ceti, specchio della complessa articolazione sociale del regno ed era composto da rappresentanti dell’aristocrazia, del clero e delle università demaniali, che costituivano, deliberando separatamente, i tre Bracci o Statamenti dell’assemblea. Fatte salve le specifiche differenze, esso aveva struttura e funzioni molto simili al Parlamento siciliano e sardo che, però, a partire dal 1458, operavano in un contesto politico diverso, dal momento che le due isole erano state cedute all’Aragona. Il Parlamento elaborava disegni di legge, detti capitoli, da sottoporre all’approvazione del sovrano. L’approvazione del re apposta ai capitoli – espressa attraverso un licet o rifiutata con un non licet – attribuiva a essi forza di legge ed esecutività. Generalmente, il Parlamento otteneva l’approvazione delle proposte normative, accompagnandole col voto di un contributo fiscale straordinario a favore del fisco regio, sempre bisognoso di nuove risorse. Dopo la rivolta baronale del 1459–1462, Ferrante riorganizzò l’ordinamento militare del regno, professionalizzando l’esercito, portando a termine una riforma già intrapresa da suo padre. Infatti, costituí un corpo permanente di cavalieri e fanti – piú di 8000 uomini – stipendiati dal fisco regio, acquartierati sul demanio pubblico e reclutati, prevalentemente, tra i regnicoli, soprattutto napoletani e campani. Il comando supremo di queste truppe, organizzate in unità mobili, denominate «lance» o «barbute» – di circa sei uomini ciascuna – fu affidato al figlio del re Alfonso, duca di Calabria. In tal modo, si «disarmava» la nobiltà feudale e si affidava la difesa del regno e del re – come avveniva anche nel resto d’Europa – a un esercito composto da sudditi del regno e non da truppe mercenarie straniere. Le milizie baronali, pertanto, furono sciolte e la loro funzione limitata, al massimo, alla guardia delle fortezze dei baroni.
Mappa di Napoli nel Seicento, acquaforte del pittore olandese Bastiaen Stopendaal. Amsterdam, 1663. Rispetto alle altre università, la capitale del regno, Napoli, conservò un’organizzazione amministrativa distinta, a suggerire la sua «specialità» e gli enormi problemi inerenti la sua governabilità. Come già in epoca angioina, Napoli continuò a essere ripartita, a fini censuali e amministrativi, in circoscrizioni denominate Sedili – detti anche Seggi, Piazze – abolite in età napoleonica. I Sedili furono in tutto sette: Capuana, Porto, Portanova, Nilo (o Nido), Forcella, Montagna, Selleria (o Seggio del Popolo). Nel XVII secolo, con l’accorpamento di Forcella a Montagna, furono ridotti a sei. Ogni Sedile consisteva in un consiglio composto da rappresentanti delle famiglie baronali che si riunivano in un edificio apposito – detto, appunto, Sedile – per discutere dei problemi amministrativi della corrispondente circoscrizione. Il Sedile del popolo era composto da «borghesi» – il «popolo grasso» – e, come gli altri, prendeva nome dal Largo della Selleria, dov’era la sua sede, ma talvolta si riuniva nel convento di S. Agostino alla Zecca. Il Magnanimo ne dispose la soppressione, ma fu ricostituito nel 1495. Ogni Sedile aveva la sua milizia, un proprio stemma ed eleggeva, tra i suoi componenti, un ufficiale – l’Eletto – che sedeva nel Tribunale di S. Lorenzo, il consiglio comunale dell’epoca. Il Tribunale prendeva il nome dal convento dove avvenivano le riunioni dei sette Eletti che erano presiedute dal Sindaco, designato annualmente dai soli Seggi nobili. La sua giurisdizione si estendeva anche al contado della capitale, ripartito in borghi e casali. Ogni Eletto – tranne quello designato dal popolo – aveva diritto al voto nelle deliberazioni del Tribunale, in materia di mercato e di imposte municipali, riguardanti le transazioni commerciali cittadine. Gli Eletti e il Sindaco partecipavano alle sedute del Parlamento. Il Tribunale, inoltre, esercitava competenze giudiziarie e si occupava della custodia e manutenzione del «Tesoro di S. Gennaro», custodito nel duomo cittadino. GRANDI DINASTIE
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Gli Aragonesi Il castello del Malconsiglio, situato nell’odierno Comune di Miglionico, nella provincia di Matera. Edificato nell’Alto Medioevo, subí numerose ristrutturazioni fino ad assumere l’attuale fisionomia. Fu sede della Congiura dei Baroni nel 1485, rivolta contro i sovrani aragonesi che all’epoca dominavano sul regno di Napoli.
UNA RIVOLTA DI SANGUE BLU L’insurrezione baronale scoppiò all’Aquila, il 26 settembre del 1485, quando il presidio regio fu cacciato dalla città e innalzato lo stendardo pontificio. Rispetto all’insurrezione del 1459, i baroni non candidarono al trono un re straniero – Giovanni d’Angiò era morto nel 1470 –, ma cercarono, seminando discordia nella stessa famiglia reale, di giocare sulla rivalità dinastica tra Alfonso, duca di Calabria e primogenito di Ferrante, e il fratello minore Federico. Queste iniziative, però, non produssero alcun risultato. Ferdinando affidò la repressione ad Alfonso, ottenendo l’aiuto anche di truppe spagnole e ungheresi inviate in soccorso dal cugino, Ferdinando il Cattolico, e dal genero, Mattia Corvino. Utilissimo fu anche l’apporto di Giovanni Castriota, conte di Monte Sant’Angelo. Grazie a questi aiuti, nel maggio del 1486, il duca di Calabria sconfisse a Montorio i ribelli, costringendoli alla pace di Miglionico nel settembre dello stesso anno. Nonostante fosse stata varata un’amnistia generale, il re iniziò a preparare la sua vendetta, com’è raccontato da una delle fonti piú importanti sull’argomento – La Congiura dei Baroni del Regno di Napoli contro il re Ferdinando I – scritta nel 1565 dal giurista napoletano Camillo Porzio († 1580). Ferdinando temporeggiò e il 13 122
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agosto del 1487 invitò i baroni a Napoli, a un banchetto in Castel Nuovo, per annunciare le nozze tra la nipote – Maria Piccolomini – e il figlio del conte di Sarno, uno dei capi della congiura. A un ordine del re tutti i commensali furono arrestati e tradotti in carcere. L’anno successivo un’assise straordinaria, presieduta dal duca di Calabria e da alcuni nobili e docenti universitari, condannò a morte e a lunghe pene detentive i principali responsabili. Alla sentenza seguí la scomunica del papa, poi ritirata nel 1489, a seguito di un nuovo accordo, in base al quale Ferdinando si impegnava a pagare al pontefice un censo maggiore e a concedergli maggiore libertà nell’assegnazione dei benefici ecclesiastici. Le ribellioni che segnarono il regno di Alfonso e quello di Ferrante rappresentarono la reazione del ceto baronale meridionale al tentativo di imbrigliare il potere della feudalità nell’articolazione pubblica del regno. Molto è stato scritto sull’argomento e sugli errori politici commessi dalla Corona nella gestione dei rapporti con l’aristocrazia del regno, ma si deve ricordare che, nei riguardi della feudalità, la Corona si limitò a riconoscere il «mero e misto imperio», cioè le prerogative che già i predecessori angioini avevano concesso e delegato.
ni si posero sotto la guida del conte di Sarno, Francesco Coppola, di Antonello Petrucci, segretario personale del re, e di Antonello Sanseverino († 1499), principe di Salerno. La ribellione, a cui parteciparono i piú importanti esponenti dell’aristocrazia, tra cui il conte di Ariano, il principe di Altamura, il marchese del Vasto e quello di Caggiano, fu domata solo nel 1486 dopo una guerra feroce (vedi box in queste pagine).
Una difficile successione
Domata la rivolta, gli ultimi anni di Ferdinando furono impegnati nel rafforzamento del potere regio e nella creazione di un solido legame tra pezzi di un’unica compagine politica che erano incredibilmente diversi da un punto di vista etno-linguistico, economico e istituzionale (vedi box alle pp. 118-121). Il 25 gennaio del 1494, l’operato del sovrano fu interrotto dalla sua morte improvvisa, che aprí lo spinoso problema della successione al trono, in cui il papa – «signore feudale» del regno – tentò di intervenire. Il nuovo pontefice, Alessandro VI (1492-1503), apparteneva alla famiglia dei Borgia, originaria di Jàtiva, vicino Valenza, e ciò lasciava ben sperare. Il pontefice, infatti, riconobbe come re il figlio di Ferrante, Alfonso (1494-1495), ma pretese per suo figlio, Goffredo († 1517), la mano di Sancia († 1506), figlia naturale del re. Il matrimonio fu
In questa pagina miniature tratte da un’edizione della Cronaca del Ferraiolo oggi conservata presso la Pierpont Morgan Library di New York. 1498 circa. Qui sotto, l’ingresso a Napoli del duca di Calabria Alfonso II nel dicembre del 1486; in basso, il trasporto del cadavere di Elisabetta Vassallo, moglie di Antonello Petrucci, che aveva guidato la Congiura dei Baroni, morta in carcere nel 1486 e sepolta di notte, senza celebrare alcun rito funebre.
In virtú di tale investitura, i baroni disponevano nei loro feudi dei pieni poteri di governo, anche in ambito giurisdizionale, potendo comminare anche condanne a morte. Ciononostante, i re aragonesi tentarono di utilizzare le relazioni feudali come strumento di organizzazione del territorio e di inquadramento delle popolazioni, inserendoli nelle strutture burocratiche dello Stato. Sotto questo punto di vista il regno di Napoli seppe servirsi dell’istituto del feudo – e della connessa delega di poteri – per rafforzare, anziché indebolire, l’autorità
celebrato nello stesso anno, a Roma. A scompaginare i piani del papa, volti alla creazione di un equilibrio diplomatico tra gli Stati italiani, intervenne, però, l’invasione militare del re di Francia, Carlo VIII (1483-1498), che rivendicava il trono di Napoli in nome dei suoi ascendenti angioini. Nel 1480, inoltre, dopo la morte di Renato d’Angiò, i suoi feudi erano stati incorporati nel regno di Francia e, con essi, i diritti di successione del duca sul trono di Napoli. Carlo VIII intervenne in Italia su esplicita richiesta del duca di Milano, Ludovico il Moro, che intendeva sbarazzarsi dello scomodo nipote, Gian Galeazzo, di cui era reggente, per assumere la guida del ducato. Ludovico temeva Alfonso II di Napoli, padre di Isabella d’Aragona, moglie di Gian Galeazzo, che sollecitava l’intervento paterno per liberare il marito trattenuto in stato di semiprigionia a Pavia. Carlo VIII giunse ad Asti in settembre e, poco dopo la sua partenza da Milano, nell’ottobre del 1494, Gian Galeazzo
regia, nonostante sporadici fenomeni di rivolta, peraltro repressi. I vassalli regi – che potevano essere anche enti ecclesiastici – erano tenuti al servizio militare o al pagamento di un’imposta sostitutiva – l’adiutorium – e al pagamento di particolari censi, come il «relievo» in caso di successione ereditaria. Solo con il consenso regio i baroni potevano procedere a ulteriori sub-infeudazioni, nell’ambito dei rispettivi domini, e ogni vassallo era tenuto all’«omaggio ligio» verso il sovrano, dominus supremo. La successione nei feudi, l’alienazione onerosa o gratuita e la costituzione in dote degli stessi erano rigidamente disciplinate, per evitare l’eccessiva dispersione del patrimonio, con conseguente difficoltà ad adempiere agli obblighi verso la curia regis. GRANDI DINASTIE
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fu trovato morto e Ludovico divenne duca. Il re di Francia non trovò ostacoli sul cammino per Napoli e raggiunse Roma nel dicembre del 1494, dopo aver causato la cacciata dei Medici da Firenze e la proclamazione della repubblica. Ottenuta la benedizione del papa per la spedizione, il 23 febbraio del 1495 Carlo entrò a Napoli. Alfonso II aveva abdicato ed era entrato in convento in Sicilia, dove morí poco dopo (1495), lasciando al figlio, Ferrandino (1495-1496) – Ferdinando II – il compito di fronteggiare l’invasione. Ferrandino fuggí a Ischia e poi si imbarcò per la Sicilia, sotto la protezione del re di Spagna. Ma la permanenza dei Francesi a Napoli fu breve, poiché a marzo gli Stati italiani, assieme alla Spagna e all’impero, costituirono la Lega Santa, con il compito di cacciare i Francesi. Carlo fu costretto a riprendere la marcia verso nord e in Emilia, sul fiume Taro, presso Parma, il 7 luglio, i Francesi si scontrarono con le forze della Lega in una battaglia dall’esito incerto, che costò loro molte perdite, costringendoli a ripassare le Alpi. Alla fine del 1496, Ferdinando II, che, anche grazie all’aiuto della Spagna, era riuscito a riconquistare tutto il regno ai Francesi, morí, ma, non avendo avuto figli dalla moglie Giovanna († 1518), il trono passò allo zio, Federico 124
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In alto medaglia con un ritratto giovanile di Lucrezia Borgia, coniata probabilmente a Mantova alla corte di Isabella d’Este. Inizi del XVI sec. A destra L’entrata di Carlo VIII a Napoli, olio su tela del pittore francese Eloi Firmin Féron. 1835. Versailles, Musée national des châteaux de Versailles et de Trianon.
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A destra ducato d’oro raffigurante Galeazzo Maria Sforza, duca di Milano. 1481. Roma, Museo Nazionale Romano alle Terme di Diocleziano. In basso un’altra miniatura tratta dall’edizione della Cronaca del Ferraiolo conservata presso la Pierpont Morgan Library di New York. 1498 circa. Si tratta di un’immagine, per l’epoca inedita del golfo di Napoli e che, sulla sinistra, mostra Torre del Greco, dove le truppe e le artiglierie stanno imbarcando su tre navi da trasporto; sul grande veliero al centro spiccano le bandiere a fasce verticali: si tratta evidentemente della flotta aragonese pronta a fronteggiare quella francese, posta di fronte al Castel Nuovo. I (1496-1501), principe di Altamura. La spedizione di Carlo VIII aveva scosso gli equilibri politici italiani. Papa Alessandro VI sentí il bisogno di sganciarsi dall’alleanza milanese e si avvicinò a Napoli, rafforzando i legami col regno con un nuovo matrimonio tra la figlia Lucrezia († 1519) e Alfonso, duca di Bisceglie († 1500), nipote di Federico. L’intesa tra i coniugi sembrava perfetta, ma una sera di luglio del 1500, il duca di Bisceglie fu trovato morto negli appartamenti pontifici dove era ricoverato dopo aver subito un’aggressione (agosto 1500). L’inchiesta voluta dal
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papa non approdò a nulla, ma le voci popolari individuarono il mandante in Cesare Borgia, figlio del papa († 1507), accecato dalla gelosia per dover condividere con Alfonso il letto della sorella. Ciò determinò una rottura dei rapporti diplomatici tra il papa e il regno di Napoli, aggravata, fra l’altro, dal rifiuto di Federico di dare sua figlia, Carlotta, in sposa a Cesare, che aveva ottenuto dal padre la dispensa dall’osservanza degli obblighi canonici. La Santa Sede si vide perciò obbligata a tessere legami sempre piú stretti col nuovo re di Francia, Luigi XII (1498-1515), che concesse a
In alto ancora una miniatura tratta dall’edizione della Cronaca del Ferraiolo conservata presso la Pierpont Morgan Library di New York. 1498 circa. L’immagine raffigura le truppe francesi di Carlo VIII che fanno il loro ingresso a Napoli.
Cesare Borgia il ducato di Valentinois insieme al comando di un esercito – per conquistare l’Italia centro-settentrionale – e ottenne il via libera all’occupazione di Milano (1500). Occupata Milano, annesso il ducato alla Francia e fatto prigioniero il Moro, Luigi acconsentí a che Isabella d’Aragona, già moglie di Gian Galeazzo, potesse raggiungere lo zio, Federico, che le diede in appannaggio il ducato di Bari, dove morí nel 1524. Non pago di tale conquista, Luigi avanzò pretese su Napoli e, anche in tal caso, il papa dovette cedere.
Gli ultimi fuochi
Nel novembre 1500, a Granada, la Francia siglò un trattato di spartizione di Napoli con i reali di Spagna, Ferdinando (1479-1516) e Isabella (1474-1504), che, tra l’altro, erano imparentati con la dinastia napoletana. Per legittimare la
guerra imminente, il papa scomunicò Federico I († 1504), accusato di intesa con gli «infedeli», poiché arruolava i Turchi tra le sue truppe. L’invasione degli eserciti franco-aragonesi, nel 1501, si concluse con la conquista del regno e la cattura di Federico, il quale, tuttavia, preferí arrendersi ai Francesi che lo fecero duca del Maine. La regina di Napoli, Isabella del Balzo († 1533) si ritirò a Ferrara, mentre il primogenito, Ferdinando († 1550), fu condotto prigioniero in Spagna. Completata la conquista del Mezzogiorno, iniziò una nuova guerra tra Francia e Spagna per dividersi il possesso di Napoli: Luigi XII, sconfitto a Cerignola e sul Garigliano (1503), ratificò l’armistizio di Lione con cui cedeva Napoli agli Spagnoli che trasformarono il regno in vicereame (1504). Il regno rinacque solo quando Carlo di Borbone († 1788), duca di Parma, nel 1734 occupò Napoli e, riunitala alla Sicilia, se ne proclamò re. GRANDI DINASTIE
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VO MEDIO E Dossier n. 29 (novembre/dicembre 2018) Registrazione al Tribunale di Milano n. 233 dell’11/04/2007
Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 - 00187 Roma tel. 06 86932068 - e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (Ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Alessia Pozzato Amministrazione Roberto Sperti amministrazione@timelinepublishing.it L’autore: Tommaso Indelli è assegnista in storia medievale presso l’Università degli Studi di Salerno. Illustrazioni e immagini: Doc. red.: copertina e pp. 8-13, 15, 16-17, 21, 24-25, 27, 29, 30-31, 33-35, 46-51, 55, 56/57, 58/59, 62-63, 64 (alto), 64/65, 66-69, 72/73, 74, 75, 76/77, 81, 83, 98/99, 106-107, 108/109, 110-111, 112/113, 120, 123, 126 (basso), 126/127 – Mondadori Portfolio: pp. 124/125; Leemage: pp. 6/7, 38/39, 82, 84-85, 98, 114, 126 (alto); Album: pp. 23, 26/27, 36/37, 52/53, 54, 59; AKG Images: pp. 37, 38, 43, 80/81, 86/87, 121; Electa/Sergio Anelli: pp. 70/71, 124; Electa/Paolo e Federico Manusardi: pp. 88/89; Veneranda Biblioteca Ambrosiana/Mauro Ranzani: p. 109; Veneranda Biblioteca Ambrosiana/Gianni Cigolini: pp. 118/119 – DeA Picture Library: pp. 18, 32, 93; Galleria Garisenda: p. 20; A. De Gregorio: pp. 60/61 (alto); A. Dagli Orti: pp. 92/93, 115, 117 (alto); G. Dagli Orti: p. 116; C. Sappa: p. 117 (basso) – Shutterstock: pp. 28/29, 40-41, 44/45, 60/61 (basso), 78/79, 90-91, 94-97, 100-105, 122 – Patrizia Ferrandes: cartine alle pp. 14, 74/75, 113 – Cippigraphix: cartina a p. 64. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.
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In copertina: camaleuco di Costanza d’Aragona in oro, argento dorato, smalti, perle e pietre. Palermo, Tesoro della Cattedrale. Il camaleuco (greco kamelaukion) era un copricapo a cuffia di derivazione bizantina, poi assimilato dalla cultura normanna e utilizzato dai primi re di quella stirpe.
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