IN
IN NOME DEL POPOLO
♦ LE PROTESTE FISCALI
♦ LA GUERRA DEGLI SCHIAVI
N°30 Gennaio/Febbraio 2019 Rivista Bimestrale
POPOLO Leader e rivolte che hanno NOME DEL
infiammato l’età di Mezzo
♦ I PRIMI «POPULISTI»
♦ TRIBUNI E PREDICATORI RIBELLI
€ 7,90
IN EDICOLA IL 28 DICEMBRE 2018 Timeline Publishing Srl - Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c.1, LO/MI.
RI VO LT DELLE E
IL M ED IO EV O
MEDIOEVO DOSSIER
Dossier
EDIO VO M E
IN NOME DEL
POPOLO
Leader e rivolte che hanno infiammato l’età di Mezzo testi di Fabio
Brioschi, Jean-Claude Maire-Vigueur, Marina Montesano,
Domenico Sebastiani, Massimo Vallerani, Paolo Viti e Maria Paola Zanoboni
Introduzione 6. A furor di popolo Rivolte cittadine 8. Il popolo in piazza
La Jacquerie 74. Le campagne in fiamme
Cola di Rienzo 20. L’ultimo tribuno
Eroi del popolo Pietro l’Eremita 78. Tutti in Terra Santa
L’Europa degli scontenti 34. Non di solo pane Lotte di classe 50. Taci e lavora
Robin Hood 90. Frecce di giustizia
Tumulto dei Ciompi 62. Una settimana di paura e illusioni
Jan Hus 104. Seguire il Vangelo
Le Fiandre in rivolta 69. Squilli di rivolta nelle Fiandre e in Francia
Girolamo Savonarola 116. La salvezza è nella rinuncia
A furor di popolo «L
a plebe è tumultuante per abito, malcontenta per miseria, onnipotente per numero». Cosí Giuseppe Mazzini – in una lettera indirizzata al sovrano Carlo Alberto – delinea in modo laconico, ma efficace, il profilo di un fenomeno dalle radici antiche e tornato oggi prepotentemente alla ribalta: la protesta del «popolo» dei disagiati che manifesta il proprio risentimento nei riguardi di élite ritenute incapaci di percepire le sue aspirazioni. Si abusa, spesso, della contigua categoria concettuale di «populismo» per definire sommariamente i lineamenti di tale ribellione, termine ormai applicato per estensione a ogni forma di leadership «carismatica» della contestazione sociale e alla generica apologia dell’idea di «popolo» come depositario di valori positivi. Populisti, pertanto, non sono chiamati soltanto coloro che coniarono l’espressione, i legittimi fondatori del movimento – quei rivoluzionari della Russia ottocentesca fautori di una versione non marxista ma comunitaria di socialismo, avulsa dai processi di industrializzazione di massa –, ma tanti altri protagonisti di istanze protestatarie del presente e di un passato ancora piú remoto. Recenti studi hanno rinvenuto prodromi di populismo in epoca medievale e rinascimentale: nel saggio Nuova età dell’oro (2018), Ian Goldin e Chris Kutarna li individuano nelle prediche di Girolamo Savonarola alla fine del XV secolo; simile primogenitura viene attribuita da alcuni politologi al tribuno trecentesco Cola di Rienzo (Alexander Lee, Dolora A. Wojciehowski) e anche alle tesi di Niccolò Machiavelli sulle istituzioni della repubblica romana (John P. McCormick). Certamente, un’analisi comparata con gli eventi della contemporaneità rischia di apparire fuorviante. Ma alcuni fermenti che hanno generato grandi e piccole sommosse nell’età di Mezzo sembrano sorprendentemente assimilabili agli slogan politici dei nostri giorni. Questo nuovo Dossier di «Medioevo» ripercorre l’era del malcontento e delle rivolte popolari che si scatenarono nel Vecchio Continente, dal XIII al XVI secolo. Un’epoca durante la quale comunità di ribelli, spesso capeggiate da turbolenti leader, irruppero sulla scena della storia per vedere affermate le proprie aspirazioni. Raramente si trattò di «guerre per il pane», come affermano gran parte degli storici. Piú di frequente si scendeva in piazza per combattere l’eccessivo carico fiscale, per limitare il centralismo dei governi, per interessi di corporazione, per richieste salariali, per contare di piú nelle stanze del potere, ma anche per rivalità di fazione e, talvolta, solo per puro istinto di sedizione. Mentre, sullo sfondo, cominciava a montare la protesta di quelle classi di sfruttati, costrette a lavorare in condizioni drammatiche. Furono significative, inoltre, le ribellioni a sfondo religioso, guidate da grandi predicatori poi messi all’indice dalla Chiesa. Riviviamo le rivolte del Duecento nelle Fiandre, il tumulto dei Ciompi a Firenze, i moti inglesi contro il fisco, la Jacquerie dei contadini francesi, le sollevazioni corporative nelle città anseatiche. E grande spazio è dedicato anche alle singole figure di capipopolo, in grado di affascinare le platee con il loro vibrante eloquio e il magnetico carisma: dall’«ultimo tribuno» Cola di Renzo al leader della Crociata dei Pezzenti, Pietro l’Eremita; dal predicatore boemo Jan Hus all’eroe leggendario dei poveri Robin Hood, fino a giungere, alle soglie del Rinascimento, alla rivoluzione del domenicano Girolamo Savonarola. Francesco Colotta
Miniatura raffigurante l’incontro, alle porte di Londra, fra due gruppi di contadini in rivolta, rispettivamente capeggiati da Wat Tyler (a sinistra, indicato come Waultre le Tieulier) e l’abate John Ball (a cavallo, con il nome Jehan Balle annotato sulla tonaca), da un’edizione delle Chroniques di Jean Froissart. 1460-1480. Londra, British Library. 6
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RIVOLTE CITTADINE
Il popolo in piazza di Massimo Vallerani
La cacciata del Duca d’Atene, olio su tela del pittore toscano Stefano Ussi. 1860. Firenze, Palazzo Pitti, Galleria d’Arte Moderna. L’artista ha immaginato gli eventi succedutisi a Firenze, nel luglio del 1343, quando il nobile d’origine francese Gualtieri di Brienne, noto appunto come Duca di Atene, allora governatore della città, venne espulso a furor di popolo: in particolare, ci mostra il tiranno seduto, che si accinge a firmare l’atto di rinuncia ai suoi poteri amministrativi.
Nel corso del Medioevo molte città italiane furono scosse da violenti tumulti. Sommosse scatenate dall’esasperazione dei piú poveri, ma alimentate, anche, da faide familiari e lotte di potere tra fazioni schierate su posizioni politiche opposte
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Rivolte cittadine
L’
immagine di una vita cittadina tutta occupata da risse, vendette, invidie, odi familiari, cominciò a diffondersi nella prima metà del Trecento, quando molti poteri signorili, come quelli dei Visconti, degli Este, dei Della Scala, si imposero nei Comuni soggetti con lo scopo dichiarato di sedare le divisioni interne. Nel Cinquecento il motivo dell’invidia tra le parti come causa della rovina delle città si ritrova nelle principali cronache, e cosí, attraverso queste», è stato tramandato all’erudizione sette-ottocentesca. Col tempo i motivi e le forme di queste lotte politiche sono sfumati in una generica e immotivata rissosità del «Medioevo», una sorta di «infanzia dell’uomo» in cui la violenza era insita nel suo stesso codice di comportamento. Ora, è necessario uscire da questa indeterminatezza: senza cancellare la carica distruttiva e di crudeltà delle lotte civili, è possibile ricostruire il contesto storico dei conflitti politici, le cause degli scontri, le forze coinvolte e porre questi fattori in una cronologia che renda conto delle differenze. Esistono infatti periodi nei quali si concentrano serie omogenee di scontri «organizzati»: organizzati nel duplice senso di lotte condotte secondo una tecnica precisa di guerriglia urbana e di scontro tra forze sociali riunite in partiti, in gruppi politici che seguono e cercano di imporre un programma, un’idea di Comune, una forma di governo. Anche le sommosse piú violente e apparentemente incontrollate hanno in sostanza una «dimensione politica» che le rendeva perfettamente intellegibili ai contemporanei che le subivano o le provocavano.
Un nuovo soggetto istituzionale
Negli ultimi anni del secolo XII e all’inizio del Duecento si ha una prima fase di definizione di questi gruppi politici; nel giro di poco tempo, compare in molte città padane un nuovo soggetto istituzionale, costituito dalle società di Popolo, che si contrappongono al vecchio Comune consolare sui «temi forti» della politica cittadina. Nel 1198 a Cremona i popolari si sollevarono contro il governo comunale che aveva addossato a loro le spese della costruzione di un canale urbano, chiamato Mormora «perché gli uomini mormoravano a causa di questo»; i populares, mossi dall’ira, elessero un loro podestà che governò insieme ai consoli, quasi certamente per controllare le spese. Nello stesso anno a Milano fu creata una società popolare denominata Credenza di S. Ambrogio, che riuniva gli artigiani, «quelli che 10
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Miniatura raffigurante il pagamento della tassa sul sale alle porte della città di Brescia, tratta dal Libro dei Privilegi. XV sec. Brescia, Biblioteca Queriniana.
lavorano con le proprie mani». All’assetto tipico delle società di difesa militare si accompagna una strategia politica che i ceti produttivi cercano di imporre al Comune: la Credenza pretendeva un controllo sulle finanze pubbliche e rivendicava una piú equa distribuzione dei carichi fiscali. La reazione della nobiltà cittadina fu violenta: i giovani nobili fondarono a loro volta una società di chiaro stampo militare, i Gagliardi, per combattere sul campo i popolari. E pochi anni dopo, nel 1205, ci fu uno scontro, anche se in forme ritualizzate: le due parti, disarmate, si trovarono in un campo
L’URLO DEGLI SCONTENTI Le grida politiche, l’urlo improvviso che infiamma la folla sono una costante dei disordini urbani in età comunale. Certo rispondono a un modulo narrativo: forniscono al cronista la causa immediata dello scontro, ma conservano una funzione reale nei conflitti, poiché hanno la capacità di suscitare l’ira del popolo, di entrare in sintonia con il malcontento diffuso. Spesso l’urlo arriva dopo che voces e rumores si erano diffusi tra la cittadinanza; o ancora erano stati creati ad arte da gruppi interessati a spargere il panico. L’aumento delle imposte, una carestia, una minaccia di guerra, il ritorno di banditi, tutto poteva diventare occasione di scontro. Per questo il controllo delle voces è fondamentale, e per lo stesso motivo la maggior parte di queste grida, in apparenza spontanee, sono in realtà attentamente studiate e indirizzate contro istituzioni precise.
ai limiti della città e si scontrarono a mani nude per tutto il giorno. Di norma le cose prendevano una piega ben diversa. A Bergamo nel 1206 fu guerra aperta fra Rivola e Suardi, due famiglie dell’aristocrazia militare, e fra questi ultimi e il podestà, che chiese e ottenne l’appoggio di una società armata di popolo, chiamata Compagnia Nuova. Una lotta di famiglie venne trasformata, per intervento del popolo, in uno scontro sulla forma di governo (podestarile o consolare). La battaglia si svolse per le strade e i vicoli della città, con obiettivi ben determinati; le case e le
A destra Cremona, Loggia dei Militi. Lo stemma del Comune affiancato da due Ercoli, a rievocare la leggenda che voleva la città lombarda fondata dall’eroe. Nel corso del XII e XIII sec., Cremona fu teatro di numerose rivolte popolari.
torri dei nemici nella vicinia di S. Pancrazio, un quartiere della città, furono distrutte, nonostante le opere di fortificazione decise con urgenza dai «vicini» allo scoppio dei disordini. L’attacco alla parte nemica si identifica a Cremona, ancora piú che a Bergamo, con una zona precisa della città: i popolari dominano nella «città nova», esterna alla prima cerchia di mura che racchiude invece il nucleo urbano antico, abitato dall’aristocrazia militare. Due podestà, eletti dalle società (dei militi e del popolo) in aperta competizione, «governano» su città diverse. Quando scoppiarono nuovi dissidi, nel POPULISMO
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Rivolte cittadine
1209, il podestà del popolo stava deliberando nella chiesa di S. Pantaleone: con un sensibile salto di qualità il popolo si era dato una organizzazione stabile, una sede dove radunare assemblee e prendere deliberazioni politiche. Nel 1211, nonostante il compromesso raggiunto fra le due parti dal vescovo di Cremona Sicardo, i milites organizzarono un raid contro i «citanovani» e attaccarono proprio la chiesa di S. Pantaleone distruggendola. È evidente che l’aristocrazia, che controllava ancora saldamente il governo consolare e i primi mandati del podestà forestiero, non poteva tollerare un Comune alternativo, perché di questo, in fondo, si trattava. La forza del popolo risiedeva infatti nella struttura istituzionale che si era Miniatura raffigurante il podestà di Genova Manegoldo che fa distruggere la casa del ribelle cittadino Folco di Castello, dagli Annali genovesi. XII sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
data, con figure e organi di governo paralleli e complementari a quelli del Comune; tanto che sembrò inevitabile, in un secondo tempo, estendere a tutto il Comune la validità delle decisioni prese in seno alle società. È questa la ragione di una seconda ondata di scontri negli anni Venti-Trenta del Duecento. A Milano, nel 1218, il podestà della Credenza emanò un provvedimento sulla tassazione dei rustici, che molto dispiacque alla nobiltà cittadina; simile il tenore di una disposizione del podestà del Popolo di Piacenza del 1219, che pretendeva di inserire la delibera popolare nello Statuto cittadino. Gli scontri che ne seguirono, con la temporanea estromissione della nobiltà piú agguerrita, bandita dalla città, costrinsero i milites a patteg-
Nella pagina accanto Siena, Palazzo Pubblico. Particolare dell’Allegoria del Buon Governo affrescata da Ambrogio Lorenzetti raffigurante un esercito composto da fanti e cavalieri con accanto alcuni prigionieri. 1338-1339.
giare un compromesso con i popolari, dove si decise la spartizione tra le due parti delle cariche del consiglio comunale e un piú equo regime fiscale in città e nel contado. Anche a Bologna nel 1228 il conflitto coinvolse le masse organizzate degli artigiani e dei mercanti: il podestà del Popolo, Giuseppe Toschi, una figura oscura di cui si conosce pochissimo, «chiese di diventare podestà», quindi di sostituirsi in toto alla figura del rettore della città; al rifiuto del magistrato in carica, Toschi incitò la folla a occupare il palazzo e a bruciare gli atti e i registri pubblici, un passaggio tipico delle sollevazioni di piazza.
Un’organizzazione sapiente
Le sommosse politiche sono quindi altamente «programmatiche» e per nulla improvvisate. Dietro di esse si delineano organizzazioni societarie che riuniscono gli abitanti dei quartieri in gruppi di armati per assicurare l’autodifesa della società e salvaguardare, quando necessario, il regime podestarile; e si intravede sempre piú chiaramente un modello di Comune piú «pubblico», latamente «statuale», basato sulla legge piú che sul potere delle famiglie, su norme tendenzialmente egualitarie (si veda la politica fiscale). Insomma, fu una spinta anche ideologica che guidò l’azione dei movimenti di popolo nelle città dell’Italia centro-settentrionale, fino alla conquista del potere, in molti Comuni, negli anni Cinquanta del Duecento. Proprio nei regimi popolari, del resto, la sommossa acquista un carattere nuovo, si direbbe quasi moderno. Si diffonde una tipologia di rivolta popolare come scoppio incontrollato di violenza di una massa cieca, guidata da demagoghi improvvisati. Un modello che ritroveremo a Piacenza nel 1250, con Antoniolo Saviagata che sollevò il popolo contro le decisioni POPULISMO
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Rivolte cittadine A sinistra Siena, Palazzo Pubblico. Particolare dell’affresco di Ambrogio Lorenzetti Effetti del Buon Governo in campagna raffigurante un impiccato, allegoria dell’inflessibilità della legge nei riguardi dei trasgressori. 1338-1339. A destra Firenze, Palazzo Vecchio. La Cacciata del Duca di Atene, affresco attribuito all’Orcagna (al secolo Andrea di Cione di Arcangelo), che raffigura l’allontanamento dalla città del nobile Gualtieri di Brienne. 1343-1349.
del podestà di inviare parte del grano destinato alla città verso Parma, suo Comune di origine: arrestato e poi liberato per la pressione dei cittadini, Antoniolo, cosí come si trovava, malvestito e le spalle nude, arringò una folla di armati «provocandoli e invitandoli a fare quello che desideravano».
Il disprezzo dei cronisti
Simile il caso di Parma nel 1266, dove il sarto Barisello, al comando di cinquecento armati, «corse la città» con in mano una croce e il Vangelo, costringendo tutti i signori a giurare fedeltà alla Chiesa. E moltissimi sono gli esempi della storia di Firenze, nel corso dei tormentati anni tra la fine del Duecento e i primi decenni del secolo seguente, quando numerosi furono i governi e i regimi rovesciati da popolani «folli», «ignoranti», «ingrati», come spesso si esprimono i maggiori cronisti fiorentini del tempo, Dino Compagni e Giovanni Villani. Le divisioni interne allo stesso regime, formalmente guelfo e di popolo, con un alto grado di legittimazione pubblica, crea un rapporto nuovo fra la popolazione e il governo: nasce la temutissima «piaz14
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za», con le masse di popolo disposte a tutto, il «popolazzo» e i «mezzani» che vivono «senza niun ordine» e «s’accordano a chi loro parla» secondo Marchionne, un altro cronista fiorentino; il popolo colto da continuo furore che assalta i palazzi, in Dino Compagni; quel popolazzo di «artefici minuti venuticci dal contado», ingrato e indifferente alla repubblica, che prima appoggia il Duca d’Atene, un tirannello straniero inaspettatamente arrivato alla signoria in Firenze nel 1343, e poi lo assedia nel palazzo, uccide, tagliandoli a pezzi, i suoi magistrati, «ed ebbevi di si crudeli e con furia bestiale e tanto animosa, che mangiaro delle loro carni cruda e cotta». Insomma, come ripete sempre il Villani «da dubitare è del reggimento di questi artefici minuti idioti e ignoranti e sanza discrezione». Ma allo stesso tempo il popolo diventa un elemento indispensabile dei progetti guidati dall’alto, il destinatario naturale della politica di ogni nuovo gruppo di potere che vuole imporsi in città: tutte le sommosse trecentesche iniziano al grido di «Viva il popolo!». Tutto viene fatto per il bene del popolo, e tanto per cominciare lo si domina.
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Rivolte cittadine
Quando si dice «complotto» È assai difficile fornire una nozione chiara e univoca di complotto per il mondo comunale italiano. La competizione per il potere era un dato talmente connaturato all’esistenza stessa del Comune che quasi tutte le forme di lotta, palesi o segrete, rientravano nel gioco politico accettato dalle parti contendenti. È evidente che la macchinazione occulta, il piano segreto per eliminare l’avversario erano metodi ampiamente praticati nelle città italiane. Sembra mancare, invece, almeno fino alla metà del Duecento, un concetto forte di fedeltà allo Stato, o al regime: la pluralità di gruppi e di istituzioni che reclamavano porzioni egualmente legittime di rappresentanza rende difficile chiamare complotti i tentativi, diffusissimi in tutte le città comunali, di rovesciare la parte al governo con sommosse popolari o con azioni di forza mirate a cacciare una fazione dalla città; cosí come per certi versi era naturale legare i podestà forestieri alla propria parte o famiglia con accordi segreti, minacce, o addirittura veri e propri contratti scritti.
IL PERICOLO È IN CASA Piú vicini all’idea di congiura erano forse quei disegni di rovesciamento violento del governo in carica attuati con l’appoggio di forze esterne. E del resto una prima diffusa formulazione del complotto unito al tradimento si ebbe durante le lotte fra le città italiane e il Barbarossa nella seconda metà del XII secolo. Nei giuramenti della Lega lombarda il timore di contatti, lettere, e appoggi alla parte imperiale è ben vivo, anche perché, come spesso capita, il pericolo è in casa: buona parte dell’aristocrazia militare milanese, per esempio, rimase fedele all’imperatore anche nei momenti di piú aspro scontro bellico, progettando anche una signoria temporale dell’arcivescovo riconosciuta dal Barbarossa. Ma determinanti per la nascita di un vero paradigma del complotto politico furono gli anni del conflitto con Federico II (dal 1226 circa al 1250). Soprattutto dalla fine degli anni Trenta una successione impressionante di complotti tentati o immaginati inasprí le reazioni e la concezione stessa della dissidenza 16
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politica. Fu colpito direttamente l’imperatore svevo: suo figlio Enrico, al quale Federico aveva affidato il governo della Germania, nel 1234 strinse addirittura un’alleanza con i Lombardi sobillando i principi tedeschi contro il padre; nel 1238 uno dei suoi piú fidati alleati, Bernardo Rossi di Parma, invece di convincere i Bresciani assediati ad arrendersi a Federico, li esortò a resistere; tra il 1245 e il 1246 i grandi Comuni filoimperiali, come Cremona, Parma, Reggio, furono indeboliti dalla fuga di alcune importanti famiglie guelfe coordinate con sospetta celerità dal pontefice Innocenzo IV. Anche il fronte della Lega non fu immune da complotti: a parte il caso milanese, con i
Bassorilievo raffigurante un uomo a gambe incrociate che la tradizione popolare identifica con l’imperatore Federico Barbarossa, un tempo incastonato nella medievale Porta Romana della città di Milano, demolita nel XVIII sec. Milano, Castello Sforzesco.
Incisione raffigurante il Carroccio, simbolo dell’autonomia comunale, difeso dalle truppe milanesi in lotta contro l’imperatore Corrado II, dall’opera Usi e costumi di tutti i popoli dell’universo... (Milano, 1857). profonde nelle città italiane: il dissenso dlventò peccato, Il nemico eretico, alla punizione si sostituí la distruzione. Vennero meno le mediazioni possibili tra schieramenti opposti, si chiusero molti di quei punti di contatto fra città e persone che negli anni precedenti avevano consentito di comunicare.
STRUMENTI DI LOTTA POLITICA Dopo le guerre federiciane si può dire che la nozione e la pratica del complotto assunsero forma moderna. Ciò si verificò, ancora una volta, nei Comuni di Popolo, dove il complotto, ordito da chi è dentro le istituzioni, divenne uno strumento autonomo di lotta politica. Prendiamo in esame i casi di Bologna e Firenze negli anni Ottanta-Novanta del Duecento, un periodo cruciale dei regimi popolari. Il contesto è simile: in entrambe le città una severa legge contro i nobili e i magnati era stata varata dai governi di Popolo. Leggi pericolose, poco applicate, ma in grado di infiammare la città in tempi rapidissimi. A Bologna, nel 1287, assistiamo a un interessante doppio complotto. In un primo tempo fu messa in circolazione una voce, un rumor: qualcuno spinge per far rientrare in città i banditi ghibellini, esiliati da lungo tempo. Secondo altre voci, un piano prevede gruppi di milites schierati ancora una volta con l’invasore svevo, colpiscono alcuni episodi particolari, come il tentativo imperiale di sobillare Genova attuato nel 1241. Come reazione, in questi anni, si limitarono drasticamente i contatti di ogni genere con le città avversarie, si chiusero i circuiti di interscambio podestarile (ognuno reclutava magistrati solo dalle città alleate e di provata fede partitica), si ripensarono in profondità i significati di fedeltà al regime politico in connessione con lo schieramento a favore o contro l’imperatore. Si tratta di un cambiamento sensibile anche nel linguaggio, che crea nuove simbologie e dà nuovi significati alle parole della politica. La sovrapposizione di fede e fedeltà, cosí presente nei documenti di Federico II, lascia trasparire l’intento di legare sempre piú l’ordinamento politico a una dimensione religiosa, dove l’opposizione allo Stato si confonde di fatto con l’eresia. Una forma di sacralizzazione della politica che lasciò tracce
LA CONGIURA DEI MAGNATI GENOVESI Negli anni delle guerre tra Federico II e le città italiane, le parti in lotta usarono tutte le armi per guadagnarsi alleati nel fronte nemico. Interessante è il caso di Genova, città da lungo tempo fedele all’imperatore, ma da poco entrata ufficialmente nella Lega. I tentativi di destabilizzare il governo filopapale che si era ribellato all’imperatore, facevano leva su un gruppo di famiglie aristocratiche rimaste fedeli. A esse erano indirizzate alcune lettere imperiali, fornite di sigillo, inviate clandestinamente in un pane finto di cera: Federico si rivolgeva ai suoi seguaci per informarli dei successi militari ottenuti contro i Lombardi, e li chiamava alle armi per combattere il governo infedele. Una volta scoperta la congiura, i magnati genovesi pregarono il podestà di tenere segrete le lettere, ma visto che i cospiratori si erano asserragliati nelle loro torri, il podestà tenne una concione davanti alle compagnie di Popolo e si decise ad attaccare.
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addirittura che Bologna venga messa a ferro e a fuoco e consegnata nelle mani di un tiranno, come sta accadendo in molti Comuni padani. Se ne parla nelle case, sotto i portici e naturalmente nei consigli del Comune, dove gli Anziani (la piú alta magistratura della città) decidono di dichiarare lo stato d’assedio e di formare una commissione speciale per mantenere la città «in buono e pacifico stato». Ma, al momento della votazione, succede l’imprevisto: Francesco de Preti, influente uomo politico dell’élite popolare bolognese, prende la parola e afferma di aver scoperto il vero complotto, che coinvolge un gran numero di uomini, molti dei quali membri dello stesso collegio degli Anziani. Secondo l’accusatore è da lí che ha avuto inizio la congiura: con la scusa di proteggere la città dai Lambertazzi, l’antica famiglia bolognese a capo della fazione ghibellina, i cospiratori vogliono far rientrare in città i loro congiunti aristocratici condannati all’esilio in base alle leggi aintimagnatizie per aver commesso crimini contro il popolo, Sono questi nobili magnati i veri nemici, non i Lambertazzi. L’atmosfera si scalda, la seduta è interrotta tra le grida dei presenti. Il podestà, costretto dagli eventi, deve aprire un’inchiesta e interroga numerosi testimoni. Gli accusati si difendono, alcuni negano, altri dicono di aver sentito parlare del falso complotto dei Lambertazzi da due misteriosi frati, irrintracciabili; solo pochi confessano sotto tortura di aver brigato per la formazione di una commissione d’emergenza al fine di far rientrare i parenti banditi. Non sappiamo a quali pene furono condannati i cospiratori, ma il risultato finale fu una nuova legge che vietava in futuro qualsiasi richiesta di amnistia per i magnati banditi. Il complotto questa volta è fallito, ma il meccanismo di attuazione è di grande interesse: per far trionfare un complotto vero se ne è inventato uno falso (la minaccia dei ghibellini), puntando sulla paura collettiva per superare gli ostacoli della legislazione popolare contro i magnati.
IL DOPPIO GIOCO DEI «GRANDI» Ancora piú eclatante è la storia del Fiorentino Giano della Bella, straordinaria figura di politico attivo, provvisto di grande statura morale e di una pericolosa tensione etica nel suo operato di governo. Portato al potere dal popolo minuto cui aveva dato rappresentanza e prestigio, Giano si trovò ad affrontare fra il 1292 e il 1294 il periodo peggiore dell’applicazione delle leggi speciali contro i magnati: interpretate alla 18
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Miniatura raffigurante Corso Donati che fa liberare alcuni prigionieri politici nel corso della rivolta popolare trecentesca del Calendimaggio a Firenze, dall’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. lettera dai «maledetti giudici», distorte dagli interessi di parte, eseguite in modo arbitrario «per tema di popolo», le leggi causarono un forte malcontento presso le grandi famiglie magnatizie, che univano dinastie militari a clan mercantili e bancari con estese reti di interessi. I «Grandi» – come li chiama Dino Compagni – cominciarono a parlare male di Giano, a minacciarlo, a diffamarlo; fin dall’inizio tra i magnati si aprirono due linee di condotta: chi voleva eliminare Giano, uccidendo anche tutti i popolani in un bagno di sangue generale, e chi invece «trovò modo di farlo morire con una sottile malizia». È in questo secondo disegno che si palesa il lato oscuro del complotto, con un ordito segreto che fa di un semplice disegno malevolo un atto di sobillazione politica. I Grandi fecero leva sulle principali virtú di Giano, l’onestà e l’imparzialità, trasformandoli in un’arma suicida: prima denunciarono a Giano le malefatte dei giudici («minacciano i rettori e tengono le questioni sospese») e dei beccai; poi andarono da giudici e beccai per informarli che Giano li vituperava e faceva leggi contro di loro; non contenti, fecero presentare in consiglio una proposta di legge falsa per spargere il panico; infine, scoperti, decisero di «scomunare» il popolo, vale a dire a dividerlo, mettendo in giro voci di un immediato ritorno dei ghibellini (due uomini per contrada dovevano diffondere la falsa notizia). I magnati riuscirono a creare un tale stato di tensione che divenne aperta ribellione non appena un giudice corrotto assolse un nobile, Corso Donati, nonostante i testimoni contrari. I popolani, aizzati peraltro dal fratello di Giano, Taldo della Bella, assalirono il palazzo del podestà. Giano decise di difendere il podestà e le istituzioni e scese in campo di persona: credeva di convincere il popolo a ritirarsi, ma venne assalito a sua volta. Risultò facile a quel punto addossargli la colpa dei disordini: il suo gesto generoso lo fece diventare correo dei magistrati corrotti, quindi bandito e poi esiliato. Ecco finalmente il popolo «scomunato»: ecco la realizzazione del disegno iniziale dei magnati «percosso il pastore fiano disperse le pecore», con l’aggiunta, importantissima, di riuscire a far battere il pastore dal suo stesso gregge.
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Cola di Rienzo
L’ultimo tribuno
Cosí amava definirsi Cola di Rienzo, il figlio di un taverniere che, alla metà del Trecento, conquistò Roma con la veemenza del suo eloquio. Il sogno di un ritorno ai fasti dell’impero fu, però, un’utopia di breve durata. Soffocata dalla disillusione degli stessi che avevano acclamato questo visionario capopopolo
Veduta del Campidoglio e di Campo Vaccino, olio su tela di Paolo Monaldi e Paolo Anesi. 1760-70. Roma, Museo di Roma. L’assetto degli edifici del colle capitolino, tra i quali è ben riconoscibile il Palazzo Senatorio (sorto sui resti del Tabularium), è simile a quello che dobbiamo immaginare per l’epoca in cui fu attivo Cola di Rienzo.
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di Jean-Claude Maire-Vigueur
C
ola di Rienzo nacque a Roma, nel rione Regola, nell’aprile o nel maggio del 1313, da un taverniere e una lavandaia. La sua famiglia risiedeva nella parte piú orientale del rione, non lontano dall’Isola Tiberina e dal teatro di Marcello, allora occupato dalla famiglia baronale dei Savelli che lo aveva trasformato in una fortezza. Alcuni sostengono che i genitori di Cola fossero legati ai Savelli da un legame di clientela o di dipendenza, come accadeva spesso a famiglie popolane costrette dalla povertà ad accettare aiuti economici dai baroni in cambio di servizi vari. Durante una malattia della madre, il ragazzo fu affidato a un parente di Anagni e rimase in Ciociaria fino ai vent’anni. Rientrato a
Qui accanto Roma, monumento a Cola di Rienzo, inaugurato nel 1887. La statua bronzea del tribuno fu realizzata, a dimensioni inferiori del vero, dallo scultore Girolamo Masini nel 1871 e lo ritrae nell’atto di arringare il popolo.
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Cola di Rienzo
Roma, sposò la figlia di un notaio e finí per abbracciare anch’egli quella professione. Nelle città comunali dell’epoca, i notai erano numerosi (fino a 1 ogni 100 abitanti!), ma praticare il notariato non era affatto, come accade oggi, una garanzia di benessere. Richiedeva però una buona padronanza del latino e una discreta cultura giuridica. E Cola era sicuramente molto piú attratto dal latino e dal diritto che dall’esercizio di una professione che sottraeva tempo alle sue occupazioni preferite. Ossia, come ci racconta l’Anonimo Romano (vedi box alla pagina accanto), alla lettura delle opere latine, al girovagare tra le rovine della Roma imperiale, al decifrare «li antichi pataffii» [= epigrafi]. Lo stesso cronista, del resto, sottolinea il contrasto tra le umili origini di Cola e l’ampiezza e la precocità della sua cultura. Alla lettera vanno prese le espressioni da lui usate per definirne le doti intellettuali: sapeva infatti comporre in latino, sia in prosa sia in versi, leggere le iscrizioni antiche, tradurre e interpretare i testi. Possedeva un’ottima conoscenza degli autori antichi, dai quali traeva non solo una cultura antiquaria, ma anche esempi morali da opporre alla decadenza della Roma comunale. Cola, infatti, non era un intellettuale puro e distaccato dalle realtà del suo tempo. Per certi versi la sua cultura lo avvicinava ai ceti alti della società romana, ma non gli sfuggivano la prepotenza dei grandi e i malanni nei quali sprofondava Roma da quando il suo governo era passato nelle mani dei baroni. La passione per l’antichità nutriva in lui un forte impegno politico e lo spingeva a schierarsi dalla parte di chi esigeva riforme radicali, in grado di porre fine al malgoverno dell’alta nobiltà. In altre parole, era un fervido sostenitore del partito popolare.
Missione ad Avignone
Non c’è dunque da stupirsi se, nell’estate del 1342, i rappresentanti del Popolo – che, in assenza dei senatori mandati in ambasciata ad Avignone, si erano appropriati del potere all’interno del Comune – lo incaricarono di andare ad Avignone ed esporre al papa la disastrosa situazione della città, per convincerlo ad accettare le riforme istituzionali. Era la prima apparizione di Cola sulla scena pubblica e subito il futuro tribuno diede prova del suo talento oratorio. Descrisse con tanta eloquenza, davanti a Clemente VI, la miserevole condizione di Roma oppressa dall’anarchia e dalle violenze baronali, che si guadagnò subito l’ammirazione del papa, ma anche l’odio dei due senatori presenti ad Avignone, che finirono per provocarne la disgrazia. 22
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In alto Roma. Veduta dell’Isola Tiberina e del Ponte Fabricio, uno dei due che la collegano alla terraferma. A sinistra Cola di Rienzi che dalle alture di Roma ne contempla le rovine, olio su tela di Federico Faruffini. 1856. Milano, Collezione privata. A destra il frontespizio e una tavola della seconda edizione della Vita di Cola di Rienzo stampata nel 1631.
UNA FONTE PREZIOSA Gli studiosi non sono ancora riusciti a svelare l’identità del cittadino romano che scrisse, negli anni Cinquanta del XIV secolo, la cronaca conosciuta sotto il nome di Vita di Cola di Rienzo, nella quale, in realtà, solo due capitoli sono interamente dedicati alla vicenda del tribuno romano. Ma che capitoli! Ricchissimi di particolari, scritti in un linguaggio di straordinaria freschezza e vivacità, offrono del capopopolo un ritratto di grande intensità drammatica, critico nei confronti degli aspetti piú avventurosi della sua politica, ma di grande lucidità riguardo alle forze sociali implicate nei conflitti interni. Questo assoluto capolavoro della letteratura medievale di lingua italiana è rimasto a lungo misconosciuto, offuscato dall’imperialismo linguistico del «bel fiorentino». Il testo è da alcuni anni disponibile nell’ottima edizione curata da Giuseppe Porta per Adelphi (Anonimo Romano, Cronica).
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Roma, il Teatro di Marcello. Il monumento romano fu trasformato in fortezza in epoca medievale e utilizzato come residenza dalla famiglia nobiliare dei Savelli, alle cui dipendenze si ritiene che lavorassero i genitori di Cola di Rienzo.
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Ciò non gli impedí, tuttavia, di prolungare il suo soggiorno ad Avignone fino all’estate del 1344. Si legò d’amicizia con Francesco Petrarca con il quale condivideva la passione per l’antichità e le aspirazioni a un rinnovamento morale della società. Il poeta, da parte sua, ammirava il talento oratorio di Cola e gli riconosceva qualità di uomo di azione che egli sapeva di non possedere. Per intercessione del Petrarca, Cola ritrovò i favori della corte pontificia e ottenne da Clemente VI la carica di notaio della camera capitolina, con un salario di 5 fiorini al mese. Fu in questa veste di funzionario comunale che fece ritorno a Roma, nel luglio o nell’agosto del 1344. Meno di tre anni lo separavano dalla presa del potere, che avvenne nel maggio del 1347. Furono per Cola anni di intensa propaganda, rivolta alle piú ampie fasce della popolazione romana: innanzitutto il ceto dei bovattieri, cioè di quegli imprenditori che si dedicavano alla
conduzione delle grandi aziende agricole della Campagna romana, i casali, quindi i grandi mercanti, i notai e gli uomini di legge, i bottegai e gli artigiani. Di cosa Cola intendeva convincere quelle varie categorie della popolazione romana? Niente meno che a cacciare i baroni dal potere e attuare quelle riforme che caratterizzano, a Roma come nelle altre città dell’Italia comunale, il programma dei partiti popolari.
Un comunicatore straordinario
Laddove Cola si distingue da tutti quelli che lo hanno preceduto e dà prova del suo straordinario talento di comunicatore, come si direbbe oggi, è nei mezzi impiegati per far colpo sul suo pubblico e spingerlo ad agire. Grande oratore e stilista raffinato, egli conosce tuttavia i limiti della parola e dello scritto quando si tratta di far filtrare un messaggio al popolino. Sebbene possieda, da buon attore, l’arte di adeguare il livel-
lo dei suoi discorsi alla capacità ricettiva degli interlocutori, non si accontenta di questo mezzo di persuasione e ricorre a tutte le risorse della comunicazione visiva che gli suggerisce la sua geniale fantasia. Lo fa innanzitutto sotto forma di grandi immagini dipinte. Tutte furono esposte in luoghi di grande frequentazione, per esempio in Campidoglio sulla facciata del palazzo comunale che dava sul mercato, su un muro della chiesa di S. Angelo in Pescheria, davanti alla quale i pescivendoli tenevano i loro banchi, all’interno della basilica di S. Giovanni in Laterano, sulla porta della chiesa di S. Giorgio al Velabro, accanto alla quale si riunivano i mercanti di bestiame, o, ancora, quando si rifugiò presso gli Orsini di Castel Sant’Angelo dopo aver abbandonato la sua carica di tribuno, non lontano dall’omonimo ponte. Non sappiamo chi fossero gli esecutori materiali di queste immagini né se venisse-
ro eseguite su tavole di legno o vasti teloni di tessuto. Ma era Cola a definire i soggetti e a dettare al pittore le scritte destinate a esplicitare il significato delle figure allegoriche a cui affidava il suo messaggio. Messaggio talvolta molto complesso, colmo di riferimenti biblici, storici e letterari, ma del quale anche il pubblico meno preparato poteva comunque cogliere il significato piú immediato.
Roma, la Casa dei Crescenzi. Si tratta, in realtà, dei resti di una torre fortificata, costruita tra il 1040 ed il 1065 dai Crescenzi. Si ipotizza che sia stata la residenza di Cola di Rienzo.
Davanti a una folla immensa
Poco tempo dopo, è ancora l’Anonimo Romano a offrircene il resoconto, Cola organizzò una seconda performance, di tutt’altro genere, ma che divenne, all’indomani della presa del potere, il suo mezzo di comunicazione di massa prediletto: una cerimonia pubblica, svolta davanti a una folla immensa, ma nella quale spiccano in prima fila alcuni baroni e molte altre autorevoli personalità, a conferma della capaciPOPULISMO
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tà di Cola di rivolgersi simultaneamente a persone di vario livello sociale e culturale. Il luogo prescelto è la basilica di S. Giovanni in Laterano, anche se la religione non ha nulla da spartire con il contenuto dell’evento, molto piú vicino a un grande meeting politico di oggi che a una cerimonia religiosa.
Alla maniera di un imperatore
Cola ha curato nei minimi particolari la disposizione degli interni, a cominciare dal palcoscenico dove terrà il suo show, ossia il coro della basilica. Lí ha fatto innalzare il pulpito dal quale si rivolgerà al pubblico. Dietro di lui, sul muro del coro, ha fatto «ficcare una granne e mannifica tavola de metallo con lettere antiche scritta, la quale nullo sapeva leiere né interpretare». Intorno a questa tavola – una lastra di bronzo che riporta il testo della Lex regia –, ha fatto disporre un vasto dipinto che illustra il contenuto della norma e che rappresenta dunque il Senato romano nell’atto di conferire l’impero a Vespasiano. Per accentuare il carattere sacro della liturgia alla quale ha invitato i Romani a partecipare, Cola si è fatto confezionare un vestito stravagante, di cui è difficile dire se voleva essere quello di un imperatore romano o del gran sacerdote di una nuova religione; colpiva in particolar modo il copricapo, costituito da un cappello bianco sul quale stavano piú corone d’oro, una delle quali tagliata in due dalla punta di una spada d’argento infilata, non si sa bene come, nella parte superiore del cappello. Conciato in questo modo, salí sul pulpito e lí, davanti alla folla silenziosa, pronunciò in italiano quello che l’Anonimo chiama un «bello sermone», una «bella diceria». Il discorso ottenne un grande successo e non solo per il talento oratorio del futuro tribuno. Con grande abilità retorica, infatti, Cola prese spunto dalla Lex regia per opporre la grandezza della Roma antica alla miserevole condizione di quella attuale ma, per meglio solleticare l’orgoglio dei Romani, si soffermò molto di piú sul primo punto, elencando, per esempio, tutti gli attributi della sovranità che il popolo romano aveva trasferito a Vespasiano. Tra tutti i problemi della Roma contemporanea, invece, denunciava solo quello della penuria alimentare, delle difficoltà di approvvigionamento, che rischiavano di mettere a repentaglio il successo del futuro Giubileo su cui la città contava per rilanciare la sua economia. Esortava infine i Romani a reagire e a intraprendere le riforme necessarie, ma senza sviluppare un programma preciso e, soprattut26
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to, senza esporsi troppo. Cosa che fece in luoghi piú discreti e di fronte ad altre platee… Lo show in S. Giovanni ebbe molto probabilmente luogo nel 1346. L’anno successivo, il 20 maggio 1347, giorno di Pentecoste, Cola fu acclamato rettore della città, insieme con il vicario del papa, dai Romani riuniti in parlamento sulla piazza del Campidoglio. Successivamente, nel corso di un’altra riunione del parlamento, Cola riesumò il titolo di tribuno e si fece conferire i pieni poteri per attuare il suo programma politico. Il suo titolo si arricchí ancora nei giorni successivi, in modo da risuonare come quello di un magistrato della Roma antica: «Nicola il severo e il clemente, tribuno della libertà, della pace e della giustizia, liberatore della Santa Repubblica romana». I Romani che lo avevano portato al potere agivano con cognizione di causa: prima di farsi acclamare rettore, Cola aveva pronunciato un lungo discorso e fatto leggere da un suo partigiano un programma molto dettagliato, articolato in quindici misure che intendeva applicare appena ricevuti i pieni poteri. E non era affatto un programma astratto o sconclusionato, degno della mente di un agitatore esaltato.
Contro i baroni
Non tutto è di assoluta originalità in questa piattaforma che riecheggia in molti settori, talvolta adattandoli alla situazione romana, provvedimenti già piú o meno sperimentati da altri Comuni dell’Italia centrale, in particolare dell’Umbria e della Toscana, con i quali Roma aveva stretti rapporti. Spiccano, tuttavia, per la loro severità quelli contro i baroni: l’ottavo e il nono miravano a privarli di tutte le rocche, porte e ponti da loro controllati, il decimo ingiungeva loro di rispettare la sicurezza delle strade e l’ordine pubblico, cessando di offrire rifugio ai malfattori. Nel mese di giugno, Cola obbligò i baroni a demolire le porte e le strutture difensive che facevano delle loro case romane fortezze imprendibili. Per spezzare i legami di dipendenza che assicuravano alle famiglie baronali una clientela di fedeli e perfino di vassalli tra la piccola gente dei loro quartieri, proibí il giuramento di fedeltà, l’uso del titolo di «signore» (dominus) e dei blasoni nobiliari. Il quarto decreto del 20 maggio istituiva in ogni rione una milizia popolare di 100 fanti e 25 cavalieri; la sua missione non era quella di sostituirsi all’esercito comunale nelle guerre combattute contro i nemici esterni della città, bensí di accorrere a ogni richiesta del tribuno per difendere le istituzioni popolari in caso di ribellione. Il quinto decreto disponeva inoltre la pre-
Incisione in cui si immagina Cola di Rienzo mentre spiega uno dei suoi dipinti allegorici. Il ricorso a questo singolare mezzo di comunicazione fu una delle armi di propaganda piú efficaci di Cola. Le fonti non hanno trasmesso i nomi degli eventuali autori delle composizioni, ma sappiamo che era il tribuno in persona a definire i soggetti e a dettare al pittore le scritte destinate a esplicitare il significato delle scene.
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FRA INTRANSIGENZA E LUSINGHE Cola considerava i baroni come i principali responsabili della miserevole situazione in cui si trovava la Roma del tempo e gran parte della sua opera di propaganda, prima dell’ascesa al potere, era volta a denunciare i misfatti di questo ristretto gruppo di potentissime famiglie che, dalla seconda metà del XIII secolo, erano riuscite a impadronirsi, salvo brevi episodi di regime popolare, delle leve del potere all’interno del Comune romano. Molti provvedimenti da lui attuati nei primi mesi del Tribunato furono volti ad abbattere i privilegi e le prerogative dei baroni. Tra questi e Cola c’era dunque un antagonismo profondo, al quale si aggiungeva, da parte dei baroni, disprezzo per il popolano che osava sfidarli, unito a odio e rabbia nei confronti del tribuno che colpiva cosí duramente i loro interessi. Ciononostante, l’atteggiamento di Cola nei loro confronti non fu sempre limpido. Talvolta, infatti, il tribuno dava l’impressione di subire il fascino di quegli altezzosi personaggi. Mescolava nei loro riguardi minacce e blandizie, alternava momenti di grande durezza e di eccessiva benevolenza. È ciò che dimostra quella sorta di psicodramma che si svolse, in quattro atti, alla metà del settembre 1347. Cola aveva convocato nel palazzo del Campidoglio i principali baroni della città, non si sa bene se per un banchetto o una discussione informale. Provocato dal piú prestigioso di loro, il vecchio Stefano Colonna, che gli consiglia di portare vestiti piú consoni alla sua condizione di «vizuoco» (=pinzochero), Cola fa arrestare tutti i presenti. Era il 14 settembre. L’indomani all’alba i baroni sono invitati a confessare i loro peccati a dei chierici, che fanno intendere loro di essere stati condannati a morte,
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quindi sono portati in una sala tutta decorata con drappi di seta rossi e bianchi, «in segno di sangue». Convinti di dover morire, ascoltano un «bel sermone» di Cola che invece li perdona tutti e li gratifica di titoli onorifici desunti dal basso impero. L’episodio si prolunga il 16 con una messa solenne e il 17 con una processione che vede riunito tutto il clero della città.
Incisione raffigurante Cola di Rienzo nel giorno dell’acclamazione popolare a rettore di Roma, il 20 maggio 1347, Pentecoste, sulla piazza del Campidoglio. In seguito, Cola riesumò il titolo di tribuno e si fece conferire i pieni poteri per attuare il suo programma politico.
GLI ANNI DEL TRIBUNO 1313 Cola nasce a Roma da Lorenzo (Rienzo), taverniere, e da Maddalena, lavandaia.
f ino al 1333 Trascorre gran parte dell’infanzia e della circa gioventú presso un parente del padre ad Anagni.
fine 1342 Soggiorna ad Avignone, dove è stato inviato estate 1344 dalla parte filopopolare del Comune di Roma.
1344-1347 È notaio della Camera capitolina (ufficio finanziario del Comune romano); si afferma come il principale leader del movimento popolare. 20 maggio È investito dei pieni poteri dal Comune 1347 romano, con il titolo di Tribuno. 15 dicembre Abbandona il potere. 1347 1347-1348 Vive in semiclandestinità tra Roma e Napoli. fine 1348 Soggiorna tra i Fraticelli giugno 1350 della Maiella, in Abruzzo. luglio 1350 Al soggiorno a Praga alla luglio1352 corte dell’imperatore Carlo IV fa seguito la detenzione nella prigione di Roudnice, sull’Elba. estate 1352 Cola è detenuto ad Avignone in una torre del palazzo pontificio; liberato il 15 settembre 1353, ritorna poco dopo in Italia. inverno 1354 È forse al servizio del cardinale Albornoz, legato pontificio in Italia centrale. 1° agosto Nominato senatore dal cardinale Albornoz, 1354 rientra a Roma dove dirige il Comune romano in nome della Chiesa. 8 ottobre Nel corso di una sollevazione popolare, 1354 viene ucciso dalla folla dalla quale tentava di fuggire.
senza costante alle foci del Tevere di un battello armato per garantire la sicurezza del commercio marittimo e fluviale. Pochi i provvedimenti innovativi in materia finanziaria e fiscale. Per riempire le casse del Comune sarebbero stati sufficienti la riscossione rigorosa delle tasse esistenti, il cui gettito, però, era in gran parte distorto dalle malversazioni dei funzionari e dei baroni, e il recupero dei beni comuni accaparrati dai signori. Cola iniziò dunque una politica di riappropriazione di questi diritti e di rigorosa esazione delle tasse comunali, con grande successo, a quanto pare, visto che il suo regime non ebbe mai grosse difficoltà a pagare il soldo della truppa e che il tribuno si vantò anche di avere soppresso le tasse sulla circolazione delle merci.
In alto ritratto di Cola di Rienzo, particolare di un affresco nel Palazzo Pubblico di Siena. 1886 circa.
Anche nel campo della giustizia, Cola agí piú o meno nello stesso modo. Le leggi, infatti, esistevano ed erano anche benfatte, ma non venivano applicate, perché i giudici, per esempio, accordavano sistematicamente ai potenti la facoltà di cancellare i loro delitti con il pagamento di un’ammenda spesso modesta. Cola si mostrò invece inflessibile nell’applicazione della pena di morte, soprattutto quando il condannato apparteneva ai ceti piú alti della società. La repressione non fu tuttavia l’unica strada seguita da Cola in campo giudiziario. Si fece anche promotore di una semplificazione delle procedure e diede vita, a tale scopo, a una «casa della pace e della giustizia» destinata a regolare per conciliazione, il piú spesso pacifica e in ogni caso simbolica (uno schiaffo per esempio risarciva e annullava un colpo di pugnale), le innumerevoli inimicizie tra privati. I successi conseguiti dalle misure varate risultano tanto piú strepitosi ove si consideri che furono raggiunti nei primissimi tempi del nuovo regime. Perlomeno, chi legge la Cronica dell’Anonimo ne ricava la netta impressione che Cola avesse deliberatamente scelto di cominciare con le riforme interne per meglio dedicarsi, in seguito, ai problemi di politica estera. Un ambito nel quale non si registrarono successi analoghi a quelli ottenuti sul fronte interno.
Giudizi discordanti
Occorre tuttavia distinguere tra due tipi di obiettivi e di iniziative. Nei confronti del contado, ossia di quella parte del Lazio sulla quale Roma, come ogni altra città comunale dell’epoca, era riuscita, nei suoi periodi di maggiore dinamismo, a estendere la sua autorità, la politica del tribuno fu tutt’altro che negativa. Di segno diametralmente opposto il giudizio che di solito viene dato alla politica italiana del tribuno. Per l’Anonimo, come detto, furono le stravaganze di Cola in questo campo, e prima di tutto l’idea che il popolo romano potesse conferirgli – a lui, figlio di un taverniere e di una lavandaia! – la corona imperiale, a togliergli la fiducia dei suoi partigiani della prima ora e a privarlo, di fronte alla ribellione dei baroni, del loro sostegno. Anche gli storici dell’epoca moderna non sono teneri, in generale, verso questo aspetto della politica di Cola. Bollano come particolarmente utopistica, per esempio, l’idea che si potesse POPULISMO
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POPULISMO Nella pagina accanto ricostruzioni grafiche di alcuni dei gonfaloni portati in Campidoglio da Cola di Rienzo il 20 maggio 1347. In basso ricostruzione grafica ideale dell’affresco che Cola di Rienzo fece dipingere sul muro della chiesa di S. Maria Maddalena di Castello, nei pressi di Castel S. Angelo.
Cola di Rienzo realizzare l’unità dell’Italia nelle condizioni politiche dell’epoca. Per quanto mi riguarda, non credo che tutto fosse cosí irrealistico nella politica italiana di Cola e sono comunque convinto che, per comprenderla appieno, occorre considerare non solo il racconto piuttosto tendenzioso dell’Anonimo, ma anche le dichiarazioni fatte a posteriori dal tribuno per giustificare il proprio operato, e in particolare le lunghe lettere da lui scritte durante il suo soggiorno a Praga. Ne emerge con grande chiarezza che per Cola la questione dell’impero era tutto sommato secondaria. Ciò che gli importava davvero era di eliminare ogni motivo di divisione tra le città e anche all’interno di ciascuna di esse, a cominciare dall’esistenza delle fazioni guelfa e ghibellina. Occorreva, per raggiungere tale scopo, realizzare l’unio (ma Cola parla anche di unitas o di societas) tra le città italiane, unione da interpretare, a mio avviso, come una sorta di alleanza tra Comuni che condividono lo stesso sistema di valori e applicano lo stesso programma politico. Un programma ovviamente iden-
tico a quello realizzato da Cola a Roma: sottomissione dei baroni, eliminazione delle fazioni o clientele, restaurazione dell’ordine con l’esercizio di una giustizia implacabile. Che poi a capo di tale unione ci dovesse essere il papa, l’imperatore o qualsiasi altro autorevole personaggio – compreso lui stesso –, era, come dicevo, una questione del tutto secondaria, sulla quale Cola è il primo ad ammettere di aver cambiato varie volte posizione. Riguardo ai mezzi utilizzati da Cola per realizzare la sua politica italiana, credo sia sbagliato opporre, come fanno tanti studiosi, il suo gusto sfrenato per i discorsi, i riti e i simboli alla povertà delle risorse materiali di cui disponeva per attuare una politica cosí ambiziosa. Alla metà del XIV secolo Roma non era una città ricca e potente come Firenze, Milano o Venezia. Ma non sempre sono i soldi e i soldati a cambiare il mondo. Roma aveva, dalla sua, non solo l’enorme prestigio del suo passato antico ma anche notevoli risorse intellettuali, di cui le lettere e i discorsi dello stesso Cola sono l’espressione piú alta.
Un ricco apparato di riti e di simboli
Lettere e discorsi, tuttavia, erano mezzi di comunicazione di portata molto limitata, che difficilmente potevano raggiungere piú di una ristretta élite di intellettuali e di dirigenti politici. Di questo Cola era ben consapevole e proprio per potersi rivolgere a un pubblico molto piú vasto organizzò, a partire dalla fine di luglio, alcune grandiose cerimonie, destinate a convincere anche la folla degli illetterati della bontà delle sue iniziative in materia di politica italiana. Due in particolare colpirono i contemporanei per la profusione di riti e simboli. La prima si protrasse per tre giorni, dal 31 luglio al 2 agosto. Cola aveva invitato ambasciatori delle città italiane e tutto il popolo romano a celebrare la sua consacrazione a Cavaliere dello Spirito Santo. La cerimonia propriamente detta fu preceduta da un gigantesco banchetto all’interno del palazzo pontificio di S. Giovanni in Laterano. All’ora «X» del 31 luglio, una folla immensa si era radunata sotto i portici di piazza S. Giovanni e nelle vie laterali per assistere alla cerimonia. Cola salí sulla loggia da dove Bonifacio VIII aveva proclamato il primo giubileo per annunciare alla folla che l’indomani sarebbe stato consacrato cavaliere e che tutti i presenti avrebbero sentito «cose che sarebbero piaciuto a Dio in cielo e agli uomini sulla terra». E cosí l’indomani, 1° agosto, festa di san Pietro in Vincoli, la gente si radunò di nuovo in piazza S. Giovan-
L’INSEGNA PERSONALE Cola scelse per sé un sole d’oro circondato da stelle d’argento.
GIUSTIZIA Per incarnare la Giustizia venne scelto l’Apostolo Paolo.
LIBERTÀ Raffigura Roma seduta in trono, con due leoni e il motto Roma caput mundi.
ni per ascoltare l’atteso messaggio che Cola il giorno prima aveva promesso di svelare. Salí ancora una volta sulla loggia delle benedizioni e lí, mentre il clero celebrava la messa, si esibí in uno show straordinario, nel quale fece leggere una dichiarazione secondo cui il popolo romano si riprendeva gli antichi diritti di sovranità; concedette poi a nome dello stesso popolo la cittadinanza romana a tutti gli Italiani, rivendicò per Roma e l’Italia il diritto di nominare l’imperatore, ingiunse al papa di tornare a Roma, convocò i due pretendenti alla corona imperiale nonché tutti gli elettori tedeschi a comparire davanti a lui per difendere i loro diritti; infine, estraendo la spada dal fodero e facendo con essa il gesto di indicare le tre parti del mondo, disse: «Questa è mia, questa è mia, questa è mia». Il vicario pontificio, benché occupato a celebrare la messa, rimase di stucco quando udí le ultime parole del tribuno. Chiamò un suo notaio e gli ordinò di proclamare ad alta voce che lui, vicario del papa, protestava con forza contro le pretese di Cola. Fu tutto inutile, perché la voce del povero notaio fu immediatamente coperta dal baccano di trombe, trombette, nacchere e cornamuse fatte suonare dal tribuno. A giudizio dell’Anonimo, per il quale tutta la cerimonia si stava trasformando in una «viziosa buffonia», molti tra i presenti cominciarono quel giorno a dubitare della saggezza del tribuno.
Incoronazione in basilica
Piú breve ma ancora piú ricca di riti e simboli ci appare la seconda delle grandi cerimonie, quella che si svolse, il 15 agosto, nella basilica di S. Maria Maggiore, per l’incoronazione del tribuno. La cerimonia segnò il punto piú alto delle ambizioni di Cola nell’ambito della politica italiana. Già a quella data, però, anche le città meglio disposte nei suoi confronti avevano cominciato a prendere le distanze da una politica giudicata troppo avventurosa e soprattutto lesiva della loro autonomia. E tutto lascia pensare che, anche se Cola fosse rimasto piú a lungo al potere, avrebbe forse ottenuto la formazione di una lega tra alcune città dell’Italia centrale, ma certamente non la restaurazione di un impero liberato da ogni ingerenza straniera. Nel mese di settembre Cola continuò a coltivare il suo sogno, affidando per esempio a due giuristi l’incarico di trasmettere varie proposte ai cittadini dell’«Italia sacra», ma senza piú il fervore dei primi mesi. Del resto l’azione di POPULISMO
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Cola di Rienzo Cola appare sempre piú segnata, a partire da quella data, da lunghi periodi di apatia, di cui approfittano sia i baroni che entrano in aperta ribellione contro di lui sia il papato, che fa di tutto per sabotare la sua politica estera. È dunque un Cola scoraggiato e depresso che decide, il 15 dicembre 1347, di abbandonare il potere. Lo fa da grande attore che saluta il suo pubblico per l’ultima volta: anche lui pronuncia un ultimo discorso, poi a cavallo e rivestito delle insegne imperiali lascia il palazzo del Campidoglio e si rifugia in Castel Sant’Angelo. Negli anni successivi all’abbandono del potere, tra la fine del 1348 e la metà del 1350, Cola soggiornò lungo tra i Fraticelli dell’Abruzzo, nel massiccio della Maiella. I Fraticelli erano Francescani appartenenti alla corrente «spirituale»
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dell’Ordine, che vivevano lí in piccole comunità o come eremiti. Partigiani della povertà assoluta, condannata dalla Chiesa, predicavano l’avvento di un mondo migliore, grazie alla venuta dello Spirito Santo che avrebbe fondato sulla terra il nuovo regno di Dio. La sua aspirazione al rinnovamento morale dell’uomo, come la pronunciata devozione allo Spirito Santo, inducevano Cola a condividere queste credenze, tanto piú che era facile per lui trovare nel profetismo escatologico dei Fraticelli una missione da compiere: quella di andare a Praga per convincere l’imperatore, che secondo i Fraticelli doveva essere lo strumento della restaurazione del regno di Dio sulla Terra. Probabilmente all’inizio dell’estate 1350 Cola intraprese il viaggio per Praga, per convincere
La Loggia delle Benedizioni, nella basilica di S. Giovanni in Laterano a Roma, cosí come appariva ai tempi di Bonifacio VIII, che di lí annunciò l’indizione del primo Giubileo, in un disegno del pittore olandese Maarten van Heemskerck. XVI sec.
l’imperatore Carlo IV ad adempiere la missione assegnatagli dai Fraticelli della Maiella. Giunto in città, Cola alloggiò presso un albergatore italiano e fu ricevuto da Carlo IV almeno tre volte, alla fine di luglio e nella prima metà di agosto. Spiegò all’imperatore il senso delle profezie dei Fraticelli, gli annunciò la venuta dello Spirito Santo e in questa prospettiva gli propose di prendere il potere in Italia. Carlo IV ascoltò e s’informò, interrogandolo in particolare sulla situazione politica a Roma e in Italia, ma senza prestare il minimo credito ai discorsi escatologici. Gli chiese quindi di redigere due relazioni, una per sé e l’altra per l’arcivescovo di Praga, dopo di che lo fece arrestare, il che gli valse immediatamente tre lettere di felicitazioni di Clemente VI. Tuttavia, si guardò bene dal consegnarlo al papa e lo fece trattare con riguardo per tutto il corso della sua detenzione a Roudnice, sul fiume Elba, sotto la custodia dell’arcivescovo di Praga.
Gli ultimi fuochi
Nella primavera del 1352, papa Clemente VI ottenne dall’imperatore il trasferimento dalla Boemia ad Avignone di Cola, scomunicato e sottoposto a un’inchiesta dell’Inquisizione per eresia. L’arrivo ad Avignone ebbe luogo nel luglio o all’inizio di agosto del 1352. Cola rimase oltre un anno chiuso in una torre del palazzo pontificio, ma trattato con riguardo. Solo dopo l’elezione del nuovo papa, Innocenzo VI, riuscí a ottenere la liberazione, il 15 settembre 1353.
Subito dopo, partirono da Avignone lettere per annunciare al cardinale Albornoz, legato pontificio nello Stato della Chiesa, al Comune di Roma e a varie altre città che Cola aveva ricevuto dal papa la missione di restaurare l’ordine a Roma, senza però dare altre precisazioni sulla natura dei poteri conferiti all’ex tribuno. Cola si recò allora in Italia centrale presso il cardinale Albornoz, che tuttavia lasciò passare vari mesi prima di dare il suo consenso alla nomina di senatore di Roma e di attribuirgli una piccola truppa per affrontare la coalizione Orsini-Colonna, che deteneva il potere. Ed è in veste di senatore nominato dal legato pontificio che Cola fece, il 1° agosto 1354, un ritorno trionfale a Roma. Fu un trionfo di brevissima durata. Cola, infatti, detenne il potere solo per due mesi. Controllato a vista dal potente ed energico cardinale Albornoz, aveva abbandonato ogni velleità di politica italiana e persino di riforma comunale. L’entusiasmo con il quale lo avevano accolto i Romani si dissipò sul nascere e Cola dovette quindi affrontare l’aperta ostilità dei baroni senza alcun sostegno popolare. Forse lui stesso non credeva piú nel proprio destino. L’Anonimo lo descrive come una sorta di degenerato, rozzo e rubicondo, sempre dedito al vino e dalle convinzioni vacillanti. Fatto sta che la mattina dell’8 ottobre, quando si sollevarono contro di lui i quattro rioni di S. Angelo, Ripa, Colonna e Trevi, sottoposti alla preponderante influenza dei Savelli e dei Colonna, non ci fu alcun tentativo, da parte della popolazione degli altri rioni, di portargli soccorso. In un ultimo impeto d’orgoglio, il senatore si affacciò in pompa magna al balcone del palazzo comunale con l’intenzione di arringare i rivoltosi, ma di fronte al lancio di pietre e di frecce contro il Campidoglio, abbandonato dal personale comunale, dovette ben presto desistere. Incerto se morire combattendo o salvare la pelle con la fuga, decise infine di travestirsi da contadino, riuscendo cosí a uscire dal palazzo in fiamme e a mescolarsi alla folla gridando come gli altri: «Suso, suso a gliu traditore!». Fu, però, riconosciuto dai braccialetti che aveva dimenticato di togliere, condotto sulla sommità della grande scalinata, vicino al leone, dove restò un’ora prima che un certo Francesco de Vecchio gli assestasse il primo colpo. Era l’8 ottobre del 1354. Il suo cadavere mutilato rimase esposto per due giorni davanti alla chiesa di S. Marcello, vicino al palazzo Colonna, contiguo alla chiesa dei SS. Apostoli, in seguito bruciato sulla piazza del mausoleo di Augusto, anch’esso occupato dai Colonna. POPULISMO
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L’EUROPA DEGLI SCONTENTI
Non di solo pane di Maria Paola Zanoboni
Le ribellioni scoppiate a piú riprese in molti Paesi europei non ebbero come molla scatenante solo la fame e le ristrettezze economiche. A portare in piazza le masse furono spesso i risvolti sociali ed economici di eventi drammatici: come la peste del 1348 o l’imposizione di condizioni lavorative prossime allo schiavismo
L’esattore delle tasse, olio su tavola del fiammingo Jan Massys. 1539. Dresda, Staatliche Kunstsammlungen. Molto piú della mancanza o dello scarseggiare del pane, i pesanti oneri fiscali furono spesso la causa scatenante delle rivolte medievali. POPULISMO
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G
L’Europa degli scontenti
li storici concordano nell’affermare che nel tardo Medioevo, fino agli inizi dell’età moderna, le «rivolte per il pane» furono piuttosto rare, nonostante il gran numero di carestie e di avversità atmosferiche che si registrarono prima e dopo l’epidemia di peste del 1348. I motivi che scatenavano le sommosse erano invece di altro genere (politici, fiscali, sociali), e naturalmente diversi a seconda dell’area geografica. In particolare, per il periodo precedente la peste, è stata rilevata una netta differenza tra i Paesi del Nord Europa (Fiandre e Francia settentrionale soprattutto), dove già nel Duecento era assai sviluppata la manifattura laniera e dove dunque furono assai precoci le proteste di carattere sociale, e l’Italia, dove insurrezioni di questo tipo si verificarono, invece, solo verso la metà del Trecento, e in un contesto – quello toscano –, che, a un secolo di distanza, riproduceva quello delle Fiandre duecentesche. Innumerevoli sono gli esempi di artigiani, salariati, e contadini impegnati nelle forme piú varie di protesta, comprese le ribellioni armate, volte a sfidare e a cambiare la propria condizione giuridica, sociale e materiale. Lungi dall’inevitabilità di repressioni sanguinose, in molti casi queste sfide furono in grado di far vacillare i governi, di riformare le strutture politiche e
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Miniatura raffigurante gli effetti di una pestilenza. Scuola veneta, XIV sec. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana.
persino di capovolgere le gerarchie sociali: tessitori, follatori, cardatori e altri membri del popolo minuto riuscirono talora a impadronirsi del potere, a bandire gli oligarchi e l’aristocrazia, e a stabilire nuovi assetti di governo.
Questioni fiscali e politiche
Le rivolte nelle Fiandre e nella Francia del Nord, tra la fine del Duecento e la prima metà del Trecento, furono sollevazioni dalle molteplici sfaccettature, con base sociale, ma motivate prevalentemente da questioni fiscali e politiche. La vera e propria epidemia di tumulti scoppiata intorno agli anni Ottanta del Duecento nasceva dalla congiunzione di esigenze socio-economiche (e salariali soprattutto) con un malcontento politico generale, diretto in primo luogo contro le élite dirigenti, e dovuto alla situazione fiscale e alla gestione delle finanze urbane. I fermenti rivoluzionari venivano soprattutto dalla manifattura tessile, caratterizzata da una espansione economica piú precoce, che aveva favorito il formarsi di un ceto medio già verso il 1280, con ambizioni di ascesa allo scabinato (lo scabino era un giudice inquisitore di nomina imperiale o regia, n.d.r.) e al consolato. Le diverse circostanze della congiuntura davano a queste lotte una colorazione talora sociale, talora politica, talora professionale, talora infine eco-
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L’EUROPA DEL MALESSERE: RIVOLTE E DISORDINI NEI SEC. XIV-XV
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M E DI SICILIA DI TER RANEO La cartina riassume alcuni degli eventi che sconvolsero l’Europa tra il XIV e il XV sec. La micidiale pestilenza del 1348 ebbe effetti devastanti, non solo per l’elevatissimo numero di vittime mietute, ma anche per i riflessi socio-economici che andò a innescare. E le rivolte, che scoppiarono numerose, ebbero spesso,
tra le loro cause scatenanti, anche gli scompensi determinati nel mondo del lavoro dall’improvviso ammanco di manodopera o dalle speculazioni di quanti, tra i sopravvissuti, cercavano di trarre vantaggio dall’essere piú che mai indispensabili per lo svolgimento delle diverse attività produttive.
Battaglie
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L’Europa degli scontenti
nomica, in qualche caso con obiettivi e modalità analoghi. Le prime difficoltà strutturali della manifattura tessile, dovute al cambiamento della congiuntura, avevano portato al moltiplicarsi dei confronti tra i diversi gruppi che la costituivano: imprenditori contro salariati, tessitori contro follatori, e cosí via. D’altro canto, a livello politico, il monopolio del potere da parte del patriziato, e, in particolare, la sua gestione delle risorse finanziarie e il suo monopolio della giustizia, furono oggetto di contestazione sia da parte di artigiani e ceti medi, sia da parte del proletariato urbano e del gran numero di lavoratori salariati delle manifatture cittadine.
Nella pagina accanto miniatura raffigurante un porto dell’Hansa (nota anche in italiano come Lega Anseatica), dagli Statuti della città di Amburgo. 1487. Amburgo, Staatsarchiv.
Una rivolta brutale e radicale
Già nel 1245 a Douai e a Rouen scoppiarono agitazioni di operai tessili sulla piazza d’ingaggio della manodopera giornaliera; nel 1253 ad Arras vennero abolite le corporazioni, sospettate di essere ricettacolo di rivolte. Nel 1252 i salariati tessili di Gand, assunti a giornata o a settimana, scesero in sciopero, con una rivolta brutale e radicale, molto simile a quella scoppiata a Douai nel 1245, e con modalità analoghe a quelle che, un secolo dopo, caratterizzarono i Ciompi fiorentini. Nel 1274, ancora i salariati tessili, i tessitori e i follatori di Gand lasciarono in blocco la città con lo scopo di ottenere salari piú alti, ma la mossa non riuscí e gli imprenditori non si piegarono. Da parte loro, però, i lavoratori non
Sigillo del centro portuale tedesco di Stralsund. 1329. Nel 1234 e nel 1284 la città ebbe diritti comunali e di commercio tali da permetterle di primeggiare, con Lubecca, tra quelle che aderivano all’Hansa.
volevano perdere la reputazione e si rifiutavano di rientrare in città. I loro sforzi per trovare lavoro altrove non ebbero comunque successo: gli imprenditori di Gand avevano infatti sbarrato loro la strada, accordandosi con gli scabini delle altre città delle Fiandre e del Brabante perché proibissero di dare asilo e un’occupazione ai tessili provenienti da Gand. Verso la metà del XIII secolo i disordini si estesero al Brabante e alla regione di Liegi, scossa per tutta la seconda metà del Duecento da sollevazioni dei lavoratori piú poveri. I fermenti sociali si fecero sentire anche in Linguadoca, che, pur non essendo un’area di grandi attività economiche, aveva un’antica tradizione urbana. Qui le lotte sociali per l’accesso al consolato si mescolarono a quelle religiose. Tolosa negli anni Sessanta e Settanta del Duecento fu scossa da continui disordini al tempo stesso politici e sociali. Nella zona tra la Senna e il Reno le agitazioni, fino a quel momento sporadiche, degenerarono in violenze simultanee e a volte concertate a partire dal 1275, causate da turbamenti all’interno dell’industria e del commercio dei tessuti: l’interruzione, tra il 1270 e il 1274, dell’importazione di lana inglese in Fiandra, e l’introduzione in Inghilterra di tasse sull’esportazione della lana, portarono nelle Fiandre a un innalzamento dei prezzi, che poteva essere frenato solo attraverso una diminuzione del costo della manodopera e una regola-
LA «SCHIERA ARMATA» DEI MERCANTI TEDESCHI Il termine hansa designò in origine una «schiera armata»; poi, intorno al XII secolo, passò a indicare un’associazione di mercanti tedeschi operanti all’estero; di mercatores hansati si parla in documenti inglesi e francesi dell’epoca. La sua nascita ufficiale risale al 1256 e comprende le città marittime di Lubecca, Amburgo, Lüneburg, Wismar, Rostock e Stralsund. Vari centri, anche non marinari, aderirono in seguito alla Lega Anseatica, che, nel periodo di maggior floridezza arrivò a contare 90 città associate. Obiettivi politici, come quelli propugnati da altre federazioni di città, furono esclusi, in quanto la Lega raggruppava città con diversa posizione giuridica (città imperiali, diocesi, ecc.), accomunate unicamente da interessi commerciali ed economici. Per questo l’Hansa non si scontrò mai con il potere imperiale e la sua autonomia fu minacciata solo dal rafforzarsi delle signorie periferiche e locali. Certamente alla nascita della Lega contribuí la
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colonizzazione, da parte delle città tedesche, dei territori slavi a est dell’Elba e l’instaurarsi di scambi commerciali sempre piú fitti con i Paesi piú progrediti d’Europa come le Fiandre e l’Inghilterra. La Lega monopolizzò i traffici tra il Mare del Nord e il Mar Baltico; funse da intermediaria tra i prodotti dell’Occidente e i prodotti naturali dell’Oriente e dell’Estremo Oriente che giungevano per via di terra a Novgorod; tra la sovrabbondante produzione di grano della Germania orientale e il patrimonio ittico di Bergen e di Schonen. Il declino dell’Hansa, prima ancora che la scoperta dell’America ponesse in secondo piano il suo ambito commerciale rispetto al traffico atlantico, ebbe varie cause. Tra queste, i contrasti entro e tra le città, lo spostarsi dello spirito d’iniziativa del ceto mercantile verso la rendita, l’intensificarsi della rete di vie di comunicazione interne; la perdita del mercato di Novgorod conquistato da Ivan III, il rafforzamento del potere signorile in Germania.
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mentazione piú stretta del lavoro. Erano tutti motivi che aggravavano una tensione latente. A tutto questo si aggiungeva un sistema fiscale (sul modello dell’estimo dei Paesi meridionali, che tassava gli immobili, ma non la ricchezza proveniente dal commercio e dalle operazioni finanziarie) gestito in modo scandaloso, tanto che ad Arras nel 1275 venne ordinata un’inchiesta sull’operato delle autorità cittadine (gli scabini), e lo stesso accadde negli stessi anni a Gand e a Douai. A partire dal 1279-1280 l’intero sistema amministrativo, fiscale, economico e sociale venne messo in discussione e il popolo cominciò a regolare da sé le questioni con la violenza. L’aspetto politico del problema andava di pari passo con quello sociale. A Gand la popolazione reclamava l’accesso al consiglio cittadino per la gente di mestiere, l’abolizione dell’ereditarietà di fatto dello scabinato, il controllo sulle magistrature, e, sul piano economico, la soppressione del monopolio sull’importazione della lana, riservato fino a quel momento all’Hansa (la lega dei mercanti) di Londra. Nella città, comunque, non ci furono incidenti perché la popolazione confidava ancora nell’appoggio del conte. Non fu cosí a Ypres, a Douai e a Bruges, dove, nel 1280, scoppiarono gravi tumulti guidati sempre dagli operai tessitori e dai follatori. A Ypres trovarono l’appoggio degli operai tessili dei villaggi vicini, anch’essi sottomessi al mercante imprenditore. In tutti i casi la repressione fu durissima, con esecuzioni e ammende collettive. A Provins l’aggravio fiscale suscitò la reazione di tutti i lavoratori tessili, maestri e salariati. Per dividerli, il sindaco pensò di allungare di un’ora la giornata lavorativa. La reazione di migliaia di operai tessili fu immediata: il sindaco venne ucciso e le case degli scabini bruciate (gennaio 1281).
Soprattutto problemi sociali
Non fu migliore la sorte del sindaco di Rouen qualche giorno dopo. Al clima sociale già molto pesante si aggiunsero le avversità climatiche degli anni Ottanta e Novanta del Duecento. Invano, nel 1289, vennero proibite a Rouen tutte le assemblee di salariati tessitori: nel 1292 scoppiò una grave sommossa. Qui come altrove, attraverso la fiscalità, i problemi passavano sul piano politico, ma erano in realtà essenzialmente sociali, e in tal modo si ricollegavano a tutti i disordini che cominciavano a dilaniare l’Europa. Molte di queste rivolte non ebbero un effetto immediato, ma il loro impat40
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A CIASCUNO LA SUA RIVOLTA Tra la metà del Duecento e il primo Trecento in Italia emergono dai documenti, accanto ai conflitti politici, anche rivolte fiscali, rivolte di studenti contro l’ingiustizia dei tribunali, proteste per la carestia, sommosse guidate da movimenti ereticali. Nel 1266 a Venezia, come narra il letterato Marin Sanudo il Giovane (1466-1536), il popolo, esasperato dalle imposizioni fiscali eccessive, assalí il palazzo del doge, il quale con parole assennate e molte promesse riuscí a placare i rivoltosi. Terminata la sedizione, però, fece arrestare i capi della sommossa e revocò la diminuzione delle tasse. Un altro tumulto per motivi fiscali scoppiò ad Ascoli Piceno nel 1269. A Bologna, per opporsi a sentenze ingiuste, la corporazione dei calzolai prese d’assalto piú di una volta (nel 1267 e nel 1295) il palazzo del podestà e quello del capitano del popolo, e, sempre per questioni di giustizia, gli studenti, cioè i principali soggetti dell’economia cittadina, minacciarono di emigrare a Imola.
Miniatura del Maestro del Biadaiolo raffigurante una distribuzione di cibo in tempo di carestia. XIV sec. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana. to a lungo termine è innegabile, sia sul piano amministrativo, sia dal punto di vista della partecipazione al governo. Nel 1279, per esempio, il re di Francia obbligò le città delle Fiandre a rendere conto annualmente della gestione delle finanze sia al conte, sia ai cittadini che lo avessero domandato. Un effetto simile si ebbe per la partecipazione al governo urbano e alle decisioni politiche: nel 1304 i mestieri di Bruges ottennero l’accesso alla principale carica cittadina (lo scabinato), mentre a Gand nel 1301 l’accesso alle cariche pubbliche venne riformato e reso piú democratico. Accanto al patriziato sedevano ormai i rappresentanti dei mestieri piú modesti. Dalla documentazione fiamminga di fine Duecento emerge anche un forte senso dell’ingiustizia, in particolare a proposito della fiscalità e delle eccessive tasse sui generi di prima necessità come cibo e bevande: «I poveri che lavorano con le proprie mani pagano piú dei ricchi», si diceva. In città come Bruges, le differenze
sociali andarono aumentando notevolmente durante il Trecento, creando un abisso tra i lavoratori piú poveri e i mercanti piú ricchi.
Un panorama articolato
Prima della peste non è rilevabile un modello paneuropeo di rivolta. Nella seconda metà del Duecento e nel primo Trecento le sollevazioni nell’Italia centro-settentrionale erano ben diverse da quelle delle Fiandre: nessuno sciopero o disordine simile a quelli fiamminghi è rilevabile tra gli operai tessili italiani, almeno fin verso il 1340, neppure in luoghi come Firenze dove la manifattura tessile era assai sviluppata e molti lavoratori erano privi di un riconoscimento corporativo. La causa prima dei conflitti «di classe» riguardava invece gli interessi dei mercanti e dei piccoli commercianti che si opponevano all’aristocrazia terriera e mercantile, vescovo locale compreso. Disordini di questo genere si ebbero a Firenze, Pisa, Genova, Savona, Ancona, Siena, Perugia, Bologna, Roma, Napoli. In seguito a tali conflitti un’élite venne a sostituire un’altra, portando al potere nuovi ceti sociali. Si trattava prevalentemente di conflitti politici scatenati dall’ascesa del «primo popolo», ovvero dall’alleanza tra salariati, artigiani e mercanti (che si identificavano con i Guelfi) contro il predominio dei magnati (che aderivano al partito ghibellino). A differenza delle aristocrazie feudali del Nord Europa, infatti, quelle italiane avevano cospicui interessi mercantili concentrati sulle attività bancarie internazionali e sul commercio a lunga distanza. Dalla fine del Duecento, dopo le vittorie popolari a Bologna, Firenze, Pisa, Siena, e l’assoggettamento dei magnati a leggi speciali e pesanti tasse, nuove divisioni apparvero all’interno del «popolo», con la distinzione in «popolo minuto» e «popolo grasso», sempre piú vicino ai magnati. Questi ultimi a loro volta sfruttavano abilmente le divisioni interne degli avversari per utilizzare il «popolo» come massa di manovra. A causa della mancanza o della laconicità delle fonti, è difficile stabilire quali ceti si celassero esattamente sotto il termine «popolo». Tuttavia, è chiaro che i capi dei rivoltosi appartenenti al «popolo», uomini come Giano della Bella, ricco esponente dei vertici del mondo corporativo fiorentino, si possono a stento definire «popolo minuto», in quanto costituivano piuttosto un mondo a parte rispetto agli autodidatti capi dei ribelli fiamminghi, provenienti dalle schiere dei salariati e dei contadini. L’omogeneità di distribuzione delle milizie e la POPULISMO
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prontezza del popolo minuto ad armarsi e a difendere il regime popolare quando l’aristocrazia lo minacciava, lasciano supporre che i piccoli commercianti e gli artigiani specializzati provvisti di riconoscimento corporativo non fossero le sole forze sociali dietro a questi movimenti. In questo clima si inserisce appunto la legislazione antimagnatizia (Ordinamenti di Giustizia) fatta promulgare a Firenze nel 1293 da Giano della Bella, che rappresentava il coronamento di rivolgimenti politici e sociali iniziati nel 1250, quando, dopo la morte di Federico II, la parte guelfa si era imposta sugli avversari ghibellini, dando vita al «primo popolo» (costituito da grandi mercanti, artigiani e banchieri, fino a quel momento esclusi dal governo della città) e creando, nel 1282, il Priorato delle Arti, che consentí agli esponenti delle Arti Maggiori di entrare a far parte degli organi di governo. Per cercare di porre fine alle faide e alle lotte intestine che insanguinavano in continuazione Firenze, con grave danno alle manifatture e al commercio, vennero appunto emanati gli Ordinamenti di Giustizia che limitavano lo strapotere delle famiglie magnatizie, punendo duramente gli atti di violenza dei grandi e raddoppiando le sanzioni a loro carico, dando però adito a eccessi di ogni tipo. Il tentativo di Giano della Bella di confiscare il patrimonio della parte guelfa a beneficio del Comune, fece precipitare la situazione (1295) e provocò il suo bando dalla città. Come a Firenze, a Parma, nel 1291, i mestieri principali (macellai, fabbri, calzolai, pellicciai) rovesciarono il governo dei magnati, mentre a Bologna, nel 1306, i macellai si resero protagonisti di un colpo di Stato che portò al governo popolare. Ugualmente a Siena, nel 1317, questa volta in seguito a una grave carestia, macellai, fabbri e lavoratori lanieri cercarono di instaurare un governo popolare minacciando il governo dei Nove, espressione del ceto mercantile di parte guelfa.
La fame è solo un pretesto
Come già detto, le rivolte per il pane, considerate come la principale forma di protesta collettiva dell’età preindustriale, sono quasi del tutto assenti nelle fonti del tardo Medioevo. Quando si verificarono, si trattò in genere del pretesto di determinati gruppi per rovesciare il governo. Solo verso gli anni Venti e Trenta del Trecento si riscontra qualche sollevazione di questo tipo: a Siena (1303, 1329, 1347), Roma (1329 e 1347), Bologna (1311), Napoli (1329), e Barletta (1329 e 1340). Non furono comunque 42
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Siena, Palazzo Pubblico. Particolare degli Effetti del Buon Governo di Ambrogio Lorenzetti nel quale si vede, sulla sinistra, una bottega di tessitori. 1338-39. agitazioni su larga scala, né sembra che si siano estese fuori dalle mura cittadine nelle aree piú depresse del contado. A differenza poi delle prime rivolte industriali delle Fiandre, o di quelle del «popolo» nelle città italiane, queste sollevazioni seguite alle carestie non minacciarono i governi cittadini. Disordini per la grave penuria di grano scoppiarono a Firenze tra il 1328 e il 1330, come narra Giovanni Villani. La carestia era tale, non solo a Firenze ma in tutta la Toscana e in gran parte dell’Italia, che molte città furono costrette a cacciare fuori dalle mura tutti i poveri. Per cercare di ovviare alla situazione, le autorità cittadine chiesero grano in Sicilia, ma i prezzi continuavano a salire, tanto che a Firenze, dove erano già scoppiati disordini perché il grano era stato aumentato di prezzo nonostante fosse mescolato all’orzo, si dovette dotare di un presidio armato il mercato di Orsanmichele. Per sostenere la popolazione il Comune stanziò 60 000 fiorini d’oro e si decise di non vendere il grano al mercato centrale, ma di far produrre direttamente il pane, vendendolo in 3 o 4 botteghe cittadine. Questa politica di sostegno al popolo e ai poveri ne contenne la rabbia, perché ciascuno aveva di che vivere. Grazie a questa politica illuminata la città si salvò da molte avversità, nonostante la situazione di miseria estrema.
Alla vigilia della Morte Nera
Qualcosa di diverso e di probabilmente coordinato fu invece la sollevazione scoppiata nelle campagne fiorentine negli ultimi mesi del 1347, in un periodo di gravissima carestia, tanto che – come narra ancora Villani – la maggior parte delle famiglie contadine abbandonava i poderi e rubava per fame ciò che trovava. Le campagne furono sconvolte da furti e saccheggi di case e mulini, devastazioni di campi, aggressioni contro chi trasportava grano. Su richiesta dei proprietari cittadini, perciò, il Comune di Firenze instaurò un sistema di sorveglianza della popolazione del contado. In questo clima, i rettori delle comunità rurali istigavano i contadini a non lavorare per i proprietari della città, a non macinare il grano nei loro mulini e a saccheggiare i loro campi, tutti elementi che fanno pensare a un certo coordinamento dei tumulti, come nella Jacquerie francese. Poco dopo, però, l’epidemia di peste mise tutto a tacere Il massiccio decremento demografico causato
dall’epidemia di peste del 1348 produsse, a partire dal 1370 circa, effetti positivi dal punto di vista economico: una maggiore disponibilità di risorse, unita a una diminuzione dei prezzi dei generi alimentari, nonché un generale aumento dei salari dovuto alla scarsità della manodopera. Eppure proprio in questo contesto, non di crisi economica, ma di ripresa e di riconversione, si svilupparono alla fine del Trecento un po’ in tutta Europa, dalla Francia alla Germania, alle Fiandre e all’Inghilterra, e a molte zone dell’Italia, alcune tra le principali rivolte del secolo. Emblematica a tale proposito la piú famosa di queste rivolte, il «tumulto dei Ciompi», scoppiato a Firenze il 22 giugno del 1378, con cui i salariati dell’Arte della Lana riuscirono a ottenere per quattro anni, fino al 1382, il governo della città (vedi anche alle pp. 62-68). Le petizioni rivolte dai Ciompi all’Arte della Lana fiorentina, che comprendeva soltanto gli imprenditori e i mercanti, e dalla quale i lavoratori di livello piú basso erano esclusi, chiedevano appunto la possibilità di una rappresentanza all’interno della corporazione, e quindi all’interno delle magistrature cittadine, a essa strettamente collegate; la revoca dello «statutum bladi», cioè del provvedimento governativo che sanciva uno stretto controllo dell’autorità centrale sulle Arti minori; l’abolizione della figura dell’«ufficiale forestiero», cioè del magistrato dell’Arte della Lana incaricato di giudicare le controversie di qualunque genere sorte nella corporazione, e che «per ogni piccola cosa ci martiria», lamentavano i Ciompi; il mutamento del sistema fiscale mediante l’introduzione dell’estimo (tassa sui beni) e l’abolizione dei prestiti forzosi. In un’ottica analoga, anche se con una riuscita meno eclatante, si colloca il tumulto dei Ciompi di Siena («rivolta del Bruco» o «di Barbicone», 1371), di poco anteriore a quello fiorentino, innescato da una controversia sui salari tra i cardatori e gli imprenditori lanieri. Ne seguirono notevoli disordini, portati avanti soprattutto dai cardatori della Compagnia del Bruco. Pochi mesi dopo, però, la sollevazione si trasformò in rivolta politica. Le rivolte di Firenze e di Siena avevano in comune alcuni obiettivi di grande importanza: quello di ottenere una revisione dell’entità e del meccanismo di determinazione dei salari, e quello di assicurarsi una rappresentanza corporativa, in modo da poter partecipare al governo della città. In numerosi centri industrialmente sviluppati, dunque, le prime rivendicazioni economico-politiche dei salariati POPULISMO
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L’Europa degli scontenti bero un ruolo non secondario persino le donne. La causa immediata fu comunque, ancora una volta, quella fiscale. Due aree, la Lombardia viscontea e le Fiandre, che significativamente avevano in comune la forte urbanizzazione e la ricchezza di importanti centri manifatturieri fin dalla fine del Duecento, videro, anche nella prima parte del Trecento, rivolte da imputare a questioni politiche e fiscali, anziché a meri problemi di sussistenza. La pressione fiscale insostenibile, dovuta all’esigenza di finanziare le continue guerre, fomentò le ininterrotte ribellioni ai Visconti, durante tutto il Trecento, di Lecco, Monza e dei centri manifatturieri della Brianza.
Mercanti e artigiani sulle barricate
Miniatura raffigurante un fabbricante di corde, dal I volume dell’Hausbuch der Mendelschen Zwölfbrüderstiftung (Registro della Fondazione Mendel dei dodici fratelli). 1425 circa. Norimberga, Stadtbibliothek.
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e la volontà di ascesa sociale del popolo minuto vennero a complicare il già complesso quadro degli scontri di fazione per il controllo del governo cittadino. Motivi politici e soprattutto fiscali scatenarono anche le rivolte francesi della fine del Trecento: l’ingiustizia dei carichi fiscali, nuove imposizioni straordinarie, e in particolar modo l’incertezza sulla destinazione del denaro riscosso costituirono le principali cause dei tumulti. Nel 1378 a Montpellier si scatenò, per esempio, una rivolta fiscale perché – ricorda una fonte – «per la povertà e le condizioni disperate della popolazione, la comunità non poteva pagare le tasse». La questione giudiziaria e la parzialità dei tribunali scatenarono invece la rivolta inglese del 1381, sfociata nella distruzione di prigioni, nella decapitazione di giuristi, e in una sequenza impressionante di atti di violenza, nei quali eb-
Nelle Fiandre il dinamismo economico e commerciale di città come Ypres, Bruges e Gand, popolate da un ceto artigianale e mercantile numeroso e potente, ma governate da un patriziato legato al mondo feudale che deteneva saldamente il potere politico, e controllava le finanze pubbliche e l’economia, non tardò a produrre contrasti sociali insanabili, sfociati in una serie fittissima di rivolte che afflissero la zona per tutto il XIV secolo. Nelle Fiandre e in Francia, protagonisti delle rivolte successive alla peste furono i mercanti e le élite degli artigiani, anziché il «proletariato», e le cause sono da individuare nella crescita dell’imposizione fiscale, anziché nell’aumento del prezzo del pane. Nel 1351 a Rouen i mercanti si ribellarono appunto all’introduzione di nuove tasse, mentre nel 1359 a Bruges scoppiarono micidiali conflitti tra gli artigiani, come narra Giovanni Villani. Nelle Fiandre e in Toscana, all’epoca del tumulto dei Ciompi, i problemi sociali si ponevano dunque in termini equivalenti di salari, tempi di lavoro, rivalità di mestieri e opposizione dei dominanti ai dominati. In un caso come nell’altro la competizione per il governo della città si svolgeva all’interno dei mestieri tessili e la situazione era acuita dalla rivalità delle città fra loro: Firenze contro Siena e Pisa, Gand contro Bruges e Ypres. Anche nel caso fiammingo la dimensione politica (il suo inserirsi nel quadro territoriale della contea di Fiandra), si sovrapponeva a quella sociale. Sembra, insomma, che i motivi piú profondi dei fermenti rivoluzionari presentassero forti analogie a Firenze e nelle Fiandre. Precedendo i Ciompi, i tessitori di Ypres si ribellarono nel 1377. A Gand la rivolta scoppiò nel 1379; la sua causa immediata non fu sociale, ma riguardò la rivalità con Bruges, anche se il problema era in
sostanza quello sociale. In breve la città divenne il punto di maggior fermento di una rivolta generalizzata in cui i mestieri si affrontavano tra loro, in un clima in cui le solidarietà fra le professioni (per esempio, i tessitori di Gand si allearono con quelli di Bruges) erano molto piú forti delle solidarietà cittadine. I tessitori di Bruges, insieme a quelli di Gand, lottavano contemporaneamente contro il conte e contro tutti gli altri mestieri, ritenuti suoi alleati Anche nelle altre regioni del regno di Francia le rivolte presentarono aspetti simili a quelli fiamminghi e fiorentini, distinguendosi, da un lato, nelle insurrezioni operaie delle città (che furono in maggior numero), dall’altro nelle rivolte contadine. Motivo comune a queste agitazioni fu il vivo malcontento contro la fiscalità della monarchia. La rivolta delle Fiandre si estese a macchia d’olio: nel febbraio 1382 a Rouen oltre 200 operai tessili della Normandia si ribellarono (causa immediata, ancora una volta, un’imposizione fiscale). I rivoltosi si scagliarono contro gli ufficiali del re, i ricchi borghesi, il capitolo della cattedrale: dunque inizialmente una sollevazione fiscale che poi prese subito connotazioni sociali. Poco dopo, sulla scia degli eventi di Rouen e con le stesse modalità (sommossa fiscale con motivi sociali), scoppiò una rivolta anche a Parigi, descritta da Bonaccorso Pitti che paragona il popolo minuto parigino ai Ciompi. La stessa cosa si verificò, sempre nel 1382 anche in molte altre città francesi, e in Normandia in particolare.
Pauperizzazione crescente
In tutti questi casi, dunque, il rifiuto delle imposte nascondeva motivazioni psicologiche, economiche e sociali. Dall’esame delle cronache emergono soprattutto i problemi sociali. Le condizioni di vita e di lavoro, la pauperizzazione crescente, le crisi alimentari (la piú grave in Linguadoca nel 1375) rendevano insopportabile la pressione fiscale. Nelle campagne e nelle città una folla di vagabondi e manodopera senza specializzazione si riversava nelle strade, come appare chiaramente a Parigi e a Rouen. Ecco dunque quali furono da principio le truppe dei rivoltosi: a Gand e a Ypres gli operai tessili giornalieri, i salariati dei tessitori, dei follatori e dei tintori; a Rouen la «folla composta e senza armi» di «homines vilis status» – come li descrivono le cronache – di operai tessili e salariati in genere; a Parigi coloro che manifestavano tormentati dagli agenti del fisco erano modesti artigiani provenienti da ogni settore, e contadini.
A questo primo gruppo si affiancarono poi malfattori, avventurieri e demagoghi di cui la povera gente della prima ora divenne preda e massa di manovra. A Rouen, nel febbraio 1382, grandi mercanti e vinattieri sostennero la rivolta; a Gand fu diretta da personaggi in vista, che godevano di cospicue rendite, ai quali la sorte dei poveri non importava affatto. Si trattava insomma di rivolte concertate in vista di interessi limitati, sul piano fiscale, professionale o sociale, ma non di rivoluzioni. Furono in ogni caso le persone modeste, i rivoltosi della prima ora, a pagarne le conseguenze.
Un’altra miniatura tratta dall’Hausbuch der Mendelschen Zwölfbrüderstiftung. 1425 circa. Norimberga, Stadtbibliothek. È qui raffigurato un cardatore: insieme ad altri addetti al settore laniero, questi lavoratori furono piú volte protagonisti delle rivolte scoppiate nel corso del Medioevo.
Un Paese in subbuglio
La sollevazione dei lavoratori inglesi fu il solo movimento popolare tra quelli del Tre-Quattrocento ad assumere un vero carattere nazionale: se non coinvolse tutto il regno, si estese comunque a una parte importante, comprendente le regioni vitali, fatto a cui si deve aggiungere che l’organizzazione e il programma dei rivoltosi emergono con una nitidezza che sorpassa decisamente quella delle altre sommosse. Tanto le cronache coeve che la documentazione giudiziaria sono ricchissime di notizie in proposito. La poll tax, tassa pro capite di 4 denari, di cui era gravata la popolazione al di sopra dei 14 anni, istituita nel 1377 per sovvenzionare la guerra difensiva contro il re di Francia, costituí la causa immediata della rivolta. Le richieste degli insorti (60 000 uomini secondo alcune fonti, 100 000 secondo altre) erano: l’abolizione della servitú, l’abolizione di qualsiasi restrizione nelle compravendite, l’amnistia generale, la libertà di lavoro (e quindi la revoca dello Statuto dei Lavoratori del 1349), la liberazione di tutti i prigionieri, l’obbligo per i signori feudali di ripartire tra gli usufruttuari i diritti d’uso dei boschi, la facoltà per i rivoltosi di avere voce in capitolo nelle decisioni di governo. Un’ulteriore richiesta riguardava la distribuzione tra i parrocchiani dei beni della Chiesa, una volta assicurata la sussistenza del clero. Sembrerebbe dunque che gli insorti avessero un programma ben preciso (che fu presentato al re d’Inghilterra dal loro capo Wat Tyler). POPULISMO
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L’insurrezione fallí, Wat Tyler venne ucciso, e re Riccardo revocò subito le concessioni (giugno 1381). In ogni caso la poll tax, che ne era stata la causa immediata, non venne ripristinata. A prescindere dalle motivazioni fiscali e politiche (la guerra contro la Francia di Carlo V), ce n’erano altre di carattere rurale e sociale: la richiesta di abolire la servitú, fortemente radicata nelle campagne inglesi, in primo luogo, rappresentava il motivo fondamentale. La carenza di manodopera e l’aumento dei salari del periodo successivo alla peste ponevano infatti con forza ancora maggiore la questione del servaggio. In Inghilterra (con l’ordinanza di Edoardo III) si era fatto uno sforzo senza precedenti per cercare di contenere i salari e i prezzi, ma si era riusciti soltanto a frenare il fenomeno, scontando questo risultato con innumerevoli risentimenti, covati a lungo, e che divampavano ora con la rivolta. A questo si aggiungeva un’intromissione sempre maggiore dello Stato, che cominciava a unificare le sue pratiche giuridiche a scapito dei costumi locali, e a scapito di tutto quello che l’amministrazione signorile poteva offrire ai contadini che si trovavano sotto la sua egida.
Un riformatore al fianco dei ribelli
Altra questione è quella della partecipazione delle città a questo movimento soprattutto rurale. Fin dall’inizio del Trecento apprendisti e salariati avevano cominciato a opporsi ai maestri, e i salariati (per esempio quelli dei sellai di Londra) avevano persino formato alcune associazioni durante la seconda metà del secolo. In questo clima il popolo minuto delle città aveva mostrato solidarietà verso quello delle campagne. Le agitazioni furono guidate in particolare dai mestieri dell’alimentazione e da quelli tessili. La rivolta risentí probabilmente anche dell’influsso delle teorie del riformatore John Wycliffe sui rapporti tra Chiesa e Stato, risalenti proprio al 1378 (e al 1380 l’inizio della predicazione dei suoi discepoli). Nel 1382 la sua dottrina venne condannata. Numerose tesi sostenute da Wycliffe potevano avere un’applicazione immediata: egli sosteneva, infatti, che si doveva purificare la Chiesa, secolarizzandone il patrimonio; che le decime erano soltanto elemosine non obbligatorie, e che sarebbe stato anzi doveroso rifiutarle ai cattivi sacerdoti; che i capi temporali potevano correggere i vizi dei chierici indegni. I contemporanei non tralasciarono di vedere un legame tra Wycliffe e i rivoltosi. Nella seconda metà del Trecento in area tede46
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sca (Francoforte 1358, Augusta 1368, Colonia 1370) le lotte che opponevano all’interno di uno stesso mestiere i maestri ai loro sottoposti assunsero un’importanza crescente. Gli uni cercavano di impedire l’accesso alla maestranza, mentre gli altri reclamavano compensi piú alti. I lavoratori dipendenti cercarono sempre di piú di riunirsi in associazioni di apparente carattere religioso.
Alleanze cittadine
Sodalizi di questo tipo sono testimoniati nel 1321 per i bottai di Lubecca, Amburgo, Rostock; nel 1321 tra i salariati dei tessitori di Berlino; nel 1404, 48 salariati pellettieri provenienti da varie regioni fondarono a Strasburgo una confraternita che non tardò a travalicare gli obiettivi ufficialmente religiosi. I maestri reagirono formando alleanze intercittadine: i macellai delle città del medio Reno costituirono un’alleanza nel 1352, e ugualmente i fabbri delle medesime città nel 1383. Tutti i salariati dei diversi mestieri delle varie città risposero formando un’associazione generale nel 1421. Anche l’Alsazia vide costituirsi alleanze simili. In questo modo gli avversari poterono affrontarsi in conflitti che assunsero spesso una grande ampiezza. Nel 1329, per esempio, i lavoratori alle dipendenze dei confettori di Breslau decisero lo sciopero di un anno per ottenere compensi migliori. Questo conflitto restò ancora localizzato. Diversamente sarebbe stato in alta Alsazia, a Ensisheim, dove maestri e salariati ciabattini si affrontarono nel 1400 e venne emanata un’ordinanza che impediva a questi ultimi qualsiasi azione unilaterale. Scontenti della loro retribuzione, i dipendenti dei ciabattini nel 1407 scesero in sciopero, cercando di allargare la protesta ai loro colleghi delle due rive del Reno, l’Alsazia e il Baden, con i quali avevano concertato un’assemblea generale, e ai salariati di altri mestieri, come sarti, sellai, calderai. Le autorità cittadine, temendo che gli operai avrebbero avuto la meglio sui maestri, riuscirono a impedire l’assemblea generale e un’altra successiva, prevista per il 1408. Le confraternite furono sospettate di essere il nucleo dell’agitazione che comunque diede luogo ad altri conflitti nel 1421 e soprattutto nel 1436 quando, di fronte a un movimento generale degli operai di tutti i mestieri che preparavano un’organizzazione comune, le autorità municipali delle città renane decisero di tenere una riunione comune, in cui redigere uno statuto dei salariati. Si voleva trovare un mo-
Miniatura raffigurante l’offerta della mariegola (statuto delle corporazioni veneziane di arti e mestieri) al doge Francesco Foscari, dalla Mariegola della Corporazione dei Tessitori. XV sec. Venezia, Museo Correr.
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do diverso dalla forza per regolare questi conflitti, ma la novità e la dispersione di queste lotte impedivano ancora di elaborare dei principi d’insieme.
Nuove forme di dipendenza
Nonostante l’apparente divergenza di opinioni, gli storici attualmente concordano dunque nel ritenere che, nello sviluppo delle rivolte, la tesi congiunturale e quella sociale si completino a vicenda: già nella seconda metà del XII e durante il XIII secolo erano emersi problemi sociali che si acutizzarono nel corso del Duecento nelle regioni piú sviluppate sia dal punto di vista agricolo che manifatturiero. La disuguaglianza crescente era in sostanza il risultato dello sviluppo economico stesso che vedeva, da un lato, coloro che potevano trarre profitto dallo sviluppo tecnologico, dall’altro la maggioranza, condannata a nuove forme di dipendenza. A questo punto intervennero anche le cause congiunturali, i fattori demografici, quelli politici e quelli fiscali. Se è indiscutibile che si siano verificate rivolte per la miseria, è altrettanto vero che quelle meglio organizzate si verificarono in regioni agiate, dove i piú ricchi diedero vita ai tumulti (come nella Fiandra marittima, in Inghilterra nel 1381, nei fiorenti centri tessili fiamminghi e italiani), per questioni salariali e/o di rappresentanza politica. A tale proposito appare particolarmente efficace l’osservazione del cronista trecentesco Jean Froissart, secondo il quale l’agiatezza e l’abbondanza di beni di cui in quel momento godeva il popolo minuto, produssero la rivolta. Altro motivo di disordini era rappresentato dalla necessità di avere accesso al potere per motivi economici: l’invasione della società da parte dello Stato rappresentò, in effetti, una delle cause delle lotte sociali. In Fiandra, per esempio, il conflitto di Gand con il conte, scoppiato intorno al 1380, fu, in un certo qual modo, quello di una città che si poneva in concorrenza con lo Stato, attraverso lo scontro degli interessi cittadini con quelli del comitato. Sempre a questo proposito, d’altra parte, lo sviluppo delle amministrazioni statali comportò un aggravio fiscale che andò a fomentare il malcontento delle popolazioni, risultando nella maggior parte dei casi uno dei principali fattori scatenanti di disordini e sollevazioni. La rivolta inglese del 1381 ebbe appunto come causa immediata un’imposizione fiscale, la poll tax. Per mascherare le imposte, il principe ricorreva spesso alla politica monetaria, che si rivelava cosí talvolta causa di tensioni sociali. 48
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Vignetta raffigurante, in primo piano, l’uccisione di Wat Tyler, e, sulla destra, il re Riccardo II che parla ai rivoltosi, da un’edizione delle Chroniques di Jean Froissart. 1460-80. Londra, British Library. Tyler aveva guidato la rivolta scoppiata in Inghilterra nel 1381, all’indomani dell’imposizione della poll tax, una tassa pro capite istituita nel 1377 per finanziare la guerra contro la Francia.
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Taci e lavora Anche nei secoli dell’età di Mezzo la classe operaia «non andava in Paradiso»: erano all’ordine del giorno salari risibili, orari di lavoro massacranti, infortuni e, non da ultimo, lo sfruttamento sistematico della manodopera infantile. Ecco perché scioperi e rivendicazioni segnarono la vita di città e interi Paesi, anticipando i moti sindacali dell’età moderna di Maria Paola Zanoboni
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l tema del lavoro salariato nel Medioevo si rivela di straordinaria attualità, poiché fa emergere problematiche per molti aspetti assai simili a quelle odierne: gli scioperi, per esempio, documentati fin dal Duecento e ritenuti dall’autorità pubblica «reati contro il bene comune»; il lavoro nero; gli infortuni; il lavoro precario costituito da salariati giornalieri assunti sulle piazze d’ingaggio, nonché la convenienza di molti operai specializzati nel farsi assumere, in periodi di crisi, con lo status di apprendista per avere la garanzia di una certa stabilità dell’occupazione, anche se con un compenso piú basso; la severa disciplina della giornata lavorativa. Le origini di questo tipo di rapporto lavorativo si perdono nella notte dei tempi: già mille anni prima del periodo qui preso in considerazione, il Vangelo di Matteo descriveva minuziosamente il meccanismo di assunzione dei vignaioli sulla piazza d’ingaggio, la contrattazione del salario, la necessità di assegnare una retribuzione commisurata al numero delle ore di lavoro, il pagamento del compenso alla fine della giornata. È un dato ormai acquisito dagli storici il fatto che il lavoro salariato, ritenuto una delle maggiori novità nei rapporti di produzione del XIIXIII secolo, fosse diffuso, almeno a partire dal Duecento, a ogni livello, in qualsiasi tipo di manifattura, e alle latitudini piú diverse, circondato spesso dal disprezzo, talvolta dalla compassione dei contemporanei per un mondo percepito come miserabile e subalterno. Tra i primi documenti in proposito emergono le norme volte a disciplinare le remunerazioni contenute negli Statuti di Pistoia del 1117. Si tratta di un periodo storico cruciale, che vede
l’affermazione delle autonomie cittadine con la nascita del Comune (fine dell’XI-inizio del XII secolo) e il progressivo emergere, tra i ceti dirigenti cittadini dell’Italia centro-settentrionale, anche di gruppi mercantili e artigianali, «mecanicharum artium opifices» che Ottone di Frisinga, zio di Federico Barbarossa, additava, verso la metà del XII secolo, come partecipi di molti governi cittadini, e tra i principali responsabili dei guai dell’imperatore. Negli stessi anni, proprio a causa delle controversie fra i Comuni e l’impero, fioriva la Scuola giuridica di Bologna, che ebbe modo di pronunciarsi a piú riprese, tra il XII e il XIII secolo, anche a proposito del lavoro salariato.
Nella pagina accanto la misura e il trasporto del carbone, acquarello da Ordonnances Royaux de la Juridiction de la Prevote des Marchands de la Ville de Paris. 1528. Parigi, Bibliothèque historique de la Ville de Paris.
Al di fuori delle corporazioni
Tra la fine del Duecento e i primi decenni del Trecento, permeando sempre nuovi settori economici, fino a investire l’ambito stesso della formazione professionale, il lavoro salariato era ormai saldamente insediato non solo nei grandi complessi produttivi – come i cantieri o le aziende laniere –, ma anche all’interno degli ambiti piú modesti, quali le botteghe artigiane, con forme e modalità che, assai spesso, sfuggivano alle maglie dell’organizzazione corporativa, configurandosi con le connotazioni tipiche del «lavoro nero». Questo tipo di rapporto lavorativo era caratterizzato da una straordinaria capacità di infiltrazione capillare nella maggior parte delle attività e di adattamento alle situazioni, modificandosi di volta in volta a seconda delle circostanze, e nascondendosi dietro le piú varie forme contrattuali: maestro-salariato, apprendista-salariato, salariato che «evolve» in apprendista per ottenere una maggiore garanzia della stabilità e della durata dell’impiego. POPULISMO
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Non c’è ambito del mondo produttivo medievale che non possa contare un certo numero di lavoratori dipendenti: dalle grandi aziende di qualsiasi tipo (mulini, fornaci, cartiere, concerie, tintorie, fonderie, arsenali), alle botteghe piú modeste, alle corti, che stipendiavano come salariati gli artisti, agli atelier di pittori, scultori, orafi, ricamatori, che talvolta si configuravano come vere e proprie aziende, impegnate nella produzione in serie di oggetti di modesto valore artistico, ma facilmente commerciabili, fatto che si rifletteva sull’organizzazione del lavoro con la necessità di assumere un certo numero di dipendenti. Salvo qualche rara eccezione, tutto ciò è soltanto intuibile e percepibile attraverso le fonti scritte, e solo l’incrocio dei dati tra la storia economica, la storia dell’arte, l’archeologia, e le piú recenti tecniche strumentali d’indagine sui manufatti, potrà forse portare a ulteriori risultati. Dopo un lungo dibattito a proposito della definizione del termine «salariato», si è oggi propensi a ritenere che ciò che distingueva tale categoria di lavoratori fosse il fatto di essere compensati esclusivamente per la propria forza lavoro, senza il valore aggiunto rappresentato dal costo della materia prima e degli utensili (di cui, in genere, non erano proprietari), e indipendentemente dalla maggiore o minore stabilità e durata dell’impiego e dal tipo di retribuzione (a tempo o a cottimo, in denaro o in natura).
Un’impostazione da rivedere
La tradizionale suddivisione del lavoro nelle categorie di maestri, apprendisti e lavoranti appare dunque insufficiente a esprimere la realtà dell’organizzazione produttiva, e soprattutto quella del lavoro non specializzato, del «lavoro nero» di donne e bambini non inquadrato istituzionalmente negli organismi corporativi. La magmatica fluidità dei rapporti e delle situazioni rappresenta dunque la chiave di lettura di questi rapporti lavorativi. Anche la contrapposizione dei termini «artigiano» e «salariato» viene ormai considerata riduttiva e insufficiente a delineare l’effettiva realtà dei rapporti di lavoro. La riduzione di artigiani a lavoratori salariati come fenomeno temporaneo e reversibile era un evento abbastanza consueto, soprattutto in settori come quello laniero o quello metallurgico. Si trattava di persone che talvolta mantenevano qualche possibilità di lavoro autonomo, integrato dal lavoro dipendente soltanto in periodi di necessità. In questa fluidità di situa52
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In alto il pagamento dei salariati del Comune di Siena, tavoletta di biccherna attribuita alla bottega di Sano di Pietro. 1430 circa. Siena, Archivio di Stato. A sinistra Tavola delle Arti. 1602. Orvieto, Museo «Claudio Faina». Nella pagina accanto l’economia dell’Italia nel Basso Medioevo, denominazione con cui si intende, ormai solo per convenzione, il periodo compreso tra il Mille e la scoperta dell’America.
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L’economia dell’Italia nel Basso Medioevo
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POPULISMO
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L’Europa degli scontenti
zioni si possono distinguere alcune figure: il maestro-salariato, l’apprendista-salariato, il salariato che «evolve» in apprendista, l’apprendista-imprenditore. Notevoli differenze sul piano economico e sociale si riscontrano, per esempio, tra i maestri, che un documento della fine del Trecento relativo alla manifattura del fustagno distingue esplicitamente in «maestri possenti» e «maestri non ricchi». Alcuni di loro gestivano una bottega e avevano alle proprie dipendenze apprendisti e lavoranti, altri lavoravano da soli, sprovvisti degli strumenti di produzione e retribuiti a giornata, mentre sodalizi in cui un socio di capitale e un socio d’opera, dotato di un adeguato
sapere tecnico, dividevano a metà i profitti, rappresentavano spesso l’ultima opportunità per un maestro privo di mezzi di mantenere la propria autonomia. Maestri-salariati, spesso in una situazione economica precaria, caratterizzata dall’indebitamento e dalla facilità di scivolare nell’indigenza, si trovano a Milano nel secondo Quattrocento nelle botteghe degli armaioli, settore che aveva ormai assunto connotazioni per cosí dire «capitalistiche».
Da artigiano a dipendente
L’indebitamento aveva spesso come conseguenza la perdita dei mezzi di produzione, fatto che poteva trasformare l’artigiano in laA sinistra particolare di una miniatura raffigurante la pesatura della lana, da una Mariegola (statuto dei diritti e dei doveri delle corporazioni di Arti e Mestieri di Venezia) dell’Arte della Lana. XIV sec. Venezia, Museo Correr. A destra miniatura di scuola francese raffigurante la costruzione di una casa, da un’edizione del Livre des prouffitz champestres et ruraulx, di Pietro de’ Crescenzi (1230-1320/21). XV sec. Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal.
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IL LAVORO COMINCIA IN PIAZZA Il reclutamento dei salariati giornalieri poteva avvenire in appositi spazi, chiamati «piazze d’ingaggio», della cui esistenza ci sono numerose notizie soprattutto per la Francia e per le città fiamminghe e per quei settori (come il tessile e l’edilizia) che, pur assorbendo molta manodopera, vedevano le loro necessità mutare continuamente. A Parigi un’ordinanza regia del 1354 decretava che tutti i salariati che lavoravano nei campi e nelle vigne, nella produzione tessile, nella concia delle pelli, nell’edilizia e in ogni genere di attività, si recassero prima del levar del sole nelle rispettive piazze d’ingaggio. Ogni attività aveva un suo luogo di reclutamento specifico: sempre a Parigi, verso la metà del Duecento, due piazze erano deputate al reperimento dei follatori, una per trovare lavoro all’alba, l’altra dove si poteva essere reclutati a qualsiasi ora. Nel XV secolo, invece, le assunzioni dei follatori parigini avvenivano soltanto una volta alla settimana, in un unico luogo d’ingaggio. Malvestiti e tremanti di freddo durante l’inverno, simili agli alberi che hanno perduto le foglie, i salariati parigini dell’edilizia si riunivano invece sulla place de Grève già nel 1260, e la consuetudine si protrasse sino alla fine del Settecento. Oltre alle piazze esistevano anche altri luoghi di reclutamento: a Chartres tessitori e cardatori si radunavano presso due dei principali ponti cittadini,
mentre muratori, carpentieri e operai agricoli si concentravano nell’atrio della cattedrale. Talvolta erano le stesse norme corporative a sancire questo sistema, vincolando anche chi non avesse trovato lavoro all’inizio della giornata ad aspettare in piazza eventuali nuove esigenze di manodopera: un’ordinanza del 1368 dell’abate dei follatori di Saint-Denis, per esempio, imponeva ai lavoranti di attendere al termine della Messa nel luogo consueto e di non andarsene fino ai rintocchi successivi. Gli statuti dei cimatori di Parigi (1384) decretavano, pena un’ammenda, che coloro che non fossero stati ingaggiati per l’intera giornata si riunissero nelle piazze stabilite, in modo che i maestri potessero trovarli tutti insieme e scegliere all’occorrenza chi reclutare. Era invece proibito, ai lavoratori già assunti, sostare sulla piazza – come prescrivevano gli statuti di molte città italiane – per il timore che potessero far circolare false notizie tra i compagni o incitarli alla ribellione. Probabilmente per esigenze di ordine pubblico, le autorità corporative cercavano anche di sancire principi come quello di far lavorare tutti, anche se saltuariamente: tale sembrerebbe appunto l’intento di un’ordinanza corporativa emanata ad Arras, nel 1315, secondo la quale nessun maestro avrebbe potuto ingaggiare alcuno di coloro che avevano lavorato il giorno precedente finché
A sinistra miniatura di scuola olandese raffigurante la costruzione della Torre di Babele. XVI sec. Londra, British Library. Nella pagina accanto miniatura di scuola francese raffigurante alcuni operai con strumenti di lavoro, da un’edizione del Des cas nobili des hommes et femmes di Giovanni Boccaccio. 1480 circa. Londra, British Library.
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voratore dipendente, riducendolo talvolta in condizioni miserrime: non sono infrequenti i casi di salariati costretti alla fuga e al furto di generi di prima necessità (come, per esempio, una libbra di carne o una coperta).
Contratti di cottimo
Praticamente tutti i maestri, i lavoranti e persino gli apprendisti assunti dai principali armaioli milanesi negli anni Sessanta e Settanta del Quattrocento erano legati all’imprenditore da contratti di cottimo, lavoravano nella sua bottega, che si configurava cosí come un grande atelier, o in botteghe decentrate, sempre di proprietà dell’imprenditore, per le quali i maestri versavano un affitto (che veniva richiesto loro anche quando svolgevano l’attività in una parte della bottega principale). Anche quando il loro livello di specializzazione era elevato, questi lavoratori dipendevano completamente dall’armaiolo per la materia prima, il combustibile e gli utensili. Le assunzioni non prevedevano mai vitto e alloggio (al massimo veniva concesso un letto, magari vicino alla stalla), e anzi alcuni imprenditori, tra cui il principale armaiolo
non fossero stati reclutati tutti coloro che il giorno precedente non avevano lavorato. A Bourges e a Rouen era severamente vietato ai maestri, pena la perdita del titolo, cercare un impiego sulla piazza. In Italia gli Statuti cittadini di Faenza regolamentavano il meccanismo delle piazze d’ingaggio, preoccupandosi soprattutto di mantenere l’ordine e la disciplina: i lavoratori dovevano attendere in fila pazientemente e non potevano parlare tra di loro, in modo da evitare che si accordassero per stabilire determinati minimi salariali.
Questo sistema non rappresentava comunque l’unica modalità di reclutamento del personale: a Firenze, per esempio, tra la fine del Trecento e il primo Quattrocento, nessun elemento consente di ipotizzare l’esistenza di uno spazio fisico per il reclutamento dei salariati. Erano piuttosto i contatti personali mantenuti dall’imprenditore e dai suoi fattori, o l’intervento di mediatori tra le parti, a determinare le assunzioni, mentre le chiese, le taverne o le botteghe stesse costituivano lo scenario della contrattazione.
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L’Europa degli scontenti A sinistra particolare di un capolettera istoriato di scuola italiana raffigurante uno scultore al lavoro, da un’edizione della Naturalis Historia di Plinio il Vecchio (23-79 d.C.). XV sec. Venezia, Biblioteca Marciana. Nella pagina accanto, in alto l’orologio del Torrazzo di Cremona, in Lombardia. Metà del XIII sec. Ogni giornata lavorativa iniziava al suono della campana, costruita a proprie spese da ogni corporazione. Per i ritardatari erano previste ammende, oltre alla perdita di 1/3 della paga di ogni giornata lavorativa. Nella pagina accanto, in basso miniatura raffigurante una fornace e artigiani che soffiano il vetro, da un’edizione del Tractatus de herbis di Pedanio Discoride (40-90 d.C. circa). XV sec. Modena, Biblioteca Estense Universitaria. I maestri vetrai erano tra le categorie di artigiani salariati che percepivano stipendi molto elevati.
milanese, Antonio Missaglia, invitavano esplicitamente i propri dipendenti a portarsi il pranzo. Conseguenze di questa situazione erano un indebitamento costante che toccava – fatto del tutto inconsueto – persino gli apprendisti, e le frequenti fughe: nel 1476 Antonio Missaglia lamentava di aver prestato a molti «operarii armorum» notevoli somme che non gli erano state restituite, per la fuga dei lavoranti che le avevano ricevute. In altri settori, invece, i maestri-salariati percepivano compensi elevatissimi, soprattutto se si trattava di arti nuove per una determinata area geografica e richiedenti una notevole specializzazione. È il caso dei battiloro – artigiani che riducevano l’oro e altri metalli preziosi in lamine o foglie sottilissime, battendoli con un 58
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martelletto, a scopo perlopiú decorativo, n.d.r. – (Milano e Firenze, XV secolo), o degli esperti nella lavorazione del vetro (a Milano, nella seconda metà del XV secolo).
Una sorta di «mutazione genetica»
Si trattava di contratti di apprendistato retribuiti, che mascheravano locazioni d’opera a basso costo di lavoratori non qualificati, fenomeno verificatosi a partire dalla seconda metà del Duecento in molte città, non solo italiane. Era una sorta di «mutazione genetica» dei rapporti tra maestro e discepolo, in quanto il contratto che li univa – da prestazione di un servizio in cui l’insegnamento impartito costituiva l’oggetto principale, per il quale era il maestro a essere retribuito (fanticelli ad discendum) – di-
dunque costituire, in molte città italiane e d’Oltralpe, una delle principali discriminanti tra il vero apprendista e l’apprendista-salariato. Il lavoro minorile, mascherato sotto la forma di contratto di apprendistato, sembrerebbe diffuso a ogni livello, in Italia come Oltralpe, con situazioni diverse e diversi tipi di trattamento a seconda dell’attività svolta.
I fanciulli come forza motrice
Senz’altro poco invidiabile era la condizione dei piccoli salariati al lavoro nelle botteghe degli armaioli milanesi, evocata in una predica di san Bernardino da Siena (1427): «Io l’ho vedute fare [le “panziere di ferro”] a Milano, e fannole e fanciulli, e piu lavorio fanno, che non farebbe cinque omini; e stanno col capo basso basso, e col dietro stanno alti. Chi fa la maglietta, un altro la búcara, un altro fa il chiovo e mettelo nel buco, e mette questa con quella: l’altro sta con le tanaglie e serra insieme; l’altro la chiova e mazzicale insieme». Ancora per Milano un documento del secondo
venne un rapporto in cui l’accento veniva spostato sul ruolo produttivo del discepolo, che percepiva perciò uno stipendio (fanticelli de mercedibus), poteva essere impiegato anche in mansioni sussidiarie, e spesso non riceveva l’insegnamento completo dei rudimenti dell’arte, fatto che gli precludeva automaticamente l’accesso al ruolo di maestro. In questo caso, dunque, la differenza tra apprendista e salariato era minima. Solo ai fanticelli ad discendum era invece consentito diventare maestri e assurgere alle cariche direttive della corporazione. Si configurava cosí un doppio canale di apprendimento, volto a relegare, fin dalla formazione, una parte degli apprendisti al rango di salariati. La presenza o meno di una remunerazione sembrerebbe POPULISMO
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Miniatura di scuola francese raffigurante un mulino ad acqua, da Instruction d’un Jeune Prince. 1465-1468 circa. Cambridge, Fitzwilliam Museum, University of Cambridge. Quattrocento rivela il ricorso alla manodopera infantile nel faticoso compito di azionare i mulini da seta: sparse nelle case e nei solai cittadini – recitava la dichiarazione – c’erano apparecchiature per filare la seta che venivano azionate dai fanciulli; non era perciò necessaria – si concludeva – l’utilizzazione dell’energia idraulica. Trapela dunque chiaramente l’orientamento dei mercanti auroserici milanesi a continuare a impiegare questa forza motrice semplice ed economica, piuttosto che rivoluzionare integralmente l’organizzazione del lavoro mediante l’introduzione di una nuova tecnologia (il mulino da seta idraulico), la cui adozione avrebbe prodotto pericolose conseguenze per il loro monopolio sull’attività.
Trattati come gli adulti
Anche dagli statuti dell’Arte della Lana fiorentina e dalla contabilità delle aziende toscane tre-quattrocentesche emerge l’impiego frequente, nella bottega dell’imprenditore, di piccoli salariati nella battitura, nella pettinatura e nella cardatura della lana, ma anche in mansioni particolarmente nocive, come l’eliminazione dei nodi dalla lana appena tinta. Nella bottega dell’imprenditore erano sottomessi alla stessa disciplina degli adulti: venivano ingaggiati a giornata e dovevano entrare nel laboratorio ordinatamente, all’alba, al suono della campana. Talora ci si serviva di loro anche per la distribuzione della materia prima alle filatrici, o per accaparrarsi, prima del sorgere del giorno, un’area in cui distendere le pezze di lana ad asciugare, pratica che gli statuti dell’Arte vietavano severamente. D’altra parte, la condizione di apprendista non doveva essere percepita come negativa, soprattutto in periodi di crisi. Le difficili condizioni economiche che precedettero la peste del 1348 innescarono fenomeni di notevole rilievo sul piano dell’occupazione, come la tendenza di numerosi lavoratori già adulti e qualificati a locare la propria opera in qualità di apprendisti per assicurarsi un impiego piú stabile. Questo fenomeno si verificò, per esempio, a Marsiglia negli anni Venti e Trenta del Trecento, quando cominciò a farsi piú cogente la necessità di reclutare manodopera relativamente qualificata a un prezzo piú basso. La documentazione marsigliese rivela ap-
punto l’«evoluzione» verso la condizione di discipulus anche da parte di prestatori d’opera già adulti e qualificati, e, contemporaneamente, la diminuzione della differenza tra i salari degli apprendisti e quelli dei lavoratori dipendenti, con la tendenza complessiva al ribasso delle remunerazioni. In tale contesto, il vantaggio che la manodopera già qualificata traeva dal locare la propria persona con lo status di apprendista, era costituito dalla maggiore stabilità dell’occupazione che questo tipo di contratto prevedeva, essendo in genere stipulato per un certo numero di anni (da 2 a 4), mentre le assunzioni dei salariati non duravano di solito piú di un anno. Una leggera diminuzione del compenso, con la garanzia di una maggiore stabilità occupazionale, era dunque preferita, in un momento di crisi, a un salario piú alto, ma garantito per un periodo inferiore. Tutto questo, in ogni caso, aveva come conseguenza una tendenza al ribasso delle remunerazioni. Un fenomeno analogo si verificò negli stessi anni a Palermo, dove lo stato di indigenza induceva assai spesso lavoratori sottoposti già adulti ed esperti del mestiere a impiegarsi come apprendisti per garantirsi la sopravvivenza, con la sicurezza del vitto e dell’alloggio che competevano all’apprendista.
I segreti del mestiere
In questa multiforme casistica dei rapporti di lavoro va infine ricordata una figura particolare, definibile come «apprendista-imprenditore». Si trattava di un apprendista di ceto mercantile e detentore dei capitali, che assumeva un maestro altamente specializzato per farsi insegnare un’arte in genere nuova, remunerativa e tale da richiedere investimenti ingenti. È documentato a Milano, nella seconda metà del XV secolo, per la manifattura dei drappi auroserici, attività sulla quale il ceto imprenditoriale milanese, sempre pronto a investire in attività redditizie, si era letteralmente gettato, facendo istruire i propri figli da maestri specializzati. In questo caso il contratto di apprendistato si configurava dunque, in modo inverso rispetto alla normale prassi, in quanto il giovane, provvisto di capitali, era compartecipe degli utili del maestro, nonché suo datore di lavoro e suo fideiussore. Le parti risultavano cioè rovesciate: un «apprendista-imprenditore» di ceto mercantile, proprietario della materia prima, della bottega e dei mezzi di produzione, assumeva come salariato un maestro che potesse insegnargli i segreti. POPULISMO
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Tumulto dei Ciompi
Una settimana di paura e illusioni Il 22 giugno del 1378 la campana del Palazzo dei Priori di Firenze cominciò a suonare a distesa. Al suo rintocco, gli armati delle corporazioni dei piccoli artigiani si rovesciarono tumultuando sotto la sede del potere. Le avvisaglie si erano avute già qualche giorno prima, all’indomani del Corpus Domini, che quell’anno era caduto il giovedí 17. Nella giornata del venerdí, una serie di disposizioni contro le grandi famiglie magnatizie, presentate dal gonfaloniere di giustizia Salvestro de’ Medici e appoggiate da medi e piccoli artigiani, aveva provocato disordini, nel momento in cui il papa (allora in guerra contro Firenze) stava manifestando uno strumentale appoggio alle famiglie dei «grandi» affinché si rimettessero in discussione le istituzioni borghesi («popolari») della città. Era il primo atto di quella rivolta che sarebbe andata sotto il nome dei principali protagonisti: i «Ciompi», termine dall’incerta etimologia, che designava soprattutto i lavoratori subalterni dell’Arte della Lana. Questa che stava iniziando sarebbe stata l’insurrezione piú famosa dei lavoratori di una città medievale, ma non fu la prima, né sarebbe stata l’ultima. Nelle regioni della cristianità in cui maggiormente si era sviluppata la manifattura (cioè soprattutto nell’Italia centro-settentrionale e nelle aree fiamminghe) la protesta per le condizioni di lavoro, per tutto l’ultimo scorcio di Medioevo, si mescola frequentemente a quella contro la pesantezza del fisco o alla difesa del potere di acquisto del salario.
CONTRO LA BORGHESIA E CONTRO I NOBILI In Italia, per esempio, nella «preistoria» delle rivolte dei lavoratori urbani si incontrano i sollevamenti di Bologna e di Genova: il primo – nel 1289 –, scatenato dal popolo minuto in difesa dell’operato del Podestà cittadino contro gli interessi della piú ricca borghesia; il secondo – nel 1339 – opera dei marinai e degli operai della seta, ancora una volta contro i nobili cittadini, e che mette capo alla signoria personale di Simone Boccanegra sulla città. Non siamo molto lontani dalla
In alto lo stemma dell’Arte della Lana, un agnello con stendardo e aureola, terracotta invetriata realizzata dalla bottega di Andrea della Robbia. XV sec. Firenze, Museo dell’Opera del Duomo. tipologia delle rivolte che, sul finire del Trecento, avrebbero coinvolto i lavoratori nelle città dell’Europa del Nord. Coinvolti, sí, ma non a difesa di un autonomo programma di rivendicazioni o di riforme, bensí in appoggio – o in compartecipazione – alla protesta di altri ceti. Cosí avviene a Gand e a Ypres nel 1379, contro i privilegi del patriziato; cosí a Lubecca nel 1380, quando la rivolta contro l’eccessivo peso fiscale si mescola alla rivendicazione delle corporazioni che cercano spazio nella gestione del potere pubblico; non diversamente a Rouen nel 1382. E non troppo meno eterogenea e confusa, infine, la coalizione che, in questo stesso 1382, mette a soqquadro Parigi (l’episodio dei cosiddetti maillotins, da maillet, martello), formata com’è dal
VERSO LA FABBRICA Percorrendo la storia delle rivolte popolari nelle città italiane del XIV secolo, è di regola nell’Arte della Lana che si incontra l’epicentro dei disordini. E ben si capisce, quando si consideri che questa corporazione presenta il maggior numero di fasi specializzate; che perciò il lavoro è caratterizzato da una forte frammentazione, sottolineata anche dalla dislocazione delle varie specializzazioni in differenti punti della città; che in questo settore prima e piú che in altri si verificano forme di produzione diverse da quelle tradizionali artigianali. I padroni della bottega, infatti, sempre meno partecipano direttamente al lavoro, e sempre di piú, invece, investono il capitale e impiegano manodopera salariata. In embrione, è quanto avverrà in seguito nella fabbrica moderna.
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Nella pagina accanto il tumulto dei Ciompi a Firenze in un disegno di Lodovico Pogliaghi per L’Illustrazione Italiana. 1895. La rivolta vide in prima fila i lavoratori della lana, una delle categorie economicamente piú disagiate nella Firenze del Trecento.
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Tumulto dei Ciompi
DA LEADER A TRADITORE La rivolta scoppiata a Firenze nel giugno del 1378 annoverò fra i suoi capi, anche Michele di Lando. Lavoratore dell’Arte della Lana, all’inizio era solo uno qualunque dei trentadue rappresentanti dei rivoltosi, ma l’ala piú radicale del movimento – costituita dai «Ciompi» – lo elesse a proprio capo per acclamazione. In realtà, Michele di Lando non sembra essere stato piú di tanto in consonanza con i Ciompi, nei confronti dei quali, anzi, cercò di fare opera di moderazione e che, infine, abbandonò al loro tragico destino l’ultimo giorno di agosto. Ciò bastò a meritargli la taccia di traditore e sul suo
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conto se ne dissero di tutti i colori: che si era fatto comprare; che aveva tradito i compagni di rivolta per non perdere quei vantaggi materiali che con il tumulto aveva acquisito; che era diventato talmente ricco da permettersi di dare alla figlia una dote principesca. È vero che, sedato il tumulto, Michele mantenne certi incarichi pubblici. Ma è altrettanto vero che la Firenze della normalizzazione poteva tranquillamente fare a meno di lui. Cosí, nel 1389 venne mandato in esilio, e ritornò in patria solo per morirvi (o, secondo alcuni, addirittura dopo morto) nell’estate del 1401.
In alto Firenze, il Palazzo dell’Arte della Lana. Costruito nel Duecento dalla famiglia dei Compiobbesi, è una delle torri meglio conservate della città. Nella pagina accanto statua di Michele di Lando, uno dei leader della rivolta dei Ciompi, collocata in una delle nicchie angolari della fiorentina Loggia del Mercato Nuovo e opera dello scultore pugliese Antonio Bortone. 1895.
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Capolettera miniato di scuola veneta raffigurante la scelta di un tessuto, da una Mariegola dell’Arte della Lana del XIV sec. Venezia, Museo Correr.
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popolo minuto che protesta contro le tasse, ma, non meno, da borghesi (e anche da alcuni nobili) in cerca di spazio politico, e – se non soprattutto – da disoccupati e da emarginati di ogni genere. Già relativamente piú chiari dal punto di vista della provenienza sociale sono, invece, i protagonisti del tumulto fiorentino del 1343, quando i salariati si rivoltano contro la politica fiscale dell’alta borghesia, e scendono in piazza al grido di «Noi diventeremo tanto numerosi e forti che i poveri diventeranno, una buona volta, anch’essi ricchi», che come rovesciamento della promessa evangelica (i poveri diventeranno ricchi, sí, ma nel regno dei Cieli) non è niente male. Le conseguenze non si fanno attendere: dal 1344 il Comune vara disposizioni di rigido controllo del lavoro, e proibisce le associazioni autonome di piccoli artigiani dipendenti e di
salariati. Norme rigorose e inutili: nel corso dello stesso anno i disordini continuano, e nel maggio 1345 gli scardassieri (i lavoratori addetti alla cardatura della lana; forse fra i peggio pagati del mestiere e, perciò, fra i piú turbolenti), quando un loro capo – Ciuto Brandini – viene arrestato con l’accusa di sovversivismo, si mettono in sciopero (forse il primo chiaramente riconoscibile come tale nella Storia) e poi, quando questa forma di protesta non basta, scendono in piazza non solo per liberare il loro leader, ma anche per reclamare un immediato miglioramento dei salari. Saranno sempre gli scardassieri – ma questa volta nella vicina Siena – a dar vita, un anno dopo, a una rivolta con finalità piú o meno identiche, e toccherà invece ai loro colleghi tintori – e di nuovo a Firenze – proclamare, nel 1368, un nuovo sciopero. A quest’ultimo
seguiranno per lungo tempo altre forme di protesta, per difendersi dalle quali, infine, nell’agosto del 1370, i lanaioli non troveranno di meglio che ordinare la serrata delle botteghe, minacciando multe da capogiro a chi dia lavoro agli scioperanti. Lavoratori subalterni della lana, infine, sono in prima fila nei tumulti di Perugia: in quello del 1371 contro i ricchi borghesi e, nel 1375, nella sollevazione contro il legato papale che tiene la città con il pugno di ferro (in quest’ultimo caso ampiamente strumentalizzati – come peraltro non è raro che accada anche altrove – dai borghesi stessi, i quali, messo da parte ogni rancore per i fatti di quattro anni prima, ora si appoggiano ai subalterni per riconquistare il potere perduto).
LA «COMPAGNIA DEL BRUCO» La prova generale dei Ciompi fiorentini, però, non si rappresenta sulle rive dell’Arno, bensí a Siena. Qui, il 14 luglio del 1371 scendono in strada i lavoratori subalterni dell’Arte della Lana, inquadrati in una vera e propria compagnia organizzata e dotata di capi (la «compagnia del Bruco», che fa la sua prima comparsa nell’agosto 1370 per protestare contro il prezzo del grano che la carestia ha fatto salire alle stelle), dopo una serie di contrasti con i proprietari delle botteghe, e dopo l’arresto dei capi della compagnia stessa. La rivolta non solo ha successo perché vengono liberati i prigionieri, ma anche perché si riesce addirittura a mettere il governo nelle mani di gruppi socialmente vicini ai rivoltosi. L’euforia è però di breve durata: il 30 luglio i grandi e i medi borghesi e i loro armati dilagano per le strade del quartiere operaio dove la compagnia ha l’epicentro e irrompono nelle case dei lavoratori, distruggono, uccidono, incendiano. Una certa stabilità non tornerà prima del novembre, quando si arriverà a un compromesso che, senza scalzare il reale potere politico ed economico dei proprietari delle botteghe, concederà tuttavia un’ampia compartecipazione ai rappresentanti del popolo minuto, e darà ai subalterni la consapevolezza di aver ottenuto qualche concreto vantaggio. I rivoltosi senesi non volevano sovvertire lo stato delle cose, ma solo farvisi un po’ di posto. Il problema del consapevole sovvertimento, invece, se lo erano posti i Ciompi fiorentini? Gli storici se lo sono a lungo chiesto e senza arrivare a risposte definitive. È un fatto che, al momento dello scoppio del tumulto, i lavoratori subalterni fiorentini
fanno parte di un’eterogenea congerie di non garantiti che vogliono semplicemente un po’ di posto al tavolo del potere e una boccata di ossigeno per quanto riguarda salari (di certo deve aver impensierito i salariati quella proposta dei lanaioli di tagliare del 50% le loro remunerazioni tutt’altro che principesche), condizioni di lavoro e peso fiscale. E qualche cosa, in questo senso, la ottengono. Ai rivoltosi si concede di organizzarsi in tre nuove Arti: il che significa poter partecipare, insieme con tutte le altre, alla gestione del potere politico ed economico. Briciole, come si vede. E tali devono essere apparse anche ai Ciompi, i quali, per parte loro, prendono un ruolo sempre piú visibilmente da protagonisti man mano che le cose vanno avanti. Fra luglio e il mese successivo i Ciompi elaborano programmi via via piú radicali, fino a quello dell’ultima settimana di agosto, che rappresenta il punto piú alto della rivolta e, al tempo stesso, il principio della fine di essa: basta con i governi di compromesso e di coalizione; rappresentanti dei Ciompi interverranno nel controllo delle istituzioni economiche; una commissione di Ciompi sindacherà sull’operato dei Priori, cioè
Miniatura raffigurante un mercante che mostra a un cliente una pelle di vaio, dagli Statuti dell’Arte della Lana, Manoscritto 630. XIV sec. Bologna, Museo Civico Medievale.
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Tumulto dei Ciompi
RAZZIE COLLETTIVE Giovanni Villani fu sgomento testimone oculare del tumulto fiorentino del 1343. Nella sua descrizione del sacco delle case dei Bardi c’è tutta l’indignazione di un borghese che vede il popolo minuto («l’arrabbiato popolo, il furioso popolo», lo definisce) abbandonarsi ai peggiori eccessi. Fra case e palazzi bruciarono e furono saccheggiate ventidue abitazioni, per un danno stimato complessivamente intorno alla sbalorditiva cifra di 60 000 fiorini d’oro. Incredibilmente – annota il cronista – in questo sconvolgimento non rimase uccisa nessuna persona illustre; di gente comune, sí, qualcuno: ma questi contavano, socialmente, di meno. Fu rubato tutto: la plebe inferocita portò via perfino le tegole dei tetti e tutto ciò le venisse a portata di mano: anche le cose che non valevano niente. E non furono solo gli uomini a far man bassa, bensí anche le «femminelle e’ fanciulli». Per frenarli, si dovette cominciare ad applicare spietatamente la legge, e a tagliare mani e piedi ai colpevoli. Se Giovanni Villani fosse vissuto abbastanza da vedere il tumulto del 1378, probabilmente, ne sarebbe rimasto agghiacciato.
sull’esecutivo politico, e controllerà il comando delle milizie cittadine. E ancora: riforma del credito pubblico; cancellazione dei debiti dei lavoratori poveri; accresciuta tassazione delle botteghe piú ricche; azzeramento dei salari dei funzionari del Comune. Il salto di qualità è fatto: per la prima volta una grande città della cristianità è interamente controllata dai lavoratori subalterni. Anche gli alleati di ieri, ormai, stanno dall’altro lato della barricata: da una parte ci sono loro, i Ciompi, gli sfruttati di sempre, quelli che campano con un salario da fame; dall’altra, c’è tutto il resto della popolazione di Firenze. E la reazione di tutti gli altri non si fa attendere. Nel primo pomeriggio del 31 agosto la piazza davanti al Palazzo dei Priori brulica di gente. È una grande assemblea politica, convocata proprio dai Priori, perché ogni corporazione – anche quelle che si sono costituite con la rivolta – consegni la propria bandiera ai signori in segno di unità cittadina.
UN EPILOGO MACCHIATO DI SANGUE I Ciompi non ci stanno: la loro bandiera con il simbolo dell’Angelo (apocalittica citazione del sovvertimento dei tempi) non la consegneranno mai. Il braccio di ferro va avanti per ore; poi, quando ormai sta calando la sera, gli «altri» decidono che è il momento di chiudere la partita una volta per tutte con questi pericolosi facinorosi. Gli artigiani e i loro armati sbarrano le bocche della piazza: i beccai – ben esperti di 68
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come si maneggia un coltello – si lanciano per primi; dalle finestre del palazzo la stessa Signoria dà man forte scagliando pietre e saettando frecce contro i Ciompi. Quelli di loro – pochi – che uscirono vivi dalla carneficina si affrettarono, l’indomani stesso, ad abbandonare Firenze. Era finita la rivolta; era tramontato il loro, piú o meno consapevole, sogno di un governo di proletari. Erano stati meno di sette giorni, ma sette giorni che avevano fatto tremare Firenze. E sette giorni che avrebbero cambiato per sempre la storia di questa città. D’ora in poi, il potere serra le fila: quelle aperture che nella gestione delle istituzioni si erano avute a favore dei ceti medio-bassi cominciano a richiudersi. Le riforme del 1382 segneranno il punto di non ritorno di un Comune che sta rapidamente ridefinendo e restringendo gli accessi all’oligarchia di potere. La strada della Signoria è spalancata: fra qualche decennio, Cosimo il Vecchio de’ Medici non dovrà far altro che raccogliere nelle sue mani di privato cittadino (con il beneplacito di tutta una serie di grandi famiglie, senza colpo ferire e senza fare alcunché di illegale) le piú importanti deleghe e farsi, seppur informalmente, signore di Firenze. Il nipotino – Lorenzo – avrebbe rifinito e portato a compimento l’opera iniziata dal nonno. Dei Ciompi sarebbe rimasto il ricordo pieno di tremebondo orrore dei bravi borghesi – ormai quasi nobili – di Firenze, e quello venato di mito di chi, ancora una volta, era stato ricacciato nel silenzioso inferno dei lavoratori poveri.
Ritratto di Cosimo il Vecchio, olio su tavola del Pontormo (al secolo Jacopo Carucci). 1519-1520. Firenze, Gallerie degli Uffizi.
Squilli di rivolta nelle Fiandre e in Francia Fin dalla metà del Duecento, nelle cronache e nelle ordinanze cittadine, ricorrono con grande frequenza notizie di proteste o scioperi scoppiati nelle Fiandre per ottenere aumenti salariali, nonché di distruzione degli strumenti di lavoro. A Douai, per esempio, il consiglio cittadino legiferò in piú occasioni contro chi si asteneva dal lavoro: nel 1245 vennero comminate aspre multe e il bando dalla città per chi avesse sospeso il lavoro o organizzato assemblee, mentre nel 1266 le medesime pene vennero estese a chiunque avesse costituito associazioni di lavoratori, od offerto aiuto, consiglio e truppe in armi agli scioperanti, o distrutto gli strumenti di lavoro. Il 4 dicembre 1280, ancora a Douai, tre tessitori vennero decapitati per aver ingiuriato gli scabini, il consiglio cittadino e le leggi della città. Due battitori di lana vennero poi banditi, pena la decapitazione, per aver distrutto gli strumenti di lavoro, violando le leggi e le consuetudini cittadine. Ugualmente, nel 1250, a Saint-Omer, e nel Trecento, nella città fiamminga di Bethune, vennero emanate ordinanze contro gli apprendisti e i salariati delle manifatture tessili che avessero scioperato, costituito associazioni o indetto assemblee. Un’ordinanza della piccola città di Clermont-enBeauvaisis, a nord di Parigi, era ancora piú esplicita: «Cospirano contro il bene comune quei lavoratori che promettono o contrattano di
Bruges (Belgio), piazza del Mercato. Il monumento al decano della corporazione dei macellai, Jan Breydel (sulla sinistra), e al leader dei tessitori, Pieter de Coninck, che guidarono la rivolta scatenatasi nelle Fiandre, a partire proprio da Bruges, contro l’occupante francese, nel maggio del 1302.
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Nella pagina accanto un’altra miniatura, raffigurante un tessitore, dal I volume dell’Hausbuch der Mendelschen Zwölfbrüderstiftung (Registro della Fondazione Mendel dei dodici fratelli). 1425 circa. Norimberga, Stadtbibliothek. Gli addetti del settore tessile furono sempre tra i fautori delle rivolte scoppiate in Italia e in Europa.
non svolgere la loro attività per salari inferiori a quelli che percepiscono, e si aumentano il compenso da soli, dichiarando che non lavoreranno per meno, e stabiliscono sanzioni per i colleghi che non vorranno aderire a quanto da loro stabilito. Chi tollererà condizioni di questo tipo agirà contro il bene comune, e non verranno mai conclusi buoni contratti di lavoro perché gli appartenenti a tutti i mestieri si sforzeranno di chiedere salari piú elevati dell’ordinario, e, d’altra parte, l’interesse comune non può sopportare che non si lavori. Perciò, non appena il sovrano o altri signori venissero a conoscenza di simili alleanze, dovranno far incarcerare immediatamente e a lungo tutti coloro che vi sono coinvolti, E dopo averli tenuti
In alto miniatura raffigurante i moti di Bruges, dall’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. in prigione a lungo, dovranno esigere da loro un’ammenda di 60 soldi».
UNA FISCALITÀ INSOSTENIBILE Altri disordini e scioperi all’inizio del Trecento furono indirizzati contro le tasse di Filippo il Bello. La rivolta di Bruges (1299-1302) ebbe un’ampiezza, una forza di coesione e un’unità di direzione significative. Venne guidata da un tessitore dotato di capacità oratoria, carisma personale, ma anche con senso politico e apertura di vedute. Si trattò di un’insurrezione POPULISMO
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Le Fiandre in rivolta
popolare del Comune contro il re di Francia, che vide trionfare il primo, almeno per qualche tempo. Come narra Giovanni Villani, il sovrano, che aveva il completo controllo delle Fiandre, ne aveva lasciata l’amministrazione ai suoi ufficiali. Essi presero in considerazione e riferirono al re le petizioni del popolo minuto di Bruges (tessitori, follatori, ramai e altri), che chiedeva migliori livelli salariali e la diminuzione delle tasse, che erano insopportabili. 72
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Ma il re non volle ascoltare le richieste né aumentare i salari degli artigiani. Anzi, su richiesta dei ricchi borghesi di Bruges, gli ufficiali del sovrano arrestarono i leader degli artigiani, i principali dei quali erano un tessitore, Pieter de Coninck, e un macellaio, oltre a una trentina fra i piú importanti rappresentanti di queste corporazioni. Ma il vero capo e agitatore del popolo era il già citato Pieter de Coninck. Era un uomo povero,
Un’altra miniatura tratta dal Ms Chigiano L VIII 296 raffigurante Filippo IV di Francia mentre minaccia rappresaglie ai cittadini ribelli di Bruges. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.
piccolo di statura, magro, cieco da un occhio, e di circa sessant’anni. Non conosceva né il francese, né il latino, ma in fiammingo parlava meglio e con piú ardore e fluire di parole di chiunque altro nelle Fiandre. Con le sue parole mosse tutta la città alla rivolta. Altre sollevazioni per motivi prevalentemente fiscali si verificarono tra la fine del Duecento e l’inizio del Trecento a Calais (1298), a Douai (1296/1306), a Tournai (1307), dove i follatori, i tessitori e il popolo minuto si opposero all’introduzione di una nuova tassa; a Parigi (1307) dove insorsero tessitori, follatori, gestori di taverne e altri operai ai quali era stato chiesto di pagare le tasse in moneta forte. Tra le molteplici cause delle rivolte, le fluttuazioni monetarie e il divario tra prezzi e salari occuparono infatti un posto importante, soprattutto in Francia all’epoca di Filippo il Bello, e fu proprio la svalutazione della moneta a provocare i tumulti artigiani parigini del 1307.
I MOTIVI DELLA RIBELLIONE Le rivolte fiamminghe e della Francia settentrionale non furono dunque episodi locali e isolati, ma rappresentarono, al tempo stesso, il risultato di un disfacimento delle strutture sociali e di una congiuntura difficile. Non tutte le carestie provocarono rivolte. Quella del 1315-17 non ne provocò, per esempio, nelle Fiandre, mentre produsse una ribellione operaia a Provins. Le difficoltà economiche in cui la crisi della manifattura tessile e il declino delle fiere della Champagne avevano gettato questa città, aggravarono evidentemente la crisi alimentare con un problema di salari. Sembrerebbe quindi che una rivolta non scattasse automaticamente in un momento di grave penuria di generi di prima necessità, ma che si verificasse piuttosto quando il disastro non era totale e sussisteva ancora la capacità di una presa di coscienza della situazione e la capacità di esprimerla. A tale proposito risulta interessante la testimonianza di un contemporaneo (il cronista francese Jean Froissart), sui motivi della sollevazione dei tessitori di Gand nel 1345: non esigenze primarie o di sopravvivenza, ma la richiesta piuttosto del resoconto della gestione del tesoro di Fiandra. Questo generalizzarsi dei problemi evidenzia insomma un malessere sia economico che sociale che sfociava in continue proteste e scioperi: nel 1321 i maestri follatori di Saint-Denis lamentavano il fatto che i loro dipendenti si accordavano per boicottare il
lavoro. A Parigi, nello stesso periodo, i dipendenti dei follatori rimproveravano ai maestri di tenere un numero di apprendisti superiore a quello previsto dai regolamenti; i maestri, da parte loro, accusavano i sottoposti di cominciare il lavoro in ritardo, nonché di interromperlo e di rifiutare di lavorare la sera. Tra il 1309 e il 1345, Rouen e la Normandia furono sconvolte da ribellioni, che avevano come cause l’entità dei salari e le condizioni di lavoro, oltre che dai perenni conflitti all’interno dei mestieri tessili in cui le diatribe professionali si mescolavano a contestazioni di ordine strettamente municipale. A Rouen nel 1348 si verificò una rivolta fiscale degli operai tessili, mentre ad Amiens tra il 1339 e il 1346 ci fu un lungo conflitto tra gli operai tessitori e le autorità cittadine, e nel 1331 una rivolta dei pellettieri. Neppure la rivolta esplosa nella Fiandra marittima (1323-1328) fu un tumulto per il pane, ma venne condotta da coltivatori relativamente agiati. Si trattò di una sollevazione principalmente rurale, determinata sia dalla congiuntura climatica particolarmente negativa, sia anche dal concomitante aumento del carico fiscale già eccessivo. Il rifiuto di pagare l’imposta comitale e le decime diede il via al tumulto. I follatori e i tessitori di Ypres e Bruges fornirono le truppe all’insurrezione che ebbe una grandissima eco tra i contemporanei: Giovanni Villani paragonò i rivoltosi al popolo minuto di Firenze. Nella ribellione contro la gerarchia sociale esistente, i contemporanei videro il delitto maggiore dei rivoltosi; nelle loro parole si trattava di una congiura, un’impudenza, un crimine, e i capi della sommossa venivano qualificati come malfattori, trasgressori della pace, spergiuri, criminali, distruttori del paese, sfrontati, presuntuosi, arroganti. In proposito appare corretta la tesi dello storico belga Henri Pirenne (1862-1935): si trattò di una rivolta ben organizzata e con obiettivi precisi, e venne rapidamente presa in mano dai mestieri tessili di città come Ypres e Bruges. I capi dei ribelli costituirono una sorta di amministrazione parallela a quella del conte, e tra loro c’erano per la maggior parte grandi proprietari terrieri; il popolo minuto venne utilizzato come massa di manovra. In sintesi: molto prima delle difficoltà della metà del Trecento regnava un po’ dovunque in Francia e nelle Fiandre una tensione assai viva. Anche in Italia negli stessi anni la situazione non era meno tesa. POPULISMO
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La Jacquerie
Le campagne in fiamme A scatenare la sollevazione rurale scoppiata nell’Île-de-France (detta «Jacquerie») fu la concomitanza di circostanze politiche, economiche e sociali acutizzatesi negli anni successivi alla peste. Il problema fiscale ne rappresentò la scintilla. La rivolta fu tanto violenta quanto breve: durò infatti meno di due settimane, dal 28 maggio al 9 giugno 1358. Non si trattò neppure in questo caso di tumulti dovuti alla miseria, ma furono anzi le aree piú popolose e piú favorite dalla natura del suolo a sollevarsi. Resisi conto che le loro risorse andavano sempre piú assottigliandosi a causa del prezzo eccessivamente basso dei cereali che producevano, i contadini si ribellarono contemporaneamente ai proprietari terrieri e al fisco. Il malcontento non era rivolto contro il sovrano, protetto dall’aura mistica della regalità, ma contro il suoi consiglieri che lo avevano male indirizzato, contro la cavalleria che aveva fallito i suoi doveri militari, e contro tutti questi soggetti contemporaneamente, accusati di aver dilapidato il denaro riscosso con le tasse appena aumentate. In questo modo il malcontento politico si esprimeva tangibilmente sul piano sociale. La rivolta non scoppiò immediatamente, ma covò per piú di un anno in un sordo rancore che esasperava il disprezzo nei confronti di coloro che avrebbero dovuto difendere il sovrano e non ne erano stati capaci, che si adornavano di gioielli grazie alle somme penosamente riscosse tra il popolo per le esigenze della guerra, che stipulavano accordi privati tra loro per il proprio interesse, anziché lavorare al servizio dello Stato e del re.
UN ABATE IN PRIMA FILA A capo delle varie vicissitudini che portarono alla rivolta fu Etienne Marcel, abate della corporazione dei mercanti, chiamato a far parte degli Stati Generali alla fine del 1356. La sua azione rivoluzionaria fu caratterizzata da una prima fase, riformista, durante la quale esortò gli Stati Generali a seguire le sue linee politiche, e una seconda, di azione diretta. Durante la prima fase, sotto l’influsso di Etienne Marcel, gli Stati Generali licenziarono numerosi consiglieri del re, appartenenti all’alta borghesia, considerati responsabili delle difficoltà finanziarie dello Stato. Promulgarono poi una Grande Ordinanza, volta a subordinare 74
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In alto miniatura raffigurante la decapitazione dei capi della Jacquerie, per ordine del re di Navarra, da un’edizione delle Chroniques de France ou de St. Denis. Fine del XIV sec. Londra, British Library. A sinistra miniatura raffigurante la rivolta dei contadini francesi del 1358, nota appunto come Jacquerie, da un’edizione manoscritta delle Chroniques di Jean Froissart. XV sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
al loro controllo non soltanto la riscossione dei tributi, ma anche i principali consigli della monarchia. Con tale disposizione veniva abolita la riscossione delle imposte da parte degli ufficiali del re, e si adottavano delle misure a protezione della povera gente contro le requisizioni a chi non aveva i mezzi per pagare le tasse, riconoscendo al tempo stesso la legittimità di riunirsi per resistere agli ufficiali incaricati delle confische, facendo ricorso, se necessario, anche alla violenza. Etienne Marcel in persona, all’inizio del 1357, poco prima della Grande Ordinanza, aveva appoggiato uno sciopero e i disordini contro una svalutazione monetaria. Alla fine dello stesso anno l’assassinio di un tesoriere del re da parte del servitore di un cambiavalute suo creditore, diede inizio alla fase rivoluzionaria. Il 28 febbraio 1358 una folla di oltre 3000 artigiani capeggiati da Marcel irruppe nel palazzo reale, costringendo il Delfino a lasciare la città. A questo punto l’astio contro l’amministrazione e il fisco da parte dei mercanti e degli artigiani era altissimo in tutte POPULISMO
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La Jacquerie
Miniatura raffigurante il massacro degli insorti della Jacquerie a Meaux, da un’edizione delle Chroniques di Jean Froissart illustrata dal miniatore Loyset Liédet. 1470-1475. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
le principali città della Francia. Il 28 maggio 1358 un banale scambio di insulti tra uomini d’arme e contadini fece sí che i disordini si estendessero anche alle campagne, dove già la situazione era alquanto tesa, dando origine alla rivolta vera e propria. Cinque o seimila uomini senza esperienza e indisciplinati si sparsero per i campi. I racconti dei contemporanei descrivono scene di violenza inaudita, il furore dei contadini in rivolta, al suono delle campane, armati di bastoni ferrati e coltelli, incitati da sobillatori popolari, e le rappresaglie altrettanto sanguinose della nobiltà. I tumulti dall’Île-de-France e dal Beauvaisis si estesero alla Piccardia, alla Normandia e alla Champagne. Etienne Marcel, dal canto suo, conduceva un’azione parallela a quella dei contadini, organizzando spedizioni punitive per distruggere castelli e fortezze. Il 9 giugno i rivoltosi furono sbaragliati dalle truppe del re.
UNA CONGIUNTURA ESPLOSIVA La rivolta fu particolarmente cruenta nelle campagne dove le differenze sociali erano piú sentite e dove la diffusione dei contratti a breve termine aveva accentuato le difficoltà. La nuova legislazione sui salari del 1351, inoltre, stabilendo un tetto massimo alle retribuzioni e fissando la manodopera al proprio posto di lavoro, andava controcorrente rispetto a quello che era il trend del mercato del lavoro negli anni successivi all’epidemia di peste, quando la scarsità di braccia postulava invece la necessità di un aumento delle retribuzioni e la massima libertà di movimento delle persone alla ricerca di occupazioni migliori. A questo si aggiungeva la disparità fra i prezzi dei prodotti industriali (resi elevati dalla carenza di mano d’opera) e quelli dei cereali (eccessivamente bassi). L’appesantimento del carico fiscale si sovrappose dunque pericolosamente al malcontento latente in città e nelle campagne, accresciuto dal fatto che l’alta borghesia d’affari ammessa al consiglio del re era sempre piú ricca e potente. A tutto questo si deve aggiungere che una parte della nobiltà condivideva l’ostilità del popolo nei confronti dei parvenu corrotti, proponendosi di riaffermare il ruolo moderatore del consiglio del sovrano, mettendone al bando gli uomini d’affari corrotti. I disegni di Etienne Marcel non erano quelli di questo gruppo sociale, e neppure i tumulti sanguinosi dei contadini, sfuggiti ormai completamente a qualsiasi controllo. Per questo la rivolta fu repressa nel sangue. POPULISMO
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Tutti in Terra Santa di Marina Montesano
Pietro l’Eremita è un acceso sostenitore della liberazione del Santo Sepolcro e ai suoi appelli rispondono folle sempre piú numerose. Fino a che, nella primavera del 1096, una vera e propria armata di gente d’ogni tipo si mette in viaggio sotto la sua guida. Ma quella crociata «popolare» fallirà miseramente, senza mai raggiungere Gerusalemme
Alessio Comneno riceve Pietro l’Eremita a Costantinopoli, 1096, olio su tela di Gillot Saint-Evre. 1839. Versailles, Musée national des châteaux de Versailles et de Trianon.
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Eroi del popolo
ell’autunno del 1095 papa Urbano II era in Francia, Paese caratterizzato da endemiche guerre feudali dinanzi alle quali poco poteva l’ancor debole monarchia capetingia. Contro questo disordine, la Chiesa di Francia aveva da tempo messo a punto lo strumento della pax e della tregua Dei, in forza del quale si colpiva di scomunica chiunque scatenasse azioni di violenza in certi periodi dell’anno, giorni della settimana, luoghi protetti dall’egida ecclesiastica (come santuari o mercati), categorie di persone dichiarate intoccabili, perché la loro posizione di debolezza li faceva considerare direttamente difendibili da Dio: chierici, pellegrini, vedove, orfani, poveri in generale. Quell’anno, al concilio di Clermont in Alvernia, si trattarono vari problemi legati alla disciplina ecclesiale di Francia. Alla fine dell’assise, il 27 novembre, Urbano II tenne una allocuzione in presenza non solo dei prelati, ma anche dei molti laici ivi raccolti e soprattutto dei milites, cioè dei membri dei turbolenti gruppi feudo-signoriali. Dalle testimonianze indirette raccolte, si ricava che il pontefice esortò questi ultimi a favorire il processo di pacificazione in corso in Francia, non abbandonando le armi, ma accettando l’invito dei cristiani orientali che di quelle armi avevano bisogno per respingere il pericolo turco. La situazione anatolica e vicino-orientale era quasi sconosciuta nella Francia del tempo: note erano, però, le vicende spagnole (la Spagna era sotto dominio musulmano sin dalla conquista araba del 711, n.d.r.), e abbastanza conosciuta, anche grazie alla poesia epica, la dimensione della guerra contro quei musulmani di cui non si conosceva bene la fede religiosa, ma che si configuravano comunque come «pagani» e «nemici della croce». La via del viaggio militare proposto dal papa ricalcava quella del pellegrinaggio verso Gerusalemme, sebbene sia difficile pensare che a Clermont il papa abbia ipotizzato una conquista armata della Città Santa. Tuttavia, il suo appello fu presto amplificato da una quantità di «profeti», di predicatori vaganti spesso al limite della disciplina ecclesiale, che in quegli anni di rinnovamento, ma anche di crisi, scorgevano i segni della fine dei tempi, dell’avvento dell’Anticristo e la prossimità del giudizio universale. Tra questi «profeti», uno doveva raggiungere fama particolare: quel Pietro l’Eremita che la tradizione romantica
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Pietro d’Amiens detto Pietro L’Eremita, olio su tela di Léon de Lestang-Parade. 1841. Versailles, Musée national des châteaux de Versailles et de Trianon.
avrebbe trasformato nel motore primo della spedizione verso la Terra Santa, ma che, in realtà, doveva essere solo uno, certo il piú famoso, dei predicatori itineranti che percorrevano le vie di pellegrinaggio e i mercati del tempo. I fautori della riforma avviata dai papi dell’XI secolo e dall’abbazia di Cluny, mirando a organizzare la Chiesa in senso rigidamente verticale, sotto il controllo delle gerarchie e del pontefice e in contrasto con l’impero, avevano sfruttato queste spinte «popolari», alla base delle quali c’era il sogno d’una Chiesa povera e pura; tuttavia, ora che essi avevano ottenuto il controllo, miravano a smorzare quei toni. Pietro e molti suoi emuli percorsero Francia, Germania, forse anche l’Italia settentrionale: aree che al tempo ribollivano di tensioni e di forti passioni religiose al limite dell’eresia. Predicavano che il mondo era giunto al compimento della sua storia, il regno dei cieli era prossimo. A Gerusalemme si sarebbe compiuta la Parusia (dal greco parusía, «presenza», n.d.r.), cioè la seconda venuta nella gloria del Messia: là bisognava recarsi.
Migliaia di pellegrini
Nella pagina accanto miniatura di scuola francese raffigurante i partecipanti alla crociata «popolare» del 1096 assaliti e spogliati dei loro averi da parte degli Ungheresi, da Les Passages d’outremer faits par les Francois contre les Turcs depuis Charlemagne jusqu’en 1462 di Sebastien Mamerot. 1474-1475 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
Pietro l’Eremita, o d’Amiens, era probabilmente un monaco piccardo, nato verso il 1050, sulla cui famiglia sono state fatte molte ipotesi non corroborate da prove. Non sappiamo se fosse di origine nobile, com’è stato detto, o piuttosto popolare. La sua figura emerge in concomitanza con la venuta di Urbano II in Francia, quando cominciò a predicare nel Berry, nell’Orléans, nella Champagne, in Lorena e in Renania. Raccolse al suo seguito diverse migliaia di pellegrini, forse addirittura quindici o ventimila. A inquadrarli v’erano alcuni cavalieri, il piú celebre dei quali è un certo Gualtieri Senz’Averi (un nome di famiglia), un Francese dei cui trascorsi poco è dato sapere. Arrivati in Germania, la predicazione di Pietro continuò, dando vita al formarsi di nuovi gruppi di pellegrini pronti a mettersi in marcia. È la spedizione che ha preso talvolta il nome di «crociata popolare» o «dei pezzenti»: espressioni improprie, in quanto il termine «crociata» non era in uso all’epoca, e poi perché i partecipanti non erano solo pauperes, ma avevano provenienza sociale differente, al pari delle altre spedizioni che in quegli anni avrebbero raggiunto l’Oriente, nelle quali pellegrini poveri si mescolavano ad altre compagini sociali.
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Eroi del popolo IL SOGNO RIVELATORE
Ma prima di continuare nel nostro racconto, è opportuno dire che la leggenda della centralità di Pietro l’Eremita nell’organizzazione della spedizione fu cara ad alcuni celebri cronisti dell’epoca, fra i quali Ruggero di Wendover e Matteo di Parigi, che, a loro volta, la traevano da notizie seminate dai cronisti della spedizione, fra i quali un posto d’onore va riservato ad Alberto d’Aix. Egli narra di un pellegrinaggio di Pietro in Terra Santa, durante il quale egli avrebbe assistito alle umiliazioni e alle sofferenze dei pellegrini: da lí sarebbe nata l’idea di predicare, tornato in patria, la necessità di liberare i Luoghi Santi (vedi box qui accanto). La critica moderna ha tuttavia da temp o rigettato questa notizia, che peraltro le fonti dell’epoca riferiscono quale motivo della cosiddetta «prima crociata» anche in rapporto ad altri pellegrini.
Massacri dettati dal pregiudizio
La predicazione di Pietro l’Eremita, come detto, pur facendo proseliti in Germania, produsse anche frutti avvelenati. Il 12 aprile 1096 egli era arrivato a Colonia, dove si fermò, mentre Gualtieri Senz’Averi conduceva le schiere di pelle(segue a p. 86) 82
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Miniatura di scuola francese raffigurante Urbano II che indice la prima crociata durante il concilio di Clermont, il 27 novembre del 1095, da Les Passages d’outremer faits par les Francois contre les Turcs depuis Charlemagne jusqu’en 1462. 1474-1475 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
Alberto d’Aix-le-Chapelle, noto anche come Alberto d’Aquisgrana, intorno al 1101 compilò l’unica cronaca che narra in dettaglio le vicende della cosiddetta «crociata dei pezzenti», la Historia Hierosolymitanae expeditionis o Chronicum Hierosolymitanum. Ecco come descrive la figura di Pietro d’Amiens: «Un certo sacerdote di nome Pietro, già eremita, nato in Amiens, città dell’occidente nel regno di Francia, cominciò a predicare con tutte le sue forze il pellegrinaggio partendo dal Berry nel medesimo regno. Dietro le sue continue sollecitazioni, tutti presero lietamente la via indotti dal desiderio di far penitenza: vescovi, abati, chierici, monaci, poi nobilissimi laici, principi di regni diversi, e il popolo tutto, sia puri che impuri, adulteri, omicidi, ladri, spergiuri, predoni; insomma ogni genere di cristiani, donne comprese. Con quali intenzioni e in seguito a quale occasione l’eremita abbia predicato questo pellegrinaggio e l’abbia egli stesso iniziato, lo diremo subito. Qualche anno prima dell’inizio del viaggio [la cosiddetta prima crociata], questo sacerdote era andato a Gerusalemme per sua devozione, e nell’oratorio del Sepolcro del Signore aveva visto cose illecite e nefande, che non poteva tollerare: ne fremette di sdegno, e implorò Dio di punire le scelleratezze di cui era stato testimone. Intanto, scandalizzato da questi orrori, interrogò il patriarca di Gerusalemme chiedendogli perché mai si sopportasse che gli infedeli e gli empi profanassero i santuari asportandone le offerte dei fedeli, si servissero delle chiese per farne delle stalle, percuotessero i cristiani, pretendessero a torto del danaro dai santi pellegrini e li angustiassero con ogni sorta di soperchierie. Il patriarca e venerabile sacerdote del Sepolcro del Signore, udite queste cose, rispose piamente con flebile voce: “Oh tu, il piú fedele dei cristiani, perché tormenti su ciò la paternità nostra, dal momento che le nostre forze non sono da considerare piú di quelle d’una formica di fronte alla superbia di tanti infedeli? La nostra vita,
bisogna riscattarla con tributi continui se non vogliamo esser messi a morte, e cosí speriamo di giorno in giorno di scampare a piú gravi pericoli, a meno che non giungano da parte dei cristiani aiuti, che noi per tuo tramite imploriamo”. E Pietro gli rispose cosí: “Padre venerabile, ora ne so abbastanza e vedo bene quanto deboli siano i cristiani che stanno con te e a quante prepotenze da parte degli infedeli soggiaciate. Perciò, per la grazia di Dio, la vostra liberazione e la preservazione di ciò che è sacro da ogni ingiuria, io, se con l’aiuto divino tornerò vivo lí donde sono venuto, visiterò prima il papa e poi tutti i principi cristiani, re, duchi, conti e governanti, facendo a tutti presente lo stato miserabile della vostra schiavitú e le vostre intollerabili sofferenze”. Intanto già calavano le tenebre e Pietro tornò per pregare al Santo Sepolcro dove, stanco per le veglie tracorse in orazione, fu colto dal sonno. Gli apparve allora la maestà del Signore Gesú, che si degnò di apostrofare cosí un uomo mortale e fragile: “Pietro, figlio dilettissimo fra i cristiani! Appena ti sveglierai, tornerai al mio patriarca e prenderai da lui una lettera credenziale che ti faccia mio ambasciatore,
sigillata col sigillo della santa croce. Avutala, ti affretterai quanto piú possibile a tornare in patria, dove narrerai le calunnie e le offese arrecate al mio popolo e ai luoghi santi e inciterai i cuori dei fedeli a purificare i luoghi santi di Gerusalemme e a ripristinare le sacre cerimonie. Infatti, attraverso pericoli e tentazioni, le porte del Paradiso si apriranno ai chiamati e agli eletti”. Dopo questa mirabile rivelazione divina, la visione scomparve e Pietro si svegliò. Uscí sul far dell’alba dal Tempio, andò dal patriarca, gli narrò ordinatamente la visione e gli chiese una lettera credenziale della divina ambasciata col sigillo della santa croce; questi non gliela ricusò, anzi gliela concesse e lo ringraziò. Congedandosi, [Pietro] fedele alle istruzioni fece subito volta verso la patria. Dopo un viaggio per mare assai pericoloso, sbarcò a Bari e senza indugio proseguí per Roma. Lí incontrò il papa e gli riferí ciò che aveva udito e saputo da Dio e dal patriarca sulle scelleratezze degli infedeli e sulle ingiurie subite dalle cose sacre e dai pellegrini».
Vignette raffiguranti Cristo che appare in sogno a Pietro l’Eremita per incitarlo alla crociata (a destra) e Pietro al cospetto di papa Urbano II, da un’edizione del Roman de Godefroi de Bouillon di Guglielmo di Tiro. 1337. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
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Eroi del popolo
Una primavera di sangue Le stragi degli Ebrei renani del 1096, seguite all’appello di Urbano II al concilio di Clermont, ebbero nelle vicende della conquista di Gerusalemme del 1099, in cui gli Ebrei della città furono massacrati insieme alla popolazione musulmana, un tragico epilogo. Entrambi gli eventi – come è stato piú volte e autorevolmente ricordato – sembrano prefigurare le persecuzioni abbattutesi sugli Ebrei nei secoli successivi, fino all’età moderna. Furono, infatti, le comunità renane (gli «ashkenaziti») il fulcro della diffusione, intensificatasi dopo gli eventi del 1096, dell’ebraismo verso i paesi dell’Europa orientale, da cui sarebbero stati nuovamente sospinti, in seguito alle persecuzioni del XVII secolo, verso l’Europa occidentale. Il nome di queste comunità deriva dall’ebraico Ashkenaz, «Germania», a differenza dei sefarditi (dall’ebraico Sefarad, «Spagna»), dai quali si distinguevano per tradizioni culturali, liturgiche e linguistiche: «I saggi di Ashkenaz – scriveva il talmudista renano Asher ben Yehiel (1250 circa-1327) – hanno ottenuto la Torà in eredità dai loro antenati, nei giorni della distruzione del
In alto il privilegio emanato da Enrico IV, in favore degli Ebrei della città di Worms, il 18 gennaio del 1074. Worms, Archivio storico della città. A sinistra la lapide di Jacob ha Bachur, morto nell’anno 1076 e sepolto nel cimitero ebraico di Worms, il piú antico d’Europa.
Tempio», con riferimento alla conquista di Gerusalemme del 70 d.C.,da parte delle legioni romane guidate da Tito. È possibile, come sembra suggerire Asher ben Yehiel, che l’origine degli Ebrei «tedeschi» risalga, addirittura, a questa antica data d’inizio della Diaspora? Non si hanno notizie certe sul numero degli Ebrei renani nei primi secoli dell’era volgare. Sappiamo, però, che agli inizi del IV secolo, una fiorente comunità ebraica viveva a Colonia: di essa troviamo traccia in una lettera di Costantino del 321 (il cui originale si trova ancora oggi nella Biblioteca Vaticana), in cui l’imperatore si rivolge al magistrato incaricato dei rapporti con i decurioni ebrei della città sul Reno. Per i secoli dell’Alto Medioevo, numerosi documenti attestano la presenza di commercianti, possidenti terrieri, medici, ed esattori ebrei nei territori del regno franco, e anche sotto i successori dei Carolingi, gli Ottoni, gli Ebrei godettero della protezione imperiale.
A destra il cimitero ebraico di Worms. Tra il X e il XIII secolo le comunità ebraiche stanziate tra il Reno e la Mosella erano diverse centinaia, le città di Spira, Worms e Magonza divennero i nuovi centri culturali e spirituali dell’ebraismo europeo. A questa fioritura si accompagnò una crescita economica, resa possibile da un periodo relativamente lungo di tutela legale, garantita da re e imperatori. Risale al 1074 il privilegio emanato da Enrico IV (e riprodotto nella pagina accanto) a favore degli Ebrei di Worms, un atteggiamento che verrà confermato da altri documenti simili, redatti dalla corte imperiale nei decenni successivi. Sebbene, dunque, tali protezioni non impedirono il verificarsi di persecuzioni (vale la pena ricordare l’espulsione di gran parte della popolazione ebraica di Magonza nel 1012), la politica generalmente benevola del potere imperiale fu, per le comunità ashkenazite, garanzia di relativa pace e prosperità; almeno fino alla fine dell’XI secolo, quando il movimento crociato determinò un taglio netto nel secolare rapporto che aveva visto la presenza, in queste terre dell’Europa centrale, delle comunità ebraiche a fianco del mondo pagano prima, e cristiano poi. Nella primavera del 1096 un’orda di pellegrini armati, fomentata dall’odio religioso, si avventa contro gli Ebrei delle città renane. Il 3 maggio giunge a Spira una banda capeggiata da Emich di Leiningen: dieci Ebrei che rifiutano il
In basso La sinagoga di Worms, una delle piú antiche della Gemania. Fondata nel 1034, fu distrutta durante la «crociata tedesca» del 1096. Ricostruita in stile romanico nel 1174/75, fu data alle fiamme durante le persecuzioni del 1938 e nuovamente restaurata nel 1961.
battesimo forzato vengono trucidati, una donna sceglie il suicidio. Ma è solo l’inizio: l’esercito di Emich si avventa contro la comunità di Worms, dando luogo a saccheggi e assassinii. Il 20 maggio i pellegrini assalgono il palazzo del vescovo e uccidono alcuni Ebrei che vi avevano cercato rifugio. Il 25 maggio è la volta di Magonza, la città che ospita la comunità ebraica piú numerosa e fiorente: dapprima presi in consegna dal vescovo della città, 1300 persone saranno consegnate e uccise. A nulla vale l’editto di protezione inviato da Enrico IV, con il quale l’imperatore chiede di fermare gli eccessi: gli Ebrei che non si piegano al battesimo vengono uccisi. Per ribadire la loro fede religiosa, molti di essi scelgono il suicidio, secondo la tradizione del kiddush hashem, la santificazione del nome divino. Tra le vittime di Magonza figura anche il rabbino Meshullam ben Kalonymos, discendente di una grande famiglia di Ebrei italo-tedeschi, il cui antenato, Kalonymos ben Mose, era giunto sulle rive del Reno proveniente da Lucca, forse già alla fine del X secolo. Invano il rabbino Kalonymos si era rivolto all’imperatore chiedendogli di intervenire: i massacri si moltiplicarono nelle città di Colonia, Xanten, Treviri, Strasburgo, Neuss, Moers… In seguito, Enrico IV consentirà a chi si era piegato al battesimo forzato di ritornare al proprio credo d’origine. Ma, per la storia delle comunità renane, gli avvenimenti di quella nefasta primavera del 1096 segneranno un punto di non ritorno. Andreas M. Steiner POPULISMO
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QUELLA «CRUDELISSIMA STRAGE» Dei massacri di Ebrei delle comunità renane narrano fonti ebraiche e latine. Fra queste ultime, la descrizione piú efficace si deve ancora una volta ad Alberto d’Aix: «Di lí, non so se per giudizio di Dio o per qualche errore del loro animo, cominciarono a infierire crudelmente contro gli ebrei dispersi in alcune città e ne fecero crudelissima strage, specialmente in Lorena, asserendo che questo era il modo giusto di cominciare la spedizione e ciò che i nemici della fede cristiana meritavano. Questa strage di ebrei cominciò a opera dei cittadini di Colonia che, gettatisi d’un tratto su un piccolo gruppo di essi, ne ferirono moltissimi a morte: poi misero sottosopra case e sinagoghe, dividendosi il bottino. Vista questa crudeltà circa duecento ebrei di notte, in silenzio, fuggirono con delle barche a Neuss; ma i pellegrini e i crucesignati, imbattutisi in essi, li massacrarono fino all’ultimo e li spogliarono degli averi. Poi, senza indugio, si riversarono in gran folla su Magonza, come avevano stabilito. Là il conte Emicho, un nobile potentissimo in quella ragione, aspettava con una forte schiera di Tedeschi l’arrivo dei pellegrini che confluivano sulla via reale da parecchie direzioni. Gli ebrei di quella città, avendo saputo della strage dei loro fratelli e comprendendo di non poter sfuggire a una cosí forte schiera, si rifugiarono sperando di essere salvati presso il vescovo Rotardo, e gli affidarono in custodia i loro enormi tesori e la loro stessa fiducia; speravano molto nella sua protezione, dal momento ch’egli era il vescovo della città. Il presule nascose con cura il molto denaro affidatogli e sistemò gli ebrei in uno spaziosissimo nascondiglio nella sua stessa dimora, lontano dal conte Emicho e dai suoi, affinché in quel luogo sicuro restassero sani e salvi. Ma Emicho e gli altri, consigliatisi, assalirono sul far dell’alba gli ebrei in quel medesimo nascondiglio con lance e frecce. Spezzate porte e chiavistelli, ne massacrarono circa settecento che cercavano disperatamente di resistere all’attacco di tante migliaia; uccisero anche le donne, e passarono a fil di spada perfino i bambini d’ambo i sessi. Allora gli ebrei, vedendo che i cristiani non risparmiavano neppure i piccolini e non avevano pietà per nessuno, si gettarono essi stessi sui fratelli, sulle donne, sulle madri, sulle sorelle e si uccisero vicendevolmente. E la cosa piú straziante fu che le stesse madri tagliavano la gola ai figli lattanti oppure li trapassavano, preferendo ch’essi morissero per loro propria mano piuttosto che uccisi dalle armi degli incirconcisi».
grini alla volta di Costantinopoli. In questo contesto si ebbero numerosi massacri delle comunità ebraiche lungo i bacini dei fiumi Reno e Danubio, che le turbe dirette a est trovarono sulla loro strada. La conversione degli Ebrei era profeticamente ritenuta il primo passo verso l’unione finale di tutte le genti, presupposto alla seconda venuta del Cristo; circolavano d’altra parte in Europa notizie insistenti sull’amicizia tra Ebrei e musulmani, in parte, forse, effetto di una lontana conoscenza di realtà spagnole; infine, si intendeva colpire l’usura esercitata da quelle comunità e il rapporto privilegiato che esse mantenevano, specie in Germania, con i poteri regi e vescovili. Orde di pellegrini convinti che la fine dei tempi fosse arrivata e prossimo fosse il giorno del giudizio (segno profetico del quale avrebbe dovuto essere la conversione d’Israele), si gettarono sulle prospere e pacifiche comunità ebraiche del Reno. L’orrore inizia il 12 aprile, il Sabato Santo del 1096, a Colonia, dove si 86
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teneva una famosa fiera. Nelle valli del Reno, del Meno, della Mosella, del Danubio, gli Ebrei vengono massacrati senza pietà nemmeno per le donne e i bambini; le sinagoghe assalite e profanate, sovente aggrediti anche i vescovi di quelle città che – fedeli del resto a un preciso ordine dell’imperatore Enrico IV – tentano in piú occasioni di difendere i malcapitati fino ad accoglierli nelle loro dimore. Alcuni Ebrei cercano, valorosamente, ma invano, di difendersi dagli assalitori; molte donne uccidono i loro figli per non vederli cadere nelle mani degli assalitori.
Cavalieri di poca virtú
Responsabili della strage non furono soltanto alcuni predicatori fanatici, sfuggiti alla disciplina ecclesiale. È anzi probabile che Pietro l’Eremita non vi ebbe parte diretta: anche se le violenze commesse da alcuni dovevano servire a lui e ad altri per esigere dalle comunità ebraiche tributi per il pellegrinaggio. Le cronache
Miniatura raffigurante Pietro l’Eremita e, dietro di lui, alcuni drappelli di crociati in armi, dall’Abreviamen de las Estorias. XIV sec. Londra, British Library. affidano all’esecrazione anche i nomi di cavalieri-predoni come il tristo Guglielmo il Carpentiere (che si sarebbe distinto anche durante la crociata, fra 1097 e 1098, per orribili gesta) o il feroce Emich di Leiningen, rimasto a lungo protagonista della leggenda e della saga germanica insieme a personaggi di ben altro spessore, quali Carlo Magno, Barbarossa o Federico II, tutti visti come «dormienti» in attesa del risveglio che avverrà alla fine dei tempi, quando l’ultimo e definitivo rinnovamento restituirà al mondo l’ordine e la giustizia. Accompagnati dalla sinistra fama delle loro azioni, i pellegrini e i cavalieri furono a loro volta attaccati, perseguitati e dispersi prima dalle milizie episcopali delle città che avevano
danneggiato, quindi da quelle del re d’Ungheria, al quale l’idea che quelle folle indisciplinate passassero attraverso la pianura pannonica non piaceva per niente. Ma il re ungaro Colomanno non si sottrasse ai suoi doveri di custode e garante della nuova via di pellegrinaggio; in tal modo i resti del pellegrinaggio armato dei pauperes poterono raggiungere a successive ondate, nell’estate del 1096, Costantinopoli, dove pure si resero protagonisti di saccheggi e distruzioni: la stanchezza e la fame di questo esercito senza leggi e disciplina non POPULISMO
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dovevano certo aiutarne il comportamento. L’imperatore fece guadare loro in gran fretta il Bosforo, dove si stanziarono presso Civitot. Ma verso la fine di ottobre essi, ormai in territorio asiatico, furono quasi del tutto massacrati dai Turchi. Gualtieri Senz’Averi fu tra le vittime, mentre Pietro d’Amiens, insieme con alcuni superstiti, riguadagnò Costantinopoli, in tempo per incontrare le truppe che nel frattempo erano giunte dall’Europa e insieme alle quali avrebbe proseguito verso Gerusalemme.
Una masnada incontrollabile
Secondo l’anonima cronaca Gesta dei Franchi e degli altri pellegrini a Gerusalemme, in quell’occasione il predicatore era già rientrato a Costantinopoli prima dell’attacco: «Avendo saputo che Pietro l’Eremita e Gualtieri Senz’Averi erano a Civitot, che si trova sopra Nicea, i Turchi vi si recarono in grande letizia per ucciderli insieme a tutti coloro che li accompagnavano. Mentre si avvicinavano si imbatterono in Gualtieri e nei suoi compagni, che uccisero subito. Pietro l’Eremita era invece andato poco tempo prima a Costantinopoli, perché non era in grado di tenere a freno quella 88
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Miniatura raffigurante un uomo che minaccia alcuni Ebrei con un bastone, da un’edizione di Flores Historiarum di Matteo di Parigi. 1310 circa. Londra, British Library.
gente d’ogni sorta che non voleva dare ascolto alle sue parole». Un gesto che l’autore attribuisce insomma alla necessità di tenere l’ordine tra i pellegrini, ma che, alla luce di quanto sarebbe avvenuto dopo, getta un’ombra sul comportamento di Pietro. Lungo il cammino, infatti, il predicatore non si sarebbe particolarmente distinto in positivo. Quello tra 1097 e 1098 fu un inverno durissimo. Le spedizioni organizzate per rastrellare cibo, guidate a turno da uno dei principi, si spingevano sempre piú lontano e tornavano recando scorte sempre piú misere. Per qualche settimana giunsero Armeni e Siriani che, per cifre di danaro scandalosamente spropositate, offrivano qualche uovo, frutta secca, pezzi di formaggio e pane raffermo: indi scomparvero anch’essi, forse perché il turpe lucro Miniatura raffigurante Colomanno I, re d’Ungheria dal 1095 al 1116, da un’edizione della Cronica Hungarorum di Janos Thuroczy. XV sec. Il sovrano concesse ai crociati di Goffredo di Buglione l’autorizzazione ad attraversare i territori ungheresi per raggiungere l’Oriente, durante la prima crociata.
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Personaggi alla guida dei crociati «pellegrini» Pietro l’Eremita e Gualtieri Senz’Averi Emich di Leiningen Volkmar Gottschalk
Località in cui si ebbero i casi piú importanti di persecuzione degli ebrei da parte dei crociati Scontri causati dai crociati Massacri di crociati da parte dei Turchi
era diventato troppo pericoloso per loro. Nell’acqua, l’unica cosa che abbondasse, si bollivano malinconiche radici, povere erbe essiccate dal gelo, misere cortecce; ricominciò il macello degli animali da soma, quindi si dovette passare agli stessi cavalli da battaglia.
Brodo di cuoio e pane d’argilla
La caccia ai piccoli animali dei boschi e dei campi divenne spasmodica: ormai si litigava per un topolino. Si provarono anche espedienti come la bollitura del cuoio delle cinture e delle selle: si beveva il brodo nauseabondo cosí ottenuto e quindi di masticavano per ore le strisce di cuoiame cotto, con le gengive gonfie, perché, salvo ai piú giovani, i denti erano quasi completamente caduti a tutti. V’era chi aveva scovato per caso, presso l’Oronte, alcuni giacimenti d’un’argilla fina e chiara: si provò a far del pane impastandola con segatura di legno, ma alcuni che ne mangiarono una certa quantità per far tacere i morsi feroci della fame ne morirono fra atroci dolori addominali.
Cartina dei percorsi seguiti dai pellegrini che si posero al seguito di Pietro l’Eremita e degli altri «comandanti» della crociata «popolare», con l’indicazione delle località in cui si consumarono i piú importanti fatti di sangue.
In questa situazione disastrosa si verificarono defezioni tanto dall’armata quanto dalle schiere dei pellegrini. Tra quanti si dettero alla fuga vi fu proprio Pietro l’Eremita, in compagnia di quel Guglielmo il Carpentiere che aveva partecipato alle stragi di Ebrei in Germania. S’incaricò di riacciuffarli il normanno Tancredi d’Altavilla; il timore era che l’esempio venisse seguito da troppi altri. Boemondo di Taranto, leader dei Normanni italo-meridionali, provvide poi a umiliarli dinnanzi a tutti, specie di fronte a quei pellegrini che a loro avevano guardato come a guide in grado di tener testa ai principi. L’eremita e il cavaliere dovettero subire le contumelie, le sassate e gli sputi di quanti si pentivano di aver avuto fiducia in loro. Pietro arrivò comunque sino a Gerusalemme. L’ultimo atto conosciuto della sua esistenza consiste nell’aver predicato dinanzi alla folla dei pellegrini durante l’assedio. Successivamente se ne perdono le tracce; è probabile che sia morto durante l’assalto o poco piú tardi. Tuttavia, una leggenda narrata da Jacques de Vitry lo vuole riapparso l’anno successivo alla conquista di Gerusalemme. Nel 1100 avrebbe fondato il monastero di Neufmoustier presso Huy, dove sarebbe morto cinque anni piú tardi. POPULISMO
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Frecce di giustizia Il giovane fuorilegge che «ruba ai ricchi per dare ai poveri» è una figura pressoché ideale. Ma questo paladino dei piú umili esistette davvero o Robin Hood è solo il frutto di una fantasia letteraria? di Domenico Sebastiani
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acques Le Goff incluse Robin Hood nella schiera di Eroi & Meraviglie del Medioevo, titolo dell’omonimo saggio (pubblicato in Italia per la prima volta nel 2005). Il grande storico affermava che l’arciere di Sherwood ha introdotto nell’immaginario europeo creato dall’età di Mezzo un personaggio rappresentativo, cioè il Robin Hood in un’illustrazione realizzata per un’edizione del componimento popolare A Gest of Robyn Hode, stampata alla metà del XV sec. e qui riproposta a colori in una xilografia cinquecentesca.
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A destra la foresta di Sherwood, nel Nottinghamshire, in Inghilterra. Il bosco, residuo di un’antica riserva reale di caccia, è comunemente considerato la dimora di Robin Hood, sebbene i primi poemi medievali indichino come ritrovo dei fuorilegge la brughiera di Barnsdale, 50 miglia circa a nord di Sherwood.
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In alto xilografia a colori che riproduce il frontespizio di A Mery Geste of Robyn Hoode, con Robin Hood e Little John. XVI sec. A sinistra Nottingham, Castello. Particolare del gruppo scultoreo in bronzo realizzato da James Woodford nel 1951 e raffigurante Little John, Friar Tuck e Will Stuteley, tre dei principali compagni di avventura di Robin Hood.
fuorilegge/ribelle giustiziere, e un ambiente originale, vale a dire la foresta. James C. Holt, già professore di storia medievale a Cambridge, aveva invece dichiarato che quando si ha a che fare con Robin Hood si parla non tanto di un uomo, quanto di una leggenda iniziata piú di settecento anni fa, mentre l’uomo, se è esistito, è vissuto ben prima di allora. È pressoché impossibile identificarlo, poiché «esistono tanti possibili Robin Hood quante sono le frecce che può contenere una faretra». Date le scarsissime fonti esistenti oltre ai racconti, appurare chi sia stato risulta un vero e proprio salto nel buio. Ciò che è straordinario di Robin, osserva Holt, è che l’identità dell’individuo è meno importante della persistenza della leggenda, la quale, nata in età medievale, si è poi evoluta e modificata, adattandosi al cambiare dei tempi, alla mentalità delle generazioni e alle esigenze del pubblico. Ma quando ha avuto origine questo mito, iniPOPULISMO
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Nella pagina accanto Nottingham, castello. Statua in bronzo, realizzata anch’essa da James Woodford nel 1951, che ritrae Robin Hood nell’atto di scoccare una freccia.
ziato come tradizione orale e terminato come sceneggiatura cinematografica? E, soprattutto, qual è il suo nucleo originario? La prima menzione di Robin Hood si trova nel poema Piers Plowman (Pietro il contadino), scritto da William Langland nel 1377, lí dove un personaggio dichiara: «Non so bene il Paternoster cosí come lo canta il prete, ma i versi di Robyn Hood e del conte di Chester Randolfo, quelli sí, eccome, li conosco». Già allora, dunque, le gesta dell’eroe erano note e popolari, quanto e piú delle preghiere. Quanto sappiamo della leggenda ci deriva da una manciata di poemi e ballate, che andarono successivamente arricchendosi fino a contare, nel 1700, una quarantina di composizioni. La ballata piú antica ha il titolo di Robin Hood and the Monk (Robin Hood e il Monaco) e si trova inclusa in un manoscritto del 1450 circa, mentre l’altra storia, nota come Robin Hood and the Potter (Robin Hood e il Vasaio), risale a poco dopo il 1503. Fra gli ultimi anni del XV e la prima metà del XVI secolo furono stampate varie edizioni di un poema, A Gest of Robyn Hode (Gesta di Robyn Hode), che appare il piú importante, poiché cer-
ca di ricomporre in modo coerente l’intera vita del fuorilegge. Altre due storie antiche furono scoperte in un manoscritto oggi denominato Percy Folio, risalente alla metà del XVII secolo, ma le storie in esso contenute sono di molto anteriori. Una, Robin Hoode his death (Robin Hoode, la sua morte), si riallaccia alla parte finale del Gest. L’altra, Robin Hood and Guy of Gisborne (Robin Hood e Guy di Gisborne), è scritta in linguaggio arcaico e potrebbe essere datata al 1475 circa. A queste si aggiunge il frammento di una probabile rappresentazione teatrale, Robin Hood and the Curtal Friar (Robin Hood e il Frate dalla tonaca corta), che si attesta attorno al 1417.
La prova è nel cognome
Uno scorcio del castello di Nottingham. L’edificio che oggi vediamo, frutto di un restauro ottocentesco, sorge sul luogo dell’antica roccaforte medievale costruita in legno, per volontà di Guglielmo il Conquistatore, nel 1068 sullo sperone roccioso a ovest del centro cittadino e successivamente sostituita da una struttura in pietra.
In ogni caso, le prime ballate apparvero quasi duecento anni dopo la nascita della leggenda che, secondo Holt, era già nota in forma orale intorno al 1261. Quest’ultima data viene indicata in seguito alle ricerche piú recenti, che hanno accertato almeno otto casi di persone che, nell’Inghilterra sud-orientale, tra il 1261 e il 1296, riportavano il cognome «Robinhood». Si tratta dell’attestazione piú antica della legPOPULISMO
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ARCIERI: NON SEMPRE BRAVA GENTE... Gli attributi iconografici del nostro eroe sono due: la livrea verde, simbolo dei fuorilegge, e l’arco, accessorio emblematico che lo oppone al nobile cavaliere a cavallo, equipaggiato di lancia e spada. Tale arma può aiutare a datare con maggiore precisione i racconti: l’arco lungo (longbow), usato dapprima dai Gallesi, fu adottato dagli Inglesi dopo la campagna di Edoardo I nel Galles alla fine del XIII secolo. Nel 1333 gli Inglesi, armati di arco lungo, vinsero gli Scozzesi a Halidon Hill e poco dopo, nel 1346, inflissero una dura sconfitta ai cavalieri francesi a Crécy, successivamente a Poitiers. Grazie a questi successi, dalla metà del XIV secolo, in Inghilterra gli arcieri cominciarono a essere considerati eroi nazionali, e il tiro con l’arco un passatempo molto amato. Dalla fine del XIII secolo, inoltre, chi non fosse stato cavaliere o abbastanza ricco da permettersi armi piú costose, era comunque tenuto a possedere almeno un arco. L’uso dell’arma da parte di Robin Hood fornisce altri elementi utili per la collocazione storica dei racconti: molto spesso, infatti, gli arcieri degli eserciti erano gente di malaffare, banditi, violenti e criminali, che si arruolavano nelle campagne di guerra per ottenere il perdono. A tal proposito i cancellieri della corona compilavano lunghe liste di nominativi, in quanto la concessione del perdono, per le casse reali, era molto piú economica rispetto al pagamento dei compensi. In questo senso, un famoso episodio in cui Robin Hood incontra il re e viene da questi facilmente perdonato per le sue malefatte in virtú delle qualità di arciere, potrebbe essere un ricordo di tale diffusa pratica.
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genda: una formazione simile, composta da un nome e cognome uniti in un cognome, è rarissima, e «Robinhood» ci fornisce un esempio eclatante. Nella massima parte questi individui avevano precedenti penali o erano ricercati dalla giustizia, in pratica si trattava di fuorilegge. Ciò potrebbe suggerire che «Robinhood» fosse diventato un soprannome usato dai delinquenti e che, quindi, la leggenda avesse assunto una dimensione nazionale già nella seconda metà del XIII secolo. Ulteriore tesi, secondo Holt, sarebbe quella per cui non vi sarebbe un solo Robin Hood originale. Se anche vi fu un «primo» Robin, gli altri personaggi che agirono con il suo nome contribuirono al diffondersi delle sue gesta. «Ciascuno era modellato dalla leggenda da lui stesso adottata o che gli era stata imposta con il cognome, e ciascuno acconsentí o si assicurò che le proprie azioni, a loro volta, potessero entrare a far parte della
leggenda». Lo scambio tra realtà e leggenda, peraltro, veniva progressivamente arricchito da abbellimenti frutto della fantasia. Vista l’inutilità di rintracciare un Robin Hood «storico», la cosa migliore è esaminarne la figura cosí come ci è stata tramandata dalle ballate. Robin è un fuorilegge, astuto e maestro dei travestimenti, abile con il bastone e infallibile con l’arco, che capeggia una banda e risulta attivo nelle zone comprese tra Barnsdale e Sherwood. I componenti principali dell’«Allegra Brigata» sono Little John, il suo fedelissimo compagno (soprannominato «piccolo» in antitesi con il suo aspetto imponente), Much, Scarlet e Gilbert Withondes, a cui si aggiunsero, nelle ballate piú tarde, Friar Tuck, Alan a’ Dale e Maid Marian. L’amata Marian trae probabilmente origine da un’operetta pastorale francese di Adam de la Halle (1275 circa) che vedeva, accanto a Marion, un pastore di nome Robin. È probabile che le versioni popolari di queste vicende siano arrivate in Inghilterra e che «Robin» sia stato assimilato in fretta a Robin Hood.
Anche un frate nella banda
Un altro personaggio, un frate corpulento e gioviale – popolare nelle rappresentazioni teatrali del Calendimaggio –, entrò a far parte delle ballate e fu identificato con un certo Friar Tuck, che, a quanto pare, era già un seguace di Robin Hood. I frati erano spesso oggetto di satira, e l’idea di un frate rinnegato componente della banda di Robin appartiene alla stessa vena satirica che aveva come bersaglio il potere costituito. D’altra parte Friar Tuck, con il tempo, non apparve solo come un buffone gioviale e gran mangiatore, ma anche come un soggetto capace di tenere duro e di difendersi in battaglia. Esemplificativo è l’episodio in seguito al quale entra a far parte della banda: Friar Tuck e Robin si fronteggiano in una lotta attraverso un corso d’acqua (in una sorta di parodia della leggenda di san Cristoforo), Robin suona il corno per chiamare a raccolta i suoi, mentre il frate fischia a una muta di cani selvatici, dimostrando di poter tenere testa al bandito. Robin Hood e i suoi risiedono nella foresta regia, ambiente custodito gelosamente dai re medievali e soggetto a leggi dirette alla protezione della cacciagione, fonte di svago per i sovrani e di nutrimento per la corte. Il fuorilegge vive cacciando i preziosi cervi del re e tendendo imboscate a cavalieri, nobili e prelati di passaggio. Lo stratagemma di Robin, che «giustifica» moralmente i furti, è semplice: egli e i compagni fermano la gente di passaggio, la invitano a de-
In alto Newstead Abbey, nel cuore della foresta reale di Sherwood. Nata come abbazia agostiniana, fondata intorno al 1170 da Enrico II d’Inghilterra, Newstead divenne la dimora della famiglia Byron nel 1540. Nella pagina accanto arcieri raffigurati nel Salterio Luttrell, un manoscritto miniato composto per il barone Geoffrey Luttrell (1276-1345). 1325-1335 circa. Londra, British Library.
sinare con loro, e infine chiedono il conto, ossia il pagamento della cena. Se le vittime dichiarano di non possedere ricchezze, i banditi procedono ad aprire bisacce e forzieri: nel caso in cui gli stessi abbiano detto la verità, vengono lasciati andare indenni, in caso contrario il bottino verrà incamerato senza indugio. Dal punto di vista geografico, la vera dimora di Robin è Barnsdale, tra Pontefract e Doncaster, nello Yorkshire meridionale: in realtà tale località non è mai stata una foresta, né in termini sostanziali, né giuridici. Era una «brughiera», che si trovava sulla via di passaggio dell’antica strada romana Great North Road, ed era nota come località pericolosa perché infestata dai briganti. La descrizione di Barnsdale nel Gest, peraltro, appare realistica, e la sua denominazione di «foresta» può essere derivata dalla assimilazione con quella di Sherwood, complesso boschivo regio situato a nord di Nottingham, che viene tratteggiato dai poeti in modo molto piú indefinito e assimilabile a una foresta idealizzata (greenwood). Nell’economia complessiva della leggenda, le storie di Sherwood appaiono piú importanti, in quanto il principale avversario di Robin è lo POPULISMO
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Miniatura raffigurante la battaglia di Gisors del 1198, combattuta tra Riccardo Cuor di Leone e Filippo II Augusto, re di Francia, da un’edizione manoscritta de Les Grandes Chroniques de France o Chroniques de Saint-Denis. 1325-1350 circa. Londra, British Library.
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sceriffo di Nottingham; d’altra parte, tale foresta era famosa quale rifugio di malfattori fin dalla fine del XII secolo. Lo sceriffo di Nottingham potrebbe essere nato come personaggio comico in un ciclo di racconti autonomo, una sorta di vendetta popolare contro un funzionario particolarmente detestato. Nelle ballate anonime, peraltro, tale figura è in un primo tempo rappresentata come uno sciocco, facile bersaglio di beffe, per diventare successivamente crudele e astuto, a seconda delle esigenze narrative. Lo sceriffo, rappresentando il lato negativo della giustizia amministrata da una posizione di potere, è il principale avversario di Robin e serve, al contempo, a farne risaltare maggiormente le gesta. Dal punto di vista storico, sono stati proposti due personaggi a cui la leggenda può essersi ispirata:
Philip Mark, sceriffo e custode della foresta di Sherwood tra il 1210 e il 1217, oppure Brian de Lisle, sceriffo dello Yorkshire (e non di Nottingham), ma presidente della corte di giustizia della foresta di Sherwood dal 1221 al 1224.
La versione teatrale
Le ballate dedicate al fuorilegge inglese, formatesi soprattutto nel XVI secolo, sono confluite nel contempo in un genere di intrattenimento popolare, cioè in quelle opere teatrali che venivano rappresentate durante i May Games o a Natale. In queste occasioni venivano ingaggiati numerosi attori per interpretare il ruolo di Robin Hood. Testimonianze contabili relative al pagamento di compensi agli interpreti, tra il XV e il XVI secolo, risultano in numerose località, tra cui Croscombe e Wells nel Somerset, nonché nel Worcestershire.
In basso miniatura raffigurante Riccardo I Cuor di Leone, re d’Inghilterra dal 1189 al 1199, dall’opera Verses on the Kings of England redatta dal monaco e poeta inglese John Lydgate. 1435. Londra, British Library.
In altre località, quali Kingston-on-Thames, la figura di Robin compariva anche insieme ai morris dancers, ballerini di un particolare genere di danza campestre inglese. La tradizione letteraria dell’arciere giunge addirittura fino a Shakespeare, il quale scrisse con As you like it (Come vi piace, 1598-1600), un riadattamento della storia di Robin Hood. In questo caso, infatti, il protagonista è un nobile che, privato dal fratello dei suoi possedimenti e delle sue prerogative, si rifugia nella foresta di Arden. Come molti altri temi o personaggi medievali, la figura di Robin Hood è stata «rilanciata» dal Romanticismo. Le Goff parla addirittura di una vera rinascita letteraria, dovuta al genio dello scrittore britannico Walter Scott. Questi, con il suo Ivanhoe (1819), consegna Robin Hood all’immaginario moderno e contemporaneo: le
gesta del ladro gentiluomo vengono collocate alla fine del XII secolo, nel bel mezzo di una delle piú appassionanti vicende della storia inglese. Robin, che nel romanzo di Scott porta il nome di Locksley, protegge insieme alla sua banda i Sassoni contro le incursioni dei conquistatori normanni e si schiera a difesa di Riccardo Cuor di Leone contro il crudele fratello di questi, Giovanni Senza Terra. Uno dei momenti salienti del romanzo è quando l’arciere salva il re, tornato in incognito in Inghilterra. A questo punto Riccardo, rivelando la sua identità, assolve Robin dalle rapine perpetrate in passato. Il fuorilegge infatti, appresa l’identità del re, dichiara: «Il mio sovrano ha il diritto di conoscere il mio vero nome. Un nome POPULISMO
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E SE FOSSE UN ELFO? OPPURE UN ANTICO DIO BRITANNICO? Molti studiosi hanno negato che Robin Hood sia un personaggio reale. Sin dal 1846 Thomas Wright (cofondatore della British Archaelogical Association) sosteneva che l’arciere fosse un personaggio di pura fantasia, e il suo nome una corruzione di Robin of the Wood (Robin della Foresta), ricollegabile ai folletti e alle fate che popolavano le superstizioni dei contadini. Nello stesso periodo Sir Sidney Lee affermò che il nome Robin Hood era una variante di Hodekin, un elfo boschivo del folklore teutonico. L’ipotesi «mitologica» fu ripresa nel 1933 dall’antropologa britannica Margaret Murray, che ricollegò la figura di Robin Hood al culto celtico di un nume dei boschi, con corna di cervo. In questo filone si situa anche Robert Graves (1895-1985), il quale, nel saggio La Dea Bianca, sostenne che nella campagna inglese il culto mariano fu presto identificato con quello della dea dell’Amore, introdotto in Britannia nel I secolo a.C. o d.C. Tale dea faceva coppia con Merddin, ormai cristianizzato col nome di Robin Hood, una probabile variante del nome sassone di Merddin, Rof Breoht Woden, «Forza lucente di Woden», noto eufemisticamente come Robin Goodfellow, «Robin Buondiavolo». In Francia, invece, Robin, diminutivo di Robert e preteutonico, significherebbe ariete e anche diavolo, ciò testimoniato dal fatto che il rubinetto (robinet) si chiamerebbe cosí in quanto nelle fontane di campagna aveva forma di testa d’ariete. A riprova, Graves citava un opuscolo pubblicato a Londra nel 1639, Robin Goodfellow, his mad pranks and merry gests (Pazze monellerie e gaie imprese di Robin Buondiavolo), nel quale Robin appariva come un dio itifallico delle streghe, con corna e zampe d’ariete, una scopa di strega sopra la spalla sinistra e una candela accesa nella mano destra. Sotto altro aspetto associò la figura alla festa del Calendimaggio e a quella invernale dello Yule,
In alto la celebre Major Oak, la grande quercia dal tronco cavo della foresta di Sherwood, nei pressi del villaggio di Edwinstone. L’albero che ha un’età di circa 800 anni, è considerato il leggendario nascondiglio di Robin Hood e della sua banda.
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ciò attestato dal fatto che Hood (o anche Hod o Hud) significava ciocco, e proprio in questo ciocco, tagliato dalla sacra quercia e che assumeva particolare rilievo in queste festività, si riteneva risiedesse un tempo Robin. Lo studioso arrivò a sostenere che durante tali festività si celebrassero «nozze boschive» (in pratica orge vere e proprie), benedette da un frate rinnegato di nome Frate Tuck. Molto spesso i bastardi, i «procreati in allegria», venivano ripudiati dai padri, per cui i cognomi inglesi piú diffusi (Johnson, Jackson e Jenkinson) sarebbero derivati dall’antica usanza annuale di scegliere il giovane piú alto e robusto per impersonare Little John (o Jenkin), il fedelissimo di Robin, e sarebbero stati quindi i «procreati in allegria» da Little John. Allo stesso modo Hobson, Dobson, Robinson, Hodson, Hudson e Hood sarebbero stati i figli di Robin Hood, mentre Greenwood e Merriman quelli di padre incerto. Queste teorie mitologiche sono state aspramente criticate dagli storici: James C. Holt, su tutti, afferma che Robin e i suoi uomini non vanno intesi come i mitici occupanti della foresta. Infatti le piú antiche storie di Robin, anzi l’intero ciclo nel suo complesso, sono privi dell’elemento del mito e della magia.
che, temo, ha fin troppo colpito le sue orecchie. Sono Robin Hood, della foresta di Sherwood». Gli replica Riccardo: «Ah, il re dei fuorilegge, il principe dell’Allegra Brigata! Chi non ha inteso il tuo nome? Esso è giunto fino in Palestina. Stai sicuro prode Robin Hood che nulla di ciò che hai potuto fare in mia assenza e in questi tempi inquieti sarà mai usato contro di te!». Dalla Gran Bretagna, il successo di Robin si è spostato negli Stati Uniti, forse per l’assimilazione piú o meno cosciente agli eroi del western. Il personaggio divenne l’idolo dei bambini grazie a Howard Pyle, che ne fece il protagonista dei libri illustrati The Merry Adventure of Robin Hood (1883), e fu anche rappresentato con gran successo nel 1890 nell’opera Robin Hood del compositore americano Reginald de Koven. In
ogni caso, a un secolo di distanza dall’opera di Walter Scott, fu il cinema a consacrare il nostro arciere all’immortalità. Robin Hood, storico o leggendario che fosse, è stato e rimane figura controversa e al centro di opinioni difformi. Le Goff lo definisce un personaggio ambiguo, che si muove tra giustizia e rapina, legge e illegalità, rivolta e sottomissione. Per altri egli reagisce all’ingiustizia, pagando con la messa al bando la sua incapacità di restarsene al suo posto. Secondo Eric J. Hobsbawm, quella di Robin è una forma primitiva di rivolta sociale ed egli può essere annoverato in una categoria rinvenibile in epoche e luoghi diversi, cioè quella del «bandito sociale»: sono banditi sociali i «fuorilegge rurali, ritenuti criminali dal signore e dall’autorità sta-
Nei luoghi della leggenda
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In basso incisione raffigurante Robin Goodfellow (Buondiavolo), nel Medioevo assimilato a Puck, uno spirito dei boschi ingannatore e scherzoso. Nella tradizione pagana inglese Robin Goodfellow era un diavoletto dispettoso, noto per la sua malizia, che aiutava le donne nei lavori domestici in cambio di latte e burro, ma si fermava se gli venivano offerti nuovi abiti. Se infastidito, poteva provocare innocui incidenti domestici, trarre in inganno i viaggiatori notturni o molestare le fanciulle.
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1. Major Oak La grande quercia di Sherwood. Verosimilmente, in età medievale, la foresta occupava l’intera estensione dell’odierno Nottinghamshire. 2. Fonte di Friar Tuck Il sito viene messo in relazione con la ballata Robin Hood and the Curtal Friar, ma, secondo la tradizione, fu anche il luogo in cui un manipolo di Danesi, all’epoca di Alfredo il Grande, cercò inutilmente di recuperare il tesoro sassone, qui seppellito da un monaco per salvarlo dalle razzie. 3. Will Scarlet’s Grave Luogo della presunta sepoltura di uno dei compagni di Robin, Will Scarlet appunto, che, fra l’altro, avrebbe condotto Maid Marian al matrimonio con l’arciere di Sherwood. 4. Cimitero di Blidworth Alla località, nella quale si svolgono molte delle gesta di Robin, sono legate altre storie di briganti e fuorilegge, che imperversarono fino a quando le loro azioni non vennero represse dallo sceriffo di Nottingham. 5. Robin Hood’s Stables Qui l’arciere avrebbe tenuto un veloce destriero con il quale galoppava lungo la King’s Great Way, la strada che tagliava la foresta di Sherwood. In realtà, nel sito delle presunte scuderie si trovava un romitorio, e, soprattutto, nessuna versione antica della leggenda narra di un cavallo, che è una delle molte «invenzioni» cinematografiche elaborate in età moderna. 6. Newstead Abbey Nei pressi del monastero avrebbe avuto luogo il presunto incontro fra Robin Hood e Riccardo Cuor di Leone. 7. St. James’ Church Quartier generale dei Royal Foresters, è anche il luogo in cui è ambientata una delle storie piú note della saga di Robin Hood, quella in cui l’eroe riesce a fare in modo che Alan-a-Dale sposi l’amata Ellen. 8. Bestwood Lodge Residenza prediletta di re Giovanni e di suo fratello Riccardo, che amavano soggiornarvi per dedicarsi alle battute di caccia nella circostante foresta reale. 9. Nottingham Castle Luogo topico del ciclo di racconti su Robin Hood, nel quale l’eroe venne piú volte imprigionato. 10. St. Mary’s Church Qui, in Robin Hood and the Monk, lo sceriffo di Nottingham riesce a catturare Robin. 11. Southwell Minster Ultimata nel 1108, la chiesa è una delle piú eleganti architetture riconducibili al dominio normanno sul Nottinghamshire. 12. Newark Castle Nel 1140, il vescovo di Lincoln costruí qui un nuovo ponte, che offriva un nuovo attraversamento del Trent, alternativo a quello di Nottingham. POPULISMO
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L’arciere sul grande schermo La leggenda di Robin Hood deve la sua fortuna odierna anche al cinema e alla televisione. Già negli anni precedenti la prima guerra mondiale furono girati una mezza dozzina di film muti e in bianco e nero, tra cui spicca quello classico di Douglas Fairbanks (1922). In queste versioni Robin viene sempre rappresentato come l’ex conte di Huntingdon, il principe Giovanni è sempre il cattivo e Riccardo Cuor di Leone il re assente, mentre il ruolo di Maid Marian è ampliato per esigenze cinematografiche. Con l’avvento del sonoro e del technicolor, la United Artists produsse La leggenda di Robin Hood (1938), per la regia di William Keighley e Michael Curtiz, interpretato in modo magistrale da Errol Flynn e con Olivia de Havilland nei panni di Maid Marian. L’eroe è stato oggetto di numerosi altri film, tra cui il cartone animato Robin Hood di Wolfgang Reitherman prodotto da Walt Disney (1973), nel quale Robin è nei panni di una volpe, nonché di ben due pellicole nel 1991. La prima è Robin Hood Prince of the Thieves (Robin Hood Principe dei Ladri) di Kevin Reynolds e con Kevin Costner e Mary Elizabeth Mastrantonio come protagonisti, la seconda Robin Hood: la leggenda, interpretato da Patrick Bergin e Uma Thurman. Non sono mancate le rivisitazioni in chiave comica, come Robin Hood: un uomo in calzamaglia, per la regia di Mel Brooks e interpretato da Cary Elwes (1993). Originale è il tema del film di Richard Lester Robin and Marian, del 1976, interpretato da Sean Connery e Audrey Hepburn: Robin Hood ha ispirato in questo caso un’opera che non mette in evidenza il lato banditesco dell’eroe, bensí quello di un uomo ormai invecchiato eppure sempre esposto alle insidie che gli tende lo sceriffo cattivo. Nel 2010 anche Ridley Scott si è misurato con Robin Hood,
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affidandone i panni a Russell Crowe. Il film è una completa rivisitazione in chiave epico-moderna della leggenda. Il lungometraggio, infatti, è stato concepito sia come prequel, sia come riscrittura della nascita, della vita e del mito di Robin, raccontando le vicende dell’eroe prima che questi assuma le vesti del famoso fuorilegge. Col nome di Robin Longstride, ci viene presentato come un reduce dalla terza crociata, che, dopo la morte di Riccardo Cuor di Leone, combatte contro le ingiustizie e guida gli Inglesi per difendere la patria contro i Francesi, mentre Cate Blanchett risulta una donna forte e combattiva, che troverà nell’eroe un valido aiuto nella battaglia per la difesa del suolo inglese. Nel novembre 2018 è invece uscito nelle sale Robin Hood. L’origine della leggenda, diretto da Otto Bathurst e con Taron Egerton nei panni dell’arciere di Sherwood. Il regista ripropone la vicenda secondo lo schema tradizionale, ma, in termini di stile, ha voluto confezionare una pellicola fortemente giocata sulle scene d’azione.
In alto e in basso immagini tratte dal film Robin Hood. L’origine della leggenda (2018) del regista britannico Otto Bathurst, con Taron Egerton nel ruolo del ribelle di Sherwood.
tale, ma che pure restano all’interno della società contadina e sono considerati dalla loro gente eroi, campioni, vendicatori, combattenti per la giustizia, persino capi di movimenti di liberazione e comunque uomini degni di ammirazione, aiuto e appoggio». È comunque certo che la figura di Robin Hood, cosí come la conosciamo oggi, è molto diversa da quella originaria e il personaggio è stato rimodellato nel tempo. Nicoletta Gruppi, curatrice di una raccolta di ballate, evidenzia che l’arciere non è un eroe buono e non è mosso da improbabili motivazioni sociali: riconosce però come Robin Hood si distingua dalla variopinta malavita medievale per il fatto di cercare di modulare il suo comportamento secondo regole cortesi, per cui le sue gesta risulterebbero il tentativo o, comunque, «la ricerca, se non l’affermazione, di una dignità umana che riscatti una vita marginale e degradata». Di diverso avviso il già citato Holt. Egli precisa, innanzitutto, che Robin Hood, nel momento in cui ha fatto la sua apparizione, era uno yeoman (piccolo proprietario di terreni che rendevano almeno quaranta scellini l’anno, avente il diritto di votare nelle elezioni della contea e di far parte di giurie); progressivamente fu trasformato in un nobile ingiustamente privato della sua eredità, poi in un Inglese che proteggeva i compatrioti dalle invasioni dei Normanni, infine un ribelle che, nell’ambito della lotta contro gli avidi possidenti terrieri, si scagliava mediante rappresaglie contro la persona e la proprietà dell’oppressore.
Un modello lontano dalla realtà
Lo stereotipo della leggenda giunto fino a noi, ossia quello del ladro gentiluomo che ruba ai ricchi per donare ai poveri, è molto lontano dalla realtà: questa attività era poco probabile e forse l’unica attestazione si trova in un episodio del Gest, in cui Robin presta denaro a un cavaliere (per permettergli di riscattare alcune terre date in pegno per salvare il figlio), recuperandolo poi con il furto ai danni di un abate. Il resto delle avventure non hanno nulla da condividere con il concetto di derubare il ricco e donare al povero, tanto meno con la lotta di classe, con i cavalieri poveri o i contadini oppressi. Ciò non significa che la leggenda di Robin Hood non abbia un suo contenuto sociale. I suoi protagonisti ed eroi sono fuorilegge: criminali che si aggiravano per le campagne, ribelli sconfitti (contadini, cavalieri o nobili) che si rifugiavano nella macchia per non sottomettersi, delinquenti messi al bando al termine di un pro-
cesso, giustamente o meno. E le vicende, pur narrate con una certa lievità, sono molto concrete, poiché a quei tempi la foresta era davvero il luogo ove si nascondevano i fuorilegge e i guerriglieri, impegnati nella lotta contro lo sceriffo e i suoi sgherri, i veri cattivi della storia. Quel che è particolare della leggenda di Robin Hood è il fatto di conservare contorni indefiniti, a differenza di altri componimenti coevi, come The Outlaw’s Song (la Canzone del fuorilegge, del 1305 circa), in cui il protagonista afferma di essere stato accusato e condannato per rancore da una giuria di persone infide e sleali. In Robin non c’è nulla di questo: egli è un fuorilegge in perenne lotta con lo sceriffo cattivo, ma non se ne conoscono i motivi. Tale imprecisione, peraltro, è stata forse una delle chiavi del perpetuarsi della leggenda, dal momento che la rendeva piú adattabile e modellabile. Altra annotazione di rilievo riguarda i caratteri del personaggio: Robin ci appare oggi come l’incarnazione dell’onore, punisce e corregge il male suscitato dalla corruzione di prelati e funzionari, mantiene la parola data, è generoso, è cortese nei confronti delle donne e devoto nei confronti della Vergine. Questa è la figura di Robin giunta fino a noi: la realtà, in origine, era ben diversa. L’arciere di Sherwood era figlio di un mondo in cui le carestie portavano al ladrocinio e al saccheggio e dove la violenza era un fatto naturale e accettato. Nei primi racconti Robin Hood era molto piú selvaggio e sanguinario: uccideva senza problemi, in un episodio colpisce lo sceriffo con una freccia e poi lo decapita, in un altro trucida Guy di Gisborne e poi con un pugnale ne sfigura la testa, portandola conficcata sull’estremità dell’arco. Solo con il tempo la figura di Robin è stata ingentilita, e gli autori hanno cercato un modo ragionevole per giustificare i suoi crimini e utilizzarli per una campagna contro la corruzione. D’altra parte, osserva Holt, Robin Hood non cerca di rovesciare le regole sociali, anzi le sostiene contro le macchinazioni dei potenti che non le rispettano: nei racconti non è perciò rinvenibile un suo progetto pratico per migliorare la condizione umana. In questo senso, egli interviene con il suo arco infallibile, con i suoi travestimenti o stratagemmi e risolve ogni problema, prefigurando quasi il mondo dei Superman e del fumetto. In definitiva, il criminale, assurto a eroe e depurato dei suoi aspetti oscuri, si è trasformato, in età contemporanea, in un innocuo personaggio di storie avventurose, adatte per i piú giovani o, al limite, nel simbolico paladino di proteste sociali radicali. POPULISMO
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di Fabio Brioschi
Seguire il Vangelo Teologo e riformatore boemo, Jan Hus fece della lotta alla corruzione e alla secolarizzazione della Chiesa il cardine della sua predicazione. Ma la durezza delle sue critiche non tardò a essergli fatale e, nel 1415, finà i suoi giorni sul rogo Praga, piazza della Città Vecchia. Il monumento dedicato a Jan Hus, per commemorare il martirio del predicatore boemo, dichiarato eretico e condannato al rogo nel 1415 dagli inquisitori del Concilio di Costanza.
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a parabola umana e religiosa di Jan Hus, severo fustigatore della corruzione della Chiesa cattolica e fervido sostenitore della centralità del Vangelo nella vita di ogni fedele, rappresenta senza dubbio una vicenda di assoluto rilievo sul finire del Medioevo. Essa si svolse nel contesto di una generalizzata aspirazione alla riforma morale e istituzionale della Chiesa, un sentimento assai diffuso fra ampi strati della popolazione europea, che condizionò e fu a sua volta condizionato dall’opera di Hus, trovando in Boemia il sostrato piú adatto per il dispiegarsi del movimento politico e religioso hussita; una riforma che la storiografia contemporanea ha identificato come il passo precedente e necessario verso quella luterana. Come in altre parti d’Europa, anche in Boemia un forte lassismo morale andava diffondendosi fra il clero, soprattutto praghese e, fra gli anni Sessanta e Settanta del XIV secolo, alcuni predicatori non esitarono a condannare la compravendita di benefici e indulgenze. Nella società cèca si diffuse una sempre piú viva richiesta di maggiore rettitudine, sostenuta da un senso di forte distacco fra la condizione di asservimento e povertà di ampi strati della popolazione e quella di ricchezza ostentata da numerosi esponenti religiosi. Fu grazie a Hus che le aspirazioni di riforma fortemente volute dal popolo presero corpo e forma, traducendosi in azioni concrete e saldandosi con un desiderio di riscatto sociale che eliminasse le ingiustizie della società contemporanea. La predicazione hussita venne anticipata dall’opera di figure molto popolari in Boemia, fra le quali ebbe particolare risonanza Jan Milic di Kromeriz, notaio della cancelleria imperiale e membro del capitolo della cattedrale che nel 1363 rinunciò ai propri benefici per dedicarsi alla predicazione e al recupero delle prostitute nella comunità denominata «Nuova Gerusalemme». La volontà di assistere il prossimo come sforzo supremo per servire il Cristo trovò terreno fertile, e grazie al successo dell’esperienza di Milic di Kromeriz altre comunità di questo genere fiorirono numerose al principio del Quattrocento. Nel 1391, alcuni seguaci di Milic decisero di fondare una cappella grazie alla quale i cittadini piú sensibili alle idee di riforma della Chiesa trovassero un luogo di incontro e di preghiera; nacque cosí la «Cappella di Betlemme», che non fu mai una vera e propria parrocchia, né godette di prebende e venne mantenuta solo grazie alle donazioni dei propri fedeli. Numero106
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si esponenti della borghesia praghese e della corte reale collaborarono alla nascita di questa esperienza, che vedeva impiegati a tempo pieno due giovani predicatori e che, inizialmente, ebbe l’approvazione dell’arcivescovo e non pochi legami con i maestri cèchi dell’Università. Jan Hus giunse a condividere questo percorso in età adulta, quando era già uno stimato professore dell’Università Carolina di Praga. Prima di aderire al movimento e diventarne rapidamente la guida, svolse brillanti e «regolari» studi, distinguendosi unicamente per le proprie capacità intellettuali.
Una città in fermento
Nato a Husinec (nella Boemia meridionale) intorno al 1372, da una famiglia di agricoltori, studiò nella scuola della vicina cittadina di Prachatice e nel 1390 venne inviato a Praga per frequentare l’Università, ottenendo il baccellierato in filosofia nel 1393, il titolo di magister nel 1396 e l’ordinazione sacerdotale nel 1400. Al momento del suo arrivo a Praga l’Università era in pieno fermento per via della disputa fra realisti (seguaci della dottrina filosofica realista, che riconosce alle cose un’esistenza reale autonoma rispetto alla coscienza del singolo soggetto, n.d.r.) e nominalisti (seguaci della dottrina filosofica nominalista, per cui solo le individualità hanno sostanza reale, mentre i concetti generali che le definiscono non possiedono alcuna sostanza concreta ma costituiscono solamente i nomi che gli individui assegnano convenzionalmente agli insiemi ai quali appartengono, n.d.r.), sulla quale si era inserita la rivalità fra la componente tedesca, perlopiú nominalista, e quella cèca, realista. L’evento che però contribuí in misura sostanziale a formare il credo e la personalità del giovane Hus, fu l’incontro con gli scritti del teologo riformatore inglese John Wycliffe, diffusi in Boemia da alcuni studenti che avevano raggiunto Oxford al seguito della principessa Anna – sorella del re di Boemia Venceslao IV –, andata in sposa al re inglese Riccardo II. La diffusione delle idee di Wycliffe si innestò a sua volta sulla polemica fra i nominalisti tedeschi, conservatori, e i realisti cèchi, riformatori, acuendo ancor di piú il divario fra i due blocchi in seno all’Università. Il primo punto venne segnato dai conservatori e il 28 maggio 1403 la maggioranza dei maestri praghesi, che era di lingua tedesca, condannò le teorie del teologo inglese. Hus non venne coinvolto subito nella polemica; nei primissimi anni del XV secolo egli svolse (segue a p. 110)
Nella pagina accanto la prima pagina del Vangelo secondo Matteo, tratta dalla traduzione in inglese curata dal teologo John Wycliffe. XV sec. Londra, British Library.
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Obbedienza romana sotto il pontificato di Urbano VI e successori
Territori con Obbedienza romana Obbedienza avignonese sotto il pontificato di Urbano VI sotto il pontificato di Clemente VII Territori neu e successori e successori contesi Obbedienza romana Obbedienza Territori contesi Obbedienza romana avignonese ObbedienzaTerritori avignonese sotto il pontificato di Urbano VI sotto il pontificato sotto il pontificato diVI Clemente VII di Urbano sotto il pontificato di Clemente VII Territori contesi e successori e successori Obbedienza avignonese Territori neutrali e successori e successoriTerritori neutrali sotto il pontificato di Clemente VII Territori neutrali e successori
Le aree di distribuzione delle due obbedienze religiose (in alto), tra il 1378 e il 1409, e delle tre obbedienze (nella pagina accanto), tra il 1414 e il 1417.
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Londra Londra
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Praga Costanza Costanza
Avignone Avignone Lisbona
Roma Roma
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Obbedienza romana sotto il pontificato di Urbano VI e successori Obbedienza romana pisana sotto Alessandro V Obbedienza sottopapa il pontificato e successori di Urbano VI e successori Obbedienza pisana sotto papa Alessandro V e successori
Obbedienza avignonese sotto il pontificato di Clemente VII e successori Territori neutrali Obbedienza avignonese sotto il pontificato di Clemente VII e successori Territori neutrali
Sulle due pagine una seduta del Concilio di Costanza, alla presenza del re Sigismondo e di Giovanni XXIII, da una copia della Cronaca del Concilio di Costanza di Ulrich Richental, eseguita nel 1464-65. Costanza, Rosengartenmuseum.
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PRIMA E DOPO IL CONCILIO DI COSTANZA 1378 Inizio dello scisma d’Occidente. Dopo l’elezione di papa Urbano VI (9 agosto), il 20 settembre una parte dei cardinali elegge papa Clemente VII. 1409 Il Concilio di Pisa non riesce a porre fine allo scisma. Ora i papi sono tre: Gregorio XII (Roma), Benedetto XIII (Avignone) e Alessandro V (Pisa), al quale succede, nel 1410, Giovanni XXIII. 1413 A Lodi, Giovanni XXIII e re Sigismondo decidono di convocare il Concilio di Costanza. 5 novembre 1414 Papa Giovanni apre il Concilio. Il 24 dicembre arriva Sigismondo. Gli altri due papi non si presentano. Febbraio 1415 Il Concilio decide di non votare pro capite, ma per nazione. Sei sono le nazioni presenti. 20 marzo 1415 Giovanni XXIII fugge con l’aiuto del duca Federico IV d’Austria. 6 aprile 1415 Il decreto Haec Sancta stablisce la superiorità del Concilio sull’autorità del papa. 4 maggio 1415 Il riformatore inglese John Wycliffe viene dichiarato eretico. 29 maggio 1415 Deposizione di Giovanni XXIII. 4 luglio 1415 Gregorio XII, assente, dà mandato di annunciare la sua rinuncia al soglio papale. 6 luglio 1415 Condanna ed esecuzione di Jan Hus. 30 maggio 1416 Anche Girolamo da Praga, allievo di Hus, viene condannato al rogo. 26 luglio 1417 Il Concilio depone Benedetto XIII. 9 ottobre 1417 L’editto Frequens obbliga il papa a convocare regolamente il Concilio. 11 novembre 1417 Il conclave elegge Oddone Colonna, che prende il nome di Martino V. 22 aprile 1418 Papa Martino dichiara chiuso il Concilio.
una vita interamente dedicata allo studio e alla scrittura. La sua fama di teologo intanto raggiunse ogni angolo d’Europa, grazie al diffondersi delle sue opere che esprimevano la necessità di riportare il Vangelo al centro della vita quotidiana di tutti i fedeli: l’apparato gerarchico della Chiesa romana, secondo Hus, aveva allontanato religiosi e fedeli dalla verità contenuta nel messaggio evangelico; il teologo auspicava quindi un ritorno alla Chiesa apostolica delle origini, dove anche i laici svolgessero un ruolo attivo all’interno della comunità ecclesiale.
Una progressiva radicalizzazione
Le idee di Hus, cosí vicine a quelle di Wycliffe, e da queste ispirate, portarono il teologo praghese sulla strada del movimento riformatore. Dopo essere stato invitato una prima volta a predicare presso la Cappella di Betlemme, Hus divenne rapidamente un punto di riferimento per l’intero movimento; già nel 1402 venne nominato predicatore e amministratore del luogo di culto. Fra Hus e il suo uditorio cominciò a crearsi uno scambio intenso: egli credeva ferma110
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mente nel ruolo del laicato nella Chiesa, concepita come una comunità di eletti. Durante i dieci anni della sua esperienza come predicatore le sue idee si radicalizzarono, e cominciò a esprimere senza riserve la condanna alla corruzione morale ecclesiastica e a invocare un rinnovamento dei costumi del clero. La sua predicazione ottenne un successo senza pari fra i settori piú diversi della società praghese. In particolar modo risulta interessante come abbia trovato fervido riscontro presso la nobiltà cèca, che inizialmente avversava la gerarchia ecclesiastica a causa della pesante pressione fiscale che colpiva i feudatari laici e non quelli religiosi. In un secondo momento, grazie alla figura di Hus, su questa adesione «strumentale» si innestò e si radicò un sentimento di condivisione e di appartenenza alla comunità cèca; un sentimento che solo piú tardi gli storici avrebbero letto in chiave nazionalistica. Il notevole successo delle prediche e degli scritti di Hus attirò molto in fretta l’attenzione delle gerarchie romane e a sua volta si inserí nelle vicende «internazionali» legate allo scisma avi-
A sinistra ancora due immagini tratte dalla Cronaca del Concilio di Costanza di Ulrich Richental. In alto, Jan Hus viene invitato ad abiurare le proprie tesi; in basso, il predicatore boemo viene condotto al rogo, dopo essere stato obbligato a indossare un copricapo con le figure di tre diavoli.
UNA NUOVA EUCARESTIA La partecipazione del laicato alla vita della Chiesa fu uno dei principali pensieri di Hus e dei riformatori boemi. Per dare a questa partecipazione anche una dimensione eucaristica, gli hussiti si spinsero all’estremo e adottarono l’Eucarestia sub utraque specie (sotto le due specie), ossia offrendo ai laici non solo il pane, ma anche il calice del vino durante la Comunione. Tale decisione venne presa mentre Hus si trovava già in carcere a Costanza e, nonostante peggiorasse la situazione del maestro praghese, fu da questi sostenuta convintamente. Fu un evento rivoluzionario, che mirava proprio ad annullare nel momento piú intenso della celebrazione liturgica le distanze fra il clero e i fedeli. Da questa usanza di offrire il calice, gli hussiti vennero chiamati anche utraquisti o calistini.
gnonese – in atto dal 1378 – e alle candidature imperiali. Quando re Venceslao IV venne deposto dal trono imperiale in favore di Roberto del Palatinato, con l’appoggio del papa romano Bonifacio IX e dei suoi successori Innocenzo VII e Gregorio XII, si ebbero risvolti assai importanti sulla Boemia e sul movimento riformatore. Gli ecclesiastici conservatori boemi e tedeschi si erano dichiarati fedeli all’obbedienza romana e quindi, di fatto, erano anche sostenitori del rivale imperiale di Venceslao IV. A Praga si aprí un’insanabile rottura fra il re e i professori tedeschi dell’Università, che esplose in occasione del Concilio pisano del 1409, indetto per cercare di sanare lo scisma in atto. Venceslao intendeva assumere una posizione di sostanziale neutralità rispetto alle rivalità fra i diversi partiti pontifici e chiese un parere ai maestri dell’Università praghese, ben sapendo che la maggioranza tedesca dei professori era ancora fedele al papa romano e avrebbe potuto screditarlo pubblicamente. Per evitare di avere un parere negativo, VencePOPULISMO
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Gli altri protagonisti
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B enedetto XIII, antipapa (1). (Pedro Martínez de Luna, 1328 circa1423). Incisione olandese del XVIII sec. Benedetto XIII, eletto ad Avignone (1394) dai cardinali francesi alla morte di Clemente VII, fu deposto e scomunicato dal Concilio di Costanza nel 1417. M artino V (2). (Oddone Colonna, 1368-1431). Incisione del 1713 di Bernard Picart (1673-1733). L’elezione di Martino V, nel novembre del 1417, durante il Concilio di Costanza, pose fine allo Scisma d’Occidente, durante il quale vennero deposti Gregorio XII pontefice a Roma, Benedetto XIII ad Avignone e Giovanni XXIII a Pisa. J ohn Wycliffe (3). Incisione del 1713 di Bernard Picart. Nato nello Yorkshire nel 1320, fu frate francescano e professore a Oxford. Acceso sostenitore dei diritti della corona inglese contro le pretese pontificie, sostenne strenuamente la superiorità del potere civile su quello religioso. Fu un fustigatore della corruzione ecclesiastica, auspicando il ritorno alla Chiesa delle origini, piú conforme ai contenuti del Vangelo. I suoi scritti influenzarono molto Jan Hus, il quale, però, non assunse integralmente e passivamente il pensiero wycliffita. Wycliffe era convinto che solo il potere civile avrebbe potuto risollevare la Chiesa dall’immoralità in cui era stata sprofondata dall’indegnità dei suoi sacerdoti e dei pontefici romani, mentre Hus attribuiva questa capacità unicamente al popolo, attraverso la sua partecipazione alla Chiesa degli eletti. Altra differenza fondamentale fra Wycliffe e Hus riguardò la transustanziazione: mentre il Francescano inglese ne rifiutava la dottrina, il maestro praghese non l’aveva mai messa in discussione e, anzi, promosse l’Eucarestia sub utraque specie proprio nell’ottica di permettere ai fedeli di partecipare direttamente al miracolo dell’Eucarestia. Nel 1415 il Concilio di Costanza pronunciò, nei suoi confronti, una condanna postuma per eresia. G irolamo da Praga (4). Incisione del 1713 di Bernard Picart. Fra i numerosi amici e sostenitori di Hus ve ne fu uno che in particolar modo vale la pena di ricordare: Girolamo da Praga. Jan e Girolamo si conobbero all’Università di Praga, di cui entrambi divennero professori, con la fondamentale differenza che il secondo non divenne mai sacerdote e conservò uno spirito indomito che lo spinse a compiere numerosi viaggi in tutta Europa. Girolamo studiò a Oxford, dove venne in contatto con la dottrina di Wycliffe e finí in carcere per averla diffusa pubblicamente in Università. Si trasferí a Parigi dove ottenne una laurea e fu di nuovo costretto a fuggire, quindi si trasferí a Colonia dove prese una nuova laurea e fu nuovamente costretto a scappare a causa dei suoi discorsi a sostegno di Wycliffe. Questa spericolata giovinezza fu il viatico per divenire presumibilmente l’«ambasciatore» della riforma hussita in Europa: dopo la sua adesione alla riforma boema continuò a viaggiare per allacciare relazioni fra gli ambienti riformatori di tutta Europa. Fu arrestato ancora diverse volte e riuscí sempre a fuggire, finché decise di raggiungere Hus a Costanza per sostenerlo con la propria vicinanza. Qui avvenne il suo ultimo arresto: venne arso sul rogo un anno dopo il proprio maestro.
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slao cambiò i rapporti di forza fra professori cèchi e tedeschi attraverso il decreto di Kutná Hora, che attribuí ai voti dei maestri cèchi un peso superiore. In questo modo il re poté avere un sostegno nella propria dichiarazione di neutralità rispetto al Concilio pisano, ma i maestri di lingua tedesca e i loro studenti per protesta abbandonarono Praga. Nel frattempo l’attività teologica e predicatoria di Hus non era cessata, nonostante un sinodo avesse proibito di rivolgere critiche al clero dal pulpito. Dopo il Concilio di Pisa lo scisma non era stato risolto e la cristianità si era ritrovata addirittura con tre papi, poiché Alessandro V, eletto dal Concilio per sanare la frattura, non era riuscito a imporsi ai suoi antagonisti. Nel dicembre del 1409 il pontefice emanò una bolla che condannava ancora una volta le teorie di Wycliffe, vietava la predicazione al di fuori delle chiese parrocchiali e conventuali, e autorizzava l’arcivescovo di Praga a prendere provvedimenti contro Jan Hus. Alla morte di Alessandro V, poco tempo dopo la sua contestata elezione, venne eletto papa Baldassarre Cossa (con il nome, poi ignorato nella storiografia vaticana, di Giovanni XXIII, n.d.r.), che promise la remissione di ogni peccato a tutti coloro che avessero sostenuto militarmente o economicamente la sua causa.
Contro la corruzione del clero
La compravendita delle indulgenze non risparmiò Praga. Dal pulpito della Cappella di Betlemme, Hus, per niente intimorito dai divieti di predicare, si scagliò contro il commercio profano; il popolo lo sostenne convintamente, e, anche in ragione di questo suo successo, numerosi maestri dell’Università, l’arcivescovo e il re cominciarono a temerne seriamente l’operato. La sua predicazione contro la compravendita delle indulgenze e contro la corruzione morale del clero, mai sopita fra i riformatori praghesi, trovò molti sostenitori; in molti casi i fautori di Hus si lasciarono andare a manifestazioni di violenza e intolleranza verso preti ritenuti immorali e vi furono non pochi sanguinosi scontri armati fra opposte fazioni politico-religiose. Il 15 marzo 1411 l’arcivescovo di Praga emise un bando contro Hus, scatenando la reazione di re Venceslao, che decise di proteggere il maestro. Ovviamente, il re aveva mire diverse da quelle di Hus e ciò per il momento giocò a favore del riformatore. L’arcivescovo lanciò un interdetto sulla città di Praga e in risposta Venceslao convocò un collegio arbitrale, chiedendo di sapere
se avesse ragione Hus oppure l’arcivescovo. Palesemente ciò significava che l’autorità regale avocava a sé una decisione di carattere canonico, sfidando non solo la consuetudine, ma la stessa Chiesa di Roma. L’arbitrato dette ragione a Hus, cosí come Venceslao auspicava. Nel luglio 1412 Hus venne dichiarato eretico e scomunicato per ordine di papa Giovanni XXIII: in breve tempo era diventato un vero e proprio spauracchio per la curia romana, ma soprattutto per il nuovo imperatore Sigismondo, fratello di Venceslao IV. Di fronte alla scomunica il teologo compí un atto che nessuno si aspettava: il 18 ottobre 1412 fece affiggere alle porte del ponte di Praga un appello «al Signor Gesú Cristo, giudice equo il quale conosce, protegge, giudica, rivela e corona immancabilmente la giusta causa di ognuno». Da quel momento fu costretto all’esilio, pur continuando a scrivere opere di pesante accusa contro la commistione di potere temporale e religioso e a favore di una rifondazione morale delle istituzioni ecclesiastiche. Nella generale confusione creata dal perdurare dello scisma avignonese, le accorate richieste di riunificazione della Chiesa continuarono a cadere nel vuoto, finché l’imperatore Sigismondo si fece promotore della convocazione a Costanza di un grande Concilio che procedesse alla riforma della Chiesa e mettesse fine ai tanti anni di disordine interno; fra i punti all’ordine del giorno venne inserita anche «la questione Hus». L’imperatore promise al maestro praghese che avrebbe potuto difendere le proprie tesi davanti ai cardinali convocati nella città tedesca, e gli forní un lasciapassare per raggiungere la sede del Concilio. La decisione di recarsi a Costanza per essere esaminato dai padri conciliari fu presa da Hus in assoluta libertà; dal suo rifugio di Tabor avrebbe potuto continuare a svolgere la propria missione di predicazione e di scrittura, tuttavia, egli era convinto che in tale modo non avrebbe servito nel modo corretto la verità che deriva dalla fede nel Vangelo. Hus pensava di essere nel giusto e non temeva le conseguenze, che necessariamente erano dettate dalla falsità, e quindi dall’Anticristo. La sua saldezza affondava le radici nella convinzione che ogni uomo avrebbe dovuto difendere con la vita la fede nella verità, fino al sacrificio
Presunta reliquia del mantello di Jan Hus. XV sec. (?). Colmar, Musée Unterlinden.
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UNA DISPERATA, MA LUCIDA, RICHIESTA DI GIUSTIZIA Ecco un ampio stralcio dell’appello a Gesú Cristo lanciato da Jan Hus dopo aver ricevuto la notifica della scomunica nel 1412. «Iddio onnipotente, uno in essenza e trino in persona, essendo il rifugio primo e supremo degli oppressi; essendo Egli il Signore che custodisce in eterno la verità, che rende giustizia a coloro che soffrono l’ingiustizia (…) rivolgo appello a Dio per la grave oppressione, per l’ingiusta sentenza e la scomunica comminatami dai pontefici, scribi, farisei e giudici insediatisi sulla cattedra di Mosè, e affido a Lui la mia causa (…). Ecco dunque che cosa auguro possa venire a conoscenza di tutti i fedeli di Cristo (…): io sono gravemente oppresso sotto il peso di una scomunica (…) concessa e fulminata da Pietro cardinale-diacono della chiesa romana del titolo di Sant’Angelo, giudice designato dal pontefice romano Giovanni XXIII. Questo papa per quasi due anni non volle concedere udienza alcuna ai miei avvocati e ai miei procuratori (…). Donde risulta in modo manifesto che non ho meritato il rimprovero di contumacia (…). Non solo: hanno messo in prigione alla corte di Roma il mio legale procuratore senza che nessuna sua colpa potesse giustificare questo modo di procedere (…). Inoltre era stato stipulato un concordato fra me e monsignor Zbynek, arcivescovo di Praga di santa memoria (…). Il signor arcivescovo doveva scrivere a S.S. il papa che non gli era noto in
estremo. Giunse a Costanza agli inizi del novembre 1414 e passò alcune settimane lavorando alacremente ai discorsi che aveva in previsione di tenere di fronte al Concilio. Dopo poco piú di un mese fu attirato in un tranello e arrestato; non avrebbe piú riacquistato la libertà. Rinchiuso dapprima nella prigione del convento domenicano e poi nella torre del castello del vescovo si ammalò e subí i primi interrogatori in carcere, mentre la febbre alta gli annebbiava la mente e lo indeboliva fisicamente. Ciononostante ciò continuò a scrivere opere teologiche e a intrattenere corrispondenza con i suoi sostenitori in Boemia. Chiese per mesi e con ostinazione di essere ascoltato durante una seduta plenaria e pubblica del Concilio, ma tale privilegio gli venne concesso solo nel giugno del 1415. Il teologo venne interrogato il 5, il 7 e l’8 di quel mese nel refettorio del convento dei Francescani solamente grazie all’azione combinata di diversi suoi sostenitori, soprattutto nobili boemi, fra i quali non si contava piú re Venceslao, che aveva deciso di abbandonare il maestro praghese al proprio destino. La commissione che si occupò del caso di Jan Hus stilò il proprio atto 114
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tutto il regno di Boemia un solo eretico e nemmeno nella città di Praga (…). Egli doveva pure scrivere che il papa, signore apostolico, mi assolvesse dal dovermi presentare a giudizio e da ogni citazione e scomunica. Poiché dunque tutte le antiche leggi divine dell’Antico e del Nuovo Testamento, nonché le leggi canoniche dispongono che i giudici devono visitare i luoghi dove si dice che sia stato commesso un delitto e ivi esaminare l’accusa fatta a chi è indiziato e sospettato; poiché devono rivolgersi a quelli che conoscono la condotta dell’accusato che non siano malevoli né gelosi verso di lui o verso l’uomo denunciato ma ferventi osservanti della legge di Gesú Cristo; poiché l’incolpato o accusato deve avere sicuro e libero accesso al luogo della giustizia e il giudice, come pure i testimoni, non debbono essere suoi nemici: è dunque evidente che non sussistevano queste condizioni per farmi comparire in giudizio. Trovandomi nella necessità di salvare la mia vita, sono perciò giustificato dinanzi a Dio dell’accusa di contumacia e di una pretesa e arbitraria scomunica. Io, Jan Hus da Husinec, maestro e baccelliere formato in teologia presso l’illustre Università di Praga, sacerdote e predicatore titolare della Cappella detta di Betlemme, presento questo appello a Gesú Cristo, giudice equo il quale conosce, protegge, giudica, rivela e corona immancabilmente la giusta causa di ognuno».
di accusa sulla base di trenta articoli contenuti in varie opere letterarie e teologiche, a cui vennero aggiunte le deposizioni di sedici testimoni a carico del maestro, molti dei quali ex amici e compagni di lotta, conquistati piú o meno brutalmente alla causa pontificia. Hus rifiutò di abiurare agli articoli incriminati e diede risposte scritte a ogni atto di accusa. La gran parte degli articoli incriminati era tratta dal De Ecclesia, scritto fra il 1412 e il 1413 durante l’esilio, nel quale Hus realizza la summa del suo pensiero contro la corruzione della Chiesa, sostenendo che un pontefice indegno non può essere considerato capo della Chiesa e che tale titolo spetta unicamente a Gesú Cristo.
Condannato e oltraggiato
Il 6 luglio del 1415 nella cattedrale di Costanza venne solennemente riconosciuto seguace dell’eretico Wycliffe e sconsacrato. La cerimonia della sconsacrazione prevedeva la vestizione completa dei paramenti sacerdotali e quindi la spogliazione. Gli venne rasata la testa in modo da annullare la tonsura e sul capo gli venne posta una corona di carta su cui erano disegnati alcuni diavoli che si contendevano l’anima di
Nella pagina accanto Jan Hus muore sul rogo, dalla Cronaca di Ulrich Richental. Sul copricapo si legge la scritta Heresiarcha, «arci-eretico».
un dannato, nello specifico la sua anima. Cosí, irriso dalla folla, venne fatto sfilare per le vie della città e condotto sul luogo del supplizio, dove venne incatenato a un palo e circondato da decine di fascine di legno e paglia. Mentre il rogo veniva acceso, Hus cominciò a cantare inni sacri in onore di Cristo. In pochi minuti le fiamme lo avvolsero e lo uccisero; secondo il cronista che ne descrive il supplizio – Pietro Mladonovic, suo discepolo –, ebbe appena il tempo di recitare due o tre volte il «Padre Nostro». L’epilogo del macabro rituale merita di essere raccontato direttamente dalla testimo-
nianza di Mladonovic: «Quando la legna delle fascine e le funi furono consumate, i resti di quel corpo rimasero in catene appesi per il collo, allora i boia tirarono giú le membra bruciate e il palo. Le arsero ulteriormente, poi vi camminarono intorno, spezzando le ossa a bastonate per farle bruciare piú velocemente. Quando trovarono la testa, la fecero a pezzi coi randelli e la gettarono nuovamente nel fuoco. Quando trovarono il cuore lo infilarono con un bastone appuntito come uno spiedo e lo fecero consumare finché non fu ridotto in cenere (...). Poi caricarono tutte le ceneri su di un carro e le buttarono nel Reno che scorreva lí vicino». POPULISMO
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La salvezza è nella rinuncia
Un frate al potere? Sembra impossibile, eppure accadde, verso la fine del Quattrocento, a Firenze. Qui, nella città adottiva di Girolamo Savonarola, il fustigatore dei costumi poco «cristiani» vestiti dal clero, fu capace di incarnare gli aneliti antitirannici maturati all’ombra di Palazzo Vecchio. Non riuscí, però, a evitare la violenta ritorsione del nemico di Paolo Viti Particolare della statua raffigurante Girolamo Savonarola nella caratteristica posa con le braccia alzate durante un’invettiva, che si erge al centro della piazza intitolata al predicatore domenicano a Ferrara, sua città natale, opera dello scultore Stefano Galletti. 1875.
N
el 1475, all’età di ventidue anni, Girolamo Savonarola lasciò Ferrara – la città in cui era nato il 21 settembre 1452 – per ritirarsi nel convento dei Domenicani a Bologna. Il gesto, inatteso per i suoi stessi familiari, voleva significare un netto distacco dal mondo, dalle sue inquietudini e dalle sue piú varie forme di ingiustizia e di violenza: il giovane Savonarola sperava di trovare nel silenzio del chiostro quella pace dello spirito che gli consentisse un piú diretto colloquio con Dio. La sua vita, in realtà, andò diversamente: solo il rapporto con Dio non gli venne mai meno, e anzi si intensificò – con la preghiera, con la predicazione, con l’elaborazione di opere spirituali – man mano che le difficoltà quotidiane, dalle quali aveva cercato di fuggire, andavano crescendo, fino al momento finale e drammatico della sua stessa esistenza, sul rogo di piazza della Signoria a Firenze. E proprio la città del giglio vide l’affermarsi e l’evolversi della vicenda umana e spirituale del frate, soprattutto dal 1490 in poi. Vi era stato una prima volta dal 1482 al 1487 – nel 1485 e nel 1486 aveva predicato la Quaresima a San Gimignano – poi, dopo una lunga serie di peregrinazioni in varie altre città dell’Italia settentrionale – Bologna, Ferrara, Brescia, Pavia, GePOPULISMO
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UN UOMO DI PAROLE E DI PENNA Arrivato a Firenze nel maggio del 1482 come lettore, cioè insegnante di Sacre Scritture, nel convento di S. Marco, nel 1484 Girolamo Savonarola iniziò a predicare nella chiesa delle monache delle Murate, proseguendo poi in altre chiese fiorentine: in un primo momento riscuote, però, scarso successo, sia per gli argomenti trattati, sia per difetto della voce e per inflessioni dialettali. Nell’agosto del 1490, tornato a Firenze dopo alcuni anni trascorsi in altre città, riprende a predicare tanto a S. Marco quanto nella cattedrale di S. Maria del Fiore e poi a S. Lorenzo e ancora nella cattedrale, attraendo sempre piú l’interesse dei Fiorentini, i quali, per i temi e i toni dei suoi sermoni, lo qualificano «predicatore dei disperati». Fondamentali le prediche degli anni 1494-1495 sulla Genesi, sul profeta Aggeo, sui Salmi, su Giobbe. Il 16 ottobre 1496 papa Alessandro VI gli impone di non predicare piú; ma, nel febbraio del 1497, Savonarola riprende i suoi sermoni, attaccando il papa con forza crescente, e cosí continua anche dopo la scomunica – 12 maggio 1497 –, contestandone la validità. L’ultima predica ha luogo il 18 marzo 1498.
Girolamo Savonarola predica a Firenze, olio su tela del pittore russo Nikolaj Lomtev. 1850. Mosca, Galleria Tret’jakov.
Oggetto particolare dei sermoni di questi anni furono i testi dei profeti Amos e Zaccaria, Ruth, Michea, Ezechiele e, infine, i libri dell’Esodo. Oltre alle prediche, Savonarola scrisse non poche opere, in latino e in volgare, di carattere religioso, filosofico e morale – la maggior parte delle quali ebbe un’immediata diffusione a stampa – nelle quali chiarisce il suo pensiero e prende posizione sugli aspetti piú diversi della dottrina cristiana anche in rapporto alle necessità e alle contingenze attuali. Le principali opere, con cui Savonarola integra e perfeziona le tematiche e i motivi esposti nelle prediche, sono: Libro della vita viduale, Trattato del sacramento e dei misteri della Messa, Trattato in defensione e commendazione dell’orazione mentale, Trattato dell’umiltà, Trattato dell’amore di Gesú Cristo, Compendio di rivelazioni, Solatium itineris mei, De simplicitate christianae vitae, De veritate prophetica, Compendio di rivelazioni, Triumphus crucis, Apologeticum, Trattato circa il reggimento e governo della città di Firenze, Trattato contro gli astrologi, Regola del ben vivere. Di Savonarola sono rimaste anche poesie e lettere.
nova – vi era ritornato nel 1490, questa volta inviato direttamente dal Generale dell’Ordine Domenicano, dietro richiesta del signore della città, Lorenzo de’ Medici, al quale lo aveva presentato e raccomandato Giovanni Pico della Mirandola, intimo di Lorenzo ed esponente fra i piú prestigiosi e innovativi della cultura fiorentina di quel periodo. L’anno dopo, nel luglio del 1491, Savonarola divenne priore del suo convento di S. Marco in Firenze, all’interno del quale avviò un’opera volta a rinnovare profondamente sul piano spirituale la vita dei suoi frati, richiamandoli a una piú attenta accettazione e applicazione POPULISMO
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Eroi del popolo Nella pagina accanto ritratto di Girolamo Savonarola, olio su tavola di Fra’ Bartolomeo, noto anche come Baccio della Porta. 1490-95. Firenze, Museo di San Marco. A sinistra manoscritto redatto da Savonarola. 1490. Firenze, Museo di San Marco.
Esemplare di Bibbia in latino, redatta anch’essa da Girolamo Savonarola. 1490. Firenze, Museo di San Marco.
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delle norme evangeliche. Al di fuori del convento Savonarola, già subito dopo il suo ritorno fiorentino, iniziò una serie di prediche, che tenne in varie chiese della città, sopra i testi di alcuni profeti del Vecchio Testamento, per richiamare, anche con questa scelta, la necessità dell’ascolto di un nuovo messaggio profetico volto a due essenziali finalità: il rinnovamento della Chiesa e della società. Su questi due temi fondamentali si basa dunque tutta l’azione intellettuale, spirituale, lette-
raria di Savonarola negli anni successivi al 1490, che vedono, fra l’altro, nel 1492 la morte di Lorenzo de’ Medici e, nel 1494, la fuga di Piero de’ Medici, con la conseguente caduta di un regime durato sessant’anni; e, con la fine dei Medici, Firenze conosce l’arrivo del re di Francia, Carlo VIII, il cui ingresso non si tramuta in sacco e in conquista proprio per l’intervento personale del frate. In poco tempo, quindi, Savonarola era divenuto a Firenze un punto di riferimento generale: e
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non solo sul piano religioso, considerando l’incremento che il suo convento conobbe proprio in base all’applicazione dei suoi precetti, ma anche su quello piú propriamente politico, dal momento che egli venne presto considerato la massima autorità morale, capace addirittura di salvaguardare i destini e l’autonomia della città in una situazione di grande pericolo. Tutto ciò non sarebbe stato possibile – considerando anche la sua estraneità iniziale rispetto all’ambiente fiorentino – se Savonarola non avesse interpretato, con coraggiosa coerenza e con appassionata energia, le piú diverse esigenze e le piú ampie aspirazioni della società del suo tempo. Cosí, per alcuni anni, Savonarola e Firenze si identificarono in un’osmosi assoluta.
Tornare alle origini
Come un profeta della Bibbia, egli predica la necessità di riformare dal suo interno la Chiesa, ma sempre rimanendo fedele ai dogmi e alle pratiche religiose, e celebrando, con la parola e con l’esempio, le virtú proclamate dal Vangelo: fino a richiamare i primi tempi della diffusione del cristianesimo, quando il sangue dei martiri indicava la genuinità e la purezza della fede, uniformata alla parola di Cristo. Sulla testimonianza di quella Chiesa, Savonarola indica una via di salvezza e di rinnovamento nella rinuncia ai beni terreni, all’ambizione di privilegi e di benefici, al conseguimento di cariche e di prebende. Quindi il ritorno alle origini della Chiesa significa in primo luogo condanna della corruzione, che pure si era sviluppata al suo interno e che il frate vede concretizzata nella stessa figura del papa regnante, Alessandro VI, da lui profondamente criticato proprio per una condotta di vita – tanto piú grave essendo il supremo pastore spirituale – opposta a quella indicata e prescritta dal Vangelo. Fondamentale, per Savonarola, è un tipo di vita semplice, ridotto all’essenziale per quanto riguarda le necessità dell’umana esistenza: ma la frugalità consente di liberare l’animo dalle preoccupazioni contingenti e, allo stesso tempo, permette di guardare a Dio come fonte di vita. Semplicità e fede, dunque, vanno di pari passo, non come manifestazione di ingenuità o di pochezza di spirito, ma, al contrario, come forma cristallina e sublime di illuminazione interiore e intellettuale, che consente di recuperare un rapporto diretto con Dio, attraverso l’imitazione dell’esempio di Gesú. Savonarola manifesta queste indicazioni con un costante richiamo ai testi biblici ed evangelici, e quindi anche con il ricorso a quelli dei Padri 122
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Particolare della replica ottocentesca della Veduta della Catena, realizzata da Francesco di Lorenzo Rosselli. 1472 circa. Firenze, Palazzo Vecchio. L’opera, il cui appellativo deriva dalla catena chiusa da un lucchetto che la circonda (non visibile in questa immagine), illustra dettagliatamente tutta la città con i suoi edifici e la sua fitta rete viaria nella seconda metà del Quattrocento, al tempo delle predicazioni di Girolamo Savonarola. della Chiesa, a dimostrazione di una sua profonda coscienza e conoscenza spirituale. Ma talora le esprime anche con parole e immagini di tale violenza che, soprattutto nelle prediche, servono a colpire e ad attrarre la mente e l’animo degli ascoltatori. Non a caso, molte delle sue prediche si chiudono – come narrano le testimonianze – con una cosí diretta partecipazione dei fedeli, che spesso piangono su quanto evocato dal predicatore. Il quale non aveva né fisico, né voce aggraziati e accattivanti: ma la forza e la potenza interiori costituivano la sua capacità di penetrazione e di attrazione fra un pubblico spesso smarrito e incerto per la mancanza di riferimenti e di valori etici e morali. E, come la Chiesa, anche la società civile non poteva non essere colpita: e quindi Savonarola esorta Firenze al rinnovamento, soprattutto dopo il 1494, quando la città, liberatasi dal regime dei Medici, stentava a trovare una
IL GOVERNO CITTADINO Negli anni di Savonarola, Firenze mantiene il suo ordinamento istituzionale repubblicano, che neppure il regime mediceo, dal 1434 al 1494, aveva alterato nella forma, sia pure sconvolgendolo nella sostanza. Ai vertici dello Stato ci sono i tre maggiori uffici: gli otto Priori con il Gonfaloniere di giustizia (eletti due per quartiere), i Dodici buoniuomini e i sedici Gonfalonieri di compagnia. A questi si aggiunge una serie molteplice di magistrati con competenza all’interno e all’esterno della città. Per tutti gli uffici la durata dell’incarico è a scadenza ben definita, dai due ai sei mesi, per garantire la rotazione e l’alternanza. Savonarola introduce il Consiglio Grande, che sostituisce i precedenti Consigli, e che garantisce una piú ampia partecipazione popolare.
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Firenze, Palazzo Vecchio. Il Salone dei Cinquecento, costruito nel 1495 da Simone del Pollaiolo su commissione di Girolamo Savonarola: nelle intenzioni del predicatore domenicano, allora governatore di fatto della città, lo spazio doveva ospitare le sedute del Consiglio dei Cinquecento, composto da cittadini comuni, e chiamato a contribuire al processo decisionale dell’amministrazione.
nuova identità istituzionale, a causa degli effetti di un governo che certamente ne aveva favorito l’arte e la cultura, facendola arrivare a traguardi di straordinario primato intellettuale, ma aveva anche determinato una caduta degli stessi valori basilari del civile rapporto fra cittadini. Secondo Savonarola, era venuta meno anche la saldezza della fede, con l’affermazione di idee e di forme di vita non consone per un cristiano. Nel denunciare queste deviazioni e nell’indicare 124
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alternative concrete per modificarle, si manifesta nella maggiore compiutezza la missione profetica di fra’ Girolamo, volta a produrre un rinnovamento nella società. Riforma della società equivaleva in primo luogo a tutela e difesa della giustizia, a partire dalle stesse forme di governo che regolano il vivere civile. Da qui la forte contestazione e condanna del regime tirannico, nelle prediche come negli scritti: condanna che non è solo teorica, ma arriva a smascherare ogni tipo di deviazione e di abuso perpetrato nella
Firenze degli anni medicei e quindi a proporre un nuovo sistema istituzionale.
Per un governo libero e popolare
Agli occhi di Savonarola, il tiranno è sinonimo di ogni vizio e di ogni depravazione, il suo governo è di per sé del tutto estraneo alla storia civile e alla tradizione politica di Firenze. La città deve basarsi su un governo libero e popolare, che consenta quindi una larga rappresentanza dei ceti cittadini. Questa sovranità si
Incisione raffigurante Girolamo Savonarola mentre prega, dalla prima edizione dei Sermoni del predicatore. Firenze, 1496.
identifica – sull’esempio veneziano – con un «Consiglio Grande», per le cui adunanze fu costruita una nuova sede nel palazzo della Signoria: il Salone dei Cinquecento, divenuto cosí il simbolo del regime democratico ispirato da Savonarola. Tuttavia, nella sua visione profetica e politica, Firenze ha un destino tutto particolare. La città è eletta da Dio, è il luogo dove può arrivare a manifestarsi la volontà del Signore, proprio attraverso quel rigore di fede e quella semplicità della vita che portano all’applicazioPOPULISMO
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ne della giustizia e della carità. Cosí Firenze, rinnovata nelle sue strutture e soprattutto nelle sue forme di vita, avrà Dio stesso per sua guida, per suo re, perché solo cosí gli interessi del popolo – moralmente recuperato e risanato – saranno tutelati e valorizzati. Sono, questi, i termini essenziali su cui si fondano, per Savonarola, le regole del «ben vivere», sintesi di impegno religioso e civile. Non era facile, certo, portarli a compimento in una città piú attenta a un edonismo collettivo, orgogliosa di una magnificenza che non trovava facili riscontri altrove, che anzi, per lungo tempo, aveva rappresentato e interpretato le forze piú vitali e proficue di una civiltà che si era nettamente distaccata rispetto a quella dei secoli precedenti. Detto questo, è allora comprensibile come le tesi di Savonarola, che pure affascinava e attraeva a sé spiriti fra i piú diversi, pronti ad applicarle e a osservarle, arrivassero a scontrarsi con chi mal ne tollerava il rigore e l’integralismo, oltre alla portata degli effetti che potevano avere fuori Firenze, soprattutto nella Roma del
Fronte di una medaglia commemorativa dedicata a Girolamo Savonarola. XV-XVI sec. Firenze, Museo di San Marco.
papa e dei cardinali, oggetto continuo delle censure del frate. Proprio all’interno della città, che in tante circostanze lo aveva seguito e osannato, ha quindi inizio una serie crescente di distinguo e di insofferenze che, in breve tempo, finiscono con il produrre un complessivo cambiamento di fronte: sul quale, naturalmente, ha buon gioco il piú generale disagio della Curia romana, restia ad accogliere progetti di riforma che la riguardavano. Nell’ottobre del 1495 la Curia impone a Savonarola di non predicare, proprio per la violenza delle sue prese di posizione; ma il divieto è superato l’anno dopo per le forti pressioni della città. Nell’estate del 1496 papa Alessandro VI offre a Savonarola il cappello cardinalizio, in cambio di atteggiamenti meno intransigenti. Ma il frate rifiuta, affermando, profeticamente, che se un cappello rosso desiderava, era quello rosso del sangue dei martiri. L’epilogo inizia sul finire del 1497, quando il papa, in una ristrutturazione dell’Ordine dei Domenicani, decide di sopprimere la Congregazione di S. Marco e di erigere la nuova Congregazione Tosco-romana, nella quale far confluire i con-
GIÚ DAL PULPITO Girolamo Savonarola venne scomunicato da papa Alessandro VI il 12 maggio 1497. Il provvedimento, ormai da tempo temuto, seguiva di poco la predica che il frate aveva tenuto il 4 maggio, giorno dell’Ascensione, ma interrotta in seguito a un tumulto provocato dai suoi avversari, i Compagnacci. Nell’Epistola a tutti li eletti di Dio e fedeli cristiani, immediatamente pubblicata, Savonarola spiegava le sue ragioni e la situazione che si era determinata. Il testo del breve di condanna non arrivò subito a Firenze, perché il messo papale si fermò a Siena facendo perdere le sue tracce per alcuni giorni, e solo il 18 maggio venne letto nelle chiese di Firenze. Con Savonarola venivano scomunicati quanti avessero ascoltato le sue prediche, avessero parlato con lui o l’avessero aiutato. Le colpe attribuite al frate erano generiche: diffusione di dottrine pericolose ed eretiche, disobbedienza al papa circa la costituzione della Congregazione Tosco-romana. La decisione di Alessandro VI era stata favorita e sollecitata da un gruppo di nemici di Savonarola presenti nella Curia papale, ma anche per esplicita
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pressione di cittadini fiorentini, i quali non avevano lesinato di intervenire economicamente presso gli stessi ambienti curiali. Il frate non riconobbe valida la scomunica: scrisse piú volte al papa, si volse a spiegare l’iniquità del provvedimento e a difendere le sue azioni, specie col Triumphus crucis e col De veritate profhetica. Tuttavia la scomunica non venne revocata, e l’11 febbraio 1498 Savonarola tornò nuovamente a predicare in duomo, scegliendo il testo biblico dell’Esodo. Ma il papa reagí, il 26 febbraio, minacciando la città di interdetto se Savonarola non fosse stato arrestato. Nello stesso giorno, dopo il bruciamento delle vanità, scoppiarono tumulti fra i favorevoli a Savonarola, i Frateschi, e gli oppositori, gli Arrabbiati. Il papa rinnovò la sua richiesta, dopo che la Signoria aveva respinto la precedente. Il 1° marzo Savonarola predicò per l’ultima volta in duomo; il giorno dopo tornò in S. Marco, criticando fortemente il papa per la sua corruzione e immoralità. La risposta fu la minaccia di agire contro gli interessi economici dei mercanti fiorentini a Roma. Dopo il 18 marzo Savonarola non salí piú sul pulpito.
Ritratto di papa Alessandro VI (al secolo Rodrigo Borgia). Scuola tedesca, XVI sec. Digione, MusĂŠe des beaux-arts. Il pontefice, su pressioni di alcuni membri della curia, il 12 maggio 1497 decise di scomunicare il predicatore ribelle Savonarola.
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Eroi del popolo
L’esecuzione di Girolamo Savonarola in piazza della Signoria a Firenze, il 23 maggio 1498, olio su tavola di anonimo fiorentino. XV-XVI sec. Firenze, Museo di San Marco. venti vicini a Savonarola. Era, questo, un modo per condizionare e ridimensionare l’operato del frate e allentare il rigore dell’osservanza dei frati a lui vicini, e che egli non accetta perché lo ritiene contrario alle necessità del momento e dannoso per i confratelli. Nel maggio del 1497, col pretesto di questo rifiuto – ma soprattutto per le pressioni di una nuova signoria arrivata al potere a Firenze e nell’ambito di nuovi equilibri internazionali –, il papa scomunica Savonarola, per la sua disobbedienza e per i motivi di eresia impliciti nelle sue prediche e nei suoi scritti.
In silenzio tra le fiamme
Nei primi del 1498, una nuova signoria, piú favorevole a Savonarola, cerca di far revocare la scomunica; il papa, in cambio, chiede l’ingresso di Firenze nella Lega stretta da alcuni Stati contro la Francia; Savonarola fa sapere la sua opposizione a tale proposta. E la situazione precipita: il frate riprende, nel febbraio, a predicare per spiegare la non validità della condanna papale; Alessandro VI risponde minacciando Firenze di interdetto. A metà marzo Savonarola sospende la predicazione per rispettare il desiderio della signoria. Si apre, cosí, la fase finale della vita del frate. Dopo un tentativo di dimostrare la sua innocenza tramite la prova del fuoco, fissata per il 7 aprile ma non riuscita a causa di un violentissimo temporale, vengono provocati tumulti e, nella notte, in seguito a un assalto al convento di S. Marco, Savonarola viene fatto prigioniero e portato in Palazzo Vecchio, dove è rinchiuso in una cella. Contro di lui, fra l’aprile e il maggio, vengono aperti tre processi: due da parte della signoria, uno da parte della Chiesa. A fra’ Girolamo non viene risparmiata la tortura e gli è estorta una confessione fasulla di colpevolezza, in base alla quale viene sentenziata la sua condanna a morte. Insieme a lui sono condannati due suoi stretti collaboratori, i frati Domenico Buonvicini e Silvestro Maruffi. Le condanne vengono eseguite il 23 maggio 1498 nella piazza della Signoria. Come Cristo portato sul Calvario, Savonarola non parla. Col silenzio dimostra la sua innocenza e la sua fede: non risponde a chi, provocatoriamente, gli chiede di fare il miracolo di uscire vivo dalla prova che sta subendo. I tre vengono impiccati e bruciati e le loro ceneri disperse nell’Arno. POPULISMO
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VO MEDIO E Dossier n. 30 (gennaio/febbraio 2019) Registrazione al Tribunale di Milano n. 233 dell’11/04/2007
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