Medioevo Dossier n. 31, Marzo/Aprile 2019

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LE

LE GRANDI SIGNORIE DELL’ITALIA MEDIEVALE

DELL’

SIGNORIE

ITALIA MEDIEVALE

♦ VISCONTI-SFORZA ♦ SAVOIA ♦ GONZAGA ♦ ESTENSI ♦ MEDICI ♦ MALATESTA ♦ MONTEFELTRO

N°31 Marzo/Aprile 2019 Rivista Bimestrale

GRANDI

€ 7,90

IN EDICOLA IL 28 FEBBRAIO 2019 Timeline Publishing Srl - Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c.1, LO/MI.

OR N IE DI

DE IL M SIGLLE G EDIO N RA EVO

MEDIOEVO DOSSIER

Dossier

EDIO VO M E



LE GRANDI

SIGNORIE

DELL’ ITALIA

MEDIEVALE

di Tommaso Indelli

Presentazione 6. Una nuova etĂ Le signorie italiane 8. Genesi di un fenomeno I Visconti e gli Sforza 18. Un ducato per due I Gonzaga 46. Una famiglia tra arte e guerra Gli Estensi 58. Glorie transnazionali I Medici 72. Firenze al centro del mondo Le signorie minori 106. Comprimari eccellenti





Una nuova età Q

uesto Dossier di «Medioevo» segue a breve distanza la pubblicazione, anch’essa a firma di Tommaso Indelli, dedicata alle grandi dinastie dell’Italia medievale e del quale rappresenta, in un certo qual modo, una necessaria integrazione. Entrambi i testi si configurano, sia detto, come un racconto serrato ed estremamente sintetizzato, di avvenimenti e processi storici ognuno dei quali si presterebbe, a sua volta, a una trattazione piú ampia e approfondita. Eppure, ogni nuovo sguardo d’insieme, oltre a riportare in mente nomi, date e avvenimenti, colloca gli stessi in una visione rinnovata e ne offre un’affascinante «rilettura». Potremmo chiederci: ma non rischia, invece, la suddivisione in due aree tematiche – quella delle dinastie dell’Italia meridionale e quella delle signorie dell’Italia settentrionale (argomento del presente fascicolo) – di ricalcare, senza sostanziali apporti di novità, il topos delle «due Italie», dalla storia e dagli esiti storiografici diversi? I lettori si accorgeranno che non è cosí… Rimane il dato – e le pagine che seguono lo illustrano con dovizia di particolari e vasti quadri contestualizzanti – di un Nord del Paese costellato da centri urbani, piccoli e grandi, sostenuti da attività manifatturiere, mercantili e finanziarie caratterizzate da una dinamicità complessa e unica, destinata a dar luogo a quell’epoca culturale che verrà chiamata – ma solo a partire dal XIX secolo – «Rinascimento». È stata – come sembra suggerire il capitolo dedicato ai Medici – la trasformazione del capitale commerciale in capitale finanziario il vero catalizzatore di questo processo? E come spiegare, allora, quella dedizione «politica» alle arti, all’architettura e alla produzione letteraria, che ha trasformato un capitolo di storia d’Italia in storia d’Europa? Nelle pagine che seguono i lettori potranno trovare piú di una risposta a questi interrogativi; perché, ed è questa forse la vera cifra di quell’epoca, le reazioni alle sfide lanciate dalla storia erano molteplici e di una ricchezza senza precedenti. Una ricchezza che, come ricorda Tommaso Indelli a pagina 100, rese necessaria l’invenzione di un nuovo termine, quello, appunto, di «Medioevo». Per suggellare, cosí, l’avvento di una nuova età. Andreas M. Steiner

Mantova, Palazzo Ducale, Castello di San Giorgio. Particolare del ciclo pittorico dipinto da Andrea Mantegna per la Camera degli Sposi: Ludovico Gonzaga (sulla sinistra), seduto in trono, ascolta un membro della sua corte, da alcuni identificato nel suo segretario Marsilio Andreasi, da altri nel diplomatico Raimondo Lupi di Soragna o nel fratello Alessandro. L’artista realizzò gli affreschi verosimilmente tra il 1465 e il 1474. LE SIGNORIE

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LE SIGNORIE ITALIANE

Genesi di un fenomeno La signoria affonda le sue radici nella crisi dell’ordinamento comunale: molte città, dilaniate da scontri e conflitti intestini, scelgono di affidarsi a un «uomo forte». Emergono cosí personaggi e casate destinati a scrivere un capitolo cruciale nella storia della Penisola

Lorenzo il Magnifico circondato dagli artisti, affresco del pittore fiorentino Ottavio Vannini. 1634-1642. Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti. Sulla destra si riconosce Michelangelo, che mostra al signore e mecenate fiorentino la testa scolpita di un fauno. 8

LE SIGNORIE



LE SIGNORIE

La genesi

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avvento delle signorie nelle città dell’Italia centro-settentrionale costituisce, da tempo, un tema complesso di studio e di ricerca storiografica, se non altro perché, proprio con l’avvento di tali sistemi di governo, i comuni della Penisola incrementarono il processo, già avviato da tempo, di consolidamento burocratico e di espansione militare e territoria-

le al di là del perimetro murario, in direzione del contado. E non solo: oltrepassando i confini del contado, i comuni inglobarono il territorio di altre città, favorendo la formazione degli Stati territoriali, compagini politiche sovracittadine che semplificarono l’assetto geopolitico italiano fra il XIV e il XV secolo. Non tutte le signorie furono però coinvolte in

Tavoletta di biccherna del camerlengo Ildibrandino Pagliaresi, tempera su tavola attribuita al pittore toscano Diotisalvi di Speme. 1264. Siena, Archivio di Stato.

LA CIVILTÀ COMUNALE L’affermazione dei comuni – organizzazioni politiche a base cittadina – non fu un fenomeno soltanto italiano, ma europeo, contemporaneo allo sviluppo economico e demografico che coinvolse l’intero continente a partire dall’XI secolo. Tuttavia, proprio in Italia la civiltà comunale era destinata a dare i suoi frutti migliori, in virtú di particolari contingenze storiche, come l’assenza di un solido potere centrale in grado di contenere l’impetuosità del processo di affermazione cittadina. Contrariamente a quanto si pensa, la classe dirigente che diede vita all’esperienza comunale non ebbe, fin dalle origini, una specifica caratterizzazione borghese. A partire dal XII secolo, l’analisi delle liste consolari e della documentazione fiscale e notarile delle città italiane dimostra infatti come solo una parte dell’élite comunale fosse composta propriamente da borghesi – esercenti attività artigianali e commerciali o professioni liberali iscritti alle arti –, mentre, in una prima fase, fu l’aristocrazia fondiaria e cavalleresca, già legata alle autorità urbane precedenti – vescovi e conti – a rivendicare un ruolo politicamente egemone. Si consideri, inoltre, che, qualunque fosse la provenienza sociale dei membri delle nuove élite comunali, esse rimasero legate allo standard di vita dei proprietari fondiari di origine aristocratica, detentori di castelli e poteri signorili nel contado e imbevuti di cultura cavalleresca, cioè a uno stile di vita militaresco, all’esaltazione dell’onore personale e familiare, come emerge anche dalle numerose case-torri, di cui è tuttora cosparso il tessuto urbano di molte città italiane. Spesso, quando diedero vita agli organismi di governo, le nuove classi dirigenti non furono pienamente consapevoli del loro ruolo istituzionale, né della forza innovativa delle loro scelte politiche, ma, quasi come sonnambuli, si mossero inconsapevoli verso il futuro. Esse agirono senza avere prospettive chiare, e ciò che ne determinò le decisioni fu la necessità di far fronte ai problemi sociali, economici e politici del momento, senza un programma o un obiettivo specifico. Le particolarità delle singole città, ciascuna con una propria storia – anche istituzionale – rendono difficile delineare un modello generale di comune adatto per tutte, e quindi non bisogna mai perdere di vista le

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specificità delle singole realtà urbane, perché ogni comune fu un mondo a sé. All’origine del comune italiano vi fu l’esigenza essenziale, per le élite cittadine, di reagire alla dissoluzione dell’apparato pubblico del regnum Italiae – inquadrato nella compagine dell’impero germanico – durante la lotta per le investiture tra impero e papato, tra XI e XII secolo. Gli endemici conflitti intestini alle singole compagini urbane, dissanguate dagli scontri militari tra il partito filoimperiale e quello filopapale, e gli scismi interni alle A sinistra Ravenna, singole diocesi, a causa dei contrasti tra vescovi fedeli di S. Apollinare al papa o all’imperatore, resero labasilica vita urbana Nuovo. Particolare di uno particolarmente difficile. dei mosaici che ornano La necessità di supplire alle strutture pubbliche la chiesa raffigurante preesistenti – vescovi, conti, visconti – in un momentoil Classe. VIa sec. storico di grande difficoltà, spinseporto i cetididirigenti elaborare nuove forme di governo. Il cambiamento non fu repentino e le nuove forme istituzionali si sostituirono gradualmente alle precedenti. Infatti, la documentazione superstite dimostra come, nelle singole città, convissero a lungo gli antichi istituti pubblici con i nuovi organi amministrativi – consolati, arenghi, consigli di credenza – attraverso una ripartizione di potestà e competenze, e, molte volte, collaborando pacificamente. In principio, quindi, gli ordinamenti comunali furono aggregazioni politiche fluide, di carattere sperimentale, non completamente sostitutive delle antiche istituzioni cittadine e, spesso, modellate su quelle. Solo alla metà del XII secolo, le nuove procedure amministrative e i nuovi organismi di


Ducato di Carinzia Ducato Vescovado di di Contea Bressanone Stiria del Tirolo Principato Domini Contea Patriarcato di Trento I di Celje T di Gorizia N Trento CO dei Ducato Aquileia VIS Bergamo Lag Lago ago Aquileia Aosta L Como di Vicenza di Gar Garda rddaa Treviso Monza di o Verona Savoia Carniola m Milano Vercelli A Venezia Novara March b LodiCremona LIG E R I a T Padova es. d. M c onferr a r Torino ato Pavia Ma r Poo Asti Piacenza d Mantova ESTENSI Alessandria Parma i a

L’ITALIA INTORNO AL 1300

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governo cessarono di essere espressione di un accordo privato, di un patto giurato – coniuratio – tra membri delle élite urbane e si trasformarono in organismi rappresentativi dell’intero corpo sociale, sul piano diplomatico e amministrativo. I vescovi e, in misura minore, i conti e i visconti, che rappresentavano le antiche strutture amministrative cittadine, persero qualsiasi competenza e furono estromessi da ogni potere reale, e, nel caso dei vescovi,

relegati all’esercizio delle funzioni liturgico-disciplinari, mentre i tribunali diocesani continuarono a pronunciarsi soltanto su materie di rilevanza canonica. Solo nel 1183, con la pace di Costanza – che pose fine al lungo conflitto tra la Lega lombarda e l’imperatore Federico I Barbarossa – fu riconosciuta legittimità giuridica e piena sovranità ai nuovi ordinamenti comunali, pur all’interno della cornice costituzionale del regno italico e, quindi, dell’impero germanico.

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La genesi

tale processo, perché alcune di esse, come gli Scotti di Piacenza, i Guinigi di Lucca, i Petrucci di Siena – solo per fare qualche esempio – limitarono il loro potere alla città d’origine e al suo immediato contado. L’affermazione del potere signorile, potere assoluto e autocratico, all’interno dei contesti urbani italiani, fu comunque l’esito naturale di una condizione di conflittualità politica endemica sia tra i comuni stessi che all’interno della vita politica cittadina (vedi box alle pp. 10-11). Non a caso, già prima dell’affermazione delle signorie, le città italiane fecero ricorso a istituti monocratici di diversa tipologia, per contenere il fenomeno della violenza politica tra fazioni contrapposte, come i ben noti guelfi e ghibellini o i magnati e i popolari. Si pensi agli uffici amministrativi del podestà e del capitano del popolo, istituiti in moltissime città tra il XII e il XIII secolo, e affidati generalmente a forestieri, proprio per garantire una maggiore imparzialità nell’adempimento dei compiti istituzionali che implicavano competenze militari, esecutive e giurisdizionali.

Nelle mani del senior

Il fallimento di questi esperimenti costituzionali indusse i ceti dirigenti a delegare i pieni poteri, prima distribuiti tra organi diversi – non solo monocratici, ma anche assembleari e rappresentativi – a un princeps o senior, ossia a un signore – vero e proprio sovrano –, titolare della suprema potestà di governo. In genere, il senior apparteneva a facoltose famiglie cittadine o rurali poi inurbatesi, di estrazione borghese o, molto piú spesso, aristocratico-feudale, ma da tempo inserite nella vita politica ed economica comunale, dove avevano avuto modo di costituire vaste clientele ed enormi ricchezze. La nascita dei primi regimi signorili, salvo rare eccezioni, risale alla metà del XIII secolo, attraverso una procedura consolidata, che consisteva nel conferimento della carica di podestà o di capitano del popolo, o di entrambe, per lungo tempo o a titolo vitalizio, a una persona di efficace capacità nell’esercizio del potere (vedi box qui accanto). Il conferimento della carica avveniva a opera dei tradizionali organi di governo del comune, in genere i consigli ristretti – consigli di credenza o degli anziani – o l’arengo, cioè l’assemblea cittadina. Non di rado, tale conferimento di cariche e poteri rappresentava l’esito naturale di un precedente colpo di Stato, ordito dal signore e dai suoi partigiani a danno delle istituzioni cittadine. Il cumulo vitalizio di tante funzioni in capo a un solo individuo – 12

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UNA STIRPE NOBILE E ANTICA: I DA ROMANO Benché i regimi signorili si impongano in Italia dalla metà del Duecento, già alla fine del secolo precedente si riscontra un fenomeno simile a Treviso, la città da cui ebbe origine la fortuna dei da Romano. Questi erano un’antica famiglia feudale, di probabile ascendenza germanica, giunta in Italia agli inizi dell’XI secolo, quando un cavaliere sconosciuto, Ecelo († 1091) – o Ezelo – ottenne dell’imperatore, Corrado II di Franconia (1024-1039), alcuni feudi nel territorio di Vicenza. Il nome da Romano, infatti, sembra avere origini toponomastiche e indicava il castello di famiglia, epicentro dei domini della stirpe. Ecelo combatté anche al servizio del re di Germania, Enrico IV (1056-1106), durante la lotta per le investiture contro il papa. Un discendente di Ecelo, Ezzelino I il Balbo († 1180), figlio di Alberico, partecipò alla seconda crociata e divenne advocatus, rappresentante legale e amministratore della diocesi di Belluno, col compito di amministrarne i beni e di esercitare le funzioni pubbliche di cui l’episcopio era titolare. Già con Ezzelino I si definirono le simpatie ghibelline del casato e il Balbo militò infatti agli ordini di Federico Barbarossa contro i comuni. (segue a p. 14)

In alto Ezzelino da Romano, leader ghibellino e fedele alleato di Federico II, in un’incisione di Tobias Stimmer. 1575. Berlino, Sammlung Archiv für Kunst und Geschichte. A destra miniatura raffigurante il signore di Padova, Giacomo da Carrara (sulla destra), che sguaina la spada contro il condottiero Ezzelino da Romano, alla presenza del sovrano Federico II, dal manoscritto trecentesco Chronica de Carrariensibus. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana.


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UNA STIRPE NOBILE E ANTICA: I DA ROMANO Il figlio, Ezzelino II († 1235) – detto il Monaco – si trasferí a Treviso, di cui venne eletto podestà nel 1191, consolidando il suo potere con ripetute rielezioni e una complessa rete di clientele che spianarono la strada verso la signoria al figlio. Dopo il ritiro del padre in monastero, nel 1223, Ezzelino III ereditò infatti la carica di podestà di Treviso e Vicenza e, schieratosi con il partito ghibellino, al servizio di Federico II di Svevia – di cui sposò la figlia naturale, Selvaggia († 1244) – riuscí a ridurre in suo potere un vasto territorio. Tra il 1236 e il 1240, anche grazie all’alleanza con famiglie ghibelline locali – per esempio i Montecchi di Verona – Ezzelino sottomise Verona, Vicenza, Padova, Feltre e Belluno, costituendo una vasta compagine territoriale, con epicentro Treviso – detta «marca trevigiana» – e su cui l’imperatore concesse al signore pieni poteri in qualità di vicario imperiale. Il controllo della marca era d’importanza fondamentale per il partito ghibellino, perché consentiva le comunicazioni tra la Germania e l’Italia attraverso le valli dell’Adige e del Brenta. Lasciato al fratello Alberico († 1260) il governo di Treviso, cuore dei domini signorili, Ezzelino III si pose al comando delle milizie imperiali nelle lunghe guerre contro il papato e la Lega lombarda che funestarono gli anni di regno di Federico II, attirandosi la scomunica. Nel 1239, Ezzelino dovette fronteggiare anche la ribellione del fratello, passato disinvoltamente al partito guelfo e, solo nel 1257, fu possibile una riconciliazione tra i due. Nel 1250, politicamente indebolito dalla morte di Federico II, suo protettore, non fu adeguatamente sostenuto dai successori dello Svevo e cosí, nel 1254, papa Innocenzo IV (1243-1254) lo scomunicò e bandí contro di lui la crociata, con l’accusa di eresia e di ogni genere di violenze e malversazioni compiute a danno di beni e persone ecclesiastiche. Nel 1258, Ezzelino si impossessò di Brescia e catturò il legato pontificio della crociata, il vescovo Filippo da Pistoia († 1270), comandante delle forze della Lega lombarda. L’anno successivo mosse contro Milano, la città piú potente della Lega e dello schieramento guelfo, ma fu battuto a Cassano d’Adda dalle città coalizzate che, per l’occasione, avevano richiesto aiuto persino a Oberto II Pallavicino († 1269), vicario imperiale di Lombardia e, come Ezzelino, uno dei capi del partito ghibellino. Obizzo II considerava Ezzelino un suo rivale e, in ogni caso, ne temeva il potere, pertanto non esitò a schierarsi, per l’occasione, con i comuni lombardi e col papa. Colpito da un dardo di balestra e

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Insegna di Ezzelino da Romano, signore di Vicenza. XIII sec. Padova, Biblioteca Capitolare.

gravemente ferito, il signore della marca trevigiana morí poco dopo. Non solo la propaganda guelfa, ma anche Dante Alighieri tramandò di Ezzelino l’immagine di un tiranno crudele (Inferno, XII). Morto Ezzelino, il fratello, Alberico, tentò di resistere alle forze guelfe e fuggí nel castello di San Zenone, presso Treviso, dove fu massacrato con tutta la sua famiglia dalle forze della Lega lombarda. La sorella di Ezzelino e Alberico, Cunizza – celebre per la sua relazione con il poeta Sordello da Goito – si trasferí a Firenze, dove morí nel 1279. Anche Cunizza fu ricordata da Dante tra gli «spiriti amanti» (Paradiso, IX).


talvolta investito anche del diritto di trasmetterle ai discendenti – condusse all’instaurazione di regimi politici dichiaratamente autoritari e monarchici, per quanto la forma istituzionale del comune fosse apparentemente rispettata. Instaurata la signoria, la designazione dei principali ufficiali cittadini divenne prerogativa esclusiva del signore, che procedeva direttamente alla nomina o, indirettamente, attraverso raccomandazioni rivolte agli organi competenti. Oltre a costituire vere e proprie dinastie, i signori mirarono anche a consolidare la loro posizione istituzionale con la concessione – spesso lautamente pagata – di altisonanti titoli onorifici – vicario, duca, marchese, conte –, rilasciata dalle supreme e universali autorità politiche dell’Europa medievale, cioè l’impero germanico e il papato. Venne cosí definitivamente esautorata la forma di governo comunale e presero vita veri e propri principati, ossia domini politici di vaste dimensioni territoriali che ricalcavano, in parte, le antiche circoscrizioni dell’epoca carolingia e che sancirono la definitiva trasformazione dei cittadini in sudditi. Il potere signorile, almeno teoricamente, rimase subordinato alla legge e al vincolo del perseguimento

Disegno ricostruttivo dell’abitato medievale di Montarrenti, nel Senese, cosí come doveva presentarsi fra l’VIII e il IX sec. Una cinta muraria proteggeva la curtis, l’azienda fondiaria dalla quale si sviluppò, a partire dall’XI sec., la signoria territoriale.

Lo scudo dei Pallavicino (o Pelavicino) con il tipico disegno «scaccato», composto da linee verticali e orizzontali che si incrociano, formando appunto dei riquadri di colore alternato. Nella parte superiore, la cosiddetta «stecconata» composta da tre pali scorciati attraversati da una fascia anch’essa scorciata.

LE SIGNORIE FEUDALI A differenza delle signorie cittadine, l’inizio del processo di formazione delle cosiddette signorie feudali – o rurali – è molto piú antico e rimonta al IX-X secolo, cioè alla scomparsa dell’impero carolingio, in seguito alla deposizione e alla morte dell’imperatore Carlo il Grosso (881-888), pronipote di Carlo Magno († 814). Quell’evento comportò la progressiva polverizzazione del potere pubblico e degli apparati amministrativi carolingi, favorita dalla situazione di caos generata dalle incursioni normanne, ungare e musulmane che devastarono (segue a p. 16)


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La genesi

LE SIGNORIE FEUDALI l’Europa. Le basi per la costituzione delle signorie rurali furono le terre e gli uffici dell’amministrazione carolingia detenuti dai signori, i quali, privatizzando le cariche e le relative attribuzioni, crearono le premesse per la formazione di veri e propri principati. Le incursioni favorirono il fenomeno dell’incastellamento e le fortificazioni divennero uno strumento non solo di difesa, ma anche di controllo politico-amministrativo della popolazione rurale. In mancanza d’una forte autorità pubblica, i signori cominciarono a esercitare sugli uomini delle loro proprietà – e poi su quelli del territorio contermine – potestà di carattere amministrativo, fiscale e giurisdizionale che, nel loro insieme, costituirono il banno signorile, la suprema potestà di governo che cosí fu chiamata ricorrendo a un termine di derivazione germanica. Il territorio sul quale il signore esercitava il suo potere fu detto districtus e la sua autorità si estese anche alla vita economica, perché il dominus poteva imporre ai sudditi di servirsi di mulini, forni, frantoi, aratri di sua proprietà, previo pagamento di un censo, e riscuotere corvée, cioè prestazioni d’opera gratuite. In Italia, tra le principali stirpi signorili rurali – poi ingranditesi fino a inglobare città e signorie minori – sono da ricordare i Pallavicino, i Malaspina, i Monferrato, i Saluzzo e i Savoia (di questi ultimi, data la loro importanza nella storia nazionale, si parlerà piú avanti; vedi alle pp. 68-71). I Pallavicino – o Pelavicino – e i Malaspina furono famiglie signorili discendenti da Oberto († 972 circa), conte di Luni e figlio naturale del re d’Italia Ugo di Provenza (926-947). Oberto fu investito da Berengario II, marchese di Ivrea e re d’Italia (950-961), del governo di una marca che spaziava dal Piemonte alla Liguria, dalla Lombardia al Veneto e che, dopo la sua morte, si dissolse, dando vita a signorie differenti. I Pallavicino e i Malaspina furono alcuni dei rami genealogici in cui si divise il casato alla morte di Oberto. Il primo esponente della stirpe dei Pallavicino, documentato con certezza, fu Oberto I († 1148), che acquisí molte proprietà e feudi nei territori di Piacenza, Parma, Cremona e Crema. Suo nipote, il ghibellino Oberto II († 1269), grazie al sostegno dell’imperatore Federico II di Svevia, divenne comandante della lega delle città ghibelline, signore di Piacenza e vicario imperiale, esercitando il governo su buona parte dell’Italia settentrionale, compresa parte dell’Emilia, della Lombardia e del Piemonte. Nel 1265, con la

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discesa in Italia di Carlo d’Angiò († 1285), fratello del re di Francia, chiamato in soccorso dal papa contro gli Svevi, Oberto II vide andare progressivamente in pezzi i suoi domini e, dopo la sua morte, la famiglia si divise in rami distinti, come quello genovese e guelfo, destinato a maggior fortuna degli altri. Il primo Malaspina documentato con certezza è Obizzo III il Grande († 1185), signore di Lunigiana, Versilia e Garfagnana, dove edificò numerosi castelli per controllare i valichi appenninici. Nel XIII secolo, i Malaspina si divisero nei rami dello Spino secco – ghibellino – e dello Spino fiorito, guelfo. Al secondo appartenne Spinetta il Grande († 1352), il piú noto esponente della dinastia. Alla corte dei Malaspina, tra il 1306 e il 1309, fu ospite l’esule Dante Alighieri. Nel corso del XV secolo, a causa dell’espansione militare di Firenze e di Genova, la famiglia perse gran parte dei suoi domini e del suo potere. I marchesi di Saluzzo e del Monferrato, invece, ebbero origine dalla suddivisione, in rami genealogici distinti, della stirpe marchionale degli Aleramici, che faceva capo ad Aleramo († 991), personaggio sconosciuto ma, probabilmente, di origine franca o borgognona, poi investito dal re d’Italia, Berengario II di Ivrea, del governo della marca omonima, comprendente i comitati di Cuneo, Aqui, Vercelli, Tortona, Savona ed estesa su buona parte dell’Italia nord-occidentale. Morto Aleramo, con i suoi discendenti, la stirpe si divise in rami differenti tra i quali spiccano i marchesi di Savona, del Vasto, d’Incisa e, appunto, di Saluzzo e del Monferrato, che furono i piú celebri e potenti. Il primo esponente dei Saluzzo attestato con certezza, è Manfredo I († 1175), fondatore del dominio signorile, perennemente in lotta, per la conservazione dei propri domini, con i Monferrato e con i Savoia. Dopo aver raggiunto il massimo sviluppo con Tommaso III (1396-1416) e Ludovico I (1416-1475), il marchesato di Saluzzo andò incontro a una progressiva decadenza, culminata con l’estinzione della stirpe marchionale, nel 1548, e con l’annessione della marca al ducato di Savoia, nel 1601. La stirpe marchionale dei Monferrato fu la piú prestigiosa e potente delle famiglie suddette. Di orientamento ghibellino, raggiunse il massimo prestigio con Guglielmo V il Vecchio (1140-1188), designato vicario imperiale dall’imperatore Federico Barbarossa, da cui ebbe il possesso di Asti e al fianco del quale combatté contro i comuni della Lega lombarda. E proprio per contrastare Guglielmo e


A destra l’imponente mole del castello di Fosdinovo, in Toscana, con due delle quattro torri circolari che ne delimitano il perimetro. Databile nelle sue strutture piú antiche al XII sec. e poi rimaneggiata nel Trecento e nel Quattrocento, la fortezza fu la residenza principale dei marchesi Malaspina. Nella pagina accanto lo stemma del Monferrato con la balzana rossa e bianca.

l’imperatore i comuni della Lega lombarda decisero di edificare la città di Alessandria, tra il 1167 e il 1168, alla confluenza della Bormida e del Tanaro. Alla fine, sconfitto dalla Lega e fattosi crociato, Guglielmo si trasferí in Terra Santa, dove combatté il Saladino, da cui fu fatto prigioniero. Il figlio, Corrado del Monferrato, fu anch’egli crociato, combatté contro il Saladino e si fece signore di Tiro. Grazie al matrimonio con la regina di Gerusalemme, Isabella († 1205), divenne re, ma, nel 1192, fu ucciso da sicari musulmani. I Monferrato raggiunsero il loro massimo splendore con il marchese Guglielmo VII (1253-1292), detto il Grande, che combatté al fianco dei discendenti di Federico II di Svevia contro i comuni e il papa e, tra il 1280 e il 1286, occupò Alessandria, Acqui, Vercelli, Tortona e altre importanti città. Per comprendere il raggio d’azione dell’ambiziosa politica di Guglielmo VII, si pensi che sposò Beatrice († 1280), figlia di Alfonso X il Saggio, re di Castiglia (1252-1284), e candidato alla corona imperiale. Entrato in conflitto con Milano e i Visconti – sebbene facessero parte anch’essi dello schieramento ghibellino – Guglielmo VII fu sconfitto nel 1287, da una coalizione comprendente i comuni lombardi, i Visconti e i Savoia e, catturato, fu fatto morire in una gabbia di ferro. Nel 1305, morto il figlio Giovanni, il marchesato passò a Teodoro I (1305-1338), figlio della sorella, Violante († 1317), e dell’imperatore bizantino, Andronico II Paleologo (1282-1328). Teodoro fu il capostipite della nuova dinastia dei Paleologi del Monferrato, destinata a durare fino alla sua estinzione, nel 1533, quando il Monferrato passò ai Gonzaga di Mantova.

del bene pubblico, al fine di evitare di essere giudicato tirannico e rischiare l’esautorazione, anche se la storia ha offerto un ampio numero di esempi contrari. Infine, si tenga presente che il fenomeno della genesi e della formazione delle signorie, al di là delle schematizzazioni, fu estremamente complesso e assunse caratteristiche diverse a seconda dei contesti politici e geografici in cui trovò attuazione.

Fuori dalle città

Non a caso, accanto alle cosiddette signorie cittadine – di cui si parlerà in seguito – l’Italia conobbe un altro importante fenomeno, quello delle signorie rurali – o feudali –, di cui furono protagoniste famiglie signorili che, pur avendo raggiunto un elevato grado di espansione militare e politica ai danni di molte città, non assunsero mai, rispetto alle prime, una dimensione di vita veramente urbana, cioè non si inurbarono, né si inserirono nella vita politica e nella struttura amministrativa del comune, ma continuarono a gravitare nel contado, nei castelli e nei feudi di famiglia. Si pensi, solo per fare qualche esempio, ai Malaspina, ai Pallavicino, ai Savoia, ai Monferrato. Queste famiglie si assicurarono il controllo di vasti territori, su cui governarono grazie alle proprie milizie, talvolta monopolizzando la carica di podestà o capitano del popolo in alcuni dei comuni facenti parte dei loro domini, ma senza risiedere mai stabilmente nelle città (vedi box alle pp. 15-17). LE SIGNORIE

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I VISCONTI E GLI SFORZA

Un ducato per due La cittĂ di Milano in una veduta prospettica immaginaria del pittore e incisore Friedrich Bernhard Werner. 1750 circa. Milano, Civiche Raccolte Grafiche e Fotografiche, Civica Raccolta delle Stampe Achille Bertarelli.


Fra il Medioevo e il primo Rinascimento Milano e la Lombardia vedono sorgere e a lungo risplendere gli astri di due fra le piú celebri casate italiane: i Visconti e gli Sforza. Raggiunta la supremazia grazie alle armi, entrambe promuoveranno il mecenatismo nel campo delle arti e delle lettere. Facendo della città del Duomo una delle capitali culturali d’Italia e d’Europa


LE SIGNORIE

I Visconti e gli Sforza

N

el XIII secolo Milano era la città piú popolosa e prestigiosa della Penisola, sia dal punto di vista militare che economico, ed esercitava il suo dominio su gran parte della Lombardia. Da tempo, però, il contesto politico urbano era lacerato dal violento conflitto tra il partito oligarchico – la Lega della Motta – e quello popolare – la Credenza di Sant’Ambrogio – due strutture a carattere militare e organizzate verticisticamente. Il conflitto che allora divideva Milano era proprio di gran parte dei comuni dell’Italia centrosettentrionale e vedeva contrapposti i magnati, ossia le piú antiche famiglie del patriziato cittadino – nato dall’unione della piú antica aristocrazia feudale, da tempo inurbatasi –, con alcuni esponenti della «borghesia» affaristica e imprenditoriale, e il popolo, ossia il resto della cittadinanza, esclusa dall’effettiva partecipazione alla vita politica della città, monopolio dei magnati. Il termine popolo non era sinonimo di «plebe», ma rinviava a una realtà sociale molto piú complessa, fatta di borghesi, commercianti, proprietari terrieri, artigiani – il cosiddetto «popolo grasso» – organizzato nelle potenti corporazioni cittadine, e di braccianti, operai, nullatenenti, disoccupati, il cosiddetto «popolo minuto». Quest’ultimo, generalmente relegato ai margini della vita sociale ed economica del comune, fungeva da massa di manovra e bacino di reclutamento per gli adepti della fazione popolare, la cui direzione politica era nelle mani del «popolo grasso».

Nella pagina accanto Angera (Varese), Rocca Borromeo, Sala della Giustizia. Uno degli affreschi del «Maestro di Angera» che celebrano le gesta di Ottone Visconti, arcivescovo di Milano, che sconfisse Napo della Torre a Desio, nel 1277. XIII sec.

Simpatie guelfe

In una prima fase fu la Credenza di Sant’Ambrogio a prevalere, poiché, nel 1259, Martino della Torre, noto esponente di una delle famiglie piú in vista del comune milanese, fu eletto capitano del popolo, podestà e anziano perpetuo della Credenza stessa. I della Torre – o Torriani, originari della Valsassina e di simpatie guelfe – sono noti fin dal XII secolo, quando alcuni di loro compaiono tra le magistrature cittadine milanesi; erano avversari politici dei Visconti, che guidavano, invece, la Lega della 20

LE SIGNORIE

In alto stemma dei Visconti sul Palazzo Arcivescovile di Milano, ricostruito per volere dell’arcivescovo Giovanni Visconti (1339-1354), del cui nome si vedono le iniziali IO[HANNES].

Motta, cioè la fazione oligarchica. Nel 1259 Martino della Torre instaurò formalmente a Milano la signoria della sua famiglia e bandí dalla città i Visconti e i loro sostenitori. Tuttavia, prima di consolidare il suo regime, il nuovo signore dovette fronteggiare una difficilissima situazione, nata dalla scissione interna al suo partito promossa da Guglielmo da Soresina, esponente degli interessi di alcune famiglie magnatizie, le quali, benché legate alla fazione popolare, non gradivano l’eccessivo sbilanciamento verso il popolo della politica di Martino. Guglielmo si accordò con Ezzelino III da Romano, il signore ghibellino della marca trevigiana che, mirando a impossessarsi di Milano, si mosse alla volta della città con un esercito, ma fu sconfitto nella battaglia di Cassano d’Adda dove, ferito, trovò la morte. Battuti i loro avversari, i della Torre poterono consolidare il loro regime e, alla morte di Martino, nel 1263, il potere passò al fratello, Filippo. Dopo la morte di Filippo, nel 1265, nella signoria subentrò il cugino Napoleone, che dovette però affrontare una dura guerra contro gli esuli Visconti, i quali, nel frattempo, avevano riorganizzato le loro forze nel contado milanese. Nel 1277 Napoleone fu sconfitto nella battaglia di Desio dai Visconti e, fatto prigioniero, fu rinchiuso con i suoi familiari nel castello comasco del Baradello, dove morí l’anno dopo. Anche i partigiani dei Torriani furono banditi da Milano, i loro beni confiscati e le loro case distrutte, secondo la prassi allora vigente nelle guerre comunali. Si calcola, infatti, che l’imponenza delle distruzioni volute dai Visconti divenne un elemento qualificante del paesaggio urbano se, ancora un secolo dopo, la chiesa parrocchiale prossima alle case distrutte era denominata S. Maria alle case rotte. Artefice della vittoria sui Torriani era stato Ottone Visconti († 1295), figlio di Uberto († 1248), primo esponente della famiglia documentato con sufficiente certezza e, molto probabilmente, vassallo e funzionario della curia arcivescovile. Il fratello di Ottone, Obizzo, fu console del comune di Milano, nel 1236. Già membro del Capitolo del Duomo, Ottone fu consacrato nel



LE SIGNORIE

I Visconti e gli Sforza

Uomini di Stato e di Chiesa Uberto Visconti († ante 1274) Ottone Arcivescovo di Milano (1207 circa1295)

Obizzo Tebaldo = Anastasia Pirovano (1225-1276) Matteo I = Bonacossa Borri (1250 circa-1322) (1254 circa-1321)

Galeazzo I (1277-1328) = Beatrice d’Este (?-1334), vedova di Nino di Gallura

Giovanni Arcivescovo di Milano (1290-1354) Azzone (1302-1339) = Caterina di Savoia Vaud (?-1388)

Matteo II = Gigliola Gonzaga (1319 circa-1355) (1325 circa-1377 circa)

Giovanni Maria = Antonia Malatesta (1389-1412)

Luchino (1292-1349) = 1. Violante di Saluzzo (1270-1315) 2. Caterina Spinola (?-1319) 3. Isabella Fieschi

Stefano = Valentina Doria (1288-1327) Bernabò (1323 circa-1385) = Beatrice, detta Regina della Scala (1333 circa-1384)

Galeazzo II = Bianca di Savoia (1320 circa-1378) (1336-1387) Gian Galeazzo (1351-1402) = 1. Isabella di Valois (1348-1372) 2. Caterina Visconti di Bernabò (1362-1404)

Filippo Maria (1392-1447) = 1. Beatrice di Tenda (1372-1418) 2. Maria di Savoia (1411-1469) 3. Agnese del Maino, amante (?-1465)

Valentina = Luigi di Valois (1371-1408) Carlo di Valois-Orléans (1394-1465) Luigi XII re di Francia (1462-1515)

Bianca Maria Visconti = Francesco I Sforza (1425-1468) (1401-1466) Galeazzo Maria = Bona di Savoia Sforza Visconti (1449-1503) (1444-1476)

Ludovico Maria Sforza = Beatrice d’Este Visconti, detto il Moro (1475-1497) (1452-1508)

Gian Galeazzo = I sabella d’Aragona (1469-1494) (1470-1524)

Francesco, detto il Duchetto (1491-1512) 22

LE SIGNORIE

Bianca Maria = Massimiliano (1472-1510) d’Asburgo (1459-1519)

Massimiliano (1494-1530) Francesco II = Cristina di (1495-1535) Danimarca (1518-1590)


Lunetta raffigurante la duchessa Bianca Maria Visconti, moglie di Francesco Sforza, particolare di un affresco attribuito alla bottega di Bernardino Luini. 1522-26. Milano, Pinacoteca del Castello Sforzesco. Nella pagina accanto, in alto Ottone Visconti in un’incisione di Tobias Stimmer. 1575 circa. Berlino, Sammlung Archiv für Kunst und Geschichte. Nella pagina accanto, in basso particolare del monumento funebre di Gian Galeazzo Visconti, opera di Gian Cristoforo Romano, Benedetto Pavese e Bernardino da Novi. 1492-1562. Pavia, Certosa.

1262 vescovo di Milano da papa Urbano IV (1261-1264), ma, a causa dell’opposizione dei Torriani, non poté insediarsi nella carica e, lanciato l’interdetto su Milano, visse in esilio fino alla vittoria di Desio, quando ritornò in città alla testa dei suoi fedelissimi, dando formalmente inizio alla signoria viscontea. La famiglia di Ottone faceva parte dell’antica aristocrazia feudale del contado milanese, forse originaria della località di Mariano, e con vasti possedimenti nella Lombardia settentrionale. Molto probabilmente il cognome Visconti aveva un’origine funzionariale: risaliva, cioè, all’epoca in cui la famiglia aveva rivestito l’ufficio di visconte. Agli inizi dell’XI secolo, trasferitisi a Milano, i Visconti erano entrati a far parte della corte dei vassalli del vescovo – militia sancti Ambrosii – e, al servizio della diocesi, esercitarono molte incombenze amministrative.

Una vittoria fragile

Alla fine del secolo, con la nascita del comune, i Visconti entrarono nell’agone politico e fecero parte del ceto dirigente cittadino, rivestendo importanti magistrature. Quando, all’indomani di Desio, Ottone entrò in città, fece eleggere un

capitano del popolo nella persona di Guglielmo VII († 1292), marchese del Monferrato, dato che, essendo un ecclesiastico, non avrebbe potuto rivestire direttamente responsabilità pubbliche. Nonostante la vittoria, la posizione di Ottone rimase a lungo precaria, perché i Torriani, fuggiti dalla prigionia del castello del Baradello, si riorganizzarono sotto il comando di Cassone della Torre e tentarono di tornare a Milano. Nel 1281, il vescovo, riorganizzato il suo esercito, li sconfisse in battaglia e Cassone fu ucciso. Intanto, la convivenza politica tra Ottone e Guglielmo del Monferrato si era fatta difficile, a causa dell’ambizione del marchese, il quale ambiva molto probabilmente a sottomettere Milano, incorporandola nei suoi domini. Cosí, nel 1282, l’arcivescovo decise di estromettere Guglielmo dalla carica di capitano, che pochi anni piú tardi, nel 1287, fece conferire al pronipote, Matteo Visconti, poi detto il Magno. L’estromissione di Guglielmo, però, rovinò i rapporti tra Milano e il marchesato del Monferrato che, da quel momento, furono sempre conflittuali. Nel 1294 i buoni uffici di Ottone presso l’imperatore germanico, Adolfo di Nassau (12911298), permisero a Matteo di ottenere l’inveLE SIGNORIE

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LE SIGNORIE Ducato di Borgogna

I Visconti e gli Sforza Confederati Svizzeri

Losanna Ginevra

Vescov. di Coira

Ossola Bellinzona 1335

Chambery

Delfinato

ferr 1334 ato

Principato di Piemonte

1347

Contea di Nizza (Savoia)

Mondovì

1332

Alessandria 1347

Piacenza

Tortona 1347

GENOVA

Savona 1353-56, 1421-35

Repubblica di Genova

1380

1334

1336

1371

Ma Pontremoli las 1333 pin a

Ferrara

1399

Rovigo

Bologna

1350-55, 1402

Imola Faenza

Lucca

Regno di Ungheria

Repubblica di Venezia

Estensi

Modena

Pisa

Marsiglia

VENEZIA

1388-1390

Gonzaga

Aquileia

Treviso

Padova

Mantova

Parma 1346 Reggio

Carniola (Asburgo)

Ceneda

1387

1387

Cremona

Gorizia

1388

Verona

1337

Patriarcato di Aquileia

1388

Vicenza

Riva

Brescia

Crema Lodi 1335

1335 1332-36, 1359

Asti

March. di Saluzzo

Provenza (Angiò)

Pavia

1347

Saluzzo

Contea di

1332

Belluno Feltre

di Trento

Bergamo

Novara MILANO Vercelli

Torino

(Regno di Francia)

1337

Como

Aosta

Contea di Savoia Mon

Carinzia (Asburgo)

Valtellina Val Vescovato 1335 Trento Camonica

1342

1331

Grenoble

Bormio 1336

Vallese

Lione

Tirolo (Asburgo)

Ravenna

Da Polenta

Forlì Cesena

FIRENZE

Rimini Pesaro late s Fano

Ma

ta Repubblica di Montefeltro Firenze Arezzo Perugia Siena 1399

1402

Ancona

Assisi 1402

Camerino

Spoleto

Massima estensione dei domini viscontei alla morte del duca Gian Galeazzo nel 1402

Corsica (Repubblica di Genova)

Abruzzi Stati della

Base 17,5

ROMA

Chiesa Regno di Napoli (Angiò)

Giudicato di Gallura (mai occupato Filippo Maria Visconti rinuncia in favore di Alfonso V d’Aragona)

Giudicato di Arborea (sotto influenza Aragonese)

L’Italia centrosettentrionale al momento della massima estensione dei domini della dinastia dei Visconti, agli inizi del XV sec. Le grandi conquiste, in particolare di Gian Galeazzo, culminarono nella costituzione del primo grande Stato regionale della Penisola. 24

LE SIGNORIE

NAPOLI

Regno di Sardegna (Aragonesi)

stitura a vicario imperiale, poi rinnovata ai suoi successori e cosí, da quel momento, i Visconti si collocarono all’interno dello schieramento politico che faceva capo all’impero – pars Imperii – meglio noto come ghibellino. Occorre tuttavia considerare che, a partire dal XIV secolo, le denominazioni di guelfo e ghibellino – per indicare, rispettivamente, i sostenitori del papato e dell’impero – persero molto della loro valenza ideologica originaria, ma furono soprattutto etichettature di comodo, che occultavano ben altri interessi. Lo schierarsi

dall’una o dall’altra parte, infatti, fu sempre piú spesso motivato da concrete esigenze politiche, cioè da interessi di potere, e pertanto fu sempre precario e variabile.

Il rientro a Milano

L’insediamento di Matteo Visconti come vicario imperiale non fu definitivo e, già nel 1302, il signore dovette abbandonare Milano, che fu occupata dai Torriani, guidati da Guido della Torre († 1312), alleatosi con molte città padane e con il signore di Piacenza, Alberto Scotti


(1290-1318). Matteo allora andò in esilio, ma, nel 1311, grazie al supporto delle milizie dell’imperatore Enrico VII di Lussemburgo (1308-1313), sceso in Italia per essere incoronato, poté rientrare a Milano. La signoria viscontea era ormai un fatto irreversibile, e, morto Matteo, nel 1322, gli successero, nell’ordine, il figlio e il nipote, Galeazzo I (13221328) e Azzone (1328-1339). La scelta della signoria viscontea, a favore del partito ghibellino, provocò la scomunica di papa Giovanni XXII (1316-1334), che bandí contro Milano una crociata, affidata al legato pontificio per l’Italia, il cardinale Bertrando del Poggetto († 1352), nipote del pontefice. Battuto una prima volta a Vaprio d’Adda, nel 1324, Bertrando invitò in Italia, per cingere la corona regia, il re di Boemia, Giovanni di Lussemburgo (1308-1346), figlio dell’imperatore Enrico VII, il quale riuscí a impossessarsi di alcune città come Bergamo, Brescia, Piacenza e Cremona, e si pose a capo di una lega ostile ai Visconti, a cui i signori di Milano contrapposero la Lega di Castelbaldo, che sconfisse ripetutamente il legato pontificio. Nell’esercito guelfo combatteva anche Lodrisio Visconti († 1364), nipote del vescovo Ottone, ostile al ramo principale della famiglia e che, poi, fu catturato e tenuto a lungo prigioniero. Ad Azzone successero, nel 1339, gli zii, Luchino e Giovanni, e quest’ultimo, nello stesso anno, fu consacrato anche vescovo di Milano. I fratelli si divisero i compiti: Giovanni si occupò, prevalentemente, dell’amministrazione, Luchino della guerra. Giovanni riuscí a ottenere la revoca della scomunica papale e la trasformazione della signoria viscontea in ereditaria dalle magistrature e dai consigli milanesi. Intanto Milano si espandeva militarmente in Lombardia e nei territori vicini, inglobando il Piemonte orientale e parte della Liguria e dell’Emilia. Anche Bologna e Genova caddero sotto il dominio milanese. Morto Luchino nel 1349, Giovanni esautorò il figlio, Luchino Novello († 1399) e governò da solo, finché, alla sua morte, nel 1354, gli successero i nipoti Matteo II, Galeazzo II e Bernabò, figli del fratello Stefano († 1327). La morte improvvisa di Matteo, nel

Matteo I Visconti in un’incisione di Tobias Stimmer. 1575 circa. Berlino, Sammlung Archiv für Kunst und Geschichte. Signore di Milano dal 1287 al 1302 e vicario imperiale dal 1311 al 1322, sottomise alla propria influenza l’intera Lombardia e parte di Piemonte ed Emilia.

1355, lasciò agli altri due fratelli il compito di spartirsi i domini e il titolo vicariale, cosí Bernabò ottenne Milano e i domini orientali, mentre il fratello Galeazzo II si stabilí a Pavia con autorità sui domini occidentali.

Alleanze matrimoniali

Nel 1378, alla morte di Galeazzo II, Bernabò ereditò tutti i domini di famiglia, ma, nel 1385, venne esautorato dal nipote Gian Galeazzo, figlio di Galeazzo II e di Bianca di Savoia († 1387), e, rinchiuso nel castello di Trezzo, fu avvelenato poco tempo dopo. Gian Galeazzo ereditò il titolo vicariale dello zio e tutti i domini viscontei e, rimasto vedovo della prima moglie, Isabella di Valois († 1372), figlia del re di Francia Giovanni II il Buono, sposò la cugina, Caterina Visconti († 1404), figlia di Bernabò. Al fine di consolidare i rapporti diplomatici con la Francia, Gian Galeazzo decise di dare in matrimonio la figlia avuta con Isabella, Valentina († 1408), a Luigi († 1407), duca di Orléans, fratello del re Carlo VI di Valois (13801422) e reggente del regno. Valentina portò in dote al marito la contea d’Asti e quella di Vertus, nella Champagne, che Isabella di Valois aveva già portato in dote a Gian Galeazzo. Il matrimonio – come si vedrà – avrà gravi conseguenze politiche per la storia di Milano e dell’intera Penisola. Il nuovo signore avviò una politica imperialista che, nel corso di un decennio, sottomettendo città e altre piccole signorie, consentí a Milano di impossessarsi di un territorio immenso, che andava dal Piemonte orientale al Veneto, oltrepassando gli Appennini e raggiungendo l’Emilia, la Toscana e l’Umbria. Gian Galeazzo riuní i migliori condottieri dell’epoca sotto il suo comando: Jacopo dal Verme, Facino Cane, Ottobono Terzi e Cabrino Fondulo militarono ai suoi ordini. Nel 1387 Gian Galeazzo attaccò Verona, ne cacciò l’ultimo signore scaligero e si impossessò della «marca veronese», e le città di Treviso, Vicenza, Padova, Feltre, Belluno e Verona stessa caddero in suo potere. Sentendosi minacciata, Venezia reagí formando una vasta lega, che comprendeva molte città padane, Firenze, gli Estensi di LE SIGNORIE

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LE SIGNORIE

I Visconti e gli Sforza

Ferrara, i duchi di Savoia, i marchesi del Monferrato, e persino il re di Francia, Carlo VI. Benché affidate al comando di abili condottieri come l’inglese Giovanni Acuto († 1394) e il francese Giacomo, conte d’Armagnac († 1391), le milizie della lega furono sconfitte, nel 1391, nella battaglia d’Alessandria e, da quel momento, nulla poté arrestare il Visconti. Infatti, nel 1395, il signore di Milano, dietro corresponsione di 100 000 fiorini, ebbe dall’imperatore germanico Venceslao IV di Lussemburgo (13781400), il riconoscimento del titolo di duca e il diritto di designare un successore.

Firenze in pericolo

Tra il 1396 e il 1399, il Visconti suscitò in Piemonte una vera e propria guerriglia contro i Savoia e il marchese del Monferrato e, nel 1400, violando le tregue siglate a Pavia e a Venezia con i suoi nemici, iniziò una nuova controffensiva che gli consentí di occupare Pisa, Porto Pisano, Livorno e Siena, minacciando Firenze. Pisa fu ceduta al Visconti dal suo signore, Gherardo d’Appiano († 1405), per 200 000 fiorini. L’Appiano ottenne in cambio di Pisa la sovranità sul principato di Piombino – comprensivo anche dell’Elba e Pianosa – che la sua stirpe governò fino al 1628. Nel 1400 il duca di Milano occupò anche Bologna, Perugia e Assisi e, nel 1401, sotto le mura di Brescia, inflisse una dura sconfitta al nuovo imperatore Roberto del Palatinato (1400-1410), il quale, mutando la politica del suo predecessore Venceslao, era sceso in Italia per arginare l’espansionismo di Milano. 26

LE SIGNORIE

In alto pianta iconografica di Pavia nel Cinquecento, affrescata dal pittore lombardo Bernardino Lanzani, nella quale si nota, in evidenza, la figura del patrono cittadino, sant’Antonio Abate, in atteggiamento benedicente. 1522. Pavia, chiesa di S. Teodoro. Nella pagina accanto incoronazione di Gian Galeazzo Visconti a duca di Milano nella basilica di S. Ambrogio, miniatura del pittore lombardo Anovelo da Imbonate, dal Messale Ambrosianum. 1395. Milano, Basilica di S. Ambrogio, Biblioteca Capitolare.

Nel 1402, dopo avere riportato a Casalecchio un’altra vittoria su Bologna e Firenze e alla vigilia di una grande spedizione contro la città toscana, Gian Galeazzo morí a Melegnano, probabilmente a causa della peste. L’opera politica di Gian Galeazzo fu indubbiamente grandiosa e rese il ducato di Milano un’autentica potenza europea, non solo con la guerra, ma anche grazie a una scaltra politica diplomatica. Il duca, infatti, fu un abile conquistatore, ma anche uno statista attento alla cura della propaganda, come strumento di legittimazione politica. Non a caso, giustificò le sue conquiste con il richiamo all’antica Roma, quasi a rappresentare il tentativo di unificare l’Italia sotto un’unica potestà. Il vicentino Antonio Loschi († 1441), cancelliere del ducato, fu il regista di quest’organizzazione propagandistica. Autore dell’Achilles, una tragedia scritta sul modello classico, e di un Commento alle orazioni di Cicerone, Loschi fu uno dei primi umanisti e un attento studioso dell’antichità romana. Il cancelliere elaborò il manifesto politico delle conquiste viscontee nel carme celebrativo Imperiose comes, secli nova gloria nostri, dedicato al Visconti, ma, soprattutto, nello scritto Invectiva in Florentinos, in cui si scagliò contro i Fiorentini, principali avversari di Milano, accusandoli di fomentare la discordia nella Penisola alleandosi con genti barbare – nel caso specifico il re di Francia – e con tiranni – gli Estensi – pur di contrastare l’egemonia viscontea. Allo scritto di Loschi, qualche tempo dopo, rispose il cancelliere della repubblica di Firenze, l’umanista Coluccio Salutati († 1406), con l’Invectiva in Antonium Luschum Vicentinum, in cui ribaltava le accuse contro i Milanesi. Le conquiste di Gian Galeazzo portarono alla costituzione del primo grande Stato regionale italiano e il duca ebbe modo di sperimentare le prime forme organizzative della vasta compagine, poi sostanzialmente duplicate anche in altri contesti della Penisola, salvo particolarità locali, negli anni successivi. Lo Stato visconteo era fondato su una capitale, Milano, sede ufficiale della signoria e degli uffici di governo centrale, da cui si diramavano ordini diretti alla periferia, alle città – e ai corrispondenti contadi – inglobati nelle conquiste viscontee. Le strutture amministrative delle città sottomesse furono sostanzialmente conservate, con alcune particolarità volte a garantire la tenuta dell’insieme: salva l’assoluta potestà del signore, le amministrazioni locali preesistenti rinunciarono a una politica estera autonoma e furono sottoposte sotto ogni aspetto normativo, amministrativo e


LE SIGNORIE

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LE SIGNORIE Nella pagina accanto Difesa di Brescia, olio su tela del Tintoretto, al secolo Jacopo Robusti, che raffigura lo scontro tra la popolazione locale, supportata dai Veneziani, e le truppe milanesi di Filippo Maria Visconti.1584. Venezia, Palazzo Ducale.

Medaglia celebrativa in bronzo realizzata nel 1441 dal Pisanello, al secolo Antonio di Puccio Pisano, in omaggio di Filippo Maria Visconti, ultimo esponente della dinastia viscontea a reggere Milano. Milano, Pinacoteca del Castello Sforzesco. Il duca compare come profilo (al dritto) e a cavallo fra le montagne. 28

LE SIGNORIE

I Visconti e gli Sforza giudiziario al controllo di capitani generali o podestà nominati dal signore e che fungevano da cinghia di trasmissione tra centro e periferia. Gli statuti normativi della città capitale prevalsero su quelli delle città dominate e ciò significò che, a livello periferico, non fu piú possibile una legislazione contrastante con essi. Infine, una parte del reddito fiscale delle città sottomesse confluí nel fisco della città dominante.

Un uomo solo al potere

Morto Gian Galeazzo Visconti, secondo le sue ultime volontà i domini conquistati vennero spartiti tra i figli, sottoposti, per breve tempo, alla reggenza della madre Caterina: Gabriele Maria Visconti ebbe i domini toscani, mentre gli altri due, Filippo Maria e Giovanni Maria si divisero il resto. Il titolo di duca, però, spettò al solo Giovanni, che si stabilí a Milano, mentre Filippo fu insignito del titolo di conte di Pavia. Ben presto, dopo le morti dei fratelli Gabriele, nel 1408, e Giovanni, nel 1412, Filippo rimase solo al potere, assunse il titolo di duca e tentò di ricostruire l’immenso dominio paterno, che, nel frattempo, era andato in frantumi, perché città e signorie minori avevano riconquistato l’indipendenza. Molti capitani, al servizio di Gian Galeazzo, avevano costituito signorie personali a spese del ducato: Cabrino Fondulo si era impossessato di Cremona, Ottobono Terzi di Parma e Facino Cane di Alessandria, Novara, Tortona e Piacenza. Filippo agí inesorabilmente. Nel 1409, fece sopprimere Terzi dal duca di Ferrara e, alla morte di Facino, nel 1412, ne sposò la vedova Beatrice di Tenda in modo da ereditarne i domini, per poi, nel 1418, farla decapitare. Con Fondulo, il duca arrivò a un compromesso, ma, in seguito, lo fece assassinare (1425). Nel 1421, Filippo occupò Genova e, nel 1423, dopo aver sottomesso tutta la Lombardia, invase la Toscana e il Veneto, nel tentativo di ricostituire il ducato paterno. Immediatamente si costituí una coalizione antiviscontea che affidò il comando degli eserciti a Niccolò della Stacciola, meglio conosciuto come Niccolò da Tolentino († 1435). Al servizio di Visconti militavano alcuni dei piú prestigiosi condottieri dell’epoca come Francesco Sforza († 1466) – su cui si ritornerà – Niccolò Fortebracci († 1435), nipote del condottiero Braccio da Montone († 1424) e Francesco di Bussone – detto il Carmagnola – un piemontese già al servizio di Facino


LE SIGNORIE

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LE SIGNORIE

I Visconti e gli Sforza

A destra La Battaglia di Anghiari, disegno attribuito al pittore fiammingo Pieter Paul Rubens, che trae ispirazione dell’omonima opera rimasta incompiuta e poi andata in rovina di Leonardo da Vinci. 1603. Parigi, Musée du Louvre. In basso testa di un guerriero, studio a penna su carta di Leonardo da Vinci per la Battaglia di Anghiari. 1504-1505. Budapest, Szepmuveszeti Muzeum. Si tratta di uno dei pochissimi disegni leonardeschi ascrivibili alla rappresentazione della battaglia del 1440 tra milizie viscontee e fiorentine. Cane. Venezia si alleò con Firenze, riunendo intorno a sé i potentati della Penisola, come gli Estensi di Ferrara, i duchi di Savoia, i marchesi del Monferrato, il papato. Inizialmente sulla difensiva, i coalizzati prevalsero nel 1427, nella battaglia di Maclodio, vicino Brescia, anche grazie al tradimento del condottiero Francesco di Bussone, già al servizio del duca di Milano, ma passato disinvoltamente ai Veneziani. Nel 1428, i Veneziani attraversarono l’Adige e penetrarono in Lombardia e Filippo Maria dovette cedere, stipulando, nel 1433, la pace di Ferrara. Il duca di Milano riuscí a conservare l’integrità dei domini lombardi, ma dovette rinunciare al possesso di Bergamo e Brescia, incorporate nei domini di Venezia che, proprio in quegli anni, sotto la guida del doge Francesco Foscari (1423-1457), si stava espandendo sulla terraferma, inglobando il Veneto, la Venezia Giulia, l’Istria e la Dalmazia. In base alla pace di Ferrara, i confini tra il ducato di Milano e la Serenissima furono spostati dall’Adige all’Adda, verso occidente, e rimasero tali fino al XVIII secolo. Ma la pace era lungi dall’essere raggiunta, poiché, nel 1435, scoppiò una nuova guerra. Nello stesso anno morí la regina di Napoli Giovanna II d’Angiò (1414-1435) e si scatenò un lungo conflitto tra i due pretendenti alla successione: Renato, duca d’Angiò e conte di Provenza († 1480), potente vassallo del re di Francia, e Alfonso V


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L’assetto geopolitico dell’Italia dopo la firma della celebre pace di Lodi del 1454, che pose fine al conflitto tra Venezia e Milano. L’accordo segnò l’inizio di un lungo periodo di pace, che contribuí alla fioritura artistico-culturale del Rinascimento. LE SIGNORIE

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il Magnanimo (1416-1458), re d’Aragona. Gli Stati italiani si coalizzarono contro Alfonso a favore di Renato e, nell’agosto del 1435, il re d’Aragona fu battuto in una grande battaglia navale, al largo di Ponza dalla flotta di Genova – all’epoca sottomessa al Visconti – comandata dall’ammiraglio Biagio Assereto († 1456). Alfonso fu fatto prigioniero e consegnato al duca di Milano, ma Filippo Maria Visconti cambiò improvvisamente strategia e si schierò con Alfonso che fu liberato dietro il pagamento di un riscatto di 30 000 ducati.

Una battaglia che fece storia

Venezia, Firenze e gli altri Stati della Penisola, intanto, dichiararono guerra a Milano e il Visconti mise a disposizione dell’Aragonese il potenziale militare del ducato e la flotta genovese e, grazie a quest’alleanza, nel giugno del 1442, le truppe del Magnanimo riuscirono a entrare a Napoli, sfruttando i vecchi acquedotti, e costrinsero Renato d’Angiò alla fuga. Una nuova dinastia, allora, si insediò nel Mezzogiorno, mentre nel resto d’Italia si verificò la disfatta di Filippo Visconti che, nel 1440, fu battuto ad Anghiari, in Toscana, dalle truppe fiorentine e veneziane coalizzate. Al di là della sua importanza sul piano militare, la battaglia ebbe un’eco enorme sul piano politico, perché segnò il tramonto definitivo della potenza viscontea. Infatti, molti anni dopo, nel 1503, il comune di Firenze commissionò a Leonardo da Vinci un dipinto raffigurante lo scontro, che fu eseguito in Palazzo Vecchio, nella sala del Consiglio dei Cinquecento, e che purtroppo è andato perduto. La guerra si concluse nel 1441, con la pace di Cavriana, presso Mantova, che segnò un nuovo rovescio per Filippo Maria, costretto a evacuare la Toscana e Genova, e a rinunciare, a favore di Venezia, alle città di Cremona, Crema, Piacenza e alla Ghiara d’Adda, consentendo alla Serenissima di raggiungere la massima espansione sulla terraferma. In quello stesso anno, Filippo, che non aveva avuto discendenza legittima dalla moglie, Maria di Savoia († 1469), diede in sposa la figlia naturale, Bianca Maria Visconti († 1468), avuta dalla nobildonna milanese Agnese del Maino († 1465), a Francesco Sforza, condottiero da tempo al suo servizio, predisponendo, implicitamente, la sua successione. Le cose, tuttavia, sarebbero state molto piú complesse. Infatti, 32

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Niccolò Piccinino, un altro condottiero al servizio del Visconti, si ribellò al duca, probabilmente perché ostile al matrimonio della figlia con Francesco Sforza che gli fece guerra, battendolo a Montelauro, nel 1443, e causandone, poco tempo dopo, la morte. Filippo Maria Visconti morí nel 1447 e, per quanto incapace di restaurare la grandezza del ducato paterno, fu certamente una personalità straordinaria, in grado di segnare un’epoca. Senza dubbio, il duca ebbe anche la capacità di comprendere l’importanza della promozione della «cultura» come strumento di legittimazione politica. Tra gli intellettuali che soggiornarono alla sua corte si ricordi l’umanista lombardo Pier Candido Decembrio († 1477), che prestò servizio nella cancelleria milanese. Infaticabile scrittore di epistole e traduttore dal greco al latino di opere classiche come la Repubblica di Platone, Decembrio fu anche il biografo ufficiale del duca e autore di una Vita di Filippo Maria Visconti, redatta sul modello delle Vite dei Cesari di Svetonio e che fu un esempio di eleganza e di stile. Nell’opera venivano esaltate la grandezza del signore di Milano e la sua virtú, tale da anteporre «Statum dominatus sui saluti corporis et animae». La fedeltà cortigiana di Decembrio non gli impedí, morto il Visconti, di passare al servizio di Francesco Sforza, a cui dedicò un’altra biografia.

GUERRIERI ECCELLENTI Quali duchi di Milano, gli Sforza sono un «caso» araldico abbastanza singolare: si tratta, infatti, di uno dei rarissimi esempi, forse l’unico, in cui con un matrimonio viene abbandonata la propria arme e assunta in toto – senza cioè alcun «partito» o «inquartato» o altro seppur minuto riferimento alla propria – l’insegna della famiglia della moglie. Fu Muzio Attendolo di Cotignola (1369-1424), valente soldato di ventura al servizio del condottiero Alberico da Barbiano, a guadagnarsi il soprannome di Sforza – a motivo del suo coraggio e delle sue indiscusse capacità belliche («sforzare», nel linguaggio militare, significa espressamente riuscire a penetrare con la forza nelle difese e nelle fortificazioni di una città) – assumendolo poi quale nome di famiglia e dando cosí inizio a una nuova dinastia.


La successione al Visconti, nel ducato di Milano, non fu facile, perché, alla sua morte, la nobiltà cittadina dichiarò decaduta la signoria e proclamò la repubblica, ripristinando le antiche libertà comunali. Nacque, cosí, la Repubblica ambrosiana, un regime a solida guida aristocratica, guidata da un collegio di ventiquattro capitani del popolo che affidò a Francesco Sforza il comando supremo dell’esercito. Scoppiò una nuova guerra di successione al ducato di Milano che, rispetto agli schieramenti dell’epoca precedente, vide un singolare mutamento delle alleanze tra gli Stati della Penisola. Con Milano si schierarono la Firenze medicea e i Gonzaga, mentre il duca di Savoia, il re di Napoli e Venezia scesero in campo contro la Repubblica e contro lo Sforza, rivendicando la successione ai Visconti su labili basi: il primo in virtú del matrimo-

nio di Filippo Visconti con Maria di Savoia, il secondo in base a un testamento mai esistito, la terza perché intenzionata a mettere le mani sul ducato e sulle sue ricchezze.

La pace di Lodi

Il comandante delle milizie repubblicane diede ottima prova di sé, sconfiggendo i coalizzati a Caravaggio, nel 1448. Cosí, forte del suo prestigio e dell’odio popolare dei Milanesi verso l’aristocrazia al governo, nel 1450 Francesco Sforza conquistò Milano e abbatté la Repubblica ambrosiana, proclamandosi duca. La guerra con Firenze, Venezia e Napoli proseguí fino al 9 aprile del 1454, quando fu siglata la pace di Lodi, che riconobbe la successione dello Sforza al Visconti e l’insediamento a Milano della nuova signoria. La pace fu favorita sia dalla stanchezza dei contendenti, sia dal timore suscitato

Ritratto di profilo del condottiero e capitano di ventura Giacomo Attendolo, detto Muzio, capostipite della dinastia Sforza, affresco attribuito alla bottega di Bernardino Luini. 1525-30 circa. Milano, Pinacoteca del Castello Sforzesco.

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I Visconti e gli Sforza eventuali aggressioni esterne e preservare la sicurezza interna – in caso di conflitto tra i membri – con il ricorso all’arbitrato e periodiche consultazioni tra i contraenti, che si impegnarono anche a mantenere a disposizione della Lega reparti di truppe permanenti. Gli Sforza – la nuova famiglia che si insediava a Milano – non avevano origini prestigiose e appartenevano alla piccola nobiltà di Cotignola, vicino a Ravenna. Francesco Sforza era il figlio naturale di Muzio Attendolo Sforza e dell’umbra Lucia Terzani († 1461). Muzio – diminutivo di Giacomuzzo – aveva militato in gioventú nella compagnia di ventura di Alberico da Barbiano († 1409), anch’egli condottiero romagnolo. Alla morte di Alberico, Muzio fondò una propria compagnia e, in qualità di condottiero, si mise al servizio di Ladislao I d’Angiò (1386-1414), re di Napoli, dal quale ottenne la carica di conestabile del regno. Muzio si procacciò ricchezze, feudi e persino un matrimonio vantaggioso per il figlio Francesco con Polissena Ruffo († 1420), appartenente a un’importante famiglia di signori calabresi. Muzio morí nel 1424, annegando nel fiume Pescara, in Abruzzo, mentre guidava le truppe contro un altro condottiero, Braccio da Montone, che intendeva impossessarsi dell’Aquila, città appartenente al regno di Napoli.

I rami «cadetti»

In alto ritratto di Francesco Sforza, primo duca di Milano tra gli appartenenti alla dinastia sforzesca, tempera su tavola di Bonifacio Bembo. 1460 circa. Milano, Pinacoteca di Brera. Nella pagina accanto le nozze di Francesco Sforza e Bianca Maria Visconti in una miniatura quattrocentesca. Collezione privata.

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in Occidente dalla caduta di Costantinopoli – capitale dell’impero romano d’Oriente – nelle mani dei Turchi Ottomani, il 29 maggio del 1453, e segnò una nuova fase dei rapporti diplomatici tra gli Stati italiani, garantendo, nel bene e nel male, un lungo periodo di pace. In base al trattato, gli avversari di Sforza ne riconobbero la signoria, mentre Venezia rinunciò alle annessioni conseguite a Cavriana, cioè alla Ghiara d’Adda, a Crema, Cremona e Piacenza, che ritornarono a Milano. Nel marzo del 1455, fu costituita tra i contraenti di Lodi la Lega italica – alla quale si associarono anche città e Stati minori –, una vasta alleanza politico-militare guidata dal pontefice – Niccolò V (1447-1455) – voluta per reagire a

Il figlio di Muzio, Francesco Sforza, assieme ai fratelli Alessandro e Bosio, prese il comando della compagnia paterna e si mise al servizio del papa, per poi passare, nel 1427, al servizio di Filippo Maria Visconti. Anche i fratelli di Francesco furono condottieri e riuscirono a ritagliarsi spazi politici importanti nell’Italia dell’epoca. Nel 1444, Alessandro († 1473) sposò Costanza da Varano († 1447) e, cosí, divenne signore di Pesaro, mentre Bosio († 1476), nel 1439, sposò Cecilia Aldobrandeschi († 1451) e divenne signore di Santa Fiora, in Toscana. Alessandro e Bosio diedero vita ai rami «cadetti» degli Sforza, che si estinsero, rispettivamente, nel 1519 e nel 1673. I rapporti di Francesco Sforza con il Visconti furono in genere positivi, salvo periodi di frizione. Per esempio, nel 1435, lo Sforza conquistò, per conto di Milano, le Marche pontificie, ma quando papa Eugenio IV (1431-1447) riconobbe il fatto compiuto e investí il condottiero del vicariato sulla marca d’Ancona e del titolo di gonfaloniere, si schierò subito dalla parte del pontefice contro il Visconti. Nel 1441, infine, lo Sforza si riappacificò con il duca e tornò al suo servizio,


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IL «DIRITTO ROMANO» E LA LEGITTIMAZIONE DEL POTERE SIGNORILE Fin dalla nascita, il regime della signoria fu oggetto di profonda riflessione ed elaborazione giuridica, in virtú anche dell’affermazione del diritto romano che, a partire dal XII secolo, con la riscoperta dei testi del Corpus Iuris di Giustiniano (527-565 d.C.) – a opera del magister bolognese Irnerio († 1130 circa) – diventò materia di insegnamento nelle Università. Il diritto di Roma imperiale, quindi, assurse ben presto al ruolo di diritto comune europeo, ordinamento dell’intera res publica christiana. Prodotto dell’elaborazione dottrinale dei magistri universitari, il diritto romano fu però opportunamente modificato e adeguato alle necessità della società del XII secolo. La sua applicazione nel contesto sociale dell’età medievale non cancellò il preesistente diritto in gran parte di derivazione germanica, perché lo ius commune si pose accanto a esso con funzione suppletiva, colmandone le eventuali lacune normative. Tra i maggiori studiosi e docenti di ius commune, spicca Bartolo di Sassoferrato († 1357), dottore a Bologna e docente a Pisa e Perugia, autore di una monografia – il Tractatus de tyranno – appositamente dedicata allo studio della signoria e delle sue potenziali derive autocratiche. Richiamandosi alla riflessione politologica classica sul tema, Bartolo considerava tiranno ogni individuo investito di responsabilità politiche che, violando i doveri del suo ufficio, anteponesse all’interesse pubblico quello personale, trasgredendo le leggi vigenti, anziché sottoporsi a esse. Bartolo aveva

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dunque una concezione molto elastica della tirannia e adattabile a fattispecie diverse. Il giurista distinse una tirannia palese da una occulta. La tirannia occulta era quella del governante che, pur sottomettendosi alle leggi, ne tradiva lo spirito, abusando dei suoi poteri e seminando la corruzione. Quella palese, invece, si traduceva in due tipologie diverse di tiranno: il tyrannus ex defectu tituli e il tyrannus ex parte exercitii. Il primo era quello che, pur osservando la legge, aveva acquisito il potere in palese violazione dell’ordinamento legale, anche con la violenza, mentre il secondo era quello che, pur avendo acquisito il potere nel rispetto della costituzione formale, nella prassi violava reiteratamente la legge. Ovviamente, una tirannide poteva cumulare entrambe le caratteristiche e, in un caso del genere, secondo Bartolo, era legittima la disobbedienza, eventualmente spinta fino alla ribellione armata, purché fosse esperito preventivamente ogni tentativo di rimuovere legalmente l’autocrate, attraverso l’appello ad autorità superiori, come l’imperatore o il papa. A conclusioni analoghe a quelle di Bartolo pervennero anche altri intellettuali come l’umanista Coluccio Salutati († 1406) – cancelliere della repubblica fiorentina e autore del trattato De tyranno – e il domenicano Girolamo Savonarola († 1498), autore di un Trattato circa il reggimento e governo della città di Firenze, oltre che ispiratore degli ordinamenti repubblicani fiorentini, instaurati dopo la cacciata dei Medici, nel 1494.


In alto fronte di cassone in legno di noce con dipinti i tre duchi a cavallo, Ludovico Maria, Galeazzo Maria e Gian Galeazzo Sforza. Bottega lombarda. 1479-1494 circa. Milano, Castello Sforzesco, Civiche Raccolte d’Arte Applicata. A sinistra La congiura dei Lampugnani, olio su tela di Francesco Hayez, che raffigura la rivolta di un gruppo di nobili per rovesciare il governo di Galeazzo Maria Sforza. 1826. Milano, Pinacoteca di Brera. ottenendo in cambio la mano della figlia. Poi, abbattuta la Repubblica ambrosiana, divenne, con un atto di forza, duca di Milano. Il condottiero inaugurò la sua signoria su basi fragili, perché, a differenza di quella viscontea, la sua posizione – e quella dei suoi successori – fino al 1494 non fu mai legittimata con il conferimento del rango ducale da parte dall’imperatore.

Accordi vantaggiosi

Gli anni successivi alla pace di Lodi furono essenzialmente tranquilli per la Penisola e lo Sforza tentò di consolidare le sue relazioni con gli altri Stati italiani, soprattutto con Firenze e Napoli. Con Firenze, Francesco raggiunse un accordo vantaggioso, in base al quale Milano concedeva alla signoria medicea appoggio militare contro eventuali nemici interni, mentre i Medici garantivano, con la loro banca, sostegno finanziario allo Sforza. Anche i rapporti con il re di Napoli, Ferdinando I (1458-1494) – detto Ferrante – furono positivi e si tradussero nell’appoggio diplomatico e militare – dato al re dallo Sforza – nella repressione della rivolta dei LE SIGNORIE

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baroni del 1459-1462. Nel 1464 Ferrante ricambiò il favore al duca di Milano, conferendo il ducato di Bari al figlio Sforza Maria († 1479) e, nel 1465, acconsentí alle nozze tra la figlia del duca, Ippolita Maria Sforza († 1488) e Alfonso di Calabria († 1495), erede al trono di Napoli. Le buone relazioni con Ferrante permisero al duca di Milano di liberarsi del pericoloso Jacopo Piccinino, figlio del condottiero Niccolò, il quale – come s’è visto – fu un temibile avversario dello Sforza nella successione al ducato visconteo. Dopo aver finto una riappacificazione con Jacopo, dandogli in sposa la figlia naturale Drusiana († 1474), Francesco Sforza chiese al re di Napoli la sua eliminazione, cosa che avvenne nel 1465, a Napoli, dove il Piccinino era stato chiamato per il conferimento di incarichi militari.

Assassinio in chiesa

Nel 1466, morto Francesco, gli successe il figlio Galeazzo Maria sotto la reggenza della madre, Bianca. Galeazzo fu abile uomo d’armi e non a caso, alla morte del padre, si trovava in Francia, alla corte di re Luigi XI (1461-1483), che lo aveva investito del comando dell’esercito contro il ribelle Carlo il Temerario († 1477), figlio del duca di Borgogna. Galeazzo ritornò a Milano per assumere la signoria e, nel 1467, sposò Bona di Savoia († 1503), figlia del duca di Savoia Ludovico (1434-1465). Fu un matrimonio importante, che contribuí a consolidare le relazioni fra due Stati da sempre nemici, ma anche ad avvicinare il ducato di Milano alla Francia, dato che il re, Luigi XI, aveva sposato Carlotta († A sinistra ritratto di Galeazzo Maria Sforza, tempera su tavola attribuita a Bugatto Zanetto. 1474 circa. Milano, Pinacoteca del Castello Sforzesco. Duca di Milano, figlio di Francesco Sforza e Bianca Maria Visconti, Galeazzo venne assassinato nel 1476 in seguito a una rivolta di alcuni membri dell’aristocrazia milanese.

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1483), sorella di Bona. L’inettitudine politica e il comportamento tirannico di Galeazzo Maria, però, ne accelerarono la fine e, il 26 dicembre del 1476, dopo appena un decennio di governo, il duca venne assassinato nella chiesa di S. Stefano, in seguito a una congiura. Il complotto era stato organizzato da alcuni esponenti dell’aristocrazia milanese, riuniti nel cenacolo culturale che faceva capo all’umanista e latinista Nicola Capponi, detto Cola Montano, già precettore di Galeazzo Maria. Montano aveva radunato intorno a sé un gruppetto di fanatici repubblicani come Andrea de’ Lampugnani, Carlo e Girolamo Olgiati, giovani appartenenti al patriziato milanese, in cui l’esaltazione degli ideali romani della libertas repubblicana, la lettura dei classici greci e latini, le discettazioni giuridiche e l’esaltazione del tirannicidio, avevano creato una miscela esplosiva (vedi box a p. 36). L’opera politica di Gian Galeazzo, tuttavia, non fu totalmente negativa, nonostante la sua brevi-


Bona di Savoia e del cancelliere Cicco Simonetta, un avventuriero di origini calabre, ma di solida cultura giuridica, entrato al servizio degli Sforza sotto Francesco, ma odiato dal popolo per le sue malversazioni e per aver accumulato enormi ricchezze grazie al suo ufficio. La giovane età del duca indusse gli zii, Ascanio Maria, Sforza Maria, Ottaviano Maria Sforza e Ludovico Maria – detto il Moro – a esautorarlo e perciò Simonetta li bandí da Milano. Tuttavia, gli zii del giovane non si arresero e, reclutato un esercito, sotto la guida del condottiero Roberto Sanseverino († 1487), tentarono di prendere la città nel 1477, ma furono battuti e Ottaviano Maria morí presso l’Adda.

E venne il tempo del «Moro»...

tà. Come il padre, infatti, fu patrocinatore di intellettuali, promotore del rinnovamento urbanistico cittadino e si preoccupò anche di incrementare lo sviluppo dell’economia milanese, favorendo opere di bonifica e messa a coltura delle terre incolte, di canalizzazione delle acque – con il potenziamento dei Navigli – e di impianto di nuove colture, come la gelsicoltura, strettamente connessa all’allevamento del baco da seta e, quindi, allo sviluppo della manifattura tessile. Nonostante le aspirazioni dei congiurati, la morte di Galeazzo Maria non portò alla restaurazione della repubblica e, soprattutto, non rimase impunita. Gli assassini furono individuati e giustiziati, eccetto Montano, che riuscí a fuggire. Qualche anno piú tardi, nel 1481, la vendetta degli Sforza lo raggiunse in Toscana, dove fu catturato e giustiziato su ordine di Lorenzo de’ Medici († 1492), signore di Firenze. A Galeazzo Maria successe il figlio, Gian Galeazzo (1476-1494), sotto la reggenza della madre

Battaglia di Pavia, dipinto di Joachim Patinier che raffigura lo scontro fra le truppe di Carlo V e quelle di Francesco I di Francia. 1530 circa. Vienna, Kunsthistorisches Museum. La vittoria riportata dagli imperiali rivoluzionò gli equilibri politici dell’Italia.

Nel 1480, riuscí nell’intento Ludovico († 1508), il quale, occupate Genova e Tortona, prese Milano e mandò a morte il Simonetta, mentre Bona di Savoia fu esiliata ad Abbiategrasso. Il «Moro» assunse la reggenza del ducato per conto del nipote che fu relegato nel castello visconteo di Pavia. Il lungo governo di Ludovico (1480-1500), prima come reggente, poi, dopo la morte del nipote, come duca, rappresentò, per gli Sforza e Milano, uno dei momenti di massima gloria e sviluppo, sotto tutti i punti di vista. Piú che un uomo d’armi, Ludovico, come i suoi predecessori, fu un politico, capace di costruire ottime relazioni diplomatiche e assurgendo al ruolo, dopo la morte di Lorenzo de’ Medici nel 1492, di ago della bilancia della politica italiana. Per quanto possibile, tentò di evitare i conflitti e si schierò sempre dalla parte vincente, come avvenne durante la guerra di Ferrara (14821484) e la ribellione dei baroni contro Ferrante, re di Napoli (1485-1486). Nel primo caso prese le parti degli Estensi di Ferrara contro il papa e Venezia; nel secondo, del re di Napoli, al quale inviò aiuti militari e finanziari. Il rapporto con il papato fu rafforzato, nel 1484, dalla nomina del fratello di Ludovico, Ascanio Sforza († 1505), a cardinale. Nel 1492, in conclave, Ascanio contribuí all’elezione del papa valenzano Alessandro VI (1492-1503) – al secolo Rodrigo Borgia –, dal quale ottenne, in cambio, la nomina a vicecancelliere della Santa Sede. Nel 1493 i rapporti con la Santa Sede furono ulteriormente rinsaldati dalle nozze tra la figlia naturale del papa, Lucrezia († 1519), e un cugino del cardinale Ascanio, Giovanni Sforza († 1510), signore di Pesaro, nozze poi annullate nel 1497. Con gli altri Stati italiani i rapporti furono rafforzati da ulteriori matrimoni dinasti(segue a p. 43) LE SIGNORIE

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LA MILANO SFORZESCA: UNA CAPITALE CULTURALE

È singolare constatare come gli Sforza, una famiglia cresciuta nel culto delle armi e della violenza come strumenti di affermazione politica – e dal passato equivoco –, siano riusciti a fare di Milano un centro di sviluppo artistico e, piú in generale, culturale, degno di stare alla pari con la Firenze medicea, capitale dell’Umanesimo italiano. In realtà, molte delle iniziative culturali promosse dagli Sforza – soprattutto in campo edilizio – erano già state avviate sotto i predecessori Visconti, ed erano collegate alla loro committenza. Si pensi ai cantieri del Duomo di Milano e della Certosa, quest’ultima ubicata tra Milano, capitale del ducato, e Pavia, la seconda città piú importante della Lombardia. Proprio a Pavia, su iniziativa di Galeazzo II, era sorta nel 1361 l’Università e, negli stessi anni, fu iniziata

La Pala Sforzesca, tempera e olio su tavola attribuito al Maestro omonimo. 1494-95. Milano, Pinacoteca di Brera. Il dipinto celebra l’affermazione politica di Ludovico Maria Sforza, detto il Moro, figlio di Francesco Sforza. Il giovane nobile, inginocchiato sulla sinistra, è affiancato da diverse figure sacre: la Vergine in trono con il Bambino e i Dottori della Chiesa sant’Ambrogio, san Gregorio Magno, sant’Agostino e san Girolamo. 40

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l’edificazione del castello visconteo, destinato alla funzione di residenza signorile, collocato al centro di un enorme parco naturale e riserva di caccia. Nel 1396, al limite settentrionale del parco, Gian Galeazzo Visconti decise la costruzione di un’abbazia certosina – destinata alla funzione di mausoleo ducale – in adempimento di un voto propiziatorio della moglie Caterina. Le fabbriche del Duomo e della Certosa ebbero durata secolare: la seconda fu completata nel 1495, mentre la costruzione del primo, iniziata nel 1386, fu terminata solo alla fine del XIX secolo, con il completamento della facciata. Entrambe le strutture furono ispirate al gusto artistico tardo-gotico imperante a Milano fino alla metà del XV secolo. A Milano, sotto Gian Galeazzo, fu intrapresa anche la costruzione del castello di Porta Giovia, collocato presso l’omonima porta, lungo la fascia nord-occidentale delle mura, destinato a residenza signorile. Distrutto durante il periodo della Repubblica ambrosiana, il castello venne riedificato dagli Sforza e assunse il nome, che conserva tutt’oggi, di Castello Sforzesco. Sotto Francesco Sforza furono attivi a corte molti architetti, di varie esperienze e provenienza. Tra loro va ricordato il toscano Antonio Averlino († 1469) – detto il Filarete –, attivo a Milano tra il 1451 e il 1465, inviato alla corte sforzesca da Cosimo de’ Medici per rafforzare le relazioni tra Milano e Firenze. Il Filarete lavorò al Castello Sforzesco – poi completato da Bartolomeo Gadio († 1484) – per passare quindi al Duomo, e, infine, all’edificazione di Palazzo Medici, sede milanese della filiale della banca medicea. Tra le opere del Filarete sono da ricordare anche la Cappella Portinari in S. Eustorgio, realizzata su commissione di Pigello Portinari († 1468), direttore della filiale della banca Medici di Milano, l’Ospedale Maggiore di Milano – detto Ca’ Granda – sede dell’omonimo ente assistenziale, e persino un trattato di architettura in volgare, nel quale teorizzò una città ideale, con planimetria stellare, a cui diede il nome di Sforzinda, in onore di Francesco Sforza. Dopo la partenza del Filarete, furono attivi a corte gli architetti Giovanni († 1480) e Guiniforte Solari († 1481) – quest’ultimo progettò anche le chiese di S. Maria delle Grazie e S. Pietro in Gessate – e Giovanni Antonio Amadeo († 1522). Tutti lavorarono alla fabbrica del Duomo, all’Ospedale e alla Certosa di Pavia. La decorazione scultorea di quest’ultima fu poi completata, alla fine del Quattrocento, dagli scultori lombardi Cristoforo († 1482) e Antonio Mantegazza († 1495). Milano sforzesca brillò anche nel campo della pittura, grazie all’opera di Bonifacio Bembo († 1477), autore degli affreschi della cappella ducale del Castello Sforzesco, e, soprattutto, durante il governo di Ludovico il Moro, presso il quale soggiornarono artisti come Donato Bramante († 1514) e Leonardo da Vinci († 1519).


Veduta a volo d’uccello della Certosa di Pavia, complesso comprendente un santuario e un monastero, edificato per volere di Gian Galeazzo Visconti alla fine del XIV sec. a pochi chilometri di distanza dal capoluogo lombardo: progettato inizialmente da un gruppo di architetti lombardi coordinati da Bernardo da Venezia, fu completato nel tardo Quattrocento da Giovanni Solari. Il pesarese Bramante, designato architetto di corte, fu decoratore di feste e spettacoli a corte, ma lavorò anche al cantiere del duomo milanese, al chiostro di S. Ambrogio, alla chiesa di S. Maria presso S. Satiro e alla ricostruzione della tribuna della chiesa di S. Maria delle Grazie. Proprio nel refettorio di S. Maria, tra il 1495 e il 1498, Leonardo dipinse il famoso Cenacolo, una delle sue opere piú suggestive. Come Bramante, anche Leonardo lavorò al cantiere del Duomo e il suo soggiorno milanese si distinse per l’intensità degli studi naturalistici, anatomici e meccanici di cui, ancora oggi, residuano i numerosissimi schizzi e disegni.

Oltre al Cenacolo, nel corso del suo soggiorno milanese Leonardo dipinse alcune delle opere piú belle, come la (segue a p. 42)

Il cenotafio di Ludovico il Moro e della moglie Beatrice d’Este, collocato nel transetto sinistro della Certosa di Pavia, opera dello scultore milanese Cristoforo Solari, detto il Gobbo. 1497. Si tratta appunto di un sepolcro vuoto (cenotafio deriva dal greco kenos, vuoto, e taphos, tomba), in quanto il duca morí in prigionia in Francia, mentre la consorte si trova sepolta presso la chiesa di S. Maria delle Grazie a Milano.

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Vergine delle rocce, il Ritratto di musico, Sant’Anna con la Vergine, il Bambino e San Giovannino e la Dama con l’ermellino, un ritratto di nobildonna, quest’ultimo, probabilmente identificabile con Cecilia Gallerani († 1536 circa), amante di Ludovico Sforza, che da lei ebbe il figlio Cesare († 1512 circa). In qualità di ingegnere di corte, Leonardo progettò anche una statua equestre di Francesco Sforza, mai realizzata, e curò lavori di idraulica e bonifica, distinguendosi anche come realizzatore di congegni meccanici per feste, giochi e spettacoli di corte, realizzando decorazioni per gli ambienti interni del Castello Sforzesco. Leonardo progettò anche sofisticati prototipi di armamenti, tuttavia mai realizzati. Bramante e Leonardo abbandonarono Milano nel 1499, alla caduta del Moro. All’influsso di Bramante e Leonardo non si sottrasse uno dei piú celebri pittori di quest’epoca, il lombardo Vincenzo Foppa († 1516 circa), autore degli affreschi all’interno di Palazzo Medici, sede della filiale milanese della banca fiorentina – di cui sopravvive solo il Cicerone fanciullo che legge (o Fanciullo che legge Cicerone) – e degli affreschi con le Storie di San Pietro martire, nella Cappella Portinari in S. Eustorgio, a Milano. Ma una delle testimonianze piú significative della Milano sforzesca è, senz’altro, la Pala Sforzesca, il dipinto raffigurante la famiglia Sforza all’epoca di Ludovico il Moro, realizzato nel 1494 da un autore sconosciuto, generalmente noto come il Maestro della Pala Sforzesca. Il dipinto può essere considerato il canto del cigno della signoria milanese, come è dimostrato dai ritratti dei personaggi – il Moro, Beatrice d’Este e i figli – visti di profilo, nella loro fissità araldica, con tutta la loro palese ostentazione di ori, gioielli e tessuti, testimonianza di una passata grandezza prossima a 42

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scomparire. Fra i letterati attivi nella Milano degli Sforza, già sotto il duca Francesco, si ricordino il lombardo Guiniforte Barzizza († 1463), il greco Costantino Lascaris († 1501), il marchigiano Francesco Filelfo († 1481) e i lombardi Bernardino Corio († 1505 circa) e Gaspare Visconti († 1499 circa). Barzizza fu un commentatore di Petrarca e di opere ciceroniane, Lascaris – un greco fuggito da Bisanzio dopo la conquista turca – fu invece autore degli Erotémata, una grammatica greca, ed entrambi furono precettori del duca Galeazzo Maria Sforza. Filelfo è noto come autore dello Sphortias, un poema epico rimasto incompiuto, composto in onore del duca Francesco Sforza sul modello dell’Iliade omerica, mentre Corio fu storiografo di corte e autore dell’Historia patria, una storia di Milano dall’epoca piú antica al 1499, scritta in volgare e che, al di là degli intenti celebrativi, è opera indispensabile – soprattutto per l’uso che vi vien fatto di documenti di archivio – per conoscere la storia della città. Gaspare Visconti, appartenente a un ramo cadetto della prestigiosa famiglia, fu il poeta ufficiale del Moro, autore di una raccolta di liriche celebrative di personaggi di corte – Rithimi – e di un poema amoroso, Di Paulo e Daria.

ci. Nel 1489 Ludovico combinò le nozze del nipote Gian Galeazzo con Isabella d’Aragona, duchessa di Bari e figlia di Alfonso di Calabria, erede del regno di Napoli. Nel 1491 Ludovico stesso sposò Beatrice d’Este († 1497), figlia di Ercole (1471-1505), duca di Ferrara. Infine, nel 1494, il Moro diede in sposa la nipote, Bianca Maria Sforza († 1510), figlia di Galeazzo Maria, all’imperatore germanico Massimiliano d’Asburgo (1493-1519), nella speranza che gli concedesse il titolo ducale. In quegli stessi anni, Milano divenne una delle capitali dell’Umanesimo italiano (vedi box alle pp. 40-43). Nonostante tanto fasto a corte e splendore culturale, la precarietà della sua posizione politica – e la volontà di consolidarla – condussero Ludovico Sforza alla rovina. Intenzionato a sbarazzarsi del nipote per assumere in prima persona il governo del ducato e timoroso del deterioramento dei rapporti con il regno di Napoli, il cui re, Ferrante, protestava per la condizione di semiprigionia in cui era tenuta la nipote Isabella d’Aragona, moglie di Gian Galeazzo, Ludovico decise di tentare il tutto per tutto. Agli Nella pagina accanto Milano, Castello Sforzesco. Particolare della torre del Filarete, la piú alta del complesso, la cui nicchia accoglie la statua del patrono cittadino, sant’Ambrogio, opera di Luigi Secchi, affiancata dagli stemmi di esponenti degli Sforza: Francesco, Galeazzo Maria, Gian Galeazzo, Ludovico il Moro, Massimiliano e Francesco II. La torre originaria crollò nel Cinquecento ed è stata ricostruita all’inizio del XX sec. A sinistra veduta aerea del Castello Sforzesco, eretto nel Quattrocento per volere di Francesco Sforza su una preesistente fortificazione, e profondamente ristrutturato nei secoli successivi.

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inizi del 1494, profittando della morte di Ferrante, invitò formalmente il re di Francia, Carlo VIII (1483-1498), a scendere in Italia e a rivendicare il trono di Napoli, in nome dei suoi ascendenti angioini. Carlo VIII, con un esercito di circa 30 000 uomini, armati di pezzi di artiglieria, giunse ad Asti in settembre e, a ottobre, entrò a Milano. Nel corso della sua permanenza in città, Gian Galeazzo fu, probabilmente, assassinato e Ludovico divenne formalmente duca, carica che gli fu riconosciuta anche dall’imperatore Massimiliano. Partito da Milano, il re di Francia non trovò ostacoli lungo il cammino per Napoli e raggiunse Roma nel dicembre del 1494, dopo aver causato a Firenze la caduta dei Medici e la proclamazione della repubblica. Ottenuta la

si combatté una sanguinosa battaglia, nel corso della quale i Francesi subirono altissime perdite, che li spinsero a ripassare le Alpi. La scomparsa della minaccia di Carlo non modificò la situazione generale in senso favorevole allo Sforza, anzi. La spedizione francese aveva scosso gli equilibri politici italiani, determinando un mutamento delle alleanze. Il papa, Alessandro VI, sentí il bisogno di sganciarsi dall’alleanza sforzesca e, nel 1497, fece annullare il matrimonio tra la figlia, Lucrezia, e Giovanni Sforza, signore di Pesaro, con la motivazione – probabilmente infondata – dell’impotenza sessuale del marito. Quello stesso anno, a Roma, fu assassinato, in circostanze misteriose, il figlio del papa, Giovanni Borgia, duca di Gandia e gonfaloniere pontificio, e l’inchiesta giudiziaria che ne seguí coinvolse, con grave scandalo, anche il cardinale Ascanio Sforza, sospettato di essere il mandante dell’assassinio. La Santa Sede, progressivamente, si avvicinò a Napoli, rafforzando l’alleanza con un nuovo matrimonio tra Lucrezia e Alfonso, duca di Bisceglie, nipote del nuovo re, Federico I (1496-1501), successo a Ferrandino, ma anche Alfonso di Bisceglie finí assassinato a Roma, nel 1500.

La caduta del ducato

benedizione del papa, Alessandro VI, per la spedizione, il 23 febbraio del 1495 Carlo fece il suo ingresso a Napoli, mentre il nuovo re Alfonso II abdicava e gli subentrava il figlio, il giovane Ferdinando II (1495-1496), detto Ferrandino. La situazione politica generale era sull’orlo del caos. Benché colpito dal discredito generale per l’assassinio del nipote, Ludovico si staccò dall’alleanza francese e aderí alla nuova Lega santa che, con la benedizione del papa, si costituí tra gli Stati italiani contro i Francesi, coinvolgendo anche l’impero e la Spagna. Nella primavera del 1495, Carlo VIII abbandonò Napoli e riprese la marcia verso nord, scontrandosi il 6 luglio con le milizie della Lega in Emilia, a Fornovo sul Taro, dove 44

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Intanto, morto Carlo VIII nel 1498, il successore, Luigi XII d’Orléans (1498-1515), avanzò rivendicazioni non solo sul trono di Napoli, in virtú dell’ascendenza angioina, ma anche sul ducato di Milano, forte della sua ascendenza viscontea. La nonna di Luigi era infatti Valentina Visconti che – come si è detto – aveva sposato, circa un secolo prima, Luigi d’Orléans, nonno del re di Francia. Profittando dell’isolamento di Ludovico, il re francese stipulò un accordo con Venezia, tradizionale nemica di Milano, con cui prometteva alla repubblica, in cambio della neutralità, Cremona e la Ghiara d’Adda. Ottenuto il tacito consenso del papa, nel 1499 gli eserciti francesi, comandati da Gian Giacomo Trivulzio († 1518), nobile milanese ostile allo Sforza, oltrepassarono le Alpi e marciarono su Milano, di cui si impossessarono dopo la fuga in Germania del Moro. Il ducato di Milano cadde nelle mani del re di Francia che l’anno successivo dovette intervenire di nuovo contro il Moro, il quale, tornato dall’esilio, tentò di reimpossessarsi di Milano con l’ausilio di mercenari svizzeri. Nuovamente sconfitto, Ludovico fu deportato in Francia e imprigionato nel castello di Loches, in Turenna, dove morí nel 1508. Con lui,

A sinistra Cicerone fanciullo che legge (o Fanciullo che legge Cicerone), affresco del pittore lombardo Vincenzo Foppa, un tempo conservato presso la sede milanese del Banco mediceo. 1464. Londra, Wallace Collection. Il dipinto rappresenta in chiave allegorica la riscoperta dell’età classica che animò i protagonisti della cultura rinascimentale.


nell’esilio francese, c’era anche il nipote Francesco (II) – detto il Duchetto – figlio di Gian Galeazzo Sforza e Isabella d’Aragona. Quando Luigi XII conquistò il ducato di Milano, Isabella pensò alla possibilità che, fuggito il Moro, il figlio potesse essere fatto duca dal re di Francia, ma non fu cosí. Luigi preferí portare con sé il piccolo Francesco che morí in Francia, nel 1512, per una caduta da cavallo. Isabella d’Aragona tornò alla corte di Napoli dove morí nel 1524, non senza aver prima assistito alle nozze tra la figlia, Bona Sforza († 1557), e il re di Polonia, Sigismondo I Jagellone (1506-1548). Un figlio illegittimo del Moro, Giampaolo († 1535), riuscí a sfuggire alla cattura, dando origine al ramo sforzesco dei Caravaggio, estintosi nel 1697. Il cardinale Ascanio Sforza – che era stato imprigionato dal re di Francia al momento della conquista di Milano – riottenne la libertà e, dopo la morte di Alessandro VI, brigò senza successo per il papato. Ritornò tuttavia a godere del favore dei successori di Alessandro fino alla morte, nel 1505.

La parabola politica degli Sforza, però, non si era conclusa. Nel 1511, il nuovo papa, Giulio II (1503-1513), promosse tra gli Stati della Penisola una Lega santa – alla quale aderirono anche Inghilterra, Svizzera, impero e Spagna – per cacciare i Francesi da Milano. Nel 1513 i Francesi furono battuti dagli Svizzeri a Novara e dovettero abbandonare la Lombardia, che, sotto il protettorato svizzero, tornò alla famiglia Sforza, che riottenne il ducato nella persona di Massimiliano Ercole, figlio del Moro e di Beatrice d’Este. Nel 1515, però, dopo la battaglia di Marignano, i Francesi riconquistarono Milano e Massimiliano andò in esilio in Francia, dove morí nel 1530. Suo fratello, Francesco II, ritornò in possesso di Milano dopo le disfatte inflitte ai Francesi dagli Spagnoli dell’imperatore Carlo V d’Asburgo (1519-1556), prima nella battaglia della Bicocca, nel 1522, e poi a Pavia, nel 1525. Nel 1535, alla morte senza eredi di Francesco II Sforza, il ducato di Milano fu annesso alla Spagna e divenne un governatorato asburgico.

Il Cenacolo di Leonardo da Vinci, dipinto parietale che campeggia su un muro del refettorio del convento adiacente al santuario di S. Maria delle Grazie a Milano. 1495-1498. L’opera fu voluta da Ludovico il Moro per ristrutturare e decorare la chiesa milanese, uno dei luoghi simbolo degli Sforza.

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Mantova, Palazzo Ducale, Castello di San Giorgio. Particolare del ciclo pittorico dipinto da Andrea Mantegna per la Camera degli Sposi: Ludovico (sulla sinistra), seduto in trono, ascolta un membro della sua corte, da alcuni identificato nel suo segretario Marsilio Andreasi, da altri nel diplomatico Raimondo Lupi di Soragna o nel fratello Alessandro. L’artista realizzò gli affreschi verosimilmente tra il 1465 e il 1474.

I GONZAGA

Una famiglia tra arte e guerra Questi magnifici dipinti, realizzati da Andrea Mantegna, offrono una vivida immagine del lusso e della raffinatezza raggiunti dai Gonzaga, signori di Mantova. Un potere, il loro, al quale contribuĂ­ in maniera decisiva la spiccata propensione per il mestiere delle armi



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I Gonzaga

A

gli inizi del XIV secolo, mentre i Visconti iniziavano a espandersi in Piemonte e in Lombardia, a Mantova s’insediavano i Corradi, piú noti come Gonzaga, dal nome del luogo dove avevano il loro castello. Originari del contado mantovano, i Gonzaga si inurbarono alla metà del XIII secolo e assunsero le prime responsabilità pubbliche sotto i Bonacolsi, loro predecessori. Nel 1328 il primo esponente noto della stirpe – Luigi I (o Ludovico, † 1360) – prese Mantova con la forza, uccise in battaglia Passerino Bonacolsi, signore della città, e ne massacrò la famiglia nell’assedio di Castel d’Ario. I Bonacolsi erano diventati signori di Mantova nel 1272, quando Pinamonte († 1293) era stato acclamato capitano del popolo a vita. Nel 1291, Pinamonte venne esautorato dal figlio Bardellone († 1300), il quale fu a sua volta spodestato nel 1299 dai nipoti Guido, detto Bottesella, e Rinaldo, detto Passerino. Nel 1309, morto Bottesella, Passerino rimase solo al comando e riuscí a consolidare la signoria, dopo aver ricevuto il titolo di vicario imperiale dall’imperatore Enrico VII di Lussemburgo. Ma la signoria dei Bonacolsi aveva i giorni contati, poiché nel 1328, con l’aiuto degli Scaligeri, signori di Verona, Luigi Gonzaga conquistò Mantova, si fece eleggere capitano del popolo e, poco dopo, signore della città. Il nuovo signore riuscí a contenere l’espansione militare viscontea – e a salvare Mantova dalla conquista –, sottomettendosi ai signori di Milano, per conto dei quaIn alto Ritratto di Luigi I Gonzaga, fondatore della celebre famiglia principesca lombarda, olio su tavola attribuito alla Bottega di Fermo Ghisoni. 1550-1580. Mantova, Palazzo Ducale. A sinistra stemma di Francesco I Gonzaga.

I signori di Mantova ▲

LUIGI (1268-1360)

Podestà di Modena nel 1313, di Mantova nel 1318, di Parma nel 1319, signore di Mantova dal 1328

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▲ GUIDO

(† 1369)

Podestà di Reggio nel 1328, signore di Mantova dal 1360


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In alto ancora un particolare della Camera degli Sposi affrescata da Andrea Mantegna che raffigura Ludovico III Gonzaga (sulla sinistra) e il figlio Francesco (al centro), tra i due si nota inoltre un personaggio identificato nel marchese Ugolotto, nipote di Ludovico. 1465-1474. Mantova, Palazzo Ducale, Castello di San Giorgio.

FRANCESCO I (1366-1407) Signore di Mantova dal 1382

GIANFRANCO I (1395-1444)

Signore dal 1407, poi marchese di Mantova dal 1433

A sinistra medaglia celebrativa in bronzo raffigurante Gianfrancesco I Gonzaga, primo marchese di Mantova, opera dell’artista toscano Pisanello. 1439-1440 circa. Washington, National Gallery of Art.

LUDOVICO III (1414-1478) Marchese di Mantova dal 1444

FEDERICO I FRANCESCO II FEDERICO II (1442-1484) (1466-1519) (1500-1540) Marchese di Mantova dal 1478

Marchese di Mantova dal 1484, condottiero

Marchese, poi, dal 1530, primo duca di Mantova

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li, nel 1338, si impegnò a governare, in qualità di vicario, la città e il suo territorio. La sottomissione ai Visconti fu dettata anche dalla necessità di evitare una guerra su due fronti, dato che la signoria dei Gonzaga, per posizione geografica, svolgeva il ruolo del classico vaso di coccio tra l’espansionismo milanese, a ovest, e quello degli Scaligeri veronesi, a est.

Prestigio e visibilità internazionale

Nel 1433 i signori di Mantova compirono il salto di qualità perché Gianfrancesco Gonzaga (1407-1444) ottenne dall’imperatore tedesco, Sigismondo di Lussemburgo, la concessione del titolo di marchese. Gianfrancesco consolidò la signoria sul piano diplomatico, legandosi agli Estensi di Ferrara con il matrimonio tra la figlia, Margherita († 1439), e Leonello, figlio di Niccolò d’Este. Il marchese inaugurò anche la consuetudine di servire come condottieri gli altri Stati della Penisola. Le strutture del novello marchesato furono rafforzate, sul piano istituzionale, da Ludovico III (1444-1478) e Federico I (1478-1484) – figlio e nipote del defunto Gianfrancesco –, che diedero a Mantova prestigio e visibilità internazionale anche in campo culturale. Nel 1459-1460, infatti, la città ospitò il concilio di Mantova, convocato e presieduto da papa Pio II (1458-1464), al quale parteciparono non soltanto ecclesiastici e teologi, ma anche delegazioni provenienti da molti 50

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A destra l’edificio piú antico del complesso del Palazzo Ducale mantovano, il Palazzo del Capitano, con le caratteristiche bifore gotiche e la merlatura nella parte superiore della facciata. XIII sec.


A sinistra gli affreschi di Andrea Mantegna nella Camera degli Sposi, collocata nel torrione nord-est del Castello di San Giorgio, nel complesso del Palazzo Ducale di Mantova. A destra Madonna della Vittoria, pala realizzata da Andrea Mantegna per celebrare l’affermazione dell’esercito di Francesco II Gonzaga contro i Francesi nella celebre battaglia di Fornovo del 1495. Parigi, MusÊe du Louvre. Nel dipinto si nota il nobile lombardo (inginocchiato) che rende omaggio alla Vergine.

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Il trionfo della virtú, tempera su tela di Andrea Mantegna, una delle decorazioni pittoriche che in epoca rinascimentale ornavano lo Studiolo di Isabella d’Este, nel complesso del Palazzo Ducale mantovano. 1502. Parigi, Musée du Louvre. L’opera raffigura la dea Minerva (sulla sinistra), simbolica rappresentazione delle doti dell’intelletto umano, che caccia i vizi dal giardino delle virtú.

Stati italiani e stranieri. Attraverso il concilio, il papa mirava a reperire risorse finanziarie e soldati per la crociata contro i Turchi Ottomani che, nel 1453, avevano preso Costantinopoli. Tuttavia, al di là di vaghe promesse non fu possibile andare e cosí l’unità d’intenti tra gli Stati partecipanti al concilio, in vista della crociata, non fu mai raggiunta. Postosi personalmente alla guida della spedizione, Pio II morí ad Ancona, nel 1464, durante le operazioni d’imbarco. La posizione dei Gonzaga, nel contesto politico italiano, si rafforzò alla fine del XV secolo, con l’avvento del marchese Francesco II (14841519), marito di Isabella d’Este († 1539), il quale fu anche un valente condottiero. Francesco, infatti, comandò le truppe della Lega santa costituita tra Stati italiani, impero e Spagna nel 1495, all’indomani della discesa in Italia del re di Francia Carlo VIII, e fu l’artefice della vittoria sui Francesi a Fornovo. Nel 1508 comandò gli eserciti della Lega di Cambrai, alleanza militare promossa da papa Giulio II tra gli Stati della Penisola, per contrastare l’egemonia veneziana (vedi box alle pp. 54-57).

La fine della signoria

Ma il marchesato di Mantova era destinato a successi maggiori. Nel 1530, infatti, l’imperatore Carlo V d’Asburgo, concesse a Federico II Gonzaga (1519-1540) il titolo di duca e, nel 1533, estinta la dinastia dei marchesi del Monferrato, favorí l’annessione del marchesato a Mantova. Il fratello di Federico II, Ferrante († 1557), fu uomo di fiducia dell’imperatore e, per suo conto, governatore di Milano. Nel 1708, alla morte senza eredi del duca Ferdinando Carlo III Gonzaga (1665-1708), l’estinzione del ramo principale della famiglia comportò anche la fine della signoria. I domini della stirpe furono dunque smembrati: Mantova fu incorporata nella Lombardia asburgica, mentre il Monferrato venne acquisito dal ducato dei Savoia. Come molte capitali signorili, durante il XV secolo Mantova fu uno dei centri della cultura umanistica e visse un periodo di grande sviluppo civile e artistico. Molti intellettuali, scrittori e artisti lavorarono nella città, su commissione dei Gonzaga. Fra di loro è da ricordare il pittore e incisore toscano Antonio Pisano († 1455) – detto Pisanello – autore di alcuni affreschi del Palazzo Ducale – la dimora signorile costruita nel XIV secolo, ma completata solo alla fine del XVII – e di alcune medaglie raffiguranti personaggi di corte. In quel periodo, furono attivi a Mantova anche Leon Battista Alberti († 1472), (segue a p. 57) LE SIGNORIE

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UN PAESE DI CONDOTTIERI Monumento equestre a Giovanni Acuto, affresco di Paolo Uccello, dedicato al condottiero inglese John Hawkwood che si distinse come capitano di ventura al servizio della Repubblica di Firenze. 1436. Firenze, S. Maria del Fiore.

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Molti signori riuscirono a conquistarsi spazi di manovra ed enormi ricchezze, militando come condottieri al servizio dei potentati locali, o a conseguire la signoria grazie al mestiere delle armi. La comparsa in Italia dei primi consistenti eserciti mercenari – le compagnie di ventura – al comando di esperti condottieri, si colloca nella seconda metà del XIV secolo. Queste compagnie avevano una struttura complessa: accanto al condottiero, seguiva uno stato maggiore organizzato in uffici e servizi diversi – finanze, approvvigionamento – e poi veniva la vera e propria truppa, articolata in ufficiali e soldati comuni. I condottieri erano cosí denominati perché vendevano i loro servigi ai potentati locali in cambio di una condotta, ossia di un contratto, siglato tra il condottiero stesso e le magistrature cittadine o il signore, in cui erano disciplinate le condizioni di ingaggio dei militari, ossia tempi e luoghi del servizio e modalità di pagamento. Le condotte erano a termine e, in genere, rinnovabili. Quando i soldati restavano senza far nulla, nell’intervallo tra una condotta e l’altra, diventavano estremamente pericolosi e si dedicavano alla sistematica spoliazione dei territori dov’erano stanziati. La stipula delle condotte, però, aveva il vantaggio di evitare il ricorso alla leva obbligatoria dei cittadini, in genere soldati inesperti, che era piú conveniente, per le città e le signorie, tenere impegnati nelle consuete attività produttive, indispensabili per l’approvvigionamento e il pagamento delle imposte. Il popolo era ben disposto a pagare soldati stranieri, pur di evitare gli obblighi di leva. La diffusione delle condotte favorí la professionalizzazione degli eserciti, imposta anche dalla diffusione delle prime armi da fuoco e delle prime artiglierie che utilizzavano polvere da sparo. La guerra necessitava, sempre di piú, di esperienza e conoscenze tecniche. Gli Stati dell’epoca, inoltre, non disponevano neanche di un apparato burocratico cosí sofisticato per fare fronte agli adempimenti logistici che un esercito di leva comportava e quindi,

A sinistra ritratto del condottiero umbro Andrea Fortebracci, detto Braccio da Montone, olio su tela attribuito al pittore lombardo Antonio Maria Crespi. 1613-1621. Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana. In basso ritratto di un altro grande condottiero umbro, Niccolò Piccinino, attribuito anch’esso ad Antonio Maria Crespi. Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana. paradossalmente, conveniva arruolare mercenari. Il ricorso alla condotta fu enormemente favorito proprio dall’avvento dei regimi signorili che, in tal modo, professionalizzando l’esercito, favorirono la dissociazione tra il ruolo di cittadino e quello di soldato come, sul piano politico, avevano già favorito la trasformazione del cittadino in suddito. I condottieri appartenevano alla piccola nobiltà o a rami cadetti esclusi dalla successione patrimoniale nei grandi assi ereditari e, almeno all’inizio, come la truppa, furono tutti forestieri, cioè Francesi, Svizzeri e Tedeschi già attivi in Francia, teatro della Guerra dei cent’anni contro l’Inghilterra. Nelle pause tra un armistizio e l’altro, molti mercenari si trasferirono in Italia dove si distinsero per ferocia le prime compagnie – la Grande compagnia, la Compagnia bianca – e brillarono per valore i primi condottieri. Tra i condottieri forestieri si ricordino Giovanni Acuto († 1394) – l’inglese John Hawkwood – i tedeschi Guarnieri d’Urslingen († 1354) e Corrado di Landau († 1363), quest’ultimo noto anche come conte Lando e, infine, il provenzale frà Moriale d’Albarno († 1354), già cavaliere ospitaliere. All’inizio del Quattrocento fecero la loro comparsa i condottieri e le prime compagnie autoctone. Questi milites avevano fatto il loro apprendistato agli ordini di capitani di ventura stranieri ed erano anch’essi di modesta origine sociale, appartenenti alla piccola nobiltà come i capitani forestieri. I condottieri italiani furono, in gran parte, originari delle terre centro-settentrionali, perché questa parte del Paese, (segue a p. 56)

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I Gonzaga

UN PAESE DI CONDOTTIERI politicamente frammentata tra città e signorie diverse, si prestava meglio del Mezzogiorno, monarchicamente centralizzato, a essere palcoscenico delle loro gesta. Ciò non impedí, tuttavia, che alcuni condottieri facessero nel Meridione la loro fortuna – si pensi agli Sforza – o, addirittura, fossero originari proprio dell’Italia del Sud, come i molisani Giacomo Caldora († 1439) e Cola di Monforte († 1478). La presenza piú consistente di mercenari italiani e il farvi ricorso sempre piú spesso fece sí che la Penisola divenne patria di valentissimi uomini d’arme, come il romagnolo Alberico da Barbiano. Alberico, che in gioventú aveva militato agli ordini di Giovanni Acuto, fu il fondatore della Compagnia di San Giorgio e militò soprattutto agli ordini del papato. Nel 1409, alla sua morte, due dei suoi piú valenti collaboratori, Braccio da Montone e Muzio Attendolo Sforza fondarono proprie compagnie. Sia Braccio che Sforza furono accumunati da un analogo destino: morirono nel 1424, a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro, nel corso della battaglia dell’Aquila. Inoltre, furono entrambi fondatori di due vere e proprie scuole di guerra – braccesca e sforzesca – fondate su differenti principi tattici: la prima mirava all’attacco immediato, con aggiramento del nemico sui fianchi, grazie all’ausilio della cavalleria, la seconda, invece, puntava a sfibrare l’avversario, evitando battaglie campali, con tecniche di guerriglia. Mentre Sforza, grazie al figlio Francesco, pose le basi affinché la sua famiglia ottenesse la signoria di Milano, Braccio fu meno fortunato. Nel 1416, si proclamò signore di Perugia, ma, nel 1424, venne ucciso durante l’assedio dell’Aquila, morendo alcuni giorni dopo lo Sforza. Durante le guerre combattute nel Quattrocento tra Milano, Venezia e Firenze, molti condottieri ebbero modo di dimostrare le proprie capacità. Al servizio dei Visconti militarono Francesco Sforza e Niccolò Piccinino († 1444), al servizio di Venezia Francesco di Bussone – noto come il Carmagnola –, Erasmo da Narni († 1443) – il Gattamelata –, Gentile della Leonessa († 1453) – cognato di Erasmo – e Bartolomeo Colleoni († 1475). La cattiva gestione della guerra o le eccessive ambizioni personali dei condottieri potevano essere severamente punite dagli esigenti clienti. Per esempio, nel 1432, i Veneziani misero a morte il Carmagnola, mentre Bartolomeo Colleoni, divenuto eccessivamente potente, fu messo a riposo e costretto all’esilio forzoso presso il castello di Malpaga, nel Bergamasco. Chi aveva ben servito poteva

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A sinistra ritratto di un altro celebre condottiero che combatté nelle file dell’esercito veneto, Bartolomeo Colleoni, olio su tela attribuito al pittore lombardo Giovan Battista Moroni. 1566-1569. Milano, Castello Sforzesco. Civiche Raccolte di Arte Antica. Nella pagina accanto monumento equestre in bronzo dedicato al Gattamelata, al secolo Erasmo da Narni, grande capitano di ventura della Repubblica veneta, realizzato da Donatello e oggi ubicato nella Piazza del Santo a Padova. 1445-1453.

concludere la carriera onorevolmente, con una lauta pensione e la concessione di una dimora e della terra, come fu per il Gattamelata, per il quale Donatello innalzò il monumento equestre ancora oggi visibile a Padova. Spesso la professione delle armi era ereditaria, come è provato dall’esempio degli Sforza e di Francesco († 1449) e Jacopo Piccinino († 1465), figli di Niccolò. La ricchezza e il potere potevano generare rivalità tra condottieri al servizio di una medesima potenza come accadde a Colleoni e Gentile della Leonessa, in lizza per il comando delle truppe venete, tanto che, nel 1453, Gentile fu ucciso da Colleoni nella battaglia di Manerbio. Né mancarono condottieri italiani che ritennero piú conveniente fare fortuna all’estero, vendendo le proprie armi a offerenti migliori di quelli italiani, come il toscano Filippo Buondelmonti degli Scolari († 1426) – meglio noto come Pippo Spano –, che militò al servizio dell’imperatore Sigismondo di Lussemburgo, e morí e fu sepolto in Ungheria. Alcuni condottieri furono anche animati da velleità letterarie, come il napoletano Diomede Carafa († 1487), che serví fedelmente Alfonso e Ferrante d’Aragona, ai quali indirizzò alcuni trattati politici, scritti in volgare, tra cui sono da ricordare Sui doveri del principe e il Trattato dell’ottimo cortigiano.

progettista delle chiese di S. Sebastiano e S. Andrea, e l’umanista Vittorino da Feltre († 1446), precettore dei figli di Gianfrancesco Gonzaga che, nella villa detta La Zoiosa – messa a sua disposizione dai signori – istituí una vera e propria scuola per la formazione dei rampolli della nobiltà mantovana, in cui si insegnavano le discipline del trivio e del quadrivio e, in piú, gli ideali dell’Umanesimo. A partire dal 1460, fu ospite dei Gonzaga anche Andrea Mantegna († 1506), al quale si devono i magnifici affreschi della Camera degli Sposi, ubicati in Palazzo Ducale, e finalizzati alla celebrazione della gloria e delle virtú della famiglia. Realizzati su due pareti contigue, gli affreschi raffiguravano la famiglia Gonzaga al completo e l’incontro tra il marchese Ludovico III e sua moglie Barbara di Brandeburgo († 1481) con il figlio, il cardinale Francesco († 1483). Sempre in Palazzo Ducale, Mantegna realizzò anche gli affreschi nello studiolo di Isabella d’Este, tra cui il Parnaso e il Trionfo della Virtú. In quel periodo fu attivo a Mantova anche l’architetto e scultore toscano Luca Fancelli († 1495), che lavorò al Palazzo Ducale, alla costruzione dell’Ospedale Grande di S. Leonardo, e ad alcuni edifici residenziali signorili come il Palazzo Ducale di Revere, in provincia di Mantova. LE SIGNORIE

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GLI ESTENSI

Glorie transnazionali

Ferrara. Il Castello Estense, il monumento simbolo della città emiliana, edificato nel 1385 su iniziativa del marchese Niccolò II d’Este con l’intento di rafforzare l’apparato repressivo del governo cittadino dopo una turbolenta rivolta popolare.


Grazie agli Estensi, Ferrara visse una stagione di straordinario splendore, del quale si conservano ancora oggi numerose testimonianze. Quegli anni magnifici coronarono la parabola di una stirpe nata intorno al Mille e capace di trovare gloria e fortuna anche al di lĂ delle Alpi. Riprendendo il nobile lignaggio dei Welfen germanici


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Gli Estensi

li Estensi prendono nome da Este, cittadina veneta ubicata sui colli Euganei, epicentro del loro dominio. Nel 1240, quando la famiglia si trasferí definitivamente a Ferrara, Este passò in secondo piano e fu prima occupata da Padova, nel 1275, e poi da Venezia, nel 1405. Gli Estensi erano una delle ramificazioni genealogiche in cui si erano ripartiti gli Obertenghi, discendenti dal capostipite Oberto († 972 circa), figlio naturale del re d’Italia Ugo di Provenza (926-947). Il primo esponente della casata noto con certezza fu il marchese d’Este Alberto Azzo II († 1097), che, recatosi in Germania, sposò Cunegonda di Altdorf, sorella di Guelfo III († 1055), esponente di una nota famiglia signorile – i Welfen – titolare di possedimenti nella zona del lago di Costanza, in Carinzia e Carniola. Il figlio della coppia, Guelfo IV († 1101), ottenne dall’imperatore il ducato di Baviera, consolidando le fortune in terra tedesca, mentre un altro figlio di Alberto, Folco († 1128), ereditò i possedimenti veneti del padre e il titolo di marchese.

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Con il figlio di Folco, Obizzo I († 1193), gli Estensi si trasferirono a Ferrara, città che, formalmente, rientrava nei territori dello Stato pontificio, e si schierarono con la parte guelfa, allora sotto il controllo degli Adelardi e opposta ai ghibellini Torelli. Piú volte cacciati dalla città dai ghibellini, gli Este vi fecero ritorno vittoriosi nel 1240, con Azzo VII Novello († 1264), che mandò in esilio Salinguerra Torelli († 1244) e fu eletto podestà. Obizzo II (1264-1293), nipote e successore di Azzo, assunse i pieni poteri, fondando la signoria su Ferrara e, tra il 1286 e il 1289, si impossessò anche di Modena e Reggio. A Reggio gli Estensi esautorarono i signori locali, i guelfi da Fogliano, che, intorno alla metà del XIII secolo, s’erano insignoriti della città con Guido I († 1286 circa).

La cacciata e il rientro

Nel 1309 la signoria estense sprofondò nel caos quando, morto Azzo VIII (1293-1308), il papa, con l’aiuto di Venezia e di alcune città vicine, si impossessò di Ferrara, cacciandone gli Este, i

Particolare della fascia inferiore di Aprile, uno degli affreschi che decorano il Salone dei Mesi di Palazzo Schifanoia a Ferrara, opera del pittore emiliano Francesco del Cossa commissionata dal marchese Borso d’Este: nell’immagine il nobile assiste al Palio di San Giorgio e dona una moneta al buffone di corte. 1468-1470.


I signori di Ferrara Oberto († ante 995) Conte palatino Adalberto (doc. 972-1001) Capostipite dei Pallavicino

Oberto Obizzo (doc. 1014-1060) Capostipite dei Malaspina

Oberto II († 1014)

A sinistra particolare dell’Arazzo Estense, con lo stemma della casata. 1668 circa. Modena, Musei Civici.

Alberto Azzo I († ante 1050) Marchese Alberto Azzo II († 1097) Marchese. Conte di Milano nel 1045, conte della Lunigiana nel 1050 Guelfo IV († 1101) Duca di Baviera

Ugo del Maine († 1097)

Folco († 1128) Erede di tutti i domini italiani Obizzo I (1110?-1193) Marchese d’Este

Azzo Novello VII († 1264) Marchese d’Ancona e d’Este, podestà di Vicenza nel 1235, di Ferrara nel 1242, di Mantova nel 1253 Obizzo II († 1293) Signore di Ferrara dal 1264, di Modena e Reggio dal 1288 e 1289 Azzo VIII († 1308) Signore di Ferrara, Modena e Reggio dal 1293

Aldobrandino II († 1326) Signore di Rovigo

Francesco († 1312) Marchese d’Este

Obizzo III († 1352) Signore di Ferrara dal 1317, di Modena dal 1336 Aldobrandino III (1335-1361) Signore di Ferrara, Modena e Rovigo

Niccolò II (1338-1388) Signore di Modena dal 1351 e di Ferrara dal 1361

Alberto I (1347-1393) Signore di Ferrara di Modena dal 1388

Niccolò III († 1441) Marchese di Ferrara, Modena e Rovigo dal 1393, di Parma dal 1409 al 1420 Lionello (1407-1450) Signore di Ferrara dal 1441

Borso (1413-1471) Succede a Lionello nel 1450. Creato duca di Modena e Reggio nel 1452, di Ferrara nel 1471

Ercole I (1431-1505) Duca di Ferrara, Modena e Reggio dal 1471 LE SIGNORIE

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Gli Estensi A sinistra la facciata del Palazzo Ducale di Ferrara: fu residenza di corte della famiglia estense dalla sua edificazione, nel XIII sec., fino al Cinquecento, quando il cuore politico del governo cittadino venne invece trasferito nel vicino castello. In basso dritto di una moneta in bronzo raffigurante il marchese di Ferrara, Leonello d’Este realizzata dal Pisanello. 1441-1443. Washington, National Gallery of Art.

quali, tuttavia, rientrarono vittoriosi nel 1317, con Obizzo III (1317-1352) e, da allora, non si sarebbero mai piú allontanati. Obizzo, nel 1332, ottenne dal papa il riconoscimento del titolo di vicario sui propri domini e, poco dopo, occupò nuovamente Reggio, cacciandone definitivamente i da Fogliano, che vi erano provvisoriamente rientrati. Alcuni di essi sopravvissero come condottieri al servizio di città e signorie italiane, come Guidoriccio da Fogliano († 1352), che combatté al servizio di Siena, conquistando il castello di Montemaggi, impresa immortalata nel dipinto di Simone Martini, nel Palazzo Pubblico di Siena. I figli di Obizzo III lavorarono al consolidamento della signoria, battendo moneta propria, facendo costruire nella città di Ferrara il castello a pianta quadrilatera, circondato da un fossato, e ampliarono i territori di famiglia, occupando Lugo, Bagnacavallo e Cotignola. Agli inizi del Quattrocento, sotto Niccolò III (1393-1441), fu occupata anche parte della Gar62

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fagnana. Sotto il governo di Niccolò, Ferrara fu proiettata nella fase del suo massimo sviluppo civile e culturale. Il marchese divenne famoso per l’istituzione dell’Università e anche per l’elevato numero di figli naturali avuti al di fuori del matrimonio e con donne della piú diversa estrazione sociale. Questo creò non pochi problemi in vista della successione e Niccolò stabilí che a succedergli fossero prima i due figli naturali avuti con la ferrarese Stella de’Tolomei, Leonello (o Lionello) e Borso – che furono legittimati dal papa – e, poi, il figlio legittimo, Ercole, avuto dalle nozze con la terza moglie, Ricciarda di Saluzzo († 1474). Nel 1425 la corte di Ferrara fu al centro di un gravissimo scandalo: un altro figlio naturale di Niccolò e Stella de’Tolomei, Ugo, fu accusato di adulterio con la moglie del padre, Parisina Malatesta, figlia del signore di Cesena, Andrea Malatesta († 1416), ed entrambi furono condannati a morte. Leonello (1441-1450) e Borso (1450-1471) fecero di Ferrara una delle capitali dell’Umane-


Ritratto di Borso d’Este, tempera su tela del pittore emiliano Baldassarre d’Este: figlio illegittimo di Niccolò III d’Este, nel 1450 successe al fratello Leonello nel governo di Ferrara. 1469-1471. Milano, Pinacoteca del Castello Sforzesco.

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A sinistra Maggio, ancora uno degli affreschi di Francesco del Cossa che ornano le pareti del Salone dei Mesi di Palazzo Schifanoia a Ferrara. 1468-1470. Nella fascia superiore è raffigurato il Trionfo di Apollo, il protettore del mese, che appare in piedi su un carro condotto dalla dea Aurora; in quella inferiore sono ritratti tre decani, un uomo di nobile lignaggio, un suonatore di flauto e un arciere.

simo italiano, fondando la biblioteca e rafforzando la struttura dell’Università, in cui insegnò anche l’umanista Guarino Veronese († 1460) – che a Ferrara aprí anche una sua scuola – ricercatore e collezionista di manoscritti antichi e traduttore, dal greco in latino, di opere classiche come la Geografia di Strabone. Borso consolidò la posizione politica e giuridica della famiglia quando, nel 1452, ottenne dall’imperatore tedesco, Federico III il Pacifico (1439-1493), il titolo di duca di Modena e Reggio e, nel 1471, da papa Paolo II (1464-1471), quello di duca di Ferrara. Alla fine del XV secolo, Ferrara visse il periodo di massima fioritura politica e culturale con il duca Ercole I (1471-1505), fratellastro di Leonello e Borso, alla cui corte furono ospiti intellettuali del calibro di Matteo Maria

In alto miniatura tratta dalla Bibbia di Borso d’Este, raffigurante suonatori e danzatori che inscenano un girotondo e attribuita al pittore ferrarese Taddeo Crivelli. 1455-1461. Modena, Biblioteca Estense.

Boiardo († 1494), autore del poema epico Orlando innamorato e di opere celebrative del casato come i Carmina de laudibus Estensium e di una raccolta di liriche amorose – Amorum libri tres –, dedicata all’amata Antonia Caprara.

Un giovane di talento

Alla corte di Ercole mosse i primi passi il giovane Ludovico Ariosto († 1533), figlio di un funzionario estense, noto soprattutto come autore dell’Orlando Furioso, pubblicato nel 1516, e che, in quel periodo, compose i primi Carmina in latino e le Rime, in volgare, su incoraggiamento di Pietro Bembo († 1547), letterato e futuro cardinale. Bembo, che allora risiedeva a corte, durante il soggiorno ferrarese compose gli Asolani, un poema sull’amore platonico dedicato alla principessa Isabella d’Este. Da ultimo è da ricordare Pandolfo Collenuccio, († 1504), poeta – in latino e in volgare – e storico, autore del Compendio della storia del regno di Napoli, una storia di Napoli e del Mezzogiorno dall’inizio dell’era volgare ai suoi tempi. LE SIGNORIE

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Tra gli artisti attivi alla corte di Ferrara vi fu l’architetto Biagio Rossetti († 1516), progettista della dimora signorile cittadina – Palazzo Schifanoia – concepita come luogo di svago e di ritrovo, e dell’Addizione Erculea, una vasta opera di ampliamento del tessuto urbano della città lungo la fascia muraria settentrionale, che coniugava funzionalità e decoro dello spazio con i canoni del classicismo imperante in quel periodo nelle arti figurative e costruttive. A Rossetti sono attribuiti anche la ristrutturazione complessiva delle mura ferraresi e alcuni importanti palazzi come Palazzo dei Diamanti, Palazzo Turchi di Bagno e le chiese ferraresi di S. Benedetto e S. Cristoforo alla Certosa. In quello stesso periodo Ferrara ospitò un’importante scuola pittorica, che seppe coniugare, armonicamente, le forme classiche della pittura quattrocentesca italiana con il gusto espressionistico fiammingo. Tale indirizzo artistico fu rappresentato da maestri del calibro di Cosmè Tura († 1495) – che affrescò lo studiolo Belfiore, nell’omonima villa, per Leonello d’Este – Francesco del Cossa († 1477), probabilmente allievo di Tura e autore degli affreschi dei Mesi nel Palazzo Schifanoia e, infine, Ercole de’ Roberti († 1496) che, tra l’altro, lavorò con il Cossa agli affreschi di Palazzo Schifanoia. Tra i pittori presenti a Ferrara è da ricordare anche Taddeo Crivelli († 1479), attivo soprattutto come miniaturista. Crivelli, infatti, coordinò il lavoro di un gruppo di esperti pittori che illustrò lo splendido manoscritto in pergamena noto come Bibbia di Borso d’Este, dal nome del committente, oggi conservato presso la Biblioteca Estense di Modena.

Un sovrano pacifico

Ercole fu un sovrano essenzialmente pacifico, se si esclude la dura repressione di una congiura volta a detronizzarlo, scoperta nel 1476, e ordita dal nipote Niccolò d’Este, figlio di Leonello e Margherita Gonzaga, poi condannato a morte. Non voluta, ma forzata, fu la sua partecipazione alla cosiddetta guerra di Ferrara, combattuta tra il 1482 e il 1484 contro Venezia e lo Stato pontificio, che ambivano a spartirsi i domini estensi. Venezia ambiva al possesso del territorio di Rovigo e del Polesine, dove erano

Nella pagina accanto La ninfa Calliope, olio su tavola del pittore emiliano Cosmè Tura facente parte di un ciclo di opere che decorava lo Studiolo della scomparsa Delizia estense di Belfiore, progettato da Leonello e Borso d’Este come luogo di ritiro e meditazione. 1460. Londra, National Gallery.

Medaglia in piombo raffigurante il duca Ercole II d’Este, primogenito di Lucrezia Borgia, realizzata dallo scultore e medaglista Pompeo Leoni. 1554. Washington, National Gallery of Art.

ubicate molte saline; il papa, invece, a ritornare in possesso di Ferrara che considerava feudo di sua esclusiva pertinenza. Ercole salvò lo Stato solo grazie all’intervento in suo favore degli altri potentati italiani. Il 7 agosto del 1484 fu siglata tra i contendenti la pace di Bagnolo con cui – terminata la guerra – fu riconosciuta l’indipendenza di Ferrara, dietro cessione del territorio del Polesine e di Rovigo a Venezia. Nel 1492, al momento dell’espulsione di molti Ebrei dalla Spagna, seguita alla promulgazione dell’editto di Toledo dei sovrani d’Aragona e Castiglia Ferdinando II (1479-1516) e Isabella I (1474-1504), Ercole favorí lo stanziamento a Ferrara di nuclei di Sefarditi, che andarono a costituire una delle piú numerose comunità ebraiche della Penisola. Il duca si preoccupò anche di inserire Ferrara nel gioco della politica internazionale degli Stati italiani, combinando importanti matrimoni dinastici, grazie ai molti figli avuti dalle nozze con Eleonora d’Aragona († 1493), figlia del re di Napoli Ferrante (1458-1494). Nel 1491 Alfonso – futuro duca di Ferrara (1505-1534) – sposò Anna Maria Sforza, figlia del duca di Milano Galeazzo Maria, ma, nel 1497, la morte improvvisa e senza figli della duchessa, spinse Ercole a trovare una nuova moglie per il figlio. La prescelta fu Lucrezia Borgia, figlia di papa Alessandro VI, che sposò Alfonso nel 1501. Il matrimonio andò in porto grazie anche ai buoni uffici del fratello di Alfonso, il cardinale Ippolito d’Este († 1520). Le sorelle di Alfonso, Isabella († 1539) e Beatrice († 1497) d’Este sposarono, invece, Francesco II Gonzaga, duca di Mantova, e Ludovico il Moro, duca di Milano. La casa d’Este sopravvisse ben oltre il Medioevo e continuò a condizionare la vita politica della Penisola. Nel 1597, alla morte senza eredi del duca Alfonso II (1559-1597), pronipote di Ercole I, il papato incamerò Ferrara, considerata feudo di spettanza della Santa Sede, mentre Modena e Reggio furono attribuite a Cesare († 1628), cugino di Alfonso, che perpetuò la dinastia estense fino all’ultimo duca Francesco V (18461859), il quale, nel 1859, venne esautorato dai Piemontesi, che aggiunsero Modena e Reggio al regno sabaudo (vedi box alle pp. 68-71). LE SIGNORIE

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LA SIGNORIA SABAUDA: ALL’ORIGINE DELLA NAZIONE L’origine della signoria sabauda è collocabile oltralpe, nel 1033, quando il capostipite, Umberto Blancis Manibus, o Biancamano, ottenne dall’imperatore germanico Corrado II – come ricompensa per l’aiuto prestato nella conquista del regno di Borgogna – l’investitura della contea di Savoia, un vasto territorio compreso tra le Alpi occidentali, il Rodano e il lago di Ginevra. Assieme alla Savoia, Umberto ebbe altri territori: la Bresse, il Bugey, la Valromey e, al di qua delle Alpi, anche la contea di Aosta. Umberto apparteneva probabilmente a una famiglia dell’aristocrazia borgognona, forse di ascendenza germanica. Nel 1048, alla sua morte, il figlio Oddone († 1060) ne ereditò i possedimenti e, in piú, acquisí il marchesato di Torino e Piemonte, portato in dote dalla moglie Adelaide († 1091), appartenente alla stirpe franca degli Arduinici, che si erano insediati in Italia nel X secolo Cosí, fin dalle origini, i domini di famiglia furono divisi in due blocchi che, separati dalle Alpi, erano collocati in Francia e in Italia. Il controllo dei domini italiani risultò particolarmente difficile, perché erano contesi con altre due importanti famiglie signorili piemontesi, i marchesi del Monferrato e quelli di Saluzzo. Nel XIII secolo il consolidamento istituzionale dei domini sabaudi si attuò grazie all’energica azione del conte Tommaso I (1189-1233), il quale, con l’aiuto dell’impero germanico, occupò e conquistò l’intera Val di Susa e Chieri. Nel XIV secolo i conti Amedeo VI (1343-1383), detto il Verde, e Amedeo VII (1383-1391), il Rosso, ampliarono ulteriormente i domini della stirpe: il primo, tra il 1378 e il 1382, incorporò il Canavese, il Biellese e il Cuneese, il secondo, nel 1388, conquistò Ventimiglia e Nizza, ottenendo uno sbocco sul mare. Nel 1391 divenne conte Amedeo VIII il Pacifico che, nel 1416, ottenne dall’imperatore germanico Sigismondo di Lussemburgo l’agognato titolo di duca. Nel 1418 Amedeo VIII riunificò tutti i domini sabaudi, da tempo divisi tra un ramo principale – quello francese – e un ramo secondario – i Savoia-Acaia – che governava i territori italiani. Incorporando il Piemonte, Amedeo ne delegò il governo al figlio Ludovico al quale per primo, nella storia sabauda, fu conferito il titolo di principe di Piemonte, da quel momento riservato agli eredi nella successione ducale. Amedeo VIII ampliò ulteriormente i

A destra ritratto di Umberto I Biancamano, capostipite della dinastia Savoia, olio su tela di pittore piemontese. XVII sec. Venaria, Reggia di Venaria Reale. Nella pagina accanto le torri e le rovine delle mura del castello di Saillon, nel Canton Vallese in Svizzera, che fu residenza dei Savoia. XIII sec.

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possessi di famiglia occupando Vercelli, nel 1428, ed estese il suo protettorato su Ginevra, dove si riservò la nomina del vescovo e del conte. Nel 1420 promulgò anche i Decreta seu Statuta, la prima legislazione organica e generale dello Stato, che fu cosí dotato di una burocrazia centralizzata. Nel 1434, in seguito a una crisi di coscienza, Amedeo abdicò, lasciando il ducato al figlio Ludovico (1434-1465) e, fattosi monaco, si ritirò nell’eremo di Ripaglia sul lago di Ginevra. Nel 1439 ritornò alla ribalta e venne eletto papa col nome di Felice V, conservando la carica fino all’abdicazione, nel 1449, quando fece ritorno a Ripaglia, dove morí nel 1451. Felice V fu però un papa scismatico e, quindi, il suo nome non fu mai inserito nella lista dei papi ortodossi. La sua elezione, infatti, avvenne nel corso del concilio ecumenico di Basilea, convocato nel 1431 da papa Eugenio IV per procedere alla riforma della Chiesa e sanare la divisione con gli ortodossi bizantini. Nel 1439 una parte del clero e dei cardinali conciliari contestò l’arroganza con cui il pontefice voleva dirigere i lavori dell’assemblea e decise di separarsi, eleggendo l’antipapa Felice V che fissò la sua corte a Losanna e

causò un piccolo scisma, fino alla sua abdicazione. Il figlio di Amedeo VIII, il duca Ludovico, è ricordato anche per aver acquistato la Sindone – il telo di lino su cui sarebbe impressa l’immagine del Cristo morto – dai signori di Charny che, probabilmente, erano entrati in possesso del lenzuolo all’epoca della IV crociata e del sacco di Costantinopoli (1202-1204). Agli inizi del XVI secolo il duca Emanuele Filiberto (1553-1580), detto Testa di ferro, pose le basi del ducato moderno e può essere considerato, a tutti gli effetti, il secondo fondatore della dinastia sabauda. Figlio di Carlo III di Savoia (1504-1553), si legò alla Spagna di Carlo V d’Asburgo, assumendo il comando dell’esercito imperiale nelle Fiandre, contro la Francia che aveva occupato il ducato. Nel 1557 Emanuele Filiberto sconfisse i Francesi a San Quintino, in Piccardia, mettendo la parola fine alla guerra che, dall’inizio del XVI secolo, opponeva la Francia alla Spagna. Nel 1559 la pace di Cateau Cambrésis stabilí l’evacuazione, da parte della Francia, dei territori sabaudi che, cosí, riacquistarono la piena sovranità. Nel 1562 il duca trasferí la capitale da Chambéry, in Savoia, a Torino, spostando il baricentro politico della

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LA SIGNORIA SABAUDA: ALL’ORIGINE DELLA NAZIONE

Sulle due pagine l’albero genealogico con i principali esponenti della dinastia Savoia in età medievale, riportando in sintesi, con alcuni salti di generazione, la discendenza in linea diretta. In basso l’ingresso della Galleria Umberto I a Torino, con il portale che reca lo stemma sabaudo. Il nucleo originario della struttura, il Palazzo dei Cavalieri, che ospitò il primo nosocomio della città, risale al XV sec., ma fu poi ampiamente ristrutturato alla fine dell’Ottocento.

AMEDEO VII detto il Conte Rosso (1360-1391)

AMEDEO VIII (antipapa Felice V)

AMEDEO IX (1435-1472)

(1383-1451)

LUDOVICO

(1413-1465)

AMEDEO VI detto il Conte Verde (1334-1383)

UMBERTO III

TOMMASO I

(1136-1189)

(1178-1233)

AMEDEO III

(1094 circa-1148)

UMBERTO II († 1103)

PIETRO I

(1048 circa-1078)

ODDONE († 1060)

UMBERTO BIANCAMANO († 1048)

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CARLO III (o II)

EMANUELE FILIBERTO

(1486-1553)

(1528-1580)

FILIBERTO II (1480-1504)

FILIPPO II

(1443-1497)

MAFALDA († 1158)

AMEDEO II († 1080)

CARLO EMANUELE I (1562-1630)

dinastia in territorio italiano, mentre i suoi successori ottennero – in seguito all’estinzione delle rispettive dinastie – il possesso dei marchesati di Saluzzo, nel 1601, e del Monferrato, nel 1708. Nel 1601 i Savoia cedettero al re di Francia il possesso di Bresse, Bugey e Valromey e, infine, nel 1720 ottennero il possesso della Sardegna, con il riconoscimento del titolo di re. Nel 1858, con il trattato di Plombières, stipulato tra l’imperatore Napoleone III e il conte di Cavour, primo ministro del regno sabaudo, i re di Sardegna rinunciarono, a favore della Francia, a Nizza e alla Savoia, ultimi possessi d’oltralpe, e assunsero la guida politicomilitare del Risorgimento nazionale, processo di unificazione della Penisola. Il 17 marzo del 1861 il re di Sardegna, Vittorio Emanuele II (1849-1878), assunse ufficialmente il titolo di re d’Italia rifiutandosi, però, di modificare in «Primo» l’ordinale «Secondo» che era accanto al suo nome, al fine di sottolineare che il processo di unificazione nazionale andava inquadrato, senza alcun dubbio, nella continuità storica della dinastia sabauda.

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I MEDICI

Firenze al centro del mondo I Medici costruirono il proprio potere sulla ricchezza, prim’ancora che sulla nobiltà delle loro origini. E, secondo piú di uno storico, la loro signoria ebbe caratteristiche tali da farne un’«anomalia» rispetto alle altre fiorite in Italia. Classificazioni a parte, la parabola medicea è stata luminosa, a tratti quasi accecante, quando la città del giglio, grazie ai suoi banchieri, arrivò a dettare le sorti di tutte le piú importanti corti europee e vide operare sulle rive dell’Arno tutti i massimi ingegni del tempo Firenze. Palazzo Medici Riccardi, Cappella dei Magi. La parete Est, con il segmento terminale della processione guidato da Gaspare: alle sue spalle vi sono personaggi noti, tra cui vari membri della famiglia Medici. Il dipinto è opera dell’artista fiorentino Benozzo Gozzoli, che realizzò le pitture nel 1459. 72

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a storiografia ha definito quella dei Medici una «criptosignoria», una signoria nascosta, perché, dal punto di vista giuridico e istituzionale e salvo rare eccezioni, nessun esponente dei Medici rivestí mai un ufficio pubblico che ne giustificasse la posizione di preminenza al vertice dello Stato. In realtà, i Medici conseguirono il ruolo di arbitri della vita politica cittadina attraverso i vasti poteri di patronato e di clientela che seppero acquisire ed esercitare, mediante la pratica della mercatura e della finanza. Inoltre, a differenza di altre famiglie signorili, i Medici furono di estrazione chiaramente borghese. Originaria del Mugello, la famiglia si trasferí a Firenze intorno alla metà del XIII secolo, quando alcuni suoi membri si iscrissero alla potente Arte di Calimala, la corporazione a cui appartenevano tutti gli artigiani esercenti il commercio e la lavorazione dei pregiati panni forestieri, le stoffe di provenienza inglese o fiamminga. Alla fine del Trecento, quando gli interessi finanziari prevalsero su quelli commerciali e manifatturieri, molti membri della famiglia si iscrissero all’Arte del Cambio, che riuniva i banchieri. Nello stesso periodo i Medici si trasferirono dalla zona del Mercato Vecchio, nella parte nord-orientale di Firenze, in via Larga – l’attuale via Cavour –, dove costruirono il palazzo di famiglia, quando si insignorirono della città. Nel quartiere di via Larga – che rientrava nella parrocchia di S. Lorenzo, facente capo all’omonima chiesa, poi trasformata in mausoleo di famiglia – i Medici edificarono anche la sede della loro banca. Attorno a questi edifici sorsero, progressivamente, anche le dimore di altre famiglie fiorentine di estrazione borghese e amiche dei Medici, ai quali erano legate da rapporti di affari e politici sempre piú stretti, come i Pucci, i Tornaquinci, i Ginori e i Martelli.

La nascita della banca

Il primo esponente della stirpe noto con certezza è Salvestro de’ Medici († 1388), il quale, nel 1378, all’epoca del tumulto dei Ciompi, fu gonfaloniere di giustizia del comune fiorentino, la massima carica cittadina. Nel 1397 Giovanni di Bicci († 1429), esponente del ramo dei Cafaggiolo, fondò la banca di famiglia, destinata a 74

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Lo stemma dei Medici, impresso nella Sagrestia Vecchia della basilica di S. Lorenzo a Firenze.

enorme fortuna grazie all’appoggio finanziario fornito durante gli anni del Grande Scisma d’Occidente, all’antipapa Giovanni XXIII (14101417). Questi – e non è un caso – alla sua morte, nel 1419, fu poi sepolto nel battistero di Firenze, in un sontuoso sepolcro scolpito da Donatello (vedi box a p. 80). Benché papi legittimi e ortodossi, i successori di Giovanni concessero sempre maggiori privilegi ai Medici, di cui essi si servirono sia per operazioni di finanziamento, sia come collettori delle decime ecclesiastiche e depositari dei loro conti, consentendo alla famiglia di assurgere, ben presto, al ruolo di banchieri ufficiali della Santa Sede. La banca di Giovanni nacque in seguito alla sua decisione di mettersi in proprio, fondando un autonomo istituto di credito, distinto da quello che faceva capo a Vieri de’ Medici († 1395) e nel quale aveva fino ad allora svolto il ruolo di socio e amministratore. Nella banca Medici la famiglia deteneva la quota maggioritaria del capitale, mentre il resto delle partecipazioni era affidato anche a investitori e risparmiatori esterni. La banca prosperò nella prima metà del Quattrocento, aprendo molte filiali in Italia e in tutta Europa – la prima a Bruges, nel 1439 –, ma, alla fine del secolo, a causa della crisi economico-finanziaria generale e della subordinazione degli interessi bancari a quelli politici della famiglia, fu travolta dai continui fallimenti, fino a essere definitivamente liquidata nel 1492. Tuttavia, la banca Medici fu a lungo un esempio di efficienza organizzativa e, ben presto, assunse i caratteri di un’odierna holding. La società madre – che aveva sede a Firenze – deteneva il controllo della maggioranza del capitale delle altre società – le filiali sparse per l’Italia e l’Europa –, ma, sul piano giuridico e contabile, queste ultime erano autonome, cosí che il fallimento di una non avrebbe potuto ripercuotersi sulle altre. Agli inizi del XV secolo, Giovanni di Bicci era il piú ricco cittadino di Firenze, secondo solo a Palla Onofrio Strozzi († 1462), banchiere come lui. Nel 1434, al momento dell’ascesa al potere dei Medici, la repubblica fiorentina aveva ormai acquisito un ruolo politico e militare di prim’ordine in tutta la Toscana. Infatti, dopo l’annessione di Empoli, nel 1125, Firenze inglobò nel suo contado altri importanti città, come Corto-


Uomini (e donne) che fecero la storia Giambuono

Chiarissimo (viveva nel 1201)

Bonagiunta (ricordato nel 1221)

Filippo Averardo (viveva nel 1280) Averardo Gonfaloniere nel 1314 Salvestro detto Chiarissimo sposa Lisa Donati Averardo detto Bicci (viveva alla metà del sec. XIV) Giovanni di Bicci (1360-1429) Gonfaloniere nel 1421 Cosimo il Vecchio (1389-1464) Signore di Firenze dal 1434 Sposa Contessina de’ Bardi Piero (1414 o 1416-1469) Signore di Firenze dal 1464 Sposa Lucrezia Tornabuoni Lorenzo il Magnifico (1449-1492) Signore di Firenze dal 1469 Sposa nel 1469 Clarice Orsini (1453-1488)

Giovanni (1421-1463) Sposa Maria Ginevra degli Albizzi

Giuliano (1453-1478) Assassinato durante la congiura dei Pazzi

In alto, a sinistra busto raffigurante Piero di Cosimo de’ Medici, padre di Lorenzo il Magnifico, realizzato dallo scultore Mino da Fiesole. 1453. Firenze, Museo Nazionale del Bargello.

Lorenzo (1395-1440) Sposa Ginevra Cavalcanti

Giovanni (1428?-1492) (f. nat.) Arciprete

Bianca sposa Guglielmo de’ Pazzi

Nannina († 1493) sposa nel 1466 Bernardo Rucellai

Maria (f.nat.) sposa Leonetto Rossi

In alto a destra ritratto di Lucrezia Tornabuoni, poetessa e madre di Lorenzo il Magnifico, attribuito al Ghirlandaio (al secolo Domenico Bigordi). 1475. Washington, National Gallery of Art. LE SIGNORIE

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na, nel 1332, e Arezzo, nel 1384. Nel 1406 fu annessa Pisa e, nel 1411, Porto Pisano. Nel 1421 venne occupata anche Livorno, destinata a diventare il porto piú importante della città toscana sul Tirreno. Resistevano all’espansionismo fiorentino Lucca e Siena, città ghibelline da sempre tenaci avversarie. La diffusione del fenomeno signorile, nel frattempo, aveva interessato molte città toscane. Anche Pisa – l’antica repubblica marinara – aveva da tempo abdicato alle sue libertà e, dopo la breve signoria del conte Ugolino della Gherardesca, tra il 1284 e il 1288, a partire dal 1313 fu sottomessa a vari signori, tra i quali Uguccione della Faggiola († 1319), già podestà e signore di Arezzo, i Gambacorta (1347-1392) e infine, gli Appiani (1392-1400). La triste vicenda del conte Ugolino della Gherardesca dimostra quanto potesse essere precario il potere di un signore, se non adeguatamente consolidato. Ugolino prese il potere nel 1284, all’indomani della disfatta subita dai Pisani contro i Genovesi presso la Meloria, lungo la costa toscana. Approfittando del clima di incertezza e confusione diffuso in città, il conte si fece conferire la carica di capitano del popolo ma, nei fatti, instaurò un potere autocratico di parte guelfa assieme al nipote, Nino Visconti († 1298). Nel 1288 entrambi vennero esautorati da un colpo di Stato organizzato dall’arcivescovo di parte ghibellina Ruggero de76

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gli Ubaldini († 1295). Il conte Ugolino – come ricorda anche Dante Alighieri (Inferno, XXXIII) – fu imprigionato con i suoi figli nella Torre dei Gualandi dove, nel 1289, morí di inedia.

Un esperimento politico

Agli inizi del XIV secolo anche Arezzo fu teatro di un esperimento politico particolare. Nel 1321, caduto il regime di Uguccione della Faggiola, la signoria fu conferita a Guido Tarlati, vescovo dal 1312, prelato dallo stile di vita guerriero e, per di piú, di parte ghibellina. Guido ottenne dall’imperatore il titolo vicariale su Arezzo e schierò la sua città con la lega ghibellina toscana, partecipando personalmente, nel 1325, alla battaglia di Altopascio, in cui furono sconfitti i guelfi. Scomunicato e deposto dal papa nel 1324, restò al suo posto fino alla morte, nel 1327, quando fu sepolto nel Duomo cittadino. Nonostante la breve durata, la signoria di Guido Tarlati ebbe la particolarità di vedere cumulate nella sua persona non solo la suprema potestà pubblica, ma anche quella spirituale. Vanno infine ricordate le ghibelline Lucca e Siena. Nel 1314 il ghibellino Castruccio Castracani degli Antelminelli, figlio di Ruggero di Castracane, grazie all’aiuto di Uguccione della Faggiola, signore di Arezzo e Pisa, riuscí a ritornare a Lucca, da cui era stato bandito qualche anno prima, in seguito alla vittoria della fazione

In alto la villa di Cafaggiolo, una delle proprietà piú celebri della famiglia Medici, in una lunetta dipinta dal pittore fiammingo Giusto Utens nella villa medesima, situata presso Barberino di Mugello. 1599-1602. Nella pagina accanto, in alto la Sagrestia Vecchia della basilica di S. Lorenzo a Firenze, capolavoro dell’architettura rinascimentale, realizzata da Filippo Brunelleschi. 1420-1428.


In basso monumento a Giovanni dalle Bande Nere, commissionato dal figlio Cosimo I de’ Medici allo scultore Baccio Bandinelli. 1540-1560. Capitano di ventura, Giovanni deve il suo epiteto al fatto che per due volte, alla morte di Leone X e del loro capo, le sue famose «Bande» mutarono in nere le proprie bianche insegne.

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A destra la resa di Colle Val d’Elsa, nel 1479, contro l’esercito di papa Sisto IV, del re di Napoli Ferdinando d’Aragona e della Repubblica senese, raffigurato in una tavola di gabella. XV sec. Siena, Archivio di Stato. In basso fiorino d’oro con al dritto, il giglio, e, al rovescio, san Giovanni Battista, patrono di Firenze. XV sec. Firenze, Museo Nazionale del Bargello.

dei neri. Nel 1316, eletto capitano del popolo, Castruccio riuscí a liberarsi dalla tutela di Uguccione, che, cacciato da Pisa, fu costretto a trovare rifugio presso Cangrande della Scala, signore di Verona, al servizio del quale morí, nel 1319. Nel 1320 Castruccio fu acclamato signore di Lucca e, postosi a capo della lega ghibellina toscana, ad Altopascio, nel 1325 riportò una grande vittoria contro Firenze e le città guelfe. Infine, nel 1327, ottenne dall’imperatore Ludovico il Bavaro il titolo di vicario imperiale e duca di Lucca occu78

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pando, in quello stesso anno, anche Pistoia. Ma la morte improvvisa, avvenuta nel 1328, stroncò il suo tentativo egemonico. Dopo molti anni, nel 1400, fu instaurata a Lucca una nuova signoria nella persona del mercante Paolo Guinigi, che ottenne il riconoscimento dell’imperatore Sigismondo di Lussemburgo e mantenne il potere fino al 1430, quando, catturato da Filippo Maria Visconti, fu imprigionato a Pavia e probabilmente ucciso nel 1432. Guinigi è anche ricordato come committente dello splendido sarcofago – opera del senese Jacopo


della Quercia – ubicato nel Duomo di Lucca e in cui fu deposta la salma della seconda moglie, Ilaria del Carretto († 1405). Anche Siena, nel 1487, si sottomise a un signore nella persona del mercante Pandolfo Petrucci (1487-1512), fondatore di un regime signorile che durò fino al 1530, ben oltre la sua morte. Accanto a questi esempi di signoria cittadina, nel contado di Firenze e altre città toscane prosperavano forme di dominio diverso, cioè signorie rurali o feudali, facenti capo a famiglie comitali di tradizione aristocratica e cavalleresca e di antico lignaggio

come i Guidi, gli Aldobrandini e gli Alberti, che detenevano il controllo delle campagne attraverso le loro fortezze e le loro clientele armate. La potenza di queste famiglie fu però totalmente annientata nel XV secolo. Nel caso dei Medici, per comprenderne la scalata al potere, non si può prescindere dall’analisi della conflittualità endemica a cui, tra il XIII e il XIV secolo, era pervenuta la vita politica fiorentina. Quest’ultima, alla vigilia dell’ascesa al potere di Cosimo de’ Medici, si era deteriorata a tal punto da esigere la presenza di un prin-

Particolare delle Storie di san Matteo, affrescate da Niccolò di Pietro Gerini, raffigurante due banchieri. XIV-XV sec. Prato, chiesa di S. Francesco.

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ceps al vertice dello Stato che, con mano ferma, imponesse la pace. Secondo la stessa vulgata storiografica fiorentina – supportata anche da Dante Alighieri e dal cronista Giovanni Villani – la pace cittadina fu compromessa nel 1215, quando il nobile Buondelmonte de’ Buondelmonti venne assassinato per ragioni personali da Oddo degli Arrighi, in combutta con le famiglie degli Amidei e degli Uberti. Da quell’assassinio avrebbero avuto origine la fazione ghibellina – Uberti – e guelfa – Buondelmonti –, destinate a insanguinare Firenze per circa un secolo. Dapprima furono i guelfi a essere estromessi dalla guida della città, quando, nel 1248, i ghibellini presero il potere, grazie all’aiuto militare di Federico di Antiochia († 1256), figlio naturale dell’imperatore Federico II di Svevia (1198-1250), investito dal padre dei titoli di vicario della Toscana e podestà di Firenze. I ghibellini governarono per poco tempo e, nel 1250, alla morte di Federico II, furono a loro volta banditi da Firenze, quando fu costituito il cosiddetto governo del primo popolo e istituita la carica di capitano del popolo. Costretti a riparare a Siena, i ghibellini fecero ritorno a Firenze nel 1260, dopo aver vinto i guelfi a Montaperti, nella valle dell’Arbia. La vittoria fu possibile anche grazie al supporto di circa 800 cavalieri germanici, comandati da Giordano d’Agliano († 1266), e inviati in aiuto dal re di Sicilia, Manfredi (1258-1266), figlio naturale dell’imperatore Federico II. I guelfi furono espulsi e in città fu costituito un regime monopartitico, guidato dal ghibellino Farinata degli Uberti († 1264) e, dopo la sua morte, da Guido Novello († 1293), vicario imperiale della Toscana.

La discesa di Carlo d’Angiò

Nel 1266, con la discesa in Italia di Carlo d’Angiò († 1285), conte di Provenza e fratello del re di Francia, su richiesta del papa, e la sconfitta della fazione ghibellina, con la morte a Benevento di Manfredi, i guelfi ritornarono a Firenze. Carlo, infatti, nel 1267 guidò personalmente una campagna in Toscana contro le città ghibelline e fu persino eletto podestà di Firenze. Il papa dovette accettare che si autonominasse vicario della Toscana e l’Angiò profittò del progressivo sgretolamento dei regimi ghibellini nei comuni dell’Italia settentrionale, seguito alla sua discesa nella Penisola, per imporre ovunque regimi guelfi di suo gradimento. Benché Roma già nel 1263 lo avesse acclamato «senatore» e signore, molte città italiane – come Cuneo, Mondoví, Alba, Savigliano – ne riconobbero la signoria e accettarono che la designazione di 80

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IL GRANDE SCISMA D’OCCIDENTE Nel marzo del 1378, morto papa Gregorio XI (1370-1378), i cardinali si divisero sulla nomina del suo successore. I Francesi, infatti, ambivano a veder eletto papa uno di loro, che ne garantisse meglio le posizioni di potere presso la curia e cosí, non riconosciuta l’elezione di Urbano VI (1378-1389), già vescovo di Acerenza e Bari, si trasferirono a Fondi, dove elessero il francese Clemente VII (1378-1394), vescovo di Thérouanne e Cambrai, che spostò la sede pontificia ad Avignone, sotto la protezione della Francia, mentre Urbano restava a Roma. Ebbe cosí inizio il Grande Scisma d’Occidente, la lacerazione della res publica christiana in due obbedienze distinte, mentre i papi in carica non esitarono a scomunicarsi reciprocamente. I Paesi europei, infatti, riconobbero come papa solo uno dei due contendenti, giurando fedeltà all’uno o all’altro. Nel 1409 la situazione si complicò perché, a seguito di un concilio tenuto a Pisa, riunito con l’obiettivo di sanare lo scisma, fu eletto un terzo papa, Alessandro V (1409-1410), Pietro di Candia, già vescovo di Milano. Dopo l’improvvisa morte di Alessandro, nel 1410, il conclave elesse Giovanni XXIII (1410-1417), mentre a Roma e ad Avignone sedevano, rispettivamente Gregorio XII (1406-1417) e Benedetto XIII (1394-1417). Solo nel 1414, con la convocazione del concilio ecumenico di Costanza, a opera dell’imperatore Sigismondo di Lussemburgo, e con l’elezione, nel 1417, di papa Martino V (1417-1431) fu possibile ottenere la deposizione degli altri papi e ricomporre lo scisma.

podestà e capitani fosse rimessa alla sua volontà. Spesso fu lo stesso Carlo a essere investito di tali cariche che esercitò ricorrendo alla nomina di vicari. La discesa di Carlo in Italia, però, si concluse con un piú lauto compenso: l’incoronazione, da parte del papa, a re di Sicilia. Mentre gli Angioini si imponevano nel Mezzogiorno, a Firenze il nuovo governo guelfo, grazie al supporto francese, avviò una politica di espansione militare in tutta la Toscana, riportando grandi vittorie militari contro le ghibelline Siena e Arezzo, prima a Colle Val d’Elsa (1269) e poi a Campaldino (1289). A Colle Val d’Elsa fu anche catturato e ucciso Provenzano Salvani, leader ghibellino senese che, anni prima, aveva contribuito alla vittoria di Montaperti. Intanto, nella città, la parte guelfa divenne una vera e propria magistratura, avente il compito di ammonire i dissidenti, mentre i ghibellini furono banditi o esclusi dalla vita politica. Nel 1280 si raggiunse una pace tra le opposte fazioni, grazie alla mediazione del cardinale Latino Malabranca († 1294), inviato come legato e paciere dal papa Niccolò III (1277-1280). La pace del 1280 stabilí il rientro degli esuli

Miniatura raffigurante l’antipapa Clemente VII (al secolo Roberto da Ginevra), primo pontefice del Grande Scisma d’Occidente, che proclama le sue leggi. XV sec. Parma, Biblioteca Palatina.


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Particolare di una formella in stucco policromo raffigurante sant’Antonino (1389-1459), al secolo Antonino Pierozzi, teologo e arcivescovo di Firenze. Anonimo del XV sec. Firenze, Palazzo Vecchio. 82

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ghibellini, ai quali sarebbe spettata una parte – minoritaria – delle cariche pubbliche e che il governo di Firenze, pur restando in mano guelfa, sarebbe stato affidato a una commissione di quattordici uomini che avrebbe rispecchiato la composizione politica della cittadinanza, includendo cittadini guelfi, ghibellini e neutrali.

Una soluzione effimera

Tale ordinamento costituzionale ebbe vita breve. Gli equilibri tra le parti erano infatti cosí precari che subito si scatenò un nuovo conflitto, tra magnati e popolo, per l’accesso alla gestione della cosa pubblica e i primi, anche se guelfi, furono esclusi dal potere. L’allontanamento dei magnati dal governo avvenne con l’istituzione, nel 1282, del Priorato delle arti, un nuovo esecutivo, a guida guelfa e borghese, composto da sei magistrati – poi diventati otto – e da un gonfaloniere di giustizia che durava in carica due mesi ed era eletto dai consigli cittadini e dalle capitudini delle arti, le supreme magistrature corporative. Il gonfaloniere era il capo della repubblica fiorentina e il comandante supremo delle sue milizie. Per tutta la durata della carica, il governo di Firenze non doveva allontanarsi dalla sua sede istituzionale, l’attuale Palazzo Vecchio, detto anche della Signoria, perché, in origine, furono queste magistrature a costituire la vera signoria del comune fiorentino. Inizialmente, la partecipazione al governo della repubblica, attraverso la designazione dei priori, fu riservata alle sette arti principali – quelle di maggior peso economico all’interno della città –, ma in seguito, nel 1289 e nel 1293, essa fu estesa a tutte le ventuno arti cittadine. Nel 1293 furono approvati, su proposta del priore Giano della Bella († 1306), gli Ordinamenti di giustizia, un pacchetto di norme che escludeva i magnati da ogni carica pubblica, a meno che, come fu stabilito qualche anno dopo, non avessero deciso di «farsi popolo», cioè di iscriversi a una delle corporazioni e di sottoporsi al suo stretto controllo. Alla fine del Duecento, i requisiti richiesti dall’ordinamento fiorentino per partecipare alla vita politica del

A destra Ritratto di Cosimo il Vecchio, olio su tela del Pontormo (al secolo Jacopo Carucci). 1519-1520. Firenze, Gallerie degli Uffizi. In basso medaglia raffigurante Contessina de’ Bardi, moglie di Cosimo de’ Medici detto il Vecchio, realizzata dallo scultore fiorentino Antonio Francesco Selvi. 1740 circa. Washington, National Gallery of Art.

comune furono dunque l’appartenenza alla parte guelfa e l’iscrizione obbligatoria a un’arte, a prescindere dal fatto che, in concreto, si esercitasse effettivamente un mestiere. La pace restava però un miraggio, perché, proprio in quegli anni, furono gettate le basi per un nuovo conflitto quando, intorno al 1295, la parte guelfa si divise al suo interno in due fazioni contrapposte: i bianchi e i neri. I primi facevano capo alla famiglia dei Cerchi e i secondi ai Donati, che erano una stirpe di origine magnatizia intorno alla quale si erano riuniti tutti gli scontenti del nuovo regime inaugurato dagli Ordinamenti di giustizia. Inoltre, i neri – guidati da Corso Donati († 1308) – godevano dell’appoggio finanziario e politico di papa Bonifacio VIII (12941303), il quale intendeva estendere l’influenza della Santa Sede su Firenze e la Toscana. I Cerchi – a capo dei quali era Vieri († 1313) – erano, invece, una famiglia originaria della Val di Sieve poi trasferitasi a Firenze, di estrazione borghese e appartenente a quelle famiglie nuove che erano giunte al potere grazie alle recenti riforme coLE SIGNORIE

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In alto, a sinistra statua equestre in bronzo di Cosimo I de’ Medici, opera del Giambologna (al secolo Jean de Boulogne), oggi in piazza della Signoria a Firenze. 1587-1594. In alto, sulle due pagine Ritorno di Cosimo il Vecchio dall’esilio, affresco di Giorgio Vasari. 1556-1558. Firenze, Palazzo Vecchio. A destra lo Spedale degli Innocenti in piazza della Santissima Annunziata a Firenze, primo orfanotrofio d’Europa, con il portico dalle volte a vela e archi a tutto sesto realizzato dal Brunelleschi. 1417-1436. 84

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stituzionali. L’ostilità tra i due partiti portò all’intervento militare di Carlo di Valois († 1325), fratello di Filippo IV il Bello (1285-1314) re di Francia che, in qualità di paciere, fu invitato dal papa a Firenze. Nel 1301, Carlo fece il suo ingresso in città alla guida di un esercito con il quale attuò un vero e proprio colpo di Stato, che portò all’esilio dei bianchi – tra cui era Dante – e all’affermazione politica dei neri.

Lotte intestine

Nel 1304 il tentativo dei bianchi – provvisoriamente alleati con alcuni elementi di fede ghibellina – di ritornare a Firenze con la forza, si concluse con la disfatta della Lastra. Anche il regime inaugurato dai neri ebbe però vita breve, poiché, nel 1308, furono cacciati da Firenze e Corso Donati morí nel tentativo di ritornare in città con le armi. Nel XIV secolo il conflitto tra i due partiti guelfi andò progressivamente per-

dendo d’intensità e violenza e a ciò seguirono anche l’abbandono del vecchio lessico politico e la costituzione, all’interno della stessa classe dirigente fiorentina, di due partiti nuovi, uno a tendenza oligarchica e l’altro di orientamento popolare, ma a guida politica borghese. Tuttavia, non solo le ragioni politiche suddette, ma anche motivazioni economiche ebbero, alla lunga, effetti destabilizzanti sulla costituzione fiorentina e favorirono la scalata al potere dei Medici. La crisi del Trecento, infatti, ebbe conseguenze pesanti anche a Firenze, con il suo strascico di carestie e di pestilenze che causarono una contrazione della popolazione – scesa, a fine secolo, da oltre 100 000 a circa 50 000 abitanti – e il crollo vertiginoso della produzione manifatturiera, con un’impennata inflazionistica dei prezzi delle merci, a cui si aggiunse, tra il 1343 e il 1346, un terribile crac finanziario, che causò il fallimento delle banche dei Peruzzi e LE SIGNORIE

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dei Bardi. Il cammino verso l’autocrazia era già stato intrapreso. Già nel 1326 il governo fiorentino aveva investito della signoria del comune Carlo, duca di Calabria, figlio del re di Napoli, Roberto d’Angiò (1309-1343) che, sia detto per inciso, si era a sua volta assicurato il controllo di molti comuni guelfi dell’Italia settentrionale come Genova, Parma, Brescia, Reggio, che lo avevano riconosciuto come signore. Dopo la morte di Carlo, nel 1328, gli ordinamenti comunali furono regolarmente ripristinati, ma, già nel 1342, ci fu il secondo tentativo di affidare il potere assoluto a Gualtieri di Brienne († 1356), nobile francese, investito dal comune della carica di conservatore dello Stato e del comando generale della milizia. Brienne, però, fu subito destituito nel 1343 e costretto all’esilio.

Nella pagina accanto Ritratto di Eleonora di Toledo col figlio Giovanni, olio su tavola del Bronzino (al secolo Agnolo di Cosimo di Mariano), una delle massime espressioni della ritrattistica del Rinascimento fiorentino. 1545 circa. Firenze, Gallerie degli Uffizi.

Il potere dei soldi

Sotto il profilo costituzionale, intanto, Firenze continuava a essere una plutocrazia: una città governata da un’oligarchia finanziaria di produttori e mercanti, che monopolizzava le principali magistrature cittadine, cioè gli otto priori e il gonfaloniere di giustizia. Nel 1345, a causa delle difficoltà economiche, alcuni operai di bottega insorsero guidati dallo scardassiere Ciuto Brandini, che fu subito messo a morte, e, nel 1378, i Ciompi – lavoratori del settore tessile –, alleati con i farsettai e i tintori, tentarono di impossessarsi del potere, ma furono massacrati. Inoltre, tra il 1375 e il 1378, le condizioni sociali ed economiche del popolo di Firenze furono aggravate dalla «Guerra degli Otto santi» – come erano stati denominati, per irrisione, i magistrati degli Otto della guerra – combattuta tra la repubblica e il papato. In tale contesto di violenza, sofferenza ed emarginazione sociale avvenne l’instaurazione della signoria medicea. Nel 1434 Cosimo il Vecchio (1434-1464), figlio di Giovanni di Bicci e Piccarda Bueri, fu richiamato dall’esilio, al quale era stato condannato l’anno precedente dalla fazione oligarchica, e acclamato signore. In realtà, prima di essere condannato all’esilio decennale da trascorrere a Venezia – con l’accusa di cospirazione contro la repubblica –, Cosimo 86

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Cammeo realizzato da Giovanni Antonio de’ Rossi raffigurante Cosimo I de’ Medici con la moglie Eleonora di Toledo insieme ai figli Francesco, Ferdinando, Giovanni, Garzia e Pietro; le figure sono sovrastate dalla Fama alata che suona la tromba. 1558-1562. Firenze, Palazzo Pitti.

era stato imprigionato in Palazzo Vecchio. Solo dopo il fallimento di un tentativo di avvelenamento, era stato bandito dai priori. Cosimo era un personaggio politico in vista, in quanto leader del partito popolare, apparentemente piú vicino alle istanze della borghesia e del popolo minuto, a dispetto della fazione oligarchica fino ad allora al potere, facente capo alla famiglia degli Albizzi, guidata da Rinaldo degli Albizzi († 1442), figlio di Maso († 1417), il quale, sin dalla fine del XIV secolo, aveva monopolizzato una parte della vita pubblica. D’altronde, i rapporti tra gli Albizzi e i Medici, già tesi, peggiorarono nel 1431, alla morte di Niccolò da Uzzano, personaggio di spicco della vita politica fiorentina, già gonfaloniere e priore cittadino e che, pur parteggiando per gli Albizzi, aveva svolto un ruolo moderatore tra le parti. Nel 1434, giunto al potere, Cosimo decise di esiliare i suoi avversari politici e, benché fosse stato priore nel 1415 e nel 1417, preferí non ricoprire mai alcuna carica pubblica, limitandosi a esercitare, di fatto, la signoria, salvaguardando apparenze democratiche e repubblicane. Agí sempre nell’ombra, promuovendo l’elezione – agli uffici amministrativi e ai consigli del comune – di cittadini a lui graditi, con raccomandazioni o con l’ausilio di un apposito organo collegiale – il Consiglio dei Cento – di cui favorí l’istituzione e che era composto esclusivamente di suoi fedelissimi. Un’altra riforma imposta da Cosimo, per accrescere il suo controllo sulla politica cittadina, fu la sostituzione del vecchio metodo di elezione alle cariche pubbliche – il sorteggio – con lo scrutinio. Inoltre, ogni qual volta se ne profilava la necessità, Cosimo e i suoi successori ricorsero all’istituzione di magistrature straordinarie – balie –, in sostituzione di quelle ordinarie. Cosimo, inoltre, consolidò le relazioni con le piú prestigiose famiglie dell’aristocrazia fiorentina, attraverso i finanziamenti erogati dalla sua banca e grazie alla scaltrezza diplomatica della moglie, Contessina de’ Bardi († 1473). Il matrimonio con Contessina fu programmato e voluto dal padre di Cosimo, il quale, a ragione, vedeva nelle nozze un’opportunità per nobilitare


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la famiglia de’ Medici, facendone dimenticare le origini borghesi. I discendenti di Cosimo fecero altrettanto, sposando donne appartenenti all’aristocrazia fiorentina o romana. Le nozze tra Contessina e Cosimo furono allietate dalla nascita di due figli, Piero e Giovanni, ma la donna dovette tollerare le relazioni extraconiugali del marito. Da una di queste, con una schiava circassa conosciuta a Venezia durante l’esilio, Maddalena, Cosimo ebbe un figlio naturale, Carlo († 1492), che fu poi legittimato e intraprese la carriera ecclesiastica, diventando canonico del Duomo di Prato. Secondo le convenzioni dell’epoca, Cosimo si occupò degli affari pubblici, mentre Contessina curò le relazioni sociali, impegnandosi anche in opere di assistenza e beneficenza, come il finanziamento dello Spedale degli Innocenti, un ente assistenziale adibito al ricovero degli orfani, alla loro educazione e al loro avviamento professionale, al fine di inserirli nella società,

una volta adulti. Contessina ebbe anche molte e proficue relazioni con esponenti del clero, tra i quali sant’Antonino Pierozzi (1446-1459), vescovo di Firenze, e uno dei teologi piú importanti del suo tempo.

La cultura come politica

In politica estera Cosimo cercò di evitare, finché fu possibile, ogni coinvolgimento della città in conflitti militari e di preservare la pace. Quando fu necessario, però, schierò risolutamente Firenze al fianco della repubblica di Venezia, contro l’espansionismo di Filippo Maria Visconti e, all’estinzione dei Visconti, nel 1447, ritenne opportuno schierarsi contro Venezia e Napoli a favore degli Sforza, nuovi signori di Milano, con i quali, da quel momento, ebbe sempre ottime relazioni. L’alleanza con gli Sforza, inoltre, mirava a consolidare il suo potere a Firenze, perché Cosimo finanziava con la sua banca il ducato milanese, in cambio di aiuto militare contro l’opposizione interna che aveva in città. Per il resto, iniziò quella politica di mecenatismo culturale che fu poi proseguita dal nipote Lorenzo e che rese Firenze la capitale dell’Umanesimo italiano. Soprattutto, Cosimo intuí l’importanza politica della cultura, come strumento di legittimazione del suo potere. Solo cosí si possono comprendere alcune sue iniziative, come il finanziamento della costruzione della cattedrale fiorentina o l’apertura al pubblico della sua biblioteca personale, detta anche Laurenziana perché custodita nella basilica fiorentina di S. Lorenzo. L’importanza dell’immagine come strumento di legittimazione politica e creazione di consenso emerse anche in un’altra occasione. Nel 1439, infatti, Cosimo riuscí a sfruttare politicamente i problemi interni che travagliavano la Chiesa, consentendo al papa, Eugenio IV, di trasferire da Basilea a Firenze, in S. Maria del Fiore, il concilio ecumenico che, convocato fin dal 1431, aveva il compito di dibattere alcuni problemi A sinistra busto di Giovanni di Cosimo de’ Medici, secondogenito di Cosimo il Vecchio, opera di Mino da Fiesole. 1456-1461. Firenze, Museo Nazionale del Bargello. A destra Ritratto di Piero il Gottoso, primogenito di Cosimo il Vecchio, olio su tela del Bronzino. 1550-1570. Londra, National Gallery.

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interni alla Chiesa, quali la riforma istituzionale e morale del papato e la riunificazione di Roma con la Chiesa ortodossa. Al concilio partecipò anche una delegazione dell’impero bizantino – allora assediato dai Turchi – guidata dallo stesso imperatore d’Oriente, Giovanni VIII Paleologo (1425-1448), che richiedeva aiuti militari e finanziari alle potenze occidentali per la liberazione di Costantinopoli. Il 6 luglio del 1439, inoltre, il concilio di Firenze sanò gli effetti dello scisma dell’XI secolo, deliberando l’unione tra Chiesa ortodossa e Chiesa cattolica, che fu poi ratificata dal papa con la bolla pontificia Laetentur coeli. L’unione, tuttavia, rimase sulla carta e non divenne mai effettiva anche a causa della sopravvenuta conquista di Costantinopoli da parte dei Turchi, nel 1453. In occasione del concilio, la presenza di un elevato numero di funzionari, cortigiani e intellettuali bizantini – tra cui il noto filosofo platonico Giorgio Gemisto Pletone († 1452) e il vescovo di Nicea Giovanni Bessarione († 1472) – contribuí a consolidare anche i legami culturali dell’Italia intera con l’Oriente e a diffondere l’interesse degli umanisti italiani per la cultura greca e non solo latina (vedi box alle pp. 98-104).

Il sobrio addio al «padre della patria»

Nel 1464 Cosimo morí e, secondo le sue volontà, fu sepolto nella basilica di S. Lorenzo, che aveva fatto appositamente restaurare. La famiglia rifiutò i funerali di Stato e volle la cerimonia funebre improntata alla piú assoluta sobrietà, ma si acconsentí che sulla sua epigrafe tombale fosse definito «Pater Patriae». Morto Cosimo, secondo le sue disposizioni, gli subentrò nella signoria il primogenito avuto da Contessina de’ Bardi, Piero il Gottoso, benché il signore di Firenze avesse inizialmente puntato sul secondogenito, Giovanni († 1463), date le pessime condizioni di salute del primo. Ma Giovanni, a cui il padre aveva delegato, per un certo tempo, la direzione della banca di famiglia, fu soprattutto un mecenate della cultura e, fondamentalmente, si disinteressò degli affari pubblici. Il governo di Piero fu troppo breve per lasciare una testimonianza significativa nella storia di Firenze e fu condizionato anche dalle sue cattive condizioni di salute, che, ben presto, ne causarono la morte. Piero si conformò alla politica già seguita dal padre, sia nel campo degli affari interni che in quelli esteri. Nella politica interna agí sempre senza ricoprire alcun incarico ufficiale, benché, come Cosimo il Vecchio, prima di diventare signore di Firenze fosse stato priore, nel 1448, e gonfaloniere di giustizia, nel LE SIGNORIE

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1461. In politica estera mantenne l’alleanza con gli Sforza e ciò fu determinante per risolvere una questione che rischiò di portare alla rovina la signoria medicea: nel 1466, profittando delle pessime condizioni di Piero, alcune famiglie fiorentine tentarono di estrometterlo dal potere. Il complotto, capeggiato da Diotisalvi Neroni († 1482), Angelo Acciaiuoli († 1467) e Luca Pitti († 1472) – vecchio amico di Piero – coinvolse anche il duca di Ferrara Borso d’Este, il quale, secondo gli accordi, avrebbe dovuto fornire aiuto militare ai congiurati. Inoltre, è probabile che le motivazioni del complotto non fossero solo politiche, ma anche economiche e finanziarie.

Il sistema comincia a scricchiolare

Proprio sotto il governo del Gottoso, la banca Medici aveva infatti cominciato a mostrare i primi segni di crisi, cosí che molti prestiti furono revocati, provocando il tracollo di molte imprese e il fallimento di numerose famiglie di Firenze. Iniziava infatti, con Piero, quella cattiva gestione bancaria che avrebbe visto i Medici subordinare gli interessi finanziari della loro ban-

ca a quelli della politica. La famiglia si disinteressò sempre di piú dell’amministrazione della banca, delegando pieni poteri ai direttori delle filiali e al direttore generale Francesco Sassetti (1455-1490). Si tenga presente, inoltre, che la banca dei Medici, come gran parte delle banche dell’epoca, era un istituto di credito misto, cioè non esercitava solo attività creditizia, ma era impegnata anche in investimenti economicocommerciali che, in caso di insuccesso, potevano travolgere le risorse dei risparmiatori, decretando il fallimento dell’istituto. La congiura prevedeva di assassinare Piero e la sua scorta durante il tragitto tra la villa medicea di Careggi e Firenze, ma, grazie ad alcune delazioni, fu stroncata sul nascere. Il duca di Milano, Galeaz90

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Nella pagina accanto, in alto Niccolò Acciaiuoli, celebre esponente di una delle piú potenti famiglie fiorentine, opera che fa parte di un ciclo di affreschi di uomini illustri realizzato dal pittore toscano Andrea del Castagno. 1448-1451. Firenze, Gallerie degli Uffizi. Nella pagina accanto, in basso busto di Diotisalvi Neroni, politico fiorentino che capeggiò un complotto contro Piero de’ Medici. 1464. Parigi, Musée du Louvre. A destra Luca Pitti, ritratto del banchiere fiorentino che partecipò alla rivolta contro Piero de’ Medici, dipinto cinquecentesco di scuola fiorentina. Kursk, Museo d’arte Dejneka.

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zo Maria Sforza, su richiesta di Piero, inviò alcuni soldati a Firenze e fu cosí possibile procedere all’arresto dei congiurati e ad alcune condanne esemplari: Neroni e Acciaiuoli furono banditi da Firenze, mentre Luca Pitti rimase in città, ma fu emarginato politicamente e, infine, finanziariamente distrutto. Gli strascichi della repressione si fecero sentire nel 1467, quando l’indipendenza di Firenze fu messa in pericolo dai congiurati banditi dalla città e rifugiatisi a Venezia, dove istigavano il governo della Serenissima. Dopo poco, Bartolomeo Colleoni († 1475), condottiero già al servizio di Venezia, apparentemente di propria iniziativa, ma in realtà su invito del governo veneziano, con l’ausilio di milizie fornite dal duca di Ferrara, Borso d’Este, e dal signore di Rimini, Sigismondo Pandolfo Malatesta, marciò su Firenze che, sostenuta dagli Sforza e dagli Aragonesi di Napoli, lo sconfisse nella battaglia

In alto Il trionfo della fama, tempera su tavola dello Scheggia (al secolo Giovanni di Ser Giovanni), desco da parto realizzato per la nascita di Lorenzo il Magnifico. 1448 circa. New York, Metropolitan Museum of Art. Nella pagina accanto Ritratto di Francesco Sassetti con il figlio Teodoro, tempera su tavola del Ghirlandaio.1488 circa. New York, Metropolitan Museum of Art.

della Molinella o Riccardina, nel Bolognese. Nonostante queste difficoltà, nel 1465 Piero ottenne un’importante gratificazione: in cambio dell’aiuto finanziario prestato dalla banca Medici ai suoi predecessori, il re di Francia Luigi XI gli concesse il privilegio di aggiungere al tradizionale blasone di famiglia – sei palle rosse su fondo d’oro – lo scudo azzurro con tre fiordalisi, simbolo dei Capetingi. Quando, agli inizi del XVI secolo, i Medici riuscirono anche a esprimere dei papi, lo stemma di famiglia si arricchí di ulteriori decorazioni, ossia le chiavi petrine e la tiara pontificia.

L’amore per la classicità

Nel 1469, alla morte di Piero, gli subentrarono i figli avuti da Lucrezia Tornabuoni († 1482), Lorenzo – noto come il Magnifico – e Giuliano. Entrambi avevano ricevuto un’ottima educazione, improntata all’amore del mondo classico, LE SIGNORIE

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I Medici nale Latino Orsini († 1477), esercitava sul papa. I rapporti tra i Medici e gli Orsini diventarono cosí forti che anche il figlio di Lorenzo, Piero, sposò, come si vedrà, un’esponente della famiglia romana. Il matrimonio con Clarice fu anche allietato da una discendenza numerosa e felice. A differenza del padre e del nonno, Lorenzo fu un marito fedele, se si esclude la relazione avuta con la nobildonna fiorentina Lucrezia Donati († 1501), che fu destinataria di alcune delle sue liriche e da cui non ebbe alcun figlio.

Allume per risalire la china

Mentre Lorenzo si insediava al potere e consolidava la sua posizione politica, le condizioni della banca medicea peggioravano e il Magnifico dovette assistere, suo malgrado, alla liquidazione delle filiali di Bruges e di Lione. Nel 1472, per risollevare le condizioni della banca e quel-

grazie anche all’interessamento e all’influenza della madre, ella stessa scrittrice di sonetti, laudi e poemi di argomento religioso. Tuttavia, caratterialmente, i due fratelli erano profondamente diversi, e il potere fu gestito monocraticamente dal solo Lorenzo, che si occupò degli affari pubblici, mentre Giuliano non prese mai moglie, evitò le gravi responsabilità di governo e si dedicò alla vita mondana e cavalleresca. Si circondò di uno stuolo di amanti, tra cui la fiorentina Fioretta Gorini, da cui ebbe Giulio, futuro papa Clemente VII (1523-1534). Anche la vita privata di Lorenzo fu, rispetto a quella del fratello, molto piú regolare. Nel 1469 il Magnifico sposò Clarice Orsini († 1488), appartenente a una delle famiglie piú potenti dell’aristocrazia romana. Il matrimonio fu combinato dalla madre di Lorenzo, Lucrezia Tornabuoni e, in tal modo, fu possibile stringere rapporti sempre piú forti con il papato, soprattutto grazie all’influenza che lo zio di Clarice, il cardi94

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In alto Ritratto di Lorenzo il Magnifico, tempera su tavola di Giorgio Vasari. Sullo sfondo si notano simboli e allegorie che esaltano le virtú del nobile mecenate e umanista fiorentino. 1533-34. Firenze, Gallerie degli Uffizi.


LA CONGIURA DEI PAZZI Il piano dei congiurati divenne operativo il 26 aprile 1478, in occasione della messa tenuta a Firenze, in S. Maria del Fiore, dal cardinale Raffaele Riario – nipote di Sisto IV – durante la sua visita ufficiale in città. Nel corso della celebrazione, Lorenzo e suo fratello Giuliano furono aggrediti dai congiurati: il secondo fu ucciso, mentre il primo riuscí a schivare il pugnale dell’assalitore – il prete volterrano Antonio Maffei – grazie al sacrificio di un suo servitore, Francesco Nori, e a trovare rifugio in sagrestia. Il cardinal Riario e gli altri congiurati decisero allora di sollevare la popolazione contro i Medici e di impossessarsi del governo fiorentino, con l’aiuto delle milizie papali, al comando di Giovanni Battista da Montesecco, capitano pontificio e comandante della scorta del cardinale, ma il piano fallí e furono tutti arrestati.

La reazione medicea fu dura e implacabile, come racconta il Pactianae coniurationis Commentarium, tragico resoconto dei fatti scritto da Angelo Poliziano († 1494). Il gonfaloniere fiorentino, Cesare Petrucci, ordinò che Raffaele Riario fosse incarcerato, Francesco Salviati impiccato a una finestra di Palazzo Vecchio e Montesecco decapitato, mentre i cadaveri di Iacopo e Francesco de’ Pazzi, fatti a pezzi dalla folla, furono gettati nell’Arno. La famiglia dei Pazzi fu interamente sterminata, fatta eccezione per il giovane Guglielmo († 1516), marito della sorella di Lorenzo, Bianca († 1488), bandito da Firenze assieme alla moglie. L’ira del Magnifico raggiunse anche Costantinopoli, dove si era rifugiato Bernardo Bandini Baroncelli, che aveva colpito mortalmente Giuliano. (segue a p. 96)

La Congiura dei Pazzi, olio su tela del pittore toscano Stefano Ussi, che raffigura l’uccisione di Giuliano, fratello di Lorenzo il Magnifico, durante la rivolta della famiglia di banchieri fiorentini nel 1478 contro il governo dei Medici. Seconda metà del XIX sec. Collezione privata.

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LA CONGIURA DEI PAZZI Bandini venne estradato a Firenze e impiccato a una finestra del Bargello, vestito degli abiti turchi che indossava al momento dell’arresto, come si vede in uno schizzo del cadavere realizzato dal giovane Leonardo da Vinci. L’uccisione dell’arcivescovo Salviati attirò sui Medici la scomunica e, sulla città di Firenze, l’interdetto papale, che imponeva il divieto di intrattenere relazioni commerciali e diplomatiche con chi ne fosse colpito. Ferdinando d’Aragona, re di Napoli, inviò un esercito in Toscana al comando del figlio Alfonso († 1495), duca di Calabria, per impartire ai Medici una dura lezione. Furono occupate Poggibonsi e Colle Val D’Elsa e l’indipendenza fiorentina fu seriamente minacciata. Allora Lorenzo decise di passare all’azione e, nel novembre del 1479, si imbarcò a Pisa alla volta di Napoli, dove giunse agli inizi di dicembre e fu accolto e ospitato da Ferdinando fino alla primavera successiva. Nel marzo del 1480 il Magnifico ritornò a Firenze, dopo aver concluso una pace proficua con l’Aragonese e aver ottenuto la carica onoraria di camerario del regno. Probabilmente gli argomenti con cui Lorenzo rabboní Ferdinando furono di natura finanziaria, ma è certo che il re decise di evacuare la Toscana, nonostante le proteste del papa, e, poco tempo dopo, anche la scomunica e l’interdetto furono revocati. I buoni rapporti tra Lorenzo e Ferrante sono confermati anche dalla cosiddetta Raccolta Aragonese, vasta antologia di liriche di poeti toscani – di cui sopravvivono manoscritti nelle biblioteche nazionali di Parigi e Firenze – che, con lettera di accompagnamento vergata dal Poliziano, fu inviata al re di Napoli dal signore di Firenze. La vendetta di Lorenzo per la morte di Giuliano colpí, ad anni dal fatto, anche il duca di Forlí Girolamo Riario, che era stato la causa della Congiura dei Pazzi. Nel 1488 il duca fu assassinato nel corso di un complotto ordito dagli Orsi, nobili forlivesi, aizzati, probabilmente, proprio dai Medici. Forlí, allora, rimase sotto la guida della moglie, Caterina Sforza († 1509), figlia di Galeazzo Maria Sforza, duca di Milano, e della cortigiana Lucrezia Landriani, che assunse la reggenza in nome del figlio, Ottaviano, riconosciuto duca legittimo da papa Innocenzo VIII (1484-1492), successore di Sisto IV. Caterina fu uno dei personaggi

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In alto medaglia in bronzo celebrativa della Congiura dei Pazzi, realizzata da Bertoldo di Giovanni e Andrea Guazzalotti. 1478. Firenze, Museo Nazionale del Bargello. Nella pagina accanto l’impiccagione di Bernardo Bandini Baroncelli, l’uccisore di Giuliano de’ Medici durante la Congiura dei Pazzi, disegno di Leonardo da Vinci, che assistette all’esecuzione. 1479. Bayonne, Musée Bonnat. piú suggestivi dell’Italia del Quattrocento. Dopo la morte di Riario, si risposò con un oscuro stalliere, Giacomo Feo, ma anche il secondo marito fu ucciso, nel 1495, nel corso di una congiura. Nel 1497, per una strana ironia del destino, Caterina contrasse di nuovo matrimonio con un parente di Lorenzo de’ Medici, Giovanni de’ Medici, appartenente al ramo cadetto della stirpe – i Popolani – che si trovava a Forlí come ambasciatore della repubblica fiorentina. Giovanni morí di malattia nel 1498 e fu il padre del condottiero Giovanni dalle Bande Nere, morto nel 1526 in seguito alle ferite riportate nella battaglia di Governolo (Mantova), in cui combatté contro le truppe dell’imperatore Carlo V d’Asburgo, in difesa del papa Medici Clemente VII. Ottaviano Riario, figlio di Caterina Sforza e di Girolamo, non ebbe uguale fama, né governò mai su Forlí. Morí vescovo di Viterbo nel 1523.


le del fisco fiorentino, decise di impossessarsi dei ricchi giacimenti di allume da poco scoperti nel territorio di Volterra e, davanti al rifiuto della città, Lorenzo diede ordine di conquistarla. Volterra fu poi sottoposta a un terribile saccheggio da parte delle truppe fiorentine, guidate dal duca di Urbino, Federico da Montefeltro. Nel 1478 si verificarono eventi drammatici, poiché Lorenzo fu coinvolto in una congiura ordita dalla famiglia fiorentina dei Pazzi, che incrinò i buoni rapporti finora avuti dalla signoria con il papato, e causò l’uccisione del fratello Giuliano (vedi box alle pp. 95-96). Le origini della congiura erano complesse. Nel 1478 il Magnifico rifiutò a papa Sisto IV (1471-1484) – al secolo Francesco della Rovere – un prestito di circa 40 000 fiorini per l’acquisto, dagli Sforza di Milano, della città di Imola che, assieme a Forlí, avrebbe dovuto costituire un appannaggio per suo nipote, Girolamo Riario. Quando il Magnifico si oppose anche alla nomina di Francesco Salviati, protetto del papa, ad arcivescovo di Firenze, il pontefice decise di reagire, privando i Medici dello sfruttamento dei giacimenti di allume dei Monti della Tolfa, presso Civitavecchia, e sottraendogli l’incarico di banchieri ufficiali della Santa Sede. Tali privilegi furono invece attribuiti alla famiglia dei Pazzi – storici oppositori dei Medici –, dai quali il papa ottenne il danaro necessario per acquistare Imola e costituire un ducato per il nipote. Fu poi deciso di organizzare una congiura per eliminare fisicamente il Magnifico, sfruttando la collaborazione dei Pazzi e dell’opposizione fiorentina repubblicana e antimedicea. Alla congiura aderirono anche Siena e Federico da Montefeltro.

Solo un privato cittadino

Rimasto solo al potere dopo la morte di Giuliano, Lorenzo preferí restare un privato cittadino e non rivestire cariche pubbliche come i suoi predecessori. Si limitò, nel 1480, a introdurre una modifica costituzionale nell’ordinamento della repubblica, ossia l’istituzione – accanto ai tradizionali uffici di governo fiorentini – del Consiglio dei Settanta, un organo composto da fedelissimi partigiani medicei, alla cui approvazione doveva essere preventivamente sottoposta ogni proposta amministrativa e normativa. Nel frattempo, proseguiva l’espansione militare fiorentina in Toscana e, nel 1487, furono occupate le piazzeforti di Sarzana e Sarzanello – fino ad allora appartenute a Genova – ampliando verso nord il territorio sotto il controllo mediceo. Nello stesso anno, Lorenzo si preoccupò di ricucire buoni rapporti con la LE SIGNORIE

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Santa Sede, cogliendo l’occasione dell’elezione del nuovo papa Innocenzo VIII (14841492), al secolo Giovanni Battista Cybo. Nel 1487 l’alleanza tra Medici e papato fu ripristinata con il matrimonio della figlia del Magnifico, Maddalena († 1519), e il figlio naturale del papa, Franceschetto Cybo († 1519) a cui seguí, nel 1489, la designazione a cardinale del fratello di Maddalena, Giovanni († 1521). Lorenzo ebbe intanto modo di distinguersi sia come mecenate, sia come ago della bilancia dello scacchiere politico italiano, tutelando gli equilibri diplomatici con un’incessante attività di mediazione politica tra gli Stati. Per fortuna, dopo la congiura dei Pazzi e fino alla sua morte, la situazione politica generale non fu sconvolta da eventi bellici di rilievo, se si esclude la guerra di Ferrara – a cui si è accennato sopra – in cui il Magnifico, pur schierandosi a favore di Ercole d’Este, svolse il ruolo di mediatore.

UNA NUOVA ATENE

Il tramonto della signoria

Nel 1492, alla morte di Lorenzo, gli successe il figlio Piero – detto anche il Folle o il Fatuo –, assolutamente inadatto alle responsabilità di governo. Piero liquidò la banca di famiglia, ormai ridotta al collasso, e fu l’artefice della rovina della signoria. Infatti nel 1494, Carlo VIII, re di Francia, scese in Italia e travolse in Toscana le truppe di Piero, che tentarono un’inutile resistenza. Per evitare il saccheggio di Firenze, Piero cedette al sovrano i possedimenti fiorentini di Pietrasanta, Sarzana, Sarzanello, Pisa e Livorno, e il diritto di libero passaggio sul territorio toscano. A Firenze, la vergognosa capitolazione provocò un’insurrezione popolare che sfociò nella proclamazione della repubblica e la signoria medicea fu dichiarata decaduta. La rivoluzione repubblicana portò al potere una figura carismatica di frate domenicano di origine ferrarese, Girolamo Savonarola, dal 1491 priore del convento fiorentino di S. Marco. Già da tempo il frate aveva iniziato, a suon di prediche, una campagna diffamatoria contro i Medici, accusati di corruzione e di ogni genere di abominio, a causa del loro amore per la cultura classica, ritenuta pagana. Instaurata la repubblica, Savonarola, pur non rivestendo alcuna carica pubblica, ne fu l’ispiratore morale, ma, quando si scagliò contro papa Alessandro VI Borgia, firmò la sua condanna a morte. Il pontefice minacciò l’interdetto su Firenze e, nel maggio del 1498, i priori decisero il suo arresto e la sua condanna al rogo come eretico. Sotto la ferrea guida di Pier Soderini († 1522) – proclamato (segue a p. 105) 98

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La fioritura artistica e culturale della Firenze quattrocentesca fu straordinaria e solo in parte può essere spiegata con il mecenatismo della signoria medicea. Mai città o regione ebbe un numero altrettanto elevato di scrittori, pittori, architetti e artisti di ogni genere. Firenze fu, dunque, la culla dell’Umanesimo italiano ed europeo, cioè di quel rinnovamento dell’arte e della cultura che, ispirato al modello


dell’antichità, soprattutto romana, ebbe connotazioni classiciste, ma non si tradusse mai in una sterile imitazione del passato. La classicità, in forme rinnovate, soprattutto dal cristianesimo, secondo gli umanisti, doveva tradursi nell’attualità del presente. Questo nuovo spirito dei tempi indusse i contemporanei a credere di vivere in un’età (segue a p. 100)

Nascita di Venere, tempera su tela di Sandro Botticelli, opera simbolo del Rinascimento italiano e della straordinaria fioritura artistica e culturale quattrocentesca di cui fu protagonista Firenze nel periodo della signoria medicea. 1482-1485. Firenze, Gallerie degli Uffizi.

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UNA NUOVA ATENE veramente nuova, totalmente diversa dal passato e non è un caso che proprio agli umanisti si debba, in campo storiografico, l’invenzione del concetto di Medioevo, per indicare i dieci secoli di barbarie precedenti. Per quanto sia difficile, se non impossibile, individuare chi avviò tale fervore intellettuale e culturale, lo si identifica convenzionalmente nel fiorentino Niccolò Niccoli († 1437), considerato il primo umanista, ricercatore e collezionista instancabile di manoscritti antichi. Alla sua morte, l’enorme biblioteca fu incamerata nel patrimonio dei Medici, che, per decisione di Cosimo il Vecchio, fu collocata nel convento di S. Marco e aperta al pubblico. Nel XV secolo l’influenza della cultura classica fu visibile ovunque. Si ricordino, nell’architettura, i contributi di Leon Battista Alberti († 1472), Filippo Brunelleschi († 1446) – noto anche come l’inventore della prospettiva – e Michelozzo di Bartolomeo Michelozzi († 1472) che fu l’architetto ufficiale dei Medici, per i quali progettò il palazzo signorile di via Larga e le ville di Trebbio, Cafaggiolo e Careggi, nel contado fiorentino. Brunelleschi portò a termine la costruzione della cattedrale di Firenze, S. Maria del Fiore, ricoprendola con la sua enorme cupola – la piú grande dell’epoca –, che richiamava l’analoga struttura del Pantheon di Roma. D’altronde, molte realizzazioni artistiche del periodo furono il prodotto dell’osservazione dei monumenti dell’antichità, come dimostra il soggiorno dell’Alberti a Roma. Su espresso interesse di Cosimo de’ Medici, Brunelleschi lavorò anche al rifacimento della chiesa di S. Lorenzo, destinata a diventare il luogo di sepoltura della stirpe medicea. Non solo l’architettura richiamò il mondo classico, ma anche la pittura e la scultura, con riferimento all’armonia e simmetria dell’arte antica, tra l’altro espressamente teorizzate dall’Alberti nei suoi trattati De pictura, De statua e De re aedificatoria, con i quali intese attribuire anche alle arti figurative e costruttive il rango di artes liberales, dando loro dignità intellettuale. Cosimo il Vecchio volle che la cappella di famiglia in Palazzo Medici fosse affrescata da Benozzo Gozzoli († 1497) con lo splendido Corteo dei Magi, in cui sono ritratti, con efficacia realistica, alcuni esponenti della famiglia signorile. La compostezza formale, la chiarezza dei colori, la ricchezza ornamentale del mondo classico emergono anche dalle opere di Sandro Filipepi († 1510) – il Botticelli –, il cui amore per la cultura classica si riverberò anche in molti dei soggetti dei suoi dipinti come la Primavera, la Nascita di Venere e Venere e Marte. Molto probabilmente, la musa ispiratrice di molti dei dipinti del maestro fu Simonetta Cattaneo, amante di Giuliano de’ Medici. Da non dimenticare è anche l’opera pittorica di Filippo Lippi († 1469), frate carmelitano, autore della Madonna, in Palazzo Medici, e della splendida Annunciazione, nella basilica di S. Lorenzo, opera in cui la leggerezza dei colori richiamava il fresco naturalismo del Beato Angelico († 1455), frate

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A destra particolare della facciata del Palazzo Medici Riccardi a Firenze, opera dell’architetto toscano Michelozzo di Bartolomeo Michelozzi. Nella pagina accanto, in alto affresco di Giorgio Vasari raffigurante Filippo Brunelleschi che presenta a Cosimo il Vecchio un modello della basilica di S. Lorenzo. 1556-1558. Firenze, Palazzo Vecchio. Nella pagina accanto, in basso la basilica di S. Lorenzo in un’illustrazione del Codice Rustici. XV sec.

domenicano, autore degli splendidi affreschi del convento di S. Marco, ispirati a temi di storia sacra. Nella scultura non può tacersi il contributo di figure come Lorenzo Ghiberti († 1455), Donatello († 1466) e Andrea del Verrocchio († 1488). Ghiberti collaborò con Brunelleschi ai lavori per la cattedrale e scolpí la seconda e la terza porta del battistero fiorentino, ornate con formelle bronzee a soggetto sacro. Donatello, scolpí, tra le altre cose, le porte per la sacrestia vecchia in S. Lorenzo e la cantoria del Duomo fiorentino, lavorando molto anche al di fuori di Firenze, per esempio a Padova, dove scolpí la statua equestre di Erasmo da Narni e il Crocefisso nel Duomo. Al Verrocchio – nella cui bottega mosse i primi passi il giovane Leonardo da Vinci – si deve la tomba di Piero de’ Medici in S. Lorenzo e, a Venezia, la statua equestre di Bartolomeo Colleoni. Si noti che i Medici non fecero alcuna opposizione a che la cultura fiorentina fosse esportata anche al di là dei confini di Firenze, dai suoi rappresentanti. Anche la letteratura dell’epoca fu pervasa dal clima classicista imperante, eppure l’uso diffuso del latino come lingua letteraria non impedí lo sviluppo di una copiosa produzione in volgare, cioè in fiorentino letterario.

Forte era l’esempio offerto dalla letteratura dantesca, petrarchesca e boccaccesca, nella cui scia si moltiplicarono opere di studio e di commento, come il Comento sopra la Comedia, scritto nel 1481 da Cristoforo Landino († 1498). E proprio a Firenze, nel 1441 e su iniziativa dell’Alberti, si svolse in S. Maria del Fiore il primo certamen coronarium, la prima gara poetica in volgare sul tema dell’amicizia. L’iniziativa non sortí alcun effetto pratico, dato che la giuria incaricata di valutare gli elaborati non assegnò il premio previsto per il vincitore – una corona di alloro in argento –, ma sul piano simbolico rappresentò un momento importante nell’affermazione del volgare, cioè dell’italiano dell’epoca, come lingua avente dignità letteraria. Anche Lorenzo de’ Medici fu prolifico scrittore in volgare, autore di sonetti e liriche amorose, in parte dedicati alla sua amante, Lucrezia Donati, di un dramma religioso – Sacra rappresentazione di S. Giovanni e Paolo – di un trattato filosofico – Il Comento – di poemi in genere di ambientazione rustica – L’uccellagione di starne, Nencia da Barberino, Simposio – e di raccolte liriche, come i Canti carnascialeschi e le Canzoni a ballo. Nella cerchia di Lorenzo gravitarono (segue a p. 102)

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I Medici

UNA NUOVA ATENE A destra la Madonna di Palazzo Medici-Riccardi, tempera su tavola di Filippo Lippi, uno dei capolavori del pittore fiorentino. 1466-1469. Rinvenuta ai primi del Novecento all’interno dell’ospedale psichiatrico San Salvi di Firenze, si ritiene sia appartenuta alla famiglia Riccardi che nel XVII sec. acquistò il palazzo mediceo.

scrittori come Angelo Poliziano († 1494) e Luigi Pulci († 1484), entrambi prolifici autori in volgare. Del primo si ricordino i poemi Stanze per la giostra del magnifico Giuliano di Piero de’ Medici e la Fabula di Orfeo; del secondo, invece, il Morgante, dissacrante parodia del poema epico e del mondo e dei valori cavallereschi. Preferirono il latino Leonardo Bruni († 1444) e Poggio Bracciolini († 1459), intellettuali impegnati in politica come cancellieri della repubblica fiorentina. Bracciolini e Bruni rinverdirono l’uso della storiografia e della declamazione retorica come strumenti celebrativi delle glorie della propria città, come traspare dalle Historiae florentini populi e dalla Laudatio florentinae urbis, di Bruni, e dalle Historiae florentini populi di Bracciolini. Si ricordi, inoltre, che gran parte di questi studiosi furono anche infaticabili ricercatori di manoscritti di opere antiche di cui, molto spesso, curarono la trascrizione in volgare o la traduzione dal greco in latino o, addirittura, l’edizione critica filologicamente corretta. Molto attiva nella pubblicazione di edizioni critiche degli antichi manoscritti fu l’officina libraria (segue a p. 104)

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Sulle due pagine particolare della parete sud del ciclo di affreschi della Cappella dei Magi, realizzato da Benozzo Gozzoli su commissione di Piero de’ Medici. In evidenza, nel corteo dei personaggi storici, si nota l’imperatore bizantino Giovanni VIII Paleologo a cavallo. 1459. Firenze, Palazzo Medici Riccardi.


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I Medici

A destra Firenze, S. Maria del Fiore. Fregio della Cantoria di Donatello, con la danza sfrenata dei putti che, secondo alcune interpretazioni, riecheggerebbe temi dionisiaci. 1433-1438. In basso la cattedrale fiorentina in una raffigurazione del Codice Rustici. XV sec.

fiorentina di Vespasiano da Bisticci († 1498), che fu anche autore di Vite di Fiorentini e uomini illustri, scritte in volgare. La diffusione della cultura fu favorita anche dall’avvento della stampa, con l’apertura, a Firenze, della prima tipografia, a opera di Bernardo Cennini († 1498), e dal trasferimento, in città, di molti intellettuali di provenienza greca, in fuga dall’espansione ottomana seguita alla conquista di Costantinopoli. Tra questi intellettuali è da ricordare Giovanni Argiropulo († 1487), precettore del Magnifico e traduttore dal greco in latino di molti manoscritti come l’aristotelico De anima. Alla corte medicea non fu estraneo lo sviluppo degli studi filosofici, a opera di intellettuali del calibro di Marsilio Ficino († 1499) e Pico della Mirandola († 1494), i quali promossero un rinnovamento della filosofia, abbandonando le speculazioni della Scolastica medievale. Vi fu dunque una rinascita del pensiero classico, ma sempre in una prospettiva attualizzante, sincretica, che non disdegnava l’apporto della cultura cristiana, della magia, dell’alchimia e della cabala ebraica. La convinzione di base era che vi fosse, al mondo, una sola grande tradizione sapienziale, che, senza soluzione di continuità, muoveva dall’origine dell’uomo e che, nelle varie culture, aveva poi assunto aspetti diversi, ma che era compito del filosofo autentico ricondurre a unità.

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A Ficino – autore della Theologia platonica de immortalitate animorum – si deve anche la fondazione, nella villa di Careggi, di una vera e propria Accademia platonica, cenacolo al quale partecipò anche Pico, ingegno poliedrico, autore dell’importante trattato De hominis dignitate. A Marsilio e a Pico la cultura umanistica deve la traduzione, dal greco in latino, di molti dialoghi platonici, ma anche di opere di altri filosofi antichi. Al pensiero di Ficino e di Pico appartiene l’esaltazione antropocentrica delle potenzialità creatrici dell’uomo, autentico soggetto della storia ed elemento centrale dell’universo, in grado di congiungere il mondo spirituale con quello naturale in quanto microcosmo, sintesi perfetta tra un elemento immortale, l’anima, e il corpo, elemento corruttibile e materiale. Da ciò discende, sul piano etico, la possibilità dell’essere umano – in quanto dotato di libero arbitrio – di ascendere, attraverso la sapienza e la contemplazione della bellezza, al bene, cioè verso la divinità, o discendere verso il male, cioè verso la ferinità. D’altronde, per gli umanisti l’universo, di cui l’uomo è parte, era un’entità organica e ordinata, in cui ogni elemento, collocato al giusto posto, svolgeva una funzione utile per tutti gli altri: per questo motivo anche l’astrologia e la magia avevano la loro utilità, come strumenti per penetrare e conoscere questa simpatia universale.


Alfonsina Orsini († 1520), noto anche come padre di Caterina de’ Medici († 1589) moglie di Enrico II di Valois († 1559) e regina di Francia. La sua signoria fu breve, poiché nel 1527 i Medici furono rovesciati da una nuova rivolta popolare, che portò alla proclamazione della repubblica, ma il nuovo regime non ebbe vita lunga. Nel 1530 l’imperatore Carlo V d’Asburgo inviò un esercito contro Firenze e nulla poté il valore dei Fiorentini, guidati dal capitano generale Francesco Ferrucci che, sconfitto nella battaglia di Gavinana, fu poi assassinato a tradimento dal comandante delle milizie imperiali Fabrizio Maramaldo († 1552).

Una discendenza incerta

In alto la cupola ottagonale della cattedrale fiorentina di S. Maria del Fiore, opera di Filippo Brunelleschi, la piú grande in muratura mai costruita, che presenta una struttura con due calotte di forma ogivale tra loro collegate. 1420-1471.

gonfaloniere a vita – la repubblica fiorentina sopravvisse fino al 1512, in un clima di endemica violenza. Si scontravano, armi alla mano, vari partiti: gli Arrabbiati, sostenitori di un regime oligarchico, i Palleschi, fautori della restaurazione medicea e, finché Savonarola visse, i Piagnoni, seguaci del frate che auspicavano riforme democratiche. Piero de’ Medici fu costretto all’esilio e trovò rifugio prima a Roma e poi a Venezia. Nel 1503 si aggregò alle truppe francesi di Luigi XII che combattevano nel Mezzogiorno contro gli Spagnoli e annegò mentre attraversava il Garigliano. Il suo corpo fu tumulato nell’abbazia di Montecassino. Il ramo cadetto che faceva capo a Lorenzo († 1440), fratello di Cosimo il Vecchio accettò di collaborare con la repubblica ed evitò cosí l’esilio imposto agli altri esponenti della stirpe medicea. Questo ramo, i cui esponenti non facevano mistero delle loro simpatie popolari e democratiche, ottenne dalla repubblica prebende e incarichi pubblici e rinunciò persino al cognome di famiglia in cambio di quello di Popolani, con il quale fu conosciuto anche in seguito. Nel 1512 la repubblica fiorentina fu abbattuta dall’esercito di Ferdinando II il Cattolico († 1516) e, cosí, la signoria medicea fu restaurata. Alla guida di Firenze si insediò il cardinale Giovanni de’ Medici, figlio del Magnifico, che governò fino a quando, nel 1513, non fu eletto papa col nome di Leone X (1513-1521). La signoria, allora, passò a Lorenzo de’ Medici, duca d’Urbino († 1519), figlio di Piero il Fatuo e di

La signoria risorse nella persona di Alessandro de’ Medici, la cui origine ha suscitato alcune perplessità: per alcuni, sarebbe figlio naturale di Lorenzo, duca d’Urbino, per altri, invece, figlio naturale di papa Clemente VII, che era a sua volta un «bastardo» di Giuliano de’ Medici. Nel 1530, per decisione dell’imperatore, Alessandro fu proclamato duca, ma i suoi modi autoritari ne decretarono la fine. Nel 1537 fu assassinato da Lorenzo de’ Medici, suo parente, meglio noto come Lorenzaccio, e la sua morte non portò alla restaurazione della repubblica, ma alla fuga di Lorenzo a Venezia e al ripristino della signoria nella persona di Cosimo I (1537-1574), figlio di Giovanni dalle Bande Nere († 1526), noto condottiero, e di Maria Salviati († 1543), appartenente a una nobile famiglia fiorentina imparentata con i Medici. Giovanni e il figlio Cosimo appartenevano al ramo cadetto della stirpe medicea noto come Popolani. Nel 1548 Cosimo vendicò Alessandro, facendo assassinare Lorenzaccio da alcuni sicari e poi, nel 1555, con l’aiuto degli Spagnoli, riuscí ad annettere alla signoria Siena, eterna rivale di Firenze. Da quel momento tutta la Toscana fu sottoposta al dominio mediceo e fiorentino. Nel 1569 Cosimo fu investito da papa Pio V (1566-1572) del titolo di granduca di Toscana, accrescendo la forza e il prestigio della casata, la cui autorità si estendeva non piú su una sola città, ma su un’intera regione. Il granducato mediceo fondato da Cosimo sopravvisse fino al 1737, quando, alla morte senza eredi di Gian Gastone de’ Medici (1723-1737), venne acquisito da Francesco Stefano d’AsburgoLorena († 1765), imperatore del Sacro Romano Impero e capostipite della nuova dinastia di origine tedesca – gli Asburgo-Lorena – che durò fino al 1859, quando la Toscana fu annessa al Piemonte sabaudo. LE SIGNORIE

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Comprimari eccellenti


Accanto ai grandi nomi fin qui ricordati, la storia delle signorie italiane annovera famiglie forse meno note, ma solo all’apparenza minori. Anche le vicende dei Malatesta o dei Montefeltro, infatti, sono scandite da personaggi ed eventi di sicura rilevanza politica e culturale

Particolare dei Trionfi allegorici dipinti sul retro del dittico di Piero della Francesca che ritrae i duchi di Urbino (vedi foto a p. 122). 1473-1475 circa. Firenze, Gallerie degli Uffizi. Federico da Montefeltro siede su un carro trainato da due cavalli bianchi, mentre una Vittoria alata gli cinge il capo con una corona d’alloro; davanti a lui trovano posto quattro figure femminili che rappresentano le virtú cardinali. LE SIGNORIE

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uesta rassegna delle principali famiglie signorili italiane non può concludersi senza dar conto di quelle dinastie che, pur non avendo avuto un ruolo importante nella storia del Paese, svolsero funzioni rilevanti sul piano locale, come creare amministrazioni, promulgare codici, promuovere sviluppo e iniziative culturali. In queste pagine ci si concentrerà sulle piú note, a cominciare dal Veneto. In quest’area territoriale, dopo il crollo della signoria dei da Romano e la disgregazione della marca trevigiana, in molte città salirono al potere famiglie locali, in gran parte di origine «feudale» e cavalleresca, detentrici di vasti patrimoni nel contado cittadino, ma progressivamente inurbatesi e pienamente inserite nel contesto amministrativo e politico delle città. Due di queste furono i da Camino – o Caminesi – e i da Carrara, o Carraresi. I da Camino – cosí chiamati dall’omonimo castello presso Oderzo – erano divisi in due rami distinti – i da Sopra e i da Sotto – e vantavano una lunga inimicizia con i da Romano e un’altrettanto lunga militanza guelfa. Appartenente al ramo da Sopra, Gherardo da Camino venne eletto capitano del popolo e signore di Treviso nel 1283, pochi anni dopo la morte di Ezzelino III. Il dominio di questa famiglia su Treviso non ebbe lunga vita e, alla morte

In alto lo stemma dei da Camino, nobili della marca trevigiana, la cui ascesa politica culminò nel XIII sec. Qui sopra una versione tarda dello stemma della famiglia da Camino, il cui blasone era in origine molto semplice e solo in un secondo tempo adottò la figura del camino merlato. A sinistra le insegne di Giacomo da Carrara. XIV sec. Padova, Biblioteca Capitolare. Sulle due pagine le mura in mattoni di Castelfranco Veneto, edificate nel XII sec. dai conti di Treviso, che si estendono per 230 m e cingono tuttora il centro storico della città.

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di Gherardo, nel 1306, gli successero i figli, Rizzardo († 1312) e Guecellone († 1324), che occuparono anche Feltre e Belluno e ottennero il titolo di vicario imperiale. Nel 1329 Treviso fu espugnata da Cangrande della Scala, signore di Verona, che mirava a ricostituire la marca trevigiana del secolo precedente, mentre l’ultimo dei Carraresi, Rizzardo II († 1335), figlio di Guecellone, andava in esilio (vedi box qui accanto). Nel XV secolo Treviso fu inglobata nei possedimenti veneziani. I Carraresi erano originari del castello omonimo nel Padovano e fondarono la loro signoria nel 1318, quando Giacomo da Carrara († 1324) fu eletto capitano del popolo a vita. Nel 1328 il figlio di Giacomo, Marsilio (1324-1338), fece atto di sottomissione ai della

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GRANDI DINASTIE

QUELLI DEL BLASONE «PARLANTE» In araldica è denominato blasone «parlante» lo stemma gentilizio che, nella sua strutturazione grafica, nelle immagini che lo caratterizzano, richiama il valore semantico o fonetico del nome della famiglia d’appartenenza. È questo il caso di molte stirpi signorili venete, come i Caminesi e i Carraresi sul cui blasone erano raffigurati un camino e un carro. Anche gli Scaligeri o della Scala, famiglia veronese di origini ignote, avevano raffigurata, nel proprio stemma, una scala. Il primo scaligero noto è Balduino, console a Verona nel 1147. Nel 1259, alla caduta dei da Romano, Mastino I della Scala, esponente della fazione ghibellina, si fece eleggere podestà, carica a cui aggiunse quella di capitano del popolo e, nel 1263, di signore. Nel 1277 fu assassinato e sostituito dal fratello Alberto, che consolidò la signoria riuscendo a renderne ereditari i poteri. Infatti, alla sua morte, nel 1301, gli subentrarono i figli Bartolomeo (1301-1304), Alboino (1304-1311) e Cangrande I (1311-1329). Sotto quest’ultimo iniziò l’espansione militare di Verona e


della signoria scaligera verso le città circostanti che, nel volgere di alcuni anni, tra il 1311 e il 1329, portò alla sottomissione di Padova, Vicenza, Treviso, Feltre e Belluno consentendo a Cangrande di ricostruire l’antica marca trevigiana – poi denominata marca scaligera –, già sottomessa a Ezzelino III e che, con il nuovo signore, ebbe come epicentro Verona. Cangrande divenne il capo incontrastato dei ghibellini italiani grazie al supporto degli imperatori germanici Enrico VII (1308-1313) e Ludovico IV il Bavaro (1314-1347), che gli concessero il titolo di vicario imperiale e supporto finanziario e militare. Tuttavia, la fedeltà del signore veronese all’impero, nel 1320 ne determinò la scomunica. Cangrande fu una delle figure piú affascinanti dell’Italia del XIV secolo, sia come uomo d’armi che politico, tanto da spingere Dante Alighieri, che soggiornò alla sua corte tra il 1316 e il 1319, a ricordarlo nella Commedia (Paradiso, XVII) e a dedicargli la cantica del Paradiso.

Il signore di Verona, inoltre, fu mecenate e protettore di letterati, alcuni dei quali furono ospiti fissi alla sua corte, come il poeta e cronista vicentino Ferreto de’ Ferreti († 1337), autore del Carmen de origine gentis scaligerae, un poema, in lingua latina, celebrativo della stirpe scaligera. Cangrande fu anche il protagonista della prima tragedia classica del Medioevo italiano, scritta sull’esempio degli antichi drammi latini da Albertino Mussato († 1329), notaio, diplomatico, poeta e storico, originario di Padova. Nel 1315 Mussato compose l’Ecirinis, un dramma ispirato alla figura di Ezzelino III da Romano che gli valse l’incoronazione poetica da parte della sua città. Nell’Ecirinis, dietro al personaggio di Ezzelino, Mussato faceva un chiaro riferimento alla situazione politica del suo tempo e, cioè, alla figura di Cangrande che, come Ezzelino, fu capo ghibellino e tiranno. Altra opera di Mussato fortemente permeata di

Nella pagina accanto il monumento funebre dedicato al condottiero Mastino II della Scala nel centro storico di Verona, un’arca a base quadrangolare decorata da raffinati altorilievi che raffigurano vicende di storia sacra. XIV sec. In alto lo stemma degli Scaligeri di Verona. A destra statua equestre posta sulla sommità dell’arca di Mastino II della Scala.

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sentimenti antiscaligeri fu il De obsidione domini Canis grandis de Verona ante civitatem paduanam, un poema in cui veniva narrata l’eroica resistenza di Padova al terribile assedio di Cangrande del 1319-1320. Nel 1329 la morte improvvisa del signore di Verona suscitò sgomento e diede vita a varie ipotesi, una delle quali, l’avvelenamento, è stata recentemente confermata. Nel 2004, infatti, un’équipe di paleopatologi ha riesumato la salma di Cangrande, che è stata trovata in ottime condizioni, e l’ha sottoposta ad analisi che hanno rivelato la presenza, nello stomaco dello scaligero, di tracce di digitalis purpurea, una pianta di cui, anche nel Medioevo, erano conosciute le proprietà mortifere e letali. A Cangrande subentrarono i nipoti Mastino II († 1351) e Alberto II († 1352), che ampliarono ulteriormente le conquiste scaligere, occupando Bergamo, Brescia, Parma, Piacenza e Lucca, e provocando, nel 1337, la reazione delle altre città e signorie italiane che, sotto la guida dei Visconti di Milano, si coalizzarono contro di loro. Con i successori di Alberto II, infatti, iniziò la decadenza della signoria veronese

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che, durante il governo di Cangrande II (1352-1359) e Cansignorio (1359-1375), perse progressivamente tutti i suoi domini esclusa la marca scaligera. La marca fu infine conquistata da Gian Galeazzo Visconti, il quale, nel 1387, espugnò Verona e costrinse Antonio della Scala (1381-1387) a prendere la via dell’esilio. La morte di Antonio, avvenuta l’anno successivo, segnò la fine delle fortune della famiglia, i cui ultimi discendenti si estinsero nel XVI secolo. I domini scaligeri furono, poi, incorporati da Venezia agli inizi del XV secolo. Ancora oggi, la grandezza e la fama dei della Scala sono testimoniate dal complesso funerario noto come «arche scaligere», che costituisce uno degli esempi piú affascinanti di scultura tardo-gotica. Le arche scaligere sono dedicate ad alcuni dei piú importanti rappresentanti della stirpe signorile veneta e collocate a poca distanza l’una dall’altra a Verona, nell’area della chiesa di S. Maria Antica. I sarcofagi sono in genere scolpiti con bassorilievi che illustrano le gesta del defunto, raffigurato anche in statue a tutto tondo, spesso a cavallo, in posa marziale e con panoplia completa.


gnorili. Gran parte di queste famiglie apparteneva alla fazione guelfa e, formalmente, era subordinata alla Santa Sede da vincoli di vassallaggio, quindi governava i suoi possedimenti in virtú di una delega vicariale di autorità in temporalibus, rilasciata dal papa. I possedimenti signorili, pertanto, costituivano le terrae mediate subiectae dello Stato della Chiesa, distinte dalle terrae immediate subiectae, territori sottoposti immediatamente alla potestà temporale del papa, attraverso il governo dei suoi legati e funzionari. In quanto vassalli del papa, i signori erano teoricamente tenuti a fornire milizie, su richiesta del pontefice, e a pagare censi alla camera apostolica. Nella realtà, i concreti equilibri di forze facevano dei signori locali dei veri e propri dinasti, spesso in guerra col papa e poco propensi a piegarsi alla sua volontà. Durante la permanenza della curia papale ad Avignone (1309-1377), il processo di frammentazione politica dello Stato pontificio raggiunse il culmine e i signori locali profittarono dell’assenza dei papi dall’Italia per appropriarsi di territori sempre piú vasti e usurpare sempre maggiori prerogative pubbliche.

Missione fallita

Verona. Una delle arcate del ponte di Castelvecchio, che appartiene al complesso dell’antico castello di San Martino in Aquaro, monumento simbolo del potere scaligero sulla città. Sullo sfondo una delle torri della fortezza. 1354-1356.

Scala, che consentirono a lui e ai suoi successori di continuare a governare Padova, ma in qualità di vicari. Alla fine del XIV secolo la famiglia fu dilaniata da confitti interni tra i vari rami della stirpe e dovette contenere l’espansione dei Visconti e di Venezia. Nel 1388 Francesco I il Vecchio (1350-1388) fu fatto prigioniero da Gian Galeazzo Visconti e imprigionato a Monza dove morí nel 1393. In quell’anno Francesco II il Novello (1393-1405) riprese il potere per poi perderlo qualche anno dopo, nel 1405, quando fu spodestato da Venezia, che incorporò Padova ai possessi di terraferma. Fatto prigioniero, nel 1406 Francesco II fu ucciso assieme ai figli Francesco e Jacopo. Piú a sud, in Emilia e Romagna, nelle Marche e in Umbria, nei territori del Patrimonium beati Petri, ovvero lo Stato pontificio, la frammentazione territoriale e politica era giunta, agli inizi del XIV secolo, a livelli spaventosi, proprio a causa dell’affermarsi di numerosi lignaggi si-

Tuttavia, anche in absentia, i pontefici cercarono di contenere il fenomeno, designando uomini di fiducia che, in qualità di cardinali legati, amministrassero lo Stato e provvedessero, anche con le armi, a contenere gli abusi dei signori, riconducendoli all’obbedienza. Il primo legato fu Bertrando del Poggetto, il quale – come si è detto – fu nominato da papa Giovanni XXII, di cui era nipote. La missione del Poggetto, incaricato anche di guidare la crociata contro i ghibellini Visconti, si rivelò un insuccesso. Infatti, nonostante il legato fosse riuscito a sottomettere molte città del Patrimonium – come Bologna, Perugia, Piacenza, Parma –, non riuscí a evitare che Roma fosse occupata, nel 1328, dalle milizie germaniche dell’imperatore Ludovico il Bavaro. Del Poggetto fu costretto a richiedere l’aiuto di regnanti stranieri come Giovanni re di Boemia e Roberto d’Angiò, re di Napoli, ma, nel 1334, fu richiamato ad Avignone. Qualche anno piú tardi, nel 1353, il nuovo papa, Innocenzo VI (1352-1362), inviò in Italia un nuovo legato, il castigliano Egidio Albornoz († 1367), affinché riconducesse alla ragione i signorotti locali e imponesse l’ordine anche a Roma, insediando come governatore pontificio e senatore Cola di Rienzo († 1354). Nicola di Lorenzo Gabrini – detto Cola di Rienzo – era figlio di un taverniere e di un’ostessa, animato LE SIGNORIE

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da una solida cultura storico-giuridica e da una sincera passione per l’epigrafia e la numismatica antica, ed era riuscito a diventare notaio della camera apostolica.

Nostalgie di antiche grandezze

Convinto sostenitore della romanità, Cola era pervaso dall’ideale imperiale e dalla convinzione dell’alta funzione che l’impero avrebbe potuto svolgere in quei momenti bui della storia d’Italia e di Roma. Pertanto, nel maggio del 1347, si proclamò tribuno della Repubblica romana, dichiarò decaduto il potere temporale dei papi e annunciò la fondazione dell’Ordinamento del buono Stato, nel corso di un solenne consesso, a cui parteciparono delegazioni diplomatiche giunte da tutta Italia. Instaurò a Roma una sorta di potere di stampo signorile, ma il suo comportamento eccessivamente autoritario esasperò tutti i ceti dell’Urbe e cosí, nell’ottobre del 1347, una cospirazione 114

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Il Palazzo dei Papi di Avignone, la città francese che fu sede pontificia dal 1309 al 1377.

lo costrinse a fuggire a Praga, all’epoca capitale dell’impero. Messo agli arresti, Cola fu poi trasferito ad Avignone, sede dei papi, dove rimase fino al 1353, quando tornò utile ai disegni di Innocenzo VI. Il pontefice, infatti, deciso a ripristinare l’ordine nella Città Eterna, lo liberò e, dopo averlo nominato senatore, con pieni poteri di governo, lo affiancò al legato pontificio. La missione del legato Albornoz andò a buon fine – nonostante l’assassinio di Cola nel corso di un tumulto – e si concluse con la promulgazione nel 1357, a Fano, delle Constitutiones Sanctae Matris Ecclesiae, un codice legislativo che riordinava, in maniera organica, tutta la normativa applicata nel Patrimonium beati Petri. Malgrado il successo dell’Albornoz, dopo la sua morte e con il ritorno dei papi a Roma, nel 1377, il problema della gestione dei rapporti con i signorotti locali rimase e trovò una soluzione radicale solo durante il papato di Alessandro VI Borgia.


Per tornare alle stirpi signorili attive nel Patrimonium beati Petri, ed escludendo le famiglie del baronaggio romano e laziale – Colonna, Orsini, Savelli – dalle cui fila provenivano, molto spesso, gli stessi pontefici, si faranno alcune considerazioni sui da Polenta, Malatesta e Montefeltro. I primi – il cui cognome derivava dal castrum presso il colle di Bertinoro, in Romagna – si erano insignoriti di Ravenna intorno al 1275, con Guido il Giovane (1275-1310), già podestà, capitano del popolo, advocatus e vassallo dell’arcidiocesi. A Guido successe il nipote, Guido Novello (1310-1330), che rafforzò il controllo sulla diocesi imponendo Rinaldo († 1322), suo parente, come vescovo, ed è noto soprattutto come ospite di Dante Alighieri, nell’ultima fase del suo esilio. Guido fu l’unico dei signori presso cui il poeta trovò rifugio che si preoccupò, seriamente, di offrire a lui e alla sua famiglia una protezione adeguata. Infatti accolse la figlia Antonia († 1371 circa) come monaca nel monastero di S. Stefano,

e donò una casa al poeta e ai due figli Jacopo († 1349), e Pietro († 1364). A Pietro, che era un laico, Guido Novello conferí il rettorato di due chiese, S. Maria in Zenzanigola e S. Simone de Muro, affinché ne percepisse le rendite. Dante morí a Ravenna, nel 1321, al ritorno da Venezia, dove aveva svolto una missione diplomatica su incarico di Guido da Polenta. Agli inizi del Quattrocento, dilaniati dai conflitti tra i vari rami genealogici e dall’aggressività dei papi, dei Visconti e di Venezia, che ambivano a impossessarsi di Ravenna, Obizzo (13891431) si pose sotto il protettorato della Serenissima. Alla sua morte, Ostasio (1431-1441) gli successe nella signoria, ma, considerato infido dal governo di Venezia, fu deposto nel 1441 ed esiliato a Creta, dove morí nel 1447. La sua morte determinò l’estinzione della famiglia, mentre Ravenna e il suo territorio furono incorporati nei possedimenti veneziani di terraferma. Nel 1509 Venezia restituí Ravenna allo

Dante presenta Giotto a Guido da Polenta, signore di Ravenna, olio su tela del pittore fiorentino Giovanni Mochi. XIX sec. Firenze, Palazzo Pitti.

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In alto miniatura raffigurante Dante e Virgilio che incontrano Paolo e Francesca, da un’edizione quattrocentesca della Divina Commedia. Milano, Biblioteca Trivulziana. A sinistra Sigismondo Pandolfo Malatesta in preghiera davanti a san Sigismondo, affresco di Piero della Francesca. 1451. Rimini, Tempio Malatestiano. Il nobile, inginocchiato, si rivolge al santo protettore che siede sulla sinistra, su un trono, e presenta, secondo alcune interpretazioni, una somiglianza con l’imperatore Sigismondo di Lussemburgo.

Stato pontificio solo dopo aver subito la sconfitta di Agnadello da parte della Lega di Cambrai, un’alleanza fra stati della Penisola – alla quale avevano aderito anche Inghilterra, Francia, impero e Spagna – promossa da papa Giulio II contro la Serenissima.

I signori di Rimini

I Malatesta avevano origine nel Montefeltro, regione dai confini incerti, ubicata tra Marche e Romagna, dove erano i castelli e i fondi di proprietà della famiglia. Nel 1239 Malatesta I († 1248) – da Verrucchio o della Penna – divenne podestà di Rimini, creando i presupposti per l’istaurazione della signoria, poi formalmente istituita dal figlio, Malatesta II il Vecchio (12481312), che assunse i poteri del padre a titolo vitalizio. Malatesta II fu il padre di Giovanni († 1304), detto Gianciotto, protagonista, nel 1285, dell’uccisione della moglie, Francesca da Polenta, e del suo amante, il fratello Paolo Malatesta, ricordata anche da Dante Alighieri (Inferno, V). La signoria malatestiana si consolidò sotto i figli di Malatesta II, Malatesta III († 1364) e Galeotto († 1385), che conquistarono anche Pesaro, Fano, Senigallia, Ancona e Cesena e ottennero la concessione del titolo di vicario pontificio che legittimò, giuridicamente, le nuove conquiste. Nel 1427 i domini di famiglia furono riunificati da Sigismondo Pandolfo Malatesta (1427-1468), mecenate e abile condottiero, al servizio dei piú diversi potentati italiani e che con il suo acerrimo avversario, Federico da Montefeltro († 1482), signore di Urbino, fu uno degli indiscutibili protagonisti della sua epoca (vedi box alle pp. 118-120). Dopo la morte di Sigismondo Pandolfo, la signoria malatestiana passò al figlio, Roberto, (segue a p. 121) LE SIGNORIE

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SIGISMONDO E FEDERICO: SIGNORI E CONDOTTIERI Sigismondo Pandolfo Malatesta e Federico III da Montefeltro furono tra le personalità piú affascinanti dell’universo signorile italiano. Acerrimi avversari – l’uno guelfo e l’altro ghibellino –, conciliarono efficacemente la forza delle armi con il ruolo di guida politica e, non perdendo di vista le necessità dello spirito, trasformarono le loro corti in splendidi cenacoli culturali. Figlio di Pandolfo III Malatesta († 1427), Sigismondo salí al potere alla morte del padre, unificando i possessi malatestiani, da tempo frazionati tra i vari rami familiari che facevano capo agli zii Andrea († 1416) e Carlo († 1429). Oltre che signore, Sigismondo fu anche uno spregiudicato condottiero, disposto a battersi per il miglior offerente. Militò, infatti, agli ordini dei Visconti e, poi, di Francesco Sforza, di cui, nel 1442, sposò una figlia naturale, Polissena († 1449).

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Intervenne anche nelle guerre di successione per il regno di Napoli, schierandosi prima dalla parte degli Aragonesi e poi degli Angioini, e cosí, nel 1461, fu scomunicato da papa Pio II, che bandí contro di lui una vera e propria crociata, affidandone il comando al suo piú acerrimo nemico, Federico da Montefeltro. Il papa accusava il Malatesta di avere anche assassinato le prime due mogli, Ginevra d’Este e Polissena Sforza. La crociata non impedí a Sigismondo di partire per la Morea – l’attuale Peloponneso – dove combatté i Turchi al servizio di Venezia (1464-1466). Spossato dalla fatica, morí nel 1468, dopo aver perso tutti i suoi domini, eccetto Rimini, a favore della Chiesa. Federico III da Montefeltro, invece, divenne signore di Urbino nel 1444, dopo l’assassinio del fratellastro Oddantonio, figlio del conte Guidantonio – signore di


Nella pagina accanto Rimini. Il Tempio Malatestiano, monumentale mausoleo voluto da Sigismondo Pandolfo Malatesta e costruito alla metà del Quattrocento dall’architetto ligure Leon Battista Alberti sulla struttura di una preesistente chiesa gotica. A destra la tomba della moglie di Sigismondo Pandolfo Malatesta, Isotta degli Atti, all’interno del Tempio Malatestiano. Urbino tra il 1404 e il 1443 – e della seconda moglie, Caterina Colonna († 1438). Benché la sua genealogia sia dubbia, Federico è comunemente ritenuto figlio naturale di Guidantonio ed Elisabetta degli Accomanducci, dama di corte al servizio di Rengarda Malatesta († 1423), prima moglie del conte. Benché di parte ghibellina, Federico III militò al servizio dei papi e, nel 1474, ottenne da Sisto IV il riconoscimento del titolo di duca, in cambio dell’aiuto prestato al pontefice nel domare la rivolta di Città di Castello. Nel 1460, vedovo della prima moglie, Gentile Brancaleoni († 1457), decise di legarsi al ramo degli Sforza, signori di Pesaro, sposando Battista Sforza († 1472), figlia di Alessandro († 1473), fratello del duca di Milano. Svolse un ruolo molto importante nella congiura dei Pazzi, come comandante delle truppe che, da Urbino, avrebbero dovuto marciare alla volta di Firenze per impossessarsi della città, se la cospirazione fosse andata a buon fine. Nel 1479, infatti, vinse la battaglia di Colle Val d’Elsa contro i Fiorentini, in guerra col papa, benché, precedentemente, avesse servito in armi la repubblica di Firenze durante la guerra contro Volterra, conclusasi con il terribile sacco della città (1472). Federico morí nel 1482, durante la guerra di Ferrara, mentre combatteva al servizio degli Este contro il papato, e fu a sepolto a Urbino nel mausoleo ducale, la chiesa di S. Bernardino. Sia Sigismondo che Pandolfo furono entusiasti promotori di cultura e protettori di artisti. Sigismondo promosse il rinnovamento urbano di Rimini, chiamandovi Leon Battista Alberti († 1472) perché realizzasse il Tempio Malatestiano. Si trattava di una chiesa gotica, dedicata a san Francesco, e di cui Sigismondo promosse il totale rinnovamento edilizio, all’insegna del gusto classicheggiante rinverdito dall’Umanesimo e di cui l’Alberti era un promotore. La chiesa era destinata a diventare il mausoleo della dinastia e Sigismondo vi fu sepolto assieme alle tre mogli, Ginevra d’Este († 1440), Polissena Sforza († 1449) e Isotta degli Atti († 1474). Il corpo della chiesa – mai completata – fu dall’Alberti rivestito di marmo e ornato di arcate cieche, lungo le pareti laterali, in cui furono murati sarcofagi classici, mentre la facciata fu trasformata sul modello di un arco di trionfo romano. All’interno la chiesa fu decorata di splendidi affreschi, come il ritratto di san Sigismondo – patrono della dinastia – con Pandolfo Malatesta genuflesso in preghiera, opera di Piero della Francesca († 1492), e le

sculture che ornano alcune cappelle – cappella «di Isotta», «delle arti liberali», «dei pianeti» – sono opera di Agostino di Duccio († 1481). Alla committenza di Sigismondo è attribuibile anche il Castel Sismondo, il castello-residenza di famiglia, nel centro di Rimini, forse realizzato su progetto di Filippo Brunelleschi († 1446). Tra i letterati che soggiornarono alla corte di Rimini si ricordi l’umanista Roberto Valturio († 1475), uno dei piú noti trattatisti militari, autore dei 12 libri del De re militari. Urbino, invece, durante il governo di Federico, ospitò personalità del calibro di Luciano Laurana († 1479), architetto di origine dalmata al quale si deve l’erezione del Palazzo Ducale che domina dall’alto la città, poi completato dal toscano Francesco di Giorgio Martini († 1501), noto architetto militare. Alla decorazione degli ambienti interni contribuirono pittori come lo spagnolo Pietro Berruguete († 1504) e il fiammingo Giusto di Gand († 1475), autori dei Ritratti di uomini famosi che ornavano lo studiolo di Federico, mentre al solo Berruguete è attribuito il Ritratto di Federico da Montefeltro e del figlio Guidobaldo, oggi conservato presso la Galleria Nazionale delle Marche di

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SIGISMONDO E FEDERICO: SIGNORI E CONDOTTIERI A sinistra la Pala di Brera, olio su tavola di Piero della Francesca che raffigura la Madonna in atteggiamento di preghiera dinanzi a Gesú bambino e affiancata da figure di angeli e di santi. 1472. Milano, Pinacoteca di Brera. Commissionata dal duca Federico di Montefeltro, è un’opera simbolo dell’Umanesimo che permeava la corte urbinate. Nella pagina accanto Ritratto di Federico da Montefeltro e del figlio Guidobaldo, olio su tela del pittore spagnolo Pedro Berruguete. 1475. Urbino, Galleria Nazionale delle Marche.

Urbino. Durante il soggiorno alla corte di Federico, Piero della Francesca realizzò alcune delle sue opere piú note, come la Flagellazione, la Madonna di Senigallia e i ritratti affrontati di Federico da Montefeltro e Battista Sforza.

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Tra i letterati che soggiornarono alla corte ducale possiamo ricordare il matematico Luca Pacioli († 1517), autore del trattato Summa de arithmetica, geometria, proportioni, et proportionalità.


anch’egli abile capitano di ventura al servizio di Venezia e, poi, del papa, morto nel 1482 nella battaglia di Campomorto, mentre combatteva contro gli Aragonesi, durante la guerra di Ferrara. Il figlio naturale di Roberto, Pandolfo IV – detto anche Pandolfaccio – ereditò la signoria, ma, privo delle qualità paterne e odiato dai sudditi per i suoi metodi tirannici, fu spodestato nel 1501 da Cesare Borgia († 1507), figlio di papa Alessandro VI e comandante delle milizie pontificie (vedi box alle pp. 124-125). Con la caduta dei Borgia, Pandolfo tentò di rientrare a Rimini, ormai annessa ai domini pontifici, ma ne fu cacciato, militò poi al servizio di Venezia, e si trasferí, in seguito, a Ferrara, ospite degli Este, dove morí nel 1534.

Anche Dante in battaglia

Storici nemici dei Malatesta furono senz’altro i Montefeltro, famiglia di incerte origini e che, diversamente dai Malatesta, era di parte ghibellina. I possedimenti della stirpe sono attestati, per la prima volta, nel XII secolo, nella regione del Montefeltro, e l’epicentro degli stessi doveva essere, già all’epoca, il castrum di San Leo. Nel 1241 Buonconte I († 1253) ottenne il titolo di conte e l’investitura del governo di Urbino dall’imperatore Federico II di Svevia. A Buonconte successe Guido (1253-1296), che militò al servizio del partito ghibellino in Toscana e Romagna, e fu padre del Buonconte citato da Dante come uomo di grande umanità (Purgatorio, V), e fu comandante della lega ghibellina toscana sconfitta dai Fiorentini a Campaldino, nel 1289. A quella battaglia partecipò, tra le fila guelfe, anche il giovane Dante Alighieri. Guido da Montefeltro intervenne in molte città per rovesciarne i regimi guelfi e instaurare governi ghibellini fedeli all’impero. Nel 1288, per esempio, intervenne a Pisa, dove aiutò il vescovo ghibellino, Ruggero degli Ubaldini, a spodestare il conte Ugolino della Gherardesca, il quale, di simpatie guelfe, aveva instaurato nel 1284 la sua signoria in città. Tuttavia, nel 1296, si riconciliò col papa, abdicò e si fece francescano, morendo in convento nel 1298. Suo figlio, Federico (1296-1322), ereditò la signoria e consolidò il potere della famiglia, svolgendo anche le funzioni di vicario imperiale in molte città italiane, tra cui Pisa e Arezzo. È però agli inizi del XV secolo che la famiglia iniziò a far parlare di sé grazie alle straordinarie imprese del suo piú importante esponente, Federico III da Montefeltro, al quale successe il figlio Guidobaldo, anch’egli costretto a rinunciare alla signoria in favore di Cesare Borgia LE SIGNORIE

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I duchi di Urbino Federico da Montefeltro e Battista Sforza, dittico a olio su tavola di Piero della Francesca. 1473-1475 circa. Firenze, Gallerie degli Uffizi. È una delle raffigurazioni ritrattistiche piú celebri del Rinascimento italiano: l’armonia classicheggiante dei profili dei nobili si colloca in una prospettiva che fa emergere anche i minuti particolari del paesaggio marchigiano, ben visibili sullo sfondo.

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(1501). Tuttavia, dopo la caduta dei Borgia, rientrò a Urbino e, alla sua morte, nel 1508, il ducato passò alla nuova dinastia dei della Rovere, nella persona di Francesco Maria I († 1538), figlio di Giovanni († 1501), signore di Senigallia e nipote di papa Sisto IV, e di Giovanna († 1513), sorella di Guidobaldo.

Il manuale del perfetto gentiluomo

Ospite della corte di Guidobaldo e Francesco Maria I della Rovere fu il mantovano Baldesar Castiglione († 1529), intellettuale, scrittore e uomo d’armi, che, verso la fine della vita, rimasto vedovo, abbracciò la vita ecclesiastica e fu nunzio pontificio in Spagna. Durante il soggiorno a Urbino, il Castiglione scrisse, in volgare lombardo, Il Cortegiano, vero e proprio vademecum del perfetto «uomo di corte», nel quale codificò i criteri morali ed estetici a cui dovevano conformarsi gli aspiranti «gentiluomini» e «gentildonne». A essi, secondo l’autore, erano richieste non solo competenza politica, amministrativa e civile, ma anche perizia letteraria, artistica e musicale, a cui dovevano aggiungersi fermezza e padronanza di carattere tali da ele-

vare anche le passioni piú sensuali alla contemplazione della bellezza morale e universale, secondo i canoni dell’imperante civiltà umanistica. I della Rovere conservarono il ducato fino al 1631 quando, estintasi la dinastia, Urbino fu incorporata nel demanio papale. Accanto ai Malatesta e ai Montefeltro, sono da ricordare anche gli Ordelaffi, i Manfredi e i da Varano. Gli Ordelaffi, signori di Forlí, si impossessarono della città nel 1306, quando Scarpetta († 1317) fu eletto capitano del popolo, carica resa, poi, vitalizia. Come i Montefeltro, gli Ordelaffi costituiscono un’autentica anomalia nel panorama delle signorie sorte all’interno dei territori papali, proprio perché si trattava di una famiglia di orientamento ghibellino e che, proprio per questo, fu in perenne conflitto con la Santa Sede. A Scarpetta successe il nipote, Francesco († 1374), che ampliò i domini dinastici, conquistando Forlimpopoli e Castrocaro e, nel 1337, riuscí a ottenere dal papa la concessione dell’ufficio vicariale. Nel 1354, Francesco venne cacciato da Forlí dalle truppe pontificie guidate dall’Albornoz – incaricato dal papa di riportare all’ordine tutti i dinasti del Patrimo-


In alto il Palazzo Ducale di Urbino, con l’imponente facciata dei Torricini, capolavoro dell’architettura rinascimentale, che Federico di Montefeltro commissionò a illustri maestranze, tra le quali spiccano i nomi di Francesco di Giorgio Martini, Maso di Bartolomeo e Luciano Laurana. XV sec. A sinistra le splendide decorazioni dello Studiolo di Federico di Montefeltro, raffiguranti uomini illustri, attribuite al pittore fiammingo Giusto di Gand e allo spagnolo Pedro Berruguete. 1473-1476. Urbino, Palazzo Ducale.

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CESARE BORGIA E L’EDIFICAZIONE DELLO STATO PONTIFICIO Cesare Borgia, duca di Valentinois, gonfaloniere e capitano generale della Chiesa, duca di Romagna, è passato alla storia come il perfetto esempio del principe rinascimentale crudele, amorale e privo di scrupoli e non è un caso che Niccolò Machiavelli, scrivendo Il principe (1513), abbia pensato proprio a lui, che conobbe di persona in occasione dell’adempimento di alcuni incarichi diplomatici al servizio di Firenze. Cesare era nato a Roma, intorno al 1475, dal cardinale Rodrigo Borgia – futuro papa Alessandro VI – e da una locandiera Vannozza Cattanei († 1518). Fu avviato alla carriera ecclesiastica e già a quattordici anni era notaio apostolico e canonico di Valenza. Nel 1491 fu designato vescovo di Pamplona. Studiò teologia e diritto canonico a Perugia e Pisa, venne promosso cardinale diacono di S. Maria Nuova e arcivescovo di Valenza dal padre – nel frattempo diventato papa – nel 1493. Nel 1498 Alessandro VI creò le premesse per la scalata al successo del suo primogenito. Morto il fratello Giovanni, nel 1497, il papa fu costretto a ripiegare su Cesare per realizzare i suoi ambiziosi disegni politici, quindi consentí al figlio di abbandonare lo stato clericale per ritornare a quello laicale, facendo sí che si sposasse, e fu Luigi XII di Francia a trovare una sposa al giovane. Si trattava di Carlotta d’Albret († 1514), sorella del re di Navarra. Il nuovo legame del papato con la Francia, però, non si limitò solo ai matrimoni, ma divenne sempre piú stretto, poiché Cesare fu insignito da Luigi del titolo di duca di Valentinois, uno dei feudi del regno di Francia, ed ebbe dal re il comando di un esercito per realizzare i suoi progetti di gloria. Da quel momento Cesare decorò il suo blasone di famiglia – in cui era inscritto un toro rosso – con i tre gigli di Francia e, in alleanza con la Francia, il papa concesse via libera a Luigi per l’annessione del ducato di Milano e del regno di Napoli. Mentre i Francesi procedevano alle nuove

nium beati Petri –, ma, dopo la morte del legato, la famiglia ritornò in possesso dei suoi domini fino al 1480, quando Pino III Ordelaffi, signore dal 1466, fu avvelenato e Forlí fu acquisita da papa Sisto IV per farne un ducato da destinare al nipote Girolamo. Gli Ordelaffi tornarono al potere solo dopo la caduta dei Borgia, nel 1503, ma, l’anno successivo, la morte di Ludovico II 124

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annessioni, Cesare, capitano generale delle milizie pontificie, domava la riottosa nobiltà laziale, lanciandosi in una serie di conquiste in direzione dell’Italia centro-settentrionale, formalmente sottoposta al papa ma, in realtà, governata da una moltitudine di città e signorie

pose fine alla signoria, i cui domini furono incorporati nel demanio papale. Meno noti dei precedenti, i Manfredi furono una famiglia di probabili origini borghesi, cosa non rara tra le dinastie dell’Italia centro-settentrionale, attiva a Faenza, tra le fila guelfe, fin dal XII secolo (vedi box a p. 126). L’instaurazione della signoria faentina avvenne nel 1313, con


autonome. Tra il 1499 e il 1500 Cesare occupò la signoria di Imola e Forlí, deponendo Caterina Sforza, legittima signora di quei territori, che fu incarcerata in Castel Sant’Angelo e liberata nel 1501, su pressione di Firenze, dove si stabilí. Tornato a Roma mentre era in corso il Giubileo, Cesare celebrò uno splendido trionfo, sull’esempio di quelli imperiali, in una solenne apoteosi, che mescolava sacro e profano. Tra il 1501 e il 1502, il Valentino espugnò Pesaro, Camerino, Urbino e Rimini, deponendo una serie di importanti famiglie signorili quali gli Sforza, i da Varano, i Montefeltro e i Malatesta, i cui membri furono costretti all’esilio, imprigionati o uccisi come accadde ad Astorre III Manfredi di Faenza, incarcerato e poi trucidato. Le conquiste di Cesare incontravano precisi limiti negli stati che erano sotto la protezione del re di Francia – Firenze, Bologna, Perugia, Ferrara – che il Valentino non poté conquistare. Per espressa volontà del padre-papa, l’insieme dei territori sottomessi andò a costituire il ducato di Romagna e, nel 1501, Cesare ottenne il titolo di duca. Non piú soggetti all’autorità del papa, città e principati che, fino ad allora, avevano fatto parte dello stato pontificio, vennero inglobati in una compagine autonoma e consegnati nelle mani dell’abile conquistatore. Cesare fissò a Cesena la sua corte presso cui riuní letterati e artisti come Leonardo da Vinci, che progettò per il Valentino alcune macchine da guerra, e abili condottieri, come Oliverotto, signore di Fermo, i fratelli Vitellozzo e Paolo Vitelli, signori di Città di Castello, Paolo e Francesco Orsini. Nel 1502 alcuni di essi furono fatti strangolare dal Valentino a Senigallia, dopo un fittizio tentativo di riappacificazione seguito alla scoperta di una congiura. Nel 1503, alla morte di Alessandro VI, il ducato di Romagna si dissolse, mentre le città riacquistavano la loro indipendenza e i signori tornavano sul trono dei loro principati. Cesare, privato da Luigi di Francia del ducato di

Valentinois, e da papa Giulio II, successore di Alessandro, delle cariche e degli appannaggi paterni, fu arrestato e messo in prigione a Ostia. Riuscí a fuggire, trovando rifugio a Napoli presso il viceré Gonzalo de Córdoba († 1515). A Napoli, Cesare tentò di ricostituire un esercito per conquistare Roma, ma fu arrestato e condotto in prigione in Castel Nuovo e, nel 1504, trasferito in Spagna per volontà dei reali Ferdinando e Isabella. Sbarcato a Valenza, fu imprigionato nella fortezza di Medina del Campo. I reali di Spagna intendevano processarlo per l’assassinio del fratello Giovanni Borgia, marito della loro cugina Maria Enriquez de Luna. Nel 1506, prima che il processo iniziasse, Cesare fuggí da Medina e trovò rifugio a Pamplona, nel regno di Navarra, allora retto dal re Giovanni III d’Albret († 1516), suo cognato. Poiché la Navarra era sconvolta da gravi ribellioni delle famiglie nobili, Cesare mise a disposizione del cognato le sue abilità guerriere e iniziò ad assediare Viana, che si era ribellata al sovrano. Sotto le mura della città, il 12 marzo 1507, il Valentino fu ucciso in combattimento e trovò la morte come aveva vissuto, alla perenne ricerca della gloria militare.

l’elezione a capitano del popolo di Francesco I († 1343), responsabile dell’estromissione politica dei ghibellini Accarisi. Nel 1379 Astorre I († 1405), ottenuta dal papa la concessione dell’ufficio vicariale, incorporò nei possedimenti di famiglia anche la città di Imola, che fu poi conquistata dagli Sforza, alla metà del Quattrocento. Anche i Manfredi furono travolti dalla furia

dei Borgia. Nel 1501, infatti, Cesare occupò Faenza, facendo prigioniero il giovane Astorre III (1488-1501), che, condotto a Roma, fu probabilmente strangolato e buttato nel Tevere. Nello stesso anno il Borgia si impossessava anche di Camerino, estromettendo un’altra signoria, i da Varano, facendo assassinare Giulio Cesare da Varano (1464-1501) e tutta la sua discen-

In alto l’epitaffio sulla tomba di Cesare Borgia nel sagrato della chiesa spagnola di S. Maria a Viana, nella regione della Navarra. Nella pagina accanto Ritratto di gentiluomo, olio su tavola del pittore lombardo Altobello Melone che si presume raffiguri il nobile e condottiero Cesare Borgia, figlio illegittimo di papa Alessandro VI, passato alla storia per la sua condotta spietata e amorale. 1515-1520. Bergamo, Pinacoteca dell’Accademia Carrara.

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DINASTIE BORGHESI Il successore di Alessandro VI, papa Giulio II, pur detestando i Borgia, si mosse nel solco tracciato dal Valentino, deciso a esautorare, con la forza delle armi, quelle signorie che ancora gli si opponevano. Nel 1506, infatti, conquistò Perugia e Bologna, che furono annesse allo Stato pontificio, costringendo all’esilio gli ultimi discendenti delle dinastie che avevano governato da piú di un secolo sulle due città: i Baglioni e i Bentivoglio. Pur essendo oscura, l’origine delle due famiglie sembra essere stata proprio borghese e non aristocratica, come quella di molte stirpi analoghe. Per esempio, i Bentivoglio di Bologna erano iscritti alle corporazioni dei macellai e dei notai nel XII secolo, all’epoca del comune cittadino. La signoria perugina dei Baglioni, famiglia di simpatie ghibelline e popolari, avversaria degli Oddi guelfi, fu formalmente instaurata con Pandolfo I († 1393), nel 1389. I suoi successori, Braccio (1438-1479) e Giampaolo (1500-1506), furono abili uomini d’arme e condottieri, al servizio anche di altri potentati italiani. Giampaolo andò in esilio al momento della conquista pontificia di Bologna, nel 1506, e morí decapitato a Roma, nel 1520, su ordine di papa Leone X (1513-1521), che ne temeva il ritorno al potere. Al contrario dei Baglioni, i Bentivoglio erano di parte guelfa e avevano iniziato a militare al servizio dei Pepoli. I Pepoli erano un’altra famiglia d’origine borghese che, alla guida della fazione guelfa dei Geremei – contrapposta a quella ghibellina dei

denza. I da Varano erano una famiglia aristocratica di parte guelfa che aveva acquisito la signoria su Camerino agli inizi del Trecento, quando i fratelli Rodolfo († 1314) e Berardo († 1323), figli di Gentile, avevano instaurato un potere assoluto in città, ottenendo dal papa, nel 1316, il riconoscimento del vicariato apostolico. Dopo la caduta dei Borgia, nel 1503, Giovanni Maria, unico sopravvissuto della famiglia, ritornò a Camerino, di cui fu designato duca da papa Leone X (1513-1521). Alla sua morte, nel 1527, la città fu incorporata nel ducato di Urbino, grazie al matrimonio tra Giulia da Varano, figlia di Giovanni, e il futuro duca di Urbino, Guidobaldo II della Rovere (1538-1574). Da ricordare, infine, che anche Parma – che apparteneva formalmente ai domini papali – fu oggetto di un singolare esperimento signorile. Nel 1285 il guelfo Guido da Correggio († 1299) venne eletto capitano del popolo, si insignorí della città, estromettendo la famiglia 126

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Lamberatazzi – nel 1321 aveva instaurato a Bologna una signoria filopapale, sotto la guida di Romeo († 1324). Dopo la morte del successore di Romeo, Taddeo († 1347), i suoi figli – Giacomo e Giovanni – rinunciarono al potere e nel 1350 cedettero Bologna ai Visconti, dietro pagamento di 200 000 fiorini. Nel 1354, cacciati i Visconti, i guelfi ritornarono in città – dove, tra il 1354 e il 1360, si insediò la signoria di Giovanni da Oleggio († 1366), figlio illegittimo del vescovo di Milano Giovanni Visconti – e la guida della fazione fu assunta dai Bentivoglio, i quali, nel 1401, con Giovanni I, riuscirono a insediarsi a Bologna come signori. Tuttavia, nel 1402 Giovanni fu ucciso combattendo nella battaglia di Casalecchio contro i Visconti e, negli anni successivi, i Bentivoglio ebbero serie difficoltà a ritornare al potere. Le cose cambiarono a partire dal 1420, quando fecero stabilmente ritorno a Bologna e, sotto il governo di Sante (1446-1463) e Giovanni II (1463-1506), ottennero dal papa la concessione del titolo di vicario pontificio e del diritto di trasmettere ereditariamente la signoria. Giovanni II riuscí a resistere al tentativo di conquista di Bologna intrapreso da Cesare Borgia, ma non a quello di Giulio II che, nel 1506, ebbe successo. Giovanni andò in esilio a Ferrara e morí a Milano nel 1508. Dopo un breve ritorno al potere, nel corso della prima metà del Cinquecento, i Bentivoglio e i Baglioni furono definitivamente esautorati da papa Paolo III (1534-1549), nel 1540.

dei Rossi, che si rifugiò a Padova. Il potere dei da Correggio su Parma si consolidò con Gilberto (1303-1316) e suo figlio Obizzo († 1364) che, nel 1344, fu spodestato dagli Este di Ferrara, i quali, a loro volta, persero Parma a favore dei Visconti, prima, e degli Sforza, poi. La città fu quindi annessa al ducato di Milano, assieme a Piacenza, e ritornò al papa nel 1512. Alla fine, nel 1545, papa Paolo III (1534-1549), decise di separare Parma e Piacenza dallo Stato pontificio, per farne un ducato da affidare al figlio naturale, Pier Luigi Farnese, già capitano e gonfaloniere della Chiesa. Pier Luigi fu però assassinato nel 1547, a causa di un complotto a cui, molto probabilmente, non era estraneo lo stesso imperatore, Carlo V d’Asburgo, che non aveva approvato la decisione del papa. Il ducato di Parma, comunque, passò al figlio di Pier Luigi, Ottavio Farne-


In alto la Deposizione Borghese, scomparto centrale della Pala Baglioni, olio su tavola di Raffaello Sanzio, raffigurante il trasporto di Gesú al sepolcro. 1507. Roma, Galleria Borghese. L’opera fu commissionata dalla nobile umbra Atalanta Baglioni in memoria del figlio Grifonetto, vittima di una faida familiare. Nella pagina accanto rovescio di una medaglia in bronzo raffigurante un ritratto equestre di Giovanni II Bentivoglio, signore di Bologna. 1478-1482 circa. Washington, National Gallery of Art.

se (1547-1586), e cosí, nonostante inizi drammatici, una nuova prestigiosa signoria cittadina si insediava nell’Italia settentrionale.

Fasti farnesiani

Benché la gloriosa storia dei Farnese appartenga, cronologicamente, piú all’età moderna che al Medioevo, data la loro importanza nella storia nazionale, è opportuno farvi un breve cenno. I Farnese erano originari del Lazio, di castrum Farneti, presso Viterbo. A partire dal XII secolo si arricchirono servendo come condottieri, podestà e capitani del popolo molti comuni vicini come Bolsena, Orvieto e, ovviamente, Viterbo, estendendo cosí i loro possedimenti dal Lazio al Tirreno e lambendo la Toscana meridionale. Alla metà del XV secolo, con Ranuccio il Vecchio († 1454), la famiglia si trasferí a Roma, entrando al servizio dei papi e legandosi alle famiglie della nobiltà piú in vista come i Caetani e gli Orsini. Ranuccio fu nominato «senatore» di Roma e capitano pontificio e la sua posizione fu poi consolidata dal figlio, Pier Luigi († 1487).

Il nipote di Ranuccio, Alessandro Farnese, fece infatti una brillante carriera ecclesiastica, entrando a far parte della curia pontificia come cardinale, grazie alle attenzioni che gli riservò papa Alessandro VI Borgia, amante di sua sorella, Giulia († 1524). Nel 1534 Alessandro fu eletto papa col nome di Paolo III, uno dei pontefici piú importanti della storia della Chiesa, se non altro per aver convocato, nel 1542, il concilio di Trento (1545-1563). Il papa, inoltre, pose le basi del dominio della sua famiglia su Parma e Piacenza creando duca – come si è detto – il figlio naturale Pier Luigi. La stirpe dei duchi di Parma e Piacenza ebbe vita lunga e si estinse solo nel 1731, alla morte di Antonio I Farnese (17271731), allorché il ducato passò, attraverso le nozze della nipote di Antonio, Elisabetta Farnese († 1766), col re di Francia, Filippo V di Borbone (1700-1746), al primogenito Carlo di Borbone († 1788), futuro re di Napoli. I Borbone conservarono il governo di Parma e Piacenza fino al 1859, quando il ducato fu occupato e annesso al Piemonte sabaudo. LE SIGNORIE

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VO MEDIO E Dossier n. 31 (marzo/aprile 2019) Registrazione al Tribunale di Milano n. 233 dell’11/04/2007

Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 - 00187 Roma tel. 06 86932068 - e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (Ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Alessia Pozzato Amministrazione Roberto Sperti amministrazione@timelinepublishing.it Gli autori: Tommaso Indelli è assegnista in storia medievale presso l’Università degli Studi di Salerno. Illustrazioni e immagini: Mondadori Portfolio: pp. 6/7 (e pp. 46/47) e pp. 49 (alto), 60, 91, 102/103; Album: copertina (e p. 122) e pp. 30 (basso), 87; AKG Images: pp. 8/9, 12, 18/19, 22 (alto), 25, 26, 28/29, 38-39, 44, 54, 56/57, 62 (basso), 64/65, 67, 77 (alto e basso), 82, 83 (basso), 86, 88, 92, 96, 98/99, 104 (basso), 106/107, 115, 116117, 120-121, 124; Leemage: pp. 10, 44/45, 63, 81, 90 (alto); Erich Lessing/Album: pp. 22 (basso), 30 (alto), 41 (basso), 51, 52/53, 90 (basso); Archivio Magliani/Mauro Magliani & Barbara Piovan: pp. 23, 32/33; Electa/Sergio Anelli: pp. 27, 34, 37, 40, 57, 65; Album/National Gallery of Art, Washington DC: pp. 28, 49 (basso, al centro), 126; Archivio Electa/Remo Michelotti: p. 48 (alto); Veneranda Biblioteca Ambrosiana: p. 55; Electa/Grassi: p. 78 (alto); Album/Fine Art Images: pp. 88/89, 94/95; Album/ Metropolitan Museum of Art: p. 93; Album/Joseph Martin: p. 97; Age: pp. 119, 125 – DeA Picture Library: pp. 12/13, 14, 108 (basso); A. De Gregorio: p. 35; G. Cigolini: pp. 36/37; S. Vannini: p. 69 – Doc. red.: pp. 15-17, 20-21, 32, 48 (basso), 61, 66, 68/69, 72-76, 78 (basso, a sinistra), 79, 83 (alto), 84/85 (alto), 94, 100-101, 102, 104 (alto), 108 (alto e centro), 111 (alto), 127 – Shutterstock: pp. 41 (alto), 42-43, 49 (basso, a sinistra), 50/51 (alto e basso), 58/59, 62 (alto), 70, 84, 84/85 (basso), 104/105, 108/109, 110, 111 (basso), 112/113, 118, 123 – Avignon Tourisme: Eric Larrue: p. 114 – Patrizia Ferrandes: cartine alle pp. 11, 24, 31. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

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