GLI
GLI ITALIANI ALLE CROCIATE
CROCIATE
Guerra, fede e affari nel Levante mediterraneo
N°32 Maggio/Giugno 2019 Rivista Bimestrale
€ 7,90
IN EDICOLA IL 30 APRILE 2019
CR SPE OC CIA IA LE TE
MEDIOEVO DOSSIER
Dossier
Timeline Publishing Srl - Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c.1, LO/MI.
EDIO VO M E
ITALIANI ALLE
GLI
ITALIANI ALLE
CROCIATE
Guerra, fede e affari nel Levante mediterraneo di
Antonio Musarra
Presentazione 6. Una storia «italiana»
Il favoloso Egitto 74. Disfatta sul Nilo
Introduzione 8. Fra Roma e Gerusalemme
La crociata di Federico II 84. Una sconfitta «diplomatica»?
I milites Christi 20. La guerra santa dei baroni
Il voto di Luigi IX il Santo 94. Crociati francesi e navi italiane
Da Genova, da Pisa e da Venezia 32. Un’odissea di mercanti
La crisi del regno latino 108. Terra Santa, addio
Riconquistare Gerusalemme 48. La grande paura
Dopo le guerre sante 120. Dalle armi ai mercati
La Serenissima in Oriente 62. La crociata dei Veneziani
Una storia «italiana» M
artedí 27 novembre 1095, a conclusione d’un’assise tenutasi a Clermont, in Alvernia, papa Urbano II esortò l’Europa cristiana a compiere un viaggio penitenziale in armi fino a Gerusalemme per portare aiuto ai cristiani d’Oriente, minacciati dall’avanzata turca, e liberare il Santo Sepolcro. L’incontro si situava al culmine d’un’ampia campagna di predicazione ch’era andata coinvolgendo parte dell’Italia settentrionale e della Francia meridionale, volta a rinsaldare la fedeltà alla Chiesa, impegnata da tempo in un vasto moto di riforma, e a contrastare l’ingerenza imperiale nelle nomine ecclesiastiche e nella vita del clero. La risposta, benché non universale, fu oltremodo massiccia e trasversale. Tra la primavera e l’autunno del 1096, una moltitudine di pellegrini in armi, stimata variamente tra le poche dozzine di migliaia e le 100 000 unità, imboccò la strada per l’Oriente. Entro la primavera successiva, gli eserciti crociati raggiunsero Costantinopoli; spostandosi, poi, in Asia Minore, dove riportarono i primi successi: Nicea, capitale del sultanato selgiuchide, fu conquistata nel giugno del 1097; Antiochia cadde un anno dopo; Gerusalemme, obiettivo primario dell’impresa, capitolò il 15 luglio del 1099, a seguito d’un assedio disperato, condotto nel pieno di un’estate torrida. Benché un canone conciliare vietasse espressamente ai membri della spedizione ogni sorta di guadagno materiale, ciò che avvenne fu esattamente questo: Boemondo d’Altavilla, a capo delle schiere normanno-italiote, prese possesso della metropoli antiochena; Goffredo di Bouillon, che aveva guidato un contingente franco-lorenese, fu eletto, invece, «advocatus» del Santo Sepolcro, prima di lasciare il posto al fratello Baldovino, che assunse la corona regale; Raimondo di Saint-Gilles, a comando delle truppe provenzali, si ritagliò, invece – non senza fatica –, un dominio attorno a Tripoli di Siria. Tali, dunque, i principali frutti della crociata: un termine, questo, affermatosi tardi rispetto ai piú utilizzati «auxilium», «expeditio», «iter», «negotium», «passagium», «peregrinatio», «succursus», ma destinato a un grande avvenire. La sua realizzazione poggiava sopra un coacervo di elementi accatastatisi nel corso del tempo: dall’elaborazione della dottrina del «bellum iustum», montante ad Agostino – e, prima di lui, ai classici latini – alla sacralizzazione del guerriero germanico, dall’alleanza tra la Chiesa e l’Impero d’età carolingia alla revisione del concetto di «miles Christi», dall’incremento dei pellegrinaggi all’affinarsi della prassi penitenziale, dalla consuetudine dei cavalieri occidentali d’arruolarsi presso l’imperatore bizantino al dinamismo anti-saraceno delle giovani marinerie italiche, financo ai lenti successi della «reconquista» iberica; il tutto, poggiato sul richiamo costante di Gerusalemme: la Città Santa. Un richiamo, beninteso, nient’affatto limitato ai secoli del Medioevo. Quella della crociata è, infatti, una lunga storia, la quale principia sí sullo scorcio dell’XI secolo, formalizzandosi canonisticamente nel corso del XIII, ma proseguirà la propria corsa sino alla fine dell’età moderna. Strumento giuridico-politico, idea-forza, oggetto di apologie, condanne e polemiche, essa saprà continuamente riproporsi, assoggettandosi a progressivi o repentini crepuscoli e ad albe improvvise. In questo Dossier volgeremo lo sguardo alla sua primavera: ovvero, al suo sorgere e al suo definirsi tra XI e XIV secolo. E lo faremo centrando l’attenzione sulla penisola italiana e i suoi abitanti. Troppo spesso, la crociatistica internazionale ha ritenuto la crociata un fenomeno prevalentemente francese o, tutt’al piú, franco-anglo-tedesco. La considerazione del ruolo avuto dagli «italiani» – un termine ambiguo, che utilizzeremo per comodità, scevro di qualsiasi tratto nazionalistico – nel movimento crociato è tutt’oggi subordinata alla loro funzione economico-commerciale. Non a torto: le crociate agirono effettivamente da catalizzatore dei traffici occidentali verso il Levante. Tuttavia, non è possibile 6
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Veduta di Gerusalemme, dalla valle di Giosafat, olio su tela di Auguste de Forbin. 1825. Parigi, Museo del Louvre.
esaurire il loro ruolo in questa prospettiva. Baresi, Bolognesi, Fiorentini, Genovesi, Lucchesi, Milanesi, Pisani, Veneziani – per citare soltanto alcune tra le realtà piú vive e documentate – prendevano anch’essi la croce, senza per questo trascurare i propri interessi piú venali. Non a caso l’Italia conosce un gran numero di luoghi e tradizioni legate ai Luoghi Santi, serbando memoria, altresí, dei mutamenti subiti dall’idea di crociata nel corso del tempo, quando, per esempio, da guerra di liberazione si tramutò in guerra difensiva: oltre che dagli infedeli – e, in particolare, dai Turchi ottomani –, da eretici, pagani e nemici politici della Chiesa. La crociata fu, in effetti, una delle principali idee-forza della Penisola, capace di fornire impulso al sorgere delle autonomie cittadine cosí come di cementare l’identità cristiana del Paese. Come tale, fu promossa, sostenuta e propagandata; ma altrettanto piegata e perfino avversata. Una storia affascinante, dunque, quella della crociata. Una storia (anche) italiana. Antonio Musarra ITALIANI ALLE CROCIATE
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Tra Roma e
Gerusalemme L’intera Penisola era cosparsa di luoghi intesi a rievocare i piú noti monumenti della Terra Santa, e l’Urbe stessa era diventata uno dei maggiori scrigni di reliquie della cristianità. Eppure, raggiungere di persona la Città Santa, sede degli ipsissima loca – i luoghi stessi calcati da Gesú –, era, per molti, il sogno di una vita…
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ella primavera del 1287 giungeva a Roma un monaco nestoriano d’origine turco-uigura: rabban Sauma, inviato dall’il-khan Argun con il compito di promuovere un’alleanza tra Mongoli e Latini contro l’Egitto, cosí da intraprendere «la conquista e la sottomissione delle terre di Palestina e di Siria». Da tempo, i Mamelucchi egiziani giocavano con i Latini di Terra Santa come il gatto col topo. L’intesa avrebbe contribuito, forse, a ribaltare una situazione che si faceva via via sempre piú disperata. La delegazione mongola era partita da Maragheh – a sud di Tabriz, nell’attuale Iran nord-occidentale – con 2000 libbre d’oro, una trentina di cavalcature, un paiza – la caratteristi-
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L’arrivo di un gruppo di pellegrini a Roma in occasione del Giubileo del 1300 indetto da papa Bonifacio VIII. Miniatura tratta dalle Croniche di Giovanni Sercambi, opera storiografica che narra eventi del Basso Medioevo, in particolare della città di Lucca. XV sec. Lucca, Archivio di Stato.
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Introduzione
«Quale gioia, quando mi dissero: “Andremo alla casa del Signore”. E ora i nostri piedi si fermano alle tue porte, Gerusalemme!» (Sal 122, vv. 1-2) ca tavoletta lasciapassare – e diversi jarlig, lettere patenti che garantivano l’appoggio dei funzionari incontrati lungo le stazioni di posta del grande impero mongolo. Assieme a Sauma viaggiavano, oltre a «eminenti sacerdoti e diaconi», un cristiano orientale di nome Sabadino, un interprete chiamato Uguetus (una latinizzazione del termine mongolo ügetü, «abile nel linguaggio»), e un Genovese di nome Tommaso Anfossi. Dopo aver sostato a Costantinopoli e visitato i tesori della città, gli inviati avevano veleggiato verso le coste siciliane, oltrepassando lo stretto per poi approdare a Napoli; quindi, avevano risalito la Penisola, attraversando città e villaggi, meravigliati del fatto che non vi fosse regione priva di costruzioni. Lungo la strada ebbero notizia della morte di papa Onorio IV, sopraggiunta il 3 aprile precedente.
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Sutri (Viterbo). Affreschi sulla parete d’ingresso della chiesa dedicata alla Madonna del Parto, ricavata in una struttura interamente scavata nel tufo e generalmente identificata con un mitreo. XIII-XIV sec. Da sinistra sono raffigurati la Madonna e i santi, la leggenda di san Michele del Gargano, con i pellegrini che accorrono al santuario, e san Cristoforo.
Giunti a Roma, s’erano diretti verso la basilica di S. Pietro, trovandovi i cardinali raccolti in conclave. Benché le norme stabilite nel corso dal concilio di Lione del 1274 prevedessero una stretta clausura, la delegazione fu accolta con favore e sottoposta a un cordiale interrogatorio. La proposta d’unire le forze, di cui si discorreva da qualche decennio, fu presa in considerazione. Tuttavia, nessuna decisione poteva attuarsi prima che fosse eletto il nuovo papa. Sauma ne approfittò per visitare l’Urbe, vero cuore pulsante della cristianità occidentale. La città richiamava pellegrini da ogni dove a motivo dell’eccellenza delle reliquie che vi erano conservate e della magnificenza di chiese e basiliche, tra cui spiccava quella edificata sulla tomba di Pietro, su cui si fondava la legittimità del suo vicario. Il nostro ricorda d’aver visto la cappella nella quale era stato deposto il corpo
dell’apostolo. Lo colpí, in particolare, il grande altare sovrastante, sul quale «celebra il papa e nessuno all’infuori di lui»; quindi, il panno di cotone su cui Gesú aveva impresso «la propria immagine per inviarla al re Abgar di Urha» e un secondo altare «sul quale il loro re dei re – e cioè l’imperatore – riceve l’investitura (…) da parte del papa» (e «si dice che, dopo aver pregato, il papa prenda la corona con i suoi piedi e lo rivesta, cioè gliela metta sul capo – [questo,] dicono, affinché il sacerdozio domini sulla regalità»).
E la testa rimbalzò tre volte
Presso la basilica di S. Paolo fuori le Mura, poté osservare, invece, il sepolcro e il bastone dell’apostolo, «la catena con cui Paolo fu legato quando lo portarono là», la testa di santo Stefano e la mano di sant’Anania. Visitò, altresí, il luogo dell’esecuzione – «Si dice che quando gli tagliarono la testa [questa] rimbalzò per tre volte, e ciascuna gridò “Cristo, Cristo”; dai tre punti dove cadde scaturirono acque capaci di curare e soccorrere i sofferenti» –, e «una grande cappella» in cui erano conservate «le ossa di martiri e illustri padri». Infine, si fece accompagnare in S. Giovanni in Laterano, rimanendo colpito dall’«abito di Nostro Signore, quello senza cuciture», dalla «tavola di legno sulla quale Nostro Signore consacrò l’offerta e la distribuí ai discepoli» e sulla quale «ogni anno il papa celebra i misteri della Pasqua», dal «fonte in cui fu battezzato Costantino», dal luogo della «disputa di Simone Cefa con Simone [Mago], dove questi cadde spezzandosi le ossa». Nella basilica dei Ss. XII Apostoli, vide la testa dell’apostolo Matteo, il piede dell’apostolo Filippo e il braccio di Giacomo, figlio di Zebedeo. Dopo aver visitato molte altre chiese – tra cui, con tutta probabilità, S. Croce in Gerusalemme, che rientrava nell’itinerario abituale dei pellegrini –, pago di tanto sacro splendore, Sauma si rimise in viaggio, non senza aver prima portato il proprio saluto ai cardinali, ancora intenti nell’elezione del papa. Che Roma fosse, allora, uno dei maggiori scrigni di reliquie della cristianità è fuori di dubbio. A partire dall’XI secolo, complice il vento di riforma che attraversava la Chiesa – progressivamente giunto a sintesi sotto il papato di Gregorio VII –, la città iniziò a figurare, con sempre maggiore convinzione, al centro d’un ambizioso programma ierocratico, capace di sfruttarne a fondo la collocazione. La sede del successore di Pietro si trovava, infatti, al centro d’una lunghissima via di pellegrinaggio che univa il Nord Europa e, piú a occidente, il celebre santuario
Padova, basilica di S. Antonio, cappella di S. Giacomo. La santa Veronica, affresco attribuito al pittore veneto Altichiero da Zevio. XIV sec. Secondo la leggenda, Veronica era la pietosa donna che offrí a Gesú un panno con il quale detergersi dal sudore durante la via verso il Calvario e sul quale sarebbe rimasta impressa l’immagine del Messia. Piú tardi, pur accettando l’autenticità e la venerabilità del sudario, la santa fu cancellata dal Martirologio romano.
iacopeo di Compostela, a Gerusalemme, costituendo al tempo stesso una meta e una statio di particolare importanza. Non a caso, buona parte delle schiere che presero parte all’iter gerosolimitano promosso da papa Urbano II nel 1095 vi transitò, scortandovi, peraltro, il papa stesso, insidiato dai partigiani del proprio oppositore: Guiberto da Parma, arcivescovo di Ravenna. L’Urbe era una delle mete principali di chi si trovava a percorrere la via Francigena, una delle principali arterie del Paese; o, quanto meno, una delle sue molte diramazioni, capaci di collegare la Penisola al Settentrione europeo. Un lungo corridoio, parallelo al corso del Reno, scandito da mercati importanti – Colonia, Magonza, Worms, Spira –, univa le Fiandre alla valle padana. Dalle valli renane era possibile puntare su Avenches, imboccare la strada romana che aggirava il lacus Lemanus e conquistare il Gran San Bernardo. Oppure, si poteva de(segue a p. 15) ITALIANI ALLE CROCIATE
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Introduzione
SULLA VIA DEI PELLEGRINI
Stoccolma
Riga
Amburgo Brema
Northampton Cartina dell’Europa e del Vicino Oriente nella quale sono indicati gli itinerari dei pellegrinaggi piú importanti e le principali città toccate dai diversi percorsi.
Oceano Atlantico Santiago de Compostela
Wilsnack
Londra Bruges Canterbury Gent Colonia Calais Ypres
Lipsia
Francoforte
Parigi Provins Chartres Bar-sur-Aube Troyes Offenburg Vezelay Lione
Bordeaux Le Puy Tolosa
Ginevra Milano
Beaucaire Marsiglia
Saragozza
Danzica
Lubecca
Friburgo
Breslavia
Vierzehnheiligen Cracovia Norimberga Eichstätt Vienna
EUROPA
Verona Venezia
Tersatto
Piacenza Genova Lucca Firenze Siena
Monte Sant'Angelo Roma Barletta Bari
Montserrat Barcellona
Sardegna
Sicilia
AFRICA A sinistra conchiglia di san Giacomo, in piombo, fabbricata a Santiago de Compostela. Fine del XV sec. Parigi, Musée de Cluny.
Mar Mediterraneo
Tessalo
Novgorod
A sinistra ampolla «del pellegrino» in piombo e stagno. VII-VIII sec. Monza, Tesoro del Duomo. Le ampolle dei pellegrini servivano per raccogliere olio santificato per i sacramenti e olio proveniente dalle lampade che ardevano vicino ai luoghi santi. In basso miniatura raffigurante la città di Roma, da un’edizione del Dittamondo di Fazio degli Uberti, che compare nella vignetta insieme al suo accompagnatore, il geografo romano Solino. 1447. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
Kiev
«E però è da sapere che in tre modi si chiamano propriamente le genti che vanno al servigio de l’Altissimo: chiamansi palmieri in quanto vanno oltremare, là onde molte volte recano la palma; chiamansi peregrini in quanto vanno a la casa di Galizia, però che la sepultura di sa’ Iacopo fue piú lontana de la sua patria che d’alcuno altro apostolo; chiamansi romei in quanto vanno a Roma, là ove questi cu’ io chiamo peregrini andavano» (Dante Alighieri, Vita nuova, XL, 7)
Mar Nero
ASIA
Costantinopoli
onica
Efeso
Seleucia
Antiochia
Tripoli Damasco
Candia
Gerusalemme Alessandria
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Introduzione
I SANTI PELLEGRINI Numerosi culti italici sono legati a pellegrini illustri, alcuni dei quali assurti all’onore degli altari. È il caso, per esempio, di sant’Alessio, vissuto tra il IV e il V secolo, che terminò i propri giorni a Roma, sua città natale, di ritorno da una lunga permanenza nella Siria settentrionale; di san Riccardo, principe dei Sassoni occidentali, le cui spoglie sono sepolte nella basilica lucchese di S. Frediano; dei santi Arcano ed Egidio, che, sul finire del X secolo, costruirono un piccolo oratorio dedicato al Santo Sepolcro in Valtiberina, nucleo dell’odierna Sansepolcro; del beato Gerardo, originario di Scala, nei pressi di Amalfi, primo maestro dell’ordine degli Ospitalieri; dei santi Guglielmo e Pellegrino, che, partiti dalla natia Antiochia verso la metà del XII secolo, dopo aver visitato il santuario garganico, giunsero a Foggia, nei pressi della celebre Iconavetere; di san Ranieri, pisano, il quale, dopo una gioventú passata negli svaghi, abbracciò la vita eremitica partendo per la Terra Santa, facendo ritorno a Pisa soltanto dopo molti anni – pare, nel 1154 –, circondato da un’aura di santità; di san Gerio, originario della Linguadoca, pellegrino a Roma, e di san Contardo, ferrarese, pellegrino a Compostela: entrambi vissuti in pieno XIII secolo; di san Rocco, originario di Montpellier, vissuto nella seconda metà del XIV secolo, che compí un memorabile pellegrinaggio a Roma nel corso del quale si prodigò per alleviare le sofferenze di coloro che erano stati colpiti dai residui focolai della peste nera. Diversi, inoltre, sono i santi che recano come nome Peregrinus: undici, secondo la Bibliotheca Hagiographica Latina dei Bollandisti, tanto che si può pensare a una sorta di nome collettivo. A Roma, per esempio, la fondazione dell’ospizio di S. Pellegrino in Naumachia (VIII-IX secolo), situato nei pressi dell’attuale Porta Angelica, si lega alla funzione di luogo di ricovero per i numerosi romei che, da settentrione, si recavano alla tomba di Pietro. Il complesso ospedaliero di S. Pellegrino in Alpe, ancora oggi visitabile sul crinale appenninico tra Modena e Lucca, custodisce, invece, i resti mortali di un certo Peregrinus, eremita, vissuto nel VII secolo, il quale, dopo essersi recato in gioventú a Gerusalemme, decise di dedicare il resto dei propri giorni alla solitudine e al silenzio, occupandosi dei romei che valicavano l’Appennino. Poteva accadere, altresí, che chi si fregiasse del nome Peregrinus non si fosse mai recato in pellegrinaggio. Il termine poteva indicare, infatti, chi operava nell’ambito dell’evangelizzazione e della cristianizzazione del territorio o, piú genericamente, lo «straniero». È il caso, per esempio, del sacerdote romano Peregrinus, vissuto nel V secolo, divenuto, per volere di papa Sisto III (432-440), primo vescovo di Auxerre.
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A sinistra scorcio del complesso ospedaliero di S. Pellegrino in Alpe, situato sul crinale appenninico tra le province di Modena e di Lucca, con la croce di faggio che domina la valle, eretta in onore di Pellegrino, santo irlandese vissuto a cavallo tra il VI e il VII sec.
Nella pagina accanto, in alto particolare del pannello laterale inferiore del polittico di San Cristoforo raffigurante san Rocco, tempera su tavola attribuita a Bartolomeo Vivarini. 1486. Milano, Pinacoteca Ambrosiana. Originario di Montpellier, nel Trecento Rocco compí un memorabile pellegrinaggio a Roma nel corso del quale si prodigò per alleviare le sofferenze dei malati di peste nera. viare su Zurigo e raggiungere Coira, per poi imboccare la mulattiera che conduceva al passo Spluga, oppure optare per le vie carrabili che attraversavano i passi di Septimer, di Julier o di Maloja e guadagnare Milano. Dall’antica sede metropolitana era agevole raggiungere sia il porto adriatico di Venezia, sia quello tirrenico di Genova – entrambi specializzati nel trasbordo di pellegrini al di là del mare –, sia, ancora, il nodo stradale di Piacenza, cosí da ricongiungersi alla Francigena, la quale, dal Gran San Bernardo, doppiate Aosta, Ivrea, Vercelli e Pavia – la vecchia capitale longobarda –, a Piacenza oltrepassava il Po. Dopo aver attraversato Borgo San Donnino – l’attuale Fidenza –, il viandante valicava il Mons Bardonis – il passo della Cisa –; quindi, procedendo oltre Pontremoli, raggiungeva Lucca per poi discendere, passando per Altopascio e superando l’Arno, nell’area paludosa di Fucecchio, lungo la Valdelsa sino a Siena. Qui, ci s’immetteva nel tracciato della Cassia, oltrepassando Acquapendente, Viterbo, Sutri, da cui era agevole arrivare a Roma. Dopodiché, era possibile imboccare l’Appia Traiana e volgersi verso i porti pugliesi, optando, magari, per una visita al santuario di S. Michele Arcangelo, sul Gargano, per poi attraversare l’Adriatico e approdare a Durazzo, e quindi proseguire lungo la via Egnazia sino a Costantinopoli. Oppure, era possibile far vela verso Acri, il maggior porto di Terra Santa, o Giaffa – l’attuale centro storico di Tel Aviv –, a poca distanza da Gerusalemme, o recarsi ad Alessandria d’Egitto, procedendo alla volta del Sinai, sul percorso della Sacra Famiglia.
AD LIMINA PETRI Il pellegrinaggio «ad limina Petri» conosceva le proprie guide, tra cui spiccano il codice di Einsiedeln, redatto da un anonimo verso la fine dell’VIII secolo, i Mirabilia Urbis Romae e la Graphia aurea urbis Romae, anch’essi anonimi, databili entrambi intorno all’anno Mille. V’era chi si recava alla tomba di Pietro per ricavare delle reliquie da contatto calandovi all’interno i brandea – strisce di stoffa –, che immancabilmente aumentavano di peso; v’era chi visitava le basiliche extra-murarie; v’era chi si recava presso la basilica di S. Croce in Gerusalemme, che serbava alcune tra le principali testimonianze della Passione, e che, non a caso, era spesso chiamata semplicemente Hierusalem. Al suo interno era possibile vedere parte del legno della Vera Croce, rinvenuta presso il Calvario da Elena, madre dell’imperatore Costantino, la spugna usata per dare da bere a Gesú, alcuni chiodi utilizzati per lacerarne le carni, una parte del titulus crucis, alcuni frammenti della croce del buon ladrone. Oltre a ciò, in città era conservata la Veronica – immortalata dall’Alighieri nel canto XXXI del Paradiso (vv. 103-117) oltre che nella Vita nuova –, che avrebbe assunto un ruolo peculiare nel corso del Giubileo del 1300.
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«Ad instar Sancti Sepulchri»
Le difficoltà del viaggio erano molte. Il suo valore penitenziale era pienamente giustificato. La lontananza dei Luoghi Santi – in particolar modo per coloro che per infermità, pavidità o mancanza di mezzi non potevano intraprendere lunghi cammini – favorí, sin dai primi secoli dell’era cristiana, il tentativo di traslarne in Occidente la sacralità. Roma stessa – a partire dalla trasformazione, da parte di
Le sette Chiese di Roma, incisione di Antonio Lafrery, da Speculum Romanae Magnificentiae. 1575. Roma, Istituto Nazionale per la Grafica. Gli itinerari che si diffondono dall’inizio del Trecento menzionano le indulgenze che potevano ottenersi visitando le sette chiese maggiori di Roma: l’itinerario devozionale ed espiatorio partiva dalla basilica di S. Pietro (1), conduceva verso S. Paolo fuori le Mura (2), S. Sebastiano sull’Appia (3), S. Giovanni in Laterano (4), S. Croce in Gerusalemme (5), S. Lorenzo fuori le Mura (6), per concludersi alla basilica di S. Maria Maggiore (7).
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Introduzione
IL VOLTO SANTO DI LUCCA Nel novembre del 1096, papa Urbano II s’incontrava a Lucca con le schiere franco-normanno-fiamminghe dirette verso i porti pugliesi. In città era vivo, da tempo, il culto per il crocifisso ligneo noto come Volto Santo, che, secondo la tradizione, sarebbe stato scolpito da Nicodemo per tramandare le vere fattezze del volto di Cristo. Leggenda vuole che il sacro legno, nascosto nella città di Ramleh, fosse stato rinvenuto nell’VIII secolo dal vescovo Gualfredo, pellegrino a Gerusalemme. Questi l’avrebbe affidato ai flutti su una barca senza equipaggio, che, partita da Giaffa, si sarebbe fermata al largo di Luni. La città era allora soggetta alle scorrerie saracene, a cui il crocifisso scampò miracolosamente tenendo lontano chiunque lo avvicinasse. Una notte, il vescovo di Lucca, Giovanni I, ebbe in visione un angelo che gli annunciò che il sacro legno si sarebbe concesso a lui soltanto. Gli abitanti di Luni insorsero. Si decise, dunque, d’affidare la questione al giudizio divino. Il legno fu posto su un carro trainato da due buoi, che presero con decisione la strada per Lucca. Era il 782 (o, per altri, il 742) e il Volto Santo entrava in città. Collocato nella chiesa di S. Frediano, sparí, però, nottetempo, per essere ritrovato negli orti vicini al duomo, dove fu custodito. In cambio Luni ottenne un’ampolla contenente il sangue di Cristo, oggi conservata a Sarzana.
In alto miniatura raffigurante alcuni fedeli in adorazione del Volto Santo, dal Codice Tucci-Tognetti, libro ufficiale della Fraternitas Sanctae Crucis, istituzione fondata nel Trecento per finalità assistenziali e per promuovere il culto della reliquia. XIV sec. Lucca, Biblioteca Capitolare. A destra Approdo della barca del Volto Santo alle coste di Luni, predella proveniente dal polittico di Codiponte, opera del pittore noto come Maestro di Montefloscoli. 1440 circa. Lucca, Museo Nazionale di Villa Guinigi.
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In alto il crocifisso ligneo noto come il Volto Santo, una delle reliquie piú venerate del Medioevo. Custodito nella navata sinistra della cattedrale di S. Martino a Lucca, secondo un’antica leggenda sarebbe stato scolpito da Nicodemo, membro del Sinedrio, il quale, con Giuseppe d’Arimatea, depose il corpo di Cristo nel Sepolcro. Il crocifisso lucchese sarebbe una copia dell’originale e risalirebbe all’XI-XIII sec.
Elena, madre dell’imperatore Costantino, del cosiddetto Palazzo Sessoriano in uno scrigno di reliquie cristiche, nel IV secolo, ma poi, con maggior forza, in età carolingia e ottoniana sino al primo Giubileo della storia, celebrato nel 1300 sotto l’egida di Bonifacio VIII – s’avviò a sostituire – di fatto e nelle intenzioni; non certo, in corde – la stessa Gerusalemme. Ma si può dire che l’intera geografia sacra della Penisola fosse costellata da sacelli, simulacri, quando non da veri e propri edifici sacri che, sotto il profilo della somiglianza architettonica, dei rapporti metrologici o dell’imitazione simbolica evocavano, imitavano, riproducevano o rappresentavano i piú noti monumenta di Terra Santa, a partire dalla rotonda dell’Anastasis e dall’edicola del Santo Sepolcro. Luoghi sacri e sacralizzati – a causa della presenza di reliquie insigni, il cui avvento in Occidente, dopo la grande stagione dei furta sacra, compresa, grossomodo, tra il X e il XII secolo, avrebbe conosciuto un deciso incremento a seguito del sacco di Costantinopoli del 1204 –, tali edifici costituivano, spesso, oltre che stationes sulla via del pellegrinaggio per Gerusalemme, mete sostitutive del pellegrinaggio stesso.
La Penisola dei Sepolcri
Il territorio italico abbonda di luoghi di questo genere, e qui ci limiteremo a ricordarne solo alcuni. Si pensi, per esempio, ad Aquileia, la cui cattedrale conserva un sacello cilindrico, citato per la prima volta nel 1077, che riproduce le forme dell’edicola del Sepolcro quale si presentava, con tutta probabilità, nel X secolo. Si pensi, altresí, alla cappella della Santa Croce della cattedrale di Bergamo; alla chiesa di S. Tomé di Almenno San Bartolomeo (Bergamo), che riproduce la basilica dell’Anastasis nel suo aspetto dell’XI secolo; al Duomo Vecchio (o Rotonda) di Brescia; al Santo Sepolcro di Piacenza; alla rotonda di S. Lorenzo di Mantova; alla chiesa di S. Sepolcro di Parma; alla chiesa di S. Pietro in Consavia, ad Asti; al celebre complesso stefaniano bolognese; alla rotonda della Madonna del Monte, sul colle dell’Osservanza, sempre a Bologna; all’intitolazione – in questo caso, puramente devozionale – al Santo Sepolcro, in memoria della sua conquista, d’una chiesa a Milano e d’un’altra a Genova; al Santo Sepolcro ottagonale di Pisa, opera di Diotisalvi, e alle geometrie della Piazza dei Miracoli, il cui Camposanto sorgerebbe sopra la terra recata in patria dai crociati pisani; alla devozione per il Santo Volto lucchese (vedi box in queste pagine). ITALIANI ALLE CROCIATE
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Introduzione
Variazioni sul tema IL SANTO SEPOLCRO DI ACQUAPENDENTE
BOLOGNA: LE SETTE CHIESE
La basilica minore di S. Stefano – la «Gerusalemme» bolognese – sorge su uno spazio sacro dedicato a Iside. Si tratta di un complesso di sette chiese, edificate in tempi diversi. Quella dedicata al Santo Sepolcro fu eretta nel V secolo; forse per accogliere le spoglie di san Petronio, vescovo della città tra il 431 e il 450. Piú antica è la chiesa dei Ss. Vitale e Agricola, risalente al IV secolo. L’aspetto attuale dell’intero complesso risale alla ricostruzione operata nell’XI secolo da parte dei monaci benedettini e ai numerosi restauri successivi. La chiesa rotonda è testimone, infatti, d’una precisa fase costruttiva del Sepolcro gerosolimitano, collocabile non oltre la metà del XII secolo, che dunque riproduce le forme della basilica dell’Anastasis ristrutturata dai re crociati.
All’interno della basilica di Acquapendente, concattedrale della diocesi di Viterbo, è conservata una riproduzione del sacello del Santo Sepolcro. Secondo la tradizione, la chiesa sarebbe stata fondata dalla regina Matilde di Westfalia (895-968), madre dell’imperatore Ottone I, la quale, diretta a Roma con un carico d’oro destinato all’edificazione d’un santuario dedicato al Sepolcro, sarebbe stata costretta a fermarsi nel borgo a causa della caparbietà dei propri muli, incaponitisi nel non voler procedere oltre. Nel corso della notte, la sovrana avrebbe compreso, in sogno, la volontà divina: l’edificio andava costruito nel luogo in cui i muli avevano sostato. La cripta del Santo Sepolcro fu consacrata dal vescovo di Orvieto, Aldobrandino, nel 1149. Scandita da ventiquattro colonne, impreziosita di reliquie cristiche – alcune pietre intrise del sangue della Passione; una parte della colonna della flagellazione –, sarebbe una delle piú antiche riproduzioni superstiti del Sepolcro gerosolimitano. A quanto pare, san Rocco avrebbe compiuto ad Acquapendente – chiamata «Hierusalem» in un documento del 993 – il proprio primo miracolo, pregando prostrato sul pavimento della basilica per la guarigione di alcuni appestati.
UN SEPOLCRO IN VALTIBERINA
Sansepolcro è l’unica città italiana ad avere avuto in sorte il nome del luogo piú santo della cristianità. Prima ancora della costruzione del borgo, esisteva, qui, un’abbazia – benedettina prima e camaldolese poi – dedicata, appunto, al Sepolcro gerosolimitano e ai Quattro Santi Evangelisti. Dotata di un cospicuo patrimonio fondiario, la struttura accoglieva malati, viandanti e pellegrini. Secondo una tradizione quattrocentesca, fissata nei registri comunali, il sorgere dell’abbazia si legherebbe alla presenza di reliquie gerosolimitane insigni.
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ITALIANI ALLE CROCIATE
Da sinistra, in senso orario Gerusalemme, l’edicola del Santo Sepolcro, dove la leggenda colloca la sepoltura di Gesú dopo la Crocifissione; Acquapendente, la riproduzione del sacello del Santo Sepolcro all’interno della basilica, la cui cripta, suddivisa da 24 colonne, venne consacrata nel 1149; Bologna, l’Edicola del Calvario nella basilica del S. Sepolcro, eretta nel V sec., forse per accogliere le spoglie di san Petronio, vescovo della città tra il 431 e il 450.
E poi, ancora, alle memorie gerosolimitane fiorentine – dall’oratorio templare che sorgeva nei pressi di Ponte Vecchio alle reliquie del Sepolcro conservate in Ss. Apostoli e utilizzate per accendere il meccanismo della «colombina», il Sabato Santo, al monastero di S. Maria al Santo Sepolcro di Colombaia alle Campora, fuori Porta Romana –; al Santo Sepolcro di Villa Salani, a Fiesole; al tempio di S. Angelo, a Perugia; alla celebre cappella di S. Galgano a Montesiepi; alla chiesa marchigiana di S. Giusto in San Maroto, a Pievebovigliana. Infine, passando per S. Stefano Rotondo al Celio e S. Croce in Gerusalemme, a Roma, si pensi, ancora, al battistero di Nocera; a quello di S. Giusto, nei pressi di Lucera; alla rotonda della chiesa di S. Giovanni Battista, a San Giovanni Rotondo; al battistero di S. Giovanni a Canosa; all’edicola del Santo Sepolcro del Santuario di S. Maria dei Martiri di Molfetta; alla basilica del Santo Sepolcro di Barletta; alla chiesa di S. Giovanni al Sepolcro, a Brindisi; alla chiesa di S. Maria della Rotonda, a Catania, e chissà a cos’altro. Sono, questi, soltanto alcuni esempi di un’autentica geografia sacra, legata per la riproduzione architettonica, per la presenza di reliquie peculiari, per la dedicazione, al Sepolcro gerosolimitano.
Sui luoghi del Salvatore
Certo, la sacralizzazione del territorio italico non esimeva dal coronare quello che, per molti, era il sogno della vita: raggiungere Gerusalemme. Un obiettivo mobilitante, a cui si connetteva un pervasivo immaginario penitenziale, apocalittico ed escatologico. La Città Santa accoglieva alcune tappe fondamentali della storia della Salvezza; conservava gli ipsissima loca, calcati da Gesú; al contempo, avrebbe costituito il sito della parusia: la seconda venuta del Cristo. La Gerusalemme cristiana, però, non coincideva necessariamente con la città terrena; quella celeste, che l’apostolo Giovanni aveva visto scendere dal cielo, risplendente della gloria di Dio, avrebbe conservato, sempre, un ruolo peculiare in seno alla religiosità medievale, e, anzi, per diverso tempo, ben piú importante di quella concreta. Con ciò, il luogo fisico in cui Gesú era stato crocifisso e dove, il terzo giorno, era resuscitato non lasciava – non poteva lasciare – indifferenti. Il pellegrinaggio verso la Gerusalemme terrena, letteralmente riscoperta grazie all’impegno – a quanto pare, in prima persona – dell’imperatrice Elena, che vi s’era recata nel 326, appena dopo la celebrazione del concilio niceno, era praticato da tempo, fondandosi sulla tradizione
ebraica dell’Aliyah laReghel: la «salita» a Gerusalemme. Nel corso dei secoli, monaci e pellegrini tentarono d’identificare topograficamente i luoghi citati nel Vecchio e nel Nuovo Testamento, favorendo l’incremento dei viaggi, che proseguirono anche dopo la conquista musulmana del 637 e la costruzione, mezzo secolo dopo, della celebre Qubbat al-Sakhra – la Cupola della Roccia –, sulla spianata del Tempio, la cui forma e le cui misure ricalcavano anch’esse quelle della cupola del Santo Sepolcro. Ben presto, Gerusalemme entrò a far parte della quotidianità religiosa di cristiani e musulmani, oltre che delle numerose comunità ebraiche della diaspora. Nell’Occidente latino, fra il XII e il XIII secolo, il richiamo alla Città Santa trovò prepotentemente posto nella liturgia eucaristica. Nel 1187, a seguito della conquista di Salah ad-Din – il Saladino della tradizione occidentale – invalse l’uso di recitare il Salmo 78, in cui si piangeva l’umiliazione per la conquista di Nabucodonosor, dopo il Paternoster, il Pax vobiscum o l’Agnus Dei, in forma di clamore per il suo recupero (è quanto stabilisce l’Ordo pro liberatione Terre Sancte a fidei inimicis). Lo stesso salmo fu ripreso, citato e utilizzato in numerose bolle e lettere papali riguardanti la crociata: dall’Audita tremendi di Gregorio VIII, di quello stesso 1187, alla Quia maior di Innocenzo III, del 1213; dalla Salvator noster di Gregorio X, del 1274, alla Exurgat Deus di Clemente V, del 1308. Tra il 1292 e il 1295, il Pontificale di Guglielmo Durand ne avrebbe consacrato l’uso (l’opera sarebbe stata presa a modello da Innocenzo VIII, nel 1485, per il nuovo Pontificale romano): la recita del salmo doveva essere seguita da un Gloria, un Kyrie, un Paternoster, chiudendosi con l’orazione Deus qui admirabilis, con cui s’implorava Dio per la restituzione ai cristiani della Terra Santa. Ciò non significava altro che un continuo, quotidiano richiamo alla Gerusalemme terrena, olte che a quella terrestre. Del resto, la stessa traslatio Terre Sancte che, dal IV-V secolo e poi soprattutto tra IX e X, era andata producendo le numerose «Gerusalemme» d’Occidente non faceva altro che rendere la Città Santa piú accessibile, accrescendo il desiderio di recarvisi in prima persona. Il primo iter gerosolimitano e, con esso, le spedizioni che seguirono trovavano giustificazione, dunque, nel secolare richiamo che essa esercitava. Il tentativo di fare della Roma dei papi il nuovo centro della cristianità – ma lo stesso potrebbe dirsi della monarchia francese, la cui SainteChapelle avrebbe accolto reliquie importanti – sarebbe riuscito solo in parte. ITALIANI ALLE CROCIATE
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La guerra santa dei baroni
Al celebre appello di Urbano II risposero esponenti di illustri casate, abbagliati dalla prospettiva di ottenere fama e, soprattutto, fortuna. E per descrivere quella loro composita estrazione, lo storico Roberto Sabatino Lopez ha evocato, addirittura, i poemi omerici
Papa Urbano II sulla piazza di Clermont indice la prima crociata, olio su tela del pittore veneziano Francesco Hayez. 1835. Milano, Gallerie di Piazza Scala.
GLI ITALIANI ALLE CROCIATE
I milites Christi
«Gerusalemme è costruita come città salda e compatta. Là salgono insieme le tribú, le tribú del Signore, secondo la legge di Israele, per lodare il nome del Signore. Là sono posti i seggi del giudizio, i seggi della casa di Davide» (Sal 122, vv. 3-5)
I
liade di baroni, Odissea di mercanti, «peregrinatio» di «pauperes» – secondo la celebre definizione dello storico Roberto Sabatino Lopez (1910-1986), opportunamente completata da Franco Cardini –, la crociata sorse nel crogiuolo della riforma. O, meglio, dei molteplici moti di riforma che la Chiesa conobbe nel corso del lungo XI secolo e che trovarono in Italia terreno fertile. Da tempo, la Chiesa avvertiva la necessità di convogliare a proprio vantaggio la violenza endemica del mondo feudale: attraverso le assemblee di pace; dichiarando inviolabili luoghi e persone, sotto la minaccia della scomunica; vietando d’imbracciare le armi in certi periodi dell’anno; richiedendo la protezione di quelle stesse armi mediante la figura dell’advocatus, che otteneva in cambio benefici materiali e spirituali. Da questo punto di vista, la violenza poteva, perfino, diventare meritoria. Non a caso, dopo il Mille, i papi iniziarono a concedere, sempre piú spesso, a chi si degnava di combattere in sua difesa, il proprio vessillo – il vexillum sancti Petri –, che ne legittimava le azioni; benché non le santificasse, giacché quelle guerre – tra cui possiamo annoverare le lotte dei patarini milanesi contro il clero simoniaco e le spedizioni anti-saracene delle giovani marinerie pisana e genovese nel Tirreno – implicavano, pur sempre, un certo disordine morale. Con ciò, il favore concesso ai difensori della Chiesa delineava, comunque, un modo nuovo d’essere miles. Il combattente aveva l’opportunità di diventare miles Christi: un’espressione, questa, legata inizialmente all’ambito monastico; addossata, ora, a quei cavalieri che avevano
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ITALIANI ALLE CROCIATE
scelto di porre la propria spada al servizio della Chiesa e del popolo cristiano. Fu, questo, un portato tra i piú importanti della grande stagione riformistica. Rinnovamento morale innanzitutto, ma anche giurisdizionale. Promosso da alcuni grandi centri monastici – primi fra tutti, Cluny e Vallombrosa – e da alcuni grandi papi, come Gregorio VII, la cui concezione centralizzata del potere spirituale forní una decisa spinta verso la realizzazione di quel
Miniatura raffigurante papa Urbano II che presiede il Concilio di Clermont, da un’edizione de Les Passages d’outremer faits par les François... 1474-1475 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
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pellegrinaggio armato che siamo soliti chiamare «crociata». In sostanza, i papi riformatori si resero conto di quanto la loro causa necessitasse di braccia armate, tanto piú di fronte alle secolari ingerenze imperiali: l’attività bellica poteva ritenersi legittima nella misura in cui era ordinata alla libertas Ecclesiae. Fu papa Leone IX – o, quantomeno, l’estensore di una delle sue Vite – tra i primi ad agire in questo senso, definendo «martiri» i caduti della battaglia di Civitate, combattuta nel 1053 da contingenti di Svevi, Italici e Longobardi contro i Normanni del Sud Italia. Nel 1090, Bruno di Segni, abate di Montecassino, li definí «milites Christi». I «crucesignati», insomma, si nutrivano d’un immaginario forgiatosi lentamente, ridefinitosi in seno alla riforma, la quale ebbe nella Penisola italica uno dei propri principali ambiti d’azione. Perché si potesse giungere alla realizzazione del primo iter gerosolimitano, tali istanze dovevano amalgamarsi, però, ad altri elementi: la remissione dei peccati, connessa alla pratica del pellegrinaggio; l’affermazione della supremazia del papa sull’imperatore, e, dunque, la possibilità di dichiarare legittima una guerra, secondo
Sardegna
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Sicilia
In alto gli itinerari per Roma dal Nord Europa secondo gli Annales Stadenses, titolo attribuito alla cronaca universale, dalla Creazione al 1256, di cui fu autore il cronista tedesco e frate minore Alberto di Stade. A sinistra pagina miniata raffigurante la partenza per la prima crociata, la battaglia tra cristiani e Turchi del 1097 e la ritirata di Goffredo di Buglione da Antiochia, da un’edizione della Chanson d’Antioche, opera in versi del poeta Graindor de Douai. 1260-1270 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
ITALIANI ALLE CROCIATE
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GLI ITALIANI ALLE CROCIATE
I milites Christi
UN PAPA ITINERANTE: URBANO II Il viaggio intrapreso da Urbano II in «Longobardiam» e, di qui, in Francia, finalizzato a rafforzare l’autorità papale laddove essa era incerta o minacciata, si rivelò per molti versi decisivo per l’organizzazione della crociata. Urbano mosse da Roma nell’estate del 1094. Dal 12 settembre al 13 ottobre sostò a Pisa, forse continuativamente. Due mesi dopo era a Pistoia. Di qui volgeva a Firenze, dove lo troviamo al principio di febbraio del 1095. Dopodiché, si mise in viaggio alla volta di Cremona, da dove giunse a Piacenza per celebrare un concilio, nel corso del quale furono condannati, ancora una volta, i prelati simoniaci e nicolaisti. Dopo il 5 aprile, il papa tornò a Cremona, dove ricevette l’omaggio di Corrado, figlio di Enrico IV, ribellatosi al padre. Tra il 6 e il 21 maggio sostò a Milano. Il 21 raggiunse Como per poi fare ritorno a Milano e muovere alla volta di Asti, raggiunta entro la fine di giugno. Seguendo la Francigena, passò, quindi, in Francia, dove, il 15 agosto, in Notre Dame de Puy – dopo essersi consultato con Raimondo di Saint-Gilles e Ademaro di Le Puy, tra i futuri capi della spedizione –, lanciò il bando di convocazione del concilio di Clermont, tenutosi tra il 19 e il 28 novembre successivo. L’iter gerosolimitano sarebbe stato altresí predicato nel corso dei concili di Limoges (23-31 dicembre) e di Nîmes (6-14 luglio), a seguito dei quali Urbano rientrò in Italia. Il 9 settembre, il nostro è segnalato ad Asti; il 14, è intento a celebrare la festa dell’Esaltazione della Croce presso la canonica di Mortara. Di qui pare abbia inviato due prelati, Guglielmo, vescovo d’Orange, e Ugo di Châteuneuf d’Isere,
la dottrina agostiniana del bellum iustum. Cosí come a una serie di contingenze: l’avvertita ma non sappiamo quanto reale necessità di difendere i cristiani d’Oriente, financo di liberare Gerusalemme; il soccombere del nemico saraceno tanto nella Penisola iberica, nell’ambito della cosiddetta «reconquista», quanto nel Mediterraneo occidentale, a coronamento dell’impegno delle città di mare italiane. Tali istanze furono raccolte, alla fine del secolo, da un papa energico come Urbano II, a suo modo pellegrino lungo le strade della Penisola, e oltre, con lo scopo di affermare gli ideali di quella riforma intesa da molti alla stregua d’una restaurazione.
La predicazione e le prime partenze
Non era la prima volta che un papa chiamava alla riconquista di Gerusalemme. Nel 1074, Gregorio VII, appena asceso al soglio papale, aveva espresso in almeno sei lettere il proposito di recarsi personalmente in Oriente alla testa d’una spedizione, e anche di raggiungere 24
ITALIANI ALLE CROCIATE
vescovo di Grenoble, a Genova con lo scopo di predicare la Croce e di sostenere la candidatura di Airaldo, preposito della congregazione mortariense, a vescovo della città. Rimessosi in viaggio, sostò dunque a Pavia, da dove, il 19, scrisse al clero e al popolo di Bologna raccomandando loro il vescovo Bernardo in luogo dello scismatico Pietro, e incitando chi avesse potuto a prendere la croce, cosí da guadagnare le indulgenze promesse; tuttavia – affermava il nostro –, gli ecclesiastici non avrebbero dovuto partire alla volta di Gerusalemme senza il consenso dei superiori, né gli uomini sposati senza quello delle mogli. I medesimi temi furono probabilmente al centro del sermone pronunciato tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre a Milano, nella basilica di S. Tecla, assieme ai consueti moniti contro la simonia e il nicolaismo. La crociata, insomma, si rivelava un valido strumento per affermare l’autorità papale; al contempo, però, bisognava assicurarsi che lo schieramento riformatore non rimanesse troppo sguarnito. Non a caso, un breve redatto a Cremona il 7 ottobre successivo impediva ai monaci di Vallombrosa di prendere parte all’expeditionem, richiamandoli ai propri doveri. Di lí a poco, il papa s’incontrò a Lucca con le schiere franco-normanne, procedendo alla volta di Roma, da cui furono scacciati i seguaci di Clemente III. Questi, tuttavia, riuscí a mantenere Castel Sant’Angelo, sí che la questione si sarebbe trascinata ancora per qualche tempo. Nel gennaio del 1097, Urbano celebrò un concilio in Laterano tornando a occuparsi della spedizione. Dopodiché, la sua attività conobbe una stasi.
Gerusalemme. Soltanto tre anni prima, i Turchi selgiuchidi, guidati dal sultano Alp Arslan, avevano sconfitto e catturato l’imperatore costantinopolitano, Romano IV Diogene, nei pressi di Manzikert, non distante dal lago di Van, sí ch’è possibile che il proposito papale si richiamasse alla concreta situazione orientale. Nonostante tali assunti, una vera e propria spedizione armata verso Gerusalemme, non scevra d’un essenziale carattere penitenziale – iter e peregrinatio, dunque – poté essere organizzata soltanto alla fine del secolo. Perché? L’appello di Clermont, oltre a raccogliere attese di lunga durata, colpí un immaginario pronto ad accettare un’idea «forte» come quella di procedere manu militari alla liberazione della Città Santa. Ciò fu favorito da un inestricabile groviglio di cause e circostanze fortuite: da tempo, l’esercito bizantino accoglieva schiere di mercenari occidentali per difendere i propri confini; nel marzo del 1095, alcuni messi del nuovo imperatore, Alessio I, avrebbero recato, al concilio di
Miniature raffiguranti papa Urbano II che si reca a Clermont, per partecipare al Concilio indetto nell’estate del 1095, e che lancia il suo appello alla crociata, da un’edizione del Roman de Godefroy de Bouillon di Guglielmo di Tiro. 1337. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
Non sappiamo s’egli discusse dell’impresa, ormai in corso, nel successivo concilio di Bari, dell’ottobre del 1098, benché, a quell’altezza, dovesse ormai avere avuto notizia della presa di Antiochia e della morte del legato: Ademaro di Le Puy, che sostituí con Daiberto, arcivescovo di Pisa. Del resto, si colloca in questo contesto la lettera inviata dal clero e dal popolo di Lucca a tutti i fedeli, redatta fra il 3 e l’11 ottobre, che reca notizia della conquista della città; segno d’una circolazione di uomini e informazioni ben piú vasta di quanto si possa immaginare. La lettera contiene, infatti, un accenno alla decisone di Urbano di recarsi a Bari e di disporsi personalmente a partire per la Terra Santa, cosí come già espresso a suo tempo da papa Gregorio VII.
Le vittorie dei crociati sono narrate da un testimone oculare: un certo Bruno, partito nel 1097 cum navibus Anglorum, giunto ad Antiochia il 5 marzo successivo e rientrato in patria il 20 luglio. Sembra, a ogni modo, che nel concilio tenutosi a Roma tra il 23 e il 30 aprile del 1099, il papa tornasse sulla spedizione, insistendo perché vi prendesse parte l’arcivescovo milanese: Anselmo IV da Bovisio, anch’egli un acceso partigiano della riforma; ciò che avrà effettivamente luogo. Tuttavia, Urbano non fece in tempo a godere dei frutti della propria predicazione: morí il 29 luglio, qualche giorno dopo la presa di Gerusalemme – il 15 di quello stesso mese –, in una Roma divenuta preda degli scontri di fazione.
A sinistra Particolare della facciata del duomo di Cremona (XII sec.), con il protiro sormontato da una loggia a tre arcate nella quale figurano le statue di sant’Imerio, della Vergine Maria e di sant’Omobono. Nella città lombarda fece tappa Urbano II durante il viaggio che lo portò verso la Francia, dove avrebbe presieduto il Concilio di Clermont. Piacenza, la richiesta di nuove truppe. L’urgenza di portare aiuto alla Chiesa greca, unitasi a quella d’affermare la superiorità papale rispetto a quella imperiale – dunque, anche nella capacità di dichiarare legittima una guerra –, e di contrastare il clero contrario alla riforma e, per questo, ritenuto scismatico, può aver indirizzato le decisioni papali. Cosí, nel novembre successivo, a Clermont, in Alvernia, dopo aver descritto le sofferenze dei cristiani d’Oriente, il papa esortò dunque i cavalieri presenti a partire pellegrini alla volta della Città Santa e a offrire le proprie armi per la libertà della Chiesa: «A chiunque avrà intrapreso il viaggio per Gerusalemme – si legge in ITALIANI ALLE CROCIATE
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GLI ITALIANI ALLE CROCIATE
I milites Christi Miniatura raffigurante Boemondo I di Antiochia, uno dei comandanti della prima crociata, che lascia la Terra Santa e s’imbarca alla volta della Puglia, da un’edizione dell’Historia Rerum in Partibus Transmarinis Gestarum di Guglielmo di Tiro. 1460 circa. Ginevra, Bibliothèque de Genève.
uno dei canoni del concilio – allo scopo di liberare la Chiesa di Dio, ammesso che sia per pietà e non per guadagnare onori e denaro, questo viaggio verrà contato come penitenza completa». Alla crociata presero parte migliaia di «crucesignati», cosí chiamati perché recanti cucita sulla veste – in genere, sulla spalla destra o fra le spalle – una piccola croce. Numerosi erano i milites: persone abituate alla violenza, in qualche caso dotate di cospicue sostanze; ma molti di piú erano i pedites, i cives, i pauperes, protagonisti, talvolta, di moti spontanei, a fatica incanalati da predicatori come Pietro d’Amiens e da cavalieri senza scrupoli come Gualtieri Senza Averi o Emich di Leiningen. In ogni caso, donne e uomini incalzati sia da motivazioni materiali – dal desiderio, cioè, di mettere le mani su larghe fette di bottino 26
ITALIANI ALLE CROCIATE
–, sia dalle istanze di rinnovamento religioso veicolate dal papato riformatore. In questo contesto si mossero gli Italiani, la cui risposta, tuttavia, non fu né immediata né unanime. All’impresa presero parte sia i Normanni del Sud Italia – l’ottica dei quali era legata, in larga parte, ai tentativi d’espansione ai danni dell’impero bizantino portati avanti nel decennio precedente da Roberto il Guiscardo –, sia i cives delle principali città marinare, use da tempo a solcare le rotte d’Oriente per ragioni di commercio, sia, ancora, gli habitatores di quelle città collegate al mare da buone strade ovvero situate sulle grandi arterie di pellegrinaggio, la cui situazione politica interna risultava allineata – non senza scontri anche sanguinosi – sulle posizioni del partito riformatore. In molti, a ogni
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modo, si aggregarono alle grandi schiere dei principi che avrebbero attraversato la Penisola. E, dunque, alla schiera provenzale, che, oltrepassato il Moncenisio, superata Susa e la valle della Dora Riparia, percorse la Lomellina sino a Pavia, per poi toccare Verona e volgersi verso l’Istria e la Dalmazia. Oppure, alla schiera franco-normanna, guidata da Ugo da Vermandois, fratello del re di Francia, da Roberto, duca di Normandia – figlio di Guglielmo il Conquistatore –, da suo cognato Stefano, conte di Chartres e di Blois, e da Roberto II, conte di Fiandra, che seguí la via Francigena sino a Lucca, dove, il 25 ottobre del 1096, incontrò Urbano II. Questi ne approfittò per rientrare a Roma, presidiata dai seguaci di Clemente III – Guiberto, arcivescovo di Ravenna –, il quale, dal 1080, esercitava una forte opposizione al partito riformatore avendo sposato la causa imperiale. Da Roma, le truppe franco-normanne proseguirono verso la Puglia, transitando, ai primi di novembre, da Montecassino. Seguendo, dunque, la via Latina, che toccava Anagni, Ferentino, Aquino, Cassino, Venafro, Alife e Telese, sino a imboccare l’Appia nei pressi di Capua e procedere verso Benevento, per poi raggiungere Brindisi. Stando a qualche cronista, giunto a questo punto, piú di un pellegrino, stanco per il viaggio, decise di tornare indietro. La maggior parte, a ogni modo, svernò in Puglia – a eccezione di Roberto di Fiandra, che passò subito l’Adriatico –; anche per mancanza di navi, muovendosi soltanto verso la Pasqua del 1097. Raggiunta la sponda epirota, i crociati imboccarono la via Egnazia, guadagnando la capitale imperiale. Non sappiamo quanti Italiani facessero parte di queste schiere. È possibile, anzi, che qualche
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gruppo si fosse messo in marcia autonomamente già dopo il concilio di Piacenza, tenutosi nel marzo 1095. Siccardo di Cremona, vissuto nella seconda metà del XII secolo, ricorda di come, nel corso del 1096, una moltitudine di pellegrini fosse passata per la sua città natale. Diverse fonti affermano, inoltre, che i crucesignati partiti al seguito di Pietro l’Eremita, giunti a Costantinopoli al principio d’agosto del 1096, avessero trovato ad attenderli diversi pellegrini, tra cui figuravano, assieme a Franchi e Alemanni, «Lombardos et Langobardos», i quali, traghettati in Asia, sarebbero periti scontrandosi coi Turchi. Ciò era il frutto, piú che d’una predicazione capillare, d’una serie di circostanze che trovavano ragione nella politica riformistica di Urbano II, che aveva avuto un primo momento di sintesi nel sinodo piacentino e, Castrum Truentinum Castrum Novum Hadria
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prima ancora, in quello, a esso preparatorio, tenutosi a Guastalla, nel territorio della contessa Matilde, paladina dei riformatori, nel gennaio del 1094. A riprova della centralità del contesto italico per la realizzazione dell’impresa.
L’epopea di Boemondo
L’appello crociato coinvolse, innanzitutto, le schiere normanne stanziate nel Sud della Penisola, le quali si misero in viaggio al seguito di Boemondo d’Altavilla. Questi esercitava un dominio labile sui principali porti pugliesi: Bari, Brindisi e Taranto, attraverso i quali era possibile apportare azioni di disturbo sia contro i Veneziani, sia contro i prospicienti territori di pertinenza dell’impero bizantino. Era stato il padre di Boemondo, Roberto il Guiscardo, a condurre, tra il 1080 e il 1085, una serie di spedizioni conITALIANI ALLE CROCIATE
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GLI ITALIANI ALLE CROCIATE
Miniatura raffigurante la battaglia di Antiochia, combattuta nel 1098, durante la prima crociata, da un’edizione della Historia di Guglielmo di Tiro. XIII-XIV sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
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ITALIANI ALLE CROCIATE
I milites Christi
tro l’Epiro; al suo seguito, il giovane rampollo normanno era penetrato in Tessaglia, prima d’essere respinto dalle truppe di Alessio I Comneno. Alla morte del grande condottiero, nel 1085, i possessi pugliesi erano toccati in sorte al fratellastro: Ruggero Borsa. Il contrasto tra i due trovò risoluzione per tramite di Urbano II, che riconobbe a Boemondo il territorio di Taranto. Troppo poco per il Normanno, che seguitò a sperare d’allargare il proprio dominio a quelle terre sulle quali aveva già messo gli occhi il padre, sí che si può ipotizzare ch’egli avvertisse la proclamazione dell’iter gerosolimitano, quantomeno inizialmente, alla stregua d’un’occasione per rimettere piede in Oriente. A quanto pare, il nostro ebbe notizia della spedizione nel settembre del 1096, mentre si trovava all’assedio di Amalfi. Immediatamente – stando alle cronache –, decise di mettersi in viaggio, di-
stribuendo ai propri soldati croci confezionate stracciando platealmente il proprio mantello di seta. Secondo il cronista Lupo Protospatario, al suo seguito avrebbe avuto cinquecento cavalieri e dai tre ai quattromila fanti, anche se – va detto – ogni stima lascia il tempo che trova. La gran massa di combattenti, a ogni modo – Campani, Calabri, Lucani e Pugliesi – era, con tutta probabilità, di costumi greci (o grecizzanti), se delle coste; longobardi, se dell’interno. Di essi, i Normanni costituivano l’élite militare, di cui erano parte alcuni parenti stretti del nostro, come il fratello Guido, il nipote Roberto di Buonalbergo e il cugino Tancredi d’Altavilla – piú tardi celebrato dal Tasso ne La Gerusalemme liberata –, oltre a notabili come Roberto d’Ansi, Ermanno di Canne, Boel di Chartres, Goffredo di Montescaglioso, e ad alcuni vescovi. Partito tra l’ottobre e il novembre di quello stes-
In alto miniatura raffigurante il matrimonio tra Boemondo I d’Antiochia e Costanza di Francia, figlia del sovrano Filippo I, da un’edizione della Chronique d’Ernoul et de Bernard le Trésorier di Ernoul, opera redatta sulla base di una traduzione in francese antico dell’Historia di Guglielmo di Tiro. XV sec. Londra, British Library. so 1096 dai porti di Bari, Otranto e Brindisi, l’esercito italo-normanno approdò a Valona, raggiungendo velocemente Durazzo. Passato il Natale a Castoria, riprese la marcia, depredando un villaggio di bogomili della Pelagonia. Dopodiché, il 18 febbraio guadò il Vardar scontrandosi con i mercenari turcopoli e peceneghi dell’impero. Scortato dai mercenari stessi, Boemondo procedette, dunque, piuttosto rapidamente, sino a Costantinopoli, raggiunta il 10 aprile del 1097. A differenza di altri capi crociati, il Normanno si dimostrò piuttosto accondiscendente nei confronti del Comneno, che pretendeva dagli occidentali un giuramento di fedeltà. Dal canto suo, Tancredi pensò, invece, di travestirsi da fante e di passare il Bosforo senza prestare omaggio. Le truppe normanno-italiote si unirono all’esercito crociato, dando avvio alla campagna anatolica. Il 6 maggio del 1097, coadiuvati da un piccolo
contingente greco, i Latini assediarono Nicea, arresasi al basileus, a cui formalmente era stata strappata, il 19 giugno. I combattenti furono ricompensati con larghi donativi, ma invitati a proseguire verso est, guidati da una pattuglia greca al comando del generale Tatikios; e ciò, per timore di eccessivi disordini. Per facilitare le operazioni, si divisero in due grosse schiere. L’avanguardia, guidata da Boemondo, puntò su Dorylaeum, situata nei pressi dell’attuale Eskisehir: un nodo stradale importante, da cui era possibile raggiungere tanto la Cappadocia e la zona dell’Eufrate quanto il Mediterraneo. Il 1° luglio, ormai a un passo dalla città, l’esercito fu assalito dalle truppe di Kiliç Arslan, sultano di Konya, che controllava gran parte della regione. Il sopraggiungere della seconda schiera, guidata dal legato papale, evitò che la disfatta fosse completa. Da quel momento in poi, i capi crociati decisero di procedere assieme; una scelta che, tuttavia, comportò inconvenienti d’ogni tipo, a partire dalla cronica necessità d’approvvigionamento.
Il principato di Antiochia
La marcia si rivelò dura e penosa. Costeggiando il lato meridionale del grande deserto salato che si estende attorno al lago Tuz, attraverso la stessa Konya – trovata deserta –, i crociati raggiunsero Eregli, dove ebbe luogo un nuovo, cruento scontro. Nonostante l’abilità dei cavalleggeri turchi e turcomanni – in particolare, dei cosiddetti ‘askar: le guardie scelte del sultano –, la cavalleria pesante europea – di cui quella normanna rappreITALIANI ALLE CROCIATE
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GLI ITALIANI ALLE CROCIATE
I milites Christi
Sulle due pagine Canosa di Puglia, il mausoleo di Boemondo d’Altavilla. La costruzione, a pianta quadrangolare, rimaneggiata in età moderna, è addossata al lato meridionale della cattedrale di S. Sabino. Un’incisione corre sui cinque lati visibili del tamburo ottagonale della cupola, sovrastata, in origine, da una copertura piramidale, rammentando le vittorie orientali di Boemondo: «Sotto questo tetto giace il magnanimo principe della Siria, nessuno migliore del quale nascerà al mondo. La Grecia vinta quattro volte, la Partia, grandissima parte del mondo, sperimentarono a lungo l’ingegno e le 30
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forze di Boemondo. Questi, nel corso di dieci battaglie sottomise alle redini della sua virtú schiere di migliaia di uomini, come ben sa la città di Antiochia». Sopra un’anta delle porte bronzee sottostanti si legge, invece: «Per questo il mondo rimbomba, di quanto Boemondo sia stato: la Grecia ne è testimone, la Siria lo enumera. Egli espugnò questa, quella protesse dal nemico; cosí i Greci ridono dei tuoi danni, o Siria. Ciò di cui ride il greco, ciò di cui piange il siro, entrambi non a torto, sono per te, Boemondo, vera salvezza». La datazione delle iscrizioni è oggetto di discussione tra gli studiosi.
sentava, verosimilmente, il fiore all’occhiello –, si rivelò imbattibile, anche grazie alla rigida disciplina che la caratterizzava. Tuttavia, il rifornirsi diventava sempre piú difficile, sia perché il territorio era devastato dalle guerriglie degli anni precedenti, sia perché i Turchi, vista la difficoltà d’arrestare i Latini in campo aperto, adottavano la tattica della terra bruciata. Ben presto apparve chiaro che bisognava puntare su Antiochia: vera chiave d’accesso a tutta la Siria, oltre che centro importante per il vettovagliamento delle armate, capace, tramite il porto di San Simeone, di accogliere le navi onerarie occidentali. Su consiglio delle guide bizantine, il grosso dell’esercito accettò, dunque, di raggiungere la Siria mediante un percorso largo ma relativamente comodo, che da Cesarea-Mazacha, attraverso l’Antitauro, recava a Marash; quindi, ai monti Amanos – la catena del Nur Daglari – e alle cosiddette Porte Siriache. Tancredi e Baldovino di Boulogne optarono, invece, per una via piú breve, che attraverso le Porte Cilicie conduceva alle città del piccolo regno armeno, popolate di cristiani, dai quali i due principi speravano, forse, d’ottenere aiuto. Dopo qualche giorno, però, Baldovino abbandonò il Normanno per occupare Edessa, dando origine alla prima
conformazione statuale di Terra Santa. Tancredi decise, invece, di ricongiungersi al resto dell’esercito di fronte alle mura di Antiochia. Iniziato il 21 ottobre del 1097, l’assedio si rivelò assai difficoltoso. Dopo mesi di stallo, fu Boemondo a sbloccare la situazione, concertando una sortita con un certo Firuz – forse un notabile armeno –, responsabile della difesa di alcune torri, che consentí ai Normanni di scalare nottetempo le mura della città. Il 3 giugno del 1098, Antiochia cadde in mani latine a eccezione della cittadella. Ma la questione non poteva, certo, dirsi risolta. Il giorno dopo giunsero sotto le mura della città le truppe di Kürboga, atabeg di Mosul. I crociati, e con essi i Normanni, si trovarono dunque stretti tra due fuochi. La situazione era tanto disperata che, persuaso della loro disfatta, Alessio Comneno rinunciò a portare il proprio aiuto ai combattenti, attirandosi la nomea di traditore. Secondo le cronache, il rinvenimento della Santa Lancia – la cui autenticità, va detto, suscitò non pochi dubbi – diede la forza di reagire. Il 28 giugno, a seguito d’una sortita disperata, l’esercito di Kürboga fu messo in fuga. L’entusiasmo salí alle stelle. La strada per Gerusalemme sembrava spianata. Tuttavia, i frutti della conquista rischiarono d’essere compromessi dall’indecisione e dalle gelosie sorte tra i capi crociati, sí che la situazione conobbe un nuovo stallo. Che fare della città conquistata? Dopo lungo tergiversare, a spuntarla fu proprio Boemondo, che riuscí a mantenersi in Antiochia. Di qui, il 14 luglio del 1098, il nostro concesse ai Genovesi un privilegio che mostra bene come già si considerasse, senza investitura alcuna né legittimazione ecclesiastica, il vero signore della città. Il 15 luglio dell’anno successivo, il Normanno prese quindi parte alla presa di Gerusalemme, a seguito della quale il possesso di Antiochia gli sarebbe stato riconosciuto dal nuovo patriarca: il pisano Daiberto. Sorgeva, cosí, sotto una parvenza di legalità, il principato antiocheno, che avrebbe avuto vita lunga sino a essere privato della propria capitale nel 1268 per opera dei Mamelucchi ed essere del tutto sottomesso nel 1287, a seguito della conquista di Tripoli, che da esso dipendeva. Quanto a Boemondo, nel 1100, nel tentativo d’allargare e consolidare il proprio dominio, fu catturato dai Turchi danishmendidi, che lo tennero prigioniero sino al 1103. Riscattato da un principe armeno, morí nel 1111, non senza aver sposato, prima, nientemeno che la figlia del re di Francia, Costanza, e aver tentato di convincere il papa a lanciare una nuova crociata contro Costantinopoli. ITALIANI ALLE CROCIATE
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Un’odissea di
Veneziani, Genovesi e Pisani: le grandi potenze marinare italiane non si lasciarono certo sfuggire la grande occasione della prima crociata. E alle forze pronte per salpare per il Levante fornirono navigli e contingenti armati
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mercanti La traversata del Bosforo. 1097, olio su tela di Émile Signol. 1854. Versailles, Musée national des châteaux de Versailles et de Trianon. Cosí l’artista ha immaginato il battello a bordo del quale viaggiava Goffredo di Buglione.
A
lla crociata parteciparono, secondo modalità peculiari, le principali città marinare italiane. Le schiere di terra necessitavano di sostegno navale, come mostra un’enciclica – senza dubbio spuria – attribuita a papa Sergio IV (1009-1012), redatta verosimilmente nel 1096, in cui si annunciava la distruzione del Sepolcro, operata nel 1009 dal sesto imam fatimida, al-Hakim, e l’armamento d’una flotta da parte di Genovesi e Veneziani che avrebbe trasportato il papa in Terra Santa per vendicare l’oltraggio subito: «Nos omnes cunctique Italie seu Venetie et cives Genuae cum
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«Domandate pace per Gerusalemme: sia pace a coloro che ti amano, sia pace sulle tue mura, sicurezza nei tuoi baluardi. Per i miei fratelli e i miei amici io dirò: “Su di te sia pace!”. Per la casa del Signore nostro Dio chiederò per te il bene» (Sal 122, vv. 6-9)
I secoli dell’incontro/ scontro fra cristianità e Islam 30 circa In seguito ai ritrovamenti 3 che la tradizione attribuisce a sant’Elena, madre di Costantino, vengono fondate a Gerusalemme e a Betlemme alcune basiliche per ricordare i principali momenti della vita del Cristo; inizia la devozione per i Luoghi Santi cristiani. ● 614 I Persiani del Gran Re Cosroe conquistano Gerusalemme; la basilica della Resurrezione, che ospita l’edicola del Santo Sepolcro, viene distrutta e la reliquia della Vera Croce portata a Ctesifonte come trofeo di guerra. ● 622 Ègira (hijrah, «migrazione») del profeta Maometto da Mecca a Yatrib (piú tardi detta Medina, 15 giugno «la Città»). ● 629 L’imperatore bizantino Eraclio libera Gerusalemme dai Persiani, conquista Ctesifonte capitale del Gran Re e recupera la reliquia della Vera Croce; si restaura la basilica della Resurrezione. ● 632 Morte del profeta Maometto a Medina. ● 638 Il califfo Umar conquista Gerusalemme. ● 639 Inizia la conquista araba dell’Egitto. ● 641 Gli Arabi conquistano Alessandria. ● 647 Inizia la conquista araba dell’Ifriqiyah (corrispondente all’antica provincia romana d’Africa), terminata attorno al 705. ● 732 (o 733) 25 ottobre Battaglia di Poitiers (la data è quella piú comunemente accettata). ● 750 Fondazione del califfato abbaside. ● 756 L’umayyade Abd ar-Rahman I fonda l’emirato di Córdoba. ●
vestra mercede de omni populo, in isto anno, mille volumus instruere navibus, cum quibus eamus in Syriae partibus, ut vindicemus Redemptorem et eius tumulum» («Quest’anno vogliamo allestire mille navi con cui recarci in Siria per vendicare il Redentore e il suo Sepolcro»). La lettera fu redatta verosimilmente nell’abbazia di Moissac, situata a nord-est di Tolosa; forse, in occasione del passaggio di papa Urbano II, il 13 maggio 1096 (ma le opinioni in merito divergono: uno studio recente, per esempio, data lo scritto al 1080 circa); essa vale soprattutto a mostrare la coscienza dell’apporto positivo che un naviglio di qualche consistenza avrebbe potuto fornire alle operazioni militari. Il papa tentò, infatti, di coinvolgere immediatamente i Genovesi.
In missione per conto del papa
Come s’è detto, di ritorno dalla Francia, Urbano s’era fermato a Mortara, in Lomellina. Qui aveva avuto modo d’incontrare Airaldo, preposito della canonica mortariense. L’anno successivo, questi fu eletto vescovo di Genova; ma la sua consacrazione ebbe luogo soltanto nel 1099 a causa dell’opposizione interna operata dal vescovo Ogerio, legato allo schieramento imperiale. Con tutta probabilità, da Mortara, Urbano inviò a Genova due presuli, Guglielmo, vescovo d’Orange, e Ugo di Châteuneuf d’Isere, vescovo di Grenoble, con lo scopo di predicare la crociata. Secondo l’annalista Caffaro, all’epoca ventenne, ciò avrebbe avuto luogo nel monastero periurbano di S. Siro, giacché la chiesa vescovile di S. Lorenzo era presidiata dai filo-imperiali. È possibile, anzi, che il papa incaricasse i due di 34
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In alto miniatura raffigurante l’assedio di Gerusalemme del 1099, da un’edizione della Historia di Guglielmo di Tiro. XIII sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Nella pagina accanto Goffredo di Buglione deposita nella chiesa del Santo Sepolcro i trofei di Ascalona, agosto 1099, olio su tela di François Marius Granet. 1839. Versailles, Musée national des châteaux de Versailles et de Trianon.
62 Fondazione di Baghdad, nuova capitale 7 del califfato abbaside. ● 797 Avvio delle relazioni diplomatiche fra Carlo Magno e Harun ar-Rashid. ● 801 I Franchi riconquistano Barcellona. ● 827 Inizio della conquista aghlabita della Sicilia (completata nel 902). ● 827-961 Emirato arabo nell’isola di Creta. ● 833 Conquista musulmana di Palermo. ● 844 Assalto normanno a Siviglia, respinto da cristiani e musulmani che combattono insieme. ● 846 Incursione araba su Roma. ● 847-871 Emirato arabo di Bari. ● 849 Battaglia di Ostia, conclusasi con la vittoria dei cristiani sugli Arabi. ● 859 I Normanni incendiano la moschea di Algesiras, in Spagna. ● 870 Occupazione musulmana dell’isola di Malta. ● 902 Conquista musulmana delle Baleari. ● 960-961 I Bizantini riconquistano Creta. ● 969 Fondazione del Cairo. ● 982 A Capo Colonna, in Calabria, i Saraceni battono l’imperatore romano-germanico Ottone II di Sassonia. ● 997 Al-Mansûr, vizir del califfo di Cordova, attacca e saccheggia la città di Santiago de Compostela. ● 1009 Il califfo fatimide d’Egitto al-Hakim fa distruggere la chiesa del Santo Sepolcro a Gerusalemme. ● 1031 Fine del califfato umayyade di Cordova. ● 1085 6 maggio Alfonso VI di Castiglia conquista Toledo. ● 1086 I Castigliani sono sconfitti dagli Almoravidi a Zallaqa. ● 1090 Ruggero d’Altavilla occupa Malta e Gozo. ● 1094 15 giugno El Cid conquista la città di Valencia. ● 1095 18-28 novembre Concilio di Clermont d’Alvernia. Discorso di Urbano II. ● 1096-1099 Prima crociata in SiriaPalestina. Vi partecipano quattro eserciti: Goffredo di Buglione, duca di Lorena, comanda i Lotaringi; Roberto, duca di Normandia, e Roberto, conte di Fiandra, capeggiano i cavalieri della Francia settentrionale; Raimondo, marchese di Provenza, guida i cavalieri della Francia meridionale; Boemondo d’Altavilla è alla testa dei Normanni venuti dall’Italia meridionale. ●
098 giugno I crociati conquistano Antiochia, 1 della quale si appropria Boemondo d’Altavilla. ● 1099 10 luglio El Cid Campeador muore a Valencia. ● 1099 15 luglio I crociati conquistano Gerusalemme. ● 1100 Baldovino di Boulogne diviene il primo sovrano del Regno «franco» di Gerusalemme. ● 1102 Gli Almoravidi occupano Valencia. ● 1128 Concilio di Troyes: la fraternitas dei pauperes milites Templi salomonici diviene una militia (Ordine religioso-cavalleresco). ● 1145-1146 Papa Eugenio III emana, in due differenti successive redazioni (1° dicembre 1145 e 1° marzo 1146), la Quantum praedecessores, prima bolla pontificia regolatrice del movimento crociato. ● 1147 ottobre I crociati prendono Almeria e poi Lisbona. ● 1148-1152 Seconda crociata in Siria-Palestina. Vi confluiscono la crociata tedesca, guidata da Corrado III, e quella francese, al seguito di Luigi VII e della moglie Eleonora d’Aquitania. ● 1157 Gli Almohadi riconquistano Almeria. ● 1177 25 novembre Le truppe cristiane guidate da Baldovino IV di Gerusalemme sconfiggono l’armata di Saladino nella battaglia di Montgisard. ● 1187 Vittoria saracena a Hattin; Saladino conquista Gerusalemme. Papa Gregorio VIII promulga l’enciclica Audita tremendi. ● 1187-1192 Terza crociata. Vi partecipano l’imperatore tedesco Federico I Barbarossa, il re di Francia Filippo Augusto e il re d’Inghilterra Riccardo Cuor di Leone. ● 1195 19 luglio Gli Almohadi battono i Castigliani ad Alarcos. ● 1202-1204 Quarta crociata, detta «dei baroni», riuniti sotto il comando del ●
marchese Bonifacio di Monferrato; si conclude con la conquista di Costantinopoli e la fondazione dell’impero latino. ● 1209 Innocenzo III bandisce la crociata contro gli eretici catari detti «Albigesi». ● 1210 Predicazione di una nuova crociata nella Penisola Iberica, causata dalla conquista almohade di Salvatierra. ● 1212 «Crociata dei fanciulli» (o «degli innocenti»). ● 1212 17 luglio Le truppe cristiane francoispano-portoghesi riportano una grande vittoria nella battaglia di Las Navas de Tolosa. ● 1217-1221 Quinta crociata, organizzata da Andrea II re d’Ungheria e da Leopoldo VI duca d’Austria. Incontro tra Francesco d’Assisi e al-Malik al-Kamil, sultano d’Egitto. ● 1228-1229 Sesta crociata (crociata di Federico II); Gerusalemme è recuperata per mezzo di un accordo diplomatico con il sultano d’Egitto al-Malik al-Kamil. ● 1229-1231 Crociata aragonese contro le Baleari. ● 1232-1253 Crociata aragonese contro l’emirato di Valencia. ● 1244 Rogo degli ultimi difensori catari di Montségur; le milizie nomadi kwarizmiane occupano Gerusalemme. ● 1248-1254 Settima crociata (prima crociata di Luigi IX): spedizione in Egitto del re di Francia. ● 1258 I Mongoli conquistano Baghdad; fine del califfato abbaside. ● 1267 Completata la conquista cristiana del Portogallo. ● 1270 Ottava crociata (seconda crociata di Luigi IX, che muore durante l’assedio di Tunisi). ● 1291 Caduta di Acri. ● 1300 Giubileo proclamato da Bonifacio VIII.
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GLI ITALIANI ALLE CROCIATE sostenere la candidatura di Airaldo alla cattedra genovese, utilizzando la crociata quale strumento di richiamo per acquisire partigiani. Non sappiamo se fu la scomparsa di Ogerio a favorire, nel luglio del 1097, la partenza di dodici galee e a un sandalo – un legno minore – a sostegno delle schiere crociate, ormai in procinto di penetrare in territorio antiocheno. Si trattò, senza dubbio, d’una spedizione importante: è difficile fare una stima del numero dei partecipanti, ma si può supporre che la flotta – approdata quattro mesi dopo nel porto di San Simeone, segno d’una conoscenza accurata degli eventi orientali – trasportasse circa un migliaio di persone. Proprio allora, a ogni modo, a Genova scoppiavano nuovi torbidi; probabilmente tra i sostenitori di Airaldo e quelli di Ogerio. Questi ultimi contrari, forse, alla spedizione, che comprometteva i contatti commerciali stabiliti da tempo con le terre oltremarine. In tale frangente sembra inserirsi, a ogni modo, l’arrivo, presso la spiaggia di Prè, delle ceneri di san Giovanni Battista – dando credito, naturalmente, alla storicità del fatto –, recate in patria dai primi crociati genovesi di ritorno da Antiochia, che le avrebbero sottratte dalla città licia di Myra. Va detto, tuttavia, che l’annalista Caffaro – la fonte principale per queste vicende – non cita l’episodio, narrato alla fine del Duecento dall’arcivescovo Iacopo da Varagine, preferendo concentrarsi sull’arrivo a Giaffa, nel 1099, di altre due galee, al comando di Guglielmo Embriaco e Primo de Castro, impegnate, con tutta probabilità, nel trasbordo di pellegrini e combattenti di là del mare.
Un bottino ingente
Intimoriti da una flotta musulmana proveniente da Ascalona, i Genovesi avrebbero distrutto una galea – la seconda sarebbe riuscita a mettersi in salvo fuggendo a Laodicea, a meno che non si tratti d’un legno ulteriore –, trasportandone il legname a Gerusalemme con lo scopo d’utilizzarlo per la costruzione di macchine d’assedio. Dopo aver partecipato alla presa della Città Santa, l’Embriaco fece ritorno in patria con un 36
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Da Genova, da Pisa e da Venezia
Capolettera miniato raffigurante Boemondo I d’Antiochia e l’arcivescovo Daiberto di Pisa che navigano verso la Puglia, da un’edizione dell’Historia di Guglielmo di Tiro. 1250-1259. Londra, British Library.
bottino ingente, ricavato dalla successiva vittoria cristiana presso la piana di Ascalona, e lettere dei capi crociati che chiedevano rinforzi. Tali notizie potrebbero aver spinto Airaldo, ormai consacrato vescovo, a prodigarsi per una pacificazione cittadina, richiamando a una nuova, imponente spedizione, sulla scia di quanto accadeva a Milano per iniziativa dell’arcivescovo Anselmo IV da Bovisio. Come si dirà, l’operazione s’inseriva, infatti, nell’ambito d’un ampio progetto patrocinato dal nuovo papa, Pasquale II, volto a coinvolgere le diocesi dell’Italia nordoccidentale; e, in particolare, quella milanese (di cui quella genovese era suffraganea), il cui metropolita, già nel 1095, dopo aver a lungo tentennato, aveva abbracciato con decisione la causa di Urbano.
Il patriarca pisano
A differenza dei Genovesi, i Pisani risposero tardivamente alla chiamata papale; e ciò, nonostante la partecipazione del proprio presule, Daiberto, fedelissimo di Urbano II, ai concili di Piacenza e Clermont. Una prima flotta, forte di qualche decina di galee – l’unica fonte a disposizione, i Gesta triumphalia per Pisanos facta, giunge a contarne 120, per un numero di uomini compreso tra i 15 e i 20 000, certamente esagerato –, recante a bordo lo stesso Daiberto, nelle vesti di legato papale, salpò all’inizio della primavera del 1099. Tuttavia, anziché puntare verso la Terra Santa, peregrinò alquanto per le isole egee in cerca di legni bizantini, giungendo a Laodicea soltanto in settembre, in tempo per partecipare all’assedio della città. Nell’agosto del 1097, quest’ultima era stata presa dal pirata fiammingo Guinemero di Boulogne, al quale, però, era stata strappata nella primavera successiva dagli inglesi Eadgard Aetheling e Robert Godvinson, che ne avevano fatto dono a uno dei capi della crociata: Roberto di Normandia. Nell’estate seguente, la popolazione, insorta, s’era data però a Raimondo di Tolosa, che, al principio del 1099, l’aveva resa al basileus. All’arrivo della flotta pisana, il porto di Laodicea era
occupato da diverse squadre navali: i Gesta francorum parlano di «Ravennenses»; Fulchero di Chartes nota la presenza di «Tuscani et Itali»; Alberto di Aix segnala l’arrivo di legni genovesi; altre fonti, riferendosi all’esercito di Boemondo, citano alcune navi «de Apulia». Un vero e proprio crogiuolo d’«italianità», dunque, di cui nulla è noto. A quanto pare, il capo normanno si sarebbe rivolto ai Pisani per ottenere aiuto nella conquista della città, promettendo loro ampi vantaggi commerciali. Tuttavia, l’assedio non fu portato a termine – Laodicea sarebbe caduta soltanto nel 1103, per essere riconquistata dai Greci l’anno successivo – a causa dell’intervento di Raimondo di Saint-Gilles, elevatosi a difensore dei diritti bizantini nella regione. Nella confusione del momento, Daiberto sarebbe riuscito a creare un clima di concordia tra tutti i contendenti, acquisendo quella caratura morale che lo Miniatura raffigurante l’assedio crociato di Gerusalemme del 1099, da un’edizione dell’Historia di Guglielmo di Tiro. 1460-1465. Ginevra, Bibliothèque de Genève.
IL PRIMO CROCIATO L’onore d’aver dato i natali al cosiddetto «primo crociato», colui che, per primo, sarebbe salito sulle mura di Gerusalemme, è condiviso da diverse città. Per i Milanesi, tale onore andrebbe tributato a Giovanni da Rho e a Pietro de’ Selvatici, a cui si sarebbe aggiunto Ottone Visconti, che avrebbe guadagnato in Terra Santa lo stemma della biscia, strappandolo a un saraceno. Dal canto loro, i Pisani lo tributavano a Cucco Ricucchi e a Coscetto del Colle. Per i Fiorentini fu, invece, Pazzino de’ Pazzi a issare per primo le insegne cristiane sui bastioni della Città Santa, ottenendo da Goffredo di Bouillon tre pietre tratte dal Sepolcro, utilizzate poi nel rituale «scoppio del carro», che sembrerebbe richiamare, per certi versi, la cerimonia del «fuoco sacro» che si teneva a Pasqua nel Santo Sepolcro. Narra Giovanni Villani nella sua Cronica: «E ‘l giorno di sabato santo, che si benedice ne le dette fonti l’acqua del battesimo e il fuoco, ordinato che ssi spandesse il detto fuoco santo per la città a modo che si faceva in Gerusalem, che per ciascuna casa v’andasse uno con una faccellina ad accendere. E di quella solennità venne la dignità ch’hanno la case de’ Pazzi de la grande faccellina, intorno fa di CLXX anni dal MCCC anni addietro, per uno loro antico nomato Pazzo, forte e grande della persona, che portava la maggiore faccellina che niuno altro, e era il primo che prendea il fuoco santo, e poi gli altri da lui».
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Da Genova, da Pisa e da Venezia
avrebbe favorito, anche in quanto legato, alla guida della Chiesa gerosolimitana. I Pisani, a ogni modo, fecero vela alla volta di Giaffa, guadagnando in breve tempo la Città Santa e assolvendo il proprio dovere di pellegrini. Celebrato il Natale a Betlemme, Daiberto fu acclamato patriarca di Gerusalemme in luogo di Arnolfo di Chocques, cappellano di Roberto di Normandia, la cui elezione, il 1° agosto precedente, non aveva ottenuto la ratifica papale. In cambio del sostegno ottenuto, il nuovo patriarca riconobbe a Boemondo il possesso di Antiochia. Il suo programma si rivelò, sin da subito, improntato agli ideali della riforma: la Chiesa di Roma doveva regnare di diritto a Gerusalemme, centro e cuore della cristianità. Una decisione che si scontrava, tuttavia, con la volontà dei capi crociati rimasti in Oltremare, che andavano ritagliandosi qua e là domini personali lungo l’intera fascia costiera, e che necessitavano d’un re la cui potestas si limitasse, di fatto, alla sola Gerusalemme e al suo circondario. Non a caso Goffredo di Bouillon aveva ottenuto la nomina di advocatus del Santo Sepolcro e Daiberto entrò in conflitto col suo successore, Baldovino, eletto primo re di Gerusalemme. Lo stesso Goffredo, a ogni modo, s’era dimostrato tutt’altro che incline ad accondiscendere in tutto e per tutto alle richieste del patriarca, benché questi si appoggiasse, come deterrente, sui Pisani reduci da Laodicea, che ottennero in cambio un quartiere a Giaffa. Nella Pasqua del 1100, l’advocatus si spinse sino a cedere alla Chiesa gerosolimitana, oltre che la cittadina costiera, l’intera Gerusalemme, con la Cittadella e la Torre di David, che Daiberto fece presidiare. In tali accordi è possibile scorgere l’origine del conflitto che l’oppose a Baldovino, dietro la cui elezione è possibile leggere l’azione del patriarca deposto, oltre che una vera e propria opposizione al predominio del presule pisano. Inizialmente, Daiberto si mostrò condiscendente nei confronti del sovrano, da lui stesso consacrato, nel Natale del 1100, nella basilica della Natività, a Betlemme. Tuttavia, la tregua fu di breve durata. Dal marzo successivo, il nuovo re iniziò ad accusare il patriarca d’ogni malefatta, compresa la compravendita di reliquie. Daiberto divenne oggetto di tanto oltraggio che gli fu perfino proibito di presenziare alle cerimonie pasquali, salvo fare marcia indietro a seguito del versamento d’una forte somma di denaro. L’obiettivo, a ogni modo, era quello di privare la Chiesa d’ogni posizione di potere. Accusato di malversazioni, il patriarca fu privato dei diritti 38
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acquisiti sulle proprietà del Santo Sepolcro e dovette rifugiarsi ad Antiochia, presso Tancredi d’Altavilla. Baldovino riusciva, cosí, a impadronirsi del tesoro e delle rendite patriarcali. Nei confronti di Daiberto fu aperta una vera e propria inchiesta per simonia e occultamento di denaro, cui si aggiungeva l’accusa d’aver preso parte alle azioni predatorie della flotta pisana nell’Egeo. Il presule decise, dunque, di tornare in Italia assieme a Boemondo. Sbarcato in Puglia nel gennaio del 1105, si recò a Roma. Pasquale II lo trattenne a lungo, cosí da permettere a Baldovino d’inviargli le prove della sua colpevolezza che, tuttavia, non giunsero mai, sí che il papa lo reintegrò del proprio titolo. L’arcivescovo pisano e patriarca di Gerusalemme chiuse gli occhi il 4 giugno del 1107, a Messina, in procinto di ripartire per la Terra Santa. L’anno successivo, una flotta pisana non meglio specificata sostenne Tancredi nell’assedio di Laodicea, allora in mano all’imperatore, ottenendo, a seguito della vittoria, un diploma che accordava ai Pisani una via voltata nella città e il possesso della chiesa di S. Niccolò, oltre a un vico – vicus Sancti Salvatoris – in Antiochia e ampi privilegi commerciali. In agosto, la stessa flotta partecipò, assieme a Genovesi, Veneziani e Normanni, all’assedio di Sidone, che, però, capitolò solo nel settembre del 1110, per opera dei Veneziani. Erano questi, dunque, i frutti della politica di Daiberto da Pisa, dei quali, tuttavia, egli non poté godere.
Le spedizioni dei Lombardi e dei Genovesi
Dietro le nuove spedizioni crociate d’inizio secolo si staglia, dunque, la figura di Pasquale II. Al principio del 1099, Urbano II aveva scritto al milanese Anselmo IV perché si mettesse in viaggio per la Terra Santa. La cittadinanza necessitava di pacificazione, uscita com’era dalle estenuanti lotte tra la pataria e i suoi molti avversari. È possibile, anzi, che l’istituzione d’una festa annuale con mercato, ogni 15 luglio, a commemorazione della presa di Gerusalemme, presso la chiesa della Santissima Trinità – il cui nome fu mutato in Santo Sepolcro – avesse lo scopo di richiamare verso un obiettivo comune. Della spedizione s’interessò Pasquale, che ricercò, cosí come aveva fatto il proprio predecessore, il sostegno navale dei Genovesi, che avrebbero dovuto recare in Terra Santa il nuovo legato papale: Maurizio di Porto. Il metropolita milanese partí nel settembre del 1100 alla testa di diverse migliaia di «crucesignati», provenienti dall’intera area padana, ac-
Baldovino prende possesso della città di Edessa, 1097, olio su tela di Joseph-Nicolas Robert-Fleury. 1839. Versailles, Musée national des châteaux de Versailles et de Trianon. Il condottiero, uno dei comandanti della prima crociata, fu a capo della contea di Edessa e, nel 1100, venne eletto sovrano del regno di Gerusalemme.
compagnato da Alberto, conte di Briandate, da Goffredo da Rho, da Landolfo da Baggio e da altri notabili, tra cui il vescovo di Piacenza e quello di Parma. Nel marzo del 1101, attraversata l’Istria, la Dalmazia e i Balcani, i Lombardi giunsero a Costantinopoli, dove, per procurarsi i viveri necessari al sostentamento, si diedero alle solite violenze, arrivando ad assaltare il palazzo imperiale. L’imperatore non poté fare altro che affrettarsi a traghettarli oltre il Bosforo. Accampatisi a Nicomedia, dove furono raggiunti da alcune truppe franco-tedesche, decisero, dunque, di lanciarsi contro i Turchi danishmenditi; gli stessi che avevano preso in ostaggio Boemondo di Antiochia. La decisione si rivelò disastrosa. Spintosi ben oltre Ankara, l’esercito crociato fu battuto ripetutamente, si-
no a essere schiacciato del tutto nei pressi di Merzifon, a due giorni di marcia dal Mar Nero. Scampato al disastro assieme a un manipolo di cavalieri, il presule tornò a Costantinopoli, dove morí il 30 settembre successivo, venendo sepolto nella chiesa di S. Nicola. Nel frattempo, il vescovo Airaldo procedeva, a Genova, all’organizzazione di una imponente spedizione navale. Emulando il gesto del metropolita, anch’egli procedette verosimilmente all’intitolazione d’una chiesa al Santo Sepolcro (della quale si ha notizia, tuttavia, soltanto a distanza di qualche decennio), tentando in tal modo di pacificare la cittadinanza. Forte di ventisei galee e quattro (o sei) navi – queste ultime, cariche di pellegrini –, la flotta genovese, guidata, tra gli altri, dall’Embriaco, eletto per l’occaITALIANI ALLE CROCIATE
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Da Genova, da Pisa e da Venezia
Nella pagina accanto Ritratto di Pasquale II (al secolo Rainerio Raineri), olio su tela attribuito a Giuseppe Franchi. 1600-1624. Milano, Biblioteca Ambrosiana. Il pontefice, che successe a Urbano II, si rese subito promotore di nuove spedizioni militari in Terra Santa. In basso le rovine del castello crociato di Montreal (in arabo Shobak), attualmente in territorio giordano. La fortezza venne edificata nel XII sec. da re Baldovino I di Gerusalemme dopo una spedizione vittoriosa in quella regione.
sione «consul exercitus Ianuensium», salpò il 1° d’agosto del 1100, guadagnando in settembre Laodicea. Qui, il legato incontrò re Baldovino, sposandone la causa nel quadro della crescente opposizione di alcuni capi crociati. I Genovesi seguirono il sovrano, visitando i Luoghi Santi e assistendo, il Sabato Santo, al celebre «miracolo dei lumi» nella basilica del Santo Sepolcro. Dopodiché, seguendone le indicazioni, assaltarono Arsuf, caduta all’inizio di maggio, e Cesarea, presa probabilmente il 17 di quel mese, sostenuti, pare, da alcune galee pisane, verosimilmente rimaste in Terra Santa a sostegno del patriarca Daiberto. Quindi ripresero il mare, forse recando con sé quel «vas coloris viridissimi, in modo parapsidis formatum» di cui parla Guglielmo di Tiro, in seguito identificato col Catino usato da Gesú nel corso dell’Ultima Cena e da Nicodemo per raccogliere il sangue del Salvatore crocifisso (vedi box alle p. 44-45). Nel corso del viaggio di ritorno, la flotta genovese incrociò nei pressi di Itaca una sessantina di galee imperiali; ne seguí un aspro scontro, che vide i Greci, battuti, costretti a trattare: le due flotte procedettero, infatti, di conserva sino a Corfú; di qui, due legati genovesi furono scortati a Costantinopoli per conferire con il basileus. Il risultato di tali trattative è ignoto, benché si possa supporre un tentativo di rompere l’alleanza vigente tra Genova e i Normanni, testimoniata dal privilegio del 1098 e dai suoi rinnovi succes-
sivi, per ripristinare quella con i Provenzali, se non addirittura d’ottenere vantaggi commerciali paragonabili a quelli goduti dai Veneziani. A ogni modo, la caduta di Cesarea poneva in mano al neonato regno latino di Gerusalemme tutto il litorale siro-palestinese da Haifa a Giaffa; circostanza che si rivelò essenziale per rinsaldare il dominio franco nella regione, assicurare i necessari rifornimenti e consentire una migliore difesa dei territori conquistati. Una combinazione di fattori che non mancò d’attirare nel Levante ulteriori spedizioni, per le quali possiamo supporre – ma la questione è controversa, visti gli esiti – un diretto impegno di papa Pasquale II. Nel febbraio del 1102, una flotta genovese capitanata da Mauro de Platealonga e Pagano de Volta, forte di otto galee, otto golabi e una grande nave, espugnò Tortosa, venendo incontro alle aspirazioni di Raimondo di Saint-Gilles, conte di Tolosa, che intendeva ritagliarsi nella zona una signoria personale.
La presa di Acri
Verso la fine del 1103, un’ulteriore spedizione, secondo Caffaro forte di quaranta galee – per l’Historia Hierosolymitana di Fulcherio di Chartres, le galee sarebbero state settanta, ma pare fossero presenti anche vascelli pisani –, fece scalo a Laodicea, procedendo nell’aprile successivo (in marzo, secondo Alberto d’Aquisgrana) alla conquista di Jubayl – l’antica Byblos; la futura
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GLI ITALIANI ALLE CROCIATE I resti del castello di Arsuf, su una collina compresa nel Parco nazionale di Apollonia, in Israele. La località, nel 1101, nel corso della prima crociata, venne conquistata dalle truppe di re Baldovino, coadiuvato dai Genovesi, mentre nel 1187 passò sotto il controllo dei musulmani, durante la campagna di Saladino.
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Da Genova, da Pisa e da Venezia
Gibelletto genovese, infeudata dagli eredi di Guglielmo Embriaco, che vi si manterranno sino alla soglie del Trecento –, situata sulla costa, tra Tripoli e Beirut. La flotta proseguí, poi, verso sud, giungendo ad Acri il 5 o 6 maggio successivo: la città fu posta sotto assedio, accerchiata dal mare da galee genovesi e pisane e da terra dalle truppe di Baldovino. La resa ebbe luogo dopo una ventina di giorni; secondo Caffaro, senza spargimento di sangue. Per altri, invece, la città sarebbe stata sottoposta a un brutale saccheggio. Una nuova, imponente spedizione salpò da Genova nel 1109. L’occasione fu fornita dalla lotta tra gli eredi di Raimondo di Saint-Gilles, scomparso nel febbraio del 1105, lasciando il compito di conquistare Tripoli a Guglielmo Giordano, conte di Cerdagna, che richiese l’intervento dei marinai liguri. Anche il primogenito del conte, Bertrando, temendo d’essere privato dell’eredità paterna, si rivolse a loro, promettendo notevoli vantaggi di qua e di là del mare in cambio del loro sostegno. I Genovesi colsero l’occasione per avvantaggiarsi nella propria politica commerciale con l’area provenzale, ottenendo da Bertrando un censo annuo per la chiesa di S. Lorenzo, esclusiva libertà di
commercio nei suoi domini e terreni sufficienti per l’edificazione di trenta case in Saint-Gilles. Poco dopo, una flotta di sessanta galee salpava per la Terra Santa, ponendo Tripoli sotto assedio. La città s’arrese in breve tempo. Ampiamente ricompensati con un terzo della città e altre concessioni, i Genovesi approfittarono della situazione per sostenere Tancredi, successore di Boemondo sul trono di Antiochia, nella presa di Jabala, il cui possesso avrebbe permesso al principato antiocheno di comunicare con la signoria di Tripoli. Poco dopo, assieme ai Pisani, presero parte, al servizio di Baldovino, alla presa di Beirut, caduta tra l’aprile e il maggio del 1110, assaltando poi la greca Mamistra, forse per conto di Tancredi. Fu, questo, l’ultimo episodio di rilievo che vide i Genovesi protagonisti in Terra Santa. Non restava, ora, che organizzare gli insediamenti sottoponendoli a un’amministrazione stabile.
Nel segno della circospezione
A differenza di quello genovese e pisano, l’atteggiamento veneziano nei confronti della crociata fu assai circospetto. La città lagunare manteneva stretti rapporti con Costantinopoli,
verso cui s’incanalava il grosso del suo commercio, e dove la sua presenza era quasi incontrastata. Almeno da quando, dalla metà dell’XI secolo, la sua prima concorrente, Amalfi, aveva iniziato a ritrarsi sotto la pressione del principato di Salerno prima e dei Normanni poi. Senonché, il dilagare normanno nel Meridione italico preoccupava i Veneziani, a causa dell’occupazione delle principali città costiere pugliesi. Nel 1080, in occasione dell’aggressione normanna all’Epiro da parte di Roberto il Guiscardo e del figlio Boemondo, Alessio Comneno ne aveva richiesto il sostegno navale; due anni dopo, la città aveva ricevuto dall’imperatore un crisobollo che consentiva ai suoi mercanti di commerciare senza impacci daziari, e senza assoggettamento a controllo o giurisdizione che non fosse la propria, in tutto il territorio – eccetto che nei porti del Mar Nero, di Creta e di Cipro – e d’insediarsi in pianta stabile nella capitale e in altre città. Almeno potenzialmente, tale situazione apriva lo spazio commerciale veneziano a un’area vastissima, compresa tra la Siria e i Balcani occidentali. Perché prendere parte, dunque, a una spedizione che metteva a rischio traffici fiorenti?
Eppure, anche Venezia si mosse, mettendo piede in Terra Santa per rimanervi; probabilmente, nel tentativo d’ottenere vantaggi su piú fronti. Tuttavia, al pari di Pisa, la sua adesione non fu immediata. A lungo dovette prevalere il timore che la spedizione papale sconvolgesse i propri rapporti con Bisanzio, oltre che con il califfato fatimide. I preparativi iniziarono nel 1097, sotto la guida del doge Vitale Michiel, ma una flotta partí soltanto nella primavera del 1099. Non sono rimasti resoconti cronachistici coevi a tale spedizione. L’esistenza di scritti del genere è ricavabile, tuttavia, da alcuni indizi contenuti in opere posteriori, perlopiú d’argomento agiografico; in particolare, nella cronaca relativa alla traslazione delle reliquie di san Nicola in Laguna, redatta dopo il 1116 sulla base di un testo precedente. Non si può, dunque, dare troppo credito al numero di duecento legni fornito dal suo anonimo autore. A quanto pare, la flotta – guidata da Giovanni Michiel, figlio del doge, e da Enrico Contarini, vescovo di Torcello – indugiò a lungo presso il litorale dalmata, prima di raggiungere Rodi, il 28 ottobre. Qui, i Veneziani ricevettero un’ambasciata bizantina, volta a dissuaderli dal parte-
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GLI ITALIANI ALLE CROCIATE cipare all’impresa. Poco dopo, cinquanta galee pisane – parte, forse, della spedizione di Daiberto, benché il numero paia esagerato – si presentarono di fronte al porto, provocando battaglia. L’anonimo spiega l’azione come un gesto di tracotanza, benché sia possibile scorgere l’esistenza di accordi pregressi con l’imperatore, volti a difendere l’impero dalla gran massa di pellegrini diretti a Levante. A ogni modo, usciti in mare – pare – con soli trenta legni, i Veneziani ebbero la meglio, catturando ventotto galee nemiche. Tuttavia – afferma il nostro –, per non cedere alle lusinghe delle autorità greche di Rodi, e, dunque, sottostare ai voleri imperiali, liberarono i prigionieri, trattenendo per sé soltanto pochi ostaggi. Dopo aver svernato sull’isola, il 27 maggio del 1100, la flotta riprese il viaggio, non senza aver prima spedito lettere al patriarca di Gerusalemme, a Goffredo di Bouillon, a Raimondo di Saint-Gilles e a Boemondo di Antiochia per annunziare il proprio arrivo. La destinazione – secondo l’anonimo – sarebbe stata la cittadina anatolica di Myra, già visitata da Baresi e Genovesi, che ne avevano ricavato reliquie eminenti. Costringendo alcuni monaci a parlare con la forza, i Veneziani scoprirono il corpo del martire Teodoro, oltre a quello dello zio paterno di san Nicola; e, dopo una ricerca ulteriore, quello di Nicola medesimo. Al ritrovamento avrebbero assistito alcuni reduci dello scontro di Rodi: «Italici, Barenses et Pisani», immediatamente liberati in segno di giubilo.
Da Genova, da Pisa e da Venezia
IL SACRO CATINO Nel suo De liberatione civitatum Orientis, redatto verso la metà del secolo, Caffaro riporta i nomi di alcuni dei «multi de melioribus Ianuensium» che presero la croce: Anselmo Rascherio, Oberto, figlio di Lamberto de Marino, Oberto Basso de Insula, Dodo de Advocato, Ingo Flaono, Pasquale Noscenzio Astor, Guglielmo di Bonsignore, Opizo Musso e Lanfranco Roza, alcuni dei quali avrebbero fatto parte del ceto dirigente consolare nel quindicennio a venire. Nessun accenno è fatto, invece, alle ceneri di Giovanni Battista, recate in patria, secondo la tradizione, a seguito della prima
Il Sacro Catino, denominazione attribuita ad un piatto esagonale in vetro verde di probabile manifattura araba, recentemente datato al I sec. d.C. Genova, Museo del Tesoro della Cattedrale di San Lorenzo. La leggenda vuole che il manufatto
spedizione genovese, e al celebre Sacro Catino, portato da Cesarea. È Guglielmo di Tiro, un cronista vissuto in pieno XII secolo, a citare per primo l’oggetto, riportando verosimilmente quanto circolava allora su di esso. A suo dire, i Genovesi erano soliti mostrarlo ai visitatori piú illustri, sostenendone il carattere smeraldino, attestato, in realtà, soltanto dal colore. Verso la metà del Trecento, Francesco Petrarca lo definí, comunque, meritevole di visita, e ciò a prescindere dal materiale di cui era fatto. E, certamente, il Catino merita d’essere visto; e anche studiato.
fosse giunto nella città ligure al tempo della prima crociata come trofeo di guerra; in seguito avrebbe assunto i connotati di reliquia cristica.
Una regía bizantina?
La flotta procedette dunque verso Cipro. Qui, il doge incontrò Raimondo di Saint-Gilles, in procinto di raggiungere Costantinopoli; il che potrebbe confermare, accogliendo la veridicità del fatto, l’esistenza d’una regía bizantina dietro la spedizione veneziana. Si diresse quindi a sud, approdando a Giaffa ai primi di giugno del 1100. I Veneziani furono accolti da Goffredo di Bouillon e dal patriarca Daiberto, che ne richiesero il sostegno navale in cambio di cospicui privilegi. Poco dopo, la flotta fu impiegata nella conquista di Haifa, che cadde verso la fine di agosto. Dopodiché, fece ritorno in patria, raggiunta (simbolicamente) il 6 dicembre: giorno di san Nicola. Ora, nonostante il tono dello scritto, si può dire che il contesto si adatti bene al dettato delle cronache coeve. I Veneziani presero parte alla crociata, anche se a modo loro, cioè cercando di mantenere saldi i rapporti con i Greci e di volgere tutto a proprio vantaggio. Del resto, il fatto che per l’in44
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L’affresco sulla facciata di Palazzo San Giorgio a Genova raffigurante il condottiero Guglielmo Embriaco che tiene il Sacro Catino. Analisi recentissime lo hanno datato al I secolo d.C., sicché non saremmo di fronte a un manufatto di fattura islamica di poco antecedente al Mille, come sinora ritenuto, ma a un oggetto (una reliquia?) di tradizione eminente. Eppure, non si ha traccia d’un piatto del genere nelle descrizioni, talvolta molto accurate, dei pellegrini del primo millennio dell’età cristiana. Senza dubbio, non è possibile identificarlo con il Calice conservato nell’apposita cappella del Santo Sepolcro di Gerusalemme almeno sino all’XI secolo, che qualcuno identifica, oggi con il calice di Doña Urraca, custodito nella collegiata di S. Isidoro di León. Del resto, parliamo d’un piatto. Del piatto in cui «Christus agnum manducavit», secondo san Vincenzo Ferrer, benché della connessione con le vicende graaliche già dubitasse Iacopo da Varagine, arcivescovo di Genova tra il 1292 e il 1298. Tali connessioni, sviluppatesi nel corso della seconda metà del Duecento, erano sfruttate per impressionare. Nell’agosto del 1287, per esempio, il Catino fu esibito al nestoriano rabban Sauma che lo descrive come «un bacile di smeraldo a sei facce» in cui «Nostro Signore aveva mangiato la Pasqua con i suoi discepoli e che era stato portato lí al tempo della presa di Gerusalemme». In realtà, non pare che il Catino sia mai stato al centro d’un culto specifico. Non fu mai utilizzato, per esempio, nella liturgia del Giovedí Santo o nella solennità del Corpus Domini (benché permangano tracce d’un suo utilizzo, tardo, nel Mercoledí delle Ceneri). Mai assurse, inoltre, al ruolo di reliquia, tantomeno di reliquia cristica. Non fu mai fonte di miracoli, né meta di pellegrinaggio. Nel 1319, si giunse perfino a impegnarlo come garanzia per un prestito di 9500 lire, necessario per difendere la città contro l’assedio della coalizione ghibellina. Senza dubbio, si trattava d’un oggetto di valore (che fosse di smeraldo o meno poco importava); d’un «tesoro», testimone d’un epoca gloriosa, che aveva visto la cittadinanza fuoriuscire da un periodo di lotte civili e riunirsi sotto l’egida della croce. Un raro momento di concordia cittadina da serbare nella memoria.
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Da Genova, da Pisa e da Venezia
In alto resti di archi in pietra su una delle strade principali dell’antica città di Cesarea, altro avamposto in Vicino Oriente conquistato dai crociati nel 1101. Nella pagina accanto particolare della Pala d’Oro, conservata nel presbiterio della basilica di S. Marco a Venezia, raffigurante il doge Ordelaffo Falier, che nel 1110 capeggiò una flotta diretta in Terra Santa e partecipò all’assedio di Sidone.
tero decennio successivo non avrebbero inviato flotte nel Levante è significativo. La spedizione s’era rivelata un ben magro successo; bisognava, inoltre, ricucire i rapporti con Costantinopoli. Per di piú, il re di Ungheria era tornato a minacciare la Dalmazia. Solo nel 1110, i Veneziani organizzarono una nuova flotta, forte di circa cento galee (sempre che i numeri non siano gonfiati ad arte), che, al comando del doge Ordelaffo Falier, raggiunse la Terra Santa in autunno, in tempo per prendere parte all’assedio di Sidone, caduta ai primi di dicembre. Tutto il litorale siro-palestinese, dal golfo di Alessandretta ad Ascalona, apparteneva, ormai, ai Latini. Soltanto Tiro, il piú grande e ricco porto della costa, resisteva. Contro la città i Veneziani si volsero un decennio piú tardi. Nel 1121, rispondendo alla chiamata di Baldovino II, succeduto al padre sul trono gerosolimitano, fatta propria da papa Callisto II, la città lagunare mise in mare una nuova flotta, forte – ma è bene ancora una volta guardarsi dalle esagerazioni – di centoventi legni e sottoposta al comando del doge, Domenico Michiel. Dopo aver sostato nel medio Adriatico, con lo scopo di riaffermarvi la propria supremazia, i Veneziani assediarono Corfú, per ritorsione contro i Greci, che soprassedevano al rinnovo del privi-
In alto, a destra gli interni della basilica di S. Nicola a Demre, in Turchia, che sorge sulle rovine dell’antica Myra. In base a indagini archeologiche, la chiesa sarebbe l’originale luogo di sepoltura di san Nicola. legio del 1082. Fecero quindi vela per il Levante, scontrandosi vittoriosamente con una squadra navale fatimide al largo di Ascalona. L’entusiasmo per la vittoria spinse i crociati a puntare su Tiro. Verso la fine del 1123, il doge siglò un accordo col patriarca di Gerusalemme, Gormond di Picquigny, reggente di Baldovino II. Si tratta del cosiddetto «pactum Warmundi», che concedeva loro ampi privilegi: in tutte le città cui il re avrebbe esteso il proprio dominio, i Veneziani avrebbero avuto una strada con una chiesa, un bagno e un forno esenti da ogni tributo. In Acri, presso cui erano presenti dal 1110, avrebbero ottenuto licenza di servirsi dei propri pesi e delle proprie misure. Tutto ciò si accompagnava a cospicui vantaggi fiscali in Gerusalemme, a cui si aggiungeva la cessione d’un terzo di Ascalona e di Tiro. Quest’ultima, sottoposta a un duro assedio, cadde nel luglio del 1124. Le concessioni, modellate, in parte, sull’esperienza acquisita in Costantinopoli, avrebbero fatto la fortuna dei Veneziani nel Mediterraneo orientale. ITALIANI ALLE CROCIATE
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La grande paura La caduta di Gerusalemme per mano del Saladino sgomentò l’Occidente cristiano. E cosí, rispondendo all’appello di Gregorio VIII, tutte le principali potenze d’Europa avviarono i preparativi per una nuova spedizione
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el novembre del 1145 giunse a Viterbo, presso la corte papale, un’ambasciata – composta da Ugo, vescovo di Jabala, e da alcuni notabili armeni –, recante la notizia della presa di Edessa, capitale dell’omonima contea, da parte delle truppe di ‘Imad al-Din Zengi, signore di Mossul. La minaccia incom-
Miniatura raffigurante il ritiro del sovrano germanico Corrado III e del re di Francia Luigi VII dalla fallimentare crociata del 1148, dopo la sconfitta patita durante l’assedio di Damasco, da un’edizione delle Chroniques de France ou de St Denis. XIV sec. Londra, British Library.
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Riconquistare Gerusalemme
«O Dio, nella tua eredità sono entrate le genti: hanno profanato il tuo santo tempio, hanno ridotto Gerusalemme in macerie. Hanno abbandonato i cadaveri dei tuoi servi in pasto agli uccelli del cielo, la carne dei tuoi fedeli agli animali selvatici. Hanno sparso il loro sangue come acqua intorno a Gerusalemme, e non v’è stato alcuno che li seppellisse» (Sal 78, vv. 1-3) 50
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bente sui restanti principati cristiani di Terra Santa spinse papa Eugenio III – al secolo, Bernardo da Pisa, cistercense –, che poteva giovarsi della recente sistemazione giuridica della guerra contro l’infedele operata dalla Causa XIII del Decretum di Graziano e del sostegno di Bernardo di Clairvaux, a proclamare una nuova crociata mediante la bolla Quantum praedecessores, emanata il 1° dicembre successivo. L’appello fu rinnovato qualche mese dopo, il 1° marzo 1146, con una nuova bolla, la Divina dispensatione. Egli sperava soprattutto nel concorso dei cavalieri francesi: Luigi VII aveva infatti dichiarato la propria disponibilità a partire per il Levante già nel Natale 1145, nel corso di una dieta celebrata a Bourges. La partecipazione imperiale dovette risultargli, invece, meno gradita. Eugenio contava, infatti, nell’imperatore per risolvere il conflitto in atto con i Romani. Ciononostante, diversi principi tedeschi presero
Nella pagina accanto ancora una miniatura tratta da un’edizione delle Chroniques de France ou de St Denis (XIV sec): la scena di sinistra raffigura il matrimonio di Eleonora d’Aquitania e Luigi VII di Francia; l’immagine sulla destra mostra il sovrano francese in partenza per la crociata nel 1147. la croce al seguito di Corrado III, spinti dalla predicazione del grande abate cistercense. Restavano da coinvolgere le comunità marittime italiane, il cui sostegno navale si sarebbe rivelato indispensabile, vista la loro presenza sulle coste siro-palestinesi. Il 5 ottobre del 1146, Eugenio scrisse dunque al clero della Penisola, affinché predicasse la crociata. In quanto pisano, era ben conscio dell’importanza d’un appoggio marittimo per portare a termine l’impresa; per questo motivo, nella Divina dispensatione si rivolgeva in particolar modo alle genti dell’Italia settentrionale. Tuttavia, i suoi inviti non fecero presa. La difficile situazione del papato, conteso tra fronti contrapposti, e il dispiegarsi d’una serie di lotte cittadine fecero sí che il contributo italiano al nuovo iter si rivelasse trascurabile.
piú, l’insuccesso lasciò campo libero al secondogenito di ‘Imad al-Din, assassinato per mano di un proprio schiavo eunuco nel 1146: Nur al-Din Zengi – il Norandino delle cronache occidentali –, che, nell’arco dei successivi trent’anni, avrebbe eroso buona parte dei possedimenti crociati nel tentativo di unificare i territori musulmani. Nel 1174, questi lasciò il campo al curdo Salah al-Din Yusuf b.
Esito fallimentare
Con Luigi VII si mossero, a ogni modo, Amedeo III di Savoia e Guglielmo V, marchese di Monferrato, seguiti da un manipolo di crociati lombardi, al seguito di Guido di Biandrate, cognato di Guglielmo, e di Martino della Torre. Verso la metà di giugno del 1147, Amedeo e Guglielmo si trovavano a Metz, dove il sovrano francese aveva concentrato il proprio esercito. Per facilitare il vettovagliamento, la schiera fu divisa in due parti, una delle quali, formata perlopiú da contingenti provenzali e angioini, fu affidata loro. Attraversato il Settentrione italico, i due presero la via di Costantinopoli, raggiunta verso la metà di ottobre. Qui, si unirono all’esercito imperiale; o, meglio, a quel che ne restava, viste le recenti sconfitte subite in Anatolia per opera di Zengi. Non a caso, Guglielmo decise, poco dopo, di rientrare in patria al seguito dell’imperatore; non senza aver presenziato, però, il 24 giugno del 1148, all’assise di Acri, in cui si decise di portare un attacco contro Damasco, che si rivelerà un completo fallimento. La crociata si risolse in un fiasco colossale, conseguenza del quale fu l’alleanza tra Corrado III e il basileus Manuele Comneno contro Ruggero, re di Sicilia, e Luigi VII di Francia e la rottura del matrimonio tra quest’ultimo ed Eleonora d’Aquitania; dunque, in prospettiva, la lunga contesa tra Francia e Inghilterra. Di
Capolettera raffigurante l’assedio di Damasco del 1148 e, in basso, Norandino che prende un bagno, da un’edizione dell’Historia di Guglielmo di Tiro. 1245-1248. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
Ayyub, già visir presso la corte fatimide del Cairo, il quale, nel giro di pochi anni, eliminò il califfato sciita, ristabilí l’osservanza sunnita tra Egitto e Siria, ottenne il titolo sultaniale dal califfo abbaside al-Mustadi’ – dando avvio alla dinastia ayyubide –, finendo, dopo la celebre battaglia di Hattin, per conquistare Gerusalemme, nel 1187, guadagnandosi cosí, in Occidente come in Oriente, una straordinaria ITALIANI ALLE CROCIATE
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GLI ITALIANI ALLE CROCIATE fama; oggi in parte ridimensionata, ma, comunque, a lungo viva e vegeta.
Verso Gerusalemme
Foriera di ben altri risultati fu la partecipazione italiana alla cosiddetta terza crociata. La notizia della caduta di Gerusalemme, nell’ottobre del 1187, ebbe un’ampia eco nell’intera cristianità. La reazione occidentale contribuí, in parte, a riscrivere la storia del movimento crociato: da questo momento in poi, nuovi elementi quali una piú accurata organizzazione della predicazione, una tassazione piú capillare, il reclutamento di truppe professionali o la pratica di trasportare gli eserciti via mare, avrebbero assunto un’importanza crescente. Lo sforzo di mobilitazione fu assai vasto. La pubblicazione,
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ITALIANI ALLE CROCIATE
Riconquistare Gerusalemme
GLI ITALIANI E LA RECONQUISTA È singolare notare come, proprio presso quelle città che avrebbero avuto interesse a mantenere la Terra Santa scevra da problemi di sorta, gli appelli di Eugenio III cadessero nel vuoto. Venezia era troppo intenta a mantenere libere le acque adriatiche dalla presenza normanna, spintasi sino a occupare Corfú, per rivolgere altrove le proprie energie; Pisa, dal canto suo, era impegnata nella lotta per l’egemonia dell’entroterra toscano contro la vicina Lucca. Solo Genova si mosse; ma verso Occidente, nel contemporaneo scenario della reconquista; e per ragioni squisitamente economiche, ancorché ammantate d’un diffuso sentimento religioso. Secondo l’annalista Caffaro, nel 1146, Alfonso VII, re di Castiglia e León, allora impegnato nell’assedio di Cordova, fu raggiunto da alcuni legati genovesi, che gli proposero di
León
Castiglia
Zamora
Jaca
Aragona Huesca
Catalogna
Saragozza
Balaguer Lérida Calatayud Barcellona Salamanca Medinaceli Guadarrama Somosierra Tortosa Guadalajara Madrid Alcalá de Henares Talavera Minorca Toledo de la Reina Valencia Isole
Douro
Coimbra Tago
Lisbona
Górmaz
Narbonne
Navarra Pamplona Eb ro
Asturia-León Oporto
Tolosa
Baleari
Mérida
Badajoz
Denia
Evora Madinat al-Zahra Córdoba Jaén Siviglia Málaga
Oceano Atlantico
o
Santiago de Compostela
Rodan
Golfo di Biscaglia
Oviedo
Tarifa
Ibiza
Alicante
Granada Almeria
Mar Mediterraneo
Gibilterra Ceuta
Fez
r d o N La conquista di Almeria nel 1147 da parte del sovrano Alfonso VII di Castiglia, affermazione cristiana nella guerra di reconquista a cui parteciparono anche truppe genovesi, in una celebre decorazione murale in piastrelle di ceramica allestita in occasione dell’Esposizione universale del 1929. Siviglia, Plaza de España.
Majorca
a r i c f A
sferrare un attacco congiunto contro il porto di Almeria: cittadina costiera situata lungo la rotta di cabotaggio verso lo stretto di Gibilterra, celebre per le sue attività tessili, per le sue scuole di medicina e di botanica, oltre che per essere un importante mercato di schiavi. Pochi mesi dopo, una flotta di ventidue galee portò un attacco alla città che fruttò, tuttavia, soltanto un riscatto (peraltro, inferiore a quanto pattuito). Lo scontro in atto tra Almoravidi e Almohadi nel Maghreb e in al-Andalus favorí la ripresa delle ostilità. Tra il 24 e il 30 settembre del 1146, i Genovesi strinsero accordi ulteriori con Alfonso VII finalizzati alla conquista della città, concludendo un trattato ulteriore con Raimondo Berengario IV, conte di Barcellona, volto, altresí, alla presa della vicina Tortosa; ciò che diede avvio ai preparativi veri e propri, durati, secondo l’Ystoria captionis Almarie et Turtuose, ITALIANI ALLE CROCIATE
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redatta da Caffaro a ridosso degli eventi, circa cinque mesi. La flotta, forte di 63 galee e 163 legni minori, con a bordo circa 12 000 uomini tra marinai e armati, prese il mare nel mese di giugno, guidata da parte dei consoli. Almeria fu assaltata la mattina del 17 ottobre. Dopo aver svernato a Barcellona, i Genovesi ripresero il mare, penetrando, verso la fine di giugno del 1148, nell’estuario dell’Ebro. Risalito il corso d’acqua, si attestarono nei pressi della città, riunendosi agli uomini di Raimondo Berengario IV, di Guglielmo di Montpellier, a un manipolo di Templari e ad alcuni cavalieri anglo-normanni e fiamminghi. Di fronte a un tale spiegamento di forze, i Saraceni si affrettarono a chiedere la resa. I Genovesi ottennero la terza parte della città, oltre a una piccola isola (oggi scomparsa) situata alla foce del fiume; quindi, rientrarono a Genova con tutto l’esercito. Circa sei mesi dopo, il governo genovese strinse un trattato di pace decennale col sovrano di Valenza, che s’impegnò a versare 10 000 marabottini entro due anni, a concedere loro un fondaco a Denia e un altro a Valenza, oltre all’uso d’un bagno pubblico, e a esentare i mercanti genovesi da ogni dazio e tributo nelle sue terre. Si sarebbe trattato dell’unico risultato durevole della campagna, che, anzi, provocò un dissesto finanziario in seno al maggior porto ligure, arricchendo, tuttavia, i molti privati che avevano prestato denaro alle casse pubbliche.
A destra miniatura raffigurante il sovrano spagnolo Alfonso VII. XII sec. Santiago di Compostela, Museo della Cattedrale. In basso la possente cinta muraria dell’Alcazaba di Almeria, fortezza edificata nel X sec. dal califfo Abd al-Rahman III e poi ampliata dai sovrani cristiani.
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ITALIANI ALLE CROCIATE
il 29 ottobre del 1187, della bolla Audita tremendi da parte di papa Gregorio VIII – in cattedra per pochi mesi in quello scorcio d’autunno – contribuí non poco a infervorare gli animi. L’appello, ripreso dal successore, Clemente III, eletto il 19 dicembre, dava particolare risalto al pentimento e alla pace. Seguendo il modello della Quantum praedecessores di Eugenio III, il papa, dopo aver narrato della vittoria di Saladino ad Hattin, il 4 luglio del 1187, concedeva ampi privilegi spirituali e temporali a chi fosse accorso in difesa del regno di Gerusalemme. Va detto, tuttavia, che, nel momento in cui la cancelleria papale emanava questo documento, in Occidente non era ancora giunta la notizia della caduta della Città Santa. Ma le vittorie di Saladino non lasciavano ben sperare, sí che la campagna di predicazione assunse sin da subito toni accesi, insistendo sulla necessità d’un rinnovamento spirituale mediante pressanti richiami alla sobrietà e all’umiltà di spirito. Tra i primi a rispondere vi fu Guglielmo II di Sicilia, che, pur non prendendo la croce per motivi di salute – sarebbe morto nel novembre del 1189 –, inviò nel Levante una cinquantina di galee al comando dell’ammiraglio Margarito di Brindisi. Tra il gennaio e il marzo del 1188 presero la croce alcuni tra i piú importanti sovrani d’Europa: Enrico II d’Inghilterra, Filippo II di Francia e l’imperatore Federico Barbarossa, i quali si scontrarono immediatamente con il problema del finanziamento. L’incapacità di Filippo II di raccogliere i proventi della cosiddetta «decima saladina», per esempio, risulta eviden-
te dall’esiguità del contingente da lui raccolto: soltanto 2000 uomini, tra cavalieri e scudieri, per il cui trasporto in Oltremare egli richiese il concorso genovese.
La grande flotta franco-inglese
Riccardo I d’Inghilterra, succeduto al padre, morto il 6 luglio 1189, riuscí, invece, a mettere insieme un esercito di circa 6000 unità, e a sovvenzionare una flotta di oltre cento legni. Ulteriori contributi navali giunsero dalle terre danesi e perfino da quelle germaniche: nel 1189, si unirono alla grande flotta crociata franco-inglese undici imbarcazioni di Brema e altre quattro di Colonia; queste ultime con a bordo 1500 uomini e provviste per tre anni. Anche l’imperatore, Federico I, racimolò un grosso esercito, difficilmente stimabile ma, comunque, composto da diverse migliaia di fanti e cavalieri; finanziato, tuttavia, non dalla corona ma dai notabili delle sue terre e dalle comunità urbane; il che influí probabilmente sulla sua dispersione dopo la morte del sovrano, avvenuta nel 1190, lungo il tragitto terrestre per la Terra Santa. Anche in ragione di tale tragico quanto inaspettato evento, la via del mare – benché insidiosa, ma senz’altro piú veloce – sarebbe stata preferita da quei combattenti che, nel secolo successivo, si volsero verso l’Oltremare. A eccezione del coinvolgimento dei Monferrato nelle vicende della corona di Gerusalemme, il contributo italiano – in particolare genovese e pisano – alla nuova spedizione è stato, in genere, sottovalutato. Tra i suoi motori principali vi
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GLI ITALIANI ALLE CROCIATE fu, senz’altro, la speranza di vasti profitti, come mostrano sia il profluvio di privilegi accordati alle comunità italiote dai baroni d’Oltremare tra il 1187 e il 1195, sia le ingenti somme di denaro investite dai privati nel commercio con le terre siro-palestinesi. La chiamata alle armi giunse mentre si riaprivano le ostilità tra Genova e Pisa per il controllo della Corsica. Clemente III si vide costretto a intervenire, invitando le due città a stringere una tregua cosí da prendere parte all’impresa. A ogni modo, sembra che la notizia della caduta di Gerusalemme fosse accolta, a Genova – per la quale, nuovamente, disponiamo d’informazioni piú copiose –, con particolare apprensione, come mostrano sia una lettera inviata dai consoli a papa Urbano III, contenente la voce allarmata di alcuni mercanti genovesi di ritorno dal Levante, sia la stesura anonima d’un’operetta incentrata espressamente sulle vicende del regno gerosolimitano: la Regni Iherosolymitani brevis historia, composta al principio del XIII secolo. Secondo l’annalista coevo, Ottobono Scriba, nell’autunno del 1189, alcuni Genovesi – tra cui Guido Spinola, Nicola Embriaco, Folco de Castro, Simone Doria, Baldovino Guercio, Spezapedra e Rosso de Volta: tutti membri del ceto consolare – si imbarcarono alla volta della Terra Santa, prendendo parte all’assedio di Acri. L’anno successivo, i consoli Simone Vento e Marino di Rodoanona guidarono una seconda spedizione, della quale , tuttavia, non abbiamo alcun particolare. L’annalista si sofferma, infatti, sulle ambasciate inviate ai sovrani di Francia e Inghilterra a partire dal 1188, volte ad accaparrarsi il nolo per il trasporto dei crociati in Oltremare. Genova era intenzionata a fare da base di partenza per gli eserciti. Tuttavia, sia Filippo II, sia Riccardo I avanzarono molti problemi prima d’accordarsi sul modo di condurre l’impresa, sí che la sua organizzazione richiese piú tempo del previsto. In effetti, furono necessari diversi incontri, tra il dicembre del 1189 e il marzo del 1190, per definire ogni cosa. La partenza dei crociati fu fissata per la festa di san Giovanni Battista, il 24 giugno successivo. Filippo sarebbe partito da Genova; Riccardo da Marsiglia, ma avrebbe fatto scalo a Genova per completare il vettovagliamento. Secondo il contratto di nolo concluso il 16 febbraio del 1190, il sovrano francese avrebbe potuto imbarcare 650 cavalieri, 1300 scudieri «cum armis et arnesio ipsorum» e 1300 cavalli «cum vianda et blada» per otto mesi, oltre a vino sufficiente per quattro mesi. Il prezzo fu determinato in 9 marchi per ogni cavaliere con due cavalli e due scudieri al seguito, per un totale di 56
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Riconquistare Gerusalemme
In alto miniatura raffigurante la partenza di Filippo II di Francia per la terza crociata, da un’edizione de Les Passages d’outremer faits par les François contre les Turcs depuis Charlemagne jusqu’en 1462 di Sébastien Mamerot. 1474-1475. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
5850 marchi d’argento – 2000 dei quali pagati in anticipo –, corrispondenti a 13 162 lire genovesi. Senza dubbio, una somma ingente: basti pensare che il salario medio d’un calafato ammontava a 2 soldi al giorno. A tale somma, a ogni modo, bisognava sottrarre il costo di costruzione di parte delle galee, la paga dei marinai e quella dei capitani. L’operazione fruttò comunque notevoli guadagni. Sono infatti numerosi i contratti commerciali stipulati da Genovesi e vari altri mercanti in vista della spedizione. Molti cittadini fornirono, inoltre, il necessario vettovagliamento per tutta la durata dell’impresa. La partenza della flotta, prevista inizialmente per il mese di giugno del 1190, slittò di qualche mese. Filippo raggiunse Genova solamente il 1° agosto; ammalato, decise di rimanere in città fino al 24. Riccardo arrivò il 13, ma preferí sostare a Portofino, prima di proseguire alla volta di Messina. Nel corso dell’inverno, il sovrano francese elargí ai Genovesi ulteriori concessioni: essi avrebbero ottenuto una parte consistente del bottino; soprattutto, sarebbero stati reintegrati dei diritti concessi loro a seguito
In basso, sulle due pagine il condottiero Saladino si appropria della Vera Croce durante la battaglia di Hattin del 1187, illustrazione tratta dalla Chronica Maiora del monaco benedettino inglese Matteo Paris. XIII sec. Cambridge, Corpus Christi College.
della prima crociata nelle terre d’Oltremare, erosi dai sovrani di Terra Santa nel corso del ventennio precedente. Forti di tali promesse, i Genovesi salparono, dunque, per l’Oltremare, guadagnando Acri il 20 aprile del 1191.
Il blocco del porto
Benché non coinvolti direttamente nella fornitura del naviglio, anche i Pisani presero parte alla spedizione. Una flotta d’una cinquantina di galee, al comando dell’arcivescovo e legato papale Ubaldo Lanfranchi, salpò infatti dalla foce dell’Arno verso la metà di settembre del 1188, giungendo a Tiro il 6 aprile del 1189. Nell’agosto successivo, i Pisani svolsero una importante funzione di contenimento, proteggendo dal mare la marcia di Guido di Lusignano verso Acri e bloccando il porto della città assieme ai Genovesi. Un cronista inglese narra di come essi avessero eretto sulle proprie galee alcune macchine da guerra in grado di scagliare proiettili all’interno delle mura. Le due marine, a ogni modo, si trovarono, presto, su fronti contrapposti; al pari dei sovrani di Francia e Inghilterra, divisi sull’opportunità di concedere la corona del regno gerosolimitano ora a Corrado di Monferrato, ora a Guido di Lusignano. Quest’ultimo, infatti, ottenne il sostegno di Riccardo I, sí che, una volta giunto a Tiro, il sovrano si vide rifiutare l’ingresso nel porto dai sostenitori di Corrado. Egli puntò, dunque, su Acri, ottenendo l’appoggio dei Pisani; i Genovesi, per converso, presero a sostenere il rivale, al quale rimasero legati. Tali rivalità si
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riverberarono sulla conduzione dell’assedio. Il campo cristiano ne risultò diviso e le operazioni belliche rallentate, ma si tentò, comunque, di portare a termine quanto iniziato. Il 2 luglio, l’ala francese riuscí ad aprire una breccia nelle mura, ma l’attacco fu bloccato dalla vigorosa azione degli assediati e a quel punto fu evidente a tutti ch’era necessario sopire le discordie. La successiva tregua permise, tra l’11 e il 12 luglio, di sferrare l’attacco decisivo. Delusi per il mancato arrivo delle truppe di Saladino e stremati per il lungo assedio, gli assediati contrattarono la resa: in cambio di una capitolazione onorevole, poi riscattata per 200 000 dinar d’oro, i crociati ottennero la liberazione di 2500 prigionieri e la restituzione della Vera Croce.
I frutti della crociata
Nonostante i dissidi, sempre risorgenti, tra Genova e Pisa, la crociata aveva raggiunto almeno un obiettivo: la liberazione di Acri, che divenne la nuova capitale del regno di Gerusalemme. Gli Italiani diedero il loro contributo: quanto, però, le mosse derivavano da un sincero spirito di crociata piuttosto che dalla volontà di non perdere posizioni in un’area del Mediterraneo florida per il commercio? Un episodio, narrato dalle cronache, contribuisce a definire il quadro. Secondo una delle continuazioni dell’opera di Guglielmo di Tiro, nel marzo del 1188 trentotto legni italiani, non sappiamo di quale provenienza, si sarebbero recati ad Alessandria d’Egitto per ragioni di commercio. Gli Italiani si sarebbero rifiutati di prendere in consegna alcuni prigionieri cristiani, reduci delle campagne di Saladino dell’anno precedente, sostenendo che il loro trasporto non avrebbe fruttato alcunché, trattandosi di gente impoverita dalla guerra. Sgomento per tale atteggiamento, il governatore musulmano si vide costretto a insistere, promettendo di fornire loro tutto il cibo necessario alla traversata. Ora, con tutta probabilità, siamo di fronte a un aneddoto denigratorio, che, tuttavia, mostra bene quali fossero gli interessi in gioco, quanto meno per buona parte di coloro che avevano interesse a mantenersi saldi in Terra Santa per ragioni di commercio.. Ma guardiamoci da riduzionismi di sorta: le motivazioni dei singoli crociati erano le piú diverse; numerosi sono, per esempio, i lasciti testamentari in «subsidio Terre Sancte» reperibili negli atti notarili – perlopiú genovesi –, o i tentativi di riscatto di coloro che, a seguito della crociata, erano finiti nelle carceri siro-egiziane. Non v’è dubbio, anzi, che Genovesi e Pisani abbiano investito parecchio capitale umano 58
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Quella lapide nel Sepolcro A seguito della conquista di Acri, nel 1104, come corrispettivo per l’aiuto prestato, re Baldovino concesse alla chiesa vescovile genovese di S. Lorenzo, per la parte patrimoniale, e, genericamente, a tutti i Genovesi, un ampio privilegio. Il sovrano cedeva loro una piazza a Gerusalemme, una via a Giaffa, la terza parte di Arsuf e Cesarea e del rispettivo territorio per il raggio di una lega e un casale situato nei dintorni, la terza parte di Acri e del suo territorio per il raggio di una lega, con la terza parte del reddito della città e del porto, una rendita fissa di 300 bisanti annui e un terzo di ogni terra conquistata in futuro per il regno con l’aiuto di almeno cinquanta Genovesi, menzionando espressamente la «civitas Babylonia», il Cairo, con tre casali all’intorno tra i migliori, se sarà conquistata con il loro aiuto. Egli assicurava, inoltre, la propria protezione in caso di violenza, concedeva loro il diritto di fare testamento senza intervenire con pretese di alcun genere sui beni dei Genovesi morti nelle sue terre e prometteva di non pretendere nulla dal bottino ch’essi avrebbero acquisito in battaglia. In caso contrario, avrebbe soddisfatto i Genovesi entro trenta giorni. Essi, inoltre, non avrebbero dovuto pagare alcun dazio nei luoghi già
conquistati o che sarebbero stati conquistati in futuro. I medesimi privilegi erano estesi agli abitanti di Savona, Noli e Albenga, oltre alla famiglia di un certo Gandolfo Pisano. In cambio, i consoli genovesi giuravano di non recare alcun danno al sovrano nel territorio compreso tra Sidone «versus orientales et meridianas plagas». Secondo l’annalista Caffaro, i meriti dei Genovesi e le concessioni del sovrano furono compendiati in una lapide, vergata «litteris aureis» e apposta nientemeno che «in truina Sepulcri». Il testo della lapide è riportato nei libri iurium cittadini. L’iscrizione porta la data del 26 maggio 1105, corrispondente a quella della caduta di Acri. È probabile, infatti, che per la datazione sia stato utilizzato il computo pisano; dunque, il cosiddetto stile dell’incarnazione. L’evento, cioè, andrebbe riferito al 1104, come rilevato da Caffaro. Va detto, tuttavia, che, al momento della conquista della città, il patriarca Daiberto, espressamente citato, era già stato sostituito. Ciò ha fatto pensare a un falso, benché sia possibile che i Genovesi abbiano tenuto conto della reintegrazione nel proprio ruolo del patriarca, nel marzo del 1105, per volere di papa Pasquale II. In tal caso, però, la datazione non collimerebbe. La questione, dunque, è tuttora aperta. Una controversia ulteriore riguarda la collocazione della lapide «in truina Sepulcri», come affermato da Caffaro e
dalla successiva Regni Iherosolimitani brevis historia, redatta alla fine del secolo, che non trova riscontro nei molti documenti papali riguardanti la richiesta di restaurazione della lapide, rimossa da re Amalrico negli anni Sessanta del secolo, nel corso di lavori di ristrutturazione volti a collegare la basilica della Resurrezione al coro dei canonici. I Genovesi, che avevano già manifestato le proprie lamentele a papa Adriano IV nel 1155 per il mancato rispetto delle convenzioni, si rivolsero ad Alessandro III. Il 12 ottobre del 1167, questi ordinò al sovrano il
Nella Terra Santa: Gerusalemme e la chiesa del Santo Sepolcro, litografia acquerellata da The Holy Land, Syria, Idumea, Arabia, Egypt & Nubia di David Roberts e George Croly. 1833-1839.
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GLI ITALIANI ALLE CROCIATE
Riconquistare Gerusalemme
Il Santo Sepolcro in un’altra litografia di David Roberts da The Holy Land, Syria, Idumea, Arabia, Egypt & Nubia. 1833-1839. ripristino dell’iscrizione, affermando che essa si trovava all’interno della basilica, senza specificarne la collocazione. Senza, peraltro, ottenere alcunché: la stessa richiesta sarebbe stata avanzata, infatti, dallo stesso papa, il 26 aprile del 1179, nel corso del
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concilio lateranense, a re Baldovino IV; quindi, da papa Urbano III, il 12 e 13 marzo 1186, poco prima della conquista di Gerusalemme, a Baldovino V e ai canonici della basilica del Santo Sepolcro. In quest’ultimo documento, la lapide è collocata in maniera generica «in circuitu altaris». Nel 1192, Corrado di Monferrato, re di Gerusalemme, accordò ai Genovesi la possibilità di ripristinare la lapide «supra Dominicum Sepulcrum».
In alto Gerusalemme, Santo Sepolcro. L’altare del Golgota. Dov’era collocato, dunque, il manufatto? Secondo Benjamin Kedar, il termine «truina» (abside, tribuna) potrebbe indicare una delle absidi dell’Anastasis, oppure la galleria adiacente, o, ancora, l’arco della rotonda stessa. Tale collocazione potrebbe corrispondere alla posizione descritta da Urbano II; tuttavia, essa mal si concilia con le altre menzioni, benché sia possibile che la lapide sia stata spostata a seguito della ristrutturazione che portò alla costruzione della nuova basilica crociata, postulando, magari, un diretto interesse genovese ad aggiudicarsi una sistemazione piú consona. È anche possibile, però, che le diverse attestazioni derivino dell’esistenza, all’interno della basilica, non di una ma di due lapidi. Secondo il cronista Giorgio Stella, vissuto a cavallo fra Tre e Quattrocento e attento compulsatore della documentazione pubblica – anche di quella non sopravvissuta –, «in muro arcus supra altare templi prelibati santi Sepulcri», sarebbe stata apposta una scritta, «litteris aureis», che cosí recitava: «Prepotens Genuensium presidium» («Potente presidio dei Genovesi»). A questo proposito, è degna di nota la testimonianza di fra’ Cherubino Ghirardacci, il quale, nella sua Historia di Bologna, edita nel 1596, afferma che i bolognesi «Roberto et Rengherio fratelli in questo tempo abitavano in casa di Tancredi et Boemondo signori d’Antiochia (…); et Rengherio fu quello che, della scultura dilettandosi, ad istanza di Balduino intagliò le lettere sopra l’altare del Santissimo Sepolcro, che è di marmo, cioè: Praepotens Genuensium Praesidium». L’insieme delle testimonianze sembra dunque riferirsi a due parti della medesima iscrizione, o, piú verosimilmente, a due iscrizioni diverse; il che potrebbe spiegare – ma la questione rimane aperta – i dubbi sopra sollevati.
nell’impresa, perdendo molti uomini e lasciandone altri in catene, sí che non si può mettere in dubbio l’esistenza d’un intreccio tra sincere motivazioni religiose e ragioni puramente economiche. Per il loro impegno, del resto, entrambe le comunità furono ricompensate e ciò segnò l’abbrivio di una nuova fase nelle relazioni tra le rispettive madrepatrie e la Terra Santa. Cosí com’era accaduto al principio del secolo, i principi crociati concessero a Pisani e Genovesi alcuni privilegi, al fine di assicurarsene l’aiuto. Nel 1187, Corrado di Monferrato rinnovò ai Pisani il possesso di case, bagni e forni a Tiro e a Giaffa; il 19 novembre 1189, Guido di Lusignano ribadí loro alcune concessioni in Tiro e ad Acri; il 3 marzo 1191, Corrado confermò loro nuovamente i privilegi goduti a Tiro; il 13 ottobre dello stesso anno, re Riccardo approvò quanto concesso loro da Guido di Lusignano. Nel 1192, la morte di Corrado di Monferrato e l’elezione di Enrico di Champagne a re di Gerusalemme marcarono un punto a favore per i Genovesi. Nell’estate di quell’anno, Genovesi e Pisani condussero, di concerto con il sovrano inglese, alcune operazioni navali lungo la costa, a sud di Acri, contribuendo alla liberazione di Giaffa, il 1° di agosto. Tuttavia, Enrico impose alcune restrizioni giuridiche ai Pisani, stabilitisi in larga parte a Tiro, favorendo i Genovesi residenti a Tiro e ad Acri, cosí da riequilibrarne l’influenza reciproca. Altrettanto non può dirsi per i Veneziani, i quali, dal canto loro, benché controllassero un terzo di Tiro sin dai tempi della conquista, svolsero un ruolo trascurabile nella difesa. Secondo la trecentesca cronaca del doge-cronista Andrea Dandolo – il quale, tuttavia, dedica alla spedizione poco spazio –, la flotta veneziana, partita assieme all’arcivescovo di Ravenna, Gerardo, e ad altri crociati italiani, si sarebbe unita a quella pisana, contribuendo alla difesa di Tiro e all’assedio di Acri. Dopo aver recuperato la chiesa di S. Marco e i propri edifici, i Veneziani avrebbero preso la via del ritorno. La laconicità del racconto basterebbe a mostrare come la loro partecipazione fosse stata piuttosto marginale. Del resto, i contratti commerciali superstiti mostrano quanto la città lagunare gravitasse altrove: verso l’area dell’impero; verso l’Egitto. Pochissimi sono i contratti riguardanti esplicitamente la Terra Santa (in particolare Tiro e Acri). L’impressione è che Venezia fosse poco interessata agli sviluppi di cui la costa siro-palestinese era stata teatro. Le sue mire erano indirizzate altrove e, non a caso, sfociarono di lí a poco nella diversione della quarta crociata su Costantinopoli. ITALIANI ALLE CROCIATE
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La crociata dei
Veneziani
Organizzata con il dichiarato intento di riconquistare alla cristianità i luoghi caduti nelle mani degli «infedeli», la quarta spedizione generale mise a nudo l’afflato poco devozionale dell’impresa. In particolare, la partecipazione della Serenissima si risolse in un colossale saccheggio
L
a perdita di Gerusalemme e il fallimento della spedizione del 1189-1190 impressionarono l’intero Occidente. Fu l’energico Innocenzo III a richiedere l’impegno della cristianità per una nuova crociata, destinata, tuttavia, a tramutarsi in un affaire tutto veneziano. Il papa intendeva riportare la Città Santa in mani cristiane: è quanto egli stesso esplicita in numerose lettere, a partire da quella inviata ai primi di febbraio, prima ancora d’essere solennemente incoronato – il 22 –, al patriarca gerosolimitano, Aimaro, e ai vescovi suffraganei della sua diocesi. Il 15 agosto successivo, da Rieti, chiamava tutti i christifideles a una nuova spedizione, designando quali legati papali i cardinali Pietro Capuano di S. Maria in via Lata e Soffredo di S. Prassede. Se il primo doveva porre fine ai conflitti in corso tra i re di Francia e d’Inghilterra – Filippo Augusto e Riccardo Cuor di Leone –, la cui esperienza crociata poteva rivelarsi preziosa, il secondo aveva il compito di coinvolgere i Veneziani, la cui flotta avrebbe semplificato e velocizzato le operazioni di trasbordo delle truppe in Oltremare.
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La resa di Costantinopoli, olio su tela attribuito a Domenico Robusti. 1594 circa. Venezia, Palazzo Ducale. Sala del Maggior Consiglio.
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La Serenissima in Oriente
Non sembra, tuttavia, che gli appelli papali sortissero un effetto immediato. Nel dicembre del 1199, Innocenzo tuonava contro il clero, lamentandone lo scarso zelo nei confronti della Terra Santa; al contempo, annunciava l’emanazione d’una tassa del 2,5% su tutte le rendite ecclesiastiche (assicurando una serie di parziali esenzioni a Certosini, Cistercensi, Grammontani e Premostratensi), e del 10% su quelle papali – bisognava pur dare il buon esempio! –, per l’organizzazione della spedizione, che – morto il sovrano inglese; colpito da interdetto il regno di quello francese, a cagione di alcune questioni matrimoniali – avrebbe dovuto essere guidata da Tebaldo III, conte di Champagne, fratello del re di Gerusalemme, Enrico, scomparso nel 1197, assieme al quale, verso la fine del 1199, presero la croce alcuni grandi dignitari di Fiandra e della Francia settentrionale.
Privilegi esorbitanti
Furono i capi della spedizione a decidere l’invio d’una legazione a Venezia, formata da sei plenipotenziari – tra cui è da annoverare anche Geoffroi de Villehardouin, maresciallo di Champagne, autore d’una cronaca di grande importanza per la conoscenza dei fatti –, cosí da negoziare i termini del nolo e del trasporto dei crociati. Da tempo, la città adriatica operava in completa autonomia da Costantinopoli, godendo di privilegi esorbitanti e ciò ne aveva accresciuto la capacità armatoriale. Assieme a Genova e, in misura minore, a Pisa, disponeva, allora, della piú grande flotta mediterranea. La crescente vitalità commerciale aveva portato, tuttavia, i suoi mercanti – al pari dei Latini in genere – a essere malvisti dalla popolazione costantinopolitana. Tra le due parti non correva buon sangue. Il 12 marzo del 1171, l’imperatore Manuele Comneno aveva ordinato l’arresto di tutti i Veneziani operanti nella capitale, procedendo, altresí, alla confisca dei loro beni, cosí da punirli della devastazione del quartiere genovese – che seguiva quella apportatavi nel 1162 dai Pisani, conclusasi con la loro espulsione, cosí come di quella dei Genovesi stessi; misure perpetuatesi sino al 1170 –, ma anche, verosimilmente, per punire i propri
In alto denaro veneziano con croce patente del periodo del doge Vitale Michiel II. XII sec. A destra Il doge di Venezia Enrico Dandolo e i suoi crociati assediano la città di Zara nel 1202, olio su tela di Andrea Vicentino (al secolo Andrea Michieli). 1578. Venezia, Palazzo Ducale, Sala del Maggior Consiglio.
«Noi siam diventati un vituperio per i nostri vicini, un oggetto di scherno e di derisione per quelli che ci circondano» (Sal 78, v. 4) 64
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La Serenissima in Oriente Frammento di mosaico nella basilica di S. Giovanni Evangelista a Ravenna raffigurante papa Innocenzo III che incontra il giovane Alessio, figlio del deposto Isacco II e futuro imperatore Alessio IV. 1213 circa. antichi sudditi e alleati dell’atteggiamento di neutralità adottato nei confronti dei Normanni del Sud Italia, i cui occhi erano puntati verso le terre balcaniche. L’onta andava lavata col sangue, ma la spedizione punitiva organizzata dal doge Vitale II Michiel, che saccheggiò Traú e Ragusa, prima di raggiungere Negroponte e assediarne la capitale, Calcide, per poi occupare Chio e avviare negoziati con l’imperatore, si concluse – complice un’improvvisa epidemia di peste –, con un nulla di fatto. Il doge stesso ne avrebbe fatto le spese, finendo accoltellato. La resa dei conti, dunque, era da venire, nonostante il ritardo nel rilascio dei prigionieri – 10 000, secondo alcune stime – e la stipula d’una pace, nel 1183, che contemplava il risarcimento per i danni subiti; e che seguiva, peraltro, la cruda esplosione di violenza che aveva portato, nel corso dell’anno precedente – anche per via dell’accondiscendenza del nuovo imperatore, Andronico I Comneno –, a un vero e proprio massacro di Latini, al
CROCIATE PER TUTTE LE STAGIONI Nel corso del Duecento, l’idea e la pratica della crociata conobbero una prima sistemazione canonistica, apprestandosi a diventare un potente strumento nelle mani del papato. L’attenzione per i problemi relativi al finanziamento dell’impresa e alla predicazione dei «crucesignati» è evidente già con Innocenzo III – al secolo, Lotario, figlio di Transmondo, conte di Segni –, eletto al soglio papale l’8 gennaio del 1198. Saranno, tuttavia, uomini come Sinibaldo Fieschi – papa col nome di Innocenzo IV tra il 1243 e il 1254 – ed Enrico da Susa, creato cardinale vescovo di Ostia nel 1262 – e, per questo, definito comunemente «Hostiensis» – a riflettere profondamente sul fenomeno; e a utilizzare per tali spedizioni l’espressione «crux», distinguendo una «crux transmarina», diretta al di là del mare, in Terra Santa, ma anche contro i Mori della Penisola iberica o i pagani del Baltico, e una «crux cismarina», volta a combattere i nemici – religiosi o politici – della Chiesa. Spettava a quest’ultima indicare gli obiettivi piú opportuni. Del resto, già nel corso della prima crociata, Urbano II s’era speso perché i cavalieri della Penisola iberica proseguissero la propria lotta contro i Mori. Con Innocenzo, tutte quelle spedizioni organizzate in difesa
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della Chiesa furono equiparate, quanto ai privilegi spirituali e temporali, all’iter gerosolimitano. Nel corso del secolo fu cosí possibile bandire crociate contro l’imperatore di Bisanzio – scismatico –, contro i catari – eretici –, contro i Wendi del Baltico – pagani –, contro personaggi noti a chiunque sfogli un manuale di storia medievale: Ruggero II di Sicilia, Markwald von Anweiler, Giovanni Senza Terra, Ezzelino da Romano, Federico II, Manfredi, Pietro III d’Aragona, Ludovico il Bavaro…; perfino contro famiglie intere – è il caso di Bonifacio VIII e della crociata bandita nel 1297 contro i Colonna – e via dicendo. In sostanza, la diplomazia papale si trovò tra le mani uno strumento potente per il governo del corpus Christianorum, l’uso o l’abuso del quale foraggiò, tuttavia, un ampio fronte critico, articolatosi lungo un ventaglio di posizioni talvolta lontanissime tra loro: dal rifiuto totale della guerra, propagandato da catari, valdesi, gioachimiti o spirituali – ma anche da qualche trovatore, per motivi assai piú lievi –, all’idea che l’utilizzo della forza all’interno della cristianità deviasse, di fatto, l’attenzione dalla Terra Santa. La celebre spedizione del 1202-1204 rientra, in parte, in questo quadro, costituendo, senz’altro, un precedente.
quale, tuttavia, i Veneziani erano scampati in quanto ancora assenti dalla capitale imperiale. La situazione rimase a lungo instabile. Nel 1187, Isacco II Comeno concesse loro, in cambio dell’aiuto prestato nel contrastare l’ennesimo tentativo normanno d’occupare le terre dell’impero, tre crisobolle, reintegrandoli pienamente del loro quartiere costantinopolitano. Un privilegio ulteriore fu emesso nel 1189, nel timore d’un eventuale attacco da parte di Federico Barbarossa, allora impegnato nella terza crociata. Tuttavia, non si poteva, certo, dire che tutti i danni subiti nel 1171 fossero stati rifusi. Come se ciò non bastasse, il quadro andò ulteriormente complicandosi a seguito dell’ascesa al trono, nel 1195, di Alessio III Angelo, accompagnata da una nuova ventata di protezionismo e di risentimento anti-veneziano. Con tutta probabilità, l’interruzione del paga-
In basso crocifisso ligneo duecentesco custodito nella sagrestia della chiesa dei Francescani a Zara. XIII sec. Nel corso delle trattative che precedettero la quarta crociata, Enrico Dandolo ottenne l’appoggio dell’esercito cristiano per un’azione nei confronti della città, ribellatasi a Venezia. mento dei risarcimenti, oltre che i favori concessi dal nuovo imperatore a Genovesi e Pisani, ebbero un ruolo non indifferente nella decisione di prendere parte a una nuova crociata, ancorché volta al recupero di Gerusalemme; obiettivo che poteva perseguirsi in molti modi: mediante un’offensiva diretta, con un attacco all’Egitto, oppure assicurandosi una testa di ponte tanto militarmente comoda quanto economicamente importante come Costantinopoli; un’idea, questa, che circolava da tempo, benché mai ufficialmente appoggiata. È comunque difficile dire se effettivamente Enrico Dandolo, doge dal 1192, stesse pensando sin da subito a
un’opzione del genere; tanto piú a seguito della stipula, nel 1198, d’un nuovo trattato di pace tra le parti, che, tuttavia, tralasciava del tutto la questione dei risarcimenti. I tempi, a ogni modo, erano maturi perché Venezia decidesse di riprendersi da sé ciò di cui era stata privata e la crociata poteva rappresentare una buona occasione, forse l’unica. Nell’aprile del 1201, al termine di lunghi negoziati, il doge e il consiglio maggiore stipularono con i sei plenipotenziari di Tebaldo di Champagne un contratto per il trasporto di armati e pellegrini in Oltremare. Venezia richiese l’esorbitante cifra di 85 000 marchi d’argento in moneta di Colonia, pagabili in quattro rate trimestrali, in cambio della fornitura dei legni necessari e il trasporto dell’esercito – stimato in 4500 cavalieri, con i rispettivi cavalli, 9000 scudieri e 20 000 fanti – e degli approvvigionamenti per un anno. I Veneziani stessi avrebbero contribuito alla spedizione, prendendo la croce, con una A sinistra Ravenna, basilica di S. Giovanni Evangelista. Frammento del mosaico pavimentale (rimosso dalla sede originaria e inserito nelle murature della chiesa) raffigurante i Veneziani guidati dal doge Enrico Dandolo che assaltano le mura di Zara, nel novembre del 1202. 1213 circa.
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flotta di 50 galee, in cambio del diritto di partecipare alla spartizione della preda in ragione della metà esatta d’ogni conquista o profitto derivato. I legni sarebbero stati pronti entro la fine di giugno dell’anno successivo. Tutto, dunque, era stato approntato; e il papa, informato delle trattative, poteva dirsi soddisfatto. Senonché, il 24 maggio del 1201, Tebaldo spirava, non senza aver prima destinato una cospicua somma ai «crucesignati». In giugno, nel corso d’un’assemblea tenutasi a Soissons, si decise, dunque, d’affidare il comando della spedizione a Bonifacio di Monferrato, fratello di Corrado, morto nel 1192, sostenuto – pare – da Filippo Augusto, in contrapposizione a un altro candidato: Baldovino di Fiandra, cognato di Tebaldo. Nel corso del 1202, la città lagunare iniziò dunque a essere dunque raggiunta da frotte di pellegrini in armi; diversi gruppi, tuttavia, preferirono imbarcarsi a Marsiglia o attraversare l’Adriatico dalle coste pugliesi per non dipendere dai Veneziani; diffidando, altresí, del capo designato per la spedizione.
La conquista di Zara come indennizzo
Di fatto, l’armata principale risultò composta da un numero lungamente inferiore di uomini – pari a circa due terzi in meno – rispetto a quanto preventivato nel corso delle trattative. Nonostante la promozione d’una contribuzione straordinaria, si rivelò impossibile racimolare l’intera somma promessa ai Veneziani. L’ammanco, anzi, fu calcolato in 34 000 marchi d’argento. Il doge propose, dunque, di colmare il debito nel corso della spedizione, utilizzando i primi bottini di guerra; in particolare, ciò che si richiedeva era il sostegno nella riconquista della città di 68
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La Serenissima in Oriente
Zara, recentemente ribellatasi al dominio veneto per darsi al re – crociato – d’Ungheria: Emerico. Tanto piú ch’essa si trovava sulla rotta, e che non sarebbe stato necessario compiere deviazione alcuna. Solo a seguito dell’accoglienza della proposta, Dandolo – allora piú che novantenne, oltre che cieco – prese la croce, ponendosi a capo della flotta. Quest’ultima salpò da San Nicola di Lido ai primi d’ottobre. Il doge pretese che l’armata sostasse presso alcuni porti dalmati per riaffermarvi la sovranità veneziana. Dopodiché, ci si volse contro Zara, che cadde il 24 novembre dopo due settimane d’assedio. Il sacco d’una città di fede romana – fedele, peraltro, quantomeno nominalmente, a un sovrano che aveva emesso un voto di crociata – costrinse Innocenzo III, prontamente avvertito dal legato, Pietro di Capuano, a scomunicare tutti coloro che avevano preso parte all’azione, salvo tornare sui propri passi, a seguito dell’invio d’un’ambasceria, e limitare la sanzione ai soli Veneziani, cosí da non vanificare l’impegno profuso nella spedizione. Del resto, prevedendo l’ira papale, il Monferrato s’era tenuto opportunamente a di-
In questa pagina altri frammenti del mosaico della basilica ravennate di S. Giovanni Evangelista raffigurante episodi della quarta crociata. 1213 circa. A sinistra, la caduta di Costantinopoli; a destra, un marinaio suona un corno dalla coffa di una nave, in segno di allarme: potrebbe trattarsi di un episodio accaduto il 1° gennaio 1204, quando Alessio V Ducas, alla rada del Corno d’Oro, tentò di dar fuoco alla flotta nemica con navi incendiarie che i Veneziani riuscirono a neutralizzare.
L’imperatore bizantino Alessio IV Angelo davanti al Doge di Venezia, Enrico Dandolo, chiede l’aiuto dei crociati, olio su tela di Andrea Vicentino (al secolo Andrea Michieli). 1578. Venezia, Palazzo Ducale.
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GLI ITALIANI ALLE CROCIATE stanza dall’isola; al pari di molti altri, che avevano preferito abbandonare l’impresa. Proprio a Zara, però, fece la sua comparsa, nel corso dell’inverno, un principe greco, Alessio Angelo, figlio di Isacco II, detronizzato, accecato e imprigionato dal proprio stesso fratello, Alessio III, nel 1195. Il giovane richiese il sostegno crociato per rovesciare l’usurpatore dal trono, promettendo, in cambio, la bellezza di 200 000 marchi d’argento, da dividere a metà tra Veneziani e crociati (che avrebbero potuto, dunque, saldare il proprio debito e arricchirsi a loro volta), il finanziamento di una spedizione contro l’Egitto, supportata da un contingente di 10 000 uomini stipendiato per un anno dall’imperatore, un presidio permanente di 500 cavalieri in Terra Santa e la riunione tra la Chiesa greca e quella latina, divise dal 1054. Una proposta, dunque, allettante: rifiutata – ma solo inizialmente – da Innocenzo III, al quale la prospettiva di porre termine allo scisma non dispiaceva affatto; soppesata con cura da Enrico Dandolo, che ne intuiva gli enormi vantaggi commerciali, nonostante il privilegio ottenuto nel 1195; accolta in pieno dal Monferrato, al quale si aprivano orizzonti di grandezza inusitati. Nonostante l’opposizione di numerosi «crucesignati», quella proposta fu dunque accettata.
Verso Costantinopoli
Dopo aver svernato a Zara, la flotta sostò a Corfú, prima di fare vela verso Costantinopoli, raggiunta il 23 giugno del 1203. La vista della capitale imperiale suscitò grande impressione in tutti i partecipanti: la metropoli era difesa da alte mura e i suoi palazzi scintillavano al sole. Inizialmente, si fece leva sull’autorità del giovane Alessio, ma la richiesta di deporre l’usurpatore, rivolta ad alcuni notabili, fu accolta con scherno. Non restava che porre la città sotto assedio, benché proprio allora giungessero lettere da parte di Innocenzo III che vietavano di sferrare ulteriori attacchi a terre cristiane se non per strette ragioni di vettovagliamento. In spregio a ogni raccomandazione, i Veneziani bloccarono dal mare la città; nel frattempo, il resto dei crociati ne attaccava le mura da terra. Il 7 luglio la torre di Galata, oltre il Corno d’Oro, cadeva dunque nelle mani dei nuovi venuti. Dieci giorni dopo, l’esercito crociato lanciò un nuovo attacco congiunto, che si rivelò decisivo. Penetrati dalla Porta di Petrion, i Veneziani, guidati dal loro doge, si impos70
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La Serenissima in Oriente
Venezia, i cavalli di S. Marco. Provenienti dall’ippodromo di Costantinopoli, i bronzi furono trasportati nella città lagunare dal doge Enrico Dandolo alla fine della quarta crociata, e collocati sulla facciata della basilica marciana, dove sono rimasti fino al 1977. Oggi sostituiti da una copia, gli originali sono custoditi nel Museo di S. Marco.
sessarono di alcune torri; nel frattempo, una parte della città era data alle fiamme. Alessio III rispose radunando fuori dalle mura un esercito imponente, ma evitando di dare battaglia. La popolazione costantinopolitana iniziò a rumoreggiare contro di lui, ritenendolo un vile: l’imperatore non poté far altro che darsi alla fuga, nottetempo, non senza aver prima depauperato il tesoro reale. I notabili della città decisero, dunque, di liberare Isacco II e di rimetterlo sul trono, affiancato dal giovane Alessio, incoronato imperatore alle calende d’agosto, e la promessa d’onorare gl’impegni sedò gli animi. Rispettando gli accordi presi, i due imperatori procedettero al pagamento di parte dell’enorme somma pattuita, a costo di spogliare i luoghi sacri della capitale dei propri arredi sacri,
cosí che i crociati poterono saldare il proprio debito con i Veneziani. La proposta di riunificare le due Chiese si scontrò, però, con la netta opposizione del clero locale. Ben presto, la presenza crociata si rivelò un peso; e, vessata dalle prepotenze dei Latini, la popolazione si sollevò. A capo della rivolta v’era un membro dell’influente famiglia Ducas, anch’egli di nome Alessio, detto Murzuflo («dalle ciglia folte»), per via del mono-ciglio che ne incorniciava lo sguardo. Nel frattempo, i due imperatori, le casse del cui im-
pero erano esangui, non facevano che dilazionare il saldo dei debiti. La situazione si fece insostenibile: la notte del 28 gennaio 1204, il giovane Alessio – passato alla cronaca come Alessio IV – fu arrestato e strangolato; Isacco II fu deposto, morendo in circostanze poco chiare; Murzuflo fu eletto imperatore. Una mossa, questa, che andava del tutto a sfavore dei crociati, i quali risposero assediando ancora una volta la città. Non senza aver prima stipulato, però, un patto sulla divisione dei territori imperiali. Si stabilí, inoltre, che il nuovo imperatore sarebbe stato eletto da un collegio di dodici membri, sei dei quali veneziani e qualora fosse stato scelto dai crociati, il clero veneziano avrebbe avuto facoltà di nominare il nuovo patriarca, e viceversa. Il bottino sarebbe stato suddiviso in parti uguali, fatto salvo il diritto di Venezia d’ottenere il risarcimento pattuito. Oltre
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La Serenissima in Oriente Calice di Teofilatto (o dei Patriarchi) in sardonica. Oreficeria bizantina, X sec. Venezia, Museo di San Marco.
a ciò, quest’ultima avrebbe avuto facoltà d’estromettere dai porti dell’impero le città marittime rivali. Forti di tali presupposti, i Latini approntarono l’attacco. Una prima sortita ebbe luogo il 9 aprile, infrangendosi miseramente contro le possenti mura cittadine. Un nuovo tentativo ebbe luogo lunedí 12. Dopo molte ore di combattimento, i crociati riuscirono a impadronirsi d’una torre, sfruttando un ponte mobile issato a bordo d’una nave veneziana. Poco dopo, entrarono in città, abbattendo un portello situato nuovamente nei pressi della Porta di Petrion, sul Corno d’Oro. La guardia imperiale preferí la fuga, preceduta dal Murzuflo e la resa fu trattata da alcuni ecclesiastici.
La città brucia
Costantinopoli fu messa a ferro e a fuoco per tre lunghi giorni. I tesori, le reliquie, le opere d’arte – tra cui la celebre quadriga in bronzo, collocata sulla loggia della basilica marciana nel 1254 (l’originale è conservato, oggi, nell’annessa struttura museale), ma si pensi, altresí, al gruppo dei tetrarchi, collocato all’esterno, o ai manufatti di oreficeria bizantina entrati a far parte del tesoro – furono razziati e inviati, a mezzo di navi ben di-
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fese, in Occidente. La popolazione greca non avrebbe mai piú perdonato l’affronto subito. La sacralità della città era stata violata. Il papa ne fu informato in fretta, richiamando, nell’immediato, l’imperscrutabilità del volere divino, che, in fin dei conti, aveva permesso che la capitale imperiale fosse conquistata – evidentemente, a motivo dei suoi peccati –; quindi, condannando apertamente furti e violenze. Nell’estate del 1205, Innocenzo scrisse a Bonifacio del Monferrato invitandolo a pentirsi per quanto accaduto. Non toccò a lui, a ogni modo, vestire la corona di quello che, da quel momento in poi, sarebbe divenuto l’impero latino di Costantinopoli, ma a Baldovino di Fiandra, eletto imperatore il 9 maggio e incoronato una settimana dopo nella splendida cornice di Santa Sofia; e ciò, con tutta probabilità, a causa della sua vicinanza a Pisani e Genovesi (nel 1194, questi s’era imbarcato al seguito della spedizione condotta dalle due marine, per conto dell’imperatore Enrico VI, contro il regno di Sicilia, assumendone il comando assieme al siniscalco imperiale, Markward von Annweiler; oltre a ciò, si ha notizia di contatti diplomatici con i Genovesi immediatamente successivi alla presa di Costantinopoli), nell’ottica d’un riequilibrio delle forze in campo. Il Monferrato fu ricompensato con la cessione
Coppa in vetro turchese con animali stilizzati in rilievo e montatura in argento dorato con pietre dure incastonate. Oreficeria bizantina, IX-X sec. Venezia, Museo di San Marco.
del principato di Tessalonica, del quale erano parte la Macedonia meridionale, una parte della Tessaglia, la Beozia, la Corinzia e l’Argolide. Cosí come stabilito in precedenza, sul seggio patriarcale salí un Veneziano: Tommaso Morosini, già monaco a Porto, nei pressi di Ravenna, la cui nomina, tuttavia, fu annullata da Innocenzo III, salvo essere ratificata a distanza di un anno. Apparentemente, le due chiese tornavano a separarsi; benché l’opposizione del clero greco si mantenesse costante nel tempo. L’impero fu diviso. La Partitio terrarum imperii Romaniae, siglata nel settembre del 1204, stabiliva che un quarto della capitale e delle terre imperiali spettasse al nuovo imperatore; gli altri tre quarti dovevano dividersi equamente tra i crociati e i Veneziani. Questi ultimi, oltre a ottenere ampi terreni nella capitale, si appropriarono di larghi tratti di coste tracie, anatoliche e greche e di numerose isole ionie ed egee, funzionali all’incremento dei propri traffici. Da quel momento in poi, il doge si sarebbe fregiato, tra l’altro, del titolo di «dominus quarte partis et dimidie tocius imperii Romanie». Con ciò, Gerusalemme era stata persa di vista, con buona pace di Innocenzo III, risoltosi ad accettare l’accaduto sollevando crociati e Veneziani dal voto crociato e liberando questi ultimi dalla scomunica. ITALIANI ALLE CROCIATE
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Disfatta sul Nilo
Segnata dai ripetuti (e inascoltati) appelli a Federico II di Svevia a prendervi parte, la quinta crociata si volse all’Egitto e vide inizialmente prevalere le truppe cristiane. Poi, però, la reazione del sultano al-Malik al-Kamil, «aiutato» dal grande fiume, ribaltò la situazione e l’impresa si concluse con un nuovo fallimento
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L
a presa di Costantinopoli destò grande preoccupazione tra Genovesi e Pisani. Se con questi ultimi i Veneziani siglarono un trattato che delimitava le rispettive zone d’influenza, con i Genovesi fu subito guerra, anche se allo scontro frontale si preferirono le ambiguità della guerra di corsa. In quello stesso 1204, sei galee genovesi assaltarono una nave veneziana di ritorno dal Bosforo, carica di denaro e reliquie, tra cui un importante frammento della Vera Croce; l’anno successivo, un legno di nome Leonepardo, coadiuvato da due galee armate dal corsaro Enrico Pescatore, conte di Malta, dopo aver predato due grandi navi veneziane, si spinse sino alle coste siro-palestinesi,
tentando d’approdare a Tiro, poi ad Acri, senza riuscirvi. Il conflitto si concentrò nelle acque dell’Egeo, impegnando i Veneziani nella difesa di alcune basi fondamentali per i loro traffici: Corfú, a guardia dell’Adriatico, e Creta, acquistata da Bonifacio di Monferrato per 1000 marchi d’argento e assurta velocemente a nodo nevralgico del proprio sistema marittimo. La presa di Damietta, olio su tavola di Cornelis Claesz van Wieringen. 1625 circa. Collezione privata. Nel dipinto, che si riferisce a uno degli episodi chiave della quinta crociata, consumatosi nel 1219, si nota una nave proveniente da Haarlem che taglia la catena del porto della città nilotica.
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Il favoloso Egitto
«Fino a quando, o Eterno? Sarai tu adirato per sempre? La tua gelosia arderà essa come un fuoco?» (Sal 78, v. 5) Fu il genovese Leone Vetrano a impadronirsi della prima; la seconda, invece, presidiata da un manipolo di uomini, fu occupata dal conte di Malta, coadiuvato dal genovese Alamanno da Costa, fregiatosi del titolo di conte di Siracusa. Venezia rispose inviando nell’Egeo una flotta di trenta galee, che ebbe la meglio su Vetrano, catturato e impiccato sul posto. Quanto a Creta, nel 1208, e poi ancora nel 1210, Enrico Pescatore chiese aiuto a Genova, che gli forní galee e navi in quantità, armate di tutto punto, arrivando a spendere l’ingente somma di 20 000 lire, raccolte, in parte, con prestiti forzosi; segno dell’importanza attribuita alla faccenda. Dal canto suo, Enrico promise al comune genovese un quartiere in tutte le città dell’isola, l’esenzione dai dazi e il pagamento di un tributo annuo, dichiarando suo erede il comune stesso nel caso non avesse avuto figli. Tuttavia, riuscí soltanto ad abbordare qualche nave mercantile e a fomentare una sollevazione tra il popolo cretese, senza scuotere il dominio veneziano sull’isola. La lotta, a ogni modo, si protrasse per diverso tempo e, nel 1217, Alamanno da Costa tentò nuovamente d’occupare Creta, ma fu tratto prigioniero. Alla fine intervenne il papa: il 23 gennaio del 1217, Onorio III scrisse a tutti gli arcivescovi, i vescovi, gli abati, i priori e gli altri prelati della Chiesa, cosí come a tutti i consoli e i podestà e ai fedeli cristiani di Lombardia e Toscana, esortandoli a prendere la croce; ingiungendo loro di prestare ascolto e obbedienza ai mandati di Ugolino, vescovo d’Ostia e legato apostolico. Questi giunse a Genova nel mese di maggio, accompagnato da un giovanissimo magister, membro di un’importante famiglia locale: Sinibaldo Fieschi, che poi salí al soglio papale con il nome di Innocenzo IV. Oltre a predicare la crociata, il legato richiese la conclusione d’un compromesso «pro succursu Terre Sancte»: un mese dopo fu conclusa una pace con i Pisani; l’anno successivo, Genova e Venezia strinsero un accordo – rinnovato per ben quattro volte sino alla metà del secolo – che 76
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ripristinava i privilegi ottenuti dai Genovesi a Costantinopoli prima della conquista e garantiva le conquiste veneziane nel Mediterraneo orientale. In questo modo si poneva fine a una serie d’angherie che aveva provocato gravi danni a tutti quanti. La tregua, tuttavia, resse per un paio di generazioni; dopodiché la lotta riprese, piú dura che mai. Per il momento, era la crociata a interessare e, con essa, la possibilità di mettere piede nel Paese commercialmente piú importante dell’universo musulmano: l’Egitto.
Nuove strategie
Bandita nel 1213 da papa Innocenzo III mediante l’enciclica Quia maior, la nuova spedizione fu ufficializzata nel novembre di due anni dopo, nel corso del concilio lateranense, tramite il decreto Ad liberandam. Il papa era deciso a portare a termine ciò che non era riuscito con la
Sulle due pagine il compartimento interno (in alto) e il rivestimento esterno della Stauroteca di Limburg, uno dei reliquiari bizantini piú ricchi ed elaborati, che contiene alcuni frammenti della Vera Croce, sopravvissuta al sacco di Costantinopoli. X sec. Limburg an der Lahn, Tesoro del Duomo e Museo Diocesano.
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GLI ITALIANI ALLE CROCIATE La crociata dei pueri (fanciulli) in un’illustrazione del pittore e incisore francese Gustave Doré inserita nell’opera Histoire des croisades di Joseph-François Michaud, pubblicata nel 1877. precedente impresa: la riconquista di Gerusalemme. Oltre a ciò, era necessario procedere al riscatto dei captivi, ovvero di coloro che, nel corso della grande spedizione della fine del secolo precedente, erano finiti nelle carceri egiziane e siro-palestinesi. Innocenzo era consapevole della necessità del sostegno navale degli Italiani per il trasporto dei crociati in Oltremare; al contempo, ben sapeva dei lucrosi traffici da essi intrattenuti con le coste sottoposte al controllo sultaniale, nei confronti delle quali era auspicabile applicare un blocco navale. Non a caso, nella Quia maior, si rivolgeva a loro in maniera diretta. Rifacendosi al canone 24 del terzo concilio lateranense, egli vietava, infatti, di trasportare materiale bellico – «arma, ferrum et lignamina» – in terra saracena; nella Ad liberandam, il periodo d’interdizione dei traffici, senza specificazioni di sorta, era esteso ai successivi quattro anni. Città come Genova, Pisa e Venezia erano colpite nel vivo dei propri interessi; tuttavia, dovettero adeguarsi, salvo seguitare a commerciare sotto mentite spoglie o, comunque, sprezzanti d’ogni provvedimento canonico.
Il dominio ayyubide nel mirino
Benché avesse stipulato poco tempo prima un trattato con il sultano, Venezia fu tra le prime a rispondere; fors’anche per tutelare i propri interessi nell’area dell’ex impero greco. La strategia papale prevedeva d’attaccare il nemico in casa propria, puntando al cuore del dominio ayyubide. Qualora l’Egitto fosse stato conquistato, i vantaggi commerciali sarebbero toccati ad altri. Del resto, era difficile sottrarsi ai voleri del papa, raccolti e ribaditi dal suo successore: Onorio III. La città lagunare strinse un accordo con il re d’Ungheria, desideroso di portarsi di là del mare, promettendo di fornirgli a nolo alcune navi, ciascuna con cinquanta marinai a bordo, entro il 25 luglio del 1217. A causa della carenza di fonti a disposizione, non è noto, invece, in che misura i Pisani abbiano preso parte all’impresa: furono senz’altro presenti, al pari di altri Italiani. Le fonti coeve citano, infatti, crociati provenienti da Roma, Viterbo e Vetralla e da altri territori soggetti alla Chiesa, imbarcatisi a Corneto (l’odierna Tarquinia, in provincia di Viterbo) o nei porti pugliesi. Massiccia fu, altresí, la partecipazione dei Ge78
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Il favoloso Egitto
LA CROCIATA DEI «PUERI» Nel 1212 un curioso episodio contribuí a tener desto l’entusiasmo crociato. Si tratta della crociata detta dei «pueri», che interessò anche Genova, ormai assurta a punto di raccolta di nutrite masse di crociati e pellegrini in partenza per la Terra Santa. Il fenomeno rientra nel novero delle cosiddette «crociate popolari»: movimenti spontanei di uomini e donne, spesso ma non necessariamente armati, latori di vaste aspettative di rinnovamento ecclesiastico e sociale, e, dunque, d’inquietudini mistico-religiose, corroborate dall’avvio di vere e proprie campagne di predicazione, volte a contrastare l’eresia con la forza, ma col sostegno della croce e, in particolar modo, quella catara, il cui messaggio conteneva un appello pressante alla semplicità apostolica e alla penitenza. I pueri – i semplici –, che possiamo identificare con quel vasto coacervo di poveri, vagabondi, esclusi e senza radici che popolavano allora città e campagne di mezza Europa, esprimevano la volontà di liberare il Santo Sepolcro senz’armi. Partiti dai Paesi Bassi, dalla Renania e dalla Francia settentrionale tra la primavera e l’estate di quell’anno, si diressero verso il Mediterraneo. Un gruppo, guidato da un certo Nicola – che aveva promesso ai propri la miracolosa apertura del mare –, valicò le Alpi, raggiungendo il porto ligure. Secondo l’annalista Ogerio Pane «nel mese di agosto, di sabato, otto giorni prima delle calende di settembre, un
certo fanciullo tedesco di nome Nicola entrò nella città di Genova, poiché era in pellegrinaggio, e con lui un’enorme moltitudine di pellegrini che portavano croci, bordoni e scarselle, oltre settemila tra uomini, donne, fanciulli e fanciulle, a giudizio di un uomo di senno. E la domenica seguente uscirono dalla città; ma molti uomini, donne, fanciulli e fanciulle di quella schiera rimasero a Genova». La turba sostò per qualche tempo in città; probabilmente, fuori le mura, nei pressi della commenda ospitaliera di S. Giovanni di Pré. La mancata realizzazione del miracolo deluse ogni aspettativa. Dopo qualche tempo, la maggior parte decise di abbandonare l’impresa e di fare ritorno a casa. Secondo l’arcivescovo Iacopo da Varagine, i Genovesi avrebbero insistito perché i pellegrini partissero, sia perché diffidavano della loro guida, sia perché avevano paura che il gran numero di persone presenti in città provocasse una carestia o, piú in generale, problemi di natura igienica, sia, infine, per ragioni politiche: nella primavera di quell’anno era giunto in città il giovane Federico di Svevia; nel corso della sua permanenza, protrattasi per circa tre mesi, aveva affermato i propri diritti sul trono imperiale contro l’avversario Ottone IV, appoggiato dai Pisani. Secondo Iacopo, la presenza d’un gran numero di Tedeschi in città avrebbe potuto dare adito a fraintendimenti, visti i contrasti in corso tra il sovrano e l’imperatore.
A sinistra Genova. La Commenda di Prè, complesso costruito nel 1180, per volontà di frate Guglielmo dei Cavalieri Giovanniti, che divenne un luogo di assistenza per pellegrini e crociati in transito dalla Terra Santa.
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Miniatura raffigurante i crociati che sbarcano a Damietta durante la quinta crociata, da un’edizione de Le Miroir Historial, opera del letterato e frate domenicano Vincent de Beauvais. XV sec. Chantilly, Musée Condé. 80
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novesi, benché anch’essi avessero stretto accordi con l’Egitto. Un passo decisivo verso il loro coinvolgimento fu compiuto da un prelato d’eccezione: Jacques de Vitry, autore di vari scritti centrati sulla situazione vicino-orientale. Nel settembre del 1216, questi giunse a Genova per imbarcarsi alla volta di Acri, alla cui diocesi era stato destinato da Innocenzo III. La sua esperienza è riassunta in una lettera inviata al papa il 4 novembre. A suo dire, i
Genovesi lo avrebbero accolto in maniera inusuale: confiscandogli il cavallo, utilizzato nel corso d’un assedio nel Levante rivierasco. Quasi per ripicca, il futuro cardinale si sarebbe messo a predicare la crociata alle donne rimaste in città, che avrebbero preso la croce in massa: «Cives michi equos abstulerunt, et ego uxores eorum crucesignavi» («I cittadini mi hanno sottratto i cavalli, io ho fatto sí che le loro donne assumessero il segno della croce»).
De Vitry ha comunque parole di ammirazione per i Genovesi, che descrive come «potenti, ricchi, valorosi nelle armi e amanti della guerra, provvisti di navi in abbondanza, di ottime galee e di esperti marinai, che in mare conoscono la via e si recano frequentemente nella terra dei Saraceni per ragioni di commercio», concludendo: «Non credo vi sia altra città che possa essere di maggiore giovamento per il soccorso della Terra Santa». Un giudizio, questo, destinato a mutare una volta giunto a destinazione, visto l’ingente volume di traffici sviluppatosi tra i Genovesi – ma il discorso vale anche per Pisani e Veneziani – e i Saraceni, del tutto incurante delle scomuniche o dei divieti di commercio espressi dal papa.
Genovesi, Pisani e Veneziani fornirono senz’altro un sostegno importante, seguendo l’esercito di terra lungo il braccio principale del Nilo. Secondo Oliviero di Colonia, tentarono d’impadronirsi di alcune torri difensive. Il Memoriale potestatum Regiensium ricorda un assalto congiunto alla fortezza di Damietta sferrato l’8 luglio per volere del legato papale, il cardinale Pelagio di Albano («Primam armaverunt Pisani, secundam Ianuenses, tertiam Venetiani»). Si ha notizia, inoltre, di altri due attacchi, occorsi il 20 e il 31 luglio, nel corso dei quali, gli Italiani avrebbero utilizzato le proprie galee per accostare le scale alle mura della città. Il 6 di agosto, Pisani e Genovesi sarebbero riusciti, inoltre, a
La presa di Damietta, 1219, incisione da un dipinto di Henri Delaborde pubblicata nell’opera Galeries historiques de Versailles (Parigi, 1839).
Damietta, 1219
Il concilio aveva fissato la data della partenza al giugno del 1217. In realtà, ciò che avvenne fu, piuttosto, un susseguirsi di partenze discontinue, sottoposte a un comando frammentario, dovute a un reclutamento ininterrotto. I primi contingenti sbarcarono a Damietta alla fine di maggio del 1218, guidati da Giovanni di Brienne, reggente del regno di Gerusalemme in nome della figlia, Isabella II. La scelta del porto nilotico, in luogo di quello di Alessandria, derivava dalla posizione, a guardia d’una delle principali arterie fluviali che recavano al Cairo. Le forze franche vi si riversarono, decise a farne la principale testa di ponte per la conquista del Paese. Né i Veneziani, né i Genovesi, a ogni modo, si mossero prima dell’anno successivo, benché si abbia notizia di alcune spedizioni contenute, condotte, forse, autonomamente. Sappiamo, infatti, di come, il 21 agosto, il genovese Pietro de Castello fosse rientrato dal Levante portando notizie dell’esercito crociato. Ai Genovesi, a ogni modo, si rivolsero i Francesi per il trasbordo delle proprie truppe. Il 13 aprile, il regime podestarile strinse infatti un accordo con Hervé de Donzy, conte di Nevers, e Ugo de la Ferté, conte de la Mark, e altri baroni transalpini. Il 28 luglio, Onorio III chiese loro, accertandone la presenza a Genova, d’impegnarsi a fondo nell’azione. Non sappiamo quando la flotta abbia preso il mare: secondo l’annalista Ogerio Pane dieci galee, al comando di Giovanni Rosso de Volta e Pietro Doria, sarebbero sbarcate nei pressi di Damietta attorno al 20 agosto del 1219, seguite da una galea ulteriore, al comando di Alamanno da Costa, e da altre tre di proprietà del provenzale Savaric de Mauleon. Il loro arrivo avrebbe contribuito a risollevare il morale collettivo.
respingere una squadra navale nemica che aveva tentato di rompere un ponte di barche allestito dai crociati. Un ulteriore assalto alla città, fallito, avrebbe avuto luogo, grazie al loro aiuto, il 29 agosto. Nonostante tali insuccessi, la marea montante cristiana non poteva essere sottovalutata. Non a caso, il nuovo sultano – al-Malik al-Kamil, nipote del Saladino –, entrato in carica in quello stesso 1219, dopo essersi distinto nella ITALIANI ALLE CROCIATE
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difesa, decise di scendere a patti; non senza aver prima ordinato al fratello, al-Mu’azzam, governatore di Damasco, che s’apprestava a ritornare in Siria, d’abbattere le mura di Gerusalemme, cosí da rendere la città indifendibile nel caso fosse caduta. Il fatto – che suscitò ampia eco nel mondo musulmano – è forse da connettersi con l’offerta d’una tregua – dovuta, altresí, all’opposizione interna al sultanato stesso, capeggiata da un reggimento di origine curda –, che comprendeva la cessione ai Franchi della Città Santa, la restituzione della reliquia della Vera Croce, perduta nel 1187, il rilascio dei prigionieri ancora in vita reclusi nelle carceri egiziane e siriane e il pieno possesso dei castelli di Belvoir, Safed e Toron. Proposte, queste, che trovarono quale contraltare un accorato invito alla conversione, spinto sino al desiderio del martirio, promosso da un «crociato» d’eccezione: Francesco d’Assisi, ch’ebbe modo di penetrare nell’accampamento nemico e di conferire col sultano. Inutile dire che entrambe le offerte furono respinte: il cardinale Pelagio, affermatosi come capo indiscusso della spedizione, spinse, anzi, per apportare un massiccio attacco contro Damietta, che cadde la notte del 5 novembre del 1219. 82
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In alto Firenze, basilica di Santa Croce, Cappella Bardi. La prova del Fuoco, una delle scene del ciclo affrescato da Giotto e dedicato alle gesta di Francesco d’Assisi: al cospetto del sultano d’Egitto, il santo si mostra disposto a subire la prova del fuoco pur di dimostrare la veridicità delle tesi cristiane. 1325 circa. A destra mappa del fiume Nilo dal suo estuario meridionale, da un’edizione del Kitab-i Bahriye (Libro della navigazione) del cartografo e navigatore ottomano Piri Reis. XVII sec. Baltimora, The Walters Art Museum. Conquistata la città, bisognava decidere il da farsi. Con tutta probabilità, una marcia immediata verso il Cairo avrebbe apportato risultati positivi, anche se non avrebbe certo assicurato il controllo dell’intero Paese; tuttavia, i capi crociati decisero d’attendere l’arrivo di Federico di Svevia, in procinto d’esser nominato imperatore. Nell’estate del 1220, il campo crociato fu raggiunto, dunque, da un’armata proveniente dall’Italia settentrionale, guidata dagli arcivescovi di Milano e Cremona e dai vescovi di Brescia, Faenza e Reggio. Con loro viaggiavano alcuni messi del sovrano, recanti alcune lettere che ne annunciavano l’arrivo imminente. Nel mese di luglio, giunsero, inoltre, i rinforzi, a bordo di otto galee comandate dal conte Matteo de Apulia.
Sembrava, insomma, che lo Svevo – che già nel 1215 aveva preso la croce, reiterando il voto piú volte – si stesse preparando a partire. Invece, non si fece vedere, preferendo inviare in Egitto un magro ma bellicoso contingente, guidato da Ludovico di Baviera, suo rappresentante personale, accompagnato da numerosi nobili tedeschi, i quali, salpati da Taranto nell’aprile del 1221, raggiunsero Damietta il mese successivo, appoggiando il legato papale nell’organizzazione d’un attacco contro il nuovo campo di alKamil, situato nei pressi dell’abitato di Talha, a sud di Damietta, nel luogo dove poi sorse l’importante centro di al-Mansura.
Il generale Nilo
Da entrambe le parti si cercarono rinforzi: Pelagio d’Albano ordinò al re di Gerusalemme di fare immediato ritorno in Egitto; il sultano, invece, chiamò in aiuto i fratelli, al-Mu’azzam e al-Ashraf, del cui sostegno aveva assoluto bisogno. Ma il migliore generale di al-Kamil si rivelò il Nilo. I crociati si trovarono accerchiati nei pressi d’una stretta striscia di terra situata tra il corso principale del fiume, ormai in procinto d’ingrossarsi, e uno dei suoi affluenti, a metà strada tra il campo e la cittadina. Ben presto fu chiaro che non sarebbero riusciti a sostenere un eventuale contrattacco da parte delle truppe egiziane, la cui conoscenza del frastagliato delta fluviale era, ovviamente, superiore; pertanto, decisero di tornare indietro. Gran parte dell’esercito finí impantanata nel fango, montato a causa dell’apertura delle chiuse e della rottura degli argini dei canali nilotici. I movimenti delle cavalcature ne risultarono impediti. Era la fine. Il primo, serio tentativo di conquista dell’Egitto da parte dell’Occidente si concludeva con un completo fallimento. La resa fu negoziata tra il 29 e il 30 agosto del 1221. Tra le due parti fu siglata una tregua di otto anni: i crociati avrebbero dovuto abbandonare Damietta e restituire i prigionieri; al-Kamil, dal canto suo, avrebbe reso loro la Vera Croce, benché di essa non si seppe piú nulla. Le relazioni tra le città marinare italiane e l’Egitto ne uscirono piuttosto malconce. I traffici subirono un tracollo, favorendo l’appetibilità commerciale della Terra Santa, attorno alla quale erano andati concentrandosi, ormai, gl’interessi collettivi. Per giustificare il disastro si cercò, dunque, un capro espiatorio, e lo si trovò in Federico II, la cui figura avrebbe dominato la scena, anche quella della crociata, nei decenni a venire. ITALIANI ALLE CROCIATE
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Una sconfitta «diplomatica»? Là dove avevano fallito le armi, vinse la trattativa: potremmo riassumere cosí l’esperienza crociata di Federico II, che, seppur in forza di un accordo da molti giudicato disonorevole, riuscí a riguadagnare al campo cristiano la Città Santa
N
el XIII secolo, la Terra Santa crociata vive il suo apogeo e, al contempo, la sua crisi. A seguito delle conquiste di Saladino, il territorio siro-palestinese conosce l’instaurarsi d’una nuova configurazione politica, incentrata su Acri, elevata a capitale del regno in luogo della perduta Gerusalemme. Altre città costiere si contendono il primato politico ed economico della regione: a Tiro e a Beirut sorgono signorie autonome, il cui destino, al pari di quello del principato di Antiochia e, per certi versi, del nuovo regno di Cipro, si legherà inesorabilmente a quello del regno nel tentativo di contrastare la morsa ayyubide prima e mamelucca poi. Il territorio – null’altro che una striscia di terra schiacciata sulla costa, lunga 90 miglia circa, larga appena 10 – risulta parcellizzato in una ventina di signorie (ventidue secondo il Livre des Assises di Jean d’Ibelin, redatto prima del 1266, che fotografa probabilmente una situazione precedente). Cospicui cespiti di autonomia sono mantenuti, oltre che dagli Or-
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Miniatura raffigurante Federico II che prende accordi con il sultano Al-Malik al-Kamil, dall’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.
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La crociata di Federico II
dini militari e dai comuni italiani – Genova, Venezia e Pisa, innanzitutto – da altre comunità minori, che eleggono Acri quale principale base di scambio della regione. Anche l’organizzazione della Chiesa latina subisce diversi rivolgimenti: dopo il 1187, molti prelati sono costretti a lasciare le proprie sedi, trovando accoglienza sulla costa – ad Acri, a Tiro o a Tripoli –, dove dispongono di rilevanti possessi fondiari. Al principio del secolo risultano presenti in pianta stabile nella nuova capitale del regno il patriarca di Gerusalemme, gli arcivescovi di Tiro, Nazareth e Cesarea, i vescovi di Acri, Beirut, Betlemme, Lydda, Sidone, Sebaste e Tiberiade, oltre a una miriade di piccole comunità monastiche. In linea di massima, la giurisdizione del clero latino ha come teatro i centri urbani; raramente si estende oltre le città e i castelli: la stragrande maggioranza della popolazione vive, infatti, al riparo di cinte murarie. Le città piú grandi (Acri, Tiro, Tripoli) possiedono un considerevole numero di chiese.
Le chiese «nazionali»
Gran parte della cura delle anime è assolta, tuttavia, dai monasteri, dalle chiese degli Ordini militari o dalle chiese «nazionali» delle comunità inurbate, tra le quali spiccano quelle degli Italiani. I Pardouns de Acre, un testo risalente alla fine degli anni Cinquanta, enumera ben trentanove chiese acritane presso le quali lucrare indulgenze, la piú grande delle quali è quella vescovile, dedicata alla Santa Croce, presso la quale risiede anche il patriarca. Le tre chiese maggiori, S. Marco, S. Pietro e S. Lorenzo, appartengono, invece, rispettivamente ai Veneziani, ai Pisani e ai Genovesi. Si tratta per la maggior parte di proprietà esenti dalla giurisdizione delle autorità locali; il che costituirà, sovente, motivo di disturbo per la gerarchia latina, soprattutto in termini di cura delle anime. Per gran parte del Duecento, la politica interna a Outremer si mantenne piuttosto instabile. Rivalità diffuse – non solo tra gli Ordini militari e tra i cittadini dei comuni marittimi, ma anche
«Spandi l’ira tua sulle nazioni che non ti conoscono, e sopra i regni che non invocano il tuo nome. Poiché hanno divorato Giacobbe, e hanno isolato la sua dimora. Non ricordare contro di noi le iniquità dei nostri antenati; affrettati, ci vengano incontro le tue compassioni, poiché siamo in molto misero stato» (Sal 78, vv. 6-8) 86
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Sultanato di Rum
Contea di Edessa
(1138-1375)
Edessa
Adana Antiochia
Atabeg di Mosul
Aleppo
Principato Regno di Antiochia di Aleppo
Eufrate
(1098-1268)
Regno di Cipro (1192-1489)
Or
Famagosta
Contea di Tripoli (1102-1146)
Nicosia
on
te
Palmira Krak dei Cavalieri Homs
Tripoli
Regno di Damasco
Beirut Tiro Montfort Acri Chastel Pélerin Cesarea Giaffa Ascalona Damietta
Beaufort
Damasco
Belvoir
Ajlun Amman
Gerusalemme
Gaza
Regno di Kerak Gerusalemme
El Mansûra Il Cairo
DESERTO DI SIRIA
Le Chastellet o
Mar Mediterraneo
Stati latini d’Oriente
(1099-1187)
Califfato fatimide di Egitto (968-1171)
Regno di Gerusalemme Contea di Tripoli
Shawbak Petra
SINAI
Golfo di Suez
alla luce la figlioletta, la futura Isabella II. Nel 1225, quest’ultima sposò nientemeno che l’imperatore Federico II, dando avvio a oltre un quarantennio di controllo della corona da parte degli Hohenstaufen: un controllo contestato, rivelatosi assai labile – escludendo la breve esperienza «crociata» dello stupor mundi –, ostacolato dallo scontro in atto col papato e dalle ripetute scomuniche collezionate dal sovrano, il quale, tuttavia, sarebbe riuscito laddo-
(1098-1146)
Piccola Armenia
Giordan
tra i baroni stessi, tesi ad affermare la propria supremazia – ne accrebbero la vulnerabilità. Una situazione, questa, aggravata dalla debolezza della monarchia, non di rado in mano al gentil sesso, e, dunque, a chi fosse in grado d’impalmare la regina di turno, se non a sovrani minorenni, bisognosi di reggenza. Nel corso del secolo, la corona gerosolimitana sarebbe stata variamente acquisita, contestata, rimpallata, impugnata e perfino venduta, aggravando, di fatto, lo stato di bisogno del regno. Se sotto re Amalrico, tra il 1162 e il 1174, i sovrani di Gerusalemme avevano goduto d’un certo prestigio, alla sua morte aveva avuto inizio un lungo periodo di crisi. Gli ultimi tre mariti (su quattro) della figliastra, Isabella I, erano andati incontro a trapassi stravaganti (l’ultimo, Aimerico di Lusignano, nel 1205, dopo aver mangiato del muggine avariato). Maria, figlia di Isabella e Corrado di Monferrato, alla quale spettava il trono di diritto, sarebbe convolata a nozze con un valoroso crociato francese, Giovanni di Brienne, morendo nel 1212 nel dare
In alto mappa degli Stati latini d’Oriente. A sinistra sigillo in bronzo di un re crociato di Gerusalemme in cui sono raffigurati i tre luoghi piú importanti della città nel Medioevo: il Santo Sepolcro, la Cupola della Roccia e la Cittadella. Collezione privata. Nella pagina accanto pagina di un salterio sulla quale è miniata una mappa crociata di Gerusalemme. 1200 circa. L’Aia, Koninklijke Bibliotheek.
‘Aqaba
Mar Rosso
Principato di Antiochia Contea di Edessa Principali fortezze crociate Principali fortezze musulmane
ve altri avrebbero fallito: ovvero nel recupero, ancorché breve, di Gerusalemme.
Prendere la croce
A prima vista, il rapporto tra Federico e la crociata potrebbe apparire contraddittorio. Per comprenderne a pieno i connotati, occorre tenere conto, da un lato, della volontà del sovrano di recuperare quella «plenitudo potestatis» ch’era appannaggio della carica imperiale – ponendosi, dunque, al di sopra del papato –, dall’altro, degli obblighi derivanti dall’assunzione della corona gerosolimitana, che autorizzavano il nostro ad agire in difesa del proprio regno, secondo le modalità che avrebbe ritenuto piú consone. Di fatto, la politica adottata dall’imperatore nei confronti del vicino musulmano non si discostò di tanto da quella dei suoi predecessori, risultando, spesso, incomprensibile a un Occidente ignaro dell’articolato contesto politico vicino-orientale. Il sovrano prese la croce per la prima volta il 25 luglio del 1215, ad Aquisgrana, in occasione della propria incoronazione a rex Romanorum. Con tutta probabilità, su tale decisione pesarono l’eITALIANI ALLE CROCIATE
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GLI ITALIANI ALLE CROCIATE sempio del nonno, Federico Barbarossa, morto in Oriente nel 1190, e del padre, Enrico VI, morto nel 1197 mentre preparava una crociata. A ciò, però, non fece seguito alcun impegno fattivo, nonostante il bando emanato nel corso del concilio di Lione. Fu papa Onorio III, il 12 gennaio del 1219, a ricordargli l’impegno e a invitarlo a mettersi in marcia per l’Egitto. Federico chiese di rimandare la partenza al 29 settembre successivo, dando avvio a una serie di rinvii che occuperà l’intero decennio successivo. Il 6 settembre, il nostro domandò una proroga ulteriore sino al 21 marzo del 1221. Onorio III accettò la proposta, ammonendolo, però, a non ritardare ulteriormente la partenza, pena la scomunica. Nell’ottobre del 1219, a Norimberga, il sovrano invitò dunque il clero a predicare la croce; al contempo, tentò di coinvolgere nell’impresa i nobili tedeschi e le città portuali dell’Italia meridionale, cosí da disporre del naviglio necessario per la traversata. Tuttavia, il 19 febbraio del
La crociata di Federico II
1220, informò il papa della propria impossibilità a partire, visto lo scarso entusiasmo suscitato dal suo richiamo. Onorio lo ammoní nuovamente, imponendogli come termine ulteriore il 1° maggio. A procrastinare i tempi fu, senz’altro, l’attesa dell’incoronazione imperiale, ch’ebbe luogo a Roma nel novembre successivo per mano del papa. Per l’occasione, Federico rinnovò ulteriormente il proprio voto, promettendo d’inviare un forte contingente in Egitto del quale – come s’è visto – erano parte diversi Italiani. Benché atteso dai crociati, il nuovo imperatore non si presentò. Il nostro, anzi, rispettò scrupolosamente la tregua di otto anni imposta da al-Kamil, nonostante l’incoronazione a re di Gerusalemme, nel 1225. Del resto, molte erano le preoccupazioni che lo legavano ai propri domini italioti e germanici e al progetto di reformatio status imperii, che vedrà coinvolte, a partire dal 1226, le città italiane, invitate a una dieta da tenersi a Cremona, nel
La Torre di Davide e il suo cortile interno nella città vecchia di Gerusalemme. Edificata nel II sec. a.C, la struttura venne distrutta e poi ricostruita dai conquistatori cristiani e musulmani nel corso del Medioevo.
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corso della quale si sarebbe dovuto discutere anche della crociata. L’anno successivo, l’imperatore tornò a promettere che sarebbe partito entro l’agosto di quell’anno. Rispetto ai tempi di Damietta, Federico poteva accingersi all’impresa nelle vesti del sovrano che intendeva recuperare il proprio regno. Non è un caso che l’obiettivo della spedizione non fosse piú l’Egitto, bensí Gerusalemme. D’altronde, la difficile situazione interna al sultanato consentiva qualche spiraglio di successo. Terminata l’emergenza franca, al-Kamil s’era dovuto guardare dalla crescente ostilità del fratello al-Mu’azzam, che, pure, lo aveva sostenuto nel momento del bisogno. Ciò lo rendeva docile come non mai. Federico, evidentemente edotto della situazione, pensò di procedere a una ratifica della tregua in corso, inviando al Cairo, nella primavera del 1226, l’arcivescovo di Palermo, Bernardo, e il fido Tommaso, conte d’Acerra, in qualità di vicario imperiale. Per tutIn alto un tratto di mura della città vecchia di Gerusalemme.
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GLI ITALIANI ALLE CROCIATE UN PATTO SCELLERATO Il trattato stipulato tra Federico II e al-Kamil – controfirmato, peraltro, dalla nobiltà di Terra Santa, che ebbe indietro alcune terre – suscitò scandalo tra gli ecclesiastici (il patriarca latino giunse addirittura a interdire ai fedeli l’accesso ai Luoghi Santi). Anche nel mondo musulmano si levarono aspre critiche. Il predicatore damasceno Sibr b. al-Jawzi reca notizia del patto tra l’imperatore e il sultano: «Giunse la notizia della consegna di Gerusalemme ai Franchi, e successe il finimondo in tutti i paesi dell’Islam. Il fatto fu cosí grave che si indissero pubbliche cerimonie di lutto: il malik al-Nasir Dawud mi invitò a presiedere una riunione nella moschea maggiore di Damasco, e parlare di quel che era occorso a Gerusalemme; né io potei dirgli di no, considerando l’ottemperanza al suo desiderio quale parte dei doveri religiosi e dello zelo per la causa dell’Islam. Sedetti, quindi, [sul pulpito] della moschea maggiore di Damasco, e presenziò la riunione al-Nasir Dawud alla porta del Mashhad ‘Ali: fu un giorno memorabile, in cui non restò indietro nessuno della popolazione di Damasco». Il passo testimonia la crescente opposizione nei confronti del sultano al-Kamil.
A destra miniatura raffigurante i soldati cristiani di Federico II che giungono alle porte di Gerusalemme nel 1229, da un’edizione del Descriptio Terrae Sanctae, giornale di viaggio di Burcardo di Monte Sion. XIV sec. Padova, Biblioteca del Seminario Vescovile. Nella pagina accanto Damasco. Il cortile della Grande Moschea degli Omayyadi, con la Cupola del Tesoro, la cui costruzione risale al 789: sorretta da otto colonne romane, è ornata di splendidi mosaici bizantini.
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La crociata di Federico II
possibilità di metter mano sulla Siria ayyubide, un territorio che formalmente gli apparteneva. Ciò comportava inevitabilmente un parziale ridimensionamento dei patti intercorsi con l’imperatore, se non la loro aperta cancellazione.
Falsa partenza
ta risposta, il sultano mandò a Palermo una delegazione, guidata da uno degli uomini di punta del proprio entourage, l’emiro Fakhr alDin, con lo scopo d’impedire l’alleanza che si profilava a Oriente tra il fratello e alcune bande di cavalieri turchi provenienti dalla regione del Khwarizm, nell’attuale Uzbekistan, spinte verso occidente dall’avanzata mongola, che avrebbe potuto rivelarsi pericolosa sia per il regno gerosolimitano, sia per il sultanato egiziano. Con tutta probabilità, al-Kamil era a conoscenza della familiarità di Federico con la cultura araba, che si spingeva sino ad accenni di sincera ammirazione; tuttavia, è ben probabile che gli sfuggissero i particolari della disciplina de voto, che legava l’imperatore al compimento del passagium oltremarino. Comunque stessero le cose, il sultano promise a Federico, in cambio del proprio sostegno, il controllo di Gerusalemme. Si trattava d’una proposta allettante, funzionale sia all’imperatore – il cui nome si sarebbe legato imperituramente alla Terra Santa –, sia al sultano, che abbisognava d’un alleato forte e, soprattutto, che nessuna spedizione occidentale lo distogliesse dal pericolo. Tutto, dunque, pareva convergere verso una normalizzazione dei rapporti, in vista di un’alleanza vantaggiosa per entrambe le parti. Ma – si sa – l’imponderabile è sempre dietro l’angolo. La morte di al-Mu’azzam, nel novembre del 1227, e la debolezza del figlio di questi, al-Nasir Dawud, poco piú che ventenne, ridussero, e di molto, la possibilità d’un invasione khwarezmiana, convincendo al-Kamil della
Condotta senza l’assenso del papato, e da inquadrarsi, dunque, nell’ambito di quella plenitudo potestatis ch’egli intendeva recuperare, la crociata di Federico fu l’unica a risolversi per vie diplomatiche, raggiungendo l’obiettivo: il recupero di Gerusalemme. La scomunica, comminata dal nuovo papa, Gregorio IX, giunse nell’autunno del 1227, a seguito della mancata partenza dell’imperatore dal porto di Brindisi, giustificata da un’epidemia scoppiata nell’esercito. Proprio allora, il sovrano ricevette notizia della morte di al-Mu’azzam. Temendo che l’accordo con al-Kamil potesse saltare, si risolse a partire. In questo, si comportava da re d’Outremer piú che da principe crociato, anche se – va detto – il suo atteggiarsi a sovrano universale sarebbe entrato assai presto in conflitto con la complessa pratica legalistica del regno gerosolimitano, tesa a controllare – per cosí dire, costituzionalmente – la corona. Il 28 giugno del 1228, avuta notizia della nascita del figlio Corrado, accompagnata dalla morte per parto della moglie, l’imperatore s’imbarcò, dunque, su alcune galee veneziane facendo vela per il Levante. La scomunica creò parecchi problemi in Outremer; in particolare, tra gli Ordini militari, indecisi sulla condotta da tenere nei suoi confronti. Tutto, a ogni modo, parve andare nel migliore dei modi. L’avvicinamento tra Federico e al-Kamil fu favorito dalla ribellione del nuovo signore di Damasco, al-Nasir Dawud; al contempo, alcune notizie provenienti dal regno siciliano, in procinto d’essere invaso dall’esercito papale dei «clavisegnati» – recanti, cioè, «super vestem», il segno delle chiavi –, in quella che andava configurandosi alla stregua d’una vera e propria crociata anti-federiciana, imponeva di procedere speditamente. Di ciò, il sultano seppe approfittare, ritrattando, in parte, quanto convenuto nel corso dei precedenti abboccamenti. Nel corso dell’inverno, numerose ambascerie prepararono la firma del trattato, concluso a Giaffa il 18 febbraio del 1229 e la cui durata fu fissata in dieci anni, cinque mesi e quaranta giorni. L’accordo contemplava la restituzione di Gerusalemme ai cristiani, a eccezione del Haram al-Sharif – luogo sacro per i musulmani –, la possibilità di riedificarne le mura, il pieno possesso del contado circostante e la facoltà di ITALIANI ALLE CROCIATE
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La Cupola della Roccia nella zona di Gerusalemme Est, uno dei santuari piú venerati dai musulmani, edificato nel 691. Voluta dal califfo omayyade Abd al-Malik, è uno dei piú straordinari esempi di architettura islamica. Nel Cinquecento il sultano Solimano il Magnifico sostituí l’originaria decorazione a mosaico con le ceramiche policrome che oggi rivestono l’esterno del santuario.
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La crociata di Federico II
procedere alla ricostruzione di alcuni castelli. In cambio, l’imperatore doveva dissuadere i Franchi dal portare guerra nei suoi territori, prestandogli, se necessario, il proprio aiuto. Il 17 marzo del 1229, Federico II entrava dunque in Gerusalemme, ottenendo le chiavi della città dal qadi Shams al-Din. La Città Santa era deserta: il patriarca Geroldo aveva vietato di accompagnarlo, ritenendo scandaloso ch’egli scendesse a patti con i musulmani. Federico era seguito dalle truppe tedesche e siciliane, da alcuni baroni oltremarini e dai fidi cavalieri teutonici. Il giorno dopo, una domenica, si recò al Santo Sepolcro. Secondo la vulgata, l’imperatore avrebbe preso la corona tra le mani cingendosela sul capo. In realtà, pare che tale gesto non sia mai avvenuto e che, anzi, il nostro si affrettasse a ricercare la riconciliazione papale. Ermanno di Salza lesse ad alta voce, prima in tedesco e poi in francese, le dichiarazioni del sovrano, che passavano in rassegna gli eventi dell’ultimo decennio, a partire dal voto di Aquisgrana. Le colpe della sua ritardata partenza erano addossate a coloro che lo avevano mal consigliato e calunniato. Dopo qualche giorno – pare, per timore d’una congiura ai suoi danni orchestrata dai Templari –, l’imperatore abbandonava la città, portandosi a Giaffa. Di qui, il 1° maggio, partiva per l’Occidente.
Baroni in rivolta
La partenza fece precipitare gli eventi. I principali baroni di Terra Santa si opposero al controllo imperiale, dando avvio a un ampio scontro, che si trascinò a lungo. Le vicende sono note, anche perché narrate con dovizia di particolari da diversi osservatori; e, in particolare, da Filippo da Novara, un italiano emigrato a Cipro, fedelissimo della potente famiglia degli Ibelin. Per sopire la rivolta, Federico inviò nel Levante un nutrito gruppo di fanti e cavalieri al comando del maresciallo Riccardo Filangieri, il quale pose Beirut sotto assedio, occupò Sidone e Tiro e si portò ad Acri, dove ottenne dai baroni del regno la conferma della propria nomina a baiulo. Nel corso dell’assise, il maresciallo proclamò ufficialmente la confisca delle terre degli Ibelin, detenute, a suo dire, illegalmente. Il risultato fu il passaggio di gran parte dei baroni al partito avverso. A quanto pare, toccò a Baliano di Sidone, portavoce dei baroni, ricordare a Filangieri la particolare natura del regno di Gerusalemme, costituitosi – a suo dire – per libera associazione di crociati e pellegrini, che, in origine, avevano eletto un capo per essere
governati e avevano approvato una serie di leggi. La lotta, a ogni modo, aveva avuto inizio. Il 3 maggio del 1232, gli imperiali sbaragliarono le truppe baronali, guidate da Giovanni d’Ibelin, a Casal Imbert, nei pressi di Tiro. Su richiesta di Federico, Filangieri tentò, inoltre, di privare i Genovesi, che, a differenza dei Pisani, mostravano un’aperta ostilità nei suoi confronti, dei propri diritti di commercio. Questi ultimi risposero schierandosi col giovane sovrano cipriota, dal quale ottennero un importante privilegio in cambio dell’occupazione di Famagosta. Di lí a poco, Filangieri sbarcava sull’isola. Il 15 giugno del 1232, a Gride, nei pressi di Nicosia, le truppe baronali sconfissero l’esercito imperiale, costringendo Filangieri a ritirarsi nella vicina fortezza di Kyrinia, che sarebbe caduta dieci mesi dopo. Poco dopo, i baroni e il sovrano cipriota stipularono con i Genovesi una vera e propria alleanza difensiva e offensiva per i successivi cinque anni. La resa degli imperiali, nella Pasqua del 1233, pose momentaneamente termine al conflitto. Federico cercò un accomodamento, ma la situazione non migliorò. Nel 1238, Genovesi e Veneziani, rinnovando e ampliando trattati precedenti, conclusero una pace novennale in funzione anti-imperiale. Fino a quel momento, la città lagunare non aveva preso parte al conflitto, ma il nuovo bailo veneziano, Marsilio Zorzi, sbarcato a Tiro nel 1242, procedette a una verifica dei privilegi goduti dai propri concittadini, reclamandone il rispetto presso il rappresentante dell’imperatore, una mossa che gli imperiali interpretarono come un’aperta adesione al partito avverso. Il conflitto, dunque, si riaccese e in breve tempo Filangieri fu costretto ad abbandonare la regione. Federico – che, pure, tra il 1242 e il 1243, aveva trasferito al figlio Corrado l’autorità nominale sul regno gerosolimitano – inviò in Oriente Tommaso di Acerra, il quale, tuttavia, non poté far altro che installarsi a Tripoli senza alcun potere di fatto. L’assalto mongolo all’Europa orientale, l’avvento dei cavalieri khwarezmiani, il bando d’una nuova crociata anti-imperiale da parte del nuovo papa, Innocenzo IV, e la deposizione dell’imperatore contribuirono a distrarre l’attenzione. La lotta si trascinò sino alla morte del sovrano, nel 1250. Il regno di Gerusalemme continuò a soffrire della mancanza d’un sovrano residente, esposto al bello e al cattivo tempo dei baroni piú influenti, oltre che al potere crescente degli Ordini militari e delle comunità mercantili italiane, le quali, di lí a poco, avrebbero fatto precipitare l’intero Outremer nella guerra civile. ITALIANI ALLE CROCIATE
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Crociati
francesi e navi italiane
Alla metà del XIII secolo, la Chiesa trovò il suo campione in Luigi IX, il quale volle dare veste solenne ai suoi propositi, formulando il proprio voto di crociata. Il suo impegno ebbe tuttavia esiti alterni e, dopo essere stato macchiato dall’onta della prigionia, finí miseramente davanti al castello di Cartagine
N
el giugno del 1244, un nutrito gruppo di cavalieri turchi, provenienti dal Khwarizm, nell’attuale Uzbekistan, oltrepassò l’Eufrate, calando in Siria e devastando le campagne e i villaggi attorno a Damasco. Dopo aver razziato Tiberiade e Nablus, la turba puntò verso la costa; quindi, risalí alla volta di Gerusalemme. Il patriarca latino, Roberto di Nantes – giunto in Oltremare al principio della primavera, appena in tempo per recarsi in pellegrinaggio nella Città Santa –, i maestri del Tempio e dell’Ospedale, Armand de Périgord e Guillaume de Châteauneuf, e pochi altri baroni si adoperarono per rinforzare la guarnigione posta a difesa della cittadella. In molti, tuttavia, preferirono fuggire, abbandonando la città alla devastazione. L’11 luglio, i Khwarezmiani si riversarono all’interno delle mura, massacrando chiunque si trovasse sul loro cammino. Chiese e conventi
Miniatura raffigurante la partenza del re francese Luigi IX il Santo per la crociata. XV sec. Parigi, Musée du Louvre, Département des Arts Graphiques. Nel 1245 il sovrano, prese l’iniziativa e guidò una nuova spedizione militare in Terra Santa, in assenza di altri regnanti europei disponibili a sobbarcarsi l’impresa.
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Il voto di Luigi IX il Santo
«Soccorrici, o Dio della nostra salvezza, per la gloria del tuo nome, e liberaci, e perdona i nostri peccati, per amor del tuo nome. Perché direbbero le nazioni: “Dov’è l’Iddio loro?”. Fa che la vendetta del sangue sparso dei tuoi servitori sia nota fra le nazioni, dinanzi agli occhi nostri» (Sal 78, vv. 9-10) furono dati alle fiamme. Fu violata anche la chiesa del Santo Sepolcro: alcuni anziani sacerdoti furono barbaramente trucidati; le spoglie dei re di Gerusalemme disseppellite e disperse al vento. Per qualche tempo, la guarnigione posta a difesa della cittadella riuscí a sostenere l’assalto, ma la speranza di ricevere aiuti non durò molto. Accorsero a Gerusalemme soltanto pochi contingenti musulmani, ch’ebbero buon gioco nel costringere i Turchi a offrire un salvacondotto ai superstiti in cambio della resa. Il 23 agosto, circa 6000 persone – uomini, donne e bambini – abbandonarono la Città Santa.
La disfatta di Harbiya
I piú valenti cavalieri d’Outremer si radunarono in fretta ad Acri, raggiunti poco dopo dalle truppe degli alleati siriani. Il 17 ottobre, nei pressi di Harbiya, a nord-est di Gaza – la Forbie dei Franchi –, ebbe luogo una delle piú importanti battaglie che Outremer avesse mai conosciuto. Si trattò d’uno scontro campale, che contravveniva alla tradizionale strategia franca d’evitare i grandi eserciti in luoghi aperti a causa della difficoltà di rimpiazzare facilmente le perdite d’uomini e animali. In poche ore, l’esercito franco-siriano fu completamente annientato. I baroni d’Oltremare chiesero aiuto all’Occidente, anche se la situazione di tensione tra papato e impero non lasciava ben sperare. Chi avrebbe recato su di sé l’onere della riconquista? Con Federico II fuori gioco per via dei suoi rapporti tutt’altro che cordiali col papa, la domanda non era mal posta. D’altra parte, poche erano le teste coronate a disposizione: Enrico III d’Inghilterra si trovava invischiato nella difesa di ciò che rimaneva del dominio inglese in terra di Francia, mentre i regnanti iberici erano im(segue a p. 100) 96
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Miniatura raffigurante tre eventi relativi alla prima crociata di Luigi IX. Dall’alto, in senso orario: papa Innocenzo IV presenzia il consiglio ecumenico di Lione nel 1246; un legato papale restituisce la croce al sovrano nel 1248; una fase della battaglia di Forbie dell’ottobre 1244. Da un’edizione de Le Miroir Historial di Vincent de Beauvais. XV sec. Chantilly, Musée Condé.
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Il voto di Luigi IX il Santo
San Luigi riceve a Damietta il patriarca di Gerusalemme, 1249, olio su tela di Oscar Gué. 1846. Versailles, Musée national des châteaux de Versailles et de Trianon.
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INNOCENZO IV E I MONGOLI I Mongoli erano penetrati in Europa verso la fine del 1240, preceduti da una fama terrificante. Dopo aver messo a ferro e fuoco Cracovia, Esztergom e Pest, la loro marcia s’era arrestata sull’Adriatico: Spalato e Cattaro erano state saccheggiate; il re ungherese Bela IV era stato costretto a rifugiarsi su un’isola. Dopodiché, richiamati dalla notizia della morte del khan Ogedei, s’erano ritirati, facendo gridare l’Occidente al miracolo. L’Europa intera si trovò a riflettere sull’accaduto: occorrevano informazioni sul nemico; era necessario negoziare una tregua, avviare relazioni diplomatiche e apprestarsi a evangelizzare quelle popolazioni. Salito al soglio papale nell’estate del 1243, dopo due lunghi anni di vacanza, Innocenzo IV si trovò nella necessità di prendere importanti decisioni. A distanza di un mese dall’elezione scrisse a Bertoldo, patriarca di Aquileia, per esortarlo ad adoperarsi affinché i fedeli «in Theutonia constitutos» brandissero le armi contro le orde asiatiche, accordando loro l’indulgenza concessa solitamente ai crociati in Terra Santa. Al contempo, Innocenzo patrocinò però una serie di missioni, tra cui si ricorda, in particolare, quella del francescano Giovanni, originario di Pian del Carpine – l’odierna Magione, nei pressi di Perugia –, autore di una relazione nota come Historia Mongalorum. Giovanni era stato incaricato di consegnare ai Mongoli la lettera Cum non solum homines, data a Lione il 13 marzo del 1245, che conteneva l’esortazione a interrompere la loro avanzata verso occidente e a concludere una pace; al contempo, doveva recapitare ai patriarchi, ai vescovi e agli arcivescovi delle chiese d’Oriente la lettera Cum simus super, datata al 25 marzo, per invitarli all’unità con la Chiesa romana in vista del concilio lionese. Partito da Lione in aprile, assieme a Stefano di Boemia, Giovanni attraversò la Slesia, incontrandosi con un altro frate, Benedetto di Polonia. I tre attraversarono Cracovia e proseguirono in direzione di Kiev, dove Stefano, ammalatosi, dovette fermarsi; gli altri due raggiunsero Sarai sul Volga – nei pressi all’odierna Suratov –, dove si trovava l’accampamento di Batu, khan dell’Orda d’Oro, per ripartire pochi giorni dopo alla volta di Sira Orda, nel cuore della Mongolia, dove giunsero il 22 luglio del 1246, in tempo per assistere alla conclusione del grande quriltai, l’assemblea che sancí l’insediamento del nuovo khan, Güyük. Dopo circa quattro mesi, ripresero la via del ritorno, recando la risposta negativa del khan, che ingiungeva al papa e ai principi della cristianità di sottomettersi. Sembrava dunque lontana la possibilità d’un’alleanza tra le parti, fondata sulle notizie, circolanti dagli anni Sessanta del XII secolo relative all’esistenza d’un misterioso «rex et sacerdos» – il famoso «Prete Gianni» –, pronto a venire in aiuto dell’Occidente cristiano; di fatto, mediata da un numero crescente di mercanti e interpreti italiani, tra cui si ricordano, in particolare, il pisano Zolo Bofeti di Anastasio e il genovese Buscarello Ghisolfi, vissuti alla fine del secolo.
In alto la lettera inviata da Guyuk a Innocenzo IV, nella quale il khan ingiungeva al papa e ai principi della cristianità di sottomettersi. 1246. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.
Qui sopra capolettera miniato con il ritratto di papa Innocenzo IV (al secolo Sinibaldo Fieschi). Oxford, Bodleian Library.
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mersi nella loro reconquista. Non restava che sperare nel pio e zelante Luigi IX, re di Francia, il quale, peraltro, aveva preso la croce verso la fine del 1244, nel corso d’una grave malattia, e che mostrava di volersi impegnare in prima persona per la buona riuscita dell’impresa. Bandita nel corso del concilio di Lione del 1245 da papa Innocenzo IV, la nuova crociata sarebbe stata guidata e sostenuta quasi per intero dal sovrano francese; soprattutto, avrebbe avuto luogo senza che fossero coinvolti i legittimi sovrani di Gerusalemme: gli Hohenstaufen. Come non dar conto, dunque, alla notizia, riportata dal cronista Ibn Wasil, secondo il quale lo Svevo – deposto dal papa dal trono imperiale; il che comportava lo scioglimento di tutti i suoi sudditi da ogni obbligo di fedeltà – avrebbe inviato un proprio messo al sultano per avvertirlo dell’imminente spedizione? Normale amministrazione per un uomo abituato da decenni a essere tratta100
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A sinistra pagina miniata con scene della prima crociata di Luigi IX, da un’edizione del Livre des faiz monseigneur saint Loys. 1482 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Dopo la sconfitta patita a Mansura, le truppe di Luigi vengono massacrate e lo stesso re viene fatto prigioniero.
to come un anticristo. Com’era accaduto trent’anni prima, la crociata avrebbe avuto come obiettivo primario la conquista dell’Egitto. Il piano d’attacco prevedeva, infatti, l’occupazione del Paese (o, almeno, della regione del Delta) in via permanente o, meglio, come deterrente per imporre al sultano uno scambio ragionevole.
Una nuova crociata
A partire dal 1246, il sovrano strinse accordi con i Genovesi per l’armamento e il nolo di navi e galee, che avrebbero dovuto essere consegnate ad Aigues-Mortes, allora un piccolo porto situato nel delta del Rodano, scomodo e soggetto a insabbiamento, ma parte del demanio regio; in questo modo, Luigi si garantí un controllo maggiore sull’organizzazione. Per i Genovesi, a ogni modo, la nuova spedizione fu un ottimo affare: sia dal punto di vista della produzione cantieristica, sia per le lucrose ope-
razioni di credito effettuate in favore della corona. Il sovrano scelse a Genova anche i suoi ammiragli: Iacopo da Levanto e Ugo Lercari, distintisi nel decennio precedente nel contrasto alla marina pisano-imperiale. L’operazione mise in moto un’enorme quantità di denaro. Gli ammiragli stessi risultano comproprietari di alcune navi poste agli stipendi della Corona, oltre che legati da importanti interessi economici ad altri armatori. La partenza della flotta, originariamente prevista per il 15 maggio del 1248, subí uno slittamento in avanti: pochi giorni prima, il re inviava una lettera ai due ammiragli a mezzo degli ospitalieri Ottone di Gavi e André de Gignac, chiedendo l’armamento di ulteriori tre navi. La richiesta fu accolta prontamente. Tra il 20 maggio e il 2 giugno, Ugo Lercari e Iacopo da Levanto conclusero alcuni contratti di nolo per le naves Santo Spirito, di proprietà dei genovesi
Guglielmo Ceriolo, Rinaldo Boccanegra, Iacopo Diotisalvi e Giovanni Bancerio; San Francesco, appartenente a Guglielmo di Pagano, Ughetto di Figallo e Guglielmo Ricio; Paradiso, in possesso di Nicola Doria. Quest’ultima – che sarebbe stata l’ammiraglia –, al prezzo, assai ingente, di 1259 marchi d’argento, comprensivo dell’equipaggio, il cui numero ammontava a sessanta marinai. La flotta salpò da Aigues-Mortes verso la fine d’agosto. Dopo aver svernato a Cipro, dov’erano state preventivamente accumulate ingenti scorte di cereali e vino, l’esercito crociato mosse alla volta di Damietta, raggiunta al principio di giugno. Il grosso delle truppe sultaniali era accampato a sud della città, al comando dell’emiro Fakhr al-Din, e cioè di colui che, vent’anni prima, aveva condotto i negoziati tra al-Kamil e Federico II. Probabilmente, non ci si aspettava un attacco diretto alla città. Venuta sera, Fakhr
Acri, versione colorata di una litografia di David Roberts originariamente pubblicata in The Holy Land, Syria, Idumea, Arabia, Egypt & Nubia di George Croly. 1839.
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al-Din ordinò, infatti, di distruggere il ponte che congiungeva il proprio accampamento all’abitato, lasciando ai Franchi il dominio completo della riva occidentale. Temendo di dover sopportare un lungo assedio, la popolazione di Damietta fuoriuscí dalla città, seguita (se non preceduta) dalla piccola guarnigione posta a sua difesa. Poco dopo, lo stendardo di san Dionigi sventolava sulle mura. L’inaspettata piega presa degli eventi imbaldanzí un po’ tutti, non mancando, tuttavia, di suscitare piú d’una perplessità tra i quadri di comando. Come si sarebbe proceduto, ora che la città era in mani cristiane? Sarebbe stato meglio muovere le truppe verso il Cairo, passando attraverso al-Mansura, od occupare prima il ricco porto di Alessandria? Dopo attente consultazioni si optò per la prima ipotesi; del resto – come ebbe ad affermare Roberto d’Artois, uno dei fratelli del re – «chi volesse uccidere un serpente, doveva prima schiacciargli la testa».
La prudenza del re
Tuttavia, memore di quanto era accaduto tra il 1218 e il 1219, il sovrano francese decise d’attendere la fine della stagione della piena, in modo In alto veduta del porto di Acri/Akko (San Giovanni d’Acri) che si affaccia sulla costa meridionale di Israele. Nel Duecento, la città, uno dei principali terminali occidentali delle piste carovaniere che si inoltravano nell’Asia interna, fu al centro di violente contese tra gli Italiani che vi abitavano. A sinistra mappa di Acri al momento della conquista elaborata sulla base di un’immagine del genovese Pietro Vesconte contenuta nel Liber secretori fidelium crucis di Marin Sanudo il Vecchio. 1320 circa. Londra, British Library. 102
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da evitare che l’intera azione finisse letteralmente impantanata. D’altronde, la possibilità di giungere, fors’anche di conquistare il Cairo era reale: il sultano al-Salih, salito al potere nel 1240, era malato; troppo debole per seguitare a comandare il proprio esercito. Non a caso, sarebbe morto di lí a poco, nel novembre del 1249. L’esercito crociato si mise in marcia alla fine del mese, seguendo il corso del Bahr al-Saghir, il principale canale nilotico, dopo aver atteso il ritiro della piena. Si trattò d’una marcia faticosa, aggravata dalla scarsa conoscenza della complessa geografia del luogo. Un mese dopo, i crociati si attestarono nei pressi di al-Mansura. L’8 febbraio, Roberto d’Artois guidò un’avanguardia contro il campo saraceno. Vedendo giungere i crociati, molti abitanti decisero di lasciare la città, fuggendo in direzione del Cairo. Senza attendere rinforzi, l’Artois guidò i propri cavalieri all’interno delle mura, scontentando i Templari, che tradizionalmente costituivano l’avanguardia dell’esercito crociato, e che non poterono fare a meno di unirsi alla carica. Poco dopo, le porte della città si chiusero alle loro spalle, e il tutto terminò in un bagno di sangue. La difesa fu sostenuta da una parte dei Mamelucchi di al-Salih, appartenenti al reggimento «Bahri», cosí chiamati perché acquartierati sul Bahr al-Nil, il Nilo, o, meglio,
GLI ITALIANI AD ACRI Templari
Ospitalieri Por rta t dii S. Ant Antoni oni no Tor orre re de della con co tes t sa di d Blo Blois is Torre Tor r deg egli l Ing gles esii T re Tor ed dell re Ug de Ugo
Montmusard
Castello
To re Malede Tor etta ta Ospitalieri
Patriarcato
Tor T orre r di S. Nicola a Tor orre r del Legato re Tor To T o re dei d Tedeschi ch
Qua arti r ere deii Ge d G novesi
Quartiere e dei Pisanii
To orre del or de re En E rico o II II
Cavalieri Teutonici
Q dei uart Ve iere nez ian i
Secondo il fiorentino Francesco Balducci Pegolotti, vissuto nella prima metà del Trecento, quando ancora «era a mano dei cristiani» – dunque prima del 1291, allorché i Mamelucchi ne violeranno le difese –, gli abitanti di Acri avevano allacciato relazioni con Salonicco, Sivas, Laiazzo, Chiarenza, Ancona, Messina, Palermo, Tunisi, le Puglie, Napoli, Venezia, Firenze, Pisa, Genova, Marsiglia, Nîmes, Montpellier, la Champagne, Famagosta, Aleppo, Laodicea, Tripoli, Damasco e Antiochia. Si può ben capire, dunque, perché la città si trovasse progressivamente al centro d’un convulso gioco di potere: d’una sorta di Great Game mediterraneo, partecipato da attori diversi, tesi a imporvi la propria supremazia. Gli Italiani vi erano presenti dalla prima metà del XII secolo. Nel corso del tempo, i loro insediamenti – veri e propri quartieri, sottoposti alla giurisdizione di un console o di un baiulo – s’erano accresciuti. La loro, anzi, divenne, presto, una presenza strabordante. Ciascun insediamento conosceva una propria amministrazione, dipendente dalla madrepatria. Nel 1249, mentre Luigi IX si
T re del Tor d Pa P triarc rca ca
Porto
Cittadella dei Templari
trovava in Egitto, le autorità genovesi e veneziane di Acri si preoccuparono di redigere alcuni inventari di beni immobili, con lo scopo di stabilire con esattezza il complesso delle rendite degli edifici di proprietà pubblica concessi in locazione. Si tratta di documenti di grande interesse,
sull’isola nilotica di Rodah, al Cairo. Si trattava d’un corpo scelto, fortemente specializzato, compreso tra gli 800 e i 1000 uomini, composto prevalentemente da Turchi del Kipçak. Il cronista arabo Ibn Wasil, che nel corso dell’attacco si trovava al Cairo, non esita a definirli «i Templari dell’Islam». In quello stesso 1250, i Mamelucchi rovesciarono il debole governo sultaniale, approfittando della successione e prendendo il potere. La strage di al-Mansura suscitò una forte apprensione. Per i crociati, la situazione era di totale stallo. I principali canali nilotici erano bloccati dalle imbarcazioni saracene, sí che la flotta di Luigi trovò immense difficoltà nel pro-
che, uniti ai dati forniti dall’indagine archeologica e alle rappresentazioni della città inserite nelle opere di Marin Sanudo il Vecchio e di Paolino da Venezia – risalenti, però, al principio del Trecento –, concorrono a fornire un’immagine concreta dell’assetto cittadino.
cedere oltre. La fame e le epidemie fecero il resto. Ben presto si decise di fare ritorno verso nord. Il sovrano tentò di negoziare una tregua, proponendo di scambiare Damietta con Gerusalemme, ma la richiesta fu rifiutata dai dignitari cairoti, a loro volta in attesa di comprendere quale piega avrebbero preso gli eventi. Tanto valeva darsi alla fuga. Alcuni baroni francesi suggerirono al sovrano d’imbarcarsi, cosí da mettersi in salvo piú agevolmente. Questi, tuttavia, benché colpito da una grave forma di dissenteria, rifiutò d’abbandonare i propri uomini. Ventura volle che, poco dopo, fosse catturato assieme a gran parte dell’esercito: 12 000 uomini circa, stando alle fonti.
Pianta di San Giovanni d’Acri con i principali monumenti della città.
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Per la prima volta, un sovrano occidentale conobbe le carceri egiziane, anche se – va detto – Luigi fu trattato con l’onore che spettava al proprio rango. Secondo il biografo reale, Jean de Joinville – il quale, tuttavia, scrive al principio del Trecento – sarebbero stati i Genovesi a portare in salvo il sovrano, non senza aver prima partecipato, assieme ai Templari, al pagamento del riscatto. Doveva trattarsi di una somma consistente: basti pensare che, tra l’11 e il 15 luglio del 1253, un gruppo di mercanti genovesi registrò presso il medesimo notaio mandati di pagamento per l’ammontare di circa 70 000 bisanti d’oro; la regina madre, Bianca di Castiglia, reggente del regno, e il tesoriere della domus templare di Parigi, avrebbero dovuto occuparsi dei risarcimenti. Un ruolo non indifferente fu svolto da alcuni banchi cittadini, appartenenti, in particolare, a Piacentini – piuttosto noto, per esempio, è il banco di Guglielmo Leccacorvo –, che si adopereranno per riscuotere le lettere di cambio rilasciate dal Luigi IX. Tutto ciò ebbe un effetto dirompente sull’andamento dell’economia genovese; il ritardo nel risarcimento dei prestiti favorirà, infatti, l’accrescersi del malessere popolare; in particolare, in seno a quel ceto artigiano e mercantile trovatosi improvvisamente senza lavoro dopo almeno un triennio di febbrile produzione cantieristica e di occupazione sulle navi. Una situazione capace di influire sull’avvento, nel 1257, del primo capitanato popolare genovese. Il 6 maggio del 1250, Luigi IX fu liberato. La crociata si concludeva, dunque, con un nulla di fatto. Il sovrano preferí fare vela verso Acri, dove si trattenne a lungo, comportandosi da gran signore, vista l’incertezza relativa all’arrivo o meno del legittimo erede al trono: il ventiduenne Corrado di Svevia, figlio di Federico. Nel corso della sua permanenza finanziò un ampio programma edilizio, spendendo una cifra ingente per rinforzare, oltre alle difese acritane, i castelli di Cesarea, Haifa, Giaffa e Sidone. La sua partenza, il 24 aprile del 1254, fece piombare il regno nel disordine. La situazione non era affatto facile: il patriarca di Gerusalemme, Roberto di Nantes, sarebbe morto in giugno, presto sostituito da Jacques Pantaléon – e, cioè, dal futuro papa Urbano IV –, il quale, tuttavia, non avrebbe messo piede in Outremer prima del giugno del 1256; sia il regno di Gerusalemme, sia quello di Cipro, erano governati da reggenti. Tale situazione, unita al vuoto di potere derivante dalla morte di Corrado, nel 1254, e dalla minorità del figlio Corradino, le104
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gittimo erede della corona gerosolimitana, fu colta al volo dalle comunità italiane di Acri: quale migliore occasione per prendere il sopravvento sulle odiate consorelle?
Terminali delle carovaniere
Da tempo, Genovesi, Veneziani e Pisani erano andati stabilendo il proprio predominio commerciale nel Mediterraneo sud-orientale, moltiplicando i propri insediamenti sui litorali piú favorevoli alla mercatura. Benché la Terra Santa non producesse beni sufficienti per soddisfare le richieste occidentali, città costiere come Acri, Tiro, Beirut o, piú a nord, Laiazzo erano divenute i principali terminali occidentali delle piste carovaniere che si inoltravano nell’Asia interna. In diretto rapporto con l’Egitto – dunque col Mar Rosso –, connessi con l’impero bizantino – dunque col Mar Nero –, tali porti rappresentavano un’ottima base di partenza per acquisire mercati e monopoli. Acri si trovò ben presto al centro d’un Great Game mediterraneo, capace di frantumare gli equilibri conquistati a fatica. I primi scontri avevano avuto luogo al principio del Duecento. Nel 1222, i Pisani avevano appiccato il fuoco al quartiere genovese, provocando una dura reazione. Le due parti, su fronti contrapposti anche in Occidente, schierate com’erano l’una con l’imperatore, l’altra col papato (anche se – va
Le mura duecentesche che cingono la cittadella di Aigues-Mortes, in Francia, nella regione dell’Occitania, la cui costruzione iniziò nel periodo di Luigi IX il Santo e venne proseguita da Filippo il Bello.
detto – le stesse città risultavano spaccate al loro interno), erano tornate a scontrarsi nel 1249: per tre settimane, le vie di Acri avevano conosciuto una violenta guerriglia e il fragore delle macchine da guerra; poco dopo, l’assassinio d’un Genovese da parte di un Veneziano aveva dato inizio a nuovi tafferugli, che avevano avuto l’effetto di ritardare il rinnovo del trattato di pace stipulato tra Genova e Venezia nel 1238 in funzione anti-federiciana. Verso la fine del 1256 (o al principio del 1257), le tensioni continuamente risorgenti sfociarono in un conflitto vero e proprio, detto «di San Saba», che, oltre a segnare l’inizio d’oltre un quarantennio di ostilità quasi ininterrotte tra Genova, Pisa e Venezia, coinvolse gran parte dell’élite di Outremer in una nuova guerra civile. Alla radice di tale stato di tensione v’erano elementi quali la salvaguardia del commercio, sovente in un’ottica monopolistica; dell’approvvigionamento annonario, necessario per tenere a bada le masse impoverite; dei dazi sulle merci ricavati dai porti sottoposti al proprio controllo, essenziali per rimpolpare le casse comunali.
La guerra di San Saba
Nell’immediato, tuttavia, si trattò soprattutto d’una questione di confini: nell’area portuale sorgeva un edificio di proprietà del monastero greco-ortodosso di S. Saba, su cui pare fossero
andate concentrandosi le attenzioni collettive. O, almeno, questo è quanto suggerito da alcune lettere papali oltre che da certe cronache posteriori. Gli Annales genovesi, invece, redatti a ridosso degli eventi, narrano di come un Genovese avesse recato nel porto di Acri un’imbarcazione rubata ai Veneziani. Questi ultimi, invece di ricorrere al diritto ordinario, che prevedeva un arbitrato tra le parti, imbracciarono le armi assaltandone il quartiere. Comunque fossero andate le cose, il conflitto s’allargò velocemente alle principali autorità di Terra Santa. L’intromissione nella faccenda di Filippo di Montfort, signore di Tiro, che da tempo contestava ai Veneziani il godimento d’alcuni diritti nei propri domini, convinse il bailo del regno, Giovanni di Arsuf, e il conte di Giaffa, Giovanni d’Ibelin, a prendere le parti di Venezia, temendo, forse, ch’egli volesse emanciparsi dal controllo regio. Con loro si schierarono i Pisani – nonostante le fonti parlino d’un’iniziale alleanza con i Genovesi: del tutto anomala, giacché tra le due parti era in corso un conflitto in Sardegna –, alcune confraternite religiose, i Templari, i Teutonici e la comunità provenzale. I Genovesi, invece, ottennero il supporto degli Ospitalieri, degli Anconetani, della comunità melkita e di tutti quei baroni che mal sopportavano la preponderanza degli Ibelin, tra cui sono da annoverare gli Embriaci ITALIANI ALLE CROCIATE
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GLI ITALIANI ALLE CROCIATE
Il voto di Luigi IX il Santo
di Jebail, di origini genovesi, il cui schierarsi con i propri antichi concittadini avrebbe finito con lo scontentare il loro legittimo signore, Boemondo VI Antiochia. Intanto, le rispettive madrepatrie si muovevano velocemente. Il governo veneziano stabilí che la tradizionale carovana primaverile diretta nel Levante fosse accompagnata da una flotta di quattordici galee, al comando di Lorenzo Tiepolo. Una volta giunto ad Acri, questi riuscí a spezzare la catena posta a guardia del porto e a incendiare alcune imbarcazioni. La casa del monastero di S. Saba fu occupata e molti edifici dati alle fiamme. Il sopraggiungere d’una flotta genovese, al comando di Paschetto Mallone, 106
ITALIANI ALLE CROCIATE
parve capovolgere la situazione. Tuttavia, l’ammiraglio preferí fare rotta verso Tiro; seguito a distanza dai Veneziani, desiderosi di dare battaglia. Alla vista della flotta nemica, i Genovesi corsero loro incontro disordinatamente, subendo una pesante sconfitta. Nel frattempo, dall’alto delle proprie torri, Genovesi, Pisani e Veneziani si lanciavano oggetti d’ogni tipo. Un nuovo scontro navale ebbe luogo l’anno successivo. Genova allestí una flotta, forte d’una quarantina di galee, ponendola sotto il comando di Rosso della Turca. Venezia, dal canto suo, inviò ad Acri altre quindici galee e dieci taride al comando di Andrea Zeno e Paolo Faliero. La strategia genovese prevede-
va d’apportare un duplice attacco alla città da mare e da terra, sfruttando le forze del Monfort e degli Ospitalieri. Il 24 giugno del 1258, la flotta – che ammontava complessivamente a 48 galee e 4 navi – si presentò, dunque, al largo di Acri. Con tutta probabilità, se i Genovesi avessero attaccato immediatamente, avrebbero riportato un discreto successo: Veneziani e Pisani, infatti, pur potendo contare parimenti su una quarantina di galee, esitavano a montarvi sopra per timore d’essere attaccati alle spalle. La situazione fu risolta dai Templari, che accettarono di presidiare i quartieri interni, permettendo agli alleati di prendere il mare assieme a una buona fetta della popolazione, convinta dalla promessa d’un ricco soldo. La battaglia fu lunga e sanguinosa. I Genovesi ebbero la peggio: persero quasi metà della flotta e 1700 uomini circa fra morti e prigionieri; i loro beni, inoltre, furono requisiti e le loro fortificazioni demolite. I Veneziani ne adoperarono le pietre come materiale da costruzione, riservando le piú belle all’erezione di trofei. Soltanto l’annuncio della conclusione d’un compromesso, per volere di papa Alessandro IV, pose fine allo scontro. La contromossa genovese non si fece attendere: la stipula del trattato di Ninfeo, nel 1261, con Michele VIII Paleologo e la repentina conquista di Costantinopoli, strappata ai Veneziani, spostarono il conflitto nelle acque della Romània bizantina: porta d’accesso ai lidi pontici, meta di nuovi commerci e nuovi scontri. La vittoria contribuí a rivoluzionare l’intera carta politica del Mediterraneo orientale.
Tunisi, 1270
Illustrazione raffigurante il sovrano Luigi IX che dà l’assalto a Cartagine. Di lí a poco, il 25 agosto 1270, il sovrano morí per un attacco di dissenteria.
Condotto perlopiú con i mezzi della guerra di corsa, il conflitto tra Genova e Venezia occupò buona parte del decennio successivo, sino a essere interrotto – ancorché temporaneamente – per volere di Luigi IX, deciso a portare a termine quanto non gli era riuscito alla metà del secolo. Nel marzo del 1267, il sovrano prese la croce per la seconda volta. Ancora una volta, non possedendo un numero di legni sufficiente per trasbordare il proprio esercito di là del mare, dovette pensare a noleggiarne. Si rivolse, dunque, a papa Clemente IV, che fece intravvedere a Genovesi e Veneziani la possibilità d’una scomunica se non ci si fosse impegnati per una pace o, quantomeno, per una tregua. La crociata rappresentò un nuovo motivo di guadagno per i Genovesi, tanto piú che i Veneziani, forse per non turbare le proprie relazioni con l’Egitto, finirono per rifiutare le offerte francesi. I primi accordi col sovrano transalpino in
relazione alla nuova spedizione risalgono all’ottobre del 1268. Precise disposizioni sugli armamenti e sull’arruolamento degli equipaggi furono recate a Genova da un’ambasciata. Il regime in carica, retto da un podestà, ma controllato, di fatto, dalla fazione nobiliare guelfa, s’impegnò a costruire due navi per il trasporto dei crociati del re entro il 1° aprile del 1270, per la somma di 14 000 lire tornesi, e a fornirne altre a nolo. Analoghi contratti furono stipulati con diversi cittadini, membri delle famiglie piú in vista, le cui navi passarono con tutta probabilità in proprietà di Luigi IX; cosí come quelle equipaggiate dal comune, che avrebbero dovuto trasportare ciurme genovesi. Il pagamento d’una parte della somma rinfrancò gli animi, viste le inadempienze e le lungaggini che avevano interessato la spedizione precedente. Secondo gli annali cittadini, la flotta francese ammontava complessivamente a 55 navi, alle quali si aggiungevano, però, diversi legni da trasporto e le due navi destinate al sovrano. La partenza fu fissata per il mese di maggio del 1270 da Aigues-Mortes. Questa volta furono i Genovesi a presentarsi in ritardo, suscitando il malcontento generale, sí che la flotta poté prendere il largo non prima del 2 luglio successivo. Prima di fare scalo a Cagliari, luogo di raduno di tutte le imbarcazioni, sulla spedizione s’abbatté una tempesta. Secondo Guglielmo di Nangis, la nave di Luigi – la Paradisus – avrebbe perso la rotta, ritrovata grazie all’utilizzo d’una carta nautica da parte dei marinai genovesi (si tratta, in effetti, della prima menzione d’uno strumento del genere). Una volta gettata l’àncora, il sovrano rivelò i suoi piani: l’esercito crociato avrebbe attaccato Tunisi, cosí da trascorrervi l’inverno, prima di far vela verso l’Egitto. Ciò provocò le proteste dei Genovesi, che con quella piazza commerciavano da tempo. Non a caso, quando i «crucesignati» giunsero davanti alla città, l’emiro Abu ‘Abd Allah al-Mustansir bi-llah fece imprigionare tutti i Genovesi presenti; secondo gli Annales cittadini, piú per proteggerli dal furore della folla che per intenzioni ostili nei loro confronti. I nuovi arrivati, a ogni modo, assaltarono il castello di Cartagine, il cui possesso era necessario per garantirsi l’approvvigionamento idrico. Tuttavia, non ci volle molto perché le condizioni igieniche del campo crociato si facessero precarie: lo stesso Luigi, colto da dissenteria, morí il 25 agosto 1270. L’ultima, grande impresa crociata del secolo volta esplicitamente al recupero di Gerusalemme aveva termine miseramente. ITALIANI ALLE CROCIATE
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ITALIANI ALLE CROCIATE
Terra Santa, addio
Il 1291 fu un anno nero per le forze della cristianità: il 18 maggio, infatti, dopo un sanguinoso assedio, Acri fu presa dal sultano mamelucco al-Ashraf Halil e la sua caduta segnò la fine della presenza crociata nel Levante
U
na secolare deformazione prospettica ci ha abituato a guardare a Outremer da un’ottica prevalentemente occidentale. In realtà, gli Stati crociati rappresentavano soltanto un tassello del complesso mondo vicinoorientale, che vedeva protagoniste potenze di ben altro peso: da un lato, l’Egitto, strappato agli Ayyubidi nel 1250 dalla casta militare mamelucca; dall’altro, i Mongoli dell’ilkhanato di Persia, assestatisi tra Maragheh e Tabriz, nell’odierno Iran nord-occidentale. Dalla fine degli anni Cinquanta del Duecento, gli interessi di entrambe le potenze erano andati convogliandosi sulla costa siro-palestinese. Per i Mamelucchi, il territorio siriano fungeva, in certo qual modo, da «stato-cuscinetto», funzionale ad attutire l’avanzata dei popoli delle steppe; gli Ilkhanidi, invece, vi scorgevano, oltre che un potenziale bacino di raccolta di tributi, un comodo corridoio attraverso il quale raggiungere il Nilo e le sue ricchezze. Va dunque situata in questo contesto la progressiva erosione dei domini di Terra Santa, conclusasi nel 1291 con la caduta di Acri. I due colossi erano giunti allo scontro, una prima volta, il 3 settembre del 1260, nei pressi di ‘Ayn Jalut – «le sorgenti di Golia» –, a sud-est della città; quindi, il 20 ottobre del 1281, alle porte di Homs. In entrambi i casi, i Mamelucchi avevano dimostrato la propria superiorità. Il nuovo sultano, Qalawun, si trovò dunque ad avere Guglielmo di Clermont difende le mura di Tolemaide. 1291, olio su tela di Dominique Papety, 1845. Versailles, Musée national des châteaux de Versailles et de Trianon. Tolemaide è l’antico nome di Acri, oggi Akko, in Israele.
mano libera nei confronti dei Franchi, affrettatisi a scendere a patti. Il 3 giugno del 1283, stipulò una tregua di dieci anni, dieci mesi, dieci giorni e dieci ore con le autorità di Acri, Sidone e Chastel Pelerin. L’accordo escludeva diverse località, tra cui Tiro, Beirut, Tripoli e Margat, nei confronti delle quali si trovò ad avere mano libera: Margat cadde nel 1285, seguita da Meraclea e, due anni dopo, da Latakia; nel 1289 fu la volta di Tripoli, assediata duramente per quarantasette giorni, il cui crollo destò, finalmente, i timori dell’Occidente.
Il papa vince la riluttanza di Venezia
Il nuovo papa, Niccolò IV – il frate minore Girolamo d’Ascoli, eletto nel febbraio del 1288 –, dovette fronteggiare una difficile congiuntura. La guerra del Vespro, che contrapponeva Angioini e Aragonesi per il controllo della Sicilia, trascinandosi ormai da circa sei anni, drenava risorse considerevoli, parte delle quali originariamente destinate al recupero della Terra Santa. Per tamponare la situazione, Niccolò ordinò di predicare la crociata lungo l’Adriatico centro-settentrionale, cosí da ottenere una veloce adesione popolare; mirando, altresí, al sostegno navale di Venezia, benché i rapporti commerciali tra quest’ultima e l’Egitto fossero ben noti. Il governo ducale si risolse a fornire una ventina di navi – rigorosamente a spese del papato –, sulle quali montarono tra i 1500 e i 3500 «crucesignati», la maggior parte – per citare un cronista bolognese – provenienti «de Lombardia, de Romagna, della Marcha d’Anchona e della Marcha Trivisana e de Toscana e de Bologna e de tuta Italia». Il 5 gennaio del 1290, il papa emanò, inoltre, un bando generale di crociata, rivolto, in particolare, ai sovrani di Fran-
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GLI ITALIANI ALLE CROCIATE
La crisi del regno latino
«Giunga dinanzi a te il gemito dei prigionieri; secondo la potenza del tuo braccio, scampa quelli che sono condannati a morte. E rendi ai nostri vicini a sette doppi in seno il vituperio che t’hanno fatto, o Signore!» (Sal 78, v. 11)
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Aleppo, Homs. Una panoramica del Crac des Chevaliers, la fortezza musulmana, entrata in possesso degli Ospitalieri, che costituiva la principale difesa della contea di Tripoli. XII-XIII sec. La foto è stata scattata prima dello scoppio della guerra civile in Siria. Purtroppo si ignorano quali siano le condizioni attuali del complesso.
cia e Inghilterra, che risposero procrastinando un eventuale intervento al 1293. La flotta veneziana salpò dalla Laguna al principio del 1290. L’uomo di Niccolò era il neoeletto patriarca di Gerusalemme, Nicola di Hanapes, che assommava al contempo la carica di vescovo di Acri e quella di legato transmarino. Questi, tuttavia, non riuscí a evitare che alcuni crucesignati – perlopiú contadini o nullatenenti, senza alcuna cognizione della società oltremarina – compissero azioni a dir poco sconsiderate. Tra l’aprile e l’agosto successivo si verificarono, infatti, alcuni incidenti che fornirono a Qalawun il pretesto per procedere all’assedio.
Quelle barbe fatali...
Secondo la Cronaca del Templare di Tiro, redatta da un anonimo che visse quegli eventi in prima persona – in realtà, non un Templare, ma un membro della piccola nobiltà oltremarina, entrato a far parte, almeno dal 1285, della cancelleria del Tempio di Acri come traduttore dall’arabo –, «mentre questa gente si trovava ad Acri, la tregua che il re aveva fatto con il sultano reggeva bene tra le due parti, e i poveri contadini saraceni venivano ad Acri e portavano a vendere i loro beni, come erano abituati a fare. Cosí accadde un giorno, a opera del nemico d’inferno, (…) che questi crociati, che erano venuti per fare del bene e per la loro anima in soccorso della città di Acri, contribuirono alla sua distruzione, perché fecero un giorno un’incursione nella regione di Acri e passarono a fil di spada tutti i poveri contadini che portavano a vendere ad Acri i loro beni e frumento e altre cose, che erano saraceni dei casali del circondario di Acri, e uccisero anche molti Siriani che avevano la barba ed erano della religione di Grecia, che per le loro barbe li uccisero scambiandoli per Saraceni, la qual cosa fu pessima, e fu il motivo per cui Acri fu presa dai Saraceni». La tregua, dunque, in vigore dal 1283, risultava violata. Dopo aver chiesto soddisfazione ai Franchi ed essersi consigliato con i propri emiri, Qalawun dette avvio ai preparativi, ordinando d’accumulare provviste e facendo approntare numerose macchine d’assedio. Verso la fine d’ottobre, l’esercito lasciava la cittadella del Cairo. Proprio allora, però, un evento inaspettato giunse a scombinare i piani. Colpito da dissenteria, il sultano spirò il 9 o il 10 novembre successivo. I Franchi tirarono un sospiro di sollievo. Fu il nuovo sultano, il secondogenito di Qalawun, al-Ashraf Halil, a portare a compimento il piano di conquista di Acri. Partito dal Cairo al principio di marzo, giunse in vista della capitale del regno crociato il 5 aprile, un giovedí, accampandosi nei pressi del Tell al-Fuhhar, di fronte ITALIANI ALLE CROCIATE
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GLI ITALIANI ALLE CROCIATE
La crisi del regno latino Ritratto di Niccolò IV, primo papa francescano della storia, salito al soglio di Pietro nel 1288, olio su tela attribuito a Giuseppe Franchi. 1600-1624. Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana. mente a levante sarebbe stato presidiato, invece, dai cavalieri Teutonici, al comando del loro nuovo Maestro, Konrad von Feuchtwangen, affiancati, alla loro destra, dalle truppe reali, guidate da Amalrico di Tiro, fratello di Enrico II di Antiochia-Lusignano, re di Cipro e di Gerusalemme; infine, il settore sud-orientale sarebbe stato coperto dal reggimento francese e da alcune truppe inglesi, al comando di due savoiardi: Jean de Grailly e Ottone di Grandson, affiancati dai Pisani, stanziati nella zona di San Romano. Il 16 maggio, le forze siriane lanciarono un poderoso attacco contro la Porta di Sant’Antonio, nell’angolo nord-orientale della città, costringendo le truppe cipriote a ritirarsi. Qui si concentrò la resistenza di Templari e Ospitalieri, accorsi in velocità da Montmusard, che riuscirono a respingere gli assalitori sin fuori dalle mura, occupando nuovamente il varco. Il 18, il sultano ordinò un assalto su vasta scala. I Mamelucchi s’insinuarono tra la prima e la seconda cerchia. Poco dopo, la Torre Maledetta crollò su se stessa, permettendo agli assalitori di sciamare all’interno. La lotta si fece furibonda. Il Maestro degli Ospitalieri, colpito da una lancia tra le spalle, fu trascinato verso il molo e posto (segue a p. 116)
alle mura orientali. È difficile stimare il numero degli effettivi. Secondo alcune fonti coeve, poteva disporre di circa 70 000 cavalieri e di oltre 150 000 fanti, compresi alcuni reparti aggiuntivi provenienti dalla Nubia, oltre che di alcuni contingenti siriani: cifre forse esagerate, ma comunque indicative di quello che doveva apparire come un esercito enorme; tanto piú se paragonate ai circa 12-14 000 difensori di Acri, tra cui potevano contarsi non piú di 700-800 cavalieri, per la maggior parte membri degli Ordini religioso-militari. Le forze latine furono suddivise in quattro parti: il muro che circondava il quartiere settentrionale di Montmusard sarebbe stato difeso dai Templari, guidati dal loro Maestro, Guillaume de Beaujeau, coadiuvati probabilmente da una parte dei «crucesignati» italiani; le fortificazioni orientali del quartiere, che avevano il proprio fulcro nella Porta di Sant’Antonio, furono assegnate agli Ospitalieri, al comando di Jean de Villiers, sostenuti dai cavalieri dell’Ordine di San Tommaso e dai Veneziani; il settore immediata112
ITALIANI ALLE CROCIATE
A destra un principe siede fra due angeli, mentre ai suoi fianchi vi sono i suoi cortigiani, alcuni musicisti e un acrobata. La scena orna il frontespizio di un’edizione delle Maqamat di al-Hariri, realizzata al Cairo e considerata fra gli esempi migliori di miniatura mamelucca. 1334. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.
PRINCIPALI OPERAZIONI MILITARI
Tigri
Spedizioni franche Spedizioni mamelucche Spedizioni mongole Battaglie
Edessa
Mara Sis
Ambasceria franca A alla al corte dei Mongoli
Adana
Tarso Mersin
Antiochia 1265 Latakia 1287
1271 Limassol
o 127 1
Mar Mediterraneo
SELGIUCHIDE
Hama Margat 1285 Crac des Chevaliers 1271
Tripoli 1289 Beirut Be
71 Mag g i o 1 2
Akrotiri
Saone
Tortosa Tort
Famagosta
SULTANATO
SSidone Dicembre 1271 Tiro T
Damasco
gn
Acri
Giu
1291
Cesarea 1265
Ascalona
Qaqun 1271 Gerusalemme Betlemme
Gaza Damietta
Alessandria
b re 1 271
Seleucia
CIPRO
1271 Aleppo
N o ve m
Alanya
Alessandretta
Kerak
CALIFFATO FATIMIDA (DINASITA AYYUBIDE DOPO IL 1171)
L’assetto geopolitico dei territori del Vicino Oriente nel periodo dell’assedio di Acri, con l’indicazione delle campagne militari che precedettero la presa della città.
GLI STATI CROCIATI ALLA VIGILIA DELLA CADUTA
Cairo
lfo
Go di z
Sue
Golfo di A qaba
Aqaba
Regno armeno di Cilicia Principato di Antiochia Contea di Tripoli Regno di Gerusalemme
ITALIANI ALLE CROCIATE
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GLI ITALIANI ALLE CROCIATE
La crisi del regno latino
La testimonianza di frate Riccoldo Tra quanti vissero sulla propria pelle i fatti di Acri si deve annoverare il domenicano Riccoldo da Monte di Croce: un profondo conoscitore dell’Oriente tardo-duecentesco. Nel 1288, il frate intraprese un lungo viaggio che, attraverso i territori mongoli, lo portò a Baghdad, dove ebbe modo d’imparare l’arabo e di studiare il Corano, da lui confutato nel Contra legem Sarracenorum. Qui ebbe notizia della caduta della città: «Il mare di Tripoli e di Acri – scrive – fu arrossato del sangue degli uccisi, e quelli che la spada o la freccia dei Saraceno non recò a fine, il mare li inghiottí». Dovette trattarsi d’un esperienza traumatica.
Benché il territorio in cui s’era stabilito fosse in mano mongola – la città era stata conquistata nel 1258 –, la sensazione di stare assistendo a un evento epocale, forse irrimediabile, lo preoccupò assai. Il dolore per le notizie provenienti dalla Siria, unito allo stupore per l’ampia diffusione della legge di Maometto, lo indussero a redigere alcune lettere accorate – lettere fittizie, s’intende: sul modello delle bibliche Lamentazioni –, indirizzate a Dio, alla Vergine, ai santi e ai propri confratelli domenicani periti nel corso del massacro. La sua è una testimonianza palpitante di quei tragici momenti. Movimenti dei Mamelucchi Posizioni dei Mamelucchi Accampamento Localizzazione presunta delle principali batterie di artiglieria dei Mamelucchi Movimenti dei Crociati Posizioni dei Crociati Localizzazione presunta delle batterie di artiglieria dei Crociati
9
8 21
25 24
A sinistra miniatura identificata come raffigurazione dell’assedio di Acri del 1291, dal Codice Cocharelli. 1320-1330. Firenze, Museo Nazionale del Bargello.
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ITALIANI ALLE CROCIATE
LE FASI DELL’ASSEDIO 12. Probabile schieramento dei Teutonici, accanto alle truppe di Enrico II (forse alla sua sinistra). 13. Le truppe cipriote e del regno di Gerusalemme, sotto la guida di Amalrico (fratello di Enrico II), si schierano a difesa del punto piú vulnerabile del sistema difensivo: l’angolo in cui sorge la Torre del Re e probabilmente il barbacane di Ugo II. 14. Crociati francesi agli ordini di Jean de Grailly. 15. Crociati inglesi agli ordini di Ottone di Grandson. 16. Truppe veneziane o milizie comunali (che forse comprendono i crociati giunti dall’Italia settentrionale nel 1290). 17. Truppe pisane e milizie italiane. 18. Milizia urbana di Acri. 19. In un primo tempo, i difensori non chiusero le porte, per compiere sortite con le quali ostacolare la costruzione delle batterie mamelucche (dal 5 al 10 o 11 aprile). 20. La manganella detta Vittoriosa, puntata contro i Pisani.
1. Arrivo dall’Egitto del sultano al-Ashraf e del grosso delle armate mamelucche (5 aprile). 2. Quartier generale di al-Ashraf. 3-4. I Mamelucchi di Siria prendono posizione (5 aprile) e si schierano davanti alle fortificazioni orientali e settentrionali di Montmusard. 5-6. I Mamelucchi d’Egitto prendono posizione (5 aprile) e si schierano tra la baia di Acri e la congiunzione con le fortificazioni di Montmusard. 7. Il contingente di Baybars al-Mansuri si posiziona davanti all’incontro fra le mura settentrionali e orientali di Acri. 8. Le truppe del governatore ayyubide di Hama, al-Malik al-Muzaffar, si schierano alla destra dell’armata mamelucca. 9. Quartier generale di al-Muzaffar. 10. Posizione dei Templari lungo i bastioni settentrionali di Montmusard. 11. Posizione degli Ospitalieri sui bastioni orientali di Montmusard e, forse, lungo una parte delle mura settentrionali di Acri.
21. La manganella detta Furiosa, puntata contro i Templari. 22. Un’altra grande manganella, puntata contro gli Ospitalieri. 23. Macchina semovente piazzata davanti alla Torre Maledetta, probabilmente per proteggere l’operato dei genieri. 24. Grandi navi mercantili si posero alla fonda all’esterno della baia, affidando a imbarcazioni piú piccole il trasbordo delle derrate e degli uomini. 25. Varie navi crociate attaccarono le truppe di Hama sul fianco destro delle linee mamelucche: una di esse era dotata di una manganella, mentre le altre imbarcavano arcieri e truppe che sbarcarono e attaccarono il 13 o il 14 aprile; i legni furono poi dispersi da una tempesta.
1
Torre Maledetta
7
Torre degli Inglesi
19
13
6
14 15
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Porta di S. Antonio 22
10
5 Torre del Re e Barbacane 4 II di Ugo
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4
2
3
11
17
12
20
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Castello reale
Fortezza degli Ospitalieri
Torre delle Mosche
24
Castello dei Templari ITALIANI ALLE CROCIATE
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GLI ITALIANI ALLE CROCIATE in salvo su un’imbarcazione. Trafitto da un dardo sotto l’ascella, il Maestro templare spirò qualche ora dopo, facendo piombare i Franchi nello sconforto. Fu allora che le truppe inglesi e francesi decisero di ritirarsi, sí che il tutto terminò in una fuga angosciata verso il porto. Molti perirono nel tentativo di salire a bordo delle poche scialuppe disponibili. Al largo della città erano presenti, infatti, alcune navi templari e veneziane; tra di esse, tuttavia, soltanto la famosa Falco, del brindisino Roger de Flor – fratello del Tempio e futuro comandante della Compagnia Catalana – pare essersi impegnata per mettere in salvo piú persone possibili. Diverse fonti ricordano come i patroni delle navi all’àncora esigessero il pagamento d’un diritto d’imbarco; circostanza quanto mai odiosa, vista la situazione. Si può ben capire, dunque, l’accoglienza positiva ricevuta da due navi genovesi, forse presenti nella zona per ragioni di commercio, che avrebbero raccolto dal mare quanta piú gente possibile. Chi non trovò spazio sulle scialuppe – 10 000 persone circa, secondo le fonti – si rifugiò nella fortezza templare, dotata di mura solide e d’un buon numero di torri, che, tuttavia, cadde il 28 maggio successivo. Gli ultimi difensori di Acri furono tutti massacrati. La città fu razziata e rasa al suolo. Ori e marmi furono utilizzati come ricompensa per gli emiri piú valenti o recati in Egitto. Le restanti enclave cristiane della costa – Tiro, Sidone, Beirut, Haifa – caddero l’una dietro l’altra; la rocca di ‘Atlit fu abbandonata il 30 luglio, seguita da Tortosa, il 3 agosto. Il territorio costiero fu sistematicamente devastato, con lo scopo di rendere irrealizzabile ogni eventuale tentativo di riconquista.
Recuperare la Terra Santa?
Niccolò IV fu informato al principio d’agosto, a circa due mesi dalla conclusione dell’assedio, mentre si trovava a Orvieto. Il 13, con la bolla Dire amaritudinis calicem, annunciava il tragico epilogo alla cristianità, ordinando di portare immediato soccorso a Cipro e al regno armeno di Cilicia, il cui mantenimento sarebbe stato essenziale per qualsivoglia tentativo di riconquista. A ciò aggiungeva la necessità d’imporre un duro blocco navale nei confronti dell’Egitto, cosí da fiaccarne la potenza economica e militare. Non a caso, lo stesso giorno, l’enciclica fu inviata a Genovesi e Veneziani, gli unici a potersi impegnare in questo senso, ingiungendo loro di porre termine ai conflitti in corso, cosí da non disperdere le forze. 116
ITALIANI ALLE CROCIATE
La crisi del regno latino
L’ULTIMA DIMORA ACCOGLIENTE
La maggior parte di chi riuscí a fuggire da Acri si riversò nell’isola di Cipro, che rimarrà a lungo il principale baluardo della latinità nel Levante mediterraneo. In mano alla dinastia dei Lusignano dalla fine del secolo precedente, slegato dall’impero d’Occidente dal 1247 – da quando, cioè, i legami politici tra l’isola e Federico II di Svevia erano stati sciolti per volere di papa Innocenzo IV –, il regno cipriota, piú ancora che quello cilicio, costituiva, senza dubbio, la migliore base militare possibile per una nuova spedizione. Nel corso del Duecento, la popolazione isolana s’era accresciuta, accogliendo mercanti e artigiani provenienti sia da occidente, sia dalla Terra Santa. Da tempo, operatori commerciali, case di credito bancarie, famiglie prominenti di provenienza occidentale e comunità latine organizzate erano presenti nelle principali città cipriote: a Nicosia – sede della corte reale –, a Limassol, a Famagosta, a Paphos. Una voce importante della sua economia era costituita dalla compravendita di grano, proveniente dal Mar Nero, controllata da un discreto numero di famiglie, perlopiú genovesi – Bestagni, Ceba, Cibo,
Nella pagina accanto veduta della fortezza trecentesca di Famagosta a Cipro, comunemente nota come castello di Otello, con una delle sue quattro torri circolari. A sinistra pianta di Famagosta, dal Civitates Orbis Terrarum dei geografi tedeschi Georg Braun e Franz Hogenberg, una raccolta di mappe delle città del mondo pubblicata in 6 volumi tra il 1572 e il 1617. In basso lapide posta sopra uno degli accessi della fortezza di Famagosta, che raffigura il leone di san Marco.
Cigala, Doria, Ghisolfi, Grimaldi, Lercari, de Mari, de Nigro, Panzano, Piccamiglio, Spinola, Squarciafico, Tartaro –, che potevano fare affidamento sui servizi finanziari e bancari di famiglie fiorentine come i Bardi, i Mozzi e i Peruzzi o piacentine come i Borrini, i Cavazoli, i Diani, i Guagnabene, gli Scozzi. Il processo immigratorio era andato intensificandosi con l’avanzare della minaccia mamelucca – in particolare dopo il 1265, data della caduta di Cesarea e Arsuf, e, soprattutto, dopo il 1268, quando Antiochia era stata conquistata –, sino a comprendere la quasi totalità dei profughi scampati al massacro del 1291. La forte immigrazione incise profondamente sull’economia isolana. Differenze di lingua, di culto – nel caso dei cristiani siriaci –, di cultura finirono con il gettare nell’indigenza buona parte dei nuovi venuti, malvisti dalla popolazione residente. Enrico II, re di Cipro e Gerusalemme, intervenne in loro favore emanando nel 1296 un’ordinanza volta a calmierare il prezzo del pane; reclutando, inoltre, parte della nobiltà tra i propri cavalieri e sergenti, cosí d’assicurare loro un mezzo di sostentamento. Tali misure, tuttavia, riguardarono prevalentemente gli strati aristocratici – sembra, per esempio, che della questione dei nobiles decaduti si fosse interessato anche Carlo II d’Angiò, raccogliendo appositamente del denaro –; la povera gente rimase tale, andando incontro, anzi, a un peggioramento delle condizioni di vita. Furono gli Ordini militari a intervenire per alleviare le difficoltà, distribuendo – è quanto attestato da diversi testimoni oculari – derrate alimentari provenienti dai porti dell’Italia meridionale, perlopiú pugliesi, ed elemosine. Veneziani e Genovesi, stabilitisi in massima parte a Famagosta, s’integrarono velocemente, riorientando le proprie attività commerciali verso la Romània bizantina o le piste carovaniere che raggiungevano Laiazzo.
Il papa stabiliva, inoltre – come già aveva fatto Innocenzo III alla vigilia del quarto concilio lateranense del 1215, seguito da Gregorio X, poco prima del secondo concilio di Lione del 1274 –, la convocazione di concili provinciali, composti sia da membri del clero secolare, sia da membri di quello regolare, chiedendo loro di formulare, entro la successiva festa della Purificazione, consilia in forma scritta che analizzassero la situazione e suggerissero i possibili rimedi. La medesima richiesta era recepita e ribadita nella Dura nimis et amara, promulgata il 18 agosto successivo, inviata ai re di Francia e Inghilterra, al maestro degli Ospitalieri, ai Precettori del Tempio e ad alcuni vescovi. Niccolò suggeriva, altresí, d’inserire tra gli elemenITALIANI ALLE CROCIATE
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La crisi del regno latino
«QUO MIHI DEUS MELIUS ADMINISTRAVERIT»... I fatti di Acri suscitarono un autentico florilegio di scritti, infarciti di commenti e reprimende nei confronti dei principali protagonisti della vicenda e di suggerimenti relativi al modo di recuperare quanto perduto. Piú di un cronista italiano tese ad allontanare la responsabilità di quanto accaduto dai propri concittadini, assegnandone l’arrivo in Terra Santa a un periodo incompatibile con l’incidente che avrebbe fornito al sultano il casus belli. È il caso, per esempio, del Chronicon parmense, che informa di come, la domenica 30 luglio del 1290, cinquecento uomini della città e della diocesi, guidati da Raimondo Barato Rosso, avessero partecipato al rito collettivo del voto «pro eundo in subsidium terrae sanctae de ultra mare», per essere successivamente accompagnati dal clero locale fuori dalla città; un secondo contingente di circa cento crociati li avrebbe seguiti qualche tempo dopo, giungendo in Terra Santa soltanto dopo il verificarsi dell’incidente. Ora, posto che le partenze furono molte, la responsabilità dei crociati dell’area padano-emiliana e romagnola non può essere messa in discussione. Il loro comportamento è deprecato dalla cronachistica orientale, che, per meglio rendere l’ottusità dei nuovi venuti, non esita a ricordare come essi avessero ucciso indistintamente tutti coloro che portavano la barba, compresi parecchi cristiani di rito greco, scambiati per Saraceni. Gli Italiani insomma avevano molto da farsi perdonare. Non a caso, buona parte dei polemisti impegnati a ricercare una ragione del disastro acritano li avrebbe annoverati, assieme a Templari e Ospitalieri, tra i principali responsabili della caduta. L’attenzione generale si volse, tuttavia, sulle comunità marittime. La strategia crociata inaugurata nel corso del concilio di Lione del 1274 – quella del passagium particulare, e cioè dell’invio nel Levante di piccole spedizioni condotte da professionisti della guerra –, aveva assegnato loro un ruolo importante, accompagnandosi all’idea d’una «guerra economica» ai danni della potenza mamelucca: una crociata generale avrebbe avuto successo solo a seguito del collasso dell’economia egiziana. Si trattava, tuttavia, di disposizioni difficili da mettere in pratica e, di fatto, regolarmente disattese. Di qui la definizione di «mali christiani», appioppata a Genovesi, Pisani e Veneziani dal minore Fidenzio da Padova, autore di un trattato dedicato al recupero della Terra Santa. Del resto, la necessità egiziana di fare affidamento sui cristiani per l’importazione di schiavi e di materiali di vario genere
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era nota sin dal XII secolo. Nel 1179, il terzo concilio lateranense aveva accolto per la prima volta il divieto di commerciare armi, ferro e legname per le costruzioni navali nei paesi musulmani. Una disposizione, questa, ripresa da tutti i grandi concili del XIII secolo ma regolarmente disattesa. Dopo la caduta di Tripoli, tali disposizioni s’erano aggravate: il 28 dicembre del 1289, Niccolò IV vietò il commercio di qualsiasi tipo di bene con l’Egitto. Un nuovo embargo generale, accompagnato dalla proibizione di salpare per qualsiasi terra saracena, fu emanato dopo la caduta di Acri, il 23 agosto del 1291, per la durata di dieci anni, e ribadito il 21 ottobre successivo. I contravventori – «infames», afferma il papa – sarebbero stati privati della capacità di fare testamento, d’ottenere beni in eredità e di ricoprire uffici pubblici, dovendo sottostare, inoltre, alla confisca dei propri beni. La scomunica sarebbe caduta solamente donando «in subsidium Terre Sancte» una somma equivalente al valore delle merci impegnate nel traffico illecito. Le mercanzie trasportate dai contravventori, a ogni modo, sarebbero state incamerabili da chiunque li avesse colti in flagrante: un chiaro incentivo, oltre che a una regolare attività di polizia di mare, ad adottare comportamenti inquisitori che rasentavano la guerra di corsa. In realtà, vi sono buone ragioni per ritenere che gli scambi commerciali siano andati incontro addirittura a un aumento di volume. Numerosi atti notarili genovesi rogati in questo periodo evitano di riportare, a fronte dell’investimento di forti somme di denaro, la destinazione specifica, trincerandosi dietro formule di comodo; per esempio, dietro la generica espressione «quo mihi Deus melius administraverit». Con tutta probabilità, tali formule non celavano altro che commerci illeciti, tra cui aveva un ruolo importante quello degli schiavi del Mar Nero. Si trattava, del resto, di un business redditizio, normato perfino da accordi con l’imperatore greco e mediato, con tutta probabilità, dagli stessi rifugiati siriani ciprioti. Secondo il domenicano Guglielmo Adam, il mercante genovese Segurano Salvago avrebbe venduto ai Mamelucchi qualcosa come 10 000 uomini: una cifra senza dubbio esagerata, ma indicativa.
Un’altra miniatura del Codice Cocharelli raffigurante la presa di Tripoli. 1320-1330. Londra, British Library.
ti di discussione dei concili la possibilità d’una fusione degli Ordini militari: sia la Chiesa, sia la «vox communis!» – affermava – avrebbero accolto favorevolmente la misura; una volta che la Terra Santa fosse stata recuperata, la presenza d’un unico Ordine ne avrebbe permesso la difesa nel migliore dei modi.
Due cittadini genovesi
Ogni sforzo per organizzare una nuova crociata si rivelò vano. Il papa dispose che una flotta di venti galee, dieci delle quali sottoposte al comando di Vitale Torzevalle e Ruggero de Todhinis, armate presso il porto di Ancona, fosse inviata al piú presto nel Levante. Ma la sua morte, nella primavera del 1292 – a cui avrebbero fatto seguito oltre due anni di vacanza papale –, tarpò ogni tentativo ulteriore di trasformare la progettata spedizione nell’avanguardia del passagium generale previsto per l’anno successivo. Fu il collegio cardinalizio a occuparsi della faccenda, racimolando i legni necessari grazie alla sollecitudine – quanto mai interessata – di due privati cittadini genovesi: Tedisio Doria e Manuele Zaccaria; quest’ultimo, nominato ammiraglio della flotta, che si uní a dieci galee anconetane e ad altri quindici legni armati da re Enrico II. Secondo il Templare di Tiro, «tutte queste galee andarono insieme a un castello dei Turchi chiamato Candeloro, e presero la torre che si trova sul mare e pensarono di prendere l’altra ma non la poterono prendere perché i Turchi avevano saputo della loro venuta e stavano in guardia e si erano ben attrezzati alla difesa, e se non fosse stato per questo grosso esercito non avrebbero preso quella torre che fu presa. Ma poiché non potevano fare altro, abbandonarono la torre e se ne andarono e arrivarono ad Alessandria, e restarono alcuni giorni là davanti, e poi tornarono a Cipro». Nessun’altra azione di riconquista fu intrapresa. Al-Ashraf, anzi, rispose ordinando la costruzione d’un centinaio di galee – una sessantina, secondo altre fonti –, con l’obiettivo di portare un attacco contro Cipro, senza riuscirvi; quindi si volse verso il regno cilicio, invaso nella primavera successiva. La morte del sultano, sopraggiunta il 13 o 14 dicembre del 1293, e la convulsa lotta per il potere che ne seguí, fecero cadere ogni piano ulteriore. Per l’Occidente non vi sarebbe stato momento migliore per un contrattacco, che invece non vi fu. Le città marinare spesero gli ultimi anni del secolo a farsi la guerra, prima che una pace, firmata nel 1299, contribuisse a ristabilire la calma, ma era ormai troppo tardi per recuperare quanto perduto. ITALIANI ALLE CROCIATE
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Dalle armi ai mercati
Nel corso del Trecento la crociata cambiò volto: le grandi spedizioni organizzate in risposta agli appelli della Chiesa lasciarono il passo a imprese mirate, volte a limitare l’espansionismo turco
La battaglia navale di Imbro, olio su tela del pittore francese Eugène Lepoittevin. 1842. Versailles, Musée national des châteaux de Versailles et de Trianon. Lo scontro si combatté nel 1346 all’entrata dei Dardanelli tra gli Ospitalieri e una flotta turcomanna.
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Dopo le guerre sante
«E noi, tuo popolo e gregge del tuo pascolo, ti celebreremo in perpetuo, pubblicheremo la tua lode per ogni età» (Sal 78, v. 13)
C
ome s’è visto, nel corso del Duecento, la crociata aveva subito un processo d’istituzionalizzazione, divenendo null’altro che uno strumento nelle mani del papato per il governo del corpus Christianorum. Sovente non s’era esitato a proclamare crociate contro obiettivi piú vicini e, per questo, ritenuti piú urgenti, della Terra Santa, presentando la crux cismarina quale preliminare alla crux transmarina; il che non aveva mancato d’attirare sul papato il biasimo di personalità influenti. La caduta di Acri non fece altro che sopire momentaneamente le discordie, contribuendo a rendere la crux transmarina nuovamente attuale. Anche se per breve tempo.
Notizie false
La celebrazione del primo Giubileo della storia, nel 1300, pur rispondendo a quell’istanza penitenziale generalizzata che, in precedenza, aveva trovato nella crociata una delle proprie massime espressioni, spostava, di fatto, l’attenzione su Roma a discapito di Gerusalemme. E ciò, nonostante l’entusiasmo suscitato dal sopraggiungere di notizie false e contraddittorie proprio nel corso dell’Anno Santo, che volevano la Città Santa essere stata riconquistata dai Mongoli. Fu, infatti, il nuovo khan, Ghazan – il Casanus Magnus delle fonti occidentali –, salito al potere nel 1295, convertitosi all’Islam, a tornare in Siria, occupando Damasco, nel gennaio di quell’anno. La notizia raggiunse l’Occidente in gran fretta – a mezzo di lettere o a seguito della testimonianza di qualche mercante –, suscitando stupore e meraviglia. Anzi, mancò poco perché l’Europa intera gridasse al miracolo: il re d’Armenia – si diceva – aveva ricevuto in dono la Città Santa; il culto latino era stato ripristinato; Ghazan s’era convertito; e i Mongoli si apprestavano a conquistare l’Egitto! Si trattava di distorsioni belle e buone, se non di vere e proprie menzogne propagandate ad arte, che traevano spunto da quanto realmente andava accadendo a levante. Il khan, infatti, provò a coinvolgere i Latini, a partire dai sovrani di Cipro, ma ogni tentativo si rivelò vano. Il tentativo di stipulare finalmente un’alleanza franco-mongola, reiterato negli anni successivi, cadde nel vuo122
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L’ANNO PROSSIMO… A ROMA Il sogno d’un ritorno di Gerusalemme in mani cristiane fu amplificato dalla celebrazione del Giubileo, indetto da Bonifacio VIII il 22 febbraio del 1300 con la bolla Antiquorum habet digna fide relatio, che ne fissava l’inizio al 25 marzo successivo. L’inferenza tra i due eventi è esplicitata dalla lapide in pietra serena ancora oggi murata, a Firenze, al civico 2 di via Giovanni da Verrazzano, nei pressi di S. Croce, che riporta l’episodio: «Ad perpetuam memoriam. Pateat omnibus evidenter hanc paginam inspecturis qualiter omnipotens Deus in anno Domini nostri Iesu Christi MCCC specialem gratiam contulit christianis. Sanctum Sepulcrum quod extiterat a Saracenis occupatum reconvictum est a Tartaris et Christianis restitutum. Et cum eodem anno fuisset a papa Bonifatio sollepnis remissio omnium peccatorum videlicet culparum et penarum omnibus euntibus Romam indulta, multi ex ipsis Tartaris ad dictam indulgentiam Romam accesserunt. E andovi Ugolino cho la molgle» («A perpetua memoria sia manifestamente noto a tutti coloro che vedranno questa iscrizione che Dio Onnipotente, nell’anno del Signore nostro Gesú Cristo 1300, concesse una grazia speciale ai Cristiani. Il Santo Sepolcro di cui si erano impossessati i Saraceni fu riconquistato dai Tartari e restituito ai Cristiani. Ed essendo stata indetta nel medesimo anno da papa Bonifacio la solenne remissione di tutti i peccati, ossia delle colpe e delle pene, per tutti coloro che si fossero recati a Roma per l’indulgenza, molti fra gli stessi Tartari si recarono a Roma per lucrare la suddetta indulgenza. E vi andò Ugolino con la moglie»). Ugolino – che immortala in volgare la propria testimonianza – sembra gloriarsi d’avere avuto il privilegio di vivere in tempi beati: sia per la possibilità d’accedere alla salvezza – si può dire – a due passi da casa, sia per quella, non poi cosí remota, di poter tornare, un giorno, a rimettere piede in Terra Santa. Per il nostro, cosí come per l’anonima consorte, dovette trattarsi del viaggio della vita. Non dissimile da quello di molte altre migliaia di pellegrini che affollarono la Roma papale in quel suo ultimo slancio d’orgoglio prima dell’abbandono per la terra di Francia.
Nella pagina accanto Roma, basilica di S. Giovanni in Laterano. Affresco raffigurante Bonifacio VIII che promulga l’indulgenza dell’anno centenario 1300. L’opera viene tradizionalmente attribuita a Giotto e faceva parte del ciclo pittorico della Loggia delle Benedizioni, costruita per volere dello stesso papa Caetani. A destra Firenze. La lapide in via Giovanni da Verrazzano che riporta la falsa notizia della riconquista di Gerusalemme e il viaggio di un pellegrino di nome Ugolino a Roma per lucrare l’indulgenza primaria in occasione del Giubileo.
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GLI ITALIANI ALLE CROCIATE to. Di fatto, l’Europa guardava altrove. Di lí a poco, anzi, il sovrano francese avrebbe messo gli occhi sui Templari, i quali, ultimi, incarnavano, assieme all’Ospedale, quel legame concreto con la Terra Santa venuto meno dopo il 1291.
Una situazione da non sottovalutare
I grandi dibattiti svoltisi a seguito della caduta di Acri non fecero altro che preparare la strada verso altri obiettivi: dalla Terra Santa all’Egeo; dall’Egeo alla guerra (santa) contro il Turco. La tribú dei Turchi Oguz che obbediva a Osman, originaria dell’Asia centrale, era stata spinta verso occidente dall’invasione mongola nel terzo decennio del XIII secolo, ponendosi al servizio del sultanato di Konya – l’antica Iconium –, stretto fra Mongoli e Mamelucchi. Il successore, Orkhan, approfittando delle lotte per il potere che vedevano scontrarsi, a Costantinopoli, Andronico II e Andronico III e poi Giovanni V e Giovanni VI Cantacuzeno, riuscí a strappare a Bisanzio la Bitinia con Brussa, Iznik – l’antica Nicea – e Gallipoli, prospiciente i Dardanelli, assicurandosi il controllo degli Stretti e l’accesso ai Balcani. La situazione non poteva essere sottovalutata. A contendere il primato anatolico era, allora, il sovrano turcomanno dell’emirato di Aydin: Umur Beg, che aveva il proprio quartier generale a Smirne, sulla costa, diventata un nido di corsari turchi. Tra il 1332 e il 1334, ebbe luogo
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In basso l’antica loggia delle Benedizioni presso la basilica di S. Giovanni in Laterano a Roma, cosí come appariva nel Cinquecento, in un disegno del pittore olandese Maarten van Heemskerck. 1532-1536. Da quell’edificio papa Bonifacio VIII indisse ufficialmente il Giubileo del 1300.
un tentativo di prendere la città per opera d’una lega che vedeva riuniti assieme l’imperatore costantinopolitano, Andronico III Paleologo e il re di Francia, Carlo VI di Valois. L’operazione, tuttavia, si concluse con un nulla di fatto. Nel 1344, Venezia, Cipro e gli Ospitalieri – i quali, tra il 1308 e il 1310, col sostegno di Clemente V, erano riusciti a stanziarsi a Rodi – formarono una sancta unio, mettendo assieme una flotta consistente. Il 28 ottobre, il patriarca latino di Costantinopoli, Enrico di Asti, condusse personalmente un assalto occupando il porto e la cittadella inferiore. Umur Beg riuscí, però, a riconquistare le posizioni perdute, benché il suo prestigio ne uscisse distrutto. Nel frattempo, Clemente VI ordinava di predicare una crociata in aiuto di Smirne. All’appello rispose entusiasticamente un ambizioso nobile: Umberto, delfino del Viennois, posto dal papa a capo della crociata in qualità di «capitano generale». Partito da Marsiglia alla fine di agosto del 1345, questi si diresse a Venezia, raccogliendo per la strada un discreto numero di «crucesignati» italiani. In novembre, salpò alla volta di Negroponte. Quindi, dopo un attacco fortunato a Melitene, giunse a Smirne, fortificando la città bassa, utilizzando come base l’isola di Chio, caduta in primavera in mano a un’associazione di creditori del comune genovese, che l’avrebbe amministrata sino al 1566. I Veneziani, dal canto loro, irritati per i vantaggi ottenuti dai Genovesi nell’Egeo, si allearono con lo czar serbo Stefano Dushan, che ambiva a conquistare Costantinopoli, allora in balía della guerra civile tra i contrapposti partiti del reggente, Giovanni VI Cantacuzeno, e dell’imperatrice madre, Anna di Savoia. In cambio, i Genovesi – ai quali toccava, intanto, sostenere un assalto tartaro alla loro base di Caffa, in Crimea –, ottenevano dal papa il permesso di commerciare con l’Egitto a titolo di rimborso per lo sforzo bellico sostenuto. Lo scoppio della peste, recata
I TRATTATI «DE RECUPERATIONE TERRE SANCTE» Nei decenni successivi alla caduta di Acri, su richiesta di Niccolò IV prima e di Clemente V poi, vari commentatori redassero alcuni trattati dedicati esplicitamente al recupero della Terra Santa. Non si tratta di una letteratura omogenea. Quelli superstiti – una trentina –, composti tra il 1291 e gli anni Trenta del Trecento, possiedono, ciascuno, caratteristiche proprie, provenendo dall’ingegno di personalità diverse – frati, intellettuali, medici, sovrani, prelati, combattenti… –, dotate di motivazioni e finalità peculiari. Tutti, a ogni modo, pur comprendendo alcuni temi in qualche modo tipici della trattatistica precedente al 1291 – quali la necessità della conversione degli infedeli, il rapporto tra crociata e missione, le qualità militari e morali dei combattenti o la giustificazione, storica e teologica, delle ripetute sconfitte subite dai cristiani –, condividono la caratteristica d’assumere toni eminentemente pratici: fornendo precise descrizioni della situazione levantina, offrendo veri e propri piani militari per procedere alla riconquista, riflettendo sullo statuto che il nuovo regno riconquistato avrebbe dovuto mantenere. Fra i trattati redatti in Italia si segnalano quelli del minore
Fidenzio da Padova, la cui gestazione, in realtà, aveva avuto inizio nel 1274, del genovese Galvano da Levanto, redatto tra il 1291 e il 1292, dedicato al re di Francia, Filippo IV, e del veneziano Marin Sanudo Torsello, risalente agli anni Trenta del Trecento. Tra tutti, il trattato di Fidenzio si distingue, oltre che per precocità, per ampiezza di vedute. A prima vista, il testo si presenta alla stregua d’un trattato militare. In realtà, contiene molto altro. Il nostro concepisce, infatti, un progetto di carattere etico-politico per la riconquista e il governo di quanto perduto, in cui il discorso militare si regge sull’adozione da parte dei crucesignati – i «pugiles Christi» – e del loro dux di una serie di virtú che appartengono a un vocabolario prettamente minoritico. Al nostro interessa fornire le coordinate per l’impianto d’una nuova società oltremarina, modello dell’intera società cristiana.
Pagine di un’edizione del Liber secretorum fidelium Crucis del veneziano Marin Sanudo il Vecchio. 1320-1325 circa. Londra, British Library. In alto, un vescovo con i suoi discepoli; in basso, a sinistra, un combattimento fra cavalieri e, a destra, uno scontro fra guerrieri appiedati e armati di lance.
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LA CROCIATA DELLE DONNE Nell’estate del 1301, un francescano savonese, tale Filippo Busserio, si fece latore presso papa Bonifacio VIII dei voleri di alcune nobildonne genovesi, appartenenti a famiglie dai nomi altisonanti – per citarne alcune: Carmadino, Ghizolfi, Grimaldi, Doria, Spinola, Cibo… –, le quali, «mente viros in corpore fragili», desideravano vestire lorica e corazza e partire alla riconquista dei Luoghi Santi. Inizialmente, Bonifacio ne accolse con soddisfazione i propositi, tanto piú che a guidare la spedizione (definita significativamente «passagium quasi particulare» e cioè non proprio una crociata, ma qualcosa di simile) sarebbe stato Benedetto Zaccaria: l’ammiraglio genovese che aveva trionfato sui Pisani nel corso della battaglia della Meloria, combattuta nel 1284. Il 9 agosto, il papa diramò alcune lettere nelle quali esaltava l’ardimento delle donne genovesi e denigrava l’atteggiamento di principi e potenti nei confronti della Terra Santa: «O miracoli, o prodigi! Le donne prevengono gli uomini nel soccorso della Terra Santa!». Al contempo, ordinava al frate minore Porchetto Spinola, amministratore dell’arcivescovato genovese, di predicare la croce in città, ingiungendo ai membri dell’Ordine francescano di accompagnare la spedizione. Bonifacio arrivò a chiedere a Zaccaria d’informarlo dei piani d’azione. Tuttavia, poco dopo, tornò sui propri passi, vietando alle dame genovesi di partire. Perché? Difficile dirlo. Il sospetto è che il problema fosse rappresentato da Zaccaria – un personaggio scaltro e facoltoso, dalla biografia degna d’un romanzo –, che desiderava probabilmente ritagliarsi un dominio personale lungo la costa siro-palestinese. Tutto, dunque, finí in una bolla di sapone e piú nulla si seppe di quelle ardite femmine.
A sinistra, in basso veduta della città di Gerusalemme, penna, inchiostro e tempera su pergamena tratto da un’edizione del Libro d’Oltremare del Francescano Niccolò da Poggibonsi, resoconto di viaggi che descrive con minuziosi particolari i pellegrinaggi del religioso, vissuto nel XIV sec., nel Vicino Oriente. XV sec. Milano, Biblioteca Nazionale Braidense.
in Europa da alcune navi genovesi, consigliò una rapida soluzione del conflitto. Tra l’aprile e il maggio del 1347, le forze del Delfino, grazie al sostegno ricevuto dagli Ospitalieri, ottennero una vittoria nei pressi dell’isola di Imbro su una flotta turcomanna proveniente dagli emirati di Aydin e Sarukhan. Dal canto suo, Umur Beg perí mentre tentava di riconquistare la città bassa di Smirne. L’azione poteva dunque dirsi conclusa e nel 1350, la città fu ceduta agli Ospitalieri. Tuttavia, i Turchi furono autorizzati, mediante un trattato, firmato il 18 agosto del 1348, a presidiarne la cittadella, mentre i Veneziani guadagnavano importanti privilegi commerciali.
Fra Cipro e Alessandria d’Egitto
Contro i Mamelucchi si mosse, invece, il sovrano di Cipro, Pietro I, salito al trono nel 1358, la cui intenzione era quella di riconquistare la Terra Santa attraverso l’assedio militare e il blocco economico all’Egitto. Nell’autunno del 1362, questi intraprese un lungo viaggio in Eu126
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ropa, cercando di convincere i re di Francia e d’Inghilterra e alcuni principi tedeschi a sostenere un passaggium particulare, in attesa d’una spedizione generale, che fu bandita da papa Urbano V, da Avignone, nel 1364, alla presenza di Carlo IV di Boemia. Pietro riuscí a mettere assieme una flotta poderosa, ammassando Francesi, Inglesi, Ciprioti, cavalieri dell’Ospedale e altre forze a bordo di 165 navi, per un totale di 10 000 uomini e 1400 cavalli, che si radunarono al largo di Rodi. Inizialmente, la destinazione fu tenuta segreta, ma l’obiettivo divenne presto chiaro. Il 9 ottobre, i crociati giunsero in vista del porto di Alessandria e il giorno successivo sferrarono un violento assalto, concentratosi su una parte indifesa delle mura. Entro sera, la città era conquistata e fu sottoposta a un duro saccheggio. I crociati fecero man bassa, razziando anche i fondaci veneziani, genovesi, catalani e marsigliesi. Il console veneziano della città, Andrea Venier, perí nel corso dell’azione.
Ben presto, fu chiaro che l’opulenta conquista non poteva esser mantenuta; né si poteva sostenere l’urto dei Mamelucchi, il cui esercito era in avvicinamento. Alessandria dovette essere evacuata. La rappresaglia fu immediata e colpí i mercanti latini nel loro complesso, con confische di beni e blocco dei commerci. Venezia inviò in gran fretta al Cairo gli ambasciatori Francesco Bembo e Pietro Soranzo, e con una certa fatica la normalità mercantile fu restaurata l’anno successivo. A ogni modo, Pietro non s’arrese. Fra il 1367 e il 1368, nel corso d’un nuovo viaggio tra le corti europee, cercò ancora una volta di convincere le potenze cristiane a prendere parte a una crociata, ma non vi riuscí. Morí, anzi, assassinato il 17 gennaio nel 1369. La crisi politica apertasi a seguito della sua morte si chiuse nel 1372, con l’ascesa al trono del figlio, Pietro II, incoronato re di Cipro a Nicosia e re di Gerusalemme a Famagosta. Nel corso di quest’ultima cerimonia ebbero luogo alcuni tafferugli, dovuti, pare,
Marcanti e usurai genovesi raffigurati nel Codice Cocharelli. 1320-1330. Londra, British Library. Durante il Medioevo la città della Lanterna fu uno dei centri italiani in cui si registrava il maggior movimento di capitali.
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Pio II arriva ad Ancona per dare inizio alla crociata, celebre affresco del Pinturicchio (al secolo Bernardino di Betto Betti). 1502-1507. Siena, Duomo, Libreria Piccolomini. Nonostante fosse gravemente ammalato, nel 1464 il pontefice volle lo stesso porsi alla testa di una nuova spedizione militare in Terra Santa, ma la morte lo colse prima dell’imbarco.
a una disputa di precedenza tra il bailo veneziano e il podestà genovese, le cui cause sono da ricercarsi negli eccezionali privilegi goduti dai Genovesi sull’isola a partire dal 1365. I Veneziani riuscirono a imporsi, provocando la cacciata dei Genovesi e l’incameramento di tutti i loro beni, i quali, per tutta risposta, organizzarono una spedizione punitiva. Nell’ottobre del 1374, Famagosta fu posta sotto assedio. La città cadde in breve tempo. Pietro II poté riavere il trono, anche se a seguito del pagamento d’un tributo annuo di 40 000 fiorini d’oro e, nell’arco di dodici anni, di piú di 2 milioni di fiorini ai membri della spedizione, oltre ad altri 90 000 per il mantenimento delle galee genovesi ancorate presso i porti dell’isola. Inoltre, a garanzia dei propri crediti, i Genovesi ottennero in pegno, oltre ad alcuni ostaggi ciprioti, la città e il castello di Famagosta e il territorio circostante, ricevendo dal sovrano 120 000 fiorini annui per la sua sicurezza militare. La capitolazione sanciva dunque l’assoluto predominio genovese sull’isola. I nuovi padroni di Cipro si scontrarono piú volte con i Mamelucchi e le ostilità si protrassero per decenni, influendo negativamente sulla bilancia commerciale.
Un’aura «cavalleresca»
Le spedizioni condotte fra gli anni Quaranta e Sessanta del Trecento, tutte caratterizzate dal voto crociato, avevano in comune molte cose. A partire dal loro carattere – per cosí dire – predatorio, ammantato però di un’aura «cavalleresca». La tendenza era quella di fare del nemico un soggetto unico, ma, in realtà, il mondo musulmano era estremamente sfaccettato. Il califfato di Baghdad non esisteva piú; i Mori di Spagna, stretti attorno all’emirato nasride di Granada, erano una realtà relativamente isolata; l’Egitto e la Siria subivano la concorrenza commerciale genovese e veneziana; i principati arabo-berberi dell’Africa settentrionale avevano perduto, da tempo, la capacità d’incidere sulla vita mediterranea, subendo i ricorrenti assalti cristiani. È quanto accadde con la crociata del 1390, diretta contro il porto di al-Mahdiyya, principale centro commerciale della dinastia hafside, guidata da Luigi II, duca di Borbone, zio del re di Francia. Fu Genova – ancora una volta – a fornire il naviglio necessario: 28 galee e 18 navi da trasporto, complete degli equipaggi necessari. Genovese fu anche il comandante, Giovanni Centurione. Il 22 luglio, i crociati sbarcarono sulla spiaggia antistante la città, senza trovare opposizione. Gli assediati compirono qualche sortita, causando loro forti perdite e, ben presto, 128
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gli effetti del clima nordafricano iniziarono a farsi sentire. Le malattie, la cronica carenza d’acqua e di cibo, l’avvicinarsi di eserciti berberi da Tunisi, Bijaya e Tlemcen convinsero molti a levare le tende. Dopo interminabili discussioni, si decise dunque di accettare un’importante indennità da parte del sultano hafside, Abu l’Abbas Ahmad II, pari a 10 000 ducati, oltre a un tributo annuale del valore delle entrate daziarie cittadine per i successivi quindici anni. I Genovesi ebbero buon gioco nell’incanalare gli animi verso un’impresa piú accessibile, persuadendo i Francesi a sferrare un attacco contro i possessi aragonesi sardi, sostenendo che i Cagliaritani avessero assistito in qualche modo gli Hafsidi. Sia Cagliari, sia l’Ogliastra furono occupate per breve tempo. Di fatto, fu Genova ad avvantaggiarsi, debellando parte dei corsari musulmani che disturbavano i propri traffici. Ma il risultato principale fu quello di rianimare l’entusiasmo, in particolare in Francia; il che spiega, in parte, l’enorme risposta cristiana agli appelli papali contro i Turchi, che, di lí a poco, portò alla crociata di Nicopoli. L’attenzione tornava dunque a concentrarsi sul pericolo turco, giunto, ormai, a stringere Costantinopoli in una morsa; e ciò, nonostante l’avvento di Tamerlano, a cavallo del Quattrocento, ne rallentasse, di fatto, l’avanzata. Nei secoli a venire la partecipazione crociata risorse, segnata da tappe che videro spesso protagonisti gli Italiani: si pensi, per esempio, al coinvolgimento di papa Pio II, al secolo Enea Silvio Piccolomini, morto ad Ancona nel 1464 in attesa d’imbarcarsi personalmente per condurre le armate crociate. E poi, ancora, la crociata di Varna, nel 1444; gli appelli alla crociata posteriori alla presa di Costantinopoli, nel 1453; i terribili fatti di Otranto del 1480 e la crociata del 1481, partita da Genova; la presa di Granada, nel 1492; la presa di Tunisi da parte di Carlo V, nel 1535; la battaglia di Lepanto, del 1571; la guerra di Candia, tra il 1645 e il 1669; l’assedio di Vienna, nel 1683, seguito dalla rioccupazione del Peloponneso da parte dei Veneziani (prima che la pace di Passarowitz, siglata nel 1718, sancisse un nuovo equilibrio). Eventi che si situano in un contesto che potremmo definire «europeo», benché la partecipazione degli abitanti della Penisola non mancasse affatto. In questo senso si può dunque affermare che la crociata – la «crociata-istituzione», saldamente in mano al papato, non meno che la «crociata-movimento», intendendo con ciò quel complesso di miti e rappresentazioni
L’entrata del sultano Maometto II a Costantinopoli, il 29 maggio 1453, olio su tela di Benjamin-Constant. 1876. Tolosa, Musée des Augustins.
DA LEGGERE Al tema di questo Dossier Antonio Musarra ha dedicato il suo piú recente saggio, Gli Italiani e le Crociate, pubblicato per i tipi dell’Istituto per l’Oriente Carlo Alfonso Nallino (ISBN 978-88-97-622598; per info e acquisti: www.ipocan.it). strettamente legato alla pratica della peregrinatio e all’idea di redenzione, oltre che alla pura e semplice aventure cavalleresca, esulante agli aspetti piú marcatamente giuridici o politici della questione – fu, senz’altro, anche e soprattutto una storia italiana, capace di forgiare l’identità cristiana della Penisola. ITALIANI ALLE CROCIATE
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VO MEDIO E Dossier n. 32 (maggio/giugno 2019) Registrazione al Tribunale di Milano n. 233 dell’11/04/2007
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