MEDIOEVO IN NERO
♦ L’OMBRA DEL DIAVOLO ♦ LA FOLLIA DI FAUST ♦ LA DANZA MACABRA ♦ I MORTI VIVENTI ♦ DRACULA, LA VERA STORIA ♦ L’ESERCITO INFERNALE
€ 7,90
IN EDICOLA IL 29 GIUGNO 2019
IN
N°33 Luglio/Agosto 2019 Rivista Bimestrale
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IL LA ME TO DI OS OEV C O
MEDIOEVO DOSSIER
Dossier
Timeline Publishing S.r.l. – Poste Italiane S.p.A. – Spedizione in abbonamento – Aut. n° 0703 Periodico ROC
EDIO VO M E
MEDIOEVO
Il lato oscuro dell’età di Mezzo
NERO
MEDIOEVO IN
NERO
Il lato oscuro dell’età di Mezzo testi di Maria Giovanna Belcastro, Federico Canaccini, Luca Cesari, Francesco Colotta, Mario Iannaccone, Tommaso Indelli, Valentina Mariotti, Chiara Mercuri, Marco Milella, Marina Montesano, Diana Neri, Pierangelo Pancaldi e Domenico Sebastiani
Presentazione 6. Storie di ordinaria ambivalenza
Miti infernali 60. L’esercito delle tenebre
Iconografia 8. Tutte le visioni del Maligno
Iconografia 74. Vittorie senza gioia
Arte e pensiero 18. Il principe nero Folklore 32. Quelle sostituzioni inquietanti Simbolismo 42. Quando il Medioevo perde la testa Superstizione 52. E non riposarono in pace...
Vlad Tepes 82. Dracula: la vera storia del principe vampiro Faust 102. La scelta di Faust Barbablú 112. Gloria e miserie d’un maresciallo di Francia Il Sinodo del cadavere 122. Orrore in basilica
Storie di ordinaria
ambivalenza P
er secoli l’improprio assunto che denigrava il Medioevo come «epoca oscura» trovò numerosi e illustri paladini: nel Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni (1756), Voltaire lo definiva un periodo di barbarie e di superstizioni, tanto da aver determinato un arresto nel progresso umano. Tuttavia, non fu l’illuminismo a introdurre il «secolare pregiudizio» sull’età di Mezzo, per usare una fortunata espressione di Régine Pernoud. Il cupo stereotipo – che colpiva in particolare i secoli precedenti all’anno Mille – aveva iniziato a diffondersi già nel Cinquecento, sulla scia delle tesi contenute nella Historia Ecclesiae Christi, redatta da alcuni eruditi protestanti noti come Centuriatori di Magdeburgo, i quali descrivevano come turbolenta e barbarica l’era successiva al tramonto dell’impero romano. Nel Rinascimento la condanna non risparmiò nemmeno l’architettura, definita«gotica», dal termine «goto», ossia «barbaro». Alla parziale apologia del Medioevo, operata dal romanticismo, fece seguito, nel XX secolo, la sua definitiva riabilitazione, con i contributi degli storici francesi Marc Bloch, Georges Duby e, soprattutto, Jacques Le Goff: l’età di Mezzo rinacque, nell’interpretazione comune, come un tempo che aveva generato anche forme di sviluppo e progresso. Non piú una malattia della civiltà, bensí un’epoca di «ordinaria» ambivalenza, connotata da splendori e nefandezze. Un’epoca che, come ogni altra della storia, ebbe un suo «lato oscuro». Il nuovo Dossier di «Medioevo» esplora gli antri piú bui di quel passato, seguendo due direttrici di profilo iconografico: la presenza del Diavolo nella percezione collettiva e l’ossessione per la morte, effigiata in tanti cicli pittorici connessi al misterioso tema della Danza macabra. A partire dal IX secolo il demonio, nell’arte e nella coscienza comune, divenne una figura preminente, con evidenti allegorie religiose – secondo Le Goff, è stato «la grande creazione del cristianesimo durante il Medioevo». A sua volta, il tentativo di esorcizzare il Maligno spinse la Chiesa a compiere atti repressivi e violenti, talvolta piú esecrabili del male che intendevano sradicare. Allo stesso modo, l’inquietudine per l’idea della morte e per la caducità del genere umano contribuirono alla diffusione di tradizioni e usanze dalla lugubre ritualità. A corollario del viaggio negli abissi del «Medioevo nero» si materializza, infine, una galleria di personaggi dalla fama oscura: dal voivoda Vlad III al pluriomicida Gilles de Rais – resi celebri dai rispettivi alter ego letterari: Dracula e Barbablú –, dalla possibile incarnazione della leggenda di Faust a papa Stefano VI, che volle processare pubblicamente il cadavere in avanzato stato di decomposizione del suo odiato predecessore… Francesco Colotta
Diavoli di diverso colore nella Discesa agli Inferi affrescata da Andrea di Bonaiuto nel Cappellone degli Spagnoli della basilica fiorentina di S. Maria Novella. 1366-1368. 6
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iconografia
Tutte le visioni del
Maligno Con corpo umano o animale, corna, coda, ali, artigli, ma anche con zoccoli, orecchie gigantesche, un unico corno al centro della fronte e, ancora, con un volto al posto del sesso... Ecco gli infiniti modi in cui il Diavolo è stato raffigurato fin dall’antichità
I BUONI E I CATTIVI Mosaico raffigurante la parabola della divisione delle pecore dai capri, a simboleggiare la separazione dei buoni dai cattivi, descritta dall’evangelista Matteo (25, 31-46). V-VI sec. Ravenna, basilica di S. Apollinare Nuovo. Al centro della scena è Cristo tra due personaggi con caratterizzazioni angeliche (età giovanile, lunga veste, grandi ali): rosso quello di destra, blu l’altro. Il mosaico ravennate si basa sulla genesi di «angelo caduto» e sull’antica interpretazione dei colori rosso e blu: la figura rossa è composta di luce e di fuoco, quella blu invece di aria, a indicare il luogo delle tenebre, connaturato agli spiriti maligni.
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GRANDI DINASTIE
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ICONOGRAFIA
Il Diavolo
IL DIAVOLO TENTATORE La tentazione di Cristo, incisione di un artista tedesco noto come Maestro LCz. 1500-1505 circa. Washington, National Gallery of Art. Questa rappresentazione del demonio tiene conto dell’intera gamma dei caratteri diabolici: seni cadenti, artigli, corna, coda, ali di pipistrello, volti e teste di animale in corrispondenza di zone impure e articolazioni. TRATTI ANIMALESCHI Madonna del Soccorso (particolare), dipinto su tavola di Domenico di Zanobi. 1470-1485 circa. Firenze, basilica di Santo Spirito. Il maligno presenta qui alcuni dei segni distintivi piú importanti: le orecchie animali, il pelo arruffato e la barba caprina, in un prolungamento ideale delle raffigurazioni greche e romane di Pan, del fauno, del Satiro. Un altro elemento distintivo è rappresentato dalle ali di pipistrello. Nella tradizione letteraria l’associazione tra diavoli e chirotteri è testimoniata già nel primo secolo dell’arte cristiana, ma figurativamente queste ali membranose comparvero in Occidente solo nel Duecento. Parendo iconograficamente adeguate per il principe delle tenebre, si diffusero abbastanza rapidamente in Europa, provenendo forse dall’Estremo Oriente e in particolare dalla Cina, dove sono attestate già dall’XI sec.
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ICONOGRAFIA
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Il Diavolo
IL VECCHIO SANTO MALTRATTATO Le tentazioni di Sant’Antonio, dipinto del Maestro di Bonnat. XV sec. Bilbao, Museo de Bellas Artes de Bilbao. L’opera propone un esempio del cosiddetto «tipo fantastico» o zoomorfo, che si viene probabilmente sviluppando proprio in stretta connessione con le «tentazioni di Sant’Antonio», chiamate cosí, anche se sarebbe piú giusto definirle «tribolazioni del santo tormentato dai demoni». Nelle leggende della vita del santo ci sono pochi episodi in cui il diavolo non compaia: anche se già da ragazzo ricevette le visite del «tentatore», l’arte figurativa rappresenta piú spesso i maltrattamenti a cui fu sottoposto da vecchio che gli allettamenti di quando era giovane. Vennero rese in immagine le parole della Legenda Aurea: «Quelli [i diavoli] gli apparvero in varie forme di bestie feroci», parole che hanno invitato a un’elaborazione immaginifica del tema.
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ICONOGRAFIA
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Il Diavolo
IL SANTO ESORCISTA Scomparto di un retablo dedicato a san Bernardo di Chiaravalle, tempera su tavola di Ferrer Bassa. 1325-1350. Vic, Museu Episcopal de Vic. La scena raffigura il santo nell’atto di esorcizzare un’ossessa e, seguendo un modello piuttosto diffuso per questo tipo di soggetti, il successo dell’intervento è espresso dal diavoletto nero che fuoriesce dalla bocca della donna.
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ICONOGRAFIA
Il Diavolo
LA CITTÀ LIBERATA Cacciata dei diavoli da Arezzo (particolare), scena dal ciclo delle Storie francescane affrescato da Giotto nella Chiesa Superiore della basilica di S. Francesco ad Assisi. 1290-1295 circa. Per caratterizzare i diavoli si usavano vari colori: il verde, il rosso, il grigio e il nero, anche se quello utilizzato piú frequentemente è il marrone. In questo affresco di Assisi, Giotto fa sorvolare la città di Arezzo, finalmente liberata da una schiera maligna, da diavoli neri, grigi, marroni, caratterizzati da espressioni di rabbia e di disperazione.
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UN GIOVANE SEDUCENTE Prato, Duomo. Particolare di una scena dal ciclo di affreschi con le Storie di santo Stefano e di san Giovanni Battista di Filippo Lippi, raffigurante la nascita di santo Stefano e la sua sostituzione da parte di un demone. 1452-1465. Nel XV sec. si diffonde un tipo di diavolo le cui fattezze sono molto vicine a quelle umane e che solo le corna o il colorito consentono di identificare come tale. Lippi ne offre qui un esempio, mostrandoci un essere che ha i lineamenti di un bel giovane, ma che è subito caratterizzato dal colore scuro, dal corpo coperto di pelo arruffato, dalle ali e dal sesso in vista.
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Il principe
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Presenza costante nelle Sacre Scritture, la figura del Maligno fa la sua comparsa nell’arte cristiana solo a partire dal IX secolo. In breve, però, questa lunga assenza viene recuperata. E proprio nell’età di Mezzo si assiste alla proliferazione di immagini che, con toni crudi e realistici, ci mostrano Satana e il suo regno infernale di Chiara Mercuri
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ra gli aspetti che piú di ogni altro segnano uno iato tra la nostra epoca e i secoli dell’età di Mezzo vi è la pressoché totale scomparsa del concetto di Inferno, inteso come luogo fisico in cui vengono puniti i peccatori. E lo stesso vale per l’idea di «diavolo», quale entità che di quel regno è padrone (se prescindiamo, naturalmente, dall’uso che di entrambi i termini continuiamo a fare su un piano, però, meramente colloquiale).
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Sono sempre meno, infatti, i sacerdoti che – legittimati da un nutrito numero di teologi – considerano il Male, il Demonio e l’Inferno come manifestazioni della negazione del bene, dell’assenza di Dio, della disperazione che si impossessa di un’esistenza in preda ai rimorsi in seguito a una mala condotta. E anche se i sacerdoti, nel loro percorso di formazione, continuano a ricevere una preparazione di base all’esorcismo, il che presupporrebbe il tacito riconosci-
Il diavolo raffigurato in un particolare del Giudizio Universale, tempera su tavola del Beato Angelico. 1432 circa. Firenze, Museo di San Marco.
mento, da parte della Chiesa, dell’esistenza ontologica di un’entità demoniaca effettivamente operante nel mondo, questa non è espressa in modo chiaro in nessun articolo di fede.
Un revival sorprendente Paradossalmente, però, denza nell’esistenza di l’età contemporanea ha proliferare di fenomeni
al declino della creun mondo infernale, assistito a un curioso che al Principe degli
Inferi si richiamano, come le sette sataniche o la musica di personaggi quali Marilyn Manson, o di gruppi come Mayhem, i Darkthrone o i Marduk. Allo stesso modo, anche i non credenti si mostrano molto attratti dalle pratiche esorcistiche, e i libri di padre Amorth – per esempio –, che di quell’esperienza trattano, hanno avuto un enorme successo di pubblico (Gabriele Amorth – 1925-2016 – è stato esorcista della diocesi di Roma, n.d.r.). MEDIOEVO IN NERO
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L’immaginario diabolico Nella pagina accanto scomparto di pala d’altare raffigurante il Giudizio Particolare, dipinto su tavola del Maestro di Soriguerola. Fine del XIII sec. Vic, Museu Episcopal de Vic. L’arcangelo Michele pesa le anime dei defunti e un demonio cerca di far pendere la bilancia dalla propria parte. senza del Maligno nel mondo, egli è chiamato a farsi miles, combattente (come d’altra parte nella letteratura giudaica postbiblica), e – nel caso del cristiano – a dare il suo contributo alla piú generale lotta di Cristo contro le potenze demoniache. Tuttavia, nei primi secoli del cristianesimo, il demonio è ancora un’entità aniconica, non corrisponde cioè a una persona, a un’immagine precisa, quanto piuttosto a un’azione d’influenza negativa esercitata sull’uomo per distrarlo dal bene. La durezza del cuore, la mancanza di misericordia, la fragilità, l’instabilità emotiva, il mancato controllo di sé, l’orgoglio, l’avidità di ricchezze, l’avvilimento, la fiacchezza, la disperazione sono tutti effetti del suo pernicioso ascendente, della capacità del diavolo di persuasione, della sua ostinata strategia di distruzione dell’uomo.
Sguaiato e ghignante
Di Lucifero si parla ampiamente nell’Antico Testamento, dove è citato con i nomi di Diavolo, Demone, Nemico, Drago, Tiranno, Spirito della fornicazione, Principe dei demoni ed è rappresentato come l’angelo ribelle precipitato a causa del suo peccato d’invidia, ma la sua presenza nel mondo si precisa nel Nuovo Testamento, nel Vangelo di Giovanni, perché l’evangelista lo definisce «principe di questo mondo» (Gv 12,31; 14,30; 16,11). Con san Paolo il problema del demonio viene demandato all’uomo e cessa di riguardare esclusivamente Dio, in quanto l’uomo è chiamato a lottare «contro i principati, contro le potestà, contro i padroni delle tenebre di questo mondo, contro gli spiriti del male che sono nei cieli» (Ef 6,12). Ne deriva quindi un imperativo preciso per il cristiano: di fronte alla pre20
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Miniatura raffigurante il peccato originale, dal Commento all’Apocalisse di Beato di Libana. X sec. Madrid, Real Biblioteca del Monasterio de San Lorenzo de El Escorial.
Nell’età medievale, invece, il demonio si presenta secondo l’icona a cui, ancora oggi, attingiamo piú di frequente nel nostro immaginario collettivo: egli è antropomorfo, oscuro, sguaiato e ghignante. Parallelamente al precisarsi della sua immagine – che da semplice forza ingannatrice e istigatrice diviene un’entità reale dotata di attributi precisi – si definisce anche la natura del suo regno, l’Inferno. Nel III secolo d.C., il teologo alessandrino Origene aveva applicato alla nozione di male, d’inferno e di dannazione la dottrina stoica dell’apocatastasi, ovvero di quel processo secondo il quale – per gli stoici – ogni essere che, nascendo, si stacca dal suo principio unitario, il Logos, è destinato poi a farvi ritorno alla fine di un movimento circolare, che ne prevede il reintegro nell’Uno. Sulla base di quella dottrina, Origene concepí l’idea – espressa nel suo De principiis – secondo la quale anche il male, Satana e i dannati, sarebbero stati, alla fine dei tempi, reintegrati in Dio, principio unitario ed eterno. In quest’ottica, la punizione ultraterrena, se doveva essere contemplata, andava considerata come punizione a tempo, che avrebbe avuto fine dopo il Giudizio Universale, a seguito del quale tutti gli esseri sarebbero stati salvati. Tale visione – oggi prevalente tra credenti e teologi – non riuscí tuttavia ad allungare la propria luce sull’età medievale, perché condan-
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nata nel sinodo costantinopolitano del 543. La sua censura portò anche all’irrigidimento della concezione del male e dei dannati, i quali – non potendo essere salvati – dovevano trovare necessariamente una loro collocazione determinata, separata da quella dei giusti.
L’invenzione del regno intermedio
In età medievale s’iniziò quindi a ragionare su un luogo preposto alla dannazione e combustione eterna – un luogo fisico, e non uno status –, come era quello descritto dalle Scritture: «Ma quanto ai codardi, agli increduli, agli abominevoli, agli omicidi, ai fornicatori, agli stregoni, agli idolatri e a tutti i bugiardi, la loro parte sarà nello stagno ardente di fuoco e di zolfo, che è la morte seconda» (Apocalisse, 21,8). E proprio l’insistenza, nel Medioevo, su un luogo assegnato ai dannati – i cui antesi22
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gnani furono trovati nella letteratura latina pagana – diede origine alla concezione di quel regno intermedio dell’oltretomba, il Purgatorio, che invece non aveva precedenti. Quest’ultimo, quindi, fu un’autentica invenzione medievale, come spiegò bene lo storico Jacques Le Goff (1924- 2014) nel saggio La nascita del Purgatorio (pubblicato per la prima volta in Italia nel 1982). L’affermazione di un luogo terzo in cui far convergere le anime dopo la morte corporale si spiega anche con la necessità di reagire a una concezione eccessivamente dualistica del mondo ultraterreno, diviso tra bene e male, che rischiava di avvicinarsi alle concezioni manichee, avversate e condannate dalla Chiesa sin dall’età tardo-antica. Nel XII secolo, tra il regno dei salvati e quello dei dannati, sorse dunque il Purgatorio, per
A sinistra La penitenza di san Girolamo, tempera su tavola di Sano di Pietro. 1444. Parigi, Museo del Louvre.
cosí profonda, passando da una percezione marginale del Diavolo e dell’Inferno a un’ossessiva visione del Maligno? Laura Pasquini fornisce due possibili piste d’indagine storica: la prima riguarda il consolidarsi, in questo periodo, del monachesimo, la seconda conduce al momento in cui nasce l’eresia catara.
Aneliti di perfezione
Fin dai primi secoli dell’era cristiana, la vita dei credenti si caratterizza per il desiderio di una perfetta sequela Christi («seguire Cristo»), che nell’età martiriale si esprime in forma eroica, attraverso il sacrificio della vita, a imitazione del sacrificio di Cristo durante la Passione. Con la fine delle persecuzioni, la sequela Christi inizia ad assumere la forma dell’imitazione della lotta condotta da Cristo contro Satana, una lotta in-
accogliere la categoria dei «sospesi» che ancora potevano sperare nella salvazione eterna. Agli inizi del XIV secolo poi, Dante cristallizzò tale concezione tripartita dell’Aldilà, conferendogli una consacrazione definitiva, destinata a influenzare il pensiero teologico successivo. Il demonio – come ha scritto Laura Pasquini nel saggio Diavoli e Inferni del Medioevo (Il Poligrafo, Padova 2015), dedicato all’elaborazione dell’immagine del Diavolo e dell’Inferno – non venne quasi mai rappresentato nell’arte cristiana fino al IX secolo: da quel momento ebbe inizio una fitta serie di raffigurazioni che divennero anche fonte d’ispirazione per la Commedia di Dante. Che cosa accadde dunque, in questa fase di passaggio tra Alto e Basso Medioevo, da determinare l’apparizione della figura del demonio? Perché la mentalità cambiò in maniera
Qui sopra capolettera miniato raffigurante la redenzione dei giusti, da un libro di preghiere di Filippo IV di Francia. 1290-1295. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
tesa come ascesi verso la perfezione. Ascesi deriva dal greco àskesis, che indica l’esercizio, lo sforzo necessario a raggiungere un buon livello di educazione del corpo, per esempio nella prestazione atletica. Nella cultura teologica, tale idea venne trasposta dal campo fisico a quello spirituale, per indicare la tensione necessaria a dominare vizi e passioni, al fine di elevarsi a una condizione di purezza dello spirito. Questo sforzo si sostanziava in pratiche di astinenza, penitenza e austerità, quali i digiuni, le veglie e, in casi estremi, le punizioni corporali auto-inflitte. Il monaco è, per definizione, colui che sta MEDIOEVO IN NERO
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L’immaginario diabolico Nella pagina accanto Vézelay (Francia), basilica di S. Maria Maddalena. Particolare di un capitello raffigurante la tentazione di sant’Antonio eremita da parte di due demoni. Prima metà del XI sec.
Zillis (Svizzera), basilica di S. Martino. Particolare del soffitto ligneo raffigurante le Tentazioni di Cristo. XII sec.
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da solo (dal greco mònos, uno), che si ritira in solitudine, nel silenzio, per meglio purificarsi dal peccato. Fu il monaco allora a divenire il depositario per eccellenza delle pratiche ascetiche che, cessata la fase «martiriale», divennero il mezzo migliore per emulare Cristo. A partire dal IV secolo – sul modello di quelle già diffuse in Egitto e Asia Minore per iniziativa di Pacomio e Basilio – varie comunità di monaci presero avvio anche in Europa. Si trattava di asceti, mistici, eremiti, accomunati dal desiderio di una perfezione da ricercarsi nella preghiera e nella solitudine, in continuità con la tradizione penitenziale ebraica. Nella tradizione cristiana, però, questa scelta avvenne sotto l’influenza del monito paolino a condurre una lotta costante «contro la carne». Uno dei primi a tentare tale esperienza in Occidente fu san Girolamo, il quale, dopo aver trascorso diversi anni della sua vita nel deserto della Calcide, maturò tuttavia la convinzione che la vita cenobitica (in comune con altri monaci) dovesse essere preferita a quella anacoretico-solitaria. In una delle sue epistole, Girolamo dichiara la
sconfitta della seconda, affermando con amarezza: «Proprio io che per paura dell’Inferno mi ero condannato a un tale carcere abitato solo da scorpioni e belve feroci, spesso mi sentivo circondato da fanciulle danzanti (...) Cosí domavo la carne ribelle con settimane di digiuno» (Epistola, XII, 7). Nei secoli centrali del Medioevo s’iniziò anche a concepire il ritiro dal mondo in senso mistico, cioè come distacco spirituale da esso, piuttosto che come allontanamento fisico in luoghi solitari e impervi, quali il deserto per i monaci orientali o le montagne boscose per quelli occidentali.
Un rivale quotidiano
In ogni caso, fu la solitudine dei monaci – sempre secondo Laura Pasquini – fisica o spirituale che fosse, a divenire il luogo privilegiato dei demoni, la loro naturale dimora, il loro palcoscenico di azione. In altre parole, l’immaginazione del monaco – messa a dura prova dai lunghi digiuni e dalle penitenze – «inventò» il demonio, nella sua essenza di competitore, di quotidiano rivale, di istigatore che si insinua sotto gli usci degli eremi e delle grotte, solo
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apparentemente inaccessibili, per aggredire il religioso, assumendo spesso la forma illusoria di donna. Mosso dal tentativo di fuga dai centri abitati e dal desiderio di ordire nuove trappole, il demonio insegue ostinato i monaci, si fa beffe di loro, intenzionato a vanificarne l’ingenua ritirata. Anzi, di fronte a quello che giudica un tentativo sfrontato di evitarlo, si fa ancora piú abile nello sfruttare la propria capacità di conoscere le fragilità di ciascuno e attacca il monaco laddove, secondo l’età, lo sa piú debole. Al monaco maturo, che dopo molte battaglie riesce ad avere un maggiore dominio di sé, il demonio si presenta come abbattimento spirituale, sconforto, pessimismo, sensazione di sconfitta; mentre al giovane appare nella forma che gli è piú congeniale, come eccitatore di passioni violente e incontenibili: ora è una meretrice astuta e corruttrice, ora una fanciulla ingenua e avvenente, ora, infine, una donna sperduta che apparentemente cerca solo aiuto e protezione. Il monaco deve farsi sempre piú abile nella sua battaglia e restare lucido di fronte a inganni che si fanno sempre piú sottili, aprendo in lui scrupoli di coscienza e incertezze.
L’agitatore della Linguadoca, olio su tela di Jean-Paul Laurens. 1887. Tolosa, Musée des Augustins. Il dipinto evoca la vicenda del monaco francescano Bernard Délicieux (1260-1318), che combatté strenuamente contro l’Inquisizione all’epoca della persecuzione dei catari. Arrestato e sottoposto a processo, il religioso, riconosciuto colpevole di essere nemico dell’Inquisizione stessa, di tradimento e di praticare le arti magiche, venne condannato alla prigione perpetua.
Provocazioni diaboliche
È difficile negare che la solitudine, specie nell’ora meridiana – definita non a caso nella cultura monastica come l’«ora del demonio», quando la carne è piú debole e meno pronta a resistere agli assalti – si prestasse a nutrire molteplici suggestioni. Tuttavia ad agire maggiormente sulla psicologia del monaco dovette essere la lettura delle Sacre Scritture di cui quella solitudine si sostanziava. Se infatti il modello della vita ritirata era Cristo, allora va detto che la solitudine dei monaci non poteva non essere abitata dalla presenza del demonio, che proprio nel deserto, nei quaranta giorni del suo ritiro lo aveva con piú mezzi e in diverse forme attaccato: «Allora Gesú fu condotto dallo Spirito nel deserto per esser tentato dal diavolo. E dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, ebbe fame. Il tentatore allora gli si accostò e gli disse: “Se sei Figlio di Dio, di’ che questi sassi diventino pane”. Ma egli rispose: “Sta scritto: Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”. Allora il diavolo lo condusse con sé nella città santa, lo depose sul pinnacolo del tempio e gli disse: “Se sei Figlio di Dio, gettati giú”» (Mt 4,3). Cosí anche nell’iconografia, la lotta del monaco contro Satana e le sue tentazioni divenne una costante, proprio a imitazione delle tentazioni di Cristo. Se dunque il demonio ha come funzione rico26
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nosciuta dalle Scritture quella di tentare l’uomo colpendolo nelle sue debolezze, anche i vizi e i peccati sono indotti e suggeriti dalla sua azione suasoria. La seconda pista suggerita da Laura Pasquini connette la nascita dell’iconografia del demonio con lo sviluppo dell’eresia catara. Quest’ultima nasce all’inizio dell’XI secolo e la sua denominazione deriva dal greco cataro, puro, ma nella Francia meridionale fu conosciuta come eresia albigese (da Albi, nella Lingua-
doca), mentre nell’Italia settentrionale con quello di patarina. Tale eresia, che trovò seguito soprattutto tra i ceti bassi della società – in particolare tra i lavoratori della lana –, si rifaceva alle dottrine manichee, diffusesi nel III secolo d.C. sia in Oriente che in Occidente. Perseguitate in Europa già nei primi secoli del cristianesimo, sopravvissero in rivoli sotterranei lungo l’intero arco del Medioevo, fino a riemergere con forza nella dottrina catara.
Secondo i manichei, la salvezza si raggiungeva attraverso la conoscenza dei due principi operanti nel mondo, la luce e tenebra. Essi cominciarono cosí a contrapporre Dio, signore della luce, puro principio spirituale, a Satana, principe della tenebra, creatore della materia. Tale convinzione era suffragata dal fatto che Gesú nel Vangelo di Giovanni, come abbiamo visto, aveva chiamato Satana «principe del mondo». Secondo il manicheismo, quindi, MEDIOEVO IN NERO
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il creatore del mondo non era Dio, ma Satana, e l’uomo in questa visione appariva come un puro spirito intrappolato però nel carcere del corpo, dal quale poteva liberarsi solo attraverso la morte. I catari consideravano perciò legittimo e auspicabile il lasciarsi morire al fine di raggiungere la liberazione dello spirito dalla materia del mondo, cosí come consigliavano tutta una serie di precetti tesi a fustigare la carne, quali la povertà, i digiuni, l’assoluta astinenza dai rapporti sessuali, sia per le femmine che per i maschi, e cosí, come conseguenza estrema, la condanna della procreazione stessa all’interno del matrimonio. Nonostante l’accento mortifero, la predicazione dei catari venne accolta con favore presso le masse derelitte; essi negavano al clero qualunque funzione di intermediazione tra Dio e gli uomini – e quindi lo stesso ricorso ai sacramenti – e si presentavano al loro uditorio vestiti di abiti poveri. Ciò li fece percepire vicini ai bisogni della gente e capaci di interpretare la frustrazione e la disperazione di quella fascia della società a cui il benessere e l’esercizio del potere erano preclusi.
Come un animale astuto e strisciante
Dal punto di vista teologico, la dottrina catara si presentava come eretica in quanto professava un dualismo non rintracciabile nelle Scritture. Nel Libro della Genesi, infatti, Dio viene designato come creatore di tutto il mondo, Satana compreso; quest’ultimo è solo una delle sue creature, sebbene sia descritto come il piú astuto e strisciante degli animali, come un serpente tentatore, posto, però, sempre sotto il suo dominio. Nell’ortodossia cristiana, dunque, la caduta degli angeli ribelli – con le conseguenti lotte tra bene e male, schiere angeliche e angeli demoniaci – sebbene destinata a concludersi solo alla fine dei tempi, non innescava alcun dualismo ontologico. E Cristo, che nel Vangelo mostrava di avere il potere di scacciare i demoni, trasmetteva poi tale potere – di fatto – agli apostoli e ai suoi successori, i vescovi, che potevano delegarlo ai semplici sacerdoti. Portata avanti sia dal potere religioso che da quello politico, la lotta contro l’eresia catara conobbe pagine di estrema crudeltà, in particolare nel Sud della Francia, dove si era diffusa al punto da fare presa anche tra le fila dell’aristocrazia feudale, conquistando interi villaggi e città e dando vita a una vera e propria Chiesa, ormai concorrente con quella di Roma. La controffensiva del re di Francia e del papa non tardò a prendere forma e sfociò, nel 1209, 28
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nella tristemente nota «crociata contro gli Albigesi», conclusasi con il massacro degli eretici provenzali e l’annessione della Francia meridionale al regno capetingio. Anche in Italia, dove molti Albigesi si erano rifugiati, il clima si fece teso e l’imperatore Federico II introdusse nella legislazione la condanna a morte per tutte le diverse categorie di eretici, catari e patarini. Il fantasma di purezza agitato dai catari irrigidí e cristallizzò le posizioni dei loro nemici, ai quali spesso forní l’occasione di dare avvio a feroci offensive, questa volta in nome della purezza della fede, di cui molti altri gruppi minoritari, come gli Ebrei, fecero le spese. A tutto ciò la nascita dell’eresia catara, ma soprattutto il successo che essa riscosse, diede un indiretto contributo. La minaccia di conversioni di massa – che avrebbero messo in discussione il sostanziale equilibrio raggiunto dall’Europa cristiana dopo la conclusione della grande stagione delle eresie del periodo tardoantico – fece riaffacciare il pericolo di una scissione interna alla Respublica Christiana. La lotta contro l’eresia divenne quindi una lotta a favore dell’unità che, come sempre nella storia, assunse i toni di un’accanita quanto vana ricerca di un pensiero unico e totalizzante. In nome dell’unità di fede, che divenne quindi soprattutto unicità di pensiero, ci si arroccò su posizioni sempre piú aggressive nei confronti di ogni diversità, presto etichettata come caos, disordine morale, impurità. Lo sforzo di definire, difendere e imporre sempre meglio la «purezza» della cristianità, si trasformò in un aberrante processo di demonizzazione del proprio presunto nemico, in particolare di quello «interno». Tale processo di «demonizzazione» va dunque inteso letteralmente: si procedette cioè a descrivere l’avversario come un frequentatore, adoratore, imitatore e complice del demonio.
L’accanimento degli inquisitori
I processi istruiti dalle autorità civili e da quelle religiose ebbero, quindi, l’effetto di giungere a una sempre piú nitida definizione della figura del demonio, delle sue fattezze e delle sue prerogative. Questo perché gli eretici furono accusati di essere guidati dal demonio nell’allontanarsi dall’ortodossia cristiana; del resto, come abbiamo visto, essi professavano l’assoluto dominio del diavolo su questo mondo e per tale ragione, durante gli interrogatori, le domande su presunte – o in qualche caso effettive – pratiche satanico-occultistiche, divennero insistenti e ossessive. La nascita dell’In-
Bologna, S. Petronio, Cappella Bolognini. Particolare dell’Inferno, affresco attribuito a Giovanni da Modena. 1410.
Una volta avviati i primi processi, tali pratiche ascoltate nelle aule dei tribunali divennero patrimonio dell’immaginario collettivo, cosí da suggerire agli imputati – anche quando non richieste – quelle risposte che gli inquisitori andavano cercando. Sfiniti in molti casi dalla tortura o non sempre in grado di comprendere le accuse che venivano loro rivolte, molti imputati finivano col confessare crimini non commessi per giungere a una condanna rapida, preferita a un lento e piú crudele supplizio.
Manie complottiste
quisizione, in età bassomedievale, contribuí non poco a questa dinamica: il sistema inquisitorio introdotto da Innocenzo III nel 1198, fuse in un’unica figura il giudice e l’accusatore con le immaginabili conseguenze aberranti. Persino gli imperatori – come Teodosio – che nel IV secolo avevano perseguitato gli eretici, non avevano mai unificato i due momenti dell’accusa e del giudizio. Durante i processi, inoltre, gli inquisitori si servivano di formulari prestabiliti, attraverso i quali gli imputati venivano guidati a fornire risposte. Un’ampia sezione di tali formulari era dedicata a domande inerenti al demonio: se lo si era invocato, se ci si era serviti del suo aiuto per portare a termine azioni malvagie, se per suo suggerimento erano stati profanati crocefissi e oggetti sacri, se ci si era lasciati «accarezzare» da lui, cioé se ci si era uniti carnalmente con lui.
Accadde cosí che molti dei principali bersagli dell’inquisizione – eretici, donne sole, Ebrei, relapsi (dal latino relapsus, participio passato di relabi, «ricadere», il termine indicava chi ricadeva nell’eresia o nel peccato, abbracciando dottrine considerate eretiche dopo averle abiurate, n.d.r.) o templari – confessassero di aver incontrato piú volte Satana, di aver per suo ordine sputato, calpestato, dileggiato il crocefisso, bestemmiato il nome di Dio e dei santi e offeso la Madonna coll’appellativo blasfemo di «meretrice». Ciò ebbe la conseguenza di conferire al demonio un’importanza sempre maggiore e forní l’occasione a spiriti torvi di poter dare libero sfogo a morbose manie complottiste, sotto il pretesto di combattere quelle aberrazioni di cui essi stessi erano depositari, ai danni di imputati perlopiú inconsapevoli e inermi. Tuttavia, mano a mano che nella trattatistica cristiana e nelle aule dei tribunali si ingigantivano sempre piú l’immagine e l’azione del demonio attraverso un linguaggio iperbolico e ridondante, accentuando la pericolosità, la malvagità, la sottigliezza e turpitudine delle pratiche a cui obbligava i suoi servi – dagli infanticidi alle orge rituali –, lontano dai tribunali quell’icona cosí artefatta iniziò a essere irrisa e derisa. Cosí a fare da contraltare alle formule altisonanti degli atti processuali, fecero capolino nella letteratura dell’epoca motti di spirito e irriverenze, che finirono con il ridicolizzare l’argentea natura del demonio cui predicatori veementi e inquisitori in malafede pomposamente si richiamavano. Tra tutti, resta a fare da manifesto alla reazione contro la propaganda sul demonio la spassosa terza novella della decima giornata del Decameron di Boccaccio, riassumibile nella nota metafora sessuale di «ricacciare lo diavolo nello inferno», a dimostrare come alla «sacralizzazione» del demonio in età bassomedievale corrispose una sua «desacralizzazione», operata da una parte per nulla minoritaria e ininfluente della società. MEDIOEVO IN NERO
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ARTE E PENSIERO
L’immaginario diabolico
CHI DICE DONNA, DICE SATANA La connessione tra le donne e Satana, affonda le radici in età antica. «Se la natura rese noi donne del tutto incapaci di fare del bene, non esistono artefici piú dotate di noi per il male», afferma Medea. Ma l’idea della familiarità femminile con le pratiche demoniache trovò maggiore diffusione nel Medioevo. Perchè? Nel XIII secolo la letteratura rispecchiò una palingenesi culturale che influí sulla concezione comune intorno alla natura inquietante del gentil sesso. In quel periodo nelle poesie d’amore del Minnesang tedesco si verificò un brusco passaggio dall’immagine di donna come essere angelicato e irraggiungibile a quello di pericolosa tentatrice, che trascina gli uomini nei piaceri della sensualità piú estrema. A cavallo tra il Duecento e il Trecento, la rappresentazione della femminilità, sia nella letteratura che nell’arte, assunse profili sempre piú tenebrosi: la donna veniva spesso descritta come amante del lusso, tendente all’adulterio e capace di tutto pur di ottenere i suoi fini utilitaristici. In un manoscritto francese del XIII secolo (Le miroir de vie et de mort) i peccati sono raffigurati da serpenti che hanno le teste femminili. Al clima ostile nei riguardi delle donne si adeguarono anche i sovrani, relegandole in una posizione sempre piú defilata nell’ambito dell’amministrazione politica e familiare. È quanto accadde in Francia nel 1314: in quell’anno Filippo il Bello riesumò l’antica legge salica che permetteva solo ai maschi di succedere al trono. L’ultima donna famosa, verso la fine dell’età di Mezzo, fu Giovanna d’Arco, che si fece largo con forza, pagando il prezzo del suo coraggio con la condanna al rogo. Anche le tesi «antifemministe» della Chiesa incisero non poco in questa sorta di campagna misogina. Sant’Agostino considerava le donne come esseri imperfetti e piú di un predicatore lanciava strali contro la loro tendenza alla perversione e all’inganno. Il terreno era pronto per legare a doppio filo il gentil sesso, le streghe e il loro referente sovrannaturale: il demonio. Lo fece il celebre trattato sulla stregoneria Malleus maleficarum, nel 1487, con un’invettiva terribile: «Tu non sai che la donna è una chimera, ma devi sapere che questo mostro ha in sé tre forme: si adorna con un volto insigne di leone odoroso, si macchia di un ventre di capra e si arma di una virulenta coda di vipera. E questo vuol dire che l’aspetto della donna è bello, il suo contatto è fetido, la sua compagnia mortifera». Il passaggio, ormai, era compiuto, come ha
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sottolineato la storica francese Colette Arnould nel saggio La stregoneria. Storia di una follia tipicamente umana (Edizioni Dedalo, Bari 2011): «Onnipresente il diavolo assumeva ora una consistenza materiale, ma il fatto di celarsi dietro tutti coloro che, in qualche maniera, erano legati al male, dunque la sua molteplicità di apparenze, gli conferiva ancora una certa astrazione. Si arriva allora a un’ultima tappa, dove un esasperato bisogno di concretizzazione innesca un processo che sfocia nella costruzione di un personaggio assurto a incarnazione del male assoluto: la strega». F. C.
Miniatura che mostra i vizi della Vanità e della Lussuria raffigurati come diavoli che dominano le donne, da un’edizione della Visio Ludovici de Francia. XIV sec. Venezia, Museo Correr.
Quelle sostituzioni inquietanti Nel Medioevo si affermò la credenza che i neonati potessero essere vittime di misteriosi scambi di culla. Un fenomeno che venne spiegato chiamando in causa, di volta in volta, fate, elfi e perfino il Diavolo. Diffuso soprattutto nel Nord Europa, il mito del changeling – questo il nome assegnato alle vittime di questi oscuri accadimenti – sembra tuttavia avere avuto anche alcune singolari attestazioni in Italia…
di Domenico Sebastiani
I
l termine changeling è attestato nella lingua inglese solo a partire dal Cinquecento, grosso modo al tempo di Edmund Spenser e William Shakespeare. L’espressione designa un bambino segretamente sostituito in culla da un altro, in particolare da una creatura – di salute malferma, particolarmente brutta o stupida –, che si suppone sia stata lasciata da fate, folletti, gnomi o esseri demoniaci in luogo del bimbo originario e sano, che essi stessi hanno rapito. Il termine, peraltro, non esiste solo nella Gran Bretagna, visto che anche altre lingue conoscono termini affini, come il tedesco Wechselbalg, il danese skifting e lo svedese bortbyting: il mitema, infatti, risulta piú che altro diffuso nei Paesi celto-germanici. Nel mondo anglofono e germanofono questo mito folklorico è stato oggetto di numerosi studi e pubblicazioni, mentre in Italia è stato quasi del tutto ignorato. Solo in anni recenti, Riccardo Castellana ha esplorato per la prima volta in modo sistematico la diffusione nel nostro Paese di questo tema letterario, con l’obiettivo di analizzare le dinamiche per effetto delle quali un prodotto della cultura popolare e subalterna è stato poi rielaborato dalla cultura «alta», dal periodo medievale fino alle soglie della modernità. Se, dunque, la credenza nei changeling è diffusa soprattutto nella cultura celto-germanico-slava, anche per l’Italia esistono rari casi, documenta32
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ti in Val d’Aosta e nell’alta Val di Susa, nonché in Sicilia e in zone circoscritte del Cilento e della Calabria. Se il persistere del mito nelle zone alpine è da ricollegare all’influenza del folklore celtico, la presenza di una credenza molto simile in Sicilia viene invece considerata piuttosto singolare in quanto non ricollegabile alle influenze nordiche, né, tantomeno, a quelle della zona greco-albanese.
Un sostrato arcaico
Nell’isola si parla di canciatu (o canciateddu), per indicare il bambino sostituito, e di donni di fuora, per identificare le misteriose entità femminili che procedono allo scambio, la cui prima attestazione risale a un manuale per confessori del Quattrocento, nel quale si parla di «donni di fori e ki vayanu la nocti». Si potrebbero ipotizzare, come ha suggerito Castellana, una credenza autoctona antichissima e un sostrato di base arcaico, comune a tutte le varianti del changeling in Europa, con connotazioni sciamaniche e legato al culto di Diana, alla stregua di quanto teorizzato da Carlo Ginzburg in relazione alle origini del sabba. Qualche studioso ha ritenuto di rinvenire il primo caso di changeling ricorrendo addirittura alla letteratura antica classica, in particolare all’episodio, narrato nel Satyricon di Petronio (I secolo d.C.), che ha luogo durante la cena di (segue a p. 36)
Nella pagina accanto Natività di santo Stefano, pannello del retablo proveniente dalla chiesa di Sant Esteve de Granollers, opera di Pau Vergós e bottega. Tempera e foglia d’oro su tavola. 1495-1500 circa. Barcellona, Museo Nazionale d’Arte della Catalogna. La creatura che dorme sul lettino, con un copricapo rosso e le corna, è un changeling, mentre il santo è fra le braccia di Satana, che lo ha rapito e sta volando via.
GRANDI DINASTIE
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FOLKLORE
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RAPIMENTO E RITORNO DEL PROTOMARTIRE
Il ciclo pittorico di santo Stefano attribuito a Martino di Bartolomeo (prima metà del XV secolo), esposto presso lo Städel Museum di Francoforte sul Meno, è composto di sette pannelli. Nel primo è rappresentato lo scambio del bambino: approfittando della distrazione dei presenti, un diavolo sostituisce il lattante con un piccolo demonio, molto simile nei tratti somatici al piccolo Stefano, con la differenza che sulla testa porta piccole corna invece dell’aureola. Nel secondo si vede il diavolo che vola via, dopo aver lasciato l’infante in un luogo abbandonato, ma questi viene salvato dall’intervento miracoloso di una cerva che lo allatta. Nel quinto pannello la scena si presenta divisa in due: da un lato santo Stefano, ormai adulto, torna nella sua abitazione e smaschera il suo sostituto diabolico che ancora dorme nella culla, tra l’incredulità dei genitori; dall’altro, scoperto l’inganno, il changeling viene gettato dai servi nel fuoco.
Sulle due pagine alcuni particolari delle Storie di santo Stefano, ciclo a tempera e foglia d’oro su tavola attribuito a Martino di Bartolomeo. XV sec. Francoforte sul Meno, Städel Museum. In questa pagina, in alto, la nascita e il rapimento di santo Stefano da parte di un demonio; a destra, santo Stefano ritorna alla propria casa e smaschera il changeling, che viene gettato nel fuoco. 34
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Altro famoso affresco che rappresenta lo scambio diabolico di cui fu vittima santo Stefano è quello del coro del Duomo di Prato, eseguito da Filippo Lippi tra il 1452 e il 1465. In questo caso il changeling non ha l’aspetto di un demonietto, né ha le corna, risultando del tutto simile a santo Stefano, che viene portato via dal diavolo. La sola differenza tra i due bimbi è l’aureola, visto che Stefano la possiede, mentre il changeling ne è privo. Esistono numerosi altri dipinti in cui è raffigurato l’episodio, come nella chiesa di S. Lucchese a Poggibonsi, di autore anonimo e risalente al 1440 circa, oppure nell’oratorio di S. Stefano, a Lentate sul Seveso, di scuola lombarda della seconda metà del XV secolo. Notevole è la Natività di Santo Stefano, della scuola di Vergòs, originariamente nella chiesa di Sant Esteve de Granollers e attualmente conservata al Museo Nazionale d’Arte della
Catalogna (1495-1500), nella quale, davanti a un gruppo di donne, il changeling è rappresentato mentre dorme su un piccolo letto, con un copricapo rosso e le corna, mentre il vero santo Stefano è in alto a destra del dipinto, in braccio a Satana che, in volo, lo sta rapendo (vedi foto a p. 33). Il motivo agiografico di santo Stefano sostituito da un changeling diabolico si estese, con alcune varianti, alle vite di san Lorenzo e san Bartolomeo. La storia del primo si ritrova raffigurata, con tratti molto stilizzati, in alcune chiese danesi, come quella di Undløse (1450; vedi foto a p. 36) e nella chiesa parrocchiale di Skamstrup; riguardo a quella del secondo, notevole risulta l’affresco nella cattedrale di Tarragona (1360) ove gli sposi non sembrano preoccupati del piccolo demonio che si agita nella culla, mentre a terra giacciono addirittura quattro balie, con un chiaro riferimento al noto motivo della insaziabilità del changeling. MEDIOEVO IN NERO
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FOLKLORE
Changeling
Trimalcione; in questo caso le striges – entità notturne a metà strada tra donne e volatili – sostituiscono, durante una veglia funebre, il corpicino di un bimbo morto con un fantoccio ripieno di paglia. In realtà, tale «sostituzione» è molto diversa da quella del changeling e si ricollega alla predilezione delle strigae romane, mostri ematofagi, per le interiora e per il sangue dei neonati; questo tratto, comune anche a creature della mitologia greca (come le lamiae), sarà poi ereditato dallo stereotipo della strega medievale, nota succhiatrice del sangue dei bimbi, spesso sotto le spoglie di gatto o di altro animale. L’analogia con il fenomeno del changeling quindi è solo apparente, in quanto le fate o altri esseri misteriosi non uccidono mai i bambini che rapiscono o che sostituiscono con i propri, ma sono indotti allo scambio proprio dal fatto di amare di un amore geloso e possessivo i neonati sani e di volerli allevare e tenere con sé, spesso per tutta la vita. Se il mito del changeling è ampiamente diffuso nel folklore del Nord Europa e protagonista di innumerevoli fiabe, esistono attestazioni medievali che fanno emergere con chiarezza una credenza che ha origini molto antiche. Attorno al 1200, in un suo sermone, Giacomo di Vitry, 36
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Undløse (Danimarca). Il rapimento di san Lorenzo bambino, raffigurato in un particolare della decorazione ad affresco della chiesa, attribuita al Maestro di Undløse. 1450.
vescovo di Acri, usa nel francese antico la forma chanjon (o changeon) nel momento in cui afferma che «sono infatti simili al bambino che i Galli chiamano chamjon o chanjon, che prosciuga il latte di molte nutrici e ciononostante non ne trae alimento né cresce, ma ha il ventre duro e gonfio» .
Neonati che piangono sempre
Piú tardi, attorno al 1405, il teologo Nicola Jawor, nel trattato De superstitionibus, fa riferimento alla credenza non di infanti sostituiti da altri, ma di veri sostituti diabolici, generati dai «demoni incubi». Essi vengono definiti «cambiones» o «cambiti»: «Sembra che i demoni siano davvero capaci di generare, perché è accertato, e presso il volgo lo si dice comunemente, che i figli di quei demoni che giacciono sopra le donne dormienti [cioè i «demoni incubi»] vengano sostituiti dagli stessi demoni e poi da quelle allevati come fossero figli propri, una volta rapiti i figli veri. Per questo motivo sono detti cambiones, o anche cambiti, cioè “scambiati”; e gli scambiati, dopo che alle partorienti sono stati sottratti i propri figli, li chiamano macilenti: piangono sempre, bevono avidamente il loro latte, al punto che la piú grande abbondanza di latte non riesce a saziarne uno solo». Interessante è l’osservazione, comune a en-
GUINEFORT, CANE NOBILE E SANTO L’episodio narrato da Étienne de Bourbon e studiato da Jean-Claude Schmitt ruota attorno alla presenza e alla venerazione, nella regione di Dombes, presso Lione, di un santo molto particolare, in quanto trattavasi di un cane. La leggenda narra che Guinefort, questo il nome del santo levriero, fosse il cane di uno iuvenis di nobile status. Questi, un giorno, si allontanò temporaneamente dalla propria abitazione insieme alla moglie, lasciando l’animale insieme al figlioletto che dormiva nella culla. All’improvviso, un grosso serpente si avventò sul bimbo e il cane, accorso in sua difesa, ingaggiò una strenua lotta con il rettile, riportando varie ferite, ma riuscendo a prevalere e a ucciderlo. Durante lo scontro, la culla si
trambi gli autori, secondo la quale questi changeling, oltre che malaticci, si lamentano sempre e hanno un appetito insaziabile, arrivando a succhiare senza limiti il latte dalle nutrici. Secondo il mito folklorico diffuso nelle regioni europee, lo scambio avviene normalmente tra le mura domestiche, in particolare nella camera da letto dove il bimbo dorme nella culla. In quel momento gli esseri sovrannaturali si introducono e sostituiscono il soggetto originario con il changeling. Esistevano, del resto, pratiche rituali per cercare di proteggere i piccoli nella culla, e tenere lontani gli spiriti malefici: buona cosa era
rovesciò e il bambino, indenne, rimase lontano dalla vista, avvolto in una copertina. Quando il signore rientrò e si accorse della culla vuota e del cane insanguinato, credette che il levriero avesse sbranato il bambino. Preso dall’ira, uccise per punizione l’animale, salvo poi accorgersi dell’enorme errore commesso e del fatto che l’infante era stato salvato proprio dal levriero; per espiare la colpa, fece seppellire il fedele cane nel bosco vicino, che dallo stesso prese il nome. Con il tempo si diffusero varie pratiche devozionali della popolazione locale, che si recava in pellegrinaggio sulla tomba di Guinefort, portando ex voto o chiedendo intercessioni per la salute dei propri bambini malati.
quella di conservare sempre acceso un fuoco, o almeno una candela, nella stanza del bimbo, cosí come di bruciare paglia sopra la culla prima di deporvi il neonato, facendo il segno della croce. Anche avvolgere il bimbo in panni rossi, in Svezia, aveva funzioni apotropaiche. Il rimedio a carattere preventivo di gran lunga piú efficace era senz’altro ritenuto il battesimo, che non solo aveva funzioni esorcistiche tali da allontanare le «fascinazioni» e il malocchio, ma costituiva, anche dal punto di vista sociale, il primo riconoscimento formale dell’infante come «individuo» e come membro della famiglia.
Xilografia raffigurante la leggenda medievale attorno a cui nacque e crebbe il culto di san Guinefort. XV sec.
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FOLKLORE
Changeling
UNA SOLIDA FORTUNA LETTERARIA Echi del motivo folklorico del changeling (che si interseca poi con quello del foundling, cioè del cosiddetto «trovatello») si ritrovano, dopo il Medioevo, in varie letterature nazionali. Nell’Inghilterra elisabettiana, vi sono, per esempio, Edmund Spenser, con La Regina delle Fate (The Faerie Queene, 1590), nonché William Shakespeare, autore di Sogno di una notte di mezza estate (A Midsummer Night’s Dream, 1595), Racconto d’inverno (The Winter’s Tale) e I due nobili congiunti (The Two Noble Kinsmen, 1612-14), opere che attingono tutte ampiamente a tale tema mitico. A ridosso dell’illuminismo, Jon Gay (1685-1732) firmò due serie di favole esopiane, tra cui La madre, la nutrice e la fata (The Mother, the Nurse, and the Fairy), nella quale denuncia l’ingenuità popolare che crede nei folletti e si affida a spiegazioni magiche per spiegare il male e fenomeni totalmente naturali. In epoca romantica, invece, i fratelli Jacob e Wilhelm Grimm scrivono Der Wechselbalg, una serie di racconti incentrati sul tema dello scambio magico a opera di creature misteriose, che diventano elemento propulsore per la riscoperta ottocentesca del
Ma come si riconosce un changeling? È sempre il folklore a dirci che esso si presenta come un essere zoomorfo, incredibilmente brutto, irsuto, debole e fiacco, che rimane di costituzione piccola nonostante il passare degli anni, dotato di un appetito vorace, come si è notato anche nelle testimonianze di Giacomo di Vitry e Nicola Jawor. Il changeling non cammina, o si muove in modo sgraziato, non sa parlare o lo fa male, apparentemente non capisce e si atteggia come un idiota; in realtà, di nascosto, è diabolicamente furbo e vivace. Figlio di fate, elfi, folletti, demoni o altro, il changeling è motivo del rapimento-sostituzione per varie cause, secondo tesi non unanimi: la necessità degli elfi di preservare la specie tramite il nutrimento del latte umano, la cattiveria di alcuni spiriti del male che hanno intenzione di nuocere agli uomini, ovvero l’amore delle fate nei confronti dei bambini che rapiscono e che intendono trattenere nel loro regno con le massime attenzioni, ovvero, ancora, la punizione in conseguenza di una colpa, ossia un comportamento eticamente scorretto dei genitori, come l’aver concepito il figlio fuori dal sacramento del matrimonio. 38
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folklore inerente i changeling. Il tema mitico è fonte di ispirazione, del resto, anche per Ernst Theodor Amadeus Hoffmann (1776-1822), William Butler Yeats (1865- 1939) e per il premio Nobel Selma Lagerlöf (1858-1940). Il fatto che la credenza dei changeling sia attestata anche in Sicilia – situazione di assoluta rilevanza, perché, a tutt’oggi, sembra aver avuto un’origine indipendente rispetto ai mitemi del Nord Europa – influenzò anche Luigi Pirandello (1867-1936), il quale pubblicò la novella Il figlio cambiato nel 1923 (raccolta poi nell’ottavo volume delle Novelle per un anno, 1925). In realtà, la novella costituiva la rielaborazione di un racconto pubblicato già nel 1902 e intitolato Le nonne, con un evidente richiamo alle misteriose presenze femminili – fate e streghe – che rapiscono e sostituiscono i bambini. Pirandello tornò una terza volta sul tema, nel 1933, realizzando un dramma in tre atti, intitolato La favola del figlio cambiato. I ricordi personali di Pirandello relativi a tali leggende locali poterono peraltro giovarsi dello studio dell’etnologo Giuseppe Pitrè, Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, pubblicato nel 1889.
Der Wechselbalg, carboncino e acquerello su carta di Johann Heinrich Füssli. 1780. Zurigo, Kunsthaus Zürich. Il pittore raffigura una madre che scopre un changeling nella culla del figlioletto, il quale viene intanto rapito da una creatura alata. Se il sostituto ha dei caratteri esterni piuttosto chiari, il folklore richiede rituali di smascheramento, protezione e restituzione. Una pratica curiosa, diffusa nelle fiabe celtiche per riconoscere il changeling e attestata da William Butler Yeats nel suoi Fairy and Folk Tales of the Irish Peasantry (1888), è quella che consiste nel far bollire alcuni gusci d’uovo in una pentola d’acqua (in altri Paesi conchiglie o gusci di noce), pratica che provocherà grande stupore nel piccolo essere e lo indurrà a confessare di essere un changeling, vecchio di moltissimi anni. Pratiche piú cruente, anche se nel folklore sono riportate in modo alquanto sfumato, sono quelle che ricorrono al potere purificatorio e lustrale del fuoco e dell’acqua. Talvolta, anche la violenza fisica rappresenta un ottimo espediente per smascherare il changeling e indurre gli esseri soprannaturali a riprendere i figli deformi.
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Illustrazione per un’edizione del Sogno di una notte di mezza estate di William Shakespeare, litografia a colori di Arthur Rackham. 1908. Collezione privata. Il bambino allevato da Titania (la regina delle fate) viene portato a Oberon (il re degli elfi).
Come ha infatti scritto lo storico francese JeanClaude Schmitt, accertata la sostituzione, «un buon mezzo è quello di far soffrire il changeling affinché le sue grida di dolore richiamino i veri genitori e li spingano cosí a riprenderselo: a tal fine si può picchiarlo o anche semplicemente fingere di bruciarlo o ustionarlo con l’acqua bollente. Spesso il changeling viene deposto a un bivio solitario o al confine di tre paesi o alla confluenza di tre torrenti. Dopo averlo qui abbandonato, la madre si allontana in assoluto silenzio per ritornare indietro al primo vagito del bambino, nella speranza che le sia stato reso il proprio figlio in cambio del changeling».
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Tornando al periodo medievale, la stessa vicenda narrata dal frate domenicano Étienne de Bourbon (1180-1261), oggetto di studio da parte del citato Schmitt nel saggio Il santo levriero. Guinefort guaritore di bambini, rimanda a storie di rapimenti e sostituzioni, a fauni, demoni e prove ordaliche per riottenere indietro gli infanti sottratti alle proprie madri. In un trattato sul dono dello Spirito Santo, Étienne propose alcuni exempla, tra cui quello che narrava della scoperta, nella regione di Dombes, a breve distanza da Lione, dell’adorazione di un cane – a suo dire pratica diabolica –, che veniva considerato santo e taumaturgo. Il levriero,
che era stato ucciso in passato per errore dal suo padrone nella convinzione che avesse sbranato il proprio bambino – mentre in realtà lo aveva salvato dall’attacco di un serpente –, divenne oggetto di culto da parte delle popolazioni locali come protettore e guaritore di bambini (vedi box a p. 37). Come narra lo stesso inquisitore domenicano, le donne che avevano bambini malati e deboli li conducevano in prossimità della tomba del santo levriero e, attraverso la mediazione di una vetula, conducevano un complesso rituale che comprendeva offerte, il passaggio dei bimbi attraverso i tronchi degli alberi, accensione di candele e immersione degli infanti nei torrenti. Ma, soprattutto, le stesse, secondo le parole di Étienne «invocando i demoni scongiuravano i fauni che si trovavano nella foresta di Rimite di prendere questo bambino malato e debole che, affermavano, apparteneva loro, rendendo invece loro stesse il proprio figlio grasso e grosso, sano e salvo, che essi si erano portati via».
Un’intrusione angosciante
Come osserva ancora Jean-Claude Schmitt: «Spiriti non ben definiti, fate o nani, rapiscono i bambini e li sostituiscono con i loro (...) Étienne de Bourbon, riportando la testimonianza delle donne da lui interrogate, precisa che sono costoro a dire (quem eorum dicebant) che i changeling sono figli dei fauni: per quanto lo riguarda non può aderire a questa opinione. Ma questa opinione, tra il popolo almeno, è stata a lungo unanimemente accettata. Il che significa che i changeling rappresentano per i singoli, concretamente, un’intrusione angosciante nella vita quotidiana. Già la parola evoca, realmente, tutte le potenze del diavolo, al punto che accusare qualcuno di essere un changeling costituisce, nel XV secolo, una terribile ingiuria». Si può d’altra parte affermare che il rituale sorto attorno a san Guinefort, con la richiesta ai fauni – sovrapponibili alla figura del demonio – di restituire i bambini sani e di riprendere i propri figli malati o deformi, si ricollega chiaramente a una mitologia che, benché cristianizzata, lascia intravedere un substrato precristiano molto antico. Il tema del changeling ebbe larga fortuna nell’Europa cristiana medievale anche grazie ai racconti agiografici. Ci riferiamo, in particolare, alla leggenda apocrifa di santo Stefano (Vita fabulosa sancti Stephani protomartyris), databile tra la fine del X e l’inizio dell’XI secolo, secondo la quale il santo sarebbe stato rapito ancora infante dal demonio e sostituito nella culla con un
suo «doppio», per poi – abbandonato dal diavolo in un luogo sperduto per provocarne la morte – essere invece salvato e nutrito da una cerva bianca e tornare, una volta adulto, a smascherare il demonico impostore. Il motivo agiografico relativo alla «sostituzione» di santo Stefano ebbe grande fortuna, tanto da fare da modello a narrazioni simili riguardanti i santi Bartolomeo, Lorenzo e Zeno di Verona, e a ispirare numerosi cicli pittorici sia in Italia – si può pensare agli affreschi di Martino di Bartolomeo e di Fra Lippo Lippi nel Duomo di Prato – sia all’estero, come in Spagna e addirittura nella lontana Danimarca (vedi box alle pp. 34-35).
Per alleviare il disagio
Ad avviso dell’antropologo Massimo Centini, le fonti medievali, considerate nel complesso, tenderebbero a considerare il fenomeno del changeling e la sostituzione dei bambini opera del diavolo, il quale, con stratagemmi vari, avrebbe la finalità di insinuare creature del male in seno alla comunità cristiana. In realtà, la credenza sui bambini sostituiti diventa nella società del tempo un espediente culturale per tentare di dare un senso a ciò che la comunità percepisce come alterità e squilibrio, ossia l’esistenza di bambini malati, deformi o affetti da gravi deficit cognitivi. In accordo con le prerogative del pensiero magico, individuare un fattore esterno come causa di tali accadimenti permette di alleviare il senso di disagio e razionalizzarlo, tentando di mettere in essere pratiche finalizzate a ristabilire l’equilibrio perduto. Sulla stessa linea d’onda si pone Castellana, secondo il quale «il mito folklorico dei changeling, del resto, rielabora, per esorcizzarle, le paure ancestrali che circondano il momento della nascita: l’esito sempre incerto del parto, l’eventualità della malattia o della disabilità, i rischi legati ai primi mesi di vita del bambino. Ansie che la moderna medicalizzazione del parto e del monitoraggio costante della vita pre e post-natale non hanno sconfitto ma in molti casi moltiplicato, aumentando, insieme alle possibilità di diagnosi precoce e di cura, anche la consapevolezza, nel genitore, del grande numero dei rischi e delle eventualità negative. Paure molto spesso simili alle nostre, che un tempo la magia e il mito erano i soli dispositivi di pensiero legittimati a contrastare e che oggi, in termini freudiani, si ripresentano come “ritorno del superato”: ecco perché questo mito folklorico è perturbante, cosí distante nel tempo eppure cosí familiare e minacciosamente vicino». MEDIOEVO IN NERO
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Quando il Medioevo perde la testa La pratica della decapitazione ha radici antichissime, e altrettanto remote sono le implicazioni simboliche attribuite al «frutto» delle decollazioni. Che trovano interessanti riscontri anche nella genesi dei vocaboli utilizzati per designare il Sacro Graal di Marina Montesano
«I
l Campidoglio è qui, dove un tempo, quando venne ritrovato un cranio umano, gli indovini vaticinarono che sarebbe sorta la capitale del mondo e il comando supremo». Cosí scrive lo storico Tito Livio, a proposito della fondazione di Roma e per giustificare il nome del luogo: Capitolium, da caput (testa). Le testimonianze sul valore simbolico del cranio sono ampie e diffuse in contesti culturali e cronologici assai distanti fra loro. Per esempio, l’uso della conservazione della testa degli antenati è molto antico. Erodoto narra che il popolo scita degli Issedoni usava decalvare e scarnificare la testa del pater familias defunto, che poi venne dorata e conservata come un oggetto sacro. In una cappella nel cimitero di Hallstatt, in Austria, ancora oggi si può vedere una curiosa esposizione di teschi decorati. Anche esseri divini o semidivini, la cui morte è narrata nel mito, ricevevano un culto cefalolatrico: è il caso di Osiride a Biblo, secondo quanto testimonia lo scrittore greco Plutarco; oppure di Orfeo, che in quanto originario della Tracia proveniva da un’altra terra famosa per il culto tributato alle teste. Se non altro a livello fenomenologico, qualcosa sembra legare tra loro le teste delle divinità greco-romane a quelle dei Celti e dei Germani, oppure i crani trasformati in coppe delle tradizioni eurasiatiche alle teste tagliate e ridotte nelle dimensioni dei riti amerindi o del Sud-Est asiatico. «Peredur conversava con lo zio quando vide due uomini attraversare la sala ed entrare in una camera: portavano una lunga lancia dalla cui punta colavano 42
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Salomè con la testa di Giovanni Battista, olio su tavola di Andrea Solario. 1520-1524. Vienna, Kunsthistorisches Museum.
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La decapitazione Statua del cosiddetto Togato Barberini: il personaggio ritratto, un magistrato, sorregge due teste di «antenati». I sec. a.C. Roma, Musei Capitolini, Centrale Montemartini.
A destra Undløse (Danimarca). Il rapimento di san Lorenzo bambino, raffigurato in un particolare della decorazione ad affresco della chiesa, attribuita al Maestro di Undløse. 1450.
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a terra tre rivoli di sangue. A quella vista, tutta la compagnia cominciò a gemere e a lamentarsi. Tuttavia, il vecchio non interruppe il colloquio. Non dette spiegazioni, e Peredur non ne richiese. Dopo qualche istante di silenzio, entrarono due fanciulle che portavano un grande vassoio sul quale poggiava la testa di un uomo immersa nel sangue. I presenti emisero allora tali grida che era difficile rimanere nella medesima sala. Infine, tacquero». Questo corteo del Graal appartiene al Peredur, un racconto in prosa gallese la cui prima attestazione scritta risale agli inizi del XIII secolo. Esso richiama ampiamente il Perceval di Chrétien de Troyes, composto un paio di decenni prima e rimasto incompiuto. Tuttavia vi sono alcuni elementi distintivi: vi si narra infatti che il Re Pescatore è stato ferito dalle incantatrici di Caer Loyw, che hanno assassinato anche un cugino di Peredur. Il fine delle avventure sembra dunque la vendetta di Perceval/Peredur, con cui infatti si chiude il romanzo. Ma il giovane Peredur è stato iniziato all’arte guerriera dalle stesse incantatrici, secondo un modello che pare frequente nella letteratura celtica.
Le stesse pronunciano un presagio di sventura a proprio danno, che infatti si compirà con la vendetta di Peredur; una vendetta nella quale si scorge forse una sorta di superamento, se non di rinnegamento, della propria condizione precedente e un’abiura del paganesimo implicito nella figura delle incantatrici. Il Graal, pur non essendo mai indicato con questo nome, appare al protagonista in un corteggio simile a quello del romanzo di Chrétien; tuttavia, particolare certo non insignificante, esso è presentato come un vassoio nel quale è posta la testa tagliata del cugino di Peredur.
Quale genesi per il Peredur?
Sull’origine del romanzo gallese, il piú vicino al Perceval, sono state fatte diverse ipotesi: derivano entrambi da una fonte scritta comune, poi perduta? Sono varianti di una comune tradizione orale? Oppure il Peredur non è che una fra le tante rivisitazioni del Perceval di Chrétien de Troyes? Siamo piuttosto propensi a seguire quest’ultima ipotesi: l’autore avrebbe utilizzato il Perceval, immettendovi elementi originali, Sulle due pagine miniatura raffigurante una scena di decollazione, dal De universo di Rabano Mauro. 1023. Montecassino, Biblioteca Statale del Monumento Nazionale di Montecassino.
In alto Beinhaus (ossuario) di Hallstatt (Austria) con crani decorati. La struttura entrò in funzione nel XII sec. e l’uso di decorare i teschi ebbe inizio nel 1720.
L’autore del Peredur attinse verosimilmente al Perceval di Chrétien de Troyes, innestandovi elementi originali
Sulle due pagine xilografia raffigurante la leggenda medievale attorno a cui nacque e crebbe il culto di san Guinefort. XV sec.
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PER LO MARE DE SETALIA... I pellegrini diretti in Terra Santa attraversavano spesso il golfo di Antalya (che si apre lungo le coste della Turchia sud-occidentale), chiamandolo «di Satalia» o «Setalia». Tutti ricordano di essersi imbattuti in terribili fortunali in quel punto: una semplice registrazione dei fatti oppure reminiscenze di un mare certo difficile, ma che si legano al topos delle tempeste «magiche»? Alla metà del Trecento, il francescano Niccolò da Poggibonsi scrive: «Poi avemo un’altra fortuna, ma questa fu buona, che ci portava per nostro viaggio, e fu in un dí naturale, che ci portò trecento miglia, gorga gorga; e cosí uscimo del golfo di Vinegia [cioè dall’Adriatico] (...) e tenemo per lo mare di Setalia». I commentatori non interpretano l’espressione «gorga gorga», limitandosi a dire che fra’ Niccolò l’avrebbe
tratti dal proprio background culturale – di impronta piú spiccatamente celtica –, e meno influenzati dai forti richiami cristici di Chrétien e dei suoi molti continuatori che scrivevano sul continente. Tuttavia, non sono tanto queste scansioni cronologiche a doverci interessare, quanto piuttosto le varianti. Nel romanzo di Chrétien il protagonista assiste muto alla processione del Graal nel castello del re ferito; piú tardi apprende che, se avesse chiesto il motivo per cui la lancia sanguinava e a chi veniva servito il Graal (che contiene un’ostia, unico cibo del re ferito), avrebbe guarito il sovrano e risol46
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appresa dagli Arabi. La linguistica può forse risolvere il mistero. Il nome della Gorgo della mitologia greca corrisponde all’aggettivo gorgos («feroce, spaventoso»), ma esita anche nel significato di «gorgo» in quasi tutte le lingue europee moderne. Giovanni Semerano ha ipotizzato una comune radice nell’accadico gar, con il significato di «girare vorticosamente», che nella medesima lingua dà gararu, sia per «spaventarsi, essere atterrito», sia per «girare in cerchio». In arabo, il cui nesso con l’accadico è meno discusso rispetto al greco antico, troviamo garara per «gorgogliare». Si potrebbe dunque ipotizzare un nesso con il termine garara, il gorgogliare delle acque in tempesta, che si legava alle antiche leggende della Gorgone, o della testa mostruosa che provoca i fortunali.
levato il regno dalla desolazione in cui versa. Lo stesso avviene con Peredur: egli rimane in silenzio, non chiede perché la lancia sanguini o il motivo di altri prodigi cui ha assistito, e lascia il re e il suo regno nella disgrazia.
Le ragioni della sostituzione
Allora, la domanda è ovvia. Che senso ha quella testa sostituita al Graal? A ragione, è stata esclusa l’identificazione con la testa del Battista, che non trova alcun appiglio nel racconto. Piú naturale appare il richiamo alla tradizione celtica. Autori come Margarete Riemschneider e
Il golfo di Antalya (Turchia sud-occidentale), le cui acque venivano spesso solcate dalle navi dei pellegrini diretti in Terra Santa.
Jean Markale, entrambi sostenitori della base esclusivamente (o quasi esclusivamente) celtica del ciclo del Graal, hanno collegato direttamente il Graal alla testa, in quanto quest’ultima è il recipiente dell’intelligenza, e l’intelligenza è la fonte di tutte le ricchezze, spirituali e materiali. Di conseguenza, il Peredur sarebbe una forma originaria del racconto: la sostituzione della coppa alla testa, elementi assimilabili da un punto di vista delle funzioni svolte nel racconto, si motiverebbe con la maggiore riducibilità della coppa all’ambito cristiano. Considerazioni linguistiche forniscono una base piú ampia a queste osservazioni: il latino caput-itis trova la sua origine remota nell’accadico kabtu, che condivide la medesima radice di qabutu, poi kuppu, cioè coppa. Già nel mediolatino cuppa, per contenitore, è comune, come si conosce cup in inglese. Ma è ancora piú significativo il vocabolo testa-ae – anch’esso di origine accadica: tiddum, tissum –, per il mattone o la tegola e, per estensione, per il vaso in terracotta o l’anfora; al contempo, esso significa «guscio» o «cranio», e infatti esita nell’italiano «testa». Nell’antico alto tedesco Koph sta allo stesso tempo per coppa o cranio, esitando nel tedesco moderno Kopf, che condivide la medesima radice del verbo «tenere», «contenere»: l’indoeuropeo kap, da cui deriva keep («tenere») in inglese, in latino corrisponde a capio, che ha il significato sia di «prendere», sia di «comprendere, capire». Riassumendo, coppa-contenitore e testa hanno dunque radici semantiche comuni: si tratta di radici estremamente arcaiche, risalenti almeno al 4000 a.C., al tempo delle prime civiltà di cui si abbia testimonianza scritta; in seguito, le lingue europee mantengono con forza il permanere di questo legame: un legame tra il contenitore e la testa, sede dell’intelligenza e dunque della vita.
Alla maniera dei guerrieri celti
Nel Peredur, allora, il Graal non contiene la testa, ma corrisponde alla testa. Alla luce di queste considerazioni, però, ci sembra cadere anche l’ipotesi di un Peredur precedente al Perceval di Chrétien e modello originario della tradizione successiva; si tratta, invece, di due motivi perfettamente paralleli e parimenti antichi. Il gallese Peredur inserisce il motivo della testa mozzata, perché piú consono al contesto gaelico rispetto ai romanzi francesi. Troncare la testa ai nemici era abitudine comune per i guerrieri celti; l’atto aveva un significato rituale e cultuale, oltre che semplicemente guerrie-
ro. Conosciamo per l’antichità santuari di area celtica in cui sono stati rinvenuti crani serbati presumibilmente per un costume sacrale: uno, per esempio, presso Roccapertosa; il che ci rimanda a quanto già ricordato a proposito della cittadina di Hallstatt. Teste parlanti, sovente regali, sono correnti nella tradizione letteraria gaelica. Per esempio, nel Branwen, figlia di Llyr, un episodio del Mabinogion (titolo che designa un gruppo di racconti considerati i piú antichi monumenti della letteratura gallese e fonte piú o meno diretta di motivi e personaggi del ciclo arturiano o breto-
Miniatura raffigurante il trasporto della Croce, con il Gòlgota («cranio» in ebraico) sullo sfondo, da un salterio appartenuto a Jeanne de Laval, regina di Napoli. XV sec. Poitiers, Mediathèque François Mitterrand.
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ne in lingua d’oïl, n.d.r.): il protagonista, Bran il Benedetto, ferito, ordina ai suoi uomini in difficoltà di mozzargli la testa, che li accompagnerà e li guiderà nel corso di un lungo viaggio; quando infine viene sepolta, essa è talmente potente da allontanare ogni calamità dalla terra in cui giace; nello stesso contesto, si possono ricordare le teste recise conservate alla corte di Conchobar, re dell’Ulster.
Quel «macabro» calice
Il poema inglese trecentesco Sir Gawain and the Green Knight (Sir Galvano e il Cavaliere Verde) ci pone dinanzi a un’arcana figura – appunto, il Cavaliere Verde – dotato di caratteristiche cefalofore. Prossima a quella celtica, è la tradizione germanica: nell’Edda di Snorri, raccolta di saghe nordiche, la testa di Mimir ucciso dai nemici degli dèi Asi, i Vani, è inviata a Odhinn che se ne serve per ricevere consigli. Il costume sopravvisse fino ai primi secoli della cristianizza-
Secondo il mito, lo sguardo di Medusa, la piú giovane e inesperta delle tre Gorgoni, trasformava chiunque in una statua di pietra
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A destra, sulle due pagine Parigi, Cattedrale di Notre-Dame. Rilievo con l’imperatore Costantino e, sulla destra, tra due angeli, Saint Denis (San Dionigi) che regge la propria testa. XII sec. Proveniente dalla comunità cristiana di Lione, Dionigi fu mandato a Parigi nel III sec. e divenne il primo vescovo della città. Scoperto da un governatore romano, nel 257, insieme ai suoi compagni, venne decapitato a Montmartre.
Nella pagina accanto particolare del Perseo trionfante, che mostra la testa della Gorgone, scultura in marmo di Antonio Canova. 1800-1801. Città del Vaticano, Musei Vaticani, Cortile Ottagono.
zione: nella Vita del vescovo – e poi santo – Germano di Auxerre si racconta che in gioventú, prima di abbracciare il cristianesimo, era solito sospendere ai rami di un albero sacro, secondo l’antico costume pagano, le teste degli animali cacciati. Per non parlare del celebre – soprattutto grazie all’Adelchi – episodio del longobardo Alboino, narrato da Paolo Diacono, che ordina di recidere la testa del re dei Gepidi per ricavarne una coppa nella quale offre da bere alla figlia del defunto, da lui presa in sposa: non un insulto, ma un riconoscimento del valore del re, del quale si conserva sacralmente la testa. La testa era anche un tipo fondamentale di ritratto nel mondo romano, di solito associato al potere supremo e alla morte: i busti degli ante-
nati sono immagini memoriali, ma, al tempo stesso, sono in rapporto profondo con i crani dei capostipiti. Che sia dell’antenato fondatore della stirpe o del nemico ucciso e onorato per placarne o controllarne lo spirito, o della potenza del quale ci si vuol appropriare (Perseo solleva la testa di Medusa per mostrarla: ma lo sguardo di Medusa ha la proprietà d’impietrire chi lo rimira), la testa ha un valore cratofanico (simboleggia cioè il potere, n.d.r.) e apotropaico ed è oggetto di venerazione. Nei secoli medievali, l’unione fra queste tradizioni, diverse ma convergenti, sfocia in racconti dai contorni interessanti. Per esempio, a proposito del golfo di Antalya, o Alessandretta. Intorno a questo luogo erano sorte diverse ramificazioni di una leggenda riportata da Walter Map e poi ripresa MEDIOEVO IN NERO
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FARE PROPRIA LA POTENZA DEL NEMICO Le «teste di moro» che ricorrono sulle armi araldiche di molte famiglie europee evocano, almeno leggendariamente, nemici vinti e uccisi, della cui potenza ci si è voluti appropriare: ciò anche in armi pubbliche, come quelle della Corsica e della Sardegna, derivanti da un modello usato dai re d’Aragona almeno dalla fine del Duecento. La tradizione si rifà alle crociate nel Vicino Oriente e, in particolare, alla Reconquista della penisola iberica, e nasce probabilmente dalla constatazione che alcuni musulmani, per esempio quelli provenienti dalle aree mauritana o nubiana, avevano la pelle scura. Esse divennero un simbolo delle armi araldiche immaginarie che gli Europei attribuivano ai musulmani e, prima di loro, ai pagani. Nell’iconografia di quei secoli una testa di moro campeggia spesso sulla bandiera di uno dei Magi, in quanto sacerdoti pagani d’origine orientale. Una delle attestazioni piú note del simbolo è l’affresco della vittoria di Costantino su Massenzio di Piero della Francesca, nella chiesa di S. Francesco ad Arezzo, nel quale gli stendardi pagani recano la testa di moro. A Pistoia, sulla facciata del Palazzo degli Anziani, fu posta nel 1305 una «testa di moro», a ricordo della vittoria ottenuta quasi due
Pistoia, Palazzo degli Anziani. Nel riquadro a sinistra, il particolare della «testa di moro in bronzo» appesa sulla facciata.
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secoli prima da un leggendario pistoiese, Grandonio de’ Ghislieri, sui Saraceni delle Baleari. Nel secolo successivo a Firenze l’adottò la famiglia dei Pucci. Ma il motivo divenne comune soprattutto durante il Rinascimento, rinvigorito dalle guerre contro il Turco.
da Benedetto di Peterborough, da Gervasio di Tilbury, dalla tradizione arturiana duecentesca, infine dai Viaggi di Giovanni di Mandeville. Il racconto ruota intorno all’accoppiamento fra un uomo e il cadavere di una donna da lui amata, ma non posseduta in vita; dall’unione nasce una creatura mostruosa, una testa dai poteri magici (che, in alcune versioni, pietrifica chi la guarda), che, alla fine, verrà gettata in mare, dove provoca terribili tempeste. Sia Walter Map, sia Gervasio di Tilbury accostano questa storia a quella della Gorgone decapitata da Perseo: e non del tutto a sproposito. Laurence Harf-Lancner e Marie-Noëlle Polino hanno studiato tale leggenda, rintracciandone le origini in Anatolia, da dove combattenti e pellegrini di Terra Santa l’avrebbero importata in Occidente. Potrebbe dunque trattarsi di una rielaborazione del mito di Gorgone. A sua volta, Alberto Varvaro ha osservato su quanto tale motivo sia penetrato nella letteratura volgare
francese del Duecento, spesso senza legami espliciti con la storia del parto mostruoso e della testa, ma serbando numerosi riferimenti a un gouffre de Satanie: «Satanie», con un ovvio riferimento demoniaco, sostituisce «Satalia»; nella testimonianza di Guglielmo di Tiro era questo il nome che gli Occidentali intendevano dell’originario «Antalya». Ma è anche interessante il modo in cui gouffre – «gorgo, vortice» – si sovrappone a golfe, «golfo»; il gorgo, la tempesta di Satalia divengono il nome stesso di quel luogo incantato, rinviando ancora una volta alla testa di Gorgone. Si può concludere ricordando la novella di Boccaccio (Decameron IV, 5), nella quale Lisabetta di Messina si innamora di un ragazzo di condizione sociale inferiore; la relazione è avversata dai fratelli di lei, che uccidono il giovane e ne occultano il cadavere. Lisabetta, guidata da un sogno, lo ritrova e prende con sé la testa, che seppellisce in un vaso (un «testo»: ancora una volta si
verifica la convergenza fra il recipiente e la testa) di basilico, pianta reputata efficace per la cura delle pene d’amore.
Monti a forma di cranio
«Essi allora presero Gesú ed egli, portando la croce, si avviò verso il luogo del Cranio, detto in ebraico “Gòlgota”» (Giovanni 19,17). Come per il Capitolium romano, anche il cristianesimo conosce un luogo e una leggenda fondanti che ruotano intorno a un cranio. La collina usata dai Romani come luogo di esecuzione delle crocifissioni era nota con questo nome forse a causa della sua forma tondeggiante, come la calotta di un cranio, oppure per la macabra pena che in quel luogo veniva eseguita. Anche nel folklore europeo si conoscono diverse montagne che prendono il nome dalla testa: il Kalenberg austriaco o il Monte Calvo ricordato dal brano di Modest Musorgskij (Una notte sul Monte Calvo). Una tradizione medievale, riportata anche dalla Legenda aurea di Jacopo da Varazze, riteneva che il Gòlgota fosse il luogo della sepoltura di Adamo: col suo sangue, il Cristo avrebbe irrorato in pegno di redenzione la testa del progenitore; per questo motivo, in numerose rappresentazioni della crocifissione, ai piedi della Croce è raffigurato il teschio di Adamo. Probabilmente l’elaborazione della leggenda parte, oltre che dalla tradizione folklorica europea, dal fatto che san Paolo aveva sottolineato il ruolo di Gesú come «nuovo Adamo», cioè come nuovo fondatore di un’umanità redenta dal suo sacrificio: «E come tutti muoiono in Adamo, cosí tutti saranno vivificati in Cristo» (1 Corinzi 15, 21-22). Anche nell’agiografia cristiana la testa recisa è spesso una testa parlante e vaticinante. L’episodio di san Macario narrato nelle Vite dei Padri del Deserto, secondo il quale il santo si sarebbe imbattuto nel teschio parlante d’un sacerdote pagano, rinvia ai poteri e alle pratiche magiche di quei sacerdoti (e al carattere demoniaco di esse) e si collega a una precisa pratica mantica, appunto la cefalomanzia, la predizione del futuro per mezzo dell’interrogazione di un cranio. V’è poi la tradizione dei santi cefalofori: Miniato, Dionigi, Luciano, Massiano, Giuliano, che subiscono il martirio attraverso la decapitazione e, raccolta la propria testa, continuano a camminare; cosí vengono infatti rappresentati nell’iconografia. Alla luce di questi precedenti, le «reliquie insigni» dei santi, le loro teste, racchiuse in speciali reliquiari detti cefaloteche, dovevano rivestire un valore che nella mentalità diffusa andava ben al di là del loro significa-
The baleful head (La testa funesta), olio su tela di Edward Burne-Jones. 1875-1877. Stoccarda, Staatsgalerie. Perseo mostra ad Andromeda la testa di Medusa riflessa in una fontana.
to propriamente cultuale. I papi perseguirono un’attentissima e sistematica politica di recupero dei capita degli Apostoli: da Gregorio Magno, che si occupò di quelli degli Evangelisti Luca e Matteo, fino a Pio II, che si preoccupava di recuperare la testa dell’Apostolo Andrea a Patrasso, occupata dai Turchi; la sua translatio a Roma dette luogo a un cerimoniale e a processioni che volevano invitare la cristianità alla crociata antiturca. Simili culti interessavano e coinvolgevano anche il mondo laico: nel 1236 l’imperatore Federico II assisté alla rimozione dei resti di sant’Elisabetta di Turingia, congiunta della sua prima moglie Costanza, e con l’occasione donò una corona e una coppa d’agata bordata d’oro, nella quale era solito bere, che sarebbe divenuta la coppa-reliquiario della testa della santa (oggi custodita nel Museo storico statale di Stoccolma). MEDIOEVO IN NERO
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E non
riposarono in pace...
Crani forati, chiodi infissi nelle ossa, mutilazioni: qual è il vero significato di simili azioni compiute nei confronti dei defunti? Analisi scientifiche e confronti etnografici suggeriscono le possibili risposte di Maria Giovanna Belcastro, Luca Cesari, Valentina Mariotti, Marco Milella, Diana Neri e Pierangelo Pancaldi 52
MEDIOEVO IN NERO
Whitby (North Yorkshire, Inghilterra). Il cimitero della chiesa di Saint Mary. Nella Whitby di fine Ottocento lo scrittore irlandese Abraham (Bram) Stoker ha ambientato larga parte del suo romanzo piú celebre, Dracula (1897). L’opera narra degli sforzi dell’omonimo conte, il Vampiro, per seminare la sua messe d’orrori dalla nativa Transilvania all’Inghilterra. Volgarizzando le leggende sul vampirismo, il libro divenne ben presto un classico della letteratura dell’orrore e ispirò una serie di film sul sinistro personaggio.
A
ll’interno delle diverse culture e pensieri religiosi l’uomo ha da sempre maturato timori inquietanti circa l’eventualità di un «ritorno» dei defunti; eventualità dalle terrificanti conseguenze, anche perché si attribuiva agli scomparsi il forte desiderio di rientrare in possesso di tutte le prerogative di membri della comunità: status sociale, beni, cariche politiche e religiose, affetti familiari. La moderna antropologia culturale, per descrivere queste credenze, ha introdotto il concetto di revenant, letteralmente «colui che ritorna». All’interno di questa categoria di esseri soprannaturali trovano posto varie manifestazioni, tra le quali fantasmi e vampiri. I riti e le pratiche che riguardano il distacco dai defunti rimangono di norma molto stabili e duraturi nelle varie epoche storiche, tanto
da rappresentare uno degli indici di valutazione e identificazione di una cultura, e ogni deroga può, a buon diritto, rappresentare un’anomalia. È però necessario distinguere ciò che esce dalla normalità per cause «esterne», ovvero quelle che obbligano una comunità ad adottare forme di sepoltura dettate dagli eventi (come nel caso di fosse comuni in occasione di pestilenze), da ciò che, solo in apparenza, esce dai normali canoni, ma, in realtà, è dettato da concezioni religiose o culturali diverse (per esempio la presenza di una cremazione all’interno di un sepolcreto di inumati). Allo stesso modo, per definire «anomala» una sepoltura, non è sufficiente il fatto di riscontrare sul defunto segni di sevizie, torture o amputazioni, in quanto potrebbero essere il risultato di traumi inflitti durante la MEDIOEVO IN NERO
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SUPERSTIZIONE
I revenants
vita dell’individuo e causa della sua morte. In queste occasioni è necessario valutare i casi singolarmente, perché spesso le azioni praticate come supplizio possono essere indistinguibili da quelle indirizzate al defunto.
Quando si dice «anomalia»
Le anomalie propriamente dette, invece, sono frutto di azioni volontarie, compiute sul cadavere o sulla tomba, prima o dopo la sepoltura, che si distaccano in modo netto dalle usanze funebri adottate normalmente, e possono andare dall’inserimento di oggetti inusuali nel corredo a pratiche di immobilizzazione del cadavere, fino a lesioni indirizzate a impedire un ritorno del defunto.
Azioni e oggetti utilizzati hanno spesso una forte connotazione simbolica: per esempio, l’uso di conficcare uno o piú chiodi nel cadavere ha sí la funzione di uccidere il mortovivente (trattandolo alla stregua di un corpo ancora vivo), ma simboleggia anche la fissazione del cadavere (e del suo spirito) al luogo di sepoltura. L’interpretazione antropologica di queste anomalie funerarie, anche se non univoca, è tuttavia suggestiva: la volontà dei sopravvissuti di costringere il defunto ad accettare il suo nuovo status attraverso forme di violenza fisica attuate sul cadavere, impedendone cosí il ritorno tra i viventi. Secondo le leggende, i motivi per cui si teme la «nascita» di un revenant possono essere legati a una sorta di predisposizione dettata dal ruolo sociale che l’individuo ha ricoperto in vita, da avvenimenti particolari che ne hanno segnato la nascita o l’esistenza (per esempio nascere «con la camicia», cioè la membrana amniotica che ricopre la testa del nascituro) o dalle circostanze della morte. Accade cosí che i «diversi», gli stregoni, i grandi peccatori, i personaggi importanti, ma anche i suicidi e tutti coloro spirati senza cura, né assistenza (magari a causa di una violenza che aveva interrotto anzitempo la loro vita) possano essere candidati a «tornare» dopo la morte. Parimenti, colui che viene morso da un revenant, tema caro alla fiction, diventa revenant a sua volta, anche se nei racIL CRANIO FORATO Questo cranio è stato rinvenuto nella cripta della basilica di S. Pietro, a Bologna, e risale all’VIII-X sec. Sulla parte destra dell’osso frontale è evidente la perforazione quadrangolare, causata, presumibilmente, dall’inserimento di un chiodo medievale, riconoscibile dalla sezione quadrata. L’utilizzo del chiodo nei rituali funerari assume una valenza significativa. La chiodatura può testimoniare il tentativo di fissare il cadavere alla sua sepoltura, evitando di far propagare gli agenti che ne hanno causato la morte, oppure di inabilitare lo spirito del defunto affinché non possa piú nuocere ai vivi.
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MEDIOEVO IN NERO
Miniatura su velina raffigurante la Morte che esce da una tomba, dal Libro d’Ore all’uso di Lisieux. Metà del XV sec. Collezione privata. spetti vengono riesumati per poter individuare su di loro i segni della «tipica» attività dei non-morti. Una errata interpretazione dei normali processi di decomposizione dei tessuti può infatti rafforzare il sospetto di trovarsi di fronte a un corpo ancora animato. Per esempio i corpi possono essere rinvenuti semi-intatti, con le membra ancora flessibili, addirittura pingui (gonfiore causato dai gas generati dalla putrefazione raccolti nelle cavità del ventre), la bocca aperta con la dentatura in vista e, a volte, ancora caldi. Secondo alcuni resoconti sulla «caccia ai vampiri» le tombe potevano venire riaperte molto tempo dopo l’inumazione, in alcuni casi fino a otto mesi, mentre dalle tradizioni folcloriche si apprende come un revenant possa essere scoperto indagando lo stato della sepoltura, e la terra smossa o franata diventi indizio sufficiente per sospettare che sotto possa nascondersi un nonmorto. Come è facilmente intuibile, il terreno può smottare solo in seguito al cedimento della cassa sottostante, evento che può richiedere diversi mesi per verificarsi. Per evitare che il revenant continui la propria opera malvagia, esso viene riesumato e «ucciso», spesso con trattamenti molto simili a quelli utilizzati per impedirne il risveglio subito dopo la morte. Solitamente questi riti conti folclorici non esiste la figura del potente vampiro che crea schiere di fedeli sudditi succhiando loro il sangue. Questa casistica potrebbe ovviamente essere ampliata scendendo nei particolari delle tradizioni locali, che, tuttavia, riportano meccanismi di funzionamento comuni.
Corpi ancora animati
In alcuni casi l’individuazione del revenant non avveniva immediatamente, ma solo dopo una serie di eventi inspiegabili o soprannaturali attribuiti all’azione di questa entità malvagia. La morte di parenti o amici del defunto, le infestazioni spiritiche nelle case, sono cause sufficienti per attribuirne la responsabilità a una persona recentemente scomparsa, che deve essere individuata e messa in condizione di non nuocere ulteriormente. In questi casi i cadaveri dei so-
QUASI UNA PESTILENZA Tra la fine del XVII e la metà del XVIII secolo furono segnalate, nell’Europa Orientale, vere e proprie «epidemie di vampirismo»: in Prussia (1710, 1721, 1750), in Ungheria (1725-30), a Silistria (1755), in Valacchia (1756). Dopo la Pace di Passarowitz (1718), alcuni di questi territori vennero a trovarsi entro i confini dell’impero asburgico e fu perciò naturale il vivo ed energico interessamento dell’imperatrice Maria Teresa (1717-1780), la quale promosse una inchiesta rigorosa in grado di fare luce sulla situazione. L’indagine imperiale, condotta dall’archiatra Gerard van Swieten, prese avvio dopo il primo caso, verificatosi nel 1725, e si protrasse fino al 1738. Le conclusioni, invero assai scettiche, del medico olandese indussero l’imperatrice a pubblicare il famoso Rescritto sui Vampiri nel 1755. Furono soprattutto queste vicende, oggetto di accesi dibattiti scientifici e teologici, a rendere famoso in tutto il mondo il mito del Vampiro, il mostruoso essere delle leggende centro-europee che sorge dalla tomba per suggere il sangue dei vivi.
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I revenants
MUTILAZIONI CONTRO I «RITORNI» Presso Casalecchio di Reno, allo sbocco della Valle del Reno, a pochi chilometri da Bologna, le indagini condotte dall’allora Soprintendenza per i Beni Archeologici nel corso del 1993 mettevano in luce un piccolo sepolcreto, genericamente databile, in assenza di corredi, all’età tardo-antica. Si tratta di 23 tombe a inumazione, con caratteristiche del tutto particolari: costituite da fosse singole o comuni mostravano scheletri in giacitura scomposta, talvolta con mutilazioni devastanti. In molti casi le sepolture erano sovrapposte le une alle altre, provocando il danneggiamento dei resti umani. Dato però che le parti staccate (mani, piedi) si trovavano ancora in connessione anatomica, la maggior parte dei defunti deve essere stata deposta in un arco di tempo assai ristretto. Particolarmente interessante la tomba 3, il cui scheletro, in posizione parzialmente contratta, presentava evidenti mutilazioni agli arti inferiori (piede sinistro ricollocato sulla spalla destra, piede destro presso il femore) e la rimozione del cranio (ancora in connessione con la mandibola), rinvenuto invece tra le tibie. Almeno altre due sepolture di questa necropoli presentano interessanti anomalie, sempre focalizzate a livello cranico e dei piedi. La tomba 16 conteneva un individuo di sesso maschile e di età compresa tra 20 e 34 anni in posizione supina ed estesa, con il cranio appoggiato al limite della fossa e la mano sinistra sull’addome. Entrambi i piedi, in perfetta connessione anatomica, erano stati sepolti in una fossa piú profonda sotto le gambe, in prossimità delle tibie. La presenza, a livello di entrambe le caviglie (in particolare sulla tibia sinistra e la fibula destra), di lesioni da taglio, suggerisce un’operazione di asportazione dei piedi praticata in prossimità della morte, subito prima o subito dopo. La posizione innaturale del cranio, fortemente flesso in avanti, oltre alla presenza a livello delle prime vertebre cervicali di antiche lesioni di difficile interpretazione, potrebbe confermare questa ipotesi. Lesioni vertebrali che ricordano quelle qui osservate sono riportate in letteratura per scheletri di individui giustiziati per impiccagione. La tomba 6, pur non presentando lesioni a livello scheletrico, conserva una posizione particolare delle mani in prossimità delle clavicole che potrebbe essere legata al tentativo di allentare la stretta di un oggetto attorno al collo, come nel caso di un’uccisione per soffocamento. Il resto del corpo, in posizione scomposta e coperto da un’altra sepoltura prona (la tomba 8), presentava l’amputazione di entrambi i piedi (mentre del destro non vi è traccia, l’altro giaceva in prossimità del braccio destro). Tra le cause di queste mutilazioni, avvenute con ogni evidenza in fase post mortem, sembrano da escludere eventi accidentali o tragiche conseguenze di episodi bellici. Piú probabile sembra essere la spiegazione
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di un supplizio capitale, avvenuto per strangolamento o impiccagione e la successiva amputazione dei piedi per impedire nefasti «ritorni» di questi defunti a cui era stata tolta la vita e che, forse proprio per questa ragione, erano percepiti come potenzialmente pericolosi. Piuttosto suggestiva è anche la quasi perfetta identità del rito utilizzato con le pratiche ancora presenti in area nordeuropea agli inizi del XX secolo.
QUATTRO CHIODI Nella tomba 140 del sepolcreto scoperto a Castel S. Pietro, Bologna (a sinistra) e riferibile a un vicino edificio ecclesiastico sono stati rinvenuti ben quattro chiodi, originariamente infissi a livello del costato e delle spalle del defunto. È evidente che chiunque abbia messo in atto tale pratica voleva assicurarsi che il cadavere rimanesse per sempre al proprio posto. UN’IMPICCAGIONE? La tomba 16 della piccola necropoli individuata a Casalecchio di Reno, nei pressi di Bologna (foto in basso) conteneva i resti di un giovane individuo di sesso maschile. La posizione flessa del cranio e le lesioni vertebrali sembrerebbero indicare un caso di esecuzione simile all’impiccagione. L’elemento piú significativo, tuttavia, è costituito dai piedi, che sono stati recisi e interrati sotto le tibie, in una fossa piú profonda, forse per impedire al defunto di fare ritorno nel mondo dei vivi e vendicarsi degli uccisori. non lasciano tracce a livello archeologico: le pratiche di estrarre il cuore e bruciarlo, percuoterne le membra, deporre spine o rovi, sono quasi impossibili da determinare, cosí come il classico paletto di legno nel cuore, a meno che non risulti sfondato lo sterno del cadavere. I segni rilevabili anche dopo la completa dissoluzione dei tessuti possono essere di tre tipi: 1) posture dell’inumato che suggeriscano legature o qualche tipo di costrizione, oppure posizioni decisamente «antirituali», come la sepoltura prona; 2) inserimento nel corpo o nella tomba di oggetti simbolici non deperibili; 3) amputazioni o particolari traumi inflitti post mortem. In quest’ultimo caso una mediocre conservazione dello scheletro può impedire la corretta lettura delle tracce e, comunque, non sempre è possibile distinguere le lesioni che hanno provocato la morte da quelle che l’hanno seguita. Basandosi sulle tradizioni folcloriche, possiamo dire che il vampiro viene solitamente «ucciso» con metodi diversi, usati contemporane-
Secondo la tradizione popolare, esistevano molteplici metodi per «uccidere» un vampiro
amente, e quindi, i segni riscontrabili su uno scheletro possono anche indicare interventi piú massicci di quanto si potrebbe immaginare. Le tradizioni folcloriche sull’uccisione dei revenants descrivono vari metodi utilizzati in sequenza quasi contemporanea: fallito uno, se ne tenta un altro. Sotto questo aspetto un caso esemplare è rappresentato dal vrykolakas manifestatosi sull’isola greca di Mykonos all’inizio del XVIII secolo: al revenant venne prima strappato il cuore, poi gli fu riempita la bocca con acqua santa, fu trafitto da spade e infine arso su una pira funebre. In un altro caso le fonti riferiscono di un corpo che fu portato a un confine e decapitato, in seguito gli fu messa una pietra in bocca, fu sventrato, lavato con vino bollente, trafitto al cuore e lasciato agli animali perché lo divorassero. In quest’ordine.
I temibili draugar del Grande Nord
Diffusissime sono queste leggende nelle saghe e nelle cronache dell’Europa medievale. L’Historia Danorum, opera in parte fantasiosa del cronista danese Saxo Grammaticus (XII secolo) racconta, per esempio, che, durante l’infierire di una pestilenza, si attribuí la calamità allo spirito vendicativo di un certo Mithothin, il quale, poco tempo prima, era stato ucciso nel corso di una sollevazione popolare. Secondo la cronaca, «le sue malefatte si manifestarono anche dopo la sua uccisione poiché chi si avvicinava al suo sepolcro moriva improvvisamente, e anche dopo la morte il corpo produsse un tal numero di pestilenze che sembrava quasi aver lasciato ricordi piú ripugnanti da morto che da vivo, come se intendesse esigere vendetta dai colpevoli». Colpiti dall’epidemia, gli abitanti del luogo «riesumarono il cadavere, lo decapitarono e gli trafissero il petto con un bastone acuminato; cosí la gente risolse il problema». Si tratta delle modalità con cui la tradizione nordica insegnava ad affrontare i terribili draugar («morti viventi») per poterli eliminare definitivamente. Il draugr (singolare di draugar) non è un semplice fantasma, bensí lo spirito di un defunto che torna a vivere con tutto il corpo ed è quindi preda degli stessi desideri provati in vita, portati al parossismo. Un altro passo dell’Historia racconta degli eroi Asvith e Asmund e della loro grande amicizia. Essi strinsero un patto per cui chi fosse sopravvissuto all’altro si sarebbe fatto seppellire, ancora vivente, assieme all’amico. Quando Asvith morí di malattia, l’amico mantenne la promessa. Nottetempo, il defunto si «destò» nel tumulo e, dopo aver sbranato il cane e il cavallo sepolti con lui, assalí Asmund MEDIOEVO IN NERO
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divorandogli un occhio. Solo al termine di una lotta feroce, dopo che Asmund riuscí a mozzargli il capo e a trafiggerlo con un paletto, Asvith fu ucciso definitivamente. Altre fonti confermano che, in alcuni casi, le mutilazioni avvenivano all’atto stesso della sepoltura, a scopo «precauzionale», soprattutto se durante la vita il defunto era appartenuto ad alto lignaggio o aveva ricevuto importanti cariche. Racconta per esempio il cronista Fileno dalla Tuata che a Bologna, l’anno 1200, «murí Açço doctore preclarissimo nato in Bologna benché da umele parenti. Fu pianto da tuto el studio e fu seterato a San çervase e fuli tagliata la testa».
Una testimonianza raccapricciante
«Circa due anni e mezzo fa mia madre, Eva D., morí e fu sepolta nel cimitero cattolico di Putzig (in Prussia orientale, dal 1945 nella Repubblica di Polonia) nella tomba n. 1002. Dopo la morte di mia madre, sette altre morti ebbero luogo nella mia famiglia, una dopo l’altra. Non so quale causa stabilí il dottore per la morte dell’ultimo. Solo sentivo dire da ogni parte che mia madre morta non aveva pace nella tomba, e perciò vi attirava altri membri della famiglia. Un certo numero di persone (…) specialmente di fede evangelica, mi disse che per porre fine ai casi di morte in famiglia bisognava aiutare la morta a ritrovare la pace. Ciò poteva essere fatto solo tagliandole la testa e ponendola davanti ai suoi piedi». Sono queste le parole di un imputato a un processo svoltosi nel 1913. Egli spiegava ai giudici che, sentendosi da tempo molto debole e credendo di avviarsi anch’egli verso la tomba, aveva messo in opera l’orribile espediente. In seguito, ristabilitosi perfettamente, egli non ebbe alcun dubbio che era stato proprio l’orrido scempio sul corpo della madre ad avergli salvato la vita. Nel 1885 alcuni interventi nel sottosuolo di Veroli (Frosinone), sul sito della chiesa medievale di S. Maria della Rotonda, misero in luce tre tombe ricoperte da tegole, ognuna contenente uno scheletro alto piú di due metri, con un chiodo dalla testa tonda e piatta conficcato nel cranio. Purtroppo dei reperti si è persa traccia, rimanendone unica testimonianza una fotografia che ritrae uno di questi crani con due chiodi conficcati. Gli studiosi datano tali rinvenimenti al VI-VII secolo o, piú genericamente, al periodo altomedievale. Altri esempi di crani chiodati di epoca medievale provengono dal cimitero dell’abbazia della Novalesa, a 60 km da Torino. Tra i circa 600 scheletri databili tra l’XI e il XV secolo si 58
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trovavano nove soggetti (quattro scheletri completi piú cinque crani isolati) che presentavano nel cranio un foro quadrato. Anche se in nessuno dei nove crani sono stati trovati chiodi, il tipo di lesione farebbe pensare ai crani chiodati della tradizione folclorica. La conferma proviene da un altro cranio chiodato, rinvenuto nel 1872 tra quelli di 19 giustiziati sepolti nel cimitero di S. Pietro in Vincoli a Torino, il quale presentava un grosso chiodo a sezione quadrata ancora infisso. Un caso piú recente, segnalato durante controlli archeologici nella cripta della cattedrale di S. Pietro a Bologna, riguarda una sepoltura contenente resti scheletrici riferibili a piú individui. Uno di questi presentava una perforazione quadrangolare (10 mm circa di lato) sulla parte destra dell’osso frontale (vedi foto a p. 54). Le caratteristiche e la posizione delle lesioni e la mancanza di reazioni del tessuto osseo, sembrano indicare un evento traumatico avvenuto peri mortem (cioè causa della morte o subentrato subito dopo). Dimensioni e forma della lesione sono compatibili con quelle dei chiodi me-
Nella pagina accanto, in alto particolare di uno scheletro di epoca medievale rinvenuto sulla costa meridionale del Mar Nero e che presentava il torace intenzionalmente sfondato da un piolo di ferro. Nella pagina accanto, in basso particolare di un affresco raffigurante una danza macabra, in cui la Morte tiene per mano una donna. XV sec. Metnitz (Austria), Ossario di Karner.
DALLA FRANCIA A CORINTO GLI AMANTI DI CLERMONT Al di là dell’uso retorico e a suo modo edificante della superstizione, non venne meno nell’immaginario medievale quella sorta di compiacimento necrofilo che era il sale di tante leggende sulla persistenza di certi legami d’amore oltre la morte. Racconta San Gregorio di Tours nella sua Storia dei Franchi (575-592), unica fonte di conoscenza della misteriosa età merovingia, un episodio verificatosi al cimitero di Clermont Ferrand nel 390, in occasione del funerale di una giovane donna, Scolastica, deceduta dopo un anno di matrimonio con un notabile del luogo, Ingiurioso. Quest’ultimo la stava salutando con accenti accorati, ricordando con qualche esagerazione la sua purezza, fino ad affermare di restituirla ora a Dio «intatta come l’aveva avuta». Si scoperchiò a questo punto la bara e Scolastica si levò in piedi rimproverandolo per avere rivelato cosí pubblicamente delle cose «che sarebbero dovute restare tra noi». Ciò detto, Scolastica tornò a distendersi nel freddo rigore della morte, lasciandosi quietamente seppellire. Stroncato dall’emozione, Ingiurioso morí l’indomani e fu interrato secondo i suoi desideri in una tomba accanto alla moglie. La mattina dopo la terra dei due tumuli appariva smossa e calpestata. I guardiani scavarono nella tomba dell’uomo e la trovarono vuota, poi in quella di Scolastica, e vi trovarono entrambi abbracciati. Nacque cosí, con l’avallo di uno storico prestigioso, la leggenda degli amanti di Clermont, ispiratrice, quindici secoli piú tardi, del poeta francese Guerrier de Dumast.
dievali a sezione quadrata, mentre le analisi al C14 hanno confermato una datazione compatibile con i dati archeologici (VIII-X secolo).
Fuori dalla città
Di un caso simile è stato riferito recentemente a proposito di uno scheletro ottocentesco rinvenuto nell’isola greca di Lesbo. Un gruppo di ricercatori dell’Università del British Columbia e del Dipartimento Greco di Antichità Classiche e Preistoriche, durante lo scavo di un cimitero turco presso il porto di Mitilene, ha rinvenuto uno scheletro nel quale erano infissi otto chiodi in ferro che attraversavano il collo, le pelvi e le caviglie, conficcandosi sul fondo della bara. La
LA DONNA VAMPIRO Ancor piú preziosa, per l’uso mirabile che ne fecero scrittori come Johann Wolfgang von Goethe e Anatole France, sublimandone l’assunto, è la storia di Filinnio, infelice ragazza di Corinto che ritorna dall’aldilà per riprendersi ciò che le fu negato in vita, a cominciare dall’amore. Tramandata dal liberto greco Flegone di Thralles, che dichiara di esserne stato testimone oculare, questa vicenda viene trasfigurata da Goethe in un’ottica spregiudicata (La fidanzata di Corinto, 1797), contrapponendo al gelo della morte l’ardore dei sensi. Filinnio è di ghiaccio come l’abito che indossa, bianchissimo, cosparso di veli simili a brina, e cinge una fascia nera intorno al capo. Ella è donna, fantasma e vampiro nel senso piú tradizionale del termine: succhia dalle labbra dell’amato, insieme all’amore, il soffio stesso dell’esistenza. Incurante di ucciderlo, è pronta a procurarsene un altro, quando la fonte in lui sarà essiccata, pur di saziare la sua sete di sangue, di vita, di amore.
tomba era stata realizzata in un’apposita cripta scavata fuori dalle mura della città. Evidentemente, il rito della chiodatura non era solo appannaggio dei Paesi cristiani. Negli ultimi anni un rinnovato interesse dell’archeologia verso questi temi ha permesso di incrementare il numero delle segnalazioni. Tra i vari esempi, si possono citare le indagini condotte tra il 1998 e il 2002 a Castel S. Pietro Terme, presso Bologna, nell’area di un ex cinema. Qui, oltre ai resti di un edificio ecclesiastico, gli scavi hanno messo in luce il relativo sepolcreto, in cui spiccava, per alcune particolarità, la tomba 140. L’individuo sepolto, benché parzialmente danneggiato da interventi moderni, presentava ancora sullo scheletro quattro grossi chiodi a testa rotonda infissi a livello delle spalle. I due chiodi centrali erano stati piantati sul margine del costato, 10 cm circa al di sotto della linea delle clavicole, mentre quelli laterali dovevano avere la funzione di assicurare le spalle al terreno e, in origine, dovevano trapassare l’intersezione tra i muscoli pettorali e il bicipite, subito sopra l’ascella. Purtroppo le condizioni di conservazione dello scheletro non hanno permesso di documentare altri chiodi o ulteriori manipolazioni. Quel che è certo, è che chiunque mise in atto tale pratica voleva assicurarsi che il cadavere rimanesse per sempre al proprio posto (vedi box e foto alle pp. 56-57). Tra il 2006 e il 2007, a Baggiovara, frazione di Modena, sono state rinvenute 20 sepolture pertinenti a una necropoli di epoca tardo-antica (VI secolo d.C.). In particolare la tomba 13 presentava l’inumato supino, con le braccia distese lungo il corpo e la gamba destra ripiegata sulla sinistra. Lo scheletro mostrava manomissioni evidenti, operate su alcune parti anatomiche risultando, infatti, privo della testa, dei piedi e dell’avambraccio destro. MEDIOEVO IN NERO
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L’esercito delle tenebre Incisione di Gustave Doré (1832–1883) raffigurante Morte a cavallo, uno dei Quattro Cavalieri (Guerra, Carestia, Pestilenza e Morte) citati nell’Apocalisse di Giovanni. 1865.
La letteratura, l’arte e l’immaginario dell’età di Mezzo hanno forgiato e alimentato la leggenda di un esercito composto da mostruosi cacciatori, provenienti dall’Aldilà. Un mito tra le cui pieghe non è difficile individuare una ben precisa funzione sociale, religiosa e morale, tramandata dai racconti degli «spaventosi incontri» scritti dai cronachisti del XII secolo di Marina Montesano
I
l tema della «caccia feroce» o dell’«esercito infernale» conosce la sua maggiore fortuna letteraria nei secoli del pieno e del Basso Medioevo, ma ha le radici in un passato piú remoto e lascia tracce nella letteratura moderna e contemporanea. La leggenda-tipo presenta l’apparizione di cavalieri al galoppo nella notte, descritti in modi differenti ma che nel complesso si caratterizzano come apparizioni dall’Aldilà. Alla base della caccia infernale vi è senza dubbio un nucleo di credenze che appartengono al patrimonio orale di popoli presumibilmente celto-germanici, ed è altrettanto certo
che, una volta approdato alla forma narrativa, il tema assume significati ben diversi, che vanno dal prendere la forma di profezie sino alla rappresentazione a carattere morale. Il primo riferimento sicuro a un esercito di morti è contenuto in un passo della Germania di Tacito, nel quale si parla della tribú degli Arii: «Quanto agli Arii, a parte la forza che li fa emergere fra i popoli or ora enumerati, con artifici e scelta di tempo esaltano la ferocia, già insita nel loro aspetto truce: hanno scudi neri e il corpo tinto di scuro; per combattere scelgono notti tenebrose, e la sola raccapricciante comparsa di questo esercito
Fronte di sarcofago raffigurante la battaglia di Maratona. III sec. d.C. Brescia, Museo di Santa Giulia. Secondo Pausania, che scrive nel II sec. d.C., sul luogo dello scontro, combattuto tra Greci e Persiani nel 490 a.C., si potevano ancora sentire il nitrito dei cavalli e il clangore delle armi. MEDIOEVO IN NERO
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MITI INFERNALI
La caccia feroce
LO STRATAGEMMA DELL’INDOVINO «Nel frattempo, subito dopo il disastro delle Termopili, presto, i Tessali inviarono un araldo ai Focesi; da sempre nutrivano rancore nei loro confronti, e tanto piú dopo l’ultima disfatta. Non molti anni prima di questa spedizione del re i Tessali e i loro alleati avevano attaccato i Focesi e da questi sconfitti e duramente tartassati. I Focesi, che avevano come indovino l’elidese Tellia, si erano ritirati sul Parnaso; allora Tellia escogitò il seguente stratagemma: cosparse di gesso seicento dei piú forti tra i Focesi, loro e le loro armi, e attaccò i Tessali di notte, dopo aver ordinato ai suoi di uccidere chiunque vedessero non imbiancato. Le sentinelle dei Tessali, appena li scorsero, ne furono terrorizzate, pensando a chissà quale strano prodigio; e dopo le sentinelle si spaventarono anche le truppe, tanto che i Focesi alla fine rimasero padroni del campo, con quattromila cadaveri e altrettanti scudi, la metà dei quali consacrarono al dio ad Abe e l’altra metà a Delfi. La decima del bottino ricavato da questa battaglia fu trasformata nelle grandi statue collocate intorno al tripode di fronte al tempio di Delfi, e in altre simili che si trovano ad Abe» (Erodoto, Storie, Libro VIII, 27).
Particolare di un vaso a figure nere con tre guerrieri. VI sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. Eserciti di guerrieri morti, a piedi o in groppa a cavalli infernali, sono testimoniati nei testi letterari della piena età medievale, ma trovano antecedenti nella letteratura classica greca e latina.
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di fantasmi semina panico, poiché nessun nemico sa reggere a quella stupefacente e quasi infernale visione; infatti in ogni battaglia i primi a essere vinti sono appunto gli occhi».
Neri come la notte
«Feralis exercitus» è l’espressione utilizzata da Tacito: un esercito proveniente dall’Aldilà, sebbene non a cavallo. D’altra parte, lo storico romano afferma nella parte iniziale della sua opera che i Germani combattono prevalentemente a piedi, non a cavallo. La tecnica che gli Arii mettono in atto serve a spaventare il nemico: tutti neri, nella notte, sembrano un esercito uscito dagli inferi. Ma a che cosa si riferisce qui Tacito? A una credenza a lui nota circa un «esercito di morti», al quale gli Arii cercano di somigliare? Possiamo considerare questa ipotesi come probabile; e dunque non ascrivere il comportamento di questo gruppo a un puro elemento tattico-strategico, quanto piuttosto all’evocazione di qualcosa di noto e temuto in ambito germanico – che però non sappiamo se fosse noto anche allo stesso autore latino. Quanti si occupano della «caccia feroce» indivi-
duano spesso altri episodi nella letteratura classica greca e latina che vengono costantemente citati quali antecedenti. Ne parlano Erodoto nelle Storie (vedi box in questa pagina) e Plinio il Vecchio, il quale, all’interno della Storia Naturale, nei libri sulla cosmologia e a proposito dei segni celesti, scrive: «Clangore d’armi e squilli di trombe furono uditi nel cielo, si riferisce, al tempo delle guerre cimbriche, e spesso anche in precedenza e in seguito. Ma nel terzo consolato di Mario [103 a.C.] quelli di Amelia e di Todi scorsero armi nel cielo scontrarsi fra loro, venendo da oriente a occidente, e furono sconfitte quelle che venivano da occidente. Che persino il cielo si infiammi, non ha nulla di stupefacente, e in effetti lo si è visto spesso, quando le nubi sono invase da un incendio particolarmente grande». Ancora, Pausania nella Periegesi della Grecia, composta nel II secolo d.C., scrive che sul luogo della battaglia tra Greci e Persiani, a Maratona (combattuta nel 490 a.C., n.d.r.), ogni notte si potevano ancora udire cavalli che nitrivano e uomini che combattevano. Non si vuole qui negare un sottile, profondo legame tra i racconti che parlano di segni di
combattimenti celesti o, come nel caso di Erodoto, di schiere di guerrieri vivi che si travestono da morti; anzi, nel caso di Erodoto, la somiglianza con gli Arii di Tacito è evidente; ed è interessante il dato cromatico: bianchi i guerrieri travestiti da fantasmi del primo, neri quelli del secondo. Tuttavia, in questo modo, si finisce per annullare ogni specificità propria del tema dell’esercito dei morti cosí come lo conosciamo attraverso la letteratura medievale; dove la peculiarità ci sembra data dall’irruzione di defunti (non di persone travestite come tali) nel mondo dei vivi; lo stesso vale per i combattimenti celesti, che sono piuttosto dei signa con significati vari, ma non direttamente riconducibili al nostro discorso.
Demoni falsi e ingannatori
Abbiamo poi la testimonianza di sant’Agostino, il quale, nella Città di Dio, cosí scrive: «Al limite si sa perfino che essi mostrarono di azzuffarsi fra di loro in una vasta pianura della Campania, in cui poco dopo si scontrarono gli eserciti in una infame guerra civile. Si udí infatti in quel luogo un grande strepito di armi e subito dopo alcuni affermarono di aver visto per alcuni giorni due schiere che si combattevano. E appena questa battaglia cessò, trovarono orme come di cavalli e uomini, quali potevano essere impresse in una battaglia come quella. Se veramente le divinità si sono azzuffate, sono scusate allora anche le guerre civili degli uomini». Tuttavia, in questo passo, Agostino si riferisce chiaramente alle divinità pagane («essi»), ovviamente interpretate come demoni falsi e ingannatori, dotati di poteri in grado di ingannare gli uomini, facendo creder loro cose non vere. Non sappiamo fino a che punto sia diverso il caso di una rara testimonianza altomedievale al riguardo: quella di Paolo Diacono, che scrive alla fine dell’VIII secolo un resoconto agghiacciante della cosiddetta «peste di Giustiniano», diffusasi in Italia durante la guerra greco-gotica. Fra i segni di desolazione, lo storico afferma come «di notte e di giorno s’udiva suonare una tromba di battaglia, e da molti era udito uno strepito d’esercito»: se Paolo Diacono non fosse un Longobardo, sarebbe facile vedere in questo passo un’eco di fonti classiche piuttosto che un richiamo alla tradizione germanica. Sospendiamo quindi il giudizio e passiamo a fonti piú certe. Il primo riferimento sicuro alla credenza nella «caccia feroce» ci viene forse dalle Storie del cronista francese Rodolfo il Glabro, redatte intorno agli anni Quaranta dell’XI secolo: «Al tempo in cui Bruno era vescovo di Langres (sia-
mo quindi intorno al Mille, n.d.A.), nel castello di Tonnerre abitava un prete dalla santa vita, di nome Frotterio. Costui, una domenica verso sera, poco prima di cena andò alle finestre di casa sua per distrarsi un poco; e guardando fuori vide sbucare da settentrione schiere di cavalieri in numero infinito, che si dirigevano, come andando in battaglia, verso occidente. Dopo averle osservate a lungo, gli venne voglia di chiamare qualcuno dei suoi per farlo assistere al grande prodigio; ma non appena alzò la voce perché venissero, di colpo
Miniatura raffigurante Morte, uno dei Quattro Cavalieri dell’Apocalisse, dal Très Riches Heures du Duc de Berry, il Libro d’Ore commissionato dal duca Jean de Berry, miniato dai fratelli Limbourg. 1412-1416 circa. Chantilly, Musée Condé. MEDIOEVO IN NERO
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La caccia feroce
UN SOSTRATO TENEBROSO La novella ottava della quinta giornata del Decameron ha per protagonista Nastagio degli Onesti. Mentre cammina nella pineta di Classe, rimuginando sulle sue delusioni amorose, gli appare una donna che fugge disperata: «Le vide a’ fianchi due grandi e fieri mastini, li quali duramente appresso correndole, spesse volte crudelmente dove la giugnevano la mordevano, e dietro a lei vide venire sopra un corsiere nero un cavalier bruno, forte nel viso crucciato, con uno stocco in mano, lei di morte con parole spaventevoli e villane minacciando». È l’irruzione di due creature dell’Aldilà condannate per i propri peccati a reiterare questa scena cruenta: il cavaliere aveva amato la donna, che l’aveva sempre rifiutato con disprezzo, fino a spingerlo al suicidio; a sua volta, lei era poi morta senza mai mostrare segni di pentimento. Il cavaliere nero sul cavallo nero è accompagnato dai due cani, e l’insieme della descrizione serve a sottolineare la natura infernale della caccia feroce.
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La scena ha trovato una raffigurazione degna nell’interpretazione che ne dà Botticelli, dove notiamo un’interessante inversione di colore. Il cavaliere indossa un’armatura dorata, i cani sono uno nero e uno bianco, il cavallo è bianco. Forse Botticelli è influenzato, oltre che da necessità di tipo stilistico-cromatico, anche dalla destinazione dell’opera: presumibilmente commissionata per farne omaggio a Giannozzo Pucci in occasione del suo matrimonio con Lucrezia Bini nel 1483. Una scelta tematica insolita, anche se la vicenda dell’amore di Nastagio ha poi un lieto fine. Si può ipotizzare che una scena di tale forza sia stata resa con toni smorzati rispetto al racconto di Boccaccio: poche tracce del nero originario, colore infernale, e un ingentilimento complessivo dei protagonisti. Segno tuttavia che, ancora alla fine del Quattrocento, pur dopo tanti rimaneggiamenti letterari del tema, il sostrato originario dei racconti di cavalieri infernali era ancora avvertito come tenebroso.
Sulle due pagine la novella del Decameron che ha per protagonista Nastagio degli Onesti nella trasposizione pittorica di Sandro Botticelli, realizzata con un’opera in quattro pannelli, forse commissionata all’artista da Lorenzo il Magnifico per farne dono a Giannozzo Pucci, in occasione del suo matrimonio con Lucrezia Bini. 1483. Madrid, Museo del Prado. In basso, il primo episodio: Nastagio vaga nella pineta di Classe e si imbatte in una donna aggredita da un cane e inseguita da un cavaliere.
In alto la trasposizione botticelliana del secondo episodio dell’ottava novella della quinta giornata del Decameron: Nastagio fugge inorridito, mentre il cavaliere lacera la schiena della donna per trarne il cuore, da dare in pasto ai cani.
le truppe persero consistenza e sparirono». Per lo spavento Frotterio si ammala e muore poco dopo; non gli è quindi dato di conoscere il senso di quella visione: «L’anno seguente Enrico, figlio e poi successore del re Roberto, mosso dall’ira piombò con un grande esercito su quel castello; ne seguí un massacro dall’una e dall’altra parte». Non è del tutto chiaro a quale vicenda Rodolfo stia facendo riferimento, forse alle contese per la successione al trono di Roberto il Pio. Ciò che conta, tuttavia, è che in questo caso abbiamo effettivamente l’apparizione di un esercito di defunti a cavallo, sebbene ancora descritto sommariamente.
Presagio di sventura
Per avere una maggiore caratterizzazione, bisogna attendere il Chronicon Saxonicum, o meglio la sezione nota come Cronaca di Peterborough; gli eventi si riferiscono al 1127 e la data di composizione non dovrebbe essere successiva al 1131. Si narrano le vicende relative al regno del normanno Enrico I, che pone a capo dell’abbazia di Peterborough (in Inghilterra) un suo uomo, suscitando le proteste dell’anonimo croni-
sta, il quale narra dell’apparizione di una caccia selvaggia, vista quindi, anche in questo caso, come un presagio di sventura: è domenica, e mentre nel santuario si canta la liturgia, numerosi tra i presenti vedono «molti uomini che cacciavano». «I cacciatori erano neri, e grandi, e deformi; e i loro cani neri, dagli occhi spalancati, e immani; cavalcavano sia cavalli sia cervi neri». Queste schiere vengono avvistate nelle foreste tra Peterborough e Stamford. «E i monaci udirono un suono di corno che echeggiava nella notte». I monaci avvistano anzi 20 o 30 di questi suonatori, che continuano a farsi udire dal giorno dell’insediamento dell’abate per tutta la Quaresima sino a Pasqua. Accanto a questa testimonianza, va citata quella, grosso modo coeva, del Chronicon composto nei tardi anni Venti del XII secolo da Ekkeardo d’Aura. Nel 1123, nella diocesi di Worms (Germania sud-occidentale), viene avvistato un esercito di cavalieri erranti che fuoriescono da una montagna; uno fra questi confessa a un attonito paesano che lui e gli altri non sono fantasmi (fantasmata), nel senso di mere apparizioni fantastiche, ma anime di MEDIOEVO IN NERO
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cavalieri. Le armi, le vesti e i cavalli che erano stati strumenti di peccato, sono adesso per loro strumenti di tortura. È in un certo senso definitiva la testimonianza 66
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del cronista inglese Orderico Vitale, contemporanea o di poco successiva: Orderico muore nel 1140 e compone la sua Storia ecclesiastica grosso modo nel decennio precedente. L’episodio è
Il terzo pannello della composizione di Sandro Botticelli ispirata alla novella del Decameron che ha per protagonista Nastagio degli Onesti. 1483. Madrid, Museo del Prado. Nastagio ha organizzato un banchetto per mostrare ai suoi parenti e ai Traversari, famiglia della donna che non ricambia il suo amore, la punizione ciclica delle due anime del Purgatorio. Nel quarto pannello, tornato nella sua sede originaria di Palazzo Pucci, a Firenze, è rappresentato il festoso banchetto di nozze tra Nastagio e l’amata figlia di Paolo Traversari.
molto lungo e dona una dimensione completamente nuova alla materia: nel gennaio del 1091 il prete Gauchelin, che serve nella chiesa di Angers (Francia), diocesi di Lisieux, si trova di
notte, per strada, chiamato al capezzale di un ammalato. Mentre cammina, ode «un gran baccano come lo fa abitualmente un esercito immenso»; pensa che si tratti dei cavalieri di Robert di MEDIOEVO IN NERO
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La cavalcata delle Valchirie, olio su tela di William T. Maud. XIX sec. Collezione privata. Per la mitologia nordica, le Valchirie, il cui nome significa «coloro che scelgono i caduti», erano divinità femminili che, su cavalli alati, scendevano ogni giorno sulla terra, per prelevare i corpi dei guerrieri caduti valorosamente in battaglia e condurli nel Valhalla, al servizio di Odino.
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Bellême che si recano all’assedio di Courci e cerca dunque rifugio vicino alcuni nespoli. «Ma un essere di taglia gigantesca, armato di un’enorme mazza, sbarrò la strada al prete che si affrettava e gli disse, alzando l’arma sopra la sua testa: “Fermati, non andare oltre!”». Il prete ovviamente obbedisce e assiste cosí a una insolita processione di cavalieri: passano prima dei
briganti, caratterizzati dal fatto di trasportare sulle spalle bestiame e oggetti vari, simboli del bottino ottenuto in vita. Il secondo drappello è formato da assassini, che alcuni demoni sottopongono a vari supplizi; fra loro, il testimone riconosce l’omicida di un prete. Il terzo è un corteo di donne di facili costumi, che procedono a cavallo, con chiodi incandescenti sulla sella. Alcune vengono riconosciute dal prete come ancora in vita. Il quarto corteo è composto da chierici e monaci peccatori, fra i quali alcuni reputati santi uomini: per esempio, Gauchelin riconosce Ugo vescovo di Lisieux e gli abati Mainier d’Ouche e Gilberto di Fontenelle, vestiti con neri mantelli da cerimonia, che lo interpellano e gli domandano nel nome della trascorsa amicizia di pregare per loro. Il quinto corteo è «un immenso esercito di cavalieri: non si notava alcun colore all’eccezione del nero e del fuoco scintillante. Tutti montavano cavalli giganteschi; andavano di fretta, armati di ogni strumento, come se andassero alla battaglia, e portavano insegne tutte nere». Anche fra questi ne identifica alcuni di sua conoscenza, che dice essere morti di recente. Tra questi ultimi un certo Landri d’Orbec, ucciso quello stesso anno, si rivolge al prete, con alti lai, e gli chiede di riferire alla moglie alcune buone azioni da compiere a risarcimento dei peccati commessi in vita.
venimento. Ora sono le anime dei morti che io vedo realmente; ma nessuno mi crederà quando racconterò quel che ho visto, se non mostro agli uomini una prova certa. M’impossesserò di uno dei cavalli liberi che seguono il corteo, lo monterò immediatamente, lo condurrò a casa mia e lo mostrerò a tutti i vicini affinché mi credano». «(...) Si mantenne pronto al centro della strada e tese la mano in direzione di un cavallo che stava per passare. Questo si fermò affinché il prete potesse montarlo e, soffiando dalle narici, proiettò una nube immensa simile a una grande quercia. Il prete mise allora il suo piede sinistro nella staffa, prese le redini e mise la mano sulla sella: immediatamente percepí sotto il suo piede un calore ardente come un fuoco e un freddo incredibile si diffuse attraverso la mano che teneva la briglia sino alle sue viscere». Nel frattempo arrivano quattro cavalieri dall’aspetto allarmante, che gli dicono, proferendo delle grida terribili: «Perché t’impossessi dei nostri cavalli? Verrai con noi. Nessuno di noi ti ha fatto del male, mentre tu cerchi di rubarci ciò che ci appartiene». Uno dei quattro lo prende per il collo, lasciandogli un marchio sul volto, ma un quinto cavaliere sopraggiunge e lo salva. Il cavaliere si rivela essere un fratello del prete, al quale confessa di aver commesso molti misfatti e abusi che la sua condizione cavalleresca gli consentiva; gli dice, inoltre, che le preghiere hanno
E venne la Masnada...
Dopo il passaggio di questa insolita torma, stimata in diverse migliaia di persone, Gauchelin afferma: «Ecco senza dubbio la Masnada Hellequin (Familia Herlechini: nome che deriva forse da Herla Cyning – la Masnada di Herla –, identificato con Odino, n.d.A.). Ho sentito dire che numerose persone l’hanno già vista in passato, ma, incredulo com’ero, mi sono preso gioco di coloro che me ne parlavano, perché mai avevo avuto dinnanzi agli occhi delle prove certe di un simile avA destra un cavaliere, forse identificabile con Odino, su una pietra scolpita di epoca vichinga. IX sec. Stoccolma, Sjöhistoriska Museet. Nelle notti invernali, il dio, in groppa a Sleipnir, leggendario cavallo a otto zampe, guidava il corteo delle anime dei guerrieri morti in battaglia, presagio di sventure per chiunque li avesse avvistati.
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HERNE: DALLA RESURREZIONE AL SUICIDIO Un esempio di cacciatore infernale inglese, Herne the Hunter, che si aggira in uno stato semi-ferino con le sue corna di cervo, è stato a lungo discusso dalla critica: rappresenta il dio celtico Cernunnos, oppure un’immagine di Odino? Fatto sta che il primo a menzionarlo è Shakespeare nelle Allegre comari di Windsor: cacciatore a servizio del re Riccardo II, viene ferito
mortalmente da un cervo; uno stregone lo riporta in vita, ma egli è costretto a vagare con le corna di cervo; perde i favori del re e i suoi vecchi compagni gli danno la caccia sino a quando non viene ritrovato impiccato a una quercia. Da allora, secondo la leggenda, lo si vedrà vagare nella notte da solo o con altri cavalieri infernali, in compagnia di cani e delle anime
strappato il padre da quella condizione, e anche lui sarà alleviato dalle messe del fratello. Cosa piú importante, afferma: «Sarebbe stato giusto che tu morissi e che fossi condotto con noi per condividere le nostre sofferenze, poiché hai osato, con audacia sacrilega, metter mano a oggetti che sono di nostra proprietà. Nessun altro prima aveva osato un simile gesto, ma la messa che hai celebrato quest’oggi ti ha preservato dalla morte».
Le cortesie del re pigmeo
Un altro testo significativo è il De nugis curialium (Degli svaghi di corte), una curiosa raccolta di aneddoti sulla vita di corte composta dallo scrittore di origine gallese Walter Map, nella seconda metà del XII secolo. Il racconto parla dell’incontro fra Herla, sovrano degli antichi Bretoni, e un re dall’aspetto di un Pigmeo. Walter Map descrive il re pigmeo come seduto 70
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catturate durante il viaggio. Le sue apparizioni sono ritenute presagi di sventura, soprattutto per la famiglia reale. Un motivo folclorico rivisitato? Prima della fine del Cinquecento nessuna registrazione scritta o iconica ne parla: il bardo inglese getta luce su un’antica tradizione locale, o piuttosto la inventa, richiamando la nota tradizione letteraria della caccia infernale?
su un caprone, e a sua volta ha sembianze solo in parte umane, dal momento che dal ventre in giú ha l’aspetto di una capra: come Pan, dice infatti lo scrittore. Herla è in procinto di celebrare il suo matrimonio; e il re pigmeo, che si proclama re dei re, gli propone un patto: «Io partecipo innanzitutto alle tue nozze e tu alle mie un anno piú tardi, giorno piú giorno meno». Poi sparisce ed Herla stupito torna alla vita normale; il giorno delle nozze, in effetti il re pigmeo compare con una schiera di servitori simili a lui, che imbandiscono la tavola di ogni bene, al punto che i servi di Herla restano senza niente da fare per tutto il tempo: «Re molto buono, il Signore mi è testimone che assisto alle vostre nozze conformemente al nostro patto. Se da parte vostra desiderate qualcosa in piú da chiedere, ve la procurerò volentieri e con cura purché in cambio tu
In alto il dio gallico Cernunnos dalle corna di cervo, circondato da animali reali e fantastici. Particolare di un pannello in argento del Calderone di Gundestrup, dallo Jutland (Danimarca). Fine del II-I sec. a.C. Copenaghen, Museo Nazionale.
Sir John Falstaff travestito da Herne il Cacciatore, con corna di cervo in testa, alla Quercia di Herne, da Le allegre comari di Windsor, opera di William Shakespeare, dpinto su tavola di James Stephanoff. 1832. Yale, Yale Center for British Art, Collezione Paul Mellon.
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COWBOY COME CAVALIERI MEDIEVALI La ballata americana (Ghost) Riders in the Sky: A Cowboy Legend è stata composta nel 1948 dal cantautore western Stan Jones (1914-1963), nativo dell’Arizona e cresciuto nell’ambiente dei ranch e dei rodei. La canzone racconta dell’apparizione in cielo di mandrie dall’aspetto demoniaco che vengono cacciate da cowboy dannati, versione moderna e made in USA dei cavalieri medievali. Jones racconta di aver appreso la storia da un cowboy texano quando aveva dodici anni, e di aver poi deciso di trasformarla in canzone. Come nel caso di Herne the Hunter, è lecito porsi la domanda se si tratti di una leggenda, modellata su quelle europee, che davvero circolava in America; o se non sia piuttosto frutto dell’invenzione dell’autore, ispirato da tradizioni letterarie e folcloriche europee. Di sicuro, dagli anni Cinquanta in poi è divenuta un classico, interpretata migliaia di volte da band e cantanti di tutto il mondo, tra cui, solo per citare alcuni dei piú famosi, Bing Crosby e Johnny Cash.
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non differisca il momento di onorare il tuo debito, come ti ho ricordato». Dopo un anno si ripresenta e chiede a Herla di onorare il patto; il sovrano accetta dunque di seguirlo, viene condotto in una caverna all’interno di una roccia, ricambia con i suoi doni, e dopo averne ricevuto l’autorizzazione, riparte pieno di regali: cavalli, cani, falchi e cosí via.
Un regalo e un monito importante
Il Pigmeo conduce Herla e i suoi fino all’uscita e offre al re dei Bretoni un bloodhound, un segugio di piccola taglia da portare in braccio, e si raccomanda che nessuno scenda a terra da cavallo se non l’ha fatto prima il cane. Mentre sono in marcia, Herla rivolge la parola a un pastore per chiedergli notizie della regina; il quale gli dice di comprendere a malapena la sua lingua, in quanto lui è un Sassone, non un Bretone, e la regina di cui parla era anticamente
sposata al re Herla, scomparso in una roccia con alcuni Pigmei e mai piú tornato. I Sassoni hanno quindi preso possesso di quella terra scacciandone gli abitanti. Stupefatto, il re – che pensava di essersi assentato per tre giorni – rischia di cadere da cavallo. Alcuni dei suoi compagni, dimenticando gli ordini del Pigmeo, scendono a terra prima del cane e vengono immediatamente ridotti in polvere. Allora Herla proibisce a tutti di mettere piede a terra prima che il cane scenda. Ma il cane, dice Map, «non scese mai» e da quel momento il re Herla vaga senza tregua con il suo esercito, cosí come molti che li hanno visti possono testimoniare. Ma, aggiunge l’autore, dal primo regno di Enrico (Enrico II Plantageneto, n.d.A.), si dice che la masnada sia scomparsa.
Ascendenza nobilitante
La Morte su un cavallo bianco, particolare del Trionfo della Morte, affresco di scuola senese del XIV sec. Subiaco, Monastero del Sacro Speco di San Benedetto.
Il re nano è una creatura di un mondo altro, come sono le fate spesso protagoniste – proprio nella pagine di Map – di vicende assai simili. Un mortale visita un regno fatato, perde il senso del trascorrere del tempo, diverso tra un luogo e un altro, e riemerge in una realtà differente; è quello che il medievista francese Laurence Harf-Lancner ha denominato racconto «melusiniano», tipologia che abbonda nel De nugis; la discendenza di una stirpe da un rapporto fra un umano e una fata è un modo per accrescerne la nobiltà. Cosí anche nel caso di Enrico II: come abbiamo detto sopra, dall’inizio del suo regno, Herla, dell’antica stirpe bretone, può riposare. C’è un nuovo sovrano che prende il posto di questa genia di cavalieri fatati e dannati allo stesso tempo. La sospensione temporale cui Herla e i suoi sono sottoposti dipende dall’essere discesi in questo altro mondo, dal quale riportano un segno inequivocabile: il piccolo cane che transita da un regno a un altro è un richiamo alla funzione psicopompa (ovvero di una figura che, nelle mitologie antiche, svolge la funzione di accompagnare le anime dei morti, n.d.r.) spesso rivestita dal cane, ben presente nella tradizione germanica antica e ancora in quella medievale. Non diversamente, peraltro, dal cavallo: quando il succitato prete di Orderico Vitale prova a toccarne uno, viene minacciato e marchiato dai cavalieri; dietro la giustificazione della punizione per il tentato furto, v’è ovviamente la rottura di un tabú: toccare il cavallo infernale, il mezzo sul quale i cavalieri sono trasportati dall’Aldilà in questo mondo, costerebbe al protagonista la perdizione.
Stessa cosa per Walter Map, nel cui racconto la discesa da cavallo, una volta usciti dal regno incantato dei Pigmei, equivale non proprio alla dannazione, ma certo alla sospensione in un limbo né umano, né infero.
Cacciatori guerrieri
Nei testi letterari medievali il tema della caccia feroce viene utilizzato in modo articolato e per varie finalità, il che ci permette di tracciare una distinzione tra i differenti filoni: il Chronicon Saxonicum presenta ciò che si può effettivamente definire come una «caccia feroce», perché il testo parla effettivamente di venatores. Si tratta comunque di cavalieri, per i quali l’attività venatoria è strettamente legata alla funzione guerriera. Vi sono poi i racconti su orde di guerrieri che sembrano recarsi in battaglia. In questo caso si può parlare propriamente di «esercito dei morti»: si tratta di una differenza piú che altro formale, dal momento che la caratterizzazione guerriera è presente in entrambi i casi. Come detto all’inizio, l’origine del tema è generalmente collegata alle tradizioni germaniche. La lingua norvegese, per esempio, chiama tale esercito Åsgårdsreien, cioè l’«armata di Asgard», ossia nelle saghe norrene uno dei nove mondi, nel quale risiedono gli dèi e che contiene il Valhalla; secondo l’Edda di Snorri Sturluson, i guerrieri di valore, scelti dalle Valchirie al momento della morte, passano il tempo combattendo fra loro, in attesa del Ragnarok, la battaglia finale nella quale fiancheggeranno Odino. Sarebbero dunque queste le schiere di guerrieri defunti da cui deriva l’idea originaria dei cavalieri infernali. È evidente, però, che i racconti medievali assumono caratteri completamente differenti rispetto a quelli originari – che peraltro ci è dato conoscere ben poco; e questa evoluzione, in fondo, conta ben piú delle origini mitiche. Nelle testimonianze precedenti rispetto a quella di Orderico, siamo di fronte a una reinterpretazione del tema dell’esercito dei morti in chiave di signa: le apparizioni sono presagi di varie sventure. Con il cronista normanno, invece, il racconto assume una chiave moralizzatrice nella quale è possibile leggere tanti elementi diversi: la creazione dell’idea di Purgatorio delle anime; i peccati dei diversi ordines che compongono la società; la stigmatizzazione del clero peccatore; l’accusa verso la cavalleria e gli abusi da essa perpetrati. Tutti temi di attualità agli inizi del XII secolo, l’accostamento dei quali all’antico motivo dell’esercito dei morti ne decreta la moralizzazione definitiva. MEDIOEVO IN NERO
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ICONOGRAFIA
Vittorie senza gioia Clusone, cittadina delle Prealpi bergamasche, deve la sua notorietà all’Oratorio dei Disciplini sulle cui pareti si conserva una delle piú spettacolari rappresentazioni del Trionfo della Morte e della Danza macabra. Una composizione che, oltre a offrire una spettacolare testimonianza di temi assai diffusi nell’arte del Medioevo, possiede un importante valore documentario e cela intriganti significati simbolici
MACABRA MAESTÀ Clusone (Bergamo), Oratorio dei Disciplini. Particolare del Trionfo della Morte, affresco di Giacomo Busca, detto il Borlone. 1485.
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La Morte regina apre le braccia, per mostrare la sua maestà ed estendere la sua presenza. Si noti il personaggio di destra, che imbraccia uno schioppetto a miccia, segno che l’artista aveva
recepito l’innovazione tecnologica costituita dall’introduzione delle armi da fuoco.
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ICONOGRAFIA
Trionfo della Morte
LE ANIME SULLA BILANCIA Paganico (Siena), S. Michele Arcangelo. Particolare dell’affresco di Biagio di Goro Ghezzi. 1368. Come ha scritto Chiara Frugoni, il santo titolare «tiene la bilancia in cui compaiono due anime sotto forma di figurine nude, una femminile e una maschile. In basso c’è una donna con la sua rocca, e dall’altra parte un uomo con la zappa, e tutti e due dicono, in sintesi: “Del nostro lavoro noi abbiamo fatto elemosina”. Quindi, i due simboli del peccato originale – da una parte Adamo, dall’altra parte Eva che trasforma la lana delle pecore in filato – con il loro lavoro agricolo, attraverso l’elemosina, indicano un modo per riconquistare il paradiso» (Senza misericordia, Torino 2016). FUGA SENZA SCAMPO Cremona, S. Luca, sacrestia. Incontro dei tre vivi e dei tre morti, affresco di Antonio da Ferrara. 1418. L’opera illustra il piú antico tema macabro dell’iconografia medievale europea. Il racconto è incentrato su tre cavalieri, giovani, felici e spensierati. Durante una battuta di caccia, si imbattono in tre scheletri animati, che prefigurano il loro destino. Il tema torna anche nell’affresco dell’Oratorio dei Disciplini a Clusone, laddove si osservano tre cavalieri-cacciatori presi di mira dalla Morte: uno viene colpito e gli altri due tentano inutilmente di fuggire (vedi foto a p. 78).
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UNA MESSA IN SCENA GRANDIOSA A. Nell’affresco di Clusone, la composizione è dominata dal Trionfo della Morte. Sotto di lei, alcuni personaggi cercano di fuggire (sulla sinistra), mentre altri sono inginocchiati e offrono danaro e gioielli; al centro, intenti a dialogare, si vedono due figure recentemente identificate: il re di Lidia Creso (a sinistra) e Solone, legislatore e filosofo greco (vedi anche l’immagine a p. 81). B. La porzione superstite della Danza macabra: i personaggi che sfilano, alternati a scheletri, impugnano strumenti che permettono di identificarne la professione. Vediamo cosí un membro della confraternita dei Disciplini con il flagello utilizzato nei suoi esercizi penitenziali, il conciabrocche – o aggiustapiatti, riconosciuto proprio grazie al trapano a volano, che gli consentiva di praticare le ricuciture con il ferro filato –, il garzone di osteria, il pellegrino forestiero, il mercante, il giovane nobiluomo innamorato (la morte interrompe bruscamente l’idillio epistolare con la sua dama), un professionista di alto livello (un giurista o un medico). Si può notare come restino fuori dal corteo le donne. Una sola si affaccia all’inizio, piccola e priva di una chiara connotazione sociale, e con il suo specchio che riflette un teschio sembra piú che altro un’allegoria della Vanità. Rispetto ad altre Danze macabre, inoltre, mancano del tutto i bambini, i poveri, i malati e gli anziani. Un’assenza rispetto alla quale ancora Chiara Frugoni ha sottolineato il fatto che i committenti dell’opera, i Disciplini, erano una realtà maschile. Le donne erano ammesse solo se autorizzate dal marito o dai genitori, e rivestivano un ruolo minore, non potendo neanche vestire la «divisa» della confraternita in punto di morte.
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L’OFFERTA DEL MERCANTE Un altro particolare del Trionfo della Morte di Clusone, raffigurante un mercante che offre un anello alla Morte. Solitamente, in composizioni aventi per tema il Trionfo della Morte e la Danza macabra, si impone l’aspetto della morte inesorabile e che può colpire in qualsiasi momento, e dunque l’invito pressante a pregare e a essere dei buoni cristiani. Ma nel caso di Clusone il messaggio è addolcito da una vicinanza quasi fraterna con la morte, ed è rivolto in prima battuta a un gruppo sociale ben definito, quello composto dai ricchi commercianti e professionisti della realtà locale.
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IL RE E IL FILOSOFO Ancora un particolare del Trionfo della Morte di Clusone, raffigurante il dialogo fra Creso e Solone: l’incontro allude al racconto di Erodoto, secondo il quale il re della Lidia, credendo di aver raggiunto la vetta della felicità grazie alle sue ricchezze, fu smentito da Solone, che gli contrappose tre personaggi morti gloriosamente, chiudendo cosà la propria vita con un bilancio positivo.
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Dracula: la vera storia del principe vampiro Salito al trono della Valacchia alla metà del Quattrocento, Vlad III fu una delle figure di spicco dell’allora convulso scenario balcanico. A renderlo immortale fu però il suo alter ego letterario, che aggiunse ulteriore efferatezza a una fama già sinistramente evocata dal suo epiteto di Tepes, «l’Impalatore» di Tommaso Indelli
È
difficile restituire alla «verità storica» il personaggio di Vlad III, voivoda (titolo che, nell’Europa centro-orientale, indicava capi o governatori con estesi poteri civili e militari, n.d.r.) della Valacchia – regione dell’odierna Romania – meglio noto come «Dracula». Negli ultimi decenni, la filmografia, i cortometraggi e i fumetti ispirati dal romanzo Dracula di Bram Stoker (pubblicato per la prima volta nel 1897) hanno contribuito a diffondere e a radicare nella coscienza collettiva un’immagine artefatta, se non totalmente falsa, del noto condottiero «romeno», frutto della fantasia dell’autore irlandese, mescolata alla sua passione per la magia, l’astrologia, l’alchimia e il 82
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patrimonio di leggende popolari di origine balcanica – non solo romene –, che ruotano intorno alla figura del «morto redivivo» assetato di sangue, il vampir o nosferat. In realtà, il «conte Dracula» non bevve mai sangue umano, ma fu un principe del XV secolo, non alieno da comportamenti violenti, spesso crudeli, come altri sovrani della sua epoca, proiettata verso il Rinascimento, ma non totalmente libera dai condizionamenti di quel passato medievale che lo storico olandese Johan Huizinga (18721945) definí «Autunno del Medioevo». Vlad III nacque tra il 1430 e il 1435 nella città romena di Sighisoara dal principe di Valacchia, Vlad II (1418-1447), e da una donna scono-
A destra ritratto di Vlad III di Valacchia, detto Tepes (l’Impalatore) e piú noto come Dracula, olio su tela di autore anonimo. XVII sec. Eisenstadt, Castello Esterhazy. A sinistra armi facenti parte della collezione del castello di Bran, presso Brasov, che ispirò la descrizione del maniero di Dracula nel romanzo di Bram Stoker, ma non fu la residenza di Vlad Tepes.
PERSONAGGI
L’assetto geopolitico delle regioni che furono teatro della vicenda di Dracula.
Vlad Tepes
sciuta, forse una principessa ungherese imparentata con la dinastia dei duchi di Lussemburgo, allora regnante in Ungheria, conosciuta da Vlad II durante la permanenza alla corte di Budapest. Vlad III, detto Tepes, l’«Impalatore» – per la terribile pena che riservava ai suoi nemici – e che, come già ricordato, è piú noto come Dracula (il «figlio del Drago»), apparteneva alla dinastia valacca dei Basarab, che prendeva nome dal suo fondatore, il voivoda Basarab, il quale, alla metà del XIV secolo, costituí il principato di Valacchia, emancipandosi dalla sudditanza ungherese, diede vita a una vera e propria dinastia e riuscí a trasmettere il potere al figlio, Mircea I cel Batran (1386-1418), «il Vecchio», nonno del piú noto vampiro.
Tuttora ignota è la madre del piccolo Vlad III, forse identificabile con una principessa ungherese 84
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Si consideri che, all’epoca, l’attuale Romania non costituiva un’entità statale unitaria, ma era suddivisa in tre compagini distinte: il principato di Valacchia, il principato di Moldavia e la Transilvania che era in gran parte sottomessa al regno d’Ungheria. Mircea stabilí la sua capitale a Curtea de Arges, alle falde dei Carpazi, sede del metropolita ortodosso della regione.
La crociata di Sigismondo
Durante il suo regno, i Turchi Ottomani iniziarono la penetrazione militare nei Balcani, intenzionati a estendere il loro sultanato dall’Asia Minore al territorio europeo, annientando quanto restava dell’impero romano d’Oriente. Nel 1354 avevano occupato Gallipoli sui Dardanelli e, nel 1362, Adrianopoli, dove trasferirono la loro capitale. Nel 1395 portarono a termine l’occupazione della Bulgaria. Nel 1396, per fermarli, la Chiesa e il re d’Ungheria, Sigismondo di Lussemburgo, bandirono una grande crociata, a cui partecipò il fior fiore della nobiltà euro-
IN PRINCIPIO FU «IL DRAGO» Vlad II Dracul (il Drago) Voivoda di Valacchia († 1447)
Qui sotto Curtea de Arges, Episcopio. Ritratto di Mircea cel Batran («il Vecchio»), nonno di Vlad Tepes.
Vlad III Tepes (l’Impalatore) = (1) Cnaejna Báthory Voivoda di Valacchia Principessa di Transilvania (1430/1435-1476) (2) Ilona Szilagyi Mihnea I cel Rau (il Cattivo) = (1) Smaranda (2) Voica Voivoda di Valacchia († 1510)
Ruxandra Mircea III Dracul = Maria Despina
(1) Maria Amirali = Petru Schiopul (Pietro lo Zoppo) Voivoda di Moldavia (2) Irina la Zingara († 1594)
Maria, dama di corte circassa = Stefanitsa
Alexandru*
Maria*
Mircea
Petru*
Milos
Elena
(† 1640)
= Elisabetta d’Ungheria Maria*
Petru
Mircea*
Bogdan = Ilona (il primo ad assumere il cognome Tsepesh) († 1672)
Elisabetta
Bogdan*
Radu Tsepesh
Milos*
(† 1699)
= Ana Ana
Radu*
Petru*
Vlad Tsepesh = (1) Caterina († 1724) (2) Maria di Amlash
Vlad
Maria
Ana
(1) Suzana Rosetti = Mircea Tsepesh (2) Gavrila Radescu († 1750) Mihnea Tsepesh († 1778)
= Maria Tsamblac Suzana*
Ion*
Maria*
Elena*
Vlad*
Petru Tsepesh († 1845)
= Mary Windham
Mircea
Radu
Alexandru Tsepesh = (1) Elena († 1811) (2) Gavrila Radescu Alexandru*
Stefan George Tsepesh († 1845)
* Morto giovane o nato con deformità fisiche o psichiche
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PERSONAGGI
Vlad Tepes
pea, ma in Bulgaria, a Nicopoli, il 25 settembre del 1396 l’esercito cristiano fu annientato dagli Ottomani (vedi box alle pp. 88-89). Prima di morire, Mircea si era sottomesso al sultano Maometto I, stipulando un trattato con il quale si impegnava a pagare un tributo annuale di circa 10 000 ducati e a fornire 500 reclute cristiane da impiegare come truppe scelte del sultano nei reggimenti dei famosi giannizzeri. Morto Mircea, la Valacchia sprofondò nel caos della guerra civile tra i vari pretendenti al trono, tra cui Alessandro Aldea, uno dei suoi numerosi figli. Nel frattempo, divenuto re di Germania, imperatore del Sacro Romano Impero (1410) e re di Boemia (1419), Sigismondo di Lussemburgo decise di sostenere le pretese di Vlad II, uno dei figli di Mircea, cresciuto in Ungheria alla corte imperiale di Budapest. Pertanto, tra il 1430 e il 1436, con l’aiuto delle milizie imperiali e del principato di Moldavia – regione dell’odierna Romania – Vlad riuscí a sconfiggere e uccidere Aldea, conquistando il Paese sul quale avrebbe regnato fino al 1447.
Una croce tracciata col sangue
Poco tempo prima, nel corso di una solenne cerimonia a Norimberga (1431 circa), Vlad era stato designato «cavaliere» da Sigismondo e, piú esattamente, era stato ammesso all’Ordine cavalleresco del Drago – Drachenorden o Societas Draconistarum –, fondato dall’imperatore nel 1418, con il compito di raggruppare il meglio della nobiltà imperiale al fine di proteggere la sua persona, combattere gli eretici Hussiti e i Turchi e difendere l’onore dell’impero germanico. L’insegna dell’Ordine era un drago con le fauci spalancate e il corpo avvolto su se stesso a forma di cerchio, con la coda intorno al collo, diviso in tutta la sua lunghezza, dalla testa all’estrema punta del corpo, da una croce vermiglia tracciata nel sangue. Da quel momento, Vlad II di Valacchia assunse l’epiteto di Dracul – il Drago – dal nome dell’Ordine cavalleresco a cui apparteneva, ed è per tale motivo che il figlio, Vlad III Tepes, fu poi denominato Dracula, «figlio del Drago». Tuttavia, in base alle Sacre Scritture, il riferimento al drago apparve a molti un richiamo esplicito al Demonio dell’Apocalisse – il Dragone –, soprattutto se si considera che, in romeno, drac significa diavolo. Il regno di Vlad II non fu tranquillo: il voivoda doveva destreggiarsi tra la fedeltà al suo protettore ungherese e l’espansionismo turco, ma alla fine, profittando della morte dell’imperatore Sigismondo (1437), scelse il sultano, confermando il trattato già ratificato dal padre (1438 86
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circa). In ottemperanza agli accordi, due dei suoi figli Radu cel Frumos, il Bello, e Vlad, il futuro «Dracula», furono consegnati al sultano a garanzia dell’adempimento dei patti e condotti prima a Gallipoli e poi in Asia Minore, nella fortezza di Egrigoz, dove furono trattenuti in cattività fino al 1448. Nel frattempo, nel 1444, di fronte all’avanzata ottomana nei Balcani, fu organizzata una nuova crociata, ma i protagonisti erano cambiati. L’imperatore Sigismondo era morto e al suo posto, come comandante supremo dei crociati, fu scelto il nobile transilvano Giovanni Hunyadi (1387 circa-1456) che svolgeva la funzione di «reggente» del regno in Ungheria, data la giovane età del sovrano, Ladislao V Postumo, nipote del defunto Sigismondo. La spedizione si risolse ancora una volta in un disastro e, il 10 novembre del 1444, a Varna, in Bulgaria, l’esercito cristiano fu annientato dai Turchi: Hunyadi riuscí a fuggire, ma il legato pontificio, Giuliano Cesarini, e il re di Polonia, Ladislao III, perirono in battaglia. Il ruolo di «capro espiatorio» su cui riversare le responsabilità della sconfitta toccò proprio a Vlad II di Valacchia, il quale, in virtú dei patti intercorsi col sultano e a causa della cattività dei figli, si guardò bene dal partecipare alla crociata, limitandosi a inviare un reggimento di 4000 soldati. Ritenuto alleato inaffidabile e pericoloso, fu considerato nemico da Hunyadi che, nel 1447, invasa la Valacchia, lo sconfisse e lo uccise presso Bucarest. Nella battaglia morí anche Mircea, fratello di Dracula. I resti di Vlad II e del figlio furono dispersi.
La clemenza del sultano
La morte di Vlad II indusse il sultano a liberare subito i due figli del voivoda e a inviarli in Valacchia, riconoscendoli come principi. Vlad III fu dunque principe di Valacchia e non di Transilvania – come erroneamente si crede sulla base del romanzo di Stoker –, perché questa regione, nel XV secolo, era sottoposta interamente alla sovranità ungherese, eccetto i distretti di Amlas e Fagaras. Vlad III e Radu giunsero in Valacchia solo nell’ottobre del 1448, profittando di una nuova sconfitta subita dai crociati a Kosovo Polje, in Serbia, e riuscirono a conservare il trono per soli due mesi. Gli Ungheresi cacciarono i due fratelli dal Paese e insediarono sul trono Vladislao II (o Ladislao), un principe di origine moldava, che dava maggiori garanzie di affidabilità. Mentre Radu faceva ritorno in Turchia, Vlad III fuggí nel confinante principato di Mol(segue a p. 91)
Ritratto di Vlad Tepes, olio su tela di scuola tedesca. Seconda metà del XVI sec. Vienna, Kunsthistorisches Museum.
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Vlad Tepes
L’EMIRATO CHE SI FECE IMPERO Nata agli inizi del XIV secolo come un piccolo emirato nella parte nord-occidentale dell’Asia Minore – la Bitinia – con capitale Brussa, la giovane compagine turca, retta dalla stirpe degli Osmanli (da cui il nome «Ottomani») conquistò, nell’arco di un secolo, la totale supremazia sulla penisola anatolica – che fu ribattezzata Turchia –, avviando una veloce espansione militare in direzione dell’Europa balcanica, dai Turchi detta Rumelia (da cui l’attuale «Romania»), ovvero terra dei Rum, dei «Romani». Nel 1354, il sultano Orkhan, conquistatore di Nicea e Nicomedia, occupò Gallipoli (odierna Gelibolu), sullo stretto dei Dardanelli, mentre il suo successore, Murad I, riuscí a impossessarsi di Filippopoli (1362) e di Adrianopoli, in Tracia (1363). Ad Adrianopoli (attuale Edirne), fu trasferita la capitale dell’emirato ottomano, mentre, tra il 1394 e il 1402, la stessa Costantinopoli fu sottoposta a un durissimo assedio da parte del sultano Bayazid I, che non riuscí a impossessarsi della capitale imperiale a causa dell’avanzata delle orde turco-mongole di Tamerlano in Asia Minore. Nel 1430, Murad II prese Tessalonica (odierna Salonicco), nel 1453 il sultano Maometto II al Fatih, «il Conquistatore», riuscí a prendere Costantinopoli, mentre l’imperatore, Costantino XI Dragazes, combattendo in difesa della città, moriva sugli spalti delle mura. Da quel preciso momento l’avanzata ottomana nei Balcani fu inarrestabile: nel 1456 fu occupata Atene e, l’anno successivo, fu completata la conquista della Serbia (con l’eccezione di Belgrado), profittando della morte del despota Giorgio Brankovic. Nel 1463, fu la volta della Bosnia il cui bano (governatore di provincia), Stefano III Tomaševic, venne messo a morte dal sultano, mentre nel 1470 fu completata la conquista dell’Albania, priva della formidabile guida del suo re, Giorgio Castriota, campione della resistenza antiturca. Alla fine del XV secolo, anche i principati di Valacchia e Moldavia furono ridotti a «Stati vassalli», tributari del sultano, Bayazid II, che completò l’opera intrapresa dal padre con la presa di Negroponte (attuale Eubea), nel 1470, e con quella di Corone e Modone, nel Peloponneso (1499). Alla fine del Quattrocento, il dominio politico delle potenze cristiane nei Balcani poteva dirsi concluso.
La conquista di Costantinopoli da parte delle truppe di Maometto II, nel 1453, in una tempera su tavola di Panagiotis Zografos, pseudonimo scelto dal generale greco Ioannis Makriyannis (1797-1864), per una serie di dipinti di soggetto bellico da lui realizzati. 1836.
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In alto Targoviste. I resti del palazzo di Dracula. Nella pagina accanto acquaforte di scuola tedesca raffigurante Vlad Tepes che assiste all’impalamento di numerosi condannati, mentre, seduto al proprio tavolo, mangia e beve. XV sec.
davia, trovando ospitalità nella capitale Suceava, presso il voivoda e zio Bogdan (1447-1452). Vlad rimase in Moldavia fino al 1456, quando, con l’aiuto del nuovo principe, Stefano († 1504), «il Grande», non riuscí a rioccupare la Valacchia e a riconquistare il trono, dopo aver sconfitto e ucciso in battaglia Vladislao.
La seconda fase del regno
Tutto ciò avveniva mentre la situazione politica nei Balcani era incandescente e Costantinopoli, la capitale dell’impero bizantino, era stata occupata dai Turchi (1453). Il nuovo sultano, Maometto II, aveva cominciato ad annettere gran parte del territorio serbo, eccetto Belgrado, strenuamente difesa dal reggente ungherese Giovanni Hunyadi, che, tuttavia, pagò con la vita il suo coraggio. Morto Hunyadi, suo figlio, Mattia Corvino, nuovo re d’Ungheria, ritenne piú prudente abbandonare Ladislao al suo destino e favorire Vlad III, che riconobbe come principe. Iniziava, cosí, la seconda fase del regno di Vlad III, il quale, da allora, fu meglio noto come «Dracula», «figlio del Drago» (o «del Diavolo»). Il governo di Vlad III (1456-1462) lasciò un se-
gno indelebile nella memoria dei Valacchi e nella storia del Paese, ancora oggi percepibile per chi visiti, in Romania, i luoghi in cui si ritiene abbia vissuto il voivoda, tra cui è da ricordare Targoviste, la città scelta da Dracula come nuova capitale del principato e sede della Curtea Domneasca, il complesso palaziale del voivoda e della corte, che Dracula fece ampliare e a cui fece aggiungere la possente Torre Chindia. In politica interna Dracula cercò di eliminare con ogni mezzo tutti i possibili avversari, in primo luogo i boiardi, cioè l’aristocrazia valacca, ma anche il clero ortodosso. Mentre con i boiardi fu sempre spietato, alienandosi definitivamente la loro simpatia, con il clero, soprattutto quello monastico, l’atteggiamento del voivoda fu sempre ispirato a un sano realismo politico. Vlad beneficò diocesi e monasteri – si pensi ai cenobi di Strahov e Comana – e ricorse alle maniere forti solo quando la Chiesa ortodossa valacca fece corpo con l’aristocrazia nella difesa dei suoi privilegi. Avversari tenaci del principe furono anche le numerose comunità di minatori e commercianti tedeschi – designati, genericamente, come «Sassoni» – stanziate nella Transilvania, sopratMEDIOEVO IN NERO
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Vlad Tepes Illustrazione realizzata per la prima edizione del Dracula di Bram Stoker, raffigurante Lucy Westenra che, morsa dal protagonista, è condannata a trasformarsi in vampiro.
tutto nelle città di Brasov e Sibiu. Queste ultime, pur essendo sottoposte alla sovranità ungherese, furono saccheggiate e i loro abitanti massacrati. Dracula abbandonò la politica del padre, favorevole ai mercanti e speculatori di origine germanica, di cui aveva favorito lo stanziamento anche in molte aree della Valacchia, attraverso la concessione di molti privilegi fiscali e commerciali. Con i Tedeschi, accusati di essere infidi speculatori e affaristi senza scrupoli, oppressori dei Valacchi, Vlad fu spietato: per le esecuzioni dispose il ricorso a metodi particolarmente efferati, tra cui l’impalamento – una 92
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pratica mutuata dalle popolazioni turco-mongole delle steppe asiatiche –, che lo rese tristemente famoso e gli procurò, come già ricordato, l’epiteto di Tepes, cioè «Impalatore». In politica estera, Vlad fu implacabilmente ostile ai Turchi, rifiutando ogni compromesso, a differenza del nonno e del padre, e, molto probabilmente, questa fanatica ostilità fu dettata dalla terribile esperienza personale della prigionia a Egrigoz piú che dalla fede religiosa. Nel 1462, l’ennesima provocazione del voivoda – che fece inchiodare i turbanti alle teste degli ambasciatori ottomani venuti a riscuotere il
tributo – fu causa di una nuova guerra. Circa 100 000 uomini – ma la cifra è probabilmente esagerata – al comando del sultano Maometto II, invasero il Paese, costringendo Vlad a darsi alla macchia. Con il sultano era anche il fratello del voivoda, Radu, che i Turchi intendevano imporre sul trono valacco. Privo dell’aiuto degli Ungheresi e dei Moldavi che non avevano accettato le sue proposte di alleanza, e costretto anche a fronteggiare un’invasione moldava ai confini orientali del regno, a Dracula non rimase altro che fuggire, trovando rifugio a Brasov sotto la protezione di Mattia Corvino, il quale, per tutta risposta, lo fece arrestare e deportare a Visegrad, residenza invernale dei re ungheresi sul Danubio. L’arresto fu motivato con l’accusa di tradimento, mossa a causa di probabili intese col nemico basate su prove artefatte, cioè su una corrispondenza volutamente falsificata intercorsa tra il voivoda e il sultano. Mentre gli Ottomani insediavano Radu il Bello come voivoda di Valacchia, Dracula fu messo agli arresti e visse da prigioniero fino al 1475.
Una conversione «scandalosa»
Si trattò comunque di una «prigionia dorata», degna di un principe cristiano del suo rango e che, alla fine, gli fruttò anche un nuovo matrimonio politicamente vantaggioso. Vlad III, infatti, contrasse nuove nozze con una nipote del Corvino, molto probabilmente Ilona Szilagyi. Le nuove nozze furono rese possibili dalla morte della prima moglie di Vlad, suicidatasi durante la guerra contro i Turchi per non cadere prigioniera. Inoltre, perché potessero essere celebrate le nozze, a causa dell’impedimento della disparitas cultus, Vlad dovette abiurare al credo ortodosso e convertirsi al cattolicesimo, suscitando lo scalpore del clero valacco. Finalmente, nel 1475, il re Mattia Corvino decise di aiutare Dracula a riconquistare la Valacchia. L’inaffidabile Radu, alleato dei Turchi, era morto in battaglia contro i Moldavi nel 1473 e il Paese era governato dal boiardo Basarab Laiota, anch’egli sottomesso agli Ottomani. Con l’aiuto dei Moldavi, il re d’Ungheria riuscí a insediare a Targoviste il suo protetto senza riuscire a eliminare Basarab, che continuò a imperversare con l’aiuto dei Turchi. Nel 1476, un anno dopo il suo ritorno sul trono, Vlad III fu ucciso in battaglia contro i Turchi presso Targoviste. L’esatta dinamica dei fatti non è nota – le fonti sono contraddittorie –, ma sembra che il voivoda fosse stato ucciso in com-
battimento proprio dai suoi uomini, che non lo avevano riconosciuto a causa del suo travestimento «alla turca», adottato per non essere individuato dal nemico. Un’altra versione vuole che a ucciderlo fosse stato lo stesso usurpatore Basarab Laiota. La testa di Vlad, staccata dal corpo e issata su una picca, fu portata al sultano ed esposta al popolo di Costantinopoli, mentre il corpo fu probabilmente sepolto nel monastero di Snagov. Morto Vlad III, la Valacchia attraversò un periodo di sanguinose lotte civili fino al 1482, quando salí al potere il fratellastro di Dracula, Vlad IV Calugarul, il Monaco, ormai (segue a p. 97)
La copertina di un’edizione del 1901 del Dracula di Bram Stoker.
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ASSETATI DI SANGUE E ALLERGICI ALLA LUCE... Chi è realmente il vampir? Secondo le tradizioni popolari il vampiro è un revenant, «morto non morto», un individuo che, a causa della nefasta influenza maligna, è morto solo apparentemente e si nutre del sangue di umani, trasformati a loro volta in vampiri con il morso. Nelle tradizioni folcloriche, i vampiri potevano assumere l’aspetto di animali e fecondare donne che avrebbero partorito creature simili a loro. La vista della luce poteva risultare mortale, perciò agivano, di preferenza, nelle ore notturne. La tradizione contemplava l’uso di vari elementi apotropaici per neutralizzare l’azione di queste creature mostruose, come le esalazioni dell’aglio, l’ostensione della croce e dell’ostia, la celebrazione della messa, l’aspersione di acqua benedetta e incenso, e, per finire, il ben noto palo piantato nel cuore, eventualmente accompagnato dal taglio della testa e dalla combustione del corpo, in modo da dare al vampiro la definitiva «seconda morte». Lo stesso Stoker, nello scrivere il romanzo, attinse al patrimonio folclorico romeno, grazie all’amicizia e alla consulenza di un noto professore di orientalistica dell’Università di Budapest, Hermann Weinberger, che lo spinse ad approfondire i suoi studi sul voivoda valacco e sulle leggende romene relative ai vampiri. Ovviamente non è possibile affermare se Vlad III fosse affetto da vampirismo patologico, cioè dalla sindrome di Renfield (dal nome del servitore di Dracula, nel romanzo di Stoker), caratterizzata dall’ossessionecompulsione – accertabile con diagnosi psichiatrica – che lo spingeva a nutrirsi di sangue animale e umano, proprio o di altri. Tale patologia ha molto probabilmente origine da traumi infantili psicologicamente non elaborati dal malato con l’età adulta, ed è spesso
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accompagnata anche da particolari patologie sessuali, poiché, nei casi accertati, l’ematofagia è spesso associata anche a eccitazione erotica. Nel vampirismo, il sangue è percepito come fonte di vitalità ed energia, pertanto il suo consumo produce sensazioni di potenza e di benessere in chi se ne nutre. Accanto al vampirismo patologico, l’antropologia ha potuto riscontrare, presso varie civiltà, molte forme di «vampirismo culturale», fondate su particolari credenze – scientificamente infondate – connesse ai benefici derivanti dall’assunzione alimentare di sangue.
In alto la locandina del film Le cauchemar de Dracula (L’incubo di Dracula), versione francese del film sul vampiro diretto da Terence Fisher nel 1958. Nella pagina accanto Klaus Kinski nel film Nosferatu, il principe della notte, di Werner Herzog. 1979.
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L’ULTIMO MISTERO L’associazione di Dracula alle credenze relative al vampirismo, cioè ai «morti non morti», è dipesa anche dall’alone di mistero che, già nel XV secolo, cominciò ad aleggiare intorno alla sorte subita dai suoi resti mortali. Alcune tradizioni romene vorrebbero il voivoda sepolto nel diruto monastero di Snagov, edificato per volontà dello stesso principe in Romania, sull’omonimo lago, altre in quello di Comana, andato distrutto nel 1589 a causa di un terremoto. Nel 1932, una missione archeologica guidata dall’archeologo Dinu Rosetti e dallo storico George Florescu rinvenne, al di sotto di una lapide anonima collocata all’interno della chiesa monastica, vicino alla porta, la sepoltura di un uomo vestito con un lussuoso abito di seta gialla ornata di argento, i cui resti, avvolti in un drappo di seta color porpora, si polverizzarono a contatto con l’aria nel momento in cui la tomba fu aperta. Per lunghissimo tempo la tomba fu ritenuta quella di Vlad Tepes finché, nel 2014, una studentessa universitaria, che stava lavorando alla sua tesi di laurea, non ritenne di aver individuato la sepoltura di Dracula a Napoli, nella chiesa di S. Maria la Nova (XIII secolo), e, precisamente, nella cappella funeraria della nobile famiglia napoletana dei Ferrillo, conti di Acerenza. Tuttavia, quest’ipotesi non appare suffragata da prove certe, ma da semplici e molto labili indizi. Si è creduto di individuare la tomba del Tepes nella cappella dei Ferrillo sulla base del fatto che sulla lastra tombale è presente la raffigurazione di un Drago, simbolo dell’ordine cavalleresco di cui faceva parte il padre di Dracula, dimenticando che il drago è un simbolo, anche araldico, molto diffuso in tutto il Medioevo. Sulla lastra tombale, inoltre, sono raffigurate due sfingi a rappresentare la città egizia di Tebe, il cui nome, in egizio, è Tepes, con ovvia assonanza all’epiteto del voivoda valacco.
L’ipotesi che i resti di Vlad Tepes siano stati portati a Napoli appare tanto suggestiva, quanto poco plausibile 96
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Tuttavia, poiché risulta arduo collegare il Tepes-Impalatore e la cultura egizia, almeno nel XV secolo, si è tentato di trovare una spiegazione plausibile agli indizi, associando il tutto al matrimonio tra il conte di Acerenza, Giacomo Alfonso Ferrillo, e la principessa Maria Balsa («la Baltica»), che, in esilio dai Balcani per sfuggire all’avanzata ottomana, giunse a Napoli nel 1480. Si è cosí pensato di individuare in Maria – di cui si ignorano le origini – una figlia di Dracula, mai attestata dalle fonti, che per evitare la profanazione della salma del padre da parte dei Turchi o dei boiardi, l’avrebbe traslata a Napoli, tumulandola nel sepolcro di famiglia del coniuge, in S. Maria la Nova. Congetture che non hanno risolto il mistero delle spoglie di Vlad…
diventato tributario del sultano. Allo stato attuale delle conoscenze, la stirpe di Dracula si estinse nel XVII secolo. Ambientato nella Romania ottocentesca e nell’Inghilterra vittoriana, il romanzo dello scrittore irlandese Bram Stoker (1847-1912), non fece altro che condensare, in maniera artisticamente elaborata e in un’opera unica, tutte le nefandezze – vere o presunte – che una lunghissima tradizione letteraria, risalente al XV secolo, aveva elaborato e diffuso sul conto del principe di Valacchia. Occorre tuttavia considerare che la grottesca immagine di Dracula-Vlad trasmessaci dalla tradizione romanzata è totalmente falsa, sia per quanto attiene ai dati propriamente storici – il morto redivivo, nutrito dal sangue umano –, sia per quel che riguarda l’aspetto stesso del personaggio: capelli impomatati, frac, epidermide bianchissima, denti aguzzi e unghie lunghissime.
Baffi spioventi e lunghi capelli
In alto Napoli, S. Maria la Nova. La tomba della famiglia Ferrillo, al cui interno, secondo una recente ipotesi, riposerebbero anche le spoglie di Vlad Tepes, portate nella città partenopea da una sua presunta figlia, Maria Balsa. Nella pagina accanto Targoviste. Monumento in onore di Vlad Tepes. L’Impalatore salí al potere, dopo varie vicissitudini, all’indomani della morte del padre, Vlad Dracul, e resse le sorti della Valacchia dal 1456 al 1462.
L’aspetto di Vlad Tepes, trasmesso dalle coeve fonti letterarie – nota è la descrizione tramandata dal legato pontificio Niccolò di Modrussa († 1480) – e da alcuni ritratti, posteriori al XV secolo, era ben diverso da quello del romanzo: fisico robusto, collo taurino, lunghi baffi spioventi sulla bocca e capelli lunghi sulle spalle. Inoltre il Vlad storico non ebbe mai una particolare predilezione per i pipistrelli – note creature ematofaghe –, la cui associazione al vampirismo deriva dalle catalogazioni zoologiche del naturalista George Buffon († 1788), il quale attribuí la denominazione di «vampiro» a una particolare specie di pipistrelli. Bram Stoker, inoltre, fu il primo ad associare il voivoda valacco ai vampiri, cioè ai «morti redivivi» ben conosciuti dalle tradizioni leggendarie precristiane di numerose culture, anche extraeuropee. Tali leggende sono particolarmente diffuse nei Paesi balcanici e, in genere, tra le popolazioni di etnia e cultura slava e lo stesso termine «vampiro» – divenuto oggi di uso comune per indicare chi si nutre di sangue umano o animale – è di origine slava, com’è dimostrato dal sostantivo vampir, utilizzato nelle lingue serba e bulgara. In croato, la creatura ematofaga è indicata come upir, in russo, ucraino e bielorusso come upyr, in romeno nosferat (vedi box a p. 94). La «leggenda nera» di Dracula cominciò a formarsi già nel Quattrocento, attraverso la pubblicazione, in territorio tedesco, di alcune «storie» sul voivoda di Valacchia che ne narravano la (segue a p. 100) MEDIOEVO IN NERO
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DA TERRORE DELLE GENTI AD ATTRAZIONE TURISTICA In Romania, oggi, l’immagine di Dracula sopravvive innanzitutto nelle tradizioni folcloriche, mantenute vive dal proliferare dell’associazionismo privato, che mira a conservare e perpetuare la memoria del voivoda valacco, soprattutto per alimentare l’ininterrotto flusso turistico e le conseguenti positive ricadute sul sistema economico romeno. Si pensi ai Dracula Tour, che contemplano visite guidate ad alcuni dei luoghi piú significativi della vita del voivoda, tra i quali figurano la città natale Sighisoara, la capitale Targoviste, il castello di Piatra Craiului e le rovine della fortezza di Curtea de Arges, dove la
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leggenda vuole che, gettandosi da una torre, si uccise la moglie di Vlad, per sfuggire ai Turchi. A Hunedoara, nella Transilvania romena, sorge il castello della famiglia Hunyadi, dove ogni anno, dal 1° al 3 maggio, si svolge il Dracula Festival, che si propone di valorizzare la storia di Vlad Tepes, in collaborazione con il Ministero del Turismo e importanti enti culturali, tra cui quali la Transylvanian Society of Dracula, fondata nel 1991 a Bucarest, che annovera tra i soci anche molti docenti universitari, e si propone di promuovere studi e ricerche su Vlad III e la Valacchia del suo tempo, anche al fine di rimarcare l’antitesi tra l’immagine romanzata del voivoda offerta dal romanzo di Bram Stoker e quella
Veduta notturna del castello di Bran, nei pressi di Brasov, una delle tappe obbligate dei Dracula Tour.
A destra la presunta tomba di Vlad Tepes nella chiesa del monastero di Snagov, località situata sull’omonimo lago, 35 km a nord di Bucarest. Agli inizi degli anni Trenta del Novecento, il sito venne indagato archeologicamente e gli autori delle ricerche sostennero di avere ritrovato il corpo di un uomo riccamente abbigliato, che si sarebbe dissolto in pochi istanti, dopo essere venuto a contatto con l’aria.
storicamente autentica. La società promuove convegni internazionali e pubblica il Transylvanian Journal: Dracula and Vampir Studies. Non mancano, in tutto il Paese, ristoranti e alberghi che esibiscono insegne draculiane dipinte con vernice rosso-sangue, e offrono menu «alla Dracula», caratterizzati da abbondante vino rosso, pietanze senz’aglio, bistecche al sangue condite con abbondante paprika e dolcetti a forma di vampiro o di bara! Nonostante l’attivismo di associazioni ed enti scientifici, non è andato finora in porto il progetto milionario promosso dal Ministero del Turismo romeno nel 2001, che prevedeva la fondazione del parco giochi di Draculandia – da realizzarsi sull’esempio di Disneyland – e che sarebbe dovuto sorgere a Sighisoara, città natale di Vlad Tepes. MEDIOEVO IN NERO
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crudeltà ed esaltavano il sadismo. La prima sembra essere stata pubblicata nel 1463, a Vienna, dal tipografo Ulrich Han, con titolo Storia del voivoda Dracula. Queste vere e proprie «saghe» – che non parlano affatto del vampiro e dell’abitudine del principe di bere il sangue, ma descrivono altre crudeltà – sembrano essersi costruite sulla base delle testimonianze – vere o presunte – di commercianti e minatori tedeschi costretti a fuggire dalla Valacchia per sottrarsi alle persecuzioni organizzate dal voivoda.
Ballate e biografie
Alle «saghe» in prosa si aggiunsero presto le «ballate» che contribuirono a diffondere tra il popolo la fama di crudeltà del voivoda. Tra esse è da menzionare Su un tiranno chiamato Dracula, voivoda di Valacchia, del poeta tedesco Michael Beheim († 1474), attivo alla corte d’Ungheria, sotto re Ladislao V Postumo e presso la corte dell’imperatore Federico III d’Asburgo. La prima e piú importante fonte slava contemporanea agli eventi, utile a conoscere l’azione e la personalità di Vlad Tepes, fu la biografia redatta dall’ambasciatore russo in Valacchia, Fedor Kuricyn († 100
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1501 circa), e intitolata Detto sul voivoda Dracula. Pur non ignorando le atrocità del principe, Fedor ne esaltava il senso di giustizia, la lungimiranza politica e la saggezza, facendone quasi un esempio politico per il suo signore, lo zar Ivan III, al quale intendeva offrire una sorta di «vademecum del buono zar». Contemporanea agli eventi e infarcita di giudizi negativi su Dracula è anche l’opera storica di papa Pio II Piccolomini (14581464) – Commentarii rerum memorabilium quae temporibus suis contigerunt –, che si avvalse, come fonti, dei rapporti diplomatici che la Santa Sede, attraverso i suoi legati in Valacchia, riceveva sul conto del voivoda. Nei secoli successivi al XV, l’immagine di Dracula scomparve progressivamente dagli scritti storici e non suscitò grande interesse. Si dovettero attendere l’Ottocento e i fermenti nazionalisti e identitari di quell’epoca, perché la figura di Vlad III fosse «riscoperta» ed esaltata come quella di un grande statista, soprattutto dalla storiografia patriottica romena. Il primo a procedere in tal senso fu lo storico ungherese Johann Christian von Engel (1770-1814), esperto di storia dei Paesi balca-
In alto, a sinistra Targoviste. La chiesa della Curtea Domneasca, prima residenza ufficiale di Vlad Tepes e della sua corte. A sinistra un esempio della ricca produzione di souvenir ispirati alle gesta di Vlad Tepes e del suo alter ego letterario, il conte Dracula creato da Bram Stoker.
nici e autore della monumentale Storia dell’Ungheria e dei paesi confinanti, pubblicata nel 1804 a Halle. La figura di Dracula, allora, divenne un «riferimento politico forte» per l’identità nazionale romena oppressa dal dominio ottomano, costituendo una delle basi ideologiche su cui fu edificata la Romania indipendente dopo l’unificazione dei principati moldavo e valacco in un unico Stato (1859). Ancora oggi, la figura di Dracula costituisce una componente importante dell’identità nazionale della Romania postcomunista, proprio come le figure di Attila, per gli Ungheresi, o di Gengis Khan, per i Mongoli, anche se è stata progressivamente «depurata» dagli eccessi nazionalistici del recente passato. È noto come il
dittatore romeno Nicolae Ceausescu si sforzasse di offrire all’opinione pubblica un’immagine il piú possibile «positiva» del principe valacco – che intendeva, sotto molti aspetti, emulare – tanto da proibire la traduzione in romeno e la conseguente pubblicazione in Romania del romanzo di Stoker. Nel dicembre 1989, al momento del crollo del regime e per una strana ironia del destino, il Conducator e la moglie furono fucilati proprio a Targoviste – la capitale scelta da Dracula – e non mancò chi giurò di aver rivisto la coppia viva, proprio come i vampiri... Nel 2010, l’esumazione e l’analisi delle salme dei coniugi Ceausescu, hanno fugato ogni dubbio in merito all’effettiva morte del dittatore e della moglie.
Il complesso monastico di Snagov, nella cui chiesa, secondo una tradizione che non ha trovato alcun riscontro certo, si troverebbe la tomba di Vlad Tepes (vedi foto a p. 99).
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La scelta di Faust
La sete di conoscenza e di potere spinsero Faust alla piú innominabile delle scelte: accettare di scendere a patti col Diavolo, promettendogli la propria anima. Un gesto esecrabile eppure affascinante, che ha decretato la nascita di un mito senza tempo di Mario Iannaccone
C
hi non conosce Faust, colui che per sete di potere offre la sua anima al Diavolo? Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832) lo raffigurava chino sul tavolo del suo studiolo, un dotto medievale goloso di ogni conoscenza e mai sazio, disposto a tutto pur di spingersi oltre i propri limiti. Christopher Marlowe (1564-1693), grande drammaturgo inglese, lo vedeva come un mago cinico giustamente punito. Thomas Mann (1875-1955), romanziere tedesco, ne fece l’incarnazione della germanità piú oscura, quella che portò alla catastrofe della seconda guerra mondiale. Difficile trovare un personaggio che meglio incarni l’ansia di conoscenza e la tentazione di patteggiare col male, fonte d’ispirazione di grandi opere letterarie, poetiche e musicali ma che, prima di essere un’innocua creazione letteraria, esprime in modo tremendo la volontà di potenza, la sete di conoscenze proibite, la brama di godere al di fuori dei limiti. Il tema del patto con il Diavolo di cui Faust diverrà il simbolo supremo affiora per la prima volta in una leggenda ispirata al culto della Vergine, che narra di fatti a cui avrebbe assistito Eutychianus, patriarca di Costantinopoli, verso l’anno 538. Scritta in greco nel Vll secolo e poi in latino da Paolo Diacono di Neapolis (morto nell’870, da non confondere con il longobardo Paolo Diacono di Varnefrido morto nel 799), narra la storia del monaco Teofilo di Adana, umilissimo, che rinuncia a ogni onore ma che viene poi offeso e privato di ogni dignità. Roso dalla rabbia, viene avvicinato da un mago pestifer che lo convince a evocare il principe delle Faust e Mefistofele alla corte imperiale, incisione su rame di Ferdinand Ruscheweyh, da un’illustrazione originale di Peter von Cornelius facente parte di una serie realizzata per un’edizione del Faust, poema drammatico di Johann Wolfgang von Goethe. 1814. MEDIOEVO IN NERO
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Faust
A sinistra, in alto pagina miniata raffigurante, dall’alto, Teofilo che si rivolge a un cabalista e che rende omaggio al Diavolo, dall’Apocalisse Lambeth. 1260-1275. Londra, Lambeth Palace. Qui accanto miniatura raffigurante un monaco tentato dal Diavolo, dal Salterio di Ingeburge di Danimarca. XIII sec. Chantilly, Musée Condé. tenebre (con cui firmare un testamento chirographum nel quale s’impegna a rinnegare il Battesimo) e la «perfida secta Christi cultorum». Grazie al patto guadagna l’onore perduto sino a quando, dopo aver meditato sulle conseguenze del proprio gesto, sprofonda nella disperazione. 104
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I VERSI MELODIOSI DELLA PIA ROSWITHA Il suo nome è stato scritto in varie forme: Roswitha, Hrotswitha, Hrosvitha, Hrotsuit. Nacque tra il 930 e il 940 e morí dopo il 975, probabilmente nel 1002. Educata da Gerberga, una nipote di Ottone I, fu conosciuta come «l’usignolo di Gandersheim» ed è consideratala prima poetessa tedesca. Dopo secoli di oblio, i suoi componimenti furono scoperti da Conrad Celtes nel monastero benedettino di St. Emmeram a Ratisbona, e pubblicati nel 1501. Compose due poemi d’ispirazione biblica e sei leggende devote. Il suo Theophilus (455 versi) è considerato la prima apparizione della leggenda medievale di Faust, e anche un’altra opera, il Basilius (259 versi), tratta di un patto con il Diavolo. Il linguaggio è semplice e melodioso. La fama di Roswitha fu comunque legata a sei drammi nei quali imitò lo stile di Terenzio (Gallicanus, Dilcitius, Callimachus, Abraham, Paphnutius e Conversione di Fede, Speranza e Carità). Scrisse anche due opere epiche, una su Ottone I (Gesta Ottonis e una sulla fondazione del monastero di Gandersheim (Die Gründung des Klosters Gandersheim).
A sinistra xilografia ottocentesca raffigurante la poetessa benedettina Roswitha di Gandersheim che legge i suoi componimenti alle consorelle. In basso incisione raffigurante Roswitha di Gandersheim che fa dono dei suoi Gesta Ottonis all’imperatore Ottone I. 1501. Collezione privata.
Implora allora l’aiuto della Vergine, ricordandole che anche i peccatori dell’Antico Patto, come Raab la prostituta che per fede non perí con gli abitanti di Ninive, furono perdonati; lei, nonostante l’errore di quell’uomo che aveva pianificato la propria dannazione, riesce a salvarlo. Nelle raccolte di exempla devoti, le storie di peccatori salvati all’ultimo momento dalle grinfie del Diavolo sono numerosissime. Il caso di Teofilo si distingue per quel particolare tanto concreto del «testamento», cioè il «patto» che il chierico firma. Per secoli il racconto della dannazione decisa per contratto fu raccontato nelle prediche e meditato nei monasteri. Che si potesMEDIOEVO IN NERO
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Faust
LE INQUIETUDINI DEL «SECOLO DI FERRO» Nel Quattrocento, la Germania di Faust, ma, in genere, l’intero Nord Europa, sono percorsi da un’angoscia profonda. Scoperte di nuovi mondi, crisi filosofiche, sconvolgimenti religiosi e guerre si susseguono a un ritmo senza precedenti. Iniziava un «secolo di ferro», che si concluse alla metà del Seicento con nuovi assetti e una nuova civiltà. La ricca Germania divenne l’epicentro di molti di questi sconvolgimenti, primo fra tutti quello religioso, con l’avvento della Riforma. Le fantasie dei suoi popoli furono
Nella pagina accanto Faust e Mefistofele, olio su tela di Eugène Delacroix. 1827-1828. Londra, The Wallace Collection.
catturate da temi come la cospirazione delle streghe, la Nave dei Folli, l’ossessione per il sabba, la Notte di Walpurga, le Danze macabre. I pittori nordici e tedeschi divennero famosi per le loro immagini corrusche: diavoli e mostri, luoghi di tormento eterno, danze dei morti. La presenza di Satana è ossessiva. Nelle chiese della Germania meridionale era molto diffusa l’immagine di san Wolfgango, vescovo di Ratisbona (934-994), che aveva costretto il Diavolo, con un contratto, a costruire per lui una
se comperare qualche anno di fama e piacere con un’eternità di dolore turbava e suggeriva, al contempo, oscurissime tentazioni. Del resto, la storia di Teofilo insegnava che era possibile salvarsi anche all’ultimo momento. Quanti pensarono seriamente al patto con il Diavolo, quanti si spinsero oltre, irretiti da maghi e truffatori?
Nel pieno della rinascita ottoniana
La storia di Teofilo continuò a essere raccontata nei monasteri della Germania dell’Alto Medioevo, anche nella versione femminile, dove Teofilo assume il nome di Mariken di Nieumeghen, colei che si danna per amore. Ma la versione del racconto che diventerà piú celebre è quella scritta dalla monaca Roswitha verso la fine del X secolo. Vissuta nel periodo della rinascita ottoniana, Roswitha fu badessa del cenobio reale di Gandersheim, in Bassa Sassonia (vedi box a p. 105). Compose i Poemetti agiografici, otto componimenti in esametri ispirati a exempla edificanti, che venivano letti alle monache di Gandersheim nel refettorio. L’ultima della serie è appunto la storia della caduta e della conversione di Teofilo, che Roswitha raccontò con accenti intimi e conturbanti. Il poemetto della badessa piacque e fu copiato in tutta Europa. Lo riscrissero Rutebeuf in Francia e molti altri in Germania, fra cui Hartmann, che volse la storia in tedesco nell’opera Von deme Gloube (XII secolo), e l’anonimo de Die Legende des Theophilos (XIII secolo), che scriveva in dialetto basso-tedesco. Quest’ultima versione, in particolare, è conosciuta come «il Faust del Medioevo». Teofilo è ora un dignitario ecclesiastico che si vede scavalcato da una persona meno degna di lui, che fa carriera usando la calunnia presso
chiesa. L’immagine ricordava stranamente quella di Faust, sebbene Wolfgango fosse in genere ritratto con le insegne vescovili. Faust ha rappresentato allora come in seguito il timore di una nuova cultura, che vuole essere libera, ma teme la dannazione. Lo compresero gli scienziati atomici quando, guardando nel cuore della materia, intuirono spaventati il potere immenso che stavano scoprendo. Uno solo di loro si ritrasse, Joseph Rotblat, rifiutando di incarnare la parte di Faust. Tutti gli altri accettarono.
i suoi superiori. Si rivolge allora a un «cabalista notturno», un mago, al quale chiede di evocare il Demonio. Il dignitario cede la propria anima in cambio di una vita di privilegi, promessa che puntualmente si avvera. Dopo molti anni, quando è ormai vecchio e la morte si avvicina, il terrore lo assale, e il ricordo del patto con il Diavolo non gli dà tregua. Chiede allora aiuto alla Madonna, la prega ardentemente e questa lo salva, nonostante la vita di peccato. Questa versione della storia di Teofilo sembra trattare dell’onnipotenza di Gesú che, con l’intercessione della Vergine, può salvare anche i peggiori peccatori. Ma è ambigua, a ben guardare: esalta la funzione della preghiera e del pentimento, ma già anticipa l’argomento di Lutero secondo cui è la fede sola, non le opere, che salva. Questo atteggiamento dona la tentazione di osare, di infrangere i limiti della scienza e della conoscenza, fidando in una salvezza indipendente da ogni rettitudine. Guarda caso proprio la Germania, nell’autunno del Medioevo, si popola di sapienti che non temono di studiare le scienze proibite, saperi che donano il potere, come l’alchimia, la magia naturale, la Kabbalah, che i maghi studiano con avidità, certi della sua potenza. Molti cabalisti cristiani sono tedeschi e portano le speculazioni sulla Kabbalah ben oltre l’ortodossia della fede cattolica, ben oltre il punto raggiunto da Italiani come Pico della Mirandola. L’immaginario del periodo si tinge di scuro, si popola di fantasmi, demoni, lemuri; si articola in leggende nere, tregende e sabba. Quello tedesco, in particolare, sembra attratto dalle storie delle perdizioni senza speranza. Un’élite intellettuale inquieta ripone sempre meno speranze nei poteri della Chiesa, nei suoi MEDIOEVO IN NERO
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«DOTTORE» PER ECCELLENZA Jorg Faust conquistò il grado di Magister Artium et Doctor Philosophiae nel 1487. Ciò significa che aveva concluso il suo ciclo di studi inferiore e superiore, era passato attraverso la cerimonia di investitura, I’lnceptio, e gli era stata conferita la Licentia docendi. Faust divenne il Doctor per eccellenza, radunando in sé tutti i difetti del dotto moderno: l’ambizione, la convinzione di poter spiegare tutto e di essere al di sopra del bene e del male in
virtú della propria scienza. Nelle università tedesche, comunque, il titolo di Doctor tendeva a specializzarsi sempre piú nel significato di filosofo naturale in grado di manipolare i quattro elementi, gli umori, i minerali, le erbe per garantire la salute del paziente, il «dottore» nel significato moderno, insomma. Faust praticava molte arti e scienze che rientrerebbero oggi nelle scienze naturali, nelle professioni mediche e diagnostiche e nell’arte medica.
In basso miniatura quattrocentesca raffigurante un alchimista.
In alto Un sapiente nel suo studio, acquaforte di Rembrandt van Rijn. 1650-1654. Amsterdam, Rijksmuseum. Il protagonista della scena è immaginato nell’atto di evocare gli spiriti e viene perciò identificato con Faust.
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sacramenti e dogmi. La storia di un uomo che firma un patto con il Demonio per andare oltre, nella scienza e nel potere, sembra la migliore incarnazione di questa temperie, che diverrà una costante della storia culturale tedesca. Se il «Faust del Medioevo» del XIII secolo è ancora Teofilo, qual è l’origine del nome «Faust», dunque? Per saperlo, dobbiamo arrivare alla metà del secolo XV, nel 1466, quando nacque, forse nel villaggio di Knittlingen, nella regione del Württenberg, un certo Jorg o Georg Faust. Costui conseguí il titolo di Magister Artium nel 1487 a Heidelberg, esercitò poi un’eclettica professione di alchimista, mago, lettore d’oroscopi e medico (era un esperto assaggiatore di urine, come insegnava la diagnostica del tempo), e morí negli anni Quaranta del secolo successivo, forse nel 1541. In gioventú godette di una fama controversa: alcuni lo ricercavano pagando profumatamente i suoi servigi, altri lo consideravano un truffatore senza speranza.
Accuse infamanti
Dalle tracce biografiche che di lui sono rimaste sappiamo che era esperto nell’uso dei semplici e dei composti, nella preparazione di medicinali e unguenti, nello studio delle res occultae e degli arcana naturae. Che evocava intelligenze angeliche, ma non trascurava l’uso di terrae, fossilia, lapides e metalla, nonché d’ingredienti ben piú singolari, di origine animale o umana. Col tempo, la sua fama si fece torbida: fu accusato di abusare dei giovinetti che gli venivano affidati in qualità di tutore, fu sospettato di praticare la magia, di fabbricare polveri e unguenti per fini malvagi, incappò in denunce di blasfemia (si faceva chiamare «semidio») ed ebbe fama di «großen Sodomiten und Nigromantico». Ma restò sempre, per tutti, il Doctor Faustus, metà mago e metà scienziato, emblema della scienza di fine Medioevo e del primo Rinascimento, ancora incerta fra il linguaggio della matematica e quello della magia, fra la chimica applicata (iatrochimica) e la preghiera, magari non del tutto ortodossa. Non che il travaglio e l’incertezza provocati dalla nascita della nuova scienza fossero soltanto tedeschi, ma in quest’area produsse una particolare ossessione per il Diavolo e i suoi servitori. Difatti l’ombra di Satana cominciò ad allungarsi presto sulla vita di Jorg Faust. Zelantone (Georg Schwartzerdt, 1497-1560), il severo praeceptor Germaniae, incontrò Faust piú volte nel corso della sua vita e ne tratteggiò un ritratto poco lusinghiero: «Turpissima bestia et cloaca multorum diabolorum» («cloaca affollata di diavoli»), che alludeva a commerci con il
UNA POPOLARITÀ SENZA CONFINI Quando nel 1589 Johann Spiess pubblicò il Faustbuch o Historia von Dr. Johann Fausten consegnò ai posteri uno dei miti fondanti della tradizione letteraria europea. Soltanto due anni piú tardi, a Londra veniva rappresentato The Tragical History of Doctor Faustus di Cristopher Marlowe (1589) che s’ispirava, oltre a Jorg Faust, anche all’analoga figura di John Dee. Seguiranno molte altre opere, come il Magico prodigioso (1612) dello spagnolo Calderon de la Barca (dove la protagonista, nella prima edizione, si chiama Faustina), riduzioni narrative, drammatiche e, infine, anche musicali. Nel poema di Goethe, Faust commercia con il Demonio, ma viene salvato dalla sua «voglia d’infinito», non certo da preghiere alla Madonna. Nel romanzo di Thomas Mann, Doktor Faustus, il protagonista che riecheggia la vicenda di Faust è Adrian Leverkuhn, un musicista tedesco che assorbe caratteristiche di Alban Berg, Arnold Schönberg (creatore della dodecafonia, un sistema musicale innaturale e «diabolico», perché avulso dalle leggi naturali), Friederich Nietzsche e Adolf Hitler. Nietzsche si compiaceva della sua fama sulfurea e alcune sue lettere raccontavano di episodi inquietanti (come il brindisi ai demoni). Hitler fu l’ultima e piú tragica incarnazione della volontà di potenza tedesca. Mann accosterà Faust anche a Martin Lutero. Sembra una contraddizione, ma le ragioni di questo accostamento sono molte: la dottrina della predestinazione separa le opere dalla possibilità di salvezza, e dunque un Teofilo o un Faust possono operare il male per una vita, ma essere salvati perché predestinati. Lutero poi era letteralmente ossessionato, come Faust, dalla figura del Demonio, che – disse – gli era apparso sotto forma di un grosso cane nero.
Frontespizio di un’edizione della Tragical History of Life and Death del Doctor Faustus di Cristopher Marlowe. 1620.
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LA VERSIONE DI MURNAU
demonio. A Erfurt correva voce che Jorg Faust avesse stretto un patto con il Demonio, dal quale un monaco di nome Georg Klinge cercò invano di convincerlo a recedere (questo, almeno è ciò che avrebbe detto). Nel 1507 l’abate Johannes Trithemius (1462-1516), curatore di una grande biblioteca sulle scienze occulte, lo incontra a Geluhausen. Faust si presenta con una sfilza di titoli che ricordano già le litanie di presentazione di Giordano Bruno: «Georgius Sabelilcus, Faustus junior, fons necromanticorum, astrologus, magus secundus». E forse qui troviamo la cifra di un altro significato del nome Faust: «Faustus junior» allude a Simon Mago, il caposcuola gnostico che fu l’eroe negativo di una lunga tradizione. Quel Simon Mago ch’era soprannominato proprio... Faustus! Del resto Jorg Faust si vantava di imitare i miracoli di Cristo.
Come un nuovo Simon Mago
Il mago Jorg Faust dunque, il semidio sbruffone, si considerava una specie di eresiarca, un nuovo Simon Mago, tentato dal potere e dalla ribellione. Secondo il teologo Johann Gast, nell’ultimo periodo della sua vita Faust non osava guardare il cielo e viaggiava con un famiglio demoniaco che si trasfomava in cane. Morí, pare, maciullato in un’esplosione durante un esperimento protochimico, divenendo cosí il modello dello scienziato pazzo, precoce esempio di indagatore delle forze della natura, primo di una lunga serie di scienziati a cui l’immaginario attribuirà 110
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l’accento tedesco. Difatti, il Faust storico incarnò il modello germanico dell’erudito che mescola gli studi severi allo spaccio di patacche. Ma forse fu qualcosa di piú. In questo periodo i principati tedeschi divennero la patria delle arti magiche e qui si formarono gruppi di intellettuali tentati da un paganesimo nordico (assai differente da quello coevo, tutto letterario, degli Italiani e dei Francesi). Faust fece parte di questo clima e, non a caso, il teologo Konrad Gessner (1516-65) accostò i suoi insegnamenti (oggi perduti) «alla scuola dei Druidi e dei Celti» educati «dai diavoli in luoghi sotterranei». Focolai di eresia gnostica che si rifacevano spesso proprio a Simon Mago si svilupparono qui, lontano dalla Chiesa di Roma, sprofondata in una grave crisi morale e politica. Le nuove eresie del tardo Medioevo erano spesso antinomiste e ispirate alla Kabbalah cristiana, una disciplina che fondeva gli insegnamenti della scienza sapienziale ebraica al cristianesimo, con esiti invariabilmente eterodossi i cui influssi ricaddero anche sulla Riforma. In Germania fiorirono personaggi come Paracelso (1493-1541) o Agrippa von Nettensheim (1486-1535), ossessionati dai segreti proibiti, dalla tentazione di patteggiare alleanze con le forze infere. Qualche decennio dopo la sua morte, la storia di Faust ispirò all’erudito Johannes Spiess una biografia romanzata, l’Historia van D. Johann Fausten il molto famigerato mago e negromante (1587), detta anche Il libro di Faust (Faustbuch).
Qui sopra Roma, Villa Borghese. Il monumento a Goethe, realizzato a Berlino nello studio dello scultore italiano Valentino Casali, su modello dello scultore tedesco Gustav Eberlein. Inaugurata nel 1904, l’opera mostra, a simboleggiare l’attività del grande letterato nel campo della filosofia, Faust tentato da Mefistofele (vedi foto alla pagina accanto, in basso).
Già portata sullo schermo da pionieri del cinema muto quali Georges Méliès (1897 e 1903) ed Émile Cohl (1911), la leggenda di Faust fu riproposta da Friedrich W. Murnau nel 1926 nell’omonimo film, ispirato ai drammi di Goethe e di Marlowe e ad antiche leggende tedesche. Ne proponiamo qui alcune allucinate scene, dall’ambientazione «medievale» alquanto improbabile, ma di grande suggestione, grazie anche alla splendida fotografia di Carl Hoffmann. Il Faust di Spiess nasce a Roda (Weimar) e introduce elementi che ritroveremo nell’opera goethiana: è sposo di una prostituta di nome Elena (come Simon Mago), ha un famulus che si chiama Wagner, e stringe un patto con un diavolo che si chiama Mephistophilis. A differenza del Faust goethiano, però, questo finisce male, come del resto si diceva fosse finito Jorg Faust. Non c’è l’intercessione della Vergine a salvarlo, perché si è ormai nel tempo protestante, ma non si salva, comunque, neppure il Faust di Christopher Marlowe, scaraventato all’Inferno, al pari di quelli tardo-cinquecenteschi e seicenteschi. Faust ormai è diventato un esempio di peccatore che non può essere salvato. Il modello di Teofilo è rovesciato: quello aveva fede, e pregava, questo è un impenitente come Don Giovanni o Ahasvero. Joan Couliano pensava che il vero spirito di Faust fosse robustamente pagano e che la sua dannazione fosse dovuta a una riscrittura moralistica assai lontana da quella originale. La versione originale non doveva prevedere la punizione finale e forse – ipotizzava Couliano – esistette una biografia di Faust precedente a Spiess, dove questi appariva come personaggio positivo. Faust è un paradigma della cultura tedesca e delle sue tentazioni, ma anche dell’uomo moderno che si affranca dai limiti e dall’ordine della religione. Ecco perché il paganeggiante Goethe vorrà il personaggio salvo, strappato dalle grinfie dei diavoli «grassi o magri» di Mefistofele. MEDIOEVO IN NERO
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Gloria e miserie d’un maresciallo di Francia Già al fianco di Giovanna d’Arco nelle sue memorabili imprese, il nobile francese Gilles de Rais si guadagnò i favori della corte di Carlo VII. La sua luminosa ascesa, a molti apparsa inarrestabile, s’interruppe invece bruscamente: poiché la mente del vittorioso soldato s’offuscò, facendone uno spietato omicida seriale... di Federico Canaccini
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In alto particolare di un’illustrazione dalla novella Barbablú di Charles Perrault, da un’opera di Gustave Doré tratta da El Mundo Illustrado. Barcellona, 1880. Nella pagina accanto Gilles de Laval, signore di Rais, olio su tela di Eloi-Firmin Féron. 1835. Versailles, Musée national des châteaux de Versailles et de Trianon.
o scrittore Charles Perrault (16281703) deve la sua fama letteraria a I racconti di mia madre l’Oca, pubblicati in Francia nel 1697. Si tratta di undici fiabe che comprendono alcuni tra i piú celebri esempi di letteratura per bambini e ragazzi. Chi non conosce infatti – foss’anche solo nella versione della Disney – Cenerentola, Cappuccetto Rosso, Il gatto con gli stivali o La bella addormentata nel bosco? Con questi racconti, Perrault inaugurò il genere della fiaba, che in Francia non aveva alcun precedente letterario. Tra le undici novelle, vi è anche quella di Barbablú, dalla quale, forse a motivo della sua efferatezza, non venne ricavata alcuna versione a cartone animato: vi si narra la vicenda di un sadico assassino che uccide, in una stanza degli orrori, sette donne, dopo averle prese in moglie. Purtroppo, nella trama intessuta da Perrault, c’erano un tragico fondamento di verità e una serie infinita di dettagli che conducevano in un’area ben delimitata della Bretagna del Quattrocento. Tutto convergeva sulla vicenda storica di Gilles de Rais (1404-1440), compagno d’arme di Giovanna d’Arco, maresciallo dell’esercito regio, uomo ricco e raffinato, divenuto – dopo la parabola della Pulzella – l’omicida seriale di oltre 140 bambini, condotti con l’inganno nei propri castelli e, con l’aiuto di alcuni complici e sedicenti maghi, abusati e fatti morire di atroci tormenti nella speranza di recuperare, grazie a questi folli riti, le ricchezze perdute. Per una serie di fortunate coincidenze, Gilles ereditò una delle piú grandi fortune di Francia, risultato di tre patrimoni: quello del padre, Guy de Laval-Montmorency, quello del nonno materno, Jean de Craon e quello dei Rais, dai quali ottenne il nome, nella persona di Jeanne Chabot de Rais. Suo padre, Guy, dapprima circuí la anziana Jeanne, senza eredi maschi, e poi,
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Barbablú
Per una serie di circostanze fortunate, Gilles de Rais si ritrovò a essere uno degli uomini piú ricchi di Francia
In alto sigillo di Gilles de Rais, recante il suo stemma, uno scudo crociato sormontato da un elmo con cimiero in forma di cigno montante. A sinistra particolare del verbale della seduta del Parlamento di Parigi del 10 maggio 1429, dove è menzionata la vittoria di Orléans, e in cui, a margine, è effigiata Giovanna d’Arco. XV sec. Domremy-la-Pucelle, Casa Natale di Giovanna d’Arco.
ne sposò la figlia, unica ereditiera. Le nozze furono celebrate nel 1404 e, per propiziare la nascita di un maschio, gli sposi si recarono in pellegrinaggio a Saint-Gilles nel Cotentin (Normandia), promettendo di battezzare il nascituro col nome del santo. Alla fine dell’anno un maschietto nasceva a Champtocé-sur-Loire, nel maniero dei Craon: era Gilles de Rais. Di nobile famiglia, il piccolo Gilles leggeva i classici latini, per crescere educato alle imprese dei Cesari: ma di quei condottieri, il giovane ammirava le efferatezze e le stramberie, piú che il valore e la magnanimità. Da Svetonio apprese che Caligola amava far morire lentamente le proprie vittime, che sperperava il denaro in spese folli, che commetteva eccessi di ogni sorta, giacendo con la moglie, con amanti, con le sorelle. In un’epoca come quella del XV secolo, funestata da carestie, pestilenze, dalla Guerra dei Cent’anni che dilaniava la Francia, il giovane Gilles associò l’idea di potenza a quella di infliggere la morte ai propri rivali.
Un’infanzia troppo libera
Il 1415 fu un anno decisivo per il ragazzo: nei primi mesi dell’anno perse la madre e, a settembre, anche il padre, sbudellato da un cinghiale durante una battuta di caccia. Dopo una lunga agonia, il padre pose Gilles e il fratellino René sotto la tutela di un cugino, evitando l’influenza del nonno materno, Jean de Craon, uomo torbido e senza scrupoli. Un mese dopo, ad Azincourt, cadeva Amaury, figlio del Craon, lasciando Gilles unico erede di tre patrimoni e sotto la tutela del nonno, un vecchio cinico e avaro, che lasciò crescere il piccolo senza porgli alcuna restrizione. Piú tardi, durante il 114
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processo a cui fu sottoposto, egli stesso dichiarò che «a causa del cattivo governo che v’era stato della sua infanzia, essendo stato lasciato senza freno (…) perpetrò grandi ed enormi crimini, principalmente nella sua giovinezza, cinicamente contro Dio e i suoi comandamenti». Jean de Craon si preoccupò di combinare le nozze di Gilles, che nel 1422 impalmò sua cugina Catherine de Thouars. Costei gli portò in dote il famigerato castello di Tiffauges, che, nell’immaginario collettivo, divenne il castello di Barbablú. Giunto alla maggiore età, il nobile si distinse per le spese folli: Gilles acquistava in modo compulsivo stoffe preziose e pietre rare, arazzi e reliquiari, gemme antiche e cappelli. Nel 1425 incontrò per la prima volta il Delfino, Carlo VII, costretto a ritirarsi a Bourges dopo essere scampato alla morte per mano del duca di Borgogna suo nemico. Quest’ultimo morí a sua volta nell’ennesimo scontro tra rivali, riaccendendo la guerra civile e lasciando sempre piú spazio agli Inglesi. La Francia toccò il suo punto piú nero: Carlo VI, il re folle, dichiarò il Delfino «parricida» e nel 1420, a Troyes, venne firmato un trattato secondo il quale, alla sua scomparsa, la corona sarebbe passata a Enrico VI Lancaster.
Gilles fu introdotto alla corte del «re di Bourges», come veniva ironicamente soprannominato dagli avversari: il giovane si fece subito notare per la prodigalità, lo sfarzo del suo contingente, il rigore dei suoi soldati, ma anche per il coraggio in battaglia e la freddezza con cui assisteva alle tante esecuzioni che ordinava contro i collaborazionisti o i traditori. Ovviamente non era visto di buon occhio dagli altri comandanti e neppure a corte. La sua ricchezza suscitava l’invidia nei piú, in una corte, come quella di Chinon, che spesso somigliava piú a una mensa comune che a una regale.
Miniatura raffigurante Giovanna d’Arco che guida l’assedio di Parigi, da Les Vigiles de Charles VII di Martial d’Auvergne. 1484 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
Giovanna e le «voci»
Per salvare la Francia, sarebbe servito un miracolo, e quel miracolo apparve nel marzo del 1429, sotto le spoglie di una giovane vergine: Giovanna d’Arco. Le vicende della Pulzella sono note: una fanciulla lorenese, assecondando alcune «voci», si presentò a Carlo VII con l’obiettivo di liberare Orléans, condurre il Delfino a Reims e consacrarlo re di Francia. Gilles de Rais era a corte quando la Pulzella s’inginocchiò davanti al Delfino e vide con i suoi occhi la vergine destinata a salvare la FranMEDIOEVO IN NERO
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PERSONAGGI In basso illustrazione ottocentesca che raffigura Gilles de Rais mentre getta in un pozzo il cadavere di una delle sue vittime.
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cia dall’abisso. Su incarico del sovrano, la scortò a Poitiers, dove fu sottoposta a un’inchiesta per appurarne la bontà. Superata brillantemente la serie di domande, Giovanna ricevette un’armatura su misura, paggi e dodici cavalli. A Blois si incontrarono i nobili con i contingenti destinati al soccorso di Orléans: Gilles fu nominato comandante delle truppe reali e fu al fianco della Pulzella per tutto il tempo delle operazioni. Sicuramente i due avevano piú d’una affinità: l’autorevolezza, l’amore per l’azione, ma anche per le stoffe preziose e le cose belle. Di Giovanna, il condottiero ammirava la durezza con cui trattava le prostitute che giravano tra le truppe e delle quali proibí la frequentazione, proponendo invece ai soldati preghiera e raccoglimento. Questa miscela di rigidità e misticismo affascinava il violento ma raffinato Gilles. Seguendo l’esempio della carismatica eroina, il contingente liberò in meno di due settimane Orléans, stretta d’assedio da otto mesi. Alla liberazione seguí il successo di Patay, dove Rais si guadagnò la gloria militare: il re lo ricompensò col titolo di Maresciallo, l’onore di portare l’arme reale e uno stipendio di mille lire.
Giovanna era arrivata a Chinon il 6 marzo; Orléans era stata liberata il 6 maggio; il 17 luglio Carlo VII veniva incoronato a Reims. All’incoronazione seguí l’azione della diplomazia, poco amata sia da Giovanna che da Gilles. Il signore di Rais doveva obbedire al generale La Trémoille, al quale aveva prestato giuramento; la Pulzella pagò con la cattura e la prigione, l’ennesimo colpo di mano, questa volta a Compiégne (maggio 1430). Venduta per 10 000 lire dai Borgognoni agli Inglesi, questi ultimi la condannarono al rogo, con l’accusa di stregoneria.
Verso l’abisso
Alla morte della sua eroina, arsa a Rouen nel maggio del 1431, Gilles si impegnò ancora in alcune azioni militari, tra cui la battaglia di Lagny, che si risolse in un successo e fu uno degli ultimi episodi bellici a cui partecipò. In cinque anni di guerra il giovane nobile, orgoglioso e raffinato, aveva scoperto quanto fosse inebriante uccidere: si avvicinava a passi veloci il momento del suo declino e della sua follia. Per sua stessa ammissione, come si legge nelle carte del processo, iniziò a uccidere per suo piacere dal
1432, l’anno in cui morí il nonno materno. Senza piú il modello religioso della Pulzella, senza piú il freno dell’autorità patriarcale incarnata dal ruvido nonno, Gilles si trovò libero; persino il signore a cui aveva giurato fedeltà, La Trémoille, era stato estromesso. Gilles era libero, ma anche profondamente solo, senza una mèta e in compagnia di molte ossessioni. Come dichiarò nel corso degli interrogatori, «non c’era nessun’altra causa, nessun altro fine né intenzione (…); aveva seguito la sua immaginazione e il suo pensiero, senza il consiglio di alcuno e secondo i propri sensi, soltanto per il suo piacere e diletto carnale, e non per altre intenzioni o fini». A partire dal 1432 iniziarono a sparire fanciulli e fanciulle dalle campagne vicine ai castelli del signore di Rais: a Machecoul, Tiffauges, Champtocé, Pouzages. Alcuni ragazzi venivano addirittura richiesti impudentemente dagli aiutanti del barone, altri, semplicemente, svanivano. Alle richieste dei genitori sulla sorte dei figli, di volta in volta, si accampavano scuse o si proponevano ipotesi fantasiose: sarà andato in un altro castello, un nobile l’avrà preso con sé, sarà stato rapito dai briganti... Il loro destino era sempre uguale: se scarne sono le informazioni sulla vita quotidiana di Gilles de Rais, le carte processuali hanno fatto luce sulle violenze, gli abusi e le morti cruente inflitte alle decine di
giovani vittime. Con l’aiuto e la complicità dei suoi aiutanti Sillé, Briqueville e Poitou, il barone di Rais accoglieva i fanciulli nel suo castello, invitandoli a pranzi luculliani, durante i quali «un’avidità insaziabile di cibi delicati, e il frequente assorbimento di vini caldi, provocarono principalmente in lui uno stato di eccitazione che lo portò a perpetrare tanti peccati e crimini». Tutti a corte sapevano delle perversioni del loro signore: erano però legati da un misto di fedeltà, paura e omertà essendo coloro che, sprofondando nelle latrine, vi occultavano i cadaveri dei poveri innocenti. Una volta assaggiata l’inebriante, morbosa potenza derivante da tutto ciò, Gilles de Rais andò fuori di senno. Privo di freni inibitori, conscio o inconscio del proprio potere, il maresciallo scatenò la propria furia contro chi meno poteva difendersi: i bambini.
Miniatura raffigurante la battaglia combattuta il 14 febbraio 1429 a a Rouvray-Saint-Denis, detta «delle aringhe», che si inquadra nello scontro per Orléans, da un’edizione della Chronique du règne de Charles VII. 1470-1480. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
Sdoppiamento di personalità
La sua mente iniziò poi a percorrere con sempre maggiore compiacimento la via dello sdoppiamento: di giorno, il nobile raffinato e devoto, di notte, lo spietato assassino. Nel 1435 spese cifre da capogiro per la fondazione dei Santi Innocenti (cioè i bambini uccisi al posto del bambino Gesú) a Machecoul «per il bene e la salvezza della propria anima». Nella prima metà del XV secolo il culto macabro per i Santi InnoMEDIOEVO IN NERO
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PERSONAGGI
Qui sopra il processo a Gilles de Rais, presieduto dal vescovo di Nantes Jean de Malestroit, in una illustrazione seicentesca. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
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MEDIOEVO IN NERO
Barbablú
centi conobbe un successo strepitoso: era l’epoca in cui il sangue, la morte, l’orrore erano associati – oltre che alla quotidianità – in un modo bizzarro, anche alla pietà e alla religiosità. Per Gilles si trattava di un connubio perfetto. Nello stesso anno giunse a corte Roger de Briqueville, che Gilles nominò subito proprio sosia, ribattezzandolo «Rais-le-Héraut», l’«araldo di Rais». Due anni piú tardi, gli conferí enormi poteri, tra cui persino quello di occuparsi del futuro matrimonio della piccola Marie, sua figlia. Non a caso, il teatro divenne la piú grande passione del mostro: la finzione, il doppio, l’apparenza, l’inganno scenico. Tutto questo non faceva che assecondare la devianza che progressivamente s’allargava nella mente del signore di Bretagna. Fu infatti per uno spettacolo teatrale che il nobile signore impegnò gran parte delle proprie sostanze. Dopo la vittoria di Orléans, ogni 8 maggio, si festeggiava con solennità la liberazione della città. Un autore ignoto aveva composto il
Mystère du Siège d’Orléans, un’opera in 20 000 versi, la cui rappresentazione richiedeva 500 attori. La città stessa diveniva palcoscenico e, tra i protagonisti, non mancava il signore di Rais.
Inseguito dai creditori
Gilles poteva assistere seduto su uno scranno al proprio sogno-incubo: rivedere l’uomo felice, campione a Orléans, allontanando cosí la sua condizione attuale di sadico, inseguito dai creditori, deriso a corte per il suo infantile scialare. Il miraggio di questo labile godimento temporaneo lo consumò: Gilles curò in ogni dettaglio la messa in scena del Mystère, facendo ricavare persino i cenci dei mendicanti da stoffe nuove, stracciate a bella posta. In poche settimane dilapidò una cifra stimabile attorno ai 2-3 milioni di euro attuali. Impegnò castelli, terre, persino oggetti personali: era oramai preda della sua ossessione. Le spese folli, il raptus omicida, la confusione sessuale, il degrado psichico, le
pressioni dei creditori gettarono Gilles in uno stato di frustrazione e disperazione crescenti, dal quale non si sarebbe piú liberato. Un tentativo di sciogliere quel laccio, in realtà, vi fu, ma aggravò la situazione: il nobile, infatti, rivolse le proprie attenzioni alla magia e all’alchimia, nel tentativo di risollevare le proprie fortune. Non era certo il solo signore attorniato da sedicenti maghi e alchimisti, ma il depravato non ebbe scrupoli a rivolgersi al Diavolo pur di uscire da quell’incubo, sprofondando in uno ancora piú nero. Inviò i propri servitori a caccia di maghi in grado di evocare demoni, e quando Blanchet, amico di Gilles, incontrò il chierico Francesco Prelati, di Montecatini, trovò in lui l’uomo adatto alle esigenze del suo signore. Per evocare il demone Barron, Prelati richiese a Gilles di sacrificare di volta in volta una colomba o una gallina: non ottenendo alcun risultato soddisfacente, Prelati suggerí di fare omaggio al demone delle membra di un giovane.
Gilles aveva già da tempo intrapreso la via dell’omicida seriale: la complicazione di sacrificare a Satana le proprie vittime fu un ulteriore passo nell’abisso. Nel suo delirio, infatti, Gilles si riteneva ancora un buon cristiano, temeva ancora il Dio della misericordia, aveva addirittura progettato un pellegrinaggio di espiazione a Gerusalemme. Cedere alle profferte del Demonio significava perdere anche quel labile freno inibitorio: alla mancata apparizione del demone davanti al sacrificio umano, anziché cessare, la strage aumentò.
Tiffauges (Francia). I resti del castello, tristemente famoso per essere stato la dimora di Gilles de Rais e per questo noto anche come Castello di Barbablú.
Un libro scritto col sangue
Nel frattempo, iniziarono a circolare voci sulle oramai incalcolabili sparizioni dei bambini: si diceva che Gilles uccideva e faceva uccidere fanciulli, e col loro sangue scriveva un libro nero. Alcuni dei suoi aiutanti dovettero farsi sfuggire qualche parola di troppo, qualcuno vide qualcosa e le voci si fecero piú insistenti. MEDIOEVO IN NERO
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PERSONAGGI
Pouzauges (Vandea). Il dongione del castello, uno dei possedimenti di Gilles de Rais, che fu soprattutto residenza della consorte, Catherine de Thouars. XII sec.
Barbablú
Ma fu il suo carattere borioso e violento a tradirlo. Tra i vari acquirenti a prezzi stracciati dei suoi beni, vi era anche Geoffroy le Ferron, tesoriere di Bretagna, che aveva dato in custodia la cittadina di Saint-Étienne-de-MerMorte al fratello Jean, un chierico protetto dall’immunità. Le lamentele dei contadini, vessati dai nuovi signori giunti «in casa» di Gilles de Rais, arrivarono alle sue orecchie e smossero la suscettibilità del barone.
L’inchiesta del vescovo
Gilles, alla luce del sole, prese le difese di quei contadini di cui, nell’oscurità delle tenebre, seviziava i figli: ma lo fece contravvenendo ai privilegi ecclesiastici e infrangendo il patto che aveva stipulato con il duca di Bretagna, di cui le Ferron era tesoriere. Si fece infatti restituire, obtorto collo, il maniero e gettò in prigione il chierico. Dell’episodio approfittò il vescovo di Nantes, Jean de Malestroit, il quale 120
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– sfruttando la violazione come pretesto – avviò un’inchiesta privata riguardo alle voci sui delitti attribuiti al maresciallo. Nel luglio del 1440 Gilles dovette compiere uno dei suoi ultimi macabri omicidi: moriva tra le mani del brutale cavaliere il figlio di Jean Lavary. Alla fine dello stesso mese, il vescovo inviò lettere in cui non si parlava dell’episodio di Saint-Étienne, ma si leggeva che «il nobil uomo monsignor Gilles de Rais, signore del detto luogo e barone, con taluni suoi complici aveva sgozzato, ucciso e massacrato in modo odioso numerosi giovani innocenti; che aveva praticato con tali fanciulli lussuria contro natura e vizio di sodomia; che aveva spesso fatto e fatto fare l’orribile evocazione dei demoni, aveva sacrificato e fatto patti con essi e perpetrato altri crimini entro i confini della nostra giurisdizione». L’accusa era stata lanciata, ma Gilles, ignaro, non si fermò: il piccolo figlio di Macée de Villeblanche, di soli nove anni, fu l’ultima delle sue vittime.
Il vescovo agí d’intesa con il duca di Bretagna e con il signore di Richemont: il castello di Tiffauges fu conquistato e il chierico lí detenuto, immediatamente liberato. Al gesto riparatore circa l’affaire di Saint-Étienne, seguí l’accusa che il vescovo aveva mosso e che fu fatta propria anche dal braccio secolare. Il 14 settembre del 1440 gli uomini del duca di Bretagna si presentarono al castello di Machecoul per arrestare Gilles de Rais e molti dei suoi complici, tra cui i suoi camerieri e Prelati. Non vi fu resistenza: Gilles associò al solo episodio di Saint-Étienne il trambusto e l’arresto. Il processo, invece, si aprí il 19 settembre con l’accusa generica di «eresia dottrinale», che Gilles accolse con calma, rassicurando la corte che si sarebbe volentieri sottoposto a interrogazioni tenute da inquisitori. Ignorava che il giudice aveva incontrato decine di parenti di bambini spariti e che tutti gli indizi conducevano ai suoi castelli da cui le vittime non facevano piú ritorno. Il sire di Rais rispose respingendo le pesantissime accuse e non riconoscendo il potere giuridico della corte presieduta dal vescovo. Ma nelle sedute seguenti, alla lettura di innumerevoli articoli e capi d’accusa, e soprattutto al monito di dover riconoscere la corte, in quanto presieduta da un vicario del papa, e quindi di Cristo, Gilles de Rais cedette: fin tanto che era libero di scegliere tra Dio e Satana, era sempre lui l’attore. Con la scomunica, gli veniva preclusa la possibilità di scelta: la sua forza cedette. Sommessamente, riconobbe la giurisdizione dei suoi giudici: poi, tra le lacrime e in ginocchio, si rivolse al vescovo per essere assolto dalla sentenza di scomunica. Solo dopo questa rassicurazione riconobbe tutti i crimini che gli erano stati imputati.
Delitti senza movente
La corte ammutolí di fronte all’ammissione di colpevolezza, alla portata dell’orrore e alla mancanza di un movente: Pierre de L’Hôpital, presidente di Bretagna, non comprendeva come tutto ciò fosse stato possibile senza un perché. Gilles, abbandonando il latino informale dell’interrogatorio, rispose in francese: «Invero, non c’era nessuna altra causa, nessun altro fine né intenzione, se non quelli che vi ho già detto: vi ho già detto cosa assai piú grandi, abbastanza da far morire diecimila uomini». Nell’udienza finale, il 22 ottobre 1440, Gilles rese piena confessione – e volle farlo in volgare, al fine di essere compreso da tutti – davanti a una folla enorme. Da mostro, si trasformò in vittima ed esortò «quanti avevano
Illustrazione cinquecentesca raffigurante l’esecuzione di Gilles de Rais. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
dei figli a istruirli nelle buone dottrine e a inculcare loro l’abitudine alla virtú sin dalla primissima infanzia». L’uomo si poneva come critico della corrotta società della quale non era che un piccolo ingranaggio. Implorava i genitori a vegliare sui figli, a non tollerare l’ozio, a non comprar loro vestiti troppo costosi: era tutto questo che lo aveva portato alla rovina. La sua confessione si concluse con la richiesta della «misericordia e il perdono del suo Creatore e Santo Redentore, come pure dei genitori e degli amici dei fanciulli cosí crudelmente massacrati, e di tutti coloro di cui aveva leso i diritti, domandando a tutti i fedeli adoratori di Cristo il soccorso delle loro devote preghiere». Il mostro s’era trasformato in un santo e, come tale, si avviò al patibolo: ottenne di essere ammesso ai sacramenti e si confessò. Fu condannato all’impiccagione assieme a due servitori e poi al rogo, oltraggio che gli fu però risparmiato, a motivo della sua profonda contrizione. Gilles ottenne addirittura di essere sepolto nella chiesa del monastero delle Carmelitane. Tuttavia, quando nel corso della Rivoluzione Francese, anche Nantes venne travolta, la chiesa fu saccheggiata e la tomba di Gilles de Rais, come quelle di altri, fu profanata, distrutta per sempre, e i suoi resti gettati nella Loira. MEDIOEVO IN NERO
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Orrore in basilica
Nella lunga storia della Chiesa non mancano episodi bizzarri e inquietanti. Ma il «processo» celebrato nell’897 a S. Giovanni in Laterano andò oltre ogni immaginazione... di Francesco Colotta
I
n un giorno di gennaio dell’897 la Chiesa visse uno dei momenti piú bui della sua storia. A Roma, nella basilica di S. Giovanni in Laterano, insolitamente adibita a tribunale, si celebrò un macabro processo: sul banco degli imputati non fu chiamata a comparire una persona vivente, bensí la sua salma. Il defunto, che portava il nome illustre di papa Formoso, subí post mortem una condanna giudiziaria a opera di uno dei suoi successori, Stefano VI, istigato dall’imperatore Lamberto di Spoleto e dalla crudele madre Ageltrude. Il processo a Formoso, piú noto come il «Sinodo del cadavere» (Synodus horrenda), rappresentò il culmine di una lunga «guerra civile» scoppiata all’interno della Chiesa. I pontefici, con lo sfaldamento dell’impero carolingio, si erano trovati ad avere una maggiore libertà di azione nelle questioni temporali, ma risultavano nel contempo piú esposti a infiltrazioni politiche, vista la presenza di numerosi potentati sul territorio italiano. Paradossalmente, la liberazione dall’influenza di un grande impero aveva indebolito la politica papale, che spesso degenerava nell’opportunismo, dettato dalla necessità di stringere alleanze con i dominanti di turno. Divenne pertanto inevitabile la proliferazione di partiti nelle alte sfere ecclesiastiche, pronti a sostenere con metodi anche violenti l’avvento di un proprio candidato alla guida della Chiesa. Il papa Formoso e Stefano VI, olio su tela di Jean-Paul Laurens. 1870. Nantes, Musée des Beaux-Arts. Il dipinto rievoca il macabro processo, celebrato nel gennaio dell’897 nella basilica romana di S. Giovanni in Laterano, alla salma di papa Formoso (891-896). Noto come «Sinodo del cadavere», il giudizio fu presieduto dall’allora pontefice Stefano VI, raffigurato a sinistra. MEDIOEVO IN NERO
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STORIA DELLA CHIESA
Il giovane Formoso iniziò la sua ascesa negli anni in cui l’impero franco era ancora influente. Nacque a Ostia, nell’816 e, nonostante provenisse da una famiglia modesta, ebbe accesso a studi di alto livello in ambito religioso. Le scuole ecclesiastiche, un po’ ovunque in Europa, rappresentavano un luogo d’élite culturale per effetto della riforma carolingia, che aveva puntato molto sul miglioramento qualitativo della formazione del clero.
Missione in Bulgaria
La carriera di Formoso fu folgorante. Dopo la nomina a vescovo di Porto (diocesi a nordovest di Roma), nell’866 fu incaricato dal pontefice Nicolò I di recarsi in Bulgaria per una delicata missione: diffondere il cristianesimo latino in un luogo in cui, invece, aveva cominciato a radicarsi quello greco. Il legato cattolico si fece valere e approfittò dei dissidi tra lo zar bulgaro Boris e il patriarca di Costantinopoli Fozio per portare a compimento l’operazione. Il monarca, che ambiva a fondare una Chiesa autoctona di rito greco, non 124
MEDIOEVO IN NERO
Il Sinodo del cadavere
Miniatura raffigurante il battesimo di Boris I, zar di Bulgaria, da un’edizione della Cronaca di Costantino Manasse. Nell’866, dopo la nomina a vescovo di Porto, Formoso fu inviato da Nicolò I nel Paese balcanico per diffondere il cristianesimo latino e incoraggiare i rapporti tra il papato e lo zar.
aveva ottenuto l’avallo di Bisanzio al progetto e si era perciò rivolto a Roma. Formoso ebbe un ruolo decisivo nel favorire i buoni rapporti tra il papato e lo zar e, come riconoscimento del suo prezioso lavoro, ricevette da Boris l’offerta di diventare primate della nuova Chiesa del regno. Si trattava, però, di una richiesta inesaudibile, perché ai vescovi, secondo il diritto canonico, non era consentito cambiare la propria sede episcopale. Boris non si arrese e fece pressioni anche sul successore di Nicolò, Adriano II. Di fronte all’ennesimo rifiuto, lo zar decise di chiudere i rapporti con la cristianità occidentale, riportando il proprio regno nell’orbita di Costantinopoli. La rottura delle relazioni tra Roma e il sovrano bulgaro indispettí Formoso, che vedeva cosí vanificato il paziente lavoro diplomatico svolto per anni. Per questo chiese piú volte ad Adriano di poter tornare nei Balcani per ricomporre la frattura con i Bulgari, ma il pontefice fu irremovibile. Formoso, deluso, decise di aderire al partito degli oppositori di Adriano, i fedelissimi del predecessore Nicolò, che accusavano il nuovo papa di avere corrotto i costumi morali del clero. Il pontificato di Giovanni VIII, successore di Adriano II, segnò la disgregazione dell’impero carolingio. La morte di Ludovico II, nell’875, aveva aperto la complessa vicenda della successione, poiché il monarca non aveva figli
Il Laterano in un disegno di Marteen van Heemskerck. 1532-36. Berlino, Kupferstichkabinett. Si riconosce la basilica di S. Giovanni e si può notare la presenza della statua equestre di Marco Aurelio, che qui rimase fino al 1538, quando fu trasferita sul Campidoglio.
maschi. Sull’Italia, in particolare, avanzarono pretese due appartenenti alla stirpe di Carlo Magno, il franco Carlo il Calvo e il germanico Ludovico di Baviera. Le alte sfere ecclesiastiche si interrogarono su quale sarebbe stata la soluzione migliore per il papato e, alla fine, optarono per Carlo il Calvo. Quest’ultimo, per i numerosi impegni in patria, decise di delegare agli alleati del ducato di Spoleto l’amministrazione del territorio romano.
Guerra sotterranea
Ludovico e la sua famiglia, intanto, contrariati per la mancata incoronazione, minacciarono il regno franco, ma, alla fine, preferirono agire in modo sotterraneo per combattere il rivale. Sapevano che nella Chiesa romana esisteva un partito filotedesco molto forte e quindi si limitarono a stringere con esso contatti piú frequenti. Formoso si trovò, suo malgrado, coinvolto in questi giochi di potere, pagando subito un prezzo alto: sebbene non si fosse mai schierato apertamente da una parte o dall’altra, fu inserito dal papa nella lista dei nemici filotedeschi. Temendo il peggio, allora, decise di fuggire, proprio nei giorni in cui i leader della fazione germanica stavano lasciando la città e cosí aggravò la sua posizione. Da Roma gli fu subito intimato di tornare, pena la scomunica, che scattò poco tempo dopo. Formoso, infatti, rimase all’estero (in Francia) in atte-
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STORIA DELLA CHIESA
Il Sinodo del cadavere L’ACCUSATORE... Stefano VI, in un’illustrazione da I pontefici romani di Luigi Tripepi. 1879. ● Nascita Roma, ? ● Morte Roma, ottobre 897 ● Pontificato maggio 896-14 agosto 897 ● Sepoltura Roma, S. Pietro
sa di tempi migliori. In seguito alla morte di Carlo il Calvo, il potere a Roma passò nella mani di Carlomanno di Baviera, figlio di Ludovico il Germanico. Formoso sentiva che era giunto il momento propizio per interrompere la latitanza: presentando scuse formali, ottenne la cancellazione della scomunica, ma dovette giurare al papa che non sarebbe piú tornato a casa. Riuscí, finalmente, a rientrare in città grazie al successore di Giovanni VIII, Marino I, in un periodo in cui si stava susseguendo una serie sospetta di brevissimi pontificati. Marino morí dopo pochi giorni; Adriano III governò solo qualche mese; e brevissimo fu anche il regno di Stefano V. Nel frattempo l’impero carolingio subiva una definitiva frammentazione in tre grandi centri di potere indipendenti tra loro: in Germania aveva preso il sopravvento Arnolfo, duca di Carinzia, l’altro figlio di Carlomanno; in Francia stava emergendo la dinastia dei Capetingi, con il re Oddone; l’Italia, invece, si trovava ormai sotto l’influenza di Guido II di Spoleto, insidiato da Berengario del Friuli.
Avvinto all’altare
I CAPI D’ACCUSA Le accuse formulate nel «Sinodo del cadavere» nei confronti di Formoso furono ben sette: 1. L’aver ambito al trono papale, fin dall’elezione di Giovanni VIII, sebbene non fosse consentito per un vescovo di una diocesi diversa da Roma. 2. L’essere fuggito nell’876, sentendosi probabilmente colpevole di qualche reato. 3. L’aver saccheggiato un monastero insieme agli esponenti del partito filotedesco nel giorno della sua fuga.
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4. L ’aver celebrato funzioni religiose nonostante fosse stato sospeso a divinis. 5. L ’avere cambiato sede episcopale, da Porto a Roma, commettendo una sorta di «adulterio». 6. L ’avere costretto lo zar Boris a richiedere solo lui e nessun altro come primate della Chiesa bulgara. 7. L ’avere tradito il giuramento pronunciato davanti a Giovanni VIII con il quale si era impegnato a non tornare piú a Roma.
Formoso fu eletto papa nel settembre dell’891, come candidato del partito filogermanico. Dalla parte opposta non c’erano piú i sostenitori dei Franchi, ma i paladini del ducato di Spoleto. Ricostruzioni un po’ fantasiose sostennero che il neoeletto fosse intenzionato a rifiutare l’incarico. Una cronaca racconta che Formoso fu addirittura strappato con la forza dall’altare della chiesa di Porto al quale si era avvinghiato pur di non recarsi al Laterano. E se anche non compí davvero un simile gesto accettò l’investitura come un compito gravoso e solo in minima parte per ambizione. Si dice che fosse stato eletto a furor di popolo, nonostante l’età avanzata, forse perché in quel momento sembrava l’uomo giusto per poter affrontare con saggezza ed esperienza la turbolenta situazione politica che lacerava la città. Formoso si mostrò subito tollerante con i suoi oppositori, astenendosi dallo scatenare persecuzioni di massa come era avvenuto nei precedenti pontificati. Dal punto di vista diplomatico, inoltre, ritenne conveniente incoronare imperatore il figlio di Guido II da Spoleto, il giovane Lamberto, cosí da calmare le acque nella lotta tra le due fazioni principali. In cuor suo, tuttavia, sperava che gli amici tedeschi potessero prendere il potere. Questo doppio gioco funzionò fin quando dalla Germania giunse davvero un esercito: gli Spoletini, scoperta l’ambiguità
del papa, gli dichiararono guerra e si prepararono ad affrontare sul campo le truppe tedesche guidate da Arnolfo di Carinzia. Vecchi rancori infiammavano ulteriormente l’animo dei capi del ducato: la madre di Lamberto, Ageltrude, era di stirpe longobarda e covava lo stesso odio che i suoi avi avevano a lungo provato per i Franchi, in particolare per i Carolingi. Gli Spoletini, poi, riuscirono a catturare Formoso, rinchiudendolo a Castel Sant’Angelo. In aiuto del pontefice accorse subito Arnolfo, che riuscí a entrare a Roma mettendo in fuga l’esercito di Lamberto. In cambio del provvidenziale intervento il sovrano ricevette sul capo la corona di imperatore nell’896, in S. Pietro. Il papa sapeva di aver compiuto ormai una precisa scelta di campo e temeva la reazione dei suoi nemici; confidava, tuttavia, in Arnolfo e nella prosecuzione della sua campagna militare contro il ducato di Spoleto. L’imperatore partí subito per l’Umbria, ma, dopo qualche giorno di viaggio, si ammalò gravemente, rimanendo paralizzato e la missione non poté proseguire. Il ritiro delle truppe tedesche da Roma incoraggiò gli Spoletini a passare al contrattacco a a colpire il traditore Formoso con ogni mezzo. Lamberto e Ageltrude non fecero in tempo a consumare i propri propositi di vendetta nei confronti di un papa ormai ottantenne e malato: il pontefice morí il 4 aprile dell’896, prima che il ducato di Spoleto riuscisse a prendere di nuovo il controllo totale della città.
Epurazioni sistematiche
La Chiesa divenne presto in maggioranza antiformosiana, su imposizione dei regnanti spoletini. In particolare lo furono i nuovi papi: Bonifacio VI, morto pochi giorni dopo l’elezione e, soprattutto, Stefano VI, descritto in molte biografie come uno dei pontefici piú crudeli della storia. Proprio quest’ultimo attuò una sistematica epurazione ai danni di chiunque avesse ricevuto ordinazioni e nomine da Formoso, con una sola deroga però: la sua stessa investitura a vescovo di Anagni, visto che era stato consacrato dall’odiato predecessore. Ageltrude e Lamberto non si accontentarono delle epurazioni di massa contro i formosiani e del pieno potere riacquistato sull’intera Chiesa: volevano infierire sul pontefice filotedesco anche dopo la sua morte e umiliarlo agli occhi dei Romani. Ageltrude, in particolare, meditava una clamorosa quanto raccapricciante iniziativa: riesumare il cadavere di Formoso e processarlo davanti al clero e alla cittadinanza. La donna,
IL PAPA SENZA VOLTO Il provvedimento della damnatio memoriae eliminò tutte le immagini in cui appariva il volto di Formoso. Le ricostruzioni dell’aspetto fisico del pontefice furono realizzate nei secoli successivi in base alle descrizioni delle cronache. In un affresco, però, l’immagine del papa venne solo abrasa, in modo da lasciarne intravedere la sagoma e il nome, «Formosus». L’affresco, commissionato quando ancora Formoso era
vescovo di Porto, raffigurava il futuro papa accanto a Boris di Bulgaria e ad alcune figure religiose (Cristo, i santi Paolo, Pietro, Ippolito e Lorenzo). Il dipinto si trovava in una piccola chiesa del Monte Celio, a Roma, poi distrutta, e venne rinvenuto da un archeologo del Seicento, Giovanni Giustino Ciampini. Di quell’affresco oggi restano solo alcune riproduzioni realizzate dallo stesso Ciampini e da altri due pittori.
...E L’ACCUSATO Formoso, in un’illustrazione da I pontefici romani di Luigi Tripepi. 1879. ● Nascita Ostia, 816 circa ● Morte Roma, 4 aprile 896 ● Pontificato settembre 8914 aprile 896 ● Sepoltura Roma, S. Pietro
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STORIA DELLA CHIESA
Il Sinodo del cadavere
UN DUCATO A LUNGO CONTESO Il ducato fu costituito dai Longobardi nel 571 con l’intento di collegare i domini del Nord con quelli del Sud. Si estendeva in alcune zone di Lazio, Umbria, Abruzzo e Marche. In virtú delle protezioni naturali fornite dalle montagne e per la vicinanza ad alcune città fortificate, mantenne una certa autonomia nei riguardi del potere centrale e anche dell’impero bizantino. Per conservare l’indipendenza, i duchi spoletini non esitarono ad allearsi con la Chiesa di Roma, come accadde nel periodo di Alboino, che giurò fedeltà anche ai Franchi. I papi, però, consideravano il ducato di Spoleto un pericolo per lo Stato pontificio e cercarono a piú riprese di sottometterlo.
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L’autonomia durò fino all’avvento di Carlo Magno, nell’VIII secolo, che prese il controllo del ducato, nominando regnanti di sua fiducia. Il tramonto dell’impero carolingio permise agli Spoletini di riacquistare una piena indipendenza e di aspirare alla corona italiana e franca. Guido II riuscí nell’889 a diventare re d’Italia, prevalendo sul rivale Berengario del Friuli. A partire dall’XI secolo, i possedimenti spoletini furono contesi dagli imperatori tedeschi e dai papi: il ducato passò prima nelle mani di Federico Barbarossa e poi del pontefice teocratico Innocenzo III. Riconquistato da Ottone IV nel 1210, venne poi ceduto di nuovo da Federico II alla Chiesa nel 1231.
ARNOLFO, IL LIBERATORE Figlio naturale di Carlomanno, Arnolfo di Carinzia fu eletto re di Germania nell’887, dopo aver capeggiato una ribellione contro lo zio Carlo il Grosso, sovrano dei Franchi Orientali. Si distinse nell’891, per la vittoria riportata a Lovanio sui Normanni e nei successivi scontri contro gli Ungari e i Moravi. Con il tramonto dell’era carolingia, provocato dall’uscita di scena di Carlo il Grosso, Arnolfo diventò il monarca piú potente nei territori del grande impero in disfacimento, conquistando alcune regioni che appartenevano ai Franchi Occidentali. In Italia sottomise Berengario del
spalleggiata da Stefano VI, intendeva inscenare una damnatio memoriae, un tipo di condanna postuma in auge nell’antica Roma, pronunciata per spazzare via ogni ricordo della personalità deceduta. Questa sorta di anatema post mortem, in ambito ecclesiastico, perseguiva un ulteriore scopo: colpire il pontefice deceduto anche nel mondo ultraterreno, privando la sua anima della beatitudine nell’aldilà.
Le «risposte» del cadavere
Come già ricordato, il macabro giudizio ebbe luogo nella basilica del Laterano. Esplicato il rito della messa, la salma dell’imputato fu estratta dal sarcofago nel quale riposava da oltre nove mesi, e issata con qualche difficoltà su un trono. Al suo fianco prese posto un diacono incaricato della difesa del papa e anche di fargli da «portavoce». Avrebbe dovuto rispondere alle accuse formulate dal pubblico ministero ecclesiastico imitando la voce di Formoso, come se le sue parole provenissero davvero dall’oltretomba. «Chi sei?», fu chiesto al cadavere, seguendo la normale procedura di avvio di ogni processo. La risposta del diacono, «Formoso», risultò in parte coperta dall’intervento di Stefano VI, che insultò ad alta voce l’imputato, definendolo un «traditore come Giuda». Le altre imputazioni piú gravi a carico del papa riguardavano la sua improvvisa fuga dalla città insieme ai membri della fazione filotedesca, il cambio di diocesi da Porto a Roma, l’avere celebrato funzioni religiose nonostante la sospensione a divinis e le presunte pressioni esercitate sullo zar Boris per essere nominato patriarca di Bulgaria. Formoso subí il massimo della pena possibile per un defunto: l’annullamento dell’elezione a
Friuli ed entrò in rotta di collisione con il ducato di Spoleto. Dopo l’investitura imperiale di Guido II nell’891, Arnolfo maturò la decisione di scendere in Italia con un esercito. Chiamato da Formoso nell’896, Arnolfo liberò Roma dagli Spoletini e venne incoronato imperatore. Nella sua successiva campagna condotta in Umbria contro il ducato di Spoleto si ammalò gravemente e rimase paralizzato per il resto della sua vita.
papa e la distruzione di ogni sua immagine su statue, dipinti e documenti scritti. Ma per gli Spoletini e per Stefano VI tutto questo non bastava. Il cadavere doveva essere vilipeso pubblicamente. Si procedette allora all’amputazione delle tre dita della mano destra con le quali il pontefice aveva impartito in vita la benedizione ai fedeli, cosí da distruggere ogni residuo di sacralità dal suo corpo. I giudici consiliari, poi, svestirono la salma e l’abbandonarono alla ferocia degli estremisti del partito spoletino. I resti del papa furono trascinati per le vie della città e infine gettati nel Tevere. Qualche giorno dopo l’emanazione della sentenza, a Roma si verificò un evento inquietante, che molti cittadini interpretarono come un segno della collera divina. Per la prima volta nella sua storia la basilica del Laterano, il luogo dello scandaloso «Sinodo del cadavere», subí un crollo. Non solo per gli antispoletini, ma anche per i Romani neutrali, quella catastrofe rappresentava la prova dell’innocenza di Formoso. Altre circostanze rafforzarono la convinzione che una sorta di vendetta sovrannaturale si stava abbattendo sugli autori del processo: Stefano VI, per esempio, morí dopo pochi mesi. Si manifestò, inoltre, un prodigio: Formoso apparve in sogno a un monaco e, indicando il luogo in cui si trovava il suo corpo, pregò il religioso di recuperarlo. Il sito era il corso del Tevere, in corrispondenza della chiesa di S. Aconzio, nella diocesi di Porto e le coordinate risultarono esatte. Formoso venne riabilitato alla fine dell’897 da Teodoro II e la sua salma tornò a riposare nella basilica di S. Pietro dove si trova ancora oggi.
In alto Arnolfo di Carinzia in un’illustrazione di epoca moderna. Nella pagina accanto il duomo di Spoleto.
MEDIOEVO IN NERO
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