Medioevo Dossier n. 34, Settembre/Ottobre 2019

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Timeline Publishing S.r.l. – Poste Italiane S.p.A. – Spedizione in abbonamento – Aut. n° 0703 Periodico ROC

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MEDIOEVO DOSSIER

EDIO VO M E Dossier

LA

NASCITA

♦ GIULIANO E LA RESTAURAZIONE PAGANA ♦ ATTILA E I LUPI DELLA STEPPA ♦ ODOACRE E LA FINE DELL’IMPERO ROMANO ♦ I VICHINGHI E LA NASCITA DELL’INGHILTERRA ♦ I FRANCHI E L’ALBA DELL’EUROPA

€ 7,90

IN EDICOLA IL 29 AGOSTO 2019

LA NASCITA DEL MEDIOEVO

Crisi, guerre e conversioni alle origini dell’età di Mezzo

N°34 Settembre/Ottobre 2019 Rivista Bimestrale

DEL MEDIOEVO



LA NASCITA DEL MEDIOEVO

Crisi, guerre e conversioni alle origini dell’età di Mezzo di Tommaso Indelli

Introduzione 6. Alle origini del Medioevo Giuliano l’Apostata 10. La restaurazione «pagana» Attila e gli Unni 36. I lupi della steppa Odoacre 58. Cronaca di una morte annunciata L’eptarchia anglosassone 80. I magnifici sette I Franchi 104. All’alba dell’Europa




Alle origini del

Medioevo

La questione – parimenti a quella relativa alla fine dell’età di Mezzo – è ancora lungi dall’essere risolta. Certo è che quei secoli compresi tra il IV e il VIII secolo furono segnati da crisi, conflitti e decadenza. Ma quali furono le cause di tale drammatico arretramento di civiltà?

I

l Medioevo si fa iniziare, per convenzione, nel 476 d.C., quando l’ultimo imperatore romano d’Occidente, Romolo Augustolo (475-476), fu deposto e inviato in esilio dal capo «barbaro» Odoacre (476-493), poi proclamatosi rex. Il 476, segnerebbe, inoltre, anche la fine della cosiddetta «tarda antichità», un periodo storico caratterizzato da peculiarità politiche, economico-sociali, artistiche e culturali, generalmente compreso tra il III e il V secolo d.C. Tuttavia, se non vi sono dubbi sul termine iniziale di quella fase di transizione dall’antichità al Medioevo – che si fa appunto coincidere con il III secolo –, maggiori incertezze permangono sul termine finale che – come detto – gran parte della storiografia colloca proprio nel V secolo e, precisamente, nel 476 d.C. Eppure non manca chi – nel solco dello storico belga Henri Pirenne († 1935) – ritiene che la fine di quel complesso periodo storico vada spostata decisamente in avanti e, cioè, alla metà dell’VIII secolo e all’avvento dell’impero carolingio, perché, solo a quell’epoca, in concomitanza con l’espansione arabo-musulmana, il tessuto economico-sociale dell’Europa mutò totalmente, sancendo l’inizio del Medioevo. Questa periodizzazione «lunga» è oggi particolarmente diffusa nella storiografia anglosassone, mentre quella italiana è generalmente ancora legata alla scansione canonica, che sembra

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ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO


Particolare del gruppo in porfido dei Tetrarchi, proveniente da Costantinopoli e collocato tra la basilica di S. Marco e il Palazzo Ducale di Venezia. III sec. d.C.


ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

Introduzione

tuttavia smentita dai dati archeologici. In ogni caso, la definizione di «tarda antichità» (Spätantike) per indicare gli ultimi secoli di vita della civiltà antica e il progressivo passaggio verso il Medioevo è relativamente recente. Il primo a utilizzarla, infatti, fu, nel 1901 – nell’ambito della storia dell’arte – lo storico austriaco Alois Riegl († 1905), ma la formula venne poi adottata anche dagli storici delle istituzioni e dell’economia e ha sostituito, progressivamente, quella di «tardo» o «basso impero». Le riflessioni che seguono si focalizzano su alcuni degli eventi piú significativi del tormentato periodo compreso tra il IV e l’VIII secolo, che – al di là degli aspetti culturalmente e artisticamente pregevoli – fu, soprattutto, un’età di conflitti militari, di crisi economica, di fame, di epidemie, che ebbero conseguenze gravi sul tessuto sociale, demografico e istituzionale del continente europeo. Alla fine di questa crisi secolare, molte aree dell’Europa occidentale – ma non l’Oriente – erano tornate a livelli di vita a dir poco primitivi, con un arretramento delle strutture della vita sociale, economica, urbana, e persino igienico-sanitaria, di molti secoli precedente anche la conquista romana.

Le vere cause del tracollo

Davanti a uno scenario del genere, ci si è a lungo interrogati sulle sue cause. Oggi, la maggior parte degli storici ritiene che, pur non dovendosi negare l’esistenza di ragioni endogene, strutturali, che avrebbero minato la compagine dell’impero romano – crisi demografica, politica, economica – le cause esogene – cioè le incursioni «barbariche» – rappresentarono un elemento non secondario nel tracollo del mondo antico. Come ha sostenuto lo storico Bryan Ward-Perkins, se non a determinare, le «migrazioni germaniche» contribuirono ad accelerare il crollo del sistema imperiale che, per quanto minato da deficienze interne, sarebbe sicuramente durato di piú se non avesse dovuto fronteggiare anche le incursioni dei «barbari», con il loro pesante carico di distruttività. Questo Dossier prende dunque le mosse dal IV secolo, cioè da quando l’impero romano, dopo la grave crisi del III secolo - conosciuta anche come «anarchia militare» - si ritrovò radicalmente trasformato, rispetto a tre secoli prima, e irreggimentato in un apparato burocratico militarizzato che cercava di estendere il suo controllo su tutti i gangli della società. Nel III secolo, infatti, la pressione dei «barbari» sui confini e le guerre civili interne alla compagine imperiale avevano favorito l’ascesa di circa trenta 8

ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

imperatori, aggravando l’instabilità politica generale, che trovò una conclusione solo nell’ascesa al potere, nel 284 d.C., di Gaio Aurelio Valerio Diocleziano († 315 circa). Proclamato Augusto dalle legioni, Diocleziano cercò di arrestare la crisi dell’impero con ogni mezzo, escogitando, tra il 286 e il 293, un nuovo sistema di governo, la «tetrarchia» – dal greco, «governo dei quattro» – attraverso l’associazione al potere di altri tre imperatori, tutti uomini d’arme provenienti dall’Illirico, cioè l’odierna penisola balcanica: a se stesso e all’Augusto Massimiano († 310), Diocleziano riservò il governo dell’Oriente e dell’Occidente, agli altri due, Costanzo Cloro († 306) e Galerio († 311), il ruolo subordinato di Cesare e il governo, rispettivamente, della Britannia, della Gallia, della Spagna e dell’Illirico. Il ruolo dei due Cesari era quello di «aiutanti» e potenziali successori degli Augusti Diocleziano e Massimiano, perché era

Rilievo raffigurante Costantino in trono, da Salona (oggi in Croazia). IV sec. d.C. Spalato, Museo Archeologico.


stato stabilito che, in caso di morte o abdicazione di un Augusto, il rispettivo Cesare gli subentrasse, nominando, a sua volta, un potenziale successore. In tal modo si evitava ogni soluzione di continuità nell’avvicendamento al potere imperiale, uno dei maggiori problemi del III secolo. Tuttavia, gli eventi presero una piega diversa e, nel 305, al momento del ritiro di Diocleziano e Massimiano dalla vita pubblica, esplose la guerra civile tra i vari pretendenti alla porpora, dalla quale uscirono vincitori, nel 313, due generali di origine illirica, Costantino († 337), figlio di Costanzo Cloro, e Licinio. Nel 324, Licinio fu sconfitto in battaglia e ucciso e Costantino divenne l’unico imperatore.

Costantino, imperatore «cristiano»

Costantino fu, senza dubbio, una delle figure piú «rivoluzionarie» della storia, tanto che uno storiografo tedesco del XVII secolo – Christoph Keller († 1707) – nella sua Historia Medii Aevi (1688), individuò l’inizio del Medioevo non nel 476, ma nel 330 d.C., data della fondazione di Costantinopoli, la città voluta dall’Augusto come nuova capitale dell’impero. Costantino, inoltre, fu anche il primo imperatore «cristiano», perché – pur senza rinunciare al titolo di pontifex maximus – nel 313, con l’Editto di Milano, sospese le persecuzioni contro il cristianesimo, che fu dichiarato religio licita, creando cosí i presupposti affinché, nel 380, fosse riconosciuta come religione di Stato. Secondo la tradizione agiografica cristiana, Costantino si convertí al cristianesimo non per opportunismo, ma in seguito a fatti «miracolosi», avvenuti nel 312, all’indomani della campagna militare contro il suo avversario – l’Augusto Massenzio – sconfitto nella battaglia di Saxa Rubra (Rocce Rosse), dal nome della località, alla confluenza delle vie Cassia e Flaminia, caratterizzata dal colore rossastro delle rocce. Vuole la tradizione cristiana che un’apparizione o un sogno avessero spinto Costantino ad apporre sugli scudi dei soldati un’insegna con le due lettere iniziali del nome di Cristo in greco – X (chi) e P (rho), christos – tra loro intersecate. Molto probabilmente, la conversione dell’imperatore al monoteismo cristiano non fu cosí immediata, perché l’Augusto era già un adepto del culto solare, introdotto a Roma dall’imperatore Lucio Domizio Aureliano (270-275), alla cui simbologia erano ispirate molte delle raffigurazioni sulle monete coniate durante l’impero costantiniano. In ogni caso, l’azione di Costantino a favore del cristianesimo fu sostanzialmente confermata dai suoi successori, se si esclude il tenta-

Arezzo, basilica di S. Francesco, Cappella Maggiore. Il sogno di Costantino, una delle scene del ciclo delle Storie della Vera Croce, dipinto ad affresco da Piero della Francesca tra il 1452 e il 1466.

tivo di restaurazione dell’antico culto «pagano» di Stato avviato, qualche tempo dopo la sua morte, da suo nipote – l’imperatore Flavio Claudio Giuliano († 363) – ricordato dai posteri col significativo soprannome di «Apostata». A partire da Costantino, il cristianesimo svolse un ruolo sempre piú importante nella storia d’Europa e nella definizione della sua identità, e – attraverso la conversione – la Chiesa consentí anche l’inserimento delle stirpi «barbare» nel solco profondo della civiltà romana. L’immagine dell’Augusto – assiso tra i vescovi del concilio ecumenico di Nicea, tenuto nel 325 – sembra realmente prefigurare l’imperatore franco Carlo Magno († 814), attorniato dal clero della sua corte, ad Aquisgrana. ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

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La restaurazione «pagana» Senso del dovere politico, rispetto per la religione degli avi e una educazione ricevuta nelle piú prestigiose città dell’oriente: nel 355 d.C., Flavio Claudio Giuliano viene nominato «Cesare». Inizia cosí l’ascesa dell’imperatore «apostata»...


Giuliano l’Apostata presiede una conferenza di Settari, olio su tela del pittore inglese Edward Armitage. 1875. Liverpool, Walker Art Gallery.


ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

A

lla morte di Costantino I – il 22 maggio del 337 d.C. –, sobillati dai figli del defunto, i soldati massacrarono a Costantinopoli alcuni membri della famiglia dell’imperatore, i fratellastri, Giulio Costanzo e Flavio Dalmazio, e i nipoti, Dalmazio e Annibaliano, figli di Dalmazio. I figli di Giulio Costanzo – Flavio Costanzo Gallo e Flavio Claudio Giuliano – invece, furono risparmiati e confinati in Cappadocia, nella villa di Macellum, sotto stretta sorveglianza di Eusebio († 341), vescovo di Nicomedia, e dell’eunuco Mardonio che si occupò della loro educazione. L’impero fu diviso tra i figli di Costantino: Costante – che ottenne Italia, Africa e Illirico occidentale –, Costantino II – che ottenne Spagna, Gallia e Britannia – e Costanzo II, che ottenne l’Oriente – Egitto compreso – con la Tracia e con la capitale Costantinopoli. Ben presto la situazione si semplificò e, nel 350, Costanzo II rimase solo al potere, dopo la morte dei fratelli. Infatti, Costantino II fu ucciso nel 340 ad Aquileia dal fratello Costante, che, a sua volta, fu assassinato nel 350 dall’usurpatore gallico Flavio Magno Magnenzio († 353). Tuttavia, la vastità dell’impero e l’esigenza di condurre spedizioni militari su piú fronti – contro i Germani, sul Reno, e contro i Persiani, sull’Eufrate – costrinsero Costanzo a puntare sui cugini Gallo e Giuliano che – dopo anni di vessazioni – iniziarono ad assumere le prime responsabilità pubbliche. Giuliano e Gallo appartenevano, dunque, alla dinastia costantiniana. Gallo, il maggiore, era figlio di Costanzo e della prima moglie – Galla –, mentre Giuliano – nato a Costantinopoli nel 331 – era figlio delle seconde nozze di Costanzo con la greca Basilina († 333), figlia del prefetto d’Egitto Giulio Giuliano († 325 ca.) e morta quando Giuliano era ancora in tenera età. In un primo tempo Gallo sembrò destinato a maggiori successi rispetto al fratello. Nel 351, il cugino Costanzo II lo designò infatti Cesare – ovvero suo successore, affidandogli un comando straordinario sulle province d’Oriente e il compito di combattere i Persiani – e gli diede in moglie la sorella, Costantina. Gallo si stabilí in Siria – ad Antiochia –, ma fu ben presto richiamato in Occidente da Costanzo e, nel 354, giustiziato a Pola, con l’accusa di abuso di potere e di vessazioni ai danni dei provinciali. La morte di Gallo fu un duro colpo per Giuliano, che ritenne ingiusta l’uccisione del fratello e cominciò a maturare propositi di vendetta, sempre piú forti, contro il cugino. Fino a quel momento, Giuliano aveva vissuto in

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ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

Giuliano l’Apostata

disparte, badando esclusivamente alla sua formazione culturale nei piú prestigiosi luoghi d’Oriente – Atene, Efeso, Costantinopoli –, dove aveva avuto maestri d’eccezione, come il retore Libanio († 393 circa) e il filosofo neoplatonico Massimo di Efeso († 372 circa). In quel periodo Giuliano maturò la sua visione del mondo, permeata di senso del dovere politico, rispetto per la religione degli avi e neoplatonismo, e proprio la visione innovativa del pensiero di Platone – elaborata ad Alessandria d’Egitto dal filosofo Plotino di Licopoli († 270) – forgiò l’animo del futuro imperatore. Plotino aveva sviluppato un sistema filosofico fondato sul culto dell’Uno – principio dell’Universo e personificazione del Sommo Bene platonico –, entità assolutamente trascendente, da cui, per successive emanazioni, sarebbe derivata tutta la realtà. Le emanazioni plotiniane consentivano di trovare un nesso metafisico tra materia e spirito, tra Idee e sostanze corporee. Secondo Plotino, attraverso la filosofia e le pratiche religiose e teurgiche, l’uomo doveva tendere al ricongiungimento con l’Uno, in una sorta di assimilazione mistica. Si tenga presente, inoltre, che tanto Plotino, quanto i suoi discepoli – Porfirio di Tiro († 305) e Giamblico di Calcide († 330) – furono acerrimi avversari del cristianesimo (vedi box alle pp. 15-17).

La guerra in Gallia

Morto Gallo, Giuliano fu convocato da Costanzo II a Milano, dove arrivò alla fine del 355. Il 6 novembre, alla presenza dell’imperatore e dell’imperatrice Eusebia († 360), fu investito del titolo di Cesare e di comandante supremo delle milizie in Gallia, con il compito di riparare alla disastrosa situazione militare, determinata dalle incursioni dei «barbari»: i Franchi, lungo il corso del basso Reno, e gli Alemanni, lungo l’alto corso. Il titolo di Cesare, inoltre, conferí a Giuliano il ruolo di candidato in pectore alla successione imperiale. Poco dopo, Giuliano sposò la sorella di Costanzo, Elena, e ciò consolidò ancora di piú i suoi legami con la dinastia costantiniana, ma i rapporti personali con la moglie non furono mai buoni. A causa dei costanti impegni istituzionali, Giuliano trascurò Elena, che non riuscí neppure ad assicurargli una discendenza. Nel 360, quando Elena morí, Giuliano non si risposò, ma fece tumulare solennemente la moglie nel mausoleo romano di S. Costanza – sorella di Costantino I. Giuliano ereditava in Gallia una situazione difficile, a causa delle incursioni dei Franchi e degli (segue a p. 17)


L’impero nel IV secolo

A sinistra ritratto in marmo dell’imperatore Costantino I. 305-306 circa. Copenaghen, Ny Carlsberg Glyptotek. Al centro, a sinistra solido di Graziano con, al dritto, la testa diademata dell’imperatore. 375-383 circa. Collezione privata. Al centro, a destra medaglione in oro di Costanzo II, con elmo, lancia e scudo. 353-361 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France. In basso solido di Giuliano l’Apostata, con diadema di perle, corazza e paludamento. 361-363 circa. Collezione privata.

(le date tra parentesi indicano gli anni di regno)

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UNA BREVE PARABOLA 331 d.C. Giuliano nasce a Costantinopoli, il 6 novembre. 337 Viene esiliato a Costantinopoli e mandato a Nicomedia, in Anatolia. 342 Viene mandato a Macellum, in Cappadocia, insieme al fratello Gallo. 348 Gallo diventa Cesare dell’Oriente, Giuliano ritorna a Costantinopoli. 355 Sospettato di cospirazione da parte di Costanzo II, viene esiliato ad Atene. Richiamato, viene inviato in Gallia con il titolo di Cesare. 357 Sconfigge ad Argentoratum (odierna Strasburgo) gli Alamanni. 358-360 Vive a Lutetia Parisiorum (Parigi). 360 Viene acclamato imperatore dai propri soldati; il 3 novembre muore Costanzo II, Giuliano diventa l’unico imperatore dell’impero romano; l’11 dicembre Giuliano entra a Costantinopoli. 361-362 Giuliano sposta la capitale dell’impero ad Antiochia. 363 Muore in Mesopotamia, il 26 giugno, durante la campagna contro i Sasanidi. ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

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ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

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L’organizzazione politico-amministrativa nel IV secolo Prefetture (dal 337 al 396) Oriente Italia-Africa-Illirico Gallie Territori ceduti ai Sassanidi nel 363 Spartizione romano-sassanide dell’Armenia

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Giuliano l’Apostata

L’Impero e il cristianesimo nel IV secolo

L’Impero alla morte di Teodosio (395)

Editto di Milano (313)

Divisione dell’Impero tra Arcadio (Oriente) e Onorio (Occidente) nel 396

Concilio di Nicea (325)

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Sulle due pagine l’impero romano dall’età di Costantino alla vigilia delle «invasioni barbariche». In basso testa colossale in bronzo di Costantino pertinente a una statua (perduta) dell’imperatore. IV sec. d.C. Roma, Musei Capitolini.

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Nel IV secolo, grazie alla politica di tolleranza avviata da Costantino I (306-337) e proseguita dai suoi successori la Chiesa era diventata una vera potenza economica e politica. Costantino, con l’editto di Milano del 313 d.C., aveva riconosciuto il cristianesimo come religio licita, determinando la fine delle persecuzioni. Teoricamente, il cristianesimo doveva godere, nell’impero, degli stessi diritti delle altre confessioni religiose, ma cosí non fu, perché l’imperatore, tra il 316 e il 321, promulgò altre leggi con le quali rafforzò la posizione sociale della Chiesa, conferendole particolari privilegi. Tra questi, le esenzioni fiscali su beni e persone ecclesiastiche, il diritto del clero di essere giudicato da propri tribunali, l’episcopalis audientia, ovvero il diritto dei tribunali vescovili di emanare sentenze nelle controversie tra laici, il diritto delle chiese di ricevere eredità e donazioni e quello dei vescovi di utilizzare il servizio di posta imperiale – cursus publicus – e, infine, il riconoscimento del giorno di festa

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cristiano – la domenica – come giorno festivo per tutto l’impero. Nel 356 – a quanto sembra – Costanzo II promulgò anche un editto che decretava la chiusura dei templi, con il divieto di sacrificare agli dèi. La nuova politica di tolleranza favorí anche l’edificazione di nuovi edifici di culto cristiani e il riadattamento di edifici precedenti – in genere templi – agli usi sacri imposti dalla nuova religione. Le città diventarono il fulcro dell’organizzazione ecclesiastica, basata sulla diocesi e sulle sue ripartizioni interne come le parrocchie. La diocesi era l’organizzazione di base per l’inquadramento dei fedeli, per l’amministrazione dei sacramenti e per ogni adempimento liturgico. Il clero era articolato in una gerarchia di uffici: al vertice il vescovo o arcivescovo, a seconda che fosse preposto L’Italia o menocentroa una metropoli ecclesiastica, ovvero a una provincia settentrionale al piú diocesi suffraganee, subordinate al comprensiva di momento dellaAlmassima metropolita. di sotto dei vescovi stavano i presbiteri e i estensione dei domini diaconi, questi ultimi con funzioni di assistenza ai vescovi e ai della dinastia dei mansioni di tutela del patrimonio presbiteri, e con Visconti, agli inizi delassistenza XV ecclesiastico e di ai bisognosi. sec. Le grandi conquiste, gli ostiari, gli esorcisti, i lettori e gli Seguivano i suddiaconi, in particolare Gian accoliti – chediappartenevano agli ordini minori – il grado piú Galeazzo, culminarono basso della gerarchia, con compiti di assistenza liturgica degli nella ordinicostituzione maggiori. del Il conferimento degli ordini spettava al primo grande vescovo, cheStato era scelto dal clero della diocesi, escludendo il regionale dellasi Penisola. popolo, che limitava ad approvare per acclamazione. 16

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Giuliano l’Apostata

L’elezione del vescovo era al centro di importanti trattative tra i ceti dirigenti della città e i vertici del potere politico, generalmente l’imperatore o i suoi rappresentanti. Una volta eletto, il vescovo suffraganeo era consacrato dal proprio metropolita, mentre il metropolita era consacrato da almeno tre vescovi della propria metropoli. Nel IV secolo, l’organizzazione complessiva della Chiesa fu ancora collegiale, ovvero basata sull’accordo dei vescovi, espresso in sede sinodale, mentre il vescovo di Roma – il papa – conservava solo un primato morale, ma non giurisdizionale, conferitogli dal prestigio della sua diocesi che ospitava le reliquie di Pietro e Paolo, principi degli apostoli. La tolleranza costantiniana favorí il proliferare dei dibattiti teologici che, a partire dal IV secolo, furono sempre piú frequenti, e riguardarono soprattutto l’interpretazione della natura di Cristo. Le eresie e gli scismi, quindi, iniziarono a proliferare. Tra le eresie piú note di questo periodo sono da ricordare l’arianesimo e il donatismo. Il primo, un’eresia trinitaria nata a opera del presbitero egiziano Ario († 336), negava la piena divinità del Verbo divino – seconda persona della Trinità – considerato «creatura» del Padre creata nel tempo, e, quindi, non consustanziale a Dio e non pienamente divina. Nel corso del IV secolo, l’arianesimo ebbe grande diffusione presso le «stirpi barbare» a opera del vescovo di origine gota, Wulfila († 383 circa), che predicò tra i Goti stanziati sul Mar Nero.


Matteo I Visconti in un’incisione di Tobias Stimmer. 1575 circa. Berlino, Sammlung Archiv für Kunst und Geschichte. Signore di Milano dal 1287 al 1302 e vicario imperiale dal 1311 al 1322, sottomise alla propria influenza l’intera Lombardia e parte di Piemonte ed Emilia.

Puramente ipotetiche sono le ragioni che giustificherebbero la straordinaria diffusione delle credenze ariane tra i «barbari». Molto probabilmente il fenomeno era dettato da due fattori: la necessità, da parte dei «barbari» stanziati tra la popolazione romana, di conservare la propria identità, senza confondersi con i conquistati; e la maggiore comprensibilità della versione ariana del dogma trinitario, rispetto a quella cattolica, fondata sulla concezione consustanziale delle persone della Trinità. La dottrina ariana venne condannata nel 325, nel corso del concilio ecumenico di Nicea, convocato proprio da Costantino, e, definitivamente, nel concilio di Costantinopoli riunito, nel 381, su iniziativa dell’imperatore Teodosio I (379-395). Nel IV secolo, infatti, divenne prassi abituale degli imperatori intervenire nelle vicende interne alla Chiesa, convocando sinodi ecclesiastici e imponendo il proprio punto di vista anche in materia di fede, al fine di combattere l’eresia e contrastare, cosí, la divisione dell’«inconsútile» tunica di Cristo. Condannato definitivamente nel sinodo di Cartagine del 411, il donatismo fu un’eresia nata e diffusa nell’Africa romana, in seguito sfociata in un vero e proprio scisma. Prese nome dal vescovo africano Donato († 355), propugnatore della «validità soggettiva» dei sacramenti, principio secondo il quale l’efficacia degli atti sacramentali non dipendeva dalla corretta esecuzione del rito, ma dall’ortodossia e dall’integrità morale dell’officiante e del fedele a cui erano impartititi.

Condanna di Ario al concilio di Nicea, affresco del pittore toscano Giuseppe Nicola Nasini. 1696-1699. Siena, Oratorio della Compagnia della SS. Trinità. L’eresia del presbitero egiziano Ario negava la piena divinità di Cristo, relegandolo a un ruolo di natura inferiore rispetto al Padre.

Alemanni (vedi box alle pp. 20-23). La frontiera renana era rimasta sguarnita dopo che il magister militum per Gallias, Silvano, era stato messo a morte per un’accusa calunniosa di sedizione e Giuliano si vide obbligato a usare il pugno di ferro. In un primo tempo, annientò le incursioni alemanne nella grande battaglia di Argentoratum (agosto 357) – attuale Strasburgo –, costringendo il re alemanno Cnodomario, fatto prigioniero, a siglare la pace.

Da seminomadi a contadini

Con il trattato, gli Alemanni accettarono di fornire truppe all’impero – in cambio di vettovagliamenti – e a non violare il confine del Reno. Nel 358 toccò ai Franchi, che, duramente sconfitti, furono costretti a trasferirsi, in buona parte, a ovest del fiume Reno – nella Gallia Belgica Secunda – accettando di diventare foederati, cioè «alleati» di Roma (vedi box a p. 26). In base al trattato, i Franchi si impegnarono a fornire truppe e a stabilirsi nei territori loro concessi dalle autorità romane, abbandonando, progressivamente, le usanze seminomadi e dedicandosi all’agricoltura. I Franchi avviarono un processo di lenta acculturazione ai valori della romaALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

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Giuliano l’Apostata Busto in marmo cosiddetto «di Giuliano l’Apostata». IV sec. Roma, Musei Capitolini. nità, accompagnato da una proficua collaborazione con le autorità imperiali, destinato a dare i suoi frutti nel V secolo d.C. I meriti di Giuliano in Gallia non furono solo militari, poiché egli si preoccupò anche di mettere ordine nell’amministrazione civile, anticipando alcuni provvedimenti a favore del ceto popolare, che rese piú incisivi dopo l’elezione a imperatore. Diminuí l’ammontare delle imposte e ne affidò la riscossione a ufficiali pubblici, non piú a compagnie di speculatori privati, fissando un calmiere sui generi di prima necessità. La capitazione, o testatico, venne ridotta da 25 a 7 solidi, e furono drasticamente ridimensionate le spese. Il febbraio del 360 segnò una svolta nella vita di Giuliano e in quella di tutto l’impero: a Lutetia Parisiorum (l’odierna Parigi), dove Giuliano aveva stabilito la sede del suo comando, giunse il tribuno Nebridio, il quale, a nome di Costanzo II, gli ordinava di trasferire in Oriente parte delle legioni di stanza in Gallia, per combattere i Persiani. L’anno prima, Costanzo era infatti accorso in Siria per proteggere la provincia dalle incursioni persiane, poiché il re di Persia, Sapore II (310–379), aveva scatenato una con-

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troffensiva contro la frontiera siriana, impossessandosi delle piazzeforti di Amida, Nisibi e Singara e di cinque satrapie orientali, cioè i cinque distretti amministrativi collocati nella Mesopotamia occidentale, che erano stati annessi da Diocleziano, nel 298.

La proclamazione

Si rammenti che Sapore II apparteneva alla dinastia ultranazionalista dei Sasanidi, che aveva soppiantato, nel III secolo, quella dei predecessori Arsacidi, di etnia partica e, cioè, scitica. La minaccia rappresentata da questa nuova dinastia, originaria della Perside – attuale Iran sud-occidentale – e permeata dal forte afflato religioso del mazdeismo, rappresentava un problema non facile da gestire per le autorità romane dell’epoca. Poiché Costanzo non era riuscito a recuperare i territori occupati dai Persiani, decise di chiedere aiuto al cugino, ma le truppe di stanza in Gallia, non disposte a trasferirsi in Siria, minacciarono Nebridio e decisero di proclamare imperatore Giuliano che accettò (estate 360). La nomina a imperatore venne sancita nell’accampamento – a Lutetia –, seguendo un rituale decisamente poco romano: Giuliano fu innalzato sugli scudi e sulla sua testa fu posta, come diadema, un’improvvisata corona ricavata da un torques, una collana militare rigida molto usata dai legionari. Il novello Augusto diede notizia dell’accaduto al cugino, pensando che Costanzo avrebbe approvato la sua elezione, e proponendo di spartire l’impero: Giuliano avrebbe governato Spagna, Gallia e Britannia, lasciando il resto dei domini a Costanzo. Ma gli esiti furono ben diversi: Costanzo ritenne il cugino un usurpatore, mentre i generali gallici a lui fedeli – Barbazione, Ursicino, Florenzio – fuggirono in Siria. Dall’Asia Minore, Costanzo marciò verso Occidente, con l’intenzione di portare la guerra in Europa e annientare il cugino in una grande battaglia campale, e Giuliano, a sua volta, abbandonò la Gallia e marciò in direzione dei Balcani, lungo la valle del Danubio, intenzionato a contrastare l’arrivo di Costanzo. La battaglia decisiva si sarebbe dovuta com-

In alto dritto di un solido romano raffigurante l’imperatore Costanzo II, figlio di Costantino il Grande e Fausta Massima Flavia. IV sec. Stoccarda, Württembergisches Landesmuseum.

Qui sopra rovescio di un solido romano, coniato al tempo di Costanzo II, raffigurante la dea di Costantinopoli con in mano una statuetta della dea Vittoria. IV sec. Stoccarda, Württembergisches Landesmuseum.

battere proprio nei Balcani, ma Costanzo morí in Asia Minore, a Mopsucrene, il 3 novembre del 361, prima di aver attraversato il Bosforo. Giuliano apprese la notizia della morte del cugino a Naisso, in Mesia, l’attuale Serbia. Sebbene Costanzo, sul letto di morte, l’avesse perdonato e riconosciuto come legittimo erede, Giuliano si affrettò a raggiungere Costantinopoli, dove, in dicembre, proclamò un’amnistia generale e fece celebrare esequie solenni in onore del cugino che fu (segue a p. 23) ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

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Giuliano l’Apostata

NEMICI DI GIULIANO: ALEMANNI E FRANCHI NellaIpagina accanto Difesa di Brescia, olio Fin daldel 298, una parte su tela Tintoretto, al dei Franchi era già stanziata in Gallia A destra cartina come dell’impero romano nel III secolo gens Jacopofoederata, Robusti, lungo il basso corso del fiume Reno, nei grosso sec. d.C., con, in rosso, le che territori raffigura lo scontromodo corrispondenti agli odierni Olanda, Belgio e Renania inferiore. Si dividevano in due grandi direttrici delle «invasioni» tra la popolazione raggruppamenti tribali, a carattere confederale, i Franchi dei popoli barbarici. locale, supportata dai Sali e i Franchi Ripuari – ciascuno con propri re –, derivanti In basso due fibule ad Veneziani, e le truppe dall’accorpamento politico e militare di alcune tribú arco franche in argento milanesi di Filippo Maria preesistenti, stanziate sulla riva destra del dorato e niello, con Visconti.1584.precedentemente Venezia, Reno, granato: nelle popolazioni Palazzolungo Ducale.il suo corso inferiore e medio: Sugambri, Catti, Catruari, Usipeti, Tencteri, Gambrivi. Come sembra suggerire germaniche venivano il nome stesso – All manner, «tutti gli uomini» –, gli indossate per ornare gli Alemanni o Alamanni erano invece una grande abiti femminili. VI sec. confederazione di tribú germaniche – Quadi, Marcomanni, Suebi – ed erano stanziati tra l’alto corso del Reno e del Danubio, negli attuali Baden e Württemberg, nella vallata del fiume Neckar e nel territorio della Foresta Nera. Da lí minacciavano il territorio romano. Gli Alemanni avevano occupato i preesistenti Agri Decumates, conquistati nel I secolo d.C., da Domiziano (81-96). Gli Agri svolgevano la funzione di «cuscinetto» di protezione delle province romane ubicate a sinistra del Reno – Gallia, Germania inferiore e superiore – e a sud del Danubio (Rezia, attuale Svizzera, Austria occidentale, Baviera e Tirolo). All’epoca di Giuliano, gli Alemanni costituivano una

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confederazione, potentissima governata da un re – Cnodomario – a cui erano subordinati cinque subreguli e ben venti principes – capi aristocratici –, secondo una gerarchia oltremodo elastica, ma efficace. Franchi e Alemanni appartenevano dunque al novero delle tribú germaniche, stanziate nel vasto territorio detto Barbaricum o Germania, delimitato, a ovest e a sud, dal corso del Reno e del Danubio, a est, dal corso dell’Elba e della Vistola, a nord, dal Mare del Nord e dal Mar Baltico. L’identità etnico-culturale «germanica» – molto discussa – si era progressivamente formata tra il II e il I millennio a.C., quando l’area delle attuali Germania e Scandinavia era stata interessata da correnti migratorie – molto probabilmente

provenienti dall’Asia Centrale – di tribú indoeuropee, progressivamente sovrappostesi e amalgamatesi con i popoli paleoeuropei già insediati in quei territori. I Germani si distinguevano in «continentali» – le tribú stanziate nel territorio compreso tra Reno, Danubio e Vistola – e del Nord o «insulari» – meglio noti come Normanni o Vichinghi – che popolavano lo Jutland e la penisola scandinava, a torto ritenuta un’isola dagli etnografi greci e romani. Dal punto di vista linguistico – e sempre escludendo le tribú settentrionali – i Germani continentali erano ripartiti in due grandi raggruppamenti: i Germani occidentali, stanziati tra il Reno, il Danubio e l’Elba, e i Germani orientali, dimoranti tra l’Elba e la Vistola. Come si può intuire, l’antica Germania era ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

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molto piú vasta dell’attuale, poiché comprendeva anche, a est dell’Elba, territori destinati a essere occupati dalle tribú slave, nel VI-VII secolo d.C. Secondo gli etnografi romani, le tribú germaniche occidentali appartenevano a tre grandi raggruppamenti tribali o leghe, e cioè – procedendo da nord verso sud – agli Ingevoni, agli Erminoni e agli Istevoni. Ogni lega traeva origine da capostipiti diversi, dagli «eroi eponimi» Ingvio, Hermin e Istwo. Secondo lo scrittore romano Tacito, costoro erano figli di Manno, figlio di Tuisto, eroe figlio di Nerthus – la dea Terra – capostipite di tutti i Germani. Alcuni storici aggiungevano alle tre leghe suddette altre

L’Italia centrosettentrionale al momento della massima estensione dei domini della dinastia dei Visconti, agli inizi del XV sec. Le grandi conquiste, in particolare di Gian Galeazzo, culminarono nella costituzione del primo grande Stato regionale della Penisola. 22

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«confederazioni» – Vandili, Peucini, Bastarni – diffuse tra i Germani orientali, lungo le rive dal Baltico. Le altre tribú non facevano parte di alcuna lega, ma vantavano ciascuna propri eroi eponimi. Il nome «Germani» non è autoctono, ma, pur essendo stato molto utilizzato dagli scrittori latini e greci, sarebbe di origine celtica e il suo etimo sconosciuto. L’etnonimo «Germani» andrebbe ricollegato alla parola «fratello», oppure al celtico Garmanos, Carmanos, cioè gli «urlatori», i «rumorosi», con allusione, forse, ai canti di guerra delle tribú. Prima ancora dei Romani, lo utilizzarono i Celti, riferendosi alla tribú germanica dei Tungri, che viveva


Matteo I Visconti in un’incisione di Tobias presso il Reno. In ogni caso, proprio l’origine non autoctona Stimmer. di 1575 circa. «Germani» confermerebbe l’ipotesi secondo cui essi Berlino, non Sammlung Archiv utilizzavano un nome specifico per designare se stessi nonund Geschichte. für eKunst possedevano una coscienza nazionale, cioè la consapevolezza Signore di Milano dal di appartenere a un ethnos unico, al di là delle singole 1287 al 1302 e vicario frammentazioni tribali. In ogni caso, pur in mancanza di imperiale dal 1311 al elementi certi che provino l’esistenza di una coscienza 1322, sottomise alla collettiva del genere, propria delle moderne nazioni, propria esisteva, influenza l’intera al di là del particolarismo tribale, un sostrato etnico-culturale Lombardia e parte di e linguistico di fondo – di chiara matrice indoeuropea – che ed Emilia. Piemonte accomunava i singoli gruppi.

Il sarcofago romano detto «Grande Ludovisi» con scena di battaglia tra Romani e barbari. III sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Altemps. sepolto nel mausoleo imperiale, annesso alla chiesa dei Ss. Apostoli voluta da Costantino. Evitando una sanguinosa guerra civile, Giuliano era diventato unico imperatore.

La Restauratio religiosa

Da imperatore, Giuliano si preoccupò di istituire a Calcedonia, in Bitinia, una commissione d’inchiesta, presieduta dal prefetto d’Oriente Secondo Sallustio: l’iniziativa rispondeva alla volontà di punire i responsabili degli abusi perpetrati durante il governo del cugino Costanzo. Molti collaboratori di Costanzo – il ciambellano Eusebio, i delatori Paolo Catena e Apodemio, il comes largitionum Ursulino, il prefetto Florenzio – furono messi a morte, ma la condanna venne eseguita solo per i personaggi piú in vista. A dispetto del passato cristiano dei suoi predecessori – per esempio Costantino – fin dai primi tempi il nuovo Augusto si diede anima e corpo alla politica di restaurazione degli antichi culti «pagani», motivato da un sincero attaccamento alla religione dei padri – era stato iniziato ai misteri di Demetra e di Mitra – e non – come affermavano i suoi avversari – da una pervicace volontà di rivalsa contro i Costantinidi e il clero cristiano, responsabili dell’uccisione dei suoi familiari. Tuttavia, la volontà di restaurare l’antico culto di Stato greco-romano meritò a Giuliano il soprannome di «Costantino del paganesimo» o quello, piú noto, di Apostata – «Rinnegatore» della fede –, che per primo gli attribuí san Gregorio di Nazianzo († 390). Giuliano tentò di dare alla sua politica di Restauratio religiosa non solo un taglio giuridico– amministrativo, ma anche uno spessore «ideologico», grazie al supporto della filosofia neoplatonica – di cui era seguace – e di offrire una visione il piú possibile unitaria dell’universo teologico «pagano». Questa sistemazione teorica del complesso delle credenze, dei rituali e simboli del politeismo greco–romano fu realizzata da Giuliano nella sua vasta opera letteraria, che ne fa un imperatore del tutto particolare, animato da profondi interessi culturali (vedi box a p. 30). Tra i suoi scritti spicca il trattato in tre libri Contro i Galilei, non pervenutoci in originale, ma ricostruibile dalla confutazione del patriarca di Alessandria, Cirillo (412-444), contenuta nel suo Contra Iulianum. Nelle sue opere, Giuliano appellò i cristiani con il nome di «Galilei», cioè oriundi della Galilea, ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

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ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO Tavola a colori in cui si immagina una scena di vita quotidiana di fronte a un forte romano sul limes, linea territoriale costituita da difese naturali o artificiali che segnava i confini dell’impero. da cui proveniva Gesú, originario di Nazareth. Quel termine aveva una chiara accezione spregiativa, proprio come quello di «pagani» – campagnoli, rustici, villani – utilizzato dagli avversari dell’imperatore, per designare i fautori della religione di Stato. Si ricordi che, come riferiscono gli Atti degli Apostoli, i cristiani avevano cominciato a essere chiamati cosí – e non piú «Galilei» o «Nazareni» – proprio dai «pagani», ad Antiochia. Partendo da una posizione neoplatonica ed enoteista (per enoteismo si intende l’atteggiamento di chi invoca come unica una determinata divinità, senza per questo giungere al monoteismo, n.d.r.), Giuliano considerava gli dèi greco-romani e delle singole stirpi ricomprese nell’impero – gli dèi etnarchi – l’esito di un processo di progressiva generazione divina che, partendo dal principio unico generatore dell’universo – Dio –, entità assolutamente trascendente, assimilato anche a Helios-Apollo e a Mitra, degradava verso il basso, per successive e progressive emanazioni teofaniche – Intelletto Universale, Anima Universale, Dèi Etnarchi – per giungere ai demoni, alla materia terrestre e al genere umano.

Catturare l’energia divina

Ogni religione – sosteneva Giuliano, ragionando da Romano – esprimeva il mos maiorum, ovvero il complesso delle tradizioni degli antenati e delle singole stirpi che popolavano l’impero e, dunque, non si poteva pretendere di abolirla – come suggerivano i cristiani – senza profanare l’eredità dei padri e degli antiqui mores. Gli dèi andavano onorati per la prosperità dello Stato, celebrando i riti e le antiche preghiere, e attraverso le pratiche teurgiche. Molto praticata nei circoli neoplatonici o tra gli adepti dei culti misterici, la teurgia era un insieme di pratiche magiche che, attraverso l’esecuzione di complessi rituali verbali e gestuali, aveva la finalità di «imbrigliare» l’energia divina in un essere umano, realizzando una sorta di osmosi tra spirito e materia, o nel simulacro della divinità che, animandosi, dispensava miracoli o responsi. È comunque indubbio che, nella formazione del pensiero di Giuliano verso i cristiani, abbia inciso, oltre l’esperienza personale, anche la lettura di due importanti scritti di feroce critica alla nuova religione, sia sotto l’aspetto sociopolitico che dogmatico: il Discorso veritiero, del 24

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ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO FOEDERATI NellaIpagina accanto Difesa di Brescia, olio I foederati erano «barbari» arruolati dai Romani, su tela del Tintoretto, al generalmente acquartierati all’interno dei confini imperiali e secolo Jacopo Robusti, che,raffigura seondoloil scontro principio dell’hospitalitas, ricevevano un terzo – che o due – delle terre demaniali o private, oppure delle rispettive tra la popolazione renditesupportata fondiarie.dai Il nome foederati deriva da foedus, il locale, trattato con i Germani erano arruolati dall’impero, Veneziani, e lecui truppe trasmigravano all’interno milanesi di Filippo Maria dei suoi confini ed era stipulato dalle autorità Venezia, romane con i capi delle tribú. Visconti.1584. La foederatio Palazzo Ducale.concorreva, generalmente, con l’hospitalitas, sebbene potesse accadere che i foederati continuassero a stazionare nel Barbaricum, cioè al di fuori dei confini dell’impero: in tal caso, essi non ricevevano terre, ma corrispettivi in moneta, metalli preziosi o anche in vettovagliamento. Come già detto, i federati stanziati nell’impero ricevevano solitamente la tertia, la terza parte – o i due terzi – dei redditi o delle terre appartenenti ai proprietari romani della zona, comprensive di attrezzi, sementi, servi e animali da lavoro. Le assegnazioni venivano fatte, di norma, in proprietà, e spesso gli stessi proprietari romani erano indennizzati dal fisco. Né mancò la distribuzione ai «barbari» di terra pubblica; il lotto assegnato consisteva in un terzo, ma talvolta la terra attribuita era in quantità maggiore. Esistevano poi altre forme di stanziamento dei «barbari» nei confini dell’Impero: le fonti parlano di dediticii, laeti e gentiles. In tutti e tre i casi si trattava di tribú o di reparti armati stanziati su terra, in genere, demaniale, e tenuti a prestare servizio militare agli ordini di ufficiali romani, i praefecti gentilium, laetorum. L’uso di tre diverse denominazioni presupponeva, forse, differenti condizioni giuridiche. Per quanto riguarda i dediticii, si trattava probabilmente di servi o semiliberi, appartenenti a tribú debellate militarmente dai Romani, costrette a trasferirsi all’interno dei confini imperiali e obbligate a prestare servizio militare. Circa i laeti e i gentiles, la loro condizione è dubbia.

filosofo «pagano» Celso, vissuto nel II secolo d.C., e il Contro i Cristiani, di Porfirio di Tiro, discepolo di Plotino. Per il suo proselitismo universalistico e la sua intolleranza monoteista verso ogni altra forma di culto, il cristianesimo appariva a Giuliano come una fede spregevole e socialmente sovversiva degli equilibri interni alle varie etnie dell’impero. Secondo Giuliano, i cristiani, con il loro disprezzo per ogni culto e tradizione etnica, in nome di un malsano proselitismo cosmopolita che pretendeva di azzerare tradizioni secolari, apparivano come una sorta di animale polimorfo – ibrido – oltre che socialmente pericolosissimo, che, se non distrutto, andava quanto meno messo in condizione di non nuocere. Inoltre, per colpa di Costantino, i cristiani avevano acquistato troppo 26

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Non si sa con certezza se erano liberi o meno, se erano contingenti «barbari» accolti «volontariamente» sul territorio imperiale; forse, come i dediticii, erano di condizione servile o semilibera, ma, in tal caso, non si comprende la necessità di indicare i tre gruppi con diverse denominazioni. Gli stanziamenti «barbari» davano vita a vere e proprie enclave autonome dal punto di vista legale e amministrativo, le prefecturae o prepositurae, dal nome degli ufficiali romani che vi erano preposti. Le terre distribuite a queste comunità (originariamente pubbliche) dovevano avere anch’esse uno statuto particolare: terrae tributariae, laetiles, gentiles, molto probabilmente trasmissibili ereditariamente, ma inalienabili ed esenti dal tributo. Il solo onere reale che gravava su di esse era il militare servitium. Il sistema dell’hospitalitas era particolarmente elastico, assumendo, a seconda dei contesti territoriali, aspetti differenti che non possono essere schematicamente riassunti e, in ogni caso, il suo esatto funzionamento non appare ancora oggi ben chiaro. Il fatto che le fonti dell’epoca non menzionino frequenti lamentele da parte dei proprietari romani, spogliati delle loro terre, ha posto non pochi interrogativi. Inoltre, ci si è chiesto da parte di chi, materialmente, doveva essere fatta l’attribuzione ai «barbari» delle terre confiscate: se dagli stessi proprietari fondiari o dai decurioni delle città nei cui confini erano ubicate le terre da distribuire, e in virtú delle loro responsabilità fiscali. Oggi si è propensi a credere che il sistema dell’hospitalitas assumesse entrambi gli aspetti suddetti, consistenti in distribuzioni di terre e di reddito a seconda delle circostanze: tutto dipendeva dall’opportunità politica dell’impero, dalle condizioni sociali ed economiche dei luoghi, dalla stessa consistenza numerica e bellicosità dei «barbari» con cui Roma trattava. Ogni discorso relativo all’hospitalitas, quindi, andrebbe contestualizzato, operando opportune distinzioni sociali, cronologiche e geografiche.

potere, diventando un vero e proprio Stato nello Stato, e ciò l’impero non poteva tollerarlo, pena la sua distruzione. La mancata venerazione degli dei – che i cristiani propagandavano – avrebbe causato la fine della pax deorum (il favore divino per l’impero) e, con esso, la fine di Roma. L’attaccamento alla tradizione e al culto dei padri spinse l’imperatore a simpatizzare persino col giudaismo, da lui considerato «religione etnica» – per la veneranda antichità del culto e delle Scritture ebraiche – e per l’attaccamento dei Giudei – avversari dei cristiani – alle tradizioni dei padri. E proprio in omaggio al dio giudaico che, come le altre divinità, Giuliano comprendeva nella categoria delle divinità etnarchiche, l’imperatore promosse la ricostruzione del tempio di Gerusalemme – distrutto da

Nella pagina accanto rilievo del fante Leputius, particolare della replica della stele di un portainsegne. Civiltà gallo-romana, IV sec. Strasburgo, Museo Archeologico.


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Particolare del rilievo sulla fronte di un sarcofago raffigurante Cristo, posto al centro tra i santi Pietro e Paolo, nell’atto di donare la sua legge. V sec. Istanbul, Museo Archeologico. Tito (79-81) nel 70 d.C. – oltre che per smentire la profezia sulla sua distruzione, formulata da Cristo nei Vangeli. Tuttavia, questa iniziativa – affidata all’architetto Alipio di Antiochia – non fu portata a termine a causa di alcuni terremoti che devastarono la Palestina. Dal punto di vista legislativo e amministrativo, Giuliano non scatenò alcuna persecuzione cruenta contro il cristianesimo – che non venne messo fuorilegge –, ma si limitò a colpirne gli interessi economici e politici, privando le gerarchie ecclesiastiche dei privilegi fiscali e giurisdizionali di cui avevano goduto dall’epoca di Costantino. La Chiesa tornava a essere una semplice associazione privata, priva del supporto del potere pubblico romano, e l’imperatore dispose anche la riapertura dei templi – chiusi sotto Costanzo II, nel 356 – e il loro restauro, con la ripresa dei sacrifici cruenti.

Allontanati dall’insegnamento

Giuliano dispose che i cristiani venissero allontanati dagli uffici pubblici e, soprattutto, dall’attività d’insegnamento della grammatica e della retorica, dal momento che – come precisò in una delle sue Lettere – non era concepibile che uomini che disprezzavano i culti di Stato insegnassero, manipolandola a loro piacimento, la «letteratura classica», permeata dalla spiritualità greco-romana. Era meglio – sosteneva l’imperatore – che i cristiani leggessero e insegnassero i Vangeli o gli Atti di Luca, ma non Virgilio, Tacito, Omero o Platone! Pur non potendo piú insegnarvi, i cristiani potevano quindi continuare a frequentare le scuole pagane e a svolgere attività didattica in scuole proprie, studiando e commentando i testi della loro religione, ma non quelli delle altre. L’imperatore riteneva assolutamente inconciliabili con l’etica cristiana la paideia greco-romana e l’ideale antropologico che essa propugnava. Pertanto, o il mos maiorum o Cristo, tertium non datur! Prendendo a modello la Chiesa istituzionale, Giuliano tentò di organizzare su base gerarchica gli uffici sacerdotali «pagani», ponendo al vertice degli stessi l’imperatore – in qualità di pontifex maximus – e alla base, in progressione, i sacerdoti provinciali e quelli cittadini che sovrintendevano al culto degli dèi nelle province e nelle singole città. Incoraggiò anche la fondazione di ospedali, nosocomi e xenodochi ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

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ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO «pagani», al fine di sottrarre ai cristiani il monopolio dell’assistenza sociale agli indigenti, e incoraggiò i suoi sostenitori a essere sempre uomini di specchiata moralità, perché solo il buon esempio, corroborato da una morale severa e austera, poteva creare una barriera alla rovina del «paganesimo». In una prospettiva di tolleranza generale, Giuliano ordinò di revocare le sanzioni – esilio, carcere, confisca dei beni – che i suoi predecessori avevano erogato a danno di eretici e scismatici cristiani, per avvantaggiare la Chiesa ortodossa. In tal modo, l’imperatore si guadagnò la simpatia di donatisti, ariani e gnostici, fino ad allora perseguitati dal potere politico, ma ciò contribuí a

Giuliano l’Apostata

creare maggiore conflittualità e divisioni all’interno della Chiesa, indebolendone le istituzioni, il che andava nella direziona auspicata dall’imperatore (vedi box alle pp. 32-33). Anche al di fuori dell’ambito prettamente religioso, la politica di Giuliano, fin dall’epoca del suo comando in Gallia, fu sempre attenta ai bisogni delle classi sociali piú basse, gli humiliores. Ciò si tradusse in un abbassamento della pressione fiscale e in un tentativo di calmierare il prezzo dei beni di prima necessità – come il grano –, mantenendoli accessibili al popolo e cercando di frenare il costante processo inflazionistico che travolgeva il denaro d’argento – moneta dei ceti medio–bassi – e

In basso busto dell’imperatore Marco Aurelio. II sec. Istanbul, Arkeoloji Müzeleri. Nella pagina accanto busto in argento dorato a mercurio raffigurante il sovrano sasanide Shapur II. IV sec. circa. New York, Metropolitan Museum of Art. Nel 363, l’imperatore romano Giuliano sferrò un attacco al cuore del regno dei Sasanidi.

Giuliano volle che i suoi collaboratori fossero uomini di specchiata moralità IMPERATORE E SCRITTORE La politica di restaurazione religiosa perseguita da Giuliano fu animata anche dai forti interessi culturali, soprattutto filosofici, del giovane imperatore, autore, tra l’altro, di molte opere letterarie, di vario genere e contenuto, in buona parte dedicate proprio a questo argomento. Oltre al menzionato Contro i Galilei, sono da ricordare Le Lettere – che comprendevano quella Agli Ateniesi, in cui annunciava la sua proclamazione a imperatore – e le Orazioni, due delle quali furono dedicate a temi religiosi, Ad Helios sovrano e Alla Madre degli dèi. Vi furono poi opere encomiastiche – gli Encomi a Costanzo e a Eusebia – e di taglio filosofico. Giuliano compose anche l’opera satirica I Cesari, in cui passava in rassegna l’operato di tutti i suoi predecessori – a partire da Augusto – immaginando un banchetto voluto da Romolo – in occasione della festa dei Saturnali – durante il quale si discuteva su chi fosse stato il migliore di essi. Giuliano attribuiva la corona del vincitore a Marco Aurelio (161-180), l’«imperatore filosofo», seguace dello stoicismo e duro persecutore dei cristiani. L’opera proponeva un profilo fortemente critico di Costantino – zio di Giuliano –, che, come primo imperatore cristiano si era mostrato sprezzante nei confronti del culto degli dèi. Di taglio satirico era anche L’Odiatore della barba, opera indirizzata da Giuliano agli Antiocheni, responsabili di aver deriso il suo look barbuto, poco adatto – secondo i canoni dell’epoca – a un sovrano, ma semmai a un filosofo o a un monaco cristiano! Lo stile giulianeo è conciso e spesso nervoso, ricco di un lessico filosofico – soprattutto neoplatonico – e di citazioni desunte dai classici della letteratura greco–romana.

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ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO


favorendo la coniazione di denari di buona qualità, con un buon contenuto di metallo prezioso, cosa che fu consentita dalla fusione degli enormi tesori confiscati alle chiese cristiane. Alla politica deflazionistica, si aggiunsero l’abolizione di iniqui condoni fiscali e la persecuzione degli evasori, con taglio alle spese pubbliche superflue e riduzione degli effettivi amministrativi in sovrannumero. Giuliano, inoltre, abolí la pratica della compravendita di uffici pubblici, promosse opere pubbliche, adottando misure favorevoli alle amministrazioni cittadine, a cui restituí il possesso dei beni pubblici che erano stati loro sottratti dai suoi predecessori – per farne dono alla Chiesa o per incamerarli nel demanio statale – e proibí che i decurioni – i consiglieri municipali – potessero abbandonare il proprio ufficio e i connessi doveri per entrare nel clero.

La campagna contro i Persiani

Nell’inverno del 362, Giuliano si fermò ad Antiochia, in Siria, dove iniziarono a convergere le truppe – 50 000 uomini circa – per la grande spedizione contro i Persiani. Probabilmente, l’imperatore intendeva emulare Alessandro il Macedone o, comunque, realizzare una grande impresa militare che lo rendesse pari ai suoi modelli: Giuliano mirava a recuperare le cinque satrapie orientali – perdute da Costanzo II nel 359 – e le piazzeforti di Amida, Nisibi e Singara. La permanenza ad Antiochia non fu piacevole, perché l’imperatore fu oggetto delle ribellioni e del sarcasmo degli abitanti, che mal tolleravano la sua politica anticristiana. Infatti, quando Giuliano dispose che dal tempio di Apollo – ubicato nel sobborgo di Dafne e da tempo trasformato in chiesa – fossero rimosse le spoglie di alcuni martiri cristiani – tra cui il vescovo Babila, martirizzato sotto Decio (249– 251) – scoppiò un tumulto e alcuni monaci diedero alle fiamme l’edificio. Con grande rammarico di Giuliano, i sacrifici nei templi andarono deserti e iniziò a circolare voce che se si continuavano a uccidere tanti buoi per le divinità, alla fine non si ci sarebbe stata piú carne da mangiare. Comunque, nel marzo del 363, la spedizione (segue a p. 34) ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

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«AMICI» NellaGLI pagina accanto DELL’APOSTATA Difesa di Brescia, olio Nel contrasto al cristianesimo, Giuliano poté avvalersi di su tela del Tintoretto, al collaboratori e «ideologicamente» motivati. Tra questi, secolo Jacopo fedeli Robusti, spicca Secondo Sallustio († 367 circa), forse di origine gallica, che raffigura lo scontro già e, poi, prefetto del pretorio d’Oriente. Sallustio tra laquestore popolazione rimase in carica come locale, supportata dai prefetto fino al 367, anche sotto i successori Giuliano, rivelandosi funzionario scrupoloso ed Veneziani, e di le truppe efficiente, ma anche milanesi di Filippo Mariavalido studioso e filosofo. Fu infatti autore di un’opera scritta in greco – Sugli Dèi e il Cosmo – pervasa di Visconti.1584. Venezia, spunti in cui sintetizzava le idee ispiratrici del Palazzo neoplatonici, Ducale. «paganesimo» giulianeo. L’opera di Sallustio può essere definita il «catechismo ufficiale» della restaurazione religiosa di Giuliano. Accanto a Sallustio, si ricordi anche il retore e filosofo neoplatonico Massimo di Efeso, autore di commentari neoplatonici e aristotelici, maestro spirituale di Giuliano, che lo volle a corte, una volta divenuto imperatore, come consigliere. Altro consigliere di Giuliano fu il retore Libanio d’Antiochia, docente a Nicomedia, Atene, Costantinopoli e, infine, nella sua stessa patria. Libanio fu autore di numerose Epistole e Discorsi. Tra quest’ultimi sono da ricordare l’Epitaffio in onore di Giuliano e il Discorso in difesa dei templi, indirizzato all’imperatore Teodosio I (379-395), in cui denunciava la prepotenza dei monaci cristiani, saccheggiatori e devastatori dei templi «pagani». Da ricordare sono anche i retori Imerio di Prusa M ar Ne ro

Costantinopoli 10 giugno 362

Nicomedia Ancyra

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Artaxata

Armenia

Impero

Pessinunte

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Mileto Carre 18 marzo Tarso

Cipro Palmira Damasco

M a r Me d i t e r r a n e o

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Callinicum 27 marzo Cercusium 1° aprile

Singara Tigri

Antiochia 5 marzo 363 65 000 uomini

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21 giugno 363 Battaglia di Maranga

Douras Europos Anatha 14 aprile Thilitha 17 aprile Diacira Eu

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Ctesifonte 26 maggio te

Babilonia

Gerusalemme

sassanide

Alessandria

Eliopoli

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Regno

Petra

16 giugno Ritirata verso Corduene

3 giugno Partenza verso i territori interni della Persia


In alto Taq-e Bostan, Iran. Rilievo raffigurante il re sasanide Ardashir II, al centro, che riceve la corona sacra dal fratello Shapur II, a destra, mentre calpesta l’imperatore Giuliano l’Apostata, morto durante la campagna di Persia. Nella pagina accanto cartina con le tappe di avvicinamento delle truppe romane verso le capitali del regno sasanide, una marcia che culminò, il 26 giugno 363, con la vittoria romana a Maranga. († 390) e Temistio († 388), che tenevano scuola a Costantinopoli, e che di Giuliano furono maestri e consiglieri. Entrambi nativi dell’Asia Minore e autori di Discorsi, godettero di grande fortuna nonostante il loro «paganesimo» anche sotto i successori di Giuliano. Basti pensare che il cristianissimo Teodosio, nel 384, designò Temistio prefetto di Costantinopoli. Per concludere, sono da menzionare anche Oribasio da Pergamo († 403), medico personale di Giuliano e autore di un’enciclopedia medica in 70 libri – Collezione Medica – il retore gallico Claudio Mamertino, autore di un Panegirico in onore di Giuliano, lo storico africano Sesto Aurelio Vittore († 390 circa), praefectus Urbi e autore del De Caesaribus – raccolta di biografie imperiali da Augusto a Costanzo II – e, infine, Ammiano Marcellino di Antiochia († 397 circa), magister militum in Gallia e durante la campagna persiana. Ammiano fu anche storico, autore dei Rerum Gestarum libri XXXI – che andavano dal 96 al 378 d.C. – pervasi da una visione politica dell’impero conservatrice e pagana, ma equilibrata e aliena da eccessi, ostile tanto al cristianesimo che ai «barbari».

In alto frammento di epigrafe in lingua latina (ma scritta in caratteri greci), rinvenuta sull’isola greca di Amorgos, riproducente una lettera dell’imperatore Giuliano l’Apostata a Sallustio Secondo. IV sec. d.C. Atene, Museo Epigrafico.

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Giuliano l’Apostata

A sinistra Milano. Mosaico raffigurante sant’Ambrogio nel sacello di S. Vittore in Ciel d’oro. In basso solido raffigurante, al dritto, l’imperatore Flavio Eugenio, con il busto corazzato e ornato di diademi; al rovescio è effigiata una Vittoria alata che regge un ramo di palma e una ghirlanda. IV sec. d.C.

ebbe inizio. Affiancato da un ottimo stato maggiore, che comprendeva i migliori generali dell’impero – Nevitta, Arbizione, Gioviano, Procopio –, l’imperatore aveva previsto l’invasione della Mesopotamia a opera di due colonne, una proveniente dal fronte siriano – al suo comando – e l’altra dal fronte armeno, guidata da Procopio. La spedizione, però, volse subito al peggio, perché al caldo opprimente e alla mancanza di adeguati vettovagliamenti, si aggiunse la tattica della «terra bruciata» messa in atto dai Persiani, che, davanti all’avanzata romana, si ritiravano sempre piú a est, evitando di dare battaglia e molestando il nemico con la guerriglia. A un certo punto Giuliano, forse per accelerare

L'ALTARE DELLA VITTORIA

La fedeltà agli antichi culti e al mos maiorum che aveva guidato la politica di Restauratio di Giuliano sopravvisse, in gran parte, all’interno dei circoli dell’aristocrazia romana, fino alla fine dell’impero d’Occidente nel 476 d.C. Tra gli alfieri di questo conservatorismo si distinse Quinto Aurelio Simmaco († 402), retore, filosofo e ufficiale pubblico. Praefectus Urbi nel 384-385 e console nel 391, Simmaco cercò di difendere gli antichi culti «pagani» contro i tentativi autoritari di sopprimerli, messi in atto prima dall’imperatore Graziano e, poi, da suo fratello, Valentiniano II (375-392). Quest’ultimo, confermando una decisione già assunta dal fratello, rimosse la statua della dea «Vittoria» dall’atrium Libertatis della curia romana, la sede in cui avvenivano le riunioni del senato nel Foro. Simmaco non riuscí a persuadere l’imperatore a ricollocare la statua al suo posto, anche perché, nella disputa, intervenne il vescovo di Milano, Ambrogio (374-397), minacciando Valentiniano di severe sanzioni, tra cui la scomunica. Il tentativo del «paganesimo» romano di sopravvivere, con coraggio, all’affermazione violenta della fede cristiana, culminò, nel 392, nell’assassinio di Valentiniano II, a opera del magister militum franco, Arbogaste, e nell’elezione di un nuovo imperatore, il retore «pagano» di origine gallica Eugenio. L’usurpazione provocò l’immediata reazione di Teodosio I che, nel 394, nella battaglia del Frigido – attuale fiume Vipacco, in Slovenia – annientò le forze dei ribelli e, con esse, una fetta consistente della nobilitas senatoria – schierata in difesa degli antiqui mores – tra le cui fila militavano uomini di valore come il praefectus praetorio Virio Nicomaco Flaviano.

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ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO


la marcia delle truppe, o per evitare che le navi cadessero in mani nemiche, incendiò la flotta che stazionava sul Tigri, ma che era utile per mantenere i contatti con le retrovie del fronte, che si spostava sempre piú a oriente, e per rifornire le truppe. Giuliano riuscí a espugnare e a saccheggiare Ctesifonte e Seleucia – le capitali persiane – senza riuscire a catturare il re e il tesoro di Stato. In estate, decise pertanto di ripiegare a ovest, risalendo il corso del Tigri, ma a Maranga, nel corso di una scaramuccia con l’esercito persiano, il 26 giugno del 363, fu colpito da un giavellotto e, ferito gravemente, morí il giorno dopo. Si fece subito strada l’ipotesi – mai provata – che a scagliare la lancia fosse stato un soldato romano di fede cristiana, deciso a ven-

Base della statua dedicata al retore e filosofo Quinto Aurelio Simmaco, che fu praefectus Urbi e console, e si distinse per la battaglia in difesa degli antichi culti: nell’iscrizione sono riportate le gesta professionali e le magistrature religiose. V sec. Roma, Musei Capitolini.

dicare i suoi correligionari per le vessazioni provocate dalla politica dell’imperatore che – narra la leggenda – in punto di morte avrebbe esclamato: «viciste, Galilee» («hai vinto, Galileo!»). Si trattava di una palese ammissione – al momento del trapasso – della sconfitta della sua politica e della vittoria di Cristo.

Quasi una «controriforma»

Morto Giuliano, le truppe elessero un nuovo imperatore, Gioviano (363-364), di origine illirica, membro della guardia palatina e cristiano. Il nuovo Augusto concluse una pace ignominiosa con i Persiani: l’impero accettò di pagare alla Persia un tributo annuale e a cedere, definitivamente, i cinque distretti oltre l’Eufrate, lungo il quale fu fissata la frontiera tra i due Stati. Il corpo di Giuliano venne tumulato a Tarso, in Cilicia, sulla strada del ritorno dell’esercito a Costantinopoli e, pochi anni dopo – ma non si hanno certezze in tal senso – sarebbe stato traslato a Costantinopoli, nel mausoleo costantiniano annesso alla chiesa dei Ss. Apostoli, dove riposava anche il cugino, Costanzo II. Gioviano e i suoi successori, comunque, si affrettarono a sconfessare la politica anticristiana di Giuliano, abolendone la legislazione, chiudendo i templi e ripristinando le libertà della Chiesa. Infine, nel 380, a Tessalonica, l’imperatore Teodosio I (379-395) emanò l’editto Cunctos populos, rivolto a tutti i popoli dell’impero. Con il provvedimento, l’Augusto proibiva ufficialmente il culto «pagano», disponendo la chiusura dei templi, la loro distruzione o conversione in chiese cristiane, l’abolizione dei sacrifici agli dèi, sotto minaccia di gravi sanzioni per i contravventori. Nella versione professata dal vescovo di Roma, Damaso (366-384), il cristianesimo fu imposto come unica religione di Stato e il «politeismo grecoromano» non fu piú considerato religio licita. Nello stesso torno di tempo, il collega di Teodosio in Occidente, Graziano (367-383), ne recepiva la normativa e ordinava la rimozione dall’atrio della curia senatoria – atrium Libertatis – a Roma, della statua della Vittoria. Il simulacro era stato lí collocato da Augusto, nel 27 a.C., a simboleggiare che la grandezza e la potenza dell’Urbe erano dovute, essenzialmente, alla pax deorum, ovvero al culto dei suoi dèi. Cosí, alla fine del IV secolo – nonostante la tragica grandezza del tentativo di restaurazione giulianeo –, gli equilibri politici si erano modificati a favore del cristianesimo: i tanto disprezzati «Galilei» avevano finito con il trionfare sull’antico culto di Stato (vedi box in queste pagine). ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

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I lupi della steppa


Cavalieri abilissimi e arcieri infallibili, animati da un ardore guerriero eccezionale: cosí, nel IV secolo, gli Unni si presentarono all’Occidente. Ma quali furono le reali caratteristiche del popolo il cui re piú famoso, Attila, fu ribattezzato «flagello di Dio»?

Attila, seguito dalle sue orde barbariche, schiaccia l’Italia e le arti, olio e cera su intonaco di Eugène Delacroix. 1838-1847. Parigi, Palais Bourbon. Nel 452 le truppe del «flagello di Dio» giunsero fino alle porte di Roma, dopo le scorrerie nel resto dell’Italia settentrionale. ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

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ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

Attila e gli Unni

P

opolazione di origine asiatica di difficile catalogazione etnica, menzionata per la prima volta dal geografo greco Claudio Tolomeo (II secolo d.C.), gli Unni erano originari della regione a est degli Urali, forse l’attuale Mongolia. Nomadi e abili cavalieri, praticavano la razzia, l’allevamento di cavalli e di bestiame di piccola taglia, e costituivano una confederazione di varie tribú – Amilzuri, Itimari, Tunsuri, Boisci – probabilmente di origine mongola o turca. La confederazione unna è forse identificabile con un ramo degli Hsiung-nu, un gruppo di tribú di cui parlano le fonti cinesi, che, tra il I e il IV secolo d.C., minacciò i confini settentrionali del celeste impero. A partire dal IV secolo, gli Unni avanzarono verso occidente, attraverso la steppa della Russia meridionale, e costituirono un vasto aggregato politico di carattere confederale, di cui facevano parte molte altre stirpi asiatiche di cultura affine, ma anche molte tribú germaniche e indo-iraniche stanziate a ridosso del limes romano, come Ostrogoti, Rugi, Gepidi, Sciri, Sarmati e Alani (vedi box alle pp. 40-43). Agli inizi del V secolo, all’epoca della sua massima estensione, l’impero unno andava dal Reno e dal Baltico, a nordovest, al Danubio e al Mar Nero, a sud, con confini meno definiti in Oriente dove, molto probabilmente, lambiva la Mongolia e la Cina. Nell’immaginario collettivo, gli Unni rappresentano ancora oggi l’immagine della Barbaritas per eccellenza, cioè della «primitività» culturale, refrattaria a ogni forma di civiltà (vedi box alle pp. 44-46). Tutto iniziò nel 370 d.C., quando, per cause ancora ignote, gli Unni, guidati da re Balamber, si riversarono nelle pianure a nord del Mar Nero, producendo un singolare «effetto domino», che non sfuggí ai contemporanei. I nomadi della steppa aggredirono gli Alani, i quali, a loro volta, si lanciarono sui Sarmati e questi sui Goti. All’epoca, i Goti – stirpe germanica di probabile origine scandinava – si presentavano già divisi in due tribú differenti: gli Ostrogoti – Greutungi –, stanziati tra il Don e il Dnepr, e i Visigoti – Tervingi – stanziati tra Dnepr e Danubio. Gli Ostrogoti furono i primi a subire l’aggres38

ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

In alto particolare di un’incisione ottocentesca raffigurante Attila che mette a ferro e fuoco le città italiane. A sinistra e a destra fibbie di cintura di produzione unna, ritrovate presso il villaggio di Chekarenko, in Crimea. IV-V sec. Kiev, Museo Nazionale di Storia dell’Ucraina.


sione nomade, a cui cercarono di opporsi con la forza, ma furono sconfitti e persero il loro re, Ermanarico, ucciso in battaglia. Al contrario, i Visigoti – che non avevano monarchia – guidati dagli iudices Fritigerno e Alavivo, attraversarono il Danubio e penetrarono in territorio romano, con alcuni gruppi di Greutungi e Alani guidati da Alateo e Safrace. L’imperatore Valente (364378) tentò di contrastarne l’avanzata, ma il 9 agosto del 378, ad Adrianopoli, in Tracia, fu ucciso e il suo esercito annientato. Nel 382, il nuovo imperatore, Teodosio I, fu costretto a stipulare un trattato con i Goti, in base al quale ne autorizzava l’acquartieramento nelle province balcaniche di Mesia e Tracia, in cambio della fornitura di soldati. Lo stanziamento di nuclei allogeni parzialmente indipendenti nel territorio dell’impero rappresentò, da quel momento, un problema di difficilissima gestione per le autorità romane e, col tempo, avrebbe portato al collasso dello stesso organismo imperiale (vedi box alle pp. 50-54).

Le prime sortite

Degli Unni non si sentí parlare fino alla fine del IV secolo quando, per la prima volta, penetrarono in territorio romano. Nel 395, infatti, gli Unni Bianchi o Eftaliti – forse chiamati cosí dal persiano Eftal, «forte, valoroso» – superarono il Caucaso e si riversarono in Asia Minore e in Siria, raggiungendo il Mediterraneo, e furono respinti solo nel 398. Tuttavia, a oriente essi crearono difficoltà all’impero persiano, occupando parte dell’India settentrionale e le satrapie dell’Uzbekistan e Turkestan, fino alla fine del VI secolo, mentre, al di là del Caucaso e a ridosso del Danubio, il re unno, Uldin († 410 circa), aveva consolidato il suo potere. Nel 400, uccise il generale goto Gainas che, sconfitto dai Romani, era poi fuggito dagli Unni, i quali ne offrirono la testa all’imperatore d’Oriente, Arcadio (395408). Nel 408, Uldin effettuò la prima incursione a sud del Danubio, a scopo di saccheggio, ma il nuovo imperatore, Teodosio II (408-450), riuscí a respingerla. Il re morí intorno al 410, e la guida della confederazione unna fu assunta contemporaneamente dai tre fratelli Octar, Rua e Mundzuch, che assunsero il titolo di re. Intorno al 420, Rua rimase unico sovrano e attraverso una politica aggressiva, e con una serie di scorrerie a sud del Danubio, impose all’impero d’Oriente vessazioni che ne condizionarono pesantemente la sovranità.

In alto e in basso elementi decorativi in oro e cornaline di finimenti equini, rinvenuti in un tumulo presso Kalinin, Crimea. Produzione unna, IV-V sec. Kiev, Museo Nazionale di Storia dell’Ucraina.

Nel 434, alla morte di Rua, gli successero i nipoti, Attila e Bleda, figli di Mundzuch, con i quali le abituali aggressioni degli Unni contro l’impero fecero registrare un salto di qualità. Nel 441-442, Attila e Bleda si diedero a devastanti incursioni a sud del Danubio, adducendo come casus belli il saccheggio di alcune tombe unne da parte degli abitanti di Margus – attuale Požarevac, in Serbia – istigati dal vescovo. Le incursioni colpirono le province romane di Mesia e Tracia, grosso modo corrispondenti alle attuali Serbia e Bulgaria, furono saccheggiate le città di Viminacium, Singidunum, Adrianopoli e catturati molti prigionieri. L’impero d’Oriente fu costretto a stipulare con gli Unni un trattato in base al quale si impegnava a restituire tutti i disertori e i fuggitivi delle tribú della confederazione, e a pagare un tributo annuale di 750 libbre d’oro (1 libbra romana equivaleva a 327 grammi circa), maggiorato rispetto alle 350 libbre dovute in precedenza. A loro volta, gli Unni si impegnarono a non invadere l’impero e a restituire i prigionieri romani dietro pagamento di un riscatto di 8 solidi a testa (vedi box alle pp. 54-55). In quegli anni, Attila e Bleda consolidarono i rapporti con Valentiniano III (423-455), imperatore della pars Occidentis. Piú esattamente, gli Unni rafforzarono i legami con Ezio, patrizio e magister militum – comandante supremo dell’esercito occidentale –, il quale, in cambio della fornitura di truppe federate, da impiegare contro i Germani, nel 437 concesse loro il possesso di parte della Pannonia, corrispondente alle attuali Ungheria, Croazia e Slovenia. Le relazioni diplomatiche con l’impero d’Occidente furono avvantaggiate anche dal fatto che Ezio – un Romano nato nei Balcani – conosceva molto bene la lingua e gli usi degli Unni per essere (segue a p. 43) ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

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ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

Attila e gli Unni

AI CONFINI DELL’IMPERO Il limes era la «linea» di fortificazioni militari e di strade che delimitava, lungo il corso del Reno e Danubio, il confine tra l’impero e i «barbari». Al di là di esso era il Barbaricum, l’insieme dei vastissimi e mal definiti territori che si

estendevano a est del Reno e a nord del Danubio, popolati dalle externae gentes, estranee, appunto, alla civiltà romana e alla compagine imperiale. A partire dal II secolo d.C., le fortificazioni furono erette in muratura,

non piú in legno, e assunsero un aspetto monumentale come il vallum Adriani e, piú a nord, il vallum Antonini – entrambi in Britannia –, costituiti da un complesso di torri, accampamenti, strade e terrapieni, edificati dagli


In alto cartina dell’impero romano , con l’indicazione delle sue province. Sulle due pagine resti del castellum miliare 39 del Vallo di Adriano, nei pressi della cittadina di Once Brewed, nel Northumberland, Inghilterra.

ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

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ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

imperatori L’Italia centroAdriano (117-138 d.C.) e Antonino Pio (138-161 d.C.), al fine dialcontenere i Caledoni. Lungo il limes, «barbari» settentrionale e Romanidella intrattenevano momento massima rapporti diplomatici e commerciali in tempo dideipace, pertanto non si trattava di una barriera estensione domini invalicabile. della dinastia Roma dei importava dal Barbaricum schiavi, ambra e pellicce, Visconti, aglii «barbari», inizi del XV invece, importavano dal mondo romano grano, vino, olio, armi e ogni genere di manufatti, in metallo e sec. Le grandi conquiste, ceramica. Spesso, in particolare di Giantali oggetti costituivano doni diplomatici destinati culminarono dalle autorità romane ai capi tribú. Galeazzo, Molticostituzione «barbari» –del tra cui gli Unni – prestavano servizio militare nella nelle formazioni primo grande Statoausiliarie dell’esercito imperiale, apprendendo le tecniche belliche romane, la lingua e i regionale della Penisola. 42

ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

Attila e gli Unni

costumi dei conquistatori, facevano carriera e ottenevano la cittadinanza romana. Con il tempo, le tribú impararono a conoscere la civiltà di Roma, ad apprezzarne la potenza e gli agi, e aspiravano a integrarsi con essa per migliorare le proprie condizioni di vita. Grazie ai ritrovamenti archeologici, si è potuto dimostrare come i «barbari» fossero capaci di realizzare autentici capolavori artistici, soprattutto nel campo dell’oreficeria e del lavoro dei metalli preziosi e, in genere, nel campo della decorazione di manufatti metallici. Si pensi ai manufatti in oro e argento splendidamente decorati, con raffigurazioni di taglio animalistico o geometrizzante, realizzati con l’incastonatura di grosse pietre


Matteo I Visconti in un’incisione di Tobias Stimmer. 1575 circa. Berlino, Sammlung Archiv für Kunst und Geschichte. Signore di Milano dal 1287 al 1302 e vicario imperiale dal 1311 al 1322, sottomise alla propria influenza l’intera Lombardia e parte di Piemonte ed Emilia.

In alto miniatura raffigurante Crimilde presa da Attila, da un’edizione del Hundeshagenschen Handschrift des Nibelungenliedes. XV sec. Berlino, Staatsbibliothek. A sinistra Crimilde accusa Hagen di aver assassinato Sigfrido, litografia di Emil Lauffer. 1879. Collezione privata. preziose arrotondate – cabochons – sulla superficie o con l’inserimento di dette pietre in castoni – cosiddetti cloisons – utilizzati nella tecnica del cloisonné. Anche nella lavorazione del ferro i «barbari» furono in grado di insegnare qualcosa ai Romani, per esempio nella lavorazione delle armi, con la specifica tecnica della damaschinatura. Un altro prodotto significativo dell’arte «barbarica» sono le brattee, medaglioni in metallo prezioso, lavorati a sbalzo su una sola faccia e, generalmente, utilizzate come pendenti maschili e femminili, forse con funzione apotropaica, oltre che decorativa, se si considera che i soggetti raffigurati erano perlopiú religiosi, attinti dal patrimonio cultuale delle stirpi barbare.

stato a lungo loro prigioniero. L’impiego degli Unni nell’esercito romano, contro le tribú germaniche, fu però deprecato dal clero cattolico – si ricordi, in proposito, la condanna di Salviano di Marsiglia († 470) – perché, pur contrapponendo tra loro stirpi barbare, lo faceva a danno dei Germani, che, rispetto agli Unni, erano in gran parte cristiani, anche se non ortodossi, perché professavano l’eresia ariana. Nel 436, in forza di questa collaborazione militare, al fianco dei Romani, gli Unni contribuirono alla distruzione del regno dei Burgundi, una tribú germanica stanziata nella Gallia orientale e nemica dell’impero (vedi box alle pp. 48-49). Il ricordo della distruzione del regno burgundo per mano degli Unni sopravvisse a lungo nella memoria delle stirpi nordiche, ma, col tempo, venne trasfigurato in chiave mitica, allontanandosi dalla dimensione storica e assurgendo a leggenda. Nel XIII secolo, tale leggenda fu argomento del poema tedesco La Canzone dei Nibelunghi e di saghe nordiche, come quella dei Volsunghi, composte nello stesso secolo in Islanda. Con alcune variazioni riscontrabili nelle due distinte tradizioni letterarie, dopo l’uccisione di Sigfrido, la moglie, Crimilde – Gudrun – ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

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sorella del re dei Burgundi, Gunther – Gundicario – sposò Attila e si trasferí in Ungheria. Qui Crimilde si vendicò del fratello, ritenuto responsabile della morte del consorte. Nel corso di una visita diplomatica ad Attila, i Burgundi furono tutti massacrati per volontà di Crimilde, poi uccisa dallo scudiero Ildebrando. A tale leggenda è ispirata anche la tetralogia musicale di Richard Wagner († 1883), composta di un prologo, Das Rheingold (L’oro del Reno), e tre giornate, Die Walküre (La valchiria), Siegfried (Sigfrido) e Götterdämmerung (Crepuscolo degli dèi), e ispirata al ciclo dei Nibelunghi e ai carmi dell’Edda.

Pugno di ferro

Nel 445, morto Bleda – forse assassinato – Attila iniziò a governare da solo, imprimendo una svolta ancor piú dura alla politica unna verso l’impero. Si noti che il nome con cui è passato alla storia il «flagello di Dio» non ha un’etimologia asiatica, cioè turco-mongola, bensí gotica, e deriverebbe dall’unione della parola gota «Atta» – padre – con il suffisso diminutivo «la», dunque «piccolo padre». Non è da escludere, inoltre, che «Attila» potesse essere un soprannome e non il nome proprio del sovrano, che risulterebbe ignoto. Nel 447, profittando di un’epidemia e di un terremoto abbattutisi sull’impero d’Oriente, Attila attraversò il Danubio e devastò i territori a sud del fiume, sconfiggendo l’esercito romano sulla riva del fiume Utus – attuale Vid – in Mesia. L’anno successivo seguí la pace di Anatolio – dal nome dell’emissario romano che la negoziò –, per cui il tributo annuale, dovuto dai Romani agli Unni, fu innalzato a 2100 libbre d’oro, con l’aggiunta degli arretrati non corrisposti, cioè di altre 6000 libbre. Attila, come sempre, impose la restituzione di transfughi e disertori unni, col pagamento di un riscatto di 12 solidi per ogni prigioniero romano, rispetto agli 8 precedentemente dovuti. In aggiunta a queste condizioni, Attila pretese la smilitarizzazione, a sud del Danubio, di un territorio di 100 km circa ed esteso, lungo il corso del fiume, per 400 km circa. Periodicamente, nelle città romane ubicate in questa «zona franca», si sarebbero tenuti mercati accessibili anche agli Unni, per scambiare prodotti del Barbaricum – schiavi, pelli, animali esotici – con merce pregiata dell’impero. Nel 449, una delegazione unna, guidata dall’ambasciatore Edicone – o Edecone – giunse a Costantinopoli per lamentare l’inadempienza di 44

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UNNI E L'ETNOGRAFIA ROMANA NellaGLI pagina accanto Difesa di Brescia, olio Secondo odierne alcategorie sostantivo polisemico, non su tela delleTintoretto, dell’etnografia, gli Unni ancorato a un unico significato e, secolo Jacopo Robusti, –che e, raffigura in genere, i «barbari» – molto spesso, utilizzato per lo scontro rientrerebbero indicare anche popolazioni tra la popolazionenel modello della cosiddetta «società presenti all’interno dei confini locale, supportata dai tradizionale». La societàe tradizionale è un dell’impero, ma aventi costumi, Veneziani, le truppe idealtipo usi e tradizioni riprovate dai milanesi diantropologico, Filippo Maria caratterizzato dalla coesistenza di Romani. Nella gran parte dei Visconti.1584. Venezia, elementi comuni, ancora oggi casi, il termine «barbaro» non Palazzo Ducale. riscontrabili in molte civiltà del continente africano o asiatico. Le caratteristiche di questo modello sono: il peso esorbitante della consuetudine nella disciplina dei comportamenti, la lentezza dei mutamenti sociali, l’assenza del volontarismo statale con presenza di istituzioni di tipo clanico-tribale. «Barbari» – come anche gli Unni erano indicati – nella storiografia e nell’etnografia romana, era un

assunse una connotazione esclusivamente razziale, relativa a qualità e caratteristiche fisico-biologiche delle relative popolazioni ma, in genere, si riferiva alla civiltà delle stesse, quindi agli stili di vita delle tribú che – nella prospettiva etnografica classica – potevano sempre essere cambiati, a seguito di un veloce percorso di romanizzazione e di abbandono delle usanze «barbariche».


Nella pagina accanto medaglione con un ritratto di Attila, già nella collezione dell’imperatore Rodolfo II d’Asburgo. XVI sec. Vienna, Kunsthistorisches Museum.

Vaso d’oro con scene mitiche della tradizione degli Sciti, popolazione nomade di ceppo iranico stanziata a nord del Mar Nero, da Kuban (Russia), IV sec. San Pietroburgo, Museo statale Ermitage.

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A complicare ancor di piú il tentativo di un’esatta ricostruzione della cultura e degli stili di vita delle popolazioni «barbariche», sono proprio le peculiarità delle descrizioni di sapore etnografico della letteratura greco-romana. Queste opere erano autentiche costruzioni letterarie, contenenti digressioni etnografiche non verificate attraverso una ricerca sul campo, frutto di elaborazioni intellettuali caratterizzate da un forte etnocentrismo, che induceva a rappresentare le entità etniche barbare come «totalmente altre» rispetto alla civiltà dell’impero. Le istituzioni, la religione e i costumi delle singole stirpi erano interpretati e descritti secondo il filtro dei propri parametri culturali di riferimento – greco-romani – e secondo il proprio lessico e la propria lingua, il che aumentava il rischio di fraintendimenti, se non di vere e proprie distorsioni interpretative. Si tratta del procedimento noto come interpretatio. Gli scrittori classici si limitavano spesso a richiamare, se non a ricopiare, descrizioni etnografiche precedenti, anche molto lontane nel tempo, non piú corrispondenti, dopo il trascorrere di anni, se non di secoli, ai nuovi assetti etnici e culturali di certi territori. È il noto caso dei Sarmati e degli Alani – popolazioni di origine iranica insediate a nord del Mar Nero a partire dal II secolo a.C. – che furono a lungo identificate con gli Sciti, un raggruppamento etnico – ugualmente insediato a nord del Mar Nero tra VIII e II secolo a.C. – da tempo scomparso. Nel caso degli Unni, la ricostruzione del loro aspetto fisico e della loro cultura è fornita solo dalle digressioni di stampo etnografico contenute in alcune opere storiche di scrittori romani. D’altronde, la cultura unna era essenzialmente orale – non è noto che lingua 46

ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

Attila e gli Unni

parlassero – e, pertanto, non ha lasciato tracce scritte di sé. Le fonti letterarie piú importanti sugli Unni sono le opere di un generale siriaco, Ammiano Marcellino († 397 circa), che scrisse in latino un’opera storica – Rerum Gestarum libri XXXI – e di Giordane († 550 circa), un Goto romanizzato, autore di una storia dei Goti, i Getica. I due autori forniscono un quadro orripilante degli Unni e Giordane li crede addirittura figli dell’unione tra i demoni del deserto asiatico e alcune donne gote, cacciate dalla tribú perché accusate di stregoneria. I due storici descrissero gli Unni alla stregua di bestie antropomorfe assetate di sangue, abituate ad andare in giro seminude, ricoperte solo di pelli di volpi e topi selvatici, con epidermide scura, occhi incavati e un naso orribilmente schiacciato sul volto. Si tratta perlopiú di stereotipi, che farebbero comunque pensare a un fenotipo asiatico. La conformazione degli occhi, invece, derivava, probabilmente, dall’usanza – comune ai popoli della steppa asiatica e confermata dai ritrovamenti archeologici – di praticare la deformazione cranica ai membri dell’élite delle tribú, forse per scopi esteticocultuali. Come tutti i popoli asiatici dell’epoca, gli Unni erano abili cavalieri, abituati a montare a pelo e a usare l’arco con straordinaria abilità. L’arco unno – detto «composito» – era molto diverso da quello romano: aveva in genere struttura asimmetrica, perché usato per scagliare frecce a cavallo e realizzato con l’assemblaggio di pezzi di diversa fattura, in osso o

tendini di animale, in modo da aumentarne gittata e resistenza. Probabilmente è vera l’usanza – riferita da Ammiano e Giordane – di autoinfliggersi mutilazioni corporali a scopo ludico-rituale, mentre è da considerare leggenda il fatto – riferito dal solo Ammiano – che gli Unni si cibassero di carne cruda o, al massimo, frollata sul dorso dei propri cavalli, mentre erano lanciati al galoppo. Non sono molto credibili, invece, le usanze religiose riferite dai due autori, secondo cui gli Unni onoravano come divinità unicamente una spada – «spada di Marte» – che, conficcata nel terreno, era oggetto di sacrifici e genuflessioni, mentre è credibile che non avessero simulacri delle loro divinità e che non edificassero templi in loro onore. D’altronde, gli Unni erano tribú seminomadi, abituate a spostarsi di continuo, che pertanto vivevano su carri o in tende di feltro e, quando edificavano abitazioni piú stabili, lo facevano in legno o altro materiale deperibile, non utilizzando pietra e laterizi.


alcune clausole del trattato relative alla restituzione dei disertori. Durante la permanenza degli Unni a corte, Crisafio († 450), eunuco e ciambellano dell’imperatore, corruppe Edicone, offrendogli 50 libbre d’oro in cambio dell’assassinio di Attila. L’ambasciatore finse di accettare e cosí, a distanza di qualche giorno l’una dall’altra, partirono due delegazioni alla volta della Pannonia: quella unna, guidata da Edicone, e quella romana, guidata dal consolare Massimino, accompagnato da Vigilas – l’interprete –, che portava con sé l’oro del complotto, il segretario, Prisco, e altri dignitari. Prisco di Pànion († 480 circa), un funzionario nato in Tracia, scrisse una Storia in lingua greca che contiene un resoconto molto dettagliato della missione diplomatica presso Attila. Si tratta di una fonte importantissima per conoscere abitudini e costumi dei popoli della steppa. Prisco descrisse il percorso degli ambasciatori attraverso luoghi deserti e rovine di città romane devastate dagli Unni fino all’arrivo nella loro «capitale», probabilmente ubicata nella pianura ungherese, tra Danubio e Tibisco, e di cui tacque il nome. Giunti nella capitale, un grande villaggio con case in legno cinte da palizzate, i Romani incontrarono Attila che, inizialmente, fu molto cordiale e offrí loro un banchetto. Prisco descrisse la serata conviviale, i buffoni, le melodie e i canti tradizionali con cui gli Unni tramandavano le gesta degli antichi eroi e allietavano gli ospiti, ma anche i cibi e l’affabilità del grande condottiero. Il Romano notò anche la presenza, alla corte di

Sulle due pagine, in basso placche d’oro di fattura scitica utilizzate per ornare gli abiti e raffiguranti due grifoni, animali popolari nell’arte delle popolazioni nomadi del Mar Nero. V sec. circa. New York, Metropolitan Museum of Art.

Attila, di molti ministri di origine asiatica – detti, alla greca, logades, i «patrizi» –, come i fratelli Onegesio e Scotta, ma anche romani, come Costanzo e Oreste. Il primo era un segretario inviato da Ezio, il secondo, figlio di Tatulo, un notabile romano originario della Pannonia, che divenne magister militum e fu padre di Romolo Augustolo, ultimo imperatore romano d’Occidente. Non mancavano i collaboratori di origine germanica, tra cui spiccava, per la nobiltà delle origini, Edicone re degli Sciri – tribú germanica sottomessa agli Unni – e, probabilmente, padre di Odoacre († 493), il generale che, nel 476, deposto Romolo Augustolo (475-476), decretò la fine dell’impero romano d’Occidente. Tuttavia, mentre gli ospiti romani banchettavano e si divertivano, ignoravano che Edicone aveva informato il suo re del complotto. Il giorno seguente, convocati gli ambasciatori romani, Attila li redarguí verbalmente, li accusò di tradimento e li minacciò, dopodiché decise di trattenerli come ostaggi e si impossessò delle 50 libbre d’oro portate da Vigilas, che fu rinviato a Costantinopoli, assieme a una delegazione unna guidata da Esla, per esigere altro oro come riscatto per i prigionieri. Della missione faceva parte anche Oreste – che sembra avesse partecipato al complotto –, che portava al collo la borsa in cui Vigilas aveva nascosto l’oro e che fu esibita all’imperatore con la richiesta di scuse ufficiali. Alla fine, nonostante tutto, la pace di Anatolio – tra Unni e impero – fu confermata.

Le nozze negate

Nel 450, morto l’imperatore Teodosio II, gli successe Marciano († 457), che rifiutò di pagare ulteriori tributi agli Unni, preferendo difendere la dignità dell’impero con la guerra. Consapevole che una vera e propria guerra contro Costantinopoli non sarebbe stata vittoriosa, Attila volse allora le sue mire a Occidente, pretendendo la mano di Giusta Grata Onoria († 455 circa), sorella dell’imperatore Valentiniano III e, come dote, la consegna della Gallia. La vicenda, in realtà, fu molto piú complessa. Dopo la scoperta di una tresca amorosa con un paggio di corte, Eugenio, poi messo a morte, Onoria fu costretta dal fratello a sposare l’anziano senatore Basso Ercolano. La principessa pensò allora di chiedere l’aiuto di Attila, al quale inviò il messo Giacinto, per consegnargli il proprio anello, forse come pegno di nozze. Giacinto fu scoperto e condannato per tradimento, mentre Onoria fu costretta a entrare in monastero. Attila intervenne e, dopo il rifiuto di Valentinia(segue a p. 50) ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

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ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

Attila e gli Unni

L'IMPERO ROMANO D'OCCIDENTE NEL V SECOLO Al momento dell’ascesa al potere di Attila, nel 434, l’imperatore romano d’Occidente esercitava la sua sovranità soltanto sulla prefettura italica, comprendente la penisola a sud delle Alpi e alcuni territori ubicati a nord delle stesse, ovvero la Rezia, che oggi corrispondono grosso modo a Svizzera, Austria occidentale, Baviera e Tirolo. Tutta l’Europa occidentale – Africa settentrionale inclusa – sfuggiva al controllo imperiale dal 406, quando numerose tribú germaniche si erano riversate al di qua del Reno ghiacciato, insediandosi in territorio romano, dove costituirono veri e propri regni, retti da capi «barbari» che riconoscevano, formalmente, l’autorità dell’impero d’Oriente ma, nei fatti, agivano in totale autonomia. Gran parte dei membri di queste tribú professava da tempo l’arianesimo. Nel corso del V

secolo, quindi, l’impero romano d’Occidente perse la completa sovranità sui territori occidentali – Gallia, Spagna, Britannia, Africa –, dove si erano costituite le nuove compagini politiche germaniche. In Gallia, si erano stabilmente insediati Franchi, Alemanni, Visigoti, Alani, Vandali e Burgundi, sospinti dalla pressione unna. Gli Alani, però, non erano di stirpe germanica, ma «iranica»: provenivano, infatti, dalla Russia meridionale, dalla regione caucasica, e un piccolo nucleo di essi si stabilí presso Orléans, nella valle della Loira. Altri trasmigrarono in Spagna, dove, unitisi ai Vandali, passarono in Africa nel 429. Gli Alemanni erano una grande confederazione di singole tribú germaniche – Quadi, Marcomanni, Suebi, Semnoni – stanziati lungo l’alto corso del Reno e del Danubio.

MARE DEL NORD

I Vandali provenivano dal bacino danubiano-pannonico, dove s’erano stanziati fin dal III secolo, provenienti dalla Scandinavia. Nel Nord della Gallia si stanziarono i Franchi, mentre il sud era conteso tra Visigoti e Burgundi. Gran parte dei Franchi era già da tempo stanziata in Gallia, sulla riva sinistra del Reno, lungo il basso corso del fiume, in qualità di foederati imperiali. I Franchi erano divisi in due grandi raggruppamenti tribali a carattere confederale, i Franchi Sali e i Franchi Ripuari, nati dalla fusione di singole tribú – Sugambri, Catti, Catruari, Usipeti, Tencteri, Gambrivi – stanziate lungo il corso medio e inferiore del Reno. I Franchi

L’assetto geopolitico dell’area mediterranea e balcanica all’epoca in cui gli Unni si affacciarono ai confini dell’impero romano.

GLI UNNI E ATTILA

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Territorio direttamente sottoposto ad Attila Confine dell’impero romano sotto Diocleziano (284-305)

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Ritratto di Attila, re degli Unni, dipinto attribuito al pittore toscano Cristofano dell’Altissimo. 1552-1568. Firenze, Gallerie degli Uffizi. occuparono inizialmente il territorio compreso tra il corso del Reno e quello della Somme, mentre i Visigoti – provenienti dall’attuale Svezia e insediati, per lungo tempo, sulle rive settentrionali del Mar Nero – si stabilirono nella Gallia sud occidentale – Aquitania – e, profittando del crollo progressivo dell’autorità romana in Occidente, si impossessarono anche dell’Alvernia e della Provenza, annientando l’ultima presenza romana nel Sud del paese e raggiungendo le Alpi occidentali. Anche parte della Spagna cadde sotto il loro dominio e la capitale del regno fu stabilita a Tolosa. Quando la potenza visigota in Gallia fu ridimensionata dai Franchi con la battaglia di Vouillé, nel 507, i Visigoti furono costretti a retrocedere al di là dei Pirenei e nacque, allora, il regno visigoto di Spagna, con capitale Toledo, che sopravvisse fino al 711, cioè fino alla conquista araba. Nel 587, il re visigoto Recaredo (586-601) si convertí al cattolicesimo e, nel 589, impose il battesimo cattolico a tutto il suo popolo, favorendo il processo di fusione etno-culturale con i sudditi romani. Nel 443, i Burgundi, di origine scandinava e stanziati, dal III secolo, sul medio Danubio, dopo l’annientamento del loro primo regno a opera degli Unni, nel 436, furono insediati dai Romani nella Gallia sudorientale, nell’odierna Borgogna e Savoia, tra il Giura, le Alpi e la Saona – attuale Saône – occupando anche buona parte della Svizzera nordoccidentale. Le capitali del regno burgundo erano Lione e Ginevra. La Spagna fu divisa tra i Suebi – o Svevi – originari della zona dell’Elba, confinati nella parte nord-occidentale – odierna Galizia – e i Visigoti, finché, nel 585, il regno suebico fu debellato e annesso a quello visigoto. Nel 429,

sotto la pressione dei Visigoti di Spagna, i Vandali trasmigrarono in Africa settentrionale, dove occuparono tutti territori compresi tra il Marocco e la Libia e, nel 455, saccheggiarono Roma, occupando, poco dopo, anche la Sicilia, la Sardegna, la Corsica e le Baleari. La Britannia romana, agli inizi del V secolo, fu occupata da tribú provenienti dalla Germania settentrionale – Frisoni e Sassoni – e dallo Jutland – Juti e Angli – che riuscirono a spazzare via quanto

residuava della civiltà romana, costringendo buona parte della popolazione autoctona a emigrare in Gallia – Bretagna – o a trasferirsi nei territori piú occidentali della provincia, nel Galles, Devon e Somerset. In Britannia – e fino ai confini con la Scozia – i Germani diedero vita a organismi politici – regna – che, intorno alla metà del VII secolo, si erano ormai ridotti a sette, la cosiddetta eptarchia anglosassone (vedi oltre alle pp. 80-103).

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ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO no alle nozze, nella primavera del 451 invase la Gallia con un grande esercito multietnico, composto non solo da Unni, ma anche da Goti, Sciri, Eruli e altre stirpi germaniche tributarie. Attraversato il Reno, il re unno saccheggiò Metz, puntando, poi, in direzione della Loira, dove intendeva unirsi al re degli Alani, Sangibano, e prendere la città di Orléans, che, tuttavia, resistette all’assedio, sotto la guida del vescovo Aniano, fino all’arrivo di Ezio, che era riuscito a mobilitare, con successo, le truppe dei regni germanici nel frattempo costituitisi in Gallia. Attila fu costretto a ripiegare verso la Champagne, nella Gallia nord-orientale, e il progetto di scatenare un’insurrezione contro i Romani delle tribú germaniche di stanza in Gallia fallí e lo stesso Sangibano si uní alle truppe di Ezio.

Al riparo dietro ai carri

Nell’estate del 451, ai Campi Catalaunici, presso Troyes, si combatté una battaglia sanguinosa, che, al di là delle esagerazioni degli storici dell’epoca – Attila avrebbe avuto il comando di mezzo milione di uomini! – non coinvolse piú di 50 000 combattenti da entrambe le parti. Attila fu sconfitto e trovò riparo alle spalle di un’improvvisata fortificazione che i popoli della steppa erano soliti apprestare con i loro carri disposti in cerchio. Ezio permise agli Unni di ritirarsi oltre il Reno, non infierendo ulteriormente su di loro, avendo subito molte perdite. Il generale romano, però, aveva anche un altro problema di cui occuparsi perché, morto in battaglia uno dei suoi alleati, il re dei Visigoti, Teoderico I (418-451), era scoppiata una guerra tra i figli, Teoderico II e Torrismondo. Ezio intervenne e assegnò il regno a Torrismondo († 453). Nel 452, riorganizzate le forze, Attila invase l’Italia, attraverso le Alpi Giulie, e marciò su Roma. Gli Unni devastarono il Friuli e il Veneto, saccheggiando Aquileia, e si impossessarono di Milano. Da lí, Attila marciò verso il Mincio dove, presso l’attuale Governolo, in provincia di Mantova, incontrò una delegazione proveniente da Roma, composta dal papa, Leone I (440461), dal consolare Avieno († 453 circa) e dal prefetto Trigezio († 453). Il papa lo persuase ad abbandonare l’impresa e Attila riguadagnò le Alpi. L’episodio, immortalato dal celebre dipinto di Raffaello ai Musei Vaticani, è stato interpretato in chiave miracolistica dalla tradizione successiva: a convincere Attila a ritirarsi sarebbe stata l’improvvisa apparizione degli apostoli Pietro e Paolo, durante i colloqui. Assai piú probabilmente Attila fu indotto al ritiro dalle pessime condizioni in cui versavano le truppe, deci50

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Attila e gli Unni LA STORIOGRAFIA COME INTERPRETAZIONE

Se le interpretazioni della caduta dell’impero d’Occidente, proposte dalla storiografia otto-novecentesca – almeno fino al secondo conflitto mondiale – sono state influenzate da schemi interpretativi di carattere ideologico, persino politico, propri di un’Europa imperiale e coloniale che vedeva in Roma antica un modello, quasi eterno, di società, anche le attuali chiavi di lettura risentono del clima culturale del nostro tempo e dei suoi problemi – crisi economica, fenomeni migratori, crisi di valori – e delle strategie politiche adottate per fronteggiarli. Interpretare il fenomeno del collasso dell’impero romano in chiave piú disincantata – come fa la storiografia attuale – soffermandosi sugli aspetti di «trasformazione», anziché su quelli di frattura, di conflitti anche violenti, tra complessi etnici e culturali diversi,


costituisce forse un tentativo di esorcizzare timori del presente. Non a caso, anche nella manualistica scolastica si è diffuso l’uso di un lessico scientifico tale che, oggi, è diventato quasi impossibile parlare di «barbari» o di «invasioni». Il primo termine, infatti, rimanderebbe a una visione negativa della «diversità barbarica», frutto della pretesa superiorità culturale degli imperialisti Romani, mentre il termine invasioni, quando non sia virgolettato, è stato sostituito, quasi del tutto, con quello di «migrazioni», sulla scorta di quanto fecero nell’Ottocento – ma con motivazioni diverse da quelle attuali – gli storiografi romantici tedeschi, che parlarono appunto di Völkerwanderungen, ossia di «migrazioni dei popoli», cancellando il significato negativo – dal punto di vista

«tedesco» – implicito nella definizione ordinaria. Al di là di ipotesi manichee la «verità storiografica» sta, molto probabilmente, nel mezzo. L’impero romano d’Occidente crollò per un concorso di cause, esogene ed endogene. Quelle endogene rappresentate dalla crisi demografica, politica, economico-sociale; quelle esogene dalle incursioni «barbare», che, se non vi fossero state, non avrebbero contribuito ad accelerare il processo di dissoluzione dell’impero. Sotto l’aspetto istituzionale, la caduta dell’impero romano d’Occidente ebbe senz’altro un impatto meno deflagrante e doloroso che in altri settori come, per esempio, quello economico e sociale, incidente sul livello generale di

Battaglia tra Romani e barbari, olio su tela di Aniello Falcone (1607-1656). Madrid, Museo del Prado.

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Attila e gli Unni

vita delle popolazioni. Attualmente, in campo storiografico, sul tema si contrappongono due differenti correnti di pensiero, una hard, legata, in parte, ai vecchi schemi interpretativi, e una soft, portatrice della «nuova visione» irenico-continuista. La storiografia tardo-antica e altomedievale appare, dunque, divisa tra Movers e Shakers. I primi sostengono l’«ipotesi catastrofista», fondata sull’idea che le «invasioni barbariche» abbiano, con la loro irruenza militare e le immigrazioni continue e violente, determinato il tracollo dell’impero che, altrimenti, avrebbe potuto ancora resistere per secoli. I secondi, «anticatastrofisti», sono piú orientati a considerare, tra le cause di collasso dell’organismo imperiale, i fattori di carattere interno, come l’inflazione galoppante, il crollo demografico, la crisi economica, le guerre civili tra i pretendenti al trono.

Dati archeologici alla mano, i Movers hanno dimostrato, che la fine dell’impero romano, per quanto condizionata da cause di carattere interno, fu fortemente determinata, se non accelerata, proprio dalle «migrazioni barbariche», e nonostante i «barbari» fossero una minoranza numerica – in rapporto alla popolazione della pars Occidentis dell’impero – e, cioè, non piú di un milione – forse anche meno – rispetto ai circa venticinque milioni di Romani. Se non a determinare, dunque, gli «immigrati» contribuirono certamente ad accelerare il processo di crollo del sistema imperiale che, per quanto minato da deficienze interne di carattere strutturale, sarebbe sicuramente durato di piú se non avesse dovuto fronteggiare anche le incursioni esterne, con il loro pesante carico di distruttività. I Movers hanno dimostrato come la tanto decantata metamorfosi del

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Città del Vaticano, Stanza di Eliodoro. L’incontro tra Leone Magno e Attila, affresco di Raffaello, ultimato durante il papato di Leone X. 1513-1521. Secondo la leggenda, l’apparizione miracolosa di san Pietro e san Paolo armati di spada durante l’incontro tra il pontefice e il re unno fece desistere quest’ultimo dalla decisione di invadere l’Italia e marciare su Roma. mate da una pestilenza e timorose di un attacco dell’imperatore d’Oriente Marciano. Sconfitto su tutti i fronti, Attila rientrò in Pannonia dove, nel 453, celebrò le terze nozze con Ildico, fanciulla il cui nome sembrerebbe suggerire origini germaniche. Nel corso della prima notte di nozze Attila morí, probabilmente per un’emorragia celebrale dovuta al consumo eccessivo di alcolici. Tuttavia, uno scrittore del VI secolo, Marcellino Comes († 534 circa), ipotizzò, nella sua Cronaca – che andava dal 379 al 534 – l’assassinio a opera della moglie. Se ciò fosse vero, la germanica Ildico agí per vendetta, forse per punire Attila delle violenze commesse ai danni della sua tribú. In ogni caso, l’ipotesi di Marcellino fu recepita e trasfigurata, molti secoli dopo, nella saga norrena dei Volsunghi, ma perse ogni connotazione storicamente attendibile. Nel racconto nordico, infatti, Atli – il nome norreno di Attila – viene assassinato dalla moglie burgunda Crimilde-Gudrun, che in tal modo vendica il suo popolo e il fratello – re Gunther – uccisi dal sovrano unno.

Pianti e urla

mondo antico in quello medievale non fu cosí idilliaca e pacifica, ma, anzi, ebbe risvolti decisamente drammatici. Soprattutto l’archeologia ha rilevato come, al termine di questo lungo processo di confronto-scontro con la «diversità» molte aree geografiche dell’Europa occidentale erano ritornate a livelli di vita a dir poco primitivi, con un arretramento delle strutture della vita sociale, economica, urbana, e persino igienico-sanitaria, di molti secoli precedenti anche alla conquista romana. La tarda antichità fu dunque un’età di conflitti, anche militari, spesso atroci, di crisi economica, di fame, di epidemie, che ebbero conseguenze gravi sul tessuto sociale, demografico e istituzionale dell’impero. Il prezzo da pagare all’integrazione, pacifica e non, delle gentes barbare, fu quindi, se non la fine «della civiltà», quanto meno la fine «di una civiltà».

Stando al racconto di Giordane, il funerale di Attila si svolse secondo la prassi consueta delle genti della steppa. Posto su un catafalco, sotto una tenda di feltro, il cadavere fu onorato con il pianto delle donne e le urla di guerra degli uomini che, per l’occasione, si inflissero anche mutilazioni corporali. Poi, deposto in una triplice bara fatta di rame, argento e oro, il corpo fu inumato in un luogo sconosciuto per evitare profanazioni e i servi che parteciparono alla sepoltura furono uccisi. Ancora oggi, l’esatta ubicazione della tomba di Attila – probabilmente collocata nella pianura ungherese – costituisce una delle sfide piú interessanti dell’archeologia. Si noti che le modalità della sepoltura del capo unno sono affini a quelle del re visigoto Alarico I – morto, nel 410, nel Bruzio –, che, secondo quanto riportato da Giordane, venne sepolto nel letto del Busento – affluente del Crati – il cui corso fu deviato per consentirne l’inumazione. Morto Attila, il governo degli Unni passò ai figli, (segue a p. 57) ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

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ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

Attila e gli Unni

LA DIPLOMAZIA UNNA Gli Unni non miravano a stanziarsi nei confini di Roma, avviando processi di acculturazione in senso romano – recependo, cioè, costumi, lingua e tradizione romani – come fecero, invece, molte tribú germaniche a essi soggette – si pensi ai Goti –, né a costituire, nei confini romani, un regno «romano-barbarico». Neppure ambivano a effettuare semplici incursioni a scopo di rapina – di cui pure si resero responsabili –, ma a costituire un vero e proprio impero alternativo a quello romano: un impero della steppa, dei nomadi, contrapposto a quello delle città, dei sedentari. Ciò è dimostrato anche dalla continua richiesta di restituzione di prigionieri, fuggitivi e disertori – che, in genere, finivano crocefissi o impalati – che le autorità unne facevano ai Romani nel corso dei frequenti contatti diplomatici. I trattati con gli Unni, infatti, proibivano ai Romani di effettuare arruolamenti tra le tribú del Barbaricum soggette alla loro potestà o di stipulare accordi

con esse, poiché la ripartizione di territori e popoli controllati era indispensabile al fine di delimitare le rispettive zone di influenza. A differenza di altre popolazioni barbare, gli Unni intendevano, per quanto possibile, istituire relazioni diplomatiche stabili con Roma, rafforzate da relazioni commerciali reciprocamente vantaggiose, non disdegnando di ricorrere alla forza, con incursioni devastatrici al di là del confine, quando era necessario intimorire un avversario temibile,

costringendolo al pagamento di tributi. Il continuo stillicidio di risorse – soprattutto oro e argento – imposto a Roma da Attila, era finalizzato a costituire una riserva di valore destinata a essere ridistribuita tra i capi delle tribú al seguito del re, al fine di cementarne la fedeltà. La natura elastica – e allo stesso tempo debole – di questa grande costruzione politica è sottolineata dal fatto che, quando Attila morí, la confederazione politica unna andò in pezzi, a guisa di un «impero meteora».


Sulle due pagine illustrazioni su pergamena tratte da un’edizione del poema la Guerra di Attila di Niccolò da Casola. XV sec. Modena, Biblioteca Estense. In alto, contadini che entrano in città con il loro bestiame, e l’arrivo dell’esercito di Attila; in basso, Attila, re degli Unni, e il suo esercito a cavallo.


ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

In alto fermatrecce in lamina d’oro, da Ózora. Arte avara, fine del VII sec. Budapest, Museo Nazionale Ungherese. A destra elemento decorativo zoomorfo in oro appartenente a una sella. Epoca altoavara, VI-VII sec. Budapest, Museo Nazionale Ungherese.

L’artigianato barbarico raggiunse livelli eccezionali, soprattutto nel campo dell’oreficeria e del lavoro dei metalli 56

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Attila e gli Unni


A destra fibbia in oro, da Ózora. Arte avara, fine del VII sec. Budapest, Museo Nazionale Ungherese. In basso coppia di armille (bracciali) in lamina d’argento. Arte avara, VII sec. Budapest, Museo Nazionale Ungherese.

Ellac, Dengizich ed Ernac. Ellac fu ucciso nel 454, nella battaglia del fiume Nedao – attuale Nedava, affluente del Sava, in Pannonia – contro una coalizione di tribú germaniche composta da Eruli, Rugi, Ostrogoti, guidata dal re dei Gepidi, Ardarico († 460). Per molte tribú, la morte di Ellac fu l’occasione di riconquistare l’indipendenza. Dengizich, invece, fu ucciso dai Romani mentre invadeva la Tracia, nel 469, e la sua testa, issata su una picca, fu portata in giro per Costantinopoli. Ernac, infine, morí nel 502, forse di morte naturale. Priva di una guida salda, la confederazione unna andò in pezzi, finché, nel VI secolo, non irruppero nuovi agguerriti predoni che rivendicarono il ruolo egemone che era stato degli Unni: gli Avari. Nel 568-569, queste tribú, guidate dal loro khan, Bajan († 602), furono chiamate in soccorso dai Longobardi, in guerra contro i Gepidi – Germani orientali, affini ai Goti – e occuparono la Pannonia, sottraendola all’impero d’Oriente. In quello stesso periodo, gli Slavi – Croati, Sloveni, Serbi – e i turcofoni Bulgari, provenienti dal bacino del Volga, si trasferirono nei Balcani, a sud del Danubio, dando vita a principati totalmente indipendenti da Bisanzio. Il khanato avaro sopravvisse fino alla sconfitta patita per mano dei Franchi, nel 796, e l’arrivo degli Avari, nel medio bacino del Danubio, determinò lo spostamento dei Longobardi in direzione dell’Italia e la sua conquista. ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

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Cronaca di una morte annunciata La data del 476 d.C. viene per convenzione considerata come lo spartiacque fra antichità e Medioevo. Tuttavia, la deposizione di Romolo Augustolo e l’ascesa del generale «barbaro» Odoacre non fecero altro che sancire, dal punto di vista formale, la fine di un sistema da tempo al collasso


L’incoronazione del giovane Romolo Augustolo, (interpretato da Thomas Brodie-Sangster), ne L’ultima legione (2007) di Doug Lefler, film ambientato nel periodo conclusivo dell’impero romano d’Occidente e che narra la genesi del mito di re Artú.


ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

S

i può davvero definire Odoacre come l’«assassino» di Roma e dell’impero romano? Per rispondere, occorre ricostruire le problematiche vicende di cui fu protagonista. Il 23 agosto del 476 d.C., il generale Odoacre fu proclamato re dalle truppe federate di cui era al comando, composte da Eruli, Rugi, Sciri e Turcilingi, stirpi appartenenti al «ramo orientale» delle tribú germaniche, perciò affini ai Vandali e ai Goti, di probabile origine scandinava. Fino alla metà del II secolo d.C., queste tribú erano stanziate tra l’Oder e la Vistola, lungo la riva meridionale del Baltico, per poi emigrare sul Mar Nero e, intorno alla metà del V secolo, stabilirsi nel Norico – attuale Austria –, sottraendolo al controllo di Roma. Nello stesso torno di tempo, alcuni nuclei di queste tribú vennero in Italia come foederati, cioè «truppe alleate» tenute a combattere per l’impero in cambio di adeguato vettovagliamento. La ribellione – determinata dal rifiuto dell’imperatore di attribuire un terzo delle terre ai federati – portò all’immediata deposizione (4 settembre) dell’imperatore Romolo – detto «Augustolo» – un fanciullo di appena sedici anni, in nome del quale governavano il padre, Oreste, e lo zio, Paolo. Entrambi erano romani, di origine pannoniche, e avevano prestato servizio presso la corte di Attila (435-453), il re degli Unni (vedi box a p. 62). Morto Attila, Oreste si era trasferito a Roma con il fratello, Paolo, dove fece carriera nell’amministrazione militare fino a diventare – sotto l’imperatore Giulio Nepote (474475) – patricius et magister militum praesentalis, cioè comandante supremo dell’esercito.

Le insegne lasciano Roma

Nel 475, con un atto di forza, Oreste aveva deposto Nepote, esiliandolo in Dalmazia, e aveva imposto come imperatore il figlio, Romolo, non riconosciuto dall’impero d’Oriente. Odoacre, quindi, non fece altro che ripetere quanto lo stesso Oreste aveva fatto tempo prima: la novità fu che il generale «barbaro» rifiutò di nominare un nuovo Augusto, ma assunse egli stesso il potere e inviò le insegne imperiali a Costantinopoli, a dimostrazione che non vi era piú bisogno di un imperatore in Occidente (vedi box a p. 66). Come piú volte ricordato, la deposizione di Romolo sancisce – nella periodizzazione storiografica convenzionale – la fine dell’età antica e l’inizio del Medioevo. Comunque la si pensi al riguardo, il 476, da un punto di vista strettamente politico-amministrativo, non può essere considerato solo come una «data convenzionale». Pertanto, se è vero che 60

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Odoacre


Romolo Augustolo viene detronizzato da Odoacre il 26 agosto 476 e porge le insegne al condottiero germanico. L’episodio segna di fatto la fine dell’impero romano d’Occidente, incisione di Hermann Knackfuss. 1880 circa. Berlino, Sammlung Archiv für Kunst und Geschichte.

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Odoacre

UN’IDENTITÀ PROBLEMATICA Sebbene tanto conosciuto, Odoacre resta, dal punto di vista «storico», un’autentica «anomalia» nel panorama delle personalità dei capi «barbari» che contrassegnarono la storia dell’impero romano, perché si conosce molto poco di lui, se si escludono gli atti pubblici di cui fu responsabile, come patrizio e re d’Italia. Basti pensare che se ne ignora persino la precisa origine «etnica». Nelle fonti dell’epoca, infatti, Odoacre presenta un’«appartenenza etnica» polimorfa, venendo designato Sciro, ma anche Rugio, Erulo, Turcilingio e, addirittura, Goto o Ostrogoto. Non si conoscono l’anno e il luogo di nascita, ma solo l’identità dei suoi piú stretti congiunti: il fratello, Unulfo (Onulfo); il figlio, Thela; la moglie, Sunigilda; e il padre, Edicone, se si accetta l’ipotesi dell’origine scira del re. Edicone era infatti un principe sciro, al servizio di Attila fino alla morte del re, dopo la quale, presumibilmente, Odoacre avrebbe abbandonato la casa paterna per traferirsi in Italia e fare carriera nell’esercito imperiale (453 circa). Accantonata la problematica origine germanica, non è mancato chi ha ipotizzato persino un’origine unna del generale, sulla base di una presunta etimologia asiatica del suo nome e di quello di alcuni membri della sua famiglia, fatta eccezione per la moglie, Sunigilda, l’unica che sembrerebbe avere un nome di chiara origine germanica. Le supposte origini unne di Odoacre deriverebbero, quindi, dall’etimologia del suo nome, Ot-Thogar, presumibilmente «Figlio del fuoco», «Nato dal Fuoco», divenuto, in latino, con un sensibile mutamento linguistico, Odoacer-Odovacer. Il nome Odoacer sarebbe

un impero è tale solo se governato da un imperatore, allora bisogna convenire che, da quel momento, in Occidente non vi furono piú imperatori, ma solo re «barbari». Ne discende che la deposizione di Romolo Augustolo sancí, realmente, la «fine» dell’impero romano d’Occidente, anche se solo da un punto di vista giuridico e istituzionale (vedi box a p. 71). Sebbene avesse deposto l’imperatore con un atto di forza, il generale fu magnanimo. Romolo, con adeguata scorta, venne inviato in esilio a 62

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peraltro simile a quello di un re unno, Octar o Otcar, forse uno zio di Attila. Sia o meno fondata quest’ipotesi, è bene ricordare che non è possibile determinare l’appartenenza etnica di un individuo unicamente dal suo nome. Neppure il nome del figlio di Odoacre, Thela, sembrerebbe avere etimo germanico, anzi se si considera l’affinità del nome Thela con il turco Tulan, allora l’etimologia turca del nome parrebbe essere confermata: Tulan-Oghlan, ovvero giovane. Un nome che forse faceva riferimento alla giovane età del figlio di Odoacre o al fatto che militava in qualche corpo scelto di giovani guerrieri. Il nome del fratello di Odoacre, Unulfo, sembrerebbe formato da una commistione di elementi linguistici turco-germanici, presumibilmente, Hun-Unno – e Wulf-lupo – quindi Hunwulf-Unulfo, cioè il «Lupo degli Unni». Forse il nome era attribuito con chiaro riferimento a un animale «totemico» di grande diffusione nel patrimonio culturale germanico – il lupo – o alludeva alla ferocia e al coraggio del personaggio. Anche della carriera militare di Odoacre precedente il 476 non si sa molto. In un primo tempo prestò servizio sotto Ricimero (456472), potente magister militum di etnia suebica, e, poco dopo, divenne comes domesticorum – comandante dei domestici – milizia scelta che prestava servizio presso il palatium. I domestici erano «allievi ufficiali» distaccati a corte per svolgere mansioni amministrative e, al contempo, completare il proprio addestramento. Questa brillante carriera fu coronata, intorno al 475, dalla nomina a magister militum o, comunque, a capo del corpo di foederati Sciri, Eruli, Rugi, Turcilingi di stanza in Italia, carica che rivestiva al momento del «colpo di stato» e della deposizione di Romolo.

Napoli, presso il Castrum Lucullanum, antica villa del generale romano Lucullo (I secolo a.C.), poi riadattata a fortificazione (V secolo d.C.), e corrispondente all’attuale Castel dell’Ovo. Qui il giovane Augusto trascorse il resto della sua vita sotto adeguata sorveglianza, usufruendo di una pensione di Stato di circa 6000 solidi fino alla morte, sopraggiunta probabilmente intorno al 485. L’appannaggio attribuito a Romolo da Odoacre è stato interpretato in vari modi: non solo come «vitalizio», legato


Le cariche civili e militari nel IV secolo DALLA NOTITIA DIGNITATUM

IMPERATORE

CARICHE MILITARI

CARICHE CIVILI

MAGISTRI

PRAEFECTI PRAETORIO

Comandavano gli eserciti mobili

Sovrintendevano alle prefetture dell’impero

COMITES

Controllava il personale amministrativo e a lui spettava l’organizzazione della corte e delle udienze imperiali

MAGISTER OFFICIORUM

(conti)

E DUCES

(duchi) Comandavano gli eserciti regionali

COMES DOMESTICORUM Comandava la guardia scelta del Palazzo

Miniature raffigruanti le insegne del prefetto del pretorio (in alto) e del magister officiorum (in basso), da un’edizione illustrata della Notitia Dignitatum (registro delle cariche civili e militari dell’impero romano composto tra la fine del IV e il V sec. d.C.). XVI sec. Monaco di Baviera, Bayerische Staatsbibliothek.

COMES SACRARUM LARGITIORUM

Controllava miniere e zecche, incassava tributi e si occupava delle finanze

COMES RERUM PRIVATARUM Controllava le proprietà imperiali

QUAESTOR

Si occupava della cancelleria imperiale

Nella pagina accanto tremisse di Zenone battuto dalla zecca di Mediolanum (Milano). V sec. d.C. Al dritto, Odoacre con il busto diademato, drappeggiato e corazzato; al rovescio, una croce entro una corona.

PRIMICERIUS NOTARIORUM Dirigeva la segreteria imperiale (notarii)

COMES ET CASTRENSIS SACRII PALATII Sovrintendeva al funzionamento del Palazzo imperiale

ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

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ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO Ravenna, S. Apollinare Nuovo. Particolare del mosaico raffigurante il palazzo di Teodorico, sovrano d’Italia dal 493 al 526. Nella composizione doveva comparire il re ostrogoto con la sua corte, ma le figure furono cancellate in seguito agli interventi condotti in età giustinianea tra il 556 e il 565.

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Odoacre

all’importante funzione pubblica rivestita dal giovane, ma anche come corresponsione di un Wergeld germanico, cioè di un guidrigildo, una «compensazione pecuniaria» dovuta per la morte del padre, secondo le antiche consuetudini giuridiche germaniche.

Alla maniera dei re «barbari»

Deposto Romolo, Odoacre non assunse il titolo di imperator, ma si autoinvestí del titolo di rex gentium Italiae, forse prendendo a modello i re «barbari» che allora governavano i territori che, in Occidente, avevano fatto parte dell’impero romano. Ma la posizione di Odoacre era particolare, perché il nuovo re non governava su un territorio qualsiasi, bensí sull’Italia, epicentro storico dell’impero, sede della capitale politica effettiva – Ravenna – e di quella «storica» – Roma –, dove risiedevano il senato e gli uffici

ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

amministrativi piú importanti. Pertanto Odoacre, tra la fine del 476 e l’inizio dell’anno successivo, si affrettò a inviare una legazione all’imperatore d’Oriente Zenone (474-491) – che risiedeva a Costantinopoli – per richiedere la ratifica formale della sua posizione in Italia. All’imperatore d’Oriente, a cui riconosceva il supremo comando anche nella parte occidentale dell’impero ormai scomparso, Odoacre chiedeva il riconoscimento di una funzione di rappresentanza del potere imperiale in Italia. Composta da senatori, la legazione recava con sé le insegne imperiali – vestis regia, diadema, sceptrum, paludamentum, fasces et alia ornamenta palatii – gli emblemi «visibili» della sovranità imperiale in Occidente che sarebbero rimasti a Costantinopoli fino al 498, quando ritornarono a Roma. Secondo Odoacre, il riconoscimento del ruolo di rappresentante dell’autorità impe-


riale in Italia passava attraverso il conferimento del titolo di patricius, cioè di magister militum praesentalis, comandante supremo delle milizie, che, nella prassi costituzionale romana, era stato sempre associato alla dignità onorifica del «patriziato imperiale». A tale titolo si sarebbe aggiunto quello di re che le truppe federate gli avevano conferito con un atto extra-costituzionale, la adclamatio, ovvero l’acclamazione vittoriosa sul campo di battaglia. Pertanto Odoacre si proponeva come rex delle truppe federate di stanza in Italia e, al contempo, per la popolazione romana, ambiva a essere patricius, rappresentante dell’imperatore d’Oriente. La risposta di Zenone alla delegazione senatoria fu un capolavoro di ambiguità diplomatica: l’imperatore invitò Odoacre a restaurare in Occidente il legittimo imperatore Nepote – in esilio in Dalmazia dal 475 – e a rivolgersi a lui per ot-

tenere il titolo di patrizio. Odoacre, invece, non fece né l’una né l’altra cosa, mentre Zenone non reagí, né tentò di restaurare Nepote in Occidente con la forza. Nepote morí in esilio (480) e, poco dopo, Zenone si piegò al fatto compiuto e riconobbe Odoacre patricius, in una lettera ufficiale indirizzata al capo «barbaro». L’impero d’Oriente non seppe o non volle reagire con la forza all’usurpazione di Odoacre, e l’imperatore preferí ricorrere a un compromesso politico, almeno finché gli equilibri non fossero mutati in senso favorevole al governo imperiale. E cosí fu, perché, quando ne ebbe l’opportunità e la forza, l’imperatore non esitò a sbarazzarsi dell’incomodo sovrano. Ciò che colpisce di piú del comportamento del capo germanico fu proprio la sua scrupolosa attenzione per la «forma legale», circa la legittimazione giuridica del suo potere, nel pieno rispet-

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ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

Odoacre

FU VERA CESURA? Il «problema del 476» è connesso a quello della determinazione degli esatti confini cronologici di quel periodo storico che si suole denominare «tarda antichità». Il dibattito sulla portata epocale della deposizione di Romolo non pretende di contestare la piú diffusa ripartizione temporale tra antichità e Medioevo, adottata, per la prima volta, dallo storico tedesco Christoph Keller († 1707). Tra l’altro, nella sua Historia Medii Aevi (1688), Keller individuò l’inizio dell’età medievale non nel 476, bensí nella fondazione di Costantinopoli (330 d.C.). Il 476 cominciò a essere visto come un vero e proprio «punto di rottura» – «archetipo» di ogni decadenza e dissoluzione – solo nel XV secolo, nella riflessione storica degli Umanisti, e gli stessi contemporanei – fino agli inizi del VI secolo – non ebbero percezione di una reale frattura nella storia di Roma. Si consideri, inoltre,

che Costantinopoli e il suo impero non percepirono mai la «caduta» dell’impero romano, per il semplice fatto che gli imperatori d’Oriente ritennero radicata, nella propria persona, la continuità ideologica e morale della civiltà di Roma fino al 1453, cioè fino alla conquista di Costantinopoli da parte dei Turchi. Almeno fino al regno di Eraclio (VII secolo), la percezione dell’unità tra Oriente e Occidente, fu sempre fortissima. Né mancarono i tentativi militari di restaurare l’antico impero indiviso, come è dimostrato dall’esperienza giustinianea del VI secolo. Il 476 non può dunque essere considerato un’autentica «cesura» tra due epoche diverse. Infatti, la convenzionalità delle ripartizioni cronologiche è dimostrata dalla loro «variabilità» in base ad aspetti specifici – economici, politico-militari, giuridici, sociali, culturali – che di una data

to della prassi costituzionale romana. Eletto dalle truppe a seguito di un vero «colpo di Stato», concesse un’adeguata «pensione» al piccolo Romolo Augustolo – che risparmiò da morte certa –, né esitò a chiedere al senato – massimo organo costituzionale dell’impero – di inviare una propria legazione dall’imperatore d’Oriente, per giustificare il fatto compiuto e dare a esso una parvenza di legalità.

Il regno di Odoacre

Ottenuto il riconoscimento imperiale e distribuita la terra alle truppe, Odoacre poté iniziare il suo regno, destinato a durare fino al 493. Nell’esercizio dei suoi poteri, comandò eserciti, mosse guerra, impose tributi, stipulò trattati internazionali, avocò a sé la nomina e la revoca dei funzionari e dei consoli, coniò moneta, dispose dei beni del fisco imperiale, intervenne nelle questioni religiose, proprio come un imperatore, pur non essendo formalmente tale. Egli esercitò pieni poteri su tutti i sudditi, a prescindere dall’appartenenza etnica degli stessi, ma dimostrò, sempre, di agire vice sacra, cioè su mandato dell’imperatore Zenone, considerando l’autorità imperiale ancora rilevante e influente in Occidente e l’impero come una realtà viva, non tramontata. 66

ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

epoca si prendono in considerazione, e cosí è pure per la tarda antichità. Se, in sede politico-istituzionale, il 476 appare una data significativa, quasi una cesura tra l’evo antico e l’età di Mezzo, non lo è dal punto di vista della «storia del diritto» o dell’economia. Sotto il profilo esclusivamente giuridico, considerare il 476 come la fine della civiltà romana e del suo impero, significherebbe infatti escludere dall’ambito della «civiltà romana» e delle sue creazioni spirituali l’intera opera codificatoria realizzata, nel VI secolo, dall’imperatore Giustiniano I (527-565). Sotto il profilo della «storia economica», invece, è ormai assodato che i confini tra tarda antichità e Medioevo devono essere posticipati almeno al VII-VIII secolo. Inoltre, alle categorie interpretative come «decadenza», «caduta», l’attuale storiografia preferisce quella – piú neutra – di «trasformazione».

Odoacre, quindi, fu patricius et rex, supremo comandante militare – per i Romani – e re per le truppe germaniche stanziate in Italia. I due titoli gli derivavano da una duplice e diversa investitura: il primo, da un espresso conferimento imperiale, il secondo dall’acclamazione dell’esercito, dopo il trionfo riportato in battaglia contro i suoi avversari. Si badi che, dal punto di vista costituzionale, il titolo di rex di cui Odoacre fu investito non aveva nulla a che fare con la regalità latina, ovvero con il titolo di re tanto aborrito dai Romani fin dal periodo repubblicano. Per quanto Odoacre si attribuisse quel titolo e si definisse tale anche sulle legende di alcune monete, lo stesso andava inteso nel senso di reiks germanico, non avendo la sua regalità nulla a che fare con l’esperienza costituzionale romana, almeno per quanto riguarda le modalità di acquisto, cioè l’acclamazione delle truppe, che sembrava ricordare le modalità deliberative del thinx, l’assemblea tribale germanica. Sebbene si denominasse Flavius Odovacer rex, Odoacer rex et patricius, come tutti i regni romano-barbarici sorti in Occidente, anche quello odovarico, da un punto di vista costituzionale, si configurava come un «ibrido» di elementi giuridici romani e germanici, e l’appellativo

Nella pagina accanto valva di dittico in avorio noto come Avorio (o Dittico) Barberini, raffigurante l’imperatore d’Oriente Anastasio I o, piú probabilmente, Giustiniano I trionfante. Prima metà del VI sec. Parigi, Museo del Louvre. La figura del sovrano è contornata da un barbaro (sulla sinistra), simbolo delle popolazioni sottomesse, da una personificazione della Terra (in basso) che gli sostiene il piede, e da una Vittoria alata (in alto a destra).



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Odoacre

Flavius – che compare anche sulla monetazione odovarica – pur non aggiungendo nulla alla reale autorità del re, costituiva solo una «patina di romanità». La società italica, su cui Odoacre pretendeva di regnare come re, era il prodotto di circa tre secoli di intense trasformazioni poli68

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tiche, economiche e sociali, che avevano investito tutto l’impero romano in conseguenza della grave crisi delle istituzioni sviluppatasi a partire dal III secolo. Nel V secolo, la società era uscita da questa crisi profondamente trasformata rispetto a tre secoli prima, irreggimentata


I favoriti dell’imperatore Onorio, olio su tela del pittore britannico preraffaellita John William Waterhouse. 1883. Adelaide, Art Gallery of South Australia. Il sovrano viene descritto come un governante inadeguato, poco incline a interessarsi alle minacce militari che affliggevano l’impero romano, e assorto, invece, a dare cibo ai piccioni, sua compagnia preferita.

in un apparato burocratico ormai «militarizzato», che cercava di estendere il suo controllo su tutti i gangli della società. Al momento del «colpo di Stato» del 476, l’Italia non esercitava piú alcuna autorità effettiva sull’Occidente, occupato e dominato dai «barbari».

Per quanto la politica estera di Odoacre mirasse a restaurare l’antica unità imperiale, egli esercitava una sovranità effettiva solo sulla Penisola, che, durante tutto il suo regno, conservò pressoché intatte le strutture politiche e amministrative precedenti. Il re risiedeva preALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

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ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

Odoacre

DA CAPITALE A CENTRO «SIMBOLICO» DELL’IMPERO

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All’epoca di Odoacre, Roma non era piú capitale dell’impero, essendo stata sostituita, nel 402, da Ravenna, in Occidente, e da Costantinopoli, nel 330, in Oriente. Il trasferimento della corte imperiale a Ravenna era avvenuto sotto l’imperatore Onorio (395-423), per ragioni di opportunità militare, perché la città era meglio difendibile dalle incursioni barbare, rispetto a Roma. In quel periodo, infatti, l’Italia era percorsa da orde di Visigoti guidate dal re Alarico I che, nel 410, sottopose Roma a un duro saccheggio. L’Urbe, tuttavia, restava il centro «simbolico» della tradizione imperiale romana, perché sede del senato e delle antiche magistrature repubblicane. Non abbiamo notizie di alcuna visita ufficiale di Odoacre a Roma che, all’epoca, era una città di circa mezzo milione di abitanti, né di specifiche iniziative «edilizie» intraprese per volontà del re al fine di abbellire la città. Sotto Odoacre, il senato si componeva di circa 2000 membri della piú diversa estrazione etnico-culturale, in gran parte ricchissimi proprietari terrieri, i quali vi accedevano grazie alla designazione espressa dell’imperatore d’Oriente – adlectio – o per il fatto di aver rivestito qualche ufficio burocratico di alto livello. I componenti del consesso erano internamente graduati, a seconda dello specifico rango, determinato dalle magistrature e dagli uffici burocratici rivestiti nella burocrazia statale. I membri del senato avevano il privilegio di essere giudicati solo dal praefectus urbi, con l’assistenza di un collegio giudicante di cinque membri, estratti a sorte tra i senatori. L’ordo senatorius, nonostante le diversità di prestigio e ricchezza dei suoi

Nella pagina accanto Alarico re dei Visigoti e le sue truppe saccheggiano Roma nel 410. Illustrazione del pittore francese Francois Chauveau, da un’edizione del poema epico Alaric ou Rome vaincue (1654) di Georges de Scudéry.

Roma, Arco di Costantino. Particolare del fregio con scena di oratio, raffigurante l’imperatore, al centro, affiancato dai senatori e dal popolo. Il monumento venne edificato per celebrare la vittoria di Costantino I su Massenzio nella battaglia di Ponte Milvio (312). membri, in parte legati anche da rapporti di parentela, acquisiti attraverso attente «strategie matrimoniali», continuò a rivestire un ruolo importante nelle vicende politiche del regno per tutta l’epoca odovarica. I rapporti tra il senato e il re furono improntati a forte lealismo e deferenza verso il supremo consesso, concedendo al senato di sovrintendere alle emissioni monetarie in bronzo, sui cui pezzi apparve la leggenda «ex senatusconsulto». Il senato era convocato dal praefectus Urbi, che lo presiedeva e ne fissava l’ordine del giorno, ed esercitava la giurisdizione civile e penale, con l’assistenza di un vicario, entro 100 miglia dalle mura dell’Urbe, ed era a capo del complesso organismo amministrativo romano. Per quanto coinvolto spesso da Odoacre in questioni di «alta politica», l’antico consesso svolgeva soprattutto la funzione di «consiglio municipale». Il prefetto dell’Urbe vigilava sulle corporazioni – collegia –, esercitando poteri disciplinari sui membri delle stesse, e controllava il praefectus annonae e il praefectus vigilum, responsabili dell’approvvigionamento cittadino di derrate alimentari e del mantenimento dell’ordine pubblico. Per le competenze fiscali era assistito dal magister census, preposto alla sorveglianza del patrimonio dei senatori, ai fini della determinazione dell’imposta dovuta da questi al fisco, la gleba senatoria.

valentemente a Ravenna – sede del palatium – con i piú importanti ufficiali della burocrazia centrale – magister officiorum, praefectus praetorius, comes sacrarum largitionum –, fatta eccezione per il praefectus urbi e per il senato, che risiedevano stabilmente a Roma, venerata e simbolica capitale dell’impero. Organizzata in prefettura, a seguito delle riforme amministrative di Diocleziano e Costantino I, la Penisola era stata equiparata al resto del territorio imperiale, perdendo gli antichi

privilegi fiscali e giuridici ed era sottoposta a un pesante tributo fondiario, la capitatio. Dal IV secolo, il territorio era ripartito in province governate da funzionari romani di varia denominazione – consulares, correctores, praesides –, alle dipendenze del prefetto del pretorio che rappresentava la massima autorità politica della Penisola, dopo il re. I governatori provinciali avevano competenze esclusivamente civili, di amministrazione della giustizia e riscos(segue a p. 75) ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

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Odoacre I RAPPORTI CON IL POTERE RELIGIOSO Nel 476, il cristianesimo era religione ufficiale dell’impero dal 380, anno in cui l’imperatore Teodosio I aveva emanato l’editto di Tessalonica, con il quale proibiva ogni culto che non fosse cristiano. Odoacre dovette pertanto misurarsi con i problemi connessi alla fede cristiana, anche perché la legislazione costantiniana aveva riconosciuto al clero vastissimi privilegi di ordine economico e fiscale, facendo della Chiesa un potentato economico e politico di cui tenere conto. I rapporti tra Odoacre e la Chiesa furono improntati a profonda correttezza e il re, presumibilmente di confessione ariana, non perseguitò i cattolici, riconoscendo al clero tutti i privilegi di cui godeva dal IV secolo. La stessa Roma – in un impero ormai cristiano – era diventata la sede del successore di Pietro, il papa. I rapporti tra Odoacre e i pontefici suoi contemporanei – Simplicio (468-483) e Felice III (483-492) – furono buoni, nonostante la diversa fede del re. A quanto pare, Felice fu eletto al trono petrino proprio grazie all’appoggio determinante di Odoacre, attraverso l’intervento risolutore del prefetto del pretorio, Cecina Mavorzio Basilio Decio. Quando il clero romano si riuní nella basilica di S. Pietro per eleggere papa Felice, intervenne infatti il prefetto del pretorio a mettere ordine nella tumultuosa seduta, imponendo l’approvazione di un decreto con il quale si proibiva, per il futuro, qualsiasi elezione che non avvenisse in presenza del re o del prefetto, suo rappresentante, e, sotto pena di anatema, anche ogni atto di alienazione o, comunque, di disposizione di beni ecclesiastici, da parte del candidato al soglio petrino. Si trattava di disposizioni normative antisimoniache, che, sebbene revocate piú tardi da papa Simmaco (498-514), dimostravano come Odoacre ritenesse sua prerogativa legiferare anche in campo ecclesiastico, nei confronti di sudditi di origine e «legge romana», quali erano gli appartenenti al clero cattolico. I rapporti con Felice III – appartenente alla nobile gens Anicia e trisavolo di papa Gregorio Magno (590-604) – furono cosí cordiali che Odoacre non esitò a prendere posizione a favore del papa contro l’imperatore Zenone, quando si verificò lo «scisma acaciano» – ricomposto solo nel 519 – tra la Chiesa di Costantinopoli e quella di Roma. Causa dello scisma fu il tentativo del patriarca di Costantinopoli, Acacio (470-489), di imporre nei territori dell’impero d’Oriente una professione di fede non ortodossa, di vago tenore monofisita, che fu sancita anche da un decreto imperiale, l’Henoticon – «Editto di Unione» –, al quale il papa si oppose fermamente. La promulgazione dell’editto fu determinata dalla necessità, da parte di Zenone, di trovare un terreno di dialogo con le principali correnti ereticali d’Oriente e, cioè, il monofisismo e il nestorianesimo. Il monofisismo era quella eresia cristologica per cui, in Cristo, unica persona,

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A destra ritratto di papa Felice III, olio su tela di Giuseppe Franchi. XVI sec. Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana. Nella pagina accanto ritratto di san Simplicio, che fu papa dal 468 al 483, olio su tela di anonimo romano del XVII sec. Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana.

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la natura divina, cioè il Verbo, avrebbe totalmente «assorbito» quella umana, trasfigurando, cosí, la naturale umanità del figlio di Dio nella sua divinità. Il nestorianesimo, al contrario, tendeva a contrapporre l’umanità di Cristo alla sua divinità, quasi dissociando l’unica persona di Gesú in due entità distinte. Il conflitto tra le due dottrine si protrasse per tutto il V secolo e celava la conflittualità tra Costantinopoli e Alessandria, le due sedi patriarcali d’Oriente. Inizialmente condannato nel 431, nel corso del terzo concilio ecumenico di Efeso, il nestorianesimo continuò a sopravvivere in Persia, dando vita a una Chiesa scismatica. Il monofisismo, invece, fu condannato nel 451, nel corso del quarto concilio ecumenico di Calcedonia, ma sopravvisse, a lungo, nelle province orientali dell’impero. Quando il patriarca Acacio rifiutò di fare atto di sottomissione a Felice III e di revocare la formula di fede eretica, venne scomunicato. Sebbene fosse il rappresentante dell’imperatore in Italia, Odoacre non impose mai al papa l’applicazione del decreto imperiale, anzi adottò una politica solidale con il pontefice, in funzione decisamente antiacaciana. Su invito di Felice III, inoltre, Odoacre promosse il monachesimo e l’opera di conversione svolta dal clero cattolico presso le gentes germaniche del Norico, come dimostrano i suoi rapporti epistolari con san Severino († 482) – l’«apostolo» del Norico – impegnato in un’importante opera di evangelizzazione in una regione strategica ai confini dell’Italia orientale, che si concretizzò nella fondazione di una vasta rete di cenobi facenti capo alla «casa madre» di Flavianis – l’odierna Mautern, presso Passau – di cui Severino era abate.

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Odoacre

In alto ritratto di Francesco Sforza, primo duca di Milano tra gli appartenenti alla dinastia sforzesca, tempera su tavola di Bonifacio Bembo. 1460 circa. Milano, Pinacoteca di Brera. Nella pagina accanto le nozze di Francesco Sforza e Bianca Maria Visconti in una miniatura quattrocentesca. Collezione privata.


Nella pagina accanto Odoacre davanti a san Severino, incisione tratta dall’opera illustrata Letture di famiglia. 1853. In basso mosaico della cupola del Battistero degli Ariani, a Ravenna, con scena centrale del battesimo di Gesú nel Giordano. L’edificio, oggi chiesa dello Spirito Santo, fu costruito durante il regno di Teodorico e riconsacrato al cattolicesimo al tempo dell’arcivescovo Agnello (557-566/69), come oratorio dedicato alla Vergine Maria.

sione tributaria, in base alle riforme di epoca dioclezianea e costantiniana che avevano sottratto ai governatori il comando delle truppe – affidato ai magistri militum – introducendo il principio – nuovo per la burocrazia romana – della «separazione» tra le competenze civili e quelle militari. Alla base dell’organizzazione amministrativa e della vita civile, restavano le città – municipia –, che risentirono di una fase di sofferenza economica e politica ma che, per quanto profondamente cambiate, rispetto ai primi secoli dell’impero, sopravvissero. Le città romane avevano ormai mutato aspetto: la cinta muraria e gli edifici erano in parte fatiscenti e lo spazio rurale era penetrato all’interno del centro urbano, con intere aree destinate a pascolo brado per gli animali, a orto, a discariche per i rifiuti o a necropoli. Gli edifici pubblici erano in decadenza e le strutture in muratura e laterizio avevano lasciato il posto ad abitazioni nuove, realizzate con materiali da costruzione piú economici, come legno, cannicciata e intonaco. Nel contado, invece, pur non essendo scomparse del tutto la media e la piccola proprietà, sia per esigenze economiche che fiscali, era la grande «azienda rustica» a dominare il paesaggio delle campagne italiane: la villa.

L’organizzazione delle campagne

Nel V secolo, la grande proprietà fondiaria si presentava divisa in due parti chiaramente distinte, sotto il profilo economico e amministrativo, la pars urbana e la pars rustica. La prima era sede della dimora signorile, dove sorgeva la dimora del padrone con annessi magazzini, frantoi ed edifici di immagazzinamento dei prodotti, che venivano in parte consumati e in parte avviati ai mercati cittadini. La pars rustica, invece, era ripartita in singoli lotti, gli agri, concessi ad affittuari, anche servi, in cambio del pagamento di un canone in danaro o, piú spesso, in natura. Gli affittuari, inoltre, si impegnavano a eseguire, periodicamente, lavori sulla proprietà riservata allo sfruttamento diretto del signore, i ruralia obsequia. Con la crisi delle istituzioni politiche e amministrative, con le «invasioni barbariche» e con il progressivo disfacimento della burocrazia statale, i proprietari fondiari cominciarono ad assumere nelle campagne un ruolo determinante, non limitato all’ambito economico, ma esteso anche a quello politico, cominciando a circondarsi di milizie scelte, i buccellarii, e a esercitare poteri di «patrocinium» sui rustici e su interi villaggi, sottraendo anche l’esercizio dei poteri

pubblici – giustizia, tasse, difesa e ordine pubblico – alle legittime istituzioni, anticipando un fenomeno destinato a trovare piena maturazione nei secoli dell’Alto Medioevo. Se Odoacre non innovò, sostanzialmente, l’organigramma burocratico dell’Italia, si mostrò molto attivo in politica estera. Per quanto fosse un re «barbaro», non esitò ad adottare una politica espansiva in direzione del Mediterraneo e delle Alpi, muovendo guerra ad altre stirpi germaniche come i Vandali e i Rugi. Uno dei primi obiettivi della sua politica estera fu quello di ripristinare, per quanto possibile, l’integrità territoriale della prefettura italica, quale era stata prima del 476 e delle conseguenti amputazioni subite dai «barbari» (vedi box alle pp. 72-74). Già nel 476-477, dopo alcune scaramucce, il re stipulò un trattato con Genserico (428-477), re dei Vandali, in base al quale questi cedeva a Odoacre la Sicilia iure tributario, in cambio, cioè, del pagamento annuale di un tributo, ricavato da una parte della rendita fiscale complessiva dell’isola. Odoacre, probabilmente, mosse guerra ai Vandali senza espresso mandato di Zenone, ma l’accordo raggiunto si rivelò alla fine vantaggioso, perché, seppure a prezzo di un tributo, riuscí a recuperare – all’Italia – la Sicilia, granaio dell’impero, e a evitare ulteriori incursioni piratesche ai danni delle coste della Penisola. Qualche tempo dopo, nel 481, Odoacre profittò dell’assassinio di Giulio Nepote, l’anziano imperatore deposto anni prima: col pretesto di vendicarlo, occupò la Dalmatia (odierna Croazia), catturando e mettendo a morte i due presunti assassini, gli ufficiali Vittore e Ovida. Nel 487, attaccò i Rugi stanziati nel Norico, all’epoca guidati dal re Feva – o Feleteo – e dalla moglie, Gisa. Feva fu sconfitto e ucciso, mentre il Norico fu annesso di nuovo alla prefettura italica. La conquista del Norico fu materialmente compiuta da Unulfo, fratello di Odoacre, e rappresentò un momento importante nella politica estera del regno, perché quel territorio, già appartenente alla prefettura d’Italia, era da tempo ridotto a vera e propria «terra di nessuno», luogo di scorrerie di svariati gruppi germanici che, stanziatisi in un primo tempo come foederati, avevano, progressivamente, acquisito una vera e propria sovranità su quei territori. Tutte queste iniziative militari, per quanto formalmente intraprese nell’interesse dell’impero, non furono concordate preventivamente con Costantinopoli, e ciò contribuí a deteriorare i già precari rapporti di Odoacre con la corte d’Oriente. L’imperatore (segue a p. 78) ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

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Odoacre

IL REGNO OSTROGOTO Gli Ostrogoti erano una tribú appartenente al gruppo dei Germani orientali, insediati originariamente sul Baltico e poi emigrati sul Mar Nero (III secolo). All’epoca di Teoderico, erano stanziati in Pannonia dal 455, come foederati, e avevano ottenuto terre in cambio del servizio militare nell’esercito imperiale. Una volta che il potere regale fu assunto da Teoderico, dopo la morte del padre Teodemiro, nel 474, nulla impediva che questa stirpe bellicosa mirasse a estendere i propri domini altrove, nei Balcani romani, alla ricerca di terre migliori e di nuove aspettative di vita. E cosí avvenne. Teoderico, tra l’altro, non era uno sprovveduto, essendo vissuto come ostaggio per circa un decennio a Costantinopoli (462-472), dove era stato allevato, presso la corte imperiale, come un vero e proprio princeps romano. Aveva imparato a conoscere l’impero, le sue istituzioni e i suoi eserciti e, proprio come Odoacre, era diventato un «barbaro» romanizzato. Dopo aver unificato tutti i Goti sotto il suo comando, eliminando i capi avversari Teoderico Strabone e Recitaco, Teoderico ottenne, per i suoi servizi all’impero, il consolato assieme all’imperatore Zenone, nonché il titolo di magister militum praesentalis e alcuni onori, come quello di una statua equestre nel foro di Costantinopoli, nel 484. Intorno al 485, Teoderico cominciò a chiedere sempre piú terre per i suoi e perciò fu fatto acquartierare nella regione di Durazzo. Non soddisfatto della sistemazione, nel 487 il giovane re pose l’assedio a Costantinopoli, pretendendo nuove terre

dislocate in Epiro – attuale Albania – e cosí Zenone escogitò il modo per allontanarlo dai Balcani, inviandolo in Italia. Nel 493, ucciso Odoacre, Teoderico costituí in Italia un regno solido, fondato sulla collaborazione con l’élite romana, ma anche sulla rigida separazione tra gli occupanti ostrogoti e i sudditi romani. Ai primi furono generalmente riservate le cariche e i poteri militari, ai secondi le mansioni «civili». Tra i piú fidati collaboratori di Teoderico si ricordino Anicio Manlio Torquato Severino Boezio († 525) e Flavio Magno Aurelio Cassiodoro Senatore († 580 circa). Boezio ricoprí la carica di magister officiorum – una sorta di primo ministro – durante il regno ostrogoto, ma fu rimosso e fatto uccidere da Teoderico, in seguito alla scoperta di un complotto ordito contro di lui e di cui Boezio era probabilmente al corrente, pur senza esserne partecipe. Cassiodoro, invece, fu retore, storico e magister officiorum di Teoderico, dopo la morte di Boezio e, dal 533, praefectus praetorio Italiae, carica che conservò fino al 540, quando si ritirò nel monastero di Scolacium, l’odierna Squillace, in Calabria, dove morí alla fine del VI secolo. Tra i collaboratori di origine romana del re Teoderico sono da ricordare il referendario Cipriano, Opilione, Onorato e Decorato. Teoderico, inoltre, perseguí una politica di alleanza con tutti i regni germanici d’Occidente, tessendo legami matrimoniali con le rispettive dinastie. Nel 493, infatti, il re goto sposò Audofleda († 526 circa), sorella di Clodoveo e, qualche anno piú tardi, diede in moglie le figlie, Teodogota e

In alto il Medaglione d’oro di Morro d’Alba, moneta da tre solidi di re Teoderico rinvenuta nel 1894 in una tomba presso Senigallia. Roma, Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo. A sinistra illustrazione raffigurante un duello a cavallo tra Teoderico e Odoacre, dalla raccolta di manoscritti compresa nel Codice Palatino 927. XII sec. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Nella pagina accanto Teoderico a cavallo in un rilievo del protiro della cattedrale veronese di S. Zeno, opera del Maestro Niccolò. 1138. L’iscrizione latina recita «O re stolto, chiede un dono infernale. Tosto gli appare un cavallo mandato dal perfido demonio. Esce nudo dall’acqua, precipita nell’inferno senza ritorno», evocando il racconto mitico ripreso anche da Giosuè Carducci nel poemetto La leggenda di Teodorico.

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Ostrogota, rispettivamente al re dei Visigoti, Alarico II (484-507), e al re dei Burgundi, Sigismondo (516-523). Quando Sigismondo fece uccidere il proprio figlio, Sigerico, accusato di complottare contro di lui, venne assalito da Teoderico che intendeva vendicare il nipote. Alleatosi con i Franchi, Teoderico fece prigioniero Sigismondo e poi lo fece uccidere presso Orléans. Quando il visigoto Alarico II fu ucciso dai Franchi, nel 507, Teoderico intervenne anche in Spagna per garantire la corona al nipote, Amalarico († 531). La sorella di Teoderico, Amalafrida, andò in sposa al re dei Vandali, Trasamundo (496-523) e la nipote, Amalaberga, al re

dei Turingi, Ermanafrido (507 circa-531) che, in seguito, fu ucciso dai Franchi. Il regno di Teoderico si protrasse fino alla sua morte, nel 526, quando gli successe il nipote, Atalarico. Alla morte di quest’ultimo, nel 534, la madre Amalasunta – figlia di Teoderico – fu incoronata regina ma, nel 535, fu assassinata dal cugino, Teodato († 536), che si proclamò re. L’usurpazione di Teodato forní all’imperatore d’Oriente Giustiniano il pretesto per invadere l’Italia, che, dopo la ventennale guerra detta «greco-gotica» (535-554), abbattuto il regno ostrogoto, fu trasformata in una provincia – esarcato – alle dipendenze dell’impero d’Oriente.

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Odoacre

Nella pagina accanto, in alto fibbia di cintura in oro con inserti policromi e teste di rapace, da Landriano (Pavia). Produzione ostrogota. Milano, Castello Sforzesco. Il gusto per l’oreficeria con inserti multicolori, realizzati con le tecniche del cloisonné e dello champlévé, si formò nel IV e V sec. fra i Goti e gli Unni, per poi diffondersi soprattutto anche tra i Franchi e i Longobardi. Pieti

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In alto l’assetto geopolitico dell’Europa alla morte di Teoderico. Il sovrano ostrogoto aveva costruito il suo solido dominio anche grazie ad abili alleanze e a un’altrettanto accorta politica matrimoniale con altri re barbari.

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La situazione all’indomani dei successi riportati da Giustiniano contro i Vandali (533-534) e nella guerra greco-gotica (535-553). A queste due campagne fece seguito la conquista della Spagna meridionale, strappata ai Visigoti. 78

ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

In alto fibbia di cintura in argento dorato con inserti di pasta vitrea colorata. Produzione ostrogota. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. Nella pagina accanto, in basso fibula a staffa in oro con inserti policromi e teste di uccelli rapaci sulla piastra di testa, forse da Desana (Vercelli). Prima metà del V sec. Torino, Museo Civico d’Arte Antica. Zenone, allora, decise di escogitare un modo per liberarsi dell’incomodo «alleato». Per farlo, ricorse all’aiuto di Teoderico, re degli Ostrogoti, della stirpe regia degli Amali. Nel 488, l’imperatore ratificò un trattato con Teoderico, in base al quale il re avrebbe trasferito il suo popolo in Italia, con il compito specifico di eliminare Odoacre, che avrebbe poi sostituito nel governo della Penisola (vedi box alle pp. 7677). Nella primavera del 489, gli Ostrogoti entrarono in territorio italiano dalle Alpi orientali, dando inizio a una lunga guerra, che si protrasse fino al 493. Oltre agli Ostrogoti, anche altri gruppi germanici parteciparono all’impresa, tra essi i Rugi di re Federico, superstiti della guerra di annientamento condotta contro di loro da Odoacre alcuni anni prima. In agosto, la prima resistenza sul fiume Isonzo fu travolta e Odoacre fu costretto a ripiegare su Verona, dove subí, in settembre, una nuova sconfitta, che lo costrinse a rinchiudersi a Ravenna. Giunto nella capitale, Odoacre intraprese opere di fortificazione in vista dell’imminente assedio, mentre Teoderico mosse su Milano e occupò la città alla fine del 489. L’occupazione di Milano fu favorita dalla defezione del presidio comandato da Tufa, fedelissimo di Odoacre,


che fu ucciso, poco dopo, assieme al re dei Rugi, con l’accusa di tradimento. Respinta un’incursione dei Burgundi, provenienti dalla Gallia, nella Pianura Padana, l’Amalo continuò la guerra, annientando l’esercito avversario in una grande battaglia combattuta sull’Adda, nell’agosto del 490. Odoacre, allora, riparò nuovamente a Ravenna, che Teoderico, infine, cinse d’assedio. Iniziò, cosí, la fase piú lunga e drammatica della guerra, destinata a protrarsi fino al 493. Durante l’assedio morí anche l’imperatore Zenone, a cui successe Anastasio I (491-518), un modesto funzionario di corte, che confermò la politica del suo predecessore nei riguardi dell’Italia e di Teoderico.

Un accordo effimero

Dopo circa tre anni d’assedio e fallite alcune sortite di Odoacre, Ravenna capitolò. Teoderico era riuscito a bloccare i rifornimenti alla città, non solo via terra, ma anche via mare, occupando il porto di Classe con una flotta allestita, in tutta fretta, a Rimini. Nel frattempo l’Amalo, ancora prima della sua vittoria definitiva, aveva iniziato a distribuire terre ai suoi uomini, sottraendole ai partigiani di Odoacre, che cercò di consolidare la sua disperata posizione nominando successore il figlio, Thela. Ma ogni tentativo di migliorare le cose fu inutile. Il 25 febbraio del 493, grazie all’interme-

diazione di Giovanni, vescovo di Ravenna, Teoderico e Odoacre arrivarono a un accordo, in base al quale si sarebbero riconciliati e avrebbero regnato insieme sull’Italia. Il 5 marzo l’assedio terminò, Teoderico entrò trionfalmente in città, accolto dal vescovo Giovanni e da tutto il popolo, ma era chiaro che i patti non sarebbero mai stati rispettati. Dieci giorni piú tardi, infatti, nel corso di un incontro avvenuto presso il palazzo imperiale ravennate, Teoderico uccise Odoacre, probabilmente perché sospettava un tradimento ai suoi danni, facendo seguire all’assassinio una vera e propria strage dei seguaci piú stretti del re. Nella strage furono coinvolti anche il fratello di Odoacre, Unulfo, e la moglie, Sunigilda. Il figlio di Odoacre, Thela, fuggí presso i Visigoti, in Gallia, ma quando tentò di ritornare in Italia fu vinto e ucciso. Teoderico fu acclamato subito re dalle truppe e poté finalmente iniziare a regnare (493-526), ma solo nel 497 l’imperatore Anastasio gli riconobbe il titolo regio. Si concludeva, tragicamente, l’esistenza di un uomo, Odoacre, che aveva segnato – con indubbia capacità e intelligenza – le sorti dell’Italia e dell’intero Occidente mediterraneo per circa vent’anni, ponendo, con la sua azione politica, le basi per la creazione del primo vero e solido regno italico a guida di un capo «barbaro»: quello ostrogoto. ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

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magnifici sette I

Dopo essersi liberata dal giogo dell’impero romano e prima di trasformarsi nel Regno Unito, la Gran Bretagna vide convivere molte corone. Le piú importanti diedero vita all’eptarchia, fenomeno che distinse l’isola nei primi secoli del Medioevo

N

el 410 d.C., travolto dalla crisi economico-sociale e dall’irruenza dei «barbari», che premevano ai suoi confini, l’impero romano abbandonò per sempre la Britannia, non potendo piú difenderla. Nel 406, Alemanni, Franchi, Burgundi, Vandali e Alani travolsero il limes renano e si riversarono in Gallia, costituendo i primi regni «romano-barbarici» in territorio romano. La disfatta delle legioni galliche offrí il pretesto a Costantino († 411), comandante in Britannia, per proclamarsi imperatore. Nel 409, accompagnato dalle sue legioni, Costantino III passò in Gallia, e cosí privò l’isola delle truppe necessarie a fronteggiare le incursioni delle tribú germaniche dei Sassoni, Angli e Juti – note come «Anglosassoni» –, che provenivano dalle attuali Sassonia, Schleswig e Jutland, e tra cui vi era anche un gruppo di Frisoni, proveniente dagli attuali Paesi Bassi. Mentre i Germani attaccavano a est, gli Scoti, tribú celtica proveniente dall’Irlanda, assalivano a ovest e i Pitti, anch’essi celti, a nord. Come narra il monaco bretone Gildas il Saggio († 570), autore del De excidio et conquestu Britanniae – avvincente cronaca di quegli anni – il crollo dell’impero romano costrinse i Britanni a provvedere da soli alla propria difesa (vedi box alle pp. 86-89). Nel 449, nel marasma generale seguito al ritiro delle legioni, Vortigerne († 455 circa), capo britanno, per contrastare gli Scoti, chiamò sull’isola i due re degli Juti, Hengist e Horsa, e promise loro terre, in cambio dell’aiuto militare. Nel 455, 80

ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

L’assetto geopolitico e le divisioni territoriali della Britannia al tempo degli Anglosassoni, dopo che i Romani avevano abbandonato l’isola, incisione a colori del cartografo e storico inglese John Speed. 1616. Collezione privata.


ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

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ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO a causa di dissapori, Vortigerne uccise Horsa nella battaglia di Aylesford, e Hengist fuggí nelle Fiandre, ma, poco dopo, ritornato in Britannia, uccise Vortigerne e si proclamò re del Kent. Intorno al 520, al mons Badonicus, i Britanni sconfissero duramente gli invasori germanici; ciononostante, la loro resistenza fu vinta dalla superiorità militare dei conquistatori. Gli Anglosassoni si stanziarono in Britannia e fondarono alcuni regni che, almeno in origine, furono molti di piú dei «sette» tradizionalmente conosciuti. Infatti, la nota «eptarchia» (dal greco epta, sette, e archo, governare) anglosassone si

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ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

L’eptarchia anglosassone

Miniatura raffigurante re Artú in battaglia contro i Sassoni, da un’edizione de Il Graal di Rochefoucauld, manoscritto del XV sec. in quattro volumi, composto da un autore anonimo per il nobile francese Guy VII de La Rochefoucauld. Collezione privata.

costituí solo quando, alla metà del VII secolo, dopo annessioni e accorpamenti territoriali, i regni divennero effettivamente sette. I regni dell’eptarchia furono: Northumbria, Mercia, Sussex, Essex, Anglia Orientale, Wessex e Kent. Non ebbero tutti la medesima importanza e le vicende di alcuni – Sussex ed Essex – sono poco conosciute. Mentre le nuove compagini andavano costituendosi, la popolazione britannica – denominata Welsh dagli invasori – fu sottomessa o fuggí in Gallia, nella penisola dell’Armorica, a cui fu dato il nome di Bretagna. Una parte degli autoctoni si trasferí nella Britannia occi-


L‘INGHILTERRA ANGLOSASSONE (SEC. V-X) MARE NORVEGESI 793

Lindisfarne

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NORVEGESI 793-853

NORVEGESI 798

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DANESI 841-860

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ANGLI E SASSONI V SEC.

M A R E D ’ I R L A N DA Bakewel

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Anglia Orientale

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DANESI 834-876

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NORVEGESI 793-850

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LONDRA

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Sussex

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A destra l’Inghilterra in età anglosassone, minacciata dalle incursioni di flotte vichinghe danesi e norvegesi.

Chichester

JUTI V SEC.

Wareham

I DANESI 868

La Manica

INVASIONI DEI POPOLI GERMANICI

DANESI 840

L‘INGHILTERRA NEL IX SEC: REGNO DI WESSEX

REGNO SASSONE DI EGBERTO DI WESSEX (802-839)

DUCATO DI MERCIA

LINEA DI SPARTIZIONE TRA DANESI E SASSONI (886)

IL “DANELAW”

COLONIE DANESI DALL’877 AL 942

DUCATO DI NORTHUMBRIA

Nonostante la vittoria riportata al mons Badonicus, i Britanni dovettero infine cedere agli invasori germanici ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

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ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

dentale, dove conservò lingua e tradizioni celtiche, dando vita al regno di Dumnonia – comprendente Cornovaglia, Somerset e Devon – e, piú a nord, al regno di Strathclyde, alle foci del Clyde. Tra i due regni britannici c’era il territorio del Galles, diviso nei principati di Gwynedd, Deheubarth e Powys, e, piú a nord, sulla costa occidentale scozzese, gli Scoti, provenienti dall’Irlanda, fondarono, nell’attuale Argyll, il regno di Dalriada, che, nell’842, debellati gli autoctoni Pitti, fu unito alla Scozia dal re Kenneth MacAlpin († 858).

Uno stato di belligeranza continua

La struttura sociale dei regni anglosassoni era piuttosto simile, anche perché le tribú avevano molti elementi culturali in comune e parlavano dialetti affini, poiché appartenevano tutte al gruppo etno-linguistico dei Germani occidentali. La società era ripartita in classi differenti, con al vertice il re – cyning –, assistito dal consiglio degli anziani – witenagemot –, composto dai 84

ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

L’eptarchia anglosassone

piú importanti dignitari laici ed ecclesiastici del regno e che, col tempo, esautorò l’assemblea tribale. Al re seguivano i nobili – aethelingas –, poi gli uomini liberi – ceorlas – e, infine, il popolo, spesso legato alle altre due categorie da rapporti di dipendenza personale. La società anglosassone era agricolo-pastorale e guerriera e, la gran parte delle stirpi, al momento dell’insediamento in Britannia, professava culti di carattere naturalistico e politeistico, com’è dimostrato anche dai nomi inglesi dei giorni della settimana che, nella loro struttura linguistica tuttora conservano il nome delle principali divinità del pantheon germanico. Come presso tutte le stirpi germaniche, il diritto anglosassone – folcriht – era consuetudinario e non scritto, ma presto, emerse la necessità di raccoglierlo in apposite «leggi», promulgate dai sovrani, la prima delle quali fu quella di Etelberto (560-616), re del Kent. A differenza degli analoghi provvedimenti emanati nei regni «romano-barbarici» del continente, tutte le raccolte legislative dei re anglosassoni furono redatte in volgare – e non in latino – e risentirono pochissimo dell’influenza del «diritto romano», mentre forte fu l’influsso del diritto canonico e della Chiesa cristiana. Il regno del Kent – che comprendeva anche l’isola di Wight – fu il primo dell’eptarchia e venne fondato dagli Juti a sud del Tamigi, nella regione già occupata, molto tempo prima, dalla tribú celtica dei Cantiaci. Per la sua posizione geografica, sullo stretto di Dover, subí piú degli altri gli influssi culturali e religiosi provenienti dal continente. Nel 597, Etelberto accolse la delegazione inviata dal papa, sotto la guida del monaco Agostino, e accettò di farsi battezzare assieme al suo popolo, una decisione probabilmente influenzata dalla moglie, la cattolica Berta († 612 circa), figlia del re dei Franchi Cariberto (561-567). Dal Kent, in seguito, partirono molte missioni destinate a convertire gli altri regni dell’eptarchia, tra cui l’Anglia Orientale e la Northumbria. Molto probabilmente, Etelberto fu anche il primo sovrano anglosassone ad assumere il titolo di Bretwalda – «re supremo dei Britanni» – dopo aver sottomesso tutto il territorio a sud dell’Humber. Nel 605, Redwald (600-625), re dell’Anglia Orientale, corrispondente agli attuali Norfolk e Suffolk, accettò il battesimo proprio su invito di Etelberto, ma, come narrano le fonti, ciò non gli impedí di continuare a professare gli antichi culti germanici. Morto Etelberto, Redwald, inoltre, assunse per sé il titolo di Bretwalda, sotto(segue a p. 89)


Nella pagina accanto particolare della Croce di sant’Agostino (Kent, Inghilterra), che commemora l’approdo in Britannia, nel VI sec., del monaco Agostino di Canterbury, inviato da Gregorio I Magno a convertire gli Anglosassoni. XIX sec. In basso miniatura raffigurante il sovrano anglosassone Etelberto del Kent che viene battezzato dal monaco Agostino di Canterbury. XIV sec. Londra, British Library.

ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

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ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

L’eptarchia anglosassone

LA FINE DI UNA PROVINCIA IMPERIALE Popolata da tribú celtiche fin dal I millennio a.C., la Britannia fu sottomessa dai Romani tra il I e il II secolo d.C. e trasformata in provincia, retta da un legato imperiale. La Caledonia – odierna Scozia – non venne invece mai annessa e, a protezione dei confini settentrionali della provincia dalle incursioni dei Caledoni, i Romani edificarono i complessi fortificati del vallo di Adriano – tra il Solway Firth e il fiume Tyne – e, piú a nord, del vallo di Antonino, tra il corso dei fiumi Clyde e Forth. I valli erano costruzioni difensive – il primo era lungo 120 km circa, il secondo 50 – che, rimarcando la linea del limes, includevano fossati,

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LE SIGNORIE

terrapieni e un muro in pietra, intervallato da torri di avvistamento e fortini. Con le invasioni del IV e V secolo, le due strutture caddero in disuso e furono dismesse, mentre poco utile si rivelò il Litus Saxonicum, un insieme di fortificazioni edificate tra IV e V secolo a protezione delle coste meridionali della Britannia dalle incursioni dei Sassoni e poste sotto il controllo del comes Litoris Saxonici. Nel IV secolo, l’imperatore Diocleziano riorganizzò il territorio della Britannia, che fu ripartito in quattro province distinte, sotto il governo di correctores: Britannia Prima e Secunda, Maxima Caesariensis e Flavia Caesariensis.

Nel frattempo, la civiltà romana aveva cominciato a prendere piede tra i Celti, con il sorgere di grandi città come Londinium (Londra) e Camulodunum (Colchester). Anche il cristianesimo cominciò a diffondersi e a darsi una struttura: infatti, nel IV secolo, la chiesa britannica comprendeva le tre diocesi di Londinium, Eburacum (York) e Verulamium. Quest’ultima, intorno al 305, fu teatro del martirio del legionario Albano, che, canonizzato, diede il nome all’odierna Saint Albans. Prima della conquista anglosassone, l’ampia diffusione del cristianesimo in Britannia è confermata anche dal fatto che san Patrizio († 461) – evangelizzatore dell’Irlanda – era figlio di un diacono britannico, Calpurnio, e che lo stesso Pelagio († 420) – eresiarca cristiano


del V secolo – fu un monaco britannico. Forse a causa dell’effetto distruttivo delle invasioni, in alcune regioni della Britannia la vita civile regredí, anche da un punto di vista materiale, a condizioni precedenti la stessa conquista romana e la stessa organizzazione diocesana andò distrutta. La Chiesa britannica risorse solo nel VII secolo, grazie al monaco romano Agostino († 604), priore di un cenobio sul Celio, che fu inviato nell’isola da papa Gregorio Magno (590-604), per diffondere il cristianesimo tra gli Anglosassoni. Per espressa raccomandazione del pontefice, la missione di Agostino fu essenzialmente pacifica, e si svolse, finché fu possibile, senza turbare i sentimenti religiosi delle popolazioni del luogo. Nel Kent, sul sito dell’antica città romano-celtica di Durovernum

In alto mappa che illustra le fasi e le direttrici della cristianizzazione dell’Europa nel Medioevo. Sulle due pagine i resti dell’abbazia benedettina di Canterbury (Inghilterra), edificata alla fine del VI sec. in seguito all’arrivo del monaco Agostino in Britannia. Utilizzata come luogo di sepoltura per i sovrani del Kent, l’abbazia fu attiva fino alla metà del Cinquecento e oggi è Patrimonio dell’Umanità UNESCO.

ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

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ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

Cantiacorum (Canterbury), nel 601 Agostino fondò un cenobio dedicato ai santi Pietro e Paolo e la diocesi di cui, secondo la tradizione, fu consacrato primo vescovo; Agostino creò anche le diocesi suffraganee di Rochester e Londra, quest’ultima affidata al monaco Mellito († 624), poi consacrato terzo vescovo di Canterbury, dopo la morte del predecessore Lorenzo (604-619). Nel corso del VII secolo, papa Vitaliano (657-672) inviò una nuova missione in Britannia, per consolidare i risultati della precedente, guidata da un orientale, il monaco Teodoro di 88

ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

L’eptarchia anglosassone

Tarso, che fu vescovo di Canterbury dal 668 al 690. Teodoro ristabilí la disciplina ecclesiastica e convocò sinodi come quello di Hertford, nel 673, e di Hatfield, nel 680, nel corso dei quali furono emanati canoni e condannate definitivamente le usanze ecclesiastiche celtiche. Teodoro portò con sé, dall’Italia, alcuni monaci e pose a capo del monastero di S. Agostino di Canterbury – già dedicato ai santi Pietro e Paolo – Adriano († 710), monaco di origine berbera, che introdusse in Inghilterra il «canto gregoriano» e fondò, presso il cenobio

di cui fu abate, anche una biblioteca con annessa scuola di latino, greco ed ebraico, per la formazione del clero. In Britannia, molti monasteri sorsero non solo su iniziativa di missionari provenienti da Roma, ma anche su impulso di esponenti delle aristocrazie germaniche dei regni che, convertitisi alla nuova fede, decisero di diventare monaci. Si pensi al cenobio di Whitby, in Northumbria, fondato, intorno al 660, dall’aristocratica Hilda († 680), poi diventata badessa, o ai cenobi di S. Pietro e S. Paolo fondati, sempre in Northumbria, a Wearmouth e Jarrow,


mettendo gli altri regni a sud dell’Humber, che gli pagarono il tributo (vedi box alle pp. 92-93). Da quel momento, fu chiaro che alcuni regni dell’eptarchia aspiravano a dominare gli altri e, due di essi, Sussex – corrispondente all’attuale Sussex – ed Essex – corrispondente agli attuali Essex, Middlesex ed Hertfordshire – cessarono di rivestire un ruolo politicamente rilevante. Alla morte di Redwald, il primato politico e militare passò alla Northumbria, regno di recente formazione, collocato tra Humber e Tweed, nato dall’unione dinastica dei preesistenti regni di Deira e Bernicia, fondati dagli Angli. L’unione fu opera di Etelfredo (593-617), re di Bernicia, il quale, nel 593, alla morte del suocero, re Aella (560-593), divenne anche sovrano di Deira, bandendo il cognato Edvino. Tuttavia, Etelfredo non governò a lungo, perché fu ucciso in battaglia nel 617 da Redwald, re dell’Anglia Orientale, che assegnò la corona proprio a Edvino, il quale, negli anni dell’esilio, aveva trovato ospitalità alla corte di Redwald.

Promotore dell’evangelizzazione

tra il 674 e il 683, dal nobile Benedetto Biscop († 690). Benedetto dotò le biblioteche monastiche di numerosi volumi portati con sé da Roma, dove si era piú volte recato come pellegrino. Nei regni dell’eptarchia, molti monasteri furono fondati anche da monaci di origine irlandese, attivi nell’opera di evangelizzazione della Scozia e degli Anglosassoni. Tra essi bisogna ricordare il monastero di Lindisfarne fondato, nel 635, su un’isola al largo delle coste della Northumbria dall’irlandese sant’Aidano († 651), che ne fu il primo abate.

I resti dell’abbazia benedettina di Whitby nel North Yorkshire (Inghilterra), uno dei complessi religiosi edificati da nobili e regnanti locali che si convertirono al cristianesimo: fondata dall’aristocratica Hilda nel VII sec., che poi divenne badessa, l’abbazia venne distrutta e abbandonata dopo l’assedio vichingo dell’867.

Edvino impose alla Northumbria la conversione al cristianesimo e si fece battezzare da Paolino († 644) – missionario inviato dall’arcivescovo di Canterbury, Giusto (624-627) – e, poco dopo, lo designò arcivescovo di York, che divenne la seconda arcidiocesi britannica. Edvino consolidò i rapporti col Kent, sposando Etelburga († 647), figlia di Etelberto del Kent e, dopo la morte, fu proclamato santo per l’opera di evangelizzazione promossa negli altri regni anglosassoni: l’Essex, per esempio, fu convertito proprio in quegli anni dal missionario northumbro Cedd († 664). Ma Edvino aveva anche ambizioni militari e, proclamatosi Bretwalda, affermò il suo potere su quasi tutta la Britannia a sud dell’Humber. Nel 633, trovò però la morte nella battaglia di Hatfield Chase, combattendo contro il gallese Cadwallon, re del Gwynedd, e Penda (633-655), re della Mercia, regno collocato tra i fiumi Humber e Tamigi. Penda si proclamò Bretwalda e, benché «pagano» e ostile a ogni forma di conversione al cristianesimo, aveva stipulato un’alleanza col cristiano Cadwallon, proprio per affermare il suo dominio sull’isola. La morte di Edvino causò la nuova scissione della Northumbria nei regni di Bernicia e Deira, che divennero tributari della Mercia, ma, nel 633, anche Cadwallon fu ucciso a Heavenfield, dove si scontrò con Osvaldo, nipote di Edvino e re di Bernicia. Osvaldo, però, aveva sottovalutato Penda, e, quando tentò di ricostituire l’unità della Northumbria, fu ucciso, ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

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nel 642, nella battaglia di Maserfelth. La sua morte, per mano di un re «pagano», assunse subito i connotati del martirio e ne favorí il culto come santo. Suo fratello, Oswy († 670), riuscí a conservare il possesso della sola Bernicia, mentre la Deira fu presa da Penda, il cui dominio aveva però i giorni contati, poiché, nel 655 fu ucciso da Oswy nella battaglia di Winwaed e la Northumbria tornò a essere un regno unico. Oswy governò saggiamente e fu particolarmente attento alle questioni religiose, tanto che, nel 664, convocò il sinodo di Whitby, in occasione del quale all’intera Chiesa inglese fu imposta l’uniformità liturgico-disciplinare fondata sui precetti della Chiesa di Roma e furono condannate alcune pratiche «devianti», seguite da monaci e clero di estrazione celtica, che pure avevano contribuito alla cristianizzazione degli Anglosassoni.

Una nuova data per la Pasqua

Molti monaci e chierici celti venivano dall’Irlanda o dal cenobio di Iona – nelle Ebridi – in cui l’irlandese san Colombano († 597), intorno al 563, aveva fondato un cenobio specializzato nella formazione dei missionari da inviare in Britannia. Tra i sostenitori dell’uniformità liturgico-disciplinare, ci fu san Vilfredo († 709), vescovo di York, la cui applicazione dei canoni conciliari indusse molti monaci celti – tra cui, san Coloman († 675), abate di Lindisfarne – a tornare in Irlanda. In base alle decisioni sinodali, abbigliamento, tonsura e decoro degli ecclesiastici furono conformati all’uso romano, le pratiche ascetiche e penitenziali mitigate, il clero regolare fu sottoposto al controllo e alla disciplina del clero secolare, i monasteri separati dalle diocesi e la Pasqua – celebrata dai monaci celti all’equinozio di primavera – venne fissata alla prima domenica successiva il primo plenilunio di primavera. (segue a p. 94) 90

ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

In alto spilla anglosassone in argento con dorature e granati a forma di uccello, dal Kent. 500-550. New York, The Metropolitan Museum of Art. In basso pendente anglosassone in oro con granati e supporto in lamina modellata. Inizi del 600. New York, The Metropolitan Museum of Art.


A sinistra spilla anglosassone a disco in oro con granati, vetro e niello, realizzata a Faversham (Inghilterra). 600 circa. New York, The Metropolitan Museum of Art. La regione del Kent era un importante centro di produzione di gioielli anglosassoni e si caratterizzava per un’alta qualità della fattura.

In basso e a destra dritto e rovescio di un tremisse anglosassone in oro battuti dal monetiere Witmen. Inizi del VII sec. Cleveland, The Cleveland Museum of Art.

Nel 664, il sinodo di Whitby impose alla Chiesa inglese di uniformarsi ai precetti di quella di Roma


ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO IL TESORO DI SUTTON HOO

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ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

L’eptarchia anglosassone


Nella pagina accanto l’elmo di Sutton Hoo, celebre manufatto in ferro e bronzo di fattura anglosassone, finemente decorato, rinvenuto nel 1939 in un tumulo nella regione del Suffolk in Inghilterra. VII sec. Londra, British Museum. Fa parte del corredo funebre di una nave funeraria nella quale si ritiene fosse collocato il cadavere di un personaggio illustre, presumibilmente un capo militare o un sovrano. A destra disegno ricostruttivo della nave funeraria di Sutton Hoo.

Il potere e il prestigio di Redwald sono stati confermati anche dalla scoperta, a Sutton Hoo (Suffolk), nel 1939, di quello che sembra essere, un cenotafio o la sua tomba. Sotto un alto tumulo, gli archeologi rinvennero una nave a remi, lunga 27 m circa, simile a quelle con cui gli Anglosassoni avevano verosimilmente invaso la Britannia nel V secolo. Al centro della nave, priva di albero e vela, era stata edificata una camera funebre lignea, in cui, forse, era deposto il cadavere di un personaggio importante – i cui resti, comunque, non furono rinvenuti –, poi identificato col famoso re dell’Anglia Orientale. Il defunto era accompagnato da un prezioso corredo, costituito da un bacile in bronzo, una fibbia d’oro massiccio con decorazioni teriomorfe, armi, monete e utensili in argento, oggi conservati al British Museum. Molti degli oggetti preziosi rinvenuti erano di provenienza estera, come le monete, di fattura merovingia, e gli utensili in argento – un mestolo, cucchiai, ciotole, coppe – provenienti dall’impero bizantino, tra cui un piatto di ottima fattura, recante impressi i marchi con il nome dell’imperatore Anastasio I (V secolo). La provenienza delle monete e dell’argenteria consentí anche di ricostruire il raggio d’azione diplomatico e commerciale – veramente «internazionale» – di un regno anglosassone dell’epoca. Il corredo d’armi risultava composto di spada e fodero, riccamente ornato di guarnizioni d’oro, dai resti di uno scudo, abbellito da applicazioni in metallo di carattere teriomorfo e da un elmo in ferro, cui era annessa una maschera in bronzo dorato, con la sagoma di un volto. In aggiunta, nella tomba fu ritrovato anche uno scettro e un’insegna che, probabilmente, precedeva l’esercito del sovrano in marcia.

Replica in scala dell’elmo di Sutton Hoo. Londra, British Library.

ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

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Morto Oswy, la Northumbria non rivestí piú un ruolo rilevante negli equilibri politici tra i regni anglosassoni e il primato passò di nuovo alla Mercia. Morto Penda, il successore Wulfhere (655-675) accettò il battesimo e impose il cristianesimo a tutti i sudditi, creando cosí le premesse per l’ulteriore espansione della Mercia sotto re Offa (757-796). Salito al potere dopo l’assassinio del predecessore, il cugino Etelbaldo (716-757), Offa fu contemporaneo dell’imperatore Carlo Magno († 814), con il quale intrattenne ottimi rapporti diplomatici, benché il matrimonio programmato tra suo figlio, Ecgfrith, e una figlia del re franco, non fosse mai andato in porto. Assunto il titolo di Bretwalda, Offa divenne uno dei piú grandi re della Britannia medievale, ampliò i confini della Mercia, annettendo Essex, Sussex e Kent – le cui dinastie furono esautorate – e rese tributari gli altri regni dell’isola, come il Wessex, il cui re, Brihtric (786-802), pagò un tributo e ne sposò la figlia, Eadburh. Offa rafforzò i confini della Mercia edificando l’Offa’s Dike, un terrapieno che correva da Chepstow a Chester, a protezione dalle incursioni gallesi e, ispirandosi alla riforma monetaria di Carlo Magno, introdusse la sterlina, come moneta di conto, e coniò il penny – moneta argentea – a imitazione dei denari carolingi. Primo tra tutti i re anglosassoni, Offa coniò anche monete d’oro per i commerci internazionali, a imitazione della moneta in corso nel califfato abbaside e ottenne da papa Adriano I (772-795) per Lichfield, capitale del regno, il rango di metropoli ecclesiastica e l’indipendenza dall’arcidiocesi di Canterbury. Primo tra i sovrani europei, Offa si fece vassallo del papa corrispondendogli, in cambio della protezione apostolica, l’«obolo di san Pietro» – Romefeoh – e codificò il diritto consuetudinario della Mercia, emanando un «codice legislativo» che fu redatto in old English, cioè nel dialetto degli Angli. Alla sua morte, nel 796, il dominio merciano andò in pezzi e i regni anglosassoni, un tempo sottomessi, riacquistarono la loro indipendenza. Lo scettro del comando passò allora al Wessex.

Nasce l’Inghilterra

Intorno al 495, Cerdic (495-533) e suo figlio, Cynric (533-560), re dei Sassoni, fondarono il regno del Wessex, la cui popolazione fu cristianizzata sotto il regno di Ceawlin (560-593) e, probabilmente, per influsso del vicino regno del Kent. A quell’epoca, il regno del Wessex, collocato a sud del Tamigi, comprendeva grosso modo l’Hampshire e il Gloucestershire. Nel corso dell’VIII secolo, benché sottomesso alla Mercia, il 94

ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

Bath (Somerset, Inghilterra), abbazia. Vetrata policroma raffigurante Alfredo il Grande con in mano una nave: nell’878, il sovrano riuscí a sconfiggere i Vichinghi nella battaglia di Edington, concedendo poi loro il diritto a stanziarsi nel territorio a nord del Tamigi, denominato Danelaw.


Wessex consolidò le sue strutture interne, grazie all’opera dei re Ceadwalla (686-688) e Ine (688726) che morirono entrambi a Roma, dove avevano deciso di trascorrere gli ultimi anni della loro vita come pellegrini e monaci. Agli inizi del IX secolo, morto Offa, Egberto (802-839), probabilmente appartenente a un’illustre famiglia del Kent, tornò dall’esilio e, profittando della morte di Brihtric, fu consacrato re del Wessex. Assunse il titolo di Bretwalda – portato anche dai suoi successori – e, grazie a vittoriose campagne militari, fece del Wessex la maggiore potenza dell’isola: a ovest, occupò la Dumnonia e, a est, il Kent, il Sussex e l’Essex. Con queste annessioni, fu semplificata la carta politica britannica, poiché i regni anglosassoni indipendenti rimasero quattro: Anglia Orientale, Mercia, Northumbria e Wessex.

La minaccia vichinga

Nell’825, nella battaglia di Ellandun, Egberto stroncò un tentativo di egemonia della Mercia ma, dall’830, la minaccia delle incursioni vichinghe divenne il problema maggiore. Nell’838, i Vichinghi furono battuti a Hingston Down e, nell’839, morto Egberto, il figlio Etelvulfo, divenuto re, affrontò gli invasori scandinavi, che furono nuovamente sconfitti, nell’851, a Ockley. Nell’855, il re andò in pellegrinaggio a Roma – dove ottenne la conferma della corona dal papa – e l’anno successivo tornò in patria. Nel frattempo, il figlio Etelbaldo lo aveva spodestato e, cosí, quando tornò nel Wessex, Etelvulfo dovette dividere con lui il potere. Etelvulfo consolidò anche i rapporti diplomatici con il regno franco, sposando, dopo la morte della prima moglie, Osburga († 855), figlia del maggiordomo di palazzo Oslac, Giuditta († 870), figlia del futuro imperatore Carlo il Calvo († 877). Morto nell’858 Etelvulfo, gli successero i figli avuti da Osburga e, cioè, Etelbaldo (858-860), Etelberto (860-865), Etelredo (865-871) e Alfredo (871-899). A partire da Etelredo, il Wessex fu costretto ad affrontare di nuovo la gravissima minaccia vichinga, fattasi molto pericolosa dopo lo sbarco in Northumbria della cosiddetta «Grande Armata». Nell’871, Etelredo morí in battaglia a Basing e il suo posto fu preso dal fratello, Alfredo, poi noto come «il Grande», uno dei piú importanti re anglosassoni. Ritiratosi nelle paludi del Somerset di fronte all’avanzata normanna, nell’878 Alfredo ebbe finalmente la meglio sulla «Grande Armata» nella battaglia di Edington, ma riuscí a imporre al nemico il trattato di Wedmore solo nell’886. In base all’accordo, ai Vichinghi fu riconosciuto il diritto di stanALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

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ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

L’eptarchia anglosassone

GROENLANDIA Lofoten

MAR DI NORVEGIA

Reykjavik Thingvellir

Trondheim

Cartina dell’Europa nella quale sono indicati i Fær Øer Uppsala territori d’origine delle Bergen Shetland genti vichinghe, le Oslo Helgö Sigtuna Haugesund principali direttrici delle Birka loro spedizioni e le terre Kaupang conquistate e colonizzate, Fyrkat Ebridi tra l’VIII e il IX sec. Sono inoltre evidenziati i centri Lindisfarne Roskilde Lund abitati piú importanti, Hedeby Isola di Man che possono essere Ribe Haithabu considerati come Amburgo Dublino York altrettante capitali. Dunmore

Dorestad

Londra Hastings Bayeux

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Kiev

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ATLANTICO

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Novgorod

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a Parigi Loira

Territorio d'origine

ubio

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Espansione Pamplona Incursione Zuge

Lisbona Tago Cordoba Cadice

Roma

MAR NERO Costantinopoli

Palermo

MAR MEDITERRANEO ziarsi, a nord del Tamigi, su una vasta porzione del suolo britannico denominata Danelaw e comprendente parte della Mercia, l’Anglia Orientale e la Northumbria (vedi box alle pp. 98101). Negli anni successivi, Alfredo ampliò i domini del Wessex e, profittando di uno sconfi96

ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

namento vichingo, nell’886 occupò Londra e la Mercia occidentale, a ovest del Tamigi, che affidò al governo della figlia, Etelfleda, andata in sposa al nobile merciano Etelredo († 912) e cosí la Mercia conservò una parvenza di indipendenza, gravitando nell’orbita del Wessex. Nell’891, il re


Rostow

Volga

Bolgar

Do

n

Itil

O MAR CASPIO

A destra illustrazione raffigurante dall’alto, in senso orario, quattro re anglosassoni: Edmondo il Martire, Edoardo il Vecchio, Alfredo il Grande e Atelstano, dall’Abbreviatio chronicorum Angliae del cronista inglese Matteo Paris. XIII sec. Londra, British Library.

ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

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dovette affrontare una nuova invasione vichinga, questa volta proveniente dalla Francia, e riportò una nuova vittoria nell’896. Alfredo è passato alla storia non solo come un abile guerriero, ma anche come legislatore – codificò il diritto del Wessex, emanando un nuovo «codice» – e promotore di cultura, poiché riuní alla sua corte di Winchester, capitale del regno, i migliori «intellettuali» del tempo. Furono suoi collaboratori il famoso monaco gallese Asser († 909), poi vescovo di Sherborne, il teologo delle Fiandre Grimbald di SaintBertin († 901), lo scrittore Giovanni di Sassonia e Plegmund († 914 circa), vescovo di Canterbury (vedi box alle pp. 102-103). Morto Alfredo, nell’899, gli successe il figlio, Edoardo «il Vecchio», che, come il padre, continuò la politica di conquista verso il Nord, scontrandosi con i Vichinghi del Danelaw e, nel 910, li batté a Tettenhal. Nel 918, alla morte della sorella Etelfleda, Edoardo si impossessò anche della Mercia occidentale. Il Wessex incorporò cosí tutti i territori al di sotto dell’Humber, lasciando ai Vichinghi il solo possesso di quelli a nord del fiume, fino ai confini della Scozia, e corrispondenti agli attuali Yorkshire e Northumberland.

Gli antenati degli sceriffi

Alla morte di Edoardo, nel 924, gli successe, per pochi giorni, il figlio minore Ethelweard, dopodiché la corona passò al primogenito Atelstano (924-939). Detto «il Glorioso», questi consolidò le conquiste paterne dal punto di vista amministrativo, suddividendo il territorio in contee – shires – che, in parte, ricalcavano i confini dei regni preesistenti e affidandone il governo a ufficiali – gerefas – antenati dei futuri sceriffi. Atelstano fu anche il primo re del Wessex a tessere solidi rapporti internazionali con altri Stati: legò il suo regno alla Norvegia di Aroldo «Bellachioma» (890 circa-930), primo sovrano di un regno unito, e ne ospitò a corte il figlio, Haakon «il Buono» († 960), che fece battezzare e adottò. Haakon, poi divenuto re di Norvegia, fu il primo sovrano di fede cristiana. Atelstano cercò di estendere l’influenza del Wessex sul Danelaw, favorendo le nozze tra una sorella naturale e il re vichingo Sihtric († 927), ma, dopo la morte di questo, e l’incoronazione del fratello Guthfrith († 934), i rapporti tra i due regni si guastarono. Nel 937, fallita ogni ipotesi di accordo, Atelstano affrontò, in un’epica battaglia, Olaf Guthfrithsson, nuovo sovrano del Danelaw, il quale si alleò per l’occasione con i re di Scozia, Costantino II (900-945), e di 98

ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

IL DANELAW L’8 giugno del 793, i Vichinghi, predoni di origine danese e norvegese, assalirono l’abbazia di Lindisfarne, sulla costa orientale della Northumbria, massacrando i monaci e asportando gli arredi sacri. Quella data segnò convenzionalmente l’inizio della cosiddetta «età vichinga», conclusasi solo nel 1066, con l’occupazione normanna dell’Inghilterra. In realtà, sembra che la prima incursione vichinga in Britannia rimonti al 787, quando un gruppo di predoni assalí Portland, nel Wessex, uccidendo l’ufficiale regio che il re del Wessex, Brihtric, aveva inviato loro incontro. Solo dal 793, però, i predoni del Nord – detti anche «Norreni» – iniziarono a saccheggiare, periodicamente, le coste britanniche. Nel 794, in Northumbria, fu saccheggiato il monastero di Wearmouth e, nel 795, fu attaccata anche l’Irlanda. Nel 799, attaccando l’Aquitania, i Vichinghi iniziarono ad assalire il continente, ma, solo a partire dall’830, dopo aver fondato alcune basi sulle isole britanniche di Wight e Sheppey, le incursioni cessarono di essere sporadiche e divennero continue. Da quello stesso anno, gli attacchi dal mare colpirono assiduamente anche l’Irlanda, dove furono saccheggiati molti monasteri, ma anche fondati nuovi insediamenti sulla costa orientale, come Dublino, Cork, Limerick, Wexford e Waterford. All’inizio del X secolo, il regno vichingo di Dublino era diventato cosí potente da controllare anche il Danelaw inglese, ma, con la battaglia di Clontarf (1014), le tribú celtiche irlandesi ebbero


ragione dei Norreni, la cui aggressività fu notevolmente ridimensionata. Nell’866, una «Grande Armata» di circa 3000 uomini, composta da effettivi di provenienza danese e norvegese, sbarcò in Northumbria, con l’obiettivo di colonizzare la regione, dando vita a insediamenti permanenti. Secondo le saghe, al comando dell’esercito erano Ivar «Senz’ossa» († 873), Ubbe († 867 circa) e Halfdan († 877) Ragnarsson, figli di Ragnar Lodbrok – «brache pelose» – capo vichingo di dubbia origine etnica, già autore degli assedi di Parigi dell’845 e dell’855. I tre comandanti avevano intenzione di vendicare il padre, che ucciso intorno all’865 mentre tentava di saccheggiare la Northumbria, da re Aella (863 circa-866), il quale, dopo averlo catturato, lo aveva lasciato morire in una fossa di serpenti. Nell’866, sbarcati in Northumbria, presa e saccheggiata York, i figli di Ragnar rivolsero l’esercito contro Aella e, profittando del fatto che il re era reduce da una guerra civile contro il fratello, Osberht, lo presero prigioniero e lo uccisero. Nell’867, Ubbe, Ivar e

In alto Lindisfarne (Northumberland, Inghilterra): i resti del complesso monastico, assalito e saccheggiato da predoni scandinavi l’8 giugno 793. A destra statua di Edmondo, re dell’Anglia Orientale, collocata nella facciata della chiesa dedicata al sovrano a Southwold, nel Sussex (Inghilterra): nell’869, Edmondo guidò eroicamente un esercito contro gli invasori vichinghi, ma venne catturato, legato a un albero e ucciso. ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

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ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

L’eptarchia anglosassone

Halfdan si spostarono a sud e, occupate la Mercia e l’Anglia Orientale, deposero i rispettivi re e iniziarono a distribuire terre ai membri del loro seguito. Nell’869, il re dell’Anglia Edmondo, che rifiutò di abiurare il cristianesimo, venne martirizzato, mentre in Mercia i Vichinghi deposero re Burgred e imposero l’inetto Ceolwulf († 879) e, dovunque passavano estorsero il danegeld, cioè il tributo. Spintisi piú a sud, i Vichinghi invasero il Wessex, ma si trovarono di fronte alla ferrea resistenza di Alfredo «il Grande». Morti i figli di Ragnar in circostanze poco chiare, il comando della «Grande Armata» fu assunto da re Guthrum († 890), il quale, sconfitto da Alfredo a Edington, accettò il battesimo e impose la conversione al suo popolo. In base al trattato di Wedmore, i Vichinghi ottennero la possibilità di insediarsi nella Britannia centrale e nord-orientale, nel Danelaw – «Legge danese» – che da essi prese il nome. Non sappiamo come essi organizzassero il territorio occupato dal punto di vista amministrativo, ma se ne conoscono i confini che, a nord, arrivavano al fiume Tweed, lambendo la Scozia, a sud, invece, risalivano il Tamigi fino alla confluenza con il Lea, proseguendo fino alle sorgenti del fiume e, da lí, fino a Watling Street, l’antica strada romana che congiungeva Britannia e Galles.

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ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

A destra il tesoro di Harrogate, rinvenuto nel 2007 nei pressi di York. Composto da 617 monete d’argento e 65 oggetti in argento, argento dorato e oro, apparteneva probabilmente a un capo vichingo. 900 circa. Londra, British Museum. In basso tre pezzi degli scacchi Lewis, dall’omonima isola scozzese. Manifattura normanna, fine del XII sec. Londra, British Museum. Ricavate da zanne di tricheco, le pedine sono a forma di Berserkir, i leggendari guerrieri della tradizione vichinga.


Il Danelaw, comunque, non sembra essere stato mai un regno unitario, ma era diviso in piú regni, tra cui il «regno di York» – ribattezzata Jórvík dai Vichinghi – collocato a nord dell’Humber e che ricalcava, approssimativamente, l’antica Northumbria. Il Danelaw comprendeva inoltre quattro importanti città che presidiavano i confini con il Wessex, denominate «i cinque borghi» – five Boroughs –, cioè Lincoln, Leicester, Derby, Nottingham e Stamford, ciascuna delle quali probabilmente governata da un re. La presenza vichinga nel Danelaw è documentata non solo da resti archeologici, ma anche dalla toponomastica tipicamente scandinava, caratterizzata dall’aggiunta, ai nomi delle località, dei suffissi «by» e «thorp». La lunga presenza vichinga in Britannia è, ancora oggi, testimoniata dal lessico inglese che ha incorporato centinaia di termini dell’antico norreno come il sostantivo «law».

Strathclyde, Owain. La coalizione venne sbaragliata a Brunanburh, località ai confini con la Scozia, e, dopo la battaglia, in cui Owain trovò la morte, gli Scozzesi furono costretti a ritirarsi e Olaf Guthfrithsson fuggí in Irlanda e abbandonò il Danelaw, che cadde nelle mani di Atelstano, cosí che i confini del Wessex si espansero fino al Tweed, lambendo la Scozia. Morto Atelstano nel 939, la sua costruzione politica fu sul punto di crollare, perché Olaf Guthfrithsson reintrò dall’esilio e riprese possesso del Danelaw, che tornò a essere un regno indipendente. Senza figli, Atelstano designò come successori i fratelli Edmondo (939-946) ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

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ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

L’eptarchia anglosassone

RINASCITA CULTURALE Come già per le altre stirpi germaniche insediate sul continente, la progressiva cristianizzazione tra gli Anglosassoni favorí la diffusione della lingua latina e, piú in generale, della «cultura scritta». Fin dall’inizio, quindi, diffusione della scrittura e acculturazione cristiana procedettero insieme e, ben presto, il latino fu utilizzato anche per trascrivere i fonemi dei dialetti locali, di origine germanica, e alla scrittura runica, prevalentemente epigrafica, si sostituí la scrittura latina, per confezionare documenti e opere letterarie, su papiro e pergamena, negli scriptoria dei monasteri o nelle cancellerie dei regni. Tuttavia, in Britannia, l’abbandono delle rune fu piú lento che altrove e fu definitivo solo alla fine dell’XI secolo, com’è dimostrato dalla croce di Ruthwell, in Scozia, manufatto in pietra risalente all’VIII secolo e sul quale è stata rinvenuta un’iscrizione di circa 300 caratteri, in runico, del poema Il sogno della croce. Il primo scrittore anglosassone attestato con certezza fu Caedmon († 675), un porcaio al servizio dell’abbazia di Whitby. Benché analfabeta, secondo la leggenda Caedmon iniziò miracolosamente a comporre poemi in dialetto northumbrico – usando l’alfabeto latino, ma firmando con le rune –, tra cui Genesi, sulla creazione del mondo. Beda il Venerabile († 735), monaco prima a Wearmouth e, poi, a Jarrow, fu allievo di Benedetto Biscop e, senza dubbio, l’intellettuale piú importante dell’VIII secolo. Autore prolifico di versi, testi

agiografici – Vita sancti Cutberti – commentari esegetici alle Sacre Scritture e di testi storici – Historia abbatum –, Beda è famoso, soprattutto, per l’Historia ecclesiastica gentis Anglorum, una cronaca che ripercorre la storia della Britannia dal primo sbarco di Giulio Cesare nell’isola, nel 55 a.C., fino al 731. Nell’opera, un’attenzione particolare è riservata alla conversione delle stirpi anglosassoni al cristianesimo e alla progressiva organizzazione istituzionale della Chiesa. Attivo nell’VIII secolo fu anche il poeta Cynewulf, autore di poemi in northumbrico quali l’Ascensione, Elena, Giuliana, I fatti degli apostoli. All’VIII secolo risale anche il poema epico, sempre in northumbrico, Beowulf, nel quale si narrano le avventure del re svedese che, ucciso il mostro Grendel, muore affrontando un drago. Da notare che le vicende narrate nel poema sono ambientate in Danimarca e Svezia – non in Britannia – e che i valori ispiratori del poeta sono ancora quelli guerrieri dell’antica cultura germanica. Allo stesso periodo risale il già citato poema in northumbrico Il sogno della croce, generalmente attribuito a Cynewulf, ma i cui motivi ispiratori sono molto diversi dal Beowulf: l’autore immagina che la croce gli appaia in sogno, per raccontargli la sua storia e, con essa, il

ed Edredo (946-955), che si impegnarono al fine di riottenere la sottomissione del Danelaw. In tale impresa, il Wessex fu favorito dalla guerra intestina seguita, nel 941, alla morte di Olaf Guthfrithsson, che scompaginò il regno vichingo. Vari pretendenti si contesero il trono: da una parte, Olaf Sihtricsson († 980 circa), cugino di Olaf Guthfrithsson, e dall’altra Erik I «Ascia di Sangue», figlio di Aroldo «Bellachioma» e re di Norvegia, da cui era stato cacciato da un gruppo di nobili. In un primo tempo, Erik ebbe ragione di Olaf Sihtricsson, ma, nel 954, venne ucciso a Stainmore dai suoi avversari. Olaf Sihtricsson, però, non riuscí a insediarsi nel Danelaw e fu costretto a fuggire in Irlanda, dove morí. Il Danelaw tornò a essere definitivamente possesso del Wessex e cosí la popolazione anglosassone si fuse biologicamente e culturalmente con quella scandinava. Alfredo «il Grande» creò un regno solido e fu il primo ad assumere il titolo di rex Angulsaxorum 102

ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

– «re degli Anglosassoni» – poi portato dai suoi successori, che si dimostrarono all’altezza del compito e consolidarono le conquiste anche sotto il profilo amministrativo e culturale. Infatti, i re Edwy (955-959) ed Edgardo (959-975), figli di Edmondo e successori di Edredo, continuarono l’opera di promozione culturale già intrapresa da Alfredo e promossero l’uniformazione della disciplina canonica vigente nei monasteri del regno, che furono costretti a osservare tutti la Regola benedettina. Grazie all’ausilio di collaboratori come Dunstano, vescovo di Canterbury (960-988) e Osvaldo, vescovo di York (972-992), i re del Wessex patrocinarono la costituzione di nuovi cenobi – si pensi a Westminster – con annesse scuole e biblioteche, dove furono prodotti piú di un migliaio di manoscritti, sia in latino che in volgare. I sovrani del Wessex compresero che l’unificazione politica del paese doveva accompagnarsi anche a un’intensa opera di promozione culturale e


sacrificio salvifico di Cristo. Alla fine del IX secolo, sotto Alfredo il Grande, si ebbe il massimo sviluppo della cultura anglosassone, anche per impulso del re che fu patrocinatore di cultura e tradusse, in prima persona, la Regola pastorale di Gregorio Magno, le Storie contro i pagani di Orosio († 420), i Soliloqui di sant’Agostino († 430) e Sulla consolazione della filosofia di Boezio († 526). Queste opere vennero tradotte dal latino in old English, cioè in antico inglese, la lingua parlata dagli Anglosassoni e, nel caso specifico, dai Sassoni del Wessex, proprio per consentirne la piú facile divulgazione. La lingua del Wessex si avviò a diventare lingua ufficiale dell’Inghilterra, riducendo gli altri dialetti germanici – northumbriano, merciano, kentiano – a parlate locali, progressivamente scomparse. Alla corte di Alfredo fu attivo anche il monaco gallese Asser, che, tra l’altro, diresse la traduzione delle opere di Beda e la realizzazione – direttamente in old English – della Cronaca

anglosassone, una narrazione, cronologicamente ordinata, della storia dell’Inghilterra dal 55 a.C. all’891. Scritta a Winchester, capitale del Wessex, da chierici al servizio del re, la Cronaca venne redatta in piú copie, che, trasmesse ai vari monasteri del regno, furono poi portate avanti indipendentemente l’una dall’altra, fino al 1154, anno dell’ascesa al trono dei Plantageneti. Alfredo pose le basi affinché l’old English assumesse piena «dignità letteraria» e i suoi auspici non furono disattesi. Nel corso del X secolo, infatti, due anonimi poeti composero, in old English, i poemi epici La battaglia di Brunanburh e la La battaglia di Maldon, ispirati ad altrettanti importanti episodi della storia inglese. Il primo, inserito all’interno di alcuni manoscritti della Cronaca anglosassone, trasfigurava, poeticamente, i fatti connessi alla battaglia che, nel 937, vide contrapposti i Vichinghi del Danelaw agli eserciti del Wessex. Il secondo poema raccontava il massacro di Byrhtnoth – signore dell’Essex – e del suo esercito, nella battaglia di Maldon, combattuta nel 991 contro i Vichinghi. Nei poemi albeggiava un sentimento d’identità «nazionale», che, pur permeato di spiritualità cristiana, rappresentava il superamento del coraggio individuale di ascendenza germanica.

In alto miniatura raffigurante Alfredo il Grande. Royal MS 14B VI, 1300-1340. Londra, British Library. Nella pagina accanto, a sinistra la croce di Ruthwell, sulla quale è stata rinvenuta un’iscrizione in runico. Primi anni dell’VIII sec. Nella pagina accanto, in alto prima pagina del poema Beowulf. XI sec. Londra, British Library. A sinistra Maldon (Essex), All Saints Church. Statua di Byrhtnoth, signore dell’Essex, vincitore della battaglia combattuta nel 991.

linguistica, strumento indispensabile per la creazione di un sentimento nazionale tra stirpi che, fino a qualche tempo prima, si erano duramente combattute. Alla fine del X secolo, il Wessex aveva finalmente unificato una parte consistente della Britannia, dando al paese confini che resteranno sostanzialmente inalterati fino al 1066, cioè all’invasione di Guglielmo di Normandia († 1087). Escluse le terre ancora abitate dai Celti, l’isola era unita sotto il governo di una sola corona e, ben presto, mutò anche il nome che fu adeguato ai nuovi equilibri politici: la Britannia divenne Angelcyn – la «terra degli Angli» – e la lingua dei suoi abitanti l’Englisc, la «lingua degli Angli». Prevalse, dunque, il nome degli «Angli», per indicare il regno del Wessex e la sua lingua ufficiale. Grazie ad Alfredo e ai suoi successori, era stato compiuto il primo passo per la costituzione della «nazione» inglese. ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

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All’alba dell’Europa

A partire dall’ascesa al potere della dinastia merovingia e fino alla consacrazione a imperatore di Carlo Magno, nella notte di Natale dell’800, i Franchi hanno scritto un capitolo cruciale della storia del Vecchio Continente

I

Franchi si stanziarono definitivamente in territorio romano agli inizi del V secolo d.C., trasmigrando dalla riva destra del Reno a quella opposta, nella provincia della Gallia Belgica Secunda. Uno dei primi re, documentato con relativa certezza, fu Faramondo, morto intorno al 426, al quale successe il figlio, Clodione, padre di Meroveo (448-458), suo successore e fondatore della dinastia omonima. «Meroveo», significava probabilmente «figlio del mare», in omaggio alle sue origini leggendarie, raccontate da uno storico del VII secolo, Fredegario († 680 circa), che da molti è però considerato una personalità fittizia. Nella sua Cronaca, Fredegario raccontò che Meroveo fu concepito dalla moglie di Clodione con un mostro marino, il Quinotauro – «Toro dalle cinque corna» e che, probabilmente, era una rielaborazione letteraria del piú noto Minotauro – che le apparve mentre faceva il bagno. Una delle fonti piú importanti per ricostruire le vicende connesse alla dinastia merovingia è l’Historia Francorum, opera storiografica di Gregorio, vescovo di Tours (573594), che rientra nel genere delle Origines gentium. Le Origines erano «storie» redatte in latino, riguardanti le singole tribú germaniche, e che mettevano per iscritto parte del materiale delle «saghe migratorie» delle singole stirpi – Wandersagen – inizialmente 104

ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

La battaglia di Tolbiac, olio su tela di Ary Scheffer (1795-1858). 1834. Versailles, Musée national des châteaux de Versailles et de Trianon. Il dipinto raffigura lo scontro che si combatté nel 496 presso l’attuale Colonia e che vide il re dei Franchi Clodoveo I trionfare sugli Alamanni.



trasmesso in forma orale e poi rielaborato, a partire dal VI secolo. È difficile dire quanto del materiale delle Origines fosse autentico e non frutto di falsificazioni dettate da motivazioni letterarie o politiche, anche perché queste opere si richiamavano agli schemi interpretativi della storiografia romana di taglio etnografico, con tutte le conseguenti deformazioni e incongruenze. Basti pensare che in nessuna delle Origines le tribú germaniche erano considerate originarie della Germania propriamente detta, ma venivano fatte discendere dalla penisola scandinava ritenuta, a torto, un’isola. Nel caso dei Franchi, Gregorio di Tours ne collocò l’origine addirittura nella Troade, in Asia Minore, ritenendoli discendenti dai Troiani. Inizialmente stanziati in Pannonia, i profughi assunsero in seguito il nome di Franchi e trasmigrarono in Gallia. Questi eventi sono senz’altro inventati, ma per ovvi motivi di carattere politico e di legittimazione dinastica, perché considerare i Franchi discendenti dei Troiani, li rendeva «fratelli» dei Romani e, quindi, legittimi eredi del loro impero (vedi box in queste pagine). Nel 458, morto Meroveo, gli successe il figlio, Childerico, figura storicamente attestata, come dimostra la sua tomba, ritrovata in Belgio nel XVII secolo (vedi box alle pp. 108-109). Childerico fu fedele all’impero ed estese i suoi domini a ovest del Reno, incorporando i territori gallici fino alla Somme. Nel 481, quando morí, il re era riuscito anche a ottenere la carica di magister militum, cioè di governatore militare della Gallia Belgica Secunda. La corona passò al figlio, Clodoveo, il quale, secondo una tradizione probabilmente leggendaria, era nato dalla principessa Basina († 477), che Childerico aveva conosciuto nel corso di una lunga permanenza presso i Turingi, dopo essere stato esiliato dai Franchi perché, essendo eccessivamente lussurioso, ne importunava le mogli.

La nascita della Francia

A Clodoveo va il merito di aver unificato, sotto un’unica corona – e attraverso numerose campagne militari – gran parte del territorio dell’attuale Francia, eliminando ogni sacca di resistenza. Forte del ruolo di magister militum e di re dei Franchi Sali – entrambi ereditati dal padre –, Clodoveo iniziò a espandere i confini del regno oltre la Somme, in direzione della Loira, inglobando tutto il territorio compreso tra i due fiumi – Francia nord-occidentale – governato da Siagrio. Questi era un nobile romano, originario di Lione, che, già magister militum per (segue a p. 110) 106

ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

ETNOGENESI DEI FRANCHI Le prime notizie sui Franchi risalgono alla metà del III secolo d.C., quando ebbe inizio il loro processo di formazione – l’etnogenesi –, cioè di consolidamento e definizione dell’identità etno-culturale, completato solo nel V secolo. I Franchi costituivano in realtà una confederazione di tribú germaniche – Sugambri, Catti, Catruari, Usipeti, Tencteri, Gambrivi –, già da tempo stanziate lungo il medio e basso corso del Reno ed erano distinti in due raggruppamenti: i Franchi Sali e i Franchi Ripuari. L’etimologia del nome è incerta: probabilmente, «Franchi» significava «valorosi», mentre «Sali» è da collegare al latino salum – mare – e Ripuari a ripa – riva –, con riferimento alla diversa collocazione geografica dei due raggruppamenti. A partire dal IV secolo, con il consenso delle autorità romane, i Franchi si stanziarono in Gallia come stirpi federate, obbligate a fornire truppe ai Romani in caso di necessità. Il concetto di etnogenesi è, da tempo, oggetto di attenta riflessione in campo storiografico e, in riferimento alle tribú germaniche, non è il caso di parlare di nazioni nel senso moderno del termine, soprattutto se si considera che la stessa denominazione «Germani» fu attribuita dai Romani alle tribú del Barbaricum, probabilmente servendosi di un termine di origine celtica, e non fu mai utilizzata dalle stirpi barbare. Il carattere etnico delle singole tribú era elastico e oggetto di continui rimaneggiamenti, benché le singole stirpi – anche prima dello stanziamento nel territorio romano – possedessero un sistema articolato di tradizioni religiose, mitiche,


I Franchi all’avvento di Clodoveo Regno di Siagrio (486)

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Territori degli Alamanni (496-97)

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In alto spilla a forma di mosca in oro con inserzioni di smalto, dalla Francia. V-VII sec. Firenze, Museo Nazionale del Bargello. A destra l’assetto geopolitico della regione francese all’avvento e durante il regno di Clodoveo. Nella pagina accanto, in basso e in questa pagina, al centro due fibbie in oro con inserzioni di smalti, dalla Francia. V-VII sec. Firenze, Museo Nazionale del Bargello.

Colonia

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Salii Tournai

Annessione dei Ripuari e di tutte le tribú dei Franchi

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Territori dei Visigoti (507)

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CONQUISTE DI CLODOVEO

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Regno dei Franchi alla morte di Clodoveo Spartizione tra i suoi quattro figli CLOTARIO

storiche, cioè un «nucleo di tradizione» – Traditionskern – trasmesso di generazione in generazione, in forma orale, e di cui erano custodi gli «uomini memoria», cioè gli anziani appartenenti ai clan dominanti. Doveva però trattarsi di un patrimonio culturale soggetto ai continui cambiamenti connessi alla formazione di nuclei confederativi multitribali e alla fusione e incorporazione, nella tribú-madre, di nuove tribú o singoli gruppi appartenenti a tribú diverse, debellate militarmente e depositarie di un proprio e alternativo Traditionskern, che si aggiungeva a quello della tribú incorporante.

A sinistra fibbia di cintura in ferro, argento e con inserti in lega di rame, dalla Borgogna. Produzione franca o burgunda, VII sec. New York, The Metropolitan Museum of Art. ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

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ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

I Franchi

LA TOMBA DI CHILDERICO La tomba di Childerico fu scoperta per caso, nel 1653, a Tournai, in Belgio, in una necropoli tardo-romana. Il re era stato sepolto sotto un grande tumulo, con un vasto corredo di pregevole fattura, circondato da altrettante fosse in cui, secondo un uso forse mutuato dai popoli della steppa, erano contenuti resti di uomini e cavalli, probabilmente sacrificati in occasione delle esequie. L’attribuzione della sepoltura a Childerico fu possibile grazie al ritrovamento dell’anello sigillare del re, recante la scritta «Childerici regis» e l’immagine del sovrano, ritratto alla maniera di un condottiero romano, con toga e paludamentum, ma anche con la caratteristica pettinatura dei sovrani germanici – reges criniti – cioè con i capelli lunghi separati da scriminatura centrale. Oltre all’anello, gli scavi portarono alla luce un numero incredibile di monete in oro e argento – circa 200 – in gran parte di fattura bizantina, finimenti per cavalli, un bracciale d’oro e resti di armi tipicamente germaniche come una spada lunga, un’ascia da lancio – francisca –, una lancia e uno scramasax, una sorta di grosso coltello atto a colpire di taglio. Nella tomba furono trovati anche molti monili preziosi, fibbie, una spilla cruciforme destinata a fissare il paludamentum sulla spalla sinistra e anche 300 cicale d’oro destinate all’ornamento del mantello. Questi oggetti, in oro e argento, furono in gran parte realizzati con la tecnica del cloisonné, cioè con l’inserimento di paste vitree o pietre preziose in castoni – cosiddetti cloisons – ricavati nella superficie metallica degli oggetti. Del prezioso corredo tombale resta, oggi, solo una parte, conservata al museo di Tournai e al Cabinet des Médailles di Parigi, dopo il celebre furto avvenuto nel 1831. Secondo gli archeologi, gli oggetti del corredo e le modalità della sepoltura avrebbero avuto la finalità di sottolineare la duplice natura della regalità di Childerico: re dei Franchi, ma anche, in virtú di un processo di acculturazione in senso romano, patricius et magister militum della Gallia Belgica Secunda e alleato dell’impero romano. Il corredo sottolineava l’avvenuto passaggio da un concetto di regalità magico-sacrale-militare, tipicamente germanica, a uno prettamente politico-istituzionale di stampo romano. Oggi l’archeologia è molto piú prudente nell’analisi e nell’interpretazione dei corredi rinvenuti nelle tombe cosiddette «barbariche», e sono stati superati vecchie schematizzazioni e pregiudizi, dimostrando come la presenza di lussuosi e militareschi corredi funerari accomunasse, nell’età tardoantica, tanto i «barbari» quanto i Romani. Ciò perché la funzione del corredo funerario – come insegna l’antropologia – non era tanto e solo quella di costituire un marcatore di etnicità, secondo l’equazione corredo = «barbaro», quanto di sottolineare, di fronte al gruppo riunito per le esequie,

Replica dell’anello sigillo di Childerico I, recante l’immagine del re e la dicitura CHILDIRICI REGIS. Oxford, Ashmolean Museum. 108

ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO


Alcuni degli oggetti preziosi del corredo funebre deposto nella tomba di Childerico I, scoperta a Tournai (Belgio) nel 1653. Ante 481. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Evidenziato dalla cornice, è l’anello sigillo del re, di cui, anche in questo caso, è esposta una replica, poiché l’originale è scomparso nel 1831. A destra, in alto cromolitografia che illustra gli oggetti facenti parte del corredo di Childerico I.

un’appartenenza di genere, uomo-donna, o uno status economicosociale di dominio o asservimento, di ricchezza o povertà, al di là del fatto che il defunto fosse «barbaro» o romano. I corredi, in tempi convulsi e violenti come il V secolo, non erano necessariamente marcatori di identità etnica definita. Ne consegue che la complessità dell’universo delle stirpi barbare, continuamente sottoposto a stravolgimenti politico-militari e a contatti commerciali e culturali con le realtà piú disparate e lontane, non solo romane, non consente di pronunciarsi sempre, e con certezza assoluta, sull’appartenenza di un corredo funebre e di una tomba a un romano o a un «barbaro», né, nel caso di un «barbaro», di pronunciarsi sull’appartenenza dello stesso a una specifica tribú. Una risposta sufficientemente certa può venire solo dalla bio–archeologia, dall’analisi antropometrica e genetica dei resti umani rinvenuti che, attraverso la determinazione del gruppo sanguigno, del genotipo e del fenotipo – struttura ossea, conformazione cranica, capelli del defunto – consente di attribuirgli, in modo chiaro, una specifica appartenenza etnica. ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

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ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

I Franchi A sinistra miniatura raffigurante la divisione del regno avvenuta, nel 561, alla morte di Clotario I tra i 4 figli: Cariberto, Sigeberto, Chilperico e Gontrano, da un’edizione illustrata de Les Grandes Chronique de France (o de Saint-Denis). XIV sec. Castres (Francia), Bibliothèque Municipale. In basso Parigi, basilica di Saint-Denis. Il monumento funebre di Clodoveo I, in origine collocato nella chiesa di Sainte-Geneviève (l’attuale Pantheon). Al momento della traslazione, nel 1816, la tomba fu trovata vuota ed è perciò possibile che si trattasse, in realtà, di un cenotafio del sovrano.

Gallias, secondo il racconto di Gregorio di Tours, dopo il crollo dell’impero, si era fatto proclamare rex Romanorum. Nel 486 fu sconfitto a Soissons e fuggí presso i Visigoti che lo fecero uccidere. Nel 491, Clodoveo sconfisse i Turingi, ricacciandoli oltre il Reno, e, nel 496, si rivolse contro gli Alemanni, che batté a Tolbiacum – odierna Zülpich – costringendoli a ripiegare nell’attuale Svizzera e Württemberg. Poco prima di affrontare gli Alemanni – o qualche anno piú tardi – Clodoveo si convertí al cattolicesimo, si fece battezzare e ungere re nella cattedrale di Reims, dal vescovo Remigio († 533). Non è da escludere che l’influenza della sorella, Lantechilde, ma anche della moglie, la cattolica burgunda Clotilde († 545), siano state determinanti, ma, probabilmente, il re tenne in conto soprattutto le conseguenze politiche del suo gesto, perché la conversione avrebbe agevolato il processo di integrazione dei Franchi con l’élite e la popolazione romana e, inoltre, avrebbe favorito, sul piano istituzionale, la collaborazione del clero episcopale con la corte. Deve considerarsi del tutto leggendario il racconto relativo all’origine dell’olio benedetto utilizzato, nell’occasione, per ungere la fronte del re. Un’antica leggenda, poi divenuta parte 110

ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO


Il regno dei Franchi nel 581 Colonia Tournai

Thérouanne

Liegi

Arras Amiens Rouen Bayeux Coutances

Noyon

Beauvais Senlis

Evreux

Vannes Nantes

Reims

Toul

Strasburgo

Langres

Auxerre

Tours Bourges

Nevers

Autun

Basilea Besançon

Chalon

Poitiers

Angoulême

Verdun

Sens

Orlèans

Mâcon Limoges

Spira

Metz

Troyes

Le Mans Angers

Saintes

Treviri

Châlons

Chartres Rennes

Laon

Soissons

Parigi

Avranche Sées

Mayences Worms

Cambrai

Belley

Lione

Clermont

Sion

Ginevra

Montieurs Velay

Périgeux Bordeaux Bazas

Dax

Agen

Aire Eauze Béarn

Oloron

Comminges

St-Jean-de-Maurienne Vienna Grenoble Le Puy Die Gap Valence Javols Viviers Embrun St-Paul Sisteron Cahors Rodez Digne Orange Glandeves Albi Apt Riez Nizza Vence Tolosa Arles Fréjus Aix Marsiglia

Regno d’Orléans

Regno di Soissons

Metropoli provinciale

Regno di Reims

Diocesi

Provincia ecclesiastica

della memoria dinastica merovingia, raccontava che l’ampolla in cui era contenuto l’olio benedetto sarebbe stata donata a Remigio direttamente dallo Spirito Santo. Da quel momento, le guerre di Clodoveo e dei suoi successori sarebbero diventate «guerre sante», combattute in nome della Chiesa e di Dio.

La spedizione contro i Visigoti

Nel 500, Clodoveo sferrò un duro attacco contro Gundobado (474-516), re dei Burgundi, tribú stanziata nella Francia meridionale, ma l’obiettivo di annetterne il regno non fu conseguito. Qualche anno dopo, nel 507, a Vouillé, nella valle della Loira, sconfisse e uccise il re visigoto, Alarico II, spingendo i confini del regno franco

Tolone

Couserans

fino ai Pirenei e annettendo i territori a sud della Loira e della Garonna, eccetto una ristretta fascia territoriale – Settimania – estesa dai Pirenei alla foce del Rodano. La potenza visigota in Gallia fu, quindi, ridimensionata dai Franchi, che espulsero definitivamente i Visigoti, costringendoli a retrocedere al di là dei Pirenei. Nacque, allora, il regno visigoto di Spagna, con capitale Toledo, che sopravvisse fino al 711, cioè fino alla conquista araba. L’anno dopo la battaglia, Clodoveo fece un ingresso solenne nella città di Tours – per rendere omaggio alle spoglie di san Martino († 397) – destinato a diventare uno dei patroni della dinastia. Abbigliato «alla romana» e distribuendo (segue a p. 114)

L’assetto geopolitico della Francia nel 581, divisa fra tre reami che prendono il nome dalle rispettive città capitali: d’Orléans, di Reims e di Soissons. Il regno franco fu poi riunito con Clotario II (584-629), che pose la capitale a Parigi.

ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

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ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

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ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

I Franchi

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1. FARAMONDO Secondo la tradizione, fu il primo re dei Franchi e avrebbe regnato dal 420 al 426. Ma la sua figura appartiene piú alla leggenda che alla storia.

2. MEROVEO († 457 circa). Regnò sui Franchi dal 448. Con Ezio, sconfisse Attila ai Campi Catalaunici, estendendo poi il suo potere alla Gallia settentrionale e meridionale.

3. CLOTILDE

(474 circa-545). Figlia di Chilperico, re dei Burgundi, ardente cattolica, sposò nel 492 Clodoveo, re dei Franchi, e lo indusse alla conversione.

4. CLODOVEO

3

4

5

(465-511). Salí al trono nel 481 e, nel 496, dopo una decisiva vittoria sugli Alamanni a Tolbiacum, si convertí al cattolicesimo.

5. CHILDEBERTO I

(495-558). Succedette (511) al padre Clodoveo I nella quarta parte del regno e mantenne la capitale a Parigi. Favorí la Chiesa e costruí conventi e ospedali.

ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

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ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

I Franchi LA LEX SALICA E LE LEGISLAZIONI GERMANICHE

denaro alla popolazione, come un magistrato imperiale in trionfo, Clodoveo ricevette una delegazione diplomatica inviata dall’imperatore d’Oriente, Anastasio (491-518), che gli consegnò i codicilli imperiali contenenti la sua nomina a console onorario. Negli anni successivi, consolidò il suo potere anche sui Franchi, eliminando senza pietà alcuni parenti, che, a quanto sembra, condividevano il titolo regio su alcune diramazioni della tribú. Prima fece assassinare, uno dopo l’altro, Ragnacario, Ricario e Cararico, poi indotto Cloderico, figlio del re dei Franchi Ripuari, Sigeberto lo Zoppo, a uccidere il padre, lo ricompensò facendolo mettere a morte.

Una nuova concezione della regalità

Nel 511, poco prima di morire, Clodoveo promulgò la Lex Salica, una codificazione delle norme consuetudinarie del patrimonio giuridico franco, e convocò il sinodo d’Orléans – un’assemblea di vescovi del regno –, nel corso del quale, dopo essere stato acclamato rex gloriosissimus Ecclesiae filius, furono approvati importanti canoni disciplinari riguardanti la moralità del clero e l’osservanza dei relativi obblighi religiosi. L’immagine di Clodoveo assiso tra i vescovi del suo regno, che tesseva rapporti con la gerarchia episcopale del suo tempo e legiferava in difesa della Chiesa, delle donne e dei fanciulli, proibendo culti pagani ed eresie, era indicativa dei mutamenti avvenuti nella concezione regale germanica (vedi box alle pp. 114-116). Morto Clodoveo, gli successero i figli – Childeberto, Teoderico, Clodomiro e Clotario –, che si 114

ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

La promulgazione della Lex Salica rappresentò il culmine del regno di Clodoveo. La legge era nota anche come Pactus Legis Salicae, denominazione che rimandava alla natura «pattizia» della codificazione regia, frutto di un accordo tra il re e l’assemblea tribale. Il patrimonio giuridico consuetudinario dei Franchi Sali fu codificato e messo per iscritto nella lingua dei vinti Romani, sicuramente piú adatta, anche per la sua ricchezza lessicale, a esprimere il complesso delle tradizioni giuridiche della stirpe. Solo agli inizi del VII secolo, a opera dei re merovingi Clotario II e Dagoberto I, fu codificato anche il diritto dei Franchi

Ripuari, con la promulgazione della Lex Ripuaria. Nel prologo del Pactus si fece menzione anche dei legislatori franchi Vidogast, Visogast, Arogast e Salegast, che aiutarono il re nell’opera di individuazione e codificazione delle antiche consuetudini. La lettura della Lex rivela una società agro-pastorale, incamminata su un processo di sedentarizzazione e abbandono delle strutture tribali, ma ancora legata, in buona parte, alle antiche tradizioni. Secondo il diritto germanico, ogni illecito commesso ai danni di un individuo esponeva alla faida da parte di quest’ultimo o del gruppo familiare di appartenenza, ma, per


In alto pagine miniate del Breviario di Alarico, una raccolta di leggi promulgate dal re Alarico II a Tolosa, il 2 febbraio 506. X sec. Clermont-Ferrand, Bibliothèque du patrimoine. Nella pagina accanto, in alto fibula circolare visigota decorata con alveoli policromi, da Azuqueca (Spagna). Nella pagina accanto, in basso pagina di un manoscritto della Legge Salica. Inizi del IX sec. Monaco, Bayerische Staatsbibliothek.

impedire le degenerazioni del taglione, Clodoveo fissò un guidrigildo – Wergeld –, ossia un risarcimento per ogni fattispecie di danno, il cui ammontare era graduato in base alla dignità sociale dell’offeso. In base al principio della personalità giuridica, il diritto franco era probabilmente applicabile ai soli Franchi, mentre i Romani continuarono a usare il loro diritto, che Clodoveo, rispetto ad altri sovrani germanici, non codificò con l’emanazione di un apposito provvedimento. Il diritto franco era estremamente formalistico, caratterizzato da rituali complessi e solenni, attraverso

cui si manifestava la volontà giuridica dei soggetti. Tra le pratiche piú curiose si ricordi la chrenecruda, cioè l’atto con cui un debitore insolvente rinunciava a ciò che restava del suo patrimonio a favore dei membri del clan di appartenenza, a cui veniva trasferita la responsabilità dei debiti: entrato nella sua casa e gettata della terra in ognuno dei quattro angoli, il debitore, con la mano sinistra, ne gettava dell’altra in direzione dei parenti, dopodiché usciva dalla sua casa saltando la staccionata e abbandonando, per sempre, il nucleo familiare di origine. Il Pactus salico rientrava nel

novero delle cosiddette leggi «romano-barbariche» promulgate anche dagli altri re germanici d’Occidente. Esse rappresentarono un aspetto del piú ampio processo di acculturazione delle singole stirpi alla cultura dei vinti e hanno un importante valore politico e ideologico, dal momento che richiamavano il passato romano e la volontà dei sovrani germanici di adeguarsi a quel modello istituzionale, ponendosi in continuità con esso. Il primo testo legislativo fu promulgato dal re dei Visigoti, Eurico (466-484) – Lex Wisigothorum o Codex Eurici (476 circa) – ed era applicabile

ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

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ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

REGNO DEI FRANCHI

Astorga Braga

CHI

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Vittoria

REGNO DEI SUEBI

Palencia

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Huesca

Saragozza

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ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

IS

Coimbra

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Toledo Merida

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Cordova Iliberri

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Lisbona

Valencia

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Santaerèm

Cartagena

emendazione del Codex Eurici, iniziato già sotto i predecessori di Recesvindo, Leovigildo (567586), Recaredo (586-601) e Sisebuto (612-621). L’ampia sfera di applicabilità del provvedimento – che non stabiliva piú pregiudiziali etniche – costituiva la prova tangibile dell’avvenuta integrazione biologica,

IL REGNO VISIGOTO ALLA FINE DEL VI SECOLO Il regno visigoto all'avvento di Leovigildo Conquiste di Leovigildo

Malaga

Tangeri

Il lavoro dei re fu portato a termine, nel 654, sotto Recesvindo. La compilazione prese il nome di Lex Recesvindiana – detta anche Liber Iudiciorum o Forum Iudiciorum – e fu applicata, indistintamente, a tutti i sudditi di etnia romana e visigota. La Lex Recesvindiana portava a termine un lungo processo di

Barcellona Tarragona

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solo alla popolazione germanica. Il successore di Eurico, Alarico II, promulgò la Lex Romana Wisigothorum, applicabile, invece, ai sudditi romani di cui codificava il diritto. Nel VII secolo, i re visigoti di Spagna, Chindasvindo (642-653) e Recesvindo (653-672), decisero di promulgare un nuovo testo normativo, che sostituisse le due precedenti compilazioni di Eurico e Alarico II. Si ricordi che, all’epoca, i Visigoti si erano stanziati, definitivamente, in Spagna, dopo che i Franchi di Clodoveo li avevano cacciati dal territorio gallico, costringendoli a riparare oltre i Pirenei.

I Franchi

Territori ribelli durante il regno di Recaredo Domini bizantini

culturale e religiosa tra le due etnie. Agli inizi del VI secolo, il re dei Burgundi, Gundobado, promulgò la Lex romana Burgundionum – applicabile ai sudditi romani – e la Lex Burgundionum, che codificava il diritto di stirpe ed era applicabile solo ai Burgundi. Nell’Occidente altomedievale, l’opera di codificazione dei diritti di stirpe continuò fino all’epoca carolingia (VIII secolo), quando furono promulgate le ultime grandi codificazioni, ossia la Capitulatio de partibus Saxoniae, il Capitulare Saxonum e la Lex Saxonum, per i Sassoni, la Lex Francorum Camavorum e la Lex Frisionum, per i Camavi e i Frisoni. Queste leggi furono il frutto della volontà dell’imperatore franco Carlo Magno che ordinò di codificare le consuetudini di molte stirpi germaniche inglobate nel suo impero.

In alto l’assetto geopolitico della penisola iberica alla fine del VI sec. A sinistra placca rettangolare di fibbia di cintura visigota, decorata con alveoli policromi, da Azuqueca (Spagna).


spartirono il regno, secondo la tipica concezione patrimoniale dello Stato. Contrariamente a quanto si è sostenuto, tale concezione non fu esclusiva dei Franchi e, in genere, delle stirpi germaniche, ma era radicata anche nella tradizione costituzionale del tardo impero romano, perché connessa a una visione assoluta del potere che identificava lo Stato con il sovrano. I figli di Clodoveo continuarono la politica espansionistica del padre in direzione del Mezzogiorno francese e della Germania transrenana. Nel 524, Clodomiro venne ucciso a Vézeronce, durante la guerra contro i Burgundi, e i fratelli ne approfittarono per eliminare i nipoti e spartirsi il regno. Nel 531, Teoderico, Clotario e Childeberto, unite le forze, attaccarono i Turingi e, in alleanza con i Sassoni, li sottomisero uccidendone il re, Ermanafrido. La nipote di Ermanafrido, Radegonda († 587), andò sposa a Clotario ma, per i continui maltrattamenti – compresa l’uccisione davanti i suoi occhi di Clotacario, suo fratello – decise di abbandonare la corte e di farsi monaca prima a Tours e, poi, a Poitiers. Cosí, la Turingia – regione della Germania centro-orientale – divenne un ducato sottomesso al dominio franco, alla stregua del ducato di Alemannia – pressappoco nell’attuale Svizzera e Württemberg – e furono gettate le basi per l’espansione franca oltre il Reno.

Una unificazione effimera

Nel 534, i Burgundi furono sconfitti e il loro regno diviso tra i figli di Clodoveo, mentre, proprio in quell’anno, morí anche Teoderico, cui successe il figlio Teodeberto. Nel 548, alla morte di Teodeberto, la sua parte di regno fu spartita tra gli zii Clotario e Childeberto e, alla morte senza discendenti di quest’ultimo, nel 558, Clotario unificò, sotto il suo scettro, l’intero territorio franco, ma per breve tempo. Infatti, alla sua morte, nel 561, il regno fu nuovamente diviso tra i figli – Chilperico, Gontrano, Cariberto, Sigeberto –, i quali diedero inizio a un periodo di guerre civili che indebolí profondamente la dinastia, creando le premesse per la crisi del VII secolo. A causa delle spartizioni dinastiche, il regno franco fu suddiviso in quattro entità statali totalmente indipendenti: l’Austrasia – capitale Metz – a nord-est, la Neustria – capitale Soissons – a nord-ovest, la Borgogna – capitale Orléans – a sud-est, e il bacino della Senna – capitale Parigi – al centro della Francia. L’Aquitania, nella Francia sud-occidentale, andava acquistando una maggiore indipendenza dagli altri regni, a causa della sopravvivenza di una classe dirigente e di una forte identità gal-

lo-romana che, intorno alla metà del VII secolo, portarono alla formazione di un ducato autonomo. Morto Cariberto, nel 567, la guerra esplose subito tra i fratelli Chilperico, re di Neustria, e Sigeberto, re d’Austrasia, a causa dell’influenza nefasta delle consorti, Fredegonda e Brunechilde. Nel 567, Fredegonda, amante (segue a p. 120)

Parigi. La torre detta «di Clodoveo», eretta come campanile della chiesa di Sainte-Geneviève, poi trasformata nel Pantheon, del quale si riconosce, in secondo piano, la cupola.

ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

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ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

I Franchi

I FRANCHI E LA CHIESA La conversione di Clodoveo al cattolicesimo pose le premesse per un legame sempre piú stretto tra Chiesa e stirpe regia che si tradusse in un attivo coinvolgimento degli ecclesiastici nella vita istituzionale del regno e in un’intensa opera di munificenza edilizia e di patronato di chiese e monasteri da parte dei sovrani e delle loro consorti. A Clodoveo si deve la costruzione della chiesa dei Ss. Apostoli, a Parigi, sulla collina di Sainte-Geneviève, con funzione di necropoli regia, e in cui venne sepolto con la moglie, Clotilde. A Radegonda, moglie di Clotario I, si deve la costruzione del cenobio di Sainte Croix, a Poitiers, dove si ritirò come monaca, mentre all’anglosassone Batilde († 680), moglie di Clodoveo II, si deve la costruzione dell’abbazia di Chelles. Emersero, a palazzo, importanti figure di vescovi, chiamati a svolgere preziose funzioni, ma anche il ruolo di mediatori nei sanguinosi conflitti tra i vari

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ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

membri della dinastia. Tra essi, oltre al già citato Gregorio di Tours, si ricordino Germano, vescovo di Parigi (555-576), promotore, assieme a Childeberto, della costruzione della chiesa parigina di S. Vincenzo – poi ribattezzata Saint-Germaindes-Prés – e sant’Eligio, vescovo di Noyon (641-660) il quale, pur essendo un semplice orafo, fu investito da Clotario II e Dagoberto I dell’ufficio di sovrintendente alla zecca di Marsiglia e, in seguito, di tesoriere del regno. A Parigi, Dagoberto costruí il monastero – con annessa chiesa – di Saint-Denis, ponendoli sotto il patronato regio. Saint-Denis fu destinata a necropoli regia e a luogo di custodia della «sacra ampolla», ossia dell’olio benedetto – ritenuto di origine miracolosa – con cui avveniva, a Reims, la consacrazione dei re franchi. Mentre affermavano il loro dominio in territorio germanico, i Merovingi promossero anche la conversione al cattolicesimo

In basso miniature raffiguranti episodi della vita di Wynfrith (Bonifacio), dal Liber sacramentorum. X sec.

Udine, Biblioteca del Seminario Arcivescovile. A sinistra, il santo battezza i Frisoni e (a destra) riceve il martirio.


A sinistra il battesimo di Clodoveo raffigurato sul reliquiario realizzato dall’orafo Jean-Charles Cahier e che contiene la Santa Ampolla, la fiala che, secondo la tradizione, lo Spirito Santo aveva donato al vescovo Remigio e che conteneva l’olio benedetto destinato all’unzione dei re. 1822. Reims, Palais di Tau. In basso tavola che raffigura il primo reliquiario della Santa Ampolla. 1882.

delle tribú, organizzando vere e proprie «missioni», come quella tra i Frisoni, svolta dal vescovo visigoto Amando († 679), fondatore della diocesi di Maastricht, e da Villibrordo († 739), monaco anglosassone fondatore dell’abbazia di Echternach, in Lussemburgo. Nell’VIII secolo, nell’opera di apostolato tra i Germani si distinsero il monaco di origine gota Pirmino († 753), che operò tra gli Alemanni – fondando i monasteri di Murbach, in Alsazia, e di Reichenau, sul lago di Costanza – e Wynfrith, conosciuto anche come Bonifacio, monaco del

Wessex, designato da papa Gregorio II (715-731) arcivescovo di Magonza e primate di Germania. Con l’appoggio dei Merovingi e dei Pipinidi – che, nel frattempo, consolidavano il proprio ruolo istituzionale –, Bonifacio fu instancabile fondatore di monasteri (Frizlar) e di diocesi (Würzburg, Frisinga, Eichstätt, Salisburgo, Ratisbona). Nel 754, quando fu martirizzato dai Frisoni, fu sepolto in Assia, nel cenobio di Fulda, fondato dal discepolo Sturmio († 779), destinato a diventare uno dei piú ricchi e potenti monasteri tedeschi. Anche i Pipinidi,

sull’esempio dei Merovingi, amarono accreditare l’immagine di protettori delle istituzioni ecclesiastiche, prodigandosi nella fondazione di monasteri, e alcuni di loro sono ancora oggi venerati come santi. Tra essi, si ricordino Itta († 657),

moglie di Pipino di Landen e fondatrice, con la figlia Gertrude († 659), del cenobio di Nivelles, e Begga, sorella di Gertrude, a cui si deve la fondazione del cenobio di Andenne, in Belgio, dove trascorse l’ultima fase della sua vita.

ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

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ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO di Chilperico, lo persuase a uccidere la moglie, Galsvinta, sorella della moglie di Sigeberto, Brunechilde, ed entrambe figlie del re di Spagna, il visigoto Atanagildo (554–567). Morta Galsvinta, Fredegonda divenne moglie di Chilperico e regina di Neustria, ma l’assassinio provocò la reazione di Brunechilde, che spinse Sigeberto a muovere guerra al fratello. Nel 575, anche Sigeberto fu assassinato, probabilmente da sicari di Fredegonda, e Brunechilde assunse la reggenza dell’Austrasia per il figlio, Childeberto II († 595). Solo nel 584, con l’assassinio di Chilperico, Brunechilde ottenne vendetta, ma la guerra tra Neustria e Austrasia continuò fino al 597, quando, morta Fredegonda, gli successe come re di Neustria il figlio, Clotario II. In quel periodo, solo il monaco irlandese Colombano († 615) ebbe il coraggio di opporsi e di denunciare le iniquità di Brunechilde. Inizialmente, operò nel regno di Gontrano, la Borgogna, evangelizzando i rustici ancora legati a culti e usanze «pagani», e tra i Vosgi, fondò i cenobi di Luxeuil e Annegray. Entrato in urto con Brunechilde, Colombano fu espulso dalla Francia e, dopo un breve soggiorno in Svizzera, dove fondò l’abbazia di S. Gallo, si stabilí in Italia, nel regno dei Longobardi, il cui re, Agilulfo (591-616), gli concesse un territorio nella valle della Trebbia, dove edificò il monastero di Bobbio.

Un’esecuzione brutale

Nel 592, morto Gontrano, la Borgogna passò all’Austrasia dove, morto anche Childeberto, regnavano i figli, Teodeberto II e Teoderico II, sotto la reggenza di Brunechilde. La guerra riprese, perché Clotario II di Neustria voleva vendicare la morte dei genitori – di cui considerava responsabile Brunechilde – e riunificare tutta la Francia. Nel 613, morti Teodeberto e Teoderico, Clotario s’impossessò della Borgogna e dell’Austrasia, facendo prigioniera Brunechilde, che – a quanto racconta Fredegario – fu giustiziata in modo orribile: legata a un cavallo, fu trascinata dall’animale al galoppo finché non sopraggiunse la morte. Sotto il governo di Clotario II (613-629) e del figlio, Dagoberto I (629-639), il regno franco fu riunificato e attraversò un ventennio di consolidamento e di sviluppo del suo apparato burocratico, frutto della fusione di elementi politici, giuridici e istituzionali di diversa origine: esso fu il prodotto, in parte, del retaggio culturale delle stirpi germaniche e, in parte, della tradizione politica e civile romana. La capitale fu fissata a Parigi, sede del palatium e degli uffici della burocrazia centrale – thesaurarius, referen120

ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

I Franchi


Nella pagina accanto statua di Carlo Martello, maestro di palazzo, opera di Jean-BaptisteJoseph Debay. 1839. Versailles, Musée national des châteaux de Versailles et de Trianon.

darius, senescalcus – mentre a livello periferico operavano i conti, che risiedevano, preferibilmente, nelle città, con compiti militari, fiscali e giurisdizionali. La conversione al cattolicesimo dei Merovingi, inoltre, favorí i rapporti con le gerarchie ecclesiastiche e la compenetrazione, a livello ideologico e istituzionale, di regnum et sacerdotium (vedi box alle pp. 118-119). Anche attraverso matrimoni misti, l’aristocrazia franca si era ormai integrata con quella romana, soprattutto nel territorio austrasico. Qui emerse, proprio in quegli anni, per potere e ricchezza, la stirpe dei Pipinidi, probabilmente originaria della regione di Landen e Héristal – nell’attuale Belgio –, dove aveva gran parte dei suoi possedimenti terrieri. Il capostipite dei Pipinidi è considerato Pipino di Landen († 645 circa) – «il Vecchio» –, che, con le nozze tra la figlia Begga († 693) e Ansegiso († 685), figlio di Arnolfo, vescovo di Metz († 640), pose le premesse per il successo della sua famiglia. Arnolfo e Pipino erano personaggi importanti a corte e mentre il primo fu confessore e consigliere spirituale di Clotario e Dagoberto, il secondo fu il loro maestro di palazzo. La carica di maestro di palazzo fu istituita proprio in quel periodo nella burocrazia centrale, e rappresentò

il trampolino di lancio dei Pipinidi. Inizialmente, le competenze del magister palatii consistevano nel sovrintendere all’amministrazione della corte, ma, progressivamente, si estesero a tutto il regno e la carica assunse le caratteristiche di un vero e proprio «primo ministro» e segretario personale del sovrano.

La crisi del VII secolo

L’unione del regno franco venne meno nel 639 quando, morto Dagoberto II, l’Austrasia e la Neustria – a cui era aggregata la Borgogna – tornarono indipendenti e furono assegnate ai figli del defunto sovrano, Sigeberto III († 656) e Clodoveo II († 657). Da quel momento, i regni si sarebbero nuovamente combattuti, avendo un proprio re e un proprio maestro di palazzo. Morto Sigeberto III, Grimoaldo, figlio di Pipino «il Vecchio», tentò di impossessarsi del trono di Austrasia, mandando in esilio in Irlanda il figlio di Sigeberto, Dagoberto II, e imponendo come re il proprio, Childeberto III. Nel 657, il re di Neustria, Clodoveo II, intervenne in Austrasia, depose Grimoaldo e lo fece uccidere. Non si sa esattamente cosa avvenne dopo, ma sembra che Childeberto III riuscí a conservare il regno fino al 661, quando una ribellione dell’aristo-

LA DINASTIA CAROLINGIA Carlo Martello (689 circa-741)

[1] Carlomanno (715-755) Maggiordomo d’Austrasia dal 741 al 747

Drogone

[1] Pipino il Breve (715-768) Maggiordomo di Neustria dal 741 e d’Austrasia dal 747, re dei Franchi dal 752 al 768. Sposa Berta o Bertrada (†783)

Altri figli la cui sorte è sconosciuta

Carlomanno (751-771) Re di Borgogna, Provenza, Settimania e Aquitania orientale dal 768 al 771. Sposa nel 770 Gerberga figlia di Desiderio re dei Longobardi

[2] Grifone (†753) Duca di Baviera dal 749 al 753

[1] Iltrude (†754) sposa nel 741 Odilone (†748), duca di Baviera

Carlo Magno

(742-814) Re di Austrasia e di Neustria dal 768, di tutto il regno dal 771, re dei Longobardi dal 774. Imperatore dall’800. Dopo un rapporto di concubinaggio con [1] Imiltrude (†?), sposa: [2] nel 770 Ermengarda (o Desiderata) figlia di Desiderio re dei Longobardi, ripudiata nel 771; [3] nel 771 Ildegarda (758-783); [4] nel 783 Fastrada (†794); [5] post 796 Liutgarda (†800)

Gisella (757-811) Suora

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La battaglia di Poitiers, ottobre 732, olio su tela del barone Charles de Steuben. 1837. Versailles, Musée national des châteaux de Versailles et de Trianon.

crazia e una nuova invasione dei Neustriani ne determinarono la fine. Internato in un monastero, vi rimase fino alla morte, mentre l’Austrasia fu annessa alla Neustria fino al 676, quando Dagoberto II († 679) rientrò dall’esilio irlandese e riprese il trono. Il fallito colpo di Stato di Grimoaldo allontanò a lungo i Pipinidi dal potere, fin quando, intorno al 680, Pipino di Héristal, figlio di Begga e Ansegiso, non riottenne l’ufficio di maestro di palazzo di Austrasia. Gli ultimi decenni del VII secolo furono anni di acerrimi conflitti tra la Neustria e l’Austrasia, perché ognuno dei due regni voleva riunificare la Francia annettendo l’altro. In Neustria questa politica fu incoraggiata dal maestro di palazzo, Ebroino, che si dimostrò spietato con l’aristocrazia e il clero locale, fino a che, nel 683, non fu eliminato da una congiura. Pipino di Héristal, allora, profittò della situazione caotica che imperversava in Neustria e, nel 687, a Tertry, in Piccardia, inflisse una dura sconfitta ai Neustriani, riunificando i due regni sotto la potestà del re di Neustria, Teoderico III (675-691). Da quel momento il regno franco tornò unito, ma la figura dei re merovingi divenne puramente simbolica, privata di ogni potere dal maggiordomo di palazzo, ufficio che, ormai, era monopolio esclusivo dei Pipinidi. Né è un caso che, da questo momento, i re merovingi, nelle fonti, furono definiti sempre piú spesso con l’appellativo di «re fannulloni», sottolineando la natura puramente simbolica del loro ruolo.

E venne «il piccolo Marte»

Nel 714, alla morte di Pipino, il regno franco fu sul punto di dividersi di nuovo. In Neustria, infatti, il nuovo maggiordomo di palazzo, Ragenfrido († 731 circa), fece eleggere re Chilperico II († 721), mentre in Austrasia e Borgogna si impose Plectrude († 718), vedova di Pipino, che assunse la reggenza per il nipote, il re Teudoaldo. La situazione restò caotica fino al 717, quando Carlo – detto «Martello», cioè «piccolo Marte» – figlio illegittimo di Pipino II e della concubina Alpaide († 718), sconfisse Ragenfrido ad Amblève, presso Liegi, e a Vincy, in Piccardia, e, poco dopo, batté anche Plectrude. Esiliati gli avversari Carlo riunificò definitivamente il regno, si nominò maestro di palazzo e impose come sovrano un esponente merovingio, Clotario IV. Nel 719, morto Clotario IV, gli subentrò Teoderico IV e alla sua morte, nel 737, Carlo Martello governò di fatto come re di Austrasia e Neustria, non designando un nuovo sovrano. Nel frattempo, Carlo aveva consolidato le frontiere del regno, ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

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CONQUISTE E RICONQUISTE

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La penisola iberica rientrava nei domini musulmani dal Oggi, gran parte della storiografia ritiene che le conquiste 711, cioè da quando un nucleo di incursori berberi, islamiche non furono l’esito imprevisto di piccole razzie, provenienti dall’Africa settentrionale – già occupata dagli bensí il frutto di un piano voluto e giustificato, in parte, Arabi nel 698 – sbarcarono a Gibilterra e, profittando dei anche da motivazioni religiose. Il concetto coranico di jihad conflitti dinastici che dilaniavano il regno visigoto di Toledo, – letteralmente «sforzo sulla via di Allah» – assunse infatti, lo annientarono e si impossessarono, nell’arco di pochi fin da subito, una duplice valenza. Se, dal punto di vista anni, dell’intera Spagna. Sebbene la penisola fosse caduta spirituale, il jihad imponeva ai credenti la lotta contro il interamente in mano ai musulmani, una parte della nobiltà peccato e le tentazioni, dal punto di vista politico-militare li cristiana di stirpe visigota si ritirò a nord-ovest dove, sotto la esortava a combattere gli «infedeli» – mushrikun – per guida del duca Pelagio († 737), si costituí il piccolo regno espandere il territorio islamico – Dar al Islam – a spese cristiano delle Asturie, con capitale Oviedo, da cui, negli della casa della guerra – Dar al harb – cioè dei territori anni successivi, ebbe inizio la Reconquista, ossia il tentativo popolati dai non credenti. Secondo il dettato coranico, le politico-militare di rioccupare il territorio iberico, popolazioni conquistate dovevano essere sottoposte a un sottraendolo agli «infedeli». diverso trattamento, a seconda dei casi: i politeisti, in La conquista della Spagna fu solo l’ultimo episodio di mancanza di conversione, erano votati allo sterminio, i un’avanzata che le tribú arabe, unite nella salda compagine cristiani e gli Ebrei, «Gente del libro» – Ahl al Kitab – del califfato – costituito all’indomani della morte di potevano convertirsi o conservare la fede. Maometto († 632) – avevano Mare intrapreso da circa un SI PRUS IRLANDA del Nord NI GRAN S secolo. L’espansione militare Sasson LITUA L ia PO BRETAGNA Ren A LAC dell’Islàm prese infatti avvio P R I N C I P AT O o CHIA Elb V a DI KIEV I Colonia nel VII secolo, sotto la guida Mo Aquisgrana r a dei successori del Profeta, i Sen G e via na r m a Dne Dan n i a Parigi str ubio «califfi ben guidati» Abu Bakr Breta gna e r i a v a B Loira (632-634), Omar (634-644) a Principati c i F r a n Sava Slavi e ‘Uthman (644-656). Poitiers itie iers r Venezia Milano Lione 732 Sotto la guida di Omar, gli CR M Zara O Genova ar AT Arabi occuparono la Persia Arles uitania ia I Aq BI A d Spalato M a r an Danubio Tolosa SER ri Narbona – abbattendo l’impero a Burgos M Ragusa N e r o arca León ti BULGARI Spag co nola CORS RSIC CA CORSICA REGNO DEI Adrianopoli sasanide – la Siria, la Roma Huesca V I S I G OT I Barcellona Taranto Tessalonica Giordania, la Palestina e Napoli Costantinopoli Segoyuela Ocrida Mar 712 Toledo SARDEGNA SA ARDEG GNA G NA A I l’Egitto, territori già Smirne Tirreno Lisbona Valencia Mar AR OM AY YAD I E L Córdoba Mar BA 755 appartenuti all’impero Ionio Granada SICILIA Egeo 698 827 Tunisi romano d’Oriente. Tabarka Siracusa Phoinix Ceuta MALTA Tahuda Dopo la morte di ‘Uthman, a 827 RUST EM I D I CRETA Sbeitla H M cui si deve la redazione 776 Biscra E D ID L I T E R RI 80 A Fès R A N E O Tripoli S 0 scritta del Corano, 78 ID B 8 I I T 547 Barca I I R 642 F E l’espansione araba continuò AT I M IDI TU R B Tr LUN 821 Alessandria E IDI ipo inarrestabile, sotto la guida 868 B litan ia Babilonia L i b i a della dinastia califfale degli Omayyadi (661-750), uno Conquiste dei califfi omayyadi ALANI Tribú nomadi o seminomadi indipendenti 698 (661-750) e data all’avvento di Maometto (622) Eg dei clan piú prestigiosi e it “Ka’ba”, santuario nazionale arabo Conquiste abbasidi (e aghlabite) e data 843 to potenti della Mecca. Tra il Battaglie decisive per l’esito delle prime 670 e il 698, fu occupata Nel 622 Maometto si reca a Medina due guerre civili arabe (656-661 e 680) Nascita della dottrina islamica tutta l’Africa settentrionale a Rivolta abbaside (terza guerra civile). a opera di Maometto (610-622) Fine della dinastia degli Omayyadi ovest dell’Egitto – l’attuale e inizio del califfato abbaside (750) Nubia Impero romano d’Oriente all’inizio dell’espansione araba Maghreb – mentre, a est, gli SAHI Nascita delle dinastie autonome 830 del califfato abbaside e data Impero persiano sasanide all’inizio eserciti islamici si spinsero dell’espansione araba Altre grandi battaglie del mondo arabo durante l’espansione fino alla Cina, ma, nel 751, CONQUISTE ARABE ia e i conflitti interni Alo dopo la battaglia del fiume Territori unificati da Maometto (622-632) Principali campi militari dell’esercito arabo-islamico Talas (al confine tra gli Unificazione dell’Arabia con Abu Bakr (632-634) Impero carolingio in sfacelo Conquiste dei califfi «ortodossi» ai tempi di Carlo il Grosso (887) odierni Kazakistan e 643 (632-661) e data Impero bizantino Kirghizistan, n.d.r.), furono costretti a ripiegare. 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Cristiani ed Ebrei acquistavano, allora, lo status di protetti – dhimmi –, condizione di sudditanza politica, in cambio del pagamento di due imposte – kharag e jizya –, l’una fondiaria e l’altra un testatico. Si noti che alcuni studiosi – fedeli alla tesi espressa da Henri Pirenne nel saggio Maometto e Carlomagno (1937) – vedono ancora oggi nella grande espansione islamica del VII secolo il vero spartiacque tra antichità e Medioevo. Piú di quelle germaniche, le conquiste arabe avrebbero interrotto o comunque ostacolato i traffici commerciali tra il Mediterraneo occidentale e quello orientale – perno del sistema imperiale romano –, determinando, un progressivo «impoverimento» generale e una ruralizzazione dell’intera società europea, con uno spostamento del baricentro economico e politico-amministrativo dal mare verso il continente e, quindi, verso l’entroterra. Pertanto – secondo Pirenne – la data di inizio dell’età medievale andrebbe spostata dal V al VII–VIII secolo.

Cartina che mostra le diverse fasi dell’espansione islamica e i territori da essa interessati.

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sottomettendo gli Aquitani e sconfiggendo gli Arabi a Poitiers, il 17 ottobre del 732. La battaglia – al di là di improprie mitizzazioni – rappresentò l’arresto, seppur momentaneo, delle incursioni che i musulmani dell’emirato di Cordova compivano abitualmente in Francia (vedi box in queste pagine). Oltre il Reno, Carlo sottomise i Frisoni e impose un tributo anche ai Sassoni. Alla sua morte, nel 741, il regno fu diviso tra i figli Pipino – detto «il Breve» – e Carlomanno, che ottennero entrambi la carica di maestro di palazzo. Nel 743, Pipino nominò re Childerico III – forse fratello o figlio di Teoderico IV – tentando di ripristinare un’apparente monarchia, ormai esautorata di ogni potere, e, nel 747, dopo il ritiro del fratello a Montecassino, divenne unico maestro di palazzo. Alla soglia del 750, Pipino appariva al culmine del suo potere: aveva sottomesso l’Aquitania, respinto ulteriori incursioni degli Arabi al di là dei Pirenei e consolidato la posizione del regno franco nei territori germanici. Sassoni e Frisoni, infatti, pagavano un tributo, mentre gli Alemanni – che si erano ribellati nel 746 – furono battuti a Cannstatt.

OCEANO INDIANO

Nel 748, anche il ducato di Baviera rientrò nell’orbita franca, con l’ascesa al trono di Tassilone III (748-788), figlio di Iltrude († 754), sorella di Pipino. Questi, nello stesso anno, catturò il pretendente Grifone – figlio naturale di Carlo Martello e della seconda moglie, Swanachild († 742), che aveva tentato di prendere il potere. Nel 751, convocata un’assise a Soissons, alla presenza dell’aristocrazia laica ed ecclesiastica del regno, Pipino si proclamò re e decretò la deposizione di Childerico III, che fu internato in un monastero, dove morí poco piú tardi. Dopo secoli, terminava la dinastia merovingia, estromessa da ogni potere con un atto politicamente meditato e concordato con la massima istituzione morale e spirituale del tempo: il papato. Poco prima della deposizione di Childerico, infatti, Pipino aveva inviato una delegazione a papa Zaccaria (741-752), guidata dai vescovi Fulrado di Saint-Denis e Burcardo di Würzburg. Attraverso i suoi inviati, Pipino chiese al papa se il potere spettasse a chi realmente lo esercitava – come lui sosteneva – o a chi lo rappresentava in modo simbolico e fittizio. La risposta del papa fu favorevole a Pipino, che cosí venne unto re e incoronato dal vescovo di Magonza, Bonifacio. Nel 753, Pipino fronteggiò una nuova rivolta del fratellastro Grifone, ucciso mentre tentava ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

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ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

I Franchi

I LONGOBARDI Nel 568-569, pochi anni dopo la morte di Giustiniano I, un’altra stirpe germanica, proveniente dalla Pannonia, attraversò le Alpi Giulie e avviò la conquista dell’Italia. Guidati da Alboino (560 circa-572), i Longobardi sconfissero i Bizantini e li costrinsero ad arretrare fino al Po, occupando buona parte dell’Italia settentrionale, dove fondarono un nuovo regno, con capitale Pavia. Alcuni nuclei di conquistatori si spinsero anche piú a sud, lungo l’Appennino, e occuparono la Toscana – fino al Lazio settentrionale –, parte dell’Umbria e delle Marche, il Sannio, l’Abruzzo, il Molise e parte della Campania.

Sotto re Autari (584-590), successore di Alboino, il regno longobardo cominciò ad acquisire una forma istituzionale piú stabile, che si consolidò definitivamente nel corso del VII secolo. Al tempo di questo re, il regno era ripartito in circa 35 ducati – retti da duchi – e organizzato in cinque grandi articolazioni territoriali: l’Austria – i territori a est dell’Adda, fino alle Alpi orientali – la Neustria – i territori a ovest dell’Adda, fino alle Alpi occidentali – la Tuscia, che comprendeva gran parte dell’odierna Toscana e Lazio settentrionale, e, infine, i ducati semiautonomi di Spoleto e Benevento. Con Autari, il potere del re longobardo cominciò

CONQUISTE E RICONQUISTE DEI LONGOBARDI Conquiste iniziali (568-590)

Aquileia

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Territori contesi fra Longobardi e Bizantini

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Brescia

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Pavia

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Conquiste del VII secolo (con data) (Agilulfo 590-616; Rotari 636-652; Grimoaldo 662-671)

Conquiste al tempo di Liutprando (712-744)

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Reggio Calabria

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A sinistra l’assetto geopolitico dell’Italia in età longobarda. In basso corredo funebre di un cavaliere longobardo comprendente armi in ferro con elementi dorati, una crocetta in lamina d’oro, uno sperone, guarnizioni da cintura ageminate e altri reperti in metallo e osso, dalla tomba 53 della necropoli longobarda di Collegno (Torino). 610-630 circa. Torino, Museo di Antichità.


a darsi una strutturazione nuova, di carattere territoriale e non piú soltanto tribale e magico-sacrale, com’era proprio del concetto e dell’istituto della regalità presso le tribú germaniche. Autari assunse il prenome Flavius, evocativo della tradizione imperiale romana, anche per sottolineare una sorta di continuità tra i nuovi re germanici e gli imperatori romani. Quel prenome esprimeva anche l’aspirazione di Autari a essere non solo il re dei sudditi di etnia longobarda, ma anche di quelli di etnia romana. L’uso di un cerimoniale pubblico sempre piú complesso, modellato secondo stilemi romani, si rinviene anche sotto il regno di Agilulfo (591-616), successore di Autari, e sposo della principessa bavara Teodolinda († 628 circa), già moglie di Autari. Teodolinda era cattolica e agí sempre in modo da favorire il cattolicesimo tra i Longobardi, innanzitutto tra i membri della stessa dinastia regale, avversando l’arianesimo. Non sembra che la regina fosse riuscita a convertire il marito Agilulfo, ma, di certo, riuscí a far battezzare i due figli avuti da lui, Adaloaldo († 626) – futuro re – e Gundeperga († 652 circa). Il 22 novembre del 643, a Pavia, il re Rotari (636-652), alla presenza dei grandi del regno e del popolo in armi, nel rispetto della tradizione costituzionale germanica, promulgò l’«Editto», con il quale codificava il complesso consuetudinario giuridico – cawarfidae – della gens longobarda, al fine di garantirgli maggiore certezza giuridica, evitando che, con la dispersione della stirpe nel territorio italico, seguita all’invasione della Penisola, esso potesse andare smarrito. La promulgazione dell’Editto, redatto in latino – lingua dei conquistati – costituí anche l’affermazione della peculiare identità longobarda e della volontà di volerla tutelare contro una potenziale minaccia di annullamento. Tra il 640 e il 643, Rotari fu anche impegnato in dure campagne militari contro i Bizantini, che gli consentirono di estendere il territorio del regno in direzione della Liguria, del Veneto e dell’Emilia.

Durante l’VIII secolo, sotto re Liutprando (712-744), il regno raggiunse la massima espansione territoriale e politica, grazie alle vittoriose campagne militari con cui il sovrano sottomise anche i ducati di Spoleto e Benevento e occupò, per breve tempo, Ravenna – capitale esarcale – e alcuni importanti centri del Lazio. L’aggressività della politica estera longobarda raggiunse il culmine sotto re Astolfo (749-756), il quale, nel 751, occupò definitivamente l’esarcato, annettendo tutti i territori bizantini. La minaccia all’indipendenza della Chiesa di Roma fu tale che papa Stefano II preferí recarsi in Francia per chiedere l’aiuto di Pipino. Nella primavera del 755, il Franco intervenne in Italia e sconfisse in Val di Susa Astolfo, che si rinchiuse a Pavia e si arrese poco dopo. Il sovrano longobardo accettò di evacuare l’esarcato, ma quando ne rioccupò i territori, nel 756, Pipino intervenne di nuovo in Italia. Astolfo fu sconfitto e dovette sottostare a condizioni di pace molto piú dure. Oltre a restituire al papa i territori dovuti, fu costretto a consegnare ai Franchi un terzo del tesoro regio e a pagare un tributo. Il sovrano longobardo morí nello stesso anno e la sua morte improvvisa rallentò l’adempimento dei trattati e la cessione al pontefice dei territori contesi. Al trono fu chiamato Desiderio (756-774), destinato a essere l’ultimo re dei Longobardi. Infatti, quando nel 772 rioccupò l’esarcato e invase il Lazio, il nuovo pontefice, Adriano I (772-795), richiese l’aiuto del figlio di Pipino, il re dei Franchi Carlo, che, nel 773, intervenne in Italia, sconfisse Desiderio e lo deportò in Francia, dove morí poco tempo dopo. Carlo si proclamò rex Francorum et Langobardorum e ampliò poi le sue conquiste verso ovest, in Spagna, dove occupò la Catalogna, e verso est, in Germania, dove sottomise la Sassonia. Infine, a suggellare tanto potere, la notte di Natale dell’800, papa Leone III (795-816) decise di incoronarlo, nella basilica di S. Pietro, «imperatore dei Romani». Si apriva, cosí, una nuova fase della storia d’Europa.

di fuggire in Italia, presso i Longobardi, che erano ormai diventati nemici del sovrano franco (vedi box in queste pagine). Nel gennaio del 754, papa Stefano II (752-757) si recò in Francia per stringere un’alleanza con i Franchi contro il pericolo rappresentato proprio dall’espansione dei Longobardi in Italia. Stefano incontrò Pipino nel palatium di Ponthion, dove il re dei Franchi e il pontefice posero le basi di quella duratura e ferrea alleanza tra trono e altare che avrebbe determinato il corso della politica italiana e il destino dell’Europa negli anni seguenti. In base agli accordi raggiunti, si crearono i presupposti per l’intervento militare franco nella Penisola in funzione anti–longobarda, a pieno sostegno delle ragioni del papato e, in previsione di una sconfitta longobarda, si stabilí che tutti i territori, un tempo apparte-

nuti all’esarcato bizantino e conquistati dai Longobardi, posti a sud di una linea immaginaria che collegava Luni, in Liguria, a Monselice, nel Veneto, sarebbero spettati al pontefice che, in cambio, avrebbe incoronato Pipino re dei Franchi, e avrebbe attribuito il titolo di «patrizio dei Romani» al re e ai suoi figli, Carlo, futuro imperatore, e Carlomanno. L’incoronazione di Pipino e l’unzione dei figli – riconosciuti legittimi eredi del regno – avvenne a Saint Denis, nel luglio del 754, e a nulla valse il tentativo del re longobardo di impedire l’alleanza, inviando in Francia Carlomanno, fratello di Pipino e monaco a Montecassino. Pipino, infatti, catturò il fratello e lo relegò nel monastero di Vienne, dove morí poco tempo dopo. Si ponevano cosí le premesse per l’affermazione dell’impero carolingio in Europa. ALLE ORIGINI DEL MEDIOEVO

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Miniatura raffigurante lo sbarco sulle coste inglesi dei Vichinghi, a bordo delle loro tipiche navi, da una raccolta di manoscritti compilati a Bury St Edmunds (Suffolk, Inghilterra). 1130 circa. New York, The Morgan Library & Museum.

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VO MEDIO E Dossier n. 34 (settembre/ottobre 2019) Registrazione al Tribunale di Milano n. 233 dell’11/04/2007

Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 - 00187 Roma tel. 06 86932068 - e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (Ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Davide Tesei Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it L’autore: Tommaso Indelli è assegnista in storia medievale presso l’Università degli Studi di Salerno. Illustrazioni e immagini: Doc. red.: copertina (e p. 92) e pp. 8-9, 13, 15, 18, 22/23, 30-31, 32/33, 33, 34 (destra), 35, 36-39, 44, 49, 50-53, 56-57, 62-67, 74 (basso), 76 (alto), 77, 78, 79, 100-101, 102, 103 (sinistra), 104/105, 106/107, 107 (centro), 108-109, 110, 112/113, 114, 116 (basso), 126 (basso), 129 – Shutterstock: pp. 6/7, 40/41, 86/87, 93 (basso), 98/99, 117 – Bridgeman Images: pp. 10/11, 54-55, 80/81 – Mondadori Portfolio: pp. 122/123; Archivio Lensini/Fabio e Andrea Lensini: pp. 16/17; AKG Images: pp. 19, 20, 24/25, 42-43, 60/61, 84/85, 90-91, 97, 103 (destra), 118/119, 119, 120; Album/Oronoz: pp. 34 (sinistra), 76 (basso), 115; Album: p. 45; Album/Metropolitan Museum of Art, New York: pp. 46/47, 107 (basso); Album/Fine Art Images: pp. 68/69; Ann Ronan Picture Library/Heritage Images: p. 70; Age: p. 71; © Veneranda Biblioteca Ambrosiana: pp. 72-73; Fine Art Images/Heritage Images: pp. 82/83; E&E/Heritage Images: pp. 84, 94/95; Mauritius Images/Steve Vidier: pp. 88/89; Mauritius Images/Wojtek Buss: p. 99 – DeA Picture Library: G. Dagli Orti: pp. 27, 28/29; Icas94: p. 74 (alto); A. Dagli Orti: p. 118 – Alamy Stock Photo: TCD/Prod. DB: pp. 58/59; Heritage Images Partnership Ltd.: p. 93 (alto) – Cippigraphix: cartine alle pp. 14-15, 20/21, 32, 41, 87 – Patrizia Ferrandes: cartine alle pp. 48, 78, 83, 96/97, 107, 111, 116, 124/125, 126.

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