Medioevo Dossier n. 35, Novembre/Dicembre 2019

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NOSTRADAMUS Un profeta senza tempo

NOSTRADAMUS

N°35 Novembre/Dicembre 2019 Rivista Bimestrale

€ 7,90

IN EDICOLA IL 29 OTTOBRE 2019

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MEDIOEVO DOSSIER

Dossier

Timeline Publishing S.r.l. – Poste Italiane S.p.A. – Spedizione in abbonamento – Aut. n° 0703 Periodico ROC

EDIO VO M E



NOSTRADAMUS UN PROFETA SENZA TEMPO di Franco con un contributo di

Presentazione 6. L’eroe di un Medioevo senza tempo Introduzione 8. Un’ambizione ancestrale Gioacchino da Fiore 18. Prima delle Centurie La formazione 30. La sapienza come meta Gli anni di Agen 40. Dall’idillio alla calunnia I viaggi 52. Errabondo per dieci anni

Cuomo Alessandro Bedini

In Italia 58. Viaggio in Italia Dall’antico Oriente 66. Parole arcane e potenti Orval e i Templari 74. Nella Valle Dorata Ritorno in Provenza 82. L’età della ricerca L’uomo che vide il futuro 90. Di insoliti uccelli e pesci di ferro Profeta dell’Olocausto 100. Coincidenze agghiaccianti

Apocalissi contemporanee 106. Il mondo in subbuglio Dal sublime al quotidiano 114. A ciascuno la sua profezia Veggente di corte 120. Quella real gratifica... Parole per i posteri 126. L’ultimo monito




L’eroe di un Medioevo senza tempo E

siste un Medioevo che si protrae al di là del suo alveo storico tradizionale, oltre il tempo che per convenzione cronologica gli appartiene. È un Medioevo di fatto, che sconfina in epoche successive attraverso pratiche di connotazione antica, incompatibili con gli attributi consueti della «modernità», e personaggi che di tali pratiche sono interpreti ed esecutori, incarnando in tal modo lo spirito medievale nelle sue piú comuni apparenze. È il Medioevo senza tempo degli indovini e dei maghi, degli alchimisti, dei negromanti, dei taumaturghi e dei veggenti, tra i quali primeggia con le sue indecifrabili profezie l’enigmatica figura di Nostradamus, astrologo, medico e naturalista del XVI secolo, iniziato ai segreti di un sapere ermetico che la cultura ufficiale rigetta come irrazionale, del tutto privo d’interesse scientifico, ma che comunque esercita sull’immaginazione popolare un’attrazione assolutamente irresistibile. Ciò non significa, tuttavia, che per questa sua aderenza a modelli radicati in un remoto passato la figura del veggente (o presunto tale) debba considerarsi emblematica di quell’arretratezza intellettuale che è propria di chi non riesce a vivere la realtà del suo tempo. Al contrario, Nostradamus fu per molti aspetti uno scienziato evoluto, un medico in grado di curare malattie all’epoca inguaribili, un ricercatore dedito allo studio profondo degli elementi naturali, da cui

trasse cosmetici e originali ricette «per mantenere il corpo sano». Fu però attratto inesorabilmente dalla vocazione divinatoria, indulgendo a predire il futuro mediante versi divenuti popolarissimi nonostante la loro indecifrabilità, considerata dai detrattori alla stregua di mera astrusità e dagli esegeti come una misura di prudenza, volta a velare verità spaventose. Il che lo pone tra i protagonisti di quel Medioevo trasversale a ogni altra età della storia, che nessun evolversi della società e del costume potrà mai sopprimere, trattandosi di una componente naturale – e nemmeno poi tanto occulta – dell’animo umano. Il mistero vero di Nostradamus non è perciò nei codici segreti delle profezie da lui formulate – comunque le si voglia giudicare – credibili o assurde –, ma nelle ragioni profonde della sua fama, già enorme in vita e accresciutasi nei secoli attraverso la diffusione delle Centurie, com’è titolato l’insieme delle sue predizioni, in ogni lingua. Venerato finché visse dalle personalità piú potenti di Francia, con in testa Caterina de’ Medici e gli ultimi sovrani della casa di Valois, Nostradamus venne gratificato nei secoli da una popolarità crescente, che non accenna a declinare. In questo è la sua attualità complessa e straordinaria, attualità di un Medioevo senza frontiere, che al pari delle Centurie non ha bisogno di parametri temporali per esprimersi; e, al pari delle Centurie, pone interrogativi (tanti), ma lesina risposte.


Michel de Nostre-Dame, detto Nostradamus (1503-1566), olio su tela di François Marius Granet, da un originale di César Nostradamus. 1845. Versailles, Musée national des châteaux de Versailles et de Trianon. Nella pagina accanto il frontespizio dell’edizione delle Profezie di Nostradamus pubblicata nel 1568 a Lione da Benoist Rigaud.

MEDIOEVO IN GUERRA

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Introduzione


Un’ambizione

ancestrale

La straordinaria vicenda di Nostradamus s’inserisce nel solco di una tradizione millenaria. Fin dalle epoche piú antiche, infatti, conoscere anzitempo il proprio destino è stato uno degli aneliti che hanno caratterizzato la natura dell’uomo. E, non a caso, anche il grande veggente francese studiò le antiche tecniche di predizione e ne trasse piú di un’ispirazione

La Torre di Babele, olio su tavola di Pieter Bruegel il Vecchio. 1563. Vienna, Kunsthistorisches Museum. NOSTRADAMUS

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Introduzione

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ei secoli, l’illusione di poter conoscere il futuro ha indotto l’uomo a inventare – e a praticare – innumerevoli sistemi di divinazione, affidandosi talvolta alla veggenza dell’operatore, talvolta all’osservazione dei fenomeni naturali o di eventi fuori del comue, dai quali si riteneva di poter trarre indicazioni su quanto sarebbe dovuto accadere. I primi a organizzare scientificamente la ricerca di verità future furono i Caldei, a cui si attribuisce l’edificazione della Ziqqurat o Torre di Babele, che altro non era, secondo un’opinione diffusa tra gli studiosi delle antiche religioni, se non un tempio astrologico, edificato allo scopo di poter ossevare da vicino le stelle. Si spiegherebbe in tal modo l’originaria denominazione della torre, detta Etemenanki, che alla lettera significa «casa di fondazione del Cielo e della Terra». Si spiegherebbe inoltre l’affluenza a questo monumento magico di pellegrini e sapienti provenienti da ogni parte della terra, che con i loro idiomi avrebbero determinato quella caotica commistione di suoni che ancora oggi è ricordata come la Babele delle lingue.

Siena, Duomo. Particolare del pavimento a commesso marmoreo tradizionalmente identificato con la raffigurazione di Orfeo che incanta gli animali (la scena è stata altrimenti letta come rappresentazione di Esculapio). Il cartone preparatorio della composizione viene attribuito da alcuni a Domenico Beccafumi (1486-1551) e da altri a Francesco di Giorgio Martini (1439-1501).

La «scienza dei magi»

In questa sorta di caos primordiale della conoscenza sarebbe nata, secondo la tradizione ermetica, la «scienza dei magi», fondata su ricerche di tipo astronomico, geometrico e matematico, tali cioè da sfuggire per loro natura alla costrizione – e agli equivoci – del linguaggio. Di questa «scienza» i Caldei fecero per primi un uso mantico, servendosene per appagare l’innato sogno di poter spingere la propria vista oltre le frontiere del tempo. A riprova, tuttavia, dell’universalità di questo istinto diretto a svelare i segreti dell’avvenire,

VAGHEREMO COME ANIMALI RANDAGI Contese a Nostradamus il primato della popolarità, con profezie molto simili alle sue, un monaco bavarese a lui contemporaneo di cui si conosce soltanto lo pseudonimo di Ragno Nero (Schwarze Spinne). Cosí chiamato perché usava firmare i suoi oracoli disegnando un minuscolo ragno a margine di ogni foglio, questo veggente colloca come Nostradamus la fine del mondo oltre il 3000, fissando «inesorabilmente» la data al 7 giugno 3017. Quel giorno comincerà il «diluvio di stelle», scrive il Ragno Nero. «La Terra sarà urtata da una Terra, si muoverà come un ubriaco, barcollerà, si spaccherà in due (...) E la gloria e la sapienza dei terrestri si dissolveranno nello spazio eterno enza lasciare alcun segno di sé». La fine verrà come una liberazione, secondo il Ragno Nero, ponendo termine a un periodo di siccità e luce accecante che avrà ridotto gli uomini al livello di «animali randagi», tra sorgenti essiccate e dune di sabbia infuocata.

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storici e filosofi dell’antichità coinvolsero nelle origini dell’arte divinatoria personaggi rappresentativi di diverse civiltà, spesso riconducibili a una matrice religiosa. Il romano Plinio il Vecchio, storico e naturalista, ne attribuisce l’invenzione a Zoroastro in Persia e a Mosè per il popolo ebraico. Figurano inoltre tra i progenitori mitici della magia il dio Thot in Egitto e Brahma nell’induismo. Una centralità del tutto peculiare in tale contesto leggendario è riconosciuta a un iniziato che si colloca al crocevia di ogni tradizione, cioè


Ermete Trismegisto, dal cui nome scaturisce per l’appunto il termine «ermetismo», che indica la cultura segreta dei magi. Il suo culto nasce sul Nilo, ma non è difficile identificarlo nell’Ermete divino dei Greci – il Mercurio dei Romani – che, in quanto messaggero degli dèi, è portatore di verità inaccessibili e nascoste.

Illuminare l’uomo

Lo stesso cristianesimo, d’altronde, solitamente cauto nel prendere in considerazione i miti del passato, ne ha liberalmente accolto la figura

nell’iconografia delle cattedrali e nell’immaginario poetico religioso, collocando Ermete insieme alle Sibille, a Pitagora e a Virgilio tra gli anticipatori pagani della rivelazione evangelica. Ne danno testimonianza le immagini che ornano il duomo di Siena e altri celebri templi della cristianità. Al di là comunque di tali apparenze, la tradizione profetica giudaico-cristiana e quella ellenistica ebbero in comune qualcosa di piú consistente, nei loro approcci con i misteri del tempo futuro. L’una e l’altra delegarono infatti alla divinità il compito d’illuminare l’uomo NOSTRADAMUS

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Introduzione


sui suoi destini, avvalendosi di profeti e sacerdoti investiti di una speciale autorità, ch’era quella di poter mediare tra la parola di Dio e le attese del suo popolo. Furono portavoce della volontà celeste i veggenti biblici ed evangelici, le cui visioni non si limitano mai alla descrizione dei fatti grandiosi e terribili del futuro, ma forniscono indicazioni per poterli evitare o superare indenni, trasformando l’eventuale catastrofe in rigenerazione. È il senso dell’Apocalisse di Giovanni e di molte altre profezie escatologiche, cosí chiamate dal greco (éskata, le cose estreme) perché riferite ai destini finali dell’umanità. Conservano inalterato questo intento ai nostri giorni certe grandi profezie d’ispirazione apocalittica (cioè rivelatoria, poiché questo vuol dire il termine Apocalisse: rivelazione) con particolare riguardo ai grandi «avvertimenti» mariani di Fatima, La Salette e Medjugorie. Furono in altro modo latori di messaggi divini gli iniziati e le Sibille dell’antichità classica (vedi box in questa pagina), soprattutto se operanti nell’ambito segreto dei grandi culti denominati Misteri. Le pratiche divinatorie erano molto diffuse nei templi, dove masse di devoti accorrevano ad ascoltare gli oracoli di sacerdoti esaltati e universalmente famosi, come la Pizia di Delfi, Epimenide di Festo, Tiresia di Tebe e sua figlia Manto, fondatrice del santuario di Claro in Asia Minore. Ma era soprattutto nell’ambito dei culti segreti che l’arte di predire il futuro trovava la sua collocazione naturale.

Orfeo, padre delle dottrine misteriche

Famosi nella società ellenica erano i Misteri eleusini, dionisiaci e orfici, che imponevano ai seguaci una complessa iniziazione. Padre di tutte le dottrine misteriche era ritenuto Orfeo, al quale si attribuiva pure la paternità di ogni pro-

fezia. Per questo gli indovini erano comunemente chiamati orpheotelestai, indipendentemente dalle tecniche adottate, che variavano dall’osservazione del volo degli uccelli (ornitomanzia) all’interpretazione dei fenomeni naturali (aeromanzia e botanomanzia). Una panoramica sia pure succinta dei modi adottati nell’antichità per predire il futuro – e tramandati in certi casi fino ai nostri giorni – può rendere un’idea esauriente degli eccessi visionari derivanti dalla presunzione di cogliere significativi messaggi nelle movenze di una rana (batracomanzia) o di un gallo ammae-

Siena, Duomo. Particolare del pavimento a commesso marmoreo raffigurante Ermete Trismegisto, realizzato su disegno di Giovanni di Stefano. 1488. Nella pagina accanto Sibilla, olio su tela di Guido Reni e bottega. XVII sec. Genova, Musei di Strada Nuova, Palazzo Rosso.

QUELLE VOCI CHE VALICANO I MILLENNI Grandi protagoniste dell’arte divinatoria nel mondo antico furono le Sibille, rese famose per le loro doti profetiche da poeti come Virgilio, filosofi come Platone ed Eraclito, storici come Terenzio Varrone e Diodoro Siculo. Le piú note furono la Frigia, la Cumana, l’Eritrea, la Persica, la Libica, l’Ellespontina e la Delfica o Pizia, alle cui tecniche pare si sia ispirato Nostradamus. Parlavano «per possessione del nume», scrive Eraclito, «valicando con la voce migliaia di anni». La cosa piú straordinaria è che, diversamente da ogni altra profezia pagana, le loro predizioni vennero giudicate in parte credibili dalla cristianità. San Clemente e altri Padri della Chiesa, infatti, ritennero che Dio si fosse servito delle

Sibille per annunciare la venuta del Redentore. Tanto che queste profetesse risultano effigiate da molti artisti cattolici, a cominciare da Michelangelo nella Cappella Sistina. La piú significativa in tal senso è la profezia della Sibilla Cumana, a cui Virgilio allude tanto nell’Eneide che nell’Egloga IV, sull’imminente nascita del divino fanciullo che avrebbe posto fine alla razza del ferro per inaugurare quella dell’oro. Il vaticinio, interpretato come annuncio della nascita del Cristo, diede a Virgilio fama di grande anticipatore della nuova religione, inducendo lo stesso Dante a inserirlo come propria guida nella Divina Commedia. Da ciò deriva anche la popolarità medievale di «Virgilio mago».

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Introduzione

strato (alettriomanzia), nel fumo dei sacrifici (capnomanzia), nei bagliori di una fiamma (piromanzia), nei riflessi degli specchi (catottromanzia), nei rumori intestinali (gastromanzia), nell’aroma di una essenza profumata (lebanomanzia), nell’ondivagare di un topo affamato (myomanzia), nelle increspature di uno 14

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stagno (idromanzia), nella manipolazione di numeri (aritmomanzia) o lettere desunte da un nome (onomanzia, resa popolare dalla scuola pitagorica). Si può intuire quale spazio ci fosse, nella spirale di tali bizzarrie, per la mistificazione e lo sfruttamento della credulità popolare. Ma si può altresí dedurre quale tre-


Il Trionfo della Morte, olio su tavola di Pieter Bruegel il Vecchio. 1562-1563. Madrid, Museo del Prado.

questa illusione che spiega la straordinaria popolarità di coloro che hanno lasciato predizioni e oracoli distribuiti su un arco prolungato di tempo, come nel caso di Nostradamus, ma anche del mistico Gioacchino da Fiore, dell’alchimista Paracelso, della Monaca di Dresda e del frate chiamato Ragno Nero dal sigillo con cui usava sottoscrivere le sue previsioni (vedi box a p. 10); oracoli che il concorso di circostanze storiche casuali ha fatto apparire talvolta esatti o proiettabili verso un plausibile domani.

Tre momenti essenziali

mendo potere di soggezione esercitasse su qualsivoglia individuo l’illusione di poter accedere al grande libro del tempo. È questa illusione che spinge l’uomo, anche il piú alieno dalla superstizione, a elaborare progetti, timori, speranze che trovano esclusivamente nel futuro la loro collocazione naturale. È

Per comprendere l’ascendente di tali personaggi sulle grandi masse d’ogni epoca si deve tenere conto che il tempo corrisponde a una convenzione articolata su tre momenti essenziali: il passato, il presente e il futuro. Di questi tre momenti, quello futuro non esiste, o meglio è privo di consistenza reale, trattandosi di qualcosa della quale sappiamo solo che verrà. Esiste il presente, ma ne abbiamo una cognizione il piú delle volte confusa, se non del tutto distorta, dato che ne siamo coinvolti e che comunque corrisponde a una realtà in divenire, dagli esiti incerti. La sola certezza è nel passato, unica fase davvero immutabile della nostra esistenza. Possiamo rimuoverlo, dimenticarlo, ma non cancellarlo; possiamo fraintenderlo, travisarlo, mai modificarlo. Eppure noi non viviamo che proiettati nel nostro futuro. «Non pensiamo quasi mai al presente», scriveva Pascal, «e se ci pensiamo non è che per trarne indicazioni su come disporre del nostro avvenire». Poiché il presente, instabile com’è tra l’istante che lo ha preceduto e quello che seguirà, non ha una sua identità riconoscibile. Nel momento in cui lo attraversiamo ci sfugge. Non può rappresentare un obiettivo, nemmeno allorquando coincide con un risultato desiderato, poiché nell’attimo stesso in cui lo si coglie si pone il problema dell’uso da farne per il futuro, delle responsabilità che ci pone, e dei rischi a cui ci espone, a cominciare da quello di perderlo. Un dato cosí effimero e sfuggente non può considerarsi un traguardo, ma semmai un punto di partenza – nuovo punto di partenza – per un progetto di vita che a sua volta ci apparirà consumato nel compiersi. È evidente che, visti in questa ottica, passato e presente non sono che appendici della sola realtà che davvero ci sta a cuore, cioè quella futura. Cosí «noi non viviamo», concludeva Pascal, «ma speriamo di vivere, e disponendoci sempre a essere felici è indubbio che non lo saremo mai, se non aspirando a una beatitudine diversa da quella di cui si può gioire in questa vita». NOSTRADAMUS

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Introduzione


Ritratto (presunto) del medico naturalista e filosofo Philipp Theophrast Bombast von Hohenheim, meglio noto come Paracelso, copia di artista fiammingo ignoto di un originale (perduto) di Quentin Metsys (1465/1466-1530). Prima metà del XVII sec. Parigi, Museo del Louvre.

Si può condividere o meno l’aspirazione a quella «beatitudine diversa» di cui parla il filosofo, ma il suo ragionamento rende un’idea chiara delle necessità esistenziali che hanno generato nell’uomo l’urgenza di conoscere, da sempre, il proprio futuro. Un’esigenza alla quale si è cercato di dare risposta, in tempi e civiltà diverse, mediante il ricorso a pratiche divinatorie fondate a volte sul caso, a volte sulla fede nell’intromissione di una volontà superiore, ultraterrena. È esistita tuttavia una matrice comune a indovini che parlavano in proprio e sacerdoti che interpellavano gli oracoli nei templi o s’interponevano, come i profeti biblici, tra il popolo e il suo Dio. Se infatti si scorre la storia delle grandi profezie che hanno alimentato attraverso i secoli le piú indecifrabili fantasie umane – e continuano ad alimentarle tutt’oggi – è facile individuare sorprendenti similitudini nei piú famosi oracoli di tutte le religioni, da quelli degli antichi Caldei e degli Egizi alla lettera evangelica, coranica e talmudica. Senza escludere le Sibille della paganità greco-romana e lo sfacelo cosmogonico della mitologia germanica. All’influenza di quest’originaria vocazione oracolare sono da ricondurre, quali che ne siano le caratteristiche di fondo, le precognizioni di certi grandi maestri del Medioevo e del Rinascimento o d’età decisamente moderna – come Nostradamus, Savonarola e Don Bosco, ma anche i già citati Paracelso e Gioacchino da Fiore (di quest’ultimo si parla piú diffusamente nel capitolo successivo, alle pp. 18-29) – che ne ripropongono la sostanza, sia pure attraverso il filtro dei rispettivi punti di vista.

Paure e speranze

Ricoprono un ruolo predominante in questa letteratura visionaria, intessuta di ancestrali paure e luminose speranze, spesso confuse in un unico messaggio di morte e di rigenerazione, le Centurie del francese Michel de NostreDame, che poi latinizzò il nome alla maniera degli umanisti dell’epoca in Nostradamus. La loro particolarità piú saliente, rispetto ad analoghi tentativi di trasmettere alla posterità un messaggio in codice su ciò che l’aspetta, è nella loro estraneità al contesto civile in cui furono espresse, del quale non subiscono in alcun modo l’influenza. È questo il segreto della loro modernità, che lascia intravvedere – attraverso formule criptiche, anagrammi e stravolgimenti del linguaggio – avvenimenti senza tempo, rapportabili a invenzioni scienti-

fiche, cataclismi e guerre affrancate da qualsivoglia convenzione cronologica. Perciò non sono mai mancati, accanto agli entusiasti esegeti di Nostradamus, i detrattori che tendevano a considerarlo una sorta di «profeta del giorno dopo», le cui escursioni nel futuro appaiono indecifrabili prima del verificarsi dell’evento al quale si riferiscono. Il che lascia notevole adito al dubbio sulla mera casualità di risultati apparentemente straordinari. Del tutto impraticabile appare a queste condizioni ogni tentativo di decrittare i versi di Nostradamus attraverso l’adozione di codici che ne riconducano il senso a criteri comuni d’interpretazione. Di riscontri certi non si hanno che quelli riferibili ad avvenimenti già accaduti, come il bombardamento nucleare di Hiroshima, e personaggi già esistiti, come Hitler. Ancora piú temerario sarebbe poi tentare di catalogare le predizioni contenute nelle Centurie in ordine cronologico, indicando di ciascun evento la data in cui dovrebbe verificarsi.

Il «re del terrore»

Sappiamo che per profezia debba intendersi la rivelazione o l’annuncio di qualcosa prima che accada. Individuare cosa è già arduo, dire quando è al di là di ogni umano potere. Poiché i tempi degli oracoli, per quanto scanditi a volte da esplicite date, non sono rapportabili al calendario profano. Se n’è avuta una prova con le lambiccate interpretazioni date a una quartina di Nostradamus (Centurie X, 72), per la quale «il settimo mese del 1999» sarebbe dovuto arrivare dal cielo «un gran re del terrore», le cui efferatezze avrebbero dovuto evocare quelle degli antichi Mongoli, indicati dall’anagramma Angolmois, che è in realtà il nome di una regione francese come tante (si tratta dell’Angoumois, una provincia storica, di cui Angoulême era la città principale, n.d.r.). Altre interpretazioni sono naturalmente possibili, data la forma volutamente criptica del messaggio, ma sta di fatto che nessun «re del terrore» è arrivato dal cielo alla scadenza indicata. La lezione che se ne può trarre non è del tutto nuova, ma merita di essere ricordata, perché abitualmente disattesa; ed è che nel linguaggio dell’eternità «lo spazio di un giorno può durare mille anni», come si legge nella Seconda Lettera di Pietro (3, 8), e «quello di mille anni un solo giorno». Tutto ciò non spiega la meccanica delle profezie, ma aiuta a capire di quale materia inafferrabile siano fatte le chiavi del tempo. Ed è questa una verità, raccomanda l’Apostolo, «da non dimenticare». NOSTRADAMUS

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L’immagine del drago a sette teste, inserita in un’edizione del Liber figurarum del monaco ed esegeta Gioacchino da Fiore. 1200-1230. Oxford, Corpus Christi College.

Prima delle Centurie Con quasi quattrocento anni d’anticipo su Michel de Nostre-Dame, anche il «calavrese abate» Gioacchino da Fiore suscitò impressione e sconcerto, annunciando l’avvento di una nuova Chiesa, libera e svincolata dalle gerarchie tradizionali. Un messaggio fatto proprio dagli spirituali francescani, che finirono per questo con l’essere accusati d’eresia

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Gioacchino da Fiore

di Alessandro Bedini

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lucemi dallato / il calavrese abate Giovacchino / di spirito profetico dotato». Nella Divina Commedia, Dante si riferisce con questi versi (Paradiso, XII, 139-141) a Gioacchino da Fiore e alla già allora famosa dottrina delle tre età che egli aveva elaborato appunto con spirito profetico. La sua è stata una delle personalità piú complesse della cristianità medievale e le sue opere hanno avuto una tale risonanza, talvolta alterata, che Gioacchino sarebbe, dopo Dante Alighieri, l’autore italiano sul quale si è piú scritto, essendo riconosciuto come uno dei piú importanti esponenti della spiritualità medievale. Le notizie sulla sua vita sono piuttosto scarse e rintracciabili nei sintetici accenni contenuti nelle sue stesse opere. Tra le tante, una delle biografie piú attendibili è senz’altro quella di Luca da Cosenza, che fu segretario di Gioacchino durante la sua permanenza presso l’abbazia cistercense di Casamari, nel Frusinate, tra il 1183 e il 1185. Le diverse Vitae che riguardano l’abate calabrese riportano concordemente che egli nacque a Celico, un paesino in provincia di Cosenza, fra il 1130 e il 1135, da Gemma e Mauro e si spense nel 1202 a San Martino in Canale vicino Pietrafitta, sempre nel Cosentino. Sesto di otto fratelli, sembra provenisse da una famiglia agiata e il padre sarebbe stato publicus notarius presso la cancelleria del vescovado di Cosenza. Sulle sue origini permangono tuttavia alcuni dubbi: egli stesso, infatti, si definisce «homo agricola a iuventute mea», il che farebbe pensare a un’estrazione contadina. È però molto probabile che l’affermazione abbia in realtà

un significato simbolico: quello evangelico del contadino che semina e raccoglie. Oltre a ciò, poiché già i suoi contemporanei gli riconoscevano doti profetiche – un’attribuzione che Gioacchino rifiutava con decisione –, il fatto di avvalorare l’umiltà della sua ascendenza familiare contadina, aveva verosimilmente lo scopo di rafforzare tale rifiuto.

Viaggio in Terra Santa

Comunque sia, dopo aver completato gli studi a Cosenza, entrò a far parte della curia del Gran Giustiziere di Calabria, per poi passare, grazie ai buoni uffici del padre, alla cancelleria regia di Palermo, dove regnava Guglielmo I. La sua permanenza presso la corte normanna fu però di breve durata, anche perché, come riportano fonti attendibili, sorsero presto aspri contrasti con alcuni dignitari. Decise dunque di abbandonare definitivamente la professione notarile e, nel 1167, partí per la Terra Santa, ancora nelle mani dei cristiani. Visitò Costantinopoli, la Tebaide e infine Gerusalemme. La notizia è riportata, sempre in forma sintetica, nel Tractatus super quattuor Evangelia, verosimilmente databile tra il 1200 e il 1202. Secondo la tradizione, proprio nella Città Santa Gioacchino ebbe l’intuizione di studiare e interpretare in parallelo l’Antico e il Nuovo Testamento, ponendo cosí le basi per la sua ardita esegesi delle Scritture in chiave escatologica. Secondo l’abate calabrese la storia dell’umanità è totalmente racchiusa nel mistero divino e Dio Padre si è manifestato all’uomo proprio attraverso le Scritture. È dunque partendo dalla Bibbia che occorre analizzare il corso della storia, scandito da tempi e ritmi ben precisi, attra-

IL MIRACOLO DELLA CHIESA FATISCENTE La biografia di Luca Campano – arcivescovo di Cosenza dal 1203 al 1204, nonché amico e biografo di Gioacchino –, assieme alla narrazione di un Anonimo agiografo, monaco florense, costituiscono l’antico manoscritto della Legenda. Conservato sino alla fine del XVI secolo nella biblioteca del cenobio di San Giovanni in Fiore, il prezioso testo è purtroppo andato perduto. Si deve a due monaci florensi, i quali tra il 1586 e il 1614 copiarono le due testimonianze della vita e dei miracoli dell’abate, se ancora oggi si possono apprezzare gli aspetti miracolistici legati alla vicenda dell’abate calabrese. Un’ampia parte della Legenda, infatti, giuntaci dall’antico manoscritto florense è costituita da alcune decine di testimonianze che narrano avvenimenti miracolosi. In alcuni passaggi vengono inoltre sottolineate le doti di preveggenza di Gioacchino. Un giorno, si legge nel Mirabile XII della Legenda, l’abate stava camminando con il suo correligionario monaco Raniero. Giunti nei pressi di una vecchia chiesa fatiscente, si sedettero insieme ad altre persone. All’improvviso, Gioacchino si alzò e gridò che tutti si allontanassero dalla parete della chiesa, perché di lí a poco sarebbe crollata. Appena tutti si allontanarono, la parete cedette e nessuno rimase ferito. Allora tutti dichiararono pubblicamente che l’abate era un profeta.

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I resti del monastero benedettino di Corazzo, nei pressi di Catanzaro, dove Gioacchino risiedette dal 1172, divenendone poi abate nel 1177.


verso i quali, quindi, si può cercare di comprendere l’esito finale del destino dell’uomo. La costruzione dottrinale gioachimita è perciò in larga misura incentrata sull’Apocalisse, dal greco Apokalypsis, il cui significato etimologico si richiama al concetto di svelamento, rivelazione. Nel rientro dalla Terra Santa, Gioacchino fece tappa in Sicilia dove, alle pendici dell’Etna, vivevano da eremiti alcuni monaci di cultura e lingua greca. Fatto ritorno in Calabria, decise di abbandonare definitivamente la casa paterna e di ritirarsi nell’abbazia cistercense di Sambucina, nei pressi della cittadina di Luzzi, sempre in territorio cosentino, per vivere pienamente la vita evangelica. Tuttavia, la sua non fu una scelta eremitica radicale. Intorno al 1171, lo troviamo infatti nella valle del Crati come predicatore, legittimato in questo ruolo dall’ordinazione sacerdotale del vescovo di Catanzaro. Nel 1172 si spostò presso il monastero benedettino di Corazzo, nei pressi di Catanzaro, e, nel 1177, sebbene fosse piuttosto riluttante, accettò di diventarne abate. In questo periodo Gioacchino compose la Genealogia, un’opera fondamentale, nella quale, attraverso complicati calcoli numerici fondati sull’esegesi biblica, indica la parabola finale

«Io Luca arcivescovo di Cosenza, nell’anno secondo del pontificato di papa Lucio III, quando ero monaco vidi per la prima volta in Casamari un uomo di nome Gioacchino, allora abate di Corazzo, abazia fondata dalla Sambucina, che a sua volta era stata fondata da Casamari. Perciò egli era trattato a Casamari con ogni onore e amore come un nipote; ma ancor piú per il possesso della sapienza e dell’intelligenza che aveva avuto in dono dal Signore. Allora dinanzi al suddetto Papa e alla sua corte, egli cominciò a far conoscere la sua perizia nell’interpretare le Scritture e nel rilevare la concordia fra il Nuovo e l’Antico Testamento. Avutane licenza dal Pontefice, cominciò subito a scrivere». (dalle Memorie di Luca Campano)

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Gioacchino da Fiore

della storia come prossima. «Il mistero delle cifre e la precisione del calcolo – sottolinea Gian Luca Potestà, uno dei massimi studiosi del pensiero gioachimita – mirano a convincere che gli eventi finali e in particolare la venuta dell’Anticristo sono oramai vicini». In questi anni si adoperò affinchè la comunità monastica di Corazzo fosse affiliata a quella cistercense di Sambucina, ma senza successo, sebbene papa Alessandro III avesse concesso al monastero l’esenzione da diverse tutele vescovili.

San Giovanni in Fiore, Abbazia Florense. Dipinto raffigurante san Giovanni Battista che appare a Gioacchino da Fiore davanti all’Abbazia. 1789.

Le due rivelazioni

Comunque Gioacchino mantenne legami molto stretti con i Cistercensi: Luca da Cosenza sottolinea infatti come l’abate, dal gennaio del 1183, soggiornasse a Casamari, presso la loro abbazia, dove rimase per un anno e mezzo, accolto affettuosamente dall’abate Gerardo. Nel corso di questo soggiorno avrebbe avuto due rivelazioni: la prima nel giorno di Pasqua, l’altra nella ricorrenza della Pentecoste. Le rivelazioni riguardavano la chiara comprensione dell’Apocalisse di Giovanni e i profondi legami tra l’Antico e il Nuovo Testamento. Proprio durante la sua permanenza a Casamari, Gioacchino poté approfondire la sua ricerca teologica e ampliare le sue conoscenze sulla storia della salvezza. E, secondo la tradizione, nel cenobio cistercense ebbe inizio, quasi contemporaneamente, la compilazione di tre opere fondamentali per il percorso intellettuale dell’abate calabrese: la Concordia Novi ac Veteris Testamenti, l’Expositio in Apocalypsim e lo Psalterium decem chordarum. Non possiamo stabilire una puntuale

LA CANONIZZAZIONE PUÒ ATTENDERE Il processo di beatificazione di Gioacchino da Fiore è rimasto senza alcun esito per ben otto secoli ed è stato riaperto solo nel 2001, su iniziativa dell’arcivescovo di Cosenza-Bisignano, monsignor Giuseppe Agostino. Tuttavia, Gioacchino compare come beato nel calendario, nel messale e negli Acta Sanctorum dei Gesuiti bollandisti. È ormai acclarato che, dopo il 1570, data in cui l’Ordine florense confluí nella Congregazione cistercense di Calabria, proprio monaci cistercensi promossero il culto gioachimita, che si festeggiava il 29 maggio. Un primo tentativo di canonizzare l’abate fu fatto all’indomani della sua morte, ma venne bloccato, in quanto il Concilio Lateranense IV del 1215 dichiarò incompatibili con la dottrina cattolica alcune sue affermazioni riguardo al dogma trinitario. Un secondo tentativo fu compiuto nel 1346, presso la corte papale che si trovava allora ad Avignone. Ma, come è stato già ricordato, solo all’approssimarsi dell’ottavo centenario della morte, l’istruttoria su Gioacchino è stata ripresa e sembra certo che almeno la fase diocesana si sia conclusa positivamente

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In alto l’albero dei due Avventi, che presenta, dal basso verso l’alto, i protagonisti della storia della salvezza, da Adamo a Gesú Cristo.

Gioacchino da Fiore

cronologia sulla conclusione dei vari lavori, ma sappiamo, per esempio, che papa Clemente III, in una lettera indirizzata all’abate calabrese nel 1188, lo invitava a proseguire e concludere sia la Concordia che l’Expositio.

La venuta dei tempi ultimi

Un anno prima, nel 1187, Gerusalemme cadeva per mano dell’esercito musulmano guidato dal Saladino e il contraccolpo per tutta la cristianità fu terribile. La perdita della Città Santa, che l’abate aveva visitato anni prima, rappresentò un punto di svolta per la sua elaborazione dottrinale. Gioacchino vide in questa sconfitta epocale l’accelerarsi della venuta dei tempi ultimi. Rilesse dunque in parallelo le profezie contenute nel Libro di Daniele e nell’Apocalisse di 24

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Giovanni e le contestualizzò a fronte del pericolo mussulmano e della figura stessa del Saladino che minacciava la Chiesa e l’impero. In quel difficile XII secolo, i due poteri universali erano in aperto conflitto. Papa Lucio III intendeva riappropriarsi della sovranità sui territori dell’Italia settentrionale e centrale che l’imperatore Federico I Barbarossa aveva conquistato manu militari. Per ritorsione contro lo Svevo, il papa si rifiutava di incoronare il di lui figlio Enrico, che stava per sposare Costanza d’Altavilla, secondo il progetto federiciano di dare vita a una forte alleanza dell’impero romano-germanico con i Normanni di Sicilia: un piano visto come una minaccia dal pontefice. Come se non bastasse, nel 1186, il successore di Lucio III, Urbano III, aveva assegnato l’importante seggio


arcivescovile di Treviri a Folmaro, esplicitamente sgradito all’imperatore. La tensione stava salendo pericolosamente e la reazione del Barbarossa non si fece attendere. Le truppe imperiali costrinsero il papa e la sua curia ad asserragliarsi a Verona. Nell’occasione, Gioacchino arrivò a paragonare la condizione di prigionia della curia pontificia a quella degli Ebrei di Gerusalemme assediati dai Babilonesi. Nel frattempo, Enrico devastava i territori pontifici tra Toscana e Umbria. Di fronte a questa situazione, che precedeva di poco la caduta di Gerusalemme, l’abate auspicò con energia la fine delle dispute tra papato e impero e l’unità contro il comune nemico. Egli si schierò dalla parte del papa e scrisse un sermone nel quale ripercorreva la storia dei

rapporti tra i due poteri universali alla luce della Bibbia. Elogiò Gregorio Magno, autore dei Dialoghi, appartenente alla generazione di san Benedetto e, prima ancora, Leone I, che seppe resistere a Attila.

I cerchi trinitari, che sintetizzano la dottrina delle tre età elaborata da Gioacchino da Fiore.

Trattative e segnali di distensione

La sconfitta ai Corni di Hattin (1187), però, mutò decisamente il quadro politico. Urbano III si rese conto come la priorità da perseguire dovesse essere l’unità della cristianità a fronte delle drammatiche notizie che venivano dalla Terra Santa. Per questo decise di avviare trattative con il Barbarossa e il primo segnale di distensione fu l’annullamento della nomina di Folmaro al seggio episcopale di Treviri. In questo periodo Gioacchino intervenne di NOSTRADAMUS

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Gioacchino da Fiore

nuovo per promuovere la pace e l’unità tra i due poteri universali. Non a caso, nel IV libro della Concordia il personaggio principale è Costantino il Grande, ovvero colui che assicurò dignità e libertà alla Chiesa, celebrato come imperatore illuminato e probo. L’abate calabrese si mostrava molto preoccupato per le continue divisioni che attraversavano la cristianità, rendendola cosí piú debole. Da allora in avanti la sua costruzione politico-teologica fu improntata al tentativo di conciliare l’ideale di fedeltà al vicario di Cristo con la funzione provvidenziale di cui è titolare l’impero. Negli stessi frangenti, compose il De prophetia ignota, in cui, valutando la fragilità della tregua stabi-

litasi tra papato e impero, preannunciava un’epoca di tribolazioni per la Chiesa e per l’intera res publica christianorum.

Il ritiro sulla Sila

Gli eventi che in quello scorcio del XII secolo si andavano succedendo influenzarono in maniera significativa anche le scelte personali del monaco calabrese. Nonostante i richiami provenienti da Corazzo, Gioacchino decise di ritirarsi nell’eremo di Petra Lata sulla Sila, dove, secondo gli studi piú attendibili, avrebbe portato a termine le sue opere maggiori, fra cui il De vita sancti Benedicti, nella quale coglie l’occasione per ribadire l’originalità della Regola benedettina, fondamento del monachesimo latino e, al tempo stesso, per denunciare l’inadeguatezza di quegli Ordini monastici del suo tempo 26

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A sinistra l’altare maggiore nella chiesa dell’abbazia florense di San Giovanni in Fiore.

che, magari in buona fede, da essa si erano allontanati, non riuscendo cosí a porre un argine rispetto alla profonda crisi che la cristianità occidentale stava attraversando. Nel frattempo, Corazzo venne finalmente associata all’abbazia cistercense di Fossanova e papa Clemente III concesse a Gioacchino l’imprimatur per il progetto di fondare un nuovo Ordine e di individuare un luogo idoneo ad accogliere la comunità che si era riunita intorno a lui. Quel luogo fu poi San Giovanni in Fiore, sempre sull’altopiano della Sila, dove Gioacchino fondò il monastero dedicato all’evangelista Giovanni, modello della vita contemplativa, che divenne la sede definitiva del suo Ordine. Il progetto vide la luce soprattutto grazie alle donazioni di Tancredi d’Altavilla e poi di Enrico VI, tra il 1191 e il 1194-95. Quest’ultimo si volle


Raniero da Ponza, di rientrare a Corazzo entro un anno, pena la qualifica di fuggitivi, ma le loro minacce vennero ignorate. Nonostante le critiche, a cui si aggiunsero quelle dei vicini monaci greci basiliani, a causa di una disputa sulla proprietà di alcuni terreni, il monastero si ingrandiva e attraeva sempre nuovi seguaci. Le regole dell’Ordine fondato da Gioacchino erano molto rigide, basate sullo stile di vita monastico, sul lavoro, ma, soprattutto, sulla virtú della contemplazione, che avrebbe favorito il fiorire di quell’epoca dello spirito caratteristica della dottrina del fondatore. Si trattò di una vera e propria riforma nel segno dell’essenza piú antica del monachesimo latino di origine benedettina. In questo senso la congregazione si discostava decisamente dai Cistercensi, mentre l’ideale di povertà e sobrietà, percepibile anche nell’architettura florense, avvicinerà il nuovo Ordine a quelli mendicanti, francescani e domenicani. Ben presto i Florensi si diffusero anche in Lucania, Campania, Puglia, Lazio e Toscana. Nel 1201, l’arcivescovo di Cosenza, Andrea, donò ai gioachimiti una chiesa vicino a Canale, presso Pietrafitta, dove l’abate intendeva costruire un nuovo monastero, San Martino in Giove, ma durante i lavori morí. Era il 30 marzo del 1202. Nel 1226, il suo corpo venne traslato a San Giovanni in Fiore, dove ancora si trova. Subito dopo la morte, la vox populi indicò Gioacchino come santo e alla sede papale furono inviate missive in cui se ne testimoniavano i miracoli.

Preparare l’avvento dello Spirito

proporre come protettore del nuovo Ordine florense in quanto Gioacchino lo aveva esortato, durante l’assedio che egli aveva posto a Napoli nel 1191, a non infierire sulla popolazione, perché avrebbe conquistato il regno di Sicilia senza spargimento di sangue, come puntualmente avvenne. Nel 1196, papa Celestino III riconobbe ufficialmente la congregazione florense. Si deve peraltro ricordare che il toponimo di San Giovanni in Fiore deriverebbe dal latino flos, cioè «torrente di montagna», e non, come vuole la leggenda, dal «fiorire» della terza età, secondo la dottrina gioachimita. I Cistercensi non videro di buon occhio la fondazione del nuovo monastero e giunsero ad accusare Gioacchino e i suoi di apostasia. Nel capitolo generale del 1192, i monaci di Cîteaux intimarono all’abate e al suo fedele compagno,

Una veduta dell’abbazia. Il complesso oggi visibile è il frutto della ricostruzione avviata dopo che la prima fondazione di Gioacchino era stata devastata da un incendio.

Guglielmo di Ockham, cosí come il movimento dei begardi e delle beghine, ma soprattutto gli spirituali francescani, hanno riconosciuto in Gioacchino da Fiore il loro punto di riferimento. L’avvento di una Chiesa spirituale, contrapposta alla Chiesa carnale, secondo la definizione degli spirituali francescani, come Angelo Clareno, Ubertino da Casale, Pietro di Giovanni Olivi e molti altri, rappresenta il punto d’arrivo della storia umana, destinata a spalancare le porte a una nuova era fondata sulla pace e sulla concordia. Anche il movimento dei flagellanti deve la sua genesi al sistema dottrinale di Gioacchino. Avvicinandosi il tempo in cui la rivoluzione della cristianità vedrà finalmente l’alba di una nuova era, ispirata dallo Spirito Santo, diventa urgente fare penitenza, tramite l’autoflagellazione, per preparare l’avvento dello Spirito. L’esegesi gioachimita non poteva non suscitare reazioni negative da parte di alcuni settori della Chiesa. Nel 1215, il Concilio Lateranense NOSTRADAMUS

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Gioacchino da Fiore

L’INCONTRO CON RICCARDO A dimostrazione di quanto i Cistercensi fossero in disaccordo con le «novità dottrinali» introdotte da Gioacchino, tre cronisti inglesi, appartenenti all’Ordine di Cîteaux, riportano un episodio volto a screditare l’abate calabrese. Questi, nel 1190, avrebbe incontrato Riccardo Cuor di Leone, in procinto di imbarcarsi per la crociata. Gioacchino avrebbe spiegato al re d’Inghilterra il significato di alcuni passi dell’Apocalisse, in particolare quello del drago a sette teste. Avrebbe inoltre assicurato al monarca inglese la vittoria sul Saladino, ma, soprattutto, avrebbe profetizzato l’avvento dell’Anticristo nella persona di un pontefice.

IV, voluto da Innocenzo III, condannò le tesi di Gioacchino sul dogma trinitario e vietò la lettura dei suoi testi. Cinque anni dopo, però, nel 1220, papa Onorio III riabilitò l’abate calabrese, dichiarandolo «perfettamente cattolico» e rimosse il divieto che aveva colpito le sue opere. Analizzando il testo biblico, Gioacchino giunge a formulare una filosofia della storia che vede la corrispondenza di tre età con le tre persone della Trinità. La prima è quella del Padre, relativa al Vecchio Testamento, a cui è succeduta l’era del Figlio, nella quale la Chiesa da Lui fondata è elemento centrale, la terza età sarà invece quella dello Spirito, quando il mon-

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do subirà una vera e propria trasfigurazione. I tempi nuovi saranno annunciati dai segni presenti nell’Apocalisse, le gerarchie ecclesiastiche saranno dunque superate e, dopo gli sconvolgimenti del momento di passaggio, si aprirà un’epoca di pace e di gioia. Secondo Gioacchino sorgerà quindi una nuova Chiesa: l’Ecclesia Spiritualis, da lui stesso vagheggiata. Nuove figure guideranno il genere umano: il papa angelico e l’imperatore dei tempi ultimi, che avranno il compito di riunire il mondo. Tale visione ribalta quella rigorosamente cristocentrica di Ago-


Sulle due pagine miniatura raffigurante un cavaliere con le insegne della Corona d’Inghilterra che disarciona un Saraceno, da un’edizione del Luttrell Psalter. 1325-1335. Londra, British Library. I due personaggi potrebbero forse alludere a Riccardo Cuor di Leone e al Saladino. Nella pagina accanto, in basso terribile bestia, disegno che correda un commento alla profezia di Gioacchino da Fiore. 1370 circa. Novara, Archivio di Stato.

stino. Gioacchino, infatti, pone al centro della storia l’operare incessante della Trinità. Dedicata all’epoca e alla persona del Padre, la prima opera sul mistero trinitario è la Concordia, composta da cinque libri, i primi quattro dei quali fungono da introduzione alla complessa esegesi biblica, mentre il quinto prende in esame la storia biblica, dai patriarchi alla cattività babilonese. La seconda opera della trilogia, l’Expositio in Apocalypsim, è dedicata al Figlio, consta di otto libri ed è forse la piú conosciuta e quella che ha dato maggior fama all’abate calabrese. Ad avviso del quale l’Apocalisse non sarebbe da intendersi come profezia relativa ai tempi ultimi, bensí come racconto della storia della Chiesa: passata, presente e futura. La trilogia si chiude con lo Psalterium decem chordarum, un’opera in tre volumi, come le persone della Trinità, incentrata sulla figura dello Spirito Santo. Il titolo deriva dallo strumento biblico a corde, che ha forma di triangolo, in cui il vertice piú alto rappresenta il Padre mentre gli altri due il Figlio e lo Spirito Santo.

Il primo popolo di Dio Padre

Il tratto comune delle opere di Gioacchino da Fiore consiste nella visione escatologica che fa perno sull’interpretazione rigorosa delle Sacre Scritture. Ne fa fede proprio il quinto libro

della Concordia, nel quale l’abate commenta i sei giorni della Creazione alla luce della dottrina trinitaria. La storia viene considerata in relazione a quanto viene narrato nell’Antico Testamento sul popolo di Israele, il primo popolo di Dio Padre. Come ha ben evidenziato Gian Luca Potestà, «il primo giorno significa il primo tempo, iniziato da Abramo; il secondo il tempo da Mosè; il terzo quello da Samuele e Davide, il quarto significa il tempo di cui furono protagonisti Elia ed Eliseo; il quinto quello iniziato da Isaia e dal re Ezechia. La creazione dell’uomo nel sesto giorno significa il tempo di Gesú Cristo e della Chiesa». Un’interpretazione analoga vale per il Figlio. Il tempo dello Spirito, invece, sarà caratterizzato da un nuovo ordine monastico, capace di tornare alla primitiva purezza dell’annuncio evangelico. Al concetto agostiniano della caducità progressiva del mondo, che prepara la seconda venuta del Cristo, Gioacchino contrappone l’idea secondo cui al tempo della decadenza farà seguito un’epoca di pace e di concordia, quella dello Spirito. L’originalità e il fascino delle sue teorie è racchiuso proprio in questa ermeneutica della storia della salvezza del genere umano, illuminato dalla Trinità che agisce contemporaneamente nelle diverse epoche, sebbene in forma diversificata secondo il loro susseguirsi. NOSTRADAMUS

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La sapienza come meta All’indomani della sua morte, Nostradamus venne ricordato soprattutto come veggente. Molti dei suoi contemporanei, però, lo rispettavano e lo stimavano per le sue doti di medico e di scienziato

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n preambolo è indispensabile tutte le volte che si affronta l’enigma di Nostradamus, per diradare i molti luoghi comuni accumulatisi sul suo conto. Paradossalmente, infatti, la sua straordinaria fama di astrologo e veggente è stata di ostacolo a un reale approfondimento storico del ruolo da lui svolto nell’ambito della medicina e delle scienze naturali, oltre che in altri svariati campi. È prevalsa sul rigore della ricerca la morbosa curiosità scatenata nei secoli dalle sue profezie, che ha offuscato il lavoro da lui svolto in altri settori, impedendo d’individuare l’effettiva portata culturale dei risultati conseguiti. Il mago ha preso il sopravvento, nella fantasia popolare, sull’umanista e lo scienziato, dando spazio all’elaborazione di congetture spesso prive di credibilità, scarsamente plausibili, per niente documentate. Non c’è avvenimento per il quale Nostradamus non venga tirato in ballo mediante laboriosi tentativi di adattare all’accaduto i versi delle sue quartine, che per la loro complessità formale si prestano alle piú disparate interpretazioni. 30

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Gli appestati, olio su tela di Théodore Géricault. 1819. Richmond, Virginia Museum of Fine Arts.



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La formazione

Pochi, tuttavia, tengono solitamente a rimarcare che fu anche un grande medico, in grado di fronteggiare con moderni sistemi di prevenzione il flagello della peste. Pochi ricordano che fu un accorto studioso dei procedimenti biologici naturali, che seppe sfruttare in termini imprenditoriali, mettendo in piedi una vera e propria industria di cosmetici e prodotti di bellezza, elisir di giovinezza, creme rassodanti ed essenze rigeneratrici, di cui diede testimonianza in un libro dal titolo Singolari ricette per mantenere il corpo sano. Pochi riportano che fu attento osservatore di fenomeni astronomici – e non soltanto a fini astrologici, è lecito supporre. Quasi nessuno fa cenno, infine, agli aspetti specificamente filosofici del suo modo di operare, che implicava un’esplorazione costante dell’antico sapere, instancabili viaggi alle radici delle civiltà perdute, decifrazione di alfabeti remoti e conoscenza di piú lingue. Grazie alle quali po32

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tersi dedicare all’appassionata lettura di fondamentali testi del genio universale, come la Commedia di Dante e le tragedie di Eschilo.

Un vero intellettuale

Nostradamus fu insomma un intellettuale finissimo nell’accezione propria dell’umanesimo rinascimentale, espressione di una curiosità generalizzata ma profonda per le cose del mondo. Egli fu sotto questo aspetto un tipico esponente – come Paracelso, Marsilio Ficino, Giordano Bruno – di quel movimento di pensiero che ebbe in grande disprezzo l’idea di specializzazione in senso moderno, intesa come scissione della conoscenza in frammenti da conservare o accantonare in ragione di scelte contingenti, avendo invece come meta la sapienza nella pluralità delle sue opzioni, dalla filosofia alla medicina, alla fisica, alle letterature di ogni civiltà e, in certi casi, alla

Sulle due pagine Montpellier. La sede della facoltà di medicina della locale Università, uno dei piú antichi e prestigiosi atenei francesi, presso il quale Nostradamus si laureò nel 1532.


BENVOLUTI A CORTE

magia, all’alchimia, alla divinazione. In questo enciclopedico crogiolo si temprò l’animo eclettico di Nostradamus, ma fu la sua vocazione visionaria ad attrarre l’attenzione del grande pubblico, coinvolgendo nei piú avvincenti oracoli membri della famiglia reale e dell’alto clero, aristocratici e borghesi. Ne derivò una popolarità clamorosa in vita, destinata ad aumentare dopo la morte, come vedremo da lui stesso predetta e descritta nei dettagli. Riscontri certi di questo suo ridondante successo furono da un lato le invidie degli accademici, gli avvertimenti dell’Inquisizione, l’ostilità in particolare dei medici; dall’altro la fiducia riposta in lui da Caterina de’ Medici, la divulgazione delle Centurie anche all’estero, la stima quasi affettuosa del re di Francia, recatosi a rendergli omaggio – come altri esponenti dell’aristocrazia piú elevata, quali per esempio il duca e la duchessa di Savoia – nel

La ricchezza materiale che gli avi dapprima e Michel in seguito – e i figli di Michel, dopo di lui – seppero accumulare in una società pregiudizialmente ostile è per lo meno sorprendente. E sorprendente è il livello dei riconoscimenti anche nobiliari che l’autorità regia volle loro conferire, fin da prima che Michel venisse al mondo, come testimonia lo stemma gentilizio dei Nostradamus di Provenza, decorato con testa d’aquila e ruota di carro a otto raggi, simbolo quest’ultimo di origine chiaramente ebraica, riferibile alla vocazione itinerante del popolo d’Israele. È sorprendente che, pur essendo tenuti a versare in certi casi una vessatoria tassa sulle «origini», come ogni altro Ebreo convertito di Francia, i membri delle famiglie di Nostre-Dame e Saint-Rémy vivessero in intima confidenza con le personalità piú in vista della classe dirigente. Non va sopravvalutata pertanto, se non si vuole enfatizzare oltre misura la vicenda storica di Nostradamus, la stretta intimità creatasi tra lui e i reali di Francia, in specie con Caterina de’ Medici e con suo figlio Carlo IX. Rientrava nelle tradizioni di famiglia: i suoi nonni avevano respirato prima di lui l’aria di corte. E neanche il suo

successo, per quanto appariscente, deve considerarsi eccezionale. Suo fratello Jean diventò procuratore parlamentare, ma, soprattutto, poeta di grido, bene accetto nell’aristocrazia e stimato per i suoi studi di letteratura provenzale. Lascerà una cronaca delle Vite dei piú celebri e antichi poeti di Provenza (1575), divenuta famosa per la sua leggiadra sospensione tra fantasia e verità storica. Una decorosa fortuna professionale arriderà anche a Bernard, che saggiamente seguirà le orme paterne, divenendo a sua volta notaio e sposando una ricca ereditiera di Salon, dove anche Michel si trasferirà di lí a qualche anno.

suo ultimo ritiro di Salon. A Saint-Remy-de-Provence, dove Michel de Nostre-Dame nacque, in seno a una famiglia ebrea delle piú in vista, il 14 dicembre 1503, vigevano consuetudini alquanto liberali per l’epoca, dovute al felice rapporto instaurato con la popolazione dall’angioino Renato I, detto il Buono, sovrano di Provenza fino a un ventennio prima. L’annessione della regione alla Fran-

In alto, a sinistra Nostradamus in una incisione del XVII sec. In alto, a destra lo stemma dei Nostradamus.

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La formazione

cia aveva in parte scalfito i benefici effetti delle riforme volute dal «buon Renato», resuscitando inique leggi che imponevano agli Ebrei la conversione o l’esilio con la confisca dei beni, ma all’epoca la famiglia di Nostre-Dame aveva già spontaneamente aderito alla religione cristiana. Né si può dire che sopravvivessero in Provenza pregiudizi tali, nei confronti dei convertiti, da impedire loro di esercitare arti e mestieri e di raggiungere in molti casi posizioni di notevole solidità economica, le quali favorivano peraltro un agevole inserimento nella società locale. In questa casistica rientrava senz’altro Guy Gassonet, nonno del piccolo Michel, affermato medico, ma già ricco dalla nascita per i commerci paterni, che proprio allo scopo di favorire l’inserimento familiare nella classe dominante aveva chiesto la conversione, separandosi dalla prima moglie e cambiando il proprio nome in Pierre (Pietro, omaggio al primo apostolo) di Nostre-Dame, dalla chiesa in cui aveva ricevuto il battesimo. L’accoglimento in seno all’alto ceto provenzale, a cui già del resto apparteneva, fu completo, a giudicare dal successo sociale conseguito dai suoi figli, uno dei quali divenne notaio (Jacques, padre di Michel) e uno magistrato (Jean), mentre la figlia Marguerite sposava un ricco tintore di Avignone. Sono ruoli che contano nella vita futura del medico veggente Michel, poiché Jacques diverrà consigliere economico della casa reale, con la quale Michel avrà un rapporto intenso e continuato, e Marguerite ospiterà il ragazzo nella sua casa di Avignone, dove prenderà a diciassette anni la prima laurea universitaria di «maestro delle arti», titolo che abilitava all’insegnamento di filosofia e letteratura. Ad Avignone, Michel studierà anche la matematica e le scienze naturali, apprendendo nozioni d’interesse farmaceutico, relative all’uso e alla preparazione di filtri, pozioni e medicamenti d’ogni genere.

E Michel divenne Nostradamus

La seconda laurea Michel la prenderà qualche anno piú tardi in medicina, a Montpellier, frequentando quella che era la piú rinomata università di Francia dopo Parigi. Interromperà piú volte gli studi, per recarsi laddove infuriavano spaventose epidemie di peste, sperimentando sul campo le sue tecniche di guarigione. Questo impegno non sarà una perdita di tempo, né per lui, né per quanti godranno delle sue cure, ma prolungherà i termini del corso di studi, consentendogli di laurearsi soltanto nel 1532, al rientro da una terribile quanto esaltante espe34

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rienza nella città mercantile di Bordeaux, devastata dalla peste portata da milizie provenienti dall’Italia. Sarà dunque a quella data, nell’indossare all’età di trent’anni la toga rossa di medico, che Michel di Nostre-Dame sceglierà di latinizzare il suo nome in «Nostradamus». Influirono sui tempi lunghi della laurea di Michel, a parte i periodi di assenza, pregiudizi e invidia da parte dei dottori per i suoi metodi di cura, inspiegabili al lume delle limitate conoscenze dell’epoca. Era con ogni evidenza estremamente irritante per i medici togati, impotenti contro il flagello della peste, che un giovane non ancora laureato dimostrasse di saper affrontare con sorprendente cognizione di causa un male considerato dai piú come una sorta di enigma escatologico.

In basso miniatura raffigurante la Morte che strangola una vittima della Peste Nera. 1376. Praga, Museo Nazionale.


MEDICI MASCHERATI Bisogna tenere conto, per comprendere la benefica suggestione esercitata dal giovane Nostradamus sui malati e su coloro che, dato l’espandersi del contagio, erano a rischio di contrarre il morbo, in che modo si presentassero invece gli altri medici. Il loro solo apparire metteva paura, provocando panico, svenimenti e crisi isteriche. Si presentavano protetti da grembiuli di cuoio nero, cosparsi di grassi repellenti che avrebbero dovuto assicurare una certa difesa contro il rischio di contaminazione. Avevano il viso per metà coperto da una maschera spaventosa, a becco d’uccello, anch’essa concepita a scopo immunitario, forse per il fatto che quella sorta di rostro appuntito impediva a chiunque di avvicinarsi a meno di due palmi dal viso. Degli occhi non si vedeva nemmeno il colore, essendo coperti da spesse lenti scure. Libera era invece la bocca, ma rigonfia di spicchi d’aglio che venivano incessantemente masticati al fine di prevenire il male. A parte l’aspetto terrificante, emanavano un odore nauseabondo per via dei grassi protettivi, dei grandi quantitativi d’aglio e degli oli vegetali di cui avevano il corpo cosparso. Le vesti stesse che indossavano sotto i grembiuli di pelle rancida erano state in precedenza intrise in misture di natura – e odore – indefinibile. Si servivano infine di tamponi di spugna, immersi anch’essi in chissà quale liquido protettivo, per occludere le narici. Perfino comunicare diventava difficile a tali condizioni, poiché la bocca piena d’aglio e il naso chiuso alteravano la voce, trasformando le parole in suoni gutturali talvolta incomprensibili, e in ogni caso disumani. Il loro arrivo rappresentava dunque, nel rituale dell’epidemia, il segno di un’ineluttabilità ormai raggiunta, che precedeva di poco il sopraggiungere dei monatti, dei predatori e, immediatamente dopo, dei cani. Si capisce quale senso di terrore dovessero procurare in gente già debilitata dal male o, se ancora indenne, dall’orrore. Tutt’altro effetto suscitavano con ogni evidenza quei pochi soccorritori, medici o taumaturghi, che, al pari di Michel, si presentavano nelle loro umane sembianze, illuminati da un chiaro sorriso, manifestando intenti ragionevoli, come quello di ripulire un ambiente infetto e trasferire fuori dai lazzaretti quei malati per i quali poteva esserci speranza. Non erano pochi, d’altronde, i malcapitati reclusi nei recinti della morte con gli appestati, pur non mostrando alcun sintomo del morbo, per il solo motivo di avere avuto un morto in famiglia o essersi semplicemente trovati sul luogo di un decesso. A costoro il giovane Nostradamus offriva quanto meno una possibilità di salvezza, suscitando l’aspra reazione di medici che, per contestare il suo approccio con la malattia, non trovavano di meglio che citare a sproposito il greco Galeno, laddove definiva la peste «una bestia selvaggia». Il che avallava, secondo loro, l’idea che contro un simile mostro non ci fosse altro rimedio che rimettersi alla misericordia di Dio, dal quale sicuramente proveniva.

Tavola raffigurante un medico che indossa la tipica maschera protettiva durante una pestilenza, da Gli abtiti de veneziani... di Jan van Grevenbroeck il Giovane. XVIII sec. Venezia, Museo Correr, Biblioteca. NOSTRADAMUS

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La formazione

A sinistra l’albero dei due Avventi, che presenta, dal basso verso l’alto, i protagonisti della storia della salvezza, da Adamo a Gesú Cristo.

Affresco raffigurante un medico che cura un’appestata, particolare del ciclo realizzato nella cappella di S. Sebastiano a Lanslevillard (Savoia, Francia). Fine del XV sec. Il luogo di culto sarebbe sorto per volere del notaio Sébastien Turbil, che intese cosí ringraziare il santo – venerato, insieme a san Rocco, come protettore dalla peste – per aver risparmiato il villaggio dall’epidemia scoppiata nel 1565. 36

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Era comodo e assolutorio di fronte all’impotenza della medicina, aggravata da una colpevole chiusura di fronte a qualsiasi utile novità, se incompatibile coi «protocolli» ufficiali della scienza, affermare che la peste fosse un fatale contrappasso inflitto da Dio a un’umanità degradata dal peccato. Serviva per giustificare il fallimento dei luminari e indurre gli animi alla rassegnazione. Ma i risultati conseguiti da quel giovane, privo peraltro di titoli accademici, contraddicevano questa indulgenza dei medici verso se stessi, ponendo interrogativi sulle iniziative che potevano invece essere intraprese per porre almeno un argine al contagio. Accresceva il risentimento degli accademici la fama acquistata dallo studente nel Sud della Francia, dove le notizie delle guarigioni da lui operate circolavano velocemente, con la stessa rapidità dei resoconti sull’atroce bilancio delle pestilenze in atto. Morivano nei grandi focolai d’infezione uomini d’ogni condizione: aristocratici e pezzenti, preti e guerrieri. Morivano, insieme ai malati, i medici. E anche questo era di accrescimento alla fama del giovane Michel, i cui meriti venivano esaltati agli occhi delle masse dall’obiettiva gravità delle informazioni circolanti sul male a cui lui piú di ogni altro riusciva a tenere testa. Ne derivò tutta una serie di calunnie e pericolose dicerie sulla natura stregonesca dei suoi metodi, che non valsero però ad arrestare il corso della sua ricerca, né a ridimensionare la venerazione del numeroso popolo dei sofferenti, che invocava lo studente di Montpellier come un depositario di poteri sovrannaturali.

Un carisma sorprendente

È anche vero, d’altronde, che al malanimo dei medici si contrapponeva la stima di autorevoli personalità pubbliche che, avendo constatato dal vivo l’efficacia dell’arte medica di Michel, si erano eretti a suoi protettori contro le maldicenze. Ricorsero alle sue cure il legato pontificio ad Avignone, cardinale di Claremont, e il gran maestro degli Ospitalieri o Cavalieri di Rodi, oggi di Malta, Villiers de l’lsle-Adam, che aveva l’autorità di un sovrano e un incommensurabile prestigio nella cristianità per l’ardore con cui aveva difeso la sua isola contro i Turchi. Entrambi scacciarono i piú prestigiosi medici di Francia, pretendendo di avere al proprio capezzale quel ragazzo la cui sola presenza rinfrancava l’animo. Non lesinarono, né l’uno, né l’altro, una gran pubblicità a quello studente che sembrava emanare un’aura di raggi positivi contro il male,

decantandone la semplicità e la fermezza, non disgiunte da un carisma decisamente insolito in un giovane della sua età. Affermazioni del genere esaltavano l’immagine di Michel, ma anche il sospetto che vi fosse qualcosa di sovrannaturale nel suo modo di operare. Quali fossero i rimedi adottati da Michel di Nostre-Dame, studente errante tra le popolazioni decimate delle città di Aix, Narbona, Tolosa, Carcassonne, Avignone, Bordeaux e della stessa Montpellier, sacrario della medicina,

L’«uomo zodiacale», da una raccolta di testi medici ebraici. 1440-1450. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Simili immagini illustravano la presunta influenza dello zodiaco sul corpo umano, nonché la corrispondenza fra segni e organi. NOSTRADAMUS

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La formazione


Una pagina, riccamente miniata, del Manoscritto 2197 della Biblioteca Universitaria di Bologna che contiene la traduzione in lingua ebraica integrale del Canone di Medicina di Avicenna, realizzata da Natan ha-Meati. Databile solo su base paleografica, si presume che il manoscritto sia stato copiato nell’Italia centro-settentrionale nella prima metà del XV sec.

non è dato sapere. Gli interrogativi sollevati all’epoca permangono tutt’oggi. Al di là comunque delle ricette da lui elaborate – nelle quali figuravano tuorli d’uovo trattati con zafferano e altri ingredienti naturali, come dittamo, noce vomica, senape bianca e miele – pare che desse una grande importanza alla disinfestazione dei luoghi contaminati. Teneva in modo particolare all’igiene dei pozzi, in prossimità dei quali faceva bruciare fascine di legno speciale, tratto da piante che lui stesso aveva indicato, come l’olivo e l’aloe.

La miglior cura è la prevenzione

L’applicazione da parte sua di moderni criteri di profilassi lascia dedurre che avesse in gran conto la prevenzione, oltre alla cura, puntando all’isolamento del male. Combatteva gli odori pestiferi come veicolo del male, opponendo ai disgustosi effluvi provenienti dai lazzaretti fumigazioni a base di polveri profumate, che preparava pestando in un mortaio garofani e rose, iris e altri fiori, dopo averli mescolati a segatura di cipresso e canna dolce. Non è da escludere che tenesse ugualmente conto degli influssi astrologici, avendo dedicato buona parte dei suoi studi alle meccaniche planetarie, indipendentemente dall’uso che ne avrebbe fatto in ambito divinatorio. Era del resto abbastanza comune che i medici adattassero le loro terapie al contesto zodiacale, cercando collegamenti tra umori del microcosmo corporeo e vibrazioni del macrocosmo universale. Non c’era dunque da stupirsi nell’ascoltare illustri accademici ascrivere le cause della peste a una malefica quadratura tra Saturno e Giove o altro accidente astrale. Che era come dire all’ira di Dio. Piú stupefacente, a quanto si tramanda sullo stile di Nostradamus nel suo approccio coi malati, era la confidenza che egli cercava d’instaurare con il paziente. Neanche il contagio sembrava spaventarlo, tanto che non tentava di sottrarsi all’abbraccio di coloro nei quali l’evoluzione del male era ormai evidente. C’era nel rapporto che il giovane Nostradamus tentava di stabilire coi malati, riuscendovi, una palese volontà di stimolarne la fiducia, rianimarne lo spirito di sopravvivenza e ravvivare, laddove possibile, le naturali risorse dell’organismo. È tuttavia possibile che Michel fosse al corrente, come pochi altri sapienti occidentali, di certi progressi registrati dalla medicina islamica nell’ambito delle terapie tendenti a neutralizzare la peste mediante l’incisione dei bubboni.

La sua familiarità con i segreti delle civiltà orientali e la probabile conoscenza di opere come l’Al Scifà o Libro della guarigione di Avicenna rendono quest’ipotesi credibile. Si comprende questo aspetto difficilmente sondabile della formazione, intellettuale oltre che medica, di Nostradamus se si considera il tipo di educazione impartitagli prima che intraprendesse gli studi ad Avignone, nell’infanzia e nella prima adolescenza, dai nonni Pierre de Nostre-Dame e Jean di Saint–Rémy, padre, quest’ultimo, di sua madre Renée, cosí chiamata in omaggio del «buon re» Renato. Un omaggio che si spiega con il fatto che nonno Jean era stato in gioventú medico personale del sovrano oltre che astrologo di fama.

Una passione comune

Proprio alla corte di Provenza, egli aveva conosciuto il collega Pierre, anche lui nelle grazie del re, anche lui ebreo, anche lui discendente dalla gente d’lssacar, cioè la piú mistica ed esclusiva delle dodici tribú d’Israele. È comprensibile l’interesse reciproco di questi due medici accomunati dalla medesima passione per le arti occulte, per i segreti della tradizione ebraica, per lo studio degli astri e della loro influenza sugli umani destini. È comprensibile che da questa sintonia spirituale, oltre che affinità delle origini, fosse anche scaturita un’amicizia molto stretta; e dall’amicizia il consenso alle nozze dei rispettivi figlioli, Jacques e Renée, notaio l’uno e portatrice di una cospicua fortuna in vigne, poderi e altri beni immobili l’altra. È comprensibile infine che il primo e piú dotato dei bambini messi al mondo dalla coppia (che erano tre: Michel, Jean, di tre anni piú piccolo, e Bernard, minore di cinque) venisse preso in carico dai nonni per una istruzione preliminare agli studi scolastici, nella quale confluisse il seme dell’antica loro sapienza, intessuta di segreti correlati alle pratiche cabalistiche, all’alchimia e alla magia bianca. Gli storici sono concordi nel sottolineare, con accenti diversi, la straordinaria influenza esercitata da questi due saggi sulla formazione di Nostradamus, indipendentemente dal fatto che possa essere prevalsa in lui l’attrazione per quanto di esoterico ci fosse nel loro sapere o per le piú tangibili verità della scienza. È forse in questo tirocinio a cui fu sottoposto con amore dai due vecchi una delle chiavi piú autentiche del mistero di Nostradamus, intessuto di ostacoli e fortuna, successo e rischio, lungimiranza e solidarietà verso il prossimo. NOSTRADAMUS

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Dall’idillio alla

calunnia

Laureatosi in medicina a Montpellier, Michel de Nostre-Dame diventa Nostradamus e si trasferisce ad Agen, dove conosce il primo grande amore della sua vita. Improvvisamente, però, soddisfazioni professionali e gioie personali vengono bruscamente offuscate dalla tragica e misteriosa morte dei suoi cari e dal tentativo di trascinarlo davanti ai giudici dell’Inquisizione

A

ppena laureato e già aureolato di una fama che lo rendeva inviso al mondo accademico, ma ricercato negli ambienti piú esclusivi di Francia, Nostradamus non avvertí alcuna necessità di restare a Montpellier per proseguire nella sua ricerca. Aveva trent’anni, straordinarie risorse d’intelligenza e cultura, disponibilità di beni che gli assicuravano una tranquillità economica per l’avvenire. Non amava in modo particolare quella città e il mondo della medicina in generale, che sentiva ostile, ancorato ad antichi pregiudizi. Aveva conosciuto a Montpellier studenti dalla personalità eccezionale, tra i quali François Rabelais, che già lavorava al suo Pantagruel. Anche questo geniale letterato, dedicatosi con passione allo studio della medicina, lasciava Montpellier in quel medesimo anno 1532. Segno che il genio costituiva con ogni evidenza un limite, all’epoca, per l’accettazione di ciò che rappresentava l’arte medica, condizionata da interessi e cognizioni superate, d’impedimento alla vera scienza. Non è provato che Nostradamus e Rabelais fossero diventati amici, ma certo è che in comune i due studenti avevano, a parte il genio, quell’abissale senso della solitudine che nei grandi animi è prodotto dall’impossibilità di essere compresi. Con una nota di sofferenza in piú per Nostradamus, a causa della predisposizione, da lui sentita 40

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come una condanna, a interrogarsi sugli eventi futuri. Ne danno testimonianza le sue desolate asserzioni sul tormento procuratogli dalla veggenza. Ne parla come di un dono persecutorio e ossessivo, per quanto sublime, del quale avrebbe volentieri fatto a meno.

Un rapporto intenso, ma tormentato

A parte le congetture sull’amicizia con Rabelais, l’interesse attivo di Nostradamus per la letteratura è provato dal suo intenso quanto tormentato rapporto con l’italiano Giulio Cesare Scaligero, anch’egli medico, ma considerato il maggiore polemista letterario del suo tempo, incontrato nella città di Agen poco dopo la partenza da Montpellier. Giulio Bordon, detto Scaligero per la smania degli intellettuali di cercarsi un nome aulico, era venuto in Francia quale medico personale del vescovo Angelo della Rovere, a cui era stata assegnata la diocesi di Agen. È singolare questa particolarità dei medici del tempo, che si servivano della propria qualifica come lasciapassare per raggiungere le posizioni piú elevate, coltivando nel contempo interessi all’apparenza piú elevati, come l’amore per la filosofia e le belle lettere. Scaligero, nato a Riva del Garda nel 1484, era di quasi vent’anni piú anziano di Michel, ma segnato da grossi complessi d’inferiorità nei con-


L’alchimista, olio su tavola di Jan Steen. 1668. Venezia, Galleria Giorgio Franchetti alla Ca’ d’Oro.

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Gli anni di Agen

fronti di questo giovane dalla fama cosí scintillante. Vantava una cultura enciclopedica, che aveva i suo i punti di forza nella grammatica latina, nella botanica, nella medicina naturalmente, nella filosofia e, non si sa perché, nell’arte militare. Celebri erano i suoi commenti sulle teorie mediche d’Ippocrate, sulla retorica di Teofrasto, sull’estetica di Aristotele. Sapeva parlare, sapeva vivere, sapeva sedurre. Sua moglie Audiette de Roques-Lobejac, sposata quand’era solo sedicenne, gli aveva dato una prole di quindici figli. Viveva attorniato da servi e guardie del corpo, polemizzando con uomini della levatura di Erasmo da Rotterdam, Gerolamo Cardano e François Rabelais. Il massimo del successo l’aveva ottenuto con un trattato sulle Cause della lingua latina, analisi tanto dotta quanto inutile della tecnica oratoria di Cicerone, ma si paludava di modernità al tempo stesso, quale propugnatore di un nuovo classicismo. Volle come sodale nella sua corte Nostradamus, con il quale aveva ben poco in comune, dato il suo irriducibile ateismo e la sfrenata vanità. Michel si rivelò in questo un pessimo profeta, accettando lusingato l’invito di Scaligero e trasferendosi, come ospite d’onore, nella sua residenza di Agen. Tutto lascia supporre che Scaligero intendesse esibire Nostradamus come un fiore all’occhiello. Sorge allora spontanea la domanda su quali ragioni potessero avere ottenebrato a tal punto il discernimento di Michel da impedirgli di rendersi conto, con il suo naturale acume, di quanto si pretendeva da lui.

In basso ritratto del medico, naturalista e letterato Giulio Bordon, che scelse di assumere il nome di Giulio Cesare Scaligero per una pretesa discendenza dai Della Scala di Verona.

Il fantasma della peste

Amore a prima vista

Una risposta esiste, ed è delle piú chiare: Michel aveva trovato ad Agen l’amore. Si era perdutamente innamorato – ricambiato – di una ragazza del bel mondo, che dal nome, Adriele Lobejac, si direbbe imparentata con la moglie di Scaligero. La sposò. Ebbero due figli. Tutto divenne secondario di fronte alla loro unione travolgente. Alla medicina ormai accantonata e alle sterili divagazioni letterarie Michel contrapponeva il suo talento di alchimista versato nell’uso cosmetico e curativo degli elementi naturali piú disparati, dalle erbe alle polveri minerali, dedicandosi alla produzione di filtri, pozioni, elisir e balsami per la pelle, la cui vendita gli assicurava un incremento costante del suo già cospicuo patrimonio. In questa cornice di festoso benessere andò anche incre42

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mentandosi l’amore di Adriele per Michel e di lui per lei, divenuti una delle coppie piú in vista di Agen. Tutto questo non poteva portare che a una rottura con Scaligero. Nostradamus, anziché dargli lustro, cominciava a fargli ombra. La vanità dell’italiano ne fu ferita. La tragedia si abbatté di schianto sul capo di Nostradamus, di ritorno da uno dei suoi consueti viaggi d’affari nel Sud della Francia. Non era ancora iniziata l’era delle peregrinazioni esoteriche verso mete destinate a rappresentare nella sua vita le tappe di un percorso iniziatico diretto a superare quella soglia oltre la quale i sogni acquistano sembianza di realtà e la realtà diventa sogno. Adriele e i due bambini erano morti. Non si sapeva come, né di che. La brevità del viaggio e del rientro avevano consentito a Nostradamus di ritrovarne i corpi ancora intatti, ma segnati da un morbo indefinibile. Medici che si finsero amici assicurarono di averli assistiti senza poter far nulla per salvarli. Pare ci fosse tra questi un certo Sarrazin, legato da rapporti di servitú con lo Scaligero.

Nella pagina accanto tavola che illustra un episodio del Gargantua et Pantagruel di François Rabelais, da un originale di Gustave Doré. 1873. Berlino, Sammlung Archiv für Kunst und Geschichte.

Si era trattato, dissero, di una malattia fulminante, presa forse per contagio; un morbo di natura pressoché sconosciuta, come ce n’erano molti all’epoca. La fantasia popolare piú retriva non si lasciò sfuggire l’occasione di richiamare in causa, come una sorta di nemesi, il fantasma della peste. Coloro che avevano interesse a gettare l’ombra del sospetto sull’immagine di Nostradamus trovarono l’ipotesi plausibile. La peste che il grande mago aveva debellato in un apocalittico confronto ritornava per vendicarsi in una forma nuova, non ancora classificabile, ma comunque ascrivibile alla medesima origine. Riemergeva come uno spettro dalle caligini di passate epidemie, prendendosi le vite di coloro che piú di ogni altro il mago amava al mondo. Vista in questa luce, la morte di Adriele e dei bambini diventava la fatale conseguenza dell’operato in qualche modo sacrilego di Nostradamus, che per fare del bene agli uomini aveva osato opporsi al disegno punitivo di Dio, ostacolandone gli effetti. La peste veniva in tal modo restituita alla superstizione escatologica, e Nostradamus additato come una sorta di moderno Prometeo, punito per avere tentato di sottrarre alla divinità il fuoco della sua ira. Se si cerca un nesso tra la tragedia familiare che


FU VERA AMICIZIA? Anche Rabelais, disgustato dal prevalere dell’intrigo e della meschinità intellettuale, sceglierà come Nostradamus di dedicarsi alla «vera scienza» in altro modo, senza abdicare alla medicina, ma inserendola in un piú esteso e complesso sistema di conoscenza. Si allontanerà comunque da Montpellier senza laurea, per poi conseguire il titolo qualche anno dopo presso l’ospedale di Lione. Quale sia

stato negli anni dell’università il rapporto tra questi due giovani tanto affini non è dato sapere, anche se si è spesso parlato di un loro interesse comune per la letteratura e il teatro. È molto probabile che Nostradamus abbia partecipato con gli altri studenti alle tenzoni poetiche di cui Rabelais fu vivace protagonista a Montpellier intorno al 1530, ma non esiste alcuna prova in tal senso. Se anche l’astrologia fu oggetto di satira, da

parte di Rabelais, nel suo Pronostico pantagruelico (Pantagrueline prognostication) pubblicato nel 1533, è lecito supporre che Nostradamus l’abbia letto e ne abbia verosimilmente parlato con il compagno. Ma gli scrittori che danno notizia di un’amicizia effettivamente intercorsa tra i due, come l’olandese Eustache de Noble nel suo Incontro di Rabelais e Nostradamus (1690), elaborano trame romanzesche piú che reali.

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Gli anni di Agen


Una danza macabra in una xilografia realizzata da Michael Wolgemut per la Cronaca di Norimberga di Hartmann Schedel. 1493. Monaco di Baviera, Bayerische Staatsbibliothek.

Nella pagina accanto miniatura raffigurante un rapporto sessuale fra uomo e donna, da un’edizione del Tacuinum Sanitatis, denominazione che indica la traduzione in latino del Taqwim al Sihha (Almanacco della salute), un manuale redatto a Baghdad dal medico e letterato Abu al-Hasan al-Mukhtar Ibn Butlan nell’XI sec. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.

colpí Nostradamus e la rottura dell’amicizia con Scaligero, non si può fare a meno di rilevare che il rancore del letterato non avrebbe potuto produrre qualcosa di piú perfetto nella sua malvagità: un inconsolabile lutto per stroncare l’animo dell’incomodo amico, troppo popolare ormai per i suoi gusti, e al tempo stesso un piano per comprometterne irreparabilmente l’immagine agli occhi dell’autorità ecclesiastica.

Un’ipotesi inquietante

Ma ricercare un nesso del genere significherebbe ammettere la tremenda possibilità di un assassinio. Non di malattia, ma di veleno potrebbe essere morta la giovane Adriele coi suoi piccoli. Non ci sono prove che il risentimento di Scaligero potesse davvero essersi spinto fino a tanto, ma l’ipotesi non è del tutto da scartare. I segni lasciati sui corpi dal misterioso morbo, genericamente assimilato a una forma di peste sconosciuta, potrebbero essere quelli di un avvelenamento. L’ipotesi è certo verosimile se si considerano il carattere vendicativo dello Scaligero, la disinvolta familiarità con i veleni dei signori dell’epoca e la sicura complicità – indispensabile per mettere a segno un intrigo del genere – di medici da sempre ostili a Nostradamus. Nostradamus si rende conto che la morte

dell’amata e dei suoi figli è solo il preludio di un disegno perverso, che si pone come fine ultimo la sua rovina. Qualcuno forse lo avverte: ha molti amici nei circoli colti della città. O forse lui stesso se ne accorge: c’è uno strano movimento intorno a lui. Sembra che in particolare Sarrazin si dia da fare per provocare un intervento dell’Inquisizione. È certo che contro Nostradamus vengano fatte circolare calunnie poi concretizzate in denunce anonime al terribile tribunale. Michel è convocato per un interrogatorio. Viene rilasciato subito dopo, forse per intercessione del cardinale Claremont o di un’altra personalità da lui curata. Non aspetta di essere convocato una seconda volta. Adriele e i bambini sono ormai sepolti. Nostradamus li piange nel suo cuore ma non lascia che la disperazione lo ponga alla mercé dei suoi nemici. Parte in tutta fretta nella notte, diretto alla frontiera italiana, deciso a non rimettere piú piede ad Agen. È il 1535. Sono passati solo due anni dal suo matrimonio con Adriele. Tanto è durata la sua felicità. Il tempo di mettere al mondo due bambini e vederseli togliere con la madre da un oscuro nemico. Forse la peste, forse un male sconosciuto. Forse Scaligero, ambigua personificazione della malvagità umana. NOSTRADAMUS

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Cronologia

SULLE ORME DI NOSTRADAMUS

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ALLA SCOPERTA DEL MONDO

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Mappa del continente europeo disegnata dal cartografo e geografo Abraham Oertel, che latinizzò il suo nome in Abrahamus Ortelius. 1570 circa. Sono riportati sulla carta i luoghi visitati da Nostradamus nel corso dei suoi viaggi e le città nelle quali nacque, visse e morí. 1. Michel de NostreDame nasce a SaintRemy-de-Provence, il 14 dicembre 1503. 2. Nel 1532 si laurea in medicina all’Università di Montpellier. 3. Si trasferisce ad Agen nel 1533. 4-8. Nostradamus è in Italia e soggiorna, fra le altre, a Torino, Milano, Ferrara, Venezia e Firenze. 9-10. Secondo notizie non confermate da fonti certe, il veggente francese avrebbe visitato l’Egitto e la Persia. 11. Nostradamus è di nuovo in Provenza, ad Aix, chiamato dalle autorità locali per sconfiggere un’epidemia di peste che flagella la città. 12. Nel 1547, il veggente si stabilisce definitivamente a Salon, dove trascorre il resto della sua esistenza, fino alla morte, che lo coglie il 2 luglio 1566.

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Cronologia

LA VITA E I LUOGHI 1503

Michel de Nostre-Dame nasce il 14 dicembre a Saint-Remy-de-Provence (Francia), da una famiglia ebrea. È figlio di Jacques, mercante e notaio, che fu anche consigliere economico della casa reale. All’età di 14 anni comincia a frequentare l’Università di Avignone, città nella quale soggiorna, ospite della sorella Marguerite. Ottiene il titolo di «maestro delle arti», che abilitava all’insegnamento della filosofia e della letteratura, ma studia anche matematica e scienze naturali.

1513

Giovanni de’ Medici, secondogenito di Lorenzo il Magnifico, viene eletto papa l’11 marzo e assume il nome di Leone X.

1515

Il 1° gennaio, Francesco I di Valois sale al regno di Francia, succedendo a Luigi XII. La sua dinastia terrà la corona fino al 1589, con l’ascesa al trono di Enrico III, uno dei figli di Caterina de’ Medici, il cui destino sarà al centro di una delle piú celebri profezie di Nostradamus.

1517

A Wittenberg, in Germania, Martin Lutero pubblica le 95 tesi contro le indulgenze, considerate l’atto di nascita della Riforma.

1522

Alla morte di Leone X, sale al soglio pontificio l’olandese Adriano Florensz (o Florisz), che prende il nome di Adriano VI.

1523

Appoggiato da Carlo V, viene eletto papa Giulio de’ Medici, figlio naturale poi legittimato di Giuliano di Cosimo il Vecchio. Siede sul trono di Pietro, come Clemente VII, fino al 1534.

1532

Michel de Nostre-Dame si laurea in medicina all’Università di Montpellier, l’ateneo piú rinomato di Francia dopo quello parigino, e latinizza il suo nome in Nostradamus. Arriva a conseguire il titolo dopo aver a piú riprese interrotto gli studi per recarsi in varie località francesi e prestare aiuto nel combattere la peste.

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In basso Saint-Remy-de-Provence. Busto di Michel de Nostre-Dame scolpito nel 1859 da Pascal Liotard de Lambesc e posto a coronamento di una fontana realizzata nel 1814 e successivamente intitolata al veggente.


La targa apposta sulla casa natale di Michel de Nostre-Dame a SaintRemy-de-Provence, nella quale, come si può leggere, il veggente viene ricordato come «astrologo».

1533

Nostradamus lascia Montpellier e si stabilisce ad Agen, dove intrattiene rapporti letterari con Giulio Bordon, detto Scaligero, noto umanista italiano del tempo. In questo stesso periodo conosce e sposa una giovane donna «di alto rango, molto bella, molto amabile, l’onorabilissima damigella Adriele de Loubejac», dalla quale ha due figli.

1534

Al ritorno da uno dei suoi viaggi nel Meridione francese, trova la moglie e i figli uccisi da un morbo misterioso. In realtà, il fatto che i suoi cari siano stati colti, gli riferiscono, da una malattia fulminante, non allontana dalla sua mente il sospetto che possa essersi trattato di un avvelenamento. Ha inizio il pontificato di Paolo III (Alessandro Farnese), il cui impegno pastorale fu segnato soprattutto dalla reazione contro il protestantesimo. Il nuovo papa approvò l’Ordine dei Gesuiti, costituí la Congregazione del Sant’Uffizio

(Inquisizione romana, 1542) e infine, nel dicembre 1545, convocò il concilio di Trento.

1535

Devastato dal dolore e preoccupato per i tentativi di metterlo in cattiva luce agli occhi delle autorità – sembra che Sarrazin, un medico legato allo Scaligero, trami affinché venga condotto davanti ai giudici dell’Inquisizione – Nostradamus abbandona in tutta fretta Agen, partendo alla volta della frontiera con l’Italia. Ha cosí inizio un lungo girovagare, in Europa e non solo. In Italia soggiorna, fra le altre, a Torino, Milano, Ferrara, Venezia e Firenze.

1536

In primavera, Nostradamus è ospite della corte estense di Ferrara, dove incontra il duca Ercole II d’Este e sua moglie Renata di Francia, figlia di Luigi XII e Anna di Bretagna. È per qualche tempo ospite dell’abbazia belga di Orval, retta dai Cistercensi.

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Cronologia

LA VITA E I LUOGHI 1543

nitivamente a Salon, in Provenza, ove sceglie una casa adatta alle sue esigenze. L’11 novembre si sposa una seconda volta, con una vedova del luogo di nome Anna Ponsard Beaulme.

1546

Sale al trono papale Giovanni Maria de’ Ciocchi del Monte, con il nome di Giulio III, e inaugura l’Anno Santo Giubilare. Nostradamus inizia la pubblicazione annuale dei suoi Almanacchi e Pronostici.

Poco prima di morire, l’astronomo e cosmologo polacco Nicola Copernico pubblica la prima copia a stampa del De revolutionibus, opera in cui esponeva la propria ipotesi eliocentrica. Nostradamus torna in Provenza, a Aix, chiamato dalle autorità cittadine per curare tutti i malati di peste di cui è afflitta la città. Dopo nove mesi riesce a debellare il morbo e riceve, in segno di riconoscimento, una pensione.

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Nostradamus si stabilisce defi-

1550

1552

Nostradamus scrive il Traité des Fardementes et Confitures, che inizialmente fa stampare soltanto per i suoi amici intimi e viene poi pubblicato per un piú ampio pubblico a Lione, nel 1557.

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L’editore Macé Bonhomme di Lione pubblica la prima edizione delle Vrayes Centuries et Propheties de Maistre Michel Nostradamus, ancora in-

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Una delle illustrazioni che corredano un prezioso manoscritto, Vaticinia Michaelis Nostradami de Futuri Christi Vicarii ad Cesarem Filium D. I. A. Interprete, rinvenuto nel 1982 nei fondi della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma. È probabile che l’opera, lasciata in eredità da Nostradamus al figlio César, sia stata da questi donata al cardinale Maffeo Barberini (il futuro papa Urbano VIII).

complete: i blocchi di cento quartine erano solo quattro rispetto ai dieci definitivi. Vedono quindi la luce i Presagi, a cui Nostradamus lavora fino al 1566, anno della morte. Il 9 aprile ha inizio il brevissimo pontificato di Marcello II (Riccardo Cervini di Montepulciano), che muore meno di un mese piú tardi, il 1° maggio. Per lui Giovanni Pierluigi da Palestrina compose una celebre messa. Tre settimane piú tardi viene scelto come successore Gian Pietro Carafa, che assume il nome di Paolo IV: intransigente fautore della Controriforma, ampliò i poteri dell’Inquisizione e, nel 1559, pubblicò il primo Indice dei libri proibiti (elenco delle pubblicazioni ritenute contrarie alla dottrina cattolica).

1556

Il veggente è a Rivoli e a Torino, probabilmente su invito dei Savoia e della figlia del re di Francia, la duchessa Margherita, in qualità di suo medico di fiducia.

1557

A Lione viene pubblicata presso Antoine du Rosne la seconda parte delle Centurie, composte di 286 quartine.

1558

Prosegue la pubblicazione della terza parte delle Centurie, a Lione, presso Jean de Tournes, preceduta da una lettera-prefazione (Salon, 27 giugno 1558) al re Enrico II. L’epistola è un documento di estrema importanza per comprendere come il veggente si destreggiasse fra magia e religione, riconoscendo a quest’ultima il primato sulla divinazione.

1559

Il 30 giugno, nel corso di un torneo organizzato a Parigi per festeggiare il matrimonio del re di Spagna con Elisabetta, figlia del re di Francia Enrico II, e il fidanzamento di Emanuele Filiberto di Savoia con Margherita di Valois, sorella dello stesso re di Francia, Enrico II viene accidentalmente ferito a morte dal conte di Montgomery, come descritto dallo stesso Nostradamus nelle quartine 35 e 65 della prima Centuria. A luglio, Enrico re di Francia muore e gli succede Francesco II. Inizia la reggenza di Caterina de’ Medici. L’avverarsi della profezia dà a Nostradamus una grande popolarità. Dopo quattro mesi di conclave, i cardinali

eleggono Giovanni Angelo Medici di Marignano, che sceglie il nome di Pio IV e che, fra l’altro, fece compilare un nuovo Indice dei libri proibiti, con l’intento di moderare il rigore di quello di Paolo IV.

1563

Con l’editto di Amboise, Caterina de’Medici, vedova di Francesco II, riconosce libertà di culto agli Ugonotti.

1564

Il 17 ottobre Nostradamus riceve a Salon la visita di re Carlo IX, che aveva allora 14 anni, e della regina madre Caterina. In tale occasione avrebbe predetto al principe di Bearn, di appena 11 anni, che un giorno lontano sarebbe diventato re di Francia e di Navarra, come in effetti avvenne assumendo il nome di Enrico IV. A seguito della consultazione il veggente ottiene le patenti per fregiarsi del titolo di consigliere e medico ordinario di casa reale. Nello stesso anno redige gli oroscopi dei giovani principi Rodolfo (1522-1612) ed Ernesto (1533-1595), figli dell’imperatore Massimiliano II.

1566

Il 17 giugno, presso il notaio di Salon, Joseph Roche, Nostradamus fa testamento lasciando suoi eredi la moglie e i figli. Il 30 giugno vi aggiungerà un codicillo. Il 2 luglio, il Giorno della Visitazione, propriamente Giorno di NostreDame, nelle prime ore del mattino Nostradamus spira a Salon, come egli stesso aveva predetto. Il corpo di Nostradamus viene sepolto a Salon, all’entrata dell’antica chiesa dei Cordiglieri appartenenti ai Frati Minori. Al tempo della Rivoluzione Francese, la tomba venne profanata e i suoi resti mortali furono dispersi. Recuperati da alcuni cittadini, che avevano assistito allo scempio, vennero tumulati nella chiesa di S. Lorenzo, presso l’antica cappella di S. Rocco, vegliati dalla lapide che reca l’epitaffio voluto dalla moglie, Anne Ponsard, nel quale si legge che Nostradamus fu «il solo a giudizio di tutti i mortali degno di scrivere con una penna semidivina per influsso degli astri i futuri avvenimenti del mondo intero». All’inizio dello stesso anno era stato eletto papa, con il nome di Pio V, il teologo e inquisitore domenicano Antonio Ghislieri, il quale fece applicare con intransigenza i decreti tridentini e fondò (1571) la Congregazione dell’Indice.

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Errabondo per dieci anni

Sconvolto dalla tragedia familiare e temendo per la sua libertà, Nostradamus abbandona in gran fretta Agen e inaugura una lunga stagione di viaggi e soggiorni in Europa, ma non solo. Avrà modo cosí di incontrare autorevoli colleghi e di imbattersi anche in un umile fraticello. Al quale non manca di predire un futuro prestigioso...

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niziano con la fuga da Agen i viaggi di Nostradamus, che si protraggono per oltre dieci anni, creando una sorta di affascinante intermezzo tra le fasi certe della sua vita, che sono la giovinezza fino al 1535 (segnata dalla dedizione alla medicina e alle scienze naturali, sia pure in un’ottica del tutto personale) e la maturità dal 1547 a Salon (contrassegnata dalla scelta esoterica e dalla pratica costante dell’arte divinatoria, oltre che da un secondo definitivo grande amore). Quel che accade in questa età di mezzo è avvolto in parte da una fittissima nebbia, in parte noto attraverso frammenti dai quali si evince un assoluto bisogno di rendersi «invisibile» al mondo ma anche un’assidua frequentazione di personalità legate a circoli esoterici di varia ispirazione. È come se Michel, sradicato dagli affetti e dalla terra di origine, si fosse proposto di spingere la sua ricerca verso le inconfessabili mete della magia, alle quali accostarsi nel piú totale segreto. Si danno per molto probabili incontri con personaggi come Agrippa di Nettesheim, astrologo e negromante perseguitato per il suo trattato De occulta philosophia (1531) e altri testi di carattere magico (vedi box a p. 55), e Paracelso, alchimista e anticipatore della moderna omeopatia, versato anch’egli nell’arte profetica, come dimostra la sua Prognostication (1536; vedi box a p. 56). Agrippa è il promotore di una 52

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consorteria iniziatica che conta adepti da un capo all’altro d’Europa. È la «confraternita dei maghi», costituita in Germania nel 1506. Nostradamus forse vi aderisce, ma se davvero conosce Agrippa è solo per poco, poiché quest’ultimo muore nel 1535, l’anno stesso in cui hanno inizio le peregrinazioni di Michel. Paracelso, pseudonimo di Theophrast von Bombast, è dedito a studi di alchimia talmente avanzati da far circolare voce che sia in grado di far nascere dal niente una creatura di fattezze umane, detta homunculus. La leggenda scaturisce forse da certi esperimenti effettivamente compiuti da Paracelso, che nel suo laboratorio in Svizzera tenta qualcosa di simile alla fecondazione artificiale.

L’intesa con Johann Faust

È significativo che tanto Agrippa che Paracelso siano medici, come buona parte dei personaggi incontrati da Nostradamus nei suoi viaggi. Si include tra questi, solitamente, anche Johann Faust, il mago reso famoso dalla diceria secondo la quale avrebbe venduto l’anima al diavolo. Se cosí fu, non dovette esserci tra i due una grande intesa, poiché le loro inquietudini seguivano strade assai diverse. Passavano entrambe Faust e Mefistofele, olio su tela di Eugène Delacroix. 1827-1828. Londra, The Wallace Collection.


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I viaggi

al crocevia delle arti magiche, ma lí si separavano per puntare alle stelle quella di Michel, agli abissi infernali quella di Faust. Sfioravano da vicino la dannazione, ma come un possibile incidente di percorso per Nostradamus, come una scelta calcolata per Faust. Ciò che contava per l’uno era la speculazione su antichi segreti, proiettata verso la luce della divinazione; per l’altro era invece l’esibizione di un effimero successo, che non rifuggiva da trucchi di prestidigitazione per stupire le masse. Nostradamus dialogava con il Cielo, Faust lo disprezzava, millantando poteri di origine diabolica. Non si sa quale spirito d’autodistruzione inducesse Faust a compromettersi pubblicamente per il piacere di farlo, ma è certo che si vantava di poter ripetere gli stessi miracoli di Cristo, di resuscitare i morti e conferire a piacimento con Lucifero: era stato per questo scacciato dalle università di Heidelberg, lngolstadt e Magonza, dove aveva tenuto cattedra, e bandito dalla maggior parte delle città tedesche. Risulta che gli venisse imposto in certi casi, mentre lo si metteva alla porta, di firmare una carta con la quale s’impegnava a non scagliare maledizioni o incantesimi contro i notabili cittadini. Chiedeva in cambio una ricompensa in denaro, come una specie di risarcimento per le notti di addiaccio cui la negata ospitalità lo costringeva; e in genere l’otteneva.

Visioni opposte

Questa era la fama di Faust, che, ciononostante, non era mai stato sfiorato dai rigori dell’Inquisizione. Perché il suo pessimo esempio faceva comodo, nel clima esagitato della Controriforma, tanto alla propaganda cattolica che a quella luterana. Gli uni lo citavano come dimostrazione del degrado morale provocato dagli altri: i luterani dicevano che era cattolico, i cattolici che era luterano, e per entrambi rappresentava la prova evidente del male insito nell’idea contro la quale si battevano. Il cattolico abate Tritemio, anche lui in odore di magia, ma devotissimo alla Vergine, lo additava come immagine esecrabile del male. Il protestante Melantone, braccio destro di Lutero, lo sfidava a un contraddittorio sulle verità della fede. Lui se la rideva di entrambi, e scagliava per di piú sortilegi che mandavano in frantumi la cristalleria di Melantone. Cambiava l’acqua in vino nelle taverne, scimmiottando il miracolo di Cana, e vendeva oracoli o, all’occorrenza, fatture. È difficile immaginare cosa potessero avere da dirsi, se mai s’incontrarono, Faust e No54

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Nella pagina accanto Würzburg, Neumünster. La lastra tombale dell’abate Johann Tritheim, piú noto come Giovanni Tritemio (Johannes Trithemius, 1462-1516).

Tavola che illustra le proporzioni del corpo umano, da un’edizione del De occulta philosophia del medico, filosofo e astrologo tedesco Agrippa di Nettesheim. 1533.

IL PRINCIPE DEI MAGHI L’origine unica del pensiero umano – e l’unità, quindi, di tutte le religioni, culture, scuole filosofiche – è alla base della ricerca operata dai maggiori occultisti, maghi e veggenti dell’età di trapasso dal Medioevo al Rinascimento. Fu questo l’obiettivo che si prefisse Agrippa di Nettesheim (1486-1535) nella sua opera De occulta philosophia, per la quale venne perseguitato e messo al bando dalle università nelle quali aveva insegnato. Medico come Nostradamus, che incontrò probabilmente in Germania poco prima di morire, si sforzò di conciliare la Bibbia e i Vangeli con i testi sacri delle altre

stradamus; ma piacque al principe dei letterati che inventarono il mito di Faust coinvolgere Nostradamus nella sua dannazione. È sfogliando un misterioso libro di Nostradamus che il Faust di Goethe decide d’intraprendere la via delle arti occulte, chiedendosi attonito chi mai fosse quell’uomo in grado di navigare per gli oceani del tempo: «Su, innalzati, verso liberi spazi! Non ti basta come guida questo libro misterioso di Nostradamus? Conoscerai il corso degli astri e la lingua degli spiriti. Voi che mi volate intorno, spiriti, se mi sentite, rispondete-

religioni, giungendo a una mirabile sintesi delle dottrine cristiane, cabalistiche, orfiche e di ogni altra civiltà. Sul piano scientifico privilegiò la «magia naturale» sulle altre forme di conoscenza, ponendo alla sua base lo studio congiunto della fisica, della teologia e della matematica. Si oppose ai pregiudizi della cultura ufficiale e denunciò il «terrorismo intellettuale» (De incerti tudine et vanitate scientiarum, 1527) dei medici, dei retori e delle altre consorterie professionali. Ebbe vita difficile per questo, ma gli iniziati riconobbero in lui il «principe dei maghi».

mi! Ah, se guardo questi segni che estasi m’invade! Una rinnovata felicità di vivere percorre come fuoco nervi e arterie. Fu dunque un dio chi scrisse queste cose? Sono anch’io forse un dio? Tutto diventa cosí chiaro...» (Johann Wolfgang von Goethe, Faust, Prima parte). Era questa la leggenda che a piú di due secoli dalla morte di Nostradamus aleggiava intorno al significato del suo «libro misterioso», quintessenza di magia e divinazione. In tal senso la citazione di Goethe rappresenta qualcosa di piú di una testimonianza poetica, fornendo una indicazione storica precisa dei significati che per ogni vero iniziato all’occultismo – e Goethe stesso lo era – l’eredità di Nostradamus rivestiva. Le notizie e le ipotesi di incontri avvenuti tra Nostradamus e altri personaggi che gravitavano nel mondo della magia riguardano soprattutto la Germania. Il che lascia presumere che buona parte delle sue peregrinazioni in quei dieci-dodici anni d’intermezzo tra giovinezza e maturità si siano svolte nell’Europa centrale, dove piú esteso era il retaggio di antiche superstizioni e piú aspri i conflitti religiosi. Ciò non significa che Nostradamus non abbia vagabondato altrove, in Italia, in Francia e, secondo testimonianze piú leggendarie, in Egitto, Persia e altre regioni mediorientali.

La profezia del cavaliere nero

In Italia si colloca uno degli episodi piú suggestivi di questo suo incessante viaggiare, considerato da certi esegeti un’anticipazione della febbrile attività profetica intrapresa in seguito. Si racconta che, in una mattina brumosa, un cavaliere vestito di nero stesse percorrendo a lenta andatura la strada che conduce a Venezia NOSTRADAMUS

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I viaggi Nella pagina accanto Loreto (Ancona). Il monumento a papa Sisto V, realizzato da Antonio Calcagni, con la collaborazione di Tiburzio Vergelli. 1587.

(o Ancona, secondo altre fonti, ma ciò non modifica la sostanza del fatto, né lo scenario, che ha per sfondo comunque l’Adriatico) sulla quale avanzava una processione di frati in senso inverso. Nell’incrociarla, l’uomo arrestò il cavallo e si fece di lato per cedere il passo. Rimase cosí fermo a testa china, rispettosamente aspettando che i religiosi fossero passati. Ma prima che il corteo lo superasse, la sua attenzione fu attratta da un giovane monaco di aspetto dimesso, alla vista del quale s’inginoc-

In alto frontespizio di un’edizione del Dottor Faust, stampata a Lipsia nel 1725. A destra frontespizio di un’edizione del Prognostication di Paracelso (Augusta, 1536).

UNA SOLA TESTA PER GOVERNARE Si trovano inquietanti profezie negli scritti raccolti sotto i titoli di Prognosticatio e Prognostication da Paracelso o Paracelsus, nome latinizzato del medico, alchimista e filosofo svizzero Philipp Theophrast Bombast van Hohenheim (1493-1541), che per tutta la sua vita cercò il segreto dell’«archeo» o della «quintessenza», cioè dei principi dai quali scaturisce la vita. In particolare, Paracelso mette in guardia l’umanità futura contro l’uso malinteso della scienza, denunciando come nemici della vita «coloro che feriscono il sole», danneggiando la natura con le loro ricerche. È un messaggio di grande interesse ecologico, a cui se ne aggiungono altri, egualmente inquietanti, sul malessere sociale: «Tutti correranno (...) Tante teste si agiteranno a cercare il proprio vantaggio, e il giusto sarà scacciato». Sembra che con questo Paracelso voglia mettere in discussione i futuri sistemi politici: «Governeranno molte teste, e nessuno si renderà conto che una sola dovrebbe governare». Il suo consiglio è la ricerca di una purezza primordiale: bisognerà distruggere «per diventare adulti». Il che vuol dire paradossalmente «ritrovare la civiltà dell’infanzia». La morale ha toni di accorata modernità: si deve «tornare a vivere come i bambini, che non conoscono astuzia e raggiro».

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chiò invocando una benedizione. Si creò imbarazzo e disordine nella processione, ma, soprattutto, una gran curiosità sulle ragioni che avevano indotto d’improvviso il cavaliere a un comportamento cosí inaspettato. Lo stesso frate si mostrò confuso e incerto se benedirlo, temendo di avere a che fare con un esaltato, ma quello insisté prostrato, con tanta umiltà da convincere il giovane a esaudirlo. Ottenuta la benedizione, l’uomo vestito di nero si rialzò in piedi ringraziando e prendendogli una mano per baciarla. Il frate la ritrasse ancora piú confuso, mentre gli altri non nascondevano il loro stupore per quello spropositato omaggio. Esclamò allora il cavaliere ad alta voce, perché tutti lo sentissero: «Che c’è di strano? Non mi sarei dovuto inginocchiare ai piedi di chi siederà sul trono di Pietro?». Quel cavaliere era Michel, il frate un oscuro francescano di nome Felice Peretti. Sarebbe diventato papa nel 1585, a una cinquantina d’anni dal vaticinio e venti dalla morte del profeta, con il nome di Sisto V.


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La Riva degli Schiavoni a Venezia, olio su tela di Leandro dal Ponte, detto Bassano. Dopo il 1595. Madrid, Real Academia de Bellas Artes de San Fernando.


Viaggio in Italia La Penisola fu una delle numerose mete di Nostradamus. La sua presenza è accertata in molte delle città piú importanti, tra cui spicca, in particolare, il soggiorno a Ferrara, dove il sapiente francese venne calorosamente accolto dalla corte estense


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In Italia

ra le città italiane in cui Nostradamus fece verosimilmente tappa – e alle quali accenna nelle sue Centurie con ampie digressioni profetiche – figurano Torino, Milano, Ferrara, Venezia e Firenze, dove potrebbe aver incontrato Francesco Guicciardini, ormai vecchio e inascoltato estensore di storie a cui non veniva piú dato molto credito. Ed è curioso immaginare in che modo possano essersi confrontate, se mai avvenne questo incontro tra lo storico e il veggente, le loro tesi sui fattori che condizionano il flusso della vita universale nel tempo. Guicciardini coltivava all’epoca l’illusione che il ritorno dei Medici a Firenze l’avrebbe ricondotto alla ribalta del gioco politico, dal quale era stato estromesso dopo il fallimento della Lega di Cognac contro Carlo V. Era un uomo politicamente bruciato, ma convinto di poter vantaggiosamente sfruttare gli effetti di una restaurazione medicea. Interrogato in proposito, il profeta l’avrebbe dissuaso da tale sogno, senza dover peraltro ricorrere a speciali doti divinatorie, dato che non era poi cosí difficile intuire, per quel geniale fallito

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A destra Veduta di Firenze durante l’assedio del 1530, affresco di Giorgio Vasari e aiuti. 1560-1561. Firenze, Palazzo Vecchio, Sala di Clemente VII. In basso ritratto del filosofo, storico e politico italiano Francesco Guicciardini, olio su tela di anonimo italiano. XVI-XVII sec. Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana.


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In Italia

che era ormai diventato il vecchio Guicciardini, l’inevitabilità del ritiro definitivo dall’agone governativo fiorentino. Come effettivamente avvenne di lí a poco, nel 1538, anno dell’irrevocabile esilio che l’autore delle Storie fiorentine volle imporsi, nella sua villa di Arcetri, dopo avere visto le ultime speranze dissolversi. Entrambi, Nostradamus e Guicciardini, avevano una visione pessimistica dell’uomo e, di conseguenza, della storia, che dei comportamenti umani era l’esito. Elementi di una certa somiglianza, seppure scaturiti da esperienze assai diverse, erano alla base di questa loro propensione a vedere intorno piú ombra che luce, piú nero che bianco, piú male che bene. Guicciardini considerava la storia come l’effetto di azioni dettate da un interesse «particulare»: nessun uomo agiva per un fine universale, ma in funzione di ciò che gli conveniva sul momento – e lo stesso facevano le nazioni, le società, le famiglie – sforzandosi di adattare le leggi morali alla propria convenienza. Era pressoché impossibile che il bene potesse, a tali condizioni, prevalere. Dal canto suo Nostradamus leggeva la storia a venire come una sorta di sanguinoso calendario, uno scadenzario di eventi prevedibili, motivati da intenti perlopiú delittuosi o truffaldini. Che era come dire da interessi «particulari», estranei a qualsiasi parametro morale. Su questo punto, se mai ne discussero, lo storico e il mago probabilmente si capirono.

In basso medaglia in bronzo con il profilo di Ercole II d’Este, quarto duca di Ferrara, opera di Pastorino da Siena (al secolo Pastorino de’ Pastorini). 1534. Washington, Narional Gallery of Art.

lia, nella primavera del 1536, per l’ospitalità data al riformatore protestante Calvino, da poco messo al bando per avere aderito alle teorie luterane con un clamoroso discorso del suo amico Cop, rettore dell’università di Parigi, a centinaia di studenti. L’averlo ospitato sotto il falso nome di Eperville non era valso a evitarne l’identificazione da parte di solerti spie romane, acuendo quel risentimento pontificio che nulla poteva comunque contro una famiglia che esprimeva personalità come i cardinali Ippolito I e Ippolito II d’Este, protettori a loro volta delle lettere (il primo fu mecenate dell’Ariosto, che gli dedicò l’Orlando furioso) e delle arti (il secondo fece costruire a Tivoli la famosa Villa d’Este). A questa naturale simpatia dell’illuminata Renata e di suo marito Ercole per le grandi anime randage di un’Europa contrassegnata dal pregiudizio religioso sono da ricondurre in tutta evidenza i motivi per i quali Nostradamus, sfiorato come tanti dal sospetto di eresia, sarebbe stato accolto con ogni riguardo alla corte estense di Ferrara. Vi trovò un clima che adeguatamente esprimeva la magnificenza del Rinascimento italiano, non ancora irradiato con eguale splendore nella Francia dalla quale Michel fuggiva oppresso dal suo lutto. Qui Nostradamus assisté a scherzi e dispute brillanti, allietate da musici e nani geniali, pronti a gareggiare in spirito con intellettuali e artisti, poeti e polemisti. Vi si rappresentavano commedie come La Lena e Il negromante dell’Ariosto, appena scomparso. Si ascoltavano le tirate di Bernardo Tasso, improvvisatore e fine dicitore di versi, che ne aveva preso il posto. È pensabile che, incontrandolo, il veggente possa avergli predetto l’avvenire luminoso del figlio Torquato, destinato a oscurarne la fama in un trionfo di cavalieri e armi crociate.

Nella pagina accanto una pagina miniata del libro di preghiere di Renata di Francia, duchessa di Ferrara. XVI sec. Modena, Biblioteca Estense Universitaria.

I Celti oppressori

Liberalità e spirito di progresso

Piú credibile di altri appare l’incontro di Nostradamus a Ferrara con il duca Ercole II d’Este e sua moglie Renata di Francia, figlia di Luigi XII e Anna di Bretagna. Era una strana, felice corte, quella degli Estensi a Ferrara, contrassegnata da una speciale liberalità e spirito di progresso. Ne aveva il merito in particolar modo la duchessa Renata, che aveva portato come preziosa eredità personale dalla Francia uno speciale amore per le arti, le lettere e la cultura, ingentilito da un grande senso di solidarietà verso chiunque venisse perseguitato a causa delle sue idee. Non era per questo molto benvista a Roma, per la protezione data in piú occasioni a filosofi e intellettuali in odore di eresia. Si era particolarmente messa in mostra, proprio al tempo del passaggio di Nostradamus in Ita62

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A Ferrara e altre città italiane Nostradamus dedica una quartina nella quale annuncia che saranno un giorno «oppresse da gente celtica»: «Milano, Ferrara, Torino e Aquileia, Capua, Brindisi oppresse da gente celtica: Dal Leone e la falange aquilata. Quando Roma avrà vecchio capo Britannico».


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In Italia

(«Milan, Ferrare, Turin & Aquilleye, / Capne, Brundis vexez par gents Celtique: / Par le Lyon & phalange aquilee / Quand Rame aura le chef vieux Britannique»; Centurie, V–99). Non si tratta di una profezia cosí ermetica. Non è una novità che in epoche diverse le città italiane siano state «oppresse» da popoli barbari. Naturalmente, essendo la predizione di Nostradamus formulata in epoca successiva alle invasioni barbariche vere e proprie, deve riferirsi nelle intenzioni del veggente ad altre occupazioni. Non esclusa quella nazista, compiuta da gente «celtica» per eccellenza. Ma è anche vero che il termine ha una estensio64

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ne assai vasta, poiché può valere a indicare popolazioni radicate in qualsiasi angolo d’Europa, dalle Isole britanniche alla Germania e al Danubio, oltre naturalmente alla Francia. Com’è nella tecnica abituale di Nostradamus, volta a confondere anziché chiarire il senso delle previsioni, l’aggettivo ha qui una valenza generica, riconducibile però a un’idea specifica – seppure polivalente – di barbarie. Un chiarimento potrebbe venire da quel riferimento al «leone» e alla «falange aquilata», emblemi e immagini di segno totalitario, che riconducono alla retorica fascista. La fase di vessazione a cui si riferisce Nostradamus parrebbe


anche quelle del Regno del Sud, come Capua e Brindisi, occupate da truppe inglesi e americane. Il tutto mentre a Roma liberata risulta insediato un comando di generali americani e inglesi, quindi britannici di fatto o di origine.

Il pianto di Milano

dunque coincidere con il regime mussoliniano. La chiave della quartina sarebbe allora da ricercare nell’identità di quel Britannico che siede a Roma. Non sembra trattarsi di pseudonimo, anagramma o altra elaborazione criptica del nome di Mussolini. Potrebbe piú verosimilmente indicare il periodo dell’occupazione alleata di Roma dopo l’armistizio del 1943, con i Tedeschi al Nord e gli Anglo-americani da Roma in giú. Rafforza la verosimiglianza di questa lettura il fatto che sia gli uni che gli altri siano di origine celtica, Angli e Germani. Tra le città citate, infatti, non vi sono soltanto quelle della Repubblica Sociale, soggette all’occupazione nazista, ma

Ferrara. Particolare degli affreschi che ornano la Sala Ercole di Palazzo Paradiso, edificio fatto erigere nel 1391 da Alberto V d’Este in occasione del suo matrimonio con Giovanna de Roberti e decorato, come Schifanoia e Belfiore, con scene della vita di corte e motivi tratti dai romanzi cavallereschi.

Città italiane vengono nominate alla rinfusa in un’altra quartina che sembra riferirsi allo stesso periodo: «Piangi Milano, piangi Lucca, Firenze, Che il tuo gran Duce sul carro monterà. Si avvicina [l’ora] di cambiar sede presso Venezia, Allorquando Colonna a Roma cambierà». («Pleure Milam, pleure Lucques, Florance, / Que ton grand Due sur le char montera, / Changer le siege pres de Venise s’advance, / Lors que Colonne à Rome changera»; Centurie, X-64). La profezia è comunemente riferita all’esecuzione di Mussolini. L’uomo che monta sul carro raffigura simbolicamente il condannato a morte. Il momento in cui il «gran duce» intraprende questo ultimo viaggio è quello in cui a Roma si muta Colonna, cioè governo, e il regime si vede costretto a spostarne altrove la sede: a Salò, sul lago di Garda, quindi non lontano da Venezia. Il pianto di Milano e delle altre città non sarebbe in tal caso da riferirsi alla morte di Mussolini, ma alle sofferenze provocate dai bombardamenti. Altre interpretazioni furono date in passato di questi versi, considerati anche una premonizione della conquista d’Italia da parte di Napoleone, che monta sul carro del trionfo anziché su quello del condannato. C’è un’altra quartina che sembra voler preannunciare l’esecuzione di Benito Mussolini e dei suoi gerarchi con immagini di un realismo impressionante: «Quando il Nero feroce avrà sperimentato [Sulla] sua mano insanguinata fuoco, ferro, archi tesi, Il popolo intero sarà terrorizzato Nel vedere i piú grandi per collo e piedi appesi». («Le Noir farouche quand aura essayé / Sa main sanguine par feu, fer, are tendus, / Trestout le peuple sera tant effrayé, / Voir le plus grans par col & pieds pendus»; Centurie, IV–47). È difficile non riconoscere d’istinto in questi corpi «per collo e piedi appesi» le immagini riprese da fotografi e cineoperatori a Milano dopo la fucilazione del capo del fascismo e dei notabili piú in vista del regime. Il che avvenne dopo che lui stesso ebbe provato gli effetti della guerra («fuoco, ferro, archi tesi») in cui aveva trascinato il suo popolo. NOSTRADAMUS

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Parole arcane e potenti Isfahan (Iran). Particolare della lussureggiante decorazione della moschea dello Shah, edificata a partire dal 1611.


La curiosità intellettuale e la naturale inclinazione per lo studio e la ricerca spinsero Nostradamus a interessarsi anche della lezione delle civiltà antiche. Stimoli dai quali nacquero il confronto con l’antico Egitto e il pensiero di filosofi e mistici orientali


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Dall’antico Oriente

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ra le tante cose che si sono scritte intorno al mistero di Nostradamus, una delle piú suggestive riguarda l’uso, da parte sua, delle cosiddette «parole di potenza». Si è sostenuto, cioè, che a seguito della sua decrittazione dei geroglifici egizi, con particolare riguardo ai rituali contenuti nel Libro dei Morti (vedi box in queste pagine), il veggente fosse giunto non soltanto alla comprensione profonda degli occulti significati celati nelle parole corrispondenti a

tali segni, ma anche alla capacità di pronunciare queste ultime nella loro giusta tonalità. È questa una fantasia di nessun rilievo storico, ma di grande interesse per quei ricercatori che hanno privilegiato nei loro studi gli aspetti esoterici dell’opera di Nostradamus rispetto ai dati comprovabili della sua esistenza. Si ricollega infatti alle credenze sacromagiche sulla misteriosa forza dei «nomi», che, a cominciare da quello di Dio, rappresentano una chiave estrema di co-

UNA GUIDA PER L’ALDILÀ Tra le fonti del sapere sacromagico a cui Nostradamus forse attinse negli anni di preparazione all’opera profetica che lo rese famoso, vi è un testo egiziano, noto come il Libro dei Morti. È il libro dal quale presumibilmente apprese le «parole di potenza» e altri segreti connessi alla cultura ermetica dei sacerdoti egiziani. Ciò che oggi chiamiamo Libro dei Morti (titolo apposto negli anni dell’egittomania romantica ottocentesca) è, in realtà, una silloge millenaria di carmi, formule magiche, incantesimi e scongiuri trascritti su un rotolo di papiro che veniva posto nel sarcofago del defunto perché potesse servirgli come guida nell’aldilà. Suo scopo principale era quello di consentire al morto di seguire il cammino del

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Sole durante la notte, onde salire dalle tenebre alla luce. In altre parole, era un manuale d’iniziazione per il raggiungimento dei piú alti livelli di spiritualità, preclusi ai vivi. Utilizzato però da un vivente, il formulario poteva sortire effetti meravigliosi, cosí riassunti nel medesimo papiro: «Chi viene in possesso di questo Libro sulla Terra, come chi lo rinviene da morto nel proprio sarcofago, può uscire alla luce assumendo tutti gli aspetti da lui desiderati e ritornare donde viene senza esserne respinto».

Particolare del Libro dei Morti di Hunefer, forse uno scriba reale, con vignette relative al giudizio dell’anima del defunto. XIX dinastia, 1292-1186 a.C. Londra, British Museum.

Uno dei paesaggi realizzati da Walter Frederick Roofe Tyndale per l’opera An Artist in Egypt, pubblicata a Londra nel 1912.


noscenza – e di potere – per l’iniziato che sia in grado di pronunciarli nella loro dizione segreta.

La distruzione del Tempio

Di questa chiave si vuole che fossero in possesso i sacerdoti dell’antico Egitto e i saggi della tribú d’Issacar, detentori, questi ultimi, dei testi sottratti alle camere iniziatiche dei templi egizi per essere utilizzati, insieme ad altre fonti del sapere arcaico, nell’edificazione del Tempio di

Salomone. Questo vuole la leggenda. La storia riporta che il tempio di Gerusalemme venne poi distrutto dai Romani con l’intero patrimonio di documenti e formule in esso custoditi. È tuttavia lecito supporre che prima del disastro – del resto prevedibile – certi testi fondamentali di questo secolare compendio possano essere stati sottratti dalle cripte in cui erano celati e tramandati dagli originari custodi ai discendenti della loro tribú d’Issacar. Ciò che i

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Dall’antico Oriente

Romani trovarono incendiarono, ma è pensabile che i documenti del Sancta Sanctorum, tabernacolo segreto del tempio, fossero a quel punto già scomparsi. Se cosí andarono le cose, questi scritti passarono di generazione in generazione – e di luogo in luogo, secondo gli spostamenti determinati dalla diaspora – per le mani degli eletti di volta in volta designati dai detentori. Di questa linea di sangue fecero parte gli avi di Nostradamus ed egli stesso, che ebbe i sacri testi dalle mani del nonno materno Jean di Saint-Rémy. È uno dei pochi fatti – non congetture – di cui il veggente fornisce testimonianza diretta in una storica lettera datata 1° marzo 1555 al figlio prediletto César, primogenito della prole avuta dal secondo matrimonio con la vedova Anna Ponsard di Salon, contratto al termine della fase di peregrinazioni. Si apprende dalla lettera che Nostradamus sarebbe stato l’ultimo possessore degli antichi testi della tribú d’lssacar, poiché, dopo averne assimilato il contenuto, decise di «farne dono a Vulcano», come scrive, cioè di bruciarli «affinché in avvenire non se ne abusasse». Aveva evidentemente timore del pessimo uso che si sarebbe potuto fare, a suo avviso, del tremendo potere di quegli scritti. Un potere che al momento in cui bruciavano si sarebbe manifestato, secondo quanto racconta nella lettera, attraverso inquietanti segnali: «E mentre li veniva a divorare, la fiamma lambiva l’aria spandendo una chiarezza insolita, piú lucente della fiamma naturale, simile a bagliore folgorante di un fulmine, illuminando improvvisamente la casa, come se fosse colpita da una subitanea conflagrazione». Allo studio profondo di questi documenti, perché nulla del loro contenuto andasse disperso nell’incenerimento, sono da collegare le notizie di un soggiorno di Nostradamus in Egitto, Persia e altri luoghi deputati della sapienza orientale, dove avrebbe cercato riscontri presso le piramidi e le vestigia della civiltà accadica. Ne parla l’emiro Gaffary in una sua opera sull’esoterismo dei sufi, nella quale fa cenno a contatti avuti dal veggente francese con questi grandi protagonisti dell’antica cultura iranica. Nostradamus avrebbe lungamente sostato, secondo Gaffary, nella città persiana di Isfahan, centro di studi filosofici e iniziatici connessi con l’astrologia, la medicina e l’alta teologia, misurandosi con le tecniche sufiche di meditazione, i segreti terapeutici di Avicenna, le finezze intellettuali di Omar Khayyam. La testimonianza di Gaffary lascia presumere che Nostradamus possa essere stato in qualche modo introdotto nella fratellanza islamica 70

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della Futuwat, qualcosa di simile a un Ordine cavalleresco fondato sulla predisposizione al combattimento interiore per la conquista di verità irraggiungibili all’esterno. In tale contesto è possibile che le sue doti profetiche siano andate affinandosi mediante comuni pratiche di annientamento individuale – annientamento di sé – in funzione del conseguimento di una spiritualità superiore.

Un sodalizio dai contorni sfuggenti

È improbabile, d’altronde, che Nostradamus possa avere avuto quei contatti esclusivi di cui parla Gaffary senza passare al vaglio della Futuwat. Cosa fosse questa confraternita – che storici superficiali considerano come una organizzazione speculare della cavalleria occidentale, animata da medesimi intenti di spiritualità e di coraggio – non è mai stato chiaro neanche ai suoi adepti, che l’hanno in tempi diversi definita come un’aspirazione ad «amarsi in Dio senz’altro scopo che il farlo per Dio» (Abd arRashman as Sulami, autore del Kitab af-Futuwat, o Libro della Futuwat, all’inizio del XII secolo, V dell’Egira), una sorta di «scienza utile» (Hasan ab-Basri, XV secolo, VIII dell’Egira), una sollecitazione ad «agire con rettitudine senza pretendere altrettanto dagli altri» ma anche a «distruggere in ogni uomo l’idolo ch’è dentro di lui» (Abu Hafs, XVI secolo, IX dell’Egira, contemporaneo di Nostradamus). In questa società dalla connotazione sfaccettata e incerta, mistica e creativa, si sono riconosciute le piú svariate consorterie islamiche medievali, dalle confraternite religiose ai circoli iniziatici dei sufi e dei dervisci, fino alle gilde degli artigiani musulmani, fondate su vincoli di fratellanza e segretezza analoghi a quelli osservati nel «compagnonaggio» europeo e nella massoneria operativa, effettivamente impegnata all’epoca nella costruzione di cattedrali e abbazie. Indipendentemente, dunque, dall’autenticità storica delle notizie relative a incontri tra Nostradamus ed esponenti di tali associazioni, non si può fare a meno di rilevare la loro evidente analogia con quanto trapela dai viaggi del veggente in Europa, scanditi da appuntamenti egualmente misteriosi con uomini a lui legati dal comune interesse per lo studio – e la pratica – delle piú arcane discipline. Se n’è dedotto che tali viaggi, come quelli compiuti dai suoi contemporanei Agrippa e Paracelso, Cardano, John Dee e Giordano Bruno, avessero in sostanza lo scopo di mantenere i contatti – o intesserne di nuovi – con i maestri di una scienza germinata all’interno di una fratellanza segreta e universa-

Nella pagina accanto illustrazione di scuola persiana raffigurante la danza dei dervisci. XVI sec. Teheran, Biblioteca del Palazzo del Golestan.


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Dall’antico Oriente


LA LINGUA DI DIO La ricerca delle «parole di potenza» attraverso le antiche scritture – a cui Nostradamus si dedicò attraverso lo studio di testi da lui stesso distrutti per la loro pericolosità – ebbe un predecessore nel cabalista Abulafia, ovvero Abraham Ben Samuel (1240-1292), anch’egli ebreo, nato a Saragozza tre secoli prima di lui. Anche Abulafia viaggiò molto e venne in contatto con i Sufi dell’Islam, anch’egli affermò di essere dotato di spirito profetico. Il segreto di cui tentò d’impossessarsi fu quello della cosiddetta «lingua primordiale»,

attraverso cui penetrare ogni mistero deIla storia universale, passata e futura. Il presupposto era che l’ebraico fosse sacro per eccellenza, essendo la lingua di Dio, e che pertanto, conoscendolo in profondità, fosse possibile mettersi in sintonia con l’anima del mondo. Giunse attraverso questa convinzione alla certezza dell’esistenza di un’unica religione. Cercò di convincerne il papa Niccolò III, ma venne arrestato e rischiò il rogo. Affermò di avere sempre per guida un angelo di nome Metatron.

le, alla quale non si poteva accedere se non attraverso una complessa iniziazione. Nulla si sa di questa fratellanza, ma è presumibile che rientrasse in quella rete di rapporti sotterranei tra intellettuali erranti, allo scopo di scambiarsi gli arcani segreti, soprattutto scientifici, appresi nel corso delle loro peregrinazioni. Non è quindi da escludere che anche Nostradamus possa essere appartenuto a quella cerchia di «venerabili maestri» da cui prese successivamente vita, all’inizio del Seicento, la società dei Rosacroce.

Dall’isola di Andros

Per lo studio dei geroglifici egizi, che furono sicuramente parte del suo sistema di conoscenza, Nostradamus si avvalse di un testo (Hieroglyphika, attribuito a Horapollon) che aveva notevolmente interessato i filosofi neoplatonici fiorentini, a cominciare da Marsilio Ficino. Lo scritto era stato rinvenuto nell’isola greca di Andros dall’italiano Cristoforo Buondelmonti, che l’aveva portato a Firenze, dove si era cercato di tradurlo in greco, poi in latino. Vi avevano fatto riferimento intellettuali come Leon Battista Alberti nel suo trattato De architectura (1452) e Giovanni Andrea Alciato (1492-1550) per le sue ricerche araldiche sul valore degli emblemi. A questo testo Nostradamus dedicò una lnterpretation des Hiéroglyphes de Horapollon (1545), di cui rimane il manoscritto, considerato di grande interesse per un approccio con il linguaggio criptico delle Centurie. Per comprendere l’interesse di Nostradamus

Nella pagina accanto miniatura raffigurante Abraham ben Samuel Abulafia, da un manoscritto dell’opera La luce dell’intelletto, composta dallo stesso Abulafia. 1285. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

per i geroglifici egizi – o pseudoegizi, come si ha motivo di ritenere in questo caso – si deve considerare l’importanza che il linguaggio figurato ha sempre avuto al fine di velare il «gioco serio» degli iniziati. Un’importanza che spiega l’interesse di Marsilio Ficino e dei neoplatonici fiorentini, prima ancora di Nostradamus, per il testo rinvenuto nell’isola di Andros dal Buondelmonti, perfettamente funzionale all’intento di far comunicare l’anima e la ragione – la fantasia e l’intelletto – attraverso fantasmagoriche figurae, in grado di suscitare una tensione interiore di respiro imprevedibile. Era del resto una consuetudine o precauzione di tutti i grandi spiriti del passato quella di celare i tesori della propria conoscenza sotto il velo di un codice immaginario, contrassegnato da immagini desunte dal reale per significare qualcosa di assolutamente indecifrabile in termini reali. Compreso questo, è facile intuire in che modo intendesse servirsi dei geroglifici Nostradamus, al fine di proteggere il proprio gioco profetico, graduando la rivelazione su vari livelli, onde consentire a ciascuno di accedervi in funzione – ed entro i limiti – del proprio sapere. Si capisce che per questo non fosse necessario al veggente ricorrere al geroglifico autentico, ma bastasse riprodurre nel proprio linguaggio meccanismi analoghi di copertura, travisamento e manipolazione dell’idea proposta, rendendola intelligibile solo in parte o per niente. Sembra che proprio questo voglia dire Nostradamus quando avverte che dalle anfore degli antichi monumenti verranno informazioni atte a smentire falsi storici e incoraggiare la nascita di una nuova scienza unificatrice per l’uomo: «A most rare i falsi verrà la rappresentazione dei luoghi, Le anfore dei monumenti si apriranno: Dal pullulare di sette [verrà] una santa filosofia, Per bianchi, neri e antichi verdi». («Faux exposer viendra topographie, / Seront les cruches des monuments ouvertes: / Pulluler secte, saincte philosophie, / Pour blanches, noires & pour antiques vertes»; Centurie, VII-14). Per indicare l’atto di rappresentare i luoghi Nostradamus usa il termine topographie, interpretabile nel senso di archeologia, come arte della ricerca nei siti del passato e quindi anche della loro corretta raffigurazione. Dai contenitori dell’antico sapere verranno ispirati nuovi movimenti di pensiero, in grado di produrre la nuova «santa filosofia», che unirà in una medesima visione del mondo gente d’ogni colore, razza e opinione. NOSTRADAMUS

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Nella Valle

Dorata I resti dell’abbazia di Orval, fondata in Lorena da Matilde di Canossa e retta dai Cistercensi al tempo in cui Nostradamus vi soggiornò.


Il soggiorno presso l’abbazia belga di Orval fu uno dei momenti decisivi nella vita di Nostradamus. Lí, infatti, ebbe modo di attingere ai saperi custoditi e tramandati dai Cistercensi e di accostarsi agli ideali un tempo propugnati dai cavalieri templari


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Orval e i Templari

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afforza l’ipotesi dell’appartenenza di Nostradamus a un Ordine iniziatico di respiro internazionale il fatto che abbia soggiornato per qualche tempo nel monastero cistercense di Orval, cosí chiamato dall’originaria denominazione di Valle Dorata (Aurea Vallis), in Belgio. I frati di Cîteaux l’avevano ereditato quattro secoli addietro dalla madre adottiva di Goffredo di Buglione, liberatore del Santo Sepolcro, facendone uno dei centri piú progrediti della mistica occidentale. Era frequentato, per la vivacità delle attività intellettuali che si svolgevano

Claudio di Lorena, duca di Guisa, olio su tavola di Jean Clouet. 1540. Firenze, Palazzo Pitti, Galleria Palatina.

cercasse principalmente conforto per il suo spirito devastato dalla perdita dei figli e della moglie. È tuttavia impensabile che non abbia sfruttato anche l’occasione a vantaggio dei suoi studi, attingendo nozioni e chiavi per il suo sapere dalle carte dei Cistercensi, monaci tra i piú eruditi della cristianità, legati peraltro ai continuatori del disciolto Ordine dei Templari, costretti alla clandestinità da due secoli. E va ricordato per inciso che proprio dai Cistercensi, tramite san Bernardo di Chiaravalle, quegli sfortunati cavalieri avevano avuto la loro Regola, divenendo milizia crociata e, al tempo stesso, movimento intellettuale d’ispirazione gnostica e giovannita, versato nello studio di scritture mai del tutto identificate. Né va sottovalutato il fatto che quell’Ordine militare cosí strettamente vincolato ai Cistercensi si fosse insediato al tempo delle crociate tra i resti del distrutto tempio di Gerusalemme (donde il nome di Templari o Cavalieri del Tempio), effettuandovi scavi e rinvenendo antiche iscrizioni, documenti, pergamene, testimonianze di un passato perduto. Quello stesso passato di cui erano stati gelosi custodi i discendenti della tribú d’lssacar.

Il potere dagli scritti del Tempio

tra le sue mura e per la ricchezza dell’antica biblioteca, fornita di volumi e manoscritti rari o introvabili, da colti viaggiatori d’ogni provenienza, non sempre né necessariamente cattolici. La sosta a Orval di Michel fu certamente anteriore al 1537, poiché in quell’anno l’abbazia venne incendiata da truppe francesi per essere poi ricostruita soltanto nel 1600, a opera dell’abate Percin de Montgaillard. Vi soggiornò quindi in tempi di poco successivi alla tragedia di Agen, dalla quale non si era certamente ripreso. È probabile che in quel convento Nostradamus 76

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Senza forzare troppo la fantasia, è lecito dedurre da tali circostanze che la fonte del potere iniziatico di Nostradamus, detentore delle carte sottratte all’incendio del Tempio dai suoi progenitori, dovrebbe essere stata la medesima della dottrina templare, scaturita da scritti rinvenuti nelle fondamenta di quello stesso edificio. Il che avallerebbe ulteriormente l’appartenenza del veggente a un circolo iniziatico dalle diramazioni imprevedibili. L’ipotesi di un legame occulto tra Nostradamus e circoli esoterici vicini al templarismo, intendendo con ciò quel che restava dell’eredità spirituale dell’Ordine cavalleresco piú mistico e misterioso della storia, tragicamente soppresso due secoli prima, ha spesso sollecitato incontrollate fantasie. La piú inverosimile di tutte è la tesi secondo cui non sarebbero state scritte da Nostradamus le profezie divulgate a suo nome, ma da un «comitato» di maestri templari, iniziati ai piú alti livelli dell’arte magica. È la tesi sensazionalistica dell’astrologo francese Pierre V. Piobb, autore di numerosi testi di magia e divinazione, secondo il quale le profezie attribuite a Nostradamus sarebbero state compilate con oltre due secoli di anticipo (nel 1318) da un gruppo di cavalieri del Tempio sotto la guida del maestro Geoffroy Gonnesville. La data indicata da Piobb è di poco successiva


Miniatura raffigurante un gruppo di Templari mandati al rogo, da un’edizione delle Chroniques de France ou de St. Denis. Fine del XIV sec. Londra, British Library.

allo scioglimento dell’Ordine (1312) e al rogo degli ultimi Templari, tra cui il gran maestro Jacques de Molay (1314). I misteriosi «profeti» sarebbero dunque stati, secondo questa fantasiosa ipotesi, cavalieri sfuggiti allo sterminio e rifugiatisi in terra balcanica, sulla costa dalmata, a Spalato, dove avrebbero formulato in gran segreto le loro predizioni. Piobb sostenne la sua tesi nell’opera Il segreto di Nostradamus e delle sue celebri Profezie, edita a Parigi nel 1927 e nel 1945, giungendo ad affermare, contro ogni evidenza storica, che Michel di Nostre-Dame potrebbe non essere mai esistito. Altri autori hanno espresso opinioni analoghe, tra cui l’esoterista Georges Beltikhine nel saggio Il segreto delle Profezie dette di Nostradamus, loro origine templare, edito a Losanna nel 1956, che però non mette in discussione l’esistenza storica del veggente. Nel suo Formulario di alta magia, Piobb aveva dato della veggenza una spiegazione elementare, definendola «un dono analogo a quello della

psicometria» (cioè della facoltà d’investigare attraverso il contatto fisico con un oggetto qualsiasi gli eventi a esso collegabili, come per esempio le circostanze di un delitto con l’arma usata dall’assassino) con la differenza che «non tutti sono veggenti». Voleva evidentemente dire che non bastava l’esercizio per praticare la divinazione ma occorreva una speciale inclinazione naturale, sulla quale in pochi potevano contare. Dovette quindi sembrargli piú credibile che tale inclinazione tendesse a manifestarsi attraverso le doti congiunte di un collegio di iniziati che di un singolo individuo, incline a sentimenti di ordinaria quotidianità come l’amore profano e la paternità, qual era in effetti Michel di Nostre-Dame.

Un testo misterioso

Al soggiorno di Nostradamus tra i Cistercensi viene solitamente collegata la cosiddetta «profezia d’Orval», contenente diversi elementi di predizione abbastanza simili a quelli poi elaborati nelle Centurie. La questione è però controNOSTRADAMUS

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NOSTRADAMUS La battaglia di Waterloo: i quadrati inglesi subiscono l’attacco dai corazzieri francesi, olio su tela di Félix Henri Emmanuel Philippoteaux. 1874. Londra, Victoria and Albert Museum.

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Orval e i Templari

versa. Il testo denominato Profezia d’Orval, rinvenuto negli archivi del monastero intorno alla fine del Settecento, in pieno illuminismo e alla vigilia della Rivoluzione, è firmato da un misterioso «dottore in medicina e astrologia» dal nome probabilmente inventato di Philippe Dieudonné Noel Olivarius. Non si hanno riscontri dell’esistenza di un personaggio cosí chiamato, ma non basta la qualifica di medico e astrologo per identificarlo in Nostradamus. C’è poi da dire che il testo è datato 1542 e all’epoca il convento era già stato distrutto. L’opera di Olivarius non poté dunque giungervi prima della ricostruzione, avvenuta all’inizio del Seicento. Non si capisce allora per quale motivo se ne dovrebbe attribuire la paternità a Nostradamus. Né appare convincente che egli possa es-

sersi scelto lo pseudonimo di Olivarius, come sostiene l’abate Henri Torné-Chavigny nella sua Storia predetta e giudicata da Nostradamus, pubblicata a Bordeaux nel 1860, in omaggio all’originaria Provenza, terra di oliveti. Non aiutano a riconoscere Nostradamus in Olivarius i contenuti delle profezie sottoscritte da quest’ultimo nell’apocrifo in questione. Prevale infatti nel testo una comunanza di temi con diversi oracoli dell’epoca, che in vario modo preannunciano l’avvento di un’era di malvagità alla svolta del Duemila. Olivarius parla di nuove persecuzioni per la Chiesa, di una metamorfosi (metaforica, si presume) degli uomini in formiche, della brama di arricchirsi che li ridurrà simili a cadaveri in putrefazione, inducendoli a scavare nella terra fino a trovare un corpo umano in disfaci-


mento, emblema della loro condizione; ma l’attenzione degli esegeti è attratta soprattutto da una predizione che parrebbe riferibile alla futura gloria di Napoleone Bonaparte. È questo il punto di maggiore interesse della Profezia di Orval, sul quale fanno leva quegli interpreti che ne attribuiscono la paternità a Nostradamus. È vero che in diverse quartine delle Centurie si sono voluti riconoscere riferimenti alla figura di Napoleone, anche abbastanza circostanziati, ma ciò non è sufficiente per dedurne un sicuro collegamento con il testo di Olivarius. Tanto piú che il giudizio eminentemente trionfalistico di quest’ultimo non sembra collimare con quello, decisamente critico se non del tutto sprezzante, di Nostradamus, che paragona l’imperatore a un macellaio:

«Un Imperatore nascerà presso l’Italia Che all’Impero costerà ben caro, Diranno con che genti si legherà Quelli che lo troveranno meno principe che macellaio ». («Un Empereur naistra pres d’ltalie, / Qui à l’Empire sera vendu bien cher, / Diront avec quels gens il se ralie, / Qu’on trouvera moins prince que boucher»; Centurie, I-60). S’intenderebbe con quel «presso l’Italia» l’origine corsa di Napoleone, il quale costerà lutti e rovine all’impero, sia che si voglia con ciò indicare l’impero da lui creato che quello inglese. Parrebbe riferirsi alla sua origine plebea, oltre che alle guerre provocate, l’opinione di quanti vedranno in lui piú un macellaio che un principe. Unanime è il parere di molti esegeti nel ricono-

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Orval e i Templari

DESIDERI CIFRATI La «steganografia» o arte dell’occulta scrittura inventata dall’abate Joann Tritheim, noto come Trithemius di Spenheim (1462-1516), è una tecnica di comunicazione che si pone lo scopo di «trasmettere con occulte scritture i voleri del proprio animo a chi è lontano», evitando che altri possano venirne a conoscenza intercettando il messaggio. Non ci sarebbe nulla di strano in tale intento, per soddisfare il quale sono stati inventati nei secoli centinaia di cifrari, se l’abate non avesse dichiarato di volersi servire allo scopo di spiriti angelici, fornendo indicazioni per poterli evocare e affidare loro i messaggi da trasmettere. Perciò l’opera intitolata Steganografia, pubblicata postuma nel 1606, suscitò «sbalordimento in tutto il mondo», come l’autore aveva previsto, finendo nell’Indice dei libri, proibiti. Ancora prima della pubblicazione, d’altronde, la pratica del sistema inventato

L’abate Johann Tritheim, piú noto come Giovanni Tritemio (Johannes Trithemius), in una calcografia del 1516.

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da Tritemio era stata contestata come sacrilega e demoniaca, ponendo all’abate non pochi problemi. Oggi è possibile riconoscere la Steganografia del geniale abate, uomo di cultura enciclopedica, per ciò che era in realtà: un codice fondato sull’uso di diverse chiavi corrispondenti ai nomi degli «angeli» (Oriel, Quabriel, Narcoriel, Camuel e altre decine di spiriti) di volta in volta evocati. Il messaggio da inviare doveva essere inserito in una specifica formula evocativa, che era in realtà una griglia di lettere. Per decodificarlo si partiva dal nome dello spirito evocato, individuando le lettere essenziali alla comprensione del messaggio, che veniva cosí sezionato e tradotto in linguaggio comune. Si trattava, in breve, di estrapolare da determinate parole, secondo un ordine prestabilito, le lettere cosiddette «cifranti» e ordinarle in un testo coerente. Nel che non c’era niente di demoniaco.

scere il profilo di Napoleone in questa come in altre quartine del seguente tenore: «Di nome che mai appartenne a un Re Gallico [francese], Mai vi fu un fulmine cosí devastante Da far tremare l’Italia, la Spagna e gli Inglesi, Grandemente attratto da donna straniera». («Du nom qui oncques ne fut ai Roy Gaulois, / lamais ne fut un foudre si craintif, / Tremblant l’Ita-

lie, l’Espaigne & les Ang/ois, / De femme estrangers grandement attentif»; Centurie, IV-54). Si può indifferentemente individuare in quest’ultima Marie Josèphe Beauharnais, nativa della Martinica, la contessa polacca Maria Walewska o l’arciduchessa Maria Luisa d’Austria. Altri riferimenti a Napoleone vengono intravisti da certi decrittatori in una sorta di lambiccato anagramma del suo nome o nella citazione della nave inglese Bellerophon, sulla quale s’imbarcò dopo la sconfitta di Waterloo, in un verso dal significato molto incerto: «Pau nay Loron [Na[y]–pau–lo[ro]n] sarà piú fuoco che sangue...» («Pau nay Loron plus feu qu’à san sera»; Centurie, VIII-I). «Il fratello crociato per amore sfrenato farà Bellerophon morire per mano di Praytus» («Le croisé frere par amour effrenee / Fera par Praytus Bellorophon mourir»; Centurie, VIII-13). Quell’espressione «piú fuoco che sangue» nel primo verso appare pertinente a un ufficiale d’artiglieria, qual era Napoleone, ma potrebbe anche voler dire che il suo destino imperiale fu determinato dal fuoco delle armi anziché dalla stirpe. Del tutto ermetico rimane invece il senso della seconda, anche se il nome della nave cosí precisamente trascritto può suscitare sensazione. Orval non era soltanto un luogo di pace e di meditazione, nel quale rinfrancare lo spirito. Non era esclusivamente un luogo di studio e di ricerca, nel quale abbandonarsi al gioco colto del vaticinio, o un santuario iniziatico, nel quale impossessarsi degli strumenti per poter accede-


Orval quali perverse intenzioni covassero i duchi di Guisa, decisi a strumentalizzare l’odio di religione dilagante in Francia per portare i contrasti civili a un punto di non ritorno e da lí procedere a un definitivo rovesciamento dell’ordine dinastico riconosciuto.

Un soggiorno di breve durata

La pagina d’apertura del capitolo dedicato al Tetragrammaton, da un’edizione delle Polygraphiae libri VI di Giovanni Tritemio. 1561.

re a livelli superiori di conoscenza. L’abbazia della Valle Dorata era anche un crocevia di interessi ambigui e talvolta pericolosi, un covo di spie, una centrale d’intelligence europea nella quale s’intrecciavano giochi di potere connessi alle guerre di religione in atto e ai tornaconti di certe grandi famiglie. Gestivano tale gioco i duchi di Lorena, originari signori dell’Aurea Vallis poi donata ai Cistercensi, e in primo piano il ramo cadetto dei Guisa, nemici naturali della casa regnante di Valois, a cui Nostradamus era invece devoto al punto da guadagnarsi in seguito l’amicizia e l’illimitata fiducia di Caterina de’ Medici e dei figli, strabiliandoli con i suoi oracoli. S’intuiva dall’aria che tirava nel mistico ritiro di

Il che può aiutare a spiegare perché il monastero sarebbe stato di lí a poco distrutto da un’armata ugonotta per non essere ricostruito se non alla fine del secolo, dopo l’editto di Nantes (1598), con il quale Enrico IV avrebbe posto termine alle guerre di religione in Francia. Cosí, per quanto accogliente fosse Orval, per quanto propizia alla riflessione iniziatica fosse la tenue purezza delle sue celle, il soggiorno di Nostradamus nell’abbazia fu breve. Non poteva lasciarsi coinvolgere nelle trame che si tessevano al riparo di quelle mura. Partí non si sa quando, spinto probabilmente dalla preoccupazione di non essere nemmeno sfiorato dal sospetto di un’intesa con i nemici della famiglia reale, cui era fedele. Come lo era, del resto, alla religione cattolica, accettata senza traumi – e con sincero spirito di fede, come dimostrano le sue azioni e i suoi scritti – pur conservando intatto il tesoro di cultura ebraica ereditato dagli avi. Liberarsi di Orval per non piú rimettervi piede non valse comunque, a Nostradamus, uno scagionamento pieno dal dubbio che in qualche modo potesse avervi soggiornato per motivi connessi a intrighi di corte, forse come agente dei Valois, allo scopo di trarne informazioni sui piani dei loro nemici. Chi avesse incontrato in quel monastero e di quali carte avesse tentato di entrare in possesso resterà per sempre un mistero. Ma non era un mistero che a Orval proliferassero attività clandestine, inconfessabili progetti di potere e quant’altro si voglia immaginare a margine delle tensioni proprie dell’epoca. Ne scaturí l’ipotesi non del tutto peregrina che Michel potesse avere avuto parte di spia o messaggero in chissà quale gioco dei servizi segreti; a quel tempo molto attivi; un gioco oscuro e pericoloso, nel quale la veggenza si mescolava con la crittografia, l’ermetismo lessicale con l’esigenza di occultare le notizie, le predizioni malauguranti con l’intimidazione e l’omicidio. Non ci sarebbe da stupirsene: del resto, interrogativi analoghi sono circolati intorno all’inesausto viaggiare di Giordano Bruno, alla medianità di John Dee, ai codici di Gerolamo Cardano, all’inquietante scrittura «steganografica» dell’abate alchimista Trithemius. NOSTRADAMUS

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San Rocco visita gli appestati, particolare del dipinto di Jacopo Bassano. 1560-1580. Milano, Pinacoteca di Brera. Il culto di san Rocco, santo francese, noto per le cure portate agli appestati e perché, dopo aver contratto egli stesso il morbo, guarí miracolosamente, si diffuse in Europa di pari passo col propagarsi delle epidemie.

L’età della

ricerca

Dopo aver salvato Aix da una nuova e virulenta epidemia di peste, Nostradamus sceglie di fermarsi nella natia Provenza e si stabilisce a Salon. Convola a nozze per la seconda volta e si dedica con rinnovata energia ai suoi studi, dando alle stampe tutte le sue opere piú famose



NOSTRADAMUS

Ritorno in Provenza

A

richiamare Nostradamus, dopo tanto viaggiare, nella nativa Provenza, fu la peste, antica nemica della sua giovinezza. Una epidemia del tipo piú virulento era esplosa nel 1546 ad Aix, dove interi quartieri erano divenuti nel giro di poche settimane cimiteri. I medici avevano riconosciuto nei suoi sintomi la tremenda «peste nera», detta anche la charbonne, che già in passato aveva devastato la regione. Un clima di terrore si era dunque sparso sulla città, accrescendo il bilancio della tragedia con un’ondata di suicidi, povera gente impazzita, atterrita al punto da togliersi la vita per non patire le sofferenze del male. Di fronte a una situazione cosí catastrofica e all’impotenza dei dottori, i notabili avevano deciso d’invocare l’intervento di Nostradamus, che già nel corso di una precedente epidemia aveva prestato la sua opera in città, molti anni addietro, con esiti ancora memorabili. Michel non si era fatto pregare. Era accorso, rinnovando la fama già conseguita a suo tempo con risultati eccezionali. La peste venne sconfitta in meno di un anno, contro ogni previsione dei medici, ancora una volta umiliati. Fantasmi del passato, come il dottor Sarrazin, complice di Scaligero nel probabile avvelenamento della prima moglie e dei bambini di Michel, levarono di nuovo la voce contro «il mago», criticando i suoi metodi di cura. Ma gli amministratori di Aix, interpretando la gratitudine della cittadinanza, conferirono a Nostradamus una pensione.

In basso Sacerdotessa di Delfi, olio su tela di John Collier. 1891. Adelaide, Art Gallery of South Australia.

Il secondo matrimonio

Michel girovagò ancora per poco nella cara Provenza, stabilendosi infine a Salon, poco distante dalla sua Saint-Rémy e a cinquanta chilometri circa da Marsiglia. Ebbe sicuramente un peso decisivo in questa scelta l’incontro con una giovane vedova di nome Anna Ponsard Beaulme, descritta da chi la conobbe come donna di grande avvenenza, che era oltre tutto molto in vista nella buona società di Salon e ricchissima. Portava infatti una dote di 400 fiorini, che per l’epoca rappresentavano una fortuna. Molto in vista a Salon era anche Bernard di Nostre-Dame, fratello minore di Michel, che vi 84

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Nella pagina accanto L’alchimista, olio su tela di David Teniers il Giovane. 1650 circa. Firenze, Palazzo Pitti Galleria Palatina.

esercitava la professione di notaio. Il che accrebbe, naturalmente, la facilità dell’inserimento in città di Nostradamus, preceduto peraltro dagli echi di una popolarità senza eguali. Come dimostrò l’immediato accalcarsi al suo studio di una composita clientela che chiedeva oracoli, medicinali, filtri e cosmetici, data la celebrità da lui raggiunta nel campo della cosmesi, su cui si misurò qualche anno dopo con un trattato dedicato al fratello Jean, il poeta di famiglia, contenente preziosi consigli sulle creme per l’estetica del viso e della pelle, lozioni, belletti e perfino marmellate (Traité des fardements et confitures, Lione 1557), analogo nel suo genere alla raccolta di Singolari ricette per mantenere il corpo sano (pubblicata postuma con il titolo Excellent et très utile opuscule de plusiers exquises receptes, Lione 1572). Michel e Anna si sposarono pochi giorni dopo essersi incontrati – non piú di due settimane di fidanzamento, si dice – sul finire del 1547. Dal matrimonio nacquero otto figli, di cui quattro femmine. Inizia da quel momento la fase conclusiva e determinante dell’esistenza di Nostradamus. Dopo quella eroica della lotta giovanile contro la peste e quella avventurosa dei viaggi, è questa l’età della ricerca definitiva, orientata verso misteri sui quali è difficile razionalmente investigare, anche se molti hanno tentato di interpretarne in vario modo il senso. È l’età nel corso della quale comincia la diffusione delle Centurie, vale a dire l’insieme del suo «corpo profetico», diviso in dieci blocchi di cento quartine l’uno, nelle quali sono raccolte circostanziate allusioni a fatti, cose, personaggi di là da venire nel tempo. Ed è anche l’età del riconoscimento clamoroso del successo che gli arride, a cui danno pennellate di gloria le attenzioni di Caterina de’ Medici e dei suoi figli coronati, che si rivolgono a lui per consiglio, contraccambiandone i responsi con onori e benefici. Le Centurie sono un intreccio di profezie formulate in versi ermetici e sibillini, senza ordine cronologico, lungo un arco di tempo che si spinge fino al 3797. Il mondo divinato da Nostradamus, dunque, dovrebbe protrarre la sua durata molto al di là delle comuni previsioni millenaristiche. Sono il risultato di un lavoro in


divenire, che vide la sua prima espressione nel 1555, con la pubblicazione a Lione delle Vrayes Centuries et Propheties de Maistre Michel Nostradamus, ancora incomplete: i blocchi di cento quartine erano solo quattro rispetto ai dieci definitivi. A questi se ne aggiunsero altri, nel corso di successive edizioni, a loro volta ristampate, chiosate, tradotte in altre lingue. Seguirono infine i Presagi, a cui Nostradamus lavorò fino al 1566, anno della morte.

Una scrittura che stravolge le regole

Si è creduto di trovare riscontro dettagliato, per molte di queste predizioni, in eventi effettivamente verificatisi in seguito. La maggior parte è però affidata alla fantasia degli esegeti, spesso propensi a fondare le loro ipotesi su complessi calcoli matematici e procedimenti di tipo enigmistico, giungendo talvolta a eccessi visionari. Come nel caso di coloro che addirittura sosten-

L’«ORO DEI FILOSOFI» Dal talento mostrato da Nostradamus nel produrre farmaci, cosmetici ed elisir distillati dalle sostanze naturali si è indotti a ritenere che abbia praticato l’alchimia. Anche il suo linguaggio ermetico potrebbe pertanto essere decifrabile attraverso le chiavi abitualmente usate dagli alchimisti per rendere occulto l’esito delle proprie ricerche. È opinione diffusa tra quanti sostengono la vocazione alchemica di Nostradamus che la sua veggenza possa essere scaturita, insieme ad altre doti dall’apparenza sovrannaturale, come la capacità di guarire la peste, dal possesso della «pietra filosofale». Il maestro di Salon avrebbe portato a compimento la sua ricerca realizzando ciò che gli occultisti chiamano la Grande Opera, metafora per indicare il raggiungimento di uno stato di suprema perfezione. Nostradamus avrebbe trovato, in altre parole, la sostanza puramente simbolica che nel gergo degli iniziati è detta «oro dei filosofi». Da questo «oro» del tutto immateriale avrebbe tratto poteri straordinari, tra cui quello di prolungare la propria esistenza – o quanto meno di «vedere» – oltre la morte.

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Ritorno in Provenza A sinistra acquaforte raffigurante Enrico II e Caterina de’ Medici che hanno accolto a corte Nostradamus affinché predica il futuro dei loro eredi. 1559. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Nella pagina accanto particolare di un ritratto di Nostradamus. Salon-de-Provence, Maison de Nostradamus.

gono di avere trovato nel testo riferimenti a se stessi, presumendo di essere stati designati in prima persona dal veggente a interpretarne le sentenze. A parte tali esagerazioni, la scrittura di Nostradamus si presta ai piú svariati sistemi di decodificazione, poiché, oltre a stravolgere ogni regola del linguaggio e coniare nuovi vocaboli, ricorre ad anagrammi, metafore, fonemi di effetto onomatopeico, inversione o soppressione di lettere, incastri di una parola in un’altra, trasposizioni e altre manipolazioni lessicali. Accade cosí, per dare un senso alla frase, di dover riconoscere Parigi in Rapis (Paris) e i Savoia in Eiovas. Al semplice anagramma può però sovrapporsi l’allegoria: il popolo ebraico, per esempio, viene indicato in quest’ottica con Luas o Alus, che starebbe per Saul, primo re d’Israele. Angolmois potrebbe stare, come si è visto, per Mongolia, e non, come ad alcuni è sembrato, per la regione francese di Angoulême, 86

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VEDERE IL FUTURO Molti hanno tentato di dare una spiegazione razionale della veggenza, attribuendone le cause a motivi del tutto naturali. Un contributo intelligente in tal senso lo diede all’inizio del secolo l’austriaco Rudolf Steiner (1861-1925), versatile figura di filosofo animato da una speciale propensione per lo studio scientifico dei fenomeni che sfuggono alla ragione. Ideatore della dottrina antroposofica tendente allo studio profondo dei misteri connessi alla natura umana, sostenne nella sua opera La scienza occulta (1910) che l’umanità progredisse in base a precise leggi dello spirito e della materia, in parte riconducibili a quelle della fisica, della chimica, dell’agricoltura, dell’economia e della storia. L’uomo evoluto avrebbe in se stesso, secondo Steiner, la capacità di apprendere queste leggi e decodificarIe, intuendo in vario modo gli sviluppi successivi del cammino umano. Considerato in questa luce, il dono della profezia non avrebbe nulla di sovrannaturale, ma sarebbe la naturale conseguenza di un progresso intellettuale cosí completo da porre l’uomo in condizione di «vedere» oltre la cortina del tempo.


che appare del tutto priva di senso nella discussa quartina sull’avvento di un «gran re del terrore» (Centurie, X-72). È plausibile, infatti, che nella geografia fantastica di Nostradamus possa intendersi per Mongolia non una specifica regione dell’Oriente, ma la rappresentazione simbolica di un terrificante flagello, qual era in passato l’orda tartara. Ma anche questa non è assolutamente una regola certa. Altri luoghi vengono allegoricamente indicati da Nostradamus con il nome di un animale, di un vento, di un qualsivoglia particolare della loro storia o del paesaggio. Si è detto che l’Egitto sarebbe il Coccodrillo, l’India l’Elefante, la Germania il Lupo, l’Arabia il Cammello, i Paesi dell’estremo Nord la Balena o anche il vento d’Aquilone; Israele sarebbe la Sinagoga, la Grecia l’Ara, Baghdad la «città tra i due fiumi» e Venezia la misteriosa Polmar, ovvero città (polis in greco) di Marco.

Sempre lo stesso seggio

A Salon, nella quiete del suo studio, ai piani alti della bella casa nella quale viveva con Anna e con i figli, Nostradamus sperimentò un metodo di veggenza del quale egli stesso parla in modo esplicito – per quanto possano esserlo i suoi versi profetici – nelle prime due quartine delle Centurie. È una sorta di prologo, dal quale si evince che il veggente rifuggiva dalla casualità delle improvvise ispirazioni, affidando l’esito delle proprie incursioni nel futuro a una ricerca metodica, scandita da orari e rituali ben definiti. Si apprende dalla prima quartina che, di regola, l’oracolo doveva formularsi nottetempo, nel silenzio del «segreto studio», dove il profeta se ne stava seduto «solo e riposato» su un «seggio di rame», in attesa che la «fiamma esigua» promanante dalla solitudine l’ispirasse a indovinare «ciò che non è vano credere». «Stando di notte in segreto studio assiso, Solo e riposato sul seggio di rame: Esigua fiamma sortendo dalla solitudine Fa fiorire ciò che non è vano credere». («Estant assis de nuict secret estude, / Seul reposé sur la selle d’ærain: / Flambe exigue sortant de sollitude, / Fait prospérer qui n’est à croire vain»; Centurie, I-1). Sono chiaramente indicati il luogo, il tempo notturno dell’operazione e alcune regole essenziali: l’operatore dev’essere solo e tranquillo, riposato, seduto su un seggio che è sempre lo stesso, di rame. Anche la posizione dev’essere impostata in modo corretto, precisa il veggente nella seconda quartina, per produrre un effetto di «divino splendore». NOSTRADAMUS

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Ritorno in Provenza avevano le Lamie dell’antica Grecia di bagnarsi l’orlo della veste e i piedi in una certa acqua prima di profferire responsi. Piú esplicitamente, il seguito lascia intendere che attraverso la bacchetta si manifesta il vaticinio (la voce, la paura), salendo perciò «su per le maniche», dalla mano che l’impugna alla mente. Traspaiono da questa testimonianza interessanti similitudini con le pratiche delle Sibille, in specie della Pizia o Delfica, descritte da Giamblico (Misteri, fine del III secolo d.C.) e Diodoro Siculo (Biblioteca, 21 a.C.). Si sa da quest’ultimo che la sacerdotessa di Apollo delfico, detta Pitonessa o Pizia dal nome di un mostruoso serpente ucciso in quel posto dal dio, attendeva l’ispirazione sedendo a gambe larghe su un tripode di bronzo in prossimità di una caverna dalla quale usciva un fumo inebriante che si credeva provenisse dai resti del rettile. Quando il fumo l’aveva tutta avvolta – e

L’ULTIMA DIMORA A Salon-de-Provence, la casa in cui Michel de Nostre-Dame visse dal 1547 fino alla morte, nel 1566, e dove scrisse le sue celebri Profezie è stata trasformata nel 1992 nel museo «Maison de Nostradamus». L’edificio si trova nel centro storico della cittadina francese, ai piedi del

castello dell’Empéri. A pochi passi dalla casa-museo, ha sede anche il Centro Nostradamus, che si rivolge a studiosi di tutto il mondo interessati ad approfondire la conoscenza della vita e delle opere del grande veggente. Info: www.salondeprovence.fr/ index.php/nostradamus

«La verga in mano posta nel mezzo delle braccia Dell’onda impregna il lembo [della tunica] e il piede: Una paura e una voce fremono su per le maniche: Divino splendore. Il Divino accanto si siede». («La verge en main mise au milieu de Branches, / De l’onde il moulle & le limbe & le pied: / Un peur & voix fremissent par /es manches: / Splendeur divine. Le divin pres s’assied»; Centurie, I-2). Afferma dunque Nostradamus che, per evocare la rivelazione (il Divino che gli si siede accanto), si servisse di una classica verga, la tradizionale bacchetta magica, tenuta eretta in posizione centrale, equidistante (nel mezzo) dalle braccia. Un mistico soffio (l’onda) l’avvolge come un’aura, impregnandone il corpo e le vesti: non è un verso dei piú chiari, ma viene cosí, solitamente, interpretato. Potrebbe anche indicare, in modo meno macchinoso, il magico fumo proveniente dal braciere che genera, fuor di metafora, la fiamma dell’ispirazione. Potrebbe infine riferirsi alla consuetudine che 88

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In alto una dele stanze della casa-museo di Nostradamus a Salon-de-Provence.


penetrata, anche fisicamente, come sembrava voler simbolizzare la posizione apparentemente sconcia da lei assunta sul tripode per favorire la possessione divina – la Pizia cadeva in trance, profetizzando. «Si abbandonava al soffio del suo dio – scriveva Giamblico a sua volta – restandone illuminata». Teneva in mano per propiziarne la venuta una verga donatale dal dio stesso, immergendo i piedi o la veste in un’acqua della quale beveva talvolta il vapore.

Il futuro in uno specchio

Anche Nostradamus agiva in modo da procurarsi uno stato di trance, servendosi di specchi e bracieri ardenti. Gli erano probabilmente familiari le tecniche dell’antica catottromanzia, com’era chiamata (dal greco katoptron, specchio) l’arte di trarre profezie dai bagliori delle superfici riflettenti. Arte per la quale venivano utilizzati, fino dai tempi piú remoti,

In basso Salon-deProvence. La chiesa di S. Michele, uno dei monumenti piú insigni della città che accolse Nostradamus nel periodo finale della sua esistenza.

oltre ai comuni specchi, talvolta concavi o convessi, cocci di vetro, recipienti d’acqua stagnante o sfere di cristallo. Una ricostruzione desunta da certi particolari dei suoi scritti e dalla testimonianza dell’unico discepolo che gli fu accanto negli ultimi anni di vita a Salon, Jean-Ayme de Chavigny, anch’egli laureato in medicina a Montpellier, indurrebbe a ritenere che Nostradamus ricercasse le proprie visioni nell’acqua contenuta in un bacile di ottone, sorretto da un tripode del medesimo metallo, ma tenesse acceso nel contempo un braciere, indulgendo alla suggestione mantica del suo riverbero infuocato. Da ciò si deduce che il suo personale metodo divinatorio si fondasse su una interazione tra tecniche diverse, nelle quali rientravano, accanto alla catottromanzia tradizionale, idromanzia e piromanzia, oltre naturalmente all’astrologia. È lui stesso a parlare dell’esistenza di un nesso tra il movimento dei corpi celesti e le cose che aveva visto «guardando in uno specchio ardente». Coadiutore di Nostradamus in questa sistematica ma estenuante ricerca di verità future, il giovane Chavigny ne fu anche il primo biografo e ne tracciò tra l’altro una descrizione accurata sia dell’aspetto fisico che del carattere. Il maestro di Salon era uomo di aitante corporatura e volto mite, segnato da una espressività intensa. Aveva, come si evince anche dall’iconografia, uno sguardo rassicurante, austero ma tendente al sorriso. L’apprendista Chavigny annota l’insolito colore grigio chiaro degli occhi, l’ampiezza della fronte, la severità della barba ben curata, la sobria eleganza dell’abito costantemente nero, ma anche la tendenza a mutare frequentemente umore nei confronti del prossimo, come colpito da intuizioni che trasformavano una iniziale cordialità in diffidenza, o viceversa. C’era un punto fermo nel suo carattere, ed era la costanza nel sottrarsi all’influenza degli eventi, come se ne fosse al di fuori. Il che lo metteva in grado di sostenere il peso della tragedia senza soccombere e le lusinghe della gloria senza esaltarsi. Si è visto in che modo avesse retto in gioventú il colpo infertogli dalla perdita simultanea della prima moglie e dei figli. Resse con eguale distacco a Salon l’omaggio di Carlo IX e della madre Caterina, recatisi di persona alla sua casa per conferirgli la carica di medico e consigliere del re. «Niente discorsi – disse il giovane sovrano in quell’occasione ai notabili radunati per rivolgergli un indirizzo di saluto – Sono venuto per Nostradamus e basta». NOSTRADAMUS

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Di insoliti uccelli e pesci di ferro

Enrico II ferito a morte in un torneo benedice il matrimonio di Emanuele Filiberto con Margherita di Valois, olio su tela di Francesco Podesti. 1843-1844. Agliè, Castello Ducale.


Molte profezie di Nostradamus vengono tuttora lette come anticipazioni di eventi verificatisi anche in epoche recentissime. E fa impressione immaginare che il veggente francese avesse previsto l’avvento dell’elettricità o lo sgancio delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki


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i destini della famiglia reale si riferisce la quartina forse piú famosa di Nostradamus per la dovizia e l’estrema precisione dei particolari riconducibili all’evento preconizzato. È la predizione della morte del re di Francia Enrico II, marito di Caterina de’ Medici, avvenuta il 30 giugno 1559, a quattro anni dalla pubblicazione delle prime Centurie. Per le sue modalità singolari e del tutto imprevedibili la tragica fine del re suscitò enorme risonanza, accrescendo a dismisura la fama del veggente. Ecco il testo della quartina: «Il giovane leone sormonterà il vecchio In campo bellico a singolar tenzone, Nella gabbia d’oro gli creperà gli occhi, Due ferite in un colpo, poi morire di morte crudele» («Le lyon jeune le vieux surmontera, / En champ bellique par singulier duelle, / Dans cage d’or les yeux luy crevera, / Deux classes une puis mourir mort cruelle»; Centurie, I-35). Ed ecco l’evento a cui la predizione viene riferita. Il re è battuto in torneo dal giovane Gabriel de Lorcey, conte di Montgomery. Entrambi hanno sullo scudo un leone. Enrico II ha quarant’anni, il suo avversario ventinove. Tutto collima: la vittoria del piú giovane, l’emblema sullo scudo di entrambi e il tipo di combattimento, «a singolar tenzone». Altrettanto chiara è la dinamica dei fatti. Enrico ha il capo protetto da un elmo con celata d’oro, che gli copre il viso come l’inferriata di una gabbia. In questa gabbia va a infilarsi la punta della lancia di Montgomery, accecando e ferendo mortalmente il re: «due ferite in un colpo». Enrico patisce prima di morire una dolorosa agonia di dieci giorni. È il classico esempio di profezia che a posteriori suscita grande sensazione, ma non aiuta prima dell’accadimento a prevenirlo. Una di quelle premonizioni che hanno dato a Nostradamus la fama di profeta del giorno dopo, al quale si può far dire «tutto quello che si vuole», come testualmente sostenne il National di Parigi (1870) in polemica con gli entusiasmi facili di certi esegeti. Va detto, per completezza d’informazione sulla fine di Enrico II, che anche l’astrologo di corte Luca Gaurico aveva avvertito il re di non battersi in torneo per evitare ferite al capo, ed era stato per questo scacciato da Parigi. Aveva comunque pubblicato a Venezia la profezia nel suo Tractatus Nativitatum (1552). Pare che anche Gerolamo Cardano e altri avessero previsto la fine di Enrico II in duello, ma senza i particolari riscontrabili nella quartina di Nostradamus. Il destino di Enrico coinvolse anche l’incolpevo92

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le Montgomery, che fu costretto a fuggire in Inghilterra per sottrarsi all’ira di Caterina, divenuta vedova per quell’infortunio a quarant’anni. Lí divenne protestante, tornò in Francia tre anni dopo per mettersi alla testa di un’armata ugonotta, prese parte attiva alle guerre di religione e fu catturato in Normandia nel 1574. Gli fu promessa l’ incolumità, ma Caterina volle che fosse decapitato ugualmente. Il perché di tanto odio non è un mistero. L’aveva reso visibile Caterina dal momento stesso della morte di Enrico, scegliendosi per stemma una lancia spezzata con la scritta «Hinc dolor, hinc lacrymae» («Da ciò il dolore, da ciò le lacrime»).

Il disegno divino

A Enrico II è indirizzata, un anno prima della morte, il 27 giugno 1558, una lettera di Nostradamus, utilissima alla comprensione del modo in cui il veggente seppe destreggiarsi tra magia e religione, riconoscendo a quest’ultima il primato sulla divinazione. Senza esitazione, Michel afferma nel documento che tutto proviene da Dio e che allo Spirito Santo compete d’ispirare ogni profezia. Non smentisce con questo la necessità di ricorrere a «calcoli astronomici corrispondenti agli anni, mesi, settimane di regioni, contrade e della maggior parte delle città di tutta l’Europa e di parte dell’Africa e dell’Asia», ma subordina i risultati di tali calcoli al disegno divino. La lettera al re di Francia conferma quali preoccupazioni nutrisse il veggente sulla possibilità che le sue profezie venissero interpretate correttamente, per cui si sforza di fornirne in termini arcani la chiave. A tale scopo sono forse rivolti i conteggi sull’evolversi del genere umano attraverso evi e patriarchi, a cui dedica buona parte del messaggio. Ma ciò che realmente interessa, in questa lettera, è la visione escatologica di Nostradamus, che colloca la venuta dell’Anticristo in concomitanza con eventi descritti talvolta in forma ermetica, secondo il suo stile, talaltra chiaramente. Dice, per esempio, che «gli archi costruiti dagli antichi Marziali [guerrieri] si confonderanno con le onde», lasciando intuire cataclismi analoghi a quelli previsti dalle piú svariate apocalissi: inondazioni, terremoti, città e vestigia umane sommerse. L’ampiezza della visione non gli impedisce di essere a tratti piú specifico, quando spiega che «nell’Adriatico ci sarà una profonda discordia, tale “da separare ciò che prima era unito”, e quella Trionfo della ghigliottina, olio su tela attribuito a Nicolas Antoine Taunay. 1795 circa. San Pietroburgo, Museo Statale Ermitage.


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che era una volta una grande città sarà ridotta a una casa». L’interesse di Nostradamus per l’Adriatico non è casuale, ma dovuto al fatto che esso rappresenta per lui un bacino di discordia epocale, nel quale afferma di riconoscere le premesse degli eventi previsti dalle scritture apocalittiche: «In quel periodo e in quella contrada la potenza infernale solleverà contro la Chiesa di Gesú Cristo la forza di quanti si oppongono alla sua legge, e sarà il secondo Anticristo». Il primo si sarebbe dovuto manifestare nel 1792, annuncia nella medesima lettera, nel corso di un evento «da considerare rinnovamento del secolo», con una grande persecuzione contro la Chiesa cristiana. Come realmente accadde nel pieno della Rivoluzione francese. Allo stesso modo del primo, il secondo Anticristo «perseguiterà la Chiesa e il suo vero Vicario con l’aiuto dei re temporali, sedotti a causa della loro ignoranza da lingue piú taglienti di spade», continua Nostradamus, e «il sangue dei veri ecclesiastici scorrerà ovunque». Precisando che sarà il vero Vicario – con i veri ecclesiastici – a essere perseguitato, il veggente lascia intendere che il persecutore, cioè l’Anticristo, si presenterà usurpandone il titolo. Si avranno dunque un falso papa con-

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In basso Hiroshima. L’edificio che ospitava il Museo della Scienza, cosí come si presentava subito dopo il bombardamento atomico di cui la città giapponese fu fatta oggetto il 6 agosto 1945.

trapposto a quello vero, e due Chiese in conflitto, con la sopraffazione di quella legittima. In questo la lettera è nitida, trasparente: ci sarà ancora una volta lo scisma, scrive Nostradamus, e il male assumerà il sembiante del bene, anche grazie all’universalità delle forze che si schiereranno contro i giusti.

La persecuzione dei re Aquilonari

La cronaca di quest’Apocalisse, per molti versi simile a quella preconizzata dall’evangelista Giovanni, è dettagliata: «La persecuzione delle genti ecclesiastiche sarà sostenuta dalla potenza dei re Aquilonari [di settentrione] insieme agli Orientali. Tale persecuzione durerà undici anni, o poco meno, dal momento che capitolerà il piú forte dei re Aquilonari. Dopo tale termine sopravverrà il suo alleato Meridionale, che metterà in atto per tre anni una persecuzione ancora piú dura contro le genti della Chiesa, mediante l’apostasia predicata dal detentore del potere assoluto nella Chiesa militante». Cosí andrà sovrapponendosi al legittimo Vangelo del papa esautorato la parola dell’usurpatore, sostenuto in pratica dai potenti della Terra. È chiaramente descritta nel testo una vera e propria situazione di accerchiamento per «il santo popolo di Dio», aggredito da nemici prove-


In alto uno Spitfire della RAF (Royal Air Force, l’aviazione militare del Regno Unito) inseguito da un Messerschmit Bf 109 dell’aviazione tedesca durante la seconda guerra mondiale.

nienti da ogni punto cardinale, salvo che dall’Occidente. Questa circostanza ha indotto diversi interpreti ad azzardare l’ipotesi che l’America sarebbe destinata a divenire l’ultimo rifugio, come ventilano anche altre profezie sui papi, per la Chiesa perseguitata. Nel frattempo «sarà sparso piú sangue umano di ecclesiastici innocenti che vino», scrive Nostradamus, attribuendo tali misfatti a un leader in particolare, che chiama «il piú terribile dei re Aquilonari». Per sua causa «scorrerà come acqua per pioggia torrenziale il sangue nei templi e nelle pubbliche vie, si arrosseranno i fiumi piú vicini (a che? Nostradamus lo lascia sottinteso) e il mare si tingerà di rosso a causa di una guerra navale». Ai massacri si sovrapporranno epidemie inarrestabili, carestie e «afflizioni cosí grandi da non essere mai accadute dal tempo della prima fondazione della Chiesa cristiana». Il mondo verrà ridotto a uno stato di primitiva desolazione e «sarà nuovamente distrutto dal paganesimo il Sancta Sanctorum (Roma?) mentre il nuovo e l’antico Testamento saranno bruciati», ma la durata di questo regno infernale sarà relativamente breve, secondo Nostradamus, poiché «non durerà che fino alla morte naturale» dell’Anticristo. Quindi meno di una genera-

zione, calcolando dall’ascesa alla scomparsa di quest’ultimo, che dovrebbe avvenire come quella del Cristo – di cui è l’immagine speculare negativa – intorno ai trentatré anni. Nel corso di questa breve ma terribile guerra tra le forze del bene e del male «il principe infernale regnerà per l’ultima volta», dice Nostradamus. «Tremeranno tanto i regni della cristianità che quelli degli infedeli (...) e ci saranno spaventose guerre, battaglie, e case bruciate, saccheggiate, distrutte con grande spargimento di sangue verginale, spose e vedove violentate, neonati scagliati a schiantarsi contro le mura diroccate delle città. Si commetteranno tante di quelle atrocità per mezzo di Satana che quasi tutto il mondo sarà disfatto e devastato».

Versi di guerra

A questo punto del messaggio Nostradamus inserisce la profezia universalmente considerata come un’anticipazione della moderna guerra aerea. Tale rovina, scrive infatti, sarà preceduta dal passaggio di «insoliti uccelli» che «grideranno nell’aria huy huy», per poi svanire subito dopo nel nulla. La maggior parte degli studiosi di Nostradamus è propensa a ritenere che quel grido stridulo debba considerarsi una onomaNOSTRADAMUS

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topea del sibilo tipico dell’aereo a reazione, il cui passaggio nel cielo è talmente rapido da farlo scomparire immediatamente all’orizzonte. La profezia contenuta nella lettera a Enrico II ricalca per il resto la tradizione escatologica delle Scritture, sia pure con il supporto di elementi astrologici, ribadendone la prospettiva salvifica. Dopo le stragi e le devastazioni «sarà ripristinato un altro regno di Saturno e secolo d’oro: Dio Creatore dirà, ascoltando l’afflizione del suo popolo, che Satana sia legato nell’abisso del baratro, nella fossa profonda». Questo è scritto nei sacri testi, tiene a precisare Nostradamus, ma anche «nelle cose celesti visibili, vale a dire Saturno, Giove, Marte e gli altri pianeti congiunti». Di quell’«insolito uccello» che parrebbe avere tutte le caratteristiche dell’aereo a reazione Nostradamus torna a parlare nelle Centurie, oltre che nella lettera a Enrico, tentando addirittura di descriverne il sistema di propulsione a getto d’aria: «Udita la voce dell’insolito uccello Sulla canna del piano che respira, Cosí alto salirà il costo del frumento Che l’uomo sarà antropofago d’uomo» («Le voix ouye de l’insolite oyseau, / Sur le canon du respirai estage, / Si haut viendro du froment le boisseau / Que l’homme d’homme sera Antropophage»; Centurie, II-75). L’immagine della «canna che respira» è stata comunemente intesa come raffigurazione del

In basso particolare della riproduzione a stampa di un foglio di Leonardo da Vinci con studi su tempeste e diluvi. L’originale è conservato nel Castello di Windsor, presso la Royal Library.

reattore, che inspira l’aria e l’espelle per dare al jet la spinta necessaria. Coerente a questo significato sarebbe il senso dell’intera quartina: i costi di simili macchine saranno talmente alti da far salire alle stelle il prezzo del grano. La corsa agli armamenti provocherà dunque fame sulla Terra. Ma la spiegazione può essere ancora piú semplice: la comparsa di questo «uccello» nel cielo significherà guerra, quindi fame, degrado dell’uomo a livello di antropofago. Un’altra quartina che preconizza il combattimento aereo sembrerebbe riferirsi piú esplicitamente alla seconda guerra mondiale e al celebre caccia inglese Spitfire, cioè «sputafuoco», protagonista di epiche azioni nei cieli d’Europa. «Lo sputafuoco dal suo fuoco raggiunto, Dal fuoco del cielo ‘a Carcas e Cominge, Foix, Aux, Mazere, l’alto vecchio spezzato Da quelli dell’Assia, di Sassonia e Turingia» («Le boutefeu par son feu attrapé, / De feu du ciel à Carcas & Cominge, / Foix, Aux, Mazere, haut vieillart eschappé, / Par ceux de Hasse, des Saxons & Turinge»; Centurie, V-100). Il termine sputafuoco (boutefeu), associato sia pure confusamente a scene di guerra nei cieli di Francia, ha indotto i decrittatori a chiamare in causa lo Spitfire. Con un riferimento alla situazione politica: il vecchio generale «spezzato», che tradisce per sottrarsi al fuoco sulle città francesi, fa pensare al maresciallo Pétain, alleatosi coi Tedeschi (questo significherebbero le

UN «COLLEGA» D’ECCEZIONE La chiaroveggenza fu per molti uomini del passato una parte integrante delle loro attività intellettuali, anche se dirette verso obiettivi del tutto diversi dalla magia, come l’ingegneria, l’arte, la medicina o la letteratura. Esercitarono la profezia, pertanto, uomini destinati a eccellere in altri campi, come Leonardo da Vinci, il cui genio è riconosciuto per ben altri motivi che la divinazione. Si incontrano sparse nei suoi codici anticipazioni di tipo apocalittico sul degrado della natura: «Vedrassi le piante rimanere sanza foglie e i fiumi fermare i loro corsi (...) e i maggiori alberi delle selve essere portati dal furor dei venti»; «Li alberi e li arbusti delle gran selve si convertiranno in cenere»; «Li animali d’acqua moriranno nelle bollenti acque»; «Alla fine la terra si farà rossa per lo infocamento di molti giorni, e le pietre si convertiranno in cenere». È uno scenario che raffigura piaghe come la siccità, lo sconvolgimento climatico e il caos meteorologico. Altre premonizioni sembrano riferirsi a un virus (una «nefanda spezie volatile») che «assalirà li

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omini e li animali, e di quelli si ciberà con grande gridare: empieranno i loro ventri di vermiglio sangue». A un virus parrebbe riferirsi anche la descrizione di «animali vestiti di tenebra» (invisibili, quindi), i quali «assaliranno l’umana generazione, e quella fia con feroci morsi ed effusione di sangue da essi divorata».


SULLA SCIA DI COPERNICO «L’uomo viaggerà nel cosmo e dal cosmo apprenderà il giorno della fine». Tutta la sua scienza non potrà salvarlo. Al contrario accadrà che «proprio quando si crederà padrone dell’universo molte ricche città faranno la fine di Sodoma e Gomorra». È Giordano Bruno a prevedere un simile destino per l’umanità del futuro in un mondo nel quale «il denaro e l’egoismo regneranno sovrani». Al pari di molti filosofi rinascimentali, questo tragico eroe del libero pensiero si cimentò con l’arte divinatoria, preannunciando un mondo contrassegnato da una drammatica confusione deIlo spirito. «Si vedranno santi e madonne dappertutto, miracoli e avvenimenti straordinari, ruote di fuoco nel cielo», scriveva poco prima di affrontare il rogo, preannunciando una situazione poi realmente verificatasi ai nostri giorni come la proliferazione di un malinteso bisogno di sovrannaturale: «Astrologia, magia alchimia e satanismo coinvolgeranno molte persone (...) Satana sarà presente sulla Terra molti lo seguiranno». Molti segni preannunceranno la fine, simili a quelli di ogni altra apocalisse: «Un sole nero inghiottirà nello spazio il sole, la terra e tutti i pianeti che girano intorno al sole». Merita una speciale attenzione quest’ultima annotazione, al di là dell’intento profetico, poiché attesta come Bruno avesse abbracciato la visione copernicana del mondo per la quale non era piú la Terra centro dell’Universo, prima che trovasse conferma sperimentale e matematica nell’opera di Galileo e di Keplero.

Roma. Particolare del monumento a Giordano Bruno, filosofo e scrittore condannato dall’Inquisizione, eretto in Campo de’ Fiori il 9 giugno 1889 nel luogo del rogo avvenuto il 17 febbraio del 1600.

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NOSTRADAMUS Un lago africano prosciugato dalla siccità. Molte profezie di Nostradamus prefigurano scenari apocalittici e sono state spesso riferite a catastrofi naturali.

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L’uomo che vide il futuro

province d’Assia, Sassonia e Turingia, in quanto parte per il tutto). La maggior parte di queste quartine d’ispirazione tecnologica ha potuto essere interpretata – e decifrata o comunque ricondotta a immagini dall’apparenza plausibile – soltanto nella seconda metà del Novecento, grazie ai riscontri dedotti dalla storia. Rientra in questa casistica la quartina comunemente riferita alla tragedia di Hiroshima, nella quale si fa cenno a «fuoco vivo» che produce «morte nascosta entro globi orribili spaventosi». «Sarà lasciato fuoco vivo, morte nascosta, Dentro globi orribili, spaventosi, Di notte la città navale in polvere sarà ridotta, Incendiata la città, il nemico [sarà] favorevole» («Sera laissé feu vil, mort caché, / Dedans les globes horribles espouvantable, / De nuict à classe cité en poudre lasché, / La cité à feu, l’ennemy favorable»; Centurie, V-8). La pretesa premonizione dell’esplosione atomica è resa riconoscibile da dettagli di grande efficacia: la radioattività sarebbe appunto quel

«fuoco vivo» che continua a seminare invisibilmente la morte («morte nascosta») dopo avere ridotto in polvere la «città navale». Coerente la chiusa: dopo avere distrutto la città, il nemico è «favorevole», cioè pronto a offrire la pace.

Un’assonanza sorprendente

Alcune di queste anticipazioni della guerra moderna sono rese piú sorprendenti dall’uso di vocaboli che parrebbero riferirsi a meccanismi o forme di energia del tutto ignote all’epoca. Come nella quartina in cui si parla di un «pesce di ferro» che renderà piú crudele la guerra sui mari, accompagnando la descrizione di quello che a tutti gli effetti appare un sottomarino con assonanze dalle quali si evincono allusioni all’elettricità. Eccone il testo: «Quando da dentro il pesce, ferro e lettera sigillata, Fuori uscirà, chi poi farà la guerra Avrà per mare ben ramificata la sua flotta, Apparendo presso la terra latina» («Qu’en dans poisson, fer & lettre enfermee, /


Hors sortira, qui puis fera la guerre, / Aura par mer sa classe bien rame / Apparoissant pres de Latine terre»; Centurie, II-5). Il mezzo subacqueo viene efficacemente descritto come una sorta «lettera sigillata» (lettre enfermee), e a questa traduzione solitamente ci si attiene. Ma l’espressione originaria è preceduta dalla congiunzione et (per l’esattezza &, spesso usata da Nostradamus: fer & lettre enfermee, cioè «ferro e lettera sigillata») per cui si è fatto notare da molti che in tal modo lettre diventa et-lettre, richiamando in modo quanto meno curioso l’idea di elettricità, che nessuno all’epoca di Nostradamus poteva conoscere. Se cosí fosse, si parlerebbe dunque in questa quartina di un pesce metallico che nel suo ventre cela una forza misteriosa, indefinibile. Ma anche senza ricorrere a simili elucubrazioni è sorprendente l’evidenza con cui la profezia esprime l’insidia arrecata da codesto «pesce» nei confronti di chi avrà «per mare ben ramificata la sua flotta», cioè dei convogli, principale obiettivo della guerra subacquea.

E anche qui le parole s’involvono in una loro (voluta?) polivalenza: ramee l’anagramma di armee. Può perciò significare una flotta ramificata o armata, o tutte due le cose, in modo egualmente pertinente alle caratteristiche di un convoglio navale in tempo di guerra. Se poi ci si avventura in un’analisi piú laboriosa del testo, la stessa «lettera sigillata» può voler rappresentare il siluro, anziché il sommergibile, cioè l’arma che viene fuori dal suo interno, come si legge nel verso. Lo scenario della terra latina può essere infine interpretato come un riferimento alla battaglia del Mediterraneo, teatro di agguati sottomarini ai convogli diretti tanto in Africa quanto a Malta. È evidente in tutta la quartina l’uso di tecniche adottate da Nostradamus per interdire ai profani la comprensione di certe sue profezie, che prevedono l’uso di parole trascritte in modo da poterne richiamare altre, talvolta sconosciute ai comuni lettori o del tutto inesistenti, ma tali da poter accrescere il senso dell’oracolo.

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Coincidenze agghiaccianti

Che piú di una quartina alluda allo sterminio degli Ebrei da parte del regime nazista è da molti ritenuta una circostanza certa. Una lettura corroborata dal ricorrere del nome di Hitler o dall’evocazione di «grandi fornaci» e «gabbie di ferro». Immagini inquietanti, alle quali si unisce la testimonianza di quanti raccontarono d’aver visto lo stesso Nostradamus aggirarsi fra le baracche dei campi di sterminio...

Berlino. Uno scorcio del monumento alla memoria della vittime dell’Olocausto. Realizzato su progetto dell’architetto statunitense Peter Eeisenmann è stato inaugurato nel 2005: si compone di 2711 blocchi rettangolari di calcestruzzo, sistemati a griglia, in modo da sembrare sepolture.

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ello scorrere le profezie di Nostradamus – e qui l’enigma acquista caratteri di assoluta incredibilità – s’incontra per ben quattro volte il nome di Hitler (tre nelle Centurie [II-24, IV-68, V-29] e una nei Presagi [15]), associato a espressioni che chiaramente preconizzano gli orrori del nazismo e l’Olocausto del popolo d’Israele. Traspare dall’oracolo una speciale partecipazione emotiva alle sorti della famiglia ebraica, a cui il veggente era sicuramente sensibile per ragioni di discendenza oltre che di comune umanità. Ciò non spiega, tuttavia, in che modo Nostradamus possa essere giunto a chiamare Hitler per nome, senza ricorrere ad altre manipolazioni che una semplice trasposizione di lettere (Hilter invece di Hitler), una sostituzione di consonante (Hister, due volte) e una soppressione dell’iniziale muta (Ister). Parrebbe di intravedere in questi ultimi artifici l’intenzione, NOSTRADAMUS

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da parte del veggente, di evocare per assonanza la follia «isterica» del dittatore. Ma vediamo quel che ne dice in dettaglio. Nel quindicesimo presagio, datato gennaio 1557, lo chiama «l’indegno ornato» (ornato, s’intende, dalle insegne del potere ormai conquistato) associandolo a una «grande fornace», per causa della quale «l’eletto primo» non farà ritorno. «L’indegno ornato terrorizzerà [con] la grande fornace. L’eletto primo [sarà] tra i prigionieri che non tornano. Grande Basso del mondo, l’Italia non aiuta Barbaro Ister, Malta e il Buy non ritorna». («L’indigne orné craindra la grand fornaise. / L’esleu premier, des captives n’en retourne. / Grand Bas du monde, l’Itale non alaise / Barb. Ister, Malte et le Buy ne retourne»; Presagi, 15). L’eletto è, secondo l’interpretazione corrente, 102

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L’ingresso del campo di concentramento di Auschwitz (nome tedesco della città di Oswiecim, situata nella Polonia meridionale), sormontato dalla scritta «Arbeit Macht Frei» («Il lavoro rende liberi»). Il campo fu attivo dal giugno del 1940 e nelle sue varie sezioni trovarono la morte 4 milioni di persone, per la maggior parte Ebrei.

il popolo ebraico. Il riferimento ai forni crematori appare evidente. Si direbbe che Nostradamus voglia dissociare l’Italia dalle nefandezze del «barbaro Ister» (Barb. Ister) precisando che si rivela una pessima alleata: «non aiuta». Non prende Malta, e perde l’Africa: non ritornano all’Italia né l’isola, né il Buy, cioè le colonie (Buy si può leggere Bey, cioè capo indigeno: è lo stesso procedimento per cui Hitler diventa Hister o Hilter).

Come «bestie feroci per fame»...

Riferimenti piú diretti all’andamento della guerra scatenata dalla Germania appaiono invece nella seconda centuria, dove i nazisti sono chiamati «bestie feroci per fame», contro le quali si schiererà «la maggior parte del campo» (gli Alleati). «Bestie feroci per fame attraverseranno i fiumi, La maggior parte del campo contro Hilter sarà, In gabbie di ferro il grande farà trascinare,


Quando nessun ragazzo di Germania vedrà niente» («Bestes farousches de faim fleuves tranner, / Plus part du champ encontre Hister sera, / En caige de fer le grand fera treisner, / Quand rien enfant de Germain observera»; Centurie, II-24). Anche qui il riferimento alla persecuzione del popolo ebraico, detto questa volta «il grande», cosí come altrove veniva chiamato «l’eletto», parrebbe palese: la deportazione avviene «in gabbie di ferro» (i vagoni piombati) senza che se ne accorga «nessun ragazzo di Germania». Diranno tutti di non averne mai saputo nulla. Segue quindi, nella quarta centuria, un cenno alla strategia dei «due piú grandi» (Hitler e Mussolini) per la conquista dei territori africani e asiatici, che provocherà lutti e lamenti «a Malta e costa Ligure», sulle rotte, cioè, delle navi sacrificate nella battaglia del Mediterraneo. «In luogo ben vicino non distante da Venere, I due piú grandi dall’Asia e dall’Africa Dal Reno e Hister si dirà che son venuti, Crisi, lacrime a Malta e costa Ligure» («En lieu bien proche non esloigné de Venus / Les deux plus grands de l’Asie & d’Affrique / Du Ryn & Hister qu’on dira sont venus, / Cris, pleurs à Malte & coste Ligustique»; Centurie, IV-68). Si attribuisce al nome Hister in questa quartina una valenza anche geografica. Essendo infatti accostato al Reno, viene da taluni considerato come riferimento al Danubio, chiamato anticamente Hister. Il che parrebbe rientrare perfettamente nella logica mimetica della scrittura di Nostradamus, tendente a sovrap-

porre significati diversi in un medesimo lemma per trarne un’unica conclusione. Completa la sequenza – che però non corrisponde, secondo la consuetudine di Nostradamus, ad alcun ordine cronologico – un accorato cenno alla libertà tradita, che «non sarà recuperata», poiché in molti morranno senza poterla rivedere. Lo troviamo nella quinta centuria, dove colui che opprime questa libertà perduta viene indicato con gli aggettivi «nero, fiero, villano, iniquo». «La libertà non sarà recuperata, L’occuperà il nero, fiero, villano, iniquo, Quando il fronte marino sarà aperto, Da Hister, Venezia afflitta dalla repubblica» («La liberté ne sera recouvrée, / L’occupera noir, fier, vilain, inique, / Quand fa matiére du pont sera ouvree / D’Hister, Venise faschee la republique»; Centurie, V-29).

L’appello dei detenuti nel campo di concentramento di Buchenwald (Germania centro-orientale), in una foto scattata fra il 1938 e il 1941. L’impianto sorse nel 1937 come luogo di punizione per detenuti politici.

Mussolini e la Repubblica di Salò

Del «nero feroce» Nostradamus aveva già parlato in un’altra quartina, come si è visto, rapportata alla fine di Mussolini. Anche in tal caso, pertanto, i piú identificano l’alleato italiano di Hitler nel «nero fiero», che dal latino ferus deve intendersi feroce. Significativa è la chiusa, che chiama nuovamente in causa l’afflizione di Venezia, oppressa da una repubblica non altrimenti definita (già altrove identificata nella repubblica di Mussolini, insediata nella vicina Salò). Di nuovo c’è che l’espressione «afflitta» corrisponde nel francese originario di Nostradamus a faschee, che all’orecchio suona

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«fascista»; e si sa quale importanza abbiano per gli esegeti di Nostradamus le assonanze. Predizioni sul personaggio di Hitler, indipendentemente dalle quartine nelle quali parrebbe intenzionalmente nominato, ricorrono in diversi altri punti delle Centurie. Questo che segue viene considerato il suo ritratto: «Dopo la vittoria della rabbiosa lingua Lo spirito temprato in tranquillità e riposo, Il vincitore sanguinario arringa per conflitto, Arrostire la lingua e la carne e le ossa» («Apres victoire de rabieuse langue, / L’esprit tremté en tranquil & repos, / Victeur sanguin par

In basso Joseph Goebbels. Ministro del Reich per la Propaganda dal 1933, ebbe parte di primo piano in tutte le manifestazioni politiche del regime, guidandone la massiccia epurazione nel campo della cultura a esso indifferente od ostile e promuovendo la piú violenta propaganda dei miti nazisti.

conflict faict harangue, / Roustir la langue & la chair & les os»; Centurie, IV-56). La parabola è completa: dagli esagitati discorsi della fase iniziale, quando la vittoria sembrava arridergli, al corpo bruciato nel bunker di Berlino.

Il ricordo dei sopravvissuti

La popolarità di Nostradamus tra i sopravvissuti dell’Olocausto, che in molti casi riconobbero nelle sue profezie una intuizione premonitrice della loro tragedia, è documentata da una singolare leggenda circolata nelle comunità ebraiche piú colpite. È una leggenda strana, scaturita dalla recente storia del mondo e perciò priva di quel supporto della tradizione che è alla base di ogni mito, fiaba o rielaborazione fantastica di eventi reali. Ha però, ciononostante, l’apparenza di una favola remota, proveniente da regioni senza tempo, come si conviene a un apologo nel quale confluiscono scorie di inenarrabile dolore. Ne dà testimonianza il russo Viacheslav Zavalishin in margine alla sua traduzione delle Centurie (edita a New York in lingua russa, nel 1974), di cui fu anche appassionato interprete. Asserisce Zavalishin che nei ghetti d’Europa e poi nei campi di sterminio circolasse tra gli

GUERRA PSICOLOGICA Tanto i servizi segreti nazisti che quelli britannici si avvalsero delle profezie di Nostradamus a fini di propaganda, durante la seconda guerra mondiale, fornendo «chiavi» tendenti a favorire interpretazioni di comodo sull’andamento del conflitto. Ne derivò una guerra psicologica, parallela a quella combattuta sul campo, che coinvolse astrologi, esoteristi ed equivoci personaggi della piú disparata estrazione. Un ruolo di primo piano, per la Germania, lo ebbe il ministro della propaganda Joseph Goebbels, che fece circolare all’estero migliaia di copie manipolate delle Centurie, nelle quali si pronosticavano catastrofiche sconfitte di Stati Uniti e Gran Bretagna. Operazioni piú sofisticate vennero messe a punto, contemporaneamente, dallo spionaggio inglese, che falsificò, tra l’altro, una lettera a firma dell’astrologo svizzero Karl Ernst Krafft, considerato altamente credibile negli ambienti del Reich. La lettera, fatta deliberatamente cadere nelle mani della Gestapo, preannunciava la fine di Hitler. Questo e altri clamorosi episodi, tra cui la fuga in Inghilterra di Hess, legato ai circoli esoterici tedeschi, provocarono una violenta reazione in Germania contro maghi e veggenti, che vennero arrestati in massa per ordine di Martin Borman, nel giugno 1941. Scomparvero, come Krafft, nei campi di sterminio, vittime della dittatura che avevano servito.


nefici maledizioni che erano, in sintesi, profezie sulla loro fine imminente, inevitabile. Quell’immortale, secondo la «voce» ripresa e divulgata da Zavalishin, altri non era che l’ebreo Nostradamus, levatosi dalla tomba per compassione del suo popolo. Nel diffondere questa suggestiva leggenda, Zavalishin sostiene che la popolarità di Nostradamus fosse già viva nei ghetti d’Europa, tra le vittime predestinate, fin da prima che la follia hitleriana si manifestasse in tutta la sua atroce portata. Erano in molti a conoscere nel loro potenziale significato, secondo Zavalishin, le predizioni sulla «grande fornace», sulle «gabbie di ferro» e sulla ferocia del dittatore dalla «rabbiosa lingua». Anche se viene da chiedersi che senso potessero avere questi frammenti di verità futura prima del compiersi di fatti.

Capacità di dialogo

Una foto scattata durante il rastrellamento definitivo del ghetto di Varsavia, condotto fra l’aprile e il maggio del 1943 dagli uomini delle SS tedesche, al comando di Jürgen Stropp.

Ebrei dotati di una particolare sensibilità esoterica una voce leggendaria, una sorta di parabola, secondo la quale un uomo avvolto in un mantello nero d’altri tempi, con in capo la berretta quadrata dei sapienti e sul petto la stella di Davide, compariva in certi momenti tra i prigionieri di Buchenwald, di BergenBelsen, di Auschwitz e degli altri mattatoi nazisti per condividerne la sorte. L’uomo si mescolava ai prigionieri avviati alle camere a gas o ai plotoni di esecuzione, restando accanto a loro fino all’ultimo, ma senza mai perire. Restava eretto nei fumi venefici o nel crepitare delle pallottole, per poi tornare a unirsi ad altre vittime, scagliando verso i car-

Tra le innumerevoli fantasie, fiabe, allegorie accumulatesi nel tempo intorno all’ombra del veggente a opera di esegeti non sempre in buona fede, non sempre informati, ma sempre animati dall’ansia di ricercare nuove chiavi d’accesso alle sue visioni, questa riportata da Zavalishin è tra le piú degne d’interesse. Per almeno due buoni motivi. In primo luogo, perché rimarca con una lucidità quasi brutale l’origine ebraica del maestro di Salon, spesso sfumata per via di una conversione da lui ereditata per tradizione familiare, senza traumi; e vissuta in termini di estrema modernità, da Ebreo e da cristiano, con animo intriso di quella sorta di ecumenismo che nel suo caso si manifestò nella capacità di dialogare, in pieno clima d’odio di religione, tanto con i cattolici che con i luterani e con l’Islam. In secondo luogo, perché pone materialmente il profeta al centro della sua visione, ipotizzando un itinerario nel tempo che parrebbe corrispondere a concezioni fisiche avanzate, funzionali all’elaborazione di una teoria «scientifica» della divinazione. La parabola del sacrificio di Nostradamus ad Auschwitz, a Dachau e negli altri luoghi dell’Olocausto ha un suo fascino del tutto speciale, in altre parole, perché propone l’avveniristica eventualità di un viaggio nel tempo oltre che nello spazio, grazie alla quale il veggente viene posto in condizione di spostarsi all’interno degli avvenimenti che predice, in qualsiasi epoca e luogo essi avvengano. Il che non ha per il momento alcuna plausibilità scientifica, ma offre quanto meno materia per una riflessione in termini di relatività. NOSTRADAMUS

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Il mondo in

subbuglio Dalle parole di Nostradamus traspare spesso il senso della fine. Ed è difficile rimanere indifferenti di fronte ad annunci di calamità e sventure nei quali possiamo riconoscere molti eventi significativi della nostra storia recente


A

nche se la fine del mondo è per Nostradamus assai lontana, essendosi spinto con le sue predizioni fino all’anno 3797, gli scenari apocalittici sovrabbondano nelle sue profezie in un succedersi quasi normale di calamità e guerre, dando spesso l’impressione che l’evento descritto possa preludere a un disastro finale. Un segno dell’approssimarsi di una guerra catastrofica, con tutte le caratteristiche di un evento apocalittico, potrebbe per esempio intravedersi a parere di alcuni esegeti nella quartina sulla caduta del «grande muro». Il riferimento a Berlino è rafforzato dall’allusione a certi «rimpianti» provocati dalla liquidazione storica del marxismo, «messo a morte troppo in fretta»: «Prima del conflitto il gran muro cadrà: Il grande [sarà messo] a morte troppo presto e compianto Nave imperfetta: la maggior parte nuoterà, Presso il fiume la terra sarà tinta di sangue» («Avant conflict le grand mur tombera: / Le grand à mort, mort, trop subite & plainte, / Nay mi parfaict, la plus part naigera, / Aupres du fleuve de sang la terre tainte»; Centurie, II-57). La «nave imperfetta» potrebbe essere il comunismo, che ha coinvolto molti uomini nel suo naufragio, costringendoli a nuotare con le sole proprie forze per

Questa immagine simbolica, con le mani che si levano al di là di un filo spinato, nella speranza di riacquistare la stessa libertà degli uccelli che attraversano il cielo, può ben adattarsi a molti degli scenari prefigurati da Nostradamus e letti come un’anticipazione delle grandi sventure che hanno segnato la nostra storia piú recente.

non affogare. Ma potrebbe anche trattarsi dell’ONU (o comunque della società internazionale) incapace di gestire le tensioni generate dalla rottura dell’equilibrio tra i due blocchi. Si presentano con toni marcatamente apocalittici, come una sorta di preambolo a straordinari stravolgimenti storici, le quartine che indicano nell’espansione islamica il fattore forse principale della destabilizzazione mondiale, con cenni assai evidenti alla minaccia integralista. Se ne hanno chiarissimi esempi nei versi che descrivono l’Egitto tremante «per la crescita maomettana» o la cattura del re del Marocco «in nome degli Arabi» (Centurie, II-86 e VI-54). È palese in entrambi i casi l’allusione all’aggravarsi delle lacerazioni all’interno del mondo islamico, con riferimento all’intento fondamentalista di terrorizzare e abbattere quei regimi che si oppongono a una guerra di sterminio tra fedi contrapposte. «Naufragio di flotta presso l’onda adriatica, La terra trema sgomenta sotto l’aria che l’opprime: L’Egitto trema per la crescita maomettana, L’araldo sarà inviato a chiedere la resa» («Naufrage à classe pres d’onde Hadriatique, / La terre tremble esmue sus l’air en ter mis: / Egypte tremble augment Mahometique, / L’Herault soy rendre à crier est commis»; Centurie, II-86). Lo scenario è quello di un conflitto mediterra-


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neo che si estende fino all’Adriatico, con l’aggravante di un’atmosfera divenuta irrespirabile. È possibile che alla guerra si sovrapponga la catastrofe ecologica. L’Egitto, atterrito dalla guerra santa, depone le armi. «Allo spuntare del giorno al secondo canto del gallo Quelli di Tunisi, di Fez e di Begie, In nome degli Arabi catturato il re del Marocco, L’anno milleseicentosette della Liturgia» («Au poinct du jour au secand chant du coq / Ceux de Tunes, de Fez & de Begie, / Par les Arabs captif le Roy Maroq, / L’an mil six cens & sept de Liturgie»; Centurie, VI-54). Per la caduta del re del Marocco Nostradamus indica anche una data in codice, che dovrebbe 108

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IL POTERE DELLA SUGGESTIONE All’indomani dell’attacco terroristico dell’11 settembre 2001, quando due aerei civili dirottati si abbatterono sulle Twin Towers di New York, si diffuse la notizia che Nostradamus avesse previsto il terribile evento. La quartina in questione si è poi rivelata falsa, sebbene realizzata in uno stile effettivamente affine a quello del veggente francese. La città statunitense sarebbe invece protagonista di altre due strofe. Nella prima si legge che «il fuoco brucerà a 45 gradi», che non sono gradi di calore, ma di latitudine, corrispondenti alla posizione geografica di New York, chiamata la Città Nuova (in inglese per l’appunto new). Nella seconda, si parla di una «grande città sull’Oceano mare, circondata da paludi di cristallo nel solstizio invernale e a primavera»,


Due immagini dell’evento che forse piú di ogni altro ha segnato la nostra memoria collettiva recente: l’attacco alle Twin Towers di New York, l’11 settembre 2001.

ed è questa una particolarità delle acque stagnanti che circondano New York, rese simili a distese di cristallo dal gelo invernale e dal disgelo primaverile. «A quarantacinque gradi il cielo brucerà, Il fuoco si avvicina alla grande Città Nuova, In un istante gran fiamma sparsa esploderà, Quando si vedranno i Normanni fare esperimenti» («Cinq & quarante degrez ciel bruslera, / Feut approcher de la gran’cité neuve, / Instant grand fiamme esparse sautera / Quand on voudra des Normans faire preuve»; Centurie, VI-97). La fiamma che si spande in un attimo nel cielo fa pensare a un’esplosione atomica. Provocata da un esperimento, secondo quanto si legge nella chiusa. Il

richiamo ai Normanni, navigatori che si dice fossero sbarcati per primi sulle coste del Nordamerica, potrebbe indicare l’ascendenza europea degli Americani. «La città grande sull’Oceano mare, Circondata da paludi di cristallo, Nel solstizio invernale e a primavera, Da vento spaventoso sarà scossa» («La gran’cité d’Occean maritime / Environnee de marets en christal: / Dans le solstice hyemal & la prime, / Sera tentee de vent espouvantable»; Centurie, IX-48). Anche questo vento che dovrebbe abbattersi dal mare sulla città è stato interpretato come una premonizione della distruzione nucleare. (red.)

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A destra una colonna di profughi nella stazione ungherese di Gyekenyes. Ottobre 2015. In basso un segmento del memoriale del Muro di Berlino, costituito da un tratto della struttura originale lungo 1,4 km.

corrispondere al 2229. Il veggente parla infatti di «anno 1607 della Liturgia», che, trattandosi di questione islamica, dovrebbe voler dire dell’Egira, evento che segna l’inizio dell’era musulmana. E poiché il calendario maomettano si computa dal 16 luglio del 622, data della fuga di Maometto (Egira significa appunto questo: migrazione) dalla Mecca a Medina, la scadenza che se ne ricava è appunto quella del 2229.

Le orde del «Grande Cammello»

Riconducono al medesimo scenario di crociata islamica contemporanea le quartine che segnalano sbarchi libici sulle coste dell’Adriatico, terrore a Malta e saccheggi nelle isole vicine (Centurie, I-9), una massiccia infiltrazione maomettana in Francia (I-18). Troviamo infine, nella quinta centuria, l’allusione all’irrompere su per i Balcani di orde dirette ad abbeverare «il Grande Cammello», cioè l’Islam, nel Danubio e nel Reno (V-68). Ma quest’invasione potrebbe anche intendersi in senso di migrazione etnica. È sintomatico che in un’altra quartina si dica: «gli Arabi saranno alleati dei Polacchi». Se riferita al nostro tempo, infatti, la predizione parrebbe prospettare la confluenza verso il cuore 110

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E SE CADE IL COLOSSEO... La fine della Chiesa e dei suoi pontefici è tra gli eventi piú ricorrenti e in vario modo vaticinati non soltanto da Nostradamus, ma dai veggenti di ogni tempo. La profezia ha una valenza apocalittica, poiché la fine della Chiesa viene materialmente associata alla fine di Roma e la fine di Roma a quella del mondo. Fu tra i primi a parlarne il Venerabile Beda (674-735), monaco benedettino e santo dell’Inghilterra medievale, i cui preziosi scritti spaziano dall’astronomia alla matematica alla letteratura, alla musica, alla retorica, alla grammatica e soprattutto alla storia. A lui si deve, tra l’altro, una Storia

Il Colosseo in una foto scattata intorno al 1880. Al centro, in primo piano, sono ancora visibili i resti della Meta Sudans, una fontana monumentale demolita nel 1936.

ecclesiastica del popolo inglese (735), prima essenziale fonte sull’Inghilterra cristiana. Sulla fine della Chiesa e del mondo egli formulò una profezia divenuta celebre: «Finché resisterà il Colosseo [resisterà] anche Roma. Quando cadrà il Colosseo cadrà anche Roma. Quando cadrà Roma cadrà il mondo». Il vaticinio è rimasto talmente vivo nell’immaginario popolare romano che ancora sul principio del Novecento fu espresso in lapidari versi da un poeta dialettale all’epoca famoso, Luigi (Giggi) Zanazzo: «Quanno er Coliseo crollerà tutto er monno s’a da scapicollà».

dell’Europa di masse provenienti sia dai Paesi dell’Est che dal mondo islamico. Ma il veggente parla anche di sangue versato in gran copia sulla terra, nella Senna e nel mare, di popolazioni tremanti e di una battaglia presso le Alpi, nella quale il Gallo (cioè la Francia, insieme agli altri Stati europei) sconfiggerà l’invasore. Parrebbe quindi troppo riduttivo circoscrivere questo conflitto di civiltà alle tensioni determinate da una difficile convivenza. Rientra nello stesso florilegio apocalittico la cruda prospettiva delle persecuzioni a cui saranno sottoposte, nel corso di questa che appare per certi aspetti una guerra di conquista e per altri un esodo destinato a sovvertire l’assetto etnologico del pianeta, le comunità di religione cattolica o ebrea. Nostradamus parla

di violenze, stragi e spoliazione dei «grandi templi». E ancora una volta traspare da quanto dice un’accorata preoccupazione per la sorte del suo popolo originario: «La Sinagoga sterile senza piú alcun frutto Sarà ricevuta tra gli infedeli La figlia del perseguitato di Babilonia Misera e triste le taglierà le ali» («La Synagogue sterile sans nul fruit / Sara recue entre les infídeles / De Babylon la fille du porsuit / Misere & triste lui trenchera les aisles»; Centurie, VIII-96). Qui il veggente parrebbe prevedere una tale sconfitta per Israele da porre la Sinagoga, ormai «sterile e senza piú frutto», alla mercè degli infedeli, che l’assorbiranno nel proprio seno. Ancora una volta, come nella piú pura tradizione apocalittica, si parla di BabiloNOSTRADAMUS

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Miniatura raffigurante, sulla destra, Maometto con sua figlia Fatima. XVI sec. Istanbul, Museo d’Arte Turca.

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UN’APPARIZIONE CONTESA Le grandi profezie escatologiche, quelle che riguardano i destini del genere umano, coinvolgono per loro natura la divinità. Non è dunque una peculiarità del nostro tempo l’interesse manifestato da grandi masse di credenti per le profezie d’ispirazione mariana, come quelle connesse alle apparizioni di Fatima e Medjugorie, la cui popolarità raggiunge oggi livelli di portata universale. Già in passato le predizioni sulla fine o sull’evolversi del mondo furono retaggio di veggenti considerati portavoce di Dio, come l’evangelista Giovanni per l’Apocalisse e i suoi predecessori biblici. È considerato degno di particolare attenzione, tuttavia, il fatto che, di 997 apparizioni registrate dalle autorità religiose in venti secoli, ben 455 sarebbero avvenute negli ultimi cent’anni. Altrettanto significativo è l’interesse che larghi strati di credenti non soltanto cattolici, ma delle piú svariate religioni, riversano sul «terzo segreto» di Fatima. Al punto da indurre una parte dell’Islam a rivendicare l’apparizione come propria, sostenendo – come avvenne nell’ottobre 1995 alla radio iraniana – che non si tratterebbe della Vergine Maria, ma della santa musulmana Fatima, figlia di Maometto, la quale avrebbe scelto per manifestarsi una località contrassegnata dal suo stesso nome, probabile retaggio della dominazione araba. È una fantasia che stride con le certezze mariane di milioni di devoti, ma in ogni caso dimostra un coinvolgimento spirituale sincero – e universalmente sentito, al di là delle diversità religiose – nel messaggio di Fatima.

Lucia Dos Santos, Francesco Marto e Giacinta Marto, i tre pastorelli portoghesi testimoni, nel 1917, dell’apparizione della Madonna di Fatima.

nia, che in questo caso potrebbe indicare il bacino del Tigri e dell’Eufrate, dove trova sostegno e forza la minaccia di un popolo misero e infelice (forse i Palestinesi), intenzionato a «tagliare le ali» a Israele.

Non c’è pace fra i due fiumi

Questa eventualità viene altrove illustrata da Nostradamus in termini strategici di una estrema modernità: giunto «alla sua ultima mano» l’esercito di Alus (ovvero Saul) non potrà piú difendersi per mare. Verrà contemporaneamente minacciato da un colpo militare ordito «tra due fiumi» (ancora un richiamo a Baghdad, bagnata da Tigri ed Eufrate) e messo in crisi dal «nero irato», cioè dall’Arabo. «Alla sua ultima mano il sanguinario Saul Non potrà piú proteggersi per mare: Tra due fiumi paventerà un colpo militare, Il nero irato lo farà pentire» («Sa main derniere par Alus sanguinaire / Ne se pourra par la mer guarentir: / Entre deux fleuves craindre main militaire, / Le noir l’ireux le fera repentir»; Centurie, VI-33). Dalla «città bagnata dai due fiumi», d’altronde, dovrebbe guardarsi anche il papa. Come si può evincere da questo avvertimento: «Romano pontefice guardati dall’avvicinarti Alla città bagnata dai due fiumi. Là sputerai il tuo sangue, Tu e i tuoi quando fiorirà la rosa» («Romain Pontife garde de t’approcher / De la cité que deux fleuves arrouse. / Ton sang viendra aupres de là cracher, / Toy & les tiens quand fleurira la rose»; Centurie, II-97). La profezia sembra sottintendere il dubbio che eventuali mediazioni di pace da parte del pontefice possano in qualche modo favorire l’avversario. Non è bene, parrebbe voler dire Nostradamus, che il capo della cristianità si mostri troppo aperto con i suoi tradizionali nemici. Potrebbero derivarne guai tanto seri da fargli «sputare sangue» insieme ai suoi fedeli. Le conclusioni del veggente appaiono desolanti: non è attraverso le trattative, ma contrapponendo alla forza la forza, che questo travaglio di popoli potrà infine sedarsi. Sarà necessario perché ciò accada l’intervento di «falangi d’oro, d’azzurro e di vermiglio» (Centurie, V-96). Solo innalzando queste insegne, che ricordano i colori degli Stati Uniti, dell’Inghilterra e della Francia, si potrà «soggiogare l’Africa e roderla fino all’osso», dice il veggente. È una prospettiva crudele, che evoca memorie coloniali, lasciando intuire il protrarsi nei secoli di un indegno sfruttamento. NOSTRADAMUS

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A ciascuno la sua profezia Ormai affermato e ammirato dai piú, Nostradamus dispensa previsioni a tutto campo. E se le Centurie dipingono scenari universali, la quotidianità è costellata di episodi curiosi, dove le doti del veggente sono messe alla prova da questioni assai meno impegnative...

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l di là della loro credibilità, le profezie di Nostradamus appaiono sempre attente alle sofferenze dei popoli, per le quali il veggente mostra una sincera pietà. Come dimostrano le immagini dolenti della quartina che descrive la «grande carestia», una piaga che a detta del profeta decimerà le genti di buona parte del pianeta. Il testo non fornisce coordinate di tempo, ma è sensazione comune degli esegeti che la predizione di Nostradamus possa riferirsi a un futuro già incominciato. Non è difficile, infatti, percepire nella quartina riferimenti all’attuale desolante dramma del Terzo Mondo, ma anche una piú generale allusione all’eterna fame delle nazioni meno sviluppate. Il flagello è infatti descritto come qualcosa che va e viene («verrà piú volte») per poi stabilizzarsi e «divenire universale». «La grande carestia che sento avvicinarsi Verrà piú volte per poi divenire universale, Cosí grande e lunga che si vedrà strappare La radice dal bosco e il pargolo dalla mammella» («La grand famine que ie sens approcher / spuvent tourner, puis estre universelle, / Si grande & longue qu’on viendra arracher / Du bois racine & l’enfant de mammelle»; Centurie, I-67). Oltre alla carestia Nostradamus ha previsto un’orrenda maliattia epidemica. Non la si può ricollegare all’Aids, poiché questa moderna 114

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Miniatura raffigurante due alchimisti che scavano una roccia in cerca dell’oro, da un’edizione dello Splendor Solis, testo alchemico attribuito a un leggendario Salomon Trismosin, che si favoleggiava possedesse la pietra filosofale e che sarebbe stato il maestro di Paracelso. 1582. Londra, British Library. pestilenza dovrebbe insorgere – o essere insorta – all’indomani di un grande conflitto. C’è chi l’interpreta come premonizione della morte determinata dalla radioattività dopo la seconda guerra mondiale: al pari di una epidemia, infatti, le scorie delle esplosioni atomiche di Hiroshima e Nagasaki hanno ucciso a distanza di tempo migliaia di persone. Ma è un’ipotesi che sembra stridere con un particolare della profezia: la guerra in questione e la successiva pestilenza avrebbero dovuto coinvolgere principalmente l’Occidente, mentre la morte radioattiva ha colpito quasi esclusivamente l’Estremo Oriente. Piú verosimile sarebbe collegarla alla prima guerra mondiale, che fu cataclisma soprattutto europeo: la si potrebbe allora riconoscere nella tremenda epidemia di febbre detta «spagnola», che seminò la morte alla fine del conflitto. «Un anno dopo l’orribile guerra che si prepara per l’Occidente Verrà una pestilenza cosí forte e spaventosa Che (non si salverà) giovane, vecchio né bestia.



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Dal sublime al quotidiano Sangue, fuoco, Mercurio, Marte, Giove in Francia» («L’horrible guerre qu’en l’Occident s’appreste, / L’an ensuivant viendra la pestilence / Si fort, horrible, que jeune, vieux ne beste. / Sang, feu, Mercure, Mars, Iupiter en France»; Centurie, IX-55).

L’avvento di un regno divino

Un riferimento all’Aids, ma in chiave salvifica e rigeneratrice, potrebbe invece individuarsi nella quartina che preconizza, come l’Apocalisse di Giovanni, del resto, l’avvento finale di un regno divino di «bontà sovrana». Nel quale l’umanità sopravvissuta «farà rinascere il suo sangue dall’antica urna». È tuttavia un presagio da interpretare nel senso piú lato possibile, come prospettiva di rinnovamento generale della società umana e superamento di ogni male fino allora patito. Il nuovo regno «della bontà» nasce infatti dalle «ombre» di una notte dolorosa, travagliata da guerra, malattia e sofferenze d’ogni genere. «Nato sotto le ombre di giornata notturna Sarà nel regno della bontà sovrana: Farà rinascere il suo sangue dall’antica urna Rinnovando il secolo d’oro dal bronzo» («Nay sous les ombres & iournee nocturne / Sera en regne & bonté souveraine: / Fera renaistre son sang de l’antique urne / Renouvellant siecle d’or pour l’airain»; Centurie, V-41). Parrebbe del tutto evidente l’intento di stabilire una fatale concatenazione tra espiazione tragica (guerra, sangue, terrore, malattia) e rigenerazione. Lo stile è quello della trasmutazione alchemica, di metallo in metallo, evidentemente familiare a Nostradamus. Non a caso la profezia si chiude con un’allusione alla Grande Opera, metaforicamente rappresentata dal bronzo che diventa oro. L’arte divinatoria di Nostradamus non si esplicò unicamente in direzione dei grandi eventi, delle guerre, delle catastrofi mondiali o delle In alto miniatura raffigurante il sole sorgente come simbolo alchemico, da un’edizione dello Splendor Solis. 1531-1532. Berlino, Staatliche Museen, Kupferstichkabinett. A destra illustrazione raffigurante la trasmutazione di un metallo vile (rappresentato dalla Terra, in basso) in oro (il Sole, a sinistra) e argento (la Luna, a destra), grazie all’intervento del mercurio, simbolo della volatilità, impersonato dal dragone, dal Theatrum Chemicum Britannicum, raccolta di testi alchemici compilata da Elias Ashmole. 1652. 116

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Un’altra miniatura tratta dall’edizione dello Splendor Solis conservata presso la British Library di Londra (MS Harley 3649). 1582. Raffigura un pavone all’interno di un’ampolla, poiché si credeva che durante la preparazione di un elisir, l’apparizione di un arcobaleno o, appunto, della coda di un pavone, precedesse il completamento dell’operazione.


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Dal sublime al quotidiano

A destra illustrazione tratta dal manoscritto Vaticinia Michaelis Nostradami de Futuri Christi Vicarii ad Cesarem Filium D. I. A. Interprete. Roma, Biblioteca Nazionale Centrale. Si tratta dell’opera, probabilmente lasciata in eredità da Nostradamus al figlio César e da questi donata al cardinale Maffeo Barberini (il futuro papa Urbano VIII). Sulle due pagine Nostradamus in una caricatura ottocentesca.

predizioni escatologiche, che per loro natura investono i destini dell’umanità. Non predisse solo la morte di re, la fine di regni, l’evolversi o il degradarsi dell’uomo nello scontro tra le grandi civiltà. Aveva intensi rapporti non soltanto con il re di Francia e gli alti personaggi della corte, ma con la gente comune, con i propri familiari, con coloro che per un verso o per l’altro facevano ressa alla porta del suo studio per poterlo interpellare. Il che lo portava per forza di cose a pronunciarsi su questioni della piú ovvia quotidianità.

Tutt’altro che scontroso

Nostradamus era per giunta un uomo di spirito conviviale che, superata un’iniziale diffidenza verso il prossimo, amava frequentarlo: gli piacevano i cibi prelibati e non disdegnava il vino, dal quale dipesero con ogni evidenza i tormenti della gotta negli ultimi anni di vita. Non era un asceta, per quanto propenso a immergersi nella meditazione profonda. Non evitava i piú comuni piaceri umani, come dimostra la numerosa prole; né rifiutava di concedersi a quanti ardevano dalla curiosità di conoscerlo. Discorreva amabilmente in pubblico e rispondeva, se pro118

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vocato, alle domande piú inverosimili, suscitando con ciò che diceva – e che indovinava, se sfidato a farlo – lo stupore degli astanti. Esiste pertanto memoria, al di là dei verdetti emessi per iscritto sulle questioni piú solenni, di numerose profezie a carattere per cosí dire casalingo, dalle quali è scaturita col tempo un’aneddotica curiosa. Non si può fare a meno di sorridere pensando al conte di Héran, che si presenta una mattina al suo studio, interrompendo le visite dei malati, per chiedergli dove può ritrovare il suo cane, appena smarrito. La prima tentazione di Nostradamus, se l’episodio ha un fondo di verità, dev’essere stata quella di mandarlo al diavolo. Ma il conte era uomo di grande prestigio, disposto a pagare per un «oracolo» del genere in oro; e poi sembrava realmente addolorato per la perdita del cane. Perciò Nostradamus decise di dargli soddisfazione, rispondendogli che avrebbe ritrovato l’animale alla vicina fonte di Saint Denis. E cosí fu. Il conte fece la posta al cane presso la fonte indicatagli, e lí prima di sera la bestia lo raggiunse. Viene da sorridere, è vero, ma anche da riflettere sulla ragionevole astuzia che parrebbe ispirare la risposta del veggente.


I resti del monastero benedettino di Corazzo, nei pressi di Catanzaro, dove Gioacchino risiedette dal 1172, divenendone poi abate nel 1177.

In fondo, la prima cosa di cui va in cerca un cane smarrito, forse spaventato, sicuramente assetato, è una fonte d’acqua. Quella di Saint Denis era, con ogni probabilità, la piú vicina. Tra i piú stupefacenti, in questa casistica di sprazzi minimi di veggenza, è un episodio di tono mondano, verificatosi nel corso di un banchetto a cui Nostradamus era stato invitato da un gentiluomo intenzionato a metterlo in difficoltà. Era una festa di campagna, fuori Salon, di quelle che cominciavano al mattino e prendevano tutta la giornata. Per prima cosa il padrone di casa, dopo avere accolto l’ospite con ogni deferenza, gli mostrò due porcellini, uno bianco e uno nero, chiedendogli con evidente ironia quale sarebbe stato il loro destino. «Morranno tra poco», rispose Michel, senza scomporsi. «Ma è mia intenzione farne uccidere uno solo», disse allora il gentiluomo. «Morranno entrambi», insisté il veggente. «Sapreste almeno dirmi quale mangeremo?». «Quello bianco». «E se io ordinassi al cuoco di cucinare quello nero?». Nostradamus si strinse nelle spalle, con un’espressione d’ineluttabile fatalità dipinta sul viso. «Noi», disse senza esitazione, «mangeremo ugualmente quello bianco». «Vedremo», rispose allora l’aristocratico, e raggiunto il cuoco in cucina, gli ordinò di uccidere e servire per cena il maialetto nero. A sera, quando tutti erano seduti a tavola, venne portato tra le altre pietanze un porcellino intero arrosto. «È quello nero», disse il padrone di casa trionfante, e per dimostrarlo chiamò il cuoco, dicendogli di far vedere agli ospiti il maialino bianco, ancora vivo. Desolato, il cuoco rispose che non era possibile, perché quello che stavano per mangiare era appunto il bianco. «Ma non ti avevo ordinato di cucinare quello nero», lo rimproverò allora il padrone, risentito, «e di lasciar vivere l’altro?». «Sí, ma è accaduto un imprevisto...». Era infatti successo che due cani si fossero introdotti in cucina, dove il maialino nero, ammazzato e ripulito, stava per essere messo al forno, e l’avevano addentato contendendoselo. L’avevano cosí ridotto a brani. Era stato perciò necessario uccidere l’altro e servirlo in sua vece. Fu giocoforza, a quel punto, per l’aristocratico burlone ammettere il fallimento della sua beffa e riconoscere le straordinarie qualità dell’ospite, il cui prestigio uscí da quella festa per lo meno raddoppiato. NOSTRADAMUS

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Quella real

gratifica...


Nel 1564, Caterina de’ Medici decide di organizzare un viaggio destinato a fare tappa nelle principali città del regno. In ottobre, la carovana reale si ferma a Salon, dove la regina incontra Nostradamus, dando l’ennesima e tangibile testimonianza della fiducia che in lui aveva sempre riposto

Enrico IV e Caterina de’ Medici, olio su tela di Virginie Ancelot. 1819. Collezione privata.


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Veggente di corte

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ll’avverarsi della funesta profezia sulla morte di Enrico II, la fiducia di Caterina de’ Medici negli occulti poteri di Nostradamus si rafforzò a tal punto da renderla quasi dipendente dai suoi oroscopi. A lui si rivolse per essere consigliata sui simboli di cui decorare i propri talismani, sulle pietre di cui servirsi a scopo scaramantico, sugli angeli (o demoni) da invocare a fini di magia. A lui si raccomandò, dopo la morte del marito, per conoscere il destino dei figli. Fraintese il responso, scambiando per una predizione di gloria quella che era invece una premonizione di morte. Previde infatti Nostradamus che tanto il primogenito, Francesco, che il secondogenito, Carlo, e il terzo, Enrico, sarebbero divenuti re. Il che parve a Caterina una conferma di ambiziosi disegni egemonici, volti a insediare i Valois su troni diversi d’Europa. Invece no: l’oracolo voleva significare, in termini assai meno ottimistici, che i figli di Caterina sarebbero morti uno dietro l’altro, succedendosi tra loro fino all’estinzione della famiglia. Francesco II regnò un anno, dalla morte del padre (1559) alla propria (1560). Morí sedicenne, di sincope, senza figli. Gli successe il fratello Carlo IX, di dieci anni, che regnò sotto la tutela della madre, la quale non smise d’influenzarne le decisioni anche quando ebbe raggiunto la maggiore età, coinvolgendolo nelle guerre di religione. Morí a ventiquattro anni (1574), tormentato dal rimorso per la strage di San Bartolomeo, anche lui senza figli. Divenne perciò re il fratello Enrico III, di ventitré anni, che non seppe evitare la guerra civile, detta «dei tre Enrichi» per la contrapposizione di tre fazioni, rispettivamente capeggiate dal protestante Enrico di Navarra, futuro Enrico IV, dall’estremista cattolico Enrico di Guisa, leader della Lega Santa, e da lui stesso, a capo dei realisti. Fu assassinato all’età di trentotto anni (1589) dal monaco Clément, fanatico attivista della Lega. Morí anch’egli senza figli, e gli successe Enrico di Navarra, della famiglia di Borbone, marito di sua sorella Margot. Cosí si estinsero i Valois. Morí nello stesso anno anche Caterina, settantenne, ormai priva di scopi nella vita.

Un giro per ogni anno di regno

Sulle operazioni di magia compiute da Nostradamus per conto di Caterina, che aveva altri occultisti al suo servizio, sono circolate molte dicerie. La piú clamorosa si riferisce a un «esperimento» compiuto poco dopo l’ascesa al trono di Francesco II, quindi nel 1560, in un castello sulla Loira, a Chaumont. Anche in quell’occasione il rito si tenne allo scopo d’interpellare gli spiriti (mediante un’evocazione di tipo negro122

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Xilografia nella quale si immaginano Nostradamus e Caterina de’ Medici impegnati nella preparazione di una pozione. 1880.

mantico) sui futuri destini dei Valois. Nostradamus lo fece insieme a un altro mago, il frate scomunicato Ulrico di Mayence, noto per avere millantato un’amicizia «fraterna» con Lucifero. Risulterebbe dai resoconti circolati sulla vicenda (tra cui quello dello scrittore Simon Boulard nel suo Trésors des histoires admirables et mémorables de notre temps, 1610) che Nostradamus si fosse servito in quell’occasione di uno specchio concavo, decorato ai lati con scritte magiche, facendovi apparire in sequenza le immagini dei tre figli di Caterina e del genero destinato a divenire Enrico IV. I quattro ragazzi sarebbero comparsi l’uno dietro l’altro, da soli e ben riconoscibili, accanto al trono. Ciascuno vi avrebbe compiuto intorno un certo numero di giri, equivalente ai suoi anni di regno: uno per Francesco II,


quattordici per Carlo IX, quindici per Enrico III e ventuno per Enrico IV. Si dice che Caterina, Nostradamus e l’altro officiante avrebbero assistito alla visione dall’interno di un cerchio magico, intorno al quale erano stati scritti i nomi di vari demoni o spiriti protettivi. I particolari di fantasia non si contano. Si è perfino parlato di un sacrificio umano, poiché le scritte sarebbero state tracciate col sangue, e della materializzazione di un angelo, Anael, che avrebbe preso parte alla cerimonia. Una profezia sul breve regno di Francesco II era già stata formulata anni addietro da Nostradamus e inserita nelle Centurie. Il primogenito di Caterina è reso riconoscibile, ad avviso dei tecnici, dal cenno alla vedovanza della madre e al suo sfortunato matrimonio con Maria Stuarda:

Caterina de’ Medici attorniata dalla sua corte, olio su tavola. Blois, Castello.

«Primo figlio di vedova infelice matrimonio, Senza nessun figlio due Isole in discordia, Prima dei diciotto l’età dell’incompetenza, Dell’altro vicino piú basso sarà il patto» («Premier fils vefue malhereux mariage, / Sans nuls enfans deux Isles en discord, / Avant dix huict incompetant eage, / De l’autre pres plus bas sera l’accord»; Centurie, X-39). Collocato tra «vedova» e «matrimonio», l’aggettivo «infelice» potrebbe ben valere per entrambi se non fosse al maschile, quindi riferito al secondo. Infelice fu Caterina, infelici furono le nozze con la regina di Scozia, contratte da Francesco a quattordici anni. Il resto parrebbe egualmente chiaro: nessun figlio e gran discordia nelle isole britanniche per il vincolo creatosi tra le corone NOSTRADAMUS

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NOSTRADAMUS

Veggente di corte

di Francia e di Scozia. Il tutto aggravato dall’incompetenza del sovrano, che non ha nemmeno – né avrà mai – diciott’anni. Passerà la delega reale (il patto, l’accord), morendo, al fratello minore. Si hanno cronache esaltanti della visita effettuata dai reali di Francia a Salon, nel corso di un viaggio attraverso città diverse del regno, voluto da Caterina per presentare il figlio Carlo IX, re quattordicenne, ai suoi sudditi. Un corteo spettacolare che – partito a marzo dalla reggia di Fontainebleau e giunto a Salon in piena estate, a luglio inoltrato – suscitò lo stupore dei cittadini: cavalli e armigeri, principi e duchi incantarono la gente di ogni condizione al loro arrivo, ma ciò che piú di ogni altra cosa eccitò la fantasia popolare fu la giovinezza che aleggiava festosa su quell’u-

CONDANNA SENZA APPELLO Al di là dei pochi veggenti fortunati, a cui arrisero popolarità e successo, la gran massa degli indovini fu spesso perseguitata, derisa e non di rado esposta ad atroci persecuzioni. Lo stesso Nostradamus conobbe, in una certa fase della sua vita, il rischio di finire davanti all’Inquisizione, a cui si sottrasse con una tempestiva fuga. All’origine di questo diffuso pregiudizio vi è la severa condanna espressa nelle Scritture contro le arti divinatorie, assimilate a magia e stregoneria. L’Antico Testamento condanna esplicitamente nel Deuteronomio «chiunque pratichi la divinazione, il sortilegio, l’augurio, la magia, chi compia incantesimi, chi consulti gli spettri o l’indovino, chi interroghi i morti» (XVIII, 10-11). Ezechiele annuncia che «la mano di Dio si volgerà contro i profeti di visioni vane» (XIII, 9) e Geremia minaccia di scagliare loro addosso «serpenti velenosi contro i quali non c’è incantesimo» (VIII, 17). Categorico è l’ordine impartito nell’Esodo: «Non lascerai vivere colei che pratica la magia» (XXI, 17). Altrettanto severo è il Nuovo


I resti del monastero benedettino di Corazzo, nei pressi di Catanzaro, Testamento, che negli Atti degli Apostoli fornisce suadenti descrizioni dove Gioacchino della perversità dei maghi. Simon Mago, per quanto battezzato, è risiedette dal 1172, «pieno di male e prigioniero della cattiveria» (VIII, 23). Un altro divenendone pseudoprofeta di nome Bar-Iesus è «uomo ricolmo di ogni inganno poi e abate nel malizia, figlio del diavolo, nemico di ogni giustizia» (XIII, 6-12). Verrà 1177. accecato dall’apostolo Paolo con l’aiuto dello Spirito Santo, ma solo in via provvisoria, per impedirgli di «sconvolgere i progetti del Signore».

Caterina volle poi tutto per sé il profeta, tenendolo a lungo in disparte. E fu questa la piú grande ricompensa – ben maggiore dei 300 scudi d’oro e della carica conferitagli – per Nostradamus a Salon, città nella quale godeva di una popolarità straordinaria, ma era anche oggetto di un’ottusa diffidenza, di pettegolezzi e pregiudizi dovuti all’aspetto misteriosofico del lavoro che segretamente svolgeva nel suo studio.

Fra «il letto e il banco»

In alto L’accecamento di Elima, tempera su cartone di Raffaello. 1515-1516. Londra, Victoria & Albert Museum. L’artista mette in scena l’episodio di cui è protagonista l’apostolo Paolo (sulla sinistra), il quale, alla presenza del governatore della città di Pafo, acceca temporaneamente il mago Elima, noto anche come Bar-Iesus (a destra). Nella pagina accanto Strumenti astronomici, olio su tela di Philippe de La Hire. XVII sec. Tsarskoe Selo, Museo di Stato.

manità privilegiata e mirabile a vedersi, cosí lontana anche nell’aspetto dai comuni mortali. Cavalcavano accanto al giovanissimo re suo fratello Enrico, piú piccolo di un anno, e la sorellina Margot, il cugino Enrico di Navarra, appena undicenne, e uno sciame di nobili adolescenti, loro compagni di gioco e di avventura. Caterina chiese subito di Nostradamus, il quale le andò incontro con il passo stanco e l’espressione distaccata del vecchio che già sente incombere la morte, al punto da poterla prevedere in dettaglio. Carlo fremeva d’impazienza: attratto come qualsiasi coetaneo dal mistero della magia, attendeva d’incontrare con una speciale ansia il veggente. Era in questo simile alla madre, che da quel medesimo mistero era stata talmente attratta da rendersene dipendente. In quella occasione Carlo allontanò le autorità venute a salutarlo per rivolgersi unicamente a Nostradamus, il solo – come disse – per il quale era venuto. Nostradamus lo salutò chiamandolo «grand’uomo in guerra, secondo a nessuno nella pietà», in latino (vir magnus bello, nulli pietate secundus), come si conveniva al dialogo tra chi è tanto al di sopra, per un verso o per l’altro, ai comuni scenari umani.

Nell’ultimo dei Presagi Nostradamus previde in maniera dettagliata la sua morte, annotando che sarebbe stato trovato «al solito luogo» dopo essere «andato a Dio». Sono versi da cui traspare una malinconia del tutto intima, resa evidente dal cenno al mobilio della casa («il letto e il banco»), ma indorata di orgoglio, poiché all’addio si coniugano gli onori reali. «Di ritorno d’ambasciata, dono del Re, al solito luogo, Piú non farà, sarà andato a Dio, Parenti piú prossimi, amici, fratelli di sangue, L’avranno trovato morto tra il letto e il banco» («Du retour d’ambassade, don de Roy, mis au Jieu, / Plus n’en fera. sera allé à Dieu, / Parens plus proches, amis, freres du sang, / Trouvé tout mort pres du lict et du banc»; Presagi, 141). Ed effettivamente, cosí fu trovato il corpo inanimato di Michel de Nostre-Dame, tra il letto e il tavolo di lavoro, all’alba del 2 luglio 1566, dalla moglie Anna Ponsard e dal fedele discepolo Chavigny, legato al maestro da vincoli di occulta fratellanza. Aveva da poco ricevuto la visita del re (due anni prima, cioè niente nell’economia profetica dell’eternità) e compiuto per suo conto, si dice, una delicata missione. Ne era stato ripagato con una cospicua gratificazione (il «dono del re»: 300 scudi d’oro) e il prestigioso titolo di medico, nonché consigliere ordinario del sovrano. Fa fede di queste elargizioni e del generale benessere di cui godeva all’epoca Nostradamus il ricco testamento da lui sottoscritto a vantaggio dei figli e della moglie due settimane prima di morire (il 17 giugno, presso lo studio del notaio Roche di Salon) consistente di un patrimonio valutabile in 5000 scudi d’oro, di cui un terzo in denaro contante e il resto in gioielli, arredi e oggetti rari, alcuni dei quali preziosissimi. Tra questi ultimi andavano sicuramente inclusi gli strumenti dell’arte divinatoria, tra cui l’astrolabio, la verga di cui si parla all’inizio delle Centurie (I-2) e un anello «magico», lasciati al figlio prediletto César. NOSTRADAMUS

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L’ultimo

monito

All’indomani della morte di Nostradamus, i suoi eredi vissero fortune alterne. Non verrà meno, invece, l’interesse per le opere del veggente francese

N

ostradamus lasciò in epigrafe alle Centurie un avvertimento molto simile a quello posto dall’evangelista Giovanni in apertura della sua Apocalisse, invitando chiunque leggesse le sue profezie a ponderarle con spirito consapevole, pena la maledizione dal cielo per chi ne avesse travisato o sottovalutato l’importanza. Il primo rigo fa da titolo, gli altri quattro ripropongono la struttura di una comune quartina: «Maledizione contro i critici inetti. Chi legge questi versi li valuti con animo maturo, Il volgo profano e inconsapevole li eviti, Stiano lontano tutti gli astrologi, gli sciocchi e i barbari. Chi fa altrimenti sia maledetto per sacro rito» («Legis cantio contra ineptos criticos. / Quid legent hosce versus mature censunto, Profanum vulgus et inscium ne attrectato, / Omnesque astrologi, blenni, barbari procul sunto. / Qui aliter facit, is rite sacer esto»). Non si era mai rimarginata del tutto, evidentemente, la ferita infertagli dalle maldicenze, dalle calunnie, dalle critiche preconcette dello Scaligero e degli altri detrattori, culminate intorno al 1560 con la pubblicazione ad Avignone di un libello dal titolo Déclaration des abus, ignorances et seditions de Michel Nostradamus de Salon. L’opuscolo, di appena una quarantina di pagine, intrise però di un astio senza eguali, recava il significativo sottotitolo di Ouvre très utile et profitable, volendosi con ciò sottolineare quanto fosse «utile e van-

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Copertina di un Almanacco astrologico per l’anno 1855 che reca in copertina l’immagine di Nostradamus.


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Parole per i posteri

taggioso» per la comunità ogni tentativo di smascherare l’impostura di Nostradamus. Aggravava l’amarezza procurata da questi attacchi la circostanza che le argomentazioni dei detrattori venivano spesso pubblicate, secondo la legge, sulla stampa, «con privilegio del Re e della Corte», come nel caso delle Contredicts (confutazioni) aux faulses & abusifues propheties de Nostradamus & autres astrologues, pubblicate anch’esse nel 1560 a firma di un certo Signor di Pavillon. Il che poteva sembrare, in termini burocratici, del tutto normale; ma suonava in effetti come un paradosso, tenendo conto che le malignità contro Nostradamus venivano in tal modo legittimate da quel medesimo sovrano che era tra i suoi piú convinti estimatori. Mentre lui veniva impropriamente accomunato – altro paradosso – a quegli stessi astrologastri contro i quali aveva scagliato il suo sprezzante anatema.

In basso particolare del frontespizio de L’histoire et chronique de Provence de Caesar de Nostradamus, opera scritta dal figlio del grande veggente e pubblicata per la prima volta a Lione nel 1614.

Un espediente detestabile

Per una strana quanto penosa fatalità potrebbe dirsi che a fare per primo le spese della maledizione di Nostradamus contro gli astrologi sciocchi sia stato uno dei suoi otto figli; vale a dire lo sfortunato Michel, che, tentato forse dall’orgoglio di portare lo stesso nome del padre, volle emularne la fama, dedicandosi con superficialità e un buona dose di malafede all’arte profetica. Mancavano al giovane Michel la prudenza e le doti paterne, per cui si lasciò andare a predizioni facilmente intellegibili, senza ricorrere a formulazioni ermetiche, cosí da trovarsi privo di giustificazioni di fronte al loro mancato avverarsi. Commise inoltre l’errore di dispensare profezie d’interesse contingente e immediato, che, non ricevendo alcun riscontro nei fatti, lo esposero al ridicolo. Umiliato e pubblicamente screditato dall’insuccesso ricorrente dei suoi vaticini, l’incauto Michel ricorse allora a un detestabile espediente: preannunciò l’incendio della cittadina di Pouzin, nel Vivarais, tentando lui stesso di provocare il disastro nottetempo. Venne però scoperto da una ronda mentre si apprestava ad appiccare il fuoco alle case della periferia, pateticamente convinto che l’avverarsi dell’evento predetto avrebbe fatto la sua fortuna di veggente. Fu giudicato sul posto e condannato a una 128

NOSTRADAMUS

Nella pagina accanto, a sinistra Tchéky Karyo (al centro) nei panni di Nostradamus in una scena dell’omonimo film sulla vita del veggente diretto da Roger Christian e distribuito nel 1994. Nella pagina accanto, a destra pubblicità per la Lotteria Nazionale del 1964: la buona sorte, un tempo vaticinata da Nostradamus, può essere ora garantita dall’acquisto di un biglietto.

fine tanto infamante quanto atroce, che consisteva nell’essere legato sul terreno e calpestato da cavalli infuriati. Morí a questo modo, nell’indifferenza delle cronache, a onta del grande nome che portava, Michel de NostreDame figlio, per vanità e malintesa emulazione paterna. Nel 1567, a un anno appena dalla scomparsa del padre. Ebbero una sorte ben piú degna e fortunata gli altri sette figli, che, grazie anche alle ricchezze lasciate loro dal padre – e a credenziali di grande valore presso i potenti di Francia – vissero tutti negli agi e nel rispetto della comunità. Il piú fortunato fu César, figlio prediletto di Nostradamus e perciò istruito dal padre alla consapevolezza che la piú grande grazia nella quale un uomo possa sperare è quella di non conoscere il proprio futuro. A lui il veggente indirizzò la lettera che, posta in apertura delle Centurie, illustra, tra l’altro, le ragioni per cui la profezia deve potersi esprimere «con astruse e impenetrabili sentenze» per non ledere «la fragilità auricolare» di chi ascolta. Grave scandalo deriverebbe infatti dalla rivelazione dei fatti futuri, spiega il veggente, se venissero raccontati in tutta chiarezza, mostrando quali cambiamenti («diametralmente opposti rispetto al presente») sconvolgeranno i regni, le religioni e i partiti. Grazie a tali insegnamenti, César, rimossa ogni curiosità sul proprio futuro e su quello degli altri, visse un’esistenza serena e colta, dedicandosi allo studio della storia, alla poesia, alla pittura. Senza con ciò trascurare i rapporti sociali che al suo censo elevato convenivano, dato che fu console di Salon. César fu caro al re come lo era stato suo padre, nonostante l’avvicendamento delle dinastie e la fine dei Valois, protettori di Nostradamus. Il nuovo sovrano Luigi XIII lo trattò con simpatia e deferenza, conferendogli l’onorificenza di «gentiluomo di camera». Ebbe fortuna anche in amore, per quel poco che si sa del suo riuscito matrimonio con Claire de Grignan, damigella di corte.

Esistenze agiate

A parte la sciagura dello sventato Michel, il resto della prole non riservò speciali sorprese. Fecero buoni matrimoni le figlie Jeanne e Madeleine, con il gentiluomo Pierre Tronc de Codolet, console di Salon, e con il nobile Paul de Chaquin,


scudiero di un’aristocratica famiglia. Uno dei figli, André, abbracciò la carriera ecclesiastica, e un altro, Charles, visse di rendita. Vissero anche di rendita, restando nubili, le figlie Anna e Diana. Per esprimere degnamente il suo amore, la vedova Anna Ponsard fece porre sulla tomba di Nostradamus, nella chiesa francescana di Salon, questo epitaffio: «Qui giacciono le ossa

DA LEGGERE Indipendentemente dal significato divinatorio che ne costituisce la maggiore attrattiva, le profezie di Nostradamus hanno una valenza letteraria che anticipa e riflette certe caratteristiche della poesia ermetica, simbolista e surrealista. Furono perciò molto apprezzate dai poeti d’avanguardia e dai fautori delle moderne sperimentazioni sul linguaggio. Innumerevoli edizioni dal 1556 a oggi facilitano l’approccio con i Presagi e le Centurie (in lingua originale, con traduzione a fronte) a chi sia interessato a questo aspetto dell’opera di Nostradamus. Diversa è la questione bibliografica per chi intenda invece approfondire l’aspetto mantico di tali scritti (e sono la maggior parte) attraverso l’interpretazione degli esegeti, che sono una infinità e spesso condizionati da eccessi di esoterismo. Per una onesta escursione tra le teorie dei vari cercatori di «chiavi» è consigliabile la lettura di libri come Nostradamus, le profezie di Carlo Patrian (Roma 1978) e Nostradamus di Jean Charles de Fontbrune (Milano 1982). Degna di nota è anche l’opera del padre di quest’ultimo, Max de Fontbrune, Le profezie del Maestro M. Nostradamus spiegate e commentate (Sarlat 1938-1975), che interessò a tal punto lo scrittore Henry Miller da indurlo a scrivere una prefazione per un successivo saggio dello stesso Fontbrune, dal titolo Ciò che Nostradamus ha davvero detto (Parigi 1976). Per una conoscenza che includa le «chiavi» piú originali e curiose si tengano presenti le ricerche di Roger Frontenac (La chiave segreta di Nostradamus, Parigi 1950), la «griglia» criptografica di Jean-Charles Pichon (Nostradamius chiarito, Parigi 1970), le riflessioni «angeliche» di Pierre Guérin (Il vero segreto di Nostradamus, l’Angelo di Dio, Parigi 1971) e le deduzioni di Renucio Boscolo dalla lapide commemorativa del passaggio di Nostradamus a Torino (nell’introduzione a Centurie e Presagi di Nostradamus, Torino 1972). Per una informazione storica sul veggente e sul fenomeno della divinazione Nostradamus predisse la fine dei tempi di Donato Piantanida (Roma 1969), Le profezie di Renzo Baschera (Milano 1974) e Nostradamus oltre il 2000 dello stesso autore (Padova 1996), Le grandi profezie di Franco Cuomo (Roma 1997). Fra i titoli piú recenti, si possono ricordare: Nostradamus. Vita e misteri dell’ultimo profeta di Giuseppe Ivan lantos (Torino 2014), L’officina di Nostradamus di Paolo Cortesi (Roma 2018) e Nostradamus. Profezie senza tempo di Antonius Liverand (Firenze-Milano 2018).

dell’illustre Michael Nostradamus, il solo a giudizio di tutti i mortali degno di scrivere con una penna semidivina per influsso degli astri i futuri avvenimenti del mondo intero. Visse 62 anni, 6 mesi, 17 giorni. Morí a Salon l’anno 1566. Che i posteri non ne disturbino il riposo. La moglie Anna Ponsard gli augura la vera felicità». Non valse il monito a impedire che si disturbasse il sonno del veggente. Truppe giacobine ne profanarono la tomba durante la Rivoluzione francese, nel 1791, disperdendone le ossa sulla strada. Si dice a Salon che i violatori venissero il giorno dopo trucidati in una imboscata. Recuperati da alcuni cittadini, che avevano assistito allo scempio, i resti di Nostradamus furono ricomposti in un nuovo sepolcro, sul quale venne scolpita la lapide voluta due secoli prima da Anna. NOSTRADAMUS

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VO MEDIO E Dossier n. 35 (novembre/dicembre 2019) Registrazione al Tribunale di Milano n. 233 dell’11/04/2007

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Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

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