VIVERE DA SIGNORI NELL’ ETÀ DI MEZZO
I MATRIMONI ● LA MUSICA ● LA DANZA ● I TORNEI ● LA CACCIA ● LA FALCONERIA
N°39 Luglio/Agosto 2020 Rivista Bimestrale
NELL’ETÀ DI MEZZO
€ 7,90
IN EDICOLA L’ 11 LUGLIO 2020
NE LA B L M EL ED LA V IO ITA EV O
MEDIOEVO DOSSIER
Dossier
Timeline Publishing Srl - Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c.1, LO/MI.
EDIO VO M E
VIVERE DA
SIGNORI
VIVERE DA
SIGNORI
NELL’ETÀ DI MEZZO testi di Alessandro Arcangeli, Duccio Balestracci, Isabelle Chabot, Francesco Colotta, Paolo Galloni, Franco Piperno e Anna Laura Trombetti
PRESENTAZIONE 6. I grandi giochi della vita IL MATRIMONIO 8. Senza troppo sentimento LA MUSICA E LA DANZA 32. Il potere suona bene 56. A passo di danza LE GIOSTRE E I TORNEI 66. Nemici per gioco LA CACCIA 84. I signori della foresta LA FALCONERIA 106. Come una metafora della vita
I grandi
giochi della vita D
ietro le quinte dei grandi eventi, indagando abitudini e costumi dei nobili, scorgiamo alcuni meccanismi chiave della vita sociale e politica del Medioevo. Ne parliamo in questo Dossier, dedicato ad alcuni riti fondamentali che scandivano l’esistenza delle classi privilegiate. Dal matrimonio, paragonabile «a una vendita di cuoio e di panni, tanto c’era da mercanteggiare» – secondo alcune curiose testimonianze dell’epoca – alla musica, svago dalla connotazione gaia e conviviale, ma anche evidente simbolo di potere. Dalla danza, oggetto di culto per gran parte della società europea del tempo, bersagliata dai moralisti perché ritenuta segno di promiscuità sessuale, alle giostre, vere e proprie simulazioni di guerra che finivano per scatenare faide violentissime tra le fazioni in gioco. Dalla falconeria, infine, nobile esercizio ritenuto di rilievo propedeutico per un futuro governante, alla caccia, attività di essenza sportiva, ma anche luogo di trattative ad alto livello, finalizzate alla regolamentazione dei rapporti clientelari e di vassallaggio. La «bella vita dei signori» non era, insomma, solo dedizione sfrenata per il superfluo. Quegli stravaganti passatempi delle classi privilegiate nascondevano le regole essenziali del vivere quotidiano nel Medioevo…
6
VIVERE DA SIGNORI
Ferrara, Palazzo Schifanoia, Salone dei Mesi. Particolare della fascia inferiore degli affreschi dedicata alla celebrazione delle gesta e del buon governo del committente dell’opera, il marchese Borso d’Este, che qui appare mentre partecipa a una battuta di caccia. Le pitture sono opera del pittore emiliano Francesco del Cossa. 1468-1470.
VIVERE DA SIGNORI
7
IL MATRIMONIO
Senza troppo
sentimento Convolare a nozze poteva anche essere una questione di cuore. Piú spesso, però, e con solido pragmatismo, un’operazione attentamente architettata come trampolino di lancio per la propria ascesa sociale o come strumento di consolidamento del potere di Isabelle Chabot
8
VIVERE DA SIGNORI
I
l matrimonio cristiano nacque nel mondo romano e ne assimilò buona parte del retaggio giuridico perché non contrastava, se non su un punto, con la nuova morale. Ereditò prima di tutto il tratto distintivo del matrimonio romano, il consensualismo, ossia la volontà liberamente espressa da entrambi gli sposi. Nella società dell’antica Roma, infatti, la parola scambiata era il solo requisito per fondare la validità del matrimonio, l’atto unico che creava il vincolo coniugale. Il giurista Ulpiano precisava che «non era l’unione sessuale a fare il matrimonio, bensí il consenso». Il «matrimonio giusto», monogamo, era soltanto quello che legava una donna e un uomo liberi, ossia due «persone» riconosciute dal diritto e di condizione sociale
Monza, Duomo, cappella di Teodolinda. Nozze di Teodolinda e Agilulfo, particolare del ciclo delle Storie di Teodolinda, affrescato dagli Zavattari (famiglia di pittori milanesi attivi alla corte dei Visconti) in due fasi, tra il 1440 e il 1446. Nella pagina accanto Matrimonio romano, olio su tela di Emilio Vasarri. 1914. Collezione privata. VIVERE DA SIGNORI
9
VIVERE DA SIGNORI
Il matrimonio
non disuguale, rispettivamente di età superiore a 12 anni e 14 anni e che non fossero legati da parentela stretta. Per i Romani, infatti, l’unione di due schiavi, come pure quella tra un uomo libero e una schiava o un’attrice, non costituiva un «matrimonio», bensí un concubinato che, per quanto rispettabile, non poteva produrre gli stessi effetti giuridici.
La stretta di mano
La celebrazione del matrimonio non richiedeva forme solenni particolari, ma comportava tutta una serie di rituali e di cerimonie familiari che conferiva all’avvenimento un suo rilievo pubblico. Per esempio, la stretta di mano – la dextrarum iunctio – che gli sposi si scambiavano era il simbolo della reciprocità del consenso. Il potere dei due contraenti stava tutto nella forza della parola, ed era un potere davvero enorme. Lo stretto consensualismo romano, poi adottato dalla dottrina cristiana del matrimonio, comportava infatti un rischio altissimo di sovvertimento della patria potestà: perché, se 10
VIVERE DA SIGNORI
era sufficiente un giuramento prestato dai coniugi, acquisivano immediatamente la loro legittimità tutti i matrimoni cosiddetti clandestini, cioè contratti contro la volontà delle famiglie. C’era anche un altro aspetto insito proprio nello stretto consensualismo romano e non meno privo di conseguenze giuridiche e morali: il vincolo creato dalla reciproca volontà espressa poteva essere sciolto con un analogo atto di volontà e quindi il divorzio, che sanciva giuridicamente questa rottura, era ammesso senza alcuna riserva, almeno fino al IV secolo. In quanto cittadini dell’impero, i cristiani erano sottoposti alle sue leggi civili: ma, pur sposandosi «alla romana», depurarono subito la celebrazione del rito nuziale di tutte le sue manifestazioni pagane, conferendole connotati specificamente cristiani – come per esempio la benedizione di un sacerdote o la consegna del velo agli sposi (la velatio) –, che, tuttavia, non erano requisiti necessari alla formazione del vincolo. Inoltre, i cristiani contestarono
Sulle due pagine le Nozze Aldobrandini, pittura murale scoperta a Roma, sull’Esquilino, nel 1601. Età augustea. Città del Vaticano, Musei Vaticani. L’opera sembra raffigurare una scena nuziale di genere: al centro, una divinità (Afrodite?) consola la sposa, colta da inquietudine virginale, prima dell’arrivo del marito; accanto, una dea (Peitho?), versa essenze odorose in una conchiglia. Il dio Imeneo (o lo sposo) è sulla soglia. A destra, una scena di sacrificio e, a sinistra, forse, una scena rituale. Nella pagina accanto rilievo raffigurante un rito legato alle nozze. II sec. d.C. Pavlowsk, Palazzo Grande.
subito il divorzio, perché una loro «legge» religiosa, fondata sulle Sacre Scritture, imponeva l’assoluta indissolubilità del vincolo coniugale. Tuttavia, il rifiuto di quell’istituto era una questione di disciplina interna alla comunità e neppure gli imperatori cristiani, da Costantino a Giustiniano, riuscirono a riformare la legislazione secolare sul divorzio.
Un male minore
Se fino al V secolo il diritto canonico – fondato sui canoni della Chiesa (le leggi emanate dal l’assemblea dei vescovi o concili e le decretali pontificie) – non entrò in competizione con la legislazione secolare, progressivamente i vescovi e i Padri della Chiesa – Ambrogio, Gerolamo e, soprattutto, Agostino – formularono un insieme di regole attraverso le quali andò prendendo forma la dottrina cristiana del matrimonio. Pur affermando la netta superiorità morale del celibato e della verginità sugli altri stati, matrimoniale o vedovile, gli uomini di Chiesa asserirono che il matrimonio era un male minore, poiché poneva un freno alla concupiscenza degli uomini e garantiva la continuità della specie. La procreazione appariva, di fatto, come il primo fine dell’unione coniugale. Inoltre, siccome agli occhi di Dio tutti gli uomini erano uguali,
IL DETTATO DELLE SCRITTURE I primi cristiani elaborarono una nuova morale matrimoniale ispirandosi alle Sacre Scritture. Innanzitutto, alla Genesi (Il, 18, 22-24), che definiva il matrimonio, monogamo, come un’istituzione divina in cui si uniscono in una sola carne, un uomo e una donna. Se nell’Antico Testamento non mancavano esempi storici di patriarchi poligami e di spose sterili ripudiate, la monogamia era all’epoca di Cristo una pratica consolidata. Rispetto ai testi antichi, il Nuovo Testamento innovava su un punto essenziale: l’indissolubilità del vincolo. Il divorzio e il ripudio, largamente ammessi nei diritti antichi, erano proibiti; solo la morte dei coniugi poteva sciogliere il matrimonio cristiano. Affermata nei Vangeli, questa legge venne ribadita con forza nelle Epistole paoline. E ancora a san Paolo (nell’Epistola agli Efesi 01, 32) si deve un secondo apporto fondamentale: la definizione del matrimonio come sacramento. Su queste tre fonti, lungo tutto il Medioevo, si edificò il diritto canonico del matrimonio.
VIVERE DA SIGNORI
11
VIVERE DA SIGNORI
12
VIVERE DA SIGNORI
Il matrimonio
BALDOVINO, IL PRINCIPE RAPITORE Chi voleva una donna poteva anche prenderla senza troppe cerimonie. Certo, occorreva un bel po’ di coraggio, ma, a quanto pare, nell’Alto Medioevo c’erano cavalieri che non si fermavano davanti a nulla, nonostante alcune legislazioni germaniche punissero severamente chi avesse strappato un’onesta fanciulla al suo telaio domestico o addirittura scompigliato un corteo nuziale per rapire una sposa novella al suo rivale! Il ratto era una delle espressioni rituali dello scontro tra giovani e anziani, un modo per ottenere la mano dell’amata forzando l’autorità paterna, ma anche un’abile strategia di scalata sociale. Il pagamento del Mundium al padre della fanciulla permetteva, infatti, non solo di riparare l’offesa, ma di trasformare il ratto in un matrimonio legale. Nell’862, quando Baldovino di Fiandra rapí la figlia di Carlo il Calvo, Giuditta, l’imperatore – che non era disposto a farsi forzare la mano in questo modo – fece scomunicare l’audace principe e la sua complice; ma dovette presto arrendersi: l’anno dopo, la coppia che godeva dell’appoggio del potente arcivescovo di Reims, Incmaro, ottenne il riconoscimento imperiale. La fortuna di Baldovino era fatta, e con la sua quella dell’intero casato di Fiandra.
Monza, Duomo, cappella di Teodolinda. Un altro particolare delle Storie di Teodolinda raffigurante il banchetto di nozze. 1440-1446.
chiunque, libero o non, poteva sposarsi cristianamente una volta raggiunta l’età legale di 12 e 14 anni, come nel diritto romano. Per quanto riguardava i divieti di matrimonio tra parenti, il diritto canonico si dimostrò invece piú restrittivo e tentò presto di costringere i fedeli a scegliere il proprio coniuge al di fuori di un’ampia cerchia familiare. Il matrimonio, esclusivamente monogamo, doveva distinguere le unioni lecite da quelle illecite, peraltro assai diffuse, come il concubinato. Da questa prima distinzione ne derivava un’altra fondamentale: i figli nati da una coppia sposata erano i legittimi eredi del nome, dell’onore, del passato della famiglia e, soprattutto, del suo patrimonio. Alla base delle relazioni di parentela, il matrimonio, che comportava trasferimenti incrociati di beni, consentiva infatti di regolarne poi la trasmissione all’interno del nucleo familiare e tra le generazioni. Era perciò essenziale dare la massima pubblicità alla celebrazione dell’unione.
Un vincolo difficile da sciogliere
C’erano anche altri motivi per lottare contro la clandestinità. La pubblicità dell’unione legale avrebbe, infatti, reso plateali eventuali casi di bigamia o di adulterio e, infine, il vincolo matrimoniale cosí proclamato non avrebbe potuto essere sciolto impunemente. La Chiesa ammetteva che si potesse ripudiare una moglie adultera – solo il tradimento della donna era colpevole, poiché inficiava la legittimità della prole –, ma ciò non scioglieva il vincolo e quindi non autorizzava i coniugi separati a risposarsi. VIVERE DA SIGNORI
13
VIVERE DA SIGNORI
Il matrimonio
A destra miniatura raffigurante una scena di matrimonio, da una copia manoscritta francese del Decretum Gratiani. XIII sec. Laon, Bibliothèque municipale. Nella pagina accanto miniatura raffigurante il matrimonio fa un re e una regina, dal Salterio di Stoccarda. Prima metà del IX sec. Stoccarda, Württembergische Landesbibliothek.
Con l’azione decisiva dei suoi vescovi, la Chiesa di Roma cominciò a diffondere la propria concezione sacramentale del matrimonio monogamo e indissolubile, a precisarne sempre piú le regole e le forme, fino a imporre il monopolio della sua legislazione in materia; ma, prima, dovette scontrarsi con un altro modello di matrimonio, quello degli invasori germanici.
Alla maniera germanica
Le popolazioni germaniche che invasero l’impero adottavano diversi tipi di unione – la Muntehe, la Friedelehe, il concubinato e il ratto. Delle pratiche piú arcaiche, cioè precedenti il contatto con il mondo romano, sappiamo ben poco. Al di fuori delle testimonianze, di delicata interpretazione, presenti nella Germania di Tacito (fine del I secolo d.C.), nessuna fonte scritta ci 14
VIVERE DA SIGNORI
descrive le usanze matrimoniali germaniche prima della seconda metà del V secolo, quando furono redatte, in latino, le prime leggi. Il matrimonio legale, o Muntehe, era l’unico a produrre effetti giuridici quali la legittimità della prole e quindi la designazione degli eredi, ma, a differenza del matrimonio romano, era tutt’altro che fondato sul consenso dei contraenti. La decisione spettava esclusivamente alle famiglie, in particolare al padre, che concedeva solennemente la figlia al marito designato. Se, in alcuni casi, gli uomini potevano anche emanciparsi dal potere paterno, le donne vi erano invece totalmente assoggettate. Le vite di santi dell’VIII e IX secolo offrono vivide testimonianze di ragazze sposate contro la loro volontà. Cosí, l’unico modo – illegale e quindi punibile dalla legge – per aggirare l’au-
torità paterna consisteva nel farsi rapire da un ardito e valoroso giovane, che avrebbe poi cercato di legittimare la sua unione. A differenza del matrimonio romano, che si risolveva in un’unica fase – lo scambio dei consensi –, quello germanico procedeva per tappe ben individuate e scaglionate nel tempo. Al termine delle trattative preliminari, l’accordo delle famiglie veniva reso pubblico in occasione della desponsatio, ossia la promessa, estremamente vincolante, di futuro matrimonio (il «fidanzamento», se si vuole, ma il termine è troppo moderno per essere usato senza virgolette). Il promesso sposo avrebbe ricevuto dal padre (o da un altro parente prossimo) il Mundium della futura sposa contro la somma di denaro pattuita. Il Mundium era il potere, simboleggiato dalla mano, che il capofamiglia esercitava sugli inermi – donne, bambini e schiavi – che vivevano sotto la sua protezione.
Il prezzo nuziale
Il prezzo nuziale – pretium nuptiale franco, wittimon burgundo o meta longobarda – veniva pagato pubblicamente dal marito in occasione della traditio, cioè del trasferimento della ragazza dalla dimora paterna alla sua nuova casa: con quel gesto si sigillavano l’accordo raggiunto, la creazione del legame e il trasferimento del Mundium. Attenzione a non fraintendere, però: gli antichi Germani non «compravano» una moglie come fosse un capo di bestiame o una schiava, compravano il potere sulla donna, il diritto di esercitare la loro protezione su di lei, senza per questo annullare le sue capacità giuridiche. Vero è che, antica-
MA DI MOGLIE NON CE N’ERA UNA SOLA... Per gli uomini dell’Alto Medioevo era del tutto naturale avere piú mogli, contemporaneamente o in successione. Nell’aristocrazia, ogni sposa disponeva della propria dimora su uno dei possedimenti del marito e l’estrema dispersione geografica dei patrimoni impediva alle «rivali» di incontrarsi. Al palazzo, invece, accadeva spesso che la moglie dovesse subire la convivenza con donne di rango inferiore, serve o schiave, diventate concubine del signore. La poligamia dei potenti rispondeva all’esigenza di moltiplicare i legami sociali per consolidare le parentele e le alleanze politiche, ma serviva anche a contenere l’attività sessuale dei figli di famiglia entro i limiti di una certa morale. In una società in cui gli uomini ritardavano fino all’età di trenta o quarant’anni il loro matrimonio legale, esistevano quindi unioni provvisorie, piú o meno onorevoli e durature: la Friedelfrau era, per cosí dire, una «sposa di gioventú» che, al momento opportuno, sarebbe stata sostituita dalla moglie ufficiale. Talvolta, però, il meccanismo si inceppava. Anni e anni di vita insieme, la nascita di figli creavano tra questi coniugi «a tempo» legami capaci di resistere al passare delle stagioni e alle logiche politiche o dinastiche. Cosí, alla metà del IX secolo, dopo pochi anni di un matrimonio infelice con Teutberga, il re franco Lotario II pretese non solo di divorziare per tornare a vivere con la sua amata Waldrada – la Friedelfrau con la quale in precedenza aveva fondato una famiglia –, ma addirittura di legittimare la loro unione. Il caso, che per alcuni anni suscitò un comprensibile allarme nelle piú alte sfere della Chiesa, fu risolto provvidenzialmente con la morte di Lotario, nell’869, senza che il suo matrimonio con Waldrada fosse stato riconosciuto valido.
A differenza del matrimonio romano, il Muntehe germanico non era fondato sul consenso dei contraenti VIVERE DA SIGNORI
15
VIVERE DA SIGNORI
Il matrimonio
mente, la transazione avveniva tra genero e suocero, ma già la legge dei Burgundi, redatta nel VI secolo, prevedeva che una parte del wittimon versato dal marito ritornasse poi alla sposa sotto forma di abiti e gioielli e, un secolo piú tardi, anche i padri longobardi restituivano alla figlia sposata la meta ricevuta dal genero. Intorno al VI-VII secolo, questo «prezzo della sposa» – o brideprice, secondo la terminologia antropologica – pagato al padre si era quindi trasformato in una «ricchezza della sposa» – o bridewealth –, cioè in una donazione versata direttamente alla moglie. La legislazione longobarda, per esempio, registrò questo cambiamento di notevole rilevanza, poiché riconosceva una maggiore centralità della coppia coniugale, tra l’editto di Rotari (metà del VII secolo) e la legislazione del re Liutprando, di un secolo successiva. Nell’VIII secolo, in particolare presso i Franchi, il prezzo nuziale rivestiva ormai un valore puramente simbolico e sarebbe stato presto sostituito da una donazione molto piú consistente – il dotalicium o dovario –, concessa direttamente dallo sposo alla consorte con un atto scritto stipulato dopo la desponsatio, ma che aveva effetto soltanto dopo l’avvenuta consumazione del matrimonio. Fino a quel momento, infatti, il matrimonio germanico non era valido. L’importanza decisiva dell’unione sessuale per la creazione del vincolo era sottolineata da un altro donativo maritale, il «dono del mattino» (o Morgenga16
VIVERE DA SIGNORI
be), menzionato in tutti i documenti germanici piú antichi: Morganegypa presso i Franchi, Morginegiva dei Burgundi, o Morgingab longobarda. Si trattava di una donazione di beni mobili – denaro, pezzi di oreficeria, oggetti domestici, capi di bestiame – fatta verbalmente e in forma privata, all’indomani della notte di nozze, per ringraziare la sposa novella del dono della sua verginità, pegno della sua purezza e della legittimità della prole a venire. Con la consegna delle chiavi di casa, lo sposo sanciva poi la costituzione dell’unione domestica e assegnava alla giovane moglie il compito di padrona della casa.
Il marito fa ricca la moglie
A partire dall’VIII secolo, il dotalicium, che comprendeva soprattutto beni fondiari, ma anche beni mobili, finí per assorbire le funzioni della Morgengabe e quindi per sostituirsi al piú arcaico «dono del mattino» come elemento costitutivo del matrimonio legittimo. In questo modo, la sposa diventava proprietaria di una parte consistente del patrimonio del marito all’indomani delle nozze; la sua quota, variabile secondo le leggi, era espressa nel nome stesso del donativo maritale: la tertia franca o la quarta longobarda. Cosí, anche se, lasciando la casa paterna, la donna portava spesso con sé una sorta di dote – il faderfio longobardo, per esempio – era comunque dal marito che avrebbe ricevuto la maggior parte della sua «ricchezza» e
del suo potere patrimoniale nel corso del matrimonio e poi della vedovanza. Presso le popolazioni germaniche, si poteva sposare una sola donna con il Mundium. Esisteva però anche un’altra forma di unione, la Friedelehe, a lungo riconosciuta come del tutto legittima nell’aristocrazia franca o longobarda. Sposa di second’ordine, ma pur sempre onorevole, la Friedelfrau era una giovane di rango libero, spesso proveniente da un’ottima famiglia, che veniva scelta e designata ufficialmente. Tuttavia, per lei lo «sposo» non pagava il «prezzo nuziale» (né, piú tardi, avrebbe costituito il dotalicium che lo sostituí), proprio perché, a differenza di quanto accadeva nel matrimonio legale, non vi era alcun trasferimento di Mundium. La celebrazione di questo tipo di matrimonio, sicuramente piú consensuale, si svolgeva quindi in una sola sequenza incentrata sull’unione carnale: la Friedelfrau – o sposa di pace – veniva condotta pubblicamente in casa del marito, introdotta nel talamo nuziale e, l’indomani mattina, anche lei riceveva la Morgengabe, quel «dono» che faceva di lei una vera sposa, una uxor, distinguendola nettamente da una semplice concubina. I figli che nascevano da questo tipo di unione non godevano tuttavia dei pieni diritti, in particolare successori, riservati esclusivamente alla prole data dalla moglie legittima. Fin dall’inizio dell’VIII secolo, la Chiesa di Roma aveva intrapreso una strenua lotta per im-
porre la sua concezione di matrimonio monogamo e soprattutto indissolubile. Sul primo fronte, della monogamia, i vescovi carolingi ottennero presto alcuni risultati. Il concilio romano dell’826 vietò ai laici di essere legati contemporaneamente a due uxores. Il riconoscimento della Muntehe come unico vincolo coniugale legittimo perché il piú somigliante al matrimonio romano-cristiano portò a un progressivo deterioramento dello status della Friedelfrau, che, già all’inizio del IX secolo, non era piú considerata come una moglie rispettabile, ma come una concubina ripudiabile.
La tolleranza dei chierici
I laici dovettero quindi adattarsi ad avere una sola donna alla volta: una sposa di gioventú, una o piú mogli legali in successione – le seconde nozze erano frequenti – ed eventualmente qualche concubina per alleviare la solitudine dell’ultima vedovanza; e, non senza pragmatismo, i chierici chiusero un occhio su questo sistema di «poliginia successiva», tutto sommato meno amorale della poligamia vera e propria. Per fare ammettere l’indissolubilità del matrimonio, invece, la Chiesa incontrò, per secoli, notevoli resistenze. Nell’antica Roma, il vincolo matrimoniale, stretto con il solo consenso liberamente espresso dai due coniugi, poteva essere sciolto quando veniva a mancare proprio questa libera volontà di stare insieme. Il diritto romano ammet-
Il dipinto convenzionalmente noto come Cassone Adimari, tempera su tavola di Giovanni di ser Giovanni, detto lo Scheggia. 1450 circa. Firenze, Galleria dell’Accademia. È stato ipotizzato che, per via della sua lunghezza (303 cm) non si tratti di un vero e proprio frontale di cassone, ma dello schienale di un forziere che oggi si ritiene in genere eseguito per le nozze Adimari-Ricasoli, celebrate nel 1420. Lo scarto temporale fra il matrimonio e la realizzazione della tavola dipenderebbe dal fatto che non sempre l’esecuzione di tali oggetti era contemporanea alle nozze, oppure che fosse stato realizzato per lo sposalizio Adimari-Martelli, avvenuto piú tardi.
VIVERE DA SIGNORI
17
VIVERE DA SIGNORI
Il matrimonio
teva quindi senza riserva il divorzio. Per i cristiani, invece, la parola scambiata doveva essere irrevocabile – «Ciò che Dio ha unito, l’uomo non deve separarlo», diceva il Vangelo (Matteo, XIX, 6) – e, di conseguenza, la Chiesa vietava ai suoi fedeli di divorziare, addirittura, nelle epoche piú rigoriste, c’era anche una dichiarata ostilità nei confronti delle seconde nozze dei vedovi. Presso le popolazioni germaniche, quando un marito tradito non uccideva la moglie adultera, poteva sempre ripudiarla. Ma è anche vero che, in situazioni piú pacifiche, la poligamia, largamente praticata dai potenti, costituiva un’alternativa tutto sommato vantaggiosa al divorzio: separarsi ufficialmente comportava, infatti, rilevanti implicazioni, sociali nonché economiche, se non altro perché la moglie abbandonata aveva il diritto di trattenere il dotalicium ricevuto al momento del matrimonio.
In guerra con i potenti
Con la promozione, in età carolingia, del matrimonio monogamo, non fu piú cosí semplice sostituire una moglie che non piaceva piú o che non serviva piú. Sul terreno dell’indissolubilità del legame che considerava sacro, la Chiesa dichiarò un’interminabile guerra ai potenti, brandendo spesso l’arma della scomunica per imporre comportamenti matrimoniali piú consoni alla morale cristiana. Alla fine dell’XI secolo, il re di Francia Filippo I (1060-1108), accusato di adulterio, bigamia e incesto fu, appunto, messo al bando dalla comunità cristiana per ben tre volte e vi fu riammesso soltanto dopo aver giurato di vivere secondo la morale matrimoniale imposta dalla Chiesa. Nel IX secolo, le nuove restrizioni imposte alla libertà dei mariti costarono la vita a molte mogli indesiderabili che, non potendo piú essere restituite alla famiglia di origine, venivano semplicemente eliminate; cosí, la diffusione di questi «divorzi alla carolingia» costituí ben presto un’ulteriore fonte di preoccupazione per i chierici intenti a disciplinare una società ancora molto violenta... Esisteva però un altro modo, indubbiamente meno cruento, di sbarazzarsi di una moglie divenuta ingombrante: bastava dedicarsi con un po’ d’impegno alla propria genealogia per scovare l’esistenza di un legame di parentela troppo stretto per essere considerato lecito; se le ricerche si 18
VIVERE DA SIGNORI
L’ONORE È SALVO Il dispensatore di dote a fanciulle povere è, per antonomasia, san Nicola di Bari. Le tre piccole sfere che, nella sua iconografia, il santo tiene in mano rimandano, infatti, a un episodio della sua Vita narrato nella Legenda aurea di Iacopo da Varagine. Avendo avuto notizia che un nobiluomo impoverito si accingeva a prostituire le figlie, Nicola si avvicinò di notte alla loro casa e vi lanciò del denaro da una finestra rimasta aperta; un dono, appunto, che i pittori raffigurano con tre palle dorate. Con la segretezza del suo gesto caritatevole, il santo salvava l’onore sociale di un cosiddetto «povero vergognoso», mentre con la dotazione, che apriva la strada al matrimonio, salvava l’onore sessuale delle tre fanciulle. Una miniatura del tardo Quattrocento illustra con efficacia immediata la funzione della dotazione di carità: le doti lanciate dal santo – due bei dischi dorati – finiscono la loro corsa sul basso ventre di due delle tre sorelle addormentate, come a sigillarne la «vergogna»! La carità dotale esercitata dalle confraternite e alimentata dalla crescente generosità dei testatori si sviluppò notevolmente dopo la peste del 1348. Nel tardo Quattrocento nacquero sodalizi, come la confraternita romana dell’Annunziata, esclusivamente specializzate nell’assistenza alle povere fanciulle destinate a uno straordinario sviluppo durante tutta l’età moderna.
A sinistra Viterbo, S. Maria della Salute. Particolare della decorazione a rilievo del portale della chiesa raffigurante il sacramento del matrimonio. 1320 circa. Nella pagina accanto La carità di San Nicola di Bari, scomparto di trittico, tempera su tavola di Ambrogio Lorenzetti. 1330-1340. Parigi, Museo del Louvre.
VIVERE DA SIGNORI
19
VIVERE DA SIGNORI
20
VIVERE DA SIGNORI
Il matrimonio
LA DOTE: UN AFFARE DI STATO Come risollevare le sorti di una città spopolata e sull’orlo della bancarotta? Semplice: inventando l’assicurazione sulla dote. L’idea venne ai Fiorentini, nella primavera del 1425: la guerra contro Milano aveva fatto precipitare la crisi finanziaria del Comune – il debito pubblico ammontava a 2 milioni di fiorini – e da piú di vent’anni una funesta serie di epidemie di peste impediva qualsiasi ripresa demografica. In questo contesto nasceva il Monte delle Doti, primo esempio di pianificazione statale del matrimonio. Il principio era semplice: ai padri di famiglia ansiosi di racimolare in tempo una dote per le figlie, il Comune offriva la possibilità di investire una somma di denaro che, dopo 7 anni e mezzo (con un interesse del 12,99%) o 15 anni (11,3%), avrebbe fruttato una dote adeguata. Attirando gli investimenti privati, i governanti speravano di risollevare le finanze pubbliche stimolando al tempo stesso il mercato matrimoniale. Inizialmente le loro speranze furono ampiamente deluse; c’era invero, un errore di valutazione: in caso di decesso della bambina intestataria del deposito, il capitale investito veniva perso, ovviamente, con i tempi che correvano, ben pochi padri erano disposti a correre un tale rischio. Tuttavia, nell’aprile 1433, quando il governo abolí questa clausola, nel giro di due mesi vennero registrati ben 879 depositi. L’ultimo conto fu aperto nel febbraio del 1573. In 153 anni, 24 437 ragazze e 380 ragazzi furono iscritti sui registri del Monte. Una manna per lo storico. Con l’aiuto di mezzi informatici, due studiosi americani a capo di un’équipe italiana hanno potuto indagare le strategie dei padri di famiglia e il destino delle loro figli nella Firenze rinascimentale.
Nella pagina accanto affresco di Domenico di Bartolo raffigurante la vita nell’ospedale senese di S. Maria della Scala per i bambini abbandonati che qui venivano accolti. 1441-1442. Siena, S. Maria della Scala, Pellegrinaio. Dopo essere stati allevati nei primi anni di vita dalle balie, bambini e bambine ricevevano anche un’istruzione. La crescita di una delle figlie dell’ospedale raggiungeva il suo compimento con il matrimonio, rappresentato sulla destra, celebrato alla presenza del rettore. La dote era spesso costituita da stoffe e arredi realizzati dalle stesse ragazze.
rivelavano fruttuose, non restava che chiedere al proprio vescovo l’immediato scioglimento del vincolo matrimoniale incestuoso. Era stata proprio la Chiesa, vietando le nozze tra parenti, a consegnare ai laici lo strumento per «annullare» – ufficialmente non si trattava di un divorzio – un matrimonio divenuto inopportuno.
Affinità e parentela
Gli antropologi ci hanno insegnato che la «proibizione dell’incesto» è una legge universale rispettata da tutte le società. L’esogamia – cioè il fatto di contrarre alleanze matrimoniali al di fuori del gruppo familiare – consente infatti di aprirsi all’esterno e di evitare cosí l’isolamento. Ma sappiamo anche che ogni società stabilisce con i propri criteri la distinzione tra parenti «proibiti» e parenti tra cui è ammessa l’unione matrimoniale: per tracciare il confine oltre il quale il matrimonio diventa lecito, basta saper contare; ma c’è modo e modo di farlo. Oggi siamo abituati a esprimere i legami di parentela in gradi, un uso ereditato dal diritto romano che computava cosí la parentela tra individui discendenti da un antenato comune (i gradi di «consanguineità») e quella creata da un vincolo matrimoniale (i gradi di «affinità»).
Per stabilire il grado di parentela tra due individui, Ego e Alter, il sistema romano imponeva, partendo da E, di risalire al primo antenato comune per poi scendere ad A, contando ogni salto di generazione ascendente e discendente: i fratelli erano parenti di secondo grado e i loro figli – che oggi chiamiamo comunemente «cugini di primo grado» – erano imparentati al quarto grado. Se il sistema romano evoca una scala a doppia rampa, i popoli germanici – in particolare i Franchi e gli Anglosassoni – ricorrevano alla metafora del corpo umano e delle sue «articolazioni» – in latino genicola, ossia ginocchia – per stabilire le relazioni di parentela. Il modo di computo germanico partiva dall’individuo situato alla generazione piú in basso e contava soltanto le generazioni ascendenti che separa vano Ego e Alter dal loro antenato comune: dovendo risalire soltanto al padre, i fratelli erano parenti di primo grado, i cugini che risalivano fino al nonno erano imparentati al secondo grado e via di seguito. Dopo molte esitazioni, il diritto canonico finí per adottare il computo germanico per stabilire gli impedimenti di matrimonio per causa di parentela: parentela di sangue, di affinità ma anche parentela spirituale, cioè il legame che ogni cristiano stabiliva con i suoi padrini e madrine di battesimo. Estendendo la definizione dell’incesto fino al settimo grado di parentela come lo intendevano i Germani, i concili carolingi finirono per delimitare un’area vastissima in cui i matrimoni erano illeciti e quindi privi di validità. Se applicata alla lettera – ma non sempre fu il caso – questa disciplina avrebbe obbligato i laici a praticare un’esogamia incompatibile con un’organizzazione della parentela in cui i matrimoni tra cugini piú o meno prossimi – dal terzo al quinto grado – erano frequenti, perché servivano, a distanza di una o due generazioni, a rinsaldare le solidarietà familiari. Davanti alla strenua resistenza dei laici e alla frequenza delle infrazioni, i vescovi dovettero dare prova di un certo pragmatismo; la Chiesa, invece, non rivide la sua concezione dell’incesto prima del concilio Laterano IV che, nel 1215, ridusse al quarto grado di parentela gli impedimenti matrimoniali.
Una conquista recente
Il matrimonio davvero consensuale, espressione di una libera scelta corrispondente a intime inclinazioni personali, è una conquista molto recente. Per secoli, la ragione – di famiglia o di Stato – e non certo la passione dei cuori ha VIVERE DA SIGNORI
21
VIVERE DA SIGNORI
Il matrimonio
presieduto alla costituzione delle «alleanze» matrimoniali; il termine stesso ci rimanda all’ambito della politica, della diplomazia se non addirittura della guerra ed evoca complesse «strategie», che poco hanno a che vedere con la sfera degli affetti. Ma, per dirla con Rousseau, se non si poteva trovare l’amore nel matrimonio, doveva pur essere da qualche altra parte: nelle avventure adulterine, ovviamente, ma anche in forme di convivenze di tipo matrimoniale svincolate dalle ferree logiche familiari che, nonostante i secolari sforzi della Chiesa, non erano poi cosí rare. La biografia di un mercante fiorentino ci aiuterà a svelare gli arcani di questo «doppio gioco» coniugale ancora nel tardo Trecento. Originario del Mugello, Paliano Falcucci era un «uomo nuovo» in città, un self made man che non poteva certo competere con l’antichità dei piú illustri casati cittadini; ma con il loro spirito d’impresa, sí. Avendo intuito le enormi potenzialità di un settore emergente com’era allora l’industria della seta, negli anni Ottanta del Trecento il giovane mercante si arricchí velocemente, trafficando broc-
22
VIVERE DA SIGNORI
cati e altre stoffe preziose tra la Toscana e l’Umbria. A trattenerlo a Perugia, però, non erano soltanto gli affari ma anche una giovane vedova, di nome Marcuccia. Con lei fondò subito una famiglia, in cui, tra il 1382 e il 1387, nacquero ben tre figli. L’affetto reciproco e fedele, il letto condiviso, la prole, il probabile consenso della comunità: la loro era una solida relazione, vissuta alla luce del sole, alla quale mancava solo il titolo di matrimonio. A porre un termine a questa unione decennale non fu la morte di lei, avvenuta nel settembre 1390, bensí le nozze di lui, celebrate un mese prima con una ricca fanciulla di Firenze. Superata la trentina, Paliano coronava cosí la sua rapida ascesa economica, facendo il suo ingresso nella buona società fiorentina dalla porta principale. La dote di oltre mille fiorini portata da Margherita Scodellai tradiva non solo il suo rango sociale, ma anche quello raggiunto dall’uomo al quale era stata data in sposa. Marcuccia, invece, era una popolana, sicuramente sprovvista di quel prezioso «capitale sociale» che, oltre a una bella dote, un nouveau riche come Paliano doveva acquisire tra-
Nella pagina accanto il matrimonio in una delle formelle del campanile di Giotto, a Firenze. 1337-1341. Firenze, Museo dell’Opera del Duomo. Lo sposo infila l’anello al dito della sposa e dietro la coppia stanno il sacerdote, al centro, e altri quattro personaggi, che sono i testimoni e i parenti.
mite l’alleanza matrimoniale. Marcuccia, donna amata e «sposa di gioventú» non poteva diventare moglie. Ma, separandosi da quella che, infatti, chiamava «la madre dei miei figlioli» per convolare a piú legittime e sfavillanti nozze, Paliano aveva fatto la singolare promessa di «dotarla», cioè di reinserirla nel mercato matrimoniale, dandole i mezzi per accasarsi onorevolmente anche lei. Marcuccia non fece in tempo a risposarsi, ma, nella lettera che gli spedí prima di morire, pregò Paliano di contribuire alla salvezza dell’anima sua, devolvendo la somma promessa alla sua figlioccia e a un’altra fanciulla di sua conoscenza «per aiuto a maritarle». Dopo nove anni di un matrimonio sterile, Paliano rimase vedovo nel 1399, ma, nel giro di poco piú di un anno, si risposò e i 500 fiorini di dote che ricevette dall’illustre famiglia dei Pazzi ne confermarono l’inarrestabile scalata sociale. La conclusione di un buon «parentado» – cosí i Toscani chiamavano l’alleanza matrimoniale – prevedeva, infatti, un processo lungo e complesso, che coinvolgeva tutta una serie di attori sociali: parenti stretti, amici di famiglia e vicini di casa, ma anche «professionisti» come i sensali. Infatti, combinare i matrimoni era
STRUMENTI DI ORDINE PUBBLICO
Nella pagina accanto cofanetto nuziale in osso scolpito e inciso, su legno e avorio, realizzato dalla bottega degli Embriachi. Metà del XIV-inizi del XV sec. Venezia, Museo Correr.
Nella primavera del 1312, il matrimonio tra Filippa di Giotto Peruzzi e Carlo di messer Guerra Adimari coronò il lungo e faticoso accordo di pace destinato a sanare un’antica inimicizia tra le due potenti famiglie fiorentine. Gli esponenti di tutti i rami del lignaggio della sposa che avrebbero beneficiato di quell’atto di pacificazione contribuirono al pagamento della ingente dote di 1800 fiorini. Vent’anni prima, nel 1290, era stato il Comune di Firenze, sborsando ben 1400 lire di dote, ad accollarsi il costo di due matrimoni, approvati addirittura dai consigli cittadini, per riconciliare i Della Tosa e i Lamberti. In effetti, le cronache cittadine e gli atti ufficiali dell’età comunale raccontano di queste sanguinose guerre private tra famiglie – e delle loro precarie tregue – che, quasi sempre, finivano per assumere una chiara dimensione pubblica. In questo contesto, anche il matrimonio poteva diventare uno strumento di ordine pubblico. Giovanni Villani racconta come, nel 1280, il cardinale Latino, inviato dal papa per porre fine alla guerra civile che da decenni lacerava Firenze, fu l’artefice di una vasta impresa di riconciliazione collettiva «facendo piú parentadi insieme». Ancora nel 1369, a Volterra, una speciale commissione fu incaricata di «contrarre e fare contrarre matrimoni tra cittadini volterrani allo scopo di pacificare e ripristinare la concordia e l’amore» in una città stremata dalla lotta tra fazioni. Matrimoni pacificatori, quindi, che, alla stregua delle guerre che li precedevano, erano il perseguimento della diplomazia comunale con altri mezzi.
VIVERE DA SIGNORI
23
VIVERE DA SIGNORI
Il matrimonio
un’arte difficile, che poteva diventare un mestiere legalmente riconosciuto e remunerato, e le famiglie ricorrevano di frequente ai servizi di questi intermediari, che tenevano sotto controllo la «merce» disponibile sul «mercato» matrimoniale. Per quanto brutale possa sembrare, sposarsi era un «affare» che, agli occhi degli uomini del tempo, era – per citare uno di loro – del tutto simile «a una vendita di cuoio e di panni, tanto c’era da mercanteggiare». Per agevolare i primi contatti informali e poi trovare un compromesso nell’ambito della contrattazione, interveniva un’altra figura di mediatore, il mezzano che, piú vicino alle due famiglie, poteva offrire, gratuitamente, i suoi servizi. Ma quali erano, appunto, i criteri di scelta e i termini delle trattative? «Chi prende moglie vuol danari», affermava senza giri di parole una celebre matrona fiorentina del Quattrocento! Di fatto, il valore di una possibile futura sposa si misurava innanzi tutto col metro della dote, delle monete sonanti che il padre era disposto a sborsare. Perché, ormai da oltre due secoli, a sopportare il costo, peraltro sempre crescente, del matrimonio era soprattutto la famiglia della donna. Questo rovesciamento del sistema delle prestazioni matrimoniali rispetto al periodo altomedievale era il risultato di un lungo, ma radicale processo di trasformazione delle strutture del potere e della società iniziato già prima del Mille e al quale l’organizzazione della parentela dovette presto adeguarsi. Con l’indebolimento del potere regio che segnò poi la fine dell’impero carolingio, l’aristocrazia aveva progressivamente ottenuto la trasmissione ereditaria delle cariche pubbliche, rafforzando cosí il suo controllo sul territorio e sui poteri locali. Per conservare nell’ambito della famiglia il potere – e la terra dal quale derivava –, era necessario trasmetterlo di padre in figlio; e, per garantire al meglio i diritti dei figli maschi sul patrimonio paterno, era indispensabile contenere quelli che la loro madre aveva acquisito sposandosi, e quelli, futuri, delle sorelle. Già alla fine del X secolo, le mogli franche o burgunde non godevano piú della piena proprietà sul loro dovario, ma soltanto dell’usufrutto. A questo cambiamento giuridico si aggiunse una lenta, ma inesorabile, erosione del valore dei donativi maritali (fortemente limitati per legge negli statuti comunali già dalla metà del XII secolo) e la ricomparsa dell’istituto dotale, drasticamente modificato rispetto al diritto romano, che consentí di liquidare i diritti successori delle figlie con la sola quota data al mo24
VIVERE DA SIGNORI
mento delle nozze. Nel Basso Medioevo, quando il nuovo sistema dotale era ormai consolidato, i mariti facevano alla moglie una donazione per le nozze che diventava effettiva solo in caso di vedovanza e a certe condizioni (generalmente in assenza di figli), mentre ricevevano una cospicua somma di denaro da parte del suocero. La definizione dell’ammontare della dote risultava da una sottile alchimia di valori materiali e simbolici di cui ogni buon padre di famiglia conosceva intuitivamente la formula giusta. La sua posizione economica, l’antichità e il prestigio della famiglia, la fede politica e l’attiva partecipazione dei suoi uomini agli affari dello Stato erano tutte componenti di un capitale sociale e simbolico che, idealmente, la dote della figlia doveva rispecchiare, senza però intaccare troppo la futura eredità dei maschi.
Ragazze «in serbanza»
Per un uomo alla ricerca di una famiglia con la quale allearsi, questo capitale contava quanto la prospettiva di incamerare un bel po’ di denaro. In una città come Firenze, per esempio, con il matrimonio era essenziale acquisire dei parenti «guelfi» e «onorati dal Comune» per entrare a far parte di una rete di relazioni politicamente utile. Una volta accertate le qualità della famiglia, occorreva concentrare l’indagine sulle doti personali dell’eventuale sposa: il suo aspetto fisico, la buona educazione, la reputazione e, in particolare, la sua fresca età, pegno di una virtú ancora intatta. Non era sempre un’impresa facile. Appena entravano nell’adolescenza, «l’età del pericolo», le figlie venivano segregate in casa o addirittura, se la famiglia poteva permetterselo, tenute «in serbanza» in un monastero femminile, dal quale sarebbero uscite solo per entrare nella casa del marito scelto per loro. Per riuscire a intravvedere una di queste ragazze cosí ben custodita e descriverne le fattezze al figlio che doveva scegliersi una moglie a distanza (era in esilio a Napoli), Alessandra Macinghi Strozzi dovette appostarsi all’alba in una chiesa fiorentina dove ogni mattina la giovane si recava, accompagnata dalla madre, per assistere alla prima Messa. La reclusione domestica o monacale contribuiva di certo a proteggere la «buona fama» che, per le ragazze in attesa di marito, rappresentava un bene tanto prezioso quanto pericolosamente esposto alla minima maldicenza. Da qui, l’urgenza delle famiglie di consegnare il prima possibile la responsabilità del loro onore a un marito o a una madre badessa che spingesse le ragazze sulla via del matrimonio o del convento tra i 15 e i 18 anni.
San Gimignano, Palazzo Comunale. Camera del Podestà. Affresco di Memmo di Filippuccio raffigurante gli esiti positivi dell’iniziazione amorosa di un giovane, facente parte di un ciclo che presenta scene d’amore, oltre a una serie di exempla morali rivolti al Podestà, che non doveva cedere alla corruzione. Inizi del XV sec.
Soprattutto sul mercato matrimoniale, la «data di scadenza» della merce femminile era talmente tassativa da indurre addirittura molti padri ansiosi di guadagnare un po’ di tempo a falsificare per difetto l’età delle figlie da marito nei documenti ufficiali! L’anagrafe non esisteva ancora e, di certo, un anno o due in piú non lasciavano segni vistosi d’invecchiamento sul volto di queste adolescenti; ma, a distanza di secoli, uno storico che volesse riscontrare la data di nascita delle Fiorentine intestatarie di un conto sul Monte delle Doti con l’età dichiarata nelle denunce fiscali dei loro padri scoverebbe piú di una pietosa quanto significativa bugia... Queste fanciulle in fiore, seppur talvolta artificialmente un po’ «rinfrescate», erano date in sposa a uomini assai piú maturi, di solito ultra-
trentenni, che aspettavano di aver consolidato la propria posizione professionale per affacciarsi sul mercato matrimoniale. Ovviamente, l’età avanzata non comportava alcun giudizio morale sullo sposo, bensí un rischio ben piú grave, ossia il dissesto finanziario della famiglia in caso di morte del suo capo; perché, lasciata vedova troppo presto, una giovane moglie sarebbe stata, con ogni probabilità, ripresa dalla famiglia d’origine con la sua dote per essere subito destinata a nuove nozze.
Un prologo assai articolato
Concluse le indagini di mercato, condotte grazie all’intervento dei sensali e dei parenti, le famiglie entravano nella delicatissima fase negoziale, condotta con molta discrezione dai VIVERE DA SIGNORI
25
VIVERE DA SIGNORI
Il matrimonio A sinistra la parte superiore di una tavoletta di biccherna dipinta da Sano di Pietro raffigurante il matrimonio tra il condottiero Roberto Sanseverino e Lucrezia, figlia dell’esecutore di Gabella dell’anno 1473 Agnolo Malavolti. 1473. Siena, Archivio di Stato, Museo delle Biccherne. Le cronache dell’epoca raccontano l’opulenza della cerimonia e i doni fatti agli sposi da parte del Comune di Siena.
QUANDO I DIARI FANNO LA STORIA Nel Medioevo, ci si sposava davanti al notaio poiché era necessario ufficializzare il contributo economico dei due coniugi e garantire i loro rispettivi diritti. Utilissime – e talvolta uniche – fonti di informazioni sugli aspetti socio-economici e giuridici del matrimonio, i contratti notarili ci dicono ben poco sullo svolgimento delle cerimonie, sui rituali e le consuetudini nuziali. L’iconografia ci viene in aiuto, ma, per interpretare gli scenari e i gesti dei singoli attori immortalati dai miniatori, scultori e pittori, occorrono spesso riscontri oggettivi. Tra Otto e Novecento, con le loro osservazioni sul campo, i primi etnografi europei censirono, salvandolo dall’oblio, un patrimonio di comportamenti individuali e collettivi che spesso si poteva riferire a piú «antichi usi nuziali». A consentire di risalire nei secoli erano altri, piú inconsapevoli, raccoglitori di quel materiale etnografico cosí prezioso per lo storico: innanzitutto, i legislatori civili e religiosi, predicatori e moralisti che, dovendo condannarle o addirittura vietarle, avevano descritto – talvolta con dovizia di particolari – le numerose pratiche rituali e spese suntuarie relative alle cerimonie nuziali del loro tempo; ma erano anche quei mercanti fiorentini che, dal tardo Duecento, iniziarono a registrare le loro faccende familiari nei Libri di ricordi. Alcuni di questi diari erano già noti agli storici ottocenteschi, ma è stata una storica francese della scuola delle Annales, Christiane Klapisch-Zuber, ad avere intuito lo straordinario potenziale di questa fonte e ad averla sfruttata sistematicamente, ricostruendo in tutta la loro complessità le pratiche matrimoniali tardo-medievali.
26
VIVERE DA SIGNORI
rappresentanti di entrambe le parti, con l’aiuto del mezzano. Giunti a un accordo preliminare, gli uomini delle due famiglie si incontravano per l’«impalmamento», una cerimonia che conservava ancora una dimensione privata: la stretta di mano scambiata in quell’occasione non coinvolgeva affatto i futuri coniugi – non si trattava della dextrarum iunctio romana e, del resto, la fanciulla non partecipava all’incontro –, ma era un gesto simbolico d’impegno reciproco a rispettare il patto stipulato. Da quel momento venivano avviate le celebrazioni nuziali vere e proprie che, spesso molto dilatate nel tempo, erano scandite da quattro momenti salienti. Il primo incontro solenne tra le parti avveniva in una chiesa il giorno del «giuramento» per proclamare pubblicamente l’impegno vincolante che, se disatteso, avrebbe comportato pesanti sanzioni pecuniarie. Vi assistevano soltanto gli uomini delle due famiglie: la promessa sposa aspettava in casa che, nei giorni successivi, il suo futuro sposo venisse «a vederla», ma spesso anche per lei si trattava del primo incontro. «Metti in ordine le gioie, e belle, ché la sposa è trovata!», ordinava Alessandra Macinghi Strozzi al figlio Filippo, a conclusione dell’estenuante ricerca di una moglie degna del primogenito:
perché, in effetti, la consuetudine voleva che, dopo il giuramento, il promesso sposo mandasse a casa della fanciulla preziose gioie racchiuse in uno scrigno, spesso ornato con gli stemmi incrociati delle due famiglie. L’invio del «forzierino», che veniva festeggiato con una cena in famiglia, preludeva a tutta una serie di altri «doni» che il promesso avrebbe dovuto offrire prima e dopo le nozze: stoffe ricamate, cinture e veli di seta, perle, bottoni e spille d’argento, abiti da cerimonia e pellicce.
Un obbligo dispendioso
A giudicare dai libri di conti degli uomini freschi di matrimonio, l’obbligo di costituire un vero e proprio «contro-corredo» era davvero rovinoso, giungendo talvolta a intaccare la metà o i due terzi della dote. Ascoltiamo la lamentela di un contribuente fiorentino che, nel 1427, chiedeva «un po’ di riguardo» ai funzionari del fisco, poiché, avendo sposato da poco una fanciulla di 15 anni doveva spendere «ogni dí assai per fare luxurie del vestire e altre cose simile che fanno le sue pari»; e, quasi a discolparsi, aggiungeva: «io non posso fare di meno perché ella è di persona da bene e vuole piú comparire tra l’altre sue pari e parente». Ma ciò che non diceva que-
In basso, sulle due pagine fronte di cassone raffigurante le nozze fra Ester e Assuero (Artaserse I), tempera e oro su tavola di Marco del Buono Giamberti e Apollonio di Giovanni di Tomaso. 1460-1470. New York, The Metropolitan Museum of Art. L’episodio è ambientato nella Firenze rinascimentale e la scena si articola in tre momenti: l’arrivo della principessa ebrea, il matrimonio e il banchetto.
VIVERE DA SIGNORI
27
VIVERE DA SIGNORI
Il matrimonio
SPOSE DI CRISTO Anche con Cristo si combinavano matrimoni; ma raramente si destinavano al figlio di Dio i partiti migliori. Nel tardo Medioevo, infatti, il convento fu sempre piú considerato dalle famiglie come il «ridotto di quelle che maritar non puonsi»: troppo brutte, troppo vecchie o, semplicemente, troppo povere per essere piazzate sul mercato matrimoniale, le spose di Cristo erano decisamente di seconda scelta. Di rado i padri optavano per il convento quando le figlie erano ancora bambine: l’ideale era sempre e comunque un bel matrimonio, socialmente piú utile, e le famiglie potevano addirittura ostacolare una sincera vocazione
28
VIVERE DA SIGNORI
religiosa per concludere un’alleanza di prestigio. Ad allontanare le ragazze dalla strada maestra del matrimonio erano soprattutto considerazioni economiche, che facevano del monacato una strategia di ripiego. I monasteri, infatti, pretendevano solo una modesta dote (fino a dieci volte inferiore a quella matrimoniale) e offrivano con la clausura l’indispensabile protezione della virtú femminile. L’analisi delle «carriere» delle ragazze del Monte delle Doti fiorentino tra il 1425 e la fine del secolo successivo rivela un’impennata della scelta monacale a partire dal 1480, per via dell’inflazione dotale e dell’espansione demografica, che andò aggravandosi notevolmente durante tutto il Cinquecento.
due testimoni, e dopo la pubblicazione anticipata dei bandi, divenisse una condizione essenziale alla validità dell’unione. Fino a quella data, gli sposi si scambiavano i consensi in casa della donna: venivano pronunciate le parole di rito e la fanciulla era «anellata» alla presenza di un notaio che avrebbe poi redatto il contratto. I Fiorentini identificavano quest’atto costitutivo dell’unione come il «dí dell’anello». Se, dopo i festeggiamenti offerti dalla famiglia, il matrimonio veniva consumato, la donna che non aveva ancora lasciato la casa paterna era detta «maritata ma non ita»; ma accadeva spesso che l’unione sessuale fosse invece associata all’insediamento della coppia nella dimora coniugale.
Il trasloco della novella sposa
In alto Raimondo e Melusina benedetti dal vescovo nel letto nuziale, incisione da un’edizione della fiaba della Bella Melusina. XV sec. Nella pagina accanto miniatura raffigurante un gruppo di suore che vestono una ragazza, da un’edizione del Decretum Gratiani. XIV sec. Siena, Biblioteca Comunale degli Intronati.
sto sposo novello era che, di lí a poco, avrebbe potuto tranquillamente rientrare nelle spese; perché, in realtà, questi regali, che avevano la precipua funzione di controbilanciare la dote ricevuta, erano solo «prestati» alla giovane sposa e, una volta esaurita la loro funzione rituale durante le nozze e il primo anno di matrimonio, venivano in buona parte smembrati, pezzo per pezzo, per essere prestati a un parente prossimo alle nozze o semplicemente rivenduti. Il matrimonio vero e proprio si celebrava qualche mese piú tardi, in una forma privata e, di solito, senza l’intervento di un sacerdote. In effetti, almeno in Italia, si dovette aspettare la riforma del matrimonio, approvata dal concilio di Trento nel 1563, perché la celebrazione del rito nuziale in chiesa, alla presenza di un prete e di
Nei giorni successivi, quando la dote era stata pagata, la sposa novella veniva trasferita nella sua nuova dimora. Con questa solenne ductio o traditio si dava la massima pubblicità alla nuova alleanza matrimoniale. La sposa, sontuosamente vestita e montata a cavallo, era seguita dai servitori che portavano i forzieri contenenti il suo corredo e il ricco corteo di uomini e donne che l’accompagnava si snodava per le vie della città, suscitando l’ammirazione di tutti. Ma il passaggio della donna da una casa all’altra, che implicava un radicale cambiamento di status, non poteva avvenire in modo lineare. Ecco perché, per esempio, il corteo nuziale rischiava sempre di incontrare sul suo percorso un qualche sbarramento presidiato da gruppi di giovani che, soltanto dopo il taglio di un nastro dietro pagamento di un lauto pedaggio, lasciavano proseguire la sposa e il suo seguito; ma ci si poteva anche imbattere in manifestazioni di ostilità assai piú sgradevoli o pericolose, nonostante severe leggi comunali proibissero queste «rozze usanze». Entrando nella casa del marito, la sposa novella offriva doni ai parenti, dopo di che si dava inizio a un ricco banchetto, allietato da musiche e danze; ma questi festeggiamenti, che potevano protrarsi anche per piú giorni, non segnavano la conclusione delle complesse cerimonie nuziali. Entro una settimana, infatti, un nuovo corteo doveva riportare la sposa novella in casa del padre: questa «ritornata» segnalava la persistenza del legame di sangue che univa la giovane alla sua famiglia, nonostante la creazione del nuovo vincolo, e indicava anche la possibilità di un ritorno piú definitivo sotto il tetto paterno in caso di vedovanza. Soltanto dopo gli ultimi festeggiamenti organizzati in quest’occasione, la coppia poteva iniziare la vita coniugale. VIVERE DA SIGNORI
29
VIVERE DA SIGNORI
Visitare gli infermi, una delle Opere di Misericordia, affrescata in una delle lunette dell’oratorio dei Buonomini di S. Martino, a Firenze. XV sec. I Buonomini portano un pollo e un fiasco di vino a una donna che ha appena partorito. 30
VIVERE DA SIGNORI
Il matrimonio
Nel tardo Medioevo, la sposa novella che lasciava la dimora paterna si trasferiva quasi sempre in casa del suocero. Al figlio che stava per sposarsi, il padre assegnava una camera che avrebbe provveduto ad ammobiliare interamente a proprie spese prima delle nozze: subito dopo il «giuramento», falegnami e intagliatori si mettevano all’opera per costruire il letto nuziale fornito di spalliere e cassepanche; di solito, un’immagine della Vergine col Bambino, commissionata a qualche bottega di pit-
tore, completava l’arredamento. Fino alla metà del Quattrocento, il contributo della donna all’arredo di questa stanza si riduceva esclusivamente ai due cassoni che contenevano il suo corredo; poi, spettò al consorte fornire anche questi pezzi di mobilia. Nei testamenti dei mariti, il lascito del «letto» fornito, ma spesso dell’intera «camera», alla moglie che sarebbe sopravvissuta era un chiaro invito a rimanere nella casa coniugale, onorando con una casta vedovanza la memoria del defunto.
Nell’universo domestico in cui coabitavano piú generazioni, la camera era l’unico spazio della giovane coppia, il luogo della loro intimità, dove i figli avrebbero poi visto la luce. Religiosi e moralisti tentavano con ogni mezzo di imporre ai laici una concezione della sessualità lecita solo se esercitata nell’ambito di un legittimo matrimonio, secondo i tempi prescritti dal calendario liturgico e finalizzata esclusivamente alla procreazione. Ogni desiderio, ogni accenno di sensualità dovevano essere repressi, perché trasformavano ciò che doveva essere soltanto un dovere in un pericoloso atto di concupiscenza. Per le fanciulle date in sposa in giovanissima età a uomini assai piú maturi, la scoperta della sessualità doveva essere spesso terribilmente traumatica. Educate a vergognarsi di pulsioni definite solo in negativo, senza essere meglio specificate, esse giungevano alla prima notte di nozze totalmente impreparate. Gli uomini entravano nella vita matrimoniale molto piú tardi; cosí, la loro iniziazione sessuale e la soddisfazione dei loro appetiti carnali durante il prolungato celibato erano – per cosí dire – affidate alle serve o schiave di casa, alle ragazze di umile condizione, meno gelosamente «custodite» delle figlie di buona famiglia, e ovviamente anche alle prostitute. Ma anche le pratiche sodomite, tanto diffuse quanto vituperate, contribuivano all’educazione sessuale dei giovani uomini.
Quel giudice poco passionale...
Beffeggiando uno sposo novello che non aveva dato il meglio di sé la sera delle sue nozze, Giovanni Boccaccio tratteggia con la sua vivace ironia il quadro piuttosto penoso di una sessualità coniugale invischiata nei precetti religiosi (Decameron, II, 10). Ecco quindi un ricco giudice pisano, messer Ricciardo di Chinzica che, avendo sposato «una delle piú belle e delle piú vaghe giovani» della città, non riuscí a consumare il matrimonio. Cosí, fin dall’indomani, pensò bene di nascondere le sue scarse abilità amatorie dietro un’intensa religiosità che gli imponeva la scrupolosa osservanza delle severe prescrizioni della Chiesa in materia di sessualità coniugale. Cosí, «incominciò ad insegnare a costei un calendario buono da fanciulli che stanno a leggere, e forse già stato fatto fare a Ravenna. Per ciò che, secondo egli le mostrava, niun dí era che non solamente una festa, ma molte non ne fossero; a reverenza delle quali per diverse cagioni mostrava l’uomo e la donna doversi astenere da cosí fatti congiugnimenti, sopra questi aggiugnendo digiuni e quattro tempora e vigilie d’apostoli e di mille altri
santi e venerdí e sabati, e la domenica del Signore e la quaresima tutta, e certi punti della luna e altre eccezione, avvisandosi forse che cosí feria far si convenisse con le donne nel letto, come egli faceva talvolta piatendo alle civili. E questa maniera, non senza grave malinconia della donna, a cui forse una volta ne toccava al mese e appena, lungamente tenne, sempre guardandola bene, non forse alcuno altro le ‘nsegnasse conoscere li dí da lavorare, come egli l’aveva insegnate le feste». Ma per l’appunto, durante una provvidenziale gita di pesca al largo di Livorno, la giovane fu rapita da un bel corsaro, il quale, essendogli «il calendario caduto da cintola e ogni festa o feria uscita di mente», ben presto le fece dimenticare «il giudice e le sue leggi», iniziandola con giovanile ardore ai piaceri dei sensi. Come in tante altre sue novelle, il Boccaccio opponeva quindi allo squallore della vita matrimoniale la gioiosa spensieratezza delle passioni amorose fuori dal vincolo coniugale, suggerendo l’esistenza di una sessualità liberata dai troppi divieti e capace di sfuggire al controllo della Chiesa.
Rispetto dei divieti
Ma la vita di coppia era davvero cosí noiosamente scandita dai tempi prescritti dalla Chiesa come insinua il celebre novelliere? Per la verità, quando la documentazione consente di ricostruirlo, l’andamento annuale delle nascite tradisce un sostanziale rispetto dei divieti imposti dal calendario liturgico all’esercizio della sessualità coniugale. Pochissimi bambini venivano concepiti durante periodi come l’Avvento e la Quaresima in cui, di fatto, ogni buon cristiano doveva dedicarsi alla penitenza e al raccoglimento. Ciò non significa che, avendo acquisito col tempo una certa confidenza, marito e moglie non trovassero una felice intesa, affettiva e sessuale; ma della sessualità coniugale, vissuta con serenità e appagamento, sappiamo ben poco: la poesia che canta l’amor cortese e la letteratura medievale in genere ne parlano di rado in termini positivi, preferendo dilungarsi su sofferte quanto eroiche passioni di cavalieri e dame o piú boccaccesche relazioni adulterine. Il tradimento, sublimato o consumato, era davvero all’ordine del giorno? Di certo, l’incondizionata fedeltà richiesta alle mogli non era altrettanto pretesa dai loro consorti che, non di rado, imponevano alla famiglia di convivere con i loro bastardi nati da fuggevoli amori ancillari. Ma tutte le smaliziate spose di mariti vecchi, spesso assenti per affari o troppo pii e zelanti come messer Riccardo, sono esistite solo nella fantasia dei poeti? VIVERE DA SIGNORI
31
LA MUSICA
Il potere suona bene Voci melodiose e delicati arpeggi echeggiano nelle corti principesche e nelle dimore patrizie: la musica, infatti, non è soltanto uno svago, ma si afferma anche come status symbol. E molti signori, oltre a farsi committenti delle partiture, assoldano i migliori maestri, dando vita a rinomati e invidiati ensemble di Franco Piperno
32
VIVERE DA SIGNORI
L
a presenza della musica nelle corti medievali e rinascimentali ha una connotazione eminentemente gaia e conviviale. Fonti letterarie e iconografiche ce la presentano a corredo di momenti di svago in forma di esecuzioni strumentali affidate a giullari, di canto – cioè di presentazione a un pubblico di un testo poetico d’arte – eseguito dal trovatore sul liuto o, ancora, di balli in cui membri della corte stessa sono personalmente coinvolti. In ogni caso, le fonti qualificano musica e danza come fonte di piacere, gioia e divertimento. Nel poema Remede de fortune (1342), Guillaume de Machaut (1300 circa-1377) offre una raffigurazione efficace della presenza della musica nella società del suo tempo: presso il giardino di un castello egli corteggia la dama del suo cuore cantandole una canzone sulle cui note un’altra dama si mette a danzare e poi, a sua volta, a cantare; dopo un pasto allietato da musiche e danze di menestrelli, il poeta conclude: «Non vi fu alcuno che, volendo divertirsi, danzare, cantare o far festa ai tavoli, agli scacchi, agli strumenti, con giochi, con canti o con suoni là non trovasse il suo divertimento preferito. E v’erano musicisti cosí abili ed esperti sí nella vecchia come nella nuova maniera che la Musica, che forgia i canti, e Orfeo, che tanto bene cantava da incantare tutti quelli dell’inferno con la dolcezza del suo canto, davanti a loro non avrebbero saputo cantare». Intrattenersi e intrattenere con musiche e danze a corredo di un sontuoso banchetto, oltreché irrinunciabile pratica di cortesia, è simbolo di potere; ce lo attestano i banchetti inframezzati da musiche e spettacoli per le nozze di Francesco Sforza e Bianca Maria Visconti (1441) rievocati a posteriori da Antonio Cornazano ne La Sfortiade (1459), o le fastose imbandigioni di apparati musicali e culinari allestiti alla corte estense di Ercole II dallo scalco Cristoforo Messisbugo (1549). La corte che include fra le pro-
San Gimignano, Duomo. Particolare di uno degli affreschi con storie dell’Antico Testamento realizzati da Bartolo di Fredi. 1367. Protagonista della scena è Giobbe (che il demonio chiede a Dio di poter tentare, dettaglio qui non illustrato), che siede a tavola, circondato dai familiari e da servitori, nonché da alcuni musicanti che allietano il banchetto.
VIVERE DA SIGNORI
33
VIVERE DA SIGNORI
La musica
prie manifestazioni l’intrattenimento musicale e coreutico fornisce di sé un’immagine di benessere e di prosperità di concreta valenza politica. Tali rappresentazioni vengono perciò fatte circolare o si affidano intenzionalmente a testimonianze documentarie: dalla miniatura all’affresco di soggetto musicale, dalla narrazione affidata al giullare alla comunicazione epistolare. Inoltre, simili immagini e pratiche conoscono frequenti e ripetuti trasferimenti nella finzione letteraria: da Giovanni Boccaccio a Giovanni da Prato, da Fazio degli Uberti allo Straparola, a Francesco Sansovino, la musica come cornice di conviti e come sfondo di novelle diviene luogo comune letterario atteso e rispettato, ma funge, nel contempo, da specchio di costumi vigenti e da modello per la società di corte (vedi box a p. 38).
I virtuosi del trobar
Il carattere ameno delle manifestazioni musicali nel contesto della corte medievale non esclude il ricorso a solidi professionisti, nonché l’instaurazione di chiari rapporti di lavoro fra committente e musici; anzi, la ricerca e l’ingaggio degli artisti piú accreditati diviene a sua volta simbolo del rango del signore. A questo scopo le corti italiane devono guardare Oltralpe, alla Francia e alla Provenza, da cui provengono gli artisti preferibilmente deputati all’intrattenimento musicale, trovatori e giullari, fra loro distinti sul piano sociale non meno che artistico, essendo i primi depositari del rango esclusivo insito nel «trobar»: poetare, inventare versi e melodie, pubblicamente esporli col canto accompagnato. L’esibizione del trovatore ha un suo rituale. Egli è innanzitutto poeta; dunque, secondo quanto illustra una lirica di Peire Raimon, prima dà lettura del testo, indi offre un’esecuzione solo strumentale della melodia che per esso ha composto e, infine, canta il testo accompagnandosi con lo strumento (preferibilmente la viella). I trovatori dei secoli XII e XIII, eredi della nobile tradizione dell’età di Guglielmo IX d’Aquitania, ora si recano a corte per porre la propria arte al servizio del signore: per dilettarlo, ma anche per blandirlo e diffonderne fama e virtú. È, in embrione, il genere di rapporto clientelare di prestazione contro protezione destinato a diventare tipico del musico nel pieno Rinascimento e oltre: Albertet de Sisteron, trovatore alla corte dei Malaspina all’inizio del Duecento, afferma in una sua composizione che egli usa fermarsi presso quel signore che «grant honor li fai» e in cambio si adopra per «lonc vostre pretz far saber» («divulgare lontano i vostri meriti»). 34
VIVERE DA SIGNORI
Una festa nuziale, accompagnata da musici che suonano strumenti a fiato, particolare del cosiddetto Cassone Adimari. 1450 circa. Firenze, Galleria dell’Accademia.
Nelle corti italiane del XIII secolo, la musica è prevalentemente appannaggio dei trovatori provenzali; ce ne informano, fra gli altri, Dante e Fazio degli Uberti. Ciò non deriva da una sorta di «provincialismo» della cultura italiana, bensí da un proficuo incontro fra domanda e offerta. Le corti avevano bisogno del poetamusico incarnato dal trovatore, sia per scopi
ludici che d’immagine, e i trovatori d’Oltralpe erano in quel momento i soli depositari della tradizione del poetare, musicare e cantare. Sordello, il piú noto trovatore italiano, in patria compone poesie senza musicarle (ma lo fa quando si sposta presso una corte provenzale) e musicisti indigeni afferiscono alla piú umile categoria degli esecutori, degli improvvisatori,
dei diffusori di musica altrui. I nomi di una ventina di personaggi di questo genere, vissuti fra gli anni Ottanta del 1200 e gli anni Venti del 1300, ricorrono nel sonetto Io vidi ombre e vuy al paragone di Nicolò de’ Rossi: da Casella e Scochetto di dantesca memoria, ad Albertuccio della Viola, all’enigmatico ma dotatissimo cantore e liutista Checolino. VIVERE DA SIGNORI
35
VIVERE DA SIGNORI
La musica Si tratta del noto «divorzio» fra musica e poesia che caratterizza la produzione dei poeti siciliani e toscani del Duecento; un divorzio testimoniato dall’assenza nelle loro liriche di qualsiasi musica nonché di riferimenti al cantare, suonare, comporre: un’assenza appena mitigata dal «suono della musica non scritta» (Nino Pirrotta), ovvero dalla prassi dell’intonazione estemporanea e della tradizione orale di moduli musicali (e, in ogni caso, i poeti italiani, interessati solo alla materia verbale della loro invenzione, poterono lasciare a professionisti del suono e del canto, come i giullari, il compito dell’esecuzione canora dei loro testi).
L’ospitalità delle corti italiane
In alto un concerto di trovatori al cospetto del re, in una miniatura del Codice Manesse, una collezione di ballate e componimenti poetici redatta a Zurigo tra il 1300 e il 1340. Heidelberg, Biblioteca Universitaria. A sinistra una pagina del Canzoniere Provenzale Ambrosiano. Prima metà del XIV sec. Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana. Nella pagina accanto pagina miniata con suonatori di diversi strumenti a corde, a canne, a fiato e a percussione; al centro, una suonatrice di organo positivo, da un’edizione del De institutione musica di Severino Boezio. XIV sec. Napoli, Biblioteca Nazionale.
36
VIVERE DA SIGNORI
Numerose, e prevalentemente settentrionali, sono le corti italiane che ospitano trovatori provenzali; fra le prime, quella dei signori del Monferrato. Presso Bonifacio I, dal 1197 si trova Raimbaut de Vaqueiras, che per lui (di cui fu anche compagno d’armi in crociata, nel 1202) e per sua figlia Beatrice – alla quale dedicò la notissima Calenda maya –, compose diversi testi e musiche; dopo Raimbaut vennero in Monferrato Peire Vidal e Gaucelm Faidit. Alla corte dei Malaspina, signori di Lunigiana, furono Peire Raimon e Albertet de Sisteron; presso i marchesi d’Este, Azzo VI e Azzo VII, si fermò Aimeric de Pegulhan: in una sua lirica quest’ultimo ci dà conto della quantità di giullari presenti alla corte di Azzo VI, dal marchese generosamente remunerati («a cui fesetz tant dos / tant honors», «a cui facevate tanti doni e tanto onore»). Largamente ospitali furono le corti del Veneto: quella di Cangrande della Scala a Verona, come quella di Alberico da Romano a Treviso, che accolsero Sordello e Uc de Saint-Circ. Del radicamento della lirica provenzale nelle corti venete è prova il fatto che il Veneto fu, in Italia, il principale luogo di copiatura di manoscritti di quel repertorio ed è di provenienza veneta il codice ambrosiano R 71 sup (noto anche come Codice provenzale Ambrosiano), uno dei due soli superstiti che contengano, oltre ai testi, anche le musiche dei trovatori provenzali. Produzione di codici, dunque collezionismo. Nel Due e Trecento la musica inizia a essere presente a corte anche nella forma di libro (canzoniere, trattato, manuale scolastico, liber cantus d’uso liturgico) per essere conservata o anche solo ammirata come una miniatura: a Pavia, sede della corte di Gian Galeazzo Visconti, attorno al 1390 viene copiato un codice contenente, fra le altre cose, la musica di Jacques de Senleches per la ballade La harpe de mélodie, le
LA GRANDE «ORCHESTRA» DEL MEDIOEVO Medioevo e Rinascimento ebbero strumenti musicali vari e numerosi, ancor piú di quanto si possa a prima vista immaginare o di quanto le stesse fonti iconografiche o letterarie documentino. Henry d’Andely, troviere del XIII secolo, nella Bataille des sept ars, descrive «Ma dame Musique», corredata di «clochettes, gigues et vieles, salterious et fleüteles» («sonagli, ribeche, vielle, salterii e flauti: strumenti a percussione, a corde sfregate, a corde pizzicate e a fiato»); nel 1589 la strumentazione degli intermedi fiorentini per la commedia La pellegrina richiedeva svariati strumenti a pizzico (liuto piccolo e grosso, chitarrina, chitarrone, arpa, arpa doppia, mandola), a corde sfregate (lira, «lira arciviolata», violino, soprano e basso di viola, viola bastarda) o percosse (salterio), a fiato di legno (flauto dritto e traverso, cornetto) o di metallo (trombe, tromboni), a tastiera (organo portativo), a percussione (tamburello a sonagli). Principali strumenti musicali nel Medioevo furono il liuto, l’arpa, la viella e l’organo portativo (o positivo). Il liuto, di origine araba, noto in Europa già nel X secolo, si afferma anche grazie alla praticità d’uso, insostituibile complemento all’esecuzione canora; diventa lo strumento tipico del giullare e solo dal Quattrocento viene utilizzato in ambienti cortesi anche da musicisti professionisti e da nobili dilettanti (Pietrobono dal Chitarrino, Zuan Maria Alamanno, Isabella d’Este). Piú nobile e adeguata alla raffinata arte dei trovatori è la viella, antenata del violino, che il teorico Johannes de Grocheo additava già sul finire del XIII secolo quale principale strumento fra quelli a corde: chiamata in vari modi (giga, fidula, ribeca, rubeba, lira), alle diverse denominazioni potevano corrispondere non sostanziali differenze di ordine organologico (prevalentemente strumenti a fondo
Dida da scrivere, rinvenuto nel 1877 a Decima di Gossolengo, nei pressi della città emiliana. Databile tra la seconda metà del II e gli inizi del I sec. a.C., è un modello in bronzo del fegato di una pecora sul quale sono definite caselle recanti i nomi delle divinità del pantheon etrusco. Simili modelli erano utilizzati dai sacerdoti che praticavano l’epatoscopia, cioè la predizione del futuro basata appunto sull’osservazione del fegato.
convesso o a fondo piatto). È la viola, non il liuto, lo strumento che Baldassarre Castiglione indica come il piú appropriato alle pratiche musicali del cortigiano. Ugualmente adatta all’accompagnamento del canto fu l’arpa, dalla forma simile a quella dello strumento odierno ma dalle dimensioni assai piú piccole (era uno strumento «da braccio»). Gli strumenti a canne e mantici, antichissimi, conobbero una vera rivoluzione quando, nel XIII secolo, fu
inventata la tastiera quale pratico sistema di controllo dell’immissione dell’aria nelle canne; piccole e corte tastiere vennero applicate a strumenti di ridotte dimensioni detti «portativi», perché di agevole trasporto o «positivi», in quanto potevano essere poggiati su un piano o sulle ginocchia: con un positivo in grembo è raffigurato Francesco Landini nelle miniature del Codice Squarcialupi della Biblioteca Laurenziana di Firenze.
VIVERE DA SIGNORI
37
VIVERE DA SIGNORI
La musica
QUANDO DIONEO E FIAMMETTA SI MISERO A SUONARE... Le novelle di Boccaccio sono collocate in una cornice musicale spesso tanto minuziosamente descritta da rappresentare un significativo documento delle consuetudini conviviali e ludiche delle corti medievali, nonché del significato e degli usi della musica presso quegli ambienti. Cosí, per esempio, si legge nella giornata prima, introduzione, 27: «Licenziata adunque dalla nuova reina la lieta brigata, li giovani insieme con le belle donne, ragionando dilettevoli cose, con lento passo si misero per un giardino, belle ghirlande di varie frondi faccendosi e amorosamente cantando. (...) E levate le tavole con ciò fosse cosa che tutte le donne carolar sapessero e similmente i giovani e parte di loro ottimamente e sonare e cantare, comandò la reina che gli strumenti venissero; e per comandamento di lei, Dioneo preso un liuto e la Fiammetta una viuola, cominciarono soavemente una danza a sonare; per che la reina con l’altre donne insieme co’ due giovani presa una carola, con lento passo, mandati i famigliari a mangiare, a carolar cominciarono; e quella finita, canzoni vaghette e liete cominciarono a cantare. E in questa maniera stettero tanto che tempo parve alla reina d’andare a dormire». La cornice musicale del Decameron divenne modello ineludibile sia in ambito letterario per gli imitatori rinascimentali di Boccaccio (Giovanni Gherardi da Prato, Fazio degli Uberti, Francesco Sansovino), sia per la pratica dell’intrattenimento musicale presso gli ambienti cortesi.
38
VIVERE DA SIGNORI
Novellieri toscani del XIV secolo, olio su tela di Vincenzo Cabianca. 1860. Firenze, Galleria d’Arte Moderna. L’artista immagina i protagonisti della scena in compagnia di un menestrello e dotati di strumenti musicali. La cornice musicale che accompagna molte novelle di Boccaccio divenne un modello letterario, imitato dai suoi epigoni rinascimentali.
A destra incisione ottocentesca raffigurante un trovatore che si esibisce al cospetto di un castellano e della sua corte. In basso stampa ottocentesca raffigurante un suonatore di liuto. La lirica provenzale comprendeva poesia e musica e il poeta si esibiva facendo ascoltare prima il testo e la musica separatamente, e poi l’esecuzione d’insieme.
cui note vengono disposte su di un pentagramma costituito dalle corde di un’arpa disegnata sul foglio, sicché, come dice il testo stesso della ballade, il risultato è musica da «oir, sonner et veir» («ascoltare, suonare e guardare»). Oltre a questa sorta di «gioco di società» di cui la musica è protagonista, la corte viscontea e quella rivale degli Scaligeri di Verona, attestano largamente la quantità di impieghi ai quali essa è pervenuta presso le corti del XIV secolo, nonché, accanto al perdurare del favore riscosso dal repertorio e dagli artisti francesi, la presenza e il coinvolgimento anche di artisti italiani. La musica è ora presente nelle varie manifestazioni culturali e rituali della corte quali la festa, la liturgia, il collezionismo, il protocollo diplomatico. A Milano, con Bernabò Visconti si trova il «messer Dolcibene», «convenevole musico e sonatore di organetti, di leuto e d’altri stromenti», rammentato nel Paradiso degli Alberti. A Pavia, sotto Galeazzo II, Francesco Petrarca compone il De remediis utriusque fortunae, in cui trovano posto due dialoghi incentrati sul canto e sulla danza intesi come fonte di piacere sia per il fruitore passivo, sia per il cortigiano che vi si dedica; a Pavia agisce anche Francesco di Vannozzo, poeta, musico e liutista il cui canzoniere è ricco di riferimenti musicali. A Verona, alla corte di Mastino della
Scala, si trovano riuniti tre dei principali musicisti italiani della metà del Trecento, Giovanni da Firenze, Piero e Jacopo da Bologna, tutti cultori della polifonia profana italiana affermatasi nei decenni precedenti in Toscana e nel Veneto; secondo quanto riferisce Filippo Villani, i tre vengono incoraggiati alla tenzone musicale «tyranno eos irritante muneribus»: dovevano intonare a gara i medesimi testi poetici recanti riferimenti a persone dell’ambiente scaligero. Nelle sue diverse manifestazioni, la pratica musicale è dunque attestazione e simbolo del prestigio di una corte, del rango del suo signore, della solidità del suo potere.
Per la gloria del casato
Durante il Trecento si sviluppa un uso «politico» della musica tramite l’intonazione di testi volti a esaltare gli emblemi di un casato o a solennizzare alcuni eventi di natura dinastica. Questa consuetudine segna l’emancipazione della musica da impieghi essenzialmente ludici e diversivi in favore di un suo piú diretto uso celebrativo. Non è piú soltanto la cospicua e iterata presenza di eventi musicali nella ritualità della vita di corte a simboleggiarne il rango, VIVERE DA SIGNORI
39
VIVERE DA SIGNORI
La musica
bensí, ora, la composizione musicale stessa (di soggetto politico ed encomiastico) viene investita del ruolo di «musica di Stato». Le musiche encomiastiche si rapportano inizialmente ai rispettivi dedicatari per via di riferimenti interni al testo poetico intonato; attorno al 1340, Jacopo da Bologna compone alcuni mottetti in onore di Luchino Visconti: Laudibus dignis adotta un testo con acrostico «Luchinus dux»; Lux purpurata esalta del signore di Milano virtú civili e militari. Altri brani esibiscono precisi riferimenti a motti e imprese dei personaggi a cui sono dedicati: La fiera testa di Bartolino da Padova (musicato anche da Niccolò da Perugia) include il motto di Bernabò Visconti «Souffrir m’estuet», cosí come Le ray au soleil di Johannes Ciconia cita quello di Gian Galeazzo, «A bon droyt»; un altro brano di Jacopo da Bologna, il madrigale politestuale Aquila altera / Creatura gentile / Uccel di Dio (1360, per le nozze fra Gian Galeazzo Visconti e Isabella di Valois) unisce, nella simultanea intonazione dei tre differenti testi, l’«aquila altera» dei Visconti all’emblema inventato da Petrarca per Gian Galeazzo in occasione delle sue nozze con Isabella: la colomba («uccel di Dio»), che indirizza lo sguardo verso il cielo («animal degno / salire in alto e rimirare ‘l sole»). In tutti questi pezzi, l’apporto della musica è meramente ornamentale, nonché funzionale a una circolazione dell’encomio, anche tramite il manoscritto musicale.
Simbolismi e citazioni
Intrinseci e significativi legami fra testo e musica si iniziano a rilevare a partire dal secondo Quattrocento. Il mottetto Bella gerit musasque colit (1476), forse composto da Johannes Tinctoris, è riprodotto su una delle tarsie del celebre studiolo di Federico di Montefeltro nel Palazzo Ducale di Urbino. Una serie di sottili simbolismi musicali e citazioni da altri brani (significativi nella storia personale del duca) ne fa una sorta di condensato di segni atti a illustrare le glorie militari e le benemerenze mecenatesche del duca d’Urbino. Il suo nome viene simultaneamente scandito dalle quattro voci quasi al centro del brano (quattro breves, una per ciascuna delle quattro sillabe del nome) e acquisisce pertanto sensibile rilievo rispetto alla mobilità ritmica e all’intrico polifonico delle sezioni limitrofe; un rilievo reso ancor piú significativo dal fatto che questo passaggio inizia in un punto strutturalmente importante del brano, complessivamente lungo 61 semibreves: 40
VIVERE DA SIGNORI
precedono l’intonazione del nome 23 semibreves e, con essa, inizia il segmento conclusivo di 38 semibreves, dunque «Federicus» segna una cesura nel punto corrispondente – con modesta approssimazione – alla sezione aurea del brano, un punto segnato da due numeri (23 e 38, la cui somma è 61, ampiezza totale del brano) della serie di Fibonacci, notoriamente
Miniatura raffigurante il ritorno dell’Arca a Gerusalemme e il trionfo di Davide, dalla cosiddetta Bibbia dei Crociati, edizione manoscritta del Libro di produzione francese. 1244-1254. New York, The Pierpont Morgan Library. Nella scena si vedono suonatori di vari strumenti, soprattutto a fiato, che accompagnano il re, intento a suonare la lira.
VIVERE DA SIGNORI
41
VIVERE DA SIGNORI
La musica A sinistra particolare dell’allegoria del mese di Aprile affrescata da Francesco del Cossa in Palazzo Schifanoia a Ferrara. 1470. Alla corte estense, il ritorno della primavera viene accolto con canti e musiche da un gruppo di giovani in atteggiamenti amorosi. Intorno alla metà del Trecento, nei Paesi d’Oltralpe, la musica diviene una produzione di corte, gestita da una cappella musicale stabile con cantori e musicisti al soldo del signore. Nel corso del secolo seguente tale consuetudine sarà accolta dalle signorie italiane, che faranno a gara nel possedere la piú prestigiosa cappella musicale, simbolo della magnificenza e del potere del principe. Nella pagina accanto Ritratto di Federico da Montefeltro e del figlio Guidobaldo, olio su tela del pittore spagnolo Pedro Berruguete. 1475. Urbino, Galleria Nazionale delle Marche.
carica di implicazioni magiche e simboliche per la cultura medievale. La messa Hercules dux Ferrariae di Josquin des Prez (1490 circa) è un omaggio al duca di Ferrara Ercole I d’Este e, nel contempo, un’esaltazione del suo rango tramite un’opera di complessa fattura. Il titolo non esplicita meramente la dedica, ma segnala una tecnica compositiva del tutto particolare; «Hercules dux Ferrariae» è la frase da cui Josquin ricava le note del cantus firmus (la «base» musicale e il germe melodico) della messa, secondo il procedimento del «sog42
VIVERE DA SIGNORI
getto cavato dalle vocali»: le sillabe della frase di dedica vengono «tradotte» in suoni per assonanza fonetica con i nomi delle note musicali (in questo caso: re-ut-re-ut-re-fa-mi-re) e dette note, nel costituire la sostanza di tutto il tessuto contrappuntistico della composizione, rendono indissolubile e univoca l’identificazione fra dedicatario e opera musicale. La piena possibilità, per una corte, di produrre «musica di Stato» si ha quando essa si dota di una cappella musicale stabile: un organismo istituzionale costituito da un gruppo di cantori
VIVERE DA SIGNORI
43
VIVERE DA SIGNORI
La musica Nella pagina accanto, in basso particolare della miniatura che orna una pagina del Breviario di Isabella (di Castiglia) raffigurante il re Davide e i suoi musicanti che salgono i simbolici quindici gradini del Tempio. 1490-1497 circa. Londra, The British Library. Fra gli strumenti si riconoscono la ciaramella, l’organo portatile, trombe e vari tipi di percussioni. sentanza» ed erano insostituibile complemento del suo seguito e della ritualità delle sue apparizioni in pubblico: simbolo del ruolo e del prestigio del sovrano per investitura divina. Ciò ingenerava competizione: il rango e l’importanza di una corte si commisurava anche sull’entità e sulla qualità della sua cappella musicale.
Competizione costante
regolarmente stipendiati e posti sotto la direzione di un magister capellae. L’istituzione di cappelle musicali avviene inizialmente Oltralpe, attorno alla metà del Trecento, e in contesti in qualche modo eccezionali: la corte reale di Francia, quella papale ad Avignone o quella ducale, ma di grande rilevanza politica, di Borgogna. Cappellani e chierici seguivano il signore nelle sue missioni diplomatiche a scopo di «rappre44
VIVERE DA SIGNORI
Pagina miniata con una partitura musicale, dal Codice Squarcialupi, unica fonte a oggi nota della musica profana fra Tre e Quattrocento. Inizi del XV sec. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana.
L’istituzione di cappelle musicali nell’Italia del Quattrocento (il teorico Johannes Tinctoris è il primo, nel 1476, a delinearne la genesi) vede in prima fila e in costante competizione gli Este a Ferrara, gli Aragonesi a Napoli, gli Sforza a Milano, corti legate da una fitta rete di relazioni, sia politiche sia dinastiche. Leonello d’Este si dota di un gruppo di cantori a corredo della propria cappella religiosa privata già prima del 1444, anno in cui giunge a Ferrara la moglie Maria d’Aragona, figlia del re di Napoli; nel 1445 la cappella estense conta nove cantori e si parla di essa come di un’istituzione riccamente dotata more regio, con probabile riferimento alla cappella musicale aragonese. Quest’ultima, istituzionalizzata già nel momento in cui Alfonso diveniva re di Napoli (1442), contava, nel 1444, quindici fra cappellani e cantori, che divenivano ventidue nel 1455. A Ferrara, il successore di Leonello, Borso, accordando la propria preferenza agli strumentisti piuttosto che ai cantori, determina una mutazione del gusto; fra di essi vi è il liutista Pietrobono dal Chitarino, il musicista forse piú am-
mirato, esaltato e conteso del medio Quattrocento. Nella città romagnola, Pietrobono dirige una quindicina di strumentisti e impartisce lezioni a un giovane liutista, Stefano, affidatogli dal duca di Milano Francesco Sforza; questi riesce a ottenere una visita di Pietrobono a Milano, nel 1456, ma non riesce a strapparlo al servizio estense. Pietrobono accompagna Borso d’Este a Roma, nel 1471, in occasione del conferimento del titolo ducale, e, nel 1473, fa parte della delegazione che si reca a Napoli per scortare da lí a Ferrara Eleonora d’Aragona, promessa sposa a Ercole I d’Este; anche in questa circostanza la presenza di Pietrobono presso la «rivale» corte aragonese suscitò nel viceré di Napoli, Ferrante, il desiderio, rimasto inappagato, di trattenerlo al proprio servizio. Del resto, accadeva di frequente che i musicisti si trasferissero da Milano a Ferrara o a Napoli e In alto particolare della decorazione della fascia inferiore dello studiolo di Federico da Montefeltro nel Palazzo Ducale di Urbino. 1476. Le tarsie, attribuite alla bottega di Benedetto da Maiano, raffigurano anche vari strumenti musicali.
VIVERE DA SIGNORI
45
VIVERE DA SIGNORI
La musica
viceversa e i signori delle rispettive corti facevano a gara nel procurarsi professionisti di prestigio, sia presso altre città italiane, sia all’estero (Ercole d’Este ingaggia personale a Costanza, Galeazzo Maria Sforza si rivolge alle Fiandre e ricerca cantori persino in Inghilterra). Le cappelle acquistano sempre piú carattere e funzioni istituzionali; parte integrante delle quotidiane pratiche liturgiche e devozionali del principe, nonché delle celebrazioni ufficiali, esse rappresentavano una tangibile manifestazione del potere e del prestigio del signore. I repertori musicali erano spesso strettamente correlati con la persona del sovrano (si è detto della messa di des Prez per Ercole I d’Este; a Milano, nel 1475, Loyset Compère compose una Missa Galeazescha; a Firenze, nel 1569, Costanzo Porta compose una Missa ducalis per il duca Cosimo I) e venivano da lui commissionati in relazione a personali preferenze devozionali, analogamente a cicli di affreschi, polittici o tele di soggetto religioso richiesti ai principali pittori del tempo. Meno frequente, a parte pochi casi, è l’utilizzo di queste cappelle – o, meglio, di loro singoli membri – per il diletto privato del signore. Era questo, in effetti, un impiego meno connaturato alla cultura di una società che attribuiva alla musica un ruolo e un valore soprattutto quale ornamento delle manifestazioni pubbliche e istituzionali. Certo, vi furono artisti, come Pietrobono dal Chitarino, destinati soprattutto a dilettare il signore nel chiuso delle sue camere private, ma si tratta di eccezioni rese vistose dal gran numero di testimonianze che ne tramandarono memoria; né Pietrobono mancò per questo di conferire prestigio all’immagine del suo signore, per il quale era pubblico vanto il solo possedere un sí prezioso «oggetto».
Un signore ben coltivato
Per verificare l’incremento del ruolo della musica quale intrattenimento privato occorre attendere il pieno estrinsecarsi degli effetti dell’Umanesimo sulla società del tempo, il che si manifestò entro un diverso «triangolo» di residenze cortesi: Urbino, Mantova e, ancora, Ferrara. Federico di Montefeltro divenne duca nel 1474, al culmine di una folgorante carriera politica e militare; a differenza dei signori e condottieri coevi, grazie all’insegnamento di Vittorino da Feltre, aveva ricevuto una solida istruzione umanistica. Praticava la musica e possedeva una cappella musicale, anche se non sopravvivono testimonianze documentarie tali da consentire di ricostruirne l’attività. 46
VIVERE DA SIGNORI
A celebrazione del rango ducale conseguito, Federico diede avvio a una serie di iniziative artistiche – fra cui la realizzazione di un’allegoria della musica, parte di un ciclo pittorico oggi perduto – volte a imporre l’identificazione di sé col perfetto musico, ad assecondare l’associazione naturale della musicalità alla propria immagine: grazie anche alla consacrazione di Vespasiano da Bisticci, Federico «viene identificato con il platonico saggio governante e ridefinito miticamente come musicista» (Nicoletta Guidobaldi). Gli emblemi musicali che concorrono a definire l’immagine del duca
Siena, Palazzo Pubblico, Sala del Mappamondo. Particolari dell’affresco di Taddeo di Bartolo raffiguranti Apollo che suona una viella e Pallade Atena. 1407.
simboleggiano la costituzione musicale (dunque la platonica perfezione) del suo regno; non contano tanto le istituzioni, ora, quanto il permeare della musica nella personalità e nell’azione del signore. Negli ambienti urbinati, sotto il figlio di Federico, Guidubaldo, viene concepito e steso Il cortegiano; con riferimento alla corte da lui frequentata, Baldassarre Castiglione delinea e definisce la figura del gentiluomo manierato ed elegante, colto, abile danzatore e provetto cantore/strumentista («io non mi contento del cortegiano s’egli non è ancor musico e se, oltre allo
In alto Sassuolo, Palazzo Ducale. Particolare della decorazione del Salone delle Guardie, raffigurante suonatori di strumenti a fiato e a corde. Gli affreschi furono eseguiti tra il 1647 e il 1648 da Angelo Michele Colonna e Agostino Mitelli.
intendere ed esser sicuro a libro [saper eseguire musica dallo spartito], non sa di varii instrumenti» I, 47) e ne descrive le frequentazioni musicali con dovizia di particolari tale da offrirsi come un vero exemplum ad usum imitationis: «bella musica parmi il cantar bene a libro sicuramente e con bella maniera; ma ancor molto piú il cantare alla viola [la viola a mano, denominata anche lira o cetra] perché tutta la dolcezza consiste quasi in un solo, e con molto maggior attenzion si nota ed intende il bel modo e l’aria non essendo occupate le orecchie in piú che in una sol voce, e meglio ancor vi si discerne ogni piccolo errore; il che non accade cantando in compagnia perché l’uno aiuta l’altro [il passo indica la preferenza per il canto a solo rispetto all’esecuzione polifonica, seducente sul piano della sonorità ma inadatta alla comprensione del testo poetico]. Ma sopra tutto parmi gratissimo il cantare alla viola per recitare; il che tanto di venustà ed efficacia aggiunge alle parole, che è gran maraviglia» (qui Castiglione fa riferimento alla prassi della recitazione di versi latini, di sonetti, ottave e strambotti ottenuta da accompagnamento strumentale; II, 13).
La dama ideale
Isabella d’Este fu la signora che meglio incarnò gli ideali del Castiglione in materia di cortegiania e di presenza della musica nella formazione del signore rinascimentale. Sorella di Alfonso I d’Este, proveniva da Ferrara e trapiantò a Mantova le prestigiose tradizioni musicali della corte d’origine; personalmente, era assai dotata di qualità musicali: nell’esecuzione di canto, viola, liuto e tastiere impressionò ospiti illustri e intellettuali raffinati come Pietro Bembo, che ne lasciò stupita memoria. Il suo entourage muVIVERE DA SIGNORI
47
VIVERE DA SIGNORI
La musica A sinistra Isabella d’Este, disegno preparatorio di Leonardo da Vinci. 14991500. Parigi, Museo del Louvre. Dalla natia Ferrara, Isabella portò a Mantova le prestigiose tradizioni musicali della corte estense e, piú di ogni altra, incarnò gli ideali rinascimentali di Balsassarre Castiglione: musicalmente assai dotata, si cimentò nel canto e nel suono di vari strumenti, impressionando i suoi ospiti con ottime esecuzioni. Nella pagina accanto due giovani, una delle quali suona uno strumento a corde, dal Taccuino di disegni (Taccuino di Bergamo) di Giovannino de’ Grassi e bottega. Ultimo quarto del XIV sec. Bergamo, Biblioteca Civica «A. Mai».
sicale non aveva piú funzioni di Stato o di rappresentanza, era una cappella «umanistica» nel senso che rifletteva il gusto, gli studi e le competenze del committente. Non che a questo tipo di cappella fossero estranei impieghi di «governo», ma si realizzavano in modo differente dal passato: la cappella «umanistica», le sue esibizioni per ospiti illustri, il suo reperto48
VIVERE DA SIGNORI
rio fatto circolare a mezzo stampa (o gelosamente custodito per renderlo piú prezioso) costituivano l’emblema del rango del committente e contribuivano a delinearne la pubblica immagine. Ciò comportò che la musica (la committenza non meno che la pratica personale) divenisse un’ineludibile prerogativa del signore del Cinquecento italiano.
L’arpa, dalla forma simile a quella dello strumento odierno, ma dalle dimensioni assai piú piccole, era considerata particolarmente adatta per l’accompagnamento del canto
VIVERE DA SIGNORI
49
VIVERE DA SIGNORI
La musica
MEMORIE DI UN GIULLARE Fratello del letterato e filologo Dionigi Atanagi, Atanasio Atanagi (1510-1564) fu buffone della corte degli Estensi di Ferrara, presso Francesco I in Francia, ma prevalentemente, dal 1540 alla morte, alla corte del duca di Urbino Guidubaldo II Della Rovere e di suo fratello Giulio, cardinal d’Urbino. L’esile figura dell’Atanagi sopravvive grazie a un diario (di cui restano cinque volumetti in altrettanti codicetti della Biblioteca Apostolica Vaticana e della Biblioteca Comunale di Urbania) in cui il buffone annotava episodi della vita di corte che lo vedevano protagonista o, comunque, degni di cronaca. Rientrano nelle «competenze» del buffone di corte l’abilità nel cantare, nel suonare, nel danzare e nell’improvvisare versi e facezie; tutto ciò per il divertimento dei signori – perlopiú durante il rituale momento del pasto –, i quali compensavano il buffone con regalie in generi alimentari. Ecco alcuni esempi delle prestazioni artistiche dell’Atanagi o degli squarci sulla vita musicale di corte, sempre connessi col cibo e col mangiare. A Pesaro, a Palazzo Ducale, il 9 dicembre 1552 giunge un gruppo di strumentisti: «Essendo arivati in quell’ora lí certi sonatori de violini cominciai in un attimo a ballare di mio capriccio di maniera che le lor eccellenze ne restorono non poco satisfatte e quei sonatori si partirono doppo che si fu disinato molto contenti della mancia che gli fece il signor duca» (Biblioteca Apostolica Vaticana, ms Urb. lat. 1002, cc. 128v-129r). Il 29 gennaio 1559, Atanasio è a Fossombrone, presso il cardinal Giulio: «In cotal mattina il cortese messer Aniballe da Ferrara mi consigliò per mio bene che dovesse disinare insieme con messer Augustino sotto scalco e col raro messer Oliviero [Brassart] musico, i quali mangiavano in prima del cardinale, a tal ch’essendo che sua signoria reverendissima mangia alquanto tardo, mi risolsi voler esser in lor compagnia ove fu un buon antipasto e un buon cappone e di due altre sorte [di] carne a rosto e a lesso e eravi anco di bonissimi tagliarini che col buon appetito ch’io aveva stetti molto commodo. Disinato che ebbe de lí a un’ora il cardinale, sua signoria reverendissima me disse che dovesse
In una corte periferica come quella pesarese di Guidubaldo II Della Rovere (1514-1574), la musica siglò invariabilmente le tappe principali della carriera politica del duca; ciò a prescindere dal fatto che ragioni di ordine finanziario, ma anche culturale, ne avessero impedito uno sviluppo anche solo lontanamente paragonabile a quello contemporaneo di Mantova o Ferrara. Eppure, nel 1559 si ebbe una formidabile «uscita pubblica» della musica roveresca: in quell’anno vennero pubblicate in simultanea tre opere di Costanzo Porta: il Liber primus mo50
VIVERE DA SIGNORI
andare a disinare, onde gli risposi aver disinato e non gli dispiacque tal cosa. Allora il cardinale s’interteneva con una dolce e suave musica di gravecimbolo e violoni e di cornetto ove un giovane cantava molto dolcemente, di maniera che per la dolcezza ch’io ne sentivo ebbi molto a caro d’aver disinato» (Biblioteca Apostolica Vaticana, ms Urb. lat. 1003, c. 2v). Il 27 marzo 1559 Atanasio è di nuovo a Pesaro: «Appresso me bisognò cantare e ballare a satisfazione de la signora duchessa [Vittoria Farnese] ove essendoli piaciuto quella me donò un gran piccione a rosto molto perfetto e me donò anco un gran pezzo di bona torta; e di piú sua eccellenza mi promise darme ogni dí due pani i quali gli li domandai in ginocchioni per mio gran bisogno. Ancora intenderete che la signora duchessa, avendo inteso ch’io so sonare alquanto d’arpicordo, quella desiderava assai di sentirme, a tal che sparecchiato che fu, sua eccellenza fece subbito portar un’arpicordo e me disse ch’io sonasse, ma in somma quell’arpicordo non volse altrimente farme onore che tutto era scordato» (ibidem, c. 22r-v).
tectorum quatuor vocum, dedicato a Guidubaldo II, il Primo libro de madrigali a cinque voci, dedicato a Virginia Della Rovere e il madrigale «politico» Giovane illustre alteramente nato, epicedio per il padre di Guidubaldo, a ribadire la posizione antiturca del ducato urbinate in accordo con Spagna e Venezia. In rapporto alla produzione editoriale di quell’anno, si tratta di una sensibile invasione di musiche roveresche, verificabile in significativa coincidenza col passaggio di Guidubaldo II al soldo di Filippo II di Spagna (prima era stato
Nella pagina accanto miniatura raffigurante un banchetto alla corte di Filippo II di Macedonia, da un’edizione dell’Histoire d’Alexandre di Jean Waquelin. 1448-1450 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Il convivio è allietato da musici che suonano strumenti a fiato. A destra miniatura dal manoscritto Sphaerae coelestis et planetarum descriptio (De Sphaera), attribuito a Cristoforo de Predis, raffigurante l’influenza di Venere: il giardino d’amore e la fontana della giovinezza. 1470 circa. Modena, Biblioteca Estense.
governatore delle armi di Venezia e capitano generale dell’esercito pontificio) e con le trattative per dare la primogenita Virginia in sposa a Federico Borromeo, fratello di Carlo e nipote di papa Pio IV. Tale coincidenza è sottolineata dalla natura stessa di queste musiche, molte delle quali su testi di soggetto encomiastico e politico; lo stile musicale è alto, colto e ricercato: una scelta eccezionale rispetto alla quotidianità della musica roveresca, a riprova del fatto che, in relazione a circostanze politiche e dinastiche di particolare rilevanza, si volle far circolare un’im-
magine volutamente artefatta di pratiche musicali prestigiose, quale simbolo (fittizio) del rango che la corte ambiva vedersi riconosciuto.
Un complemento irrinunciabile
Da quando a Ferrara, sullo scorcio del Quattrocento, furono introdotti inserti musicali durante gli spettacoli classicheggianti della corte di Ercole I d’Este, la musica divenne sempre piú importante complemento di esecuzioni teatrali (prologhi in musica, canzoni realisticamente eseguite sulla scena, intermedi di danza o alle-
VIVERE DA SIGNORI
51
VIVERE DA SIGNORI
La musica
In basso un gruppo di angeli musicanti – all’organo, all’arpa e alla viella –, particolare dell’Adorazione dell’Agnello mistico, polittico di Jan e Hubert van Eyck. 1432. Gand, Cattedrale di S. Bavone.
MUSICHE PER UN MATRIMONIO Perché degli intermedi fiorentini restasse memoria, ad maiorem gloriam del casato mediceo si stamparono regolarmente ampie e dettagliate descrizioni, intese soprattutto a divulgare la magnificenza e preziosità dell’evento, simbolo del rango di chi lo aveva promosso. Ecco uno stralcio dalla Descrizione che Antonfrancesco Grazzini (Firenze, 1566) fa degli intermezzi che Giovan Battista Cini ideò per la commedia La cofanaria di Francesco d’Ambra rappresentata nel dicembre 1565 per le nozze di Francesco Medici con Giovanna d’Austria; da essa si apprende come la musica (di Alessandro Striggio e Francesco Corteccia) e gli strumenti fossero intimamente connessi all’apparato seduttivo e narrativo dell’intermedio. «Finito il primo atto, seguitando come si farà sempre l’incominciata favola [di Amore e Psiche], si vide da una delle quattro strade che per uso dei recitanti s’erano nella scena lassate, uscire un picciolo Cupidino il quale pareva che in braccio vezzosamente tenesse un cigno in cui molto maestrevolmente era congegnato un non molto gran violone; il quale con una verga di palustre sala che nell’una mano aveva, sotto a cui era nascosto l’archetto, quasi con lui scherzando veniva dolcissimamente sonando. [Entrò poi la Musica] la quale anch’essa per la mano musicale che aveva in testa e per la ricca veste tutta piena di diversi suoi strumenti e di diverse cartiglie ove erano segnate tutte le note e tutti i tempi d’essa e per il bello e gran lirone che ella veniva sonando fu agevolmente conosciuta. [Appresso] si videro uscire tutti a un tempo pur sempre quattro altri Cupidi che con quattro ornatissimi liuti venivano sonando e dopo loro altri quattro, due che con i pomi in mano si vedevano l’un coll’altro scherzare e due che con gli archi e con gli strali con una certa graziosa amorevolezza si saettavano. Questi tutti quasi coro di sé fatto dolcissimamente cantarono e sonarono il seguente madrigale: “Oh altero miracolo novello” (...)».
gorici). Se ne trovano esempi nell’Orfeo del Poliziano (Mantova. 1480) e nei suoi numerosi rifacimenti, nella Calandria di Bernardo Dovizi (Urbino. 1513), nella rappresentazione de I Suppositi di Ariosto per Leone X (Roma. 1519). A partire da quelli allestiti a Bologna nel 1475 per le nozze Pepoli-Rangoni, spettacoli con inserti musicali furono spesso usati per solennizzare eventi di rilevante significato dinastico: lo stesso Orfeo di Poliziano avrebbe dovuto allietare le feste per il fidanzamento fra Chiara 52
VIVERE DA SIGNORI
Gonzaga e Gilberto di Montpensier. A Ferrara, nel 1502, per le nozze fra Alfonso I d’Este e Lucrezia Borgia si rappresentò l’Epidico con interludi coreutici e, come ebbe a dire Isabella d’Este al marito Francesco Gonzaga: «Le moresche che fra li acti furono facte, comparsero molto bene et cum grande galanteria». «Fra li acti»: l’espressione indica il luogo e il momento della rappresentazione in cui la musica tende di preferenza a collocarsi e a ritagliarsi uno spazio proprio e peculiare: è lo spa-
zio degli «intermedi», lo spettacolo scenicomusicale piú gradito alla cultura rinascimentale. Ve ne furono di diversi tipi: «apparenti» (un’azione scenica musicata), «di moresca» (una danza pantomima raffigurante un combattimento stilizzato) o di semplice musica vocale. Agli intermedi «apparenti» si diede progressivamente maggior peso, soprattutto al fine di veicolare sontuosamente, tramite allegoria, encomi, auspici e messaggi politici connessi con l’evento dinastico. La musica – unitamente a scenogra-
Arazzo raffigurante una dama che suona un organo portativo. Produzione parigina (o fiamminga), primo quarto del XVI sec. Angers, Castello.
VIVERE DA SIGNORI
53
VIVERE DA SIGNORI
Concerto, dipinto murale di Niccolò dell’Abate. 1548-1551. Bologna, Palazzo Poggi, Sala dei Concerti e delle Fatiche di Ercole. Nel Cinquecento la musica entra da protagonista negli spettacoli teatrali con gli «intermedi», eseguiti tra un atto e l’altro e divenuti presto il pezzo forte dello spettacolo.
54
VIVERE DA SIGNORI
La musica
fia, macchinistica e danza – ebbe largo impiego in questo tipo di rappresentazioni, fino a divenirne indiscussa protagonista. Nella produzione di tali forme spettacolari, nella loro pubblicizzazione e nell’attribuzione a esse di potenti significati politici e autocelebrativi fu esemplare la corte ducale dei Medici.
Le prime pubblicazioni
A partire dal 1539, Firenze ospitò di frequente questo tipo di spettacoli, il cui pregio mirava a simboleggiare (e consolidare) il prestigio di una casa di origini mercantili solo di recente assurta a rango signorile; il protagonismo di Firenze in questo settore sta sia nella larghezza di mezzi con cui questo tipo di spettacoli venne progettato e realizzato, sia nell’intento di sottrarli alla
volatilità della rappresentazione e trasformarli in veri monumenta, mediante la pubblicazione di dettagliate ed enfatiche descrizioni nonché delle partiture musicali usate allo scopo. Nel 1539 si celebrarono le nozze fra Cosimo I de’ Medici ed Eleonora di Toledo, matrimonio posto a suggello dell’avvicinamento di Cosimo a Carlo V: vi furono spettacoli teatrali (Il commodo di Antonio Landi), con fastosi intermedi allegorici e celebrativi (ne compose la musica Francesco Corteccia); ampie descrizioni degli eventi furono date alle stampe, ma, soprattutto, si vollero pubblicare le musiche composte per l’occasione (Musiche fatte nelle nozze..., Antonio Gardane, Venezia, 1539): era la prima volta che le partiture per questo genere di spettacoli venivano integralmente pubblicate, con evidente ricaduta sul
Una coppia di angeli musicanti, particolare della Madonna con Bambino in trono tra sant’Agostino, san Giovanni Evangelista, san Posidonio e san Francesco d’Assisi (o Pala Ghedini), dipinto su tavola di Lorenzo Costa 1497. Bologna, S. Giovanni in Monte.
prestigio della corte che quell’edizione aveva patrocinato. Nel 1589, per altre nozze medicee (Ferdinando con Cristina di Lorena), di nuovo si pubblicarono le musiche per gli intermedi progettati da Giovanni de’ Bardi e da Emilio de’ Cavalieri (Intermedi e concerti fatti per la commedia..., Giacomo Vincenti, Venezia, 1591). Questi, rappresentati fra gli atti della commedia La pellegrina di Girolamo Bargagli, erano a tal punto divenuti il vero fulcro d’interesse per il pubblico nonché il luogo d’elezione per comunicare al mondo messaggi autocelebrativi, che il letterato Antonfrancesco Grazzini, detto il Lasca, sentí la necessità di stigmatizzare «la meraviglia, ohimé!, degl’intermedi» compiangendo il ruolo di cornice a cui era stata relegata la commedia dall’attuale moda spettacolare.
Le musiche di questi intermedi furono caratterizzate ora da estrema complessità contrappuntistica, ora da sperimentalismo stilistico (siamo ai primordi dell’uso della monodia accompagnata in contesto teatrale), sempre da ricchezza e varietà di strumentazione. L’effetto desiderato non era quello dell’unità stilistica, bensí quello della varietà smagliante, dell’abbacinante meraviglia destata dall’interazione fra seduzioni sceniche e musicali destinate a soggiogare lo spettatore e a rendere ancor piú efficace il messaggio celebrativo e politico sotteso all’intero spettacolo. Nella loro grandiosità, questi intermedi sono la manifestazione piú clamorosa dell’impiego della musica a corredo della propria immagine e a simbolo del proprio rango che le corti italiane avevano fatto sin dall’inizio della loro storia. VIVERE DA SIGNORI
55
VIVERE DA SIGNORI
La danza
A passo di danza
V
arie testimonianze tendono a presentarci l’epoca fra la fine del Medioevo e l’inizio dell’età moderna come quella di una fioritura del ballo. In una forma o nell’altra, nei tempi e nei luoghi che vi si ritagliano, la passione per la danza finisce infatti per coinvolgere buona parte della società europea del tempo. Occasione per eccellenza per il ballo sono le feste nuziali – da quelle principesche alle plebee. Nel XVI secolo, un apologista non dei piú prevedibili, Martin Lutero, difende dagli attacchi dei moralisti il diritto dei giovani a ballare; e coglie anche l’occasione di un commento al racconto evangelico di una festa nuziale come quella di Cana (Giovanni, II) per riaffermare la legittimità delle danze che vi si tenevano per consuetudine. Le interminabili feste danzanti
56
VIVERE DA SIGNORI
di Alessandro Arcangeli
dovevano richiedere un certo dispendio di energia. È un luogo comune dei predicatori medievali lamentarsi del fatto che le stesse donne che fanno credere di non essere in grado di recarsi a piedi alla Messa, possono poi passare ore a ballare all’aperto. Nel contesto della conformazione urbanistica e sociale della vita delle comunità medievali, è inevitabile che le adunate danzanti si concentrino intorno agli spazi occupati dalla chiesa e dal camposanto. Ma l’usanza non passa certo inosservata: la profanazione del luogo e del tempo sacro è un bersaglio delle invettive dei predicatori. Se dai luoghi pubblici ci spostiamo agli spazi chiusi, o comunque piú privati e piú ristretti, ritroviamo due consuetudini. Dai castelli medievali ai palazzi rinascimentali, l’ambiente cortese e
Danza nuziale all’aria aperta, olio su tavola di Pieter Bruegel il Giovane, da un originale di Pieter Bruegel il Vecchio. 1607. Bruxelles, Musées royaux des Beaux-Arts de Belgique. signorile ospita, per un verso, la pratica dei balli di società, passatempo fra i piú ricorrenti; le élite che lo praticano sono sempre attente a tenersi aggiornate con le danze di moda. Dall’altro, frammista alla musica, la danza è la componente importante di una lunga tradizione di intrattenimenti, ininterrotta ma in continua trasformazione, a cui la maggior parte delle persone si limita ad assistere come pubblico. Spettacoli in cui il ballo è uno degli ingredienti si tengono regolarmente in occasione delle feste. Le pose acrobatiche in cui l’iconografia dell’arte medievale rappresenta la
danza di Salomè al banchetto di Erode sono solo uno dei segnali che ci indicano a quale genere di altre pratiche il ballo si accompagnasse: performance equilibristiche e buffonate dei giullari. Mentre il ballo a cui tutti partecipano è attività ben piú dignitosa, il ballerino professionista porta con sé quest’eredità di imbonitore, ruffiano in cerca di un’elemosina. Lo spettacolo sembra diventare una cosa piú seria in concomitanza con un certo numero di sviluppi politici e culturali.
In alto Salomè danza per Erode, particolare di uno dei mosaici del battistero fiorentino di S. Giovanni. 1271-1330. Qui sopra particolare di una miniatura raffigurante una dama che balla fra due cavalieri, da un’edizione del Theatrum Sanitatis. XIV sec. Roma, Biblioteca Casanatense.
VIVERE DA SIGNORI
57
VIVERE DA SIGNORI
La danza circolazione a soggetti mitologici, che vengono rappresentati in una varietà di forme spettacolari, dai tableaux vivants, a sfilate, al dramma teatrale.
La passione per l’esotico
In alto danza tradizionale di un gruppo di indigeni africani, da il Costume antico e moderno. 1830. Venezia, Fondazione Querini Stampalia. In basso nove fanciulle danzano al ritmo del tamburello della decima compagna, particolare degli Effetti del Buon Governo in città, affresco di Ambrogio Lorenzetti. 1338-1339. Siena, Palazzo Pubblico.
58
VIVERE DA SIGNORI
Le corti di re e signori prestano un’attenzione crescente all’immagine di sé, alla rappresentazione pubblica del potere. Accade cosí che l’entrata trionfale dei re di Francia, non appena insediati, nella capitale e nelle altre città principali del loro dominio, tenda a concludersi con un banchetto e un ballo. La riscoperta umanistica dell’antichità classica ridà vita e
Ingrediente fondamentale di questo ventaglio di forme di spettacolo è l’esotico. Sullo scorcio del Medioevo, le grandi scoperte geografiche mettono in rapporto i viaggiatori e conquistatori europei con una varietà ampia di civiltà. In Africa come in America, gli Europei registrano spesso l’importanza di musica e danza nel ciclo rituale dell’esistenza di altri popoli. Il selvaggio che balla – anche quello importato in carne e ossa, come un’esibizione da circo – entrerà presto a far parte dell’immaginario europeo. E l’esotico caratterizza la forma per eccellenza dello spettacolo coreografico italiano del XV secolo: la moresca. Legata alla tradizione delle danze armate, essa include schermaglie mimate, in cui si rappresenta la memoria delle crociate contro gli infedeli «mori». In realtà, il termine viene usato all’epoca con un’accezione piú generica, e si tende ad applicarlo a qualsiasi
In alto Festa campestre, olio su tela di David Teniers il Giovane. 1648. San Pietroburgo, Museo Statale Ermitage. rappresentazione mascherata e in costume. Le rappresentazioni teatrali non sono meno importanti per le pause tra un atto e l’altro, che vengono riempite dagli intermedi, performance musicali e danzate, le cui coreografie mettono in scena alcune fra le prime prove di balletto. Ne contiene già la rappresentazione, alla corte mantovana dei Gonzaga, della Favola di Orfeo di Angelo Poliziano (1480); poco piú di un secolo dopo, quando lo stesso tema mitologico viene ripreso da Claudio Monteverdi, l’elaborazione delle forme moderne di teatro musicale è già a piena maturazione. A stimolare la sperimentazione di innovazioni teatrali caratteristiche dell’età barocca, dall’opera al balletto, avevano lavorato nel Rinascimento circoli accademici francesi e italiani. Si era qui venuto elaborando, sotto l’influenza culturale del richiamo
umanistico alle forme di spettacolo dell’antichità classica, l’ideale estetico di una fusione fra poesia, musica, danza e pittura. Uno sviluppo drammatico della trama che permette di parlare di veri e propri balletti si ritrova in una serie di allestimenti che accompagnano la vicenda della monarchia francese nel corso del XVI secolo, e a quel
contesto politico si riferiscono piú o meno apertamente nei loro soggetti.
Uno svago trasversale
Chi balla? Non esistono specializzazioni esclusive: il pregiudizio negativo contro un’eccessiva abilità nella danza come inappropriata per l’uomo, al punto da farla apparire poco «virile», è il frutto di un’evoluzione nelle
Qui accanto Gli Hiermini, disegno di Giovanni Tommaso Borgonio per il balletto La Fenice ritrovata. 1644. Torino, Biblioteca Nazionale.
VIVERE DA SIGNORI
59
VIVERE DA SIGNORI
Un torneo nella Francia del XV secolo, da Le Livre des Tournois di Renato d’Angiò. Parigi, Bibliothèque Nationale 60
VIVERE DA SIGNORI
La danza
mentalità relativamente recente. Anzi, gli esperti per eccellenza, i maestri dell’arte, sono invariabilmente maschi; e tendono ad associare alla specializzazione nel ballo quella in arti cavalleresche dalle connotazioni di genere meno equivoche, come il cavalcare o il tirar di scherma. Resta il fatto che un’identità squisitamente femminile del danzare in genere non manca di affiorare in una varietà di contesti. Si considera proverbiale che la caccia sia il divertimento preferito dagli uomini, la danza quello delle donne. E il bersaglio con cui se la prendono tanti predicatori è la donna che, intonando il canto, guida il ballo. È l’associazione di idee donna-ballolussuria che è qui in funzione; la danza vi figura come pericolo in cui gli uomini rischiano di incorrere in quanto
trappola della seduzione femminile. Quanto ai gruppi d’età, i giovani sono di gran lunga i protagonisti. Ma non lo disdegnano neanche i vecchi. Dal punto di vista sociale, è evidente che, chi in un modo chi nell’altro, ballano tutti. Certo, non tutti i gruppi sociali danzano assieme; ma gli storici hanno da tempo sostenuto che una separazione sulla base del ceto delle pratiche festive matura solo nel corso di un processo di allontanamento, con cui le élite si vengono a distinguere, e disdegnano abitudini che avevano prima
A destra De Tilia, incisione realizzata per un’opera del botanico Hieronymus Bock raffigurante un tiglio attorno al quale si svolge un ballo al suono di una cornamusa. XVI sec. Londra, Wellcome Library. Il popolo delle campagne e delle città continua con le sue pratiche festive, nonostante le condanne clericali o i tentativi di controllo da parte dell’autorità politica. Ritenere quella folclorica una tradizione sempre uguale a se stessa è certo un pregiudizio culturale; ma le testimonianze che ci permettono di ricostruire tradizioni e stili piú specifici rimangono indirette e circoscritte. Il senso generale è, anche in questo caso, quello del ballo come di una pratica sociale di importanza centrale.
Ballo e buone maniere
In alto miniatura raffigurante Dama Oiseuse (l’ozio tentatore) che conduce l’amante nel giardino di Déduit (il divertimento), dove un gruppo di giovani danza spensierato, da un’edizione del Roman de la Rose di Guillaume de Lorris. 1460 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Nella pagina accanto Lezione di danza, olio su tela di Pietro Longhi. 1740-1750. Venezia, Gallerie dell’Accademia.
condiviso. La corte è, anche qui, luogo di elaborazione di una forma di ballo nobile, di cui l’aristocrazia cerca di mantenere il monopolio, come manifestazione di stile e forma di intrattenimento prerogativa del suo status. Ma la borghesia delle professioni si appropria delle medesime danze, come attesta la circolazione in ambienti urbani delle stesse coreografie concepite per un contesto signorile.
Nelle città italiane del Rinascimento sono spesso gli Ebrei a tenere scuole di ballo, dove – nonostante le resistenze culturali e religiose – possono avere anche allievi cristiani. I maestri tengono proprie scuole in città, ma sono spesso anche attivi nelle corti signorili, dove educano all’arte del ballo i rampolli dell’élite dominante. Si tende ad associarne l’insegnamento a quello delle buone maniere; e anche in età moderna nei collegi d’educazione, compresi quelli rinomati gestiti dai padri gesuiti, si insegnerà la danza come mezzo di educazione al portamento eretto e alle regole dell’etichetta sociale.
VIVERE DA SIGNORI
61
VIVERE DA SIGNORI
62
VIVERE DA SIGNORI
La danza
A sinistra replica colorata di un’incisione raffigurante un ballo realizzata da Nikolaus Solis per l’opera Kurtze doch gegründte beschreibung des Durchleuchtigen hochgebornen Fürsten... 1568. coreografico avviato dai maestri del XV secolo: cosí quelle milanesi e romagnole degli Sforza, come quella urbinate dei Montefeltro. La Roma dei papi non è da meno, e nemmeno i cardinali disdegnano di allestire sontuosi balli. Il secolo successivo assisterà a un primo significativo flusso migratorio di maestri italiani all’estero. Non sembra fuori luogo concepire lo spettacolo di balletto da cui le storie della danza fanno iniziare la tradizione del balletto teatrale, allestito a Parigi da un coreografo italiano, come un prodotto culturale intrinsecamente «europeo».
Spezzare la catena
Qui sopra Minuetto (o Ballo di carnevale), olio su tela di Giandomenico Tiepolo. 1754 circa. Parigi, Museo del Louvre. Nella pagina accanto La liberazione di Tirreno e d’Arnea, incisione di Jacques Callot raffigurante il primo intermezzo del balletto omonimo, messo in scena per le nozze di Caterina de’ Medici con Ferdinando Gonzaga. 1617. Una varietà di spettacoli di balletto viene allestita, nel corso del Rinascimento, sulle piazze, nelle corti e, infine, nei teatri; e, anche se chi vi partecipa danzando non è da principio affatto un professionista, prende qui il via una forma di intrattenimento che
alla fine approderà proprio a quello. Per il momento comunque, per tutto il Rinascimento, nelle pratiche dell’élite esiste a malapena una distinzione fra l’intrattenimento quotidiano delle danze di sala e la rappresentazione di veri e propri spettacoli. Si danza per essere visti; e già una sfilata ben ordinata di coppie si esegue perché la si ammiri. D’altro canto, nelle rappresentazioni di carattere piú spiccatamente teatrale si sogliono personalmente esibire i principi e i nobili delle loro corti. Le corti di alcuni fra i principali Stati dell’Italia rinascimentale sono fra le protagoniste del rinnovamento
La carola medievale alterna le forme del circolo e della catena: l’uno si può aprire e trasformare nell’altra, che si intreccia e prima o poi si richiude. Le danze in forma di catena o di circolo non svaniscono con l’esaurirsi della tradizione della carola, ma continuano in una serie di tradizioni popolari, come il branle francese. Era tradizionalmente la danza d’apertura nelle feste da ballo. In alcune forme di branle, la catena a un certo punto si spezza in coppie. Si può riconoscere lo stesso itinerario nel procedere storico dalla danza medievale a quella rinascimentale. Mentre prima prevaleva il carattere comunitario, si viene poi affermando un predominio della coppia (la coppia danzante è quasi sempre eterosessuale, tappa fondamentale dei rituali legati al matrimonio; mentre le connotazioni di genere delle danze di gruppo, fossero o no promiscue, rimanevano piú sfumate). Una struttura ampiamente documentata dalle immagini e dalle testimonianze scritte del Rinascimento è la sfilata di coppie. Nell’area francofona, la bassedanse trova nella corte dei duchi di Borgogna uno dei suoi centri di diffusione. Essa si avvale di un lessico motorio definito. Oltre alla riverenza (inchino) iniziale,
VIVERE DA SIGNORI
63
VIVERE DA SIGNORI
La danza
secolo ha preso le distanze da quello che l’aveva preceduto: dove prima dominavano l’estetica della leggerezza e della soavità, si impongono ora destrezza e abilità. Con la volta si inaugurano poi, sempre nel XVI secolo, le danze a coppia chiusa, che roteano facendo perno su se stesse, come poi il valzer. La coppia tende ancor piú a isolarsi; e ha modo di intrattenere forme di contatto fisico, fino al sollevamento della dama da parte del cavaliere, su cui i moralisti del tempo avevano molto da ridire. Non sorprende che i trattati di demonologia presentino la volta come la danza tipica delle streghe. Per muoversi con agilità nel ballo, soprattutto se vivace e tecnicamente impegnativo, sarebbe necessario uno stile di abbigliamento relativamente sobrio e pratico. Ma le regole dell’etichetta possono proibire questo, soprattutto quando ci si avvicina alla cerimoniosità barocca. La consuetudine piú recente ad associare la danza con musica strumentale si scontra con l’insistenza diversa che rivela la documentazione questo consiste del passo semplice (un piede avanza, poi l’altro vi si ricongiunge), del passo doppio (avanza un piede, poi l’altro, di nuovo il primo, e il secondo vi si ricongiunge), del branle (spostamento del peso corporeo da un piede all’altro) e della ripresa (passo indietro).
Corteggiamenti mimati
Il linguaggio dei movimenti si amplia e si complica nelle forme di danza che si caratterizzano in maniera piú marcata come performance solistica. È il caso della gagliarda, la danza piú rappresentativa dello stile in voga nelle sale europee a partire dalla metà del XVI secolo. Il suo modulo di base è costituito da un alternarsi di calci saltellati, ora su un piede ora sull’altro. Mimando un rituale di corteggiamento, i due partner tendono a esibirsi in queste evoluzioni piú elaborate l’una dopo l’altro, fermandosi a guardarsi a vicenda. Con il successo di forme di ballo di questo genere, lo stile del XVI
64
VIVERE DA SIGNORI
Sulle due pagine fanciulle che danzano, particolare della Chiesa militante e trionfante, affresco di Andrea di Bonaiuto. 1365 circa. Firenze, S. Maria Novella, Cappellone degli Spagnoli
medievale: le carole vengono «intonate», i predicatori se la prendono con le donne che «cantano», guidando i balli. Anche la musica da ballo per insiemi di strumenti che viene data alle stampe nel corso del XVI secolo rivela, se non altro nei titoli dei brani, un’origine vocale.
Una forzatura polemica
Si balla per divertirsi. Il cerimoniale lascia però intravedere anche una varietà di ragioni e di circostanze rituali: dai riti legati alla rappresentazione e all’esercizio del potere, a quelli di cui è intessuta la sociabilità urbana (o di villaggio rurale). L’interpretazione del ballo popolare come cerimonia pagana o diabolica, che ricorre nella pastorale del cristianesimo medievale, è una forzatura polemica. Non andrebbe però escluso che quella interpretazione sappia cogliere un contenuto profondo delle consuetudini danzanti delle comunità, il «rito» che mantiene intrecciati legami sociali, potenzialmente concorrenti con quelli stabiliti dalla Chiesa.
A destra miniatura raffigurante una scena di danza, da un’edizione del Tacuinum Sanitatis. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek. Nella pagina accanto Ballo alla corte delle Fiandre (particolare), olio su tela di Frans Francken II. XVII sec. Troyes, Musée des Beaux-arts.
Le forme dell’associazionismo medievale che offrono l’occasione per l’organizzazione di feste da ballo sono numerose, e almeno le confraternite laicali non andrebbero passate sotto silenzio. Ma il legame piú ovvio in questo quadro è quello matrimoniale. Si balla alle nozze. Lo fanno soprattutto giovani non maritati alla ricerca di un o una partner.
E da quella speciale familiarità che può nascere solo nel ballo, scaturiranno le nozze – e le danze – successive. E proprio a questa commistione guardano con disapprovazione i moralisti. La promiscuità sessuale che si realizza nel ballo ha pochi paralleli fra le abitudini che passano per lecite, per cui nella danza si incarna per eccellenza la seduzione. Vuoi perché la pratica sociale del ballo cresceva d’importanza, vuoi perché la pastorale del cristianesimo medievale nell’età del rifiorire dell’urbanesimo richiedeva di prestare maggiore attenzione alle (cattive) abitudini dei fedeli, sta di fatto che a partire dal XIII secolo si registra l’interesse di teologi e predicatori per la danza. La discussione del tema si inscrive in una lunga tradizione. Già Cicerone, in una delle sue orazioni (Pro Murena, 6, 13), aveva dichiarato che «nessuno in genere balla sobrio, a meno che non sia impazzito». L’affermazione – la piú citata in fatto di danza nella storia della cultura occidentale – veniva ad associare il ballo con due forme per eccellenza di sregolatezza: l’ubriachezza e la follia. I Padri della Chiesa – fra gli altri, Agostino – avevano rincarato la dose. In direzione opposta operava l’influenza dell’etica aristotelica, percepibile anche in alcuni teologi (fra cui Alberto Magno e Tommaso d’Aquino).
VIVERE DA SIGNORI
65
LE GIOSTRE E I TORNEI
Nemici per gioco Giostre e tornei godettero di grande successo nel Medioevo. Le battaglie simulate – non senza morti e feriti – erano momenti essenziali nella formazione di un cavaliere, nonché occasioni di lauti guadagni di Duccio Balestracci
Illustrazione raffigurante la mêlée (mischia) dei cavalieri nel corso di un torneo, dall’opera di Renato I d’Angiò Le livre des tournois, miniata da Barthélémy d’Eyck. 1460 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France. 66
VIVERE DA SIGNORI
VIVERE DA SIGNORI
67
VIVERE DA SIGNORI
Le giostre e i tornei
G
uglielmo I, conte di Pembroke (poi detto «il Maresciallo», personaggio eminente, ricco di prestigio e di soldi, vissuto nella Francia del secondo XII secolo) cominciò la sua carriera combattendo nei tornei. Figlio cadetto di un piccolo aristocratico inglese, aveva passato la Manica per fare ciò che tanti altri nella sua stessa condizione familiare avevano e avrebbero fatto: offrire i suoi servigi di scudiero a un signore, per compiere presso di lui l’apprendistato di cavaliere. Ancora ragazzo, dunque, il padre lo invia in Normandia, alla corte di Guglielmo di Tancarville, funzionario del re inglese nel continente. Lí il nostro giovanissimo Guglielmo trova il suo ambiente ideale: impara il mestiere delle armi; riesce a uscire indenne dal viperaio di pettegolezzi e invidie che ammorba l’entourage degli altri scudieri come lui, ciascuno dei quali ansioso di mettersi in mostra presso il signore a scapito degli altri; si fa notare per la sua capacità di combattente. Nel 1167 (piú o meno ventiduenne, se sono valide le ipotesi sulla sua data di nascita, collocabile intorno al 1145) riceve l’investitura di cavaliere. In realtà, però, quella che può sembrare una meta per questi giovani è solo il punto di partenza: all’indomani dell’essere stato armato, il soggiorno di un cavaliere presso il signore che l’ha avuto scudiero si conclude inesorabilmente e, in genere, il novello Lancillotto deve mettersi la strada fra le gambe e andare in cerca di fortuna. Se la trova. Guglielmo evidentemente è nato con la camicia: appena investito cavaliere, giunge al signore di Tancarville l’annuncio di un torneo. Un’occasione imperdibile, ma occorre mettere in piedi la squadra in quattro e quattr’otto e, ancorché come soprannumerario, Guglielmo viene subito ingaggiato. Comincia qui la sua fortuna: con i tornei, Guglielmo (come scrisse il grande storico francese Georges Duby [1919-1996], che ne ricostruí la biografia ne Guglielmo il Maresciallo. L’avventura del cavaliere, pubblicato in Italia da Laterza nel 1985 e piú volte ristampato) «impara che il valore serve in primo luogo a diventar ricchi». Ai tempi di Guglielmo, se il torneo può trasformarsi in mezzo per farsi conoscere o addirittura
In alto miniatura raffigurante una giostra presso Calais (Francia), da un’edizione delle Chroniques di Jean Froissart. 1470-1475. Londra, The British Library. Nella pagina accanto scena di torneo, dal manoscritto Ordonances of Chivalry. Produzione inglese, seconda metà del XV sec. New York, The Pierpont Morgan Library. 68
VIVERE DA SIGNORI
«FACCIAMO CH’IO SIA GALVANO...» Nobili, borghesi e popolani hanno una passione in comune: quella per i romanzi e i racconti cavallereschi. Il ciclo carolingio, ma soprattutto quello arturiano, magari divulgato attraverso le pagine (lette o piú spesso sentite leggere) di Chrétien de Troyes, sono conosciuti e, spesso, presi a riferimento per l’organizzazione di giostre, tornei e passi d’arme. In Stiria, nella prima metà del Duecento, un signore che organizza un torneo impone a tutti i partecipanti di scegliersi, ciascuno, una figura di riferimento dei romanzi arturiani e di far rivivere nelle gesta e nello spirito il cavaliere prediletto. In Italia non avviene niente di diverso se, come scrive tra la fine del Duecento e l’inizio del Trecento Buoncompagno da Signa, in non poche città alcune brigate di giovani scelgono come nome quello della Tavola Rotonda (per inciso: a Pisa si designerà con
questo nome non solo una compagnia, ma una vera e propria tipologia di torneo). Nel 1452, un passo d’arme combattuto nei pressi di Seamur viene programmaticamente ispirato alle gesta di Ivano, ed Edoardo III di Inghilterra, per parte sua, è talmente affascinato dalle gesta arturiane da proclamare, nel 1344, una giostra della «Tavola Rotonda» riservata a quaranta cavalieri inglesi, francesi, scozzesi, borgognoni, brabantini, fiamminghi, tedeschi e dell’Hainault. In quell’occasione, sostengono alcuni cronisti, il sovrano si sarebbe fatto costruire una casa di forma circolare in Windsor Park, denominata, ancora una volta, «Tavola Rotonda» e destinata a ospitare una copia della celebre tavola di Artú e dei suoi prodi. Il modello del nostalgico sovrano fa scuola: secondo alcune cronache, infatti, il re di Francia, appresa la notizia e geloso del collega inglese, si sarebbe subito fatto costruire anch’egli una Tavola Rotonda a esatta imitazione di quella di Windsor.
VIVERE DA SIGNORI
69
VIVERE DA SIGNORI
Particolare della decorazione di un cassone raffigurante un torneo, tempera su legno. Produzione fiorentina, 1460-1470. Tours, Musée des Beaux-Arts.
70
VIVERE DA SIGNORI
Le giostre e i tornei
per diventare ricchi è perché questa manifestazione manda letteralmente in visibilio l’aristocrazia. Soprattutto in Francia (dove indiscutibilmente è nato, che sia veridica o meno l’attribuzione della sua paternità a Goffredo di Preully), quasi non passa settimana che, da qualche parte, non si assista allo spettacolo delle schiere di cavalieri che si affrontano in una guerra simulata e si combattono per gioco. «Per gioco» per modo di dire: la realtà è infatti ben diversa, perché in ogni torneo ci sono feriti e, quasi di regola, morti. Nel solo torneo combattuto nel 1239 a Neuss, nei pressi di Colonia – per non fare che un esempio, ma niente affatto eccezionale –, perde la vita un numero di cavalieri impressionante: alcuni dicono sessanta, altri ottanta. Nemmeno i sovrani, del resto, vanno esenti dal rischio di lasciare la pelle in questo gioco di morte: nel 1186, per esempio, per i
postumi di una ferita riportata in torneo muore il figlio di Enrico II Plantageneto, Goffredo, anticipando cosí quel tragico episodio che sconvolgerà la cristianità quando, nella Francia del 1559, una scheggia della lancia del cavaliere Gabriel de Lorges, signore di Montgommery, s’infila nella celata di re Enrico II, trapassandogli l’occhio e portandolo alla morte.
Una popolarità senza confini
Ma la pericolosità di questo esercizio a metà strada fra il gioco e l’addestramento militare non ferma i cavalieri. Il torneo e la giostra dilagano in Francia. Dalla seconda metà del XII secolo questi combattimenti sono popolarissimi in Germania (tanto che la saga dei Nibelunghi – frutto di una lunga sedimentazione di redazioni che coprono mezzo millennio, dall’XI al XV secolo – mette in scena addirittura un’im-
cardo Cuor di Leone, che peraltro ama il torneo quanto tutti gli altri suoi cavalieri, si lamenta del fatto che, senza di esso, la sua gioventú guerriera non ha modo di addestrarsi per la crociata. E dà il via libera agli incontri sul suolo inglese. Non minore è il favore incontrato dal torneo in Italia. All’inizio del XII secolo, l’abilità di combattente in questo tipo di scontro fa parte delle note salienti del curriculum di un cavaliere, come si può leggere nei resoconti pisani della guerra delle Baleari (1113-1115) a proposito, per esempio, di Ugo Visconti – il quale perse la vita nell’impresa –, rimpianto come eccellente cavaliere negli hastarum ludibus (alla lettera, «giochi con le lance», da cui l’altro nome della giostra e del torneo: astiludio) e nei giochi con i cavalli. Se è vero che il torneo ricorda una guerra in vitro e se è innegabile che in esso non mancano In basso il duca di Savoia in tenuta da torneo, con le insegne della casata sulla sopravveste.
probabile giornata di tornei di cavalieri alla corte di Attila re degli Unni); raggiungono in ritardo la Spagna (anni Trenta del Trecento), ma quando arrivano nella penisola iberica la contagiano completamente. In Inghilterra, secondo la cronaca di Guglielmo di Newbury, il torneo sarebbe stato introdotto dalla nobiltà normanna durante il tumultuoso regno di re Stefano (1135-1154), per venire poi severamente vietato (si vedano i rigidi bandi di Enrico II). Ma proprio il divieto inglese ci fa toccare con mano il favore di questo gioco di guerra presso i cavalieri: impossibilitati a combatterlo sul suolo inglese, infatti, gli aristocratici dell’isola vanno a giostrare «in trasferta» sul continente, soprattutto in Francia. Nel 1194, dopo quarant’anni di questo andazzo, RicVIVERE DA SIGNORI
71
VIVERE DA SIGNORI
Le giostre e i tornei
PIÚ DEI DOGMI POTÉ LA CROCIATA La Chiesa condanna senza riserve il torneo e la giostra: quella ostentazione di ricchezza, quella violenza che tali manifestazioni fisiologicamente si portano dietro non convincono i buoni ecclesiastici, che lanciano i loro anatemi già a partire dal concilio di Clermont del 1130 e da quello di Reims dell’anno successivo. Al cavaliere morto in torneo viene negata sepoltura in terra consacrata, perché – ribadisce in questi stessi anni Bernardo di Chiaravalle – una cosa è morire per la fede di Cristo e cosa del tutto diversa e depravata è farsi ammazzare per conquistare ricchezze e gloria. I Concili Lateranensi del 1139 e del 1179 rinnovano l’interdetto, tanto piú che giostra e torneo appaiono antitetici a quanto la Chiesa va proponendo come ideale per il cavaliere: la Pax Dei e l’impegno senza riserve a mettere la sua valentía al servizio del recupero della Terra Santa. Il Concilio Lateranense del 1215 ribadisce il concetto, ma, cento anni piú tardi, nel 1316, una decretale di Giovanni XXII segna un vistoso dietro-front rispetto a quanto la Chiesa aveva sempre affermato fino ad allora. Senza i tornei, sostiene il pontefice, i cavalieri non si possono addestrare per la crociata. Cosí, il divieto ecclesiastico viene revocato per Francia, Germania e Inghilterra. Se fino a quel momento era stato arduo per la Chiesa far rispettare i suoi interdetti, da allora in poi torneo e giostra possono dire di avere guadagnato una forte (e irreversibile) legittimazione.
momenti di crudezza e di violenza, è altrettanto vero che fra la guerra e il torneo ci sono diversità che pongono quest’ultimo esercizio a metà strada fra il combattimento e lo sport. Il combattimento in torneo è preceduto dalla parata dei partecipanti, un’occasione per sfoggiare cavalli poderosi, armature sfavillanti e vestiti preziosi: un «rito» che somiglia, è vero, alla mostra che fa l’esercito prima del combattimento per terrorizzare l’avversario, ma che, se si guarda il modo e lo spirito con il quale si svolge, è piú una «passerella» di vanità e di ostentazione. I cavalieri piú famosi dispongono di un loro araldo, che ne magnifica le gesta: «Dio aiuti il Maresciallo!» usa gridare l’araldo di Guglielmo, e Chrétien de Troyes racconta di un ben strano araldo, tutto stracciato e male in arnese che, quando Lancillotto scende in campo, si mette a urlare: «Ecco chi farà la differenza! Ecco chi farà la differenza!».
a prima vista anche da chi segue da lontano il combattimento). Un araldo deve essere in grado di riconoscere ciascun cavaliere, di sapere a menadito quali imprese ha compiuto fino a quel momento, quali scontri ha vinto e in quanti è uscito sconfitto. A differenza del combattimento guerresco, che
Chi c’è sotto l’elmo?
In qualche caso l’araldo si comporta in maniera meno signorile e, oltre a lodare il proprio signore, si lascia andare a insulti anche volgari nei confronti degli altri cavalieri denigrandone la valentía di combattenti. L’araldo, inoltre, è un «decodificatore» indispensabile: occorre bene che ci sia qualcuno in grado di spiegare chi si nasconde sotto i chili di ferro delle armature, sotto le celate abbassate e sotto quella selva di colori, motti, insegne, stemmi, «imprese» e simboli che campiscono sulle vesti, sulle gualdrappe dei cavalli, sugli scudi e sulla cima dell’elmo (i «cimieri», appunto, di dimensione ragguardevole, tali da poter essere identificati 72
VIVERE DA SIGNORI
è senza quartiere, nel torneo ci sono tempi morti per permettere ai cavalieri di recuperare le forze; ci sono fasi alle quali non partecipano tutti i contendenti (i piú giovani, per esempio, cominciano a combattere prima degli anziani per mettersi in mostra); lo scopo primo non è uccidere, ma far bottino.
Nella pagina accanto, in alto miniatura raffigurante l’ingresso dei giudici nella città scelta per la disputa del torneo, dal Livre des tournois di Renato I d’Angiò. 1460 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France. In basso miniatura raffigurante un cavaliere, da un’edizione del Turnierbuch (Libro dei tornei) di Georg Rüxner. 1615 circa. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.
Del resto, già dal XII secolo, lo stesso armamentario del cavaliere comincia progressivamente a perdere certe caratteristiche pericolose: si introducono lance spuntate o con la punta fasciata; le spade vengono anch’esse spuntate e viene loro tolto il filo. Dal XIII secolo nella giostra a scontro individuale si comincia a usare la lancia «di cortesia», provvista, sulla cima, anziché della punta, di una corona di legno dentata, che può disarcionare, ma non ferire.
Liberi «sulla parola»
Chi è vinto deve pagarsi il riscatto in termini di armi, cavalli, denaro. Una volta messi a terra, si può uscire dal gioco oppure si può dare al vincitore la propria parola d’onore che il riscatto sarà pagato e si torna liberi «sulla parola». Cosí il cavaliere può ricominciare a combattere, sperando di riguadagnare a spese di un altro quanto serve a pagare il proprio riscatto. Beninteso: non mancano, nell’epica cavalleresca, casi di cavalieri particolarmente inetti o sfortunati, che nella stessa giornata vengono fatti prigionieri piú di una volta e che, alla fine, devono pagare il riscatto a piú persone. Il torneo e la giostra sono regolamentati e controllati da arbitri. Specialmente nella giostra, il numero dei colpi che si possono dare è, non di rado, prefissato. I colpi dati e ricevuti vengono contati (proprio come si fa su un ring di pugilato) e i giudici di gara attribuiscono un punteggio a ciascun colpo: quello portato al
In basso ancora una miniatura dal Livre des tournois di Renato d’Angiò, raffigurante il banditore che rende noti i nomi dei duellanti e dei giudici, mentre l’araldo distribuisce gli stemmi dei partecipanti. 1460 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
VIVERE DA SIGNORI
73
VIVERE DA SIGNORI
Le giostre e i tornei
petto ha un valore diverso da quello al capo; quello che colpisce la «schifa» della lancia – la parte che copre la mano – ne ha un altro ancora e cosí via. Spesso sono proibiti i colpi al di sotto della linea della sella, tanto che non è infrequente trovare armature da giostra che non prevedono alcuna protezione alle gambe. Alla fine dell’incontro, gli arbitri stilano (come in un campionato) la classifica, che sarà divulgata tramite la rete degli araldi e sarà aggiornata all’incontro successivo. Per fare gli arbitri occorre essere esperti di giostre e di tornei, ma bisogna anche dare garanzie di serietà. Non ci si stupisce, pertanto, di trovare nelle città italiane del tardo Medioevo e del primo Rinascimento anche alcuni notai impiegati in questo (apparentemente insolito per loro) incarico. Apparentemente, appunto, perché la passione per i giochi d’arme contagia tutte le classi sociali. Cosí, a Firenze, negli anni Venti del Quattrocento, accanto ad arbitri che portano i nomi delle piú blasonate famiglie cittadine, siede (e anzi è considerato un grande e stimato esperto) Bartolomeo di ser Piero di Un’altra miniatura dal Livre des tournois di Renato d’Angiò, raffigurante il duello tra il duca di Bretagna e quello di Borbone. 1460 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
74
VIVERE DA SIGNORI
Riccomanno Migliorati, che, nella vita, stende rogiti notarili, ma nel cui petto alberga la stessa passione di un Perceval o di un Galvano.
Vicini al pubblico
Con il passare del tempo, soprattutto a partire dal XIII secolo, la forma di incontro che maggiormente gode del favore dei cavalieri diviene, piú ancora che il torneo, la giostra, cioè l’incontro in campo chiuso. Rispetto al torneo, sono sufficienti spazi piú ristretti, e la giostra è sicuramente piú godibile ai fini della spettacolarità, perché il combattimento si svolge a distanza ravvicinata rispetto al pubblico. La giostra (che deriva il suo nome probabilmente da iuxta, cioè vicino; nel senso della vicinanza dei combattenti, mentre il torneo deriva dal francese tourner, cioè combattere girando l’uno intorno all’altro) è comunque una derivazione del torneo, perché, prima che si affrontino le schiere ed entrino in gioco i campioni, i
A destra facsimile ottocentesco di una delle miniature di Hans Burgkmair il Giovane che illustravano un Turnierbuch (Libro dei Tornei) pubblicato intorno al 1553.
La giostra prende probabilmente nome dal latino iuxta, cioè vicino, indicando la vicinanza dei combattenti
cavalieri che si vogliono mettere in mostra si scontrano in singolar tenzone. È probabilmente proprio il narcisismo, lo spirito esibizionistico dei cavalieri a contribuire al maggior favore della giostra rispetto al torneo, perché questo è praticamente il solo modo di farsi notare. La giostra prevede che i cavalieri si affrontino l’uno di faccia all’altro senza alcun ostacolo sul campo, ma chi fa le spese maggiori di questo tipo di combattimento sono le cavalcature che, infatti, non casualmente, nella quasi totalità degli incontri del genere, finiscono massacrate. Per evitarlo, si introduce la barriera (da cui il nome di «giostra alla barriera» o «alla sbarra»), che protegge cavalli e cavalieri, piú o meno fino all’altezza della sella. Poco praticato in Italia, prende piede invece in Francia e in Spagna un altro tipo di affrontamento individuale: il «passo d’arme», combattuto da due cavalieri, uno dei quali si ripromette di difendere una posizione (un ponte, un passaggio) contro chiunque abbia l’ardire di volerlo attraversare. Come che sia, la giostra conquista senza riserve tutta la cristianità e, in maniera particolare, diviene lo spettacolo cavalleresco per eccellenza in Italia. L’accelerazione del favore della giostra procede con decisione nel passaggio fra il pieno Medioevo e il Rinascimento: le corti signorili, da questo punto di vista, intravedono in questa forma di combattimento una formidabile occasione di propaganda politica e di legittimazione del potere. La Firenze di Lorenzo e Giuliano de’ Medici, per esempio, costituisce una sorta di vero e proprio Paradiso terrestre delle giostre: intenzionati a fare dello spettacolo uno strumento di affermazione del loro ideale politico e un manifesto della loro volontà di signoreggiare sulla VIVERE DA SIGNORI
75
VIVERE DA SIGNORI
Le giostre e i tornei A sinistra uomini e donne giocano a palle di neve, particolare dell’affresco del mese di Gennaio, facente parte del ciclo dei Mesi, dipinto nel 1400 circa dal Maestro Venceslao. Trento, Castello del Buonconsiglio, Torre Aquila. A destra Giostra a cavallo in piazza Santa Croce, dipinto murale di Giovanni Stradano e Giorgio Vasari. 1556-1562. Firenze, Palazzo Vecchio.
città, i due fratelli organizzano incontri sfarzosi che catalizzano l’attenzione di tutta la comunità. Gruppi di giovani delle famiglie cittadine politicamente rampanti ed economicamente benestanti danno spettacolo sia con il loro valore, sia con l’ostentazione dei guardaroba e degli armamentari rutilanti e dai costi da capogiro. Ma non sono solo gli aristocratici a vedere nella giostra uno strumento di propaganda politica. Sempre a Firenze, ma in epoca ben precedente a quelle di Lorenzo e Giuliano, alcune giostre sono organizzate dalla Parte Guelfa, il partito che rappresenta gli ideali borghesi e guelfi del governo cittadino e che garantisce la stabilità del regime popolare. In realtà, i borghesi fiorentini di questo primo scorcio del Quattrocento non hanno inventato niente: la borghesia si è appropriata della giostra anche altrove. A Parigi sono i borghesi che, nell’estate del 1330, organizzano giostre a cui sono invitati a partecipare anche i borghesi delle città vicine; a Bruges, fra Tre e Quattrocento, sono ancora i borghesi a organizzare incontri ai quali non disdegnano di prendere parte anche aristocratici, signori (Pietro di Lussemburgo nel 1321) e addirittura i sovrani (Filippo il Buono nel 1427). E, quando non vi partecipano direttamente, i borghesi intravedono nelle giostre e nei tornei lucrose occasioni di investimento. Nel 1449, per esempio, i borghesi di Bruges, Arras, Lille e Saint-Omer si scatenano in una vera gara d’ap76
VIVERE DA SIGNORI
palto per ospitare il «passo d’arme» bandito da un signore della zona, sicuri che la partecipazione degli spettatori e tutto l’indotto che si crea intorno a manifestazioni come queste li risarciranno con gli interessi del denaro anticipato per l’organizzazione. Né la barriera della partecipazione alla giostra si ferma nemmeno ai soli borghesi: è frequente incontrare fra i giostranti soldati di professione (come accade, sempre per fare un esempio, a Firenze nel 1406 quando proprio il primo premio viene conquistato da un soldato dello Sforza che combatte, scrive ammirato un testimone oculare, «come un san Giorgio»), quando pure non si riservano giostre a loro soli. Cosí, solo fare qualche esempio, accade a Siena nel 1225, a Perugia nel 1467, a Venezia nel 1497 e a Firenze nel 1478, nel 1514 e cosí via.
Un’abilità sospetta
Addirittura i famigli possono cimentarsi in questo esercizio da aristocratici: accade ancora una volta a Firenze nel 1471, per esempio, quando davanti a un giudice d’eccezione – Ludovico Sforza – fa bella mostra di abilità un giovane famiglio che resiste a vari assalti senza essere disarcionato, tanto che solo quando un colpo piú forte degli altri lo butta a terra riesce a salvare la sua reputazione, poiché – scrive il Poliziano, che dell’episodio è testimone oculare – nei presenti si stava ormai facendo strada il sospetto che si fosse fatto legare in sella. Accanto a quelli appena ricordati, si sviluppano,
COMBATTERE PER FINTA E... PER AMORE Nel 1267, quando entra in Firenze, Carlo d’Angiò viene accolto con una serie di rituali, fra i quali spicca «l’armeggeria» di un folto gruppo di giovani che si fanno incontro all’ospite «armeggiando», appunto, cioè simulando un combattimento fra loro. Il rituale riveste tanto il senso di spettacolo di benvenuto quanto di atto dimostrativo dissuasorio nei confronti dell’ospite, soprattutto quando quest’ultimo si faccia accompagnare da un esercito: in ogni caso costituisce una forma di giostra urbana. In qualche caso questo spettacolo è inserito all’interno delle feste religiose cittadine (ad Ascoli, nel Trecento, in onore del patrono sant’Emidio, per esempio),
altre volte l’armeggeria completa le feste del carnevale ma in altri casi riveste un chiaro significato politico. Nel 1406, per esempio, ancora una volta a Firenze, la Parte Guelfa organizza una sfarzosa armeggeria per celebrare la caduta di Pisa autoproponendosi come centro e punto di riferimento di tutto lo spettacolo. Ma l’armeggeria può anche far parte di un rituale di corteggiamento. Nel 1464, nell’ultima notte di Carnevale, quando Bartolomeo Benci (e non ci siamo mossi da Firenze) decide di dichiarare il proprio amore a Marietta
Strozzi, una sedicenne di eccezionale bellezza concupita da tutti i rampolli della migliore società fiorentina, mette in scena sotto le sue finestre un’armeggeria preceduta da un corteo fantasmagorico di carri stracolmi di allegorie d’amore fatti sfilare alla luce di una miriade di torce che illuminano a giorno il luogo dell’incontro. Uno dopo l’altro, fino al mattino, lo spasimante e i suoi numerosi amici caricano contro il muro del palazzo, sotto gli occhi compiaciuti della bella, spezzando fragorosamente in suo onore decine di lance di legno.
VIVERE DA SIGNORI
77
VIVERE DA SIGNORI
Le giostre e i tornei
Dall’alto, a destra, in senso antiorario immagini delle giostre della Quintana (Foligno), del Saracino (Arezzo) e dell’Orso (Pistoia). Nella pagina accanto Veduta di Firenze con giostra cavalleresca in via Larga, dipinto murale di Giorgio Vasari. 1561-1562. Firenze, Palazzo Vecchio. un po’ in tutta la cristianità, altri due tipi di giostra: la quintana e l’anello. In origine, si trattava forse di due forme di esercitazione militare: l’anello consiste infatti nel centrare con la punta della lancia un anello (appunto) sospeso, mentre nella quintana si deve colpire con la lancia un bersaglio mobile, che gira su se stesso, evitando il contraccolpo del braccio ruotante. Forse, ipotizza qualcuno, questo è l’ultimo portato dell’esercizio del palus, praticato dall’esercito romano e descritto nel IV secolo da Vegezio, e che si svolgeva nella quinta via (da cui il nome) dell’accampamento, piú ampia delle altre. Questa forma di giostra si trova dappertutto: ne parla il cronista inglese Matteo Paris nel Duecento; si trova attestata in Italia in questo stesso secolo; si gioca in Francia. Il bersaglio della quintana può essere un barile (come in Francia nel XV secolo e a L’Aquila o in alcune località umbre nel Trecento), ma la suggestione delle crociate lo trasforma ben presto in un manichino umano con la faccia di moro (da cui il nome di «saracino» con il quale il gioco sarà conosciuto in alcune località). In qualche raro caso, la quintana diventa nautica, con il cavaliere che cerca di colpire il bersaglio, stando, anziché a cavallo, ben bilanciato sulla barca spinta da vigorosi rematori. Quintana e anello si trovano spesso congiunti nello stesso «pacchetto» di giochi d’arme talvolta, anzi, completati dalla corsa del palio. Cosí 78
VIVERE DA SIGNORI
LE VERSIONI BURLESCHE Giostra, torneo o altri tipi di giochi del genere sono talvolta riproposti in chiave apertamente parodistica o, comunque, burlesca. Salimbene de Adam racconta per esempio di aver assistito perplesso, in occasione del Carnevale del 1287 a Reggio Emilia, allo spettacolo di alcuni cavalieri che mettono in scena un torneo nel quale combattono addobbati in vesti femminili e con le facce truccate. Ma se in questo caso sono i protagonisti tradizionali ad abbandonarsi a un chiaro rito di inversione carnevalesca del loro stesso ruolo, in altre occasioni sono i ceti socialmente esclusi dalla giostra a riproporla in versione buffonesca: a Gand, nel Quattrocento, gruppi di «giostranti» si affrontano montando asini e usando bastoni o addirittura canne da pesca al posto delle lance e, nella prima metà di questo stesso secolo, a Bourges, il ricco mercante Jacques Cœur fa addobbare la sua abitazione con un bassorilievo che raffigura proprio questo tipo di combattimenti. In Germania, alla fine del Cinquecento, borghesi e artigiani danno vita a incontri di giostranti che cavalcano addirittura cavallucci di legno, ricollegandosi piú o meno consapevolmente all’antico patrimonio folclorico delle «danze dei cavalli di legno» (un fenomeno studiato da Jean Claude Schmitt) che, fra il XIII e il XIV secolo – avendo come scenario notturno i cimiteri – si incontrano dalla Francia meridionale ai Paesi Baschi, e che sono legate con funzione di rito di rinascita agraria a particolari scadenze calendariali del ciclo stagionale.
accade in molte località umbre fra Tre e Quattrocento, e cosí accade ad Ascoli Piceno almeno dal Trecento. A Roma l’anello gode di un tale favore che addirittura gli statuti della seconda metà del Trecento prevedono che chi, essendo stato sorteggiato, si rifiuta di partecipare al gioco sarà condannato a pene pecuniarie e alla interdizione dai pubblici uffici per cinque anni.
Divertimento e vino per tutti
A L’Aquila partecipano all’anello, in quattro distinte manche, i diversi strati della società, mentre la quintana assume qui la spettacolare forma di una gara a colpire con la lancia barili, sí, ma pieni di vino che, una volta bucati, elargiscono il loro piacevole contenuto al pubblico, estasiato dallo spettacolo e dalla bevuta gratuita. A Perugia, la quintana gode di una tale popolarità che finisce per mettere in ombra tutti gli altri giochi, e per accompagnare come gioco egemone tutte le principali scadenze – laiche o ecclesiastiche – del calendario cittadino. Con il primissimo Cinquecento, l’automa della quintana perderà il suo principale carattere di ruvidezza, sostituendo al bastone o alla mazza VIVERE DA SIGNORI
79
VIVERE DA SIGNORI
Le giostre e i tornei A sinistra La guerra dei pugni, di Antonio Stom (1688-1734). Venezia, Biblioteca Querini Stampalia. Nella pagina accanto disegno che ricostruisce una battagliola del mazzascudo sull’Arno ghiacciato, nella Pisa del XII sec. Si tratta di un gioco chiaramente derivato dagli esercizi militari: i partecipanti, infatti, si affrontano con mazze di legno, protetti da scudi, anch’essi di legno, e da elmi metallici.
snodata con la quale colpisce l’inesperto giostrante qualcosa di meno duro: nel 1502, per esempio, fa la sua comparsa a Orvieto un bersaglio che, quando ruota, mette in moto un fiasco pieno di cenere, che si limita a segnalare il colpo fallito dal giostrante impolverandone le spalle.
Momenti di vita cittadina
La piazza che accoglie lo spettacolo dei cavalieri in giostra può fare da scenario anche ad altri appuntamenti che, talvolta in margine, piú spesso legati alla giostra stessa, fanno parte del «pacchetto» di manifestazioni corali che scandiscono la vita della città. Soprattutto in Italia – che si tratti, anche in questo caso, di esercizi nati dall’addestramento delle milizie territoriali cittadine o che si sia in presenza di una delle tante valvole di sfogo che la società trova per decomprimere le sue tensioni interne – una serie di «giochi» di affrontamento inequivocabilmente violenti gode di indiscusso favore fra il pieno Medioevo e la prima età moderna. Sant’Agostino parla di una cruenta battagliola combattuta in Mauritania (a Cesarea) come di una tradizione ereditata dalle epoche precedenti, e altrettanto fa Agnello ravennate, cronista del IX secolo, a proposito dell’uso dei suoi concittadini di affrontarsi a sassate, divisi per schiere contrapposte. Una tradizione orribile, sanziona lo scrittore, ma che deriva dall’epoca ostrogota. La società comunale (ma non solo, 80
VIVERE DA SIGNORI
UN CAPITANO INSOSPETTABILE A testimonianza del favore incondizionato di cui godono, nella città tardo-medievale, i giochi di affrontamento violento, basti citare il caso di Prato, dove le associazioni ludico-territoriali che animano la vita della comunità amano scontrarsi tanto con i sassi quanto con i pugni. E a capo di una di queste fazioni, che (sbagliando) immagineremmo composte esclusivamente da rozzi energumeni, tutto potremmo aspettarci di trovare meno che l’impensabile personaggio che invece capeggia, nel 1389, il gruppo di Porta Fuia: Francesco di Marco Datini, il piú ricco e potente mercante dell’epoca, che si presupporrebbe (sbagliando ancora una volta) dovesse avere ben altre preoccupazioni che quella di organizzare la sua squadra di picchiatori per rispondere, in quell’anno, alla sfida lanciata da quelli di Porta Santa Trinita.
come vedremo), con la sua ineliminabile matrice di fazione e di senso di identificazione microterritoriale e di quartiere, è la culla ideale per accogliere questo tipo di scontri: tra le prime attestazioni di tale pratica si ritrovano, già nell’XI secolo, quelle di Genova e di Piacenza, ma, dal secolo successivo, il gusto di prendersi a sassate finché una delle due schiere si dichiara vinta dilaga dappertutto. Nel mondo comunale,
Qui sopra il mercante Francesco Datini, particolare di un affresco di Pietro e Antonio di Miniato. 1415 circa. Prato, Palazzo Pretorio.
VIVERE DA SIGNORI
81
VIVERE DA SIGNORI
82
VIVERE DA SIGNORI
Le giostre e i tornei
In alto La caccia all’orso in campo Sant’Angelo, olio su tela di Gabriel Bella. Post 1779 (?)-ante 1792. Venezia, Palazzo Querini Stampalia. L’artista raffigura un crudele divertimento, praticato negli spettacoli offerti a personaggi importanti o in occasione di sagre parrocchiali. Nella pagina accanto ricostruzione di una tauromachia nell’Anfiteatro Flavio a Roma, nel XIV sec. Nella città eterna, fra Tre e Quattrocento, la caccia al toro fa parte degli spettacoli del carnevale: i giovani rampolli dell’aristocrazia si cimentano nel Colosseo in gare di forza e abilità con tori selvaggi. Ogni anno la festa finisce con una strage di animali, ma ancora piú alto è il numero di coloro che perdono la vita in questa sorta di corrida.
si è detto, ma non esclusivamente: a Napoli, alla metà del Duecento, lo stesso sovrano Carlo II d’Angiò è un accanito tifoso delle battagliole che si combattono nel campo di Carbonara (e che formalmente sarebbero limitate al lancio dei limoni, ma che, di fatto, si trasformano sempre in cruente sassaiole), al punto di farsi costruire una casa in loco per poter assistere con maggior agio allo spettacolo dei suoi sudditi che si spaccano la testa.
Divieti e sanzioni
La pericolosità sociale di questi appuntamenti (che di norma trascendono quasi subito in forme di vera e propria guerra urbana) induce ben presto Comuni, signori e sovrani (con il poderoso aiuto di ecclesiastici e predicatori, che non possono certo tollerare simili manifestazioni) a cercare di arginarle. I divieti, le minacce, le comminazioni di pena si inseguono da uno statuto all’altro, da una delibera all’altra con lo stesso effetto di altrettante grida manzoniane. E anche quando il potere fa la faccia dura e riesce a mettere le mani sui responsabili, si aspetta che le acque si siano calmate e si ricomincia da capo. Scontri con i pugni, con i bastoni (il mazzascudo), con i sassi costellano la storia degli appuntamenti «ludici» delle città fino a ben dentro l’età moderna. Per fare un esempio, a Perugia, dove per le battaglie con i sassi si ha una vera e propria venerazione, negli anni Venti del Quattrocento ci si illude che le infuocate prediche di san Bernardino riescano a sortire l’effetto di
estirpare questo gioco. Un’illusione, appunto, perché alle battaglie coi sassi partecipano tutti, ma proprio tutti: qui (ma come in molte altre località) c’è addirittura una frazione di gioco riservata ai bambini, e – a parte i soliti arcigni predicatori – nessuno ha da ridire sul fatto che anche i fanciulli si prendano a pietrate in faccia. Cosí, dopo la mal tollerata parentesi bernardiniana, quando il potere della città viene assunto da Braccio da Montone – che da piccolo è stato un accanito «lanciasassi» –, tutto torna come prima. Quando, ma ben piú tardi, si cercherà di nuovo di mettere un argine a questa pratica, ci si renderà conto che l’unico deterrente possibile è quello (adottato nel 1581) di consentire agli archibugieri della cittadella di sparare a vista a chi venga sorpreso a combattere con i sassi. A complemento (talvolta a completamento) delle battagliole o delle giostre, riscuotono infine un favore particolare i giochi con gli animali, non solo espressi nella forma del palio dei cavalli, ma anche, altrettanto, nella versione di vere e proprie partite di caccia «urbana». Protagonisti principali di questo tipo di spettacolo sono in genere i tori. A Venezia, una caccia ai tori è praticata già a metà del Duecento e, nella stessa epoca, a Perugia ci si serve di allevamenti specializzati nel vicino contado di Chiusi per far arrivare gli animali. Nei secoli successivi la caccia al toro dilaga ovunque: in Umbria, a Roma, a Firenze. A Siena vi prendono parte le circoscrizioni cittadine organizzate nei primi embrioni delle contrade. Il toro è l’animale per eccellenza destinato a questa mattanza, ma non è l’unico. A Firenze, fra Quattro e Cinquecento escono dalle gabbie veri e propri zoo, a beneficio del pubblico che assiste ai combattimenti degli animali fra loro e i coraggiosi che vogliono dimostrare il proprio sangue freddo. Talvolta, peraltro, di coraggio ce ne vuole davvero parecchio (a Siena nel 1546 la brigata di temerari cacciatori banchetta in mezzo al recinto mentre tutt’intorno i tori fanno il diavolo a quattro), ma in altri casi non occorre avere un cuor di leone per affrontare le fiere: a Firenze, nel 1514, i cacciatori scendono in lizza restando però ben protetti dentro un marchingegno mobile a forma di palla dal quale colpiscono gli animali a colpi di lancia. Con tutto ciò, non necessariamente la passano liscia: proprio a conclusione di questa giornata, scrive un cronista, si devono contare almeno tre persone ammazzate dagli animali e un numero imprecisato di feriti. In quell’occasione, è il caso di dire, gli animali ci avevano lasciato la pelle ma almeno l’avevano venduta a caro prezzo. VIVERE DA SIGNORI
83
LA CACCIA
I signori della foresta Persa la sua natura di attività di sussistenza, nel Medioevo la caccia si afferma come esclusivo passatempo di nobili, principi e re. Praticata all’interno di vere e proprie riserve, diventa uno strumento per fare sfoggio di coraggio e sottolineare la propria superiorità sociale di Paolo Galloni
Firenze, Palazzo Medici Riccardi, Cappella dei Magi. La parete Est, con il segmento terminale della cavalcata, guidato da Gaspare, alle cui spalle vi è una schiera di personaggi noti, tra cui vari membri della famiglia Medici e Benozzo Gozzoli, l’artista fiorentino che realizzò le pitture nel 1459. La scena è ambientata sullo sfondo di una caccia in montagna, con cani e animali selvatici. 84
VIVERE DA SIGNORI
S
e paragonata alla civiltà essenzialmente urbana dell’impero romano, quella altomedievale si presenta senza dubbio «inselvatichita». Non va però dimenticato che, geograficamente, i due mondi non coincidono, l’Europa medievale è piú estesa di quella romana. Di fatto, è allora che in molte delle terre da cui i «barbari» provengono inizia un fenomeno contrario di prima urbanizzazione e di crescente messa a coltura delle aree sottratte alla selva. Nel complesso, comunque, non c’è dubbio che il Medioevo si apre con l’economia silvo-pastorale in temporaneo vantaggio rispetto a quella agricola. È significativo che in tutte le lingue romanze, la parola «caccia», derivi dal latino tardo captia, a sua volta da capere, «prendere», voce che suggerisce l’idea di cattura. Il latino venatio, invece, si appoggia alla radice *ven-, la stessa di Venus, Venere, che rimanda piuttosto a un inseguimento condotto per diletto. La diffusione e il successo di capere testimonia di un’attenzione sulla preda di natura ben diversa dalla piacevole evasione del nobile romano di città. All’epoca delle migrazioni barbariche la caccia era sostanzialmente libera e priva delle forti connotazioni gerarchiche che fecero la loro prima apparizione intorno al VI secolo e che andarono esasperandosi nei secoli successivi, quando gli aristocratici pretesero di distinguersi, riservandosi armi, tecniche, territori e prede peculiari. In generale, lo sfruttamento della silva restava aperto fatto salvo il pagamento di una decima, ma la caccia fu la prima delle risorse dell’incolto a fare eccezione alla regola. La tendenza alla limitazione dei prelievi da parte dei ceti piú bassi era certamente già radicata nel IX secolo, quando il vescovo Giona d’Orléans la sottopose a una severa critica, contestandone addirittura la legittimità su basi teologiche: la natura era stata messa da Dio a disposizione di
VIVERE DA SIGNORI
85
VIVERE DA SIGNORI
La caccia
tutti ed era iniquo che su di essa qualcuno pretendesse di godere di privilegi speciali. Intanto, nei capitolari carolingi cominciava a emergere una tensione tra sovrano e nobiltà sul problema della creazione di riserve forestali, atto teoricamente subordinato al consenso del re. A quei nobili, molti, che non gradivano che i loro diritti di caccia fossero limitati, Carlo Magno rispose fissando regole piú severe e prevedendo punizioni per i conti che cacciavano senza il suo consenso nelle foreste reali. Carlo il Calvo si spinse oltre e vietò perfino al figlio la caccia in alcune foreste si necessitas non fuerit. L’attaccamento all’incolto a ogni livello della società si spiega anche con il fatto che i prodotti della foresta non solo possedevano un valore economico intrinseco, ma alimentavano un ricco circuito di scambio di doni. La stessa opportunità di cacciare nelle riserve era un dono che il re faceva ai suoi collaboratori piú importanti e agli ospiti illustri e che gli consentiva di esercitare la fondamentale funzione di ospite generoso.
Lascito con clausola
Intere foreste o parti di esse, inoltre, erano oggetto di lasciti, aventi come destinatari soprattutto i monasteri. Interessante è il testo della donazione della foresta di Yveline ai monaci di San Dionigi da parte di Carlo Magno nel 774: il sovrano vi precisava che la selvaggina sarebbe servita per la fabbricazione delle rilegature dei libri nonché, in subordine, al nutrimento dei malati. Nessuna menzione della caccia, verosimilmente perché tanto l’uso della violenza quanto l’alimentazione carnea erano fatti eccezionali per i religiosi cosí come erano abituali per i nobili laici. Nell’851, quando Carlo il Calvo, donò alla stessa abbazia la silva di Madan escluse dall’atto il godimento delle venationes, che ufficialmente, e questa volta esplicitamente, volle riservare a se stesso. Com’era prevedibile, alla crisi del potere centrale conseguí la pressoché immediata creazione di innumerevoli nuove foreste private da parte della nobiltà. È questa una costante dei secoli successivi alla dissoluzione dell’impero carolingio: ogni volta che il potere centrale mostrava segni di debolezza, la nobiltà coglieva l’occasione per estendere le inforestazioni. All’opposto, l’instaurazione di un potere forte coincideva sempre con la drastica limitazione dei diritti venatori. In Inghilterra, i re normanni si distinsero per la determinazione, la severità e l’efficacia della loro azione: i bracconieri rischiavano la condanna capitale e la durezza e 86
VIVERE DA SIGNORI
Caccia al castello di Torgau in onore di Carlo V, olio su tavola di Lucas Cranach il Vecchio. 1544. Madrid, Museo del Prado. In realtà, la battuta non ebbe effettivamente luogo e il dipinto vuol essere un’allegoria del buon governo, simboleggiato dalla caccia stessa. Il dipinto venne donato all’imperatore da Giovanni Federico il Magnanimo, Elettore di Sassonia, e porta la data del 1544, anno in cui si tenne la quarta Dieta di Spira, in occasione della quale Carlo V si risolse a ratificare il matrimonio dell’Elettore stesso, celebrato a Torgau (Sassonia) nel 1527.
la restrittività delle norme furono all’origine di una serie di rivolte contadine, spesso represse nel sangue. Le infrazioni commesse dagli aristocratici erano comunque meglio tollerate. Se lo riteneva opportuno, il re giudicava personalmente i reati venatori dei nobili. Non sorprende, quindi, che la famosa Magna Charta libertatum, che la nobiltà britannica riuscí a imporre al re Giovanni Senza Terra all’inizio del XIII secolo, sancisse finalmente la limitazione dell’assoluto potere regale in materia
venatoria. In questa altalena di distribuzione dei diritti di caccia, nulla mutò, invece, per i contadini. Non è certo un caso che Robin Hood, il leggendario paladino dei poveri, fosse anche un astuto bracconiere, che riusciva perennemente a beffare le autorità. La tradizione normanna di ferreo controllo sulle risorse faunistiche si affermò anche nel regno di Sicilia, dove Roberto il Guiscardo e i suoi discendenti ebbero successo nell’imporre drastiche limitazioni all’uso dell’incolto. Il sistema di
controllo normanno venne poi fatto proprio e perfezionato da Federico II. A partire dal XIII secolo andò affermandosi anche il modello dei parchi signorili. Elementi caratterizzanti erano la presenza di una recinzione, in forma di fossati o muri, di una palazzina, anche di notevoli dimensioni, per il soggiorno del signore e dei suoi ospiti, e di un corso d’acqua, indispensabile al mantenimento degli animali. La gestione del parco era funzionale al mantenimento delle risorse VIVERE DA SIGNORI
87
VIVERE DA SIGNORI
La caccia
faunistiche. Una porzione di foresta veniva chiusa da recinzioni e depurata da tutti gli elementi perturbatori rispetto alla destinazione d’uso. L’erba e le sterpaglie venivano tagliate regolarmente e la presenza di animali da pascolo tenuta sotto stretto controllo. Nel caso in cui fosse stata programmata una cac88
VIVERE DA SIGNORI
cia con molti partecipanti, si trasportava nel parco selvaggina supplementare, il che implica che da qualche altra parte i cervi – perché si trattava soprattutto di cervi – venissero catturati vivi da specialisti. I parchi, dunque, non erano piú una foresta in senso proprio, ma uno spazio addomesticato, un momento
Sulle due pagine miniature raffiguranti scene di caccia, da un’edizione del Tacuinum Sanitatis, traduzione in latino del Taqwim al Sihha (Almanacco della salute), un manuale redatto a Baghdad dal medico e letterato Abu al-Hasan al-Mukhtar Ibn Butlan nell’XI sec. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek. Le vignette illustrano vari momenti dell’attività venatoria e fra le prede si riconoscono cervi, lepri e cinghiali. Ancora libera al tempo delle migrazioni barbariche, la caccia divenne in seguito un privilegio dei signori, che proibirono di uccidere animali nelle foreste di loro proprietà e istituirono le riserve, in cui solo essi potevano cacciare. I divieti e le severe pene previste per i trasgressori non riuscirono tuttavia ad arginare il fenomento del bracconaggio, praticato soprattutto nei periodi di crisi del potere centrale. di mediazione e una forma di dominio sulla natura piú sofisticato, piú consono all’evoluzione culturale delle corti europee.
Per compiacere l’orgoglio del nobile
Gli strumenti venatori dei contadini consistevano soprattutto in reti e trappole. Le fonti scritte, pensate per un pubblico aristocratico, prediligono l’immagine dei villici che cacciano appiedati armati di bastoni, tra l’altro uno degli attributi dell’immagine tradizionale dell’uomo selvaggio. Si trattava anche di compiacere l’orgoglio del nobile, il cui coraggio e la cui abilità di combattente si esaltavano contro le fiere, non certo contro la piccola selvaggina, alla quale andavano le attenzioni dei pauperes. Al contrario di quanto avveniva a Roma, l’opposizione tra caccia e lavoro servile era essenziale nella costruzione dell’identità aristocratica. Le motivazioni esclusivamente alimentari delle cacce dei villici rappresentavano per i nobili un marcatore di differenza sociale e culturale di facile e immediata lettura. Ecco perché le cacce potevano essere organizzate come riti in cui ogni componente sociale recitava una parte programmata. Nelle cacce aristocratiche i nobili si muovevano a cavallo armati di spada e lancia mentre i poveri contadini agivano come battitori appiedati muniti di bastoni, costretti a mettere in scena loro stessi come i signori li vedevano, subalterni, grezzi, selvatici. D’altra parte l’opinione dominante, ben riassunta dal trattato trecentesco Le livre du Roy Modus et de la Roine Racio (vedi box a p. 98), era che «le persone sono di diverso coraggio e diversa natura, per cui ci sono tecniche diverse a seconda della natura e della condizione di ciascuno». La contrapposizione è sfumata, ma non smentita dagli scavi VIVERE DA SIGNORI
89
VIVERE DA SIGNORI
La caccia Diana cacciatrice, olio su tela della Scuola di Fontainebleau. 1550 circa. Parigi, Museo del Louvre. L’immagine della dea, che compare quasi in nudità, potrebbe essere un ritratto idealizzato di Diana de Poitiers, la bellissima amante di Enrico II (1519-1559), mentre le armi della caccia, l’arco e le frecce, alluderebbero agli attributi di Cupido, che la dea utilizza per sollecitare l’interesse amoroso dell’osservatore.
CERVI FATATI
90
VIVERE DA SIGNORI
Miniatura raffigurante una caccia al cinghiale, con due cavalieri armati di spade e due servi a piedi, dal Livre de la chasse di Gaston Fébus, conte di Foix. 1407-1408. Parigi, Bibliothèque nationale de France. L’opera, scritta dallo stesso Fébus, fu illustrata sotto la direzione del Maestro del duca di Bedford. Quando non si trattava di prestare servizio come battitori e addetti al trasporto degli animali abbattuti dai signori, ai contadini era concesso cacciare solo piccola selvaggina, con l’ausilio di trappole e di armi rudimentali.
archeologici condotti in abitati rurali medievali. Sono stati portati alla luce coltelli e punte di freccia, ma, significativamente, non spade. Relativamente ai diritti di caccia, esistevano dunque sia una tensione interna alla nobiltà, sia un conflitto, non di rado esplosivo, che opponeva l’aristocrazia alle comunità rurali e cittadine. Anche dove si continuò a consentire qualche forma di caccia alle comunità locali, la natura dei tributi rivelava una componente simbolica inequivo-
cabile. Per esempio, poco dopo il Mille, il doge Orseolo pretendeva dagli abitanti di Eraclea l’omaggio della testa e dei piedi di ogni cinghiale abbattuto e della spalla di tutti i cervi. La lotta dei Comuni italiani contro il Barbarossa conobbe un originale sviluppo anche sul piano della simbologia venatoria. L’imperatore avrebbe voluto vietare ai Milanesi ogni tipo di caccia, benché l’atto ufficiale menzionasse solo trappole e lacci, come se altre tecniche fossero
La caccia non è stata solo una variegata realtà, ma anche un tema centrale nella produzione narrativa e favolistica medievale. Il motivo narrativo piú diffuso si discosta dalla pratica quotidiana e vede impegnato un cacciatore solitario, per il quale l’inseguimento alla preda diventa l’occasione per un’avventura in un mondo fatato, verso il quale l’animale inseguito è guida. Questo motivo è presente in molte delle cosiddette leggende «melusiniane», dal nome della fata Melusina dispensatrice di amore e ricchezze. Per esempio, nel lai di Maria di Francia Guigemar, l’avventura
del protagonista comincia con l’inseguimento a una cerva e si chiude con l’incontro con una donna fatata. È tuttavia significativo che il medesimo modello appaia in testi agiografici e cronachistici che si vogliono esplicitamente storici. Incontri meravigliosi durante una battuta toccano al re Offa del Kent, che cacciando si smarrisce nella foresta e incontra una bellissima ragazza, e, trasfigurati in chiave mistica, ai santi Eustachio e Uberto, per i quali il cervo che stanno inseguendo si rivela una guida verso la piena conversione e la santità.
VIVERE DA SIGNORI
91
VIVERE DA SIGNORI
Una battuta di caccia all’orso, particolare dell’allegoria di Gennaio, nel ciclo dei Mesi dipinto dal Maestro Venceslao. 1400 circa. Trento, Castello del Buonconsiglio, Torre Aquila. 92
VIVERE DA SIGNORI
La caccia
escluse a priori. I rappresentanti del Comune lombardo, per parte loro, premevano per modificare i termini del rapporto, spostando la dipendenza sul piano puramente fiscale. Non si trattava solo di semplice convenienza, ma di una differenza di linguaggio politico: mentre l’orientamento dell’imperatore presupponeva la continuità dei rapporti di dipendenza feudale, l’opzione fiscale dei Milanesi esprimeva l’a-
spirazione a negoziare una libertà che non doveva piú apparire come un dono dall’alto, ma un diritto sottoposto a condizioni negoziabili politicamente tra le parti. In linea con i principi appena emersi, in aperta opposizione al costume feudale basato sul privilegio esclusivo, le cacce comunali erano aperte a tutti. Tuttavia, la selvaggina oggetto delle attenzioni dei cacciatori era solo quella minuta. Gli sta-
tuti cittadini, in effetti, menzionano solo lepri, fagiani, pernici e altre prede di piccola taglia senza mai fare parola né di fiere, né di cervidi. Evidentemente, dopo l’espropriazione da parte dei nobili delle foreste e della grossa selvaggina che vi viveva, a disposizione dei Comuni rimanevano solo quelle porzioni di territorio che erano l’habitat naturale della piccola selvaggina. La caccia era solo un aspetto
dell’intensa frequentazione delle comunità rurali con l’incolto e la selva. Gli atti ufficiali della Chiesa, i sermoni dei vescovi e le Vite dei santi abbondano di ammonimenti contro i culti popolari che hanno per oggetto pietre, alberi, fonti, quando non addirittura interi boschi. È probabile che in questi luoghi si praticasse una magia venatoria, volta a propiziare il buon esito della caccia. Purtroppo, le fonti si limitano a stigmatizzare le pratiche paganeggianti e non menzionano direttamente sortilegi venatori. Una bella eccezione è costituita dalla bylina che ha per protagonista l’eroe Vol’ga Buslavlevic. Le byline sono canti tradizionali russi di datazione problematica, ma di argomento certamente ar-
Un uomo conduce al guinzaglio un cane da caccia e porta in spalla una fascina di rami per costruire trappole, particolare degli affreschi che ornano la Sala degli Svaghi del castello di Masnago (Varese). Metà del XV sec.
VIVERE DA SIGNORI
93
VIVERE DA SIGNORI
La caccia A sinistra Sant’Eustachio, incisione di Albrecht Dürer. 1501 circa. Saint Louis, Saint Louis Art Museum. L’artista illustra il prodigioso evento che, secondo la leggenda, avrebbe avuto per protagonista il generale romano Placido, il quale, durante una battua di caccia, si convertí al cristianesimo dopo aver visto comparire una croce tra le corna di un cervo, di fronte al quale cadde in ginocchio. Dopo la conversione, assunse il nome di Eustachio. Nella pagina accanto, a sinistra un’altra miniatura tratta dal Livre de la chasse di Gaston Fébus raffigurante una battuta di caccia al cervo. 1407-1408. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Nella pagina accanto, a destra un maschio e una femmina di capriolo, dal Taccuino di disegni (Taccuino di Bergamo) di Giovannino de’ Grassi e bottega. Ultimo quarto del XIV sec. Bergamo, Biblioteca Civica «A. Mai».
caico. Quella di Vol’ga contiene un autentico poemetto venatorio popolare, dove la caccia, condotta per mezzo di lacci e trappole, ha successo magicamente. Tra i versi, ve ne sono alcuni che presentano chiaramente le caratteristiche dello scongiuro pronunciato per assicurare il successo dell’iniziativa: «Attorcete dei lacci di seta, ponete questi lacci per la selva tenebrosa, ponete questi lacci per la feconda terra e acchiappate voi le martore e le volpi, le fiere selvagge, i neri zibellini e i bianchi leprotti scavatori, i piccoli graziosi ermellini, e cacciate per tre giorni e tre notti». La preparazione delle reti, anche se inevitabilmente in un contesto di caccia nobile, è illustra94
VIVERE DA SIGNORI
ta con dovizia di particolari in una miniatura che accompagna uno dei manoscritti del Livre de la Chasse di Gaston Fébus, conte di Foix (XIV secolo), il ms. 616 della Biblioteca nazionale di Parigi. La caccia per la quale si sta lavorando è annunciata dalla presenza dei cani, ai quali un valletto porge alcuni bocconi. Un’altra miniatura dello stesso manoscritto mostra le reti in funzione. Individuate le tane delle lepri, i battitori, armati di bastoni e non di armi vere e proprie, chiudono alcuni ingressi e dispongono le reti all’uscita di quelli lasciati liberi. Attività di pace preferita dal nobile guerriero, la caccia era anche una sorta di scuola per i
giovani, come sottolinea Eginardo, il biografo di Carlo Magno, a proposito dei figli di quest’ultimo. Che la caccia possedesse un aspetto, per cosí dire, didattico nella tradizione franca, e non solo nei progetti di Carlo Magno, lo prova la definizione di caccia come mos regis pueris, «costume dei rampolli regali». La centralità della caccia nella formazione degli adolescenti si spiega con la centralità della guerra nelle culture barbariche. La morale guerriera era un valore condiviso, che si trasmetteva alle nuove generazioni, e la caccia era lo strumento privilegiato di questa trasmissione.
Uno svago pericoloso
È pertanto ovvio che, in un contesto culturale in cui la forza fisica e il coraggio occupavano una posizione di primo piano, l’identità di un sovrano dovesse passare attraverso plateali dimostrazioni di temerarietà. E non si trattava solo di propaganda. Le cronache abbondano di riferimenti a incidenti di caccia, anche mortali. In una lista limitata di personaggi illustri periti durante una battuta venatoria figurano Childerico III, caduto nel 675, Carlo il Fanciullo, il figlio di Carlo il Calvo, nell’864, Lamberto di Spoleto, nell’898, e Bonifacio di Canossa nel 1053. Le battute dovevano essere realmente pericolose se si voleva che il loro valore psicologico e politico non fosse svilito. Né l’identità individuale, né l’esercizio del potere potevano prescindere dall’affermazione pubblica di vigoria, intraprendenza e integrità fisica. Anche per queste ragioni non si cacciava mai da soli e il luogo della caccia diventava una scena dove i protagonisti esibivano le proprie qualità davanti a un pubblico composto in gran parte da colleghi che condividevano i suoi valori e agivano insieme a lui.
SIMBOLO DI NOBILE REGALITÀ L’immagine del cervo simbolo della regalità cominciò a imporsi a partire dall’XI secolo, uscendo da un precedente stato di latenza. Come animale simbolicamente nobile, la Chiesa dei primi secoli aveva inizialmente sostenuto il leone, forse perché geograficamente lontano. Il cervo occupava comunque una posizione di prestigio grazie alle buone entrature bibliche (la cerva dei salmi che anela all’acqua come l’anima a Dio). Nell’ascesa del cervo ha probabilmente influito un disegno che mirava a mitigare la violenza della caccia extracta spada alle fiere, spostando il prestigio verso una preda che richiede l’arco e quindi il colpo a distanza e l’assenza di combattimento propriamente detto. La distinzione tra una caccia con l’arco, orientata al piacere puro e alla celebrazione, e un’altra con la spada, che enfatizzava l’identità guerriera del cacciatore, diede luogo a una opposizione, forte in teoria e sfumata nella pratica, tra un cervo cristiano e un cinghiale diabolico. Questa dialettica simbolica originò anche un curioso uso terminologico: si cominciarono a chiamare rami le corna del cervo e corna le zanne del cinghiale in modo che al primo fossero sottratte le risonanze diaboliche enfatizzate nel secondo.
VIVERE DA SIGNORI
95
VIVERE DA SIGNORI
La caccia loro qualità regali e il loro potere è una furiosa battuta di caccia nel corso della quale i due protagonisti uccidono orsi e cinghiali «con le proprie mani». Questa espressione, usata in vari passaggi del poema, non significa che essi attaccassero le bestie feroci a mani nude, ma che le affrontavano nel corpo a corpo armati di spada. Altrettanto aveva fatto in precedenza Carlo Magno davanti agli ambasciatori persiani. Per impressionare gli ospiti, infatti, egli aveva affrontato uri e bisonti extracta spada. Questo era il modello pratico e ideale che si proponeva ai giovani aristocratici e che rimarrà in auge per secoli.
L’autunno si addice alle battute
In alto ancora una miniatura tratta dal Livre de la chasse di Gaston Fébus raffigurante una scena di caccia al cinghiale. 1407-1408. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Nella pagina accanto, in alto rovescio della seconda medaglia realizzata dal Pisanello per Alfonso V d’Aragona. 1449. Firenze, Museo Nazionale del Bargello. Sul pezzo si vede un cacciatore nudo che, armato di pugnale, balza sul dorso di un cinghiale, che fugge, addentato da un cane da caccia (un veltro). In alto si legge VENATOR INTREPIDVS («Intrepido cacciatore», una delle doti del re di Sicilia e di Napoli).
96
VIVERE DA SIGNORI
Il cronista Widukindo di Corvey, che scrisse intorno al Mille una Storia dei Sassoni, inserí tra le virtú costitutive della regia dignitas di Enrico l’Uccellatore il talento venatorio. Lo scopo di Widukindo era apologetico: si trattava di dimostrare che la nuova dinastia sassone – fondata appunto da Enrico –, che si sostituí ai Carolingi alla testa del Sacro Romano Impero, era la migliore possibile e che non aveva nulla da invidiare ai pur tanto gloriosi predecessori. In Francia, la propaganda dei Capetingi, successori di Carlo Magno, si serví dei medesimi argomenti: una cronaca riferisce che il loro capostipite, Odo, conte di Parigi, una volta eletto re dei Franchi, cacciò more regio in presenza dei rappresentanti della nobiltà. La caccia era stata fondamentale nella rappresentazione di quel potere carolingio di cui Odo ed Enrico dovevano prendere il posto. Eginardo, con una punta di orgoglio, racconta che Carlo Magno, anziano e tormentato dalla gotta, si opponeva testardamente ai medici che lo consigliavano di rinunciare a cacciare. I poeti attivi alle corti franche, consapevoli di quanto la caccia fosse un tema apprezzato, lo inserivano spesso e volentieri nei componimenti dedicati a questo o a quel membro della dinastia regnante. Nel carme in onore di re Ludovico (De gestis Ludovici), di Ermoldo Nigello, il sovrano e suo figlio Lotario, all’epoca già associato al trono, ricevono l’ospite Aroldo di Danimarca, e il mezzo scelto per esibire le
Secondo il biografo Thegan, Ludovico il Pio non amava troppo cacciare in estate, perché in quella stagione i cervi pinguissimi sunt, e preferiva aspettare l’autunno. Thegan non spiega la predilezione del suo re per l’autunno, ma solo perché agli occhi dei contemporanei non ce n’era alcun bisogno. In autunno i cinghiali erano nella stagione degli amori e quindi il carattere si faceva ancora piú aggressivo. In autunno, inoltre, la foresta era particolarmente insidiosa a causa delle piogge, frequenti e abbondanti nelle regioni settentrionali. Le cacce autunnali, insomma, venivano preferite, perché rischiose e orientate al massimo verso la dimensione guerriera. Lungi dall’essere una peculiarità di Ludovico, la caccia autunnale rappresentava un appuntamento fisso per i Carolingi e le foreste delle Ardenne erano il territorio preferito. La regione delle Ardenne è insieme il luogo di nascita del culto di sant’Uberto, l’attuale patrono dei cacciatori, che fu vescovo di Liegi alla fine del VII secolo, e il territorio dove si collocano le origini dinastiche dei pipinidi-carolingi, i cui primi rappresentanti furono alleati e sostenitori del medesimo Uberto. La sovrapposizione di una dimensione venatoria alla figura di Uberto deve molto a questo legame con i Carolingi e alla pregnanza culturale acquisita soprattutto grazie a loro dalla caccia nelle Ardenne. La battuta voluta da Ludovico il Pio in occasione della visita di Aroldo di Danimarca pre-
BELLICOSO E DIABOLICO In terra italica, e non solo, il cinghiale è stato l’animale prediletto dai cacciatori della Roma antica e dell’Alto Medioevo. I Romani disprezzavano il cervo a causa della sua codardia e non ne amavano la carne. Per contro, il cinghiale, che non si sottraeva certo allo scontro, era stimato sia dai cacciatori che dai buongustai. La sua fortuna, per usare un eufemismo, perdurò nelle società barbariche, dove nella caccia si esprimeva la cultura guerriera. Non è certo solo per una coincidenza che a migliaia di chilometri di distanza, nel Giappone feudale, il cinghiale fosse l’animale simbolo dei samurai e la sua effigie ornasse i templi come immagine delle divinità bellicose. A partire dal XIII secolo il cinghiale cede nettamente la posizione al cervo. Piú delle virtú bellicose, i trattati venatori ne sottolineano i difetti, quali la puzza, la rumorosità, la violenza distruttiva, la propensione all’ira, peccato capitale. La sua fama di animale diabolicus divenne a un certo punto cosí forte da avvalorare la credenza che potesse lanciare fiamme. La nazione che oppose la maggiore resistenza alla tendenza in atto fu la Spagna. L’autore quattrocentesco Juan Vallés, nel Libro de acetreria e monterai, constatò con rammarico che i suoi contemporanei chiamavano cacciagione soltanto il cervo. Vallés era un tradizionalista e preferiva decisamente l’orso e il cinghiale, lasciando al cervo solo la terza posizione, soprattutto per i benefici che i cani traggono dal partecipare ai lunghi inseguimenti.
Un cinghiale atterrato da una muta di cani, dal Taccuino di disegni (Taccuino di Bergamo) di Giovannino de’ Grassi e bottega. Ultimo quarto del XIV sec. Bergamo, Biblioteca Civica «A. Mai».
VIVERE DA SIGNORI
97
VIVERE DA SIGNORI
La caccia
CONTRO IL VIZIO E IL DISORDINE Il Livre du roy Modus e de la Roine Racio di Henri de Ferrières, conservato in ben 32 manoscritti, il piú bello dei quali è del 1379, è un trattato venatorio che sviluppa anche un discorso etico già suggerito dal titolo. Modus, maniera, e Racio, ragione, ma anche rettitudine, simbolizzano l’ordine della società. La redazione del testo, scritto durante quel periodo di grave crisi che fu la Guerra dei Cent’anni, è pessimisticamente presentato come l’ultimo atto di Modus e Racio prima della loro cacciata dal regno. Ben fare (modus) è fare il bene (ratio): la caccia si oppone al vizio e al disordine, perché è un’attività completa e regolata da un preciso rituale. Modus insiste sul valore del corretto parlare a caccia. Un lessico preciso appartiene alla scienza e costituisce non solo una componente del rituale, ma anche un’esperienza di conoscenza. La prima tappa della formazione del cacciatore ideale consisteva, infatti, nel padroneggiare con precisione e sicurezza il vario e complesso vocabolario venatorio. Dal trattato emerge un’immagine della caccia come scienza dotata di aspetti tecnici e interpretativi, come la decodifica dei segni del passaggio della selvaggina.
98
VIVERE DA SIGNORI
In alto e nella pagina accanto, in basso altre miniature tratte dal Livre de la chasse di Gaston Fébus. 1407-1408. Parigi, Bibliothèque nationale de France. In alto, il maestro di caccia indica la preda da colpire; nella pagina accanto, una trappola per la cattura del lupo, nella quale viene usata come esca una pecorella.
vedeva, a caccia terminata, l’allestimento di un banchetto, nel corso del quale si sarebbero servite le carni arrostite della selvaggina abbattuta poche ore prima. Durante il periodo barbarico il banchetto era un rituale di conferma della solidarietà del gruppo di guerrieri intorno al leader dispensatore di doni. Nei secoli successivi, l’usanza perdurò intorno alla figura del re o del nobile di turno. Carlo Magno, dopo la spettacolare caccia narrata nel poema celebrativo Karolus Magnus et Leo papa, provvide a una spartizione delle prede tra i
IL LUPO: UN CASO DAVVERO PARTICOLARE Il lupo non era un animale come gli altri, non era una preda, bensí un concorrente, che contendeva all’uomo la supremazia su vaste aree di territorio. Per la sua eccezionalità, la caccia al lupo rimase libera, aperta a tutti e praticabile con ogni mezzo: trappole, lacci, reti e bocconi avvelenati. Le trappole, descritte nelle leggi dei Burgundi, erano composte di un arco teso e di un laccio che faceva scoccare la freccia quando veniva urtato. La legge imponeva il rispetto di una norma di sicurezza: chi piazzava
la trappola, doveva informare i vicini e assicurare l’incolumità di eventuali passanti con lacci supplementari, posti ad altezza d’uomo, che facevano scattare il meccanismo in anticipo se urtati. Nell’Inghilterra sassone una condanna all’esilio poteva essere riscattata dalla promessa di cacciare cento lupi, conservandone i trofei come prova. Nel X secolo, Edgardo il Pacifico impose al re vassallo del Galles, che evidentemente aveva qualcosa da farsi perdonare, di uccidere 300 lupi l’anno. Dopo aver onorato
l’impegno per tre anni, il vassallo scrisse che non c’erano piú abbastanza bestie. Nel 1114, a Santiago di Compostella, fu indetta una sorta di crociata contro i lupi. «Tutti i sabati, a eccezione della vigilia della Pentecoste e di Pasqua, cavalieri, preti e contadini non occupati nel lavoro devono dare aiuto alla loro distruzione». Di regola, i preti cacciatori erano, almeno a parole, severamente sanzionati; in questo caso, invece il loro coinvolgimento è addirittura prescritto.
nobili a lui vicini, disponendo poi rispettosamente i commensali in ordine di anzianità. Pur nella sua nuova veste di sovrano universale, egli appare qui come il continuatore degli antichi capi guerrieri, che manifestavano la loro generosità durante le libagioni. Che caccia e banchetto fossero due passioni gemelle lo dimostra un’ordinanza dello stesso Carlo Magno: il testo sollecita i conti affinché non programmino, cosa che evidentemente avveniva, una caccia o una mangiata il giorno in cui era previsto che essi dovessero presiedere una seduta giudiziaria. Caccia e banchetto si rivelano le due attività che distoglievano il nobile da quelle che, nell’ottica della Chiesa e del sovrano, erano le maggiori responsabilità dei detentori del potere. Evidentemente la coscienza di sé dell’aristocratico si affermava meglio in sella al destriero e a tavola che nell’attività giurisdizionale e nella partecipazione alle sacre funzioni. VIVERE DA SIGNORI
99
VIVERE DA SIGNORI
La caccia
Nell’approccio con il cibo, in effetti, il guerriero dava sfogo, in modo diverso, alla stessa aggressività che esibiva durante la caccia. Come a caccia, egli ripeteva e confermava se stesso di fronte ai suoi pari. Era durante il banchetto che i cantori, accompagnandosi con strumenti a corde, eseguivano quei canti tradizionali, che la Chiesa per secoli ha invano osteggiato, quei carmina barbara et antiquissima che molti nobili, pur rivestendo anche cariche ecclesiasti100
VIVERE DA SIGNORI
che, preferivano alle Sacre Scritture e che Carlo Magno stesso, ricorda Eginardo, apprezzava al punto da commissionarne la trascrizione. Come scrisse Paolo Diacono dei Longobardi: virtus in eorum carminibus celebrantur, «nei loro canti tradizionali esaltano il coraggio, la prodezza guerriera». La rievocazione di queste tradizioni da parte dei cantori nel corso del pranzo conferiva una sorta di retrogusto guerriero al cibo consumato.
Nella pagina accanto un’altra miniatura dal dal Livre de la chasse di Gaston Fébus raffigurante un banchetto di caccia. 1407-1408. Parigi, Bibliothèque nationale de France. In basso miniatura raffigurante Federico II di Svevia che riceve i falconieri, da un’edizione francese del De arte venandi cum avibus, il trattato scritto dallo stesso imperatore. 1275 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
A partire almeno dal XII secolo i rituali venatori crebbero per varietà e importanza. Una delle azioni che andò incontro a un processo di codifica delle operazioni fu il sezionamento delle carni della selvaggina, in particolare del cervo. L’animale veniva aperto, squartato e infine sezionato seguendo una procedura rigorosa. Le carni scelte per il signore erano portate a corte su un ramo forcuto, da cui il nome tecnico di fourchie, mentre gli altri tagli erano destinati ai cacciatori stipendiati e ai valletti. Infine si procedeva con la curée, vale a dire la distribuzione delle interiora ai cani. La parola curée, come spiega la Chace du cerf (XIII secolo), deriva da cuir, la pelle sulla quale erano deposte le parti messe a disposizione dei cani.
Lo sdegno di Tristano
Il protocollo del sezionamento doveva essere rispettato anche quando il signore non era presente. Una descrizione tra le piú belle e complete è quella contenuta nel Tristano di Goffredo di
Strasburgo. Tristano vi indossa i panni dell’eroe civilizzatore dal quale i cacciatori del re Marco apprendono il corretto rituale di sezionamento che prima praticavano in modo indifferenziato. A uno sdegnato Tristano, il capo cacciatore dichiara di non conoscere altro sistema se non quello di scuoiare il cervo e tagliarlo in quattro parti uguali. Al che Tristano inizia un’autentica lezione di grande rigore terminologico: «La furkie è quel bidente. Tornò lí col suo bidente. Trasse il fegato dal corpo, rete e lombi separò, distaccò tutta la schiena da quel luogo a cui spettava. Poi sedette giú sull’erba; prese i pezzi tutti e tre, li legò alla sua furke (...). La curie è chiamata curie perché giace sopra il cuoio ciò che poi si getta ai cani». Le bellissime miniature che illustrano il manoscritto 616 del Livre de la chasse di Gaston Fébus confermano, con poche varianti locali, la scrittura di Goffredo di Strasburgo. In una si vede un personaggio che tiene bene in vista un bastone forcuto con appese le interiora, mentre i cani divorano le frattaglie distese al suolo.
Federico II fece proprio e perfezionò il ferreo sistema di controllo delle risorse faunistiche elaborato dai Normanni
VIVERE DA SIGNORI
101
VIVERE DA SIGNORI
La caccia
ECHI DI UN ARCAICO RITUALE Alcune fonti, la piú celebre delle quali è Sir Gawain e il Cavaliere Verde, aggiungono al rituale della distribuzione delle parti della selvaggina un gesto singolare: l’abbandono della «parte del corvo». Nel poema inglese i cacciatori «aprono la gola, lo stomaco afferrano, lo raschiano con un coltello affilato (…). Tagliano coi coltelli affilati le spalle, per un piccolo foro le traggono fuori perché non si guastino i fianchi (…). La testa e il collo troncano quindi, separano i lombi dal dorso, gettano in un cespuglio il compenso del corvo. (…) Gettano ai cani il cuoio della nobile bestia, il fegato, i polmoni, le trippe mischiati con pane bagnato». Una simile pratica è interpretabile come tributo simbolico al mondo animale o alla foresta, forse ricordo di un antico rituale di ringraziamento a un Signore degli Animali, figura soprannaturale ancora diffusa tra i cacciatori siberiani.
In alto la caccia con il falcone, particolare dell’allegoria di Settembre, nel ciclo dei Mesi dipinto dal Maestro Venceslao. 1400 circa. Trento, Castello del Buonconsiglio, Torre Aquila.
102
VIVERE DA SIGNORI
Nel XIV secolo le cacce erano ormai assimilabili a fastose cerimonie di corte. In esse si sovrapponevano il piacevole intrattenimento e la parata cerimoniale. La capacità attribuita all’attività venatoria di comunicare i valori portanti della monarchia era cosí alta che i re di Francia organizzavano perfino finte cacce per accompagnare i loro solenni ingressi a Parigi. L’usanza è attestata dal 1389, con un cervo meccanico azionato da un attore che uscí da un bosco fittizio e andò a sistemarsi accanto al «letto di giustizia» del sovrano, in modo da associare con linguaggio venatorio giustizia e regalità. Nel 1431 un cervo vivo e vegeto, come del resto i cani, venne spinto fino ai piedi del re, che generosamente gli fece dono della salvezza. La clemenza era un dono, non atto dovuto. Il messaggio della rappresentazione era eloquente: il re è misericordioso e giusto e anche la natura gli è suddita.
Ancora una miniatura tratta dal Livre de la chasse di Gaston Fébus raffigurante le operazioni svolte al termine di una battuta di caccia al cinghiale: gli animali abbattuti vengono scuioati e si procede alla distribuzione delle loro carni. 1407-1408. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
SI È SEMPRE FATTO COSÍ Nella regione pirenaica, gli etnologi contemporanei hanno osservato una procedura di sezionamento degli animali abbattuti che contiene elementi di grande interesse storico in una prospettiva di lunga durata. Gli esemplari di sesso maschile devono essere immediatamente castrati e il coltello utilizzato non potrà poi essere usato per mangiare, poiché, si dice, impesterebbe il cibo a causa del troppo selvatico, ferum o salvajum, che contiene. L’usanza della castrazione si appoggia sulla tradizione («si fa perché si è sempre fatto»), la quale impone anche che si faccia uscire il sangue dal collo della fiera per evitare che la carne marcisca, ancora a causa del ferum che il sangue contiene. Il fatto notevole è che questo protocollo ricorda da vicino quanto si legge nel libro di Gaston Fébus, conte di Foix, appunto nei Pirenei francesi. Il dissanguamento e la castrazione del cinghiale erano per lui gesti obbligati. Per quanto riguarda la curée, secondo Fébus i cani potevano ricevere le interiora del cervo crude, mentre
quelle del cinghiale dovevano essere scottate sul fuoco. La cottura era necessaria perché la carne cruda e il sangue fresco del cinghiale erano troppo forti e indigesti perfino per i cani. A distanza di seicento anni, i cacciatori del Sud della Francia seguono ancora le sue istruzioni, motivandole allo stesso modo, con l’aggiunta di una precisazione: la carne di cinghiale è troppo forte perché contiene un eccesso di selvatichezza, il ferum, che va addomesticato con il fuoco.
Le cacce reali e della grande nobiltà erano contraddistinte da un’ostentazione di abbondanza, sfarzo ed eccesso che poteva talvolta sfociare in vere e proprie stragi, nelle quali, però, l’apporto diretto dei sovrani non era quasi mai significativo. Nel 1452, per esempio, si tenne ai Campi Flegrei una battuta che si risolse in una carneficina di cinghiali, lepri, cervi, orsi e anche cani, a loro volta vittime delle fiere.
Equipaggi sempre piú numerosi
Intanto, con lo sfarzo, anche gli equipaggi di caccia erano andati aumentando in maniera esponenziale. In Francia, nel 1231, al servizio del re Luigi IX c’erano tre cacciatori, due falconieri e cinque valletti per i cani. Meno di cento anni piú tardi, sotto Filippo il Bello, gli effettivi erano piú che raddoppiati. Al momento del loro insediamento come duchi di Borgogna, i
Valois trovarono una squadra formata da due cacciatori a cavallo, quattro valletti a piedi e altrettanti falconieri. I cacciatori erano già 11 nel 1364, 21 nel 1376, e 30 nel 1390, quando i falconieri erano intanto saliti a sette. I cani erano 30 nel 1370, 47 nel 1390, 89 nel 1405. I falconi erano 5 nel 1364, 12 nel 1375, 39 nel 1387, 42 nel 1396 e nel 1405. Nel 1446, l’equipaggio al servizio di Filippo il Buono contava 34 cacciatori e 230 cani. Le grandi cacce richiedevano una lunga preparazione per portare nel luogo prescelto centinaia di animali destinati alla strage e per allestire le strutture necessarie. Quando il personale non era sufficiente, si ricorreva ad assunzioni straordinarie, che in alcuni casi, per esempio nella Germania dei secoli XVII e XVIII, venivano formalizzate come servizio di caccia. I contadini dovevano prestare servizio VIVERE DA SIGNORI
103
VIVERE DA SIGNORI
La caccia
ECCELLENZE CANINE Quando Caterina Pico si uní in matrimonio con il signore di Carpi Leonello Pio, il ricchissimo corredo nuziale comprendeva cinque collari d’oro e seta e due raffinati guinzagli per i suoi cani. L’assimilazione dei cani a un bene di lusso è una chiara conseguenza dell’essere divenuta la caccia una prestigiosa occasione di sfarzo cortigiano. I cani di valore erano l’oggetto di interessanti traffici internazionali. L’Asia Minore forniva rinomati levrieri, altre razze apprezzate provenivano dalla Bretagna, dalla Dalmazia e dall’Inghilterra. Gli allevamenti italiani, per parte loro, erano rinomati per i bracchi, dei quali si distinguevano varie categorie con classificazione rigorosa: da acqua, addestrato alla cattura della preda nei fiumi e
104
VIVERE DA SIGNORI
nei ruscelli; da ferma, che restava immobile all’avvistamento della preda; da leva, che faceva levare in volo gli uccelli a beneficio dei falconi; da punta, o da presa che, individuata la preda, prima si arresta e poi si lancia all’inseguimento; da sangue, specialista nel seguire le tracce di una bestia ferita. Durante le battute, di solito, i bracchi erano i primi a entrare in azione, addestrati e guidati dal «bracchiere». Essi stanavano la preda che poi i levrieri e i veltri del signore inseguivano a perdifiato spronati dal suono del corno e da espressioni di incitamento codificate. Al tempo del Boccamazza il bracco, dunque, era sí apprezzato, ma comunque gregario rispetto ai levrieri.
come battitori e addetti al trasporto della selvaggina uccisa oppure accudire i cani. L’organizzazione di una bella battuta richiedeva una macchina complessa. Secondo il Boccamazza, capocaccia di papa Leone X, autore del trattato italiano piú noto del Cinquecento, il giorno precedente la battuta il capocaccia perlustrava la zona con un buon cane al fine di individuare la presenza di selvaggina e studiare il terreno in modo da pianificare soste e bivacchi. «Il capocaccia ha de andare sempre a rivedere il paese prima che voglia fare la caccia; e questo perché li paesi non stanno sempre in un modo (...) e per questo le fiere non stanno sempre in un luogo». Si allestiva poi una recinzione temporanea che facilitava le operazioni limitando la mobilità delle prede. Durante la battuta, il capocaccia guidava il gruppo, signore incluso, e controllava la corretta spartizione della selvaggina. Pare, infatti, che non fossero infrequenti le liti per l’attribuzione dei meriti e delle parti della preda. La regola, sempre secondo Boccamazza, era la seguente: «Circa al porco se dice che l’onore sarà sempre di quel cacciatore che li darà la prima ferita, ma bisogna che vi concorrano tutte queste cose: cioè che il porco passi l’anno, e che la ferita sia notabile e faccia sangue, e che il cacciatore che li arà dato sappia dire dove li arà dato la ferita». La partecipazione delle donne alle cacce non
A destra un cavaliere e la sua dama alla caccia con il falcone, un altro particolare degli affreschi che ornano la Sala degli Svaghi del castello di Masnago (Varese). Metà del XV sec. Nella pagina accanto la cura dei cani in una miniatura dal Livre de la chasse di Gaston Fébus. 1407-1408. Parigi, Bibliothèque nationale de France. I cani da caccia erano ricercati e spesso importati da Paesi lontani, come i levrieri dall’Asia Minore e altre razze dall’Inghilterra e dalla Francia. In basso un levriero di razza in un disegno del Pisanello. XV sec. Parigi, Museo del Louvre.
era di puro contorno. Essa era sempre uno stimolo per i cacciatori e, nel caso di alcune regine, rappresentava un modo di ribadire la concretezza del loro potere. Caterina de’ Medici ed Elisabetta I d’Inghilterra erano cacciatrici appassionate. Elisabetta prendeva perfino parte al taking assay, un crudo cerimoniale in cui il capocaccia tagliava il ventre del cervo per sondare lo spessore dello strato di grasso.
Diverse, e migliori, saranno le sue quotazioni nella prima metà del XVII secolo, quando la caccia alla piccola selvaggina e ai volatili supererà in popolarità le battute violente e frenetiche
VIVERE DA SIGNORI
105
LA FALCONERIA
Come una
metafora della vita
La falconeria è un’arte nobile e antica, da sempre intrisa di profonde implicazioni simboliche. Nei secoli dell’età di Mezzo visse una delle sue stagioni piú floride ed ebbe un codificatore d’eccezione nell’imperatore Federico II, autore del monumentale trattato De arte venandi cum avibus di Anna Laura Trombetti
R
isulta per noi arduo fissare le origini cronologiche e geografiche di una pratica venatoria quale la falconeria, verosimilmente diffusa in piú ambiti e in tempi diversi; di quel particolare tipo di caccia che, per catturare selvaggina (uccelli o mammiferi), si avvale dell’uso di rapaci addestrati, non solo falchi, ma anche astori, sparvieri, gheppi, aquile. L’archeologia restituisce informazioni secondo cui, nel corso del II millennio a.C., le popolazioni di cavalieri delle steppe sud-asiatiche ne facevano un uso essenzialmente alimentare, favorite dalle abitudini della vita nomade e dalle condizioni ambientali: le sconfinate distese erbose dell’Asia, le zone umide delle aree deltizie della Mesopotamia, particolarmente ricche di volatili. I rapaci cacciano meglio se lontani da ostacoli naturali, dove la selvaggina può trovare facile ricovero e dove gli stessi rapaci possono perdersi e chi li ha lanciati e addestrati non è piú in grado di recuperarli. Tradizionalmente, si dice che la falconeria sia penetrata in Occidente tramite le popolazioni germaniche a partire dal V secolo: Agostino da 106
VIVERE DA SIGNORI
Corradino di Svevia in una miniatura del Codice Manesse, una collezione di ballate e componimenti poetici redatta a Zurigo tra il 1300 e il 1340. Heidelberg, Biblioteca dell’Università. Il giovane sovrano, che è incluso nella raccolta perché fu anche autore di due canzoni a tema amoroso, è ritratto mentre pratica la caccia con il falcone, uno sport molto in voga tra la nobiltà nel Medioevo.
Ippona scrive che tipici dei Vandali (giunti in Africa nel 410) sono i cani, i falchi e le concubine, assimilando in un giudizio negativo la caccia con i rapaci agli amori irregolari. Ma è ormai certo che nell’impero romano quelle pratiche abbiano avuto una storia molto piú antica e che il tramite della loro diffusione sia stato il contatto con l’Oriente. Ai confini orientali dell’impero, soprattutto in Tracia, uomini e uccelli da preda interagivano già molti secoli prima di Cristo, come testimoniano Aristotele nel Liber animalium, Antigono di Caristo (III secolo a.C.), Filone e, tra i Romani, Plinio il Vecchio. Trattati di caccia di autori di età ellenistica (Pseudo Oppiano, Dionigi Periegeta) contengono riferimenti limitati alle pratiche di uccellagione di origine tracia, a conferma della scarsa stima di cui questo tipo di caccia godeva nell’antichità greco-romana. Se dunque il mondo romano sostanzialmente la disdegnò (come testimoniano i cicli delle cacce nei mosaici pavimentali di molte ville), tuttavia ne utilizzò gli elementi caratterizzanti (la triade: rapace, cavallo, cane) in funzione
VIVERE DA SIGNORI
107
VIVERE DA SIGNORI
La falconeria
simbolica. Si tratta di un dato di grande interesse, un elemento di continuità culturale fra la tarda antichità e i secoli centrali del Medioevo, quando la falconeria conobbe una grande rinascita presso molte corti, divenendo, soprattutto in Sicilia, una pratica venatoria regale fortemente simbolica.
In questa pagina rappresentazioni di rapaci su manufatti riferibili a varie culture delle steppe asiatiche.
Simbolo della regalità
Le piú antiche testimonianze scritte di età tardo-antica ci vengono da due aristocratici romani conservatori quali Paolino di Pella (376 circa-459 circa), nell’opera autobiografica Eucaristochos, e Sidonio Apollinare (430-489), vescovo di Clermont, nelle numerose epistole attraverso cui lottò tenacemente per tenere fuori la città dall’influenza gota. Essi ci rappresentano gli svaghi dell’elegante aristocrazia gallo-romana (fedele alle tradizioni antiche) e, fra questi, ricordano il saper ammaestrare, portare con sé, mettere alla prova e saper ammirare cane, cavallo e rapaci, non tanto con riferimento – che manca – alla caccia al volo, quanto come esercizio di abilità, piacere raffinato, status symbol. Dunque ammaestramento dei rapaci a fini estetici e simbolici, connotato dell’aristocrazia «vera», ai livelli piú elevati fino alla regalità, piú che elemento distintivo di una pratica venatoria. Ma da dove derivavano gli esponenti di quella nobiltà rurale tali suggestioni? Certamente non dal mondo germanico, che si sforzavano di tenere ai margini: ciò che interessava loro era senza dubbio la connotazione di raffinatezza – orientaleggiante – che la triade di questi animali conferiva. La piú antica tra le vie di penetrazione della pratica di ammaestramento dei rapaci in area romana fu dunque orientale prima che germanica, e fu legata alla simbologia del potere piuttosto che all’attività venatoria. Essa trovò terreno fertile nel progressivo «infeudarsi» della villa aristocratica e nell’acquisizione di funzioni giuridicoamministrative da parte dei grandi proprietari terrieri, le cui residenze assunsero le caratteristiche di piccole corti locali, suscettibili di esse-
108
VIVERE DA SIGNORI
re glorificate con parole, gesti, rituali, immagini. Durante l’Alto Medioevo in Occidente non mancano testimonianze, seppure sporadiche, relative alla falconeria, quasi sempre associate a figure di militari e di aristocratici. È però nel corso del XII secolo che questa pratica conobbe una significativa rinascita, fortemente connessa ai suoi contenuti simbolici. Essa fiorí come disciplina dei re e delle corti. Il tramite fu l’Oriente islamico, e l’ambiente piú ricettivo fu senza dubbio la Sicilia normanna. In ambito curiale palermitano vennero redatti alcuni importanti trattati di falconeria che insistono soprattutto sulle malattie e sulle cure da praticare ai falchi, di cui i re possedevano numerosi e preziosissimi esemplari. Un testo si differenzia dagli altri per il Prologo che, nei secoli successivi, ne decretò la fortuna presso le corti di tutta Europa: il Dancus rex. Le ragioni del successo risiedono nel fatto che il Prologo spiega perché la difficile arte della falconeria si impose prepotentemente all’attenzione di nobili e regnanti tra il XII e il XVII secolo. Vi si narra, infatti, come la sapienza e la competenza di cacciatore con i rapaci di un certo re Danco fossero divenute universalmente famose, al punto da indurre un altro sovrano, Gallaciano, a verificarle di persona, intraprendendo un lungo viaggio. Quando riuscí a incontrare Danco, Gallaciano si inchinò ai suoi piedi, supplicandolo di accoglierlo come discepolo. Questi rispose di non sentirsi degno di tanto onore, ma si offrí di educare alla falconeria suo figlio Atanasio. Cosí fu e, in un anno di apprendistato, il giovane apprese tutto ciò che il re Danco poteva insegnargli. Ma quale sovrano si nasconde dietro re Danco? Che cosa simboleggia la sua grande competenza nella falconeria e, dunque, in che cosa consiste la sua sapienza di re, che traspare dalla presentazione che ne fa l’anonimo autore? Differenti sono state le ipotesi circa la collocazione geografica dei regni dell’im-
Nella pagina accanto particolare di un dipinto cinese su seta raffigurante Gengis Khan che pratica la caccia con il falcone. XIV sec. Kabul, Museo Nazionale.
VIVERE DA SIGNORI
109
VIVERE DA SIGNORI
La falconeria A sinistra miniatura raffigurante tre aquile (una che vola verso il sole, una che emerge dall’acqua dopo aver catturato un pesce e la terza che si è appena tuffata), da un bestiario di produzione inglese. Prima metà del XIII sec. Oxford, Bodleian Library. In basso miniatura con il combattimento fra l’eroe Esfandyar e il mitico uccello Simurgh, da un’edizione dello Shahnameh (Libro dei Re) del poeta Firdusi. 1330. Istanbul, Biblioteca del Palazzo Topkapi.
maginario sovrano e dei suoi interlocutori; oggi si propende per situarli in ambito orientale. Del resto, tra il XII e il XIII secolo, molta iconografia musulmana mostra regnanti circondati, come Danco, dai propri saggi, in contesti raffinati e colti, intenti ai piaceri del proprio rango, al gioco degli scacchi, alla musica, all’equitazione, all’esercizio della falconeria. Il pensiero corre ai manoscritti miniati arabi, persiani, bizantini, conservati alla corte normanno-sveva, che descrivono la raffinatezza delle regge d’Oriente. Immagini che si ritrovano nel soffitto ligneo della cappella del Palazzo Reale di Palermo, pressoché coevo al Dancus rex. In Danco si ravvisa dunque la dimensione raffinata e salomonica del sapere e l’attrattiva del potere regale (il Prologo riecheggia per molti versi l’incontro tra Salomone e la regina di Saba, I Re 10.1-13). Partito per verificare le conoscenze del re Danco in materia di falconeria, Gallaciano sperimenta il legame implicito tra «sapere» e «potere», allorché Danco lo invita all’osservazione diretta, in azione, degli uccelli addestrati. In tal modo egli garantisce 110
VIVERE DA SIGNORI
A sinistra miniatura raffigurante Sindbad che vola sulla groppa del mitico Simurgh. In basso Palermo, Palazzo dei Normanni, Sala di re Ruggero. Particolare di uno dei mosaici raffigurante un giardino popolato da gru. 1131-1154.
tanto il proprio «sapere», dimostrando il suo effettivo controllo sui falchi, quanto il proprio «potere», con la prova dell’efficacia delle sue conoscenze. Ciò provoca in Gallaciano il desiderio di rinunciare agli attributi della propria regalità per «obbedire a Danco», quasi si trattasse di una conversione.
Nulla va lasciato al caso
L’arte della falconeria vale dunque un regno? La risposta può essere affermativa, se essa simboleggia un potere vasto che è, a un tempo, providere e excogitare. Provvedere al benessere dei sudditi, attraverso l’esercizio di un potere che è tanto efficace, in quanto è in grado di escogitare le risposte adeguate alle necessità del momento. Come in una partita di caccia con il falco, ove nulla è lasciato al caso, ma nella quale il caso è sempre in agguato, dall’alto, da mezz’aria, da terra, da sottoterra. Le tradizioni culturali che contribuirono a costruire l’identità dei re di Sicilia quali promotori di un’arte, di uno stile di vita e di un sapere curiali furono in primo luogo orientali: bizantiVIVERE DA SIGNORI
111
VIVERE DA SIGNORI
La falconeria
ne e arabe. A esse si affiancarono la tradizione nordica e quella cristiana. La complessa diversità che caratterizzò il linguaggio politico-culturale degli Altavilla fu il punto di partenza e di forza della giovane dinastia nel confronto con le forze politiche del tempo. Questo linguaggio trovò una delle espressioni piú significative nelle residenze regie. Del parco reale di Palermo – noto come Genoardo (da Gennat al-ard, «Paradiso della terra») – ci consegnano un’immagine splendente i mosaici dell’appartamento di Ruggero II (1095-1154), nel palatium palermitano, popolati
re con un hayr, serraglio di caccia, artificialmente popolato da daini, caprioli e cinghiali. E poi, sempre costruite attorno a un sapientissimo connubio tra architettura e natura (coltivata e anche selvaggia, perché adatta alle cacce), la Zisa, la Cuba, e altre sontuose residenze. Fortissimi sono i richiami alla tradizione orientale dei «paridaeza» d’origine sasanide e di prerogativa regale, ovvero di quei luoghi circondati da mura che includevano, oltre alle residenze e alla forma dei giardini, vasti spazi dedicati alla caccia. Anche l’area islamica aveva conosciuto il diffondersi del giardino-paradiso (djanna), visualizzazione e proiezione terrena dei luoghi dell’aldilà, dove sarebbe stata ricompensata la virtú dei giusti, e, come tale, summa dei piaceri che in terra si possono concedere solo ai sovrani.
La formazione dell’imperatore
da uccelli e animali esotici. Ma a evocare l’immagine di Paradisi sono soprattutto le residenze suburbane, le ville edificate nello spazio chiuso e meraviglioso del parco, residenze che nella loro incomparabile, raffinata magnificenza, rinviano alla reggia profumata di essenze d’Oriente del mitico Danco. Cosí la Favara, ovvero la Sorgente, soggiorno invernale di Ruggero II (detta anche Maredolce), si specchiava su un ampio vivaio con un serraglio alieutico. A essa si collegava il palazzo del Parco (Altofonte), soggiorno estivo del 112
VIVERE DA SIGNORI
In alto un gheppio in volo, rapace diffuso nell’intera Europa e nell’Asia settentrionale. Qui sopra un falco pellegrino. È tra i rapaci piú utilizzati per la caccia di alto volo, pur essendo estremamente difficile da addomesticare.
La caccia, ogni tipo di caccia, e quella con i rapaci innanzi tutto, fu un esercizio particolarmente caro ai re normanni e soprattutto a Federico II (1194-1250), che visse la difficile fanciullezza nella Palermo dei «paradisi», sontuose residenze (oggi in gran parte perdute) costruite dagli avi materni, re che guardavano al cielo. E in quei luoghi esercitò la mente e il corpo, crescendo nella consapevolezza della propria funzione di sovrano, interiorizzando, grazie ai suoi maestri arabi, le iscrizioni in lingua coranica, disseminate nelle strutture palaziali, che esaltavano la funzione vivificante dell’acqua e della natura, osservando, in quei grandi giardini, animali di ogni genere, imparando a cacciarli, ma anche a conoscerli, allevarli, addestrarli. Comprese che era un patri-
A destra un cacciatore con la sua aquila. In basso un astore, che, insieme allo sparviero, è protagonista della caccia di basso volo, che il rapace compie partendo da un posatoio a terra, o dal pugno del falconiere.
IDENTIKIT DI UN SUPERPREDATORE In un istante di grande intensità il falconiere a cavallo lancia il falco – che tiene stretto sul pugno – su una preda di grandi dimensioni, come una gru o un airone. Preda che il falco (che pesa all’incirca 3,5 hg) in natura non caccerebbe mai, perché ne potrebbe derivare gravi ferite. Gli basta cimentarsi con passeri o colombi, pressoché innocui e piú che sufficienti ai suoi bisogni alimentari. Ma qui sta il bello del gioco, l’essenza della sfida, in ciò risiede l’abilità del falconiere che ha saputo addestrare il rapace, l’animale piú restio a essere addomesticato – piú difficile di un ghepardo – a fare quello che, libero, non è portato a fare. Un superpredatore che in picchiata raggiunge i 500 km orari. Se si pensa che un falco compie un solo volo al giorno per cacciare, si comprende come per una battuta si debba disporre di numerosi falchi addestrati – oggi un esemplare addestrato può valere molte migliaia di euro, e anche in passato il suo valore era elevatissimo –, correndo a ogni istante il rischio che si feriscano o si perdano. Basta un nonnulla per smarrire il rapace e basta mezza giornata di lontananza dall’uomo perché esso riacquisti la selvatichezza. Occorrono inoltre uno o piú cavalli per ogni falconiere appositamente addestrati alla caccia, numerosi levrieri anch’essi addestrati e un numero notevole di aiutanti che sollevino gli uccelli verso cui lanciare il falco, solitamente posati sull’acqua o vicino a essa.
VIVERE DA SIGNORI
113
VIVERE DA SIGNORI
114
VIVERE DA SIGNORI
La falconeria
monio straordinario da salvaguardare e si adoperò a farlo, addirittura lo riprodusse, nelle numerosissime dimore che fece edificare, soprattutto in Puglia. In Sicilia si preoccupò di restaurare i giardini palermitani e di estendere la rete dei solatia (o solacia, luoghi di soggiorno o sedi di attività ludiche, n.d.r.) all’intera isola, quasi esclusivamente demaniale. Dedicò particolare cura al regime delle «foreste», entro le quali veniva praticato ogni genere di caccia. In prossimità delle domus solaciorum e dei castelli di caccia, sovente a esse collegate, fece edificare le masserie regie, alla cui gestione dedicò una straordinaria cura, che rientra nel programma di governo del territorio – di chiara matrice arabo-normanna –, volto a mantenere un equilibrato rapporto tra le varie attività legate alla regolamentazione della natura: agricoltura, uso delle «foreste» e allevamento. In quest’ottica la caccia rappresenta anche il modo piú efficace per sviluppare la conoscenza e la tutela del territorio, altro elemento di governo indispensabile.
Un fascino irresistibile
Se si può senz’altro affermare che l’arte della falconeria raggiunse alla corte federiciana apici mai piú toccati, essendo stata elevata a disciplina scientifica propedeutica all’arte di governo, è altrettanto vero che le complesse implicazioni di questa pratica, e il suo valore estetico, affascinarono profondamente, nei secoli successivi, regnanti e aristocrazie in Oriente come in Occidente. A Mantova presso la corte dei Gonzaga la falconeria fu praticata secondo le tradizioni secolari: nell’archivio della famiglia abbondano testimonianze circa quel complesso e costoso esercizio a cui i marchesi di Mantova, a partire da Federico I e da suo figlio Francesco II, furono dediti, con grande impegno personale, profusione di risorse e conseguente «ritorno di immagine». Importanti falconiere, ossia luoghi deputati all’allevamento dei falchi, furono costruite a Revere, Marmirolo, Gonzaga. Qui i falconieri svolgevano compiti ben definiti per mettere in piedi e far funzionare la «macchina da caccia», che era l’orgoglio dei principi. Cacce che si avvalevano di cani di grande qualità e di cavalli appositamente allevati, alcuni dei quali, celeberrimi, ritratti nei dipinti che ornano Palazzo Te e Palazzo Ducale. Cacciando, i marchesi percorrevano il territorio, ricco di zone umide, se ne appropriavano palmo a palmo, intervenendo, al di là del ludus venatorio, laddove le necessità della regola-
In alto miniatura raffigurante il nobile esercizio della falconeria, dal Livre des trois âges de l’homme di Pierre Choinet, ilustrato dal Maestro dell’Echevinage. 1482-1483. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Nella pagina accanto un giovane falconiere nel particolare del ciclo di affreschi che decorano la Sala baronale del Castello della Manta (Cuneo), attribuiti a un artista denominato Maestro della Manta. 1416-1420 circa.
mentazione delle acque lo richiedevano. Orgogliosi, portavano a caccia i propri ospiti, mostrando i rapaci come se fossero preziosi gioielli, quali in effetti erano. Per i falchi piú amati il marchese Francesco e il primo duca Federico fecero costruire tombe marmoree nel palazzo di Marmirolo, decorandole con iscrizioni degne di personaggi illustri. Anche a Ferrara gli Estensi praticarono la falconeria, di cui abbiamo una splendida attestazione nell’affresco del mese di Maggio a Palazzo Schifanoia. Scambi di corrispondenza tra Estensi, Gonzaga, Bentivoglio, Medici, Sforza, ci aprono a questo universo complesso, fatto di gare tra principi alla ricerca di quanto di meglio ci fosse sul mercato in termini di rapaci e di addestratori, di cavalli, di cani. Cacce a cui si dedicò anche con grande impiego di mezzi Giovanni de’ Medici (Leone X) prima e soprattutto dopo l’elezione al soglio pontificio. Suo padre, Lorenzo, lo aveva abituato alle grandi VIVERE DA SIGNORI
115
VIVERE DA SIGNORI
La falconeria
battute. Il suo epistolario abbonda infatti di notizie relative a falchi, falconieri, cani, addestratori: il popolo che organizzava e contribuiva a realizzare le cacce del principe mediceo. Vi si legge del canettiere Cappellaio, del falconiere Pilato, dei prediletti cavalli Falso Amico, Caro Amico, Gentile, Cuorallegro e Folgore. Alla caccia con i rapaci il Magnifico dedicò anche un componimento: Uccellagione di starne, ove il gusto dell’osceno, che da sempre ha condito e condisce i resoconti di caccia ove protagonisti sono «gli uccelli», nulla toglie alla possibilità di gustare dal vero il clima di una giornata a caccia del Magnifico Lorenzo e del suo seguito di amici. In molti Paesi europei, tra cui certamente anche l’Italia, si sta riaffermando la pratica della falconeria e lentamente se ne vanno riscoprendo le antiche valenze. È sufficiente una breve indagine in rete per valutare i numerosissimi siti dedicati a questa pratica venatoria, particolarmente in voga negli Emirati Arabi, nel Regno Unito, in Germania e negli Stati Uniti, dove abbondano le iniziative per avvicinare un pubblico sempre piú vasto a questo modo difficile e avvincente di rapportarsi con la natura. È in fondo, tradotto nel linguaggio di oggi, il desiderio di riscoprire quanto, tra le righe del suo trattato, indicava l’imperatore Federico II: cacciare con il falco significa compiere un «volo con la mente», aderire, grazie a una perfetta conoscenza del mondo animale e del territorio e a una profonda autodisciplina, a una pratica venatoria esistente in natura: la predazione dei rapaci. Il fine è conoscere e dominare la natura con una finalità positiva: la sua salvaguardia. Nulla di piú lontano dalle carneficine di selvaggina fatte con le armi da fuoco, dallo sterminio indiscriminato di molte specie anche protette. I rapaci cacciano solo quanto la loro natura richiede, e molte volte sbagliano! Chi va a caccia 116
VIVERE DA SIGNORI
Nella pagina accanto, in alto, a sinistra quattro sparvieri appollaiati sulla sbarra, particolare dell’allegoria del mese di Maggio affrescata da Francesco del Cossa nel Salone dei Mesi in Palazzo Schifanoia a Ferrara. 1470. Nella pagina accanto, in alto, a destra particolare della volta della Sala dei Falconi nel Palazzo Ducale a Mantova, dominata dal volo dei preziosi rapaci. XVI sec. Nella pagina accanto, in basso il particolare di un falco nella Cavalcata dei Magi (1459), affrescata da Benozzo Gozzoli in Palazzo Medici Riccardi, a Firenze. A destra falconiere con la livrea di casa d’Este che monta un mulo, matita su carta del Pisanello. 1435-1440. Parigi, Institut NÊerlandais.
VIVERE DA SIGNORI
117
VIVERE DA SIGNORI
La falconeria
LA RIVINCITA DEI RAPACI A partire dal XVII secolo, la diffusione delle armi da fuoco e il conseguente sfruttamento intensivo delle riserve decretarono la profonda crisi del nobile uso dei rapaci nella caccia. All’inizio del XX secolo l’atteggiamento dell’uomo verso i falchi era completamente ribaltato: il nobile pellegrino e tutti i suoi simili, dallo smeriglio al lodolaio al gheppio, oltreché gli astori, gli sparvieri e le aquile vennero considerati animali nocivi sia dai guardiacaccia, sia dai proprietari delle riserve; lo stesso avvenne da parte dei cacciatori di anatre e di selvaggina pregiata. Ogni equilibrato rapporto tra caccia e natura era miseramente crollato a favore di un indiscriminato uso delle armi. Cosí i rapaci vennero abbattuti senza pietà con ogni genere di espediente: dal veleno alla cattura mediante trappole, alla distruzione delle uova nei nidi e all’uccisione dei pulcini. Talora si giungeva ad accecarli, spiumarli vivi e crocifiggerli, tanto erano ormai detestati questi superpredatori, considerati, a torto, concorrenti dei nuovi cacciatori. A tali carneficine va aggiunta la moda tra i naturalisti, già in auge ai primi dell’Ottocento, di collezionare uova di uccello. Quelle dei falchi erano particolarmente ricercate per la loro bellezza e la relativa difficoltà nel procurarsele. Oggi i rapaci sono tutelati da leggi severe e quelli usati per la falconeria sono riprodotti in cattività mediante inseminazione artificiale.
con il falco non si aspetta, dunque, di riempire il carniere, né è disposto a stancare i propri rapaci oltre misura. Il suo obiettivo è mettersi alla prova in una sfida tra sé e l’uccello che ha addestrato, fino a farlo diventare parte di sé.
Da ars mechanica a scienza
Il De arte venandi cum avibus è il piú importante trattato di falconeria di tutti i tempi, molto diverso da tutti gli altri composti prima e dopo, in Oriente e in Occidente, sia per ampiezza e sistematicità, sia, soprattutto, per contenuti e finalità. La spiegazione dell’unicità sta nel fatto 118
VIVERE DA SIGNORI
In questa pagina immagini che testimoniano del recupero della falconeria, che in Italia ha avuto tra i suoi promotori Alduino Ventimiglia di Monteforte (qui sopra), fondatore dell’Accademia Italiana Cavalieri d’Alto Volo.
che Federico II – che dedicò alla caccia con i rapaci quasi ogni spazio libero dalle attività di governo – non volle comporre un’opera rivolta a chi volesse avere qualche rudimento in piú su come cacciare e soprattutto su come curare i rapaci. Egli intese, invece, scrivere un’opera scientifica, tale da avere una finalità immediatamente dichiarata e pienamente raggiunta: elevare la falconeria da ars mechanica (uno dei tanti modi di cacciare) a scienza. Ma perché l’imperatore dedicò tante energie proprio alla falconeria, riconoscendole il rango di scienza? Per rispondere all’interrogativo, occorre tenere conto che le fasi di questa attività venatoria sono estremamente complesse, richiedono notevolissimi investimenti di tempo e di denaro ai quali non corrisponde un adeguato numero di esemplari cacciati. Non è dunque un tipo di caccia «redditizio», ma è soprattutto un esercizio della mente e del corpo, che segue a una fase teorica preparatoria.
In questa pagina immagini che testimoniano del favore di cui la falconeria gode negli Emirati Arabi Uniti.
Una disciplina rigorosissima che, cosí come è descritta dallo Stupor Mundi, può essere apprezzata e praticata da pochi. Da chi, in primo luogo, deve governare gli uomini sapendoli dominare e voglia, per allenarsi, penetrare le regole complesse dell’addestramento dei rapaci. Da chi non abbia paura di mettersi in gioco in un dialogo continuo tra il proprio io, il falco (o altro rapace) che porta sul pugno, il cavallo – che deve docilmente accompagnare l’azione di caccia –, i cani – che hanno il compito di allontanare il rapace dalla preda –, gli aiutanti che, con sincronismo perfetto, devono fare alzare le prede sulle quali verrà lanciato il falco. Una caccia complessa, dunque, come lo è la vita, soprattutto quella di colui che ha il compito di governare uno Stato. Né va dimenticato il terreno di caccia, che deve essere valutato nei minimi aspetti, perché solo da una profonda conoscenza del territorio – essa pure indispensabile a chi governa – dipende
VIVERE DA SIGNORI
La falconeria anche come sovrano che ha nelle proprie mani il destino dell’umanità direttamente affidatagli da Dio. Conoscere, per dominare l’universo sublunare. E dominarlo dall’alto, come si conviene a un imperatore legibus solutus (il cui uccello simbolo è l’aquila, il piú forte tra i superpredatori) e ai funzionari, a lui obbedienti, che ne eseguono le direttive. Il falco (il nobile, l’uomo di governo) è anch’esso simbolo del potere alto che domina quanto sta sotto, ma che, per dominare correttamente, deve essere docile nelle mani del Gran Falconiere. Gli interlocutori di Federico II sono perciò i nobili, i vertici della piramide sociale, i soli in grado di comprendere, praticare e giovarsi della nobile arte della falconeria imperiale che è ludus, passatempo, svago e, nello stesso tempo, filosofia di vita, arte di governo. Per questo essa consiste in una parte teorica ugualmente importante rispetto a quella pratica. Non c’è l’una senza l’altra. Conoscere per agire, per governare.
Il misterioso «M. E.»
il successo di ogni azione venatoria, che ha la caratteristica di consumarsi in un tempo brevissimo. Anche le decisioni di un uomo di Stato debbono essere repentine, avendo ben presente, come lo ha il falconiere, tutto quanto sta sopra, intorno, sotto di lui. Un solo gesto sbagliato, la valutazione scorretta di uno dei tanti fattori che concorrono a creare l’ambiente propizio alla caccia, da quelli climatici a quelli geomorfologici, può compromettere una lunghissima preparazione del falconiere e del rapace e un’accuratissima regia della battuta, che deve procedere con perfetto sincronismo. Attraverso lo studio e la pratica del complesso universo della falconeria, Federico II intese dunque comunicare ai propri selezionati lettori che occorre conoscere la natura al fine di dominarla, non solo come cacciatore e scienziato, ma 120
VIVERE DA SIGNORI
Miniatura raffigurante Federico II con un falcone, in una pagina (riprodotta integralmente alla pagina accanto) dell’edizione del suo De arte venandi cum avibus fatta realizzare dal figlio Manfredi (Ms. Pal. lat. 1071). 1258-1266. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.
Il De arte venandi è l’unica opera che sappiamo essere stata redatta personalmente dal sovrano (possiamo dunque leggere il suo limpido latino!), al quale – lo scrive egli stesso nel Proemio al I libro – preme fornire in apertura notizie sulla stesura. Anzitutto informa di essere stato sollecitato a scriverla da un personaggio illustre, che indica con le iniziali «M. E.». Molto probabilmente, si tratta di una figura di notevole rilievo nell’entourage federiciano, anche se poco conosciuta: il maestro falconiere Enzo, che era a capo dei molti addetti ai falchi e alle attività venatorie che impegnavano in maniera consistente il tempo, le risorse, le energie dell’imperatore. Frequentissimi, tra sovrani, erano gli scambi di uccelli da preda, considerati preziosi al pari di gioielli, e Federico II non lesinava le spese se doveva procurarsi begli esemplari di rapaci anche in Paesi lontanissimi, nel Nord Europa come in Oriente. Chiudendo il Proemio, l’imperatore si scusa con i lettori per talune imprecisioni del lessico, facendo notare come la lingua latina non possieda per la falconeria un vocabolario adeguato a soddisfare la sua meticolosità di scienziato. Ancora nel Proemio all’opera, Federico II ci dice della paziente raccolta di dati durata circa un trentennio. Un periodo lunghissimo ha preceduto la stesura materiale del trattato, che ha come fine immediato quello di correggere gli errori di chi pratica la falconeria in modo improprio, seguendo testi erronei e lacunosi, e tramanda-
In basso un’altra miniatura tratta dal manoscritto Pal. lat. 1071 raffigurante Manfredi, figlio di Federico II, con un falcone. 1258-1266. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.
re ai posteri una trattazione sistematica della materia. Una gestazione, dunque, fatta di studio, cresciuta sull’esperienza di tutta una vita di uomo di Stato e di grande amante della cultura e della natura, di esercizio continuo dell’arte venatoria, maturata anche attraverso i suggerimenti ricavati da esperti fatti venire «da lontano, da ogni dove, sostenendo ingenti spese». Raccogliendo le loro esperienze e affidando alla memoria i loro gesti, il sovrano ne completa la fase preparatoria. È consapevole di essere, per molti versi, un apripista e se ne scusa con i nobili lettori. Federico II morí prima di terminare l’opera; molti indizi lo suggeriscono. Parti annunciate nei Proemi al I e al II libro mancano e, probabilmente, non furono mai scritte, come pure la trattazione dei compiti dei cani nell’attività venatoria, la caccia di basso volo (quella che si pratica con gli astori e gli sparvieri), l’indicazione delle principali patologie dei falchi e delle loro cure, materia quest’ultima tanto cara alla trattatistica precedente, che conteneva soprattutto ricette per preparare medicamenti per i rapaci. A due dei suoi figli, Manfredi ed Enzo, re di Sardegna, anch’essi abili falconieri, dobbiamo VIVERE DA SIGNORI
121
VIVERE DA SIGNORI
La falconeria Bassano del Grappa. Particolari di un affresco raffiguranti una regina che ha ricevuto in omaggio un rametto di rosa da un re che tiene un falcone sulla mano guantata: nei due personaggi si sono voluti riconoscere Federico II ed Isabella d’Inghilterra, sua terza moglie. Metà del XIII sec.
122
VIVERE DA SIGNORI
le due piú antiche redazioni del trattato: a Manfredi quella detta «breve», in due libri, a Enzo quella «lunga», in sei. Da questi due codici deriva la non consistente tradizione manoscritta dell’opera.
La versione francese
Il manoscritto fatto eseguire da Manfredi tra il 1258 e il 1266, copiando la prima parte dell’originale paterno, ha uno splendido corredo di miniature: in dodici punti il successore di Federico II nel regno di Sicilia apportò brevi integrazioni. Il prezioso codice (Vat. Pal. lat. 1071), ora conservato alla Biblioteca Apostolica Vaticana, cadde probabilmente in mano dei Francesi a Benevento, dove Manfredi fu sconfitto e trovò la morte (1266). Agli inizi del Trecento, infatti, Giovanni II, signore di Dampierre e Saint-Dizier, che lo aveva presso di sé, ne commissionò una traduzione in francese, che fu completata dal figlio, il quale la fece corredare da un importante apparato di miniature che riprendono nei soggetti quelle del codice di Manfredi. Passato in Germania, il codice entrò nella grande biblioteca dei principi elettori del Palatinato, a Heidelberg e, dopo il saccheggio della città da parte del conte di Tilly, venne donato dal duca Massimiliano di Baviera a papa Gregorio XV, a testimoniare la propria riconoscenza per la vittoria della lega cattolica sull’unione evangelica. Il manoscritto che reca la versione «lunga» del
In alto lo stemma di Federico II, con l’aquila bicefala sormontata dalla corona imperiale, da un’edizione delle Costituzioni melfitane. Palermo, Biblioteca Comunale. In basso Castel del Monte (Andria). Una veduta del piú famoso tra i castelli fatti costruire da Federico II di Svevia.
trattato venne compilato a Bologna e in questa città è rimasto dalla seconda metà del XIII secolo. Ora è conservato presso la Biblioteca Universitaria (BUB, lat. 717), proveniente dalla biblioteca del conte Cornelio Pepoli. Molto probabilmente fu Enzo – lo sfortunato figlio di Federico II tenuto per ventitré anni prigioniero dai Bolognesi –, a fare ricopiare quanto egli possedeva, o quanto restava dell’opera paterna, in un codice ornato da alcune piccole ma raffinate miniature, redatto nella ben nota grafia elaborata a Bologna e detta littera bononiensis. Nella prigione bolognese Enzo, che poté coltivare i propri interessi culturali, incontrare amici, avere compagnie femminili, si fece recapitare da Cremona, suo quartiere invernale, libri, carte, denaro, tra cui, molto verosimilmente, il trattato sulla falconeria del padre. Sullo stato del testo che Federico II lasciò prima di morire restano molti interrogativi, concernenti soprattutto la sua consistenza e l’apparato illustrativo. Sembra comunque certo che non fosse quel codice miniato, riccamente rilegato, che il mercante milanese Bottatius comprò a Parma da uno dei saccheggiatori dell’accampamento-città di Federico II, Vittoria, nel 1248, dove tutto il tesoro imperiale, compresa la corona, fu trafugato insieme con armi e vettovaglie e che lo stesso Bottatius successivamente offrí a Carlo d’Angiò. Federico morí quasi sicuramente prima di vedere redatto il De arte venandi cum
VIVERE DA SIGNORI
123
VIVERE DA SIGNORI
La falconeria
avibus in forma definitiva, e con le miniature forse da lui stesso schizzate, a formare un altro importante piano di lettura dell’opera.
La realtà, nient’altro che la realtà
Scopo principale dell’imperatore naturalista è mostrare ea que sunt sicut sunt («le cose come sono»), cioè affidarsi all’osservazione della natura senza barriere, senza assoggettarsi alle auctoritates, nemmeno a quella di Aristotele, che pure ammira e studia, ma che dichiara di non poter seguire ove tratta di cose non esaminate de visu. Solo l’esperienza diretta è la bussola di Federico II. Quella maturata attraverso l’osservazione del territorio e degli animali che lo popolano, attraverso le lunghe fasi dell’addestramento dei falchi, di cui conosce i piú minuti segreti, quella che non trascura quanto l’anatomia insegna, e che spinge i suoi corrieri ad andare nel Nord Europa a confutare teorie ingannevoli circa la nascita di alcuni uccelli. L’opera si apre con la classificazione generale degli uccelli, secondo il metodo aristotelico, ma
124
VIVERE DA SIGNORI
Sulle due pagine immagini tratte dall’edizione del De arte venandi cum avibus fatta realizzare da Giovanni II, signore di Dampierre, e illustrata da miniature di scuola bolognese. Seconda metà del XIII sec. Bologna, Biblioteca universitaria. L’opera si apre con la classificazione generale degli uccelli e l’illustrazione delle loro abitudini alimentari; tratta poi delle migrazioni, spiegandone le cause e indicando momenti, mete e ritorni, e illustra quindi le caratteristiche biologiche e morfologiche dei volatili.
con alcune opportune e ben evidenziate correzioni. I volatili vengono suddivisi in acquatici, terrestri e intermedi, in rapaci e non rapaci e se ne illustrano le caratteristiche, in particolare le peculiarità che manifestano nel procurarsi il cibo. Per chi vuole andare a caccia, è determinante sapere dove le prede si posano per cibarsi. Tratta poi delle migrazioni, spiegandone le cause e indicando momenti e luoghi delle mete e dei ritorni. Molte prede sono migratori: gru, aironi, anatre, ecc. Illustra quindi le caratteristiche biologiche e morfologiche degli uccelli: accoppiamento, nidificazione, deposizione delle uova, cova, allevamento dei pulcini; descrive gli organi esterni e interni delle varie specie, illustra tutto quanto può essere utile a un cacciatore per saper conoscere correttamente struttura, abitudini, comportamenti dei predatori e delle prede: dalla testa alle zampe, dal cervello ai reni, con parti-
VIVERE DA SIGNORI
125
VIVERE DA SIGNORI In questa pagina e in basso, sulle due pagine altre miniature tratte dall’edizione del De arte venandi cum avibus conservata presso la Biblioteca universitaria di Bologna. Seconda metà del XIII sec. Federico II morí probabilmente prima di vedere redatta la sua opera in forma definitiva, e con le miniature forse da lui stesso schizzate. Sullo stato del testo che lasciò prima di morire restano molti interrogativi; pare comunque certo che non si trattasse di un codice cosí riccamente miniato e rilegato come quello commissionato dal signore di Dampierre.
La falconeria
colare attenzione alle ali e alla loro articolazione in funzione del volo; quindi esamina con analisi puntigliosa il piumaggio (colore, forma e disposizione delle penne e delle piume e loro funzione, muta), e le caratteristiche del volo, sempre distinguendo le differenti specie. È l’inizio, straordinario, dell’etologia. Solo Konrad Lorenz, nel secolo scorso, ha saputo andare oltre le osservazioni fatte da Federico II sul comportamento degli uccelli. Nel II libro, dedicato alla teoria e alla pratica della falconeria, vi è in apertura la descrizione delle attrezzature che occorrono al falconiere per esercitare l’arte. L’imperatore si sofferma sulle modalità della cattura dei falchi (che possono essere presi dal nido oppure catturati in volo), e quindi della loro nutrizione in cattività. Descrive il procedimento della «cigliatura» e della «decigliatura» (cioè della cucitura delle palpebre, per renderli piú docili nelle prime fasi dell’addestramento, e della loro progressiva scucitura, una volta addestrati a non avere paura dell’uomo e dell’ambiente circostante), del taglio delle unghie e del bagno.
Equilibrato nel fisico e nell’intelletto
Il perfetto falconiere deve possedere una somma di qualità fisiche, psicologiche e comportamentali e deve, anzitutto, prefiggersi un fine giusto nella caccia. Ciò consiste nel possedere begli uccelli perfettamente addestrati e compiacersi nel vederli volare e cacciare, senza che si stanchino. Scopi diversi, quali la consistenza del carniere, la vanagloria, il vantaggio economico, il compiacimento di vedere cacciare i propri rapaci a ritmo sostenuto, sono da biasima126
VIVERE DA SIGNORI
re. Chi pratica l’arte della falconeria dev’essere equilibrato nel fisico e nell’intelletto: di corporatura media, dev’essere perseverante nello studio e attivo nell’esercizio fisico, buon nuotatore, buon cavallerizzo, agile in ogni movimento, coraggioso. E, ancora, possedere un’intelligenza che gli consenta di far fronte a ogni emergenza, buona memoria, vista acuta, udito fine, voce potente. Non dev’essere troppo giovane, né troppo vecchio, non soffrire il sonno, non peccare di gola, né indulgere al vino, non cedere all’ira, né essere pigro o negligente, non amare i vagabondaggi, e curare sempre con assiduità i falchi, animali difficili da addestrare e delicatissimi da allevare. Dove avvenivano le grandi battute di caccia
L’EQUIPAGGIAMENTO
descritte nel trattato? Certamente l’imperatore prediligeva le zone umide della Capitanata, ideali per la caccia ai grandi uccelli migratori. Si deve pensare che Federico II tenesse i suoi numerosissimi falchi, astori e sparvieri nelle molte residenze di caccia che fece costruire in quella regione, dove i rapaci erano curati da esperti e ricoverati in edifici appositamente costruiti, obbedendo a regole precise, come si evince dal trattato. Alcuni falchi, poi, si spostavano con l’imperatore e la sua corte itinerante, perché non v’era occasione in cui egli trascurasse di dedicare alla falconeria tempo ed energie. Anche durante gli assedi, anche nelle pause tra una battaglia e un’altra. Era a caccia con molti nobili del suo seguito quando l’accampamento
Molte pagine del De arte venandi sono dedicate alla descrizione, alle modalità di costruzione e all’impiego degli attrezzi indispensabili all’addestramento. Attrezzi che ancora oggi vengono usati tali e quali da chi pratica la falconeria. Fra questi: i «geti» (cordicelle di cuoio legate mediante un doppio anello, detto «tornetto», alle zampe dei rapaci perché non sfuggano al falconiere), la «lunga» (sottile e lunga fune di cuoio che permette di legare i falchi all’attrezzo su cui sono posati), «pertica» e «posatoio» (asta in legno alta o bassa e ceppo in legno o pietra su cui far posare i rapaci), il «sonaglio» (campanellino che indica al falconiere la posizione del volatile che si è allontanato), la «camicia» (sacchetto di tela che consente di maneggiare il falco senza danneggiargli le delicatissime penne), il «carniere», piccola borsa di cuoio che il falconiere porta appesa a un fianco e che contiene bocconi di pollo da dare in premio al rapace dopo la caccia. Insegna poi come portare il falco sul pugno, protetto dal «guanto» di cuoio che impedisce che le unghie si conficchino nella carne del falconiere. Operazione complessa, quest’ultima, perché il rapace, che detesta il volto dell’uomo, deve imparare a stargli vicino senza dibattersi: ogni movimento non controllato può nuocergli e renderlo invalido. Fornisce inoltre consigli sull’addestramento del falco senza «cappuccio», il copricapo di cuoio di origine orientale che si infila al falco, già parzialmente addestrato.
In questa pagina alcuni degli attrezzi utilizzati ancora oggi da chi pratica la falconeria.
VIVERE DA SIGNORI
127
VIVERE DA SIGNORI
128
VIVERE DA SIGNORI
La falconeria
In questa pagina miniature raffiguranti alcune fasi dell’addestramento dei falchi e gli animali ormai addomesticati, dell’edizione del De arte venandi cum avibus di Federico II fatta realizzare dal figlio Manfredi (Ms. Pal. lat. 1071). 1258-1266. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.
di Vittoria (1248) venne saccheggiato dai Parmensi; durante l’assedio di Faenza (1238) cacciava e, nelle ore di riposo, traduceva, insieme a Teodoro di Antiochia, dall’arabo al latino il piú importante trattato di falconeria compilato in Oriente, noto come Moamin. L’ars venandi con i rapaci, come la intende Federico II, non ammette dunque tempi morti: occorre un esercizio costante per essere in grado di dominare i predatori e, per farlo, occorre conoscerli e addestrarli personalmente. Di questo egli tratta nell’ultima parte del II libro e in tutto il III. Con una minuzia straordinaria e con la competenza di chi si è posto ogni domanda per giungere alla perfezione, percorre le tappe, lente e faticose che portano il rapace a tollerare prima la cattività, poi via via la presenza dell’uomo e di altri animali, passando lentamente dal buio alla luce. Quindi tutte le fasi dell’addestramento a stare sul pugno del falconiere, prima all’interno, poi all’esterno, prima con gli occhi cuciti, poi, dopo la decigliatura, con il cappuccio. All’inizio l’addestramento avviene sul pugno di un falconiere a piedi, poi a cavallo, sempre abituando il rapace al suono della voce dell’addestratore, che regge sul pugno sinistro, guantato, il falco. Come si addestra il falco a dare la caccia ai grandi uccelli e poi a ritornare mansueto sul pugno del cacciatore? Come lo si abitua a compiere ampi giri concentrici ad alta quota sul capo del falconiere in attesa di piombare, con la velocità del lampo, sulla preda? Come si ottiene che, dopo averla abbattuta, il falco non la divori, ma se ne allontani e ritorni dal falconiere, che lo premierà con un appetitoso boccone di cibo? Con una serie di accorgimenti, tra cui l’addestramento al «logoro», attrezzo fatto con ali di
uccello che si fa roteare in aria per richiamare il falco, e alla «traina», pelle di lepre o di uccello riempita di paglia fatta strisciare sul terreno. Gli ultimi tre libri del trattato descrivono con grande meticolosità altrettanti tipi di caccia. Si inizia con quella con il girifalco, il grande rapace del Nord Europa, il piú apprezzato dall’imperatore, considerato il migliore per cacciare la preda piú difficile in assoluto: la gru. Poi si passa a descrivere tutte le fasi della caccia all’airone con il falco pellegrino; infine, è la volta della caccia all’anatra con il falco sacro. Munita di un becco aguzzo e di potenti zampe, la gru costituisce un grave pericolo per il falco che, nello scontro, può venire ferito o ucciso. Lo stesso vale per l’airone e, anche se in misura minore, per le grandi anatre migratrici. Ma è proprio nella sfida alla natura, nel far compiere ai rapaci ciò che non farebbero allo stato naturale, che si fonda l’acquisizione del dominio su di essa. Per andare, attraverso la caccia, oltre la caccia.
Nella pagina accanto pagina miniata raffigurante una battuta di caccia con i cani e i falconi, da Traité de fauconnerie et de vénerie. XV sec. Chantilly, Musée Condé.
VIVERE DA SIGNORI
129
VO MEDIO E Dossier n. 39 (luglio/agosto 2020) Registrazione al Tribunale di Milano n. 233 dell’11/04/2007
Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 - 00187 Roma tel. 06 86932068 - e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (Ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Alessia Pozzato Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it Gli autori: Alessandro Arcangeli è professore associato di storia moderna all’Università di Verona. Duccio Balestracci è stato professore ordinario di storia medievale all’Università di Siena. Isabelle Chabot è professore associato di storia medievale all’Università di Padova. Francesco Colotta è giornalista e cultore di lingue e letterature scandinave. Paolo Galloni è cultore della materia in storia medievale presso l’Università di Pavia (sede di Cremona). Franco Piperno è professore ordinario di musicologia presso «Sapienza» Università di Roma. Anna Laura Trombetti è stata professore ordinario di storia medievale all’Università di Bologna. Illustrazioni e immagini: Mondadori Portfolio: AKG Images: copertina e pp. 8, 1011, 18; Electa/Sergio Anelli: pp. 9, 12/13; Erich Lessing/Album: pp. 16/17, 19; Archivio Lensini/Fabio e Andrea Lensini: pp. 20, 24/25; Heritage Art/Heritage Images: pp. 26/27; Age: p. 29; Album/Prisma: pp- 30/31 – Doc. red.: pp. 6/7, 15, 22-23, 26, 28, 32-80, 83-129 – Bridgeman Images: p. 14 – Giorgio Albertini: disegni alle pp. 81, 82.
Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com - tel. 335 8437534 Distribuzione in Italia Press-di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevodossier; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta, scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 – Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati: Telefono: 045 8884400 – E-mail: collez@mondadori.it - Fax: 045 8884378 Posta: Press-di Servizio Collezionisti casella postale 1879, 20101 Milano In copertina: particolare del dipinto convenzionalmente noto come Cassone Adimari, tempera su tavola di Giovanni di ser Giovanni, detto lo Scheggia. 1450 circa. Firenze, Galleria dell’Accademia.
Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.
Informativa ai sensi dell’art. 13, D. lgs. 196/2003. I suoi dati saranno trattati, manualmente ed elettronicamente da Timeline Publishing srl – titolare del trattamento – al fine di gestire il Suo rapporto di abbonamento. Inoltre, solo se ha espresso il suo consenso all’atto della sottoscrizione dell’abbonamento, Timeline Publishing srl potrà utilizzare i suoi dati per finalità di marketing, attività promozionali, offerte commerciali, analisi statistiche e ricerche di mercato. Responsabile del trattamento è: Timeline Publishing srl, via Calabria 32 - 00187 Roma – la quale, appositamente autorizzata, si avvale di Direct Channel Srl, Via Pindaro 17, 20144 Milano. Le categorie di soggetti incaricati del trattamento dei dati per le finalità suddette sono gli addetti all’elaborazione dati, al confezionamento e spedizione del materiale editoriale e promozionale, al servizio di call center, alla gestione amministrativa degli abbonamenti ed alle transazioni e pagamenti connessi. Ai sensi dell’art. 7 d. lgs, 196/2003 potrà esercitare i relativi diritti, fra cui consultare, modificare, cancellare i suoi dati od opporsi al loro utilizzo per fini di comunicazione commerciale interattiva, rivolgendosi a Timeline Publishing srl. Al titolare potrà rivolgersi per ottenere l’elenco completo ed aggiornato dei responsabili.