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INGHILTERRA. NASCITA DI UNA MONARCHIA MILLENARIA
INGHILTERRA
NASCITA DI UNA MONARCHIA MILLENARIA
N°42 Gennaio/Febbraio 2021 Rivista Bimestrale
DE L LL E O ’IN R GH IG ILT INI ER RA
MEDIOEVO DOSSIER
Dossier
Timeline Publishing Srl - Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c.1, LO/MI.
EDIO VO M E
INGHILTERRA
NASCITA DI UNA MONARCHIA MILLENARIA testi di Tommaso Indelli, Paolo Zanna, Federico Canaccini, Francesco Colotta, Antonio Sennis, Jean Flori e Giovanni Armillotta a cura di Francesco
Colotta
5. PRESENTAZIONE L’EPTARCHIA 6. L’isola dei sette re EDGARDO IL PACIFICO 28. Il grande riformatore LA BATTAGLIA DI HASTINGS 36. Autunno nero NASCITA DI UNA NAZIONE 50. E venne il rex Angliae RICCARDO CUOR DI LEONE 72. Cavaliere per sempre GUERRA DEI CENT’ANNI 90. Il secolo di sangue GUERRA DELLE DUE ROSE 112. Famiglie contro
guerra d’assedio/3
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marzo
MEDIOEVO
QUALE INGHILTERRA? L’
Inghilterra rappresenta un enigma storico che si perpetua nei secoli, dall’occupazione romana fino ai giorni nostri. Regno dal profilo multiforme, emerso da una successione incalzante di turbolenze, alternò fasi di isolamento a propensioni cosmopolite. A seconda del momento, perfino la morfologia delle sue coste si adattò alle mutate condizioni: da destinazione di agevole approdo navale poteva divenire terra presidiata da un mare impetuoso che la proteggeva «dall’invidia di nazioni meno felici», come declama uno dei personaggi del Riccardo II di William Shakespeare, dramma dedicato all’ultimo sovrano dei Plantageneti. Una vocazione al Dida da scrivere, dualismo, dunque, tuttora irrisolta, considerando le polemiche tra fautori e avversari della Brexit, rinvenuto nel 1877 a traumatico epilogo del rapporto fra la Gran Bretagna e l’Unione Europea. Decima di Gossolengo, Nel segno di identità discordanti, gli Inglesi – nel Quattrocento descritti come «un fuori nei popolo pressi della città emiliana. Databile dal comune e di difficile comprensione» da alcuni ambasciatori veneziani – iniziarono il faticosotra la seconda metà del II cammino verso la costruzione di un proprio regno, dopo una «guerra di liberazione». e gli inizi del sec.distanza a.C., è un modello Ma la ribellione al dominio romano fu davvero la cacciata di un odiato invasore?I A di in bronzo del fegato di secoli, parte della cultura britannica rivendicò il legame con il mondo latino, esaltandone l’eredità una pecora sul quale politico-religiosa oltreché letteraria, con un richiamo esplicito all’età della prima evangelizzazione sono definite caselle recantiesaltazione i nomi delle dell’isola. Una tendenza che convisse, su un versante opposto, con una vera e propria divinità del pantheon delle radici celtiche e anglosassoni. etrusco. Simili modelli erano utilizzati dai Al centro della disputa c’è sempre lui, lo «straniero», come emerge con forza dalle controverse sacerdoti che praticavano interpretazioni intorno ai fatti del 1066, data spartiacque nella storia inglese. Gravissima onta l’epatoscopia, cioè la perpetrata da uno spietato invasore per alcuni, l’esito della battaglia di Hastingspredizione segnò invece del futuro basata appunto l’inizio di una stagione di straordinario progresso istituzionale, complice il talento organizzativo sull’osservazione del dei nuovi governanti originari della Francia. Un’Inghilterra anglosassone e normanna che fegato. guardava verso sud, verso il Continente: non stupisce, in proposito, l’utilizzo da parte dei Brexiters della disfatta di Hastings – e della conseguente incoronazione di Guglielmo il Conquistatore – come metafora di una sudditanza che il governo di Londra non avrebbe mai dovuto piú subire. Il 1066 impresse anche una significativa svolta amministrativa per il giovane regno: l’adozione del sistema del common law, che nel tempo avrebbe sancito una cesura con la tradizione giuridica del resto d’Europa, fedele invece ai dettami del modello del civil law di matrice romano-germanica. La contrapposizione con le potenze al di là del mare si intrecciò, verso la fine dell’età di Mezzo, con la crescente ostilità tra le fazioni interne all’aristocrazia britannica, attrito che deflagrò nella Guerra delle due Rose. È il culmine di una dinamica che vede gli Inglesi, nuovamente, dividersi su grandi questioni politiche. Cala il sipario su mille anni di storia e di conflitti, raccontati in questo Dossier di «Medioevo» dedicato alla nascita di una delle monarchie piú antiche d’Europa. Francesco Colotta
VIVERE DA SIGNORI
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L’isola dei sette re Anche per la Britannia il crollo dell’impero romano fu l’inizio di una nuova era. Un periodo, quello del primo Medioevo inglese, caratterizzato dalla cosiddetta «eptarchia», il dominio contemporaneo di una serie di piccoli regni anglosassoni di Tommaso Indelli
N
el 410 d.C., travolto dalla crisi economico-sociale e dall’irruenza dei «barbari», l’impero romano abbandonò per sempre la Britannia, non potendo piú difenderla. Nel 406, Alemanni, Franchi, Burgundi, Vandali e Alani travolsero il limes renano e si riversarono in Gallia, costituendo i primi regni «romanobarbarici» in territorio romano. La disfatta delle legioni galliche offrí il pretesto a Costantino († 411), comandante in Britannia, per proclamarsi imperatore. Nel 409, accompagnato dalle sue legioni, Costantino III passò in Gallia, e cosí privò l’isola delle truppe necessarie a fronteggiare le incursioni delle tribú germaniche dei Sassoni, Angli e Juti – note come «Anglosassoni» –, che provenivano dalle attuali Sassonia, Schleswig e Jutland, e tra cui vi era anche un gruppo di Frisoni, proveniente dagli attuali Paesi Bassi. Mentre i Germani attaccavano a est, gli Scoti, tribú celtica proveniente dall’Irlanda, assalivano a ovest e i Pitti, anch’essi celti, a nord. Come narra il monaco bretone Gildas il Saggio († 570), autore del De excidio et conquestu Britanniae, il crollo dell’impero romano costrinse i Britanni a provvedere da soli alla propria difesa (vedi box alle pp. 11-12). Nel 449, nel marasma generale seguito al ritiro delle legioni, Vortigerne († 455 circa), capo britanno, per contrastare gli Scoti, chiamò sull’isola i due re degli Juti, Hengist e Horsa, e promise loro terre, in cambio dell’aiuto militare. Nel 455, a causa di dissapori, Vortigerne uccise Horsa nella battaglia di Aylesford, e Hengist fuggí nelle Fiandre, ma, poco dopo, tornato in Britannia, uccise Vortigerne e si proclamò re del Kent. Intorno al 520, al mons Badonicus, i Britanni sconfissero duramente gli invasori germanici; ciononostante, la loro resistenza fu vinta dalla superiorità militare dei conquistatori. 6
INGHILTERRA
Gli Anglosassoni si stanziarono in Britannia e fondarono alcuni regni che, almeno in origine, furono piú dei «sette» tradizionalmente conosciuti. Infatti, l’«eptarchia» (dal greco epta, sette, e archo, governare) anglosassone si costituí solo quando, alla metà del VII secolo, dopo annessioni e accorpamenti territoriali, i regni divennero effettivamente sette: Northumbria, Mercia, Sussex, Essex, Anglia Orientale, Wessex e Kent. Mentre le nuove compagini andavano costituendosi, la popolazione britannica – chiamata Welsh dagli invasori – fu sottomessa o fuggí in Gallia, nella penisola dell’Armorica, a cui fu dato il nome di Bretagna. Una parte degli autoctoni si trasferí nella Britannia occidentale, dove conservò lingua e tradizioni celtiche, dando vita al regno di Dumnonia – comprendente Cornovaglia, Somerset e Devon – e, piú a nord, al regno di Strathclyde, alle foci del Clyde. Tra i due regni britannici c’era il territorio del Galles, diviso nei principati di Gwynedd, Deheubarth e Powys, e, piú a nord, sulla costa occidentale scozzese, gli Scoti, provenienti dall’Irlanda, fondarono, nell’attuale Argyll, il regno di Dalriada, che, nell’842, debellati gli autoctoni Pitti, fu unito alla Scozia dal re Kenneth MacAlpin († 858).
Un ceppo etnico comune
La struttura sociale dei regni anglosassoni era piuttosto simile, anche perché le tribú avevano molti elementi culturali in comune e parlavano dialetti affini, poiché appartenevano tutte al gruppo etno-linguistico dei Germani occidentali. La società era ripartita in classi differenti, con al vertice il re – cyning –, assistito dal consiglio degli anziani – witenagemot –, composto dai piú importanti dignitari laici ed ecclesiastici del regno e che, col tempo, esautorò l’assemblea tribale. Al re seguivano i nobili – aethelingas –,
L’assetto geopolitico e le divisioni territoriali della Britannia al tempo degli Anglosassoni, dopo che i Romani avevano abbandonato l’isola, incisione a colori del cartografo e storico inglese John Speed. 1616. Collezione privata.
PAPI DEL MEDIOEVO
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INGHILTERRA
L’eptarchia
poi gli uomini liberi – ceorlas – e, infine, il popolo, spesso legato alle altre due categorie da rapporti di dipendenza personale. La società anglosassone era agricolo-pastorale e guerriera e, la gran parte delle stirpi, al momento dell’insediamento in Britannia, professava culti di carattere naturalistico e politeistico, com’è dimostrato anche dai nomi inglesi dei giorni della settimana che, nella loro struttura linguistica tuttora conservano quello delle principali divinità del pantheon germanico. Come presso tutte le stirpi germaniche, il diritto anglosassone – folcriht – era consuetudinario e non scritto, ma presto emerse la necessità di raccoglierlo in apposite «leggi», promulgate dai sovrani, la prima delle quali fu quella di Etelberto (560-616), re del Kent. A differenza degli analoghi provvedimenti
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INGHILTERRA
Miniatura raffigurante re Artú in battaglia contro i Sassoni, da un’edizione de Il Graal di Rochefoucauld, manoscritto del XV sec. in quattro volumi, composto da un autore anonimo per il nobile francese Guy VII de La Rochefoucauld. Collezione privata.
emanati nei regni «romano-barbarici» del continente, tutte le raccolte legislative dei re anglosassoni furono redatte in volgare – e non in latino – e risentirono pochissimo dell’influenza del «diritto romano», mentre forte fu l’influsso del diritto canonico e della Chiesa cristiana.
Piú aperto al continente
Il regno del Kent – che comprendeva anche l’isola di Wight – fu il primo dell’eptarchia e venne fondato dagli Juti a sud del Tamigi, nella regione già occupata, molto tempo prima, dalla tribú celtica dei Cantiaci. Per la sua posizione geografica, sullo stretto di Dover, subí piú degli altri gli influssi culturali e religiosi provenienti dal continente. Nel 597, Etelberto accolse la delegazione inviata dal papa, sotto la guida del
L‘INGHILTERRA ANGLOSASSONE (SEC. V-X) MARE NORVEGESI 793
Lindisfarne
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NORVEGESI 793-853
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A destra l’Inghilterra in età anglosassone, minacciata dalle incursioni di flotte vichinghe danesi e norvegesi.
Anglia Orientale
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In alto particolare della Croce di sant’Agostino (Kent, Inghilterra), che commemora l’approdo in Britannia, nel VI sec., del monaco Agostino di Canterbury, inviato da Gregorio I Magno a convertire gli Anglosassoni. XIX sec.
Chichester
JUTI V SEC.
Wareham
I DANESI 868
La Manica
INVASIONI DEI POPOLI GERMANICI
DANESI 840
L‘INGHILTERRA NEL IX SEC: REGNO DI WESSEX
REGNO SASSONE DI EGBERTO DI WESSEX (802-839)
DUCATO DI MERCIA
LINEA DI SPARTIZIONE TRA DANESI E SASSONI (886)
IL “DANELAW”
COLONIE DANESI DALL’877 AL 942
DUCATO DI NORTHUMBRIA
monaco Agostino, e accettò di farsi battezzare assieme al suo popolo, una decisione probabilmente influenzata dalla moglie, la cattolica Berta († 612 circa), figlia del re dei Franchi Cariberto (561-567). Dal Kent, in seguito, partirono molte missioni destinate a convertire gli altri regni dell’eptarchia, tra cui l’Anglia Orientale e la Northumbria. Molto probabilmente, Etelber-
to fu anche il primo sovrano anglosassone ad assumere il titolo di Bretwalda – «re supremo dei Britanni» – dopo aver sottomesso tutto il territorio a sud dell’Humber. Nel 605, Redwald (600-625), re dell’Anglia Orientale, corrispondente agli attuali Norfolk e Suffolk, accettò il battesimo proprio su invito di Etelberto, ma, come narrano le fonti, ciò non gli INGHILTERRA
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INGHILTERRA
L’eptarchia A sinistra miniatura raffigurante il sovrano anglosassone Etelberto del Kent che viene battezzato dal monaco Agostino di Canterbury. XIV sec. Londra, The British Library. Nella pagina accanto, in alto mappa che illustra le fasi e le direttrici della cristianizzazione dell’Europa nel Medioevo. Nella pagina accanto, in basso i resti dell’abbazia benedettina di Canterbury (Inghilterra), edificata alla fine del VI sec. in seguito all’arrivo del monaco Agostino in Britannia. Utilizzata come luogo di sepoltura per i sovrani del Kent, l’abbazia fu attiva fino alla metà del Cinquecento e oggi è Patrimonio dell’Umanità UNESCO.
impedí di continuare a professare gli antichi culti germanici. Morto Etelberto, Redwald, inoltre, assunse per sé il titolo di Bretwalda, sottomettendo gli altri regni a sud dell’Humber, che gli pagarono il tributo (vedi box a p. 14). Da quel momento, fu chiaro che alcuni regni dell’eptarchia aspiravano prevalere e, due di essi, Sussex – corrispondente all’attuale Sussex – ed Essex – corrispondente agli attuali Essex, Middlesex ed Hertfordshire – cessarono di rivestire un ruolo politicamente rilevante.
La breve parabola di Etelfredo
Alla morte di Redwald, il primato politico e militare passò alla Northumbria, regno di recente formazione, collocato tra Humber e Tweed, nato dall’unione dinastica dei preesistenti regni di Deira e Bernicia, fondati dagli Angli. L’unione fu opera di Etelfredo (593617), re di Bernicia, il quale, nel 593, alla morte del suocero, re Aella (560-593), divenne anche sovrano di Deira, bandendo il cognato Edvino. Tuttavia, Etelfredo non governò a lungo, perché fu ucciso in battaglia nel 617 da Redwald, re dell’Anglia Orientale, che as10
INGHILTERRA
A destra Bath (Somerset, Inghilterra), abbazia. Vetrata policroma raffigurante Alfredo il Grande con in mano una nave: nell’878, il sovrano riuscí a sconfiggere i Vichinghi nella battaglia di Edington, concedendo poi loro il diritto a stanziarsi nel territorio a nord del Tamigi, denominato Danelaw.
LIBERI DA ROMA, MA VICINI ALLA CHIESA Popolata da tribú celtiche fin dal I millennio a.C., la Britannia fu sottomessa dai Romani tra il I e il II secolo d.C. e trasformata in provincia, retta da un legato imperiale. La Caledonia – odierna Scozia – non venne invece mai annessa e, a protezione dei confini settentrionali della provincia dalle incursioni dei Caledoni, i Romani edificarono i complessi fortificati del vallo di Adriano – tra il Solway Firth e il fiume Tyne – e, piú a nord, del vallo di Antonino, tra il corso dei fiumi Clyde e Forth. I valli erano costruzioni difensive – il primo era lungo 120 km circa, il secondo 50 – che, rimarcando la linea del limes, includevano fossati, terrapieni e un muro in pietra, intervallato da torri di avvistamento e fortini. Con le invasioni del IV e V secolo, le due strutture caddero in disuso e furono dismesse, mentre poco utile si rivelò il Litus Saxonicum, un insieme di fortificazioni edificate tra IV e V secolo a protezione delle coste meridionali della Britannia dalle incursioni dei Sassoni e poste sotto il controllo del comes Litoris Saxonici. Nel IV secolo, l’imperatore Diocleziano riorganizzò il territorio della Britannia, che fu ripartito in quattro province distinte, sotto il governo di correctores: Britannia Prima e Secunda, Maxima Caesariensis e Flavia Caesariensis. Nel frattempo, la civiltà romana aveva cominciato a prendere piede tra i Celti, con il sorgere di grandi città come Londinium (Londra) e Camulodunum (Colchester). Anche il cristianesimo cominciò a diffondersi e a darsi una struttura: infatti, nel IV secolo, la
chiesa britannica comprendeva le tre diocesi di Londinium, Eburacum (York) e Verulamium. Quest’ultima, intorno al 305, fu teatro del martirio del legionario Albano, che, canonizzato, diede il nome all’odierna Saint Albans. Prima della conquista anglosassone, l’ampia diffusione del cristianesimo in Britannia è confermata anche dal fatto che san Patrizio († 461) –
evangelizzatore dell’Irlanda – era figlio di un diacono britannico, Calpurnio, e che lo stesso Pelagio († 420) – eresiarca cristiano del V secolo – fu un monaco britannico. Forse a causa dell’effetto distruttivo delle invasioni, in alcune regioni della Britannia la vita civile regredí, anche da un punto di vista materiale, a condizioni precedenti la stessa conquista romana e la stessa
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L’eptarchia
organizzazione diocesana andò distrutta. La Chiesa britannica risorse solo nel VII secolo, grazie al monaco romano Agostino († 604), priore di un cenobio sul Celio, che fu inviato nell’isola da papa Gregorio Magno (590-604), per diffondere il cristianesimo tra gli Anglosassoni. Per espressa raccomandazione del pontefice, la missione di Agostino fu essenzialmente pacifica, e si svolse, finché fu possibile, senza turbare i sentimenti religiosi delle popolazioni del luogo. Nel Kent, sul sito dell’antica città romano-celtica di Durovernum Cantiacorum (Canterbury), nel 601 Agostino fondò un cenobio dedicato ai santi Pietro e Paolo e la diocesi di cui, secondo la tradizione, fu consacrato primo vescovo; Agostino creò anche le diocesi suffraganee di Rochester e Londra, quest’ultima affidata al monaco Mellito († 624), poi consacrato terzo vescovo di Canterbury, dopo la morte del predecessore Lorenzo (604-619). Nel corso del VII secolo, papa Vitaliano (657-672) inviò una nuova missione in Britannia, per consolidare i risultati della 12
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precedente, guidata da un orientale, il monaco Teodoro di Tarso, che fu vescovo di Canterbury dal 668 al 690. Teodoro ristabilí la disciplina ecclesiastica e convocò sinodi come quello di Hertford, nel 673, e di Hatfield, nel 680, nel corso dei quali furono emanati canoni e condannate definitivamente le usanze ecclesiastiche celtiche. Teodoro portò con sé, dall’Italia, alcuni monaci e pose a capo del monastero di S. Agostino di Canterbury – già dedicato ai santi Pietro e Paolo – Adriano († 710), monaco di origine berbera, che introdusse in Inghilterra il «canto gregoriano» e fondò, presso il cenobio di cui fu abate, anche una biblioteca con annessa scuola di latino, greco ed ebraico, per la formazione del clero. In Britannia, molti monasteri sorsero non solo su iniziativa di missionari provenienti da Roma, ma anche su impulso di esponenti delle aristocrazie germaniche dei regni che, convertitisi alla nuova fede, decisero di diventare monaci. Si pensi al cenobio di Whitby, in Northumbria, fondato, intorno al 660, dall’aristocratica Hilda
I resti dell’abbazia benedettina di Whitby nel North Yorkshire (Inghilterra), uno dei complessi religiosi edificati da nobili e regnanti locali che si convertirono al cristianesimo: fondata dall’aristocratica Hilda nel VII sec., che poi divenne badessa, l’abbazia venne distrutta e abbandonata dopo l’assedio vichingo dell’867. († 680), poi diventata badessa, o ai cenobi di S. Pietro e S. Paolo fondati, sempre in Northumbria, a Wearmouth e Jarrow, tra il 674 e il 683, dal nobile Benedetto Biscop († 690). Benedetto dotò le biblioteche monastiche di numerosi volumi portati con sé da Roma, dove si era piú volte recato come pellegrino. Nei regni dell’eptarchia, molti monasteri furono fondati anche da monaci di origine irlandese, attivi nell’opera di evangelizzazione della Scozia e degli Anglosassoni. Tra essi bisogna ricordare il monastero di Lindisfarne fondato, nel 635, su un’isola al largo delle coste della Northumbria dall’irlandese sant’Aidano († 651), che ne fu il primo abate.
segnò la corona proprio a Edvino, il quale, negli anni dell’esilio, aveva trovato ospitalità alla corte di Redwald. Edvino impose alla Northumbria la conversione al cristianesimo e si fece battezzare da Paolino († 644) – missionario inviato dall’arcivescovo di Canterbury, Giusto (624-627) – e, poco dopo, lo designò arcivescovo di York, che divenne la seconda arcidiocesi britannica. Edvino consolidò i rapporti col Kent, sposando Etelburga († 647), figlia di Etelberto del Kent e, dopo la morte, fu proclamato santo per l’opera di evangelizzazione promossa negli altri regni anglosassoni: l’Essex, per esempio, fu convertito proprio in quegli anni dal missionario northumbro Cedd († 664). Ma Edvino aveva anche ambizioni militari e, proclamatosi Bretwalda, affermò il suo potere su quasi tutta la Britannia a sud dell’Humber. Nel 633, trovò però la morte nella battaglia di Hatfield Chase, combatten-
In alto spilla anglosassone in argento con dorature e granati a forma di uccello, dal Kent. 500-550. New York, The Metropolitan Museum of Art. A destra dritto e rovescio di un tremisse anglosassone in oro battuti dal monetiere Witmen. Inizi del VII sec. Cleveland, The Cleveland Museum of Art. A sinistra, in basso pendente anglosassone in oro con granati e supporto in lamina modellata. Inizi del 600. New York, The Metropolitan Museum of Art. In basso, a destra spilla anglosassone a disco in oro con granati, vetro e niello, realizzata a Faversham (Inghilterra). 600 circa. New York, The Metropolitan Museum of Art. La regione del Kent era un importante centro di produzione di gioielli anglosassoni e si caratterizzava per un’alta qualità della fattura.
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L’eptarchia
UNA NAVE PER IL RE DELL’ANGLIA A sinistra l’elmo di Sutton Hoo, celebre manufatto in ferro e bronzo di fattura anglosassone, finemente decorato, rinvenuto nel 1939 in un tumulo nella regione del Suffolk in Inghilterra. VII sec. Londra, British Museum. Fa parte del corredo funebre di una nave funeraria nella quale si ritiene fosse collocato il cadavere di un personaggio illustre, presumibilmente un capo militare o un sovrano. Il potere e il prestigio di Redwald sono stati confermati anche dalla scoperta, a Sutton Hoo (Suffolk), nel 1939, di quello che sembra essere, un cenotafio o la sua tomba. Sotto un alto tumulo, gli archeologi rinvennero una nave a remi, lunga 27 m circa, simile a quelle con cui gli Anglosassoni avevano verosimilmente invaso la Britannia nel V secolo. Al centro della nave, priva di albero e vela, era stata edificata una camera funebre lignea, in cui, forse, era deposto il cadavere di un personaggio importante – i cui resti, comunque, non furono rinvenuti –, poi identificato col famoso re dell’Anglia Orientale. Il defunto era accompagnato da un prezioso corredo, costituito da un bacile in bronzo, una fibbia d’oro massiccio con decorazioni teriomorfe, armi, monete e utensili in argento, oggi conservati al British Museum. Molti degli oggetti preziosi rinvenuti erano di provenienza estera, come le monete, di fattura merovingia, e gli utensili in argento – un mestolo, cucchiai, ciotole, coppe – provenienti dall’impero bizantino, tra cui un piatto di ottima fattura, recante impressi i marchi con il nome dell’imperatore Anastasio I (V secolo). La provenienza delle monete e dell’argenteria consentí anche di ricostruire il raggio d’azione diplomatico e commerciale – veramente «internazionale» – di un regno anglosassone dell’epoca. Il corredo d’armi risultava composto di spada e fodero, riccamente ornato di guarnizioni d’oro, dai resti di uno scudo, abbellito da applicazioni in metallo di carattere teriomorfo e da un elmo in ferro, cui era annessa una maschera in bronzo dorato, con la sagoma di un volto. In aggiunta, nella tomba fu ritrovato anche uno scettro e un’insegna che, probabilmente, precedeva l’esercito del sovrano in marcia.
Replica in scala dell’elmo di Sutton Hoo. Londra, British Library.
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In alto disegno ricostruttivo della nave funeraria di Sutton Hoo. A destra illustrazione raffigurante dall’alto, in senso orario, quattro re anglosassoni: Edmondo il Martire, Edoardo il Vecchio, Alfredo il Grande e Atelstano, dall’Abbreviatio chronicorum Angliae del cronista inglese Matteo Paris. XIII sec. Londra, The British Library.
do contro il gallese Cadwallon, re del Gwynedd, e Penda (633-655), re della Mercia, regno collocato tra i fiumi Humber e Tamigi. Penda si proclamò Bretwalda e, benché «pagano» e ostile a ogni forma di conversione al cristianesimo, aveva stipulato un’alleanza col cristiano Cadwallon, proprio per affermare il suo dominio sull’isola. La morte di Edvino causò la nuova scissione della Northumbria nei regni di Bernicia e Deira, che divennero tributari della Mercia, ma, nel 633, anche Cadwallon fu ucciso a Heavenfield, dove si scontrò con Osvaldo, nipote di Edvino e re di Bernicia. Osvaldo, però, aveva sottovalutato Penda, e, quando tentò di ricostituire l’unità della Northumbria, fu ucciso, nel 642, nella battaglia di Maserfelth. La sua morte, per mano di un re «pagano», assunse subito i connotati del martirio e ne favorí il culto come santo. Suo fratello, Oswy († 670), riuscí a conservare il possesso della sola Bernicia, mentre la Deira fu presa da Penda, il cui dominio aveva però i giorni contati, poiché, nel 655 fu ucciso da Oswy nella battaglia di Winwaed e la Northumbria tornò a essere un regno unico. Oswy governò saggiamente e fu particolarmente attento alle questioni religiose, tanto che, nel 664, convocò il sinodo di Whitby, in occasione del quale all’intera Chiesa inglese fu imposta l’uniformità liturgico-disciplinare fondata sui precetti della Chiesa di Roma e furono condannate alcune pratiche «devianti», seguite da monaci e clero di estrazione celtica, che pure avevano contribuito alla cristianizzazione degli Anglosassoni.
Tonache e tonsure all’uso romano
Molti monaci e chierici celti venivano dall’Irlanda o dal cenobio di Iona – nelle Ebridi – in cui l’irlandese san Colombano († 597), intorno al 563, aveva fondato un cenobio specializzato nella formazione dei missionari da inviare in Britannia. Tra i sostenitori dell’uniformità liturgico-disciplinare, ci fu san Vilfredo († 709), vescovo di York, la cui applicazione dei canoni conciliari indusse molti monaci celti – tra cui, san Coloman († 675), abate di Lindisfarne – a tornare in Irlanda. In base alle decisioni sinodali, abbigliamento, tonsura e decoro degli ecclesiastici furono conformati all’uso romano, le pratiche ascetiche e penitenziali mitigate, il clero regolare fu sottoposto al controllo e alla disciplina del clero secolare, i monasteri separati dalle diocesi e la Pasqua – celebrata dai monaci celti all’equinozio di primavera – venne fissata alla prima domenica successiva il primo plenilunio di primavera. Morto Oswy, la Northumbria non rivestí piú un ruolo rilevante negli equilibri politici tra i regni
anglosassoni e il primato passò di nuovo alla Mercia. Morto Penda, il successore Wulfhere (655-675) accettò il battesimo e impose il cristianesimo a tutti i sudditi, creando cosí le premesse per l’ulteriore espansione della Mercia sotto re Offa (757-796). Salito al potere dopo l’assassinio del predecessore, il cugino Etelbaldo (716-757), Offa fu contemporaneo dell’imperatore Carlo Magno († 814), con il quale intrattenne ottimi rapporti diplomatici, benché il matrimonio programmato tra suo figlio, Ecgfrith, e una figlia del re franco, non fosse mai andato in porto. Assunto il titolo di Bretwalda, Offa divenne uno dei piú grandi re della Britannia medievale, ampliò i confini della Mercia, annettendo Essex, Sussex e Kent – le cui dinastie furono esautorate – e rese tributari gli altri regni dell’isola, come il Wessex, il cui re, Brihtric (786-802), pagò un tributo e ne sposò la figlia, Eadburh. Offa rafforzò i confini della Mercia edificando l’Offa’s Dike, un terrapieno che correva da Chepstow a Chester, a protezione dalle incursioni gallesi e, ispirandosi alla riforma monetaria di Carlo Magno, introdusse la sterlina, come moneta di conto, e coniò il penny – moneta argentea – a imitazione dei denari carolingi. INGHILTERRA
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GROENLANDIA
L’eptarchia Lofoten
MAR DI NORVEGIA
L‘ESPANSIONE VICHINGA Reykjavik Thingvellir
Trondheim
Fær Øer Shetland
Uppsala
Bergen Oslo
Haugesund
Helgö Birka
Kaupang Fyrkat
Ebridi Lindisfarne Isola di Man Dublino
Dü
na
Roskilde Lund
Ribe
Haithabu Amburgo
Dorestad
Londra Hastings
Kiev
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Bayeux
Novgorod
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ATLANTICO
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a Parigi Loira
Territorio d'origine
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Espansione Pamplona Incursione Zuge
Lisbona Tago Cordoba Cadice
Roma
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Palermo
MAR MEDITERRANEO Cartina dell’Europa nella quale sono indicati i territori d’origine delle genti vichinghe, le principali direttrici delle loro spedizioni e le terre conquistate e colonizzate, tra l’VIII e il IX sec. Sono inoltre evidenziati i centri abitati piú importanti, che possono essere considerati come altrettante capitali. 16
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Primo tra tutti i re anglosassoni, Offa coniò anche monete d’oro per i commerci internazionali, a imitazione della moneta in corso nel califfato abbaside e ottenne da papa Adriano I (772-795) per Lichfield, capitale del regno, il rango di metropoli ecclesiastica e l’indipendenza dall’arcidiocesi di Canterbury. Primo tra i sovrani europei, Offa si fece vassallo del papa corrispondendogli, in cambio della protezione apostolica, l’«obolo di san Pietro» – Romefeoh – e codificò il diritto consuetudinario della Mercia, emanando un «codice legislativo» che fu redatto in old English, cioè nel dialetto degli Angli. Alla sua mor-
te, nel 796, il dominio merciano andò in pezzi e i regni anglosassoni, un tempo sottomessi, riacquistarono la loro indipendenza. Lo scettro del comando passò allora al Wessex.
La frammentazione si riduce
Intorno al 495, Cerdic (495-533) e suo figlio, Cynric (533-560), re dei Sassoni, fondarono il regno del Wessex, la cui popolazione fu cristianizzata sotto il regno di Ceawlin (560-593) e, probabilmente, per influsso del vicino regno del Kent. A quell’epoca, il regno del Wessex, collocato a sud del Tamigi, comprendeva grosso modo
E VENNE IL TEMPO DELLA «LEGGE DANESE»
Rostow
Volga
Bolgar
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Itil
O MAR CASPIO
A destra statua di Edmondo, re dell’Anglia Orientale, collocata nella facciata della chiesa dedicata al sovrano a Southwold, nel Sussex (Inghilterra): nell’869, Edmondo guidò eroicamente un esercito contro gli invasori vichinghi, ma venne catturato, legato a un albero e ucciso.
L’8 giugno del 793, i Vichinghi, predoni di origine danese e norvegese, assalirono l’abbazia di Lindisfarne, sulla costa orientale della Northumbria, massacrando i monaci e asportando gli arredi sacri. Quella data segnò convenzionalmente l’inizio della cosiddetta «età vichinga», conclusasi solo nel 1066, con l’occupazione normanna dell’Inghilterra. In realtà, sembra che la prima incursione vichinga in Britannia rimonti al 787, quando un gruppo di predoni assalí Portland, nel Wessex, uccidendo l’ufficiale regio che il re del Wessex, Brihtric, aveva inviato loro incontro. Solo dal 793, però, i predoni del Nord – detti anche «Norreni» – iniziarono a saccheggiare, periodicamente, le coste britanniche. Nel 794, in Northumbria, fu saccheggiato il monastero di Wearmouth e, nel 795, fu attaccata anche l’Irlanda. Nel 799, attaccando l’Aquitania, i Vichinghi iniziarono ad assalire il continente, ma, solo a partire dall’830, dopo aver fondato alcune basi sulle isole britanniche di Wight e Sheppey, le incursioni cessarono di essere sporadiche e divennero continue. Da quello stesso anno, gli attacchi dal mare colpirono assiduamente anche l’Irlanda, dove furono saccheggiati molti monasteri, ma anche fondati nuovi insediamenti sulla costa orientale, come Dublino, Cork, Limerick, Wexford e Waterford. All’inizio del X secolo, il regno vichingo di Dublino era diventato cosí potente da controllare anche il Danelaw inglese, ma, con la battaglia di Clontarf (1014), le tribú celtiche irlandesi ebbero ragione dei Norreni, la cui aggressività fu notevolmente ridimensionata. Nell’866, una «Grande Armata» di circa 3000 uomini, composta da effettivi di provenienza danese e norvegese, sbarcò in Northumbria, con l’obiettivo di colonizzare la regione, dando vita a insediamenti permanenti. Secondo le saghe, al comando dell’esercito erano Ivar «Senz’ossa» († 873), Ubbe († 867 circa) e Halfdan († 877) Ragnarsson, figli di Ragnar Lodbrok – «brache pelose» – capo vichingo di dubbia origine etnica, già autore degli assedi di Parigi dell’845 e dell’855. I tre comandanti avevano intenzione di vendicare il padre, che ucciso intorno all’865 mentre tentava di saccheggiare la Northumbria, da re Aella (863 circa-866), il quale, dopo
In alto Lindisfarne (Northumberland, Inghilterra): i resti del complesso monastico, assalito e saccheggiato da predoni scandinavi l’8 giugno 793.
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averlo catturato, lo aveva lasciato morire in una fossa di serpenti. Nell’866, sbarcati in Northumbria, presa e saccheggiata York, i figli di Ragnar rivolsero l’esercito contro Aella e, profittando del fatto che il re era reduce da una guerra civile contro il fratello, Osberht, lo presero prigioniero e lo uccisero. Nell’867, Ubbe, Ivar e Halfdan si spostarono a sud e, occupate la Mercia e l’Anglia Orientale, deposero i rispettivi re e iniziarono a distribuire terre ai membri del loro seguito. Nell’869, il re dell’Anglia Edmondo, che rifiutò di abiurare il cristianesimo, venne martirizzato, mentre in Mercia i Vichinghi deposero re Burgred e imposero l’inetto Ceolwulf († 879) e, dovunque passavano estorsero il danegeld, cioè il tributo. Spintisi piú a sud, i Vichinghi invasero il Wessex, ma si trovarono di fronte alla ferrea resistenza di Alfredo «il Grande». Morti i figli di Ragnar in circostanze poco chiare, il comando della «Grande Armata» fu assunto da re Guthrum († 890), il quale, sconfitto da Alfredo a Edington, accettò il battesimo e impose la conversione al suo popolo. In base al trattato di Wedmore, i Vichinghi ottennero la possibilità di insediarsi nella Britannia centrale e nord-orientale, nel Danelaw – «Legge danese» – che da essi prese il nome. Non sappiamo come essi organizzassero il territorio occupato dal punto di vista amministrativo, ma se ne conoscono i confini che, a nord, arrivavano al fiume Tweed, lambendo la Scozia, a sud, invece, risalivano il Tamigi fino alla confluenza con il Lea, proseguendo fino alle sorgenti del fiume e, da lí, fino a Watling Street, l’antica strada romana che congiungeva Britannia e Galles. Il Danelaw, comunque, non sembra essere stato mai un regno unitario, ma era diviso in piú regni, tra cui il «regno di York» – ribattezzata Jórvík dai Vichinghi – collocato a nord dell’Humber e che ricalcava,
approssimativamente, l’antica Northumbria. Il Danelaw comprendeva inoltre quattro importanti città che presidiavano i confini con il Wessex, denominate «i cinque borghi» – five Boroughs –, cioè Lincoln, Leicester, Derby, Nottingham e Stamford, ciascuna delle quali probabilmente governata da un re. La presenza vichinga nel Danelaw è documentata non solo da resti archeologici, ma anche dalla toponomastica tipicamente scandinava, caratterizzata dall’aggiunta, ai nomi delle località, dei suffissi «by» e «thorp». La lunga presenza vichinga in Britannia è, ancora oggi, testimoniata dal lessico inglese che ha incorporato centinaia di termini dell’antico norreno come il sostantivo «law».
Tre pezzi degli scacchi Lewis, dall’omonima isola scozzese. Manifattura normanna, fine del XII sec. Londra, British Museum. Ricavate da zanne di tricheco, le pedine sono a forma di Berserkir, i leggendari guerrieri della tradizione vichinga.
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In alto il tesoro di Harrogate, rinvenuto nel 2007 nei pressi di York. Composto da 617 monete d’argento e 65 oggetti in argento, argento dorato e oro, apparteneva probabilmente a un capo vichingo. 900 circa. Londra, British Museum.
l’Hampshire e il Gloucestershire. Nel corso dell’VIII secolo, benché sottomesso alla Mercia, il Wessex consolidò le sue strutture interne, grazie all’opera dei re Ceadwalla (686-688) e Ine (688726) che morirono entrambi a Roma, dove avevano deciso di trascorrere gli ultimi anni della loro vita come pellegrini e monaci. Agli inizi del IX secolo, morto Offa, Egberto (802-839), probabilmente appartenente a un’illustre famiglia del Kent, tornò dall’esilio e, profittando della morte di Brihtric, fu consacrato re del Wessex. Assunse il titolo di Bretwalda – portato anche dai suoi successori – e, grazie a vittoriose campagne militari, fece del Wessex la maggiore potenza dell’isola: a ovest, occupò la Dumnonia e, a est, il Kent, il Sussex e l’Essex. Con queste annessioni, fu semplificata la carta politica britannica, poiché i regni anglosassoni indipendenti rimasero quattro: Anglia Orientale, Mercia, Northumbria e Wessex. Nell’825, nella battaglia di Ellandun, Egberto stroncò un tentativo di egemonia della Mercia ma, dall’830, la minaccia delle incursioni vichinghe divenne il problema maggiore. Nell’838, i Vichinghi furono battuti a Hingston Down e, nell’839, morto Egberto, il figlio Etelvulfo, divenuto re, affrontò gli invasori scandinavi, che furono nuovamente sconfitti, nell’851, a Ockley. Nell’855, il re andò in pellegrinaggio a Roma – dove ottenne la conferma della corona dal papa – e l’anno successivo tornò in patria. Nel frattempo, il figlio Etelbaldo lo aveva spodestato e, cosí, quando tornò nel Wessex, Etelvulfo dovette dividere con lui il potere. Etelvulfo consolidò anche i rapporti diplomatici con il regno franco, sposando, dopo la morte della prima moglie, Osburga († 855), figlia del maggiordomo di palazzo Oslac, Giuditta († 870), figlia del futuro imperatore Carlo il Calvo († 877).
La sconfitta della «Grande Armata»
Morto nell’858 Etelvulfo, gli successero i figli avuti da Osburga e, cioè, Etelbaldo (858-860), Etelberto (860-865), Etelredo (865-871) e Alfredo (871-899). A partire da Etelredo, il Wessex fu costretto ad affrontare di nuovo la gravissima minaccia vichinga, fattasi molto pericolosa dopo lo sbarco in Northumbria della cosiddetta «Grande Armata». Nell’871, Etelredo morí in battaglia a Basing e il suo posto fu preso dal fratello, Alfredo, poi noto come «il Grande», uno dei piú importanti re anglosassoni. Ritiratosi nelle paludi del Somerset di fronte all’avanzata normanna, nell’878 Alfredo ebbe finalmente la meglio sulla «Grande Armata» nella battaglia di Edington, ma riuscí a imporre al nemico il trat-
tato di Wedmore solo nell’886. In base all’accordo, ai Vichinghi fu riconosciuto il diritto di stanziarsi, a nord del Tamigi, su una vasta porzione del suolo britannico denominata Danelaw e comprendente parte della Mercia, l’Anglia Orientale e la Northumbria (vedi box alle pp. 1718). Negli anni successivi, Alfredo ampliò i domini del Wessex e, profittando di uno sconfinamento vichingo, nell’886 occupò Londra e la Mercia occidentale, a ovest del Tamigi, che affidò al governo della figlia, Etelfleda, andata in sposa al nobile merciano Etelredo († 912) e cosí la Mercia conservò una parvenza di indipendenza, gravitando nell’orbita del Wessex. Nell’891, il re dovette affrontare una nuova invasione vichinga, questa volta proveniente dalla Francia, e riportò una nuova vittoria nell’896. Alfredo è passato alla storia non solo come un abile guerriero, ma anche come legislatore – codificò il diritto del Wessex, emanando un nuovo «codice» – e promotore di cultura, poiché riuní alla sua corte di Winchester, capitale del regno, i migliori «intellettuali» del tempo. Furono suoi collaboratori il famoso monaco gallese Asser († 909), poi vescovo di Sherborne, il teologo delle Fiandre Grimbald di SaintBertin († 901), lo scrittore Giovanni di Sassonia e Plegmund († 914 circa), vescovo di Canterbury (vedi box a p. 20). Morto Alfredo, nell’899, gli successe il figlio, Edoardo «il Vecchio», che, come il padre, continuò la politica di conquista verso il Nord, scontrandosi con i Vichinghi del Danelaw e, nel 910, li batté a Tettenhal. Nel 918, alla morte della sorella Etelfleda, Edoardo si impossessò anche della Mercia occidentale. Il Wessex incorporò cosí tutti i territori al di sotto dell’Humber, lasciando ai Vichinghi il solo possesso di quelli a nord del fiume, fino ai confini della Scozia, e corrispondenti agli attuali Yorkshire e Northumberland. Alla morte di Edoardo, nel 924, gli successe, per pochi giorni, il figlio minore Ethelweard, dopodiché la corona passò al primogenito Atelstano (924-939). Detto «il Glorioso», questi consolidò le conquiste paterne dal punto di vista amministrativo, suddividendo il territorio in contee – shires – che, in parte, ricalcavano i confini dei regni preesistenti e affidandone il governo a ufficiali – gerefas – antenati dei futuri sceriffi. Atelstano fu anche il primo re del Wessex a tessere solidi rapporti internazionali con altri Stati: legò il suo regno alla Norvegia di Aroldo «Bellachioma» (890 circa-930), primo sovrano di un regno unito, e ne ospitò a corte il figlio, Haakon «il Buono» († 960), che fece battezzare INGHILTERRA
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LE RUNE, IL LATINO E UNA RICCA PRODUZIONE LETTERARIA Come già per le altre stirpi germaniche insediate sul continente, la progressiva cristianizzazione tra gli Anglosassoni favorí la diffusione della lingua latina e, piú in generale, della «cultura scritta». Fin dall’inizio, quindi, diffusione della scrittura e acculturazione cristiana procedettero insieme e, ben presto, il latino fu utilizzato anche per trascrivere i fonemi dei dialetti locali, di origine germanica, e alla scrittura runica, prevalentemente epigrafica, si sostituí la scrittura latina, per confezionare documenti e opere letterarie, su papiro e pergamena, negli scriptoria dei monasteri o nelle cancellerie dei regni. Tuttavia, in Britannia, l’abbandono delle rune fu piú lento che altrove e fu definitivo solo alla fine dell’XI secolo, com’è dimostrato dalla croce di Ruthwell, in Scozia, manufatto in pietra risalente all’VIII secolo e sul quale è stata rinvenuta un’iscrizione di circa 300 caratteri, in runico, del poema Il sogno della croce. Il primo scrittore anglosassone attestato con certezza fu Caedmon († 675), un porcaio al servizio dell’abbazia di Whitby. Benché analfabeta, secondo la leggenda Caedmon iniziò miracolosamente a comporre poemi in dialetto northumbrico – usando l’alfabeto latino, ma firmando con le rune –, tra cui Genesi, sulla creazione del mondo. Beda il Venerabile († 735), monaco prima a Wearmouth e, poi, a Jarrow, fu allievo di Benedetto Biscop e, senza dubbio, l’intellettuale piú importante dell’VIII secolo. Autore prolifico di versi, testi agiografici – Vita sancti Cutberti – commentari esegetici alle Sacre Scritture e di testi storici – Historia abbatum –, Beda è famoso, soprattutto, per l’Historia ecclesiastica gentis Anglorum, una cronaca che ripercorre la storia della Britannia dal primo sbarco di Giulio Cesare nell’isola, nel 55 a.C., fino al 731. Nell’opera, un’attenzione particolare è riservata alla conversione delle stirpi anglosassoni al cristianesimo e alla progressiva organizzazione istituzionale della Chiesa. Attivo nell’VIII secolo fu anche il poeta Cynewulf, autore di poemi in northumbrico quali l’Ascensione, Elena, Giuliana, I fatti degli apostoli. All’VIII secolo risale anche il poema epico, sempre in northumbrico, Beowulf, nel quale si narrano le avventure del re svedese che, ucciso il mostro Grendel, muore affrontando un drago. Da notare che le vicende narrate nel poema sono ambientate in Danimarca e Svezia – non in Britannia – e che i valori ispiratori del poeta sono ancora quelli guerrieri dell’antica cultura
In basso prima pagina del poema Beowulf. XI sec. Londra, The British Library. germanica. Allo stesso periodo risale il già citato poema in northumbrico Il sogno della croce, generalmente attribuito a Cynewulf, ma i cui motivi ispiratori sono molto diversi dal Beowulf: l’autore immagina che la croce gli appaia in sogno, per raccontargli la sua storia e, con essa, il sacrificio salvifico di Cristo. Alla fine del IX secolo, sotto Alfredo il Grande, si ebbe il massimo sviluppo della cultura anglosassone, anche per impulso del re che fu patrocinatore di cultura e tradusse, in prima persona, la Regola pastorale di Gregorio Magno, le Storie contro i pagani di Orosio († 420), i Soliloqui di sant’Agostino († 430) e Sulla consolazione della filosofia di Boezio († 526). Queste opere vennero tradotte dal latino in old English, cioè in antico inglese, la lingua parlata dagli Anglosassoni e, nel caso specifico, dai Sassoni del Wessex, proprio per consentirne la piú facile divulgazione. La lingua del Wessex si avviò a diventare lingua ufficiale dell’Inghilterra, riducendo gli altri dialetti germanici – northumbriano, merciano, kentiano – a parlate locali, progressivamente scomparse. Alla corte di Alfredo fu attivo anche il monaco gallese Asser, che, tra l’altro, diresse la traduzione delle opere di Beda e la realizzazione – direttamente in old English – della Cronaca anglosassone, una narrazione, cronologicamente ordinata, della storia dell’Inghilterra dal 55 a.C. all’891. Scritta a Winchester, capitale del Wessex, da chierici al servizio del re, la Cronaca venne redatta in piú copie, che, trasmesse ai vari monasteri del regno, furono poi portate avanti indipendentemente l’una dall’altra, fino al 1154, anno dell’ascesa al trono dei Plantageneti. Alfredo pose le basi affinché l’old English assumesse piena «dignità letteraria» e i suoi auspici non furono disattesi. Nel corso del X secolo, infatti, due anonimi poeti composero, in old English, i poemi epici La battaglia di Brunanburh e la La battaglia di Maldon, ispirati ad altrettanti importanti episodi della storia inglese. Il primo, inserito all’interno di alcuni manoscritti della Cronaca anglosassone, trasfigurava, poeticamente, i fatti connessi alla battaglia che, nel 937, vide contrapposti i Vichinghi del Danelaw agli eserciti del Wessex. Il secondo poema raccontava il massacro di Byrhtnoth – signore dell’Essex – e del suo esercito, nella battaglia di Maldon, combattuta nel 991 contro i Vichinghi. Nei poemi albeggiava un sentimento d’identità «nazionale», che, pur permeato di spiritualità cristiana, rappresentava il superamento del coraggio individuale di ascendenza germanica.
La croce di Ruthwell, sulla quale è stata rinvenuta un’iscrizione in runico. Primi anni dell’VIII sec. 20
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figlio di Aroldo «Bellachioma» e re di Norvegia, da cui era stato cacciato da un gruppo di nobili. In un primo tempo, Erik ebbe ragione di Olaf Sihtricsson, ma, nel 954, venne ucciso a Stainmore dai suoi avversari. Olaf Sihtricsson, però, non riuscí a insediarsi nel Danelaw e fu costretto a fuggire in Irlanda, dove morí. Il Danelaw tornò a essere definitivamente possesso del Wessex e cosí la popolazione anglosassone si fuse biologicamente e culturalmente con quella scandinava.
A destra miniatura raffigurante Alfredo il Grande. Royal MS 14B VI, 1300-1340. Londra, British Library. In basso Maldon (Essex), All Saints Church. Statua di Byrhtnoth, signore dell’Essex, vincitore della battaglia combattuta nel 991.
La stessa Regola per tutti
e adottò. Haakon, poi divenuto re di Norvegia, fu il primo sovrano di fede cristiana. Atelstano cercò di estendere l’influenza del Wessex sul Danelaw, favorendo le nozze tra una sorella naturale e il re vichingo Sihtric († 927), ma, dopo la morte di questo, e l’incoronazione del fratello Guthfrith († 934), i rapporti tra i due regni si guastarono. Nel 937, fallita ogni ipotesi di accordo, Atelstano affrontò, in un’epica battaglia, Olaf Guthfrithsson, nuovo sovrano del Danelaw, il quale si alleò per l’occasione con i re di Scozia, Costantino II (900-945), e di Strathclyde, Owain. La coalizione venne sbaragliata a Brunanburh, località ai confini con la Scozia, e, dopo la battaglia, in cui Owain trovò la morte, gli Scozzesi furono costretti a ritirarsi e Olaf Guthfrithsson fuggí in Irlanda e abbandonò il Danelaw, che cadde nelle mani di Atelstano, cosí che i confini del Wessex si espansero fino al Tweed, lambendo la Scozia. Morto Atelstano nel 939, la sua costruzione politica fu sul punto di crollare, perché Olaf Guthfrithsson rientrò dall’esilio e riprese possesso del Danelaw, che tornò a essere un regno indipendente. Senza figli, Atelstano designò come successori i fratelli Edmondo (939-946) ed Edredo (946-955), che si impegnarono al fine di riottenere la sottomissione del Danelaw. In tale impresa, il Wessex fu favorito dalla guerra intestina seguita, nel 941, alla morte di Olaf Guthfrithsson, che scompaginò il regno vichingo. Vari pretendenti si contesero il trono: da una parte, Olaf Sihtricsson († 980 circa), cugino di Olaf Guthfrithsson, e dall’altra Erik I «Ascia di Sangue»,
Alfredo «il Grande» creò un regno solido e fu il primo ad assumere il titolo di rex Angulsaxorum – «re degli Anglosassoni» – poi portato dai suoi successori, che si dimostrarono all’altezza del compito e consolidarono le conquiste anche sotto il profilo amministrativo e culturale (vedi box alle pp. 22-25). Infatti, i re Edwy (955-959) ed Edgardo (959-975), figli di Edmondo e successori di Edredo, continuarono l’opera di promozione culturale già intrapresa da Alfredo e promossero l’uniformazione della disciplina canonica vigente nei monasteri del regno, che furono costretti a osservare tutti la Regola benedettina. Grazie all’ausilio di collaboratori come Dunstano, vescovo di Canterbury (960-988) e Osvaldo, vescovo di York (972-992), i re del Wessex patrocinarono la costituzione di nuovi cenobi – si pensi a Westminster – con annesse scuole e biblioteche, dove furono prodotti piú di un migliaio di manoscritti, sia in latino che in volgare. I sovrani del Wessex compresero che l’unificazione politica del paese doveva accompagnarsi anche a un’intensa opera di promozione culturale e linguistica, strumento indispensabile per la creazione di un sentimento nazionale tra stirpi che, fino a qualche tempo prima, si erano duramente combattute. Alla fine del X secolo, il Wessex aveva finalmente unificato una parte consistente della Britannia, dando al paese confini che resteranno sostanzialmente inalterati fino al 1066, cioè all’invasione di Guglielmo di Normandia († 1087). Escluse le terre ancora abitate dai Celti, l’isola era unita sotto il governo di una sola corona e, ben presto, mutò anche il nome che fu adeguato ai nuovi equilibri politici: la Britannia divenne Angelcyn – la «terra degli Angli» – e la lingua dei suoi abitanti l’Englisc, la «lingua degli Angli». Prevalse, dunque, il nome degli «Angli», per indicare il regno del Wessex e la sua lingua ufficiale. Grazie ad Alfredo e ai suoi successori, era stato compiuto il primo passo per la costituzione della «nazione» inglese. INGHILTERRA
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L’eptarchia
ALFREDO, IL «CARLO MAGNO» ANGLOSASSONE A quarant’anni dalla morte di Carlo Magno (814), incoronato imperatore da papa Leone III nella notte di Natale dell’800, nell’853 l’anglosassone Alfredo, terzo figlio di re Aethelwulf del Wessex, inviato dal padre a Roma, all’età di quattro anni ricevette l’unzione regale da papa Leone IV. Il fanciullo sarebbe diventato Alfredo il Grande, re degli Anglosassoni dall’871 all’899. Come Carlo Magno, egli ebbe a cuore la crescita culturale e civile del suo popolo, da un lato impegnandosi personalmente a diffondere traduzioni dei testi dei Padri latini e, dall’altro, disponendo la redazione della Cronaca Anglosassone, erede istituzionale della Storia ecclesiastica del popolo anglosassone di Beda il Venerabile, scritta quasi due secoli prima e tradotta per sua volontà, proprio come la Storia contro i pagani di Orosio, in inglese antico. Per l’anno 878 l’Anglo-Saxon Chronicle afferma che tutto il Wessex si era arreso alla strapotenza degli invasori «eccetto il re Alfredo». Egli si era rifugiato nelle foreste del Somerset per riorganizzare un esercito e portarlo finalmente alla vittoria contro i Vichinghi, dopo vari armistizi, a Edington in quello stesso anno. Alfredo ottenne in tal modo ostaggi senza concederne agli avversari e fu inoltre padrino di battesimo del neoconvertito re vichingo Guthorm o Guthrum, nella versione anglosassone del nome. Conseguita la vittoria militare, si trattava, comunque, di giungere a un accordo politico territoriale con i Vichinghi in Inghilterra. A partire dalla sacrilega distruzione dell’abbazia di Lindisfarne nel 793, infatti, le semplici incursioni stagionali si erano via via trasformate in stanziamenti piú stabili che portarono alla progressiva integrazione con le popolazioni locali per via matrimoniale e alla riscossione di una «tassa di protezione», il cosiddetto danegeld. Alfredo poté cosí soltanto allontanare gli invasori dal Wessex e dalla Mercia, le regioni occidentali e meridionali dell’Isola, mentre lasciò loro quelle orientali e settentrionali. Il territorio sotto i Vichinghi prese il nome di Danelaw: comprendeva città importanti come Lincoln, Nottingham, Derby, Stamford e Leicester mentre York, la vichinga Jorvik, divenne «capitale» del Regno omonimo, equivalente come territorio all’attuale contea dello Yorkshire. Nell’886 tutti gli Inglesi non soggetti al Danelaw (Legge danese) si sottomisero a re Alfredo, in grado di controllare Wessex e Mercia.
A sinistra ritratto moderno di Alfredo il Grande. A destra cartina con il Danelaw e il regno di York nel IX sec. Nella pagina accanto Winchester. La statua di Alfredo il Grande voluta nel 1899 per commemorarne il millenario della morte e inaugurata nel 1901.
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Alfredo, infatti, terzo figlio del re del Wessex, Aethelwulf, dopo la morte di questi nell’865, nell’868 aveva contratto matrimonio con Ealhswith, legata per parte di padre e di madre rispettivamente alla nobiltà e alla famiglia reale di Mercia e, dopo la morte del fratello Aethelred, a sua volta succeduto al padre, era salito al trono nell’871. Alfredo il Grande fu deciso promotore del progresso civile e culturale dell’Inghilterra anglosassone. In questo periodo, si moltiplicarono i burhas, o città fortificate, come importanti unità territoriali. Allo scopo di garantire il mantenimento dell’ordine costituito in tempi tanto agitati, Alfredo apprestò anche un’organica raccolta di leggi, un secolo e mezzo dopo quelle di Wihtræd a cavallo tra VII e VIII secolo. Si noti come appositi articoli della Legge degli «Uomini del Nord» indicassero il valore attribuito alla vita di un uomo, il prezzo dovuto dal suo assassino alla famiglia, il wergild, che differiva a seconda del livello sociale della vittima (re, arcivescovo, vescovo, alti consiglieri del re, ecc.). A rinsaldare il senso d’identità della sua gente, Alfredo, come detto, fece stendere la Cronaca Anglosassone. La redazione cominciò nell’890 e si protrasse per oltre due secoli: sotto forma d’annali, essa ci informa su molteplici aspetti della vita civile ed economica dell’Inghilterra anglosassone, coprendo il periodo dalla nascita di Cristo fino al 1154. Maggiore impulso venne poi dato da Alfredo alla diffusione della cultura tra le file del clero e dell’amministrazione. Il re, digiuno delle arti liberali del Trivio e del Quadrivio, chiamò a corte maestri autoctoni, come Plegmondo, poi arcivescovo di Canterbury, e Waerferth, vescovo di Worcester, ed elementi provenienti da piú lontano, il gallese Asser, che fu successivamente suo biografo, Giovanni Cantore, d’origine sassone, e Grimbaldo, monaco di St. Bertin nelle Fiandre. Asser, in chiusura della Vita Alfredi, sottolinea proprio la preoccupazione per l’alfabetizzazione di giovani e meno giovani come tipica del re. Giunto personalmente a perfezionarsi in latino, Alfredo preparò la traduzione della Cura pastorale di papa Gregorio Magno. Nel prologo, offre egli stesso qualche indicazione del proprio programma culturale. Giustifica la sua opera con il declino della cultura latina affermando al contempo che molti sono in grado di leggere testi nella
DUE INSIGNI MEDIATORI CULTURALI Da quando, a metà del V secolo, le tribú germaniche degli Angli e dei Sassoni sbarcano in Britannia, colonia romana fino al 410, in Inghilterra si «parlano» due lingue; come gli eserciti, una è in ritirata, l’altra avanza: il latino parlato dai coloni romani è una varietà del latino volgare e perde terreno a favore di quello scritto scolastico ed ecclesiastico; l’inglese, nella sua forma piú antica, è dapprima lingua unicamente parlata e in seguito scritta in prosa e in poesia. Il latino, che diventa lingua della cultura, è imparato ormai come lingua straniera, grazie a grammatiche ad hoc di produzione locale e a dialoghi bilingui utili soprattutto per l’apprendimento dei vocaboli. Tra VII e VIII secolo, il Venerabile Beda e Alcuino di York, poi consigliere di Carlo Magno, sono maestri e mediatori della tradizione latina nelle loro opere in prosa e in poesia. Il latino in Inghilterra tra X e XI secolo è poi molto originale, ricco di grecismi e di neologismi. La letteratura in lingua inglese nasce in parallelo con quella «anglolatina». Nella Storia ecclesiastica di Beda, si narra l’episodio del poeta Caedmon, che compone in sogno il suo primo poema in inglese antico, un inno al Creatore ispirato alla Genesi. Assai feconde in inglese antico la poesia a tema biblico e la poesia eroica ed elegiaca, ispirate al passato pagano dell’Inghilterra anglosassone o alla riflessione cristiana sulla caducità delle cose e dedicate alla gloria dei martiri cristiani e della Croce stessa. Con la sua campagna di traduzioni, Alfredo dà avvio, come detto, alla produzione in prosa in inglese: non solo documenti ufficiali, ma anche raccolte di precetti, massime, indovinelli, espressione della saggezza popolare come della tradizione religiosa dell’Inghilterra anglosassone pagana e cristiana.
In alto Alcuino di York. In basso il Venerabile Beda.
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propria lingua madre. Dal punto di vista metodologico, dichiara di tradurre parola per parola o a senso: gli premeva, infatti, soprattutto che fosse recepita la dottrina pastorale di Gregorio. Sottolinea come tutti i vescovi, tanto i piĂş come i meno istruiti, dovessero farne tesoro: per questo dice di averne fatte produrre molte copie.
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A corte fu approntata una serie di traduzioni dal latino in inglese antico: Waerferth curò la traduzione dei quattro libri dei Dialoghi dello stesso papa mentre a un altro autore merciano si deve quella della Storia contro i pagani di Orosio. Dal punto di vista linguistico, infatti, le traduzioni approntate da Alfredo e dal gruppo di intellettuali di corte portarono
A sinistra soldati del re Alfredo d’Inghilterra all’assalto del vascello degli invasori danesi nella baia di Swanage nell’877, particolare di un affresco di Colin Unwin Gill conservato nel Parlamento di Westminster a Londra. A destra Alfredo il Grande in una litografia a colori da un dipinto originale conservato presso la Bodleian Gallery. XIX sec. Collezione privata.
all’affermazione del dialetto sassone occidentale come varietà scritta standard dell’inglese antico, accanto ad altre varietà regionali, distinguibili soprattutto dal punto di vista dell’ortografia. La standardizzazione della lingua in questo periodo consentí lo sviluppo di una produzione letteraria parallela a quella in lingua latina.
Al di là della qualità non sempre eccellente delle traduzioni, da notare la scelta di testi compiuta dal re: scritti di natura e finalità didascaliche e/o filosofiche. È il caso anche delle altre traduzioni, oltre alla Cura pastorale di Gregorio, in cui si cimentò Alfredo stesso: quella del De consolatione philosophiae di Severino Boezio e la versione rielaborata dei Soliloquia di Agostino. Nella traduzione altoinglese di Alfredo, la boeziana Philosophia viene resa come mod e wisdom: «intelletto» e «sapienza», visti come strumenti del perfezionamento spirituale da lui ricercato. Il distacco dalle occupazioni e dai desideri mondani è il tema dei Soliloquia sull’immortalità dell’anima, che Alfredo rielabora da Agostino. Si tratta, infatti, di una lettura mirata. Ai due libri dell’opera nell’originale latino Alfredo ne aggiunge un terzo sulla contemplazione finale di Dio, ricavato da un’altra opera agostiniana, il De videndo Deo, appunto. Alfredo addita il cammino verso la vera Sapienza e lo fa in termini familiari alla cultura germanica: integrando il testo dei Soliloquia, immagina, per esempio, il percorso dei dignitari verso la casa del re, dove vengono accolti in stanze diverse a seconda del grado di intimità con il sovrano stesso. È una bella metafora del pellegrinaggio terreno verso Dio, proiettato, cioè, verso la Patria celeste. Il tema dell’esilio contrapposto alla vita gioiosa nella dimora del proprio signore, con i suoi riflessi escatologici cristiani, è tipico di tanta produzione poetica in inglese antico. Grazie all’impegno militare, politico e culturale di Alfredo il Grande l’Inghilterra anglosassone prende maggiore coscienza della propria identità territoriale e culturale in seno al mondo germanico e in rapporto a quello latino, sviluppando una propria lingua e una propria letteratura storica e immaginifica. Paolo Zanna
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L’eptarchia Re Artú, olio su tela di Charles Ernest Butler. 1903. Collezione privata.
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A sinistra la Tavola Rotonda di Winchester. 1275. Winchester, Castello di Winchester, Great Hall. Sul seggio di Artú è ritratto Enrico VIII d’Inghilterra, al centro campeggia la rosa dei Tudor. La struttura in legno è stata datata al regno di Edoardo I (1272-1307), mentre la superficie fu fatta dipingere da Enrico VIII intorno al 1522, in occasione della visita dell’imperatore Carlo V. In basso miniatura raffigurante il giovane Artú che estrae la spada dall’incudine, da un’edizione dell’Histoire de Merlin illustrata dal Maître des Clères Femmes. 1404-1460. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
ARTÚ, UN MITO SENZA TEMPO La storia dell’Alto Medioevo inglese si intreccia a doppio filo con la vicenda di Artú, leggendario re della Britannia. Figlio di Uther Pendragon e di Igraine (personaggi mitici) e nipote di Ambrosio il Tiranno, acquisí il diritto di salire al trono per essere riuscito a strappare dalla viva roccia la spada Excalibur. Alla guida delle forze della Britannia celtica, avrebbe collezionato ben dodici vittorie, di cui forse soltanto l’ultima, a Mount Badon (520 circa) coincide con un fatto realmente accaduto. Tardi biografi attribuiscono ad Artú la conquista di Scozia, Irlanda, Islanda, Danimarca, Norvegia, Gallia e Spagna. Giunto alle porte di Roma, ebbe notizia di sedizioni in patria e del fatto che il nipote
Mordred aveva sedotto la sua sposa, Ginevra. Rientrò allora in Britannia con Galvano, suo ambasciatore, che fu ucciso durante lo sbarco; Ginevra fuggí nascondendosi in un convento, mentre Mordred si ritirò presso la baia di Camban (Cambula) in Cornovaglia, dove avvenne lo scontro finale. Secondo lo scrittore Thomas Malory, autore de Le Morte d’Arthur, il re, ferito a morte, consegnò la sua Excalibur a sir Bedevere, con l’ordine di gettarla nell’acqua. Apparve allora un piccolo vascello con molte belle dame e una regina che portarono Artú nella valle di Avalon, dove si dice che l’eroe ancora attenda, con la sorella Morgan le Fay, di tornare tra i suoi e guidarli alla vittoria. INGHILTERRA
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Il grande riformatore Nel 973, Bath fu teatro della solenne incoronazione di Edgardo il Pacifico, con una cerimonia che, da allora, viene replicata senza sostanziali differenze. Ricostruire la biografia di questo «primo re», non è facile, ma con lui l’Inghilterra assunse per la prima volta i contorni di una nazione di Federico Canaccini
L’
inizio della storia inglese e della sua identità nazionale si fa solitamente coincidere con la vittoria riportata nel 1066, a Hastings, dal normanno Guglielmo il Conquistatore, che, sconfiggendo re Aroldo, riuscí a dar vita a uno dei regni piú importanti dell’Europa medievale. In realtà, nei decenni che precedettero la conquista normanna, una figura di enorme rilievo iniziò quel processo di unificazione territoriale, di sottomissione a un’unica corona e di identificazione del popolo britannico nella sua unica figura di re. Per quanto breve, il regno di Edgar, o Edgardo, detto «il Pacifico» (959-975), è tra i piú significativi dell’Inghilterra del cosiddetto «Secolo di Ferro» e forse anche tra i piú importanti del periodo che precede l’insediamento normanno. Di converso non sono davvero molte le informazioni e le fonti in nostro possesso che ci permettano di far luce e comprendere le dinamiche del suo tempo e del suo governo. Figlio di re Edmondo (939-946) e pronipote del piú celebre re Alfredo (871899) – che liberò l’Inghilterra dal controllo vichingo – Edgardo divenne sovrano di Mercia e Northumbria ancora ragazzo nel 957, 28
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L’incoronazione di Edgardo d’Inghilterra, raffigurata in una delle vetrate policrome dell’abbazia di Bath. Somerset. XIX sec.
PAPI DEL MEDIOEVO
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Edgardo il Pacifico
I RE D’INGHILTERRA NELL’ALTO MEDIOEVO
Nella pagina accanto, in alto illustrazione raffigurante Edgardo il Pacifico, fra san Dunstano e san Æthelvold, in un’edizione della Regularis Concordia, consuetudinario risalente al 970, uno dei documenti piú importanti della riforma benedettina inglese. 1050 circa. Londra, British Library.
Ealhmund († 785?) Re del Kent Egberto († 839) = Redburga Re del Wessex
Rovescio di un penny in argento battuto durante il regno di Edgardo. 959-975. La legenda riporta il nome e il titolo del sovrano, EADGAR REX, uno dei cui meriti fu il varo di una riforma del sistema monetario che rimase in vigore per molti decenni.
Etelvulfo († 858) = Osburga Re del Wessex
Etelbaldo († 860) Re del Wessex
Alfredo «il Grande» († 899) = Ealhswith († 905) Re del Wessex Re d’Inghilterra
Etelfleda († 918) Signora della Mercia
Elfrida († 929)
Etelgiva († 929) Badessa di Shaftesbury
Ecgwynn = Edoardo «il Vecchio» († 924) = Edgiva (Eadgifu) († 968) Re del Wessex Re d’Inghilterra Atelstano († 940) Re d’Inghilterra
Edredo († 955) Re d’Inghilterra
Edmondo I detto «il Vecchio o il Giusto o il Magnifico» († 946) = Elgiva Re d’Inghilterra Edwing detto «l’Onesto» († 959) Re d’Inghilterra, poi re di Wessex e Kent Etelfelda = Edgardo I detto «il Pacifico» († 975) = Elfrida († 1000) Re delle terre a nord del Tamigi, poi re d’Inghilterra Edoardo II «il Martire» († 979) Re d’Inghilterra
Edmondo († 970)
Ælgifu († 996) = Etelredo II detto «lo Sconsigliato» Re d’Inghilterra Atelstano († 1014)
Edredo
Egberto
Edmondo II detto «Fianco di Ferro († 1016) = Ealdgyth Re del Wessex
co-reggendo l’isola insieme al fratello Eadwig, per poi essere incoronato re di tutta l’Inghilterra anglosassone appena quindicenne, due anni piú tardi. Negli anni che precedono la sua ascesa al trono come rex Anglorum, a Edgardo era stata infatti affidata l’area a nord del Tamigi, mentre il fratello Eadwig controllava il Wessex e il Kent. La convivenza tra i due fratelli non dovette essere semplice, poiché entrambi puntavano al predominio sull’isola. La questione fu presto risolta anche dalla morte prematura di Eadwig, il quale ne uscí comunque politicamente sconfitto. Dalle fonti successive si intuisce infatti che Edgardo ebbe l’appoggio della Chiesa, che 30
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invece era stata fortemente osteggiata dal fratello: Edgardo non mancò di ricompensare i vescovi – primo fra tutti san Dunstano –, che lo aiutarono nella sua ascesa, perorando la causa ecclesiastica. Le scarse fonti esistenti i sono perciò viziate dalla vittoria di Edgardo: la propaganda diretta da Dunstano, infatti, fece di lui un santo e, giocoforza, di Eadwig un reietto; una sorte analoga toccò ai nobili, schieratisi ora con l’uno ora con l’altro.
L’importanza dei titoli
Come già detto, pochi sono i documenti in nostro possesso (circa 120, redatti tra il 950 e il 955) e per comprendere le dinamiche del potere non è inutile comparare i suoi diplomi
miglia: sappiamo che Edgardo ebbe tre mogli, che gli diedero almeno quattro figli. Dalla prima, Elfrida, impalmata probabilmente nel 964, ebbe Edmondo (morto intorno al 970) ed Etelredo, che sarebbe succeduto al trono alla morte del fratellastro Edoardo. Quest’ultimo era figlio di Etelfleda e morí assassinato appena successe al padre sul trono d’Inghilterra, nel 975. Infine Edgardo avrebbe avuto una figlia anche da Vulfrida, che l’agiografo benedettino Gozzellino da San Bertino descrive come una nobildonna, portata via con la forza dal convento di Wilton, dove probabilmente era badessa. Dopo il rapimento, il sovrano l’avrebbe condotta nella sua dimora di Kemsing, non lontano da Sevenoaks, nel Kent, dove diede alla luce la figlia Editta. La leggenda del «buon sovrano» vuole che, su suggerimento di DunIn basso miniatura raffigurante re Edgardo, ritratto tra la Vergine e san Pietro, che conferma la conversione dell’abbazia di New Minster (Winchester) a monastero benedettino, dal New Minster Charter. 966. Londra, British Library.
(i documenti, emanati da un sovrano, che conferiscono privilegi e diritti, n.d.r.) con quelli del figlio Etelredo, tentando di cogliere una continuità politica con ciò che dovette essere tracciato dal padre. Per personaggi avvolti dal buio documentario, come Edgardo, ci si deve dunque concentrare nell’analisi attenta dei titoli utilizzati, seguendone la declinazione che lo vede ora rex, ora rex Anglorum, ora rex totius Britanniae. Non molto si ricava dalla lista dei testes (testimoni) dei diplomi: in pratica si hanno decine di personaggi dei quali viene indicato soltanto il nome ed è perciò difficile farsi un’idea anche dell’entourage del giovane sovrano inglese. Scarse sono anche le informazioni sulla sua faINGHILTERRA
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Edgardo il Pacifico
NEL REGNO DEL GIGANTE ALBIONE? Dal VI secolo a.C. sino al IV d.C., l’isola inglese, veniva chiamata, già dai Greci, Albiona: un mito voleva infatti che un gigante, figlio di Nettuno, detto Albione, avesse addirittura sfidato Ercole. Alcuni storici antichi, quali Nicola Perrotus o Giraldo di Cambrai riportavano tali notizie come vere, asserendo che «Albion, hodie Anglia, sic dicta ab Albione gigante qui ibi regnavit» («Albione, oggi Anglia, è detta cosí dal gigante Albione che qui regnò»)! Esisteva una certa connessione tra Edgardo e questo mito: l’allusione all’antico padrone dell’isola, sia nelle fonti che nelle leggende, nascondeva probabilmente la sua ambizione a un dominio insulare. Se la propaganda avesse convinto il popolo che il legame con Albione aveva un fondamento, la sua elezione a re di Albione, e quindi a rex totius Angliae, sarebbe stata ancor piú legittimata. Un poema anglo-normanno del XIV secolo, I grandi giganti, narra che un gruppo di coloni greci – di stirpe reale – guidati dalla regina Albina, si stabilí in Britannia, isola ancora disabitata e che Albina battezzò utilizzando il proprio nome. Pur appartenendo alla stirpe dei Giganti, ella viene descritta solamente come piú alta del normale e presentata come una regina umana, discendente di un re greco, ma non come una creatura mitologica: l’opera voleva cosí giustificare la presenza delle divinità tra gli uomini. Il mito di Albina è stato anche rinvenuto in alcuni successivi manoscritti del Romanzo di Bruto di Robert Wace (XII secolo): il nome di Albione venne infine soppiantato, dal IV secolo d.C., da quello di Britannia. Le informazioni sui sovrani leggendari della Britannia derivano però principalmente dalla Historia Regum Britanniae, composta da Goffredo di Monmouth attorno al 1136. Goffredo ha costruito una storia molto romanzata, basata sulle opere dei primi storici medievali quali Gildas, Nennio e Beda, sulle genealogie gallesi, sulle vite 32
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dei santi e, molto, sulla propria immaginazione. Alcuni di questi sovrani hanno un fondamento storico, ma le narrazioni di Goffredo sono del tutto fantasiose. Il suo racconto inizia con l’esilio di tal principe troiano Bruto, da cui fa derivare il nome di Britannia
secondo la Historia Brittonum. Bruto sarebbe disceso niente meno che da Enea, il leggendario fondatore di Roma, dando modo cosí ai Britannici di collegarsi con il mito fondativo dell’Urbe a cui, nel Medioevo, praticamente quasi tutti i regni facevano riferimento.
In alto l’Old Dee Bridge, il piú antico ponte di Chester. Nella pagina accanto mappa della Gran Bretagna realizzata dal monaco e cronista Matteo Paris, dalla Abbreviatio chronicorum Angliae. 1250-1259. Londra, British Library. In basso tavola ottocentesca raffigurante Edgardo il Pacifico che attraversa il fiume Dee su una barca condotta da otto principi tributari.
stano, Edgardo si fosse pentito dell’atto compiuto, rinunciando a indossare la corona per ben sette anni. Non appena Vilfrida poté sfuggire a Edgardo, tornò a Wilton, portando con sé Editta, che si fece monaca, giovanissima, divenendo ben presto santa. I pochi documenti disponibili possono tuttavia prestarsi a nuove chiavi di lettura. E ci si può allora domandare se re Edgardo considerasse i Vichinghi come stranieri ostili, da tener lontani, o piuttosto come abili mercenari, da inquadrare in posizioni strategiche dell’Inghilterra. Le relazioni stabilite con i Vichinghi insediatisi nel Danelaw, quando era sovrano di Mercia e Northumbria, farebbero propendere per la seconda ipotesi. Edgardo seppe fruire di tutte le possibilità che
una corona regia poteva offrire in quei decenni in Inghilterra: riconosciuto quale dominus sotto giuramento da tutti i nobili laici del regno, estese il proprio dominio su molti signori non anglosassoni dell’isola, e venne riconosciuto dai re celti di Strathclyde, di Scozia e del Galles settentrionale. In qualità di capo dell’esercito e avendo il controllo personale su molti dei fortilizi (i cosiddetti burhs) eretti da Alfredo il Grande, e da lui numericamente moltiplicati, combatté gli Scozzesi e invase l’Irlanda, impose tributi ai Gallesi, estese la decima su gran parte dell’Inghilterra e potenziò la flotta, paventando nuove incursioni danesi. Della politica vincente di Alfredo egli riprese anche alcune riforme di tipo giuridico e amministrativo, stabilendo che crimini comuni, co-
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Edgardo il Pacifico QUEL SANTO CHE PRESE IL DIAVOLO PER IL NASO... La santità di Dunstano era stata preannunciata da un miracolo. Nella chiesa di S. Maria, il giorno della Candelora, si sarebbero spente miracolosamente tutte le candele, fuorché quella accesa da Cynethryth, sua futura madre: il destino di Dunstano sarebbe stato quello di illuminare per sempre l’Inghilterra.Fattosi monaco molto giovane, avrebbe respinto le tentazioni del diavolo, afferrandogli il naso con le sue pinze da fabbro, uno dei tanti mestieri in cui il giovane si distingueva. La sua vita è legata a molti sovrani inglesi, i quali, ammirandone le capacità, lo vollero
me il furto o l’incendio doloso, ricadessero sotto la giurisdizione regia. A lui si deve la ripartizione in contee (shires), con ulteriori speciali ripartizioni giudiziarie locali (hundreds). Infine, nel 973, varò un’importante riforma monetaria, che introdusse un sistema rimasto in uso in Inghilterra per diversi decenni. Edgardo, che era divenuto re d’Inghilterra già nel 959, fu incoronato non prima del 973, a Bath, solo due anni prima della sua morte, con una cerimonia intesa non come inizio, ma come culmine del suo regno, anche per invitare molti rappresentanti delle varie casate e iniziare cosí un’intensa azione diplomatica. La festa, ideata da Dunstano – che la celebrò con un poema inserito nella Cronaca Anglosassone –, costituisce la base dell’attuale cerimonia di incoronazione inglese.
La corona e l’unzione
Dunstano aveva compreso che il rito era un passo importante e perciò, secondo l’uso ormai dilagante nell’Europa post carolingia, sottopose Edgardo all’unzione: poco tempo dopo, tutti i re dell’Inghilterra sarebbero venuti alla corte di Edgardo, a Chester, per stringere alleanze e legami diplomatici. Scrive Dunstano: «Sei sovrani della Britannia, compresi quelli di Scozia e Strathclyde, hanno impegnato 34
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spesso a corte, suscitando l’invidia dei nobili che in piú di un caso avrebbero attentato alla sua vita. Divenuto abate di Glastonbury, iniziò ad adoperarsi per rinnovare il monachesimo benedettino inglese. In seguito all’assassinio di re Edmondo – padre di Edgardo –, salí al trono prima il conciliante fratello Edredo, e poi, alla sua morte, il figlio maggiore Eadwig (955). Dunstano preferí allora lasciare l’isola, accusando di immoralità il giovane sovrano. L’abate però rientrò due anni dopo quando, a seguito di una rivolta, Eadwig fu affiancato dal fratello, Edgardo. Da allora in avanti, Dunstano e il clero inglese ingaggiarono una lotta contro Eadwig, appoggiando Edgardo, sino a ottenere la vittoria di
Nella pagina accanto miniatura raffigurante san Dunstano che trascrive la regola benedettina. 1170 circa. Londra, British Library.
quest’ultimo. Nel 960 si recò a Roma per ricevere dal papa il pallio e, tornato in patria, collaborò come primo ministro al regno di Edgardo fino alla sua morte. A seguito delle lotte tra i figli e i figliastri di Edgardo, Dunstano preferí abbandonare la politica per tornare a Canterbury, dove insegnò nella scuola cattedrale. Il 19 maggio 988, cosí come gli era stato annunciato in una visione tre giorni prima, morí e da subito gli Inglesi lo acclamarono santo. Nel 1029 era già stato canonizzato e il giorno della sua morte veniva solennemente festeggiato. Dunstano divenne il beniamino ecclesiastico del popolo inglese, assieme a quello laico di Edgardo. La figura del santo è associata anche ad
la loro fede, divenendo signori del re sul mare e sulla terra». La cronaca riporta che successivamente si sarebbero aggiunti altri due sovrani e che, in otto – un numero che rappresenta simbolicamente la perfezione – remarono sulla barca di Edgardo, lungo il fiume Dee. Anche la presenza dell’acqua è un elemento da non sottovalutare. Ricordiamo per un istante le parole di sant’Ambrogio: «Era giusto che l’aula del Battistero avesse otto lati, perché ai popoli venne concessa la vera salvezza quando, all’alba dell’ottavo giorno, Cristo risorse dalla morte». Il numero otto, maggiore di sette, rappresenta la mediazione tra il Cielo e la Terra, ma anche l’eternità dopo la vita terrena e per questo si ritrova nell’ottagono di Aquisgrana, a S. Vitale a Ravenna, nel Santo Sepolcro. Il racconto della navigazione congiunta è probabilmente di fantasia, ma sta a simboleggiare l’unione di intenti e, al contempo, la sottomissione a Edgardo, proprietario della barca. Due Panegirici, tratti dalla Cronaca Anglosassone, riguardano altrettanti momenti fondamentali degli ultimi anni di vita di re Edgardo: L’incoronazione e La morte. Se messi a confronto, i testi mostrano una interessante correlazione con la riforma benedettina in corso in Inghilterra e attestano una tradizione ben radicata di poesia religiosa nell’isola britannica del X secolo. Il frontespizio di un celebre manoscritto (il Cotton MS Vespasian A.VIII della British Library) mostra poi re Edgardo santificato direttamente da Cristo e, con lui, finalmente il popolo tutto,
aneddoti divertenti che lo vedono combattere contro il demonio. Oltre ad avergli afferrato il naso con le tenaglie – divenute poi il simbolo del santo – avrebbe anche ferrato i piedi del diavolo che gli chiedeva di ferrargli il cavallo. Dunstano avrebbe rimosso i ferri al demonio solo dietro la promessa che non avrebbe mai visitato e indotto in tentazione coloro che esponevano in casa… un ferro di cavallo! Charles Dickens lo celebrò nel suo Canto di Natale e cosí viene ricordato in un canto popolare: «San Dunstano, come dice la storia, / Una volta il diavolo per il naso prese / Con molle rosse infuocate che gli fecero fare un ruggito tale / Da essere sentito a tre miglia o piú».
che il sovrano, solo ora, si trovava a rappresentare. L’unione e l’identificazione tra il re e il popolo inglese aveva avuto inizio ed Edgardo mediava tra il Cielo e la Terra, era il timoniere della barca sul fiume Dee.
Appoggio e controllo
Un aspetto fondamentale della politica di re Edgardo fu infine quello legato alla Chiesa. Il sovrano, infatti, appoggiò con fervore la riforma ecclesiastica voluta da Dunstano, arcivescovo di Canterbury (960), coadiuvato dal vescovo di Worcester, Oswald, e da quello di Winchester, Æthelwold da Abingdon. Né mancò di controllare le nomine della Chiesa insulare, prodigandosi nella riforma monastica, affidandone a suoi familiari il patronato e ad altrettanti ufficiali regi ruoli finanziari di tale processo, creando cosí un’interessante dinamica di reciproci interessi. Anche per questo, ma non solo, ricevette il titolo di «Pacifico» e fu venerato come santo dalla Chiesa: l’Inghilterra non aveva conosciuto da decenni un periodo cosí lungo di pace e di prosperità. L’8 luglio del 975, data in cui viene ricordato dal calendario delle festività religiose, Edgardo moriva a Winchester e il suo corpo veniva trasportato e sepolto a Glastonbury. Il suo potere e la sua capacità di unire il destino dell’Inghilterra a una dinastia furono tali che, dalla sua morte sino al 1066 – con la vittoria di Guglielmo il Conquistatore a Hastings –, nessuna successione regia venne piú contestata. INGHILTERRA
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Autunno nero
Fu l’umiliazione piú grande mai inflitta agli Inglesi in tutta la loro storia. Il 14 ottobre del 1066, i Normanni guidati da Guglielmo – sbarcati sulle coste dell’isola qualche settimana prima – affrontarono l’esercito del re sassone Aroldo II. Lo scontro si protrasse per l’intera giornata e, al calar del sole, l’esito apparve ineluttabile: il duca francese aveva sbaragliato l’avversario e poté salire sul trono da «Conquistatore»
di Francesco Colotta
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ira una brezza gelida all’inizio dell’autunno del 1066 lungo la costa inglese di Pevensey, villaggio dell’East Sussex situato un miglio all’interno dell’omonima baia. Un uomo a passeggio sulla riva capta alcuni rumori insoliti: prima avverte un vocio, poi un vero e
La battaglia di Hastings, olio su tela di François Hippolyte Debon. 1844 circa. Caen, Musée des Beaux-Arts.
proprio frastuono. Si guarda intorno e fa appena in tempo a nascondersi. Da dietro le rocce assiste allo sbarco di migliaia di soldati normanni, armati fino ai denti, che, dopo poco, infieriscono con le peggiori brutalità su qualche abitante della zona. Atterrito, il testimone monta sul suo cavallo e lo lancia al galoppo verso l’entroterra. Vuole avvertire direttamente il re, in quel momento di stanza a York, per metterlo in guardia dal pericolo che sta per correre. Ma la sua improvvisata missione da messaggero si rivelerà inutile. Per l’Inghilterra il destino
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La battaglia di Hastings
DAL «SEMPLICE» AI PLANTAGENETI 911 Carlo il Semplice riconosce il dominio di Rolf, lo nomina conte e riceve in cambio il giuramento di fedeltà.
1014 Il sovrano danese Cnut viene incoronato re d’Inghilterra.
1002 Il duca Riccardo II concede sua sorella Emma in sposa al re d’Inghilterra Aethelred II, al fine di inserirsi nella successione dinastica sull’isola.
Particolare della tela ricamata (piú nota come «arazzo») di Bayeux raffigurante Aroldo (Harold) che fa naufragio in Normandia, dove viene catturato dal conte Guy de Ponthieu. XI sec. Questa immagine (e le successive) illustrano sezioni della tela ricamata, custodita a Bayeux, nel Musée de la Tapisserie.
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1035 Guglielmo il Bastardo, il futuro Conquistatore, diventa duca di Normandia.
1021 Il geld inizia a essere riscosso con sistematicità in Inghilterra. L’esazione si interromperà nel 1051.
1054 Enrico I re di Francia invade la Normandia, ma viene sconfitto da Guglielmo a Mortemer nelle vicinanze di Neufchatel.
1042 Edoardo III il Confessore diventa re d’Inghilterra.
era ormai segnato: stava per capitolare in casa propria e in una manciata di giorni. Nei secoli successivi nessun altro invasore riuscí in un’impresa simile. Non l’Invincibile Armata spagnola, non Napoleone, né tantomeno Adolf Hitler. Per la storia inglese l’onta non si ripeterà piú dopo quell’infausto ottobre di tanti secoli fa, quando le truppe normanne di Guglielmo il Bastardo (1028-1087) sbaragliarono l’esercito locale sulle colline a ridosso di Hastings. Nella madre di tutte le battaglie del Medioevo. Pianificato da qualche mese, L’attacco non aveva mire espansionistiche come motivazione principale. Disegni politici si intrecciavano con presunti patti «d’onore» infranti. Tutto nacque
1086-87 Redazione del Domesday Book, l’inventario degli immobili del regno.
1066 Re Edoardo muore, Harold del Wessex diventa re d’Inghilterra. Il 14 ottobre le truppe normanne sconfiggono le forze locali ad Hastings. La notte di Natale Guglielmo, ora il Conquistatore, è incoronato re.
dalla necessità di dare un erede al re anglosassone Edoardo il Confessore (1002-1066), separato dalla moglie Edith e senza prole. Il monarca aveva designato come successore un duca di Normandia, Guglielmo il Bastardo appunto, tra l’altro suo nipote, secondo quel che riportano le fonti di parte normanna, in particolare i resoconti del cappellano Guglielmo di Poitiers.
Un guerriero provetto
Certo, il duca non godeva di una buona immagine per via di quel nomignolo dispregiativo che lo bollava come un figlio illegittimo. Il padre, Roberto il Magnifico (1010-1035), lo aveva infatti concepito con una concubina, la bella Arlette,
AGO E FILO PER UN CAPOLAVORO 1087 Guglielmo il Conquistatore muore. Il figlio Guglielmo II il Rosso diventa re d’Inghilterra, mentre Roberto Gambacorta eredita il ducato di Normandia. 1100 Guglielmo il Rosso muore in un incidente di caccia e gli succede il fratello Enrico I.
1129 Matilde, figlia di Enrico I, sposa Goffredo d’Angiò detto il Plantageneto.
1106 Enrico conquista la Normandia.
1135 Enrico I muore, suo nipote Stefano di Blois si fa incoronare re.
1154 Stefano muore. Il figlio legittimo di Matilde e Goffredo sale al trono d’Inghilterra col nome di Enrico II, dando inizio alla dinastia dei Plantageneti.
figlia di un commerciante di pellame. Tuttavia, il Bastardo ebbe ugualmente modo di farsi stimare in patria soprattutto per le sue qualità militari. Il mestiere delle armi gli si attagliava davvero bene, viste le sue qualità fisiche: alto quasi 1,75 m, una statura imponente per l’epoca, sfoggiava nel contempo una potenza muscolare fuori dal comune. Inoltre, grazie al carattere esuberante e sempre incline all’umorismo, si faceva ben volere dai sottoposti. In piú, aveva dato ampiamente prova di essere un buon amministratore, riuscendo a controllare un ducato riottoso e multietnico, popolato da una comunità vichinga gelosa del proprio codice genetico. Edoardo il Confessore matura la sua decisione nel 1051, facendola pervenire in qualche modo alle orecchie dell’interessato. Per lui, da sempre filonormanno, Guglielmo ha le carte giuste per poter regnare anche a Londra. Il profilo di questo duca forzuto gli appare adatto per la successione, piú dell’unico altro nipote, Edoardo l’Esiliato (1016-1057), che viveva in Ungheria e quindi troppo lontano dalle questioni politiche della sua terra d’origine. Ma il Witenagemot, il Consiglio dei saggi, ha altre idee e diffida di chi viene dalla Normandia. I notabili individuano il candidato perfetto proprio nell’Esiliato e lo convocano nel 1057, per fargli ottenere l’investitura dal monarca. Ma il rendez-vous non avrà mai luogo, perché l’aspirante al trono proposto dai saggi muore misteriosamente due giorni dopo il suo arrivo in Inghilterra. Semplice coincidenza? O ci fu lo zampino di qualche concorrente? L’assemblea dei notabili non si dà per vinta. Per un attimo pensa al figlio di Edoardo l’Esiliato, Edgardo, che però è troppo giovane per poter salire al trono. Si fa strada allora la candidatura del conte del Wessex, Aroldo Godwinson (1002-
Guy de Ponthieu (a sinistra) incontra Guglielmo (Wilgelmum Normannorum Ducem), il quale si adopera per la liberazione di Aroldo.
Osservando la tela ricamata di Bayeux, gli accostamenti al presente vengono spontanei. Si può pensare a un «fumetto» molto ante litteram, giacché parliamo di un capolavoro di ricamo, datato fra il 1070 e il 1077. Bayeux era allora normanna e la conoscenza del prezioso manufatto si associa all’avventura vittoriosa di Guglielmo il Conquistatore. Ma non è la glorificazione del condottiero ad avere ispirato i riquadri ricamati su una striscia di lino greggio lunga 70 m e alta 50 cm. In essi colpisce la messe di notizie sul naviglio, sull’armamento, sui costumi dei «personaggi». L’opera, oggi esposta nel Musée de la Tapisserie de Bayeux, nasceva principalmente da una motivazione religiosa di condanna per il tradimento di Aroldo dopo il giuramento di fedeltà a Guglielmo prestato sulle sante reliquie. Tale era la preoccupazione dell’ammonimento morale, che nel «racconto» furono tralasciate vicende storiche importanti. Resta, come accennato,
l’alto valore documentario delle scene realizzate dagli ignoti ricamatori, su disegno probabilmente inglese: le navi di tipo vichingo a fasciame sovrapposto e molto maneggevoli; per l’armamento spade lunghe, lance, una scure impugnata a due mani, lo scudo e la corazza; le cavalcature ben salde che ad Hastings hanno consentito cariche travolgenti. Ma ci sono anche bozzetti di vita comune: cene, ricevimenti, un’incoronazione e una sepoltura. E realistica è anche la descrizione del movimento di uomini e animali, superiore a ogni altra prova di illustratori medievali.
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La battaglia di Hastings 1066), sebbene non abbia una sola goccia di sangue reale. La Versione E della Cronaca anglosassone lo identifica come il vero designato alla corona, come la «prima scelta» di una soluzione interna all’establishment anglosassone, benedetta anche da Edoardo il Confessore. Il sovrano quindi non voleva piú Guglielmo come erede?
Le ultime volontà di Edoardo
Secondo le ricostruzioni storiche piú attendibili, il monarca in punto di morte chiese ad Aroldo di badare al regno, ma non lo investí del titolo di erede al trono. Per ironia della sorte, proprio quest’ultimo rassicurò di persona Guglielmo sul fatto che lui, il Normanno, sarebbe diventato presto re d’Inghilterra. Il futuro «Conquistatore» ne era al corrente da tempo, ma lo aveva appreso da messaggeri non proprio autorevoli. Tuttavia, permane un dubbio sull’eventuale delega ricevuta «dall’alto» da Aroldo per la missione in terra francese: fu il sovrano Edoardo ad affidargliela? Qualche cronista dell’epoca, per esempio, avanza l’ipotesi di un approdo casuale del conte del Wessex in Normandia, in seguito a una tempesta che lo avrebbe sorpreso durante un’escursione al largo della Manica. In alto Edoardo riceve Aroldo, che riferisce dell’ambasciata in Normandia. Edoardo (Edvvard) è raffigurato vecchio e malato, sebbene al momento dell’incontro con Aroldo il re fosse ancora in salute. Il sovrano morí il 5 gennaio del 1066, senza eredi diretti, fattore che innescò il conflitto tra i pretendenti al trono. Il lungo regno (10421066) del penultimo monarca anglosassone, al quale, ancora in vita, furono attribuiti miracoli e guarigioni venne segnato da pace e prosperità. Fu canonizzato nel 1161, quasi un secolo dopo la sua morte, da papa Alessandro III.
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A sinistra Guglielmo (Willelm), duca di Normandia, discute con i suoi fratellastri, Roberto, conte di Mortain, e Oddone, vescovo, poco prima dell’inizio della battaglia di Hastings. Pur essendo un religioso, Oddone avrebbe preso parte attivamente allo scontro, armato di mazza a tre teste. La vittoria sul campo di Hastings valse a Guglielmo la corona d’Inghilterra, che mantenne, pur se contestato, fino alla morte, nel 1087.
QUEL SOGNO PREMONITORE... Forse era davvero scritto. Nel suo codice genetico, nel destino, nelle stelle. Che Guglielmo il Bastardo sarebbe diventato Il Conquistatore, nonché sovrano d’Inghilterra, lo sapeva già la madre Arlette prima ancora di partorirlo. Un giorno, infatti, vide in sogno un albero uscire dal proprio corpo e salire verso il cielo. Le foglie, i rami e il tronco proiettarono un’ombra che coprí la Francia settentrionale e anche l’intera isola britannica, come riportato dalla Chroniques des ducs de Normandie di Benedetto di Sainte-Maure. Segno che il nascituro avrebbe imposto la sua influenza su tutto quel territorio. Ma un’altra profezia anticipò il futuro di potenza che attendeva Guglielmo. Appena nato, fu steso dalla levatrice su un campo. Il bambino, rimasto per un attimo solo, arraffò molti mucchietti di grano con lo stupore della donna che intravide in questo gesto un felice segno premonitore: «Ah, signore! Che uomo sarai! Quanto conquisterai e possiederai, dal momento che hai saputo molto presto e da solo riempire le tue mani e le tue braccia!».
Con o senza mandato, comunque, Aroldo nel 1064 incontra davvero il Bastardo, come si vede nell’arazzo di Bayeux, una delle fonti piú attendibili per le vicende di quel periodo. L’Anglosassone viene trattato con ogni riguardo e designa in pratica Guglielmo come futuro sovrano per conto di re Edoardo, incassando nel contempo la nomina a vassallo. Ma al nobile normanno la parola dell’ospite non basta. Esige un atto ufficiale, una promessa solenne da formulare, ponendo le mani sulle reliquie di due martiri. È qualcosa in piú di un giuramento che, una volta espletato, gli dà sufficienti garanzie e lo fa pensare già da monarca inglese. Al ritorno di Aroldo a Londra, però, la situazione si ribalta. Il Witenagemot offre a lui la corona, subito dopo la morte di Edoardo. A detta dell’assemblea dei saggi, sprovvista di poteri elettivi, il sovrano in piena agonia aveva cambiato idea e individuato nel conte del Wessex il proprio erede al trono. In questo modo il consiglio dei notabili era in una botte di ferro dal punto di vista «costituzionale», in quanto esecutore delle ultime volontà del monarca defunto. Aroldo tenta l’azzardo e si fa incoronare, in spregio al giuramento prestato in Normandia. La battaglia di Hastings vive i suoi prodromi. Guglielmo, appresa la notizia, si infuria e pianifica all’istante l’invasione dell’Inghilterra. Rin-
In alto Aroldo (Harold) è incoronato re, dopo la morte di Edoardo. Il sovrano, con in mano lo scettro e il globo, siede sul trono, con a fianco i nobili (sulla sinistra) e l’arcivescovo Stigand
(sulla destra). Traditore della fiducia di Guglielmo e spergiuro, l’ultimo re anglosassone rimase al potere per meno di un anno, trovando la morte sul campo di battaglia di Hastings.
In basso particolare della tela di Bayeux raffigurante Guglielmo che riceve un messo, recante la notizia della cattura di Aroldo da parte del conte Guy de Ponthieu.
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La battaglia di Hastings
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Marcia delle truppe di re Aroldo
Londra Battaglia di Hastings 14 ottobre 1066 Hastings Pevencey
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Battaglia di Stamford Bridge 25 settembre 1066 Stamford Bridge
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Flotta di Harald III Sigurdsson di Norvegia
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I giorni passano. Il duca di Normandia sembra un leone in gabbia e non accetta l’idea che il suo piano possa fallire per colpa del tempo bizzarro dell’estate 1066. Sapendo, oltre tutto, che difficilmente potrebbe avere un’occasione piú propizia: l’esercito e la «marina» nemici, infatti, si trovavano sostanzialmente inattivi, per mancanza di fondi necessari a retribuirli. Guglielmo rompe allora gli indugi e sposta il punto di partenza della flotta a Saint-Valery-sur-Somme, avvicinandosi il piú possibile alle coste inglesi. Ma anche nella nuova base le avversità climatiche continuano a imperversare. Trascorrono anche agosto e settembre e si avvicina la prospettiva di dover rimandare lo sbarco alla primavera successiva.
REGNO DI SCOZIA
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Un’attesa snervante
I movimenti delle truppe di Guglielmo, Aroldo e Harald di Norvegia e le località degli scontri.
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faccia ad Aroldo di aver infranto un impegno religioso e di essersi comportato, quindi, non solo come un traditore, ma anche da sacrilego. La parola stava per passare alle armi, con sinistri presagi per gli Anglosassoni. Corre la primavera del 1066. Nei cieli inglesi transita la cometa di Halley, un segno premonitore nefasto, nella credenza superstiziosa medievale. Che fosse una profezia di sventura per Aroldo, lo evidenzia Guglielmo di Poitiers: «La cometa, terrore dei re, risplendendo all’inizio del tuo regno annunciò la tua prossima rovina». Nel frattempo il Bastardo aveva già spedito i suoi emissari in giro in Normandia e nei dintorni alla ricerca di truppe da ingaggiare. Sono in molti, alla fine, ad aderire al suo piano ambizioso: Bretoni, Fiamminghi, soldati provenienti dall’Aquitania, dal Poitou, dal Maine e da altre zone della Francia. A piú alto livello incassa poi il prestigioso beneplacito di papa Alessandro II (1010-1073), scandalizzato dallo spergiuro di Aroldo in offesa alle reliquie di due santi. Il nobile normanno ha un piano preciso: l’attacco lampo, da sferrare al piú presto, al massimo entro luglio per sorprendere l’avversario. A tale scopo finanzia il potenziamento della flotta, aumentando la pressione fiscale sui nobili. Contribuisce alla causa anche la moglie, Matilde delle Fiandre, fornendo la propria nave: la velocissima Mora, destinata a diventare l’ammiraglia della spedizione. Tutto sembra ormai pronto, ma Guglielmo non aveva fatto i conti con il clima imprevedibile della Manica. Nell’estuario del fiume Dives attese invano la brezza da sud, necessaria per far salpare le sue imbarcazioni a vela verso l’Inghilterra. I venti, al contrario, spiravano sempre da ovest o da nord-est e in modo particolarmente impetuoso.
Guglielmo di Normandia salpa dalle coste francesi 28 settembre 1066
Il destino, però, comincia a girare in favore di Guglielmo. In attesa dei venti propizi, viene a sapere che un altro pretendente al trono anglosassone, Harald III Sigurdsson di Norvegia (1015-1066), piú noto come Hardråde, stava invadendo il Nord dell’Inghilterra. Il monarca scandinavo rivendicava il regno in base a un complicato intreccio di accordi pattuiti dal suo predecessore, Magnus I, con il vecchio sovrano danese d’Inghilterra Canuto II. Harald è determinatissimo, ritiene di avere il diritto dalla sua parte. Salpa da un arcipelago al largo di Bergen, puntando verso le Isole Shetland, poi fa scalo alle Orcadi. Percorre quindi la costa orientale e approda a York. I Norvegesi incontrano poche resistenze sulla loro strada, anche perché benvoluti nel Settentrione inglese. Tuttavia, dopo i primi agevoli
Saint-Valéry-sur-Somme
Nella pagina accanto, in basso particolare della tela di Bayeux con i Normanni, a cavallo, che si scagliano contro le truppe anglosassoni, appiedate.
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In alto la piana dove si svolse l’ultima fase dello scontro di Hastings, vittorioso per Guglielmo, e alle spalle, la collina di Senlac, dove erano arroccate le truppe di Aroldo. A sinistra cartina di dettaglio dell’area di Hastings (East Sussex). Il toponimo Battle indica il luogo della battaglia.
LE MANOVRE DEGLI ESERCITI Le truppe di Aroldo, appiedate, si erano arroccate in posizione difensiva sulla sommitĂ della collina di Senlac. I temibili Housecarls coprivano le prime file, mentre nelle retrovie erano schierate truppe di supporto, perlopiĂş composte da soldati di leva. Lo schieramento di Guglielmo, invece, faceva grande affidamento sugli arcieri, in prima linea, e sulla cavalleria pesante, disposta ai fianchi del condottiero normanno. Dettagli ancora una volta resi con estrema precisione nei particolari della tela ricamata di Bayeux riprodotti in questa pagina.
A destra la battaglia infuria e gli Housecarls mantengono i ranghi serrati. I guerrieri di origine scandinava combattevano con lunghe asce e spade, protetti da corazze metalliche e da un grande scudo.
TRUPPE DI SUPPORTO HOUSECARLS
HOUSECARLS AROLDO
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CAVALLERIA
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CAVALLERIA
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Francesi
A sinistra gli arcieri dello schieramento di Guglielmo, anche se schierati in posizione sfavorevole, sono pronti a scoccare le frecce. A destra la cavalleria pesante alla carica. I cavalieri, protetti dallo scudo e armati di lance, erano ben bilanciati grazie alle staffe.
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ARCIERI
DALLA SCANDINAVIA CON FURORE Venivano dal freddo. I valorosi Housecarls anglosassoni, gli ultimi ad arrendersi nella battaglia di Hastings, erano in parte di stirpe scandinava. Nella loro terra d’origine scortavano re e nobili, poi furono inquadrati in eserciti regolari. In epoca vichinga l’appartenente a questa milizia era denominato Huskarl, ossia «uomo di casa» nel senso di guardia privata in specifiche abitazioni, spesso di prestigio. Nel IX secolo alcuni di loro si arruolarono come Druzina, guardie del corpo dei condottieri slavi. In seguito in Inghilterra, ai tempi del regno del danese Canuto il Grande (994-1035), fu costituto un reparto speciale proprio a imitazione di quegli antichi guerrieri scandinavi e anche dei celebri mercenari Jómsvíkingar. Nacquero cosí gli Housecarls, stipendiati grazie a una tassa ad hoc imposta dai sovrani. I pochi, infine, che sopravvissero a Hastings confluirono nella milizia personale dell’imperatore bizantino, a Costantinopoli. Poi di loro si persero le tracce. Passarono alla storia come guerrieri d’élite, maestri nell’uso dell’ascia danese, una scure con un manico molto lungo e una lama tagliente anche nei colpi frontali. Secondo alcune cronache, questo tipo particolare di arma vichinga era in grado con un solo fendente di abbattere un cavallo e contemporaneamente chi lo montava.
successi, Harald decide di fermarsi a Stamford Bridge, per far rifocillare i suoi uomini. Non crede a una rapida controffensiva anglosassone, che fu invece prodigiosa. Aroldo infatti, informato dell’invasione a Nord, piomba sull’esercito norvegese dopo pochissimi giorni e lo annienta in una torrida giornata di inizio autunno. È il 25 settembre. Per Guglielmo arriva anche la fortuna del cambio di tempo. Il vento comincia a soffiare da sud, rendendo possibile la traversata della Manica. La flotta perciò prende finalmente il largo e si dirige verso Pevensey, che con la sua lunga spiaggia appariva come il luogo ideale per uno sbarco di circa 800 imbarcazioni. Una volta in terra inglese, il duca decide di trasferire le truppe vicino alla cittadina di Hastings, muovendo dunque verso est. Si accampa lí e preferisce non avanzare verso Londra, temendo un attacco alle spalle, un accerchiamento che gli avrebbe tagliato i rifornimenti con la madrepatria. La tattica dell’attacco lampo era ormai stata abbandonata. Intendeva utilizzarla invece Aroldo, che di gran carriera stava scendendo con le sue truppe verso sud, per respingere in mare, dopo gli Scandinavi, anche i Normanni. Ma il suo esercito, sebbene ancora consistente, appariva debilitato dalle fatiche dello scontro con i Norvegesi. Aroldo a ogni modo prosegue la sua marcia, e in breve tempo giunge nei pressi di Hastings, a 10 km circa dalla cittadina. Prima di lasciare la parola alle armi, i due con-
dottieri si scambiano una fitta corrispondenza. Il duca normanno prospetta al nemico una risoluzione in via amichevole, sottoponendo cioè la questione sul conteso trono d’Inghilterra a un giudice. In seconda battuta propone di liquidare la faccenda con un duello, ma Aroldo rifiuta. Si sente galvanizzato dal recente trionfo militare e conta anche sulla debolezza degli avversari che considera aggressivi, ma tutto sommato «inconcludenti».
Il peso della qualità
Guglielmo si prepara allora alla battaglia. Non dà troppo peso ad alcuni segni premonitori negativi, come per esempio l’essersi infilato la corazza al contrario. In proposito rassicura l’inserviente che gliel’aveva posta nel verso sbagliato, promettendo con spavalderia: «Il mio ducato sarà presto trasformato in regno». Indossa l’elmo e sale sul cavallo. Accanto a lui si posiziona il vescovo Oddone, suo fratellastro, munito di una mazza a tre teste. Pure i religiosi allora potevano possedere un’arma, a patto che non fosse da taglio. I Normanni potevano contare su una certa superiorità qualitativa. Il loro esercito, infatti, era perlopiú di tipo professionale, come nella tradizione feudale, mentre quello inglese abbondava di soldati di leva. Esisteva anche una differenza strutturale tra i due schieramenti: nelle file anglosassoni mancavano gli arcieri e la cavalleria pesante, un handicap non da poco. Secondo quanto rappresentato dall’arazzo di Bayeux, inoltre, le armi inglesi apparivano piú rudimentali rispetto a quelle avversarie. Anche Aroldo aveva comunque a disposizione corpi altamente specializzati: gli Housecarls (vedi box in questa pagina). Erano la punta di diamante dell’intera truppa e combattevano sempre a piedi, maneggiando con destrezza la loro arma micidiale: l’ascia danese. C’era poi il contingente del Fyrd, a sua volta diviso in Select, di sufficiente abilità bellica, e in Great, ossia la numerosa milizia popolare-contadina armata alla meglio con utensili da fattoria. La consistenza numerica dei due eserciti era piú o meno equivalente, ma difficilmente quantificabile. Alcune testimonianze dell’epoca risultano fuorvianti, calcolando le forze normanne addirittura in 100 000 unità. Piú verosimilmente, il contingente di Guglielmo era composto al massimo da 7-8000 soldati, e cosí diviso: poco piú di 2000 cavalieri, 4000 fanti e 1000 arcieri. All’incirca 7000 erano in totale anche gli uomini di Aroldo. All’alba del 14 ottobre gli schieramenti si diINGHILTERRA
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spongono sul campo l’uno contro l’altro. Hastings è lontana appena qualche chilometro. Nella nottata le truppe di Aroldo hanno occupato una posizione strategica favorevole: la collina di Senlac, dalla quale non intendono muoversi. I Normanni allora vanno loro incontro lentamente, guidati da Guglielmo, che al collo porta alcuni frammenti dall’enorme valore simbolico: le reliquie sulle quali il conte di Wessex gli aveva giurato fedeltà e che giustificavano la sua crociata. Sul terreno si profilano le tattiche decise dai due schieramenti. Guglielmo e i suoi prendono subito l’iniziativa, mostrandosi particolarmente inclini alle manovre offensive, mentre Aroldo ordina all’esercito di blindarsi, mantenendo posizioni di retroguardia. I Normanni sono schierati su tre file: nella prima prendono posto gli arcieri, subito dietro i fanti e alle loro spalle la cavalleria. Nelle varie linee la collocazione dei reparti risponde a un preciso criterio geografico. Il centro è occupato da soldati provenienti dalla Normandia. Sull’ala sinistra sono collocati invece i Bretoni. Mentre nell’ala destra agiscono i Fiamminghi e i Francesi. Sul versante opposto invece, in cima alla collina, gli Anglosassoni formano una sorta di falange macedone, praticamente inespugnabile, con un muro di scudi. Nella parte centrale dello schieramento combattono 2000 Housecarls. Il resto dell’esercito, 4-5000 unità, è costituto dai Fyrd. 46
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A sinistra Battle, Inghilterra. Stele commemorativa ottocentesca, dedicata ad Aroldo dai Francesi, nel luogo in cui il re anglosassone trovò la morte e dove Guglielmo, per onorarne la memoria, fece erigere l’abbazia di S. Martino. A destra particolare della navata dell’abbazia di Waltham, nel Sussex. Consacrata nel 1060, fu fatta edificare da Aroldo. Secondo alcune leggende, le spoglie del re vi furono accolte un anno dopo la battaglia di Hastings. Nel 1177 fu ampliata e rifondata come abbazia agostiniana. Fu l’ultimo complesso abbaziale d’Inghilterra a essere smantellato, nel 1540.
Guglielmo ordina agli arcieri di investire i nemici con una fittissima pioggia di frecce per poter aprire una breccia nel compatto nucleo difensivo. Ma la posizione da cui i dardi sono scagliati, ossia dal basso verso l’alto, non è molto funzionale. Nel loro tragitto perdono infatti velocità e forza di penetrazione, andandosi a infrangere sugli scudi anglosassoni. Guglielmo allora sguinzaglia subito la fanteria contro i lati dello schieramento avversario. Anche in questo caso, però, non insidia il nemico, che reagisce con un fitto lancio di bastoni, lance e pietre.
Una muraglia umana
Gli Housecarls formano una linea difensiva granitica, con i loro scudi. Si stringono talmente gli uni agli altri che, se uccisi, sarebbero forse rimasti in piedi. Grazie alla loro resistenza, la battaglia sembra prendere una piega del tutto inaspettata. Gli Anglosassoni, sfavoriti e stremati dallo scontro con i Norvegesi, stanno per prendere il sopravvento. Anche perché tra i Normanni comincia a serpeggiare un certo sbandamento, una volta subite le prime perdite. La parte meno solida delle loro truppe, l’ala sinistra bretone, batte presto in ritirata. Questo reparto, arrivato per primo in cima alla collina, si era ritrovato senza copertura da parte della schiera centrale di fanteria, a destra. I nemici allora avevano trovato lo spazio per circondarlo, con una prima, efficace controffensiva.
In basso un messo comunica ad Aroldo dell’apparizione, in cielo (in alto, a sinistra) della cometa di Halley. Il passaggio della cometa è interpretato dagli astrologi come un cattivo presagio, portatore di rovina per il re e per la sua casata.
Tale mancanza di coordinamento tra reparti scatenerà un perverso effetto domino sull’intero esercito normanno. Mentre i Bretoni sono in fuga verso valle, il contingente centrale dello schieramento scala la collina. Cosí anche quest’ultimo si trova scoperto, in questo caso sulla sua sinistra, e torna precipitosamente indietro per paura di finire intrappolato. Entrambi i contingenti sbandano verso destra, creando scompiglio anche sull’ala fiamminga e francese. Il fronte sinistro alla fine cede, va in rotta. E per Aroldo la vittoria sembra a portata di mano. Intanto Guglielmo, preoccupato dallo sfavorevole andamento dello scontro, medita qualche alchimia tattica per limitare i danni. Decide di simulare una totale ritirata strategica, in modo da attirare gli Anglosassoni verso la pianura, intaccandone la compattezza. Gli storici però non concordano completamente su questa ipotesi: c’è chi ritiene che il ripiegamento delle truppe normanne non sia stato pianificato a tavolino, ma sia solo frutto del caso. Magari come conseguenza del flop collezionato anche dalla cavalleria, e della notizia della morte di Guglielmo che di colpo cominciò a circolare. Qualcuno dei suoi, infatti, lo aveva visto cadere rovinosamente al suolo e non rialzarsi piú. Il vescovo Oddone per pochi attimi fa le veci del fratellastro ed evita la rotta definitiva
dell’esercito normanno. Ma Guglielmo dopo poco riemerge dalla mischia, gridando ai suoi: «Guardatemi bene, sono ancora vivo, e per grazia di Dio sarò vincitore!». Insieme a Oddone riorganizza l’esercito, che ora combatte in un terreno piú congeniale: parte dello scontro si è trasferito in pianura, dove un numero crescente di Anglosassoni va a caccia dei fanti e cavalieri normanni in ripiegamento. Le sorti della battaglia mutano di colpo. Lo schieramento di Aroldo, allungandosi verso la pianura, si sfilaccia e appare vulnerabile in piú punti. Affiorano anche la stanchezza e i postumi della vittoria di Stamford Bridge. In questo modo le truppe piú fresche di Guglielmo penetrano nelle maglie anglosassoni, provocando le prime cospicue perdite agli avversari. Le frecce degli arcieri normanni questa volta colpiscono nel segno, e trafiggono i nemici che stavano ripiegando verso la collina. Guglielmo intanto prepara l’assalto finale. Chiama di nuovo in causa gli arcieri, chiedendo loro di sommergere di dardi l’ormai indebolita linea difensiva di Aroldo. Diverse frecce fanno breccia, preparando il terreno per l’intervento della cavalleria.
L’azzardo fatale
Prima dell’epilogo, la battaglia vive una breve interruzione. Alla ripresa delle ostilità la cavalleria normanna si lancia di nuovo all’attacco, ma la difesa anglosassone sembra tornata solidissima. Tanto che i cavalieri di Guglielmo sono costretti a battere ancora in ritirata. Ma gli uomini di Aroldo compiono un errore madornale, sbilanciandosi in troppi all’inseguimento dei nemici. È un azzardo che decreta la loro fine. I cavalieri normanni in fuga fanno improvvisamente dietrofront e assalgono gli avversari, massacrandone a centinaia. Per due volte fuggono e poi si voltano all’improvviso, per sferrare un contrattacco fulmineo. Guglielmo segue la battaglia in prima linea, come il suo odiato dirimpettaio. Il loro incontro faccia a faccia è vicino, ma non sarebbe avvenuto con tutti e due i condottieri vivi. Aroldo infatti viene colpito a un occhio da una freccia vagante normanna e poi trafitto dalla spada di un cavaliere. Il Carmen de Hastingae Proelio del vescovo Guy d’Amiens fornisce invece un’altra versione sulla sua morte. Racconta che il condottiero anglosassone era ormai assediato dall’esercito nemico, ma ben difeso da un congruo numero di fedelissimi. Guglielmo vide da lontano la scena e partí al galoppo per aiutare i propri soldati nell’assalto finale. Scortato da alcuni cavalieri giunse sulla INGHILTERRA
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La battaglia di Hastings
UN’ABBAZIA PER FARSI PERDONARE A Guglielmo il Conquistatore e ai suoi soldati il trionfo ad Hastings non portò solo glorie e onori. Ma anche un rimbrotto da parte di papa Alessandro II, nonostante il suo appoggio alla spedizione normanna in terra inglese. Il pontefice aveva gradito poco la foga con cui era stato quasi interamente massacrato l’esercito anglosassone. Vide troppi morti sul campo. Incaricò, perciò, il suo legato di promulgare un corpus di regole dal chiaro valore penitenziale. La prima norma per esempio disponeva che «chiunque sa di aver ucciso un uomo nel corso della grande battaglia» doveva compiere una penitenza «di un anno per ogni omicidio». Guglielmo, per emendarsi, progettò la costruzione di un’abbazia. I lavori ebbero subito inizio, ma furono ultimati molto tempo dopo la morte di Guglielmo, nel 1095. L’altare sorse nel punto preciso in cui Aroldo era stato ucciso, in omaggio al nemico caduto valorosamente. In un primo momento il monastero venne intitolato a san Martino, poi assunse l’attuale denominazione di Battle. Oggi ospita una comunità di Benedettini e conserva in parte la sua struttura originaria, sopravvissuta ai danni subiti soprattutto nel periodo di Enrico VIII.
collina a poca distanza dal suo rivale. Insieme colpirono Aroldo con una lancia, prima al petto, poi al volto e infine al ventre.
L’ultimo sussulto
Dopo la morte dello «spergiuro» e la rotta di tutto il Fyrd anglosassone, Guglielmo vede la vittoria e la corona a un passo. A resistere eroicamente resta ormai solo un manipolo di Housecarls. L’ultima disperata resistenza ha luogo nel cosiddetto «Malfosse» o «Fossato della disgrazia», qualche centinaio di metri a nord della collina di Senlac. Si trattava di un lieve declivio coperto dalla vegetazione e poi seguito da una piana rialzata. Alcuni Anglosassoni si piazzano su questa piccola terrazza in attesa dell’arrivo di un gruppo di Normanni, che puntualmente sprofondano nell’avvallamento. Ma la vittoria di Guglielmo ormai è sancita. Il cadavere di Aroldo viene seppellito sulla spiaggia, come un caduto comune. Sembra che successivamente Gytha, la madre del defunto, abbia chiesto al duca normanno il cadavere del figlio, offrendo un enorme quantitativo d’oro in cambio, ma non ebbe risposta. Secondo lo storico benedettino Guglielmo di Malmesbury, però, il corpo, alla fine, fu comunque restituito alla famiglia e poi forse inumato nell’abbazia di Waltham nell’Essex, dove presto iniziò un pellegrinaggio di irre48
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Particolare della tela di Bayeux raffigurante la morte, sul campo di battaglia, di Lewine e Gyrd, i fratelli di Aroldo, che, assaliti da piú fronti, cadono per mano dei cavalieri di Guglielmo.
dentisti antinormanni. Aroldo restò nella memoria degli Inglesi per molto tempo. Si concludeva una battaglia memorabile. La piú documentata del Medioevo e anche una delle piú incerte di sempre. Molti analisti militari evidenziarono i demeriti di Aroldo: oltre all’imprudenza di schierare milizie stanche, non avrebbe mai dovuto permettere ai suoi di contrattaccare in massa nel corso della fase decisiva dello scontro, indebolendo cosí il muro di scudi difensivo. Altri, tuttavia, sottolinearono soprattutto i meriti della cavalleria di Guglielmo, che aveva ribaltato le sorti con i suoi movimenti a elastico, avanti e indietro, compiuti a gran velocità. La vittoria sul campo non assicurò immediatamente a Guglielmo il titolo di sovrano. Molti nobili anglosassoni non accettarono il verdetto di Hastings. Come per esempio gli arcivescovi Stigand di Canterbury e Ealdred di York i quali, insieme agli Earls (i nobili locali) Edwin e Morcar, nominarono re d’Inghilterra Edgardo Atheling (1051-1126), il figlio di Edoardo l’Esiliato. Guglielmo puntò allora su Douvres, poi su Canterbury e Winchester, conquistandole in un baleno. Londra era vicina. Alcune truppe irriducibili, sotto il comando del nuovo sovrano Edgardo, lo attendevano nella capitale, armate di tutto punto. Ma, infine, pure il monarca fresco di nomina, insieme ai notabili e ai vescovi, si arrese, consegnando ufficialmente il trono al duca normanno. Guglielmo fu incoronato nel giorno di Natale del 1066 nell’abbazia di Westminster, in una giornata che, da trionfale, si trasformò in turbolenta per un equivoco clamoroso. Le guardie a presidio della chiesa interpretarono le manifestazioni di entusiasmo di parte della popolazione per il nuovo re come un tentativo di rivolta. Per sedarla, diedero fuoco alle case circostanti, come si legge nel racconto di un monaco normanno: «L’incendio si diffondeva rapidamente e quanti erano nella chiesa si lasciarono travolgere dalla confusione, e molti si precipitarono all’esterno, questi per combattere le fiamme, quelli per approfittare dell’occasione e darsi al saccheggio. Davanti all’altare rimasero soltanto i monaci, i vescovi e pochi ecclesiastici i quali, benché terrorizzati, riuscirono a condurre a termine la consacrazione del re che tremava come un fuscello».
I primi atti di governo di Guglielmo furono all’insegna della repressione. Si aspettava rivolte e per questo promulgò leggi molto severe per punire eventuali violenze, anche se perpetrate da soldati e cavalieri normanni. Conosceva lo spirito orgoglioso degli Anglosassoni, già umiliati a sufficienza dopo la disfatta di Hastings, e temeva la loro reazione rabbiosa. Catechizzò in proposito piú volte i suoi conterranei per invitarli a dare sempre il buon esempio, evitando di molestare le donne del luogo e di ubriacarsi, ma la sua premura nei riguardi degli sconfitti era solo di facciata. Non si fece molti scrupoli, per esempio, nel confiscare una gran quantità di terre appartenenti ai caduti nemici nella battaglia.
Alto sgradimento
Che l’ex Bastardo, divenuto Guglielmo I d’Inghilterra o il Conquistatore, non fosse particolarmente benvoluto nel suo nuovo regno lo conferma la Versione D della Cronaca anglosassone: «Egli ha ridotto in miseria l’infelice popolo e, in seguito, le cose non cessarono di peggiorare. Possa la fine di tutto ciò essere buona, se Dio lo permette». In quelle pagine viene bocciata anche la sua politica sulla sicurezza: «I signorotti che occupavano, con le loro guarnigioni, i castelli, opprimevano gli abitanti di alta e modesta condizione, imponendo loro ingiusti obblighi e umiliandoli in vari modi. I rappresentanti del re, gonfi di superbia, non si degnavano di ascoltare le lamentele degli Inglesi né di rendere loro giustizia. Quando i loro uomini risultavano colpevoli di saccheggio o ratto, essi li proteggevano con la loro autorità e, al contrario, si accanivano nel punire severamente i querelanti». Già nel 1067 un movimento forte di opposizione ai Normanni si organizzò nel Sud-Est del Paese, ma Guglielmo governò a lungo e con una miracolosa stabilità. Merito, probabilmente, del sistema feudale molto centralizzato che riuscí ad allestire, piú funzionale e solidaristico di quello francese al quale in sostanza si ispirava. Un successo politico, dopo le tante tribolazioni, che portò piú di un analista storico a vedere nei Normanni i rigeneratori di una società ormai decadente e divisa. Con la battaglia di Hastings giungeva a compimento, per l’Inghilterra, un ciclo sfibrante, ma anche virtuoso, che il Medioevo le aveva riservato. La sua identità si era arricchita di altri connotati. Possedeva sempre il suo antico profilo vichingo, frutto delle ripetute invasioni del X e XI secolo calate dal Grande Nord, che tuttora riecheggiano nel suono delle parole
UN LUOGO CARICO DI STORIA Una Brighton meno affollata e piú graziosa, con la sua lunghissima Pelham Beach, dall’assonanza semantica con la celebre spiaggia della Florida. È anche patria della ferrovia pubblica a vapore piú piccola del mondo, rimasta inalterata e in funzione dal 1927. Hastings però, nonostante le sue numerose attrazioni da località di villeggiatura, è ancora e soprattutto un campo di battaglia. 1066 Country, si legge su molti cartelli nei dintorni della cittadina, a indicare itinerari che riportano la memoria al celebre scontro tra Normanni e Anglosassoni. Il tempo in questa contea ha faticato a marciare oltre quel 14 ottobre di tanti secoli fa. A poco meno di mezz’ora dal centro di Hastings si incrocia il borgo di Battle, dove è possibile conoscere da vicino la collina sulla quale si arroccarono gli Inglesi e la pianura nella quale furono massacrati dai Normanni. C’è anche un castello che ricorda l’epico scontro tra Aroldo e Guglielmo. Probabilmente fu costruito da quest’ultimo, utilizzando anche alcune travi di legno che aveva portato con sé nella traversata dell’autunno 1066. Sicuro di vincere, pensava già a come lasciare ai posteri il segno della sua presenza. Piú in alto possibile, in cima alla scogliera, dove oggi restano però solo pochi ruderi.
con il suffisso -sk di origine norrena. Difendeva con ogni mezzo la propria anima anglosassone, considerata la piú autentica dalla maggioranza della popolazione. E si accingeva infine ad accogliere, seppur con molte resistenze, le nuove influenze dalla Francia settentrionale. Era l’Inghilterra degli Scandinavi, degli Anglosassoni e dei Normanni. Dallo scontro dei loro eserciti fu generato un nuovo destino per gli Inglesi. La lingua, per esempio, fino ad allora parente stretta del norvegese e del tedesco antico, era destinata ad assorbire un po’ di francesismi e di latino. Le novità insomma, anche politiche, sarebbero giunte in gran parte dal Sud, dal continente. Dal Nord invece, da quel momento in poi, arriveranno soprattutto i venti freddi.
Battle, Inghilterra. I resti del complesso abbaziale, fatto edificare da Guglielmo sul luogo della battaglia, nel 1070. L’abbazia e l’adiacente monastero furono in parte distrutti nel XVI sec., con l’entrata in vigore dell’anglicanesimo.
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E venne il rex Angliae A oltre un secolo dalla disfatta di Hastings, i Normanni non erano piú un «corpo estraneo». E, con Giovanni I, diedero il via alla storia millenaria della monarchia inglese di Antonio Sennis
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a cronaca di Walter di Guisborough, composta tra la fine del XIII secolo e l’inizio del XIV, narra che il sovrano Edoardo I d’Inghilterra (1272-1307) inviava i suoi giudici a chiedere conto ai grandi del regno dei diritti che rivendicavano sulle loro terre. In mancanza di titoli legittimi, le terre venivano confiscate. Anche un certo conte di Warenne fu convocato di fronte ai giudici del re; ma, narra il cronista, quando gli fu chiesto quale titolo potesse avanzare, egli avrebbe sguainato una spada, antica e coperta di ruggine, esclamando: «Guardatela, miei signori, questo è il mio titolo! Perché i miei antenati vennero con Guglielmo il Bastardo e conquistarono terre con la loro spada, e con la spada io le difenderò da chiunque voglia sottrarmele. Il re non prese questa terra da solo: i nostri progenitori furono i suoi compagni e condivisero le sue imprese». Piú di due secoli dopo la battaglia di Hastings (14 ottobre 1066), nella quale il duca di Normandia Guglielmo sconfisse le truppe di Harold di Wessex, la conquista normanna dell’isola era ancora percepita come un momento fondamentale nella storia inglese. Ma c’è di piú. Un’inchiesta condotta anni fa in Gran Bretagna ha rivelato che la battaglia di Hastings è di gran lunga l’episodio della storia nazionale meglio conosciuto dagli studenti del Regno Unito. La ragione è presto detta: proprio all’impresa del duca di Normandia viene riferita la nascita della monarchia, e della nazione, inglese. I protagonisti delle vicende precedenti affondano in un passato troppo distante ed estraneo per 50
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poter essere agevolmente richiamato. È distante il leggendario re Artú, il bretone che nel VI secolo tentò di opporsi all’invasione dell’isola da parte degli Angli e dei Sassoni, cosí come lo sono i sette piccoli regni – Kent, Sussex, Wessex, Essex, Northumberland, East-Anglia e Mercia – che sorsero in seguito. E sono distanti, troppo distanti, Offa (757-796), il re di Mercia che riunificò gran parte dell’isola sotto il proprio dominio, ed Egbert del Wessex (828-839), il primo a essere investito del titolo di «Bretwalda», cioè re dei Britanni e quindi di tutta l’Inghilterra. Perfino Alfredo il Grande (871-899), che riuscí a bloccare l’invasione dei Danesi nell’878, e il suo discendente Edoardo il Confessore (1042-1066), fondatore dell’abbazia di Westminster e proclamato santo neppure un secolo dopo la sua morte, sembrano avere poco a che fare con i successivi sviluppi delle vicende inglesi.
L’inizio d’una storia gloriosa
Cosí, nella nostra distratta memoria, a evocare l’inizio di una vicenda splendida e affascinante quale è quella della monarchia inglese, restano un luogo e una data: Hastings, 14 ottobre 1066. L’invasione dell’Inghilterra da parte dei Normanni – l’ultima, è bene sottolinearlo, che l’isoMiniatura raffigurante la piana di Hastings dopo la battaglia, con i Normanni che lasciano i propri attendamenti e gli Inglesi che recuperano i corpi dei propri caduti per dare loro sepoltura, da un’edizione della Chronique de Normandie. Seconda metà del XV sec. Londra, British Library.
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la abbia patito nel corso della sua storia – non rappresentò tuttavia uno sconvolgimento immediato. D’altronde le strutture giuridico-amministrative inglesi erano tra le piú avanzate e solide del tempo. I re anglosassoni erano assistiti nell’attività di governo dal witenagemot, un’assemblea di uomini liberi che aveva anche il compito di procedere alla scelta del nuovo sovrano. Il territorio era stato suddiviso in circa 40 shires (contee), le piú vaste delle quali corrispondevano a ciascuno degli antichi regni, mentre altre erano state tracciate sulla base di suddivisioni amministrative e militari. In ogni contea era stata istituita una shiremoot, ovvero un’assemblea di uomini liberi che si riuniva due volte all’anno, inizialmente sotto la presidenza di un funzionario regio (alderman) e poi di uno sceriffo, vero e proprio anello di congiunzione tra il sovrano e la popolazione locale. Ogni shire era suddivisa in sottocircoscrizioni amministrative, fiscali e militari, le hundreds, anch’esse dotate di proprie assemblee, che si riunivano ogni quattro settimane e a cui era demandato il disbrigo di tutte le questioni di giustizia locale. Molto avanzato era anche il sistema fiscale, in grado di garantire la regolare riscossione del danegeld, una tassa sulla terra inizialmente concepita come tributo ai dominatori danesi, ma in seguito divenuta un’imposta ordinaria versata al sovrano.
LA MOTTA, SIMBOLO DEL POTERE
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Un processo di lunga durata
Ma che cosa cambiò allora? È quello che cercheremo di vedere, partendo dal regno di Guglielmo (1066-1087), fino ad arrivare a quello di Giovanni I Senza Terra (1199-1216), sotto il quale fu siglata la Magna Carta. In questo arco di tempo assisteremo alla nascita, e allo sviluppo, di una monarchia. E, insieme, di una nazione. Fu un processo lento, tanto che, ancora nel 1157, il giustiziere Riccardo de Lucy parlava di «noi Normanni», e invitava a difendersi dalle «astuzie degli Inglesi». Del resto Guglielmo il Conquistatore non fu detto re d’Inghilterra, ma degli Angli e dei Normanni (rex Normanglorum lo chiamava infatti un cronista degli inizi del XII secolo). E ci sarebbe voluto piú di un secolo perché un sovrano, Giovanni I (1199-1216), ricevesse il titolo di re d’Inghilterra (rex Angliae). Guglielmo riorganizzò il Paese conquistato cosí come aveva intrapreso la ricostituzione del suo ducato di Normandia: quindici anni prima della presa dell’isola, infatti, aveva avuto modo di sperimentare una riforma territoriale e politica proprio nel suo ducato. Figlio bastar52
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La motta, simbolo del potere e dell’autorità signorile, fu il tipo di castello più diffuso in Normandia e in Inghilterra nei secoli XI e XII. In cima a un rilievo artificiale (1), realizzato con terra di riporto estratta dai fossati e con blocchi di gesso, sorgeva la torre (2), utilizzata sia per il controllo militare del territorio sia come estremo rifugio in caso di attacco nemico. Alla torre, che poteva avere anche caratteristiche residenziali, si accedeva attraverso un ponte mobile
(3), costruito con tronchi di legno. Alla motta era sempre unita una bassa corte (4), di forma generalmente circolare, cinta da una palizzata di legno e circondata da un fossato. Qui trovavano spazio edifici a uso abitativo (5) o destinati, come l’aula (6), a ospitare attività amministrative, oltre a edifici agricoli come stalle (7) e fienili (8) e a laboratori artigiani, quali forgia e armeria (9). Questi piccoli nuclei abitativi potevano a volte ospitare anche una cappella (10).
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Nascita di una nazione
DUE SECOLI DECISIVI 1066 Il duca di Normandia Guglielmo sconfigge ad Hastings le truppe anglosassoni. Il giorno di Natale è incoronato re a Westminster. 1085 Ha inizio la redazione del Domesday Book, il grande catasto di tutte le terre del regno.
1087 Morte di Guglielmo il Conquistatore, gli succede il figlio Guglielmo il Rosso.
1100 Guglielmo il Rosso muore in un incidente di caccia. Gli succede il fratello Enrico I.
do, succeduto all’età di sette anni a suo padre Riccardo, morto sulla via per la Terra Santa, Guglielmo era riuscito a superare la crisi derivante da una situazione di partenza cosí precaria: nel 1060 egli aveva portato a compimento, a partire dalla città di Caen, la strutturazione di un controllo stretto sui suoi vassalli e aveva ingrandito verso sud i propri domini, con l’acquisizione del Maine e della Bretagna. L’esperienza fatta in Normandia guidò Guglielmo nella riorganizzazione del regno conquistato: le istituzioni locali anglosassoni, ancora salde e vigorose, non furono soppiantate, ma il nuovo sovrano sovrappose loro un sistema di governo feudale: in tal modo, si costituiva cosí una feudalità anglo-normanna dai tratti originali che fu per lungo tempo alleata del re rappresentando la vera base del suo potere. Guglielmo insediò propri vassalli su una parte delle terre dell’aristocrazia anglosassone, deci-
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1106 Enrico I conquista la Normandia, che nella divisione dell’eredità paterna era spettata a un altro figlio, Roberto Gambacorta. 1135 Enrico I muore. Stefano di Blois, figlio della sorella di Enrico, Adele, si fa incoronare re.
In alto facsimile della Magna Carta, con il passo in cui sono contenuti gli «articoli dei baroni».
1170 Thomas Becket, arcivescovo di Canterbury, viene ucciso nella sua cattedrale.
1154 Muore re Stefano. Enrico II Plantageneto sale sul trono d’Inghilterra.
1189 Morte di Enrico II. Gli succede il figlio Riccardo.
mata nella battaglia di Hastings, e privata dal nuovo re di un settimo dei suoi beni. Di tale sistema furono capisaldi i castelli. I primi che i Normanni costruirono furono quelli di Pevensey e Hastings, che dovevano proteggere quegli approdi che per gli invasori stessi si erano rivelati cosí vulnerabili. Prima del 1086 erano terminati anche il castello di Corfe, a guardia del porto di Poole, e quello di Windsor, su una collina che dominava il Tamigi, grosso modo a metà strada tra Londra e Wallingford. In una ventina di anni ne furono costruiti quasi ottanta, i piú importanti dei quali vennero affidati a membri della famiglia del nuovo re e a suoi
1192 Di ritorno dalla crociata, Riccardo naufraga sulle coste istriane e viene fatto prigioniero da Leopoldo d’Austria, che lo consegna all’imperatore Enrico VI. 1193 Approfittando della prigionia del fratello, Giovanni si fa riconoscere re d’Inghilterra.
Sulle due pagine i resti del castello di Corfe (Dorset), una delle roccaforti innalzate all’indomani della conquista normanna dell’Inghilterra, cosí da grantire un migliore controllo del territorio.
1208 Re Giovanni si oppone alla nomina pontificia dell’arcivescovo di Canterbury. Papa Innocenzo III lancia sull’Inghilterra l’interdetto.
1199 Morte di Riccardo. Gli succede il fratello Giovanni.
1214 Cocente sconfitta inglese a Bouvines. Con il trattato di Chinon Giovanni cede alla Francia tutti i territori a nord della Loira.
1213 Giovanni riconosce Stephen Langton, nominato dal papa, quale arcivescovo di Canterbury, e si riconcilia così con il pontefice.
vassalli, che costituirono il nucleo dei grandi baroni (tenants en chef). Per controllare strettamente i propri uomini Guglielmo impose loro una rigida gerarchia feudale. Egli soppresse gli allodi e obbligò ogni uomo libero del Paese a prestargli omaggio ligio e a fornire all’esercito regio un numero determinato di armati, circa 5000 in tutto. Il nuovo re definí inoltre con precisione i servigi dovuti dai suoi vassalli diretti – i già ricordati tenants en chef – e da quelli inferiori. Mantenne poi diritti essenziali quali il banno, l’alta giustizia, il diritto di erigere fortificazioni, quello di battere moneta.
Un’amministrazione ben strutturata
Il controllo del re sulle istituzioni locali in vigore sotto i suoi predecessori sassoni, le già ricordate assemblee delle shires e delle hundreds, fu rafforzato attraverso l’invio di uomini di fiducia. Per riscuotere le imposte il sovrano mantenne nelle con-
1214 1216 Morte di re Giovanni. Gli succede il figlio Enrico III.
1215 Giovanni è costretto a ratificare la Magna Carta libertatum, con la quale riconosce l’autorità dei baroni e i limiti di quella regia.
tee una magistratura che abbiamo visto essere tipicamente anglosassone: gli sceriffi (sheriffs). Il loro nome – derivante dalla fusione dei due termini dell’antico inglese scir, divenuto poi shire, e refa trasformatosi in reeve – può essere per l’appunto inteso come «intendenti di contea». Guglielmo tentò anche di guadagnarsi il sostegno della Chiesa, intervenendo nelle nomine dei vescovi. In vent’anni, insomma, il re normanno riuscí a dotare l’Inghilterra di un’amministrazione ben strutturata. Cardine fondamentale di questa macchina amministrativa ben oliata fu il celebre Domesday Book, un catasto di tutte le terre del regno la cui redazione – ordinata da Guglielmo nel 1085 – fu completata nel 1087, poco prima che il re morisse in seguito alle ferite riportate nel corso dell’assedio alla città francese di Nantes. Secondo la testimonianza del cronista inglese Matteo Paris il Domesday Book – letteralmente «libro del giorno del Giudizio» – fu cosí chia-
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Nascita di una nazione
In alto il castello di Pevensey, nel Sussex. Nella pagina accanto miniatura raffigurante il nobile bretone Alano il Rosso che giura fedeltà a Guglielmo il Conquistatore, il quale gli concede l’Onore di Richmond come ricompensa per i servigi resi nel corso della conquista, dal Register of the Honor of Richmond. Fine del XV sec. Londra, British Library,
mato dal popolo (il suo nome ufficiale era infatti Descriptio Regni, cioè decrizione del regno) perché «esso non risparmiava alcuno, ma giudicava ogni uomo indifferentemente, cosí come farà il Signore nel giorno del Giudizio». L’inchiesta doveva servire al sovrano per conoscere alla perfezione le risorse del Paese che governava, per poi tassarlo di conseguenza. Un’operazione del genere fu resa possibile in primo luogo dalle relativamente ridotte dimensioni del regno, che gli agenti regi potevano percorrere interamente in due o tre settimane; in secondo luogo dalla familiarità con questo tipo di gestione del territorio che il re e un nutrito gruppo di suoi funzionari avevano acquisito nel corso della loro precedente esperienza di governo in Normandia. In ogni comunità il prete, il reeve e quattro contadini liberi fornirono la loro testimonianza. E, secondo le parole di un cronista dell’epoca, «non ci fu un bue, una vacca o un maiale che non fossero inseriti nell’inventario». Importando in blocco la sua feudalità, sovrapponendola a strutture preesistenti che comunque non soppresse, Guglielmo gettò le basi per la nascita di quella «monarchia feudale» che in parte Enrico I (1100-1135), ma soprattutto Enrico II (1154-1189) sarebbero riusciti a completare, esercitando in pieno il loro diritto di signori supremi. Non esistono dati precisi, ma è probabile che
nei primi decenni successivi alla conquista i nuovi arrivati fossero in netta minoranza rispetto alla popolazione locale. I Normanni tuttavia andarono a occupare i posti piú alti dell’amministrazione dello Stato, anche a livello locale, sostituendosi ai conti e ai funzionari inglesi.
Impossibili da distinguere
L’aristocrazia anglosassone poté sopravvivere e perpetuarsi solo grazie ai matrimoni delle proprie donne con uomini normanni. Inoltre, poiché le prescrizioni canoniche contrarie al concubinato dei religiosi venivano frequentemente disattese da parte dei piú alti esponenti del clero, vescovi normanni, come Ruggero di Salisbury, spesso prendevano come mogli o concubine donne inglesi. La madre di Riccardo, figlio del vescovo di Ely Nigel, un normanno, era per esempio inglese. E cosí quando egli scrisse, nella sua celeberrima opera Dialogus de scaccario (Dialogo sullo scacchiere) che «ai giorni nostri [cioè alla fine del XII secolo] Inglesi e Normanni vivono insieme e si sposano, e fanno figli. Cosí che è impossibile distinguere (nel caso di uomini liberi) chi sia inglese di nascita da chi sia invece normanno», egli descriveva lo strato piú alto della società, quello che conosceva bene facendone parte. L’elemento normanno fu rafforzato da ulteriori immigrazioni nel corso del XII secolo. Era per esempio piuttosto frequente che un signore INGHILTERRA
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insediasse sui propri domini inglesi i figli dei vassalli che aveva in Normandia. Ci sono però attestazioni anche di cavalieri di origini anglosassoni, soprattutto nelle regioni piú settentrionali e nel Galles. Abbiamo detto che i Normanni andarono a occupare gli strati piú alti della società, ma non è affatto chiaro, invece, quanti di essi, se ce ne furono, abbiano percorso il
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cammino inverso, finendo con l’essere assorbiti dalla popolazione contadina e servile. L’assimilazione tra le due diverse tradizioni culturali procedette tuttavia in modo abbastanza spedito. Vescovi e abati normanni si identificarono da subito con gli interessi e la storia delle comunità che furono chiamati a governare. L’agiografia divenne un genere molto praticato nelle abbazie inglesi: nuove Vite di santi inglesi furono scritte, e nuove raccolte di miracoli furono confezionate. Anche la scrittura storica, particolarmente interessata a problemi dinastici, non si impegnò solo nella ricostruzione del passato normanno, ma dedicò molta attenzione pure a quello inglese. Orderico Vitale a S. Evroult in Normandia e Guglielmo di Malmesbury in Inghilterra, entrambi nati da unioni miste, furono per esempio ben consci dell’importanza di valorizzare le tradizioni di entrambi i popoli. Cosí, anche molte delle cronache scritte in questo periodo inclusero genealogie dei re inglesi. E quando, poco prima del 1140, Goffrei Gaimar scrisse, in francese, la sua Estoire des Englès – che dedicò a Costanza, la figlia di un piccolo signore del Lincolnshire, Ralph Fitz Gilbert – egli trattò la storia inglese del periodo precedente la conquista come parte dell’eredità normanna. Purtroppo si sa poco della lingua parlata nel primo periodo della dominazione normanna. Possiamo dire che dopo pochissimo tempo, un anno o due, il latino sostituí l’antico inglese nei documenti regi, anche se è probabile che, per un certo tempo, negli scriptoria di alcuni monasteri abbiano continuato a essere redatti documenti bilingui. Naturalmente la lingua madre di tutti coloro che detenevano il potere era il francese, che sarebbe poi diventata la lingua della corte inglese fino almeno al XV secolo. Quando per esempio, nel 1164, Nicola di Mont St. Jac-
ques portò le costituzioni di Clarendon a Matilde, la figlia di Enrico I, vedova dell’imperatore Enrico V e madre del re Enrico II, nella speranza di guadagnare il suo appoggio alla causa di Thomas Becket, gli fu chiesto di leggere il testo in latino e spiegarlo in francese. Tuttavia, anche se il francese si era diffuso largamente tra gli strati piú elevati della società, la maggior parte della popolazione continuava a parlare inglese. Inoltre, una certa dimestichezza con entrambe le lingue era necessaria anche ai potenti per poter condurre con successo gli affari legati all’amministrazione quotidiana. Fra i baroni, la maggior parte degli uomini e delle donne conosceva i rudimenti dell’inglese colloquiale quel tanto che bastava per poter amministrare le proprietà di famiglia. Del resto l’inglese continuava a essere usato nelle corti di giustizia locali e dal basso clero rurale.
Una corte itinerante
Il regno inglese non aveva una vera e propria capitale, una sede di governo permanente, quali poi sarebbero divenute Londra o Westminster. Subito dopo la sua incoronazione, infatti, il re cominciava a spostarsi incessantemente di luogo in luogo in Inghilterra e nei suoi possedimenti sul continente, fermandosi di rado per piú di qualche giorno, una settimana al massimo, e stabilendo la propria corte in qualche castello regio, in un’abbazia, in capanni da caccia, in località come Rockingham, Bury St. Edmunds, Clarendon. E con il re si muoveva tutto il suo apparato: il tesoro, il cancelliere e gli scrivani con i loro arnesi da lavoro, nonché il personale della sua casa al completo. Questa corte itinerante, che sfruttava la terra su cui passava, poteva essere causa di numerose lamentele. Durante il regno del successore del Conquistatore, suo figlio Guglielmo il Rosso, la
corte, indisciplinata e licenziosa, seminava al suo arrivo un tale terrore che, a quanto narra un anonimo cronista del XII secolo, gli abitanti si nascondevano nei boschi nell’attesa che il pericolo passasse. A questa situazione tentò di porre rimedio Enrico I (1100-1135), da un lato comminando severe punizioni a chi si fosse macchiato di episodi di violenza, dall’altro assegnando una sorta di stipendio fisso a ogni membro della corte. A guardare una carta dell’Europa del tempo ci si accorge di un fatto singolare: nella seconda metà del XII secolo l’uomo piú potente in Francia era il re d’Inghilterra. Questo apparente paradosso non deve, però, stupire piú di tanto, dal momento che la presenza dei re d’Inghilterra nel continente è un dato che va assolutamente tenuto presente quando si considerano i caratteri della nascente monarchia inglese. Come detto, Guglielmo era duca di Normandia, e anche se il ducato non passò al suo successore sul trono inglese, Guglielmo il Rosso (1087-1100), ma a un altro figlio, Guglielmo Gambacorta, la corona inglese riguadagnò prontamente i possessi continentali allorché il figlio minore del Conquistatore, Enrico I (11001135) salí al trono alla morte del fratello. Nel 1106 infatti, a conclusione di una serie di campagne militari, egli riacquisí il ducato e qualche anno dopo (1113), con il trattato di Gisors, ottenne dal re di Francia Luigi VI anche il controllo della Bretagna e del Maine. I possessi continentali della corona inglese si sarebbero ulteriormente ampliati con l’ascesa al trono di Enrico II (1153-1189), nipote di Enrico I, il quale per eredità paterna e grazie a un’accorta strategia matrimoniale riuscí a porre sotto il proprio dominio enormi porzioni del territorio francese. Egli era infatti figlio di Goffredo Plantageneto, conte d’Angiò, e
Nella pagina accanto una pagina del Domesday Book, il catasto di tutte le terre del regno voluto da Guglielmo il Conquistatore e la cui compilazione venne ultimata nel 1087. Kew (Londra), The National Archives. In basso, sulle due pagine l’inconfondibile profilo delle «bianche» scogliere di Dover, che guardano verso la costa francese in corrispondenza del punto in cui il Canale della Manica è piú stretto.
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Miniatura raffigurante l’incoronazione di Enrico II. XV sec. Chantilly, Musée Condé.
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aveva sposato Eleonora, erede di Aquitania, Alvernia e Guascogna. Inoltre, combinando il matrimonio di suo figlio Enrico con Margherita, figlia di Luigi VII di Francia – entrambi ancora bambini – aveva ottenuto il controllo della regione del Vexin. Gran parte di questi territori sarebbero stati, però, perduti dal re Giovanni (1199-1216), in seguito alla sconfitta patita nel 1214 a Bouvines per opera del re di Francia Filippo Augusto. La dimensione continentale che, sin dalle origini, caratterizzò la monarchia inglese impose ai sovrani di organizzare una presenza permanente del governo sull’isola durante i loro frequenti soggiorni al di là del Canale. A dire il vero, gli spostamenti dei re inglesi sono noti solo in parte, ma è tuttavia evidente che essi potevano trascorrere fuori dell’Inghilterra anche lunghissimi periodi. Paradigmatico a questo proposito il caso di Riccardo I Cuor di Leone (1189-1199), il quale in dieci anni di regno non sostò in Inghilterra piú di sei mesi, distribuiti in due visite. Va da sé che, affinché da queste assenze non derivasse un indebolimento del loro potere, occorreva che i sovrani escogitassero un modo per evitare che il loro allon-
tanamento provocasse una situazione di stallo nell’attività di governo. È anzitutto per rispondere a questa esigenza che venne istituita la carica di «gran giustiziere», un funzionario che fungeva, in un certo senso, da viceré quando il monarca era lontano. I suoi poteri da un lato non sminuivano affatto quelli regi, poiché egli dipendeva direttamente dal sovrano e il suo operato era oggetto di un controllo strettissimo, e dall’altro garantivano la continuità delle funzioni di governo indipendentemente dalla presenza fisica del re in terra inglese. Il primo che ricoprí questa carica fu Ruggero di Salisbury, intorno al 1120. Egli presiedeva tutto l’apparato giudiziario, anche quello dei tribunali locali, visto che in caso di assenza del re poteva emanare documenti ufficiali (i cosiddetti writs) a proprio nome. Cosí, la presenza fisica del monarca non era indispensabile al buon funzionamento dell’apparato giuridicoamministrativo dello Stato, e il suo potere si manteneva saldo anche quando era costretto a spostamenti che lo portavano lontano. Il denaro che serviva alle spese correnti seguiva il re nei suoi continui viaggi, custodito da alcuni funzionari. Tuttavia, sin da molto tempo prima
In basso ritratto di Riccardo II, re d’Inghilterra, olio su tavola di artista anonimo. 1390 circa. Londra, abbazia di Westminster.
della conquista, a Winchester era stato istituito un deposito permanente che ospitava la parte piú rilevante delle ricchezze regie. La soprintendenza sul tesoro in un primo momento era stata affidata a uno o due ciambellani e, almeno a partire dalla metà dell’XI secolo, a un funzionario detto, per l’appunto, tesoriere. Questi non può ancora essere considerato un vero e proprio funzionario dello Stato, in quanto le sue funzioni erano legate alla «casa» del re, cioè alle sue necessità correnti.
La nascita dello Scacchiere
Un’innovazione fondamentale fu introdotta nei primi anni del XII secolo, quando si decise di controllare i conti dello Stato nel medesimo luogo e in una sola sessione. Stava nascendo lo Scacchiere. Tale nome deriva dal fatto che il tavolo su cui avveniva la revisione dei conti era coperto da un drappo a scacchi, di cui i funzionari si servivano per i loro calcoli. Il drappo non era infatti altro che un abaco, sul quale le somme venivano disposte, e spostate, in colonne corrispondenti a migliaia, centinaia, e decine di sterline, e a sterline, scellini e pence. Questo sistema, facilmente comprensibile anche alle persone il-
letterate, grazie all’introduzione di una colonna vuota risolse l’intrinseca debolezza del sistema di numerazione romano (nel quale lo zero manca), dimostrandosi tanto efficace da rimanere in uso anche molto tempo dopo l’introduzione del sistema di numeri arabi. L’abaco consentí di usare le informazioni contenute nel Domesday Book in modo piú efficace e rispondente alle quotidiane, e mutevoli, esigenze di governo. Oltre a questo nuovo sistema di calcolo delle entrate dello Stato, la grande innovazione fu il fatto che per la prima volta un’assise sulle fi-
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PLANTAGENETI, LA DINASTIA DELLA GINESTRA Goffredo IV conte d’Angiò, detto Plantageneto († 1151) Sposa nel 1128 Matilde († 1167), figlia di Enrico I (1100-1135) della dinastia normanna Enrico II (1154-1189) Sposa nel 1152 Eleonora d’Aquitania († 1204)
Enrico († 1183)
Goffredo († 1186) duca di Bretagna
Riccardo I detto Cuor di Leone (1189-1199)
Giovanni Senza Terra (1199-1216) Sposa (1) nel 1189 Isabella di Gloucester (ripudiata 1190); (2) nel 1200 Isabella d’Angoulême († 1245)
(2) Enrico III (1216-1272) Sposa nel 1236 Eleonora di Provenza († 1292)
Edoardo I (1272-1307) Sposa (1) nel 1254 Eleonora di Castiglia († 1290); (2) nel 1299 Margherita di Francia († 1317)
(1) Edoardo II (1307-deposto e assassinato 1327) Sposa nel 1308 Isabella di Francia († 1358)
Edoardo III (1327-1377) Sposa nel 1328 Filippa de Hainaut († 1369)
Giovanni di Gand († 1399) duca di Lancaster. Sposa nel 1359 Bianca di Lancaster. Il loro figlio Enrico IV (1399-1413) sarà il primo sovrano della casata dei Lancaster.
In neretto sono indicati i sovrani d’Inghilterra, per i quali le date tra parentesi si riferiscono agli anni di regno.
In alto tavola raffigurante Edoardo I incoronato dall’arcivescovo di Canterbury nella cattedrale di Westminster, il 19 agosto del 1274, da The Illustrated London News Record of The Coronation Service. 1902. 62
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nanze si teneva regolarmente, nel medesimo luogo, e senza che fosse necessaria la presenza del re. Infatti, due volte all’anno, nel giorno di Pasqua e in quello di San Michele (29 settembre), i funzionari regi si riunivano nella tesoreria di Winchester, e in quella di Normandia, ed esaminavano i rendiconti di sceriffi e visconti. Questa assise non può certo essere ancora considerata un ufficio finanziario permanente o un organo centrale di governo: era, infatti, convo-
Edoardo detto il Principe Nero († 1376) Principe di Galles. Sposa nel 1361 Giovanna di Kent († 1385)
Riccardo II (1377-deposto 1399-† 1400) Sposa (1) nel 1382 Anna di Boemia († 1394); (2) nel 1396 Isabella di Francia († 1409). Senza prole.
cata in una particolare occasione, e la composizione del gruppo di baroni che si sedevano allo Scacchiere poteva variare da assise ad assise. Durante il regno di Enrico I si cominciò anche a tenere dei registri di questi rendiconti annuali: i pipes rolls, cosí detti perché scritti su lunghi fogli di pergamena che venivano poi arrotolati, assumendo cosí la forma di un tubo (pipe). Dal regno di Enrico II (1154-1189) la serie di pipes rolls pervenutici è sostanzialmente integra.
Battaglia di Bouvines, 27 luglio 1214, olio su tela di Horace Vernet. 1827. Versailles, Musée national des châteaux de Versailles et de Trianon. Nel dipinto si immagina Filippo Augusto, re di Francia, che celebra con i suoi vassalli la vittoria riportata contro Ottone di Brunswick e contro il re Giovanni Senza Terra, che segnò la perdita di molti territori da parte della monarchia inglese.
Alla morte di Enrico I l’ufficio del giustiziere e lo Scacchiere erano solo all’inizio della loro storia secolare. Il sistema, escogitato per risolvere un problema specifico, quello dei frequenti e lunghi periodi di assenza del sovrano, non aveva ancora radici profonde. Il successore di Enrico I, Stefano di Blois (1135-1154), non dovette aver bisogno di un viceré dopo il 1145, anno in cui perse la Normandia, anche se è molto probabile che verso la fine del suo regno Riccardo de Lucy abbia ricoperto questa carica. In ogni modo, quando Enrico II salí al trono, ereditò dal suo predecessore un regno nel quale l’amministrazione centrale dello Stato funzionava ancora in modo imperfetto, e occorsero alcuni anni di costante impegno perché fosse possibile apportare alcune riforme di successo.
Il regno sprofonda nel caos
Con la morte di Enrico I (1135) per il regno inglese cominciò un periodo di quasi totale anarchia. L’erede designata era la figlia del re, Matilde. Rimasta vedova dell’imperatore Enrico V, aveva sposato in seconde nozze il conte Goffredo d’Angiò, detto Plantageneto per l’abitudine che aveva di portare sempre un rametto di ginestra (genêt in francese) sul cappello. Stefano di Blois, nipote di Guglielmo il Conquistatore e cugino di Matilde, pur avendo giurato nel 1125 di non intromettersi nella successione al trono, riconoscendo la legittimità delle aspirazioni di Matilde, alla morte di Enrico I si autoproclamò re; e, a quel punto, dovet-
GUARITORI DI SANGUE REALE Uno dei piú singolari fenomeni legati alla regalità medievale è quello dei cosiddetti «re taumaturghi». Ai sovrani inglesi, cosí come a quelli francesi della dinastia capetingia, era attribuito il potere miracoloso di guarire con il solo tocco delle mani gli ammalati di scrofolosi, un ingrossamento di natura tubercolare delle ghiandole linfatiche del collo. Il primo sovrano inglese per cui sia con certezza documentata questa attività taumaturgica è Enrico I. Nel corso di solenni cerimonie, che divennero con l’andar del tempo una pratica quotidiana, schiere di pellegrini si recavano al cospetto del re e si sottoponevano all’imposizione delle mani. Va notato il fatto che la scrofolosi, nella quale momenti di estremo gonfiore delle ghiandole si alternano a fisiologici periodi di asintomaticità del male, dava spesso l’illusione della guarigione. Legato alla visione popolare del carattere sovrannaturale dell’autorità regia, il fenomeno assunse ben presto un carattere dinastico. Non fu cioè riferito alle virtú singole di un individuo, ma divenne prerogativa del re in quanto appartenente a una stirpe – i Plantageneti – i cui membri erano tutti dotati dei medesimi poteri miracolosi. In altre parole la facoltà di guarire smise di essere personale, per divenire carattere distintivo di una funzione. Alla cerimonia dell’imposizione del tocco regale ne fu poi, dagli inizi del XIV secolo, associata un’altra: quella dei cosiddetti cramp-rings. Durante le celebrazioni del Venerdí Santo, il sovrano sfregava tra le proprie mani degli anelli ai quali conferiva cosí il potere di guarire gli ammalati di epilessia. Queste virtú taumaturgiche dei re inglesi erano cosí importanti da divenire ben presto esse stesse fonte di legittimità per il sovrano. Per esempio nel corso della cosiddetta «guerra delle Due Rose» – che tra il 1450 e il 1471 vide le due casate rivali degli York e dei Lancaster lottare per il trono inglese – i partigiani di entrambi gli schieramenti tentarono, con una serie di libelli polemici, di negare la capacità taumaturgica degli avversari.
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Nascita di una nazione MORTE NELLA CATTEDRALE I domini inglesi in Francia
Nel corso del XII secolo – soprattutto durante il regno di Enrico II – in Inghilterra si fronteggiarono due ordini gerarchici Contea contrapposti: lo Stato e la Chiesa. Il di REGNO Ross conflitto investí principalmente la sfera DI SCOZIA Stirlig 1297 della giustizia. Come è noto la Chiesa Edimburgo Battaglie aveva sempre rivendicato come Dunbar 1269 Bannockburn Eventi importanti Halidon Hill legittimamente acquisito il fatto che i 1314 1333 Galloway religiosi fossero giudicati esclusivamente Nevilles Cross Carlisle Ul st er da tribunali ecclesiastici, anche nel caso 1346 Mare t York avessero commesso crimini comuni quali gh u Lancaster a del nn il furto o l’omicidio. Il rafforzamento delle Co Galway Dublino Nord ia REGNO DI prerogative regie ebbe come conseguenza Irlanda ris F Caernarvon Leicester il fatto che il sovrano non poteva piú Limerick I domini inglesi in Francia Waterford Evesham er Cambridge nst accettare che alcuni dei suoi sudditi u dopo il trattato 1265 Galles M Contea di Parigi (1259) Cork fossero esclusi dal diritto comune e INGHILTERRA di Caithness allo scoppio della guerra Londra Pembroke Limburgo Canterbury dei a Cent’anni (1338) Runnymede sottoposti un’autorità che egli non Contea Re dopo la pace Salisbury Calais di no poteva controllare. Con le costituzioni di di Brétigny (1360) Bouvines REGNO Ross Lewes Exeter all’abdicazione 1214 DI SCOZIA Clarendon (1164) Enrico II di fatto 1264 Crecy di Riccardo II (1399) Stirlig 1297 La Manica subordinò cosí la giurisdizione Edimburgo Battaglie Bretigny Cherbourg Lorena Dunbar 1269 Rouen 1360 ecclesiastica al controllo dei funzionari Reims Bannockburn Eventi importanti Halidon Hill C h 1314 ia 1333 regi. L’arcivescovo di Canterbury Thomas d n am a Parigi Galloway rm a pa No Becket si oppose con forza a quella che REGNO Brest Nevilles Cross Senn g n Carlisle Br Le Mans Ul st er Ma 1346 e eta Mare ine egli considerava un’indebita ingerenza Orléans gn a ht York Tu u gBlois Lo Lancaster dello Stato negli affari della Chiesa, e del rne a ira n Cîteaux Angers C o nGalway na D I Dublino questa fu una delle ragioni per cui venne Nord Bourges a Savo REGNO DI ia Ber Irlanda isi Po i ucciso nella sua cattedrale. Quello tra Fr ry tou Caernarvon Leicester Limerick Poitiers Becket ed Enrico II può essere a buon La Rochelle Waterford r Evesham e NCIA Lione Fn R s tA Cambridge Galles 1265 Mu diritto considerato il primo vero conflitto Taillebourg ACork quitania INGHILTERRA tra Chiesa e Stato nel Medioevo. rnia Londra Alva dopo il trattato di Parigi (1259) allo scoppio della guerra dei Cent’anni (1338) dopo la pace di Brétigny (1360) all’abdicazione di Riccardo II (1399)
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Stabili conquiste del Galles (1277-95) e dell’Irlanda (1399)
A destra l’assassinio di san Tommaso Becket raffigurato su uno scrigno in oro e smalto champlevé. Limoges, XII sec. Parigi, Museo del Louvre.
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Tentativi di occupazione inglese della Scozia (XIII-XIV sec.)
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te fronteggiare l’energica opposizione di gran parte dei baroni, e dei partigiani di Matilde – dichiarata nel frattempo regina – dai quali, nel 1141, fu tenuto prigioniero per sei mesi. La guerra civile che scoppiò in quegli anni causò al Paese devastazioni e massacri di massa, e, per dare una svolta alla situazione, Matilde, nel 1148, abbandonò l’Inghilterra e si recò in Francia, lasciando a Enrico, il figlio che aveva avuto da Goffredo, il compito di combattere contro re Stefano. Il giovane Enrico (nel 1151 divenuto conte d’Angiò alla morte del padre) s’impegnò in una lunga ed estenuante guerra contro Stefano di Blois, che fu sconfitto nel 1153 e costretto a riconoscere la legittimità delle pretese della casa d’Angiò sul trono inglese. Cosí, alla sua morte (1154), l’Inghilterra ebbe come nuovo re il francese Enrico II, il primo dei Plantageneti, che avrebbero retto le sorti del Paese fino all’avvento, nel 1399, della dinastia dei Lancaster.
Statua di Giraud de Berri (Giraldo di Cambrai) nella cappella della SS. Trinità della cattedrale di St David’s (Galles).
La restaurazione di Enrico II
Durante i primi anni del suo regno Enrico dovette fronteggiare gli ultimi spasimi della guerra civile scoppiata durante i torbidi del regno del suo predecessore, si riappropriò delle contee settentrionali che erano state cedute da Stefano alla Scozia, e conquistò il Galles settentrionale. Negli anni 1171-1172 invase l’Irlanda e obbligò Guglielmo il Leone, re di Scozia, a riconoscere la sua autorità. Questa intensa attività di restaurazione dell’autorità regia in territori lontani obbligò il re, al suo ritorno in Inghilterra, a fronteggiare una situazione largamente compromessa in patria. Corruzione e abusi caratterizzavano ormai ogni atto dei funzionari preposti al governo locale. La carica di sceriffo, divenuta sostanzialmente ereditaria, era appannaggio di conti e vescovi che esercitavano i poteri a essa connessi non come delegati del re, ma nella prospettiva del proprio tornaconto personale. La prima iniziativa di Enrico II al riguardo fu quella di organizzare una vasta e articolata serie di inchieste, condotte da funzionari fidati su tutto il territorio del regno, per rendersi conto della situazione. La gran parte degli sceriffi fu rimossa e sostituita con personaggi nuovi, emanazione diretta dell’entourage regio. Ci vollero almeno due decenni perché le riforme varate dal re sortissero qualche effetto. Il governo del Paese rimase nelle mani del gran giustiziere, che operava tramite lo Scacchiere, ma le sue competenze furono notevolmente allargate, soprattutto in campo giudiziario e amministrativo. Prima dell’ascesa al trono di Enrico II, le que-
LA GEOGRAFIA SI ADDICE ALLA CORTE La corte dei Plantageneti, considerata una delle piú brillanti del XII secolo, favorí ampiamente la cultura. Lo sviluppo di una letteratura cortese fu accompagnato da quello della cultura geografica. Anche il gusto per il fantastico, caratteristica fondamentale delle narrazioni dell’epoca, contribuí al decollo della geografia. Personaggi quali, solo per fare qualche esempio, Giraud de Barri (autore di quattro trattati geografici sull’Irlanda e il Galles), Ruggero di Howden o l’anonimo autore dell’Itinerarium peregrinorum (che descrissero entrambi il viaggio di Riccardo I in Terra Santa) manifestarono un’attenzione tutta particolare alle descrizioni geografiche. La letteratura geografica, riprendendo in questo autori classici come Plinio e Solino, abbondava di isole favolose, di mostri inquietanti, di meraviglie di ogni genere e tipo. Ma al di là del desiderio di imitare gli antichi, manifesto presso gli scrittori inglesi della seconda metà del XII secolo, all’origine dell’interesse per la geografia vanno ricercate delle motivazioni proprie all’ambiente culturale creato dai Plantageneti. La geografia era infatti anche uno strumento di esaltazione del potere regio. La conoscenza del mondo era presentata dagli autori attivi alla corte dei Plantageneti come un sapere tanto piú necessario in quanto il sovrano era potente. L’espansione territoriale del regno inglese aveva fornito infatti nuovi soggetti di riflessione, orientando l’attenzione dei letterati verso la necessità di pensare lo spazio. Gli autori inglesi si servirono inoltre delle proprie conoscenze geografiche per esaltare e legittimare il potere del re inglese attraverso, per esempio, la ripresa dell’antico simbolo del mappamondo come rappresentazione della potenza del principe.
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stioni locali relative alle cause penali e civili erano risolte perlopiú, lo abbiamo visto, nell’ambito dei tribunali delle shires e delle hundreds. Solo in circostanze particolari tali questioni vedevano l’intervento diretto della corte regia. Cosí, col tempo, gli interessi dell’aristocrazia locale, grazie alla debolezza dell’autorità regia nel periodo di regno di Stefano, avevano finito per influenzare l’apparato giudiziario. Dunque, anche se formalmente, gli sceriffi e i funzionari locali continuavano a essere nominati dal sovrano, la punizione dei crimini e i giudizi su questioni di proprietà sfuggivano ormai al controllo regio. La giustizia locale, per lo piú signorile, era solo raramente emanazione della volontà del potere centrale. Vero è che sin dal tempo di Enrico I si ha notizia di ispezioni, dette eyres, nel corso delle quali funzionari regi reprimevano eventuali abusi e riportavano i procedimenti giudiziari su binari piú equi. Ma è pur vero che queste ispezioni erano rare e occasionali. Fu per l’appunto con Enrico II che le eyres divennero un’istituzione permanente, soprattutto dopo il 1176, quando, con l’Assise di Northampton, il re decise ufficialmente di intervenire in modo vigoroso per sanare tutti gli abusi e riportare le questioni locali sotto il proprio controllo. Poiché i giudici incaricati di condurre le eyres erano per lo piú membri dello Scacchiere, la sorveglianza regia sull’apparato giudiziario locale fu resa effettivamente molto piú efficace. Questi metodi trasformarono a poco a poco non solo la pratica, ma anche il contenuto della giustizia. Il ruolo dei tribunali locali perse terreno e i vecchi procedimenti di prova di stampo anglosassone, come l’ordalia, furono sostituiti da nuovi sistemi, basati sulle testimonianze giurate. La giustizia del re, sotto Enrico II, si riorganizzò e tutti, nel regno, si videro conferire il diritto di appello ai tribunali regi.
Cariche «a pagamento»
Enrico II lasciò al proprio erede, suo figlio Riccardo I (1189-1199), un regno funzionante e organizzato. Riccardo però, come abbiamo già detto, in dieci anni di regno trascorse solo sei mesi in Inghilterra. Egli era infatti impegnato nell’organizzazione della terza crociata, e considerò il proprio regno semplicemente come fonte di introiti per finanziare la propria im66
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LE PRIME RISERVE DI CACCIA Richard Fitz Neal, l’autore del Dialogo sullo Scacchiere scriveva: «La foresta è il santuario del re, la sua delizia personale. In quel luogo, lasciate da parte per un po’ le preoccupazioni del governo, egli può trovare pace e distrarsi cacciando. Lí, lontano dalla frenetica vita di corte, il re può assaporare in pieno il profumo della libertà». Nei pressi delle tenute di caccia preferite dal re sorgevano delle dimore nelle quali il sovrano poteva comunque sbrigare gli affari quotidiani di governo. Una delle piú famose, quella di Clarendon (nei pressi di Salisbury), è stata in parte scavata dagli archeologi, che ne hanno messo in luce la complessa articolazione degli ambienti dotati a quanto sembra di tutte le comodità necessarie ad accogliere il sovrano e i suoi compagni di sport. Per far sí che il re potesse dedicarsi tranquillamente al suo passatempo preferito, vaste aree del Paese erano dichiarate ai margini del diritto comune, e protette da un sistema giuridico speciale: la legge della foresta. Questo complesso di leggi «speciali» fu precisato nel corso delle cosiddette «assise della foresta», tenute a Woodstock nel 1184, che stabilirono che i reati commessi in tale ambito fossero sottratti ai tribunali ordinari e puniti con sanzioni molto piú pesanti del normale. Chiunque fosse anche solo sospettato di bracconaggio veniva punito con la mutilazione e perfino con la morte e, nel caso il colpevole sfuggisse alla cattura, l’intero suo villaggio veniva ritenuto responsabile, e punito con multe elevatissime. Queste zone riservate raggiunsero la loro massima estensione, quasi un terzo dell’intero Paese, durante il regno di Enrico II. In seguito diminuí notevolmente, soprattutto nel corso dei regni di Riccardo I e di Giovanni, i quali vendettero i diritti regi su alcune foreste per finanziare le proprie aspirazioni militari.
presa in Terra Santa. Fu cosí che i piú alti onori dello Stato, il governo locale delle contee e perfino il controllo dei castelli regi furono conferiti in cambio di somme di denaro. Egli concesse inoltre al proprio fratello Giovanni, che non aveva avuto alcuna parte dell’eredità paterna ed era stato per questo soprannominato Lackland (Senza Terra), una sorta di principato territoriale costituito dall’accorpamento delle contee di Nottingham e Derby nelle Midlans, da quelle di Gloucester, Glamorang, Lancaster, Devon e dalla Cornovaglia nella parte occidentale e sudoccidentale del Paese. In questo modo una vasta porzione del regno fu in pratica svincolata dal controllo regio, dato che Giovanni vi stabilí una propria cancelleria e un proprio Scacchiere, sottraendola alla supervisione degli agenti del sovrano. Paradossalmente, proprio l’inettitudine di Riccardo I come sovrano e i suoi insuccessi in politica estera contribuirono al perfezionamento dell’apparato amministrativo e fiscale dello Stato. L’organizzazione messa in opera sotto Enrico II era stata, infatti, concepita proprio per funzionare anche in assenza del sovrano, e quindi i ministri e funzionari regi
Nella pagina accanto una delle copie manoscritte della Magna Carta, il documento stilato dai baroni inglesi nel 1214, che regolava i rapporti tra il re e i feudatari, ripristinando i diritti e privilegi feudali.
continuarono a perfezionare il sistema di governo, spinti anche dalla necessità di incrementare gli introiti dello Stato per poter affrontare le continue spese che l’attività militare di Riccardo richiedeva. Per esempio, quando nel 1192 il re, di ritorno dalla Terra Santa, fu preso prigioniero da Leopoldo V d’Austria e passato poi all’imperatore Enrico VI che lo tenne in ostaggio per due anni, il riscatto che l’Inghilterra dovette pagare per la sua liberazione fu pari a cinque volte il bilancio annuale dello Stato. Per affrontare questa enorme spesa, in quell’anno fu imposta una tassa straordinaria sulla terra, stabilita dagli inviati regi sulla base dei cosiddetti carucates, corrispondente ciascuno circa a cento acri di terra arabile. Nel corso del XII secolo i baroni, cioè gli esponenti della piú alta aristocrazia legati al sovrano dal giuramento di fedeltà feudale, avevano sempre sostenuto il re. Le rare ribellioni, la piú celebre delle quali ebbe luogo nel 1174, erano avvenute allorché avevano visto messi in pericolo i propri privilegi e prerogative. Enrico II, dal canto suo, non aveva esitato a conferire ai baroni ampi poteri, ben cosciente di essere in grado di ottenere il loro appoggio ai propri
progetti di riforma, cosicché anche quando le tasse sulla terra divennero molto pesanti non ci furono tracce di opposizione organizzata al sistema della fiscalità regia.
Il malcontento dell’aristocrazia
La situazione doveva mutare radicalmente nel corso del regno dell’altro figlio di Enrico II, Giovanni (1199-1216). Il popolo, tutto sommato, sopportò bene l’interdetto che il papa Innocenzo III lanciò contro l’Inghilterra nel 1208, a causa del fatto che re Giovanni si era opposto alla nomina pontificia dell’arcivescovo di Canterbury. Furono però le continue imposizioni di nuove tasse, che dovevano servire a finanziare una serie di campagne militari sul continente, a suscitare i primi malcontenti nell’aristocrazia inglese. Quando poi a Bouvines, nel 1214, il re francese Filippo Augusto inflisse una cocente sconfitta alle armate inglesi, la situazione interna sfuggí in pratica al controllo del re. Subito dopo la sconfitta, Giovanni ratificò con Filippo Augusto il trattato di Chinon con il quale cedeva alla Francia tutti i territori a nord della Loira. L’anno seguente, dopo lunghe discussioni, un INGHILTERRA
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Nascita di una nazione
gruppo di baroni stilò un documento che fu inviato al re perché lo confermasse apponendovi il proprio sigillo. Giovanni rifiutò, e allora i baroni marciarono su Londra e presero la città. Il re capí a quel punto che era necessario scendere a patti: incontrò i rivoltosi a Runnymede, e ratificò il documento, noto con il nome di Magna Carta libertatum. La Magna Carta, che contiene la prima dettagliata descrizione dei rapporti tra il re e i baroni, ripristinava nella sostanza i diritti feudali e regolarizzava il sistema giudiziario, prevedendo che ognuno potesse essere giudicato solo da una corte di suoi pari. Venivano inoltre garantiti i privilegi commerciali di Londra e altri porti inglesi, cosí come quelli dei mercanti stranieri, e si stabiliva un uniforme sistema di 68
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pesi e misure. L’imposizione di tasse straordinarie poteva avvenire solo previo consenso dei baroni, cioè di coloro che a quelle tasse contribuivano per la maggior parte. La macchina amministrativa impiantata nel corso del regno di Enrico II si era perfezionata a tal punto, e l’autorità monarchica si era incamminata con tale decisione verso l’assolutismo, da rendere quasi automatico un ripensamento dei rapporti tra sovrano e aristocrazia. La giustizia regia aveva soppiantato gran parte degli antichi costumi giuridici anglosassoni, portando la maggioranza delle dispute sotto il controllo del potere centrale. Il sistema della fiscalità statale funzionava talmente bene che pochissimi erano quelli che se ne potevano sottrarre. Ma le spese sempre maggiori necessarie per fi-
IL FUORILEGGE PIÚ FAMOSO D’INGHILTERRA Uno dei personaggi principali del poema The Vision of Piers the Plowman, composto da William Landgland nel 1377, è Sloth, un curato di campagna, ottimo cacciatore di lepri. Sloth è ignorante, non sa il latino né le principali preghiere. Cosí, egli non può recitare il Padre nostro, ma conosce a memoria le ballate di Robin Hood e di Randulf, conte di Chester. È questa la prima menzione relativa al celebre fuorilegge, terrore dei proprietari terrieri, specie quelli ecclesiastici, e acerrimo nemico dello sceriffo di Nottingham. Altri riferimenti letterari a Robin Hood, per esempio quelli contenuti nella cronaca scozzese di Wyntoun, sono posteriori di circa mezzo secolo al poema di Langland. È probabile che questi autori prendessero spunto dalla tradizione orale delle ballate popolari, un genere molto in voga in Scozia e nel nord dell’Inghilterra nel XIV secolo. Un altro aspetto della leggenda di Robin Hood è quello legato ai May Games, feste che nel XVI secolo si tenevano nelle campagne inglesi il Primo Maggio. In queste occasioni, gruppi di May Day revellers (bisboccioni del Primo Maggio), vestiti come Robin Hood e i suoi compagni, ne recitavano le imprese raccontate nelle ballate. Queste labili tracce lasciano pochi appigli per sostenere che Robin Hood sia realmente esistito. In passato alcuni hanno sostenuto che egli fosse uno dei partigiani di Simone di Montfort i quali, dopo la sconfitta patita a Evesham nel 1275, e la morte del loro capo, si sarebbero dati alla macchia. Altri hanno invece collocato il nostro eroe nell’Inghilterra di Edoardo II (1307-1327), facendo di lui un esponente dei quadri inferiori dell’esercito, che avevano sostenuto la fallita ribellione del cugino del re, Tommaso conte di Lancaster. In realtà, Robin Hood e i suoi compagni non furono probabilmente dei personaggi reali. La loro creazione, avvenuta quasi certamente nel mondo rurale dell’Inghilterra settentrionale del XIV secolo, dovette essere uno dei sintomi di quel malcontento nei riguardi dei proprietari terrieri che esploderà nelle celebri rivolte contadine del 1381.
nanziare fallimentari imprese belliche non potevano non avere conseguenze sul piano della fiducia che l’aristocrazia baronale riponeva nel proprio sovrano. Inoltre il sentimento, espresso da trattatisti del calibro di Giovanni di Salisbury, che il ruolo del sovrano fosse anzitutto quello di stabilire un ordine di pace e giustizia, contribuiva a rendere sempre piú profondo il solco tra re e baroni. Paradossalmente si può dire che mentre l’Inghilterra aveva trovato la propria unità giuridica grazie all’attività della monarchia, trovò la propria unità politica reagendo agli abusi e agli eccessi di un potere monarchico che era divenuto troppo assoluto. Nottingham. Statua in bronzo di Robin Hood, opera di James Arthur Woodford. 1952.
I baroni contro il re
I progressi del potere regio non erano cioè stati accompagnati da una contemporanea, e coordinata, crescita di un consenso nei confronti del sovrano. I re inglesi avevano ritenuto che non fosse loro necessaria l’approvazione di quei gruppi gerarchici – i baroni, la Chiesa, i ceti mercantili – che invece rappresentavano un elemento essenziale della compagine statale. A opporsi al re Giovanni erano i baroni (rappresentati dai piú potenti fra essi), la Chiesa (nella persona dei vescovi e dell’arcivescovo di Canterbury), e Londra, la piú prestigiosa fra le città mercantili. Ma non bisogna credere che costoro fossero spinti da istanze innovative, tutto al contrario. Essi infatti non volevano af-
fatto sopprimere il potere del re e chiedevano non una costituzione, intesa in senso moderno, bensí una limitazione degli abusi finanziari e giudiziari. Il loro obiettivo era un ritorno alla tradizione e il riconoscimento del loro status di corpi costituiti. L’autoritarismo del sovrano e dei suoi funzionari appariva ai loro occhi come una novità, una rottura con quei valori tradizionali che vedevano il re come garante di pace e giustizia, con quelle leggi non scritte che prescrivevano moderazione nell’esercizio del potere e rispetto delle gerarchie sociali. La perfezione stessa del sistema fiscale messo in piedi da Enrico II si era ritorta contro i suoi figli che gli erano succeduti sul trono. Riccardo I e Giovanni Senza Terra furono dunque sostanzialmente incapaci di cogliere il mutamento che era avvenuto: il re, infatti, non poteva piú governare senza tenere in considerazione le istanze dei corpi sociali che piú contribuivano alla vita economica del Paese. Essi non lo capirono, ed è per questo che sono accomunati dagli storici e giudicati, come sovrani, in modo negativo. La memoria romantica riservò ai due fratelli un destino assai diverso. Re pio e coraggioso il primo, il Cuor di Leone, protettore dei deboli e custode dei valori cavallereschi; usurpatore senza scrupoli il secondo, il Senza Terra, indegno di partecipare dell’eredità paterna. Ma la memoria, lo dicevamo all’inizio, a volte può distrarsi. INGHILTERRA
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In basso disegno ricostruttivo del Ponte di Londra nel XIV sec.
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A sinistra pianta di Londra, dal Civitates Orbis Terrarum dei geografi tedeschi Georg Braun e Franz Hogenberg, opera pubblicata in 6 volumi tra il 1572 e il 1617.
In basso veduta della Torre di Londra. Costruita nell’XI sec. su iniziativa del re normanno Guglielmo il Conquistatore (1028-1087), fu utilizzata come fortezza, reggia e prigione.
LONDRA, DA CITTÀ A METROPOLI Come per il resto dell’Inghilterra, anche per Londra la conquista normanna del 1066 segnò una svolta. Alla fine dell’XI secolo la città contava meno di 18 000 abitanti, ma, trecento anni piú tardi, la cifra si era piú che quadruplicata e si stima che la popolazione londinese superasse le 80 000 unità. Londra era uno dei principali poli manufatturieri dell’isola e vide crescere in modo esponenziale la presenza di laboratori e piccole imprese artigiane, che cominciarono a raggrupparsi per settori merceologici in varie zone della città, lungo strade che, non a caso, assunsero
nomi come Bread Street, Fish Street o Sea Coal Lane (letteralmente, via del Pane, via del Pesce, vicolo del Carbone). Parallelamente, fra il XII e il XIII secolo crebbe la centralità del palazzo reale di Westminster e Giovanni Senza Terra portò nella capitale il tesoro reale, fino ad allora custodito a Winchester. Piú tardi, nel 1265, Simon de Montfort e i baroni ribellatisi alla Corona tennero la prima assemblea parlamentare. E le successive riforme di Edoardo I prima ed Edoardo III poi definirono ulteriormente l’assetto politico del regno, di cui Londra fu definitivamente la sede.
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Cavaliere per sempre Icona del coraggio e dell’ardimento fin dal nome, Riccardo Cuor di Leone ha scritto un capitolo decisivo nella storia della monarchia inglese. Vivendo la sua parabola all’insegna degli ideali cavallereschi ai quali era stato educato e che aveva trasformato nella sua stella polare Ldi Jean Flori
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iccardo Cuor di Leone occupa un posto a parte nella galleria dei personaggi storici piú celebri. Per molte ragioni, prima fra tutte la sua notorietà universale, dovuta al fatto di essere stato uno dei principi piú potenti dell’Europa occidentale, nel momento in cui questa aveva un ruolo di primo piano sullo scacchiere politico e culturale. Nel 1189, alla morte del padre Enrico II, Riccardo si trova alla testa di quel che è chiamato talora «l’impero plantageneto», una vasta compagine di territori comprendente, nel Regno di Francia, i possedimenti della famiglia dei Plantageneti – le contee di Angiò e di Maine –, ai quali Enrico aveva aggiunto nel 1151 il ducato di Normandia e, nel 1153 il regno di Inghilterra, posseduti al tempo stesso per diritto di eredità e per diritto di conquista: era infatti figlio di Matilde, nipote di Guglielmo il Conquistatore. Nel 1152, grazie alle nozze di Enrico con Eleonora, a questi territori si era aggiunta anche l’Aquitania, di cui la donna era l’ereditiera. Con la politica matrimoniale e con la forza delle armi, Enrico II aveva acquistato anche il controllo della Bretagna e di una parte dell’Irlanda e della Scozia. Malgrado l’estensione geografica e l’eterogeneità dei possessi, questo «impero», composto dalle regioni piú ricche dell’epoca, fa di Enrico II un sovrano altrettanto, se non piú potente del re di Francia, suo
rivale, di cui è anche vassallo. Questa situazione e questa rivalità faranno sí che le dinastie dei Plantageneti e dei Capetingi non smettano mai di contrapporsi l’una all’altra, coinvolgendo la maggior parte dei principi europei nel complicato gioco delle alleanze. Il conflitto non conosce tregua, malgrado i molteplici tentativi di pace segnati da matrimoni o progetti di unione tra le due famiglie, di cui Riccardo fu anche protagonista. Il contrasto, talora, addirittura si acuisce a causa di queste unioni, per proseguire fino all’epoca di Cuor di Leone e anche oltre. Si fa piú aspro quando il re di Francia, Luigi VII, si separa da Eleonora di Aquitania, la cui condotta troppo «libera» gli è sgradita e da cui soprattutto non ha avuto figli. Alcuni giorni dopo Eleonora sposa allora Enrico Plantageneto, al quale dà ben presto un erede maschio, seguito da altri cinque figli, di cui quattro sopravvissuti.
I figli contro il padre
Tutto ciò induce il re di Francia, soprattutto dopo il 1170, a sostenere e alimentare la rivolta dei figli di Enrico II contro il padre. Per ragioni ancora poco chiare – politiche? sentimentali? – Eleonora sostiene la rivolta dei figli, in particolare di Riccardo, al quale vuole trasmettere il ducato di Aquitania. Il fallimento della ribellione le costò oltre quindici anni di prigionia. La seconda ragione della fama di Riccardo deriva anche dai suoi genitori. Enrico II ed
Riccardo Cuor di Leone in una incisione tratta dal dipinto eseguito da Merry-Joseph Blondel nel 1841 e oggi conservato nel castello di Versailles. Nella pagina accanto Eleonora d’Aquitania in un’incisione ottocentesca.
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Riccardo Cuor di Leone considerata il centro della cultura dell’epoca, il laboratorio delle innovazioni. Ne è prova la moda dei romanzi arturiani, che sommerge in breve tempo l’Europa. Questi glorificano la ricerca di un modello, che diverrà presto un ideale culturale e un mito: la cavalleria, di cui si avvalgono i Plantageneti. La terza ragione, infine, è che Riccardo Cuor di Leone incarna ed esalta appunto i valori della cavalleria. La sua condotta regale, riferita e amplificata dai poeti e dai cronisti, fa in breve di lui il modello stesso dell’ideale cavalleresco. Come Artú è re, ma è anche cavaliere, capace di imprese guerriere come Lancillotto, degno della ricerca mistica come Parsifal. Piú ancora, sa condividere le prove e le gioie sentite dai «cavalieri semplici», di cui si circonda, e che vedono in lui al contempo un signore e un «confratello». Ma che cos’era un cavaliere nella mentalità aristocratica all’epoca di Riccardo?
Una nuova «arte della guerra»
Miniatura raffigurante la detenzione di Carlo d’Orléans nella Torre di Londra, da una raccolta di poesie scritta dallo stesso Carlo durante la prigionia; sullo sfondo si riconosce anche il Ponte di Londra. 1483. Londra, British Library. Il nobile francese era stato catturato dopo la battaglia di Agincourt (1415) e rimase nelle mani degli Inglesi per ben venticinque anni.
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Eleonora d’Aquitania, infatti, avevano saputo riunire intorno a sé una corte assai brillante, in cui figuravano poeti e trovatori – come Bertrando di Born o Bernardo di Ventadour – nonché storiografi, capaci di scrivere in antico francese – Roberto Wace, Benedetto di SainteMaure – o in latino – Ruggero di Hoveden, Pietro di Blois, Rodolfo di Coggeshall, Rodolfo di Diceto, Giraldo Cambrense, ecc., i quali avevano contribuito a fare di questa un centro di punta della cultura letteraria. Di certo, in passato si è senza dubbio esagerato sul ruolo di Eleonora nella formazione di questo cenacolo letterario, arrivando perfino a fare di lei la principale propagatrice dell’amore cortese, addirittura la creatrice di mitiche «lezioni d’amore». Oggi, invece, si tende piuttosto a mettere in evidenza il ruolo svolto dal re. Una cosa tuttavia è sicura: la corte plantageneta era
Siamo ormai lontano dal tempo in cui, alla metà dell’XI secolo, il termine latino che lo designava, miles, non poteva tradursi che con la parola «guerriero» o anche «soldato». In quel periodo il vocabolo designa tutti coloro che combattono, a piedi come a cavallo. Nessun principe, re o conte accetterebbe che gli fosse affibbiato: il principe comanda i suoi milites, non ne fa parte. Poco a poco, tuttavia, tra i guerrieri si stabilisce una gerarchia. I progressi dell’armamento – per esempio le cotte di maglia – e dell’allevamento equino rendono possibile ed efficace l’impiego della cavalleria pesante. Verso la metà dell’XI secolo fa la sua comparsa un nuovo metodo di combattimento destinato a rivoluzionare «l’arte della guerra» e a essere all’origine della cavalleria: la tecnica della lancia stesa in posizione orizzontale fissa. Fino ad allora, i guerrieri a cavallo non erano quasi mai impiegati in quanto tali. Il piú delle volte, cavalcavano solo per arrivare piú freschi sul campo di battaglia; qui giunti, scendevano di sella e si univano ai fanti. Se combattevano a cavallo, usavano le stesse armi dei fanti e con la stessa tecnica: il combattimento cominciava alla lancia o piuttosto al giavellotto, che si scagliava lontano; proseguiva nella «mischia», impiegando questa stessa lancia tenuta a mo’ di picca, colpendo il nemico dall’alto in basso, con il braccio piegato al di sopra della spalla come se si stesse per lanciare un giavellotto, oppure con un colpo portato dal basso verso l’alto, con un movimento analogo a quello usato per sventrare con un coltello l’avversario; oppure, ancora,
In alto incisione raffigurante un trovatore che si esibisce al cospetto di un castellano. XIX sec. In basso Chinon, cappella di S. Radegonda. Particolare delle pitture murali che ornano la chiesa raffigurante Eleonora d’Aquitania. XII-XIII sec. Secondo l’interpretazione corrente, la scena allude alla cattura della regina, rea di aver sostenuto i figli nella rivolta contro il padre, Enrico II d’Inghilterra.
tenendo la lancia, sempre un po’ indietro rispetto al suo punto di equilibrio, con la mano all’altezza del fianco e stendendo bruscamente il braccio in avanti. In tutti questi casi il fatto di essere a cavallo non procurava quasi alcun vantaggio, dal momento che ci si poteva servire di queste tecniche in modo valido solo se la cavalcatura era ferma o quasi. L’efficacia del colpo dipendeva, infatti,
LA DURA VITA DEGLI EREDI Gli storici sottolineano la tensione che esiste, nel XII secolo, in seno alle famiglie signorili in seguito al generalizzarsi della primogenitura e a causa dell’allungamento delle speranze di vita. Il padre vive piú a lungo e il primogenito, erede designato, tarda a raccogliere l’eredità e talvolta si spazientisce. Gli altri figli, piú o meno esclusi dall’eredità, sono destinati a entrare negli Ordini, a sperare di sedurre una ricca vedova oppure a sognare di sposare un’ereditiera. Questi giovani formano un gruppo instabile, turbolento. Cercano di mettersi in mostra nelle guerre, che contribuiscono a scatenare, o nei tornei, il cui gradimento aumenta nella società aristocratica. Il personaggio del «cavaliere errante» dei romanzi arturiani è l’eco fittizia di una realtà vissuta. Tensioni del genere esistono anche nelle famiglie reali, in particolare presso i Plantageneti. Tutti i cronisti dell’epoca hanno sottolineato l’asprezza di questi odi familiari. Anche in questo caso, è l’eredità a esserne la causa. Nel 1171, gravemente malato, Enrico Il conferma una «divisione testamentaria», con la quale fa del figlio maggiore il suo successore come re di Inghilterra, duca di Normandia, conte di Angiò e di Maine. Riccardo, il cadetto, riceverebbe l’Aquitania, Goffredo, il terzo figlio, la Bretagna e Giovanni, l’ultimogenito, la contea di Mortain e poi l’Irlanda. Enrico II, però, guarisce e riprende tutto in mano, non lasciando ai figli che dei vuoti titoli, senza poteri né mezzi finanziari. Nel 1174, ritenendosi umiliato, Enrico il Giovane si ribella contro il padre, seguito da Riccardo e da Goffredo, con il sostegno di Eleonora. Costei è catturata nel 1174 dalle truppe del marito, che la fa tenere prigioniera in Inghilterra fino alla sua morte nel 1189. Sarà Riccardo, che gli succede al trono, a liberare la madre che, poco dopo, nel 1190, quando il sovrano parte per la crociata, diventa reggente del regno.
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Parsifal nella foresta incontra un gruppo di cacciatori da cui scopre l’esistenza di altri esseri umani nelle città e nel castello, dal ciclo di Parsifal dipinto da Julius Hoffmann nel Castello di Neuschwanstein (Baviera). 1890 circa.
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quasi unicamente dalla forza del braccio e la corsa del cavallo costituiva un inconveniente piuttosto che un vantaggio, poiché metteva il cavaliere a rischio di lussarsi la spalla al momento dell’impatto. Con il nuovo metodo, la lancia è tenuta inizialmente in verticale, assai distante e indietro rispetto al punto di equilibrio: non si utilizza piú alla stregua di un giavellotto, ma solo a mo’ di picca, come nell’ultimo caso descritto sopra. Quindi il cavaliere aggiusta lo scudo innanzi a
sé, poi sperona il cavallo e abbassa la lancia in orizzontale, finché la parte posteriore viene a bloccarsi tra il corpo e il braccio ripiegato, con il gomito serrato contro il fianco: la lancia e l’avambraccio, che la sostiene, formano un angolo retto con il braccio e la mano serve solo a dirigere la punta della lancia verso il suo obiettivo. Ora la potenza del colpo non dipende piú dalla forza del braccio, ma esclusivamente dalla velocità del cavallo. L’avversario cosí colpito è molto spesso disarcionato, talora trafitto dalla lancia e perfino dall’insegna che porta. Questa nuova tecnica, a poco a poco, si perfeziona: le lance possono essere allungate e appesantite, per resistere all’impatto, le cotte di maglia vengono dotate di «piatti», placche rinforzate di metallo, e l’elmo progressivamente si chiude. La carica massiccia, resa possibile da questa tecnica, fornisce alla cavalleria il principale vantaggio sul campo di battaglia, grazie alla forza di penetrazione e al panico che causa nelle linee avversarie, tra i fanti soprattutto. Assolutamente specifico del combattimento a cavallo, questo nuovo metodo esige armi efficaci, dunque costose, una maestria tecnica e una disciplina collettiva, che si potevano acquisire solo con un allenamento assiduo. Necessita,
inoltre, di tempo libero e di mezzi finanziari, causa il costo dei cavalli e degli usberghi. Tutto ciò porta alla nascita della cavalleria, sorta di corporazione di guerrieri di élite a cavallo. Il loro numero è ristretto perché non si diventa cavaliere a meno di non averne le qualità fisiche, morali e finanziarie, il che ben presto isola il gruppo dei cavalieri dalla massa dei fanti. Non tutti sono nobili, almeno sino alla fine del XII secolo, ma solamente i potenti, i re, i conti o i castellani possono circondarsi di cavalieri che li servono, fanno loro da scorta, custodiscono i loro castelli e combattono per loro in qualità di vassalli, ma anche di mercenari o di servitori armati, reclutati per il loro valore e «remunerati» in un modo o nell’altro.
Tutti per uno, uno per tutti
La cavalleria non fa parte, dunque, della nobiltà: quest’ultima, infatti, recluta e dirige l’altra. I cavalieri, tuttavia, vivono a stretto contatto con il proprio signore, il proprio «capo»: cavalcano al suo fianco, si allenano presso di lui, combattono con lui, usano le sue stesse armi, con lui partecipano ai tornei, quella sorta di «guerre codificate» che si moltiplicano dalla fine dell’XI secolo, per riscuotere nel XII un favore cosí grande che la Chiesa, pur avendoli condannati assai severamente in parecchi concili – Clermont, Laterano II, Laterano III, ecc. –, non riuscí a frenarne il successo. Si crea cosí, durante le guerre, le giostre e i tornei, quella che possiamo definire una forma di «convivialità» e di «complicità», una «connivenza», che avvicina e rende solidali fra loro tutti i cavalieri, a prescindere dal rango sociale di ciascuno. Tuttavia, la gerarchia non viene abolita: all’epoca di Riccardo, alcuni cavalieri sono ancora di origini relativamente umili. Contrariamente a quel che si è sostenuto a lungo, la cavalleria non ha mai conferito la nobiltà ma, per le sue qualità e virtú, facendosi notare dal signore o dalla sua dama, un cavaliere può sperare e talora (raramente!) ottenere terre in compenso del suo servizio d’armi, oppure la mano di una fanciulla nobile della corte o imparentata con il signore oppure ancora, grazie al suo coraggio e alla sua prestanza fisica, può riuscire a conquistare il cuore (e le terre) di una ricca vedova o di una giovane ereditiera. I romanzi cavallereschi sono pieni di episodi del genere, che provano quanto la promozione sociale fosse insieme agognata, sperata, possibile, ma rara. Le possibilità di conseguirla, inoltre, si rarefanno sempre piú, perché, verso la fine del XII secolo e ancor piú nel corso di quello suc-
Nella pagina accanto, a destra e in basso miniature raffiguranti varie fasi di un torneo cavalleresco, da un’edizione del Lancelot du Lac. XV sec. Torino, Biblioteca Nazionale Universitaria.
cessivo, anche la cavalleria come tutte le corporazioni tende a «chiudersi», dal momento che i «maestri» riservano l’ingresso nel mestiere esclusivamente ai propri figli. L’addobbamento del cavaliere diviene allora piú raro, piú costoso e si comincia a esigere dagli aspiranti il possesso di «quarti di nobiltà». La cavalleria, nel corso del XIII secolo, si trasforma cosí in classe e perfino in casta: non è piú come in precedenza, «nobile corporazione di guerrieri di élite», ma diviene «confraternita elitaria di cavalieri nobili». Tale evoluzione comincia precisamente all’epoca di Riccardo. Nell’ultimo quarto del XII secolo, la cavalleria non è ancora una corporazione chiusa. Pur senza essere egalitaria sul piano sociale – del resto non lo è mai stata –, è tuttavia sul punto di imporsi quale modello culturale a tutta la società del tempo, aristocratica e guerriera, in ragione del prestigio che acquisisce sul campo di battaglia, dove regna. O piú ancora, forse, a causa del mito cavalleresco, allora diffuso dalla letteratura romanzesca, che esalta la figura del cavaliere adorno delle virtú che ne faranno a lungo il modello da seguire, prima che il personaggio dell’«onesto uomo» non lo soppianti nel XVII secolo. Queste virtú stanno a metà strada tra cortesi e guerriere. Sono sostanzialmente guerriere, poi-
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Riccardo Cuor di Leone
UNA RIVALITÀ TUTT’ALTRO CHE NASCOSTA In viaggio per la Terra Santa, Riccardo raggiunge in Sicilia il re di Francia Filippo Augusto. La tensione resta forte tra i due sovrani e si accresce in parte a causa del comportamento «cavalleresco» di Riccardo, che ama stupire, dominare, prevalere. E lo dimostra fin dal suo arrivo a Messina: la sua flotta, dispiegata con ostentazione, è assai piú ricca di quella del re di Francia e la eclissa. Sempre a Messina, Riccardo si scontra poi con il signore dell’isola, Tancredi, che si è impossessato del potere dopo la morte di Guglielmo il Buono, sposo di Giovanna, sorella di Riccardo. Con la forza delle armi, Cuor di Leone costringe Tancredi a rendergli la giovane vedova, insieme alla sua dote e a un’indennità in oro. Il re di Francia, vedovo da tre mesi, sembra allora invaghirsi di Giovanna al punto da ritenere che voglia sposarla. Riccardo, però, tronca l’idillio e conduce la sorella in Calabria. Voleva forse darla in matrimonio al fratello del Saladino, per ottenere dal sovrano musulmano un trattato di pace vantaggioso? La tensione tra i due re raggiunge il culmine quando Riccardo, malgrado trattati e promesse, rifiuta di nuovo di sposare Alice, sorellastra di Filippo, adducendo a motivo che suo padre ne aveva fatto la propria amante e aveva avuto un figlio da lei. Si dice sicuro di poter produrre dei testimoni. Per essere sciolto da questa promessa di matrimonio, che non può piú mantenere, versa a Filippo 10 000 marchi d’argento e, finalmente libero, sposa poco dopo Berengaria di Navarra, che Eleonora gli porta a Messina all’inizio dell’aprile 1191. A questa data, Filippo è già salpato alla volta della Terra Santa, dove la loro rivalità non conoscerà tregua.
Filippo Il Augusto (a sinistra) e Riccardo Cuor di Leone in viaggio verso la Terra Santa.
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ché il cavaliere, nella realtà come nella finzione letteraria, è anzitutto un combattente a cavallo e deve perciò essere adorno di tutte le qualità fisiche e morali che ci si aspetta in un guerriero: audacia, ricerca della fama attraverso le imprese, superamento di se stesso, fedeltà al proprio signore, senso dell’onore, ecc. La corporazione cavalleresca ha piena coscienza dei tratti elitari che la contraddistinguono, e li rafforza, sviluppando un proprio codice deontologico, un insieme di «regole» che, applicate inizialmente ai soli cavalieri – e non ai guerrieri «ordinari», fanti, arcieri o altri «subalterni» –, si diffonderanno in seguito per formare quelle che piú tardi sono state dette le «leggi della guerra».
Non c’è regalità senza cavalleria
Le opere di finzione letteraria le glorificano, in particolare nei romanzi cavallereschi. Dopo Goffredo di Monmouth, nella sua Storia dei re della Bretagna, e piú ancora dopo i romanzi di Chrétien de Troyes, il piú grande romanziere del Medioevo, la letteratura arturiana non sviluppa piú solo il tema della regalità quasi magica di Artú, ma anche quello della cavalleria, senza cui il mondo sarebbe consegnato al Male, al disordine, al caos. Senza i suoi «cavalieri della Tavola Rotonda», re Artú non sarebbe nessuno. Il messaggio è chiaro: la regalità non può sussistere se non appoggiandosi alla cavalleria. Il re deve dunque onorarla, favorirla, appoggiarsi a essa, per governare secondo le direttive divine e assicurare cosí facendo l’ordine voluto da Dio. Tutto ciò si impianta su una visione del mondo basata su tre categorie funzionali che, già antica, si trasforma a poco a poco in divisione ge-
rarchica e sociale, di cui la Chiesa si fa garante, come testimoniano i contemporanei stessi di Riccardo alla corte dei Plantageneti. Verso il 1176, Stefano di Fougères, che fu cappellano di Enrico II prima di divenire vescovo di Rennes, afferma che la pace e l’armonia possono regnare nel mondo solo se ciascuno dei tre Ordini compie fedelmente la sua missione: il clero deve, dunque, guidare i governanti, mantenersi puro e pregare; i cavalieri, devono difendere il popolo e onorare la Chiesa; quanto ai contadini, esistono solo per assicurare la sussistenza materiale degli altri due Ordini. La funzione del cavaliere è dunque altamente onorevole e riveste una dimensione quasi religiosa, sottolineata dal rito dell’addobbamento: il cavaliere riceve la sua spada dall’altare, per difendere il «popolo di Gesú Cristo». Questo onore, però, implica la fedeltà alla sua missione; se egli tradisce la sua funzione, dovrà – dice Stefano di Fougères – essere «privato dell’Ordine»: si prenderanno le sue armi, la spada e lo scudo, e le si spezzerà pubblicamente. È questa l’origine remota della «degradazione» degli ufficiali per colpa grave. Viceversa, se il cavaliere assolve bene il suo compito al servizio di re che agiscono secondo le direttive della Chiesa, partecipa anch’egli al piano divino. Nel 1159, due anni dopo la nascita di Riccardo, Giovanni di Salisbury, che fu a lungo segretario del cancelliere di Inghilterra Tommaso Becket, allora amico fedele di Enrico II, sviluppa lo stesso tema: i cavalieri sono il braccio armato del principe, che attraverso di loro assicura l’ordine e la pace. Servendo fedelmente príncipi di tal genere – aggiunge – i cavalieri sono «santi».
In alto miniatura raffigurante l’apparizione del Santo Graal ai cavalieri della Tavola Rotonda. 1470 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France. In basso miniatura raffigurante Enrico VIII che si cimenta in un torneo, dal Westminster Tournament Roll. 1511. Londra, College of Arms.
La funzione cavalleresca ha dunque una dimensione al contempo sociale e morale, che la Chiesa sottolinea attraverso i riti dell’addobbamento, con le benedizioni pronunciate sulle armi e sulla persona del cavaliere al momento in cui assume tale funzione. La letteratura, ancor di piú, esalta la dignità della cavalleria e i doveri morali che spettano al cavaliere.
Il sovrano ideale
Nel suo ultimo romanzo, Parsifal o il Racconto del Graal, redatto una decina di anni prima che Riccardo diventasse re, Chrétien de Troyes afferma: «Il piú alto Ordine, che Dio abbia fatto e comandato, è l’Ordine della cavalleria, che deve essere senza villania». Alla fine del XII secolo, numerose opere letterarie sviluppano il tema del cavaliere, che deve insieme onorare la Chiesa e governare – non piú solamente proteggere – il popolo, trasformando cosí la cavalleria in classe di funzione, ma anche sociale, intermediaria tra il re e i sudditi della cristianità. La perfetta coerenza del sistema di governo cosí concepito si compie, quindi, allorché il re stesso si percepisce come un modello di cavalleria, la onora e ne coltiva i valori. È esattamente quel che realizza Riccardo. Tali valori non sono solamente guerrieri, ma anche cortesi. Attraverso gli esercizi in comune, le guerre, i tornei, il servizio di scorta prestato ai «potenti» e la guardia fatta ai loro castelli, i cavalieri nel loro insieme – e anzitutto, ben inteso, quanti sono piú elevati socialmente – si mescolano alla vita di corte, che sotto INGHILTERRA
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Riccardo Cuor di Leone
Qui sopra miniatura raffigurante Lancillotto e Ginevra che si scambiano il loro primo bacio, da un’edizione del Lancelot du Lac. 1400-1460 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Qui sopra miniatura raffigurante re Artú in battaglia. 1150 circa. In alto miniatura raffigurante Perceval che riceve una spada dalle mani del Re Pescatore e la processione del Graal, da un’edizione del Conte du Graal. 1330 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
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l’influenza dei letterati sta crescendo culturalmente. Non è questo un fenomeno esclusivo del regno dei Plantageneti: lo si ritrova nella maggior parte delle corti europee della medesima epoca ma, come notato da tempo, si manifesta soprattutto in quelle animate dai discendenti o dai prossimi di Eleonora di Aquitania, per cui la corte dei Plantageneti funge in qualche modo da modello. Il cavaliere non è piú solamente un guerriero, un «rozzo soldato», vuole diventare anche un uomo di corte, un «cavaliere cortese». E, a questo punto, il ruolo della donna aristocratica, sposa, fi-
glia del signore o dama di corte è probabilmente qui fondamentale. I trovatori – ancor prima che Eleonora divenisse regina di Francia, sposando Luigi VII nel 1137 – hanno imposto un personaggio nuovo, quello dell’uomo innamorato che, per conquistare la stima, il cuore e anche il corpo dell’amata, accetta di addolcire, di «femminilizzare» un po’ la sua brutale virilità. Per amore – sentimento che sembra essere scoperto proprio allora – egli si piega alle regole della corte, dunque «cortesi», addolcisce i suoi modi, accetta di porsi sullo stesso terreno della donna
che vuole conquistare e non piú solamente catturare. L’interesse è ormai concentrato sull’individuo e i suoi sentimenti intimi. È una vera e propria rivoluzione culturale. Si dà il caso che il primo dei trovatori noti sia precisamente Guglielmo IX di Aquitania, l’avo di Eleonora. È difficile non credere, allora, che ella non abbia contribuito a diffondere la sensibilità e i costumi cortesi alla corte di Francia – rimasta austera per volere di Luigi VII, inizialmente destinato alla Chiesa – e poi soprattutto presso le diverse corti del suo secondo marito, Enrico II Plantageneto, personaggio agli antipodi rispetto a Luigi VII, ardente, focoso, avido di ogni sorta di piaceri, curioso di tutto, colto e dalla pietas nettamente piú laica rispetto a Luigi VII, che Eleonora considerava «piú un monaco che un re»…
Valva di custodia d’avorio per specchio con scena di torneo. 1350-1375 circa. Firenze, Museo Nazionale del Bargello.
per andare alla guerra e per gareggiare nei tornei, da cui ritorna spossato, ferito, coperto di mota e sangue. Il chierico, invece, è sempre presso di lei alla corte, disponibile, premuroso, raffinato. Il cavaliere è impaziente, brutale; ha la parola rude e la mano ruvida. Il chierico, invece, ha mani delicate, è fine e colto; sa parlare alle dame, comporre un poema, dire il proprio amo-
Una celebre disputa
Il moto era stato avviato, poco prima della nascita di Riccardo, nell’ambito della cosiddetta «disputa del chierico e del cavaliere». In parecchie opere letterarie, il poeta fa discutere i due sui meriti propri del loro stato e sull’interesse che dovrebbero perciò provar le dame nei loro confronti. Il cavaliere sottolinea il proprio coraggio, la forza fisica, le imprese compiute in guerra e nei tornei, in cui difende con valore i colori di colei che ama, facendoli trionfare. È dunque lui che la dama deve amare. Il chierico non è ai suoi occhi che un essere effeminato e vigliacco. A questo discorso il chierico oppone il proprio: la dama ha tutto da guadagnare a preferirlo, perché il cavaliere l’abbandona spesso
GIOVANNI E IL COMPLOTTO Davanti alla minaccia del complotto ordito ai suoi danni dal fratello Giovanni e dal re di Francia Filippo Augusto, Riccardo si decide ad abbandonare la Terra Santa senza essere riuscito a riconquistare Gerusalemme. Con la promessa di farvi ritorno, si imbarca il 9 ottobre 1192. Per ragioni poco chiare – un naufragio? Il timore di essere intercettato da una flotta nemica? – sbarca sulle coste dalmate e tenta di attraversare in incognito le terre dell’impero. Si finge un ricco mercante, ma viene riconosciuto da un vassallo del duca d’Austria, che cerca invano di arrestarlo. Piú tardi, nei pressi di Vienna, è identificato grazie agli stemmi che porta sui guanti. Gli uomini del duca si accingono ad arrestare il sovrano, che cavallerescamente rifiuta di arrendersi se non al duca in persona. Costui è Leopoldo d’Austria, che Riccardo ha umiliato ad Acri. Il duca cattura Riccardo, lo tiene prigioniero – contro le leggi della Chiesa, che proteggono i pellegrini e i crociati fuori della Terra Santa –, poi lo «vende» al suo sovrano, l’imperatore Enrico VI.
Secondo una tradizione romanzesca, un trovatore chiamato Blondel avrebbe individuato il luogo della prigionia di Riccardo sentendolo cantare una canzone che i due avevano composto insieme in passato. In realtà, Enrico VI non nasconde di tenere prigioniero Riccardo: ne informa Eleonora di Aquitania e Filippo Augusto, il quale avverte il suo complice Giovanni. Costoro promettono a Enrico un’enorme somma di denaro, affinché trattenga Riccardo. Giovanni spera cosí di impadronirsi della corona, diffondendo la voce della morte del fratello. Eleonora si oppone al complotto, riesce a raccogliere la maggior parte della somma richiesta per il riscatto del figlio – 150 000 marchi di argento, equivalenti a due anni di entrate della corona –, la porta di persona all’imperatore e ottiene finalmente la liberazione di Riccardo, il 4 febbraio 1194. Questi riprende subito in mano le redini del regno, perdona il fratello Giovanni e si prepara ad affrontare Filippo Augusto in Francia.
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Riccardo Cuor di Leone Nella pagina accanto Riccardo Cuor di Leone combatte contro le forze musulmane di Saladino, nella battaglia di Arsuf (1191), incisione di Gustave Doré per la Storia delle crociate di Joseph François Michaud. 1808-1822. Qui accanto incisione ottocentesca raffigurante Giovanni Senza Terra che si sottomette al fratello Riccardo Cuor di Leone, contro il quale aveva ordito un complotto.
re e… mantenerlo segreto, per professione! Questa disputa apre la porta a una nuova dimensione della cavalleria, aggiungendole il tocco di cultura che le mancava. Ormai, in parte per piacere alle dame, il cavaliere deve rivaleggiare con il chierico sul suo terreno e persino vincerlo, giacché questi non saprà mai combattere come lui. Ancora una volta è la letteratura che esalta queste virtú «cortesi»: a partire dal XII secolo, il cavaliere deve saper leggere, danzare, cantare, avere un’infarinatura di cultura classica e anche biblica. A maggior ragione se è conte o re. Un conte d’Angiò, avo di Riccardo, in passato aveva fatto recapi-
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A sinistra litografia ottocentesca nella quale si immagina il momento dell’arresto di Riccardo Cuor di Leone da parte degli uomini del duca d’Austria Leopoldo, dopo essere stato riconosciuto, sebbene si fosse travestito da pellegrino. In basso il castello di Durnstein, in cui Riccardo fu imprigionato, in una litografia ottocentesca.
tare un biglietto a un principe rivale, re di Francia, che si faceva beffe di lui, perché frequentava i monaci, i letterati di quel tempo. Sul biglietto aveva scritto, in latino: «Un re illetterato è un asino coronato». Il quel periodo era illetterato chi non conosceva il latino, la lingua della cultura, fino ad allora ecclesiastica.
Poeta forbito ed elegante
All’epoca di Riccardo, è l’antico francese, soprattutto in forma anglo-normanna, a diventare il veicolo privilegiato della letteratura. Riccardo lo parlava, come il latino, e conosceva senza dubbio anche la lingua d’oc di sua madre Eleonora. Inoltre, sull’esempio dell’avo Guglielmo IX, era capace, dicono, di comporre canti e poemi come i trovatori. In realtà, non conosciamo che una sola poesia scritta da lui, una rotrouenge (poesia formata da piú strofe, terminanti con un ritornello, n.d.r.), composta mentre si trovava prigioniero dell’imperatore Enrico VI, al termine di un’avventura romanzesca accadutagli al suo ritorno dalla crociata. Riccardo vi esprime in termini scelti la sua pena e il suo rancore innanzi all’inerzia e l’ingratitudine dei suoi amici e vassalli. Cosí suona la prima strofa: «Ja nus hons pris ne dira sa raison / Adroitement, s’ensi com dolans non, / Mais par confort puet il faire chançon. / Mout ai d’amis, mais povre sont li don. / Honte en avront, se por ma rëançon / Sui ces deus yvers pris». («Nessun uomo prigioniero dirà la sua opinio-
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La resa del re Guido di Lusignano davanti a Saladino dopo la battaglia di Hattin (1187), in un dipinto di età moderna di Said Tahsine (1904-1985). Damasco, Museo Nazionale. La sconfitta e la conseguente perdita della Vera Croce, presa come bottino dai musulmani, furono una delle motivazioni che indussero Riccardo Cuor di Leone a organizzare la terza crociata.
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Riccardo Cuor di Leone
ne / correttamente, se non con afflizione, / ma per conforto può fare una canzone. / Molti amici ho, ma povera è la donazione. / Onta ne avranno, se per il riscatto della mia liberazione / sono questi due inverni prigioniero»). Ignoriamo se Riccardo sapesse «parlare alle dame» come cavaliere cortese. Nessuna testimonianza ci informa su questo punto. È possibile, tuttavia, se non probabile, che egli sia stato omosessuale. Dal momento che la morale dell’epoca condannava l’omosessualità, nella letteratura del tempo non si trovano composizioni poetiche indirizzate da un uomo a un efebo, che invece nello stesso periodo abbondano nella letteratura araba. Ciò non significa che l’omosessualità non esistesse, soprattutto nell’ambiente cosí mascolino della cavalleria… o del clero. Non mancano, del resto, allusioni a comportamenti sessuali di questo tipo da parte di re, principi, vescovi o cavalieri, ma sono tutte negative, piene di disprezzo, ironiche. Su questo punto siamo dunque in qualche modo «svantaggiati»: a causa del poco interesse che manifestava alle donne, non sapremo mai se Riccardo potesse apparire come il perfetto modello del «cavaliere cortese». Piú che probabile, invece, che si interessasse alla teologia o comunque all’interpretazione della Bibbia, come testimonia un curioso episodio ambientato in Sicilia, riportato dal cronista Ruggero d’Hoveden.
Come tutti gli uomini del suo tempo – e non solamente i monaci, come si è sostenuto a lungo –, Riccardo aveva un’infarinatura di cultura biblica: sapeva che tutto era stato creato da Dio, che la storia del mondo aveva avuto un inizio e avrebbe avuto una fine, contrassegnata dalle tribolazioni descritte dall’Apocalisse. Queste sarebbero sopraggiunte all’apparizione dell’Anticristo, che avrebbe riunito le sue sette, per perseguitare e se possibile sterminare i fedeli cristiani. Ma allora il
PENITENZE E ALLUSIONI La questione dell’omosessualità di Riccardo ha dato luogo a vive dispute tra gli storici. A lungo negata in nome della morale dominante, viene oggi invece affermata con altrettanta sicurezza. Gli argomenti portati a sostegno non sono però decisivi. Certo, Riccardo ha rimandato a lungo il matrimonio con la fidanzata Alice ma, come si è visto, poteva avere buone ragioni per questo; si è sposato, infine, assai tardi, a Limassol, con Berengaria di Navarra, che sembra avere trascurato ben presto e dalla quale non ebbe eredi. Non è noto che avesse un’amante, ma lo si è tuttavia accusato di tenere una condotta dissoluta e gli si è attribuito un figlio bastardo. Gli indizi piú netti della sua probabile omosessualità
Cristo sarebbe ritornato, avrebbe annientato l’Anticristo e catturato Satana, iniziatore e ispiratore di ogni male, e lo avrebbe tenuto in serbo per il Giudizio Universale. E Dio avrebbe finalmente regnato con i suoi. Certo, dobbiamo ammettere che, in una forma o in un’altra, il fondamento di questo messaggio fosse noto piú o meno a tutti. Riccardo, però, riunisce nella sua persona cavalleria e cultura ecclesiastica tanto da poter discutere con il miglior specialista del suo tempo, Gioacchino da Fiore. E da poter argomentare. sono senza dubbio legati alla penitenza pubblica, che Riccardo dovette fare prima del suo matrimonio, nella quale egli «abiurò il suo peccato» – al singolare – e «confessò la sua libido», promettendo di non ricadere piú da allora in poi in tale pratica. Fece, poi, una seconda penitenza nel 1195, dopo che un eremita aveva di nuovo denunciato i suoi «atti illeciti» destinati a essere puniti come quelli di Sodoma. Riccardo si pente, rinuncia ai suoi «accoppiamenti illeciti» e si unisce alla moglie «che non aveva piú conosciuto da molto tempo». Queste allusioni appena velate al «peccato di Sodoma» sembrano effettivamente riferirsi a un comportamento omosessuale di Riccardo almeno episodico, se non esclusivo.
Sulle origini dell’Anticristo Qui sopra la tomba di Berengaria di Navarra nell’abbazia reale de l’Epau, fondata nel 1229 dalla stessa Berengaria, vedova del re Riccardo Cuor di Leone. In alto miniatura raffigurante l’arrivo di Riccardo al castello di Durnstein dopo l’arresto a opera delle truppe di Leopoldo d’Austria. XV sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
Quando il «sant’uomo» interpreta per lui il capitolo dodicesimo dell’Apocalisse e fa di Riccardo, profetizzando la sua vittoria contro il musulmano Saladino, un attore del penultimo atto della storia, che preannuncia l’apparizione imminente dell’Anticristo, Riccardo chiede informazioni sulla cronologia precisa di questi avvenimenti: quando deve apparire l’Anticristo? Secondo Gioacchino, è già nato a Roma e si impadronirà ben presto del trono apostolico! È questa un’interpretazione del tutto nuova e Riccardo non manca di farlo notare. Espone, perciò, la tesi tradizionale, resa popolare a partire dal X secolo da Adson de Montier-enDer: l’Anticristo, dice costui, deve nascere dalla tribú di Dan – e dunque avere un’origine giudea e non cristiana –; deve nascere a BabiINGHILTERRA
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Riccardo Cuor di Leone lonia e non a Roma; deve regnare a Gerusalemme per tre anni e mezzo, prima di essere distrutto dalla potenza di Cristo… Gioacchino sostiene però la sua interpretazione e gli dimostra che l’Anticristo sarà proprio un cattivo papa e che è già nato, a Roma. Allora Riccardo esplode in un grido: «Se è cosí, credo che la profezia si sia già realizzata. L’Anticristo è il papa Clemente III». Il pontefice che Riccardo detestava! Significativo sotto molti aspetti, quest’episodio dimostra che il nostro principe cavaliere, benché laico, non era sprovvisto di una cultura teologica. Di piú non sappiamo sulla dimensione «cortese» di questo sovrano. Ed è già molto. Maggiori conoscenze abbiamo, invece, sulla sua dimensione cavalleresca. Non ci sono dubbi, in effetti, che Riccardo fosse un «cavaliere nell’anima» e che abbia fatto di tutto per apparire come un modello di cavalleria. Ne condivide i valori, ne coltiva l’immagine e fa di tutto perché si sappia. Ed è a questo scopo che conduce con sé, nella crociata, numerosi cronisti, poeti e giullari, come Ambrogio, destinati a glorificare il suo comportamento da perfetto cavaliere.
Il rispetto della parola e del nemico
IL DOLORE DI UNA MADRE Riccardo è stato catturato e tenuto in prigione contro le leggi della Chiesa. Perciò, ci si sarebbe dovuti aspettare una violenta protesta da parte del papa o perfino la scomunica dell’imperatore, ma il pontefice esita ad affrontare Enrico VI. Eleonora, allora, fa scrivere dal proprio segretario, Pietro di Blois, tre lettere, che ci sono pervenute, in cui proclama il suo dolore e la sua indignazione: «(…) Rendetemi dunque mio figlio, uomo di Dio, se tuttavia siete davvero un uomo di Dio e non un uomo di sangue, a tal punto paralizzato per liberare mio figlio che l’Altissimo vi richiederà indietro il suo sangue. Guai! Guai, se il sovrano pastore si muta in mercenario, si volge in fuga innanzi al lupo (…). Mio figlio è tormentato in catene e voi non siete andato da lui, non avete inviato nessuno (…). E tutto questo il sovrano pontefice lo vede e lo contempla tranquillamente, inerte nella sua pelliccia, il gladio di Pietro! Accresce la forza del peccato chi, con il suo silenzio, lascia supporre di acconsentirvi. E, in effetti, è presunto consenziente chi non se ne fa accusatore, quando potrebbe e dovrebbe farlo (…). È vicino il tempo in cui, secondo la predizione dell’Apostolo, deve manifestarsi il figlio della perdizione, i tempi difficili che vedranno nuovamente la tunica senza segno di Cristo squarciata, la rete di Pietro rotta, la salda unità della Chiesa cattolica dissolta. Già siamo all’inizio dei dolori. Viviamo degli avvenimenti gravi, ne temiamo di piú gravi ancora. Non sono né profetessa, né figlia di profeta, ma il mio dolore mi spinge a predire molte cose a proposito delle tribolazioni future».
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Tali valori, esaltati dalle epopee e ancor piú dai romanzi, diffusero una serie di comportamenti che verranno chiamati «cavallereschi». Fra questi notiamo l’abitudine affermatasi – tranne che nei confronti dei fanti e dei Saraceni – di non uccidere l’avversario, ma di catturarlo per ottenerne il riscatto. Ciò implica il rispetto della parola data: un rivale catturato, in guerra come nei tornei, può essere liberato sulla parola. Ecco perché Riccardo sembra essersi scandalizzato del fatto di vedersi catturare senza ragione al suo ritorno dalla Terra Santa e tenere prigioniero fino al pagamento del riscatto, che la madre Eleonora portò di persona all’imperatore, dopo aver denunciato apertamente l’inerzia o meglio la complicità del papa. Si può senza dubbio spiegare in questo modo anche l’ostilità colma di odio, di cui dà prova Riccardo, a Messina, nei confronti di un cavaliere francese chiamato Guglielmo di Barres: Riccardo l’aveva fatto prigioniero, alcuni mesi prima in Francia, e pare proprio che costui si fosse dato alla fuga, nonostante la parola data. Riccardo sa anche riconoscere e ricompensare il comportamento cavalleresco dei suoi avversari, in particolare la fedeltà. Lo prova l’atteggiamento che tiene verso Guglielmo il Maresciallo, considerato allora il miglior cavaliere del mondo. Al tempo della sua ultima rivolta contro Enrico
In alto Tolemaide (San Giovanni d’Acri) si arrende a Filippo Augusto e Riccardo Cuor di Leone, 12 luglio 1191, olio su tela di Merry Joseph Blondel. 1840. Versailles, Musée national des châteaux de Versailles et de Trianon. Nella pagina accanto miniatura raffigurante Riccardo, disarmato e con la corona in mano, che rende omaggio a Filippo Augusto per le contee del Poitou e dell’Angiò, da un’edizione delle Grandes Chroniques de France. XV sec.
II, Riccardo aveva messo in fuga il padre e lo aveva inseguito alla testa dei suoi cavalieri. Era sul punto di raggiungerlo, quando Guglielmo, fedele di Enrico, si interpone fra i due e abbatte con un colpo di lancia il cavallo di Riccardo. Alcuni giorni piú tardi, dopo la morte del vecchio re, Riccardo, presa la corona, fa convocare Guglielmo, che si presenta assai inquieto per la sua sorte. Ma Riccardo lo «perdona» e lo ricompensa, accordandogli la mano della piú ricca ereditiera d’Inghilterra. Tuttavia, la virtú cavalleresca per eccellenza rimane la ricerca della gloria, la «prodezza», che consiste nel dimostrare le proprie qualità fisiche e morali di guerriero, nel non temere la morte, nel non fuggire, nel rincorrere l’impresa di cui si parlerà in futuro. Questa ricerca è spinta talora all’eccesso – fino alla temerarietà, all’indisciplina – e può condurre all’orgoglio, alla tracotanza, al disprezzo per quanti ricercano la gloria senza esserne degni. Riccardo in questo ambito piú che in ogni altro può considerarsi un modello. Il suo stesso nome lo testimonia: «Cuor di Leone», simboleggia in maniera evidente il coraggio indomito del re degli animali. Questo appellativo Riccardo l’ottiene ben prima di essere re, domando i baroni
ribelli di Aquitania, e poi lo conferma nelle numerose campagne militari che conduce e dalle quali esce quasi sempre vittorioso. Suo fratello maggiore, Enrico il Giovane, morto nel 1183, sotto la guida del proprio mentore Guglielmo il Maresciallo aveva dimostrato piú di lui le sue qualità di guerriero esperto di tornei.
Missione in Terra Santa
Riccardo, invece, eccelleva, sembra, nella guerra. Il cavaliere e trovatore Bertrando de Born, il quale incitava sempre i suoi signori al conflitto armato, da cui i cavalieri traevano di che vivere, riconosceva la superiorità di Enrico nei tornei, ma anche quella di Riccardo in guerra. La maggior parte delle canzoni di Bertrando deplora che i re siano troppo pacifici e li invitano al conflitto, in particolare contro i Saraceni, alla crociata, la guerra santa che tarda a mettersi in marcia. Ed è proprio nella crociata che Riccardo afferma la sua reputazione eterna di «re cavaliere» in quanto «cavaliere di Dio». Cronisti e giullari non cessano di tessere l’elogio del suo coraggio, che rasenta talora la temerarietà. Lo si vede ovunque nel punto piú avanzato del combattiINGHILTERRA
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Riccardo Cuor di Leone
L’AFFRONTO DI LEOPOLDO La cultura «cavalleresca» di Riccardo si accompagnava a una dimensione meno lodevole: la tracotanza, il disprezzo verso chi non vi si conformava, come possiamo riscontrare da un episodio della crociata. Al momento della presa di Acri, il 12 luglio 1191, gli eserciti cristiani vittoriosi piantano sulle mura i propri stendardi in segno di possesso. Uno dei capi crociati tedeschi, il duca Leopoldo d’Austria, osa piantare il suo stendardo accanto a quello dei re di Francia, di Inghilterra e di Gerusalemme, come avevano fatto anche alcuni príncipi. Gli uomini di Riccardo, probabilmente su suo ordine, lo fanno strappare e gettare dalle mura. Perché? Dopo la morte di Federico Barbarossa, Leopoldo si era trovato alla testa di una
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piccola schiera tedesca assai sguarnita, senza grandi poteri né mezzi finanziari. Secondo un cronista inglese, sarebbe allora passato al servizio del re d’Inghilterra, ottenendo in cambio sussidi che gli avrebbero permesso di mantenere il suo esercito. A questo titolo egli non aveva, dunque, alcun diritto di innalzare sulle mura la propria bandiera, segno di rivendicazione del diritto di partecipare alla divisione dei beni concessi ai vincitori. Leopoldo, umiliato, abbandonò ben presto i luoghi santi, per far ritorno in patria. Conservò, tuttavia, del rancore nei confronti di Riccardo, tanto che si può considerare questo episodio come una delle cause – ma di certo non la sola – della cattura di Cuor di Leone al suo ritorno dalla crociata.
L’ULTIMO ASSEDIO Dal momento del suo ritorno nei propri domini, Riccardo cerca di vendicarsi del re di Francia e, al tempo stesso, di sventare la minaccia che questi rappresenta per le sue terre sul Continente; contro di lui consegue parecchie vittorie, ma deve anche pensare a riprendere il controllo dell’Aquitania, i cui baroni, turbolenti e gelosi della propria indipendenza, si ribellano periodicamente al suo potere, che giudicano troppo amministrativo e centralizzato. Durante una di queste campagne, condotte anche contro la fortezza del visconte di Angoulême, raggiunge alcuni suoi guerrieri che assediano il piccolo castello di Châlus-Chabrol. Alcuni cronisti malevoli affermano che là era stato depositato un tesoro, statue d’oro trovate poco tempo prima da un contadino in una delle terre viscontee. Ciò è possibile, ma assai dubbio. Il castello è difeso solo da pochi cavalieri. Una sera Riccardo scorge dietro i merli del castello un balestriere che, dopo aver parato con una padella da frittura i dardi degli arcieri di Riccardo, scoccava a sua volta la propria freccia. Per plaudire a questa impresa, il sovrano avanza, mal protetto da uno scudo, ed è colpito da un dardo, tra il collo e la spalla. Mal curata, la piaga si infetta. Undici giorni piú tardi, l’11 aprile 1199, Riccardo muore – dopo aver perdonato, dicono, chi l’aveva ucciso – fra le braccia della madre Eleonora, accorsa al capezzale del figlio dal suo ritiro di Fontevrault. Lascia per testamento il suo cuore alla fedele città di Rouen, il suo corpo a Fontevrault e le sue interiora agli abitanti di Poitiers, cosí spesso infedeli.
mento, mentre trascina le sue truppe, talora precedendole nella carica con il rischio di restare isolato e di farsi cosí uccidere o catturare. Ad Acri, per esempio, mette in fuga, quasi da solo – dicono! – i Saraceni che tenevano la città. I membri della sua cerchia, in particolare i chierici, deplorano un tale comportamento, che giudicano irresponsabile. Per costoro Riccardo deve comportarsi come un re, un comandante d’esercito e non un cavaliere. Riccardo risponde con alterigia a chi gli consiglia la prudenza: «Messer chierico, occupatevi dunque della vostra Scrittura e non impicciatevi del combattimento: lasciate a noi la cavalleria, per Dio e Santa Maria».
L’ammirazione del Saladino
Questa reputazione di coraggio cavalleresco è riconosciuta a Riccardo da tutti, nemici compresi e in particolare dal Saladino con cui, alla vigilia del suo ritorno dalla Terra Santa, il vescovo di Salisbury avrebbe avuto una conversazione in proposito. Il capo musulmano gli avrebbe domandato cosa pensasse del re. Il vescovo rispose che il suo sovrano era il miglior cavaliere, il miglior guerriero del mondo, generoso e pieno di qualità. Non si sarebbe potuto trovare da nessuna parte un principe piú valoroso di lui. Saladino acconsentí, senza approvarne tuttavia l’eccessiva temerarietà: «Lo so, il re ha grande valore e prodezza, ma si lancia nella mischia in maniera cosí folle! Qualunque grande principe potessi essere, preferirei
In alto Abbazia di Fontevraud (o Fontevrault, Francia). Particolare del sarcofago di Riccardo Cuor di Leone. 1200 circa. Il re morí il 6 aprile 1199, per i postumi di una banale ferita alla spalla, riportata sotto le mura di Chaluz, nel Poitou. Nella pagina accanto Riccardo Cuor di Leone libera la città di Giaffa (1191), terza crociata, incisione di Gustave Dorè tratta dalla Storia delle crociate di Joseph-Francois Michaud, edizione del 1888.
essere dotato di generosità e giudizio con misura piuttosto che della prodezza a dismisura». La reputazione di Riccardo si affermò nell’Oriente musulmano come nell’Occidente cristiano. Un cronista arabo, Abûl-Fidâ, riconosce che i musulmani non avevano mai avuto avversario piú valoroso, piú coraggioso e piú leale di lui. Parecchi anni dopo la sua morte, il suo nome incuteva ancora terrore. Joinville, che accompagnò san Luigi alla crociata cinquant’anni dopo la morte di Riccardo, riferisce che i musulmani dicevano ai cavalli recalcitranti ad avvicinarsi a un cespuglio: «Credi forse che ci sia nascosto il re Riccardo?». E quando i bambini strepitavano, le madri li «calmavano» con queste parole: «Chetati, se no chiamo il re Riccardo». Nel 1199, alla sua morte, ben piú cavalleresca di quel che non si dica, per quanto sia stato ucciso da «fante» da una freccia casuale, i poeti piangono la perdita del modello e del sostegno della cavalleria, che egli reclutava, amava e aiutava. Guglielmo Faidit, il trovatore occitano, cosí lo celebra in un canto, la cui seconda strofa esprime tutti questi rimpianti: «Morto è il Re e mille anni sono passati da quando è esistito e si è visto un uomo cosí prode e mai vi sarà un uomo paragonabile a lui, cosí liberale, cosí ardito, cosí generoso; e credo che Alessandro, il sovrano vincitore di Dario, non abbia mai dato né speso quanto lui; e che mai Carlo Magno né Artú ebbero piú valore, poiché, a dire il vero, egli seppe attraverso il mondo, farsi temere dagli uni e amare dagli altri». INGHILTERRA
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Il secolo di sangue Fra il 1337 e il 1453, la rivalità fra i due grandi regni di Francia e Inghilterra si trasformò in un vero e proprio scontro armato, passato alla storia come «Guerra dei Cent’anni». Un conflitto lungo e cruento, al termine del quale, di fatto, nessuno potè dirsi veramente vincitore di Giovanni Armillotta, con contributi di Tommaso Indelli
L’
incitamento alle truppe del ventottenne Enrico V Monmouth prima della battaglia di Azincourt (1415) – tratto dall’omonimo dramma di William Shakespeare (vedi box a p. 102) – fa parte di uno dei momenti piú luminosi della storia d’Inghilterra. Nel 1422 il figlio di Enrico V, Enrico VI Windsor cinse finalmente la corona del Regno delle «Due Inghilterre». Però da Azincourt facciamo un passo indietro di 99 anni. Il 5 giugno 1316 morí il ventisettenne re francese Luigi X, detto l’Attaccabrighe, incoronato il 3 agosto 1315 – figlio di Filippo IV il Bello (12851314). Si avverava l’anatema pronunciato sulle fiamme dal templare Jacques de Molay († 1314). Condannato ingiustamente dall’avido Filippo IV e dall’acquiescente papa Clemente V (130514), il Gran Maestro li aveva maledetti, vaticinando che in breve sia il re di Francia – morto otto mesi piú tardi, il 29 novembre, all’età di 46 anni – che i suoi discendenti lo avrebbero seguito nella tomba, oltre al pontefice, spirato trentatré giorni dopo (20 aprile). E anche il figlio postumo di Luigi X, Giovanni I, cinse la corona per soli cinque giorni, dal 15 al 20 novembre 1316, mentre la figlia maggiore, Gio-
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INGHILTERRA
La battaglia di Taillebourg, 21 luglio 1242, olio su tela di Eugène Delacroix. 1837. Versailles, Musée national des châteaux de Versailles et de Trianon. Lo scontro vide Luigi IX il Santo, re di Francia, prevalere su Enrico III, che cercava di riconquistare i territori inglesi in terra di Francia sottratti a Giovanni Senza Terra da Filippo II Augusto.
PAPI DEL MEDIOEVO
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INGHILTERRA
Guerra dei Cent’anni
vanna (1311-49), era esclusa dalla successione, secondo quanto previsto dalla legge salica, che in seguito, come vedremo, fu legittimamente contestata dai sovrani di Londra. Al trono salí perciò il fratello di Luigi, Filippo V il Lungo (1316-22), alla cui morte fu la volta dell’altro fratello, Carlo IV il Bello (1322-28). Questi si spense senza eredi e con lui s’estingueva il ramo diretto maschile dei Capetingi e la maledizione di Jacques de Molay poteva dirsi compiuta. A quel punto un’assemblea di nobili e dignitari consegnò la corona a Filippo di Valois (poi VI), detto il Fortunato, nipote di Filippo IV e figlio di Carlo di Valois, già uomo di fiducia di papa Bonifacio VIII, umiliato e vilipeso dallo stesso Filippo IV.
Dall’attesa all’azione
La decisione dei Grandi di Francia non tenne in alcun conto i diritti e gli interessi di Edoardo III Windsor, re d’Inghilterra dal 1327, e nipote diretto di Filippo IV per parte della figlia Isabella (1295-1358); il padre di Edoardo era Edoardo II Caernarvon (n. 1284; 1307-1327). I tempi non erano ancora maturi per Edoardo, che dovette attendere vari anni prima di reclamare la corona d’Oltremanica. A indurlo all’azione furono l’alleanza della Francia con la Scozia e la questione delle Fiandre. Innanzitutto, nel 1328, Edoardo III aveva iniziato a sostenere i propri diritti sul trono gigliato rifiutandosi di prestare omaggio a Filippo VI per i domini inglesi in Francia sudoccidentale. Nel frattempo, l’influenza francese sulla contea delle Fiandre – avviata da Filippo il Bello fra il 1297 e il 1300 – stava danneggiando economicamente l’Inghilterra, che da tempo aveva avviato proficui commerci con le città fiamminghe, centri di produzione dei tessuti in lana, materia prima esportata da Londra. Lo scontro fra la borghesia urbana e la nobiltà legata alla Francia, indusse i commercianti a chiamare in aiuto Edoardo III e a riconoscerlo re di Francia. Nel 1337 Edoardo si proclamò re di Francia e rivendicò il regno, e, il 27 ottobre, in
una lettera a papa Benedetto XII, definiva Filippo VI «sedicente» re dei Francesi. Il vescovo di Lincoln, Henry Burghersh, consegnò a Parigi il 1° novembre la lettera di sfida, con cui il monarca, cavallerescamente, annunciava l’inizio delle ostilità: trascorsa una manciata di giorni, gli Inglesi sconfissero la nobiltà fiamminga, alleata di Filippo, nella battaglia di Cadzand, località situata poco piú di 20 km a nord-ovest di Bruges. Tre anni piú tardi Edoardo III in persona assunse il comando nella prima grande battaglia del conflitto passato alla storia come Guerra dei Cent’anni, distruggendo la flotta franco-genovese, che tentava d’invadere il suo Paese, a Sluis (l’Écluse in francese) il 24 giugno 1340. Possiamo dunque affermare come l’Inghilterra abbia di fatto posto, sin dall’ormai lontano 1340, le fondamenta di quella che fu la sua potenza nei sei secoli a seguire, sino alla battaglia combattuta a Dunkerque nel 1940, e come abbia curato la propria marina militare e si sia assicurata la propria libertà in quell’esiguo «lago» marino che la separa(va) dall’Europa: non tollerando potenze alcune (né francese e poi né olandese, né tedesca) nella regione geopolitica che oggi è il Belgio, un’entità da sempre debole, costituita da due popoli (rispettivamente di origini francese e neerlandese) in eterna rivalità intestina. Dopo la vittoria di Cadzand, Edoardo III aveva reso piú evidente la sua pretesa al trono, inquartando le armi inglesi con quelle francesi, d’azzurro seminato di gigli d’oro. Per dimostrare l’importanza attribuita alla terra d’Oltremanica, le armi francesi furono poste nel primo e nel quarto quartiere, e quelle inglesi nel secondo e nel terzo. Lo stemma inglese portò i gigli fino al 1801, quando il re britannico, il tedesco Giorgio III di Hannover (17601820) – dal 1801 sovrano del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda – rinunciò all’antica pretesa inglese sulla Francia.
Miniatura raffigurante Inglesi e Francesi che si scontrano a Crécy nel 1346, in una delle battaglie chiave nella Guerra dei Cent’anni, da un’edizione delle Chroniques di Jean Froissart. XIV sec. Parigi, Bibliotheque de l’Arsenal. La vignetta evidenzia l’uso dei temibili longbow (archi lunghi) da parte degli uomini di Edoardo III, che permise loro di riportare una vittoria clamorosa, seppure in inferiorità numerica.
PARENTELE FATALI Le cause della Guerra dei Cent’anni tra Francia e Inghilterra (1337-1453) furono molteplici e vanno ricercate nello specifico assetto territoriale e politico dei due Paesi. Nel 1066, con la conquista del regno inglese da parte di Guglielmo il Conquistatore († 1087), duca di Normandia, il potere normanno si era insediato, minacciosamente, su entrambi i lati della Manica. I re inglesi, infatti, si trovavano in una condizione anomala, da un punto di vista giuridico-costituzionale e politico, poiché erano pienamente «sovrani» in Inghilterra, ma, al
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INGHILTERRA
contempo, vassalli dei re di Francia, in quanto titolari del ducato di Normandia. Come vassalli, quindi, erano tenuti a essere fedeli e a obbedire alle ingiunzioni del loro «signore feudale», il re di Francia, pena la confisca dei propri beni. I possedimenti detenuti, a titolo feudale, dai re inglesi in territorio francese aumentarono nel tempo, a seguito di una serie di circostanze favorevoli. Nel 1154, salí sul trono d’Inghilterra Enrico II Plantageneto (1154-1189), pronipote del Conquistatore, figlio di Matilde († 1167), regina d’Inghilterra, e di uno dei piú potenti
feudatari francesi, Goffredo d’Angiò († 1151), della casata plantageneta. Matilde lasciò in eredità al figlio il regno inglese, il ducato di Normandia e la contea del Maine; Goffredo, invece, l’Angiò e la Turenna. Nel 1152, Enrico sposò Eleonora, duchessa d’Aquitania († 1204), che gli portò in dote l’immenso ducato d’Aquitania e la contea del Poitou, nella Francia sud-occidentale. Agli inizi del XIII secolo, il re di Francia, Filippo II Augusto (1180-1223), riuscí a sottrarre i possessi inglesi, in territorio francese, al figlio di Enrico II, Giovanni Senza
Terra (1199-1216). Enrico III (1216-1272), successore di Giovanni, tentò di riconquistare i territori perduti, ma, sconfitto da Luigi IX (1226-1270) a Taillebourg e Saintes (1242), fu costretto a firmare il trattato di Parigi (1259). Con questo trattato, il re inglese rinunciava a ogni possesso in Francia, fatto salvo il ducato di Guienna, con capitale Bordeaux, residuo dell’antica Aquitania. I termini dell’accordo furono rispettati fino al 1337, anno in cui scoppiò la «Guerra dei Cent’anni». Tommaso Indelli
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Guerra dei Cent’anni
I RE DELLA GUERRA DEI CENT’ANNI INGHILTERRA Re Edoardo III Riccardo II Enrico IV Enrico V Enrico VI Edoardo IV
Appellativo Windsor Bordeaux Bolingbroke Monmouth Windsor -
Nascita 13.11.1312 6.1.1367 15.4.1367 16.9.1386 6.12.1421 28.4.1442
Assunzione Età 21.1.1327 14 21.6.1377 10 30.9.1399 32 21.3.1413 26 31.8.1422 8 mesi 4.3.1461 18
Incoron. 1.2.1327 16.7.1377 13.10.1399 9.4.1413 6.11.1429 28.6.1461
Morte Età Regno 21.6.1377 64 50 14.2.1400 a 33 22 20.3.1413 45 13 31.8.1422 35 9 21.5.1471 b 49 38 9.4.1483 40 21
Incoron. 29.5.1328 26.9.1350 19.5.1364 4.11.1380 16.12.1431 17.7.1429 15.8.1461
Morte Età Regno 22.8.1350 57 22 8.4.1364 44 13 16.9.1380 42 16 21.10.1422 53 42 21.5.1471 a 49 4 22.7.1461 58 32 30.8.1483 60 22
a: Riccardo II fu deposto il 29 settembre 1399 b: Enrico VI fu deposto il 4 marzo 1461
FRANCIA Re Filippo VI Giovanni II Carlo V Carlo VI Enrico VI Carlo VII Luigi XI
Appellativo il Fortunato il Buono il Saggio il Folle Windsor il Vittorioso il Prudente
Nascita -.-.1293 26.4.1319 21.1.1338 3.12.1368 6.12.1421 22.2.1403 3.7.1423
Assunzione Età 1.2.1328 35 22.8.1350 31 8.4.1364 26 16.9.1380 11 21.10.1422 10 mesi 17.7.1429 26 22.7.1461 38
a: Enrico VI fu deposto da re di Francia nel 1436 in seguito agli avvenimenti succedutisi dopo la stipula del Trattato di Arras Impedita la futura opposizione ad approdi continentali, Edoardo III trovò un alleato in Goffredo d’Harcourt, duca di Normandia. Nel 1345, Enrico I di Grosmont, conte di Derby, dette una prima lezione ai Francesi, trionfando nella battaglia di Auberoche, in Guascogna, grazie all’arco lungo (longbow). L’anno successivo, il 26 agosto, gli Inglesi sconfissero clamorosamente, a Crécy, l’esercito francese, piú potente e numeroso, basato sulla cavalleria pesante. Come ha scritto lo storico Pasquale Villani, le forze inglesi, al comando diretto del re, vinsero sugli altezzosi e anacronistici francesi «grazie alle innovazioni apportate nella tecnica del combattimento e nelle armi. Particolarmente efficaci si dimostrarono le schiere di arcieri, dotate di un grande arco di facile maneggio, che consentiva un tiro piú frequente che non le balestre di cui si servivano le truppe francesi», mentre, per 94
INGHILTERRA
dirla con le parole di George M. Trevelyan, «i migliori arcieri vantati dai Francesi erano mercenari italiani, i famosi balestrieri originari di Genova». Edoardo III prese Calais alla fine di un assedio durato due anni (1346-47), costituendola quale testa di ponte per eventuali attacchi da sferrare verso l’interno della Francia.
Dall’armatura il nome
Dieci anni piú tardi, Edoardo di Galles, detto il Principe Nero (per il colore della sua armatura, 1330-76), figlio primogenito di Edoardo III, mosse dal territorio inglese dell’Aquitania e batté a Poitiers gli avversari (19 settembre 1356), catturando anche il re Giovanni II il Buono. Col trattato di Brétigny (8 maggio 1360) la monarchia riebbe gran parte di tutti i territori controllati dopo l’avvento dei Plantagenèti con Enrico II (11541189): Bretagna, Normandia, Angiò, Maine,
Nella pagina accanto rovescio del Settimo Sigillo del re inglese Edoardo III, utilizzato per un documento relativo ai castelli reali di Tumby e Tattershall, nel Lincolnshire. 1364. Londra, British Library.
In questa pagina miniatura raffigurante la resa di Harfleur, i cui abitanti consegnano le chiavi della città al re inglese Enrico V. XV sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France. INGHILTERRA
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Guerra dei Cent’anni A sinistra particolare dello scettro di Carlo V, dal tesoro dell’abbazia di Saint-Denis. 1364-1380. Parigi, Museo del Louvre. Il prezioso manufatto, in oro, argento dorato, rubini, paste vitree e perle, è coronato da una statuetta di Carlo Magno. In basso, sulle due pagine la tomba di Edoardo di Galles, detto il Principe Nero. Morto a 46 anni d’età, fu sepolto nella Cattedrale di Canterbury, il 29 settembre 1376. Nella pagina accanto miniatura raffigurante Carlo VI colto da un accesso di follia, da un’edizione delle Cronache di Enguerrand de Monstrelet. XV sec. Chantilly, Musée Condé.
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Turenna, Aquitania (oggi Guienna), Poitou, Guascogna e tutti liberi dall’umiliante omaggio feudale alla Corona di Francia; da parte sua, Edoardo III lasciava decadere le pretese sul trono gigliato. Vale la pena ricordare che Enrico II riuscí ad ampliare considerevolmente il proprio territorio nazionale in Europa, al punto che l’Inghilterra arrivò a confinare con regioni dell’attuale Spagna e a pochi chilometri dall’odierno Piemonte. La Francia precipitò nel caos e la lotta di classe s’inasprí: i borghesi accusavano la corte per la sua politica filonobiliare e, dopo Poitiers, a Parigi scoppiò la rivolta dei mercanti, condotti dal console (prevost) Étienne Marcel (1315-58); a quella sommossa si aggiunsero le ribellioni dei contadini nelle campagne dell’Île-de-France (Jacquerie). Nel frattempo, le bande di soldati e cavalieri (routiers), smobilitati dalla fine delle ostilità con gli Inglesi, si dedicavano al saccheggio e a ogni sorta di violenze contro la popolazione, già decimata dalla peste del 1348. Carlo V il Saggio – succeduto al padre Giovanni II, morto a Londra, prigioniero degli Inglesi, nel 1364 – approfittando delle contraddizioni interne al movimento borghe-
se-popolare, riuscí a riorganizzare l’amministrazione civile e militare. In seguito dichiarò nullo il trattato di Brétigny e, grazie al suo conestabile bretone Bertrand du Guesclin – che preferiva azioni di guerriglia alle grandi battaglie campali – in pochi anni strappò agli Inglesi tutte le regioni riconquistate da Edoardo III († 1377). Al figlio Riccardo II Bordeaux rimasero le città di Bordeaux, da cui prendeva l’appellativo, con una fascia di territorio dell’Aquitania, Brest, la Bretagna occidentale, Cherbourg e Calais, teste di ponte ancora decisive sia dal lato economico che militare.
Armagnacchi contro borgognoni
La tregua trentacinquennale (1380-1415) che seguí alla scomparsa di Carlo V ebbe effetto soltanto sui rapporti fra i due Paesi. Nel 1380, con la salita al trono gigliato di Carlo VI il Folle – sotto reggenza per la giovane età, e poi per la sopravvenuta pazzia (1392), che si alternava a momenti di lucidità – in Francia eruppe la guerra civile. Lo scontro oppose gli armagnacchi – cioè i partigiani di Luigi, duca d’Orléans, fratello di Carlo VI, capeggiati dai conti d’Armagnac – ai borgognoni, sostenitori dello zio del re, Filippo II
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INGHILTERRA A destra Londra, Abbazia di Westminster, Cappella di Edoardo il Confessore. Particolare del monumento funebre di Riccardo II, re d’Inghilterra dal 1377 al 1399, morto un anno piú tardi. 1396-1399. In basso le mura e la porta di SaintMichel a Guérande, città in cui, nel 1365, venne firmato l’accordo che pose fine alla guerra «delle due Giovanne».
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Guerra dei Cent’anni l’Ardito di Borgogna (1363-1404), il cui figlio, Giovanni I il Senza Paura (1404-19) aveva fatto uccidere Luigi (1407). Essendo signori anche delle Fiandre, i borgognoni conducevano una politica filoinglese, al contrario degli Armagnac, i quali, avendo i loro possessi sotto Londra sin dal trattato di Brétigny, ambivano staccarsene. Tuttavia Londra non poté approfittare súbito dell’occasione offerta dai borgognoni. La corona inglese fu messa in pericolo già nel 1381 dalla Peasants’ Revolt: una rivolta di artigiani, operai, salariati della città e della campagna, braccianti, nonché contadini agiati, che si ribellarono a censi, corvée e imposizioni signorili per annullare le incongruenze maggiori del regime feudale e del fiscalismo regio. I lollardi – cosí furono definiti i ribelli (facendo propria la denominazione di un’associazione
religiosa nata dopo il 1300, ad Anversa, all’indomani di una pestilenza, che aveva preso nome dal neerlandese lolle, «mormorare, pregare», n.d.r.) – erano guidati dall’eroe di Crécy e Poitiers, Wat Tyler (1341-81) e dal sacerdote John Ball (1330-81), il quale si rifaceva alle tesi di un professore dell’Università di Oxford, John Wycliffe (1324-84), che pervadevano i ceti meno abbienti e piú umili del Paese, gettando i semi della lotta sociale. Wycliffe predicava la riforma della Chiesa inglese, opponendo l’autorità della Bibbia a quella del papa. Col tempo, le sue idee si diffusero fra la popolazione piú povera, trasformando il movimento – in principio di mero tenore teologico-confessionale – in uno schieramento che mirava a istituire una società basata sull’uguaglianza economica e classista.
«Il primo generale moderno»
Il Trono dei Leoni dovette inoltre adoperarsi per contenere le prerogative del Parlamento. Nel 1399 una congiura parlamentare portò alla deposizione di Riccardo II, con l’aiuto della famiglia Percy, ponendo sul trono il cugino, Enrico IV Bolingbroke: primo re del ramo cadetto dei Lancaster. Riccardo II era accusato di non essere severo con gli eretici e debole in politica estera; fu ucciso l’anno dopo nel castello di Pontefract. Consci dello stato di anarchia e della debolezza in cui versava la Corona, i borgognoni – resisi conto che da soli non potevano avere la meglio sugli armagnacchi – invitarono il giovane Enrico V, succeduto al padre Enrico IV nel 1413, a reclamare il trono di Francia. Indotto dalle valide tesi giuridiche successorie esposte dall’arcivescovo di Canterbury e, in specie, dai suoi finanziamenti (l’arcivescovo temeva che i Comuni confiscassero la metà dei beni ecclesiastici e quindi cercava la benevolenza regale), Enrico V – definito «il primo generale moderno» (Trevelyan) – raccolse un esercito nazionale e sbarcò nel 1415 in Normandia. I Francesi, che evidentemente non avevano tratto alcun insegnamento dalla sconfitta patita a Crécy, furono clamorosamente sconfitti dai longbowmen e dalla fanteria leggera inglese ad Azincourt il 25 ottobre 1415. Secondo fonti del tempo di Shakespeare, gli Inglesi schierarono 12 000 uomini e i Francesi 60 000: tra i primi vi sarebbero stati appena 29 caduti, mentre i secondi ne avrebbero contati 10 000. Secondo studi piú recenti, le forze in campo sarebbero state pari, rispettivamente, a circa 5900 (con 112 morti) e 36 000 (con poco meno di 10 000 morti e 1500 nobili fatti prigionieri).
Miniatura raffigurante il combattimento fra Pietro il Crudele ed Enrico di Trastámara, da un’edizione dell’opera Anacephaleosis o Genealogía de los reyes de España di Alfonso di Cartagena. XV sec. Madrid, Biblioteca Nazionale.
Un anno piú tardi, a Valmont (vicino Harfleur, nei pressi di Le Havre) Enrico ebbe ancora la meglio su un avversario superiore di numero. Nel 1417 si registrò la vittoria navale degli Inglesi nella battaglia della Senna e, il 19 gennaio 1419, espugnando Rouen, il re inglese impose i propri diritti dinastici. Col trattato di Troyes (1420), Carlo VI designava proprio successore Enrico V e la discendenza, diseredava il delfino Carlo, e concedeva al re inglese la mano di sua figlia, Caterina. Fanciulla, che, stando ancora una volta al Bardo, iniziò a imparare l’inglese ancor prima di Azincourt, (segue a p. 103) INGHILTERRA
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Guerra dei Cent’anni
LE TAPPE DEL CONFLITTO I regni separati dal Canale della Manica si fronteggiarono per oltre un secolo, rivendicando corone e territori. Fu una guerra lunga e dall’esito altalenante, che si concluse senza alcun trattato di pace, ma con il sostanziale consolidamento delle rispettive posizioni. Un secolo di battaglie cruente, che fecero emergere personaggi immortali, prima fra tutti la «Pulzella d’Orléans», Giovanna d’Arco.
BATTAGLIA DI CAEN (1346) Gli Inglesi invadono il Nord della Francia e assediano Caen. La città si arrende.
BATTAGLIA DI BLANCHETAQUE (1346) Gli Inglesi guadano la Somme e puntano sulle Fiandre.
BATTAGLIA DI CRÉCY (1346) Sebbene sia in palese inferiorità numerica, l’armata inglese, soprattutto grazie ai suoi espertissimi arcieri, riesce ad avere la meglio delle truppe francesi in una delle battaglie chiave della Guerra dei Cent’anni.
ASSEDIO DI CALAIS (1346-1347) Gli Inglesi, dopo il trionfo di Crécy, attaccano la città di Calais e la espugnano.
BATTAGLIA DI POITIERS (1356) Continuano le vittorie inglesi. A Poitiers un esercito di consistenza esigua accerchia e annienta i Francesi.
BATTAGLIA DI AURAY (1364) Gli anglo-bretoni si impongono contro i franco-bretoni.
BATTAGLIA DI AZINCOURT (1415) Il 25 ottobre, una settantina di chilometri a sud di Calais, su un terreno appesantito dalle piogge, la cavalleria francese subisce una cocente sconfitta per mano degli arcieri inglesi.
La morte sul rogo di Giovanna d’Arco, olio su tela di Hermann Anton Stilke. 1843. San Pietroburgo, Museo Statale dell’Ermitage. 100
INGHILTERRA
Calais
REGNO D’INGHILTERRA
Maine
d’Angiò
Tours
Duc. di Turenna
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Chinon
Poitiers La Rochelle
Bourges
Contea La Marche Ducato del del Poitou Limoges Borbonese
Angoulême
ATLANTICO
Limosino
Lionese
Le Puy
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Castillon
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Alvernia
Valence
Ducato di Savoia
Delfinato
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Contea di Borgogna
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Strasburgo
Ducato di Lorena
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Verneuil Orléans Patay Jargeau Ducato Baugé Beaugency Blois
Rennes
Nantes
OCEANO
Metz
Contea di Champagne
Magonza
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Ducato di Normandia
Compiègne
Loi
Auray
Parigi
Liegi
Ducato di Lussemburgo
Rodano
Ducato di Bretagna
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Crécy Rouen Gerberoy
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Milano
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Ducato Cahors di Agen Garo Avignone Contea di Contea Guyenne nna Arles di Tolosa ca Provenza Nizza Contea di Tolosa Aix do Montpellier a Armagnac gu Narbona P I R Ducato E N E I di Roussillon MAR REGNO Saragozza MEDITERRANEO D’ARAGONA Barcellona
Costanza
Regno di Francia nel 1429
Territori borgognoni sotto Enrico VI
Regno francese di Bourges sotto Carlo VII
Domini inglesi
CORSICA
Domini anglo-borgognoni
ASSEDIO DI ROUEN (1418)
BATTAGLIA DI VERNEUIL (1424)
Gli Inglesi compiono un grande passo avanti nella conquista del ducato di Normandia, espugnando Rouen.
L’esercito franco-scozzese non ripete l’impresa di Baugé e viene annientato in una delle battaglie piú sanguinose del conflitto.
BATTAGLIA DI BAUGÉ (1421)
ASSEDIO DI ORLÉANS (1428)
La prima grave sconfitta inglese nella Guerra dei Cent’anni si verifica a Baugé, per mano di un’armata franco-scozzese. Vi trova la morte Thomas, duca di Clarence, fratello del re Enrico V.
I Francesi, spinti dall’eroina Giovanna d’Arco, ottengono una schiacciante vittoria sull’esercito inglese. Le sorti della Guerra dei Cent’anni si rovesciano. INGHILTERRA
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Guerra dei Cent’anni
LA VERSIONE DEL BARDO Nel primo atto dell’Enrico V, William Shakespeare dà voce all’arcivescovo di Canterbury, che cosí si pronuncia sulla legittimità delle rivendicazioni del re inglese al trono di Francia: «E allora datemi ascolto, signore mio sovrano e voi, Pari, votati, persona vita e servigi, al trono del vostro re. Un solo impedimento potrebbe opporsi alle vostre rivendicazioni sulla Francia, ed è la massima attribuita a Faramondo: “In terram salicam mulieres ne succedant”: “In terra salica non sia data alle donne successione al trono”. Ora, arbitrariamente identificano i francesi col reame di Francia quel “terra salica”; e ritengono Faramondo l’autore di quella legge che esclude le donne dalla successione. In chiari termini affermano peraltro i loro stessi giurisperiti che “terra salica” è il territorio tedesco sito tra i fiumi Sala e Elba dove Carlomagno, soggiogati i sassoni, si lasciò indietro un certo gruppo di francesi. I quali, avendo a sdegno le donne germaniche per certo loro malcostume e disonesta vita, sancirono quella legge nell’intento di escludere le donne dal trono in quella terra salica, che giace, come ho detto, tra l’Elba e il Sala: oggi denominata Meisen dai germanici. Appare pertanto manifesto che la legge salica non fu sancita per il reame di Francia, attesoché i francesi possedettero la terra salica non prima di quattrocentoventun anni dalla morte di re Faramondo considerato a torto autore di questa legge, e che morí l’anno di nostra salute 426; mentre Carlomagno soggiogò i sassoni e fondò la colonia francese sul Sala nell’805. Narrano inoltre i loro storici che re Pipino (il quale depose Cilderico) in qualità di erede universale in linea retta di Blitilde, figlia di re Clotario, avanzò pretese e titolo alla Corona di Francia. Lo stesso Ugo Capeto, che usurpò la corona di Carlo duca di Lorena – unico erede maschio in linea retta e del ceppo di Carlomagno – per dare una parvenza di legittimità a un titolo impuro e nullo al cospetto del vero, si presentò in qualità di erede di madonna Lingarda figlia di Carlomanno figlio di Luigi imperatore, figlio a sua volta di Carlomagno.
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Tavola raffigurante Enrico V realizzata per la raccolta delle opere di William Shakespeare illustrata da Henry Courtney Selous e pubblicata da Cassell & Co. 1865. Neanche Luigi X unico erede dell’usurpatore Capeto, si sentí di poter portare con tranquilla coscienza la corona di Francia prima di essersi accertato che la leggiadra regina Isabella sua nonna – discendente in linea retta da madonna Ermengarda, figlia del sullodato Carlo duca di Lorena – aveva, per diritto di matrimonio, riallacciato la sua discendenza da Carlomagno alla Corona di Francia. È pertanto chiaro come la luce del sole che il titolo di re Pipino, le pretese di Ugo Capeto, la pace della coscienza di re Luigi X, tutto appare legato a un diritto e titolo di erede femmina; e ciò sussiste pei re di Francia anche ai dí nostri, per quanto si sforzino di far valere questa legge salica contro il vostro diritto di discendente dalla linea femminile; e preferiscano impigliarsi in tutta una rete di pretesti, piuttosto che esporre alla luce i loro titoli sbilenchi usurpati a voi e ai vostri progenitori (...). Ricada la colpa sul mio capo, o temuto sovrano; ché nei Numeri è scritto: “Se muore il figlio maschio l’eredità passa alla figlia”. Scenda in campo, vostra grazia, a difendere il suo diritto. Spieghi al vento la bandiera del sangue; rivolga lo sguardo ai suoi gagliardi antenati! Andate, mio temuto signore, alla tomba del vostro bisavolo [Edoardo III] che vi trasmise i vostri titoli legittimi; invocate il suo spirito eroico e quello del vostro grande zio Edoardo il Principe Nero che sul suolo di Francia seminò la morte con la disfatta dell’intero esercito francese mentre il suo potentissimo padre, di sulla collina, contemplava seduto, sorridendo, il suo leoncello menar lo sterminio e la strage tra la nobiltà francese. O grandi inglesi che con metà delle loro forze bloccarono l’intero esercito dei francesi gonfi d’orgoglio; e lasciarono l’altra metà tutta fuor della mischia, seduta al fresco, a ridere!» (Enrico V, Atto primo, Scena seconda).
probabilmente indotta all’arte dalla madre Isabella, che dirigeva il marito Carlo VI alla stessa stregua di un fantoccio con il pretesto della di lui minorità psichica. Caterina trasmise la malattia mentale di suo padre a suo figlio, Enrico VI, il quale iniziò a dare i primi segni di squilibrio mentale proprio dal momento in cui finí la Guerra dei Cent’anni. Aquitania, Bretagna, Normandia, Picardia, Champagne e Borgogna entravano nella diretta amministrazione inglese; la stessa Île-de-France, con Parigi, era finalmente sotto l’influenza di Londra, nemmeno Enrico II l’aveva conquistata.
Una consacrazione irregolare
Nel 1422 morirono Enrico V (31 agosto) e Carlo VI (21 ottobre), per cui il figlio dell’Inglese, di otto mesi e ventitré giorni e sotto la reggenza del duca di Bedford, cinse entrambe le Corone. Tuttavia, come ha scritto Joseph Calmette, «gli inglesi non avevano osato far consacrare il loro re Enrico VI nella storica cattedrale [di Reims], che pure era in loro possesso». Allo spodestato delfino restarono le province centro-meridionali; gli armagnacchi lo convinsero a farsi incoronare in Bourges come Carlo VII (1422), sebbene egli stesso dubitasse del valo(segue a p. 106) In alto miniatura raffigurante le violenze che si consumarono in Francia durante la rivolta della Jacquerie, da un’edizione delle Chroniques de France ou de St. Denis. Fine del XIV sec. Londra, British Library. A sinistra miniatura raffigurante Riccardo II che, condotto prigioniero a Londra da Enrico IV Bolingbroke, è costretto ad abdicare, da un’edizione della Prinse et mort du roy Richart. 1401-1405. Londra, British Library.
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UNA GIORNATA MEMORABILE Nell’Enrico V di William Shakespeare vengono rievocate le vibranti parole con cui il sovrano spronò le sue truppe prima della battaglia di Azincourt: «Oggi è la festa di San Crispino; chi sopravvivrà e tornerà a casa sano e salvo, quando sentirà nominare questo giorno si alzerà sulla punta dei piedi e gonfierà il torace anche soltanto al nome di San Crispino. Chi avrà vissuto questa giornata, se vedrà gli anni tardi, ogni anno alla vigilia darà un banchetto ai suoi vicinanti e dirà: “Domani è San Crispino” e rimboccandosi la manica mostrerà le sue ferite e dirà: “Queste le ho prese alla giornata di San Crispino”. I vecchi dimenticano: e anche lui avrà dimenticato tutto, ma ricorderà gli atti compiuti in quella giornata fors’anche arrotondando un po’ le cifre... Saranno diventati, i nostri nomi, consueti alle labbra di tutti come nomi di famiglia: Enrico il re, Bedford ed Exeter, Warwick e Talbot, Salisbury e Gloucester torneranno vivi al ricordo tra quelle coppe traboccanti di spume: e questa storia il brav’uomo la conterà a suo figlio e Crispino e Crispiniano non tramonteranno mai, da quel giorno all’ultima ora del mondo. E anche noi saremo ricordati, noi, i pochi – i felicemente pochi – un manipolo di fratelli; perché chi oggi versa il suo sangue con me sarà per me un fratello. Chi fu di umile condizione fino a ieri, da oggi appartiene alla nobiltà; e i nobili d’Inghilterra rimasti a casa a dormire malediranno se stessi per non essere stati oggi qui; e sentiranno la loro nobiltà una nobiltà da due soldi, quando ascolteranno un uomo qualsiasi raccontare di aver combattuto con noi nella giornata di San Crispino» (Enrico V, Atto quarto, Scena terza).
Il mattino della battaglia di Azincourt, olio su tela di John Gilbert. 1884. Londra, Guildhall Art Gallery.
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Guerra dei Cent’anni IL TEMPO DEGLI «ARCHI LUNGHI» E DEI CANNONI La «Guerra dei Cent’anni» rappresentò una «rivoluzione» anche sul terreno degli armamenti e delle tattiche di combattimento, contribuendo all’affermazione di un modo nuovo di combattere, attraverso l’utilizzo massiccio di fanterie di lancieri e alabardieri, e anche di balestrieri e di arcieri. Pertanto, gli eserciti iniziarono a essere composti prevalentemente da fanterie e, progressivamente, si spezzò l’equazione nobiltà-virtú. Il valore militare cessò di essere una componente esclusiva del mondo aristocratico-cavalleresco, diventando appannaggio di grandi «masse umane di manovra». La composizione degli eserciti cambiò, e cosí la tattica. La cavalleria andò progressivamente perdendo la sua importanza originaria, mentre i suoi effettivi si ridussero di numero a vantaggio della fanteria. Sul campo di battaglia, la disposizione dei cavalieri fu riservata alla retroguardia e alle ali degli schieramenti, con funzione di esplorazione e disturbo delle schiere nemiche oltre che, in caso di ritirata o di sconfitta, di «copertura» dei fanti. Riguardo alla nuove armi, si pensi solo alla diffusione del longbow – l’«arco lungo» inglese, in legno di frassino – alto circa 2 m e di enorme potenza di lancio – 300 m circa – che aveva seminato morte tra la cavalleria francese sui campi di Poitiers e Azincourt,
re giuridico titolare, non essendo stato investito a Reims dell’alta autorità. I territori del re di Bourges erano soggetti alla pressioni inglesi, ma, com’era accaduto dopo il 1364, la monarchia fu aiutata dalla provincia, legata ai propri re. Il massimo esempio del sentimento popolare che esprimeva in forma religiosa i bisogni di natura politica e sociale fu quello dell’eroina nazionale Giovanna d’Arco (vedi box alle pp. 110-111), che risultò decisiva nella liberazione d’Orléans (8 maggio 1429) e nella battaglia di Patay (18 giugno).
Processo alla Pulzella
Carlo VII il Vittorioso venne finalmente consacrato a Reims il 17 luglio, presente Giovanna. La Pulzella fu catturata a Compiègne, il 24 maggio 1430, dai borgognoni, che per 10 000 scudi d’oro la vendettero agli Inglesi. Questi ultimi la condannarono al rogo a Rouen, il 30 maggio 1431, dopo averla «processata e giustiziata come strega» (Rinaldo Comba), ma la sua scomparsa non frenò la reattività francese. Attraverso la mediazione di papa Eugenio IV 106
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A sinistra ritratto di Enrico V, olio su tavola di scuola inglese. Fine del XVI-inizi del XVII sec. Londra, National Portrait Gallery. In basso miniatura raffigurante la battaglia combattuta a Le Mans nel 1424, durante il regno di Carlo VII di Francia, da un’edizione delle Vigiles de Charles VII di Martial d’Auvergne. 1484 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Nella pagina accanto, in basso miniatura raffigurante una battaglia combattuta su uno dei ponti sulla Senna, da un’edizione delle Chroniques de France ou de St. Denis. Fine del XIV sec. Londra, British Library.
scompaginandone le linee. Un vasto utilizzo ebbero anche i nuovi ritrovati dell’artiglieria militare – cannoni, bombarde e colubrine –, che fecero la loro prima comparsa nella battaglia di Crécy (1346). L’arco lungo, probabilmente di origine gallese, aveva una gittata pressoché uguale a quella della balestra, ma velocità di tiro e forza di penetrazione maggiori, il che spinse la tecnologia militare a migliorare le armature dei soldati che divennero sempre piú complesse e costose, tanto che, nel 1450, il costo di un’armatura completa era arrivato ad assorbire ben due mesi di paga. Durante tanti anni di guerra, la necessità di disporre di vaste riserve di uomini armati, per tempi lunghi, rese necessario il superamento del vecchio sistema di arruolamento feudale – l’arrière ban –, con il quale la mobilitazione dei soldati era limitata a non piú di quattro mesi, venendo poste le premesse per l’imposizione della «leva obbligatoria». Già Carlo VI di Valois, sull’esempio inglese, aveva stabilito che, in ogni distretto rurale, si procedesse ad arruolare arcieri che avrebbero dovuto costantemente «tenersi in allenamento» durante l’anno, anche attraverso l’organizzazione di appositi tornei e «gare con l’arco». Nel 1445, Carlo VII impose la costituzione di quindici «compagnie d’ordinanza», in servizio militare permanente, equipaggiate e stipendiate dalla Corona, composte ciascuna di 100 lance,
che divennero le unità basilari di ogni grande formazione militare. Ogni lancia era costituita da circa sei soldati, diversamente armati, in rappresentanza delle varie «specializzazioni professionali» in cui cominciava ad articolarsi il «mestiere delle armi». In genere, ogni lancia si componeva di tre cavalieri, uno armato pesantemente e gli altri due «alla leggera», e di tre fanti, ovvero arcieri, alabardieri e balestrieri e, piú tardi, fucilieri. In conseguenza di questa vasta ristrutturazione organizzativa delle truppe e del relativo armamento, e salvo la presenza di truppe mercenarie – le «compagnie di ventura» – gli eserciti divennero veramente «nazionali», rappresentativi, cioè, dell’intero corpo sociale della nazione. T. I.
In alto miniatura raffigurante la presa di una città da parte delle truppe di Edoardo IV d’Inghilterra, armate di longbow e cannoni, da un’edizione delle Anciennes et nouvelles chroniques d’Angleterre. 1470-1480. Londra, British Library.
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UN’EPOCA SENZA PACE Mentre si combatteva la Guerra dei Cent’anni, la Francia e l’Inghilterra furono travolte anche da terribili conflitti civili. In Inghilterra si affrontarono i Lancaster e gli York, entrambi con forti pretese sul trono, allora retto dall’incapace Enrico VI. La guerra imperversò per circa trent’anni (1455-1485), finché la battaglia di Bosworth Field, nel 1485, non diede il trono a Enrico VII Tudor, imparentato sia con i Lancaster che con gli York. In Francia si affrontarono il conte di Armagnac, Bernardo VII, e il duca di Borgogna, Giovanni senza Paura. La guerra civile prese nome dalle famiglie che ne furono protagoniste: armagnacchi e borgognoni. I primi si schierarono, contro gli Inglesi, con il re di Francia, mentre i secondi appoggiarono gli Inglesi e il loro re, Enrico VI. Il conflitto iniziò nel 1407, a seguito dell’uccisione del fratello di Carlo VI di Valois, Luigi, duca d’Orléans, a opera di Giovanni senza Paura. In tal modo, Giovanni mirava ad acquisire maggior potere a corte, ma non immaginava di dar vita a una serie interminabile di uccisioni, che sfociarono in una vera e propria guerra intestina. La morte di Luigi spinse il gran conestabile di Francia, Bernardo d’Armagnac, suocero del giovane Carlo d’Orléans, figlio di Luigi e suo erede, a vendicarne la morte, muovendo guerra a Giovanni. In un primo momento il conflitto, destinato a durare fino al 1435, vide in vantaggio il duca di Borgogna, che riuscí ad assassinare Bernardo e a occupare Parigi (1418). Con l’appoggio degli Inglesi, il ducato borgognone si ingrandí a spese del regno e dei Paesi limitrofi, incorporando Fiandre, Brabante, Limburgo, Hainaut e Franca Contea, raggiungendo il Mare del Nord. Nel 1419 Giovanni di Borgogna fu assassinato a Montereau, presso Parigi, da un sicario assoldato da Carlo VII, mentre il figlio, Filippo il Buono († 1467), assunse la guida del ducato e mosse guerra contro gli armagnacchi e il re. Solo nel 1435, la pace di Arras, stipulata tra i borgognoni e il re di Francia, pose fine al conflitto. In base all’accordo, il duca di Borgogna riconosceva legittimo sovrano di Francia Carlo VII e rinunciava ad appoggiare gli Inglesi, conservando l’integrità territoriale dei suoi domini. Da quel momento, inoltre, i borgognoni avrebbero combattuto contro gli Inglesi a fianco di Carlo VII e fino alla conclusione della guerra. La pace di Arras non concluse le faide nobiliari. Appoggiata dagli Inglesi, nel 1439, la Praguerie – una nuova ribellione aristocratica cosí detta dalla rivolta degli Hussiti praghesi – travolse la Francia, coinvolgendo anche il Delfino – futuro Luigi XI – nella ribellione contro il padre. Carlo VII, però, riuscí a domarla nel 1440. T. I.
(1431-47), Carlo VII si riconciliò con i borgognoni, e, con il trattato di Arras (21 settembre 1435), riconobbe l’indipendenza del ducato di Borgogna, Stato che comprendeva anche Fiandre, Brabante, Lussemburgo e Olanda: in cambio, il duca rompeva con l’Inghilterra. Le successive battaglie di Gerbevoy (1435), Formigny (1450) e Castillon decisero le sorti della guerra. Enrico VI fu privato del titolo di re di Francia nel 1436 in seguito agli avvenimenti succedutisi dopo la stipula del Trattato di Arras. Un mese e 18 giorni dopo il 29 maggio 1453 – data della caduta di Costantinopoli –, a Castillon, il 17 luglio, per la prima volta nella storia europea, l’uso del cannone si rivelò determinante, favorendo i Francesi che sconfiggevano definitivamente gli avversari: «Con la polvere pirica o da sparo caddero, infatti, le mura della città-stato e fu facilitato il sorgere delle grandi nazioni in Europa» (Achille Albonetti), che si vennero a formare cosí come le vediamo oggi quale «risposta diretta alle sanguinose guerre di religione dell’inizio del XVII secolo» (John Agnew). 108
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Il Crocifisso detto «di Bosworth», poiché sarebbe stato trovato sul luogo in cui, nel 1485, si combatté l’omonima battaglia, che pose fine alla Guerra delle Due Rose. Ante 1485. Londra, Society of Antiquaries.
A sinistra miniatura raffigurante l’ingresso dei borgognoni a Parigi, nel maggio 1418, da un’edizione delle Vigiles de Charles VII di Martial d’Auvergne. 1484 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France. In basso miniatura raffigurante il re Carlo VII in compagnia dei suoi dignitari e di Giovanna d’Arco, da un’edizione delle Vigiles du roi Charles VII. 1477-1483 Rouen, Bibliothèque municipale.
La guerra finí ufficialmente solo il 29 agosto 1475, con il trattato di Picquigny, dove Luigi XI il Prudente di Francia ed Edoardo IV d’Inghilterra siglarono la pace che poneva fine a un’epopea bellica di 138 anni. Agli Inglesi restò solo Calais, che persero nel 1558, riconquistata dalle truppe francesi del duca Francesco di Guisa (1519-63).
Gli esiti del conflitto
Come ha scritto Armando Saitta, dalla Guerra dei Cent’anni «la Francia usciva economicamente esausta, ma con una nuova coscienza nazionale e con una organizzazione burocratica e militare centralizzata; l’Inghilterra invece usciva corrosa da gravi crisi civili e costretta a trasformare la sua politica: espulsa quasi completamente dal continente, essa diveniva, anche politicamente un’isola, e iniziava la propria fortunata trasformazione in paese marinaro e commerciale». E da qui l’odio e l’indifferenza britannici per le «cose» europee, viste unicamente in guisa di vantaggio e non in maniera etico-unitaria.
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Guerra dei Cent’anni
D’altronde, nel corso del conflitto che poneva fine al Medioevo nella parte occidentale dell’ex impero romano «anche i contadini umili erano abbastanza agiati e ben nutriti e la percentuale di agricoltori era in aumento rispetto a quelli in condizione servile. Effettivamente, la Guerra dei Cent’anni comprende la maggior parte del periodo della emancipazione dei servi della gleba in Inghilterra», afferma Trevelyan. E noi sottolineiamo che furono proprio le «gravi crisi civili» a porre le condizioni di lunghissimo periodo allo sviluppo della classe operaia di quella che fu poi la rivoluzione industriale inglese di tre secoli dopo. La fine delle ostilità fece affiorare il senso della nazione e cosí venne meno il rapporto di sudditanza meramente formale fra il sovrano «unto del Signore» e il grande feudatario. Il feudalesimo continuò a permanere (sino alla Rivoluzione francese), ma inserito negli interessi dello Stato, ossia del re. La guerra aveva schierato, fra il 1337 e il 1453, a favore dei Valois: Aragona, Boemia, Castiglia, Geno-
va, Maiorca, Scozia; sul lato dei Plantageneti: Aquitania, Borgogna, Bretagna, Fiandre, Hainaut, Lussemburgo, Navarra, Portogallo e Sacro Romano Impero. Bisogna però tener conto dei momentanei cambiamenti di bandiera da entrambe le parti.
Un accordo ancora vigente
Per terminare, una curiosità. Nel corso dello scontro ultresecolare fu siglato un patto tuttora vigente: il Tratado de Aliança entre D. Fernando, duma parte, e Eduardo III de Inglaterra e o príncipe de Gales da outra, firmato a Londra il 16 giugno 1373. Sull’attuale validità ed efficacia di tale atto, scrive Vittorio A. Salvadorini: «Da notare la caratteristica della perpetuità del trattato; e se a qualcuno venisse in mente di irridere la condizione, basterà ricordare che il 12 ottobre 1943 Winston Churchill annunciava alla Ca-
EROINA, STREGA E SANTA Giovanna d’Arco resta ancora oggi un punto di riferimento importante nella storia dello sviluppo dell’identità nazionale francese. Tuttavia, scarse e incerte sono le notizie della sua infanzia. Nacque nel 1412 in una famiglia di contadini, a Domrémy, borgo della Lorena francese, da Jacques d’Arc e Isabelle Romée, e, fin dall’ età di tredici anni – secondo quanto dichiarò al processo a cui fu sottoposta – ebbe visioni mistiche dei santi Michele, Caterina e Margherita, che la spinsero a mettersi al servizio del Delfino, Carlo VII, per liberare la Francia dagli Inglesi. Incontratasi con il Delfino nel castello di Chinon, nella primavera del 1429, Giovanna persuase il re a inviarla a Orléans – da tempo sotto assedio inglese – con un’armata. Sebbene priva di qualsiasi carica militare che le conferisse potere sulle truppe, la donna galvanizzò i soldati con il suo ardore mistico, riuscendo a liberare dalla morsa inglese la città sulla Loira. Giovanna impose alle truppe un trattamento
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piú umano verso i civili e i prigionieri, bandí le prostitute e il turpiloquio, impose la messa e la confessione, cercando di «moralizzare» i combattenti. Dopo la liberazione di Orléans, la Pulzella – come fu chiamata per la sua «verginità» – guidò l’esercito in direzione di Reims, la conquistò e Carlo VII vi fu incoronato re di Francia. Tuttavia, la crescente popolarità, accompagnata da alcuni insuccessi militari contro gli Inglesi – Parigi non era stata ancora presa – creò a Giovanna molti nemici, soprattutto negli ambienti di corte e nelle alte gerarchie militari. Nel 1430, mentre combatteva sotto le mura di Compiègne, fu catturata dai borgognoni, che la vendettero agli Inglesi per 10 000 scudi, mentre Carlo VII non fece nulla per tentare di liberarla. Condotta prigioniera a Rouen, in Normandia, territorio occupato dagli Inglesi, Giovanna fu messa sotto processo e imputata di stregoneria, blasfemia ed eresia.
In alto particolare di un ritratto di Giovanna d’Arco, con indosso la corazza. 1485 circa. Parigi, Archives Nationales. A sinistra Giovanna d’Arco, armata di spada e con uno stendardo, in un disegno sul margine di una pagina dei registri del Parlamento di Parigi che contiene annotazioni sull’assedio di Orléans. 1428-1436. Parigi, Archives Nationales.
mera dei Comuni che, in forza del trattato stipulato nel 1373 fra Edoardo III d’lnghilterra e Ferdinando I di Portogallo, la Gran Bretagna aveva chiesto al governo di Lisbona di accordarle facilitazioni per la condotta della [seconda] guerra [mondiale] (si trattava dell’uso delle Azzorre, di cui gli Stati Uniti si sarebbero in ogni caso serviti, col consenso o meno del Portogallo); in effetti un trattato vecchio di 570 anni si faceva valere ancora, perché esso obbligava i due Paesi a “mutua e perpetua pace, amicizia, unione e alleanza”». Cosí come la polvere da sparo, ci ricorda Albonetti, pone fine al Medioevo, partorendo gli Stati nazionali, l’energia – dirompente o conservativa – diventa strumento di progresso, aggressione e difesa. Essa stessa determina cesure ed epoche storiche: moderna-industriale, contemporanea-nucleare, attraverso carbone, petrolio e atomo. La Guerra dei Cent’anni ha il merito di inventare la politica estera, scavalcare papato e impero e gettare Excalibur nel lago, segnando la fine dell’arma manuale.
Miniatura raffigurante la morte di John Talbot nella battaglia di Castillon, combattuta il 14 luglio 1453, da un’edizione delle Vigiles de Charles VII di Martial d’Auvergne. 1484 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
La competenza processuale ricadeva sul vescovo di Beauvais, Pierre Cauchon, nella cui diocesi era avvenuta la cattura di Giovanna e che, in quel periodo, si trovava a Rouen. Cauchon si adoperò per organizzare un autentico «processo farsa», in spregio a ogni garanzia giuridica dell’imputata, al fine di ottenere dai giurati – insigni teologi e canonisti – un verdetto di colpevolezza, fortemente voluto dagli Inglesi. Il processo si svolse in un clima di intimidazione e illegalità e si concluse con la sentenza di colpevolezza dell’imputata che, pertanto, venne condotta al rogo il 30 maggio 1431, nella Piazza del Mercato di Rouen. I suoi resti furono quindi dispersi nella Senna. Riconquistata la Normandia, nel 1450, Carlo VII si adoperò presso il papa, Callisto III (1455-1458), affinché il processo subisse una revisione, e la richiesta venne accolta: nel 1456 il procedimento giudiziario a carico di Giovanna venne annullato, assieme a tutte le accuse mosse contro di lei, mentre Cauchon – nel frattempo morto – fu scomunicato. Nel 1894 ebbe inizio il processo di beatificazione della Pulzella, conclusosi nel 1909, con pronuncia favorevole e, alcuni anni dopo, nel 1920, Giovanna venne ufficialmente dichiarata santa e patrona di Francia. T. I.
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Famiglie contro Nella seconda metà del Quattrocento, la rivalità fra i Lancaster e gli York innescò la «Guerra delle due Rose». Un conflitto trentennale, nel quale possiamo tuttavia riconoscere uno dei momenti fondanti dell’Inghilterra moderna di Tommaso Indelli
L
a Guerra «delle due Rose» (1455-1485), cosí denominata da quelle raffigurate nei blasoni delle due principali famiglie nobiliari coinvolte – rossa per i Lancaster e bianca per gli York – segnò, drammaticamente, la storia inglese del XV secolo. Fu una guerra civile, al pari di quella che, in Francia, piú o meno nello stesso periodo, opponeva Armagnacchi e Borgognoni (14071435), mentre il regno francese era anche alle prese con la guerra «dei Cent’anni» (1337-1453), che lo opponeva all’Inghilterra. La Guerra delle due Rose creò le premesse per la nascita dell’Inghilterra moderna e, pur con il suo strascico di morte, distruzione, intrighi politici e amorosi, assieme alla peste del 1348 e alla Guerra dei Cent’anni, può essere considerata un tassello importante di quella stagione nota come «autunno del Medioevo». Le sue cause vanno ricercate nelle pretese sul regno delle casate dei duchi di Lancaster e dei duchi di York, appartenenti entrambe alla dinastia franco-normanna dei Plantageneti, insediatasi in Inghilterra nel 1154, con l’ascesa al trono di Enrico II, figlio di Goffredo d’Angiò e della regina Matilde, nonché pronipote di Guglielmo il Conquistatore. I Lancaster e gli York discendevano, rispettivamente, dai due figli del re inglese Edoardo III: Giovanni di Gand, duca di Lancaster, ed 112
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Nella pagina accanto particolare di una tavola a colori degli inizi del Novecento in cui si immagina Enrico VI, con il suo seguito, alla battaglia di Barnet, che, combattuta nel 1471, fu uno degli scontri decisivi della Guerra delle due Rose. Collezione privata.
Ritratto di Enrico VI. Olio su tavola, XVI sec. Collezione privata. La sua reggenza fu condizionata dalla debolezza e dall’instabilità psichica.
Edmondo di Langley, duca di York. I primi avevano preso il potere nel 1399, con un «colpo di Stato» organizzato dal figlio di Giovanni di Gand, Enrico Bolingbroke. Questi, sbarcato in Inghilterra, dopo un lungo esilio (1399), depose il cugino, re Riccardo II, ucciso poco dopo (1400), e si fece proclamare re dal Parlamento, con il nome di Enrico IV. A lui successe Enrico V, alla cui morte, nel 1422, salí al trono suo figlio Enrico VI di Lancaster: l’erede era all’epoca ancora un infante e fu dunque designato solo formalmente, per assumere effettivamente il potere nel 1437. Enrico VI ereditò una situazione complicata, per le difficoltà in cui l’Inghilterra si dibatteva sul continente, insanguinato dalle ultime battaglie che portarono alla fine della Guerra dei Cent’anni. Soprattutto, fu una personalità debole, dominata dai consiglieri di corte e dalla moglie, la francese Margherita d’Angiò. Nella prima fase del suo regno il sovrano era stato succube degli zii paterni, Humphrey, duca di Gloucester, e Giovanni, duca di Bedford. Alla morte di Giovanni (1435), il duca di Gloucester
PAPI DEL MEDIOEVO
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prese il potere, finché non venne giustiziato per tradimento (1447), un’accusa poi rivelatasi infondata, formulata dal partito di corte favorevole alla guerra a oltranza contro la Francia. La fazione che auspicava la pace coi Francesi era capeggiata dalla regina Margherita e dal suo amante, William de la Pole, duca di Suffolk, assassinato nel 1450, mentre il regno sprofondava nel caos, a causa della guerra contro la Francia, della crisi economica, del malessere sociale che serpeggiava tra i ceti popolari e per la concomitante epidemia di peste. Tra il 1450 e il 1453 gli Inglesi furono sconfitti a Formigny e a Castillon, persero la Normandia e la Guascogna, conservando solo il possesso della città di Calais. Lo scontento, alimentato anche dall’eccessiva pressione fiscale, sfociò in una vasta rivolta, che coinvolse gran parte dell’Inghilterra sud-orientale, capeggiata da Jack Cade (1450). I rivoltosi arrivarono a occupare i sobborghi meridionali di Londra e sarebbero riusciti a far prigioniero lo stesso Enrico VI, se l’arcivescovo di Canterbury, John Kemp, non li avesse persuasi a desistere dalla ribellione. Cade fu catturato e giustiziato (1450), ma le sommosse continuarono, anche sotto l’impulso di nuovi fermenti ereticali che si rifacevano alle teorie elaborate, anni prima, da un teologo dell’università di Oxford, il prete John Wycliffe.
La prima fase (1455-1461)
Mentre la situazione generale del regno si faceva sempre piú difficile, Enrico VI subí un vero e proprio tracollo psicologico (1453), che degenerò in una vera e propria forma di demenza, che lo rese inadatto a governare. La guida dello Stato passò nelle mani del Consiglio reale e di Margherita d’Angiò, mentre alla carica di Lord Protettore, tutore legale del sovrano e reggente del regno, fu chiamato Riccardo, duca di York, da sempre avversario della regina Margherita e dei suoi favoriti. Il partito ostile al reggente, guidato dalla regina Margherita, era però molto influente a corte, e, nel 1455, profittando del fatto che il re aveva momentaneamente riacquistato la salute mentale, fece in modo che Riccardo fosse estromesso dalle sue funzioni. Al suo posto fu chiamato Edmondo Beaufort, duca di Somerset, avversario di Riccardo. Quest’ultimo reagí all’affronto, arruolò un esercito di sostenitori e, con il figlio Edmondo, conte di Rutland, sconfisse le truppe lealiste a Saint Albans, il 22 maggio del 1455. Il duca di Somerset morí in battaglia e Riccardo di York riottenne la carica di Lord Protettore fi114
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LE CASATE DEI LANCASTER E DEGLI YORK
Edoardo III
(1327-1377)
sposa Filippa di Hainault Edoardo, il Principe Nero, sposa Giovanna di Kent
Lionello, duca di Clarence, sposa (1) Violante Visconti (2) Elisabetta de Burgh
Riccardo II
(1377-1399)
sposa (1) Anna di Boemia figlia dell’imperatore Carlo IV (2) Isabella di Francia, figlia di Carlo VI di Francia
Filippa sposa Edmondo Mortimer
Ruggero Mortimer sposa Eleonora Holland
Enrico V (1413-1422) sposa Caterina di Francia, poi consorte di Owen Tudor, conte di Richmond Enrico VI
(1422-1461 e 1470-1471)
sposa Margherita d’Angiò Edoardo
Tommaso, duca di Clarence
Le date tra parentesi si riferiscono agli anni di regno
Tommaso, duca di Gloucester Giovanni di Gand sposa (1) Bianca di Lancaster (2) Catherine Swynford Enrico IV
(1399-1413)
sposa Maria di Bohun
Giovanni, duca di Bedford
Edmondo, duca di York, sposa Isabella di Castiglia
Riccardo, conte di Cambridge, sposa Anna, figlia di Ruggero Mortimer
Edoardo duca di York
Giovanni Beaufort, conte di Somerset, sposa Margaret Holland
Humphrey, duca di Gloucester
Riccardo, duca di York, sposa Cecily Neville
Giovanni, duca di Somerset, sposa Margaret Beauchamp Edoardo IV
(1461-1470 e 1471-1483)
Edmondo Tudor, conte di Richmond, sposa Margherita Beaufort
sposa Elisabetta Woodville
Enrico VII (1485-1509) sposa Elisabetta
Nella pagina accanto, in alto ritratto di Enrico IV. Olio su tavola, 1590-1620. Londra, National Portrait Gallery. Nella pagina accanto, in basso miniatura raffigurante la battaglia di Mortimer’s Cross e, in particolare, l’episodio secondo il quale Edoardo di York sarebbe stato spronato a battere i Lancaster dalla visione di tre Soli che si
Qui sotto Cardiff Castle. Particolare di una delle vetrate istoriate con il ritratto di Riccardo III. L’opera si deve all’architetto e designer William Burges (1827-1881).
Edoardo V (1483)
Riccardo III
(1483-1485)
Giorgio, duca di Clarence
Edmondo, conte di Rutland Riccardo, duca di York
univano a formarne uno solo. XV sec. Londra, British Library. Qui sopra ritratto di Enrico VII. Olio su tavola di anonimo olandese, 1505. Londra, National Portrait Gallery. Sulle due pagine i resti del Sandal Castle, presso Wakefield, scelto da Riccardo III come dimora e poi come base per le operazioni nei territori settentrionali durante la Guerra delle due Rose.
INGHILTERRA
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INGHILTERRA
Guerra delle due Rose
SKYE
Calais, ultimo possedimento inglese in Francia dopo la sconfitta nella guerra dei Cent’anni (1453)
REGNO
C Castelli dei Lancaster e loro vittorie
MULL
DI
C Castelli degli York e loro vittorie
SCOZIA
Spedizione di Enrico VII di Tudor e sconfitta degli York (1485)
Edimburgo
Situazione territoriale nel 1450
ISLAY Durham Bamburgh
ARRAN
Redesdale Tynedale Wark
Ulster
Warkworth Newcastle upon Tyne
Hexham 1464
Principali aree d’influenza dei Lancaster (Rosa rossa) Principali aree d’influenza degli York (Rosa bianca) Domini del duca di Clarence
Lumley Terre della Corona controllate Palatinato di Durham dai Lancaster Raby Confini di Contea (Inghilterra e Galles) Skelton Richmond Westmorland Bolton Y k hi Masham Yorkshire MAN Middleham York Spofforth Lancaster Dundalk Cawood Towton 1461 Wressel Palatinato Wakefield 1460 di Lancaster Irlanda Conisborough Sandal Lincoln Tickhill Dublino Rhuddlan Beaumaris Derby Bolingbroke Conway Chester Newark Tattershall Newcastle under Lyme Belvoir Castle Rising Blore Heath Tutbury 1459 Leicester Norfolk Caister Marche del Galles Ludford Stokesay Bedford Kenilworth Bridge Wingfield Mortimers Palatinato Cardigan 1459 Warwick Suffolk Cross Northampton Framlingham di Pembroke Edgecote Tewkesbury 1461 1460 St. Davis 1469 Skenfrith Cambridge Kidwelly Abergavenny 1471 Milford Haven Oxford 1455 1461 Pleshey Caerphilly Usk Essex Pembroke Barnet 1471 Swansea Wallingford Ogmore Londra Windsor Wiltshire Cardiff Leeds Reigate Farnham Surrey Kent Dover Somerset re Sussex shi Salisbury p Tiverton m Calais Herstmonceux Ha Devon Dorset Portchester Steyning Pevensey Okehampton Carisbrooke REGNO Corfe Cornwall Compton Carlisle Cumberland Appleby
DI
FRANCIA
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INGHILTERRA
Nella pagina accanto cartina che illustra la situazione politica della Gran Bretagna al tempo della Guerra delle due Rose e i principali eventi legati al conflitto. A destra pagina miniata in cui compare un ritratto di Richard Neville, conte di Warwick, il Kingmaker, in armatura. Fine del XV sec. Londra, British Library. In basso miniatura raffigurante re Edoardo IV con Elisabetta Woodville e i figli che riceve in dono una traduzione dei Detti dei Filosofi. 1477 circa. Londra, Lambeth Palace Library.
no al 1459, quando la guerra riprese, dopo il fallito accordo di pacificazione del 1458, promosso dalla regina. Gli schieramenti erano ormai chiari. Da una parte i duchi di Lancaster, con il vecchio re, spalleggiato dalla moglie e da alcune delle piú prestigiose famiglie dell’aristocrazia – i de la Pole, duchi di Suffolk, i Beaufort, duchi di Somerset, i Percy, conti di Northumberland – dall’altra i duchi di York, che potevano vantare sostenitori altrettanto prestigiosi, come i Neville e le loro varie articolazioni parentali, tra cui i duchi di Kent, i marchesi di Montagu, i conti di Salisbury e di Warwick. Nel 1459, i sostenitori di Enrico VI furono sconfitti a Blore Heath (23 settembre), ma riguadagnarono terreno nella successiva battaglia di Ludford Bridge (12 ottobre). Gli yorkisti si ritirarono in parte in Irlanda, sotto la guida di Riccardo e del figlio Edmondo, e in parte a Calais, sotto la guida degli altri figli del duca di York, Edoardo, Giorgio e Riccardo, e di Richard Neville, conte di Warwick e governatore di Calais. L’anno successivo si ebbero gli scontri decisivi. Il 10 luglio, a Northampton, gli yorkisti sconfissero i Lancaster, facendo prigioniero re Enrico, che venne rimesso sul trono, sotto la reggenza di Riccardo di York, ma il Parlamento dovette approvare un decreto – l’Act of Accord – con il quale si stabiliva che, alla morte di Enrico VI, la corona sarebbe andata a Riccardo, mentre Edoardo di Lancaster, figlio di Enrico e principe del Galles, avrebbe dovuto rinunciarvi, in quanto figlio illegittimo di Margherita d’Angiò e del suo favorito, il duca di Suffolk (fatto di cui non esistono prove). Margherita, offesa dalla grave accusa, riuní le sue forze, attaccò gli yorkisti a Wakefield (30 dicembre del 1460), e inflisse loro una pesante sconfitta.
La seconda fase (1461-1471)
Nella battaglia di Wakefield le forze yorkiste erano state sbaragliate: Riccardo di York e suo figlio Edmondo, conte di Rutland, avevano trovato la morte, e la stessa sorte era toccata a uno dei piú importanti sostenitori del partito yorkista, nonché cognato di Riccardo, Richard Neville, conte di Salisbury. La guida della fazione passò ai figli del duca di York: Edoardo, conte di March e, poi, duca di York, aspirante al trono d’Inghilterra, Giorgio, duca di Clarence, e Riccardo, duca di Gloucester. L’esercito venne invece affidato a Richard Neville (figlio e omonimo del Richard Neville INGHILTERRA
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INGHILTERRA
Guerra delle due Rose Westminster dall’arcivescovo di Canterbury e cancelliere del regno, Thomas Bourchier. Nel 1465 Enrico venne infine catturato e rinchiuso nella Torre di Londra, mentre Margherita d’Angiò, col figlio, trovò rifugio in Francia, alla corte di Luigi XI di Valois. Fino ad allora, il partito dei Lancaster aveva continuato a creare problemi, fomentando insurrezioni in Irlanda e ai confini con la Scozia. Nel frattempo, Edoardo IV metteva ordine nella sua vita sentimentale creando, però, le premesse per una serie di tensioni politiche che, di lí a poco, esplosero drammaticamente. Nel 1464, sposò Elisabetta Woodville, esponente della gentry, piccola nobiltà di campagna, per giunta lancasteriana. Affascinato dalla bellezza della giovane, Edoardo la portò all’altare e ne fece la regina d’Inghilterra l’anno successivo, in Westminster.
Nozze senza giubilo
caduto a Wakefield, n.d.r.), conte di Salisbury e, per via del matrimonio con l’ereditiera Anne de Beauchamp, conte di Warwick, meglio conosciuto come Kingmaker, «creatore di re». Edoardo e il conte di Warwick erano peraltro cugini, perché Cecily Neville, zia del Kingmaker, aveva sposato il padre del duca. Riorganizzatisi dopo la sconfitta patita a Wakefield, gli yorkisti attaccarono l’esercito nemico il 2 febbraio 1461, a Mortimer’s Cross, e, il 17 febbraio dello stesso anno, a Saint Albans, ottenendo, rispettivamente, una vittoria e una sconfitta. Dopo la battaglia di Mortimer’s Cross, Edoardo di York prese Londra (9 marzo 1461) e, qualche settimana piú tardi, il 29 marzo, annientò le forze nemiche a Towton, in una delle battaglie piú sanguinose della guerra. Sul campo rimasero piú di 20 000 morti; Enrico VI di Lancaster fuggí in Scozia con la moglie Margherita d’Angiò e il principe del Galles, Edoardo, al fine di riorganizzare l’esercito e opporre resistenza ai rivali. Nel maggio dello stesso anno Edoardo si fece incoronare re a 118
INGHILTERRA
Miniatura raffigurante la battaglia di Barnet. XV sec. Gand, Biblioteca Universitaria.
Il matrimonio produsse non pochi malumori a corte, sia per le origini modeste della donna, sia perché la regina brigò per assicurare feudi, ricchezze e vantaggiosi matrimoni allo stuolo interminabile dei suoi parenti. Elisabetta pretendeva di occuparsi anche degli affari del regno e favorí i matrimoni delle sorelle e dei fratelli con importanti esponenti dell’aristocrazia inglese, come i duchi di Kent e i conti di Essex. A corte, i principali avversari della regina erano Cecily Neville, la regina madre, e Riccardo, conte di Warwick. Quest’ultimo avrebbe voluto che re Edoardo sposasse una principessa della casa reale francese, e non approvò nemmeno il matrimonio della sorella di Edoardo, Margherita di York, con il duca di Borgogna, Carlo il Temerario, principale avversario del re di Francia, Luigi XI. Pertanto Warwick si ribellò nel 1469 e cercò di estromettere Edoardo dal potere, contando sull’appoggio del fratello del re, Giorgio di Clarence, a cui diede in moglie la figlia, Isabella, e che candidò al trono d’Inghilterra. La ribellione scoppiò mentre Warwick spargeva la voce di una presunta illegittimità di Edoardo IV, perché concepito dalla regina madre con un oscuro arciere, sir Blaybourne. In questi terribili frangenti, il re ebbe sempre l’appoggio di suo fratello, Riccardo di Gloucester, che non si fece coinvolgere nella cospirazione. Sconfitto a Edgecote Moor, Edoardo fuggí nelle Fiandre, ma, poco dopo, tornato in Inghilterra, recuperò la situazione a suo vantaggio, perdonando Warwick e il fratello Giorgio. Nel frattempo, il disagio a corte era diventato sempre piú forte perché, durante la ribellione, Warwick
aveva catturato e fatto mettere a morte, a Kenilworth, il padre della regina, sir Richard Woodville, e uno dei suoi fratelli, John. Nel 1470, scoppiò una nuova rivolta, nel Lancashire, guidata dal conte di Warwick, il quale, sconfitto, fuggí a Calais, con Giorgio di Clarence. Con l’appoggio di re Luigi XI, Warwick arruolò un esercito e si alleò con Margherita d’Angiò, moglie di Enrico VI di Lancaster, prigioniero nella Torre di Londra. I rivoltosi intendevano sbarcare in Inghilterra, deporre Edoardo e rimettere sul trono Enrico
VI. A garanzia del progetto politico, Anna, la figlia piú giovane di Warwick, fu data in sposa all’erede al trono Lancaster, il principe del Galles, Edoardo, e il matrimonio si celebrò nella cattedrale di Angers.
Enrico riprende la corona
Sbarcato in Inghilterra, il Kingmaker ebbe ragione delle truppe yorkiste, occupò Londra e liberò Enrico dalla prigionia, reinsediandolo sul trono (ottobre 1470). Edoardo fuggí in Borgogna dove ottenne aiuti dal cognato, Carlo il
La pianta della Torre di Londra disegnata nel 1597 da William Hayward e John Gascoigne in una riproduzione settecentesca. La struttura fu a lungo utilizzata anche come carcere e comprendeva un’area in cui veniva allestito il patibolo per le esecuzioni. INGHILTERRA
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Guerra delle due Rose
QUANDO LA GUERRA SI COMBATTE A TEATRO La Guerra delle due Rose fa da sfondo ad alcuni dei piú interessanti e suggestivi drammi storici di William Shakespeare, ispirati a eventi, istituzioni e personaggi della storia inglese. Il drammaturgo visse in età elisabettiana (1558-1603), nel periodo di massimo fulgore e sviluppo della dinastia Tudor, salita al potere dopo la trentennale guerra civile tra Lancaster e York. A quei fatti sono ispirati l’Enrico VI e il Riccardo III – scritti tra il 1588 e il 1594 – a cui sono da aggiungere il Riccardo II, l’Enrico IV e l’Enrico V, composti tra il 1594 e il 1599. Queste opere sono note anche come Ciclo della Guerra delle due Rose, anche se non vi è prova che fossero state concepite proprio come appartenenti a un ciclo e destinate a essere rappresentate in sequenza cronologica. La Guerra delle due Rose è peraltro argomento solo dell’Enrico VI e del Riccardo III, che narrano della guerra civile e del recupero dell’ordine sociale dovuto a Enrico VII Tudor. Shakespeare era consapevole del fatto che il conflitto aveva rappresentato la fine del Medioevo inglese, un intero mondo di valori fondato sul senso dell’onore, ma anche sull’esaltazione della forza bruta e del potere. Il 1485 appariva come un vero e proprio spartiacque tra epoche diverse, tra il dispotismo sanguinario dei Lancaster e degli York e quello «legale» dei Tudor, fondato sulla «ragion di Stato» e su una burocrazia articolata, lontano dall’anarchia nobiliare e dall’idea della «consacrazione divina» dei sovrani inglesi medievali. Nei drammi shakespeariani è chiaramente percepibile un’apologia del regno dei Tudor, ma essa non scade mai nel servilismo, perché l’autore seppe intercettare ansie,
Temerario, e tornato in Inghilterra, nella primavera del 1471, si preparò a riconquistare il trono. Nel frattempo, Giorgio di Clarence aveva tradito Warwick e si era alleato col fratello, Edoardo di York. Lo scontro con le truppe di Warwick avvenne il 14 aprile del 1471 a Barnet. Warwick fu sconfitto e ucciso in battaglia, mente il resto dell’esercito dei Lancaster si riorganizzava sotto la guida di Edoardo di Galles e di Margherita d’Angiò, preparandosi allo scontro decisivo che si svolse il 4 maggio, a Tewkesbury, che fece registrare la pesante sconfitta dei lancasteriani. Il principe del Galles fu ucciso, mentre la madre venne fatta prigioniera e condotta nella Torre di Londra, dove rimase fino al 1485, quando, riscattata dal re di Francia, tornò in patria. Poco dopo la battaglia di Tewkesbury, Enrico VI, prigioniero nella Torre, fu ucciso, quasi certamente per mano degli stessi York. Enrico fu, senza dubbio, una «figura tragica», al di là della descrizione fatta da William Shakespeare 120
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timori e problematiche politiche del presente elisabettiano, proiettandoli nel passato dell’Inghilterra del XV secolo. È la passione per il potere a dominare i drammi storici shakespeariani, è la brama di dominio, la volontà di affermare se stessi, a rappresentare la molla della storia. Basta guardare ai personaggi del ciclo: Enrico IV fa uccidere Riccardo II, versando il sangue della sua famiglia, e altrettanto fa Riccardo III, uccidendo i nipoti e calpestando le leggi umane e divine. Entrambi sono dominati dall’ambizione, anzi Riccardo III è l’immagine del demone per eccellenza, inebriato dalla lotta per la conquista del «potere» e venendone infine travolto. In questa galleria di personaggi, la figura di Enrico V sembra salvarsi dalla dannazione: esempio di re pio, una sorta di «ideal king», è solo una breve parentesi nel succedersi degli eventi, e la tragica fine del suo successore, Enrico VI, dimostra che la nemesi storica non conosce ostacoli. Per quanto non desiderasse diventare re, detestasse il fasto di corte e non gli si potessero attribuire delitti, finí vittima della «maledizione Lancaster». Se con Enrico V, l’Inghilterra sembrava aver raccolto continui trionfi, sotto Enrico VI, il regno inglese venne travolto dalla sconfitta militare, dalla sovversione sociale e dalla guerra civile. La struttura dei drammi shakespeariani rimanda a una concezione non lineare, ma ciclica del divenire storico, secondo un meccanismo di peccato, punizione, redenzione. Non c’è speranza di un miglioramento della condizione umana, perché tutto è dominato dalle malsane passioni, dalla forza, dall’ambizione. La storia tende sempre a ripetersi nella vita dei singoli, come in quella delle nazioni.
nell’omonimo dramma che, con il Riccardo III, rappresenta un’amara riflessione sul significato del potere e sul suo potenziale distruttivo, a cui fa da sfondo il trentennale conflitto tra Lancaster e York (vedi box in questa pagina).
Nobilissimo lignaggio
Con l’uccisione di Enrico VI, i pretendenti Lancaster alla corona d’Inghilterra erano scomparsi, tranne Enrico Tudor, conte di Richmond, di origine gallese, che vantava ottime aspettative sul trono perché era un discendente della casata, imparentato con l’ultima dinastia. Figlio di Margherita Beaufort ed Edmondo Tudor, conte di Richmond, Enrico, dopo la morte prematura del padre, venne affidato dalla madre per la sua educazione, anche militare, allo zio paterno, Jasper Tudor, conte di Pembroke. Margherita Beaufort era discendente di Giovanni di Gand, quartogenito del re Edoardo III, mentre Edmondo Tudor, era figlio di Caterina di Valois, figlia del re di Francia, Carlo VI il Fol-
David Garrick, il piĂş grande attore teatrale inglese del Settecento, nel Riccardo III di William Shakespeare. Olio su tela di William Hogarth. 1741. Liverpool, Walker Art Gallery.
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Guerra delle due Rose
le, e regina di Inghilterra, in quanto già moglie di Enrico V e madre di Enrico VI. Il nonno paterno di Enrico era un oscuro scudiero di corte gallese, Owen Tudor di Pembroke, partigiano lancasteriano, caduto durante la guerra civile (1461). Alla morte di Enrico V, Owen si era fatto largo a corte e aveva iniziato una relazione con l’ex regina, Caterina di Valois, ma non ci sono prove che l’abbia poi sposata. Sta di fatto che l’ex regina aveva bisogno di un permesso del consiglio reale per contrarre un nuovo matrimonio, che non ottenne mai, e quando la relazione con Owen Tudor divenne nota (1436), suscitò uno scandalo. Caterina si chiuse – o venne rinchiusa – nell’abbazia di Bermondsey, dove morí nel 1437. Il re Enrico VI legittimò i fratellastri Edmondo e Jasper, attribuendogli, rispettivamente, il titolo di conte di Richmond e di Pembroke. Il giovane Enrico Tudor era, quindi, nipote di Enrico VI. La guerra civile tra Lancaster e York condizionò la vita del piccolo, il quale, all’indomani della
A destra Sanctuary, olio su tela di Richard Burchett. 1867. Londra, Guildhall Art Gallery. Nel dipinto si immaginano i lancasteriani che, per sfuggire a Edoardo di York, gettatosi al loro inseguimento, si sono rifugiati nell’abbazia di Tewkesbury. In basso ritratto di Riccardo III. Olio su tavola attribuito al cosiddetto Maestro Sheldon, metà del XVI sec.
UNA FAMA SINISTRA, MA (FORSE) IMMERITATA La personalità di Riccardo III risulta realmente enigmatica e non è possibile ricostruirla sulla base dell’immagine tramandataci da William Shakespeare moltissimi anni dopo. Essa risente delle «deformazioni» dovute alla propaganda di Enrico VII Tudor, dei suoi successori, e alla creatività artistica del drammaturgo inglese che visse durante il regno di Elisabetta Tudor. Nel Riccardo III, la figura del Lord Protettore incarna il potenziale diabolico e corruttore del potere. Nella stesura del dramma, Shakespeare attinse alla biografia di Riccardo di Gloucester, scritta, anni prima, dal cancelliere del regno, Thomas More, condizionata, nel giudizio sul duca di Gloucester, dal funzionario reale fedele alla dinastia Tudor. Riccardo – crookback, il «gobbo» – è, nella sua stessa deformità fisica, l’emblema del male, dell’ingiustizia, della prevaricazione. L’obiettivo dell’autore è chiaro: soddisfare le esigenze drammatiche e allinearsi alla propaganda politica Tudor.
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La scoperta dei suoi resti ossei, avvenuta nel 2012 a Leicester – presso il luogo in cui combatté la sua ultima battaglia – sotto le fondamenta della chiesa francescana di Greyfriars e l’analisi del DNA dello scheletro e della struttura dentaria, effettuata presso i laboratori dell’Università di Leicester, hanno confermato la presenza di una scoliosi idiopatica, sviluppatasi durante l’adolescenza, ma tale da non deformare l’immagine fisica del sovrano. In realtà, Riccardo III non fu piú malvagio di molti suoi contemporanei, ma rappresentò l’ultima figura di re inglese autenticamente medievale. La sua morte in battaglia, sopraggiunta mentre tentava di difendere, da cavaliere, la corona, fu l’ultima personificazione del monarca inglese come «fiore della cavalleria». Le spoglie di Riccardo III hanno trovato sepoltura definitiva nella cattedrale di Leicester, dopo i funerali solenni officiati il 29 marzo 2015 da Justin Welby, arcivescovo di Canterbury.
battaglia di Towton, vinta dagli yorkisti (1461), fu sottratto allo zio Jasper e affidato a un cavaliere fedele a Edoardo di York, sir William Herbert, che ottenne anche la contea di Pembroke. Jasper Tudor fuggí in Bretagna, per tornare nel 1470, quando Enrico VI venne rimesso sul trono ma, dopo la battaglia di Barnet, che consacrò la vittoria della causa yorkista (1471), fu costretto a fuggire di nuovo in Bretagna. Portò con sé anche Enrico Tudor e lí rimasero, entrambi, ospiti del duca Francesco II, fino al 1485. La madre di Enrico, Margherita Beaufort, si trasferí a corte dove serví come dama della regina, ma non smise di tessere intrighi a favore del figlio e a danno degli York. Dopo la morte di Edmondo Tudor, contrasse altri due INGHILTERRA
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Guerra delle due Rose
vantaggiosi matrimoni con membri dell’aristocrazia inglese. Il primo con Henry Stafford, conte di Stafford, il secondo con Thomas Stanley, conte di Derby e gran conestabile di Edoardo IV di York. Per garantire il potere al figlio era necessario disporre di risorse e di alleanze, e Margaret ne era consapevole.
L’epilogo (1471-1485)
Nel 1471, consolidato il suo potere in Inghilterra, Edoardo IV regnò fino alla morte e i suoi ultimi anni furono piuttosto tranquilli. Nel 1474 il re stipulò un trattato, a Utrecht, con la Lega Anseatica, relativo ai privilegi fiscali e alle immunità di cui la Lega godeva in Inghilterra e che furono confermati dopo una breve guerra marittima (1469-1474). L’anno successivo, Edoardo volle rinverdire il prestigio delle armi inglesi, sbarcò a Calais e iniziò una nuova spedizione contro la Francia, in alleanza con il duca di Borgogna, Carlo il Temerario. Quest’ultimo si astenne dall’intervenire, preso com’era a incrementare le sue conquiste, e cosí Edoardo fu costretto a chiedere la pace a re Luigi XI. Il trattato di Picquigny pose fine alla Guerra dei Cent’anni, prevedendo il versamento, al re inglese, di una somma di 75 000 scudi e di una pensione annua di 50 000, oltre che la città di Calais, sulla Manica, di cui gli Inglesi si erano impossessati nel 1347 e che conservarono fino al 1559. Altri 50 000 scudi furono versati da Luigi XI per riscattare dalla prigionia Margherita d’Angiò, che rientrò in Francia, dove morí nel 1482. Edoardo e i suoi successori conservarono il titolo di «Dei gratia rex Angliae et Franciae» («Per grazia di Dio re di Inghilterra e di Francia») fino al 1803. Nel 1478, la scoperta di una nuova congiura ai danni di Edoardo causò la morte di suo fratello Giorgio, duca di Clarence, al quale il re, in fondo, non aveva mai perdonato il tradimento del 1469. I rapporti tra Edoardo e Giorgio si erano incrinati già nel 1472, quando il primo aveva acconsentito al matrimonio tra il fratello, Riccardo di Gloucester, e Anna Neville, figlia del conte di Warwick. Dopo la sconfitta dei lancasteriani e la morte del marito Edoardo (1471), Anna era stata affidata proprio alla tutela di Giorgio, consorte della sorella Isabella, erede del titolo di conte e dei beni paterni. Nel 1472, con la mediazione di Edoardo IV, si raggiunse un compromesso, in base al quale Riccardo sposava Anna, rinunciando a una fetta consistente dei beni che sarebbero spettati alla moglie. 124
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LA TRISTE FINE DEI «PRINCIPI DELLA TORRE» Poco dopo l’incoronazione di Riccardo III, di Edoardo e Riccardo, i «principi della Torre», non si seppe piú nulla e si diffuse la voce che fossero stati soppressi, per ordine dello zio, dal sovrintendente della Torre, sir James Tyrrell. Ancora oggi, questa è la versione ufficiale dei fatti. Nel 1674, durante i lavori di restauro nella Torre, furono scoperti due corpi appartenenti a fanciulli di età compresa tra i dieci e i quindici anni: vennero identificati con i figli di Edoardo, ma non è mai stato eseguito alcun esame scientifico su quei resti, sepolti piú tardi a Westminster. Sta di fatto che anche altri avevano interesse alla morte dei principi e, tra questi, Margherita Beaufort, madre di Enrico Tudor, forse da individuare come la vera mandante dell’assassinio, oppure lord Buckingham, a cui Riccardo aveva affidato la custodia dei principi.
Nel 1476, morí anche Isabella e Giorgio rifiutò la proposta del re di contrarre un nuovo matrimonio con la figlia del duca di Borgogna, suo cognato. Morto Giorgio, Edoardo dovette coinvolgere, negli affari di Stato, il fratello minore Riccardo, duca di Gloucester, al quale affidò il governo dei territori del Nord, con il compito di condurre una nuova guerra contro gli Scozzesi (1478-1482) che, guidati dal re, Giacomo III Stuart, si erano impossessati della città di Berwick-upon-Tweed. Edoardo fomentò una ribellione interna al regno di Scozia, guidata dal fratello del re, il duca di Albany: Berwick-uponTweed fu ripresa e anche Edimburgo venne occupata e devastata, dopodiché gli Inglesi siglarono un accordo che ristabiliva gli equilibri politici precedenti (1482).
Troppo giovane per essere re
Alla morte di Edoardo IV (1483), salí al trono il suo primogenito, il principe del Galles Edoardo V. Dal momento che il nuovo re aveva appena 13 anni, la reggenza venne affidata, secondo le disposizioni del re defunto, a Riccardo di Gloucester, investito dal Parlamento della carica di Lord Protettore (vedi box alle pp. 122-123). Riccardo si preoccupò di garantire l’incolumità del piccolo Edoardo e del fratello, Riccardo di Shrewsbury, facendoli trasferire nella Torre di Londra, in attesa della cerimonia solenne dell’incoronazione del primo, a Westminster. Nel frattempo, il Lord Protettore dovette fronteggiare un tentativo insurrezionale, fomentato dal fratello della regina Elisabetta – Antony Woodville – e dal figlio di primo letto della stessa, Riccardo. Catturati, i due furono giustiziati per alto tradimento, mentre la regina trovava rifugio, con gli altri figli, nell’abbazia di Westminster. Riccardo venne poi a sapere che il matrimonio di Edoardo con Elisabetta non era valido, se-
I figli di Edoardo, olio su tela di Paul Delaroche. 1830. Parigi, Museo del Louvre. Nel dipinto si immaginano Edoardo V e il fratello Riccardo che, rinchiusi nella Torre di Londra, attendono il momento in cui saranno giustiziati.
condo la legge canonica, perché al tempo della presunta celebrazione il re era fidanzato con Eleanor Talbot, già vedova di sir Thomas Butler, conte di Shrewsbury. La denuncia fu fatta da Robert Stillington, vescovo di Bath, il quale asserí di essere stato il prete officiante le nozze. Poiché, secondo il diritto canonico dell’epoca, gli sponsali equivalevano a un vero e proprio «accordo prematrimoniale», re Edoardo risultava essere bigamo! Riccardo convocò il Parlamento per far appro-
vare un decreto – il Titulus Regius – con il quale, considerate nulle le nozze di Edoardo con la Woodville, i «principi della Torre» erano dichiarati illegittimi e privati della successione al padre. Nel luglio del 1483 il duca di Gloucester si fece incoronare re, a Westminster, dall’arcivescovo di Canterbury, Thomas Bourchier. Poco dopo l’incoronazione, dei «principi della Torre» non si seppe piú nulla, mentre si diffondeva il sospetto che fossero stati soppressi per ordine dello zio (vedi box in queste pagine). INGHILTERRA
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Guerra delle due Rose
«IL MIO REGNO PER UN CAVALLO!» A Bosworth Field, Riccardo aveva a disposizione circa 10 000 uomini, rispetto ai 5000 del suo avversario, male armati ed equipaggiati, ma le sorti della battaglia furono determinate dal tradimento di alcuni dei suoi sostenitori, tra cui sir Henry Percy, conte di Northumberland, comandante della retroguardia, e sir Thomas Stanley, conte di Derby, terzo marito di Margherita Beaufort, che assieme al fratello, William, negò aiuto a Riccardo, nonostante suo figlio, George, fosse prigioniero del re. Riccardo III fu ucciso da un colpo al cranio sferrato da un alabardiere gallese e ciò sarebbe confermato dagli esami effettuati sul corpo, dopo il ritrovamento. In ogni caso è poco probabile che Riccardo, prima di morire, disarcionato dal suo destriero, abbia pronunciato la frase attribuitagli da Shakespeare, nel Riccardo III, «Un cavallo, un cavallo, il mio regno per un cavallo!», né cercò di fuggire, ma affrontò eroicamente la morte.
Nel 1483 furono scoperte altre due congiure, entrambe represse nel sangue. La prima fu ordita dal barone di Hastings – William Hastings – l’altra dal duca di Buckingham – Henry Stafford – che venne arrestato e giustiziato. Nella prima, a quanto sembra, era coinvolta anche Jane Shore, l’amante di Edoardo IV. La donna fu arrestata e liberata solo dopo la fine della dinastia York (1485).
Nella pagina accanto litografia a colori in cui si immaginano gli istanti successivi alla morte di Riccardo III, che cadde combattendo a Bosworth.
Bosworth Market Near Coton
La continuità della stirpe
Nel frattempo, la vita familiare di Riccardo si complicava, perché il re perse il figlio Edoardo, principe del Galles (1484), e l’anno successivo la moglie, Anna Neville. Nel 1485, si diffusero voci che ne minarono ulteriormente la credibilità e la reputazione. Si vociferava di una presunta relazione sessuale del re con la nipote, Elisabetta Woodville, e del fatto che Riccardo intendeva sposarla per garantire continuità alla sua stirpe, ma anche per ricostituire il legame politico e familiare con la cognata, la regina Elisabetta, che, nel frattempo, era ritornata a corte. Intanto, la vedova di re Edoardo cominciò a tessere trame con lady Margherita Beaufort, madre di Enrico Tudor, potenziale erede al trono inglese. Nell’estate del 1485, Enrico sbarcò nel Galles, a Milford Haven, arruolò un esercito tra i suoi sostenitori e marciò contro Riccardo. Lo scontro avvenne presso Leicester, a Bosworth Field, il 22 agosto del 1485, e Riccardo fu sconfitto e ucciso (vedi box in queste pagine). Enrico VII, cosí, iniziò il suo regno, schiudendo le «porte della modernità» alla storia inglese (vedi box alle pp. 128-129). Il re annunciò il suo fidanzamento con la figlia di Edoardo IV, Elisabetta di York, che sposò l’anno successivo.
Il matrimonio fu felice, allietato da molti figli, e con questa unione Enrico univa il suo sangue a quello degli York, la dinastia spodestata. In tal modo, suggellava, nella sua persona, la fine della terribile guerra civile e volle che la rosa araldica Tudor fosse ornata di rosso, con un cuore bianco, a suggerire la fusione, nella nuova famiglia regnante, del sangue e del prestigio dei Lancaster e degli York. L’ex regina, Elisabetta Woodville, fu persuasa a ritirarsi nell’abbazia di Bermondsey, dove rimase fino alla morte (1492). Fu sepolta nella St. George’s Chapel, nel castello di Windsor, accanto al marito. Anche la «regina madre», Cecily Neville, vedova York, fu costretta a ritirarsi a vita privata, fino alla morte (1495). Enrico ricompensò lo zio, Jasper Tudor, nominandolo duca di Bedford e dandogli in sposa la sorella di Elisabetta Woodville, Caterina. Margherita Beaufort, madre di Enrico, che tanto si era prodigata per vederlo sul trono, fu chiamata a corte e si fregiò del titolo di regina madre. Nel 1496 si ritirò a vita privata, per poi tornare alla ribalta nel 1509, alla morte del figlio, come
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Campo di Riccardo III
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Whitemoors Posizione dei tre contingenti principali dell’esercito di Riccardo III: 1. Norfolk; 2. Riccardo III; 3. Northumberland
In questa pagina schema dei principali movimenti di truppa nel corso della battaglia combattuta a Bosworth il 22 agosto 1485.
Marcia dell’esercito di Enrico Tudor e principali posizioni delle sue truppe: 4. Talbot; 5. Oxford; 6. Enrico Tudor e John Savage; 7. Sortita di Enrico per attaccare le forze di Stanley Truppe di Stanley: 8. Thomas Lord Stanley; 9. Sir William Stanley Aree paludose Direzione della ritirata dei superstiti dell’esercito di Riccardo dopo la morte del sovrano
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Guerra delle due Rose
QUASI UNA RIVOLUZIONE Con la battaglia di Bosworth Field terminava la Guerra delle due Rose, che dissanguò le principali famiglie dell’aristocrazia inglese, a partire dai Lancaster e dagli York, per ridiscendere, lungo la piramide sociale, ai de la Pole, ai Beaufort, ai Neville. L’aristocrazia inglese fu annientata non solo dal punto di vista biologico, ma anche sotto il profilo economico-finanziario, tanto che buona parte di essa scomparve e i suoi feudi andarono a ingrossare il demanio regio. La nobiltà feudale risultò cosí indebolita da non poter opporre alcuna resistenza al potere regale dei Tudor, che andò sviluppandosi, sempre piú, sulla strada del centralismo politico-burocratico, fino alla fine della gloriosa dinastia (1603). L’antica nobiltà feudale venne soppiantata dalla gentry di provincia, spesso imparentata con famiglie di estrazione borghese e cittadina, legate alle attività produttive e commerciali. In tal modo si posero le premesse – anche in Inghilterra – cosí come avvenuto in Francia, per lo sviluppo di uno Stato fondato su un solido apparato burocratico e su un’aristocrazia basata sull’idea di «servizio» nei confronti del
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re, e non solo sul possesso di feudi, sul prestigio della genealogia nobiliare e sulla disponibilità di vaste risorse economiche e militari. La nuova nobiltà doveva al re fortune e prestigio, pertanto tendeva a essergli fedele, coadiuvandolo nell’amministrazione militare dello Stato e in quella civile. Dalla guerra scaturí un regime non piú fondato sui legami di fedeltà personale tra signore e vassallo, ma su un’articolazione amministrativa forte, centralizzata, con al vertice il sovrano. Con i Tudor, furono poste le basi per l’incorporazione del Galles, dell’Irlanda e della Scozia nel Regno Unito. Il fatto che Enrico VII fosse di origine gallese costituí un buon inizio, mentre in Irlanda, tra il 1494 e il 1495, fu usata la mano pesante con la popolazione locale, costretta ad accettare il dominio inglese. Il matrimonio della figlia di Enrico, Margherita, con il re scozzese creò le premesse perché, molti anni piú tardi, estintasi la dinastia Tudor (1603), un discendente di Enrico VII, Giacomo VI Stuart – I d’Inghilterra – potesse salire al trono inglese, unendo, sotto un’unica corona, Scozia e Inghilterra.
In questa fase, accanto alla figura del re, crebbe l’importanza, del Parlamento, organismo composto dalla Camera dei Lord (House of Lords), dove sedevano gli esponenti dell’aristocrazia laica ed ecclesiastica, e dalla Camera dei Comuni (House of Commons), formata dai rappresentanti delle contee del regno. La guerra civile, favorendo l’estinzione naturale di molte famiglie dell’alta nobiltà e il loro indebolimento finanziario, ebbe ricadute evidenti anche in ambito parlamentare, perché aumentò notevolmente il peso istituzionale della House of Commons, a discapito di quella dei Lords. Un cambiamento di equilibri politici significativo, che diede i suoi frutti in età Tudor. La libertà di movimento della Corona era limitata dal Parlamento – a tutto vantaggio della Camera dei Comuni – e nessuna legge, imposta, trattato o dichiarazione di guerra poteva essere decisa dal re e dai suoi ministri, senza consenso del Parlamento. Per quanto a un tragico prezzo, la storia dell’Inghilterra moderna aveva inizio.
A destra ritratto del re Enrico VII con la rosa dei Tudor, olio su tavola di scuola inglese, 1510-1520. Denver, Art Museum, The Berger Collection. Nella pagina accanto ritratto della famiglia di Enrico VII, sopra i cui componenti volteggia l’immagine di san Giorgio che annienta il drago. Olio su tavola di scuola fiamminga, 1505-1509. Royal Collection Trust. Il re e la sua consorte, Elisabetta di York, figurano ai lati dell’angelo e sono seguiti dagli eredi maschi e femmine.
esecutrice testamentaria dello stesso, e reggente per il giovane successore, Enrico VIII Tudor (1509-1547), ma morí poco dopo. Enrico VII si preoccupò di far annullare dal Parlamento il Titulus Regius del 1483, con cui veniva dichiarata illegittima la discendenza di Edoardo IV e della Woodville e, solo dopo quest’atto legale, sposò la figlia di Edoardo. Inoltre, decise di far eliminare due pericolosi pretendenti, Edoardo di Clarence, figlio di Giorgio, e Giovanni di Gloucester, figlio illegittimo di Riccardo III. Il primo, catturato dopo Bosworth, e tradotto nella Torre di Londra, fu giustiziato nel 1499, il secondo subí la stessa sorte nel 1485.
Ribellioni mancate
Durante il regno di Enrico VII si verificarono due importanti tentativi di insurrezione, che il sovrano riuscí però a reprimere. I promotori delle rivolte, Lambert Simnel e Perkin Warbeck, si spacciarono, rispettivamente, per Edoardo, duca di Clarence, figlio di Giorgio, e per Riccardo di Shrewsbury, uno dei due principi della Torre, presumibilmente fatti uccidere da Riccardo III. Sappiamo molto poco dei due cospiratori: il primo era quasi certamente inglese, mentre Warbeck aveva origini fiamminghe, essendo nato a Tournai. Essi cercarono di fare leva sul residuo partito yorkista e sul malumore, serpeggiante in Irlanda e nel Galles, contro la politica fiscale dei Tudor, ma fallirono entrambi.
Lambert Simnel fu catturato nel 1487, dopo essere stato battuto a Stoke-on-Trent, ma, dopo un breve periodo di prigionia nella Torre, fu liberato e serví come paggio, a corte, fino alla morte (1535). Warbeck venne catturato nel 1497 e, dopo un breve periodo di prigionia nella Torre, fu giustiziato (1499). Il fatto che Warbeck affermasse di essere Riccardo, figlio di Edoardo IV, dimostra come già all’epoca non vi fosse un’idea chiara di che fine avessero fatto i due principi. In ogni caso, con la salita al trono di Enrico VII, ebbe inizio, per chiari scopi politici, la demonizzazione della figura del duca di Gloucester, bollato come un «mostro», capace di ogni perfidia e iniquità. La stessa confessione del sovrintendente della Torre, sir James Tyrrell, di aver ucciso i principi, su mandato di Riccardo III, venne estorta con la tortura, in occasione del procedimento giudiziario intentato contro gli aderenti alla congiura del duca di Suffolk, a cui Tyrrell, presumibilmente, aveva partecipato, prima d’essere giustiziato (1502). INGHILTERRA
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VO MEDIO E Dossier n. 42 (gennaio/febbraio 2021) Registrazione al Tribunale di Milano n. 233 dell’11/04/2007
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