Medioevo Dossier n. 43, Marzo/Aprile 2021

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NEMICI PER SEMPRE. GUELFI E GHIBELLINI

N°43 Marzo/Aprile 2021 Rivista Bimestrale

GH GU IB ELF EL I E LIN I

MEDIOEVO DOSSIER

Dossier

Timeline Publishing Srl - Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c.1, LO/MI.

EDIO VO M E

NEMICI

PER SEMPRE GUELFI E GHIBELLINI,

STORIA DI UNA RIVALITÀ SENZA FINE

di Federico Canaccini



NEMICI PER SEMPRE

GUELFI E GHIBELLINI, STORIA DI UNA RIVALITÀ SENZA FINE di Federico

Canaccini Curzio Bastianoni e un’ intervista a Paolo Grillo

con contributi di Francesco Troisi e

PRESENTAZIONE 5. Essere di parte LE ORIGINI 6. Nella culla del male LE FAZIONI IN LOTTA 22. Il contagio CITTÀ DIVISE 38. L’Italia in fiamme 50. Dante: esule guelfo o ghibellino fuggiasco? I MERLI 54. Quando le mura scendono in campo EMBLEMI 64. Animali, santi ed eroi 80. Una provocazione studiata, intervista a Paolo Grillo LE BATTAGLIE 82. Montaperti 94. Benevento 102. Tagliacozzo 112. Colle di Val d’Elsa 118. Campaldino



ESSERE DI PARTE

«I

n qual parte saprestimi tu dire, dove sia piú dilettevole abitare che in Italia? La quale, dico, se non avesse questo vizio delle divisioni non credo che si potesse pareggiare in niuna parte:

‘chè Italia è troppo piacevole parte, per le delicatezze che ci si usa»: cosí parlava Bernardino da Siena,

dimostrando come il confronto politico tra le fazioni dei guelfi e ghibellini, associato prevalentemente all’età di Dante, turbasse ancora le coscienze di molti abitanti d’Italia alla metà del Quattrocento. Una lacerazione che induceva il futuro santo a tuonare in modo piú che veemente in piazza del Campo a Siena, contro coloro che parteggiano per le fazioni. «Guai, guai, guai a chi abita in terra divisa! E chi vi abita è come cieco e sordo». da scrivere, Poi, rivolgendosi direttamente agli astanti, Bernardino domandò: «Chi è colui che è cieco e Dida sordo? È colui che

rinvenuto nel 1877 a Decima di Gossolengo, Ciononostante, i nomi di questi due gruppi politici hanno attraversato i secoli e nei dibattiti politici italiani non nei pressi della cittàè poi emiliana. Databile cosí inusuale sentirli riapparire dai lontani secoli del Medioevo, a indicare una generalizzata rivalità. tra la seconda metà del II Nel 2005 l’onorevole Marco Taradash scriveva un articolo dal titolo Sí a scelte laiche, no alloe scontro gli inizi deltra Guelfi I sec. a.C.,Day. è un modello e Ghibellini; due anni piú tardi, Romano Prodi reiterava l’ammonimento all’indomani del Family Gian in bronzo del fegato di Enrico Rusconi, nel 2008, ripeteva il binomio, scrivendo del dialogo tra laici e cattolici italiani; nel 2009 poi, al una pecora sul quale riaccendersi del dibattito sull’opportunità di appendere o meno il crocefisso nelle aule scolastiche, un articolo sonoper definite caselle di recanti i nomi delle Christopher Duggan sul Corriere della Sera si scelse il sinistro titolo La maledizione dei Guelfi e Ghibellini. divinità del pantheon E, sempre nel 2009, Eugenio Scalfari, su la Repubblica, titolò Si riaccende lo scontro tra guelfi ghibellini. etrusco.eSimili modelli erano utilizzati dai sexy Nel 2012, è la volta del Resto del Carlino di Bologna, che nell’articolo Guelfi e Ghibellini, battaglia sulla sacerdoti che praticavano maestra, scomoda le fazioni, associandole a «permissivisti e tradizionalisti, coloro che, metaforicamente parlando, l’epatoscopia, cioè la chiedono la beatificazione di Michela (una maestra attenta all’estetica e con qualche ammiccante foto on line) e predizione del futuro basata appunto quelli che invocano il rogo. Anche in questo caso due sole possibilità: o bianco o nero». Mi fermo qui. sull’osservazione del Purtroppo, ai due termini, che tanto successo hanno avuto nella storia politica italiana, è toccatafegato. troppo spesso una

tiene di parte e fassi di parte o guelfo o ghibellino».

sorte piuttosto meschina – a quel che vediamo – finendo nel tritatutto dell’ovvio, dell’usato e dell’abusato. In realtà, osservando con maggiore attenzione, il binomio è andato incontro a una interessante e assai complessa evoluzione semantica che tenteremo qui brevemente di delineare. Se i guelfi e i ghibellini sono legati, almeno nell’immaginario collettivo, seppur ormai di un certo livello culturale, alle vicende del XIII secolo ed eternati dalle parole del guelfo bianco Dante Alighieri – suo malgrado Ghibellin fuggiasco secondo Ugo Foscolo nel suo Dei Sepolcri –, Bernardino tuonava in Toscana e in Lombardia su questo soggetto, richiedendo l’eliminazione dei due epiteti ed esclamando a chiare lettere che «chi ha tenuto parte o guelfo o ghibellino, a casa del Diavolo va, se cosí muore». Altrettanto faceva il vescovo di Venezia, Pietro Barozzi, nel suo De factionibus extinguendis (1441-1507), e ancora Andrea Alciato (1492-1550), vescovo di Belluno e Padova, continuava ad affermare che il conflitto tra guelfi e ghibellini non era affatto sopito. Nel 1675 Gregorio Leti asseriva di poter riconoscere chi era guelfo e chi ghibellino addirittura dal vezzo di portar la penna sul cappello a destra o a sinistra. Proviamo allora a ripercorrere le tappe di questa evoluzione di significati e di una storia molto italiana (ma non solo). Cominciando dalla fine del XII secolo, quando le casate di Svevia e Baviera si contendevano il primato in Germania...

VIVERE DA SIGNORI

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Nella culla del male


La sconfitta di di Ezzelino da Romano a Cassano d’Adda, stampa dal dipinto di Adeodato Malatesta (1840-1860). Il protagonista dell’episodio fu il piú potente signore ghibellino del Veneto e trovò la morte in battaglia, a Cassano d’Adda, dopo aver dominato su Padova, Verona, Vicenza e Treviso per oltre un decennio, complice l’appoggio di Federico II, di cui aveva sposato la figlia naturale Selvaggia.

Fu Firenze ad aver diffuso quel binomio che infestò l’Italia? Guelfi e ghibellini, la storia infinita di una mutazione semantica, tra esotismo e «comunicazione internazionale»


LE ORIGINI

N

Nascita di un’etichetta

ella sua Nuova Cronica, il cronista fiorentino Giovanni Villani (1276-1348), ricorda come nacquero i due termini destinati a sconvolgere l’Italia: «I maladetti nomi di parte guelfa e ghibellina si dice che si criarono prima in Alamagna, per cagione che due grandi baroni là aveano guerra insieme, e aveano ciascuno un forte castello l’uno incontro all’altro, che l’uno avea nome Guelfo e l’altro Ghibellino, e durò tanto la Guerra che tutti gli Alamanni se ne partiro, e l’uno tenea l’una parte e l’altro l’altra; e eziandio infine in corte di Roma ne venne la questione, e tutta la corte ne prese parte e l’una si chiamava di Guelfo e l’altra quella di Ghibellino: e cosí rimasero in Italia i detti nomi». In realtà, il nome della fazione guelfa non sarebbe disceso dal maniero familiare, ma dal nome dello stesso duca Welf (tradotto Lupo), mentre Waiblingen era proprio il nome del castello degli Hohenstaufen (nell’odierno Land del Baden-Württemberg, a una decina di chilometri da Stoccarda, n.d.r.). L’origine dei nomi fu subito oggetto di studio e però, già nel corso del Trecento, diverse e variopinte versioni legavano i due epiteti alle origini piú svariate. Saba Malaspina († 1298) riporta che «gli uomini inclini a credere qualsiasi cosa loro riferita» credono che tali epiteti derivassero dai nomi di improbabili demoni femminili, apparsi sulla terra il giorno in cui nacque Manfredi, e subito azzuffatisi sopra la Toscana. Infatti, scrive: «Mentre una donna lombarda dal seme di Federico partoriva Manfredi, nel cielo nuvoloso sopra la Toscana apparvero agli uomini che osservavano due identiche forme di donna, sospese come nebbia sulla terra, i cui nomi una voce di forte tuono, come crepitante verosimilmente per una sorda cavità, rendeva confusi. Ma non invano, per quanto si poté capire, l’intelligenza degli uomini comprende che l’una poteva chiamarsi Gebellia e l’altra Guelfa. Queste, come narrano, lottando l’una contro l’altra con le braccia avvinghiate spingevano a vicenda il corpo una volta dell’una una volta dell’altra, e mentre si battono ad una sfida di pugni continuando la lotta dall’aurora rosseggiante fino a quando il sole mantenne la sua corsa alla metà del cielo, ora quella vergognosamente è cacciata sotto, ora la stessa rediviva abbattendo l’altra con un colpo si alza in piedi vittoriosa e felice trionfa; ora quella riversa sembra stramazzare con il corpo, ora questa medesima, il volto acceso, saltando all’indietro si rallegra gioiosamente di pestare la testa con una tempesta di pugni uno dopo l’altro. E cosí cambia la vittoria di entrambe e di nuovo vacilla il reciproco successo, nessuna delle due rimane a lungo oppressa sotto all’altra e vicendevolmente

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GUELFI E GHIBELLINI

Affresco raffigurante Federico Barbarossa che si sottomette al papa, dal ciclo che celebra Alessandro III dipinto da Spinello Aretino. 1408. Siena, Palazzo Pubblico, Sala di Balía. L’episodio ebbe luogo nel 1177, all’indomani della Pace di Venezia, sottoscritta dall’imperatore tedesco dopo essere stato sconfitto nella battaglia di Legnano (1176) dalla Lega lombarda, che aveva ricevuto l’aiuto del pontefice. l’una messa davanti all’altra piú in alto ci resta per poco. Scompaiono alternativamente il timore e la gloria della vincitrice e della perdente, ed il successo e la fortuna dell’una ha valore passeggero. E perciò le vicendevoli vittorie sembrano giuste, perché chi ha visto scontri di tal fatta, ha potuto contare gli urti e le ripercussioni in pari quantità». Per il novarese Pietro Azario (1312-1366), al servizio dei Visconti, si tratta invece di due principi dell’Inferno, Gibel e Gualef: «Sin dalle origini della città di Roma si stabilí che due spade avrebbero dovuto correggere tutto il mondo su cui dominava, cioè la spirituale da correggere tramite il Papa e la temporale tramite l’impero. E poiché quelle due spade nei tempi successivi furono assai poco in concordia, le due dette autorità posero nelle città lombarde altre due spade appuntite ed affinché fossero piú pungenti presero il nome da due demoni che si muovevano in senso opposto, uno che è chiamato Gibel e l’altro Gualef, dei quali quando uno vola sulle terre orientali, l’altro si trova a occidente: cosí fanno i guelfi e i ghibellini in Lombardia».

Di cani, lupi e altre storie

Nella sua Cronica (databile alla metà del XIV secolo), il cosiddetto Anonimo Romano riferisce invece che «in questo tiempo fuoro fatte quelle maladette parti, Guelfi e Gebellini, li quali non erano stati ‘nanti, n’anco erano stati Bianchi e Neri. Una sera quanno la iente lassa opera, appriesso allo cenare nella citate de Fiorenza se appicciaro doi cani. L’uno abbe nome Guelfo, l’aitro Gebellino. Forte se stracciavano. A questo romore de doi cani la molta iovinaglia trasse: parte favorava allo Guelfo, parte allo Gebellino». Purtroppo, il testo lacunoso non consente di comprendere come da una zuffa tra cani si potesse poi giungere alla lotta politica; se non altro il nome di Welf, lupo, giustificherebbe parzialmente il riferimento ai cani, ma è una supposizione. Ricorrono sempre, invece, le costanti toscana e fiorentina dell’origine delle «maladette parti». Si comprende come, man mano che le vicende imperiali si affacciavano nuovamente sulla scena politica italiana, risvegliando antiche rivalità per la supremazia economia e politica, potevano essere anche «aggiornate» le origini della prima


GUELFI E GHIBELLINI

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LE ORIGINI

Nascita di un’etichetta

UN ERRORE DI TRASCRIZIONE? Alcuni studiosi hanno recentemente cercato di confutare l’ascendenza germanica dei nomi di Guelfo e Ghibellino, trovando, in primo luogo, improbabile la derivazione di «ghibellino» da Waiblingen. Si deve però far menzione che il castello situato non lontano da Stoccarda, si chiamava originariamente Wibeling e solo piú tardi divenne Waiblingen. Il passaggio da Wi-beling a Gui-belin-us non è poi linguisticamente cosí arduo come potrebbe apparire: si pensi ai nomi di Gui-do derivato da Wi-do, Gui-lielmus da Wi-lelmus o Gue-rra da We-rra. E poi, per la fase successiva, come la città di Lei-pzig, sia stata italianizzata in Li-psia: cosí analogamente Wei- in Wi-. Viene poi ridiscussa l’ascendenza germanica del nome Ghibellino, offrendo un paio di occorrenze documentarie. La prima citazione è relativa alla fine del 1000 ed è attestata in Provenza ma essa, a quel che consta sino a oggi, non ebbe alcun seguito e non fu nominata mai piú

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GUELFI E GHIBELLINI

da alcuno, né tanto meno in nessuna fonte cronachistica a noi pervenuta le si accredita alcun nesso con il nome della fazione ghibellina o, forse ancora piú significativo, con l’opposizione al nome di Guelfo. La seconda è invece una carta donationis, stilata nel 1155, della mensa vescovile di Lodi, nella quale, effettivamente, si legge il nome Guibelinus. Il documento, però, è giunto a noi in una copia duecentesca, quando nell’onomastica italiana Guibelinus era ormai piú che frequente. Non credo sia improprio ipotizzare che il copista che si trovò a trascrivere la lista di cittadini del secolo precedente abbia potuto scrivere un nome per un altro, assecondando l’onomastica del suo tempo. Il nome che infatti compare copiato potrebbe essere una cattiva lettura e trascrizione di un banale Guilielmus (anziché Guibelinus) Abiatici quondam Bertrami, nome che peraltro ricorre con frequenza nelle stesse carte del fondo.


contesa, affondando nel mito e nella fantasia. Oltre al Villani, anche Ricordano Malispini (1220-1290) lega l’origine dei nomi ai castelli delle due famiglie. Il giudice Lapo da Castiglionchio, amico di Francesco Petrarca, reinterpreta parzialmente tale versione, affermando che «questi maledetti nomi di parte guelfa et ghibellina si crearono prima nella Magna, per cagione di due grandi baroni di là che aveano guerra insieme. E ciascheduno de’detti due baroni avea uno forte castello, l’uno incontro all’altro, che l’uno si chiamava Guelfo e l’altro Ghibellino, e durò tanto la detta guerra che tutti gl’Alamanni se ne partirono e l’uno tenea l’una parte e l’altro l’altra, et etiamdio infino in corte di Roma n’andò la detta quistione e tutta la corte ne prese parte, e l’una si chiamava quella “di guelfo” e l’altra quella “di ghibellino”, e cosí rimasono in Italia i detti nomi». Inoltre, propone una improbabile spiegazione etimologica, sostenendo che Gelfi significherebbe «portatori di fede» (ge- da gero, cioè porto, reco, e fi- da fides), mentre Gebellini, «portatori di guerra» (ge- da gero, e belli da bellum). Il giurista trecentesco Bartolo da Sassoferrato (1314-1357), che alle due fazioni dedicò il trattato De guelphis et gebellinis, associa i due termini a nomi biblici, annettendo Guelfo a Zelpha, citato in Genesi, e Ghibellino a Gelboe, nome di un’altura citata nel Libro dei Re. Tornando però alla realtà storica, che, come abbiamo visto, fu da subito viziata da congetture fantasiose, possono essere utili le parole di Ottone di Frisinga (1109-1145) per chiarire la questione: «Due sono state nell’Impero Romano le casate famose: una quella degli Enriciani di Waiblingen, l’altra dei Guelfi di Altdorf». Le donne di Weinsberg, olio su tavola attribuito all’atelier di Frans Francken II. 1581-1642. San Pietroburgo, Museo Statale Ermitage. Nel 1140, Corrado III assediò la città, ma concesse alle donne di poterne uscire, portando con sé tutto quel che riuscivano a caricare sulle proprie spalle: al che, ciascuna lasciò ogni cosa e prese il proprio marito. Il re scoprí il trucco, ma mantenne la parola e comunque ebbe la meglio su Guelfo VI.

La discesa del Barbarossa

A seguito del successo militare dello svevo Corrado III su Guelfo VI nella battaglia di Weinsberg (1140), nei pressi dell’attuale Heilbronn, la corona imperiale assunse quella che potremmo definire una «patina sveva», al punto che essere imperatore sarebbe stato associato all’appartenere alla casata ducale di Svevia, inducendo i neoeletti re dei Romani – condizione necessaria per aspirare al titolo imperiale, ma anche i re di Sicilia, nel corso del XIV secolo – a vantare un’ascendenza, spesso remota o contorta, con la stirpe degli Hohenstaufen, come accadde, per esempio, per l’aragonese Pietro III. Le ripetute discese di Federico Barbarossa (1122-1190) in Italia scatenarono, soprattutto nei Comuni del Centro Nord, idee nuove sull’atteggiamento da tenere nei riguardi dell’impero, specie in materia di autonomia.

Queste due fazioni, una piú condiscendente, l’altra piú contraria alla volontà imperiale, non sono però ancora denominate con i nomi di guelfi e ghibellini, ma le posizioni dei singoli Comuni si vanno affinando proprio in questi decenni, soprattutto in relazione a quelle delle città e dei Comuni circumvicini, potenziali concorrenti nel processo di espansione nel contado. Verso la metà del secolo, gli schieramenti cittadini sono, nella quasi totalità, connotati ancora dai nomi dei nuclei familiari attorno ai quali si raggruppano i due diversi schieramenti che, nel corso del dominio dell’imperatore Federico II, si colorano dell’adesione ai due poteri universali. E cosí, accanto ai nomi delle schiatte nobiliari – Montecchi e Capuleti, Uberti e Buondelmonti, Lambertazzi e Geremei, ecc. – cominciano a profilarsi i nomi delle fazioni dette l’una la «Parte della Chiesa» e l’altra la «Parte dell’Imperio».

Un’invenzione fiorentina

Il caso fiorentino fu probabilmente l’eccezione che fece la differenza: senza che si sia stati in grado di spiegare il motivo – cosa ormai molto improbabile – i due gruppi familiari contrapposti nella citta del giglio assunsero i nomi di guelfi e ghibellini, traendoli direttamente dalla contesa tedesca. Del fenomeno si occuparono a piú riprese diversi storici come Gaetano Salvemini, Robert Davidsohn, Umberto Dorini, Romolo Caggese, Edouard Jordan e Sergio Raveggi. Lo studio sulle fazioni ha fatto registrare una battuta d’arresto negli anni Novanta del secolo scorso, per poi riaccendersi nell’ultimo ventennio, con diversi studiosi che hanno fatto luce su molti nuovi aspetti del fenomeno politico. Lo storico Giovanni Tabacco sottolineò l’esotismo di questi nomi che dovette certamente colpire la fantasia dei Fiorentini cosí come ancora oggi (forse ancora piú di un tempo) risulta piú affascinante un nome anglofono che non lo stesso in italiano: il meeting anziché l’incontro, il train manager invece di capotreno e cosí via... Tuttavia, fenomeno certamente piú importante, soprattutto se osservato sulla lunga distanza, fu il fatto che tali nomi, proprio perché connessi a collocazioni politiche che superavano le lotte interfamiliari e intercittadine, ebbero il vantaggio e al contempo la sventura, di dare vita a coalizioni intercetuali, intercittadine e perfino interregionali: il Davidsohn motiva cosí la loro lunga sopravvivenza attraverso i secoli e fino ai giorni d’oggi. Un conto era dirsi, per esempio, dei Lambertazzi in Bologna, ma all’«estero»? Un conto, che si mostrò risolutivo, fu quello di GUELFI E GHIBELLINI

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LE ORIGINI

Nascita di un’etichetta REGNO DI DANIM Schleswig

Mare del Nord

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Paderborn

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BASSA LORENA

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DUCATO D’AUSTRIA

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Contea del Tirolo

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Ratisbona

Friburgo

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REGNO DI BOEMIA Marca Morava

Bamberga

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Digione Besançon Chalon

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Posen

Praga

DUCATO DI FRANCONIA

Worms

Verdun Metz Chalons

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Marca Lusazia

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DUCATO DI CARINZIA

Pest

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Treviri Reims

Magdeburgo

Thorn

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Marca Landsberg Meissen Langravio di Turingia Marca Dresda Erfurt Assia Meissen Fulda

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DUCATO DELLA

REGNO DI FRANCIA

Marca di Brandeburgo Brandeburgo

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DUCATO DI POMERANIA

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GUELFI E GHIBELLINI

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Confini del Sacro Romano Impero

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L’impero al tempo degli Hohenstaufen

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Corsica

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Mar Ionio

Nella pagina accanto, in alto miniatura raffigurante Federico II che concede privilegi alla città di Asti, dal Codex Astensis (noto anche come Codice Malabayla), una raccolta trecentesca di cronache e documenti medievali che riguardano la città piemontese dal 1065 al 1353. Asti, Archivio del Comune. Agli inizi del Duecento, il papato e l’impero agirono come pacificatori negli scontri interni ai Comuni, rafforzando il proprio potere, ma, allo stesso tempo, complicando ulteriormente la composizione dei gruppi che si contrapponevano. Nella pagina accanto, in basso miniatura in cui, nei pressi di Pisa, è rappresentata l’aquila accompagnata dal motto «Ho rimesso le penne», dalle Croniche di Giovanni Sercambi. Inizi del XV sec. Lucca, Archivio di Stato. Il rapace, simbolo del potere imperiale, era in genere effigiato sulle porte delle città ghibelline. A Pisa, dove l’aquila venne assunta a simbolo cittadino dopo il passaggio di Enrico VII di Lussemburgo nel 1312, secondo una consuetudine molto diffusa, venivano allevati alcuni esemplari dell’animale nella Torre dei Gualandi.


avere un’etichetta con elementi comuni, con i quali presentarsi per stipulare alleanze oltre le mura del proprio Comune. Poiché prese forma nei decenni di lotta tra gli universalismi, la divisione della città di Firenze in guelfi e ghibellini, divenne ben presto sinonimo di lotta tra papato e impero, tra filopapali e filoimperiali e, nella lotta di propaganda, tra quanti si proclamavano difensori dell’ortodossia, accusando gli avversari di esserne oppositori. Nella sua Cronaca, il francescano Salimbene de Adam (1221-dopo il 1288) ricorda come «a Firenze quelli della parte della Chiesa sono chiamati Guelfi, mentre quelli della parte dell’Impero Ghibellini; e come da queste due fazioni locali in tutta la Toscana le partes presero i medesimi nomi che ancora mantengono». Per questo i Fiorentini «devono bere il calice dell’ira di Dio sino alla feccia», in quanto colpevoli di aver diffuso i nomi che poi infestarono l’Italia. Lo stesso Salimbene attribuisce invece a Federico la responsabilità di aver allargato il conflitto all’intera Penisola, facendo sí che i due epiteti passassero dall’uso locale a quello generale.

Tutti contro l’Anticristo

Con l’insuccesso politico e la morte di Federico II, il significato dei due termini andò incontro a un’enorme trasformazione. Federico e i suoi sostenitori erano infatti stati l’oggetto di una serie di campagne diffamatorie da parte della Curia, che culminarono nella crociata indetta contro Federico, dipinto come l’Anticristo. Tali colpe ricaddero sugli eredi e sui seguaci di colui che era stato precedentemente nominato come Stupor Mundi. Ecco allora che, nella propaganda curiale e guelfa, Manfredi e Corradino, Ezzelino da Romano e Oberto Pelavicino, vengono tratteggiati ora come sanguinari, ora come impotenti o pervertiti, ora come eretici o quali emissari di Satana, se non perfino come demoni essi stessi: Salimbene scrisse per esempio che Ezzelino «era piú temibile del Diavolo» e che Federico II era «pestifero, maledetto, scismatico, eretico ed epicureo». A questo punto urge una precisazione: nella fase post-federiciana, le attenzioni di coloro che siamo abituati a chiamare ghibellini non si indirizzano piú verso l’impero (che in questi decenni, dobbiamo ricordarlo, è vacante), ma piú specificatamente verso gli Svevi – Corrado, Manfredi e Corradino – eredi di Federico e legati alla corona regia del Mezzogiorno d’Italia. I pretendenti alla corona imperiale infatti, Riccardo di Cornovaglia e Alfonso X, non vengono GUELFI E GHIBELLINI

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LE ORIGINI

Nascita di un’etichetta

altrettanto blanditi dai ghibellini: in realtà, per Alfonso ci fu una nomina imperiale da parte del solo Comune di Pisa, che scavalcò addirittura il papa e la prassi elettiva germanica, ma si tratta di un unicum, e di una fedeltà pisana alla causa imperiale in senso quasi totalizzante. Pur rimanendo ligi ai precetti pontifici – ma non sempre, come vedremo –, i guelfi possono essere piú caratterizzati proprio se messi in contrapposizione ai loro antagonisti filosvevi. In questa fase, insomma, il discrimine non è essere filopapali e buoni cristiani o meno, come la tradizione ottocentesca ci ha insegnato. Le intemperanze nei confronti del clero si ritrovano infatti in entrambe le fazioni coinvolte: a volte per un latente anticlericalismo, che riguarda tanto il Popolo, quanto i guelfi e i ghibellini, altre volte per intemperanze tra famiglie magnatizie, delle quali comunque i clerici fanno pur sempre parte.

Nemici di Dio e degli uomini

Ma il peso delle lotte federiciane ha trasformato il dissidio tra queste fazioni – che con questi nomi ormai già abbraccia tutta la Toscana – in una guerra santa, un «bellum Dei», al punto che, a ben guardare, entrambe le parti in causa lottano imbracciando la croce. Osservando infatti le fonti contemporanee, notiamo come i vincitori ghibellini di Montaperti (1260) siano etichettati dai cronisti guelfi come nemici della fede, «hostes fidei» e cattivi cristiani, «mali christiani», mentre saranno associati tra i martiri, «in numero sanctorum martyrum», quanti cadranno in difesa della Chiesa, «pro defensione Ecclesiae» a Benevento (1266); ma, di contro, possiamo constatare come Manfredi scriva ai suoi definendo invece i guelfi ribelli e nemici non solo di Dio ma anche degli uomini, «rebelles et hostes Dei et hominum». Il clima, dunque, è quello palpitante di uno scontro di tipo religioso con accenti di fanatismo; non fu perciò casuale che in questi anni, il papa doti la Parte guelfa di Firenze di uno stemma in cui un’aquila (fino ad allora appannaggio imperiale!) artiglia un drago, dove quest’ultimo, simbolo biblico del Male, rappresenta certamente i ghibellini. In questo vibrante ventennio, che possiamo far concludere col 1268, con la morte dell’ultimo Hohenstaufen a Napoli, l’opposizione è dunque non tanto tra filopontifici e filoimperiali, quanto piuttosto tra filosvevi e antisvevi o, meglio, filoangioini. Quanto accennato poc’anzi, vale a dire lo strumentario religioso ormai applicato lungo tutta la Penisola, assume toni di vera e propria strate14

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gia politica a ridosso della duplice vittoria di Carlo I d’Angiò a Benevento (1266) e a Tagliacozzo (1268). Negli anni successivi vengono intentati alcuni processi religiosi per eresia contro i ghibellini, il cui nome ora viene associato a due motivi caratteristici: l’opposizione al nuovo sovrano e l’opposizione ai precetti della Chiesa. Si tratta, in entrambi i casi, di opposizione politica, giacché nel primo coloro che sono definiti «ribelli», vengono processati, in buona sostanza, per non aver obbedito a colui che dovrebbero riconoscere come loro legittimo sovrano, Carlo I d’Angiò. Nel secondo caso, l’adesione a sovrani che erano stati scomunicati come Manfredi e Corradino, fa sí che la scomunica ricada sui loro seguaci. Ma la questione si complica, soprattutto a Firenze, teatro delle lotte piú accese, tra il 1270 e il 1290, giacché, in un crescendo molto rapido, l’accanimento sui vinti prosegue con l’entrata in scena dello strumentario religioso: la predica, l’interdetto e la scomunica, la crociata e i processi per eresia. Il caso della famiglia di Farinata diviene il simbolo dell’accanimento contro il ghibellinismo fiorentino: oltre al bando perpetuo, gli Uberti subiscono processi per eresia, vengono accusati, processati e condannati a morte come traditori della patria. Tra il 1283 e il 1285 le ossa di alcuni membri della famiglia, in primis Farinata, vengono riesumate e bruciate dall’Inquisizione, che li accusa, in maniera postuma, di aver aderito all’eresia. E cosi, nella fase che coincide col successo guelfo-angioino, se l’essere guelfo torna a significare essere «Parte della Chiesa», l’essere ghibellino – che già significava essere avverso a Carlo di Angiò, quasi novello Costantino, definito «pugil indefessus» a capo di una «militia gallicana crucesignata» – diviene con maggior forza e in modo categorico sinonimo di nemico della vera fede e quindi eretico.

La «rivoluzione» di Rodolfo

Dopo il lungo interregno, durato dal 1250 al 1273, un nuovo re dei Romani si presenta sulla scena europea: si tratta di Rodolfo d’Asburgo. Tuttavia, come ha giustamente osservato lo storico Giovanni Tabacco, l’impero risorgeva «sotto egida papale e con amicizia angioina, in forma paradossalmente guelfa, tale cioè da turbare il significato del ghibellinismo come Parte d’Impero». Insomma quel ben calibrato connubio guelfi-papato-Angiò, che aveva funzionato negli anni Sessanta del Duecento, dopo meno di un decennio già non sembra essere piú adatto al nuovo panorama politico. È la conferma di

Miniatura raffigurante le lotte fra gli Uberti e i rappresentanti della signoria dei consoli, a Firenze, dall’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Risulta assai accurata la rappresentazione del Battistero di S. Giovanni, ben riconoscibile al centro.


quanto avevamo premesso e cioè che l’essere guelfi o ghibellini non sempre aveva significato essere parte della Chiesa o dell’impero, quindi – a questo punto – non ci si dovrà piú di tanto stupire. Basterebbe confrontare la schiera di vicari di re Manfredi con quelli di Rodolfo d’Asburgo: mentre negli anni Sessanta troviamo solo laici imparentati con lo Svevo (i conti Giordano d’Anglano, Francesco Semplice e Guido Novello), con l’Asburgo, invece, si tratta per lo piú di vicari ecclesiastici (il vescovo Rodolfo di Hoheneck, il vescovo Giovanni di Enstall, il prelato Percivalle Fieschi e, unico laico di questa schiera, il conte Giovanni di Avesnes). Come accennato all’inizio, i due termini vanno incontro a continue mutazioni e si comporta-

no in maniera davvero camaleontica: i ghibellini italiani non avevano infatti aderito all’idea di impero tout court (tranne forse, come si è detto, il Comune di Pisa), bensí a Federico II (in quanto imperatore) e ai suoi successori (ma in quanto Svevi). Ora, il rispetto formale – o l’opposizione – per le cariche massime del potere, il papa e l’imperatore, viene osservato indistintamente tanto dai guelfi quanto dai ghibellini. L’inobbedienza infatti non va letta in senso universale contro il pontefice, in quanto vicario di Pietro, ma in modo particolare verso un pontefice (oppure un imperatore) indegno, la cui condotta non sarebbe stata tale da garantire l’ordo universalis. In questo ci può illuminare la posizione di un GUELFI E GHIBELLINI

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intellettuale come Dante: «Imperio è chiamato senza nulla addizione, però che esso è di tutti li altri comandamenti, comandamento» e per l’impero l’Alighieri, pur guelfo, richiede la massima riverenza. Nella rampogna di Giustiniano, nel VI canto del Purgatorio, ai versi 91-93, scrive «Ahi gente che dovresti esser devota, / e lasciar seder Cesare in sella, / se bene intendi ciò che Dio ti nota». La presenza di un imperatore in trono, dice il poeta fiorentino, è dunque la volontà di Dio: non si intuisce certo un aut aut, la volontà di eliminare l’elezione imperiale, come talvolta si potrebbe invece immaginare. Tornando agli anni di Rodolfo d’Asburgo, c’è ancora da sottolineare il fatto che in questa fase sono piú i Comuni guelfi che non gli esu16

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Sacra Famiglia, olio su tavola di Luca Signorelli. 1487-1488. Firenze, Galleria degli Uffizi. Secondo Giorgio Vasari, l’opera – un tondo – sarebbe stata realizzata per la Sala delle Udienze dei Capitani di Parte guelfa di Firenze.

li ghibellini a temere l’intesa inedita e improbabile tra Rodolfo, Carlo d’Angiò e il papa, paventando le rivendicazioni imperiali in merito agli acquisiti iura civilia. C’è poi ancora da notare come, mutato l’assetto politico italico, gli interessi di Rodolfo non siano piú rivolti al regno di Sicilia, come fu invece per gli Svevi, bensí in primo luogo verso la Germania e, in seconda battuta, verso il Nord Italia. Un altro episodio complica ulteriormente il quadro politico: nel 1282, la rivolta siciliana nota col nome dei Vespri e l’arrivo in Sicilia degli Aragonesi forniscono il pretesto ideologico per riallacciare il legame dei ghibellini con gli Svevi, offrendo loro un nuovo leader. In una lettera di Pietro III d’Aragona si legge infatti


Farinata degli Uberti in un olio su tela di scuola lombarda. 1600-1650. Milano, Pinacoteca Ambrosiana.

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LE ORIGINI

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chiaramente come l’invasione e l’occupazione dell’isola fosse stata effettuata per esaltare i «nostri predecessori», cioè la famiglia di Federico II. La figlia di re Manfredi, Costanza, moglie di Pietro, sfoggiava polemicamente il titolo di regina di Sicilia sin dal 1266. Dunque ecco riallacciato il fil rouge con Federico II ed ecco riapparire l’antico vincolo ghibellini= filosvevi. Di contro, i guelfi trovano negli Aragonesi un nuovo nemico, che, con Federico III di Trinacria (1274-1337), identifica persino nel nome un’inquietante continuità con l’antico nemico: contro di lui si sarebbero schierati nuovamente i guelfi, gli Angioini, con Carlo II lo Zoppo, papa Bonifacio VIII e persino i Templari e gli Ospedalieri in una nuova lotta dai toni religiosi. Nella Guerra dei Vespri, infatti, fu nuovamente predicata e intrapresa quella che fu a tutti gli effetti una crociata.

Vecchi nomi, nuove lotte

Nel corso del Trecento si può osservare come i due epiteti, pur avendo perduto completamente i loro significati originali, continuino a essere utilizzati nelle lotte che coinvolgono ormai tutta la Penisola. Già nel 1273 papa Gregorio X si domandava come fosse possibile che termini di cui i piú ignoravano persino il senso, potessero generare tanto odio. Agli inizi del Trecento, papa Giovanni XXII afferma che rimaneva il vulgus a utilizzare tali nomi, un uso che ormai non era certo piú limitato alla sola Toscana, ma si era esteso a tutta l’Italia. Pur deprecando questi termini, il pontefice dichiarò nel 1321 la crociata contro i ghibellini d’Italia, contro i Visconti, contro gli Estensi, contro Federico da Montefeltro e i suoi fratelli, Guido e Speranza, e contro i Comuni che li supportavano: Osimo, Urbino, Recanati e Spoleto. La crociata fu rinnovata nel 1324 contro Fermo e Fabriano e le lotte proseguirono contro il vescovo eretico di Arezzo, Guido Tarlati, contro Castruccio Castracani e contro il nuovo imperatore Ludovico il Bavaro (1282-1347). Se i nomi erano ancora quelli, i significati erano però ormai decisamente mutati. Cito ancora Dante che nel VI canto del Paradiso, invita i ghibellini a far «lor arte sott’altro segno» che non sia l’aquila imperiale, un simbolo grandioso e sacro, dietro il quale ormai si nascondevano invece interessi di tutt’altro genere ma non certo quelli in nome dell’impero. Nelle Constitutiones Aegidianae, alla metà del Trecento, il cardinale Egidio Albornoz (13101367) – incaricato da Innocenzo VI di restaurare il potere papale in Italia centrale – proibiva di 18

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gridare «Viva la Parte Guelfa», tollerando solo «Viva la Parte della Ghiesa». E, in quegli stessi anni, neppure il già citato Bartolo da Sassoferrato riuscí a fornire una definizione soddisfacente dei due termini nel suo De Guelphis et Gebellinis e ammise come da tali epiteti fossero ormai germinati talmente tanti e variegati significati, utilizzati nei modi piú svariati, da rendere necessaria un’analisi dell’uso di tali nomi, di volta in volta. Il caso limite dell’opera di Bartolo è rappresentato dal passo in cui il giurista segnala la possibilità che una persona possa essere «in uno loco Guelphus et in alio Gebellinus» e, al fine di eliminare confusioni e fraintendimenti, conclude scrivendo che risulta ormai necessario che queste fazioni cambino nomi. Un discepolo di Bartolo, Baldo degli Ubaldi (1319 o 1327-1400), paragonò invece la divisione in fazioni, la «partialitas», a un verme che ingrassa cibandosi del formaggio nel quale ha trovato dimora, condannandolo perciò stesso alla rapida putrefazione: «partialitas in civitate est tanquam vermis in caseo». La posizione lungimirante di Bartolo da Sassoferrato che consigliava di cambiare tali nomi, però, non ebbe fortuna se questi, come abbiamo visto, ancora oggi fanno la loro comparsa pur con usi tutt’altro che cavallereschi.

Riletture risorgimentali

I due nomi furono poi protagonisti in Italia di una ripresa vigorosa nel corso del Risorgimento, decisiva nello stigmatizzare alcuni aspetti delle due fazioni, ma consegnandoci una visione parziale e distorta. Nel corso del Settecento gli imperatori erano austriaci e, seppur con modalità differenti, facevano sentire a modo loro l’antica idea di una dipendenza tutt’altro che simbolica. Nel 1728 Francesco Maria Ottieri, cavallerizzo di Benedetto XIII, sentí la necessità di precisare che la sua nascita quale «suddito dell’Imperatore per alcuni Feudi imperiali» che lui possedeva al confine con lo Stato della Chiesa, non gli imponeva «altra obbligazione se non quella d’un vassallaggio lontano cosí che mi lascia piena libertà». Benché Ludovico Antonio Muratori (1672-1750) avesse già notato come «i Guelfi stessi si staccavano dai papi, e i Papi dai Guelfi. Nella stessa guisa anche nelle città libere le famiglie Guelfe, se vi trovavano miglior conto, passavano alla parte Ghibellina, e scambievolmente le Ghibelline alla Guelfa», in piena età risorgimentale uno storico come Cesare Balbo (1789-1853) fu colpito maggiormente dalla dipendenza – per lui deprecabile – delle due fazioni italiche da sovrani di origini

ultramontane, francesi o germaniche che fossero. Inoltre egli era convinto, sulla scia del Machiavelli piú che del Muratori, che le factiones avessero «ucciso il Comune» e la sua libertà. Le aspirazioni patriottiche risorgimentali trovarono nei secoli dei Liberi Comuni quasi legittimità per alimentare le loro speranze di liberazione dal giogo imperiale – che proseguiva ora in quello asburgico, con a capo il Kaiser – e da quello papale che, in maniera analoga, non aveva mai cessato di esercitare influenza sulla politica d’Italia, peraltro impedendone la sua unità. Nacque cosí una polemica assai appassionante e accesa tra coloro che difendevano la preminenza dello Stato pontificio, i cosiddetti neoguelfi (Cesare Balbo, Carlo Troya, Cesare Cantú, Luigi Tosti), che aspiravano – almeno in

In alto particolare della lastra sepolcrale di Rodolfo I d’Asburgo. Spira, Duomo. Nella pagina accanto Rodolfo I d’Asburgo in un olio su tela di August Gustav Lasinsky. 1840 circa. Francoforte sul Meno, Haus zum Römer.

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ELFI, GOBLIN E SPIDER MAN I termini guelfi e ghibellini ricorrono anche in età moderna al tempo delle Guerre d’Italia. Cherubino Ghirardacci, nel 1596, nella sua Historia di Bologna, assimilava infatti gli epiteti delle due fazioni a «una peste veramente orribile e fuoco inestinguibile che in danno e rovina di tante misere città e di tante nobili famiglie ancora non è interamente estinta». Ma il binomio ebbe successo anche Oltralpe. Il commentatore dello Shepheardes Calender (Il calendario del pastore), opera del poeta inglese Edmund Spenser pubblicata a Londra nel 1579, nel chiosare la linea 25 dell’Ecloga di Giugno si trovò a fornire la fantastica etimologia dei termini anglosassoni degli Elfi e dei Goblin, come derivanti dai nomi delle fazioni italiane «i cui nomi da lí mossero (come molti altri casi) e giunsero nel nostro uso e, anziché Guelfi e Ghibellini, noi diciamo Elfi e Goblin». E prosegue riportando come gli Italiani usassero questi nomi per spaventare i bambini (solum nominando pavor incutiebatur pueris) e cosí gli Inglesi presero a fare con gli Elfi e i Goblin. Il macroscopico errore si protrasse nell’Etymologicon Linguae Anglicanae (1671) di Stephen Skinner, il quale, almeno per il termine Goblin, propose una derivazione dal francese: gobelins= spettri, mentre la derivazione Elfo da elf= mezzo, da cui quasi «nano», non faceva comparsa. La cattiva interpretazione etimologica e la connessione tra Elfi e Goblin e guelfi e ghibellini ha avuto un paio di

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ripercussioni che, inconsapevolmente, hanno coinvolto il pubblico appassionato di fantasy e persino di supereroi. Ai primi del XX secolo John R.R. Tolkien incappò nell’equivoco quando si trovò a lavorare per l’Oxford English Dictionary (1919-1921), anni durante i quali si diede un gran daffare per creare il suo repertorio per il fantastico mondo della Terra di Mezzo. E considerato che le precisazioni e le correzioni a tali etimologie vennero fatte dal filologo James Finch Royster nel 1928, quando ormai gran parte dell’opera di Tolkien era scritta (tra il 1920 e il 1930), c’è da supporre che in buona fede gli Elfi e i Goblin di Mordor siano malauguratamente imparentati con le fazioni italiche, considerato anche il peso della lotta tra Bene e Male a cui Tolkien, cattolico fervente, diede indubbio rilievo nelle sue pagine. Non è cosa da poco riflettere sugli effetti prodotti dalla propaganda guelfa e papale-angioina, considerato che gli Elfi (Guelfi) sono biondi e parteggiano per il Bene, mentre i Goblin (Ghibellini) sono repellenti e... verdi. Del resto, anche uno degli acerrimi nemici di Spider Man, verde come un drago apocalittico, si chiama Goblin. E a diffondere i due termini, paradossalmente connessi a quelli medievali, hanno contribuito il grande schermo e, piú recentemente, le varie consolle di giochi elettronici in cui Legolas o Spider Man non mancano mai di affrontare qualche repellente Goblin.


A sinistra lo storico Cesare Balbo. A destra lo scrittore Francesco Domenico Guerrazzi. Nella pagina accanto Daniele Manin e Niccolò Tommaseo liberati dal carcere e portati in trionfo in piazza San Marco, olio su tela di Napoleone Nani. 1876. Venezia, Fondazione Querini Stampalia.

un primo momento – a una confederazione di Stati sotto l’egida del papa, e quanti, per contrapposizione assunsero invece il nome di neoghibellini (Michele Amari, Francesco Domenico Guerrazzi, Giuseppe La Farina, Giovanni Battista Niccolini), di stampo antipapale e anticlericale, i quali non si rifacevano però ai ghibellini del Duecento, ma al Machiavelli e al Rinascimento, e ancor piú all’anticurialismo di Paolo Sarpi e Pietro Giannone.

«Mangiapreti» e «baciapile»

Le due correnti nacquero essenzialmente come movimenti culturali e d’opinione, ma mentre il neoguelfismo passò dal terreno culturale a quello politico, il neoghibellinismo si rivelò un movimento disomogeneo e non riuscí mai a creare le basi per un’azione politica concreta. Gli aderenti al neoghibellinismo erano per lo piú democratici, interessati a rimuovere, soprattutto nel Meridione, gli avanzi dell’Ancien Régime e fervidi sostenitori dell’Unità d’Italia tanto contro le pretese degli Asburgo quanto contro quelli del papa. Del ghibellinismo medievale, però, i neoghibellini ereditarono solo la pars

destruens, la presunta posizione anticlericale che, in questi decenni, dovette divenire stereotipata e peculiare anche del ghibellinismo del Duecento, per giungere cosí inalterata sino a noi, cosí da trasformare, nella vulgata nazionalpopolare, i ghibellini dell’età comunale quasi nel sinonimo di «mangiaprete» e i guelfi in «baciapile»: la trita cantilena per la quale, per dirla in due parole, i guelfi son per il papa e i ghibellini per l’imperatore. Se volessimo riassumere la questione in una sola immagine potremmo definire questi due termini come altrettante sinusoidi in continua mutazione, la cui parte centrale racchiude qualche elemento stabile, mentre le curve estreme mutano di volta in volta accezione e, in fondo, non risultano perentorie. Il successo del binomio ha effettivamente superato i secoli, sino a far approdare, appena qualche anno fa, i «guelfi e i ghibellini» – senza che essi avessero mai potuto immaginare tanto – sul campo dello Stadio Franchi di Firenze per una «riconciliazione». E addirittura in televisione come titolo di un improbabile programma a premi, i cui contenuti sono ben contento di risparmiarvi. GUELFI E GHIBELLINI

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Il contagio Siena, Arezzo, Lucca, Pistoia: la contesa fra guelfi e ghibellini nasce come un fatto locale, ma presto si allarga ben oltre le mura di Firenze

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e piú antiche attestazioni dei nomi delle fazioni si trovano in documenti fiorentini databili nella prima della metà del Duecento. Lo conferma il già citato passo di Salimbene de Adam («a Firenze quelli della parte della Chiesa son chiamati Guelfi, quelli della parte dell’Impero Ghibellini»), il quale scriveva nel pieno del XIII secolo e visse durante quella che possiamo definire «l’età d’oro» del conflitto di fazione. Agli inizi del Duecento, Firenze era stata teatro di episodi, tra cui l’ uccisione di Buondelmonte dei Buondelmonti (vedi box alle pp. 26-28), che avevano mostrato come i contrasti interni tra le famiglie dell’antica aristocrazia consolare fossero tutt’altro che sopiti. Dopo questi fatti cruenti, però, la città del giglio dovet-

te vivere un paio di decenni di quiete interna, al punto che il Comune poté impegnarsi nella guerra contro le principali città circumvicine, Pisa e Siena, potenziali concorrenti nell’espansione politico-economica, nonché territoriale.

Catapulte in cima ai palazzi

Seguendo le scarne notizie degli annalisti del tempo, verso il 1236 a Firenze riprendono gli scontri urbani – le cosidette «battaglie cittadinesche» –, anche a causa dell’azione di Federico II, che inasprisce le rivalità tra famiglie e fazioni. Le torri urbane vengono armate e, a seguito degli scontri e degli esili, numerosi palazzi sono abbattuti, al punto che, nel tessuto urbano di molte città italiane, si creano modifiche irreversibili.

La Madonna del Cimabue portata in processione, olio su tela di Frederic Leighton. 1853-55. Londra, The Royal Collection Trust. Nel corteo si riconoscono lo stesso Cimabue, vestito di bianco, che porta per mano Giotto bambino, Dante (all’estrema destra) e Carlo d’Angiò, a cavallo. La critica moderna ha peraltro assegnato la pala a Duccio di Buoninsegna. GUELFI E GHIBELLINI

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LE FAZIONI IN LOTTA

L’Italia lacerata

Miniatura raffigurante la cacciata dei guelfi da Firenze, dall’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Gli sconfitti, che inalberano il vessillo con l’aquila in rosso e il drago in verde su fondo bianco, vengono sospinti fuori dalla città, della quale si riconosce il Battistero di S. Giovanni, dai ghibellini, dietro i quali premono i cavalieri di Federico II, identificati dall’aquila imperiale. Molte nobili famiglie di antica origine si affrettano a stringere legami con i vicari del papa e dell’imperatore, impegnati in Italia in un’ulteriore contesa e che si prodigano nel promettere o elargire favori ora agli uni ora agli altri. Per farlo, le fazioni si organizzano creando nuove istituzioni politiche, distinte da quelle dei consigli comunali: sorgono cosí finalmente le Parti, con un Capitano, Consiglieri e una serie di apparati, anche militari, a imitazione dei modelli comunali. Contemporaneamente, a rendere ancor piú complesso il tutto, i ricchi mercanti danno vita alle Società di Popolo, col chiaro intento di partecipare direttamente al governo, ma scontrandosi inevitabilmente con le famiglie nobili, detentrici, sino ad allora, del potere politico. Nella seconda metà del Duecento – come ha mostrato Silvia Diacciati –, proprio il Popolo divenne il vero e nuovo motore dei Comuni, quasi esautorando l’antica classe dei milites e dei magnati.

Guerra totale

A Firenze lo scontro fra le Parti e fra le famiglie magnatizie rende praticamente impossibile una qualsiasi politica unitaria che spesso viene congelata dagli scontri civili; e cosí Firenze rischia di vivere una seria crisi economica, nonché di divenire facile preda degli attacchi da nemici esterni. Fra l’altro, il conflitto si è ormai esteso ben oltre la città dell’Arno, e il fenomeno delle divisioni dilaga con l’intensificarsi dello scontro fra papato e impero. Nato come uno scontro locale, quello tra guelfi e ghibellini è ormai divenuto un conflitto intercittadino e cosí in questi anni, come ha scritto Guido Pampaloni, «la guerra di Parte si fa totale, senza esclusione di colpi, divenendo pedina importante di un vasto gioco politico che interessa l’intera Cristianità». Nel 1249 giunge a Firenze, in qualità di vicario imperiale, Federico di Antiochia, figlio illegittimo di Federico II. L’imperatore avrebbe sempre evitato di entrare a Firenze per un presagio che gli aveva vaticinato che sarebbe morto «sub flore»: forse anche per questo fece costruire l’unico (segue a p. 29) 24

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LE FAZIONI IN LOTTA

L’Italia lacerata

L’OMICIDIO DI BUONDELMONTE Rispetto alle fantasiose narrazioni riguardanti le origini dei nomi e del conflitto, dobbiamo segnalare la vivida e realistica narrazione di un autore anonimo, il cosiddetto Pseudo Brunetto Latini. Nel suo racconto si possono identificare due momenti ben distinti, ma tra loro connessi e che, probabilmente, rappresentano la versione piú verosimile di come dovettero andare le cose. Siamo a Firenze, nel 1215. Nella campagna fiorentina, a Campi, si tiene un banchetto per l’investitura cavalleresca di «messer Mazzingo Tegrimi de’ Mazinghi: ed invitòvi tutta la buona gente di Firenze». Attorno al novello cavaliere siedono molti altri cavalieri, giovani, e forse qualcuno alza il gomito piú del solito. Nel bel mezzo della festa irrompe «uno giuocolare di corte e llevò uno tagliere fornito dinanzi a messer Uberto delli Infangati, il quale era in conpagnia di messer Bondelmonte di Bondelmonti; donde fortemente si cruccioe». Schernito da un buffone di corte, Buondelmonte non la prende bene: qualcuno alza la voce, vola certamente qualche parola grossa. Un cavaliere dei Fifanti, Oddo Arrighi, «villanamente riprese messer Uberto» il quale, a sua volta, «lo smentío per la gola». A questo punto, Oddo Arrighi prese un tagliere di carne dal tavolo, calda e con tanto di sugo, e lo «gettò nel viso» all’Infangati. La festa si trasformò in un parapiglia e «tutta la corte ne fue travaglata». Come se non bastasse, a festa conclusa e «quando furono levate le tavole», l’amico dell’Infangati,

Buondelmonte dei Buondelmonti, probabilmente una «testa calda», vide bene di tirare una coltellata a Oddo Arrighi, «villanamente fedendolo per lo braccio». Il giorno di festa del Mazinghi divenne un caso tra le strade di Firenze: possiamo immaginare che in città dunque non si parlasse d’altro. La questione non poteva rimanere insoluta e l’offeso, Oddo Arrighi, chiamò parenti e amici per trovare la migliore soluzione e, alla fine, «per loro fue consiglato che di queste cose fosse pace»: alla riunione avevano partecipato gli Uberti, i conti da Gangalandi, i Lamberti e gli Amidei, insomma i vicini di quartiere e i parenti acquisiti. Per mettere fine allo spiacevolissimo episodio, si pensò di combinare un matrimonio riparatore: Buondelmonte avrebbe preso in moglie «la figluola di messe Lanbertuccio di Capo di Ponte, delli Amidei, la quale era figluola della serore di messer Oddo Arrighi». La proposta era piaciuta a tutti e si era alla vigilia delle nozze: era stato «fatto il trattato e la concordia, e l’altro giorno apresso si dovea fare il matrimonio». Ma a insidiare la pace provvide il Diavolo: secondo un altro cronista, piú tardo, Giovanni Villani, ma anche per Dante, Buondelmonti avrebbe ceduto all’offerta di madonna Gualdrada, moglie di Forese Donati, su istigazione del Demonio («per subsidio diaboli»). Questo resoconto, ben piú tardo di quello dell’anonimo, divenne anche il piú diffuso e, si badi bene, in questa versione trecentesca non vi è accenno alcuno alla festa dell’Infangati in cui il Buondelmonti si prodiga a dare fendenti. Ma torniamo alla narrazione dell’anonimo fiorentino. Pur avendo fissato le nozze, proprio il giorno avanti la moglie del potente Forese Donati «secretamente mandò per messer Buondelmonte e disse: “Chavaliere vitiperato, ch’ài tolto mogle per paura dell’Uberti e di Fifanti; lascia quella ch’hai presa e prendi questa e sarai sempre inorato chavaliere”». Il focoso Buondelmonti, «senza alkuno consiglo» accettò l’offerta della Donati, senza informare neppure i genitori

Sulle due pagine Firenze, la Torre degli Amidei, innalzata nei primi decenni del XIII sec. Nei suoi pressi venne assassinato Buondelmonte dei Buondelmonti, reo di avere infangato l’onore degli Amidei per il mancato matrimonio con la figlia di Lambertuccio. Sull’edificio è apposta una lapide (foto qui accanto) nella quale sono riportati i versi con cui Dante Alighieri ricorda la potente famiglia fiorentina nel XVI canto del Paradiso.

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LE FAZIONI IN LOTTA

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della precedentemente promessa sposa, la figliola degli Amidei. L’indomani, giovedí 10 febbraio, «la gente dell’una parte e d’altra fue raunata, venne messer Bondelmonte e passò per Porte Sancte Marie e andò a giurare la donna di Donati e quella delli Amidei lasciò stare, sotto questo vituperio che inteso avete». Lo sciagurato non solo rifiutò un matrimonio riparatore, ma lo fece senza alcun preavviso, sfilando davanti agli Amidei, mettendo in ridicolo la loro consorteria, e sposando, evidentemente, una donna di una famiglia certamente non gradita. La dignità, l’onore di una famiglia di quegli anni era macchiato, in modo sfrontato. Oddo Arrighi, bersaglio del coltello di Buondelmonte, «fece uno consiglio nella chiesa di Santa Maria sopra Porta, con tutti li suoi amici e parenti e quivi fortemente si lamentò della vergogna che lli era stata fatta»: possiamo solo immaginare l’ira di Oddo. Si fecero avanti diverse proposte per punire la sfrontatezza del Buondelmonti: qualcuno propose di riempirlo di bastonate, qualcuno di tirargli una coltellata in faccia, cosí da sfigurarlo per sempre. Alla fine prevalse la voce di Mosca dei Lamberti, che avanzò la proposta piú estrema: sbarazzarsi del Buondelmonti e metterci una pietra sopra. «Cosa fatta capo ha!» avrebbe causticamente concluso. La vendetta si sarebbe consumata nello stesso luogo dove la gente si era radunata per il giuramento del matrimonio con la Donati. E cosí, la mattina di Pasqua, in vetta al Ponte Vecchio, dove sorgeva una antica statua di Marte, messer Buondelmonte, di bianco vestito e con una ghirlanda di fiori in testa, fu circondato da coloro che aveva precedentemente offeso. Schiatta degli Uberti gli corse incontro e lo colpí «d’una mazza in sulla testa e miselo a terra del cavallo». A quel punto sopraggiunse Oddo Arrighi, col braccio e l’orgoglio feriti dal Buondelmonti: cacciò un coltello dal fodero e «li seghò le vene e lasciarlo morto». La città fu subito in subbuglio e «lo romore fue grande. E’ fu messo in una bara e la mogle istava nella bara e tenea il capo in grenbo fortemente piangendo; e per tutta Firenze in questo modo il portarono». Vendetta chiama vendetta: «In quello giorno – seguita il cronista – si cominciò la struzione di Firenze che imprimamente si levò nuovo vocabile, Parte guelfa e Parte ghibellina». Le offese al Fifanti, l’omicidio del Buondelmonti acuirono certamente in Firenze la tensione che già preesisteva tra i gruppi famigliari, come scrive Giovanni Villani: «con tuttoché dinanzi assai erano le sette tra’ nobili cittadini». Senza dubbio, questi episodi

L’assassinio di Buondelmonte dei Buondelmonti in un’altra miniatura tratta dall’edizione della Nuova Cronica contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Si notino l’accanimento nei confronti del cadavere e la statua di Marte ai piedi della quale si consumò il delitto inghiottita dalla piena dell’Arno del 4 novembre 1333.

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innescarono una serie di vendette tra famiglie legate al gruppo dirigente che, per molti aspetti, era ancora profondamente legata al modo di pensare del mondo feudale, e la «vendetta» era una di queste modalità. L’episodio del 1216 divenne il simbolo di un conflitto strisciante e poi eclatante: in quell’evento fu trovato dai cronisti del tempo il casus belli, anche se, in realtà, le sue conseguenze sulla lunga distanza vanno certamente ridimensionate, perché il fatto di sangue ai piedi del Ponte Vecchio, pur essendo stato certamente clamoroso, non fu l’unico né il piú grave. Non riuscendo a distinguere il falso dal vero, e dovendo individuare il colpevole d’una maledizione che, come dice l’anonimo, «300 000 d’uomini e piú ne sono morti, kè l’uno pilgla l’una parte e l’altro l’altra», si preferí attribuire la responsabilità all’intervento diretto delle forze del Male, al perverso gioco di Satana, capaci di scatenare l’odio tra gli uomini e condurli rapidamente dentro a una spirale di violenza senza fine.


grande castello del Centro Italia a Prato, con l’obiettivo di controllare la vicina Florenzia. All’arrivo delle milizie tedesche, i guelfi furono costretti a lasciare la città, disperdendosi tra città e castelli alleati da dove ingaggiarono una guerra di logoramento con i ghibellini i quali, rimasti al potere in Firenze, si videro costretti a inasprire le tasse. Dopo l’ennesima sollevazione popolare, i mercanti estromisero i ghibellini dal governo: nasceva il Governo di Primo Popolo. A ciò si aggiunga che, nel dicembre 1250, Federico II improvvisamente moriva. Nel volgere di un triennio le sorti mutarono rapidamente: i primi a essere esiliati furono i guelfi nel 1249; l’anno seguente i ghibellini furono privati dal

In alto capolettera N del VI libro della Nuova Cronica di Giovanni Villani raffigurante Federico II, con lo scettro e un ricco manto orlato di vaio (la pelliccia che si ricava dal mantello invernale degli scoiattoli russi e siberiani), dal Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

Popolo della possibilità di attività politica; dopo la morte dell’imperatore i guelfi rientrarono in città, complice il Popolo, e furono i ghibellini stavolta a essere espulsi (1251). Il governo di Primo Popolo tentò di porsi come ago della bilancia fra le due fazioni: di fatto ben presto le famiglie ghibelline espulse furono riammesse in città. Ma se all’inizio il Popolo si presentò equidistante, ben presto iniziò a collaborare sempre piú con la fazione guelfa, contrapponendosi a quella avversaria.

Gli Uberti guidano l’esilio

Ciò si manifestò in modo evidente nel 1258. Nel mentre, allo sfortunato Corrado IV (1254) era succeduto sul trono di Sicilia re Manfredi, il quale riprese l’attività politica in Toscana, incontrando ferma resistenza proprio a Firenze. A quel punto le famiglie ghibelline, Uberti in testa, furono di nuovo espulse, trovando rifugio a Siena dove, con l’appoggio delle milizie tedesche di Manfredi, organizzarono il proprio ritorno. Il 4 settembre del 1260 a Montaperti si GUELFI E GHIBELLINI

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LE FAZIONI IN LOTTA

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Sulle due pagine altre miniature tratte dall’edizione della Nuova Cronica contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. A destra, 1254: il conte Guido Guerra dei conti Guidi, alla testa dei Fiorentini (che si riconoscono a sinistra, nel loro accampamento), caccia da Arezzo e i seguaci di Manfredi.

A sinistra, dall’alto l’incoronazione di Manfredi, re di Sicilia e di Puglia, che non compie il consueto gesto di sottomissione all’autorità ecclesiastica, ma apre le braccia soddisfatto, mentre due vescovi gli pongono sul capo la corona; la presa del castello di Montaio (una frazione di Cavriglia, nel Valdarno) da parte dei Fiorentini, che l’avevano assediato nel 1252, poiché s’era ribellato e in soccorso del quale erano accorsi Senesi e Pisani, che però, vista la potenza dell’attacco gigliato, avevano abbandonato il campo, come suggerisce il particolare delle tende vuote. combatté una sanguinosa battaglia, il cui esito avrebbe portato i ghibellini al governo: un esercito composto da Senesi, Tedeschi e fuorusciti fiorentini, sconfisse una coalizione popolare e guelfa guidata da Firenze e Lucca. Uberti, Lamberti e Fifanti entravano cosí da vincitori in città, ridotta parzialmente in macerie per le distruzioni operate dai guelfi, mentre gli avversari abbandonavano Firenze, trovando riparo chi a Lucca, chi a Bologna. A completare l’opera di distruzione furono ora i ghibellini, che presero a sequestrare i beni dei guelfi e ad abbattere le torri degli avversari, trasformando Firenze in un vero e proprio cantiere. Tutta la Toscana divenne rapidamente fedele al nuovo sovrano svevo: solo Arezzo e Lucca resistettero alle milizie di Manfredi e della Lega ghibellina, ma anche esse cedettero, la prima nel 1262, la seconda l’anno seguente.


A questo punto della vicenda storica appare sulla scena italiana un nuovo protagonista fondamentale nello sviluppo della lotta: chiamato dal papa e pagato dalla Curia e dai banchieri toscani, ecco il campione del guelfismo e della Chiesa, colui che porrà fine alla casa sveva. Si tratta di Carlo I, conte d’Angiò e del Maine, fratello di re Luigi IX di Francia. Con una duplice e fulminea vittoria militare, prima a Benevento (1266), poi a Tagliacozzo (1268), Carlo riuscí infatti a estirpare «la razza di vipere» sveva, costringendo i ghibellini ad abbandonare le loro città: molti non vi torneranno mai piú. Nel 1267, infatti, dopo alcuni tentativi di governo misto, molte famiglie ghibelline furono costrette a lasciare la città, saldamente in mano all’Angioino, che appoggiava un governo di Parte guelfa interessato a espropriare e vendere immediatamente i beni immobili degli antagonisti. La lotta era ormai giunta al culmine. Carlo ottenne la carica di Podestà per la durata, assolutamente inedita, di sette anni e fu nominato «paciarius generalis», ma, nel 1280, intimo-

rito dallo strapotere dell’Angioino, papa Niccolò III tentò di mitigare la lotta in Toscana, facendo suggellare matrimoni di pacificazione. L’azione diplomatica del cardinal Latino Malabranca Orsini, pur essendo ben strutturata, non poteva però durare a lungo: la riforma infatti prevedeva la creazione di 14 magistrati, otto guelfi (di cui sei popolari) e sei ghibellini (di cui due popolari). Cosí strutturato, il lodo non lasciava ben sperare e infatti, dopo pochi mesi, scoppiarono nuove intemperanze. A ciò si aggiunga una serie di eventi che fecero risvegliare antichi rancori e rispolverare vecchie ideologie. Dopo una lunghissima vacanza imperiale, nel 1273 era stato eletto re dei Romani, Rodolfo d’Asburgo, colui che – stando a Dante – «potea sanar le piaghe c’hanno Italia morta» (Pg VII 94). A Roma, invece, sedeva adesso un papa francese, Martino IV, apertamente favorevole agli Angioini, i quali, però, assistevano ai Vespri Siciliani (1282), che Paolino Pieri non sapeva dire se fossero stati opera di Dio o del Diavolo. Contempraneamente, a Firenze, i popolari riprendevano

La vittoria di Fiorentini e Lucchesi sui Pisani a Pontasserchio, nel 1256. Per celebrarla, i vincitori tagliarono un grande pino e «per ricordanza» batterono sul ceppo cosí ottenuto una moneta commemorativa, un’usanza praticata per umiliare gli sconfitti.

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LE FAZIONI IN LOTTA

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UNA TRASLAZIONE DISCUTIBILE Sino al 2008 le ossa del vescovo Guglielmino Ubertini riposavano nella piccola chiesa di Certomondo. Annessa a un convento, la chiesa, era stata dedicata all’Annunciazione e a san Giovanni Battista dal conte Guido Novello dei conti Guidi, a ricordo della vittoria ghibellina del 1260 a Montaperti, alla quale aveva contribuito battendosi al fianco dei fuorusciti fiorentini. Nel 1289, nella battaglia di Campaldino, il conte Guido, alla guida delle riserve ghibelline, avrebbe preferito abbandonare il campo, forse considerando ormai perduto lo scontro. Il vescovo Guglielmino, invece, pur avendo scambiato le proprie insegne con quelle del nipote, sarebbe stato riconosciuto dalla tonsura e ferito a morte. Com’era tradizione del tempo, a meno di casi eccezionali (re, papi, imperatori...), i defunti venivano sepolti nel luogo in cui venivano a morte: e cosí fu anche per l’anziano vescovo. L’11 giugno 2008, invece, nell’anniversario della morte in battaglia, al termine di una cerimonia di suffragio, celebrata nel duomo dal vescovo del tempo, i resti del prelato furono seppelliti nella chiesa cattedrale da lui fondata grazie a un lascito di papa Gregorio X, venuto a morte proprio ad Arezzo, di ritorno dal concilio di Lione (1274), e sepolto nel luogo in cui, stanco e malato, improvvisamente morí. Nessuno s’è mai sognato di traslare il corpo del vescovo di Roma da Arezzo in Vaticano, anche perché vari papi sono sepolti un po’ ovunque, in Italia e in Europa: da Bamberga a Marsiglia, da Verona a Salerno. A onor del vero, per il povero Ubertini, vi era addirittura il lascito di un suo parente, Boso degli Ubertini, che aveva stanziato alcuni fiorini per la costruzione di un monumento nella chiesa di Certomondo, senza però che il suo desiderio venisse realizzato. Rispetto alla volontà del nipote (per quanto remota) e della prassi del tempo, è stata probabilmente scelta la strada di monumentalizzare ed esaltare la memoria di un prelato, assecondando forse piú un presunto sentimento «ghibellino» della città di Arezzo che non la realtà storica, e alimentandone, in questa maniera, la «ghibellinizzazione» ancora oggi da intendersi, al pari di Siena, come un sentimento antifiorentino e antiperugino piú che come un ghibellinismo al 100%!

il potere, istituendo il Priorato delle Arti ed emarginando i magnati, dando vita a una nuova costituzione, basata sulle corporazioni mercantili e artigiane. I guelfi, pur estromessi, avevano l’opportunità di risiedere in città mentre per i ghibellini ogni possibilità di partecipazione alla vita politica era decisamente preclusa. Tra la fine del Duecento e i primi del Trecento si consumò un’ultima pagina, anch’essa drammatica, della storia delle lotte di fazione nella città del giglio: traendo i nomi dalla città di Pistoia, le famiglie fiorentine si dividono al proprio interno nelle fazioni dei bianchi e dei neri. Se i primi annoveravano molte famiglie di mercanti popolari, come i Cerchi, «gente veniticcia» giunta dal contado e inurbatasi, i neri erano rappresentati per lo piú da famiglie di tradizione aristocratica di vecchia data, come quella capofila dei Donati. Tuttavia, gli schieramenti erano molto variegati e si complicarono con spaccature che dividevano intere famiglie, schierate parzialmente con gli uni o con gli altri. Nonostante le missioni pacificatrici del cardinale francescano Matteo d’Acquasparta, anche questa volta l’esito è disastro32

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so: con un colpo di mano, complici Carlo di Valois e papa Bonifacio VIII, i guelfi bianchi furono costretti all’esilio. E tra questi sventurati, vi fu anche Dante degli Alighieri.

Antifiorentine innanzitutto

Nel confronto con il Comune dominante che poi si sarebbe imposto, divenendo la sede del futuro granducato e, non a caso, il capoluogo di regione, alcuni centri assunsero una posizione politica segnata piú dall’essere «antifiorentini» che schiettamente schierati per una o l’altra fazione. Certamente alcuni episodi decisivi (come la battaglia di Montaperti) hanno marchiato le posizioni ora dell’una o dell’altra città coinvolte nel secolare conflitto: e per questo oggi si sente dichiarare che Siena è ghibellina e Firenze è guelfa. Ma non si deve dimenticare che, sulla piana di Montaperti, alla fine della giornata, assieme ai Senesi, i vincitori furono quei Fiorentini esuli, con in testa Farinata, che, di lí a pochi giorni, entrarono in città da signori. E, per par condicio, ricordiamo che dopo la disfatta di Colle di Val d’Elsa, furono i

In alto, nel riquadro la chiesa della SS. Annunziata e di S. Giovanni Battista in località Certomondo, a Poppi (Arezzo).


ghibellini senesi a essere banditi dalla città e a Siena prevalse un’oligarchia mercantile e bancaria di chiara ispirazione guelfa. A causa della sua posizione centrale in Toscana, Siena si confrontò piú volte contro Firenze, soprattutto nelle zone in cui i due territori comitali si incontravano, cioè la Val d’Elsa e il Chianti. Negli anni in cui regnava Federico II, il governo era retto dal «Consiglio dei Ventiquattro di Parte ghibellina del Popolo della città e del contado di Siena»: l’indirizzo politico era netto, ma era altrettanto chiaro che si trattava di un governo popolare e non solo di Parte. Come spiegare allora il conflitto tra Firenze e Siena se, dopo la morte dello Svevo, entrambi i Comuni sono retti da governi di Popolo? Alla base dello scontro, naturalmente, al di là dell’appoggio a Manfredi, vi erano interessi economici: come ha notato Gabriella Piccinni, il rapporto tra finanza e politica, tra politica e mercato, tra etica e affari, fu particolarmente tortuoso e complesso. E il successo di Montaperti trasformò Siena, anche se per una manciata di anni, nella potenza finanziaria piú ri-

nomata d’Europa, capeggiata da stuoli di mercanti e banchieri, con filiali in ogni dove e anche esattori delle decime pontificie. Proprio il legame con Roma sarebbe stato il grimaldello utilizzato dal papa per scardinare il connubio tra Siena e Manfredi: colpiti da scomunica e impossibilitati nei loro traffici, i Senesi persero il primato, sostituiti dagli antagonisti fiorentini. La battaglia contro Firenze venne dunque perduta prima sul campo finanziario che su quello militare. A Siena, dopo Montaperti, Provenzano Salvani «guidava tutta la città, e tutta parte ghibellina di Toscana», scrive Giovanni Villani. Ma nella piana di Colle di Val d’Elsa, avamposto guelfo, nel giugno del 1269, l’esercito di Siena, guidato da Provenzano, fu sconfitto dalle milizie capeggiate dall’angioino Jean Britaud. Il condottiero senese, ucciso forse da un Tolomei, finí decapitato e la sua testa, a battaglia conclusa, fu infilzata su una picca. «Messere Provenzano Salvani – continua Villani – signore e guidatore dell’oste dei Sanesi, fu preso, e tagliatogli il capo, e per tutto il campo portato fitto in su una lancia», riprendendo la leggenda che

Arezzo, Duomo. La tomba del vescovo Guglielmino degli Ubertini, morto nella battaglia di Campaldino nel 1289 e le cui spoglie, nel 2008, sono state traslate nella cattedrale aretina, che ne custodisce anche il pastorale e la spada.

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gli pronosticava che la sua testa sarebbe stata «la piú alta del campo», previsone da lui intesa invece come una brillante vittoria.

Nasce il Governo dei Nove

Mentre il tentativo di pacificazione condotto dal cardinale Latino Malabranca in Firenze non portò che a nuovi dissidi, a Siena si giunse a un compromesso, dovuto principalmente a comuni interessi economici. Dopo alcune esperienze politiche incerte, si giunse al cosiddetto Governo dei Nove, espressione della oligarchia bancaria e mercantile che avrebbe retto la città (in chiave guelfa) sino alla metà del Trecento. Tuttavia, il guelfismo di Siena, a livello ideologico, non ha attraversato i secoli. Dal punto di vista strettamente campanilistico, infatti, i Senesi si percepiscono ancora oggi come «ghibellini». Aveva allora ragione lo storico Giovanni Cherubini, quando scrisse che questo «sentire ghibellino, per il popolo senese, significava, in primo luogo, avversione a Firenze». A ciò si aggiunga, parafrasando il titolo di un volume curato da Gabriella Piccinni, che se la fedeltà senese era ghibellina, gli affari furono certamente guelfi. 34

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BIANCHI, NERI, VERDI E SECCHI Gli eventi politici ricordati a proposito della città di Prato condizionano i mutamenti di regime e gli esili anche per Pistoia dove, sul finire del XIII secolo, emerse, tra tutte, la nobile schiatta dei Cancellieri. Un autore anonimo scrisse che tale famiglia, «in quel tempo, avea diciotto cavalieri a speroni d’oro, ed erano sí grandi e di tanta potenza che tutti li altri grandi soprastavano e batteano (…). Molto villaneggiavano ogni persona e molte sozze e rigide cose faceano». Ai primi del Trecento la città si spaccò in due nuove fazioni: i bianchi e i neri. Stando alle parole di Dino Compagni, la divisione si sarebbe originata proprio all’interno della famiglia dei Cancellieri: «Queste due parti, Neri e Bianchi, nacquono d’una famiglia che si chiamava Cancellieri, che si divise: per alcuni congiunti si chiamarono Bianchi, gli altri Neri. E cosí fu divisa tutta la città». A capo dei primi si distingueva Schiatta Amati, imparentato con la potente famiglia popolare dei Cerchi di Firenze, mentre i secondi facevano riferimento a Simone da Pantano, amico di Corso Donati, futuro leader dei neri fiorentini, e rappresentante dell’aristocrazia di antico lignaggio. Da Pistoia, i leader delle due fazioni furono confinati a Firenze, ma ciò provocò l’espandersi a macchia d’olio di tale nuova divisione. Con quella mossa Pistoia offriva anche il pretesto a Firenze per una pesante e definitiva intromissione nella propria politica interna, divenendo ben presto una città satellite del guelfismo fiorentino. E, nel mentre, ha scritto lo storico Isidoro del Lungo, la divisione in bianchi e


Sulle due pagine altre miniature tratta dall’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Nella pagina accanto, l’attacco dei Fiorentini a Pistoia, sferrato nel 1228 e in occasione del quale fu portato sul campo anche il

carroccio. In basso, Uguccione della Faggiuola, capo dei ghibellini di Toscana, conquista Lucca, nel 1314: il condottiero entra in città dalla porta raffigurata sulla destra, mentre dalla parte opposta uno dei suoi uomini caccia a colpi di lancia Gerardo di San Lupidio, vicario del re Roberto d’Angiò, e i guelfi lucchesi.

neri «a poco a poco tutti trascinò seco, anche i religiosi, anche le donne». Se a Pistoia i guelfi diedero vita alla scissione tra bianchi e neri, ad Arezzo, ai primi del Trecento, la fazione ghibellina originò una divisione interna, dando vita alle altrettanto agguerrite, ma certamente meno note, fazioni dei cosiddetti «verdi» e dei «secchi». I primi, il cui nome faceva riferimento ai rami ancora floridi e nel pieno del rigoglio, trovavano in Uguccione della Faggiuola il proprio leader, e comprendevano ampie fette di mercatores; i secondi, il cui nome era connesso al ramo privo di fogliame, erano capitanati dalla famiglia di origine longobarda dei Tarlati da Pietramala, di tradizione piú schiettamente signorile e che dominarono la scena aretina nel primo quarto del Trecento, grazie ai due fratelli Guido e Pier Saccone. Il primo resse la città in qualità di vescovo (1312-1327); Pier Saccone, invece, ereditò la signoria della città, fronteggiando un nuovo vescovo a lui chiaramente ostile. Si dovrà attendere il 1331 per giungere a una pace, sancita, come spesso accadeva, da un matrimonio: la figlia di Pier Saccone, Francesca, andò in sposa a Francesco di Neri della Faggiuola, ponendo cosí fine (come al solito, temporaneamente) al dissidio interfamiliare.

Ad Arezzo, invece, già dal XII secolo, si distinguevano alcune grandi famiglie ghibelline come gli Ubertini e i Tarlati, opposti ai Bostoli, guelfi. Nel 1241 il vicario imperiale riuscí a pacificare le fazioni e cosí anche Arezzo accettò Podestà di nomina imperiale: dal 1237 sedette sulla cattedra aretina Marcellino, già vescovo di Ascoli, che aveva svolto, con successo, una missione diplomatica tra i Comuni della Lega e Federico II. Dopo essersi apparentemente mostrato in linea con l’imperatore, giurando quale vassallo per il controllo su Cortona, il vescovo, schieratosi con Gregorio IX, abbandonò la città, inseguito dalle milizie imperiali. Caduto in mani nemiche nel corso di uno scontro a Osimo, nel dicembre del 1247, dove svolgeva il ruolo di Rettore della Marca per conto di Gregorio IX, fu gettato in carcere. Il 21 febbraio del 1248, Marcellino sarebbe stato legato mani e piedi con ancora i paramenti sacri addosso, steso sopra GUELFI E GHIBELLINI

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LE FAZIONI IN LOTTA

Particolare del frontespizio dello Statuto della Mercanzia di Siena, opera di Sano di Pietro. 1472. Siena, Archivio di Stato.

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un asino, con il volto sul posteriore della bestia e condotto al castello di San Flaviano dove, coperto di sterco, sarebbe stato impiccato quale traditore. Pare addirittura che in seguito il suo cadavere fosse stato riesumato, trascinato nel fango, e nuovamente impiccato. Secondo Kamp, Davidsohn e altri studiosi, il cardinale Raniero Capocci – che ci ha trasmesso queste informazioni – fece dell’episodio un simbolo della propaganda antifedericiana, stigmatizzando lo Svevo e trasformando Marcellino in un’icona-martire del guelfismo, abbellendo il racconto di eventi miracolistici e soprannaturali. Nello stesso anno veniva eletto vescovo il trentenne Guglielmino, della casata degli Ubertini,

che resse Arezzo sino al 1289. In questo quarantennio il vescovo e la città si districarono tra le vicende politiche del tempo: il presule, pur ghibellino, nel 1255 condusse una schiera di balestrieri in Puglia per combattere contro Manfredi. Espulso nel 1261, vi fu fatto rientrare solo quando si giunse a una pace in città. All’arrivo di Carlo d’Angiò, Guglielmino nel 1265 divenne Capitano della Parte guelfa di Siena, pronto a prestare aiuto ai Senesi schieratisi con Carlo I: l’Ubertini si mostra un abile politico, capace di passare da una fazione all’altra, in base al vento del momento. Se Arezzo accoglie molti fuorusciti da Siena, è lo stesso vescovo che promette al papa di cacciarli dalla


propria città in cui gli ha offerto riparo. Nella fase finale della sua carriera episcopale, il prelato riabbracciò la Parte ghibellina: dopo una fase popolare e un fallito tentativo di cooperazione tra le fazioni, Arezzo conobbe infatti un momento ghibellino (1287-1289). I Guelfi fuorusciti chiederanno aiuto a Firenze che travolse Arezzo e i suoi alleati a Campaldino, dove l’anziano vescovo, guidando i suoi, trovò la morte, non prima, però, di aver tentato, senza successo, di evitare la guerra vendendo al nemico gran parte dei fortilizi aretini, cercando di assicurarsi un cospicuo vitalizio.

Centri egemoni e centri satellite

Il destino politico delle città toscane minori fu spesso dettato dalle posizioni di quelle dominanti: le vicende interne di Lucca, Prato e Pistoia seguirono spesso quelle della vicina Firenze, ora in senso condiscendente, ora in antitesi. Lucca aveva una tradizione guelfa di vecchia data, almeno sin dal 1260, quando un suo contingente, capitanato da Niccolò Garzoni, fu l’ultimo a difendere il carroccio nella piana di Montaperti. Dopo la sconfitta patita sull’Arbia, la città divenne la principale roccaforte guelfa, ricettacolo della maggior parte dei Fiorentini esuli. Nel 1261, da Lucca partí un’ambasciata guelfa diretta in Baviera, per richiedere a Corradino un suo intervento contro l’usurpatore Manfredi, «in quanto in molti erano stati uccisi, catturati e le città e i castelli distrutti». Si implorava la sua discesa in Italia, oppure l’invio di un contingente in aiuto di Lucca, roccaforte guelfa, blandendo forse il giovane svevo con la prospettiva del recupero del Regnum, come suggerisce Tolomeo da Lucca. Egli non scese a causa dell’età minore, scrive il cronista, ma promise che sarebbe venuto una volta raggiunta la maturità. Nella risposta consegnata all’Altoviti vi si leggeva che Corradino aderiva di buon grado alla Lega guelfa creata per contrastare Manfredi, principe di Taranto, e i ghibellini di Toscana; ma non si faceva cenno all’invio di truppe. Promise però che, paradossalmente, avrebbe inviato aiuti «contra Senenses et Gibellinos de Tuscia»: saranno gli stessi ghibellini da cui venne accolto festosamente sette anni piú tardi e con i quali stipulò un’alleanza. I guelfi gli chiesero comunque la sua mantellina di vaio (pelliccia ricavata dal mantello invernale degli scoiattoli russi e siberiani usata e pregiata in età medievale come capo di abbigliamento distintivo di magistrati, dignitari, dottori, ordini cavallereschi, n.d.r.) come pegno: venne esposta in S. Frediano, a Lucca, come fosse una reliquia, una sorta di

salvifico amuleto contro i ghibellini. Ma paradossalmente, quando scese in Italia, Corradino incontrò la resistenza di Lucca, divenuta nuovamente salda roccaforte guelfa e filoangioina subito dopo la battaglia di Benevento (1266). Come nella città del giglio, anche a Prato già dalla fine del XII secolo si erano create divisioni tra le famiglie della piú antica aristocrazia urbana, dando vita a due coalizioni che ancora non si chiamano guelfi e ghibellini, ma che avrebbero ben presto assunto i famigerati nomi. Da un lato, una parte della città fa capo ai Dagomari e ai Guazzalotti, dall’altro ai filoimperiali Ugorlandi, affiancati dai Levaldini, Vinaccesi e Tignosi. Al tempo di Federico II, Prato visse una fase a maggioranza ghibellina e, forse a partire del 1240, Riccardo da Lentini, praepositus aedificiorum del Regno, fu incaricato di sovrintendere i lavori per la costruzione del castello, in qualità di magister castri imperatoris. Con la morte improvvisa di Federico, la vicenda politica pratese segue quella popolare di Firenze, assieme alla quale viene sconfitta da Siena a Montaperti (1260). I medesimi esili e le sistematiche distruzioni delle case torri si verificarono a Prato cosí come nella vicina città dominante, seguendo la stessa cronologia. Con l’appoggio angioino, a partire dal 1271, si impose un governo a maggioranza guelfa, anche se, a causa delle divisioni in seno alla Parte guelfa, anche qui prese vita un governo composto dalle Arti, che bandí le famiglie di tradizione magnatizia dalla gestione del potere. Anche Pistoia ebbe un atteggiamento filoimperiale: Federico Barbarossa le aveva conferito il titolo di «fidelissima Imperio», un fulgido esempio per le città italiane di obbedienza alla volontà imperiale. Il Comune pistoiese decise perciò di allearsi con Pisa e Siena, in chiave chiaramente antifiorentina. Nel 1228 Pistoia fu sconfitta da Firenze, alleatasi per l’occasione con la vicina Lucca. Pistoia fu da allora costretta a comunicare ogni decisione politica a Firenze, a sottoscrivere condizioni di pace e a riammettere in città i molti guelfi sino ad allora fuorusciti. Il regime popolare instaurato da Agolante Tedici provocò immediatamente la reazione di Firenze, che, nel 1257, giunse a distruggere parte del circuito murario cittadino, pur dopo aver siglato, nel 1254, la fittizia Pace di Empoli. Dopo Montaperti, Pistoia tornò a essere ghibellina, ma all’indomani di Benevento tornò a regime guelfo. Anche qui, i tentativi di pacificazione e i matrimoni tra famiglie rivali non portarono svolte di rilievo. Col conflitto tra bianchi e neri anche Pistoia finí per essere ulteriormente nell’orbita del controllo fiorentino. GUELFI E GHIBELLINI

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L’Italia in fiamme Come in un gioco del domino, tutte le maggiori città italiane divengono pedine della lotta di fazione. Tra papato e impero, le grandi famiglie cavalcano la contesa, trascinando il Paese in una spirale di violenza 38

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ra la fine del Duecento e gli inizi del Trecento, la divisione in guelfi e ghibellini coinvolse l’Italia intera. Lo storico Giovanni Tabacco scrisse che proprio in questi decenni si assiste a «un certo irrigidimento del nome “guelfo” e “ghibellino” in ciascuna famiglia signorile e in ciascuna collettività cittadina, cosí da tramutarli in elementi costitutivi delle tradizioni peculiari di famiglie e cittadinanze». Come già per la Toscana, anche nel resto d’Italia «ciò si associa normalmente allo sviluppo di consuetudini di ostilità tra città o consorterie

determinate, rivali nell’espansione territoriale, per contiguità geografica o concorrenza di commerci, o nella scalata al potere locale. Ma in pari tempo si nota che nei due schieramenti, pur cosí condizionati da una serie di conflitti particolari, si va delineando qualche tendenza distintiva generale, non riducibile a un piú o meno fortuito riferimento alla potenza imperiale o papale. Il guelfismo, anche se le eccezioni sono frequenti e talvolta cospicue, come quelle di Genova e Pisa, e benché esso abbia origine, non meno del ghibellinismo, nel conflitto fra

L’assalto respinto di Ezzelino alla città di Belluno, affresco di Giovanni Demin. 1839. Belluno, Sala del Consiglio municipale. Ezzelino fu il piú potente signore ghibellino del Veneto e controllò gran parte della regione per oltre un decennio.

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nobili, appare non di rado concomitante con lo sviluppo degli organismi di Popolo». Di questa coincidenza era invece convinto il cronista Galvano Flamma, frate domenicano vissuto tra Milano, Pavia e Bologna nella prima metà del XIV secolo. Infatti, descrivendo le fazioni nate in Milano, egli le distingueva chiaramente, istituendo una netta separazione tra nobili/ghibellini e popolari/guelfi. In realtà, Milano, agitata da lotte interne, si era però schierata in modo unitario prima contro le ingerenze del Barbarossa e poi 40

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contro quelle di Federico II, rimanendo sopraffatta nella sconfitta di Cortenuova nel 1237. All’indomani della vittoria, Federico entrò in Cremona con un elefante che trascinava il Carroccio milanese, ormai ridotto in brandelli, che poi inviò in Campidoglio, come omaggio alla Città Eterna e scherno per il papa. In quel frangente approfittarono dell’occasione i Torriani, che aiutarono i Milanesi scampati alla disfatta, divenendo ben presto campioni del guelfismo, in collaborazione con gli elementi

Miniatura raffigurante la sconfitta dei Milanesi a Cortenuova, nel 1237, per mano di Federico II, dall’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.


diverse fazioni, le quali fazioni hanno posto e pongono dinnanzi a sé due sole fazioni di tutti i cristiani, ovvero la Parte guelfa, che usurpò il nome di Parte della Chiesa, e la Parte ghibellina, che è la Parte Imperiale. Ai miei tempi vi furono due fazioni a Milano, ovvero la fazione dei Visconti, e con essa i nobili della detta città, ed è la parte ghibellina, e la fazione torriana, e con essa il volgo, ed è la parte guelfa. E le predette fazioni hanno la supremazia sulle altre fazioni della Lombardia». Bonincontro faceva riferimento alla signoria esercitata da Martino della Torre, anziano del Popolo nel 1241, e dopo di lui Filippo della Torre, eletto Podestà del Popolo a vita. La svolta giunse con la battaglia di Desio, nel corso della quale i Visconti, spalleggiati dal vescovo Ottone, catturarono Napoleone della Torre che fu poi rinchiuso in una gabbia, fatta penzolare dalle mura di Castel Baradello, presso Como, dove morí nel 1277. La fortuna arrise ai Visconti sino al 1302, quando una Lega, animata dal marchese del Monferrato, favorí il ritorno di Guido Torriani, che fu subito creato Capitano In basso monumento equestre di Cangrande della Scala, da alcuni attribuito a Giovanni di Rigino. Prima metà del XIV sec. Verona, Museo di Castelvecchio.

popolari della città, e in contrapposizione alla famiglia dei Visconti, appoggiati invece dalla componente nobiliare. Bonincontro Morigia, vissuto alla metà del Trecento, e legato ai Visconti scrisse che «non essendo state osservate le leggi emanate dai due maggiori principi del mondo, ovvero il Papa e l’Imperatore, a causa della bramosia di onori e ricchezze mondane, per molte volte e infiniti anni la sede imperiale è scomparsa. I lombardi quindi non avendo re sino ad oggi, stettero sotto tiranni per infiniti e diversi tempi, e sotto GUELFI E GHIBELLINI

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Miniatura raffigurante Dante che parla con Jacopo del Cassero, podestà del Comune di Bologna, e con il leader ghibellino Buonconte da Montefeltro, che incontra nel V canto del Purgatorio, da un’edizione della Divina Commedia con commenti in latino. Prima metà del XIV sec. Londra, The British Library.

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del Popolo. Il cronista poi ripercorre gli avvenimenti relativi alla discesa di Arrigo VII, che significò il rientro di Matteo Visconti, e alle lotte che seguirono la morte dello sfortunato imperatore: pur essendo legato alla fazione ghibellina, il Morigia riflette sulla vita politica lombarda, riconoscendo proprio nella divisione delle factiones il motivo profondo della debolezza delle città lombarde e sottolinea le discordie interne della parte ghibellina che si erano verificate sia a Monza, sua città natale, che a Milano, cosí come anche all’interno della famiglia Visconti, lacerata a causa delle ambizioni di Marco e Lodrisio, che portarono anche a vere e proprie guerre civili, come quella culminata nella sanguinosa battaglia di Parabiago (1339)

Le epurazioni di Mastino

Un altro cronista, l’astigiano Guglielmo Ventura, ci informa delle divisioni nel resto dell’Italia padana: nel 1259 «i primi a dividersi furono i veronesi. Mastino della Scala, fortissimo ghibellino, scacciò da Verona tutti i piú ricchi e piú ragguardevoli e distrusse le loro case, che io ho visto in rovina dopo la morte del predetto Mastino, mentre era al potere come suo successore Alberto della Scala; morto Alberto, è al potere Bartolomeo che, giorno dopo giorno, per42

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seguita ed espelle tutti coloro che sono considerati guelfi». In realtà, Mastino, nel 1259, era riuscito a sopravvivere al tracollo del piú potente signore ghibellino del Veneto, Ezzelino da Romano, considerato dal cronista guelfo Villani «il piú crudele e ridottato tiranno che mai fosse fra’ cristiani». Questi fu ucciso in battaglia a Cassano d’Adda, dopo che, per oltre un decennio, aveva dominato su Padova, Verona, Vicenza e Treviso, complice l’appoggio di Federico II, del quale aveva sposato la figlia naturale Selvaggia. Suo concorrente nel Nord Italia era il signore di Piacenza e Cremona, Oberto Pelavicino, in un primo periodo alleato di Ezzelino, poi, spaventato dalla conquista di Brescia da parte del rivale, vide bene di passare con gli Estensi, divenendo suo nemico. Aveva ragione san Bernardino da Siena quando esclamava: «Ho trovato soldati che per aver denari se egli è stato guelfo s’è fatto ghibellino, e cosí un ghibellino s’è fatto guelfo; ch’io l’ho già detto loro: “Voi siete migliori parziali che molti altri, i quali vi rimovete per denari da guelfo a ghibellino in un punto!”». A Cremona sorsero rivalità tra i ghibellini, capeggiati dal Pelavicino e da Buoso di Dovara, e i guelfi, con in testa i Cavalcabò, i quali, dopo la battaglia di Benevento, riuscirono a rientrare


in città, instaurando un governo guelfo che si oppose persino ad Arrigo VII. Questa resistenza all’imperatore costò cara a Cremona, che fu saccheggiata dalle truppe imperiali, privata del contado e persino del titolo di città. A fianco dell’imperatore, in qualità di vicario imperiale dal 1311, c’era Cangrande della Scala, signore di Verona, Vicenza e in lotta perenne con la guelfa Padova. «Nel corso del Trecento – scrive Gian Maria Varanini – nelle quattro principali città tra il Mincio e il Piave (Verona, Vicenza, Padova e Treviso) e nei loro distretti si determinano le condizioni per un profondo cambiamento delle forme dell’agire politico: scompaiono quelle partes organizzate che sino alla fine del Duecento o ai primi decenni del Trecento avevano anche in esse città giocato un ruolo rilevantissimo, per non dire decisivo, nella vita politica cittadina e sovracittadina». Le motivazioni di questa scomparsa sono ovviamente varie, ma è indubbio il ruolo giocato «dai robusti regimi signorili che si affermano fra Due e Trecento, e sopratutto nel corso del Trecento, a Verona (cui Vicenza è a lungo soggetta), a Padova e anche a Treviso».

Cambi di fronte

Altrettanto guelfa era divenuta Ferrara, dove, almeno dal 1240, signoreggiavano gli Estensi. Già ai tempi di Federico II la famiglia d’Este aveva orientato la propria politica in senso antiimperiale, conquistando i territori di Modena e Reggio, assoggettati da Opizzo e perduti ben presto dal suo successore, Azzo VIII, accusato da Dante e da altri di parricidio e altri efferati delitti. I cambi di fronte e gli scontri nell’area emiliana furono frequenti e sempre sanguinosi. Salimbene de Adam fu testimone oculare e registrò come, per esempio, nel 1264 «il marchese d’Este, con cavalieri e fanti di Ferrara, vennero in gran numero a Modena, e duecento cavalieri guelfi fiorentini similmente vennero a Modena su richiesta e per volontà dei nobili Giacomino Rangoni e Manfredo de Rosa di Sassuolo e di tutta la sua parte, cioè

Medaglia in bronzo modellata dal Pisanello (al secolo, Antonio di Puccio Pisano) raffigurante la grifonessa, con la scritta Perusia sul collare, colta mentre allatta i fanciulli Braccio da Montone e Niccolò Piccinino. 1440 circa. Perugia, Museo Archeologico Nazionale dell’Umbria

quella della Chiesa (…) ed espulsero dalla città la parte di quelli di Goriano che erano imperiali, e tutti gli amici di quei nobili». L’anno seguente «vennero contro la città di Reggio i Modenesi e quei guelfi che erano nella città di Modena e quelli di Fogliano e i Roberti ruppero con violenza la porta del castello che era murata (…) e attaccarono battaglia con quelli da Sesso e li cacciarono fuori dalla città di Reggio con furore sterminatore». Alla fine del Duecento si scatenò una guerra tra Comuni guelfi che coinvolse persino il papato: Ferrara e Bologna, da sempre alleate della causa guelfa, si trovarono a guerreggiare per il primato sul territorio emiliano e gli Estensi assunsero un atteggiamento per l’occasione «ghibellino», cacciando il vicario del re angioino di Napoli nel 1317. Solo l’intervento di papa Giovanni XXII fece tornare la casata d’Este sulle pristine posizioni guelfe. A Bologna, nel corso del Duecento, la lotta tra fazioni fu crudelissima: i due gruppi facevano capo alle famiglie dei Lambertazzi e dei Geremei. Questi ultimi, soprattutto grazie al sostegno dei ceti mercantili e popolari, riuscirono a cacciare definitivamente la Parte Lambertazza, definibile come signorile e ghibellina, distruggendone le case torri nel 1274. La divisione fu molto aspra: lo Statuto prevedeva addirittura che «nessuno della parte dei Geremei della città di Bologna o del distretto, cavaliere o fante, maschio o femmina, osi o presuma o possa contrarre, fare, disporre od ordinare matrimonio, sponsali, accordi, affinità o parentele o qualsivoglia delle predette cose con alcuno dei banditi o ribelli o disobbedienti del Comune di Bologna della parte dei Lambertazzi». Chi, tra i Geremei, fosse stato scoperto ad agire in favore dei banditi o dei ribelli, avrebbe dovuto pagare multe salatissime. Il clima di sospetto doveva essere palpabile: nel palazzo nuovo del Comune era stata addirittura posta una cassa per accogliere le eventuali denunce scritte che chiunque poteva muovere contro «qualsivoglia (segue a p. 46) GUELFI E GHIBELLINI

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GUELFI E GHIBELLINI... DA ESPORTAZIONE?

Nel castello di Pernes-les-Fontaines, poco lontano da Avignone, si possono ammirare alcuni splendidi affreschi che raffigurano gli anni della lotta fra Carlo d’Angiò e gli ultimi Svevi: non manca nessuno dei protagonisti. In una scena Clemente IV conferma Carlo I quale nuovo re del Mezzogiorno, in un’altra lo stesso Carlo affida un feudo a un suo vassallo, e poi scene di battaglie in cui spiccano le figure di un cadavere trascinato da un cavaliere a cavallo, e un sovrano in ginocchio e a capo chino, con le braccia strette da catene. Si tratta senza alcun dubbio della duplice vittoria angioina conseguita a Benevento e a Tagliacozzo: il cadavere di Manfredi fu rinvenuto giorni dopo la disfatta e trascinato davanti ai suoi ufficiali catturati per il riconoscimento; il re in ginocchio è il giovane Corradino, decapitato a Napoli, due mesi dopo la beffa dei Piani Palentini. La datazione vuole le pitture realizzate tra il 1280 e il 1290 e il committente, con buona probabilità, sarebbe uno dei tanti provenzali che dovette combattere con Carlo I in Italia e che da questi

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ottenne feudi e incarichi di prestigio. Si deve però notare che in quegli anni Carlo, pur essendo conte di Provenza, non signoreggiava ancora su Pernes: l’area, da alcuni anni, veniva detta «marchesato di Provenza» e la sua giurisdizione era sotto il papa, che l’aveva ricevuta dal conte di Tolosa. Gli affreschi di Pernes, dunque, celebrano i legami fra il papato e gli Angioini, ma, oltre a ciò, rimarcano il fatto che la vittoria contro gli Svevi fosse stata ottenuta a fatica: proprio in Provenza, infatti, si pianse la morte di Manfredi e le terre del Venassino furono donate al papa con una certa riluttanza. Sin dalla fine del XII secolo, infatti, l’influenza imperiale con Corrado III si era fatta sentire anche in Provenza (persino nei richiami alla romanità nella architettura) e, al pari dei territori italici, quest’area era un nodo fondamentale per i rapporti tra il papato e l’impero. Negli anni di Federico II fu teatro di «sconfinamenti» papali in territorio di competenza dell’impero e rivolte e insurrezioni urbane fuono all’ordine del giorno: a Tarascona, a Marsiglia, ad Avignone, a Valence. Il clima era

talmente incandescente che a Die e Glandèves vennero addirittura assassinati i vescovi! La caratteristica principale di queste rivolte era il forte anticlericalismo: furono sequestrati i beni del clero, l’arcivescovo di Arles venne scomunicato, quello di Avignone cacciato dalle confraternite, i villaggi si rifiutarono di pagare le decime e incendiarono i raccolti. In questo clima di tensione comparvero (cosí come in Italia) politici professionisti inviati a governare le città in rivolta e, molti di loro, sono inequivocabilmente definibili come «ghibellini», fedeli a Federico II: si tratta di Torello da Strada, Spino da Soresina, Percivalle Doria, Nicolino Spinola. Mentre infuriava la lotta contro il papa e i guelfi in Italia, in Provenza Federico inviò vicari imperiali e podestà di sicura e comprovata fede, al punto che ad Avignone, il sigillo del Comune fu modificato e cosí l’aquila sostituí i vecchi girifalchi. Si trattò, però, di una fase di breve durata: già verso il 1240 l’abilità dei legati pontifici fece capovolgere la politica in favore papale e, con


Sulle due pagine Pernes-les-Fontaines, Tour Ferrande. Particolari del ciclo pittorico che narra la conquista della Sicilia da parte di Carlo I d’Angiò. XIII sec. Un combattimento fra cavalieri (in alto) e Carlo che riceve il diploma papale con il quale viene consacrato re di Sicilia. l’appoggio di alcune famiglie che, piú che «guelfe», sono vicine ai vescovi locali, nel 1245 soffocò le rivolte «ghibelline». E allora, come definire i ghibellini di Provenza? Il ghibellinismo d’Oltralpe ha alcune particolarità essenziali che, a detta dello storico francese Jacques Chiffoleau, si ritrovano proprio in questa presenza di podestà nelle città provenzali. «L’appello a un garante esterno, l’imperatore – scrive Chiffoleau – autorizza in realtà la costituzione di una majestas civitatis. In questo caso bisogna però riconoscere che il ghibellinismo, dal momento che vuole assorbire o urbanizzare, o se vogliamo, naturalizzare la maestà, è evidentemente un movimento che,

paradossalmente, minaccia tanto il potere imperiale quanto il guelfismo piú virulento». Gli ultimi ghibellini di Provenza trovarono riparo a Marsiglia e poi presso Pietro d’Aragona, con il quale, già nel 1261, avevano avuto incontri segreti. Alcuni intellettuali mantennero accesa la fiamma delle idee imperiali e cantarono in favore di Manfredi: si tratta di Raimondo di Tours e di Bertrand Carbonel, attivo a Marsiglia negli anni della spedizione italiana di Carlo I. Negli ambienti piemontesi e provenzali

circolavano false profezie antiangioine e serpeggiava un sentimento ghibellino che, ancora nel 1274, spinse gli abitanti di Salon-de-Provence a ingaggiare una zuffa coi rivali della vicina Lamanon, al grido di «A morte! Dio lo vuole! Germania! Germania! E viva l’imperatore». Furono forse episodi come questi, consumati ad appena una trentina di chilometri da Pernes, a convincere il nobile locale, consapevole della «brace ghibellina» ancora calda, ad affrescare le sale del suo castello in chiave antighibellina.

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L’estensione del conflitto montana, ora marittima, era un vero puzzle di poteri frammentari in continua trasformazione e ricomposizione che davano adito a lotte ininterrotte, a improbabili alleanze e comprensibili cambi di fronte. Nel XXVII canto dell’Inferno, Dante, per bocca di Guido da Montefeltro, ricorda come l’area fosse divisa e tormentata da continue guerre: Ravenna e Cervia sotto il dominio dei da Polenta, di un guelfismo moderato; Forlí, centro del potere di Guido da Montefeltro, il piú potente signore ghibellino dell’area, passò sotto la famiglia degli Ordelaffi che, dopo il 1300, accolsero gli esuli fiorentini di parte bianca; a Rimini e nella Marca Anconetana signoreggiavano i Malatesta, di parte guelfa, che tentarono anche un’alleanza matrimoniale con i Da Polenta: si tratta dello sfortunato matrimonio di Francesca da Rimini e Gianciotto Malatesta. La zona orbitante attorno a Imola e Faenza sottostava al «Demonio», soprannome di Maghinardo Pagani da Susinana, singolare personaggio di posizione ghibellina, ma, poiché educato a Firenze, sempre «guelfo» se convocato a combattere dalla città gigliata: «il lioncel dal nido bianco che muta parte dalla state al verno».

Roma non sfugge al «contagio»

Miniature raffiguranti l’ingresso di Arrigo VII a Milano (1311) e la sua incoronazione (1312), dal Codex Balduineus. 1340 circa. Coblenza, Landeshauptarchiv.

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persona che venisse o facesse contro le predette cose od alcuna delle predette cose». Bologna si trovò ben presto a far parte dello Stato della Chiesa, anche per la rinuncia degli Asburgo a quei territori. La vittoria però si trasformò in ulteriore divisione: l’unione guelfa si spaccò in due, cosí come accadeva a Firenze. Di fronte allo strapotere estense, che contava sull’appoggio di una parte della cittadinanza bolognese, intorno al 1300, furono riaccolti in città persino i Lambertazzi e vennero aperte le porte ai bianchi fiorentini, creando una forma anomala di «ghibellinismo» antiangioino che, superato il pericolo, fu subito dimenticata e Bologna adeguò la propria identità politica nel contesto piú ampio dello Stato pontificio. Dell’abbandono di questi territori da parte asburgica, e delle pretese pontificie, pagò un caro prezzo anche la Romagna, dilaniata da lotte interne, complicate dalla presenza di milizie papali e angioine. L’area romagnola, ora

Non mancarono lotte tra guelfi e ghibellini dunque neppure nei territori della Chiesa e persino a Roma: a Todi, nel 1275, si ordinò una pace «tra le parti della città e del contado di Todi, ossia da ser Ugolino di Gerardo, sindaco della Parte dei Fuorusciti Guelfi, e da ser Oddone da Acquasparta, sindaco della Parte degli Intrinseci Ghibellini». In quell’occasione si propose di eleggere il podestà «da tanti elettori di una parte da tanti dell’altra. E se tali elettori, deputati a fare la detta elezione, fossero in concordia, partecipi alla votazione il signor vescovo, e quello che sarà il volere del vescovo valga». Il Comune di Foligno stabilí che in città «e nel suo distretto il nome della parte guelfa e della Chiesa romana sia saldo e trionfi e regni; e che nessuna persona osi o presuma assumere e far proprio tale nome, o militare a favore della parte ghibellina pubblicamente o di nascosto , né mai gridare o dire “viva la parte ghibellina” o simile. E se si trovasse qualche persona aver agito al contrario, ovvero aver gridato o lottato, al tempo in cui i ghibellini venendo da ogni luogo arrivarono alla città di Foligno per invaderla o occuparla, sia punita e condannata con pene pecuniarie e fisiche, ad arbitrio del podestà, e chiunque possa ucciderla senza pena o bando». A Perugia, nel 1312, alcuni cittadini di parte ghibellina, scomunicati per aver aderito a


Ludovico il Bavaro, furono trovati a perforare le porte della Chiesa pur di assistere alla elevazione del Corpo di Cristo. A Rieti, nel 1344, «affinché lo stato presente del Comune e del popolo reatino aumenti di bene in meglio e si conservi», si stabilí che «né il podestà né il capitano né alcun altro ufficiale del Comune di Rieti, possano o debbano procedere contro la persona di chiunque fosse in passato fuoruscito o nominato ghibellino della città di Rieti, in occasione di qualsivoglia crimine, eccesso o delitto da questi compiuto in qualsiasi modo, durante il tempo in cui i ghibellini rimasero fuori dalla detta città fino al 25 di maggio 1344, giorno in cui rientrarono pacificamente e tranquillamente». A Roma, dai tempi di Federico II, si distinguevano famiglie filoimperiali e antimperiali. All’arrivo di Corradino di Svevia, nel 1267, il Senatore, Enrico di Castiglia, attirò in un tranello tutti i grandi guelfi dell’Urbe, che «furono catturati come pesci quando sono presi in gran numero con una sola levata di reti», scrive Saba Malaspina: Napoleone e Matteo Orsini, Pandolfo e Giovanni Savelli, Riccardo Annibaldi, Pietro Stefaneschi e Angelo Malabranca. Dal trabocchetto riuscí a sfuggire, pur se invitato, Rinaldo Orsini. Dopo la vittoria angioina su Corradino (1268) tutti torneranno a dominare la scena romana, in collaborazione con Carlo I. Con la morte di Federico II, nel 1250, e ancor piú con la venuta di Carlo I d’Angiò, il conflitto si allargò al Mezzogiorno d’Italia. Contro Manfredi fu organizzata una crociata nelle terre di Puglia e, dopo Benevento, contro Carlo d’Angiò si ribellarono quanti erano rimasti fedeli agli Svevi. Nel 1267, alla notizia dell’imminente discesa di Corradino, i Saraceni di Lucera insorsero e con loro i molti ghibellini del regno. Dopo la sconfitta ghibellina di Tagliacozzo, Carlo I ordinò una vera e propria caccia all’uomo, ordinando ai propri ufficiali di impiccare quali traditori coloro che avevano parteggiato per gli Svevi. Il regime di polizia istituito dall’angioino però non diede i frutti sperati, anzi: nel 1282 la rivolta dei Vespri Siciliani diede nuovo vigore alla divisione, facendo divampare un nuovo incendio nel Meridione d’Italia. Pietro III d’Aragona, che aveva sposato la figlia di Manfredi, invadeva l’isola e rivendicava un titolo e una tradizione filosveva. La crociata indetta contro gli Aragonesi spostò il conflitto anche nella penisola iberica, trasformando la lotta in una guerra «internazionale». Nel corso di una battaglia navale presso Napoli, il figlio di Carlo d’Angiò, futuro re di Napoli, fu catturato dai ghibellini e incar-

cerato in Aragona per quasi cinque anni. Nel 1295 si trovò una sosta al conflitto col Trattato di Anagni: Giacomo II sembrava propenso ad agevolare il ritorno degli Angiò sull’isola, allettato dall’investitura del regno di Sardegna e Corsica da parte di Bonifacio VIII. Ma sul trono siciliano sedeva un altro aragonese, Federico III, che divenne il nuovo punto di riferimento per i ghibellini italiani, in chiave antiangioina. Contro di lui si scagliò papa Caetani, il quale chiamò alla crociata contro il novello Federico, associato ai perfidi Colonnesi e, naturalmente, ai ghibellini. Si giunse a una nuova tregua solo nel 1302, con la pace di Caltabellotta, siglata dopo che in prigione, a Cefalú, era finito Filippo I d’Angiò. La pace prevedeva la distinzione politica fra il regno di Sicilia, (corrispondente alla parte continentale del regno, con capitale Napoli e in mano agli Angioini), e quello di Trinacria (formato dalla Sicilia e governato da Federico III come unico sovrano assoluto). Alla morte di Federico III, il trattato prevedeva la riunificazione dell’isola al regno angioino dietro pagamento di 100 000 once d’oro agli Aragonesi: l’accordo, però, rimase lettera morta, poiché gli Aragonesi non lasciarono mai piú l’isola.

Gli ultimi imperatori

Pisa ebbe una tradizione talmente filoimperiale che non vi fu la possibilità di una separazione in guelfi e ghibellini, se non tardivamente: lo scontro tra i Visconti e i della Gherardesca fu una divisione sorta in seno all’unica parte esistente in Pisa, quella filoimperiale. Nel 1241 una flottiglia pisana intercettò, su richiesta di Federico II, una serie di vascelli genovesi che trasportavano i vescovi diretti al concilio per scomunicare l’imperatore. Solo nel 1270 sorse una sorta di «Parte guelfa in esilio», formata da un ramo dei Donoratico della Gherardesca e i Visconti, entrati in conflitto con il Comune. Erano invece rimasti ghibellini i discendenti del conte Gherardo Donoratico, decapitato a Napoli con Corradino. Dopo la disfatta della Meloria contro Pisa (1284), venne instaurata la signoria del conte Ugolino della Gherardesca, a cui si associò il nipote Nino Visconti, che governava il giudicato di Gallura. Non so se sia lecito parlare di «guelfismo», ma è certo che i due cercarono una sorta di alleanza con Lucca e Firenze e con la Lega guelfa. Quando poi l’arcivescovo Ruggieri, membro della famiglia ghibellina degli Ubaldini, s’impadroní della città, d’intesa con alcune potenti famiglie pisane (Sismondi, Lanfranchi, Gualandi, da Ripafratta e da Caprona), il conte Ugolino fu catturato e laGUELFI E GHIBELLINI

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L’estensione del conflitto

sciato a morire di fame assieme ad alcuni figli e nipoti. L’episodio, il cui esito è tristemente noto, è narrato magistralmente dall’Alighieri che pone Ugolino tra i traditori della patria. Tra la fine del Duecento e i primi del Trecento, Pisa divenne il principale caposaldo filoimperiale del Centro Italia: dopo il fallimento della spedizione di Corradino di Svevia, che nella città della torre pendente era stato accolto come un imperatore nel 1267, si deve attendere il 1309 per vedere sulla scena italiana un nuovo imperatore. Si tratta dello sfortunato Enrico VII, «l’alto Arrigo» di dantesca memoria, il quale, dopo un accordo con papa Clemente V, scese in Italia accompagnato da un cospicuo esercito, dalla moglie Margherita e da suo cognato, Amedeo V di Savoia. Enrico si presentò come un re pacificatore delle divisioni tra guelfi e ghibellini ma ben presto si trovò ingolfato tra le lotte civili d’Italia e dovette far fronte a una crescente insofferenza guelfa.

Ecco l’agnello di Dio...

Nella Epistola VII Dante dichiara di aver toccato e baciato i piedi del sovrano, forse a Milano, dove fu incoronato re d’Italia, forse in un’altra città del Nord Italia: «Io ti vidi benignissimo, come alla maestà imperiale si conviene, quando le mie mani strinsero i tuoi piedi, e le mie labbra pagarono il loro debito. Allora esultò lo spirito mio in

me e dissi tacitamente: ecco l’Agnello di Dio, ecco colui che toglie i peccati del mondo». Ma la parabola di Enrico VII, dopo un inizio euforico, si trasformò presto in tragedia: in Lombardia aveva trovato Brescia a resistergli e l’imperatore fu costretto ad assediarla per quattro mesi. Nell’ottobre del 1311 i sovrani raggiunsero Genova, dopo aver sostato a Pavia, città di antica tradizione filoimperiale. A Genova, tra il 13 e il 14 dicembre, «in palatio eredum Benedicti Zachariae», l’imperatrice Margherita morí improvvisamente, ad appena 34 anni, colpita dalla peste. Sotto tristi presagi, in primavera, Enrico arrivava a Pisa: sei mesi piú tardi veniva incoronato in Laterano, e nel settembre del 1312 iniziava il lungo e vano assedio di Firenze. Dopo la resistenza di Brescia e quella degli «sceleratissimi florentini», Enrico VII morí improvvisamente a Buonconvento il 24 agosto 1313. Il 29 agosto i Bolognesi scrivevano agli abitanti di Reggio comunicando che, tramite «spie fededegne, messaggeri e corrispondenti amici», avevano ricevuto la notizia che «il re dei Romani è morto il giorno 24, quasi all’ora nona, presso Buonconvento, dove teneva il suo esercito (…) Esultate, dunque, carissimi e indirizzate degni ringraziamenti alla potenza divina». I Pisani, al contrario, resero grandi onori ai resti mortali di quello sfortunato imperatore in cui avevano riposto tante speranze: un grandioso A sinistra il ritratto di Arrigo VII e altre due statue appartenenti al monumento funebre dell’imperatore realizzato da Tino di Camaino e in origine collocato nella cattedrale di Pisa, che oggi ne accoglie il solo sarcofago. 1315. Pisa, Museo dell’Opera del Duomo.


sepolcro monumentale, opera di Tino di Camaino, venne realizzato nel 1315 e posto nell’abside della Cattedrale. Oggi le statue che componevano il grandioso corpus monumentale, si possono ammirare nel Museo dell’Opera del Duomo, mentre la tomba, con i resti dello sfortunato imperatore, è ancora nella Cattedrale.

Una nuova crociata

Nonostante tutto, andava scritto ancora un capitolo nelle vicende d’Italia, mentre si profilavano la crisi del Trecento e la fine del Medioevo. Mentre in Toscana la fazione ghibellina ebbe un nuovo sussulto grazie alle forze di Uguccione della Faggiola e del vescovo, Guido Tarlati, papa Giovanni XXII, da Avignone, tentò di abbattere la potenza viscontea proclamando una nuova crociata e coinvolgendo lo stesso re di Francia, che inviò in Italia suo fratello, Filippo di Valois. Nel 1315 i guelfi e gli Angioini venivano sconfitti presso Montecatini, e dieci anni piú tardi, ad Altopascio, il leader ghibellino Castruccio Castracani, vinceva militarmente i Fiorentini. Il momento era propizio per un nuovo imperatore e un nobile bavarese,

Ludovico, approfittò della fortunata congiuntura per scendere a Milano, dopo aver sbaragliato i rivali tedeschi, e farsi incoronare imperatore da tre vescovi scomunicati. Il suo viaggio proseguí, sulle orme di Enrico VII e, giunto a Pisa, nominò Castruccio signore di Lucca. Scomunicato, il Bavaro proseguí indefesso il suo viaggio, giungendo sino a Roma dove, nel 1328, fu incoronato, in nome del Popolo romano, da Sciarra Colonna, colui che forse osò schiaffeggiare papa Bonifacio VIII. La politica filoimperiale, cantata da Dante e teorizzata da Marsilio da Padova, sembrava aver trovato compimento. Tuttavia, nel volgere di pochi mesi, come spesso accadeva nelle faccende italiche, i Visconti cambiarono atteggiamento politico, Tarlati e Castracani morirono, lasciando importanti vuoti di potere nello scacchiere italiano: il Bavaro, sconsolato, riprese la via della Germania, deluso dagli Italici e incapace di fronteggiare i ripetuti attacchi di Giovanni XXII, che utilizzava gli Ordini mendicanti per dare addosso dall’ambone agli imperiali, che, fra l’altro, si erano divisi attorno al tema della povertà di Cristo e della Chiesa.

Arezzo, Duomo. La formella del cenotafio del vescovo Guido Tarlati che raffigura l’assedio di Chiusi della Verna, nel Casentino, famoso perché comprende il santuario nel quale san Francesco avrebbe ricevuto le stimmate. L’opera fu commissionata dopo la morte del presule, avvenuta nel 1327, agli scultori senesi Agostino di Giovanni e Agnolo di Ventura, i quali la ultimarono nel 1330.

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CITTÀ DIVISE

L’estensione del conflitto

DANTE: ESULE GUELFO O GHIBELLINO FUGGIASCO? Nel canto X dell’Inferno, Farinata degli Uberti ricorda a Dante che i suoi parenti «per due fiate» furono «dispersi» dalla Parte ghibellina, alludendo chiaramente alla militanza guelfa degli Alighieri e al loro esilio sia dopo la vittoria ghibellina del 1248 che dopo quella del 1260 presso Montaperti. Gli Alighieri, dunque, sarebbero stati di fazione guelfa e cosí anche Dante, nato verso la fine di maggio del 1265, quando a Firenze ancora governavano i Ghibellini. Si trova poi a militare con l’esercito fiorentino e guelfo sia a Campaldino che a Caprona (1289) contro i ghibellini di Arezzo e quelli di Pisa. Se Dante ebbe una fede politica, dunque, l’ebbe guelfa. Sul finire del secolo, però, il clima politico a Firenze si va sempre piú logorando: i magnati che non avevano voluto accettare di iscriversi a un’Arte – cosa che Dante invece aveva fatto intorno al 1295 – vengono ben presto esclusi dal governo, dando vita a un clima carico di tensione. Alcuni magnati iniziano a fare proseliti tra gli ex ghibellini rimasti in città, mentre le consorterie si polarizzano attorno a due potenti casate, una popolare, quella dei Cerchi, e una magnatizia, quella dei Donati: il dissidio sfocerà di lí a poco nel conflitto tra guelfi bianchi, piú moderati, e guelfi neri, piú conservatori. Tuttavia, benché fosse imparentato con i Donati (sua moglie era Gemma Donati), ma certamente piú vicino per carattere e per ideali politici, ai Cerchi, Dante non prese una posizione netta per nessuna delle due fazioni. Nel 1296, però, votò a favore di una mozione antimagnatizia, che dovette senza dubbio incrinare il rapporto con l’ala guelfa piú intransigente. Il 1299, poi, portò la rottura definitiva tra Dante e Corso Donati: il leader nero viene bandito, ma trova in Bonifacio VIII un protettore e un mecenate. Durante il priorato (15 giugno-15 agosto 1300) Dante è però costretto a prendere decisioni che, come egli

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Dante illustra la Divina Commedia, tavola di Domenico di Michelino. 1465. Firenze, basilica di S. Maria del Fiore. Alle spalle del poeta, la città di Firenze e, sullo sfondo, Inferno, Purgatorio e Paradiso. stesso afferma, lo condurranno all’esilio: «Tutti li mali e l’inconvenienti miei, dalli infausti comizi del mio priorato ebbono cagione e principio». Poche ore dopo l’insediamento, i nuovi priori condannano tre congiurati a una pena pecuniaria e al taglio della lingua. Poi, dopo una zuffa tra magnati e popolari, la sera della vigilia di san Giovanni, Dante e i suoi colleghi sono costretti a confinare i facinorosi: i donateschi furono messi al bando presso Castel della Pieve, nel Perugino, i cerchieschi, a Sarzana, in Val di Magra. Gli eventi che seguirono nei mesi successivi condussero il poeta alla rovina: inviato quale ambasciatore a Roma, presso Bonifacio VIII, venne trattenuto dal pontefice, mentre a Firenze entrava Carlo di Valois che spalancò le porte a Corso Donati e ai neri, che devastarono la città, dando inizio a una terribile repressione. Il 27 gennaio del 1302 Cante de’ Gabrielli da Gubbio condannò in contumacia Dante e altri quattro Fiorentini quali «falsarii et baracterii», accusandoli di baratteria, di aver tramato contro i neri di Pistoia, di essersi opposti all’operato di Carlo d’Angiò e di Bonifacio VIII. Oltre un mese piú tardi, non essendosi presentati a pagare l’ammenda di 5000 fiorini piccoli, i cinque vengono condannati a morte il 10 marzo, per mezzo del rogo. Da allora Dante, «benché fosse guelfo e però sanza altra colpa», scrisse Giovanni Villani, si allontanò da Firenze per non farvi mai piú ritorno. A questo punto, nell’esilio, il poeta fece parte coi Cerchi esuli e coi ghibellini espulsi anni prima dalla città: questa alleanza temporanea che si risolverà nel fallimento della battaglia della Lastra (1304), non


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L’estensione del conflitto

deve però essere confusa con uno scivolamento di Dante nel ghibellinismo. Dante non divenne mai un «ghibellino». Ma allora perchè talvolta l’Alighieri viene etichettato come «il ghibellin fuggiasco»? Il «merito» di aver confuso un quadro già piuttosto complesso si deve, in realtà, a Ugo Foscolo.

In basso miniatura raffigurante Dante e Virgilio a colloquio con Farinata degli Uberti, episodio del canto VI dell’Inferno, da un’edizione manoscritta della Divina Commedia. XIV sec. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana.

In un celebre passo del carme Dei Sepolcri (1807), il poeta, glorificando la città di Firenze, la apostrofa dicendole che «tu prima, Firenze, udivi il carme / che allegrò l’ira al Ghibellin fuggiasco». Ma Dante ghibellino non fu mai, pur avendo condiviso alcune lotte e l’esilio con alcuni ghibellini. Non si dimentichi che se Firenze divenne per Dante l’Eden perduto e da

madre si trasformò in terribile matrigna, per Foscolo, «fuggendo di gente in gente», fu luogo di accoglienza, cosí come, a livello poetico, lo fu per il suo Ortis. In realtà, la convinzione di Foscolo non si limitava a questa citazione occasionale: il poeta di Zante lo definisce «ghibellino implacabile» nel suo Discorso sul testo della

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Commedia di Dante e, nelle Epoche della lingua italiana, «Ghibellino coperto», intendendo con questa definizione, una sorta di attivista filoimperiale quasi costretto e vestire le mentite spoglie di un guelfo. Del resto Foscolo aveva ereditato tale convinzione dal suo maestro, Vincenzo Monti, che in una poesia alla contessa Malaspina aveva definito l’Alighieri


Miniatura raffigurante l’esplosione della lotta fra guelfi bianchi e neri a Firenze, dall’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. L’immagine riflette la parzialità dello stesso Villani, sostenitore dei Donati: il personaggio che esce di casa si può infatti identificare con un esponente di quella fazione, che sembra vittima di un attacco proditorio, sferrato da due uomini della rivale fazione dei Cerchi, la cui estrazione popolare è confermata dalla minore ricercatezza delle vesti (il copricapo, per esempio, non è bordato di pelliccia di vaio).

«ramingo della patria e caldo d’ira e di bile ghibellina il petto». L’idea foscoliana si basava sul binomio, romantico ed errato, dei ghibellini quali nostalgici difensori di un impero laico e nemici giurati della Chiesa e del papato: un laicismo anacronistico, di stampo quasi patriottico. Quando Ugo Foscolo scriveva i suoi carmi, in Europa

risuonavano infatti i motti rivoluzionari della Bastiglia e infuriava l’epopea napoleonica condotta in nome della libertà e dell’uguaglianza. In tempi diversi, ma con una impostazione simile, l’adesione di Dante all’impero fu definita da Antonio Gramsci «Ghibellinismo, o Nuovo Ghibellinismo, superiore al Vecchio Ghibellinismo, ma superiore anche al Guelfismo».

In realtà, Dante chiarisce la propria posizione con le sue stesse parole. Egli, infatti, esprime le proprie idee politiche nel trattato filosofico della Monarchia, in cui dichiara, pur guelfo, che l’impero è quel potere che sta al di sopra di tutti gli altri poteri e sui quali «esercita universale e irrepugnabile ufficio di comandare». La necessità di un impero nasce perché «discordie e guerre conviene sorgere intra regno e regno (…) e cosí si impedisce la felicitade». Per questo obiettivo sommo, la felicità dell’uomo, «conviene di necessità tutta la terra essere Monarchia». Dante era dunque sinceramente animato da una profonda fede in Dio e dalla convinzione della necessità di un impero, voluto dal disegno divino, come scrive chiaramente nella sua Commedia, quando, nella rampogna di Giustiniano, afferma: «Ahi gente che dovresti esser devota, e lasciar seder Cesare in sella, se bene intendi ciò che Dio ti nota» (Purgatorio, VI, 91-93). Per l’Alighieri, l’instaurarsi di una monarchia, come sognerà all’arrivo di Arrigo VII, era il compiersi di un disegno messianico, l’avverarsi della provvidenza. Per questo, quando a Milano si inginocchiò a baciare i piedi di Arrigo VII non potè non esclamare in cuor suo, come egli stesso affermò: «Ecco l’Agnello di Dio, ecco colui che toglie i peccati del mondo».

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Quando le mura scendono in campo


Castelli e città si ornano di coronamenti merlati: «quadrati» o «a coda di rondine», un luogo comune li vuole ancora oggi messaggeri di identità politiche associate, rispettivamente, a guelfi e ghibellini… di Federico Canaccini

U

na delle piú famose caratteristiche che avrebbero distinto guelfi e ghibellini sono i «merli», le strutture in muratura che coronano le torri e le mura dei castelli. Forse non tutti conoscono la differenza, ma, quasi sempre, un turista, di fronte a un castello, non si lascia scappare una esclamazione alla vista di un coronamento merlato ora in un modo ora nell’altro, dando per certa l’appartenenza all’una o all’altra fazione, sulla base della mera osservazione della merlatura. Con lo sviluppo delle città comunali, nacquero anche associazioni che inquadravano le milizie cittadine composte dagli artigiani (per appartenenza alle corporazioni) e dai semplici cittadini, in base alle ripartizioni urbane. Le milizie urbane erano dotate di armi in asta che, nel corso dei decenni, mutarono forma, traendo spesso ispirazione dagli attrezzi dei campi e da lavoro, come lo spiedo o la roncola pennata. Lo sperimentalismo di queste armi in asta è particolarmente evidente grazie alla varietà di forme che esse assumono nel corso dei secoli, passando da 13 forme attestate nel XII secolo, per passare a 20 nel secolo seguente, a 26 nel Trecento, a 31 nel Quattrocento e a ben 43 modifiche nel Cinquecento! I nomi di queste armi furono quanto Particolare dell’Allegoria del Buon Governo, affresco realizzato da Ambrogio Lorenzetti, fra il 1338 e il 1339, nella Sala della Pace del Palazzo Pubblico di Siena. Spiccano, in primo piano, i merli quadrati che coronano le mura di cinta e la torre. GUELFI E GHIBELLINI

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I MERLI

Architetture identitarie A sinistra rilievo forse raffigurante l’imperatore Federico Barbarossa e appartenente alla decorazione della distrutta Porta Romana di Milano. XII sec. Milano, Castello Sforzesco. Innalzata nel 1171 per volere dei consoli della città ambrosiana, la porta venne abbattuta nel 1793, per lasciare spazio a una nuova struttura, e i rilievi che la ornavano, dopo essere stati per circa un secolo esposti nelle vicinanze, furono acquisiti dai Civici Musei.

mai vari e originali. Nel corso dei decenni, e nelle varie regioni dell’Europa medievale, si incontrano citate berdiche e falcioni, roncole e ronconi, forche e tridenti, asce e grappini, martelli e alighieri. E ancora lanzelonghe e quadrelloni, picche e puntoni, e poi spiedi, ronche, corsesche… partigiane e persino… pipistrelli!

Quelle acconciature sconvenienti...

Per le macchine d’assedio, poi, c’era l’imbarazzo della scelta: si va dai muscoli alle vigne, dai mangani ai trabucchi, dagli onagri alle tormente, dai battifredi alle sambuche. Sfilano poi uno stuolo di animali «da battaglia»: arieti, testuggini, scorpioni, cicogne, maiali, gatti e molti altri ancora. Infine, anche nell’architettura militare non mancava certo la fantasia! Ecco dunque merli e merloni, maschi e orecchioni, caditoie e rivellini, casematte e alloni, mezzelune e barbacani. Persino le donne non erano esenti dall’influsso di questi accorgimenti militari che, evolvendosi nel corso dei secoli, venivano foggiati nei modi piú disparati. Spigolando tra le prediche di Bernardino da Siena, intuiamo che le fortificazioni erano motivo di ispirazione per le acconciature di quante volevano 56

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Fregio scolpito che raffigura l’uscita di uomini in arme da Cremona e Brescia, da Porta Romana. 1171. Milano, Castello Sforzesco. Si può rilevare la diversa caratterizzazione dei merli che coronano le porte delle due città: a coda di rondine per Cremona e quadrati per Brixia (Brescia). La scelta dell’artista sembra riflettere la posizione assunta dai due centri nel conflitto con Federico Barbarossa.

essere all’ultima moda. Il predicatore francescano, puntando a condannare il lusso estremo e la vanità, parlava – in modo critico – dei capelli delle signore senesi che erano pettinati ora «a cassari», ora «a merli», ora «a torri trasportate in fuore come questa torre», ammiccando alla torre del Mangia, che svettava, e svetta tutt’oggi, in piazza del Campo. Si intende per merlo un innalzamento a intervalli regolari del parapetto, dietro al quale i difensori si riparavano per sottrarsi al tiro nemico. Conosciuta e utilizzata già in epoca antica, la merlatura poteva terminare, a seconda delle epoche e delle aree geografiche, con varie fogge: quadrata e a coda di rondine, a triplice dentatura, a fiore, a piramide, a semicerchio. A partire dall’Ottocento, a detta di enciclopedie, dizionari dell’arte, nonché manuali scolastici, invalse l’uso di distinguere in merli guelfi e ghibellini, a seconda che terminassero i primi in forma quadrata, i secondi a coda di rondine. Tuttavia, sebbene anche l’enciclopedia Treccani riporti che non c’è alcun legame fra le merlature dette «guelfe» e «ghibelline» e le due fazioni politiche, quella dei merli è una questione tutt’altro che chiara e risolta. L’uso di distinguerli in guelfi e ghibellini risale

sicuramente a una fase precedente l’Unità d’Italia. Proviamo a fare un percorso all’indietro nel tempo, tentando di capire se vi sia effettivamente un fondamento di verità o meno.

Un odio senza quartiere

Nel 1870, nella sua Storia di Chioggia, monsignor Pietro Morari affermava che guelfi e ghibellini si odiavano a tal punto che «sí come nel nome, cosí negli abiti, ne’ capelli, penne de’ cappelli, et in tutte le altre cose sino nel mangiare e nel bevere si mostravano contrarij, nell’apparecchio della mensa, negli addobbamenti della casa e brevemente in tutte le cose che fa l’huomo». Ma di merlature non se ne parlava. Nel 1858, Cesare Cantú, nella sua Storia degli Italiani, descriveva le fazioni divise in tutto: «Fin nei minuti costumi doveano fra loro sceverarsi: questi un berretto, quegli un diverso usavano; due finestre aprivano i casamenti dei guelfi, tre i Ghibellini; quegli alzavano i merli quadrati, questi a scacco», ma non a coda di rondine. Giovanni Rosini, invece, nel 1843, nel suo romanzo storico Il conte Ugolino della Gherardesca e i ghibellini di Pisa, è piú preciso quando accredita a tal Salterello la capacità di coGUELFI E GHIBELLINI

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In basso fregio scolpito che raffigura il rientro degli esuli milanesi dopo che la loro città era stata distrutta per ordine di Federico Barbarossa nel 1162, da Porta Romana. 1171. Milano, Castello Sforzesco.

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noscere la fazione di ogni paese e città d’Italia: «Senza né pur dar un’occhiata alla forma dei merli sapeva qual città, qual terra, qual castello teneva pei Guelfi e quale pei Ghibellini», definendo in nota a piè di pagina quelli guelfi «a pan di zucchero» e gli antagonisti «a coda di rondine». Nel 1843, pare dunque un dato ormai già consolidato, che però l’autore sente la necessità di spiegare con una nota utile ai lettori meno informati. Tornando ancora indietro nel tempo, troviamo che ne L’Italia regnante di Gregorio Leti, pubblicata nel 1675, l’autore segnala che esistono «cento segni» per «distinguere i Guelfi da’ Ghibellini» (vedi box a p. 60). Se Leti suscita un sorriso con tutta questa pletora di segni distintivi – lista che influenzò chiaramente le opere seguenti –, fa però anche riflettere il fatto che non si faccia menzione della contrapposizione dei merli, cosa che forse sarebbe apparsa in modo piú macroscopico rispetto al tagliare una mela o sistemar la forchetta... E non dimentichiamo che si sta parlando di «guelfi e ghibellini» nel XVII secolo! Ancora piú indietro, il Machiavelli, nell’opera Dell’arte della guerra, pubblicata nel 1521, parla dei merli e segnala che «da’ Francesi si è imparato a fare il merlo largo e grosso», e che la porta di un castello è bene che si apra come

«una ventiera di merlo», anziché come una «saracinesca», «perché difficilmente può essere dal nemico impedito in modo che non cali». Ma non si fa cenno alcuno a distinzioni per le fogge, né, tantomeno, per i nomi. L’impressione che riceviamo dalla lettura di questi brani è che in Italia l’uso di essere divisi in guelfi e ghibellini venne via via rinforzato da nuovi segni distintivi – piú o meno conosciuti, piú o meno condivisi lungo la Penisola e forse anche piú o meno transitori – tra cui, a un certo punto, figurarono probabilmente anche le merlature che già campeggiavano, in fogge diverse, sulle cime delle torri: già divise in piú tipologie, esse erano pronte ad accogliere le etichette che, probabilmente, gli storici dell’età moderna non mancarono di affibbiargli.

La verità sta (forse) nel mezzo

Il «mito» dei merli guelfi e ghibellini potrebbe insomma avere un fondamento di verità o è davvero solo una spiritosa invenzione dell’età risorgimentale? Come tutti i miti, forse anche questo potrebbe nascondere un briciolo di verità. Proviamo a fare un’ipotesi cominciando col ricordare che il sorgere dei nomi ghibellini e guelfi giunse dalla Germania in Italia, in concomitanza con la discesa del Barbarossa: ma i termini indicavano, come scriveva Ottone di


Frisinga, uno la casa «degli Enriciani di Weiblingen, l’altra quella dei Guelfi di Altdorf». Le discese dell’imperatore svevo in Italia crearono però le condizioni per far insorgere nei singoli Comuni atteggiamenti piú o meno condiscendenti verso la politica imperiale, in una delicata fase durante la quale tutti erano in gara per accaparrarsi nuovi diritti sul contado. I Comuni correvano ora dall’imperatore ora dall’altra figura eminente della politica – in primo luogo italiana – il papa, per cercare sostegno politico: sono queste le future fazioni dei guelfi e dei ghibellini. La battaglia di Legnano – la cui rilevanza fu esagerata dalla storiografia italiana della fine dell’Ottocento – segnò comunque un momento importante nel processo evolutivo dei rapporti tra l’impero e i Comuni, culminato nella Pace di Venezia e poi in quella di Costanza. Nel 1183 il Barbarossa siglò il trattato che, per la sua eccezionalità, fu celebrato largamente dalla propaganda antimperiale sino al XIX secolo: «In nome della Santa Trinità, noi Federico, per grazia di Dio imperatore dei Romani, pur dovendo e potendo punire severamente i vostri delitti, tuttavia preferiamo governare nella pace. Perciò concediamo a voi, città della Lega, i diritti regali e i vostri statuti per sempre; cioè restino immutati tutti i diritti che finora avete esercitato ed esercitate (...) Nelle città potete proseguire ogni cosa come avete fatto sino ad oggi, senza alcun nostro divieto». Tali successi non furono dimenticati dai Milanesi contemporanei, che scolpirono sui fregi delle antiche porte il ricordo di quegli anni sanguinosi. Fra tutti, ne spiccano alcuni di enorme interesse: si tratta del rilievo oggi esposto al Castello

In alto lapide che commemora il rientro dei Milanesi nella loro città, posta anch’essa, in origine, sull’arco di Porta Romana. 1171. Milano, Castello Sforzesco.

Sforzesco e proveniente da Porta Romana. Esso mostra, su un lato, una serie di scene, che cosí descrivo partendo da sinistra: un uomo con chioma fluente, a cavalcioni di una bestia, forse un leone; un uomo che tiene le briglie di un cavallo su cui siede un altro personaggio; due fanti, armati di scudo, lancia e spada, che escono da una città, identificabile con Cremona, per la scritta visibile sopra la porta della rappresentazione scultorea (vedi foto a p. 57); tre fanti, armati di scudo e spade che escono da una città, identificabile questa volta con Brescia, come scritto sopra la porta (Brixia; vedi foto a p. 57). Concentriamoci sulle rappresentazioni simboliGUELFI E GHIBELLINI

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RICONOSCERE UN GUELFO DA UN GHIBELLINO: ISTRUZIONI PER L’USO Nel 1675 Gregorio Leti (1630-1701) pubblica L’Italia regnante, definita anche Nova descritione dello stato presente di tutti prencipati e republiche d’Italia. Leti fu un attivo pubblicista, che dall’Italia si trasferí dapprima in Svizzera, convertendosi al calvinismo, e poi in Francia e in Gran Bretagna. I suoi scritti, talvolta licenziosi, tal altra fin troppo spregiudicati, lo costrinsero spesso a scontrarsi con i vari governanti e ad abbandonare le corti che lo ospitavano. Ne L’Italia regnante, Leti – che si definisce «non de’ piú curiosi» e alla cui opera peraltro attinse monsignor Pietro Morari nella sua Storia di Chioggia – elenca una lunga serie di criteri sulla base dei quali sarebbe a suo avviso possibile distinguere i guelfi dai ghibellini: «Quando si va per la città, o vero di fuori si distinguono incontinente gli uni dagli altri, mediante il Penacchio o sia Piuma del Cappello, perché i Guelfi lo portano dalla parte destra, come quelli che seguono il partito del Papa, superiore nella precedenza all’Imperatore, e i Ghibellini nella sinistra (…). Nell’entrare in qualche casa di gentil’ huomo (…) se sarà posta la tavola e apparecchiata con tutti gli otensili nicessari al pranso, si potrà conoscere facilmente a qual partito gli abitanti traboccano: mentre nelle case de’ Guelfi si sogliono mettere le forchette, cocchiarine e coltelli a parte destra

del tondo distesi a lungo, e i Ghibellini non li mettono né a sinistra né a destra, ma a traverso dalla parte del tondo che riguarda il mezzo della tavola. Di piú li Guelfi rompono il pane da fianco, e i Ghibellini dalla parte di sotto o di sopra. Ma ne’ frutti sarà piú facile da osservarlo perché ordinariamente il Guelfo taglia il melorangio a traverso e il Ghibellino a lungo e al contrario il Guelfo taglia il Pero o Pomo dal mezo della coda fino all’altra parte e il Ghibellino lo taglia sempre dal mezzo». Che cosa mai potesse realmente significare nel Seicento essere guelfi o ghibellini, rispetto ai secoli medievali in cui le fazioni nacquero, è un argomento molto interessante, ma che non affronteremo qui: basterà solo ricordare che Leti accenna al fatto che «se l’Imperadore cominciasse qualche guerra contro il Papa, o questo contro l’altro, molti quali non si conoscono adesso per tali, tali si conoscerebbero all’hora, e l’Italia si vedrebbe in breve ripiena di Ghibellini e di Guelfi, essendo naturale all’huomo di far resuscitare le gare antiche», lasciando chiaramente intendere come il conflitto si fosse già cristallizzato, nella vulgata, come lo scontro fra il papa e l’imperatore.

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A sinistra La rinuncia agli averi (particolare), scena dal ciclo delle Storie francescane affrescato da Giotto nella Chiesa Superiore della basilica di S. Francesco ad Assisi. 1290-1295 circa. Assistono, attoniti, alcuni cittadini, che indossano i tipici abiti del tempo.

che e stilizzate delle due città da cui escono gli armati. In un momento come quello dei primi del Duecento – un periodo in cui la simbologia è molto importante –, volgiamo la nostra attenzione a un piccolo particolare, finora passato inosservato nella descrizione di queste lastre marmoree. La città di Cremona è rappresentata come una porta fiancheggiata da una torre, e tutto il gruppo è coronato da una merlatura a coda di rondine, in un caso anche con tre punte. Le mura della città di Brescia, invece, presentano inequivocabilmente una merlatura quadra.

Pro e contro il Barbarossa

Sarà allora utile ricordare che, nel corso delle lotte tra Comuni e impero, Cremona appoggiò il Barbarossa, richiedendo nel 1153 – assieme ai Lodigiani e ai Pavesi – aiuti contro Milano. Due anni piú tardi, Milano fu soggetta al bando imperiale e privata delle regalie e del diritto di zecca, che venne invece attribuito a Cremona. Nel 1157, a Worms, Federico accordava un diploma a Cremona, affermando che i servizi resi all’impero andavano adeguatamente ricompensati. Quando poi, nel 1162, l’imperatore ordinò la distruzione di Milano, i Cremonesi si distinsero per il loro zelo nell’ottemperare a tale compito. Solo nel 1167 le città di certa fede «ghibellina» (Cremona, Bergamo e Mantova) aderirono alla Lega, unendosi a Brescia. Quest’ultima, di contro, fu effettivamente l’unica città antimperiale, assieme a Milano, che si oppose sempre Qui accanto il Palazzo della Signoria di Firenze, simbolo del guelfismo. Nella pagina accanto ritratto di Gregorio Leti, l’autore de L’Italia regnante, opera in cui elenca una serie di «indizi» utili ad accertare l’appartenenza alla fazione guelfa o a quella ghibellina.

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RILETTURE... GASTRONOMICHE Tornando alle divisioni definite da Greogrio Leti (vedi box a p. 60), segnalando che i guelfi tagliavano la mela o la pera in un modo, mentre i ghibellini in un altro, ricordo che anche san Bernardino, nel Quattrocento, metteva in guardia coloro che tagliavano «l’aglio a traverso» oppure quanti erano soliti «mondare la pesca a tondo», trovandosi in casa di qualcuno di simpatia politica opposta. Saremmo tentati di reputare sterili e ridicole simili distinzioni, ma, a questo proposito, non sarà poi cosí fuori luogo ricordare allora come negli anni Novanta del secolo scorso, nell’ambito del dibattito politico italiano, avesse fatto capolino una «mortadella comunista». Che il salume bolognese fosse «proletario», lo confermava certamente il buon prezzo, dovuto alla preparazione che utilizza parti secondarie del maiale, ma ci pensarono prima una pellicola del compianto Mario Monicelli a renderlo «proletario», inseparabile compagno di viaggio di una Loren emigrante negli USA, poi il divertente (e azzeccato) dialogo metaforico creato da Francesco Nuti in cui «la mortadella è comunista» e che divenne un modo di dire abbastanza diffuso nell’Italia degli anni Ottanta e Novanta. Il salume finí per associarsi a tal punto all’idea di sinistra che il suo leader di allora, Romano Prodi, certamente anche a motivo delle sue origini bolognesi e

Cacciata dei diavoli da Arezzo (particolare), scena dal ciclo delle Storie francescane affrescato da Giotto nella Chiesa Superiore della basilica di S. Francesco ad Assisi. 1290-1295 circa. Spicca la cura con cui l’artista ha definito i dettagli architettonici, tra cui la merlatura che corona le mura della città.

forse della stazza, fu ribattezzato «il Mortadella». E quando, nel 2008, cadde il governo da lui guidato, il senatore dell’opposizione (guelfo o ghibellino, chissà...) Nino Strano, nomen omen, pensò bene di festeggiare nell’aula del Senato tracannando spumante e ingurgitando simbolicamente etti del malcapitato salume «comunista». «È il soprannome che mi hanno dato e ne vado orgoglioso», dichiarò lo stesso Prodi. Che, da ex premier affermò anche, nel 2013: «Da cibo proletario si è raffinato; è un po’ il cammino dell’Italia, la mortadella. E io spero di aver seguito lo stesso cammino». In effetti, con la caduta delle ideologie, oggi il salume non potrebbe assolutamente dirsi proletario, essendo stato contagiato dall’interpretazione gourmand, che ormai si rivolge a ogni ricetta tradizionale e a ogni ingrediente, soprattutto quelli poveri, rendendo perciò quanto mai poco comunista la famigerata mortadella. Non saprei immaginare che cosa scriveranno gli storici futuri a proposito del dibattito politico del XX secolo durante il quale, anziché discutere su pere e mele tagliate ghibellinamente per diritto o guelfamente per traverso, nei banchi del Senato si ingollavano simbolicamente fette di mortadella. Forse erano meglio i merli quadri o a coda di rondine: certamente erano piú eleganti.

alla volontà del Barbarossa. Nel 1157 fu la prima a inviare soccorso a Milano e, due anni piú tardi, per ben 15 giorni sostenne e respinse l’assedio delle truppe dell’imperatore. Nel 1175, infine, proprio Brescia e Milano furono le sole città a rappresentare la Lega antimperiale.

Un messaggio ormai incomprensibile

Tornando al fregio della Porta Romana, non abbiamo la sicurezza che lo scultore abbia deciso di caratterizzare le due città, chiaramente opposte per simpatia politica, con questo particolare architettonico dei merli, poi divenuto quasi il piú esemplificativo della divisione in guelfi e ghibellini. Pur trattandosi di una sola, benché autorevole fonte, si può ipotizzare che forse vi fu realmente un momento in cui i merli erano sinonimo di simpatia o antipatia per l’impero, e probabilmente coincise con i decenni a cavallo tra il XII e il XIII secolo. Poi, come tutte le mode, anche quella dei merli non venne piú utilizzata, se non sporadicamente e, nel corso del tempo, se ne perse addirittura memoria o non apparve cosí importante. Se, ai tempi del fregio milanese, la vista di questi merli forse lanciava al lettore un messaggio chiaro e incontrovertibile, è probabile che già nel secolo seguente ciò non funzionasse piú.

Il Palazzo della Signoria, a Firenze, simbolo incontestabile del guelfismo, ha sí le mura con merlatura quadra, ma, inspiegabilmente – se non per vezzo di eleganza, allora! – il coronamento della torre è con merli a coda di rondine. La torre fu costruita verso il 1310, quando il corpo del palazzo era quasi terminato e a Firenze i ghibellini al potere in città erano ormai solo un ricordo. Sulla sommità si trova una grande banderuola a forma di Marzocco che tiene l’asta sormontata dal giglio fiorentino, simbolo del guelfismo trionfante. Risulta infine difficile immaginare, poi, che le mura di città, in cui il potere passava spesso da una fazione all’altra, venissero di volta in volta modificate per adeguarle alla giusta merlatura. Pisa, come abbiamo visto, forse l’unica città definibile veramente filoimperiale, in una incisione del 1540, di Jacopo Foresti, viene raffigurata, in modo realistico, ma con mura coronate alla «guelfa». E cosí appare anche in una miniatura del Basso Medioevo. Per concludere, esulano da questo discorso tutti i rifacimenti, questi sí ottocenteschi o piú recenti, che si basano appunto sulla «fama» di appartenenza politica di un Comune all’una o all’altra fazione e che hanno contribuito ampiamente a creare un’Italia costellata di castelli «guelfi» o «ghibellini» con le loro merlature. GUELFI E GHIBELLINI

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Animali, santi ed eroi È meglio l’aquila o il leone? Ma perché Pisa fa la parte della volpe? E, poi, l’asino di che fazione è? Ecco come la «moda dei simboli» spianò la via a odio, follia e nefandezze… di Federico Canaccini

Miniatura raffigurante Sansone che apre le fauci del leone, da un manoscritto in lingua ebraica del tardo XIII sec. Londra, British Library. Nelle Sacre Scritture, l’animale è visto come una creatura temibile, che incarna le forze del Male. 64

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Parte guelfa In alto calco del sigillo della Parte guelfa di Firenze con l’aquila che artiglia il drago. Fine del XIII sec. Firenze, Museo del Bargello. Nello stemma, creato da Clemente IV e donato ai Fiorentini guelfi, compare il simbolo storicamente appannaggio dei ghibellini, ovvero l’aquila, sulla cui testa, però, venne aggiunto «uno giglietto vermiglio» tutto guelfo.


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ra il XII e il XIII secolo, i Comuni italiani si dotano di sofisticati strumenti di propaganda politica, tra cui nuove immagini, stemmi e sigilli, attraverso i quali trasmettere inequivocabili messaggi politici. Le modalità di scontro tra guelfi e ghibellini avevano conosciuto, già negli anni di Federico II, un travalicamento della sfera religiosa in quella politica, con l’adozione da parte del papato di iniziative di ambito ecclesiastico, ora piegate a fini politici. I due piani si intersecano e se, nella propaganda pontificia, Federico diviene

Parte ghibellina Calco del sigillo della Parte ghibellina di Firenze che reca l’immagine tradizionalmente identificata con quella di Ercole che combatte il leone nemeo. Ultimi decenni del XIII sec. Firenze, Museo del Bargello.

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I simboli delle fazioni

l’Anticristo, il verde basilisco, i suoi seguaci possono essere perseguitati come fautori del Male. Negli anni della guerra contro Manfredi si aggiungono ulteriori tasselli a questa lotta senza esclusione di colpi e bandiere e sigilli divengono nuovi campi di confronto. Vediamo allora quali nuovi simboli divennero strumenti di propaganda e lotta politica.

Un «giglietto vermiglio» sull’aquila

Il cronista Giovanni Villani riporta che, nel 1265, Clemente IV avrebbe donato a una legazione di guelfi fiorentini fuorusciti il proprio personale stemma: un’aquila rossa su campo bianco che artiglia un drago verde. Successivamente i guelfi vi avrebbero aggiunto un piccolo giglio. «In questi tempi [1265] i Guelfi usciti di Firenze e dell’altre terre di Toscana (…) mandarono loro ambasciadori a papa Chimento, acciò che gli raccomandasse al conte Carlo eletto re di Cici66

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lia, e profferendosi al servigio di santa Chiesa; i quali dal detto papa furono ricevuti graziosamente, e proveduti di moneta e d’altri benifici; e volle il detto papa che per suo amore la parte guelfa di Firenze portasse sempre la sua arme propia in bandiera e in suggello, la quale era, ed è, il campo bianco con una aguglia vermiglia in su uno serpente verde, la quale portarono e tennero poi, e fanno insino a’ nostri presenti tempi; bene v’hanno poi agiunto i Guelfi uno giglietto vermiglio sopra il capo dell’aquila. E con quella insegna si partirono di Lombardia in compagnia de’ cavalieri franceschi del conte Carlo quando passarono a Roma; e fu della migliore gente, e che piú adoperarono d’arme alla battaglia contro a Manfredi». Questo stemma è un chiaro manifesto politico. L’aquila, che era appannaggio dell’impero, ora viene quasi rivendicata dal pontefice. Muta colore, dal nero al rosso, ed è raffigurata araldica(segue a p. 70)


Sulle due pagine altre attestazioni della scena di Sansone che ha la meglio sul leone, spalancandone le fauci. La prima, nella pagina accanto, compare su un rilievo del XII sec., conservato a Pavia, nella Pinacoteca Malaspina dei Musei Civici; la seconda, a destra, è scolpita su un capitello della basilica di S. Maria Maddalena a Vézelay (Borgogna) e risale agli inizi del XII sec.

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I simboli delle fazioni

DONNE IN PRIMA LINEA Piú d’una figura femminile impugnò la spada nel Medioevo: bastino, su tutte, le clamorose imprese di Giovanna d’Arco. In una lettera datata 23 novembre 1343, Francesco Petrarca asserisce, di aver conosciuto personalmente tal Maria da Pozzuoli, che «vires corporee probatis militibus optande, rara et insueta dexteritas, virens etas, habitus ac studium viri fortis. Non telas illa, sed tela; non acus et specula, sed arcus et spicula meditatur» («aveva destrezza insolita e rarissima, forza, età, portamento, desideri di uomo prode. Non delle tele, degli aghi, degli specchi, ma delle frecce, degli archi, delle lance [fece] suo vanto»). Nel 1438, invece, la contessa Brigida Avogadro sarebbe giunta in soccorso del marito a Brescia, alla testa di un drappello di donne armate e pronte a tutto contro le truppe viscontee con a capo Niccolò Piccinino. Poco piú di un decennio dopo, nel 1449, Camilla Ridolfi, a capo di un drappello di cavallerizze, organizzò una sortita contro le truppe di Francesco Sforza che stringeva d’assedio la città di Vigevano. Tra i vari episodi in cui le donne svolgono ruolo da protagoniste, la rivolta siciliana scoppiata al seguito dei Vespri ha le sue protagoniste. Dopo i fatti di Pasqua, Carlo d’Angiò decise di attaccare la Sicilia e con circa 75 000 uomini e duecento navi, alla fine di maggio del 1282, sbarcò tra Catona e Gallico, a nord di Reggio, dando inizio all’assedio di Messina e impedendo qualsiasi intervento reggino in aiuto dei Messinesi. La città era allora comandata da Alaimo di Lentini che, eletto Capitano del Popolo, organizzò la resistenza nella città. Carlo circondò Messina invano sino a tutto settembre, ma, benché stremata dall’assedio, la città respinse i continui attacchi con la partecipazione di tutta la popolazione, in particolare delle donne. Giovanni Villani riporta una canzoncina che circolava durante i giorni della rivolta dei Vespri e che rivela il ruolo delle donne messinesi durante l’assedio posto da Carlo I: «Deh com’egli è gran pietate, delle donne di Messina veggendole scapigliate portando pietre e calcina». Tra queste se ne distinsero due, personaggi di fantasia, tali Dina e Clarenza, che, durante una ronda, avrebbero avvisato la popolazione e messo in fuga il nemico. Nella notte dell’8 agosto si ebbe un assalto angioino alle spalle di Messina: le truppe di Carlo tentarono di invadere la città dai colli e le due donne, di pattugliamento sul colle della Caperrina, non appena avvistarono i nemici si prodigarono per respingere l’attacco. Dina scagliando pietre di continuo sui soldati nemici, Clarenza suonando le campane del Duomo svegliando tutta la città. Sul colle della Caperrina, pochi anni dopo, fu edificata una chiesa dedicata alla Vergine che avrebbe avuto anch’ella un miracoloso ruolo nella vittoria contro gli Angioini. Scorrendo le vite di Umiliana dei Cerchi e di Rosa da Viterbo, si trovano numerosi miracoli definibili come «antighibellini»; il cardinal Capocci, nel suo resoconto sull’assedio di Viterbo, attribuisce la vittoria a quanti erano

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rimasti fedeli alla Chiesa, sottolineando il ruolo della Vergine, che avrebbe spinto le donne a una partecipazione attiva alla difesa della città circondata dalle truppe di Federico II; e anche Chiara di Assisi si schierò audacemente contro i «saraceni» inviati dallo Stupor Mundi, quando tentò di piegare la città umbra. Un fatto analogo si sarebbe verificato ad Arezzo, stretta d’assedio dai Fiorentini dopo la sconfitta subita a Campaldino nel 1289. Nella Cronica in terza rima di Bartolomeo di ser Gorello, si citano le donne e i vecchi come estremi e unici difensori della città, rimasta priva degli uomini, quasi tutti periti in battaglia, nel giorno di san Barnaba: «San Bernabò vittoriose mani fece a Fiorenza sí, che riverire anchor si fa, et come caccia cani seguir li Fiorentini sun quel poncto fino alla porta con gli effetti vani; ch’al rimanente mio con ardir prompto ricrebbe sí per difesa la possa, veggendo il suo nemico a l’uscio gionto, che senza mura con stechata et fossa difeso fui per donne et per vechi, ch’altri non m’era campat’a riscossa». Tra i difensori si sarebbe distinta tal Ippolita della famiglia degli Azzi che, madre di un bimbo e vedova di un cavaliere morto a Campaldino, avrebbe incitato gli Aretini a difendersi, organizzando addirittura una sortita e anteponendo l’amor di patria persino al figlioletto minacciato di morte dai guelfi che lo avevano catturato. L’eroismo della donna, personaggio leggendario, sarebbe però divenuto argomento di una novella, scritta da Oreste Brizi, e, nel 1845, addirittura argomento di una tragedia in cinque atti, intitolata Ippolita, musicata dal fiorentino Giuseppe Sborgi, con libretto di Francesco Guidi. Bernardino da Siena, allorché tuona sul conflitto tra guelfi e ghibellini, non risparmia il gentil sesso. Si scaglia, infatti, anche contro le donne, che, ovviamente, hanno «marito o padre o fratello il quale si nomina o guelfo o ghibellino». Mirabile, nella sua semplicità, è la spiegazione della condanna di Bernardino: «Or dimmi: che cosa è parte? Sai che è? È una divisione: questi da questi. Qui vedi già che parte l’uno dall’altro. Or dimmi: che cosa è carità? Sai che è carità? È unire l’uno coll’altro. E però tu vedi che costoro sono contrari alla carità; però che carità è unire, e parzialità è dividere; sí che tu fai contra alla carità di Dio; sí che l’uno di costoro va a Dio, e l’altro va al Diavolo».

Il campanile del Duomo di Messina, piú volte ricostruito a causa dei terremoti che hanno ripetutamente colpito la città, l’ultimo dei quali nel 1908. Secoli prima, nel 1282, il capoluogo siciliano fu assediato da Carlo d’Angiò, costretto a ripiegare dalla resistenza guidata dalle leggendarie Dina e Clarenza.


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Sant’Ambrogio, a cavallo, appare ai Milanesi nel corso della battaglia di Parabiago, affresco di Antonio da Tradate e aiuti. 1510 circa. Negrentino (Canton Ticino, Svizzera), chiesa di S. Carlo (o di S. Ambrogio Vecchio).

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I simboli delle fazioni

mente scorretta, con il capo rivolto a sinistra, episodio già accaduto ai tempi della Lega Lombarda (lo stemma di Alessandria ha l’aquila rivolta e cosí anche l’antico sigillo della Lega).

Un tema antico

Una rivendicazione, dunque, della vera aquila della giustizia e di quel Regnum per il quale il papa aveva già nominato Carlo I d’Angiò contro Manfredi, definito invece come un verde basilisco, quel drago che appare stretto tra gli artigli dell’aquila. Il simbolo del drago, nell’Antico e poi nel Nuovo Testamento, è il «draco

magnus», che rappresenta nell’Apocalisse «l’antico serpente che si chiamava Diavolo e Satana, il seduttore del mondo intero»: il simbolo dell’aquila che artiglia un serpente è poi un tema antico, che simboleggia la lotta tra il Bene e il Male, delle energie dell’aria e della luce rispetto alle forze terrene, delle tenebre. Nella formulazione figurativa cristiana a carattere naturalistico, il rapace rappresenta naturalmente Cristo, mentre il rettile, Satana. Il simbolo scelto evoca inoltre la crociata contro gli Svevi e quindi contro il Maligno, considerato in che termini il papa e i predicatori si espri-


SANTI E ANIMALI... DI PARTE!

mevano riguardo a Manfredi e ai ghibellini. Infine, l’argento del fondo, rappresentato con il bianco, simboleggia la trasparenza, quindi la Verità e la Giustizia, elementi di cui il papa era portatore. Che lo stemma della Parte guelfa sia stato inoltre donato dal pontefice, rendeva il vessillo carico di un significato religioso. Se il pontefice rappresenta il vicario di Cristo, il vessillo appare quasi un novello Chrismon di costantiniana memoria, un signum sacro, sotto il quale combattere quello che troviamo definito come un vero e proprio «bellum Dei». (segue a p. 75)

«Dicono che Dio sia Guelfo, Giovanni evangelista ghibellino, ma il Battista guelfo. Il leone è guelfo, ma l’aquila ghibellina. Ma io vorrei sapere una cosa: l’asino di che fazione è? Pazzi, ditemi se l’asino è della vostra fazione! Tali animali che sono stemmi al di là delle Alpi, in Italia sono diventati Dei, al punto che si meritano maggiore fedeltà, amore e monumenti che il Creatore Iddio». Cosí il predicatore francescano Giacomo della Marca tuonava nel XV secolo ed effettivamente, in numerose cronache redatte nei secoli del Basso Medioevo, possiamo constatare come perfino i santi e gli animali avessero preso partito: in una cronaca scritta nel XIII secolo si legge che sopra le teste dei combattenti, a Montaperti, i patroni se le dessero di santa ragione, e che il fiorentino san Zanobi fosse uscito malconcio dallo scontro; a Parabiago, nel 1339, sbuca dalle nuvole niente meno che sant’Ambrogio, il quale, infuriato, prende a frustate i soldati di Lodrisio Visconti, difendendo i «veri Milanesi». Al di là della critica che Giacomo rivolge contro le lotte che ancora nel Quattrocento attanagliavano l’Italia, il brano si rivela assai utile per analizzare i simboli adottati dalle due factiones. Giacomo concludeva il proprio discorso asserendo che, sin dall’infanzia, si veniva educati a odiare in tutto l’avversario. E cosí, nel guardare lo stemma del nemico, cresceva quotidianamente il rancore. L’esito di questo vicendevole odio era segnato giacché, dice Giacomo – non senza una punta di ironia –, se una parte se ne va alla casa del Diavolo, l’altra se ne va… alla casa di Satana! Anche Bernardino da Siena, di cui Giacomo della Marca era un seguace, dedica un intero sermone agli stemmi delle fazioni, condannandoli come un «peccato pericoloso» e anche lui afferma che la gente «si metterà alla morte per onore di quell’insegna, tanto tiene caro l’onor suo. Ma di Dio non ti curarai e non sosterresti un buffetto per lui». E pare rispondere al suo confratello quando riporta tragicamente che «èvi stato tale a cui fu detto: Viva tal parte! E aver risposto: Io vorrei essare un asino che tener parti di niuno partigiano. E come ha detto tali parole essare stato tagliato a pezzi». Nel XV secolo, infatti, l’affetto per i simboli delle fazioni, retaggio di un passato ormai trascorso, non era venuto meno. Bernardino si scaglia contro «le insegne de’ guelfi e ghibellini» riconoscibili da «molte cose, ma generalmente i ghibellini all’aquila e’ guelfi al giglio». Nella sua predica in piazza del Campo, a Siena, il francescano dimostra di conoscere bene la moda di portare sugli scudi i simboli di simpatia politica: «Io mi so’ già ritrovato in un luogo, dove so’ state queste parti di guelfi e di ghibellini; i quali per dimostrarlo all’altre genti, hanno fatto l’armi loro per modo che si cognosce il guelfo dal ghibellini. Talvolta colui che è guelfo fa l’arme sue col giglio e col rastrello, sai. E colui che è ghibellino fa l’aquila, e falla grande distesa». Il predicatore non condanna l’uso della araldica tout court, «d’un casato, d’un signore, d’una città o d’un popolo», come per esempio quella del leone, che a Siena era tenuto «in segno di tutta la città» o il segno dell’aquila, che è «dello imperatore», o «del re di Francia, che sono i gigli». Per Bernardino il problema sta nel fatto che questi simboli vengano trasformati in guelfi o ghibellini e, in nome di essi, ci si odi, al punto di commettere ogni sorta di follia e nefandezza.

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Il leone fu scelto come simbolo, tra le altre, dalle città guelfe di Firenze e di Brescia. In basso, il Marzocco scolpito da Donatello nel 1420 (Firenze, Museo del Bargello); a destra, particolare di una miniatura quattrocentesca con il simbolo della città lombarda (Brescia, Biblioteca Queriniana).

MEGLIO IL GRIFONE DELLA VOLPE Il «bestiario militare» in Toscana si arricchisce e si complica grazie agli emblemi araldici o ai miti di fondazione, ma anche grazie ai nomignoli popolari affibbiati dai Comuni avversari. Ecco allora apparire nel sonetto di Antonio Pucci (1310-88), Il veltro e l’orsa, la lista completa degli «animali da battaglia» della Toscana del Trecento: un lione (fiorentino), una lupa (senese), una volpe (pisana) e ancora un cavallo sfrenato (Arezzo), un veltro (forse Volterra), un grifone (simbolo di Pistoia, ma anche di Montepulciano e di Grosseto), un’orsa (Lucca). Sul lione fiorentino abbiamo già speso qualche parola. La lupa senese, fa invece riferimento alla leggenda secondo la quale a fondare la città sarebbe stato Senio, figlio


di Remo, ucciso da Romolo, fondatore di Roma. Insieme al fratello Ascanio (o Aschio), Senio avrebbe lasciato Roma perché perseguitato dallo zio Romolo e, trovando rifugio a Siena, fondò la città che da lui prese il nome. Dino Compagni conferma il modo di dire in un passo: «I Ghibellini, e’ Bianchi, ch’erano rifuggiti in Siena, non si fidavano starvi per una profezía, che dicea: la lupa puttaneggia; cioè Siena, che è posta per la lupa, la quale quando dava il passo, e quando il toglieva». La volpe pisana invece non ha radici araldiche, ma è l’animale assegnato alla potenza marinara dalle sue rivali. Ventura Monachi (1290-1348) etichetta i Pisani nel sonetto Si tu se’ gioioso, chiamandoli «le volpine sottrattose belve». Prima di lui Dante aveva già definito i Pisani, nel XIV canto del Purgatorio, «le volpi sí piene di froda, che non temono ingegno che le occúpi». La volpe è astuta, ma il colore rossiccio del suo pelo – che unisce gli aspetti negativi del rosso a quelli del giallo – fa dell’animale il simbolo dei bugiardi e degli ipocriti. Non a caso Giuda, a partire dall’età

Genova, via XX Settembre. Lo stemma del grifone che artiglia un’aquila, accompagnato dal motto «Griffus ut has angit – sic hostes Janua frangit» («Come il grifone artiglia queste, così Genova distrugge i nemici»). carolingia, avrà barba e capelli rossicci. La volpe non procede in linea retta, e il suo zig zag rappresenta la sua mancanza di sincerità, come del resto la sua adesione al Diavolo è attestata dalla preferenza a spostarsi di notte. Si intuisce che nessuno mai l’avrebbe dunque scelta come animale simbolo per la propria città: Pisa si trovò a subirlo come scherno da parte degli avversari. A Genova si incontra uno stemma con un grifone che artiglia un’aquila (o un gallo) e una volpe, accompagnato dalla scritta: «Griffus ut has angit – sic hostes Janus frangit» («Come il grifone artiglia queste, cosí Genova distrugge i nemici»). L’aquila simboleggerebbe l’impero, mentre la volpe rappresenterebbe Pisa, sconfitta da Genova nella

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I simboli delle fazioni

A sinistra lo stemma di Volterra è l’arme adottata nell’anno 1278 quale segno di pacificazione tra le Parti guelfa e ghibellina, in cui è rappresentata da un grifone e da una biscia, afferrati insieme. A destra la facciata del Palazzo dei Priori di Perugia, con le sculture in bronzo raffiguranti un leone e un grifo, animali-simbolo della città. Quelle oggi visibili sono le repliche degli originali medievali, trasferiti all’interno del palazzo stesso. battaglia della Meloria nel 1284. Come il suo antenato di epoca classica, il grifone medievale scelto dai Genovesi è un ibrido, un animale che vive in Oriente e che è formato dall’unione delle due creature piú nobili del bestiario medievale: corpo di leone e testa d’aquila. Dal momento che il grifone riunisce cosí in sé l’animale dominante sulla terra, con quello dominante in cielo, esso simboleggia, oltre alla vigilanza, anche la perfezione e la potenza: nei bestiari medievali il grifone risulta praticamente invincibile e Dio gli avrebbe perciò affidato la custodia delle montagne d’Oriente, ricche di pietre preziose e oro. Nell’iconografia cristiana la sua duplice natura, terrestre e aerea, si è ben prestata per simboleggiare la duplice natura del Cristo come attesta nel VI secolo Isidoro da Siviglia: «Christus est leo pro regno et fortitudine (...) aquila propter quod post resurrectionem ad astra remeavit». Non furono i soli Genovesi a fregiarsi di un simile portentoso animale. Il grifone sventola infatti sulle bandiere dei Comuni di Perugia, Grosseto, Montepulciano e di Volterra. In quest’ultimo, il grifone stringe tra gli artigli un drago verde. L’araldista Goffredo di Crollalanza riporta che anticamente il Comune aveva una balzana bianca e nera, poi cambiata nel 1220 con una croce bianca in campo nero. Quando prevalsero i guelfi, la città doveva avere già il simbolo del grifone rosso in campo bianco. Ma nel 1250 «gli fu posta sotto le zampe una biscia verde, poi un basilisco, solita figura colla quale ai Ghibellini soleva insultare il partito contrario». Anche la città di Arezzo adottò un animale sul proprio vessillo, un cavallo sfrenato, che però non ebbe uguale fortuna nelle «battaglie araldiche» sinora descritte. Forse, sotto la guida del vescovo Guido Tarlati, nel 1313, i colori dello stemma furono invertiti e il cavallo, ora su sfondo bianco, fu probabilmente rivolto verso sinistra anziché verso destra,

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come di norma, e colorato di nero in segno di lutto per la morte dell’imperatore Arrigo VII occorsa in quell’anno a Pisa. La città di Lucca avrebbe avuto sullo stemma (testimoniato in un sigillo già nel 1182) una pantera, a partire almeno dal XIV secolo, nell’atto di sorreggere la balzana bianco e rossa. La pantera dei bestiari medievali è un animale dalle forti valenze simboliche essendo una figura cristologica. Il suo manto maculato annovererebbe ben sette colori ed esalerebbe un profumo (l’odore della santità) in grado di attirare tutti gli animali, che la seguiranno in ogni dove: tutti fuorché il drago, che fugge non appena vede o annusa la sua presenza. Sarà utile ricordare che proprio col drago venivano raffigurati i ghibellini dalla propaganda guelfa. A Pistoia, infine, incontriamo il simbolo dell’orsa. Sembra che però, anche in questo caso, l’animale sia stato aggiunto al blasone, solo alla metà del 1300, quando la città venne aiutata da Firenze a liberarsi dall’assedio di Giovanni Visconti. Pistoia sentí l’esigenza di sottolineare la sua forza e la sua indipendenza dai Fiorentini utilizzando come simbolo una fiera diversa, anch’essa temibile, che nei bestiari medievali era di solito in lotta con il leone per il titolo di re degli animali. Nell’antichità l’orso aveva dato origine al culto animale piú diffuso in Europa: ma la sua «regalità», associata alle numerose leggende che lo volevano padre di figli nati da rapporti con donne, provocò


la condanna da parte della Chiesa, che, dopo l’età carolingia, sostiene la promozione del leone. Non mancavano esempi negativi riguardanti l’orso: sant’Agostino lo paragona al Diavolo e gli ecclesiastici stilano una lunga serie di vizi tra cui spiccano la brutalità, la lubricità e la voracità. Perché mai allora i Pistoiesi hanno scelto un’orsa per il proprio emblema? Sono numerosi i bestiari in cui alla femmina del plantigrado viene attribuito un analogo potere di «risorgere» i piccoli. Seguendo notizie desunte da Aristotele e Plinio, infatti, molti autori tramandano che leccando a lungo i neonati moribondi, l’orsa li riporta in vita. Oltre a ciò viene tramandato che l’alito dell’orso è particolarmente fetido e che risulta addirittura nocivo per alcuni animali, quali – ça va sans dire – la lupa e la volpe!

In realtà, quanto osservato per lo stemma adottato dalla Parte guelfa, induce a una riflessione che riguarda il confronto tra le due fazioni a livello araldico e sfragistico. Sarei propenso infatti a supporre che la nascita dei due stemmi sia contestuale, uno in risposta dell’altro. A oggi, non sembra possibile fornire risposte su chi abbia avuto il primato, e forse ormai sarà impossibile stabilirlo, ma sembra difficile immaginare una Firenze in cui se una Parte si dota di un simbolo, l’altra non risponda con un controemblema. Come afferma lo storico francese Michel Pastoureau, «una bandiera non esiste mai isolatamente; essa vive e acquista il proprio significato solo quando associata o opposta a un’altra bandiera». Non sappiamo dunque se GUELFI E GHIBELLINI

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I simboli delle fazioni

GLI ORRORI DELLA GUERRA I racconti degli orrori commessi dall’uomo in tempo di guerra sono purtroppo sempre uguali e dalle parole dei predicatori, cosí come da alcuni passi di cronache, si resta esterrefatti di fronte alla crudeltà e alla efferatezza dei crimini che dovettero insanguinare le città italiche nei secoli in cui si confrontarono i guelfi e i ghibellini. Neri Strinati, nella sua Cronichetta, ricorda di come nel 1301 «ci venne in casa la masnada de’ Medici (…) e rubaro di quello che v’era rimaso; e quando fummo rubati per questa masnada, e Averardo de’ Medici sí mandò profferendo alle nostre donne. E non voglio che rimanga nella penna che quella notte furono lasciati ignudi i fanciulli maschi e femmine in sul saccone, e portaron via la roba e’ panni loro, che non fu fatto in Acri per li Saracini cosí fatte opere e pessime». Le parole di Bernardino da Siena, però, sono ben piú crude: «Quanti mali sono proceduti da queste parti, quante donne so’ state amazzate nelle città proprie, in casa loro; quante ne so’ state sbudellate! Simile, i fanciulli del ventre delle proprie madri tratti e messo lo’ i pie’ ne’ corpi, e presi i fanciullini e dato lo’ del capo nel muro; venduta la carne del nimico suo alla beccaria, come l’altra carne; tratto lo’ il cuore di corpo e mangiatolo crudo, crudo. Quanti mortaghiadi, e poi sotterrati nella feccia! Egli ne so’ stati arostiti e poi mangiati; egli ne so’ stati gittati giú dalle torri; egli ne so’ stati gettati su de’ ponti giú nell’acqua; egli è stata presa la donna e forzata innanzi al padre e ‘l marito, e poi amazzatoli lí innanzi; né mai avuto pietà per niuno modo l’uno dell’altro, se non morte. Che ve ne pare, donne? Piú: che ho udito che so’ state di tali donne tanto incanite inverso le parti, ch’elleno hanno posta la lancia in mano al figliuolino piccolo, perché egli facci omicidio per vendetta di queste parti. Che fu una femmina tanto cruda, che fugendo un’altra della parte contraria, disse a certe sue genti: “La tale si fugge, la quale è stata posta a cavallo da uno che se la mena via”. E costui corso dietro a lei e detto a colui: “Poni giú costei, se tu non vuoi la morte”. E postola giú, l’una di queste donne uccise l’altra. Egli so’ stati tanti pericoli per queste parti, che questo ch’i’ ho detto… non è quasi nulla». Anche Giacomo della Marca è altrettanto duro. Il predicatore ricorda che solo «post multa centenaria hominum mortuorum» riuscí a far sottoscrivere al popolo di Ascoli, in lacrime, («cuncto populo flente») la rinuncia alle fazioni, baciando il crocifisso, perché altre volte si erano avute le paci, «ma paci non erano, perché l’odio e la parzialità rimanevano nei loro cuori». Le immagini di piazze e strade piene di cadaveri trascinati «per terram exientibus visceribus» fanno comprendere quanto la città marchigiana avesse sofferto per gli odi di fazione. Ad Arquà il predicatore ricorda l’episodio in cui una vecchia, mossa dall’odio di fazione, ficcate le mani nel ventre di un nemico ormai morto, «extrahebat interiora» e ne

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faceva un gomitolo «sicut filum». La ferocia con cui gli uomini si accaniscono contro loro simili, scrive il frate, non è paragonabile a quella delle bestie che hanno invece «pacem et indulgentiam in sua specie». Che cosa è riservato a uomini di tal fatta se non il rimprovero e la punizione di Dio?


La madre di Ricciardino Langosco in traccia del cadavere del figlio ucciso nella espugnazione di Pavia per le armi di Matteo Visconti l’anno 1315, olio su tela di Pasquale Massacra. 1840-1846. Pavia, Musei Civici. La scena è frutto della fantasia dell’artista, poiché la donna era probabilmente morta prima del tragico episodio, che vide suo figlio, podestà di Pavia, cadere mentre la sua città veniva presa da Visconti a tradimento.

sia stato lo stesso Manfredi a donare alla Parte ghibellina un proprio personale stemma, in polemica risposta al pontefice (o viceversa). Ed ecco allora lo stemma della Parte ghibellina di Firenze. Dall’altra parte della barricata, infatti, la fazione ghibellina non dovette rimanere passiva dinnanzi all’adozione di un vessillo e di un simbolo. Conosciamo un sigillo conservato GUELFI E GHIBELLINI

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EMBLEMI

I simboli delle fazioni

BUFFALMACCO E IL VESCOVO Agli inizi del XIV secolo, quando il confronto è tra la sempre guelfa Firenze e la ghibellina Arezzo, gli animali coinvolti non cambiano: aquila ghibellina, leone guelfo. Nel cenotafio del vescovo Tarlati (1330), si nota infatti una grande aquila che, ad ali spiegate, ghermisce un quadrupede esanime, identificabile con un leone. Riguardo a questa simbologia abbiamo come testimone la Novella 161 del Sacchetti. In essa si narra di come il vescovo ghibellino domandasse al pittore Buffalmacco di dipingergli un’aquila «che paresse viva, che fosse addosso a un Leone, e avesselo morto», simbolo che doveva anche comparire scolpito sopra gli ingressi della città. Ma Buffalmacco richiede al suo illustre committente che, nel corso del lavoro, per non esser disturbato, «sia coperto attorno attorno di stuoie, e che nessuna persona non mi veggia». E cosí, all’insaputa del vescovo, egli dipinse «un fiero e gran leone… addosso a una sbranata aguglia».

In basso lo stemma del vescovo ghibellino Guido Tarlati. Il presule volle associare araldicamente il proprio casato all’impero, inserendo nel blasone l’aquila ghibellina.

presso il Bargello, cosí descritto nel volume dedicato ai Sigilli Civili: «Ercole a cavallo del Leone Nemeo, in atto di sganasciarlo». Il sigillo è datato alla fine del XIII secolo e attorno all’immagine corre la iscrizione in latino: «Sigillo della Parte dei Ghibellini di Firenze +» (vedi foto a p. 65). In realtà, piú che Ercole e il Leone Nemeo, il sigillo rappresenterebbe Sansone e il Leone, e il tema sarebbe, al solito, una lotta contro il Male. Infatti, nella Bibbia, il Leone poteva rappresentare superbia e forza incontrollata. Il re della foresta, assieme ai lupi e le pantere – ai quali è accostabile per la ferocia – è degnamente citato: il leone è infatti «pericoloso, feroce, violento, furbo, empio, incarna le forze del Male, i nemici di Israele, i tiranni e i re malvagi, gli uomini che vivono nell’impurità». I Salmi e i Profeti gli accordano un posto importante facendone una creatura temibile, che occorre a tutti i costi fuggire, implorando la protezione divina. Sansone si imbatte nella fiera, che rappresenta Satana/il peccato, quando esce dal sentiero, che rappresenta Dio/la salvezza.

Accostamenti ricorrenti

Gli animali venefici dovevano essere sottoposti a Dio ed ecco perché ai piedi del seggio pontificio posto in Laterano, troviamo la scritta: «Super aspidem et basiliscum ambulabis, et conculcabis leonem et draconem». Come si nota, il leone è accostato, alla pari, al drago, al serpente e al basilisco. Nel Nuovo Testamento, san Pietro lo indica come animale dannoso e anche san Giovanni accosta il leone al diavolo, quando descrive i cavalli infernali le cui teste erano di leone, volendo indicare, come interpretò san Bernardino da Siena nella sua I predica, che «erano capi di leoni, cioè sono capi di diavoli tutti coloro che tengono parte». San Bernardo di Chiaravalle, nella sua Regola della Nova Militia, proibisce ai Templari di cacciare, ma tollera la caccia al leone. Dante si imbatte in un leone, in una lupa e in una lonza. Ugo di san Caro, nel suo commento alla Bibbia, secondo il quadruplice senso letterale, allegorico, morale e anagogico, interpreta misticamente le fiere che compaiono nell’opera dantesca e non lascia molto spazio al dubbio: il leone è diavolo in quanto è superbo. Nel volgarizzamento del Trésor di Brunetto Latini, infine, il leone viene definito «forte e orgoglioso sopra tutte le cose», che «per la sua fierezza uccide la preda ciascun dí». L’uso dell’immagine si era diffuso in tutte le città italiane ed era entrato nel confronto propagandistico tra le due fazioni. Anche in questo scontro tra animali, il leone guelfo avrebbe travolto l’a78

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quila ghibellina, come suggerisce al solito Bernardino che in una predica ci mostra l’antica prassi di modificare o rispondere a un segno di posizione avversa. Nella predica XXIII infatti esclama che «quando si dipégne un’aquila adosso a uno lione, uh! Subito colui che tiene la parte a contrario, fa dipégnere per vendetta uno lione adosso a una aquila» come si narra riguardo a Buffalmacco (vedi box alla pagina precedente). Mutatis mutandis, non ci si discosta poi molto dall’uso di modificare gli slogan calcistici (o politici) che oggi imbrattano i muri delle nostre città. E cosí, per esempio, un «Lazio campione», ben scritto su una scalinata dell’Urbe, trova una poetica postilla di altra mano in «Vergogna della Nazione».

Un’altra rappresentazione di Sansone che spalanca le fauci del leone, in questo caso compresa nella decorazione a rilievo di un crocifisso ligneo di produzione russa.

DA LEGGERE Francesco Bruni, La città divisa. Le parti e il bene comune da Dante a Guicciardini, il Mulino, Bologna 2003 Federico Canaccini, Ghibellini e Ghibellinismo da Montaperti a Campaldino (1260-1269), Istituto Storico per il Medioevo, Roma 2009 Marco Gentile (a cura di), Guelfi e Ghibellini nell’Italia del Rinascimento, Viella, Roma 2005 Sergio Raveggi, L’Italia dei Guelfi e dei Ghibellini, Bruno Mondadori 2009

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SIMBOLI

Intervista a Paolo Grillo

UNA PROVOCAZIONE STUDIATA Incontro con Paolo Grillo, a cura di Federico Canaccini Professore di storia medievale presso l’Università degli Studi di Milano, Paolo Grillo ha dedicato al conflitto fra guelfi e ghibellini il volume La falsa inimicizia. Guelfi e ghibellini nell’Italia del Duecento. Gli abbiamo dunque chiesto di illustrarci l’approccio scelto nell’affrontare la questione. Professor Grillo, il titolo del suo libro allude a un dissidio ben celato, una «falsa inimicizia», appunto. Che cosa si nasconde dietro questa sorta di sotterfugio politico? «Il titolo del libro è volutamente polemico. C’è infatti una tendenza ad assolutizzare il peso dei legami di parte e leggere tutta la politica italiana duecentesca (e non solo) in questa chiave. Ciò ha poi portato molti intellettuali, anche recenti, come Montanelli o Arbasino a identificare nella sopravvivenza di questa contrapposizione uno dei difetti del “carattere nazionale” italiano. Ho quindi cercato di mostrare che in realtà guelfismo e ghibellinismo erano prima di tutto risorse ideologiche e retoriche che i gruppi dirigenti cittadini potevano utilizzare quando era conveniente, al fine di giustificare scelte di politica interna o esterna, in maniera molto pratica e mutevole.

A destra sigillo di Rodolfo I d’Asburgo, eletto Re dei Romani nel 1273 e poi incoronato ad Aquisgrana. In basso ritratto di papa Gregorio X (al secolo, Tebaldo Visconti). Arezzo, Duomo.

DA LEGGERE Paolo Grillo La falsa inimicizia. Guelfi e ghibellini nell’Italia del Duecento Salerno Editrice, Roma 14,00 euro ISBN 978-88-6973-345-1 www.salernoeditrice.it

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Bisogna dunque liberarsi dell’idea che tali ideologie fossero rigide e cogenti o, ancor di piú, che rappresentassero una sorta di carattere intrinseco ad alcune comunità, come vogliono, per esempio, alcune narrazioni municipaliste, che rivendicano patenti di “guelfismo” o di “ghibellinismo” astoriche per questa o quella città».

ideologiche. La retorica di parte era uno strumento utilizzato dai contendenti per motivare i combattenti e attivare reti di amicizie e di alleanze, ma poi, se si guarda ai dettagli, si vede che essa non era per niente esclusiva o determinante. Prendiamo, per esempio, la celebre battaglia di Campaldino, combattuta nel 1289 tra Firenze e Arezzo: quest’ultima si presentò come campionessa del fronte ghibellino e scese in campo inalberando le insegne dell’imperatore eletto Rodolfo d’Asburgo, ma, in realtà, queste erano portate da un ecclesiastico genovese guelfo, Percivalle Fieschi, nominato vicario imperiale della Toscana dal papa! Specularmente, nell’altro schieramento, fra gli alleati di Firenze c’era il nobile ghibellino romagnolo Maghinardo da Susinana, che però era molto legato alla guelfa Firenze. Non a caso, nella Divina Commedia, Dante lo irrideva dicendo che cambiava fronte “dalla state al verno”, ossia secondo le occasioni». Lei esamina il XIII secolo: eppure il quadro cambia profondamente prima e dopo la morte di Federico II... «Infatti, uno dei miei obiettivi è mostrare come non esistano un guelfismo e un ghibellinismo rigidi e immutabili: anche la formulazione dei due schieramenti risentiva del quadro piú generale. Le parti “della Chiesa” e dell’“impero” nacquero durante il conflitto fra Federico II e il papato,

Però, guelfi e ghibellini si sono certamente combattuti, non solo in scaramucce, ma in vere e proprie battaglie e su cui lei ha anche scritto. Ma allora, erano nemici o no? «Anche nel caso delle grandi battaglie tradizionalmente presentate come scontri fra guelfi e ghibellini, alla base dello scontro non c’erano convinzioni ●


mutarono natura durante la lunga vacanza imperiale seguita alla morte di Federico e, ancora, dopo la conquista dell’Italia meridionale da parte di Carlo d’Angiò e in seguito ai Vespri Siciliani. Bonifacio VIII le rimodellò poi a suo vantaggio con grande abilità e cinismo, spingendo per esempio alla frattura fra i guelfi neri e i guelfi bianchi fiorentini, di cui fece poi le spese Dante Alighieri. In ognuna di queste fasi le due parti si riconfigurarono e si ridefinirono, non senza duri scontri al loro interno: i conflitti che vedevano guelfi contro guelfi e ghibellini contro ghibellini non erano piú rari di quelli combattuti tra le fazioni avverse». Il capitolo quarto sembrerebbe quasi ossimorico: re guelfi e papi ghibellini. Vuole spiegare brevemente questo concetto? «Se si interpretano rigidamente le definizioni di guelfo= filopapale e ghibellino= filoimperiale senza

In basso miniatura raffigurante la battaglia di Benevento, combattuta nel 1266 dalle truppe di Carlo I d’Angiò contro le forze guidate da Manfredi di Sicilia, figlio naturale di Federico II. Lo scontro si concluse con la vittoria degli Angioini e la morte dello stesso Manfredi. XV sec.

inserirle in un contesto si cade facilmente in paradossi. Per esempio, quando Carlo d’Angiò si impose a capo dei guelfi in tutta Italia, i papi che si dimostrarono a lui avversi, come Gregorio X, vengono definiti da molti storici come ghibellini. Ma l’imperatore eletto Rodolfo d’Asburgo è a sua volta spesso chiamato “guelfo” in quanto alleato dello stesso Gregorio X. Come si vede, da queste letture troppo ideologiche finisce col nascere un pasticcio linguistico praticamente irrisolvibile. Se invece accettassimo l’idea che si trattava di definizioni molto elastiche, da utilizzare in caso di bisogno e a cui rinunciare nel momento in cui diventavano troppo ingombranti, avremmo a disposizione strumenti molto piú duttili per comprendere la realtà politica dell’Italia bassomedievale». Dunque, si intuisce che non è proprio possibile dare una definizione univoca di queste due fazioni. O forse qualcosa di stabile lo si può identificare? «La nascita delle fazioni ebbe pesantissime conseguenze sulla vita pubblica delle città italiane. Richiamandosi a principi assoluti (la fedeltà alla Chiesa o all’impero) esse

causarono un netto inasprimento della dialettica politica, dato che toglievano ogni legittimità agli avversari, ora definiti rispettivamente come “eretici” se ghibellini e “traditori dell’impero” se guelfi. Ne derivò la grande diffusione del fuoriuscitismo, poiché divenne intollerabile l’idea di accettare la presenza in città di chi professava un’idea diversa da quella predominante. Spesso, inoltre, le fazioni finirono con l’organizzarsi in “parti” stabili e potenti che, in casi particolari come quello di Firenze, acquisirono un’autorità tale da sfidare quella del Popolo e del Comune. Nel campo sovracittadino, gli schieramenti consentirono la creazione di vaste reti di alleanze di dimensioni “nazionali”, che univano per la prima volta l’Italia centro-settentrionale e il regno di Sicilia in un sistema coerente di rapporti. Paradossalmente, esse risultarono divisive in chiave locale e unificanti su dimensioni sovralocali. Non bisogna dunque sottovalutare il ruolo determinante del guelfismo e del ghibellinismo nella storia dell’Italia bassomedievale: semplicemente, è necessario ogni volta contestualizzare e definire bene la natura di questi schieramenti e non cedere alla tentazione di semplicistiche schematizzazioni ideologiche».

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4 SETTEMBRE 1260

Battaglia di Montaperti Immortalato dalla penna di Dante Alighieri, quello di Montaperti fu uno degli scontri piú cruenti fra la guelfa Firenze e la ghibellina Siena. E le forze della prima, sebbene numericamente superiori, riportarono una cocente sconfitta di Francesco Troisi

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Farinata degli Uberti alla battaglia del Serchio (particolare), olio su tela di Giuseppe Sabatelli. 1842. Firenze, Palazzo Pitti, Galleria d’Arte Moderna.

utto le divideva. Firenze era fieramente guelfa, mentre Siena, con altrettanto orgoglio, si professava ghibellina. Rivaleggiavano anche sul piano commerciale, contendendosi i mercati internazionali, oltre a quelli regionali. Queste tormentate relazioni conobbero il momento piú critico nel XIII secolo e culminarono nella resa dei conti di Montaperti, il 4 settembre 1260. A fronteggiarsi, però, non furono solo Siena e Firenze, ma coalizioni articolate. Gli amici dei Fiorentini erano molti, sicuramente piú numerosi: la Chiesa romana, Corradino di Svevia, Lucca, Bologna e Prato tra i Comuni piú rinomati. Per i Senesi, invece, parteggiavano il re di Sicilia Manfredi, Pisa, Arezzo e altre città meno prestigiose. A Firenze la situazione era insostenibile per chi non condivideva l’orientamento guelfo. Nel 1251, molti ghibellini avevano perciò preferito l’esilio rispetto a una vita da perseguitati in patria, riunendosi sotto l’antico vessillo comunale: il giglio bianco in campo rosso. Pure i guelfi si riconoscevano in quell’ insegna, ma con colori invertiti: il giglio rosso su sfondo bianco, l’attuale simbolo della città. Poco dopo, tuttavia, i dissidenti tornarono a casa, accettando giocoforza lo scomodo ruolo di minoranza mal sopportata. In quel periodo la città viveva uno dei massimi momenti di splendore economico, consacrato nel 1252 dalla coniazione del fiorino d’oro, accettato come valuta in molti Paesi d’Europa. Alcuni banchieri fiorentini, inoltre, figuravano nella lista dei finanziatori di papi e sovrani in improvvisa crisi di liquidità. Anche la rivale Siena, a ogni modo, vantava un nucleo consistente di cittadini munifici, di prestatori di danaro, oltre che un’altrettanto nutrita schiera di cambiavalute e intermediari. La sua fortuna economica (segue a p. 86) GUELFI E GHIBELLINI

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LE BATTAGLIE

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Gli schieramenti e le manovre 1 E mili a - Ro ma gn a

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A destra gli schemi della battaglia combattuta nella piana di Montaperti. L’armata guelfa è colorata in verde; quella ghibellina in rosso. I rettangoli rappresentano la fanteria, e, quelli barrati, la cavalleria.

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3. L’attacco inizia probabilmente dopo le 10. La seconda divisione ghibellina, seguita dalla cavalleria della terza, attacca la cavalleria guelfa a Costaberci. Nello stesso tempo la fanteria ghibellina della terza divisione inizia a dare l’assalto a Monselvoli.

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1. La mattina del 4 settembre 1260 una divisione ghibellina guidata dal conte d’Arras si stacca dall’armata principale e si dirige a sud-est di Monselvoli per preparare l’imboscata. Il resto dell’esercito inizia a schierarsi per la battaglia.

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2. L’esercito ghibellino attraversa l’Arbia e inizia a posizionarsi in pianura. Contemporaneamente i guelfi si schierano sui poggi che vanno da Monselvoli a Costaberci.


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4. La cavalleria ghibellina combatte contro la guelfa, piú numerosa, mentre la fanteria ghibellina, sfavorita dal rapporto numerico viene respinta in pianura.

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5. Verso le 15, mentre la mischia continua con esiti incerti, Niccolò da Bigozzi con la guardia senese interviene in aiuto della cavalleria sull’estremo fianco sinistro ghibellino, lasciando sguarnito il Carroccio.

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. Dopo l’intervento di Niccolò da Bigozzi, tra le file fiorentine si verifica il tradimento di Bocca degli Abati e di tutti gli altri ghibellini fiorentini non fuoriusciti. 7. Verso le 18 entra in scena il conte d’Arras con il primo contingente ghibellino. L’imboscata riesce alla perfezione e l’armata investe alle spalle l’ala sinistra guelfa, provocandone la disgregazione. L’esercito guelfo, in rotta, cerca in parte di fuggire e in parte di barricarsi in luoghi fortificati prossimi al campo di battaglia Sullo sfondo miniatura raffigurante la battaglia di Montaperti, dalla Cronaca di Niccolò di Giovanni Ventura. XIII sec. Siena, Biblioteca Comunale. GUELFI E GHIBELLINI

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LE BATTAGLIE

Montaperti

dipendeva in gran parte dalla posizione strategica, lungo la via Francigena, principale arteria di collegamento tra Nord e Sud Italia. I rancori tra i due ricchi Comuni covavano da anni (almeno dal 1200), e diedero luogo a piccole schermaglie e a combattimenti piú impegnativi, come nel 1255. In quell’anno ebbero la meglio i Fiorentini, che decisero in seguito di dettare alcune condizioni punitive al nemico: una sorta di patto forzato che sanciva il divieto per i Senesi di accogliere transfughi di tendenze antiguelfe da Firenze, Montepulciano e Montalcino. Nell’estate del 1258, per l’ennesima volta, i dissidenti di Firenze si trovarono nella condizione di esiliati. Costretti alla fuga, chiesero asilo agli amici senesi, che non esitarono ad accoglierli, nonostante il divieto imposto dal trattato. Tra i fuoriusciti ghibellini e le città toscane consorelle esisteva infatti un accordo segreto, stipulato nel 1251, che prevedeva una sorta di mutua assistenza. Ma i Fiorentini non considerarono quel patto preesistente come una valida attenuante, e chiesero conto ai rivali del tradimento degli accordi. Il tempo delle intese stava per finire e, di lí a poco, anche le schermaglie dialettiche lasciarono il campo alle armi. Cominciarono le truppe di Firenze, con alcune scorribande violente in territorio senese. Azioni isolate, architettate per spaventare i nemici, in vista di un attacco in

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grande stile, che, nel frattempo, veniva pianificato nei minimi particolari. A Siena giunsero in proposito notizie allarmanti: si trattava di indiscrezioni attendibili, divulgate da fidati informatori, pronti a giurare che il nemico fosse sul punto di partire all’assalto, avendo già provveduto a schierare le compagnie del popolo e a distribuire le insegne. Come se non bastasse, qualcuno evocò anche l’esistenza di un complotto, ordito da misteriosi guelfi senesi, pronto a entrare nella fase esecutiva.

Appello al re

Siena si sentiva già in guerra, con un certo timore per il proprio destino. La confortavano però i successi dell’alleato re Manfredi, che aveva appena sbaragliato l’esercito del pontefice, rafforzando i domini ereditati dal padre, Federico II. I ghibellini si rivolsero precipitosamente al figlio del grande imperatore per ottenere aiuti militari in vista della guerra e pur di assicurarsi l’agognata collaborazione del monarca, si dissero disposti a giurargli fedeltà assoluta e a trasformare la città in un avamposto centro-settentrionale dei suoi domini. Un’offerta irrinunciabile, che convinse il sovrano a prestare qualche reparto di armati agli amici toscani. Solo un manipolo di soldati, comunque, e niente di piú. Alcuni resoconti, al riguardo, parlano di appena cento cavalieri e di


un capitano con l’insegna reale. Tra i componenti della spedizione senese alla corte del re svevo, in base a quanto si apprende da alcuni cronisti fiorentini, figurava un esule della città gigliata, il cui profilo fu reso immortale da Dante Alighieri nella Divina Commedia: Farinata degli Uberti (vedi box a p. 90). Di famiglia nobile, ex uomo di fiducia di Federico II, era dotato di una personalità forte e carismatica. Ma né lui, né gli altri inviati senesi convinsero Manfredi a concedere una piú cospicua quantità di soldati per l’imminente scontro con i Fiorentini. Farinata tuttavia non se ne preoccupò molto, prevedendo di spronare Manfredi a un maggiore impegno con uno stratagemma. Avrebbe utilizzato la bandiera imperiale, assegnata dal sovrano a Siena: «Quella [insegna] – disse – noi la conduceremo in luogo che ne sarà fatto tale strazio, che gli verrà voglia di essere nemico dei Fiorentini, e daraccene [di cavalieri], piú che non vorremo noi». In seguito i Senesi mandarono altri ambasciatori in Sicilia per sollecitare l’invio di nuove truppe, prostrandosi sempre di piú dinnanzi a Manfredi. Il re, quasi commosso da tanta devozione, decise di mandare in Toscana uno dei suoi capitani migliori, Giordano d’Anglano, con un numero piú consistente di cavalieri. E tenne a far sapere agli abitanti di Siena che la loro città gli

era ormai luogo

In alto il sigillo della città di Siena, da un manoscritto della metà del XIII sec. Acquarello di Girolamo Macchi (1649-1734). Siena, Archivio di Stato. Sulle due pagine la Piazza del Campo a Siena.

entrata nel cuore piú di ogni altro d’Italia. Le ulteriori truppe provenienti dalla Sicilia, comunque, risultavano sempre esigue, per precisa volontà del sovrano, che non intendeva sguarnire il proprio esercito in vista di eventuali nuove guerre contro il papato. Nello stesso periodo alcune città sotto influenza senese si ribellarono, contando sull’appoggio di Firenze: imbracciarono le armi i guelfi di Grosseto, Monteano e Montemassi, nei prodromi della cosiddetta «guerra di Maremma». Grosseto però si arrese presto, diventando residenza del plenipotenziario locale di Manfredi, Giordano d’Anglano. Mentre le altre due dovettero subire un pesantissimo assedio. I facili successi di Siena spinsero i Fiorentini a velocizzare i preparativi per lo il grande scontro con i loro nemici storici. Presto, quindi, partirono verso sud e, nella marcia di avvicinamento, sottomisero Colle Val d’Elsa, Casole e Menzano. Sul punto poi di dirigersi verso Montemassi, virarono all’improvviso verso nord. Il loro vero obiettivo era Siena e non volevano perdere altro tempo, convinti di trovarla sguarnita a causa dell’impegno in Maremma, ma persero l’occasione, peccando di scarsa rapidità nei movimenti.

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LE BATTAGLIE

Montaperti

Il 18 maggio 1260 l’esercito di Firenze si schierò fuori Porta Camollia, pronto ad attaccare Siena, ma venne sorpreso dalla sortita di una squadra di Tedeschi, che, secondo i cronisti di parte senese, riuscí a respingere gli assedianti. Stando alle testimonianze fiorentine, invece, i guelfi, dopo un iniziale sbandamento, si accorsero del numero esiguo degli avversari e contrattaccarono all’istante, riuscendo ad avere la meglio. Alla fine, in segno di spregio, strapparono la bandiera di Manfredi agli sconfitti, trascinandola a lungo nel fango. L’episodio convinse i Fiorentini di quanto sarebbe stato difficile assediare Siena in quel momento, e li indusse alla ritirata. In base alle cronache guelfe, in città vennero accolti come eroi da una folla in delirio, che assistette a un nuovo dileggio dello stendardo di Manfredi, uno dei bottini della piccola battaglia vinta. La bandiera fu calpestata, trascinata ancora una volta per terra e infine «appiccata capopiedi». Se le cose fossero andate davvero cosí, per Firenze sarebbe comunque stata una «vittoria di Pirro», che valeva piú come beffa perpetrata ai ghibellini. Gli equilibri tra le due forze infatti restavano immutati, come, del resto, equivalenti erano state le perdite: duecento caduti tedeschi, e qualche centinaio anche nelle file guelfe.

Desiderio di vendetta

I Senesi, però, meditavano vendetta e pertanto si rivolsero di nuovo a Manfredi, questa volta con qualche buona carta da giocare: secondo il Villani, nel palazzo del sovrano si affacciarono, un giorno, nuovi ambasciatori dalla Toscana, accompagnati da un soldato tedesco reduce dalla sconfitta di Porta Camollia. L’intento della delegazione senese era chiaro: suscitare le ire del re con il racconto delle provocazioni compiute dai Fiorentini e della loro mancanza di rispetto per la bandiera imperiale. Tuttavia, il monarca si inalberò piú per la sconfitta che per l’irrisione allo stendardo, avvedendosi della necessità di inviare un maggiore contingente di soldati: circa 800 cavalieri, desiderosi di vendicare i loro compagni caduti. La controffensiva senese cominciò subito con la rapida conquista di cittadine sotto il controllo nemico: Montelatrone, Montemassi e Poggibonsi, che furono facilmente sottomesse. Con l’afflusso delle nuove truppe di Manfredi, però, gli obiettivi divennero piú ambiziosi, come caldeggiato dal consiglio generale della città. Nel mirino finí allora la strategica Montepulciano, che, dopo una breve resistenza, 88

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In alto la cattedrale di S. Maria Assunta a Siena. La facciata è rivestita da fasce marmoree bianche e nere in riferimento alla balzana senese, lo stemma araldico cittadino.

A sinistra la Madonna dagli occhi grossi, davanti alla quale fu pronunciato il voto della città alla vigilia della battaglia di Montaperti, nel 1260, tavola dipinta a parziale rilievo. 12001250 circa. Siena, Museo dell’Opera Metropolitana.


dovette capitolare. Poi fu la volta di Montalcino, l’odiato borgo troppo amico di Firenze. I ghibellini lo assediarono per giorni, riducendo la popolazione allo stremo. L’intento dei comandanti di Siena era quello di distruggerlo, possibilmente entro pochi giorni. La situazione disperata di Montalcino allarmò i Fiorentini, che di nuovo si mobilitarono, allestendo una poderosa armata comprendente effettivi di altre città consorelle come Bologna, Prato, Lucca, San Gimignano, Orvieto, San Miniato, Volterra e Colle Val d’Elsa. La marcia verso sud delle truppe di Firenze fu precipitosa e in parte temeraria: i comandanti, infatti, nel corso dell’itinerario che conduceva a Montalcino, volevano far transitare i propri uomini a ridosso delle mura di Siena. Una manifestazione forse di eccessiva spavalderia, che provocò un acceso dibattito tra gli stessi guelfi sull’opportunità o meno di compiere un azzardo simile. Alla fine i militari sfiorarono davvero le mura senesi, senza subire comunque attacchi, e si accamparono nei pressi di Pievasciata. Era il 2 settembre del 1260. Qui sotto miniatura raffigurante la battaglia di Montaperti, dall’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. A sinistra, lo schieramento guelfo si riconosce dallo stemma gigliato sugli scudi; sulla destra, la città di Siena e i cavalieri ghibellini, con lo scudo bianco e nero. A destra, in basso il tradimento del ghibellino Razzante prima di Montaperti in un’altra miniatura del Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

Nella Germania del XII secolo, alla morte dell’imperatore Enrico V (1125), si svilupparono due partiti dinastici opposti che appoggiarono, nella guerra per la successione al trono, la casata di Baviera e Sassonia dei Welfen (da cui deriva il termine guelfo) o quella di Svevia degli Hohenstaufen, signori del castello di Waiblingen, presso Stoccarda (da cui deriva il termine ghibellino). In Italia i due termini si diffusero tra il XII e il XIII secolo, assumendo, nel contesto della lotta per le Investiture, il significato di sostenitore del papa o dell’imperatore. In alcuni Comuni, in relazione alla lotta interna per il potere, sorsero fazioni che si ricollegarono al movimento guelfo o ghibellino. Tuttavia, non sempre l’appellativo coincise con una convinzione politica fedele all’una o all’altra causa, mascherando piuttosto un interesse volto al dominio politico ed economico, da raggiungere, secondo la convenienza, attraverso l'appoggio papale o imperiale.

PRINCIPALI CITTÀ GUELFE

•ALESSANDRIA •BOLOGNA •BRESCIA • COLLE DI VAL D’ELSA •CREMA •CREMONA •FAENZA • FIRENZE

(tranne un breve governo ghibelino dal 1248 al 1250)

• GENOVA (brevi periodi:

1256-1270; 1317-1319)

•LUCCA •ORVIETO •PERUGIA • PRATO (per lunghi tratti ghibellina)

• MILANO (guelfa fino

all’arrivo dei Visconti)

•MONDOVÍ •VOLTERRA

PRINCIPALI CITTÀ GHIBELLINE

•AREZZO •CASTIGLION FIORENTINO •CREMONA •COMO •FORLÍ •FOLIGNO • GENOVA (predominio 1270-1317)

•GROSSETO • GUBBIO (con schieramento guelfo durante la signoria dei Gabrielli) •LODI •MANTOVA •MODENA

•OSIMO •PAVIA •PISA •PISTOIA •POGGIBONSI •SPOLETO •TERNI •TODI •URBINO • SAN MINIATO (ghibellina fino al 1291, poi guelfa)

• SIENA (ghibellina fino al

1287, poi guelfa con l’instaurazione del governo dei Nove)


LE BATTAGLIE

Montaperti

FRA RANCORE E PIETÀ I versi di Dante su Farinata compongono il canto X dell’Inferno, nel quale, anzi si staglia la figura del politico ghibellino, con una nettezza scenica e statuaria che rappresenta uno dei picchi poetici della Divina Commedia. Da lettori ci si avvia, seguendo Dante e Virgilio, con quella musicalissima terzina: «Ora sen va per un secreto calle, tra ’l muro della terra e li martíri, lo mio maestro, e io dopo le spalle». Il poeta pellegrino ha dinanzi a sé dei sepolcri scoperchiati. Ne chiede conto alla sua guida, che spiega: «…Tutti saran serrati quando di Josafàt qui torneranno coi corpi che là su hanno lasciati. Suo cimitero da questa parte hanno con Epicuro tutt’i suoi seguaci, che l’anima col corpo morta fanno». Cioè quanti, col filosofo, negano l’immortalità dell’anima. La replica di Dante con il colore del suo eloquio ne rivela l’origine fiorentina, giacché dal fondo di uno degli avelli si ode levarsi stentorea una voce: «O Tosco che per la città del foco vivo ten vai cosí parlando onesto, piacciati di restare in questo loco. La tua loquela ti fa manifesto di quella nobil patria natio alla qual forse fui troppo molesto». Ed è chiara, fiera, l’allusione ai conflitti civili. Dopo aver fatto udire la voce dal profondo, eccolo Farinata mostrarsi dalla cintola in su fuori del sepolcro:

«S’elli han quell’arte – disse – male appresa, ciò mi tormenta piú che questo letto. Ma non cinquanta volte fia raccesa la faccia della donna che qui regge che tu saprai quanto quell’arte pesa. E se tu mai nel dolce mondo regge, dimmi: perché quel popolo è sí empio incontr’a’miei in ciascuna sua legge? – Ond’io a lui: – Lo strazio e l’grande scempio che fece l’Arbia colorata in rosso, tali orazion fa far nel nostro tempio».

«…Chi fuor li maggior tui?». Appresa la loro identità, si avvede di essere di fronte a un nemico, e il suo tono si fa duro:

Tremenda suona la predizione dell’esilio a cui il poeta sarà costretto a piegarsi, a causa di due sentenze di condanna comminate all’inizio del Trecento. Peregrinazioni lunghe, dedicate agli studi e alla composizione della Divina Commedia, per poi morire, ancora fuoriuscito, a Ravenna. Ha un che di tragico l’immagine che Dante dipinge del fiume Arbia arrossato dal sangue della strage, e lo sgomento nel rievocarlo. A questo punto il tono del colloquio si fa piú umano. E Farinata può, senza iattanza, sfoderare l’ultima impennata di orgoglio, riprendendo la cacciata senza ritorno dei ghibellini:

«…Fieramente furo avversi a me e ai miei primi e a mia parte, sí che per due fiate li dispersi.

«Poi ch’ebbe sospirato e ’l capo scosso, – A ciò non fu’ io sol, – disse – né certo sanza cagion con li altri sarei mosso.

S’ei fur cacciati, ei tornar d’ogni parte – rispuosi lui – l’una e l’altra fiata; ma i vostri non appreser ben quell’arte».

Ma fu’ io solo, là dove sofferto fu per ciascun di tòrre via Fiorenza, colui che la difesi a viso aperto».

«…Ed el s’ergea col petto e con la fronte com’avesse l’inferno in gran dispitto». Subito apostrofa il concittadino ritrovato:

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Manenti degli Uberti, detto Farinata forse per il colore biondo dei capelli, era capo del partito ghibellino, nonché sommo rappresentante della famiglia nelle lotte fratricide del Comune fiorentino. Poteva vantare «maggiori» nobili e potenti fin dal XII secolo, sostenitori di Federico Barbarossa e in lotta con i Donati per il predominio nella città. E contribuí alla cacciata dei guelfi. Dopo la battaglia di Montaperti, in occasione della quale diede prova del suo valore militare, nel congresso ghibellino di Empoli lui solo si oppose, per amor di patria, ai Pisani e ai Senesi che volevano distruggere Firenze. E l’ebbe vinta. L’Inquisizione lo condannò nel 1283 per incredulità, ma Farinata era già morto diciannove anni prima. Da qui la collocazione nell’Inferno. Dante Alighieri, cresciuto nella Firenze guelfa, non poteva che nutrire rancore per il ghibellino orgoglioso, ma, da poeta, gli conferisce una sinistra grandezza, intrisa di pietà, mostrando Farinata opporsi alle sue parole con immutata fermezza:

GUELFI E GHIBELLINI


Nell’imminenza della battaglia i comandanti di Firenze tesero la mano ai nemici, inviando un’ambasceria. Ma, piú che di un tentativo diplomatico, si trattava di un ultimatum, con una serie di condizioni pesanti (come l’abbattimento delle mura), che i ghibellini non vollero nemmeno prendere in considerazione. Siena, quindi, si preparava allo scontro, confidando nell’aiuto di alcuni infiltrati nell’esercito di Firenze e nell’entusiasmo dei soldati tedeschi, ai quali venne di proposito raddoppiata la paga, grazie al finanziamento di un facoltoso banchiere locale, Salimbene de’ Salimbeni, che mise a disposizione ben 18 000 fiorini. I cavalieri di Manfredi, appresa la notizia, si scatenarono in balli e canti, poi investirono parte degli inaspettati aumenti di stipendio per migliorare il proprio equipaggiamento.

Inquietudine e misticismo

A fronte della loro euforia, però, Siena si sentiva ormai assediata e tra i suoi abitanti serpeggiava l’inquietudine. La compattezza dell’esercito fiorentino faceva paura, dando luogo nel borgo a invocazioni finalizzate a ottenere protezioni divine. Come accadde nel discorso tenuto davanti alla popolazione dal podestà del consiglio cittadino il 2 settembre del 1260: «Vergine Maria, aiutateci al nostro grande bisogno, e liberateci da le mani di questi lioni e di questi superbissimi uomini, che ci vogliono divorare». Ma si verificarono manifestazioni di misticismo ben piú intense di una preghiera. In quello stesso giorno il capo del consiglio generale senese, Bonaguida Lucari, si spogliò in piazza, restando solo con la camicia e con una cintura stretta intorno al collo. Quindi guidò una processione fino al duomo, dove lasciò le chiavi della città in segno di sottomissione nei confronti della Madonna. Il 4 settembre i soldati senesi uscirono dalle mura, guidati da Provenzano Salviani, Giordano d’Anglano e Aldobrandino Aldobrandeschi. Superarono il torrente Arbia, nei pressi di Montaperti, con l’obiettivo di sbarrare la strada ai Fiorentini, in marcia verso Montalcino. E cosí fu. La leggenda racconta che le truppe di Siena con uno stratagemma cercarono poi di spaventare i nemici, sfilando ripetutamente, ma con abiti diversi, in un luogo ben visibile dai guelfi. Cosí da far sembrare sterminato il numero dei propri militari. La fantasia dei cronisti, oltre che quella popolare, contaminò i resoconti su quanto realmente accadde nel corso della battaglia a Montaperti,

Ritratto di Farinata degli Uberti, affresco di Andrea del Castagno. 1450. Firenze, Galleria degli Uffizi. Manente degli Uberti, detto Farinata, membro di un’antica famiglia fiorentina di tradizione ghibellina, fu uno dei principali artefici della vittoria di Montaperti.

producendo un gioco di versioni discordanti in parte giustificato dalla consueta propaganda delle due parti in causa: con i vincitori che tendevano a scivolare nell’epica celebrativa; e con i vinti, invece, abili inventori di giustificazioni che potessero in qualche modo scaricare su altri la responsabilità della disfatta. Le testimonianze documentarie coeve piú dettagliate su quelle giornate di settembre del 1260 sono contenute nel Libro di Montaperti, una raccolta di scritti di parte fiorentina riordinati nell’Ottocento dall’archivista Cesare Paoli (vedi box a p. 92). Il manoscritto, però, fa luce soprattutto sull’organizzazione della battaglia e sul complesso retroterra politico che la generò. Dalla parte dei Senesi, invece, venne prodotto GUELFI E GHIBELLINI

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LE BATTAGLIE

Montaperti

solo un breve riassunto dei fatti, pubblicato nel Calendario della chiesa metropolitana di Siena sotto l’anno 1260. Si tratta di una sommaria proclamazione del vincitore, con annotazioni sulle perdite degli sconfitti guelfi. Appare piú imparziale e di maggior interesse storico, invece, la relazione inviata da alcuni ghibellini di Firenze a Manfredi. Dalla quale emerge la conferma della superiore consistenza numerica dell’esercito guelfo, ma una diversa scenografia: non Montaperti, quanto la vicina Sant’Ansano a Dofana. Non si fa cenno a tradimenti, né a geniali tattiche che determinarono l’esito del confronto, vinto in modo del tutto ordinario dallo schieramento ghibellino, che poteva contare su una cavalleria piú efficiente. Nel rispetto della tradizione, che nelle battaglie medievali vedeva prevalere quasi sempre gli eserciti con le migliori forze equestri.

Cifre esagerate

I Fiorentini dovettero accettare lo scontro nel luogo voluto dai Senesi, che la maggior parte degli storici indicano in Montaperti. Gli effettivi guelfi sfioravano le 35 000 unità, tra cui 30 000 fanti e circa 3000 cavalieri, secondo le ricostruzioni del Villani. Dalla parte ghibellina, invece, i numeri erano piú contenuti: quasi 20 000 armati, tra i quali 18 000 fanti e 1800 cavalieri, ripartiti in quattro divisioni. Le cifre appaiono esagerate, come in effetti risulta dal Libro di Montaperti, che parla di complessivi solo 15 000 soldati dalla parte guelfa.

TESTIMONIANZE DI PARTE, MA PREZIOSE Molti dei misteri sulla battaglia sono stati svelati grazie a un bottino di guerra conquistato dai Senesi. Si tratta del Libro di Montaperti, una raccolta di pergamene scritte da vari notai che erano al seguito dell’esercito fiorentino. Il ritrovamento di queste preziose carte fu una sorta di miracolo, considerando il destino a cui andavano incontro di solito gli oggetti che i vincitori sottraevano agli sconfitti. Un esempio su tutti, l’ambita bandiera fiorentina posta sul carroccio, che, secondo alcune ricostruzioni, venne fatta a brandelli senza pietà a fine battaglia. I manoscritti invece furono conservati per anni nell’archivio del Comune di Siena e riuniti in qualche modo sotto forma di libro. In età medicea, nel 1570, vennero restituiti a Firenze, trovando posto nell’archivio delle «Riformagioni». Solo nell’Ottocento, però, grazie alla paziente opera di Cesare Paoli, tutto il materiale sarà ordinato con un certo criterio, assumendo l’attuale forma del Libro di Montaperti, il piú corposo documento di parte fiorentina sulla celebre battaglia. Si tratta di un’opera di grande rilievo dal punto di vista storico. «L’unico esempio rimasto di archivio viatorio di un esercito combattente nella storia militare e archivistica del Medioevo», sottolineò Paoli.

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GUELFI E GHIBELLINI

La tradizione popolare individua nel cavaliere tedesco Gualtieri d’Astimbergh il primo protagonista, colui che in pratica aprí il confronto. Dotato di un’audacia fuori del comune, attaccò da solo lo schieramento avversario, uccidendo tre cavalieri nemici con pochi colpi di lancia. La storia, al contrario, riferisce di un certo attendismo dei due eserciti nel momento in cui si trovarono l’uno di fronte all’altro. La relazione dei fuoriusciti ghibellini a re Manfredi descrive, non senza derisione per il nemico, la differenza di approccio tra i due eserciti. Quello guelfo si mostrò minaccioso a parole, urlando al nemico «Piglia! Piglia!», una sorta di grido di battaglia dalla controversa interpretazione. Quello ghibellino, al contrario, si diede da fare subito con le armi «per sperimentare – raccontano gli estensori della relazione – se in guerra la vittoria si ottenga con le voci o non piuttosto con la spada». Tra storia e leggenda, lo scontro entrò nel vivo. I Senesi prevedevano di attaccare subito fron-


talmente, nonostante gli svantaggi di posizione. Per aggredire il nemico avrebbero dovuto scalare una pendenza, e in piú si trovavano con il sole contro. Ma la mossa apparentemente suicida nascondeva una tattica ingegnosa: impegnare i guelfi con manovre prevedibili per poi attaccare di sorpresa alle spalle, quando i raggi del sole li avrebbero accecati. La prima delle quattro divisioni dell’esercito senese, comandata dal conte d’Arras, fu incaricata di questa segreta operazione di aggiramento.

Manovre sterili

La piramide commemorativa collocata sul colle che domina la piana della battaglia di Montaperti e, nel riquadro, l’iscrizione celebrativa che recita un verso dell’Inferno di Dante Alighieri.

Le prime schermaglie della battaglia risultarono, come previsto, difficili per i ghibellini, in evidente inferiorità numerica e costretti a combattere con il sole negli occhi. Qualsiasi loro manovra appariva sterile. La seconda divisione cercò, per esempio, di sfondare lo schieramento avversario sull’ala destra, ma senza successo. Mentre la terza divisione si schiantò centralmente contro il muro di scudi e corazze. Ancora piú sfavorevole per Siena fu il durissimo scontro del poggio di Monselvoli. I Fiorentini, sorpresi dalla facilità con cui stavano prendendo il sopravvento, si convinsero di aver già la vittoria in mano. A torto, visto quanto stava per accadere. Nel pomeriggio, infatti, la battaglia si aprí con un rovesciamento degli equilibri che alcuni Senesi avevano previsto, in gran parte come auspicio. Ma come fu possibile? Grazie al tradimento, forse, tenendo fede a quanto alcuni cronisti raccontano. Gli infiltrati ghibellini tra le file guelfe si erano attivati all’improvviso, creando scompiglio nell’esercito in cui militavano. Il primo voltafaccia fu quello del cavaliere fiorentino Bocca degli Abati, che assalí il suo gonfaloniere, Jacopo de’ Pazzi, troncandogli il braccio con cui teneva la bandiera della città. Altri dissidenti nell’esercito di Firenze gettarono subito dopo la maschera e cominciarono a combattere contro i propri commilitoni. Il caos divenne in breve tempo totale, tanto da paralizzare molti degli effettivi fiorentini che non sapevano piú dove andare e chi colpire. Altri, in preda al panico, preferirono dileguarsi nei boschi circostanti. I Senesi, visto quanto stava accadendo, attaccarono in massa, preceduti da una pioggia di dardi lanciati dai propri arcieri. Avanzarono inquadrati su tre file, dando vita al massacro che Dante Alighieri raccontò con uno dei suoi versi piú celebri: «Lo strazio e ‘l grande scempio che fece l’Arbia colorata in rosso…». Si avventarono sui fanti avversari, dopo aver impedito

alla cavalleria di ricomporsi e riuscendo infine a espugnare il carroccio. La prima divisione, poi, attaccò i nemici quasi alle spalle, intervenendo al momento giusto. La battaglia proseguí fino a notte e si concluse con lo sterminio dei soldati di Firenze. Anche in questo caso le cifre riportate dai cronisti dell’epoca sembrano esagerate, quantificando nel numero di 10 000 i morti guelfi, e in 15 000 i prigionieri. Il cronista Giovanni Villani a proposito dei caduti fiorentini descrive un panorama macabro. «Furono li prigioni che vennero in Siena sedici mila; pensate se ne furono morti, ché per la puzza degli uomini e de’ cavalli morti s’abbandonò tutta quella contrada; e stette molto tempo che non vi s’abitò, se non per fiere e bestie selvagge». Sul versante senese, invece, la perdite furono solo 600 con circa 400 feriti. La vittoria ghibellina fu clamorosa, schiacciante, ma sterile dal punto di vista politico. Forse per la negligenza dei governanti, Siena non riuscí a stabilizzare la propria posizione di predominio su Firenze. Solo per pochi anni, infatti, i ghibellini spadroneggiarono in territorio nemico. I guelfi fuggirono in massa dalla loro città per evitare ritorsioni, stabilendosi a Nord, alcuni a Bologna e altri a Lucca. Chi restò, fu costretto a giurare fedeltà a re Manfredi e a sottomettersi alle prepotenze dei Senesi, che in cuor loro, però, coltivavano l’idea di distruggere totalmente l’odiata nemica, lasciando solo un cumulo di macerie. Lo scempio fu impedito grazie a Farinata degli Uberti, rientrato nella sua vecchia città, che con grande talento diplomatico riuscí nell’impresa di convincere i partecipanti alla dieta di Empoli tra città ghibelline a non avallare il progetto di cancellare Firenze dalla faccia della terra. Ma la rivalsa guelfa scattò poco tempo dopo, favorita in parte dalla scomunica di papa Alessandro IV, diretta a tutti i domini di re Manfredi. Il provvedimento sanzionatorio incoraggiò molti dissidenti antighibellini a rialzare la testa e a boicottare le banche senesi verso le quali erano debitori, cosí da mettere in ginocchio l’economia della città. Dopo pochi anni, nel 1269, i guelfi tornarono padroni non solo di Firenze, ma anche del territorio senese, in seguito alla vittoria nella battaglia di Colle. Il vecchio comandante Provenzano Salviani, uno degli eroi di Montaperti, fu giustiziato con un processo sommario. La sua testa fu portata in giro nelle strade di Colle Val d’Elsa, infilzata in una lancia fiorentina. Siena alla fine tornò guelfa, dopo tanto tempo, e da lí a poco conobbe una delle epoche di maggior splendore. GUELFI E GHIBELLINI

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26 FEBBRAIO 1266

Battaglia di Benevento Lo scontro combattuto nei pressi della città del Sannio vide fronteggiarsi Manfredi, figlio di Federico II, e Carlo d’Angiò, alfieri delle fazioni ghibellina e guelfa e animati, in realtà, da interessi dinastici e sogni di egemonia. Passato alla storia per le efferatezze perpetrate dai vincitori angioini, l’evento segnò la fine della dominazione sveva in Italia di Francesco Troisi

«S

i assolvano ladri, briganti, stregoni, incendiari, sacerdoti concubinari, purché partecipino all’impresa». Ogni mezzo era lecito, secondo papa Clemente IV, per rafforzare l’esercito guelfo del conte Carlo d’Angiò, in procinto di scontrarsi con le truppe del grande nemico ghibellino: il re di Sicilia Manfredi di Hohenstaufen. Il pontefice temeva che il sovrano potesse accelerare la sua campagna espansionistica, prendendo di mira anche i territori della Chiesa, nel tentativo di realizzare il progetto di dominio germanico sull’intera Penisola già cullato dal padre, Federico II. In tanti, perciò, si trovarono coalizzati sotto le insegne delle forze angioine che, nel febbraio del 1266, nei pressi di Benevento, sbaragliarono l’armata del monarca svevo: milizie regolari, banditi provenienti dalla Provenza e dalla Fiandra, molti baroni dell’Italia meridionale, oltre ai Fiorentini ancora scottati dalla disfatta di Montaperti del 1260. Clemente IV, come alcuni predecessori, aveva posto tra le priorità del suo programma la lotta contro Manfredi, definito «l’usurpatore» per il suo insediamento sul trono del

Il ritrovamento del corpo di Manfredi tre giorni dopo la battaglia di Benevento del 1266, olio su tela di Giuseppe Bezzuoli. 1838. Benevento, Museo del Sannio. Ispirandosi alla Divina Commedia, il pittore fiorentino illustra l’episodio del ritrovamento del corpo di Manfredi, morto da eroe contro le truppe francesi di Carlo I d’Angiò, appoggiate dal papato. Sulla destra, il vescovo di Cosenza, legato pontificio, indica che il sovrano svevo, scomunicato da papa Clemente IV, non può essere seppellito in terra consacrata, ma solo fuori dal regno.



LE BATTAGLIE

Benevento

Al di là e al di qua del fiume Fiamminghi Fiamminghi Italiani Italiani Provenzali Provenzali

5 5 3 3

2 2

1 1

Saraceni Saraceni

4 4

Giordano Giordano d’Anglano d’Anglano Calore Calore

Galvano Galvano Lancia Lancia Manfredi Manfredi

6 6 7 7

FASE 1 FASE 1

Giordano Giordano d’Anglano d’Anglano Galvano Galvano Lancia Lancia

9 9

8 8

Calore Calore

Manfredi Manfredi

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GUELFI E GHIBELLINI

FASE 2 FASE 2

Schema del possibile svolgimento della battaglia di Benevento. Gli arcieri saraceni di Manfredi attaccano quando solo una parte dell’esercito siciliano ha attraversato il fiume Calore (1). La fanteria angioina ripiega (2), ma l’intervento dei Provenzali (3) sbaraglia i Saraceni. Interviene, troppo tardi, la divisione del d’Anglano (4), e Carlo d’Angiò immette nello scontro la seconda linea (5), che finisce per prevalere nel corpo a corpo. I mercenari agli ordini di Galvano Lancia passano il ponte, ma, vedendo approssimarsi la terza schiera angioina (6), si danno alla fuga (7). A Manfredi non rimane che spingersi a sua volta oltre il Calore (8), cadendo nella

mischia. Ciò che rimane dell’esercito siciliano viene accerchiato (9), bloccando il ponte (da Andrea Frediani, Le grandi battaglie del Medioevo, Roma 2010). In basso miniatura raffigurante la sconfitta dell’esercito di Manfredi a Benevento, dall’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. La scena mostra l’epilogo dello scontro, con i cavalieri ghibellini che, in fuga verso Benevento, passano sopra i cadaveri di molti compagni d’armi, inseguiti da vicino dagli uomini di Carlo d’Angiò.


regno di Sicilia senza il beneplacito della Chiesa. Francese ed ex cancelliere di Luigi IX, Clemente pensò subito di coinvolgere i reali del proprio Paese d’origine nella campagna contro Manfredi e ci riuscí grazie a un accordo con il fratello del monarca transalpino, il conte Carlo d’Angiò, nominandolo senatore di Roma, nonché re di Sicilia. In poco tempo, il nobile francese conquistò molti proseliti in città, raccogliendo consensi anche negli ambienti che apparivano piú vicini a Manfredi. Quest’ultimo non sembrava preoccuparsi del solido fronte franco-papale di fresca costituzione e non si curò del pretendente al suo trono, considerandolo sostanzialmente inoffensivo, sul piano sia politico che militare.

I Francesi in Italia

Nel novembre del 1265, le truppe francesi provenienti da Lione varcarono il confine italiano. In Piemonte si unirono ad alcuni reparti di guelfi italiani e passarono subito all’azione, espugnando alcune città ghibelline: Vercelli, Milano e, soprattutto, Brescia, che fu quasi rasa al suolo. Manfredi, in seguito al dilagare delle forze francesi nel settentrione, reagí immediatamente e inviò in quella zona calda

Miniatura di scuola francese raffigurante Carlo I d’Angiò incoronato re di Sicilia da papa Clemente IV. XV sec. Ginevra, Bibliothèque Publique et Universitaire.

truppe capeggiate da uno dei suoi ufficiali migliori, Giordano d’Anglano, il protagonista del trionfo di Montaperti. La mossa del sovrano svevo, tuttavia, seppur tempestiva, risultò sterile e non produsse lo sperato blocco della marcia di avvicinamento delle armate di Carlo d’Angiò verso Roma. Dal Nord, infatti, i Francesi raggiunsero facilmente Bologna, ed entrarono poi nella Città Eterna nel gennaio del 1266. Messo al corrente delle novità, Manfredi cominciò a preoccuparsi. Ormai si aspettava la discesa verso sud delle armate guelfo-angioine e provvide perciò a rafforzare le difese. Ammassò molti uomini nella parte piú settentrionale del regno, in particolare in due località, in corrispondenza di Rocca d’Arce e San Germano (l’antica Cassino), nel Frusinate. Lui stesso, invece, si posizionò a Capua, una delle sue roccheforti, con oltre 15 000 uomini, tra cui 10 000 Saraceni e 5000 cavalieri, in attesa di essere raggiunto da altri soldati provenienti dalle Marche e dall’Abruzzo. Il re svevo temeva che i nemici si sarebbero mossi molto presto, e non sbagliò le sue previsioni: Carlo d’Angiò partí il 20 gennaio, dopo aver ricevuto la benedizione dai prelati.

PENTITO IN PUNTO DI MORTE Figlio di Federico II e di Bianca dei conti Lancia, Manfredi nacque nel 1232. Alla morte del padre ereditò il principato di Taranto e assunse l’incarico di luogotenente del regno di Sicilia, in attesa del ritorno del legittimo sovrano designato, il fratello Corrado. Manfredi dovette subito fronteggiare un problema enorme, con la Chiesa che considerava di propria spettanza il regno sul quale lui doveva sovrintendere. Domò varie rivolte e rafforzò il dominio svevo sul territorio conteso, fino al ritorno del fratello con il quale però ben presto entrò in conflitto. Alla morte di Corrado riuscí ad assumere la reggenza del regno di Sicilia, che sarebbe spettato al nipote Corradino ancora troppo giovane. L’ascesa di Manfredi irritò il papato, tanto da spingere il pontefice Innocenzo IV a scomunicarlo. Dopo una breve tregua, l’attrito con la Santa Sede si riacutizzò in seguito all’omicidio di un nobile legato agli ambienti della Chiesa da parte di un gruppo di fedelissimi di Manfredi. Ormai era guerra totale tra le due fazioni, e lo Svevo corse in Puglia per chiedere l’appoggio dei Saraceni di stanza in quella città. Con le sue truppe e gli alleati sconfisse l’esercito pontificio a Foggia, nel 1254. Il conflitto proseguí anche durante il governo di papa Alessandro IV, con nuove affermazioni di Manfredi, che, nel 1258, fu incoronato re di Sicilia. Sposò l’anno seguente Elena, la figlia di Michele II, despota d’Epiro. Furono gli anni di maggior splendore per Manfredi, che estese il suo potere anche su altri territori della Penisola. Dopo la vittoria ghibellina di Montaperti del 1260, alla quale il sovrano svevo diede il suo contributo, la Chiesa decise di opporre a Manfredi il nobile Carlo d’Angiò. Si aprí quindi l’era del conflitto tra Francesi e Svevi, che culminò nella battaglia di Benevento.

GUELFI E GHIBELLINI

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LE BATTAGLIE

Benevento

CARLO D’ANGIÒ Francese, figlio di Luigi VIII e di Bianca di Castiglia, nacque nel 1226. Giovanissimo, sulla via di intraprendere la carriera ecclesiastica, dovette invece occuparsi dell’amministrazione dei vasti possedimenti della famiglia nell’Angiò e nel Maine, dopo la morte del padre e dei suoi due fratelli. Sposando Beatrice, figlia di Raimondo Berengario IV, acquisí anche il controllo della Provenza. Il matrimonio fu particolarmente caldeggiato da papa Innocenzo IV, spaventato dall’ipotesi di un’unione tra la ragazza e Corrado, figlio di Federico II. Nel 1265, dopo lunghe trattative, papa Urbano IV gli affidò l’incarico di liberare il regno di Sicilia dalla dominazione di Manfredi. Dopo l’affermazione a Benevento contro Manfredi nel 1266 e quella successiva contro Corradino di Svevia nella battaglia di Tagliacozzo, Carlo rivolse le sue mire su altri regni, partecipando prima a una crociata con il fratello Luigi IX contro Tunisi e in seguito conquistando i titoli di sovrano d’Albania e di Gerusalemme. Le sue mire espansionistiche allarmarono la Chiesa, con la quale però l’alleanza stretta in funzione antisveva resistette a lungo nel tempo. Nel regno di Sicilia Carlo perse progressivamente popolarità per le pesanti imposizioni fiscali che decise di adottare e per i metodi repressivi con cui governava. Il malcontento popolare, specie a Palermo in seguito anche allo spostamento della capitale del regno a Napoli, fu tale da sfociare in una rivolta passata alla storia come «Vespri Siciliani». Durò vent’anni, segnò la fine del dominio angioino nel Sud d’Italia e la contemporanea ascesa degli Aragonesi, capitanati da Pietro III, genero di Manfredi. La storia sembrò in un certo senso tornare indietro, con esiti del tutto opposti a quanto era successo nella battaglia di Benevento. Carlo morí a Foggia nel 1285.

trionale, San Germano, dove 6000 uomini, capeggiati dall’espertissimo Giordano d’Anglano, attendevano il nemico all’interno di una fortezza che appariva inespugnabile. Per ovviare all’ostacolo, i Francesi dovettero richiedere in gran fretta a Roma l’invio di speciali macchine d’assalto, che però non risultarono determinanti per conquistare il borgo. Dopo svariati tentativi infruttuosi, alla milizia di Carlo bastò approfittare del clamoroso errore tattico di un manipolo di nemici, che, per far abbeverare i cavalli, aveva abbandonato la fortezza: ne seguí uno scontro che si protrasse fin nei pressi delle mura, vicino alla porta dalla quale gli armati di Manfredi erano usciti, lasciandola incredibilmente aperta. Molti Angioini caddero nel tentativo di penetrare da quell’accesso rimasto spalancato, ma due fra loro, i celebri fratelli Vendôme, riuscirono nell’impresa eroica di salire fin sopra le mura e di issare la bandiera. Da quel momento scoppiò il caos tra le forze ghibelline, che, in buona parte, si diedero alla fuga, convinte ormai di essere state sopraffatte. La presa di San Germano permise alle truppe angioine di occupare la parte settentrionale del regno di Sicilia e di avanzare rapidamente in direzione di Benevento. Nei pressi della città campana trovarono schierato l’esercito di Manfredi, pronto a sbarrare loro la strada.

Uno scontro inevitabile La Chiesa salutò la spedizione come se si trattasse di una vera e propria crociata, concedendo l’assoluzione a tutti i partecipanti.

Il tradimento del conte

In pochi giorni gli Angioini raggiunsero i confini settentrionali del regno di Sicilia, sbaragliando senza difficoltà le truppe del conte di Caserta, Riccardo, asserragliate a Rocca d’Arce. Secondo alcuni cronisti francesi gli armati di Carlo non trovarono, in realtà, alcuna resistenza nella cittadina, per il tradimento del nobile campano, cognato di Manfredi. Lo storico e scrittore Eucardio Momigliano afferma al riguardo che «a sostegno dell’ipotesi di tradimento vi sono anche documenti»: uno, di pochi mesi successivo al passaggio dei Francesi a Rocca d’Arce, «indica il conte di Caserta quale amico dell’Angiò». Non esisterebbe comunque «alcuna prova della sua pretesa fellonia, sebbene ne sia indubbia la viltà della resa dovuta certamente alla paura». Per gli Angioini fu, invece, piú difficile la presa dell’altro avamposto svevo setten98

GUELFI E GHIBELLINI

Statua di Carlo I d’Angiò scolpita da Arnolfo di Cambio, facente parte del monumento onorario dedicato in Campidoglio al sovrano angioino, re di Sicilia e Senatore di Roma. 1277 circa. Roma, Musei Capitolini.

Dopo aver atteso inutilmente i richiesti rinforzi dalle Marche e dalla Puglia, il sovrano di Sicilia non si sentiva, in verità, ancora pronto alla battaglia. Sicuramente avrebbe potuto organizzare una difesa efficace piú a sud, ma si sentí quasi obbligato ad affrontare il nemico a viso aperto, non volendo perdere altre porzioni di territorio, tra cui, in particolare, la zona di Napoli. Cosí, la mattina del 26 febbraio 1266, fidandosi dei consigli di un astrologo, Manfredi decise di attaccare per primo, nel tentativo di sorprendere un nemico provato dal lungo viaggio. Lasciò una postazione favorevole e passò al di là del fiume Calore dopo un attraversamento laborioso, che ebbe come conseguenza il parziale sfilacciamento del suo esercito. Riuscí comunque a riorganizzare in parte i propri reparti secondo una disposizione su quattro linee: nella prima fece schierare gli arcieri saraceni, nella seconda poco piú di un migliaio di cavalieri tedeschi, nella terza un contingente di Lombardi e Toscani, nella quarta, infine, numerosi Siciliani sotto il suo comando. Sul versante opposto Carlo


In basso particolare della statua ottocentesca di Carlo I d’Angiò posta sulla facciata di Palazzo Reale a Napoli.

UN CASTELLO SUL MARE Napoli. Il Castel Nuovo, meglio noto come Maschio Angioino. Dopo la battaglia di Benevento e il trasferimento della capitale del regno da Palermo alla città campana, Carlo I d’Angiò volle una nuova reggia fortificata in riva al mare. I lavori, affidati nel 1279 all’architetto Pierre de Chaule, si conclusero tre anni piú tardi. Tuttavia il sovrano francese, impegnato a sedare la rivolta dei Vespri scoppiata in Sicilia, non vi risiedé mai. Della fortezza di epoca angioina, radicalmente ricostruita da Alfonso d’Aragona, rimane solo la cappella palatina, dedicata a Santa Barbara. d’Angiò allestí uno schieramento simile: davanti sistemò un nutrito numero di balestrieri, poi, di seguito, 900 cavalieri provenienti dalla Provenza, 1400 armati italiani e della Linguadoca, e in coda circa 700 Fiamminghi e Francesi del Nord. L’ultima fila, nei piani del condottiero angioino, avrebbe dovuto sferrare un contrattacco fulmineo in un particolare momento della battaglia, aggredendo l’avversario sui fianchi. In base al alcune ricostruzioni storiche, sembra che il primo attacco sia partito dagli Svevi senza un preciso ordine e per opera degli arcieri saraceni. La mossa improvvisa colse di sorpresa la prima fila avversaria, ma ebbe, alla fine, ripercussioni negative sugli attaccanti: l’avanzata repentina dei musulmani aveva infatti creato un pericoloso spazio tra le linee dell’armata di Manfredi, perché non era stata accompagnata dal resto dei reparti. Il risultato fu l’annientamento pressoché immediato degli arcieri, lasciati soli a fronteggiare il prevedibile contrattacco dei cavalieri provenzali. La seconda fila dell’esercito svevo si era mossa GUELFI E GHIBELLINI

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LE BATTAGLIE

Benevento

troppo tardi per poter difendere i Saraceni, riuscendo perlomeno a ostacolare l’avanzata dei nemici, passati nel frattempo in modo deciso all’offensiva. Proprio quella seconda fila rappresentava il reparto migliore dell’armata del monarca di Sicilia: composta da cavalieri tedeschi di grande esperienza e sotto il comando di Giordano d’Anglano, impegnò severamente i Francesi, tanto che, come racconta lo storico e cronista Giovanni Villani, vissuto a cavallo tra XII e XIII secolo, «grande pezza durò che non si sapea chi avesse il migliore». L’equilibrio però fu rotto presto, grazie a un’abile mossa tattica degli Angioini che investirono di colpi i cavalieri germanici nel loro punto debole, cioè sotto le ascelle, unica parte scoperta dell’armatura. Quella parte del corpo era un bersaglio facile in quel momento della battaglia, in quanto i soldati germanici agitavano continuamente le spade per respingere gli assalti francesi. Il muro dei cavalieri svevi, di conseguenza, dopo poco cedette, anche perché non sorretto sufficientemente dal resto dell’esercito, in parte ancora impegnato nel difficile passaggio oltre il fiume Calore. Quando pure gli ultimi reparti di Manfredi giunsero sul campo di battaglia, le sorti erano in sostanza già decise. Le retrovie sveve non poterono fornire alcun contributo, perché subito investite dall’assalto dei cavalieri fiamminghi e francesi, che attaccarono sui fianchi, come pianificato da Carlo. Manfredi, ancora appostato al di là del fiume, decise di rompe100

GUELFI E GHIBELLINI

re gli indugi e di gettarsi nella mischia, proprio quando ormai la situazione appariva disperata. Si era tenuto nelle retrovie, con alcuni uomini, pronto a irrompere in battaglia nel momento decisivo, quando avrebbe potuto assestare al nemico il colpo fatale. Tutti i suoi piani, però, erano falliti e si trovava in quel momento di fronte a una scelta drammatica: fuggire in Aragona o in Grecia, dove poteva contare su parentele influenti, o morire da eroe, combattendo accanto agli ultimi uomini rimasti. Optò per l’epilogo tragico, e si precipitò con il suo cavallo nel punto in cui lo scontro appariva piú furioso. Pochi dei suoi fedelissimi lo seguirono, nemmeno i cognati Riccardo di Caserta e Tommaso d’Acerra: ancora una volta era stato tradito e intorno a sé ritrovò solo alcune guardie del corpo, oltre a un manipolo di Saraceni. Sapeva di non avere scampo e, prima di affrontare l’ultimo duello, scambiò l’elmo con l’aquila d’argento insieme all’armatura con l’amico Tebaldo Annibaldi, in modo da rendere difficilmente riconoscibile il proprio cadavere.

Nascosto dai cadaveri

Manfredi cadde il 26 febbraio 1266, al tramonto, trafitto da un colpo di spada. Pochi suoi soldati sopravvissero alla battaglia, come testimoniato dallo stesso Carlo d’Angiò, che in una lettera al papa scrisse di aver visto il terreno «interamente nascosto dai cadaveri dei nemici». Il trionfatore di Benevento, a ogni modo, non s’accontentò di

Sulle due pagine Pernes-les-Fontaines, Tour Ferrande. Particolari del ciclo pittorico che narra la conquista della Sicilia da parte di Carlo I d’Angiò. XIII sec. Il combattimento tra un cavaliere francese e Manfredi re di Sicilia (o la morte di Manfredi; in alto); il corpo di Manfredi trascinato da un cavaliere francese.


aver annientato quasi l’intero esercito svevo, ma pretendeva a tutti i costi un trofeo di guerra: le spoglie di Manfredi. Diede perciò disposizione ai suoi di non seppellire i cadaveri, nel tentativo di individuare i resti del re di Sicilia tra le migliaia di caduti. Solo dopo tre giorni il corpo del sovrano svevo fu rintracciato, grazie anche al riconoscimento di alcuni ufficiali scampati al massacro e caduti nelle mani degli Angioini. In segno di rispetto Carlo garantí al nemico una sepoltura nelle vicinanze di Benevento, senza funzioni religiose. Il cadavere di Manfredi però non rimase a lungo in quel luogo e fu in seguito trasferito (sembra per intervento dell’arcivescovo di Cosenza) sul corso del fiume Liri, fuori del territorio dello Stato della Chiesa. La vittoria angioina non determinò solo un passaggio di consegne del regno di Sicilia, da Manfredi a Carlo, ma anche una serie di palingenesi politiche in numerosi altri territori della Penisola: molti domini ghibellini tornarono in mano guelfa, come per esempio Firenze e altre città del Nord, tranne Verona e Pavia. I Francesi, tuttavia, divennero presto impopolari al Sud, a causa della loro gestione dispotica del potere e per le ripetute crudeltà di cui si resero responsabili. Del resto, già dopo la fine della battaglia, avevano dato prova dei loro intendimenti, mettendo a ferro e fuoco l’intera città di Benevento e commettendo ogni sorta di efferatezze, secondo quanto riportato proprio da uno storico di parte guelfa, Saba Malaspina, scriptor della curia pontificia. Si accanirono con le violenze anche sulle donne, i bambini e i sacerdoti, facendo presto affiorare tra la gente comune un sentimento di nostalgia per il vecchio sovrano mor-

to: «Ciascuno sommessamente lamentandosi – scrisse Malaspina –, quasi non osando parlare, diceva: Oh re Manfredi! Te vivo non abbiamo conosciuto e ora morto ti piangiamo. Ti credevamo un lupo rapace tra le pecore pascenti in questo regno, ma in confronto del presente dominio dal quale secondo la nostra consueta volubilità ci aspettavamo tanti vantaggi e che abbiamo desiderato, riconosciamo che tu eri un agnello mansueto. Sentiamo ora quanto erano dolci i tuoi ordini, ora che subiamo quelli cosí amari di un altro». Le notizie sulle barbarie perpetrate dai soldati angioini giunsero anche alle orecchie del papa, il quale preferí comunque non rompere le relazioni con chi aveva eliminato l’odiato re svevo. La collaborazione politica tra la Chiesa e Carlo d’Angiò proseguí anche per sventare possibili, anzi probabili tentativi da parte degli eredi e degli amici di Manfredi di riconquistare il regno di Sicilia. Il papa e i Francesi temevano soprattutto Corradino di Svevia, nipote del monarca ucciso, il quale, seppur quindicenne, mostrava una certa predisposizione al comando.

Il riscatto mancato

E proprio il ragazzo, con l’aiuto dei Lancia (famiglia della madre di Manfredi, con domini su buona parte della Toscana), guidò una missione per appropriarsi del trono che era stato dello zio: sotto il comando di Corradino fu rapidamente costituito un corposo esercito, nel quale confluirono soldati spagnoli, tedeschi e italiani. Ma, nonostante le prime affermazioni nella zona settentrionale del regno, la spedizione verso il meridione angioino si risolse in un fallimento. Nella battaglia di Tagliacozzo dell’agosto 1268, nonostante fosse in evidente inferiorità numerica, Carlo d’Angiò, ancora una volta, ebbe la meglio. Le conseguenze politiche della nuova affermazione angioina furono rilevanti anche in zone lontane dal regno di Sicilia. Carlo, galvanizzato dai successi militari, estese le sue mire su tutta l’Italia e non solo: desiderava infatti annettere territori lontani e rivolse il suo interesse in particolare verso Costantinopoli, tornata bizantina. Sognava una nuova crociata. Fu, però, l’inizio del declino, che coincise anche con l’apertura di un’era difficile nei rapporti tra il capo angioino e il papato. Clemente IV era morto dopo aver compiuto la sua missione, ossia eliminare la stirpe sveva definita da lui stesso «progenie di serpenti». Il suo successore, Gregorio X, decise di affidare la corona imperiale a un tedesco, Rodolfo d’Asburgo, per paura che potesse finire proprio sul capo di Carlo d’Angiò. GUELFI E GHIBELLINI

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23 AGOSTO 1268

Battaglia di Tagliacozzo In una calda giornata d’agosto del 1268, presso i Piani Palentini, in Abruzzo, si consumò un altro degli scontri campali fra guelfi e ghibellini, rispettivamente guidati da Carlo d’Angiò e da Corradino di Svevia. E quando la vittoria del secondo sembrava ormai certa, gli eventi presero una piega inaspettata e le ambizioni imperiali dell’ultimo degli Hohenstaufen sfumarono definitivamente di Federico Canaccini


Miniatura raffigurante la battaglia di Tagliacozzo, dall’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

L

o scontro tra Svevi e Angioini, iniziato con la nomina pontificia di Carlo I a re di Sicilia, al posto di Manfredi nel 1265, ebbe il suo epilogo nella battaglia dei Piani Palentini, meglio nota come battaglia di Tagliacozzo. Già Manfredi, che aveva quasi usurpato il trono a Corradino di Svevia, era stato sconfitto dall’angioino a Benevento nel 1266, morendo in battaglia. Nell’estate del 1268 il sogno di Corradino di recuperare il regno, usurpatogli prima da Manfredi, poi da Carlo I, sembrava a portata di mano. Soprattutto, la vittoria riportata poco prima a Ponte a Valle (presso Arezzo, 25 giugno 1268) contro l’avanguardia angioina aveva rassicurato l’esercito svevo. A Siena, l’impressione suscitata dalla fulminea vittoria sulle truppe di Carlo fu tale che, ogniqualvolta si doveva nominarlo negli atti ufficiali, il re angioino, allora detto Carlone, fu registrato, in segno di scherno, con il nome di Ciarlone. Allarmato dalla

Farinata degli Uberti alla battaglia del Serchio, particolare. Olio su tela di Giuseppe Sabatelli (1813-1843). 1842. Firenze, Palazzo Pitti, Galleria d’Arte Moderna.

sconfitta di Ponte a Valle, papa Clemente IV fece giungere armati da Assisi e Perugia nel suo palazzo di Viterbo, dove temeva un’incursione.

Sotto gli occhi del papa

Dopo la metà di luglio Corradino lasciò Siena con il suo esercito, le cui fila erano state ingrossate dalla cavalleria di Siena e dalle milizie tedesche stipendiate dai Senesi. Nel corteo armato che sfilava lungo la Cassia, un piccolo drappello era costituito dai prigionieri catturati a Ponte a Valle, tra cui spiccavano lo sfortunato Jean de Braiselve e Amiel d’Agoult. Certamente papa Clemente poté vedere le schiere ghibelline attraversare la piana di Toscanella dalle mura di Viterbo e avrebbe affermato – riferendosi a Corradino – che l’agnello condotto al macello, sarebbe passato come il fumo. Percorrendo la Cassia, l’esercito raggiunse Roma, (segue a p. 107)


LE BATTAGLIE

Tagliacozzo

Quella mattina del 23 agosto

Stemmi ghibellini

Guido da Montefeltro

Mainardo Tirolo Mastino della Scala

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GUELFI E GHIBELLINI


Sulle due pagine ricostruzione grafica degli schieramenti di Corradino di Svevia e Carlo I d’Angiò a Tagliacozzo, nel 1268. Nel riquadro cartina dell’Abruzzo con l’ubicazione della cittadina.

Ghibellini/Svevi La disposizione dell’esercito di Corradino di Svevia, forte di 5000 uomini: in prima linea, la schiera dei cavalieri tedeschi, capitanati dal maresciallo Konrad Kropf von Flüglingen, e dei ghibellini toscani del conte Donoratico; in seconda linea gli Spagnoli di Enrico di Castiglia e i cavalieri romani a lui fedeli; infine, l’ultima schiera, formata da cavalieri tedeschi e dai Lombardi del marchese Pelavicino, capitanata dallo stesso Corradino e da Federico di Baden.

Guelfi/Angioni Stemmi guelfo-angioini

Savelli

Orsini

Disposizione delle truppe di Carlo I d’Angiò, numericamente inferiori: la sistemazione era stata decisa da Alardo di Valéry, che aveva posizionato in prima linea contingenti italiani e provenzali guidati da Enrico di Cousance e, come seconda schiera, truppe francesi comandate da Jean de Clary e da Guglielmo Stendardo. Un terzo schieramento di 800 cavalieri capitanati dallo stesso Carlo I e da Alardo di Valéry rimase nascosto dietro un colle, in attesa di intervenire per ribaltare le sorti di una battaglia data già per persa.

MARCHE UMBRIA

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GUELFI E GHIBELLINI

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LE BATTAGLIE

Tagliacozzo

Le fasi della battaglia rra

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Carlo D’Angiò

3 2 1

3

1 2

PRIMA FASE TERZA FASE

Carlo D’Angiò

3

3 1

2 1

Prima fase. Entrambi gli eserciti si trovavano dinnanzi al ponte sul fiume Salto, senza decidersi ad attraversarlo. Trovato un valico piú a monte, Enrico di Castiglia e i suoi 300 Spagnoli accerchiano il nemico, attaccando i Francesi sui fianchi e sul retro. Seconda fase. L’esercito di Corradino attraversa il ponte, travolgendo la prima schiera nemica e annientando in poche ore i due terzi delle truppe di Carlo I. Enrico di Castiglia uccide il maresciallo Enrico di Cousance, sostituitosi a Carlo indossandone i paramenti reali. Le truppe angioine fingono quindi la ritirata.

Terza fase. Credendosi vittoriosi, i soldati di Corradino si abbandonano al saccheggio dei nemici caduti, arrivando a togliersi le armature. Enrico di Castiglia dirige i suoi Spagnoli verso l’accampamento di Carlo, sempre con l’intento di darsi alla razzia. Quarta fase. Carlo e i suoi 800 uomini scelti rimasti nascosti dietro al colle piombano sui nemici. In un primo momento la superiorità numerica degli Svevi sembra garantire una qualche resistenza, ma quando si passa ai combattimenti individuali i cavalieri angioini ribaltano l’esito della battaglia.

GUELFI E GHIBELLINI

3 1

1

3

2 2

SECONDA FASE

3

QUARTA FASE

3

QUINTA FASE 106

Carlo D’Angiò

Quinta fase. Enrico di Castiglia fronteggia le truppe di Carlo, tenendogli testa due volte e arrivando quasi al punto di forzare le schiere. Alardo di Valéry finge allora la ritirata con 30 o 40 cavalieri, si lascia inseguire dalle truppe spagnole e, superato il colle, le fronteggia e le sconfigge: la vittoria degli Angioini è definitiva.


ESPEDIENTI LETALI Nelle battaglie medievali vennero spesso adottate tattiche sleali o stratagemmi che non rientravano nella prassi cavalleresca. Per esempio, a Benevento, nel 1266, re Manfredi vestí le insegne di un suo comandante, cosí come fece Carlo I due anni piú tardi a Tagliacozzo. Ma veri e propri comportamenti poco cavallereschi furono l’uso di tagliare i garretti dei cavalli tedeschi a Benevento, o quello di sbudellare da sotto le cavalcature guelfe a Campaldino. I Normanni, a Hastings, nel 1066, ingannarono la cavalleria sassone, fingendo una ritirata, cosí come Enrico di Castiglia fu ingannato dagli Angioini. Ma, piú delle altre, la tattica usata dal vecchio Alardo, quella di nascondere parte delle truppe sino a battaglia conclusa, appresa probabilmente in Terra Santa, doveva essere ancora pressoché ignota in Occidente. Su questo modo di risolvere una contesa militare, il rimprovero dantesco ci fa capire come simili modalità non fossero ancora del tutto patrimonio comune, e per questo Dante scrisse «là da Tagliacozzo ove, senz’armi vinse il vecchio Alardo!».

la), dove tre settimane piú tardi colse la vittoria. La scelta di portarsi a Scurcola era motivata dalla certezza che Corradino avrebbe percorso la via degli Abruzzi, giacché l’altra via d’accesso al regno, quella per la Campania, era difesa da una guarnigione lasciata a presidio sul ponte di Ceprano. Cosí Carlo costrinse il nemico a passare per i Piani Palentini, che furono fatali all’ultimo degli Hohenstaufen.

Una visita di cortesia

Corradino si trattenne a Roma fino al 10 agosto, quando, uscito probabilmente dalla porta Tiburtina, si diresse verso gli Abruzzi. Passata Tivoli, l’esercito raggiunse Vicovaro, dove fu ospite degli Orsini, signori del luogo. Di lí Corradino, con pochi intimi, marciò fino all’inaccessibile castello di Saracinesco, ove salutò la figlia di Galvano Lancia, andata in sposa a Corrado d’Antiochia. L’itinerario passò quindi per Arsoli, dove la fan-

A destra la facciata del Palazzo Papale di Viterbo, costruito tra il 1257 e il 1266. Sentendosi poco sicuro a Roma, qui si rifugiò papa Clemente IV, primo pontefice a porvi la sua residenza stabile. Sopra il portale di accesso si notano l’epigrafe commemorativa della costruzione e il Leone del Comune, a destra invece si intravedono gli archetti e la trabeazione a metope della Loggia, aggiunta nel 1267. In basso ritratto di Clemente IV (al secolo, Guy Foulques o Guido Fulcodi), olio su tela di Giuseppe Franchi. 1600-1624. Milano, Pinacoteca Ambrosiana.

mentre presso le coste laziali gettava l’ancora una flotta pisana di 24 galere, capitanata da Guido Bocci. Solo alla fine di luglio Carlo decise di abbandonare l’assedio di Lucera (vedi box a p. 108), roccaforte saracena ribellatasi al sovrano angioino, per andare incontro al rivale, attendendolo ai confini del regno. Cosí facendo, sperava di evitare il congiungimento dell’esercito nemico con le truppe della Puglia. Dal 4 di agosto Carlo aveva sistemato il proprio esercito non lontano dalla piana di Scurcola (presso L’Aqui-

teria romana si separò dal resto della truppa per far ritorno a Roma. Corradino, invece, entrò nel regno attraverso la regione del Cicolano, dove trovò l’appoggio di alcuni dei conti di Mareri, signori del luogo, nella speranza di scendere lungo la Marsica per giungere a Sulmona. Finalmente, il 21 o il 22 agosto, Corradino giunse in vista dei Piani Palentini, ove pose il suo accampamento dopo essere stato informato che l’esercito di Carlo era poco lontano. Le tende furono piantate sulla riva sinistra del fiume Salto, un torrente di modesta portata, ma dalle rive scoscese e che allora doveva essere fianchegGUELFI E GHIBELLINI

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LE BATTAGLIE

Tagliacozzo

CITTÀ DI ARCIERI E FROMBOLIERI Quando Federico II ereditò il regno dalla madre Costanza d’Altavilla, in Sicilia vivevano ancora numerosi gruppi di Ebrei, Greci, Arabi, Berberi e Persiani. Nel 1220, dopo alcune insurrezioni, l’imperatore decise di trasferire in terraferma circa 20 000 musulmani, deportandoli a Lucera, Girifalco e Acerenza. Nel 1239, al loro ennesimo tentativo di riattraversare lo stretto per tornare nell’isola natía, Federico li trasferí tutti nella sola Lucera. La città ospitava una moschea principale (jami), scuole per lo studio del Corano e almeno un qadi, un giudice incaricato di risolvere le frequenti controversie tra cristiani e musulmani. È stato stimato che la popolazione di Lucera avesse raggiunto le 60 000 unità, di cui almeno un sesto impiegato dall’imperatore sui campi di battaglia. Erano famosi gli arcieri e i frombolieri, utilizzati sia da Federico, sia da Manfredi e Corradino. Perfino Carlo d’Angiò, che li aveva deprecati e assimilati a emissari del diavolo, perché non cristiani, se ne serví in Albania, con il tacito accordo del papa, che aveva invece scomunicato gli Svevi per via dei rapporti amichevoli stabiliti con i musulmani!

I resti delle mura di Lucera, fatte edificare da Carlo I d’Angiò. La «roccaforte saracena», da sempre fedele agli Svevi, si era ribellata al sovrano angioino ed era stata da lui assediata. La cinta muraria era lunga in origine 900 m e comprendeva 17 torri.

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GUELFI E GHIBELLINI

giato da alta vegetazione. Comunque, essendo d’agosto, il fosso doveva essere povero d’acqua. Abbandonato l’assedio di Lucera, Carlo d’Angiò si diresse verso i confini settentrionali del regno, per fronteggiare il suo antagonista. Fece una prima sosta all’Aquila, per sincerarsi della fedeltà di quella città e rifornire di vettovaglie e foraggio il proprio esercito. Per tre giorni e tre notti, da domenica 19 a martedí 21, Carlo spiò passo dopo passo gli spostamenti del proprio avversario, che cercava un valico per poter superare di nascosto i monti e congiungersi con il Mezzogiorno. Infine, anche il re angioino stabilí le proprie tende presso i Piani Palentini. Poco lontano, due miglia appena, erano accampati, ai piedi del monte Carce, i ghibellini di Corradino.

La parola alle armi

All’alba del 23 agosto del 1268, gli eserciti rivali si schierarono per la battaglia. Si decideva dunque con le armi chi avrebbe regnato sul trono di Sicilia. Da un lato l’Angiò era deciso a mantenere fermamente il regno, conquistato a Benevento appena due anni prima. Dall’altro, però, Corradino rivendicava come proprio il regno di Sicilia, usurpatogli prima da Manfredi, e ora da Carlo, col benestare del pontefice. Teatro dello scontro fu dunque la valle dei Piani Palentini, poco lontano dal lago del Fucino. Corradino fece sistemare l’esercito, oltre 5000 uomini, confidando nella perizia militare del vecchio maresciallo Konrad Kropf von Flüglingen. La prima schiera era costituita dai molti cavalieri tedeschi capitanati dallo stesso Kropf e dalle truppe ghibelline toscane, con il conte Donoratico in testa. Poco lontano vi era la seconda schiera, formata dagli Spagnoli di Enrico


di Castiglia (vedi box a p. 111), e dai cavalieri provenienti da Roma, di cui Enrico era Senatore. L’ultima schiera infine, composta da cavalieri tedeschi e dalle milizie lombarde guidate dal marchese Pelavicino, era capitanata da Corradino e Federico di Baden. Di contro, l’Angioino affidò la sistemazione delle sue truppe, inferiori per numero a quelle dello svevo, al vecchio cavaliere Alardo di Valéry. A lui le cronache attribuiscono il ruolo di capo di stato maggiore e l’ideazione della tattica dell’agguato, probabilmente appresa in Terra Santa, da cui era recentemente ritornato. La prima linea era composta da contingenti italiani e provenzali e fu affidata a Enrico di Cousance. Questi si offrí di vestire le insegne reali, cosí da sviare l’avversario. L’inganno riuscí in pieno, ma Enrico pagò con la vita questo gesto. La seconda schiera, composta interamente da Francesi, era piú potente della prima, ed era comandata da Jean de Clary e da Guglielmo Stendardo, scampato tre mesi prima alla tragedia di Ponte a Valle. Carlo infine si trovava con 800 cavalieri scelti assieme al «vecchio Alardo», come ricorda Dante, riparato dietro un colle, in attesa di cogliere l’istante propizio per capovolgere le sorti di quella che sembrava una sconfitta annunciata. Infatti, le forze in campo erano numericamente a favore del giovane svevo. Là dove con la forza non si poteva riuscire, ci si affidò perciò alla Vergine Maria… ma, soprattutto, all’astuzia.

Attacco a sorpresa

Primo obiettivo dei contendenti fu un ponte protetto da un fortilizio. Tuttavia, prima di attraversare il fosso che, seppure in secca, doveva avere rive piuttosto scoscese, entrambi gli eserciti sostarono dinnanzi al ponte: i Tedeschi per paura di scompaginarsi nell’intraprendere l’attraversamento; i Francesi perché forse volevano cogliere il nemico quando era piú vulnerabile. Ma Enrico di Castiglia, trovato un varco piú a monte sorprese coi suoi 300 Spagnoli le truppe dell’Angioino, accerchiandole. Al grido di vendetta da parte del Castigliano, le truppe si lanciarono al galoppo contro i fianchi e il retro delle schiere francesi, tagliando la via d’uscita che li avrebbe potuti indirizzare verso Carlo e le riserve, nascoste dietro il colle. A questo punto le truppe angioine e guelfe, impegnate sul fianco e nelle retrovie, furono travolte anche frontalmente dal resto dell’esercito svevo che, attraversato il ponte, attaccò con decisione la prima schiera nemica. Nel breve volgere di qualche ora, i due terzi dell’esercito

Carlo I d’Angiò consegna l’investitura di un feudo a un nobile, particolare di un affresco del ciclo che narra la storia della conquista della Sicilia per opera del sovrano. XIII sec. Pernes-lesFontaines, Tour Ferrande.

angioino erano stati annientati e messi in fuga e Carlo osservava da un colle poco distante il massacro dei suoi, che, di fatto, aveva egli stesso decretato. E nessuno, allora, poteva prevedere che quella che appariva a tutti gli effetti come una rotta disastrosa si sarebbe potuta risolvere, al tramonto, in una vittoria. Al centro della prima schiera angioina sventolava il vessillo del re, di cui aveva indossato i paramenti il maresciallo Enrico di Cousance. Contro di lui si avventò, spietato, il cugino di Carlo I, Enrico di Castiglia, a cui aveva promesso la morte in un sonetto indirizzato a Corradino: «Mora per Dio chi m’ha trattato a morte / E chi tiene lo mi acquisto in sua balia / Come Giudeo». Ma il Senatore s’ingannava, giacché l’uomo ucciso dai suoi non era Carlo, bensí il suo fido cavaliere, che contribuí cosí all’inganno che avrebbe condotto alla vittoria angioina. Si levarono infatti grida di giubilo sulla piana presso Tagliacozzo: il re angioino era morto e la GUELFI E GHIBELLINI

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LE BATTAGLIE

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GUELFI E GHIBELLINI

Tagliacozzo


UN AVVENTURIERO SENZA SCRUPOLI Personaggio di spicco della spedizione dell’ultimo degli Hohenstaufen è il fratello di re Alfonso X, Enrico di Castiglia, un avventuriero spregiudicato, che intratteneva rapporti d’interesse anche con l’emiro di Tunisi. Enrico era anche cugino di Carlo d’Angiò, che aveva aiutato con una considerevole somma di denaro negli anni della lotta contro Manfredi. Ora sperava, come ricompensa, di ottenere da Carlo un feudo consistente. Enrico, infatti, si era recato a Viterbo, presso il papa, per reclamare la Sardegna. Ma né la Sardegna, né il denaro prestato giunsero mai. Enrico dunque decise di allearsi con Corradino, con la speranza di vendicarsi del cugino e di ricevere dallo Svevo maggiori favori. Giunto a Roma il Castigliano, già scomunicato, tollerò che i suoi saccheggiassero le basiliche del Laterano e di S. Paolo, le chiese di S. Saba, S. Sofia e S. Valentino. L’Infante di Spagna governò l’Urbe con fermezza, coordinato da Guido di Montefeltro, insediato in Campidoglio come suo vicario.

Nella pagina accanto la sconfitta di Corradino, in una miniatura raffigurante lo Svevo e Carlo I d’Angiò nella battaglia di Tagliacozzo, dalle Chroniques de France (o de St Denis). 1332-1350 circa. Londra, The British Library. Pochi mesi dopo la vittoria, il re angioino fece decapitare l’ultimo degli Hohenstaufen, eliminando cosí l’ultimo pretendente alla corona del regno di Sicilia.

Con un colpo di mano conquistò i castelli di Castro e Sutri, testa di ponte fondamentale per il collegamento con i ghibellini di Toscana. Completò poi il disegno attirando in un tranello i maggiori esponenti guelfi dell’Urbe. Convocata una riunione in Campidoglio, Enrico fece infatti catturare e imprigionare nel maniero di Saracinesco i fratelli Orsini, Pandolfo e Giovanni Savelli, Riccardo Annibaldi, Pietro Stefani e Angelo Malabranca. Nel momento cruciale della campagna, lo scontro presso Tagliacozzo, fu Enrico a tentare di risollevare le sorti della disfatta, fallendo. Fuggito tra i monti, trovò scampo presso il monastero di S. Salvatore Maggiore, vicino Rieti. Ma fu Sinibaldo Aquilone, fratello dell’abate, a consegnarlo agli Angioini. Carlo I, dopo aver promesso all’abate che non lo avrebbe ucciso, lo incarcerò prima a Canosa, poi a Castel del Monte, ove languivano ancora i figli di Manfredi, infine a Trani, sino al 1291. Tornato in Castiglia, morí nel 1304.

battaglia, dunque, vinta. L’esercito di Carlo era in rotta e la schiera di Corradino, probabilmente intatta, smontò da cavallo dandosi a depredare i numerosi cadaveri.

Il re in ginocchio

Quando gli Svevi furono ben sparpagliati nella piana per fare bottino, Alardo di Valéry suggerí al re di attaccare con i cavalieri fino ad allora tenuti nascosti. Probabilmente Carlo intervenne una volta che Enrico di Castiglia ebbe abbandonato la piana, per dirigersi all’accampamento angioino a far man bassa. Solo quando il campo fu occupato dai Tedeschi e dai ghibellini italiani, intenti al saccheggio e privi delle pesanti armature, tolte sotto la calura agostana, Carlo si inginocchiò e chiese aiuto alla Vergine Maria. «Come un cacciatore che ha stanato la preda», scrisse a battaglia conclusa – ma in quel momento ancora non poteva avere la certezza della vittoria –, Carlo piombò sui nemici, seminando panico e morte. Difficile dovette risultare ai comandanti ghibellini riordinare gli schieramenti, anche se una qualche resistenza dovette esservi. La superiorità numerica degli Svevi in un primo momento sembrò garantire una certa efficacia. Poi, quando le schiere si infransero e gli scontri divennero individuali, i forti cavalieri scelti di Carlo ebbero la meglio. La vittoria sveva si trasformò dunque in una rotta. Lo stupore e lo sgomento dovettero alternarsi negli animi dei condottieri e degli armigeri al seguito di Corradino, che vedevano svanire un successo ormai acquisito. Enrico di Castiglia, di

ritorno dal saccheggio nel campo avverso, quando, avvicinatosi, poté distinguere i gigli di casa d’Angiò, comprese probabilmente a fatica che cosa era accaduto. Quel Carlo infatti che credeva morto, gli appariva vincitore, indiscusso padrone del campo. Enrico, che non voleva cedere quella che poteva essere ancora una vittoria, trattenne le sue truppe dal lanciarsi allo sbaraglio, ma ordinate le schiere, in modo compatto fece caricare gli Angioini. Per ben due volte tenne testa ai cavalieri di Carlo, e fu quasi sul punto di forzare le schiere. Ma anche questo scontro fu vinto da Carlo I grazie all’astuzia. Scrive Giovanni Villani che «Messer Allardo prese da trenta o quaranta de’migliori baroni del Re, e uscirono dalla schiera, e faceano sembiante, che per paura si fuggissino, come li avea ammaestrati». E a quel punto, attirati dalla tattica angioina, i cavalieri spagnoli si gettarono alla carica di coloro che sembravano fuggire. Ma non appena valicato il colle, i cavalieri angioini voltarono i cavalli e caricarono a fondo i nemici, sostenuti dal resto del contingente. In breve anche le truppe dell’Infante di Spagna furono in rotta. La vittoria militare rimase a Carlo I, che ottenne quella politica pochi mesi dopo, quando, facendo decapitare Corradino, eliminò qualsiasi pretendente alla corona del regno. Si avverava cosí la «profezia» attribuita a papa Clemente IV (sebbene non sia certo che il pontefice abbia effettivamente pronunciato la frase): «Vita Conradini mors Caroli; vita Caroli mors Conradini» («La vita di Corradino è la morte di Carlo e la morte di Corradino è la vita di Carlo»). GUELFI E GHIBELLINI

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17 GIUGNO 1269

Battaglia di Colle di Val d’Elsa Nella piana sotto le mura di Colle si consumò uno degli atti decisivi del conflitto tra guelfi e ghibellini e nella battaglia cadde Provenzano Salvani. La sua morte segnò l’inizio della lenta, ma inesorabile, resa dei secondi, destinata a culminare a Campaldino vent’anni piú tardi (l’11 giugno 1289) di Curzio Bastianoni

D

opo la battaglia di Montaperti (1260), che aveva segnato l’apogeo della potenza ghibellina in Toscana, la situazione si era lentamente, ma inesorabilmente, evoluta in favore dei guelfi. Papa Clemente IV si era assicurato l’appoggio di importanti forze politico-finanziarie, come le grandi case bancarie senesi che, per salvaguardare i propri interessi, erano passate dalla parte guelfa nel giro di pochi anni. Dopo la defezione dal campo ghibellino di famiglie importanti (come i Tolomei, i Salimbeni e i Piccolomini), il populus, che a Siena aveva sempre sostenuto i seguaci dell’impero, non aspettava che il momento favorevole per sbarazzarsi di entrambi i partiti, cosí da assumere da solo il governo della città. A Colle, dove i guelfi erano riusciti a cacciare i ghibellini fin dal 1267, la situazione presentava aspetti diversi: il popolo era sempre stato dalla parte dei seguaci del papa, perché le diverse condizioni economiche facevano gravitare questo centro piú verso Firenze (guelfa) che non verso Siena (ghibellina); inoltre, si sperava in una decisiva sconfitta dei Senesi che avrebbe probabilmente consentito di entrare in possesso di alcuni territori in Val di Strove, da tempo fonte di aspri contrasti. Neppure la sconfitta di Tagliacozzo e la morte di Corradino di Svevia (1268) avevano avuto in Toscana quel contraccolpo immediato che si sarebbe potuto attendere da un evento di tale portata. È vero che diverse terre e castelli, che avevano giurato fedeltà e obbedienza allo Svevo, dopo la sua morte, erano passate ai suoi nemici, ma Siena e Pisa si trovavano ancora

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GUELFI E GHIBELLINI

saldamente nelle mani dei fautori dell’impero. Anzi, il pericolo incombente aveva fatto sí che le due città si fossero maggiormente avvicinate, rinsaldando i patti di amicizia e di reciproco aiuto giurati negli anni precedenti.

Incursioni improvvise e devastanti

Intanto, verso la fine del 1268, quale vicario del re Carlo d’Angiò, era arrivato in Toscana Jean Britaud (messer Giambertaldo nelle fonti fiorentine), scortato da un forte numero di cavalieri francesi. Per Siena il maggior pericolo proveniva però dai fuorusciti guelfi, che non lasciavano nulla di intentato per rientrare da vincitori nella loro città. Punta avanzata dei guelfi nel territorio senese, avevano fatto di Colle di Val d’Elsa il loro centro di raccolta. Da qui, con sortite improvvise, si muovevano a devastare le terre dei loro avversari, arrivando spesso fin sotto le mura cittadine. Queste incursioni nuocevano anche per le conseguenze politiche: terre e castelli di Siena (o sotto il suo potere) tendevano a staccarsi, per avvicinarsi alla fazione che, al momento, sembrava prevalere. In città Provenzano Salvani era il piú deciso assertore del rifiuto a ogni trattativa, convinto sostenitore della lotta a fondo contro i fuoriusciti e i ribelli: infatti se avessero atteso ancora, i ghibellini sarebbero andati incontro a sicura rovina, sia per la montante forza guelfa, sia per l’inevitabile logoramento a cui erano sottoposti nelle continue scaramucce. Al contrario, se fossero riusciti a espugnare Colle, avrebbero inferto un duro colpo ai guelfi toscani, scacciandoli da un territorio strategicamente importante.

Nella pagina accanto tavoletta di biccherna nella cui parte superiore è raffigurata la presa di Colle di Val d’Elsa da parte della lega costituita da papa Sisto IV, dal re di Napoli Ferdinando d’Aragona e dalla Repubblica senese contro la Firenze di Lorenzo il Magnifico, nell’ambito della cosiddetta «guerra di Toscana», scoppiata all’indomani della Congiura dei Pazzi (1478). 1479. Siena, Archivio di Stato.



BATTAGLIE

Colle di Val d’Elsa

Pur potendo contare sugli alleati tedeschi guidati dal conte Guido Novello e sui cavalieri spagnoli di don Arrigo di Castiglia, Siena aveva chiesto aiuto anche a Pisa: il patto di alleanza entrava cosí in funzione e i ghibellini pisani, con i Tedeschi al loro soldo, mossero contro Colle. Gli accordi furono presi in gran segreto, ma i preparativi non passarono inosservati. Le spie guelfe avevano cominciato a controllare i movimenti degli armati pisani e avevano poi seguito l’esercito fin sotto le mura di Colle.

Gli eserciti in marcia

Partito da Poggibonsi, dove si era acquartierato per rifornirsi, il contingente pisano aveva preso la via Romea e, passando sotto Castiglion Ghinibaldi, aveva raggiunto Monteriggioni, dove era ad attenderlo il grosso delle forze senesi. In basso Provenzano Salvani raccoglie le elemosine in Piazza del Campo, olio su tela di Amos Cassioli. 1873. Siena, Palazzo Pubblico, Sala del Capitano del Popolo.

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A sinistra Madonna col Bambino e i santi Giuseppe, Giovanni Battista, Cosma e Damiano e i beati Alberto da Chiatina e Pietro Gargalini (particolare), olio su tela di Simone Ferri da Poggibonsi. 1581. Colle di Val d’Elsa, Museo San Pietro. Nel dettaglio qui riprodotto si vede il beato Alberto che consacra alla Vergine l’imago urbis di Colle di Val d’Elsa. A destra la facciata del Palazzo Pretorio di Colle di Val d’Elsa.

Congiuntisi, i ghibellini avevano ripreso insieme la marcia che avrebbe dovuto condurli in breve tempo su Colle. L’esercito ghibellino si era messo in marcia su questa strada, ponendo gli alloggiamenti a Bigozzi; da qui si era portato a Borgo d’Elsa per giungere lungo il corso dell’Elsa alla Badia di Spugna, posizione considerata favorevole per l’accampamento. I Colligiani e i fuorusciti senesi non erano restati senza soccorsi. In quei giorni si trovava in Valdelsa il fiorentino Neri de’ Bardi, già podestà di Colle tra il dicembre 1268 e il maggio 1269, che, a capo di duecento cavalieri, accorse subito in aiuto degli assediati. Ma anche a Firenze si stavano prendendo contromisure. Raggiunto dalla notizia dell’imminente attacco senese a Colle la sera di venerdí 14 giugno, il Consiglio si riuní la mattina successiva, deliberando che tre sestieri della città si armassero e muovessero subito contro il nemico. Le cronache sono discordi sul luogo dove si trovava in quei giorni Jean Britaud, uno dei protagonisti della battaglia: alcuni sostengono che il conestabile, già in Valdelsa, si diresse a Colle non appena l’esercito senese si fu accampato alla Badia di Spugna, mentre Giovanni Villani riporta che Britaud partí il sabato mattina da Firenze con i suoi quattrocento cavalieri francesi, arrivando a Colle in giornata. Il giorno della battaglia, le forze della cavalleria in Colle dovevano ammontare ai 400 Francesi del Britaud, ai 200 Fiorentini di Neri de’ Bardi e a un numero imprecisato – intorno ai 200 – di

Qui sopra miniatura raffigurante la sconfitta dei Senesi a Colle di Val d’Elsa, dall’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

fuoriusciti e di colligiani. L’esercito ghibellino, forte di 1400 cavalieri e 8000 fanti, era frattanto ancora accampato presso la Badia di Spugna in attesa di portare un attacco generale alle mura. La battaglia fu combattuta lunedí 17 giugno 1269, giorno dedicato alla traslazione di san Bartolomeo. Ai ghibellini cominciarono ad arrivare notizie allarmanti sui movimenti dell’esercito fiorentino, che si stava avvicinando a marce forzate. Preoccupati per la posizione sfavorevole in cui si sarebbero venuti a trovare se attaccaGUELFI E GHIBELLINI

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BATTAGLIE

Colle di Val d’Elsa A sinistra Colle di Val d’Elsa. Il Palazzo del Campana visto dall’omonimo ponte. In basso Colle di Val d’Elsa. Veduta del Castello da Spugna: in primo piano la torre detta «di Arnolfo».

gli 8000 fanti ghibellini. Come spiegare allora una sconfitta di tale portata? La maggior parte di colpa per questo tracollo è forse da attribuire all’imprevidenza dei capi e a una quasi completa mancanza di animus pugnandi di alcuni gruppi dell’esercito, in special modo di quelli che facevano capo al comandante Guido Novello, il quale, infatti, riuscí a fuggire insieme alla maggior parte della cavalleria tedesca.

La mossa migliore

ti, essi pensarono di spostare gli accampamenti risalendo dalla sponda dell’Elsa sulle collinette vicine sulla destra del fiume. Tutti i cronisti concordano sul primo luogo nel quale si accampò l’esercito dei Senesi, tacendo, al contrario, su quello dove avvenne lo scontro, precisando soltanto che i ghibellini tentarono di portarsi «in piú salvo luogo». Grazie a studi recenti, possiamo asserire che la battaglia si svolse nel Piano di San Marziale: la conferma è arrivata dal ritrovamento di un documento d’archivio, la storia manoscritta di ser Giovanni Bardi, che, ancora nel XVI secolo, indica il Piano di San Marziale come planities proelii. Con l’esercito fiorentino ancora distante da Colle, le forze che si fronteggiavano avevano una consistenza assai diversa. Davanti ai guelfi, che ammontavano a 800 cavalieri e a qualche centinaio di pedoni, stavano i 1400 cavalieri e

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Lo spostamento del campo verso le collinette che si trovano sulla riva destra del fiume, per evitare di essere presi alle spalle e restare chiusi nella morsa dei guelfi, era la mossa migliore, per controllare agevolmente la strada per Siena, utile via di scampo per ogni evenienza. L’errore consistette nella fretta di spostare il campo e nella sottovalutazione delle forze che si trovavano in Colle. Jean Britaud, infatti, avendo avuto notizia che i ghibellini erano in procinto di spostare gli accampamenti, fece uscire in segreto le fanterie colligiane e le dispose nei boschi alle spalle dei Senesi, per muovere improvvisamente con la cavalleria verso il campo nemico e attaccare contemporaneamente alle fanterie nascoste, provocando la rotta dell’avversario. Si riporta la notizia che, con una mossa audace, il vicario francese fece tagliare il ponte sull’Elsa subito dopo il passaggio dei suoi cavalieri, per impedire ogni possibilità di ritirata. Il combattimento fu rapido, ma cruento. Solo pochi, e fra questi Provenzano Salvani, si opposero con le armi ai guelfi: tutti gli altri si preoccuparono soltanto di salvare la propria vita fuggendo. I cronisti, sia di parte senese che fiorentina, concordano sulle cifre delle perdite,


accreditandole come verosimili: circa mille i combattenti che trovarono la morte, mentre oltre milleseicento furono fatti prigionieri. L’intero accampamento dei Senesi venne distrutto: le loro insegne e quelle dei Tedeschi furono trascinate per terra. Soltanto al gonfalone che si trovava sul carroccio non fu riservato un simile trattamento perché vi era raffigurata la Madonna. Fu invece portato a Firenze ed esposto prima in Piazza e poi in S. Giovanni. A pagare piú duramente la sconfitta fu Provenzano Salvani, il piú intransigente fautore dell’impresa, ma anche il piú valoroso combattente. Fu ucciso infatti da un fuoruscito senese, Cavolino (o Regolino) Tolomei, e la sua testa, staccata dal busto e infissa sopra una picca, fu portata in giro per il campo senese per poi essere issata sulle mura di Colle ad ammonimento dei ghibellini senesi. Si avverava cosí la profezia che un indovino gli aveva fatto e che era stata dettata, fu detto, dal diavolo stesso: che la sua testa sarebbe stata la piú alta nel campo.

Lo spettro della fine

Con la battaglia di Colle, che fu considerata dai guelfi come la rivincita di Montaperti, naufragarono le residue speranze ghibelline di allontanare nel tempo lo spettro della fine. I seguaci dell’impero non furono piú in grado di passare all’offensiva e solo una serie di circo-

Particolare di un affresco raffigurante cavalieri alla conquista di un castello in Terra Santa (già identificato nella città fortezza di Acri). Scuola senese, seconda metà del XIV sec. Colle di Val d’Elsa, Sala di Sant’Alberto.

stanze favorevoli consentí loro di mantenersi al potere per un altro anno. Finito questo scontro, i contendenti non furono in condizione di riprendere la lotta. Invano gli esuli senesi spostarono il loro campo piú vicino a Siena, a Lucignano d’Arbia; invano mossero con successive spedizioni a distruggere quel poco che restava. Anche l’esperienza del controgoverno di Cortona, nato sotto la protezione di Ugo il Forte di Fornoli, non ebbe possibilità di successo e la sua azione può essere considerata conclusa già nel 1272. Jean Britaud con i suoi cavalieri francesi tornò in una Firenze pronta per la controffensiva a Pisa, accorrendo in soccorso dei Lucchesi, senza il supporto degli altri piccoli comuni guelfi alleati (come Colle), ormai stremati e impossibilitati a mantenere gli uomini validi sotto le armi: si preannunciava la carestia; le campagne spopolate e arse non erano in grado di dare raccolti a sostegno della popolazione e delle truppe. Allontanatosi il pericolo, i comuni ripresero la loro politica grettamente municipale, guardando ai propri interessi contingenti piú che a quelli della parte. In questo clima, solo una trattativa consentí ai fuorusciti di rientrare nella loro città e i guelfi, fatti prigionieri dai Senesi nella battaglia di Montaperti, poterono finalmente riacquistare la libertà dieci anni dopo «lo strazio e ‘l grande scempio / che fece l’Arbia colorata in rosso». GUELFI E GHIBELLINI

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11 GIUGNO 1289

Battaglia di Campaldino Fra i numerosi episodi nei quali guelfi e ghibellini lasciarono la parola alle armi, il sanguinoso scontro combattuto nella piana ai piedi del castello di Poppi deve la sua fama non tanto alle innovazioni tattiche – che pure vi furono – o ai risvolti politici innescati dal suo esito, ma alla presenza in campo d’un soldato d’eccezione: Dante Alighieri di Federico Canaccini

Q

uella di Campaldino è forse una delle battaglie meglio note del Medioevo italiano. La sua fama, oltre che per alcune novità tattiche, è dovuta in gran parte alla partecipazione di Dante Alighieri. Molto è stato detto e scritto su questo evento, e qui ne ripercorreremo la fortuna, soffermandoci sulle sue modalità e cercando di fornire qualche spunto nuovo. Da quando, nel 1289, la battaglia tra la guelfa Firenze e il Comune di Arezzo (al tempo sotto guida ghibellina) fu combattuta, Campaldino è stata al centro di molte e diverse attenzioni. Nel periodo successivo allo scontro, Firenze volle celebrare il santo di quel giorno, Barnaba, apostolo prima quasi ignoto, edificando in città una chiesa a lui dedicata. Vi fu poi il tentativo, fallito, di imporre al Comune di Scarperia, nella valle del Mugello, il nome del santo dell’11 giugno. E, comunque, nell’immaginario fiorentino, il giorno di san Barnaba rimase quello di una vittoria clamorosa che però, di fatto, non portò a svolte epocali nello scacchiere politico toscano.

Quel mistero trasformato in favola

Tra i Fiorentini, come abbiamo detto, militava anche l’Alighieri che, esule in Casentino, cantò lo sfortunato insepolto Buonconte da Montefeltro, dandogli eterna fama nel V canto del Purgatorio. E cosí l’episodio storico si innestò anche nel mito, e la sparizione del cadavere del condottiero ghibellino portò il poeta esule a fantasticare sulla sua sorte. La successiva riconosciuta grandezza di Dante fece dell’episodio militare svoltosi in Casentino una delle battaglie degne di nomea. E il monumento celebrativo 118

GUELFI E GHIBELLINI

Firenze, chiesa della SS. Annunziata. Particolare del monumento sepolcrale di Guglielmo di Durfort, balio di Amerigo di Narbona, che, nelle file guelfe, trovò la morte nella battaglia di Campaldino a causa di un colpo di balestra.


(segue a p. 101)


BATTAGLIE

Campaldino

eretto sulla piana nel 1921, venne infatti innalzato in occasione del secentenario della morte del poeta (vedi foto a p. 129). Una novella di Emma Perodi (giornalista e scrittrice di racconti per l’infanzia, 1850-1918) conferí un tenore fantastico all’episodio. L’ombra del Sire di Narbona, inserita tra le Novelle della Nonna, atterrí infatti piú di un bimbo casentinese e la piana di Campaldino, evitata per lunghi anni dopo quel 1289, si popolò cosí anche di spettri, entrando nella favolistica. Si è però dovuto attendere il 1989, settecentenario della battaglia, perché si mettesse ordine tra quanto di storico e fantasioso era andato accumulandosi nei secoli. Il convegno organizzato nell’occasione, e con esso una mostra dislocata in piú sedi, nel Casentino, produsse numerosi contributi, su aspetti diversi dell’episodio: dalla religiosità alla prassi guerresca, dalle armi ai personaggi coinvolti, dalla crona-

I luoghi della battaglia LIG

UR

EMILIA-ROMAGNA EMILIA EMI LIA-ROMAG ROMAGNA NA

IA Carrara Fiesole FIRENZE CAMPALDINO

Livorno Isola di Gorgona

MARCHE MARCH HE

Arezzo Cortona

Siena

Cecina

Montepulciano Isola di Capraia Populonia Follonica Piombino Portoferraio

Chiusi UMBRIA

Isola d’Elba Isola Pianosa

Talamone Isola del Giglio

Orbetello LAZIO LAZIO

FIRENZE Particolare di una veduta della città del giglio, stampata a Norimberga nel 1493. La battaglia di Campaldino fu il culmine di un conflitto che si trascinava da anni tra i Fiorentini, di parte guelfa, e la città di Arezzo, schieratasi con i ghibellini. chistica fino agli aspetti tecnici legati alla realizzazione di diorami e plastici. La mostra terminò e di Campaldino non si sentí piú parlare per oltre un decennio. Negli ultimi anni, invece, si sono moltiplicate le rievocazioni. Il Comune di Poppi ha infatti riallestito il plastico, con una nuova esposizione permanente. Sono state disseppellite, analizzate e traslate in Duomo le ossa un tempo deposte nella chiesa di Certomondo e appartenenti, un tempo, al vescovo Ubertini. Hanno visto la luce numerose pubblicazioni, biografie, opuscoli, fumetti e romanzi. E, infine, sono state allestite mostre pittoriche sullo scontro e, ogni anno, un’iniziativa diversa, di piccolo o grande respiro, anima il museo attivo nel Castello di Poppi (vedi box a p. 124). Dopo l’effimero governo ghibellino, ottenuto a (segue a p. 124) 120

GUELFI E GHIBELLINI

Nave a Rovezzano Badia a Ripoli

FIRENZE


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Pontassieve

Campaldino

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Monte al Pruno

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Borselli

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Borgo alla Collina Poppi

Bibbiena Arcena Rassina

Pieve a Socana

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Subbiano Marcena

AREZZO Una veduta della città in una tempera su tavola di Bartolomeo della Gatta. 1480-1490. Arezzo, Museo Statale di Arte Medievale e Moderna. L’espulsione dei rappresentanti della parte guelfa, sospettati di possibili alleanze con i Fiorentini per rovesciare il governo ghibellino, fu una delle cause della guerra tra i due capoluoghi toscani.

La piana di Campaldino con gli eserciti schierati, in un dipinto di Luca Ferrotti. La battaglia si combatté l’11 giugno 1289: i guelfi fiorentini, erano capitanati da Amerigo di Narbona, mentre al comando dei ghibellini aretini era Buonconte da Montefeltro. Lo scontro fu vinto da Firenze, grazie a una carica decisiva, guidata da Corso Donati.

Santa Mama

Ponte a Caliano

Arno

CAMPALDINO

Porta San Clemente

Ponte alla Chiassa

AREZZO

Cartina del territorio in cui è compresa la piana di Campaldino. Le località contrassegnate dal colore rosso indicano le tappe dell’esercito guelfo nella marcia di avvicinamento al sito dello scontro; quelle in blu le tappe dei ghibellini (nelle due ipotesi elaborate dagli studiosi).

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BATTAGLIE

Campaldino

Prima fase

Carica dei feditori ghibellini 10

9 F

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G

C 8 7

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B

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A 1

ARNO

All’alba dell’11 giugno In alto riproduzioni in scala di Guglielmino degli Ubertini, vescovo di Arezzo, e di Guidarello d’Orvieto, che porta l’insegna imperiale. Fedele all’insegnamento dato da Gesú a san Pietro nel Giardino degli Ulivi, il presule è armato solo di mazza, in quanto i clerici potevano utilizzare solo armi da botta.

Fiorentini e guelfi

1. Corno destro: pavesari, balestrieri, arcieri e fanti a lancia lunga 2. Feditori fiorentini 3. Corno sinistro: pavesari, balestrieri, arcieri e fanti a lancia lunga 4. Fanteria 5. Schiera grossa di cavalleria 6. Fanteria 7. Salmerie e fanterie

8. Cavalleria di riserva 9-10. Riserva di Corso Donati, cavalleria e fanteria

Aretini e ghibellini A. Arcieri e balestrieri B. Feditori aretini C. Arcieri e balestrieri D. Grosso di cavalleria E. Fanteria F-G. Riserva di Guido Novello, cavalleria e fanteria

Guelf i H

I

J

H. Guglielmo di Durfort (colori sconosciuti) I. Gherardo Ventraia Tornaquinci ● J. Vieri de’ Cerchi ● K. Donati

K

L

L. Dante Alighieri M. Maghinardo Pagani da Susinana ● N. Barone de’ Mangiadori da San Miniato ● O. Cecco Angiolieri

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M

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Seconda fase

Terza fase

Arretramento del centro fiorentino 10

La tenaglia si chiude

9 F 2

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1

ARNO

ARNO

In alto, sulle due pagine la sequenza delle fasi della battaglia di Campaldino. A sinistra riproduzione in scala di Dante Alighieri, che, all’età di 24 anni, combatté a Campaldino tra i feditori fiorentini. A destra riproduzione in scala di Vieri de’ Cerchi, un ricco mercante che combatté anch’egli nelle prime file dello schieramento fiorentino.

Ghibellini P

Q

R

P. Ubertini Q. Fieschi (Liguria) ● R. Pazzi di Valdarno ● S. Scolari (fuoriusciti fiorentini)

S

T

U

T. Tarlati U. Ordelaffi (Romagna) ● V. Lamberti (fuoriusciti fiorentini) ● W. Montefeltro

V

W

X

Y

Z

X. Guido di Bagno Y. Conti Guidi di Romena ● Z. Guido Novello

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BATTAGLIE

Campaldino

Sulle due pagine il castello dei conti Guidi a Poppi (Arezzo), che ospita il Museo della battaglia di Campaldino, e, sulla sinistra, il busto di Dante Alighieri collocato all’ingresso della fortezza.

seguito della vittoria presso Montaperti con l’aiuto di Manfredi, l’astro svevo si è eclissato prima a Benevento (1266), poi a Tagliacozzo (1268) e definitivamente a Napoli, con la decapitazione di Corradino. I ghibellini sono in difficoltà e vengono espulsi dalle città toscane, tornate tutte guelfe. Come avevano fatto i ghibellini, sono ora i guelfi ad accanirsi sui vinti espropriando e distruggendo i loro beni. Firenze è un cumulo di macerie. All’arrivo dei ghibellini erano stati distrutti e rasi al suolo 103 palazzi, 580 case, 85 torri; parzialmente demoliti 2 palazzi, 16 case e 4 torri; caddero abbattuti 10 capannoni per la stenditura dei

LA BATTAGLIA RIVIVE IN MINIATURA Nel 1989, all’indomani delle celebrazioni e dei festeggiamenti per il settecentenario della battaglia, nel castello dei conti Guidi di Poppi è stato realizzato un museo permanente dedicato a Campaldino. Vi si può ammirare un grande plastico della battaglia, con oltre 4000 figurine (tra cui quelle riprodotte in queste pagine), corredato da schede esplicative e pannelli dedicati ai personaggi principali. Una sezione è dedicata alla guerra d’assedio e vi sono esposti alcuni modelli di macchine belliche medievali. Ai piedi del castello si stende la piana della battaglia, dove sorge anche la chiesa di Certomondo, nella quale riposava il vescovo Ubertini, prima che, nel 2008, le sue spoglie fossero traslate nel Duomo di Arezzo. Info Castello dei conti Guidi – Poppi (Arezzo), piazza della Repubblica, 1; contatti: tel. 0575 520516; www.castellodipoppi.it

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panni e 21 mulini e nel contado i danni furono addirittura piú ingenti. Ora altrettanto fanno i guelfi, riducendo la città in rovina.

Nuovi equilibri politici

Negli anni Settanta del XIII secolo la lotta si trascina stancamente. I ghibellini sono costretti all’esilio e trovano rifugio in alcuni capisaldi come Pisa, ma la Toscana è ormai in mano ai guelfi e a Carlo d’Angiò. In Romagna, invece, i ghibellini ottengono maggior successo. Al comando di Guido da Montefeltro, la Romagna diviene quasi tutta ghibellina e proprio lí portano rinforzo gli esuli toscani: il conte Guido Novello, Guglielmo dei Pazzi (o Pazzo) del Valdarno e gran parte dei fuorusciti ghibellini. Ad Arezzo il popolo aveva assunto il potere, esautorando i magnati e mettendo un capitano a capo del governo, ma si trattò di una breve parentesi. Nel 1287, infatti, i magnati, sia guelfi che ghibellini, si allearono, accecarono il capitano del popolo, «presono e misono in una cisterna, e quivi si morí». In seguito, però, i ghibellini, sospettando che i guelfi di Arezzo congiurasse-


Madonna con Bambino in trono con i Santi Caterina d’Alessandria, Agostino, Barnaba, Giovanni Battista, Ignazio, Michele e angeli, olio su tavola di Sandro Botticelli noto anche come Pala di San Barnaba (terzo da sinistra). 1487. Firenze, Galleria degli Uffizi. La coincidenza tra la festa del santo e la vittoria di Campaldino indusse i Fiorentini a dedicare una chiesa all’apostolo.

ro contro di loro con l’appoggio segreto di Firenze, li espulsero con l’aiuto di Buonconte e di Guglielmo Pazzo. L’aiuto da prestare ai guelfi aretini divenne per Firenze il casus belli contro Arezzo. O meglio, contro la parte ghibellina della città, rappresentata da grandi casate nobiliari, che controllavano le vie di comunicazione del Valdarno, del Casentino e della Chiana. Tra il 1287 e il 1289, il conflitto tra Arezzo e Firenze si tradusse in ripetuti incendi e saccheggi, come nel caso delle incursioni dei ghibellini contro Firenze. Guglielmo Pazzo e Buonconte risalirono il Casentino, dove signoreggiava il loro alleato Guido Novello, e piombarono su Pontassieve, mettendola a ferro e fuoco. Poi proseguirono fino a San Donato in Collina, a pochi chilometri da Firenze. Anche i guelfi fecero la loro parte e, attraversato il Valdarno, devastarono le terre in cui sorgevano i castelli dei Pazzi e degli Ubertini. Nel 1288 i due eserciti si fronteggiarono per la prima volta in Valdarno, luogo deputato agli scontri tra le due città. Da un lato la Lega guelfa, una coalizione che raccoglieva le principali città toscane e altri alleati, come Bologna. Dall’altro gli Aretini e i loro alleati ghibellini, rappresentati in gran parte da nobili che dominavano nel contado e dai fuorusciti fiorentini che, cacciati dai guelfi, avevano riparato ad Arezzo. Ma la battaglia non vi fu. Forse entrambe le parti considerarono troppo rischioso at-

taccare e cosí, girate le insegne, preferirono tornare rispettivamente a Firenze e ad Arezzo. Il pericolo che poteva venire dall’impegnare cosí tanta popolazione in una battaglia campale era talmente forte che i Fiorentini, per evitare lo scontro, tentarono di ricorrere anche alla diplomazia. Sembra che il ricco Marsilio de’ Vecchietti fosse stato inviato a Bibbiena in missione segreta per contrattare con l’Ubertini la resa di Arezzo e la vendita di molti suoi castelli. La missione sarebbe forse andata a buon fine, ma il progetto venne alla luce e il vescovo rischiò il linciaggio, al quale scampò grazie al nipote, Guglielmo Pazzo. Al vecchio Guglielmino restava ormai solo una strada: la guerra.

L’estate si addice alla guerra

La guerra, nel Medioevo, era stata in parte regolata dalle «paci di Dio» (periodi di sospensione alle guerre private o alle rappresaglie imposti dalla Chiesa, n.d.r.). Nel XIII secolo, però, il vigore iniziale di questo fenomeno era un lontano ricordo. I mesi estivi erano solitamente riservati alle operazioni militari, in particolare gli assedi. Venivano presi di mira castelli strategici, posti a difesa di ponti, valichi e strade di passaggio. Oppure potevano essere cinte d’assedio vere e proprie città. Fu questa la sorte riservata ad Arezzo, nell’estate del 1288, quando la Lega guelfa intraprese una marcia nel Valdarno, distruggendo almeno 40 GUELFI E GHIBELLINI

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L’ARTE MILITARE SPIEGATA IN VERSI Cosí, nell’incipit del canto XXII dell’Inferno, Dante Alighieri rievoca le scorrerie e le feste cavalleresche a cui assistette in terra aretina: Io vidi già cavalier muover campo, e cominciare stormo e far lor mostra, e talvolta partir per loro scampo; corridor vidi per la terra vostra, o Aretini, e vidi gir gualdane, fedir torneamenti e correr giostra; quando con trombe, e quando con campane, con tamburi e con cenni di castella, e con cose nostrali e con istrane. Questi versi ci offrono, di fatto, una esposizione accurata di operazioni militari, cosí come apparivano agli occhi di chi, non molti anni prima, vi aveva preso parte. La terminologia è importante, e da casi come questo possiamo ricostruire ciò che i comandanti si dicevano nelle concitate fasi di un consiglio di guerra. Stormo alle nostre orecchie suona in un modo completamente scevro di significati bellici, legato come è al volo degli uccelli. Ma ai tempi di Dante forte doveva essere il legame con le origini germaniche del termine sturm, battaglia, assalto, che anche foneticamente sembra rievocare il tumulto dell’assedio. Per indicare una parata militare veniamo a conoscenza del termine mostra che nell’espressione utilizzata nell’Inferno, come dice il commentatore Chimenz, indica il disporsi per essere passati in rivista, o meglio, l’eseguire evoluzioni durante le riviste. E se fedir torneamenti e correr giostra è abbastanza comprensibile, resterebbe oscuro il termine gualdana, di origine germanica. Il vocabolo indica scorreria di uomini armati in territorio nemico. La radice germanica del termine wald è quanto mai significativa. Oltre al legame con il bosco, wald, sottolinerei quanto fare la guerra sia cosa da uomini, e cosa da uomini forti, validi e valorosi, o baldi giovani,

Tavola di Gustave Doré raffigurante la morte di Buonconte da Montefeltro, descritta da Dante nella Divina Commedia. Il condottiero ghibellino morí nella battaglia di Campaldino, ma il suo cadavere non fu ritrovato.

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aggettivi legati alla prestanza, fisica o morale. Un dato interessante da notare è l’impiego del verbo vedere, che nella Commedia è usato con valore esponenziale, riferito perciò a una diretta esperienza vissuta da Dante: come ha scritto Silvio Abbadessa, è in qualche modo la firma del poeta.

castelli e circondando la città di cui era podestà il conte di Poppi, Guido Novello. I Fiorentini e i Senesi costruirono torri mobili, steccati, scavarono gallerie e bersagliarono la città con lanci di catapulte. Ma l’assedio non venne portato con i mezzi adatti per snidare il nemico. Una tempesta si abbatté sui guelfi che persero molte macchine ossidionali e si decise di abbandonare l’impresa. Mentre i Fiorentini ripresero la via del Valdarno, i Senesi intrapresero quella della Val di Chiana, una via rischiosa, giacché circondata da paludi. Per i ghibellini fu l’occasione propizia per mettere in opera un agguato. Presso

Pieve al Toppo, là dove si trovava l’unico guado agibile, Buonconte e Guglielmo Pazzo sbaragliarono le truppe senesi, infliggendo loro numerose perdite. Furono uccisi anche Ranuccio di Peppo Farnese, comandante del contingente senese, e quel Lano Maconi ricordato da Dante tra gli scialacquatori. L’episodio ebbe una vasta eco in tutta la Toscana: i ghibellini festeggiarono la vittoria colta in modo inaspettato, i guelfi temettero per l’andamento della campagna militare che ormai si trascinava da due anni. La liberazione di Carlo II d’Angiò, re di Napoli, fu motivo di giubilo, soprattutto in Firenze. Il re


di Sicilia, infatti, soggiornando nella città del giglio, lasciò, su richiesta del Comune, un comandante di origini francese, Amerigo di Narbona, accompagnato da un maestro d’arme e da un contingente di cavalieri. Inoltre Carlo II permise al comune fiorentino di sventolare la bandiera degli Angiò durante la campagna. Forte di questi aiuti e di questi prestigiosi capitani, la Lega guelfa si riuní per decidere come porre fine al problema aretino. Diverse erano le opinioni sulla via da seguire: chi proponeva la consueta via del Valdarno, agile e in pianura, ma scontata; chi la tortuosa e rischiosa via attraverso il passo della Consuma. Alla fine prevalse questa seconda opzione, forse uno dei motivi che portarono al successo dei guelfi.

Manovra a sorpresa

Partiti da Badia a Ripoli il 2 giugno, dove avevano portato le insegne di guerra, i guelfi lasciarono infatti intendere che avrebbero seguito la via del Valdarno. Ma poi, inaspettatamente, superarono il fiume e si inerpicarono su per le foreste in direzione della Consuma, cogliendo di sorpresa il nemico. Si trattava di un esercito di 12 000 uomini in cui erano confluite tutte le città guelfe di Toscana – Firenze, Siena, Lucca e Pistoia, Colle, Prato, S. Gimignano – e poi i rinforzi da Bologna, da Maghinardo Pagani da Susinana, condottiero romagnolo detto «il Demonio», e ancora i fuorusciti guelfi di Arezzo che volevano rientrare in città. Il vescovo Ubertini e i suoi ghibellini radunarono tutti i propri alleati in un rapido sforzo, riu-

San Gimignano, Palazzo Comunale. Particolare degli affreschi raffiguranti la battaglia di Campaldino. 1292.

LA BATTAGLIA VAL BENE UN CAVALLO! Alcuni personaggi celebri combatterono l’intera battaglia, trovandosi in prima linea: Dante, Vieri de’Cerchi, Filippo Adimari detto Argenti (che l’Alighieri pone tra i violenti e che deve il suo soprannome all’uso di commissionare i finimenti del proprio cavallo in argento). Nel corso del primo urto è probabile che molti di essi abbiano perso il proprio cavallo. E, in molti casi, doveva trattarsi di bestie particolarmente belle e potenti. Siamo informati del rimborso erogato dal Comune per il cavallo morto al Cerchi e all’Argenti. Ma anche Giano della Bella e Baschiera della Tosa perdettero la propria cavalcatura. Qui, rispetto a un ronzino, che valeva dai 4 ai 10 fiorini, si parla di cifre da capogiro: a Gianni Adimari vennero pagati 70 fiorini d’oro di indennizzo, e la stessa cifra fu erogata a Neri dei Bardi. Costui, ricorda il documento, asserisce di aver perduto il cavallo durante l’assedio portato con insuccesso dai guelfi contro Arezzo. La città, priva ancora di buona parte delle mura, si difendeva con steccati e fossi, costruiti per proteggerne i nuovi sobborghi. E proprio presso questo steccato, erectum ab arretinis, esalò l’ultimo respiro il cavallo di Neri. Bestie possenti, muscolose, addestrate e perciò, preziose. Non una semplice cavalcatura, ma una vera e propria macchina da guerra.

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MA QUANTO VALE UN PRIGIONIERO? A battaglia conclusa, centinaia furono i «prigioni», cioè le persone catturate e stipate nelle galere del Comune o in semplici abitazioni o cantine, risistemate per l’occasione: «A Firenze ne giunsero legati piú di 740», scrisse il Villani. I prigionieri, però, non furono solo quelli fatti dai Fiorentini: Aretini o ghibellini. Anche questi ultimi, infatti, dovettero tornare a casa trascinando con sé piú d’un nemico, se, leggendo tra le Provvisioni, si incontrano piú volte scambi con fiorentini detenuti in Arezzo. Sette Aretini furono rilasciati in cambio di due Lucchesi e due Pistoiesi, e non è inutile domandarsi perché questi ultimi «valessero» quasi il doppio degli Aretini. Oppure conosciamo il caso del rilascio di 8 guelfi presi a Campaldino, questa volta scambiati con egual numero di ghibellini: per 7 di loro richiese grazia il Comune di Siena, essendo costoro di Lucignano e Mariano, mentre per l’ottavo intercedette l’abate di Capolona. Alla fine della battaglia, nella confusione, nel polverone prima, e nell’acquazzone poi, le modalità di cattura furono dettate anche dal buon senso o dall’impulso. Cosí accadde che Finuccio di Rinaldo del contado aretino, scambiato a Campaldino per ghibellino, ma sempre zelante guelfo, languiva nelle prigioni fiorentine ancora nel luglio del 1290. Una sorte comunque migliore di quella toccata a Maiano, suo fratello, il quale – guelfo! –, venne fatto prigioniero dai ghibellini e detenuto ad Arezzo, dove fu anche accecato, pena riservata perlopiú ai traditori.

Riproduzione in scala di uno dei discendenti di Farinata degli Uberti che combatterono a Campaldino. 128

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scendo a mettere insieme un esercito forte di circa 8000 uomini, che schierava truppe provenienti, oltre che da Arezzo, dalle valli circostanti, dal Valdarno, dal Casentino, e poi da Orvieto e da Amelia, dal Montefeltro e anche da Firenze, con diversi membri delle famiglie di fuorusciti, espulse da quasi trent’anni. Discendendo attraverso i monti i primi, e risalendo la valle dell’Arno i secondi, i due eserciti rivali si trovarono l’uno contro l’altro il 10 giugno, nella piana che si stende ai piedi di Poppi, in un luogo detto Campaldino.

Il santo monte all’orizzonte

All’alba dell’11 di giugno 1289, un afoso sabato, nel quale si celebrava san Barnaba, i circa 20 000 uomini convenuti sulla piana casentinese dovettero ascoltare la messa, in molti senza dubbio si confessarono, ma, soprattutto, cercarono di nascondere la paura che li attanagliava. Tutti, vecchi e giovani (si era arruolabili dai 14 ai 70 anni), avevano infatti la consapevolezza del rischio di perdere la vita in quella valle lambita dall’Arno, baciata dal sole che sorgeva appena là, sopra quel monte della Verna sul quale san Francesco, pochi decenni prima, aveva ricevuto le stigmate. Per come s’erano schierati, i guelfi dovevano avere l’occhio sinistro chiuso, colpiti in pieno viso dal sole. I ghibellini invece, che combattevano con il sole alle spalle, avevano il vantaggio di godere di un’ottima visuale. Ma, di contro, vedevano benissimo il numero ben piú consistente dei nemici. I ghibellini, per lo piú membri di nobili famiglie di antico casato, si disposero nel modo consueto. Essi erano legati molto alla tradizione cavalleresca, e poco avvezzi alle trasformazioni sociali che invece andavano travolgendo Firenze, piú aperta ai commerci e agli influssi esterni. Davanti a tutti schierarono dodici valenti cavalieri che si facevano chiamare «paladini». Poi una potente schiera di cavalleria, seguita subito da un’altra. Grazie alla carica di questi due corpi di cavalieri, Buonconte e Guglielmo Pazzo, comandanti della cavalleria, volevano sfondare le linee nemiche. A seguire c’era infatti tutta la fanteria accompagnata da due deboli ali di arcieri e di balestrieri. Il conte Guido era stato lasciato di riserva presso la chiesa di Certomondo. Sarebbe dovuto intervenire, coi suoi 150 cavalieri, in caso di pericolo. Il vescovo Ubertini aveva accanto il vicario imperiale, Percivalle Fieschi, e il vessillifero, Guiderello da Orvieto. Il vescovo doveva essere armato di un martello o di una mazza,


ma non di una spada. Infatti, fedeli a quanto Gesú aveva detto a san Pietro nel Giardino degli Ulivi – «Rimetti la spada nel fodero!» – i clerici potevano utilizzare solo armi da botta.

Feditori illustri

Giunto sulla piana, Guglielmino avrebbe chiesto: «A quale città appartengono quelle mura?». Gli avrebbero risposto: «Sono gli scudi dei nemici». In effetti i guelfi avevano disposto ai lati dell’esercito due enormi ali di pavesari, soldati cioè protetti da un pavese, uno scudo alto un metro e mezzo circa, dietro a cui si asserragliavano uomini armati di tutto punto. Al centro, invece, la disposizione era consueta: la prima era una schiera di feditori, cavalieri pronti alla carica. Tra questi spiccano alcuni nomi celebri, oltre al già ricordato Dante Alighieri, all’epoca un ignoto poeta ventiseienne; Vieri de’ Cerchi, ricco mercante che, pur malato di gotta, volle combattere in prima fila. E per dare l’esempio ai timorosi fiorentini che non volevano prendere i primi posti, nominò accanto a sé figli e nipoti. L’essere i primi a caricare, disse Vieri, garantiva infatti almeno ai giovani di non rimanere bloccati dall’orrore dei corpi mutilati a battaglia iniziata. Seguiva poi la schiera grossa di cavalleria. Al centro sventolavano i vessilli di Firenze, di Carlo d’Angiò e lí combattevano il giovane Amerigo di Narbona e i mercenari francesi accanto al balio Guglielmo di Durfort. Nei reparti senesi vi era anche Cecco Angiolieri, un poeta scanzonato, spesso assente dalle fila dell’esercito. Venivano poi i fanti e tutte le salmerie, costituite da migliaia di muli che avevano accompagnato l’esercito nella lunga marcia da Firenze, e che ora venivano sistemati come un muro per frenare la carica nemica. Anche i guelfi decisero di lasciare truppe di riserva. Esse furono costituite dai contingenti mandati da Lucca e Pistoia, e il loro comando fu affidato al cavaliere Corso Donati, di «corpo bellissimo», ma pieno di «pensieri maliziosi», come scrisse di lui il cronista Giovanni Villani. Al grido di «San Donato Cavaliere!», i cavalieri ghibellini caricarono a spron battuto, seguiti dai propri fanti. I guelfi risposero con il loro grido di guerra «Narbona Cavaliere!», preparandosi a ricevere la carica di 600 cavalieri. L’urto fu violentissimo. Una volta rotte le lunghe lance, i cavalieri furono impegnati in un durissimo corpo a corpo, con spade, asce e mazze. La giornata era afosa e la polvere sollevata dai cavalli, tantissima. Amerigo di Narbona fu ferito al volto. Il suo balio, Guglielmo di Durfort, colpito a morte da

La colonna innalzata a Campaldino nel 1921, sesto centenario della morte di Dante Alighieri, a ricordo della battaglia combattuta nel 1289.

un colpo di balestra. In un primo momento sembrò che la carica dei ghibellini avesse avuto successo. Ma, in realtà, le salmerie avevano retto bene e la spinta di Buonconte e di Guglielmo Pazzo andava esaurendosi. A questo punto la tattica dei guelfi fu chiara: le due ali di pavesari iniziarono a serrarsi come una tenaglia sui ghibellini, che rimasero chiusi in una morsa. Corso Donati, che sarebbe dovuto intervenire solo in caso di pericolo, pena la morte, volle fare di testa sua e si gettò nella mischia coi suoi, facendoli sbandare ulteriormente su di un fianco. L’unico che forse avrebbe potuto liberare i ghibellini da quella tenaglia, era il conte Guido, ma, vista la mala parata, preferí ritirarsi, senza dare colpo di spada. Per la sua fazione la battaglia era perduta.

Atti «poco cavallereschi»

Quando la bandiera con l’aquila imperiale venne catturata, tra le fila ghibelline scoppiò il panico. Alcuni si buttavano, ad altissimo rischio, sotto i ventri dei cavalli e, con un coltellaccio, li sbudellavano, in modo da diminuire il numero di cavalieri. Simili atti «poco cavallereschi» erano stati già adottati in precedenza. A Benevento nel 1266 i cavalieri angioini si gettarono a segare i tendini dei cavalli nemici per diminuire le fila di cavalleria. Ma ai ghibellini aretini ciò non bastò per risollevare le sorti dello scontro. Nella morsa rimasero intrappolati tutti i comandanti ghibellini: Buonconte da Montefeltro, Guglielmo dei Pazzi e suo zio, l’anziano vescovo Ubertini, col quale aveva voluto scambiare le proprie insegne per salvargli la vita. Invano. Era anche questo divenuto un gesto usuale nelle battaglie. Cosí aveva fatto Manfredi a Benevento e altrettanto Carlo d’Angiò a Tagliacozzo. Morirono molti dei fuorusciti fiorentini: Fifanti, Abati, Lamberti e anche i figli e i nipoti di Farinata degli Uberti. Dovettero morire oltre 1700 ghibellini e oltre 2000 furono catturati e portati a languire nelle prigioni di Firenze. Le armi del vescovo, riconosciuto dalla tonsura, furono portate in trionfo a Firenze, e appese a testa in giú, come quelle di un nemico sleale: vi rimasero sino a che Cosimo III non le fece togliere agli inizi del Settecento. Alla fine dello scontro, mentre i guelfi inseguivano i fuggiaschi per farli prigionieri in modo da ottenere un cospicuo riscatto, un terribile temporale si abbatté sulle teste dei combattenti: unico testimone del nubifragio fu Dante, che lo descrisse nel V canto del Purgatorio. E finalmente viene suonata la fine della battaglia. GUELFI E GHIBELLINI

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VO MEDIO E Dossier n. 43 (marzo/aprile 2021) Registrazione al Tribunale di Milano n. 233 dell’11/04/2007

Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Alessandria, 130 - 00198 Roma tel. 06 86932068 - e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (Ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Alessia Pozzato Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it Gli autori: Curzio Bastianoni è storico. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Paolo Grillo è professore ordinario di storia medievale all’Università degli Studi di Milano. Francesco Troisi è giornalista. Illustrazioni e immagini: Doc. red.: copertina (e pp. 82/83) e pp. 13, 26/27, 32, 41, 44/45, 46, 48-49, 50-53, 56, 58/59, 64-67, 70/71, 72, 78-79, 80 (alto), 84/85 (basso), 87 (alto), 88 (basso), 91, 92-93, 94/95, 97-101, 102/103, 107-119, 120 (centro e basso), 121 (alto), 122 (alto), 123 (basso), 124-129 – Mondadori Portfolio: Fototeca Gilardi: pp. 6/7, 14/15, 21 (sinistra), 59, 80/81; AKG Images: pp. 8-11, 18, 20, 32/33, 42-43, 45, 80 (centro); Archivio Antonio Quattrone/Antonio Quattrone: p. 16; Veneranda Biblioteca Ambrosiana: p. 17; Erich Lessing/Album: pp. 19, 54/55; Fine Art Images/ Heritage Images: pp. 21 (destra), 22/23; Album/Oronoz: pp. 36/37; Electa/De Santi: pp. 38/39; Electa/Antonio Quattrone: pp. 60/61 (alto), 62; Album/Fine Art Images: pp. 76/77 – da: Il Villani illustrato, Firenze 2005: pp. 24/25, 28-31, 34-35, 40/41, 89, 96/97, 104 (basso) – Foto Scala, Firenze: pp. 56/57 – Shutterstock: pp. 60/61 (basso), 69, 73, 74/75, 86/87, 88 (alto) – Francesco Ghio: p. 74 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 12, 84-85, 96 – Patrizia Ferrandes: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 104/105, 106, 120, 120/121, 122, 123.

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