Medioevo Dossier n. 45 Luglio/Agosto 2021

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VIAGGIO NELLE TERRE LEGGENDARIE

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N°45 Luglio/Agosto 2021 Rivista Bimestrale

IN EDICOLA IL 17 LUGLIO 2021

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EDIO VO M E



VIAGGIO NELLE TERRE

LEGGENDARIE GEOGRAFIE IMMAGINARIE, DALLA MITICA ATLANTIDE AL FAVOLOSO ELDORADO a cura di Francesco Colotta Colotta, Claudio Corvino, Giuseppe M. Della Fina, Marco Di Branco, Paolo Galloni e Luca Pesante

testi di Francesco

PRESENTAZIONE 6. La terra che non c’è

ALAMUT 66. Il paradiso degli Assassini

ATLANTIDE 8. Un’utopia di fine Medioevo

PRETE GIANNI 88. Lettere da un paese perfetto...

L’ULTIMA THULE 22. Ai confini del mondo

CUCCAGNA 98. «Chi piú dorme, piú guadagna»

I LUOGHI DI ARTÚ 30. Il re è stato qui...

SHANGRI-LA 110. Alla ricerca della valle nascosta

L’ISOLA MARTANA 42. I misteri del lago

FELIK E ROSENGARTEN 116. Leggende ad alta quota

PURGATORIO DI SAN PATRIZIO 56. Viaggio alle porte dell’Inferno

ELDORADO 124. Nella terra degli uomini d’oro


GLI UOMINI E I VALORI DI UN GRANDE PASSATO


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MAGIA

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Presentazione

GLI ANIMALI NEL MEDIOEVO


La terra che non c’è I

l fascino dei luoghi leggendari ha sedotto gli uomini di ogni tempo, spingendoli a tracciare rotte oltre i confini del mondo conosciuto. Furono soprattutto navigatori, storici e geografi a subirne l’attrazione, richiamati dal mistero e dalla promessa di nuove… ricchezze. Non a caso, alcune isole avvolte nel mito – si pensi ad Atlantide e alla nordica Thule – divennero largamente popolari nel Quattrocento, epoca delle grandi esplorazioni, intraprese anche con l’ambizione di scovare le testimonianze materiali di quelle terre nascoste. Cosí, le gesta di Cristoforo Colombo alimentarono la speranza di un rinvenimento clamoroso: ci fu chi, infatti, identificò le sue Americhe con la stessa Atlantide, mentre il navigatore genovese affermò di aver oltrepassato la fantomatica Thule, forse l’Islanda, in un periodo antecedente al 1492. Il richiamo di un luogo geografico ignoto, tuttavia, poteva tradursi anche in un semplice sentimento, in una dimensione dello spirito. Vale ricordare le parole di Oscar Wilde, secondo cui «una carta del mondo che non contiene il Paese dell’Utopia non è degna nemmeno di uno sguardo perché non contempla il solo Paese al quale l’Umanità approda di continuo». L’utopia è un luogo metaforico, la cui presenza nell’inconscio collettivo consente di oltrepassare i limiti, di coltivare una speranza, di evadere dalla consuetudine. Come scrive Claudio Corvino (vedi alle pp. 98-109), i pericoli di una natura avversa, le sofferenze di intere categorie sociali, gli stenti del quotidiano trovano riscatto «in una nuova acquisizione di potenza: la potenza creatrice del sogno, dell’immaginario gratuito e profumato». Il desiderio, in quel caso, di vivere in un Paese «dove piú si dorme, piú si guadagna». Anche un’altra dimensione dell’immaginario contribuí ad alimentare, nei secoli, il fascino per le terre leggendarie: quella del «paradiso perduto», di un’epoca d’oro di cui si conserva il ricordo di generazione in generazione e che assurge ad archetipo di una «geografia ideale», di una società perfetta, fiorita in un luogo incantato e della quale si vagheggia una possibile rinascita. In età moderna, il topos della nostalgia per lo splendore delle origini collimò con le esigenze delle nascenti potenze imperiali e nazionali, in cerca di una giustificazione naturale per le proprie ambizioni di grandezza. Con il nuovo Dossier di «Medioevo» ci incamminiamo in un viaggio intorno al mondo, lungo millenni di misteri destinati, forse, a rimanere irrisolti per sempre: a caccia del continente perduto di Atlantide, della nordica Thule, delle scenografie del mito di Artú, del Purgatorio di San Patrizio, delle innumerevoli patrie del Prete Gianni, della valle nascosta dello Shangri-La, degli opulenti Paese della Cuccagna ed Eldorado, delle montagne incantate del Nord Italia. Non mancano terre reali, teatro di eventi leggendari: Alamut, l’inespugnabile fortezza della Setta degli Assassini e l’isola di Amalasunta, regina dei Goti, ci appaiono come miraggi, avvolti dalla nebbia di un’enigmatica narrazione fiabesca. Francesco Colotta

Nella pagina accanto «Là, sotto i miei occhi, rovinata, distrutta, rasa al suolo, appariva una città con i tetti sfondati, i templi distrutti, gli archi abbattuti...», tavola tratta da un’edizione di Ventimila leghe sotto i mari di Jules Verne per illustrare il capitolo nel quale il capitano Nemo mostra al protagonista i resti di Atlantide. 1870.

TERRE LEGGENDARIE

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ATLANTIDE

di Giuseppe M. Della Fina

Un’utopia di fine Medioevo

Ricostruzione immaginaria di una città antidiluviana, ispirata dai brani del Timeo e del Crizia in cui Platone descrive la perduta Atlantide.


Nessun altro resoconto tramandatoci dall’antichità ha avuto una fortuna simile alla descrizione del continente scomparso riferita da Platone. Concepito nel IV secolo a.C. – e da sempre al centro di infinite discussioni e ipotesi – divenne fonte d’ispirazione per i grandi utopisti dei secoli XVI e XVII. Stranamente, durante il millennio medievale il ricordo di Atlantide sembra perdersi. Forse perché era caduta in disuso la lingua stessa in cui il testo fu scritto? In verità, le cose non andarono proprio cosí…


ATLANTIDE

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Un mito primigenio

tlantide sarebbe stata un’isola piú grande dell’Africa e dell’Asia riunite: uno spazio appena sufficiente per accogliere i volumi scritti su di essa. Il fascino di Atlantide ha contagiato filosofi, storici, filologi, archeologi, scrittori. All’inizio della leggenda ci sono due dialoghi di Platone, il Timeo e il Crizia. Nelle due opere, la seconda non portata a termine, Platone fa raccontare a Crizia una storia da lui appresa quando era ragazzo. In essa si narra che Solone in visita in Egitto raggiunse la città di Sais, dove venne accolto con grandi onori. Lí pose domande ai sacerdoti sulle vicende del passato, rendendosi conto che lui e i Greci conoscevano molto poco in proposito. Un anziano sacerdote gli spiegò che il mondo – tranne l’Egitto protetto dal Nilo – era stato interessato piú volte da immani calamità naturali, cosí che ogni volta i pochi superstiti – appartenuti in genere alle fasce meno colte della società – avevano perduto memoria del passato e avevano dovuto «ricominciare tutto daccapo come bambini». Gli Egiziani invece conservavano memoria dei fatti storici e avevano quindi la possibilità di raccontare all’illustre ospite vicende antichissime relative ad Atene e una soprattutto, ritenuta di particolare valore. 10

TERRE LEGGENDARIE

Ma vale la pena di riportare direttamente alcuni brani del racconto del Timeo: «Dicono i nostri testi che la vostra città [Atene] distrusse un grande esercito, che con prepotenza stava avanzando contro l’Europa e l’Asia, venuto dall’oceano Atlantico. Quel mare era allora navigabile perché c’era un’isola di fronte allo stretto che voi chiamate Colonne d’Ercole. Quell’isola era piú grande dell’Africa e dell’Asia unite insieme: e da essa i naviganti di quel tempo potevano passare sulle altre isole e da esse su tutto il continente posto intorno a quello che allora era un mare vero e proprio (...)». «In quest’isola, chiamata Atlantide, si era formata una grande e straordinaria monarchia, che dominava tutta l’isola e anche molte altre isole e regioni del continente; inoltre, da questa parte dello stretto, governava l’Africa fino all’Egitto e l’Europa fino all’Etruria. Questa potenza, riunite tutte le forze, tentò di sottomettere in un sol colpo la vostra e la nostra terra e tutta la regione al di qua dello stretto». «Proprio in quel tempo, Solone, la potenza della vostra città rifulse per virtu e vigore dinnanzi a tutte le genti (...) riuscí a sconfiggere gli invasori e a trionfare su di essi, salvò dalla schiavitú quanti non erano stati mai sottomessi e generosamente diede la libertà a tutti coloro che abitavano al di qua delle Colonne d’Ercole. In seguito


Veduta dell’isola di Santorino, compresa nell’arcipelago delle Cicladi e di cui è stata a piú riprese proposta l’identificazione con Atlantide. TERRE LEGGENDARIE

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Un mito primigenio

UN’ISOLA ALLE ORIGINI DEL MITO? Thera (oggi Santorino) è una delle isole piú meridionali dell’arcipelago delle Cicladi. Qui, in una località a circa 600 m dal villaggio di Akrotiri, l’archeologo greco Spyridòn Marinatos (1901-1974) ha effettuato scavi che hanno rilevato l’alto livello di vita dell’isola durante il Tardo Minoico. L’abitato di Akrotiri prevedeva la presenza di strade e di piazze. Gli edifici avevano muri realizzati con pietre non lavorate di piccole dimensioni e argilla; le superfici esterne erano rivestite da un intonaco di terra, mentre quelle interne erano intonacate con materiale piú fine. Le costruzioni potevano avere due, tre o anche quattro piani e ciascuno presentava diversi vani. I sotterranei e i pianoterra erano usati generalmente come magazzini o come laboratori, quelli superiori erano i quartieri di abitazione. Scale ben costruite collegavano i diversi piani, i vani piú ampi avevano un pilastro centrale a sostegno del soffitto. Le pareti, sempre intonacate, erano in alcuni casi coperte da affreschi: in ogni edificio almeno una stanza era decorata con pitture. La caratteristica principale degli affreschi scoperti è l’alto grado di naturalismo presente nei paesaggi, negli animali, nelle piante e nelle figure umane rappresentate. Le convenzioni artistiche di Creta sembrano osservate qui con un maggiore grado di libertà che nell’isola egemone. L’edificio B presentava due stanze dipinte: vi figuravano un fregio con antilopi, una scena con due fanciulli pugili, una schiera di scimmie intente ad arrampicarsi sulle rocce. Nell’edificio si trova il celebre «affresco della Primavera»: montagne, forse dei vulcani, si elevano dal suolo; gigli fioriscono alle loro pendici e sui picchi; nel cielo, rondini volano in varie formazioni.

si verificarono grandi terremoti e inondazioni: nello spazio di un giorno e di una notte tremende tutto il vostro esercito fu inghiottito dalla terra e similmente l’isola di Atlantide scomparve inabissatasi nel mare. Per questa ragione quel mare è inaccessibile, essendo d’impedimento il banco di fango formato dall’isola al suo inabissarsi».

Cinque coppie di gemelli maschi

Nel Crizia Platone torna sull’argomento fornendo maggiori particolari. Prima di tutto il legame privilegiato dell’isola con Poseidone: il dio vi incontrò Cleito, figlia di Evenor e Leùcippe e con lei generò cinque coppie di gemelli 12

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maschi, tra i quali divise l’intera regione. La zona piú ampia e piú fertile l’affidò al primogenito Atlante, che vi regnò con grande saggezza. I suoi successori e quelli dei fratelli gemelli, sovrani sulle altre parti dell’isola, estesero la loro signoria su altre isole del vasto mare e, all’interno delle Colonne d’Ercole, sino all’Egitto e all’Etruria. Platone fa vantare da Crizia le risorse di Atlantide: materie prime, un’agricoltura rigogliosa, un artigianato di livello notevole, un commercio fiorente. Leggiamo: «Possedevano tante ricchezze quante mai non ebbero in precedenza sovrani e potenti, né mai probabilmente ne avranno in avvenire. Avevano

A sinistra l’isola di Atlantide in una mappa disegnata da Athanasius Kircher (e poi colorata) per l’opera Mundus subterraneus. 1665.


accumulato tutto quello che occorreva nelle città e nella regione circostante. Molte cose, a motivo della loro potenza, venivano portate loro dai paesi stranieri, molte altre ne forniva l’isola stessa per le necessità della vita. In primo luogo, estraevano dalla terra tutte le sostanze solide e fusibili e il metallo, l’ oricalco, che ora è soltanto un nome, ma allora era molto di piu; esso veniva estratto in molte parti dell’isola ed era a quel tempo il piú prezioso dopo l’oro». «Vi era abbondanza di legname per il lavoro dei falegnami e nutrimento sufficiente per gli animali domestici e selvatici. Vi era inoltre, nell’isola, una grandissima quantità di elefanti: infatti gli altri animali, quelli che vivono nelle paludi, nei laghi e

nei fiumi come quelli che stanno sui monti e nei campi, avevano tutti pascolo abbondante, e cosí pure ne aveva l’elefante, che di tutti è il piú grande e vorace. Inoltre i profumi che esistono ora sulla terra, da radici o erbe o legni o essenze stillate di fiori e frutti, tutti vi erano prodotti e forniti». «Anche i frutti molli o duri che ci servono di nutrimento, i legumi che usiamo per il cibo, i frutti legnosi che ci danno bevande, alimenti e unguenti, nonché i frutti che, usati per gioco e per diletto, subito deperiscono e quelli che usiamo come eccitanti contro la sazietà alla fine del pasto, tutti li produceva quell’isola sacra sotto il sole, belli e meravigliosi e infiniti di numero. Mentre comunque traevano

Affresco raffigurante un paesaggio fluviale e una processione di barche (vedi anche alle pp. 20/21), da Akrotiri. XVI sec. a.C. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

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tutte queste cose dalla terra, costruirono templi, regge, porti, arsenali e abbellirono tutta la regione». Lo splendore delle costruzioni era notevolissimo; sul tempio di Poseidone, per la devozione particolare sentita verso il dio del mare, si erano indirizzati gli sforzi maggiori: «Rivestirono d’argento tutto l’esterno del tempio eccetto gli acroteri, che furono rivestiti d’oro. Nell’interno la volta era tutta d’avorio, screziato d’oro e di oricalco mentre tutto il resto delle pareti, delle colonne e del pavimento era coperto d’oricalco. Vi collocarono statue d’oro: il dio stesso eretto sul carro, alla guida di sei cavalli alati, tanto alto da toccare con la testa la volta; e intorno cento Nereidi sopra delfini dato che tale era il loro numero per la gente del tempo. All’interno del tempio vi erano inoltre molte statue dedicate da privati. Fuori di esso, all’intorno, vi erano le immagini d’oro di coloro che erano stati annoverati tra i dieci re e delle loro mogli, nonché

A destra una casa di Akrotiri. L’insediamento ebbe a lungo un ruolo chiave nella rete dei traffici mediterranei, ma la sua vita fu bruscamente e violentemente interrotta da una catastrofica eruzione vulcanica verificatasi nell’età del Bronzo, nel XVII sec. a.C.

molte altre grandi offerte di re e di privati, sia dalla stessa città sia da altre di cui avevano il dominio».

In alto particolare di un altro affresco da Akrotiri raffigurante uomini scaraventati in mare dalla forza delle onde. XVI sec. a.C. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

Secondo la legge di Poseidone

Non mancano informazioni sulla struttura politica e sociale: il re aveva potere assoluto sui cittadini all’interno del proprio territorio di competenza, i rapporti tra i monarchi erano regolati da una legge dettata da Poseidone e incisa su un pilastro di oricalco posto al centro dell’isola. In questo luogo si riunivano i re, alternativamente ogni cinque o sei anni. Essi dopo avere assolto a un complesso rituale, che prevedeva fra l’ altro la cattura di un toro potendo contare soltanto su pertiche e lacci, si riunivano in assemblea e deli14

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In alto fregio miniaturistico ad affresco con un paesaggio subtropicale, da Akrotiri. XVI sec. a.C. Santorino, Museo di Thera Preistorica. A sinistra Platone, in uno dei ritratti di uomini illustri realizzati per lo Studiolo di Federico di Montefeltro e attribuiti al pittore fiammingo Giusto di Gand e allo spagnolo Pedro Berruguete. 1473-1476. Urbino, Palazzo Ducale. A destra una struttura di Akrotiri nella quale si sono conservati grandi vasi per derrate alimentari. Come a Pompei, l’eruzione del 1650 a.C. ha «cristallizzato» la vita dell’antica città.

beravano. In tale consesso il discendente diretto di Atlante era un primus inter pares. Le deliberazioni riguardavano vari settori compreso quello bellico e, una volta assunte, erano conservate nei templi. Una di queste aveva vietato di prendere le armi gli uni contro gli altri. Nel racconto di Crizia è tracciata anche una sintetica storia di Atlantide: una notevole espansione politica e militare precedette lo scontro con Atene, la sconfitta venne seguita da fenomeni naturali di un’intensità tale da farla scomparire nelle profondità del mare. La fine fu annunciata da una progressiva perdita della 16

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religiosità e della capacità di unire «la dolcezza all’accortezza nelle varie evenienze dell’esistenza». Rileggendo queste pagine, ci si rende conto di quanto sia vano ricercare Atlantide, dal momento che essa appartiene all’ambito del mito e non a quello della ricostruzione storica. Platone riporta il racconto, ne loda le possibilità poetiche (nel Timeo fa dire a Crizia: «Se Solone non avesse coltivato la poesia per passatempo e vi si fosse dedicato seriamente e avesse condotto a termine il racconto che aveva portato dall’Egitto (...) credo che né Esiodo, né Omero, né alcun altro poeta sarebbe diventato pili illustre di lui»), ma

non s’impegna a dimostrarne l’autenticità, pago di narrarlo. Aristotele liquida l’intera vicenda con una battuta: «L’uomo che l’ha sognata l’ha fatta anche scomparire». Oggi dobbiamo essere piú prudenti. Lo storico Arnaldo Momigliano ci ha insegnato che «Le leggende e i falsi ideologici sono di estremo interesse per comprendere chi li ha formati e divulgati e non sono facilmente distinguibili dalla inconscia o seminconscia deformazione o fantasia, che è fenomeno universale». Nel racconto l’intento risulta evidente: lo scopo è glo(segue a p. 21) TERRE LEGGENDARIE

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QUELL’ANTICHISSIMO «NUOVO MONDO»

Il mito di Atlantide nacque e trovò diffusione in età antica, mentre – si ritiene comunemente – conobbe una fase di totale oblio nel Medioevo. Ma fu davvero cosí? Gli studi dello storico della scienza Marco Ciardi (Le metamorfosi di Atlantide, Carocci editore 2017) tratteggiano un itinerario diverso rispetto alla tradizionale «cronologia di ricezione» della leggenda: seppur presente in modo marginale nella geografia marittima, comunque, nell’età di Mezzo «non era stata dimenticata». Una delle prime tracce riscontrate risale al 1214, in una sezione degli Otia Imperialia del giurista e politico inglese Gervasio di Tilbury, componimento enciclopedico dedicato all’imperatore Ottone IV: nella lunga lista delle «meraviglie» della storia, della geografia e della fisica, tra realtà e mitologia, viene menzionata la fenice, uccello sacro originario – secondo l’autore – delle «montagne 18

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di Atlantide». Ma è nel XV secolo, con l’epoca delle grandi esplorazioni, che l’isola guadagna maggior spazio: nelle rilevazioni di ricerca navale e, soprattutto, nei racconti sulle avventure dei protagonisti piú illustri di quella stagione. Come spiegare l’improvviso, accresciuto interesse? È presumibile che l’ambizione di varcare le Colonne d’Ercole sull’Atlantico avesse determinato la riscoperta delle suggestive descrizioni di Platone sul continente perduto, le cui ipotetiche coordinate geografiche coincidevano con alcune delle rotte tracciate dai navigatori del Quattrocento. Lo stesso Cristoforo Colombo – si sostiene nella Storia delle Indie (1561), redatta dal vescovo spagnolo Bartolomé de Las Casas – avrebbe intrapreso il suo viaggio piú celebre anche per trovare indizi relativi al favoloso regno di Atlantide, sulla scorta dei racconti di Platone.

A sinistra, in alto miniatura raffigurante una fenice, da un’edizione del Livre des propriétés des choses di Barthélémy l’Anglais. XV sec. Amiens, Bibliothèque municipale.


Sempre nel Cinquecento, il medico e geografo veronese Girolamo Fracastoro si spinse addirittura a supporre un’identificazione tra il Nuovo Mondo e Atlantide, tesi ribadita dal religioso spagnolo Francisco López de Gómara nella Storia generale delle Indie (1552). Tale ardita identificazione fu postulata anche dall’alchimista e matematico inglese John Dee (1527-1608), ma in questo caso nascondeva intenti di natura geopolitica: molte isole – affermò – erano domini britannici dall’epoca di Artú, compresa l’antica isola del mito, di recente riscoperta. Scopi similmente patriottici rivestiva la curiosa deduzione dello scienziato e scrittore

Olaus Rudbeck, che nel voluminoso trattato Atlantica (1679) collocava le coordinate della terra leggendaria nel suo Paese, la Svezia, all’epoca potente impero in cerca di una legittimazione storico-culturale per le politiche espansionistiche intraprese. Iperbole a parte, l’ipotesi sull’esistenza di Atlantide, vista l’autorevolezza degli interlocutori, aveva dato comunque vita a un dibattito serio. Come rileva Marco Ciardi nel suo saggio, è stato a lungo un tema «degno della massima considerazione scientifica, affrontato da autori di fama e importanza assoluta nella storia della scienza». Francesco Colotta

La penisola iberica in una tavola dell’Atlante di Gerhard Kremer, detto il Mercatore. XVI sec. In basso, le Colonne d’Ercole, che molti esploratori vollero varcare, fors’anche per rintracciare la mitica Atlantide descritta da Platone.

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Un mito primigenio


In alto particolare di un affresco raffigurante una vivace processione di barche, da Akrotiri. XVI sec. a.C. Atene, Museo Archeologico Nazionale. Nella pagina accanto particolare di un affresco raffigurante una coppia di rondini in volo, da Akrotiri. XVI sec. a.C. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

rificare Atene e indicare che la sua leadership è motivata e può essere posta in discussione solo correndo rischi altissimi.

Le proposte di identificazione

Gli Ateniesi erano stati in grado sia di respingere – agli inizi del V secolo a.C. – un attacco venuto da est e portato dai Persiani, sia di sconfiggere gli abitanti di Atlante, aggressori provenienti da ovest. Per due volte Atene aveva saputo difendere la libertà dai suoi nemici. Interessante è notare che fra i protagonisti del Timeo figura Ermocrate, generale e uomo politico di Siracusa, il principale artefice della sconfitta ateniese in Sicilia (413 a.C.). Piú difficile da individuare (forse impossibile) è il nucleo storico nascosto nel mito. Vi si possono leggere conoscenze geografiche generiche, ma piú vaste di quelle ritenute note nell’antichità, o il ricordo confuso di una civiltà scomparsa in contatto, in qualche modo, con il mondo greco peninsulare. In questo caso si è pensato da una parte a Tartesso, dall’altra al mondo minoico. Tartesso era una città della Spagna, che controllava un am-

pio territorio, mai identificata con certezza, ma che sappiamo fiorente prima che i Cartaginesi la distruggessero. L’ipotesi minoica, invece, venne avanzata la prima volta nel 1909 da Kingdon T. Frost, ma deve molto alle ricerche condotte sull’isola di Thera (Santorino; vedi box a p. 12) da Spyridòn Marinatos, i cui primi risultati vennero pubblicati nel 1939. Lo studioso greco ha documentato archeologicamente che un maremoto distrusse l’isola, dove era presente un fiorente insediamento minoico, poco prima della metà del XV secolo a.C. Il cataclisma avrebbe provocato una crisi profondissima, dalla quale né Creta, né le altre isole del mondo minoico furono in grado di uscire. Alla fine degli anni Sessanta, John V. Luce ha messo in connessione il racconto fatto a Solone e riportato da Crizia con i risultati degli scavi a Thera: la catastrofe – reale – del mondo minoico venne posta in relazione con quella – immaginaria – di Atlantide. In altri termini la «verità» nascosta nella leggenda di Atlantide potrebbe essere il ricordo, reinterpretato dal mito, della splendida civiltà cretese. TERRE LEGGENDARIE

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THULE

di Francesco Colotta

Ai confini del mondo Una terra tra i ghiacci del Grande Nord, un’isola dal clima gelido ma dove il sole splendeva per mesi. Trovarla significava accedere a una dimensione in cui cielo, terra e mare sembravano fondersi. Risale a un viaggiatore mediterraneo il lungo racconto di quel luogo misterioso, la cui fortuna sarà scandita, per tutto il Medioevo, da sentimenti d’avventura e nostalgia. Per prestarsi, infine, ad ambigui e pericolosi desideri di identità 22

TERRE LEGGENDARIE


F

Banchi di ghiaccio nei pressi delle Thule Meridionali, in Antartide. Il piccolo arcipelago, composto da tre isole, fu cosí battezzato da James Cook, che lo individuò nel 1775, perché ritenuto simile alla favolosa Ultima Thule, considerata come terra posta ai confini del mondo.

in dall’antichità poeti, navigatori e geografi si sono gettati alla ricerca di una terra posta all’estremo Nord del continente europeo della quale si raccontavano mirabilie e non solo di carattere climatico. Un’isola misteriosa, chiamata Thule, dove il sole non tramontava mai, un luogo che compariva nelle mappe e nelle opere letterarie per, poi, svanire nel momento in cui qualcuno davvero si avventurava a cercarlo. Nel tempo, l’enigma si trasformò in mito, al di là della reale esistenza di una terra che portasse quel nome. A partire dal Medioevo, sull’onda delle leggende, l’isola divenne sinonimo di viaggio ai confini del mondo, superati i quali si accedeva a una dimensione sovrannaturale. Solo in età moderna e contemporanea si diffuse, invece, la tradizione di Thule come polo d’origine della civiltà occidentale, una tesi che forní basi teoriche a diverse correnti ideologiche gravitanti nell’area del pangermanesimo.

Un’esplorazione scientifica

Le prime, frammentarie informazioni su Thule si devono al navigatore e scrittore greco Pitea di Massalia, vissuto nel IV secolo a.C., il quale si sarebbe avventurato a latitudini estreme per esigenze di natura commerciale. Si ipotizzò, infatti, che egli fosse stato inviato in missione dalla sua città natale (l’odierna Marsiglia) per stabilire rapporti diretti con le miniere della Cornovaglia, aggirando il monopolio cartaginese sui commerci oceanici. Appare però piú probabile che il suo fosse invece un vero e proprio viaggio di esplorazione a scopo scientifico. Dopo aver raggiunto la Scozia, si spinse ancora piú a nord e, dopo sei giorni di navigazione, approdò su un’isola, che battezzò, appunto, «Thule». Al rientro, stilò un resoconto particolareggiato del viaggio e lo inserí nell’opera Sull’Oceano, in larga parte perduta in seguito a uno degli incendi che colpirono la biblioteca di Alessandria, TERRE LEGGENDARIE

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GRANDE NORD

L’Ultima Thule

Studi recenti hanno dimostrato la sostanziale attendibilità delle narrazioni di Pitea di Massalia, navigatore e scrittore greco Piú di uno storiografo mise in dubbio le fiabesche descrizioni su Thule, relegandole nella categoria delle fantasie letterarie. Strabone, il «padre» della geografia (64-63 a.C.-20 d.C. circa), evidenziò una palese anomalia nelle affermazioni di Pitea: nessuno dei visitatori delle terre settentrionali aveva mai nominato la fantomatica isola nei propri resoconti e per questo definí il navigatore «un mentitore». La presunta ricchezza del suolo in un territorio dal clima gelido, inoltre, risultava poco credibile, anche basandosi unicamente sulle scarse conoscenze geografiche degli antichi. In realtà lo scetticismo di Strabone derivava anche da una sorta di pregiudizio culturale, che tendeva a non riconoscere ai territori lontani dal Mediterraneo un sufficiente grado di sviluppo e di civiltà. Le tesi politiche sul Nord «barbaro e rozzo» prevalevano sulle scarne considerazioni geologiche, in virtú delle quali risultava impossibile sopravvivere alla latitudine piú estrema, all’epoca chiamata «settimo clima». dov’era conservata. Molti dettagli su quella missione boreale sono tratti, pertanto, da rielaborazioni successive operate da scrittori greci e latini. Ma che cosa aveva visto Pitea in quello sperduto avamposto settentrionale? Il navigatore era rimasto colpito non solo dal «prodigio» della luce perenne estiva, ma anche dalla fertilità del suolo e da un suggestivo fenomeno in base al quale cielo, terra e mare sembravano fondersi, rendendo impossibile la navigazione. All’epoca quella curiosa manifestazione naturale venne definita «polmone marino» e, presumibilmente, era prodotta dall’effetto della nebbia che, di solito, si condensa sui blocchi di ghiaccio nel periodo estivo. Seguendo un filone mitologico, un altro autore greco, Ecateo di Abdera (attivo fra il IV e il III secolo a.C.), definí Thule la terra degli Iperborei, una leggendaria popolazione nordica semi-divina prediletta da Apollo (vedi box a p. 28). 24

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La prima polemica della storia Mappa di alcune delle terre bagnate dal Mare del Nord (indicato come Oceanus Germanicus), nella quale compare anche l’isola di Thule (evidenziata dalla cornice), secondo la descrizione del navigatore e scrittore greco Pitea di Massalia. Londra, British Museum. Nella pagina accanto particolare della Carta Marina di Olao Magno, con la rappresentazione dell’isola di Tile (in basso) a sud dell’Islanda. 1539. Uppsala, Universitetsbibliotek.

La disputa sull’introvabile Thule – che secondo lo scandinavista Luigi De Anna rappresentò la prima polemica sorta su una scoperta geografica – coinvolse altri prestigiosi autori dell’età antica come Eratostene, Plinio il Vecchio, Tacito e Polibio. Una polemica simile a quella esplosa qualche secolo piú tardi, dopo il viaggio oltreoceano di Cristoforo Colombo. Tuttavia, gli studi piú recenti hanno dimostrato l’attendibilità del racconto di Pitea e le sue osservazioni: in particolare, quelle relative alle latitudini, alle maree e al Circolo polare artico (che forse fu il primo a determinare) sono state confermate dalle conoscenze attuali. Un altro grande protagonista della letteratura classica, Publio Virgilio Marone (70-19 a.C.), forní un contributo alla soluzione di quello che allora era ritenuto un enigma, raffigurando l’isola come sinonimo di lontananza: la chiamò «Ultima Thule», nel significato di terra estrema,


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GRANDE NORD

L’Ultima Thule

T UTTE LE THULE DEL MONDO L’etimologia di Thule sopravvive in alcuni luoghi rintracciabili sulle carte geografiche: nel nome della regione norvegese del Telemark o Thilemark, in quello di una zona dello Jutland danese chiamata Thy o Thyland e in quello della città di Tula in Messico. Ma l’identificazione piú stretta tra il mito dell’isola nascosta e un luogo reale è avvenuta in Groenlandia. Una piccola città del nord della terra dei ghiacci è chiamata proprio Thule ed è uno dei comuni piú a settentrione del mondo. È detta anche Qaanaaq (in lingua locale). Thule sono definiti anche i progenitori degli Inuit del Canada, una popolazione eschimese. Si stanziarono in Alaska nel 500 d.C., poi si trasferirono in parte in Canada nell’XI secolo e anche in Groenlandia nel XIII secolo. Proprio nell’odierna cittadina groenlandese di Thule furono trovati i primi resti archeologici di quella cultura.

Manufatti della cultura di Thule: amuleto in forma di pesce (in alto) e pettine in forma di figura femminile stilizzata (a sinistra), conservati entrambi nel Canadian Museum of History di Gatineau; in basso: figurine a fondo piatto con testa umana, ricavate da denti di mammiferi marini. 1100-1700. Anchorage, University of Alaska Museum.

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frontiera invalicabile. In età classica questo limes si situò sempre all’interno dei confini del mondo, con indizi che potevano far pensare, di volta in volta, a diverse regioni dell’odierna Scandinavia o all’arcipelago scozzese.

Nascita di una leggenda

Alle soglie dell’età di Mezzo, accanto al dibattito sulla precisa collocazione dell’isola, fiorirono racconti allegorici che trasferivano le coordinate di Thule in una sfera puramente immaginifica. Nasceva la leggenda della «terra favolosa», di un regno destinato a restare una chimera e a nascondere valenze simboliche, come le Isole Fortunate, l’Avalon bretone e l’introvabile patria del Prete Gianni (vedi alle pp. 88-97). Questa rivoluzione interpretativa del mistero, che fino a quel momento era solo geografico,


visse un preludio nel IV secolo, con il poema Descriptio orbis terrae di Rufo Festo Avieno: nei suoi versi, la bellezza del sole di Mezzanotte di Thule si configura come metaforica fuga verso l’esotico in un’epoca di inesorabile decadenza del mondo latino. La ricerca di quel luogo nascosto, comunque, continuò e venne stimolata dall’accresciuto interesse sul mondo nordico generato dallo sviluppo di nuovi itinerari commerciali che collegavano il Mediterraneo al Mar Baltico. Nel VI secolo gli storici bizantini Procopio di Cesarea e Giordane identificarono l’antica Thule nella Scandinavia. Piú tardi, i cronisti Adamo di Brema e Saxo Grammaticus avrebbero intravisto nell’isola il profilo dell’Islanda che, nel frattempo, era stata esplorata a fondo da un gruppo di coloni norvegesi. Proprio quest’ultima, con i suoi contrasti geotermici tra ghiaccio e fuoco, appariva come un modello perfetto di «terra favolosa», in accordo con la tradizione letteraria che andava affermandosi.

Suggestioni fantastiche

Tuttavia, nelle narrazioni medievali dominavano per lo piú le suggestioni fantastiche, come riferito nelle pagine dell’Antonii Diogenis incredibilium de Thule insula – un racconto riportato dal patriarca bizantino Fozio nel IX secolo –, nel quale si delinea l’incantevole immagine del mare a nord dell’isola che conduceva nelle vicinanze della luna. In quel panorama fiabesco, illuminato da un chiarore accecante, i protago-

nisti dell’opera ammiravano ciò che «non si poteva neppure immaginare». Altri racconti, poi, evocavano simbolismi religiosi, riferendosi a una dimensione del tempo che appariva in tutta evidenza come sovrannaturale. L’arrivo del periodo in cui il sole non tramontava era accolto come un segno divino, come il compimento di un rito che scongiurava profezie nefaste per un futuro prossimo. Ma chi viveva su Thule? Oltre alla già citata tradizione relativa agli Iperborei, fu Procopio di

Incisioni raffiguranti un Inuit, visto frontalmente e di spalle, una donna e un bambino della stessa popolazione, e una scaramuccia tra Inglesi ed Eschimesi. Le illustrazioni documentano la spedizione di Martin Frobisher sull’isola di Baffin del 1577. TERRE LEGGENDARIE

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GRANDE NORD

L’Ultima Thule

Cesarea (500-565 d.C.) a fornire una dimensione antropologica alla leggenda. Descrivendo una terra somigliante alla penisola scandinava, lo storico bizantino riferí che gli abitanti professavano un culto di tipo solare e temevano di veder calare per sempre la notte sulla propria terra. Risultano invece ontraddittorie le testimonianze sul carattere della popolazione: secondo Procopio e Antonino Etico Istriano, i Thuliani erano aggressivi di natura; per Adamo di Brema, al contrario, avevano un’indole pacifica; mentre Ludovico Ariosto li definiva cristiani. Non solo Ariosto, ma anche altri illustri letterati italiani citarono l’isola nelle loro opere: Brunetto Latini, che subí il fascino del suo suggestivo clima, e Francesco Petrarca, che la utilizzò come metafora poetica per esprimere la vastità di un sentimento. La vicenda di Thule, perciò, si rinnovava in quasi tutto l’Occidente medievale, facendo leva sul fascino dell’inconsueto e senza mai fornire precise coordinate di viaggio.

Apollo vola su un cigno verso il paese degli Iperborei, frammento di piatto a figure rosse del pittore Eufronio, 520-470 a.C. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

Sete d’avventura

Verso la fine del Medioevo, Thule tornò ad assumere i connotati acquisiti in epoca classica: un luogo ai confini del mondo, situato a latitudini estreme, ma concreto e, pur tuttavia, non irraggiungibile. Era il segno dei tempi, il sintomo del propagarsi di un’attrazione irresistibile per le esplorazioni che spingeva tanti navigatori all’avventura, con l’ambizione di conoscere le terre al di là dell’orizzonte, soprattutto quelle ritenute inaccessibili. La scoperta dell’America rese l’isola nordica un

GLI IPERBOREI, BENVOLUTI DA APOLLO L’antica leggenda sulla popolazione degli Iperborei è strettamente legata alla figura del dio greco Apollo. Incaricato da Zeus di recarsi a Delfi, dove avrebbe dovuto introdurre la giustizia e la poesia, decise di cambiare all’ultimo momento destinazione. E con il suo carro, guidato dai cigni, si diresse verso nord, nella terra degli Iperborei, posta tra l’Oceano e i monti Rifei. Si fermò nella loro isola per un anno, passato il quale decise di raggiungere finalmente Delfi, dove gli abitanti reclamavano da tempo la sua presenza. Il dio rimase sempre molto legato a quella popolazione nordica con la quale aveva convissuto a lungo, ed era solito manifestarsi spesso al loro cospetto. L’essere prediletti da Apollo conferí agli Iperborei uno stato semi-divino, come riporta Erodoto, che li definiva «esseri trasparenti». Non conoscevano infelicità, malattie e guerre e la loro terra godeva di un clima sempre mite. Morivano solo per sazietà di vita e usavano gettarsi da una rupe a picco sul mare per porre fine ai loro giorni. La tradizione narra che nel loro regno vivevano due creature della mitologia, i Grifoni e gli Ippogrifi.

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po’ meno lontana nelle mappe, privandola dell’aggettivo virgiliano di «ultima». Fu lo stesso Colombo a sottolinearlo, nella biografia scritta dal figlio Fernando, nella quale raccontò di aver agevolmente raggiunto e oltrepassato Thule, in un periodo antecedente al 1492. Il testo, in realtà, cita due isole con quel nome, una piú a settentrione e l’altra, a sud, chiamata anche Frislandia, che compariva nelle mappe cinquecentesche a poca distanza dall’Islanda. Che Colombo abbia davvero visitato l’Islanda e le zone limitrofe non è provato, mentre sembra


COMMISTIONI PERICOLOSE Bevor Hitler kam (Prima che Hitler venisse) è il titolo di un libro pubblicato nel 1934 dal barone Rudolf Von Sebottendorff con il quale si intendeva dimostrare l’influenza della società segreta Thule Gesellschaft nella nascita e nell’ascesa del Partito nazionalsocialista. L’autore, appassionato di occultismo, era il capo dell’organizzazione, sorta nel 1910 e ispiratasi al mito della patria primigenia del popolo germanico, oltre che alle tesi razziste del monaco austriaco Lanz von Liebenfels. In verità, la società si mostrò piú attiva sul piano politico che nelle pratiche esoteriche e si schierò in prima linea nelle lotte contro i governi bavaresi democratici e filo-comunisti insediatisi dopo la fine del primo conflitto mondiale. Il quartier generale della Thule era il lussuoso albergo «Vier Jahreszeiten» di Monaco di Baviera, nel quale si tenevano le riunioni dei membri. Tra gli adepti figuravano i nomi di vari leader del nascente DAP (Deutsche Arbeiterpartei), il primo nucleo del Partito nazionalsocialista tedesco: Rudolf Hess, Karl Harrer, Dietrich Eckart, Anton Drexler, Alfred Rosenberg e Hans Frank. Il libro di Von Sebottendorff, uscito all’indomani della presa del potere di Adolf Hitler, non ebbe, però, fortuna e, anzi, fu quasi subito sequestrato dalle autorità. La società Thule sopravvisse ancora qualche anno prime di essere sciolta.

piú credibile un suo passaggio all’arcipelago scozzese delle Shetland. Nell’era delle esplorazioni, anche Thule divenne una terra «svelata», agibile, come aveva profetizzato molti anni prima Seneca nella Medea: «Nei secoli futuri – aveva scritto il filosofo – verrà il giorno in cui si scoprirà il grande segreto sepolto nell’oceano. E la potente isola sarà ritrovata. Teti, di nuovo, svelerà questa contrada. E Thule, ormai, non sarà piú il paese ai confini del mondo». Seneca preannunciava, in questo modo, la scoperta di nuovi mondi, non riferendosi solo al caso specifico dell’isola di Pitea. Compiute quelle imprese non avrebbe avuto piú senso delimitare i limiti del globo terrestre con i luoghi estremi fissati degli antichi.

Il mito continua

Thule, comunque, non scomparve dall’inconscio collettivo dell’Occidente, né dalla geografia. Anche nel Rinascimento la sua fisionomia appariva sulle mappe sotto svariate forme, in particolare nella celebre Carta Marina (1539) di Olao Magno, nella quale risultava collocata, con il nome di Tile, qualche miglio a sud-ovest dell’Islanda (vedi l’immagine a p. 25). Quasi piú nessun esploratore, però, si avventurava in mare a cercarla. Era il preludio del definitivo passaggio di Thule, da misteriosa isola boreale o ultima frontiera del mondo conosciuto, a territorio di esclusiva pertinenza del mito. I prodromi del fenomeno si manifestarono fin dal Seicento, in un periodo in cui gli Stati del Nord Europa, in particolare i regni scandinavi, si sta-

Stemma datato 1919 della Thule Gesellschaft, società segreta ispirata al mito della patria primigenia del popolo germanico.

vano affermando sullo scenario internazionale. L’exploit politico, in particolare della Svezia, fu affiancato da una letteratura celebrativa sulle origini delle genti nordiche, con l’intento di affermarne la superiorità culturale rispetto alle civiltà mediterranee. E un luogo leggendario, sperduto nell’Atlantico settentrionale, poteva diventare una patria ancestrale ideale, i cui fasti erano sopravvissuti all’oblio del tempo. Piú tardi, nel Sette-Ottocento, in pieno Romanticismo, il nome di Thule si impose come archetipo di un passato splendore per il quale si provava una struggente nostalgia. Il mito dell’isola primordiale si diffuse perlopiú in Germania sotto l’influenza delle opere di Friedrich Gottlieb Klopstock (1724-1803), dei fratelli Jacob e Wilhelm Grimm (1785-1863 e 1786-1859) e di Clemens Brentano (17781842), in un clima culturale che vedeva l’affermarsi di radicali movimenti nazionalisti. Si teorizzava l’esistenza di un popolo primigenio (l’Urvolk), che aveva generato non solo la patria tedesca, ma anche l’intera civiltà europea. Fu cosí che la misteriosa Thule venne eletta come uno dei luoghi d’origine delle genti germaniche e i suoi abitanti associati agli antichi Iperborei, detentori della sapienza originaria. Nel XX secolo al fascino leggendario dell’isola primordiale e degli Iperborei non furono insensibili alcune società segrete di ispirazione occultista, che, secondo alcune ipotesi, avrebbero contribuito in modo determinante all’affermazione del nazionalsocialismo. TERRE LEGGENDARIE

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Edimburgo

Bamburgh

Vallo di Adriano Carlisle

Isola di Man

Nella figura di Merlino, che

York

Nella battaglia di Badon Hill

trasportò in Inghilterra dall’Irlanda il recinto sacro di Stonehenge, l’antica paganità celtica si fonde con elementi della nuova religione cristiana.

(nella versione francese Mont Baudon) Artú sconfisse i Sassoni.

Alderley Edge

Lincoln

Torre di Londra Cambridge Cardigan

Gloucester Badon Hill

Caerleon

Secondo la tradizione, Artú

Glastonbury

Exeter Dozmary Pool-Altarnun Tintagel St Michael’s Mount

Londra

Bath

sarebbe nato nel castello di Tintagel, per volere di Merlino.

Cadbury Castle (Camelot)

Stonehenge Winchester

Tavola di Winchester


ARTÚ

di Francesco Colotta

Il re è stato qui... Dalla Cornovaglia alla Scozia, ma anche nelle italiche terre di Toscana e Puglia, si susseguono gli «avvistamenti» del leggendario sovrano e dei suoi cavalieri. Ecco un viaggio alla riscoperta dei luoghi – e dei monumenti – che ne ricordano le avventurose gesta

Nella pagina accanto cartina della Gran Bretagna con i principali luoghi nei quali si sarebbero consumati gli eventi narrati nei romanzi del ciclo arturiano. In questa pagina castello di Tintagel, Cornovaglia (Inghilterra). Gallos (vocabolo che significa potere in lingua cornica), statua in bronzo che si ispira alla figura di re Artú, realizzata dall’artista Rubin Eynon e collocata nei pressi del sito nel 2016.


RE ARTÚ

Tutti i luoghi del re

I

l ciclo arturiano ha un’ambientazione multiforme, con scenografie collocate in terre immaginarie o in specifiche architetture, e compone una geografia estesa, che spazia dall’isola britannica fino alle sponde meridionali del continente europeo. Accanto alle celebrate Avalon, Camelot e Tintagel (il luogo in cui il sovrano sarebbe nato), l’atlante della leggenda contempla altre tappe, non certo «minori»: dalla dimora di Uther Pendragon – il padre di Artú – al Monte Badon, da Lyonesse a Roche Rock – i luoghi di Tristano, Isotta e Lancillotto – e alle tracce del mito in Italia, a Montesiepi, Otranto e sulla cima dell’Etna. Ecco un suggestivo itinerario lungo i capitoli di un’epopea senza tempo.

Castello di Pendragon

Secondo la leggenda, il castello di Pendragon sarebbe stata la residenza originaria del sovrano Uther, padre di Artú. Situata nel Nord dell’Inghilterra, nella contea di Cumbria, la rocca risale in realtà a un’epoca posteriore (XII secolo) rispetto all’ambientazione letteraria del ciclo arturiano e oggi ne sopravvivono alcuni resti. La tradizione locale identifica in Uther il condottiero che, agli inizi del Medioevo, avrebbe difeso quell’area settentrionale dalle invasioni degli Anglosassoni. Si narra inoltre che tra le mura del castello si sarebbe conclusa la vicenda terrena dello stesso re.

Castello di Tintagel

La Storia dei re di Britannia di Geoffrey di Monmouth racconta che Artú sarebbe stato concepito grazie a un inganno architettato dal re britannico Uther Pendragon, con l’aiuto di Merlino: secondo la celebre cronaca, Uther, as32

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A destra Tintagel, Cornovaglia (Inghilterra). I resti della fortezza medievale tradizionalmente identificati con il castello in cui Artú sarebbe venuto alla luce. In basso contea di Cumbria (Inghilterra settentrionale). I resti del «Castello di Pendragon», fortilizio medievale (XII sec.) nel quale avrebbe dimorato Uther, padre di Artú.


Nella pagina accanto, in basso ancora un’immagine del castello di Tintagel, in Cornovaglia. A destra un segnale geodetico collocato sulla sommità della collina di Solsbury, da alcuni identificata con il luogo in cui si combatté la battaglia del Monte Badon.

sumendo le sembianze del duca di Gorlois, trascorse una notte con l’avvenente moglie del nobile, Ygraine. Il fatto sarebbe avvenuto nel castello di Tintagel, sulla costa settentrionale della Cornovaglia. Nella stessa fortezza – sempre secondo Geoffrey di Monmouth – Artú venne alla luce e fu allevato di nascosto da Merlino. Indagini archeologiche hanno appurato che la rocca, oggi visitabile e alla quale si accede attraverso una lunga scalinata che si inerpica sulla scogliera, risale al XII-XIII secolo, quindi a un periodo successivo a quello in cui l’epopea arturiana avrebbe avuto inizio. Tuttavia, ulteriori ricognizioni hanno scoperto tracce di costruzioni – pertinenti a un monastero, a un palazzo principesco o a un insediamento commerciale – databili dal VI-IX secolo. Tra i ritrovamenti figura anche la cosiddetta «Pietra di Artognou», il cui nome, che deriva dall’iscrizione presente sulla parte inferiore del reperto, fu impropriamente associato a quello di Artú.

Monte Badon

La storia riporta le gesta vittoriose delle truppe romano-britanniche e celtiche contro l’esercito invasore degli Anglosassoni, nella celebre battaglia del Monte Badon, che ebbe luogo intorno alla fine del V secolo. Secondo una TERRE LEGGENDARIE

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RE ARTÚ

Tutti i luoghi del re versione leggendaria dell’evento bellico, a comandare le forze romano-britanniche e celtiche sarebbe stato re Artú. A sostenerlo, in particolare, è la Storia dei Britanni (IX secolo), scritta dal monaco gallese Nennio, una delle fonti che ispirarono Geoffrey di Monmouth e Chrétien de Troyes nella stesura del loro fortunato ciclo di romanzi. Geoffrey di Monmouth colloca il sito dello scontro sulla collina di Solsbury, nei pressi dall’odierno villaggio di Batheaston, nel Somerset, a pochi chilometri da Bath. In quel luogo sorgono tuttora i resti di

un’antica fortezza. Altri cronisti collocano il teatro della battaglia in località diverse: Badbury Rings (Dorset), Buxton (Derbyshire) e il castello di Liddington (Wiltshire).

Camelot

Camelot non riveste un ruolo di particolare rilievo nelle principali opere medievali dedicate al ciclo arturiano, nelle versioni di Geoffrey di Monmouth e Chrétien de Troyes. Fu Thomas Malory, nel XV secolo, a identificarla tout court con la fortezza di Artú, con il suo


In alto la Tavola Rotonda di Winchester. 1275. Winchester, Castello di Winchester, Great Hall. Sul seggio di Artú è ritratto Enrico VIII d’Inghilterra e al centro campeggia la rosa dei Tudor. Nella pagina accanto miniatura raffigurante re Artú che fa il suo ingresso a Camelot, da un’edizione del Roman du Roy Meliadus de Leonnoys di Helie de Borron realizzata a Napoli. 1352 circa. Londra, British Library. Il celebre castello è stato, nel tempo, variamente collocato: l’ipotesi che lo identifica con Cadbury Castle, nel Somerset, si basa sull’assonanza del suo nome di un tempo, Camalet. A destra il circolo megalitico di Stonehenge, presso Amesbury (Wiltshire, Inghilterra).

quartier generale, collocandola nel territorio dell’odierna Winchester. Successivamente sono state formulate altre ipotesi di localizzazione: Saltwell Park, a Gateshead, nel Tyne and Wear; il sito dell’antica Viroconium, a Wroxeter, nelle Midlands Occidentali; Caerleon, in Galles, il cui anfiteatro – tuttora in parte sopravvissuto – è stato associato al simbolo della Tavola Rotonda; il castello di Dinerth, sempre in Galles; Cadbury Castle, nel Somerset, in passato noto come Camalet, facilmente riferibile al toponimo Camelot; il luogo dell’antica fortezza di Camulodunum, l’odierna Colchester, nell’Essex, la cui contrazione avrebbe anch’essa dato luogo al nome Camelot. Recenti ipotesi hanno valutato come possibile collocazione anche il castello di Carlisle (XI-XII secolo), nella contea di Cumbria.

Winchester

Di impianto medievale e tuttora ben conservato, il castello di Winchester, nell’Hampshire, venne fatto costruire dal normanno Guglielmo il Conquistatore nell’XI secolo. Al suo interno custodisce uno dei reperti piú evocativi del ciclo arturiano: una tavola rotonda in legno, di colore bianco e verde, del diametro di 5,5 m, appesa a un muro della Sala Grande della fortezza, sulla quale sono riportati 25 nomi dei cavalieri arturiani. Secondo la leggenda, il manufatto sarebbe stato realizzato dal mago Merlino. Indagini storiche hanno invece accertato che la tavola venne fabbricata nel XIII secolo e, nel Cinquecento, fu restaurata per volere del sovrano Enrico VIII, figlio di Enrico VII, il quale affermava di essere discendente diretto di Artú.

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RE ARTÚ

Tutti i luoghi del re

Stonehenge

A destra l’isola di St Michael’s Mount, nella Cornovaglia occidentale. Qui Artú si sarebbe battuto contro un gigante. Qui sotto Alderley Edge (Cheshire, Inghilterra nord-occidentale), località in cui Artú e i cavalieri della Tavola Rotonda si sarebbero fermati a riposare, cadendo in un lungo sonno.

Alderley Edge

Qui accanto Excalibur, acquerello su carta di William Russell Flint. 1910. Collezione privata. Nella pagina accanto una veduta del lago Dozmary, presso Altarnun (Cornovaglia settentrionale).

Nei testi del ciclo arturiano compare anche il celebre sito preistorico di Stonehenge, con i suoi megaliti, situato nei pressi di Amesbury, nello Wiltshire. Il complesso viene in particolare associato alla figura di Merlino. Secondo una leggenda – riportata da Geoffrey di Monmouth – sarebbe stato proprio il mago, grazie alle sue arti, a rendere possibile il trasferimento delle imponenti pietre dal Monte Killaraus in Irlanda, dove erano state portate da alcuni giganti. All’interno del circolo megalitico (la cui prima fondazione, lo ricordiamo, si colloca, in realtà, alla metà del III millennio a.C.), sempre secondo la ricostruzione di Geoffrey di Monmouth, avrebbe trovato poi sepoltura il corpo del padre di Artú, Uther Pendragon.

Nei pressi dell’odierno villaggio di Alderley Edge, una ventina di chilometri a sud di Manchester, sotto una roccia, i cavalieri della Tavola Rotonda e il loro capo Artú si sarebbero addormentati per lungo tempo. Piú tardi, in un periodo imprecisato, un agricoltore locale li avrebbe scorti in una grotta – in corrispondenza di un basamento in arenaria – delimitata da un cancello, ancora immersi in un sonno profondo…

St Michael’s Mount

La letteratura del ciclo arturiano racconta che il re dovette fronteggiare un giorno un gigante: lo scontro sarebbe avvenuto sull’isola di St Michael’s Mount, nella Cornovaglia occidentale, dove inoltre si sarebbe in precedenza rifugiato Giuseppe d’Arimatea – il seguace di Cristo che, secondo i Vangeli, depose il corpo del Messia dalla Croce –, che alcune leggende identificano con il primo custode del Santo Graal. 36

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RE ARTÚ

Tutti i luoghi del re

In alto la Torre di S. Michele, in origine compresa in una chiesa del XII sec., sulla sommità della Glastonbury Tor, sito che viene collegato alle leggende sull’isola di Avalon.

Dozmary Pool

Il piccolo lago Dozmary, nei pressi del paese di Altarnun, nel Nord della Cornovaglia, viene indicato dalla tradizione come una delle dimore della Dama del Lago. In particolare come il luogo in cui sir Bedivere – secondo la versione di Thomas Malory – avrebbe scagliato la spada Excalibur, poi afferrata dalla misteriosa donna. Altre localizzazioni proposte dalla tradizione sono Pomparles Bridge, a Glastonbury e il Llyn Llydaw nel Galles.

Glastonbury

In Inghilterra, nel Somerset, si conservano i resti di un complesso monastico medievale fondato nell’VIII secolo: è l’abbazia di Glastonbury. Storia e leggenda si intrecciano tra le mura del monastero, che venne ricostruito dai Benedettini nel Duecento, dopo un rovinoso incendio. Nel suo sito, secondo la tradizione, si troverebbe la tomba di re Artú e 38

TERRE LEGGENDARIE

Qui sopra l’abbazia di Glastonbury (Somerset, Inghilterra), che ospiterebbe la tomba di Artú e Ginevra. Nella pagina accanto, in alto il villaggio di Bamburgh (Northumberland, Inghilterra), dominato dalla rocca medievale che viene identificata con la Guardia Gioiosa, la fortezza di Lancillotto. Nella pagina accanto, in basso Edimburgo (Scozia). La collina nota come Arthur’s Seat (Trono di Artú).

della regina Ginevra, nel centro della mitica Avalon: «Hic jacet sepultus inclitus rex Arthurus in insula Avalonia» («Qui è sepolto il celebre re Artú nell isola Avalonia»), recita un’iscrizione che – in base al racconto del cronista medievale Giraldus Cambrensis – era incisa anticamente su una croce sotto la quale sarebbero stati rinvenuti due scheletri. Successive ricognizioni effettuate in loco da archeologi e storici hanno escluso la presenza di reperti riconducibili a sepolture altomedievali. Appare dunque assai probabile che la leggenda relativa alla tomba di Artú fosse stata fatta circolare ad arte dai monaci nel periodo in cui si stava provvedendo alla ricostruzione dell’abbazia, nella speranza di finanziarne i lavori con gli introiti derivanti dal massiccio afflusso di curiosi e pellegrini. Nelle vicinanze dell’abbazia si staglia un’alta collina (Glastonbury Tor), anch’essa legata alla leggenda dell’isola di Avalon.


Edimburgo

Fra le colline che si elevano nel centro di Edimburgo, sorge la cosiddetta Arthur’s Seat (Il Trono di Artú), la sezione piú alta dei rilievi, 250 m circa sul livello del mare. Porta questo nome poiché, in passato, venne proposta l’identificazione con il leggendario sovrano di uno dei protagonisti del poema altomedievale Y Gododdin, ambientato in quella zona.

Bamburgh

Nel villaggio di Bamburgh, sulla costa del Northumberland, dominato da una suggestiva rocca medievale, sarebbe sorta la fortezza del cavaliere Lancillotto: la celebre Guardia Gioiosa (Joyous Gard), citata da Thomas Malory nel suo

romanzo quattrocentesco Morte Darthur (La morte di Artú). Al di là delle fantasie letterarie, il sito, forse già nel V secolo, rivestiva un notevole rilievo politico, in quanto considerato una delle principali roccaforti del regno di Bernicia. Passò, poi, sotto il controllo degli Angli.

Lyonesse

Ancora in Cornovaglia, di fronte all’arcipelago delle Scilly, sarebbe un tempo sorta una grande isola: Lyonesse, la terra natale di Tristano, assurto a cavaliere della Tavola Rotonda in base ad alcune versioni duecentesche del ciclo arturiano, in particolare il Romanzo di Jaufré. Figlio del sovrano Meliodas, Tristano non avrebbe però mai governato su quel possedimento di fami-

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RE ARTÚ

Tutti i luoghi del re A sinistra la Roche Rock, (Cornovaglia centrale), uno sperone roccioso presso il quale un eremita di nome Ogrin avrebbe offerto rifugio a Tristano e Isotta in fuga dal re Marco.

In basso il Cromwell Castle, sull’isola di Tresco, una delle Scilly, al largo della Cornovaglia. Secondo la leggenda, di fronte all’arcipelago si sarebbe trovata Lyonesse, una grande isola nella quale sarebbe nato Tristano.

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TERRE LEGGENDARIE

glia, in quanto l’isola sarebbe sprofondata in mare quando ancora egli stava prestando servizio presso la corte dello zio Marco, sovrano di Cornovaglia. Altre ipotesi localizzano la leggendaria terra nell’odierno porto di Dunwich, nella contea del Suffolk. Un’altra tradizione identifica, infine, Lyonesse con Avalon.

Roche Rock

Uno sperone roccioso nei pressi di Roche, in Cornovaglia, si staglia imponente insieme ai resti di una cappella del XV secolo. In questo suggestivo scenario Tristano e Isotta avrebbero

trovato rifugio, ospitati dall’eremita Ogrin, per sfuggire all’ira del re Marco.

Etna

Esiste una versione letteraria relativa all’ultimo periodo di vita di Artú con ambientazione italiana. Ferito gravemente in duello da Mordred e con la propria spada spezzata, il sovrano avrebbe visto l’arcangelo Michele in sogno, che gli avrebbe indicato un luogo in cui recarsi per riparare l’arma: la bocca ribollente dell’Etna. Grazie al vulcano, la spada tornò intatta e Artú, rimasto affascinato dalle bellezze di quella zona


della Sicilia, decise di stabilirvisi. Si dice che da quel momento il re avrebbe vegliato su Catania, per proteggerla dalle eruzioni.

Modena

Tracce di Artú sono rintracciabili anche in Emilia-Romagna, tra i rilievi dell’archivolto della Porta della Pescheria, nel Duomo di Modena, realizzati da un allievo della scuola di Wiligelmo. Databili al XII secolo, precorrono di diversi anni le prime stesure letterarie del ciclo arturiano. Questa sorprendente anticipazione in terra italiana della leggenda potrebbe essere originata dai contatti intercorsi tra i cavalieri di varie parti d’Europa nel corso delle missioni in Terra Santa. Si può ipotizzare, infatti, che in quegli ambienti la vicenda di Artú circolasse oralmente già da tempo e fosse stata poi recepita in Italia.

Otranto

Il mosaico pavimentale della Cattedrale di Otranto, pregevole commistione di forme romanico-bizantine, presenta una raffigurazione singolare di Artú. Il leggendario sovrano compare nell’episodio della cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso Terrestre in groppa a un caprone e con in mano uno scettro o un bastone curvo. Il mosaico fu realizzato tra il 1163 e il 1165, qualche anno in anticipo – anche in questo caso – rispetto alle prime versioni letterarie del ciclo arturiano. Ma secondo alcuni studiosi, l’immagine di Artú fu aggiunta posteriormente.

A destra Otranto, cattedrale dell’Annunziata. Il ritratto di re Artú nel mosaico pavimentale realizzato dal presbitero Pantaleone su commissione del vescovo Gionata. XII sec. Al centro l’interno della Rotonda di Montesiepi (Siena), con al centro del pavimento la spada che, secondo la tradizione, san Galgano conficcò nella roccia per sancire la fondazione del suo eremo e il suo «arruolamento» nella militia Christi. In basso Modena, Duomo. L’archivolto della Porta della Pescheria, sul quale si susseguono scene ispirate al ciclo bretone, di cui sono protagonisti Winlogee e Artus de Bretania (Artú). 1110-1120.

Montesiepi

La spada tuttora conficcata nella roccia, nello splendido eremo romanico-gotico di Montesiepi (XII secolo), nel Senese, evoca l’arma che Artú estrae dall’incudine che la serrava nel cimitero della Cattedrale di Winchester. Quel ferro, in realtà, è connesso con le gesta del nobile, eremita e santo Galgano Guidotti (1148-1152): secondo la leggenda, una notte avrebbe compiuto in sogno un viaggio nell’aldilà, accompagnato dall’arcangelo Michele. Al risveglio, si sarebbe ritrovato in un pozzo e, una volta riemerso, in corrispondenza del colle di Montesiepi, venne accolto dai dodici apostoli, disposti a cerchio in un edificio rotondo, altra similitudine con i romanzi arturiani. In quel frangente gli apparve la scultura del Cristo e da quel momento si convinse a dedicare la propria vita alla religione. Gli apostoli lo invitarono, quindi, a fondare un eremo, e Galgano lo edificò, dopo aver piantato la propria spada nel terreno. TERRE LEGGENDARIE

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L’ISOLA MARTANA

di Luca Pesante

I misteri del lago Situata nella parte meridionale del bacino vulcanico piú grande d’Europa, l’isola Martana raccoglie memorie leggendarie risalenti ai secoli tra la tarda antichità e il primo Medioevo: dal martirio di santa Cristina, avvenuto al tempo dell’imperatore Diocleziano, all’assassinio di Amalasunta, figlia di Teodorico e regina dei Goti…


Sulle due pagine isola Martana (lago di Bolsena, Viterbo). Scale scavate nel tufo che salgono all’altura sulla quale sorgevano la chiesa e il convento di S. Stefano. Sulla destra, un tratto delle mura costruite alla fine del Medioevo con materiali di spoglio. In basso incisione raffigurante Amalasunta, regina gota, figlia di Teodorico. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.

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olti storici sono ormai concordi nel ritenere che i tre giorni in cui la furia dei Goti devastò Roma (nell’agosto del 410) segnino l’inizio del Medioevo. La tribú germanica orientale premeva da circa un secolo sui confini sempre piú deboli dell’impero, ma solo con Alarico riuscí a penetrare nel cuore del potere. La data del 476 passa cosí in secondo piano: in effetti, ciò che avvenne in quell’anno – l’invio a Costantinopoli delle insegne del potere imperiale romano da parte del capo barbarico Odoacre, signore di Roma – non segna grandi trasformazioni rispetto a quanto si era da tempo messo in moto (gli stessi contemporanei se ne accorsero a malapena). Fu invece la storiografia dei secoli seguenti a rivitalizzare tale data, come fece Paolo Diacono alla fine dell’VIII secolo, parlando del 476 come dell’anno fatidico in cui l’impero perse il suo potere. La civiltà medievale trae origine dalle rovine del mondo romano, già in crisi a partire dal III secolo e precipitato definitivamente in seguito alle invasioni barbariche (o migrazione di popoli, a seconda dei punti di vista) del V secolo, che accelerano un


ISOLA MARTANA

La leggenda di Amalasunta Orvieto

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Lago Bagnoregio

di Bolsena

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Isola Martana Montefiascone

Fastello

Tessennano

Lago di Bolsena

Viterbo

processo già in atto. Lo sviluppo demografico, l’attrazione verso territori piú ricchi, il «mito» di Roma, i cambiamenti climatici, ma, soprattutto, la fuga da altri popoli invasori spingono i Goti verso la nostra Penisola. E il mondo medievale è l’esito dello scontro tra cultura romana e cultura barbarica. La città romana perde le sue strutture vitali, i pochi abitanti sono ormai raggruppati all’ombra di qualche grande rovina, molti si spostano nelle campagne che, a causa dello sfaldamento della rete economica, si sono sempre

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TERRE LEGGENDARIE

Sulle due pagine veduta del lago di Bolsena. Sulla sinistra, in primo piano, l’isola Martana; a destra, l’isola Bisentina. A sinistra cartina del territorio bolsenese con l’ubicazione dell’isola Martana. Nella pagina accanto Musei Vaticani, Galleria delle Carte Geografiche. Particolare della mappa della Tuscia, in cui si riconosce il lago di Bolsena, con le sue due isole. 1580-1583.

piú allontanate dal centro urbano. Non si è piú in grado di mantenere le antiche e grandi strade basolate che scompaiono in breve tempo, a favore delle vie fluviali e dei percorsi naturali. Sebbene mossi da un impeto travolgente e distruttivo i Goti, ormai stanziati nel nostro territorio, sanno riconoscere ciò che del vecchio impero può essere loro utile, soprattutto nel campo della cultura e dell’organizzazione politica. Fondamentalmente incapaci di creare, essi riadoperano e riutilizzano, segnando in tal modo un regresso tecnico che privò gran parte del Medioevo di molti «saper fare»: cosí, l’incapacità di estrarre e lavorare la pietra ne fece un’epoca a lungo caratterizzata dall’uso quasi esclusivo del legno. Lo sforzo estetico si concentra nella decorazione; motivo per cui l’oreficeria, gli avori e i mosaici esprimono una raffinatissima forma d’arte «decorativa». In quegli anni, i centri urbani piú importanti fungono da residenze dei re barbarici e vescovi, oppure sono posti lungo le principali vie di pellegrinaggio; per il resto dilagano l’abbandono e la desolazione.

Un’identità in embrione

Tra le radicali trasformazioni e gli incontri/ scontri di civiltà di questi anni, la figura di Amalasunta ci offre un punto di vista privilegiato per la comprensione della fine di un’epoca e il passaggio verso una nuova era. La biografia, i contatti, i luoghi della regina gota sono testimoni della nascita dell’età di Mezzo, e in queste vicende si possono già cogliere le


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ISOLA MARTANA

La leggenda di Amalasunta Ravenna, basilica di S. Vitale. Particolare di uno dei mosaici raffigurante alcuni soldati della guardia imperiale. La morte di Amalasunta rappresentò il pretesto per l’intervento di Giustiniano I in Italia, conclusosi con la riconquista bizantina della Penisola.

VENT’ANNI DI SANGUE: LE GUERRE GOTICHE Vent’anni di guerra (535-553) in Italia opposero i Goti, dilaniati da scontri interni tra chi promuoveva una politica filo-imperiale e chi rifiutava qualsiasi accordo con gli avversari, e l’impero. Nel conflitto intervennero Burgundi, Franchi, Alamanni, provocando vaste distruzioni, carestie, pestilenze con una mortalità altissima tra la popolazione: una interminabile guerra di movimento diffusa in ogni regione. Milano fu distrutta, Roma subí quattro assedi e fu presa e ripresa piú volte dagli uni e dagli altri. I Goti, ormai radicati nelle loro proprietà fondiarie erano in molti casi pronti a qualsiasi compromesso politico con

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TERRE LEGGENDARIE

l’impero pur di mantenere il loro status di possessori armati di terre sul suolo italiano, ma restarono sempre poco inclini al pagamento di quei tributi che dovevano proprio sulla base dei loro beni. Il rifiuto da parte di alcuni senatori romani e di comandanti militari bizantini di qualsiasi forma di compromesso portò allo scontro diretto e violento. La dominazione gota finí rovinosamente, ma ciò non segnò la fine della loro presenza nella Penisola. Gli scampati alla guerra passarono dalla parte dei Bizantini o rimasero in Italia nei loro fondi. In ogni caso, la fine dei Goti aprí la via all’irruzione longobarda.


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In questa confusa situazione la pressione dei Goti avversi ad Amalasunta avrebbe convinto Teodato a far imprigionare la regina in un’isola del lago di Bolsena. Le fonti non concordano sui tempi di tali vicende, né sulle loro modalità. Si può solo affermare che la figlia di Teodorico

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mente onorò le parole del padre con il tentativo di allentare la tensione tra Goti e Romani, restituendo i beni sottratti loro con la forza e impegnandosi a non colpirli piú nelle persone e nei possedimenti. La regina voleva educare il figlio come un principe romano (la corte costantinopolitana rappresentava il piú alto modello culturale dell’epoca), un desiderio che irritò molti capi goti, al punto che, nel 532, nel timore di venire uccisa, Amalasunta chiese a Giustiniano di poter lasciare l’Italia per trasferirsi a Costantinopoli portando con sé un tesoro di quasi tre milioni di soldi d’oro. Nel frattempo, il cugino di Amalasunta, Teodato, amante della cultura e della filosofia platonica, si era costituito un vasto possedimento in Italia centrale tanto da essere chiamato «re [o duca] di Tuscia». Teodorico aveva già visto nel nipote (Teodato era figlio della sorella Amalafrida) un possibile oppositore, e altrettanto temeva la cugina. Perciò, subito dopo la morte del figlio Atalarico, il 2 ottobre 534, Amalasunta, forse nel tentativo di anticiparne le eventuali mosse a lei contrarie, chiamò Teodato accanto a sé per condividere la reggenza del trono.

Solido d’oro con l’effigie dell’imperatore Giustiniano I. Zecca di Costantinopoli, VI sec. Londra, British Museum.

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prime forme dei caratteri originari che segneranno gran parte dell’identità italiana. Le notizie su Amalasunta uniscono leggende e realtà storica. La fonte principale è Procopio di Cesarea, grande storico bizantino autore della Guerra gotica, il libro che narra il conflitto combattutto dal 535 al 553 tra l’imperatore Giustiniano e i Goti (vedi box alla pagina precedente). Scrive Procopio: «In Toscana c’è un lago, detto di Bolsena, all’interno del quale c’è un’isola molto piccola, con una fortezza ben solida. Fu lí che Teodato fece rinchiudere [la cugina] Amalasunta». Le isole in realtà sono due: la Bisentina e la Martana; la seconda è la piú piccola e, dalla dettagliata descrizione contenuta nel poema anonimo che celebra la costruzione di una fortezza da parte di Teodato (vedi box a p. 48), sembra in effetti di poterne riconoscere la forma. La regina, scrive Procopio, «governava il regno, in qualità di tutrice del figlio Atalarico, ricca di prudenza, osservantissima del giusto, d’animo virile». Nel 515 aveva sposato Eutarico dal quale ebbe anche una figlia, Matasunta. Al momento di investire il nipote Atalarico come suo successore, il vecchio re Teodorico, padre di Amalasunta, si sarebbe raccomandato di «onorare il re, amare il senato e il popolo romano e di ricercare sempre la pace e l’amicizia dell’imperatore d’Oriente, dopo quella di Dio». Amalasunta fu dunque reggente del regno dal 526 al 534, per un breve periodo associata a Teodato con il titolo di regina, ed effettiva-

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ISOLA MARTANA

La leggenda di Amalasunta

fu vittima dello scontro di poteri interno al suo stesso popolo. In seguito Giustiniano riconobbe il regime di Teodato, che poté dirsi pienamente legittimato quando, forse il 30 aprile 535, Amalasunta fu uccisa nell’isola del lago da quei Goti parenti di coloro che lei stessa aveva ordinato di uccidere. La morte della regina fu il pretesto per l’intervento di Giustiniano nella Penisola e per tentare di ricomporre le innumerevoli fratture sul suolo italiano, ma ogni sforzo di riappacificazione fu vano se si pensa che proprio in quell’anno ebbe inizio la lunghissima e disastrosa guerra greco-gotica.

Tranquillo, ma avido di ricchezze

Teodato († 536) viene descritto da Cassiodoro come «paziente nelle avversità, moderato nelle prosperità, padrone di sé, erudito nelle lettere non solo profane ma anche ecclesiastiche come pochi altri»; Procopio narra che «di altro non si curava se non di assicurare a se stesso una vita tranquilla, circondandosi di quante piú ricchezze poteva (…) e Amalasunta, sua cugina, si premurava di mandare a vuoto quelle sue bramosie, e perciò quello ce l’aveva sempre con lei ed era mal disposto». Egli era in effetti un avido raccoglitore di ricchezze al punto da ritagliarsi un’enorme proprietà terriera in Italia centro-settentrionale. Non vi sono molte prove materiali a oggi note, ma due testimonianze epigrafiche meritano d’essere citate al riguardo: una fistula aquaria (conduttura per la acque) rinvenuta all’inizio del XX secolo a Roccalvecce, un castello posto tra Bagnoregio e Viterbo, che reca l’iscrizione GLORIOSISSIMUS REX THE-

ODAHADUS; e alcuni frammenti di un’epigrafe in marmo, trovati durante i lavori nella vecchia casa padronale dell’isola Martana, pertinenti ad un’iscrizione sepolcrale in cui sembra leggersi parte di un nome proprio di origine gotica ([…]BIERCO). È molto probabile, dunque, che il sovrano goto abbia promosso varie attività edilizie all’interno dei suoi possedimenti, ivi compresa l’isola del lago di Bolsena. E sembra che, nell’ambito delle intricatissime vicende politiche di quegli anni, a un certo punto della sua vita, egli abbia persino meditato di donare tutti i suoi beni all’imperatore di Bisanzio in cambio di una dignità senatoriale. Ma non fece in tempo a ottenere nulla di ciò che desiderava, giacché, appena un anno dopo aver fatto uccidere la cugina, morí sgozzato mentre fuggiva da Roma verso Ravenna. Papa Pasquale I fu priore, prima di salire al soglio pontificio, del monastero di S. Stefano dell’isola Martana. Alla sua morte, nell’824, sappiamo da una bolla di papa Leone IX del 1053 che nell’isola c’erano due chiese: S. Stefano e S. Valentino, circondate da abitazioni per i monaci e peschiere per l’allevamento dei pesci. Già dall’anno 741 sull’isola erano giunte le reliquie di santa Maria Maddalena, per merito di Gherardo, conte di Borgogna, che le portò via dalla Provenza per salvarle dalle incursioni saracene. Nel 1462 papa Pio II Piccolomini (vedi box alle pp. 50-52) racconta che, durante una sua gita sull’isola, poté venerare e baciare le sacre reliquie della santa «scoperte recentemente non senza fama di miracolo» nella chiesa posta sull’altura.

Nella pagina accanto, in alto isola Martana. I resti della torre del monastero di S. Stefano. Nella pagina accanto, in basso incisione raffigurante Martino IV (1281-1285), papa che Dante colloca nel girone dei golosi, per essere stato un grande estimatore delle anguille del lago di Bolsena.

DA TERRA AVARA A TERRA PROMESSA In un manoscritto del XII secolo conservato nella Bodleian Library di Oxford, subito dopo una copia delle Elegie di Massimiano, si trovano varie poesie in latino, alcune delle quali narrano di una fortezza fatta erigere sull’isola Martana, intorno al 534, dal re ostrogoto Teodato, il sovrano presso il quale, con ogni probabilità, viveva l’autore stesso dei carmi. Ne riportiamo, qui di seguito alcuni, brani: «Qui non c’è bisogno di usare le armi per difendersi: le armi cedono di fronte ad un tale luogo, al posto dei soldati le rupi stesse combattono. Gli scogli fortificati con torri, le fortificazioni appoggiate alla mole dei muri, le onde minacciose, le ripe scoscese da ogni parte, i sentieri che, quando ci si cammina, sembrano quasi prossimi a precipitare nel lago data la rovinosa pendenza, vi assicurano una vita tranquilla e senza pericoli. Tutto è stato opera del solerte Teodato, che perlustrando questi lidi aveva osservato questo scoglio dall’arido suolo

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TERRE LEGGENDARIE

e dagli scoscesi dirupi. Aveva detto: sei una terra aspra che non produci alcun germe di vita. Meglio cosí! Sei proprio adatta ad accogliere depositi di viveri e a nascondere i miei tesori! Sopra gli scogli sorsero allora le mura, quasi una decorazione di quell’altezza che, mentre prima incuteva timore, assunse ora uno spettacolo di grande decoro. Vi incominciarono a crescere svariati alberi da frutto e vi vennero custoditi ostaggi preziosi: da terra avara, in poco tempo divenne una terra promessa. Da cosa tanto vile, si trasformò in luogo di tanto valore, anche perché dava salvezza, rifugio e vita gradita a quanti vi si rifugiarono. Solo Teodato fu capace di costruire dei locali cosí splendidi e di cosí varia bellezza, da unire l’amenità della campagna ai luoghi della città. Vi si possono ammirare, infatti, al di là dei tetti, le selve e le acque, e si può godere contemporaneamente di tutti i conforti della vita cittadina» (traduzione di Alfredo Tarquini).


MARTINO, PAPA GOLOSO Già in età antica si parla della pesca nel lago di Bolsena: intorno al II secolo d.C. i Romani tentarono un esperimento di piscicoltura qui e nelle acque di Bracciano e Vico, dove furono introdotti il luccio e i pesci «dorati», provenienti da acque marine. Ma il «prodotto» piú celebre delle acque bolsenesi è l’anguilla. Tutto il bacino lacustre ne è popolato, ma i pescatori erano soliti catturarle soprattutto nel «lago di Marta», quando, nel tentativo di giungere al mare, le anguille entravano nell’unico emissario del lago, il fiume Marta. Fu cosí costruita una «cannara» sul fiume, protetta da una torre, cioè una struttura che permetteva all’acqua il regolare suo corso, ma intrappolava le anguille mediante grate di ferro, prima forse costituite da canne intrecciate (di qui il nome «cannara»). Lungo il letto dello stesso fiume alcune vasche contenevano le anguille vive per mesi e ne facilitavano la cattura. La custodia della cannara di Marta era considerata cosí importante che, nel 1370, il papa ne affida la cura al vescovo di Montefiascone. Scrive Dante a proposito di papa Martino IV nella Divina

Commedia: «Ebbe la Santa Chiesa in le sue braccia: / dal Torso fu, e purga per digiuno / le anguille di Bolsena e la vernaccia» (Purgatorio, canto XXIV). Eletto nel conclave di Viterbo del febbraio del 1281, questo papa francese è in effetti passato alla storia piú per la sua ossessione per la carne delle anguille del lago che per particolari meriti nel governo della Chiesa. E due sono le probabili ricette impiegate dai cucinieri pontifici per preparare le anguille: la prima, ancora oggi in uso, prevede la cottura del pesce arrostito sulla brace e poi servito accompagnato con la vernaccia (cioè il vino vernacolo di Marta, forse la Cannaiola); oppure venivano cotte nel vino e poi condite con zafferano e altre spezie.

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ISOLA MARTANA

La leggenda di Amalasunta

Alla metà dell’XI secolo sembra che la popolazione dell’isola fosse cresciuta fino a raggiungere l’entità di una piccola comunità e al punto da divenire, di lí a poco, un libero Comune. Ne esiste ancora uno splendido sigillo, databile al XIV secolo, oggi conservato a Firenze nel Museo del Bargello: vi sono effigiati santo Stefano accanto a santa Maria Maddalena, inginocchiata su uno scoglio al di sotto di un’edicola, e in basso un grande pesce (forse un luccio). E probabilmente proprio per pregare davanti alle preziose reliquie della Maddalena il re d’Irlanda Donnchad Mac Briain soggiornò sulla Martana per qualche mese prima di proseguire il pellegrinaggio verso Roma, dove morirà nel 1064.

UNA GIORNATA IN RIVA AL LAGO Dopo aver celebrato la festa del Corpus Domini a Viterbo (17 giugno 1462), papa Pio II Piccolomini, diretto verso nord, giunse sulle rive del lago di Bolsena. Si fermò per alcuni giorni nella rocca di Capodimonte con un piccolo seguito. Racconta nei suoi Commentari, parlando di sé in terza persona: «Quando aveva tempo libero, fattosi portare per i boschi vicini ne aspirava le dolci brezze; esplorò

tradimento dalla mano empia dei suoi. L’isola piú grande è chiamata Bisentina dal borgo di Bisenzio di cui si vedono le rovine sul monte vicino. L’abitano i frati Minori i quali per il fatto che ritengono di osservare la loro regola, si chiamano Osservanti. E invero sono religiosi esemplari, ricchi nella loro povertà e astinenza, se non ingannano se stessi piú che gli altri (...). L’altra isola, che è la minore, è

Isola Bisentina. La chiesa di S. Caterina (detta la Rocchina), commissionata ad Antonio da Sangallo il Giovane dal cardinale Alessandro Farnese. Nella pagina accanto Duomo di Siena, Libreria Piccolomini. Particolare di uno degli affreschi del Pinturicchio in cui compare papa Pio II (al secolo Enea Silvio Piccolomini). Primo decennio del XVI sec.

In prigione per la fede

L’isola è in qualche modo all’origine anche del culto ancora oggi piú importante di tutto il bacino lacustre. Verso la fine del III secolo, al tempo di Diocleziano, alcune fonti indicano la Martana come il luogo in cui santa Cristina sarebbe stata imprigionata dal padre Urbano all’interno di una torre-fortezza. Convertitasi alla nuova fede cristiana, la giovane fu sottoposta dal genitore, in quegli anni prefetto della città, a tormenti e minacce, affinché tornasse all’antica religione. In realtà non esistono prove storiche o archeologiche che possano sostenere tale ricostruzione, tuttavia il luogo del culto della santa nacque già in età paleocristiana accanto alla basilica di Bolsena che ne porta ancora il nome, nono50

TERRE LEGGENDARIE

le immediate vicinanze, spostandosi un po’ per terra un po’ sul lago». Con la curiosità e l’attenzione di un geografo e di un antropologo, Pio II annota la vita che lo circonda: «Sul lago ci sono due isole degne di menzione e sulle quali sorgevano un tempo numerosi edifici. Rimangono ancora i resti di antiche macerie. Si sa che le autorità del luogo se ne servirono come di prigione, sappiamo difatti che ci furono relegate la vergine Cristina e Amalasunta, la nobilissima regina dei Goti, che fu poi uccisa a

abitata dai frati di Sant’Agostino, chiamati gli Eremiti; anche di questa la parte in piano è coltivata a orto, l’altra è aspra e elevata su un alto scoglio, di difficile accesso. Vi sono due chiese antiche e venerabili, quella nel piano è piú grande ed è circondata dalle celle dei monaci e da novelle piantagioni di alberi e viti. Sulla cima dell’altura sorge l’altra, nella quale furono scoperte recentemente, non senza fama di miracolo, le ossa di Santa Maddalena che con le sue lacrime lavò i sacri piedi del


Signore e li asciugò con i capelli per cui vi accorre una gran folla di fedeli (...). Il Pontefice, accostatosi all’isola, le navigò attorno. Assisté alla Santa Messa nella chiesa superiore, poi esaminò le sacre ossa che venerò e baciò. Vi avevano già cominciato a costruire le abitazioni dei monaci col valido aiuto del vescovo di Corneto, per il cui zelo erano stati introdotti appunto i religiosi; e l’isola che fino ad allora era rimasta deserta cominciava di nuovo ad essere abitata. Il Pontefice insieme a due cardinali fece colazione col vescovo... Il Pontefice avendo deciso di celebrare la nascita di San Giovanni precursore di Nostro Signore (24 giugno 1462), nella cappella dei Minori dell’isola Bisentina, ordinò che si annunciasse l’indulgenza plenaria a tutti i fedeli che vi avrebbero assistito. Gabriele Farnese, il signore del luogo, per un maggior afflusso di persone propose dei premi per coloro che avessero partecipato ad una regata. (...) Nell’ora stabilita fu celebrata la Santa Messa con devota pietà. Quindi fu imbandita sui prati, all’ombra dei pioppi, una colazione che i monaci avevano preparato con l’elemosina raccolta molti giorni prima dai borghi intorno. (...) Finito il pranzo si presentarono i capitani delle barche che intendevano partecipare alla corsa e i rematori, giovani robustissimi. Fra le tante furono scelte cinque barche. La prima era stata allestita dai Volsiniesi, vanagloriosi, boriosi, sicurissimi di avere la palma della vittoria, la seconda era dei Clarentani [di Valentano], la terza dei famigli del Cornetano [di Tarquinia], la quarta di coloro che abitano le grotte di San Lorenzo, la quinta dei Martani. (...) Il punto di partenza della corsa fu stabilito presso Capodimonte, la mèta era il porto dell’isola e qui disposero i premi da distribuire ai vincitori: otto braccia di ottimo panno scarlatto

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ISOLA MARTANA fiorentino per il vincitore e altri oggetti per quelli che sarebbero arrivati subito dopo. Le barche (non piú grandi di un canotto) ebbero, secondo l’accordo avvenuto, ciascuno quattro rematori e un pilota. Quando giunsero alla riva di Capodimonte tirarono a sorte il posto da dove avrebbero preso l’abbrivio come i cavalli dalle barre (...). Appena la tromba dà il segnale, di colpo balzano fuori dai loro limiti e un rauco suono riempie l’aria, spumeggia l’onda agitata dalla spinta delle braccia vigorose, fendono l’acqua in solchi paralleli e lacerate dai remi e dai rostri si aprono le onde del lago. Una flottiglia di barche li segue da vicino piene di spettatori, tifosi che con urla o applausi incitano questi o quelli, riempiendo i luoghi dei loro strepiti. Risuonano le selve dei monti vicini, i litorali si rimandano le voci e riecheggiano i colli. Prima, da quella calca confusa e schiamazzante, fugge la barca di Bolsena e sorpassa le altre di tutta la sua lunghezza, da presso la seguono la Cornetana e la Martana, a poca distanza

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La leggenda di Amalasunta le altre due. Sebbene il Pontefice si trovasse lontano dal porto in un luogo appartato a parlare di questioni di Stato con i cardinali, tuttavia guardò la gara delle barche e la corsa non senza diletto e sollievo dell’animo. I Martani raggiunsero il porto molto prima degli altri e ottennero il premio del vincitore, il secondo premio toccò ai Clarentani, i Volsiniesi rimasero gli ultimi e temendo le invettive di Guicciardo e il generale vituperio, deviarono dal porto; i Grottani divisero con loro lo smacco; i Cornetani se ne stettero in mezzo sospesi fra la gloria e l’ignominia. Terminata la gara tutti partirono, sebbene sorgesse un gran vento che sconvolse la superficie del lago e portò una non piccola tempesta».

Uno scorcio di Bolsena (Viterbo), centro principale sul lago omonimo. In secondo piano si riconosce la Rocca Monaldeschi della Cervara.


stante il corpo di Cristina fosse probabilmente rimasto nascosto proprio sull’isola Martana, al riparo dalle prime incursioni di Goti e Longobardi fino al 1084, quando la contessa Matilde di Canossa e papa Gregorio VII lo trasferirono di nuovo nell’antica chiesa bolsenese. È in ogni caso interessante rilevare che piú d’una fonte medievale definisce il lago «di Santa Cristina». Certa è, d’altronde, la frequentazione della Martana in età romana: ne sono prova frammenti di colonne e conci modanati in pietra lavica riutilizzati nelle murature medievali e moderne.

Sul carroccio dei Viterbesi

All’indomani del Mille, l’isola sembra essere fonte inesauribile di scoperte meravigliose: secondo le cronache viterbesi, nel 1095, le milizie di Viterbo dopo averla conquistata, trovarono al suo interno un altare portatile che un antico cronista dice essere stato trasferito dai Goti dalla città di Ravenna. I Viterbesi erano soliti portarlo in guerra sul loro carroccio (il carro trainato da buoi che soprattutto in Italia settentrionale e in Toscana recava le insegne cittadine e intorno al quale combattevano le milizie dei Comuni). Narra un altro cronista, Niccolò della Tuccia, che «esso aveva in sé una virtú: in ogni loco dove lo portavano sempre erano vincitori delle guerre e sottomisero assai castelli d’intorno», ed era pertanto tenuto come una delle sei nobiltà di Viterbo (le altre erano: la propria libertà comunale, una giovane di straordinaria avvenenza di nome Galiana, una donna di nome Anna dai capelli rossi e verdi, un cavallo famoso in tutta Italia per la sua bellezza, uno scolaro di nome Frisigello che faceva operazioni e giochi meravigliosi). L’altare fu poi donato dai Viterbesi a papa Innocenzo III (1161-1216), il quale, a sua volta, ne fece dono all’imperatore Enrico VI di Svevia, e sembra che da quel momento per Viterbo abbia avuto inizio una lunga serie di sconfitte. Negli anni successivi l’isola appare contesa tra Viterbesi, Orvietani e alcuni signori del territorio alla ricerca di nuovi beni da annettere ai propri possedimenti. Nel 1254 uomini della Martana firmano un atto con il quale si mettevano sotto il protettorato di Viterbo; l’anno successivo l’isola fu occupata da Giacomo Nicola e Tancredi di Bisenzo (un importante insediamento fortificato sulle rive meridionali del lago); gli stessi signori fecero, nel 1259, atto di sottomissione a Orvieto. Ancora nel 1262 papa Urbano IV inviò i soldati a riprendere l’isola e TERRE LEGGENDARIE

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ISOLA MARTANA

La leggenda di Amalasunta

CACCIA AL TESORO Ancora oggi esistono vive testimonianze della cultura popolare sulla figura di Amalasunta, la regina legata ai luoghi di Marta e, in particolare, all’isola Martana. Si narra, per esempio, che avesse fatto fare un calice da regalare alla Madonna del Monte di Marta, e che, durante la processione, fosse lei stessa Amalasunta a «buttare il fiore di maggio». Per prendere il calice, la regina mandò a Roma un pescatore, del quale si innamorò, e Tomao, regnante che viveva con lei, la fece uccidere «per gelosia», strangolata «dietro l’isola», mentre faceva il bagno. Infatti, nei giorni di prigionia, Amalasunta, cercando un po’ di sollievo dalla calura estiva, era solita percorrere una galleria scavata nel tufo, che dalla sommità dell’altura scendeva fino alla costa verso Bolsena, per bagnarsi nelle acque del lago. Altre versioni della leggenda narrano che la regina fu

Veduta di Marta, cittadina che sorge sulla sponda meridionale del lago di Bolsena. In basso replica di una testa femminile tradizionalmente identificata con Amalasunta (piú di recente è prevalsa l’ipotesi che possa trattarsi di Ariadne, imperatrice bizantina moglie di Zenone e Anastasio I). VI sec. Roma, Museo della Civiltà Romana.

rinchiusa in quel lungo canale sotterraneo, ancora oggi percorribile. Nelle leggende ricorrono anche un tesoro e una carrozza d’oro. Quest’ultima sarebbe stata deposta nella sepoltura di Amalasunta, che si troverebbe in uno dei sette colli di fronte all’isola: «Piú di un tombarolo – raccontavano alcuni pescatori fino a qualche anno fa – è riuscito ad avvicinarsi alla tomba, ma ha trovato trappole e serpenti che la difendevano». Forte, forse, di qualche fondamento storico, è la notizia riportata da Gaetano Moroni nel suo Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica: «La regina Amalasunta ritiratasi o piuttosto rilegata dal perfido sposo e cugino Teodato nell’isola Martana, vi portò una cassetta di ss. Reliquie, che alla violenta sua morte restò al monastero di monache da lei fabbricato, e contenente: una mascella e 5 denti di San Biagio, un pezzo d’osso del cranio di Santa Marta coperto d’argento, 3 denti di Santa Maria Maddalena colla catena cui si legava e disciplinava, un sasso col quale fu lapidato Santo Stefano, un pezzo d’osso del cubito fino alla mano del braccio di San Giovanni Battista, e un dito della mano (…), e inoltre 3 carboni del fuoco col quale l’empio Giuliano l’Apostata fece bruciare il corpo del S. Precursore (…), le quali tutte trovate da’ Martani nell’isola religiosamente le portarono nella loro chiesa principale [la collegiata di Marta] ove le venerano».

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TERRE LEGGENDARIE


sciolse gli abitanti dagli impegni presi con i signori di Bisenzo e con Orvieto. Nel 1296 Bonifacio VIII, in una bolla firmata il 4 settembre, riconobbe a Orvieto alcuni diritti sull’isola Martana e sull’isola Bisentina e l’obbligo che queste avevano di fornire armati al Comune orvietano. Nel 1323 sono annotate alcune spese per riparazioni fatte al castello dell’isola, ormai abbandonato dai benedettini, a carico della Camera Apostolica. Nel 1351 il rettore del Patrimonio fece fortificare l’isola Martana e l’isola Bisentina per salvarle delle mire di Giovanni di Vico (un rampante ghibellino, già prefetto di Roma) che aveva appena occupato Marta.

Il declino e l’abbandono

Nel XV secolo l’isola passò ai Farnese, in piena ascesa economica e politica, padroni di Marta e Capodimonte, che nel 1537 la inglobarono nel ducato di Castro. Tuttavia, i duchi di Castro preferirono come loro residenza abituale sul lago di Bolsena l’isola Bisentina e, nel XVI secolo, iniziò il declino della Martana, con il suo progressivo abbandono: nel 1511 gli Agostiniani lasciarono definitivamente il monastero di S. Maria Maddalena, e con loro alcuni famigli.

La situazione dell’isola fu fotografata cosí, intorno al 1630, in una relazione commissionata dai Farnese a Benedetto Zucchi: «Quest’isola è dentro il lago, di rincontro a Marta, lontano poco piú di un miglio, dove è parimente un convento di San Francesco di Paola con sempre 3 o 4 frati non solo di molta soddisfazione alla Terra, ma de’ forestieri che per barca vanno a vedere quest’isola nella quale vi è una vigna, un alboreto e frutti. Vi fanno l’orto e vi raccolgono legumi e altre robbe per il servizio del Convento loro. Inoltre la Camera Serenissima dà a detti Frati di elemosina per loro sostentamento ogni anno scudi 100. Vi hanno una barca per venire a terra. Alla loro porta vi è una pesca di lattarini che a suo tempo la vendono ai pescatori martani, e tengono ancora loro le reti per pescare da loro stessi, non mangiando quella Religione mai carne. Vi è nel basso fondato un Convento e la Chiesa sotto il titolo di Santa Maria Maddalena. Del resto, levati la vigna, l’alboreto e l’orto, dall’alto dell’isola è tutto scoglio». Qualche anno dopo, nel 1651, la chiesa di S. Stefano appare completamente diruta, mentre quella della Maddalena era divenuta la sede della parrocchia. In tutta l’isola Martana si contavano due sacerdoti e un oblato, i quali, poco dopo, se ne andranno per sempre. TERRE LEGGENDARIE

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PURGATORIO DI SAN PATRIZIO

Viaggio alle porte dell’Inferno

di Francesco Colotta

Una basilica eretta al centro di un lago segnala la presenza del piú antico luogo di pellegrinaggio d’Irlanda. Ancora oggi, a 1500 anni dalla sua fondazione, il santuario è visitato da migliaia di fedeli. Ma non tutti, forse, sono consapevoli del mistero nascosto sotto quell’imponente edificio…

Miniature raffiguranti Satana e i demoni che tormentano i dannati (a sinistra) e il cavaliere francese Lodovico di Auxerre (detto anche di Sur) che assiste alla punizione dei dannati (a destra), da un’edizione del Viaggio di Lodovico di Auxerre al Purgatorio di San Patrizio. Prima metà del XV sec. Venezia, Biblioteca del Museo Correr.

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IRLANDA

Purgatorio di San Patrizio

Riproduzione moderna di una miniatura raffigurante san Patrizio che apre il suo Purgatorio. La collocazione in Irlanda del luogo di transito dei trapassati nasce da una presunta rivelazione di Cristo al santo irlandese.

U

n misterioso itinerario di pellegrinaggio conduceva nel Medioevo verso un’isola sperduta del lago Lough Derg, in Irlanda. Lo compivano in tanti – cavalieri, notabili, comuni fedeli –, malgrado la pericolosità che il viaggio in quel versante nordico comportava. Secondo la leggenda, la destinazione finale era un luogo sotterraneo, in prossimità dell’Inferno, dove alcuni dannati scontavano pene terribili con la prospettiva di conquistare il perdono. Anche i vivi, attraversando quei «gironi» di sofferenza, avrebbero potuto ottenere la remissione di tutti i peccati, qualora non si fossero macchiati di colpe molto gravi. Ma perché si arrivò a credere che una delle porte dell’Aldilà si trovasse in latitudini cosí fredde e impervie? Tutto cominciò nel V secolo, al tempo del santo irlandese Patrizio: un giorno,

Cristo gli avrebbe indicato una caverna, dalla quale si poteva accedere al regno dell’oltretomba. La rivelazione del Messia rivestiva una precisa finalità evangelizzatrice: nelle profondità di quell’antro, chi dubitava della fede avrebbe potuto appurare in prima persona quanto atroci fossero le sofferenze per le anime dei peccatori.

Nascita di un mito

Nacque cosí il mito del Purgatorio di san Patrizio, destinato a divenire un topos letterario e, soprattutto, una delle prime formulazioni articolate della teoria tripartita dell’Aldilà: i condannati all’Inferno, compiendo un cammino di redenzione, potevano accedere alle porte del Paradiso. La tesi un po’ vaga sull’esistenza di un percorso riabilitativo dell’anima, elaborata in tempi piú antichi negli Atti di Paolo e Tecla (II

IL SANTO CHE

SCACCIA I SERPENTI Il futuro patrono irlandese aveva origini scozzesi. Nato nel 385, venne rapito dai pirati e trascorse la sua adolescenza in una regione dell’odierna Irlanda del Nord, lavorando come pastore. Espresse, ancora giovane, una religiosità precoce, ma in ambienti pagani, e partecipò a riti druidici. Ribellatosi ai suoi padroni, fuggí percorrendo a piedi oltre 180 miglia e, giunto sulla costa, si imbarcò su una nave che aveva come destinazione l’Inghilterra. Rientrato in famiglia, un giorno udí una voce che lo invitava a recarsi di nuovo in Irlanda per convertire gli abitanti al cristianesimo. Decise prima di compiere un viaggio di istruzione religiosa, in Gallia, soggiornando a lungo nel monastero di Auxerre. Nel 432 sbarcò nuovamente in Irlanda e divenne vescovo di Armagh. La sua opera di evangelizzazione fu rispettosa degli antichi culti pagani, che Patrizio, sapientemente, riuscí a armonizzare con la religione cristiana. Prima di morire, compí un lungo pellegrinaggio che lo condusse a Roma. Al patrono d’Irlanda sono legate diverse leggende, oltre a quella del

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secolo) e da Agostino d’Ippona (354-430), aveva trovato, pertanto, una sua forma compiuta, anche lessicale. Solo a partire dal XII secolo, infatti, il termine Purgatorium cominciò a circolare con una certa insistenza nel linguaggio comune, proprio in riferimento al percorso sotterraneo irlandese. La prospettiva di concedere un’occasione di riscatto ai peccatori, attraverso una transizione punitiva nella dimora ultraterrena, non trovava opposizioni all’interno della Chiesa, malgrado l’assunto fosse sprovvisto di un preciso riferimento biblico. Anzi, il principio venne accettato favorevolmente come un naturale segno dei tempi, nell’ottica di una maggiore apertura teologica nei riguardi di una società in rapido mutamento, che vedeva crescere d’importanza le ambizioni individuali.

Purgatorio. È diffusa la credenza che il santo, gettando una campana dalla sommità della montagna sacra (Croagh Patrick) sulle acque della Baia di Clew, riuscí a far scomparire tutti i serpenti. Dopo quel prodigio si sarebbero formate le isole che oggi caratterizzano la fisionomia geografica irlandese. Si narra, inoltre, che Patrizio abbia convertito alcune genti di religione celtica, servendosi di un trifoglio per spiegare il concetto di trinità. La sua ricorrenza si celebra il 17 marzo.

Il reliquiario in bronzo, oro, argento e pietre preziose che custodisce la campana che, secondo la tradizione, sarebbe appartenuta a san Patrizio. VIII-IX sec. (la campana), 1100 circa (il reliquiario). Dublino, National Museum of Ireland.

Il sottosuolo della Station Island era considerato sacro fin dai tempi pagani, in quanto dimora dei maghi Tuatha


IRLANDA Lough Derg, Station Island. Statua moderna che ritrae san Patrizio nelle vesti di pellegrino.

Purgatorio di San Patrizio IN GINOCCHIO DAVANTI ALLE ANTICHE CELLE Molti fedeli accorrono ancora oggi sul sito del Purgatorio di San Patrizio, nella contea di Donegal. Tra il 1° giugno e il 15 agosto sbarcano sull’isola del Lough Derg, che rappresenta il piú antico luogo di pellegrinaggio d’Irlanda. Sulla Station Island non c’è piú l’edificio sotterraneo descritto dalla leggenda, ma al suo posto sorge una splendida basilica (dedicata a san Patrizio), insieme a uno sparuto gruppo di case in pietra grigia. I pellegrini, per lo piú giovani, rimangono nel santuario per ben tre giorni, a piedi scalzi e osservano il digiuno. Come nei racconti medievali, anch’essi vegliano per 24 ore, ma senza avventurarsi nelle profondità della terra. I fedeli svolgono una parte dei loro impegnativi riti penitenziali in ginocchio, davanti alle antiche rovine di alcune celle monastiche sulle quali sono piantate sei croci. All’interno della chiesa, invece, trascorrono la veglia notturna.

L’espressione Purgatorio, legata al nome di san Patrizio, comparve per la prima volta in una biografia sul patrono d’Irlanda, curata da Jocelyn di Furness nel 1180-83. Nell’opera, tuttavia, la terra di transito degli spiriti non era collocata nel sottosuolo, ma sul sacro monte Croagh Patrick, nella contea di Mayo. Una descrizione piú dettagliata della leggenda fu, in seguito, resa dallo storico gallese Giraldus Cambrensis nella Topographia Hibernica, pubblicata nel 1188. Si tratta di un’importante testimonianza che lo scrittore riporta, narrando le impressioni di viaggio in terra irlandese, nel periodo in cui era al servizio di Giovanni Senzaterra, futuro sovrano d’Inghilterra. Da cultore delle usanze locali, lo storico rimase colpito in particolare dai racconti circa una misteriosa cavità che consentiva di accedere al mondo dei morti, tanto da operare successive integrazioni sul tema.

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In base alle narrazioni di Giraldus l’entrata del Purgatorio si trovava nella parte piú oscura e selvaggia della citata isola del Lough Derg, mentre sul versante ameno del suo territorio sorgeva una chiesa abitata da un gruppo di canonici. Nel testo, inoltre, si parla di ben nove fosse, solo alcune delle quali davano accesso all’Aldilà: «Se qualcuno intende passare la notte in una di queste – scrisse il cronista gallese – (cosa che sappiamo per certo essere stata fatta talvolta da persone temerarie) immediatamente viene ghermito dagli spiriti maligni ed è tormentato per tutta la notte con pene tanto gravose, incessantemente afflitto da tante, tanto grandi e tanto indicibili torture di fuoco, d’acqua e di vari generi, che al mattino a mala pena si reperiscono nel suo misero corpo le minime tracce di spirito vitale». Sopravvivendo a questa sorta di martirio, chiunque «non subirà piú le pene infernali».

Un ingresso nel regno dei morti

Secondo altre fonti, le nove fosse citate da Giraldus Cambrensis sarebbero state, in realtà, antiche celle di meditazione dei monaci. A ogni modo, non veniva escluso che una di quelle cavità potesse fungere come ingresso nel regno dei morti. Nelle varie testimonianze l’immagine del Purgatorio assumeva quasi sempre una fisionomia infernale, rivelandosi ben distante dalla luminosa terra di transito immaginata da Dante Alighieri, il quale la raffigurò come una scala tesa verso il Paradiso. I racconti sui viaggi nel mondo dell’oltretomba proliferarono soprattutto in ambiente monastico, nonostante la loro antica matrice letteraria

Oceano Atlantico REGNO UNITO Irlanda del Nord

Donegal

Clifden

Lough Derg

Dublino Nenagh Kilkenny

Dingle Cork

Mare Celtico

In alto, a sinistra cartina dell’Irlanda con la localizzazione del Lough Derg. A destra la caverna del Purgatorio e le strutture penitenziali in una mappa seicentesca della Station Island. In basso, sulle due pagine la Station Island con la basilica sorta nel luogo del leggendario edificio sotterraneo.

fosse perlopiú pagana. Elementi di cultura folclorica, intrisi di leggende e reinterpretati in chiave cristiana, ebbero grande diffusione anche in virtú del fatto che i religiosi non detenevano piú il monopolio della scrittura. Con il passare degli anni fiorí una vera e propria letteratura sull’argomento e, in seguito al moltiplicarsi delle versioni narrative, le coordinate della porta di ingresso della regione ultraterrena divennero sempre piú precise. Delle numerose isole presenti nel Lough Derg, due vennero indicate come probabili sedi del passaggio sotterraneo: la Saint’s Island e la Station Island, con una netta preferenza per la seconda. In quel sito, accanto a una cappella, si provvide a costruire un edificio sotterraneo che avrebbe dovuto accogliere i pellegrini nel loro viaggio negli inferi. Il sottosuolo della Station

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IRLANDA

Purgatorio di San Patrizio

Island era, comunque, considerato sacro fin dai tempi pagani, perché ritenuto residenza dei potenti maghi Tuatha (leggendario popolo della tradizione celtica d’Irlanda, n.d.r.). Alcune testimonianze riferirono che sull’isola prestava servizio un canonico addetto al trasporto via mare dei pellegrini, attraverso una rudimentale imbarcazione composta da un semplice tronco d’albero scavato. L’opera medievale che fornisce maggiori particolari sul Purgatorio irlandese è il resoconto del monaco cistercense Enrico di Saltrey (vissuto nel XII secolo), rielaborato in forma letteraria nel Tractatus de Purgatorio Sancti Patricii e dagli storici Matteo Paris e Maria di Francia. Lo stesso racconto del religioso, però, sarebbe il riadattamento di una piú antica testimonianza resa da un cavaliere di nome Owein a un altro monaco, Gilberto. Le numerose stratificazioni evidenziarono gli accenti romanzati della narrazione, risentendo dell’influsso di un certa letteratura 62

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visionaria di impatto dichiaratamente divulgativo. Il resoconto risalirebbe a un arco di tempo compreso tra il 1135 e il 1154, in un periodo in cui le visite al sottosuolo dell’isola risultavano una prassi ormai consolidata. Il cavaliere Owein si era avventurato nell’eremo, in cerca di un radicale e rapido processo di espiazione dei propri peccati. Aveva optato per la soluzione piú estrema, nonostante il parere contrario del suo confessore, che riteneva troppo temerario quell’atto di penitenza. Giunto a destinazione, venne scoraggiato a compiere l’impresa anche dai monaci del luogo, ma non volle desistere.

Due settimane di digiuni e preghiere

Owein dovette sottoporsi a un rituale preparatorio prima di accedere al sotterraneo: un ritiro monastico di purificazione, scandito solo da digiuni e preghiere, della durata di quindici giorni. Esaurita la fase propedeutica il cavaliere si avviò all’accesso della caverna, seguito da una proces-


Todi, monastero di S. Francesco. La redenzione delle anime in Purgatorio, in un affresco attribuito a Iacopo di Mino del Pellicciaio. 1346. Il dipinto mostra l’uscita delle anime dal Purgatorio e il loro passaggio al Paradiso per il tramite della Vergine Maria e di san Filippo Benizi. Il Purgatorio è una montagna nella quale si scorgono sette caverne, sulla cui cima c’è un pozzo, accanto al quale compaiono san Patrizio e un cavaliere di nome Nicolaus.

sione. Poco dopo sentí chiudere la porta alle sue spalle. Proseguí nel buio e, dopo qualche metro, notò davanti a sé un leggero chiarore che proveniva da una costruzione di forma simile a quella di un chiostro. All’interno trovò quindici monaci vestiti di bianco, l’ultimo contatto umano prima di entrare nell’Aldilà. Dai religiosi ricevette ammonimenti riguardo alle orribili scene a cui avrebbe assistito proseguendo nel suo itinerario penitenziale. Solo con una fede salda e con frequenti preghiere sarebbe scampato agli attacchi dei demoni lungo il tragitto.

Torture agghiaccianti

Appena congedatosi dai monaci, Owein fu aggredito da un gruppo di diavoli, che lo trascinarono tra i gironi dei dannati, alle soglie dell’Inferno. Anche il cavaliere avvertí sulla propria pelle tutti i tormenti inflitti a quei peccatori e provava sollievo dalle sofferenze solo invocando Cristo. Le torture a cui assisteva erano ag-

ghiaccianti: vide corpi inchiodati a terra che divenivano pasto per belve feroci e altri, invece, arrostiti in spiedi e immersi in metalli fusi. Grazie alle preghiere, l’ospite sfuggí al martirio a cui stava per essere sottoposto nei locali di un edificio fumante, che aveva le sembianze di uno stabilimento termale. All’improvviso, poi, si ritrovò sulla cima di un monte, ma le violentissime raffiche di vento lo fecero precipitare in un fiume gelido. Riuscí anche questa volta a salvarsi e mostrò lo stesso irriducibile spirito di sopravvivenza all’interno di un pozzo in fiamme. Dovette infine affrontare la prova piú impegnativa, l’ultima: oltrepassare un ponte pericolante e sottile, sospeso su un abisso affollato di demoni. Lentamente lo attraversò e verso la fine del percorso intravide in lontananza le mura del Paradiso Terrestre. Giunse, quindi, all’entrata, al cospetto di un gigantesco portone decorato di gemme che, subito dopo, si aprí. Lo accolsero due arciveTERRE LEGGENDARIE

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IRLANDA

Purgatorio di San Patrizio

UN POZZO... DI RICCHEZZA Anche in Italia esiste un’antica cavità che porta il nome di San Patrizio. Si trova a Orvieto ed è una delle piú ingegnose opere idrauliche del Rinascimento. L’enorme pozzo, concepito nel Cinquecento per volere di papa Clemente VII, assicurava alla città l’approvvigionamento d’acqua anche in caso di lunghi assedi. Inizialmente chiamato pozzo della Rocca, per la vicinanza al locale castello Albornoz, assunse nel Settecento il nome del patrono d’Irlanda per una contiguità solo «strutturale» con la caverna della Station Island. La cisterna orvietana ha una forma cilindrica, una profondità di 53 m e un diametro di 13. L’espressione «pozzo di San Patrizio» ha assunto nel tempo il significato di ricchezza inesauribile, probabilmente in riferimento alle enormi riserve d’acqua che l’opera ha garantito alla città umbra.

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Orvieto, il pozzo di San Patrizio. Si tratta di una grande cisterna per l’acqua con due scalinate a doppia elica, costruita nel Cinquecento da Antonio da Sangallo il Giovane su incarico di papa Clemente VII e «intitolata» al santo solo nel Settecento.

scovi, che gli svelarono il significato di quanto aveva visto fino a quel momento lungo il tormentato itinerario: «Questo è il Paradiso Terrestre – rivelarono i prelati – Noi vi siamo giunti perché abbiamo espiato i nostri peccati tra le torture che hai visto passando, e nelle quali siamo rimasti piú o meno a lungo a seconda della quantità delle nostre colpe. Tutti coloro che hai visto nei diversi luoghi penali, fatta eccezione per quelli che sono al di sotto della bocca dell’Inferno, dopo la purgazione pervengono al riposo nel quale noi ci troviamo, e infine saranno salvati». Owein poté, quindi, tornare indietro ripercorrendo in senso inverso il cunicolo sotterraneo. All’uscita trovò il priore dell’attiguo convento che lo attendeva con trepidazione. Prima di rientrare nella sua terra d’origine, il cavaliere si sottopose a un nuovo rito di purificazione, della stessa durata del primo. Sull’esperienza nel sottosuolo d’Irlanda, riportò dettagli simili il cavaliere Ludovico di Sur, nel Trecento. Nel suo racconto, però, sono alcune bellissime donne a insidiarlo e non un gruppo di orribili demoni.


Testimonianze sul Purgatorio di San Patrizio provengono anche dall’Italia, in particolar modo dalla «missione» del cavalier Malatesta di Rimini, detto Ungaro, il quale, nel 1358, si introdusse nel pericoloso antro irlandese. Non lo fece per espiare le proprie colpe, ma per entrare in contatto con lo spirito dell’amante, brutalmente assassinata dal marito. Dalle cronache risulta soltanto che il cavaliere romagnolo riuscí a compiere il rito di permanenza nel cunicolo, ottenendo dal re d’Inghilterra un’attestazione scritta del superamento della terribile prova. In base al resoconto di un altro cavaliere, William Lisle, è stata proposta una spiegazione razionale per i presunti viaggi nell’Aldilà dei pellegrini nell’isola irlandese. L’uomo d’armi inglese riferí di essere stato come avvolto da un vapore caldo mentre si trovava all’interno della caverna di San Patrizio e, subito dopo, aveva iniziato a dormire. Nel sonno gli erano quindi apparse strane figure, forse come effetto di un’alterazione di coscienza prodotta da gas geotermici e vulcanici, presenti in quel territorio.

La repressione del papa

Alla fine del Medioevo un religioso olandese, giunto sul luogo di accesso al Purgatorio, entrò nella caverna trascorrendovi un’intera notte. Attese sveglio invano che si manifestassero le presenze demoniache di cui aveva letto nei numerosi resoconti letterari e, deluso per il mancato incontro con gli spiriti, sospettò di essere stato ingannato dai monaci, ai quali aveva corrisposto un’ingente somma di danaro. Segnalò, quindi, il fatto alla curia pontificia, denunciando la truffa che al Nord si stava perpetrando ai danni dei fedeli. L’esposto fu accolto dall’allora papa Alessandro VI, il quale, dopo una rapida inchiesta, decise di attuare severe misure repressive: l’edificio sotterraneo posto sulla Station Island venne distrutto proprio nel giorno della ricorrenza di san Patrizio, il 17 marzo del 1497, e i canonici furono costretti ad abbandonare l’attiguo monastero. Il culto sembrava ormai sradicato ma, nonostante l’intervento del papa Borgia, i pellegrinaggi nelle isole del Lough Derg continuarono senza sosta e anche i monaci fecero ritorno nel sito esecrato. Nel Seicento il flusso di fedeli risultava di nuovo particolarmente intenso, tanto da attirare l’interesse di grandi poeti che trassero ispirazione da quel fenomeno devozionale. Il drammaturgo spagnolo Pedro Calderón de la Barca (1600-1681) gli dedicò Il Pozzo di San Patrizio, interpretando la vicenda del Purgatorio come una fantasia popolare. Ma il pubblico

dell’epoca non considerava come una leggenda i racconti sulla caverna irlandese, secondo quanto riportato nella prefazione di una delle versioni italiane del dramma: «Tutta l’assemblea del teatro di Madrid sedeva, non come a spettacolo d’invenzione del poeta, ma a rappresentazione di una cosa esistente, vera e tale che il dubitarne non era lecito». In quello stesso secolo i protestanti, indispettiti dall’enorme traffico di pellegrini diretti alle cavità di San Patrizio, si opposero violentemente al culto. Era il periodo delle grandi persecuzioni contro i cattolici in terra britannica. I monaci dovettero ancora una volta emigrare e tutti gli edifici legati alla tradizione del Purgatorio vennero rasi al suolo. Il fascino della leggenda, però, sopravvisse e, nel Settecento, la devozione rifiorí. Nell’isola della sacra caverna sorse una chiesa e, in seguito, una basilica che tuttora accoglie masse di fedeli.

Un’altra miniatura tratta da un’edizione del Viaggio di Lodovico di Auxerre al Purgatorio di San Patrizio raffigurante il cavaliere francese che incontra la morte. Prima metà del XV sec. Venezia, Biblioteca del Museo Correr.

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ALAMUT

di Marco Di Branco

Il paradiso degli Assassini Un bambino prodigio destinato a diventare un «genio rivoluzionario», un movimento dai tratti messianici ed esoterici, volto a propagandare, con gli strumenti dell’inganno e della violenza, il messaggio di un nuovo ordine politico e religioso. Ecco come, intorno a una leggendaria rocca nelle montagne della Persia settentrionale, si dipana la storia di una delle piú discusse sette religiose del Vicino Oriente islamico


I

ntorno alla metà dell’XI secolo, nella città persiana di Qum, venne alla luce un bambino; il padre, che apparteneva a una famiglia sciita duodecimana (il ramo maggioritario dello sciismo, di cui fanno parte anche Ismailiti e Zaiditi, quantitativamente piú esigui, n.d.r.) di origine irachena, gli diede il nome del figlio primogenito di ‘Ali: Hasan. Se le notizie che ci sono pervenute riguardo la sua infanzia sono degne di fede, non era certo un bambino comune: a sette anni, il suo maggior desiderio era quello di diventare un uomo dotto e uno studioso di religione. Per un certo periodo, seguí la dottrina duodecimana che aveva appreso in famiglia, ma successivamente abbracciò le credenze degli Ismailiti d’Egitto e giurò fedeltà all’imam fatimida. Nel 1076 Hasan intraprese un lungo viaggio che lo condusse in terra egiziana, passando per Isfahan, l’Azerbaijan e la Siria; al Cairo rimase per circa un anno e mezzo, facendo propaganda in favore di Nizar, il figlio del califfo. Questa sua attività «sovversiva» gli costò l’espulsione dal Paese: fu infatti inviato per nave in Marocco insieme a un gruppo di cristiani. Ma il mare era agitato e la nave fu spinta verso la Siria, senza tuttavia fare naufragio: cosí il giovane si recò ad Aleppo, poi a Baghdad e quindi di nuovo in Persia, sempre promuovendo la causa dei niza-

L’impervio crinale sul quale si conservano i resti della rocca di Alamut, in Iran.

riti e attirandosi le ire del sultano selgiuchide, che tentò piú volte – invano – di catturarlo. L’idea che piano piano si faceva strada nella mente di Hasan era infatti quella di incanalare il diffuso malcontento che la popolazione persiana nutriva nei confronti dei Turchi selgiuchidi, che dominavano il Paese, nel progetto di una grande rivolta, con l’obiettivo di instaurare un nuovo ordine politico, sociale e religioso.

Un castello fra le nuvole

Col tempo, l’attenzione di Hasan-i Sabbah si incentrò sempre di piú sul nord della Persia, e in particolare sulle regioni a sud del Mar Caspio: il Gilan, il Mazandaran e, soprattutto, il Dailam. Qui, nel cuore dei monti Elburz, le cui vette si innalzavano fino a toccare le nuvole, si ergeva la rocca di Alamut. Secondo la leggenda, questo forte sarebbe stato costruito da un antico re dailamita, che avrebbe notato la straordinaria posizione strategica del sito durante una battuta di caccia, quando un’aquila si posò sulla rupe: il castello ebbe dunque il nome di Aluh Amut, nella lingua del Dailam «l’aquila ha insegnato» o – secondo altri – «il nido dell’aquila». Anche Hasan ne rimase estremamente colpito, e pensò che quel luogo avesse tutte le caratteristiche per divenire il suo quartier generale.


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La setta degli Assassini

Quando il leader ismailita cominciò a interessarsene, il castello di Alamut era tenuto da un signorotto sciita formalmente sottomesso al sultano selgiuchide; Hasan comprese subito che non avrebbe mai potuto prenderlo con la forza e si dedicò con pazienza a un’opera di indottrinamento delle milizie al servizio del castellano: cosí, esse si convertirono all’ismailismo e cercarono di convertire anche il loro sovrano; questi finse di essere convinto, ma poi riuscí a far uscire tutti i convertiti e chiuse le porte della fortezza, affermando che essa apparteneva solo al sultano; dopo molte discussioni però li riammise, ed essi non si allontanarono piú dalla rocca. Allora Hasan-i Sabbah venne introdotto furtivamente nel castello: era mercoledí 6 rajab dell’anno 483 dell’Ègira (4 settembre del 1090) e i contemporanei notarono che, per una strana coincidenza, le lettere delle parole «Aluh Amut», se addizionate secondo i loro valori numerici (in molti alfabeti antichi a ogni lettera è associato un numero), davano appunto il numero dell’anno in cui Hasan entrò ad Alamut per la prima volta. Quando il castellano seppe della sua presenza non poté fare piú nulla: gli fu dato il permesso di andarsene con il cospicuo indennizzo di tremila dinar d’oro e Hasan si stabilí nella fortezza, assumendone il pieno controllo senza nessun accenno di battaglia.

Diffondere il «verbo»

Saldamente stabilitosi in Alamut, Hasan si dedicò con tutte le sue forze a diffondere il suo «verbo», quella che fu definita la «nuova propaganda». Come affermava lo stesso Hasan nella sua perduta autobiografia, in parte conservataci dallo storico persiano Juvaini, i suoi predecessori avevano basato i loro dogmi sull’interpretazione simbolica della rivelazione coranica e sostenevano che ogni forma esterna aveva un significato interno ed esoterico; egli invece affermava che la conoscenza di Dio non sarebbe giunta per mezzo della ragione (se l’uso della ragione fosse stato sufficiente a conoscere Dio, nessuna setta avrebbe potuto muovere obiezioni contro altre sette e tutte sarebbero state uguali), ma solo grazie all’insegnamento dell’imam, l’unica guida possibile verso la vera religione. E ovviamente Hasan si proponeva, in maniera neppure troppo implicita, come l’unico autentico rappresentante dell’imam del proprio tempo. I resti della rocca di Alamut. Quasi interamente distrutta nel 1256 dai Mongoli, è stata colpita nel 2004 da un forte sisma.


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ALAMUT

La setta degli Assassini

TRATTATI MENDACI E LIBRI DA SALVARE La maggior parte delle notizie che ci sono pervenute sulla setta degli Assassini e sulla vita e le opere del loro fondatore si deve alla lungimiranza del persiano Ata-Malik Juvaini, autore di una celebre storia dell’impero mongolo. In effetti, nel 1256, dopo la caduta della rocca di Alamut, vero cuore pulsante dell’ordine, a costui fu affidato l’incarico di esaminare la biblioteca del castello, ed egli sottrasse alla distruzione molti dei libri che vi si trovavano. Ma lasciamo la parola allo stesso Juvaini: «Dopo che Dio Onnipotente, mediante la decisione e l’azione del Principe del mondo Hülegü, ebbe sradicato i castelli e le sedi di quei maledetti, ed ebbe posto fine alla loro malvagità, al tempo della conquista di Alamut l’autore di questo libro ricevette ed eseguí l’ordine di esaminare cosa fosse depositato nel loro tesoro e raccolto nella loro biblioteca, al fine di sceglierne quanto degno del Tesoro privato. Ora, io stavo esaminando la biblioteca che avevano raccolto in un periodo di molti anni, e dalla moltitudine di mendaci trattati e di falsi insegnamenti riguardanti la loro religione e credenza (che essi avevano mischiato con copie del nobile Corano e ogni genere di libri scelti, tessendo insieme bene e male) stavo estraendo rari e preziosi volumi, quando mi imbattei in un libro contenente la vita e le avventure di Hasan-i Sabbah. Da questa opera ho copiato tutto ciò che mi sembrò adatto e passibile di inserzione in questa storia, riportando quanto fosse confermato e verificato» (traduzione di Gian Roberto Scarcia, Ata-Malik Juvaini, Gengis Khan, Oscar Mondadori, Milano 19912; p. 747).

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Dopo la spettacolare presa di Alamut, Hasan sapeva bene di doversi aspettare una contromossa da parte dei Selgiuchidi: cosí, si preparò ad accoglierli. Fece ricostruire le mura del castello; riorganizzò i rifornimenti idrici, introducendo nella valle un sistema avanzato di irrigazione e piantandovi un gran numero di alberi, infine creò un vero e proprio anello di protezione intorno ad Alamut, conquistando altre fortezze e costruendone di nuove. Come narra Juvaini, «conquistava la gente con la propaganda, mentre i luoghi che rimanevano indifferenti alle sue lusinghe venivano espugnati con massacri, stupri, guerre e spargimento di sangue». Poi, ciò che gli Ismailiti temevano, avvenne. Il governatore selgiuchide della regione raccolse un esercito numeroso e agguerrito e attaccò Alamut: dopo una serie di scaramucce, i Turchi raggiunsero la base del castello e, fatta strage dei suoi difensori, lo posero sotto assedio. Per i seguaci di Hasan furono momenti terribili: privi di provviste, tutti soffrivano la fame e molti erano sul punto di arrendersi. Il leader allora asserí di aver ricevuto un messaggio dal califfo fatimida in cui questi li incitava a resistere, poi-


In alto miniatura affigurante la presa di Alamut da parte dei Mongoli, nel 1256, da un’edizione del Giami’ at-Tawarikh (Raccolta di storie) dello storico persiano Rashid ad-din Fadl Allah. Nella pagina accanto un’edizione manoscritta del Corano con decorazioni in stile magrebino. XII-XIII sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

ché in quel luogo la buona fortuna li attendeva. Cosí fecero, e i Selgiuchidi tolsero l’assedio. Da allora Alamut fu ribattezzata «la torre della buona fortuna». La vittoria insperata rafforzò la causa ismailita, che registrò notevoli successi in diverse aree della Persia, fino alla creazione di un vero e proprio Stato nello Stato, ispirato a rigorosi principi di egualitarismo: all’interno del movimento tutti erano semplicemente dei «compagni» (rafiq) ed era abolito ogni tipo di gerarchia basata sul censo; molti dei sostenitori di Hasan non erano neppure sciiti. Tutto ciò non poteva non inquietare il sultano selgiuchide Malikshah, che infatti, nel 1092, decise di affrontare il problema alla radice: un nuovo esercito marciò su Alamut. Gli Ismailiti fecero allora appello alla loro rete di alleanze e riuscirono a ottenere rinforzi che costrinsero ancora una volta i Turchi a ritirarsi. Cosí Hasan poté passare al contrattacco, scegliendo come obiettivo il potente vizir di Malikshah, quel Nizam al-Mulk che la leggenda voleva fosse stato in gioventú uno dei piú grandi amici dello stesso leader ismailita e che era divenuto il suo mortale nemico.

Con il suo sguardo acuto, Nizam al-Mulk aveva compreso il pericolo insito nel diffondersi delle dottrine ismailite e fece del suo meglio per asportare «il pus della ribellione». Hasan decise dunque di agire d’astuzia, al fine di farlo cadere nella sua rete e accrescere cosí la propria fama: «Con l’impostura dell’inganno, e con la bricconeria della falsità, con assurdi preparativi e menzognere frodi – narra Juvaini – gettò le basi dell’organizzazione dei suoi adepti». Cosí, la notte di venerdí 12 ramadàn 485 (16 ottobre 1092) un sicario ismailita (fida’i) travestito da innocuo sufi si avvicinò alla lettiga di Nizam al-Mulk, che si stava recando alla tenda del suo harem, e lo trafisse con un pugnale, facendone un martire: il primo di una lunga serie di uomini politici eliminati dalla longa manus di Alamut. Sarebbero state appunto le efferate azioni dei fida’i, a far crescere la fama di Hasan e dei suoi seguaci. Da questo momento in poi, il ricorso all’assassinio divenne il cardine dell’azione politica della setta. Gli adepti dell’ordine ismailita fondato da Hasan-i Sabbah furono noti nelle fonti islamiche con il misterioso appellativo di hashiTERRE LEGGENDARIE

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ALAMUT

La setta degli Assassini

A SCESA E CADUTA DI UN FUNZIONARIO POTENTISSIMO «Nessun re o sovrano può sottrarsi alla necessità di possedere e conoscere questo libro (...), perché piú lo si leggerà piú sarà illuminata la condotta delle faccende civili e religiose nel mondo; piú ampia si aprirà la capacità di conoscere amici e nemici». Cosí affermava con orgoglio Nizam al-Mulk – potentissimo primo ministro di ben due sultani selgiuchidi – a proposito del trattato da lui composto, Il libro della politica, scritto in splendida prosa persiana e dedicato all’arte del buon governo. Ma chi era Nizam? Nato intorno al 1017 in un villaggio presso Tus, nella parte orientale dell’Iran, Abu ‘Ali al-Hasan (questo il nome del futuro uomo di Stato) a vent’anni entrò al servizio del grande sultano selgiuchide Alp Arslan, e al suo fianco – e a quello del successore, Malikshah – giunse a ricoprire le piú importanti cariche politiche dello Stato selgiuchide, dedicandosi a

consolidarne le basi con una rigorosa riforma religiosa in senso fortemente sunnita (fu lui che promosse l’istituto della madrasa, letteralmente «scuola», ma in realtà vera e propria università teologica e filosofica) e attraverso la creazione di una potente classe di funzionari e burocrati di lingua persiana (che restò sempre la lingua ufficiale dell’amministrazione e della cultura). Il suo carisma e la sua autorità furono enormi, anche perché egli seppe abilmente collocare gli amici e i numerosi figli in tutti i posti chiave dell’amministrazione; ciò finí per suscitare l’invidia e il risentimento degli altri notabili selgiuchidi, che lo accusarono di favoritismi e di nepotismo e presero a tramare contro di lui. La partita si risolse nel 1092 con l’assassinio di Nizam al-Mulk per mano di un seguace di Hasan-i Sabbah e con l’avvelenamento del sultano Malikshah durante una battuta di caccia.


A destra rilievo raffigurante guerrieri di epoca segiuchide. XIII sec. Istanbul, Museo di Arte Turca e Islamica. In basso miniatura raffigurante l’assassinio di Nizam al-Mulk per mano di un seguace di Hasan-i Sabbah. Istanbul, Biblioteca del Topkapi.

shiyyuna. Il nome fu importato in Europa dai crociati e nella letteratura occidentale viene sostanzialmente reso, al di là delle varianti linguistiche, con il termine «assassini». All’origine, la parola sembra essere stata usata nel senso di «devoto» o «zelota» (è questo il significato dell’arabo fida’i), ma presto furono le pratiche omicide dell’ordine a colpire gli Europei che visitavano l’Oriente, e al sostantivo fu dato dunque un senso nuovo. Dopo essere stato il nome di una setta misteriosa, «assassino» divenne un termine comune designante un omicida. Tra il XVII e il XVIII secolo, gli Hashishiyyuna furono oggetto di una notevole attenzione da parte degli studiosi europei, che formularono numerose teorie per spiegare l’origine e il significato del loro nome. Il mistero venne infine risolto dal grande orientalista francese Silvestre de Sacy (1758-1838): servendosi di fonti manoscritte arabe egli respinse le spiegazioni precedenti e dimostrò che la parola «assassino» era in relazione con il termine hashish. Quest’ultima parola definisce in arabo la canapa indiana, e hashash era la parola corrente per indicare il fumatore di hashish: rifiutando le interpretazioni secondo cui gli Assassini dovevano il loro nome al fatto di essere grandi consumatori di questa sostanza, de Sacy parla piuttosto dell’uso segreto dell’hashish da

AMICI NEMICI Un aneddoto, riportato da molti autori persiani, contribuisce ad avvolgere la figura di Hasan-i Sabbah in un alone di leggenda: secondo questo racconto, all’epoca della loro fanciullezza, il celebre poeta persiano ‘Omar Khayyam, il Gran vizir Nizam al-Mulk e lo stesso Hasan – discepoli del medesimo maestro – sarebbero divenuti grandi amici. Convinti che almeno uno di loro avrebbe raggiunto il successo, stipularono un patto solenne: il primo a far fortuna doveva aiutare gli altri due. E il primo ad affermarsi fu Nizam al-Mulk, che divenne appunto ministro del sultano selgiuchide: cosí Hasan e ‘Omar gli chiesero di onorare il loro accordo, e il vizir offrí loro il governatorato di una provincia. ‘Omar rifiutò la carica, ma accettò una rendita vitalizia, che gli permise di potersi dedicare in pace alla poesia; Hasan, dal canto suo, riteneva di meritare assai di piú e chiese a Nizam un incarico a corte ma, una volta ottenutolo, brigò per impadronirsi del posto dell’amico: per questo, Nizam lo fece cadere in disgrazia presso il sultano. La vendetta di Hasan non tardò: Nizam al-Mulk fu la prima vittima eccellente della setta degli Assassini.

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La setta degli Assassini

Miniatura raffigurante il sultano Malikshah («il re imperatore»), da un’edizione del Giami’ at-Tawarikh (Raccolta di storie) di Rashid ad-din. Il sultano, che porta una corona selgiuchide, siede su un grande cuscino blu decorato con arabeschi dorati, sistemato su un elaborato trono in stile cinese. Sopra la sua testa c’è un’altra corona che reca elementi tipici della tradizione sasanide. Alla sua sinistra, vi sono cinque cortigiani, mentre alla sua destra si vede uno scriba che utilizza strumenti per la scrittura di fattura islamica.

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parte dei capi della setta al fine di offrire ai propri emissari un antipasto delle delizie paradisiache che li attendevano al compimento delle loro missioni, e associa questa interpretazione alla storia raccontata da Marco Polo e da altre fonti, sia occidentali sia orientali, riguardo i «giardini del Paradiso», nei quali erano introdotti i devoti sotto l’effetto della droga. In ogni caso, il termine hashishiyyuna non va inteso in senso lettera-


I TRIONFI (EFFIMERI) DEL «RE IMPERATORE» Mentre Hasan-i Sabbah consolidava il suo potere ad Alamut, sul trono dell’impero dei «Grandi Selgiuchidi» (il ramo piú importante della dinastia che prende il nome dal leggendario capoclan turco Saljuq, e che si era impadronita della Persia e del cuore dell’Iraq) sedeva il sultano Malikshah («il re imperatore»). Egli concentrò i suoi sforzi sull’Oriente: penetrò molto a fondo in Asia centrale; ottenne dal califfo abbaside la tutela delle città sante d’Arabia, Mecca e Medina; infine, intervenne in Siria, ponendo sotto il suo controllo Damasco, Aleppo e Antiochia. Con lui, l’impero selgiuchide sembrava aver raggiunto l’apogeo, ma alla sua morte, avvenuta nel 1092, le rivalità fra i suoi quattro figli ne provocarono un repentino sfaldamento.

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Nella pagina accanto frammento di un rotolo di Corano del periodo abbaside (VIII-IX sec.). Istanbul, Museo di Arte Turca e Islamica. In basso, sulle due pagine Arabi nel deserto. Lo studio del Corano, olio su tela di Vassili Vasilyevich Vereshchagin. 1875. Odessa, Museo di Belle Arti.

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le: i musulmani lo utilizzavano per indicare genericamente individui considerati in maniera negativa; l’epiteto sembra dunque contenere piú una critica della condotta degli Ismailiti che una descrizione delle loro pratiche.

Un uomo di scienza

Hasan-i Sabbah, che l’orientalista inglese Bernard Lewis (1916-2018) ha giustamente definito un «genio rivoluzionario», guidò la setta da lui fondata in Persia per circa trent’anni, sfruttando a suo vantaggio la debolezza dell’impero selgiuchide e creando sulle inaccessibili vette della Persia settentrionale un vero e proprio antiStato protetto da imprendibili bastioni naturali. Le fonti lo descrivono come un uomo di scienza, profondamente interessato alla geometria, alla matematica, all’astronomia e alla filosofia (Alamut era concordemente considerato come un importante centro del sapere dell’epoca, visitato da molti per poter usufruire della sua straordinaria biblioteca), e insistono molto sulle sue qualità morali e religiose: a questo proposito, Hasan si concentrò sull’interpretazione esoterica del Corano ed esaltò il ruolo degli insegnanti ufficiali nel mondo ismailita, il primo dei quali era appunto l’imam. In effetti, dopo la rottura fra

il califfato fatimida del Cairo e gli Ismailiti, dovuta alla crisi provocata dall’assassinio di Nizar, la loro fedeltà fu trasferita a un misterioso imam nascosto, del quale Hasan si riteneva a tutti gli effetti il rappresentante designato. Nel 1124 il capo degli Ismailiti si ammalò e, dopo aver preparato accuratamente la successione, morí: la leadership fu affidata al comandante Buzurgumid, da vent’anni braccio destro di Hasan. Per la compagine ismailita si aprí un periodo incerto e gravido di problemi, durante il quale, però, gli Assassini ottennero uno dei loro piú splendidi successi: l’uccisione del califfo abbaside, il capo nominale dell’Islam sunnita, grande avversario di tutti i movimenti sciiti: alla notizia della morte del califfo, ad Alamut si festeggiò per sette giorni e sette notti. Al decesso di Buzurgumid, avvenuto nel 1138, la sovranità sull’ordine passò a Muhammad I: nel corso del suo regno furono eseguiti quattordici omicidi politici, fra cui spicca quello del sultano selgiuchide Da’ud, forse commissionato dal signore di Mosul, che stava espandendo il suo dominio verso la Siria e temeva la reazione turca. Tuttavia, anche l’epoca di Muhammad fu per gli Ismailiti un periodo di crisi: lo slancio iniziale della setta sembrava ormai spento, e il


grande progetto di Hasan-i Sabbah di rovesciare l’impero selgiuchide e instaurare una società nuova pareva abbandonato per sempre. Fu allora che un nuovo leader comparve sulla scena di Alamut: Hasan, figlio ed erede di Muhammad, che riportò la setta ai fasti del passato e si rese protagonista di uno dei piú interessanti eventi messianici della storia dell’Islam: la «Grande resurrezione». Come riferiscono le fonti, non appena raggiunse l’età della ragione, il figlio di Muhammad espresse il desiderio di studiare ed esaminare gli insegnamenti di Hasan-i Sabbah e dei suoi antenati, giungendo a eccellere nell’esposizione del loro credo. Non avendo sentito simili discorsi da suo padre, gli Ismailiti cominciarono a pensare che fosse giunto l’imam nascosto promesso da Hasan-i Sabbah, e la loro fedeltà nei confronti del giovane aumentò sempre di piú. Muhammad non vedeva di buon occhio la popolarità di Hasan, e arrivò al punto di denunciarlo pubblicamente, affermando che egli non era l’imam e che chiunque avesse creduto ciò sarebbe stato considerato un infedele e un ateo, e di sottoporre a tortura alcuni dei suoi seguaci. Hasan seppe aspettare il momento opportuno (segue a p. 80)

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UNA ROCCA IMPRENDIBILE,

CON UNA CORTE «BELLA E RICCA» Il primo autore occidentale a descrivere gli Assassini fu Marco Polo, che venne a sapere di loro al momento del suo passaggio in Persia del 1273. Ecco quanto l’autore scrive in proposito nel suo Milione: «Milice è una contrada ove ‘l Veglio de la Montagna solea dimorare anticamente. Or vi conterò l’afare, secondo che messer Marco intese da piú uomini. Lo Veglio è chiamato in loro lingua Aloodin. Egli avea fatto fare tra due montagne in una valle lo piú bello giardino e ‘l piú grande del mondo. Quivi avea tutti frutti e li piú begli palagi del mondo, tutti dipinti ad oro, a besti’ e a uccelli; quivi era condotti: per tale venía acqua e per tale mèle e per tale vino; quivi era donzelli e donzelle, li piú begli del mondo, che meglio sapeano cantare e sonare e ballare. E facea lo Veglio credere a costoro che quello era lo paradiso. E perciò ‘l fece, perché Malcometto disse che chi andasse in paradiso, avrebbe di belle femine tante quanto volesse, e quivi troverebbe fiumi di latte, di vino e di mèle. E perciò ‘l fece simile a quello ch’avea detto Malcometto; e li saracini di quella contrada credeano veramente che quello fosse lo paradiso. E in questo giardino non intrava se nnone colui cu’ e’ volea fare assesino. A la ‘ntrata del giardino ave’ uno castello sí forte, che non temea niuno uomo del mondo. Lo Veglio tenea in sua corte tutti giovani di xij anni, li quali li paressero da diventare prodi uomini (...). Quando li giovani si svegliavano e si trovavano là entro e vedeano tutte queste cose, veramente credeano essere in paradiso. E queste donzelle sempre stavano co loro in canti e in grandi solazzi; e aveano sí quello che voleano, che mai per loro volere non sarebboro partiti da quello giardino. E ‘l Veglio tiene bella corte e ricca e fa credere a quegli di quella montagna che cosí sia com’è detto. E quando elli ne vuole mandare niuno di quegli giovani ine uno luogo, li fa dare beveraggio che dormono, e fagli recare fuori del giardino in su lo palagio. Quando coloro si svegliono e trovansi quivi, molto si meravigliano, e sono molto tristi, ché si truovano fuori del paradiso. Egli se ne vanno incontanente dinanzi al Veglio, credendo che sia uno grande profeta, inginocchiandosi; e egli dimanda onde vegnono. Rispondono: “Del paradiso”; e contagli tutto quello che vi truovano entro e ànno grande voglia di tornarvi. E quando lo Veglio vuole fare uccidere alcuna persona, fa tòrre quello che sia lo piú vigoroso, e fagli uccidire cui egli vuole. E coloro lo fanno volontieri; per ritornare al paradiso; se scampano, ritornano a loro signore; se è preso, vuole morire, credendo ritornare al paradiso. E quando lo Veglio vuole fare uccidere neuno uomo, egli lo prende e dice: “Va’ fa’ cotale cosa; e questo ti fo perché tti voglio fare tornare al paradiso”. E li assesini vanno e fannolo molto volontieri. E in questa maniera non campa niuno uomo dinanzi al Veglio della Montagna, a cu’elli lo vuole fare; e sí vi dico che piú re li fanno trebuto per quella paura» (Marco Polo, Milione, a cura di Valeria Bertolucci Pizzorusso, Adelphi, Milano 1975; p. 56 ss.).

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Miniatura raffigurante il Vecchio della Montagna che dà ai suoi discepoli una sostanza stupefacente, da un’edizione in francese del Milione di Marco Polo illustrata dal Maestro di Egerton. 1410-1412. Parigi, Bibliothèque nationale de France.


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per la sua rivincita, e nel 1162, alla morte del padre, si impadroní del potere.

La rivelazione dell’imam nascosto

Inizialmente il suo regno non fu caratterizzato da eventi particolari, ma dopo circa due anni, il 17 di ramadàn dell’anno 559 (l’8 agosto 1164), egli proclamò ad Alamut la «Grande resurrezione». Per prima cosa, fece costruire un pulpito in uno spazio aperto ai piedi di Alamut, in modo tale che la direzione della preghiera fosse opposta a quella solita dell’Islam; poi ordinò che in quello spazio si raccogliessero gli abitanti delle sue terre. Quindi, vestito di abiti bianchi e di un candido turbante salí sul pulpito e, rivolgendosi agli abitanti dei mondi, uomini e angeli, dichiarò che l’imam nascosto gli aveva inviato in gran segreto una pergamena contenente norme sulla loro comune fede: l’imam aveva aperto 80

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ai musulmani e a tutti loro la porta della misericordia e spalancato i cancelli della compassione; aveva convocato i suoi servitori eletti e li aveva liberati dei doveri, dei fardelli e dei compiti imposti dalla legge, portandoli alla resurrezione, cioè alla salvezza dalla morte, al paradiso spirituale della conoscenza e alla contemplazione della natura divina; infine, aveva proclamato lo stesso Hasan suo vicario, attribuendogli dunque il rango di «califfo» e di prova vivente della verità.

Lo spirito in terra

Messaggeri furono inviati in tutta la Persia per diffondere la buona novella. Con il suo discorso il leader ismailita aboliva dunque il regno della legge islamica e rifondava una comunità unita dal solo imperativo di contemplare nell’uomo perfetto il volto visibile della divinità: di vivere nel mondo una vita


A sinistra miniatura raffigurante il missionario francescano Odorico da Pordenone alla rocca di Alamut, da un’edizione del Milione di Marco Polo. 1410-1412. Parigi, Bibliothèque nationale de France. In basso L’effetto dell’hashish, olio su tela di Pasquale Liotta. 1875. Catania, Museo Civico di Castello Ursino. divina. Per sottolineare che la legge era ormai abrogata, Hasan ordinò ai suoi di prendere parte a un sontuoso banchetto, violando in tal modo il digiuno del ramadàn, e abolí le cinque preghiere canoniche per tutti i musulmani. Con la convocazione di Alamut gli Ismailiti dichiaravano la propria indipendenza dalla società islamica: il mondo spirituale scendeva sulla Terra. La radicalità della visione di Hasan non mancò di suscitare malumori e discordie nel seno stesso della sua comunità: un gruppo di dissidenti lo accusò apertamente di eresia e congiurò contro di lui finché, nel 1166, il sovrano fu pugnalato a morte dal cognato, il piú convinto dei suoi oppositori. Gli succedette il figlio Muhammad II, di soli diciannove anni.

Il Vecchio della Montagna

Il regno di Muhammad II durò per quasi cinquant’anni e la sua fu la leadership piú duratura nella storia dell’ordine. È in questo periodo che ha inizio un lento ma inesorabile processo di separazione fra gli Assassini di Persia e quelli di Siria, guidati da quello che sarebbe divenuto il piú celebre sovrano

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La fortezza ismailita di Masyaf, in Siria, a cui Saladino diede l’assedio nel 1176, ma senza successo.

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ismailita, Rashid al-Din Sinan, che l’Occidente conobbe con il nome leggendario di «Vecchio della Montagna». Un gruppo di Ismailiti nizariti si era già stabilito in Siria intorno al 1100, e da qui aveva portato avanti una lotta senza quartiere contro le milizie crociate; intorno al 1163 nella comunità siriana erano sorti dei gravi dissensi, e Hasan, che stava per proclamare la «Grande resurrezione», decise di inviare presso di essa un giovane ismailita di belle speranze di nome Rashid al-

Din Sinan. Giunto in Siria, costui assunse il controllo del movimento, restaurò le fortezze già esistenti e ne costruí di nuove. Subito dopo, Sinan lanciò una vigorosa campagna di reclutamento alla ricerca di nuovi adepti, ma soprattutto, con un clamoroso voltafaccia strategico, ricercò l’alleanza dei crociati contro Selgiuchidi e Fatimidi e contro la nascente potenza degli Zengidi di Nur al-Din, signore di Damasco, il cui luogotenente era il celebre Saladino. Emerge qui ancora una volta la spregiudicatez-


za tipica degli Ismailiti che, per difendere i propri interessi, non esitano a venire a patti con i nemici dell’Islam e a schierarsi contro i piú grandi sovrani musulmani. Quando Saladino (che nel frattempo si era ribellato al suo sovrano Nur al-Din) si impadroní di Damasco, minacciando per ciò stesso le comunità ismailite della regione, Sinan cercò piú volte di farlo assassinare dai suoi seguaci, ma con scarsa fortuna. Nel 1176, dopo che uno di questi attentati era fallito per un soffio, Saladino decise di passare al contrattacco, e pose sotto assedio Masyaf, una delle piú grandi fortezze ismailite di Siria, ma invano. Le due parti giunsero allora a un accordo, sospesero le ostilità, e sottoscrissero un patto, che fu probabilmente alla base di una delle azioni piú eclatanti degli Ismailiti di Siria: l’assassinio di Corrado di Monferrato, erede designato al trono di Gerusalemme.

Travestiti da monaci

Racconta il cronista arabo Ibn al-Athir che, su richiesta di Saladino, il 28 aprile 1192 Sinan inviò a Tiro, dove si trovava il marchese di Monferrato in attesa dell’incoronazione a re di Gerusalemme in esilio, due uomini travestiti da monaci. Costoro si presentarono a Corrado, attesero

per sei mesi, guadagnandosi la sua fiducia, e poi agirono: «Il marchese era ospite del vescovo di Tiro; mangiò e bevve, si saziò e sollazzò, uscí e cavalcò; improvvisa­mente gli saltarono addosso due uomini, anzi due lupi ­senza pelo, e con i pugnali ne fermarono il moto e lo ab­batterono. Subito dopo uno dei due fuggí ed entrò nella chiesa. Il marchese, trafitto ma ancora con un resto di vita, disse: «Portatemi alla chiesa», e lí lo portarono. Ma, quando quello dei suoi feritori lo vide, gli saltò ancora addosso per finirlo e gli inferse ancora ferita su ferita e piaga su piaga. I due compagni subirono il piú crudele supplizio, e furono trattati nel modo piú spietato». Sebbene il coinvolgimento diretto di Saladino in questa vicenda non sia provato con certezza (alcuni contemporanei individuarono il mandante dell’omicidio addirittura nel re d’Inghilterra Riccardo Cuor di Leone), resta il fatto che la morte di Corrado indebolí gravemente i crociati, e ciò andò a tutto vantaggio degli Ismailiti di Siria e dello stesso Saladino. L’uccisione del marchese di Monferrato fu l’ultima grande impresa di Sinan e dei suoi adepti: un anno dopo, la morte improvvisa del leader mise fine al predominio siriano nelle vicende dell’ordine e la

A destra monumento equestre in onore di Saladino innalzato nei pressi della Cittadella di Damasco.

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«sezione persiana» di Alamut riassunse a tutti gli effetti la guida del movimento.

Guerra in famiglia

Negli ultimi anni del governo di Muhammad II, il figlio Jalal al-Din Hasan cominciò a mostrare chiari segni di insofferenza nei con­ fronti della dot­trina della «Grande resurrezione», e avendo il sovrano intuito quali fossero i suoi sentimenti, nacque una specie di ostilità fra di loro, sicché erano timorosi e diffidenti l’uno dell’altro; infine, Jalal al-Din ordí una cospirazione contro suo padre e inviò messaggeri al califfo di Baghdad, ai sultani e ai re delle altre terre affermando che egli, a differenza di Muhammad, era un vero musulmano e che, quando fosse giunto per lui il momento di regnare, avrebbe abolito l’eresia e reintrodotto l’osservanza dell’Islam. Alla morte di Muhammad (1210), forse per avvelenamento, Jalal al-Din si insediò sul trono di Alamut: subito fece professione di fede nell’Islam, rimproverò duramente il popolo e il suo «partito» per la loro adesione all’eresia, e impose di adottare l’Islam e i costumi della legge. La svolta «controrivoluzionaria» del figlio di Muhammad fu accolta con entusiasmo dal calif-

IL MESSAGGERO CHE ZITTÍ SALADINO Sul tormentato rapporto fra Saladino e gli Ismailiti si conoscono un gran numero di aneddoti. Uno dei piú suggestivi è tratto dalla biografia di Sinan composta dallo storico di Aleppo Kamal al-Din Ibn al-Adim: «Sinan inviò un messaggero a Saladino – Dio abbia pietà di lui – ordinandogli di consegnare il messaggio in privato. Saladino lo fece perquisire e, quando fu sicuro che non costituisse un pericolo, congedò i presenti facendo restare solo poche persone, e gli chiese di dargli il messaggio. Ma egli disse: “Il mio maestro mi ha ordinato di non consegnartelo se non in privato”. Saladino allora allontanò tutti gli astanti tranne due guardie del corpo e disse: “Consegnami il tuo messaggio”. Quello rispose: “Mi è stato ordinato di dartelo solo in privato”; e Saladino disse: “Questi due non mi lasceranno. Se vuoi, dammi il tuo messaggio, altrimenti vattene”. Egli replicò: “Perché non hai allontanato questi due come hai fatto con gli altri?”. Saladino rispose: “Li considero come se fossero i miei figli. Io e costoro siamo una cosa sola”. Allora il messaggero si rivolse alle due guardie del corpo e disse: “Se vi ordinassi, nel nome del mio signore, di uccidere questo sultano, voi lo fareste?”. Essi risposero di sí e sguainarono le loro spade esclamando: “Ordina ciò che desideri!”. Il sultano Saladino – Dio abbia pietà di lui – rimase senza parole e il messaggero se ne andò portando i due con sé. E allora Saladino – Dio abbia pietà di lui – si convinse a fare la pace con Sinan. E Dio è il miglior giudice».

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fo sunnita di Baghdad, che gli indirizzò titoli di onore, e da tutti i capi religiosi islamici, che emanarono decreti positivi su di lui e sulla sua gente, sollecitando relazioni amichevoli e legami matrimoniali. Jalal al-Din divenne noto come il «Neo-musulmano», e «Neo-musulmani» furono chiamati i suoi seguaci: egli infatti aveva riportato l’eresia ismailita, che da tempo si era allontanata dall’Islam sia dal punto di vista politico sia da quello piú squisitamente religioso, nel grande alveo dell’ortodossia islamica. Non è difficile individuare motivazioni di opportunità politica nello spettacolare voltafaccia dell’imam di


OBBEDIENZA CIECA In questo breve passo di Guglielmo di Tiro – il piú famoso cronista occidentale dell’epoca delle crociate – è ben colta la consapevolezza delle milizie cristiane riguardo la minaccia ismailita: «Se, per esempio, un principe è mal visto da questo popolo, il capo consegna un pugnale a uno o piú seguaci. Colui che ha ricevuto l’ordine agisce immediatamente, senza considerare le conseguenze delle sue azioni, e senza curarsi della possibilità di fuggire. Ansioso di assolvere al suo compito, lavora faticosamente finché non gli si presenta l’opportunità di obbedire agli ordini del suo signore».

Alamut: si trattava evidentemente di trasformare la catena di castelli e di territori soggetti all’ordine in un normale Stato musulmano fra gli altri e, quindi, di ristabilire regolari relazioni diplomatiche e commerciali con gli Stati vicini, anche al fine di avvalersi della piú larga solidarietà musulmana, della quale gli Ismailiti avevano dovuto fare a meno da lungo tempo. In ogni caso, molti dubitarono della sincerità della «conversione» di Jalal al-Din: in effetti, la dottrina ismailita prevedeva l’istituzione della taqiyya, l’occultamento della propria fede di fronte al pericolo, e anche alcuni storici moderni hanno voluto vedere nelle azioni del leader «controrivoluzionario» l’esempio piú clamoroso di taqiyya mai utilizzato dagli Ismailiti. In alto miniatura raffigurante un drappello di cavalieri turchi, da un’edizione manoscritta del Romanzo di Goffredo di Buglione di Guglielmo di Tiro. 1337. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Nella pagina accanto particolare di una litografia a colori moderna che riproduce un ritratto di Saladino di scuola fatimida (XII sec.).

L’arrivo dei Mongoli

Sul finire del regno di Jalal al-Din, in Asia centrale fecero la loro comparsa i Mongoli, che di lí a pochi anni avrebbero devastato tutto il mondo islamico orientale. Comunque, il sovrano non ebbe tempo di vedere il prosieguo dell’invasione: morí di dissenteria nel 1221, lasciando il regno a un figlio ancora bambino, Ala al-Din Muhammad III, sotto la tutela del primo ministro. Il suo regno, che durò trentaquattro anni, coincise largamente con la grande catastrofe che si abbatté sulla Persia, l’avvento di Gengis Khan. Tuttavia, i domini ismailiti ne furono a lungo – quasi miracolosamente – immuni: in effetti, anche in un periodo cosí travagliato, Alamut mantenne le sue attrattive di polo culturale, richiamando numerosi studiosi, tra cui Nasir al-Din Tusi, filosofo, teologo e astronomo fra i piú grandi dell’Islam. La vicenda personale di Muhammad III si risolse tragicamente: nel 1255, mentre era in corso un conflitto politico e personale con il figlio Rukn al-Din, fu assassinato nel sonno da alcuni sicari non identificati. L’uccisione del sovrano dell’ordine, avvenuta all’interno della sua stessa rocca, dette adito a sospetti e accuse reciproche fra i membri delle varie fazioni ismailite: alla fine, prevalse il partito di Rukn al-Din, che salí al trono in un momento

assai grave, poiché la pressione dei Mongoli era ormai insostenibile. Uno dei motivi principali dei contrasti fra il nuovo leader e suo padre era stato proprio l’atteggiamento da tenere nei confronti della «questione mongola». Muhammad III aveva infatti dimostrato nei confronti degli invasori una sostanziale ostilità, mentre Rukn al-Din era convinto che la sopravvivenza di Alamut sarebbe stata possibile solo assicurandosi la loro amicizia. Ma era troppo tardi: l’ilkhan mongolo Hülegü, che aveva deciso di sbarazzarsi definitivamente della minaccia degli Assassini, inviò al capo ismailita una serie di ultimatum nei quali gli intimava di distruggere i suoi castelli e venire a rendergli omaggio: in tal modo gli eserciti non avrebbero devastato i suoi territori. Rukn al-Din tentò la via del compromesso, distruggendo alcune fortezze minori e inviando presso la corte mongola suo fratello: fu tutto inutile. Un imponente esercito guidato da Hülegü in persona marciò contro Maymundiz, una delle piú importanti rocche ismailite: dopo estenuanti trattative, il 19 novembre 1256 il sovrano dell’ordine si arrese consegnandosi ai Mongoli e offrendo le sue ricchezze come pegno di sottomissione. Meno di un mese piú tardi, cadde anche Alamut, e un anno dopo si arresero le ultime fortezze. Rukn al-Din riuscí solo a ottenere che i membri delle guarnigioni avessero salva la vita. Quando gli Ismailiti abbandonarono Alamut, i Mongoli presero possesso della fortezza, che fu affidata alle cure del vizir di Hülegü, il già menzionato storico Juvaini: egli fu molto impressionato dal sito, lasciandocene un’ammirata e accurata descrizione. Hülegü, infine, incaricò un emiro – assistito da una truppa di soldati e coscritti – di demolire il castello. I picconi non furono di alcuna utilità, e allora si utilizzò il fuoco. Dopo il rogo, i resti delle costruzioni furono fatti letteralmente a pezzi: cosí finiva Alamut, il cui solo nome, per piú di un secolo e mezzo, aveva terrorizzato il mondo. Poi toccò a Rukn al-Din: la sua vergoTERRE LEGGENDARIE

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ALAMUT

La setta degli Assassini

Ancora un’immagine del sito di Alamut, nell’odierno Iran.

OPERA DELL’UOMO, EPPURE DIABOLICA La piú dettagliata descrizione della rocca degli Ismailiti è quella dello storico Juvaini, al quale fu affidata la fortezza da Hülegü prima che se ne decretasse la definitiva distruzione: «In verità era un castello le cui entrate e uscite, salite e punti di approccio, erano stati cosí rafforzati da mura intonacate e da bastioni coperti di piombo, che, quando lo si stava demolendo, era come se il ferro battesse la testa su una pietra; ed era sprovvisto di tutto, eppure resisteva ancora. E nella cavità di quelle rocce gli Ismailiti avevano costruito parecchie gallerie lunghe, ampie e alte, e profonde cisterne, facendo a meno di usare pietra e malta. In ugual modo avevano scavato magazzini e cisterne per vino, aceto, miele e ogni sorta di liquidi e di solidi. E l’arte dei demoni tutti si scorgeva in questa struttura come prodotto del lavoro manuale di uomini. Quando si stavano saccheggiando e portando via le sue scorte, un uomo scese nella cisterna del miele per guardarla, senza rendersi conto di quanto fosse profonda, e ancor prima di accorgersene si trovò immerso nel miele come Giona. E dal fiume vicino avevano portato una conduttura sino ai piedi del castello, e di là un condotto era stato tagliato nella roccia in mezzo al castello e cisterne simili a oceani, anch’esse di roccia, erano state costruite al di sotto, sí che l’acqua vi si raccogliesse per il proprio impeto, e affluisse continuamente. La maggior parte di queste provviste di liquidi e solidi, che avevano accumulato fin dal tempo di Hasan-i Sabbah, cioè da piú di centosettanta anni, non mostrava segni di deterioramento, ed essi consideravano ciò un effetto della santità di Hasan. La descrizione degli ulteriori ordigni di guerra, e delle altre provviste, è piú di quanto possa essere inserito senza tedio in un libro» (traduzione di Gian Roberto Scarcia, Ata-Malik Juvaini, Gengis Khan, Oscar Mondadori, Milano 19912; p. 805 ss.).

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gnosa capitolazione non serví infatti a salvargli la vita, poiché un vecchio decreto di Gengis Khan aveva stabilito che nessun ismailita dovesse essere risparmiato. Cosí, l’ultimo imam dell’ordine, che era giunto fino a Karakorum per perorare la sua causa, fu rimandato indietro e, lungo la strada, venne massacrato a furia di calci e poi passato a fil di spada dalla scorta mongola. Come scrive Juvaini, «di lui e della sua stirpe non rimase traccia, ed egli non divenne che una leggenda sulle labbra degli uomini e una tradizione nel mondo». L’uccisione di Rukn al-Din fu il segnale che diede inizio alle stragi: in ogni luogo, migliaia di Ismailiti che si erano consegnati ai Mongoli furono trucidati senza tener conto dell’età e del sesso: anziani, donne e bambini non sfuggirono a quell’atroce sorte. Solo gli

In alto ritratto di Genghis Khan, dipinto su seta. XIV sec. Taipei, Palace Museum.

Ismailiti di Siria evitarono il massacro, arrendendosi al grande sultano mamelucco Baibars, il trionfatore della decisiva battaglia di Ayn Jalut (1260) che segnò la fine della dominazione mongola in Oriente. In ogni caso, da allora in poi l’ismailismo in Persia e in Siria si ridusse a un’eresia assolutamente minoritaria, riapparendo sul palcoscenico della storia solo alla fine del XIX secolo, quando l’imamato dei «nizariti» venne fatto proprio dalla dinastia persiana dei cosiddetti Aga Khan. Uno di loro (l’Aga Khan IV) nel 1977 ha fondato a Londra l’Istituto degli Studi Ismailiti, promuovendo cosí la conoscenza di una realtà complessa e affascinante – nella quale si intrecciano profondamente e inestricabilmente elementi religiosi, sociali e politici –, che in maniera troppo frettolosa e superficiale è stata definita come la prima organizzazione terroristica della storia.

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PRETE GIANNI

di Francesco Colotta

Lettere da un paese perfetto...


L’imperatore bizantino Manuele I Comneno, Federico Barbarossa, Luigi VII di Francia... Sono solo alcuni dei destinatari «eccellenti» a cui un misterioso Presbyter Johannes indirizza le sue missive, dai toni arroganti e insolenti. Il mittente si definisce come il «signore» di un regno sconfinato e dalle ricchezze smisurate. Ma chi fu questo bizzarro personaggio? E dove dobbiamo collocare il suo reame, che molti geografi non mancarono di indicare nelle proprie mappe?

«S

Prete Gianni, leggendario monarca cristiano di un favoloso regno posto a Oriente, particolare della carta dell’Oceano Indiano da un portolano del portoghese Diego Homem. 1558 circa. Londra, British Library.

e tu sei in grado di contare le stelle del cielo e i granelli di sabbia del mare, allora sarai in grado anche di valutare la grandezza del nostro regno e del nostro potere». Con queste parole, contenute in una lettera scritta in latino, un fantomatico monarca cristiano di nome Prete Gianni si rivolse all’imperatore bizantino Manuele I Comneno nel 1165. Il misterioso mittente affermava di essere a capo di un reame fiabesco, posto a Oriente, entro i cui confini si poteva realizzare qualsiasi desiderio, anche vivere fino a cinquecento anni: «Se ti manca qualcosa di ciò che ti procura piacere faccelo sapere e otterrai ciò che chiedi» (vedi box a p. 97). Manuele non si lasciò sedurre da tali mirabolanti offerte e archiviò il messaggio senza attribuirgli particolare importanza. Cinque anni piú tardi fece altrettanto Federico I Barbarossa ricevendo una missiva analoga, firmata anch’essa dal Prete Gianni: in questo caso, si parlava di un regno ricchissimo, alla cui autorità erano soggetti ben 72 sovrani e nel quale circolavano stranissime creature, come i «cinocefali», gli «uccelli grifoni che portano un bue», gli «uomini cornuti con occhi davanti e dietro», gli «yllerioni», oltre alle amazzoni e alle terribili genti di «Gog e Magog» (le truppe dell’Anticristo della tradizione biblica), reclutate, però, solo a fin di bene per distruggere i nemici. Ad assicurare stabilità politica e pace sociale provvedeva soprattutto un enorme specchio, posto di fronte al palazzo reale, attraverso cui il sovrano era in grado di captare eventuali complotti in atto a una distanza di moltissimi chilometri (corrispondenti a circa 15 giorni di viaggio). Tra i destinatari di un’altra lettera del medesimo tenore figurava, oltre al re di Francia Luigi TERRE LEGGENDARIE

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PRETE GIANNI

Il signore delle tre Indie

VII, anche papa Alessandro III, che non poté rimanere insensibile di fronte alla raffigurazione di un regno cristiano perfetto, senza povertà, malattie, menzogne e ingiustizie, nel quale erano inoltre bandite l’avarizia e l’adulterio. Per la Chiesa, del resto, il Prete Gianni non era uno sconosciuto: ne aveva già sentito parlare il pontefice Eugenio III, nel 1145, durante un incontro a Viterbo con il vescovo siriano Ugo di Jabala. In quell’occasione il presule aveva riferito al papa un fatto straordinario: nell’«Oriente piú lontano» c’era un prete-sovrano, discendente dei re Magi che, dopo aver sconfitto le truppe musulmane a Ecbàtana (l’odierna Hamadan in Iran), voleva dare man forte alle armate cristiane a Gerusalemme. L’enigmatico re si dichiarava eretico, nestoriano (condividendo la tesi secondo la quale in Gesú erano presenti due persone), ma non poteva per questo essere discriminato dalla Chiesa di Roma, da tempo alla ricerca di proficue sinergie militari. Il problema, semmai, era la sua lontananza, visto che si definiva il «signore delle tre Indie», ovvero di un territorio sconfinato, compreso tra Babilonia e l’Estremo Oriente, tra l’Equatore e il Polo Nord.

L’attraversamento del Tigri

In breve tempo i dettagli sul leggendario monarca si diffusero in Occidente anche tra le truppe crociate, in difficoltà in Terra Santa: un potente regno cristiano a Oriente avrebbe potuto rappresentare l’alleato ideale per prevalere sugli eserciti islamici. Si sperava nel suo avvento anche in Spagna, dove ancora infuriava la disperata guerra di riconquista contro gli Omayyadi. Purtroppo, le aspettative vennero presto deluse, perché il fantomatico re-sacerdote non giunse mai a Gerusalemme e nelle regioni cristiane minacciate dagli «infedeli». Si diceva che il sovrano, in marcia verso Gerusalemme, non fosse riuscito ad attraversare il fiume Tigri con i suoi soldati. Cosí, con il passare degli anni, il Prete Gianni assunse sempre piú le sembianze di una figura impalpabile, che abitava in una terra ai confini del nulla. Ma quelle notizie su un potentissimo regno cristiano situato a Est erano soltanto invenzioni? Fin dal tardo Rinascimento la storiografia liquidò la questione del Prete Gianni come una suggestiva leggenda medievale e le sue lettere come un clamoroso falso. In seguito, insieme alle fantasie, emersero alcuni riscontri 90

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A destra, sulle due pagine mappa del nord-est dell’Africa, dell’Arabia, e di parte dell’India: sulla destra, un personaggio seduto in trono, individuato come Prete Gianni, re di Abissinia, dall’Atlante Vallard, portolano manoscritto e acquarellato da Nicolas Vallard. 1547 circa. San Marino (California), Henry E. Huntington Library and Art Gallery. Il mitico sacerdotesovrano è stato identificato con diversi personaggi storici: tra questi, Yemrehana-Krestòs, sovrano d’Etiopia, e il principe cinese Yelü Dashi, che aveva sconfitto le armate turche nel 1141.


Nella pagina accanto il Prete Gianni in un’incisione ottocentesca tratta da un’illustrazione del 1598, del pittore Cesare Vecellio. Nella seconda metà del XII sec. il sovrano avrebbe inviato lettere ai potenti d’Occidente, che descrivevano una terra perfetta, senza povertà, malattie e ingiustizie.

concreti, che contribuirono a chiarire almeno in parte uno dei grandi misteri dell’Età di Mezzo. Nel resoconto del vescovo Ugo al pontefice Eugenio III, per esempio, si faceva riferimento a una grande vittoria riportata, in quel periodo, da un sovrano orientale su un esercito islamico. Nel 1141, in effetti, il principe cinese Yelü Dashi (a capo del vasto khanato del Kara Khitay in Asia Centrale) aveva annientato le truppe dei Turchi nella battaglia di Qatwan, nei pressi di Samarcanda. Il condottiero si professava buddista, ma i suoi sudditi erano in gran parte cristiani nestoriani.

Secondo studiosi tedeschi del XIX secolo, proprio con il principe Yelü Dashi si doveva identificare la figura del mitico re. Altri sostennero ipotesi diverse, contribuendo alla moltiplicazione dei possibili preti Gianni realmente esistiti: ne emersero altri, infatti, in territorio asiatico, a Edessa (oggi Urfa, in Turchia), e sulla costa del Malabar, situata nell’odierna India. Nel 1177 un medico amico di papa Alessandro III, Filippo, incontrò un gruppo di personalità politiche provenienti dall’Etiopia che si presentarono come sudditi del cattolico «re degli Indiani», chiamato proprio Prete Gianni. A TERRE LEGGENDARIE

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Filippo inoltrarono il desiderio del loro sovrano di avere una chiesa a Roma e un altare nella basilica del Santo Sepolcro di Gerusalemme. Il pontefice collegò la stravagante lettera ricevuta in precedenza a questa richiesta specifica, che sembrava effettivamente riporta-

re la leggenda sul percorso della storia. Per questo si decise a rispondere, ma a chi? Il papa affidò la propria missiva al medico Filippo, che era già stato piú volte in Africa. Della sua missione, però, non si ebbero mai notizie. Alcuni storici moderni ritennero credibile l’i-

L’ERESIA DEL PATRIARCA NESTORIO Diffusosi in Siria, a partire dal V secolo, il nestorianesimo è una delle principali eresie del Medioevo. A promuoverlo fu il patriarca di Costantinopoli, Nestorio (381-451), il quale sosteneva la presenza in Gesú Cristo di due nature e di due persone, unite solo da una scelta volontaristica del verbo divino, non per emanazione «ipostatica», cioè attraverso un processo che congiungeva entità appartenenti alla stessa sostanza. Ne conseguiva l’impossibilità di chiamare Maria di Nazareth «madre di Dio», poiché la Vergine aveva generato solo la parte umana del Messia. La Chiesa di Roma condannò subito le tesi di Nestorio come eretiche: con il Concilio di Efeso nel 431 e, in seguito, con quelli di Calcedonia del 451 e di Costantinopoli del 553. I provvedimenti obbligarono i seguaci della nuova dottrina a emigrare in territori non controllati dal Sacro Romano Impero. Alcuni trovarono ospitalità in Persia, presso la dinastia dei Sasanidi, che professavano il zoroastrismo. Altri, invece, si stabilirono nei regni arabi, convertendosi all’Islam. Il nestorianesimo prese piede, poi, soprattutto in Asia, grazie alla protezione dei khan mongoli e poté anche contare su un vescovo ufficialmente consacrato a Pechino. Con la conversione della Persia all’Islam, nel XIV secolo, cominciò il lento declino della dottrina eretica di Nestorio. In seguito, gran parte dei nestoriani decisero di rientrare nell’alveo del cattolicesimo fondando la Chiesa caldea.

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Nella pagina accanto, in alto miniatura raffigurante Gengis Khan che, insieme alla sua sposa, accoglie alcuni dignitari. XV sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Tra le varie proposte di identificazione, la figura del Prete Gianni è stata associata anche a quella del grande condottiero mongolo. In basso la fortificazione di Tash Rabat, nel distretto di At Bashy, in Kirghizistan, in origine monastero nestoriano, utilizzato come caravanserraglio intorno al XV sec.

potesi dell’esistenza reale di un Prete Gianni di origine africana. Se ne convinsero dopo avere esaminato il profilo biografico del sovrano in quegli anni sul trono d’Etiopia: si trattava di Yemrehana-Krestòs, discendente di una dinastia usurpatrice che, tuttavia, annoverava vari santi riconosciuti dalla Chiesa locale. Il monarca si era molto adoperato per mantenere la pace nel suo Paese e, solitamente, distribuiva di propria iniziativa risorse ai piú bisognosi, non pretendendo tributi dai suoi vassalli. Era, insomma, un buon governante cristiano, come difficilmente se ne potevano trovare all’epoca e sembrava ricalcare alcuni comportamenti pii che nelle lettere il re leggendario d’Oriente si vantava di osservare. Nel XIII secolo, in Terra Santa, si credeva davvero che il Prete Gianni fosse africano, come in fondo risulta in una comunicazione scritta del vescovo di San Giovanni d’Acri, Jacques de Vitry, sulla situazione religiosa in Etiopia: «Sono appena stato informato da un mercante – scrisse nel 1217 – che gli abitanti del paese del Prete Gianni hanno abbandonato il nestorianesimo per diventare Giacobiti». Lo stesso Jacques de Vitry, qualche anno dopo, ricevette informazioni su un altro ipotetico Prete Gianni, che esibiva qualità piú utili alla causa cristiana in Terra Santa rispetto al mansueto regnante etiopico. Si chiamava David e, secondo quanto affermava una Relatio giunta a Damietta nel 1221, aveva sconfitto i musulmani, conquistando diverse città, tra cui Samarcanda. Il vincitore, dopo le trionfali campagne, non si

era fermato e procedeva verso Baghdad. «È sorto un nuovo e possente protettore della cristianità – affermò entusiasta de Vitry –, si tratta di re David dell’India che è sceso in battaglia contro gli infedeli alla testa di un’armata di dimensioni senza precedenti. Un monarca che, comunemente, “era chiamato Prete Gianni”».

I Mongoli alle porte dell’Occidente

Proprio in quegli anni un grande esercito nel cuore dell’Asia stava muovendo verso Occidente con a capo un condottiero che avrebbe segnato la storia del Medioevo: Gengis Khan. Facile fu, allora, identificarlo con l’atteso Gianni, ma solo per un breve periodo. Fino a quando le orde mongole non manifestarono la propria aggressività nei riguardi di chiunque incontrassero sul loro cammino, cristiani compresi. Uno dei piú celebri orientalisti del Settecento, Giuseppe Simone Assemani, ritenne comunque credibile un legame, almeno indiretto, tra il sovrano-sacerdote e Gengis Khan. Il vero Prete Gianni sarebbe stato Wang Khan, all’inizio del XIII secolo, un re della tribú mongola dei Keraiti nestoriani (gruppo etnico mongolo, antenato dei Calmucchi), prima grande amico di Gengis Khan e in seguito annientato dall’esercito di quest’ultimo. La caccia al re fantasma continuò senza sosta. Nel 1248 Luigi IX di Francia decise di inviare uno dei suoi ambasciatori piú fidati, Guglielmo di Joinville, al cospetto del nipote di Gengis Khan, Munke. Uno degli obiettivi della missione era carpire informazioni sull’esistenza di un

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PRETE GIANNI

Il signore delle tre Indie

Prete Gianni nei territori controllati dai Mongoli. Guglielmo tornò indietro deluso, senza le notizie attese da Luigi IX e con la convinzione che sull’introvabile monarca cristiano erano state dette cose «dieci volte maggiori di come stavano in realtà». Anche Marco Polo parlò del Prete Gianni ne Il Milione (1299), descrivendolo come un grande mito ormai solo da ricordare, dopo la capitolazione subita a opera delle armate di Gengis Khan.

Le visioni di John Mandeville

Il fantasma del Prete Gianni riapparve all’improvviso nel XIV secolo, per iniziativa di un viaggiatore inglese, John Mandeville, che, nei suoi resoconti (Travels) assicurò di avere visto il fantomatico sovrano in un regno abitato da ci-

In basso un iperpero, moneta d’oro raffigurante l’imperatore bizantino Manuele I Comneno (1143-1180), coniata a Costantinopoli nel XII sec. Londra, British Museum. Le prime menzioni del nome «Prete Gianni» compaiono nelle missive indirizzate al sovrano bizantino, nel 1165, all’imperatore svevo cinque anni dopo, a papa Alessandro III e al re di Francia Luigi VII.

pia per stabilire un contatto con il sovrano. Gli emissari del monarca portoghese, giunti a destinazione, non trovarono il regno delle meraviglie e l’esercito invincibile che si aspettavano, bensí un paese in ginocchio, funestato dalle incursioni dei musulmani. Alla fine fu Manuele I a dover accorrere in aiuto di un re che non si chiamava Gianni, ma Claudio. clopi, satiri e formiche giganti. La sensazionale testimonianza, però, venne sconfessata dallo stesso autore che rivelò, anch’egli, di aver confezionato un falso colossale. Ma le apparizioni a sorpresa continuarono. Nel 1514 in Portogallo si presentò un messaggero armeno, che affermava di essere in missione diplomatica per conto del Prete Gianni. Il re iberico Manuel I, coltivando il vecchio sogno medievale di alleanza tra Occidente e Oriente cristiano, inviò un’ambasceria in Etio94

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Ed «essi vi faranno Prete Gianni»...

Nessuna delle tante ipotesi su una possibile incarnazione del leggendario re cristiano nella storia appare davvero credibile. Si è fatta strada, allora, la tesi che il Prete Gianni fosse una sorta di titolo onorifico assegnato, nell’area nestoriana delle Indie medievali, a monarchi di indubbio spessore morale e politico. Un brano della versione in ebraico della lettera indirizzata a papa Alessandro III appare in questo senso


esplicativa: «Se desiderate venire nella nostra regione dopo la nostra morte, sarà convenuto che essi vi faranno Prete Gianni». L’attribuzione del nome avrebbe rappresentato, quindi, l’investitura di una funzione spirituale attraverso il rinnovamento di un mito la cui origine si perdeva in suggestive astrattezze. Lo storico Vsevolod Slessarev ritiene che l’epopea del re-sacerdote deriverebbe dal racconto apocrifo degli Atti di San Tommaso, datato tra la metà del III e la fine del IV secolo. Nel testo è contenuta la biografia di uno degli apostoli di Gesú Cristo, Tommaso, con i particolari sulla sua missione in India presso il sovrano Gondofare. L’apostolo, ucciso nel vicino regno del ricchissimo e brutale Mazdai, era riuscito comunque a convertire il figlio di quest’ultimo, Vizan. La tradizione nestoriana identifica Gondofare con uno dei tre re Magi

e Vizan con il Prete Gianni. Afferma in modo esplicito la possibile discendenza da Gaspare, Melchiorre e Baldassare, lo scrittore medievale Giovanni di Hildesheim, nella Historia trium Regum. I re Magi, dopo essere stati convertiti da Tommaso, designarono un loro erede. Non avevano figli e pertanto scelsero un uomo di particolare valore: «E tale governatore nel temporale non doveva essere chiamato re o imperatore, ma Prete Gianni». Una lettura suggestiva dell’enigma insinua il sospetto che la leggenda sul regno fiabesco sia stata invece concepita ad hoc, per fini politici. Le lettere false inviate al pontefice e ai sovrani potrebbero essere state confezionate con l’intento di stimolare un cambiamento di rotta nella gestione del potere in Occidente. Non a caso, ogni singola missiva denunciava ingiustizie e mancanze addebitabili ai singoli

Miniatura raffigurante la pace di Venezia tra papa Alessandro III e l’imperatore Federico Barbarossa, nel 1177, dal Codice Correr I. XIV sec. Venezia, Museo Correr.

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PRETE GIANNI

Il signore delle tre Indie

destinatari, soprattutto nel caso di quella diretta a Manuele I Comneno. Il sovrano di Costantinopoli era chiamato «governatore» in senso diminutivo, veniva accusato di non essere sufficientemente religioso e, infine, deriso agli occhi del suo popolo: «I tuoi piccoli Greci ti credono Dio mentre noi sappiamo che sei mortale e soggetto alle debolezze umane». Al papa, invece, si rimproveravano i massacri in nome della Fede, le persecuzioni nei riguardi degli Ebrei e l’eccessiva brama di potere. Mentre a Federico Barbarossa veniva sottoposto un perfetto modello di gestione del «Sacro Romano Impero», rispettoso dei nemici, caritatevole con i poveri e che non oberava di tributi i vassalli.

Lettere «implicitamente sovversive»

L’intera corrispondenza del Prete Gianni, in base a questa diffusa interpretazione, può essere definita un vero e proprio «pamphlet politico96

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morale». Secondo l’orientalista Leonardo Olschki (1885-1961), si trattava, invece, di «un’utopia politica primitiva, popolare, e messa sotto una forma che potesse improntare la fantasia dei suoi contemporanei». Le lettere cominciarono a circolare nel periodo di grande diffusione delle eresie contro la Chiesa e rifletterebbero, per la storica francese Jacqueline Pirenne, un profondo desiderio di cambiamento nel seno della cristianità: «Le lettere del Prete Gianni ai grandi dell’Europa del suo tempo costituivano una vera e propria campagna di propaganda dettata dall’aspirazione a uscire da questo cristianesimo pieno di rivalità, ambizioni, tradimenti, lotte fratricide, guerre, massacri e miseria popolare; erano implicitamente sovversive, poiché evocavano un vero impero cristiano». Manca, però, il nome del regista di questa campagna ordita per denunciare la decadenza della Chiesa occidentale. C’è chi, in modo forzato,


UN AUTENTICO PARADISO TERRESTRE Alcune lettere del Prete Gianni descrivono con dovizia di particolari i prodigi che si verificavano nell’isola della Manna, abitabile solo grazie all’intervento divino: «Nelle regioni estreme della terra, verso Mezzogiorno, possediamo un’isola grande e inabitabile, nella quale per tutto l’anno, due volte la settimana, Dio fa piovere in grande abbondanza la manna che le popolazioni circostanti raccolgono e mangiano, né vivono di cibo diverso da questo. Infatti non arano, non seminano, non mietono, né in nessun modo smuovono la terra per trarne fuori il suo frutto piú ricco (…) In verità costoro non conoscono altra donna che la loro sposa. Non provano invidia né odio, vivono in pace, non si muovono liti l’un l’altro per i loro averi: non hanno un capo sopra di sé (…) gli uomini di quella terra possiedono pietre preziose e oro rossiccio in grande quantità. Tutti costoro, che si nutrono solo di cibo celeste, vivono cinquecento anni. Tuttavia giunti all’età di cento anni, ringiovaniscono e riprendono forza bevendo per tre volte l’acqua di una fonte che sgorga alla radice di un albero che si trova in quel luogo, vale a dire l’isola di cui abbiamo detto (…) Cosí sempre, ogni cento anni ringiovaniscono e si trasformano completamente».

La fontana della giovinezza, olio su tavola di Lucas Cranach il Vecchio. 1546. Berlino, Gemäldegalerie.

l’ha individuato in alcuni influenti personaggi dell’entourage di Federico Barbarossa. L’obiettivo sarebbe stato quello di dimostrare al pontefice che esisteva nel mondo, a Oriente, un monarca in grado di incarnare contemporaneamente l’autorità temporale e il potere spirituale, come era nelle aspirazioni dell’imperatore tedesco. Anche a Federico, comunque, il Prete Gianni aveva rivolto varie critiche nell’epistola a lui destinata. Come spiegare questa incongruenza? La tesi, tuttavia, segue una logica stringente in molte sue argomentazioni. I principali sospettati come autori delle lettere sono il vescovo Ugo di Jabala, che riferí al papa le informazioni in suo possesso sul Prete Gianni, e un altro presule, Ottone di Frisinga, zio materno di Federico. Uno degli indizi chiave sembra coinvolgere soprattutto quest’ultimo, e cioè colui che trascrisse le rivelazioni di Ugo di Jabala circa lo sconosciuto re cristiano. Il resoconto di Ottone di Frisinga (Chronica) risulta, infatti, inframmezzato da elementi tratti dal noto Romanzo di Alessandro Magno e da una sconosciuta Epistola ad Aristotelem, con la quale il condottiero macedone svelava le meraviglie e le strane creature da lui viste a Oriente nel corso delle campagne militari: in questo inedito documento si trovano descrizioni di mostri e creature molto simili a quelle rintracciabili nella missiva del Prete Gianni. Ottone, insomma, avrebbe avuto il sufficiente «retroterra culturale» per comporre una lettera di quel tipo.

La forza della tradizione orientale

La portata rivoluzionaria del Prete Gianni come modello perfetto di unione tra le funzioni regali e quelle sacerdotali risultava evidente anche solo in senso simbolico. Era la forza della tradi-

zione orientale e delle sue grandi sintesi che irrompeva in un Occidente ormai lacerato da innumerevoli divisioni. Per lo scrittore e filosofo francese René Guénon (1886-1951) «l’idea di un personaggio che è sacerdote e re al tempo stesso» non risultava «molto comune in Occidente» anche nel Basso Medioevo, segnato dai conflitti tra papato e impero: «In Oriente, al contrario, il mantenimento di una separazione al vertice stesso della gerarchia» appariva «abbastanza eccezionale». Non è azzardato supporre che il Prete Gianni rappresentasse una delle tante varianti o imitazioni sbiadite del mito del «re del mondo»: ossia del sovrano che, secondo la tradizione asiatica, abitava nella città sotterranea di Agarthi per preservare la propria identità di capo supremo semidivino, in grado di assicurare il collegamento tra il trascendente e il mondo terreno. Durante il Medioevo la figura del Prete Gianni ispirò il recupero di miti della tradizione occidentale, primo fra tutti quello del Graal. Il poeta tedesco Wolfram von Eschenbach, nel suo Parzifal, composto intorno al 1210, fece assumere al re delle Tre Indie la veste di un membro della razza eletta del Graal. Alcuni storici identificarono la figura del Prete Gianni di Eschenbach come una sorta di Parsifal d’Oriente, rilevando la prevalenza nell’opera di significati esoterici rispetto a quelli cristiani. Con la condanna dei Cavalieri templari, si avvertí l’esigenza, almeno sul piano letterario, di trovare un’altra sede al Graal, che si riteneva fosse custodito nel castello di Montsalvat. Nel 1270 un altro poeta tedesco, Albrecht von Scharfenberg, nel suo Jüngere Titurel collocò la coppa proprio nel regno del Prete Gianni in un vago, indefinito, Oriente. TERRE LEGGENDARIE

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CUCCAGNA

di Claudio Corvino

«Chi piú dorme, piú guadagna»

In un’epoca scandita da terribili carestie, la fame figurava tra le paure piú grandi. Ecco, dunque, affacciarsi la visione di un mondo in cui predominano ricchezza e abbondanza, dove poter vivere beati in case dai tetti di prosciutto e circondati da fiumi di vino…


«L

í non vi sono scuole: lí non vi sono ma non vi sono libri. In quel Paese benedetto non si studia mai. Il giovedí non si fa scuola: e ogni settimana è composta di sei giovedí e di una domenica. Figurati che le vacanze dell’autunno cominciano col primo di gennaio e finiscono con l’ultimo di dicembre». Cosí Lucignolo presentava il Paese dei Balocchi a Pinocchio, sempre in bilico tra una vita vuota e spensierata, da burattino di legno, e l’inevitabile accettazione di una morale che l’avrebbe portato a divenire bambino in carne e ossa. È con questo fiabesco viaggio nel Paese dei Balocchi che la letteratura infantile dell’Ottocento recupera l’antico mito del Paese di Cuccagna, la fantastica terra medievale ove «chi piú dorme, piú guadagna». Una Cuccagna filtrata dalla morale dei raccoglitori di tradizioni ottocentesche, schiacciata come una foto d’epoca in una moda che eliminava quanto di «grossolano», «popolare» o «erotico» vi fosse nei racconti che circolavano oralmente, per sostituirlo con ideali piú consoni alla nuova Europa che si andava formando: Patria, Famiglia, Nazione. Cosí i fratelli Grimm, Bechstein e Collodi riprendevano Cuccagna edulcorandola da tutti i fermenti popolareschi: quest’ultimo

Il Paese di Cuccagna, olio su tavola di Pieter Brueghel il Vecchio. 1567. Monaco di Baviera, Alte Pinakothek.


MONDI FIABESCHI

Il Paese di Cuccagna

SALSICCE PER LEGARE LE VIGNE Nel Decamerone (V III, 3) di Boccaccio troviamo una delle piú antiche testimonianze italiane del Paese di Cuccagna. Qui Maso racconta a Calandrino di pietre preziose, che «si trovavano in Berlinzone, terra de’ Baschi, in una contrada che si chiamava Bengodi, nella quale si legavano le vigne con le salsicce, e avevasi un’oca a denajo e un papero per giunta. Et eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti che niuna altra cosa facevan che far maccheroni e ravioli, e cuocergli in brodo di capponi, e poi gli gettavan quindi giú, e chi piú ne pigliava piú se n’aveva. E ivi presso correva un fiumicel di vernaccia (...). “Oh!” disse Calandrino “cotesto è buon paese; ma dimmi, che si fa de’ capponi che cuocon coloro?”. Rispose Maso: “Màngianglisi i Baschi tutti”. Disse allora Calandrino: “Festivi tu mai?”. A cui Maso rispose: “Di’ tu se io vi fu’ mai? Sí, vi sono stato cosí una volta come mille!”. Disse allora Calandrino: “E quante miglia ci ha?”. Maso rispose: “Hàccene piú di millanta, che tutta notte canta”».

trasformandolo in luogo dei Balocchi, gli altri purgando la storia di Cuccagna persino di quegli elementi che sarebbero tanto piaciuti agli stessi ragazzi. In questo Paese del «dolce far niente», narrava la fonte letteraria dei ricercatori tedeschi, «ogni peto vale un tallero»: ma tali caratteristiche dovevano sparire in un racconto pensato per andare sui banchi di scuola o accanto a un focolare borghese.

Memorie di un pellegrino

Se ritroviamo la parola «Cuccagna» per la prima volta nel 1142, e da un poema goliardico del 1164, i Carmina Burana, apprendiamo dell’esistenza di un abbas Cucaniensis, figura molto vicina agli abati burleschi delle feste dei folli, la prima vera e propria descrizione del mitico Paese l’abbiamo alla metà del XIII secolo, in un 100

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A sinistra e a destra particolari della Distribuzione delle elemosine, facente parte del ciclo affrescato da Domenico di Bartolo nel Pellegrinaio dell’ospedale senese di S. Maria della Scala. 1441-1442. In basso un’allegoria della carestia in un’incisione di Giovanni Zaratino Castellini per l’opera Della novissima Iconologia di Cesare Ripa. 1625-1626. Nella pagina accanto il Paese di Cuccagna in una stampa settecentesca (in alto) e in un foglio a stampa usato dai cantastorie in Germania (in basso).

fabliau di origine piccarda. In questo buffo racconto in versi, un giovane narra in prima persona di un pellegrinaggio, ordinatogli dal papa, in una regione «benedetta e consacrata piú di ogni altra contrada», «ove ho visto molte cose meravigliose». Il pellegrino giunge cosí nel Paese di Cuccagna, «dove piú si dorme piú si guadagna», tanto che «chi dorme sino a mezzogiorno, guadagna cinque soldi e mezzo». Il paesaggio è affatto particolare, visto che i muri delle case son fatti «di spigole, di salmoni e di aringhe», «i tetti di prosciutti e i correnti di salsicce». Ma non finisce qui: in questo carosello culinario, incuranti del pericolo, sprezzanti del dolore, si rosolano ben pasciute oche «che girano da sole su se stesse»; i fiumi sono fatti di vino e, cosa piú importante di tutte, non si lavora mai: similmente a quanto spiegherà Lucignolo molti secoli dopo, in questo Paese di Bengodi «quattro Pasque ci sono in un anno, e quattro feste di San Giovanni, e quattro vendemmie, ogni giorno è festa o domenica, quattro Ognissanti, quattro TERRE LEGGENDARIE

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MONDI FIABESCHI

Il Paese di Cuccagna

La prima descrizione vera e propria del mitico Paese l’abbiamo alla metà del XIII secolo, in un fabliau di origine piccarda 102

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Natali, e quattro Candelore per anno, e quattro Carnevali». Festa non molto desiderata, «la Quaresima cade ogni vent’anni», mentre ognuno può raccogliere denari da terra, che comunque non servono a niente, perché in questo Paese «nessuno compra e nessuno vende». Neanche a dirlo, «le donne poi sono bellissime, dame e damigelle prende chi ne ha desiderio (...) e se accade per avventura che una donna posi gli occhi su un uomo ch’ella concupisca, può prenderselo pubblicamente». Inoltre, cosa di non poco conto, «c’è la fontana della giovinezza che fa ringiovanire la gente». Rappresentazione allegorica del peccato di gola dalla Tavola dei Peccati Capitali, olio su tavola di Hieronymus Bosch. 1505-1510. Madrid, Museo del Prado.

Abbondanza, inoperosità, uguaglianza, giovinezza: sono alcuni dei tratti del fabliau de Cocagne che diverranno stabili elementi del suo mito letterario fino al Novecento. L’abbondanza, in particolare quella alimentare, diventerà sinonimo di Cuccagna: il suo stesso etimo, non certo, sembra legato al latino coquere, cucinare, o forse al provenzale cocagna, derivato da coca, coque, guscio d’uovo, buccia di frutta, o ancora dal medio tedesco ko-

kenje, torta. Piú certa sembra essere la sua origine meridionale, mediterranea, visto che nelle lingue del Nord Europa le antiche designazioni medievali del Paese sono sostituite con termini locali come il tedesco Schlaraffenland (da slûr, qualcosa come ciondolare, lavorare svogliatamente, e Affe, scimmia) o l’inglese Lubberland. «Il piacere degli occhi e la bellezza delle cose – scriveva lo storico Fernand Braudel – nascondono i tradimenti della geologia e del clima, e fanno dimenticare che il Mediterraneo non è mai stato un paradiso offerto gratuitamente al diletto dell’umanità».

Sollievo onirico

L’inevitabile frugalità e la sobrietà contadina non furono mai una scelta deliberata, ma una condanna: se sul Mediterraneo sono nati i Carnevali, i sogni compensativi delle classi subalterne, il Paese di Cuccagna, è perché sullo sfondo ci furono realissimi «Paesi della fame». Ed è in un simile scenario di vuoto alimentare, assenti ogni minima forma di apporto proteico o vitaminico, che si fanno strada, tra le mille difficoltà dell’alienazione e della frustrazione, i vissuti onirici del mondo subalterno che cercherà disperatamente conforto e sollievo nei sogni compensatori di mondi immaginari, di paradisi perduti o da riconquistare che giacevano tra le pieghe di una realtà incomprensibile. Il soggiacere a una società e a una natura non benigna troverà il suo riscatto in una nuova acquisizione di potenza: la potenza creatrice del sogno, dell’immaginario gratuito e profumato. Da qui scaturiranno i tridimensionali sogni compensativi della miseria della quotidianità, dello squallore di una ragione viziata. Qui ritroviamo il terreno, i vissuti su cui si fonderanno gli imponenti e talvolta drammatici onirismi del mondo contadino o suburbano: le riunioni sabbatiche a sfondo orgiastico delle streghe, le varie Fontane della Giovinezza, l’Isola dei Beati e il sereno, allegro e saporito Paese di Cuccagna. L’abbondanza era sognata perché la fame era realmente una grande paura: tra il XII e il XIV secolo, periodo di progressi economici e di relativa stabilità politico-sociale, nell’Europa cristiana si ebbero grandi carestie, con una media di una ogni cinque anni. Di alcune abbiamo orribili descrizioni che ci mostrano uomini e donne che «scavavano una terra bianca di tipo argilloso, la meTERRE LEGGENDARIE

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MONDI FIABESCHI

Il Paese di Cuccagna Castello della Manta (Cuneo). Fontana dell’Eterna Giovinezza, affresco della sala baronale, opera di un artista ignoto designato come Maestro della Manta, ma da alcuni assegnata invece a Giacomo Jaquerio. 1416-1420 circa.

OTTUNDERE LA MENTE PER DIMENTICARE LA FAME Povertà, fame, malattia sembrano essere i tratti principali che uniscono i tuguri cittadini alle capanne della campagna medievale. A fare da collante, un’endemica e ricorrente disoccupazione, che colpiva le plebi europee con una virulenza simile alla peste: «Questi miserabili hanno rotto con il lavoro – scriveva Fernand Braudel –, ma il lavoro, l’occupazione ha precedentemente rotto con loro». Le «politiche sociali» non esistevano, perlomeno non andavano oltre le pie confraternite della buona morte o per i poveri. Ancor piú blande panacee saranno le ideologie legate al primato della povertà o, come si dirà

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piú tardi, della «povertà contenta», dove solo i «ricchissimi poveri» potranno ottenere il «tesoro della povertà» visto che la «scuola di Cristo sola è potente a far beata la povertà» (Daniello Bartoli, La povertà contenta, Venezia 1678). Ma il trovare rimedi su questa terra è di questa terra. Ecco allora un contemporaneo, Paul Dubé, che arriverà a suggerire «rimedi anodini, quelli che nominiamo sonniferi, ovvero ipnotici, e quelli che diciamo stupefattivi o narcotici...». Rimedio non nuovo, già noto da secoli a «donnette e uomin di bassa condizione», che candidamente rivelavano ai giudici dell’Inquisizione di utilizzare piante e sostanze che


scolavano con un po’ di farina o di panno e ne facevano pane per non morire di fame», oppure, come riporta una cronaca del 1316, poveri che «come cani [se è lecito dirlo], addentavano i cadaveri delle pecore crudi e divoravano l’erba dei campi come le bestie, senza cuocerla». Sono testimoniati, inoltre, casi di cannibalismo. Non meravigli allora che in quest’epoca affamata nascano e si diffondano leggende come quelle dell’oste-orco che mangia i viandanti (e i bambini), o che i protagonisti dei romanzi, come il Roman de Renart, sembrino muoversi esclusivamente spinti dalla ricerca di cibo. Come ogni società che si rispetti, dai Romani ai samurai giapponesi, anche il Medioevo europeo ebbe le sue pratiche simboliche tese a sottolineare l’abbondanza alimentare: non vi è società, per quanto povera, e come antidoto a questa sua povertà, che non prelevi una porzione del suo prodotto e non lo getti via, lo sperperi. A favore di entità soprannaturali, oppure per indire feste e banchetti che uniscano i partecipanti, che fondino nuovi luoghi e nuovi tempi, come nel Capodanno: ci si abboffa per ottenere una garanzia istituzionale della riproduzione di cibo, o per esorcizzare l’insicurezza e il pensiero della carestia. Nell’Europa medievale il rito si rifugiò nel sogno, con le utopiche abbuffate dei Paesi di Cuccagna.

Gli accattoni, acquaforte di Jaques Callot. XVII sec. Nancy, Musée Lorrain.

periodo di transizione dalla società signorile medievale a quella moderna borghese, quando cioè i nuovi rapporti merce/denaro, i capitali commerciali e l’economia urbana mutano radicalmente il carattere del lavoro umano in Europa. Se nel sistema agrario tradizionale la produzione era limitata al soddisfacimento dei propri bisogni alimentari, all’alba del mondo moderno il ricavato del lavoro, a causa della sua trasformazione in denaro, è moltiplicabile al di là di ogni limite: è cosí che la pigrizia, l’ozio, diventerà il «padre dei vizi», mentre in quel mondo alla rovescia che è Cuccagna sarà la vera fonte di guadagno. Non è escluso che, nelle forme contesta-

L’ozio diventa il «padre dei vizi»

L’esaltazione del dolce far niente sembra essere un tratto peculiare del XIII secolo, epoca in cui è al culmine la promozione di quel concetto del lavoro che dall’Alto Medioevo, memore della maledizione del Genesi, fu lentamente riabilitato grazie anche alle nuove incombenze dello sviluppo agricolo e urbano. È questa l’epoca in cui nasce il proverbio «Il lavoro supera la valentia». L’apoteosi della pigrizia, perlomeno il suo sogno cuccagnano, si sviluppa nel

conducevano al delirio e ai confini di mitici e allucinati Paesi, come quello di Cuccagna, alle Isole Fortunate o agli altri «Mondi alla rovescia», al reame di Goga Magoga, alla Montagna Incantata, e soprattutto, al notturno e demoniaco Sabba. Qui droghe dell’immaginazione e sostanze stupefacenti si mescoleranno in un gigantesco sonno della ragione (di giudici e imputati) che appagherà il sogno di plebi affamate e stracciate di trovare un luogo dove si possano «consumare grandi forme di formaggio, ammazzare enormi buoi e arrostirli, e di compiere molte azioni del genere» (Bartolomeo Spina, Quaestio de strigibus, 1523).

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MONDI FIABESCHI

Il Paese di Cuccagna A sinistra frontespizio di una copia a stampa dell’opera Capitolo di Cuccagna. XVI sec. In basso Il generale von Fressdorf e Wansthausen appena giunto dall’America nel Paese di Cuccagna, incisione. Fine del XVII sec.

Anche il Medioevo europeo ebbe pratiche simboliche tese a sottolineare l’abbondanza alimentare

tive della parodia letteraria, vi sia nel fabliau e nella letteratura coeva «cuccagnana» anche l’eco degli ambienti religiosi contro il prestito a interessi: come ci ha mostrato Jacques Le Goff, l’usuraio è colui che guadagna dormendo, perché è il suo denaro che «lavora» per lui. Nel mondo rovesciato di Cuccagna, è chi piú dorme che piú guadagna. Altro tratto del fabliau di cui dicevamo è l’uguaglianza. Dal cinquecentesco Capitolo di Cuccagna sappiamo che qui «non c’è duca, né signor, né conte, / ognun ci vive alla sua libertade». Sono parole forti, nelle quali si esprime tutto lo spirito contestatario (potenzialmente pericoloso) dell’utopia di Cuccagna. Ma qui l’eguaglianza non sembra essere un programma politico, una piattaforma rivendicativa, bensí un’innocua conseguenza dell’immagine di dovizia e di abbondanza del Paese. A Cuccagna non si mira all’abolizione delle gerarchie o del lusso: semplicemente, tutto è diffuso egualmente, proprio come gli alimenti e l’oro si ritrovano in ogni angolo di strada. Ricordiamo che a Cuccagna non esiste produzione, ma solo distribuzione (gratuita) e consumo (egualitario). Il modo piú comune nel Medioevo per accertare l’invecchiamento erano i capelli bianchi: ecco allora che a Cuccagna, grazie alla Fonte della Giovinezza, questi scompaiono, come scompare la scarsa e triste aspettativa di vita, stimata in 35 anni nell’Inghilterra del XIII secolo. Per poter godere del bene che vi è in Cuccagna, bisogna essere innanzi tutto giovani e giovani per sempre, ecco perché è messa lí quell’acqua miracolosa che ha la capacità di far ritornare indietro la vita.

Origini remote

«Sebbene questo Paese meraviglioso sia stato senza dubbio una creazione medievale – ha scritto Le Goff – il suo materiale costitutivo è molto piú antico». La stessa Fontana a cui accennavamo sembra ricollegarsi alle antiche rappresentazioni mitiche del Paese dove mai si muore, o alla cultura giudaica del morire «senex et plenus dierum», come è scritto in Giobbe (42, 17). Ma è comunque difficile riconoscere tutti i singoli tracciati che compongono le strade del Paese di Cuccagna. Esiste una legge di permutabilità, individuata da Vladimir Propp, secondo la quale le parti costitutive di un racconto meraviglioso possono essere trasportate in altri senza che ciò causi gravi alterazioni agli intrecci. Cosí vediamo che il fabliau duecentesco funge da catalizzatore di antichi miti mediorientali come 106

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ALL’ASSALTO DEL CIBO A Napoli, nel Settecento, la Cuccagna diviene una festa elargita dal re al popolo. Evoluzione delle sfilate di carri alimentari proposti dalle corporazioni degli artigiani, Cuccagna ha un indirizzo: comincia ad avere la sua sede stabile a partire dal 1746 in largo di Palazzo, davanti alla dimora del re. Costosissimo apparato scenografico in legno, cartapesta e tela, è qui che viene rappresentato quasi alla lettera il nostro mitico Paese: c’era il castello delle delizie, completamente ricoperto di quarti di carne, uccelli vivi e morti, salami, capicolli, fontane da cui gorgogliava vino fresco, microscopici laghetti in cui nuotavano placide oche e anatre. Su erba posticcia poi pascolavano delle greggi, custodite da una sorta di pastori da presepe, ma molto piú grandi. Il tutto, sorvegliato a mano armata dai soldati del re, che evitavano prematuri furti e disordini, e piú da lontano, dal re, che osservava tutto dal suo balcone. Prima dell’inizio, si rendeva omaggio a sua maestà con la lettura di una poesia poi, al momento giusto, questi faceva un cenno con il suo fazzoletto: in pochi secondi il popolo, facendosi largo con pugni e coltelli, si riversava in massa su quella struttura, devastando tutto e prendendo quanto piú possibile. Non mancarono incidenti gravi, in cui persero la vita decine di persone. L’antico Paese di Cuccagna, da mito collettivo, è cosí diventato una festa «per» il popolo, sotto lo sguardo divertito del re e della sua corte.

quelli dell’Epopea di Gilgamesh (2500 a.C. circa), che raccontano di una favolosa terra dove «pioveranno in abbondanza gli uccelli migliori, i pesci piú deliziosi, le messi piú ricche. Al mattino pioveranno pani e alla sera vi sarà abbondanza di frumento», oppure di storie di fantastiche terre oltre le Colonne d’Ercole, che Luciano di Samosata (120-185 d.C. circa) descrive nella sua Storia vera. Qui gli eroi vivono un’eterna primavera senza mai invecchiare oltre l’età posseduta al momento della morte, in un luogo dove l’uva matura dodici volte l’anno, il pane cresce direttamente sulle spighe e i fiumi sono colmi di vino e miele. Relitti mitici vaganti nelle derive della storia, anche nella Grecia del V secolo a.C. troviamo ruscelli di vino e pani che gareggiano per essere divorati dagli uornini, pesci che si friggono da soli e nuotano nei piatti, un fiume di minestra che trasporta pezzi di carne pronti per essere collocati sui tavoli posti alle sue rive (Teleclide, Gli anfizioni). Se i navigatori greci parlano del favoloso Regno dei Persiani, o di Atlantide,

Incisione raffigurante un arco della Cuccagna fatto di pane, formaggio e maialini di latte realizzato in onore del duca Antonio Alvarez di Toledo, viceré di Napoli, in occasione della festa di San Giovanni Battista, il 23 giugno 1629. Napoli, Biblioteca Nazionale.

Esiodo, ne Le opere e i giorni, narra di un Paese che non conosce vecchiaia, ma solo feste e allegrezza, dove la terra forniva spontaneamente e generosamente i suoi frutti. Entrarono a far parte del mito profumato di Cuccagna anche i contigui paradisi che gli uomini di fede immaginarono di incontrare dopo la morte: le terre dell’abbondanza «dove scorrono latte e miele» degli Ebrei, le terre fantastiche, straripanti di meraviglie che fecero da sfondo all’aldilà dei Celti, prima fra tutte la mitica Avalon, dove fu portato re Artú ferito, e il Paradiso musulmano, che, nel 1033, Abul Ala-Ma’arri descriveva come una terra dove grasse oche si presentavano arrostite agli uomini, per poi prendere la loro forma originale dopo essere state mangiate. Certamente la sua ubicazione, i suoi confini, sono sempre stati misteriosi e irraggiungibili: nel Land of Cokaygne, versione irlandese del XIV secolo, chi vuol giungere a Cuccagna deve stare sette anni «immerso fino al mento nel liquame di maiale», o dovrà, secondo un canto del CinquecenTERRE LEGGENDARIE

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MONDI FIABESCHI

Il Paese di Cuccagna

IL BANCHETTO COME CONQUISTA Una delle «funzioni» costanti delle fiabe è il «danneggiamento» o la sciagura iniziale: senza di questa, non inizierebbe, non ci sarebbe storia. Una particolare forma di questa funzione è la condizione di disagio economico, di povertà, di fame: «Viveva in un paese una vecchia stravecchia, che aveva un figlio né grande, né piccolo, tale che non poteva ancora lavorare bene nei campi. Ed ecco, essi arrivarono al punto che non avevano piú nulla da mangiare» (Aleksandr N. Afanasjev, Antiche fiabe russe, 232). La fame sembra essere spesso il principale pensiero di protagonisti perennemente digiuni: «Capitò un’annata assai brutta, e la carestia si fece tanto sentire che quei poveri sposi decisero di disfarsi dei loro figlioli» (Perrault, Pollicino). E Giambattista Basile, con il suo tipico fraseggio barocco, ci narra del povero Parmiero che «non si reggeva in piedi. E, vedendo che non trovava dove buttarsi per morto, e che la fame gli cresceva in proporzione, e i vestiti gli cascavano a brandelli, venne in tanta disperazione...». Questi personaggi, assediati dalla fame, partono alla disperata ricerca di un qualcosa da «mettere sotto i denti» e la fiaba diviene cosí un viaggio dell’immaginardio dalla fame alla sazietà, dall’incertezza del vuoto gastrico alla sicurezza del ristabilimento dell’ordine interno, della pienezza del ventre. Il banchetto è sintomo di vittoria, anzi è per sua natura la stessa conquista di qualcosa: la vittoria sulla vita, il trionfo contro la morte. Il pranzo collettivo, in quest’ottica, diviene una formula conclusiva, un’immagine attiva e trionfante che conclude il processo di duro lavoro e le prove che l’eroe ha dovuto sostenere per ristabilire l’ordine interrotto al principio della fiaba.

to, andare «tre miglia dietro Natale (...) a sinistra, vicino al Paradiso». Non solo i confini, ma anche la stessa Cuccagna è destinata a cambiare, mutando forma e significato con lo scorrere dei secoli. In Germania lo Schlaraffenland ha sempre mostrato i suoi tratti piú rozzi e grossolani: da un testo di Hans Sachs (1530) apprendiamo che «un peto vale un soldo di Bingen, / tre rutti un tallero di Sankt Joachimsthal». Eppure proprio nel mondo tedesco Cuccagna cominciò presto a essere disprezzato, complice anche la riforma protestante, che equiparava la vita monacale dei cattolici alla «poltroneria» schlaraffiana. Lo stesso Lutero ebbe a scrivere che «tutti questi conventi e istituti religiosi cominciano a cadere e devono finalmente venire eliminati, e ora si giunge alla verità, che il monachesimo è il vero Paese di Cuccagna, pieno di tutto per i pigri frati, compresa anche la fontana della vita, che è il loro falso battesimo». Con il protestantesimo, il lavoro viene nobilitato, il successo nell’impresa acquisito come segno divino, la diligenza e la previdenza mete da perseguire: niente di piú logico che l’oziosità cuccagnesca diventasse il piú orrendo dei peccati.

L’incontro con la geografia

Nel resto d’Europa, Cuccagna subí molti cambiamenti. Dai viaggi di Colombo in poi, anche tra le masse cominciano a nascere speranze di un «mondo altro» reale, e i motivi cuccagneschi della natura rigogliosa, della ricchezza dell’oro, della libertà sessuale iniziavano a circolare insieme alle vaghe informazioni sulle Americhe. Ne nacque una letteratura specialistica popolare, che avrà lunghissima durata e che fece confluire in questo Mundus Novus vaghe idee geografiche, sociali e religiose. Cosí si avranno varie pubblicazioni sul tipo del Capitolo, qual narra tutto l’esser de’ un mondo nuovo, trovato nel mar Oceano (Modena, metà del Cinquecento), in cui, oltre alla solita «montagna di casio grattato / sola si vede in mezzo alla pianura, / che in cima una caldara gli han portato», si cominceranno a concepire mondi che non abbiano il vincolo delle istituzioni sociali, in cui il selvaggio, il «buon selvaggio», vive una vita libera e «naturale». Il Mundus Novus diventò sempre di piú una concreta speranza di sfuggire al «vecchio mondo» e al suo repressivo ordine assolutistico. La piú chiara esemplificazione dello slittamento, nella geografia e nell’immaginario, di Cuccagna l’abbiamo in un’illustrazione della fine del Seicento dove si vede un buffo omino con una 108

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In alto il gioco della Cuccagna, incisioni di Giuseppe Maria Mitelli. 1691. Roma, Gabinetto Nazionale delle Stampe. Nella pagina accanto Hansel e Gretel si dirigono verso la casa di pane e cioccolato, illustrazione di Kay Nielsen per la fiaba dei fratelli Grimm.

pancia tanto gonfia da doverla portare su di un carretto. Indicativo il titolo: Il generale von Fressdorf (fressen è «divorare») e Wansthausen (Wanst è «pancione» o «trippa») appena giunto dall’America nel Paese di Cuccagna. È qui e ora che comincia a nascere il mito dell’America come «terra di libertà», dove gli uomini eletti (in genere protestanti) potranno esperire nuove forme di vita e di governo: saranno i «Padri» (pellegrini, fondatori... ) di una nuova civiltà. Potranno senza dubbio esistere anche altri «paradisi terrestri» fra le nuove scoperte geografiche, primo fra tutti la mitica Tahiti, ma è certo che dal Settecento in poi i loro abitanti saranno guidati dall’uomo bianco, il cui prototipo sarà Robinson Crusoe, un protestante capitalista asceticamente dedito al lavoro, sovrano di Venerdí e signore della sua isola, avanguardia letteraria della colonizzazione bianca.

Cosí, lentamente, il Settecento, secolo di corteggiamento del mito del possesso e del potere, della sovranità intesa come centralità dell’esperienza umana e specchio di un nuovo ordine dell’universo, divenne il funerale di Cuccagna. Il piú potente mito d’evasione delle genti diviene un narcotizzante rifugio per oziosi poltroni o, magari, una malinconica grande abbuffata da fare al chiuso delle sale principesche, raramente aperte alla folla nelle feste di piazza elargite dai re, nelle feste popolari. Il mitico Paese, come ha scritto lo storico e filologo Piero Camporesi, «cede lentamente il passo alla progressiva privatizzazione di un immaginario teatro comunitario che aveva avuto invece nella comunione dei beni e nella socializzazione della gioia fisica e del benessere corporale la sua logica antica, anzi la sua sacralità, la sua religio». TERRE LEGGENDARIE

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SHANGRI-LA

di Paolo Galloni

Alla ricerca della valle nascosta

Il mistero di Shangri-La nasce ufficialmente poco meno di cento anni fa, grazie alla fantasia del romanziere James Hilton. Ma il mito di un luogo circondato da montagne altissime, abitato da saggi dediti ai valori della pace e della spiritualità, affonda le sue radici nei secoli del Medioevo 110

TERRE LEGGENDARIE

I

l (meritatamente) celebre psicoanalista statunitense James Hillman ha osservato che nei secoli XIX e XX, in Europa e America, si è creato un nesso molto stretto tra la rappresentazione dell’inconscio e le immagini dei paesaggi naturali. Gli scenari grandiosi e «spirituali» dell’Himalaya e del Tibet sono stati tra quelli che piú hanno colpito l’immaginazione occidentale a partire dalla fine del Settecento. Nel 1730 il missionario cappuccino Francesco Orazio Della Penna visitò il Tibet, che descrisse come un luogo inospitale abitato da gente «sporca e antipatica», i cui costumi incivili erano stati appena migliorati dai contatti con la piú raffinata cultura cinese. Nel 1774, due


Deserto del Taklimakan

Kun

Nepal Lucknow Kanpur

Nagpur

T I B E T i m

Chengdu

Lhasa a l a y a

Everest

Katmandu Gange Varanasi

India

Lanzhou

Cina

Bhutan

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Bangladesh Calcutta Cuttak

Dhaka Chittagong

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K2

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anni dopo il rientro del capitano Cook dal suo epico viaggio nel Pacifico meridionale, George Bogle, un funzionario della Compagnia delle Indie Orientali, fu il primo Europeo «laico» a entrare in Tibet e a lasciare un resoconto scritto della sua esperienza. I tempi erano cambiati, e con essi la percezione di spazio e cultura tibetani. Bogle, infatti, si esprime in termini estasiati: i Tibetani erano onesti, semplici, saggi e felici; le alte montagne che circondavano il loro Paese li proteggevano dall’avarizia e dall’ambizione che corrompevano il resto del mondo. Il mito di un Oriente fuori dal tempo, dedito ai valori della pace e della spiritualità, estra-

m oru rak Ka

Sulle due pagine una valle del Tibet, nell’Asia Centrale. Definito il «Tetto del Mondo», il Tibet fu a lungo considerato un mito geografico dagli Occidentali, un luogo impervio e misterioso, protetto da alte montagne ed estraneo alla corruzione terrena. A destra cartina con l’estensione geografica del Tibet.

My a n m a r Vietnam

TERRE LEGGENDARIE

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SHANGRI-LA

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TERRE LEGGENDARIE

Un paradiso nel Tibet


Il Ganden Sumtseling Gompa, importante monastero tibetano costruito nel XVIII sec. a nord di Zhongdian, nello Yunnan, regione dell’estremo Sud-Ovest della Cina. Per promuovere il turismo in quest’area dell’altopiano tibetano la città di Zhongdian, nel 2001, è stata identificata e ribattezzata dal governo cinese con il nome del mitico «Shangri-La» descritto dallo scrittore inglese James Hilton nel suo romanzo del 1933, Orizzonte Perduto.

Nella pagina accanto miniatura raffigurante un combattimento tra cavalieri mongoli, da un manoscritto persiano. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Le invasioni mongole che devastarono il Tibet spinsero alla migrazione alcuni gruppi tribali, tra cui gli Sherpa, che oggi vivono sul versante sud dell’Himalaya.

neo all’affannoso accumulo dei beni terreni, stava ormai prendendo forma. Il resoconto di Bogle, in qualche modo confermato dagli esploratori che ne seguirono i passi, contiene già il sogno di Shangri-La, una misteriosa valle protetta da montagne altissime e abitata da una comunità di saggi che hanno accesso a un sapere superiore e, soprattutto, beneficiano di un’eterna giovinezza.

Una sorta di paradiso

Shangri-La è una creazione dello scrittore James Hilton, il cui Orizzonte Perduto fu un best seller negli anni Trenta del Novecento (ne fu

U N IMPERO SCONFINATO L’epoca mongola comincia con le conquiste del condottiero Temucin, passato alla storia con il nome di Genghis Khan (1167-1227), l’Altissimo Signore, e continua con i suoi immediati successori, che imposero, se pure in modo spesso instabile, il dominio dei cavalieri della steppa in un territorio immenso che si estendeva dalla Russia alla Cina e arrivò a includere gli attuali Pakistan, Afghanistan, Iran e Iraq. L’emergere del potere mongolo determinò lunghi periodi di instabilità in Asia. In particolare, nel corso del XIII secolo, dopo aver sottomesso la Cina, il khan Kubilai, colui che accolse alla sua corte Marco Polo, sferrò ripetuti attacchi alle regioni poste ai confini dell’impero cinese, ovvero il Tibet, la Birmania e il Vietnam.

anche tratto un film; vedi box a p. 114), ma l’origine della tradizione è autenticamente orientale e viene da lontano. Lo stesso nome, Shangri- La, è probabilmente la storpiatura di Shambala, che, nell’immaginario dei popoli tibetani e himalayani, era identificata appunto con una sorta di paradiso perduto, nascosto tra le montagne che occupano migliaia di chilometri dal Pakistan alla Cina. Le valli himalayane e il Tibet esistevano evidentemente anche prima che l’Europa ne scoprisse il fascino e i misteri. Esistevano nella geografia, ma anche nell’immaginario dell’Asia. E a quest’ultimo si deve tornare per scoprire le origini del mito, ormai anche europeo, di ShangriLa. La presenza nelle catene montuose che separano Cina e subcontinente indiano di strette vallate verdeggianti dove scorrono torrenti di acqua limpida e gelida, spesso accessibili solo attraverso impervi valichi, aveva da secoli ispirato tradizioni e leggende. Una di queste riguarda le cosiddette «valli nascoste», spazi naturali sacri incastonati nel paesaggio, luoghi di pellegrinaggio mistico, ma anche rifugio sicuro per piccole comunità in tempi di guerra. Intorno a tali valli sacre sono fiorite leggende in cui storia e mito si intrecciano. Si riteneva, per esempio, che le vie di accesso fossero state aperte grazie ai poteri magici e mistici di santi monaci. TERRE LEGGENDARIE

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SHANGRI-LA

Un paradiso nel Tibet

U NA PRIGIONE DORATA James Hilton pubblicò il romanzo Lost Horizon nel 1933. Il successo del libro stimolò l’interesse dei produttori di Hollywood; nel 1937 ne fu tratto un film diretto dal grande Frank Capra, interpretato da due star dell’epoca come Ronald Colman e Jane Wyatt. La trama racconta di un gruppo di cittadini occidentali residenti in Cina, che decidono di rimpatriare a causa dei disordini che rendono il Paese insicuro. Nel viaggio di ritorno, però, l’aereo precipita in una zona sperduta dell’Himalaya. I dispersi vengono soccorsi da uomini che li curano e li conducono in una valle incassata tra le vette dove sorge la comunità di Shangri-La, un’oasi di pace fondata oltre due secoli prima da un missionario belga per preservare la saggezza spirituale dell’umanità dai continui conflitti del mondo esterno. Dopo l’iniziale, comprensibile desiderio di ritornare al piú presto alla civiltà, i nuovi arrivati cominciano ad apprezzare quel luogo, che offre loro un ambiente di grande bellezza, uno stile di vita di incomparabile tranquillità e, soprattutto, promesse di incredibile longevità. Dopo circa un anno trascorso in quell’angolo di paradiso, però, convinti da una donna che considera Shangri-La null’altro che una prigione dorata, due degli ospiti, i fratelli Robert e George, decidono di fuggire e rientrare nel mondo. Dopo giorni di viaggio, via via che si allontana da Shangri-La, l’età della donna si rivela sempre piú avanzata, fino a che lei muore per la fatica. George, sconvolto dalla vista del volto decrepito della ragazza di cui si era innamorato, si getta nel vuoto. Robert riesce a sopravvivere e a tornare alla civiltà, dopo un intero anno dalla sua scomparsa agli occhi del resto del mondo. La terribile esperienza gli ha fatto perdere ogni ricordo dei giorni trascorsi, ma una volta in patria la memoria riaffiora e il pensiero di Shangri-La si fa insopportabilmente intenso: decide di ritornare. Se il romanzo lascia nell’incertezza circa l’esito del viaggio di ritorno del protagonista, il film, con un retrogusto amaro, ne immagina il successo: dopo mesi passati a esplorare disperatamente i luoghi piú impervi, Robert ritrova il valico che conduce verso la valle nascosta.

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Diversi racconti leggendari narrano la scoperta da parte di un tertön – in tibetano «ritrovatore di tesori (mistici)» – di un luogo denominato Beyul Khenbalung, ovvero la «Segreta valle dell’Artemisia», localizzata nel Buhan e cosí chiamata dalla pianta aromatica e curativa che vi sarebbe cresciuta abbondante. La copiosità di piante odorose, come quella di corsi d’acqua e di pascoli sempreverdi, perfino nei rigidi inverni himalayani, è una qualità che sottolinea il carattere paradisiaco delle valli nascoste. Tratti di sublime incantamento sono stati riconosciuti anche dai primi esploratori europei della regione. Il colonnello HowardBury, che partecipò a una spedizione in Himalaya all’inizio del secolo scorso, ha lasciato una descrizione colma di stupore, che potrebbe quasi sembrare estrapolata da una cronaca sacra tibetana: «Meravigliosa fu la camminata attraverso la foresta, con i raggi solari che brillavano sul verde scuro delle foglie dei rododendri. Il sottobosco era fiorito di rose selvatiche, cespugli con le loro corolle di bacche scarlatte (…), bambú, betulle, salici e la piú lussureggiante delle vegetazioni (…). Non dimenticheremo facilmente i pascoli pennellati di genziane e di ogni varietà di fiori alpini che s’inerpicano fino ai limiti dei ghiacciai».

In questa pagina il romanziere e sceneggiatore inglese James Hilton (1900-1954).

La fonte dell’eterna giovinezza

Non è poi troppo sorprendente che le fonti medievali indiane e tibetane descrivano le valli nascoste con immagini iperboliche di paradisi terrestri: oltre alle bellezze naturali, vi troviamo mistici recessi, nei quali si sperimenta l’immediata realizzazione spirituale e soprattutto, nell’ottica di cercare le radici del mito moderno di Shangri-La, sorgenti che danno fertilità alle donne, guariscono dalle malattie e rallentano l’invecchiamento. Alla componente mitologica e paesaggistica, però, se ne aggiunge una storica: le «valli nascoste» sono infatti protagoniste di vicende legate a periodi critici della storia tibetana, in particolare a migrazioni di gruppi tribali, cronologicamente collocate sia all’inizio dell’epoca delle invasioni mongole del XIII secolo – la cui

Nella pagina accanto monaci buddhisti che suonano strumenti tradizionali durante il Mani Rimdu, sacra cerimonia sherpa, al monastero di Tengpoche, in Nepal. La festa, della durata di tre giorni, è caratterizzata da danze rituali e scene teatrali che hanno lo scopo di insegnare ai fedeli i fondamenti e le norme religiose del buddhismo.

spinta giunse fino a toccare il califfato di Baghdad e l’Europa Orientale –, sia nel momento in cui il potere mongolo si dissolse, lasciando in eredità una fase di anarchia politica e militare. Lo sconvolgimento portato dai Mongoli condizionò anche le regioni non conquistate militarmente. Le loro incursioni devastarono periodicamente India, Birmania e Tibet, spingendo alla migrazione gruppi tribali particolarmente esposti o danneggiati dalle razzie e dal conseguente caos politico e sociale. Tra coloro che intrapresero una migrazione ci furono gli Sherpa, etnia di lingua tibetana, che ora vive sul versante meridionale dell’Himalaya, oggi noti perché forniscono abilissime guide agli scalatori che si misurano con le vette oltre gli 8000 m – ricordiamo che a giungere per la prima volta in vetta all’Everest, nel 1953, furono l’alpinista neozelandese Edmund Hillary e il suo compagno sherpa Tenzing Norgay. Un testo genealogico sherpa racconta le origini di questo popolo nel Tibet orientale e la sua migrazione verso l’opposto versante delle montagne. Il documento rivela che gli Sherpa si spostarono ispirati, almeno idealmente, dalla credenza nell’esistenza di una «valle nascosta», al riparo da ogni violenza: Beyul Khenbalung, la Valle dell’Artemisia. Sempre dal Tibet proviene anche un altro popolo che oggi risiede in Nepal, i Khumbo, un gruppo di agricoltori e pastori che abita la regione di Sepa. La loro migrazione sembra aver avuto luogo in piú tappe, a partire dal Medioevo. Ciò che piú conta è che anche per i Khumbo la ricostruzione di un’identità etnica, problematica nelle fasi critiche di una migrazione e della conseguente frammentazione sociale, è passata attraverso la sacralizzazione della nuova patria, reinterpretata in chiave paradisiaca secondo il modello della tradizione mitico-mistica delle valli nascoste. Il mito moderno di Shangri-La sarebbe dunque nato dal fortunato incontro tra l’immaginario romantico europeo e un particolare filone di miti e racconti tradizionali tibetani, legati al motivo della valle nascosta intesa come rifugio paradisiaco. TERRE LEGGENDARIE

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FELIK E ROSENGARTEN

di Francesco Colotta

Leggende ad alta quota

In alto L’Ebreo errante, incisione di Gustave Doré, da La Légende du Juif errant. 1856. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Sulle due pagine Cima delle Alpi, Valle di Gressoney, olio su tela di Giuseppe Camino, 1861. Firenze, Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti. Secondo una leggenda, nella parte alta della valle (detta anche «del Lys») sorgeva la città di Felik, che scomparve in seguito alla maledizione di un viandante misterioso.


Una città un tempo prospera e fiorente e poi inghiottita dai ghiacci, una storia d’amore dal finale tragico, ambientata in un regno in cui le rose fioriscono solo quando il sole sorge e tramonta: da ovest a est, dalle vette del Monte Rosa ai rilievi dolomitici del Catinaccio, alla riscoperta dei nostri «paradisi perduti»…

L

e grandi vette italiane evocano le gesta di città opulente e racconti di giardini rigogliosi, che la tradizione rinverdisce da secoli: luoghi impervi, nei quali oggi sarebbe arduo immaginare la prospera sopravvivenza di una popolosa comunità, non soltanto per i rigori del clima. Secondo la leggenda, nel Medioevo il centro di Felik si sviluppò non lontano dalla cima del Monte Rosa, mentre, all’estremità opposta della catena alpina, dall’alto dei rilievi del gruppo dolomitico del Catinaccio, un regno potente dominava su una terra in cui fioriva perennemente uno splendido roseto. Il tema di un «paradiso perduto», da ricercare nelle asperità delle rocce, echeggia nell’ambientazione il mito della misteriosa Shangri-La tibetana (vedi box alle pp. 110-115), localizzata in una valle nell’estremità occidentale dell’Himalaya, tra le piú inospitali del mondo.


FELIK E ROSENGARTEN

Montagne incantate

La leggendaria città di Felik sorse nell’alta valle del torrente Lys, tra una morena laterale del ghiacciaio omonimo e l’alpe Sikken, ai piedi della vetta del Monte Rosa. Compreso nell’odierno versante valdostano del massiccio, a oltre 4000 m di quota, il sito poté prosperare perché non era stato ancora investito dall’estensione dei ghiacciai. I suoi abitanti, abili commercianti, fecero fortuna grazie ai traffici con il vicino Vallese, esportando in particolare bestiame e prodotti caseari. Il borgo divenne sempre piú popoloso e vi sorsero monumenti, sontuosi palazzi, nonché un articolato sistema viario. Ma l’età dell’oro non durò a lungo. La comunità di Felik cominciò a peccare di egoismo e cupidigia, eccedendo nello sfoggio di lussi e di bizzarrie: si diffuse, per esempio, il vezzo di costruire gradini d’accesso alle abitazioni con gigantesche forme di formaggio. Si dice che la decadenza fosse iniziata dopo la visita di un misterioso viandante, che aveva chiesto di essere rifocillato. Gli abitanti lo avevano deriso, negandogli l’aiuto, e, nonostante un tardivo pentimento, pagarono a caro prezzo la loro insensibilità. L’uomo, infatti, era un demone della montagna e, forse spalleggiato da un folletto, lanciò su Felik una terribile maledizione: la neve cadde copiosa per giorni, fino a sommergere la città, formando un ghiacciaio. Alla fine, dello splendido abitato rimase solo la sommità del campanile che spuntava dalla coltre di ghiaccio nei mesi piú caldi.

Una leggenda e le sue varianti

Secondo una tradizione, proprio nella zona del ghiacciaio del Lys, sarebbe ancora possibile percepire i lamenti delle anime dannate dei cittadini di Felik – un fenomeno che si connette alla tradizione della «Processione dei morti» – e ancora oggi un valico alpino posto a 4061 m di altitudine porta il nome della misteriosa città. Alcune interpretazioni della leggenda identificano il viandante in un uomo pio, un cristiano che aveva solo bisogno di un pasto caldo e di un alloggio prima di riprendere il suo cammino. Un’altra versione, invece, associa la figura del povero che si presentò alle porte di Felik a quella dell’Ebreo Errante (personaggio della mitologia cristiana medievale, condannato a vagare in eterno per aver rifiutato di aiutare Gesú lungo la via che portava al Calvario), presente in diverse tradizioni alpine – in particolare nella zona del Cervino e in Svizzera –, che narrano anch’esse di enigmatici luoghi del passato poi colpiti da catastrofi naturali. La vicenda di Felik si intreccia, inoltre, con la 118

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leggenda della Valle perduta (Das verlorene Thal), ancora molto diffusa tra i Walser valdostani (popolazione germanica del ceppo degli Alemanni giunti nella regione e anche in Piemonte intorno al XII secolo): un racconto che presenterebbe alcuni riscontri storici. Nel Basso Medioevo, infatti, l’area a ridosso della cima del Monte Rosa beneficiava di condizioni climatiche non estreme. Solo a partire dal Cinquecento le genti stanziate a quelle quote furono costrette a trasferirsi in seguito alla «piccola glaciazione», un mutamento climatico che provocò un repentino abbassamento delle temperature nell’emisfero settentrionale, dopo un periodo di inconsueti rialzi termici. Nacque cosí il mito

Il gruppo dolomitico del Catinaccio al tramonto, quando le rocce assumono il caratteristico colore rosa, fenomeno detto enrosadira nel dialetto ladino.


della terra perduta che serpeggiò nelle epoche successive fino a giungere all’età moderna. Nel 1778, alcuni cacciatori di camosci di Gressoney-Saint-Jean tentarono di raggiungere la vetta del Monte Rosa, decisi a individuare una qualche traccia della valle magnificata dalla tradizione. Dopo un primo, drammatico tentativo fallito, la missione raggiunse la zona del colle del Lys, proprio nel punto in cui si presumeva sorgesse il sito fertile e opulento descritto nella leggenda, ma trovò solo un ghiacciaio dal quale si intravedeva il confine con la Svizzera. Il luogo venne, comunque, battezzato come «Roccia della scoperta» (Entdeckungsfelsen), segnando una delle tappe fondamentali per le

future esplorazioni del massiccio del Rosa. Successive ricognizioni hanno portato alla luce i resti di antichi muri nei pressi dell’alpe di Ros e in quella di Felik.

Tutto si tinge di rosa

Quando il sole tramonta, le cime delle Dolomiti si tingono di rosa. La tradizione attribuisce il suggestivo fenomeno a un antico incantesimo, mentre la scienza lo spiega con il naturale manifestarsi della cosiddetta «enrosadira» (termine di origine ladina che significa «diventare di colore rosa»), un effetto dovuto alla particolare natura della roccia che compone la catena montuosa, ricca di carbonato di calcio e di maTERRE LEGGENDARIE

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Montagne incantate


Nella pagina accanto illustrazione in cui appare Crimilde, figura associata da alcuni studiosi alla Similde della leggenda del Monte Catinaccio, che accoglie il margravio Rüdiger nel circolo delle 100 vergini, da un’edizione del poema epico germanico Rosengarten zu Worms. XV sec. Heidelberg, Universitätsbibliothek. A destra un’altra illustrazione dal Rosengarten zu Worms raffigurante due cavalieri che, dopo la vittoria in battaglia, vengono premiati con una corona d’alloro e con un bacio. XV sec. Heidelberg. Universitätsbibliothek. Nella trama dell’opera sono presenti episodi affini alla leggenda di re Laurino e del roseto del Monte Catinaccio.

gnesio. Tuttavia, nel sentimento popolare, quei rilievi conservano il loro profilo mitico e rievocano una leggenda tramandata dal poema eroico tedesco Laurin, noto anche come Kleiner Rosengarten, composto in Tirolo nel XIII secolo. Protagonista delle opere è Laurino, sovrano dei nani che, proprio sulle Dolomiti, aveva fondato un grande regno, nel quale sorgeva un bellissimo roseto – secondo alcune versioni donato dalla Valchiria Sittlieb al re come atto d’amore. Laurino, tuttavia, aveva occhi solo per la figlia di un altro monarca, Similde, ma il

suo sgradevole aspetto di nano gli impedí di conquistarne il cuore. Decise allora di fare ricorso alle arti magiche per possederla, servendosi di una cinta in grado di conferirgli la forza di dodici armati e di uno speciale mantello che lo rendeva invisibile: in occasione di un torneo cavalleresco, indossato il mantello, rapí l’amata e la condusse nel regno dolomitico. Nonostante le premure e la generosità del suo spasimante, Similde non era felice nella nuova dimora e aveva nostalgia della sua terra e dei suoi cari. A salvarla, accorse un giorno il fratello, TERRE LEGGENDARIE

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Montagne incantate


Dietlieb, il quale, con l’aiuto del re dei Goti Teodorico, si recò nel regno dei nani per assediarlo. Giunti a destinazione, i due non sferrarono subito l’attacco, ma rimasero come paralizzati ad ammirare la bellezza del luogo, in particolare i colori del roseto. Nel corso dell’assalto le piante vennero poi calpestate e furono divelti i fili d’oro che recintavano il giardino. Laurino, furioso, fece allora nuovamente ricorso ai poteri del mantello e della cinta: divenuto invisibile, si gettò nella mischia e creò scompiglio nelle file nemiche, ma, alla fine venne, tradito proprio dalle sue rose. I Goti e Dietlieb, vedendo un inconsueto movimento delle piante, lo scoprirono e riuscirono a catturarlo. Privato dei suoi oggetti magici, Laurino fu costretto ad arrendersi e a liberare la sua prigioniera. Per sancire la pace con i vincitori, li invitò poi a un banchetto, ma, nell’animo, meditava vendetta. Nel corso del pranzo, infatti, all’improvviso, un migliaio di nani assalirono le truppe nemiche

Nella pagina accanto ancora un’illustrazione del Rosengarten zu Worms che ritrae Dietrich von Bern (a sinistra), trasfigurazione letteraria del re goto Teodorico e protagonista della leggenda del Monte Catinaccio. XV sec. Heidelberg. Universitätsbibliothek. In basso Bolzano. Il gruppo scultoreo raffigurante Teodorico che lotta contro il re Laurino. L’opera venne realizzata agli inizi del Novecento dallo scultore Bruno Goldschmitt.

che, sopraffatte dalla rapidità dell’attacco, si arresero. Tutti i soldati e i loro comandanti, compresi Teodorico e Dietlieb, vennero arrestati e rinchiusi in un sotterraneo. I colpi di scena, però, continuarono a susseguirsi. Teodorico, in un accesso d’ira, riuscí a spezzare le catene che lo tenevano prigioniero e a liberare anche i suoi uomini. Di nuovo assediato, Laurino dovette arrendersi, questa volta in modo definitivo, e perse per sempre il suo regno. Ma prima di abbandonare la sua terra, voltandosi un’ultima volta a guardare i luoghi in cui aveva governato, lanciò una terribile maledizione: nessuno avrebbe mai piú potuto ammirare la bellezze di quelle alture, né di giorno, né di notte. Dimenticò, però, di nominare anche il tramonto, che rimase quindi immune dal suo sortilegio: ecco perché, al crepuscolo, le Dolomiti – e, tra queste, il gruppo del Catinaccio, che è una delle ambientazioni proposte per la leggenda e, non a caso, viene chiamato Rosengarten in lingua tedesca – assumono la tipica colorazione rosa, simile a quella del leggendario roseto.

La maledizione di Laurino

Anche un’altra versione della vicenda ha come protagonista il re delle Dolomiti, Laurino, che però figura in una veste diversa. La figlia Ladina, intenta a curare un grande roseto, venne rapita da un altro sovrano delle montagne, Latemar che si era fermato per ammirare i fiori. Disperato per quanto accaduto, Laurino maledí il bellissimo giardino, ritenendolo la causa principale della scomparsa di Ladina. E anche in questo caso predisse che né di giorno, né di notte le rose sarebbero piú fiorite nella zona, non menzionando, tuttavia, il tramonto e nemmeno l’aurora. Cosí al mattino presto e al calare del sole, ogni estate, il giardino tornò a riempirsi di colori. La leggenda di Laurino è anche stata al centro di uno scontro politico tra diverse comunità linguistiche a Bolzano. Nel capoluogo altoatesino, infatti, fu eretta nel 1907 una statua dedicata al re che ben presto venne presa di mira dai nazionalisti italiani, ostili all’esaltazione dei simboli della tradizione tirolese. La statua fu gravemente danneggiata in epoca fascista e, in un secondo momento, venne trasferita nei locali del Museo Storico Italiano della Guerra di Rovereto. La comunità tedesca di Bolzano protestò a lungo per la decisione, interpretandola come una misura discriminatoria nei riguardi di una cultura ben radicata nel territorio. Solo nel 1994 il monumento è tornato a Bolzano. TERRE LEGGENDARIE

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ELDORADO

di Giuseppe M. Della Fina

Nella terra degli uomini d’oro Giunti nelle Americhe, i conquistadores spagnoli rimasero abbagliati dalla straordinaria quantità di oggetti in oro ostentati dalle popolazioni con cui vennero a contatto. Impressioni che non tardarono a far sorgere una leggenda tanto potente, quanto dovuta a un... banale malinteso

La cerimonia dell’El Dorado riprodotta in un tunjo di produzione muisca. Bogotà, Museo dell’Oro. I tunjos sono figurine votive che venivano offerte agli dèi e che hanno una forma simile a quella di molti ex voto moderni. Di solito, riproducevano in maniera stilizzata personaggi, sia isolati che in gruppo: questa rappresentazione dell’El Dorado costituisce un caso del tutto eccezionale.

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«S

oltanto Dio e noi conosciamo le privazioni, le sofferenze, la fame, la sete che abbiamo patito in questi tre anni. Sono colmo di ammirazione per lo spirito umano che è stato capace di resistere per cosí lungo tempo a queste prove terribili. Fummo costretti a mangiare insetti, serpenti, rane, lucertole, vermi, erbe, radici e a divorare carne umana contravvenendo alla legge di natura (...) A un certo momento fummo ridotti talmente male da bollire e mangiare pelli di cervo con le quali gli indiani realizzavano gli scudi». Cosí, nel 1538, Philipp von Hutten, giovane aristocratico tedesco, scriveva al padre raccontando del suo viag-

gio in cerca dell’Eldorado. Quando egli arrivò in Venezuela, il mito dell’Eldorado, la leggenda di un paese con città costruite in oro e dove anche le strade erano pavimentate con gemme si era già diffusa. Il 24 febbraio 1529 Ambrosius Dalfinger assunse il governatorato del Venezuela per conto dei banchieri Welser, ai quali la regione era stata affidata dall’imperatore Carlo V, in cambio dell’aiuto finanziario ricevuto. Dalfinger si stabilí a Coro, una modesta cittadina sulla costa nei pressi della penisola TERRE LEGGENDARIE

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ELDORADO

Tesori dal Nuovo Mondo

di Paraguana, e da lí parti per le regioni interne. Fu già nel corso di una prima esplorazione che il governatore apprese dell’esistenza di un popolo ricco di oro e di smeraldi che scambiavano con le popolazioni stanziate attorno al Lago Maracaibo in cambio di cotone grezzo, coralli, perle e conchiglie. Nel 1531 una seconda spedizione, sempre guidata da Dalfinger, con 130 fanti, 40 cavalieri e centinaia di servitori indiani riuscí quasi a raggiungere la regione chiamata Xerira, famosa per le sue ricchezze. Una ricchezza confermata dal bottino raccolto, che conosciamo grazie all’elenco che ne fece il contabile della spedizione: «1723 ornamenti fra grandi e piccoli; un migliaio di orecchini in filigrana d’oro; 2320 spille; 1503 collane; 13 braccialetti d’oro; 16 aquile in oro; 9 statuette in oro raffiguranti indiani; 5 statuette di donne in oro fino; un grande cemi in forma di testa racchiudente un diadema di smeraldi». Il peso complessivo dell’oro era di 110 kg: un bottino di tutto rispetto. In seguito, altre spedizioni si spinsero in 126

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Nella pagina accanto, in alto mappa della Guyana, dall’Atlante disegnato da Mercatore e poi portato a termine da Jodocus Hondt. 1633. Si noti la segnalazione dell’Eldorado.

Nella pagina accanto, in basso tunjos in forma di figurine umane stilizzate. Produzione muisca, XV sec. Bogotà, Museo dell’Oro.

terre mai toccate prima dall’uomo bianco, fino a raggiungere, con quella capitanata da Gonzalo Jiménez de Quesada, i Chibcha, una popolazione che abitava gli altipiani colombiani. Ed è proprio dai racconti intorno a un particolare rito praticato da queste genti che nacque il mito dell’Eldorado il quale, come vedremo, si fonda su piú di un malinteso. I Chibcha, infatti, contrariamente a quanto immaginavano i conquistadores, non possedevano affatto miniere d’oro e la loro ricchezza era basata, assai piú prosaicamente, sul commercio del sale. Perché allora gli Europei si convinsero che fosse qui il centro da cui proveniva la straordinaria ricchezza d’oro degli indios? Una cinquantina di chilometri a nord di Bogotà, circondato da colline desolate, si trova il misterioso lago di Guatavita. Quan-

do i bianchi giunsero nella regione, presso gli indigeni era ancora vivo il rícordo di un importante rito che si svolgeva sulle sponde del lago e che aveva come protagonista un «uomo d’oro».

Su una zattera di giunchi

Ecco come, un cronista spagnolo dei primi del Seicento riporta il resoconto di un testimone che aveva partecipato al rito: «Il primo viaggio che dovette intraprendere fu alla grande laguna di Guatavita, dove rese offerte e sacrifici al demone che essi adoravano come loro dio e signore. Durante la cerimonia alla laguna costruirono una zattera di giunchi, abbellendola e ornandola con i loro oggetti piú belli (...) La laguna era vasta e profonda, tale da poter essere navigata da un’imbarcazione dai fianchi alti carica di un’infinità di uomini e donne sontuosa-

Pendente in oro che rappresenta la figura sciamanica dell’UomoUccello. Cultura Tairona, ante XV sec. Bogotà, Museo dell’Oro. TERRE LEGGENDARIE

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ELDORADO

Tesori dal Nuovo Mondo

C APOLAVORI D’OREFICERIA Il mito dell’oro è rimasto legato alla Colombia, dove, nel 1939, venne istituito a Bogotà il Museo dell’Oro. Lo scopo era quello di riunire gli splendidi gioielli di oreficeria precolombiana per documentare la fiorente attività artigianale esistente nella zona prima dell’arrivo dei conquistadores. Con l’apertura del museo si è cercato anche di mettere un argine alla distruzione (molti reperti in oro furono fusi dagli Spagnoli) e alla dispersione fuori dai confini nazionali, di un patrimonio colombiano. Si iniziò acquistando collezioni già riunite, poi l’interesse si rivolse al territorio. Nelle sale sono ora documentate le zone di Tairona, dove era diffuso l’uso del rame dorato, di Sinú, nota per la produzione di orecchini a ventaglio, di Muisca, nella quale erano realizzate in oro figure umane lavorate con grande accuratezza. Vi sono documentate inoltre le regioni di Tolima. dove prevalevano le figure stilizzate, di Quimbaya, con artigiani capaci di realizzare veri capolavori di gioielleria, e di Calima, celebre per i pettorali di grandi dimensioni, i diademi e le spille. L’artigianato orafo veniva incontro a mere esigenze di tipo estetico? A questa domanda si deve rispondere negativamente: alle esigenze di tipo estetico occorre infatti aggiungere, almeno in una parte della produzione, anche valenze rituali. Le figure fantastiche evocavano esseri soprannaturali, ritenuti capaci d’influire sulla vita terrena, quelle animali la fecondità della natura, le maschere tentavano di assolvere al compito di prolungare la vita dei defunti ai quali venivano poste sul volto.

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mente vestiti con belle piume, placche e corone d’oro (...) A quel punto spogliarono l’erede al trono dai suoi abiti e lo unsero con del terriccio vischioso che cosparsero poi di polvere d’oro, ricoprendogli cosí tutto il corpo con il metallo. Lo sistemarono a bordo della zattera su cui egli restò immobile, e poggiarono ai suoi piedi un gran mucchio d’oro e di smeraldi affinché ne facesse offerta al suo dio. Insieme a lui, salirono sull’imbarcazione quattro influenti personaggi interamente abbigliati con piume, corone, braccialetti, ciondoli e orecchini in oro puro. Anch’essi erano nudi e ciascuno reggeva un’offerta. Quando la zattera lasciò la riva, ebbe inizio la musica , con trombe, flauti e altri strumenti, accompagnata da canti che facevano tremare le montagne e le valli, finché, quando la barca raggiunse il centro della laguna, essi alzarono la bandiera per imporre il silenzio. L’indio ricoperto fece allora la sua offerta, gettando tutto l’oro in mezzo al lago e i capi che lo scortavano fecero lo stesso con i loro doni. Con questa cerimonia il nuovo governante fu accolto come signore e re». Secondo un’altra testimonianza, lo stesso El


In alto l’incontro fra Sir Walter Raleigh e il re di una popolazione indigena dell’America Meridionale in una calcografia di Theodor de Bry. 1599. Nella pagina accanto pendente in oro in forma di testa umana. Cultura Sinú, XV sec. Bogotà, Museo dell’Oro.

Dorado si immergeva nelle acque e vi restava fino a quando la polvere d’oro di cui era ricoperto non si era sciolta, depositandosi sul fondo del lago.

Uno smeraldo grosso come un uovo

Verso la fine del 1500 un commerciante di Bogotà, Antonio de Sepúlveda, decise di svelare una volta per tutte il mistero dell’Eldorado. In precedenza, dopo essersi impossessati dei tesori appartenuti agli indigeni, i conquistadores avevano tentato di dragare il lago, convinti com’erano che sul fondo doveva giacere una quantità d’oro inestimabile. Ma l’impresa del Sepúlveda fu ancora piú radicale: egli fece praticare un profondo varco sul bordo del lago (ancora oggi ben visibile) da cui sarebbe dovuta defluire tutta l’acqua. Ma, dopo che il livello del lago si era abbassato di una ventina di metri, una frana richiuse l’apertura, provocando numerose vittime. Il progetto venne allora abbandonato, ma intanto alcuni oggetti preziosi emersi dalle acque vennero inviati in Spagna, al re Filippo II. Tra essi figurava uno smeraldo «della grandezza di un uovo di gallina». Con il trascorrere del tempo il ricordo del

rito indiano si affievolí e il nome del suo protagonista, l’El Dorado, venne inteso come il nome di un luogo – Eldorado – nascosto nelle valli e negli altipiani delle Ande o nella folta vegetazione dell’ Amazzonia. Ed è in quest’ultima regione che si riversarono schiere di esploratori e di avventurieri alla ricerca della città dove anche «le pentole erano d’oro». Tra questi va ricordato almeno l’inglese Walter Raleigh, che accettò la scommessa dell’Eldorado per tornare nelle grazie della regina Elisabetta I d’Inghilterra e per fronteggiare una difficile situazione finanziaria. Il 5 febbraio 1595 salpò da Plymouth convinto che avrebbe trovato lungo il fiume Orinoco «città piú ricche e piú belle e templi piú adorni d’oro di quelli che trovarono Cortés in Messico e Pizzarro nel Perú e il trionfo sfavillante di questa conquista eclisserà tutte quelle della nazione spagnola». Dopo due tentativi falliti (un secondo viaggio si era svolto nel 1617-1618) Sir Raleigh cadde in disgrazia e venne giustiziato. Le sue spedizioni chiusero il periodo piú intenso della ricerca dell’Eldorado, ma vi è ancora chi si ostina a cercarlo: tanto grande può essere la forza di un mito. TERRE LEGGENDARIE

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VO MEDIO E Dossier n. 45 (luglio/agosto 2021) Registrazione al Tribunale di Milano n. 233 dell’11/04/2007

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