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UN DESTINO TRA AMORE E POLITICA
di Chiara Mercuri
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N°46 Settembre/Ottobre 2021 Rivista Bimestrale
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MEDIOEVO DOSSIER
Dossier
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DANTE
UN DESTINO TRA AMORE E POLITICA di
Chiara Mercuri
PRESENTAZIONE 6. Alla ricerca del «vero» Dante FRA GUELFI E GHIBELLINI 20. Gli anni del bianco e del nero LA CERCHIA DEL POETA 30. L’amico Guido 34. Un amore di «gran potenza» 38. Matelda la bellissima 40. Il segreto del maestro Brunetto ESSERE DI PARTE 42. Un guelfo «che non bene sapea conversare co’ laici»... SUGGESTIONI DANTESCHE 76. Ascolta, guarda, pensa e comprendi... 80. L’oltretomba prima della Commedia 82. Un mondo a tinte fosche L’ESILIO 84. Esule per sempre TRA FEDE E FANATISMO 124. L’eredità di Francesco 128. Dante e la cancel culture
guerra d’assedio/3
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MEDIOEVO
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Presentazione
Alla ricerca del «vero» Dante
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GLI ANIMALI NEL MEDIOEVO
Dante illustra la Divina Commedia, tavola di Domenico di Michelino. 1465. Firenze, basilica di S. Maria del Fiore. Alle spalle del poeta, la città di Firenze e, sullo sfondo, Inferno, Purgatorio e Paradiso.
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Presentazione
ggi, quando ci accostiamo a Dante Alighieri, abbiamo una percezione esatta della sua poesia, ma distorta della sua vita. A cominciare dal fatto che lo consideriamo essenzialmente un poeta, quando Dante fu di fatto un politico, come lo furono i suoi amici Guido Cavalcanti, Brunetto Latini, Dino Compagni, i quali – tutti, prima di lui – ricoprirono cariche apicali alla guida del comune di Firenze. Dante iniziò quindi il suo percorso esistenziale come politico e solo quando gli fu impedito di continuare a fare politica ripiegò sulla scrittura. Dimenticare questa qualità essenziale della sua storia personale falsa il nostro approccio alla sua vicenda biografica. Se lo ricordassimo, useremmo maggiori cautele nell’accostarci a lui, tutte quelle che, di norma, utilizziamo per filtrare le notizie che riguardano, appunto, un politico. Davanti a un Aldo Moro o a un Giorgio Napolitano, controlleremmo con attenzione le nostre fonti, faremmo per esempio attenzione a chi ci sta dicendo cosa. E valuteremmo anche il perché ce lo stia dicendo. Per Dante, dobbiamo adottare lo stesso metodo, ricordando che, raccontarlo in un modo o in un altro, cambia anche la percezione di noi stessi in quanto Italiani. Ed è pericoloso il revisionismo di chi, con la
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scusa di voler reagire all’immagine risorgimentale e retorica del «padre della patria», insinua che il vero Dante meritò alcune delle condanne che gli furono comminate e che lo portarono in esilio fuori da Firenze; che il vero Dante, nell’ambito delle sue funzioni, favorí gli interessi degli amici; che il vero Dante sbarrò l’accesso alle cariche apicali del comune agli avversari politici; che il vero Dante venne esiliato nel quadro di dinamiche «normali per il suo tempo». Usare metodo nell’approccio alla sua biografia significa prendere una posizione inequivocabile su una stagione politica precisa e schierarsi – o anche non schierarsi– con coloro che a Firenze si resero artefici di un colpo di Stato. Si deve scegliere: o con Dante o con Corso Donati, o con Dino Compagni o con Giovanni Villani, perché, quando c’è di mezzo un rovesciamento violento del potere costituito, non esistono vie di mezzo. Dante scelse di non scendere a patti con i golpisti e pagò un prezzo enorme per essere rimasto coerente con la propria scelta: il prezzo di non rientrare piú a Firenze, condannando all’esilio perpetuo anche la propria famiglia. Deve essere motivo di orgoglio per noi Italiani continuare a volere proprio lui come «padre della patria»: perché ciò equivale a dire che,
Nella pagina accanto illustrazione del canto XX del Purgatorio dall’Album Dantesco di Alberto Martini. 1920-1930. Oderzo, Fondazione Oderzo Cultura. Nella sezione superiore dell’illustrazione, Dante e Virgilio incontrano papa Bonifacio VIII, nudo, seduto su un trono. Sotto di loro la «maledetta lupa», simbolo dell’avidità. Nella sezione inferiore, Carlo di Valois a cavallo trafigge con la lancia la pancia di una donna nuda che simboleggia Firenze. In basso un’edizione della Divina Commedia con commento in lingua volgare del grammatico bolognese Jacopo della Lana. Inizio del XV sec. Parigi, Museo del Louvre.
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Presentazione
sebbene siano molte le cose che in Italia – piú che in altri Paesi europei – non funzionano, almeno sulla direzione da prendere per affrontare i problemi siamo tutti d’accordo. A onor del vero, dobbiamo anche precisare che a rovesciare il governo dei bianchi di cui Dante faceva parte non fu tutto il partito dei neri, bensí la sua frangia piú violenta, capeggiata da Corso Donati: l’uomo che quelli della sua fazione non vollero in un primo tempo isolare, ma che, dopo la cacciata di Dante, essi stessi fecero assassinare. Molto prima del colpo di Stato, il comune di Firenze aveva anche provveduto a sbandire Corso Donati, poiché lo riteneva pericoloso. Ma con l’appoggio di un papa corrotto, Bonifacio VIII, e del suo sedicente paciere, Carlo di Valois, Donati riuscí a rientrare in città e a metterla a ferro e fuoco. Il resto è storia: Dante, che in quel momento è a Roma, rinuncia a fare ritorno nella sua città. Il fatto stesso che egli non si sia presentato a processo viene addotto da alcuni come prova della sua colpevolezza. Ciò che si insinua, ma in qualche caso si dice apertamente, è che chi era davvero innocente rimase in città o vi rientrò per affrontare il processo. In realtà, a Firenze rimase solo chi aveva soldi a sufficienza per comprare la clemenza di Bonifacio VIII (Vieri de’ Cerchi, per esempio), o chi aveva sufficiente freddezza per vivere nascosto sotto il nuovo regime, come Dino Compagni (il quale, però, chiuso in casa, si sfogò, scrivendo come stessero davvero le cose). Come la maggior parte dei suoi compagni di partito, Dante non rientrò perché non era né saggio, né prudente sottoporsi al giudizio di un tribunale fantoccio, insediatosi dopo un colpo di Stato che aveva travolto il governo in carica. Contumace, Dante veniva accusato di «baratteria», termine medievale che oggi tradurremmo con l’espressione di peculato e concussione. Gli intimano di restituire il maltolto, ma lui non ha «tolto» niente, come dimostrano la magra lista delle proprietà requisitegli e la povertà nera in cui trascorse gli anni dell’esilio. Abbiamo fatto di Dante una delle no-
stre icone nazionali, meritoriamente, e gli abbiamo anche dedicato una giornata annuale di commemorazione. Ora è doveroso raccontarlo secondo verità, perché, se abbiamo ritenuto di assumerlo come «padre», è perché crediamo alla verità della sua poesia, a ciò che grida nelle sue lettere, alla coerenza tra quel che esprime nei suoi trattati e le vicende che si trovò ad affrontare. Crediamo alla sua dichiarazione d’innocenza. Ci schieriamo al suo fianco nella ferma condanna di chi lo mandò in esilio, decapitando, insieme a lui, un’intera classe politica, che lottava per difendere le istituzioni democratiche del comune. Crediamo alla sua voce che dichiara la sua piena innocenza, anche perché le fonti di cui disponiamo, nient’affatto esigue nel panorama dell’epoca, ce la confermano. Continuare ad affermare che i dati sulla sua biografia sono pochi e che si prestano a differenti interpretazioni è sbagliato e pericoloso, perché ci stiamo apprestando a consegnare Dante a un pantheon piú ampio, formato dai numi tutelari dell’Europa. E un conto è la retorica, che è sempre bene evitare, un conto è la verità storica, che dev’essere rispettata: tanto piú in un caso come quello di Dante che, per difenderla, pagò l’altissimo prezzo che sappiamo. Sorvegliare affinché la biografia di Dante non venga tradita significa compiere un’operazione civile, oltre che storica (ma chiaramente le due cose coincidono). L’Italia ha problemi enormi, ma non è ancora un Paese in cui ci viene imposto di chiamare con lo stesso nome la corruzione e l’onestà, la legalità e l’abuso, la democrazia e il regime. E finché riusciremo a chiamare le cose con il loro nome, saremo in grado di scegliere su quale Paese scommettere. È sempre difficile fare i conti con la propria storia, ma arriva un momento in cui non farli implica costi maggiori. Interroghiamoci, dunque, una volta e per tutte, su chi stiamo celebrando in questo centenario come «padre della patria»: un uomo, un mezz’uomo o, per dirla con le parole di Leonardo Sciascia, un quaquaraquà?
Miniatura raffigurante papa Bonifacio VIII, dai Vaticinia de Summis Pontificibus, una raccolta di testi profetici riguardante i pontefici, a partire da Niccolò III. XVI sec. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. DANTE ALIGHIERI
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Cronologia FATTI STORICI
Le sconfitte delle forze imperiali a Benevento (1266) e Tagliacozzo (1268) costringono i ghibellini all’esilio da Firenze.
Nella battaglia di Campaldino, i guelfi, come Dante, provenienti da Firenze e Lucca sconfiggono i ghibellini, provenienti da Arezzo.
Bonifacio VIII proclama il Giubileo.
GLI ANNI DI DANTE
Carlo di Valois, che cerca di favorire i guelfi neri, si avvicina con le sue truppe a Firenze.
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I neri prendono il potere a Firenze.
Nascita di Francesco Petrarca.
Enrico VII, conte di Lussemburgo, re di Germania e imperatore del Sacro Romano Impero scende in Italia, nel tentativo di restaurare i fasti dell’impero.
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Morte dell’imperatore Enrico VII. Nascita di Giovanni Boccaccio.
NOTIZIE SU DANTE 1265 Dante nasce, probabilmente il 29 maggio, in una famiglia di piccola nobiltà cittadina. 1266 1268
1274 Incontra per la prima volta Beatrice Portinari e se ne innamora, come racconta egli stesso nella Vita Nova: si scambiano solo un saluto. 1283 Muore il padre. Il poeta sposa, con un matrimonio concordato da tempo, Gemma Donati, dalla quale ha tre figli (Jacopo, Pietro e Antonia). 1289 Partecipa come «feditore», cavaliere della prima linea, alla battaglia di Campaldino l’11 giugno. Dante riferisce della battaglia in Purgatorio V, 85-129.
1290 Beatrice muore all’età di 24 anni circa. 1292 Dante scrive la Vita Nova. 1294 Incontra a Firenze Carlo Martello d’Angiò, re di Ungheria ed erede al trono di Napoli e della contea di Provenza. Dante racconta il loro incontro in Paradiso VIII, 31-148, e IX, 1-12. 1295 Si iscrive alla corporazione degli Speziali, con l’intento di entrare in politica. 1300 È priore di Firenze per due mesi (15 giugno-15 agosto), uno dei sei piú alti magistrati della città. Il viaggio della Commedia viene fatto risalire alla settimana di Pasqua di questo anno. 1301 Dante si reca come ambasciatore dal papa Bonifacio VIII.
1302 Dante è bandito dalla città per due anni ed escluso per sempre dai pubblici uffici; piú tardi, il bando diventerà perpetuo, con la condanna al rogo se ritrovato nel territorio della repubblica fiorentina. 1304 Dante scrive il De vulgari eloquentia, saggio che cerca di spiegare come il volgare può assurgere a lingua letteraria. Dei quattro libri annunciati, scrive solo il primo e quattordici capitoli del secondo. Nello stesso periodo si accinge a scrivere il Convivio. Vengono completati solo quattro dei quindici libri progettati. 1306 È probabilmente l’anno in cui, abbandonato il Convivio, comincia la scrittura della Commedia. 1310 Dante indirizza una Epistola a Enrico VII. Possibile inizio della scrittura del De Monarchia (1310-1313).
1313
1314 Pubblicazione dell’Inferno. 1315 Dante si trasferisce a Verona, ospite di Cangrande della Scala. Lavora al Purgatorio e al Paradiso, e scrive anche la Questio de aqua et terra. 1319 Si trasferisce a Ravenna, dove viene ospitato da Guido Novello da Polenta, signore della città. Intrattiene corrispondenza con l’umanista Giovanni del Virgilio. 1321 Di ritorno da una ambasceria presso il doge di Venezia per conto di Guido da Polenta, si ammala, probabilmente di malaria, e muore il 13 (o il 14) settembre, a 56 anni.
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Scene da una Commedia
Particolare di una miniatura a corredo del canto I dell’Inferno, da un’edizione della Divina Commedia illustrata da Priamo della Quercia. 1442-1450. Londra, The British Library. Da sinistra, Dante assalito dalle fiere che incontra all’inizio del suo viaggio (la lonza, il leone e la lupa) e l’incontro con Virgilio, mentre dall’alto discende Beatrice.
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Scene da una Commedia
Sulle due pagine i capilettera miniati che ornano i primi canti dell’Inferno, del Purgatorio e del Paradiso nella Divina Commedia illustrata da Priamo della Quercia. 1442-1450. Londra, The British Library. Da sinistra, in senso orario: Dante e Virgilio; Dante che issa le vele per raggiungere il Purgatorio; l’ascesa al Paradiso, con Cristo su un carro d’oro tirato da un grifone.
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Scene da una Commedia
Miniatura raffigurante Dante e Beatrice davanti al Cielo del Primo Mobile (Paradiso, canto XXVIII) da un’edizione della Commedia illustrata da Giovanni Di Paolo. 1450 circa. Londra, The British Library.
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Gli anni del bianco e del nero
La vicenda della condanna e dell’esilio di Dante si inquadra nel piú ampio contesto delle lotte senza quartiere di cui Firenze – e buona parte dell’Italia – furono teatro nel XIII secolo. Contrasti animati dai guelfi e dai ghibellini, la cui rivalità fu figlia di un ben piú ampio gioco politico, legato alla contrapposizione fra Chiesa e impero e alimentato da non meno «corposi» interessi economici
Miniatura raffigurante Carlo Magno in battaglia, alla guida delle sue truppe, dall’edizione delle Chroniques de France edita da Antoine Vérard. 1493. Parigi, Bibliothèque nationale de France. DANTE ALIGHIERI
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L’
Fra guelfi e ghibellini
idea che nel Medioevo il diritto latiti è sbagliata e l’espressione «a quei tempi» è antistorica o, meglio, astorica. Cosí come è una forzatura pensare che Dante vivesse in un’epoca in cui erano normali arbitrio e violenza, gli sbandi comminati ai componenti di questa o quella parte politica; normali gli affrontamenti in strada, i cadaveri a terra, le mutilazioni, e normali le faide: si tratta, in poche parole, di una visione del tutto arbitraria e romanzata. È come se, un giorno, i nostri posteri, guardando all’epoca in cui abbiamo vissuto, ritenessero ordinarie le uccisioni dei magistrati, i rapimenti dei politici e le bombe contro il patrimonio dello Stato, che pure hanno caratterizzato alcuni momenti della nostra vita civile. È come se, in luogo di operare gli opportuni distinguo – fondamentali per ogni attendibile analisi – si liquidasse tutta la nostra storia recente con la giaculatoria: «era normale a quei tempi!». Certamente la mafia esiste ed è esistita, prima ancora dell’Unità d’Italia, ma i suoi esponenti non uccidono un magistrato al giorno, né piovono bombe ogni volta in cui usciamo in strada. Contestualizzare e mettere a confronto le dinamiche è un’operazione
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fondamentale per leggere la storia, ma anche per analizzare la politica. I fatti che ebbero luogo a Firenze tra il 1301 e il 1302 e che determinarono l’esilio di Dante sono eccezionali, pur all’interno di dinamiche riconducibili a quella determinata epoca. Rispetto ai nostri, diversi erano certamente anche gli standard di democrazia e la rappresentanza politica si limitava, per esempio, solo alle classi nobiliari e alto-borghesi. Ciò non vuol dire, tuttavia, che la Firenze di Dante non fosse uno Stato ben organizzato, con sue leggi e istituzioni. Un assetto, tra l’altro, che in quel momento era all’avanguardia in Europa, per ricerca politica e sperimentazione di nuovi sistemi anticorruzione: si veda, per esempio, il mandato brevissimo dei priori (due mesi appena!) e lo stato di semireclusione a cui il comune li sottoponeva, per impedire che venissero corrotti.
Una vistosa anomalia
Partendo da questo presupposto, cioè dal fatto che anche nel Medioevo esistevano leggi, istituzioni, tribunali e legalità, cerchiamo ora di capire, nello specifico, che cosa accadde in quella Firenze che mandò Dante in esilio. Si trattò, come abbiamo detto, di un’anomalia. Ed è ne-
Nella pagina accanto, in alto calco del sigillo della parte ghibellina di Firenze con l’immagine tradizionalmente identificata con Ercole che combatte il leone nemeo. Ultimi decenni del XIII sec. Firenze, Museo Nazionale del Bargello. Nella pagina accanto, al centro calco del sigillo della parte guelfa di Firenze con l’aquila che artiglia il drago. Fine del XIII sec. Firenze, Museo Nazionale del Bargello. In basso, sulle due pagine fregio raffigurante il rientro degli esuli milanesi dopo che la loro città era stata distrutta dal Barbarossa nel 1162, da Porta Romana. 1171. Milano, Castello Sforzesco.
cessario tenerlo a mente, altrimenti le invettive presenti nella Commedia o nelle lettere di Dante – indirizzate ai Fiorentini e a Enrico VII – appariranno come esternazioni eccessive, magari frutto di teatralizzazione e artificio letterario. Ricordiamolo, Dante non è un poeta, è soprattutto un politico. Se non teniamo a mente l’urgenza che per lui hanno la politica e la salvaguardia del bene comune, continueremo a giudicare presuntuose le sue numerose invettive, come se si auto-investisse di una missione profetica. Non è cosí. Dante scrive per provare a dire ciò su cui non può piú agire: la corruzione e la dittatura di pochi violenti. Dichiarare che i corrotti e i violenti sono tali, e non devono reggere le città, non significa essere presuntuosi, non coincide con l’auto-assegnarsi l’aureola di «puri», significa dire la verità, quella verità che, come Dante ci avverte, non va mai negata, perché nessuna riforma della giustizia o della politica può essere tentata, senza partire da un’analisi impietosa della realtà. A chi difende la legalità o la verità capita spesso d’essere considerato
presuntuoso, come se la legalità o la libertà fossero idee personali, che costui vuole imporre agli altri, e non categorie innate dello spirito e dell’etica, uguali a tutte le latitudini della storia, della religione, della cultura e della geografia. Prova ne è che i corrotti e i dittatori di tutto il mondo non rivendicano mai le proprie azioni come lecite, ma si sforzano di nasconderle o camuffarle. Il problema di Dante è che, a un certo punto, egli si ritrovò solo a gridare e cosí a noi arriva soltanto la sua voce. Ma se a volte si resta soli a gridare, non è perché la situazione non sia gravissima – e da tutti reputata tale –, ma perché è talmente grave che ormai a gridare sono rimasti solo i martiri e gli eroi. E, comunque, Dante non fu il solo a lanciare invettive. Insieme alla sua voce ci resta quella di un suo compagno di partito, Dino Compagni. Anche a lui è capitato di non essere compreso. Di essere giudicato troppo sopra le righe, troppo coinvolto, troppo emotivo, a tratti ingenuo e pervaso di misticismo. Questo è il problema di chi grida in epoche troppo lontane dalle nostre: noi sentiamo quel grido, ma non vediamo lo sfondo, non vediamo ciò che sta accadendo a chi grida. Capita allora di ritenere, erroneamente, che Dante e Dino gridino in maniera scomposta. Non nutriamo, per esempio, i medesimi sospetti nei confronti di personaggi come Giuseppe Ungaretti, Bertolt Brecht, Boris Pasternak, Primo Levi o Marc Bloch, perché, nel loro caso, ci è, per fortuna, ancora noto lo sfondo davanti al quale qulle grida echeggiano.
Scegliere le fonti
Tuttavia, esiste un approccio che permette di tornare a vedere che cosa sia accaduto a Dante. Si deve leggere la cronaca di Dino Compagni (Cronica delle cose occorrenti ne’ tempi suoi) e accantonare quella di Giovanni Villani (Nuova cronica), perché il primo dice la verità e il secondo mente. Ed è facile intuirne il motivo: Giovanni è uno storico organico al partito dei vincitori, Dino appartiene a quello dei perdenti, lo stesso di Dante. Ma ripartiamo dall’inizio, cominciando col ricordare quali erano gli schieramenti politici nella Firenze di allora e come si arrivò alla loro definizione. I termini guelfo e ghibellino vengono a definirsi in riferimento all’impero romanogermanico e agli inevitabili riflessi che il suo delinearsi ebbe sull’Italia, Paese che rientrava DANTE ALIGHIERI
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Fra guelfi e ghibellini nome del loro castello nel Baden-Württenberg. «Welfen», invece, quelli della casa di Baviera, dal nome «Welf», Guelfo, che ricorre spesso nell’albero genealogico della famiglia ducale bavarese. In Italia i termini furono impiegati soprattutto per definire i sostenitori del papa e dell’imperatore, e i loro nomi furono italianizzati in «guelfo» e «guaibelinga». Per giunta, «Welf» è proprio il nome di quel duca di Baviera che sposa Matilde di Canossa, la piú strenua sostenitrice del papa nella lotta delle investiture, che vide opposti sui due lati della barricata l’impero e il papato. Di riflesso, Matilde diviene l’icona dei sostenitori del papa, i Welfen, che iniziano a essere percepiti come un’unica compagine che acquista identità attraverso la semplice opposizione all’impero germanico e alla sua potestà sull’Italia centro-settentrionale.
Concessioni imperiali
nella giurisdizione imperiale, a motivo della vecchia sistemazione datagli da Carlo Magno. Quando Carlo scese in Italia e «strappò» le regioni del Centro-Nord ai Longobardi, la Penisola entrò a far parte dell’eredità del suo impero; quando poi l’impero dei Franchi, per via dinastica, passò ai teutonici, i territori italiani entrarono nell’asse ereditario germanico. Piú tardi, nel 1125, quando l’imperatore Enrico V morí senza lasciare eredi, di fronte alla crisi dinastica il mondo germanico si spaccò nelle due fazioni dei guelfi e dei ghibellini. Una metà dei Tedeschi si schierò con la casa degli Hohenstaufen di Svevia, per eleggere un suo rappresentante, e l’altra metà, invece, con la casa di Baviera. In Germania si trattò essenzialmente di questo, con l’aggravio – non cosí sentito in quel Paese – che la casa di Baviera era tradizionalmente favorevole a una politica filopapale. «Waiblingen», a quel punto, iniziano a essere chiamati i sostenitori degli Hohenstaufen di Svevia, dal 24
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In alto capolettera miniato con il ritratto di Dante Alighieri, da un’edizione della Divina Commedia con commento in volgare di Jacopo della Lana. 1403. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Nella pagina accanto l’assetto politico dell’Italia in età comunale.
Nella Penisola, però, la dinamica di quella contrapposizione va letta anche all’interno del movimento comunale, che investí proprio le regioni del Centro-Nord. I comuni nacquero come zone franche, senza mai autoproclamarsi apertamente come tali. Ciò vuol dire che la loro usurpazione di diritti poteva essere in ogni caso punita dall’imperatore e, nel caso di concessione di «regalia» – cioè esenzioni e concessioni –, queste potevano essere revocate. A volte si trattava dell’assegnazione da parte dell’imperatore di vere e proprie vicaríe. In altre parole, l’imperatore permetteva ai comuni di esercitare in sua vece i diritti che tradizionalmente gli erano riconosciuti, sollevandosi al contempo dai propri doveri, come l’onerosa costruzione e manutenzione di strade, mura e ponti. In cambio, il comune poteva legiferare, amministrare la giustizia, riscuotere le tasse. Nate come universitates, cioè come unioni di natura commerciale, le città iniziarono dunque a esercitare de facto e per intero tutte le prerogative di governo, un tempo appannaggio esclusivo dell’impero. In alcuni casi, però, quei diritti non furono mai concessi dagli imperatori, ma semplicemente usurpati. Per punire gli usurpatori – o a seguito della scadenza di quelli realmente concessi –, gli imperatori scendevano in Italia, seguiti da eserciti, decisi a ristabilire la propria potestà. Talvolta la loro discesa era invocata dai comuni minori – come Lodi, Pavia, Como o Cremona – che mal tolleravano l’espansionismo di quelli maggiori, Milano su tutti, che si rafforzava a scapito dei comuni limitrofi e dei diritti imperiali. Fu questo il caso dell’appello di Lodi a Federico Barbarossa.
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Miniatura raffigurante l’imperatore Enrico VII che sconfigge i ribelli milanesi capeggiati da Guido Della Torre, dal Codex Balduini Trevirensis. 1340 circa. Coblenza, Staatsarchiv.
Ogni volta in cui un imperatore scendeva in Italia, si rafforzava la cordata di quanti salutavano quella discesa come una liberazione e di chi invece entrava in sofferenza, perché si vedeva ridimensionato o del tutto esautorato dei propri poteri, esercitati talvolta in modo legittimo (regalia, esenzione), a volte in modo illegittimo (usurpatio). Il papa soccorreva, piú o meno apertamente, tutti i comuni in lotta contro l’imperatore e ciò favorí la polarizzazione dello scontro e il rafforzamento delle grandi fazioni dei guelfi e dei ghibellini. Per Firenze, il legame con il papato – e quindi anche la tradizionale ingerenza di quest’ultimo negli affari fiorentini – dev’essere spiegato anche attraverso il fatto che esso, de iure, era legato all’eredità di Matilde di Canossa.
Realtà diversificate
L’attestazione piú antica dei termini «guelfo» e «ghibellino», cosí come erano passati nel volgare italiano, è del 1239, a Firenze; si trova poi in abbondanza negli anni a seguire anche nelle carte di altre città toscane e umbre, dove per lo piú indicava le due factiones entro cui militavano le famiglie magnatizie locali. La situazione era particolarmente grave nel Centro Italia perché, mentre nel Nord gli istituti e le magistrature comunali erano ormai ben definiti, e si avviavano a farsi signorie, nel Centro, invece, si procedeva ancora a fatica alla piú efficace e netta strutturazione degli organi comunali. A Firenze, l’alternanza tra guelfi e ghibellini si ebbe fino al 1268, ma, con la definitiva sconfitta della casa di Svevia, i ghibellini persero ogni forza e rappresentanza all’interno del comune. Dopo la definitiva sconfitta in Italia delle forze imperiali di Manfredi (battaglia di Benevento, 1266) e Corradino di Svevia (battaglia di Tagliacozzo, 1268), a Firenze i capi ghibellini furono mandati in esilio e la loro fazione non si ricostituirà piú neppure dopo il 1280, quando il governo di popolo farà rientrare in città molti dei loro capi esiliati, nell’ottica di una riconciliazione di tutte le parti politiche. Il superamento della divisione in guelfi e ghibellini, dettato dalle circostanze sopracitate, portò a una spaccatura del partito guelfo tra un’ala che rappresentava la sua corrente piú progressista – la parte bianca, che raccoglieva il grosso dei suoi consensi tra la borghesia – e una piú conservatrice, la parte nera, che invece rifletteva maggiormente gli interessi delle aristocrazie feudali e delle famiglie magnatizie. Una distinzione che, tuttavia, restava politica prima che sociale, in quanto molti popolani militarono tra i neri e i molti magnati tra i bianchi. DANTE ALIGHIERI
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Fra guelfi e ghibellini
Oltre a essere favorevoli ad aprire il governo alle Arti Mediane (media borghesia), i bianchi intendevano favorire il rientro dei capi ghibellini; per questo erano spesso accusati dagli avversari – in modo propagandistico e strumentale – di tradimento della repubblica fiorentina e della pars ecclesiae. I neri perseguivano infatti una politica intransigente nei confronti dei ghibellini, in quanto si consideravano naturale espressione politica del papato in città. I bianchi, al contrario, miravano a rafforzare le istituzioni comunali e a mantenere il comune autonomo dall’ingerenza papale. I neri avevano anche un motivo pratico per legarsi a doppio filo alla Curia romana: i banchieri del papa in questo momento erano infatti gli Spini, che militavano nello schieramento dei neri. È opinione diffusa tra gli storici che i colori bianco e nero per indicare i due partiti fiorentini debbano essere ricondotti a una particolare circostanza. Nel 1296, il comune aveva accettato una balía quinquennale su 28
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Pistoia, ne aveva cioè acquisita la reggenza. Si trovò per questa ragione coinvolto nella faida pistoiese – del tutto priva di caratteri ideologici – tra i due rami di una stessa casata: i Cancellieri, che si erano appunto divisi in neri e bianchi. I colori delle fazioni pistoiesi, nero e bianco, furono sostenuti, a Firenze, rispettivamente dalla famiglia dei Donati e dalla famiglia dei Cerchi, andando cosí a designare le parti fiorentine dei Donateschi e dei Cerchieschi. Secondo Dino Compagni, il punto di non ritorno nella lotta tra le due fazioni fu la notte del 1° maggio del 1300 – a Firenze festa di Calendimaggio –, quando alcuni giovani della casata dei Cerchi incrociano quelli della casata dei Donati: dopo le prime schermaglie verbali, l’aggressione. I Donati tagliano il naso al giovane delfino dei bianchi, Ricoverino de’ Cerchi. A partire da questo momento, la spaccatura tra bianchi e neri smette di essere il riflesso delle contingenze pistoiesi. Tutto precipita ulteriormente nel
1301, quando Bonifacio VIII fa rientrare proditoriamente a Firenze uno sbandito estremamente pericoloso, perché capo di un comitato armato, già noto per le sue ripetute violenze, Corso Donati. A lui, anche se in quel momento già in esilio, si imputa del resto anche la responsabilità morale della vile aggressione di Calendimaggio. Rientrato in città, Corso Donati travolge le istituzioni comunali ed epura i bianchi in quel momento al potere. Tra loro c’è Dante.
I fantasmi di Paolo e Francesca appaiono a Dante e Virgilio, olio su tela di Ary Scheffer. 1854. Amburgo, Kunsthalle.
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L’AMICO GUIDO
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uido Cavalcanti era figlio di una famiglia ricchissima e potente, la seconda per importanza, dopo quella dei Cerchi, del partito dei bianchi. Molto probabilmente Dante era entrato in politica, proprio introdotto da Guido e dal loro comune maestro e amico, Brunetto Latini, anch’esso uomo politico di punta del partito dei bianchi. Guido aveva solo cinque anni piú di Dante, sufficienti, però, per essere percepito come fratello maggiore da chi, come Dante, non ne aveva. Non che questo spieghi la fiducia che Dante nutriva in lui, perché quella veniva dall’affinità e dall’ammirazione verso il coraggio e la determinazione del suo amico, che era anche il grande nemico di Corso Donati:
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«Messer Corso forte lo temea, perché lo conoscea di grande animo, e cercò di assassinarlo...» (Dino Compagni, Cronica, Libro I, XX)
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Guido provò a uccidere Corso, in strada, giavellotto alla mano. Anche Corso Donati pagò alcuni sicari per assalire Guido, mentre si stava recando in pellegrinaggio a Santiago di Compostella, ma anche lui lo mancò. Seppur indirettamente, fu comunque all’origine della sua morte, perché, per punirne le reciproche intemperanze, il comune mandò entrambi in esilio, in un anno, imprecisato, che, stando alla documentazione superstite, potrebbe essere il 1299, come sembra suggerire Dino Compagni. In ogni caso, dall’esilio in Lunigiana, Guido tornò a Firenze nell’agosto del 1300, ormai contagiato dalla malaria, e morí. Guido era dunque un uomo d’azione, un militare d’eccezione, ma, al tempo stesso, un intellettuale raro, amante dello studio e della poesia. Aveva senso di sé e i contemporanei lo descrivono addirittura sprezzante, altezzoso, superbo, ma verso Dante non mostrò mai questi lati del suo carattere. Anzi, tra loro sbocciò un legame che si fece solidissimo, malgrado Guido provenisse da una casata ricchissima e potente, e Dante, invece, da una marginale e ininfluente. La loro amicizia era nata cosí: un giorno Guido aveva letto un sonetto che Dante aveva mandato in giro per Firenze e gli aveva risposto, dichiarandosi suo ammiratore. Guido era rimasto colpito dal talento di Dante, e non diede segno di accorgersi della differenza di condizione sociale che correva tra loro, diversamente da quanto faceva l’altro amico di Dante, Forese Donati, il quale, nella tenzone – come sappiamo – gli rinfaccia di essere povero in canna e di vivere a spese dei fratelli e degli amici. Dell’amicizia tra Dante e Guido ci resta una fotografia vivida e struggente, nel sonetto giovanile di Dante, Guido, i’ vorrei: Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io fossimo presi per incantamento e messi in un vasel, ch’ad ogni vento per mare andasse al voler vostro e mio;
Nella pagina accanto La barca dell’amore, illustrazione di Dante Gabriel Rossetti per il sonetto Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io. 1881.
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sí che fortuna od altro tempo rio non ci potesse dare impedimento (…) e quivi ragionar sempre d’amore (…) (Rime, Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io, 1-6; 12) [Guido, io vorrei che tu e Lapo ed io fossimo presi come per incantesimo e messi in una barchetta, spinti dai venti, seguendo il vostro e il mio desiderio. Cosicché né la cattiva sorte né alcun altro cattivo accidente potrebbero farci da ostacolo (…) e in quella barchetta restare cosí per sempre a ragionare d’amore]. Dante dedica il suo primo libro, la Vita Nova, a Guido, attribuendo all’amico la sua scelta di usare il volgare, perché solo in volgare il suo amico desidera che si scriva. Un ruolo decisivo, quindi, quello che Dante attribuisce a Guido, ma la loro amicizia resta una questione controversa, a motivo del suo presunto epilogo. È addirittura maggioritaria, infatti, la corrente di quanti ritengono che si sia guastata nel corso degli anni. Tra le prove addotte c’è il sonetto di Guido indirizzato a Dante «I’ vegno il giorno a te infinite volte», in cui Guido rimprovera all’amico di intrattenersi ormai con persone vili e di aver abbassato di molto i propri interessi e ragionamenti. Forse Guido allude proprio alla frequentazione assidua tra Dante e Forese Donati, fratello dell’odiato Corso, e noto frequentatore di taverne. Il sonetto di Guido però – si ricordi che all’epoca i sonetti erano spesso usati come lettere – non implica necessariamente la crisi della loro amicizia. Il rimprovero è segno di salute di un rapporto, e non il contrario. Tanto piú che Dante e Guido condividevano interessi cruciali, come la politica e la scrittura e che a Guido, appunto, non doveva piacere affatto l’amicizia di Dante con Forese Donati. Neppure l’assenza di Guido nella Commedia può essere considerata indizio di un possibile raffreddamento. A ben guardare, poi, Guido è presente. Nella Commedia, la sua ombra aleggia prepotente nel canto X dell’Inferno. Un canto costruito proprio per oggettivare lo strazio della sua morte, attraverso l’immagine del padre che cade a terra, quando cade nell’equivoco che Guido sia morto. In realtà – noi lo sappiamo – Guido, mentre Dante sta scrivendo la Commedia, è morto davvero. Dante utilizza il fraintendimento come espediente, per fare in modo di essere lui, e non un altro, a dare al padre di Guido l’atroce notizia. Il padre di Guido, inoltre, tratta Dante come se lui e il figlio fossero ancora una cosa sola. Già quando lo scorge, lo scruta con la convinzione che Guido sia con lui: «Dintorno mi guardò come talento avesse di veder s’altri era meco» (Inferno, X, 55-56) [Mi guardò intorno per capire se Guido fosse con me] Il padre di Guido, dunque, dà per scontato che, se c’è l’uno,
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Nella pagina accanto Sei poeti toscani, olio su tavola di Giorgio Vasari. 1544. Minneapolis, Minneapolis Institute of Art. In primo piano, Francesco Petrarca (a sinistra) e Dante Alighieri; in secondo piano, da sinistra, Guittone d’Arezzo, Cino da Pistoia, Giovanni Boccaccio e Guido Cavalcanti. dev’esserci anche l’altro; non solo, Dante dice qui, per bocca di Cavalcante, che se a lui è stato concesso il privilegio di visitare il regno dei morti, perché è grande «d’ingegno», allora lo stesso privilegio non può non essere stato concesso a Guido, che non gli è inferiore. Non è forse questo un omaggio che Dante vuole rendere a Guido? Dichiarare, nella Commedia, a chiare parole, che lui e Guido pari sono nel talento? Cavalcante che cade a terra alla notizia che Guido è morto, è Dante stesso che cade a terra alla notizia di quella morte. Non è un modo di screditare o rimproverare Guido, neppure l’averlo denunciato come ateo, perché a differenza di quanto noi immaginiamo, il Medioevo fu anche fieramente ateo. Tutti i ghibellini, accusati di ateismo, ne facevano spesso motivo di vanto e orgoglio, come fosse un fattore identitario, in contrapposizione all’odiato potere temporale dei papi. Il tono stesso di quei versi, del resto, è tutt’altro che diffamatorio: «Da me stesso non vegno: colui ch’attende là, per qui mi mena forse cui Guido vostro ebbe a disdegno» (Inferno, X, 61-63) Anche l’esilio di Cavalcanti è questione centrale: i nemici di Dante, infatti, lo usano per incolparlo di tradimento e corruzione. Alcuni sostengono che Dante abbia mandato in esilio Guido, tradendone l’amicizia; altri, invece, che lo abbia fatto rientrare, prima del tempo, mentre era priore, trasgredendo la legge e quindi tradendo la Repubblica fiorentina. L’esilio di Guido viene dai piú collocato dopo il 24 giugno del 1300, quando appunto Dante era priore e quindi sotto la sua responsabilità. Dino Compagni, però, ci dice che Corso e Guido furono mandati in esilio insieme, quindi prima del terribile Calendimaggio del 1300, quello in cui i neri amputarono il naso a Ricoverino de’ Cerchi. Al 10 maggio del 1300, infatti, risulta attestata una condanna in contumacia – probabilmente relativa proprio alla sua responsabilità indiretta su quei fatti – contro Corso Donati. Per quanto riguarda il rientro anzitempo di Guido dall’esilio, nell’estate del 1300, i neri – nella Cronaca Marciana (una compilazione di autore anonimo, della prima metà del XIV secolo, che racconta della storia di Firenze dal 1188 al 1315, cosí denominata perché conservata nella Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia, n.d.r.) – dicono che esso avvenne nel luglio del 1300, cioè quando Dante era priore. Un modo perfetto per accusarlo di «baratteria», di aver preso denaro per favorire gli amici, abusando della sua carica di priore. Leonardo Bruni (umanista e uomo politico,
autore degli Historiarum florentini populi libri XII, prima vera storia di Firenze, n.d.r.) dice però che in una lettera di Dante, Popule mee quid feci tibi? (oggi perduta), Dante si era difeso da tale accusa, affermando che Guido rientrò quando lui non era piú priore, cioè dopo la data di decadenza del suo mandato, il 14 agosto del 1300. Dice anche che, se a Guido fu consentito di rientrare, non è perché i bianchi favorissero gli amici, ma perché era malato e in fin di vita, come del resto attesta ancora oggi la sua sepoltura in S. Reparata al 29 agosto di quell’anno. Si deve aggiungere anche che, quando Dante era priore, non tutti e sei i priori erano bianchi: due almeno, con
certezza, erano neri; due bianchi; e due, infine, non identificati nel colore politico. Malgrado ciò, Giovanni Villani afferma che solo loro detenevano il potere in città, escludendo colpevolmente i neri dalle alte cariche: «per lo seguito grande ch’aveano i Cerchi il reggimento della città era quasi tutto in loro podere». Tuttavia, come abbiamo già altrove sottolineato, Villani vuole solo far in modo di presentare il colpo di Stato del 5 di novembre del 1301 non per quello che realmente fu, ma come la motivata reazione dei neri alle prepotenze dei bianchi, i quali – a suo dire – tenevano la città in forma di regime, tiranneggiando gli oppositori politici e favorendo illecitamente gli amici.
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UN AMORE DI «GRAN POTENZA» Miniatura raffigurante Dante e Beatrice che volano verso la città celestiale (Paradiso, canto XXX), da un’edizione della Divina Commedia illustrata dal pittore senese Giovanni di Paolo. 1450 circa. Londra, The British Library.
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on abbiamo motivo di ritenere che Beatrice fosse un personaggio fittizio. I figli di Dante si sforzarono infatti di avvertire che il padre, nella Commedia, attinge alla sua personale biografia; che i suoi maggiori protagonisti sono conoscenze reali, che Dante rievoca. Quasi piú nessuno, infatti, dubita che Beatrice sia la Beatrice Portinari, che andò in sposa al ricco Simone de’ Bardi.
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Beatrice era nata a Firenze nel 1266 e quindi aveva solo un anno meno di Dante ed egli stesso ci dice di averla incontrata una prima volta all’età di 9 anni e poi una seconda, all’età di 18. I loro incontri si susseguirono fino ai 25 anni di età di Dante, cioè fino al 1290, anno in cui, nel mese di giugno, Beatrice morí. La storia del loro amore, soprattutto la storia dei giorni
disperati del lutto di Dante, sono raccontati nella Vita Nova, il primissimo dei suoi libri, terminato intorno al 1293. Quel testo reca, in chiusura, la promessa di tornare ancora a parlare di lei, ma in una forma piú alta e piú degna. Una promessa che rimane a lungo disattesa. Ci volle, infatti, una quindicina d’anni prima che Dante riprendesse a scrivere di Beatrice, facendone la sua guida, in una
cantica della Commedia. Cinque anni dopo la morte della donna, come abbiamo visto, Dante entrò in politica e alla scrittura non pensò piú. Quando, poi, ormai in esilio, riprese a farlo, non parlò di Beatrice, ma del volgare e della necessità di portare la cultura e la conoscenza a tutti, attraverso i libri del Convivio e del De vulgari eloquentia. Solo intorno al 1307-1308, quando iniziò a scrivere la
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Commedia, tornò ancora a parlare di lei. Nella Commedia Beatrice ha un ruolo di enorme rilevanza, non tanto perché accoglie Dante e lo guida alle porte del Paradiso, ma perché è lei che rende possibile la salvezza del poeta, finito nel budello della «selva oscura», ormai lontano dalla famiglia, dagli amici e dalla politica. È Beatrice che allerta Virgilio affinché vada a soccorrere il disperso e lo riporti a galla. Lei è tra le tre donne che si muovono per salvarlo: la Madonna, santa Lucia, e Beatrice, ma di questa triade non è l’elemento principale. Ha il ruolo piú importante in quanto la catena salvifica è stata messa in moto, nelle Alte Sfere, solo perché a Dante è stato riconosciuto un unico merito: egli ha amato. Se Dante non avesse amato Beatrice, quel viaggio eccezionale, di un vivo in carne e ossa in mezzo ai morti, non avrebbe avuto luogo. Beatrice è dunque all’origine di quel viaggio: è stata lei, allertata da santa Lucia circa le miserevoli condizioni del suo amico, a chiedere a Virgilio di andare a recuperarlo mentre ha perso l’orientamento ed è ormai incapace di dare una direzione alla sua vita, tenendo dritta la barra del timone. La stessa santa Lucia, quando rimprovera Beatrice di non accorgersi della disperata condizione in cui versa l’amico, usa come argomento l’amore che li ha legati. Quell’amore che ha fatto maturare a Dante quasi una sorta di «credito», che gli viene riconosciuto ora, al momento della sua caduta. In questa concezione salvifica dell’amore vi è tutta l’essenza dello stil novo, di cui Dante è l’ideatore. Beatrice, infatti, non rappresenta nella Commedia una semplice guida spirituale, ma l’amore stesso. Solo grazie all’amore provato per Beatrice Dante può infatti giungere a un innalzamento, cioè alla nobiltà dell’animo. Il poeta lo ricorda nella Commedia stessa: egli è uscito per lei dalla «volgare schiera», ovvero ha superato i limiti dell’uomo comune, «ha trasumanato» si direbbe in gergo dantesco, solo grazie all’amore. Nella manualistica scolastica, con un’espressione troppo frettolosa, si definisce la Commedia come un poema didascalico-religioso. Didascalico lo è, in quanto Dante intende trasmettere un insegnamento: ogni uomo può e deve compiere «un viaggio di redenzione» dalla bestialità (la «matta bestialitade»), ma, per farlo, ha bisogno dell’amore. Per contro, la Commedia non è un testo religioso e i tre regni dell’oltretomba sono solo una cornice fittizia che Dante usa per tenere insieme le molte storie che vuole raccontare. Già i figli di Dante mettevano in guardia i lettori dal non leggere l’opera del padre come un ammaestramento religioso. I religiosi veri, del resto, si avvidero subito che non si trattava di un testo religioso, ma di un testo che promuoveva valori laici e, infatti, si affrettarono a proibirlo (come i Domenicani, che, nel Trecento, ne vietarono la lettura a tutti i frati). È vero che nella Commedia il viaggio di redenzione dell’uomo termina nella scoperta di Dio e che l’opera è intessuta di una potente cultura teologico-religiosa.
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La voragine infernale, una delle tavole realizzate da Sandro Botticelli per illustrare la Divina Commedia. 14801495. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.
La Commedia resta, tuttavia, l’opera di un uomo che ammonisce di partire dal basso, dalla Terra, dalla carnalità e dal fetore della vita, perché altrimenti non si giunge da nessuna parte. E questo non era in linea con la morale da monaci, che negava il corpo e le sue passioni. Siamo noi moderni a ritenere che il mondo medievale vivesse in funzione della vita ultraterrena, negando importanza all’uomo e alla sua autonomia morale. L’uomo dantesco, invece, è già al centro del suo destino, è già l’uomo del Rinascimento. Noi continuiamo a pensare che la Vita Nova sia l’opera in cui Dante parla dell’amore terrestre, e la Commedia quella
in cui trionfa l’amore celeste. In realtà, entrambe le opere sono l’esaltazione dell’amore terrestre, esperienza imprescindibile per Dante e gli stilnovisti. Quando Beatrice incontra Virgilio, gli spiega tutto questo, gli dice che, se ha soccorso Dante, è solo in ragione dell’amore:
è motivato dal fatto che Dante la amò e ora lei non può non farsi carico di lui:
«Amor mi mosse, che mi fa parlare»
Quando, sulla sommità della montagna del Purgatorio, Dante rivede Beatrice, non si trova al cospetto di una figura angelica, eterea, priva di sangue e di corpo: al contrario, accarezza con gli occhi una donna che «d’antico amor» gli fa sentire «la gran potenza»!
(Inferno, II, 72) Lo stesso rimprovero che santa Lucia muove a Beatrice – colpevole di non aver pensato da sola a soccorrere Dante –
«Beatrice, loda di Dio vera, ché non soccorri quei che t’amò tanto» (Inferno, II, 103-104)
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MATELDA LA BELLISSIMA
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ra i molti stereotipi che abbiamo fatto nostri, c’è quello di un Dante perennemente innamorato di Beatrice. Ci sono invece altre donne nella sua vita: non solo la moglie, Gemma Donati – che gli fu legata in promessa di matrimonio quando era ancora un bambino e che lui sposerà solo dopo la morte di Beatrice –, ma molte altre. Tra queste sembra occupare un posto centrale, negli anni dell’esilio, Matelda. Un personaggio del quale non conosciamo il vero nome, ma che Dante battezza cosí nella Commedia. Siamo intorno al 1309-1310, Dante ha 45 anni e risiede nel castello dei conti Guidi, in Casentino, quando s’innamora di nuovo. E, si badi, non si tratta di un’illazione, poiché egli stesso presenta la cosa in questi termini. Tra le poche notizie certe di cui disponiamo su di lei, questo frammento di vita è certissimo, una luce insperata e inusuale. Dante infatti ne parla in tre diversi punti della sua produzione: nella canzone montanina, in una lettera a Moroello Malaspina e nel canto XXVIII del Purgatorio. La canzone ci è stata tramandata col titolo di «canzone montanina», perché è lui stesso a chiamarla cosí nel testo, per indicarne il luogo di composizione, tra le montagne del Casentino, in mezzo agli Appennini, denominati all’epoca Alpi; essa fu spedita unitamente a una lettera al suo amico e protettore Moroello Malaspina. Nella missiva, Dante spiega all’amico che la canzone che gli allega racconta di un suo recente innamoramento per una donna del Casentino: «A me dunque, allontanato dal vostro palazzo in seguito rimpianto, nel quale, come spesso notaste con ammirazione, potei tornare a dedicarmi alle arti liberali, non appena, incauto e senza sospetto, ho messo piede presso la corrente dell’Arno, all’improvviso, ahimè, una donna, come folgore dal cielo, mi apparve non so come; una donna rispondente ai miei auspici, per aspetto e per costumi. Oh quanto sono rimasto stupito da quell’apparizione! Ma poi lo stupore cessò al sopraggiungere del terrore del tuono. Infatti come ai tuoni seguono i fulmini diurni, contemplata la fiamma della sua bellezza, Amore – terribile e imperioso – mi catturò, feroce, come signore che espulso dalla sua patria vi fosse rientrato dopo un lungo esilio. Amore uccise o scacciò o legò qualunque mia resistenza fosse a lui contraria. E uccise, dunque, anche quel lodevole proposito di astenermi dalle donne e dalla poesia a loro dedicata. E ha empiamente sbandito, come fossero sospette, le meditazioni assidue attraverso le quali contemplavo sia le cose celesti che le terrestri. E infine affinché il mio animo non gli si ribellasse ancora, ha legato il mio arbitrio cosicché io sono costretto ad andare non dove voglio io, ma dove vuole lui. Ed ecco che amore regna in me e nessuna virtú gli resiste; e in che modo mi governi, cercate giú, fuori dal seno della presente lettera» (Dante al marchese Moroello Malaspina, epistola IV). Di quella donna, Dante – ormai lontano dal colpo di fulmine sulle rive dell’Arno – tornò a raccontare in forma trasposta
nel canto XXIX del Purgatorio, dove non possiamo non riconoscere, nella figura di Matelda, proprio lei, la donna del Casentino, descritta nella lettera a Moroello. Ci sono un fiume, una collina e una donna che appaiono all’improvviso a mettere in subbuglio il cuore di Dante. L’innamoramento si manifesta in entrambi i testi in maniera fulminea e violenta. Nella Commedia, mentre Dante sta lasciando la collina del Purgatorio, giunge presso un fiume sulla cui riva, quella opposta alla sua, vede una donna, che lo confonde: «E là m’apparve, sí com’elli appare subitamente cosa che disvia per maraviglia tutto altro pensare, una donna soletta che si gia e cantando e scegliendo fior da fiore ond’era pinta tutta la sua via. – Deh, bella donna, che a’ raggi d’amore ti scaldi, s’i’ vo’ credere a’ sembianti che soglion esser testimon del core, vegnati in voglia di trarreti avanti –, diss’io a lei, – verso questa rivera, tanto ch’io possa intender che tu canti –» (Purgatorio, XXVIII, 38-48) [E là m’apparve, come quando appare una cosa all’improvviso che per quanto è meravigliosa allontana qualunque altro pensiero dalla mente, una donna che se ne stava sola a cantare e scegliere fiori di cui era piena la sua ripa. «Deh, bella donna che ti scaldi ai raggi dell’amore, se io devo credere al tuo volto che è lo specchio del cuore, ti sia gradito di avanzare verso questo fiume», le dissi, «quanto basta perché io possa sentire che cosa stai cantando»]. Non si tratta forse dello stesso scenario della canzone montanina? Non c’era anche lí un colle – Romena –, un fiume – l’Arno – e presso le sue sponde una donna che – subitamente, come folgore, all’improvviso – lo fulminò?
Nella pagina accanto Dante incontra Matelda alle soglie del Paradiso terrestre. Miniatura che illustra il XXVIII canto del Purgatorio, da un’edizione della Divina Commedia. 1480-1482. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. La «bella donna» che Dante scorge sulla riva del fiume Leté, è una figura enigmatica, probabilmente legata al vissuto personale del poeta.
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IL SEGRETO DEL MAESTRO BRUNETTO L’incontro fra Dante e Brunetto Latini in una tavola realizzata da Gustave Doré per la celebre edizione illustrata della Divina Commedia pubblicata nel 1861.
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runetto Latini nacque a Firenze intorno al 1220 e sempre a Firenze morí intorno al 1294. Era notaio e cancelliere del comune, per conto del quale, come Dante, fu incaricato di alcune ambascerie. Era guelfo e, per tale ragione, dopo la sconfitta di Montaperti del 1260, subí l’esilio, dal quale fece rientro a Firenze dopo il 1266, anno della sconfitta, questa volta ghibellina, di Benevento. Dopo quella data, ottiene gli incarichi piú importanti nel governo fiorentino. È rappresentante per la parte guelfa delle trattative per la pace imposta a Firenze dal cardinal Latino, poi consigliere e priore. Brunetto è autore del Tresor, una trattazione a carattere enciclopedico in volgare francese. È anche filosofo e maestro, perché Dante lo descrive come tale, nel canto XV dell’Inferno, in cui Brunetto è salutato con l’affetto che si deve a un «padre» elettivo. Solo da lui, infatti, si lascerà consolare e profetare il riscatto tramite la poesia. Un’inclinazione, quella poetica di Dante, di cui egli per primo ebbe il privilegio di accorgersi: «Se tu segui tua stella non puoi fallire a glorioso porto, se ben m’accorsi ne la vita bella» (Inferno, XV, 55-57) [Se tu segui la tua natura, la tua nave non potrà non raggiungere il suo porto, se io mi accorsi bene del tuo talento, quando ero ancora vivo]. Nell’Inferno Brunetto è punito con i sodomiti. Tale collocazione è stata a lungo – e lo è ancora – una crux dantesca. Non esistono argomenti per dubitare che nell’Inferno di Dante i sodomiti siano – cosí come nella tradizione canonistica cristiana dell’epoca – gli omosessuali. Molti, però, hanno a lungo negato che Dante intendesse davvero riferirsi all’omosessualità del suo maestro, perché tale attestazione, per molto tempo, non è stata suffragata da alcuna altra prova. Appariva quindi sorprendente che proprio Dante, che nutre una vera e propria venerazione nei confronti di Brunetto, si facesse vettore di una tale notizia, tradendo in qualche modo un segreto, che si presumeva mai rivelato, dell’amico. Vi era poi la questione che Brunetto ebbe moglie e figli, ma oggi non è neppure piú presa in esame, in quanto tutti sappiamo che è un dato irrilevante ai fini della definizione dell’orientamento sessuale. Intorno al 1840, in realtà, una prova venne scoperta, anche se mai definitivamente accolta, in un corpus di liriche contenute nel codice Vaticano latino 3793, che ne è testimone unico. Si tratta di uno scambio di sonetti tra Brunetto Latini e il poeta pre-stilnovista Bondie Dietaiuti. I rimandi tra le liriche non lasciano dubbi circa il loro carattere amoroso. Essi furono probabilmente composti negli anni in cui Brunetto era esule in Francia. Lo scambio tra i due autori, infatti, fa riferimento alla nostalgia, alla reciproca mancanza e alla lontananza coatta.
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Un guelfo che «non bene sapea conversare co’ laici»...... La scelta di campo di Dante si inserisce nel contesto di una Firenze dilaniata da lotte furibonde. E il poeta vive un dramma nel dramma, poiché, vittima di accuse pretestuose, deve lasciare la città. Sono anni tumultuosi, scanditi da episodi la cui dinamica non è sempre chiara, perché viziata dalla faziosità di alcune delle principali testimonianze, prima fra tutte quella di Giovanni Villani. Che pure viene da sempre considerato come una delle voci piú autorevoli e attendibili
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a parte politica di Dante si confonde nella nostra testa: era un guelfo? Era «un ghibellin fuggiasco», come lo definiva Ugo Foscolo? A questa domanda si può rispondere solo tenendo a mente i complessi rivolgimenti politici che, tra la fine del Duecento e i primi decenni del Trecento, investirono la città di Firenze e l’Italia. Partiamo dal correggere una nostra percezione sbagliata della politica di quegli anni. Quando evochiamo la «normale alternanza» di violenze tra guelfi e ghibellini, non stiamo facendo sufficiente attenzione alla periodizzazione. Non stiamo cioè facendo lavorare in noi i dati storici, ma alcuni versi della Commedia, quelli in cui Dante parla a Farinata degli Uberti, noto capo di parte ghibellina, morto da diversi decenni: «Poi disse: “Fieramente furo avversi a me e a miei primi e a mia parte, sí che per due fïate li dispersi”. “S’ei fur cacciati, ei tornar d’ogne parte”, rispuos’io lui, “l’una e l’altra fïata; 42
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ma i vostri non appreser ben quell’arte”». (Inferno, X, 46-51) [Poi Farinata disse: «I tuoi avi furono ferocemente avversari dei miei parenti e del mio partito, cosicché per due volte li mandai in esilio». Io gli risposi: «Se i miei parenti furono cacciati, tornarono, però, ogni volta, sia l’una che l’altra volta, a differenza dei tuoi che non hanno saputo imparare l’arte del ritorno»]. Dante conosce bene il profilo biografico di Farinata, non solo perché è un personaggio molto noto a Firenze, ma perché il suo migliore amico, il guelfo Guido Cavalcanti, ne aveva sposato la figlia Beatrice, promessagli quando erano ancora bambini, nella speranza di pacificare le parti avverse dei guelfi e dei ghibellini. Ecco perché, probabilmente, in questo canto i due consuoceri si trovano ancora vicini: accanto a Farinata c’è Cavalcante, padre di Guido. Il Farinata-dannato e il Dante-personaggio si rinfacciano reciprocamente l’esilio subito dalle loro rispettive famiglie. E proprio questo reciproco rinfaccio dell’esilio,
Miniatura raffigurante Dante e Virgilio che incontrano Farinata degli Uberti e Cavalcante de’ Cavalcanti, dal Dante Urbinate, edizione manoscritta della Divina Commedia realizzata per Federico da Montefeltro e corredata dalle illustrazioni di Guglielmo Giraldi. 1480-1482. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.
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patito prima dai guelfi (Alighieri) e poi dai ghibellini (Uberti), si fissa nella nostra mente. Tuttavia, le vicende alle quali i due personaggi fanno riferimento riguardano, come abbiamo detto, eventi svoltisi ben prima di quelli che determinarono l’esilio di Dante, quando il poeta non era neppure nato. Si riferiscono al periodo in cui a Firenze c’erano ancora i guelfi e i ghibellini, e il governo della città era nelle mani di un’oligarchia di famiglie di ascendenza feudale, o che da poco avevano acquisito la dignità cavalleresca, necessaria per entrare nei ranghi della nobiltà. Dopo il 1293, però, la situazione cambiò radicalmente, 44
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perché la dignità cavalleresca, che prima di quella data è necessaria all’accesso in politica, diviene invece motivo d’esclusione. Chi, come Dante, vantava un titolo nobiliare poteva dunque entrare nell’agone politico, ma doveva dimostrare di non avere un comitatus, cioè un seguito di armati, non doveva cioè essere un pericoloso capoclan. Non è il caso di Dante, che, in qualche occasione, riesce a malapena ad armare se stesso. Prima degli Ordinamenti di Giustizia si accedeva alla politica solo se «gentili di sangue», cioè nobili, e non del tipo di nobiltà di Dante, di (segue a p. 50)
Farinata degli Uberti alla battaglia del Serchio (o di Montaperti), olio su tela di Giuseppe Sabatelli. 1842. Firenze, Palazzo Pitti. Il dipinto evoca il cruento scontro combattuto fra guelfi e ghibellini nel 1260.
A destra il ritratto di Dante che compare nell’affresco della cappella della Maddalena, al primo piano dell’attuale sede del Museo Nazionale del Bargello di Firenze. L’opera viene attribuita a Giotto e alla sua bottega.
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UN’IMMAGINE DISTORTA Il ritratto di Dante confezionato da Giovanni Villani, che abbiamo visto essere quello di un uomo altezzoso, superbo, sdegnoso, con tendenza a mantenersi separato dal «volgo», il tipo d’intellettuale algido e distaccato, ebbe un’enorme influenza anche sull’iconografia. Cosí come ne ha ancora oggi il piglio caratteriale descritto dal Villani: un uomo roso dal rancore, mosso a parlare in maniera «sconveniente» dal risentimento, soggetto alla collera. Tutto ciò si riflette ancora oggi nella ritrattistica dantesca, malgrado Giovanni abbia mentito. Si potrebbe obiettare che è Dante stesso con le sue invettive a fornire di sé questa immagine, ma
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non è cosí. Dante grida nei suoi versi come pure gridano Giuseppe Ungaretti, Pablo Neruda, Bertolt Brecht, ma quel grido noi non lo avvertiamo come scomposto o altezzoso, pedante e sprezzante, ma come eroico. È altra l’espressione che si stampa sul viso di chi grida perché il bene comune è travolto e di chi, invece, usa il suo grido per questioni di risentimento personale, che concernono il proprio personale riconoscimento di politico e di poeta. Dunque non è stato Dante, con le sue parole, a conferire quei tratti caricaturali al proprio ritratto, bensí Giovanni Villani, per i motivi che ormai conosciamo.
Possediamo due ritratti precedenti la Nuova cronica del Villani, quello del Bargello e quello delle Murate. Il primo fu eseguito nella cappella della Maddalena probabilmente prima dell’esilio (vedi foto a p. 45). Dopo le condanne del 1302, infatti, non sarebbe stato possibile ritrarre all’interno del palazzo del Podestà un «ribelle» di Firenze. Il ritratto, attribuito a Giotto o alla sua scuola, mostra un Dante Alighieri privo di quell’espressione carica e corrucciata, da divinità oltraggiata, a cui siamo ormai abituati. L’originale dell’affresco potrebbe essere andato distrutto in un incendio del 1322 e solo successivamente, nel 1337 (data che compare sotto una delle figure rappresentate),
restaurato o ridipinto, ma sempre su base del disegno originale. Analoga fu la sorte del ritratto delle Murate, eseguito anch’esso nella prima metà del Trecento nell’edificio che era allora sede dell’Arte dei Giudici e dei Notai, e scoperto solo di recente, intorno al 2005 (vedi foto a p. 49). Qui Dante è in compagnia di Petrarca e di Boccaccio, a celebrare la grande letteratura, e per questo si pensa che sia stato eseguito intorno al 1341, anno in cui Petrarca ricevette a Roma la laurea. L’espressione distesa che si osserva in questi primi ritratti si contrae in un’espressione sdegnosa a partire da Raffaello, che ritrae Dante, questa volta insieme ai grandi poeti
Parnaso, affresco realizzato da Raffaello Sanzio per lo studio di Giulio II, oggi Stanza della Segnatura. 1508-1511. Città del Vaticano, Musei Vaticani. Sotto alla Poesia, è rappresentato il monte Parnaso dove Apollo, seduto al centro, suona la lira da braccio, circondato dalle nove Muse, protettrici delle arti, e da poeti antichi e moderni: tra questi, primo a sinistra, si riconosce Dante Alighieri, seguito da Omero (cieco) e Virgilio.
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A destra Firenze. Il ritratto di Dante identificato nell’affresco rinvenuto nell’edificio che, fra il XIII e il XVI sec., ospitò l’Arte dei Giudici e dei Notai. Nel dipinto, eseguito probabilmente intorno al 1341, il poeta non ha il naso aquilino e l’espressione corrucciata destinati a divenire tratti tipici della sua iconografia. Nella pagina accanto Dante Alighieri in un disegno a penna e inchiostro bruno di Raffaello Sanzio. 1509-1510 circa. Londra, Royal Collection Trust.
dell’antichità greco-romana, Omero e Virgilio, nella Stanza della Segnatura, un tempo studio di Giulio II e oggi parte dei Musei Vaticani (vedi foto alle pp. 46/47). In quest’immagine, che è quella scelta anche per la nostra moneta da 2 euro, rispetto al Bargello e alle Murate, non è cambiata solo l’espressione, che qui, come abbiamo detto, si fa sprezzante e corrucciata, ma anche i tratti: il naso è diventato aquilino e il mento pronunciato. Eppure era un uomo di aspetto gradevole e dai tratti regolari quello ritratto al Bargello. Che cosa è intervenuto dunque? Oltre a Giovanni Villani, che ne condiziona l’espressione generale e la posa, è Giovanni
Boccaccio a influire sull’iconografia dantesca, con la descrizione che ne fornisce nella sua biografia (la prima in senso classico). Boccaccio descrive Dante come mediocre di statura, dal volto lungo, dal naso aquilino, dal labbro inferiore sopravanzato, con i capelli crespi, l’espressione malinconica e pensosa. Boccaccio, però, non vide né conobbe mai Dante e la sua biografia è in troppi punti fantasiosa e del tutto inattendibile. L’iconografia dantesca è condizionata dai suoi peggiori biografi, Giovanni Villani e Giovanni Boccaccio: Raffaello, in Vaticano, si limita a sintetizzarne la lezione.
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Essere di parte Nella pagina accanto replica ottocentesca della Veduta della Catena, realizzata da Francesco di Lorenzo Rosselli. 1472 circa. Firenze, Palazzo Vecchio. L’opera, il cui appellativo deriva dalla catena chiusa da un lucchetto che la circonda (non visibile in questo particolare), è un documento di straordinaria importanza per la conoscenza dell’assetto urbano di Firenze.
In alto miniatura raffigurante Corso Donati che rientra a Firenze nel novembre del 1301 e libera i prigionieri, dall’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.
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magrissime risorse. La sua famiglia si era guadagnata in passato il titolo nobiliare grazie alla presenza di un cavaliere tra gli avi, ma la partecipazione degli Alighieri alla guerra e agli scontri cittadini fu sporadica. Sono le famiglie che detengono il potere a Firenze prima del 1292 a garantire un numero di armati effettivi, mantenendoli al proprio seguito e che, all’occorrenza, sono chiamati in difesa della città. Solo i magnati, cioè «i grandi» (oltre che nobili), possono permettersi il comitatus. Mantenere gli armati al seguito era un impegno oneroso, non soltanto perché dovevano garantire ai loro accoliti risorse per mantenere cavalli e armature – quello era il meno – quello era il meno –, ma per la necessità di assicurarne il costante addestramento.
Chi, dunque, poteva permettersi di farlo? Solo le antiche aristocrazie di sangue, che disponevano di patrimoni ingenti e che, da sempre, erano abituate a occuparsi della guerra, loro prerogativa esclusiva per tutto l’Alto Medioevo. Quando, nel XII secolo, con la rinascita delle città, la classe sociale dei nobili s’inurba, lo fa perché spinta dal comune. La strategia dei comuni, infatti, consiste nell’attirare queste forze in città, sia per disporre di una forma di milizia, sia per controllare meglio le armi che circondano il suo territorio e, dal contado, potrebbero minacciare la città. Si preferisce che i nobili siano vicini e inseriti nella politica comunale, e non lontani e liberi dai suoi tentacoli. Facendoli entrare
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Nella pagina accanto tavola raffigurante le autorità di Firenze che nominano Dante come proprio rappresentante presso Bonifacio VIII, 1301, da Medio Evo, 1892. Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana.
nelle dinamiche della vita comunale, i comuni sperano di neutralizzarne la forza, usandola a proprio vantaggio. E, infatti, nelle aree in cui le aristocrazie rimangono legate al contado, al castello che è il centro del proprio feudo – come ad Arezzo –, il comune non decolla. Decollano invece quei comuni che, come Firenze, sono capaci di attirare la classe feudale in città, spingendola a una residenza ibrida: alcuni mesi in città, altri nel feudo di campagna.
Quando si dice «nobile»
In città i nobili acquisivano un nuovo status, che potenziava il prestigio del proprio scudo gentilizio, anche attraverso le molte guerre sostenute dal comune e grazie agli incarichi offerti alle aristocrazie militari, come quelli di podestà o capitano, che necessitavano della dignità cavalleresca per essere conferiti. A differenza di altre epoche storiche, in questa fase «nobile» non è sinonimo di «parassita», «fannullone», «scansafatiche»; in questo periodo ai nobili vengono affidate funzioni militari fondamentali, dal momento che non esistono ancora veri eserciti statali, e che quindi la difesa dipende, di fatto, dal numero di armati che, a livello locale, ogni amministrazione riesce a esprimere. In questa fase, a loro viene ancora essenzialmente demandata la difesa. I capitani dei reparti militari nelle guerre locali o extraregionali vengono infatti scelti tra le famiglie che, ancora per tutto il Duecento, mettono a disposizione il grosso delle truppe. Questa dinamica tende però a mutare alla fine del XIII secolo, quando i comuni iniziano invece a patire la presenza delle armi feudali, delle quali vorrebbero sbarazzarsi, perché sono fuori controllo e insanguinano la città con le loro faide familiari e con l’opposizione armata a molte decisioni assunte dagli organi collegiali comunali. Inizia allora una nuova fase, in cui i comuni premono per cacciare le armi feudali dalla città e dotarsi di una milizia pubblica. Proprio quello che, in buona sostanza, tentano di fare gli Ordinamenti di Giustizia del 1293. Il fatto che ai tempi di Farinata l’esercizio delle armi fosse esclusivamente in mano ai privati rendeva necessario, quando una parte politica perdeva, mandarne in esilio i capi, perché questi avrebbero potuto, con le armi, rovesciare il governo appena insediato. Ai tempi di Dante, però, la situazione era già in parte mutata, poiché gli Ordinamenti di Giustizia avevano escluso quelle famiglie dall’esercizio del potere. Il nuovo Comune di Popolo (alto-borghese e bassonobiliare) è nelle mani di nuove famiglie mer-
cantili, i cui capi non hanno interesse a destabilizzare la situazione, perché a Firenze fanno affari, non hanno nel contado alcun castello (castrum), né traggono guadagni dalla guerra e dagli incarichi militari. Prova di tale mutamento è il fatto che, all’indomani del colpo di Stato a seguito del quale Dante venne esiliato, i golpisti non possono servirsi del pretesto con il quale si era soliti mandare in esilio gli avversari: ovvero quello dei disordini provocati dalle loro vendette private. Per la prima volta, dopo secoli, il comune di Firenze deve ricorrere a una nuova strategia accusatoria, consueta ai tempi di Cicerone, ma ormai dimenticata nell’Italia medievale: la corruzione politica. Definita questa dinamica, ripercorriamo dunque la storia dall’inizio, nei limiti di quel che la documentazione ci consente di fare. Il comune di Firenze nasce nel XII secolo, come la maggior parte dei comuni italiani. Inizialmente il potere viene gestito, come abbiamo detto, da famiglie feudali che vivono per alcuni periodi in campagna, nei loro castelli familiari, e per altri in città: si tratta di famiglie nobili e armate. Piú il giro di affari della città cresce, piú le borghesie cittadine acquisiscono forza. Nella seconda metà del XIII secolo, Firenze arriva a contare circa 100 000 abitanti: diviene cioè la città piú popolosa d’Italia e la piú importante d’Europa, stabilendo rapporti commerciali che si estendono all’intera Africa musulmana. Le classi produttive della città si organizzano allora in corporazioni di mestiere, dette Arti (Maggiori e Minori), che, per garantire pace e prosperità ai propri commerci, mirano a entrare nella gestione del comune e a sbarazzarsi delle vecchie aristocrazie feudali, violente e fuori controllo. È una marcia che dura un cinquantennio e che comincia, grosso modo, nell’anno 1250, quando a Firenze si assiste a una prima partecipazione popolare al governo del comune. Una partecipazione imperfetta, perché le Arti non vi possono ancora essere rappresentate ufficialmente, in quanto prive di un ordinamento politico-militare, allora necessario per l’esercizio politico effettivo. Solo nel 1267, le sette Arti Maggiori riescono a dotarsi di una propria milizia, e poi, negli anni successivi, anche le Arti Mediane e Minori fanno altrettanto.
Interessi divergenti
Fin dal suo nascere, il governo di popolo del 1250 aveva mostrato simpatie guelfe perché, in questa fase storica, ovunque in Italia, la parte guelfa rappresenta – con alcune eccezioni – la classe mercantile in ascesa, laddove DANTE ALIGHIERI
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quella ghibellina rispecchia maggiormente gli interessi delle antiche aristocrazie militari di sangue, legate tradizionalmente all’imperatore e che in sua vece esercitavano molte delle prerogative di governo. Quello del 1250 è dunque un governo filoguelfo e rimane in carica fino al 1260, anno della battaglia di Montaperti, quando le forze guelfe di Toscana vengono sbaragliate da quelle ghibelline. In quell’occasione, Farinata degli Uberti, dal quale siamo partiti, torna dall’esilio e impedisce di mettere a ferro e fuoco la città, come vorreb54
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bero fare i suoi compagni di partito. E, sempre in quella circostanza, secondo lo stesso Farinata, i parenti di Dante vengono «dispersi» per la seconda volta (la prima era stata nel 1248). Il 1260 segna l’inizio di un periodo di egemonia ghibellina, che si chiude poi, come abbiamo ricordato, con le sconfitte delle forze imperiali: nel 1266, a Benevento per opera delle forze filopapali di Carlo d’Angiò; due anni dopo, nel 1268, a Tagliacozzo. A Firenze si apre, di conseguenza, una nuova ondata di esili di capi ghibellini. A differenza di quanto accadrà in segui-
Vignette che illustrano il V canto del Purgatorio: a sinistra, Dante allo scrittoio; a destra, il cadavere di Buonconte da Montefeltro, caduto in battaglia, invoca la Vergine Maria sfuggendo in extremis al Diavolo che era già venuto a prenderlo, cromolitografia da una serie di Egisto Sborgi Editore (Firenze, 1918). Le scene sono inquadrate in una cornice allegorica della Divina Commedia.
ne nasce viene chiamato appunto «dei priori delle Arti»: sei, uno per ogni sestiere. Contestualmente, le Arti riescono a far entrare alcuni dei propri esponenti anche nel consiglio del podestà, massima espressione del potere cittadino, tradizionalmente aristocratico. Compiuto il primo passo d’accesso alla politica cittadina, le Arti sferrano poi l’attacco decisivo, che coincide, come già detto, con l’emanazione degli Ordinamenti di Giustizia del 1293. La loro approvazione si deve a un nobile di idee democratiche, Giano della Bella, il quale sostiene l’azione di un popolano fiorentino, Neri Attiglianti, che, dopo l’istituzione, nel 1282, del priorato delle Arti, si batte per spezzare l’oligarchia aristocratica. Giano appoggia l’azione di Neri, contro gli interessi del suo stesso ceto, attirandosi l’odio dei suoi e l’ammirazione delle famiglie mercantili fiorentine, non ancora provviste di solidi titoli nobiliari, ma già estremamente influenti, come quelle degli Altoviti, dei Becchenugi, dei Falconieri, dei Girolami, dei Giugni, dei Magalotti, dei Peruzzi o dei Ruffoli. Un mondo, questo, che preme per ottenere maggiore spazio politico, uno spazio che ormai, a motivo della sua forza economica, spetta loro tanto quanto alle vecchie aristocrazie di sangue e di spada. Tuttavia, gli Ordinamenti di Giustizia di Giano della Bella non si limitano ad aprire ai borghesi, ma escludono i magnati dall’esercizio del potere.
La legge si fa meno dura
to con Dante, il governo guelfo, instaurato dopo le sconfitte sveve, consentí missioni di pace effettive e il rientro di molti capi ghibellini. La piú incisiva è quella del cardinale Latino Malabranca Orsini, nipote del papa Niccolò III, il quale, nel 1280 fa rientrare molti dei ghibellini in esilio e impone la coabitazione forzata dei due partiti avversi. Approfittando della pacificazione, le classi mercantili ottengono la creazione di un collegio delle Arti di mestiere, dotato di una propria milizia. È il primo ingresso ufficiale delle Arti nella politica cittadina e il governo che
Nel 1295, le famiglie colpite dal provvedimento si vendicano, facendo cacciare dalla città Giano della Bella e ottenenendo una mitigazione della legge: l’iscrizione a un’Arte di mestiere – necessaria per l’accesso in politica – non implica più l’esercizio effettivo della professione. Tassativo resta però, anche dopo il 1295, il divieto di accesso ai cavalieri, una restrizione che conferma appieno il carattere antimilitare – e non antielitario – degli Ordinamenti di Giustizia. Restano in vigore anche le pene contro i magnati che offendono con le armi i popolani e che, prima degli Ordinamenti, erano destinati a rimanere impuniti. Dante, dunque, entra in politica grazie agli Ordinamenti di Giustizia, perché non è un magnate. Il fatto che vanti un titolo nobiliare non costituisce un ostacolo, perché, come si è detto, gli Ordinamenti non escludevano i nobili, bensí i magnati, cioè quei nobili – o quei borghesi – che mantenevano in famiglia piú di due armati. A partire da questo momento si assiste al paradosso per cui se, prima del 1293, DANTE ALIGHIERI
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la consuetudine di stilare le liste delle famiglie magnatizie cittadine serviva ad attingere da quegli elenchi il personale di governo, adesso chi ne fa parte viene invece escluso. Quel divieto colpisce piú di settanta famiglie, proprio quelle che, fino a quel momento, si erano spartite le cariche. Tuttavia, l’esclusione non mirava a colpire il titolo nobiliare, poiché, se cosí fosse stato, avrebbe riguardato anche un nobile di poco conto come Dante. Obiettivo del provvedimento erano le aristocrazie feudali armate, che, come già sottolineato, impedivano la governabilità e mettevano a rischio la democrazia. Il comune di popolo fa pressione sui gruppi familiari magnatizi, con lo scopo di romperne la solidarietà parentale. E vi riesce, come dimostra la tendenza dei rami piú piccoli delle famiglie a staccarsi e a chiedere l’assunzione di un cognome diverso. Il comune di popo-
Sulle due pagine miniature tratte dall’edizione della Nuova cronica di Giovanni Villani contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. In basso, nella notte di Calendimaggio del 1300, un gruppo di giovani neri amputa il naso a Ricoverino de’ Cerchi, della fazione dei bianchi.
lo ottiene cosí il suo obiettivo principale e nuovi nuclei familiari prendono forma in quegli anni: piú piccoli e meno solidali. Il comune di popolo persegue anche la piú equa distribuzione degli uffici pubblici tra tutte le parti, sempre con l’obiettivo di limitare i motivi di rancore e quindi di vendetta privata. Il governo della città viene al contempo sempre piú differenziato, cosí da rappresentare meglio gli interessi della borghesia mercantile: accanto alla figura del podestà, espressione delle classi magnatizie, viene infatti creata quella del capitano del popolo, che rispecchia invece le classi alto-borghesi. Entrambi sono dotati di due consigli, uno piú allargato e uno piú ristretto. Ciò garantiva una distribuzione equilibrata delle cariche tra le classi sociali, sebbene continuino a essere rappresentati solo nobili e borghesi.
A destra Bonifacio VIII riceve Carlo di Valois, chiedendogli di recarsi a Firenze per riportare la pace in città. In basso, a destra Firenze si divide in bianchi e neri e hanno inizio le lotte: i Cerchi e i Donati, riunitisi nella casa dei Frescobaldi per un funerale, vengono fatti uscire da un manipolo di assalitori a cavallo.
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Un altro organo di rappresentanza politica era quello delle capitudini delle Arti, che, come gli altri, prendeva parte alle riunioni consiliari, ma a cui non sempre era richiesto di esprimere un voto. Ne facevano parte i rappresentati delle ventuno corporazioni di mestiere.
Il potere dei «Cento»
Il vero potere decisionale del governo cittadino era però in mano al Consiglio dei Cento, di cui Dante fece parte. Insieme a quelli del podestà e del capitano del popolo, il Consiglio dei Cento, infatti, non soltanto poteva approvare o respingere le delibere del Comune, ma era il solo organo deputato a stabilire se finanziare o meno La morte di Corso Donati, capo della fazione dei neri, in un’altra miniatura dall’edizione della Nuova cronica di Giovanni Villani contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.
le spese proposte. In altri termini, il Consiglio dei Cento è il portafogli del Comune. Gli Ordinamenti di Giustizia portarono anche alla migliore definizione della carica del gonfaloniere di giustizia, nata nel 1289 per difendere i diritti delle Arti e del priorato contro i magnati. Il gonfaloniere traeva infatti il proprio nome dal gonfalone del popolo, cioè il suo vessillo: una croce rossa in campo bianco. Aveva inoltre ai suoi ordini mille armati, atti, appunto, a contrastare le armi private dei magnati. Complessivamente, i cittadini chiamati a esprimersi in seno alle assemblee comunali erano 676 e venivano rinnovati ogni sei mesi. I priori che, come abbiamo detto, erano sei, uno in rappre-
Nella pagina accanto miniatura raffigurante papa Bonifacio VIII. XIII sec. Vicenza, Biblioteca Civica Bertoliana.
sentanza di ogni sestiere, restavano invece in carica solo per due mesi, nel tentativo di scoraggiare il formarsi di alleanze personali e clientele. Le istituzioni cittadine a Firenze si rafforzarono quindi negli ultimi due decenni del secolo a scapito dei clan gentilizi armati, che risultano i grandi sconfitti sulla scena politica della fine del Duecento. Ciò fu possibile soprattutto grazie agli Ordinamenti di Giustizia e, sebbene la storiografia abbia talvolta tentato di ridurne la portata – sostenendo che in parte si limitarono a far rispettare norme già esistenti e che non riuscirono ad aprire al popolo minuto del piccolo artigianato –, è innegabile che essi rappresentarono il maggiore sforzo fatto a Firenze di drenare forze nuove al governo della città. Per il biennio successivo alla loro emanazione, del resto, sono i numeri a parlare: oltre il quaranta per cento del priorato risultava composto da gente nuova, proveniente da famiglie che mai avevano ricoperto quel tipo di carica. Tale novità si rafforzò ulteriormente nel bien-
nio ancora successivo, quando i nomi nuovi arrivarono a rappresentare la maggioranza delle cariche e, in alcuni casi, la totalità.
Tre obiettivi principali
L’entrata in politica di Dante deve quindi essere collocata non prima del 1293, anno dell’emanazione degli Ordinamenti di Giustizia, e probabilmente dopo il 1295, cioè dopo la loro parziale correzione. Prima del 1293, infatti, si richiedeva l’esercizio effettivo della professione, mentre la sua iscrizione all’Arte dei Medici e degli Speziali rimase sempre fittizia. Con certezza, Dante rivestí le cariche di consigliere speciale del capitano del popolo (dal novembre del 1295 all’aprile del 1296), di priore (bimestre 15 giugno-14 agosto) e di consigliere dei Cento (1301). Durante la sua attività politica, appoggiò essenzialmente tre istanze: il potenziamento della milizia cittadina, a scapito delle armi dei privati; il rafforzamento degli Ordinamenti di Giustizia, che miravano a cacciare dalla città gli artefici delle faide dell’aristocrazia feudale; il blocco di ogni finanziamento o aiuto militare a Bonifacio VIII. Il 5 giugno 1296, in seno a un consiglio del capitano del popolo, allargato a membri esterni, DANTE ALIGHIERI
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Dante vota a favore dell’ampliamento dei poteri dei priori e del gonfaloniere di giustizia nel perseguire i reati compiuti dai magnati contro i popolani. Il 19 giugno 1301, in seno al consiglio dei Cento, Dante vota contro l’invio richiesto da Bonifacio VIII di cento cavalieri, da impiegare nella sua guerra in Maremma. Nello stesso giorno vota invece a favore dello stanziamento di una somma di danaro per salariare i fanti, cioè la milizia cittadina, pagata con fondi pubblici. Il 28 settembre del 1301, sempre in seno al consiglio dei Cento, Dante vota a favore del rinnovo del contratto di 100 berrovieri, cioè degli armati che facevano da scorta alle autorità comunali che espletavano i mandati del comune. Vota anche in favore dell’allargamento dei poteri dei priori, del gonfaloniere e del podestà, per perseguire le disposizioni contro i ferimenti e le uccisioni con qualunque tipo di arma.
La battaglia di Campaldino e l’ascesa di Corso Donati
Facciamo ora un passo indietro, a prima del 1295, quando Dante non era ancora entrato in politica. Chi era allora Dante Alighieri? Era un nobile, di famiglia modesta. Un suo avo aveva conquistato il titolo di cavaliere e cosí la sua famiglia era ascesa di grado, ma faticava a vivere di rendita, come gli altri nobili della città: lo dimostrano i piccoli prestiti presi – non tali da essere usati come capitali per operazioni finanziarie di qualche rilievo – e lo confermano la lista dei beni confiscati a Dante al momento dell’esilio, nonché l’accusa, mossa contro di lui dall’amico Forese Donati, di vivere della carità degli amici influenti e di essere destinato, comunque, a finire all’ospizio del poveri. Non deve perciò sorprendere che Dante, all’età di 24 anni, provi a farsi onore, in mezzo alla migliore gioventú fiorentina, nel mestiere delle armi, una prerogativa nobiliare per eccellenza. Campaldino, 11 giugno 1289: le forze guelfe di Toscana si scontrano con quelle ghibelline per il controllo della regione. Sul campo, quasi ventimila uomini, tra fanti e cavalieri, combattono una battaglia che si risolve in un massacro, con mille e settecento caduti e duemila prigionieri. La vittoria riportata dai Fiorentini ridiede animo alle aristocrazie locali, che però, appena quattro anni piú tardi, furono comunque colpite duramente dagli Ordinamenti di Giustizia, che miravano al loro totale ridimensionamento. A Campaldino s’era distinto per il suo valore Corso Donati, che, nondimeno, era stato sbandito grazie agli Ordinamenti. Corso è il fratello di Forese, nonché cugino della moglie di Dan-
te, Gemma, e, malgrado ciò, suo piú acerrimo nemico. Non tanto perché è del partito avverso, ma perché, a differenza di Dante, è un violento e un disonesto. Per darne fino in fondo la misura, nella Commedia Dante lo ritrae nell’atto odioso di tirare fuori a forza la sorella Piccarda dal convento nel quale si era rifugiata, per evitare le nozze con il piú volgare dei suoi amici. Corso proviene dalle file dell’aristocrazia di sangue, appartiene all’antica nobiltà feudale che ha sempre avuto la guerra come prerogativa. Dunque, Corso è fondamentalmente un militare e vuole conservare questa funzione, anche a danno della nuova aristocrazia affaristica che sta prendendo sempre piú piede a Firenze, portando la città a una crescita economica vertiginosa e pretendendo un clima di serenità e di pace che solo può giovare al mercato e alla produzione. Corso Donati, invece, fa in modo di aizzare le lotte, perché in regime di pace non ci sono incarichi e mansioni per lui: come molti altri della sua classe sociale, ha bisogno di combattere per guadagnarsi da vivere. Corso deve anche essere considerato il vero iniziatore delle lotte che hanno devastato Firenze, ed è probabilmente lui, dall’esilio, a manovrare i fatti di sangue della notte di Calendimaggio del 1300. In ogni caso, è lui l’artefice dell’asservimento della città al papato, del colpo di Stato del 1301 e, quindi, dell’esilio di Dante. A Campaldino, Corso Donati arriva a capo di un contingente di riserva, che ha ricevuto l’ordine di
Nella pagina accanto pagina autografa della Cronica delle cose occorrenti ne’ tempi suoi di Dino Compagni. Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale. L’opera abbraccia la storia di Firenze dal 1280 al 1312. In basso ritratto ottocentesco di Dino Compagni. Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana.
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Firenze. Il monumento in onore di Dante Alighieri realizzato dallo scultore Enrico Pazzi nel 1865, nel sesto centenario della nascita del poeta. La statua, scolpita in marmo di Carrara, si trova alla sinistra della facciata della basilica di Santa Croce, nella piazza omonima.
tenersi a latere della battaglia; ma invece, quando vede che gli avversari sfondano, facendo pericolosamente arretrare la lega fiorentina, conscio del fatto che la sua intemperanza potrà valergli la condanna a morte, carica sul nemico, ignorando gli ordini ricevuti e determinando la vittoria dello schieramento guelfo capitanato da Firenze. Ciononostante, come già ricordato, nel maggio del 1299 il comune lo allontana da Firenze. Fuori Firenze, Corso beneficia della protezione di Bonifacio VIII, il terzo dei tre grandi papi teocratici del Medioevo, dopo Gregorio VII e Innocenzo III. Pontefici che disegnano il profilo di una Res publica cristiana, in cui il primato della Chiesa veniva difeso strenuamente, cosí come il potere temporale dei papi e il loro diritto d’ingerenza negli affari civili. È Bonifacio VIII a inviare a Firenze Carlo di Valois con il pretesto di dirimere le controversie tra il partito dei neri e il partito dei bianchi, ma con l’intento segreto di favorire il solo partito dei neri.
Colpo di Stato
Carlo di Valois entra in città seguito da mille e duecento armati e, all’indomani del suo arrivo – siamo ai primi di novembre del 1301 –, chiede ai priori di conferirgli la sorveglianza della porta d’Oltrarno. Uno dei priori, Dino Compagni, che poi racconterà il fatto nella sua cronaca, gli chiede garanzie affinché quella breccia strategica resti ben sorvegliata, perché da lí potrebbero entrare i nemici di Firenze. Carlo promette vigilanza massima. La notte del 5 novembre, invece, la porta d’Oltrarno viene aperta per permettere il rientro agli sbanditi, primo fra tutti, Corso Donati. Per tutta la notte, Corso incendia, assalta, svuota, disfa case, fa violare donne, senza che Carlo di Valois muova un dito. Sulle prime, alcuni bianchi si recano alle porte della città per chiedere ragione della loro apertura, ma vengono trucidati dai neri. Di fronte a quella mattanza, le guardie del comune iniziano ad abbandonare di propria iniziativa le torri, una dopo l’altra, temendo di fare la stessa fine. I piú avveduti non rientrano neppure in casa, altri gettano tronchi d’albero sulla propria via, davanti all’uscio, per impedire l’accesso. Si asserragliano, fingendosi muti o assenti, attendendo che passi la nottata e si chiarisca cosa stia accadendo. Tutti assistono attoniti al cambiamento di campo di tanti: a decine, a centinaia, a migliaia quelli che fino a poche ore prima militavano con i bianchi ora si radunano con i neri. La paura blocca la reazione dei bianchi, che preferiscono temporeggiare, restare nasco-
sti. Anche il podestà rimane cinicamente chiuso in casa e l’indomani mattina, quando il popolo furente va a chiedergli ragione di quanto accaduto durante la notte, afferma di non esserne al corrente. Carlo di Valois giunge in suo soccorso, confermandone la versione. Convoca poi d’urgenza i capi delle due parti politiche, affinché riferiscano sui fatti delittuosi occorsi durante la notte. Dopo l’incontro però, Carlo lascia andare i neri, mentre, a sorpresa, trattiene i bianchi. La notizia che i capi di parte bianca sono in arresto serpeggia veloce per tutta Firenze, raggiungendo i priori, che, sgomenti, danno ordine di suonare le campane per chiamare in adunata il popolo di Firenze. I priori pregarono i cittadini di sollevarsi, d’impugnare le armi, ma nessuno si muove, neppure Vieri de’ Cerchi, il capo dei bianchi. Del tutto inascoltati e isolati, allora, il 7 novembre, i priori si dimettono e lasciano la città. L’8 di novembre si insedia il nuovo governo dei neri. L’incarico di podestà viene conferito dallo stesso Carlo di Valois a Cante de’ Gabrielli da Gubbio, che già in passato aveva ricoperto la carica podestarile in città, dando però pessima prova. I nuovi priori si affrettano a intimare a quanti li hanno preceduti nella carica di non tentare il rientro in città, pena il taglio della testa, poi danno inizio alla repressione: processi sommari, liste di proscrizione, incendi, abusi, saccheggi, distruzioni di case e di beni. Dante è a Roma, dove era stato mandato dal Comune, incaricato di compiere un’ambasceria presso il pontefice, per convincerlo a non inviare a Firenze Carlo di Valois. Non rientra a Firenze, dove, con un provvedimento speciale, il nuovo governo sta provvedendo a istruire inchieste straordinarie sui politici in carica nei due anni precedenti, tra i quali – come sappiamo – figura anche Dante. Si tratta di una misura pretestuosa, tesa a produrre falsi capi d’accusa contro il suo partito, perché la procedura ordinaria prevedeva già, alla fine di ogni mandato, un’indagine sulla condotta dei priori al fine di valutarne l’operato. Riaprire procedimenti già archiviati serviva solo a dare parvenza di legalità a quella che – nei fatti – era una semplice epurazione.
La condanna
Siamo abituati a credere, per averlo studiato a scuola, che Dante sia arrivato alla condanna per sua colpa, essendosi rifiutato di comparire a processo per ben due volte, nel corso dello stesso anno, il 1302, una prima volta il 27 gennaio e una seconda, il 10 di marzo. In entrambi i casi non si trattò, però, dell’invito a presentarsi daDANTE ALIGHIERI
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vanti a un tribunale legittimo, che espletava le sue ordinarie funzioni giudiziarie, ma davanti a un tribunale insediato a seguito di un colpo di Stato che aveva messo sotto processo l’intera classe di governo, accusando 698 persone degli stessi reati: estorsione, concussione e peculato. La famiglia dei Cerchi, che nell’ottobre del 1301, prima del colpo di stato, era una delle piú ricche e potenti d’Europa, uscí da quella tormenta completamente in ginocchio. Qualche anno dopo le condanne, il papa intercederà per farli rientrare dall’esilio, ma, privati ormai dei diritti politici, impossibilitati a riaccedere alle cariche pubbliche, impediti nel difendere il proprio giro d’affari, conobbero – loro che erano stati la prima famiglia di Firenze – un completo declino. È quindi davvero sorprendente che chi, come Dante, si trovava fuori Firenze avesse preferito non farvi rientro? Nel giugno del 1302, quando la fase dei processi si chiuse, furono i numeri a parlare: 698 condanne, di cui 559 alla pena capitale. E, tra queste, quella di Dante.
Dino Compagni o Giovanni Villani?
La vicenda del colpo di Stato, cosí come l’abbiamo raccontata, segue il filo del testo di Dino Compagni – la Cronica delle cose occorrenti ne’ tempi suoi –, ma avremmo potuto naturalmente affidarci all’altro cronista, il piú noto e seguito Giovanni Villani, anch’egli contemporaneo di Dante. In ogni caso, lo ribadiamo, si deve scegliere: o con Dino Compagni o con Giovanni Villani. Con entrambi non si può, perché Dino Compagni è un vinto, mentre Giovanni Villani è un vincitore e le loro versioni non collimano; Compagni è un bianco, mentre Villani è un nero; infine, Dino era priore in carica la notte del colpo di Stato, mentre Giovanni appare sulla scena fiorentina piú tardi, in qualità di storico ufficiale dei vincitori. Seguire al contempo la linea di Compagni e quella di Villani equivarrebbe, oggi, a interpretare, per esempio, la vicenda giudiziaria di Silvio Berlusconi, appoggiandosi ora al quotidiano la Repubblica ora a Il Giornale. E se questa strada risulta impraticabile per il presente, lo è anche per il passato, in particolare per Dante che in politica si schierò sempre. Certamente, Giovanni non nega del tutto la verità – i fatti erano allora troppo freschi nella memoria di tutti! –, ma li inquina, attraverso piccole bugie e grandi omissioni. Per esempio, sostiene che a consigliare di aprire la porta a Corso Donati non fu il paciere inviato da Bonifacio VIII, Carlo di Valois – il quale, come abbiamo visto, lo fece con 64
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lo scopo preciso di permettere il rivolgimento del governo in carica –, bensí il leader stesso del partito dei bianchi, quel Vieri de’ Cerchi che, a causa di quegli eventi, fu travolto e cadde in disgrazia; la persona che aveva tutto da perdere dal rientro a Firenze del suo peggior nemico: «In questo romore messer Corso de’ Donati, il qual era isbandito e rubello, com’era ordinato, il dí medesimo venne in Firenze da Peretola con alquanto séguito di certi suoi amici e masnadieri a piè, e sentendo la sua venuta i priori e’ Cerchi suoi nemici, vegnendo a lloro messer Schiatta de’ Can-
La tomba di Carlo di Valois nella basilica di Saint-Denis, presso Parigi. Nel 1301, il nobile francese venne inviato da papa Bonifacio VIII a Firenze, col finto pretesto di pacificare le fazioni dei bianchi e dei neri.
gimento sanguinoso del governo legittimo. È una soluzione perfetta per confondere le responsabilità delle parti in campo, presentando l’azione di Corso Donati come isolata, il colpo basso di una testa calda, di cui i primi a sottovalutare la pericolosità sarebbero stati proprio i bianchi. I bianchi, come sappiamo, non l’avevano affatto sottovalutata, ma anzi avevano mandato Dante a Roma, per denunciare al papa la pericolosità del suo paciere, Carlo di Valois, scongiurandolo di non mandarlo a Firenze.
Un resoconto fuorviante
Caricare le responsabilità di quella notte un po’ sulle spalle dei bianchi e un po’ su quelle dei neri serve a trasformare il colpo di Stato in una imprevista scorreria di Corso Donati, sfuggita di mano a tutti. Una «scorreria» che Giovanni non poteva sottacere, ma che racconta in modo da non renderne evidenti la responsabilità. Il croni-
A destra Giovanni Villani, l’autore della Nuova cronica, in una stampa del XIX sec.
cellieri, ch’era in Firenze capitano per lo Comune di CCC cavalieri soldati, e volea andare contro al detto messer Corso per prenderlo e per offenderlo, messer Vieri caporale de’ Cerchi non aconsentí, dicendo: «Lasciatelo venire», confidandosi nella vana speranza del popolo, che ‘l punisse» (Giovanni Villani, Nuova Cronica, IX). La precisazione di Giovanni che a far aprire la porta d’Oltrarno quella notte fu Vieri de’ Cerchi può sembrare marginale e ininfluente, ma serve invece a togliere premeditazione all’agguato politico, negando che si pensasse già a un rivolDANTE ALIGHIERI
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sta getta fumo negli occhi di chi legge, cosicché non si capisce piú chi siano i buoni e chi siano i cattivi, e tutto si confonde pericolosamente in una gazzarra generale di tutti contro tutti. Cosí, per esempio, Giovanni ammette i crimini della famiglia Donati: nessuno poteva negarli, visto che lui stesso ci dice che a Firenze nessuno li chiamava piú con il loro vero cognome, ma con l’eloquente soprannome di «Malefami». Tuttavia, Giovanni li presenta anche come vittime di tremende atrocità, in modo da farci percepire l’azione finale di Corso come un’inevitabile vendetta per i torti ricevuti, piú che come lucido e spregiudicato piano di conquista del potere, alla cui realizzazione sacrificò la vita e la serenità dei suoi stessi familiari, primo tra tutti del figlio Simone: «E la detta pace poco durò, che avenne il dí di pasqua di Natale presente, andando messer Niccola de’ Cerchi bianchi al suo podere e molina con suoi compagni a cavallo, passando per la piazza di Santa Croce, che vi si facea il predicare, Simone di messer Corso Donati, nipote per madre del detto messer Niccola, sospinto e confortato di mal fare, con suoi compagni e 66
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In alto Firenze. La Torre dei Donati, nota per essere stata, nel 1308, luogo dell’ultimo tentativo di resistenza di Corso Donati contro i guastatori della signoria, inviati a furor di popolo contro l’anziano capo dei guelfi neri, sospettato di volersi fare signore della città con l’aiuto di Uguccione della Faggiola. A destra Firenze. Uno scorcio del battistero di S. Giovanni e della cattedrale di S. Maria del Fiore, con l’adiacente campanile di Giotto.
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masnadieri seguí a cavallo il detto messer Niccola, e giugnendolo al ponte ad Africo l’assalí combattendo; per la qual cosa il detto messer Niccola sanza colpa o cagione, né guardandosi di Simone, dal detto suo nipote fu morto e atterrato da cavallo. Ma come piacque a Dio, la pena fu apparecchiata a la colpa, che fedito il detto Simone dal detto messer Niccola per lo fianco, la notte presente morío; onde tutto fosse giusto giudicio, fu tenuto grande danno, che ‘l detto Simone era il piú compiuto e virtudioso donzello di Firenze, e da venire in maggiore pregio e stato, ed era tutta la speranza del suo padre messer Corso, il quale della sua allegra tornata e vittoria ebbe in brieve tempo doloroso principio di suo futuro abbassamento» (Giovanni Villani, Nuova cronica, XLIX). Per Dino Compagni, dietro all’azione di Corso Donati non c’è una vendetta, quasi indotta dalle violenze dei suoi avversari, né la riparazione pretesa per l’atroce – ancorché autoprovocata – morte del figlio. Nelle parole di Compagni, Corso non è un uomo che agisce isolato, bensí il braccio militare di un piano piú ampio, orchestrato a Roma da Bonifacio VIII e dal suo manutengolo Carlo di Valois. Villani, invece, presenta la cosa al contrario: sono i bianchi che cospirano, anche se non si capisce bene contro chi, visto che sono loro al governo in questo momento!
Quella parte «ingrata e superba»
Cosa invece pensi dei bianchi, Giovanni lo scrive in conclusione di capitolo, a chiare lettere: «fue abattuta e cacciata di Firenze la ‘ngrata e superba parte de’ Bianchi». Una volta sbanditi, poi, gli odiati bianchi – sempre a suo dire – continuano a nuocere alla città, provocando molti mali in alleanza con gli odiati ghibellini: «In questo tempo poco appresso, non possendo la città di Firenze posare, essendo pregna dentro del veleno della setta de’ Bianchi e Neri, convenne che partorisse doloroso fine; onde avenne che ll’aprile vegnente con ordine e con trattato fatto per gli Neri uno barone di messer Carlo, ch’avea nome messer Piero Ferrante di Linguadoco, cercò cospirazione co’ detti della casa de’ Cerchi, e con Baldinaccio degli Adimari, e Baschiera de’ Tosinghi, e Naldo Gherardini, e altri loro seguaci di parte bianca, di volergli con suo séguito e di sua gente rimettere in istato, e tradire messer Carlo, con grandi impromesse di pecunia; onde lettere e colloro suggelli furono fatte, overo falsificate, le quali per lo detto messer Piero Ferrante, com’era ordinato, furono portate a messer Carlo. Per la qual cosa i detti caporali di parte bianca, ciò furono tutti quegli della casa de’ Cerchi bianchi da porte San 68
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Piero, Baldinaccio e Corso degli Adimari, con quasi tutto il lato de’ Bellincioni, Naldo de’ Gherardini col suo lato della casa, Baschiera de’ Tosinghi col suo lato de la detta casa, alquanti di casa i Cavalcanti, Giovanni Giacotto Malispini e’ suoi consorti, questi furono i caporali che furono citati, e non comparendo, o per tema del malificio commesso, o per tema di non perdere le persone sotto il detto inganno, si partiro de la città, acompagnati da’ loro aversari; e chi n’andò a Pisa, e chi ad Arezzo e Pistoia, accompagnandosi co’ Ghibellini e nimici de’ Fiorentini. Per la qual cosa furono condannati per messer Carlo come ribelli, e disfatti i loro palazzi e beni in città e in contado, e cosí di molti loro seguaci grandi e popolani. E per questo modo fue abattuta e cacciata di Firenze la ‘ngrata e superba parte de’ Bianchi, con séguito di molti Ghibellini di Firenze, per messer Carlo di Valos di Francia per la commessione di papa Bonifazio, a dí IIII d’aprile MCCCII, onde a la nostra città di Firenze seguirono molte rovine e pericoli, come innanzi per gli tempi potremo leggendo comprendere» (Giovanni Villani, Nuova cronica, XLIX). La cronaca di Dino e quella di Giovanni sono dunque inconciliabili, ma, per secoli, l’unica versione che ha potuto circolare è stata quella del secondo, perché quella del primo fu tenuta segreta dal suo stesso autore. Compagni la scrive, ma la conserva fra i libri di famiglia, perché non può divulgarla. Ma perché la vera storia di quei fatti non si poteva raccontare a Firenze? Perché Dino Compagni, come Dante, è un vinto e la loro vicenda biografica è imbarazzante per i vincitori e piú tardi continuerà a esserlo anche per i Medici, che s’installeranno di lí a breve al governo della città. Anche i Medici, infatti, sono presenti nella cronaca di Compagni, come violenti alleati di Corso Donati: «I Neri cominciano scandalo. Primo sangue, per mano de’ Medici. Gli Ordinamenti di Giustizia rimangono senza effetto. La città si arma (4 novembre 1301...). I Neri, conoscendo i nimici loro vili e che aveano perduto il vigore, s’avacciorono di prendere la terra; e uno sabato a dí (...) di novenbre s’armorono co’ loro cavalli coverti, e cominciorono a seguire l’ordine dato. I Medici, potenti popolani, assalirono e fedirono uno valoroso popolano chiamato Orlanduccio Orlandi, il dí, passato vespro, e lascioronlo per morto» (Dino Compagni, Cronica, I, 15).
Una ulteriore scissione
I Medici compaiono anche una seconda volta nella cronaca di Compagni, quando Dante è ormai in esilio, e il partito dei neri si è scisso in Donateschi e Tosinghi. Dino Compagni
Carlo d’Angiò riceve in dono un falco, particolare di uno degli affreschi della Sala del Consiglio del Palazzo Comunale di San Gimignano. Le pitture sono attribuite al pittore fiorentino Azzo di Masetto e datate al 1290 circa. La sala è detta anche «di Dante», a ricordo della visita fatta dal poeta fiorentino nel 1299 in qualità di ambasciatore della lega guelfa.
mostra i Medici tra le file dei Tosinghi, che si fanno però attirare di nuovo nell’orbita di Corso Donati: «Si riaccendono le discordie de’ Neri fiorentini, tra la fazione di Corso Donati e quella di Rosso della Tosa. Corso si apparecchia alle offese (1308, ...ottobre). Sí come nasce il vermine nel saldo pome, cosí tutte le cose che sono create a alcun fine, conviene che cagione sia in esse che al loro fine termini. Fra i Guelfi neri di Firenze, per invidia e per avarizia, una altra volta nacque grande scandolo. Il qual fu, che messer Corso Donati, parendoli avere fatta piú opera nel racquistare la terra, gli parea degli onori e degli utili avere piccola parte o quasi nulla: però che messer Rosso dalla Tosa, messer Pazino de’ Pazi, messer Betto Brunelleschi e messer Geri Spini, con loro seguaci, di popolo, prendevano gli onori, servi-
vano gli amici, e davano i risponsi, e faceano le grazie: e lui abbassarono. E cosí vennono in grande sdegno negli animi: e tanto crebbe, che venne in palese odio. Messer Pazino de’ Pazi fece un dí pigliare messer Corso Donati, per danari dovea avere da lui. Molte parole villane insieme si diceano, per volere la signoria sanza lui; perché messer Corso era di sí alto animo e di tanta operazione, che ne temeano, e parte contentevole non credevano che dare gli si potesse. Onde messer Corso raccolse gente a sé di molte guise. Gran parte ebbe de’ Grandi, però che odiavano i popolani pe’ forti Ordinamenti della Giustizia fatti contro a loro; i quali promettea annullare. Molti n’accolse, che speravano venire sí grandi con lui che in signoria rimarrebbono; e molti con belle parole, le quali assai bene colorava; e per la terra diceva: “Costoro s’approDANTE ALIGHIERI
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Uno scorcio del Palazzo del Bargello a Firenze, realizzato come sede delle istituzioni cittadine e nel quale esercitavano le proprie funzioni anche i priori, carica alla quale Dante Alighieri venne eletto nel 1300.
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priano tutti gli onori; e noi altri, che siamo gentili uomini e potenti, stiamo come strani: costoro ànno gli scherigli, i quali li seguitano: costoro ànno i falsi popolani, e partonsi il tesoro, del quale noi, come maggiori, dovremo esser signori”. E cosí svolse molti degli adversari, e recò a suo animo; de’ quali furono i Medici e’ Bordoni, i quali li soleano esser nimici, e sostenitori di messer Rosso dalla Tosa. Quando rifatta ebbe sua congiura, cominciarono a parlare piú superbamente nelle piazze e ne’ consigli; e se niuno si opponea loro, li faceano senbiante di nimico. E tanto s’accese il fuoco, che, di concordia della congiura, i Medici e i Bordoni, e altri a ciò ordinati, 53 assalirono lo Scambrilla per ucciderlo, e fedironlo nel viso in piú luoghi: onde gli adversarii tennon che fatto fusse in loro dispetto; molto il vicitarono, e molte parole dissono; e guarito che fu, li dierono fanti alle spese
del Comune, confortandolo che gran vendetta ne facesse. Questo Scambrilla era potente della persona, e per l’amistà di coloro cui egli seguiva: non era uomo di grande stato, ché era stato soldato» (Dino Compagni, Cronica, I, 19).
Dino Compagni esce dall’oblio
La cronaca di Dino Compagni, che Machiavelli mostra ancora di non conoscere, fu recuperata e data alle stampe solo nel 1726, quando Ludovico Antonio Muratori, padre della storiografia italiana, la pubblica nell’ambito di un piú ampio progetto di edizione delle fonti antiche, imprescindibili per ricostruire la storia d’Italia. Ciononostante, l’opera continuò a destare sospetto per tutto l’Ottocento, a motivo del fatto che non si trovava un manoscritto antico che ne attestasse la sua composizione medievale. Soprat-
Palazzo Pretorio, olio su tela di Federico Zandomeneghi. 1865. Venezia, Galleria Internazionale d’Arte Moderna. Il dipinto immagina una scena di vita quotidiana all’interno dell’edificio fiorentino noto anche come Palazzo del Bargello, oggi sede dell’omonimo Museo Nazionale.
tutto i filologi tedeschi la ritenevano l’opera di un falsario. Un testo scritto ad arte, in epoca moderna, per scagionare Dante da tutte le accuse mossegli da Firenze. La cronaca di Compagni, infatti – pur citando Dante solo di sfuggita – sembra scritta per mostrarlo come un uomo che lottò fino alla fine, sempre dalla parte giusta, solo per difendere la Repubblica fiorentina, i suoi valori, la democrazia, l’autonomia di Firenze, le sue conquiste piú avanzate. Un personaggio che finí orribilmente e ingiustamente travolto da ignobili lame, mosse da un papa corrotto. Ne usciva il ritratto di un uomo grande, coerente, fino all’ultimo militante e davvero «tetragono ai colpi di ventura». Che fosse un grande poeta nessuno lo metteva in dubbio, ma era difficile credere che fosse
ancora piú grande come uomo. Era incisa troppo profondamente nell’immaginario di tutti la versione di Giovanni Villani, che di Dante faceva un individuo eccessivo, presuntuoso, un urlatore oltre la misura e l’effettiva contingenza. La cronaca di Compagni finiva col far apparire nient’affatto sperticata l’apologia che di Dante andavano facendo i romantici italiani. Ma poteva un Paese «piccolo» come il nostro, un «paradiso abitato da diavoli» come lo raccontava Goethe ai Tedeschi, avere davvero prodotto quel gigante dell’etica, quel mostro di fierezza, quel ciclope di coerenza morale? Un uomo che sputa sangue ma non si piega, che prende calci ma non si accascia, che barcolla ma resta in piedi? Poteva avere fondamento questo ritratto eroico di Dante, fuori dalle pedanti esagerazioni dei romantici e degli spiriti risorgimentali? Bisogna DANTE ALIGHIERI
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dare atto ai filologi tedeschi di avere riconosciuto che la cronaca di Compagni descrive uno sfondo talmente drammatico che la figura di Dante vi si staglia davanti davvero eroica. Dunque, come escludere del tutto che sul maggiore poeta italiano, padre della lingua, si fosse tentata un’operazione arbitraria e partigiana di totale smacchiatura della sua fedina penale? Ancora oggi, del resto, la difesa della sua totale estraneità ai fatti contestatigli suscita sospetti e viene subito bollata come «romantica». Viviamo in tempi nei quali affermare che non siamo tutti corrotti, che in politica i servitori dello Stato esistono, che nelle professioni l’etica non latita ovunque è ritenuto, appunto, «romantico». Cosí da una parte stanno gli avvertiti analisti della realtà fattuale – di ieri e di oggi – dall’altra le anime belle del Dante monolitico, che resiste in nome della verità e della libertà «ch’è sí cara, va cercando, come sa chi per lei vita rifiuta».
Quattro magnifici volumi
E, però, rispetto a Giovanni Villani, Dino Compagni diceva proprio questo di nuovo: che lui e Dante militarono sempre dalla parte giusta, con il solo obiettivo di difendere il bene comune. Poi, a far cadere lo scetticismo dei filologi tedeschi, arrivò uno studioso di qualità rare, di intelligenza vera, oltre che di metodo: Isidoro del Lungo (1841-1927). Isidoro credeva cosí fortemente nella versione di Dino Compagni, che iniziò a setacciare i fondi manoscritti, fino a che quello medievale, quattrocentesco, infine saltò fuori! Del Lungo compí anche studi certosini, atti a fornire riscontri lessicali, storici, geografici, urbanistici, iconografici della versione di Compagni. Quattro magnifici volumi, intitolati Dino Compagni e la sua Cronica, pubblicati nel 1879, fecero cadere per sempre ogni dubbio. Si sarebbe dovuto brindare all’uscita di quei tomi e alla notizia che recavano, come si fece alla notizia della (quasi coeva) scoperta di Troia! Si sarebbe dovuto brindare come noi faremmo, oggi, se scoprissimo, in qualche fondo antico, i diari segreti di Bruto, che magari ci parlano proprio dell’assassinio di Cesare! Invece non si brindò e si continuò a seguire la cronaca del Villani, come se nulla fosse accaduto. Ancora oggi, la Cronica di Dino Compagni è certamente tenuta in debita considerazione, senza, però, che questo abbia coinciso con l’abbandono delle affermazioni tendenziose di Villani: quelle che ci impediscono di ridisegnare, una volta e per tutte, la vicenda biografica di Dante, smettendo di assegnare i torti e le ragioni, in ugual misura, a bianchi e neri. 72
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Ravenna. Particolare della tomba di Dante Alighieri, con l’arca sepolcrale realizzata dallo scultore Pietro Lombardo nel 1483.
Un tempo pensavo che Villani fosse solo un cronista ingenuo e pedante, oggi riesco a vedere che fu una «mente sottile», un abilissimo manipolatore. Lo dimostra il fatto che la sua versione dei fatti ha vinto! È quella che è passata! E il danno che ha recato alla nostra percezione di Dante non si limita solo al racconto falsato che egli seppe fornire delle circostanze che furono all’origine del sui esilio: purtroppo, Giovanni Villani volle anche essere il primo biografo di Dante e fu lui, nella sua Nuova cronica, a lasciare il primo ritratto in assoluto che del poeta possediamo.
Il caso Baglione/Caravaggio
Nel 1642, il pittore Giovanni Baglione dà alle stampe la biografia di Caravaggio. È un’operazione infida, perché Baglione è un nemico giurato di Caravaggio. Lo ha ammirato, lo ha studiato, lo ha copiato, lo ha persino querelato. Baglione non sopporta Caravaggio perché questi è originale e indipendente, mentre lui è un pittore bravo, ma di maniera. Il fastidio per giunta è accresciuto dal fatto che Giovanni non è mai stato ricambiato, nella stima, dal sublime Caravaggio e cosí, quando Merisi muore, a soli 39 anni, Giovanni, che gli sopravvive, ne scrive la biografia. La compone circa trent’anni dopo la sua morte: dopo tre decenni, la sua mente è ancora là, su quel pittore che non ha saputo eguagliare. Per evitare che i lettori la recepiscano per quel che di fatto è – una rivalsa volta a screditare l’ex collega –, Baglione usa uno stratagemma: non scrive propriamente la biografia di Caravaggio, bensí Le vite de’ pittori, scultori et architetti. Dal Pontificato di Gregorio XIII del 1572 in fino a’ tempi di Papa Urbano VIII. Scrive, cioè, le biografie di un gruppo di artisti, vissuti in poco piú di un cinquantennio, giusto per inserirvi, proprio nel mezzo, quella dell’odiato Caravaggio. Usa anche un tono fintamente distaccato, apparentemente scevro da pregiudizi e risentimenti personali, in maniera da apparire in buona fede. Alterna fango a incenso, riuscendo a guadagnarsi cosí, presso i posteri, la credibilità che sempre si accorda ai testimoni diretti. Capita spesso che per i secoli passati, per i quali le fonti sono ben piú scarse delle attuali, finiamo per accontentarci di trovare testimoni, testimoni pur che siano, senza interrogarci piú di tanto sul come e sul perché stiano testimoniando. Chi vuole diffamare sa che il primo sforzo da compiere è quello di apparire equidistante, mosso da obiettività. Questo è accaduto anche a Dante: le prime trenta righe biografiche che lo
riguardano sono state scritte proprio da quel Giovanni Villani che nella sua cronaca ha già usato tante piccole bugie e omissioni nel dare conto dei fatti del colpo di Stato che causarono il suo esilio. Purtroppo, decide anche di occuparsi direttamente di lui, nell’intento di lasciare il suo ritratto ai posteri e, nel farlo, ricorre a metodo subdolo, proprio come Baglione fece con Caravaggio: quello del metà buono e metà cattivo. Ancora oggi, di fronte a quelle trenta righe, tentenniamo, non è subito evidente che si tratti di righe tendenziose. Quando riflettiamo su un politico attuale, siamo tutti capaci di capire, di filtrare le notizie, in base alle fonti da cui attingiamo. Quando si tratta di un personaggio storico troppo lontano nel tempo, dimentichiamo queste cautele. Per ricostruire la biografia di Dante, occorre quindi passare attraverso la strettoia della Nuova cronica di Giovanni Villani. Di Dante, Giovanni scrive che era un grande poeta – sarebbe stato difficile negarlo nel 1348, quando il cronista redigeva la sua opera! –, ma del genere pomposo, elitario, arrogante, presuntuoso, di cattivo carattere; di quelli che hanno sempre da urlare, da rinfacciare, da «garrire sconvenientemente», quasi ci fosse una tragedia alle proprie spalle. E, però, come abbiamo visto, la tragedia si era consumata davvero, per quanto a Firenze si preferisse negarla e raccontarla in modo piú accettabile. L’apparente innocenza con cui Giovanni Villani scrive – ironicamente – che Dante, nella Commedia, «garriva» – cioè starnazzava, abbaiava, guaiva – è, in realtà, il modo migliore per minimizzare quel che accadde, suggerendo a chi legge che lui sí abbaiava forte, ma senza averne motivo. Ormai, però, lo abbiamo imparato: Villani vuole togliere fondamento alla gravità dei fatti occorsi a Firenze quel 5 novembre del 1301, e, soprattutto, non vuole presentarli come fossero responsabilità di una sola parte politica. Si sforza di dirci che bianchi e neri si equivalevano, nei metodi e nei valori, e che tante se ne dicevano e altrettante se ne facevano. E, però, gli esiti stessi delle missioni di pace tentate a Firenze in quei decenni dimostrano che le due parti avevano una diversa aderenza alla legalità. Sotto il governo dei bianchi, la missione del cardinal Latino portò al rientro dei capi politici esiliati e alla restituzione dei beni confiscati, nonostante si trattasse di ghibellini, quindi di veri nemici del papa; sotto il governo dei neri, la missione di pace di Niccolò da Prato termina con i neri che appiccano il fuoco alle case in cui sono ospitati i delegati. DANTE ALIGHIERI
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Essere di parte
Nella pagina accanto il cenotafio di Dante, collocato nella basilica fiorentina di Santa Croce. Il monumento costituisce il primo riconoscimento ufficiale della città di Firenze al poeta morto in esilio e sepolto a Ravenna. Fu voluto dal granduca Ferdinando III (1769-1824) e realizzato grazie a una sottoscrizione pubblica. L’iniziativa suscitò grande consenso, e Giacomo Leopardi, per manifestare il proprio entusiasmo, compose nel 1818 la canzone Sopra il monumento di Dante che si preparava in Firenze. Dell’esecuzione fu incaricato uno degli scultori toscani piú importanti dell’epoca, Stefano Ricci, che lavorò all’opera fra il 1818 e il 1829. L’inaugurazione ufficiale del cenotafio ebbe luogo nel 1830.
Quando Giovanni scriveva la sua cronaca erano trascorsi circa trent’anni dalla morte di Dante e Firenze aveva cominciato a dover fare i conti con la sua memoria. Aveva iniziato a chiedersi – dopo averlo ignorato per circa un ventennio, l’ultimo della sua vita – cosa fare con quel poeta che fuori Firenze era ormai molto apprezzato. Che fare con quel concittadino scomodo, che si era guadagnato fama e onore fuori di Firenze, dicendo, però, cose contro la città? Era scomodo per i Fiorentini questo Dante fuori di Firenze che continuava a segnare a dito ogni loro magagna: «Godi, Fiorenza, poi che se’ sí grande, che per mare e per terra batti l’ali, e per lo ‘nferno tuo nome si spande! Tra li ladron trovai cinque cotali tuoi cittadini onde mi ven vergogna, e tu in grande orranza non ne sali.» (Inferno, XXVI, 1-6) [Godi Firenze, poiché sei cosí grande che per mare e per terra voli, spandendo la tua fama e per tutto l’inferno il tuo nome corre. Tra i ladri, trovai cinque dei tuoi concittadini, di cui ho vergogna e tu in grande onore non ne sali.] Neppure ai concittadini di Dante, alla gente comune, doveva piacere la fama crescente di questo conterraneo che scoperchiava i molti verminai che si annidavano in città. Quello in cui scriveva Giovanni era quindi un momento delicato della partita aperta tra Dante e la sua città. Tempo ne era passato, sí, ma non abbastanza da permettere a tutti i protagonisti di quella storia d’uscire di scena. Che fare allora? Firenze non poteva ignorare ancora a lungo la sua fama, che, per giunta, non mostrava affatto di volersi affievolire, ma al contrario continuava a gonfiarsi come un’onda. E cosí, in questo contesto, la soluzione fu tentata da Giovanni Villani. Potremmo definire Giovanni come l’esempio tipico di ciò che noi chiameremmo con disprezzo uno «storico di partito», cioè un personaggio organico, interno al gruppo di governo, quello dei vincitori; da storico organico alla sua parte, Giovanni trovò il modo di salvare capra e cavoli: Dante era sí un grande poeta, ma di indole particolare: «un filosofo mal grazioso che non bene sapea conversare co’ laici». Del resto, non si dice sempre cosí di chi protesta? Che ha cattivo carattere? Non è forse questo il modo perfetto di delegittimare quelli che contestano? Bollarli come irascibili, collerici, come cani da catastro-
fe? Giovanni lo giustifica persino per quel suo essere sopra le righe: «ma forse il suo esilio gliele fece», ma è solo un trucco, quello di accusare qualcuno mentre si finge di scusarlo.
Vittima della superbia
Dunque è Giovanni a suggerire – tra le righe – che se Dante fosse stato meno «isdegnoso», cioè presuntuoso, superbo, se fosse stato piú ragionevole, alla tragedia della morte in esilio non ci si sarebbe arrivati: «Nel detto anno MIIIXXI, del mese di luglio, morí Dante Allighieri di Firenze ne la città di Ravenna in Romagna, essendo tornato d’ambasceria da Vinegia in servigio de’ signori da Polenta, con cui dimorava; e in Ravenna dinanzi a la porta de la chiesa maggiore fue sepellito a grande onore in abito di poeta e di grande filosafo. Morí in esilio del Comune di Firenze in età di circa LVI anni. Questo Dante fue onorevole e antico cittadino di Firenze di Porta San Piero, e nostro vicino; e ‘l suo esilio di Firenze fu per cagione, che quando messer Carlo di Valos de la casa di Francia venne in Firenze l’anno MCCCI, e caccionne la parte bianca… il detto Dante era de’ maggiori governatori de la nostra città e di quella parte, bene che forse Guelfo; e però sanza altra colpa co la detta parte bianca fue cacciato e sbandito di Firenze, e andossene a lo Studio di Bologna, e poi a Parigi, e in piú parti del mondo. Questi fue grande letterato quasi in ogni scienza, tutto fosse laico; fue sommo poeta e filosafo, e rettorico perfetto tanto in dittare, versificare, come in aringa parlare, nobilissimo dicitore, in rima sommo, col piú pulito e bello stile che mai fosse in nostra lingua infino al suo tempo e piú innanzi… E fece la Commedia, ove in pulita rima, e con grandi e sottili questioni morali, naturali, strolaghe, filosofiche, e teologhe, con belle e nuove figure, comparazioni, e poetrie, compuose e trattò in cento capitoli, overo canti, dell’essere e istato del ninferno, purgatorio, e paradiso cosí altamente come dire se ne possa, sí come per lo detto suo trattato si può vedere e intendere, chi è di sottile intelletto. Bene si dilettò in quella Commedia di garrire sclamare a guisa di poeta, forse in parte piú che non si convenia; ma forse il suo esilio gliele fece… Questo Dante per lo suo savere fu alquanto presuntuoso e schifo e isdegnoso, e quasi a guisa di filosafo mal grazioso non bene sapea conversare co’ laici; ma per l’altre sue virtudi e scienza e valore di tanto cittadino ne pare che si convenga di dargli perpetua memoria in questa nostra cronica, con tutto che per le sue nobili opere lasciateci in iscritture facciamo di lui vero testimonio e onorabile fama alla nostra cittade» (Giovanni Villani, Nuova cronica, X, CXXXVI, 21-26). DANTE ALIGHIERI
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ASCOLTA, GUARDA, PENSA E COMPRENDI...
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a voce di Dante è udibile in maniera chiara e distinta, quando – in veste di autore o di personaggio e attraverso l’uso della prima persona – interviene e ci dà conto del suo pensiero. Quando ci accostiamo alla Commedia, dobbiamo sempre distinguere fra i passi in cui a parlare è Dante, l’autore che sta scrivendo la Commedia, e quelli nei quali, invece, è un suo personaggio a prendere la parola. In questo caso, Dante agisce come un semplice intervistatore, o un reporter, parola moderna che nel Medioevo si sarebbe potuta rendere con il termine di «rapportatore», «relatore», cioè colui che riferisce, che annota ciò che sente e che vede. Tuttavia, la voce del poeta va distinta anche da quella del Dante personaggio, che attraversa la Commedia. La voce di Dante autore, infatti, può esprimere il suo pensiero, senza gli infingimenti necessari alla finzione narrativa. È una voce «al quadrato», mentre quella del Dante personaggio è
Dante e Virgilio assistono alla punizione inferta agli indovini, le cui teste sono voltate al contrario per avere osato leggere il futuro, miniatura che illustra il canto XX dell’Inferno in un’edizione della Divina Commedia di produzione toscana. 1444-1450. Londra, British Library.
costretta a registrare ciò che l’Alighieri aveva vissuto dieci o quindici anni – a seconda delle cantiche – prima del «viaggio» del 1300. In quel caso, Dante non può mostrare mostrare apertamente le amarezze e le esperienze vissute nell’esilio, né può raccontare, nello specifico e diffusamente, gli eventi del colpo di Stato. La sua voce si fa poi sorprendente e ineludibile quando si rivolge direttamente a noi. Dante lo fa spesso, in diversi brani della Commedia, con gli appelli al lettore. Attira spesso l’attenzione di chi legge, nel tentativo di tenerlo sempre all’erta, affinché anch’egli veda, senta, capisca: «Pensa, lettor, se io mi sconfortai / nel suon de le parole maladette» (Inferno, VIII, 94-95); «O voi ch’avete li ‘ntelletti sani, / mirate la dottrina che s’asconde» (Inferno, IX, 61-62); «e per le note / di questa comedía, lettor, ti giuro» (Inferno, XVI, 127-128); «Se Dio ti lasci, lettor, prender frutto / di tua lezione» (Inferno, XX, 19-20); «O tu che leggi, udirai nuovo ludo» (Inferno, XXII, 118); «Se tu se’ or, lettore, a creder lento» (Inferno, XXV, 46); «Com’io divenni allor gelato e fioco, / nol dimandar, lettor,
ch’i’ non lo scrivo» (Inferno, XXXIV, 22-23); «Aguzza qui, lettor, ben li occhi al vero» (Purgatorio, VIII, 19); «Lettor, tu vedi ben com’io innalzo / la mia matera» (Purgatorio, IX, 70-71); «Non vo’ però, lettor, che tu ti smaghi» (Purgatorio, X, 106); «Ricorditi, lettor, se mai ne l’alpe» (Purgatorio, XVII, 1); «A descriver lor forme piú non spargo / rime, lettor» (Purgatorio, XXIX, 97-98); «Pensa, lettor, s’io mi maravigliava» (Purgatorio, XXXI, 124); «S’io avessi, lettor, piú lungo spazio» (Purgatorio, XXXIII, 136); «O voi che siete in piccioletta barca / desiderosi d’ascoltar» (Paradiso, II, 1-2); «Pensa, lettor, se quel che qui s’inizia» (Paradiso, V, 109); «Leva dunque, lettore, a l’alte rote / meco la vista» (Paradiso, X, 7-8); «Or ti riman, lettor, sovra ‘l tuo banco» (Paradiso, X, 22); «S’io torni mai, lettore, a quel divoto / trïunfo per lo quale io piango spesso» (Paradiso, XXII, 106-107). Ascolta, guarda, pensa, comprendi, credi... dice Dante, come a voler convincere il lettore che il messaggio sia per lui, perché tutto ciò che è contenuto nella Commedia è per il lettore e a lui si rivolge, come un conforto, certo, ma anche come un invito a prendere posizione.
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Tra le righe della Commedia
La rappresentazione dell’Inferno in uno dei mosaici che ornano l’interno della cupola del battistero di S. Giovanni, a Firenze. Stando alle fonti, la composizione impressionò profondamente anche Dante Alighieri.
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L’OLTRETOMBA PRIMA DELLA COMMEDIA
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ella Commedia, Dante avverte l’urgenza di farci udire la sua voce, a volte il suo grido, di gioia o di dolore, di approvazione o riprovazione, perché, con ogni evidenza, egli non si attribuisce l’architettura del mondo che si trova ad attraversare, né la ratio delle leggi che lo dominano. L’oltretomba dantesco è una costruzione già data, che rispetta la tradizione canonistica religiosa del tempo. Modello per la distribuzione dei premi e delle pene sono le virtú socratiche e la dottrina cristiana dell’epoca. In mezzo a questa costruzione, passa Dante, che come un reporter, annota solo ciò che vede. A partire dai primi secoli del cristianesimo, si fissa un sistema di vizi e virtú, considerati meritevoli di premio o punizione. Nulla di paragonabile a ciò che Dante farà di quel sistema con la potenza della sua costruzione immaginifica, ma la trattatistica cristiana resta il fondamento della sua creazione. Il tema dell’oltretomba era stato centrale anche nelle opere di diversi scrittori dell’epoca, non solo cristiani, considerati probabili fonti
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d’ispirazione della Commedia stessa. Il primo è il lombardo Bonvesin de la Riva, morto nel 1315, autore di un poema in 2108 versi, diviso in tre parti: nella prima, chiamata della «scrittura nera», si descrivono le pene dell’inferno. La seconda è la «scrittura rossa», in cui si attua la «passione» di Cristo. La terza è la «scrittura dorata», riservata alla corte divina e alle glorie del cielo. Nella scrittura nera, Bonvesin organizza dodici pene, in cui i dannati sono sottoposti ad atroci torture: fuoco per gli avari e i lussuriosi, «puza grande» per chi ha vissuto disonestamente, ghiaccio eterno per chi è rimasto impassibile di fronte alla chiamata di una vita santa; i profittatori sono mangiati dai vermi; i golosi e i lussuriosi vengono tormentati da diavoli spaventosi; le orecchie di chi ha disatteso la parola dei predicatori e di chi ha disertato le funzioni religiose sono sottoposte al tormento provocato da urla e rumori fortissimi. A quell’identico tormento sono sottoposti coloro che ascoltarono le gesta della materia epica, come la
Miniatura raffigurante Dante e Beatrice che ascendono all’empireo, da un’edizione della Divina Commedia illustrata dal pittore senese Giovanni di Paolo. 1450 circa. Londra, The British Library.
Chanson de Roland; i violenti contro il prossimo sono azzannati e fatti a pezzi da demoni spietati; i vanitosi sono rivestiti con abiti intessuti di spine velenose e sono condannati a restare stesi su letti roventi, tormentati, per giunta, da scorpioni, bisce e fortissime esalazioni di zolfo; vengono puniti atrocemente, però, anche quelli che si macchiarono della colpa opposta, coloro che in alcun modo furono vanitosi, ma non curarono neppure l’igiene, non vestirono con decoro, non furono convenienti e dignitosi nel presentare la propria immagine al prossimo. Anch’essi nell’oltretomba vengono offesi e guastati nel corpo dalle piú orribili piaghe e pustole. Gli atei, infine, e tutti quelli che non credettero nel Cristo sono condannati a fissare la vita gioiosa e serena dei beati. Mentre questi ultimi sono promossi a una gioia eterna e alla totale mancanza di malattia e dolore, loro scontano pene atroci. Alle dodici pene della «scrittura nera» corrispondono le beatitudini della «scrittura dorata»: la bellezza, il profumo costante, la grande ricchezza di tutti,
gli onori, la gioia, i canti angelici, i cibi ricercati, le vesti preziose e morbide, l’assenza totale di fatica, l’onore di essere serviti da Cristo in persona. Altro autore di materia escatologica è il frate francescano Giacomino da Verona, il quale, intorno al 1275, compose due poemetti in volgare veronese, il De Babilonia civitate infernali e il De Jerusalem coelesti. Giacomino descrive dannati che scontano pene contrarie e direttamente proporzionali nell’intensità «al piacere che i peccatori si concessero in vita», secondo un rigoroso contrappasso. Anche nell’oltretomba di Giacomino i dannati vengono ripartiti in basso e in alto: in basso, nell’inferno, vengono torturati da diavoli e puniti col fuoco e con spine pungenti; in alto, invece, i beati, che hanno meritato di vivere il paradiso, vivono nella gioia senza piú conoscere malattia e tormento, in un Eden sempreverde, in cui scorrono fiumi d’oro, si vive in case dalle pareti di perla, ci si abbevera all’acqua cristallina e dissetante che sgorga da fontane d’argento.
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Tra le righe della Commedia
UN MONDO A TINTE FOSCHE Dante e Virgilio (o La barca di Dante), olio su tela di Eugène Delacroix. 1822. Parigi, Museo del Louvre.
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a Commedia porta in scena un mondo ferale: dannati che sbavano, spernacchiano, mostrano irriverenti il deretano, urlano, imprecano, maledicono, strisciano, si contorcono, proferiscono parole impronunciabili e affogano dentro fiumi di letame. Tutto, nella Commedia, è realismo invadente, è continua incursione di fatti e personaggi ancora vivi, ancora capaci di gettare una luce sinistra sulla vita dei suoi contemporanei. Tutto è espresso in una lingua informe, in continuo movimento, come in continuo movimento erano gli osti e i mercanti che la parlavano. Rifugiarsi nel canone della cultura classica, destinata a rimanere fissa, come un faro, come una via già tracciata ed esplorata, era puro spirito di conservazione per Dante. Gli intellettuali dell’epoca difendevano il mondo classico come il luogo del rimpianto e della bellezza perduta; luogo in cui tutto tornava a essere ordinato e armonico, dove poeti e filosofi – a dispetto dei loro destini troppo spesso tragici – sembravano ormai dire solo cose innocue. Ma era solo la distanza a creare quell’illusione ottica. Il mondo classico, per il fatto di essere tramontato, frapponeva una sorta di velo tra l’uomo e le cose, una giusta distanza, che permetteva di non restare coinvolti nella crudezza della vita che scorre. Da quando era morto, il mondo classico aveva acquisito quel marmoreo biancore, quella lucente levigatezza che da vivo, però, non mostrava affatto. Solo da morto poteva galvanizzare vecchi eroi e fulgidi dèi, precettati a stare lí sulla scena a fare da comparse, su sfondi di cartapesta. Il linguaggio realistico e i temi crudi di Dante, invece, facevano emergere la parte peggiore dell’uomo e chi, come Dante, prendeva le mosse dalla cronaca e dall’attualità per fare poesia finiva coll’apparire egli stesso come un cane rancoroso, in luogo di un poeta sublime e raffinato. Dante si ostina a essere uno scrittore realista, che non può che usare la lingua della strada, nonché il suo gergo, fatto di parole non sempre pronunciabili: Dante è lo scrittore che per primo vuole la corona d’alloro dicendo «merda» (cf. «Di merda lordo», Inferno, XVIII, 116).
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Esule per sempre
Il borgo di Gargonza (Arezzo). Qui Dante si incontrò con altri fuoriusciti fiorentini e diede vita all’Università dei bianchi di Firenze, associazione di cui venne nominato segretario.
Nel 1302, Dante viene bandito da Firenze per due anni. Ma presto il provvedimento diviene perpetuo e vani saranno i tentativi del poeta di fare rientro in città. Trascorre quindi il resto della sua esistenza errando, una condizione amara e dolorosa, da cui, tuttavia, emergeranno le opere destinate a renderlo immortale
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ome attesta Dino Compagni, Dante è a Roma in qualità di ambasciatore mentre a Firenze si consuma il colpo di Stato. All’indomani del quale, Dante torna in Toscana per riunirsi ai fuoriusciti, che a centinaia hanno lasciato Firenze, dopo l’arrivo di Carlo di Valois, ma anche a quei ghibellini, padri e figli, in esilio dai tempi delle sconfitte di Benevento e di Tagliacozzo. Li incontra una prima volta nel castello di Gargonza, sulla via che corre tra Siena e Arezzo, probabilmente già nel febbraio del 1302. Con loro dà vita a un’associazione denominata «Università dei bianchi di Firenze», secondo il significato medievale della parola «università», intesa cioè come unione, corporazione, congregazione. A Dante viene assegnato il ruolo di segretario della neonata associazione, ovvero di voce e anima del gruppo, senza che ciò significhi, però, che egli rinunci a partecipare agli scontri armati. Qualche mese piú tardi, nel giugno del 1302, presso la pieve di S. Godenzo, al confine tra Mugello e Val di Sieve, Dante li incontra nuovamente. Sappiamo con certezza che all’incontro presero parte due figure simbolo degli scontri di quegli anni: Vieri de’ Cerchi e Lupo degli Uberti. Vieri è l’ex capo del partito dei bianchi, che si trova in esilio come Dante; Lupo, invece, è il nipote di quel Farinata degli Uberti che era stato il grande capo dei ghibellini a Firenze, e che Dante incontra nell’Inferno, nel canto X. DANTE ALIGHIERI
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L’esilio altri fuoriusciti, prende dimora ad Arezzo, dove in quel momento è podestà Uguccione della Faggiola, nemico storico di Firenze. Arezzo è una delle piú convinte roccaforti del ghibellinismo toscano e, infatti, accoglie fuoriusciti fiorentini, nonostante le minacce di Firenze che diffida gli Aretini dal farlo. La città del giglio non vuole solo impedire il rientro degli esuli, ma anche fargli terra bruciata nel circondario, dove la presenza dei loro amici e dei loro compagni di cordata ne rendeva pericolosa la permanenza. Un esule non aveva grandi possibilità di restare a lungo in una delle città limitrofe, senza rischiare la vita; come già accennato, la pressione di Firenze affinché non accogliessero i fuoriusciti era costante. Nelle città toscane vengono emanate di continuo norme che fanno divieto ai bianchi non solo di trovare accoglienza in città, ma persino di transitarvi, cosicché i fuoriusciti sono costretti, un po’ ovunque, a ripiegare sulle zone rurali.
Il sequestro dei beni
Miniatura raffigurante la città di Roma, da un’edizione del Dittamondo di Fazio degli Uberti. 1447. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Nel novembre del 1301, quando a Firenze si consuma il colpo di Stato, Dante si trova nell’Urbe, in qualità di ambasciatore. 86
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L’alleanza celebrata a Gargonza tra l’ex capo dei guelfi bianchi e il nipote dell’ex capo dei ghibellini di Firenze attirò su Dante molte ritorsioni: i neri ne approfittarono per accusare i bianchi di tradimento della patria. Tuttavia, incuranti delle accuse e decisi a liberare Firenze, bianchi e ghibellini si gettano uniti in una serie di scontri armati, ma, dopo i primi successi, nell’autunno del 1302, la lega dei fuoriusciti comincia a perdere colpi e a subire, di lí in avanti, solo pesanti sconfitte. Dopo l’incontro a Gargonza, Dante, insieme ad
Il 9 giugno del 1302, il Comune di Firenze procede inoltre alla nomina di un ufficiale per l’amministrazione dei beni sequestrati ai condannati, segno che non mette in conto di farli rientrare, almeno a breve. Contestualmente, dispone la cacciata dalla città dei loro figli maschi maggiori di 14 anni. Non è il caso di Dante, i cui figli sono ancora bambini. È assai probabile che la moglie di Dante li abbia portati fuori Firenze e che siano stati ospitati, fin dall’inizio dei rivolgimenti politici, in campagna, presso i parenti della madre, che è una Donati e dunque, almeno per nascita, appartiene alla schiera vincente dei neri. A lei possono essere in parte risparmiate le umiliazioni di cui al marito non sarà fatto alcuno sconto. Per una volta, inoltre, l’essere donna le porta vantaggio: la pone al riparo dalle ritorsioni dirette dei vincitori, la cui partita si gioca tutta e interamente sui maschi della famiglia, Giovanni, Pietro e Jacopo. Sono i maschi tra i 14 e i 25 anni quelli piú pericolosi, perché una volta cresciuti, potrebbero voler vendicare il padre. La faida domina tra le famiglie nobili dell’epoca, le quali considerano un disonore non lavare col sangue un torto ricevuto. Nella tenzone poetica con Forese Donati, questi rinfaccerà a Dante proprio di non avere ancora provveduto a vendicare un torto subito dal padre, truffato in una banale storia di cambio di danaro: Ben so che fosti figliuol d’Allaghieri, e acorgomene pur a la vendetta
Madonna della Misericordia, affresco della bottega di Bernardo Daddi. 1342 circa. Firenze, Museo del Bigallo. Nella parte inferiore del dipinto compare la piú antica rappresentazione a oggi nota della città di Firenze, con le sue torri medievali e i suoi monumenti, fra cui il battistero di S. Giovanni.
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L’esilio
Miniatura raffigurante Benedetto XI, dai Vaticinia de Summis Pontificibus. XVI sec. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Eletto al soglio pontificio nel 1303, Benedetto (al secolo, Niccolò Boccasini) fu il successore di Bonifacio VIII.
che facesti di lu’ sí bella e netta de l’aguglin ched e’ cambiò l’altr’ieri (Dante a Forese Donati, Tenzone, LXXVIII) [l’aquilino, o aguglino, era una moneta pisana d’argento]. Il fatto che Dante non aderisca allo spirito di faida, aggredendo fisicamente il baro, è però considerato da Forese inconcepibile, una vera 88
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e propria macchia sull’onore della famiglia Alighieri. Per questa ragione si mandavano in esilio, insieme agli sbanditi, anche i loro figli maschi, per impedire che consumassero la propria vendetta in città. Nel 1311, il Comune inasprirà ulteriormente l’atteggiamento nei confronti di Dante e dei figli, dando licenza a chiunque di colpirli, «negli averi e nella persona», anche fuori Firenze. Probabilmente, nell’autunno del 1302 Dante
L’arca sepolcrale di Lapo degli Uberti, figlio di Farinata. XIV sec. Vicenza, S. Lorenzo. Dopo il 1267, visse in esilio con tutti i membri della sua famiglia ghibellina.
lascia Arezzo, perché, a sorpresa, il ghibellino Uguccione si avvicina a Bonifacio VIII, forse per ottenere benefici personali o forse solo per guadagnare vantaggi politici per la propria città, tradizionalmente ghibellina. In ogni caso, Arezzo non rappresenta piú un luogo sicuro per i fuoriusciti fiorentini, i quali proprio allora, secondo Dino Compagni, si spostano a Forlí. Qui il potere è nelle mani del ghibellino Scarpetta Ordelaffi, anch’egli nemico storico di Firenze. A lui offrono la carica di capitano dell’università dei bianchi, dopo che la morte di Alessandro da Romena, amico e protettore di Dante, l’ha lasciata senza una guida.
Un evento insperato
L’11 di ottobre del 1303, Dante si trova probabilmente ancora a Forlí – rientrato da poco da una lunga missione diplomatica a Verona –, quando una notizia inattesa e propizia giunge a risollevare il suo animo e quello dei fuoriusciti: l’odiato Bonifacio VIII è morto a Roma, isolato e sconvolto per l’affronto subito da quegli stessi Francesi dei quali a lungo si era servito per rovinare molti dei comuni italiani, primo fra tutti Firenze. Per Dante è una data storica, insperata, certamente a lungo attesa. Dino Compagni commenta cosí l’evento: «Il mondo si è rallegrato di luce nuova!» (Cronica, III, I, 1). Il successore di Bonifacio, Benedetto XI, viene salutato da Dante e dagli altri fuoriusciti come il papa della provvidenza, mandato a risollevare le sorti degli esuli e a consentire la pacificazione di Firenze. Se Bonifacio era stato un pontefice di parte, cinico e interessato, Benedetto era il suo contrario. Era stato eletto al soglio di Pietro, proprio perché il conclave intendeva esprimere
quanto di piú lontano ci fosse dalla figura del suo pessimo predecessore. Dante vuole porsi a servizio di Benedetto XI e, per questo, gli scrive lettere in cui illustra la dolorosa situazione dei fuoriusciti, indicandogli possibili vie per attuare la pacificazione della sua città. Il papa, però, chiede a lui e ai fuoriusciti solo la promessa di non impugnare mai piú le armi contro Firenze, dove ha già provveduto a inviare il paciere Niccolò da Prato. Questi, in un primo momento, prova a pacificare lo schieramento dei neri, i quali, dopo il colpo di Stato, si erano divisi, lo ricordiamo, in un’ala oltranzista, capeggiata da Corso Donati, e in una piú moderata e legalitaria, che di fatto rappresentava la maggioranza del partito. In un secondo momento, Nicolò tenta di riportare gli esiliati a Firenze. Con tale intento vengono convocati a Firenze dodici rappresentanti dei bianchi e dei ghibellini in esilio, affinché possano iniziare la trattativa con altrettanti rappresentanti dei neri. La delegazione dei fuoriusciti è certamente quella piú ben disposta: in palio c’è il rientro in patria. È la prima volta, dopo mesi, dopo anni, che essi possono rimettere piede a Firenze, ma in quei giorni di inizio giugno, per ordine di Corso Donati, viene appiccato il fuoco alle case delle famiglie che ospitavano i delegati dei bianchi. Niccolò da Prato si affretta a farli trasferire presso la sua residenza di palazzo Mozzi, confidando di far loro da scudo per il tramite della sua persona, ma le violenze dei neri non si placano, e l’8 giugno Niccolò è costretto a consigliare ai bianchi di lasciare la città. Due giorni dopo anch’egli abbandona Firenze: ora il papa vuole convocare i delegati fiorentini fuori dalla Toscana, in modo da isolare Corso Donati. Sceglie Perugia, ma la mattina del 7 di luglio, giorno fissato per l’udienza, Benedetto viene trovato morto nel suo letto. Si chiudeva cosí, con quella morte imprevista – a proposito della quale molti parlarono di avvelenamento –, il piú consistente tentativo di pacificare Firenze, compiuto dopo l’esilio di Dante.
La battaglia della Lastra
Ormai decisi a farsi giustizia da soli e a vendicare il fallimento della missione di pace di Benedetto XI, i bianchi si gettarono di nuovo nella pianificazione di un assalto. Questo ebbe luogo il 20 luglio del 1304 e verrà ricordato come la battaglia della Lastra, dal luogo in cui i militari si accamparono, ma che fu poi combattuta entro le mura di Firenze. Una battaglia che segnò definitivamente la DANTE ALIGHIERI
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sconfitta dei bianchi e l’ulteriore rafforzamento dei neri. Una sconfitta annunciata perché le risorse dei fuoriusciti si erano andate sempre piú assottigliando, impoverendo ulteriormente un patrimonio già messo a dura prova dalle confische, seguite alle condanne. I fuoriusciti avevano anche compiuto l’errore di disperdere le forze, moltiplicando gli assalti, mentre sarebbe stato piú utile convogliarle in uno scontro unico. Altro elemento che dovette pesare non poco fu il continuo cambiar di campo degli alleati via via raccolti
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per strada. Cambi di campo frequenti che mostravano tutta la fragilità di una coalizione raccogliticcia e trasversale, incapace di un programma davvero condiviso da tutti i componenti della cordata. Ognuno aveva finito coll’aggregarsi con motivazioni proprie, soprattutto nel caso dei non fiorentini. Questi ultimi, infatti, non avevano un obiettivo chiaro e impellente, ma si affiancavano ai primi sulla base di una generica contrapposizione al papato e alle fazioni guelfe cittadine. Il 19 luglio del 1304, i fuoriusciti arrivarono
Miniatura raffigurante Cacciaguida che parla di Firenze a Dante e Beatrice, da un’edizione della Divina Commedia. Dante racconta l’incontro con il suo antenato durante il viaggio nel Paradiso, traversando il cielo di Marte che ospita le anime dei combattenti per la fede.
L’incontro fra Dante e Forese Donati, che si trova fra i golosi, ridotti a una spaventosa magrezza, in una tavola realizzata da Gustave Doré per la celebre edizione illustrata della Divina Commedia pubblicata nel 1861.
alla Lastra, a tre chilometri dalle mura di Firenze; il giorno seguente sfondarono all’interno del pomerio e si affrontarono a pochi metri dal battistero. Dante non partecipò a quella battaglia. Tenne fede alla promessa fatta a Niccolò da Prato di provare a mettere fine alla catena infinita di odi, ritorsioni e improvvisate liste di proscrizione. Abbandonò definitivamente l’Università dei bianchi per non farvi mai piú ritorno. Una decina d’anni piú tardi, nella Commedia, definirà i fuoriusciti come una compagnia «matta ed empia», ritenendosi fortunato per aver avuto la lungimiranza di allontanarsene, prima che la battaglia portata fin dentro il pomerio della città avesse corso: «Tu lascerai ogne cosa diletta piú caramente; e questo è quello strale che l’arco de lo essilio pria saetta. Tu proverai sí come sa di sale lo pane altrui, e come è duro calle lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale. E quel che piú ti graverà le spalle, sarà la compagnia malvagia e scempia con la qual tu cadrai in questa valle; DANTE ALIGHIERI
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che tutta ingrata, tutta matta ed empia si farà contr’a te; ma, poco appresso, ella, non tu, n’avrà rossa la tempia. Di sua bestialitate il suo processo farà la prova; sí ch’a te fia bello averti fatta parte per te stesso» (Paradiso, XVII, 55-69) [Tu lascerai ogni cosa maggiormente diletta e questo è quella freccia che per prima scaglierà l’arco dell’esilio. Tu proverai quanto sia amaro il pane altrui, e come sia duro salire e scendere le scale in casa d’altri. Ma ciò che ti graverà di piú le spalle, sarà la compagnia malvagia e folle con cui dovrai condividere il tuo esilio. Infatti essa sarà contro di te ingrata, folle ed empia, ma poco dopo, saranno loro, e non tu, a vedersi bagnare di sangue le tempie. Quello che accadrà dimostrerà in pieno la loro folle bestialità, cosicché si dimostrerà un bene l’essertene separato].
La nera povertà dell’esilio
I primi anni fuori da Firenze furono anni turbolenti, al punto che Dante non riuscí a misurare, fino in fondo, il problema economico che l’esilio comportava. Quella da cui proveniva era una famiglia di modesta nobiltà e della quale, nella documentazione superstite, resta traccia di diversi prestiti bancari e di uno sforzo costante nel mantenere il possesso dei pochi beni immobili. Forse per questo l’Alighieri padre si era tenuto lontano dalla politica. Doveva essere stato consapevole del fatto che attirarsi gli odi di parte non avrebbe giovato a un patrimonio già esiguo; gettarsi nell’agone politico poteva costare inimicizie, confische, saccheggi, incendi dolosi, smantellamento della propria dimora. Gli Alighieri non potevano sostenere tutto questo, non avevano terreni o proprietà di rilievo sparse per la Toscana, dove potersi rifugiare in caso di difficoltà: il difficilissimo esilio di Dante lo dimostrerà. La lista dei debiti contratti dai fratelli Alighieri dopo la morte del padre mostra con chiarezza l’estrema difficoltà in cui la famiglia era venuta a trovarsi; e proprio quando già iniziavano a essere indebitati sopraggiunse, ad aggravare le cose, anche la sentenza di confisca. La multa stabilita per il rientro era di 5000 fiorini piccoli, il che vale a dire 170 fiorini d’oro: una cifra enorme per Dante, se si pensa che la dote 92
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di Gemma Donati consisteva in una dote che fruttava 47 fiorini annui e la rendita delle due chiese ravennati con cui l’intera famiglia poté sopravvivere negli ultimi anni di vita del poeta ammontava ad appena 46 fiorini annui. L’unico prestito di cui si abbia prova, concesso in suo favore dopo l’esilio – con la malleveria del fratello Francesco – è di appena 12 fiorini d’oro. Appare quindi difficile immaginare che con simili risorse potesse permettersi di pagare la cifra fissata per il suo rientro a Firenze. Né dobbiamo immaginare che la cifra fosse stata fissata solo per lui, apposta per colpire Dante, perché essa fu grosso modo la stessa stabilita per tutti i bianchi finiti sotto processo dopo l’entrata di Carlo di Valois a Firenze. Il punto, però, è che c’era una differenza enorme tra la condizione economica di Dante e quella della maggior parte dei suoi compagni di partito. Questi ultimi, anche quando gli erano inferiori per nascita, potevano infatti contare su grandi disponibilità economiche. Borghesi o nobili che fossero, possedevano quasi sempre, fuori Firenze, castelli e sconfinati poderi, o attività commerciali ben avviate. Il distacco dalla «compagnia matta ed empia» aggrava le difficoltà economiche dell’esilio di Dante. Infatti, fin quando aveva fatto parte dell’università dei bianchi, aveva potuto contare sulla retribuzione derivante dalle sue mansioni di segretario del movimento. Lontano da loro, Dante deve cercare nuove fonti di sostentamento, tanto piú che il distacco dall’università dei bianchi rende difficile anche la sua permanenza in città come Arezzo, Forlí o Bologna, disposte per tradizione a dare asilo ai fuoriusciti, in quanto nemiche storiche di Firenze. Vivere in città, senza la protezione dell’università dei bianchi si fa difficile e, comunque, la città si rivela sempre piú pericolosa rispetto al contado, dove ci si nasconde e ci si difende meglio. Dante è rimasto dunque senza impiego e, per giunta, non ha mai esercitato una professione che possa ora tornargli utile. Nel suo curriculum figurerebbe – lo sappiamo – un’apprezzabile carriera politica, che, però, fuori Firenze non è spendibile. È vero che l’essere forestiero era considerato un titolo preferenziale per ottenere alcuni tipi di carica, come quella di podestà, ma a Dante questo tipo di incarico non fu mai offerto, perché (segue a p. 96)
Lo stemma dei Malaspina, famiglia nobile a cui apparteneva il marchese Moroello, che fu amico di Dante.
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LA CORONA D’ALLORO
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È
evidente che, per un uomo in esilio, ogni tipo di riconoscimento era importante, in quanto rappresentava un piccolo risarcimento – se non una personale vendetta – contro il potere che l’aveva messo al bando. Nel 1315, l’Università di Padova era tornata a celebrare un rito d’età augustea: l’uso di conferire una corona d’alloro come segno di massimo riconoscimento per il valore dimostrato in opere di vasta ampiezza e rilevanza. Nel primo anno d’istituzione della cerimonia, l’alloro era andato al poeta e storiografo Albertino Mussato, il cui nome non ci dice piú nulla, ma che all’epoca era considerato un letterato illustre, sia per aver dato vita a opere pompose in esametri latini, sia per aver avviato, insieme a Lovato Lovati, il recupero della cultura classica, additata come canone di assoluta bellezza e perfezione. Un’operazione, quest’ultima, destinata ad avere esiti dirompenti nella nascita dell’umanesimo. Dante era però consapevole di non appartenere a quel tipo di corrente, a quel genere letterario cosí lontano dal vero. Sapeva che il suo tenace volgare lo escludeva da un tipo di riconoscimento, nato per premiare la produzione in latino. In verità, Dante nemmeno ambiva a quel tipo di riconoscimento. Pochi mesi prima di morire, quando ha ormai 56 anni, e ne sono passati venti dalla sua dipartita da Firenze, nel XXV canto del Paradiso, scrive infatti di volere l’incoronazione poetica non a Padova, ma a Firenze. È a Firenze che si misura tutta la sua vicenda. Lí si sono fatti passare come ruberia e malaffare il suo impegno civile e la sua devozione al comune fiorentino; lí si permette – ancora – a poche e violente famiglie di agire indisturbate; lí quelle poche e violente famiglie, in luogo di essere disprezzate e combattute, vengono riverite e omaggiate, per convenienza o per paura, lí vuole il cappello, la corona: «Se mai continga che ‘l poema sacro al quale ha posto mano e cielo e terra, sí che m’ha fatto per molti anni macro, vinca la crudeltà che fuor mi serra
Nella pagina accanto il ritratto di Dante realizzato ad affresco da Luca Signorelli nella Cappella Nova (o di S. Brizio) del Duomo di Orvieto. 1499-1502.
del bello ovile ov’io dormi’ agnello, nimico ai lupi che li danno guerra; con altra voce omai, con altro vello ritornerò poeta, e in sul fonte del mio battesmo prenderò ‘l cappello». (Paradiso, XXV, 1-9) [Se mai avvenga che il poema sacro – alla cui creazione hanno concorso le cose umane e le cose divine, e che per tanti anni m’ha smagrito – vinca la crudeltà che serra fuori dal dolce ovile dove io dormii come agnello nemico dei lupi che gli fanno guerra, con altra voce ormai e con altro pelo ritornerò poeta, e sul fonte del mio battesimo prenderò il cappello].
In alto medaglia in bronzo con il profilo di Dante. Manifattura fiorentina, XV sec. Washington, The National Gallery of Art.
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non era propriamente un miles, e comunque – dopo la morte di Guido – non aveva piú amici influenti che potessero sostenerlo e introdurlo nella politica. È probabilmente il concorso di queste ragioni a indurre Dante ad andare a servizio presso le grandi famiglie feudali, che stavano iniziando a investire su un proprio personale amministrativo, su una segreteria capace di gestire i capitali e cercare soluzioni diplomatiche con le consorterie rivali.
Un’atmosfera diversa
Dopo un primo periodo trascorso ad Arezzo, Forlí e Bologna, dunque, Dante lascia la città per le valli appenniniche, dove prende servizio presso potenti famiglie feudali che risiedono prevalentemente nel contado, in rocche ben fortificate e difendibili, poste su sentieri impervi e al sommo di alture. Se in città si respira un’aria tesa e ci si sente eternamente prigionieri delle contrapposizioni di parte – quelle tra papato e impero e quelle tra forze comunali antagoniste, che avanzano nel mezzo nel tentativo di farsi strada – nel contado la situazione è diversa. Ogni uomo qui si sente essenzialmente un soggetto (subiectus) del suo signore. Qui, a differenza che in città, la vita negli ultimi duetrecento anni è mutata poco. I contadini continuano a lavorare le terre che lavoravano i loro nonni e a riconoscere la loro patria esclusivamente nel piccolo feudo che abitano da sempre. Ciò che è cambiato – in meglio – è che il signore si è ammorbidito, in quanto ha iniziato a temere che i servi lo abbandonino per trasferirsi in città. Nel contado, Dante trascorre circa dieci anni, dal 1306 al 1316. Nella prima parte di questo decennio prende prima albergo presso i Malaspina, in Lunigiana, tra Liguria e Toscana – dove resta fino al 1309 –, poi nell’alta valle dell’Arno, tra Toscana ed Emilia, presso i conti Guidi di Romena. Fu probabilmente un suo amico di gioventú, Cino da Pistoia, a introdurlo presso il marchese Moroello Malaspina. Questi era un coetaneo di Dante, aveva militato nella stessa parte politica fino a divenire capo dei guelfi toscani. Non aveva, però, conosciuto l’amarezza dell’esilio, perché aveva potuto contare su solide proprietà rurali, che lo avevano tenuto al riparo dalle conseguenze delle sanguinose faide cittadine. Anche la carriera politica di Moroello era stata assai piú fortunata e duratura di quella di Dante, costellata da incarichi e missioni di comando militare in diverse città. Quella di Dante, invece, presso i Malaspina – come 96
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presso gli altri signori –, per quanto mascherata, diventa una condizione quasi servile. Tuttavia, mentre risiede presso Moroello in Lunigiana, ormai trentanovenne, rinizia a scrivere. Non riprende in mano la poesia giovanile d’amore, ma prova a divenire un filosofo, un sistematico, volgendosi al genere del trattato. Perché decide di abbandonare la poesia lo spiega all’amico Cino da Pistoia, in un sonetto di quegli anni a lui indirizzato. Gli dice di sentirsi ormai lontano dalla poesia, buona solo per cantare l’amore, passione che non si addice piú a un uomo maturo come lui. Lo stesso ripeterà, di lí a poco, in apertura del Convivio: «E se ne la presente opera, la quale è Convivio nominata e vo’ che sia, piú virilmente si trattasse che ne la Vita Nuova, non intendo però a quella in parte alcuna derogare, ma maggiormente giovare per questa quella; veggendo sí come ragionevolmente quella fervida e passionata, questa temperata e virile esser conviene.Chè altro si conviene e dire e operare a una etade che ad altra; perchè certi costumi sono idonei e laudabili ad una etade che sono sconci e biasimevoli ad altra» (Convivio, I, 16-17).
L’ombra di Boezio
Nel suo progetto iniziale, il Convivio doveva comprendere quattordici libri, quattordici commenti che sarebbero serviti da complemento ad altrettante canzoni che Dante aveva già composto e che presentavano argomenti di carattere filosofico-dottrinale. La veste che la sua opera assume è quella di un prosimetro, cioè un’unione tra poesia e prosa, proprio come unione di poesia e prosa era il De consolatione philosophiae di Severino Boezio, il libro che Dante legge e rilegge durante l’esilio. L’ombra di Boezio si allunga infatti su questa sua prima opera: Boezio è presente come modello, come auctoritas, come amico e come maestro di vita, perché, ora, identica è la scintilla che muove Dante e Boezio verso la scrittura: cioè quella di riabilitare la propria reputazione infangata: «Ora, essendo io lontano quasi cinquecento miglia, sono stato, senza essermi potuto difendere, bandito e condannato a morte dal senato per aver favorito sempre e solo l’ordine e desiderato solo la sua salvezza (…). A questi miei mali se ne aggiunge un altro, che gli uomini non stimano le cose secondo il loro valore e merito, ma secondo la loro riuscita, e giudicano buone solo quelle che hanno successo; e accade cosí che la prima cosa che viene tolta a quelli che cadono in miseria è la reputazione. Io non posso non ricordarmi senza provare un dolore acuto e
Nella pagina accanto miniatura raffigurante Dante, nel Purgatorio, che discorre con Nino Visconti e Corrado Malaspina, mentre gli angeli scacciano i serpenti, da un’edizione della Divina Commedia con commenti in latino. Prima metà del XIV sec. Londra, The British Library.
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un enorme fastidio di quali e quante siano state le chiacchiere diffamanti della gente sopra alle mie dolorose vicende, e quanti e diversi e discordanti pareri esse abbiano prodotto. Questo solo dico, che il peso piú grave, che devono sostenere gli sconfitti e i perseguitati dalla sorte, è che le false accuse che vengono loro mosse, vengono credute, come fossero vere, e le pene che gli sono state assegnate vengono cosí ritenute giuste. E io, spogliato di tutti i miei beni e di tutte le mie cariche, perduta ogni reputazione, e anzi macchiato d’indicibile infamia, porto come unica colpa quella di aver ben operato. E mi pare di vedere le empie cordate degli uomini scellerati starsene in gruppo a festeggiare tripudianti, e mi pare di veder sorgere sempre nuovi mistificatori intenti a fabbricare nuove accuse; e mi pare di vedere i buoni starsene nascosti, sbigottiti e muti per paura che avvenga loro ciò che è avvenuto a me; e da questo ne consegue che ogni bandito è in questo modo istigato a fare il male, perché facendo il male sa di non essere punito, ma al contrario premiato. (…) Ma su tutto questo invoco il giudizio tuo e degli uomini saggi; e affinché i nostri posteri, e tutti quelli che verranno dopo di noi possano conoscere il vero ordine e la verità dei fatti, ho voluto scriverli e alla memoria delle parole affidarli» (De consolatione philosophiae, I, 4).
Parlare di sé
Sulla falsariga del De consolatione, anche Dante vuole «sottoporre al giudizio dei posteri» la sua vita tribolata dall’esilio ed è proprio Boezio ad autorizzarlo a infrangere il primo comandamento della retorica medievale: vietato parlare di sé. Nel Convivio, chiarisce infatti che solo in due casi è lecito parlare di sé: quando la diffamazione rischia di metterci in pericolo di vita e quando parlare di sé può portare giovamento agli altri. Dante sente, purtroppo, in questa sua nuova fase di vita, di poter rispettare entrambe le condizioni. Il suo trattato, però, s’arresta al libro quarto, non riesce ad andare oltre. Non verrà mai piú ripreso, mai portato a termine e mai divulgato da Dante. Stessa sorte toccherà a una seconda opera, iniziata in questi stessi anni, un formidabile trattato di linguistica – questa volta in latino – il De vulgari eloquentia, sulla necessità dell’uso della lingua volgare: anch’esso si arresterà al secondo dei quattro libri previsti. È come se il suo fermo proposito di divenire un filosofo manchi di uno stimolo autentico. Dante non ha una capacità di astrazione pura, sistematizzare non è la sua cifra, ha bisogno della poesia per raccontare quegli aspetti della vita 98
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che non possono risolversi con la teoria, quelli concreti, prosaici a volte bassi e volgari. L’opera monca del Convivio però, a dispetto della sua parzialità, presenta una sua straordinaria completezza, perché Dante riesce a dire ciò che piú gli preme, in buona sostanza tre cose: la prima è che si dovrebbe scrivere in una lingua comprensibile a tutti; la seconda è che bisognerebbe tentare di rimuovere tutti gli ostacoli che impediscano a chi voglia conoscere di progredire nel cammino della conoscenza; e la terza è che non esista altro scopo nella vita se non quello di migliorarsi, coltivando le virtú, in particolare la nobiltà d’animo. Quest’ultima è per Dante la madre di tutte le virtú, al cui possesso tutti possono e debbono tendere. Tutti possono esserne forniti, tutti possono esserne sprovvisti, senza distinzione di ceto. Una virtú democratica come tutte le virtú lo sono. Ci si può nascere, ci si può venir educati, ma solo l’esercizio può accrescerla e mantenerla in vita. In questo il Convivio è davvero un trattato filosofico, uno scritto che ha il senso di aiutare nel combattimento interiore che l’esercizio della virtú impone. La nobiltà d’animo non è neppure legata alla cultura, allo studio, alla sapienza, alla conoscenza. Lo studio, la conoscenza possono aiutare a ritrovare ogni giorno le ragioni di quello sforzo, ma non coincidono affatto con la nobiltà d’animo. La nobiltà d’animo è il reagire d’impulso alle necessità altrui, anteponendole alle proprie. Per quanto riguarda gli altri due temi trattati nel Convivio – aiutare nello sforzo della conoscenza e adottare il volgare come lingua scritta –, si tratta, com’è evidente, di due istanze strettamente legate fra loro.
Per donare conoscenza
Tutto il Convivio è una grande metafora del dare, del profondere, del donare, dell’elargire conoscenza al maggior numero possibile di persone. Questo vuol dire «convivio», banchetto, mensa, una tavola traboccante, generosa, festante offerta a tutti: «Ma però che ciascuno uomo a ciascuno uomo naturalmente è amico, e ciascuno amico si duole del difetto di colui ch’elli ama, coloro che a cosí alta mensa sono cibati non sanza misericordia sono inver di quelli che in bestiale pastura veggiono erba e ghiande sen gire mangiando. E acciò che misericordia è madre di beneficio, sempre liberalmente coloro che sanno porgono della loro buona ricchezza alli veri poveri, e sono quasi fonte vivo, della cui acqua si refrigera la naturale sete che di sopra è nominata» (Convivio I, I, 8). L’intero Convivio è incentrato sull’idea evan-
gelica del dare il pane agli affamati e l’acqua agli assetati perché non esistono solo la fame e la sete del corpo: per Dante ce n’è una peggiore che è quella dello spirito. Questo è il «convivio», una «mensa beata» in cui si consuma il cibo degli angeli, che non è il cibo del corpo, ma quello dell’anima. Di norma a questa mensa hanno accesso solo gli uomini sapienti, ma Dante intende farsi intermediario tra loro e la massa sterminata degli affamati, che di quel cibo vorrebbero nutrirsi, ma che non ne hanno i mezzi o ne sono tenuti lontani da impegni familiare e civili. Se il compito a cui si sente chiamato Dante è quello di portare il pane agli affamati è evidente,
allora, che la lingua con cui portarlo è il volgare, perché un dono – dice Dante – ha senso solo quando è utile e gradito a chi lo riceve.
Alla corte di Moroello
Nel 1309, Dante abbandona la Lunigiana perché un provvedimento del Comune di Lucca fa divieto agli esuli di trattenervisi. Lascia dunque la corte di Moroello Malaspina senza che i rapporti con il suo protettore si siano guastati: la loro corrispondenza continuerà a testimoniare la solida stima e la reciproca amicizia. Dante è costretto dunque a cambiare albergo, e trova ospitalità in quella fitta foresta di ca(segue a p. 105)
Particolare degli affreschi che decorano la sala detta «di Dante» nel castello Malaspina di Fosdinovo (Massa Carrara). Secondo la tradizione, qui Dante avrebbe soggiornato quand’era ospite del marchese Moroello Malaspina.
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IL VOLGARE COME DONO
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atteggiamento di Dante verso il volgare si desume certamente dal suo fondamentale trattato di linguistica, il primo in assoluto della lingua italiana, composto negli anni dell’esilio: il De vulgari eloquentia. Tuttavia, risulta ancora piú illuminante lo scambio che sul volgare Dante ebbe, negli ultimi anni della propria vita, con un suo contemporaneo, Giovanni del Virgilio, magister all’Università di Bologna, incaricato, dopo la sua morte, della composizione del suo epitaffio. Giovanni del Virgilio aveva probabilmente conosciuto Dante a Verona e ne era divenuto estimatore. Ne aveva compreso il valore e voleva coinvolgerlo tra gli intellettuali che, tra Padova e Bologna, stavano dando avvio alla nascita di un circolo preumanista. Con questo scopo, Giovanni scrisse una lettera a Dante piena di encomi, nella quale lo esortava ad abbandonare il volgare, e a dedicarsi a un’opera in latino, che sola gli avrebbe attirato l’attenzione e il riconoscimento degli ambienti universitari. Giovanni, dunque, da una parte ammirava Dante, dall’altra provava imbarazzo per la sua formazione poco ortodossa, mai sfociata in un titolo accademico o nella laurea. Brunetto Latini era il piú prestigioso «maestro» che Dante poteva vantare, ma Brunetto stesso non era un uomo di lettere in senso classico, non era un fine cultore della lingua latina e certo non poteva competere con la cultura universitaria dell’epoca. Le cantiche della Commedia che Giovanni del Virgilio aveva letto di Dante – l’Inferno e il Purgatorio – gli apparivano compromesse dall’uso del volgare: lingua ancora non disciplinata, colloquiale e mancante di una sua grammatica. Imbarazzante per la cultura alta dell’epoca era anche lo stile comico-realistico adottato nell’Inferno, che lo rendeva un testo adatto a un pubblico ampio e rozzo. Ma proprio nella capacità di restituire il suono dei nuovi ceti, espressi dalla pulsante società comunale italiana, risiedeva la ragione principale della scelta di Dante di scrivere in volgare: «La piú nobile di queste due lingue [il latino e il volgare] è il volgare, sia perché fu la prima a essere usata dal genere umano, sia perché tutto il mondo ne fruisce (pur nella diversità di pronuncia e di vocabolario che la dividono), sia perché ci è naturale, mentre l’altra è piuttosto artificiale» (De vulgari eloquentia, I, 4). Giovanni del Virgilio lo esortava, nelle sue lettere, ad abbandonare la Commedia, all’epoca non ancora conclusa, e a dedicarsi alla stesura di un grande poema civile in latino, un poema di stampo virgiliano nel quale risuonassero gli echi, le suggestioni, le immagini della grande poesia greco-latina. Scrivere poesia nella lingua e nello stile di Virgilio non aveva, però, alcun senso per Dante. Nel Convivio e nel De vulgari eloquentia lo aveva detto con chiarezza: il fatto che il volgare fosse la lingua delle donne, delle madri, delle nutrici, dei bambini e «di molta altra gente ancora», costituiva il suo principale punto di forza, il motivo per affidarle i messaggi piú urgenti della scienza, della politica, della cultura, dell’etica e della fede: «Non ci consta che nessuno prima di noi abbia affrontato la trattazione dell’eloquenza volgare, e tuttavia, a quanto vediamo, proprio tale eloquenza è assolutamente necessaria a tutti, poiché non solo gli uomini, ma anche le donne e i bambini tendono ad essa» (De vulgari eloquentia, I, I).
Ritratto allegorico di Dante (particolare), dipinto del Bronzino (al secolo, Angiolo Tori). 1532-1533. Firenze, Collezione privata.
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Nella pagina accanto la prima pagina dell’edizione della Divina Commedia illustrata da Sandro Botticelli. 1480-1495. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. A destra pagina miniata con l’incipit della cantica del Paradiso, da un’edizione della Divina Commedia con commento in volgare di Iacopo della Lana. Produzione fiorentina, 1405. Milano, Biblioteca Trivulziana.
Non era un problema di lingua. Dante aveva ampiamente argomentato – nelle Rime, nel Convivio, nel De vulgari e nella Commedia – come la scelta del volgare fosse consequenziale alla missione che egli si attribuiva in quanto scrittore: portare «il pane» agli affamati. E gli «affamati» non erano certo quelli che affollavano le aule dello studium bolognese o di quello parigino, ma quelli che vivevano immersi nelle piazze e nelle cure «familiari e civili» verso cui Giovanni nutriva il massimo disprezzo: «neppure quello che tu segui per la tua ascesa al cielo scrisse mai nella lingua della piazza!», gli aveva rimproverato Giovanni del Virgilio, riferendosi a Virgilio. Un dono, dice Dante, deve essere utile, altrimenti non è tale. Se lo scopo è dunque quello di donare «il pane», quel pane dev’essere commestibile, deve poter essere addentato. Una vocazione che Giovanni del Virgilio non condivideva, perché si era formato in quel mondo della cultura alta che sottilmente ti educa al disprezzo per tutto ciò che è ordinario, che è comune, che appartiene a tutti, che può essere fruito da tutti. Per Giovanni la cultura doveva essere status symbol, qualcosa che funziona solo se è per pochi. Per Dante, però, che proveniva dalla politica, la cultura doveva essere motore di cambiamento, doveva trasformarsi in azione, quell’azione
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– tuona Dante – che disattendevano «i litterati italiani». Conoscere non è un impulso divino o elitario, ma un’inclinazione comune a tutti gli uomini. Dante, di tutti gli uomini, vuole farsi amico, portando la conoscenza fuori dai templi resi inaccessibili dai sacerdoti del sapere, i quali non vogliono né elargirlo, né condividerlo, ma tenerlo in ostaggio per meglio servirsene.
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A sinistra ritratto di Dante, da un’edizione del Convivio stampata a Venezia nel 1521. Collezione privata.
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lanchi che si estende a sud-est di Firenze, nel feudo dei conti Guidi, tra Poppi e Romena. I conti Guidi, ghibellini, erano stati suoi avversari sul campo di battaglia, proprio a pochi chilometri da lí, a Campaldino, ma ormai è acqua passata: dopo l’esilio, Dante si avvicina alle forze ghibelline. Non c’è trasformismo in questo. Prima dell’esilio, Dante aveva lottato per l’emancipazione di Firenze, e quindi dei comuni in genere, sia dalla tutela papale che da quella imperiale. Ora, però, dopo il colpo di Stato dei neri, ha maturato la convinzione che il problema di Firenze – e dell’Italia in genere – coincida con la mancanza di un giudice supremo, una figura alla quale appellarsi, quando le armi dei clan s’impongono e fanno strazio delle istituzioni civili: «Dovunque sorga una controversia, lí deve esistere la possibilità di un giudizio» (Monarchia, I, X). La mancanza di un giudice supremo a cui fare
ricorso in ultima istanza era destinata, secondo Dante, a mantenere quel clima di permanente anarchia, quella sensazione d’impunità diffusa, quella percezione d’insicurezza e di dilagante ingiustizia, che di fatto sembravano vanificare ogni tentativo d’impegno civile.
Miniatura raffigurante Severino Boezio, da un’edizione in lingua francese del De consolatione. XIV sec.
Un eterno braccio di ferro
Nell’Italia del Trecento non era piú tempo, com’era stato negli ultimi decenni sel secolo precedente, di impegnarsi nella politica, perché questa ormai si riduceva sempre piú alla lotta di potere tra poche, aggressive, famiglie, che si appoggiavano ora all’impero, ora al papato, a seconda degli interessi e delle loro faide personali. E per Dante il vero cancro della politica italiana consisteva proprio nel fatto che questi due poteri fossero destinati a restare sempre in bilico, come sospesi in un eterno braccio di ferro. La possibilità per le fazioni comunali di appogDANTE ALIGHIERI
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Miniatura raffigurante l’imperatore Enrico VII che presiede il processo ai ribelli milanesi capeggiati da Guido Della Torre, dal Codex Balduini Trevirensis. 1340 circa. Coblenza, Staatsarchiv.
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giarsi ora all’uno ora all’altro favoriva l’anarchia totale e rendeva impossibile una vita civile regolata da leggi. L’essere guelfo o ghibellino non aveva ormai piú a che fare con una visione del mondo, con un’idea politica, ma solo con gli interessi privati dei clan. In questo panorama desolante, dunque, Dante inizia a invocare la discesa dell’imperatore, affinché ristabilisca la legalità, a cominciare dal suo maggiore fattore di destabilizzazione, Firenze, che non è solo la sua città, ma anche
quella piú sviluppata e popolosa. A centinaia arrivarono a Enrico VII lettere di stima e di solidarietà, di supplica e di ringraziamento, scritte in prevalenza da ghibellini e fuoriusciti.
Per domare Firenze
Due di quelle lettere erano di Dante. Nella prima, Dante pregava il neoeletto imperatore di scendere in Toscana per piegare «la piccola volpe causa dei fetori», cosí da far cessare le «miserie dell’anarchia» (Epistola VII). Nella seconda, sol-
In basso frontespizio di un’edizione del De vulgari eloquentia stampata a Ferrara da Domenico Mamarelli. 1583.
doveva ora vincere corruzione e sopraffazione, ristabilendo legalità e giustizia nella Penisola. Per attribuire un fondamento giuridico-filosofico al suo sogno imperiale, Dante scrisse anche – piú o meno negli stessi mesi della discesa di Enrico VII in Italia – un trattato politico, la Monarchia. È il solo scritto politico che ci ha lasciato ed è l’unico trattato che porta a termine, perché quando si tratta di tornare all’antico fuoco della politica, Dante trova le motivazioni per farsi filosofo e arrivare fino in fondo nella concatenazione logica dei suoi ragionamenti, a cui vuole dare fondamento. La lettura della Monarchia ci fa capire, senza possibilità d’equivoco, che il motivo della nascita in lui di quella nuova fede, la fede monarchica, è la sete di giustizia: «E la giustitia è potentissima solo sotto una monarchia: dunque per una buona dispositione del mondo è necessaria la monarchia. È si deve aggiungere che la giustitia, in sé per sé è una virtú e una norma capace di scacciare il torto» (Monarchia, I, XIII)
lecitava Enrico a far presto, ad abbandonare i sui sforzi per ricondurre nel suo seno i comuni ribelli del Nord Italia e scendere, invece, in Toscana per domare Firenze. In entrambe le missive si delineava, chiara e netta, la sua nuova visione politica, incentrata ormai sul sogno di una monarchia universale, sul modello di quella augustea, una monarchia capace di garantire pax et iustitia. L’impero romano aveva permesso la diffusione ecumenica del cristianesimo, l’impero germanico di Enrico DANTE ALIGHIERI
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Il ristabilimento dell’autorità imperiale è ritenuto legittimo e provvidenziale in quanto capace di travolgere le stesse istituzioni comunali a cui Dante era stato cosí attaccato negli anni della sua giovinezza. Questo inatteso cambio di prospettiva non può non essere letto in relazione all’amara presa di coscienza del fatto che, nei comuni dell’Italia centro-settentrionale, non aveva trionfato la democrazia, bensí la prepotenza di pochi e violenti gruppi di potere. Dante è ormai un uomo assetato di giustizia; che ha pagato un prezzo altissimo a causa della fragilità delle istituzioni e dell’anarchia che regna sovrana in Italia. È quell’impunità, quella debolezza, quella tolleranza – o meglio quella paura – nei confronti dei corrotti e dei violenti, che sta facendo dell’Italia il miglior terreno
d’incubazione per qualcosa di ancora peggiore, non lontano da venire: «Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di provincie, ma bordello! (...) Cerca, misera, intorno da le prode le tue marine, e poi ti guarda in seno, s’alcuna parte in te di pace gode. (...) Vieni a veder Montecchi e Cappelletti, Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura: color già tristi, e questi con sospetti! Vien, crudel, vieni, e vedi la pressura d’i tuoi gentili, e cura lor magagne; e vedrai Santafior com’è oscura! Vieni a veder la tua Roma che piagne vedova e sola, e dí e notte chiama: “Cesare mio, perché non m’accompagne?”». (Purgatorio, VI, 76-78; 85-114) [Ahi serva Italia, albergo di dolore, nave senza guida mentre infuria la tempesta, non signora dei popoli, ma terra di corruzione. (…) Cerca, misera, tutt’intorno alle tue coste, alle tue spiagge, nell’entroterra se riesci a trovare una sola delle tue parti che se ne stia in pace. (…) Vieni (riferito all’imperatore) a vedere i Montecchi e i Cappelletti, i Monaldi e Filippeschi, uomo incurante dei tuoi doveri, gli uni sconfitti e gli altri certi di esserlo presto. Vieni e guarda l’oppressione in cui versano i tuoi nobili, preoccupati dei loro guai, vedrai Santafiora in che stato è ridotta! Vieni a vedere la tua Roma, vedova e sola, che invoca il tuo nome di giorno edi notte: Cesare mio perché non torni?].
L’elezione di Enrico VII
Dai giorni funesti delle sconfitte di Benevento e Tagliacozzo, che avevano segnato l’estinzione della dinastia sveva degli Hohenstaufen, nessuno piú aveva valicato le Alpi per riprendere il controllo dell’eredità italica di Carlo Magno. Carlo era stato il primo ad annettere al suo regno vaste zone dell’Italia settentrionale e centrale, strappandole ai Longobardi. Zone che, per duecento anni, gli imperatori si erano tramandati insieme alle insegne imperiali fino a giungere, col cambio della dinastia eletta, nelle mani degli imperatori germanici. Nel 1308, alla morte di Alberto d’Austria, il trono imperiale 108
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Il castello dei conti Guidi a Poppi (Arezzo). Centro fra i piú importanti del Casentino, il borgo fu, tra l’altro, testimone della battaglia di Campaldino, combattuta l’11 giugno 1289 nella piana sottostante. A sinistra, in basso il busto di Dante Alighieri collocato in prossimità della fortezza.
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era rimasto vacante e Filippo IV il Bello aveva, come al solito in quegli anni, provato a imporre il fratello, Carlo di Valois, rivendicando diritti di successione dinastica. Questa volta, però, a differenza di quando lo aveva imposto come paciere a Firenze, non riuscí a insediarlo sul trono tedesco. Al suo posto fu eletto invece Enrico VII, educato anch’egli presso la corte di Francia, ma, a differenza di Carlo di Valois, stimato dai principi tedeschi. Dopo l’incoronazione del 6 gennaio del 1309, ad Aquisgrana, si aprí per il nuovo imperatore il dilemma sull’opportunità di scendere in Italia, per ricevere la corona anche a Roma. Malgrado gli enormi costi e gli esiti politici troppo spesso 110
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fallimentari, quella discesa restava ancora, nel Trecento, un sogno pervicacemente inseguito dai neoeletti imperatori: era l’idea di saldare le terre germaniche alla classicità italica, erede delle spoglie dell’Impero romano e vera capitale morale del continente europeo. Di prassi, l’alto personale di corte sconsigliava la discesa, troppo spesso foriera di disastri militari, da cui gli imperatori tornavano quasi sempre indeboliti nel prestigio e nell’immagine. Le campagne italiche erano lunghissime e, oltre che dalle morti negli scontri, erano contrassegnate dalle decimazioni dovute alle pestilenze che colpivano gli accampamenti militari. Enrico VII, infine, decise di scendere. A Milano, gli
venne subito chiesto di fare da arbitro tra il guelfo Guido della Torre e il ghibellino Matteo Visconti. Dopo aver pacificato la situazione lombarda, il 6 gennaio del 1311 cinse, a Milano, la corona ferrea del regno d’Italia. Il prosieguo del suo viaggio attraverso la Penisola fu contrassegnato da richieste di analogo arbitraggio tra le parti in lotta e di ripristino di diritti usurpati a danno di questo o quel comune.
Provvedimenti drastici
Ovunque arriva, Enrico impone il rientro degli esiliati e la cancellazione di tutte le sentenze di condanna per motivi politici. Il 23 gennaio del 1311, nomina vicari regi in sostituzione dei podestà, dei capitani del popolo e dei rettori. Ma i comuni si ribellano ed Enrico è costretto a ordinare la messa al bando dalle città degli stessi che aveva obbligato a firmare la pace. A Milano, manda in esilio Guido della Torre e Matteo Visconti. In questo frangente, Dante spera che anche a Firenze Enrico imponga il rientro dei fuoriusciti, alla cui schiera appartiene. Soprattutto, confida nella cancellazione dei suoi reati, a cui è seguita la condanna. Il fatto stesso di chiamarli «reati politici» e non «baratteria» deve significare molto per Dante, il quale, fino all’ultimo, rifiuta l’amnistia. L’amnistia offerta da Firenze, infatti, è cosa diversa dalla «cancellazione». La prima è perdono per reati di cui ci si riconosce colpevoli, per effetto della seconda, invece, le accuse vengono appunto cancellate. Con questo stato d’animo Dante scrive a Enrico, sollecitandolo a giungere presto a Firenze. Quella lettera alimenta a Firenze nuovo astio verso Dante, che infatti viene escluso persino dalla nuova amnistia, che di lí a poco sarà concessa. Enrico continua la sua discesa, ma le perdite dell’esercito diventano sempre piú significative. Il 23 aprile del 1312, entra a Roma, dove le truppe angioine di Roberto d’Angiò gli oppongono una debole resistenza. Il 29 giugno viene incoronato imperatore. Si affretta allora a fare ciò che aveva promesso di non fare: attacca il papato con le costituzioni pisane del 1313, in cui nega la validità della Donazione di Costantino (un documento, fabbricato probabilmente tra il VII e il IX secolo, diretto nel 313 da Costantino a papa Silvestro, in cui sono espressi l’ordine delle di-
Nella pagina accanto miniatura raffigurante le esequie dell’imperatore Enrico VII a Pisa, dall’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.
gnità ecclesiastiche e la definizione dei beni temporali della Chiesa di Roma, n.d.r.), poi definisce sanzioni pesanti per tutti i ribelli dell’impero. Mentre è a Siena, in attesa di portare l’assedio a Firenze, contrae la malaria e muore. All’indomani della morte di Enrico VII, dopo aver visto sfumare l’ennesima speranza che a Firenze si potessero ristabilire pace e giustizia, Dante e Dino Compagni iniziano a scrivere. Dante si trova ancora nel Casentino, da dove – nel 1311 – ha firmato le sue lettere per Enrico VII. L’altro, invece, è ancora a Firenze, dove ha ottenuto di rientrare poco dopo la cacciata, facendo valere una legge – una sorta di immunità parlamentare – che impediva l’esilio dei priori in carica nei dodici mesi precedenti l’instaurazione di un nuovo governo. Proprio come Vieri de’ Cerchi, Dino ha sperimentato su di sé quel lento avvelenamento che colpisce inesorabilmente la vita degli sconfitti, quelli che hanno avuto «il privilegio» di restare in patria come ospiti indesiderati. A Dante – è vero – è stata tolta, e per sempre, la vista del battistero, la familiarità col suo sestiere, l’umidità del Lungarno, ma Dino ha dovuto sopportare giornalmente la retorica dei vincitori. Indipendentemente da chi sia il piú fortunato tra i due, a noi preme qui rilevare che, intorno al 1311 – senza che l’uno sapesse nulla dell’altro e senza che probabilmente si fossero neppure piú incontrati –, Dante e Dino iniziarono a raccontare le vicende dolorose occorse un decennio prima. Dante si serví del mezzo che gli era piú congeniale, la poesia, mentre Dino raccontò gli eventi in forma di cronaca.
Dalla fondazione della città
In alto fiorino d’oro con il giglio fiorentino. 1300. Firenze, Museo Nazionale del Bargello.
Sul modello degli annalisti latini, Dino volle iniziare «ab urbe condita», dalla fondazione di Firenze, forse perché dovette ritenere che un fatto, isolato dal suo prima e dal suo dopo, perda sempre parte della sua drammaticità, mentre a vederlo dispiegato all’interno di una parabola discendente risulta piú incisivo. Fin dall’inizio, però, appare evidente come il suo interesse precipuo consista nel raccontare il colpo di Stato. Dei tre libri che compongono la sua Cronica, infatti, solo il primo si rivolge al passato, mentre gli ultimi due non parlano che degli eventi di cui è stato testimone diretto. Dino non è uno storico puro né un cronista di DANTE ALIGHIERI
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professione; non è animato da alcuna preoccupazione di tipo annalistico; non è un Tito Livio, lo storico latino che volle raccogliere fonti e documenti per far sí che la storia di Roma fosse salvata fino all’ultimo strato, a dispetto del continuo sovrapporsi di quelli piú recenti. Dino scrive con il solo intento di pervenire agli strati che a lui interessano, i suoi. Giunto alla meta, il suo racconto smette quasi di essere cronaca e assume piuttosto il tono di un diario personale, di una memoria privata, in cui abbondano giudizi e recriminazioni, bilanci e accuse. A questo punto della narrazione, per Dino non è piú tanto importante registrare i fatti quanto indagare le cause, che al dispiegamento di quei fatti hanno portato. Dino ricerca le cause, vuole assegnare i torti, intende indagare le ragioni di quella catastrofe. L’atteggiamento di Dino è diverso da quello di Dante. Il primo, anche con la penna in mano, resta comunque un politico che tenta un’analisi; la stessa prosa a cui – a differenza di Dante – rimane fedele, dimostra questa sua vocazione descrittiva e analitica. Dante, invece, dopo il tramonto del sogno imperiale, non crede piú alla politica: per lui, ormai, il problema s’è fatto esistenziale. Quello che scorge dietro alla notte di quel 5 novembre non è piú una cattiva stagione politica, ma una malattia morale: il dilagare dei vizi, il diffondersi dell’egoismo sociale, il radicarsi di un’endemica insoddisfazione che ha messo i Fiorentini gli uni contro gli altri.
Sia maledetto il fiorino!
L’invidia ha dilaniato Firenze, l’ha tagliata in due, l’ha divisa tra invidiati e invidiosi; provocata dall’esponenziale crescita economica, l’invidia, corruttrice degli animi, invece di favorire un clima piú disteso, ha seminato rancore e umiliazione. Un astio, un’insoddisfazione diffusi che non permettono piú di stare serenamente al mondo, di avere misura, di accontentarsi del proprio ruolo, della propria funzione, di realizzare la propria natura; insofferenti di case modeste, di abiti sobri, di abitudini semplici, i cittadini della Firenze in vertiginosa ascesa si sono trasformati in bulimici del lusso e della fama; e a dare il cattivo esempio non sono piú ormai i soli ceti emergenti, la «gente nuova» che si è inurbata dal contado solo per far danaro, ma anche le famiglie di antica nobiltà da cui un tempo si esigevano valore e virtú, ma che invece ora, peggio degli altri, si affannano nella corsa all’accaparramento quotidiano. È «il maledetto fiorino d’oro» (Paradiso, IX, 130) ad aver prodotto questo disastro; è lui il demo112
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ne potente, il grande corruttore d’anime. Rispetto alla sua azione nefasta, persino la scelleratezza di un Corso Donati sembra passare in secondo piano nella Commedia, dove l’invettiva è, prima di tutto e soprattutto, rivolta all’imbarbarimento di un arricchimento facile e fine a se stesso. «Maledetto» il fiorino d’oro, dunque. Il fiorino che ha avuto il potere di trasformare quella piccola città di provincia, un tempo mite e laboriosa, in una nuova Roma, cinica e vorace, dove la gente è in perenne competizione col vicino, sempre alla ricerca di una carica piú alta, di un palazzo piú sfarzoso, di uno stemma comitale piú prestigioso. Se a Firenze sono ormai tutti come impazziti, devoti solo al sogno della ricchezza e del potere, per Dante non è piú solo colpa della politica, ma di una piú endemica, generalizzata mancanza di etica e virtú:
«O insensata cura de’ mortali, quanto son difettivi silogismi quei che ti fanno in basso batter l’ali! Chi dietro a iura e chi ad amforismi sen giva, e chi seguendo sacerdozio, e chi regnar per forza o per sofismi, e chi rubare e chi civil negozio, chi nel diletto de la carne involto s’affaticava e chi si dava a l’ozio» (Paradiso, XI, 1-9) [Oh insensata cura dei mortali, quanto sono difettosi i ragionamenti che cosí tanto ti fanno volare in basso! Chi se ne andava dietro al diritto e chi dietro alla medicina, chi si votava al sacerdozio, chi a governare con la violenza, chi con la menzogna, chi a rubare, chi ad en-
trare in politica, e chi si affaticava travolto nelle passioni terrene e chi si dava all’ozio.] Solo fino a qualche decennio prima, Firenze era una città di pecorai, priva di grandi prospettive di sviluppo, lontana com’era dalle grandi vie di comunicazione e assediata, per giunta, dall’Appennino. Poi la geniale capacità, la sorprendente ingegnosità dei suoi abitanti di iniziare a muovere il danaro, di saperlo spostare, di saperlo moltiplicare l’aveva fatta ascendere al grado di piú ricca città d’Europa, ma questo aveva scatenato appetiti, speculazioni, corruzione. Aveva attirato in città i peggiori falsari e procacciatori di affari.
Miniatura raffigurante Dante e Beatrice al cospetto del trovatore e religioso provenzale Folchetto di Marsiglia, che inveisce contro la corruzione imperante nella città di Firenze, da un’edizione della Divina Commedia illustrata dal pittore senese Giovanni di Paolo. 1450 circa. Londra, The British Library.
L’amnistia
Nel 1315, il comune fiorentino concede un’altra amnistia, che, l’abbiamo detto, consisteva nel formale riconoscimento della colpa da parte DANTE ALIGHIERI
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dell’accusato; seguiva una processione – da fare a piedi – culminante nel battistero di S. Giovanni, dove, dopo l’oblazione, l’amnistiato riceveva uno speciale cappello, il pileo. Questo era il cerimoniale di riammissione per gli sbanditi, ricalcato su un rito assai piú antico, di età classica, in cui il condottiero vittorioso si faceva precedere, durante il suo trionfo, dai prigionieri liberati. E questi, come segno d’affrancamento, indossavano appunto il pileum libertatis. Nell’uso bassomedievale, però, piú che celebrare «la libertà», il rito acquisiva il senso di un autodafé. Al primitivo cerimoniale di matrice romana s’erano infatti aggiunte l’oblazione e l’aspersione con acqua santa. Lo stesso luogo scelto per la cerimonia, il battistero, doveva correggere il segno del primitivo rito pagano ed era assai eloquente circa il significato simbolico che a Firenze gli si voleva attribuire: si trattava di una mondatura dal peccato.
Le condizioni per il perdono
Nell’accettare l’oblazione, come s’è detto, Dante avrebbe riconosciuto di aver sbagliato, di aver meritato l’esilio, la requisizione dei beni, i processi farsa, ai quali non si era presentato. Con quell’amnistia, il comune di Firenze «lo perdonava», lo riammetteva nel suo seno, al prezzo, però, che egli si facesse reo confesso. Con quel rito Firenze non azzerava i conti con i fuoriusciti, ma li chiudeva a modo suo. Con quel provvedimento Firenze emanava la sua sentenza definitiva: Dante era colpevole di tutte le colpe ascrittegli, appropriazione indebita, peculato, corruzione, tradimento. Dante declinò l’invito e le sue motivazioni si trovano espresse con chiarezza nella lettera a un amico: «Dalla vostra lettera, che ho accolto con la dovuta reverenza e con affetto, ho appreso con grato animo e studio minuzioso quanto vi stia a cuore ed in mente il mio rimpatrio: per la qual cosa di tanto cresce la mia riconoscenza verso di voi, quanto piú di rado capita che gli esuli possano trovare amici. Anche se poi la risposta al vostro scritto non sarà quale forse la vorrebbe la viltà di certe persone, affettuosamente vi prego che, prima di giudicarla, l’esaminiate con la vostra saggezza. Ecco, pertanto, quello che, con lettere di voi e di mio nipote e di altri amici, mi è comunicato a proposito dell’ordinanza appena fatta a Firenze sull’assoluzione degli sbanditi: potrei essere assolto e subito ritornare, se accettassi di offrire una certa quantità di danaro e sopportassi la vergogna della pubblica oblazione. Nella quale assoluzione, o Padre, due cose sono ridicole e mal consigliate: mal consigliate, dico da parte di quelli che apertamente le dichiara114
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rono, perché nella vostra lettera, ben piú discreta e saggia, nulla di ciò si contiene. È questa dunque la revoca graziosa con la quale Dante Alighieri è richiamato in patria, dopo aver sopportato l’esilio per quasi tre lustri? Questo ha meritato la mia innocenza a tutti manifesta? Questo hanno meritato il sudore e il continuo impegno nello studio? Non si addice a un uomo familiare della filosofia una cosí temeraria bassezza d’animo da sopportare di essere offerto, quasi sconfitto, come un Ciolo qualunque e altri simili infami. Non si addice ad un uomo che predica la giustizia, dopo aver sopportato l’ingiustizia, pagare col proprio danaro, come fossero benemeriti proprio coloro che quell’ingiustizia hanno commesso. Non è questa la via del ritorno in patria, padre mio; ma se ne troviate prima voi, e poi gli altri, un’altra, che non offenda l’onore e il nome di Dante, quella accetterò e non certo con passi lenti. Poiché se per nessun’altra via si rientra a Firenze, mai ci rientrerò. Non vedrò forse la luce del sole e degli astri lo stesso? Non potrò forse meditare in qualunque luogo sotto il cielo, sulle dolcissime verità, senza essere reso senza gloria e con ignominia al popolo fiorentino e alla città?» (all’amico fiorentino, Epistola XII). Basterebbero queste sue parole, scritte a caldo, subito dopo l’amnistia, alla fine del maggio del 1315, per capire come si stesse chiudendo la parabola del suo esilio e per discolparlo da ogni accusa. Se non a lui, a chi dobbiamo credere? È una lettera scritta intorno alla fine del maggio del 1315, dopo che a Firenze era stata concessa una nuova amnistia. A noi che leggiamo le sue scelte a distanza di settecento anni, purtroppo non appare cosí lampante che una possibilità vera di rientro non gli sia mai stata offerta. Ci capita spesso di pensare che se Dante avesse davvero voluto... se fosse stato meno orgoglioso... se fosse stato meno puntiglioso… meno superbo, meno sdegnoso, piú conciliante, piú accomodante, piú ragionevole... a Firenze sarebbe potuto rientrare. Sarebbe rientrato una delle volte in cui il comune aveva reso questo passo formalmente possibile, ma moralmente impraticabile. Ci capita di pensare che il mancato rientro fu in parte «colpa» (e non «merito»!) suo. Ma lo stesso Dante sapeva di correre questo rischio: «la piaga de la fortuna, che suole ingiustamente al piagato molte volte essere imputata» (Convivio, I, III, 4). Dopo il fallimento dell’impresa di Enrico VII tramontava definitivamente il sogno di una soluzione politica – ben diversa dall’amnistia – alla sua condanna. Perduta la speranza del rien-
Nella pagina accanto la distribuzione del cibo in tempo di carestia, minatura del Maestro del Biadaiolo. XIV sec., Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana. Nella prima metà del Trecento, l’economia delle città toscane entrò in crisi, causando fallimenti, disoccupazione e aumento dei prezzi. La situazione fu aggravata da un «ciclo infernale» di catastrofi naturali, carestie e poi dalla peste del 1348.
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tro, restare in Toscana sarebbe stato ormai inutilmente pericoloso. E infatti Dante si mosse, lasciò il Casentino e si stabilí in Veneto, tra il 1316 e il 1317, alla corte degli Scaligeri. Il giovane Cangrande della Scala, che gli aveva offerto ospitalità, era il tipico signore dell’epoca: un uomo che si avviava a divenire capo di un vasto Stato regionale. Cangrande era un militare di valore, dotato di senso politico e di strategia, liberale e generoso, estimatore dell’arte e della poesia; e Verona era la tipica città del Nord, che guardava al limitrofo mondo germanico da cui, orgogliosamente, accettava incarichi di vicaría imperiale. Qui le autonomie comunali vennero stroncate prima che nel Centro Italia, e le signorie nacquero assai presto in forma illegale e violenta. Qui, a differenza che nei rudi feudi dell’Appennino in cui Dante aveva fino ad allora soggiornato, prese piú velocemente forma quel clima di corte malsano, che in Toscana si affermerà pienamente solo con i Medici. Un clima di diffidenza, di congiura, di delazione, di tradimento; un ambiente d’intrighi, di figli illegittimi, di uomini di potere senza scrupoli, che non esitavano a commettere abusi e sopraffazioni.
Un’affinità sorprendente
Nel Purgatorio, scritto quando era ancora nel Casentino, Dante non aveva usato parole lusinghiere sul padre di Cangrande, Alberto della Scala, e appare quindi strano che accettasse poi di stabilirsi presso gli Scaligeri. Sorprende anche che Cangrande non fosse risentito per il fatto che Dante aveva cosí maltrattato la memoria del padre: probabilmente Dante non gli aveva dato in lettura il Purgatorio, che ancora non circolava. In ogni caso, mentre era a Verona, Dante gli dedicò il primo canto – o forse piú d’uno – del Paradiso, in segno di riconoscenza per i benefici ricevuti. Non è chiaro in che modo Dante potesse sentirsi affine e amico di un uomo che, proprio come i moderni signori del Trecento, usava mezzi spicci e discutibili per governare. In ogni caso, il suo soggiorno veronese non fu poi cosí lungo, nulla di paragonabile a quello casentinese: durò meno di due anni. Certo, la decisione di lasciare Verona potrebbe anche non essere stata dettata da motivi imputabili a Cangrande. Forse Dante maturò velocemente insofferenza verso quel tipo di ambiente di corte, ostile e complottardo. La principesca corte di Verona ne era già contaminata: lo dimostrano le tracce di veleno scoperte da una recente ricognizione nell’intestino di Cangrande, il cui corpo, per un 116
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Il monumento equestre di Cangrande della Scala, da alcuni attribuito a Giovanni di Rigino. Prima metà del XIV sec. Verona, Museo di Castelvecchio. Dante si stabilí alla corte del signore scaligero fra il 1316 e il 1317 e a Verona lavorò alla redazione delle cantiche del Purgatorio e del Paradiso. caso fortuito, ha conosciuto un inusuale e straordinario processo di mummificazione. Nonostante la freddezza che gli dimostrava la cultura accademica, a motivo della sua sperimentazione nella lingua volgare, Dante cominciava a essere conosciuto anche fuori da Firenze, perché aveva iniziato a far circolare qualcosa delle prime due cantiche della Commedia, anche nel tentativo di allacciare contatti con possibili mecenati, disposti ad assumersi l’onere del suo mantenimento, che restò un problema assillante per tutto il suo esilio.
L’ultimo domicilio
Accadde cosí che il podestà di Ravenna, Guido Novello, che aveva allora sui quarant’anni – dieci meno di Dante – e che forse lo aveva già incontrato fuori della sua città, gli propose di stabilirsi nella città romagnola. I nobili del Trecento cominciavano a dedicarsi con passione all’arte e alla poesia, come sarebbe divenuto prassi per i signori del Rinascimento. Guido Novello era poeta, e per di piú stilnovista, era cioè un «alunno» della corrente letteraria fondata da Dante. Nessuno stupore, quindi, se Dante, all’età di 54 anni, decise di nuovo di spostarsi, lasciare Verona e prendere dimora a Ravenna. Guido, inoltre, aveva un motivo personale per apprezzare Dante: era il nipote di Francesca da Rimini – la sfortunata protagonista del V canto dell’Inferno –, la cui memoria era allora ancora viva tra i suoi contemporanei per il fatto di sangue causato dalla sua infedeltà coniugale. Sulla famiglia di Francesca Da Polenta (vero nome di Francesca da Rimini, n.d.r.), ben piú che su quella del suo amante e cognato Paolo Malatesta era ricaduto il peso maggiore dello scandalo, a causa della tendenza tipica dell’epoca a condannare le donne ben piú che gli uomini per le loro passioni. Per i Da Polenta, dunque, quel fatto di cronaca nera doveva essere un macigno pesante da sopportare e per questa ragione Guido dovette, piú degli altri, apprezzare il canto dell’Inferno in cui si operava l’indubbia riabilitazione della zia. Nell’aldilà dantesco, infatti, Francesca trovava posto nell’Inferno solo perché a condannarla per il suo peccato erano i suoi contempora(segue a p. 123)
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ANDARE IN GIRO, PARLANDO A MOLTE DONNE... All’epoca di Dante, le donne sono solo raramente istruite nella lingua latina, che per essere davvero fruita, come il poeta ricorda nel Convivio, ha bisogno di una lunghissima pratica e di un tipo di frequentazione che ormai gli uomini e le donne del suo tempo non hanno piú. In particolare, Dante vuole parlare alle donne e, in questo suo intento, non c’è alcuna «posa cortese», nessun omaggio cavalleresco, nessuna strategia, magari di conquista. Nel suo scegliere le donne come interlocutrici privilegiate c’è l’urgenza di gravarle di un compito pesantissimo, quello di cambiare la società dalle sua fondamenta. All’inizio del suo percorso di poeta, Dante s’inscrive nella tradizione letteraria in volgare, che partendo dalla poesia cortese, e passando per la Sicilia, arriva a Bologna. Inizialmente, è il semplice fatto di aderire a questa tradizione a rendere normale l’uso del volgare: «E lo primo che cominciò a dire nella lingua volgare, si mosse però che volle fare intendere le sue parole a donna, a la quale era malagevole d’intendere i versi latini» (Vita nova, XXV, 6). Da subito, quindi, Dante considera innaturale, e anche un po’ inutile, parlare unicamente al pubblico maschile, perché il contenuto stesso della sua poesia rivela tutta l’insensatezza di «ragionar d’amore» con i soli uomini, visto che per Dante – eterosessuale – l’amore si divide con le donne. Tuttavia, in Dante il problema è ancora piú complesso. Le donne e l’amore in lui assumono toni drammatici e non idilliaci. La necessità di rivolgersi a loro non è finalizzata a suscitare la loro semplice attenzione: per Dante, le donne sono per natura piú sensibili e profonde, e quindi piú capaci nel recepire il senso profondo della sua poesia, che è poesia militante, di rottura, di proposta di cambiamento, nella direzione di uno «sbrutamento» generale della società: Donne ch’avete intelletto d’amore io vo’ con voi de la mia donna dire, (...) donne e donzelle amorose, con vui, ché non è cosa da parlarne altrui. (...) Canzone io so tu girai parlando a donne assai (...) non restare ove sia gente villana, ingegnati, se puoi, d’esser palese solo con donne o con uomo cortese» (Vita nova, XIX, Donne ch’avete intelletto d’amore, 1-2; 13-14; 57-58; 65-67 [Donne che capite che cosa è l’amore, io voglio parlare con voi della mia donna. (…) Donne e ragazze innamorate, con voi voglio parlare poiché non è cosa di cui parlare con altri. (…) Canzone io so che tu te
Beatrice nega il saluto a Dante, acquerello e penna di Dante Gabriel Rossetti. 1855. Oxford, Ashmolean Museum. La scena si riferisce a un episodio narrato nella Vita nova, quello in cui Dante incontrò Beatrice e altre giovani donne a una festa nuziale e le ragazze avrebbero riso del suo imbarazzo nel rivedere l’amatissima figlia di Folco Portinari.
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ne andrai in giro parlando a molte donne (…) non ti fermare tra gente rozza, ma solo tra donne o con un uomo cortese]. La sensibilità, secondo Dante, è caratteristica precipua dell’animo femminile, ed è invece ormai – cioè ai suoi tempi – divenuta rara negli uomini. Per questa ragione dà mandato alla sua «canzone», alla sua poesia, d’intrattenersi solo con le donne, senza distinzione alcuna. Se vorrà poi presentarsi anche davanti agli uomini, dovrà farlo, scegliendo con cura solo quelli cortesi. Le donne, secondo Dante, conoscono di quale potenza trasmutatrice sia capace l’amore. Gli uomini, invece, sono nella sua visione ancora troppo ferini. La superiorità psicologica e morale riconosciuta da Dante alle donne le grava, tuttavia, di una pesante missione: l’innalzamento e l’incivilimento dell’intera società. Per Dante, infatti, non sono i filosofi, i teologi, i santi, i poeti a educare gli uomini alla virtú, a insegnare loro la via morale; è il banale desiderio di essere guardati, ammirati, approvati, tenuti in considerazione da chi suscita la loro attrazione, in genere le donne. Le donne, allora, possono e debbono influenzarne la condotta, esigendo da loro la pratica costante della virtú. Cercando l’amato, l’amante si muove e tenta di migliorarsi nella speranza di essere ricambiato. Le donne, nell’universo dantesco, sono ciò che, nella Metafisica di Aristotele, è «Dio motore immobile», che fa muovere i cieli intorno a sé, pur restando fermo. Proprio come Dio, l’amata è immobile, ma, suscitando l’amore del suo amante, lo fa muovere verso di lei. Se le donne rispondessero solo all’amore di uomini degni, rifiutandosi a quelli moralmente indegni, costringerebbero gli uomini tutti all’esercizio della virtú, pena il non essere mai presi in considerazione. Dante non era arrivato da solo a questa nuova lettura dei rapporti tra uomo e donna: lo avevano preceduto i poeti cortesi, i siciliani e il bolognese Guido Guinizzelli. Ma i trovatori, i siciliani e lo stesso Guinizzelli stanno a Dante come la Vita Nova sta alla Commedia: nulla di paragonabile! Ciò che Dante seppe ricavare a partire dalle premesse della poesia provenzale e bolognese è incommensurabilmente superiore. I siciliani e i bolognesi parlavano ancora, in qualche caso, di amore in termini di forza, di punizione, a volte persino di ricatto. Guinizzelli intuisce il problema, ma con lui la donna mantiene un ruolo passivo – fondamentale, ma pur sempre passivo – di ipostasi, di «angelo» che innalza, che conduce a Dio, malgrado sé. In Guinizzelli resta l’uomo ad aprire la porta all’amore. Egli resta impigliato nell’ortodossia tomista, nel clima generale della scolastica che impera a Bologna, perché per lui il processo d’innalzamento, di cui certamente la donna è scaturigine, è destinato a trovare compimento nelle sfere celesti. Per Dante, invece, quell’innalzamento si compie sulla Terra: il potere delle donne era un potere concreto, quello d’imporre appunto nuovi codici di comportamento, che soli potevano interrompere la catena di odio e di corruzione che stava avvelenando Firenze e l’Italia.
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Miniatura raffigurante l’incontro tra Dante e Beatrice, da un’edizione della Divina Commedia. XIV sec. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana.
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La morte di Dante, olio su tela di Eugenio Moretti Larese. 1852-1853. Treviso, Museo Civico. L’artista ambienta la scena in una camera da letto ombreggiata con un paravento: Dante, assistito da un frate francescano, sta parlando ad alcuni astanti, mentre un uomo vestito con un mantello rosso, bianco e verde gli sistema il cuscino dietro la schiena. nei, non certo Dante, che ha per lei parole piene di solidarietà e affetto. Dante la presenta come una donna d’animo nobile, che finisce vittima della potenza d’amore solo a motivo della sua finezza psicologica. «Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende» (Inferno, V,100) è la legge che regna nel canto di Francesca, ed è la legge che Dante aveva già espresso nella Vita Nova: «Amor e il cor gentile sono una cosa». Una legge che veniva da piú lontano, da quel «Al cor gentile rempaira sempre amore», che era stato il manifesto poetico di Guido Guinizzelli, padre dello stil novo.
Le attenzioni di Guido
Guido Novello seppe offrire a Dante amicizia e protezione. Agí mostrando di aver considerato con attenzione la sua situazione e per sollevarlo dal bisogno. Lo aiutò, in modo tale da garantirgli autonomia e libertà: non lo invitò a risiedere a corte, come avevano fatto i suoi precedenti mecenati, non gli offrí un impiego da segretario, ma risolse una volta e per sempre il problema del suo sostentamento economico, intestando al primogenito dei suoi figli, Pietro – a Dante non sarebbe stato possibile a motivo delle condanne – il rettorato di due chiese ravennati, S. Maria in Zenzanigola e S. Simone de muro, le cui rendite avrebbero garantito, a partire da quel momento, una vita dignitosa e autonoma a tutta la famiglia. Fu cosí che la famiglia Alighieri si riuní a Ravenna, dove, sempre per interessamento di Guido, li raggiunse anche Antonia, prendendo dimora, poiché già votata alla vita religiosa, nel monastero di S. Stefano. La famiglia evidentemente aspettava da tempo quest’occasione, perché Antonia non aveva altro motivo di lasciare la Toscana, in quanto su di lei, donna, non pesavano le condanne ricadute sui fratelli. L’esilio dunque non aveva spezzato l’unità degli Alighieri e Guido fece in modo che quella famiglia sfortunata smettesse di mangiare il pane altrui: «Tu proverai sí come sa si sale lo pane altrui, e come è duro calle lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale» (Paradiso, XVII, 58-60)
[Tu proverai quanto sia amaro mangiare il pane altrui e quanto sia dura la strada di chi salga e scenda le scale delle dimore altrui]. Quelli trascorsi a Ravenna – probabilmente gli ultimi due o tre della sua vita – dovettero essere gli anni piú sereni del suo esilio. Anni in cui il suo ultimo mecenate seppe garantirgli aiuto e protezione, senza fargli avvertire l’ombra pesante del suo patronato. Ravenna, inoltre, a differenza di Verona, era una piccola città, di appena settemila abitanti, un centro di antichissima tradizione e prestigio. A Ravenna Dante poté mettere in piedi un circolo di poeti, discepoli del volgare, un po’ come era accaduto a Firenze ai tempi dello stil novo. Del circolo volgare ravennate fece parte lo stesso Guido Novello, il quale, col suo ingresso nella confraternita letteraria, contribuí ad accrescere il rispetto verso l’esule fiorentino, da poco giunto in città. Ma se Ravenna era una città mite, altrettanto non lo era la vicina Venezia, con cui aveva la sfortuna di confinare. Venezia ambiva al monopolio del commercio del sale, che dal porto di Ravenna transitava fino alla laguna, rendendo estremamente tesi i rapporti tra le due città e provocando il continuo sconfinamento dei limiti giurisdizionali dell’una e dell’altra.
La missione fatale
In questo contesto prese forma l’idea di un’ambasceria di Dante nella città lagunare, per conto di Guido Novello. Attraverso l’ambasceria Guido voleva forse scongiurare una guerra. In ogni caso, in quella missione Dante dovette spendere le sue energie migliori, per contraccambiare la generosità di Guido. Poteva inoltre contare sulla sua esperienza in diplomazia, incamerata fin dai tempi in cui, ancora fiorentino, veniva incaricato di ambascerie per conto del comune. Prese cosí la via che costeggia la laguna e raggiunse la città del doge. Quando – a missione conclusa – prese la via del ritorno, si era verso la fine dell’estate, periodo ancora pericoloso per i contagi: contrasse infatti la malaria e, poco piú tardi, al rientro a Ravenna morí all’età di cinquantasei anni. Dopo vent’anni dalla sua dipartita da Firenze, Dante era vittima della stessa malattia che aveva stroncato la vita del suo amico Guido, la stessa che aveva anche impedito a Enrico VII di raggiungere Firenze e imporre il rientro dei fuoriusciti. Il calendario liturgico festeggiava allora, come ora, l’Esaltazione della Croce. Era il 14 settembre del 1321. DANTE ALIGHIERI
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L’EREDITÀ DI FRANCESCO
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l legame tra Dante e Francesco d’Assisi non solo merita d’essere approfondito, ma rivendicato. L’influenza dell’Assisiate sul poeta aiuta a capire per quali valori militasse Dante. È un atto che gli dobbiamo per riscattarlo dalla terribile accusa di «baratteria» di cui fu oggetto in vita e che gli costò la condanna all’esilio. Dobbiamo intendere bene, quindi, il senso della «professione di fede» che Dante ha posto in apertura al canto XI del Paradiso, nel quale rende omaggio a san Francesco. Nell’esordio del canto Dante non parla, come fa di solito, in veste di personaggio – quello fittizio che sta attraversando l’oltretomba –, ma con la sua propria voce di poeta per condannare i «falsi ragionamenti» che ci spingono a cercare felicità nella carriera, negli onori, nella vanità e nella ricchezza. Tutte cose, queste – ammonisce Dante –, che ci fanno solo volare bassi, ci fanno «battere in basso le ali» per citare l’espressione che sceglie di utilizzare. Qui c’è tutto il Francesco del rifiuto degli onori, delle alte cariche, della vanità personale e del desiderio di profitto. Il secolo in cui nacque Dante è lo stesso in cui Francesco d’Assisi, grazie a quella che gli storici hanno definito una «canonizzazione lampo», diventa santo. E nel Medioevo ciò voleva dire che, ogni anno, nel giorno anniversario della sua morte, a messa se ne leggeva la biografia. Dunque Dante, come chiunque altro nel perimetro dell’Europa cristiana, conobbe Francesco andando a messa.
Miniatura raffigurante Dante e Beatrice che volano nel cielo del Sole, in cui si trova san Tommaso d’Aquino, che presenta san Francesco e san Domenico, fondatori dei due grandi Ordini mendicanti del Medioevo, da un’edizione della Divina Commedia illustrata da Giovanni di Paolo. 1450 circa. Londra, The British Library.
Lo incontra anche per un altro motivo: un suo coetaneo, Giotto, nato nel contado fiorentino, ottiene dal papa, negli anni in cui Dante è ventenne e vive ancora a Firenze, un incarico prestigiosissimo: illustrare la vita del santo di Assisi nell’epicentro stesso della sua storia. In quegli anni Dante dovette perciò imbattersi spesso nelle notizie che giungevano dal cantiere aperto ad Assisi. Infine, Dante dovette incontrare il pensiero di Francesco nella chiesa francescana di Santa Croce, sempre a Firenze, durante un famoso ciclo di lezioni tenute dal frate francescano piú militante dell’epoca: Pierre de Jean Olivi. Da teologo, l’Olivi aveva indagato la natura del male, del peccato e dei demoni. Da francescano, aveva difeso sopra ogni altra cosa il valore della povertà. Nel presentare Francesco, nell’XI canto del Paradiso, Dante prende posizione in merito alla questione della povertà. Dopo la morte di Francesco il suo Ordine aveva conosciuto lunghe tribolazioni e spaccature interne, tra i frati che difendevano la povertà a oltranza e quelli che spingevano per ammorbidire il dettato della Regola. Dante si esprime, insistendo sul matrimonio tra Francesco e «Madonna Povertà», una donna rimasta vedova per «millecent’anni e piú» (v. 65) del suo primo marito, Cristo. E proprio da Pierre de Jean Olivi Dante riprende l’immagine della «vedova di Cristo», risposata in seconde nozze da Francesco. L’affinità tra Dante e Francesco si coglie anche nella scelta
che entrambi fanno di ricorrere all’uso del volgare. Scrivere in volgare equivaleva a essere considerati persone di scarsa cultura. Quella lingua era stata utilizzata, ma soprattutto per parlare d’amore alle donne, che raramente conoscevano il latino. Ma Francesco e Dante scelgono di usare il volgare per parlare di tutto e a tutti. Attraverso il Cantico di frate Sole, Francesco vuole fornire le parole a chiunque, perché possa pregare nella propria lingua. Nella Commedia, che è un’opera totale, il volgare viene usato per parlare di politica, di filosofia, di costumi, di scienza, di morale, di fede. Entrambi pagheranno la propria scelta, entrambi ne riceveranno un marchio, a causa dell’enorme discredito che l’uso del volgare suscitava all’epoca in ambito culturale e pastorale. Entrambi furono sospettati di avere una conoscenza modesta del latino, di essere cioè degli ignoranti. E per secoli furono raccontati cosí. Francesco, in realtà, di norma scriveva solo in latino: ne è prova il biglietto privato che scrive di getto a frate Leone, ancora conservato nel Duomo di Spoleto. Cosí come lo provano i suoi scritti, una trentina in tutto: tutti in latino! Per quel dono del Cantico, però, è passato alla storia come il frate ingenuo e ignorante. A Dante accadrà lo stesso: dopo un primo, iniziale successo, la sua fama si spegnerà e l’importanza della Commedia verrà negata. E si dovrà attendere l’Ottocento per assistere alla sua rivalutazione.
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Tra fede e fanatismo
Vignette che illustrano il XXIII canto dell’Inferno: a sinistra, Dante allo scrittoio; a destra, Caifa crocifisso a terra, cosicché tutti possano calpestarne il corpo, cromolitografia da una serie di Egisto Sborgi Editore (Firenze, 1918). Le scene sono inquadrate in una cornice allegorica della Divina Commedia.
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Tra fede e fanatismo
DANTE E LA CANCEL CULTURE
G
herush92 è un’organizzazione non governativa no profit, consulente dell’ONU, i cui ricercatori hanno sollevato la questione di un Dante violento e blasfemo nei confronti di Ebrei e musulmani. I canti bersagliati sono in particolare due, entrambi nell’Inferno: il XXIII, in cui Caifa viene crocefisso a terra, in modo che chi passi lo calpesti; e il XXVIII, in cui, invece, è Maometto a essere orribilmente punito: gli viene dilaniato il ventre e le interiora ne fuoriescono. Non è però Dante – alter Deus – a punire Caifa e Maometto. Non è Dante che accusa di deicidio gli Ebrei o che ha dato avvio alle crociate per riprendere ai Turchi musulmani il Santo Sepolcro. In veste di cronista, Dante registra un mondo che, nell’immaginario collettivo, è già tale, perché cosí lo descrive la tradizione canonistica cristiana e cosí ne parlano i predicatori dell’epoca. Non è Dante a inventare il sistema delle pene e delle beatitudini. A noi sembra cosí, perché siamo digiuni della letteratura religiosa dell’epoca e facciamo iniziare con lui l’oltretomba tripartito, nei regni dell’Inferno, del Purgatorio e del Paradiso. A lui attribuiamo la responsabilità di averci sistemato i dannati, in base alle loro colpe, con criteri tanto distanti dalla nostra sensibilità e dal nostro discernimento. Ma Dante, come abbiamo già avuto modo di osservare, è solo un passante. Non costruisce l’oltretomba, ma lo descrive in conformità all’escatologia cristiana dell’epoca. La sua è una costruzione poetica e mimetica. La cancel culture, che vorrebbe censurare Dante, è dannosa, perché «cancellare» significa distruggere prove e fonti, di cui abbiamo invece estremo bisogno per capire come evolve la mentalità. È dannosa perché sbaglia spesso i suoi bersagli, confondendo chi racconta con ciò che viene raccontato, come nel caso di Dante. È dannosa perché, quando avremo cancellato tutto ciò che è «uncorrect», non potremo piú raccontare e testimoniare i crimini e le storture della storia. È sempre metodologicamente scorretto confondere, appunto, chi racconta con ciò che è raccontato. Dante non è l’artefice del mondo che racconta, cosí come Charles Dickens non è l’artefice e il responsabile della Londra ottocentesca, che sfrutta i bambini. Nel porre Caifa e Maometto all’inferno, Dante non fa che aderire a un sistema di valori, che si ritenevano scontati, in un’epoca in cui la fede era considerata una sola, e tutte le altre erano ritenute nemiche dall’istituzione ecclesiastica. La stessa Commedia di Dante verrà condannata da molti settori della Chiesa dell’epoca, perché ritenuta blasfema ed eretica. Nel 1335, i Domenicani, allora guardiani dell’ortodossia e colonnelli dell’Inquisizione, condannarono la Commedia e ne proibirono la lettura ai frati. Dante è costretto a collocare nell’inferno persone che reputa degne di ogni beatitudine, come il suo amato maestro Brunetto Latini, o la sfortunata Francesca da Rimini. Altrettanto vale per i non cristiani, come Virgilio, perché nati prima di Cristo: non è lui a volerli confinare nel limbo; lui, al contrario, preleva l’autore dell’Eneide dal limbo per assumerlo come sua
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guida. Non è Dante a mettere nell’inferno gli atei che «l’anima col corpo morta fanno», come lo stimato Farinata degli Uberti; non è lui a punire i sodomiti – termine con cui nel Medioevo si indicavano gli omosessuali –, perché tra loro, appunto, c’è il suo «padre» morale, Brunetto Latini. Nella Commedia, Dante si dissocia a piú riprese dalle punizioni inflitte a molti dei dannati che incontra. Può sottrarre a quelle punizioni le persone che maggiormente hanno influito sulla sua formazione affettiva e psicologica? No, non può, anche se lo volesse. L’Inquisizione – vale la pena forse ricordarlo – ha inasprito le pene contro quel tipo di reati, che noi definiremmo d’opinione, ma che loro chiamavano piú sinistramente «eresia». Per ogni posizione non ortodossa, soprattutto se scritta, non era prevista la semplice scomunica («semplice» per modo di dire, poiché una scomunica comportava enormi svantaggi), ma la tortura, approvata nel 1252, durante la conduzione degli interrogatori. Come possiamo credere che un Dante che si compiace per le punizioni preconizzate a Bonifacio VIII e Clemente V aderisca in coscienza alla tradizione canonistica cristiana dell’epoca, che considerava sacra la persona del papa, a prescindere? Dante non poteva disallinearsi troppo dalla concezione che all’epoca si aveva dell’aldilà, pena il non essere compreso da nessuno, perché i suoi lettori erano abituati a sentirsi descrivere in quei termini la vita ultraterrena. Un inferno privato degli Ebrei, dei musulmani, degli omosessuali, degli atei, degli adulteri, sarebbe stato semplicemente recepito come inverosimile. Quello che noi pretendiamo da Dante è un tipo di oltretomba che non esiste ancora, che nascerà solo nel Novecento, all’indomani del Concilio Vaticano II. Dante descrive con realismo l’oltretomba, nel senso che lo rende aderente alla mentalità e alle censure del suo tempo. Non crede certo di dare conto, descrivendolo, della sua personale concezione del peccato o della necessità delle pene a esso correlate. Come possiamo del resto immaginare che Dante, che fu condannato per «opposizione al papa» e a cui fu vietata l’assegnazione di qualunque beneficio ecclesiastico, aderisca poi alla dottrina della Chiesa dell’epoca per ciò che riguarda la punizione divina dei peccatori? Come possiamo credere che concordi su quali siano i nemici della Chiesa, se lui stesso è condannato, in quanto nemico della Chiesa? Il Medioevo nel quale visse Dante – a differenza di quanto continuiamo a ritenere – non fu affatto tutto cristiano, né molto cristiano. Prova ne sono gli scritti degli ecclesiastici che tuonano di continuo contro l’ateismo dilagante. Non è un caso che uno dei maggiori filosofi dell’epoca, Anselmo da Aosta, debba adoperarsi per fornire le prove dell’esistenza di Dio. Siamo noi moderni, ad aver fatto di Dante uno scrittore fideista, siamo noi moderni a ritenere i medievali «papalini», quando in maggioranza si espressero contro il potere temporale dei papi, contro una pastorale cristiana, giudicata ipocrita, violenta e oscurantista.
Dida da scrivere, rinvenuto nel 1877 a Decima di Gossolengo, nei pressi della città emiliana. Databile tra la seconda metà del II e gli inizi del I sec. a.C., è un modello in bronzo del fegato di una pecora sul quale sono definite caselle recanti i nomi delle divinità del
La punizione di Maometto nell’illustrazione del canto XXVIII dell’Inferno dall’Album Dantesco di Alberto Martini. 1920-1930. Oderzo, Fondazione Oderzo Cultura.
VO MEDIO E Dossier n. 46 (settembre/ottobre 2021) Registrazione al Tribunale di Milano n. 233 dell’11/04/2007
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