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MEDIOEVO DOSSIER
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DIALOGHI TRA
Amicizie, incomprensioni, viaggi e prove di diplomazia nell’età di Mezzo di Furio Cappelli
N°47 Novembre/Dicembre 2021 Rivista Bimestrale
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DIALOGHI TRA MONDI LONTANI
MONDI LONTANI IN EDICOLA IL 16 NOVEMBRE 2021
DIALOGHI TRA
MONDI LONTANI AMICIZIE, INCOMPRENSIONI, VIAGGI E PROVE DI DIPLOMAZIA NELL’ETÀ DI MEZZO di Furio
Cappelli
CARLO MAGNO E HARUN AL-RASHID 8. Dieci anni di deliziosa diplomazia BERTA DI TOSCANA E AL-MUKTAFI 26. Quando la «belva» del Tirreno scrive al califfo LIUTPRANDO A BISANZIO 48. Un Longobardo sul Bosforo IN TERRA SANTA E NELL’ORIENTE 76. Parlarsi al tempo delle crociate TRA LA CRIMEA E LA PERSIA 104. I meravigliosi racconti di un viaggiatore veneziano DALLA RUSSIA CON STUPORE 116. Alla corte del duca Ivan
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MONDI LONTANI
Presentazione
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tabilire un contatto tra mondi diversi e distanti, al di là di ogni barriera religiosa, politica e culturale, rientra tra i compiti basilari della diplomazia. È stato cosí in ogni epoca, tutte le volte in cui si è posta la necessità di affrontare la realtà oltre i limiti dei propri confini. La diplomazia entra in scena (ieri come oggi) quando due Stati devono confrontarsi per risolvere questioni che potrebbero scatenare un conflitto. Oppure – se la guerra è da lungo tempo in corso – le ambascerie possono tentare di stabilire una tregua, o magari un accordo di pace che faccia deporre le armi. D’altro canto la diplomazia può anche stabilire alleanze proprio in vista di un’azione di guerra, che riuscirà ancora piú efficace se vedrà schierate piú forze alleate al proprio fianco. Le storie che qui vi presentiamo rientrano tutte in queste logiche di controllo, di forza e di egemonia. Leggerete come Carlo Magno cercava l’amicizia del califfo Harun al-Rashid per tenere sotto scacco l’impero di Bisanzio. Alla fine della parabola del Medioevo, quando Costantinopoli era finita in mano agli Ottomani (1453), vediamo due ambasciatori veneziani intenti a stabilire accordi con l’emiro della Persia proprio al fine di costituire una grande lega antiturca. Tutte queste storie, però, hanno in comune un filo conduttore che deve far riflettere: sono in larga parte resoconti di insuccessi, semmai di fulminei bagliori di gloria. E quello che piú ci affascina non è tanto lo scenario politico o militare, quanto l’aspetto intimista, spesso romanzesco, che scaturisce da simili contatti. Tutte queste imprese, inoltre, – comprese le stesse crociate, compiute o progettate – rivelano sullo sfondo contatti reciproci sul piano del commercio e della cultura, ci rimangono impresse per l’avvicendarsi di figure o situazioni epocali di grande significato simbolico, estetico o spirituale. E cosí, saranno proprio le crociate a fare da sfondo all’incontro tra san Francesco e il sultano d’Egitto, o, ancora, al desiderio di un sovrano mongolo, Arghun, bramoso di ottenere l’amicizia del papa e dei grandi monarchi europei…
L’arrivo di san Francesco al cospetto del sultano Malik al-Kamil in un retablo di Nicolás Francés. 1445-1460. Madrid, Museo del Prado. 6
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Miniatura raffigurante un astronomo, da un trattato di astrologia del XIV sec. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana.
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Harun al-Rashid riceve la delegazione di Carlo Magno (786), olio su tela di Julius Köckert. 1864. Monaco di Baviera, Stiftung Maximilianeum.
Dal 797 all’807, due personaggi straordinari, ognuno a capo di mondi culturali tra loro lontani, avviano rapporti di politica estera che segneranno il Medioevo e non solo. Ecco la storia di un’amicizia «a distanza», fatta di ambascerie, mediatori coraggiosi e regali da… Mille e una notte
Dieci anni di deliziosa diplomazia
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Carlo Magno e Harun al-Rashid
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arlo Magno e il califfo Harun al-Rashid sono due nomi di indiscussa fama, tanto da aver alimentato un’infinità di storie. La vicenda che qui ci interessa li ha accomunati in un’amicizia apparentemente strana, e questo dialogo tra sovrani di mondi lontani ebbe da subito un effetto dirompente. Già nell’Alto Medioevo, i rapporti tra Carlo e Harun erano stati gustosamente presentati in termini fiabeschi, nell’intento di esaltare l’imperatore cristiano dell’Occidente. Il monaco cronista di San Gallo (Svizzera) Notkero Balbulus («il Balbuziente», 840 circa-912), nei suoi Gesta Karoli Magni Imperatoris (883), si diletta a dipingere gli ambasciatori «di quel popolo che un tempo era motivo di terrore per il mondo intero» come sprovveduti che rimangono abbagliati di fronte al fulgore di Aquisgrana, e che fuggono a gambe levate quando il possente sovrano franco si cimenta nella caccia al bisonte. Quando è la volta degli ambasciatori franchi in missione a Baghdad, questi vengono messi alla prova in una caccia al leone. Si avvalgono dei valorosi cani inviati in dono da Carlo Magno, e trionfano sulla belva: «uccisero alla vena giugulare con le spade indurite nel sangue dei Sassoni il leone persiano, che era stato circondato dai cani germanici». A quel punto il califfo si convince della inavvicinabiStatuetta in bronzo di Buddha, dal Kashmir (India), rinvenuta sull’isola di Helgö, in Svezia, testimonianza delle relazioni commerciali tra l’Oriente islamico e l’Europa nord-occidentale, in epoca carolingia. VI-VII sec. Stoccolma, Historiska Museum.
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MONDI LONTANI
le grandezza del loro sovrano: «Ora capisco quanto siano vere le cose che ho udito sul conto del mio fratello Carlo; perché per l’assiduità nel cacciare e nel tenere in esercizio sia il corpo che l’anima con zelo infaticabile, ha senza dubbio l’abitudine di soggiogare tutte le cose che sono sotto al cielo».
Un «amico» molto potente
Carlo Magno era davvero un abile guerriero, ma fu lui a cercare l’amicizia del califfo, e la potenza di quest’ultimo era dieci volte superiore a quella del sovrano occidentale. Il complesso palatino di Aquisgrana si inseriva nelle maglie di una assai regredita città romana di provincia, che da secoli aveva perso la sua originaria ragion d’essere. La Schola Palatina, quel manipolo di letterati che dava manforte alle ambizioni culturali della corte carolingia, era davvero ben poca cosa se si posa l’occhio sul fervore intellettuale che si respirava a Baghdad. L’estensione del regno franco era poderosa per l’Europa di quel tempo, ma era un fuscello di fronte all’impero islamico, che a quell’epoca aveva raggiunto l’apice del suo moto espansivo. Le città piú importanti del mondo carolingio erano assai meno popolose di quelle musulmane, e non avevano ancora espresso un’attività commerciale di spicco, che era, d’altro canto, il fiore all’occhiello dell’economia dell’Islam. Carlo si prodigava assai per risollevare l’economia del suo regno, e sapeva bene che il pur cospicuo bottino delle campagne contro gli Avari era in larga parte impegnato nelle regalie e negli ambiziosi programmi edilizi della Renovatio Imperii. Per rimettere in funzione un sistema del tutto ossidato, occorrevano iniziative mirate, come la riforma monetaria adottata nel 793-794. Il re aveva fornito un sostegno agli scambi, aumentando di un terzo il peso del denaro d’argento, che venne cosí ad allinearsi grosso modo alla moneta corrispondente del mondo islamico, il dirham. Dopo la dura stagnazione perdurata fino a tutta la prima metà dell’VIII secolo, anche il commercio a lungo raggio stava riprendendo vela. Non c’era piú soltanto l’importazione di beni di lusso dall’Oriente (oreficerie, tessuti di seta, vetri e cristalli) a favore di nobili e uomini di Chiesa. La bilancia stava lentamente passando in attivo grazie a un’esportazione per molti versi spregiudicata. Attraverso l’operato dei (segue a p. 14)
Qui sotto particolare del drappo di Sant’Emidio, che illustra la leggenda del principe Bahram di Persia. Fine dell’VIII-inizi del IX sec. Ascoli Piceno, Museo Diocesano. Il prezioso tessuto, prodotto in Siria
– sottomessa sin dal 750 al califfato abbaside di Baghdad – potrebbe essere uno dei pallia sirica donati da Harun al-Rashid a Carlo Magno. Nella pagina accanto, in alto brocca in oro e pietre preziose. VIII sec. Saint-Maurice (Svizzera), Tesoro dell’Abbazia. Il prezioso manufatto potrebbe essere un altro dei doni ricevuti da Carlo Magno dal califfo Harun.
IN EUROPA Consacrazione di Pipino e dei suoi figli, Carlo e Carlomanno. Morte di Pipino. Il regno franco è diviso fra Carlo e Carlomanno. Morte di Carlomanno; Carlo unico re dei Franchi. Prime spedizioni contro i Sassoni. Conquista del regno longobardo. Spedizione di Spagna; assedio di Saragozza e sconfitta di Roncisvalle. Creazione dei regni d’Aquitania e d’Italia, affidati ai figli di Carlo, Ludovico e Pipino. Prima sollevazione generale dei Sassoni. Guerra contro gli Avari.
Seconda sollevazione generale dei Sassoni.
Inizio della costruzione del palazzo regio ad Aquisgrana. Incoronazione imperiale di Carlo Magno in S. Pietro. Ultima deportazione in massa dei Sassoni. Programma di spartizione dell’impero fra i tre figli di Carlo Magno. Guerra contro l’impero bizantino. Primo attacco danese; morte del figlio Pipino. Morte del figlio Carlo. Ludovico, unico figlio superstite, associato all’impero. Carlo Magno muore il 28 gennaio.
A BAGHDAD 754 768
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Per la prima volta nella città arrivano gli ambasciatori di Pipino, padre di Carlo.
771 772-780 773-774
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Regno del califfo
abbaside Al-Mahdi, padre di Harun al-Rashid.
778
781 782-785
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Harun diventa il quinto califfo di Baghdad.
791-796 792-799
794 797 800
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806-811 810
811 813
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Prima legazione di Carlo alla corte di Harun. Seconda legazione con invio di doni al califfo. I legati di Harun arrivano ad Aquisgrana portando magnifici doni; il califfo organizza una spedizione armata in Anatolia, la piú grande del lungo conflitto con Bisanzio. Morte del califfo Harun. A sinistra alfiere-elefante in avorio, da una serie di scacchi proveniente forse dall’Iraq. X sec. Firenze, Museo Nazionale del Bargello.
814 MONDI LONTANI
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Carlo Magno e Harun al-Rashid
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Conquiste abbasidi (e aghlabite) e data Battaglie decisive per l’esito delle prime due guerre civili arabe (656-661 e 680)
CONQUISTE ARABE Territori unificati da Maometto (622-632) Unificazione dell’Arabia con Abu Bakr (632-634) Conquiste dei califfi «ortodossi» (632-661) e data
MONDI LONTANI
Rivolta abbaside (terza guerra civile). Fine della dinastia degli Omayyadi e inizio del califfato abbaside (750) 830
Nascita delle dinastie autonome del califfato abbaside e data Altre grandi battaglie del mondo arabo durante l’espansione e i conflitti interni Principali campi militari dell’esercito arabo-islamico Impero carolingio in sfacelo ai tempi di Carlo il Grosso (887) Impero bizantino
Adrianopoli Tessalonica
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Impero persiano sasanide all’inizio dell’espansione araba
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Impero romano d’Oriente all’inizio dell’espansione araba
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Nascita della dottrina islamica a opera di Maometto (610-622)
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Miniatura raffigurante Abd ar-Rahman I (731-788) che consulta la sua corte. XIV sec. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana. L’emiro omayyade conquistò Cordova nel 756 estendendo il suo dominio a tutta la Spagna musulmana e resistette agli attacchi dei Franchi di Carlo Magno, che assediarono Saragozza nel 778. Gli ottimi rapporti tra l’imperatore cristiano e Harun al-Rashid si basarono anche sulla comune inimicizia nei confronti degli Omayyadi spagnoli, oltre che verso Bisanzio.
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Nella pagina accanto statuetta equestre in bronzo, con tracce della doratura originaria, raffigurante Carlo Magno (o forse Carlo il Calvo). IX sec. Parigi, Museo del Louvre.
MONDI LONTANI
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L’imperatore Carlo Magno, olio su tavola di Albrecht Dürer. 1511-12 circa. Norimberga, Germanisches Nationalmuseum.
mercanti dell’antica Russia (la Rus’, corrispondente all’attuale Ucraina), l’Islam era rifornito di schiavi della penisola balcanica. Una volta appreso l’arabo o il persiano, gli stessi Slavi deportati facevano da interpreti ai mercanti europei. Si esportavano inoltre pellicce dalla Russia, armi (spade soprattutto) dall’area franca, stagno dalla Cornovaglia. Dall’Istria e dalla Dalmazia giungeva legname per gli arsenali. La rinata vivacità dei traffici spiega la considerevole presenza di pezzi islamici nei tesoretti monetali databili tra la fine dell’VIII e gli inizi del IX secolo rinvenuti dagli archeologi nella Russia occidentale e nell’area del Mar Baltico. In Svezia, nell’isola di Helgö, un tesoretto vichingo presentava una statuetta in bronzo di Buddha del VI secolo d.C., fusa nel Kashmir (tra India e Pakistan). Tutt’altro che isolata, l’economia carolingia rientrava sempre di piú nel sistema mondiale dominato dall’impero islamico, e il re franco ne era perfettamente consapevole. Prima di avventurarsi nella missione di Baghdad, Carlo Magno aveva stretto proficui rapporti con il re anglosassone Offa di Mercia. Come è ben documentato, tra l’altro, dalla lunga lettera inviata al re d’Oltremanica tra maggio e luglio 796, il sovrano franco largheggiava in doni, presentava e soddisfaceva richieste di beni, allo scopo, pressoché dichiarato, di proteggere e promuovere le attività commerciali del proprio regno. Ogni sua azione diplomatica era inoltre intrisa da uno spirito di missione, da un intento di pace, amicizia e santa concordia che era il naturale corollario della sua autorità di protettore della Chiesa.
La Terra Santa nel cuore
Carlo Magno era guidato verso un’intesa con Baghdad non solo da ragioni di tipo politico e commerciale, ma anche dalla sua missione di protettore dei credenti. La Terra Santa, sottoposta al dominio del califfo, gli stava molto a cuore, e intendeva prodigarsi per migliorare le condizioni dei cristiani che vi abitavano o che vi transitavano, come i monaci, i pellegrini e i mercanti franchi. Il califfato viveva infatti frequenti momenti di instabilità, dovuti alle lotte interne tra le diverse fazioni religiose dell’Islam, e ancor piú legati alle convulse fasi di successione al trono. In quei frangenti si diffondeva un clima di violenza generale e i riottosi alzavano la testa. Anche nei momenti di maggiore tranquillità entravano in azione i predoni, spesso indisturbati. In tutti quei casi le minoranze religiose, come si può arguire, si trovavano del tutto indifese. Nel 796 il celebre monastero 14
MONDI LONTANI
Carlo Magno, al contrario, era al culmine dei suoi successi militari e si era guadagnato il pieno appoggio di Roma. Con le risoluzioni del concilio di Francoforte (794) si era apertamente schierato contro la messa al bando delle immagini sacre e contro lo stesso dettato del concilio di Nicea: una presa di posizione che rientrava all’interno di una politica piuttosto risoluta, che con diversi mezzi si prefiggeva di indurre i Bizantini a riconoscere e a rispettare le pretese del regno franco. Tutto ciò creava le giuste premesse per un solido legame diplomatico con Baghdad. Carlo Magno, ideologicamente schierato con il papa e con il patriarca di Gerusalemme, era in rotta con Bisanzio, a sua volta in guerra con il califfato. Si creava cosí la premessa naturale di un’amicizia che saldava potentati lontani e di diverso orientamento religioso, grazie a un avversario comune. Era interesse di Carlo Magno vedere riconosciuta la sua autorità morale di monarca cristiano su Gerusalemme, ed era interesse del califfato tenere ampie le distanze tra il sovrano franco e l’imperatore bizantino, in modo da scongiurare una possibile «guerra santa».
Fratelli nemici
greco di S. Saba di Gerusalemme venne duramente saccheggiato da una masnada di Beduini. Diciotto religiosi rimasero uccisi. Un tempo sottoposta all’imperatore bizantino (basileus), tanto da essere chiamata dai musulmani «la gente del basileus» (ahl al-Malik), l’etnia cristiana della Palestina avrebbe potuto appellarsi al sostegno di Bisanzio, ma le circostanze rendevano vano ogni tentativo in tal senso. Il califfato era in guerra con Rum, la Roma d’Oriente. Sebbene nel 782 fosse stata stipulata una tregua, in base alla quale l’imperatrice reggente Irene era stata costretta a pagare un tributo annuale a Baghdad, tra le parti vigeva uno stato perdurante di ostilità. Per giunta, i rapporti tra le Chiese di Gerusalemme e di Costantinopoli si erano da tempo assai raffreddati per il fatto che si erano ritrovate su fronti opposti, allorché era iniziata la «guerra» contro le immagini sacre (730). Irene aveva messo al bando come eretica la dottrina iconoclasta a conclusione del concilio di Nicea (787), ma non era comunque riuscita a sanare i rapporti con Roma e, al trono dopo l’uccisione di suo figlio Costantino (797), la sua politica si era dimostrata fallimentare.
Il monastero di S. Saba, presso Gerusalemme, in un’incisione ottocentesca di John Horsburgh.
Harun apparteneva alla dinastia degli Abbasidi, discendenti di Maometto. Era figlio del califfo Al-Mahdi (775-785) e di Khaizuran (Bambú), la preferita tra le schiave berbere di quest’ultimo, originaria dello Yemen. I genitori dettero a lui e all’altro figlio Musà i nomi di due fratelli dell’Antico Testamento, ampiamente menzionati nel Corano: Aronne, il primo sommo sacerdote del popolo ebraico, noto per l’episodio dell’adorazione del vitello d’oro, e Mosè, il celebre profeta, liberatore e guida degli Ebrei nel deserto. A dispetto dei loro omonimi del Libro, che andavano d’amore e d’accordo, i due rampolli di Al-Mahdi furono divisi da una grande rivalità riguardo alla successione al trono, e gli stessi genitori avevano diverse inclinazioni: all’inizio il califfo puntava su Musà, ma Khaizuran lo convinse a propendere per Harun. Musà si ribellò, e, alla morte del padre, ascese al potere con il titolo di al-Hadi («colui che guida al bene»). Dopo appena un anno, nel 786, morí accidentalmente, forse con qualche «aiuto» da parte della madre e del fratello rivale. Harun poté cosí salire al trono, assumendo il titolo califfale di al-Rashid, «il ben diretto». Con la sua aura di sovrano potente e raffinato, conseguí ben presto una celebrità proverbiale, pur avendo all’attivo sul piano militare solo una serie di facili vittorie su una Bisanzio in MONDI LONTANI
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MONETE DI HARUN IN GIRO PER L’EUROPA... Nel 1961 archeologi polacchi rinvennero a Torcello, sul piano dell’antica piazza del mercato, due monete assai indicative, fuse tra di loro a seguito di un incendio. Erano custodite in un sacchetto di tela che aveva lasciato la sua impronta sul metallo. Si tratta di un denarius d’argento di Carlo Magno, emesso a Milano tra il 793 e l’812, e di un dirham, parimenti d’argento, emesso sotto il califfato di Harun intorno all’800, con la tipica scritta in caratteri cufici: «Non c’è altro dio al di fuori di Allah…» (è la professione di fede del Corano). Già nel 748 papa Zaccaria aveva riscattato a Roma un grosso «carico» di schiavi che proprio i Veneziani intendevano destinare al mercato africano. Ma non solo la laguna veneziana intesseva rapporti economici con l’impero islamico, oltre che con Bisanzio. Monete d’oro e d’argento dell’epoca di Harun costellano diversi corridoi, come la millenaria via dell’ambra tesa tra il Baltico e il Mediterraneo o il «circuito vichingo» che collegava lo stesso Mar Baltico alle terre di là del Caucaso tramite la steppa. Il califfato era ricco d’oro e di merci esclusive, come le pregiate sete della Siria e dell’Asia centrale, mentre le foreste europee fornivano in abbondanza legname e pellicce.
crisi. La sua era l’età dell’oro o l’età «classica» dell’Islam, laddove si giunse a un periodo di grande floridezza, il che favoriva lo sfarzo «persiano» dei costumi, lo sviluppo delle arti e della letteratura.
Un interprete ebreo
In alto rovescio di un denaro d’argento coniato al tempo di Carlo Magno, con croce e legenda MEDIOLANVM. VIII-IX sec. Qui sopra dirham in argento del califfato abbaside di Harun al-Rashid. Anno 180 dall’Egira (796 d.C.).
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Già Pipino il Breve, nel 765, aveva inviato un’ambasceria al sovrano abbaside al-Mansur («il Vittorioso», 754-775), il fondatore di Baghdad, e i suoi legati avevano fatto ritorno tre anni dopo, approdando a Marsiglia insieme ad alcuni emissari del califfo, che presentarono ricchi doni al re franco. I due sovrani potevano cercare intese per via di un nemico comune: l’emirato omayyade della Spagna. All’epoca in cui era ancora soltanto re dei Franchi e dei Longobardi, oltre che patricius Romanorum («patrizio dei Romani»), Carlo Magno decise a sua volta di allacciare uno strategico rapporto diplomatico con il califfo Harun al-Rashid (786-809). A tal fine, mentre era impegnato nelle dure campagne contro i Sassoni, nel 797 inviò in missione a Baghdad i suoi ambasciatori Lanfredo e Sigismondo, affidandoli alla guida di un ebreo di nome Isacco, un presumibile mercante che doveva anche fungere da interprete.
Nella pagina accanto miniatura raffigurante Offa, re di Mercia, dal Libro dei Benefattori dell’abbazia di St Albans, una compilazione avviata nel 1380 e ultimata intorno al 1540. Londra, British Library. Il sovrano anglosassone è uno dei potenti dell’epoca con cui Carlo Magno aveva stretto proficui rapporti.
La scelta di un tale fiduciario dovette essere piú che naturale. Ammessi nel mondo franco come stranieri direttamente sottoposti all’autorità del sovrano, gli Ebrei non appartenevano infatti né alla sfera cristiana, né a quella musulmana, e avevano al contempo intensi rapporti economici e commerciali con personaggi di entrambe le etnie, sia nei regni cristiani che nell’Islam. Erano i principali fornitori della corte, erano tra i pochi a conoscere le terre del Medio Oriente, ed erano poliglotti. I mercanti ebrei originari della penisola iberica (noti nell’Islam come radhaniyyah), erano in grado di parlare arabo, persiano, andaluso e franco. È piú che probabile che gli inviati di Carlo, passando per Gerusalemme, rendessero omaggio al patriarca presentando una lettera del loro re. Nel 799, infatti, giunse ad Aquisgrana un monaco inviato dall’abate Giorgio, nuovo patriarca della Città Santa. Il presule offriva la sua benedizione unitamente ad alcune reliquie senza dubbio richieste dallo stesso sovrano, desideroso di avere nella sua terra un segno tangibile dei luoghi di Cristo. Carlo rinviò il monaco con la scorta del sacerdote di corte Zaccaria, presumibilmente greco o italogreco, che aveva l’incarico di condurre i ricchi doni di ringraziamento del proprio re. Stando a Notkero, grazie all’amicizia tra Carlo e Harun, i viaggiatori franchi e «persiani» potevano affrontare il percorso tra i due regni con assoluta tranquillità, al punto tale che ogni distanza sembrava d’incanto annullata. «In questo modo si verificò ciò che il poeta [Virgilio] dichiarò impossibile: “O il Parto esule berrà le acque della Saône o la Germania le acque del Tigri” [Bucoliche, I, 63]». Carlo non aveva senz’altro meriti particolari
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VINI E BELLE DONNE: ALLA CORTE DI HARUN In linea con gli usi che si erano già imposti nella corte omayyade di Damasco, anche a Baghdad si dava ampio spazio alla poesia e alla musica. Qui, ben prima che in Europa, si sviluppa un elaborato concetto dell’amor cortese, sotto forma di un gioco che impone le sue regole a tutti, a partire dallo stesso califfo. Il tormento per una donna inaccessibile aveva uno scopo preciso, dall’evidente implicazione sociale: induceva il cortigiano a rifuggire la villania e a coltivare lo zarf, un codice di comportamento basato su abilità, eleganza, intelligenza, vivacità. Rinomata per i suoi fastosi e continui ricevimenti, la sede califfale vantava un guardaroba di oltre 40 000 capi di abbigliamento per il sovrano e per le numerosissime persone che si trovavano al suo seguito, senza pensare agli oltre 25 000 manufatti tessili destinati all’arredamento e all’addobbo cerimoniale (tappeti, drappi, tendaggi, cuscini). Gli usi della corte abbaside influenzarono fortemente la stessa Bisanzio. In particolare, l’imperatore Teofilo (829842) arricchí il Palazzo di Costantinopoli con una serie di strutture a padiglione, sfarzose nel decoro e fiabesche nei nomi da incanto: triclinio della Perla, sala dell’Amore,
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cubicolo dell’Armonia. Harun ha infine legato il proprio nome a numerosi racconti della celebre raccolta delle Mille e una notte, la cui versione a noi nota nelle sue parti piú antiche risale al massimo al XII secolo, sulla scorta di fiabe popolaresche e di racconti edificanti in prosa già diffusi nella stessa età abbaside. In ogni storia il califfo si immerge nella vita notturna della sua Baghdad, travestendosi il piú delle volte da mercante, e si lascia coinvolgere in una sequela di avventure punteggiate da conviti a base di vino e di belle donne. Nel racconto di Abu l-Hasan, studiato dalla storica Sylvette Larzul, Harun arriva a compiere per puro divertimento un gioco di ruoli: droga un mercante e lo fa ridestare nel proprio palazzo, costringendolo a vestire i panni del califfo. Come dimostra la storia cinese del re Tch’a-wei (ossia Buddha in persona, in una delle sue esistenze precedenti), si tratta di uno schema narrativo (l’uomo potente che si fa sostituire da un uomo del popolo) già diffuso in India e in Cina nel III secolo d.C., lo stesso schema (con il nobile burlone al posto del re) che si ritrova nel Marchese del Grillo, il film diretto nel 1981 da Mario Monicelli.
nella tenuta di una rete di contatti tra l’Europa e il Mediterraneo orientale, ma è certo che quel sistema di rapporti alla sua epoca funzionava. Il pellegrino Bernardo, che per recarsi in Terra Santa passò attraverso la Libia e l’Egitto (870), limitandosi le scomodità della navigazione, elogia chiaramente l’organizzazione delle strade garantita dall’impero islamico. Si potevano noleggiare facilmente cammelli in Egitto, erano numerosi i punti attrezzati di sosta, e non c’era pericolo di essere assaltati dai briganti, cosa che era all’ordine del giorno nelle impervie strade italiche. D’altronde, grazie anche all’interesse di Carlo Magno per la Città Santa, a Gerusalemme era comparso il monastero franco di S. Maria. Un probabile pellegrino franco, Egibaldo, si era fatto monaco ribattezzandosi con il nome di Giorgio, ed era divenuto poi abate al monastero latino del Monte degli Ulivi. Insieme a un altro monaco gerosolimitano, era al fianco di Abdullah, messo del califfo, nella delegazione che si presentò nell’807, ricolma di doni, alla corte di Aquisgrana. Lo vedremo piú avanti. Mercanti franchi frequentavano una fiera internazionale che si teneva nella Città Santa nella ricorrenza dell’Esaltazione della Croce (14 settembre), e già il monaco irlandese Adamnano di Iona (628-704) registra l’importanza commerciale di Gerusalemme, sulla base della testimonianza autoptica del vescovo franco Arculfo. Gli ambasciatori di Carlo che si mossero alla volta di Baghdad nel 797, dovettero approdare in Libia o in Egitto, seguendo un percorso ampiamente frequentato da quegli stessi mercanti che facevano la spola tra l’Oriente e l’Occidente. Con ogni probabilità, i legati giunsero cosí proprio a Gerusalemme, che era una meta d’obbligo per Ebrei, Armeni e Bizantini sulla via che conduceva alla Mesopotamia. Un’opera agiografica di poco successiva alla morte di Carlo, i Miracula sancti Genesii, racconta che i legati del re franco erano giunti nella Città Santa insieme agli inviati di Gebardo, conte di Treviso. Si trattava di un prete e di un diacono che dovevano prendere in consegna dal patriarca le reliquie di san Genesio per conto del nobile trevigiano, che aveva a tal fine preparato un santuario di tutto rispetto e aveva offerto ricchi doni alla Chiesa di Gerusalemme. Le due legazioni avrebbero concordato di compiere insieme an-
Nella pagina accanto Harun al-Rashid nella sua tenda con i sapienti dell’Oriente, olio su tela di Gaspare Landi. 1813. Napoli, Museo di Capodimonte.
Solido aureo dell’imperatore bizantino Teofilo. 829-831. Chicago, Art Institute.
che il viaggio di ritorno, ma gli ambasciatori carolingi si fecero attendere piú del previsto: erano morti. Visto che era sopraggiunta anche la morte del compagno, il diacono di Treviso si fece coraggio e riprese da solo il lungo cammino, approdando felicemente nei pressi di Roma.
Le chiavi del Santo Sepolcro
Ricapitolando, Carlo non aveva ancora visto il ritorno dei suoi ambasciatori, ma questi erano giunti sicuramente a Gerusalemme, e si era cosí avviato uno scambio con il patriarca della Città Santa. Mentre le notizie da Baghdad si facevano attendere, l’inviato a Gerusalemme, il sacerdote Zaccaria, aveva concluso la sua missione. Sulla via del ritorno, si incontrò con Carlo Magno a Roma il 23 dicembre 800, a due giorni dalla fatidica incoronazione a imperatore. Era accompagnato da due monaci di Gerusalemme, uno della comunità latina del Monte degli Ulivi, l’altro della comunità greca di S. Saba (colpita dai crimini del 796). I due religiosi recavano le chiavi del Santo Sepolcro e del Calvario, le chiavi della città e del Monte Sion (il luogo della tomba del mitico re David). Per giunta venne affidato a Carlo lo stendardo onorifico della Città Santa. Doni di tale tenore riconoscevano la generosità e magnificavano l’immagine del monarca cristiano, che veniva cosí ad assumere un’autorità morale proprio sulla Città Santa. Il patriarca Giorgio, evidentemente, riconosceva in Carlo una figura devota, benefica e carismatica in grado di garantire protezione e sostegno alla sua comunità, vista anche l’iniziativa diplomatica intrapresa con il califfo, e si affidava a lui con spirito di assoluta fedeltà. L’omaggio dello stendardo e delle chiavi aveva peraltro un preciso precedente. Leone III, appena eletto papa, offrí proprio a Carlo Magno, nel 796, il vexillum di Roma e le chiavi della tomba di san Pietro. Anche se il significato spirituale del gesto è fuori questione, in entrambi i casi era evidente un’implicazione ideologica e politica. Leone III agiva anche da rappresentante della cittadinanza romana. Il patriarca Giorgio non aveva la stessa autorità sulla propria sede, essendo Gerusalemme sottomessa al califfo. Lo storico israeliano Aryeh Graboïs ipotizza dunque che il dono delle chiavi e dello stendardo della città poteva avere senso solo con il coinvolgimento e il beneplacito di Harun. Il passaggio MONDI LONTANI
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Raqqa (Siria). La Porta di Baghdad, testimonianza di epoca abbaside, datata in modo controverso tra VIII-IX e XII sec. La città, una delle residenze di Harun al-Rashid, rifondata dagli Abbasidi nel 722 su un centro di epoca ellenistica, si trovava sul presumibile itinerario delle delegazioni franche inviate da Carlo Magno.
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degli ambasciatori carolingi a Gerusalemme e la missione di Zaccaria presso il patriarca dovevano perciò rientrare all’interno di una complessa tessitura di rapporti tra il re franco, il califfo e il patriarca: tessitura perfettamente riuscita, a giudicare dai risultati. Il fatto che nel giorno della nascita del Signore l’incoronazione di Carlo Magno imperatore venisse quasi a coincidere con l’omaggio del patriarca di Gerusalemme, consacrandolo a un tempo principe di Roma e protettore della Terra Santa, dovette suscitare una vivissima sensazione, e sembrò ad Alcuino di York (735-804) un segno evidente della grazia divina. Carlo Magno, che si faceva appellare «nuovo David» e «nuovo Salomone», dall’alto della sua «Gerusalemme franca» (cosí Alcuino definisce Aquisgrana) sembrava l’unico e indiscusso rex et sacerdos (re e sacerdote) della cristianità. Sei mesi dopo, nel giugno dell’801, Carlo Magno è in Italia e viene a sapere da due ambasciatori abbasidi che Harun ha esaudito un suo deside-
NEL SEGNO DI RE SALOMONE La cappella palatina di Aquisgrana, edificata negli anni 794-800, costituisce la piú diretta e concreta espressione del regnum di Carlo Magno, e dimostra chiaramente quanto la Città Santa si trovasse al centro dei suoi interessi. Infatti, se dal punto di vista architettonico e formale è indubbio il legame della chiesa con la basilica di S. Vitale di Ravenna e con l’idea della Roma cristiana e imperiale, è anche vero che diversi suoi elementi trovano un significativo riscontro nella Cupola della Roccia di Gerusalemme. In particolare, la zebratura degli archi perimetrali di gusto tipicamente islamico, ottenuta con marmi di colore alternato, aveva un significativo precedente solo in quel tempio della lontana Palestina. A quest’ultimo rimandano anche lo stile corinzio dei capitelli e l’idea dell’iscrizione a
mosaico che corre lungo la linea d’imposta della cupola. Il celebre santuario di Gerusalemme, completato (o iniziato) nel 691, e che costituisce la «risposta» dell’Islam al Santo Sepolcro, venne edificato sulla spianata del Tempio ebraico. L’origine del luogo sacro era ricondotta al celebre re biblico Salomone, che in quei paraggi aveva anche edificato il meraviglioso palazzo chiamato ad accogliere la regina di Saba. Trovandosi in un sito cosí intriso di gloriose memorie, la Cupola della Roccia risultava agli occhi del monaco franco Bernardo (come si può leggere nel suo diario di viaggio in Terra Santa, 870) il redivivo Tempio di Salomone adibito a luogo di culto dei musulmani. Un simile concetto, favorito dall’essenza «classica» del monumento, poteva avere
«autorizzato» a trarne ispirazione per la cappella di Carlo Magno. D’altronde, se Giustiniano aveva dichiarato di aver sconfitto Salomone con la sua S. Sofia di Costantinopoli (537), proprio riguardo ad Aquisgrana il cronista Notkero asserisce che Carlo Magno si era conformato all’esempio di Salomone. I sei gradini del trono marmoreo che si possono ancora oggi osservare nella tribuna reale della cappella, sono per giunta un’esplicita allusione al trono del sovrano biblico, cosí come viene descritto nell’Antico Testamento (Primo Libro dei Re, X, 19). A quel trono e alla regalità sacra di Salomone facevano d’altra parte ampio riferimento gli stessi califfi abbasidi e gli imperatori bizantini, soprattutto a partire da Teofilo, che dei sovrani di Baghdad era un attento imitatore.
L’interno della Cappella Palatina di Aquisgrana, voluta da Carlo Magno come cappella privata annessa al palazzo imperiale e costituita, sul modello della Cupola della Roccia di Gerusalemme, da un nucleo centrale a pianta ottagonale, con copertura a cupola. 794-800.
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IL CENTRO DEL MONDO
rio: gli ha inviato in dono un elefante indiano. Si chiama Abul al-Abbas, come il fondatore della dinastia califfale (morto nel 754), discendente di al-Abbas (566-652), zio paterno del Profeta.
Baghdad (dal nome del primitivo villaggio, che significa «dato da Dio») venne fondata il 1° agosto 762 e realizzata con mattoni crudi in una forma circolare tipicamente persiana, intorno al fulcro Il piú grande animale del mondo determinato dalla Grande moschea e dal Palazzo della Porta d’Oro. Venne subito riconosciuta come nuovo centro del mondo e città Attraverso la possanza dell’elefante, battezzato della pace (Medinat al-Salam). Come era reso evidente dalle quattro con lo stesso nome del suo capostipite, Harun porte equidistanti che si aprivano sulle principali vie del commercio, afferma orgogliosamente la sua superiorità al di qui trovavano un raccordo formidabile i percorsi che da un lato là delle Alpi, ma offre a Carlo Magno anche una conducevano verso il Caucaso, la Siria, l’Arabia e l’Egitto, mentre grande opportunità per dare lustro alla propria sull’altro versante l’India e la Cina erano a portata di mano sulla via immagine. Sarebbe stato infatti l’unico sovrano della seta, attraverso il Khorasan o per mare, a partire dal dell’Occidente ad avere il piú grande animale floridissimo porto di Bassora, laddove il Tigri e l’Eufrate si del mondo presso di sé. Facendolo sfilare nei riuniscono per dare corso allo Shatt al-Arab, che sfocia infine nel cortei e nei teatri di guerra, e mettendolo in Golfo Persico. Già ai tempi di al-Mansur la corte si trasferí sulla riva mostra nei propri serragli, avrebbe suscitato del Tigri, presso il piú ampio Palazzo dell’Eternità. meraviglia e soggezione a non finire. La città si sviluppò intorno al nuovo centro e ben presto si ebbe Scortato dall’ebreo Isacco, l’unico sopravvissuto anche un’espansione sul versante opposto del fiume. In tal modo si della missione del 797, Abul al-Abbas viene giunse nel X secolo a totalizzare 1 500 000 abitanti su 56 km accolto trionfalmente alla corte di Aquisgrana il quadrati di superficie, il che surclassava il primato della celebre 20 luglio 802. A Bisanzio si doveva risalire al 549 capitale dell’impero bizantino. per trovare il ricordo di un magnifico esemplare Oltre a essere una ricca metropoli, Baghdad traeva linfa dalla giunto in omaggio al grande imperatore Giustitradizione persiana del suo territorio e dalla sapienza greco-antica niano (527-565) da parte di un raja dell’India. che giungeva tramite la mediazione della Siria. L’opportunità di Nell’802 Carlo Magno affidò al conte Radberto mettere questi tesori di conoscenza al servizio dell’Islam, sia per le l’incarico di una nuova missione a Baghdad per esigenze pratiche (in medicina e in matematica, per esempio), sia ricambiare il dono dell’elefante. A tal fine si per la riflessione teologica, aveva portato alla creazione di un solido procurò un vasto campionario di pallia fresonica, centro di cultura che funzionava come biblioteca, laboratorio di traduzione e luogo di incontro. Si tratta del Bayt al-Hikma, la «Casa diffusi dai mercanti della Frisia (tra Olanda e della Sapienza», per la prima volta attestata proprio all’epoca di Germania, sul Mare del Nord). Erano tessuti in Harun. Giunse a pieno compimento sotto il califfato di suo figlio al-Ma’mun (813833). Città multietnica, Baghdad aveva peraltro una comunità cristiana piuttosto nutrita, indipendente ed eterodossa, che si suddivideva in nestoriani (i piú numerosi, di lunga tradizione nella Persia sasanide) e giacobiti (monofisiti della Siria). I due gruppi avevano le AL- HARBIYAH proprie chiese ben distinte e nutrivano Corpo una certa rivalità, dovuta tra l’altro al di guardia fatto che il patriarca (Cathólicos) dei Porta nestoriani aveva diritto di residenza in Porta città, cosa che al patriarca giacobita era negata. Erano comunque riuniti in uno Palazzo stesso quartiere, il Dar ar-Rum («Casa e moschea dei Romani», laddove per Romani si del califfo intendono i Bizantini). Fiume A parte taluni episodi e fasi di ostilità, i Tigri cristiani godevano di un clima di pacifica convivenza. Potevano entrare nei ranghi Porta Porta dei funzionari di governo, erano molto Sezione ricostruttiva richiesti per tradurre e insegnare, e lo di una porta stesso Harun aveva per medico della cittadella personale Gabriele, un cristiano AL- KARKH originario della Siria.
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lana delle Fiandre, dal costo elevato e con ampia varietà di tinte, il cui commercio ad ampio raggio, a partire dal XII secolo, diede linfa all’economia delle terre fiamminghe. Nel campo tessile, erano gli unici manufatti originali di tutto l’Impero carolingio in grado di competere con i prodotti orientali di esportazione: rispetto alle proverbiali sete erano meno raffinati, ma piú funzionali e resistenti. Carlo inviò inoltre cavalli di razza, degni di un grande appassionato di equitazione quale era, e taluni cani da caccia, a sottolineare la sua abilità e il suo coraggio nell’arte venatoria. Si trattava senz’altro di un omaggio arrischiato, visto che l’Oriente islamico vantava una rinomata maestria nell’allevamento dei cavalli e nell’addestramento degli animali per l’ars venandi (cani, falconi e addirittura ghepardi). Ma era anche la baldanzosa prosecuzione di un dialogo tra due sovrani guerrieri. La legazione del conte Radberto fece ritorno nell’autunno 806 approdando in Veneto, non lontano da Treviso. Dovette aprirsi un varco tra le navi nemiche dell’ammiraglio bizantino Nicetas, inviato dall’imperatore Niceforo a presidiare la Dalmazia in vista di possibili attacchi da parte di Carlo Magno. E dopo il durissimo viaggio, prima ancora di attraccare o appena arrivato, Radberto morí. Nel mentre, Harun concordava con il patriarca di Gerusalemme Tommaso l’invio in Occidente di un’ambasceria «mista», sacra e profana, cristiana e musulmana al tempo stesso. Il messo del califfo, Abdullah, si uní nella Città Santa ai monaci Felice e Giorgio. Quest’ultimo era il già ricordato abate al Monte degli Ulivi, al secolo Egibaldo, molto prezioso nei rapporti tra le parti, poiché di origini franche.
Doni d’ogni genere
La legazione giunge ad Aquisgrana nel 807 e riversa sulla corte carolingia un profluvio di doni. Per citare Notkero, «sembrava che l’Oriente si fosse vuotato e avesse riempito l’Occidente»: un’ampia selezione di splendidi pallia sirica (tessuti policromi in seta), candelabri, spezie, profumi, unguenti, una tenda capace di accogliere 30 persone al suo interno, e un vero prodigio della tecnica, che un cronista dell’epoca ricorda con vivida meraviglia, come se l’avesse davanti agli occhi: «C’era anche un bellissimo orologio in ottone che conteggiava le dodici ore muovendosi come una clessidra ad acqua; esso conteneva dodici piccole sfere in metallo, ognuna delle quali allo scoccare di ogni ora cadeva in una bacinella sottostante facendola risuonare; inoltre
Baghdad. La tomba di Zubayda (o Zumurrud Khatun), un sepolcro ottagonale sormontato da una cupola conica costruito, nel XIII sec. circa, dal califfo al-Nasir nel sito in cui era stata sepolta Zubayda (morta nell’831), moglie di Harun al-Rashid.
c’erano dodici cavalieri che alla fine di ogni ora uscivano da dodici finestre e con il loro movimento facevano chiudere altrettante finestre aperte…» (traduzione di Hägermann/Albertoni). Harun, evidentemente, è davvero in stato di grazia. Il suo regno da diversi anni attraversa una fase di tranquillità, Bisanzio è sotto scacco e il suo amico Carlo, divenuto imperatore, mantiene uno smalto inattaccabile. Nulla impedisce al califfo di mostrarsi ancora una volta affabile e generoso verso il sovrano occidentale, nonché benevolo e disponibile nei riguardi dei cristiani della Palestina, offrendo loro rispetto e protezione. L’ambasceria congiunta è in tal senso un delizioso capolavoro di diplomazia, e i doni fastosi e generosissimi (soprattutto se paragonati a quelli del «povero» Carlo) sono una nuova affermazione grintosa di sé e del proprio mondo, ricco di ingegno e di materie preziose. MONDI LONTANI
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BISANZIO NELLA MORSA I Bizantini si ritenevano unici ed esclusivi eredi dell’antico Imperium di Roma, e l’incoronazione di Carlo Magno suscitò una certa indignazione nella corte rivale. Il potente sovrano occidentale cercava dal canto suo un riconoscimento da parte dell’illustre potentato. La debole Irene (che risultava agli atti come basileus, «imperatore», perché non era previsto un titolo specifico per una donna sul trono di Costantinopoli), stretta tra la forza inarrestabile del sovrano franco e lo stato di «guerra fredda» con Baghdad, ruppe gli indugi e inviò un’ambasceria per risolvere la pendenza. Ma la mossa si rivelò inutile, perché, nello stesso anno (802), fu vittima di un colpo di Stato. Niceforo I, il successore, tentò di fare la voce grossa su ogni fronte. Mandò anch’egli un’ambasceria a Carlo, ma ne
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ignorò le proposte, e per giunta sfidò Harun, rompendo la tregua. Si rifiutò di inviare il tributo con un messaggio provocatorio a cui il califfo rispose per le rime, con le parole e con i fatti: «Figlio d’una madre infedele, ho letto la tua lettera. Tu non udrai la mia risposta, la vedrai». 135 mila uomini si abbatterono contro l’esercito bizantino in marcia, causando una serie di cocenti sconfitte. Nell’803 si arrivò cosí a una nuova tregua al costo di condizioni ancor piú gravose di quelle che aveva concordato Irene nel 782, anche se in seguito si crearono le giuste condizioni per non rispettarle. Anche Carlo Magno fece sentire la propria voce, sull’alto Adriatico. Suo figlio Pipino, re d’Italia, nell’810 attaccò le isole venetiche, e Niceforo fu indotto a riprendere le
trattative. Dopo la sua tragica morte sul fronte bulgaro (811), le consultazioni proseguirono e finalmente, nell’812, gli ambasciatori di Michele I Rangabé (811813) consegnarono a Carlo il fatidico documento in cui veniva riconosciuto come imperator e basileus, sebbene senza specificare l’ambito e il significato della sua autorità. La delegazione giunta ad Aquisgrana era guidata da Michele (746 circa-826), vescovo metropolita di Sinada (oggi Suhut, nella Turchia asiatica), l’abilissimo diplomatico che aveva concordato la difficile tregua con Harun.
Le sete istoriate con la caccia fortunata del principe Bahram di Persia che proprio in questo periodo compaiono nell’Europa carolingia, e che sono state eseguite in Siria non prima della fine dell’VIII secolo, con il loro eclettismo ellenistico-persiano e la loro armoniosa commistione di elementi profani e cristiani, non solo potrebbero in parte rientrare nei pallia sirica condotti dall’ambasceria, ma potrebbero essere state concepite appositamente per l’evento, nel segno della concordia tra il califfo e il patriarca. Certo è che le stesse sete di Bahram, insieme all’elefante Abul al-Abbas e a tutte le suggestioni dell’Oriente cristiano e musulmano, abbaside e bizantino, contribuirono a introdurre nel mondo di Carlo Magno un senso di solenne universalità.
Sulle due pagine una veduta odierna del monastero di S. Saba, presso Gerusalemme. In alto scene di vita di corte, particolare di una miniatura dalla Storia di Bayad e Riyad, contenuta in un manoscritto arabo magrebino. XIII sec. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.
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Quando la «belva» del Tirreno scrive al califfo
Mappa rettangolare del mondo, da un’edizione manoscritta del Kitab Ghara‘ib al-funun wa-mulah al-‘uyun (Il libro delle curiosità delle scienze e delle meraviglie degli occhi), un trattato cosmografico egiziano redatto nell’XI sec. Oxford, Bodleian Library.
Una missione «in incognito», verso una terra lontana e sconosciuta. A compierla è un eunuco «intelligente e pronto», al servizio di una donna ricca, scaltra e… bella. Che lo incarica di consegnare una lettera al principe di Baghdad. Insieme a un messaggio segreto…
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Berta di Toscana e al-Muktafi
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a storia che qui narreremo culmina nello strano incontro tra due mondi che ancora non si conoscono, la Toscana e la Mesopotamia, cosí da tracciare un insospettabile contatto tra Lucca e Baghdad. Il filologo pakistano Muhammad Hamidullah ne ha rivelato la principale fonte di riferimento nel 1953: si tratta di un’opera letteraria compilata in Egitto nell’XI secolo, I tesori e i doni. L’autore, al-Auhadi, è chiaramente affascinato dal riverbero di cose preziose giunte da lontano. E questo aspetto fascinoso della vicenda – degna delle Mille e una notte, grazie anche a una donna come protagonista – ha garantito la sua fortuna nella letteratura islamica altomedievale. Curiosamente, nessuna fonte europea ci può Berta, figlia di Lotario II di Lotaringia, scrive al califfo al-Muktafi di Baghdad, nella ricostruzione immaginata da Luca Rocchi per la mostra «Arte in Lucca», tenutasi nel 2013 presso il Real Collegio di Lucca.
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DA BERTA A MAROZIA, DONNE DI POLSO 860-865 Periodo in cui si colloca presumibilmente la nascita di Berta, figlia naturale di Lotario II, re di Lotaringia. Sua madre è la concubina Waldrada. prima del 880 Berta si sposa con Teobaldo, conte di Lorena. 880-885 Permanenza della coppia in Lorena. In questo periodo nascono probabilmente i primi due figli: Ugo, futuro re d’Italia, nato forse nell’881; Teutberga, che riprende il nome della moglie di Lotario II. 885-887 Permanenza della coppia in Provenza, dopo che Teobaldo, costretto a fuggire dalla Lorena, aveva trovato rifugio presso il locale re Bosone, suo cugino, acquisendo il titolo di conte di Arles. In questo periodo nascono probabilmente gli ultimi due figli della coppia: Bosone (che riprende il nome del sovrano provenzale), futuro marchese di Toscana; Ermengarda (che riprende il nome della regina di Provenza, figlia dell’imperatore Ludovico II), futura marchesa di Ivrea. 890 (?) Dopo la morte di Teobaldo, Berta si risposa con Adalberto II il Ricco, marchese di Toscana. 891-894 In questo periodo nascono probabilmente i due figli di Adalberto e Berta: Guido, che riprende il nome del duca di Spoleto, poi re d’Italia (zio e alleato di Adalberto); Lamberto, che riprende il nome del figlio e successore del predetto Guido di Spoleto. 894 Dopo la morte di Guido di Spoleto, Adalberto si schiera con il re germanico Arnolfo di Carinzia, ma ritira il suo appoggio quando questi giunge in Italia. 898-899 Marinai toscani intercettano e catturano un convoglio musulmano partito dall’Africa. 900 Istigato da Berta, Adalberto sostiene la discesa in Italia di Ludovico di Provenza, ma si schiera poi con il suo avversario Berengario, vista la mancata salita di Ugo, figlio di Berta, al trono di Provenza. 905 Dopo essere stato catturato e accecato per ordine di Berengario, Ludovico affida la Provenza a Ugo, figlio di Berta. 905-906 Contatti diplomatici tra Berta e il califfo Muktafi. 906-907 Adalberto, fiancheggiato da Berta, ostacola Berengario mentre prepara la sua incoronazione imperiale, che viene rimandata. 915 agosto Muore Adalberto. Berta, in qualità di reggente, è costretta a riconoscere l’autorità di Berengario per consentire l’ascesa di suo figlio Guido al marchesato. 916-917 Ermengarda, figlia di Berta, si sposa con il marchese Adalberto di Ivrea. 920 Dopo che Ugo, figlio di Berta, ha tentato senza successo di detronizzare Berengario, la donna e suo figlio Guido sono tratti in arresto a Mantova, ma vengono poi liberati. 925 Guido, figlio di Berta, si sposa con Marozia, spregiudicata nobildonna romana. L’8 marzo Berta muore.
Lucca, Duomo. La lapide di Adalberto II il Ricco, marchese di Toscana e marito di Berta di Lorena, morto il 17 agosto 915. A suffragio dell’anima del marito, Berta fece ampie donazioni ai canonici della cattedrale di S. Martino (Duomo della città), che gli tributarono solenni esequie e, forse, composero l’elogio funebre che celebra le sue virtú militari e la sua «bontà».
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Berta di Toscana e al-Muktafi
A sinistra L’eunuco, olio su tavola del pittore orientalista austriaco Ludwig Deutsch. 1903. Londra, Najd Collection.
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essere di aiuto, sebbene la protagonista, Berta (860/65-925), sia una illustre marchesa della Tuscia (una circoscrizione che comprendeva larga parte della Toscana attuale), personaggio di assoluto spicco nell’Italia post-carolingia, prima dell’avvento degli Ottoni.
Una certa questione...
Siamo dunque nell’anno 293 dall’Egira – la migrazione di Maometto a Medina –, ossia tra il 905 e il 906. Mentre il califfo al-Muktafi (902908) è impegnato in una delle sue consuete battute di caccia, nelle riserve che si estendono a nord della capitale, un eunuco è giunto proprio a Baghdad per recare a corte una lettera indirizzata al sovrano. Il segretario del califfo la esamina con molto interesse. È scritta in latino, secondo gli usi dei Franchi (cosí nel mondo arabo-persiano si designano i popoli europei), una lingua che egli non sa decifrare, ma sicuramente avrà apprezzato l’accuratezza e l’eleganza dell’impaginazione, come pure l’utilizzo assai avveduto di un telo di seta come supporto, in luogo della consueta pergamena. Il latore del documento, d’altra parte, è in grado di anticipa-
L’assedio di Messina in una miniatura dal Codex Graecus Matritensis Ioannis Skylitzes, manoscritto greco di produzione siciliana che riporta la Sinossi della Storia di Giovanni Scilitze. XII sec. Madrid, Biblioteca Nazionale.
re a voce parecchi dettagli sulle circostanze che hanno determinato la redazione e l’invio della lettera misteriosa, ma deve anche mantenere il piú assoluto riserbo su una certa questione, dal momento che custodisce a memoria un segretissimo messaggio, da affidare esclusivamente all’orecchio del califfo. L’eunuco si chiamava Alí al-Hadim e aveva alle spalle una vicenda turbinosa. In principio era al servizio dell’emiro Ibrahim II (875-902), della dinastia aglabide, la cui corte era insediata a Kairouan (Tunisia), nell’ambito di un’ampia fascia costiera corrispondente in parte alle attuali Algeria, Tunisia e Libia. Quel territorio costituiva il governatorato dell’Ifriqiyya (dal latino «Africa»), da dove prendevano il largo i Mori («Mauritani») o Saraceni, quei musulmani – in massima parte di origine berbera – che seminavano scompiglio nel cuore del Mediterraneo europeo, aggredendo convogli in mare aperto, e operando azioni di saccheggio sulle coste, con penetrazioni piú o meno durature nell’entroterra e la creazione di basi di rifugio e di rifornimento. Risoluto, sanguinario e un po’ folle, Ibrahim abdicò in favore del figlio e si votò a una irrefrenabile brama di MONDI LONTANI
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A destra cartina nella quale sono riportati territori delle dinastie islamiche al tempo dei califfi abbasidi. Nella pagina accanto miniatura raffigurante una scena di navigazione, da un’edizione manoscritta delle maqamat (componimenti in prosa rimata) di al-Hariri. 1237. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
Berta di Toscana e al-Muktafi
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Medaglione in argento con ritratto del califfo abbaside al-Mutawakkil. IX sec. Vienna, Kunsthistorisches Museum.
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conquiste. Sbarcò in Sicilia in veste di semplice mujahid (combattente nel segno del jihad) e prese Taormina, nel 902, cosicché si completò la dominazione islamica dell’isola. Sordo al richiamo che gli giunse dal califfo di Baghdad al-Mutadid (padre di al-Muktafi), Ibrahim varcò lo stretto di Messina, e solo la morte per dissenteria, presso Cosenza, gli impedí un’avanzata verso Roma per poi mirare a Costantinopoli, incurante di qualsiasi minaccia o profferta di pace potesse giungere dai franculi o dai greculi.
Su ordine del suo bellicoso signore, alcuni anni prima l’eunuco Alí si era trovato al comando di una spedizione, pronta ad azioni di saccheggio e di pirateria nel Mar Tirreno, ma il suo convoglio, costituito da tre navi con un equipaggio complessivo di 150 uomini, era finito in mano ai marinai toscani e fu condotto presumibilmente a Pisa. Al momento della redazione della lettera, erano trascorsi sette anni dalla fortunata azione di abbordaggio, che si colloca quindi tra l’898 e l’899. Dopo la cattura, Alí rimase al servizio dei marchesi di Toscana, nella loro corte di Lucca, con probabili incarichi di agente e segretario. Di sicuro, se già non la possedeva, acquisí una buona padronanza della lingua locale, ed ebbe modo di illustrare ai suoi signori un importante tassello dell’impero islamico. Essi, a quanto pare, ignoravano l’esistenza di un capo supremo residente nella lontana Persia, il califfo appunto: conoscevano bene l’emirato nordafricano degli Aglabidi, ma non sospettavano che in riva al Tigri esistesse una superpotenza di cui proprio gli Aglabidi erano vassalli. Il califfo è infatti definito «un re sopra a tutti i re», con una dicitura che rimanda alla definizione dello shah dell’antica Persia: un concetto reso familiare dall’Apocalisse (17:14; 19:16), dove Cristo in persona è il Re dei re e il Signore dei signori. L’idea di entrare in contatto con il piú potente sovrano dell’Islam non viene però al marchese Adalberto II il Ricco, ma a sua moglie Berta. È lei che si prende carico di ogni preparativo, ed è lei che scrive personalmente al califfo, senza chiamare minimamente in causa il marito. Fa-
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Berta di Toscana e al-Muktafi
ARMI, SCHIAVI, CANI DA CACCIA E VESTI RAFFINATE Il carico predisposto da Berta è un attendibile repertorio delle merci preziose maggiormente trattate sulle piazze europee. Di produzione tipicamente «franca», in linea con la grande tradizione metallurgica delle genti germaniche, sono le armi e gli scudi che fanno da apertura alla lista dei doni. L’altissima qualità di questi prodotti (le spade, soprattutto) era nota nell’Islam, e, anche se la vendita agli «infedeli» ne era severamente proibita, l’export era fiorentissimo al riguardo. Il triste mercato degli Slavi, anch’essi assai apprezzati nell’Islam, per la loro prestanza e per la loro carnagione chiara, era una voce importante nel commercio mediterraneo, tanto che, forse esagerando, si è detto che Venezia stessa basò la sua fortuna sulla vendita di questi «articoli». I cani selezionati in Europa settentrionale, specie nella lontana Anglia, facevano davvero molta impressione per la loro impavidità anche davanti alle bestie piú feroci. Come attestano le normative carolinge, giungevano nei mercati di Pavia adorni di collari d’argento, ed erano accettati dalla camera regia come corrispettivo parziale delle imposte doganali. Se prestiamo fede al cronista Notkero, quelli inviati in dono da Carlo Magno al califfo Harun al-Rashid (802) non battevano ciglio neanche di fronte a un leone feroce. Liutprando di Cremona ricorda invece che i cani inviati in dono nel 927 dal re d’Italia Ugo di Provenza (figlio di Berta) all’imperatore bizantino Romano I (920-944), dovettero essere trattenuti a fatica, quando si trovarono di fronte al sovrano orientale: bardato com’era di vesti strane, mai viste prima, i cani lo scambiarono per un mostro, e gli si stavano avventando addosso. Quanto ai doni di tipo tessile, è difficile stabilire in che misura fossero di produzione locale. Potevano essere anche acquistati su piazze straniere, immessi da empori (come quelli gestiti dagli Ebrei) che facevano da intermediari sulle lunghe distanze, oppure ottenuti con azioni di pirateria.
studiosa Catia Renzi Rizzo ipotizza che le perle fossero in realtà grani di metallo dall’aspetto vetroso, con la capacità di attrarre il ferro delle armi conficcate, grazie al magnetismo: le ematiti, per esempio, reperibili proprio in Toscana, possono fungere da calamite naturali).
Una rotta pericolosa
Sulle due pagine miniatura raffigurante due cani, da un’edizione manoscritta del Commentario all’Apocalisse del Beato di Liébana. 970-975. Girona, Archivio Capitolare. Nella pagina accanto, a sinistra spada da cerimonia di probabile produzione carolingia. Ante 1000. Essen, Tesoro del Duomo. Nella pagina accanto, a destra particolare di una spada di produzione carolingia, da Orlic (Croazia). Spalato, Museo Archeologico.
cendo affidamento sull’eunuco Alí al-Hadim, che si offre di compiere la missione, organizza le cose in grande. Non vuole sfigurare agli occhi del sovrano orientale, anzi, si qualifica esplicitamente come potente regina «dei Franchi» (ossia europea) e, come tale, sciorina un vasto assortimento di doni, a rappresentare quanto di meglio c’è nel suo Paese (vedi anche il box alla pagina precedente), e quanto sia grande il suo desiderio di ottenere l’amicizia del califfo: si tratta di 50 spade, 50 scudi, 50 lance «franche», 20 vesti ricamate con fili d’oro, 20 eunuchi slavi, 20 schiave slave «belle e graziose», 10 grandi cani da caccia che non temono alcunché, 7 falchi, 7 sparvieri, un padiglione di seta. Non mancano cose davvero prodigiose: 20 vesti dai colori cangianti come un arcobaleno, «che cambia colore a ogni ora del giorno», confezionate probabilmente con la lana-marina prodotta in Andalusia, utilizzando le fibre estratte da alcuni molluschi; 3 uccelli «franchi», non meglio definiti, che fungono da allarme in caso di cibi o bevande avvelenati: non appena avvertono il sentore di una sostanza venefica, emettono uno strido «orrendo» e sbattono vivamente le ali; infine, alcune perle di vetro che consentono di estrarre dalla carne, «senza dolore», frecce e punte di lancia, anche se le ferite si sono già cicatrizzate (la
Messo insieme il carico dei doni, l’eunuco Alí, a quanto pare, pone un problema: l’emiro Ziyadat Allah III (903-909) potrebbe appropriarsi di ogni cosa per via dello stato di guerra che si è ravvivato nel Mediterraneo, anche perché era scaduta una tregua concordata in precedenza tra cristiani e musulmani. Difficilmente, quindi, Alí può fare scalo a Palermo o a Messina senza alcun timore. Pur evitando di approdare sulle coste nemiche dell’Africa, anche la rotta verso la Siria è pericolosa, perché Ziyadat controlla saldamente lo stretto di Messina e il canale di Sicilia. La marchesa Berta decide allora di differire la spedizione dei doni, e intanto invia il suo eunuco in incognito alla volta di Baghdad. Qui, uno schiavo franco, presente a corte, è in grado di tradurre la lettera in greco. A quel punto, un medico di corte, il cristiano nestoriano Ishaq ibn Hunain, noto come valentissimo traduttore di trattati scientifici, è in grado di redigere la versione in arabo. E come reagisce, davanti a una iniziativa cosí imprevista, il capo supremo dell’Islam? Con un misto di diffidenza e di incredulità, si può supporre, visto che fino a quel momento nessuno gli aveva mai parlato di una «regina Berta» ben piú potente dell’imperatore di Bisanzio, per estensione dei propri domini e per consistenza dei propri eserciti. Il ragionamento della donna è di una chiarezza pari alla sua spavalderia. Se il califfo alMuktafi ha concesso la sua amicizia a Bisanzio, deve anche concederla a Berta, visto che ella non ha nulla da invidiare ai propri umili dirimpettai del Bosforo. La «regina», inoltre, dichiara di essere stata in amicizia con l’emiro dell’Ifriqiyya, prima che venisse sventata la sua spedizione piratesca. Il fatto ha naturalmente compromesso i precedenti rapporti. E ora che, grazie all’eunuco Alí, «intelligente e pronto», è venuta a sapere della potenza e dell’autorevolezza del califfo di Baghdad, è ben lieta di dedicare a lui ogni attenzione.
Le mire sul corridoio tirrenico
L’emiro dell’Africa era formalmente sottoposto all’autorità del califfo, e Berta avrà certo pensato che un’iniziativa diplomatica con quest’ultimo poteva essere utile a contenere le MONDI LONTANI
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Berta di Toscana e al-Muktafi degli Arabi. In quella fase, il califfo era il referente piú naturale per forza e autorevolezza nello scacchiere euromediterraneo. Secondo l’orientalista Giorgio Levi della Vida (1886-1967), il messaggio segreto che Berta aveva affidato all’eunuco Alí poteva riguardare questo scenario, nella prospettiva di un vantaggio reciproco. Al-Muktafi poteva essere cioè interessato ad avere un alleato o un referente franco che facesse da contraltare a Bisanzio. Difficile stabilire se Berta, in tal caso, credesse davvero alla fattibilità di un’alleanza militare o di un patto per un obiettivo preciso. Era impossibile, per lei, mettere insieme un esercito e una flotta in linea con le proprie pretese. Magari le bastava solo ottenere un documento ufficiale del califfato, per ostentare la sua autorevolezza, in faccia ai propri nemici «infedeli» e ai propri stessi alleati e concorrenti cristiani. Il contenuto della risposta – in una lingua peraltro che in Toscana era accessibile a ben pochi – non sarebbe stato tanto importante. A quel punto, non si può escludere che Berta ricorresse a un’offerta strepitosa e provocatoria, sia pure del tutto astratta.
LA FINZIONE DI UNA SUPERMONARCA FAVOLOSA Berta asserisce nella sua lettera al califfo che la sua signoria si sviluppava su ventiquattro regni, ciascuno dei quali aveva una propria lingua e Roma avrebbe fatto parte del suo favoloso reame. Poteva funzionare questa finzione? L’Europa stessa era conosciuta in modo sempre piú fumoso man mano che ci si inoltrava in Oriente, e, confidando su ciò, la marchesa cercò di impressionare il califfo travestendosi da supermonarca. E forse osò troppo proprio con il riferimento a Roma, dato che il persiano Ibn Rustah, nel suo Libro dei monili preziosi (903-913), riporta una testimonianza di viaggio da cui risulta chiaramente che l’Urbe è dominata da «un re chiamato il Papa». Come poteva una donna esercitare la signoria su una città che a Baghdad risultava in mano a un re-sacerdote? Il fatto è che Berta dice di essere piú potente dei Bizantini. Di conseguenza, per surclassare Costantinopoli, la città piú famosa del proprio reame doveva essere necessariamente Roma, definita «la grande». Il gioco era rischioso, ma la carta dell’Urbe doveva essere tentata. D’altro canto, la rappresentazione ha una sua coerenza, se si considera che dal punto di vista della tradizione geografica Roma faceva parte della Tuscia, come ribadisce per esempio Paolo Diacono nella sua Historia Langobardorum. In quest’ottica, rientrava quindi nella circoscrizione che faceva capo ai marchesi di Lucca. Il numero 24, poi, non è casuale, poiché era invocato per definire il numero delle città comprese nella Tuscia medesima (insieme all’Umbria) in epoca tardo-antica. Vero è che ogni «regno» vassallo doveva parlare la propria lingua, e il dominio regionale nella visione di Berta diventa cosí universale, suggerendo le estensioni dell’impero carolingio. Secondo un cosmografo noto come l’Anonimo Ravennate (VII secolo), 24 erano d’altronde i Paesi del mondo.
mire dei Saraceni. Se la loro ostilità si fosse placata, la Toscana poteva consolidare il controllo della Corsica e della Sardegna, da tempo nel raggio d’azione dei marchesi, e, con un’egemonia cosí consolidata, l’avamposto marittimo di Pisa poteva avere facile gioco nel corridoio tirrenico. Costantinopoli appariva d’altronde in una posizione momentaneamente debole, dopo la disfatta subita a Tessalonica (Salonicco) nel 904, proprio per mano 36
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Secondo Ibn an-Nadin, un commentatore arabo del X secolo, la marchesa propose in segreto un’alleanza matrimoniale. Berta, insomma, avrebbe potuto prospettare le proprie nozze col califfo, glissando sul fatto di essere cristiana e di avere già un marito vivo e vegeto. Il favoloso carico di doni offerto al sovrano poteva fungere cosí da dote nuziale e sarebbe stato il degno coronamento di una storia i cui contorni fiabeschi affascinarono molti intellettuali del mondo
Nella pagina accanto la città di Roma raffigurata come una matrona in trono nella Tabula Peutingeriana, una carta del mondo conosciuto realizzata nel XIII sec. ricalcando un originale di epoca imperiale romana. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek. In basso papa Sergio III in un’incisione dal Liber Chronicarum. 1493. Amsterdam, Rijksmuseum.
arabo del tempo. Tuttavia non sapremo mai che cosa davvero disse Alí all’orecchio del califfo, né che cosa questi avesse risposto.
Le perplessità del califfo
In ogni caso, al-Muktafi non dette molto credito all’ambasceria e, in prima battuta, dispose una lettera di riscontro dai toni piuttosto duri. Solo in seguito optò per un atteggiamento piú conciliante, ma senza rinunciare a qualche tono aspro. Già il differimento dei doni costituiva una situazione inusuale nei rapporti diplomatici, e poteva far nascere qualche perplessità. Anzi, il fatto che i doni stessi dovevano essere recapitati al califfo, magari a sua scelta, soltanto dopo che l’eunuco Alí avesse preso la strada del ritorno, suonava come un’offerta condizionata: si poteva credere, insomma, che Berta volesse concedere i suoi omaggi solo dietro la garanzia del ritorno del suo servo, riservandosi magari di non inviare alcunché se non avesse gradito il tenore delle risposte del califfo.
È comunque difficile che il sovrano abbia creduto alla storia del grande reame di Berta, tanto che, nella lettera di riscontro, pur senza smentirla, tiene a sottolineare che egli conosce bene tutti i popoli, e la umilia sottilmente, affermando che non è nella propria indole vantarsi del numero dei regni su cui il califfato esercita la sua signoria. Al-Muktafi, inoltre, evidenzia che in tanti nasce il desiderio di stabilire una corrispondenza con il califfo. Egli risponde ben volentieri ma – ecco un altro fendente alla «regina» – non sempre e comunque si tratta di amicizia: lo è solo nel caso in cui vi sia una rispondenza di interessi tra le parti. In tutti gli altri casi si tratta di semplice cortesia. Nello specifico, egli non si pronuncia su come devono essere definiti i propri rapporti con Berta e si limita ad affermare in modo generico che ella è preferita in base a un preciso criterio di precedenze, stabilite in base alle situazioni e ai crediti ottenuti presso la corte califfale: sembrerebbe che il posto di Berta non sia in cima alla classifica. Si raccomanda infine di tener conto di ciò in futuro, come a dire che eventuali contatti successivi dovranno richiedere maggiore attenzione: «Sappi ciò e agisci di conseguenza nello scrivere e inviare messaggi al Principe dei credenti e nel condurti confidenzialmente verso di lui, a Dio piacendo». A quel punto, il califfo consegnò la lettera all’eunuco, a cui aveva pure affidato la risposta al messaggio segreto. Non richiese né inviò alcun dono, ma diede ad Alí del denaro per le spese di viaggio. La missione però non si concluse, perché l’eunuco perse la vita lungo la strada.
Una recita sfacciata?
Viene spontaneo chiedersi, a questo punto, se Berta fosse una megalomane senza freni, per aver messo in piedi una recita cosí ardita. Lei, semplice moglie di un pur potente vassallo, il marchese Adalberto, come poteva proporsi in maniera cosí sfacciata? In una certa misura, occorre ammettere che il convulso contesto storico aiutava non poco: all’indomani del crollo dell’impero carolingio, l’Europa cristiana era in mano a un pulviscolo di potentati e il trono imperiale era vacante (905-915). La stessa Roma, con il papa in testa, era sotto il controllo della famiglia di Teofilatto, con la patrizia Teodora e sua figlia Marozia in prima fila. Il pontefice in carica, d’altronde, il rude Sergio III (904911), era salito sulla cattedra di Pietro proprio grazie all’appoggio militare del marchese di Toscana. Adalberto, peraltro, vantò o pretese una sorta di vicariato sull’Urbe, visto che suo MONDI LONTANI
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Berta di Toscana e al-Muktafi ECHI DAL CELESTE IMPERO Lo storico russo Konstantin Inostransev, in un articolo del 1911, ha notato che le lane-marine promesse da Berta erano prodotte sia nella Spagna musulmana che in Sicilia. Si sarebbe trattato, quindi, di prodotti di manifattura islamica che potevano essere «riciclati», nella speranza che a Baghdad fossero poco noti. Lo stesso studioso ipotizza che gli uccelli che davano l’allarme potessero essere storni, che avevano una certa fama per la loro capacità di imitare la voce umana. Per questo aspetto sarebbero stati poi surclassati dai pappagalli, all’epoca ignoti in Europa. Ma c’è un aspetto ancor piú intrigante che lega le parole di Berta all’estremo Oriente. Lo stesso studioso ha notato che l’eco di questi doni favolosi è giunta nella Cina della dinastia Tang. Gli annali del Celeste impero composti alla metà del X secolo, registrano infatti la notizia che a Fo-lin (Roma) si trovano lane-marine prodotte con le piume di una lumaca nota come «pecora di mare». In quella contrada lontana si trova pure un uccello verde simile a un’oca, che grida quando avverte la presenza di cibo avvelenato.
padre aveva rivestito il ruolo di messo imperiale e di tutore del Patrimonio di San Pietro. All’epoca dell’ambasceria a Baghdad, Berengario I, re d’Italia (888-924), cercò di giungere nell’Urbe per cingere la corona imperiale, ma Berta affiancò con successo il proprio marito in una vera e propria opera di sbarramento, senza trattenere una certa veemenza quando si trattò di ottenere informazioni sugli spostamenti del nemico: l’arcivescovo Giovanni di Ravenna, al riguardo riluttante, ebbe a lamentarsi del suo furor.
Una nobiltà germanica
Suo marito Adalberto era imparentato con Guido II marchese di Spoleto, che, tra alterne fortune, era riuscito a conseguire la corona di re (889) e quella dell’impero (891), in competizione con Berengario. La famiglia di Guido, di illustre origine franca, non era tuttavia di stirpe carolingia, come evidenzia lo storico Di Carpegna Falconieri. Berta, invece, era figlia di un re, discendente di Carlo Magno in persona: suo padre Lotario II, sovrano della Lotaringia (855869), era infatti nipote di Ludovico il Pio, figlio del grande imperatore. Questo aspetto genealogico motiva chiaramente l’ascendente che Berta vantava, sia in famiglia che nei rapporti con gli alleati, grazie anche al particolare ruolo che la cultura aristocratica franca assegnava alla donna: garantiva la nobile ascendenza (era piú importante nascere da una nobildonna di alto casato, se i due genitori non erano dello stesso rango), e aveva un importante ruolo guida nel 38
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La madre di Berta, Waldrada, era concubina di Lotario quando questi era ancora legato a Teutberga, ma il re provvide al divorzio e incoronò Waldrada sotto il crisma dell’ufficialità nel Natale 862. Di conseguenza, se fosse nata dopo la cerimonia (il che non è accertato), Berta era una figlia formalmente legittima, dotata comunque di un nome regale tipico della stirpe. La madre di Carlo Magno, Bertrada, era infatti nota anche come domina Berta regina (cosí è menzionata negli Annali di Metz, all’inizio del IX secolo).
Avversari naturali
In alto seta policroma con figura femminile danzante che si ripete di lato all’albero della Vita, dal bordo interno della casula di san Marco papa. Manifattura siriaca, VIII-IX sec. Abbadia San Salvatore, Abbazia di S. Salvatore al Monte Amiata. Nella pagina accanto seta policroma con la scena di Sansone che smascella il leone. Manifattura siriaca, VIII-IX sec. Washington D.C., Dumbarton Oaks.
gioco delle alleanze familiari, pianificando o suggellando le nozze dei propri figli. Nel caso di Berta, sul piano prettamente tattico e diplomatico, travalicò senz’altro questo ruolo, con il clamoroso «accantonamento» del marito nel caso del tentativo di amicizia con il califfo. Il marchese Adalberto, a tutti gli effetti, non sembra avere alcun diritto a uscire dal proprio ruolo di potente vassallo. Solo Berta può ambire a tanto. D’altro canto, l’immediato precedente della sua iniziativa riconduce proprio all’illustre stirpe dei Carolingi, di cui lei è diretta discendente. Nella lettera inviata a Baghdad, infatti, si definisce «figlia di Lotario», come se questo fosse il passepartout che le consente ogni audacia. E non era stato proprio Carlo Magno a cercare l’amicizia del califfo Harun al-Rashid? Magari era ancora ben vivo il ricordo dell’approdo a Pisa dei messi dell’illustre sovrano orientale (801), che recavano notizie sull’invio ad Aquisgrana del celebre elefante Abul Abbas (vedi il capitolo precedente, pp. 8-25).
Carlo Magno in persona, a rigore di norma canonica, era un figlio illegittimo, perché nacque quando Pipino e Betrada non erano ancora sposati. Alessandro Barbero nota che all’epoca di Carlo la circostanza non dovette essere fonte di particolari crucci o polemiche, ma anche nel caso di Berta e dei suoi discendenti la questione non si pose mai, sebbene ci fosse piú di un appiglio. Si era cosí creata una competizione dinastica tra Berta e il predetto Berengario del Friuli, anch’egli di sangue carolingio, per parte di madre. Costei era Gisla, figlia di Ludovico il Pio e della sua seconda moglie Giuditta. Berta e Berengario, in sostanza, erano pressoché speculari nei diritti che potevano rivendicare aspirando al trono, ed erano quindi naturali avversari. Una donna, tuttavia, non poteva ambire a un ruolo di primo piano se non all’ombra del proprio consorte (poteva divenire regina solo se suo marito fosse stato incoronato). Ma se Berta non poté cingere la corona, puntando piuttosto all’ascesa dei suoi familiari, Berengario – che pure salí alla dignità imperiale nel 915 – è stato giustamente definito un re senza regno e un imperatore senza impero, vista la sua sostanziale incapacità di mantenere un potere saldo e continuativo. D’altro canto, come nota la storica Germana Gandino, sembra che pensare a Berta come a una regina fosse piú che naturale, anche se la sua era solo una sovranità di diritto, in pectore. Per il compilatore dei Gesta Berengarii – un panegirista al servizio dell’acerrimo nemico della nobildonna –, costei, «dominatrice della Tuscia», è la «belva del Tirreno» che sprizza veleno, la mostruosa Cariddi che ha ostacolato il cammino trionfale del suo signore, la maga Circe che ha stregato la sua prima moglie Bertilla (una regina a tutti gli effetti, che proprio grazie a Berta si sarebbe rivoltata contro Berengario, finendo i suoi giorni – sembra – proprio per mano del marito). La nostra eroina viene definita regalis in alcuni documenti che si situano tra il X e il XII secolo. MONDI LONTANI
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Berta di Toscana e al-Muktafi
VIRTÚ, LUCE E GLORIA DI TUTTA LA PATRIA Cosí recita l’epitaffio composto per Berta di Toscana e inciso sulla sua lapide sepolcrale: «In questa tomba giace sepolto il corpo di una contessa, Berta, la benigna, la pia, di illustre stirpe. Colei che in tutto fece onore all’origine regale, fu moglie di Adalberto duca d’Italia. Di rango nobiliare, discendeva dall’alto ramo dei re dei Franchi: lo stesso re Carlo, il pio, fu suo avo. Figlia di Lotario, era di piacevole aspetto, e ancor piú piacevole per la bontà degli atti: ancora piú bella, grazie ai propri meriti. Durante la vita in questo mondo terreno, rimase felice: nessun nemico poté avere ragione di lei. Decidendo con sapienza, governava su molti fronti, e sempre era con lei la grazia immensa del Signore. Da molte parti
giungevano numerosi conti al suo cospetto, per richiedere un dolce colloquio. Come una madre assai affettuosa, dette ricetto a molti esuli in miseria, e sempre fece donazioni a favore dei pellegrini. Questa donna risplendette di sapienza, e, come una forte colonna, fu virtú, luce e gloria di tutta la patria. L’8 marzo lasciò questa vita: viva in pace di fianco al Signore. La sua morte, ahimé, rattrista tante persone per il dolore: piangono i popoli di Oriente e di Occidente. Ora geme l’Europa, ora è in lutto tutta la Francia, cosí come la Corsica, la Sardegna, la Grecia e l’Italia. Voi che leggete questi versi, dite tutti: “Il Signore doni a lei la luce perpetua”. Amen. Morí nell’anno del Signore 925».
La lapide sepolcrale della «regina» Berta, morta l’8 marzo 925, conservata nel Duomo di Lucca. L’iscrizione celebra la nobile stirpe, la bellezza e le virtú della marchesa, per la cui morte «piangono i popoli di Oriente e di Occidente».
Due bolle papali del 1107 e del 1163 parlano esplicitamente di «Berta regina». Ma già l’imperatore bizantino Costantino VII Porfirogenito (913-959), parlando della sua reggenza del marchesato per conto del figlio Guido – dopo la morte del marito (915) –, osserva che Berta «regnò come un basileus», il titolo riservato proprio ai sovrani di Costantinopoli.
Le parole del misogino Liutprando
Sposata in prime nozze con il conte di Arles, Berta era riuscita ad assicurare il marchesato di Provenza al proprio figlio Ugo, che poi cinse la corona di re d’Italia (926). Sua figlia Ermengarda si legò al marchese Adalberto di Ivrea (già alleato di Berengario, poiché aveva sposato sua figlia, la defunta Gisla). Il predetto Guido – titolare del marchesato – andò a nozze con la potente Marozia, domina dell’Urbe, e in questo modo Berta si proponeva di consolidare l’egemonia della sua stirpe su Roma, da tempo nelle mire dei marche40
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si di Toscana. Insomma, di illustre stirpe regale, ricca, scaltra e determinata pianificatrice, bella donna – e ammaliante manipolatrice, se prestiamo fede al misogino Liutprando di Cremona –, Berta era all’altezza delle proprie vanterie. E che suscitasse un grande rispetto, grazie a doti non comuni di lungimiranza e di dialettica, lo testimonia la sua pregevole lapide sepolcrale, conservata tutt’oggi nella cattedrale di S. Martino a Lucca. Senza timore di esagerare, il poeta che compose i versi dell’epitaffio racconta che la sua morte fece sensazione ovunque e tutto il mondo si trovò in lutto (vedi il box il questa pagina). Risuona addirittura l’eco del carme che Paolo Diacono compose per Ildegarda, moglie di Carlo Magno, sepolta nel 783 nella basilica di S. Arnolfo di Metz (Francia). Berta era d’altronde annoverata in alcune genealogie di area germanica che risalivano proprio ad Arnolfo, primo vescovo di quella città e santo capostipite dei Carolingi.
Nella pagina accanto l’«Avorio di Romano», placca che ricopriva un evangelario con raffigurato Cristo che incorona due personaggi tradizionalmente identificati con l’imperatore Romano II e Berta (Eudocia), nipote della «regina» Berta di Toscana. XI sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France, Cabinet des Medailles.
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LA REGINA DI MAIORCA
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e epigrafi che arricchiscono la facciata del duomo di Pisa, ben impaginate nello specchio degli archi alla sinistra del portale centrale, compongono nel loro insieme un lungo carme trionfale in onore della città, in distici elegiaci scolpiti in belle lettere capitali, degne di un solenne monumento dell’antichità. Sono «trascorsi 1063 anni dalla nascita di Cristo». Nel marzo del 1064, dunque, i Pisani pongono la prima pietra della loro nuova chiesa. Alcuni mesi dopo, in agosto, un buon numero di cittadini di ogni ceto si imbarca alla volta della Sicilia e spezza la catena che chiude il porto di Palermo, in mano ai musulmani. I Pisani riescono a catturare «sei grandi navi colme di ricchezze»: cinque vengono date alle fiamme, ma di una si recupera tutto il carico, e con il bottino cosí ottenuto si finanzia proprio l’erezione della chiesa. Ma non finisce qui. I nostri prodi fanno tappa alla foce del fiume Oreto, vicino a Palermo, e vedono pararsi il nemico furente, pronto a un assalto in massa. Lasciano la flotta con le armi in mano e mettono in fuga i Saraceni facendone strage, poi si accampano sul lido, mettendo a ferro e a fuoco tutto quello che c’è intorno. «Rimasti incolumi, fecero ritorno a Pisa con grande trionfo». Gli antefatti di queste imprese sono presto detti grazie a un’ulteriore epigrafe. Nel 1006, al largo di Messina, era stata riportata una vittoria schiacciante contro gli stessi musulmani che avevano in precedenza assediato e saccheggiato Pisa. Poi, nel 1015-16, grazie all’aiuto dei
In basso Pisa. La facciata del Duomo, intitolato a santa Maria Assunta, rifondato nel 1064 sul sito di due edifici sacri preesistenti. Negli archi alla sinistra del portale centrale sono murate epigrafi che celebrano le glorie della città.
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Genovesi (ma questo l’epigrafe non lo dice), venne inflitta una dura lezione a Mugetto (Al Mudjahid), il sovrano musulmano che, insediato nelle isole Baleari, aveva costituito una base ben munita in Sardegna. E, nel 1034, i Pisani giunsero ad attaccare un importante centro portuale della costa nordafricana, la città algerina di Bona (Annaba). Tra le prede di tante imprese, un’epigrafe ricorda una regina di Maiorca, che morí a Pisa dopo essere stata catturata insieme a suo figlio. Ebbe il privilegio della sepoltura in cattedrale, e dunque si convertí al cristianesimo e poté vivere in libertà. Eccone il testo: «Una stirpe reale mi generò, Pisa mi rapí; fui sua preda di guerra insieme a mio figlio. Tenni il Regno di Maiorca. Ora giaccio sepolta sotto la pietra che tu vedi, giunta al termine dei miei giorni. Chiunque tu sia, dunque, sii memore della tua condizione e con mente pia prega Dio per me» (traduzione di Antonio Milone). Chi era questa donna? Di certo, la sua qualifica di regina prese forma proprio a Pisa. In precedenza, doveva essere solo la consorte di un emiro, posto a capo di una taifa (regno islamico indipendente). Nella cultura islamica, di fatto, la donna non può assumere un titolo di sovranità (il
corrispettivo arabo di «regina», ossia malika, si usa solo per gli infedeli). Si è spesso ritenuto che fosse la moglie di Mugetto, sebbene l’iscrizione fosse allestita nel XII secolo, oltre cento anni dopo la morte di quell’emiro. Bisogna perciò rifarsi a fatti e a personaggi successivi. Entrano cosí in tema le imprese dei Pisani nelle Baleari, quando Maiorca e Ibiza furono teatro di nuovi trionfi cittadini (1113-1115). Nel 1114, in particolare, fu catturato rex Burrabe, il comandante in capo dell’esercito maiorchino, condotto a Pisa in catene. Un componimento in prosa scritto per celebrare questi eventi (si tratta dei Gesta triumphalia per Pisanos facta), racconta che la moglie di Burrabe decise spontaneamente di recarsi in Toscana e di convertirsi, cambiando nome a se stessa e al proprio figlio. Lo storico Giuseppe Scalia ha cosí ipotizzato che fosse lei la regina dell’epitaffio. Morí a Pisa intorno al 1170, e, in base a questa ricostruzione, fu inumata in un sarcofago che doveva trovarsi a piè della facciata della chiesa, sotto il carme che ancora la ricorda. Un trofeo delle imprese baleari è poi costituito dal frammento di iscrizione in lingua araba e in caratteri cufici
A sinistra, sulle due pagine le Isole Baleari in una delle mappe del Theatrum Orbis Terrarum di Willem e Joan Blaeu. 1635. A destra frammento dell’epitaffio di al-Murtadà, emiro di Maiorca morto nel 1094. Pisa, S. Sisto.
che si conserva nella chiesa pisana di S. Sisto. È quanto resta dell’epitaffio di al-Murtadà, emiro di Maiorca morto nel 1094. Era lo zio della regina di Maiorca condotta a Pisa, secondo la pista di Scalia. Stando ai Gesta triumphalia, la sorella dell’emiro – che risulterebbe madre della regina «pisana» – si era distinta per la benignità con cui aveva accolto a Maiorca i prigionieri cristiani, condotti nell’isola in seguito ai vari raid e combattimenti della marineria musulmana. I Pisani, in riconoscimento di ciò, la lasciarono libera. Lo stesso atteggiamento fu riservato ai suoi figli e ai suoi nipoti. In compenso, portarono via «una ingente quantità di oro, argento e arazzi».
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Berta di Toscana e al-Muktafi
IL GUARDIANO DEL TESORO
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n particolarissimo trofeo di arte islamica ha campeggiato per secoli sull’abside centrale del duomo di Pisa. Si tratta di un grifone bronzeo attualmente conservato nel Museo dell’Opera del Duomo. Nella collocazione originaria è oggi situata una copia (il facsimile attuale, in bronzo, ha sostituito nel 2005 quello precedente, in cemento). Un reimpiego simile si osservava a Lucca, nella basilica di S. Frediano, proprio sul culmine della facciata decorata a mosaico, dove un falco bronzeo, di analoga manifattura, è stato trasformato nel XIII secolo in un gallo-banderuola, grazie a un rivestimento in rame dorato. Il singolare manufatto, oggi conservato nel Tesoro della chiesa, si conformava cosí a una tradizione prettamente cristiana, dove il gallo posto alla sommità dell’edificio sacro, per essere esposto ai capricci del vento, richiama l’episodio del rinnegamento di Cristo da parte di Pietro («Prima che il canto galli due volte, mi rinnegherai tre volte»: Marco, 14:30) e manifesta cosí la condizione di ogni uomo, soggetto all’incostanza e al peccato. L’adattamento comprendeva un
fischietto, cosicché, quando tirava vento di libeccio, il gallo emetteva un sibilo particolarissimo. Il grifone di Pisa evoca dal canto suo un essere leggendario di enorme fortuna letteraria e iconografica, un mix del leone e dell’aquila, e non è stato sottoposto ad alcuna trasformazione. La sua natura ambivalente di essere malvagio e protettivo ha garantito la sua accoglienza nelle chiese medievali e, nel caso di Pisa, risulta persino
Sulle due pagine il Grifone di Pisa, scultura in bronzo proveniente dalla Spagna islamica e databile tra la fine dell’XI e gli inizi del XII sec. Pisa, Museo del’Opera del Duomo.
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riconfermata la sua antica funzione (condivisa con i draghi) di guardiano preposto ai tesori. Da dove veniva e qual era la sua funzione originaria? Sembra ormai accertato che si trovasse in origine nella Spagna musulmana. Risale alla fine dell’XI o agli inizi del XII secolo. A quell’epoca e a quella provenienza si connette per esempio la fine decorazione incisa sulle superfici, che traspone sul metallo un mantello di seta istoriata (tiraz) arricchito da epigrafi. Il testo ripropone tipiche formule benauguranti: «Benedizione perfetta e benessere completo / gioia perfetta e pace perpetua e salute / perfetta e promessa di felicità per il suo proprietario» (traduzione di Anna Contadini). Giunse probabilmente a Pisa come bottino di guerra. In modo analogo, infatti, un bel capitello in alabastro del X secolo con la firma dello scultore Fath, prodotto in una officina di Madinat al-Zahra (nel cuore del califfato omayyade, vicino a Cordova), fu collocato nel duomo stesso, in alto, sul timpano del braccio
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Berta di Toscana e al-Muktafi
nord del transetto. Ed è probabile che sia il capitello che il grifone provengano da Maiorca, assalita dai Pisani nel 1114. D’altronde, dopo le distruzioni subite da Madinat al-Zahra a partire dal 1010-11, per via delle guerre civili, miriadi di oggetti e di elementi architettonici si diffusero sino all’Africa del Nord. Riguardo alla funzione, le analisi hanno permesso di escludere che il grifone fosse in origine l’elemento di una fontana o un bruciaprofumi. Si trattava in realtà di un congegno acustico, i cui effetti sonori erano garantiti dall’afflusso dell’aria, con lo stesso sistema degli organi. Un sistema di tubicini, alimentato da un mantice, si collegava nella cavità interna a una coppa, per la giusta amplificazione del suono. Si può immaginare una tale meraviglia all’interno di un palazzo, vicino a un trono, o in un giardino, come fonte di delizia e di stupore. Ma c’è anche la descrizione di un palazzo del lontano Yemen, animato dai ruggiti che venivano emessi dai leoni di bronzo situati sul tetto, agli angoli dell’edificio. D’altronde, sia pure privato del suo meccanismo interno, il grifone ha continuato a risuonare in modo caratteristico anche dall’alto del duomo di Pisa, grazie all’apporto del vento. L’aria, infatti, continuava comunque a circolare al suo interno, e il bronzo garantisce di per sé ottimi effetti di risonanza: non a caso, è la lega che si utilizza per fondere le campane.
Il falco di Lucca, bronzo con decorazione incisa e iscrizione in arabo, dalla Spagna musulmana (al-Andalus). XI-XII sec. Lucca, S. Frediano.
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Lucca, la chiesa di S. Frediano. Secondo la tradizione, l’antica basilica della città sarebbe stata fondata per iniziativa del vescovo Frediano (VI sec.) e oggi la si può ammirare nelle sue forme romaniche.
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Un Longobardo sul Bosforo
Non solo i rapporti con l’Oriente islamico, ma anche quelli con l’impero bizantino richiedevano ai regnanti d’Occidente una continua attività diplomatica. Lo testimonia la lunga – e avventurosa – impresa di un vescovo di Cremona, partito, ormai quasi cinquantenne, alla volta di Costantinopoli… 48
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L’
imperatore bizantino Costantino VII Porfirogenito (944-959) era uomo colto e lungimirante. Dava molta importanza ai rapporti diplomatici, e stabilí un dialogo sia con la corte di Ottone I re di Germania che con il lontano califfato di Cordova. Si impegnò per dare in sposa all’erede al trono una principessa di stirpe franca e Berta fu la prescelta, figlia naturale di Ugo di Provenza, re d’Italia, e nipote della omonima marchesa di Toscana (vedi il capitolo precedente, pp. 26-47). Quando la giovanissima pulzella era alla corte di Bisanzio in attesa delle nozze, Costantino coltivò con impegno l’amicizia con l’Italia. Scriveva a re Lotario II, figlio del defunto Ugo e fratellastro di Berta. Ma scriveva soprattutto al marchese di Ivrea Beren-
gario (900 circa-966), ben sapendo che era a tutti gli effetti l’uomo piú potente sulla scena italica, dopo aver sconfitto Ugo nel 945. Lotario, quindi, era sostanzialmente fuori gioco, e il marchese lo teneva sotto la propria vigile «tutela» presso il palazzo di Pavia, in attesa di riprendere a tutti gli effetti il trono che era appartenuto al nonno, Berengario I. Costantino, quindi, pensò bene di invitare a corte con tutti gli onori un messo di Berengario, il quale volle affidare l’ambasceria al diacono Liutprando (920 circa-971/2), che era ai suoi servizi con la mansione di segretario. La scelta ricadeva cosí sul rampollo di una famiglia di probabili mercanti tenuta in palmo di mano dal defunto re Ugo. Proprio quel sovrano sembra
aver avuto simpatia per il giovane Liutprando, ammirandone in particolare le doti di cantore. Suo padre aveva compiuto un’ambasceria a Costantinopoli nel 927, per presentare il suo signore con i dovuti omaggi appena salito al trono. Nel 942 era venuto poi il turno del patrigno di Liutprando (il padre era morto e la madre si era risposata), che accompagnò la predetta Berta alla corte di Costantino VII.
Istanbul, S. Sofia. Il mosaico bizantino che sormonta la Porta Imperiale raffigurante Cristo e l’imperatore Leone VI il Saggio (886-912) che si prostra ai suoi piedi.
Un incrocio propizio
Stando alla testimonianza dello stesso Liutprando, Berengario covava un certo malanimo per tutto ciò che ricordava re Ugo (non a torto, perché rischiò di essere accecato su ordine di Ugo in persona). Perciò dette l’incarico al suo MONDI LONTANI
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Liutprando a Bisanzio
segretario – avuto «in eredità» proprio da Ugo – semplicemente perché cercava una persona in gamba senza scucire un soldo. A tale scopo, attaccò discorso con il patrigno, dolendosi per il fatto che quel suo figliastro non fosse pratico di lingua greca. Al che il patrigno, punto sul vivo, si lamentò per non aver investito almeno la metà delle proprie ricchezze nella formazione di Liutprando, ma Berengario gli disse che non occorreva cosí tanto. Aveva infatti pronta l’occasione propizia: l’ambasciata a Costantinopoli. Una persona che sfoggiava cosí tanta perseveranza ed eloquenza come Liutprando era quella giusta e, con un’esperienza del genere, uno come lui, talmente nutrito di latino sin dalla gioventú, si sarebbe trovato a proprio agio con il greco. Insomma, per un dignitario alle prime armi era un’offerta speciale, a prezzo piú che ragionevole, per guadagnare prestigio e affinare il proprio bagaglio di conoscenze. Confidando in ciò, il patrigno coprí di persona tutte le spese di viaggio, e fece in modo che Liutprando non si presentasse a mani vuote. Il carico dei doni da offrire al sovrano, come ricorda lo stesso ambasciatore, consisteva in «nove bellissime corazze, sette bellissimi scudi con borchie dorate, due coppe d’argento dorato, spade, lance, spiedi, quattro schiavi eunuchi, piú preziosi per l’imperatore di tutte le cose nominate» (traduzione di Pierangelo Ariatta).
La fortuna degli eunuchi
Gli eunuchi svolgevano effettivamente un ruolo-chiave nel sistema amministrativo e militare di Bisanzio, ed erano anche apprezzati nell’Islam, come abbiamo visto nella storia di Berta. Si tratta di una figura particolare di cortigiano, che ebbe origine nella lontana Cina e la cui fortuna derivava dal fatto che la menomazione sessuale rafforzava la dedizione al padrone e all’incarico che riceveva. Come proprio Liutprando evidenzia, in Europa gli eunuchi erano molto richiesti nella Spagna musulmana, ed erano forniti in modo particolare dai mercanti cristiani di Verdun (Mosa). Liutprando partí il 1° agosto 949 da Pavia e si imbarcò a Venezia il 25 agosto. Come spesso accadeva, ebbe modo di aggregarsi a due dignitari che dovevano compiere lo stesso percorso. Uno era Liutifredo di Magonza, un ricchissimo mercante inviato da Ottone I, re di Germania dal 936. L’altro era un messo della corte bizan50
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Qui sotto solido di Leone VI il Saggio. 886-912. Atene, Museo Benaki.
MATRIMONI COMPLICATI Leone VI il Saggio (886-912) mise al mondo Costantino VII con l’amante Zoe Carbonopsina, e in precedenza aveva avuto la principessa Anna da un’altra amante, Zoe. Dopo la morte della prima moglie, si uní a questa Zoe in seconde nozze e, dopo la morte della terza moglie, volle sposare la madre di Costantino in quarte nozze. Il patriarca Nicola Mistico si oppose a tanta disinvoltura, visto che proprio Leone aveva formulato norme canoniche molto intransigenti contro terze nozze e concubinato, e si rifiutò dunque di celebrare l’ultimo matrimonio. Ma Leone trovò la soluzione: depose il patriarca e richiese con successo la dispensa a papa Sergio III. La principessa Anna fu data in sposa intorno al 900 a Ludovico III di Provenza, quando costui era imperatore in pectore, ed ebbe cosí luogo la prima unione coniugale tra Franchi e Bizantini. Sembra che abbiano avuto un figlio a cui fu dato il nome, assai eloquente, di Carlo Costantino, in duplice omaggio ai Carolingi e alla tradizione di Costantinopoli. Ludovico cadde però in disgrazia, e Costantino VII volle ritentare l’unione tra i due mondi. Ugo di Provenza aveva d’altronde stabilito un rapporto di amicizia con Bisanzio non appena salí sul
trono di Pavia (927). Nel 934 venne stipulata un’alleanza militare mirata a debellare i principi di Capua, di Benevento e di Salerno, che non riconoscevano l’autorità bizantina. A tal fine Ugo e i suoi dignitari furono ricoperti di doni: come evidenzia la studiosa Renzi Rizzo, si trattava di cento libbre d’oro, mantelli, coppe di onice, manufatti vitrei di Baalbek (Libano). Nel 941 Ugo richiese poi aiuti a Bisanzio per debellare i Saraceni insediati in Provenza, a Frassineto. L’anno prima avevano stabilito una base a Saint-Maurice-d’Agaune (Svizzera) e avevano cosí interrotto le comunicazioni sia con la Provenza che con la Borgogna. Nel 944, dunque, una figlia naturale di Ugo che aveva ripreso l’illustre nome della nonna, Berta, fu data in sposa con il nome di Eudocia al futuro imperatore bizantino Romano II (959-963). Poco importava se la madre di Berta, Pezola, una delle tante concubine del re, non era una sposa legittima: per i Bizantini contava la nobiltà del sangue paterno. Giunta sul Bosforo a soli quattro anni, Berta fu solennemente accolta a corte, assumendo il nome greco di Eudocia («Benevola»), già appartenuto a illustri sovrane del passato, ma morí nel 949, prima ancora che le nozze fossero celebrate. Costantino volle ritentare l’unione con una nobildonna franca, ma il giovane Romano II preferí la splendida figlia dell’oste Anastaso, colei che da principessa assunse il nome di Teofano («Luce di Dio»), donna risoluta e intrigante, che poi sposò in seconde nozze Niceforo Focas, il rude sovrano con cui Liutprando dovette confrontarsi. E fu lei a orchestrare l’uccisione del marito, ma non ebbe poi modo di sposare il suo amante-assassino Giovanni, frattanto salito al trono, perché le venne recisamente vietato dal patriarca Polieucte. Fu costretta all’esilio, da cui poté far ritorno solo con l’ascesa al trono dei figli avuti dal primo marito Romano, Basilio II e Costantino VIII.
A destra Berta di Lotaringia, nonna dell’omonima figlia naturale di Ugo d’Arles, in una tavola a colori realizzata per l’opera Costumes Français Depuis Clovis Jusqu’a Nos Jours, stampata a Parigi nel 1834. Nella pagina accanto, in basso disegno a penna raffigurante, da sinistra, Ugo di Provenza, Lamberto II di Spoleto, Lotario II e Berengario II d’Ivrea, dal Chronicon casauriense. 1170-1182 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
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Liutprando a Bisanzio
IL CALIFFO ANDALUSO Abd ar-Rahman III apparteneva alla dinastia sunnita degli Omayyadi, che aveva retto il califfato di Damasco per poi essere esautorata dagli Abbasidi, che si insediarono a Baghdad. Frattanto la conquista di sempre piú ampi territori della Spagna garantí agli sconfitti la creazione di un centro di potere alternativo e concorrente nei riguardi dell’Islam persiano. Il percorso culminò proprio in questo sovrano di al-Andalus. Reso forte da una serie di vittorie militari contro cristiani e concorrenti musulmani, nel 929 l’emiro di Cordova si proclamò califfo, ossia capo supremo dei credenti, definendosi «il Vincitore per la religione di Dio». In questo modo, non solo si opponeva al ruolo-guida di Baghdad, ma faceva da contraltare alle pretese universali degli imam dell’Egitto, della stirpe sciita dei Fatimidi. Personaggio colto e sensibile alle arti, il sovrano ispanico legò il suo nome all’ampliamento della Grande moschea di Cordova. Il celebre monumento conobbe poi una ulteriore fase edilizia sotto suo figlio, al-Hakam II (961-976), che ingrandí e ricostruí il settore di fondo dell’aula di preghiera, con il mihrab (la nicchia che indica la Mecca) e uno spazio tripartito antistante, coperto da cupole, destinato esclusivamente al califfo e agli officianti. Per decorare questo «presbiterio» nel 971 furono richiesti musivari di Costantinopoli. Ma il primo califfo andaluso si distinse in particolare con la costruzione di Madinat al-Zahira, una fastosa residenza intrapresa nel 936 o nel 940-41 a 7 km da Cordova. Secondo le fonti arabe, un re di Roma – con ogni probabilità l’imperatore bizantino – contribuí alla costruzione con 40 colonne di marmo. In questo modo si cementava un rapporto di amicizia che scaturiva da un nemico comune: il califfato di Baghdad.
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Uno scorcio di Madinat al-Zahira, la fastosa residenza fatta costruire dal califfo Abd ar-Rahman III a 7 km da Cordova. L’impresa venne avviata nel 936 o nel 940-41.
In alto placchetta in avorio raffigurante Cristo che benedice l’imperatore Costantino VII. 945. Mosca, Museo Pushkin. tina, l’eununco Salemone. Teneva i rapporti con la Spagna e con la corte di Ottone, e stava tornando in patria. Il 17 settembre 949 Liutprando giunse alla corte di Costantinopoli, dove erano anche presenti i messi ispanici inviati dal califfo Abd ar-Rahman III di Cordova (912-961). Tutte le potenze europee erano cosí rappresentate al cospetto dell’imperatore Costantino VII.
Un’accoglienza magica
L’esperienza a corte fu sorprendente. Il diacono rimase a bocca aperta, abituato com’era alle angustie di Pavia. Egli stesso racconta con accenti di fiaba l’accoglienza principesca in una magnifica dimora. L’ostello riservato alle diverse delegazioni faceva parte della Magnaura, il Sacro palazzo imperiale. Liutprando entra nella sala di ricevimento portato sulle spalle da due eunuchi, probabilmente assiso su una portantina. Si pone in atteggiamento di proskynesis, ossia si genuflette davanti al sovrano. La sua apMONDI LONTANI
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Liutprando a Bisanzio A sinistra disegno raffigurante Berengario II che rende omaggio all’imperatore Ottone I, dal Chronicon che il vescovo e cronista tedesco Ottone di Frisinga compose nel 1143-46 e rielaborò nel 1156. Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana. Nella pagina accanto disegno di un automa in forma di pavone che fa zampillare acqua per lavarsi le mani, da un’edizione del Kitab fi ma’rifat al-hiyal al-handasiyya (Libro della conoscenza delle apparecchiature meccaniche ingegnose) di al-Jazari, ingegnere di palazzo dell’emiro artuqide Nasr al-Din Mahmud. XIII sec. Boston, Museum of Fine Arts.
parizione è soffusa di magia. Costantino siede su un trono che si eleva grazie all’azione di un argano. Quando è sollevato verso il soffitto, il sovrano mostra addirittura un nuovo vestito indosso, diverso da quello che aveva quando si trovava a terra. Il diacono non si capacita di ciò. Come avrà fatto? Ai fianchi ci sono due leoni «di immensa grandezza, non si sa se di bronzo o di legno, ma ricoperti d’oro, i quali percuotendo la terra con la coda, aperta la bocca emettevano il ruggito con le mobili lingue». Davanti al trono appare per giunta «un albero di bronzo, ma dorato, i cui rami erano pieni di uccelli ugualmente di bronzo e dorati di diverso genere, che secondo le loro specie emettevano i versi dei vari uccelli». Non c’è da stupirsi se Costantino non rivolga una sola parola all’ospite. Prima che venga congedato, c’è solo il tempo per qualche domanda di rito che gli rivolge un alto funzionario di palazzo, il logoteta, come atto di cortesia.
...solo una lettera
E quando arrivò il momento di presentare al sovrano i propri omaggi, il diacono fu colto dalla vergogna al pensiero che i messi del califfo e di Ottone avevano fatto sfoggio di ricchi doni. Il suo signore Berengario si era limitato a redigere una lettera, «per di piú piena di menzo54
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AUTOMI, UN’INVENZIONE DI SUCCESSO Gli automata, ossia i congegni meccanici, idraulici e pneumatici, dotati di movimento, hanno una lunga tradizione che risale ai trattati degli scienziati di età ellenistica come Ctesibio, Filone di Bisanzio ed Erone di Alessandria. Godettero di fortuna perché i loro prodigi scenici erano funzionali a un concetto teocratico della regalità. Lo storico dell’arte Antonio Iacobini sottolinea che proprio Costantino VII, nel suo trattato sul cerimoniale, esalta il ruolo simbolico e visivo del trono regale, con un riferimento d’obbligo al biblico trono di Salomone, al quale rimanda in particolare la presenza dei leoni sui fianchi. La sensibilità teatrale del meccanismo scenico rimanda invece all’eredità greco-romana e persiana, tramandata fino al VII secolo. Bisanzio la recuperò tramite l’Islam abbaside, che era in grado di produrre congegni raffinati all’inizio del IX secolo, come si è visto con l’orologio di Harun regalato a Carlo Magno. Già nel 827 il califfo al-Mamun (figlio di Harun) possedeva un albero in oro e argento con uccelli canori semoventi, mentre a Bisanzio l’imperatore Teofilo (829-842), appassionato delle meraviglie persiane, si fece costruire due congegni simili a opera di Leone il Saggio. Distrutti per esigenze di reimpiego, furono poi probabilmente ricreati dallo stesso Costantino VII. Federico II a Damasco ricevette dal sultano nel 1232 un orologio dotato di volta celeste, con i pianeti e le costellazioni che si muovevano al suo interno. Alcuni anni dopo, nel 1242, l’orafo parigino Guillaume Boucher fu tratto prigioniero dai Mongoli a Belgrado, e in seguito costruí per il Gran Khan una fontana magica a forma di albero, sui cui tronchi erano avvinghiati serpenti d’oro che non versavano acqua bensí acquavite, idromele e vino.
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Liutprando a Bisanzio
L’EUROPA INTORNO AL 1000 E LE INVASIONI DEI SECOLI IX-X Islanda, Groenlandia
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In alto miniatura raffigurante l’ingresso trionfale di Niceforo II a Costantinopoli, dal Codex Graecus Matritensis Ioannis Skyllitzes. XII sec. Madrid, Biblioteca Nazionale. Don
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gne». L’Italia, in questo modo, avrebbe fatto una ben misera figura. Per risolvere una situazione cosí imbarazzante, Liutprando decise di presentare i propri doni personali come se fossero stati offerti da Berengario stesso. Seguí un sontuoso banchetto, a Natale, in una splendida residenza che si trovava nei pressi dell’ippodromo. Gli invitati nell’occasione sono sdraiati anziché seduti, e il servizio da tavola è tutto in oro. Terminato il pranzo, vengono recati in sala tre enormi vasi d’oro colmi di frutta, condotti su carrelli ricoperti di tessuti purpurei. Due di questi vasi vengono issati e calati sulla mensa grazie a un argano girevole che è allocato sul soffitto. Le funi di manovra vengono agganciate alle anse dei vasi grazie ad anelli d’oro. Entrano quindi in scena gli acrobati, e la meraviglia raggiunge il suo apice. Il primo compare con un’asta «di ventiquattro piedi o piú» in equilibrio sulla testa grazie a un perno ligneo. Giungono poi due fanciulli che salgono sull’asta e fanno diverse evoluzioni, sia in coppia che da soli, e ogni movimento non compromette minimamente la perfetta tenuta dell’equilibrio.
Una sequela di regali d’oro
Nella settimana che precede la Domenica delle Palme (24-30 marzo 950) si tengono infine le elargizioni di rito ai militari e ai funzionari di palazzo. Liutprando è prossimo alla partenza e Costantino lo invita ad assistere a questa cerimonia, dove una sequela interminabile di persone riceve una o piú libbre di monete d’oro e uno o piú mantelli a seconda dell’importanza
«PREISTORIA» DEL RAZZISMO? Lo stato di guerra fornisce la chiave di interpretazione dell’opuscolo di Liutprando, Relazione di un’ambasceria a Costantinopoli, con le sue indubbie esagerazioni, sia nel ritratto caricaturale di Niceforo che nella kafkiana rievocazione dell’ambiente. Benedetto Croce, nel 1936, ravvisa nelle parole del vescovo una pagina di «preistoria» del razzismo, ma la pelle scura del «negus» Niceforo, paragonato a un Etiope che ci si augura di non incontrare nottetempo, o la purezza dei Latini contrapposta alla corruzione dei Greci, non riflettono un’ideologia o un clima generale di ostilità e di diffidenza. Simili toni prendono corpo e ragion d’essere in una situazione ben determinata, tant’è che lo stesso Liutprando mostra un approccio diametralmente opposto quando rievoca la missione del 949.
che ciascuno riveste. Tramite il logoteta, il sovrano chiede all’ospite italico se tutto ciò gli piaccia, e il diacono risponde con una schiettezza disarmante: «Mi piacerebbe assai, se mi giovasse», facendo seguire una riflessione evangelica sul ricco e su Lazzaro in paradiso (Luca 16:1931). Come poteva piacere al ricco Epulone la felicità del mendicante, se non ne avrebbe ricavato nulla? Costantino risponde da lontano con un sorriso, e con un pizzico di vergogna lo invita ad avvicinarsi. Gli regala cosí «un grande pallio con una libbra di monete d’oro». Dopo il rientro in patria, però, Liutprando ebbe un’amara esperienza. Lotario II morí, e Berengario salí sul trono italico di Pavia, associando MONDI LONTANI
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Liutprando a Bisanzio
Ritratto del generale bizantino Niceforo II Foca (912-969), acclamato imperatore romano d’Oriente nel 963. XVI sec. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana.
alla corona il proprio figlio Adalberto. Come premio per la sua dedizione, Berengario sollevò il diacono dall’incarico che ricopriva alla corte di Pavia, e probabilmente fece man bassa di tutto il suo patrimonio familiare. Si stava verosimilmente attuando una radicale operazione di ricambio dei ranghi, a danno di chi, come lui e come il suo patrigno, aveva avuto incarichi e benemerenze presso i sovrani defunti. Liutprando dovette cosí espatriare, trovando accoglienza in Sassonia, alla corte del predetto Ottone I. Non andò meglio alla vedova di Lotario, Adelaide di Borgogna, che fu incarcerata, per poi essere liberata da Adalberto Atto, il capostipite della dinastia dei Canossa. In seguito andò in sposa a Ottone I, quando cinse la corona d’Italia (951). Ed è probabile che fu proprio lei a introdurre Liutprando alla corte germanica.
Un libro sui popoli del mondo
Il diacono conobbe proprio in Sassonia Recemundo (Rabi ibn Zayd), vescovo ispanico di Elvira (presso Granada). Il prelato mozarabo («arabizzato», ossia un cristiano posto sotto il dominio islamico e inquadrato nella cultura islamica) era presente al cospetto del re Ottone come messo del califfo di Cordova. Il sovrano Abd al-Rahman III lo ammirava molto per le sue conoscenze scientifiche. Come evidenzia lo storico Alessandro Vanoli, il vescovo scrisse un’opera in arabo nota come Calendario di Cordova (961), dove le ricorrenze dei santi sono abbinate a informazioni di tipo astronomico e agronomico, senza trascurare prescrizioni igieniche legate ai vari periodi dell’anno. Recemundo strinse amicizia con Liutprando e lo invitò a realizzare un libro che ricostruisse le intricate vicende di quegli anni, dalla morte di Carlo III il Grosso (888) all’epoca contemporanea, incrociando le storie di diversi popoli del mondo euromediterraneo, con particolare riguardo ai Franchi, agli Italici e ai Bizantini. L’opera si intitolò Antapodosis (Restituzione), dal momento che, culminando nelle vicende di Berengario, essa doveva pareggiare i conti che Liutprando aveva in sospeso con il signore che lo aveva defenestrato: doveva rendergli tutto quel che meritava. Ma nel 961 Berengario fu definitivamente messo fuori gioco da Ottone e, l’anno successivo, il sovrano assegnò a Liutprando la sede vescovile di Cremona. Nel 962 Ottone assunse a Roma la corona imperiale e, nel 968, affidò a Liutprando l’incarico di una nuova missione a Costantinopoli. Questa volta Liutprando riportò un’impressione ben diversa. Era sul trono Niceforo II Focas, 58
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Cremona si propone di illustrare dettagliatamente le ragioni dell’insuccesso della propria missione, mettendo in primo piano i modi oltraggiosi in cui è stato accolto, la ripugnanza di Niceforo e del suo stesso ambiente. Lo splendore del rituale e la maestà del sovrano che tanto avevano colpito Liutprando nella precedente ambasceria del 949, erano ormai un lontano ricordo. All’arrivo, il 4 giugno 968, Liutprando si ritrova davanti alla Porta d’Oro sotto una pioggia battente, appiedato, perché non si consente che cavalchi in pompa magna per le vie della città. A lui e alla sua comitiva viene assegnata una sorta di prigione: un ampio e scomodo palazzo di pietra assai lontano dalla corte, freddo d’inverno e asfissiante d’estate. Manca l’acqua e ogni richiesta va rivolta dietro moneta sonante a un custode direttamente fornito dall’inferno, che fa la cresta sugli acquisti e propina quanto ci sia di piú avvilente, a partire da un vino allungato con pece, resina e gesso.
Un ritratto ripugnante
rude uomo d’armi, e tra Bisanzio e l’Occidente c’era uno stato di forte tensione. Per risolvere ogni pendenza, Ottone voleva proporre una unione matrimoniale tra il proprio figlio e una principessa bizantina, ma le cose non andarono bene. Il resoconto dei fatti è fornito da un brillante opuscolo scritto dallo stesso Liutprando nei primi mesi del 969, a ridosso degli eventi narrati. Nota come Relazione di un’ambasceria a Costantinopoli, l’opera ci è giunta solo grazie alla preziosa trascrizione condotta nell’anno 1600 da Enrico Canisio su un codice oggi perduto, già conservato presso la biblioteca del duomo di Treviri. Sin dalle prime righe, indirizzate ai propri sovrani, – gli Ottone padre e figlio, e l’imperatrice Adelaide –, il vescovo di
Valva di dittico che ritrae l’imperatore Ottone I con la moglie Adelaide e il figlio Ottone II, che rendono omaggio a Cristo. X sec. Milano, Castello Sforzesco.
L’incontro col sovrano avviene tre giorni dopo, la mattina di Pentecoste. Niceforo è un mostro che viene dalla Cappadocia, «un pigmeo con la testa grossa», gli occhi piccoli degni di una talpa, una «faccia da porco» inghirlandata da una fitta chioma di capelli, il collo piccolo, la carnagione scura – secondo lo storico bizantino Leone Diacono, olivastra, ma bruciata dal sole nel corso di tante campagne militari –, vestito di una vecchia tunica finissima di lino, sudicia, ingiallita e consunta, con ai piedi calzari che andavano di moda ai tempi degli antichi Greci, «arrogante nel parlare, volpe per l’ingegno, Ulisse per lo spergiuro e la menzogna!». A pranzo il vescovo Liutprando venne relegato a quindici posti di distanza da Niceforo per evidenziare la scarsa importanza che gli veniva attribuita, per giunta trovandosi in un settore della mensa sfornito di tovaglia. Dovette subire un pasto alquanto lungo e «osceno», con pietanze condite in modo eccessivo, con fiumi d’olio e con una innominabile sostanza estratta dalle interiora dei pesci. A tanta smodatezza, degna di un convito di ubriachi, si univano i ghigni e le ingiurie del sovrano. Liutprando fu invitato a parlare della potenza politica e militare del suo signore. Aveva risposto in modo misurato e veritiero, ma Niceforo, vero e unico imperatore romano sulla faccia della terra, non aveva dubbi. Quell’ammasso repellente di crapuloni non poteva essere definito un esercito, e tantomeno un esercito imperiale. Quei soldati erano incapaci di stare a MONDI LONTANI
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Liutprando a Bisanzio
ARRIVANO I RUSSI! La grande deferenza mostrata dalla corte di Niceforo nei riguardi dell’ambasciatore bulgaro nasce da una situazione ingarbugliata. I Bizantini avevano stabilito gravosi impegni di pace con quella popolazione, per tenerla fuori dai propri confini, e pagavano anche un tributo. Da tempo non arrivava alcunché, e giunse allora a Costantinopoli una delegazione per riscuotere gli arretrati. Niceforo era fresco di smaglianti successi sul fronte orientale, aveva infatti conquistato la Cilicia e Cipro (965) e si proponeva di sbarcare in Siria. L’arrivo dei «barbari» che gli presentavano il conto non poteva capitare in un momento meno opportuno. Sentendosi in una posizione di forza e adirato per l’oltraggio subito, il sovrano pagò i suoi debiti in frustate e rimandò i messi in Bulgaria, feriti e squattrinati. Iniziò blandamente un’offensiva su quel fronte, ma era troppo preso dalle sue imprese nel Mediterraneo. Pensò allora di coinvolgere il principe Svjatoslav, figlio di una principessa cristiana dell’antica Rus’ (attuale Ucraina), Olga di Kiev, che era in rapporti di amicizia con Bisanzio. Agguerrito e potente, il russo poteva assalire i Bulgari su
Nella pagna accanto miniatura raffigurante l’apostolo Pietro, dal Codex Gertrudianus, integrazione del Salterio di Egberto commissionato dalla stessa principessa Gertrude Piast. Fine dell’XI-inizi del XII sec. Cividale del Friuli, Museo Archeologico Nazionale.
incarico di Niceforo, dietro lauto tributo. Nel 968 arrivò facilmente a una prima vittoria, ma questo comportò la formazione di una testa di ponte russa sul corso del Danubio. Una forza ben piú risoluta incombeva ora sui confini. Niceforo comprese troppo tardi di aver sbagliato le proprie mosse. Corse ai ripari ricucendo l’amicizia con Pietro, zar dei Bulgari, ma questi morí, e suo figlio Boris II fu deposto da Svjatoslav nel 969. Del tutto inutile si rivelò il tentativo di alleanza matrimoniale, che prevedeva le nozze di due principesse bulgare con i porfirogeniti Basilio e Costantino. Solo la brillante campagna militare intrapresa nel 971 dal successore di Niceforo, Giovanni Zimisce, permise di ristabilire la situazione. A conti fatti, Liutprando aveva ragione di protestare. Bisanzio aveva due pesi e due misure: se erano in ballo ragioni di strategia politica, le nozze tra barbari e porfirogeneti erano ammissibili; se la proposta arrivava dai «concorrenti» germanici, che volevano scippare ai Bizantini la qualifica di Romani, scattava immediatamente l’ostruzionismo piú risoluto e intransigente.
cavallo e persino impacciati nel combattere a piedi, per la pesantezza e l’ingombro dell’armamento. Erano solo imbattibili nell’ingordigia. La tavola era il loro vero campo di battaglia. Queste erano le forze di terraferma. Quanto alle forze sul mare, Ottone non poteva fare affidamento su una flotta. Costantinopoli contava su una grande potenza, sulla terra e sulle acque, e presto Ottone, che aveva problemi a impadronirsi anche di una pur piccola città, sarebbe stato spazzato via da un profluvio di milizie, innumerevoli come le stelle in cielo o le onde del mare (la «piccola città» era la bizantina Bari, che Ottone aveva tentato invano di conquistare).
L’imperatore concluse la sua filippica con una celebre sentenza: «Voi non siete Romani, siete Longobardi!». Ma la replica di Liutprando fu lucida e spiazzante. Egli infatti si mostrò fiero della sua discendenza barbarica. Come il suo nome suggerisce, d’altronde, doveva essere proprio di stirpe longobarda (si chiamava cosí il celebre re che si trovò sul trono di Pavia dal 712 al 744). Ebbene, per Liutprando l’appellativo «romano» equivale a un insulto. Romolo, il fonUn’altra miniatura dal Codex Graecus Matritensis Ioannis Skyllitzes raffigurante il vittorioso assedio di Niceforo a Chandax (Candia). XII sec. Madrid, Biblioteca Nazionale.
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Liutprando a Bisanzio
Istanbul, l’interno di S. Sofia. Liutprando, nella Relazione di un’ambasceria a Costantinopoli, narra con toni sferzanti l’ingresso di Niceforo II nella basilica. datore dell’Urbe, non era forse un fratricida nato da un adulterio, che aveva congegnato un covo di criminali, tra cui un buon numero di assassini, schiavi in fuga e debitori insolventi? Questa turpe brigata era alle radici della romanità. Gli stessi imperatori antichi erano nati da quel seme. Longobardi, Sassoni, Franconi e quant’altri, fanno bene ad attribuire l’epiteto di «romano» a un nemico, bollandolo in tal modo come pregno di tutti i vizi del mondo. Se, poi, l’atteggiamento di Niceforo non muterà di segno e si dovrà cosí dare la parola alle armi, saranno i fatti a dire se gli «imbelli» Longobardi valgono davvero meno dei «potenti» Bizantini (che amano tanto definirsi «Romani»). A un primo colloquio segue il solenne ingresso in S. Sofia, nella proverbiale cerimonia della proeleusis («processione»). Lungo il percorso che va dal Sacro Palazzo alla Grande Chiesa è penoso vedere la gente che fa da ala al corteo, adorna di umili scudi e giavellotti e in larga parte sopraggiunta a piedi nudi, in ossequio al sovrano, mentre gli stessi nobili in veste da parata sono ridicoli, poiché indossano capi ormai lisi a forza di essere usati. Il coro saluta in chiesa Niceforo come la Stella del Mattino, ma agli occhi di Liutprando un simile omaggio è grottesco: come si fa a paragonare al pianeta Venere, che annuncia la luce dell’alba, un «carbone spento» che cammina come una vecchia?
Tutta l’Italia per una sposa
Bisanzio e l’impero d’Occidente erano in rotta per la sovranità sul Mezzogiorno italiano. Su consiglio dello stesso Liutprando, Ottone I aveva sospeso le operazioni militari in Puglia, come segno di buona volontà, e proponeva un’alleanza matrimoniale come pegno di una «pace eterna» tra gli imperi. Niceforo poteva offrire in sposa a suo figlio Ottone II la figlia del defunto imperatore Romano II (959-963) e della consorte Teofano. Si trattava però di una proposta inaccettabile già solo da un punto di vista protocollare, perché la principessa era porfirogenita: appena nata, era stata avvolta dai preziosi ed esclusivi tessuti tinti di porpora che erano prerogativa degli eredi di un legittimo sovrano (che aveva a sua volta assunto il potere come erede diretto della dinastia regnante). La principessa non poteva essere quindi data in sposa all’erede di un re qualunque, e tale era Ottone, nonostante la sua ingenua pretesa di essere ricono62
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Liutprando a Bisanzio
A sinistra acquaforte seicentesca raffigurante Teofano che aiuta il generale Giovanni Zimisce a introdursi in città, affinché possa uccidere suo marito, Niceforo. A destra il probabile trionfo dell’imperatore Giovanni I Zimisce nel ricamo in seta di origine bizantina noto come sudario del vescovo Günther. XI sec. Bamberga, Museo Diocesano.
sciuto come imperatore. Una proposta del genere, per essere seriamente vagliata, richiedeva una ingente contropartita: tutta l’Italia, a partire da Ravenna e da Roma, doveva rientrare nell’orbita di Bisanzio. Cosí si pronunciò un collegio di alti funzionari e di consulenti presieduto dal prefetto Leone, fratello di Niceforo. Liutprando ignorò in blocco una tale follia, glissò sulla vessata questione del titolo imperiale, e controbatté che si era verificato un precedente significativo: ammesso che Ottone sia solo un re, il ben meno potente Pietro, zar dei Bulgari, non poté forse impalmare Maria, la figlia del principe Cristoforo, nel 927? La risposta fu secca e implacabile: era senz’altro vero, «ma Cristoforo non era porfirogenito». Suo padre, infatti, Romano I Lacapeno (920-944), era salito al trono come co-reggente di fianco al giovane sovrano legittimo (Costantino VII, 913-959). Un affronto si aggiunse poi all’atteggiamento intransigente di Niceforo. Nell’ennesimo convito a cui dovette partecipare, a Liutprando fu assegnato un posto di second’ordine rispetto all’ambasciatore dei Bulgari. Era la goccia che fece traboccare il vaso. Non solo lo zar di quel popolo poteva stabilire agevolmente una pace con il sovrano di Bisanzio con tanto di nozze, ma il suo rozzo rappresentante, «rapato, sudicio e cinto di una catena di bronzo», poteva essere tranquillamente anteposto all’ambasciatore di Ottone. Liutprando abbandonò la tavola e fu rincorso da Leone e da Simone, un funzionario di palazzo. Inviperiti per il suo
gesto plateale, si giustificarono adducendo il fatto che gli accordi di pace con lo zar Pietro imponevano di anteporre il messo dei Bulgari al messo di ogni altro popolo, e ingiunsero a Liutprando di rimanere a pranzo, confinato nella mensa riservata ai servitori. Il vescovo di Cremona sopportò il diktat senza battere ciglio, anche perché gli venne servito un capretto davvero squisito, cucinato con maestria, tale da cancellare d’incanto ogni malanimo. Quella pietanza veniva direttamente dalla tavola del «santo» imperatore: è l’unico momento in cui Liutprando ha un moto di riconoscenza e di ammirazione per l’odiato Niceforo.
L’ennesimo affronto
La porpora costituí per Liutprando una autentica ossessione: fece da ostacolo alla sua proposta di pace, e innescò uno spiacevole incidente. Trovandosi a Costantinopoli, vale a dire in uno dei maggiori centri di manifattura tessile del Mediterraneo, il vescovo si era prodigato a raccogliere un gran numero di drappi istoriati da riportare a Cremona, per impreziosire la sua cattedrale. Ne aveva acquistati molti in moneta sonante, altri gli erano giunti in dono da amici che aveva in città. Quando finalmente si apprestava a ritornare a casa, in precarie condizioni di salute, dopo un lunghissimo soggiorno forzato che aveva rasentato la prigionia, dovette subire l’ennesimo affronto. Nel corso di un incontro piuttosto teso con il patrizio eunuco Cristoforo, il 17 settembre 968 – scaturito da una «sciaguMONDI LONTANI
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Liutprando a Bisanzio rata» lettera in cui papa Giovanni XIII aveva definito Niceforo «imperatore dei Greci» anziché «dei Romani» –, venne ingiunto a Liutprando di restituire cinque magnifici drappi intinti nella porpora. Sete lavorate in tal modo potevano essere indossate solo dai piú alti dignitari, potevano essere prodotte solo negli atelier del Sacro Palazzo, e ne era vietata l’esportazione nel modo piú assoluto. I funzionari bizantini erano poi convinti che quelle sete fossero destinate alla corte di Ottone, ed era impensabile che quel misero sovrano potesse fregiarsi della porpora dei Romani. In merito a tali stoffe, veniva dunque negata l’apposizione del bollo di piombo che permetteva l’uscita delle merci durante i controlli doganali. Il vescovo avrebbe comunque ricevuto il rimborso per le somme investite nell’acquisto dei beni sequestrati.
Un monarca inflessibile
L’ONAGRO FUNESTO L’episodio della riserva (vedi a p. 72) introduce un’ampia riflessione. Una sentenza dell’Anticristo, libello profetico scritto in greco dall’antipapa Ippolito, condannato all’esilio in Sardegna nel 235, suona cosí: «Il leone e il leoncino, uniti, stermineranno l’onagro». Liutprando interpreta il vaticinio in questo modo, rapportandolo alla situazione del suo tempo: Ottone I («il leone») e suo figlio Ottone II («il leoncino») «stermineranno l’onagro, cioè l’asino selvatico Niceforo, che non a torto è paragonato ad un asino selvatico, data la sua vanagloria ed il suo incestuoso matrimonio con la propria signora e comare». L’accusa di incesto derivava dal fatto che Niceforo aveva fatto da padrino al battesimo dei figli di primo letto della moglie Teofano, i porfirogeniti Basilio II e Costantino VIII, figli di Romano II. Secondo una severa norma canonica, infatti, il padrinato fondava un rapporto spirituale che non avrebbe consentito l’unione carnale di Niceforo con la madre dei due figliocci. La lussuria e la «vanagloria» dell’onagro derivano poi dal famoso De rerum naturis seu universo (842) dell’enciclopedista Rabano Mauro. Al di là della lettura moralistica, è però interessante sottolineare come l’onagro funzioni in chiave negativa quale simbolo di appartenenza etnica. Nativo della «selvaggia» Cappadocia, Niceforo è raffigurato da un animale esotico «rozzo» e irrequieto, mentre lo stesso onagro sin dall’epoca preislamica veniva considerato in Persia come simbolo di forza, tenacia e vigoria sessuale.
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Liutprando reagí vivacemente a questa imposizione e fece appello al fatto che Niceforo in persona lo aveva autorizzato ad acquistare e a riportare in patria tutto quel che avrebbe gradito, ma gli venne ribattuto che il «santo imperatore» non intendeva con questo autorizzarlo ad acquistare merci vietate. A nulla serví il riferimento alla precedente missione svolta per conto del marchese Berengario, quando Liutprando era ancora un semplice diacono e aveva potuto riportare stoffe migliori e in maggior quantità senza alcun controllo, e a nulla giovò l’aver sottolineato che i mercanti di Amalfi e di Venezia trafficavano in sete di tal fatta in gran numero, tanto che in Italia si potevano incontrare prostitute da due soldi e ciarlatani cosí abbigliati. I funzionari ribatterono con fermezza che la differenza di trattamento era dovuta al fatto che all’epoca della precedente missione sedeva sul trono il mite Costantino VII, incline ad accattivarsi le simpatie di tutti, mentre Niceforo era un sovrano tutto d’un pezzo che non faceva sconti a chicchessia. Quanto alla condotta dei mercanti italici, si trattava di un intollerabile contrabbando che sarebbe stato severamente punito: «Non lo faranno piú; saranno perquisiti accuratamente, e se verrà scoperta qualcosa del genere, il colpevole avrà tagliati i capelli e sarà ucciso a colpi di frusta». Come si è accennato, Liutprando fu costretto a soggiornare al cospetto di Niceforo ben oltre il necessario. L’imperatore, infatti, prometteva a vuoto che il suo ospite sarebbe stato presto congedato, e inanellava incontri e conviti in varie circostanze, rinnovando il proprio sdegno nei (segue a p. 71)
Nella pagina accanto castello di Qusayr Amra (Giordania). Pittura murale raffigurante un onagro, asino selvatico di cui Niceforo possedeva numerosi esemplari. Prima metà dell’VIII sec.
In questa pagina formella in avorio raffigurante Cristo che riceve la cattedrale di Magdeburgo dall’imperatore Ottone I. 962-968. New York, The Metropolitan Museum of Art. MONDI LONTANI
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Liutprando a Bisanzio
TRA AMALFI E BISANZIO Nella primavera del 1065, l’abate Desiderio di Montecassino, nobile longobardo (si chiamava in origine Dauferio ed era discendente dei duchi di Benevento) si recò ad Amalfi, la città marinara che costituiva uno degli scali piú importanti del Mediterraneo. Tra le merci che vi transitavano, i prodotti tessili dell’Oriente avevano un peso preponderante, e Desiderio era appunto interessato all’acquisto di stoffe pregiate. Secondo un uso mutuato dall’apparato di corte bizantino, ne voleva fare dono per un ospite di spicco che avrebbe prossimamente omaggiato la sua abbazia, l’imperatore Enrico IV. Recatosi in cattedrale, rimase folgorato dalle imposte bronzee figurate del portale, fuse a Bisanzio con la raffinata applicazione dell’argento in agemina su commissione del notabile amalfitano Pantaleone dei Mauroni. «La loro bellezza lusingò profondamente i suoi occhi», testimonia il cronista Leone Marsicano (1046 circa-1115). Furono realizzate nel 1057 con la mediazione di un agente della Siria, Simone di Antiochia, ed esprimono anche dal punto di vista figurativo un ponte tra l’Oriente e l’Occidente. In basso, infatti, si notano l’apostolo Sant’Andrea, protettore di Amalfi e patrono della Chiesa greca, e San Pietro, il primo patriarca di Roma. Nel 1066 il predetto Pantaleone e suo padre Mauro, su impulso dell’abate, donarono proprio a Desiderio imposte bronzee della stessa fattura e della stessa provenienza, destinate a decorare la porta principale della chiesa di Montecassino. E da quel momento l’abate fu ossessionato dall’idea di ricostruire l’intera chiesa nel segno della maestria levantina. Probabilmente ricorrendo all’aiuto di Pantaleone e di Mauro, furono individuati degli agenti di fiducia che si recarono a Costantinopoli per reclutare uno stuolo di musivari. Il pavimento della nuova chiesa fu cosí coperto di tarsie policrome, e superfici figurate a mosaico si distesero lungo le pareti sui punti nodali dell’edificio. Una solenne iconostasi marmorea giunse via mare proprio da Bisanzio e venne montata sul fondo dell’aula a cingere il coro dello spazio monastico. La solenne consacrazione, nel 1071, fu un evento di grande risonanza, tanto che diversi personaggi illustri sentirono la necessità di presentare i propri omaggi a cerimonia avvenuta. Nel 1072, la devota Agnese di Poitou (1025 circa-1077), vedova dell’imperatore Enrico III e madre di Enrico IV, ormai pellegrina «a tempo pieno», decise di soggiornare per ben sei mesi a Montecassino, giungendovi carica di ricchi doni come una novella regina di Saba in visita al tempio di Salomone, come attesta il predetto Leone Marsicano. Per decorare la sepoltura di san Benedetto, giunse poi un prezioso altare istoriato, rivestito in lamina d’oro, che fu disposto e donato dall’imperatore bizantino in persona, Michele VII Ducas (1071-78). La chiesa desideriana fu purtroppo distrutta da un terremoto nel 1349, ma tra le sue sopravvivenze ci sono proprio le imposte bronzee volute dal grande abate. Riallestite nel XII secolo, si sono salvate per miracolo anche dal tragico bombardamento del 1944.
A destra le imposte bronzee del portale dell’abbazia di Montecassino, donate dal notabile amalfitano Pantaleone dei Mauroni all’abate Desiderio. Nella pagina accanto Desiderio presenta a san Benedetto il Lezionario Cassinese dei Santi Benedetto, Mauro e Scolastica, uno dei codici piú famosi scritti a Montecassino al tempo dell’abate Desiderio, miniatura tratta dal codice stesso. 1070 circa.
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Liutprando a Bisanzio
LE PORTE DI PANTALEONE Le porte bronzee di Amalfi e di Montecassino si legano alle figure di Mauro e di suo figlio Pantaleone, personaggi di spicco nella storia della città tirrenica. Il loro capostipite era Maurone, che rientrava nel novero dei conti, i magistrati che reggevano Amalfi nella seconda metà del IX secolo. Grazie a un bel giro di affari, Mauro riuscí a costruire un palazzo piuttosto vistoso nel quartiere amalfitano della capitale bizantina. L’insediamento si trovava sul Corno d’Oro, sulla riva di fronte a Galata, ed era affiancato dal rione dei Veneziani (nell’attuale assetto di Istanbul, l’area interessata si trova nella parte nord del quartiere di Eminönü). Mauro era per giunta il console (ypathos) ossia il capo della colonia amalfitana. Alla vigilia dello scisma tra le Chiese di Roma e di Costantinopoli, nel 1054, proprio il palazzo di Mauro ospitò la delegazione pontificia che tentò di evitare lo strappo. Il primogenito di Mauro, Pantaleone, nacque ad Amalfi o proprio a Costantinopoli. Nel 1063 progettò un’intesa in funzione antinormanna per difendere gli interessi della madrepatria e a tal fine coinvolse il vescovo Benzone di Alba, sostenitore dell’antipapa Cadalo di Parma (Onorio II), e l’imperatore bizantino Costantino X Ducas. In qualità di messo del sovrano, Pantaleone si recò poi a Roma per avere udienza da Onorio II in merito alle vessazioni compiute dai Normanni. Questa situazione poteva essere testimoniata a viva voce dai Pugliesi e dai Calabresi che facevano parte della delegazione. Ma l’antipapa aveva frattanto deciso di rifugiarsi a Castel Sant’Angelo, cosicché l’Amalfitano e gli uomini del suo seguito dovettero raggiungerlo navigando sul Tevere, travestiti da mercanti per non attirare troppo l’attenzione, come racconta lo storico Giuseppe Gargano. La posizione di Cadalo/Onorio era infatti precipitata. I suoi sostenitori nel campo dell’aristocrazia germanica decisero di parteggiare per il suo rivale, Alessandro II, e lo stesso Enrico IV, che doveva essere coinvolto nell’azione antinormanna di fianco a Costantino, non dette il suo appoggio.
Padre e figlio furono accomunati da una notevole sensibilità religiosa e culturale, unendo un’intensa vita pubblica alla devozione e alla committenza. Mauro arrivò a vestire l’abito monastico a Montecassino, a ridosso della consacrazione della nuova chiesa abbaziale (1071), mentre Pantaleone rimase sempre sulla scena politica con un ruolo molto attivo. Nel 1087 fu a capo del contingente amalfitano alla battaglia di al-Mahdia, dove combatté di fianco ai Pisani e ai Genovesi contro i pirati tunisini guidati da Timino. Mauro e Pantaleone protessero un uomo di cultura come il monaco Giovanni di Amalfi, che, in un cenobio latino del Monte Athos – fondato proprio dagli Amalfitani nel X secolo –, si impegnava a tradurre agiografie (storie di santi) e testi sacri dal greco. E, se si segue una discussa notizia fornita dallo storico Amato di Montecassino, Mauro (o suo figlio) realizzò due ospedali in Terra Santa per i pellegrini, rispettivamente ad Antiochia e a Gerusalemme. Quest’ultimo, dedicato a san Giovanni Battista, è assai significativo, perché sorgeva proprio davanti al Santo Sepolcro, e dette vita all’ordine dei Giovanniti (noti anche come Ospitalieri), i futuri Cavalieri di Malta. Tra il 1065 e il 1070 circa, Mauro regalò all’abbazia di S. Maria di Farfa, nella Sabina, un prezioso cofanetto portareliquie di bottega amalfitana, in avorio intagliato, con una raffinata iconologia evangelica incentrata sulla scena della Dormizione della Vergine, dedicataria del cenobio. La lunga epigrafe di corredo propone una invocazione alla Madonna nella quale il committente/ penitente in odore di monacazione gioca con il proprio nome, alludendo alle tenebre del peccato (Mauro=moro, oscuro). Si riportano poi, di seguito, i nomi di tutti i suoi 6 figli, in modo che la Vergine, senza distinzione, possa proteggere tutta la famiglia. Nel 1070, in segno di amicizia con l’abate Ildebrando di Sovana (il futuro papa Gregorio VII), Pantaleone commissionò la porta bronzea della basilica romana di S.
Nella pagina accanto le imposte bronzee della cattedrale di Amalfi, realizzate a Bisanzio, nel 1057, su commissione di Pantaleone dei Mauroni. A sinistra cofanetto portareliquie in avorio intagliato di bottega amalfitana con la Dormizione della Vergine, dono di Mauro di Amalfi all’abbazia di S. Maria di Farfa, nella Sabina. 1065-1070.
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riguardi di Ottone e insistendo nel richiedere senza alcuna contropartita la propria sovranità sui territori detenuti da Pandolfo I Capodiferro, principe di Capua e di Benevento. In realtà ogni questione era stata chiusa piuttosto repentinamente, e il soggiorno era tirato per le lunghe onde lasciare Ottone sulle spine, impedendo a Liutprando di diffondere prima del tempo notizie sulle alleanze e sulle manovre in atto. Niceforo, infatti, non si faceva remore ad accogliere alla luce del sole Grimizone, messo di Adalberto, re d’Italia (con il defunto padre Berengario II) detronizzato da Ottone nel 952. Offrendosi come ostaggio nella fortezza bizantina di Bari, Adalberto si alleava con Niceforo stesso mettendo a disposizione il proprio fratello Cona con un contingente di armati. Dal canto suo, Niceforo inviava un cospicuo donativo per imbaldanzire quei mercenari, oltre a un esercito «raccogliticcio» al comando di un personaggio sessualmente ambiguo («una certa uomo»), forse prescelto proprio in segno di scherno nei confronti del nemico Ottone.
Un valente condottiero
Paolo fuori le Mura, realizzata a Costantinopoli come quelle di Amalfi e di Montecassino. In una formella il donatore appare prostrato tra Cristo e san Paolo, e chiede loro perdono per i propri peccati, come recita l’epigrafe di corredo. Nel 1076, infine, lo stesso Pantaleone donò l’ultima porta della «serie» al santuario di S. Michele Arcangelo sul Monte Gargano. Una singolare epigrafe detta le regole di conservazione del prezioso manufatto: «Chiedo ai rettori di Sant’Angelo Michele e li scongiuro di pulire una volta all’anno queste porte, cosí come sono ora che noi le esponiamo, in modo che siano sempre brillanti e limpide» (traduzione di Valentino Pace). Si noti la raffinatezza con cui si raccomandano la brillantezza del bronzo (che a tal fine doveva essere rivestito di grassi) e la limpidezza dei decori in argento (che senza un’opera costante di pulizia rischiavano di annerirsi).
Nel mentre, Niceforo si preparava ad assalire la Siria con ben altro impegno. Liutprando non ha alcun interesse a ricordarlo, ma il nobile sovrano si era segnalato in molteplici occasioni come un condottiero di solida tempra. La sua ascesa al trono fu determinata da una formidabile serie di vittorie contro munitissimi presidi musulmani. Aveva riconquistato Creta, Cipro e la Cilicia, e ora le imminenti operazioni avrebbero segnato la caduta di Antiochia e di Aleppo. Gli elevati costi di siffatte imprese erano ricaduti sulla popolazione con ingenti prelievi fiscali. Le scorte alimentari erano state riversate sul mercato a prezzi insostenibili e proprio alla vigilia dell’invasione della Siria, come lo stesso Liutprando attesta, la carestia era giunta a Costantinopoli. Frattanto, il 25 luglio 968, durante un convito in località Umbria, a diciotto miglia dalla capitale, Niceforo chiese a Liutprando se Ottone possedeva riserve con animali di un certo interesse, come quegli asini selvatici (onagri) della Persia che il sovrano bizantino possedeva in gran numero, e di cui era molto orgoglioso. Visto che anche Ottone aveva riserve, ma di siffatti animali non aveva mai sentito parlare, Niceforo invitò l’ambasciatore a visitarne una, in un posto d’altura (vedi box a p. 66). Liutprando vede i famosi onagri qua e là, in mezzo a gruppi di capre, e non è minimamente affascinato, anzi. Gli sembrano in tutto e per MONDI LONTANI
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MONDI LONTANI IMPERO Carlo III (881-887)
Liutprando a Bisanzio
REGNO Carlo III (879-887)
Trono vacante (887-891)
Berengario I (888-924) in lizza con: Guido di Spoleto (889-894)
Guido di Spoleto (891-894)
Arnolfo di Carinzia (894-899)
Lamberto di Spoleto (894-898) in lizza con: Arnolfo di Carinzia (896-899)
Lamberto di Spoleto (894-898)
Ludovico di Provenza (901-905)
Ludovico di Provenza (900-905)
Trono vacante (905-915)
Rodolfo di Borgogna (924-926)
Berengario I (915-924)
Ugo di Provenza (926-945)
Trono vacante (924-962)
Lotario II (945-950)
Ottone I (962-973)
Berengario II (950-961) in lizza con: Ottone I (951-973)
tutto volgarissimi asini domestici, come se ne vedono dovunque. Nel mentre, gli si affianca un cortigiano di Niceforo e il vescovo esclama: «Non ne ho mai visti di simili in Sassonia», intendendo con ciò che il suo signore Ottone ha visto degli asini di qualità di gran lunga migliore. Ma il cortigiano non coglie affatto l’ironia e prospetta al vescovo una succulenta opportunità: se Ottone farà il bravo con Niceforo, il sovrano bizantino sarà ben felice di donargli un bel numero di onagri, «e al tuo signore verrà non piccola gloria, perché possiederà quel che nessuno dei suoi predecessori vide neppure!». Al che Liutprando rincara la dose e giura di aver visto al mercato di Cremona asini della stessa identica qualità, con l’aggravante che erano animali domestici, non selvatici, e nonostante questo si muovevano allo stesso modo, anche se la loro groppa era gravata dalla soma. Il cortigiano capisce che la proposta non è andata a buon fine, 72
MONDI LONTANI
PAPATO • Stefano V (885-891) • Formoso (891-896) • Bonifacio VI (896) • Stefano VI (896-897) • Romano (897) • Teodoro II (897) • Giovanni IX (898-900) • Benedetto IV (900-903) • Leone V (903) • Cristoforo (903-904) • Sergio III (904-911) • Anastasio III (911-913) • Lando (913-914) • Giovanni X (914-928)
• Leone VI (928) • Stefano VII (928-931) • Giovanni XI (931-935) • Leone VII (936-939) • Stefano VIII (939-942) • Marino II (942-946) • Agapito II (946-955) • Giovanni XII (955-963) La Croce di Berengario I, una croce-reliquiario in oro, pietre preziose e perle, detta anche «del Regno», perché indossata dai sovrani durante le cerimonie di incoronazione. Fine del IX-inizi del X sec. Monza, Museo e Tesoro del Duomo. ma non potendo far tornare Liutprando a mani vuote, Niceforo gli regala due capre.
La fine di Niceforo
L’alleanza tra Niceforo e l’ex re italico Adalberto (che finí i suoi giorni in Borgogna tra il 972 e il 975) aveva dato buoni risultati all’inizio. Il principe Pandolfo Capodiferro era stato tratto prigioniero a Costantinopoli e Capua era stata assediata. Tutta l’Italia meridionale sembrava passata sotto l’egida di Bisanzio. Ma l’arrivo dei rinforzi d’oltralpe aveva rinvigorito le truppe di Ottone. L’assedio di Capua fu tolto e i Bizantini, largamente impegnati sul fronte si-
L’ITALIA INTORNO ALL’ANNO MILLE re
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Territorio del regno d’Italia Patrimonio di San Pietro Ducati longobardi Territorio governato da Bisanzio Stati dipendenti in teoria da Bisanzio, ma di fatto autonomi Territori musulmani
Siracusa Pantelleria
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TERRANEO Malta
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Liutprando a Bisanzio
GLI ANNI DEL REGNO D’ITALIA 887 Deposizione dell’imperatore Carlo III il Grosso. 888 Morte di Carlo III. Berengario I, marchese del Friuli, è eletto re d’Italia. 889 Guido di Spoleto vince in battaglia Berengario presso Piacenza, e si fa incoronare re d’Italia a Pavia da papa Stefano V. 891 Guido è incoronato imperatore. Elezione di papa Formoso. 894 Discesa di Arnolfo di Carinzia, re di Germania, che riceve la corona del regno italico a Roma (febbraio). Muore Guido di Spoleto (dicembre). 896 Arnolfo di Carinzia è di nuovo in Italia e riceve la corona imperiale. Muore papa Formoso. 897 Processo post mortem a carico di papa Formoso, per iniziativa di papa Stefano VI, che viene poi deposto e ucciso. 899 Muore Arnolfo di Carinzia. Berengario I viene sconfitto dagli Ungari sul Brenta (settembre). 900 Ludovico III di Provenza riceve la corona di re d’Italia. 901 Ludovico III viene incoronato imperatore. 905 Ludovico III subisce l’accecamento a Verona per ordine di Berengario I. 915 Berengario I è incoronato imperatore. 915, Disfatta dei Saraceni nella battaglia agosto del Garigliano.
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923 Rodolfo II di Borgogna sconfigge Berengario I nella battaglia di Fiorenzuola d’Arda (Piacenza). 924 Rodolfo II di Borgogna riceve la corona di re d’Italia. Invasione degli Ungari e incendio di Pavia. 926 Ugo di Provenza è incoronato re d’Italia. 932 Matrimonio tra Ugo e la nobildonna romana Marozia. Alberico II, figlio di Marozia, induce Ugo alla fuga ed esautora la madre, divenendo signore dell’Urbe. 941 Berengario I trova rifugio presso Ottone I, re di Germania. 945 Ugo è costretto ad abdicare in favore di suo figlio Lotario II e abbandona l’Italia. 950, Berengario II viene incoronato re d’Italia 15 dicembre e associa al trono il proprio figlio Adalberto. 951 Discesa in Italia di Ottone I, che sconfigge Berengario, si fa incoronare re d’Italia e sposa Adelaide di Borgogna, figlia di re Rodolfo e vedova di Lotario II, figlio di re Ugo. 952 Ottone I si accorda con Berengario II, affidandogli il regno italico. 954 Muore a Roma Alberico II. 961 Seconda discesa di Ottone I, su richiesta di papa Giovanni XII. 962 Ottone I viene incoronato imperatore (febbraio). Berengario II è stretto d’assedio a San Leo, nel Montefeltro. 963 Berengario II si arrende e viene tratto prigioniero in Germania. Ottone I promuove un sinodo alla basilica di S. Pietro in cui si dispone la deposizione di papa Giovanni XII. Viene eletto Leone VIII. 964 A seguito di una ribellione dei Romani istigata dal deposto Giovanni XII, questi risale in cattedra, togliendo di mezzo Leone VIII. Dopo la morte di Giovanni (14 maggio), Leone VIII deve attendere l’intervento di Ottone I per essere reintegrato, dal momento che i Romani gli hanno preferito Benedetto V. 966 Berengario II muore a Bamberga. 967, Ottone I associa il figlio Ottone II al trono dicembre imperiale. 972 Ottone II sposa a Roma la principessa bizantina Teofano. 973 Muore Ottone I (maggio). I Saraceni insediati a Frassineto (Provenza), vengono cacciati in via definitiva.
A destra dittico consolare in avorio del VI sec., detto «di Davide e Gregorio», perché in epoca carolingia (IX sec.) le figure furono appunto trasformate in immagini del re Davide e di papa Gregorio Magno. Nella pagina accanto reliquiario del Dente di san Giovanni. IX-X sec. Entrambi i manufatti sono conservati a Monza, nel Museo e Tesoro del Duomo, e furono donati al Duomo della città lombarda dal re Berengario I.
riaco, subirono una dura sconfitta ad Ascoli Satriano (969). Frattanto la bellissima e spregiudicata imperatrice Teofano si invaghí del generale Giovanni Zimisce, ben piú prestante del taurino Niceforo, che morí avvelenato, nella notte tra il 10 e l’11 dicembre 969. Il nuovo imperatore Giovanni intavolò una pace con Ottone in base a cui Pandolfo, nel frattempo liberato, poteva continuare a dominare su Capua e Benevento restando fedele al sovrano germanico, mentre la Puglia e la Calabria rimanevano sotto l’egida bizantina. Il matrimonio tra Ottone II e la principessa Teofano, celebrato nell’Urbe il 14 aprile 972 da papa Giovanni XIII, coronava degnamente l’accordo. La so-
luzione fu praticabile perché la sposa, nipote del sovrano bizantino, non era porfirogenita. Si realizzava cosí quel che Liutprando aveva caldeggiato alla luce del suo insuccesso. Niceforo era stato tolto di scena e Ottone aveva fatto valere le sue ragioni con la forza. Le sospirate nozze avevano finalmente avuto luogo, ma Liutprando non vi partecipò, e nell’estate 972 risulta già deceduto. Forse prese parte alla fortunata ambasceria che, nell’autunno 971, partí alla volta di Costantinopoli, e che al ritorno fece da scorta alla sposa. In tal caso, morí probabilmente durante il viaggio. Oppure non partí affatto, e magari non ebbe modo di sapere che l’accordo era stato raggiunto. MONDI LONTANI
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Parlarsi al tempo delle crociate Un commerciante pisano diventa uomo di Dio, un monaco di Assisi prega per il sultano, un sovrano mongolo, di credo buddhista, si avvicina – «pericolosamente» – al cristianesimo. Tre personaggi e altrettanti incontri che potevano concludersi diversamente. E, forse, avrebbero cambiato (in meglio?) la storia…
Miniatura raffigurante l’assedio di Damasco da parte dei crociati nel 1148, durante la seconda crociata, da un’edizione della Chronique d’Ernoul et de Bernard le Trésorier realizzata nei Paesi Bassi. Fine del XV sec. Londra, British Library.
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In Terra Santa e nell’Oriente
RANIERI, IL SANTO MERCANTE
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an Ranieri, patrono di Pisa, non fu uno dei tanti vescovi o martiri di un passato lontano e incerto, piú o meno riplasmato dai racconti degli agiografi. Si tratta, infatti, di un personaggio storicamente accertato, di condizione laica e persino contemporaneo al duomo, l’edificio che ne conserva le spoglie sin dalla prima ora. Quando fu costruita la sua prima arca funebre, infatti, era ancora in corso l’ampliamento della parte frontale della chiesa, con la nuova facciata progettata da Rainaldo intorno al 1150. Negli anni 1306-10, lo scultore senese Tino di Camaino realizzò una nuova arca, che, attualmente conservata nel Museo dell’Opera del Duomo, è l’unica opera pisana di Tino che ci sia giunta nella sua interezza. Un pregevole ciclo di affreschi con episodi della vita di Ranieri – a opera di Andrea di Bonaiuto e del veneziano Antonio di Francesco –, fu invece dipinto nel Camposanto tra il 1377 e il 1386, nell’ambito delle Storie dei Santi pisani. A causa dei danni subiti con l’incendio del 1944, il ciclo si percepisce con nitidezza solo a sprazzi, ma alcune preziose testimonianze permettono di visualizzarlo con completezza. L’elezione a patrono, dopo secoli di primazia della Vergine Assunta, si ebbe nel 1633, mentre la canonizzazione ufficiale del santo giunse solo nel 1664. E a Ranieri è oggi intitolata la porta monumentale del transetto sud del Duomo, rivolta verso la città, con gli splendidi battenti bronzei di Bonanno Pisano (1180 circa, oggi nel suddetto Museo e sostituiti in situ da una copia).
Solo pane e acqua
Nato probabilmente tra il 1120 e il 1126, come ipotizza la storica Enrica Salvatori, Ranieri appartiene a una famiglia di mercanti e, nel 114041, si reca a Gerusalemme per affari. Proprio i suoi genitori lo inducono a partire, per farlo uscire da una serie di inquietudini spirituali. Dopo una vita giovanile condotta all’insegna degli agi e dello sfarzo, ebbe infatti modo di essere folgorato da un «uomo di Dio», il laico Alberto noto come Leccapecora, oriundo della Corsica. Giunto in Palestina, la vocazione di Ranieri si compie. Affida tutte le merci ai compagni e, il Venerdí Santo, sale al Santo Sepolcro e si spoglia delle sue vesti nella cappella del Golgota. Assume cosí una rozza veste penitenziale e conduce una vita da pellegrino-eremita, 78
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Ritorno a Pisa di San Ranieri, particolare del ciclo di affreschi realizzato da Andrea di Bonaiuto e Antonio di Francesco, detto il Veneziano, tra il 1377 e il 1386, per il Camposanto di Pisa. Le pitture riproducono i momenti piú importanti e significativi della vita del santo. accampandosi presso le mura di Gerusalemme e cibandosi solo di pane e acqua per sette anni. Prega ogni giorno nel Santo Sepolcro e visita diversi luoghi dell’itinerario in Terra Santa, come il sepolcro di Abramo (Hebron), Nazareth, Betlemme, il Monte della Quarantena nel deserto della Giudea (dove Gesú, durante 40 giorni di digiuno, fu vittima delle Tentazioni), il Tabor (dove si compí la Trasfigurazione). In piú occasioni Ranieri si imbatte nei suoi con-
cittadini, tanto che torna a Pisa dopo quattordici anni, nel 1154, sfruttando un convoglio diplomatico. Si ritira infine come laico nel monastero di S. Vito e lí muore, nel 1160, dopo aver dato luogo a una serie di miracoli spesso legati alle attività commerciali. Il suo agiografo, il canonico Benincasa, attesta peraltro alcuni miracoli compiuti da Ranieri post mortem, già trascorso un solo anno dalla sua ascesa al cielo. Nel 1148 Ranieri ebbe modo di incontrare
presso il Santo Sepolcro un gruppo insolito di concittadini. Erano alcuni membri del contingente pisano che aveva aderito alla seconda crociata, bandita all’indomani della caduta di Edessa (1144). Questi lo informarono che un chierico della Chiesa di Pisa era salito al soglio di Pietro con il nome di Eugenio III. E fu lui a bandire la crociata, in perfetta intesa con san Bernardo di Chiaravalle. Pisa aveva esaurito la fase aggressiva nei suoi MONDI LONTANI
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I MOSTRI CHE VENGONO DAL MARE... Sin dal suo arrivo in Terra Santa, Ranieri si trovò in un ambiente tutto sommato familiare, grazie all’intensa presenza dei suoi conterranei. Nella sua prima notte di Natale vissuta da forestiero (1140-41), partecipò insieme a molti Pisani alla messa celebrata nella cattedrale di S. Maria a Tiro (Libano). Peraltro, proprio in quella chiesa la Vergine gli apparve in gloria, e gli predisse che sarebbe stato sepolto a Pisa, nella «sua» chiesa, ossia nel duomo di S. Maria Assunta. Si può immaginare come i Pisani contribuissero all’atmosfera cosmopolita delle città portuali, in perfetta simmetria a quella presenza vistosa di persone delle etnie piú disparate che si poteva notare proprio a Pisa, creando un melting pot che aveva fatto inorridire il poeta Donizone nella sua Vita Mathildis (1111-1115). Egli infatti si addolorò per il fatto che Beatrice di Lorena, madre di Matilde di Canossa, venisse sepolta in una tale città. «Mi strazia vedere che l’ha una città ch’è indegna d’averla. / Chi va a Pisa, vede i mostri che vengono dal mare: è sudicia questa città di pagani, di Turchi, di Libici ed anche / di Parti; i bui Caldei scorrazzano sulle sue spiagge» (traduzione di Paolo Golinelli).
Il sarcofago d’epoca romana utilizzato per accogliere le spoglie di Beatrice di Lorena, madre di Matilde di Canossa, collocato nel Camposanto di Pisa.
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rapporti con l’Islam, e tendeva piuttosto a stabilire relazioni diplomatiche con gli emiri della Spagna e del Nord Africa, oltre che con l’imam dell’Egitto, per favorire i propri commerci. La partecipazione militare alla seconda crociata, come pure un apporto alla reconquista ispanica su richiesta del re cristiano Alfonso VII di Castiglia, dovette perciò configurarsi come un atto dovuto nei riguardi del pontefice, al di fuori di ogni strategia politica. Anche se l’apporto dei Pisani non lasciò segni evidenti, ebbe comunque varie ripercussioni. Nel 1153 giunsero a Pisa due missive dal Cairo. Si era verificato un eccidio di mercanti egiziani imbarcati su una galea pisana. Per giunta, in spregio del trattato di pace del 1150, piú di trenta Pisani avevano collaborato con altri Franchi in azioni di guerra, ed erano stati catturati. Nasceva perciò l’esigenza di una immediata risposta sul canale diplomatico. Fu cosí organizzata un’ambasceria condotta da Ranieri Bottacci. Questi fece scalo ad Alessandria – dove i Pisani avevano una sede stabile e dove il governatore gli regalò un’ampolla con il balsamo di Morea – e poi si recò al Cairo, dove fu ricevuto dal visir
In alto un’altra immagine del ciclo di affreschi sulla vita di san Ranieri, realizzato nel Camposanto di Pisa, su incarico del Capitolo e dell’Opera del Duomo. Nella scena in alto, l’arrivo del santo in Terra Santa e la sua vestizione, e, in basso, la morte e i funerali di Ranieri.
In basso il Ritorno a Pisa di san Ranieri e il Miracolo del vino in una delle incisioni realizzate, agli inizi del XIX sec., da Carlo Lasinio, conservatore del Camposanto di Pisa. Le riproduzioni furono pubblicate nell’opera Pitture a fresco del Campo Santo di Pisa, pubblicata nel 1812.
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Telai-ibn-Rizziq. Bottacci risolse il problema dei prigionieri, assicurando che sarebbero stati giudicati dal tribunale della madrepatria, e ottenne una nuova sede per i mercanti toscani, facendo senz’altro leva sulle opportunità reciproche. Pisa, d’altronde, riforniva le piazze islamiche di beni strategici, in particolare armi, ferro e legname. San Ranieri previde miracolosamente questa missione, ed ebbe cosí modo di incontrare la comitiva a Gerusalemme. Ranieri Bottacci, infatti, dopo essere stato al Cairo, riprese il mare e approdò a Giaffa, per sciogliere un voto al Santo Sepolcro. E il santo approfittò di questa situazione per fare ritorno nella madrepatria. Prima di salire a bordo, ebbe modo di incontrare casualmente un suo parente. La galea pisana fa tappa ad Antiochia, dove il principe Rinaldo rilascia alcuni importanti privilegi. Quando poi la spedizione prende il largo, nelle acque dell’Egeo si imbatte in due navi che in un primo momento mettono tutti in allarme. Poteva trattarsi, infatti, di un convoglio di pirati. Con grande sollievo, si palesa invece un gruppo di marinai pisani al servizio dell’imperatore di Bisanzio, con incarichi «ufficiosi» di sorveglianza militare che accrescono i guadagni dell’attività sul mare. I trattati stipulati con i sovrani islamici, in teoria, impedivano ai Pisani azioni 82
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di guerra ai danni della marineria musulmana, e questa «guardia costiera» doveva quindi agire in una zona grigia, incurante di certe formalità. Giunto a Pisa, Ranieri si conferma uomo sensibile ai bisogni del popolo e si occupa in modo prevalente di lavoratori, artigiani, commercianti e marinai. Come nota ancora Salvatori, nella casistica delle persone con cui interagisce, compaiono solo 11 nobili su un totale di 140 «assistiti». In particolare, ha modo di impartire la sua benedizione al mercante Bentivegna di Ildebrando Geugi. Sta per imbarcarsi alla volta di Tunisi e teme qualche disavventura, ma il santo gli assicura che nessuno avrebbe potuto trattenerlo contro la sua volontà.
La minaccia dei berberi
Quando giunge alla meta con una comitiva di 25 soci, Bentivegna si ritrova nel mezzo dell’invasione berbera degli Almohadi (1159), che si sarebbero poi spinti verso la penisola iberica. Essi agivano sia contro i correligionari che contro i cristiani, presenti di forza in Nord Africa grazie alle conquiste di Ruggero II, re di Sicilia. Già nel 1152 la minaccia almohade era evidente, e i Pisani avevano stabilito accordi sia con loro che con l’emiro detronizzato di Tunisi. Fu cosí che Bentivegna ebbe salva la vita, ma fu
In alto uno scorcio della Grande Moschea almohade di Tin Mal, nell’odierno Marocco. Nella pagina accanto la tomba-altare di san Ranieri, opera di Tino di Camaino, in origine collocata nel Duomo di Pisa e oggi esposta nel Museo dell’Opera del Duomo della stessa città toscana. Il monumento era stato posto in opera nel transetto meridionale della chiesa già nel 1306-1310.
deportato in carcere, forse a Marrakech (luogo di orribili massacri), e si ritrovò in catene di fianco a un mercante genovese. La notizia della conquista di Tunisi giunge frattanto a Pisa, che invia una missiva all’emiro Abd al-Mumin (proclamatosi califfo), per «ricordare» l’accordo di pace. Visto che nessuno tra i suoi la può tradurre, il Berbero invita Bentivegna a farlo. Questi ottiene in cambio di essere liberato dalle catene, e si compie cosí un miracolo espressamente richiesto a san Ranieri. Tuttavia, il mercante non è libero di tornare a casa, e viene messo di fronte a due alternative: o si fa
saraceno o muore. Entra cosí a far parte delle truppe musulmane e perde ogni speranza, finché Ranieri non gli appare in sogno, invitandolo a ripresentarsi di fronte all’emiro per chiedere il suo rimpatrio. L’emiro dovrebbe a questo punto condannarlo a morte, ma chiede il parere di un collegio di sette anziani. Questi stabiliscono che, in base all’accordo di pace con Pisa, non solo il mercante deve rimanere in vita, ma gli si devono restituire i beni di proprietà. L’emiro applica la sentenza senza remore e aggiunge a favore di Bentivegna un donativo di 1000 bisanti d’oro.
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SAN FRANCESCO E LA TERRA SANTA
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I
n un celebre passo della Commedia, Dante ricorda che san Francesco d’Assisi «Per la sete del martiro, / ne la presenza del Soldan superba / predicò Cristo e li altri che ‘l seguiro, / e per trovare a conversione acerba / troppo la gente e per non stare indarno, / reddissi al frutto de l’italica erba, / nel crudo sasso intra Tevero e Arno / da Cristo prese l’ultimo sigillo, / che le sue membra due anni portarno» (Paradiso, XI, 100-108). Spinto dal desiderio di donare la propria vita al Re dei
cieli, il santo giunse quindi alla presenza maestosa del sultano e, al suo cospetto, predicò la Lieta Novella di Gesú e dei suoi seguaci. Ma quella gente era troppo restia a convertirsi, e perciò, non volendo perder tempo, tornò in Italia e poté cosí ricevere le stimmate sulla Verna, tra le valli dell’Arno e del Tevere (1224). Sarebbe morto due anni piú tardi. San Francesco effettivamente desiderava andare in Terra Santa, perfettamente in linea con lo
spirito penitenziale che, da secoli, spingeva verso la «Casa del Padre» miriadi di persone, con le attitudini piú diverse. A partire dal 1096 si era sviluppato un approccio prettamente militaresco al viaggio oltremare, con il nascere di quelle spedizioni armate che sono note sotto il nome di «crociate». Ma, come nota Franco Cardini, i crucesignati, in origine, erano i semplici pellegrini che avevano una piccola croce cucita sulla veste o sulla bisaccia.
Miniatura raffigurante i crociati che danno l’assalto a Damietta (1249), da un’edizione delle Chroniques de France ou de Saint Denis. 1340 circa. Londra, British Library.
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Per ben due volte Francesco non riuscí a prendere il largo. Nel 1211-12, salí inutilmente a bordo di una nave che partiva da Ancona e, un anno piú tardi, cercò di raggiungere il nord Africa dalle coste spagnole. L’occasione propizia si presentò finalmente nell’estate del 1219, nel pieno della quinta crociata. Imbarcandosi nuovamente in Ancona, oppure nel Sud Italia, Francesco raggiunse Damietta, una località costiera sul delta del Nilo. Su quella spiaggia si era attestato l’esercito cristiano, desideroso di avanzare alla volta del Cairo, e la conquista dell’Egitto doveva partire proprio dall’espugnazione della munitissima Damietta. La penetrazione nel cuore del sultanato poteva indurre a cedere (ossia a «restituire») Gerusalemme, conquistata dal Saladino nel 1187.
Nella pagina accanto particolare della tavola di Francesco d’Assisi con il verosimile ritratto del volto del santo. Ultimo quarto del XIII sec. Orte, Museo Diocesano di Arte Sacra. In basso busto di Dante Alighieri, copia in gesso da una scultura bronzea realizzata da Vincenzo Vela nel 1865. Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana.
In quale veste Francesco giunse in un tale scenario di guerra? Di sicuro era un crociato sui generis, dal momento che non solo era senz’armi, ma non era neanche inquadrabile nel gruppo dei religiosi che assistevano i combattenti. Le fonti sono concordi sul fatto che non era interessato alle operazioni militari, se non quando, mosso da una premonizione, sconsigliò vivamente (e inutilmente) di intraprendere un attacco, dal momento che si sarebbe risolto in una tragica disfatta. Francesco, dunque, era un predicatore nella terra degli infedeli, che ebbe la ventura (o il desiderio) di trovarsi in un teatro di guerra. La circostanza doveva inquietarlo non tanto (o non solo) per il clangore delle armi, ma per la difficoltà di compiere la sua missione apostolica. Non risulta d’altronde una sua presa di posizione contro la «guerra santa» in sé, il che avrebbe peraltro contraddetto la sua obbedienza alla Chiesa. Piuttosto, non appena si stabilí una tregua, chiese con insistenza al cardinal Pelagio – che era sul campo a rappresentare papa Onorio III – l’autorizzazione a raggiungere il campo nemico.
Alla presenza del Soldano
Fu cosí che insieme a un compagno, forse frate Illuminato, poté trovarsi alla presenza del Soldano (il Soldano di Babilonia, secondo i Fioretti). Si trattava del sultano al-Kamil (121838), sovrano dell’Egitto e della Siria, membro di quella dinastia ayyubide che faceva capo al «feroce Saladino». Stando al biografo Tommaso da Celano, non fu facile arrivare alla meta, poiché le guardie accolsero i due missionari in malo modo, ingiuriandoli e colpendoli. Ma potrebbe trattarsi di un semplice artificio narrativo, per dare sostanza al rischio che l’Assisiate stava correndo. L’incontro comunque si svolse e si risolse pacificamente. Possiamo senz’altro immaginare che Francesco abbia dichiarato in prima battuta di essere cristiano. Poiché non aveva con sé documenti da recapitare che potevano essergli stati affidati e, soprattutto, poiché vestiva in modo assai dimesso, il sultano avrà capito ben presto di trovarsi di fronte a un asceta che testimoniava la sua fede. Conosceva già e avrà modo in seguito di conoscere simili figure cosí scarne e ardenti di monaci ed eremiti cristiani. E sappiamo per certo che provasse nei loro riguardi una simpatia istintiva, il che peraltro era in linea con il dettato del Profeta. Nel Corano, infatti, leggiamo: «Troverai che i piú feroci nemici di coloro che 86
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Miniatura raffigurante l’ingresso dei crociati a Damietta, da Le Miroir Historial di Vincent de Beauvais. XV sec. Chantilly, Musée Condé.
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credono sono i giudei e i pagani, mentre troverai che i piú cordialmente vicini a coloro che credono sono quelli che dicono: – Siamo cristiani! –. Questo avviene perché fra di loro vi sono preti e monaci ed essi non sono superbi – ma anzi, quando ascoltano quel che è stato rivelato al Messaggero di Dio li vedi versar lacrime copiose dagli occhi, a causa di quella verità che essi conoscono, e li odi dire: – O Signor nostro! Crediamo! Annoveraci tra i testimoni del Vero! – » (Sura V, 82-83). L’orientalista Alessandro Bausani (1921-1988), traduttore del brano, invita a considerare con
una certa attenzione il richiamo ai monaci (rahib), che in questo contesto può semplicemente alludere alla timidezza di certi cristiani ben ispirati. Francesco era, in questo senso, la timidezza fatta persona. Il futuro santo venne accolto senz’altro nel majlis, ossia nella tenda che fungeva da sala di ricevimento. Un traduttore permise di comprendere le sue parole, e un gruppo di saggi assisteva all’esposizione. Non possiamo escludere, come riporta la Cronaca di Ernoul (1228-29), che tra di loro vi fosse qualche voce
San Francesco davanti al sultano Malik al-Kamil (o La prova del fuoco), scena dal ciclo delle Storie francescane affrescato da Giotto nella Chiesa Superiore della basilica di S. Francesco ad Assisi. 1290-1295 circa.
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GLI ANNI DELLE GUERRE «PER CONTO DI DIO» 1096-1099 Prima crociata in Siria-Palestina. Vi partecipano quattro eserciti: Goffredo di Buglione, duca di Lorena, comanda i Lotaringi; Roberto, duca di Normandia, e Roberto, conte di Fiandra, capeggiano i cavalieri della Francia settentrionale; Raimondo, marchese di Provenza, guida i cavalieri della Francia meridionale; Boemondo d’Altavilla è alla testa dei Normanni venuti dall’Italia meridionale. 1098, giugno I crociati conquistano Antiochia, della quale si appropria Boemondo d’Altavilla. 1099, El Cid Campeador muore a Valencia.
10 luglio 1099, I crociati conquistano Gerusalemme. 15 luglio 1100 Baldovino di Boulogne diviene il
primo sovrano del regno «franco» di Gerusalemme. 1102 Gli Almoravidi occupano Valencia. 1128 Concilio di Troyes: la Fraternitas dei pauperes milites Templi salomonici trasformata in militia (Ordine religiosocavalleresco). 1145-1146 Papa Eugenio III emana, in due differenti successive redazioni (1° dicembre 1145 e 1° marzo 1146), la Quantum praedecessores, prima bolla pontificia regolatrice del movimento crociato. 1147, ottobre I crociati prendono Almeria e poi Lisbona. 1148-1152 Seconda crociata in Siria-Palestina. Vi confluiscono la crociata tedesca, guidata da Corrado III, e quella francese, al seguito di Luigi VII e della moglie Eleonora d’Aquitania. 1157 Gli Almohadi riconquistano Almeria. 1177, Le truppe cristiane guidate da Baldovino 25 novembre IV di Gerusalemme sconfiggono l’armata di Saladino nella battaglia di Montgisard. 1187 Vittoria saracena a Hattin; Saladino conquista Gerusalemme. Papa Gregorio VIII promulga l’enciclica Audita tremendi. 1187-1192 Terza crociata. Vi partecipano l’imperatore tedesco Federico I Barbarossa, il re di Francia Filippo Augusto e il re d’Inghilterra Riccardo Cuor di Leone. 1195, Gli Almohadi battono i Castigliani ad 19 luglio Alarcos. 1202-1204 Quarta crociata, detta «dei baroni», riuniti sotto il comando del marchese
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Bonifacio di Monferrato; si conclude con la conquista di Costantinopoli e la fondazione dell’impero latino. 1209 Innocenzo III bandisce la crociata contro gli eretici catari detti «Albigesi». 1210 Predicazione di una nuova crociata nella Penisola iberica, causata dalla conquista almohade di Salvatierra. 1212 «Crociata dei fanciulli» (o «degli innocenti»). 1212, Le truppe cristiane franco-ispano17 luglio portoghesi riportano una grande vittoria nella battaglia di Las Navas de Tolosa. 1217-1221 Quinta crociata, organizzata da Andrea II re d’Ungheria e da Leopoldo VI duca d’Austria. Incontro tra Francesco d’Assisi e Malik al-Kamil, sultano d’Egitto. 1228-1229 Sesta crociata (crociata di Federico II); Gerusalemme è recuperata per mezzo di un accordo diplomatico con il sultano d’Egitto Malik al-Kamil. 1229-1231 Crociata aragonese contro le Baleari. 1232-1253 Crociata aragonese contro l’emirato di Valencia. 1244 Rogo degli ultimi difensori catari di Montségur; le milizie nomadi kwarizmiane occupano Gerusalemme. 1248-1254 Settima crociata (prima crociata di Luigi IX): spedizione in Egitto del re di Francia. 1258 I Mongoli conquistano Baghdad; fine del califfato abbaside. 1267 Completata la conquista cristiana del Portogallo. 1270 Ottava crociata (seconda crociata di Luigi IX, che muore durante l’assedio di Tunisi). 1291 Caduta di Acri. 1300 Giubileo proclamato da Bonifacio VIII.
alquanto ostile nei riguardi di quei missionari, a prescindere da quel che volessero dire. Infatti, in quanto predicatori infedeli, già soltanto nel voler sconfessare il Profeta potevano essere affidati al boia. Il sultano, in ogni caso, volle ascoltare quell’uomo, e non si sentí in alcun modo oltraggiato nella sua fede. D’altronde, come si legge nella Regola non bollata, redatta proprio dopo il ritorno in Italia (1221), Francesco in persona invita a evitare qualsiasi polemica o contrapposizione con gli altri credenti. Lo scopo dei frati deve essere la conversione, certo, ma si deve intraprendere quella strada solo se c’è dall’altra parte una chiara disponibilità in tal senso. Tanto piú che Francesco era convinto che ogni segno della fede, anche se ignaro del messaggio di Cristo, era comunque una emanazione di Dio. Le parole semplici del frate delusero senz’altro
In alto pagina di un salterio sulla quale è miniata una mappa crociata di Gerusalemme. 1200 circa. L’Aia, Koninklijke Bibliotheek. A sinistra Subiaco, Sacro Speco. Ritratto di papa Innocenzo III, particolare di un affresco di autore ignoto. Fine del XIII sec.
i sapienti del sultano, che erano magari pronti a fini schermaglie dialettiche, del tutto lontane dallo stile di Francesco, come nota lo storico Antonio Musarra. Dal canto suo, il sultano poté avere parole cordiali nei suoi confronti. Se prestiamo fede a Jacques de Vitry – vescovo di Acri e cronista, presente sul campo di battaglia –, al-Kamil, prima di congedarlo, chiese all’Assisiate di pregare per lui. Un momento di intesa reciproca, nel comune terreno della credenza nel dio di Abramo, è comunque plausibile. Di sicuro, tuttavia, la missione non ebbe successo, se mirava alla conversione del sultano, e non trovò alcuna eco nelle fonti arabe. Immediate, invece, furono le ricadute dell’impresa sul fronte cristiano. La storia venne sempre piú riplasmata fino a immaginare la proposta di una ordalia. Secondo san Bonaventura, il bioMONDI LONTANI
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grafo ufficiale di Francesco, questi avrebbe voluto accendere un gran fuoco ed entrarvi dentro, sfidando i sapienti islamici a fare altrettanto, per stabilire quale fosse la vera fede. Nel racconto il sultano non aderisce alla proposta, perché teme di uscire sconfitto. Nella trasposizione pittorica compiuta da Giotto, nella Chiesa Superiore della basilica di Assisi (1290 circa), la fiamma divampa davvero (il che era reso necessario dalla narrazione figurata) e Francesco, trionfante, si contrappone alla fuga dei suoi concorrenti. Gli abbellimenti del racconto, presenti in varie
In alto particolare di un dossale in sciamito di seta ricamato in seta, con inserti in lamina d’argento dorato. Scuola palermitana, primo quarto del XIII sec. Assisi, Museo del Tesoro della basilica di S. Francesco.
FEDERICO E FRANCESCO Come è noto, anche Federico II di Svevia intrattenne un rapporto insolito con il nemico al-Kamil. Nel maggio-giugno 1221 stabilí con i suoi sapienti un dialogo su alcune questioni filosofiche e scientifiche e, nel febbraio del 1229, concluse con lui un accordo grazie al quale Gerusalemme venne «restituita» ai cristiani senza spargimento di sangue. Il destino volle, d’altra parte, che Francesco e Federico non si incontrassero mai. Il primo amava, come l’imperatore, la poesia cortese, ma lo Stupor mundi, in compenso, non aveva grande simpatia per i frati Minori. Eppure c’è un piccolo elemento di contatto tra i due personaggi, proprio sul filo della Terra Santa. Al momento della traslazione dalla chiesa di S. Giorgio, nel 1230, il feretro dell’Assisiate venne solennemente rivestito da un tessuto di seta ricamata, con sequenze «araldiche» di grifoni e di volatili, oggi conservato nel Tesoro della Basilica assisiate. Era un dono di Giovanni di Brienne, imperatore reggente di Costantinopoli. Nel 1225, quando era ancora re di Gerusalemme, sua figlia Iolanda andò in sposa a Federico II, e quel drappo, – con ampia probabilità prodotto in un atelier regio di Palermo –, fu forse regalato proprio dal monarca svevo al sovrano della Terra Santa, poco prima che lo stesso Federico ne usurpasse la corona.
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Miniatura raffigurante Federico II che prende accordi con il sultano Al-Malik al-Kamil, dall’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.
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fonti tardive, prevedono poi situazioni tipiche di una reggia orientale, come l’offerta di ricchi doni, magari per indurre il santo a recedere dalla sua volontà di convertire i musulmani. I Fioretti, poi, danno per certa la conversione del sultano in persona, e, in una redazione amplificata, mettono Francesco di fronte a una tentazione sessuale: una splendida donna gli offre il suo corpo e l’Assisiate le propone di consumare l’amplesso sulle braci ardenti.
Il supplizio dell’estasi
Tornando alla citazione dantesca da cui siamo partiti, va sottolineata l’associazione tra la ricerca del martirio e l’esperienza delle stimmate. In linea con san Bonaventura, Dante asserisce che Francesco mirava essenzialmente a una testimonianza estrema di fede, e che l’esperienza della Verna gli permise di ottenere ciò che non gli fu possibile conseguire in Egitto, cioè il coronamento massimo del suo amore per Cristo. Invece di una morte violenta, subí il supplizio dell’estasi, trovando sulla propria carne i segni della croce. Naturalmente la possibilità del martirio era contemplata da Francesco. La Regola non bollata, d’altronde, invita ad amare tutti i persecutori, proprio perché la loro violenza apre le porte della vita eterna. Ma questo non significa che quella sola fosse la prospettiva della sua azione. Lo stesso racconto delle stimmate, come ha dimostrato Chiara Frugoni, è il risultato di una ricomposizione della vita del santo in cui si esalta all’estremo la sua qualifica di «illustre araldo di Cristo», lasciando sullo sfondo il senso concreto della sua esperienza. Altre, semmai, sono le implicazioni del viaggio di Francesco in Terra Santa. Se, infatti, l’apostolo di Assisi non riuscí a fare breccia nell’Islam, riportò la suggestione dei muezzin che invitavano alla preghiera a gran voce, tanto da suggerire il ricorso a un banditore che ogni sera invitasse tutti al raccoglimento. La sua idea di vita evangelica stava subendo radicali cambiamenti in seno ai suoi seguaci, causandogli una profonda amarezza. Colpito per giunta da una malattia agli occhi – complice la forte calura a cui si era sottoposto nel suo viaggio oltremare –, si ritirò da ogni attività, ma espresse con forza il suo messaggio di pace nel Presepe di Greccio (1223). Forse aveva avuto modo di visitare i Luoghi Santi prima di ripartire per l’Italia, ma la sua visione di Betlemme scaturí piuttosto da una profonda esperienza interiore. E magari proprio la cordiale accoglienza del sultano aveva rafforzato la sua idea di fratellanza. 94
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La Cupola della Roccia nella zona di Gerusalemme Est, uno dei santuari piú venerati dai musulmani, edificato nel 691. Voluta dal califfo omayyade Abd al-Malik, è uno dei piú straordinari esempi di architettura islamica. Nel Cinquecento il sultano Solimano il Magnifico sostituí l’originaria decorazione a mosaico con le ceramiche policrome che oggi rivestono l’esterno del santuario.
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Miniatura raffigurante i fratelli Niccolò e Matteo Polo che rendono omaggio a Kubilai Khan, da un’edizione del Livre des Merveilles di Marco Polo illustrata dal Maestro della Mazarine. 1410-1412. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
ARGHUN, IL MONGOLO QUASI CROCIATO
L
a grande esperienza di Marco Polo in Cina ebbe una conclusione dai toni fiabeschi. Incaricato da Kubilai Khan di un’ambasceria in India, al suo ritorno a corte trovò tre messi che provenivano dalla Persia. Riporta i loro nomi nel Milione come Oularai, Pasciai e Coia. Erano giunti a Khanbaliq (la «città del khan», progenitrice di Pechino) con un largo seguito, per richiedere una principessa da recare in sposa al loro signore Arghun. In quella fase storica (seconda metà del XIIIprimi decenni del XIV secolo, n.d.r.), anche la Persia era sotto la dominazione mongola, per mano della dinastia degli Ilkhan. Ora, una delle mogli di Arghun Khan, Bolgara (cosí la chiama Marco Polo), era defunta. Di alta stirpe, aveva chiesto prima di morire che il suo posto fosse occupato da una donna di pari lignaggio. Arghun si rivolse cosí al prozio Kubilai, per celebrare un nuovo matrimonio che riconfermava per giunta l’alleanza tra i due regni. La principessa prescelta si chiamava Köchekin. Con grande fasto e dispiego di mezzi si organizzò il corteo che doveva condurla in Persia, e Kubilai Khan congedò i tre Veneziani da tempo presenti al suo cospetto (Marco, il padre Niccolò e lo zio Matteo). Avrebbero fatto parte del seguito, di fianco agli inviati di Arghun. Una volta giunti nell’ilkhanato di Persia, avrebbero poi proseguito il loro viaggio verso la madrepatria.
Sulla rotta del Coromandel
Come sottolinea la storica Marina Montesano, la circostanza narrata da Marco Polo è perfettamente confermata da un documento cinese rinvenuto nel 1941. Esso attesta che, nell’aprilemaggio 1290, erano presenti a Khanbaliq i messi Oulatay, Apusca e Coja. Si dispone in merito che facciano ritorno in Persia circumnavigando il subcontinente indiano, sulla rotta lungo la costa del Coromandel (nel Sud-Est del Paese), sfiorando quindi l’isola di Ceylon (Sri Lanka) sullo Stretto di Palk. Sarà proprio l’itinerario che indica Marco Polo per la prima «tratta» del suo percorso di ritorno. Quando tutti furono giunti alla corte persiana di Tabriz, si venne a sapere che Arghun era morto. La promessa sposa fu cosí consegnata al fratello Gaykhatu, che nel frattempo era MONDI LONTANI
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salito al trono. Questi pensò bene di «riciclarla» assegnandola a Ghazan, figlio del defunto ilkhan, che avrebbe assunto la guida della Persia nel 1295. La notizia della morte dell’ilkhan prese in contropiede i frati francescani Guglielmo da Chieri e Matteo da Chieti. Erano stati incaricati di un’ambasceria presso il sovrano da papa Niccolò IV (1288-1292) e, al momento della partenza, a fine agosto 1291, non potevano sapere che Arghun fosse morto sei mesi prima, il 10 marzo. Lo stesso papa sarebbe morto l’anno successivo, chiudendo una pagina intensa di relazioni diplomatiche tra Oriente e Occidente. L’estremo frutto di questa attività fu la missione affidata nel 1289 a fra’ Giovanni da Monte-
corvino (1247-1328), che riuscí a raggiungere la corte cinese di Kubilai Khan, spingendosi quindi oltre Karakorum (Mongolia centrale), la meta dei missionari-apripista dell’estremo Oriente, ossia fra’ Giovanni da Pian del Carpine (1190 circa-1252), emissario di papa Innocenzo IV, e il fiammingo fra’ Guglielmo di Rubruk (1210-15 circa-post 1268), inviato di re Luigi IX di Francia. La missione in Cina fu un successo e, nel luglio 1307, papa Clemente V nominò Giovanni da Montecorvino arcivescovo di Kambalik. Il primo presule cattolico della 98
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Cina svolse il suo incarico fino alla fine dei suoi giorni, senza piú tornare in patria.
Un nuovo fronte in Medio Oriente
Tutto ebbe inizio con la contrapposizione tra Mongoli e Arabi nello scacchiere del Medio Oriente. Gli ilkhan della Persia si trovarono sotto la minaccia dei Mamelucchi d’Egitto, e intavolarono relazioni con il papa e con i regni europei per stabilire un’alleanza contro il nemico comune. Essi infatti sapevano bene che la cristianità aveva a cuore la Terra Santa, e, per stabilire una comunicazione nel segno dell’amicizia, potevano fare affidamento sulla loro tolleranza nei riguardi dei cristiani d’Oriente. I Mongoli, d’altronde, si erano ormai assestati
alle porte dell’Europa senza potersi spingere oltre, e dovevano fronteggiare molte difficoltà, sia nella propria compagine che sul fronte dei nemici esterni. Avevano perciò abbandonato la logica aggressiva delle richieste di sottomissione. Lo stesso Kubilai Khan, come testimonia Marco Polo, era tutt’altro che chiuso e ostile nei riguardi del mondo europeo, manifestando un sensibile cambiamento di rotta rispetto ai suoi predecessori. Se prima le missioni diplomatiche erano d’iniziativa del papa o del re di Francia, nel tentativo di frenare un’ondata feroce di
Sulle due pagine miniature tratte da un’edizione del Jami’ al-tawarikh (Storia universale) di Rashid al-Din. XIV sec. Nella pagina accanto, la corte di Arghun Khan; in basso, Arghun, con in braccio il figlio Ghazan Khan, accanto al padre Abaqa, a cavallo.
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Nella pagina accanto la mappa del Catai (antico nome della Cina settentrionale) nell’Atlante catalano, tavola dei mari del mondo cosí chiamata perché realizzata da geografi catalani attivi a Maiorca; ultimata nel 1375, l’opera fu donata al re di Francia Carlo V. Parigi, Bibliothèque nationale de France. A destra disegno della lapide sepolcrale di Caterina Ilioni. 1342. Yangzhou, Yangzhou Museum.
ITALIANI SUL FIUME AZZURRO
violenza, d’un tratto le parti sembrarono invertite, quando Arghun, un fiero discendente di Gengis Khan, richiese insistentemente l’amicizia delle potenze cristiane. L’ilkhan Abagha, padre di Arghun, inviò una delegazione al concilio di Lione (1274). Presiedeva l’assemblea papa Gregorio X (12711276), l’autore di alcune missive recapitate dai Polo a Kubilai in persona. Lo stesso pontefice aveva in precedenza stabilito un contatto con il sovrano della Persia, e la comitiva giunta in Francia rendeva atto che qualcosa stava per cambiare. Abagha, addirittura, si sarebbe convertito? La Persia sarebbe divenuta una nuova potenza cristiana?
Un re sensibile alla fede cristiana
Educato al rispetto e alla conoscenza del cristianesimo, che in Persia era professato dai nestoriani – ossia duofisiti, convinti che umanità e divinità fossero scissi in Cristo –, Abagha era buddhista. Suo padre Hülagü era nipote di Gengis Khan e fratello di Möngke, il terribile signore di Karakorum che accolse Guglielmo di Rubruk. Proprio il padre di Abagha aveva abbattuto il califfato abbaside di Baghdad, dando luogo all’ilkhanato (1258), termine che sta a intendere un territorio conquistato per conto del Gran Khan. Ben presto si vide, però, che la situazione era resa critica dalla forza dei sultani mamelucchi dell’Egitto. Questi inflissero due gravi sconfitte all’ilkhan Abagha e, quando questi morí, salí al trono il fratello Tekuder, desideroso di risolvere i problemi intavolando rapporti di amicizia con il sultano. Sia lui che l’altro ilkhan stabilitosi in territorio russo (nell’ilkhanato dell’Orda d’oro), si convertirono all’Islam. Tekuder prese cosí a chiamarsi Ahmed. Dovette però fare i conti con il nipote Arghun, che scatenò una ribellione, detronizzandolo e uccidendolo. Il nuovo ilkhan era buddhista come il padre, e altrettanto sensibile alla fede cristiana. La sua politica estera fu subito protesa al dialogo con l’Occidente. Dopo un primo contatto con papa Onorio IV, nel 1285, gli inviò nel 1287 il monaco-vescovo cristiano mongolo Bar Sauma, che rappresentava
Marco Polo assunse un incarico di governo nella città di Yangzhou, che ricorda come Iangui. Per tre anni fece le veci di uno dei dodici baroni preposti, direttamente nominati dal Gran Khan. Si trattava di una «potentissima» città, situata sulla direttrice del Fiume Azzurro (Yangtze Kiang). Nel XIV secolo vi si stabilí una comunità francescana. Nel 1951 si scoprí che, tra i materiali utilizzati nel 1360 circa per edificare una cinta muraria, c’era la lapide sepolcrale di una cristiana, oggi conservata nello Yangzhou Museum. L’iscrizione frammentaria, in caratteri gotici di buona fattura, riferisce che la donna, morta il 2 giugno 1342, si chiamava Caterina ed era figlia del defunto Domenico Ilioni, probabilmente oriundo di Genova. Si è persino trovata una ulteriore lapide del fratello di Caterina, Antonio, morto nel 1344, mentre il padre Domenico è attestato nel 1333 nella Cina del Nord, intento a raccogliere le ultime volontà di un altro italiano, Giacomo de Oliviero. La lapide di Caterina è ancor piú interessante per via delle figure che la corredano. L’artigiano che le incise interpretò con un tocco cinese le tipiche scene sacre dei cristiani. Una Madonna in trono col Bambino è sospesa in un cielo dove volteggiano due angeli, mentre dall’altro lato due ulteriori angeli depongono su un altare un bambino in fasce (Gesú). Seguono scene di martirio, con Santa Caterina d’Alessandria (omonima della defunta), ben riconoscibile dalle ruote del supplizio, due cadaveri e un Santo che sta per essere decapitato. Sulla destra un uomo inginocchiato (un prete?) protende un pargolo in direzione dei martiri, indicando forse la loro salvezza in Cristo.
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In Terra Santa e nell’Oriente anche Sabalaha III, il patriarca dei nestoriani insediato a Baghdad. Quando giunse a Roma, il pontefice era, poi, deceduto. Fu tuttavia intavolato un lungo dialogo con i cardinali, in particolare con il francescano Girolamo d’Ascoli, che era probabilmente avvantaggiato dalla sua conoscenza del greco e dalla sua esperienza come legato papale a Costantinopoli. Bar Sauma – che ha lasciato un prezioso memoriale del suo viaggio – assicura che il suo patriarca segue la fede di san Tommaso, l’apostolo delle Indie. Alcuni figli dell’ilkhan sono stati battezzati, e il sovrano vorrebbe intavolare un’alleanza per liberare la Città Santa dal giogo dell’Islam. La missione prosegue, e il presule persiano suscita l’entusiasmo del re di Francia, Filippo IV il Bello (1285-1314), a cui Arghun richiederà in seguito falchi da caccia e pietre preziose in dono. Bar Sauma ha anche modo di incontrare Edoardo I d’Inghilterra (1272-1307). Quando rientra a Roma, nel 1288, è stato eletto il nuovo pontefice, Niccolò IV, ossia lo stesso cardinale con cui si era intrattenuto in precedenza. Si crea cosí una forte amicizia tra il papa e il legato persiano, che proprio da Niccolò riceve la comunione nella Domenica delle Palme.
Il battesimo può attendere?
Insieme a ricchi doni – tra cui un anello sfilato dal proprio dito nonché alcune reliquie delle vesti di Gesú e della Madonna –, il papa invia ad Arghun due lettere. Nella prima esprime gratitudine per l’attenzione rivolta ai missionari latini, e lo esorta al battesimo. Nella seconda intende sottolineare che la conversione è una conditio sine qua non. L’ilkhan non può proporsi come liberatore della Terra Santa se prima non entra nella comunione dei credenti. Senza la croce non si può essere crociati, e se non si è crociati come si possono ottenere la benevolenza del vero Dio e la vittoria? Il sovrano, d’altro canto, pensava che la conversione potesse essere affrontata in un secondo momento. Arghun insiste nel passare all’azione, e, nell’ambito di una quarta ambasceria, dopo la primavera del 1290, invia una lettera al papa dove giustifica il suo temporeggiamento sul proprio battesimo, che non vuole chiaramente affrontare: «Noi Mongoli, discendenti di Gengis Khan, noi diamo piena libertà ai nostri sudditi mongoli di farsi cristiani, o di restare quello che sono, solo il Cielo eterno ne sia a conoscenza! (…) Ora, se ti dico che non ho ricevuto il battesimo, ti offendi, ma se solo si prega il Cielo eterno e si pensa come conviene farlo, non è come averlo già fatto?» (traduzione di Mostaert-Woodman 102
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In alto miniatura raffigurante una disputa fra nestoriani e cattolici a San Giovanni d’Acri. XIII sec. Nella pagina accanto ritratto di papa Niccolò IV (al secolo, Girolamo Masci), olio su tela attribuito a Giuseppe Franchi. 1600-1624. Milano, Pinacoteca Ambrosiana.
Cleaves/Franchi). Il Cielo, infatti, è la divinità suprema dei Mongoli, e sotto la sua maestà, insomma, il battesimo può attendere. Per l’ultima missione in Persia che organizza (1291), Niccolò IV torna a scrivere al sovrano senza sapere che è già deceduto. In una lettera del 21 agosto, si congratula per la rinascita in Cristo di un figlio avuto da Uruk Katun, moglie cristiana di Arghun con cui il papa aveva stabilito un’amicizia epistolare. Proprio in onore del pontefice, quel figlio è stato battezzato nell’agosto 1289 con il nome di Niccolò! Arghun pensa probabilmente che questo basti a risolvere la questione religiosa che lo riguarda. Il papa, dal canto suo, si sente investito di una evidente paternità spirituale, e scrive personalmente al neobattezzato, come se fosse un confratello missionario in una terra ostile, che si deve muovere come un agnello in mezzo ai lupi. Memore dell’insegnamento di san Francesco, suggerisce a Nicolaus di mantenere le sue precedenti abitudini, senza ostentare la sua nuova condizione religiosa, onde evitare dissensi e scandali con i suoi conterranei. Nella predetta lettera ad Arghun, il papa si mostra a un certo punto un po’ imbarazzato. Il sovrano gli aveva infatti indirizzato una richiesta a cui teneva molto, ma che non poteva essere evasa – e di ciò se ne scusa –, perché non era
affatto consona agli uomini di Chiesa. Di che cosa poteva trattarsi? Quasi sicuramente, secondo un’antica consuetudine di alleanze, l’ilkhan avrebbe voluto cementare la sua amicizia con l’Occidente unendosi a una principessa, e magari si rivolse a Niccolò IV come a un sovrano qualsiasi che a tal fine poteva mettergli a disposizione una figlia o una nipote. In alternativa, avrebbe potuto attivarsi per cercare la sposa presso un’illustre casa regnante, come aveva fatto proprio con lui Kubilai Khan. D’altronde, c’era il precedente di suo padre, l’ilkhan Abagha, che aveva sposato nel 1265 la piccola Maria Paleologina (1258/9-1282), una figlia naturale dell’imperatore bizantino Michele VIII Paleologo (1261-1282). Nella sua ultima missiva (23 agosto 1291), infine, il papa annuncia ad Arghun che ha bandito quella crociata che si concluderà con la perdita di Acri, ultimo avamposto europeo in Terra Santa. Niccolò IV confida nei propositi di Arghun, e lo invita nuovamente a battezzarsi, ma è meno tetragono del solito, poiché la guerra incombe. L’alleanza tra Mongoli e «Franchi» non ebbe mai luogo, e il lungo lavoro del papa si dissolse nella disfatta. Nicolaus, il figlio cristiano di Arghun, per giunta, si sarebbe poi convertito all’Islam. Avremo modo di ritrovarlo con tutt’altro nome, nella veste di fervente seguace del Profeta. MONDI LONTANI
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I meravigliosi racconti di un viaggiatore veneziano Stampa ottocentesca raffigurante i resti della fortezza di Kalamita, presso Inkerman (città sobborgo di Sebastopoli, Crimea), che fra il XIV e il XV sec. fu controllata dai Genovesi.
Josafat Barbaro, mercante della Serenissima, percorse le terre abitate dai Tartari e dai Turcomanni, signori della Persia. Siamo nel tardo Quattrocento e l’Oriente si offre agli occhi dell’affascinato osservatore veneziano in tutto il suo esotico fulgore…
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ella notte di Santa Caterina del 1437 (25 novembre) venne stipulato un accordo «alla Tana», ossia nell’attuale città di Azov, sul Mare omonimo, propaggine nord-orientale del Mar Nero. Sotto il tetto del mercante veneziano Bartolomeo Rosso, insieme al padrone di casa sono presenti i suoi colleghi: Josafat Barbaro (il nostro testimone, personaggio di spicco della Serenissima), Francesco Cornario, Catharin Contarini (in seguito attivo a Costantinopoli), Zuan (Giovanni) Barbarigo, Moysè Bon di Alessandro dalla Giudecca, Zuan da Valle (alcuni anni prima, nel 1428, mentre era in viaggio verso Derbent – fortezza sul Mar Caspio –, quest’ultimo depredò i carichi di alcuni navigli che giungevano da Astarabad). In tutto sono sette, ma è attestata anche… santa Caterina d’Alessandria in qualità di «ottavo socio». Secondo la consuetudine, infatti, l’ottava parte dei guadagni derivanti dall’affare sarebbe stata devoluta a opere di bene in nome della santa, assai popolare a Venezia.
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Tra la Crimea e la Persia
Il gruppo stabilisce le regole per la ricerca di un tesoro sepolto in un’altura a 60 miglia di distanza, in territorio russo. Si tratta della vecchia tomba di un signore degli Alani, tale Indiabu, costruita a forma di collina artificiale, e parecchie voci concordano sul fatto che sotto terra ci sia una infinità di oggetti preziosi. In effetti, doveva essere una finta tomba, secondo lo stile dei tumuli degli antenati. Indiabu, a quel che si diceva, la
pane – e infine una distesa di rane putrefatte. Visto che il tesoro non si trova, si passa al «monticello» maggiore. Si compiono due saggi e si trovano: vasi di pietra colmi di cenere; sfere di terracotta invetriata sul tipo dei paternostri (i grani del rosario); «mezzo manego (manico)» di un piccolo «ramin (recipiente) d’arzento», adorno in cima di una testa d’animale. Si solleva infine un grande vento che costringe tutti alla fuga, e cosí il cantiere si chiude,
congegnò solo e semplicemente per nascondere le proprie ricchezze minacciate dall’arrivo dei Tartari. Il primo tentativo di scavo va a vuoto per la durezza del terreno. Il secondo tentativo, a marzo, viene intrapreso con l’apporto di 150 uomini: in 22 giorni si realizza una cospicua «tagliata» e si trovano «cose (per modo de dir) incredibile». Il «monticello» minore è formato da uno strato di carbone forse dovuto alla combustione dei salici, poi ci sono uno strato di cenere, residui di miglio – che da quelle parti si usa per fare il
il Lunedí di Pasqua. Non tutto fu inutile, però, perché i segni di tanto lavoro rimasero evidenti, e il luogo meritò cosí il nome di «Cava de i Franchi».
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A contatto con i Tartari
L’avventura sfortunata di questi mercanti-tombaroli chiude la relazione di un viaggio compiuto in Crimea dal predetto Josafat Barbaro (1413 circa-1494), molto pratico del Medio Oriente per i suoi affari. La sua opera è soprattutto motivata da un’ambasceria di cui fu incaricato in Persia, ma questo non gli
A sinistra elmo in ferro ageminato ascrivibile all’epoca dell’Orda d’Oro mongola. XIII-XIV sec. San Pietroburgo, Museo Statale Ermitage.
Oltre a descrivere i luoghi, Josafat Barbaro testimonia anche le differenze di mentalità delle genti con cui viene a contatto impedisce di dedicare parecchie pagine iniziali a una serie di aneddoti che fanno percepire la sua dimestichezza con le terre lontane dalla patria. Il filo conduttore è l’esperienza maturata a contatto dei Tartari, la cui alleanza può dare forza alla strategia antiottomana che la Serenissima sta portando avanti. Il grande modello di riferimento è, naturalmente, il Milione, e Josafat ammette piú volte che quanto racconta può apparire incredibile. In piú occasioni e per lungo tempo egli fece base nella colonia veneziana insediata in Azov. Gli stessi Veneziani si premurarono di fortificare
la città con una cinta muraria e torri poste a presidio delle porte. A quelle mura tipicamente occidentali, caratteristiche di una società stanziale, si contrapponeva il passaggio delle sterminate carovane dei Tartari. Nell’inverno 144142, in particolare, si ebbe il transito dell’Orda in territorio russo. Barbaro descrive queste formazioni molto accuratamente, e fa notare che non hanno niente a che fare con le carovane degli zingari che si vedono in Europa. Sono città in movimento, senza mura ma ben presidiate dalla cavalleria, con i suoi temibili arcieri. Ogni esigenza, dall’approvvigionamento del cibo alla
In alto, sulle due pagine portolano delle terre bagnate dal Mediterraneo e dal Mar Nero, fra cui la Tartaria. XVI sec. Madrid, Biblioteca Nacional de España.
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DONNE GENEROSE Josafat racconta un aneddoto boccaccesco ambientato in Mingrelia, una regione della Georgia. In questo modo vuol far capire come mai i Genovesi dicano «Tu sei Mengrelo (abitante della Mingrelia)» per dire «Tu sei pazo». Il nostro Veneziano è in compagnia del genovese Azolin a Varthi, una città situata vicino a Sebastopoli, sulla costa orientale del Mar Nero. Il Genovese rimane particolarmente attratto da una donna che si trova in strada, sull’uscio di casa. Le si avvicina chiedendole se il marito è presente e, saputo che il campo è libero, inizia subito un rude approccio, senza che la donna batta ciglio. Mentre la palpeggia fa capire con entusiasmo a Josafat quanto sia bella, mettendo in mostra il suo seno e la sua dentatura. I due entrano in casa, e Josafat li segue incredulo. Azolin è visibilmente eccitato (aveva «vermeneza ne le mudande») e porta avanti le sue manovre. La donna lo asseconda, ma d’un tratto compare il marito. Compie un solo gesto. Tira fuori una bisaccia, la fa penzolare facendo capire
Sulle due pagine le mura e le torri di fortificazione erette a protezione di Azov, alla foce del Don, in Russia.
che è vuota e chiede ad Azolin, chiamandolo Padron, se ha un po’ di denaro. Il Genovese gli dà volentieri qualche moneta di bassa lega, e tutto finisce lí. Va detto che questo genere di storie ricorre nei resoconti dei viaggi in Oriente, e non solo. Marco Polo riferisce che a Qamul, nel Turkestan cinese, c’è gente molto allegra, dedita di continuo ai sollazzi. E se arrivano i forestieri, i mariti mandano le loro mogli ad assecondare ogni loro desiderio, anche per diversi giorni. «E tutti quegli di questa provincia sono bozzi (traditi) delle loro femine, ma nol si tengono a vergogna; e le loro femine sono belle e gioiose e molto alegre di quella usanza». D’altro canto, Enea Silvio Piccolomini, il futuro papa Pio II, quando era ancora segretario al servizio del cardinale Capranica di Fermo, ai tempi del concilio di Basilea (1431-1449), compí una missione in Scozia, e ricorda di aver incontrato «donne pallide e belle, pronte all’amore; baci di donne hanno là minor peso che da noi una stretta di mano» (traduzione di Eugenio Garin).
produzione del vasellame, è assicurata da appositi settori specializzati. Le case sono tende allocate sui carri, costituite da un’armatura di cerchi concentrici e di stagge, il tutto poi ricoperto da pelli e tessuti. Se si fermano, la tenda viene smontata dal carro e rimontata sul campo. Questo permette a migliaia di persone di spostarsi in ogni dove, anche su grandi distanze.
«Chi ha paura fa torri»
Per far capire la differenza di mentalità, Josafat racconta di aver scambiato due parole con un mercante tartaro nei pressi di una porta-torre di Azov. Poiché era stata costruita con una
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certa cura dai Veneziani, Barbaro, con orgoglio, chiese al mercante che cosa ne pensasse. E questi, per nulla impressionato, disse: «Poh, chi ha paura fa torre». Sempre a proposito di mura, quando in città si scatenò un incendio terribile, nel 1442, Josafat fece aprire una breccia per favorire la fuga in massa delle persone. Anni dopo, nel 1455, mentre era a Venezia, notò due schiavi in catene al servizio di alcuni mercanti catalani. Denunciò il fatto alle autorità, liberò i due uomini e li prese al proprio servizio. Si scoprí che uno di loro era un tartaro che si era salvato la vita passando proprio attraverso «quel buso (buco) nelle mura».
In alto piatto in argento placcato oro, decorato con scena di caccia al leone e al cinghiale. Produzione sasanide, VII-inizi dell’VIII sec. San Pietroburgo, Museo Statale Ermitage.
Josafat riferisce la storia del tartaro Mengligeri che si alleò con i Genovesi di Caffa per tenere lontane le grinfie di un suo congiunto, Eminachbi. Con l’aiuto degli Ottomani, Eminachbi lo mette fuori gioco, però gli consente di restare a Caffa in segno di distensione, a patto che non esca dalla città. Mengligeri è accolto dagli abitanti con tutti gli onori, e organizza diversi festeggiamenti tra cui un palio, di cui approfitta per fuggire. Il torneo è attentamente descritto. Una tazza d’argento pende da una specie di forca, e i cavalieri, muniti di frecce «con el ferro de mezza luna tagliente», devono passare di corsa sotto la struttura. Coperta una certa distanza, si voltano indietro e scoccano una freccia nel tentativo di spezzare la corda a cui la tazza è appesa. Chi riesce nell’impresa vince il palio. Di particolare interesse è la tattica d’obbligo dei concorrenti, che consiste nella «freccia del Parto», secondo la dizione con cui era nota presso gli scrittori di Roma antica, all’indomani della disfatta di Carre (53 a.C.). La capacità dell’arciere di colpire un bersaglio voltandosi all’indietro, mentre il suo cavallo è al galoppo, era un tipico contrassegno dell’abilità dei cavalieri iranici. Non a caso gli shah della Persia sasanide si facevano ritrarre in scene di caccia proprio nell’atto di compiere quella prodezza. Poteva tuttavia trattarsi di un costume di piú ampia risonanza, dal momento che questa iconografia è attestata anche nella Cina della dinastia Han.
Nella regione della Moxia abitata dai Maksha (della stirpe finnica dei Mordwin), a ovest del medio corso del Volga, i Moxii compiono un rito «pagano» che ha impressionanti nessi con antichissimi riti indoeuropei. Un cavallo viene legato a 5 pali. Un arciere a debita distanza lo trafigge con un colpo al cuore, dopodiché viene scorticato. Con la pelle si fa una sacca e la carne, dopo un cerimoniale, viene mangiata. La pelle viene riempita di paglia e il cavallofantoccio cosí creato viene messo in piedi, assicurandolo a 4 legni. Si va poi a un grande albero da cui si tagliano rami per fare un palco su cui spicca il cavallo di paglia. Arrivano quindi offerte di ogni genere che vengono appiccate ai rami. Si tratta di omaggi rituali di pellicce per garantirsi la protezione divina, «cosí come noi offerimo candele».
Il vino georgiano
Nella Georgia la vite si coltiva «maritata» agli alberi, come si osserva anche a Trebisonda. Gli uomini «sono belli et grandi, ma hanno sozissimi habiti et costumi vilissimi». Hanno una specie di tonsura, come i frati mendicanti. Hanno mustacchi e barba lunga («a longeza de una quarta d’un brazo»). Indossano un berretto di vari colori che si conclude con una cresta. Si vestono con giubbe strette e lunghe, aperte dietro fino al fondoschiena per consentire di montare a cavallo. Si tratta di un uso che non va biasimato, secondo Josafat, perché è ancora adottato dai Franzosi. Gli stivali hanno un tacco alto, tanto che sotto la suola si potrebbe agevolmente infilare un pugno. Calzature di tal genere erano anche diffuse in Persia, nota Josafat, ma il gusto del tacco alto era anche attestato proprio a Ve-
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nezia, per far evitare alle donne benvestite il fango e le sporcizie che c’erano lungo le calli. Il 5 gennaio 1473 la Serenissima elegge Josafat al ruolo di ambasciatore presso Uzun Hasan, l’emiro di stirpe turcomanna che controlla la Persia. Prima di intraprendere la missione, Josafat fa testamento. Scorta fino a Cipro un gran quantitativo di uomini e di armamenti per un abboccamento con Uzun che non si concretizza. Suscita parecchi malumori a Venezia, intromettendosi nelle azioni di guerra contro il Turco, poi finalmente si mette in viaggio. La prima località interessante che incontra è Mardin (nell’odierna Turchia sud-orientale, n.d.r.), una città appollaiata su un monte che richiede una lunga salita su scale scavate nella roccia. Secondo «Turchi e Mori» si trova talmente in alto che i suoi abitanti «non vedono mai oselli (uccelli) volar sopra de sí». Viene accolto «in uno hospital» dove gli si dà da mangiare e dove chiunque viene accolto su «tapedi (tappeti) da meglio de ducati .100. l’uno». Incontra un asceta «forestiero de ‘sto mondo», libero da ogni assillo e vestito di una sola «pelle de capriol». A Chexan, il 4 aprile 1474, la sua comitiva subisce un attentato per mano di una banda di curdi «crudelissimi, non tanto ladri quanto assassini». Josafat riesce a fuggire al galoppo
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sfrenato, ma un legato di Uzun, che stava nel gruppo, finisce ucciso insieme agli altri. La reggia dell’emiro si trova a Tabriz. Una porta dà su un cortile presidiato da 8/10 guardie. Un’altra porta, fiancheggiata da un guardiano «con una bacheta in mano», introduce in un giardino a prato, con una distesa di trifoglio. Sul lato sinistro, dietro a una fontana, c’è una loggia con le pareti e le volte ricoperte di mosaici. Davanti a un broccato alla morescha – che raffigura una scimitarra appesa al muro –, contornato dai suoi favoriti, Uzun siede su un cuscino di broccato d’oro. Sul suo aspetto abbiamo le rapide note di un altro messo veneziano, Ambrogio Contarini: «Al iudicio mio era de anni .LXX., longo, magro, ma bel homo; non mostrava (sembrava) per niente prosperoso». In realtà, aveva 50 anni, ma forse li portava male, per effetto di una vita errabonda e sfibrante.
Fasti orientali
Nel primo giorno sono presenti al suo cospetto «cantatori et sonatori» con arpe grandi «un passo», «lauti (liuti), ribebe (sul tipo degli scacciapensieri), cymbali (strumenti a percussione), pive (cornamuse)». In un’altra occasione ci sarà anche spazio per esibizioni di danza e gare tra lottatori. In tutte queste
Sulle due pagine i resti della fortezza di Sudak, in Crimea. Nel XIII sec. i Veneziani ne assunsero il controllo, ribattezzandola Soldaia, e, fra gli altri, vi soggiornarono Niccolò e Matteo Polo, che da qui, probabilmente nel 1260 o nel 1261, partirono alla volta della corte di Kubilai Khan.
scene sembra di ritrovare alcune costanti immortali del fasto orientale, cosí come erano già evocate nei dipinti che decorano il soffitto della Cappella palatina di Palermo (1133-43), a opera dei maestri dell’Egitto fatimide. Il giorno dopo Josafat riceve due vesti di seta da indossare, un fazzoletto di seta e una pezza di tessuto leggero per coprire la testa. Viene invitato alla festa in piazza, che si tiene ogni venerdí. La principale attrattiva è costituita dai lupi che vengono condotti in mezzo alla fiera. I figli di Uzun assistono dalle finestre del palazzo. Ricoperti da giubbe robuste, gli addestratori si fanno assalire alla gola ma evitano ogni pericolo con perfetto tempismo. Tutt’intorno i cavalli si spaventano e nella ressa qualcuno finisce per terra. Nella reggia di Uzun si presentano con un gran seguito due messi di un sovrano dell’India, stracarichi di doni. Hanno portato in omaggio «una leonza in cadena», vale a dire una tigre, che, visto un leone, voleva saltargli addosso per giocare, «come fanno le gatte». Viene trattenuta a stento. Segue una coppia di elefanti, che, al comando del loro accompagnatore, si inginocchiano davanti a Uzun. Ma non finisce lí. Per far vedere la forza dei pachidermi, uno di essi viene condotto a sradicare un grosso albero. Appare poi una giraffa, animale «alto in gambe
quanto un gran cavallo (…) ha la lengua longa un brazo (…) como l’anguilla». Josafat ammira moltissimo questo strano «cavallo», però nota che non è adatto a portare pesi. Fra tante meraviglie, compresi pappagalli e zibetti, ci sono anche colombi «simili a li nostri». Evidentemente sono rari da quelle parti «altramente non l’haverian portati». La processione dei doni sembra non finire mai, con una sequela di tessuti e di ceste di gioielli. Il tutto culmina in un gigantesco ricevimento dove tutti i cortigiani di Uzun sfoggiano finissime vesti di seta.
Un signor «de là del mar»
Prima ancora che giungessero gli omaggi dell’India, l’emiro aveva messo insieme una collezione strabiliante di pietre preziose, grazie in particolare ai doni di «un signor de là del mar (cioè al di là del Golfo Persico)». Josafat annota meticolosamente queste meraviglie. Il messo viene poi introdotto in un padiglione che sembra una cuba, vale a dire un ambiente di delizie a pianta quadrata con cupola, tipico della cultura arabo-persiana (per questo tramite sorsero cube anche nella Sicilia normanna). Ci sono sete a non finire. Alcuni tessuti, come noterà un altro messo veneziano, il predetto Contarini, sono istoriati e raccontano le imprese
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Tra la Crimea e la Persia
ESOTISMO IMMORTALE La scena dell’omaggio degli elefanti fa il paio con la reverenza del leone a cui Marco Polo poté assistere alla corte di Kubilai Khan: «Ancora vi dico una grande meraviglia: che uno grande lione è menato (condotto) dinanzi dal Grande Sire, e quando egli vede lo Grande Sire, sí si pone a giacere dinanzi da lui e fagli segno di grande umiltade, e fa sembianza ch’egli lo conosce per signore; e è senza catene e senza legatura alcuna, e questo è bene grande meraviglia». Piú in generale, il pachiderma continua indisturbato a svolgere il suo ruolo di immediata fascinazione, incarnando con il suo aspetto e con la sua forza il piú grande prodigio della natura. Ancora una volta, l’India si riconferma luogo di incanti grazie a questo suo gigantesco animale-simbolo, quando sono già passati sei secoli dall’arrivo dell’elefante alla corte di Carlo Magno. E il possesso di questi mirabilia era sempre un segno di potere. Anche la giraffa rientra in questo novero illustre, dal momento che compariva già nei cortei di Giulio Cesare. La tendenza all’esibizione di animali esotici ha poi uno sviluppo particolare nelle monarchie dell’Europa bassomedievale. Basti pensare al serraglio mobile di Federico II. Come nota Franco Cardini, i monstra dell’Oriente non erano solo «un motivo d’attrazione» ma «una prova vivente della potenza divina», e quindi «garanzia del potere e del prestigio» di colui che riusciva a procurarseli, di propria iniziativa o ricevendoli in omaggio.
militari di Uzun in persona. In un momento di convivialità, sono presenti alcuni Tartari, tra cui un messo che faceva la spola tra Caffa e la Cina, e che conosceva molto bene i «Franchi». Avendo ammirato l’attenzione e la competenza di Josafat per gli oggetti di pregio, Uzun afferma che il mondo ha tre occhi: due sono forniti dai «Cataini» come lui, uno dai Franchi. Nessun occhio è fornito dai Tartari, precisa con fare sornione, rivolto ai presenti di stirpe mongola. L’affermazione è interessante, perché riprende l’antica immagine dei «due occhi del mondo», coniata proprio in Persia per definire due potenze di pari grado che dominano l’umanità (in quel caso si trattava degli imperi di Roma e della Persia sasanide). L’atteggiamento ironico
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In basso la città di Trebisonda (oggi Trabzon, in Turchia) in una veduta ottocentesca.
Sulle due pagine miniatura raffigurante Kubilai Khan nel corso di una battuta di caccia, da un’edizione del Livre des Merveilles. 1470 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
verso i Tartari si spiega poi per il fatto che Uzun è un turcomanno, fiero della sua «parentela» diretta con i Cinesi. Si definisce infatti «cataino» in quanto proveniente dal Catai (la Cina settentrionale). Uzun regala poi a Josafat un antico cammeo con l’immagine di una nobile donna e gli chiede: «Guarda, è questa Maria?». L’emiro è persuaso che si tratti di una immagine della Madonna, a lui familiare per via del fatto che sua moglie è cristiana. Curiosamente, proprio in quegli anni (1472), nel territorio di Amatrice (Rieti), una pastorella trovò un cammeo di
quel tipo, e tutti si convinsero di un miracoloso ritrovamento di una immagine della Vergine, tanto da costruire sul luogo un santuario a lei dedicato (la Madonna della Filetta).
L’attesa dell’ambasciatore
Nonostante tanto sfarzo, Uzun Hasan attraversava un momento difficile, e la sua parabola era ormai in discesa. Era in rotta con suo figlio, Ughurlu Mohammed, e si apprestava a partire per una spedizione contro le sue truppe, verso Shiraz. Barbaro rimane tuttavia impressionato dalla entità del suo esercito, e stima che possa MONDI LONTANI
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Tra la Crimea e la Persia vantare 100mila effettivi, il che poteva corrispondere alla realtà. Per il resto, nell’inutile attesa che si affronti il discorso della lega antiottomana, l’ambasciatore non può che inanellare le curiosità relative alle terre che attraversa. Sarebbe poi tornato a Venezia nel 1478-79, dopo oltre cinque anni di assenza. A Sultaniya, una città fondata dall’ilkhan Arghun nel 1285, rimane attratto da una cospicua costruzione a pianta centrale che si staglia nella pianura con una gran cupola a sesto acuto. Nota che quest’ultima è piú grande della cupola della chiesa dei Ss. Giovanni e Paolo a Venezia (San Zuanne Paulo), sebbene ugualmente larga: la differenza sta nello sviluppo in altezza, con un apice che tocca i 49 m. Ammira la conformazione interna, le balaustre in metallo istoriato e le porte di bronzo. Il legato Contarini, che passerà anch’egli in questa città, nota che queste ultime sono piú grandi delle porte della basilica di S. Marco. Josafat pensa che si tratti di una moschea, ma l’edificio venne in realtà pensato come un mausoleo. Poi, in aggiunta, si pensò di farne un santuario per custodire le spoglie di due santi sciiti, discendenti del Profeta, ma il committente dovette rinunciare a questa idea, curiosamente affine al gusto cristiano delle reliquie, e nel 1313 ritornò al progetto originario del mausoleo riservato esclusivamente alla sua persona.
Come il Taj Mahal
Costui era l’ilkhan Oljeitu (1304-1316), figlio di Arghun, noto anche come Kharbanda. Prima di convertirsi all’Islam, nel 1289 aveva ricevuto il battesimo con il nome di Nicolaus, e in tale veste lo abbiamo già visto (vedi nel capitolo prece-
UZUN E CATERINA Uzun Hasan (il «Piccolo Turco»), signore del Montone Bianco (1453-1478), della dinastia turkmena e sunnita degli Aq Qoyunlu, era un valoroso condottiero, ed esercitava il suo dominio su un vasto territorio compreso tra l’Azerbaigian e l’Iran, laddove si erano estese le conquiste di Tamerlano. L’idea di un’alleanza euro-asiatica contro gli Ottomani venne sviluppata con grande dedizione a Trebisonda, sulla sponda meridionale del Mar Nero. Si trattava di un piccolo Stato retto dagli epigoni dei Comneni, la dinastia che resse l’impero bizantino dal 1081 al 1185 e che, sin dalla sua destituzione, rivendicava i suoi diritti sul trono di Costantinopoli. Il piú autorevole degli ultimi sovrani, Giovanni IV Comneno (Kalo-Joannes, 1429-1459), aveva concesso la mano della propria splendida figlia
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Caterina (Teodora) proprio a Uzun Hasan. Fu una presenza molto tenace e orgogliosa nella vita difficile di questo re condottiero. Poi, come annota Josafat Barbaro, la donna prese la decisione di allontanarsi dalla corte, andando a vivere in una propria casa lontano da lí, insieme alle due figlie minori. Suo padre era morto, lo Stato di Trebisonda era finito in mano a Maometto II con la decapitazione del fratello Davide (1461), e il regno di Uzun non aveva futuro. Forse Caterina non riuscí piú a sopportare la vista di tanto sfacelo. Rimasta ferma nella sua fede cristiana, si fece seppellire sotto il portico della chiesa di S. Giorgio a Diyarbakir (Turchia), in origine Amida, una città dell’antico limes di Roma che si diceva fosse stata costruita da Costantino in persona.
Nella pagina accanto acquarello e oro su carta di produzione iraniana raffigurante una coppia principesca. 1400-1405. New York, The Metropolitan Museum of Art. A sinistra l’ingresso della Moschea Blu di Tabriz. La città iraniana venne conquistata da Uzun Hasan mentre la costruzione dell’edificio era in corso, ma il sultano turkmeno acconsentí a che i lavori fossero portati a termine.
dente, alle pp. 96-103). La sua tomba ha un valore indiscusso nella storia dell’architettura islamica, e un acuto studioso e viaggiatore come Robert Byron (1905-1941) vi scorge un’anticipazione del Taj Mahal. Josafat incontra un Veneziano che frequenta le piazze dell’estremo Oriente. Si chiama Nicolò Dedo. Sfoggia un lungo soprabito foderato sopra un giubbone di pelle, con un cappuccio che pende dalla schiena e un cappello di paglia «da soldi .4.». Sembra proprio un Cinese, insomma. Viene poi a sapere che tra Shiraz e il Golfo Persico c’è un’acqua miracolosa. Giacomo II di A destra elmo a turbante in acciao, ferro e argento che riporta inciso il nome del secondo figlio di Uzun Hasan, Ya’qub, sultano della confederazione tribale turkmena degli Aq Qoyunlu («Montone Bianco»). 1478-1490 circa. New York, The Metropolitan Museum of Art.
Lusignano, re di Cipro (1460-1473), ha inviato un Armeno per prelevarne un po’. Venne trasportata «in un fiascho de stagno», dopodiché il recipiente venne «apichato su un bastone» sulla parete di una torre. Come per incanto, non ci furono piú cavallette. Ma Josafat Barbaro va soprattutto ricordato per essere stato il primo europeo a prendere nota delle rovine dell’antica Persia. Visitò infatti Persepoli, e vide la tomba di Ciro il Grande a Pasargade, convinto che appartenesse alla madre di Salomone. Con ogni probabilità si trovò di fronte ai bassorilievi di Naqsh-e Rustam. Tutte le figure che vede sono ricondotte alla Bibbia, cosicché gli antichi eroi dell’impero prendono le vesti di Salomone e di Sansone. Quando si trova di fronte alla scena della sottomissione del romano Valeriano al cospetto di Shapur I (240-270/2 d.C.), crede che si tratti di un devoto che riceve la benedizione dal Padre eterno in persona. MONDI LONTANI
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Alla corte del duca Ivan
Mosca. La cattedrale dell’Assunzione, che, nelle forme attuali, è frutto della ricostruzione integrale operata tra il 1475 e il 1479 sul progetto che Aristotele Fioravanti elaborò per il duca Ivan III.
Inviato alla volta della Persia, sulle orme di Josafat Barbaro, il nobile veneziano Ambrogio Contarini viene costretto dalle vicende geopolitiche a rifugiarsi nientemeno che a Mosca. Nella città di Ivan III incontrerà un mondo sconosciuto, freddissimo ma pieno di «franciosi». E dedito, soprattutto, a una consuetudine che il nostro non è in grado di assecondare…
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I
Dalla Russia con stupore
l 23 febbraio 1474 il nobile Ambrogio Contarini (1429 circa-1499 circa) partí alla volta della Persia, su incarico della Repubblica di Venezia, per recapitare al sultano Uzun Hasan un messaggio segreto mandato a memoria. Si trattava di un piano per un attacco congiunto su Costantinopoli, e si doveva poi verificare se Josafat Barbaro, che era stato nominato ambasciatore della Serenissima presso l’emiro (vedi il capitolo precedente, alle pp. 104-115) fosse giunto a Tabriz. Ambrogio descrisse con il suo itinerario un ampio arco nel cuore dell’Europa orientale, attraverso la Polonia, dirigendosi poi verso le regioni che si affacciano sul Mar Nero. Quando si avvicina alla meta non sembra particolarmente colpito dalle nuove terre che incontra. Forse gli pesa molto il sostanziale insuccesso del suo contatto con Uzun Hasan, il che può indurlo a trattare la prima parte del resoconto in maniera piuttosto rapida. D’altronde, ha grande considerazione di Barbaro, sa che conosce quei luoghi a menadito, ed è quindi inutile competere con la sua esperienza. Ambrogio non è un gran bevitore, e sottolinea tutte quelle situazioni in cui questa sua qualità gli ha dato dei problemi nello stabilire rapporti di amicizia con la gente di vari luoghi. Naturalmente, poi, disdegna tutti coloro che si mostrano devoti alla bottiglia. In Crimea nota che è molto diffuso l’idromele, il quale «imbriaga molto piú che vin». In Georgia sperimenta la stranezza degli abitanti, senza scendere nei dettagli cari a Barbaro. Wameq II, signore della Mingrelia, ha «modi et costumi mateschi (da matto)». Nella terra di Bagrat VI, re della Georgia, un governatore lo
Nella pagina accanto il planisfero di Juan de la Cosa, marinaio cantabrico che lo realizzò su commissione di un membro della corte spagnola. 1500. Madrid, Museo Navale.
Qui sopra pagina di un’edizione della relazione di Ambrogio Contarini, pubblicata con il titolo Questo e el viazo de misier Ambrosio contarin ambasador de la illustrissima signoria de Venesia al signor Uxuncassam Re di Persia.
invita a desinare su un prato, insieme ai suoi commensali, e inizia a circolare di continuo una tazza di vino a cui bisogna attingere almeno un po’ per non offendere l’ospite: «fava (faceva) tuto che io me imbriagasse». Ambrogio si mette nelle mani di una guida per recarsi dal re locale, ma proprio «quel ioton (briccone) de la guida», dopo aver dato una sbirciata al carico, dà a intendere al suo sovrano che il messo veneziano trasporta cose preziose. Costretto a raggiungere il castello di Bagrat senza il suo seguito, Ambrogio si ritrova in una situazione spiacevole. Viene lasciato all’addiaccio in attesa che il re lo possa ricevere. Bagrat, poi, è uno strano tipo. Gli chiede quanti siano i regni della terra e Ambrogio risponde a casaccio: 12. Bagrat approva, e precisa che lui presiede uno di quei dodici regni, perciò non capisce come mai questo ambasciatore non abbia una lettera per lui, da parte del papa almeno. Ambrogio corre ai ripari, dicendo che il papa sarebbe ben lieto di corrispondere con lui, ma la tappa del viaggio in Georgia non era prevista e quindi bisogna aspettare. Bagrat non batte ciglio e Ambrogio capisce che bisogna ricorrere a qualche dono, al che, finalmente, il re lo congeda con un salvacondotto. Quando i suoi compagni lo rivedono dopo diversi giorni, viene scambiato per il Messia. Nessuno si aspettava che sarebbe tornato vivo e vegeto. Giunto alla meta, Ambrogio può abbracciare con calore Josafat Barbaro. Non nasconde invece la sua diffidenza per fra’ Ludovico da Bologna, irrefrenabile globetrotter presente in ogni contrada. Insignito del patriarcato di Antiochia, si trova al cospetto di Uzun Hasan per
L’AVVENTUROSA VITA DI FRA’ LUDOVICO Già in missione per conto di papa Niccolò V (1447-1455), all’epoca della caduta di Costantinopoli (1453), fra’ Ludovico da Bologna (1420 circa-1479 circa) era entrato in azione per fronteggiare l’incombente pericolo dell’espansione ottomana. Il suo compito consisteva nello stabilire contatti con le comunità cristiane e con i potenziali alleati delle terre al di là del Bosforo. Non era affatto colto, e non aveva neanche conseguito gli ordini religiosi, ma aveva una solida propensione per i viaggi e gli affari in terra straniera, con un’abilità che gli derivava forse dal sangue, visto che apparteneva a una famiglia di ricchi commercianti. Non a caso, era in rapporti di grande intesa con Michele Alighieri, presunto discendente del Fiorentino, un diplomatico e mercante che faceva la spola tra la Toscana e Trebisonda, 118
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sulla sponda turca del Mar Nero. Pio II Piccolomini (1458-1464) lo nominò nunzio in Oriente nel 1458. Fra’ Ludovico entrò in azione con la consueta prontezza, e questa volta fece le cose in grande. Raccolse infatti una schiera di messi, che, per attestare nelle corti europee l’impegno dei rispettivi sovrani, lo accompagnarono nel viaggio di ritorno. La comitiva attraversò la Colchide, sulla sponda orientale del Mar Nero, nell’attuale Georgia, attraversò prima il Don e poi il Danubio, passando in Ungheria, e fece tappa in Germania, alla corte dell’imperatore Federico III d’Asburgo (1452-1493). Qui, per la verità, risultano solo due inviati a fianco del frate. Un anziano cavaliere tonsurato era un messo di tale Giorgio VII, sovrano del piccolo regno di Karthalia (Georgia), mentre
l’altro, un omaccione dalla fame smisurata, doveva essere inviato da Qwarqware II, duca (atabeg) di Zamtche, sovrano di un altro piccolo Stato al confine con l’«impero» bizantino di Trebisonda, oggi in territorio turco. Intorno al Natale del 1460, la delegazione giunta a Roma si era stranamente triplicata. Alla metà di gennaio del 1461 si mosse alla volta delle corti di Francia e di Borgogna. Pio II riaffidò a fra’ Ludovico la mansione di nunzio papale, e lo insigní dell’onore in pectore del patriarcato della Chiesa romana in Oriente. Ma poi il pontefice raccolse notizie sconcertanti sul frate, e andò su tutte le furie. Si seppe infatti che, prima di tornare in Italia, si era guadagnato favori a destra e a manca, in Ungheria e in Germania, rilasciando generose dispense per conto del papa,
senza averne minimamente l’autorizzazione. Una volta giunto in Francia, poi, aveva clamorosamente trasgredito gli ordini, spacciando per ufficiale la sua carica di patriarca. Fra’ Ludovico evitò la prigione, visto che era comunque alla guida di una delegazione straniera, sulla cui attendibilità non c’erano conferme o smentite di sorta. Il papa, quindi, riaffidò i messi al frate pagando le loro spese di rientro, ma l’inguaribile ciarlatano non mollò la presa. Una volta giunto a Venezia, raggirò alcuni vescovi e li indusse a consacrarlo come sacerdote e patriarca. Non appena la notizia giunse alle orecchie di Pio II, partí senza indugio l’ordine di cattura. Il patriarca della Serenissima si attivò subito, ma il frate si era dileguato. Messo sull’avviso dal doge, aveva pensato bene di fare ritorno nel «suo» Oriente.
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Dalla Russia con stupore
conto del duca di Borgogna. Presenta ricchi doni al sovrano: 3 vesti di panno d’oro, 3 di velluto cremisi, 3 di panno rosso scuro. Quanto alle sue parole, Ambrogio preferisce tacere piuttosto che riferirle. Uzun è preso dalle beghe interne del suo regno e taglia corto. Invita gli ambasciatori a una solenne riunione, a Tabriz, e assicura, sia a fra’ Ludovico, sia ad Ambrogio, che si impegnerà senz’altro nella guerra contro gli Ottomani. Il messo non è molto lieto di essere subito congedato, ma lo stesso Barbaro lo dissuade dall’insistere. Sa bene che oltre queste dichiarazioni generiche non si può ottenere nulla di piú. Infine, Uzun lascia alcuni doni da affidare al patriarca di Venezia e alla Serenissima. Alla comitiva di Ambrogio si aggregheranno inoltre due ambasciatori dell’emiro. Uno è diretto in Borgogna, insieme a Fra’ Ludovico, mentre l’altro si deve recare in Russia, alla corte di Ivan III «duca de Moschonia».
Nella pagina accanto mappa della città di Venezia contenuta in un manoscritto del XV sec.
ti tartari di Astrakhan, che si recavano ogni anno in Russia insieme al messo del loro signore. I Tartari ricevevano un tributo dal duca Ivan III, e le loro merci consistevano in sete e tessuti leggeri. Facevano poi ritorno con un carico costituito soprattutto da pelli, selle e spade. Il 27 settembre 1476 Ambrogio si ritrova al cospetto di Ivan III il Grande (1462-1505), che ha 35 anni ed è descritto come «grande ma scarno, et è bello homo». Il primo approccio è piuttosto freddo. Il duca è preso dai preparativi di un’azione militare contro i Tartari – si vede bene che Ivan sta cambiando politica nei loro confronti – e non è troppo contento di vedere un Veneziano. Aveva infatti avuto problemi con Giovan Battista Trevisan, inviato a Mosca come segretario della Serenissima, in base all’incarico ricevuto il 26 marzo 1471. Personaggio piuttosto dinamico e versatile, questi era finito in disgrazia per via di certi suoi maneggi, tanto da subire una condanna a morte. La pena fu poi com-
Cambio di programma
Il viaggio di ritorno viene cosí intrapreso, e Ambrogio dovrebbe a un certo punto separarsi dal gruppo diretto in Russia, per imbarcarsi sulle coste del Mar Nero, ma giunge una notizia che scombina il piano di rientro. Gli Ottomani hanno conquistato Giaffa e il khan di Crimea si è sottomesso al sultano. Ciò significa che l’intera area è ora impraticabile. Fra’ Ludovico decide di andare in Russia, affermando in modo categorico che è l’unico modo per viaggiare in sicurezza. Ambrogio è perplesso e non gradisce i toni un po’ spicci del frate, che mostra sempre di saperla lunga nelle situazioni difficili. Preferisce saggiare di persona un itinerario alternativo e saluta il gruppo diretto a Mosca. Tempo dopo, proprio l’ambasciatore di Uzun diretto in Russia incontra casualmente Ambrogio e gli riferisce che sta tornando in Persia. Per colpa di Fra’ Ludovico, che deve aver detto qualcosa di troppo, nell’Abkhazia la comitiva era stata presa di mira dai predoni, dai quali erano stati derubati e spogliati di tutto. I «Rossi» ossia i Russi che facevano parte del gruppo, avevano invece proseguito per fare ritorno a casa. Fu cosí che Ambrogio ebbe modo di ritrovare Marco Rosso, segretario di Ivan III, e decise finalmente di seguirlo a Mosca. Nel gruppo si inserí anche una comitiva di mercan-
In alto moneta coniata al tempo di Ivan III il Grande. 1471-1490. San Pietroburgo, Museo Statale Ermitage. A destra Ivan III in una xilografia ottocentesca.
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BIANCA COME IL LATTE Nel 1460 cadde in mano a Maometto II lo Stato di Morea (Peloponneso), l’estremo presidio dei Paleologi, gli ultimi Bizantini a regnare sul Bosforo. La dinastia non poteva finire peggio, visto che si era scatenata una lotta di supremazia tra i fratelli Demetrio e Tommaso. Gli esigui domini furono suddivisi. Demetrio si sottomise al sultano nell’effimera speranza di assumere come suo viceré il trono di Costantinopoli, una volta tolto di scena il fratello, ma Maometto II lo esautorò senza alcuna esitazione e lo destinò ai quadri dell’amministrazione, come un qualsiasi funzionario di Stato. Tommaso rifiutò di sottomettersi e venne sconfitto. A nulla giovò una spedizione di soccorso inviata in Grecia su diretto interessamento di papa Pio II. Tommaso trovò rifugio a Roma, e nell’Urbe trovò sistemazione definitiva la testa di sant’Andrea che aveva condotto con sé. L’11 aprile 1462 fu solennemente tumulata in S. Pietro, cosicché le reliquie dei due apostoli – fratelli e rispettivi fondatori delle Chiese di Oriente e di Occidente –, si ritrovarono nello stesso santuario. Anni dopo, nel 1472, Zoe, figlia di Tommaso, andò in sposa con il nome di Sofia al gran principe russo Ivan III, e Mosca si fregiò cosí del titolo di erede dell’impero bizantino. Con queste nozze, pianificate all’ombra della Santa Sede, papa Sisto IV (1471-1484) si propose dal canto suo che la Chiesa ortodossa potesse riunirsi a Roma, ma questo rimase solo un pio desiderio. Il corteo che condusse Zoe in Russia fece tappa a Bologna il 10 giugno 1472. Un cronista la ricorda cosí: «avea indosso uno ghabano (cappotto) tutto de brochato d’oro con ermelini intorno et avea uno guardachore (veste da viaggio) de seda cremexina (seta cremisi) e uno bazo (balzo) in chapo charghato tutto d’oro e de perle e uno giuelo (gioiello) in suxo el brazo sinistro. (...) la ditta reina era pizola (piccola) de persona e poseva essere de ittà de anni 24. Era biancha quanto uno lato (lattante, neonato)».
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Il matrimonio tra Ivan III e la principessa bizantina Zoe, che poi cambiò il suo nome in Sofia, celebrato nel 1472, in una illustrazione ottocentesca.
mutata, e poté uscire dal carcere grazie al pagamento di un cospicuo riscatto. Congedato in fretta, Ambrogio è comunque costretto a rimanere perché è a corto di soldi e deve saldare i suoi debiti con i suoi accompagnatori russi e tartari. A questo fine invia a Venezia uno degli uomini del suo seguito, il «venerabile prete Stefano», ossia pre’ Stefano, e non può far altro che attenderlo. Ha cosí modo di conoscere un mondo per lui del tutto nuovo. A Mosca ci sono parecchi Italiani, che nella lingua locale sono chiamati frjazy, ossia «franciosi». Incontra con grande piacere l’orafo Trifone di Cattaro (città del Montenegro, allora sotto il dominio della Serenissima) e può parlare con lui in veneziano, il che lo riempie di gioia. A Mosca è inoltre presente l’ingegnere Aristotele Fioravanti da Bologna, «che li faceva una giesia (chiesa) in su la piaza», ossia la cattedrale dell’Assunzione (1475-79). Per un certo periodo il Veneziano è ospite nella stessa casa del Bolognese, «quasi arente el palazo del segnor». Ambrogio nota inoltre che sono presenti vari personaggi del mondo greco, soprattutto intellettuali, che sono giunti a corte su invito della consorte di Ivan, la principessa Sofia, che, non a caso, discende dagli ultimi imperatori di Bisanzio.
Sulla cima di una collina
La città «è posta suso uno picolo colino (collina) e facta tutta de lignami, sí el castello come è el resto de la dicta terra». Ambrogio esagera, perché il complesso del Cremlino (el castello) vanta diversi edifici in pietra, ma la città è effettivamente costruita in massima parte in legno, e come tale si presenterà per molti secoli, tanto da alimentare il colossale incendio che segnò l’inizio della disfatta di Napoleone. Il paese è «molto frigidissimo», con poca frutta a disposizione (si trovano in abbondanza solo cocomeri e noci). Per nove mesi gli abitanti vivono «in le stue (ambienti riscaldati)» e grazie alle vaste distese di ghiaccio («le gran giace») fanno grande uso delle slitte. Ambrogio vede che proprio il ghiaccio favorisce gli spostamenti, garantendo ottime tempistiche per i viaggi e per il traffico delle merci. Il principale fiume che attraversa la città, la Moscova, si trasforma d’inverno in una lastra solidissima, tanto che alla fine di ottobre vi si svolge la fiera e, alla fine di novembre, c’è il grande mercato delle carni. Sul fiume ghiacciato si tengono anche corse di cavalli, e qualcuno talvolta si rompe l’osso del collo. (segue a p. 126) MONDI LONTANI
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IL CREMLINO Ogni grande città russa aveva il suo cremlino (da kreml, castello). Il Cremlino di Mosca sorge laddove si formò il nucleo urbano originario, sul colle Borovickij, alla confluenza tra la Moscova e il torrente Neglinnaja (oggi canalizzato sotto il piano stradale). Nell’adiacente Piazza Rossa (la «piazza bella» che funge da entrata solenne), campeggia la cattedrale di S. Basilio voluta da Ivan IV il Terribile (1547-1584), nipote di Ivan III, primo sovrano russo con il titolo di zar (ossia Caesar). La prima Mosca, difesa da un vallo e da palizzate, e con gli edifici in pareti di legno, risale all’XI secolo. Alla fine del XIII secolo, sul punto piú alto, nei pressi della sede principesca, sorgono le cattedrali in pietra dedicate all’Assunzione, all’Arcangelo Michele e all’Annunciazione. L’idea di base del complesso è mutuata dal Sacro Palazzo di Costantinopoli, con la residenza imperiale affiancata dalle cattedrali di S. Irene e di S. Sofia. Il Cremlino si adeguò in pieno all’illustre modello nel XV secolo, quando si presentò come una cittadella a sé stante, una sorta di Vaticano nel cuore di Mosca.
Pianta del Cremlino di Mosca disegnata nel 1663. Tra gli edifici e i monumenti accuratamente riportati, si riconoscono le cattedrali dell’Annunciazione (1), dell’Arcangelo Michele (2) e dell’Assunzione (3), nonché la torre campanaria di Ivan il Grande (4).
La cattedrale dell’Assunzione, a cui Aristotele Fioravanti legò il proprio nome, fu ricostruita una prima volta nel 1326, quando il santo metropolita Pjotr trasferí la propria sede da Vladimir a Mosca, fornendo al gran principe Ivan I (1325-1340) il sostegno della Chiesa ortodossa al suo disegno di unificazione della Russia. Tra il 1365 e il 1367, su interessamento del gran principe Dimitri (13591389), viene ricostruita in filari di pietra bianca la cinta muraria, in funzione della nuova immagine della capitale. E con Ivan III il Grande inizia un completo restyling del complesso, con un sostanzioso apporto di ingegni italiani. Inaugurata la nuova cattedrale dell’Assunzione (1479), a partire dal 1484 i maestri di Pskov (città del Nord-Ovest, ai confini con l’Estonia) ricostruiscono l’Annunciazione, cappella palatina del principe. Si realizza poi, parte integrante della corte, il palazzo «a faccette» (cosí chiamato per la parete su piazza eseguita a conci sfaccettati, o a bugnato, di schietto stile ferrarese), con la sua enorme sala di ricevimento. L’edificio venne costruito nel 1487-91 dal lombardo Marco e dal ticinese Pietro Antonio Solari da Carona (morto a Mosca nel 1493), la cui stirpe ha legato il proprio nome al cantiere del duomo di Milano. Aloisio da Caresana (Vercelli) intraprende nel 1499 la nuova residenza del sovrano. Inaugurata nel 1508, fu semidistrutta da un incendio nel 1532. Alvise Alberti da Montagnana (Padova) ricostruisce nel 1505-09 la cattedrale dell’Arcangelo, che fungeva da mausoleo dei principi, impreziosita all’esterno da lunettoni a conchiglia di chiara impronta veneziana. Negli stessi anni sorge la torre campanaria dedicata a Ivan il Grande (1505-08), opera del maestro lombardo Bono. Nel 1485 si avvia il rifacimento del circuito murario. In sostituzione delle cortine trecentesche in pietra, parzialmente riutilizzate in fondazione, venne eretta un’elegante e solenne cinta in laterizio, punteggiata da 19 torri per una lunghezza complessiva di 2 km. Faceva da modello il Castello Sforzesco di Milano. La trasposizione dell’opera sulle rive della Moscova fu intrapresa su progetto del Fioravanti, e dopo la sua morte vide impegnati i predetti Pietro Antonio Solari, Aloisio e Alvise, tra il 1490 e il 1508. L’assetto definitivo della fortificazione si ebbe nel XVII secolo.
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I Moscoviti sono «bestial zente» e «grandissimi imbriagi». Non usano il vino, ma un distillato di miele con le foglie del luppolo. Se non ci fosse una normativa severa, passerebbero tutto il giorno a bere. «Hanno papa (patriarca) fato per el suo signor al loro modo», mentre del patriarca di Roma «fano pocha stima», perche è eretico. La piazza è frequentata da mercanti di Germania, Polonia e Lituania, attratti dall’abbondanza e dalla varietà delle pellicce (soprattutto zibellini, volpi ed ermellini). Si favoleggia, poi, che in certi luoghi «da la banda de magistro (maestrale) et tramontana (verso nord e nord-ovest)» vi siano selvaggi che fanno sacrifici ai piedi di un albero, per poi rendergli onore come se fosse una divinità.
Una bella veste di zibellino
Alla fine di dicembre il duca fa ritorno dalla guerra, e può dedicarsi all’ospite con l’attenzione dovuta. Ambrogio viene invitato piú volte alla sua tavola e, al secondo appuntamento, riceve dal tesoriere i soldi per il pagamento dei debiti. In piú Ivan gli manda una bella veste di zibellino da indossare al ricevimento, nonché un donativo di 1000 pelli (per la precisione, dorsi di vaio, ossia pellicce di scoiattolo molto usate per i capi di personaggi con cariche illustri). Su richiesta del duca, Ambro-
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gio incontra anche la principessa Sofia, come si fa chiamare Zoe dopo le nozze con Ivan III (vedi box a p. 122). Di lei nota solo che attende un bambino e riporta le voci sui suoi difficili rapporti con Ivan il Giovane (1458-90). Questi infatti si sente estromesso dalla successione, a cui aspira come figlio della prima moglie del duca, Maria Borisovna di Tver (morta nel 1467). L’incontro con il messo è molto cordiale e Sofia lo prega stretamente che venga raccomandata alla illustrissima signoria, ossia alla Serenissima. L’indomani si tiene una riunione a corte, presente anche Marco Rosso insieme a un altro segretario. Nell’occasione il duca esprime la sua amicizia nei riguardi di Venezia, e si offre di risolvere ogni eventuale problema di Ambrogio. «Usò grandissima umanità», nota il messo. Durante l’incontro, che si prolunga per un’ora, Ivan gli mostra delle vesti bellissime, in panno d’oro con fodera di zibellino. Si tiene poi un pranzo in gran pompa, con molti dignitari, e infine Ivan lo licenzia «cum parole alte che ognun le intendeva», dimostrando la sua benevolenza verso la Serenissima. Al momento del congedo, però, viene offerta al Veneziano, come rito di amicizia solenne (per «far grandissimo honor») una grande tazza d’argento piena di idromele. Secondo l’uso, ne deve bere tutto il contenuto in un sol sorso, e poi può riportare la tazza
a casa come souvenir. Ma Ambrogio riesce a bere solo un quarto dell’abbondante dose («l’era assai»). Ivan sa già che non è un gran bevitore, perciò gli fa togliere la tazza, la fa vuotare, e poi gliela riporge. Ambrogio gli bacia la mano e i dignitari lo accompagnano fino alle scale, abbracciandolo «cum gran demonstration de carità».
Sulla via del ritorno
La sua spedizione è pronta a partire il 21 gennaio 1477. I cavalli sono dotati di slitte «quasi a modo de una casa» e durante il lungo percorso Ambrogio passerà tante notti proprio su una slitta, per evitare di distendersi sul ghiaccio. L’onnipresente Fra’ Ludovico, che è riuscito a raggiungere Mosca, viene invitato ad aggregarsi ma «el non mostrava haverne voia (voglia)». Ambrogio è ben lieto di fare a meno della sua compagnia. La sua narrazione diviene a questo punto ancor piú serrata e affascinante, perché trasmette bene tutti i disagi di un viaggio in condizioni estreme in mezzo a terre inospitali. Sorprende, poi, la disinvoltura con cui racconta di come fosse necessario forare il ghiaccio per procurarsi il pesce e l’acqua da bere. Dopo tanti boschi e lande sterminate, il 15 febbraio riceve una veste de damaschin ed è scortato su una slitta alla corte di Casimiro, re di Polonia. Il sovrano gli offre una ospitalità calorosa,
con i propri figli che fanno da festosa cornice all’incontro. Giunto a Jena, il messo intercetta pre’ Stefano, l’incaricato che doveva portare i soldi a Mosca per il pagamento dei suoi debiti. La sorpresa si assomma alla gioia dell’incontro. Ambrogio giunge poi a Norimberga per la festa dell’Annunciazione (25 marzo), e lí si ferma «per esser molto stracho (stanco)». Il Venerdí Santo è a Trento, e viene a conoscere la storia del beato Simone, il fanciullo caduto nel fiume che si ritenne vittima di un sacrificio rituale compiuto dagli Ebrei (1475). La ricorrenza si festeggiava il Giovedí Santo, e Ambrogio si ritenne cosí in obbligo di rendere i propri omaggi al «martire». Il messo è ormai allo stremo: «ogni giorno mi parea anno uno». Esprime un voto al santuario di Monte Ortone sui Colli Euganei, presso Teolo (Padova), e a Padova si imbarca al Portello per giungere finalmente a casa. Alle 8 di giovedí 10 aprile, proprio all’imbocco della laguna, esprime un altro voto a Santa Maria della Grazia alla Fusina. Poi sulla Giudecca incontra suo fratello Agostino e due suoi cognati, e tutti insieme vanno alla Fusina per rendere grazie. Ambrogio non si capacita di essere tornato, dopo piú di tre anni di assenza: «quasi l’animo mio dubitava».
Mosca. Una veduta del Cremlino (da kreml, castello), complesso nel quale sono compresi il Gran Palazzo, la cattedrale dell’Annunciazione, la cattedrale dell’Assunzione, la cattedrale dell’Arcangelo Gabriele e la Torre Campanaria di Ivan il Grande.
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Dalla Russia con stupore
RIEPILOGO DEGLI AVVENIMENTI PRINCIPALI RACCONTATI IN QUESTO DOSSIER 797 Prima missione a Baghdad degli emissari di Carlo Magno. 799 Il patriarca di Gerusalemme invia un legato ad Aquisgrana. Carlo Magno risponde inviando il sacerdote Zaccaria nella Città Santa. 800 23 dicembre: Zaccaria, di ritorno dalla missione, incontra Carlo Magno a Roma e gli consegna i tributi onorifici della Città Santa. 801 Due ambasciatori musulmani annunciano a Carlo Magno l’arrivo dell’elefante. 802 L’elefante Abul al-Abbas giunge alla corte di Aquisgrana. Carlo Magno predispone una seconda spedizione dei suoi emissari a Baghdad. 806 Gli emissari di Carlo Magno fanno ritorno. 807 Delegazione congiunta di Baghdad e di Gerusalemme alla corte di Aquisgrana. prima Berta si sposa con Teobaldo, conte di del 880 Lorena. 890 (?) Dopo la morte di Teobaldo, Berta si risposa con Adalberto II il Ricco, marchese di Toscana. 898-899 Marinai toscani intercettano e catturano un convoglio musulmano partito dall’Africa. 905 Ludovico III subisce l’accecamento a Verona per ordine di Berengario I. Affida il marchesato di Provenza a Ugo, figlio di Berta. 905-906 Contatti diplomatici tra Berta e il califfo Muktafi. 915 Muore Adalberto di Toscana. Reggenza di Berta per conto di suo figlio Guido. 916-917 Ermengarda, figlia di Berta, si sposa con il marchese Adalberto di Ivrea. 925 Morte di Berta (8 marzo). 927 Il padre di Liutprando è ambasciatore di Ugo a Costantinopoli. 942 Il patrigno di Liutprando scorta a Costantinopoli la piccola Berta, figlia naturale di re Ugo, promessa sposa di Romano II. 949 Prima ambasceria di Liutprando a Costantinopoli per conto di Berengario II, marchese d’Ivrea. 950 Liutprando si rifugia in Sassonia, alla corte di Ottone I. 968 Seconda ambasceria di Liutprando a Costantinopoli. 972 In estate, Liutprando risulta deceduto. 1057 Pantaleone dei Mauroni commissiona le imposte bronzee della porta del duomo di Amalfi. 1087 Pantaleone è a capo del contingente amalfitano nella battaglia di al-Mahdia. 1140-1141 San Ranieri si reca a Gerusalemme. 1154 San Ranieri torna a Pisa. 1160 Morte di San Ranieri. 1170 Muore a Pisa la regina di Maiorca.
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Harun al-Rashid califfo di Baghdad (786-809). Irene basileus di Bisanzio (797-802).
25 dicembre: Carlo Magno è incoronato imperatore nella basilica di S. Pietro.
Niceforo I imperatore di Bisanzio (802-811)
Carlo III il Grosso, re d’Italia (879-887) e imperatore (881-887) Berengario I re d’Italia (888-924) in lizza con Guido di Spoleto, re (889-894) e imperatore (891-894) Ludovico III di Provenza re d’Italia (900-905) e imperatore (901-905) in lizza con Berengario I Papa Sergio III (904-911) Berengario I imperatore (915-924)
Ugo di Provenza re d’Italia (926-945)
Costantino VII imperatore bizantino a pieno titolo (944-959). Lotario II re d’Italia (945950) Berengario II re d’Italia (950-961) Ottone I, re d’Italia (951-973) e imperatore (962-973) Ottone II si sposa con la principessa bizantina Teofano (14 aprile). I crociata (1096-1099) II crociata (1147-1149)
1219 San Francesco sbarca a Damietta. 1271 Marco Polo parte da Venezia alla volta della Cina con il padre Niccolò e lo zio Maffeo. 1287-88 Missione in Europa del vescovo Bar Sauma su incarico di Arghun, ilkhan della Persia. 1289 Niccolò IV invia in Cina fra’ Giovanni da Montecorvino. 1290 Ambasciatori di Arghun alla corte di Kubilai Khan. 1291 Niccolò IV organizza una missione in Persia. 1307 Fra’ Giovanni da Montecorvino diviene il primo vescovo cattolico della Cina. 1473 La Serenissima incarica Josafat Barbaro di una missione in vista di un’alleanza con Uzun Hasan, emiro della Persia. 1474 Josafat giunge alla meta sfuggendo a un attentato. Missione in Persia di Ambrogio Contarini. 1476 Ambrogio si trova a Mosca, alla corte del duca Ivan III. 1477 Rientro a Venezia di Ambrogio. 1478-79 Rientro a Venezia di Josafat.
V crociata (1217-1221) Papa Gregorio X (1271-1276) Papa Niccolò IV (1288-1292)
Capitolazione di San Giovanni d’Acri Caduta di Costantinopoli (19 maggio 1453)
Telo ricamato raffigurante la processione della Domenica delle Palme svoltasi l’8 aprile del 1498, con la partecipazione del duca Ivan III e di sua moglie Sofia. San Pietroburgo, Museo Statale Ermitage.
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VO MEDIO E Dossier n. 47 (novembre/dicembre 2021) Registrazione al Tribunale di Milano n. 233 dell’11/04/2007
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