Medioevo Dossier n. 48, Gennaio/Febbraio 2022

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L’ETÀ DEI SANTI

N°48 Gennaio/Febbraio 2022 Rivista Bimestrale

IN EDICOLA IL 18 GENNAIO 2022



L’ETÀ DEI SANTI

MISTERI, MIRACOLI E PRODIGI Quando e come uomini, donne e re divennero «Servi di Dio» di Franco Cuomo con un contributo di Chiara

Mercuri

PRESENTAZIONE 6. Un mistero alla prova della storia

SAN FRANCESCO D’ASSISI 68. Come una rivoluzione

CAMPIONI DELLA FEDE 8. L’arma invincibile del popolo di Dio

SANTE MILITANTI 76. L’altra forza della morale

CARLO MAGNO 16. La visione di Carlo

SANTA RITA DA CASCIA 84. I silenzi di Rita

SANTI CORONATI 26. In battaglia con la preghiera

NUOVI MARTIRI 90. Fino al sacrificio estremo

LOTTA ALLE ERESIE 34. Il tempo delle regole

IL PENSIERO TEOLOGICO 96. Nell’età dei santi dottori

EREMITI E ANACORETI 42. Lontani dal mondo

CRONISTI DELLA FEDE 102. In odor di leggenda

L’AVVENTO DEL MONACHESIMO 56. Con la croce e con l’aratro

RELIQUIE D’ITALIA 106. L’Italia dei sacri resti


GLI UOMINI E I VALORI DI UN GRANDE PASSATO


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L’ETÀ DEI SANTI

Presentazione

UN MISTERO ALLA PROVA DELLA STORIA L

e vite dei santi medievali sono sospese tra storia e agiografia, e l’una non può prescindere dall’altra. La storia non può ignorare ciò che di leggendario e inspiegabile aleggia dietro il mistero della santità. L’agiografia, d’altronde, non può lasciarsi sopraffare dall’immaginazione al punto da perdere ogni ragionevole contatto con il contesto storico nel quale affonda presumibilmente radici la leggenda. Ha scritto Norman H. Baynes nel suo saggio sul potere delle reliquie (I difensori sovrannaturali di Costantinopoli, negli Analecta bollandiana, tomo 67, Bruxelles 1949): «I miracoli sono un fatto storico che lo storico ignora a suo rischio e pericolo». Intendeva con ogni evidenza dire che lo storico non può prescindere dai fattori religiosi, sociali e culturali che determinano la credenza nel compiersi di eventi prodigiosi e, di conseguenza, dai loro effetti sulla storia. Intendeva, piú semplicemente, affermare la realtà dell’immaginazione, in quanto prodotto di una reale pulsione dell’animo umano. Non è tuttavia cosa semplice conciliare le due diverse prospettive dell’agiografia e della storia in una visione armonica dei fatti cui entrambe si riferiscono, poiché non tutti gli eventi descritti nelle vite dei santi sono storicamente riscontrabili. Il che vale tanto per le cronache redatte agli albori del cristianesimo, nelle quali abbondano – e in molti casi prevalgono – gli elementi prodigiosi, quanto per quelle di età medievale, scaturite da un immaginario non certo esente da suggestioni sovrannaturali. Ne furono pervase le vite dei comuni mortali; figuriamoci quelle dei santi. Ma questo è tutt’altro che un limite, poiché tali suggestioni non possono considerarsi un’appendice secondaria, bensí parte integrante degli avvenimenti ai quali si accompagnano, talvolta indispensabile per la loro comprensione. È per tale motivo che la ricerca scientifica, pur esigendo una verifica costante delle fonti e degli aspetti meno spiegabili di certe storie all’apparenza visionarie, non può prescindere dal prendere atto di quei fenomeni definiti miracolosi – e ognuno ne dia la definizione 6

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che crede – sui quali sono gli stessi uomini di fede a domandare per primi, oggi, certificazioni accurate. Un preconcetto eccesso di razionalismo può avere in questo ambito la medesima influenza deleteria di un cieco fideismo. Tolleranza e spirito investigativo insegnano che una gestione paritaria delle due tendenze può servire a infondere credibilità nella ricerca; il prevalere dell’una o dell’altra, in nome del bigottismo laico come di quello religioso, a comprometterne l’esito. Ci sono soglie oltre le quali non è possibile orientarsi sulla base dei comuni parametri storici, per quanto sorretti dall’antropologia. Non ci si può avventurare sul terreno della taumaturgia e del misticismo contando sulle sole armi delle nostre nozioni scientifiche. Sarebbe come voler ridurre ad analisi chimica un’alchimia di sogni e di visioni. Non si può sedare un’estasi con la valeriana né liquidare come isterica una sanguinazione stigmatica, una bilocazione, una «lettura del cuore». Non si può rinunciare a cogliere il segno della scintilla divina che la storia lascia

Giudizio Universale, tempera su tavola del Beato Angelico. 1425-1428. Firenze, Museo di San Marco. Il tema del Giudizio è qui trattato in maniera insolita, con il Cristo giudice, attorniato da angeli, in un cerchio celestiale che domina dalla sommità: con la mano destra levata invita i fedeli risorti verso i cancelli della Gerusalemme Celeste; la sinistra, rivolta verso il basso, consegna i peccatori alle fauci pietrose dell’inferno.


talvolta intravedere, senza fornire il conforto apparente di prove concrete, nelle faccende terrene. Ma non si può nemmeno, inversamente, abdicare alla ragione. Non ci si può abbandonare da profeti disarmati alle farneticazioni sacromagiche di chi vede dovunque i segni di una improbabile «nuova età» dell’Universo. A questo modo, sospeso tra l’orgoglio delle proprie certezze e la tentazione dei dubbi, il ricercatore cattolico è tra le figure intellettuali piú lacerate della storia; e dalla storia. Se ne rese drammaticamente conto quando fu posto di fronte alla necessità di difendere il culto dei santi dall’attacco dei riformatori protestanti, volto a contestare l’attendibilità storica dell’agiografia. S’impose perciò lo studio critico dei documenti disponibili, alla ricerca di verità comprovabili. Furono i Gesuiti per primi, sull’onda lunga della Controriforma, ad avvertirne l’esigenza. Nacque cosí per loro iniziativa una scuola – detta dei Bollandisti dal nome del fondatore, il belga Jean Bolland – con lo scopo di discernere i dati autentici da quelli leg-

gendari. Ne scaturí un’agiografia scientifica, la cui espressione piú vitale fu la compilazione, tuttora incompleta, degli Acta sanctorum, cioè delle vite dei santi basate su fatti storici acclarati (gli «atti») e sull’analisi delle ragioni che avevano determinato nei secoli l’evolversi della tradizione allegorica. Dà testimonianza oggigiorno di questi studi la pubblicazione a Bruxelles degli Analecta bollandiana, contenenti gli studi preparatori degli Acta veri e propri, nonché indicazioni sulle fonti agiografiche, riscontri e analisi dei misteri da sciogliere. Questo nuovo indirizzo storiografico, oggi dominante, ha certamente il merito di avere reso accessibili all’intelligenza profana certe meraviglie dell’agiografia, ritenute un tempo mera letteratura. Non ha tuttavia ridimensionato, per fortuna, il valore di tante cronache fiorite al limite della storia e del mito, egualmente necessarie alla comprensione di quello che potremmo definire lo «spettacolo della santità». Conservano dunque uno spessore storico reale – e una concreta utilità, sotto il profilo della ricerca – i tanti capolavori agiografici dei secoli antecedenti alla svolta impressa dai Gesuiti, come le cronache di Gregorio di Tours in età merovingia, i popolari resoconti dei miracoli di Bernardo di Chiaravalle, «innamorato della Madonna», la Legenda aurea di Jacopo da Varagine (Varazze) e la Legenda maior di Bonaventura da Bagnoregio, prima «vita ufficiale» di Francesco d’Assisi. Alla poesia insondabile di queste celebrazioni della santità la storia deve molto.

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L’arma invincibile del popolo di Dio Miracolo o diplomazia? Come spiegare lo straordinario ascendente di personalità come Leone Magno, in grado di sconfiggere la furia di un nemico temibile e pagano? E quale fu il potere di donne come Geneviève e Orsola, veri prototipi della santità medievale?

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i molti miracoli va data una spiegazione razionale, che però non scalfisce la santità di chi ebbe a compierli. Esemplare in tal senso, anche per il peso che ebbe sul corso della storia, è l’altolà dell’inerme papa Leone I ad Attila, il feroce capo degli Unni, che minacciava d’invadere con la sua orda l’Italia. Si tratta d’altronde di un episodio che, per il momento in cui ebbe a verificarsi, nel crescendo terrificante delle invasioni barbariche, e per l’aura prodigiosa che l’avvolge, può ben segnare l’inizio di un discorso tendente a decodificare nei suoi tratti essenziali l’arcano della santità medievale. La statura stessa dei protagonisti – e ancor piú la condizione nella quale si trovavano al momento dell’incontro, l’uno senza esercito, l’altro alla testa di un’armata selvaggia, all’apparenza inarrestabile – conferisce all’evento una eccezionalità senza pari. È il 452. Attila ha già devastato coi suoi Unni mezza Europa, sottomesso i Germani e gli Slavi, invaso i Balcani e minacciato Costantinopoli, imponendo un tributo all’imperatore Teodosio II. Un terrore superstizioso si scatena dovunque si abbia notizia del suo sopraggiungere. Le genti lo chiamano per la sua vocazione allo sterminio il «flagello di Dio». Una recente sconfitta presso Troyes, per mano del romano Ezio, l’ha reso ancora

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L’incontro di Leone Magno con Attila, affresco di Raffaello Sanzio e aiuti. 1513-1514. Città del Vaticano, Musei Vaticani, Stanza di Eliodoro.



L’ETÀ DEI SANTI

Campioni della fede

La vicenda di Leone Magno e Attila è una situazione ideale per l’agiografo che voglia intingere la penna nell’inchiostro del miracolo

A sinistra Incontro di Attila e Leone Magno, pala marmorea di Alessandro Algardi. 1646-1652. Roma, basilica di S. Pietro, Cappella della Colonna. Nella pagina accanto, in alto La fuga di Attila dall’Italia nel 452, incisione realizzata da Lodovico Pogliaghi per l’opera Medio Evo di Francesco Bertolini 1892. Nella pagina accanto, in basso santa Genoveffa, la vergine che, secondo la leggenda, nel 451 salvò Parigi dagli Unni, in una litografia acquerellata. XIX sec. 10

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piú spietato. Ha svernato nelle Gallie, si è riorganizzato e ora cala sull’Italia. Ha incendiato Milano, Padova e Aquileia, costringendo i superstiti a ritirarsi sui monti. Ora vuole Roma. Papa Leone, che per questo sarà detto Magno, gli va incontro. Non c’è altra spada a proteggerlo che quella di Dio. Cosí l’immagina Raffaello nell’affresco della Stanza di Eliodoro in Vaticano (vedi foto alle pp. 8/9), sovrastato da santi armati di spada, che vigilano dal Cielo su quanto sta per succedere. Leone incede austero su un cavallo bianco, tenuto per il morso da un giovane palafreniere impavido, che non dà segni d’inquietudine alla vista della minacciosa turba guerriera degli Unni.

La commozione del re barbaro

È una situazione ideale per qualsiasi agiografo che voglia intingere la penna nell’inchiostro del miracolo. Non si lascia sfuggire l’occasione il piú celebre di tutti: scrive Jacopo da Varagine nella Legenda aurea che il re barbaro, alla vista del papa, fu preso da una grande commozione e «gittollisi a’ piedi pregandolo che domandasse quel che volesse». Ciò che il papa voleva, si sa. Chiese ad Attila che risparmiasse Roma e se ne andasse dall’Italia, liberando le migliaia di cristiani catturati nelle sue ultime razzie. Fu obbedito. La cosa dovette sembrare cosí straordinaria da indurre

lo stesso Attila, presumibilmente, a inventarsi chissà quale giustificazione agli occhi dei suoi luogotenenti. Lo stesso Jacopo da Varagine ipotizza che «il trionfatore del mondo», come chiama l’Unno, possa essere stato contestato dai suoi per «essersi lasciato vincere da un prete». A questo rilievo il re avrebbe risposto di avere cosí agito per il bene proprio e di tutto il suo popolo, avendo visto accanto al papa «un fortissimo cavaliere col coltello isguainato», che fermamente lo aveva minacciato dicendo: «Se non obbedirai a costui, tu morrai con tutti i tuoi». Ciò che accadde in realtà non è facilmente immaginabile. Ma parlare di miracolo non è fuori posto se si considera lo straordinario ascendente che il pontefice riuscí di sicuro a esercitare sul suo selvaggio interlocutore. Di certo Leone poté contare, oltre che sull’aiuto di Dio, sulla sorpresa: non attese Attila alle porte di Roma, ma lo precedette, raggiungendolo nel suo accampamento presso Mantova. Il «flagello di Dio» ne fu sicuramente stupito, e forse anche spaventato, come temendo una maledizione. Non è da escludere possa essergli tornata in mente la misteriosa fine dell’altro re barbaro, il visigoto Alarico, morto una quarantina d’anni prima, dopo SANTI E RELIQUIE

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L’ETÀ DEI SANTI

Campioni della fede

LE VITE DEI SANTI SOTTO INCHIESTA Fu un padre generale belga della Compagnia di Gesú, Jean Bolland, ad affermare per primo che le vite dei santi andavano riscritte con spirito scientifico, al di fuori dei tradizionali schemi agiografici, se si voleva dare loro una plausibilità storica. Nacque cosí ad Anversa, nel 1641, la Società dei Bollandisti, gestita dai Gesuiti, con lo scopo di investigare con moderni criteri d’indagine su quanto l’agiografia aveva fino allora tramandato. Il progetto si configurò come un moderno tentativo di work in progress, articolato sui tempi dell’annuario liturgico. Scopo della ricerca era quello di procedere giorno dopo giorno, partendo dal primo gennaio, alla trattazione storica di quanto si sapeva sui santi in calendario. Fino a chiudere l’arco completo dell’anno. Numerose furono nel mondo ecclesiastico le reazioni allarmate, come quella dei Carmelitani, che vedevano in tal modo vacillare il fondamento storico di culti e devozioni particolarmente care all’immaginario cattolico. Motivo di tensione acutissima, per intendere quali fossero i termini delle dispute, fu la negazione, da parte dei Gesuiti, che l’Ordine carmelitano potesse risalire al profeta Elia. Infuriarono cosí le polemiche sui nuovi

Il Reliquiario di Sant’Orsola, ornato dagli inserti pittorici di Hans Memling. 1489. Bruges, Sint-Janshospitaal.

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metodi di ricerca e le accuse contro gli storici bollandisti, culminate nell’intervento dell’Inquisizione spagnola, che nel 1695 vietò la lettura degli Atti; e del Sant’Uffizio, che nel 1700 mise all’indice uno dei tomi relativi ai santi di maggio. Il veto dell’Inquisizione fu ritirato nel 1715 per le proteste di molti storici cattolici; quello del Sant’Uffizio due secoli dopo, da Leone XIII. Altre difficoltà negli anni successivi rallentarono il lavoro della Società, fino all’interruzione provocata dai contraccolpi dell’Illuminismo nel Settecento, quando l’opera era ormai giunta ai santi di ottobre. Ripresa nell’Ottocento, la pubblicazione degli Atti ricevette nuovo impulso con l’istituzione a Roma, nel 1930, di una sezione storica della Congregazione dei Riti. Una sostanziale approvazione del metodo venne infine dal Concilio Vaticano Il (1962-1964) che riconobbe la necessità di «rivedere dal punto di vista storico le vite dei Santi».


avere saccheggiato Roma. Ma di concreto c’era qualcosa di piú, a spiegazione dell’inattesa ritirata di Attila. La sua orda era indebolita da una pestilenza che non accennava a sedarsi. L’ipotesi di una nuova sconfitta, qualora Ezio si fosse deciso ad attaccare con un’armata gallo-romana, era tutt’altro che remota. E c’era, infine, il rischio, da lui fortemente paventato, di un’alleanza tra gli imperi di Oriente e di Occidente. Sulla base di questi elementi Leone I intavolò, plausibilmente, la sua trattativa, convincendo Attila che la soluzione piú conveniente per lui, al punto in cui si trovava, fosse di rientrare nei territori che era in grado di controllare. La corresponsione di un congruo tributo fece il resto, vincendo le ultime resistenze dell’Unno.

Un fine intellettuale

Che Leone fosse propenso alla pratica delle vie diplomatiche, anche nei casi piú disperati, è in qualche modo provato dal fatto che con analoghi argomenti abbia tentato qualche anno piú tardi (nel 455) di fermare il re vandalo Genserico. Non riuscí quella volta a evitare il saccheggio. Ottenne però che la città non fosse incendiata né che vi fossero inutili massacri. Ma san Leone Magno, che la Chiesa festeggia il 10 novembre, non è solo venerato per il ruolo avuto in difesa della sua città nel secolo di maggior esposizione del popolo cristiano alla furia dei barbari. È anche ricordato per il suo acume dottrinario, la sua cultura teologica e l’impegno profuso nella confutazione dell’eresia. All’epoca non esisteva l’Inquisizione, e lo scontro ideologico avveniva mediante dispute che, nei casi piú rilevanti, richiedevano la convocazione di consessi ecclesiastici. Anche su questo fronte senz’armi, come lo era stato nell’affrontare Attila, papa Leone si batté per l’integrità della Chiesa con scritti e interventi di notevole spessore filosofico, lasciando 96 sermoni e 173 epistole. Demolí in specie l’eresia monofisita (dal greco monos, unico, e physis, natura), che negava la qualità umana del Cristo, riconoscendogli solo quella divina. Lo fece con grande talento dialettico, inviando al concilio ecumenico di Calcedonia (indetto dall’imperatore Marciano nel 451) una «lettera dogmatica» cosí chiara e suadente da far ritenere all’assemblea che potesse trattarsi di un messaggio d’ispirazione sovrannaturale. Fu per queste sue doti proclamato Dottore della Chiesa, titolo che equipara tuttora gli uomini illustri per santità e scienza agli antichi Padri. Il che dimostra come i molteplici itinerari della santità medievale si intersecassero spesso in una me-

Il martirio di sant’Orsola in uno degli inserti dipinti del suo reliquiario (foto alla pagina precedente). 1489. Bruges, Sint-Janshospitaal.

desima persona: il pastore di anime, il papa carismatico e negoziatore politico al tempo stesso, è anche Dottore, dedito a studi che gli consentono di sciogliere con cognizione di causa i nodi di complesse controversie filosofiche.

Vergine e in fama di santità

Altri esempi di santità leggendaria, oltre quello di Leone Magno, fioriscono nello scenario desolante delle invasioni barbariche, frequentemente connessi alla figura di Attila. È il caso di santa Genoveffa, cui si attribuisce il merito di avere indotto i Parigini a non desistere dalla difesa della propria città, minacciata dagli Unni. Indipendentemente dall’episodio, già di per se stesso significativo, la vergine Genoveffa (va resa giustizia alla musicalità originaria del suo nome, che in francese ha la cadenza dolcissima di Geneviève) rappresenta un altro comune prototipo di santità medievale. Originaria di Nanterre, è consacrata alla vita religiosa dal vescovo Germano di Auxerre (poi santo, venerato dai Parigini come Saint-Germain-desPrés) quand’è soltanto una bambina. Compie fin da piccola atti ispirati, che le procurano una gran fama di santità. Entra infine in convento a Parigi, poco prima del sopraggiungere degli Unni. Alla notizia che i barbari stanno arrivando dopo avere incendiato Metz e altre fiorenti SANTI E RELIQUIE

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Campioni della fede


Nella pagina accanto sant’Orsola tiene nella mano destra la palma, simbolo del martirio subíto, rappresentato dalla freccia infissa nel petto, particolare di un affresco di Bernardino Luini. 1522-1524. Milano, chiesa di S. Maurizio al Monastero Maggiore.

città (nel 451, quando Genoveffa ha poco piú di trent’anni) i Parigini vengono presi dal panico. Non hanno cibo a sufficienza per poter resistere a un assedio, stanno per abbandonare le loro case, ma Genoveffa li convince a restare, promettendo di procurare loro le provviste necessarie. Mantiene la parola affrontando pericolosi viaggi fluviali, che le consentono di rifornire la città lungo la Senna. Dio e il caso le furono propizi, poiché per misteriose ragioni Attila evitò Parigi nella sua marcia, puntando su Orléans. Venne per questo acclamata come salvatrice di Parigi e da allora è invocata, al pari di Giovanna d’Arco, ogniqualvolta un’invasione o altro pericolo di natura bellica minaccia la città. Non riuscirono a scalfirne il culto i Giacobini, disperdendo le sue ceneri e bruciandone ogni reliquia nel 1793. Episodi analoghi si verificarono dovunque Attila portò la sua orda. In quel medesimo anno 451 il vescovo Lupo di Troyes (anche lui santo, amico di Germano e della stessa Genoveffa) si offrí come ostaggio al re degli Unni perché risparmiasse la sua città. Fu esaudito e condotto via da Attila, il quale però ne fu talmente affascinato da rilasciarlo chiedendogli di pregare per lui. Particolare curioso, il predecessore di san Lupo nella diocesi di Troyes si chiamava Orso. Furono entrambi ottimi pastori, considerati tra i precursori dei grandi vescovi medievali di Francia. A chi ironizzava su questa strana continuità di nomi ferini nella diocesi di Troyes, rispondevano con altrettanta ironia i fedeli: «Che c’è di strano? Si chiama Leone anche il papa».

Fu vero massacro?

Non ebbero sempre un lieto fine gli incontri di Attila con il popolo di Dio, come venivano nel loro insieme chiamate le genti cristiane. Si risolsero al contrario, il piú delle volte, nella violenza e nel terrore. Il caso forse piú rappresentativo in tal senso è dato dal martirio di sant’Orsola e delle undicimila vergini, che il calendario liturgico registra il 21 ottobre. Si sa poco e niente di quest’evento, talmente leggendario da indurre le fonti agiografiche a definirlo «di incerta epoca». Non tanto incerta, comunque, da non stabilire connessioni con la realtà delle stragi e dei supplizi perpetrati dai barbari, quindi con Attila, che di tali orrori fu la personificazione piú comunemente nota alla fantasia popolare. Orsola era bellissima, e figlia di re. Chi dice d’Inghilterra, chi d’Ungheria, ma poco importa. Si trattava di un re cristiano. Un principe pagano la chiese in sposa. Lei non oppose un rifiuto, ma si prese tre anni di tempo per recarsi in pellegrinaggio

in Terra Santa con un seguito di dieci damigelle. Si disse che ognuna avesse con sé mille ancelle, e che per ciò fossero undicimila ragazze, incluse quelle al servizio di Orsola. In Terra Santa la principessa cristiana pregò per la conversione del pretendente. Sulla via del ritorno Orsola e il suo seguito risalirono il Reno e sostarono a Colonia. La città venne però assediata e presa dagli Unni di Attila, che massacrarono le undicimila fanciulle dopo averle sottoposte ad atroci sevizie. Colpito però dalla bellezza di Orsola, Attila volle risparmiarla per farne la sua concubina. L’epilogo è lo stesso di tante altre storie del genere: la vergine rifiuta e il bruto l’uccide. Questa che sembra a tutti gli effetti una fiaba suscitò un culto spontaneo nella Germania non ancora del tutto convertita alla fede cristiana. Si credette poi di trovare una conferma al racconto agiografico nel ritrovamento di resti femminili, nell’VIII secolo, in una cripta di Colonia, dedicata al culto di giovani vergini sconosciute. Si ritenne di avere individuato il corpo di Orsola nei resti di una bambina di undici anni, età riscontrata da una scritta scarsamente leggibile, forse undecimilla. Si favoleggiò sul numero. Alludeva all’età della vergine o al numero delle ancelle al seguito? Era undecimilla o undecimilia? Non se ne venne a capo, né si trovò alcunché di strano nel fatto che una bambina di undici anni potesse essere stata tanto concupita, da un nobile pretendente in prima istanza e da un barbaro sanguinario in seconda. Erano frequenti all’epoca i matrimoni e gli appassionati amori di certi re per giovinette appena adolescenti (si pensi, per restare nell’ambito delle sante in calendario, a Ildegarda, la sposa bambina di Carlo Magno). Cosí, sulla base di indizi storicamente molto labili, questo crudele romanzo agiografico è giunto fino ai nostri giorni, sorretto da una devozione generalizzata, che non è mai venuta meno. Artisti della piú diversa estrazione, come il fiammingo Hans Memling e il Caravaggio, ne furono ispirati. Non si saprà mai quante fossero le compagne massacrate con Orsola dagli Unni – e se mai avvenne questo massacro –, ma l’enfatizzazione del numero e dell’evento ha una sua ragione storica comunque, quale omaggio sottinteso alle migliaia di donne senza nome di cui fece scempio, in ogni tempo, la guerra. In questa luce l’inserimento di Orsola e delle sue compagne nel martirologio cristiano ha una realistica coerenza, che non contrasta con i criteri di ricerca oggi richiesti alla «scienza» dei santi. SANTI E RELIQUIE

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La visione di Carlo Un regno sorretto dalla spada ma anche dallo spirito: l’utopia – inseguita per tutta la vita – di un Occidente unito nel nome di Cristo valse al grande imperatore l’«odore di santità». Nonostante la sua fosse stata un’esistenza intessuta di stragi, battaglie e… sensualità Papa Leone III incorona imperatore Carlo Magno nella basilica di S. Pietro, a Roma, il giorno di Natale dell’anno 800, stampa da una miniatura tratta da un’edizione quattrocentesca dello Speculum historiale di Vincent de Beauvais.

L

a santità medievale raggiunge spesso toni di magnificenza regale – fuori metafora, nei fatti – poiché furono molte le teste coronate che, a partire dall’VIII secolo, aggiunsero allo splendore della corona quello dell’aureola. Il che si spiega, storicamente, con la stretta connessione che si era creata nella società feudale tra potere regio e autorità ecclesiastica. Al re toccava l’onere di proteggere la Chiesa, alla Chiesa quello di legittimare la Corona. Era un patto che trovava la sua espressione piú significativa ed elevata nell’unzione del sovrano da parte del papa, ma investiva nei suoi vari gradi l’intero Ordine cavalleresco, chiamando conti e baroni a difendere il popolo cristiano contro ogni vessazione. Complessi riti d’investitura formalizzavano quest’assunzione di responsabilità da parte di quanti avevano titolo di nascita – o acquisito sul campo – per calzare gli speroni di cavaliere. Ed è per questa sua funzione originaria che la cavalleria ebbe dignità religiosa prima che guerriera, fondandosi su idealità che nell’insieme coincidevano con la pratica del Vangelo. Non dovette sembrare a tutti cosí semplice, in un’epoca che poneva umiltà e nullatenenza tra le virtú piú elette, conciliare la corona con l’aureola, il fasto dell’armatura lucente con la grezSANTI E RELIQUIE

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L’ETÀ DEI SANTI

Carlo Magno

za opacità del saio monacale. Ma ci si dovette comunque adattare all’idea che, per sopravvivere nell’integrità dei suoi scopi, la Chiesa non avesse solo bisogno di martiri e di confessori, ma di servitori potenti, in grado di assicurarle autonomia e prosperità. Sorse pertanto la necessità di riconoscere, accanto ai meriti acquisiti con il sacrificio e con la «eroicità delle virtú», tradizionali veicoli di santità, benemerenze d’altro genere, riconducibili alla valutazione dei servigi che l’interessato aveva reso alla Chiesa, difendendone gli interessi mediante il potere derivatogli dalla propria posizione istituzionale.

La spada e il diritto

In questa prospettiva rientrò il giudizio espresso dalla Chiesa su Carlo Magno, meritevole di avere inseguito per tutta la vita l’utopia di unificare l’Occidente cristiano in un regno sorretto dalle forze congiunte della spada e dello spirito. Già suo padre Pipino si era affidato alla ritualità della sacra unzione, chiedendo al papa di consacrarlo re in cambio dell’impegno, da parte sua, di difenderne gli interessi temporali. Carlo si era spinto piú in là nell’illusione di poter edi18

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In alto l’interno della Cappella Palatina di Aquisgrana, costruita per volontà di Carlo Magno nel complesso palaziale della residenza regia, su modello della basilica di S. Vitale a Ravenna. Luogo di sepoltura dello stesso Carlo, nell’edificio sacro sono stati incoronati i sovrani del Sacro Romano Impero fino al 1531. A destra il talismano «di Carlo Magno», prezioso manufatto che sarebbe stato donato all’imperatore dal califfo Harun ar-Rashid. IX sec. Reims, Palais du Tau. Sulle due pagine Carlo Magno in trono tra papa Leone III e Turpino, vescovo di Reims, fronte del Karlsschrein, il prezioso sarcofago dell’imperatore fatto realizzare da Federico Barbarossa. 1183-1215. Aquisgrana, Cappella Palatina.


ficare in terra qualcosa di simile alla Città di Dio, come se l’immaginava attraverso le lezioni impartitegli dal suo dotto consigliere Alcuino di York, teologo e poeta, finissimo interprete del pensiero agostiniano. Nonostante questo suo sogno di universale armonia, Carlo non ebbe in quasi mezzo secolo di regno che un solo anno di pace, una pace alla quale i Franchi erano cosí disabituati da restarne sgomenti, considerandola quasi una calamità. Non si può dire dunque che la sua vita, intessuta di stragi e battaglie, sensualità e avventura, sprizzasse una speciale santità. Ma ugualmente, alla sua morte, in un’ Europa resa quanto mai apprensiva dall’incerto futuro, divenne oggetto di una venerazione prepotente, nostalgica e visionaria. Scaturí naturalmente da questa emotiva devozione popolare un vero e proprio culto religioso per il sovrano «sacro e romano», amico di papi, di santi e di leggendari cavalieri, destinato a essere rilanciato al tramonto dell’età carolingia dal nuovo imperatore Ottone il Grande e dai suoi successori.

Seduto su un trono di pietra

Il sepolcro di Carlo ad Aquisgrana venne aperto nell’anno 1000 da Ottone III. Suscitò sensazione il fatto che l’imperatore non fosse disteso, come tutti si aspettavano, ma seduto su un trono di pietra. Crebbe, con la prima crociata, la leggenda di Carlo Magno, invocato contro gli infedeli come un santo. Gli vennero attribuiti prodigi e apparizioni. Principi e baroni, ma anche innumerevoli pellegrini, testimoniarono di averlo visto cavalcare con i suoi dodici Pari, sulle assolate sabbie di Terra Santa, chi alla vigilia di una battaglia, chi durante, chi nell’estasi della preghiera. Gli furono dedicati santuari e chiese, che divennero meta di pellegrinaggio. Le sue reliquie o supposte tali furono rivendicate da monasteri diversi, esposte al pubblico, in parte rubate o rivendute. Studiosi dei fenomeni religiosi censirono piú di cento località consacrate per una ragione o per l’altra alla memoria di Carlo. Prima tra tutte, fu Aquisgrana a contendere a Roma e a Santiago di Compostella il primato dell’afflusso di visitatori. Carlo Magno venne infine santificato nel 1167 da Pasquale III, che ne inserí il nome nel calendario liturgico al 28 gennaio, giorno della morte. Restò poco sugli altari, poiché Pasquale III venne bollato come antipapa in contrapposizione ad Alessandro III, legittimo successore di Pietro. Il che rese nulla ogni sua disposizione. Rimase tuttavia in diverse contrade dell’impeSANTI E RELIQUIE

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L’ETÀ DEI SANTI

Carlo Magno A sinistra reliquiario contenente la mano di san Giovanni Battista, forse di scuola bizantina. Istanbul, Museo Topkapi. In basso busto reliquiario di san Zanobi, il vescovo di Firenze nel V sec. e patrono principale della città. Il prezioso manufatto, in argento e smalti, è opera di Andrea Arditi. 1331. Firenze, Museo dell’Opera del Duomo.

ro, dov’era maggiormente radicato il suo culto, l’abitudine di celebrare come festa religiosa il 28 gennaio. Furono paradossalmente i Sassoni, che erano stati i suoi piú irriducibili nemici, a conservare l’uso di battezzare i propri figli con il nome di Carlo, che nell’antica lingua significava Uomo Libero.

Gli eroi di Roncisvalle

Ebbero l’onore degli altari anche Orlando, Oliviero e gli altri paladini (cioè conti di palazzo, quindi «palatini») caduti al valico pirenaico di Roncisvalle. Lassú, tra impervi monti, fu sterminata la retroguardia dell’esercito franco di ritorno dalla campagna contro i Mori del califfo Abd-ar-Rahman, il 15 agosto 778. Dell’episodio danno versioni diverse la storia e la leggenda. Per gli storici, a cominciare da Eginardo, contemporaneo e biografo di Carlo Magno, fu un evento doloroso ma militarmente irrilevante; per i cantori, di cui resta

QUANDO DEVOZIONE FA RIMA CON SPECULAZIONE Un fenomeno deI tutto medievale di cui permane traccia considerevole ai nostri giorni è il culto delle reliquie, cioè l’affezione dei fedeli per gli oggetti o i resti fisici di un santo. Fu il secondo concilio di Nicea nel 787, ad autorizzare questa particolare forma di devozione in un’epoca nella quale era già invalso l’uso di venerare le spoglie mortali dei santi e altri segni materiali della loro esistenza. Il culto assunse tuttavia toni eccessivi, provocando un vero e proprio mercato delle reliquie, con falsificazioni che determinarono una scandalosa proliferazione di reperti corporei attribuiti a un medesimo santo. Il possesso di determinate reliquie divenne cosí un lusso costoso, pagato ad altissimo prezzo da principi e sovrani. Fu incoraggiato l’accumulo nei santuari di ossa senza nome, pelli essiccate, graticole, flagelli e altri attrezzi da martirio, frammenti deIla croce (anche di quella deI «buon ladrone») e perfino fiale di latte mariano, avanzi della paglia di Betlemme, piume d’angelo. Poco importava d’altronde che in chiese diverse fossero conservati cinque o sei corpi del medesimo santo, svariate teste del Battista o della Maddalena, quaranta «veri chiodi» della croce e addirittura i sassi con cui fu lapidato santo Stefano. Il loro potere restava intatto nell’immaginario dei fedeli, poiché da quell’immaginario stesso derivava. La Riforma protestante ne fece strumento di polemica, denunciando le pratiche superstiziose connesse al culto di reliquie a cui la devozione popolare attribuiva poteri miracolosi. Fu quindi necessario, da parte della Chiesa, ridimensionare queste diffuse credenze popolari, ponendo condizioni e regole precise per la venerazione dei sacri resti.


commossa testimonianza nella Chanson de Roland, fu forse la piú eroica saga dell’Occidente cavalleresco e cristiano. Un confronto tra le due versioni induce oggi a ritenere la leggenda piú veritiera della storia. Per i cronisti la retroguardia comandata da Orlando (Roland) fu annientata in una imboscata di predoni baschi, per i poeti si sacrificò contro l’orda musulmana. Ma è improbabile che i migliori guerrieri dell’epoca, quali erano i paladini, potessero essersi lasciati intrappolare da montanari armati di sassi e bastoni. Molto piú credibile è che abbiano scelto di tenere il terreno contro un nemico di numero soverchiante per impedirgli di prendere alle spalle l’armata reale. Accrescono la plausibilità di questa scelta certe sottolineature psicologiche, evidenziate a fondo nella Chanson, quali ad esempio la riluttanza di Orlando – animato da un insensato orgoglio, tipicamente cavalleresco – a suonare il corno per chiedere aiuto, nonostante la vicinanza dell’esercito che ancora potrebbe udirlo. La santificazione degli eroi di Roncisvalle, voluta dal clero franco in osservanza del principio che equiparava ai martiri della fede i cristiani caduti in battaglia contro l’infedele, rappresenta il riscontro piú convincente del modo in cui realmente andarono i fatti. Non v’è dubbio, infatti, che il culto tributato a Orlando e ai suoi compagni esprimesse un onore loro dovuto in ragione del sacrificio compiuto contro l’Islam, non contro comuni ladroni. È comprensibile, d’altronde, l’autocensura di Eginardo che, in quanto portavoce di un re mai sconfitto fino allora, aveva tutto l’interesse a minimizzare l’accaduto, declassandolo ad azione brigantesca, onde impedire che potesse divenire un vanto per l’Islam. Si trattò insomma di voluta disinformazione giornalistica, come oggi si dice, secondo una pratica mai venuta meno nella gestione di notizie atte a glorificare o scalfire l’immagine di una qualsivoglia entità pubblica.

Contro la minaccia saracena

Orlando e i compagni di Roncisvalle non sono gli unici guerrieri carolingi finiti nel calendario liturgico. Ci finí anche, qualche anno dopo, il conte Everardo del Friuli, imparentato con la famiglia reale per avere sposato la principessa Gisela, figlia di Ludovico il Pio e nipote, quindi, di Carlo. Anche lui si era battuto contro nemici di ogni provenienza, molti dei quali pagani, come i Sassoni e i Normanni, gli Avari, gli Slavi. Come Orlando, aveva affrontato anche i Saraceni, sbarcati sulle coste venete, poco

lontano dalla sua Marca friulana; ma diversamente da Orlando non cadde in battaglia, bensí nel suo studio di Treviso, straripante di manoscritti e libri dedicati alle piú svariate scienze. Oltre che guerriero, infatti, Everardo era un tipico intellettuale della Rinascenza carolingia, animato da interessi culturali che spaziavano dal diritto alla teologia, alla letteratura e alle matematiche. Venne acclamato santo senza particolari approfondimenti sulla natura dei meriti acquisiti, in parte sul campo di battaglia, in parte tra le mura del suo quieto asilo filosofico. Un riconoscimento ufficiale dalla Chiesa non venne mai, ma è ugualmente nel calendario liturgico (25 novembre) per la venerazione popolare di cui fu oggetto.

Miniatura raffigurante la morte di Orlando, da un’edizione dello Speculum historiale di Vincent de Beauvais. XV sec. Chantilly, Musée Condé.

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Carlo Magno furono questi ultimi a raggiungere un primato, per la sovrabbondanza di santi nel loro albero genealogico, mai registrato in precedenza né mai superato in seguito. Fu santificata per devozione popolare la terza moglie di Carlo, Ildegarda, che aveva preso il posto della ripudiata Ermengarda. Ebbe un peso determinante in questa sua glorificazione l’affetto sincero che aveva saputo ispirare nel suo popolo, intenerendolo dapprima con la sua giovanile allegria (regina e madre felice a tredici anni) e poi affascinandolo con la sua straordinaria capacità di mescolarsi alla povera gente.

Le invocazioni delle aspiranti madri

Era stata regina caritatevole e gentile, in grado di ascoltare le ragioni del popolo e alleviarne le pene con interventi assistenziali concreti. Il clero franco accolse benevolmente il diffondersi del suo culto, ma non lo ratificò mai formalmente, pur consentendo che la defunta sovrana venisse solennemente festeggiata il 30 aprile, data della morte, avvenuta dopo molteplici gravidanze a poco piú di venti anni. Era invocata nella sua terra originaria di Svevia per la sua fertilità (otto figli) dalle donne desiderose di prole. Ebbe l’aureola, con minori certezze, anche Gisela, la sorella minore di Carlo che il principe longobardo Adelchi avrebbe voluto sposare e che si consacrò invece alla vita religiosa, dive-

Altri parenti di Carlo Magno ebbero l’aureola per motivi non sempre rilevanti. Avere dei santi in famiglia glorificava il blasone, dando nel contempo al popolo la rassicurante impressione di essere governato dalle persone giuste. Contava per i feudatari, per i vassalli d’ogni rango. Contava in special modo per le case regnanti. I Merovingi erano stati discreti (due soli santi di una certa fama: Gontrano, nipote di Clodoveo, che per primo aveva indotto alla conversione il popolo franco, e Siegeberto III, figlio del gran re Dagoberto), non essendosi ancora creato quel vincolo d’interdipendenza tra società ecclesiastica e civile che i Carolingi avrebbero enfatizzato a dismisura. Non c’è dunque da stupirsi se 22

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In alto miniature raffiguranti Carlo Magno e i suoi paladini che combattono i Saraceni, da un’edizione della Chanson de Roland. San Gallo, Stiftsbibliothek. A destra, sulle due pagine miniatura raffigurante la morte di Orlando a Roncisvalle, da un’edizione delle Chroniques des empereurs. 1462. Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal.


A destra particolare di una coperta di libro in avorio con scene della vita di Cristo. Arte carolingia, 846-849 circa. Zurigo, Schweizerisches Landesmuseum. nendo badessa della fiorente abbazia di Chelles, fondata un secolo prima dalla regina merovingia Batilde, vedova di Clodoveo II, venerata a propria volta come santa. Il dubbio sulla effettiva santità di Gisela deriva dal fatto che nel calendario diocesano di Arras sia indicata come santa (21 maggio) una certa badessa lsberga, sorella di Carlo Magno. Essendo Gisela l’unica sorella di Carlo ad avere avuto responsabilità di un’abbazia, gli agiografi sono portati a ritenere che debba essere lei, con ogni verosimiglianza, la santa. Tanto piú che, sotto il profilo leggendario, lsberga è celebrata come una specie di contraltare femminile dell’eroismo paladino, espressione di quella regale virtú che irradiava dalla figura di Carlo su quanti gli stavano intorno.

Ma vi è un’altra piú significativa coincidenza nella leggenda di lsberga, ed è che, non volendo sposare un nobile cui era stata promessa (come Gisela lo fu ad Adelchi), pregò Dio di farla diventare cosí brutta da essere respinta. Ottenne quel che chiedeva: un improvviso attacco di acne giovanile le deturpò (provvisoriamente) il viso, allontanando da lei per sempre il pretendente. È implorata per questo contro le malattie della pelle. Le grazie solitamente richieste dai devoti a queste sante dall’identità incerta sono in genere limitate a un ambito ristretto, riconducibile a un evento che in qualche modo le abbia riguardate da vicino, come la miracolosa acne di Gisela. Figurano nel calendario carolingio altre donne imparentate con il re alla lontana, scarsamente familiari alla cultura religiosa latina, ma portatrici comunque di qualità salvifiche o taumaturgiche. L’asprezza dei loro nomi barbarici, difficilmente memorizzabili,

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L’ETÀ DEI SANTI

Carlo Magno

SANTI, BEATI E... VENERABILI Nel calendario liturgico si incontrano santi e beati. La differenza non è da poco, poiché investe il livello di santità di ciascuno, distinguendo i santi veri e propri da coloro che, pur essendo stati elevati alla gloria degli altari, non hanno ancora ricevuto (e potrebbero non ricevere mai) un pieno riconoscimento da parte delle autorità ecclesiastiche. La distinzione si prospettò in età medievale, quando Gregorio IX (papa dal 1227 al 1241) e i suoi immediati successori avvertirono la necessità di controllare in maniera piú rigida il fenomeno dei culti spontanei, riservandosi il diritto di decidere quali argomenti privilegiare nei processi di canonizzazione. Prevalse la tendenza a valorizzare le virtú di spessore universale, ridimensionando la fama scaturita da miracoli spettacolari, giudicati talvolta improbabili dalle guide stesse della comunità ecclesiastica. Per non penalizzare la devozione popolare, tuttavia, furono ammesse forme di venerazione piú circoscritte – e meno eclatanti – nei confronti di coloro che avevano costituito, con la loro vita esemplare, un effettivo punto di riferimento spirituale per i fedeli.

Incoronazione della Vergine tra Santi e Profeti, olio su tela di Antonio Vivarini e Giovanni D’Alemagna. 1444. Venezia, chiesa di S. Pantaleone. Il Paradiso è qui immaginato come una grande abside, nella quale i due pittori collocano angeli, profeti, apostoli, evangelisti, martiri, confessori della fede, Padri della Chiesa, Vergini. Al centro, Dio Padre posa le mani sulle spalle della Vergine e di suo figlio Gesú. Lo Spirito Santo (in forma di colomba) sigilla il gesto dell’incoronazione di Maria, regina del paradiso.

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Questi ultimi furono detti beati e posti, nella graduatoria liturgica, un gradino al di sotto dei santi. Il loro culto è spesso radicato in una determinata località, dove prevale in certi casi su quello dei grandi santi tradizionali. Ai santi e ai beati si aggiunse la categoria dei venerabili, prevalentemente composta da religiosi deceduti in odore di santità e perciò proposti per la beatificazione. Il titolo è diffuso tra coloro sui quali l’autorità ecclesiastica non si è ancora pronunciata, pur riconoscendo l’esistenza di premesse per poterli ammettere prima o poi nella rosa dei beati.


non ne accresce la popolarità: è il caso di Angadrisma di Beauvais, venerata per il suo potere di allontanare le morti improvvise, di Glossinda di Metz, guaritrice di malattie veneree, e di Austreberta di Pavilly, soccorritrice di chi resta intrappolato negli incendi. Fa sorridere di tenerezza, in questa saga di santità minore, nella quale si riconoscono rigurgiti di pagana superstizione, la disavventura in virtú della quale venne beatificata Amalberga di Gand, cugina di Carlo Martello e perciò prozia, molto alla lontana, di Carlo Magno. Si dice che Carlo Martello, uomo sensuale e irruento, se ne fosse incapricciato: insidiata in modo sempre piú incalzante, la vergine di Gand si sottraeva come poteva agli assalti del cugino, finché un giorno, nel difendersi da un attacco piú impetuoso del solito, si ruppe un braccio. Ebbe odore di santità per questo, fin da viva. È festeggiata in Belgio il 10 luglio, e invocata contro le lesioni e le fratture agli arti.

Lo strano caso di Vitichindo

Rientrò nel novero dei santi carolingi, per uno di quei paradossi che rendono imprevedibile la storia, il peggiore dei nemici di Carlo Magno, il sassone Vitichindo, che aveva capeggiato per anni la resistenza contro i Franchi delle tribú germaniche oltre il Reno. Nemico mortale della cristianità – e personale di Carlo, fin dall’infanzia – Vitichindo era rimasto, finché aveva potuto, fedele alla religione guerriera del dio Odino, praticando sacrifici umani e altri esecrabili riti, fondati sulla presunzione di una sovrannaturale superiorità della bionda razza nordica su ogni altro popolo della Terra. Si era poi convertito, invocando il battesimo dalle mani dell’antico nemico. Divenuto vassallo fedelissimo di Carlo, era caduto combattendo per un fatale nonsenso – lui che era stato campione della paganità germanica – contro le ultime tribú pagane di Frisia, animato da un forsennato tentativo d’imporre loro la conversione. Si disse che dopo avere chiesto e ottenuto da Carlo il battesimo non fosse rimasto piú niente in lui della passata idolatria, ma un folle fervore di santità, ispirato dall’urgenza di emendarsi delle chiese incendiate, dei preti martirizzati e dei tanti altri delitti commessi contro la religione cristiana. Non attraverso la penitenza e la preghiera, ma nella sola maniera che gli era familiare: sterminando fino all’ultimo uomo, donna o bambino, i pagani ancora in vita. Era rimasto Sassone in questo, nella convinzione che lo sterminio fosse la via piú agevole per

realizzare un disegno di perfezione. Come quando si batteva per creare spazio vitale alla sua eletta razza sassone, ispirato dal solo intento di evitarle ogni contatto con le inferiori genti delle terre circostanti. Lo si volle onorare ugualmente come santo, nella sua contea natale di Engern, dove le campane suonarono a morto nell’ora del massimo sole, detta per questo «regale», da mezzogiorno all’una del 6 gennaio di un anno che nessun cronista si prese la briga di trascrivere. Si disse che fosse stato sepolto sotto una lastra di pietra grezza, senz’alcuna iscrizione, nelle pendici di una roccia. Per evitare probabilmente che la sua tomba divenisse meta di pellegrinaggio per gli ultimi Sassoni ancora nostalgici della loro indipendenza, o per risorgere un giorno con gli spiriti dell’antica religione, sepolti come lui nel fianco della montagna.

Miniatura raffigurante l’incoronazione di un principe, identificato con lo stesso Carlo il Calvo o con Carlo Magno, tra due arcivescovi o, piú probabilmente, papa Gelasio e papa Gregorio Magno, dal Sacramentario di Metz (detto anche di Carlo il Calvo). 869-870 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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In battaglia con la preghiera Come si spiega la profusione, in età medievale, di santi «di rango», potenti e ricchi? Furono meriti autentici o «unzioni» interessate? Ecco le vicende di re, regine e soldati, divenuti «servi di Dio» attraversando percorsi di guerra e di sangue…

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ltri re, dopo Carlo Magno, e moltissime regine, ornarono la propria corona dell’aureola. Con maggiore fortuna di Carlo, poiché a decretarne la santità furono dei papi legittimi, non un antipapa come Pasquale III. Nessuno ebbe pertanto l’ardire di depennarli dal calendario liturgico, indipendentemente dalla fatale dispersione, nella maggior parte dei casi, di quanto avevano costruito nel corso della loro vita. Si dissolsero regni e signorie, si sgretolarono imperi, si estinsero illustri casati, ma chi era entrato nel novero dei santi ci rimase. E furono tanti da indurre uno dei piú ispirati pittori di cose sacre, il Beato Angelico, a inserire nella sua celebre raffigurazione del Paradiso, tra una moltitudine di monaci, anche un re coronato con accanto la sua regina. Come animato dall’urgenza di giustificare queste ingombranti presenze in un territorio per definizione interdetto (salvo a voler rimuovere l’allegoria evangelica del cammello e della cruna dell’ago) ai ricchi, ai potenti e, di conseguenza, anche ai re. Guardarne alcuni da vicino può aiutare a comprendere la natura dei meriti (e degli interessi) che consentirono una cosí diffusa eccezione, in età medievale, a questa regola. Il santo di rango piú elevato è l’imperatore Enrico II, detto il Buono, figlio di Enrico il Litigioso, duca di Baviera, e nipote di Ottone il Grande. Successe a Ottone III (1002) e venne unto «Sacro Romano

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Imperatore» (1014) da papa Benedetto VIII, che cosí lo ricambiò dell’appoggio ricevuto contro l’antipapa Gregorio, chiedendogli contemporaneamente aiuto contro i Bizantini nell’Italia meridionale. Come Carlo Magno, Enrico non se lo fece dire due volte. Sistemò la questione con le armi e con la preghiera, concedendosi una pausa spirituale a Montecassino. Amava i ritiri monastici. Frequentò le abbazie di Cluny, di Camaldoli e di San Vanne a Verdun, dove chiese di farsi frate. L’abate lo rifiutò, dicendogli che sarebbe stato molto piú apprezzato dal Signore proseguendo il suo «lavoro» d’imperatore. «Per obbedienza», aggiunse. Vera o inventata che sia, questa battuta spiega bene il senso della santità regale, intesa come attività complementare se non addirittura subordinata – di protezione, di sostegno – a quella pastorale esercitata dal pontefice. Vennero canonizzati insieme a Enrico (in calendario il 13 luglio) sua moglie Cunegonda (3 marzo), la sorella Gisela (7 maggio) e il marito di quest’ultima, Stefano d’Ungheria (16 agoMiniatura raffigurante l’incoronazione di Enrico II, detto il Santo, dal Sacramentario che porta il nome dell’imperatore stesso. 1002-1014. Monaco di Baviera, Bayerische Staatsbibliothek. Ai lati del sovrano sono ritratti i vescovi Ulrico di Augusta ed Emmerano di Ratisbona, che gli porgono la lancia di san Maurizio e la spada imperiale.



L’ETÀ DEI SANTI Sulle due pagine replica delle sculture del Duomo di Bamberga raffiguranti santo Stefano e la coppia imperiale composta da Enrico II e Cunegonda. Gli originali, attribuiti a una bottega di Reims attiva nel XIII sec., sono conservati nel Museo Diocesano della città tedesca. In basso Budapest. Il monumento in onore di Stefano I d’Ungheria, il Santo. La statua equestre fu eretta nel 1906 su progetto di Alajos Stróbl.

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Santi coronati

sto), principale artefice dell’indipendenza e della conversione del popolo magiaro. Due grandi re con le loro regine: quattro corone per un medesimo angolo di cielo. Alle quali si aggiunse quella del principe ereditario Emerico, figlio di Stefano e Gisela, morto nel 1030 in un incidente di caccia e beatificato in seguito anche lui. Si dice ritualmente agli sposi, nel celebrarne l’unione: «finché morte non vi separi». Vale per i comuni mortali. Un po’ meno per le coppie reali, che non sempre la morte divide.

Il «sultano giusto»

È santo insieme alla moglie Margherita di Provenza (e anche alla madre, Bianca di Castiglia, nonché alla sorella Isabella, badessa delle clarisse di Longchamp) il popolarissimo re crociato di Francia, Luigi IX, sfortunato protagonista di due spedizioni in Terra Santa. Concluse la prima in catene, dopo essere stato sconfitto a Mansurah (1250), e la seconda morendo, stroncato dalla peste (1270). I Mamelucchi che lo tennero in ostaggio dopo il disastro di Mansurah, ottenendo per la sua liberazione un ingente riscatto, ne furono a tal punto ammirati da chiamarlo il «sultano giusto». Luigi fu come l’imperatore Enrico un re «per obbedienza», restando in spirito un terziario francescano. Vocazione che non gli impedí di avere un appassionato rapporto coniugale con l’altrettanto pia Margherita, dalla quale ebbe undici figli. Non furono esclusi dagli onori degli altari certi re combattenti che a loro modo si di-


stinsero in quella che il Beato Valfré, patrono dei cappellani militari, chiama disinvoltamente l’«arte di santificare la guerra». Ci furono tra loro dei barbari, come il burgundo Sigismondo, il visigoto Ermenegildo, gli angli Etelberto del Kent e Osvaldo di Northumbria, il gallese Euryn, principe con talento di bardo, che lasciò il poema celtico Gododin sulla gran battaglia di Caltraeth, svoltasi all’epoca comunemente ritenuta della Tavola Rotonda. Ci furono degli assassini pentiti, come il pirata Magno delle isole Orkney, Salomon di Bretagna e il duca Guglielmo d’Aquitania, scomunicato per avere preso le parti dell’antipapa Anacleto II contro il legittimo pontefice Innocenzo II. Ci furono infine sovrani – e sono i piú – che insieme all’indipendenza del proprio popolo dovettero difenderne la libertà religiosa, come gli spagnoli Alfonso II delle Asturie e Ferdinando III di Castiglia, l’inglese Alfredo il Grande, il norvegese Olav II Haraldsson, lo svedese Erik IX Jedvardsson, il danese Canuto IV e l’etiope Elesbaan di Axum, per dirne solo una parte. Sono quelli che lasciarono segni d’artiglio nella storia. Alfonso II respinse i Mori dal suo regno delle Asturie, liberò la capitale Oviedo che avevano occupato (791) e conquistò Lisbona, dando cosí il via alla lunga guerra di Reconquista iberica contro l’invasore islamico. Alla Reconquista, movimento di liberazione nazionale e religiosa, consacrarono la propria esistenza altri re di Spagna e Portogallo, tra i quali si distinse per la tolleranza nei confronti degli Arabi sconfitti Ferdinando III di Castiglia, anche lui santo.

Paladini della fede nel Grande Nord

Alfredo, re del Wessex, respinse i Danesi che opprimevano le popolazioni cristiane d’Inghilterra (878) imponendo il battesimo al loro signore Guthrum. Olav II Haraldsson guidò per anni i Vichinghi nelle razzie sulle coste d’Inghilterra e Normandia, nel corso delle quali si convertí al cristianesimo: divenuto re di Norvegia, vi portò la nuova religione, ma fu tradito dai nobili fedeli all’antica idolatria, che offrirono la sua corona al re danese Canuto II, dal quale fu ucciso in battaglia (1030) presso Trondheim. Un altro Canuto, il IV di tale nome, nipote di questo, si guadagnò l’aureola difendendo la cristianità del suo regno contro gli Estoni e altri pagani del Baltico, oltre che varando leggi umanitarie per la liberazione degli schiavi. Troppo moderno per essere compreso, fu assassinato nel corso di una rivolta in una chiesa di Odense (1086) ed ebbe per questo la palma di primo martire danese dal papa Pasquale II. Fu ucciso SANTI E RELIQUIE

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L’ETÀ DEI SANTI

Santi coronati

IL MISTERO (MAI CHIARITO) DI GIOVANNA D’ARCO Una vita fulminea e avventurosa, un atroce supplizio, una santificazione tardiva ma risplendente di gloria. Il destino della piú celebre delle donne combattenti di ogni tempo si compie nell’arco breve di diciannove anni. Giovanna d’Arco nasce a Domrémy nel 1412, e ancora bambina si sente chiamare da voci celesti che l’incitano a liberare la Francia dall’invasore inglese. Riesce a farsi ricevere dal pavido re Carlo VII e a convincerlo, nel corso di un colloquio misterioso, ad affidarle il comando dell’armata. Cosí, a diciassette anni d’età scende rapidamente in campo (1429), affiancata dai piú temerari capitani di Francia. Rompe l’assedio di Orléans, batte gli Inglesi a Patay, si riprende le città di Auxerre, Troyes, Chàlons e Reims, dove restituisce al Delfino la corona. È catturata dai Borgognoni a Compiègne, dopo essere stata tradita, e venduta agli Inglesi, che la processano a Rouen per eresia, stregoneria ed esercizio dell’arte profetica. Tiene testa alle domande insidiose dei giudici, mettendoli in imbarazzo, ma è fatalmente condannata come strega e messa al rogo, il 30 maggio 1431, non ancora ventenne. Venne riabilitata da papa Callisto III venticinque anni dopo, ma dovette aspettare cinque secoli per essere canonizzata, il 16 maggio 1920, da Benedetto XV. Il suo mistero non è mai stato del tutto chiarito. All’origine della sua impresa v’è una profezia, secondo la quale la Francia sarebbe stata salvata da una vergine in armi. Per questo, probabilmente, re Carlo si lasciò convincere a servirsene. Desta stupore, a distanza di secoli, l’amicizia che la legò profondamente a Gilles de Rais, suo capitano a Orléans, destinato a divenire uno dei criminali piú perversi della storia e a ispirare la figura di Barbablú. Anche lui fu condannato a morte, impiccato e poi bruciato, una decina di anni dopo, per avere seviziato e ucciso un numero indefinito di bambini, adorato i demoni e praticato la magia.

In alto particolare del capolettera di un manoscritto quattrocentesco al cui interno, in un secondo momento, è stato inserito un ritratto di Giovanna d’Arco, la cui datazione è tuttora controversa. Parigi, Archives Nationales. A sinistra illustrazione miniata francese raffigurante Luigi IX il Santo, con i simboli del potere temporale e spirituale. 1400 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France. A destra miniatura raffigurante la morte di Olaf II di Norvegia, il Santo, nella battaglia di Stiklestad (1030), da un manoscritto del XIV sec. Oslo, Universitetets Oldsaksamling. 30

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in una chiesa di Uppsala, durante un attacco danese, anche il re svedese Erik IX Jedvardsson (1161). Aveva introdotto i principi evangelici nelle leggi del suo regno e guidato una crociata contro i confinanti finnici, che solevano infierire sulle comunità cristiane di confine. Maggiore fortuna era toccata qualche secolo prima, nella lontanissima Etiopia, al negus Elesbaan di Axum, sceso in campo (523) per porre fine ai massacri della popolazione cristiana da parte del negus Nawas, convertito all’ebraismo. Vittorioso e acclamato come un liberatore dalle genti abissine, aveva reso la vittoria piú splendente liberandosi di ogni suo avere – incluso il trono – per farsi frate a Gerusalemme. Pare venisse invocato dai mendicanti contro i mali della miseria.

Il cammino verso la perfezione

Storie di re, di soldati, di santi; percorsi di guerra e di sangue che si sublimano, strada facendo, in esperienza (o apparenza) religiosa. Non vi fu Stato cristiano né popolo, in definitiva, che non annoverasse tra i propri governanti – o nel loro parentado – un santo, un beato, un venerabile o quanto meno un «servo di Dio», definizioni che nella nomenclatura liturgica connotano i diversi stadi di un medesimo cammino di perfezione. Figurano in questo elenco lo scozzese David I e sua madre Margherita, il boemo Venceslao, il serbo Simeone Stefano Namanja, il russo Vladimiro di Kiev e suo figlio Boris, lo slavo Godescalco, il tedesco Ludovico IV di Turingia, il polacco Casimiro Jagellone, patrono di Lituania e Polonia, l’inglese Enrico VI, travolto dagli odi tra le due Rose di York e Lancaster. Molte le donne, tra le quali Elisabetta d’Ungheria, Isabella di Portogallo, Margherita di Lorena, Maria di Brabante e Matilde di Sassonia. Particolarmente numerosa in questo empireo sovraffollato di santi coronati è la presenza dei Savoia, che ha in calendario un conte di vocazione ascetica e guerriera (Umberto III, celebrato il 4 marzo), un duca che tendeva ad anteporre le necessità dei poveri a quelle dell’erario (Amedeo IX, 22 marzo) e una principessa che, pur non avendo potuto sottrarsi a un matrimonio di convenienza politica, scelse infine la piú rigida clausura (Margherita, 10 dicembre). Umberto III fu solo e oberato dal peso del governo fin dall’età di dodici anni, quando suo padre Amedeo III morí alla seconda crociata (1148). Si sposò quattro volte per ragioni di discendenza, poiché solo la quarta moglie (Beatrice di Maçon) gli diede l’erede maschio, dividendosi tra le armi e il chiostro, dal quale si sentiva ir-

resistibilmente attratto. Alternò periodi di vita monastica ad altri di guerra, per l’indipendenza della contea. Ma il meglio di sé lo diede opponendosi all’imperatore Federico Barbarossa e mediando la salvezza di Milano. Pagò caro questo suo gesto di coraggio, dovendo combattere per il resto della sua vita contro aggressori sempre piú forti, sempre piú decisi a emarginarlo dalla storia d’Europa, che devastarono a piú riprese la contea, incendiando la città di Susa. Solo grazie alla morte, avvenuta nel 1189 a Chambéry, poté tornare nel suo monastero di Hautecombe, dove fiorí il suo culto. Amedeo IX ebbe vita breve per una epilessia che ne aveva minato fin dall’infanzia l’organismo. Giudicato inetto al governo per questo suo male, fu criticato per la sua propensione a privile-

Particolare dello sportello di una pala d’altare raffigurante Erik IX il Santo, re di Svezia, in viaggio verso la Finlandia insieme al vescovo Henrik, dalla chiesa di Länna. Metà del XV sec. Stoccolma, Historiska museet.

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L’ETÀ DEI SANTI

Santi coronati

giare la causa della carità rispetto a quella della guerra. Ebbe tuttavia la fortuna di avere in moglie la tenera e volitiva Jolanda di Valois, figlia di Carlo VII di Francia, il Delfino incoronato da Giovanna d’Arco, che seppe sempre sostenerne le ragioni. L’ostilità dei nobili non lo trattenne dall’investire notevoli capitali in ospizi, ospedali e centri di assistenza che rappresentavano all’epoca l’unica possibilità d’intervento previdenziale su larga scala. Si circondava di poveri, anche a mensa; e a un ambasciatore che gli chiedeva un giorno quanti segugi da caccia possedesse, rispose indicando i mendicanti seduti al suo tavolo: «Con loro», disse, «io caccio il Paradi-

maggiore della cattedrale romanica di Vercelli, fu per molti anni meta dei malati di epilessia, che si diceva avesse il potere di guarire.

Le tre frecce di Gesú

Anche Margherita di Savoia tentò, come l’avo Umberto III, di dividersi tra le cose del mondo e l’ascesi, i doveri che la sua condizione le imponeva e il richiamo della vita contemplativa. Poté abbandonarsi interamente a quest’ultima non appena rimase vedova di Teodoro del Monferrato (1418) all’età di ventotto anni. Scelse il velo dell’Ordine domenicano, sottoponendosi a regole di clausura che comportavano

Fra i personaggi di importanti dinastie assurti alla gloria degli altari vi furono anche esponenti di casa Savoia, come il duca Amedeo IX (1435-1472; in alto), beatificato nel 1677 da papa Innocenzo XI, e il conte Umberto III (1135 circa-1189; in basso), beatificato nel 1838 da Gregorio XVI.

so». Espressione forse infelice, per il fraintendimento che poteva provocare tra uomini e cani, ma indicativa di un’ansia sincera per la salute dell’anima. Morí a trentasette anni (1472), rammaricandosi di separarsi da Jolanda, che gli era stata accanto nella sua breve esistenza con amore. «Ti lascio questi orfani», fu l’ultima cosa che le disse, tendendo una mano ai loro bambini, mentre le forze lo abbandonavano. Non è una gran frase per la storia, ma denota quale attaccamento per i figli – sentimento scarsamente avvertito dall’uomo medievale – vibrasse nel mite cuore di Amedeo, onorato in seguito come patrono dei Savoia. La sua tomba, sotto l’altare 32

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umilianti e dolorose penitenze, aggravate dalla severità inflessibile del suo padre spirituale. Si racconta che un giorno le fosse apparso in cella Gesú con in mano tre frecce, sulle quali era scritto Calunnia, Malattia e Persecuzione, dicendole di sceglierne una. Lei, di rimando, avrebbe offerto il cuore alle tre punte, perché glielo trapassassero insieme. È ciò che metaforicamente accadde ogni giorno, secondo l’agiografia, per i venti anni di vita che ancora le restavano da vivere. L’ultima santa regina medievale fu Isabella I di Castiglia, la sovrana che per una sorta di illuminata ispirazione aveva saputo intuire il grande


A destra Madonna dei Re Cattolici, tecnica mista su tavola forse dipinta da Fray Pedro de Salamanca. 1497 circa. Madrid, Museo del Prado. La Vergine e il Bambino ricevono l’omaggio di Ferdinando e Isabella – rappresentati con tratti piú giovanili di quelli che dovevano avere all’epoca del quadro –, alle cui spalle si riconoscono, rispettivamente, san Tommaso d’Aquino e san Domenico. Gli altri personaggi sono, da sinistra: l’inquisitore Tomás de Torquemada, il principe Giovanni, una infanta – forse Isabella – e un Domenicano, che potrebbe essere Pedro de Arbués. Nella pagina accanto, al centro Margherita di Savoia marchesa del Monferrato (1390-1464), beatificata nel 1676, affresco in un voltino della navata laterale della basilica di S. Michele Maggiore a Pavia, dopo il restauro del XIX sec.

disegno di Cristoforo Colombo, incompreso e dileggiato dai sapienti del suo Regno. Ne sostenne l’impresa contro il parere di ecclesiastici, geografi e matematici; e con la scoperta del continente che il suo protetto scambiò per le Indie, nel 1492, ebbe «tecnicamente» fine il Medioevo. È registrata nel calendario liturgico (26 novembre) con il modesto titolo di «serva di Dio». Tentativi di promuoverla a livelli di santità piú elevata non hanno avuto fortuna a causa del giudizio storico sulle gesta degli Spagnoli nel Nuovo Mondo. Non ha rimosso tale ostacolo una recente riapertura del processo di beatifica-

zione, suffragata da documenti secondo i quali la regina si sarebbe opposta alla conversione forzata degli lndios e alla loro riduzione in schiavitú. E sarebbe stato davvero anacronistico, in un’epoca in cui il papa chiede perdono per le infamie inquisitorie della sua Chiesa, celebrare la santità di una regina che si distinse per lo zelo con cui ravvivò il potere della piú perversa delle Inquisizioni, la spagnola. Né è valso a modificare il giudizio su questa «serva», per la bilancia della storia, il merito – tanto enfatizzato dagli agiografi – di non essersi cambiata per tutta la vita la camicia. SANTI E RELIQUIE

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Il tempo delle regole Già nei primi secoli del cristianesimo la Chiesa sentí l’esigenza di stabilire a quali testi affidare una patente di attendibilità, soprattutto di fronte al moltiplicarsi degli scritti apocrifi, la cui circolazione favoriva l’allontanamento dall’ortodossia cristiana. Un’impresa alla quale contribuirono le menti piú brillanti dell’intellighenzia ecclesiastica

O

ltre a fronteggiare lo sconvolgimento determinato dalle invasioni barbariche, la Chiesa altomedievale si trovò a dover mettere ordine nel grande caos della letteratura sacra, distinguendo tra gli scritti apocrifi e quelli canonici, cioè ritenuti «parola di Dio». Profezie, Apocalissi e resoconti della vita di Gesú, atti e documenti della piú disparata provenienza creavano sconcerto e confusione nel popolo cristiano, suscitando interpretazioni contraddittorie, dispute, riletture delle testimonianze raccolte sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento. Ne derivavano interpretazioni contraddittorie, talvolta pittoresche o blasfeme, spesso all’origine di azzardate tesi dottrinarie. Cosí, per fare chiarezza e arginare la proliferazione di eresie, fu necessario verificare quale fondamento avesse la gran mole di testi apocrifi che si erano andati mescolando nei primi secoli del cristianesimo alle Scritture della grande tradizione ebraico-cristiana. Si trattava in buona misura di scritti d’ispirazione apocalittica, la cui paternità risultava attribuita per calcolo degli autori autentici a prestigiose figure di santi e di profeti, apostoli e patriarchi. Venivano detti apocrifi per questo, cioè nascosti, dal verbo greco apokrypto, che significa per l’appunto celare.

In basso miniatura con le due bestie che escono dalla terra e dal mare e vengono adorate dagli uomini, da un’edizione del Commentario all’Apocalisse del Beato di Liebana. 975. Girona, Archivio capitolare della Cattedrale.

Le grandi paure

Nella pagina accanto San Girolamo nello studio, dipinto su tavola di Giovanni di Paolo. 1430-1435. Siena, Pinacoteca Nazionale.

La mistificazione dei veri autori, che restavano cosí nell’ombra, trovava una sua giustificazione nell’intento di conferire alla propria testimonianza una maggiore autorità servendosi di nomi già consacrati a una fama universale. Riu34

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scivano in tal modo ad attirare su ciò che avevano scritto – e che sinceramente credevano riconducibile, in certi casi, a una rivelazione divina – l’attenzione del grande pubblico dei credenti, spesso indottrinato da teologi e filosofi del tutto estranei alla nascente ortodossia evangelica. Ebbero una certa fortuna, in questa letteratura che gravitava con qualche ingenuità intorno ai grandi interrogativi escatologici del chi siamo e del donde veniamo, ma soprattutto del dove andiamo, incognita di tutte le grandi paure millenariste, le Apocalissi attribuite a Esdra, Baruch e Mosè, per quanto riguarda la nomenclatura veterotestamentaria, e a Pietro, Paolo e Tommaso, per quella cristiana. Si può ben capire quali equivoci scaturissero da questo catastrofismo di maniera, teso ad alimentare il terrore della fine dei tempi. Né contribuivano a semplificare l’approccio con l’ancora giovane religione cristiana opere come l’Ascensione di Mosè, che narrava la storia d’Israele dalle origini all’avvento del Cristo, e il Testamento dei dodici patriarchi, sintesi di predizioni e insegnamenti dispensati dai protagonisti della Bibbia. Si assunsero per primi l’onere di scandagliare questo sapere magmatico ed eterogeneo quei teologi denominati per il loro ruolo Padri della Chiesa, i quali selezionarono tra il III e il VII secolo gli scritti di segno evangelico, riscontrandone l’ortodossia. Fu l’epoca del primo grande scontro ideologico della Chiesa con le deformazioni eretiche del credo cristiano, nel quale si distinsero intellettuali come san Clemente Alessandrino, Giovanni Crisostomo e Giovan-



L’ETÀ DEI SANTI

Lotta alle eresie

Sant’Agostino dottore della Chiesa nello studio, tempera su tavola di Sandro Botticelli. 1490-1494. Firenze, Galleria degli Uffizi. Insieme con Ambrogio e Girolamo, anch’essi Padri della Chiesa, Agostino fu tra gli intellettuali cristiani piú popolari nella società colta medievale. Nella pagina accanto, in basso Sant’Ambrogio in cattedra flagella due eretici, affresco (trasportato su tela) del Maestro di Mocchirolo, dall’Oratorio Porro di Mocchirolo. 1360-1370. Milano, Pinacoteca di Brera 36

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QUELL’IMPRONTA SACRA E VENERATA È connessa al mistero dei Templari la storia della piú venerata reliquia della cristianità, cioè la Sindone attualmente custodita nel duomo di Torino. Si tratta del sudario (sindon significa in greco telo di lino) nel quale Giuseppe d’Arimatea avrebbe avvolto il corpo insanguinato di Gesú dopo la deposizione dalla croce. L’immagine rimasta impressa per la copiosa sanguinazione sul telo conferisce una sacralità speciale – ineguagliabile per un cristiano – alla reliquia, che ha perciò un valore analogo a quello del Graal, la coppa dell’ultima cena nella quale lo stesso Giuseppe d’Arimatea avrebbe raccolto, in quella medesima occasione, il sangue sgorgato dalle ferite del Cristo. Del Graal non si è mai trovata traccia, se non nelle leggende cavalleresche. La Sindone venne invece recuperata dai Templari in circostanze mai chiarite, probabilmente nell’aprile del 1204, quando Costantinopoli fu messa a sacco dai crociati. La reliquia fu portata in Europa da un cavaliere della famiglia di Charnay, legato all’Ordine del Tempio. Nel secolo XV ne vennero in possesso i Savoia, che nel 1578 la trasferirono a Torino. In quanto reliquia della morte del Cristo, la Sindone è la prima – la madre, potremmo dire – di tutte le reliquie. Da ciò l’immensa devozione di cui è oggetto. La perfezione della figura impressa sul telo, l’espressività drammatica del volto e i dettagli delle ferite le conferiscono una ineguagliabile forza carismatica, che la pone oltre tutto al primo posto tra le immagini acheropite, cioè non dipinte da mano umana (dal greco acheiropoietos, derivante dall’unione tra la alfa con funzione privativa, cheir, mano, e poiein, fare, n.d.r.). Recenti analisi scientifiche hanno dimostrato che il telo risalirebbe effettivamente al I secolo, e che la sua terra d’origine sarebbe la Palestina, per la presenza di spore provenienti da piante ivi esistenti all’epoca.

Santa Sindone, acquerello su seta. Ambito milanese, 1600-1620. Torino, Galleria Sabauda.

ni Damasceno in Oriente; sant’Ambrogio, san Girolamo e sant’Agostino in Occidente. La loro popolarità nella società colta medievale fu enorme per l’influenza decisiva che ebbero nell’elaborazione di una nuova visione del mondo (anche politica, se si pensa al peso dell’agostiniana Città di Dio nell’utopia di Carlo Magno) a misura del Verbo cristiano.

Una testimonianza preziosa

Un ruolo non secondario in questa operazione basilare – di assestamento, dopo lo sconquasso emotivo della «rivelazione» e delle successive persecuzioni – toccò ai primi pontefici romani. Furono particolarmente attivi tra questi Damaso I e Leone Magno, lo stesso che aveva fermato Attila, entrambi santi. Il primo divenne papa sconfiggendo l’antipapa Orsino dopo sanguinosi scontri per le vie di Roma (366). Scrive Ammiano Marcellino di questa contesa che «l’ardore di Damaso e Orsino nell’occupare la sede episcopale superava qualsiasi ambizione umana». Aggiunge che era del tutto normale, all’epoca, che un premio cosí ambito accendesse gli animi di desiderio, dato che «una volta raggiunto quel posto si gode della fortuna assicurata dalle donazioni delle matrone, si va in giro su di un cocchio, si indossano abiti sfavillanti, si partecipa a banchetti piú lussuosi di quelli imperiali». E di Ammiano Marcellino è SANTI E RELIQUIE

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L’ETÀ DEI SANTI

Lotta alle eresie

UNA DONNA PIETOSA E MISTERIOSA Fu molto venerata in Roma, quando ancora non si aveva notizia della Sindone, una reliquia prodotta da un identico processo d’impressione su telo, cioè la Veronica, cosí chiamata in quanto «vera icona» del volto di Gesú. Si sarebbe trattato infatti del panno con il quale venne asciugato da una donna pietosa il viso del Cristo sanguinante sulla via del Calvario. La Veronica, considerata fedele riproduzione del viso del Cristo, fu l’immagine acheropita piú popolare nella cristianità medievale. Veronica venne chiamata dal popolo anche l’anonima santa da cui era stata tramandata. Chi lei fosse non si è mai saputo, ma si sostenne che potesse essere la donna guarita per avere toccato un lembo della veste di Cristo dalle gravi perdite di sangue di cui soffriva da dodici anni (Matteo 9, 20, Marco 5, 25, Luca 8, 43). Si disse anche che potesse trattarsi della nobile Berenice, nipote di re Erode. Tale era la popolarità della reliquia che se ne vendevano rudimentali riproduzioni per i pellegrini appena giunti a Roma, i quali se ne fregiavano come di un segno distintivo. Come i pellegrini diretti in Terra Santa recavano la palma e quelli per Santiago di Compostella la conchiglia. Testimonianze sulla Veronica se ne hanno fin dal 1011, in uno scritto di papa Sergio IV. Dante ne parla nella Divina Commedia (Paradiso, XXXI, 103-105) chiamandola «la Veronica nostra». Scomparve durante il sacco di Roma, ma si dice sia stata trafugata da un religioso che la pose in salvo in un convento dell’Umbria, dove tuttora sarebbe segretamente custodita.

nota l’attendibilità storica, pur trattandosi di un autore legato alle decadute gerarchie pagane (era stato al seguito di Giuliano l’Apostata, effimero restauratore di antichi dèi) e quindi ostile ai nuovi detentori del potere. Nonostante questo esordio molto poco carismatico, Damaso si mostrò sinceramente interessato alle radici culturali della fede: iniziò il restauro delle catacombe, scrisse epigrammi d’ispirazione religiosa e, quel che piú conta, si prese come segretario san Girolamo, commissionandogli la prima traduzione latina della Bibbia, chiamata poi la Vulgata. Il suo maggiore sforzo intellettuale fu però diretto a confutare le eresie di Ario (che negava la divinità del Cristo), Apollinare (che poneva limiti alle facoltà sensibili del Dio incarnato) e Macedonio (che contestava l’eternità dello Spirito Santo, ritenendolo generato successivamente alla creazione). Misurarsi su questo terreno, del resto, rientrava tra i doveri maggiormente avvertiti – e non di rado fraintesi – dai papi medievali, molti dei quali si mostrarono disposti, nei secoli successivi, a sacrificare la pietà in nome di una malintesa ortodossia. Contro i movimenti ereticali si batté con particolare zelo, come si è visto, anche Leone I, distinguendosi per il fervore dialettico delle sue tesi. Oltre all’eresia monofisita e al dualismo manicheo, vacillarono sotto le sue argomentazioni le tesi del monaco irlandese 38

SANTI E RELIQUIE

In alto Santa Veronica con il sudario di Cristo, tempera su tavola attribuita al Maestro della santa Veronica di Monaco. 1425 circa. Monaco di Baviera, Alte Pinakothek. Pelagio, propugnatore di una filosofia (detta dal suo nome pelagianesimo, molto condivisa dagli anacoreti) tendente ad affermare che l’uomo ha solo bisogno di una ferma volontà, senza intervento divino, per elevarsi sulla via dell’ascesi.

Una confusione del tutto speciale

Ma l’iniziativa di maggiore rilievo al fine di un piú agevole orientamento dei fedeli nell’insidioso mare delle Scritture la prese papa Gelasio I, che tenne la cattedra di Pietro dal 492 al 496, il quale sancí per decreto (494) quali testi dovessero intendersi per sacri e quali apocrifi. Non si trattò di una cernita indolore, poiché gli apocrifi neotestamentari avevano creato, diversamente da quelli di tradizione ebraica, una confusione del tutto speciale, fondandosi sulla pretesa di attribuire a ogni apostolo suoi personali Vangeli, Atti, Epistole o Profezie. Avevano in tal modo coinvolto nell’inevitabile scontro dottrinario una realtà recente, ancora viva, animata da personaggi di cui si avvertiva la presenza – a cominciare da Gesú e dai discepoli – piú di quanto non si avvertisse quella degli antichi patriarchi.


Il baldacchino di Tost, dalla chiesa di Sant Martí de Tost a Ribera d’Urgellet (Catalogna). 1220 circa. Barcellona, Museu Nacional d’Art de Catalunya. Il Cristo in maestà è circondato dal tetramorfo, cioè dalla raffigurazione dei quattro animali dell’Apocalisse – leone, toro, aquila e uomo – utilizzata anche come simbolo degli evangelisti.

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SANTI E RELIQUIE

Lotta alle eresie


SIAMO TUTTI «FIGLI UNICI» DI DIO Non sempre l’insegnamento mistico scaturiva dalla dottrina di maestri accreditati dalla Chiesa. Al contrario, fluiva dalla predicazione di uomini (e donne) guardati con sospetto dall’autorità ecclesiastica per le loro argomentazioni insolite, lontane dall’ortodossia e spesso al limite del paradosso. Ebbe una fama straordinaria tra questi maestri il renano Johannes Eckhart (1260-1320), propugnatore ideologico della necessità di uscire da se stessi per entrare nell’eternità. Autore di numerosi trattati e sermoni, nei quali si fondono intellettualismo filosofico e pulsioni mistiche, Mastro Eckhart (com’era familiarmente chiamato dai seguaci) sostenne che esiste una soglia oltre la quale la creatura si confonde con il Creatore. Superare questa soglia consentirebbe all’uomo di cominciare a farsi Dio. Dio stesso, d’altronde, incalzerebbe l’uomo – secondo Eckhart – per indurlo a uscire dal proprio io profondo e

Nella pagina accanto ritratto di papa Gelasio I, olio su tela di scuola italiana. Seconda metà del XV sec. Milano, Pinacoteca Ambrosiana.

addentrarsi nella condizione divina. Ogni uomo, alla luce di questa dottrina, sarebbe «figlio unico» di Dio. Affermazioni cosí spiazzanti, predicate con un fervore che eccitava le folle, provocarono la reazione dell’arcivescovo di Colonia, presso la cui università Eckhart insegnava. Eckhart era domenicano, e perciò soggetto all’autorità ecclesiastica, che condannò come eretiche molte sue proposizioni. Si appellò al papa Giovanni XXII, che risiedeva ad Avignone, incontrandolo nel 1327. Morí però quell’anno stesso, senza che la questione venisse risolta. Ripreso e diffuso da due discepoli (Suso e Tauler) il suo pensiero acquistò in età moderna un particolare interesse nei circoli esoterici per la sua analogia con le filosofie orientali, con particolare riguardo alle «tecniche» di meditazione. Sono essenziali alla loro conoscenza le Istruzioni spirituali e il Libro della consolazione.

Bisognò perciò fare i conti con un Vangelo secondo gli Egiziani, uno secondo gli Ebrei, un altro secondo gli Ebioniti, seguaci di una setta fondamentalista che propugnava un rigido ritorno alla legge mosaica; e ancora, con un Vangelo arabo dell’infanzia del Salvatore di origine siriaca, un Protovangelo di Giacomo, un Vangelo di Tommaso l’Israelita e altri a nome di Pietro, Filippo e via dicendo. Né mancavano in questo calderone Atti di Pietro, Atti di Paolo, Atti di Pietro e Paolo insieme, e poi di Andrea, di Giovanni, di Tommaso. Si può ben comprendere, infine, quanto si fosse potuta sbizzarrire la fantasia degli anonimi nelle lettere, producendo sensazionali quanto improbabili corrispondenze tra Paolo e il filosofo romano Seneca (otto Epistole di Seneca a Paolo e sei di Paolo a Seneca, in latino) e tra Gesú e Abgar Uchana, indicato nella traduzione greca come «toparca» di Edessa, cioè governatore del luogo, nell’anno 31, poco prima che si compisse la tragedia del Golgota (una Epistola a Gesú da Abgar Uchana e relativa Risposta del Salvatore a mezzo del messaggero Anania, entrambe in siriaco). Erano testi nati per artificio dottrinario ed esaltazione visionaria, sotto l’influenza di movimenti dall’identità incerta, tendenti a suscitare diffidenza e scandalo nella comunità ecclesiastica. Valeva per il Vangelo secondo gli Ebioniti, o Vangelo dei Dodici, palesemente in contrasto con la fede cristiana, per il Vangelo secondo gli Egiziani, d’intento antitrinitario, per il Vangelo di Filippo, decisamente gnostico, e per il Vangelo di Pietro, divulgatore di docetismo, una farneticazione piú magica che re-

ligiosa, per la quale il corpo del Cristo era solo apparente. E di contenuto eretico apparivano a una lettura approfondita testi accreditati come Atti di Pietro, di Andrea, di Giovanni e di Tommaso.

L’abolizione dei Lupercali

In questo repertorio dalla paternità indefinita mise ordine con il suo decreto papa Gelasio, eliminando quanto vi era di incompatibile con l’ortodossia. Incompatibile, al di là di queste controversie dottrinarie, gli parve anche la sopravvivenza di reminiscenze pagane in certe feste popolari. Chiese perciò ad Andromaco, presidente del Senato, l’abolizione dei Lupercali, celebrazione orgiastica e superstiziosa del satiro Luperco, cacciatore di lupi e gran mezzano di accoppiamenti illeciti. E poiché il senatore obiettava che era solo un modo di divertire il popolo, com’era buona regola di governo, Gelasio propose in sostituzione i festeggiamenti della «purificazione di Maria» (2 febbraio), adattandone la cornice al gusto popolare romano. Solennizzò infatti la festa con una spettacolare processione di ceri, donde il nome di Candelaia o Candelora, che riproduceva la fiaccolata in onore della dea Cerere, momento culminante dei Lupercali. Venne cosí tradotta in pratica, per l’insolita elasticità di Gelasio, che era stato uno dei piú meticolosi custodi dell’ortodossia, l’istintiva propensione della nuova classe dirigente a introdurre lo spirito della religione trionfante nelle antiche feste, onde risparmiare al popolo la traumatica soppressione di usanze cui era abituato da secoli. SANTI E RELIQUIE

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Lontani dal mondo

Un’esistenza esemplare, vissuta in luoghi isolati e appartati – magari appollaiati sulla cima di una colonna – ma in comunione con Dio: cosí eremiti, padri (e madri) del deserto divengono modelli universali di santità e rettitudine


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i è un’altra faccia della santità medievale, che sembra contraddire, se non addirittura rigettare, lo spirito comunitario della Chiesa, intensamente sentito dai fedeli e dalle loro guide fin dagli albori della cristianità. È la santità della solitudine, che non conosce dispute dottrinarie né pratiche religiose all’interno di basiliche affollate, ma i grandi spazi del deserto e delle rocce piú impervie, delle caverne scavate nelle pareti scoscese dei monti, dei letti di muschio nell’ombra verde di inaccessibili foreste. È la santità degli eremiti e degli anacoreti, dal cui anelito d’isolamento prenderà paradossalmente vita piú avanti un fenomeno di massa come il monachesimo, destinato a produrre i piú imprevedibili effetti (culturali, economici, politici e sociali) nell’evolversi dell’Occidente cristiano. Una santità che si esprime attraverso il ricorso talvolta morboso a forme d’isolamento cosí estreme da risultare eccentriche, come nel caso degli stiliti e dei dendriti, appollaiati per l’intero arco della propria esistenza sulla cima di una colonna (donde il termine, dal greco stylos) o tra i rami di un albero (déndron). La figura piú emblematica di questi ricercatori

Sulle due pagine Umm ar-Rasas (Giordania). Una delle torri considerate come testimonianza della presenza di monaci stiliti. Nella pagina accanto mosaico raffigurante san Simeone lo Stilita. 1230 circa. Venezia, basilica di S. Marco.


L’ETÀ DEI SANTI

Eremiti e anacoreti

di una emarginazione totale dalla società circostante fu Simeone di Cilicia, uomo capace d’imporsi penitenze tali da spaventare i pur severi monaci dell’eremo nel quale si era ritirato in giovinezza, che lo pregarono di andarsene. Deciso a trovare un percorso per cosí dire privilegiato di comunicazione con Dio, escludendo ogni interferenza umana nella sua pratica religiosa, Simeone si ritirò inmeditazione sul fondo di una cisterna, dove rischiò di soccombere, e poi sulla cima di una colonna, fuori dell’abitato di Antiochia, dove rimase fino alla morte, avvenuta quarant’anni dopo, nel 459. Fu detto per questo lo Stilita e considerato come una sorta di miracolo vivente, data l’obiettiva difficoltà di sopravvivere per tutti quegli anni nell’angusto spazio di un capitello a trenta metri di altezza (tanti ne indica l’agiografia) senza mai discenderne. Lassú, esposto al sole cocente, alle raffiche di vento e alla pioggia, secondo il capriccio delle stagioni, restava in posizione eretta per giorni, con le braccia aperte in croce, come un simulacro vivente dell’ascesi. Si accovacciava ripiegando le ginocchia per dormire sul piano ristretto del capitello, e si nutriva di tanto in tanto del cibo che pietosi devoti gli allungavano su una pertica. È rimarchevole, in questa scelta di solitudine, la varietà delle prospettive da cui Simeone si pose in dialogo con Dio, cercandolo dalle viscere della terra e poi dall’alto di una colonna, ma sempre lontano dal livello al quale materialmente convivono i comuni mortali. Reso cieco dalla sabbia e dal sole, venne onorato negli ultimi anni da turbe di pellegrini, appartenenti alle piú svariate religioni d’Oriente. Gli Arabi tentarono d’impadronirsi delle sue spoglie, all’indomani della morte, costringendo il prefetto di Antiochia ad allontanarli dalla colonna con le armi.

Il tutore delle donne

Imitò la vita di Simeone, facendo di un capitello il proprio alloggio, l’eremita Daniele di Costantinopoli, della generazione immediatamente successiva. Visse fino al 493, infatti, resistendo sulla colonna per trent’anni. Ebbe fama di conoscere i piú intimi segreti della gente, forse a causa di una interpretazione allegorica della posizione privilegiata da cui osservava il mondo, a molti metri d’altezza. Sta di fatto che divenne, dopo la morte, il santo di rife44

SANTI E RELIQUIE

Nella pagina accanto particolare della Tebaide, affresco di Buonamico Buffalmacco che ha come protagonisti vari santi anacoreti. 1336-1341. Pisa, Camposanto. In basso particolare di una miniatura raffigurante sant’Alipio Stilita, dal Menologium Basilii II. XI sec. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Asceta vissuto tra il VI e il VII sec., Alipio si sarebbe ritirato a vivere su una colonna per ben 67 anni.

rimento delle donne in procinto di commettere adulterio, che a lui si rivolgevano pregandolo di allontanare la tentazione. Cosí recita il testo di una preghiera riportata dallo studioso di tradizioni popolari Jacques Veissid nel suo saggio Savoir à quel saint se vouer (1995): «San Daniele Stilita, tu che sei il tutore delle donne i cui mariti sono in guerra o momentaneamente lontani, ti prego di vegliare su di me perché non mi lasci trascinare a commettere azioni che potrebbero dispiacere il mio buon coniuge, se venisse a saperlo. Io voglio restargli fedele. Tieni lontano da me il demonio che vorrebbe farmi cadere nell’adulterio, te ne supplico. Caccialo via, perché non trasformi in peccatrice una sposa profondamente virtuosa che t’invoca». La Chiesa ricorda Simeone il 5 gennaio e Daniele l’11 dicembre, ma pur elogiandone le virtú evita di proporli ai fedeli come esempi da seguire.

Ascetismo estremo

Lo stesso giudizio vale per il dendrita Davide di Tessalonica, uno dei pochi di cui si conosca l’identità e la data della morte, avvenuta nel 535. Si dice che riuscisse ad attraversare una intera foresta senza toccare terra, di ramo in ramo, o che trascorresse intere stagioni in uno stato d’immobilità cosí assoluta da restare avviluppato nei tralci. Al di là delle inevitabili divagazioni leggendarie, fu tra le figure storicamente rappresentative – come gli stiliti – di un ascetismo estremo, alimentato dall’istintiva reazione dei cristiani piú intransigenti all’affievolirsi dell’originario fervore religioso, quale l’avevano espresso le comunità descritte negli Atti degli Apostoli. La durezza di questa radicale scelta di vita, simile per molti versi al bando dei peggiori criminali, costretti a fuggire dalle città per i delitti che vi avevano commesso, non impedí a molte donne di aderirvi, escogitando forme penitenziali spaventose. Le piú irriducibili nel sottrarsi al contatto con il mondo furono due giovani egiziane del V secolo, di nome Alessandra e Maria. La prima si scelse per dimora una tomba, restandovi sepolta per anni. Una fessura di proporzioni modestissime le assicurava l’aria necessaria per sopravvivere e quel po’ di cibo che mani pietose, di tanto in tanto, le passavano. La seconda, di gran lunga piú famosa per la spettacolarità della sua esistenza selvaggia, è la santa venerata il 2 aprile come Maria Egiziaca, che l’agiografia propone come primitivo modello di anacoresi al femminile. Racconta il vescovo di Gerusalemme Sofronio,


Paradossalmente, dall’anelito d’isolamento degli eremiti scaturí un fenomeno di massa quale fu il monachesimo

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L’ETÀ DEI SANTI

Eremiti e anacoreti primo relatore di questa leggenda (VI secolo) poi fatta conoscere in Occidente dallo storico longobardo Paolo Diacono, che Maria fuggí di casa per prostituirsi all’età di dodici anni. Aveva esercitato tale mestiere in quel crogiolo di traffici e di razze che era il porto di Alessandria per un periodo, secondo Sofronio, di diciassette anni. Si era poi imbarcata per spirito di avventura su una nave che trasportava pellegrini in Terra Santa. Del tutto priva di scrupoli o devozione, ne aveva corrotti molti durante il viaggio, privandoli di quei pochi denari che possedevano. Incuriosita infine dalla loro ansia di raggiungere Gerusalemme, aveva continuato a seguirli finché non vi erano giunti. Una volta entrata in città, senza nulla capire di cose religiose, si era mescolata per pura curiosità alla turba che si recava alla chiesa in cui si venerava una reliquia della croce. Ci era andata con lo stesso spirito con cui si va a una festa mondana, animata dalla voglia di conoscere gente nuova, ballare, divertirsi. Una forza invisibile l’aveva però fermata, come trattenuta per un braccio, sulla soglia del tempio, impedendole di varcarla. La tradizione agiografica tramanda che a questo punto Maria fosse stata toccata dal dono della conversione. La forza che la respingeva si sarebbe materializzata in una giovane donna splendente, nella quale lei avrebbe riconosciuto la Vergine di cui le avevano parlato negli anni della sua breve infanzia i genitori, gente pia e di buoni costumi. L’aveva dunque invocata con quella spontaneità che favorisce, il piú delle volte, chi non è avvezzo alla preghiera. Ascoltata la sua implorazione, l’immagine si era dissolta dicendole: «Troverai la tua pace oltre il Giordano». Era sparita, insieme alla Vergine, la forza che l’aveva trattenuta fuori del tempio. Cosí, varcata finalmente la soglia, aveva potuto dirigersi al legno della croce, toccarlo e sentirsi rigenerare da un senso di benessere interiore mai provato fino allora.

Trasfigurata dalla solitudine

Lasciato il santo luogo, Maria era scomparsa per raggiungere il Giordano, varcarlo e trovare la sua pace, come aveva promesso la Vergine, nell’infinita solitudine del deserto. Non se n’era saputo piú niente, fino a quando un monaco di nome Zosimo – quarantasette anni piú tardi – non si era trovato di fronte, nell’attraversare una plaga desolata oltre il Giordano, una figura umana piú simile nell’aspetto a una bestia selvatica che a una persona. Neanche il sesso, a prima vista, era chiaro. 46

SANTI E RELIQUIE


Nella pagina accanto Santa Maria Egiziaca, olio su tela di Iacopo Robusti, detto il Tintoretto. 1582-1587. Venezia, Scuola Grande di San Rocco. In basso la valle del Giordano nel mosaico noto come Mappa di Madaba (Giordania). VI sec.

UNA LEGGENDA DI SUCCESSO Il fascino esercitato sugli artisti da Maria Egiziaca, la particolarissima santa del deserto, ha retto la prova del tempo. Oltre che ai citati poemi di lingua spagnola e provenzale (Vida de Santa Maria Egiptiaca e Vie de Sainte Marie Egyptienne, databili entrambi tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo) la leggenda di Maria la Nera fu pretesto in età moderna per vivaci elaborazioni teatrali, tra le quali acquistarono una speciale notorietà in Spagna La adultera virtuosa di Antonio Mira de Amescua e La gitana de Menfis di

Juan Peres de Montalban, commedie sacre andate in scena nella prima metà del XVII secolo. La medesima storia ispirò in tempi piú recenti a Ottorino Respighi il trittico musicale Maria Egiziaca, su testo di Claudio Guastalla, rappresentato a New York nel 1932. Si tratta di tre episodi, introdotti da due angeli, incentrati sull’esperienza del peccato, sul pentimento e sulla redenzione della santa. Il testo ripropone la medesima metrica delle laudi drammatiche medievali, mentre la musica oscilla tra l’oratorio e il melodramma.

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L’ETÀ DEI SANTI

La Tebaide, tempera su tavola di Paolo Uccello. 1460. Firenze, Galleria dell’Accademia.

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Eremiti e anacoreti

Nelle Vite de’ Santi Padri il frate Domenico Cavalca (1270-1342) la descrive come «una persona nuda, col corpo nero e secco per lo sole, e coi capelli sbiancati come lana». Cavalca è un narratore pietoso e fiabesco, capace di uno straordinario verismo nel mescolare ascesi e passione, ingenuità e follia. Dà giusto risalto al personaggio di Zosimo, usandolo con abile tecnica agiografica come espediente narrativo. Ne fa il

testimone essenziale, che raccoglie per viva voce il racconto della protagonista, folgorato da una santità di cui ha piena e improvvisa intuizione. Zosimo ascolta in ginocchio le parole di Maria, poi soddisfa la sua richiesta di ricevere l’eucarestia. Si separano sulle rive del Giordano, donde il monaco ritorna alla sua comunità (di cui è abate, precisa il Cavalca) mentre lei si lascia nuovamente ingoiare dal


QUELLA BALENA CHE SEMBRAVA UN’ISOLA... Vi furono monaci che si ritirarono sui monti, nelle valli e nei deserti assolati. Altri scelsero per la loro solitudine il mare, fondando conventi sulle isole battute dalle tempeste. Diedero vita a questo monachesimo insulare, tra il VI e il VII secolo, gruppi di religiosi irlandesi e britannici, animati in molti casi dalla necessità d’intraprendere le vie del mare per portare la propria predicazione in un’Europa devastata dalla barbarie. Percorsero in tal modo il cammino inverso di san Patrizio, venuto dall’Inghilterra a evangelizzare l’Irlanda celtica. Il piú popolare di questi naviganti della fede fu san Colombano, che dopo essersi spostato di isola in isola, fondando piú monasteri, approdò in Gallia e da lí raggiunse l’Italia, dove fu dapprima consigliere dei re longobardi e poi perseguitato per essersi opposto all’arianesimo. Fu per l’iniziativa di questi avventurosi monaci irlandesi che si diffuse anche sulle coste della Normandia e nel Mediterraneo il culto di una solitudine protetta dalle mareggiate, odorosa di salsedine, feconda di leggende. Ne scaturirono racconti favolosi, che parvero resuscitare antichi miti marini. Fu popolare intorno all’anno Mille, e ripresa da svariati cronisti come autentica, la leggenda di san Brandano, che navigando con i suoi monaci scambiò per isola una balena addormentata, vi approdò e vi s’insediò come fosse terraferma. Il grande cetaceo, al risveglio, trasportò miracolosamente i frati sulle onde, conducendoli verso coste sicure. Ne parla nelle sue Storie Rodolfo il Glabro, monaco borgognone vissuto tra il 985 e il 1049 circa, cosí chiamato per una malattia che lo rendeva privo di peli e di capelli, conferendogli un aspetto insolito (ritenuto malaugurante) tra uomini di folta capigliatura e barba incolta. Il suo racconto è un prezioso documento sul modo in cui l’attonita umanità medievale – a cominciare dai principi, fino all’ultimo villano – vedeva il mondo: un mondo nel quale piovevano pietre dal cielo, i santi scendevano in campo accanto agli eserciti, balene immense affioravano dagli abissi marini, eclissi e stelle cadenti suscitavano insensate paure nella popolazione di ogni ceto.

A destra miniatura raffigurante san Brandano di Clonfert e i suoi compagni che approdano sull’isola di Jasconio, che, in realtà è una balena di enormi dimensioni. IX sec. Augsburg, Bibliotheca Augustana. Il santo fu un abate irlandese vissuto nel VI sec. Le sue avventure in mare, alla ricerca del Paradiso Terrestre, sono narrate nella Navigatio sancti Brendani, scritta da un anonimo. deserto. Prima di accomiatarsi, Maria gli chiede di tornare a darle la comunione un anno dopo. Zosimo obbedisce. Si incontrano nuovamente sul sacro fiume del battesimo di Cristo, che si apre al passaggio della donna, consentendole di attraversarlo senza bagnarsi i piedi. Ancora una volta lei prende l’eucarestia dalle mani di Zosimo, ma è l’ultima. Un anno dopo, quando si ripresenta puntuale SANTI E RELIQUIE

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L’ETÀ DEI SANTI

Eremiti e anacoreti

ANTONIO, TAUMATURGO E... ANIMALISTA Sant’Antonio Abate è invocato per la salute del corpo, data la sua lonevità, con particolare riguardo alle malattie della pelle. Gli viene rionosciuto dai devoti uno speciale potere nella guarigione di bruciori epidermici, dell’erisipela e soprattutto dello herpes zoster, una dolorosa affezione cutanea, nota per questo come «fuoco di Sant’Antonio». Inizia con questi rustici versi una litania che glorifica in tutta ingenuità i suoi poteri taumaturgici: «Se la pelle ci prude, brucia e dà tormento, / solo Sant’Antonio può darci lenimento. / Contro il fuoco del corpo è intercessore / che caccia il prurito e calma il dolore. / Se Dio vuole la grazia gli è accordata / e dell’erisipela ogni traccia è cancellata...». Si dice che lo scongiuro abbia un’efficacia speciale se recitato il 17 gennaio, giorno consacrato alla memoria liturgica di questo grande Padre del deserto. A sant’Antonio viene anche affidata la protezione del bestiame domestico, ed è per questo raffigurato in compagnia di un porcellino. Pare che la consuetudine di mettergli accanto questo roseo compagno di strada risalga al XII secolo, quando per ragioni sanitarie venne interdetta la libera circolazione dei maiali nella città di Parigi. Fu fatta eccezione per quelli allevati nell’ospedale Saint-Antoine, che poterono continuare a circolare nelle viuzze adiacenti l’istituto, come avevano sempre fatto, nutrendosi dei rifiuti che all’epoca sovrabbondavano nei centri abitati. È comprensibile, data la popolarità del santo, divenuto nel frattempo Antonio il Grande, che i Parigini attribuissero a una sua benevola intercessione il riguardo avuto dalle autorità per i suini di quell’ospedale, che non a caso portava il suo nome.

A destra Sant’Antonio Abate, olio su tela di Francisco Zurbarán. 1640 circa. Firenze, Galleria degli Uffizi. Nella pagina accanto Le tentazioni di Sant’Antonio, olio su tavola attribuito a un seguace di Hieronymus Bosch. 1550-1560. Madrid, Museo del Prado. sul Giordano, Zosimo trova il corpo di Maria essiccato senza vita nella sabbia. Lo benedice prima di seppellirlo, e la storia si arricchisce a questo punto di nuovi elementi fiabeschi, densi di significato simbolico. Un leone agli ordini di Zosimo scava con i suoi artigli la fossa per Maria. È la leggenda dell’uno che s’intreccia con quella dell’altra. Si racconta infatti che Zosimo nei suoi spostamenti si facesse portare il bagaglio da un asino, e che un giorno l’animale venisse divorato da un feroce leone. La belva era sul punto di aggredire anche il santo, quando questi l’ammansí con un misterioso gesto della mano e le mise i finimenti dell’asino, caricandola del proprio bagaglio e montandole in groppa. Cosí proseguendo, a dorso di leone, 50

SANTI E RELIQUIE

Zosimo attraversò il deserto. È chiaro che al medesimo animale si riferisca l’agiografo nella sua esuberante narrazione della vita di Maria Egiziaca, detta anche la Nera per il colore assunto dalla sua pelle dopo mezzo secolo circa nel deserto.

Un’allegoria facilmente decifrabile

Conferisce credibilità alla leggenda – lasciando intravedere un fondamento storico reale – il fatto che appaiano in piú versioni, anche poetiche, i medesimi dettagli. Rimarchevoli in tal senso sono i poemi Vida de Santa Maria Egiptiaca, spagnolo, e Vie de Sainte Morie Egyptienne, provenzale, attribuito a Roberto Grossatesta, entrambi collocabili tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo. I due testi sono cosí simili tra loro da far pensare che l’uno possa essere la traduzione dell’altro. Anche Maria Egiziaca non è, come lo stilita Simeone, tra i modelli piú congeniali all’etica cristiana. L’iconografia medievale la raffigura ricoperta di lunghi e ispidi capelli che le scendono fin sulle gambe, celandone solo in parte la nudità. Una pia donna, riconoscibile come santa dall’aureola, le porge delle vesti per coprirsi, che però lei rifiuta. L’allegoria è facilmente decifrabile. La Chiesa l’avrebbe preferita vestita. Una figura piú significativa di quanto non appaia a prima vista è invece quella di Zosimo, la cui collocazione nello scenario desolato dei primi anacoreti anticipa una nuova concezione eremitica, propria di quegli asceti che tesero a stemperare la loro solitudine nel rapporto comunitario con altri confratelli. Rappresenta, in altre parole, il cenobita, un aspetto che lo stesso Cavalca tiene a sottolineare nel suo affresco agiografico, qualificandolo come abate di una indefinita comunità religiosa. Del resto, è proprio in Egitto, Siria e Palestina, che nasce il monaco cristiano, generato dalla solitudine degli originari Padri del deserto. Dal fatto che questi eremiti cominciassero in seguito a formare piccoli gruppi, scavandosi caverne anche contigue sulle pendici di un medesimo monte o attrezzando comuni luoghi di preghiera, derivò il cenobio, modello delle grandi abbazie occidentali. Da qui ebbe origine quel fenomeno di ineguagliabile portata che fu il monachesimo. Da qui si capisce l’estrema popolarità di cui godettero, per l’intero arco dell’età medievale, i Padri del deserto, venerati come progenitori spirituali di una san-


SANTI E RELIQUIE

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L’ETÀ DEI SANTI

Eremiti e anacoreti DALLA LICIA ALLA FINLANDIA È davvero singolare che la leggenda di Babbo Natale, cosí popolare nei Paesi scandinavi, abbia avuto origine in Asia Minore. Tutto cominciò il 9 maggio del 1087, quando un manipolo di marinai baresi portò in patria le spoglie di san Nicola, che era stato vescovo di Mira, dopo averle strappate ai Turchi con un audace colpo di mano. L’eco dell’impresa, compiuta alla vigilia della prima crociata, si sparse nell’intera cristianità, attirando curiosità e attenzione su questo santo vissuto in Licia all’epoca dell’imperatore Costantino. Si seppe cosí che molte sue azioni erano state rivolte a realizzare la felicità dei bambini, proteggendoli da ogni male o rallegrando la loro esistenza con doni inattesi. Gli venne attribuito il merito di avere salvato dalla prostituzione tre adolescenti poverissime introducendo nella loro casa nottetempo dei globi d’oro, in modo da costituire una dote

Miracolo delle navi granarie (in alto) e San Nicola resuscita un fanciullo, scene dalle Storie di San Nicola dipinte da Ambrogio Lorenzetti. Tempera su tavola, 1330-1335 circa. Firenze, Galleria degli Uffizi.

tità del tutto speciale, scaturita dall’aspirazione a un dialogo diretto con Dio. Furono modelli originari e assoluti di questa santità dall’espressione duplice dell’isolamento e della vita comunitaria sant’Antonio Abate in Oriente, l’eremita per eccellenza, e san Benedetto in Occidente, il cenobita. Potrà sembrare contraddittorio che il prototipo dell’eremita cristiano, modello della piú radicale scelta di solitudine, sia registrato nella nomenclatura liturgica come sant’Antonio Abate, cioè qualificato con un termine che per sua natura indica una condizione opposta a quella del monaco solitario, dato che per abate o priore s’intende colui che dirige una comunità religiosa, quindi un maestro cenobita.

Patriarca di tutti gli eremiti

Non si tratta tuttavia di una svista o di una improprietà di linguaggio, come spesso se ne incontrano in una materia cosí evanescente, sospesa tra storia e idealità. Antonio è chiamato Abate a ragion veduta, in quanto patriarca di tutti gli eremiti. È il «fondatore dell’ascetismo», come lo definisce sant’Atanasio di Alessandria nella sua storica biografia, e perciò «abate» dei Padri del deserto. Non è il priore di una comunità, ma di una idea, che a partire dal IV secolo provocò una immensa fioritura di solitari devoti, dediti al sacrificio e alla contemplazione in celle anguste, scavate nella sabbia e nella pietra. Di questi rifugi talmente selvaggi da confonder52

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che consentisse loro di sposarsi onorevolmente. Si disse anche che avesse evitato a molti bambini di diventare orfani, salvando i genitori da ingiuste esecuzioni. Si favoleggiò di tre ragazzi riportati in vita dopo essere stati sgozzati da una specie di orco, che era in effetti un macellaio dedito al commercio di carne umana. Acquistò perciò fama di protettore dell’infanzia, oltre che dei marinai, cui andava il merito di averne recuperato il corpo, oggi conservato nella cattedrale di Bari. La Russia ortodossa lo elesse a proprio patrono, e ciò valse a renderlo popolare in Finlandia e altre contrade nordiche, dove divenne il Santa Claus (volgarizzazione di Sanctus Nicolaus) della leggenda natalizia. Del tutto laicizzato nel mondo scandinavo e anglosassone, non risentí i colpi della riforma luterana, conservando tra i protestanti la sua fama gentile di grande benefattore dei bambini.

si con la natura circostante scrive Atanasio che «somigliavano a templi nei quali salmodiavano in perpetuo i cori angelici». E di angeli, nei suoi ottant’anni di vita eremitica, Antonio dovette incontrarne molti. Come incontrò molti demoni, a quanto l’agiografia tramanda. Le tentazioni alle quali fu esposto fin da prima d’intraprendere la vita eremitica – e in modo ancor piú assillante nella solitudine del deserto – costituiscono un elemento essenziale dell’immagine che si è tramandata di lui, e che non a caso ha ispirato artisti in ogni tempo. Atanasio materializza tali tentazioni, nella sua Vita di Sant’Antonio, descrivendo i demoni che ne sono portatori, e che assumono le piú terrificanti sembianze, il piú delle volte di bestia. La tradizione vuole che per resistere a queste infernali provocazioni il santo sottoponesse il proprio corpo alle violenze piú inaudite, flagellandosi, ustionandosi e rotolandosi nei rovi. Il che rientrava d’altronde nei comportamenti abituali di molti asceti, che solevano ricorrere a tali tormenti per necessità piú che per vano spirito di sacrificio, ritenendo che non vi fosse altra medicina in grado di arginare quel malessere insostenibile che la solitudine di per se stessa generava nelle piú abominevoli forme. Il ritiro di Antonio dalla città natale di Keman al deserto fu graduale, preceduto da un intenso periodo d’istruzione spirituale, per il quale si affidò alla guida di esperti anacoreti. Apprese in questo modo le tecniche dell’ascesi, che

Elemosina di San Nicola, tempera su tavola di Paolo Veneziano. 1340-1347 circa. Firenze, Galleria degli Uffizi. Il dipinto illustra uno dei miracoli piú noti del vescovo di Mira: il dono di alcuni pezzi d’oro alle figlie di un uomo caduto in povertà che, non riuscendo a maritare le ragazze senza la dote necessaria, aveva deciso di farle prostituire. Il futuro santo, in abiti sacerdotali, è raffigurato mentre getta tre sfere d’oro dalla finestra, di nascosto, per non avere riconoscimenti e gratitudine nel mondo terreno.

gli furono essenziali nella sua lotta contro il male. Prese quindi la decisione di liberarsi di tutto ciò che possedeva – non poco, essendo figlio di contadini agiati – e lasciò per sempre la casa in cui era nato.

Sempre piú lontano

I suoi spostamenti furono commisurati alla sua crescita interiore. Non fu frettoloso, non fu ansioso di raggiungere la sua meta di perfezione. Si stabilí dapprima nel loculo di una necropoli, poi tra i ruderi di una fortezza isolata, quindi piú lontano, nel deserto montagnoso del Pispir. Crescendo la sua fama, venne raggiunto da eremiti che scavarono le loro celle nella valle del Nilo, a breve distanza dal suo rifugio. Non lesinò loro insegnamenti, ma il suo bisogno di solitudine lo spinse allora piú lontano, verso la cima di un monte sovrastante il Mar Rosso, dove in seguito sarebbe sorto il monastero di Deir el-Arab. Tornò episodicamente nel consesso civile, per venire in aiuto del vescovo Atanasio di AlessanSANTI E RELIQUIE

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L’ETÀ DEI SANTI

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SANTI E RELIQUIE

Eremiti e anacoreti


Eremita in preghiera, olio su tela di Jean Lemaire. 1637-1638. Madrid, Museo del Prado. dria, fervido cronista della sua esperienza monastica, impegnato in una lotta senza esclusione di colpi contro l’eresia di Ario. Una lotta la cui asprezza si evince dal fatto che per sconfessare Atanasio i vescovi ariani giungessero ad accusarlo di avere sedotto una donna e fatto assassinare Arsenio, patriarca di Ipsala. Entrambe le accuse caddero, nonostante l’esibizione di falsi testimoni, ma ciò rende un’idea della tensione avvelenata che caratterizzava queste divergenze ideologiche, prodromi di sanguinosi scontri e persecuzioni nei secoli a venire. Per il ruolo avuto in tali dispute Atanasio è tra i santi che avrebbero assunto in età medievale un prestigio del tutto speciale, commisurato al coraggio dimostrato in difesa dell’ortodossia contro avversari resi forti dai colpi di coda della decaduta paganità romana. Contro questi colpi di coda si batté coraggiosamente anche Antonio, prima di tornare definitivamente nel deserto, soccorrendo ad Alessandria i correligionari perseguitati dall’imperatore Daia Massimino, uomo dall’equilibrio instabile, aggravato da una ubriachezza cosí persistente da indurlo a non fidarsi di se stesso. Tanto da ordinare ai collaboratori piú stretti di non eseguire i suoi ordini – per lo stato di confusione mentale in cui venivano impartiti – fino al giorno dopo.

A cavallo fra due epoche

Era questo il clima deteriore della civiltà cui Antonio si era voluto sottrarre, alla quale poi era tornato per soccorrere un amico e l’intera comunità cristiana contro le violenze di nuovi e antichi nemici, eretici o pagani che fossero. Vi si sottrasse ancora una volta, definitivamente, una volta ristabilito il primato della verità in cui credeva, tornando a ritirarsi nel suo sperduto eremo sul Mar Rosso. Lí morí, nella solitudine che tanto gli era cara, nel 306, a piú di cent’anni di età (106, a quanto pare). Morí al tramonto di un’era e agli albori di un’altra, nel pieno del trapasso dall’ormai disgregata romanità imperiale alla nascente cristianità medievale, che l’avrebbe posto tra i santi piú venerati per la loro prodigalità di grazie. Del suo amore per la solitudine v’è testimonianza in una massima che gli viene attribuita per tradizione popolare: «Chi è solo nel deserto ha vinto tre battaglie: quella dell’udito, quella della vista, quella della voce. Gliene rimane da vincere una sola: quella del cuore». SANTI E RELIQUIE

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Con la croce e con l’aratro Il progetto di santità elaborato da Benedetto esercita la sua influenza su una comunità sempre piú vasta di discepoli e seguaci: uomini e donne che alla ricerca della comunione con Dio affiancano un’esistenza laboriosa e pienamente inserita nella società

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u basi del tutto diverse da quelle su cui si era fondato l’originario monachesimo dei Padri del deserto, intessuto di visioni scaturite dalla solitudine, si sviluppò il grande movimento dei monaci occidentali, teso a produrre tangibili effetti nella società circostante. Dell’ampiezza e varietà di tali effetti rende un’idea l’opera di Benedetto da Norcia, che attraverso il lavoro svolto da comunità numerose di frati esercitò una influenza attiva sulla cultura, sull’architettura, sull’agricoltura e il progresso economico di intere regioni. Dotati di laboratori di scrittura e di botteghe artigianali, allevamenti e pertinenze agricole, oltre che di una loro personalità giuridica, i grandi monasteri divennero centri per il recupero di quanto aveva prodotto la civiltà classica in materia di letteratura, filosofia, ricerca storica e scienza. Migliaia di testi, destinati altrimenti al macero del tempo, vennero trascritti dagli amanuensi degli scriptoria, com’erano chiamate queste officine della conoscenza, e cosí trasmessi alle generazioni future. Ne fanno fede i reperti e i documenti conservati negli archivi benedettini e le biblioteche straripanti di preziosi codici miniati, libri d’ore, incunaboli. Furono inoltre attivati meccanismi di produzione artigianale, che incrementarono i commerci tra borghi, mercati e fiere, mentre venivano nel contempo sperimentati nuovi piú razionali si-

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stemi di coltivazione nelle campagne gestite dalla comunità. Andò infine perfezionandosi un’architettura funzionale all’abbazia, comprensiva di spazi dedicati al culto e altri al lavoro, alle attività intellettuali e all’elaborazione artistica di soggetti sacri. Trovava cosí riscontro pratico il progetto di santità elaborato da san Benedetto, che all’ascesi dell’anacoreta contrapponeva una molteplicità di nuovi impegni, anche civili, tesi a coniugare la preghiera e il lavoro in un imperativo (ora et labora) che è perfetta sintesi di devozione. È per questo che lo stemma prescelto da Benedetto per l’Ordine monastico che da lui prese nome – oggi scolpito e affrescato su innumerevoli abbazie – raffigura una croce e un aratro, emblemi di ciò che serviva alla società occidentale, in un momento di estrema crisi, per rinascere. Per comprenderlo, Benedetto non si affidò all’illuminazione mistica ma allo studio, sia pure ispirato da un genere di meditazione che per altri aspetti riproduceva le attese dei predecessori orientali. Non ebbe difficoltà, essendo nato in seno a una nobile famiglia (a NorBenedetto immerge il manico della scure nell’acqua e la lama miracolosamente torna a posto, scena dal ciclo delle Storie di San Benedetto affrescato da Spinello Aretino nella basilica di S. Miniato al Monte, a Firenze. 1386-1390.


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L’ETÀ DEI SANTI

L’avvento del monachesimo

cia, verso il 480), a recarsi a Roma per una degna istruzione giovanile. Indegna era però la città, ormai abbrutita da un decadimento giunto alle estreme conseguenze: Benedetto ne fu nauseato e nel giro di qualche anno l’abbandonò per completare altrove la sua formazione. Scelse dapprima il piccolo paese d’Affile, tra i monti Simbruini, dove già si erano insediati molti eremiti. Ebbe lassú le prime esperienze d’isolamento ascetico, che perfezionò di lí a poco, ritirandosi per qualche tempo in una cavità scavata nella roccia, presso Subiaco.

Un ingenuo spirito di carità

Benedetto verificò presumibilmente in quel periodo un rapporto piú diretto ed esclusivo con la divinità, attraversando quegli stati di coscienza che si connotano nel loro insieme come preludio all’estasi. Acquistò fama di santità, ben presto, per la vita austera che conduceva e per i consigli 58

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che era in grado di dispensare alla semplice gente del luogo grazie al suo vasto sapere. Gli vennero attribuiti i primi miracoli, mai clamorosi, ma piuttosto dettati da un ingenuo spirito di carità, come quando ricompose con la preghiera un’anfora ridotta in frantumi. Lo fece, secondo fonti leggendarie, perché impietosito dal pianto della donna che aveva provocato il danno, la quale non era neanche proprietaria del vaso ma l’aveva chiesto in prestito. Si può capire il significato profondo del miracolo se si considera il valore simbolico che l’anfora o la giara rivestono in tutte le tradizioni popolari, come contenitori di fortuna ed emblematici tesori spirituali. L’idea stessa di Provvidenza, nell’antica iconografia cristiana, è rappresentata da un vaso, la cui rottura è premonizione di sfortuna. Per la sua reputazione di santità e per il contatto che aveva sempre mantenuto con il consesso civile, anche all’epoca dell’esperienza eremitica, Benedetto

In alto veduta d’insieme del Monastero di S. Benedetto-Sacro Speco di Subiaco (Roma). Nella pagina accanto, in alto Vicovaro (Roma). Gli eremi di S. Benedetto, situati sulla parete rocciosa, a picco sul fiume Aniene. Nella pagina accanto, in basso il Sacro Speco (noto anche come Grotta della Preghiera), il luogo piú santo del complesso sublacense: si tratta infatti dell’anfratto roccioso nel quale Benedetto visse come eremita per tre anni.


venne chiamato a dirigere il monastero di Vicovaro, nei pressi dell’Aniene. Accettò, animato da quello spirito di servizio che era tra i tratti piú salienti della sua vocazione, ma dovette fuggirne dopo che i monaci avevano tentato di avvelenarlo, non sopportando la durezza della sua disciplina. Il che serve a dimostrare come il monachesimo si stesse già espandendo, in misura tale da far confluire nel proprio grembo gente d’ogni risma. Come in genere accade quando un fenomeno elitario diventa di massa. Fuggendo dai costumi deteriorati della società ecclesiastica – in crisi al pari di quella civile – Benedetto realizzò il capolavoro della sua vita fondando sul monte sovrastante la città di Cassino un’abbazia che potesse perfettamente corrispondere alle necessità del suo modello monastico, attivo e contemplativo al tempo stesso. Abbatté, per poterla edificare, i resti di un’acropoli pagana, che dall’alto di quella cima aveva in passato dominato la regione. Usò le pietre dei templi come materiale da costruzione, consacrandole con la volontà di progresso che la sua visione del mondo esprimeva.

Gregorio Magno compie l’opera

Diede a questa visione una Regola, redigendola tra le mura ancora incompiute della sua abbazia di Montecassino, dove nel 547 morí, appagato dalla realizzazione del suo sogno. Celebrò questo sogno di lí a breve il papa Gregorio Magno, agiografo d’eccezione per dottrina teologica e acume politico, nei suoi Dialoghi sulla vita e sui miracoli dei Padri italici, scritti tra il 593 e il 594. Ciò che contraddistingue l’opera, rispetto allo stile abituale della letteratura sui santi, è l’intento diplomatico e civile di diffondere un modello d’interesse vitale per la propagazione della fede in un momento nel quale c’erano molte regioni da evangelizzare. Intento che trova conferma storica nella linea adottata in tal senso da papa Gregorio, tendente a servirsi di monaci educati alla maniera benedettina (e agostiniana) per attività missionarie in terre lontane. Del che diede prova affidando il compito di catechizzare i pagani anglosassoni di Gran Bretagna a quaranta frati benedettini del monastero romano del Celio guidati da sant’Agostino di Canterbury. Oltre a un’analisi circostanziata degli elementi che inducevano le gerarchie ecclesiastiche a privilegiare l’opzione monastica rispetto ad altri stili di vita religiosa, il capitolo dedicato da Gregorio I all’idea benedettina propone ampi SANTI E RELIQUIE

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squarci biografici sulla figura del santo e di sua sorella Scolastica, protagonista non secondaria dell’impresa di Montecassino. Ne deriva una chiarificazione preziosa, anche se d’interesse piú agiografico che storico, degli elementi psicologici e caratteriali che contribuivano a contrassegnare in modo quasi speculare certe grandi esperienze mistiche, coinvolgendo uomini e

donne di straordinaria sensibilità – ed eccezionalmente legati tra loro, come Chiara e Francesco – in un identico appassionato disegno. Esemplare al fine di focalizzare questo aspetto umanissimo della realtà monastica è la descrizione dell’ultimo colloquio di Benedetto e Scolastica dopo avere cenato insieme, come avveniva una volta all’anno, in una casa sita a mezza strada tra i loro due monasteri di Montecassino e della valle del Liri. Da tempo, infatti, Scolastica si era votata alla Regola del fratello, fondando un proprio convento in una località poco distante, poeticamente battezzata per la presenza di quelle bianche suore Palumbariola (oggi Piumarola), o «casa delle colombe». 60

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Sulle due pagine la scalinata dell’abbazia di Montecassino (Frosinone), fondata nel 529 da Benedetto da Norcia. A sinistra statua di san Benedetto realizzata da Paolo Campi. 1736. Montecassino, Abbazia. L’opera scampò, miracolosamente, ai bombardamenti del 1944.

Quell’ultima volta che si videro, racconta Gregorio, parlarono cosí a lungo da far sí che l’ora s’inoltrasse, senza che se ne avvedessero, verso il cuore della notte. Disse Scolastica, non appena se ne accorse, forse prevedendo che non si sarebbero piú rivisti: «Pregoti oggimai di non partire, acciò che tutta la notte ce ne stiamo insieme a parlare della felicità celeste che ci aspetta». Replicò sorpreso Benedetto, secondo quanto Gregorio riferisce con accenti per il suo tempo modernissimi: «Che dici mai, suora mia? Non sai ch’io non posso né mi si conviene di restare fuori del monasterio di notte?». Scolastica allora «congiunse le dita di ciascuna mano e pose le mani in su la mensa, e il capo


inchinò in su le mani ponendosi in orazione». Restò cosí per un poco, in silenzio, e «non appena levò il capo da l’orazione, pur essendo l’aere fino allora chiarissimo e non turbato, venne giú tanta piova e baleni e tuoni e tempesta che né Benedetto né i monaci che l’accompagnavano ebbero l’ardire di mettere lo piè fuori dell’uscio della casa in cui erano». Rendendosi conto di quanto aveva provocato la sorella con la sua preghiera, Benedetto prese a rimproverarla. «Dio ti perdoni, suora mia», diceva. «Ti rendi conto di quello che tu hai fatto?». «Sí», rispose pronta Scolastica. «Io ti pregai e non mi volesti esaudire. Pregai lo Signore ed eccomi esaudita. Vattene adesso, se tu puoi, e tornatene a lo

monasterio». In questo modo Benedetto fu costretto a restare fino al mattino in quella casa dove s’incontrava una volta l’anno con la sorella, divenuta in seguito luogo di culto. Scolastica morí tre giorni dopo, e Benedetto che era in meditazione sulla piú alta torre di Montecassino vide la sua anima ascendere al cielo «con ali di colomba». Scese allora con i suoi monaci a valle per prenderne la spoglia e deporla nel sepolcro che aveva predisposto nell’abbazia per se stesso. Dispose di esservi sepolto a sua volta, non appena sentí la morte avvicinarsi, perché i loro corpi restassero congiunti per sempre. «Come lo erano state le menti», conclude Gregorio Magno il suo racconto.

A Paolo Campi si doveva anche l’originale di questa statua di santa Scolastica, distrutto il 15 febbraio 1944 dai bombardamenti che colpirono l’abbazia di Montecassino. L’opera oggi ricollocata ai piedi della scalinata ne è una replica fedele.

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L’avvento del monachesimo

VADE RETRO, SATANA! A san Benedetto si attribuisce uno speciale potere contro le arti del demonio. Viene per questo invocato dagli esorcisti nei casi di possessione, ma piú che cacciare i diavoli egli preferisce prevenirne gli assalti. È diffusa tra i suoi devoti l’abitudine di portare al collo una medaglia con incise le lettere VRSNSMV e SMQLIVB, che rispettivamente significano «Vade retro satana numquam suade mihi vana» («Va’ indietro satana, mai mi convincerai con cose vane») e «Sunt mala quae libas ipse venena bibas» («Sono cose cattive quelle che vuoi farmi bere, bevilo tu stesso il tuo veleno»). Al culto di san Benedetto è associata sua sorella Scolastica, in calendario il 10 febbraio, stranamente invocata – con minore risonanza ma con eguale fiducia – contro l’insonnia. Probabilmente a causa del desiderio attribuitole dall’agiografia gregoriana di starsene sveglia per una notte intera in compagnia del fratello, con il quale conversare dell’infinita gioia ultraterrena.

Si deve convenire, al di fuori di qualsivoglia riserva laica o religiosa, che senza Benedetto la storia della civiltà occidentale avrebbe avuto un’evoluzione diversa, sicuramente piú lenta nel superare la crisi determinata dal crollo dell’impero romano. È evidentemente per questo che la Chiesa ritenne opportuno in tempi piú recenti (nel 1947, all’indomani di un conflitto che aveva resuscitato repellenti fantasmi di barbarie) proclamarlo santo patrono d’Europa. Sorse il dubbio se inserire il suo nome in calendario alla data dell’11 luglio o del 21 marzo, essendoci divergenze sul giorno del «transito», com’è chiamata la morte dei santi. Si scelse l’11 luglio perché lontano dalla Quaresima, onde poterlo festeggiare con la solennità e l’allegria che la sua fama europea richiedeva. Alla Regola benedettina si ispirarono molti altri Ordini monastici, tra i quali vale ricordare per la loro portata storica i Camaldolesi e i Vallombro62

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In alto Benedetto corregge il monaco dissipato, scena dal ciclo delle Storie della vita di San Benedetto affrescato nel Chiostro degli Aranci della Badia Fiorentina. 1436-1439. Nella pagina accanto Ultimo colloquio di San Benedetto e Santa Scolastica, affresco attribuito a maestri umbro-marchigiani degli inizi del XV sec. Subiaco, Monastero di S. Benedetto, Chiesa Superiore.

sani in Toscana, i Cluniacensi e i Cistercensi in Francia. È significativo che ciascuno prenda nome da una grande abbazia madre, poiché dimostra il peso istituzionale assunto da questi centri comunitari che si distinguevano per autonomia e autosufficienza, raggiungendo con le loro pertinenze le dimensioni (e il bilancio economico) di un feudo.

Le declinazioni di un modello

Cluny è la massima espressione architettonica del monachesimo colto e magniloquente, ripresa e imitata in Spagna (a Santiago di Compostella), in Olanda (Aversa), in Italia (Cava de’ Tirreni e Siena) e naturalmente in Francia (Autun e Moissac). Contraltare di Cluny fu l’abbazia cistercense di Chiaravalle (Clairvaux, fondata da san Bernardo nel 1115) con la sua spoglia austerità, tipica di un monachesimo che, pur coltivando le medesime idealità benedettine, privilegiava i valori della contemplazione e del lavoro rispetto alle attività intellettuali, nelle quali eccellevano per la magnificenza delle loro biblioteche i Cluniacensi. La disputa che ne derivò fu accesa e ridondante per la statura dei protagonisti (a san Bernardo, abate di Chiaravalle, si contrapponeva la mistica figura di Pietro il Venerabile, abate di Cluny) e per l’entità di ciò che rappresentavano tra i monaci d’Occidente le loro rispettive abbazie. Se Cluny era un modello culturale, Chiaravalle era l’abbazia delle abbazie. Basti pensare che aveva sotto la propria giurisdizione altri ottanta monasteri, pur restando a sua volta dipendente dalla casa originaria di Oteaux (Cistercium), dove l’Ordine era nato. Ma questo contrasto intorno allo stile da seguire nel percorrere le vie dell’ascesi non fu di certo, nonostante il clamore suscitato e il tempo per cui si protrasse, la battaglia piú significativa tra le tante che ebbero per protagonista Bernardo, chiamato da papi e vescovi a sostenere, per la sua dottrina, le piú spinose controversie. Ebbe ragione della dialettica razionalista di Abelardo, che sconfisse nel 1140 con la sua filosofia cristologica, e dell’impeto rivoluzionario di Arnaldo da Brescia, che aveva scacciato il papa Eugenio III da Roma. Indusse inoltre le gerarchie ecclesiastiche ad accettare la dibattuta figura del monaco guerriero, affacciatasi all’orizzonte delle crociate con la nascita dei grandi Ordini cavallereschi, originariamente concepiti per la protezione dei pellegrini e presto divenuti forza d’urto della cristianità in Terra Santa. Decisiva in tal senso fu la passione con cui Bernardo patrocinò l’ideologia di una «nuova mili-


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L’ETÀ DEI SANTI

In alto miniatura raffigurante papa Urbano II che consacra l’altare maggiore dell’abbazia di Cluny, da una raccolta di manoscritti liturgici e storici. Post 1189. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Nella pagina accanto uno scorcio dell’abbazia benedettina di Cluny. Fondata nel 910 per volere di Guglielmo il Pio, duca d’Aquitania, raggiunse l’apice della sua potenza con l’abate Pietro il Venerabile, tra la fine dell’XI e gli inizi del XII sec.

L’avvento del monachesimo

zia», individuandone i presupposti nello spirito pietoso e combattivo dei Cavalieri templari, il cui vessillo bianconero rappresentava la loro duplice natura di uomini dediti alla pace e alla guerra («miti come agnelli nella quiete delle loro dimore», li definisce Bernardo nella sua Lode della nuova milizia, ma «implacabili come lupi nel furore della battaglia»). In quest’ottica, nella certezza che all’Ordine del Tempio spettasse il compito di restituire alla cavalleria l’antica purezza, Bernardo ne sostenne la causa al Concilio di Troyes (1128) riuscendo a fargli ottenere il riconoscimento da papa Onorio II. Quanto fosse importante questa formalità – e quali privilegi ne derivassero – lo si evince dal fatto che nella società medievale l’idea di associazione religiosa o cavalleresca (ordo) sottintendeva per sua natura il perseguimento di un fine sociale, d’interesse pubblico, e perciò regolato a chiare lettere dall’autorità regia o pontificia.

Ugo e gli otto compagni

Ebbe inizio a questo modo la velata ma intensa influenza cistercense sui Templari, espressa in maniera profonda dalla Regola che per essi dettò personalmente Bernardo (d’intesa, verosimilmente, con Ugo di Payns, fondatore dell’Ordine insieme ad altri otto leggendari compagni), affermando il principio che la loro esistenza dovesse uniformarsi a quella dei monaci piú severi con se stessi. In pratica ciò significava che questi nuovi cavalieri non dovessero possedere «nulla di proprio, nemmeno la loro volontà», e coltivare la sola preoccupazione di «armare di 64

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fede lo spirito e di ferro il corpo». Un imperativo cui seppero attenersi, se si deve dare credito a quanto afferma lo stesso Bernardo nella Lode: «Le armi sono il loro solo ornamento e se ne servono con coraggio nei piú gravi pericoli, senza temere il numero né la forza dei barbari», poiché «ripongono ogni loro fiducia nel Dio degli eserciti, combattendo per il quale cercano vittoria sicura o morte santa e onorevole». V’è riscontro di questa vocazione templare a misurarsi con nemici di gran lunga piú numerosi nel nome di Baussant o Beaucent, dato allo stendardo bianconero del Tempio, la cui radice etimologica Vaucent significava in francese arcaico: «Valgo per cento». Tant’è che i Templari di lingua italiana lo chiamavano il Valcento. Compensava però questa spavalderia l’umiltà del motto «Non per la mia gloria, Signore, ma per la tua», nel quale sembrava vibrare l’eco di quella mistica volontà di annientarsi nella divinità che contrassegnava il cammino iniziatico cistercense. L’intimo legame di san Bernardo con una compagnia militare la cui fama evocava fantasmi di sterminio – e che avrebbe chiuso in seguito i suoi giorni in odore di eresia, sia pure schiacciata da un iniquo processo –, non ne scalfisce l’immagine di mistico assertore del primato dell’amore divino su ogni altra forma di energia operante al mondo. Un primato sul quale si fonda, di rimando, il «pieno e incontrastato diritto di Dio ad essere amato dall’uomo» (De diligendo Deo, 1126), per essersi a lui offerto in sacrificio.

Circolarità dell’estasi

Da questo asserto filosofico muove il percorso mistico di Bernardo, che invoca il suo Dio attraverso argomentazioni ragionevoli, talvolta simili a sillogismi. «Nessuno ti può cercare se non ti abbia prima trovato», premette, nel dialogare disinvoltamente con il Creatore, per poi dedurne che allora «tu vuoi essere trovato per essere cercato, essere cercato per essere trovato». Ne deriva una circolarità dell’estasi, che allarga però le sue volute fino ad abbracciare l’infinito: al primo stadio l’amore dell’uomo è rivolto verso se stesso; al secondo verso Dio, ma sempre nel proprio interesse; al terzo verso Dio, indipendentemente da se stesso. Cosí allargandosi, come una spirale, l’amore produce una tale felicità da non potersi percepire in questa vita. È uno stato che Bernardo definisce di «deificazione», e che si sforza di spiegare con esempi di carattere fisico: è «come una goccia d’acqua infusa in molto vino, che prende sapore e colore di vino», o «come ferro arroventato, che diventa somigliantissimo al fuoco» o anche «come l’aria pervasa dal


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L’ETÀ DEI SANTI

L’avvento del monachesimo

CASTE, MA IN ODORE D’ERESIA Sorsero nella seconda metà del XIl secolo, in Belgio, comunità di donne devote che, pur senza prendere i voti si dedicarono alla vita contemplativa in castità e povertà. Erano in prevalenza vedove di crociati, ma presto si unirono a esse donne d’ogni condizione, guardate con sospetto dalle autorità ecclesiastiche per certi loro eccessi mistici fondati sulla presunzione di poter realizzare una perfetta fusione con Dio. Il fondatore della prima comunità (a Liegi 1170) era un frate di nome Lamberto, che tutti chiamavano Bègue, cioè il Balbuziente. Le sue seguaci furono pertanto dette beghine o begarde, anche se l’origine del nome rimane incerta, perché c’è chi l’attribuisce all’inglese to beg (pregare) o alla foggia albigese del cappello che solevano portare, comunemente detto beguin. Quest’ultimo non è un dettaglio da poco, poiché lascia intuire che il movimento potesse avere legami con l’eresia catara (o albigese, dal nome della città di Albi dov’era

fortemente radicata). Accresceva questo sospetto il rigore delle penitenze praticate dalle beghine, molto simili a quelle che solevano imporsi i «perfetti» (gli iniziati cioè, ai piú alti livelli del catarismo), spesso destinate a degenerare in una forma di suicidio collettivo detto endura. Notevolissime capacità organizzative consentirono alle beghine di edificare nelle Fiandre, in Francia e in Germania vere e proprie cittadelle claustrali, dotate di mura, alloggi e pertinenze che le rendevano economicamente indipendenti. In questi beghinaggi come venivano chiamati, si manifestarono forme di religiosità estreme talvolta in contrasto con i canoni ecclesiastici. Il caso piú eclatante fu quello della setta del Libero Spirito, propugnatrice di una «perfezione» oltre la quale non esistesse il rischio di peccare. Chi l’avesse raggiunta sarebbe stato affrancato da ogni norma, affidando soltanto alla propria coscienza le sue scelte. La setta si diffuse anche in Italia, soprattutto in Umbria e nei territori piú vitali del misticismo cristiano. Vi aderirono frati e monache, tra cui Bentivenga di Gubbio, confessore della popolare santa Chiara di Montefalco, che tentò di convertire. Non ci riuscí e venne da lei denunciato, quindi condannato al carcere perpetuo.

La Vergine appare a San Bernardo, particolare del polittico realizzato da Giovanni da Milano per l’antico Pellegrinaio dello Spedale della Misericordia di Prato. 1355-1360 circa. Prato, Museo di Palazzo Pretorio. sole, che assume la chiarità solare». Per la complessità teologica dei suoi ragionamenti Bernardo venne consacrato Dottore della Chiesa oltre che santo. Tanta dottrina non è però la causa, bensí la conseguenza, della sua scelta monastica, cui si sostiene sia stato ispirato da un’apparizione della Vergine quand’era ancora un giovane aristocratico del ducato di Borgogna, bellissimo, ricco e corteggiato dalle dame. Viveva all’epoca nel castello di Fontaine, presso Digione, dov’era nato (nel 1091) e donde si allontanò dopo avere avuto la visione (1112) con una trentina di altri nobili, da lui convinti ad abbracciare la vita religiosa. Fu detto «intimo alunno» e anche «innamorato» della Madonna, alla quale rivolse appassionate dichiarazioni di fede. Molte leggende sorsero intorno al conclamato amore di Bernardo per Maria, tra cui la favola che lei gli avesse offerto da bere, nell’apparirgli, alcune gocce del suo latte. Ma si tratta certo di un’immagine allegorica, per indicare quale nutrimento avesse ricevuto lo spirito del santo dalla visione di Nostra Signora. Decisivo fu in ogni caso il contributo cistercense alla diffusione del culto di Notre-Dame in Fran66

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Santo monaco e donatore, tempera grassa su tavola di Bernardo Zenale. 1490 circa. Firenze, Galleria degli Uffizi. Incerta è l’identità del santo monaco, che indossa, sopra la tonaca e lo scapolare bianco, un prezioso piviale e impugna il bastone pastorale, entrambi prerogativa degli abati e dei vescovi. In base al colore della veste, è tuttavia probabile che si tratti di Bernardo di Chiaravalle, fondatore dell’Ordine cistercense, oppure di di Baudolino d’Alessandria, santo molto venerato dagli Umiliati e per questo a volte raffigurato con l’abito del loro Ordine, sebbene non ne abbia mai fatto parte. Accanto a lui è inginocchiato un religioso dello stesso Ordine, che tiene fra le mani il berretto in segno di ossequio. cia, concretamente rappresentato dallo splendore gotico delle tante cattedrali erette a suo nome. L’influenza di san Bernardo sulla società medievale cristiana raggiunse l’apice durante il pontificato del monaco cistercense Eugenio III (11451153), che era stato un suo discepolo devoto. Fu in quel periodo che Bernardo intervenne per impedire lo sterminio degli Ebrei (1146), che un fanatico frate di Magonza tentava di scatenare.

Bernardo e la politica

La sua predilezione per la vita contemplativa non gli impedí di partecipare attivamente alla politica europea, mettendo fuori gioco un antipapa (il cluniacense Anacleto II, cui contrappose con successo Innocenzo II) e inducendo a una nuova crociata i due maggiori sovrani del tempo (Luigi VII di Francia e Corrado III, imperatore tedesco, troppo in disaccordo tra loro per riuscire nell’impresa). Ma il massimo del suo impegno lo profuse nell’incrementare l’espansione del monachesimo cistercense, lasciando alla sua morte (1153) una fioritura di ben 388 monasteri attivi da un capo all’altro d’Europa. Le sue predicazioni contro il fasto di Cluny – contro il vasellame dorato, contro gli abbellimenti architettonici, contro la preziosità smodata degli arredi – hanno fatto fiorire intorno a san Bernardo una serie di aneddoti agiografici sul suo rigore nell’opporsi a qualsiasi forma di vanità. Si racconta tra l’altro che una volta non abbia voluto ricevere a Cîteaux sua sorella Ombelina, la quale vi era giunta con una lussuosa carrozza, lacchè al seguito e abiti di seta. La conseguenza fu che Ombelina si ritirasse per la vergogna in un convento sullo Yonne, di cui divenne badessa dopo avere condotto una vita talmente sobria da essere in seguito santificata. Le viene attribuito dai devoti il potere di respingere gli strali dell’invidia e della gelosia, in genere, per le cose belle degli altri.


Come una rivoluzione

I suoi ideali di rigore, umiltà e povertà sono guardati con sospetto e la prima versione del suo «programma» di rinascita spirituale non ottiene il riconoscimento del papa. Eppure il seme gettato da san Francesco d’Assisi scuote l’universo religioso dell’epoca: in breve tempo, l’Ordine da lui fondato diviene uno tra i piú diffusi e seguiti in Italia e nel resto dell’Europa

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econdo Dante, che nella Divina Commedia lo raffigura come un sole che nasce per illuminare di nuova luce la Terra, provocando coi suoi raggi una seconda rivoluzione cristiana, Francesco d’Assisi è il santo della libertà estrema dalla «insensata cura dei mortali» per la ricchezza e le altre cose caduche della vita: non ambisce a possedere altro che il «crudo sasso» della terra su cui giace o cammina, la pietra sulla quale ha ricevuto le stimmate alla Verna e il suolo su cui attende disteso la morte alla Porziuncola. È perciò Cristo stesso a incoronarlo, quand’è l’ora d’introdurlo nel proprio Regno. Cosí rappresentandolo nell’XI canto del Paradiso, Dante trasfigura in poesia il dato piú significativo della mistica francescana, ovvero l’affinità quasi speculare tra la divinità e il «giullare» che a essa si ispira per imitazione. Anche questa esperienza, destinata a produrre effetti straordinari nella comunità cristiana, scaturisce dal grande flusso del monachesimo, giunto a una fase vorticosa del suo scorrere. Scaturisce in specie dalla necessità di ricondurre la vita monastica al rigore delle origini, fondando un Ordine tendente a restaurare il primato di quella scelta di povertà che nella magnificenza delle grandi certose sembrava essersi perduto. Di questa emergenza c’era stato 68

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preavviso, del resto, nella contestazione mossa dai Cistercensi all’indirizzo dei Cluniacensi per l’eccessivo fasto delle loro abbazie.

Se Gesú chiama, Francesco risponde

La storia di Francesco, nato ad Assisi dal ricco mercante di stoffe Pietro Bernardone e dalla nobile moglie provenzale intorno al 1182, è inizialmente simile a quella di molti altri mistici del suo ceto, chiamati d’improvviso all’ascesi da una forza misteriosa. Ricorrono nella sua prima giovinezza gli agi e i piaceri propri della sua condizione, poi la prova della guerra (contro la vicina Perugia) e della prigionia, che sicuramente ne modifica il carattere, predisponendolo al cambiamento. Infine il richiamo: da un crocifisso esposto nel santuario diroccato di S. Damiano, presso Assisi, Gesú lo chiama a «riparare» la sua chiesa (1205). Francesco risponde vendendo un cavallo e alcune pezze di stoffa per devolvere il ricavato al restauro del santo luogo, ma la metafora della richiesta rivoltagli dal Cristo è evidente: non è certo alle povere mura di S. Damiano che la Voce si riferisce, ma alla comunità ecclesiale (la «sua» Chiesa) in piena tempesta. La risposta di Francesco è simbolica come l’impegno che gli è stato richiesto: vendere la sua roba per riparare S. Damiano è l’atto di

Glorificazione di San Francesco, affresco attribuito al cosiddetto Maestro delle Vele, artista attivo nel primo quarto del XlV sec. e cosí denominato per aver dipinto le vele della crociera della Chiesa Inferiore della basilica di S. Francesco ad Assisi.


sottomissione alla volontà celeste. È una risposta pronta e appassionata, che però si distingue dalle tante conversioni di cui abbonda l’agiografia medievale per la radicalità dell’imperativo che l’ispira: un imperativo di assoluta rinuncia, che si manifesta in maniera cosí estrema agli occhi del mondo da fare apparire il giovane Francesco quasi folle. È lo scandalo della santità, lo spettacolo dell’incondizionata devozione. Francesco si spoglia, liberandosi materialmente dei vestiti, per rifugiarsi nell’eremo desolato della Porziuncola, fuori dell’abitato di Assisi, dove lo raggiungeranno in breve tempo altri undici compagni.

Alcuni di essi, come il beato Egidio, saranno con lui elevati alla gloria degli altari. Li unisce la volontà di «vivere secondo la forma del santo Vangelo». La via migliore per arrivarci è quella della piú intransigente povertà, resa però attiva dalla pratica della misericordia per chi soffre. La ricerca dell’ascesi non impedisce dunque a Francesco e ai suoi confratelli di assistere lebbrosi e derelitti d’ogni genere, condividendone le pene. È questa la sola regola sulla quale Francesco fonda la disciplina del suo Ordine, che il papa Innocenzo III riconoscerà con qualche riserva nel 1210. Suscitava in effetti diffidenza e disagio nelle SANTI E RELIQUIE

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SANTI E RELIQUIE

San Francesco d’Assisi


QUEI MISTERIOSI SEGNI D’AMORE Le stimmate di Francesco d’Assisi e delle centinaia di altri devoti che dopo di lui furono misteriosamente segnati da ferite analoghe a quelle del Cristo pongono interrogativi ai quali né religione né scienza hanno potuto finora dare una risposta definitiva. Nemmeno la Chiesa è in grado di spiegare agevolmente il fenomeno, ma ne indica la causa nell’intensità di un amore compassionevole, animato cioè dall’urgenza di provare le stesse pene sofferte dalla persona amata nella fase piú dolorosa della sua esistenza, che per Gesú è appunto la Passione. Tale bisogno di compartecipazione non investe solo i momenti estremi della crocifissione, ma ogni altro maltrattamento e la sensazione stessa di solitudine provata dal Cristo nell’orto di Getsemani. Per questo le stimmate si manifesterebbero sulle parti del corpo corrispondenti a quelle offese nel corso del supplizio, spesso precedute da sudorazione di sangue oltre che da un’acuta malinconia. Ci sono perciò – stando al cauto razionalismo di tale teoria – stimmate tendenti a riprodurre le ferite provocate dai chiodi a mani e piedi, dalla lancia di Longino al costato, dalla flagellazione, dalle spine. E ce ne sono anche di interne, come nei casi di Chiara da Montefalco e di Teresa d’Avila, le cui autopsie mostrarono straordinarie cicatrici al cuore. È stata talvolta azzardata l’ipotesi che influisca sulla stigmatizzazione l’impressione suscitata da un aspetto o da uno strumento del supplizio in particolare. Ciò varrebbe a significare, per esempio, che la singolare piaga formatasi sulla fronte di Rita da Cascia possa

In alto Stimmate di San francesco, formella dell’armadio della sacrestia di S. Croce dipinta da Taddeo Gaddi. 1335-1340. Firenze, Galleria dell’Accademia. Nella pagina accanto La rinuncia agli averi, nel ciclo delle Storie francescane affrescato da Giotto nella Chiesa Superiore della basilica di S. Francesco ad Assisi. 1290-1295 circa.

essere stata dovuta alla mistica suggestione esercitata su di lei dalla corona di spine, in quanto simbolo di un dolore fisico accresciuto dallo scherno dei carnefici. La sua stimmata corrisponderebbe dunque al desiderio di essere umiliata (e lo fu, per la repulsione provocata dalla ferita in quanti la circondavano) oltre che di condividere i lancinanti dolori dell’amato.

gerarchie ecclesiastiche la nascita di una confraternita che si proclamava laica per umiltà, rifiutando i privilegi dei chierici per idealizzare la povertà con tale slancio da insinuare il sospetto di voler contestare i lussi dell’alto clero. E ancor piú crebbe il sospetto quando Francesco, essendo aumentato notevolmente il numero dei seguaci, volle redigere la Regola in una forma (la Regula primitiva, verso il 1221) giudicata troppo rigorosa da Onorio III, successore di Innocenzo. Fu perciò necessario che la riscrivesse in termini piú consoni (Regula secunda, 1223) al punto di vista del papa, che nell’accettarla non mancò di raccomandare prudenza ai Francescani. Poteva in qualche modo scambiarsi per idolatria quella loro adorazione di Madonna Povertà. Ciò non valse a distogliere Francesco dalla sua idea di povertà integrale, cui rimase fedele fino alla morte, avvenuta tre anni dopo. Lo spinse anzi ad accentuare i suoi sforzi d’imitazione del Cristo, ritirandosi nella solitudine di un’isola sul lago Trasimeno, poi sui monti di Subiaco, dov’era nato il monachesimo benedettino, e infine nel

rifugio della Verna, dove ricevette nell’autunno del 1224 le stimmate, cosí chiamate dal greco stigma, ovvero segno, ma anche piaga.

Prodigi difficilmente interpretabili

Ebbe inizio cosí la tradizione misteriosa degli stigmatizzati cristiani, che nei secoli ha prodotto una casistica quanto mai vasta ed eterogenea, sulla quale si sono confrontate scienza e religione, medicina e psichiatria. Il medico francese Antoine Imbert-Gourbeyre censí 321 casi sul finire dell’Ottocento (La stigmatisation, l’extase divine et les miracles de Lourdes, 1894), ai quali se ne sono aggiunti molti altri nel secolo appena concluso, incrementando lo studio di una fenomenologia intessuta di prodigi difficilmente interpretabili, tanto a lume di ragione che di fede, e per questo confutati di frequente dalle stesse autorità ecclesiastiche. Francesco morí il 4 ottobre 1226, dopo due anni di tormenti che a piú riprese riprodussero sul suo corpo le pene della Passione, quasi accecato dalla luce dell’estasi e dalle intemperie della Verna. Di fronte all’arcano della sua SANTI E RELIQUIE

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L’ETÀ DEI SANTI

San Francesco d’Assisi

IL MANTELLO COME BARCA L’Ordine francescano ebbe un secondo grande Francesco, che prese nome da Paola, cittadina della costa calabra nella quale era nato verso il 1416. Gareggiò in umiltà con il poverello di Assisi, costituendo in seno ai frati minori il ramo dei «minimi», a cui impose il voto del digiuno (una «quaresima perpetua», a base di pane e verdure) in aggiunta ai tre voti tradizionali di obbedienza, castità e povertà. Raggiunse fama europea per la spettacolarità dei suoi miracoli (si dice che attraversasse lo stretto di Messina usando il proprio mantello come barca), ma anche per la loro carica di denuncia: fece sgorgare sangue da una moneta d’oro sotto gli occhi di Ferrante d’Aragona, re di Napoli, per mostrargli quanto fossero inique le tasse che imponeva. Ebbe poteri di taumaturgo e profeta, dei quali non faceva mistero, vaticinando l’avvento di un’era di rigenerazione, nella quale «non potrà piú essere al mondo niuno signore che non sia dell’ordine della sancta milizia dello Spiritu Sancto». Profetizzò l’avvento di una nuova religione (l’«ultima religione», come scrisse), la quale «distruggerà la setta maomettana, estirperà gli eretici e tutti i tiranni del mondo». Annunciò con tre mesi di anticipo la propria morte, ritirandosi ad attenderla in una cella, dove cessò di vivere il 2 aprile 1507, ultranovantenne. Rimase senza sepoltura per undici giorni, emanando un delicato profumo di fiori. I marinai gli sono devoti per il miracolo dello Stretto, e l’invocano nelle tempeste.

In alto San Francesco di Paola e i suoi compagni attraversano lo stretto di Messina sul mantello del santo, olio su tela di Noël-Nicolas Coypel. 1723. Lione, Cattedrale.

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vita vacillano gli sforzi degli storici. «È meglio ch’io taccia il mistero racchiuso in San Francesco», scrive Tommaso da Celano, suo confratello e primo biografo (Legenda prima, 1228-30, poi ampliata e meglio documentata con il titolo di Legenda secunda, 1246-47). Ma forse la chiave del mistero è piú visibile di quanto non appaia, poiché Francesco era a detta di chi lo conobbe «gentile, cortese, buono, semplice», dotato cioè di qualità che possono bastare a ren-

dere un uomo «santo tra i santi». In seno all’Ordine francescano, esplosero fatalmente alla sua morte le contraddizioni scatenate dalla volontà pontificia di ridimensionarne l’originaria vocazione pauperistica. Ad accelerare i tempi di una crisi già in atto fu l’emissione di una bolla papale (Quo elonguati, 1230) tendente ad attenuare l’obbligo di povertà per consentire ai frati la pratica di attività incompatibili con la mendicità, come l’insegnamento e la predicazione. Era di fatto una sollecitazione a rimettere in discussione il testamento spirituale di Francesco e a travisarne irrimediabilmente il senso.

Lo scisma e le persecuzioni

Una parte dei Francescani respinse questa possibilità, irrigidendosi nell’osservanza di una povertà estrema; una parte si attestò su posizioni moderate, ritenendo ammissibile la proprietà di beni da parte dell’Ordine, se non dei singoli, che avrebbero potuto comunque usufruirne. Questi ultimi furono detti Conventuali, gli intransigenti invece Spirituali o Fraticelli. Invano tentò di conciliare le fazioni il piú colto depositario dell’eredità francescana, san Bonaventura da Bagnorea, oggi Bagnoregio, generale dell’Ordine dal 1257 al 1274. Lo scisma fu inevitabile, e i Fraticelli furono per questo scomunicati da Giovanni XXII, andando incontro a spaventose persecuzioni. Esaltati dalla parola trascinante del francescano Angelo da Cingoli, detto il Clareno, questi fratres de paupere vita – come amavano anche definirsi i Fraticelli – affrontarono penosi supplizi, finendo non soltanto al rogo ma talvolta inchiodati con la lingua sulla porta delle chie-


se, perché fosse chiaro che il loro peccato risiedeva in ciò che predicavano. Non si trattò di una tragedia episodica ma protratta per accanimento nel tempo: tra la bolla di condanna (Sancta Romana, 1317) e l’ultimo processo inquisitorio a carico degli Spirituali (1467) intercorrono centocinquant’anni. L’esperienza di Francesco è come una sorgente, dalla quale sgorga un nuovo genere di santità, che ha molti seguaci e imitatori. È una santità di stile antico, che riproduce lo spirito delle origini, ma d’impeto rivoluzionario, che stravolge i nuovi costumi della Chiesa. Grandi santi, come Domenico di Guzman e Antonio di Padova, incrociano il proprio cammino con Francesco ancora in vita. La diversità non li allontana. Domenico non è un santo misericordioso come Francesco d’Assisi: la sua predicazione contro l’eresia catara viene tradotta dal braccio armato della Chiesa in violenza. Eppure li accomuna un’angoscia fiduciosa per quelli che sono i mali della comunità cristiana: entrambi ne sono stravolti, entrambi nutrono una ferma speranza di potervi porre riparo.

Esorcismo in cattedrale

Anche Antonio, santo armato di dolcezza e di carisma, reso popolare dalla spettacolarità delle sue doti miracolistiche, è dissimile in apparenza da Francesco. Proviene da un’educazione agostiniana ed è dotato di uno spirito accademico che gli consente di tenere cattedra a Montpellier, Bologna e Padova. Mostra fin da bambino poteri di esorcista, scacciando un demonio dalla cattedrale della nativa Lisbona. Ma la notizia del martirio in Marocco di un gruppo di pellegrini francescani lo induce a incontrare Francesco (ad Assisi, nel 1221) e compenetrarsi nella sua semplicità. Lo incontrerà di nuovo in visione (ad Arles, nel 1226), quando Francesco apparirà benedicente nel corso di una sua predica, mostrandosi all’uditorio. Come Francesco predicava agli uccelli, Antonio predicò ai pesci sulla spiaggia di Rimini, convertendo per lo stupore degli atei che si erano in precedenza rifiutati di ascoltarlo. Ma l’affinità maggiore con Francesco la espresse nel modo piú intenso ed elevato una giovane bellissima donna, anche lei di Assisi, anche lei di famiglia rinomata, anche lei osteggiata (ma solo inizialmente) dai parenti: Chiara. Fu detta dagli agiografi «anima gemella» e anche «controparte femminile» di Francesco. Fuggí per raggiungerlo a diciannove anni di età, nel 1212. S’incontrarono in una notte d’incipiente primavera, il 18 marzo, nella piccola e

Santa Chiara con la croce in mano, attorniata da scene della sua vita. Tavola attribuita a Benvenuto Benveni detto Benveni da Foligno. 1283. Assisi, basilica di S. Chiara. I riquadri raffigurano, dal basso, a sinistra: il vescovo Guido porge a Chiara un ramoscello di ulivo; Chiara accolta alla Porziuncola; la vestizione; il padre vuole indurre la figlia a non prendere i voti; la sorella Agnese trattenuta dal seguire Chiara; il miracolo del segno della croce comparso sul pane davanti al papa; Chiara sul letto di morte; i funerali della santa in presenza del papa, Innocenzo IV. SANTI E RELIQUIE

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L’ETÀ DEI SANTI

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SANTI E RELIQUIE

San Francesco d’Assisi


A destra i santi Elisabetta d’Ungheria, Chiara d’Assisi e Luigi di Francia, in un affresco di Simone Martini. 1315-1318. Assisi, basilica di S. Francesco, Chiesa Inferiore.

I CONSIGLI DI CHIARA ALLA SORELLA AGNESE Albergavano poesia e cultura, oltre che fede, nei cuori di Francesco e Chiara d’Assisi. Se il primo diede prova di uno speciale talento letterario nel Cantico delle creature, non fu da meno la seconda con certi suoi versi d’ispirazione mistica, spesso annotati in forma di appunti o lettere alle consorelle. Cosí dialoga santa Chiara sull’amore divino in una lettera alla sorella minore Agnese, che l’aveva seguita nella fuga dalla famiglia e che sarà poi beatificata: «Quando lo amate siete caste, quando lo toccate diventate piú pure, quando lo accettate siete vergini. La sua potenza è piú forte, la sua generosità piú elevata, il suo aspetto piú bello, il suo amore piú soave...». Ai modi attraverso i quali conseguire lo stato d’estasi sono invece dedicati questi versi, anch’essi diretti alla giovane Agnese: «Poni la tua mente nello specchio dell’eternità, la tua anima nello splendore della gloria, il tuo cuore sull’immagine della divina sostanza e trasformati per la contemplazione nell’immagine della sua divinità...».

Nella pagina accanto Saluto di santa Chiara e delle sue compagne a san Francesco, nel ciclo delle Storie francescane affrescato da Giotto nella Chiesa Superiore della basilica di S. Francesco ad Assisi. 1290-1295 circa.

disadorna chiesa di S. Maria degli Angeli, fuori le mura di Assisi. Lí Chiara pronunciò nelle mani di Francesco i voti di povertà, castità e obbedienza, offrendo come pegno della sua rinuncia le biondissime trecce, conservate come reliquia ancor oggi. Si liberò delle splendide vesti che aveva sempre indossato e si rivestí di un rozzo saio francescano, lasciandosi poi condurre da S. Maria degli Angeli al monastero benedettino di S. Paolo per sottrarsi all’inseguimento di uno zio che intendeva riportarla a casa. Anche questi furori familiari, tuttavia, si infransero contro la ferma convinzione della rinuncia espressa da Chiara. Con il risultato che non soltanto fu lasciata in pace, ma seguita nel

chiostro dalla madre Ortolana e dalle sorelle quasi bambine, Agnese e Beatrice.

Le gerarchie della clausura

Da Chiara e dalle sue prime seguaci, riunite nel convento di S. Damiano, nacque l’Ordine femminile (o Secondo Ordine) francescano, le cui monache furono presto chiamate Clarisse. La loro Regola ebbe traversie analoghe a quella di Francesco, di cui riproponeva il rigore. Pur essendo riconosciuta, fu per lunghi anni «purgata» dell’obbligo di povertà. Venne invece imposta la clausura, che differenziava notevolmente queste Francescane dai loro confratelli maschi, contrari a escludersi dal mondo per ritirarsi al chiuso dei monasteri. Non si trattò comunque di una distinzione da poco, poiché la clausura comportava vita conventuale, quindi gerarchia. Cosí Chiara dovette accettare suo malgrado il rango di madre priora o badessa, in contrasto con lo stile di totale umiltà che aveva caratterizzato i suoi voti. Ebbe ugualmente una vita meravigliosa, intessuta di francescana felicità e imperscrutabili visioni. Tramanda l’agiografia che sulle pareti bianche della sua cella comparisse a piú riprese l’immagine di Francesco, mentre diceva messa o, il giorno della morte, per accomiatarsi da lei. Per l’analogia di tali apparizioni con gli effetti di una ripresa «in diretta», santa Chiara è venerata come patrona della televisione. Il suo mistero si fonde con quello di Francesco. Speculare in tutto alla sua guida, Chiara ebbe anche lei per testimone della propria santità Tommaso da Celano (Legenda sanctæ Claræ virginis), il quale ne indagò l’esistenza con la medesima trasognata curiosità che l’aveva coinvolto in quella di Francesco. SANTI E RELIQUIE

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L’altra forza della morale Papa Gregorio XI torna da Avignone, affresco di Benvenuto di Giovanni. Prima metà del XVI sec. Siena, Museo della Società di Esecutori di Pie Disposizioni.


Analfabete divenute grafomani incallite, visionarie e profetiche, punto di riferimento per teologi e reggenti d’Europa: da Ildegarda di Bingen a Caterina da Siena (passando per Brigida di Svezia), ecco il ritratto di donne sante e straordinarie, la cui voce andrebbe ascoltata ancora oggi…


L’ETÀ DEI SANTI

Sante militanti

T

ra papi e antipapi, guelfi e ghibellini, eresie, scismi e apocalittici presagi, rappresentarono una gran forza di coesione in seno alla cristianità medievale alcune donne dalla personalità eccezionale, il cui ruolo storico travalicò la santità per esprimere l’urgenza piú politica che religiosa di ricomporre il corpo lacerato della Chiesa sotto l’autorità di un pontefice unico e «romano», effettivamente insediato nella città che era per tradizione sede deputata del suo potere. Fu l’emergenza denominata della «cattività avignonese», umiliante interregno di papi trattenuti per settant’anni nella città di Avignone (1305-1377) dal re di Francia, a far scendere in campo intellettuali come Francesco Petrarca e donne già famose per dottrina e santità, come Brigida di Svezia e Caterina da Siena, che presero letteralmente di petto i pontefici felloni, ammonendoli a sciogliersi dalla dorata prigionia in cui si erano adagiati. «Siate virile, Santità», scrive Caterina Benincasa (1347-1380) a Gregorio Xl, nel 1376, esortandolo a tornare a Roma. Non esita a rinfacciargli un comportamento ambiguo e pavido, incitandolo a rimuovere le «contraddizioni che voi aveste» nonché «alcuno timore», ma lo fa con una sorta di devota tenerezza. Lo chiama «padre mio dolce» o piú intimamente «babbo mio», alla toscana, ma gli fa egualmente pesare l’auto-

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SANTI E RELIQUIE

In alto manoscritto di una lettera autografa di santa Caterina da Siena. In basso Caterina davanti al papa ad Avignone (particolare), dipinto di Giovanni di Paolo. 1460-1463. Madrid, Museo Nacional ThyssenBornemisza.

rità tutta speciale del proprio intervento: «Io vi dico da parte di Cristo crocifisso che veniate piú tosto che potete». Non è dunque un generico invito, ma un ordine dall’alto – da tanto in alto che di piú non si potrebbe – con scadenze precise: «Venite prima di settembre, se potete; e se non potete, non indugiate piú oltre settembre».

Una città in balía della superstizione

La lettera è di maggio: il 13 settembre Gregorio si affrettava a lasciare Avignone, invano trattenuto dal duca d’Angiò, fratello del re di Francia, consapevole del peso che avrebbe avuto sulle sue future strategie la perdita di un cosí prezioso ostaggio. Per intimidire il pontefice, si ricorse alle argomentazioni piú insensate: il cavallo da lui montato s’impuntò recalcitrante all’uscita dal palazzo che per tutti quegli anni aveva ospitato i pontefici, e i presenti cercarono allora di fargli credere che fosse un pessimo auspicio. Gregorio non si lasciò convincere, ma l’episodio dà la misura del clima di superstizione che s’era creato in Avignone, intorno a quella «cattività» avvelenata da malauguranti profezie, infauste premonizioni e oscuri segni. Restava a presidiare la sede avignonese un manipolo di cardinali francesi fortemente contrariati da quanto stava succedendo, le cui trame avrebbero di lí a poco cagionato lo scisma d’Occidente o Grande scisma. Gregorio si imbarcò a Marsiglia e raggiunse Genova, dov’era a riceverlo Caterina per ricondurlo alla «sposa» (la sua Chiesa) che l’aspettava «tutta impallidita». A questo modo Caterina pose fine all’esilio mortificante dei pontefici romani, portando a termine l’impresa iniziata da Brigida di Svezia una decina d’anni prima. E questo fu sicura-


ILDEGARDA, VEGGENTE ISPIRATA Afflitto dalla ressa dei pellegrini che affluivano alla cattedrale di Magonza per chiedere grazie a Ildegarda di Bingen, ivi sepolta e non ancora beatificata, il vescovo la implorò di fare un ultimo miracolo, cioè di astenersi dal farne altri. Fu esaudito. Riporta la tradizione agiografica che le guarigioni cessarono e la fama stessa d’Ildegarda ne fu ridimensionata, data anche la lentezza del processo di canonizzazione indetto da papa Gregorio IX, che si concluse soltanto nel 1925, a oltre sette secoli dalla morte, avvenuta nel 1182. Bisogna in effetti riconoscere che di malattie, in vita, Ildegarda ne aveva sanate molte, grazie alla prodigiosa conoscenza del mondo vegetale e delle proprietà terapeutiche di certi minerali. Ancora oggi le riviste scientifiche ne parlano come di un’antesignana della medicina cosiddetta «alternativa», in grado di sfruttare le proprietà cicatrizzanti dell’oro e altre qualità dei metalli. Questo razionalizza l’immagine taumaturgica di Ildegarda, allevata nel monastero benedettino di Disibodenberg, ma non dirada il mistero, poiché rimangono aperti gli interrogativi sulla fonte delle sue nozioni scientifiche e del talento letterario che le permise di scrivere poesie di altissima levatura mistica pur non avendo alcuna istruzione. Fu inoltre una veggente tra le piú popolari del suo tempo. Sorprendente fu il credito che le diedero pontefici (Eugenio III, Adriano IV, Anastasio IV, Alessandro III), imperatori e re (Federico Barbarossa ed Enrico III d’Inghilterra), nonché grandi teologi, a cominciare da san Bernardo di Chiaravalle. Fu necessario un concilio, ancora

mente il piú grande miracolo della Benincasa, anche se gliene vengono attribuiti molti, alcuni dei quali davvero straordinari, come l’ispirato passaggio da una condizione di analfabetismo a una dottrina che le permise d’intessere nei suoi pochi anni di vita una corrispondenza fittissima (381 lettere) con pontefici e regnanti, ecclesiastici e laici di ogni condizione. Con identico fervore Brigida si era battuta per la medesima causa, concentrando in specie i suoi sforzi sul predecessore di Gregorio, il francese Urbano V, della nobile famiglia dei Grimac, restio tra l’altro a trasferirsi a Roma per una serie di banalissimi motivi, come la qualità dei vini italiani e lo scarso talento musicale, a suo dire, dei cantori roma-

lei vivente, nel 1147 a Treviri, per valutare l’attendibilità dei suoi scritti, nei quali si riconobbe l’ispirazione divina.

ni. Di questo v’è precisa documentazione in una lettera del Petrarca, che cosí tenta di convincere il papa a non ascoltare quei cardinali francesi che paventavano il rischio di restare a secco di rosso Borgogna se si fosse riportata la sede pontificia a Roma: «Se proprio non vorrete adattarvi ai vini italiani, Santità, ricordate che il Tevere è pur sempre navigabile, e potrete far venire per questa via tutte le botti di Borgogna che vorrete».

Il potere della veggenza

Brigida Persson (o Gudmarsson, dal nome del marito; 1303 circa-1373) era al pari di Caterina Benincasa un punto di riferimento per teologi e regnanti d’Europa, ansiosi di interpellarla sulle

Una delle illustrazioni dell’edizione del Liber Divinorum Operum di Ildegarda di Bingen contenuta nel Codice lucchese 1942. XIII sec. Lucca, Biblioteca Statale. L’immagine si riferisce alla quarta visione della mistica tedesca, in cui compare il ciclo delle stagioni. SANTI E RELIQUIE

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L’ETÀ DEI SANTI

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piú disparate questioni di fede e di governo. Poteva però contare su una corda di persuasione in piú, quella della veggenza, cui venne dato all’epoca un gran credito. Se ne avvalse come strumento di forte pressione psicologica su Urbano V, comunicandogli agghiaccianti profezie su quello che gli sarebbe capitato se non si fosse deciso a riportare a Roma il papato. Vi riuscí solo in parte, poiché Urbano decise di trasferirsi effettivamente a Roma nel 1367, ma tre anni dopo rifece i bagagli per rientrare ad Avignone, dopo avere peraltro soggiornato per la maggior parte del suo tempo fuori sede, a Montefiascone. Allora Brigida, che risiedeva a Roma con le sue «brigidine», le suore dell’Ordine del Santissimo Salvatore, da lei fondato, andò personalmente a dirgli di avere avuto una visione della Vergine, la quale le comunicava che il papa sarebbe morto se fosse tornato ad Avignone. Insisté nel riferire impressionanti dettagli, attribuendo alla Madonna frasi come: «Ben poco potrà giovargli la scienza dei medici», qualora Urbano fosse rientrato in Francia, e «non gli sarà di sollievo l’aria salubre della sua terra per allungargli la vita». Non riuscí a fermarlo: il 5 settembre il papa si imbarcava per Marsiglia, e il 24 rimetteva piede ad Avignone. Si ammalava però subito dopo, e prima che finisse l’anno (il 19 dicembre) era morto. Si può intuire quale impressione suscitasse la notizia tra quanti erano al corrente della profezia di Brigida, la cui fama oracolare crebbe da quel momento a dismisura.

L’intreccio delle ricorrenze

Trascritte dai suoi confessori nel libro delle Rivelazioni, florilegio di messaggi sovrannaturali, per lo piú percepiti in visione, le profezie vennero quindi trasmesse alla posterità, attirando per secoli l’attenzione di esoteristi e in-

INFILTRAZIONI SATANICHE La venuta dell’Anticristo fu uno dei temi ricorrenti nelle profezie medievali d’ispirazione apocalittica. L’Anticristo è stato interpretato in tempi diversi come personificazione di realtà di vario genere, rapportabili a un’idea estrema di male. Dopo essere stato associato a Babilonia e a Roma pagana, lo è stato anche a tiranni come Diocleziano e Nerone, persecutori dei primi cristiani, o in tempi moderni a Hitler e Stalin. È circolata tuttavia insistentemente, dall’anno Mille ai nostri giorni, una profezia secondo la quale l’Anticristo si sarebbe prima o poi manifestato in ambienti ecclesiastici, fuorviando la Chiesa dal suo tradizionale cammino. Una profezia della santa visionaria Ildegarda di Bingen (1098-1182) preconizza che ciò dovrebbe accadere

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«quando sul trono di Pietro siederà un papa che avrà preso i nomi di due apostoli di Gesú». È una indicazione che, letta oggigiorno, evoca sinistre paure, collegabili sostanzialmente ai molti scenari millenaristi sulla fine del mondo. Se Ildegarda avesse ragione, il male dovrebbe dunque aggirarsi in Vaticano dal 1978, anno del breve pontificato di Giovanni Paolo I. Una profezia analoga venne pronunciata durante la Rivoluzione francese da una celebre veggente di nome Jeanne La Royer, secondo la quale un segno certo dell’infiltrazione satanica nella Chiesa romana sarebbe


terpreti dell’arte divinatoria. Famosa è rimasta, tra le tante, una predizione del tutto fuori dall’ordinario, vincolata a precise cadenze temporali, da determinarsi attraverso una congiunzione cosí enunciata: «Quando la festa di San Marco coinciderà con quella di Pasqua, la festa di Sant’Antonio con quella della Pentecoste, la festa di San Giovanni Battista con il Corpus Domini, saranno guai per tutto il mondo». Le sei ricorrenze s’intrecciarono nel 1791, indicato nelle Rivelazioni come l’anno dell’«ira di Dio sopra la Terra». Gli esegeti ne presero atto, a conferma delle doti profetiche della santa: si era d’altronde nel pieno insorgere della Rivoluzione francese, destinata a provocare contraccolpi duraturi nell’intera società civile.

A sinistra miniatura raffigurante l’assedio di Costantinopoli del 1453 da parte di Maometto II, da un’edizione del Voyage en la terre d’Outremer de Bertrandon de la Broquière. Post 1455. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Nella pagina accanto miniatura raffigurante le bestie dell’Inferno che emergono dall’abisso, dall’edizione manoscritta del Commentario all’Apocalisse del Beato di Liébana nota come Beato dell’Escorial. 950-955. Madrid, Real Biblioteca del Monasterio de San Lorenzo de El Escorial. In basso Maometto II in una miniatura cinquecentesca.

Le date tornarono a coincidere nel 1848, nel corso di uno dei periodi piú tormentati del secolo, allorquando i moti risorgimentali italiani scossero antichi equilibri, con esiti sanguinosi. Vacillò quell’anno il potere temporale dei papi, e Pio IX fu costretto alla fuga. Brigida aveva previsto per quella data la sollevazione di «gente contro gente». L’ultimo funesto intreccio delle sei festività si ebbe nel 1943, nel mezzo della piú spaventosa guerra d’ogni tempo, con il coinvolgimento di tutti i popoli della terra. Torneranno a

venuto dalla soppressione della «lingua delle catacombe», cioè del latino, dai suoi riti. Si sarebbe trattato, denunciò, di un preciso intento antireligioso, volto a spogliare la liturgia della sua mistica veste originaria. Se si prende per buona tale analisi, l’abolizione della messa in latino dovrebbe confermare quanto detto in altro modo dalla monaca Ildegarda. Sono profezie alle quali dà credito anche don Bosco, in tempi a noi vicini, descrivendo la Chiesa in lotta contro l’Anticristo al proprio interno, con il particolare di un pontefice che «resta ferito e cade con onore».

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L’ETÀ DEI SANTI

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MENÚ PARADISIACI E NETTARE DEI SANTI La popolarità di certi santi medievali fu tale da lasciare traccia del loro passaggio in ogni aspetto della vita quotidiana, anche nei piú semplici. Perfino la gastronomia e l’arte del bere ne furono investite, per via dei liquori distillati nei conventi e delle ricette provenienti per tradizione storica o leggendaria dalle loro cucine. Sono rinomati tra i bevitori d’Europa gli alcolici ad alta gradazione che i monaci ricavano dalla macerazione di erbe, frutta e spezie combinate secondo antiche ricette, segretissime. Eccellono tra questi gli elisir benedettini, impreziositi da un prolungato invecchiamento. Ai cuochi dei monasteri si fanno anche risalire gustose pietanze, come le costate di vitello (dette appunto «alla benedettina») cucinate con le castagne su una base di alloro, cipolla, carote, pancetta, burro e aromi d’ogni genere. Altri monaci, i Certosini di Amiens, nel cui convento sono conservate le reliquie del vescovo Onorato, rendono omaggio alla tradizione di gustare e far gustare ai visitatori (ogni 16 maggio, data canonica del santo) il dolce che porta il suo nome. Aureolato di panna e bignè, il Saint-Honoré perpetua nella grande cucina internazionale la devozione dei pasticceri parigini per il vescovo che si diceva avesse ricevuto da mani sovrannaturali, durante una messa, una forma di pane. Ricorrono in questa festosa fantasia di devoti sapori – espressione di una religiosità che non è solo sacrificio, ma anche gioia e spirito conviviale – i nomi di sant’Antonio Abate (per il dolce noto come «resca» o «lisca», a base di farina, uvetta, canditi e mandorle tritate), Francesco di Paola (per le acciughe in teglia con patate), Chiara d’Assisi (per il «gattò» con mozzarella e prosciutto, familiare alle Clarisse da tempo immemorabile), Caterina da Siena (per i «panotti» di mandorle in conserva di zucca e le «bamboline» di pasta frolla), Brigida di Svezia (per i

«brigidini» all’anice), Martino di Tours (per la «pitta» di miele, uova e gherigli di noce) e tanti altri. Potremmo accostare a questo menú paradisiaco il «nettare dei santi», una scelta di vini pregiati del Lombardo-Veneto che l’accademico dell’arte culinaria Luigi Veronelli ha scoperto e dedicato a san Colombano, eremita e patrono d’Irlanda, capofila di un monachesimo celtico e al tempo stesso cristiano.

A sinistra miniatura raffigurante Ildegarda di Bingen che, con l’aiuto del monaco Volmar, redige le sue opere, dal Codice lucchese 1942. XIII sec. Lucca, Biblioteca Statale.

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congiungersi nel 2038, anno che però dovrebbe collocarsi, secondo la stessa Brigida, oltre la fine dei tempi. Al di là di queste divagazioni escatologiche, familiari ai veggenti medievali, l’interesse per gli oracoli della santa svedese andò aumentando nei secoli per i riscontri che la storia in diverse occasioni parve darne. In quest’ambito si collocano le previsioni da lei espresse, nell’attraversare la Grecia diretta in Terra Santa, sulla fine dell’Impero cristiano d’Oriente e sull’asservimento delle popolazioni balcaniche al giogo ottomano. «L’Impero, i regni e le signorie [dei Greci] non saranno mai sicuri né in pace», aveva detto Brigida, «ma soggetti a nemici dai quali dovranno patire danni orrendi e lunghe miserie».


La presa di Costantinopoli da parte di Maometto II nel 1453 e l’eroica morte in battaglia di Costantino IX, ultimo imperatore d’Oriente, segnarono l’avverarsi della profezia, poco piú di ottant’anni dopo che era stata vergata. Risaltano inoltre tra le Rivelazioni sorprendenti cenni alla Rivoluzione francese, indicata come il moto che avrebbe spazzato via «il giglio regnante» (emblema della monarchia capetingia) per inalberare «il segno dell’empietà» (l’albero della libertà). Riferimenti piú specifici consentono d’individuare nel contesto di tali profezie la figura di Napoleone, definito «l’aquila che raccoglierà la corona perduta dal giglio» o piú specificamente «un terribile figlio dell’uomo, uscito dall’isola [la Corsica, in tutta evidenza] recante la guerra nel valoroso suo braccio, che a capo dei Galli combatterà contro Itali, Germani, Russi, Iberici e Turchi, sovvertendo ogni cosa». È l’epopea, secondo Brigida, del «figlio di un uomo oscuro [di nascita plebea] venuto dal mare», che avrà il merito di «portare l’ammirabile segno nella terra della promessa» (farà cioè conoscere la croce agli Arabi, dall’Egitto alla Siria) ma provocherà grande «tribolazione nella Chiesa di Dio», invadendo Roma e facendo rapire dai suoi soldati il papa (Pio VII, 1809). Quel giorno, quando l’uomo siederà sul trono del giglio, conclude amaramente Brigida, saranno «guai, guai, guai».

Il futuro della Chiesa

In maniera meno spettacolare, mostrò una marcata intuizione divinatoria anche santa Caterina. Ne dà testimonianza il suo confessore Raimondo da Capua: «Abitava in Caterina uno spirito profetico cosí perfetto e continuo da dare a vedere che nulla le restava nascosto delle cose che la riguardavano o che appartenevano a coloro che facevano vita in comune con lei, o che a lei ricorrevano per la salute delle anime loro». Si hanno di questo «spirito profetico» numerose prove nel quadro delle previsioni da lei formulate sul futuro della Chiesa, che nella loro enunciazione particolareggiata si spingono molto al di là di quanto un comune intuito, sia pure affinato da un’intensa pratica politica, avrebbe potuto suggerirle. Non ebbe reticenza nel prevedere che la corruzione degli ecclesiastici avrebbe superato quella delle corti secolari, ma soprattutto nel delineare nella loro effettiva portata le ripercussioni dello scisma sulla fede. A un sacerdote che le domandava perché mai il popolo stesse perdendo la fede, rispose: «Vedrete quanto sapranno fare di peggio gli ecclesiastici non appena il papa vorrà mondare i loro costumi

In alto Sposalizio mistico di Santa Caterina d’Alessandria tra i Santi Giovanni Battista e Antonio Abate, tempera su tavola e doratura a foglia di Michelino da Besozzo. 1440-1445. Siena, Pinacoteca Nazionale. Nella pagina accanto, in alto San Benedetto ottiene farina in abbondanza e ne ristora i monaci, particolare dell’affresco facente parte del ciclo che illustra la vita del santo, iniziato da Luca Signorelli e portato a termine nel 1505 dal Sodoma. Asciano (Siena), Chiostro Grande dell’abbazia di Monte Oliveto Maggiore.

scandalosi. Provocheranno uno scandalo in tutta la Chiesa di Dio, uno scisma che come peste eretica la dividerà e farà tribolare». Caterina negò che quella che stava per sopraggiungere potesse considerarsi «una vera e propria eresia». La definí piuttosto «una specie di eresia», poiché avrebbe generato «una certa scissione nella Chiesa e in tutta la cristianità». E della Chiesa previde anche il riscatto, che descrisse con una elegante allegoria: «La sposa che ora è brutta e malvestita sarà bellissima e adorna di pietre preziose e coronata col diadema di tutte le virtú». Lasciò tra i suoi scritti un Libro della divina rivelazione, stampato per la prima volta nel 1472 a Bologna, una guida mistica sul percorso da seguire per elevare l’anima dal «timore servile», cioè dalla paura del castigo, a quell’amore perfetto che trasforma gli uomini in «filioli e amici» di Dio. Ebbe le stimmate, ma non si seppe se non dopo la morte, che la colse nel 1370, a trentatré anni d’età. È Dottore della Chiesa, oltre che santa, e patrona d’Italia insieme a Francesco d’Assisi, come Brigida è patrona di Svezia. SANTI E RELIQUIE

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I silenzi di Rita

In un’epoca di conflitti sociali, odi e vendette emerge la figura della «Santa degli Impossibili». Di indole diversa – se non opposta – a quelle di Caterina e Brigida, il suo percorso esistenziale sarà scandito da tragedie personali, ma anche da guarigioni, miracoli e… risvolti poetici

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l peggio per la Chiesa venne a due anni dalla fine della «cattività avignonese», nel 1378, con la morte di Gregorio XI, il papa che Caterina aveva ricondotto a Roma quasi per mano. Al momento di eleggere il successore la folla aveva invaso il recinto del conclave reclamando un papa romano «o almanco italiano». Aveva cosí conquistato la tiara il canonista napoletano Bartolomeo Prignano, arcivescovo di Bari, divenendo Urbano VI. I cardinali francesi si erano allora riuniti in un controconclave a Fondi per imporre un ritorno ad Avignone. A Londra intanto i vescovi se la ridevano dicendo che «se il papa è francese, Cristo è inglese», segno evidente dell’incipiente ostilità delle Chiese 84

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nazionali verso la cattolicità romana. Era cosí deflagrato il Grande Scisma. Si contendevano il trono di Pietro due papi: Urbano VI a Roma e Clemente VII ad Avignone. Sarebbero presto diventati tre, con l’elezione di Giovanni XXIII (a Pisa, nel 1410) in contrapposizione a Gregorio XII e Benedetto XIII. L’intero corpo ecclesiastico ne fu scisso, dovunque. A ogni vescovo se ne contrapponeva un altro, a ogni parroco un parroco. Prolificarono le fazioni, le bande, le congreghe. Conflitti spietati divisero il popolo di Dio. Contraccolpi feroci si ebbero nelle regioni dove maggiormente era fiorito il misticismo. Umbria e Toscana ne furono lacerate, città come Cascia e Spoleto insanguinate.

In alto la cittadina di Cascia (Perugia), nei pressi della quale, nel 1381, nacque santa Rita. Nella pagina accanto La traduzione di Santa Rita da Cascia, olio su tavola di Nicolas Poussin. 1630 circa. Londra, Dulwich Picture Gallery.



L’ETÀ DEI SANTI

Santa Rita da Cascia

Alle ostilità di carattere religioso e civile si sovrapposero quelle familiari, motivate da interessi economici enormi. Aumentarono vertiginosamente, in questo clima di sopraffazione, i conflitti di ordine sociale, ponendo i ricchi contro i poveri, i nobili contro la plebe, gli artigiani di una corporazione contro quelli di un’altra; e i partigiani del papa contro i partigiani dell’imperatore, i guelfi contro i ghibellini. Venne tragicamente coinvolta in questa spirale di violenza un’altra grande donna della cristianità, Rita Lotti, nata a Roccaporena, nei pressi di Cascia, nel 1381, che piú diversa da Caterina Benincasa e da Brigida Persson non la si poteva immaginare. Queste avevano lasciato centinaia di lettere, profezie, saggi di spiritualità; Rita un unico scritto di due sole parole, che erano la sua firma, insieme a quella di altre monache, in calce a un contratto di mezzadria per la gestione di un fondo agricolo appartenente al convento. Caterina e Brigida avevano levato alta la loro voce, facendone rintronare l’eco fino al

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Nella pagina accanto la basilica di S. Rita a Cascia, eretta tra il 1937 e il 1947. In basso la cella di Rita nel monastero di Cascia, dove la santa ha vissuto ed è morta. Qui si trova la cassa che, dalla sua morte, ne ha custodito il corpo fino al 1745, e sulla quale compare la prima raffigurazione di santa Rita.

soglio pontificio; Rita affidò all’eco dei suoi silenzi un messaggio d’amore incondizionato per il genere umano, alle parole degli altri (la tradizione orale della sua gente) la testimonianza di quanto avesse operato per la pace. Le era infatti toccato di nascere, lei che era donna d’amore, in una terra nella quale l’odio si era cosí sedimentato che le leggi regolavano la vendetta, e la «pacificazione» era diventata un mestiere. Gli Statuti della repubblica di Cascia, cui apparteneva il suo borgo natale di Roccaporena, prevedevano il diritto di vendicare anche con la morte un’ingiuria o un torto patito, delegando a volontari animati da spirito cristiano (come gli anziani genitori di Rita) il compito di sedare liti talvolta in corso da generazioni.

Una rosa nella neve

Non ci furono pacieri, tuttavia, in grado di risparmiare alla giovane Rita di essere coinvolta in una faida tanto terribile quanto misteriosa, che le portò via marito e figli. Cosí, travolta da tanta tragedia, Rita divenne da quel momento l’instancabile tessitrice di un progetto di pace che espresse attraverso una continua opera di mediazione tra chiunque fosse in conflitto con chiunque. Prodigiose guarigioni e miracoli contrassegnati da poetici risvolti, come la fioritura di una rosa nella neve, tinsero di leggenda la sua fama, originando un culto popolare che attendibili rilevazioni hanno spesso indicato tra i piú diffusi nel mondo, a parità con Antonio di Padova e Francesco d’Assisi. È detta «Santa degli Impossibili» per la straordinarietà delle grazie di cui hanno dato testimonianza nei secoli i suoi devoti; e continuano a darne tutt’ora, tramite il mensile del monastero di Cascia Dalle api alle rose, veicolato in piú lingue dai centri d’irradiazione del culto ritiano, numerosi soprattutto in Francia, Stati Uniti e America Latina. Permane sulla popolarità di questa santa quell’aura leggendaria che indusse le autorità ecclesiastiche, in passato, a dubitare che fosse mai esistita. Tant’è che la prima domanda posta ai testi nella causa di beatificazione fu se avessero certezza che quella suora cosí «magica», cosí venerata, cosí pronta a sanare i mali del corpo e dello spirito, fosse realmente stata al mondo. E soltanto attraverso una serie di riscontri meticolosi – raccolti dagli storici dell’Ordine agostiniano, a cui Rita appartenne, nell’opera denominata Documentazione ritiana antica – si poté appurare che era stata in effetti una taumaturga dagli eccezionali poteri e una mistica in grado di ascendere ai livelli piú elevati dell’estasi.


SANTI E RELIQUIE

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L’ETÀ DEI SANTI

Santa Rita da Cascia

Si poté ugualmente accertare che aveva avuto una intensa vita profana, due figli e un appassionato amore coniugale, anche se un’agiografia di maniera ha sempre cercato di raffigurarla come sposa infelice, vittima rassegnata di un marito descritto come «homo molto feroce, il quale atterriva nel parlare e spaventava nel conversare» (cosí lo ritrae il sacerdote Agostino Cavallucci, primo anche se tardivo biografo della santa, nella sua Vita della Beata di Rita da Cascia, stampata a Siena nel 1610). Ma si tratta in tutta evidenza di quel genere di manipolazione che nella storiografia sacra si chiama «topos agiografico», cioè un artificio volto a creare un personaggio che con le proprie malefatte desse risalto, per contrasto, alla santità di chi gli stava accanto.

Il leone e l’agnella

Ciò spiega, in mancanza di elementi certi di giudizio, la sovrabbondanza di descrizioni palesemente animate dall’intento di esasperare in negativo l’immagine di Paolo Mancini, lo sposo perdutamente innamorato di Rita fin da quando non era che una bambina dodicenne, facendolo apparire come «un fiero leone» accanto a «una candidissima agnella». Paolo non era sicuramente un bigotto – questo è vero – ma un uomo di spada e di avventura, un frequentatore di taverne, capace anche di uccidere all’occorrenza, se provocato o moti-

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In alto affresco ottocentesco raffigurante santa Margherita, nel santuario a lei dedicato, a Cortona (in basso).

vato da ragioni di parte. Era qualcosa di piú di una pedina nel gioco delle faide politico-familiari dell’epoca, verosimilmente legato alla fazione ghibellina. È però altrettanto vero che Paolo fu assassinato per essersi adeguato alla volontà di pace di Rita, per essere diventato come lei desiderava che fosse, dato che «per la nuova vita cristiana da lui intrapresa aveva deposto la sua bravura, né portava piú armi addosso, onde i nemici ebbero campo da assalirlo e privarlo sul fatto barbaramente di vita» (cosí gli rende giustizia Marco Franceschini, definito nella Documentazione ritiana antica «il migliore storico di Cascia»). Insomma Paolo morí per amore di Rita. O meglio, l’amore di Rita (e per Rita) produsse le condizioni per cui venisse ucciso, e questo basta per rimuovere il topos agiografico. Rita lo sapeva, e lo pianse con tale trasporto che parve avesse perduto la ragione. Si può ben dire con questo che il dono fu reciproco. Da Rita era venuta per Paolo la salvezza, in senso cristiano, oltre all’appagamento di una intensa passione d’amore. Da Paolo erano venute per Rita sensualità e vertigine, amore in senso profano, ma realizzato nella sacralità del matrimonio; tutte cose che altrimenti – se davvero Rita si fosse rinchiusa in convento fin da ragazza, secondo il desiderio attribuitole dall’agiografia – le sarebbero mancate. Cose perdute, con la morte di Paolo, per sempre, che nell’insieme conferisco-


no una tragica spiritualità all’epilogo straziante di questo loro amore, intessuto di fede e di mistero; un finale che è anche, per Rita, l’esordio di un’esistenza nuova, fuori del mondo. Una fosca tradizione agiografica accentua la penosità di questo trapasso dalla felicità profana al ritiro conventuale, fornendo una tremenda versione della morte dei due figli di Rita, che sarebbe stata da lei stessa invocata perché non divenissero a loro volta assassini per vendetta. Inizia a tale prezzo, nel sangue delle persone piú care al cuore di Rita, l’itinerario mistico che farà di lei una stigmatizzata fuori del comune, segnata da un’unica ferita sulla fronte, prodotta da una spina materializzatasi come un dardo dalla corona di un’immagine del Cristo, ai cui piedi era caduta in estasi.

Verso le piú alte vette dell’estasi

Il repentino e traumatico passaggio dalla passione d’amore terrena a quella divina è tra le note ricorrenti nella santità femminile medievale. Altre grandi sante hanno dato prova di saper vivere con trasporto un’esperienza tanto umana e immediatamente dopo intraprendere, per la perdita dell’amato, un cammino iniziatico verso le piú alte vette dell’estasi. Il caso che presenta forse maggiori analogie con la storia di Rita – per la trama sanguinosa, l’assassinio dell’amato, la sorte incerta del figlio – è quello di Margherita da Cortona (1247-1297), bella e desiderosa di donarsi senza misura, dapprima a un uomo e poi, quando questo viene ammazzato, a Dio. Si innamora sedicenne del nobile Arsenio di Montepulciano, al quale si abbandona senza riserve, dandogli un figlio che accresce l’intensità del loro rapporto. E quando l’amante viene ucciso si accorge che nessun uomo al mondo potrà piú soddisfare la sua urgenza d’amore. Lascia il figlio (che si farà frate o, secondo altre fonti, si toglierà la vita per il dolore di essere stato abbandonato) e si ritira in convento, dove si consumerà in un crescendo di penitenze, estasi e digiuni. Qualcosa di simile, anche se spinto verso conseguenze ancora piú estreme, si riscontra nella parabola sconvolgente di Angela da Foligno (1248-1309), che avendo perduto marito e figli intorno ai quarant’anni non si trattenne dal manifestare apertamente la sua gioia, rivolgendo sconcertanti espressioni di gratitudine al Cielo, fedelmente annotate dal frate francescano Arnaldo, suo confessore. La morte della madre, del marito e della prole di Angela è per lei una grazia. Lo afferma in tutta chiarezza, senza perifrasi, con un compiacimento che è tra

IL MARTIRIO DI MARGHERITA Ci sono estremi che nell’esaltazione delle coscienze si sfiorano, provocando una pericolosa confusione. Molte donne furono accusate di eresia e stregoneria per un eccesso di misticismo che le aveva condotte oltre i limiti di un comportamento comprensibile alla gente comune; e lo stesso accadde a molti asceti, filosofi e teologi animati dall’ansia di approfondire misteri che sarebbero dovuti restare tali. Tra i casi piú penosi di malintesa interpretazione dell’appassionato slancio di una pia donna verso Dio c’è quello della povera Margherita Porete, finita al rogo (a Parigi, sulla piazza dell’Hôtel de Ville, il 1° giugno 1310) per avere tentato di spiegare in un libro denominato Specchio delle anime semplici come realizzare il «puro amore». «Non sono mai stata padrona di me stessa», aveva scritto. «Amore mi tiene completamente in suo possesso, cosí che non ho sentimento, né volere, né ragione di fare alcuna cosa se non per mezzo suo». Non era valso a salvarle la vita il fatto che identificasse Dio in Amore: «Io sono Dio [è Amore che parla] perché Amore è Dio, e Dio è Amore; e quest’Anima [Margherita] è Dio per opera di Amore. lo sono Dio per natura divina, quest’Anima è Dio per diritto d’Amore». Immagini cosí luminose scandalizzarono il vescovo Guy di Cambrai, che fece bruciare lo Specchio delle anime semplici. Dal rogo del libro a quello dell’autrice il passo fu breve. Invitata a ritrattare quel che aveva scritto, Margherita rifiutò. Oggi è accomunata per la sua opera letteraria alle grandi mistiche medievali, accanto a donne della statura di Caterina da Siena, Chiara di Assisi e Ildegarda di Bingen.

le piú incredibili testimonianze di quanto fosse diversa la sensibilità medievale, in fatto di santità, da quella moderna: «Avvenne col permesso di Dio che mia madre, che mi era stata di grande impedimento, morisse. A questa morte seguí quella del mio sposo e dei miei figli in breve giro di tempo. Poiché avevo iniziato la via della croce e pregato Dio di essere liberata di ogni legame terreno, provai consolazione della loro morte: pensavo che per l’avvenire, avendo Dio concesso tali grazie, il mio cuore sarebbe rimasto sempre unito al suo e il cuore di Dio sempre unito al mio». È comunque un dire ben lontano dalla dolente rassegnazione di Rita da Cascia, che anela nella solitudine a congiungersi con Dio, ma senza compiacersi della perdita di coloro che ha amato, il cui ricordo amorevole la seguirà nel convento.

In alto pagina di un’edizione de Lo specchio delle anime semplici (Le mirouer des simples âmes anienties et qui seulement demourent en vouloir et désir d’amour), opera della mistica francese Margherita Porete. Fine del XV-inizi del XVI sec.

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Fino al sacrificio estremo Anche il millennio medievale si macchiò del sangue dei molti ferventi cristiani, pronti a morire pur di non rinnegare la propria fede

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a cristianità medievale serbava un ricordo ancora vivo delle persecuzioni affrontate dai primi martiri. Aveva perciò una speciale predisposizione – quasi un’aspirazione in certi casi – a testimoniare la propria fede con il sangue. Ne ebbe piú volte occasione, per mano di nuovi persecutori, in prevalenza musulmani ma anche pagani dediti agli antichi culti germanici, come i Sassoni, i Frisoni e altri abitatori dell’Europa settentrionale. A questi ultimi si deve il massacro sistematico, in età carolingia, delle comunità cristiane di frontiera, e in specie dei sacerdoti impegnati nell’evangelizzazione di quei territori, una evangelizzazione pacifica, molto diversa da quella operata dagli Spagnoli nelle Americhe. La vittima piú illustre di tali eccidi fu l’inglese Winifred, divenuto Bonifacio per volontà di papa Gregorio Il all’atto della sua ordinazione episcopale. Amico di Pipino il Breve, a cui aveva impartito l’unzione regale per conto del pontefice, Bonifacio era detto l’Apostolo della Germania per la sua infaticabile attività missionaria oltre il Reno, tra le barbare tribú di Frisia e Sassonia, dedite ai sacrifici umani. Venne ucciso in una impervia zona paludosa dell’estremo Nord (nel 754, due anni dopo la consacrazione reale di Pipino), dove si era accampato con un gruppo di giovani sacerdoti della sua missione.

Un Vangelo per non vedere

Era stato chiamato da indigeni che chiedevano il battesimo, forse per convenienza, ma senza costrizione. Ne approfittarono altri per tendergli un agguato, anche per derubarlo delle provviste che portava. Ai diaconi che tentavano di difenderlo con i loro bastoni aveva comandato di deporli e di esultare, poiché era finalmente giunta l’ora del martirio. Aveva 90

SANTI E RELIQUIE

In alto San Tommaso d’Aquino, particolare del Polittico di Valle Romita (Incoronazione della Vergine e santi), tempera su tavola di Gentile da Fabriano. 1408 circa. Milano, Pinacoteca di Brera. avuto il tempo di dire a tutti qualche parola sulla infinita felicità che li aspettava, e si era coperto il viso con il Vangelo per non vedere l’arma che lo colpiva. Truppe franche avevano in seguito recuperato il suo corpo, che era stato inumato nell’abbazia di Fulda, da lui fondata. Vennero con lui santificati gli uomini che lo accompagnavano in quel suo ultimo viaggio e che al suo fianco incontrarono il martirio.


Miniatura raffigurante Alcuino (735-804) che presenta al vescovo di Magonza Ogtario, il suo scolaro Rabano Mauro, da un manoscritto del IX sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.


L’ETÀ DEI SANTI

Nuovi martiri

In alto pianta di Cordova, dal Civitates Orbis Terrarum dei geografi Georg Braun e Franz Hogenberg, una raccolta di mappe pubblicata tra il 1572 e il 1617. A sinistra uno scorcio dell’interno della Grande Moschea di Cordova, la cui costruzione fu avviata, nel 785, dall’emiro Abd al-Rahman I, sul sito della chiesa cristiana di S. Vincenzo. Modifiche e ampliamenti si succedettero poi per quasi due secoli. Tra le imprese piú spettacolari di san Bonifacio va ricordato l’abbattimento di una grande quercia che i pagani adoravano come rappresentazione arborea del dio Odino, servendosene per appendervi i resti di sacrifici umani. Si distinse per la pietà nei confronti delle popolazioni primitive con le quali entrò in contatto nello svolgere la sua missione. Raccomandò la medesima pietà a Pipino e ai guerrieri lanciati nella conquista dei territori settentrionali. «Io vi supplico», disse loro in una celebre omelia, «di non turbare gli animi semplici dei Turingi, dei Sassoni, dei Frisoni e delle altre genti non ancora convertite con comportamenti scandalosi o inutilmente crudeli, poiché con tali esempi li allontanerete dalla vera religione, che vi siete impegnati a difendere». Il tema della pietà verso i popoli da convertire 92

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LE VISIONI DEL DOCTOR ILLUMINATUS La santità medievale fu spesso contigua alla magia, all’alchimia e ad arti guardate con sospetto – se non del tutto condannate – dalla Chiesa. Coltivò simili interessi il catalano Raimondo Lullo (Ramón Llull, 1236-1315), prima di essere toccato da una crisi mistica che l’avrebbe condotto al martirio in Algeria. Lullo, che fu tra l’altro il fondatore della vera letteratura catalana, venne soprannominato dalla società colta medievale Doctor illuminatus per la vastità delle sue conoscenze, che spaziavano dalla teologia a ogni sorta di magia naturale, alla filosofia e alle scienze, fino allo studio sulla cavalleria, intesa come Ordine iniziatico tendente alla perfezione spirituale degli adepti. Una crisi religiosa, accompagnata da reiterate visioni della croce, lo indusse ad abbracciare la vita monastica, interessandosi in particolare alla comprensione dei

rapporti tra la dottrina cristiana e quella islamica. Quest’ultimo interesse gli fu fatale, poiché in uno dei suoi viaggi di predicazione e di ricerca in Algeria venne preso dai musulmani (a Bejaia, il 3 luglio 1315) e lapidato. Fu per questo canonizzato come martire. Si disse che la sua sorte fosse stata segnata da una «maledizione» dei Templari, contro i quali si era schierato nel corso del processo che si teneva in quegli anni. Pur senza condividere le accuse di eresia nei loro riguardi, Raimondo Lullo aveva criticato il gran maestro Jacques de Molay per la rinuncia della guerra in Terra Santa. Ha lasciato opere di grande interesse iniziatico in lingua catalana e latina, come il Libro della contemplazione, il Libro dell’amico e dell’amato, l’Albero della scienza, l’Ars Magna, e un originale trattato sull’Ordine della Cavalleria.

Morte di San Martino, affresco di Simone Martini. 1312-1317. Assisi, basilica di S. Francesco, Chiesa Inferiore, Cappella di S. Martino. fu molto sentito dal clero carolingio, del quale si fece portavoce Alcuino di York, uno dei maggiori intellettuali dell’epoca e consigliere fidato di Carlo Magno. Alcuino definí una volta «terroristico» il capitolare imposto ai Sassoni dal suo re, al quale pure era legato da un sentimento di strettissima amicizia. «Se ai Sassoni fosse stato predicato il Vangelo con lo stesso calore con cui s’impone loro il pagamento delle decime», era stato il suo aspro commento alla severità della norma, «sarebbe stato assai meno difficile convertirli. Forse gli apostoli mandati dal Cristo a predicare la sua parola riscuotevano tributi?». Aveva amaramente concluso che «sarebbe cosa assai piú conveniente perdere la decima anziché la fede».

Un maestro ineguagliabile

Considerato da Carlo Magno un maestro ineguagliabile, Alcuino ebbe il merito d’introdurlo al pensiero di sant’Agostino, facendogli conoscere il fondamentale testo della Città di Dio, al quale si sarebbe ispirato per la sua utopia di Stato universale, fondata sull’equilibrio tra la forza della spada e quella dello spirito. Anche per questo Alcuino venne ricompensato da Carlo con il titolo di abate di Tours, dove terminò la sua vita tra studi e preghiere. Fu in seguito santificato, come molti dei grandi spiriti di cui l’imperatore si era circondato ad Aquisgrana. Tours era la piú prestigiosa abbazia di Francia, poiché vi erano custodite le spoglie e altre reliquie di Martino, santo d’interesse nazionale oltre che religioso, come SANTI E RELIQUIE

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L’ETÀ DEI SANTI

Nuovi martiri

Dionigi, Germano e Remigio. Molti altri missionari incontrarono la stessa fine di Bonifacio e del suo seguito nel tentativo di convertire le popolazioni germaniche nei territori nordorientali dell’Impero, inoltrandosi senza protezione nelle foreste e lungo i grandi fiumi che sfociavano nel Mare del Nord.

Scontro di civiltà

Ma le stragi piú spaventose che colpirono la cristianità medievale – protraendosi anche in età rinascimentale, e oltre – si ebbero nell’ambito del conflitto permanente con la civiltà islamica, lungo le coste del Mediterraneo, nelle isole dell’Egeo e in Terra Santa. Anche nella Spagna moresca, solitamente celebrata come luogo di liberalità e tolleranza, vi furono crudeli persecuzioni, talvolta provocate dall’orgoglio mai sopito della popolazione cristiana, che per quanto sottomessa non perdeva occasione di spingersi al di là dei divieti posti dai cadi musulmani, ostentando una fede che per legge avrebbe dovuto praticare in sordina. Tali contrasti ebbero il momento di massima asprezza nel califfato di Cordova all’epoca degli emiri Abd-ar-Rahman II e III, dall’inizio alla metà circa del secolo IX, quando i cristiani reagirono alle ordinarie vessazioni saracene con una 94

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Sulle due pagine Otranto, la cattedrale dell’Annunziata fondata sul finire dell’XI sec. e poi oggetto di numerosi rimaneggiamenti. Nella pagina accanto, la facciata della chiesa, nella quale spiccano il rosone a 16 raggi (fine del XV sec.) e il portale barocco (1674); in basso, sulle due pagine, la Cappella dei Martiri, ricavata nell’abside della chiesa: nelle teche di cristallo sono custoditi i resti degli scheletri di una parte degli abitanti massacrati nel 1480.

spontanea volontà di martirio. I cristiani «arabizzati» erano detti all’epoca muzarabes e il disprezzo islamico nei loro confronti non si manifestava per lo piú in modo cruento, ma in un succedersi di prevaricazioni, angherie, spoliazioni e maltrattamenti deliberatamente rivolti, si sarebbe detto, a ferire la sensibilità delle vittime, esasperandone gli animi. Fu questa esasperazione a provocare un fenomeno eroico e spaventoso al tempo stesso, che si esprimeva in una forma di resistenza fondata sull’autodistruzione. Ne nacque un vero e proprio movimento di volontari del martirio, che mediante pubbliche professioni di fede – proferite talvolta in tono d’invettiva contro la dominante religione islamica – non lasciava altra alternativa ai tribunali arabi che l’emissione di dure sentenze di morte, accompagnate dai tormenti di rito. Il supplizio divenne in tal modo il fine, oltre che il mezzo, di un’attività tendente a destabilizzare il potere centrale costringendolo a un inasprimento dei propri metodi che ravvivava la forza degli oppositori. Dà testimonianza del martirologio di Cordova il vescovo Eulogio, che fu animatore del movimento, in un’opera dal titolo Esortazione al martirio, scritto nel carcere in cui attese a propria volta la morte. Aveva scritto e diffuso in precedenza testi di confutazione della dottrina maomettana, come un Apologeticum che era valso a incrementare nella comunità cristiana l’urgenza di ribellione. È nel calendario liturgico alla data dell’11 marzo, insieme ad altri protagonisti del movimento storicamente detto dei Martiri di Cordova. Si votarono al medesimo destino molte ragazze desiderose di emulare un’Agnese, una Lucia o una qualsiasi pia vergine della protocristianità trionfante: furono ridotte in schiavitú negli harem o nei bordelli, e questo fu in molti casi il loro supplizio. Altri pagarono le conseguenze della confusione generata dalla falsa tolleranza moresca in seno alle famiglie, spesso lacerate da risentimenti tra cugini o addirittura fratelli di differente religione. Esemplare in tal senso fu la vicenda di un prete di nome Rodrigo, coinvolto in una lite tra i suoi fratelli, uno dei quali cristiano e l’altro maomettano. Richiamò su di sé l’attenzione dei persecutori con le sue parole pacificatrici, e fu per questo messo a morte con altri sventurati.

1480: il massacro di Otranto

Ma la piú tremenda delle stragi che contrassegnarono il protrarsi dell’irriducibile contrasto tra le due grandi civiltà in campo si ebbe nella

cittadina di Otranto, sull’Adriatico, durante la campagna di espansione dell’Impero ottomano lanciata dal sultano Maometto Il, detto Fatih, il Conquistatore, per avere espugnato la città di Costantinopoli ( 1453) e posto cosí fine all’Impero d’Oriente. I Turchi del Fatih sbarcarono a Otranto l’11 agosto 1480 da una flotta di novanta galere e una sessantina di navi minori. All’epoca il sultano aveva vinto ogni resistenza cristiana nei Balcani, occupando Albania, Bosnia e Serbia, con la sola eccezione di Belgrado. Aveva spinto le proprie armate oltre il Danubio, devastando Valacchia, Transilvania e Moldavia fino al confine ungherese. Contendeva alla marineria veneziana il controllo dell’Adriatico e aveva tolto a Genova i possedimenti del Mar Nero. Facilitò la spedizione contro l’indifeso porto di Otranto la rivalità navale in atto tra Napoli e Venezia, che dividendo le forze cristiane favoriva l’intento ottomano d’invadere il Meridione d’Italia. Otranto era la città piú orientale della costa e dominava per giunta lo stretto canale cui dà nome tutt’oggi, costituendo un obiettivo di grande interesse strategico per il sultano. Buona parte dei cittadini fu sterminata insieme al clero nella cattedrale in cui si era rifugiata dopo che le difese sulle mura erano state travolte. Non vi furono cedimenti né implorazioni di pietà, poiché l’intera popolazione, conoscendo i feroci costumi ottomani, aveva deciso di resistere a oltranza, nonostante la schiacciante superiorità islamica. Molti ebbero la buona sorte di cadere in battaglia, o comunque difendendosi. I superstiti, in numero di ottocento, furono riuniti su un vicino colle (dove sorse in seguito la chiesa di S. Maria dei Martiri) e invitati ad abiurare se volevano salva la vita. Compresero tutti che non era solo la vita in gioco, ma che si trattava di affrontare – per quanti sarebbero rimasti fermi nella fede cristiana – i piú atroci tormenti. Non ebbero dubbi ugualmente: scelsero tutti di morire tra disumani supplizi, incitati dai piú coraggiosi, tra i quali si distinse per il fervore un umile artigiano di nome Antonio Pezzulla. Per farlo tacere i Turchi lo misero alla tortura per primo. Ottennero solo di eccitare ulteriormente la sua passione religiosa e accentuare la forza dell’esempio dato ai suoi concittadini. Solo un colpo finale di scimitarra, dopo ch’era stato quasi del tutto scorticato, poté farlo tacere. Per questo, per essere stato il primo ad affrontare il supplizio, venne inserito nel calendario liturgico come sant’Antonio Primaldo, insieme ai suoi compagni. SANTI E RELIQUIE

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Nell’età dei santi dottori

Penetrare con la ragione i misteri del sovrannaturale, rileggere Platone e Aristotele, separare il pensiero metafisico da quello logico: inizia con l’opera di un santo bavarese, Alberto Magno, il rinnovamento intellettuale della cristianità medievale… Trionfo di San Tommaso d’Aquino, affresco di Andrea Bonaiuti. 1366-1368. Firenze, S. Maria Novella. Cappellone degli Spagnoli.

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all’opera svolta nei grandi monasteri benedettini per il recupero del pensiero dell’Occidente – che aveva portato alla rilettura delle opere classiche in parallelo con lo studio delle Scritture – era scaturito un atteggiamento filosofico che avrebbe influenzato in maniera determinante, nei secoli successivi, l’evolversi della cultura cristiana. Si può distinguere questo processo di evoluzione intellettuale in tre grandi fasi, che nell’insieme produssero il corpo dottrinario della Scolastica, la filosofia medievale per eccellenza, cosí chiamata in età rinascimentale per la divulgazione che se ne fece nelle scholae cittadine. Una filosofia caratterizzata dall’intento di approfondire il significato della Rivelazione cristiana attraverso una metafisica desunta dai grandi sistemi platonico-aristotelici del passato. Ciascuna delle tre fasi ebbe i suoi santi dottori, tendenti a esprimere punti di vista funzionali a una comune visione teologica ma spesso differenziati se non addirittura in contrasto tra loro, come avvenne tra Scolastici Domenicani e FranSANTI E RELIQUIE

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L’ETÀ DEI SANTI

Il pensiero teologico

cescani. Si distinsero nella fase iniziale (Prima Scolastica, dal VII al XII secolo) i grandi «operai» della cultura benedettina, che all’interno dei conventi posero le basi per la ricerca da compiere. A questi monaci infaticabili appartenne sant’Anselmo d’Aosta (1033-1109), indicato come l’originario fondatore della speculazione scolastica, il quale divenne arcivescovo di Canterbury dopo un lungo tirocinio di studio nell’abbazia di Bee, in Normandia, famosa per la sua scuola teologica. L’intuizione di Anselmo fu quella di esprimere nel suo Monologio, che vuol dire «discorso unico», l’esigenza di penetrare con la ragione i misteri del sovrannaturale. Fu sorretto in questo da una conoscenza profonda del pensiero agostiniano e della filosofia platonica, che rese interagibili tra loro. La seconda fase (Grande Scolastica, XIII e XIV secolo) portò la nuova filosofia fuori dei conventi, riconoscendo apertamente la possibilità di sostenere le affermazioni dogmatiche della fede con argomentazioni tratte dalla dialettica razionale: è il momento del ricorso cristiano all’aristotelismo, propugnato da intellettuali della statura di Alberto Magno (1193-1280) e del suo allievo Tommaso d’Aquino (1225-1274), domenicani, ai quali si opporrà il francescano Duns Scoto (1264-1308) affermando l’impossibilità di definire razionalmente Dio, che può essere conosciuto solo attraverso l’amore. Il contrasto tra tomismo e scotismo animerà per un paio di secoli il dibattito tra i filosofi cristiani (Tarda Scolastica, XIV e XV secolo), che in questa terza fase avvertiranno in maniera sensibile l’esigenza di scindere la metafisica dalla logica, privilegiando quest’ultima in relazione, soprattutto, alle materie scientifiche.

Contro Averroè

Si deduce da tutto questo che la cristianità medievale trasse lo stimolo e gli strumenti per il suo rinnovamento intellettuale, paradossalmente, da un passato imbevuto di paganità. Decisivo perché tale assimilazione potesse compiersi fu il ruolo di sant’Alberto Magno (Albert von Bollstadt, bavarese), il primo a inquadrare il pensiero di Aristotele in un’ottica cristiana, depurandolo delle farragini arabe, sedimentate attraverso un succedersi di studi e interpretazioni che avevano avuto nel filosofo Averroè il portavoce piú eloquente. A questo fine appaiono rivolti tanto il trattato Dell’unità dell’intelletto contro Averroè che i Commentari alle singole partizioni dell’opera di Aristotele, dai quali si evince la necessità di distinguere la metafisica da ogni altra voce, la teologia dalla fisica, la filosofia dalla religione. Alber98

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to Magno impersonò in maniera esemplare il maestro medievale, animato dall’urgenza di trasmettere agli allievi le sue curiosità – e le sue scoperte – in ogni campo dello scibile. Fu attratto dai misteri del mondo naturale, nel cui ambito svolse ricerche per le quali fu sospettato di magia. Insegnò nelle università di Bologna, Padova, Hildesheim, Friburgo, Ratisbona, Colonia, Strasburgo e infine Parigi, dov’ebbe per allievo Tommaso d’Aquino, nativo di Roccasecca, nel regno di Napoli, che sulla base dell’aristotelismo da lui assimilato avrebbe costruito il castello della sua grande conciliazione filosofica tra fede e ragione. Avendone intuito la forza intellettuale, lo difese dagli altri studenti che lo deridevano per il suo atteggiamento schivo e taciturno. Lo chiamavano «il bue muto». Alberto ribatté che l’eco dei suoi muggiti avrebbe scosso la Terra. Fu buon profeta. Il tomismo divenne l’asse portante del pensiero cristiano, in grado di fornire risposte sull’esistenza di Dio, sul bene e sul male, sulla salvezza, sui rispettivi compiti di filosofia e teologia. Dio è per Tommaso conoscibile attraverso le cose create, che testimoniano la sua esistenza. Il male non è una realtà in contrapposizione al bene, ma un’entità negativa, scaturita dall’assenza di bene. La salvezza è l’esito di una tendenza innata della natura umana verso ciò che è divino, qualcosa di raggiungibile attraverso quel genere di grazia che stimola le aspirazioni dell’individuo, esaltandole. È la teologia la scienza suprema di coloro che vogliono conoscere il mistero della divinità, ma la filosofia non è da scartare: le sue possibilità sono inferiori ma rappresenta pur sempre una strada alternativa, sostiene Tommaso, per instaurare un’intesa con Dio. Dell’esistenza di Dio, Tommaso forní in specie cinque prove nella Summa teologica, sua opera fondamentale: Dio esiste perché ogni movimento presuppone una spinta, quindi un altro movimento, e perciò dev’esserci un primo motore, immobile; esiste perché ogni effetto scaturisce da una causa efficiente, e perciò dev’esserci una causa originaria; esiste perché le cose naturali sono contingenti, e perciò dev’esserci una causa necessaria; esiste perché le cose sono piú o meno perfette, ma mai del tutto, e perciò dev’esserci una perfezione assoluta; esiste perché ogni cosa tende a un proprio fine, e quindi dev’esserci un fine ultimo e supremo. Tutto ciò serviva all’uomo colto medievale, che aveva superato la svolta delle paure millenaristiche, ma non era comunque accettabile per tutti. La fede da sola non bastava, ma non era cosí facile ammetterlo. L’esistenza di Dio andava dimo-

Nella pagina accanto sant’Alberto Magno intento alla lettura, particolare dell’affresco raffigurante personaggi dell’Ordine domenicano realizzato da Tommaso da Modena nella Sala del Capitolo dei Domenicani del Seminario Vescovile (ex convento di S. Nicolò), a Treviso. 1352.


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Il pensiero teologico


AVVICINARSI A DIO GRAZIE AI NUMERI La cristianità medievale, per quanto dominata intellettualmente dalla filosofia scolastica, non fu pregiudizialmente chiusa alla comprensione dei misteri propri di altre culture religiose. La conoscenza della cabala e del pensiero neoplatonico fu tra gli scopi perseguiti da studi che raggiunsero il loro apice sul finire del Medioevo, quando filosofi come Giovanni Pico della Mirandola e Marsilio Ficino formularono le premesse per una dottrina sincretica ebraico-cristiana, supportata peraltro da materiali di varia acquisizione, desunti dalle culture piú disparate. Il momento piú intenso di tale ricerca fu espresso dalle novecento tesi di Pico della Mirandola su un progetto di concordia «universalis», fondato sull’utopia di poter giungere a una pacificazione delle coscienze tra civiltà fino allora lontanissime tra loro. A questo disegno di spropositata grandezza, che avrebbe avuto bisogno di restare gelosamente segreto per poter

Nella pagina accanto il monumento in onore di san Bonaventura a Bagnoregio (Viterbo), cittadina che, nel 1221, diede i natali all’autore dell’Itinerario della mente in Dio, fondamentale opera del misticismo medievale.

essere realizzato sia pure in parte, il giovane Pico allude esplicitamente nella sua orazione Della dignità dell’uomo (1486), conclamando la sua volontà di armonizzare non soltanto la filosofia aristotelica e quella platonica, ma i principi essenziali delle religioni rivelate. Ciò che propugna è un nuovo sistema di pensiero, atto a risolvere qualsiasi quesito, di natura sia umana che divina. In che modo? Ricorrendo, dice Pico, all’ars numerandi, alla scienza del numero, alle grandi speculazioni pitagoriche, che per loro natura sono universali e avvicinano «qualitativamente» il pensiero umano a quello divino. Pico venne scomunicato per questo e rischiò il rogo. Una crisi religiosa lo spinse ad abbracciare l’integralismo penitenziale del Savonarola. Chiese e ottenne d’indossare l’abito domenicano sul letto di morte, dando però disposizioni perché la sua immensa biblioteca non venisse mai donata a un convento.

strata, ma bisognava farlo con umiltà, senza orgoglio. È comprensibile che uomini assillati dall’urgenza di una continua verifica su se stessi, sulle cose del mondo e sulla loro creazione, destassero quanto meno sospetto.

L’intelligenza è come un angelo

Un percorso del tutto diverso per la comprensione del mistero divino venne allora proposto dal francescano Bonaventura di Bagnoregio, che nella solitudine della Verna scrisse l’Itinerario della mente in Dio, una delle piú complesse testimonianze del misticismo medievale. La sua tesi era che l’intelligenza umana dovesse manifestarsi come l’angelo che proprio lí dove scriveva, nell’eremo della Verna, si era materializzato con ali di fuoco agli occhi di Francesco, recandogli il dono delle stimmate. È una immagine di grande suggestione letteraria, di cui l’autore si serve per dimostrare come non vi sia dottrina al mondo che possa esprimere piú di quanto l’umiltà di un cuore semplice può dire. È questo l’itinerario della sua mente nell’infinita luce divina, un cammino d’amore che respinge ogni «inutile» tentazione intellettuale per cercare la verità nell’abbandono alle ragioni di Dio. Da tanta semplicità derivò inizialmente il timore che, frequentando l’ambiente sofisticato delle università, il nitore dello spirito francescano potesse offuscarsi. Non fu cosí, e toccò proprio a Bonaventura dimostrarlo, insegnando la sua teologia elementare a Parigi, negli stessi anni in cui vi tenevano cattedra Alberto Magno e Tommaso d’Aquino. Significativa è la risposta che il «dottore serafico», come venne chiamato Bonaventura, diede all’anziano frate Egidio, che era stato tra i

primi compagni di san Francesco e nutriva quindi una certa diffidenza verso le disquisizioni filosofiche. «Dio vi ha fatto grandi doni d’intelligenza, maestro», lo aveva provocato amabilmente il frate, «ma noi che siamo senza scienza come faremo a salvarci?». «Per salvarsi», aveva risposto Bonaventura, «è sufficiente ricevere da Dio la grazia di poterlo amare». «Ma può un ignorante amare Dio come un dotto?». «Una vecchietta può essere in questo piú grande di un maestro di teologia». Ma quella di Bonaventura e degli intellettuali francescani era una semplicità solo apparente. Ne diede prova universale John Duns Scoto, cosí chiamato per le sue origini scozzesi, che fu anche detto il «dottor sottile» per l’intricata complessità dei suoi ragionamenti. La sua teoria del primato dell’amore su ogni altra forza del mondo è tutt’altro che un semplicistico arzigogolo: è la base di una dottrina tendente a favorire la navigazione dell’intelletto negli infiniti spazi della libertà divina, alla ricerca delle origini stesse del mondo creato. Anche Scoto, d’altronde, nel suo Trattato del principio di tutte le cose tenta di dimostrare, come Tommaso d’Aquino, l’esistenza di una causa prima e ultima, dotata di attributi eminenti e perfetti. Anche se il solo modo per arrivare alla comprensione di tale principio non è l’affanno razionalistico, diversamente da quanto invece lascia intendere Tommaso, ma l’elevazione mistica dell’anima verso lo specchio divino dei cieli. Per questo, pur essendo entrambi tesi alla ricerca di un medesimo Dio, principio e motore di tutte le cose, tomismo e scotismo rimasero incompatibili tra loro fino a quando la Scolastica nel suo insieme non fu superata. SANTI E RELIQUIE

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In odor di leggenda Nel corso del Medioevo le vicende dei santi alimentarono una vasta produzione letteraria. Merito di cronisti spesso illustri, ma non sempre capaci di rifuggire dall’agiografia

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i furono santi tra coloro che scrissero storie di santi. Esistono evidentemente realtà nelle quali non ci si può inoltrare oltre un certo limite senza esserne coinvolti, un limite che molti agiografi medievali superarono, immedesimandosi profondamente nei modelli rappresentati e lasciandosi contaminare dalle meraviglie narrate. Sosteneva Gregorio di Tours (538-594), vescovo franco d’età merovingia e gran relatore di miracoli, che bastava respirare l’aria dei luoghi nei quali certi santi erano vissuti per esserne rigenerati. Un potere speciale lo attribuiva alla terra in cui erano sepolti, sulla quale sosteneva aleggiasse un’aura talmente benefica da far affiorare lo spirito di santità in chi vi si accostasse. Era perciò possibile riconoscere i santi e misurarne l’effettiva grandezza, a suo dire, dall’atmosfera che si avvertiva sulle loro tombe. Nei suoi Sette libri dei miracoli, quattro dei quali dedicati a san Martino, protettore di Tours e oggetto di speciale venerazione tra i Franchi, Gregorio si sofferma sul potere scaramantico del terreno in cui sono inumate sacre spoglie. La maggior parte dei prodigi operati da Martino dopo la morte sarebbero pertanto avvenuti, secondo questo cronista di eventi sovrannaturali, grazie all’uso di cose o reliquie da porre in relazione alla tomba del santo. Una manciata di terra sepolcrale sarebbe perciò da considerare come un prezioso talismano, del quale servirsi per implorarne l’intercessione. Lo stesso Gregorio afferma di averne sperimentato la forza su se stesso, avendo chiesto e ottenuto la guarigione da una grave malattia prosternandosi sul sepolcro di Martino a Tours. La devozione popolare per san Martino lasciava ampi spazi a tali credenze. Basti dire che quello che si riteneva essere il mantello da lui donato a un povero veniva venerato come reliquia nazionale, in un apposito santuario, detto cappella in quanto destinato alla custodia della cappa. Da ciò il termine di cappellano per il prete preposto alla sua custodia. 102

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Oltre a questi resoconti favolosi, che comprendono anche opere sulla Gloria dei Martiri e sulla Gloria dei Confessori, cioè sui santi che diedero testimonianza della propria fede mediante il sacrificio della vita o la pratica quotidiana delle virtú cristiane, Gregorio scrisse una Storia dei Franchi in quindici libri, che è un prezioso documento della vita nelle Gallie all’epoca dei re merovingi. Anche in questa cronaca è presente l’elemento leggendario (il primo libro vuol essere, per esempio, una «storia universale» da Adamo a san Martino), ma non prevale sui fatti di cui l’autore ha cognizione diretta. Al centro del racconto è comunque la società ecclesiastica, con una particolare attenzione per la diocesi di Tours, di cui Gregorio fu vescovo per acclamazione popolare a partire dal 573, da quando aveva cioè trentacinque anni. Fu necessario l’intervento di re Siegeberto e della regina Brunechilde, alla cui corte aveva fino allora vissuto, per fargli accettare la mitria di quella che era una delle piú importanti sedi episcopali del regno merovingio. Gregorio avrebbe preferito vivere in disparte, scrivendo quietamente le sue storie: seppe tuttavia essere un vescovo coraggioso, in grado di difendere la sua gente dall’arroganza di una nobiltà barbarica, incline a ogni crudeltà. Fu tra le piú amate guide del popolo franco, convertito da poco, al quale trasmise la passione per il mondo spettacolare dei miracoli. È festeggiato il 17 novembre, data della morte, avvenuta in coincidenza dell’«estate di San Martino», cioè di quello scorcio d’autunno reso mite dalla pietà del santo piú caro alla sua sensibilità agiografica, che si era tolto i panni di dosso per riscaldare un mendicante.

La versione di Jacopo

Fu vescovo come Gregorio e cronista instancabile il domenicano Jacopo da Varagine (1230-1298), autore di quella Legenda aurea che è il piú vasto e famoso repertorio biografico dei santi, compren-

La Messa miracolosa, affresco facente parte del ciclo con storie di san Martino realizzato da Simone Martini nella cappella omonima della Chiesa Inferiore della basilica di S. Francesco ad Assisi. 1312-1317.



L’ETÀ DEI SANTI

Cronisti della fede A sinistra: Sant’Alberto Magno, di Tommaso da Modena (sec. XIV). Treviso, Seminario Vescovile.

sivo di 177 vite o ricorrenze d’interesse religioso. Oggi s’intende il termine «leggenda» in senso mitografico, come qualcosa d’immaginario, anche se sorretto da qualche fondamento storico. Ma il senso latino originario era piú semplice: una cosa «da leggersi» era legenda. In questa chiave volle servirsene l’autore della Legenda aurea, per esortare i devoti a leggere qualcosa di sacro ogni giorno. Diede perciò ai santi e alle festività annotate nel libro l’ordine del calendario liturgico, affinché fossero di stimolo quotidiano alla meditazione, nello spirito moderno delle rubriche dedicate al «santo del giorno». Contribuire alla conoscenza dei santi era considerato in età medievale uno dei piú efficaci apporti alla conversione dei tiepidi o degli infedeli. Per questo venne evidentemente beatificato Jacopo, pur non avendo gli stessi meriti pastorali di Gregorio di Tours. Con il quale ebbe tuttavia diversi punti di contatto: fu riluttante ad accettare la carica che gli veniva offerta di vescovo di Genova, ma vi fu costretto dopo qualche anno (nel 1292) da un preciso comando del papa. Divenne cosí guida di una popolazione divisa tra le fazioni dei Rampini e dei Mascarati (com’erano chiamati a Genova guelfi e ghibellini), oltre che in perenne tensione con le ostili repubbliche di Pisa e di Venezia. Non ebbe il polso fermo di Gregorio, ma compensò la sua scarsa attitudine al comando con il ricorso all’a104

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scetismo, infliggendosi digiuni e pene corporali, influenzato in questo, evidentemente, dall’esempio suggestivo dei santi di cui era impegnato a scrivere la storia, che vanno dagli apostoli e dai primi martiri alle coeve grandi figure di Francesco d’Assisi, Domenico di Guzman e Bonaventura da Bagnoregio. Prevale nella sua opera un’aneddotica che travalica la realtà conferendo a ogni vicenda una coloritura fiabesca: non v’è ostacolo che possa arrestare la forza sovrannaturale dei santi, né fiamma che possa divorarli o belva che non si lasci da loro ammansire. Miracoli e visioni sono per Jacopo eventi quotidiani. Ma anche il diavolo è molto attivo nelle campagne, nei conventi e dovunque aleggi spirito di santità.

Fonti autorevoli

Di particolare pregio poetico, nella Legenda, è la ricchezza di simboli e segni che spiegano l’origine – quindi le ragioni, il significato – di una tradizione religiosa, di una festività o di una solennità liturgica. Le fonti alle quali il domenicano asserisce di avere attinto sono molteplici e autorevoli: vi figurano tra gli altri sant’Agostino, san Bernardo, san Girolamo e il venerabile Beda, lo storico Cassiodoro ed Eusebio di Cesarea, celebrato come «padre della storia ecclesiastica». Jacopo pone spesso a confronto i loro scritti, analizzandone criticamente il contenuto, ma

In alto, a sinistra San Francesco e quattro miracoli, dipinto su tavola attribuito a un artista influenzato da Giunta Pisano e battezzato Maestro del Tesoro di San Francesco. 1265-1275 circa. Assisi, Museo del Tesoro della Basilica di S. Francesco.


eccelle soprattutto nel trarne una partitura di valori evangelici corrispondenti a ciò che l’immaginazione popolare si aspetta dall’ancestrale saggezza dei Maestri. In questo la Legenda aurea si distingue dalle antecedenti Vitæ dei santi, tendenti a ricalcare modelli dell’antichità classica, e soprattutto Svetonio, al quale si andavano pure ispirando gli annalisti profani, come il franco Eginardo, segretario e biografo di Carlo Magno. Alla severa essenzialità degli antichi si erano attenuti agiografi come sant’Atanasio nel redigere in greco una vita di sant’Antonio Abate, e san Paolino di Bordeaux, divenuto vescovo di Nola, nel raccontare come era sant’Ambrogio. Erano del resto biografie che nascevano da una

conoscenza diretta e personale del personaggio a cui si riferivano, spesso fondata su una corrispondenza epistolare di speciale valore documentale. Erano perciò aliene, di massima, dall’inserire nel racconto suggestioni d’ordine magico, ritenute riduttive dell’interesse obiettivo dei fatti. Superarle è però valso a produrre una letteratura del tutto speciale, intessuta di stupefacenti richiami, che pur enfatizzando gli accadimenti oltre i limiti della verosimiglianza non ne hanno tradito lo spirito. È stato cosí possibile, attraverso certe chimere agiografiche, mostrare la realtà per come appariva agli occhi dell’uomo medievale, consentendo all’uomo contemporaneo di decifrarla nella sua essenza profonda senza perdere di vista la propria.

Sulle due pagine San Girolamo penitente nel deserto, particolare di un trittico già attribuito al Maestro dell’Osservanza e ora riconosciuto come opera di Sano di Pietro. 1436. Siena, Pinacoteca Nazionale.

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L’Italia dei sacri resti

Durante i secoli del Medioevo, il culto delle reliquie conobbe una diffusione straordinaria a partire proprio dalla nostra Penisola. Roma, e non solo, divenne meta di intensi pellegrinaggi, volti a rendere omaggio, innanzitutto, ai corpi dei grandi martiri, oltre che a una miriade di «oggetti» della cui santità nessuno (o quasi) dubitava… di Chiara Mercuri


Processione della reliquia della Croce in Piazza San Marco, tempera e olio su tela di Gentile Bellini, 1496. Venezia, Gallerie dell’Accademia.


L’ETÀ DEI SANTI

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Reliquie d’Italia

ggetti inaspettati, frammenti di corpi, vesti, legni della Croce, chiodi, immagini e pietre miracolose. L’intera Penisola è attraversata da una rete invisibile di oggetti prodigiosi, chiusi nelle cripte delle chiese, dietro le nicchie, occultate dagli altari. Una storia antica, nata con la vittoria della fede cristiana in seno all’impero romano, ma che mostra chiari antecedenti nelle credenze dell’Italia preromana e, a volte, perfino nel retroterra protostorico. Confidare nell’intercessione dei santi, poter vedere con i propri occhi gli strumenti che hanno torturato un martire, o il Cristo stesso: ecco i sogni coltivati per secoli da moltitudini di pellegrini e fedeli. Ecco intorno a cosa sono sorti santuari e monumenti e si sono formate intere città: sulle speranze, sui bisogni piú urgenti, sulla ricerca continua del riscontro della benevolenza divina, sulla testimonianza di un esempio celebrato. È perciò inevitabile che nei cataloghi delle reliquie convivano leggende grottesche e tradizioni

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storicamente attestate, cosí come superstizioni e riscontri scientifici inattesi.

Un bisogno ineludibile

L’avvicendarsi dei culti e i processi storici in seno ai quali si sono sviluppati i fenomeni di devozione hanno spesso frainteso le reliquie che ne erano oggetto, finendo per distorcerle o tradirle. Ma anche a scorrere tale frastagliato e vario elenco con un occhio poco indulgente, o guidati dal pregiudizio che tutto ciò sia da derubricare al rango di «credulità popolare» – ammesso che si possa supporre l’esistenza di tale categoria – ci si rende conto di quanto valore, quanta importanza e quanta fiducia molte di tali reliquie abbiano avuto nel corso dei secoli. Un bisogno ineludibile dell’uomo, forse – e da sempre, per quello medievale – qualcosa di piú: una necessità, un obbligo, una caratteristica precipua. Eliminando le reliquie dal paesaggio del Medioevo italiano, tutto diventerebbe piú scuro, incomprensibile, irragionevole.

Nella pagina accanto Modena, Duomo. Le reliquie di san Geminiano. In basso, sulle due pagine pannello in avorio raffigurante Pulcheria (imperatrice romana d’Oriente e poi santa) che riceve le reliquie di san Giovanni Crisostomo. Manifattura bizantina, VI sec. Trier, Tesoro della Cattedrale.


Il termine latino reliquia significa «resto», «parcella». Nella letteratura cristiana esso indica il frammento corporeo di un santo e ha assunto, quindi, un significato positivo nell’accezione in cui esso è ormai inteso, ovvero come oggetto sacro, raro, prezioso, in molti casi dotato di poteri soprannaturali. Nei primi secoli dell’era cristiana, quando i martiri testimoniavano con il sacrificio della vita la propria fede, i loro corpi, oggetto di grande devozione, venivano deposti nei sarcofagi e rispettati nella loro integrità. In un secondo tempo, la necessità di moltiplicare i poli cultuali e di rispondere alle crescenti richieste di reliquie da parte di principi e prelati, fece sviluppare la pratica di smembrarli in parcelle, che furono inviate nelle varie diocesi e nei vari regni d’Europa. Nacque cosí un’altra categoria di oggetti sacri, i reliquiari, atti a contenere i frammenti dei corpi santi, che, essendo fatti di metalli e pietre preziose, accrebbero il potere evocativo della nozione di «reliquia»;

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Reliquie d’Italia A sinistra illustrazione da un manoscritto raffigurante il doge e i Veneziani in preghiera davanti alle reliquie di san Marco. XV sec. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana. Nella pagina accanto esterno di un reliquiario della Vera Croce. Manifattura bizantina, 955 circa. Limburg, Tesoro della Cattedrale. In basso reliquia di una larga porzione della calotta cranica di san Giovanni Battista. L’iscrizione indica una fattura bulgara, pertanto potrebbe essere stato un dono per la corte di Bisanzio. Istanbul, Museo di Topkapi.

nell’immaginario collettivo quest’ultima si legò, infatti, alla preziosità delle teche, che, inoltre, avevano un notevole valore pecuniario. Secondo quanto sostenuto già nel V secolo dal vescovo Paolino di Nola, le reliquie avevano la prerogativa di mantenere tutta la virtú dell’intero corpo del santo. Quanti si fossero dunque recati in pellegrinaggio presso i «resti» dei corpi santi, avrebbero potuto ottenere lo stesso tipo d’intercessione impetrabile nei grandi centri martiriali della cristianità.

Quando basta un contatto...

Nella classificazione delle reliquie, la Chiesa cattolica pose al vertice quelle associabili alla vita di Cristo: parti della Santa Croce, i chiodi della crocifissione, i frammenti della mangiatoia, la Sindone. Seguirono i resti dei santi: corpi interi, ossa, capelli, sangue, carne, nonché gli oggetti loro appartenuti – tuniche, scarpe, guanti, libri, breviari, immagini sacre, scritti autografi – e, nel caso dei martiri, gli stessi strumenti del martirio. Vennero infine considerate reliquie quelle «ex contactu», frammenti di stoffa posti a contatto con la tomba o con il corpo di un santo. Fin dai primi decenni dell’era cristiana, accanto al culto dei «resti sacri», si sviluppò anche un’altra forma di culto, resa alle immagini di 110

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L’ETÀ DEI SANTI

Reliquie d’Italia ti di riferimento, ma, soprattutto, con il valore civico che molti di questi culti assunsero: basti pensare ai celebri esempi di sant’Ambrogio a Milano o di san Marco a Venezia, dove la devozione resa ai patroni divenne un elemento costitutivo dell’identità cittadina. I riti collegati al culto delle reliquie – quali processioni, traslazioni, benedizioni, ostensioni, prediche – avevano una presa enorme sull’immaginario collettivo ed erano in grado di sviluppare un’efficace azione di propaganda su tematiche religiose e politiche. Le reliquie di Pietro a Roma, per esempio, offrirono il supporto ideologico per la costruzione della primazia del vescovo di Roma in Occidente. Il culto delle icone di Maria, invece, s’indirizzava contro le nascenti «eresie». Ogni culto del resto, cittadino e non, veicolava un messaggio precipuo che non è sempre facile decifrare, poiché non è infrequente che il trascorrere del tempo ne abbia occultati i contenuti giudicati urgenti solo al momento della sua affermazione.

I primi santuari martiriali

Sulle due pagine Lentate sul Seveso, oratorio di S. Stefano. Due scene dal ciclo di affreschi con le Storie di Santo Stefano, opera di scuola di Giovanni da Milano, eseguita intorno al 1370. La scoperta del corpo di Santo Stefano (in alto) e La traslazione del corpo di Santo Stefano.

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Cristo e della Madonna che dovevano supplire alla mancanza dei loro corpi ascesi al cielo. Tali raffigurazioni, che solo impropriamente possono essere affiancate alle reliquie vere e proprie, assunsero un’uguale importanza dal punto di vista della venerazione popolare e del significato storico culturale. Il potere taumaturgico riconosciuto alle reliquie dalle stesse gerarchie cattoliche fu infatti esteso anche alle immagini sacre, alcune delle quali considerate acheropite, ovvero non realizzate da mano umana (dal greco acheiropoietos). Spesso queste ultime giunsero in Occidente per sfuggire alla furia iconoclasta che si scatenò nel mondo bizantino a partire dall’VIII secolo. Il grande successo del culto delle reliquie non può essere spiegato solo attraverso il tenace attaccamento dei fedeli ai propri martiri e san-

Usciti dalla clandestinità grazie all’imperatore Costantino, i cristiani organizzarono subito i primi santuari martiriali, che divennero presto oggetto della devozione dei fedeli; il legame con i martiri e le loro reliquie aveva tuttavia già preso forma durante l’epoca delle persecuzioni. Ne è evidente testimonianza il culto reso alle spoglie di Pietro e Paolo. I primi secoli di vita della comunità cristiana a Roma furono segnati da una condizione di semiclandestinità, a cui si alternarono brevi ma crudeli persecuzioni. Sin dalla prima, promossa da Nerone nel 64 d.C., i cristiani cercarono di raccogliersi intorno alla memoria dei primi martiri, gli apostoli Pietro e Paolo, che ne furono vittime. Nel corso del II secolo la comunità crebbe, fino a diventare, nel secolo successivo, una presenza significativa nel variegato panorama cittadino. In questa fase, proprio tra la metà e la fine del III secolo, essa subí le persecuzioni piú violente e sanguinose, durante le quali furono uccise decine e decine di suoi appartenenti. E, nei momenti piú bui, i cristiani trovarono la forza per resistere guardando all’esempio dei martiri. Le sepolture di Pietro e Paolo, per esempio, erano visitate dai fedeli già in epoca antichissima. Nelle parole del presbitero Gaio, giunto a Roma all’epoca di papa Zefirino, e cioè tra il 199 e il 217, si allude a «trofei» (probabilmente piccole strutture a forma di edicola) che segnalavano le tombe degli apostoli: «Io posso mostrarti i trofei degli apostoli. Se vorrai recarti nel Vati-


cano o sulla via di Ostia, troverai i trofei di coloro che fondarono questa Chiesa». Il trofeo di Pietro si trovava infatti nel vasto cimitero che sorgeva sul fianco del Colle Vaticano, nel quale era stato deposto dopo l’esecuzione avvenuta nel prospiciente circo di Caligola, mentre quello di Paolo lungo la via Ostiense, poco distante dal luogo dell’esecuzione sulla via Laurentina. Il culto dei martiri si intensificò anche con la nascita, quasi sempre nei luoghi del martirio (sebbene in alcuni casi fossero invece legati anche alla loro abitazione, o al luogo della predicazione), dei santuari-memoria, nei quali, quindi, non vi erano vere e proprie reliquie, intese come resti del corpo. Dopo la pace religiosa imposta da Costantino, la Chiesa riorganizzò le tombe dei martiri e iniziò a segnalarle, affinché potessero essere distinte da quelle degli altri defunti. Le primitive scarne iscrizioni furono sostituite da lapidi piú monumentali ed elogiative. Sono famose le iscrizioni di papa Damaso (metà del IV secolo), che, oltre al valore memoriale, rivestono anche una notevole importanza artistica per lo sforzo compiuto nell’elaborazione di un tipo di scrittura chiara ed elegante.

Preghiere notturne

Sempre a partire dall’età di Costantino, su alcune tombe furono costruite vere e proprie basiliche. Le commemorazioni annuali della morte del martire assunsero una solennità particolare e tali luoghi divennero anche importanti mete di pellegrinaggio. In particolare, tra il V e il VI secolo, si diffuse la pratica di commemorare il «dies natalis», il giorno della morte del santo, ritenuto perciò il giorno «natale» – di nascita – in Cristo. Sul luogo della sepoltura, alla vigilia di tali celebrazioni, si accendevano luci e si trascorreva la notte in preghiera. Si diffuse anche la consuetudine di leggere testi che raccontavano la vita e la «passione»; da queste letture prese avvio la letteratura agiografica: le Passioni – cioè i racconti delle torture e del martirio –, da semplice affiancamento della celebrazione liturgica, divennero un genere romanzesco, capace di colpire a fondo l’immaginario del pellegrino medievale. Le celebrazioni sulla tomba del martire segnarono anche l’affermarsi dell’invocazione ai santi. Sebbene si trattasse di una consuetudine esistente anche tra i primi cristiani, essa era assai limitata dal punto di vista liturgico. Fu il vescovo di Milano, Ambrogio, alla fine del IV secolo, a esortare invece i fedeli a indirizzare le loro preghiere ai martiri, affinché intercedesseSANTI E RELIQUIE

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ro per il perdono dei propri peccati. La preghiera ai martiri entrò cosí a far parte della Preghiera Eucaristica, e il Canone Romano è ancora testimone di tale tradizione. Il legame tra sangue dei martiri ed eucaristia è testimoniato anche dal costume, divenuto poi obbligatorio, d’includere reliquie nell’altare di ogni chiesa al momento della dedicazione. Questa pratica favorí lo smembramento dei resti sacri e la traslazioReliquiario contenente un frammento della Vera Croce. XIV sec. Forlí, Tesoro del Duomo. La chiesa cattedrale della città romagnola, sorta nei primi secoli del cristianesimo e originariamente intitolata alla Santissima Trinità, fu ri-dedicata alla Santa Croce dopo l’acquisizione del frammento del sacro legno. Nella classificazione delle reliquie, la Chiesa pose al vertice quelle piú strettamente riferibili alla vita di Cristo, come parti della Santa Croce, appunto, chiodi della Crocifissione, frammenti della mangiatoia o la Sindone.

ne di numerose reliquie. Tuttavia, soprattutto agli inizi, il principio dell’intangibilità delle sepolture, eredità della legislazione romana, costituí a lungo un forte ostacolo a tale pratica. Ancora nel 594, papa Gregorio Magno affermava che non fosse «consuetudine dei Romani» staccare parti del corpo dei defunti; e su tale base argomentativa respinse la richiesta dell’imperatrice bizantina Costantina di consegnarle la testa dell’apostolo Paolo per la grandiosa basilica, in via di realizzazione, a Costantinopoli in onore del santo. Nell’Alto Medioevo, però, l’uso di smembrare i corpi per prelevarne reliquie, finí per prevalere, soprattutto per motivi squisitamente politici. Il declino del potere imperiale – unito all’urgente necessità di gestire la cosa pubblica – elevò i vescovi al ruolo di amministratori del potere civile. La sintesi tra funzione religiosa e civile dei vescovi cittadini raggiunse l’espressione piú evidente nella gestione dei santuari, che diven-


In basso trittico reliquiario di Simone dei Crocifissi (al secolo Simone di Filippo Benvenuti). 1361-1370. Parigi, Museo del Louvre. La presenza dell’opera è documentata a Bologna nel 1399. Le reliquie erano originariamente custodite nelle piccole nicchie ricavate nella base del manufatto. Sulle ante sono raffigurati una Madonna con Bambino, san Giovanni Battista (a sinistra) e santa Maria Maddalena.

nero non solo centri di pellegrinaggio e devozione, ma anche poli di aggregazione della vita rurale e urbana, di formazione di una coscienza civica, di protezione sociale.

L’impegno dei vescovi

Tra i pensatori cristiani che, piú di altri, promossero il culto delle reliquie figura il già citato Paolino di Nola, vescovo in Campania alla fine del V secolo. La sua azione orientata alla costruzione del grandioso santuario di Cimitile va letta proprio nell’ambito della battaglia condotta dai vescovi per imporre il culto delle reliquie nelle rispettive città a partire dal IV e per tutto il V secolo, periodo durante il quale furono edificati

In alto teca in argento nella quale si conserva il braccio di san Bonaventura da Bagnoregio. 1491. Bagnoregio (Viterbo), cattedrale di S. Nicola. Il sacro resto fu portato nella cittadina laziale da Francesco Sansone, Ministro Generale dell’Ordine dei Francescani, all’indomani della ricognizione e della traslazione del corpo del santo operate a Lione il 14 marzo 1490. Nato nel 1217 nella frazione di Civita di Bagnoregio, Bonaventura morí nel 1274 e venne canonizzato il 14 aprile del 1482 da papa Sisto IV. SANTI E RELIQUIE

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Nella pagina accanto Roma, basilica di S. Pietro. Il monumentale baldacchino, opera di Gian Lorenzo Bernini, sovrastante l’altare papale, a sua volta posizionato esattamente sopra la tomba di san Pietro. Sullo sfondo, si distingue la Cathedra Petri, reliquiario barocco in bronzo, anch’esso realizzato dal Bernini, contenente all’interno una cattedra in legno di quercia che, secondo un’antica tradizione, veniva usata dal principe degli apostoli durante le prediche.

santuari che divennero simbolo dell’autorità politica assunta dai presuli. Paolino si rallegrava di aver costruito sulla tomba di san Felice un cimitero talmente grande da sembrare una città, capace di attirare folle di pellegrini. Anche in Oriente si assistette a un fenomeno analogo: a Gerusalemme, per esempio, il ruolo del patriarca si definí anche in relazione al culto della Vera Croce; solo il patriarca aveva la facoltà di esporla alla venerazione dei fedeli, di portarla in processione il Venerdí Santo, e nel giorno anniversario della dedicazione della basilica costantiniana del Martyrium. Soprattutto, egli era il solo che poteva frammentarla e inviarne piccoli campioni negli altri centri della cristianità. Proprio come il papa e i vescovi nelle rispettive regioni, il patriarca di Gerusalemme divenne quindi protagonista nella diffusione del culto della Croce attraverso un’intensa attività di frammentazione e scambi di reliquie che, tra il V e il VI secolo, non conobbe confini, né divisioni tra Oriente e Occidente. Da Gerusalemme a Costantinopoli, da Roma a Tours, il mondo cristiano si legò in un invisibile e arcano intreccio di minuscole tessere: le reliquie.

Alla scoperta dei mirabilia

Per i pellegrini medievali, recarsi a Roma significò sempre giungere «ad limina apostolorum». Il carisma e la capacità attrattiva della città si costruí infatti su due pilastri: l’eredità dell’impero romano e il sangue dei martiri. Le guide bassomedievali dell’Urbe – i mirabilia – dimostrano che si andava a Roma per pregare sulla tomba dei martiri, ma si visitavano anche le stupefacenti rovine dell’antichità. Nelle altre città della Penisola, invece, il culto dei santi martiri si legò presto al primo vescovo cittadino, colui che spesso aveva dato vita alla originaria comunità locale cristiana e ne aveva quasi sempre, all’epoca delle persecuzioni, pagato le conseguenze fino al martirio. Importanti luoghi di venerazione di protovescovi martiri furono quelli dedicati ad Agrippino e Efebo a Napoli, Marciano a Siracusa, Romano e Tolomeo a Nepi, Agostino a Capua, e Apollinare a Classe, presso Ravenna. A partire dal corpo del primo vescovo, cominciarono a sorgere i cimiteri comunitari, e le famiglie piú facoltose facevano a gara per esservi seppellite piú vicino possibile, dando vita al fenomeno delle «sepolture privilegiate». La propensione a farsi tumulare presso i santi riguardò anche i grandi vescovi del mondo antico: come Paolino di Nola, Ambrogio di Milano e Giovanni di Napoli.

Particolarmente significativa fu la nascita del culto di Gennaro a Napoli, destinato poi ad avere enorme successo; nella città partenopea, il culto dei santi acquisí una connotazione particolare, poiché la mancanza di martiri locali indusse alla venerazione di testimoni di altre comunità campane e, successivamente, di santi orientali. Le reliquie di Gennaro – vescovo di Benevento e martire dell’epoca dioclezianea – furono traslate dal Marcianum (un villaggio rurale localizzabile agli inizi della regione vulcanica dei Campi Flegrei, n.d.r.) a Capodimonte dal vescovo Giovanni, determinando lo sviluppo della Catacomba Superiore. Il legame che accomunava vescovi e santi riscoperti, indusse Giovanni – come si accennava – a predisporre per se stesso e i propri successori un ambiente di sepoltura privilegiato, la cosiddetta «Cripta dei Vescovi». Lo sviluppo delle catacombe di Capodimonte, dunque, fu incoraggiato dalla traslazione delle reliquie di Gennaro dal territorio puteolano. A Milano, invece, il culto delle reliquie venne potentemente rilanciato da una delle figure centrali dei primi secoli dell’era cristiana: Ambrogio. Fu lui, vescovo della capitale politica dell’impero d’Occidente, a dare il via a scavi nei cimiteri milanesi e a porre al centro della sensibilità cristiana la riscoperta dei corpi dei martiri. Ogni scoperta portava alla costruzione di un santuario e ogni nuovo edificio di culto segnava una vittoria sul fronte della lotta all’eresia ariana e alla politica laicista, che Ambrogio si trovò a contrastare piú volte in seno alla corte imperiale. Ulteriori invenzioni (qui intese come ritrovamenti, dal latino invenire, trovare, n.d.r.) e valorizzazioni di reliquie si susseguirono in altre regioni d’Italia, come a Bologna con i santi Vitale e Agricola. I piú importanti vescovi scoprivano e davano valore alle reliquie: nelle diocesi di Capua, Trento, Nomentum e Amiterno il ricordo dei santi fu curato da personaggi del calibro di Simmaco, Vigilio, Orso e Quodvultdeus.

Nel segno dell’aggregazione

Ogni città tendeva a realizzare il proprio centro vescovile – la cattedrale che custodiva la sedia episcopale – a partire dalla memoria di martiri locali o provenienti da altre aree. In tale fase, dunque, i centri vescovili sorgevano spesso appena fuori e sul margine dell’area abitata, nel rispetto all’antica legge romana che vietava le sepolture tra le case. Presso tali centri si esercitava gran parte dell’attività religiosa dei fedeli, essendovi la coincidenza topografica tra sede episcopale, battistero e cimitero comunitario. SANTI E RELIQUIE

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L’ETÀ DEI SANTI Sulle due pagine miniatura raffigurante pellegrini e infermi risanati per opera della reliquia del Chiodo della Santa Croce, da un’edizione manoscritta di scuola francese de Les Grandes chroniques de France. XIV sec. Londra, British Library.

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La storia cultuale di ogni città era ancora una storia di aggregazione intorno al proprio cimitero di riferimento, attorno al martire, presso cui erano sepolti – quanto piú possibile vicino a esso – i propri congiunti. In ciò si stava stabilendo una vera e propria rottura con il mondo antico. Nuovi centri di aggregazione nacquero ai bordi delle aree urbane, le decentrarono, spesso frammentandole e favorendo la decadenza di quelli che erano stati un tempo i nuclei di attività, i fori. Nella costruzione delle chiese cimiteriali, per far sí che i pellegrini potessero avvicinarsi il piú possibile alla tomba del martire, gli architetti escogitarono soluzioni complesse, come, per

esempio, la cripta semianulare che permetteva ai fedeli di scendere presso la tomba e osservarla da una finestrella (fenestella) e su di essa, anche per un solo istante, appoggiare pezzi di tessuto o piccole croci, in modo che divenissero, esse stesse, reliquie per contatto (ex contactu). Accanto alle chiese martiriali si svilupparono poi importanti monasteri dotati di vari servizi; si aprirono strutture di carattere commerciale (botteghe per l’acquisto di souvenir – ampolle, chiavi, eulogie –, alberghi e locande), affiancate da luoghi di accoglienza e caritativi, promossi a partire da papa Simmaco. S. Pietro in Vaticano acquisí una vera e propria specializzazione in tal senso: con le sue cinque diaconie garantiva


A destra Cimitile, basilica di S. Felice. Uno scorcio dell’interno della chiesa con, in primo piano, l’edicola mosaicata contenente la tomba con le spoglie del santo.

un efficace servizio nell’assistenza ai poveri e ai pellegrini. Presto, tali cambiamenti portarono alla sovrapposizione di una nuova topografia cristiana sul corpo delle città antiche.

Si svuotano le catacombe

Tale processo si protrasse per secoli, fino all’Alto Medioevo, quando le città conobbero una nuova e brusca trasformazione, che coincise con le fasi piú acute – tra il VII e l’VIII secolo – di emergenza militare. Le aree suburbane si spopolarono, salvo alcuni luoghi, che vennero fortificati. Le antiche chiese martiriali furono per lo piú abbandonate, le reliquie dei martiri trasferite nelle aree urbane e le catacombe svuotate di buona parte dei corpi. Le traslazioni si resero necessarie a partire dalla metà dell’VIII secolo, di fronte alla sempre piú aggressiva pressione longobarda e alle prime incursioni arabe. Tali massicci trasferimenti segnarono la fine della devozione religiosa tardo-antica e l’inizio di quella medievale. A Roma, com’è immaginabile, il fenomeno fu particolarmente imponente, sia per motivi quantitativi – altissimo era il numero di martiri sepolti nelle catacombe –, sia per la sua portata politica e simbolica. Artefice della traslazione piú imponente fu papa Pasquale I (817-824). Egli si trovò costretto a cercare per le reliquie una nuova collocazione, tale da garantirne il culto. In alcuni casi vi riuscí, fondando nuove chiese entro le mura. Molte reliquie, però, non trovarono collocazione e finirono con l’essere accumulate in quello che divenne il grande deposito pontificio di resti sacri, la chiesa di S. Prassede all’Esquilino, edificata appositamente da Pasquale. Qui egli realizzò una cripta semianulare sul modello di quella di S. Pietro, per consentire il diretto contatto tra fedeli e reliquie. S. Prassede, dunque, SANTI E RELIQUIE

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L’ETÀ DEI SANTI Sulle due pagine Napoli. Il vestibolo superiore della catacomba di S. Gennaro, le cui volte conservano affreschi databili al II sec. Di questo ambiente fa parte la Cripta dei Vescovi, nella quale furono appunto tumulati alcuni dei primi presuli della città partenopea.

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fu destinata alla conservazione delle reliquie dei martiri estratti dalle catacombe romane, a differenza dell’altro grande deposito cittadino, quello del Sancta Sanctorum, in Laterano, nel quale si accumularono le reliquie gerosolimitane. La chiesa fu intitolata alla martire Prassede, perché la giovane era stata a suo tempo martirizzata proprio per aver dato, insieme alla sorella Pudenziana, sepoltura ai primi martiri: si prestava quindi a simboleggiare lo sforzo di recupero delle reliquie compiuto dallo stesso Pasquale.

Con la traslazione delle reliquie nelle città, non tutte le chiese cimiteriali furono, però, abbandonate. Laddove la traslazione del martire non era opportuna – per il prestigio della chiesa, per la presenza di grandi monasteri o per la sacralità stessa della memoria –, la funzionalità religiosa perdurò o addirittura conobbe un grande rilancio. È il caso di S. Pietro in Vaticano, che non era stata abbandonata, ma, trovandosi fuori dalle mura, fu messa a sacco con facilità da una spedizione araba nell’846. Dopo tale


A destra San Carlo e Sant’Ambrogio in adorazione del Santo Chiodo, olio su tela di autore anonimo. XVII sec. Milano, Pinacoteca Ambrosiana.

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In alto la lapide marmorea che ricorda la colossale opera di traslazione promossa da papa Pasquale I agli inizi del IX sec. Roma, basilica di S. Prassede. Nella pagina accanto Roma, basilica di S. Prassede. Particolare del mosaico che orna il catino absidale, in cui compare la santa martire a cui la chiesa è intitolata. IX sec.

evento, la chiesa fu annessa alle antiche mura cittadine grazie alla realizzazione di una nuova cinta. Nella stessa Roma – sempre tra il IX e il X secolo – furono fortificate anche S. Lorenzo e S. Paolo, che rimasero isolate nella campagna, ormai vere e proprie città-satellite: Laurenziopoli e Giovannipoli. Nel X secolo, a Napoli, minacciata dalle incursioni saracene, i maggiorenti cittadini furono costretti a malincuore a distruggere il castello luculliano, che sorgeva sull’altura di Pizzofalcone e che, se fosse stato occupato, avrebbe trascinato nell’insicurezza l’intera città. All’interno del castello sorgeva un santuario dedicato a san Severino, costruito per esso dall’esule Romolo Augustolo e da sua madre, nativi del Norico, rinserrati in quel luogo da Odoacre. Le spoglie di Severino furono quindi portate all’interno della città – dando vita alla chiesa di S. Severino e Sossio – e il castello che aveva ospitato l’ultimo imperatore, insieme al mausoleo originario del santo, venne raso al suolo. Dopo le traslazioni, molti dei culti tributati ai primi martiri cristiani, pur restando importantissimi patroni delle città, conobbero un inevitabile declino.

La centralità teologica di Maria

L’unico esempio di devozione paragonabile, per intensità, a quello rivolto verso i martiri, fu il culto della Vergine. Cosí come quello tributato alla figura di Gesú Cristo, esso escludeva il culto dei corpi, dal momento che le loro tombe – com’è noto – erano sepolcri vuoti. La piena af-

fermazione della centralità teologica della Madre di Dio si ebbe nella prima metà del V secolo con il Concilio di Efeso (431). La maternità virginale di Maria – che la innalzava dalla semplice condizione umana – concludeva di fatto la discussione sulla doppia natura, umana e divina, dello stesso Cristo. Molti pensatori cristiani, quali Ambrogio, Agostino e Girolamo, contribuirono poi ad affermare, attraverso Maria, l’importanza del battesimo. Col sacramento del battesimo, i cristiani, fecondati a nuova vita dallo Spirito Santo, divenivano «fratelli in Cristo, cioè nello spirito»; venivano cosí a cadere anche le discussioni sui presunti fratelli di sangue di Cristo di cui parlavano i Vangeli apocrifi. In Occidente, quindi, la devozione nei confronti di Maria si affermò proprio con la fondazione di una prima grande chiesa a Roma, per volontà di papa Sisto III (432-440), S. Maria Maggiore. Tuttavia, la devozione nei confronti di Maria fu sempre condizionata dalla preminente attenzione teologica verso il Figlio, e, per tale motivo, la stessa chiesa fondata da Sisto divenne nota come S. Maria ad presepem, in riferimento all’elemento di culto centrale della basilica, che, a partire dal VII secolo, fu la reliquia della «culla del Signore». Perfino nel giorno dell’Ascensione in Cielo di Maria, tra il 14 e il 15 agosto, quando si svolgeva una intensa processione – alla cui testa si portava la venerata icona della Vergine custodita nella chiesa –, il cardine della liturgia restava la figura del Figlio: l’immagine sacra incontrava, SANTI E RELIQUIE

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Terra invetriata raffigurante la consegna delle reliquie della Madonna alla collegiata di S. Lorenzo. Scuola robbiana, XV-XVI sec. Montevarchi, Museo della Collegiata di S. Lorenzo. infatti, l’icona del Salvatore, portata in processione dalla Scala Santa. L’esplosione del culto di Maria in Occidente ebbe – in particolare a Roma – un altro grande effetto: la nascita della devozione verso le icone mariane. Come si è accennato, non si può, nel caso delle icone, parlare di vere e proprie reliquie, ma, come per altri oggetti di venerazione, al livello della devozione i due fenomeni cultuali s’intrecciarono, si sovrapposero, s’interscambiarono, divenendo di fatto indistinguibili. Le icone si diffusero in Occidente per effetto di una precisa contingenza storica: la guerra dichiarata alle immagini, nel 726, dall’imperatore bizantino Leone III, detta, appunto, iconoclastía (dai termini greci eikon, immagine, e klao, rompere, n.d.r.). La nuova legge vietava di ritrarre ciò che a motivo della sua divinità non poteva essere rappresentato: Gesú, la Madonna, i santi e gli angeli. Le immagini esistenti dovevano inoltre essere distrutte, per far cessare quello che veniva giudicato come culto idolatrico dell’immagine, in luogo della persona sacra. La Chiesa di Roma si oppose strenuamente all’iconoclastia, favorendo l’afflusso massiccio in Occidente di molte venerate icone, in fuga dalle sconsiderate distruzioni imperiali.

Alla maniera greco-bizantina

Sin dal VII secolo, dunque, in particolare a Roma, fiorí il culto delle icone sacre, ritenute fino a pochi decenni fa di origine orientale, ma che in molti casi, si sono invece rivelate di fattura autoctona, seppur fedeli all’impianto iconografico bizantineggiante. Molte delle icone mariane venerate a Roma, infatti, furono dipinte in città, quando gran parte dell’Italia mediterranea si trovava sotto l’influsso della cultura grecobizantina. Tra il 678 e il 752, del resto, ben 11 dei 15 papi eletti erano greci. I monasteri orientali diffusero la venerazione di nuovi santi, quali Anastasio, Ciro e Giorgio, e, soprattutto, incrementarono la diffusione del culto mariano. In quei decenni ogni chiesa romana si dotò di una icona mariana: S. Maria in Portico a Campitelli, S. Maria in Trastevere, S. Maria ad Martyres (il Pantheon), S. Maria Antiqua al Foro Romano e S. Maria Maggiore, la cui icona mariana, la Salus Populi Romani, divenne presto la piú venerata della città.

Il culto delle icone si diffuse in ogni ambito di devozione, anche tra quelli che non erano strettamente legati ai martiri. Per fare un esempio, fra i culti piú sentiti nel Medioevo romano vi era quello di Alessio, sull’Aventino, uno dei pochi santi non martiri del cristianesimo primitivo. Quando sul colle si stabilí un monastero abitato da monaci orientali, il suo culto conobbe una deformazione in senso sempre piú mariano, finché, nel santuario a lui dedicato, il suo culto non si traspose in quello di una icona di Maria. Con la fine della persecuzione iconoclasta, alla metà del IX secolo, nelle aree bizantine del Mediterraneo riprese in modo massiccio la produzione di icone, che smisero di essere una caratteristica eminentemente romana. Molte chiese dell’Italia meridionale e delle altre regioni di influsso greco-orientale se ne dotarono. Particolarmente significativa fu l’adozione, a Venezia, di una preziosissima Icona di San Michele, un vero e proprio capolavoro dell’oreficeria medievale, interamente lavorata in oro, argento, pietre preziose, cristalli e smalti colorati, e oggi conservata nel Tesoro della Basilica. Come vedremo, la realizzazione di alcune di queste immagini fu attribuita ad azione angelica, ovvero a «mano non umana», come l’icona lateranense del Salvatore o il Volto Santo di Lucca.

Religiosità rupestre

Nell’Italia medievale, la devozione verso i poteri taumaturgici degli angeli conobbe un altro grande filone cultuale, legato in questo caso alla presenza longobarda in alcune aree della Penisola. In Puglia fiorí il celebre culto di san Michele Arcangelo, sul Gargano, che richiamava arcaiche simbologie della religiosità rupestre e attirava pellegrini da ogni parte d’Europa. I Longobardi, e poi i Normanni, vedevano in san Michele – angelo guerriero – una figura assai vicina alle divinità di cui erano adoratori. Nel corso del Medioevo, le città italiane – e dell’Europa occidentale in genere – non vollero piú limitarsi a mostrare con orgoglio le reliquie dei propri martiri paleocristiani e le misteriose icone mariane. Esse vollero stabilire un legame privilegiato con la Terra Santa, con la figura di Cristo e con la vicenda della Passione. È interessante osservare come alla base della nascita di tali culti non vi sia stato alcun fenomeno di devozione spontanea, come avvenne invece per le icone, venerate dapprima in piccole cappelle, poi ampliate per il grande concorso di popolo. Le reliquie della Passione furono sempre connesse al potere, civile o religioso che fosse; si SANTI E RELIQUIE

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trattò cioè di culti imposti «dall’alto», piuttosto che di devozioni sviluppatesi «dal basso». A Roma, come a Costantinopoli, tali reliquie erano venerate in due punti emblematici della mappa topografica del potere: la cappella privata del papa e quella dell’imperatore. Le reliquie imperiali di Costantinopoli – giunte dalla Terra Santa dopo le invasioni arabe – si diffusero in Occidente dopo la IV crociata, quella che nel 1204 i Veneziani deviarono sulla capitale dell’impero bizantino, permettendo il saccheggio delle sue chiese. Molte di queste reliquie furono anche vendute o donate dai nuovi imperatori latini della città, o giunsero a seguito di viaggi e pellegrinaggi dalla Terra Santa. In questo periodo si diffusero a Roma reliquie inverosimili quali l’ombelico di Cristo, il prepuzio, le spine dei pesci moltiplicati nel deserto, il pane e le dodici lenticchie dell’Ultima Cena, che – nella quasi totalità – andarono a incrementare il tesoro della cappella privata dei papi al Laterano. Ma la lista può essere facilmente ampliata, se si fa un censimento complessivo in tutta Europa: accanto agli oggetti di piú antica venerazione e tradizione – come i frammenti della Croce, i chiodi e la corona di spine –, si trovano la lancia di Longino, il titulus con i motivi della condanna, il mantello rosso della derisione, il Santo Graal usato da Giuseppe d’Arimatea per raccogliere il sangue sgorgato dal costato di Cristo, la tunica, i dadi con i quali i centurioni giocarono la sorte, la canna con cui si porse la spugna imbevuta d’aceto (anch’essa divenuta reliquia), la scala per la deposizione dalla Croce, il martello per i chiodi, il gallo che cantò al mentire di Pietro...

In basso il mantello di Chiara d’Assisi. La reliquia è conservata, assieme ad altre, nella basilica intitolata alla santa, ad Assisi.

Prestigio e... profitti

Nella pagina accanto icona raffigurante san Michele, da Costantinopoli. Smalto, argento, oro e pietre preziose. XI sec. Venezia, Tesoro della basilica di S. Marco.

Possedere una reliquia voleva dire acquisire prestigio, visibilità o anche attirare pellegrini, con conseguente afflusso di donazioni, a cui si accompagnava – per gli abati e i vescovi – la crescita del potere religioso e politico. Una certa parte di tali reliquie era legata inoltre alla tradizione dei Vangeli apocrifi: in particolare il sudario posseduto dall’emorroissa, denominato «Veronica» (la «vera icona»), o il Santo Graal. Allo stesso Vangelo apocrifo – il Vangelo dello 126

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Pseudo-Giuseppe d’Arimatea, inoltre, si deve la venerazione per la «Sacra Cintola» – la reliquia donata dalla Vergine a Tommaso al momento dell’Assunzione –, venerata a Prato. Cosí, mentre la Chiesa, definendoli «apocrifi», aveva da tempo espulso i Vangeli scritti secoli dopo quelli ufficiali, vicende ed episodi in essi narrati continuarono a generare interesse e a far nascere un numero incredibile di nuove reliquie e devozioni. Anche per tali ragioni, la Chiesa finí per guardare con sempre maggior sospetto a ritrovamenti, traslazioni e devozioni poco ortodosse a esse legate. Nei primi secoli del cristianesimo, come abbiamo visto, furono i martiri, coloro i quali avevano «testimoniato» (martyr, cioè testimone) la fede cristiana con il sacrificio supremo, a essere oggetto di devozione e venerazione. Con lo scorrere dei secoli, si passò poi a prendere in considerazione anche coloro che avevano contribuito a diffondere la fede cristiana in maniera eccezionale. Del resto, terminata la cupa epoca delle persecuzioni, era divenuto sempre piú raro che si fosse costretti a testimoniare con la vita il proprio credo. Si assistette cosí al naturale passaggio dal culto dei martiri a quello dei santi, i quali furono trattati allo stesso modo, venerando i loro corpi e, in alcuni casi, smembrandoli in reliquie. Il passaggio «fisiologico» dal culto dei martiri a quello dei santi non impedí, tuttavia, che essi fossero spesso riscoperti e reinterpretati come icone del sentimento identitario cittadino. La proliferazione di reliquie in età bassomedievale, infatti, va messa in relazione con l’azione di propaganda dei rinascenti Comuni italiani. Esse furono usate in funzione polemica per affermare l’autonomia o la supremazia del proprio centro cittadino rispetto ad altri. Ne nacquero documenti e leggende volti a magnificare le reliquie appartenenti al proprio campanile, spesso con l’intento di rivendicare l’indipendenza dal potere imperiale, da un potere comunale antagonista o dal mai tramontato potere episcopale. Con la ripresa dell’attivismo mercantile urbano, le rifiorenti città italiane – per prime le città costiere protagoniste del commercio marittimo, cioè le «repubbliche marinare» – sentirono il bisogno di possedere reliquie sempre piú pre-



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SANTI E RELIQUIE

Reliquie d’Italia


Madonna della Cintola (particolare). Tempera su tavola di Filippo Lippi e aiuti. Il maestro iniziò il dipinto nel 1456, che fu però completato dai suoi collaboratori dieci anni piú tardi. Prato, Museo di Palazzo Pretorio. L’opera ritrae la Vergine che dà la Cintola a san Tommaso, tra la committente, Bartolommea de’ Bovacchiesi, e i santi Gregorio, Agostino, Margherita, Tobiolo e l’angelo Raffaello.

stigiose, da trasformare in simbolo delle posizioni acquisite e segno di potere e ricchezza. In tale ottica, i corpi degli apostoli divennero le reliquie piú ambite. Fu cosí che, nell’828, un gruppo di mercanti veneziani riuscí a trafugare da Alessandria d’Egitto le spoglie dell’evangelista Marco, nascondendole sotto la carne di maiale in una cesta, che – come nelle previsioni degli astuti «rapitori» – i doganieri musulmani si rifiutarono di perquisire. Episodi per certi versi simili segnarono l’arrivo a Bari, nel 1087, delle spoglie di san Nicola, vescovo di Myra in Anatolia. Alcuni marinai baresi scesi da una nave per il trasporto del grano si fecero consegnare, spade in pugno, le reliquie dai quattro custodi terrorizzati. Il saccheggio di Costantinopoli da parte dei Veneziani, nel 1204, permise, poi, alle reliquie di Luca di giungere a Padova; e alle ossa di sant’Andrea di essere traslate dal cardinale Pietro Capuano ad Amalfi.

Vicini alla gente comune

Negli ultimi secoli del Medioevo, una nuova sensibilità si sovrappose all’attaccamento ai primi martiri della Chiesa e alla devozione per le reliquie fantastiche e immaginifiche provenienti dalla Terra Santa. Iniziarono a diffondersi nuovi culti: meno leggendari, meno misteriosi, piú legati alla presenza del cristianesimo nella vita di tutti i giorni, e, in particolare, ai nuovi santi bassomedievali – i confessori appunto –, i quali, attraverso la loro azione di predicazione nelle piazze e di sostegno verso gli indigenti, avvicinavano a Dio piú degli oscuri martiri o delle incomprese icone. In tal modo si affermarono rapidamente le devozioni rese alle tombe di penitenti, predicatori, confessori e laici, che, a vario titolo, avevano vissuto la loro vita tra i fedeli ed erano amati anche da quella parte della popolazione che aveva in odio le alte gerarchie ecclesiastiche. Santi come Omobono da Cremona, Francesco d’Assisi, Antonio da Padova, Domenico di Guzman, Nicola da Tolentino, Caterina da Siena, Rita da Cascia e Francesca Romana divennero i nuovi poli d’attrazione della religiosità bassomedievale. I loro corpi, i vestiti, i libri, i luoghi nei quali avevano vissuto furono fatti oggetto d’intensa devozione. Alle soglie dell’età moderna, in un paesaggio sempre piú urbano e ormai profondamente diverso da quello rurale dell’Italia altomedievale, il culto di tali personaggi finí per imporsi, oscurando cosí la secolare devozione tributata agli antichi martiri paleocristiani. SANTI E RELIQUIE

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VO MEDIO E Dossier n. 48 (gennaio/febbraio 2022) Registrazione al Tribunale di Milano n. 233 dell’11/04/2007

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