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LA DE DI I M NA ED STI IC A I
MEDIOEVO DOSSIER
EDIO VO M E Dossier
UNA FAMIGLIA ALLA CONQUISTA DELL’ EUROPA
I MEDICI I MEDICI
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€ 7,90
N°55 Marzo/Aprile 2023 Rivista Bimestrale
IN EDICOLA IL 16 MARZO 2023
I MEDICI
UNA FAMIGLIA ALLA CONQUISTA DEL MONDO a cura di Francesco Colotta testi di Stephen Fox, Tommaso Indelli, Donatella Lippi, Chiara Mercuri,
Alessio Montagano, Sergio Raveggi, Lorenzo Tanzini, Paolo Viti
IL QUADRO STORICO 8. Alle origini di una saga 14. L’arte del governo 20. Il potere dei soldi 28. Legami che contano
I PROTAGONISTI LORENZO IL MAGNIFICO 40. Come lui non c’è nessuno CATERINA DE’ MEDICI 50. Un’italiana sul trono di Francia ESUMAZIONI E RICOGNIZIONI 64. Una dinastia in laboratorio FRANCESCO SASSETTI 74. L’affarista che amava le arti GIROLAMO SAVONAROLA 84. Il grande fustigatore
L’ARTE MECENATISMO E COMMITTENZA 92. Una nuova Atene CAPPELLA DEI MAGI 98. Il corteo delle meraviglie BIBLIOTECA MEDICEA LAURENZIANA 112. Una casa per il sapere del mondo GLI UFFIZI 122. Alla costante ricerca del bello
L’
epopea dei Medici è una storia di rivoluzioni, a partire dalla loro sorprendente ascesa al governo di Firenze. Come fu possibile per una comune famiglia della borghesia mercantile conquistare il dominio in assenza di un lignaggio certo? Il connubio con gli aristocratici Sizi – con i quali i primi Medici possedevano in consorteria una torre nel Mercato Vecchio – non spiega le successive fortune e la progressiva scalata al potere della città. Per scoprire il segreto del loro successo, vale la pena volare oltreoceano e atterrare a New York, nel cuore di Lower Manhattan. Al 33 di Liberty Street, un edificio in stile neorinascimentale fiorentino ospita la sede della Federal Reserve – la Banca Centrale degli Stati Uniti – nella quale è custodita la piú grande riserva aurea del mondo: quell’impronta architettonica evoca gli splendori finanziari della Firenze dei Medici, un modello di riferimento per l’élite politico-economica americana nel periodo in cui il palazzo venne progettato (siamo nel 1924). La banca, dunque. Nella Firenze trecentesca, reduce dalle turbolenze della rivolta dei Ciompi, i banchieri medicei sbaragliarono i rivali Rucellai, Pazzi e Strozzi – si ritiene che nel periodo di Cosimo il Vecchio a Firenze fossero in pochi a non aver contratto un debito con lui. In seguito, il brand di famiglia si fece internazionale, con filiali in mezza Europa, a Londra, Lubecca, Basilea, Bruges, Parigi, Lione, Barcellona, annoverando tra i principali clienti la Chiesa di Roma. Nonostante fosse ancora diffusamente demonizzato, il prestito con il corrispettivo di un
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interesse serví da leva per una nuova rivoluzione economica. Gli studi dello storico Raymond de Roover (1904-1972) individuano nella redditizia attività dei Medici una forma di protocapitalismo: la famiglia non gestiva solo una banca, ma un vero e proprio gruppo controllante che esercitava anche attività imprenditoriali in settori chiave del commercio. Sulla loro città, intanto, almeno fino al Cinquecento inoltrato, i Medici governarono senza dispotismo, nel rispetto delle forme repubblicane che prevedevano la nomina a rotazione degli amministratori. La vocazione europea segnò un obbligato cambio di rotta della politica della casata. L’aver largheggiato nei prestiti a Stati esteri – che si rivelarono insolventi nella restituzione del debito – comportò una prima crisi di liquidità, culminata nella rovinosa bancarotta di fine Quattrocento, all’indomani della morte di Lorenzo il Magnifico. Ma il potere politico sopravvisse ai rovesci finanziari – come in precedenza era scampato a numerosi tentativi di «golpe» – e la nuova frontiera divenne la strategia delle alleanze: il sodalizio con la Chiesa produsse quattro papi di famiglia, Leone X, Clemente VII, Pio IV e Leone XI, mentre i matrimoni dinastici videro l’affermazione, in Francia, di due risolute regine medicee, Caterina, moglie di Enrico II e Maria, consorte di Enrico IV. Di recente si è, in modo ingeneroso, associata l’avventura storica della casata fiorentina – che volse al termine solo a metà del Settecento – a una sorta di saga mafiosa: una serie tv
britannica dei primi anni Duemila definisce i Medici Godfathers of the Renaissance (Padrini del Rinascimento). Alle comprensibili esigenze di copione di un prodotto televisivo preferiamo presentare ai lettori, in questo nuovo Dossier, l’immagine di ciò che resta dell’epopea medicea: oltre alle gesta riportate dalle cronache, scorre una galleria di bellezze artiIn alto un particolare del palazzo in stile neorinascimentale che ospita la sede centrale della Banca Centrale degli USA, a New York.
stiche, architettoniche, letterarie, frutto della colossale opera di mecenatismo operata dai membri piú insigni, da Cosimo il Vecchio a Lorenzo il Magnifico. Se Firenze è tuttora il piú incantevole museo del mondo, lo deve proprio a loro. A una famiglia di umanisti, prima che di uomini di potere. Francesco Colotta Nella pagina accanto cammeo in onice con i ritratti di Cosimo I de’ Medici, Eleonora di Toledo e i figli. 1558-1562. Firenze, Palazzo Pitti. MEDICI
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STORIA
Alle origini di
una saga Replica ottocentesca della Veduta della Catena, realizzata da Francesco di Lorenzo Rosselli. 1472 circa. Firenze, Palazzo Vecchio. L’opera, il cui appellativo deriva dalla catena chiusa da un lucchetto che la circonda (non visibile in questa riproduzione), è un documento di straordinaria importanza per la conoscenza 8
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dell’assetto urbano di Firenze nella seconda metà del Quattrocento, epoca in cui i Medici avevano già ampiamente consolidato il proprio potere. Si tratta, inoltre, del primo esemplare noto nella storia della topografia che ritragga dettagliatamente tutta la città con i suoi edifici e la sua fitta rete viaria.
I Medici costruirono la propria fortuna a Firenze, dapprima dedicandosi con profitto alla mercatura e al cambio, in seguito scalando le gerarchie del potere politico. Una parabola coronata dall’ascesa al soglio di Pietro di ben quattro membri della famiglia di Sergio Raveggi
N
el gennaio 1374 Filigno di Conte de’ Medici (nipote dell’Averardo che fu Gonfaloniere di Giustizia; vedi genealogia a p. 12, n.d.r.) decide di dare inizio a un libro di memorie. Il testo sarà quasi tutto dedicato ad appunti di genere patrimoniale (compravendite, divisioni di beni, importi dotali...), ma nella premessa, come spiegazione all’impellenza di scrivere, c’è una riflessione sulla propria stirpe che ha toni preoccupati: siamo stati una grande famiglia, rispettata e temuta, ma il futuro è incerto e i presagi sono foschi, tra «battaglie cittadinesche», morti per peste, la carenza che ormai abbiamo di uomini di valore. Invece nel 1429, secondo il racconto di Giovanni Cavalcanti, il morente Giovanni di Bicci de’ Medici si accomiata dai figli Cosimo e Lorenzo con l’orgoglio di chi può dispensare un patriMEDICI
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I MEDICI
Il quadro storico monio larghissimo e sagge regole di comportamento politico: fate in modo di essere sempre graditi ai buoni cittadini e a tutto il popolo, che hanno considerato costantemente i Medici un riferimento sicuro (addirittura la «tramontana stella»); e se non vi allontanerete dai comportamenti dei vostri predecessori il popolo sarà sempre propenso a elargirvi cariche politiche.
Verso l’egemonia
Come si vede, da Filigno a Giovanni, in mezzo secolo tutto sembra cambiato: si è passati dal timore di perdere alla consapevolezza di essere vincenti. In effetti in quest’arco di tempo a Firenze molto è avvenuto: il Tumulto dei Ciompi (1372), la caduta del regime dei governi a forte impronta popolare, la nuova dominazione di un ristretto numero di famiglie, primi fra tutti gli Albizzi, che hanno imposto dal 1382 un regime oligarchico, esili, epidemie e guerre, fallimenti e nuove fortune private. Tra questi marosi, alcuni membri della famiglia Medici, e in particolare il ramo di Averardo detto Bicci, hanno saputo navigare con perizia; e ora si intravedono davvero i presupposti per un approdo mai riuscito a nessuno a Firenze, cioè imporsi come dinastia egemone. Le mosse decisive devono comunque essere ancora tutte compiute.
UN ENIGMA COME SCUDO Con la dissoluzione del sistema feudale ebbe inizio, dal XII secolo, quel fenomeno di «inurbamento» che vide le città riempirsi non solo di nobiltà feudale, ma anche di famiglie di minor rango e comunque facoltose che, arricchendosi ulteriormente attraverso l’attività di commercianti o, come i Medici, di banchieri, contrastarono e conquistarono il potere. Lo stemma perse ben presto il legame col territorio, che aveva caratterizzato gli scudi di antica nobiltà feudale, per divenire simbolo della famiglia, legato al nome e alla discendenza; e, dunque, non essendo piú vincolato alla proprietà terriera, chiunque, con poche limitazioni, poteva scegliersi lo stemma che preferiva. Anche i Medici, come tutte le famiglie di oscure origini ma divenute, grazie alle loro capacità, ricche e potenti, vollero adottare un «segno distintivo» con cui adornare non solo i loro palazzi e le loro tombe, ma anche gli abiti, le suppellettili, le stoviglie. Ma se talvolta, per gli stemmi di famiglie feudali, è possibile ricostruirne le origini e le motivazioni, cosí non è per quelli liberamente
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MEDICI
Miniatura raffigurante uno scontro sui tetti di Firenze tra le fazioni dei Bianchi, la parte dei Cerchi, e dei Neri, la parte dei Donati, dall’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Nella pagina accanto la casa torre degli Albizzi a Firenze. XIII sec. In basso lo stemma dei Medici, nella Sagrestia Vecchia della basilica fiorentina di S. Lorenzo.
scelti; non è infatti noto il motivo per cui la predilezione dei Medici sia caduta su uno scudo «d’oro alle sei palle rosse poste tre, due, uno» (anche se ne esistono varianti con diverso numero e disposizione, mai con diversi smalti); possiamo quindi raccogliere solo tradizioni o formulare ipotesi, lasciando al lettore il piacere della scelta. Si è ritenuto per molto tempo che le «palle» medicee (semisfere sporgenti dallo scudo) fossero la rappresentazione di «pillole», e questo in base alla consuetudine molto diffusa di assumere quale simbolo un oggetto o un colore che richiamasse o facesse diretto riferimento al nome, le cosiddette «armi parlanti». In questo caso le pillole come riferimento al medico. Si è ritenuto anche che quei sei «oggetti» non fossero palle, né pillole, ma monete, basandosi sul fatto, storicamente certo, che i Medici, essendo iscritti all’Arte del Cambio e avendo praticato l’attività di banchieri, avessero voluto ricordare nel proprio stemma sia la loro Arte, sia l’origine della loro fortuna e abbiano perciò adottato il simbolo dell’Arte del Cambio «di rosso seminato di bisanti d’oro» invertendone gli smalti. Un’ulteriore ipotesi, basata sulla tecnica
costruttiva degli scudi, vede in quelle sei sporgenze le borchie di rinforzo o la parte esterna delle ferrature che sorreggevano le cinghie e l’impugnatura. Ma, se non è certa l’origine dello stemma, lo è invece la sua versione successiva, quando finalmente Piero de’ Medici, nel 1465, poté nobilitare il proprio scudo e portarlo alla stregua delle antiche famiglie nobiliari mostrando un «privilegio» di tutto rispetto: la concessione da parte del re di Francia Luigi IX di potersi fregiare, in memoria della grandezza del padre Cosimo, dello «scudetto di Francia», un piccolo scudo azzurro con tre fiordalisi d’oro da porre nella parte piú nobile dello scudo. E Piero lo fece con gran gioia. Da allora lo stemma dei Medici si presentò con la palla rossa in alto sostituita da una palla azzurra caricata dai tre fiordalisi. Finalmente, con i quattro papi Medici, Leone X (Giovanni 1513-21), Clemente VII (Giulio 152324), Pio IV (Giovanni Angelo 1559-65) e Leone XI (Alessandro, pontefice solo per pochi mesi nel 1605) l’arma poté fregiarsi anche del triregno e delle chiavi. Massimo D. Papi
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I MEDICI
Il quadro storico DALLE ORIGINI AL MAGNIFICO Giambuono
Chiarissimo (viveva nel 1201)
Bonagiunta (ricordato nel 1221) Filippo
In basso ritratto di Giovanni di Bicci, olio su stagno del Bronzino (al secolo, Angiolo Tori). 1565-1569. Firenze, Galleria degli Uffizi.
Filippo Averardo (viveva nel 1280) Averardo Gonfaloniere nel 1314 Salvestro detto Chiarissimo = Lisa Donati Averardo detto Bicci (viveva alla metà del sec. XIV) Giovanni di Bicci (1360-1429) Gonfaloniere nel 1421 Arazzo raffigurante Lorenzo il Magnifico incoronato dalla Prudenza. Firenze, Palazzo Medici Riccardi.
Cosimo il Vecchio = Contessina (1389-1464) de’ Bardi Signore di Firenze dal 1434. Lorenzo = Ginevra (1395-1440) Cavalcanti
Piero (1414 o 1416-1469) Signore di Firenze dal 1464. = Lucrezia Tornabuoni
Giovanni (1421-1463) = Maria Ginevra degli Albizzi
= nel 1469 Clarice Orsini Lorenzo il Magnifico (1453-1488) (1449-1492) Signore di Firenze dal 1469
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Carlo (1428?-1492) [f. nat.] Arciprete
Giuliano (1453-1478) Assassinato durante la congiura dei Pazzi
Nannina (†1493) = nel 1466 Bernardo Rucellai
Bianca = Guglielmo de’ Pazzi
Maria [f. nat.] = Leonetto Rossi
Almeno dalla metà del XII secolo i Medici si segnalarono a Firenze come cittadini di rilievo. Piú tardi terranno a gloriarsi di essere stati in antico nobili del contado originari del Mugello, il che è evenienza in qualche misura plausibile, ma non provata. Invece è certo che, pur non risultando far parte in senso stretto del ceto consolare, hanno già allora importanti parentele, la comproprietà di una torre e il patronato di una chiesa nel centro cittadino. Se una partecipazione politica in ruoli di rilievo non è visibile prima della metà del Duecento, le notizie precedenti ci sono pervenute in modo tanto frammentario da non permettere giudizi netti. La fisionomia dei Medici pare comunque quella di mercanti e popolani e infatti accedono a incarichi di governo durante il «Primo Popolo»; uno di loro, nel 1260 è ufficiale dei balestrieri dell’esercito guelfo a Montaperti e però, dopo la sconfitta militare e il drastico cambiamento di regime, un altro siede nel consiglio ghibellino, cosicché non deve stupire se i danni inferti ai loro beni dalle rappresaglie dei vincitori sono assai limitati. L’ambigua coloritura guelfa diviene invece piú accesa all’instaurarsi del regime legato a Carlo d’Angiò, nel 1267, e, da allora, la scelta di campo è definitiva, come per quasi tutti a Firenze. Piú di altri, magari, paiono essere propugnatori di un guelfismo intransigente e aggressivo, come provano le lagnanze del ghibellino Neri Strinati che all’inizio del Trecento denunzia nelle proprie memorie quanto i Medici approfittino di ogni occasione per vessarli e depredarli senza pietà, «peggio che i Saracini in Acri», e ancora come è dimostrato dalla scelta di schierarsi con la fazione dei Neri e qualche anno dopo dall’aperto appoggio ai tentativi eversivi di Corso Donati, il maggiore esponente del radicalismo guelfo.
Congiure e lotte intestine
Nella prima metà del Trecento la casata dei Medici è estesa in vari rami e spesso chiamata a rivestire incarichi pubblici; non è tra le piú eminenti, ma, diciamo, immediatamente alle spalle delle cinque o sei famiglie di primo piano. Nelle congiure e nella sollevazione per abbattere la signoria del Duca d’Atene (1343) hanno un ruolo importante, anche perché un loro congiunto è stato giustiziato dal despota. Piú volte negli anni seguenti, evidentemente scontenti degli spazi politici loro attribuiti, sono invischiati in sobillazioni e congiure e nel settario clima fiorentino
Ritratto di Cosimo il Vecchio (particolare), olio su tela del Pontormo (al secolo, Jacopo Carucci). 1519-1520. Firenze, Galleria degli Uffizi.
del secondo Trecento la famiglia si divide tra fautori degli Albizzi e fautori dei Ricci. Tornano di nuovo in primo piano nell’immediato antefatto del Tumulto dei Ciompi, quando Salvestro eletto Gonfaloniere dichiara intollerabile che «il popolo fusse da pochi potenti oppresso» come scrive Machiavelli, con l’intento, si capisce, di cavalcare il crescente malcontento a proprio vantaggio, ma la situazione gli sfugge di mano essendosi ormai innescata una rivolta incontrollabile. Con maggior cautela si muove, dall’inizio del Quattrocento, Giovanni di Bicci, esponente di un ramo familiare fino ad allora secondario, che al crescente successo economico aggiunge un’ascesa politica progressiva, iniziata in età matura, basata sulla ricerca del consenso, in particolare negli ambienti degli artigiani minori e condotta senza destare sospetti tra i membri del partito degli Albizzi, al quale non appartiene, ma col quale convive senza scontri, ottenendo numerose cariche politiche di primo piano. Fedele al testamento politico del padre, Cosimo, prendendo in mano le redini della famiglia, si muove con una buona dose di mercantile understatement. In una fase in cui il regime oligarchico mostra segni di usura, è attento ad attirare a sé il favore popolare e a trasformare il gruppo dei propri seguaci (in gran parte parvenus) in un partito, dissimulando però i piani con l’impegno negli affari, con soggiorni all’estero, con la passione per gli studi classici, con lunghe permanenze nelle sue proprietà rurali. Infine Rinaldo degli Albizzi si rende conto del pericolo e, grazie alla connivenza del collegio di governo da lui manovrato, lo fa arrestare nel settembre 1433. L’accusa di cospirazione contro la Repubblica dovrebbe prevedere la pena di morte (e peraltro pare anche si cercasse piú sbrigativamente di eliminare il prigioniero con il veleno), ma Cosimo, corrompendo prima i guardiani e poi chi doveva giudicarlo, riesce a ottenere l’incolumità e la condanna a dieci anni di esilio, in ciò aiutato non poco dalle pressioni in suo favore fatte dall’amica Venezia. E a Venezia sconta un anno di esilio, manovrando da lontano per accrescere le tensioni in patria e il risentimento popolare contro gli Albizzi, fino a sovvertire gli equilibri politici a Firenze, cosicché già nel settembre 1434, in virtú dell’entrata in carica di un governo a lui favorevole, Cosimo può tornare da trionfatore, mentre l’esilio è ora comminato a Rinaldo degli Albizzi e a una settantina di suoi partigiani. MEDICI
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L’arte del governo I Medici si fanno protagonisti della scena politica in una Firenze caratterizzata da un sistema amministrativo assai complesso. Che Cosimo il Vecchio e i suoi successori seppero, però, governare con estrema abilità di Lorenzo Tanzini
L
a Firenze del Quattrocento è una città eccezionale da molti punti di vista. La straordinaria concentrazione di artisti e letterati che vissero entro le mura fiorentine in quegli anni non ha probabilmente pari nella storia d’Italia. Ma Firenze è un oggetto di studio privilegiato non soltanto per questo: l’inesauribile ricchezza delle fonti storiche e delle testimonianze scritte che si sono conservate negli archivi e nelle biblioteche cittadine consente di studiare in maniera approfondita la società, le istituzioni, la vita politica, l’economia, le abitudini quotidiane della città. Possiamo cosí entrare nel vivo di quell’ambiente e osservare per cosí dire il terreno su cui fiorí quella felice stagione della cultura del primo Rinascimento. E indubbiamente in questo quadro ricostruito dagli studi storici dominano le figure dei Medici: cosí come nell’arte e nella cultura, nella politica e nella vita della società non si può fare la storia di Firenze del Quattrocento senza considerare il ruolo che questa dinastia vi svolse, dal fondatore, Cosimo il Vecchio, fino a Lorenzo il Magnifico, la cui morte nel 1492 precedette di soli due anni la cacciata della famiglia da Firenze e l’instaurarsi della repubblica di Savonarola. I Medici sono la piú interessante peculiarità della storia fiorentina anche per il singolarissimo modo in cui la famiglia si pose nei confron14
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Raffigurazione allegorica della città di Firenze, da un’edizione dei Regia Carmina, un panegirico in onore di Roberto d’Angiò. 1350-1360 circa. Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale.
ti della città. Una città rimasta orgogliosamente repubblicana, ma allo stesso tempo governata da una dinastia di signori; una famiglia che di fatto tenne nelle proprie mani le redini del potere, ma allo stesso tempo rifiutò ogni sanzione ufficiale di supremazia, e anzi si volle presentare come pari a tutte le altre. Proprio da questo particolare sistema politico, che le fonti del tempo avrebbero chiamato «governo civile» proprio per l’uso mediceo di presentarsi cives, cioè come semplici cittadini, possiamo iniziare ad accostarci alla realtà della Firenze quattrocentesca.
I cardini del potere politico
Le istituzioni fiorentine del Quattrocento sono un sistema estremamente complesso e articolato, i cui caratteri sono stati ereditati dalla storia comunale della città. Alla base del potere politico cittadino vi sono i Consigli, cosiddetti del Popolo e del Comune: vi fanno parte diverse centinaia di cittadini, nominati attraverso un complesso sistema misto di elezione e sorteggio. I Consigli si riuniscono periodicamente, e deliberano tutte le leggi del Comune, che poi un funzionario detto Notaio delle Riformagioni provvede a redigere nei registri delle Provvisioni. Il vero centro della vita politica fiorentina non sono però i Consigli, ma
piuttosto la Signoria: composta da otto Priori e da un Gonfaloniere di Giustizia, insediata nel grande palazzo che ancora oggi ne porta il nome e affiancata da due commissioni ristrette, i Sedici Gonfalonieri e i Dodici Buonuomini, la Signoria è il supremo organo di governo della città: presenta i progetti di legge, discute le questioni interne ed estere, incarica gli ambasciatori e gli ufficiali straordinari, delibera gli stanziamenti dalle casse del Comune. In un contesto costituzionale che non conosce divisione dei poteri, l’autorità dei Priori, per usare le parole di un cronista del primo Quattrocento, «è grande senza misura». Una latitudine di poteri temperata però dalla brevissima durata dell’incarico: gli otto Priori e il Gonfaloniere restano in carica solo due mesi, dando quindi alle istituzioni centrali del Comune un ritmo di
rapidissimo ricambio. Alla necessità di consolidare nel tempo, e per cosí dire di fluidificare, la politica cittadina rispondevano, a partire dal pieno Trecento, le cosiddette Consulte, vale a dire assemblee semi-formalizzate, alle quali partecipavano, di diritto o per cooptazione, i cittadini ritenuti piú autorevoli o influenti, che discutevano quasi quotidianamente delle piú delicate questioni del governo. Al di sotto delle grandi cariche istituzionali, una serie di magistrature secondarie componeva il quadro della «costituzione» fiorentina: i Dieci di Balía preposti agli affari militari e diplomatici, gli Otto di Guardia che assunsero, proprio nel corso del Quattrocento, funzioni di supremi supervisori dei meccanismi giudiziari, i Regolatori, gli Ufficiali del Monte e un’infinità di figure minori a gestire le complicate finanze della città.
La partenza di Cosimo il Vecchio per l’esilio, affresco di Marco da Faenza su disegno di Giorgio Vasari. 1556-1558. Firenze, Palazzo Vecchio. Accusato di cospirare contro la Repubblica, nel 1433 Cosimo fu costretto all’esilio. Ma nel 1434 era di nuovo a Firenze, dove, grazie ai suoi sostenitori, ottenne l’annullamento del provvedimento e assunse di fatto il governo della città. MEDICI
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Il quadro storico
L’ACCESSO AL POTERE? UNA QUESTIONE DI GRUPPO Uno degli aspetti che piú nettamente distinguono le istituzioni delle città comunali dalle forme moderne di governo repubblicano è la diversa concezione della rappresentanza. I Comuni cittadini – pur avendo nel Parlamento un forma di democrazia diretta, alla quale tuttavia si ricorreva solo in rarissime occasioni – erano, come le nostre democrazie, governi indiretti. E molto radicata era l’idea che coloro che governano debbano in qualche modo rappresentare tutta la città. Tuttavia, mentre per i moderni la rappresentanza si fonda su una
condivisione di opinioni politiche, o nel comune riferimento a ideali o autocoscienza di classe, nel mondo medievale, e sicuramente ancora nel Quattrocento, ciò che consente a un cittadino di rappresentare gli altri è la sua appartenenza a uno dei gruppi da cui si ritiene composta la società urbana. In primo luogo, tutte le magistrature sono tratte in proporzione identica dalle varie circoscrizioni in cui la città si divide: a Firenze gli otto priori sono necessariamente due per quartiere, con il Gonfaloniere tratto a rotazione
Accanto a queste istituzioni ordinarie, la storia politica fiorentina conosceva la possibilità di strumenti straordinari di governo, il Parlamento e la Balía. Il Parlamento era la convocazione plenaria dei cittadini adulti in piazza, alla quale veniva demandata l’approvazione plebiscitaria di misure normative eccezionali. I piú celebri Parlamenti prima dell’era medicea si erano celebrati nel 1378, per definire l’assetto istituzionale successivo al tumulto dei Ciompi, e nel 1393, con la fissazione dell’egemonia della famiglia Albizzi. Piú frequente, almeno nel tardo Trecento, era stato il ricorso alla Balía,
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MEDICI
da uno di essi, mentre uno dei Collegi della Signoria, i Gonfalonieri delle Società di Popolo, è composto di un membro per ognuno dei quattro Gonfaloni in cui si divide ogni quartiere. Non solo: poiché l’accesso alla vita pubblica è filtrato dall’esercizio di una professione o dall’iscrizione a un’arte o corporazione, precise leggi stabiliscono la proporzione con cui alle varie cariche possono accedere i membri delle arti minori, quelli delle arti maggiori, gli «scioperati» (coloro che amministrano i propri affari fuori
con cui i Consigli conferivano a commissioni speciali poteri straordinari limitati nel tempo. Al suo ritorno dall’esilio padovano nel 1434, il primo atto politico di Cosimo fu proprio quello di far indire una balía che cacciasse dalla città i suoi nemici. L’elemento piú caratteristico delle istituzioni cittadine non è però la loro forma, ma piuttosto la composizione: a Firenze, infatti, come in altre città comunali, gli ufficiali pubblici non erano – a parte il caso di cariche di stretta attinenza giuridica – professionisti dell’amministrazione o politici in carriera, ma cittadini sorteggiati
Il ritorno dall’esilio di Cosimo il Vecchio, affresco di Giorgio Vasari. 1556 circa. Firenze, Palazzo Vecchio. Nella pagina accanto uno scorcio della facciata di Palazzo Vecchio con la Torre di Arnolfo. Si notino gli stemmi della Repubblica fiorentina.
dal quadro corporativo), e in certi casi anche i magnati, membri delle vecchie famiglie della nobiltà militare. Gli stessi due criteri, l’uno topografico e l’altro corporativo, vengono applicati per tutti gli incarichi e le magistrature, dalla Signoria ai Consigli fino agli uffici minori, per cui per ogni ufficio esistono molte borse elettorali, ciascuna per la sua categoria di cittadini. Di conseguenza il quadro politico che nei vari momenti governava la città veniva inteso come una sorta di riproduzione in piccolo della città stessa. Questo sistema aveva l’effetto di abbreviare fortemente
la distanza tra istituzioni e società: e ciò a seconda delle circostanze poteva tradursi in lotta violenta, quando le istituzioni si trovavano a riprodurre le rivalità tra gruppi e famiglie, o in dominio di una parte allorché questa, come accadde per i sessant’anni del governo mediceo, riuscisse a costruire nella società una posizione dominante, che poi si sarebbe riprodotta nelle istituzioni.
periodicamente a ricoprire l’uno o l’altro incarico. L’idea di una nomina per estrazione degli ufficiali è quanto di piú lontano possiamo immaginare dalla percezione moderna del potere pubblico, ma si tratta di un elemento frequente nel mondo comunale.
Una borsa per ogni ufficio
A Firenze in particolare, le maggiori istituzioni cittadine redigevano a cadenze periodiche, normalmente quinquennali, lunghissime liste di cittadini giudicati abili ad assumere un ufficio: era questo il cosiddetto «squittinio», una storpiatura toscana del nostro scrutinio, attraverso il quale un cittadino maschio, maggiorenne e soprattutto regolarmente registrato nelle liste dei contribuenti della città, aveva la possibilità di entrare nella vita pubblica. I nomi selezionati venivano raccolti da appositi ufficiali, chiamati accoppiatori, che provvedevano a distribuire le rispettive cedole in una serie di borse ognuna per un certo ufficio. Al momento in cui fosse necessario nominare nuovi ufficiali, per esempio ogni due mesi i Priori, avveniva l’operazione della «tratta», cioè l’estrazione: i nomi precedentemente «imborsati» venivano estratti a sorte e passati attraverso una serie di verifiche. L’estrazione non significava infatti automaticamente l’assunzione dell’ufficio: l’estratto poteva essere assente dalla città o morto, caduto in disgrazia o fallito, bandito o semplicemente già in carica in un altro ufficio – in questo caso il nome era «veduto» e rimesso nella borsa, o a seconda delle circostanze gettato via con grave disonore. Nel caso invece non vi fossero impedimenti all’elezione, il cittadino era «seduto» e si poteva procedere alla nomina ufficiale. Salvo MEDICI
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Il quadro storico
FU VERA CONGIURA? Le vicende della congiura dei Pazzi del 1478, nella quale perse la vita Giuliano e dalla quale Lorenzo riuscí fortunosamente a scampare, sono note: ed è noto anche come l’assassinio, eseguito materialmente da alcuni membri della famiglia ostile ai Medici, fosse stato pilotato dalla famiglia dell’arcivescovo di Pisa, i Salviati, contando anche sull’ostilità verso Lorenzo di papa Sisto IV. Assai meno noto, e tuttora in parte oscuro nella sua dinamica, è un episodio avvenuto alcuni anni prima, quello che la storiografia ha tradizionalmente designato come «congiura del Poggio». Dopo la morte di Cosimo nel 1464, considerando la mediocre levatura politica del figlio Piero, la prosecuzione del dominio mediceo sembrava decisamente dubbia. Per dare il colpo di grazia a una signoria ritenuta ormai vacillante, si trovarono in accordo alcuni esponenti di potenti famiglie cittadine, come Dietisalvi Neroni, Niccolò Soderini e Angelo Acciaioli, con colui che era stato il principale collaboratore di Cosimo, Luca Pitti. Quest’ultimo riuscí a organizzare nel maggio 1466 un’assemblea giurata di quasi 400 cittadini, che si impegnavano a curare l’interesse della città anche al di fuori delle istituzioni sempre piú controllate dai Medici. Nell’agosto successivo si giunse all’attentato contro Piero, nella strada della Villa di Careggi a Firenze. Attentato di cui però non è chiara la dinamica: di certo Piero poté scamparne, e far catturare alcuni congiurati, mentre di fronte al pericolo truppe milanesi nei pressi di
Medaglia in bronzo disegnata da Giovanni di Bertoldo per commemorare la congiura dei Pazzi, ordita ai danni dei Medici nel 1478. New York, The Metropolitan Museum of Art.
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Bologna erano allertate nel caso che gli eventi precipitassero. Luca Pitti scelse allora di ritirarsi dalla congiura, mentre l’esilio di Neroni e di Soderini troncava definitivamente il mancato colpo di Stato. Alcuni fuoriusciti fiorentini rifugiatisi a Venezia tentarono nel 1467 di muovere guerra alla città, ma vennero facilmente dispersi. Nel settembre del 1466, intanto, Piero aveva adunato un nuovo Parlamento, dal quale il suo dominio in città risultava ulteriormente consolidato. Resta il dubbio sull’effettiva natura del tentativo del Pitti: alcuni studiosi, sulla scorta di cronisti contemporanei ostili ai Medici, ritengono che in realtà una vera aggressione ai danni di Piero non vi sia mai stata e non fosse nelle intenzioni dei congiurati; la scena del tentato assassinio sarebbe stata abilmente costruita dallo stesso Piero, con la regia dello scaltro ambasciatore milanese, Nicodemo Tranchedini, per avere la possibilità di usare la mano armata ed eliminare i nemici. A ogni modo l’episodio del 1466, come accadrà anche per quello del 1478, venne abilmente utilizzato dai Medici per dare una svolta al proprio potere in città: cosí che la congiura, nata dall’insofferenza di alcuni gruppi cittadini che sentivano di non trovare piú nelle istituzioni un sufficiente spazio di rappresentanza dei propri interessi, finiva per restringere ancora quegli spazi verso la costituzione di un vero e proprio dominio anche formale della famiglia su Firenze.
che l’interessato decidesse di non accettare l’incarico. Ma questo non accadeva spesso, primo perché esistevano precise restrizioni normative in merito, ma soprattutto perché l’assunzione di un ufficio specialmente tra i principali – il priorato in primo luogo – assicurava alla famiglia, se non un reddito (gli uffici maggiori non erano retribuiti), un ben maggiore ritorno in termini di potere, prestigio, relazioni, visibilità pubblica, e consentiva di accumulare di carica in carica una sorta di capitale politico per entrare nel novero delle famiglie eminenti, il cosiddetto «reggimento» della città. Questo quadro istituzionale è il contesto nel quale i Medici esercitarono il loro potere dal 1434, quando Cosimo stabilí la propria signoria sulla città, fino alla cacciata di Piero di Lorenzo nel 1494. Un dominio, quindi, che mantenne formalmente intatte le strutture della costituzione comunale. Quello che i Medici riuscirono a fare fu precisamente imporre alle
istituzioni cittadine un funzionamento a loro favorevole, attraverso una serie di accorgimenti tecnici e politici. Il piú vistoso di questi accorgimenti fu l’impiego delle procedure di nomina degli ufficiali. A differenza di altri signori del tardo Medioevo e del primo Rinascimento, i Medici non assunsero direttamente le maggiori cariche istituzionali, né esercitarono un diritto di nomina diretta degli ufficiali, al contrario lasciarono intatte le forme della tradizionale nomina per tratta che abbiamo visto. Con qualche importante aggiustamento. Come si è accennato, il meccanismo di inserimento dei nomi nelle borse elettorali era filtrato dall’intervento di ufficiali chiamati «accoppiatori», incaricati di distribuire i nomi degli abili nelle diverse borse da cui poi sarebbero stati estratti per i diversi uffici. Una prima forma di pilotaggio dei meccanismi elettorali consisteva da parte di Cosimo nel controllare l’operato degli accoppiatori, facendo in modo che persone di fiducia dei
Medici potessero contare su canali privilegiati di accesso alle cariche maggiori, e i possibili avversari fossero invece svantaggiati o destinati solo a cariche di minor peso. D’altra parte, in casi eccezionali era possibile che i Consigli autorizzassero gli accoppiatori a procedere a elezioni «a mano», cioè a scegliere direttamente i nomi dei candidati invece di estrarli a sorte.
Le trame di Cosimo
Giocando abilmente sui timori suscitati dall’incerta situazione fiorentina nelle vicende politiche della Penisola, Cosimo indusse piú volte i Consigli a deliberare questa particolare sospensione delle consuetudini elettorali: cosí che, per esempio, in due lunghi periodi, dal 1434 al 1441 e dal 1444 al 1449, le elezioni degli ufficiali maggiori avvennero costantemente «a mano». Questo sistema, semplice nel principio, ma estremamente complesso nell’esecuzione, perché richiedeva a Cosimo un continuo lavoro di costruzione di rapporti e relazioni personali, familiari e istituzionali, non assicurava certo un controllo assoluto della vita pubblica fiorentina, anche perché le possibilità per il Medici di influire sulle scelte degli accoppiatori e in genere sulle nomine degli ufficiali dovevano fare i conti con propositi simili, e a volte contrari, delle altre grandi famiglie cittadine. Per far fronte a difficoltà del genere, Cosimo e i suoi successori furono indotti talvolta a ricorrere a mezzi piú decisi, e in particolare ai due sistemi straordinari che abbiamo già visto, il Parlamento e la Balía. Innanzitutto, per lunghi periodi a partire dal 1434 furono in azione commissioni ristrette di cittadini incaricate dai Consigli di gestire le formalità elettorali: queste balíe, limitate nel tempo ma generalmente assai incisive, furono spesso controllate da Cosimo e si rivelarono uno strumento assai efficace. Nel 1458 poi Cosimo fece indire un Parlamento, al quale venne sottoposta una serie di provvedimenti che avrebbero sancito in maniera netta l’egemonia medicea: l’elezione a mano degli ufficiali maggiori per i cinque anni successivi (che poi sarebbe stata prorogata fino al 1468), la redazione di una nuova lista di scrutinio a cura degli accoppiatori, e la creazione di un nuovo Consiglio, detto dei Cento, incaricato di vagliare preliminarmente tutte le proposte di legge riguardanti gli ufficiali. La via di introdurre nuove assemblee deliberative per inserirsi tra le istituzioni tradizionali sarebbe stata seguita, anche con maggior decisione, da Lorenzo all’indomani della congiura dei Pazzi del 1478.
Superati gli immediati pericoli della cospirazione e della difficile situazione diplomatica che ne seguí a causa della manifesta ostilità del papa e del re di Napoli, Lorenzo nel 1480 fece attribuire una speciale balía a trenta cittadini, i quali, a loro volta, avrebbero dovuto cooptarne altri quaranta: nasceva cosí il nuovo Consiglio dei Settanta, destinato a diventare il fulcro della politica cittadina: i Settanta procedevano alle elezioni a mano degli ufficiali, e vagliavano le proposte di legge piú rilevanti. Utilizzando gli strumenti propri della tradizione repubblicana, Lorenzo compiva cosí una svolta decisiva verso una gestione del potere di tipo signorile, visto che nessun affare importante in città poteva essere affrontato senza passare dai nuovi Consigli, e quindi, in definitiva, dalla cerchia dei fedeli medicei. Anche con tutta l’ammirazione per le eccezionali doti umane di Lorenzo, nessuno in città o fuori sapeva nascondersi che Firenze era ormai governata da un tiranno, se pure, come avrebbe detto Guicciardini, non sarebbe stato possibile avere un tiranno migliore del Magnifico.
Lorenzo il Magnifico riceve l’omaggio degli ambasciatori, affresco di Giorgio Vasari e Marco da Faenza. 1557 circa. Firenze, Palazzo Vecchio. La raffigurazione dell’episodio mira a esaltare il Magnifico come grande diplomatico: ambasciatori di Stati italiani e stranieri offrono l’omaggio dei loro sovrani a Lorenzo seduto al centro della composizione.
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Il quadro storico
Il potere dei soldi
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Motore delle fortune di Firenze e dei Medici furono le attività economiche. In particolare, spostando la sede del banco di famiglia da Roma alla città del giglio, Giovanni di Bicci fu artefice di un’ascesa per anni inarrestabile, proiettando il nome della dinastia medicea ben oltre i confini locali di Lorenzo Tanzini
Libro facente parte del cosiddetto «Archivio Segreto» dei Medici. Firenze, Archivio di Stato. La denominazione fu attribuita all’insieme dei documenti che si riteneva legittimassero e fondassero il potere mediceo (privilegi imperiali, trattati internazionali, patti matrimoniali, atti notarili riguardanti il patrimonio familiare), affidato da Cosimo il Vecchio al tesoriere Tommaso de’ Medici.
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n illustre storico dell’economia ha osservato come probabilmente nessuna società nella storia dell’Occidente meriti piú della Firenze del tardo Medioevo la definizione di plutocrazia, di governo dei ricchi, tanto è forte la connessione tra prosperità economica e potere politico. Per tutta l’età comunale, questa osservazione trovava conferma nel fatto che lo stesso accesso alle cariche pubbliche era filtrato dall’appartenenza a una delle corporazioni artigiane o professionali, e quindi il ruolo politico dei cittadini risultava condizionato in maniera determinante dalla loro rispettiva collocazione nel contesto delle attività economiche. Nel corso del Quattrocento, e per la verità già con le vicende istituzionali della fine del secolo precedente, questa dimensione corporativa del potere cittadino si era decisamente stemperata: ma la connessione strettissima tra ricchezza e governo della città continua a operare, se pure a un livello diverso, nella Firenze medicea. D’altra parte anche il modo di porsi dei Fiorentini nei confronti delle attività economiche mostrava nel Quattrocento importanti segni di cambiamento. Le grandi fortune del XIV secolo si erano formate soprattutto attraverso la produzione tessile, della quale Firenze aveva a lungo mantenuto un primato pressoché assoluto in Europa, e il commercio su media e vasta scala. I rovesci del pieno Trecento e, in generale, le inquietudini che percorsero l’intera economia italiana nella seconda metà del XIV secolo si risolsero, nel corso del Quattrocento, nel generale riassetto delle attività economiche cittadine. In particolare, si assiste all’avvento di una nuova generazione di grandi ricchi, le cui principali
Medaglia in bronzo di Cosimo il Vecchio. Post 1464-ante 1469. Firenze, Museo Nazionale del Bargello. Al dritto, il profilo di Cosimo, che porta la berretta propria dei personaggi di alto rango e ha i tratti del volto assai anziani; al rovescio, una figura femminile, che impersona Firenze (Florentia), vestita con un peplo all’antica e velata in segno di lutto per la morte del Medici.
Firenze si arricchí dapprima grazie alla produzione tessile, che nel Quattrocento fu rimpiazzata dalle lucrose attività avviate nel campo del credito e della finanza
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RICCHEZZE OSTENTATE Nel Quattro-Cinquecento, fuori dall’Italia, le città accoglievano spesso fiorenti attività economiche ed erano teatro del costituirsi di grandi ricchezze fondate sui commerci o la finanza: ma anche nel caso di grandissimi mercanti o banchieri, quali, per esempio, i Fugger di Augusta, mancava ai patriziati stranieri quella magnificenza di vita che i viaggiatori riscontravano invece nelle élites urbane italiane. D’altra parte, ancora oggi, camminando per le vie di una città francese o tedesca, non è difficile constatare l’assenza di quei grandi palazzi quattrocenteschi che invece, soprattutto a Firenze, testimoniano l’orgoglio e l’intraprendenza delle famiglie piú ricche: nessun banchiere fuori d’Italia avrebbe mai pensato di costruire un palazzo come quelli che gli Strozzi o i Rucellai fecero erigere a Firenze nel Quattrocento. È questo uno degli aspetti piú importanti della storia sociale italiana rispetto a quella d’Oltralpe: la tendenza dei grandi ricchi delle città rinascimentali, e soprattutto di quelli fiorentini, ad assumere atteggiamenti signorili. A loro è dunque mancato quel ritegno all’ostentazione della ricchezza, proprio, invece, dei mercanti d’Oltralpe, e che tuttora si associa alla figura del «borghese». Una caratteristica che, a sua volta, si lega al rapporto con la vita pubblica: la magnificenza di certe grandi schiatte fiorentine è funzionale alla rivendicazione di un ruolo nella società cittadina che prelude alla gestione del potere politico. Ne consegue la centralità di tutti gli atteggiamenti utili a legittimare il governo delle città-stato.
attività si rivolgono all’ambito creditizio o comunque finanziario, piuttosto che a quello manifatturiero. Non che le manifatture fiorentine cessino di essere attive e vitali, come troppo spesso si è creduto: semplicemente le grandi fortune non sono piú quelle dei lanaioli, ma quelle dei banchieri. Proprio in questo contesto emergono i protagonisti della vita economica e politica del Quattrocento: gli Strozzi, i Pazzi, i Rucellai e, tra loro, i Medici. Questi sono i nomi che ricorrono tra i maggiori contribuenti del Comune nella grande fonte fiscale del Catasto del 1427, la prima rilevazione sistematica della capacità contributiva di tutte le famiglie della città e del suo dominio. Né è un caso che ai vertici della classifica della 22
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La facciata di Palazzo Rucellai, realizzato alla metà del XV sec. da Bernardo Rossellino per l’omonima famiglia fiorentina, una delle piú ricche e influenti della città. Al progetto partecipò anche Leon Battista Alberti.
ricchezza cittadina si trovasse allora Palla di Nofri Strozzi, mentre poco piú in basso era Giovanni de’ Medici, padre di Cosimo: il secondo di questa classifica avrebbe dato al figlio i mezzi per diventare signore della città, mentre il primo avrebbe pagato con l’esilio a vita il prezzo politico della sua ricchezza. Per comprendere il legame strettissimo che nella Firenze del tempo correva tra vita politica e attività economica, dobbiamo considerare anche l’importanza di una particolare forma di investimento finanziario, quella sul debito pubblico. Il debito del Comune nei confronti dei cittadini, accumulato in decenni di prestiti forzosi imposti per far fronte alle necessità soprattutto militari, aveva raggiunto fin dalla metà del
vita politica cittadina. È nel contesto di queste possibilità di ascesa e preminenza sociale che si colloca la vicenda della famiglia Medici.
Una lezione di vita
Trecento proporzioni gigantesche, e le autorità cittadine non avevano trovato di meglio che stabilizzarlo, assicurando ai creditori non piú un’impraticabile restituzione, ma un interesse annuo. Nasceva cosí il Monte, che ben presto sarebbe diventato la chiave di volta di tutta l’amministrazione finanziaria della città. E non solo: dal momento che i titoli di debito pubblico erano correntemente commerciati, il loro acquisto era diventato un’ottima forma di investimento per chi avesse la disponibilità di forti somme liquide, cioè le stesse élites commerciali e bancarie che abbiamo visto. In questo modo le famiglie piú ricche divenivano i maggiori creditori del Comune, e ponevano cosí un’ulteriore, pesante ipoteca sul controllo della
Fondatore delle fortune economiche dei Medici fu Giovanni di Bicci: già agente della famiglia nella filiale di Roma, rilevò la società da alcuni parenti, e spostò la sede del banco Medici da Roma a Firenze nel 1397. Nel giro di vent’anni, prima di ritirarsi dall’attività nel 1420 lasciando il posto al figlio Cosimo, Giovanni accumulò un’ingente fortuna, e una fama di uomo onesto e prudente costruita tenendosi discretamente a margine della vita politica: ricoprí quelle cariche che i sorteggi gli imponevano di accettare, e fu anche Gonfaloniere nel 1421, ma complessivamente evitò di coinvolgere la propria fortuna nell’incerto agone politico. Una lezione della quale il figlio avrebbe fatto tesoro. Nel 1420 Cosimo si trovò quindi ad amministrare un capitale di diverse decine di migliaia di fiorini, e fin dagli anni Venti proseguí la strada del padre con eccezionale abilità, giungendo, nei quarant’anni in cui guidò il banco Medici, a realizzare guadagni spettacolari. In gran parte si trattava dei ricavi della filiale di Roma, tratti dai prestiti alla curia pontificia e ai cardinali: il rapporto con il papato avrebbe continuato a essere essenziale per i Medici fino al Cinquecento. Altrettanto lucrosi erano però gli altri sportelli di cambio che Cosimo o i suoi successori aprirono nelle maggiori città italiane, a Basilea e Ginevra, ad Avignone e Lione, a Bruges e a Londra. Ma la ricchezza non si misura solo in fiorini. Come ricorda Machiavelli, «non era cittadino alcuno che avesse nella città alcuna qualità, a chi Cosimo grossa somma di danari avesse prestata; e molte volte senza essere richiesto, quando intendeva la necessità di un uomo nobile, lo sovveniva». Una magnanimità generosa e certo non disinteressata, perché davvero pochi a Firenze non avevano con Cosimo un debito di qualche tipo. E questa rete di debitori, persone e famiglie in modi diversi legati ai Medici da vincoli di fedeltà o riconoscenza, era proprio ciò che serviva a Cosimo per mantenere quella singolarissima forma di governo civile che abbiamo visto cosí tipica della Firenze medicea. Né soltanto dentro le mura della città i favori che Cosimo seppe procacciarsi col suo denaro furono forieri di successi politici. Anzi, alla stessa strategia si può ricondurre il vero e proprio capolavoro politico di Cosimo: il rovesciamento delle alleanze italiane e l’ascesa a duca di MilaMEDICI
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IL VECCHIO E IL MAGNIFICO SOTTO LA LENTE DI FRANCESCO GUICCIARDINI L’eccezionalità dei personaggi che hanno segnato la storia fiorentina del Quattrocento, e in particolare di Cosimo il Vecchio e Lorenzo il Magnifico, ha indotto gli storici, e già i contemporanei, a tentare una comparazione tra queste due grandi figure, per valutarne a confronto i pregi e i difetti. E in tempi diversi, i criteri di giudizio sono alquanto cambiati. Ne sono un esempio celebre ed eloquente le pagine di Francesco Guicciardini, che nella conclusione del libro IX delle Storie Fiorentine si pone proprio la domanda di «chi fussi piú eccellente, Cosimo o Lorenzo». Le conclusioni sono perentorie: Cosimo non solo costituí il dominio mediceo a Firenze e lo amministrò per trent’anni,
ma continuò a occuparsi dei suoi affari «con tanta diligenza e con tanto cervello, che si ritrovò sempre le ricchezze maggiore dello Stato», mentre Lorenzo, che pure non aveva da costruire un dominio che aveva ereditato, governò la città con molto pericolo, rischiando piú di una volta di perderla e avventurandosi in imprese a volte avventate, e oltretutto non seppe conservare la fortuna economica del nonno e fu costretto a ricorrere al denaro pubblico. Di conseguenza, pur riconoscendo a Lorenzo l’eccezionalità del suo «ingegno universale in delettarsi di tutte le cose virtuose e favorirle», che forse mancò al piú ruvido e interessato Cosimo, Guicciardini conclude che «pesato insieme ogni cosa, Cosimo fussi piú valente uomo». Anni dopo, nel celebre Proemio della Storia d’Italia, lo stesso Guicciardini rimette mano al personaggio di Lorenzo, delineandolo con tratti uniformemente positivi: sotto il suo governo la città, «per la riputazione e prudenza sua e per lo ingegno attissimo a tutte le cose onorate e eccellenti, fioriva maravigliosamente di ricchezze e di tutti quegli beni e ornamenti da’ quali suole essere nelle cose umane accompagnata la pace»: simbolo di un’epoca di pace, ago della bilancia della politica italiana, il Magnifico si avviava a divenire un vero mito della storia d’Italia. I tempi avevano cambiato la prospettiva dello storico: quando scriveva le Storie Fiorentine, nel 1510, Guicciardini era impegnato a elaborare un assetto politico per la città, liberatasi dal dominio mediceo, cercando nei modelli di «governo civile» dell’età di Cosimo una via per evitare le involuzioni principesche che avevano caratterizzato il governo laurenziano. Molti anni dopo, quando tra 1537 e 1540 si accinge a redigere la sua Storia, Guicciardini ha ormai conosciuto la catastrofe degli Stati italiani e la fine non solo della libertà di Firenze, ma anche di quella dell’intera Penisola: le antiche remore verso il personaggio di Lorenzo hanno lasciato il posto alla rievocazione della grandezza ormai perduta della città.
no di Francesco Sforza. La grande potenza regionale di Milano, tradizionale acerrima nemica di Firenze fin dal primo Trecento, passava nel 1450 a un ex condottiero, Francesco di Muzio Attendolo Sforza, amico fraterno di Cosimo e a lui legato da enormi debiti umani e soprattutto finanziari: anche l’apertura della nuova filiale milanese del banco Medici nel 1452 fu una scelta molto piú politica che finanziaria, che avrebbe però assicurato a Firenze il costante appoggio politico dello Sforza fino alla sua morte, avvenuta nel 1466. In questo quadro dominato dai grandi capitali finanziari, sarebbe tuttavia un errore considerare le grandi famiglie fiorentine, compresa 24
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Ritratto di Cosimo il Vecchio, olio su tela di Alessandro Pieroni, ispirata a un originale del Pontormo (vedi a p. 13). 1518. Firenze, Museo Bardini. Nella pagina accanto busto in terracotta policroma di Lorenzo de’ Medici, opera di un artista ignoto, forse su modello di un originale di Andrea del Verrocchio e Orsino Benintendi. 1513-1520. Washington, National Gallery of Art. MEDICI
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UNO STATISTA SENZA (TROPPI) SCRUPOLI Nella storiografia ottocentesca, e in quella della prima metà del Novecento, ha avuto una fortuna eccezionale il giudizio di Jacob Burckhardt, il quale nel celeberrimo La civiltà del Rinascimento in Italia (Basilea 1860) definí lo Stato del Rinascimento «Staat als Kunstwerk»: lo «Stato come opera d’arte». Nell’accezione adottata da Burckhardt, lo Stato come opera d’arte esprimeva la rinnovata capacità dell’uomo del Rinascimento di costruire il proprio ambiente politico, plasmando a proprio favore le circostanze della storia senza le remore e gli scrupoli religiosi medievali. La definizione è stata a lungo adottata, piú o meno esplicitamente, per interpretare la vicenda della costruzione dello Stato mediceo: in particolare Cosimo, insignito dai consigli cittadini del titolo di «Pater Patriae», padre della patria, sembra rappresentare a pieno questa vera e propria filiazione dello Stato da parte del suo geniale demiurgo. D’altra parte, abbiamo visto quanto il potere di Cosimo si fosse costruito, e si reggesse e continuasse a reggersi nelle mani dei suoi successori, principalmente sul denaro, e poi – spesso attraverso le medesime ricchezze – sui rapporti personali di fedeltà di cui Cosimo seppe circondarsi: forse non vi è segnale piú evidente dell’esercizio del potere mediceo in città, delle centinaia e centinaia di lettere con cui personaggi piú diversi, dagli ambasciatori ai mercanti, dai religiosi agli ufficiali, fino a piú umili lavoratori, chiedono al signore grazie, favori, raccomandazioni, credenziali e ogni tipo di facilitazione che allora, e non solo allora, si usasse chiedere a un potente. In fondo, ha osservato lo storico americano Anthony Molho, Cosimo de’ Medici piú che «Padre della Patria» andrebbe definito un «padrino»: tanto la sua politica di governo, all’interno della città come nei rapporti esteri, si fondava sulla forzatura delle forme istituzionali tramite il denaro e le relazioni personali, non diversamente da come accadeva o accade per il potere dei grandi boss della mafia. Dunque, si deve considerare Cosimo alla stregua di un mafioso? In realtà, ogni interpretazione in quest’ambito deve procedere da una consapevolezza di fondo, che cioè il funzionamento delle istituzioni come sistema puramente formale e del tutto impersonale non è una caratteristica eterna dei sistemi politici, ma un elemento che si è veramente costituito solo nella tarda età moderna, con la nascita dello Stato amministrativo nel XVIII secolo. Nei sistemi medievali e di antico regime era abituale attribuire a una carica pubblica un contenuto politico, cioè il riferimento a un legame di potere che si instaurava o si consolidava attraverso tale funzione pubblica. Considerando cosí gli uffici pubblici, il modo di gestione del potere adottato dai Medici perde ogni connotato «patologico», e si presenta semplicemente come l’impiego, straordinariamente abile, delle possibilità offerte dalle istituzioni del tempo.
quella dei Medici, soltanto come società di banchieri e investitori, protese ai traffici e alle attività commerciali o speculative come unica fonte di arricchimento.
Possedimenti sterminati
Le fonti fiscali quattrocentesche, innanzitutto il Catasto del 1427, ma anche tutte le analoghe registrazioni successive, ci mostrano un dato 26
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Cosimo il Vecchio circondato da letterati e artisti, affresco di Marco da Faenza su disegno di Giorgio Vasari. 1556. Firenze, Palazzo Vecchio.
assolutamente costante: l’enorme valore dei beni immobiliari e soprattutto fondiari dei maggiori cittadini. Per una delle grandi famiglie di età medicea, come gli Strozzi, i Capponi, i Rucellai, i Valori, i Vettori, i Serristori, i Corsini eccetera, era del tutto comune possedere decine di poderi nel contado, case di campagna, vigne, mulini, e soprattutto amministrare il lavoro di schiere di mezzadri accasati in abitazioni rurali. E in questo i Medici non facevano eccezione, anzi eccellevano tra le altre famiglie per l’entità veramente ingente dei possessi fondiari. Le grandi ville medicee come quella di Cafaggiolo, del Trebbio, di Poggio a Caiano, non erano all’origine che il centro di questi imponenti complessi fondiari. A lungo la storiografia ha giudicato questa diffusione della proprietà fondiaria come un sintomo di regressione dell’economia fiorentina (e piú in generale italiana), per cui le grandi fortune commerciali del Trecento si sarebbero in qualche modo immobilizzate con questo «ritorno alla terra»: a sua volta questo sintomo di involuzione ben si adattava al generale decadimento della vita pubblica, segnato dalla fine delle libertà comunali e l’inizio delle signorie. Dopo aver osservato che in realtà di ritorno non si tratta, dal momento che mai la grande ricchezza aveva abbandonato la terra come oggetto di investimento, oggi si è compreso quanto l’investi-
La villa di Cafaggiolo, una delle proprietà piú celebri della famiglia Medici, in una lunetta dipinta dal pittore fiammingo Giusto Utens nella villa medesima, situata presso Barberino di Mugello. 1599-1602.
mento agricolo avesse anche caratteri di vitalità e orientamento commerciale: lo stesso Lorenzo fu tra i primi a sperimentare nuove forme di allevamento nelle sue tenute di campagna. Oltretutto, da questi estesi possedimenti rurali, la famiglia traeva ancora una volta non soltanto somme ingenti e rendite veramente enormi, ma anche un complesso di poteri sul territorio, dal momento che nelle zone dove piú forte era la presenza della famiglia tra i grandi proprietari, piú saldo era il legame della popolazione con i padroni, che potevano contare cosí sul saldo appoggio di dipen-
denti fedeli. Il caso dei Medici è in questo senso emblematico: la famiglia aveva mantenuto per tutto il Quattrocento estesissime proprietà fondiarie nel Mugello, da dove proveniva, e proprio con il Mugello i Medici continuarono ad avere rapporti privilegiati, tanto che tra le lettere di Lorenzo di frequente si trovano suppliche o raccomandazioni di comunità o singoli che si appellano alla benevolenza del signore verso quelle genti a lui particolarmente fedeli. E certamente di quella fedeltà i Medici avrebbero fatto buon uso in caso di necessità.
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Legami che contano La storia del Rinascimento è spesso un «affare di famiglia». Un fenomeno nel quale i Medici sono pienamente coinvolti, in un sapiente gioco di alleanze, matrimoni combinati e partecipazione alla vita politica e religiosa
di Lorenzo Tanzini
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a storia della Firenze quattrocentesca è una storia di grandi personalità: è impossibile parlare dei Medici prescindendo dai caratteri personali di Cosimo, del debole Piero, o del Magnifico, cosí come è difficile ricostruire le vicende della città se non presentando la galleria dei personaggi, da Rinaldo degli Albizzi a Luca Pitti fino a Savonarola e Pier Capponi. E, seguendo questa aurea teoria di grandi personaggi, si può ben capire come il Rinascimento sia stato complessivamente interpretato come l’età dell’individualità, di contro a un Medioevo comunitario, corporativo o ecclesiale. Tuttavia, guardando piú da vicino, gli storici hanno scoperto una realtà meno netta, e a un’immagine di Rinascimento dominato dalle grandi personalità e dall’emergere dell’individuo moderno, si è oggi contrapposta, o quantomeno affiancata, la rivalutazione dell’elemento familiare nella società cittadina, e in particolare a Firenze. Nel Quattrocento infatti, non molto diversamente da quanto accadeva un secolo prima, la vita di un cittadino è fortemente condizionata dalla sua appartenenza familiare. Innanzitutto sul piano personale, giacché i membri della stessa famiglia vivono abitualmente nello stesso quartiere, in una contiguità che è
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La parete di fondo della Cappella Sassetti, affrescata da Domenico Ghirlandaio. 1482-1486. Firenze, Santa Trinita. Il committente, il banchiere Francesco Sassetti, uomo di fiducia dei Medici, è inginocchiato alla destra della pala d’altare, alla cui sinistra compare sua moglie Nera. In alto è raffigurato un miracolo postumo attribuito a san Francesco, che avrebbe resuscitato un bambino; ai lati si assiepano due gruppi di persone, tra cui si riconoscono le figlie di Sassetti sulla sinistra, e i rispettivi mariti o fidanzati sulla destra, preceduti da due frati inginocchiati; l’ultimo uomo della prima fila a sinistra con una mano sul fianco è un autoritratto dello stesso Ghirlandaio.
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MEMORIE VERE E FALSE ASCENDENZE La centralità della dimensione familiare nella storia fiorentina del Quattrocento si coglie anche dal proliferare di testi di grande interesse per gli storici, le memorie familiari. È una tradizione che aveva una storia ormai consolidata: tra la fine del XIII e i primi del XIV secolo l’eccezionale familiarità con la scrittura che la società imprenditoriale e commerciale di Firenze aveva acquisito, probabilmente superiore a quella di qualsiasi altro luogo dell’Occidente, fece sí che si diffondesse l’uso, da parte dei mercanti, di arricchire i propri libri di conto e registri commerciali di notazioni familiari, come il ricordo di matrimoni e nascite, o di incarichi politici. In certi casi queste rapide annotazioni giustificarono la stesura di registri appositi, i cosiddetti libri di ricordanze: vi si riportavano le vicende del patrimonio familiare, le mutazioni nei rapporti professionali, le date da ricordare nella
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vita dei figli o dei parenti, fino agli episodi piú drammatici o commoventi, come la compiaciuta esecuzione di una cruenta faida contro una famiglia rivale, o l’angoscia vissuta per la morte di un figlio giovanissimo. Nel Quattrocento quella che ormai era una sorta di genere letterario continuava la sua evoluzione, e il racconto non si limitava piú alla cronaca dei fatti contemporanei, ma si rivolgeva a ricostruire le storie lontane della famiglia: e, nel tentativo di nobilitare le proprie origini per giustificare una particolare autorità nella vita politica del tempo, gli scrittori non esitavano di fronte alle genealogie piú improbabili,
popolando il proprio piú o meno mitico passato di paladini di Carlo Magno o ardimentosi crociati. Allo stesso tempo, la tradizione si complica e si articola: la memoria della vita politica delle famiglie viene perpetrata dai cosiddetti prioristi, che raccoglievano l’elenco dei cittadini seduti negli uffici del Comune nel corso degli anni; una forma, questa, particolarmente importante dalla fine del Quattrocento, quando dimostrare la propria discendenza da un priore consentiva di inserirsi nei nuovi Consigli della città. D’altro canto, il peso del dominio dei Medici, che tendeva a promuovere singole figure di uomini fedeli al regime a prescindere dalla loro provenienza familiare, finiva per erodere la stessa ragion d’essere delle cronache familiari, spingendo molti scrittori a preferire la storia politica vera e propria.
Come già nel secolo precedente, anche nel Quattrocento la vita di un cittadino è fortemente condizionata dalla sua appartenenza familiare anche materiale: certo, nel Quattrocento Firenze ha ormai perso da tempo l’aspetto arcigno di città turrita, in cui le case-torri di famiglie vicine si collegano l’una all’altra formando una rete di solidarietà all’occorrenza anche militare, ma queste solidarietà consortili si esprimono ancora nelle corti dei palazzi, dove i parenti anche lontani si incontrano per amministrare un patrimonio che è in parte comune, per discutere di alleanze matrimoniali, per prendere provvedimenti verso figli sfortunati o degeneri.
Scelte assai oculate
Questa attenzione ai rapporti familiari si esprime poi in maniera evidente nei matrimoni: la scelta della moglie o del marito viene concordata dai capifamiglia, sulla base di criteri che molto poco, come d’altra parte è del tutto usuale nelle società di antico regime, hanno a che vedere con l’affetto o il desiderio reciproco dei due promessi, ma sono piuttosto orientati a consolidare o stabilire i legami tra le famiglie. Né questa forte coesione familiare si coglie solo nelle faccende private. Il cittadino medio giunge a ricoprire un incarico anche soltanto per essere stato iscritto nelle liste elettorali, spesso quando era ancora troppo giovane per essere ufficiale, ma la reputazione del padre gli consentiva già di esserne considerato degno. E una volta diventato adulto, verrà «seduto» in un ufficio solo se e quando nessun membro della sua famiglia sarà assiso in quell’incarico o in uno affine, a meno che il medesimo decida di lasciargli il posto. Cosí, ricoprendo nella propria vita anche varie decine di incarichi pubblici, piccoli e grandi, si troverà sempre ad agire in maniera complementare ai propri parenti, e contribuirà a dare buona prova di sé e buon nome alla famiglia. Vi è un’espressione del volgare fiorentino che esprime con grande efficacia l’insieme di valori intorno ai quali si costruiva, nella Firenze del Quattrocento, il potere di una famiglia: «avere stato». Avere piú o meno stato vuol dire dispor-
La parete orientale della Cappella Baroncelli, fondata nel 1328 nella chiesa fiorentina di S. Croce da Bivigliano, Bartolomeo e Silvestro Manetti e da Vanni e Piero Bandini Baroncelli, ricchi mercanti-banchieri fiorentini. Il ciclo pittorico con Storie della Vergine è opera di Taddeo Gaddi. Nella pagina accanto La rinuncia agli averi, scena dalle Storie di san Francesco affescate da Domenico Ghirlandaio nella Cappella Sassetti. 1482-1486. Firenze, Santa Trinita.
re di una rispettabilità che si misura nella ricchezza materiale, nelle relazioni con le famiglie potenti, nel credito che si ottiene quando si parla nelle Consulte, nella maggiore o minore familiarità con gli uffici che contano. Alessandra Macinghi Strozzi, una nobildonna di una delle maggiori famiglie in città, parlando del marito che ha appena procurato a una delle figlie, lo storico Marco Parenti, dice appunto che si tratta di un giovane avveduto, che soprattutto «ha un poco di stato»: come dire, non sarà un Cosimo de’ Medici, e nemmeno uno Strozzi, ma la sua posizione in città è da tutti i punti di vista rispettabile. È interessante notare che l’uso di una espressione del genere avvicina il linguaggio e i criteri di giudizio delle grandi famiglie a quello del governo della città. È infatti la stessa espressione che leggiamo nei modi in cui i Medici considerano il proprio dominio su Firenze: Guicciardini, nel tessere le lodi di Cosimo, osMEDICI
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A sinistra Brunelleschi e Ghiberti presentano a Cosimo il Vecchio il modello della chiesa di S. Lorenzo, affresco di Marco da Faenza su disegno di Giorgio Vasari. 1556 circa. Firenze, Palazzo Vecchio. La chiesa, alla cui costruzione i Medici contribuirono in misura notevolissima, sorge nell’area in cui la famiglia installò il suo nuovo «quartier generale», dopo aver lasciato il centro cittadino per stabilirsi in via Larga.
serva che i suoi meriti sono tanto maggiori di quelli dei suoi discendenti in quanto lui «fece lo stato», cioè fondò le fortune e il potere della famiglia; e Lorenzo, dopo la congiura dei Pazzi, ebbe a scrivere in una sua lettera di aver seriamente temuto di «perdere lo stato mio». Ecco che quello stesso criterio di preminenza sociale, che fa parte del sistema di valori di ogni buona famiglia cittadina, viene senza alcun imbarazzo applicato ai modi in cui una di queste famiglie guida la città, e viceversa.
I consigli di un setaiolo ai propri figli
Certamente i modi di porsi nella società delle famiglie fiorentine cambiavano a seconda dei casi: uno Strozzi o un Rucellai, grandissimi banchieri, costruttori delle meraviglie architettoniche che ancora oggi ornano le vie di Firenze, poteva permettersi di guardare, per cosí dire, dall’alto in basso i partiti per i matrimoni, o gli orientamenti politici, o le amicizie, in vista del maggior lustro e magnificenza della famiglia. Ma anche a un livello piú basso, ben rappresentato da quel Giovanni di Paolo Morelli, buon setaiolo e avveduto mercante, che ci ha lasciato un famoso libro di ricordi nel primo Quattrocento, quei valori restavano gli stessi, pure visti da una prospettiva diversa. Per curare bene il proprio stato, consigliava il Morelli ai figli, si deve innanzitutto amministrare con vigile cautela il patrimonio familia32
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Incoronazione della Vergine (particolare), affresco del Beato Angelico, nella cella 9 del Dormitorio dell’ex convento di S. Marco, ora Museo, Firenze. 1438-1440.
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Il quadro storico rapporti «privati», che noi saremmo portati a leggere come una degenerazione clientelistica della vita pubblica, dava alla città e al suo dominio la coesione necessaria a cementarne le molteplici componenti. I modi in cui le grandi famiglie curavano la propria posizione in città non si esaurivano nei legami matrimoniali o nelle varie forme di relazione professionale, ma si esprimevano anche nella complessa rete di legami con le istituzioni ecclesiastiche o gli enti religiosi.
Nobili patroni per chiese e conventi
Particolare del corteo che accompagna Gaspare nella Cappella dei Magi affrescata da Benozzo Gozzoli. 1459. Firenze, Palazzo Medici Riccardi. Nella pagina accanto ritratto di fra Girolamo Savonarola, olio su tavola di Bartolomeo della Porta, detto Fra Bartolomeo. 1490-1498. Firenze, Museo di S. Marco. 34
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re, evitando smembramenti e dilapidazioni, accettare sempre le cariche pubbliche, esercitare gli incarichi in modo da trarne fama di buoni e onesti cittadini, ricordandosi ovviamente di aiutare quando possibile i parenti, essere in buoni rapporti con le famiglie piú potenti, senza però assumere atteggiamenti faziosi contro le altre, per evitare di subire gli effetti di un cambio di regime. In un contesto nel quale il conformismo vissuto consapevolmente è l’elemento chiave dei rapporti sociali, si capisce bene come il predominio tanto informale quanto rispettoso delle tradizioni, come quello dei Medici, potesse essere stabile e fondato. Anzi, proprio l’insieme dei
Firenze, come ogni altra città del tempo, pullulava di chiese, conventi e monasteri. E la vita di questi enti ecclesiastici e religiosi era tutt’altro che scissa dalle dinamiche del potere: innanzitutto, fin dai primi secoli comunali le maggiori famiglie detenevano il patronato di certe chiese parrocchiali, per cui si riservavano il diritto di nominarne i rettori, ovvero i parroci. Tanto che nella memoria urbanistica restano ancora chiese il cui nome rivela quegli antichi rapporti privilegiati: S. Michele Visdomini, S. Margherita dei Ricci, S. Maria degli Alberighi. Gli stessi Medici furono a lungo patroni della parrocchia presso la quale si trovava l’antica abitazione della famiglia, S. Tommaso al Mercato Vecchio. A un livello piú alto, le famiglie rivolgevano le proprie attenzioni ai numerosi conventi o monasteri in città: cappelle familiari che ancora oggi ammiriamo nelle grandi basiliche mendicanti, S. Croce, S. Maria Novella, S. Maria del Carmine sono l’effetto piú illustre di questi rapporti. La famiglia arricchiva o sosteneva il monastero con donazioni e offerte; al momento di fare testamento, i suoi componenti si ricordavano generosamente dei propri protetti; spesso membri della famiglia stessa entravano nella congregazione religiosa e ne assumevano la guida. Il prestigio e la visibilità della stirpe erano cosí rafforzati dal legame con la comunità religiosa. Lo sapevano bene i Medici, che anche in questo aspetto non rappresentano un’eccezione se non nelle proporzioni dei loro interventi. Il monastero domenicano di S. Marco, posto a poche decine di metri dal palazzo della famiglia in via Larga, venne fatto interamente ricostruire da Cosimo, che ne curò l’abbellimento riservandosi addirittura una cella per recarvisi a pregare. Lo stesso Cosimo fece sí che nel convento si trasferisse la comunità dei frati domenicani Osservanti nel 1436, e da quel momento mantenne un rapporto assolutamente privilegiato con questo importante ente religioso. Suo figlio
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UN SECOLO DI GRANDI EVENTI 1414-1418 Concilio di Costanza: dopo quarant’anni di divisioni, la Chiesa ritrova l’unità con il papa Martino V. 1428 Pace di Ferrara tra Firenze, Venezia e Milano: la Serenissima è padrona dell’Italia settentrionale dalla laguna fino a Brescia e Bergamo. 1436 Il re francese Carlo VII riconquista Parigi strappandola agli Inglesi. 1442 Alfonso il Magnanimo diventa re di Sicilia riunificando il Regno dell’Italia meridionale. 1450 Francesco Sforza diventa duca di Milano. 1453 Costantinopoli viene conquistata e saccheggiata dagli Ottomani.
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1454 Pace di Lodi: il papa e le maggiori potenze italiane, tra cui Firenze, si uniscono nella Lega Italica. 1458 Alla morte di Alfonso il Magnanimo, gli succede nel regno siciliano il figlio Ferrante. 1471 Francesco Della Rovere diventa papa con il nome di Sisto IV. 1476 Il duca di Milano Galeazzo Maria Sforza, succeduto al padre Francesco, viene assassinato da una congiura. 1483 Carlo VIII diventa re di Francia. 1484 Innocenzo VIII Cybo è il nuovo papa: il suo figlio naturale Franceschetto sposerà la figlia del Magnifico, Maddalena.
MEDICI: UNA CRONOLOGIA 1397 Giovanni di Bicci sposta da Roma a Firenze la sede del banco Medici. 1420 Cosimo di Giovanni diventa titolare del banco succedendo al padre. 1433 Il 28 settembre Cosimo viene condannato all’esilio per dieci anni a Padova. 1434 All’inizio di ottobre, sostenuto dai suoi partigiani, Cosimo torna in città, fa convocare il Parlamento e indire una Balía che condanna all’esilio i suoi nemici. Da quel momento, pur senza detenere alcuna carica ufficiale, eserciterà un potere pressoché completo all’interno della Repubblica fiorentina. 1439 Si riunisce a Firenze il Concilio ecumenico convocato da papa Eugenio IV: effimera riunione con la Chiesa greca. 1440 Battaglia di Anghiari: l’esercito fiorentino sconfigge quello milanese guidato dal condottiero Piccinino. 1458 Cosimo fa nuovamente convocare il Parlamento: istituzione del Consiglio dei Cento. 1464 Il 1° agosto Cosimo muore: i Consigli lo insigniscono del titolo di Padre della Patria. 1466-67 Piero di Cosimo stenta a conservare il potere ereditato dal padre: viene sventata la cosiddetta congiura del Poggio. 1469 Piero muore lasciando il governo della famiglia e della città al figlio ventenne, Lorenzo. 1478 26 aprile: congiura dei Pazzi. Giuliano, fratello di Lorenzo, cade ucciso, Lorenzo si salva miracolosamente. 1480 Lorenzo fa istituire il Consiglio dei Settanta: è il culmine del dominio mediceo sulla città. 1492 Lorenzo muore l’8 aprile.
Piero e poi Lorenzo continuarono la tradizione di famiglia, coltivando rapporti strettissimi con la comunità: quasi troppo stretti, per quei cittadini che si indignavano alla vista delle palle medicee scolpite praticamente in ogni angolo della chiesa. E fu lo stesso Lorenzo, nel 1490, a far giungere a S. Marco un frate ferrarese già noto per la sua dottrina e la sua pietà, che però proprio a Firenze avrebbe consumato la sua eccezionale e tragica vicenda di predicatore, frate Girolamo Savonarola. Lorenzo dei Medici mostra a Galeazzo Sforza le suppellettili artistiche da lui raccolte, olio su tela di Amos Cassioli. 1868. Siena, Banca Monte dei Paschi di Siena, collezione Chigi Saracini. Oltre che abile politico, il Magnifico fu anche letterato, nonché grande mecenate e intimo di celebri umanisti e poeti.
Le confraternite
Un’altra forma di associazione caratterizzava la vita religiosa della città: le confraternite laicali. Nate in tempi e con ispirazioni diverse, rivolte a fini caritatevoli, o soltanto ad avvicinare i fedeli alle pratiche di devozione, le confraternite non svolgevano una funzione esclusivamente spirituale: al contrario, sappiamo che le loro assidue riunioni erano spesso occasioni per consolidare i rapporti personali o familiari. Le famiglie piú importanti ne approfittavano per instaurare legami di patronato e clientela con i cittadini dei ceti inferiori, costituendo cosí la trama, per cosí dire, verticale, che insieme ai rapporti orizzontali orditi con i matrimoni costituiva il tessuto delle relazioni
su cui fondare il potere nella società. Nel 1418, addirittura, volendo colpire associazioni accusate di mascherare intenti politici e fomentare oscure trame contro il regime, una legge del Comune sciolse d’autorità una lunga serie di confraternite; ma provvedimenti del genere, presto corretti da eccezioni e deroghe, non erano destinati a intaccare in maniera decisiva il peso delle compagnie laicali nella società. Proprio negli anni della legge di soppressione faceva la sua comparsa una nuova confraternita, la Compagnia dei Magi, incaricata di organizzare la spettacolare processione rituale che attraversava le vie della città nel giorno dell’Epifania. Forse per il fatto che la processione aveva la sua parte culminante nel tratto dal duomo al convento di S. Marco, passando proprio di fronte a Palazzo Medici in via Larga, fin dagli anni Trenta Cosimo divenne il principale benefattore della Compagnia, tanto che la devozione ai Magi fu da allora una sorta di culto familiare mediceo: e infatti la processione dei Magi è il soggetto principale dei celebri affreschi di Benozzo Gozzoli in Palazzo Medici. Forti di questo legame consolidato, i Medici seppero usare con abilità il luogo della Compagnia per i propri fini: non ci è difficile, e per i contemporanei doveva essere assai naturale, immaginare a MEDICI
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Il quadro storico
margine delle riunioni serali della Compagnia Cosimo o i suoi consorti che discutono coi confratelli di elezioni, di buoni cittadini da promuovere, di ufficiali da nominare...
Un appoggio indispensabile
Matrimoni, carriere politiche, collaborazioni negli affari, legami mediati dalle associazioni religiose sono gli elementi che definiscono il ceto dirigente fiorentino: un gruppo di famiglie che si distinguono non solo per ricchezza e nobiltà, quanto per la preminenza di cui godono nella vita sociale e politica della città. È questo patriziato cittadino il vero protagonista della vita politica, prima, durante e dopo il sessantennio mediceo: i Medici esercitano il potere principalmente come la maggiore, piú ricca e piú autorevole delle famiglie del «reggimento». Cosimo, come Piero, Lorenzo e i suoi figli, sapevano bene di non poter neppure pensare di governare la città senza il favore, o solo il silenzio delle maggiori famiglie della città. E quelle famiglie badavano bene che i signori di Firenze non ambissero a essere nulla di piú, a governare da principi invece che da primi tra pari. Per questo non va attribuito un valore rivoluzionario alla svolta del 1494, quando i Medici vennero spodestati e Piero di Lorenzo cacciato da Firenze. I potenti della città cominciavano a cercare un sistema diverso da quello mediceo per assicurare il proprio dominio su Firenze e quello di Firenze sul suo Stato. Ma non vi sarebbero riusciti a lungo.
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Sulle due pagine una veduta di Palazzo Vecchio, già «del Popolo» o «della Signoria». In basso Papa Leone X passa da Firenze, affresco di Giorgio Vasari e Giovanni Stradano (Jan van der Straet). 1558-1559 circa. Firenze, Palazzo Vecchio. Il dipinto rappresenta il passaggio del corteo papale in piazza della Signoria, avvenuto durante la visita del pontefice a Firenze nel 1515.
LA SEDE DEL POTERE Il palazzo pubblico del Comune di Firenze sorse tra il 1298 e il 1299 su progetto di Arnolfo di Cambio, e venne conosciuto come Palazzo del Popolo o della Signoria, dal nome della potentissima magistratura creata nel 1282 che vi si insediò fin da subito: il nome con cui l’edificio è oggi universalmente noto viene usato solo dal 1550, dopo lo spostamento a Palazzo Pitti della sede del governo di Cosimo I, quando ormai della storia comunale non solo il palazzo era diventato vecchio. La costruzione originaria, per quanto imponente, aveva dovuto farsi spazio in un tessuto urbano già fittissimo, evitando tra l’altro l’area dove sorgevano le case degli Uberti, gli odiati ghibellini cacciati dalla città: solo dal 1307 si iniziò il lavoro di demolizione degli edifici antistanti e di sistemazione della piazza del Popolo, oggi della Signoria, finalmente lastricata a mattoni dal 1386. Nel frattempo il grande palazzo, dove i consigli cominciarono a riunirsi nel 1302, veniva rapidamente completato, con la sistemazione della torre nel 1310 e la costruzione del balcone o «ringhiera» successivamente demolito. A perfezionare un complesso architettonico che si volle maestoso e spettacolare, giunse infine la Loggia dei Priori, macchiata dal
nome di Loggia dei Lanzi per via della guarnigione tedesca insediatavi dai Medici, ma inizialmente pensata come una sorta di grande vetrina del potere pubblico, dove si svolgevano le cerimonie di entrata in ufficio dei magistrati. Della storia comunale non è rimasto quasi nulla all’interno del palazzo, profondamente rimaneggiato nel corso del Quattrocento a opera di Michelozzo, e soprattutto sconvolto dall’apertura del gigantesco Salone dei Cinquecento, concepito nel 1494 come sede delle riunioni di quel Consiglio Maggiore che Girolamo Savonarola volle creare per sostituire con un «governo largo» la tirannide dei primi Medici.
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PROTAGONISTI
Come lui non
c’è nessuno
Fu detto «il Magnifico» e, secondo Francesco Guicciardini, possedeva doti tali da farne un uomo di governo pressoché perfetto. Ma chi fu veramente Lorenzo de’ Medici? di Lorenzo Tanzini
N
ei primi giorni dell’aprile 1492 Lorenzo de’ Medici giaceva agonizzante nella sua villa di Careggi, alle porte di Firenze. Oscuri presagi avevano inquietato l’intera città accompagnando le ultime ore del Magnifico: il piú impressionante, il fulmine che aveva colpito il giorno 5 la sfera di bronzo posta a compimento della lanterna del duomo. I frammenti della sfera, caduti sul lato della strada verso Palazzo Medici, vennero letti come sinistro presagio della sventura che stava per colpire i signori di Firenze e la città tutta. Lorenzo morí tre giorni dopo, circondato dai familiari, confortato dalle cure disperate del medico Pierleone da Spoleto e assistito dall’amico Angelo Poliziano. Aveva da poco compiuto 43 anni. La morte di Lorenzo de’ Medici, già al suo tempo riconosciuto come la personalità piú brillante del mondo politico italiano, è divenuta nei secoli – complice la storiografia, fin dal Guicciardini – una data spartiacque per la storia della Penisola, un vero e proprio emblema di quella meravigliosa e autunnale fioritura italiana del Rinascimento, preludio della catastrofe politica del primo Cinquecento. Ma vista piú da vicino, la tragica fine del Magnifico ben rappresenta soprattutto i fasti, e insieme le fatali debolezze, di un’esperienza politica e umana destinata a segnare per sempre la storia di Firenze. La storia dei Medici fu costantemente funestata dalla malattia e dai lutti, dei quali la Lorenzo il Magnifico circondato dagli artisti, affresco del fiorentino Ottavio Vannini. 1634-1642. Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti. MEDICI
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morte prematura di Lorenzo è soltanto l’esempio piú emblematico. Vera e propria tara familiare fu la gotta: un morbo sotto il cui nome venivano descritte in quel tempo patologie oggi qualificate diversamente, ma accomunate dallo stesso infausto manifestarsi di dolorosi gonfiori agli arti, che spesso giungevano a impedire i movimenti. Il padre di Lorenzo, Piero di Cosimo, morto poco piú che cinquantenne nel 1469, ne fu tanto dolorosamente afflitto da passare alla storia come Piero «il Gottoso». Lo stesso Magnifico, oltre a sopportare la precoce perdita del padre e la morte violenta del giovane fratello sotto i colpi dei Pazzi nel 1478, dovette fare i conti fin dalla giovinezza con i disagi della malattia: lunghi soggiorni ai bagni termali, stagioni di riposo e periodi di quasi immobilità; non di rado il Magnifico, dedito a una continua e fittissima corrispondenza con i propri alleati, soci e amici, confessa di non essere riuscito per giorni e giorni a tenere in mano neppure la penna per i dolori alle mani. E non era questo del resto l’unico handicap di un uomo che avrebbe fatto della magnificenza il suo segno emblematico. Lorenzo si trovò a convivere con una vistosa malformazione del setto nasale, che gli impedí per tutta la vita di percepire gli odori e conferí un tono innaturale e sgradevole alla sua voce.
Un uomo non certo avvenente...
Tutto questo non poteva restare senza conseguenze nell’immagine fisica del signore di Firenze: tra i numerosi ritratti del Magnifico, tutti piú o meno edulcorati da un’arte nata e cresciuta all’ombra del signore, quello del Ghirlandaio nella Cappella Sassetti in S. Trinita lascia bene intendere i caratteri somatici di Lorenzo: un volto massiccio e sgraziato, con occhi piccoli e miopi e mento sproporzionato, accompagnato a un corpo agile e robusto, ma scomposto e inelegante, che soltanto eccezionali doti umane, e certo anche la piú raffinata cura dell’abbigliamento, riuscivano a compensare. Queste circostanze personali non sono particolari da appassionati di aneddoti, ma elementi fondamentali della natura del potere nel mondo rinascimentale: in una civiltà fatta di immagini e comunicazioni visive, l’immagine del signore, la sua presenza e per cosí dire la costruzione della sua personalità pubblica e privata, sono una delle chiavi della sua riuscita politica. La cura della propria persona, di cui Lorenzo fu insieme fruitore e artefice, è forse l’aspetto piú interessante del Magnifico, la prima delle sue opere imperiture. Il corpo, innanzitutto, segna42
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Ritratto di Lorenzo il Magnifico, olio su tavola di Luigi Fiammingo. 1550. Firenze, Museo degli Argenti. Nella pagina accanto particolare di una delle scene delle Storie di san Francesco affrescate da Domenico Ghirlandaio nella Cappella Sassetti. 1482-1486. Firenze, Santa Trinita. Al centro, nell’atto di tendere una mano, si riconosce Lorenzo il Magnifico e, accanto a lui, in abito rosso, il banchiere Francesco Sassetti, uomo di fiducia dei Medici e committente della cappella.
to dalle piú capricciose crudeltà della sorte, è il primo aspetto a cui il signore deve una cura speciale. Accanto alle terme, cui Lorenzo ricorreva recandosi nelle piú rinomate località del Senese e della Tuscia, luogo di ristoro e ricreazione per eccellenza negli usi del tempo era la villa, l’abitazione di campagna. Fin dai tempi tragici della peste del 1348, il racconto di Boccaccio testimonia quanto il ritirarsi in villa, dedicandosi agli ozi letterari e alle piacevolezze della campagna, fosse insieme misura igienica necessaria e segno di distinzione sociale. Nato nel 1449, Lorenzo trascorse gli anni piú sereni dell’infanzia nella grande villa che Cosimo aveva fatto costruire a Cafaggiolo, in mezzo alle proprietà avite del Mugello. Il Magnifico continuò ad adoperare a tal fine le dimore di Cafaggiolo e di Careggi per sé e i suoi familiari, dedicando però ogni cura alla realizzazione di una seconda e piú maestosa residenza di campagna, quella di Poggio a Caiano nel Pratese, che Giuliano da Sangallo disegnò riadattando un vec-
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chio fortilizio medievale. Presa a modello di palazzo signorile dai sovrani di tutta Italia, la villa di Lorenzo fu circondata di parchi e giardini, nei quali il Magnifico, nelle rare occasioni in cui le circostanze politiche glielo concessero, non mancò di ritirarsi dedicandosi al riposo e al godimento estetico: d’altra parte numerosi furono gli artisti chiamati ad abbellire con affreschi e decorazioni le sale delle dimore medicee, realizzate spesso con il diretto concorso dei progetti e del gusto artistico di Lorenzo.
Una scuola per gli artisti
Non è un caso, d’altra parte, che alcune delle piú importanti opere dell’Umanesimo fiorentino in forma di Dialogo, dai Libri della famiglia di Leon Battista Alberti ai dialoghi latini di Leonardo Bruni e Poggio Bracciolini, fossero ambientati in ville di campagna: la sede piú appropriata per immergersi nella conversazione elevata, fuori dagli affanni della politica e della vita cittadina. Lorenzo non mancò in realtà di trasportare anche dentro alla città l’atmosfera sognante della campagna, iniziando quella tradizione di giardini monumentali che i suoi successori avrebbero onorato con la costruzione dell’immaginifico parco di Boboli. In un giardino ricavato tra le case Medici e il convento di S. Marco, Lorenzo creò una vera e propria scuola di scultura per giovani artisti: il giovinetto Michelangelo Buonarroti vi trascorse alcuni anni, 44
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che gli bastarono per restare per sempre abbagliato dalla grandezza del suo protettore. La cura del corpo, attraverso la ricreazione della campagna e gli esercizi fisici, andava insomma di pari passo con quella dello spirito. Obbedendo alla salda tradizione pedagogica dell’Umanesimo cittadino, lo stesso Cosimo il Vecchio aveva dedicato grande attenzione alla retta e salda educazione dei nipoti. Come precettore di Lorenzo venne scelto Gentile Becchi, un dotto umanista aretino cui l’amicizia coi Medici avrebbe procurato l’ascesa a vescovo di Arezzo. Giovinetto brillante e versatile, Lorenzo cominciò presto a sviluppare i suoi esercizi letterari. D’altra parte l’ambiente familiare non poteva che incoraggiarlo alle prove poetiche, dal momento che la stessa Lucrezia Tornabuoni, madre di Lorenzo, era stata autrice di pregevoli opere in versi, specialmente a carattere religioso. Lorenzo continuò per tutta la vita a coltivare la sua vena poetica. Autore prolifico, anche se disordinato, il Magnifico ci ha lasciato una lunga serie di opere, generalmente d’occasione, poesie d’amore e canti carnascialeschi, l’elegia Corinto e una novella brillante in versi, la Nencia da Barberino. La sua opera piú matura, redatta nel corso di tanti anni e probabilmente fino alla morte, è il Canzoniere, una collezione di liriche a imitazione di Petrarca, che Lorenzo stesso corredò di un personale Commento autobiografico ispirato alla Vita
Fregio in terracotta invetriata raffigurante il ciclo delle anime secondo il mito platonico, opera di Andrea Sansovino e Bertoldo di Giovanni. 1490. Poggio a Caiano, Villa medicea. Nella pagina accanto, in alto planimetria del pianterreno della villa medicea di Poggio a Caiano, disegno di Giuliano da Sangallo. Siena, Biblioteca degli Intronati. Nella pagina accanto, in basso la villa di Poggio a Caiano in una lunetta dipinta dal pittore fiammingo Giusto Utens. 1599-1602. Firenze, Villa medicea della Petraia.
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Nova di Dante. Modelli impegnativi, di fronte ai quali il Magnifico non si lasciò intimidire.
Dalle lettere alle giostre
All’insegna di un’armoniosa congiunzione tra passatempi sportivi ed educazione letteraria, Lorenzo condivise con i nobili del suo tempo il gusto per i tornei e le gare di destrezza equestre. Nel Quattrocento le giostre a cavallo avevano perso gran parte del loro carattere di addestramento militare e, pur restando esercizi piuttosto cruenti (il duca Federico di Montefeltro, contemporaneo di Lorenzo, vi perse un occhio), svolgevano soprattutto il ruolo di caroselli della ricchezza e del potere delle grandi famiglie, i cui rampolli diventavano per qualche giorno personaggi di un improbabile ma affascinante mondo cavalleresco. Appena ventenne, poco prima del 46
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matrimonio con la giovinetta romana Clarice Orsini, Lorenzo organizzò con enorme dispendio una giostra di cavalieri, a cui fu invitata tutta la piú nobile gioventú d’Italia, e dalla quale riuscí vincitore (vi potevano essere dubbi?), nonostante le sue modeste doti di centauro. Lo stesso accadde per lo sfortunato fratello Giuliano, di ritorno da una felice missione diplomatica nel 1475. In entrambi i casi, la regia dell’entourage mediceo non mancò di trasformare l’occasione di aristocratico svago nella costruzione del mito letterario laurenziano. Luigi Pulci, il geniale e sboccato poeta del Morgante, entrato nella cerchia medicea già negli anni di Cosimo, compose un resoconto poetico dell’avvenimento, appunto la Giostra, che Lorenzo avrebbe fatto pubblicare a stampa nel 1482. Per la giostra del 1475 fu invece Angelo Poliziano, destinato a di-
Ritratti di Cristoforo Landino, Marsilio Ficino, Angelo Poliziano e Gentile de’ Becchi, particolare dell’affresco raffigurante l’Apparizione dell’angelo a Zaccaria, facente parte delle Storie di san Giovanni Battista affrescate da Domenico Ghirlandaio nella Cappella Maggiore o Tornabuoni della chiesa di S. Maria Novella, a Firenze. 1485-1490.
ONVERSAZIONI C NEL MONASTERO Cristoforo Landino, maestro di retorica presso l’Università di Firenze, fu il maggiore artefice della stagione di fioritura della poesia volgare, che Lorenzo promosse con entusiasmo e interpretò con le sue stesse rime. Una delle opere piú interessanti di Landino, scritta intorno al 1472, ritrae Lorenzo intento a dialogare con intellettuali e uomini politici della sua cerchia, tra Marsilio Ficino e lo stesso Landino, in una sede singolare, ovvero il monastero di Camaldoli in Casentino. Il mondo monastico è un ambiente particolarmente affine alla sensibilità dell’Umanesimo fiorentino, per altri versi ostile alla tradizione culturale dei frati mendicanti. L’amorevole custodia dei codici letterari antichi, la perizia nello studio dei testi latini e soprattutto greci, per la quale monaci come Ambrogio Traversari godevano di indiscussa fama, e non ultima la lontananza dalle beghe terrene nelle quali i frati erano intensamente coinvolti, facevano di luoghi come Camaldoli sedi d’elezione per i piú raffinati esponenti della nuova cultura cittadina. Le Disputationes Camaldulenes non sono in effetti solo una dotta imitazione delle Tusculanae disputationes di Cicerone, né solo un omaggio all’amore per la natura che il Magnifico appagava nel verde intenso delle foreste casentinesi. Nelle discussioni dei protagonisti, emerge il modello del sapiente tutto dedito alla contemplazione della verità, preferito a quello dell’uomo attivo coinvolto nella comunità politica: una vera svolta spiritualistica dell’«Umanesimo civile» fiorentino, effetto naturale della trasformazione della tumultuosa vita politica repubblicana nei fasti di una dorata tirannide.
venire non solo confidente di Lorenzo ma anche precettore dei suoi figli, a cimentarsi in una versione poetica: le sue Stanze per la giostra gli meriteranno un posto d’onore nella storia della poesia volgare del Rinascimento. L’educazione e il gusto letterario di Lorenzo non esaurivano certo la sua complessa personalità, né tutto in lui si componeva perfettamente nell’immagine del perfetto signore cittadino. Le abitudini goderecce, e la naturale inclinazione per le beffe e le avventure femminili anche volgari, se appaiono (e apparivano) tollerabili in un ventenne ricco e brillante, certo stridevano con le responsabilità politiche che i lutti familiari avevano posato sulle giovanissime spalle del Magnifico. E di questo Lorenzo fu consapevole, continuando tuttavia a lungo a coltivare questa doppia personalità, da una
In alto le torri campanarie della chiesa del Sacro Eremo e del monastero di Camaldoli (Arezzo). Qui sopra Madonna in trono e santi, terracotta invetriata di Andrea Della Robbia. 1490-1500. Camaldoli, Sacro Eremo.
parte spensierata e dissacrante, dall’altra grave e responsabile: come ebbe a dire Machiavelli, «si vedeva essere in lui due persone diverse, quasi con impossibile congiunzione congiunte». Col passare degli anni, tuttavia, il carattere del Magnifico divenne piú pensoso e meno dedito a quelle sregolatezze giovanili che gli erano state a suo tempo rimproverate. Anche i suoi gusti intellettuali si fecero piú spirituali. Mentre il salace e irriguardoso Pulci cadeva in disgrazia intorno al 1474, riprese una frequentazione abituale a corte l’austero Marsilio Ficino, già stimato da Cosimo ed esponente di massimo rilievo della corrente neoplatonica che la riscoperta dei testi greci del filosofo aveva fatto fiorire a Firenze. Nella filosofia platonica Lorenzo assecondò il lato piú riflessivo della sua natura, affascinato dalla ricerca intellettuale MEDICI
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IL CARNEVALE, TEMPO DI FESTA E DI CANTI La Firenze di Lorenzo era una città perennemente in festa. Oltre alle festività tipicamente fiorentine, come San Giovanni e il Calendimaggio, e alle occasioni eccezionali – ma frequenti – di matrimoni, paci e visite di sovrani e ambasciatori, i giorni del Carnevale offrivano un breve ma intenso periodo dedito a festeggiamenti e cortei mascherati. Vera e propria attrazione nell’attrazione erano i canti carnascialeschi, cioè le spregiudicate declamazioni di versi spensierati, inneggianti all’amore e al godimento dei piú grassi piaceri terreni. Lorenzo stesso si dedicò alla poesia carnascialesca, ma soprattutto seppe abilmente sfruttare il ruolo politico di costruzione del consenso del Carnevale, facendone occasione di svago per la plebe e di soddisfazione per le ambizioni del sospettoso patriziato cittadino. Le circostanze politiche condizionarono tanto pesantemente il Carnevale che la festa venne sospesa nel 1478, in segno di lutto per l’assassinio di Giuliano, per riprendere solo con le celebrazioni del 1488, e soprattutto del 1490, quando Lorenzo declamò la celeberrima Canzone di Bacco: un inno alla giovinezza e alla sua fragilità, che pare un involontario presagio della vicina tragedia del Magnifico.
della divinità e della vita beata secondo gli insegnamenti del Ficino, che a lui dedicò la Teologia Platonica. Mosso dalle stesse suggestioni, il Magnifico promosse le speculazioni di Giovanni Pico della Mirandola, studioso di filosofia antica e cultura ebraica, che dovette anche difendere dalle accuse di eresia. La cura dell’anima è del resto una parte importante dell’arte del vivere che il Magnifico percorse nella sua breve esistenza. Lungi dal dimenticare gli obblighi religiosi in nome delle frequentazioni letterarie e filosofiche – come comunque i suoi piú maligni avversari vollero affermare –, Lorenzo fu munifico 48
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Sulle due pagine fronte di cassone nuziale con la corsa del Palio per le vie di Firenze, tempera e oro su tavola di Giovanni Francesco Toscani. 1418. Cleveland, The Cleveland Museum of Art. Nella pagina accanto Fortezza (particolare), tempera grassa su tavola di Sandro Botticelli. 1470. Firenze, Galleria degli Uffizi.
patrono delle chiese fiorentine: accolse in un convento cittadino il predicatore Mariano da Genazzano, e favorí nel 1489 l’insediamento nel convento di famiglia di S. Marco del famoso domenicano ferrarese Girolamo Savonarola. L’episodio a lungo favoleggiato, secondo cui proprio Savonarola avrebbe negato sul letto di morte a Lorenzo l’assoluzione dei peccati, non ha nessuna verosimiglianza: al contrario gli stessi scritti poetici del Magnifico rivelano una sincera ispirazione spirituale, nella quale gli amori mondani sono spesso immagine e simbolo della ricerca di Dio.
Una celebrazione sistematica
Certo è che, come quella nelle imperscrutabili vie dei destini celesti, fu in Lorenzo come nei suoi predecessori forte la fiducia nella gloria terrena. A questo dovette pensare già Cosimo il Vecchio, che volle ornare il battesimo del nipote Lorenzo con un tondo raffigurante il trionfo della fama di petrarchesca memoria, ad auspicio di un destino di notorietà imperitura. Alla memoria, e alla gloria dei secoli a venire Lorenzo dedicò non soltanto le opere letterarie, sue e degli intellettuali suoi protetti, ma anche buona parte dei suoi gusti figurativi. Meno munifico del nonno, lo si è visto, nell’edificare chiese e palazzi in città, Lorenzo si circondò di scultori, intagliatori, artisti di pietre preziose, che oltre a raccogliere un’ingente collezione di cammei e medaglie antiche, costituirono una vera rassegna di immagini celebrative laurenziane. Gli stessi edifici religiosi non mancarono di essere usati per celebrare
l’immagine del signore: accadde per la chiesa della SS. Annunziata, nella quale Lorenzo, scampato alla congiura dei Pazzi del 1478, volle collocare alcune sue statue votive a grandezza naturale. Un’opera cosí vasta di autocelebrazione, che ha consegnato il nome di Lorenzo alla fama universale, non fu senza un alto prezzo. Il primo a farne le spese fu innanzitutto il Banco Medici, la fortunata impresa bancaria fondata dal bisavolo Giovanni e portata ai piú brillanti successi da Cosimo il Vecchio. I costi della magnificenza regale di Lorenzo, e specialmente le colossali spese necessarie per fare dei Medici, famiglia molto ricca e poco nobile, una delle dinastie riconosciute della Penisola, finirono per minare gli affari del banco, che ancor vivo Lorenzo volgevano alla bancarotta. D’altro canto, anche il capitale politico accumulato dal nonno, in termini di autorevolezza e prestigio tra i cittadini, venne pienamente valorizzato, ma anche consumato fino in fondo da Lorenzo, ormai universalmente considerato un tiranno, per quanto magnifico. In un certo senso, si ha l’impressione che nella persona di Lorenzo, e nella sua breve e intensa vita, si sia consumata tutta l’energia della civiltà del Rinascimento fiorentino. Un senso di stanchezza, di incapacità a proseguire nel percorso tracciato, pervade le manifestazioni della cultura cittadina dopo il 1492. Un ripensamento profondo, che dapprima sarà incarnato nell’ispirata furia profetica del Savonarola, e quindi diventerà riflessione disincantata sulla politica e sulla storia nelle pagine di Guicciardini e Machiavelli.
LORENZO E LE DONNE I biografi di Lorenzo il Magnifico sono concordi nell’attribuirgli una sensibilità assai spiccata per i piaceri dell’amore: tra tutti, Machiavelli lo dipinge «nelle cose veneree maravigliosamente involto», e numerose testimonianze lo presentano dedito a rocambolesche e assai poco dignitose avventure galanti insieme alla sua allegra brigata di giovani compari. Ciò non procurava del resto particolari minacce al matrimonio con Clarice Orsini, con la quale Lorenzo mantenne sempre un rapporto di profondo affetto: del resto il matrimonio era ritenuto al tempo un rapporto di assoluta necessità sociale, che non contemplava motivi di attrazione sensuale, né di intensa comunione emotiva e spirituale. Per quanto riguarda l’appagamento dei sensi, un giovane come Lorenzo non mancava certo di trovare facili occasioni. Al secondo aspetto, nella piú classica tradizione cortese, il Magnifico dedicò molte delle sue prove poetiche. In particolare, la donna amata «per cortesia» da Lorenzo fu Lucrezia Donati, bellissima nobildonna sposa di Niccolò Ardinghelli, della quale Lorenzo si volle fare campione nella giostra del 1469. Della sfortunata fanciulla amata un tempo dal fratello Giuliano, Simonetta Cattaneo, il Magnifico cantò invece la fragile bellezza, emblema, nelle pagine del Commento al Canzoniere, di un amore che la morte trasforma in desiderio di contemplazione divina.
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Un’italiana sul trono di Francia Rimasta orfana poche settimane dopo la nascita, Caterina de’ Medici si ritrovò a essere l’unica erede della dinastia. A sei anni la sua tutela passò a un lontano cugino, Giulio. Questi, divenuto papa Clemente VII nel 1523, organizzò l’evento destinato a cambiarne per sempre l’esistenza: il matrimonio con Enrico II di Valois, futuro re di Francia di Donatella Lippi
Sulle due pagine Matrimonio di Caterina de’ Medici ed Enrico II di Francia a Marsiglia, pittura murale a olio di Giorgio Vasari. 15561562. Firenze, Palazzo Vecchio. A sinistra il busto di Caterina de’ Medici, in un cammeo incastonato da rubini donatole da Clemente VII. 1540 circa. Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti. MEDICI
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stato scritto che nessuno, come Caterina de’ Medici, sapeva organizzare una festa, allestire un banchetto, disporre un ballo; che nessuno, come lei, seppe rinnovare la gastronomia, inaugurare un diverso modo di montare in sella, apprezzare aromi, fragranze, profumi… Quella che sarà definita la «regina nera» dei Francesi, per la sua abilità politica, frutto della sua educazione fiorentina e romana, fu veramente figlia del suo tempo, di quel Rinascimento attraversato da profonde contraddizioni politiche, culturali, religiose. La sua fu una nascita «terribile e grandiosa»: il 13 aprile del 1519, Caterina Maria Romola Medici, unica discendente diretta e legittima di Lorenzo il Magnifico, veniva alla luce, sfidando i lutti che proprio in quei giorni segnavano la storia della sua famiglia. Fu tenuta a battesimo da Caterina Sforza, che le dette il proprio nome e le trasmise le grandi doti, che dimostrò sul trono di Francia. Il padre, Lorenzo de’ Medici, duca di Urbino, moriva poco dopo la sua nascita, seguito, da lí a poco, dalla moglie, Maddalena de la Tour d’Au-
Ritratti di Francesco e Caterina de’ Medici bambini, olio su tela di Cristofano Allori. 1596. Firenze, Palazzo Pitti, Galleria Palatina e Appartamenti Reali. Nella pagina accanto ritratto di Caterina de’ Medici, olio su tela di scuola francese. XVI sec. Firenze, Palazzo Pitti, Galleria Palatina e Appartamenti Reali.
vergne, stroncata dalla febbre puerperale. Su Caterina, si concentrarono allora le attenzioni di tutti i membri della famiglia, in particolare del papa Medici, Leone X, che si impegnò personalmente per farla andare a Roma, dove visse nel palazzo di Alfonsina Orsini per poi essere affidata, dopo la sua morte, a Clarice de’ Medici, sposata a Filippo Strozzi. In realtà, il re di Francia, Francesco I, aveva già avanzato la sua candidatura nel ruolo di tutore di Caterina, in quanto proprio lui aveva voluto il matrimonio tra Lorenzo de’ Medici e Maddalena d’Auvergne, ma Leone X aveva rifiutato.
Gli anni romani della «duchessina»
Alla morte del papa, fu sua sorella, Lucrezia Salviati, a prendersi cura di Caterina, che rimase a Roma fino al 1525 e qui ricevette la prima formazione mondana, elaborando quella raffinatezza del gusto, che saprà poi sapientemente declinare nel suo ruolo di regina di Francia. Gli anni romani e fiorentini portano, infatti, le stigmate di quella che sarà la sua storia tragica e grandiosa, facendola diventare, da «duchessina», «regina nera». Firenze, Roma e di nuovo Firenze: la politica del secondo papa Medici, Clemente VII, intessuta su una trama alterna di alleanze, piú o meno occulte, ora con Francesco I, ora con Carlo V, si era rivelata estremamente rischiosa; quando l’imperatore, infatti, venne a conoscenza che il papa aveva stretto legami con la Francia, inviò il suo esercito contro Roma, assediando Castel S. Angelo e mettendo la città a ferro e a fuoco. Le ripercussioni a Firenze furono immediate: la città tornò a essere repubblicana e, in seguito alla resa di Clemente VII, che fu costretto ad accettare le pesantissime condizioni imposte dall’imperatore, subí l’assedio dell’esercito di Carlo V, che durò dall’ottobre 1529 all’agosto 1530. Fu in questa occasione che Michelangelo contribuí a realizzare le fortificazioni di Firenze, ma, per questa sua scelta, fu poi obbligato a nascondersi in un locale sotterraneo delle Cappelle Medicee, in cui sono ancora conservate le tracce di alcuni disegni murali, eseguiti in quei mesi, nei quali dovette sfuggire alle ritorsioni del papa.
Chiusa in convento
Nel frattempo, Caterina, ultima discendente legittima del Magnifico Lorenzo, viene considerata e trattata come una sorta di ostaggio, trasferita dal convento delle suore domenicane di S. Lucia, al Palazzo di via Larga, al convento benedettino delle Murate, per poi tornare di nuovo dalle suore di via San Gallo. 52
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Litografia di Fedor Hoffbauer raffigurante il palazzo del Louvre cosí come doveva apparire all’epoca di Filippo Augusto, nel 1362, prima del restauro voluto da Francesco I di Valois, da Paris à travers les âges..., opera pubblicata a Parigi tra il 1875 e il 1882. 1876. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
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Dopo la restaurazione medicea, Clemente VII esige che Caterina torni a Roma: corre l’anno 1530 e la fanciulla vive coi cugini Alessandro e Ippolito in quello che, in onore di Margherita d’Austria, figlia di Carlo V e futura vedova proprio di Alessandro de’ Medici, sarebbe stato chiamato Palazzo Madama. Il papa valutava intanto quale sarebbe stata la migliore strategia matrimoniale per Caterina, portando avanti quella politica di alleanze su cui da secoli venivano costruiti i rapporti tra gli Stati. Filiberto di Orange, comandante delle truppe imperiali durante l’assedio di Firenze, appariva tra i candidati favoriti, ma fu ucciso prima che la sua candidatura potesse concretizzarsi; alle nozze con Giacomo V di Scozia, che avrebbero significato il trasferimento dei possessi francesi di Caterina alla dinastia Stuart, si opponeva la candidatura del duca di Richmond,
sostenuta da Enrico VIII d’Inghilterra, oppure quella di Francesco Sforza, fortemente voluta dall’imperatore, per garantirsi l’appoggio del papato nei confronti dello Stato di Milano, eludendo, quindi, ogni rivendicazione della Francia. Francesco I, però, sapeva bene come sarebbe stato rischioso alienare alla Francia quei possedimenti che Caterina vi deteneva per averli ereditati dalla madre: le contee di Auvergne e Lauguarais, i territori di Leverons, Donzenac, Boussac, Corrège e Hondecourt. La scelta del papa cadrà su Enrico di Valois, duca d’Orléans, secondogenito di Francesco I, forte del sostegno della diplomazia francese: le aspirazioni deluse di Carlo V verranno, quindi, a essere compensate dal matrimonio di sua figlia Margherita col duca Alessandro. Caterina torna a Firenze ed è affidata a Maria Salviati, moglie di Giovanni de’ Medici, del ra-
Lo studio rivestito di pannelli di legno intarsiati (a sinistra) e la camera da letto dove la regina morí nel 1589 nel castello di Blois, sulla Loira, che fu residenza anche delle corti di Luigi XII e Francesco I.
mo dei Popolani, da cui ha avuto un figlio, Cosimo, nato nello stesso anno di Caterina e destinato a diventare il primo Granduca di Toscana. Un carattere diverso da quello di Clarice Strozzi, ma ugualmente decisivo nella formazione di Caterina, una donna, per seguire quanto riferito da Benedetto Varchi, «prudente e di vita esemplare», dalla quale Caterina imparò l’arte dell’attesa paziente. Se Clarice Strozzi le fu, infatti, esempio di carattere e Caterina Cybo guida al gusto artistico e letterario, Maria Salviati le fu maestra di gentilezza d’animo e di correttezza nei costumi.
Una dote ricchissima
La frequentazione dell’ambiente fiorentino contribuí, inoltre, a plasmare definitivamente il gusto e i modi di Caterina, che viene scelta proprio per accogliere in Firenze la figlia naturale di
LE BRAGHESSE DELLE CORTIGIANE Abile amazzone, Caterina de’ Medici lanciò un nuovo modo di montare a cavallo, tenendo il piede sinistro nella staffa e la coscia destra in orizzontale sull’arcione. Per nascondere le gambe e altre grazie, si fece ricorso a quei calzoni, che sarebbero poi stati chiamati «mutande», ma che allora furono definiti «braghesse» o «calzoni a la galeotta». Divennero ben presto l’indumento peculiare delle cortigiane, in particolare di Genova e Venezia, per poi assurgere a simbolo del loro mestiere amoroso, tanto che le autorità lagunari ne imposero l’uso, per salvaguardare il decoro pubblico.
Carlo V, Margherita, destinata a diventare duchessa di Firenze. Correva l’anno 1533 ed erano in pieno svolgimento i preparativi per la partenza di Caterina verso la Francia, accompagnata da una dote ricchissima, per la quale garantí il banchiere Filippo Strozzi. L’ingresso solenne in MEDICI
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Nella pagina accanto, in alto tavola raffigurante l’influsso del sole sui simboli della cabala, da un trattato di cabalistica redatto in lingua greca. XVI sec. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana. In basso L’alchimista, olio su tela del pittore fiammingo David Teniers il Giovane. XVII sec. Firenze, Palazzo Pitti, Galleria Palatina e Appartamenti Reali.
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Marsiglia avvenne il 23 ottobre, dopo quasi due mesi di viaggio di un corteo, di cui faceva parte anche il pontefice: nei giorni successivi, la stipula del contratto e la celebrazione delle nozze. Alla corte di Francesco I, Caterina viene guardata con superficialità e nessuno immagina il potenziale di forza che lei rappresenta: viene considerata figlia di mercanti, beneficiata dalla sorte, che le ha permesso di sposare il secondogenito del re di Francia. È una Medici, venuta da Firenze con un seguito di dame e funzionari, con un profumiere personale, Renato Bianchi, che le malelingue sostengono essere piú abile a preparare veleni che non essenze; con il suo corteo di cuochi e addetti alla cucina, con le sue personali fantesche. Anche il suo comportamento destava sospetti, quel suo essere imperturbabile davanti a certi atteggiamenti e provocazioni. Prima fra tutte, la palese relazione del marito con Diana di Poitiers, di cui lui era venti anni piú giovane, che sarà una presenza costante nella loro vita.
Questo modo di gestire il suo ruolo alla corte di Francesco I fa sí che tra i due si instauri un particolarissimo rapporto: Caterina ammira il suocero oltre ogni misura e Francesco ricambia questa stima, consultando la nuora per avere consigli di ordine artistico ed estetico. Caterina, che conosce l’eleganza degli ambienti fiorentini e romani ed è stata educata all’amore per il Bello, si circonda di quelle opere d’arte che, in seguito, andranno a formare le collezioni del Louvre. E Francesco I sapeva apprezzare l’arte, servendosi molto spesso di artisti fiorentini e romani: Andrea del Sarto, il Primaticcio, Rosso, Benvenuto Cellini… a Parigi fece ricostruire l’Hôtel de Ville, rimodernando in parte il Louvre, costruendo castelli e acquistando, in Italia, numerosissime opere d’arte. Nei suoi anni di regno, Caterina porterà alla corte di Francia la signorilità e la finezza delle gentildonne fiorentine, il culto delle lettere, l’amore per l’arte; accoglierà al palazzo reale gli uomini piú insigni del regno, guardando
ANATRE E FRITTATE Con l’arrivo di Caterina de’ Medici in Francia, giunse anche il suo seguito, insieme agli aromi della cucina toscana e alle pietanze predilette da Caterina, che vennero reinterpretate dai cuochi francesi. È cosí che la «salsa colla» è passata alla storia come una creazione di Louis de Béchamel, marchese di Nointel, gran ciambellano di Luigi XIV; l’«anitra con la melangola» (o «papero al melarancio»), reso piú morbido nei sapori, prese il nome di canard à l’orange; dalla fiorentinissima «carabaccia» nacque la soupe à l’oignon e dalle «pezzole della nonna» ebbero origine le crêpes e, dalla frittata, le omelettes… Il famoso cuoco Raymond Oliver ha chiamato «Rivoluzione del 1533» quel rinnovamento della cucina francese, operato grazie alla cucina fiorentina, che «rovesciò il contenuto delle pentole», riuscendo inoltre a mettere in pratica i precetti contenuti nel De honesta voluptate et valetudine, opera di Platina di Cremona, pseudonimo di Bartolomeo Sacchi, apparso in Francia nel 1505, che raccoglieva consigli per godere della buona tavola, senza eludere le regole della morale e le norme dell’eleganza.
con favore il poeta Alamanni, accettando che il Tasso le presentasse il suo Rinaldo, favorendo «il giovinetto Montaigne» e Bernard Palissy, inventore della ceramica smaltata. Volle raccogliere manoscritti e stampati nella biblioteca reale, trasportandovene anche alcuni che erano appartenuti a Lorenzo il Magnifico e acquistando la ricca biblioteca di Piero Strozzi; fece costruire le Tuileries. Per Francesco I, questa giovane nuora era veramente «une fille» e lo dimostrò, soprattutto, opponendosi a quella richiesta di divorzio, che gli veniva da vari ambienti, dopo che diversi anni di matrimonio non avevano visto ancora la nascita di un erede. La morte di Francesco, il Delfino, nel 1536, fu, anche da questo punto di vista, particolarmente significativa: Francesco morí dopo una partita alla pallacorda combattuta con il conte di Montecuculli e, nonostante l’autopsia non avesse rivelato segni di veneficio apparente, il conte venne costretto, sotto tortura, a confessare l’omicidio e venne giustiziato.
Maldicenze e sospetti
Non mancarono le voci, anche in questa occasione, che volevano vedere in Caterina la responsabile del regicidio, per poter diventare Delfina, e il sospetto su di lei continuò ad aleggiare negli ambienti di corte e nell’opinione pubblica, alimentato dalla sua frequentazione con alchimisti e manipolatori di sostanze misteriose. Lo stesso profumiere, Renato Bianchi, come si è già detto, era considerato, da questo
Miniatura raffigurante un sontuoso banchetto, dal Livre des Conquestes et faits d’Alexandre di Jean Wauquelin. Ante 1467. Parigi, Petit Palais, Musée des Beaux-Arts de la Ville de Paris.
punto di vista, estremamente pericoloso. Caterina, inoltre, aveva grandissima fiducia nelle discipline occulte e nell’astrologia e, per quanto fosse fermamente cattolica, questa fu la sua vera fede, inducendola spesso a fare ricorso alle profezie di Nostradamus e lasciando guidare la sua condotta da Cosimo e Lorenzo Ruggieri, i suoi astrologhi personali, figli di MEDICI
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DI REBBI E COMMENSALI MALDESTRI Caterina importò in Francia curiose usanze di corte, come un particolare modo di incedere, ancheggiando, o l’uso di mettere i piedi uno sull’altro, sostenendosi su una sola gamba «come una cicogna», trovandosi di fronte a un personaggio di particolare riguardo. Anche le regole di comportamento a tavola vennero modificate, introducendo l’uso della forchetta. Se in età medievale questa usanza aveva suscitato grande scalpore, a partire dal Rinascimento, sulle mense dei nobili, era comparso uno «strumento biforcuto», una sorta di forchetta a due rebbi, con cui si portava il cibo alla bocca. Forchette d’oro, d’argento, con impugnature d’avorio, cristallo e pietra dura avevano cominciato a uscire dai forzieri: nella Firenze medicea, la forchetta veniva usata comunemente e sarà proprio Caterina de’ Medici a diffonderne l’uso in Francia, per evitare che si macchiassero le ampie gorgiere esibite dai commensali. In realtà, però, sovrano e cortigiani si rivelarono piuttosto maldestri nel maneggiarla, stando a quanto racconta un cronista del tempo: «Era un vero spasso vederli mangiare con la forchetta, perché coloro che non erano abili come gli altri, facevano cadere sul piatto, sulla tavola e per terra tanto quanto riuscivano a mettere in bocca…».
In alto riproduzione di uno smalto raffigurante Caterina in preghiera, dal Dictionnaire de l’ameublement et de la décoration. 1878. Al centro una forchetta in un’incisione della fine del XVI sec. 58
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Ruggieri il Vecchio, da sempre legato alla famiglia Medici. Un insieme di alchimia, cabala, astrologia costituiva il loro talento, e l’intelligenza – pagana e rinascimentale – di Caterina era affascinata dal mistero: fu anche per questo motivo che venne alimentato il sospetto che nelle storte dei Ruggieri fossero preparati i veleni di cui Caterina si sarebbe servita per eliminare gli avversari.
In realtà, ella riponeva nei due fratelli e nel loro studio delle congiunzioni astrali la massima fiducia e questo la rende veramente figlia del suo tempo, là dove la crisi della Chiesa e i venti della Riforma avevano aperto profonde ferite nella coscienza individuale e collettiva, mentre superstizione e magia rappresentavano una via alternativa al «divino». Nel momento in cui Enrico divenne Delfino, infatti, in seguito alla morte del fratello, Caterina fece ricorso a ogni mezzo possibile per avere un figlio, dalla magia ai preparati alchemici e alla medicina ufficiale, nella persona di Jean Fernel che, all’indomani della nascita del primogenito, ricevette una ricompensa altissima. I suoi alchimisti le avevano raccomandato un cataplasma infallibile, a base di vermi di terra e palchi di cervo pestati, mescolati a sterco di vacca, edulcorato con polvere di pervinca, sciolta in latte di giumenta; data l’inefficacia del preparato, si fece ricorso a una bevanda ricavata dall’urina di mula, che, però, non sortí alcun effetto… I Ruggieri avevano profetizzato che sarebbe diventata regina e avrebbe avuto numerosi figli e mai questa convinzione venne meno a Caterina, consentendole di attendere con serenità il compimento di quella che appariva una irrealizzabile predizione. Il primo dei suoi figli fu Francesco, seguito da Elisabetta, destinata a diventare regina di Spagna, Claudia, che andrà in sposa al duca di Lorena, Luigi, morto a pochi mesi, Carlo Massimiliano, che salirà al trono come Carlo IX, Enrico, destinato a succedergli, Margherita, futura moglie di Enrico di Navarra, Francesco, duca di Alençon; l’ultimo, sfortunatissimo, parto delle due gemelle Giovanna e Vittoria, non sopravvissute, le costò quasi la vita. Nel 1547, moriva, invece, Francesco I, una delle figure piú rappresentative del Cinquecento europeo e, con lui, si esauriva anche un modo particolare di regnare: per la Francia, si apriva un periodo di guerre e di lotte intestine, che costituirà un durissimo banco di prova per Caterina. Enrico sale al trono, sostenuto dai suoi fedeli alleati e Caterina si prepara a vivere il suo ruolo di regina, solo in parte offuscato dalla presenza di Diana di Poitiers, che era diventata ancora piú potente.
Alleati pronti a tutto
È stato sostenuto che Caterina vestisse solo il mantello di regina, mentre lo scettro era gestito dalla rivale e, in effetti, il fascino esercitato da Diana sul re era tale da determinare molte delle sue decisioni: da questo punto di vista, un alle-
ato della regina era Gaspard de Saulx, signore di Tavannes, che aveva per lei una dedizione totale, tanto che, quando, un giorno, Caterina dovette subire l’ennesima umiliazione da Diana, egli si offrí di portarle il naso della rivale e lei dovette faticare non poco per farlo desistere dal suo intento. Per temperare il potere di Diana, inoltre, Caterina intravide nel connestabile Anne de Montmorency un potente alleato, che conquistò alla sua causa. Dal 1547 al 1559, sarà lui il suo consigliere, sostenendola nei diversi affari di Stato e conducendo una linea politica che soddisfa lo stesso Enrico, riuscendo, soprattutto, a limitare le controversie tra cattolici e protestanti e a mantenere un certo equilibrio nei rapporti di potere tra le piú grandi famiglie di Francia. Sono anni in cui la politica estera registra dolorosi insuccessi militari, soprattutto sul fronte italiano, ma il 10 agosto 1557 la battaglia di San Quintino rappresenta la sconfitta piú grave che
mai sarebbe toccata alla Francia, per mano di Emanuele Filiberto di Savoia, al comando dell’esercito spagnolo. Il discorso tenuto da Caterina al Consiglio della Città di Parigi, per ottenere un ulteriore impegno finanziario, mentre Enrico II è in guerra, costituisce il riconoscimento dell’ingresso ufficiale di Caterina nella gestione del potere: misurato nei toni, chiaro negli obiettivi, questo intervento è uno dei segnali piú evidenti della volontà di Caterina di sostenere le prerogative della monarchia, fedele al suo ruolo di regina di Francia. La morte di Enrico, durante un torneo, al quale aveva voluto partecipare nonostante gli avversi presagi indicati dagli astrologhi della moglie, fa sí che Francesco salga al trono: per lui, la madre aveva cercato un matrimonio strategicamente importante e aveva combinato le nozze, nel 1558, con Maria Stuarda, futura regina di Scozia e, dopo la morte della regina Maria, possibile pretendente anche al trono di Inghilterra.
Festa per gli ambasciatori polacchi, uno degli otto arazzi Valois, commissionati per celebrare la dinastia omonima. Manifattura fiamminga, ultimo quarto del XVI sec. Firenze, Galleria degli Uffizi. Quello qui riprodotto mostra il ricevimento dato nel 1572 dalla regina di Francia per festeggiare gli ambasciatori polacchi giunti a Parigi per eleggere il futuro Enrico III di Francia al trono di Polonia.
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I protagonisti i Borboni, protestanti, e i Guisa, cattolici, è, in realtà, una vera e propria guerra civile, la prima di una lunga serie di guerre, che insanguineranno la Francia. Alla morte di Francesco, nel 1560, Caterina riveste il ruolo di reggente, nell’attesa che Carlo raggiunga l’età per regnare: è un momento estremamente critico per la monarchia francese ma, soprattutto, per Caterina, che deve trovare il giusto compromesso tra convinzioni religiose e politica, bilanciando le ragioni di Stato con quelle della fede.
In viaggio per la Francia
Incisione cinquecentesca raffigurante Nostradamus che mostra a Caterina de’ Medici, attraverso lo specchio magico, i figli, futuri re di Francia.
In realtà, dopo la morte di Enrico II, Maria Stuarda si trova ufficialmente consacrata regina di Francia, ma la prematura scomparsa del marito la priverà del nuovo rango dopo un solo anno: un anno in cui, tuttavia, si delineano chiaramente quelle che saranno le sfere di influenza successive, che segneranno il destino del Paese. Spicca, in particolare, la famiglia dei Guisa, strettamente legata alla stessa Maria Stuarda, figlia di Maria di Guisa, contrapposta a quella dei Borboni, che si preparano a un colpo di Stato: questo conflitto, che si disegna da subito come un contrasto religioso, tra
Di fronte a una situazione del Paese compromessa da fratture di ordine religioso e politico, Caterina decise di programmare un lungo viaggio attraverso il regno intero, per presentare la Francia al suo re e il re al suo popolo, rinsaldando l’autorità della corona dei Valois, secondo quell’antico principio capetingio, per cui il sovrano aveva coi suoi sudditi un rapporto quasi personale: per ben due anni durò questo viaggio, in cui fu mobilitato un seguito imponente, compresi i nani e i buffoni, che Caterina tanto amava. Il viaggio toccò anche Salon, dove viveva il profeta Nostradamus, che Caterina volle visitare, per chiedergli conferma di una predizione avuta tempo prima. Lo specchio magico aveva preannunciato che Enrico di Navarra si sarebbe seduto, un giorno, sul trono dei Valois: Nostradamus esaminò il corpo del figlio di Caterina, Enrico d’Angiò e, dalla disposiLa notte di San Bartolomeo, olio su tavola di François Dubois. 1572-1584. Losanna, Musée Cantonal des Beaux-Arts.
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zione dei nei, confermò la profezia. Per questo, Caterina decise di dare in moglie a Enrico di Navarra la sua figlia secondogenita, Margherita (detta «Regina Margot» dopo le nozze), donna impulsiva, frivola, ma capace di inattese dimostrazioni di forza e di decisione. Enrico era considerato il capo ideale degli ugonotti e, anche se Caterina sperava che egli perdesse il suo potere, una volta a corte, i cattolici non approvarono la scelta, mentre gli ugonotti intuirono che il legame di Enrico con la famiglia reale avrebbe significato esautorare di ogni autonomia il loro massimo rappresentante in Francia.
Una finta destituzione
Il matrimonio fu, comunque, celebrato ma fu seguito da quel sanguinoso massacro, che è passato alla storia come la notte di San Bartolomeo, il 24 agosto del 1572, quando centinaia di ugonotti, convenuti a Parigi per assistere alle nozze, vennero trucidati dalle truppe dei Guisa. Seguirono giorni di tensione, che culminarono con l’assedio di La Rochelle, roccaforte dei protestanti, guidato da Enrico, duca d’Angiò, il futuro Enrico III. L’assedio fallí e Caterina fu costretta a fingere di dover rimuovere il figlio dall’incarico, perché destinato a succedere al trono di Polonia, dove Sigismondo Augusto III era morto senza eredi. Nella primavera del 1573, Enrico è, infatti, in
In alto Il matrimonio di Enrico di Borbone, re di Navarra, con Margherita di Valois, alla presenza di Caterina de’ Medici e Carlo IX nel 1572, olio su tela di Edmond Lechevallier-Chevignard. 1862. Collezione privata. Al centro particolare del monumento funebre di Enrico II e Caterina de’ Medici. 1560-1573. Parigi, cattedrale di Saint-Denis.
Polonia, ma già l’anno successivo deve fare ritorno in patria, per la morte del fratello Carlo. Non rimpianto dai sudditi polacchi, Enrico torna in Francia: qui, incurante dei consigli della madre, inaugura un periodo di regno estremamente critico per il Paese e per i Valois, in quanto non solo non riesce a sviluppare la politica di compromesso tenuta da Caterina negli anni precedenti, ma esaspera i contrasti, che coinvolgono anche i rapporti all’interno della famiglia stessa. Stravagante nei modi, imprevedibile nelle decisioni, inaffidabile nelle ragioni di governo, Enrico non ha il carisma del sovrano: di fronte a questi atteggiamenti, anche il fratello, FranceMEDICI
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I protagonisti La morte di Bianca Cappello, olio su tavola di Amos Cassioli. 1872. Collezione privata. In basso ritratto di Bianca Cappello, olio su rame di Alessandro Allori. 1578 circa. Firenze, Galleria degli Uffizi. Nella pagina accanto Ritratto di Francesco I de’ Medici, granduca di Toscana, figlio di Cosimo I e padre di Maria de’ Medici, olio su tela di Peter Paul Rubens. XVII sec. Parigi, Museo del Louvre.
FRANCESCO, GRANDUCA ECLETTICO E PASSIONALE Eletto capo di governo nel 1564, mentre il padre Cosimo I era ancora vivo, Francesco I de’ Medici gli succedette dieci anni piú tardi con il titolo di granduca, appellativo concesso prima dal papa e poi confermato dall’imperatore Massimiliano II. Ottenne il riconoscimento dell’ereditarietà dei suoi possedimenti in Toscana e decise di patrocinare il progetto di sviluppo del porto di Livorno di Bernardo Buontalenti, oltre a rafforzare la flotta e ad aprire nuove postazioni commerciali nel Mediterraneo orientale. Studioso di chimica e balistica, nonché appassionato di alchimia, Francesco si mostrò grande amante delle arti, nel solco di quel mecenatismo che fu un tratto distintivo della maggior parte dei membri di casa Medici. Il suo regno, però, fu segnato anche da omicidi e scandali, uno dei quali lo vide protagonista. Il nome del principe è infatti connesso a quello di Bianca Cappello, nobildonna fuggita da Venezia con il fidanzato, che l’aveva poi abbandonata, una volta giunti a Firenze. Era cosí iniziata una relazione appassionata tra la bellissima veneziana e Francesco. A niente valsero i rimbrotti dei familiari e dello stesso imperatore, né il matrimonio con Giovanna d’Austria, o la pubblica censura. Quando la moglie morí, dopo aver dato alla luce tre figli, i due amanti si sposarono e, poco tempo dopo, furono trovati senza vita, in una delle ville medicee. La tragica fine della coppia avvenne nel 1587, poche settimane dopo l’ordinanza emessa da Francesco, su
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sco duca di Alençon, reagisce in modo sanguinoso e cerca l’alleanza tra cattolici e ugonotti, invitandoli a unirsi in un’unica crociata contro la madre e il fratello. Di questa situazione approfitterà proprio Enrico di Navarra che, dopo diverse vicissitudini, riuscirà a rientrare nel pieno possesso dei suoi domini. Di nuovo, si fa appello alla capacità diplomatica di Caterina che, finalmente, riesce a incontrare il figlio ribelle: a questo colloquio segue, nel 1575, la tregua tra Enrico III e Francesco, ma ancora Caterina dovrà intervenire l’anno successivo, per mediare tra i due fratelli: arriverà col suo «escadron volant», il gruppo di belle dame che, spesso, la accompagnava in questo tipo di missioni, in cui ogni risorsa della diplomazia doveva essere attuata, per risolvere questioni particolarmente complesse. La successiva pace di Monsieur ebbe durata effimera e gli anni che seguirono videro levarsi improvvisi ritorni di fiamme di guerra, tra le quali spicca la figura di Enrico di Navarra, che si appresta a diventare re di Francia.
La profezia che si avvera
consiglio di Bernardo Buontalenti, di demolire la facciata arnolfiana del Duomo per far posto al nuovo progetto, da scegliere mediante concorso. L’architetto di corte, che sperava di poter essere l’autore della nuova facciata, non si curò di conservare ciò che stava smantellando, cosicché molti elementi decorativi andarono perduti o addirittura trasformati e utilizzati per altri scopi. Poiché Arnolfo di Cambio aveva eseguito solo parzialmente la decorazione, fino alla prima metà del Quattrocento, il suo disegno era stato portato avanti, ma, verso la fine del secolo, aveva cominciato a farsi strada l’idea di farne una completamente nuova. Un desiderio rimasto sulla carta, grazie al buon senso dei governanti che aveva prevalso, fino a quel momento, preferendo aspettare tempi migliori. La scomparsa improvvisa di Francesco e le successive vicende politiche impedirono, poi, la proclamazione del vincitore della gara indetta per trovare l’elaborato adatto a ricoprire la facciata che fu dotata di un inedito «abito» soltanto nella seconda metà del XIX secolo.
È il Natale del 1578 e Caterina, accompagnata dalla figlia Margot, deve nuovamente cercare un accordo tra i fratelli: le corti di Parigi e Navarra si incontrano nella città ugonotta di Nérac, ma vengono ribaditi gli stessi principi. Intanto, Elisabetta di Inghilterra chiede di sposare Francesco, duca di Alençon, ma a queste nozze si oppongono gravi impedimenti religiosi: si cerca allora una figlia di Filippo II di Spagna, ma Francesco, nel 1584, muore. Caterina, pur nella sua abilità diplomatica, non riesce a convincere Enrico di Navarra ad abiurare, per rendere la sua candidatura al trono accettabile ai Francesi: sarà solo dopo la morte di tutti gli avversari, di Enrico di Guisa per mano di Enrico III, e di quest’ultimo per mano di un fanatico frate domenicano, che farà questa scelta e il trono di Francia passerà ai Borboni. Come Nostradamus aveva predetto. Siamo, però, nel 1594 e già da cinque anni Caterina è morta: sepolta in Blois, le sue spoglie furono trasportate nel 1610 nella Cappella dei re di Francia, a Saint-Denis, dove la rivoluzione francese non le risparmiò, unitamente a quelle degli altri sovrani. Morí nella vigilia dell’Epifania, festa dei re Magi, al cui corteo gli antenati di Caterina si erano uniti, nell’immagine dipinta da Benozzo Gozzoli nel Palazzo Medici: la «regina nera» ha voluto che anche la data della morte profumasse in qualche modo di magia… MEDICI
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I protagonisti
Una dinastia in laboratorio Molte sono le lacune che segnano le biografie dei Medici, anche nel caso degli esponenti piú celebri della casata. Zone d’ombra illuminate dalle ricerche condotte sui loro resti con le tecniche d’indagine messe a punto in ambito paleopatologico
di Donatella Lippi
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Particolare del monumento funebre realizzato da Michelangelo Buonarroti per Lorenzo de’ Medici, duca di Urbino, morto nel 1519. 1519-1534. Firenze, basilica di S. Lorenzo, Sagrestia Nuova. Il titolare del sepolcro è ritratto al centro, in atteggiamento pensoso, mentre sulla tomba Michelangelo dispose le statue del Crepuscolo e dell’Aurora (veduta d’insieme a p. 71).
L
a basilica fiorentina di S. Lorenzo, costruita su un rilievo al di sopra del corso del torrente Mugnone, venne fondata nel IV secolo e fu consacrata dal vescovo Ambrogio; divenuta poi collegiata, fu eletta dai Medici chiesa di famiglia e impreziosita dal lavoro di Filippo Brunelleschi e di Michelangelo Buonarroti, la cui opera era destinata a suggellare l’ascesa della dinastia, anche attraverso l’arricchimento monumentale del contesto sacro, nel quale, in seguito, si celebrarono anche i funerali di sovrani stranieri. La Sacrestia Vecchia fu terminata prima della morte del capostipite della famiglia, Giovanni di Bicci, che aveva affidato a Brunelleschi il progetto complessivo; si aggiunsero, in seguito, la Biblioteca, voluta da Cosimo il Vecchio, e la Cappella dei Principi, il mausoleo della famiglia, sognato da Cosimo I, i cui lavori furono avviati da Ferdinando I, ma terminati molti anni piú tardi. La Sacrestia Nuova, invece, è opera di Michelangelo, a cui fu commissionata da papa Leone X Medici, per conservare le spoglie dei suoi predecessori. I capostipiti furono sepolti nella Sacrestia Vecchia: Giovanni di Bicci, Piccarda Bueri, Piero il Gottoso e il fratello Giovanni. Cosimo il Vecchio, Pater Patriae, fu sepolto nel pilastro del sotterraneo, fondatore ideale e reale della potenza della famiglia. Lorenzo duca d’Urbino, Alessandro duca di Firenze e Giuliano duca di Nemours furono sepolti nelle arche michelangiolesche della Sacrestia Nuova, dove, nel 1559, furono traslati anche Lorenzo il Magnifico e il fratello Giuliano. Nella Sacrestia Nuova, come nella Sacrestia Vecchia, vennero anche provvisoriamente sistemate le casse con le salme di tutti i loro discendenti, in attesa di dare loro una sepoltura definitiva, una volta ultimata anche la Cappella dei Principi, pantheon della famiglia. In realtà, dopo la morte dei granduchi e dei membri delle loro famiglie, i corpi venivano allocati in spazi provvisori, nelle due sacrestie, murati in una sorta di colombari, in tempi diversi, e sulle lastre di chiusura venivano «aggiornate» le iscrizioni. Nel 1791, per ordine di Ferdinando III, queste sepolture vennero trasferite in un ambiente ricavato nella cripta, dietro l’altare, chiuso con assiti di legno, da dove vennero spostati, definitivamente, per volontà di Leopoldo II, nel 1858. Nel centro di questo ambiente, si trova la tomba di Giovanni dalle MEDICI
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I protagonisti
CRONOLOGIA DELLE ESUMAZIONI DATA ESUMAZIONE NOMI DATA RICOMPOSIZIONE 9.VIII.1945 Giuliano duca di Nemours, 14.VIII. 1945 Lorenzo duca d’Urbino, Alessandro duca di Firenze 23.X.1945 Lorenzo il Magnifico, 23.X.1945 Giuliano 21.XI.1945 Resti scheletrici e orci in Sacrestia Vecchia 5.XII.1945 Giovanni di Bicci, 22.V.1946 Piccarda Bueri, Incogniti 21.V.1946 Cosimo il Vecchio 9.XII.1946 Giovanni B.N. e Maria Salviati 9.V.1947 Cosimo I, Eleonora, don Giovanni, don Garzia 18.V.1948 Francesco I, Giovanna, Anna, Filippo 10.IX.1948 Ferdinando I, Cristina, Francesco Ferdinando, cardinal Carlo 27.VI.1949 Piero il Gottoso, Giovanni (Manca)
Bande Nere, figlio di Caterina Sforza, sepolto insieme alla moglie, Maria Salviati. Intorno a loro, riposano i discendenti di sei generazioni.
E non riposarono in pace...
La situazione attuale delle sepolture all’interno dei diversi ambienti del Complesso Laurenziano è frutto di sistemazioni avvenute in epoche successive: se Andrea del Verrocchio realizzò la sepoltura di Giovanni e di Piero di Cosimo, morti rispettivamente nel 1463 e nel 1469, i loro 66
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CHIUSURA 16.X.1945 7.XI.1945 19.IX.1964 24.V.1946 (Solo un Incognito) 2.III.1948 2.V.1947 2.III.1948 I. IX.1948 (Manca) (Manca)
resti vi furono posti nel 1472; analogamente, anche altre salme furono interessate da successivi spostamenti. Una delle esumazioni, che ha suscitato una inaspettata serie di problemi, è quella delle salme di Lorenzo il Magnifico e del fratello Giuliano, che può essere considerata l’antefatto della loro successiva esumazione del 1895 e che creò non pochi equivoci relativamente al luogo della loro sepoltura. Nel 1559, infatti, i loro corpi vennero traslati dalla Sacrestia Vecchia in un’altra collocazione,
In alto uno scorcio della Cappella dei Principi, che, nelle intenzioni di Cosimo I, era destinata a diventare il mausoleo della famiglia. Qui sopra ritratto di Maria Salviati, moglie di Giovanni dalle Bande Nere, olio su tavola del Pontormo (al secolo, Jacopo Carucci). 1543-1545 circa. Firenze, Galleria degli Uffizi.
UNA DINASTIA E I SUOI RAMI Giovanni di Bicci 1360-1429 m. Piccarda Bueri RAMO CADETTO DEI POPOLANI
RAMO CADETTO DEI POPOLANI
Cosimo il Vecchio 1389-1464 m. Contessina de’ Bardi
Lorenzo il Vecchio 1395-1440 m. Ginevra Cavalcanti
Piero il Gottoso 1416-69 m. Lucrezia Tornabuoni
Pier Francesco 1430-76 m. Laudomia Acciaiuoli
Lorenzo il Magnifico 1449-92 m. Clarice Orsini
Piero lo Sfortunato 1472-1503 m. Alfonsina Orsini
Lucrezia 1470-? m. Jacopo Salviati Maria Salviati 1499-1543 m. Giovanni dalle Bande Nere
Lorenzo duca d’Urbino 1492-1519 m. Maddalena d’Auvergne
Cosimo I vedi ramo cadetto
Caterina 1519-1589 m. Enrico II re di Francia
Giuliano 1453-78
Giovanni 1475-1521 papa Leone X dal 1513
Giulio 1478-1534 papa Clemente VII dal 1523 Alessandro duca di Firenze 1511-1537 m. Margherita figlia di Carlo V
Francesco I 1541-1587 m. Giovanna d’Austria e Bianca Cappello Maria 1573-1642 m. Enrico IV re di Francia
Giovanni il Popolano 1467-98 m. Caterina Sforza
Lorenzo il Popolano 1463-1503 Signore di Piombino
Giovanni dalle Bande Nere 1498-1526 m. Maria Salviati
Pier Francesco 1487-1525 m. Maria Soderini
Lorenzino 1514-1548 assassino del duca Alessandro
Cosimo I granduca dal 1569 1519-1574 m. Eleonora di Toledo e Camilla Martelli Ferdinando I cardinale e poi granduca 1549-1609 m. Cristina di Lorena Cosimo II 1590-1621 m. Maria Maddalena d’Austria Ferdinando II 1610-1670 m. Vittoria Della Rovere Cosimo III 1642-1723 m. Margherita Luisa d’Orléans
Anna Maria Ludovica 1667-1643 m. Giovanni Guglielmo Neuburg Elettore Palatino Ritratto di Giovanni di Bicci de’ Medici, dipinto su tavola da alcuni attribuito a Zanobi Strozzi. 1450 circa. Firenze, Museo di Palazzo Davanzati.
Leopoldo cardinale 1617-1675
Gian Gastone 1671-1737 m. Anna Maria di Sassonia
Gonfaloniere di Giustizia nel 1491 e banchiere tra i piú ricchi d’Italia, fu il fondatore della grandezza economica della famiglia. MEDICI
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I teschi di Alessandro (a sinistra) e di Lorenzo de’ Medici, nei disegni eseguiti in occasione della ricognizione del 1875, effettuata per il cedimento delle statue michelangiolesche dell’Aurora e del Crepuscolo.
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che le fonti indicavano in modo contraddittorio. Sulla base di queste controverse testimonianze, fino alla fine dell’Ottocento si era ritenuto che la sepoltura di Lorenzo il Magnifico e di suo fratello Giuliano fosse il superbo sarcofago, opera del Verrocchio, situato nella Sacrestia Vecchia, ma, nel 1895, a seguito di studi piú approfonditi, si pensò di cercare la loro tomba nella Sacrestia Nuova, all’interno dell’arca su cui insistono le statue dei Santi Cosma e Damiano e quella della Vergine, opera di Michelangelo, e, finalmente, fu possibile individuare con certezza la presenza delle salme dei due fratelli. Il cranio di Giuliano mostrava le tracce inequivocabili dei colpi che gli erano stati inferti durante la Congiura dei Pazzi, nell’aprile del 1478.
Una situazione piuttosto confusa
La ricognizione generale delle sepolture ebbe luogo nel 1791, dal momento che la Sacrestia Vecchia e la Sacrestia Nuova apparivano ingombre di depositi, casse e sarcofagi, senza che fosse sempre certa l’identificazione dei defunti. Il 27 settembre 1791, per ordine della Segreteria di Stato del granduca di Toscana Ferdinando III di Lorena, infatti, veniva deciso di rimuovere tutti i depositi medicei dalla Sacrestia Nuova e dalla Sacrestia Vecchia, dove erano stati assemblati nel corso del tempo, murando sepolture estranee le une alle altre e perdendo la memoria di coloro che, soprattutto bambini, occupavano quelle casse. In uno spazio ricavato tra le due scalinate della cripta, vennero accumulate le casse, tolte dalle due Sacrestie, registrando però i testi delle sommarie iscrizioni apposte, verosimilmente, sulle murature dei colombari che contenevano le casse: dagli elenchi di tali sepolture, emerge come alcuni membri della dinastia fossero stati sepolti insieme ad altri, anche senza apparente 68
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motivazione di consanguineità stretta, complicando ulteriormente la già difficile situazione interpretativa. È quindi verosimile ipotizzare che i depositi comprendessero piú sepolture murate le une sopra alle altre, e recassero un’iscrizione, indicante l’identità della salma; le singole casse, interne a questi depositi, contenevano, invece, iscrizioni celebrative piú lunghe. Molto probabilmente, nel momento della traslazione, alcune casse furono aperte e i testi di alcune iscrizioni ricopiati. Il progetto, però, non poté essere attuato, per gli avvenimenti che sconvolsero l’assetto politico durante il periodo napoleonico: dopo la restaurazione degli antichi governi, i Lorena tornarono sul trono di Toscana, ma le salme della famiglia Medici rimasero ancora a lungo nel ricetto in cui Ferdinando III le aveva accatastate. Nel 1857, ebbe luogo la grande ricognizione di tutte le casse, che, nel frattempo, erano state violate dai ladri. Leopoldo II incaricò delle operazioni Luigi Passerini, Direttore dell’Archivio di Stato e Antiquario granducale. Le tappe di questa ricognizione sono individuabili in alcuni momenti fondamentali: febbraio-novembre 1856: avvio delle operazioni preliminari e analisi della documentazione per ricostruire l’elenco di coloro la cui sepoltura avrebbe dovuto trovarsi in S. Lorenzo (a cura di Passerini); costruzione di nuove casse e predisposizione del contesto (per opera dell’architetto Gaetano Baccani); 18-25 settembre 1857: apertura delle vecchie casse e identificazione dei cadaveri; copia dei preziosi, di cui non esistesse copia nel Medagliere pubblico; marzo 1858: inumazione. Il 1° marzo 1875, essendo stato rilevato un cedimento nelle statue michelangiolesche dell’Aurora e del Crepuscolo, all’interno della Sacrestia Nuova, su richiesta del direttore delle Regie Gallerie Fiorentine, venne iniziata una
I REPERTI TROVATI NELLE RICOGNIZIONI NOME CONTESTO ABITI PREZIOSI ISCRIZIONI Giuliano di Nemours Imbalsamato Lorenzo duca Scheletri d’U. e Alessandro Lorenzo il Magnifico Scheletri Recipiente di vetro Targhe sul e Giuliano (1895) con monete coperchio e iscr. delle casse Giovanni di Bicci Insieme di ossa e Piccarda mescolate Cosimo Pater Patriae Cadavere completo, Drappo serico Serratura con chiave Targa e con capelli e peli rosso ermesino in ottone e sigillo a medaglione con croce di stoffa forma di diamante sotto il gialla coperchio della cassa Giovanni dalle Scheletro Armatura Targa originale Bande Nere e targa 1857 Maria Salviati Scheletro Residui Targa originale e targa 1857 Cosimo I Salma Spada Targa 1857 Eleonora Corpo Stoffe deteriorate Targa 1857 Don Garzia Corpo Vestiti, berretto Targa 1857 Don Giovanni card. Ossa Targa 1857 Francesco I Scheletro Residui Targa 1857 Giovanna Corpo Ricco vestito Rosario, Targa originale di raso rosso campanelle d’oro e targa 1857 Anna Corpo Abito di seta Targa originale già azzurra e targa 1857 Filippo Scheletro mal ridotto Costumino di maglia Targa 1857 Ferdinando I Scheletro Medaglie d’oro Targa originale in pessimo stato targa 1857 Cristina Scheletro in Medaglia d’oro Targa originale pessimo stato e targa 1857 Carlo card. Scheletro Residui zucchetto Croce d’oro Targa originale e targa 1857 Francesco F. Corpo Rivestito di raso Targa originale bianco con lungo e targa 1857 mantello. Residui di calze a maglia e scarpe di pelle Piero il Gottoso Scheletri Sudari di seta gialla 2 medaglioni Giovanni di piombo e uno di bronzo verifica del loro stato, che diventò l’occasione per una ricognizione delle salme di Lorenzo duca d’Urbino e di Alessandro duca di Firenze, morti rispettivamente nel 1519 e nel 1537.
Tracce di antichi interventi
Si decise di interpellare la sezione di scultura della Commissione Consultiva di Belle Arti di Firenze, che, unitamente ad altri esperti, rilevò la presenza di segni di danni nei due angoli della base, restaurati nel corso del tempo, perché nel 1537 vi fu «riposto anche il cadavere del figlio duca Alessandro». Durante la ricognizione, vennero prelevati alcuni frammenti delle vesti, una ciocca di capelli, alcuni denti, e furono anche realizzati
A sinistra il calco del cranio di Lorenzo, duca d’Urbino, realizzato nel 1875. Firenze, Museo del Dipartimento di Anatomia, Università di Firenze. In basso, a sinistra acquerello realizzato in occasione della ricognizione del 1857, raffigurante il corpo di Giovanna d’Austria, moglie di Francesco I de’ Medici. In basso, a destra medaglie di Ferdinando I de’ Medici e della moglie, Cristina di Lorena.
i calchi in gesso dei due crani: in particolare, quello di Lorenzo duca d’Urbino riveste grande interesse da un punto di vista storico-medico, in quanto conserva visibilmente la traccia dell’intervento effettuato dal celebre Berengario da Carpi, nel 1528, quando Lorenzo venne ferito da una palla di schioppetto alla nuca, durante l’assedio di Castel Mondolfo. Il resoconto di questo intervento è stato riferito da Berengario nel trattato De fractura calve sive cranei, dedicato proprio a Lorenzo duca d’Urbino, in cui l’autore espone le tecniche operatorie in uso, facendo riferimento a questo caso particolare e integrando, quindi, le testimonianze della documentazione epistolare e dei resoconti ufficiali. MEDICI
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I protagonisti
Nel 1924, veniva stampata a Firenze l’opera di Gaetano Pieraccini La stirpe de’ Medici di Cafaggiolo, in cui l’autore, grazie alla sua formazione medica, ricostruiva lo stato di salute dei membri della dinastia medicea avvalendosi delle fonti d’archivio e delle testimonianze iconografiche. Nel 1947, l’opera veniva ristampata, ma il clima che vedeva questa pubblicazione non era piú quello dell’antropologia positivista degli inizi del secolo, che aveva ispirato la prima edizione, quanto un ambiente che risentiva fortemente delle suggestioni eugenetiche coeve.
Un’occasione imperdibile
Tra la prima e la seconda edizione de La stirpe de’ Medici di Cafaggiolo, inoltre, si era concretizzata la possibilità di accedere alle salme di alcuni dei membri della famiglia Medici, in quanto, all’indomani della fine del conflitto, si rendeva necessario rimettere nella loro originaria collocazione le statue michelangiolesche della Sacrestia Nuova, rimosse durante la guerra. Pieraccini era stato nominato Sindaco di Firenze, appena liberata, e, nello stesso tempo, rivestiva l’incarico di Presidente dell’Opera 70
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SCIENZA O DISSACRAZIONE?
Il progetto di una cranioteca medicea suscitò forti dissensi nell’opinione pubblica, tali da indurre il Ministero dell’Istruzione Pubblica a bloccare le operazioni. Nel gennaio 1955, Gaetano Pieraccini scrisse al Ministro Ermini, ripercorrendo le tappe della vicenda, per perorare la causa della cranioteca. Il suo testo (la cui minuta si conserva nel Capitolo di S. Lorenzo) è fondamentale per inquadrare il contesto in cui il dibattito si svolse, tra suggestioni antropologiche e volontà scientifica: «I crani della Casata Medici formano (…) una preziosa raccolta per lo studio della eredità dei caratteri somatici umani. Il cranio – nel vivo e nel morto – rappresenta l’esponente piú alto per i rilievi anatomici in sede di eredità di famiglia e di razze. Che ritornati i teschi nei loro rispettivi loculi, è da pensare che mai si procederebbe a una seconda esumazione per controlli o per dar corpo a nuovi indirizzi di ricerca; quindi sarebbe un materiale perduto. Che per le arche contenenti i resti del principe Lorenzo Medici Duca d’Urbino e di Alessandro Duca di Firenze, e per il sarcofago con i resti ossei di Lorenzo il Magnifico e di suo fratello Giuliano, non è il caso di parlare di riapertura delle casse mortuarie. Le casse serrate nelle due distinte arche, sono chiuse dai marmi scolpiti da Michelangelo, e sono da dichiararsi intangibili di fronte al pericolo di danni materiali in una nuova remozione. Dai proff. Genna, Graziosi, Massari, sotto il controllo del prof. Poggi allora Soprintendente dei Monumenti in Firenze, le singole arche furono aperte, perché già erano state rimosse le parti superiori scultoree del Buonarroti, per essere queste trasportate al sicuro durante la seconda guerra mondiale.
Veduta d’insieme del monumento funebre realizzato da Michelangelo per Lorenzo de’ Medici nella Sacrestia Nuova della basilica fiorentina di S. Lorenzo. 1519-1534. Nella pagina accanto la Sagrestia Vecchia nella basilica di S. Lorenzo, opera di Filippo Brunelleschi. 1421-1440.
Si profittò dell’occasione per trarre fuori i resti. Pressoché lo stesso è, può dirsi, per il grandioso monumento, opera del Verrocchio, che racchiude i resti scheletrici dei fratelli Giovanni e Piero, figli di Cosimo il Vecchio (…) Questo sepolcro fu aperto nel 1949 per sollecitazione del prof. Genna e del Pieraccini e ne furono studiate le ossa. L’apertura del sarcofago fu gravosa e si svolse nella titubazione dei presenti, preoccupati della possibilità di danneggiamenti. I sopra indicati sei crani non potrebbero comunque ritornare presso i loro rispettivi avanzi ossei, senza esporre a gravissimi pericoli monumenti di altissimo valore artistico. La spesa per la riposizione dei crani nelle singole tombe, non potrebbe essere che molto elevata (…) La creazione di una cranioteca medicea nell’ambiente sacro della Basilica di San Lorenzo, non rappresenta un atto d’irriverenza alla memoria della gloriosa Casata Medici. La parte residua piú nobile della loro costruzione somatica rappresentata dal cranio, sarebbe raccolta e onorata nello stesso tempio che accoglie gli altri miseri resti. Quasi in una forma simbolica si avrebbe nella cranioteca la riunione famigliare materiale di tutti i membri della Casata. Infine una cranioteca che mostri ai vivi la materia organica dei trapassati, al fine elevatissimo di renderla ancora utile alla Collettività umana, è una glorificazione e non un’offesa alla memoria dei Medici (…) Con la morte di Gian Gastone e di Maria Luisa (…) termina la linea famigliare dei Cafaggiolensi, e quindi oggi manco è a pensare alla elevazione di qualche protesta dei superstiti della Famiglia, e tanto meno alla impostazione di questioni giuridiche».
Mediceo-Laurenziana: venne pertanto deciso di approfittare delle operazioni di riposizionamento delle statue di Michelangelo, per esaminare le salme dei personaggi di Casa Medici contenute nelle sottostanti arche di marmo e venne costituito un comitato, a cui afferivano, oltre a Pieraccini, gli antropologi Giuseppe Genna, Paolo Graziosi e Francesco Leoncini, il Commissario Poggi e Monsignor Rosselli. Pur sostenuti da convinzioni politiche opposte, Pieraccini, socialista, e Genna, che era stato tra i firmatari del Manifesto in difesa della razza, e pur essendo spinti da motivazioni scientifiche diverse, il medico e l’antropologo si trovarono uniti in queste operazioni. L’esumazione delle salme dei Medici, quindi, avrebbe dovuto soddisfare, nelle intenzioni, piú di una esigenza; in particolare, «con questa indagine, a cui attende il Prof. Genna (…) mentre si identificano e si riordinano i resti di tanti importanti personaggi della storia di Firenze e dell’Italia, si va compiendo anche uno studio antropologico, diretto sia a completare la conoscenza dei caratteri somatici della celebre famiglia, sia a ricostruire le fila del processo ereditario che lega le dodici generazioni medicee. Questa importante ricerca, pertanto, è destinata a portare un contributo al progresso della genetica umana e nello stesso tempo a conferire nuovo lustro alla Città di Firenze». L’intento squisitamente antropologico di Genna veniva, quindi, a sposarsi con l’idea principe di Pieraccini, di dimostrare le leggi di quella eredità biologica che, nella sua componente sociale, poteva offrire lo spazio per un miglioramento delle condizioni di vita dei ceti inferiori. I lavori iniziarono nel 1945.
Progetti e ripensamenti
A una prima fase, in cui vennero esumate e nuovamente inumate le salme della Sacrestia Nuova e della Sacrestia Vecchia, nonché quella di Cosimo il Vecchio (agosto 1945-maggio 1946), seguí un periodo in cui furono interessate dalle operazioni le salme di alcuni granduchi e delle loro famiglie, sepolti nella cripta (dicembre 1946-settembre 1948); nel 1949, dal sepolcro del Verrocchio, furono esumati Piero il Gottoso e Giovanni. Durante queste operazioni, vennero trattenuti il cranio e un metacarpale delle salme, per la realizzazione di una cranioteca medicea (vedi box in queste pagine). In una terza fase (1953-1956), tutte queste tombe vennero nuovamente aperte per consentire il ricollocamento del cranio e delle ossa trattenuti per realizzare la cranioteca: il progetto, infatti, MEDICI
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fu fermato dal Ministero dell’Istruzione Pubblica, in quanto ritenuto non confacente a scopi scientifici. L’approssimazione con cui si svolse l’ultimo intervento ha, spesso, compromesso lo stato di conservazione complessivo, già peraltro gravemente alterato dalle operazioni condotte dall’équipe degli antropologi che intervenne sui resti, originariamente imbalsamati, eliminando capelli e ogni annesso cutaneo, per favorire le misurazioni antropometriche sulle ossa glabre. I resti, ora scheletrizzati, degli individui esumati furono poi collocati in piccole cassette di zinco, avvolti, spesso, in carta di giornale.
Una pergamena celebra l’evento
Le operazioni si protrassero ancora fino al 1964, quando vennero ricollocati anche i coppi di terracotta prelevati dai pozzetti sottostanti la tavola di marmo al centro della Sacrestia Vecchia, contenenti parte delle viscere imbalsamate di alcuni membri della dinastia. Il metodo seguito prevedeva questa sequenza operativa: apertura della sepoltura, rilievi, stesura del verbale, trasporto del materiale all’Istituto di Antropologia, studio e restauro, realizzazione dei calchi dei crani, ricomposizione e inumazione. In alcuni casi, fu redatta una pergamena celebrativa a memoria dell’evento, seguita, pochi giorni dopo, dalla ricomposizione definitiva della salma e dalla chiusura della tomba. Le ricerche non si limitarono alle sepolture della Sacrestia Nuova e della Cripta, ma interessarono anche quelle della Sacrestia Vecchia, in quanto furono aperti anche i due pozzetti posti ai lati del monumento di Giovanni di Bicci, dove vennero trovati alcuni corpi. Durante le operazioni, furono realizzati i calchi dei crani e gli originali vennero trattenuti, nella speranza di poter realizzare la già citata cranioteca, che avrebbe dovuto rappresentare il coronamento di questi studi e delle ricerche sulla «eredità biologica» e sul «fattore biologico», a cui Pieraccini e Genna si erano variamente dedicati. Il 4 marzo 1955, però, ancora si discuteva sulle modalità della nuova inumazione di questi resti e delle responsabilità nella spesa delle operazioni: l’Opera Medicea Laurenziana interveniva direttamente nel dibattito, insistendo «sulla necessità di procedere alla esecuzione stessa a scaglioni, cominciando da quelle tombe poste nei sotterranei di S. Lorenzo, che presentano minori difficoltà, per compiere successivamente quelli alle Tombe delle Sagrestie Vecchia e Nuova». A seguito di queste vicende, il 1° agosto 1955 iniziavano le operazioni. I lavori all’interno della Sacrestia Nuova furono condotti con 72
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misure eccezionali e sotto il controllo diretto dei rappresentanti delle istituzioni cittadine e dello Stato: Bruno Bearzi, esperto incaricato dalla Soprintendenza, che già in passato aveva curato la salvaguardia di opere d’arte in tempo di guerra, diresse le operazioni di apertura delle arche di Michelangelo nella Sacrestia Nuova. I resoconti di questa operazione sono affidati alle parole dello stesso Bearzi che, nel maggio del 1956, in un articolo sulla rivista Tempo, raccontava la sua esperienza, documentando il metodo da lui usato: «Per le tombe di Lorenzo e Giuliano occorre spostare in avanti le tre statue (Madonna e due Santi) onde lasciare libere le lastre in arenaria che coprono il loculo sottostante. Per evitare ponteggi, legature, sollevamenti e calate a piano terra, conviene fare un robusto ponte di sostegno sul davanti delle statue e sul quale verranno fatte scivolare mediante spinta dal dietro ed uso di stecche saponate. Ciò è reso consigliabile anche dal fatto che le basi delle tre figure hanno il piano di appoggio irregolare, ciò che si presta per la intromissione delle stecche». Contro la decisione di ricollocare anche i crani nelle tombe, si era levata, ancora una volta, all’indomani della sistemazione definitiva, la penna di Gaetano Pieraccini, sulle pagine de L’Avvenire d’Italia del 10 maggio 1956, con l’articolo Il trionfo dell’ignoranza, in cui ribadiva le motivazioni della proposta, concludendo: «Si è confermato cosí anche una volta – in Italia lo si sa almeno dai tempi di Galileo – il conflitto insanabile fra coscienza religiosa e coscienza scientifica: il contenuto e le finalità tra la religione e la scienza è antitetico; lo sviluppo del pensiero scientifico è contrastato dal sentimento sostanziato da pregiudizi».
Risultati di scarso peso
In realtà, l’auspicio di Gaetano Pieraccini di una serie di pubblicazioni dedicate ai risultati antropologici dedotti dallo studio sui resti dei Medici non fu completamente realizzato: l’Archivio per l’Antropologia e la Etnologia, fondato da Paolo Mantegazza nel 1871, pubblicò una serie di contributi, a partire dal 1946, sia nella rubrica delle Notizie, in cui si segnalava il procedere dei lavori, sia nella serie dei contributi scientifici. In ordine di tempo, comparvero alcuni lavori a carattere antropologico, ma, a parte qualche elemento antropometrico, non
Una ciocca di capelli di Alessandro, duca di Firenze, sottratta con altri reperti durante l’esumazione del 1875. In basso denti di Alessandro, duca di Firenze, prelevati anch’essi in occasione dell’esumazione del 1875 e oggi conservati in Palazzo Medici Riccardi.
emergeva alcun dato particolarmente significativo: il vero risultato scientifico di quella esumazione è stato affidato, invece, a uno studio condotto dalla Scuola di Anatomia Patologica dell’Università di Firenze, diretta da Antonio Costa, che, per la prima volta, metteva in dubbio la convinzione che i Medici soffrissero di vera gotta. Attraverso analisi radiografiche e istologiche, compatibilmente ai mezzi allora disponibili, fu documentata una situazione patologica piú articolata. Gli autori seguirono una metodologia serrata, alla ricerca di quelle che potessero essere le «evidenze » certe: partendo dalle storie cliniche dei personaggi, evidenziarono i momenti piú significativi dal punto di vista patografico, per poi analizzare e commentare gli esami di radiodiagnostica e i reperti istologici. Attraverso una disamina critica del significato del termine «gotta» nei classici, insistendo sulla necessità di una diagnosi differenziale retrospettiva, veniva, quindi, proposta una rassegna bibliografica relativa alle conoscenze piú accreditate in tempi recenti, a livello internazionale. La mancanza dei tofi osteoarticolari e di altri segni patognomonici della gotta indirizzò già gli studiosi del secolo scorso a proporre un altro tipo di interpretazione eziopatogenetica, che oggi potrebbe essere confortata anche da altri tipi di indagini strumentali.
Ricostruzioni difficoltose
Durante le esumazioni effettuate alla metà del Novecento, vennero recuperati preziosi e reperti, che oggi fanno parte delle collezioni museali fiorentine: dalla documentazione, è possibile ricostruire questo quadro di insieme, secondo la terminologia dei documenti del tempo. L’approssimazione delle descrizioni della riesumazione novecentesca rende ancora piú complessa la ricostruzione delle vicende di questi oggetti: in particolare, si perdono quasi subito le tracce dell’abito di Giovanna d’Austria e della spada di Cosimo I, che non risultano piú reperibili. Allo stesso modo, si ignora dove si trovino le tre medaglie rinvenute all’interno della sepoltura di Piero e di Giovanni, nel 1949: «Nel piano superiore sono stati trovati anche tre medaglioni del diametro di circa 10 centimetri, due di piombo ed uno di bronzo, recanti ciascuno da un lato l’effigie di Giovanni e dall’altro quella di Piero, effigi che corrispondono esattamente ai busti dei due personaggi, scolpiti da Mino da Fiesole. Questi medaglioni, esemplari unici conosciuti, di rilevantissimo valore artistico e storico-iconografico, sono stati presi in
consegna dal Soprintendente Prof. Giovanni Poggi, in attesa di una definitiva sistemazione».
Un nuovo progetto di ricerca
Dalla volontà di fare nuova luce su questa lunga e travagliata vicenda storica e scientifica nacque, in anni recenti, il Progetto Medici, una ricerca paleopatologica e storico-medica, finalizzata allo studio delle salme dei membri della famiglia Medici del ramo granducale, sepolti nelle Cappelle Medicee, all’interno del complesso di S. Lorenzo, nel centro di Firenze. Sono stati quindi rielaborati i dati raccolti attraverso l’esumazione degli individui di quattro nuclei familiari (Cosimo I e la moglie Eleonora di Toledo, con i figli Giovanni e Garzia; Francesco I e la moglie Giovanna d’Austria, con i figli Anna e Filippo – in realtà, nella tomba di Filippo venne inumato un altro bambino, mentre, probabilmente, il corpo di Filippo è uno di quelli sepolti nella cripta, finora inesplorata, con l’ultimo granduca –; Ferdinando I e la moglie Cristina di Lorena, con i figli Francesco e Giovanni Carlo), a cui si aggiungono gli individui esumati dalla cripta di Gian Gastone (un adulto e nove bambini). È stato cosí possibile ricostruire una situazione complessa e articolata, il cui studio si è tradotto in un’occasione importante per indagare questo capitolo di storia della malattia e della salute nel Rinascimento fiorentino e per ricostruire lo stile di vita di questi personaggi e l’approccio medico del tempo, ma, soprattutto, è un’opportunità per la tutela e la conservazione, in quanto l’alluvione del 1966 ha compromesso lo stato di queste sepolture, in cui giacciono ancora numerosi individui, mai esumati dal 1857. Nel quadro dei diversi interventi, è sempre stata ferma la volontà degli operatori di salvaguardare la dignità – religiosa e umana – di questi resti, che vengono inumati secondo la ritualità e il doveroso decoro. L’approccio scientifico e storico, infatti, «feritoia ontologica» verso il passato, non deve mai dimenticare né trascurare la pietas dovuta ai defunti.
Un frammento dell’abito con cui Alessandro, duca di Firenze, fu vestito al momento della sepoltura.
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I protagonisti
L’affarista che amava le arti Banchiere tra i piú oculati della Firenze del Quattrocento, Francesco Sassetti fu vicino alla famiglia dei Medici. E condivise con l’amico Lorenzo il Magnifico la passione per le monete antiche e i testi della classicità, riunendo una ricchissima collezione di opere manoscritte di Alessio Montagano
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ra i personaggi illustri che hanno contribuito all’ascesa dei Medici nel Quattrocento, un ruolo di primo piano spetta a Francesco di Tommaso Sassetti. Vissuto fra il 1420 e il 1491, era l’uomo di fiducia di Piero e di Lorenzo il Magnifico «con il quale il nostro Francesco ebbe tanta familiarità, che li confidò tutto lo stato suo interamente, di maniera che, quanto a negozi, non si faceva se non quando disponeva e voleva Francesco», con negozi – nel significato letterale di attività – ad Avignone, Lione, Bruges, nelle Fiandre, oltre che a Roma e a Milano. Figura poliedrica e dinamica, Sassetti godeva di larghi mezzi e di fama di mecenate, tanto che all’apice della sua carriera si calcolava che disponesse di «5.500 fiorini di masserizie, 1.100 fiorini solo di panni per il vestire, 1.600 fiorini di argenti e 1.750 di orerie, 800 fiorini di libri». Era quello il tempo in cui Francesco, come ci riferisce il suo discendente e omonimo Francesco di Giovambattista, «negoziava con li medesimi nomi, al governo di vari ministri, li quali tutti d’ordine e volontà del Magnifico Lorenzo, riconoscevano Francesco nostro per principale, e a lui davano conto e ragguaglio del tutto: e con questi tanti maneggi e occasioni aveva fatto grandissime facultà;
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Francesco Sassetti (nella pagina accanto) e sua moglie, Nera Corsi, nei ritratti affrescati da Domenico Ghirlandaio e dalla sua bottega per la Cappella Sassetti nella chiesa fiorentina di S. Trinita. 1483-1486.
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I protagonisti
In alto rilievo sul campanile dell’antica chiesa parrocchiale di Migliana (Cantagallo, Prato) raffigurante lo stemma e l’impresa (fionda con il sasso da scagliare) della famiglia Sassetti. Fine del XV sec. A sinistra la Villa del Mulinaccio in Val di Bisenzio, acquistata da Francesco Sassetti. La costruzione del palazzo si deve a Cosimo, figlio di Francesco nato nel 1463, a cui fu affidata la direzione dei lavori. Nella pagina accanto Francesco Sassetti e suo figlio Teodoro, tempera su tavola di Domenico Ghirlandaio. 1488 circa. New York, Metropolitan Museum of Art. 76
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di maniera che in quei tempi, la sua si contava per una delle prime ricchezze di Fiorenza». Appena ventenne, era già ad Avignone per occuparsi degli affari di Cosimo il Vecchio, tanto da dare questo nome al suo secondogenito. Dopo quasi vent’anni trascorsi all’estero come direttore del Banco dei Medici, in particolare a Ginevra, nel 1459 rientrò a Firenze per occuparsi degli affari della casa medicea. Aveva all’epoca 38 anni e decise di sposarsi con Nera Corsi, per poi dare il via a importanti operazioni immobiliari nella città del giglio, fra il 1465 e il 1469, quando costruí una bella e comoda casa, sufficientemente grande per la sua numerosa prole (undici figli). Nei dieci anni successivi acquistò tre poderi in Val di Bisenzio nel popolo di San Leonardo di Casi, denominati rispettivamente el Palagio, el Mulinaccio e la Strada, unitamente ad altri beni nel popolo di San Martino a Gonfienti, casa e terre a Cavagliano e una vigna vecchia posta in «luogo detto Soffignano». In quel periodo era in costruzione a Vaiano il nuovo chiostro della badia di S. Salvatore, sotto l’egida dei Medici, grandi protettori, come già accennato, di Francesco, che compare accanto al Magnifico negli affreschi realizzati dal Ghirlandaio nella Cappella Sassetti, in S. Trinita. E proprio a lui si deve la realizzazione stessa di questa cappella, nella quale è ritratto con la moglie, i figli e il cognato Antonio Pucci. È probabile che la decisione di acquistare casa e terre a Vaiano sia maturata durante la frequentazione dei Medici, in particolare nel periodo in cui Carlo (1464), figlio naturale di Cosimo il Vecchio, diventò abate commendatario del monastero di Vaiano.
Una famiglia «nobile e vetusta»
Ma chi erano i Sassetti? Le notizie sulle origini della famiglia vanno ricercate in un manoscritto del XVII secolo, a firma di Francesco di Giovambattista Sassetti, figlio del nipote del capostipite. La ricostruzione della storia del casato ha un esordio molto significativo: «Con buona memoria di mio padre, che passò di questa a miglior vita, d’anni sessanta, mi diceva di avere sempre sentito dire da Teodoro suo padre e da Cosimo suo zio, che la nostra casa era antichissima e nobile, e veniva di Germania (...). Sono bene informato la nostra famiglia essere nobile e vetusta, venuta dalla Sassetta, castello di maremma di Pisa, da signori e gentiluomini di quel luogo, che seguirono in quel tempo le parti degli imperatori della Magna e lor setta, che allora dominavano e imperavano in Italia». Siamo dunque al cospetto di una stirpe di ghi-
Gruppo di famiglia in una chiesa
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I protagonisti
bellini che misero radici a Firenze e che soffrirono, e non poco, quando la parte alla quale si legarono (che fu ghibellina) restò al di sotto. Vale la pena leggerlo dalle parole stesse di Francesco: «Insino all’anno 1318 stettano, se non tutti li consorti la maggior parte fuor di Firenze, come ribelli. Accordati poi il detto anno con il Comune, e tornati in Firenze, come si dirà a suo luogo, stettano molto tempo abbattuti, come quelli che per la memoria della contraria fazione non erano, da quelli che governavano, visti con buon occhio né volentieri, solo erano ritrovati, sempre che si aveva a mettere qualche gravezza per li bisogni della città, che erano assai e spesso; nella quale i Sassetti, che erano in concetto di denari, e però si cercava tenerli bassi, erano ritrovati e riconosciuti dagli altri».
Lotte senza quartiere
Queste memorie, che ci riportano con lucida vivacità al periodo di Dante e alla lotta fratricida tra i partiti avversi, ci testimoniano come, nella realtà, la disponibilità economica portasse questa famiglia a essere comunque bene accolta a quei tempi anche dalle consorterie rivali, dal momento che alcuni dei suoi esponenti «attendevano alla mercatura; e particolarmente tenevano tavolo in Mercato nuovo, e facevano il cambiatore». Sviluppando una forte vocazione al commercio, molti membri di questa famiglia fecero ritorno a Firenze «nel 1358, fino al 1450 e vel circa, se ne stettano quietanamente, attendendo a’ loro negozi e faccende mercantili, senza intromettersi né essere adoperati in cose pubbliche». Databile tra il 1480 (anno in cui le filiali di Bruges e Venezia vennero liquidate) e il 1485 (anno in cui l’amministratore Lionetto de’ Rossi fu licenziato e arrestato a Lione in relazione alla sua scorretta gestione degli affari delle compagnie medicee), il documento, pubblicato nel 1963 dallo storico Raymond De Roover (19041972), descrive un possibile piano di risanamento del Banco in un momento di estrema difficoltà organizzativa e finanziaria. Anonimo, ma probabilmente redatto da Giovambattista Bacci, dipendente della filiale fiorentina, il progetto prevede di creare due nuove compagnie (chorpi) con due direttori distinti: Francesco Sassetti, per la società che avrebbe gestito le sedi di Firenze, Pisa e Lione; Giovanni Tornabuoni per quelle di Roma e Napoli. Il capitale complessivo per l’intera operazione era previsto in 48 000 ducati (di cui 18 000 a carico di Lorenzo de’ Medici, 15 000 per uno a carico di Giovanni Tornabuoni e Francesco Sassetti), espandibili a 68 000 con l’intervento di alcuni soci minori. La compagnia lionese avreb78
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be poi potuto finanziare un’attività di arte della seta o di battiloro sotto la direzione di Francesco del Tovaglia; candidati alla direzione della sede fiorentina erano Giovanni Lanfredini o Lodovico Masi. La decisione definitiva sull’intero progetto era affidata al giudizio, alla cura e all’avvenutezza di Lorenzo: «Lorenzo achonci il chonto, il tempo e modo di paghamento chon quella discrezione che suole»; il Magnifico era dunque chiamato a essere «ago della bilancia» anche negli affari, un ruolo che probabilmente non gli era cosí congeniale come in politica. Mai effettivamente realizzato, il progetto mette in evidenza il particolare rapporto personale e professionale tra il Magnifico e Francesco Sassetti, chiamato a far fronte alle necessità finanziarie e organizzative delle compagnie medicee. In tal senso colpiscono le espressioni conclusive del documento («Chome si vede Francesco nel traficho nuovo oltre la sua industria metterebbe per Lorenzo ducati 3.000 sua magnificenza è atta a restorarvela in molti modi»), in cui Francesco viene invitato a impegnare la sua industria, intesa nel classico significato di operosità mista ad abilità e discrezione, unitamente ai suoi denari, che Lorenzo sarà pronto a rimborsare «in molti modi»: un’espressione che lascia trasparire i profondi legami socio-culturali tra il Medici e il Sassetti, fondati su altri valori e interessi che i due condividevano, dalla passione per i codici classici latini e greci a quella per l’antiquaria.
Figlio dell’Umanesimo
L’amore per il mondo antico trovò in Francesco Sassetti espressione anche nella passione numismatica, condivisa da molti altri suoi amici e contemporanei. Gli interessi «antiquari», termine con cui si indicava inizialmente la passione per i volumina di testi letterali o poetici e che – in epoca umanistico-rinascimentale – fu esteso a quella per l’arte antica, specificatamente la scultura, la glittica e anche la numismatica, facevano parte, infatti, di quel patrimonio culturale recuperato dall’Umanesimo europeo di cui Francesco Sassetti e la famiglia Medici erano protagonisti principali. L’inventario dei beni di Piero il Gottoso e quello di Lorenzo il Magnifico dedicano molte pagine a elencare gli oggetti preziosi (tra cui, appunto, anche le monete classiche e romane) riuniti nel piccolo ma riffinato vano, situato al primo piano di Palazzo Medici che dava su via Larga, denominato «studiolo», nel quale i proprietari amavano incontrare gli amici colti e appassionati per far loro condividere, studiare e ammirare i tesori di famiglia. Nel clima cultura-
La carta del Fiorinaio (Libro della Zecca) che elegge Francesco Sassetti signore della Zecca per l’emissione di moneta d’argento e di mistura nel I semestre del 1482. Firenze, Archivio di Stato, Ufficiali della Moneta. Tra gli emblemi, si riconosce lo scudo bandato dei Sassetti (al centro) sormontato dalla F e con accanto la fionda con il sassolino.
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I SIGNORI DELL’ORO E DELL’ARGENTO A Firenze la scelta dei domini monetae era soggetta al vaglio delle Arti Maggiori di Calimala e del Cambio, che, ogni sei mesi, eleggevano «sorte et fortuna» due loro iscritti per sovrintendere a tutte le operazioni della coniazione: la prima arte eleggeva il «signore» della zecca per l’oro, mentre la seconda, quello per l’argento e la mistura. L’attività degli iscritti alle Arti, perlopiú mercanti e banchieri, era regolamentata da uno statuto, il Monetieri del Chomune, che specificava, tra le varie cose, i privilegi concessi agli zecchieri e a tutti i monetieri e operai della zecca, che consistevano in esenzioni da tasse e servizi militari e nel diritto di essere giudicati da un foro interno. Alle supreme magistrature repubblicane spettavano le decisioni che esulavano dalla normale amministrazione dell’ufficio della zecca, quali, per esempio, la determinazione del costo di lavorazione delle monete, la modalità dell’invio del metallo da monetare, la scelta del taglio e dell’intrinseco da adottare nelle nuove emissioni, il controllo della circolazione della moneta vecchia e i provvedimenti su quella da bandire. Gli atti (ricevute, verbali, consegne, ecc.) venivano registrati dal notaio nel Libro del Camerario, che i signori della Zecca dovevano poi approvare. A partire dal 1317, per iniziativa dello storico Giovanni Villani (al quale si deve, lo ricordiamo, la redazione della celebre Nuova cronica, n.d.r.) allora signore della zecca per l’argento e la mistura, si introdusse un nuovo strumento di controllo e di memoria, il Libro della Zecca detto Fiorinaio, che si conserva oggi presso l’Archivio di Stato di Firenze e che resta la fonte principale per gli studi delle monete di questa Zecca. In esso, per ogni semestre, venivano riportati i nominativi e i rispettivi «segni» di ciascun signore, consentendo cosí di avere un’attribuzione certa per ogni moneta. L’individuazione di un segno di zecchiere piuttosto che un altro, su ciascuna moneta, ci permette infatti di poter attribuire a ogni esemplare la paternità di coniazione e il suo preciso periodo storico, altrimenti difficilmente individuabile a causa della ripetitività iconografica che si riscontra nelle emissioni repubblicane.
In alto grosso fiorentino in argento, detto «guelfo», coniato sotto la direzione di Francesco Sassetti. Al rovescio, sopra il braccio del santo patrono Giovanni Battista, compare il simbolo araldico della fionda con sassolino, con accanto la F gotica, iniziale di Francesco.
Fiorino «guelfo» del Sassetti, nel quale, al posto della fionda, è rappresentato lo scudo araldico bandato della famiglia. Primo semestre del 1482. 80
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Una delle prove piú eloquenti delle ambizioni artistiche di Sassetti è l’affidamento della decorazione della cappella di famiglia al Ghirlandaio
le della Firenze della metà del Quattrocento molti erano gli interessati al settore, e, fra questi, particolari rapporti di amicizia e affinità culturale, anche in ambito numismatico, si strinsero fra Bartolomeo della Fonte, alias Fontio, e la famiglia Sassetti.
Sui pesi e le misure
Della Fonte si inserisce a pieno titolo nel panorama dell’Umanesimo in veste di studioso ed editore di testi classici, insegnante presso lo Studio fiorentino, copista e collezionista di antichi codici (motivo per cui divenne, fra le altre attività, bibliotecario del re d’Ungheria Matteo Corvino, bibliofilo appassionato). Protetto dai Medici e in particolar modo dalla famiglia Pandolfini, che annoverava fra i suoi membri non solo prestigiosi uomini politici del tempo, ma anche signori di zecca, Della Fonte scrisse per Francesco Sassetti, a cui dedicò, fra l’altro, la sua edizione del De Medicina di Cornelio Celso, un breve trattato di pesi e misure sotto forma di epistola: Bartholomei Fontii ad Franciscum Saxetum epistula in qua mensurarum itemque ponderum vocabula accuratissime explicantur. Conservato in un codice della Biblioteca Nazionale Centrale, il documento si divide in due brevi sezioni: la prima dedicata alle equivalenze fra pesi e misure di superficie dell’antichità con quelle a lui contemporanee; la seconda a una spiegazione del valore intrinseco delle monete antiche, con precisi riferimenti a fonti classiche. Per esempio, oltre a una definizione del valore dell’«asse» romano, Della Fonte si dilunga in questioni di terminologia, facendo notare alcune differenze occorse nella traduzione greca o latina fino alla lingua volgare, della denominazione della medesima moneta: «Inde “as” ex duodecim unciis constat. “Mia” a Graecis, “mina” a nostris, interpositione literae appellatur; hanc et “libram” dicimus, cuius dimiutivum libella». Attingendo, poi, allo studio dei classici tenta di stabilire i valori intrinseci delle monete, citando per esempio Plinio e Varrone, che danno definizioni diverse di un «talento» romano. In conclusione, l’autore spiega che la materia è trattata da molti e che le monete antiche erano spesso di metalli diversi, meno nobili dell’oro, argento e bronzo, come il ferro o l’allume, debitamente fuso e trattato, indugiando in un paragone tra quanto espresso da Curzio Rufo e da Erodoto ancora in riferimento al «talento»: «Materiam autem variam extitisse gravissimi attestantur autores. Nam non solum aurum, argentum, aes hoc pondere aestimari comperimus sed ferrum etiam et allumen. Curtius nam candidi ferri talenta centum et Herodotus alluminis mille talenta scri-
Ex libris di Francesco Sassetti. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana. Il marchio presenta una composizione araldica articolata, nella quale sono compresi un medaglione con il nome Francisci Sassetti, un cartiglio col motto «a mon povoir» e la fionda con i sassi, emblema della famiglia, sorretta da due centauri.
bit». Testimonianza concreta, quindi, del comune interesse per la numismatica, il breve trattato non è l’unico documento che leghi Della Fonte e Sassetti all’argomento: in una lettera all’amico Francesco Gaddi, che si trovava a Roma, il primo chiede per Cosimo Sassetti, figlio di Francesco, di trovare e inviare alcune monete romane, definite comunemente «medaglie»: «Recordarvi le medaglie promesse a Cosimo Saxetti quando n’avete alcuna antiqua e bella».
Un incarico prestigioso e redditizio
Oltre che prestigioso, la gestione della zecca cittadina era un incarico molto remunerativo. Ciò spiega perché Giovanni di Bicci, fondatore «della piú grande e famosa banca d’Europa nel XV secolo», e suo figlio Cosimo (il Vecchio), MEDICI
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In alto la tomba di Francesco Sassetti nella cappella di famiglia, eseguita da Giuliano da Sangallo. 1485-1490. Firenze, S. Trinita. A destra il medaglione con il profilo di Sassetti affiancato da due centauri con scudo e fionda. Nella pagina accanto un particolare dei rilievi della tomba, raffigurante lo stemma araldico tra fionde.
furono eletti «signori» per l’emissione di moneta d’argento, rispettivamente, nel 1406 e nel 1422; lo stesso dicasi per il figlio di Cosimo, Piero il Gottoso, eletto «signore per l’oro» per ben due volte, nel 1445 e nel 1455. Questo privilegio, tuttavia, non toccò solamente agli esponenti del Banco, ma anche ai collaborato82
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ri meritevoli e in qualche modo «raccomandati» dalla famiglia Medici. Primo fra tutti, ancora una volta, Francesco Sassetti, nominato «signore della zecca per l’argento» nel 1482, all’apice cioè della sua carriera. Dal 1372, soltanto figli e discendenti dei monetieri ebbero il diritto di ammissione alla Zecca,
voir» («A mio potere», «Mi adopero io... [e Dio farà il resto]») e dalla figura del Centauro, come si può vedere nel monumentale ex libris apposto sull’Etica Nicomachea di Aristotele, tradotta da Giovanni Argiropulo. L’impresa pagana del Centauro trova il suo corrispettivo ideologico e filosofico nella figura biblica di David: la morte di Golia ribadiva la necessità dell’aiuto divino per il successo delle imprese, proponendo all’uomo del Rinascimento il concetto di «nuovo eroe cristiano». All’impresa della fionda si sostiuisce poi un’altra figura araldica, già impressa sulle monete di Francesco e poi riproposta da suo figlio Cosimo, piú comune e ben rappresentata in tutti i contesti familiari (come, per esempio, nel dipinto sulla facciata esterna di palazzo Sassetti e nei bassorilievi sulle tombe di famiglia nella chiesa di S. Trinita), caratterizzata cioè dallo scudo bandato di azzurro e listato d’oro in campo bianco. Nel corso del Cinquecento, quest’ultima, in particolare, prese piede e si sviluppò secondo il gusto del periodo.
Una perdita disastrosa con la sola formale approvazione dei signori: il monetiere divenne cosí un mestiere ereditario. È probabilmente questo il motivo per cui, dall’ultimo quarto del Trecento sino alla chiusura della Zecca repubblicana, nel 1533, si susseguirono nella sua direzione ben ventinove membri della famiglia Medici, e altrettanto accadde nel 1519 e nel 1522, quando un Sassetti, Cosimo, figlio secondogenito di Francesco, fu scelto proprio perché il padre aveva diretto il medesimo ufficio quarant’anni prima. A seguito di quell’ordinamento gli zecchieri poterono anche godere della libertà di apporre sulle proprie emissioni lo stemma araldico di appartenenza, accompagnandolo talvolta anche alle proprie iniziali di battesimo, per meglio distinguerlo da quello di un altro componente della stessa casata. Le monete coniate sotto la direzione di Francesco Sassetti nel primo semestre del 1482 sono riconoscibili grazie al simbolo «parlante» impresso su ciascuno di esse accompagnato dalla lettera F di Francesco, ovvero una fionda al cui interno c’è un sassolino da scagliare: in questo caso, il nome della figura (sassolino) si identifica con il nome della famiglia (Sassetti). In araldica, si tratta dell’impresa piú antica di quella consorteria a oggi nota, accompagnata solitamente dal motto francese «A mon puou-
Verso la fine dei suoi anni (1488) Francesco Sassetti fu chiamato nuovamente a gestire una pesante incombenza causata dalla «mala gestio» della filiale del Banco di Lione da parte del suo direttore Lionetto de’ Rossi, crisi poi superata grazie all’impegno dello stesso Sassetti e alla partecipazione diretta del Magnifico. Le motivazioni dei rovesci vanno ricercate nel fatto che il Sassetti, probabilmente distratto da altri interessi in terra toscana, non aveva controllato strettamente l’operato degli amministratori della filiale, i quali avevano compiuto frodi, provocando una perdita disastrosa, che lo costrinse, nonostante l’età, a lasciare Firenze e recarsi nella città francese per risolvere la situazione, appoggiato da Lorenzo che mai gli negò l’amicizia e il sostegno. Di lí a poco morí (1491), lasciando l’immenso patrimonio immobiliare ai suoi figli, ma fu Cosimo (1463-1527) a disporre la cessione della sua amata raccolta «antiquaria» all’amico di sempre, Lorenzo il Magnifico. Pur non essendo stato propriamente un uomo di lettere, la sua collezione di codici classici era considerata addirittura piú ricca di quella di Coluccio Salutati e grazie al sodalizio intellettuale con Bartolomeo della Fonte, Francesco Sassetti potè vantare frequentazioni illustri, gravitanti attorno alla sua biblioteca, meta abituale di personaggi come Marsilio Ficino, Ugolino Verini, Alessandro Braccesi e Angelo Poliziano. MEDICI
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I protagonisti
Il grande fustigatore Entrato nell’Ordine domenicano nel trionale – Bologna, Ferrara, Brescia, Pavia, Ge– vi era ritornato nel 1490, questa volta 1475, Girolamo Savonarola diede il nova inviato direttamente dal Generale dell’Ordine Domenicano dietro richiesta del signore della via alle sue veementi predicazioni città, Lorenzo dei Medici, al quale lo aveva pree raccomandato Giovanni Pico della una decina d’anni piú tardi, facendo sentato Mirandola, intimo di Lorenzo ed esponente fra dell’intransigenza una delle sue i piú prestigiosi e innovativi della cultura fiorentina di quel periodo. L’anno dopo, nel luglio del regole di vita. Ma la sua voce fu 1491, Savonarola divenne priore del suo condi S. Marco in Firenze, all’interno del messa a tacere per sempre proprio a vento quale avviò un’opera volta a rinnovare profondamente sul piano spirituale la vita dei suoi Firenze, nel maggio del 1498 di Paolo Viti
Nella pagina accanto Savonarola predica a Firenze, olio su tela di Nikolai Petrovich Lomtev. 1850 circa. Mosca, Galleria Tretjakov.
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ll’età di ventidue anni, nel 1475, Girolamo Savonarola lasciò la sua città, Ferrara – dove era nato il 21 settembre 1452 – per ritirarsi nel convento dei Domenicani a Bologna. Il gesto, inatteso per i suoi stessi familiari, voleva significare un netto distacco dal mondo, dalle sue inquietudini e dalle sue piú varie forme di ingiustizia e di violenza: nel silenzio del chiostro il giovane Savonarola sperava di trovare quella pace dello spirito che gli consentisse un piú diretto colloquio con Dio. La sua vita, in realtà, andò diversamente: solo il rapporto con Dio non gli venne mai meno, e anzi si intensificò – con la preghiera, con la predicazione, con l’elaborazione di opere spirituali – man mano che le difficoltà quotidiane, dalle quali aveva cercato di fuggire, andavano crescendo, fino al momento finale e drammatico della sua stessa esistenza, sul rogo di piazza della Signoria a Firenze. Fu proprio Firenze la città che vide l’affermarsi e l’evolversi della vicenda umana e spirituale del frate, soprattutto dal 1490 in poi. Vi era stato una prima volta dal 1482 al 1487 – nel 1485 e nel 1486 aveva predicato la Quaresima a San Gimignano – poi, dopo una lunga serie di peregrinazioni in varie altre città dell’Italia setten-
frati, richiamandoli a una piú attenta accettazione e applicazione delle norme evangeliche. Al di fuori del convento Savonarola, già subito dopo il suo ritorno fiorentino, iniziò una serie di prediche, che tenne in varie chiese della città, sopra i testi di alcuni profeti del Vecchio Testamento, per richiamare, anche con questa scelta, la necessità dell’ascolto di un nuovo messaggio profetico volto a due essenziali finalità: il rinnovamento della Chiesa e della società.
La fine dei Medici
È, dunque, su questi due temi fondamentali che si basa tutta l’azione intellettuale, spirituale, letteraria di Savonarola negli anni successivi al 1490, che vedono, fra l’altro, nel 1492 la morte di Lorenzo dei Medici e nel 1494 la fuga di Piero dei Medici con la conseguente caduta di un regime durato sessant’anni; e, con la fine dei Medici, Firenze conosce l’arrivo del re di Francia, Carlo VIII, il cui ingresso non si tramuta in sacco e in conquista proprio per l’intervento personale del frate. In poco tempo, quindi, Savonarola era divenuto a Firenze un punto di riferimento generale: e non solo sul piano religioso, considerando l’incremento che il suo convento conobbe proprio in base all’applicazione dei suoi precetti, ma pure su quello piú propriamente politico, dal momento che egli venne presto considerato la massima autorità morale, capace addirittura di salvaguardare i destini e l’autonomia della città
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I protagonisti
UNA VOCE IN DIFESA DEGLI ULTIMI Arrivato a Firenze nel maggio del 1482 come lettore, cioè insegnante di Sacre Scritture, nel convento di S. Marco, nel 1484 Girolamo Savonarola iniziò a predicare nella chiesa delle monache delle Murate, proseguendo poi in altre chiese fiorentine: in un primo momento riscuote, però, scarso successo sia per gli argomenti trattati, sia per difetto della voce e per inflessioni dialettali. Dopo una permanenza di alcuni anni in altre città, tornato a Firenze, nell’agosto del 1490 riprende a predicare tanto a S. Marco quanto nella cattedrale di S. Maria del Fiore e poi a S. Lorenzo e ancora nella cattedrale, attraendo sempre piú l’interesse dei Fiorentini che, per i temi e i toni dei suoi sermoni, lo qualificano «predicatore dei disperati». Fondamentali le prediche degli anni 1494-1495 sulla Genesi, sul profeta Aggeo, sui Salmi, su Giobbe. Il 16 ottobre 1496 papa Alessandro VI gli impone di non predicare piú; nel febbraio del 1497 Savonarola riprende, però, i suoi sermoni in cattedrale attaccando il papa con forza crescente, e cosí continua anche dopo la scomunica – 12 maggio 1497 – contestandone la validità. La sua ultima predica ha luogo il 18 marzo 1498. Oggetto particolare dei sermoni di questi anni furono i testi dei profeti Amos e Zaccaria, Ruth, Michea, Ezechiele e, infine, i libri dell’Esodo. Oltre alle prediche, Savonarola scrisse non poche opere, in latino e in volgare, di carattere religioso, filosofico e morale – la maggior parte delle quali ebbe un’immediata diffusione a stampa – in cui chiarisce il suo pensiero e prende posizione sugli aspetti piú diversi della dottrina cristiana anche in rapporto alle necessità e alle contingenze attuali. Le principali opere, con cui Savonarola integra e perfeziona le tematiche e i motivi esposti nelle prediche, sono: Libro della vita viduale, Trattato del sacramento e dei misteri della Messa, Trattato in defensione e commendazione dell’orazione mentale, Trattato dell’umiltà, Trattato dell’amore di Gesú Cristo, Compendio di rivelazioni, Solatium itineris mei, De simplicitate christianae vitae, De veritate prophetica, Compendio di rivelazioni, Triumphus crucis, Apologeticum, Trattato circa il reggimento e governo della città di Firenze, Trattato contro gli astrologi, Regola del ben vivere. Oltre a esposizioni su singoli salmi o preghiere, di Savonarola sono rimaste anche poesie e lettere.
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Nella pagina accanto, in alto, a sinistra il profilo di Carlo VIII su una medaglia in bronzo realizzata da Louis Lepère, Nicolas de Florence e Jean Lepère. 1493-1494. Washington, National Gallery of Art. In basso un’edizione manoscritta della Bibbia appartenuta a Girolamo Savonarola. XIII-XIV sec. Firenze, Museo di San Marco.
A destra L’entrata di Carlo VIII a Firenze, olio su tela di Giuseppe Bezzuoli. 1829. Firenze, Palazzo Pitti, Galleria d’Arte Moderna.
in una situazione di grande pericolo. Tutto ciò non sarebbe stato possibile – considerando anche la sua estraneità iniziale rispetto all’ambiente fiorentino – se Savonarola non avesse interpretato, con coraggiosa coerenza e con appassionata energia, le piú diverse esigenze e le piú ampie aspirazioni della società del suo tempo. Cosí per alcuni anni Savonarola e Firenze si identificarono in un’osmosi assoluta. Come un profeta della Bibbia, egli predica la necessità di riformare dal suo interno la Chiesa, ma sempre rimanendo fedele ai dogmi e alle pratiche religiose, e celebrando, con la parola e con l’esempio, le virtú proclamate dal Vangelo: fino a richiamare i primi tempi della diffusione del cristianesimo, quando il sangue dei martiri indicava la genuinità e la purezza della fede, uniformata alla parola di Cristo. Sulla testimonianza di quella Chiesa, Savonarola indica una via di salvezza e di rinnovamento nella rinuncia ai beni terreni, all’ambizione di privilegi e di benefici, al conseguimento di cariche e di prebende. Quindi il ritorno alle origini della Chiesa significa in primo luogo condanna della corruzione che pure si era sviluppata al suo interno e che il frate vede concretizzata nella stessa figura del papa regnante, Alessandro VI,
da lui profondamente criticato proprio per una condotta di vita – tanto piú grave essendo il supremo pastore spirituale – opposta a quella indicata e prescritta dal Vangelo.
Nel segno della semplicità
Fondamentale è per Savonarola un tipo di vita semplice, ridotto all’essenziale per quanto riguarda le necessità dell’umana esistenza: ma la frugalità consente di liberare l’animo dalle preoccupazioni contingenti e di guardare a Dio come fonte di vita. Semplicità e fede, dunque, vanno di pari passo, non come manifestazione di ingenuità o di pochezza di spirito, ma, al contrario, come forma cristallina e sublime di illuminazione interiore e intellettuale che consente di recuperare un rapporto diretto con Dio, attraverso l’imitazione dell’esempio di Gesú. Savonarola manifesta queste indicazioni con un costante richiamo ai testi biblici ed evangelici, e quindi anche col ricorso a quelli dei Padri Particolare di una scultura in bronzo raffigurante Girolamo Savonarola e recentemente attribuita allo scultore Antonio Biggi. Prima metà del XX sec. Firenze, basilica di S. Marco. MEDICI
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della Chiesa, a dimostrazione di una sua profonda coscienza e conoscenza spirituale. Ma talora le esprime anche con parole e immagini di tale violenza che, specie nelle prediche, servono a colpire e ad attrarre la mente e l’animo degli ascoltatori. Non a caso, molte delle sue prediche si chiudono – come narrano le testimonianze – con una cosí diretta partecipazione dei fedeli, che spesso piangono su quanto evocato dal predicatore. Il quale non aveva né fisico, né voce aggraziati e accattivanti: ma la forza e la potenza interiori costituivano la sua capacità di penetrazione e di attrazione fra un pubblico spesso smarrito e incerto per la mancanza di riferimenti e di valori etici e morali. E come la Chiesa, anche la società civile non poteva non essere colpita: e quindi Savonarola 88
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esorta Firenze al rinnovamento, specie dopo il 1494, quando la città, liberatasi dal regime dei Medici, stentava a trovare una nuova identità istituzionale, a causa degli effetti di un governo che certamente ne aveva favorito l’arte e la cultura, ma aveva anche determinato una caduta degli stessi valori basilari del civile rapporto fra cittadini. Secondo Savonarola, era venuta meno anche la saldezza della fede, con l’affermazione di idee e di forme di vita non consone per un cristiano.
La condanna della tirannia
Nel denunciare queste deviazioni e nell’indicare alternative concrete per modificarle, si manifesta nella maggiore compiutezza la missione profetica di fra’ Girolamo, volta a produrre un
A sinistra il Salone dei Cinquecento, in Palazzo Vecchio, che Savonarola volle quale sede del Consiglio Grande e che fu simbolo del regime democratico da lui instaurato a Firenze. A destra il cuore del centro storico di Firenze, con la sagoma inconfondibile della cattedrale di S. Maria del Fiore, in un particolare della replica ottocentesca della Veduta della Catena, realizzata da Francesco di Lorenzo Rosselli. 1472 circa. Firenze, Palazzo Vecchio. In basso medaglia con l’effigie di Savonarola. 1510 circa. Firenze, Museo Nazionale del Bargello.
FAUTORE DELLA PARTECIPAZIONE POPOLARE Negli anni di Savonarola, Firenze mantiene il suo ordinamento istituzionale repubblicano, che neppure il regime mediceo, dal 1434 al 1494, aveva alterato nella forma, sia pure sconvolgendolo nella sostanza. Ai vertici dello Stato ci sono i tre maggiori uffici: gli otto Priori con il Gonfaloniere di giustizia (eletti due per quartiere), i Dodici buoniuomini e i sedici Gonfalonieri di compagnia. A questi si aggiunge una serie molteplice di magistrati con competenza all’interno e all’esterno della città. Per tutti gli uffici la durata dell’incarico è a scadenza ben definita, dai due ai sei mesi, per garantire la rotazione e l’alternanza. Savonarola introduce il Consiglio Grande, che sostituisce i precedenti Consigli, e che garantisce una piú ampia partecipazione popolare.
rinnovamento nella società. Riforma della società equivaleva in primo luogo a tutela e difesa della giustizia, a partire dalle stesse forme di governo che regolano il vivere civile. Da qui la forte contestazione e condanna del regime tirannico, nelle prediche come negli scritti: condanna che non è solo teorica, ma arriva a smascherare ogni tipo di deviazione e di abuso perpetrato nella Firenze degli anni medicei e quindi a proporre un nuovo sistema istituzionale. Il tiranno è, per Savonarola, sinonimo di ogni vizio e di ogni depravazione, il suo governo è di per sé del tutto estraneo alla storia civile e alla tradizione politica di Firenze. La città deve basarsi su un governo libero e popolare, che consenta quindi una larga rappresentanza dei ceti citta-
dini: questa sovranità si identifica – sull’esempio veneziano – con un «Consiglio Grande», per le cui adunanze fu costruita una nuova sede nel palazzo della Signoria: il Salone dei Cinquecento, divenuto cosí il simbolo del regime democratico ispirato da Savonarola. Tuttavia, nella sua visione profetica e politica, Firenze ha un destino tutto particolare. La città è eletta da Dio, è il luogo dove può arrivare a manifestarsi la volontà del Signore, proprio attraverso quel rigore di fede e quella semplicità della vita che portano all’applicazione della giustizia e della carità. Cosí Firenze, rinnovata nelle sue strutture e soprattutto nelle sue forme di vita, avrà Dio stesso per sua guida, per suo re, perché solo cosí gli interessi del popolo – moMEDICI
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SCOMUNICA SENZA APPELLO Girolamo Savonarola venne scomunicato dal papa Alessandro VI il 12 maggio 1497. Il provvedimento, ormai da tempo temuto, seguiva di poco la predica che il frate aveva tenuto il 4 maggio, giorno dell’Ascensione, ma interrotta in seguito a un tumulto provocato dai suoi avversari, i Compagnacci. Nella Epistola a tutti li eletti di Dio e fedeli cristiani, immediatamente pubblicata, Savonarola spiegava le sue ragioni e la situazione che si era determinata. Il testo del breve di condanna non arrivò subito a Firenze, perché il messo papale si fermò a Siena facendo perdere le sue tracce per alcuni giorni, e solo il 18 maggio venne letto nelle chiese di Firenze. Con Savonarola venivano scomunicati quanti avessero ascoltato le sue prediche, avessero parlato con lui o l’avessero aiutato. Le colpe attribuite al frate erano generiche: diffusione di dottrine pericolose ed eretiche, disobbedienza al papa circa la costituzione della Congregazione Tosco-romana. La decisione di Alessandro VI era stata favorita e sollecitata da un gruppo di nemici di Savonarola presenti nella Curia papale, ma anche per esplicita pressione di
cittadini fiorentini, i quali non avevano lesinato di intervenire economicamente presso gli stessi ambienti curiali. Il frate non riconobbe valida la scomunica: scrisse piú volte al papa, si volse a spiegare l’iniquità del provvedimento e a difendere le sue azioni, specie col Triumphus crucis e col De veritate profhetica. Tuttavia la scomunica non venne revocata, e l’11 febbraio 1498 Savonarola tornò nuovamente a predicare in duomo, scegliendo il testo biblico dell’Esodo. Ma il papa reagí, il 26 febbraio, minacciando la città di interdetto se Savonarola non fosse stato arrestato. Nello stesso giorno, dopo il bruciamento delle vanità, scoppiarono tumulti fra i favorevoli a Savonarola, i Frateschi, e gli oppositori, gli Arrabbiati. Il papa rinnovò la sua richiesta, dopo che la Signoria aveva respinto la precedente. Il 1° marzo Savonarola predicò per l’ultima volta in duomo; il giorno dopo tornò in S. Marco, criticando fortemente il papa per la sua corruzione e immoralità. La risposta fu la minaccia di agire contro gli interessi economici dei mercanti fiorentini a Roma. Dopo il 18 marzo Savonarola non salí piú sul pulpito.
In alto papa Alessandro VI, in un dipinto di scuola tedesca. XVI sec. Digione, Musée des Beaux-Arts. A sinistra un’incisione tratta dal Trattato in defensione e commendazione dell’orazione mentale, scritto da Savonarola nel 1492 e dato alle stampe tre anni piú tardi. Londra, British Museum.
ralmente recuperato e risanato – saranno tutelati e valorizzati. Sono, questi, i termini essenziali su cui si fondano, per Savonarola, le regole del «ben vivere», sintesi di impegno religioso e civile. Non era facile, certo, portarli a compimento in una città piú attenta a un edonismo collettivo, orgogliosa di una magnificenza che non trovava facili riscontri altrove, che anzi, per lungo tempo, aveva rappresentato e interpretato le forze piú vitali e proficue di 90
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una civiltà che si era nettamente distaccata rispetto a quella dei secoli precedenti. Detto questo, è allora comprensibile come le tesi di Savonarola, che pure affascinava e attraeva a sé spiriti fra i piú diversi, pronti ad applicarle e a osservarle, arrivassero a scontrarsi con chi mal ne tollerava il rigore e l’integralismo, oltre alla portata degli effetti che fuori Firenze – soprattutto nella Roma del papa e dei cardinali, oggetto continuo delle censure del frate – potevano avere. Proprio all’interno della città, che in tante circostanze lo aveva seguito e osannato, ha inizio quindi una serie crescente di distinguo e di insofferenze che in breve tempo finiscono con il produrre un complessivo cambiamento di fronte: sul quale, naturalmente, ha buon gioco il piú generale disagio della Curia romana, restia ad accogliere progetti di riforma che la riguardavano.
Verso lo scontro finale
Nell’ottobre del 1495 dalla Curia viene imposto a Savonarola di non predicare, proprio per la violenza delle sue prese di posizione; ma il divieto è superato l’anno dopo per le forti pressioni della città. Nell’estate del 1496 papa Alessandro VI offre a Savonarola il cappello cardinalizio, in cambio di atteggiamenti meno intransigenti. Ma il frate rifiuta, affermando, profetica-
mente, che se un cappello rosso desiderava, era quello rosso del sangue dei martiri. Lo scontro finale con Roma ha inizio sul finire del 1497, quando il papa, in una ristrutturazione dell’Ordine dei Domenicani, decide di sopprimere la Congregazione di S. Marco e di erigere la nuova Congregazione Tosco-romana, nella quale far confluire i conventi vicini a Savonarola. Era, questo, un modo per condizionare e ridimensionare l’operato del frate e allentare il rigore dell’osservanza dei frati a lui vicini, e che egli non accetta perché lo ritiene contrario alle necessità del momento e dannoso per i confratelli. Col pretesto di questo rifiuto – ma soprattutto per le pressioni di una nuova Signoria arrivata al potere a Firenze e nell’ambito di nuovi equilibri internazionali – nel maggio del 1497 il papa scomunica Savonarola, adducendone le cause alla sua disobbedienza e a motivi di eresia impliciti nelle sue prediche e nei suoi scritti. Una nuova Signoria piú favorevole a Savonarola, nei primi del 1498, cerca di far revocare la scomunica; il papa, in cambio, chiede l’ingresso di Firenze nella Lega stretta da alcuni Stati contro la Francia; Savonarola fa sapere la sua opposizione a tale proposta. E la situazione precipita: il frate riprende, nel febbraio, a predicare per spiegare la non validità della con-
danna papale; Alessandro VI risponde minacciando Firenze di interdetto. A metà marzo Savonarola sospende la predicazione per rispettare il desiderio della Signoria. Si apre, cosí, la fase finale della vita del frate. Dopo un tentativo di dimostrare la sua innocenza tramite la prova del fuoco, fissata per il 7 aprile ma non riuscita a causa di un violentissimo temporale, vengono provocati tumulti e, nella notte, in seguito a un assalto al convento di S. Marco, Savonarola viene fatto prigioniero e portato in Palazzo Vecchio, dove è rinchiuso in una cella. Contro di lui, fra l’aprile e il maggio, vengono aperti tre processi: due da parte della Signoria, uno da parte della Chiesa. Fra’ Girolamo non è risparmiato dalla tortura e gli è estorta una confessione fasulla di colpevolezza in base alla quale viene sentenziata la sua condanna a morte. Insieme a lui sono condannati due suoi stretti collaboratori, i frati Domenico Buonvicini e Silvestro Maruffi. Le condanne vengono eseguite il 23 maggio 1498 nella piazza della Signoria. Come Cristo portato sul Calvario, Savonarola non parla. Col silenzio dimostra la sua innocenza e la sua fede: non risponde a chi, provocatoriamente, gli chiede di fare il miracolo di uscire vivo dalla prova che sta subendo. I tre vengono impiccati e bruciati e le loro ceneri disperse nell’Arno.
Dipinto raffigurante il supplizio di Girolamo Savonarola in piazza della Signoria, da un originale di Francesco di Lorenzo Rosselli.
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Dell’impulso dato dai Medici alla produzione artistica è oggi testimonianza l’inestimabile patrimonio di opere ed edifici che si possono ammirare a Firenze e non solo. Una fioritura resa possibile dall’arrivo nella città del giglio di tutti i massimi ingegni dell’epoca di Tommaso Indelli
Nascita di Venere, tempera su tela di Sandro Botticelli, opera simbolo del Rinascimento italiano e della straordinaria fioritura artistica e culturale quattrocentesca di cui fu protagonista Firenze nel periodo della signoria medicea. 1482-1485. Firenze, Galleria degli Uffizi. MEDICI
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a fioritura artistica e culturale della Firenze quattrocentesca fu straordinaria e solo in parte può essere spiegata con il mecenatismo della signoria medicea. Mai città o regione ebbe un numero altrettanto elevato di scrittori, pittori, architetti e artisti di ogni genere. Firenze fu, dunque, la culla dell’Umanesimo italiano ed europeo, cioè di quel rinnovamento dell’arte e della cultura che, ispirato al modello dell’antichità, soprattutto romana, ebbe connotazioni classiciste, ma non si tradusse mai in una sterile imitazione del passato. La classicità, in forme rinnovate, soprattutto dal cristianesimo, secondo gli umanisti, doveva tradursi nell’attualità del presente. Questo nuovo spirito dei tempi indusse i contemporanei a credere di vivere in un’età veramente nuova, totalmente diversa dal passato e non è un caso che proprio agli umanisti si debba, in campo storiografico, l’invenzione del concetto di Medioevo, per indicare i dieci secoli di barbarie precedenti. Per quanto sia difficile, se non impossibile, individuare chi avviò tale fervore intellettuale e culturale, lo si identifica convenzionalmente nel fiorentino Niccolò Niccoli († 1437), considerato il primo umanista, ricercatore e collezionista instancabile di manoscritti antichi. Alla sua morte, l’enorme biblioteca fu incamerata nel patrimonio dei Medici, che, per decisione di
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Cosimo il Vecchio, fu collocata nel convento di S. Marco e aperta al pubblico. Nel XV secolo l’influenza della cultura classica fu visibile ovunque. Si ricordino, nell’architettura, i contributi di Leon Battista Alberti, Filippo Brunelleschi e Michelozzo di Bartolomeo Michelozzi, che fu l’architetto ufficiale dei Medici, per i quali progettò il palazzo signorile di via Larga e le ville di Trebbio, Cafaggiolo e Careggi. Brunelleschi portò a termine la costruzione della cattedrale di Firenze, S. Maria del Fiore, ricoprendola con la sua enorme cupola – la piú grande dell’epoca –, che richiamava l’analoga struttura del Pantheon di Roma.
Il richiamo all’antichità classica
D’altronde, molte realizzazioni artistiche del periodo furono il prodotto dell’osservazione dei monumenti dell’antichità, come dimostra il soggiorno dell’Alberti a Roma. Su espresso interesse di Cosimo de’ Medici, Brunelleschi lavorò anche al rifacimento della chiesa di S. Lorenzo, destinata a diventare il luogo di sepoltura della stirpe medicea. Non solo l’architettura richiamò il mondo classico, ma anche la pittura e la scultura, con riferimento all’armonia e simmetria dell’arte antica, tra l’altro espressamente teorizzate dall’Alberti nei suoi trattati De pictura, De statua e De re aedificatoria, con i quali intese attribuire anche alle arti figurative e costruttive il rango di artes liberales, dando loro dignità intellettuale. Cosimo il Vecchio volle che la cappella di famiglia in Palazzo Medici fosse affrescata da Benozzo Gozzoli con lo splendido Corteo dei Magi (vedi oltre, alle pp. 98-111). La compostezza formale, la chiarezza dei colori, la ricchezza ornamentale del mondo classico emergono anche dalle opere di Sandro Filipepi – il Botticelli –, il cui amore per la cultura classica si riverberò anche in molti suoi dipinti come la Primavera, la Nascita di Venere e Venere e Marte. Molto probabilmente, la musa ispiratrice di molti dei dipinti del maestro fu Simonetta Cattaneo, amante di Giuliano de’ Medici. Da non dimenticare è anche l’opera pittorica di Filippo Lippi, frate carmelitano, autore della Madonna, in Palazzo Medici, e della splendida Annunciazione, nella basilica di S. Lorenzo, opera in cui la leggerezza dei colori richiamava il fresco naturalismo del Beato Angelico, frate domenicano, autore degli splendidi affreschi del convento di S. Marco, ispirati a temi di storia sacra. Nella scultura non può tacersi il contributo di figure come Lorenzo Ghiberti, Donatello e Andrea del Verrocchio. Ghiberti collaborò con Brunelleschi ai lavori per la cattedrale e scolpí la
Uno scorcio del Palazzo Medici Riccardi a Firenze, opera dell’architetto toscano Michelozzo di Bartolomeo Michelozzi. Nella pagina accanto, in alto la basilica di S. Lorenzo in un’illustrazione del Codice Rustici. XV sec. Nella pagina accanto, in basso la cattedrale di S. Maria del Fiore, coronata dalla cupola progettata da Filippo Brunelleschi, la piú grande dell’epoca.
seconda e la terza porta del battistero fiorentino, ornate con formelle bronzee a soggetto sacro. Donatello, scolpí, tra le altre cose, le porte per la sacrestia vecchia in S. Lorenzo e la cantoria del Duomo fiorentino, lavorando molto anche al di fuori di Firenze, per esempio a Padova, dove scolpí la statua equestre di Erasmo da Narni e il Crocefisso nel Duomo. Al Verrocchio – nella cui bottega mosse i primi passi il giovane Leonardo da Vinci – si deve la tomba di Piero de’ Medici in S. Lorenzo e, a Venezia, la statua equestre di Bartolomeo Colleoni. Si noti che i Medici non fecero alcuna opposizione a che la cultura fiorentina fosse esportata anche al di là dei confini di Firenze, dai suoi rappresentanti. Anche la letteratura dell’epoca fu pervasa dal clima classicista imperante, eppure l’uso diffuso del latino come lingua letteraria non impedí lo sviluppo di una copiosa produzione in volgare, cioè in fiorentino letterario. Forte era l’esempio offerto dalla letteratura MEDICI
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Madonna col Bambino (Madonna di Palazzo Medici Riccardi), tempera su tavola di Filippo Lippi. 1466-1469. Firenze, Palazzo Medici Riccardi. Rinvenuta ai primi del Novecento nell’ospedale psichiatrico San Salvi di Firenze, si ritiene sia appartenuta alla famiglia Riccardi che nel XVII sec. acquistò il palazzo mediceo. 96
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dantesca, petrarchesca e boccaccesca, nella cui scia si moltiplicarono opere di studio e di commento, come il Comento sopra la Comedia, scritto nel 1481 da Cristoforo Landino. E proprio a Firenze, nel 1441 e su iniziativa dell’Alberti, si svolse in S. Maria del Fiore il primo certamen coronarium, gara poetica in volgare sul tema dell’amicizia. L’iniziativa non sortí alcun effetto pratico, dato che la giuria incaricata di valutare gli elaborati non assegnò il premio previsto per il vincitore – una corona di alloro in argento –, ma sul piano simbolico rappresentò un momento importante nell’affermazione del volgare, cioè dell’italiano dell’epoca, come lingua avente dignità letteraria.
Anche Lorenzo de’ Medici fu prolifico scrittore in volgare, autore di sonetti e liriche amorose, in parte dedicati alla sua amante, Lucrezia Donati, di un dramma religioso – Sacra rappresentazione di S. Giovanni e Paolo – di un trattato filosofico – Il Comento – di poemi in genere di ambientazione rustica – L’uccellagione di starne, Nencia da Barberino, Simposio – e di raccolte liriche, come i Canti carnascialeschi e le Canzoni a ballo. Nella cerchia di Lorenzo gravitarono scrittori come Angelo Poliziano e Luigi Pulci, entrambi prolifici autori in volgare. Del primo si ricordino i poemi Stanze per la giostra del magnifico Giuliano di Piero de’ Medici e la Fabula di Orfeo; del secondo, invece, il Morgante, dissacrante parodia del poema epico e dei valori cavallereschi. Preferirono il latino Leonardo Bruni e Poggio Bracciolini, intellettuali impegnati in politica come cancellieri della repubblica.
Caccia ai manoscritti
Bracciolini e Bruni rinverdirono l’uso della storiografia e della declamazione retorica come strumenti celebrativi delle glorie della propria città, come traspare dalle Historiae florentini populi e dalla Laudatio florentinae urbis, di Bruni, e dalle Historiae florentini populi di Bracciolini. Si ricordi, inoltre, che gran parte di questi studiosi furono anche infaticabili ricercatori di manoscritti di opere antiche di cui, molto spesso,
A destra Firenze, S. Maria del Fiore. Fregio della Cantoria di Donatello, con la danza sfrenata dei putti che, secondo alcune interpretazioni, riecheggerebbe temi dionisiaci. 1433-1438. Nella pagina accanto, a destra la cattedrale fiorentina in una raffigurazione del Codice Rustici. XV sec.
curarono la trascrizione in volgare o la traduzione dal greco in latino o, addirittura, l’edizione critica. Molto attiva nella pubblicazione di edizioni critiche degli antichi manoscritti fu l’officina libraria fiorentina di Vespasiano da Bisticci, che fu anche autore di Vite di Fiorentini e uomini illustri, scritte in volgare. La diffusione della cultura fu favorita anche dall’avvento della stampa, con l’apertura, a Firenze, della prima tipografia, a opera di Bernardo Cennini, e dal trasferimento, in città, di molti intellettuali di provenienza greca, in fuga dall’espansione ottomana seguita alla conquista di Costantinopoli. Tra questi è da ricordare Giovanni Argiropulo, precettore del Magnifico e traduttore dal greco in latino di molti manoscritti come l’aristotelico De anima. Alla corte medicea non fu estraneo lo sviluppo degli studi filosofici, a opera di intellettuali del calibro di Marsilio Ficino e Pico della Mirandola, i quali promossero un rinnovamento della filosofia, abbandonando le speculazioni della scolastica medievale. Vi fu dunque una rinascita del pensiero classico, ma sempre in una prospettiva attualizzante, sincretica, che non disdegnava l’apporto della cultura cristiana, della magia, dell’alchimia e della cabala ebraica. La convinzione di base era che vi fosse, al mondo, una sola grande tradizione sapienziale, che, senza soluzione di continuità, muoveva dall’origine dell’uomo e che, nelle varie culture, aveva poi
assunto aspetti diversi, ma che era compito del filosofo autentico ricondurre a unità. A Ficino si deve anche la fondazione, nella villa di Careggi, di una vera e propria Accademia platonica, cenacolo al quale partecipò anche Pico, ingegno poliedrico, autore dell’importante trattato De hominis dignitate. A Marsilio e a Pico la cultura umanistica deve la traduzione, dal greco in latino, di molti dialoghi platonici, ma anche di opere di altri filosofi antichi. Al pensiero di Ficino e di Pico appartiene l’esaltazione antropocentrica delle potenzialità creatrici dell’uomo, autentico soggetto della storia ed elemento centrale dell’universo, in grado di congiungere il mondo spirituale con quello naturale in quanto microcosmo, sintesi perfetta tra un elemento immortale, l’anima, e il corpo, elemento corruttibile e materiale. Da ciò discende, sul piano etico, la possibilità dell’essere umano – in quanto dotato di libero arbitrio – di ascendere, attraverso la sapienza e la contemplazione della bellezza, al bene, cioè verso la divinità, o discendere verso il male, cioè verso la ferinità. D’altronde, per gli umanisti l’universo, di cui l’uomo è parte, era un’entità organica e ordinata, in cui ogni elemento, collocato al giusto posto, svolgeva una funzione utile per tutti gli altri: per questo motivo anche l’astrologia e la magia avevano la loro utilità, come strumenti per penetrare e conoscere questa simpatia universale. MEDICI
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Il corteo delle meraviglie
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Grazie a una dispensa papale, i Medici furono i primi a poter disporre di una cappella privata nel proprio palazzo. Già nobilitato dal progetto architettonico di Michelozzo di Bartolomeo, quel luogo fu trasformato in uno dei capolavori dell’arte di ogni tempo grazie alla spettacolare cavalcata dei Magi dipinta da Benozzo Gozzoli di Chiara Mercuri
Firenze. Palazzo Medici Riccardi, Cappella dei Magi. La parete Est, con il segmento terminale della processione guidato da Gaspare: alle sue spalle vi sono personaggi noti, tra cui vari membri della famiglia Medici. Il dipinto è opera dell’artista fiorentino Benozzo Gozzoli, che realizzò le pitture nel 1459. MEDICI
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Santa Croce
Uffizi
DOVE E QUANDO
A destra, sulle due pagine l’angolo tra la parete Ovest e la parete Sud della cappella, sulle quali si snodano, rispettivamente, il gruppo guidato da Melchiorre e quello capeggiato da Baldassarre. A sinistra, in basso uno scorcio della corte interna di Palazzo Medici Riccardi. La sfarzosa dimora sorse alla metà del Quattrocento, per volere di Cosimo il Vecchio e su progetto di Michelozzo.
PALAZZO MEDICI RICCARDI Cappella dei Magi Firenze, via Cavour 3 Orario tutti i giorni, 9,00-19,00; chiuso il mercoledì Info l’ingresso alla cappella è limitato a un massimo di 10 visitatori; è possibile prenotare telefonicamente, rivolgendosi allo 055 2760552; e-mail: info@palazzomediciriccardi.it; www.palazzomediciriccardi.it/
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occe scoscese, foreste lussureggianti e cipressi svettanti si perdono all’orizzonte di un cielo turchino che fa da sfondo allo scorrere di un corteo fitto di animali esotici e di uomini che indossano vesti trapuntate in oro, tuniche damascate e farsetti in seta rosa. Al centro di questo paesaggio incantato e quasi fiabesco, tre principi a cavallo guidano il corteo: sono i Re Magi. Dietro di loro si nascondono, in filigrana, i ricchi committenti dell’opera: i Medici. Ma facciamo un passo indietro, e cerchiamo di capire perché i Medici, potenti banchieri fiorentini, avessero scelto i Magi come icona. A progettare la costruzione di un nuovo palazzo, destinato a diventare la sede definitiva della famiglia fu Cosimo il Vecchio, vero responsabile dell’espansione finanziaria della sua casata e, nei fatti, primo signore di Firenze. All’interno
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dell’edificio volle aprire anche una cappella privata, sulle cui pareti l’artista fiorentino Benozzo Gozzoli affrescò poi la cavalcata dei Magi. Il palazzo di via Larga fu l’unica dimora medicea a possedere una cappella privata: fino ad allora, l’autorizzazione ad aprirne una era stata concessa solo a principi e signori e, a quella data, almeno formalmente i Medici sono ancora semplici cittadini. Lo straordinario privilegio è frutto di una dispensa accordata nel 1422 da papa Martino V.
I migliori artisti del momento
Oltre a venire incontro alle naturali esigenze di riservatezza, dettate dallo status sociale dei proprietari, simili luoghi di culto si trasformavano spesso in vetrine del proprio sfarzo. Il progetto e la decorazione di tali edifici veniva-
no perciò affidati agli architetti e ai pittori piú in vista del momento, e le stesse reliquie e suppellettili che vi trovavano posto avevano sempre un enorme valore pecuniario. Cosimo il Vecchio si era già distinto per le sontuose opere di restauro di varie chiese cittadine, e S. Lorenzo e S. Marco erano divenute i luoghi simbolo del mecenatismo mediceo. Intorno al 1444, quando avviò la realizzazione del nuovo palazzo, scelse la via Larga, poiché si trattava di una zona strategica: situata, infatti, tra la Cattedrale e il Battistero, era teatro delle processioni civiche e religiose cittadine, che, da allora si trovarono a passare davanti alla dimora medicea. I contemporanei lo descrivono come «un palazzo che arrivava fino al cielo» e anche papa Pio II – a sua volta artefice di committenze sontuose – non esitò a definirMEDICI
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GASPARE Il piú giovane dei Magi veste un elegante abito bianco, che, come gli altri che si possono vedere nell’affresco, è una testimonianza eloquente dello sfarzo diffuso presso le classi piú abbienti.
lo «degno di un re». La facciata bugnata e splendidamente decorata, i suoi giardini profumati ne facevano la mostra permanente della potenza della ricchissima famiglia. Questo capolavoro dell’arte e dell’architettura rinascimentale fu ultimato in anni di grande turbolenza per i committenti. Nel 1456, infatti, alcune famiglie patrizie, che mal sopportavano l’enorme prestigio raggiunto da Cosimo il Vecchio – che, di fatto, controllava Firenze attraverso uomini di sua fiducia posti in punti chiave del governo cittadino – decisero di destituire uno dei suoi, il capace cancelliere Poggio Bracciolini; seguirono, poi, congiure e insurrezioni, tese a spodestare lo stesso Cosimo. Quest’ultimo allora, da signore generoso e munifico, si fece duro e spietato, instaurando, con la forza e con l’aiuto dei suoi potenti alleati, gli Sforza di Milano, un governo giudicato «insopportabile e violento» da Niccolò Machiavelli, che pure lo aveva lodato in piú di un passo delle sue opere. 102
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ALDASSARRE Raffigurato con i tratti B di un uomo dalla pelle scura, in età matura, indossa abiti in broccato verde e reca una corona d’oro, ornata da piume verdi, bianche e rosse (i colori dei Medici). È stato ipotizzato che in lui si possa identificare l’imperatore bizantino Giovanni VIII Paleologo (vedi «Medioevo» n. 222, luglio 2015).
Qui sopra, sulle due pagine fotomosaico che mostra lo sviluppo delle pitture realizzate da Benozzo Gozzoli. Nella pagina accanto, in basso particolare della parete Est in cui compare il ritratto di Cosimo il Vecchio.
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ELCHIORRE Il piú anziano dei Magi M ostenta una lunga barba di foggia orientale e veste un sontuoso abito in broccato oro e cremisi, simile a quello dei fanciulli che lo accompagnano.
IL CUORE SACRO DEL PALAZZO erché è importante P Il palazzo mediceo di via Larga fu il primo a possedere una cappella privata, grazie a una dispensa di papa Martino V (1422). La cappella ebbe anche una funzione pubblica, in quanto centro sacrale della casa in cui si ricevevano gli ospiti illustri, anche in udienza. La basilica nella storia La cappella fu costruita, insieme al palazzo, nel 1444, da Cosimo de’ Medici, detto Il Vecchio, che ne affidò la progettazione all’architetto Michelozzo di Bartolomeo. L’edificio è una delle prime
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espressioni dell’architettura rinascimentale fiorentina (ma la struttura oggi visibile è frutto di un ampliamento promosso nel Seicento). La basilica nell’arte Il ciclo di Benozzo Gozzoli è uno dei maggiori capolavori dell’arte medievale per la ricchezza dei materiali impiegati, in particolare gli ori e gli azzurri, all’epoca costosissimi. Stupisce la complessità delle sinopie, dettagliate fin nei minimi particolari, e sovrabbondanti di personaggi, specie vegetali e animali.
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A sinistra due dei tre giovani che fanno parte della scorta di Baldassarre: montano bianchi cavalli e indossano lussuosi broccati oro e avorio e copricapi con piume rosse e blu. A destra particolare della gualdrappa del cavallo di Piero, sulla quale compare lo stemma mediceo, composto da tre piume e sette palle d’oro, accompagnato dal motto «SEMPER».
Nel luglio del 1459, quando fu scelto Benozzo Gozzoli per iniziare i lavori di affrescatura della cappella, l’artista fiorentino ebbe il compito non dichiarato di celebrare la famiglia dei Medici. Benozzo si rivelò molto abile nell’individuare – se non la tematica, probabilmente scelta dai committenti – il taglio da dare alla composizione. Appare inusuale, per esempio, la decisione di non rappresentare il momento dell’adorazione del Bambino da parte dei Magi. Il corteo di Benozzo, infatti, non giunge ad alcun presepe – com’era normale nell’iconografia dei Re venuti dall’Oriente –, ma è colto solo nel momento del viaggio. Segno evidente che al pittore interessava raffigurare unicamente la cavalcata verso Betlemme, cosí da poter celebrare i Medici – che seguono il corteo – come moderni sovrani.
Quindici giorni di feste
Nel portare a termine quest’opera di esaltazione, Benozzo venne aiutato dal ricordo, ancora vivo nella mente dei contemporanei, di una serie di avvenimenti storici che ben si prestavano a creare il collegamento «Medici-Magi». Il suo lavoro iniziò, infatti, nel 1459, a ridosso di un grande evento: Pio II aveva convocato a Firenze, presso i Medici, Galeazzo Maria Sforza e Sigismondo Malatesta da Rimini, per discutere dell’indizione di una nuova crociata. Nei quindici giorni della loro permanenza, la città divenne teatro di ostensioni e processioni solenni, di banchetti sontuosi e feste che culminarono in una giostra organizzata nella piazza di Santa Croce, con piú di 300 partecipanti.
Piero, figlio di Cosimo, sfruttò l’organizzazione di quelle giornate per fare mostra del peso raggiunto dalla propria casata. Gli ospiti furono alloggiati, con ogni onore, nell’appena costruito palazzo di via Larga e l’evento trovò eco nei diari e nelle cronache dell’epoca, che parlarono della dimora dei Medici come di un «palazzo pieno di meraviglia» con i suoi giardini ornati di specie botaniche rare; riferirono anche di un’esotica battuta di caccia con giraffe e leoni, tenuta in onore dei duchi di Milano. Nell’occasione la cappella palatina fu usata come luogo d’udienza e qui si tennero gli incontri ufficiali tra i convenuti. All’epoca le sue pareti si presentavano ancora spoglie, in quanto Benozzo Gozzoli iniziò a decorarvi il viaggio dei Magi solo tre mesi piú tardi, quando ancora, però, il passaggio dei principi di Milano e di Rimini, accolti con fasto e liberalità dalla famiglia medicea, risuonava nella memoria dei Fiorentini. Un secondo accadimento storico aveva lasciato ricordi indelebili, destinati a riecheggiare nelle sinopie di Benozzo Gozzoli. Nel 1439 il concilio per la riunificazione della Chiesa d’Oriente e d’Occidente, grazie agli sforzi della Repubblica fiorentina e della famiglia Medici, era stato spostato da Ferrara a Firenze. Qui i Medici erano stati solleciti nell’offrire ospitalità ai partecipanti, sovvenzionandone le spese con ingenti somme di denaro. L’ingresso a Firenze del patriarca di Costantinopoli e dell’imperatore d’Oriente, seguiti dai loro sontuosi, quanto esotici, corteggi suscitò uno stupore enorme nella comunità cittadina. Alla fine del Medioevo, si era soliti festeggiare MEDICI
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il giorno dell’Epifania attraverso cortei rievocativi: dietro ai Magi a cavallo si muoveva la cittadinanza abbigliata con vesti orientaleggianti. Le famiglie piú in vista della città erano particolarmente sollecite nel curare la fedeltà del proprio abbigliamento alla foggia orientale, scegliendo le stoffe piú preziose, gli accessori piú lussuosi e gli animali piú rari o comunque da caccia, da esibire in processioni che si trasformavano puntualmente in vere e proprie parate. Famoso, nelle cronache bassomedievali, rimase il ricordo del corteo organizzato a Milano dalla famiglia Visconti, per l’Epifania del 1336: seguendo una stella issata su un’asta, la cittadinanza attraversò la città, spostandosi da S. Lorenzo a S. Eustorgio.
Un committente poco puntuale
Se il nuovo palazzo nacque per volere di Cosimo, il vero committente della decorazione della cappella va identificato con suo figlio Piero. Fu lui ad affidarne l’affrescatura a Benozzo Gozzoli, come dimostrano le lettere dell’artista che lamentano il mancato acquisto di materiali richiesti: 1500 fogli d’oro genovesi per le corone e le livree dei principi e il costosissimo azzurro veneziano per le vesti dei serafini. Ritardi di pagamento che il pittore lamenta anche per il suo stesso salario che – a giudicare dalle lettere – gli viene centellinato da Piero con voluta incuria. A opera ultimata, l’artista fiorentino mostrò di aver ben intessuto la sua trama dai molteplici significati simbolici che la scelta del tema iconografico dei Magi si proponeva di sintetizzare. Come abbiamo detto, la scelta originaria dovette essere dei committenti che, in passato, avevano già mostrato una particolare devozione verso i Magi, rappresentati nella cella assegnata a Cosimo nel complesso di S. Marco, che, come già detto, egli fece restaurare a sue spese. In quel caso, la realizzazione era stata affidata da Cosimo all’ancora vivente Beato Angelico, che aveva voluto come assistente Benozzo Gozzoli. Non stupisce, dunque, che quando si trattò di scegliere un artista per affrescare le pareti della propria cappella privata, Cosimo e il figlio Piero si fossero rivolti a uno degli allievi prediletti del defunto maestro. S. Marco, inoltre, era nota per essere la sede della Compagnia de’ Magi, che ogni anno organizzava, in occasione del 6 gennaio, il corteo rievocativo nella città di Firenze, e attestata storicamente è la partecipazione di Cosimo a una di queste processioni, quella del 1450, quando venne descritto dalle fonti dell’epoca, come un principe, vestito in 106
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Particolare della parete Est, nella quale sfila il corteo di Gaspare. Fra i personaggi che lo compongono, Benozzo Gozzoli ha ritratto se stesso, inserendo sul copricapo, a mo’ di firma, la scritta «Opus Benotii» (vedi foto alla pagina accanto).
abiti magnifici: «Una splendida tunica ornata di zibellino e martora polacca». Il corteo era solito partire dal Palazzo Vecchio e arrivare appunto in S. Marco, dove vigeva l’uso di deporre le offerte davanti a una mangiatoia. In tale occasione i Medici erano particolarmente prodighi al fine di essere equiparati, nella splendida munificenza, ai re venuti dall’Oriente. La figura dei Magi, inoltre, rivestiva anche una simbolica apocalittica, una tematica molto apprezzata dai signori laici, i quali miravano a suggerire l’idea di una durata permanente del potere della propria famiglia. In quanto testimoni del primo Avvento di Cristo, i Magi furono associati anche al suo secondo Avvento sulla scena del mondo, quando sarebbe tornato per dare inizio al giudizio finale. Nella cappella tale richiamo è reso evidente dalla rappresentazione, sopra il portale, dei sette
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DALLA SENNA ALL’ARNO Nella cappella medicea si apre una piccola sala quadrangolare, sul cui lato settentrionale si trovava il sancta sanctorum. In esso era posto l’altare, dove, fino alla cacciata dei Medici, nel 1494, si conservava il reliquiario del Libretto, con le reliquie della Passione. Il manufatto si trova oggi nel Museo dell’Opera del Duomo di Firenze. È in oro e avorio intarsiato e proviene dalla Sainte-Chapelle di Parigi, dal cui tesoro furono stornate le reliquie. La provenienza regia delle reliquie medicee, acquisite da Piero, intendeva suggerire il legame ideale tra la cappella del palazzo mediceo e la cappella privata del re di Francia. Il potere laico dei Medici voleva emulare un altro grande potere laico, quello della corona di Francia, che tramite le reliquie di Cristo aveva voluto ammantarsi di un’aura sacrale.
Il reliquiario del Libretto, manufatto realizzato a Parigi nella seconda metà del XIV sec. e poi inserito nella teca realizzata da Paolo di Giovanni Sogliani nel 1500-1501, che tuttora lo custodisce. Firenze, Museo dell’Opera del Duomo.
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candelabri apocalittici e dell’agnello mistico, accovacciato sopra un drappo su cui pendono i sette sigilli che si sarebbero rotti prima dello squillo della tromba.
Il viaggio verso Betlemme
L’adorazione dei Magi era una delle rappresentazioni piú antiche dell’arte cristiana a cominciare dalle catacombe. Essi si presentavano, infatti, a rivestire molteplici significati allegorici: incarnavano le tre fasi dell’umanità (la divinità, lo spirito, il corpo); le sue diverse etnie, le tre diverse dimensioni temporali del passato, del presente e del futuro e, in particolare, le tre età dell’uomo, la giovinezza, la maturità e la vecchiezza. Tuttavia, come abbiamo accennato, il tema scelto da Benozzo non era quello assai diffuso dell’adorazione presso il Bambino, ma quello, meno rappresentato, del viaggio-corteo di avvicinamento a Betlemme. Un soggetto che dava la possibilità di celebrare il mondo mercantile al quale i Medici appartenevano, poiché i Magi, nella loro accezione di pellegrini, erano i naturali patroni dei viaggiatori e dunque dei mercanti, sempre in movimento per i loro commerci. Tale tematica, inoltre, lasciava un notevole spazio all’esotico, grazie alla definizione evangelica dei «Magi venuti dall’Oriente». Ciò permetteva di inserire nelle vesti, nei paesaggi, negli animali quegli elementi atti a soddisfare il bisogno di meraviglioso dell’uomo medievale, per necessità piú stanziale di quello contemporaneo. La cavalcata dei Magi era dunque il tema che meglio si prestava a celebrare i Medici. Il corteo dei Magi ricordava in maniera efficace gli spostamenti della famiglia, seguita da servi, amici, alleati e cortigiani, che i Fiorentini erano abituati a vedere per le strade della città. Infine, come abbiamo visto, il viaggio dei Magi richiamava scene di vita della Firenze quattrocentesca, dove, come in molte altre città e borghi italiani, era consuetudine celebrare le feste del calendario liturgico, in particolare quella dell’Epifania, con pie rievocazioni. Un uso peraltro ancora vivo, come mostrano in tutta Italia le molte rappresentazioni di presepi viventi nel tempo natalizio o della Passione di Gesú in quello pasquale. La cappella è edificata su pareti doppie, una scelta costruttiva a cui si deve il perfetto stato di
conservazione degli affreschi. Essa risultava poco illuminata, in quanto la luce filtrava solo da due oculi, destinati a lasciarla perennemente in penombra. L’effetto era probabilmente voluto, come sembra attestare il grande impiego, nei dipinti, di rivestimenti in metallo, oro e argento, atti a brillare alla luce delle fiaccole. Nel 1659, quando la famiglia Riccardi acquistò Palazzo Medici, furono aperte due finestre, una delle quali poi murata nel 1929, che cambiarono l’illuminazione dell’edificio.
Fedele al Vangelo
I re Magi procedono in corteo secondo le loro rispettive età: in testa il piú anziano Melchiorre, in mezzo Baldassarre, e infine il mago piú giovane, Gaspare. La loro cavalcata prende avvio dalla parete orientale, proprio come nel racconto evangelico. Nella parete Est, dunque, si trova la coda del corteo, la cui testa è posta
Due dei personaggi che chiudono il lungo corteo alla cui testa cavalca Gaspare: ne fanno parte, come in questo caso, uomini con turbanti e altri curiosi copricapi, scelti come evocazione delle mode esotiche a cui rimandava la tradizione dei Magi, venuti dall’Oriente.
nella parete Ovest. Qui il re piú anziano, dalla lunga barba di foggia orientale, Melchiorre, apre la cavalcata ed è, quindi, quello piú vicino a Gesú Bambino. Si presenta vestito in broccato oro e cremisi, come i fanciulli che lo accompagnano. La cavalcata sale sulla collinetta con un affollato gruppo di persone che si perdono in lontananza: uomini con turbanti, muli e cavalli s’inerpicano carichi di casse, guidati da Africani in groppa a cammelli, efficaci nel richiamare i commerci. La scena continua nella parete adiacente, tra colline e montagne dove, a differenza che nella scena precedente, a dominare non sono gli uomini ma la natura rigogliosa e silente, interrotta solo di rado da fugaci segni antropici: qualche sperduto castelletto in pietra. Qui si assiste al trionfo dello stile proprio di Benozzo, con la celebrazione del paesaggio naturale, in questo caso uno squarcio tipico degli AppenMEDICI
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Un ghepardo accovacciato sulla sella di uno dei personaggi che precedono il corteo di Melchiorre. La sua presenza allude alle molte bestie esotiche che i Medici vollero per il proprio palazzo, cosí da conferirgli un tocco di esotismo capace di accrescere lo stupore dei propri ospiti.
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nini toscani con i suoi pini, cipressi e prati erbosi. Protagonista della composizione è Baldassarre, il quale indossa abiti in broccato verde e reca una corona d’oro, ornata da piume verdi, bianche e rosse (i colori dei Medici). I giovani che lo affiancano indossano tuniche damascate verdi bordate in oro da cui fuoriescono ampie camicie e calzamaglie rosse e blu. Il mago è inoltre seguito da un terzetto di giovani su bianchi cavalli, vestiti in modo identico: lussuosi broccati oro e avorio e copricapo con piume rosse e blu. Dietro Baldassarre sono visibili scene di caccia che sembrano voler celebrare l’epopea signorile. La processione prosegue e termina sulla parete
orientale col giovane Gaspare, scortato questa volta da personaggi noti. Si tratta dei membri della famiglia Medici, collocati in una posizione preminente alla fine del grande corteo: Cosimo, che indossa una tunica di broccato blu intenso, cavalca un mulo in segno di umiltà. La sua fisionomia ricalca quella di una medaglia realizzata all’epoca in suo onore. Vicino al padre, Piero indossa una veste di velluto verde e oro, e monta un cavallo bianco, la cui gualdrappa rossa reca lo stemma della casata medicea: tre piume, sette palle d’oro, il motto «SEMPER» («Sempre») che doveva ribadire l’eternità del potere della famiglia, già suggerita, come già abbiamo visto, dall’agnello dell’Apocalisse.
LA TAPPA FINALE Nella cappella medicea, Benozzo Gozzoli non rappresentò l’adorazione dei Magi presso il presepe, ma il loro viaggio di avvicinamento a Betlemme. La meta finale del corteo è rappresentata da una pala d’altare dipinta da Filippo Lippi. Il bambino giace nudo su un prato erboso e fiorito, accanto alla madre, la Madonna, sullo sfondo di una fitta foresta di alberi dai colori scuri, che suggeriscono una cupa profondità, sulla quale si stagliano figure quasi trasparenti e sospese. Esse sembrano additare, in controluce, il significato simbolico dell’opera: sopra al Bambino, vi è la colomba dello Spirito Santo, sovrastata da Dio-Padre. Rappresentazione, dunque, della Trinità, probabile eco della discussione svoltasi in quegli anni tra Chiesa d’Oriente e d’Occidente durante il concilio di Firenze del 1439. Tale dipinto fu sostituito con una copia nel 1494, anno della cacciata dei Medici, e oggi si trova nella Gemäldegalerie di Berlino. La copia, presente oggi nella cappella, è attribuita allo pseudo Pietro Francesco Fiorentino.
Il sancta sanctorum della Cappella dei Magi (a destra), il cui altare è sormontato dalla copia (in basso) della pala di Filippo Lippi e nota come Adorazione di Palazzo Medici. Quest’ultima si data tra il 1455 e il 1459 e l’originale è oggi conservato a Berlino, presso la Gemäldegalerie degli Staatliche Museen.
Alle spalle di Piero sono ritratti i due figli, Lorenzo e Giuliano, che all’epoca avevano dieci e sei anni. I Medici appaiono inoltre in compagnia dei loro alleati, Sigismondo Pandolfo Malatesta e Galeazzo Maria Sforza, ritratti anch’essi in abiti lussuosi dai colori brillanti, rifiniti in oro, a celebrare il potere e la ricchezza delle rispettive casate. Anche Benozzo si autoritrae per ben due volte in mezzo al corteo con la scritta sul copricapo «Opus Benotii», vera firma della sua opera. Nel corteo di Gaspare compaiono inoltre molte bestie esotiche: scimmie, cammelli, ghepardi. Le stesse che i Medici avevano scelto per arricchire le proprie abitazioni private, suscitando lo stupore e la curiosità cittadina. Oltre agli animali esotici, abbondano in questa parte del corteo anche i cavalli carichi di merci, omaggio reso alla ricchezza e alla liberalità della potente famiglia fiorentina. Si chiude cosí la prima parte del programma iconografico della cappella, dedicato al corteo dei Magi, la seconda invece, è dedicata all’adorazione del Bambino, non da parte dei Magi (ancora in viaggio verso Betlemme), ma degli angeli, qui rappresentati mentre intrecciano ghirlande sullo sfondo di un paesaggio idilliaco, probabilmente il Paradiso. MEDICI
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Una casa per il sapere del mondo
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L’idea di dare un degno asilo ai manoscritti della propria collezione, già accarezzata da Lorenzo il Magnifico, divenne realtà con Giulio, il futuro papa Clemente VII. Che per realizzare la biblioteca di famiglia si rivolse a uno dei massimi artisti del tempo, Michelangelo Buonarroti di Donatella Lippi
La Sala di lettura della Biblioteca Medicea Laurenziana. È arredata da due file di banchi lignei, detti plutei, realizzati agli inizi del Cinquecento. Al centro risalta il pavimento in terracotta rossa e bianca decorato con simboli araldici legati alla famiglia dei Medici. Gli stessi motivi sono ripetuti sul soffitto intarsiato progettato da Michelangelo e compiuto da Battista del Tasso e Marco di Giano.
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lla Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze si accede attraverso una scala, che, dal chiostro dei Canonici, conduce al chiostro superiore, mentre l’ambiente detto Ricetto o Vestibolo, caratterizzato da una architettura molto particolare, immette nell’antica Sala di lettura. Il progetto della biblioteca, vagheggiata da Lorenzo il Magnifico (1449-1492), fu affidato a Michelangelo Buonarroti (14751564) dal nipote Giulio (1478-1534), divenuto papa col nome di Clemente VII (1523). I lavori ebbero inizio nel 1524, ma, allontanatosi Michelangelo da Firenze e scomparso l’illustre committente, si interruppero dieci anni piú tardi, per poi riprendere sotto il ducato di Cosimo I (1519-1574), e, proprio durante il governo del primo granduca mediceo, la biblioteca venne aperta al pubblico, nel 1571. Il Vestibolo rappresenta una sorta di passaggio, reale e simbolico, nei locali destinati al Sapere e, infatti, si caratterizza per la verticalità delle sue pareti, divise in tre ordini, con doppie colonne incassate nel muro, mensole a voluta, finestre a edicola timpanate e incorniciate da lesene, eccezionalmente rastremate verso il basso. La scalinata, che in origine Michelangelo immaginò in legno di noce, fu eseguita, invece, nel 1559, da Bartolomeo Ammannati (1511-1592), su un modello dello stesso Buonarroti, in pietra serena, un’arenaria dalla grana finissima e dalla particolare coloritura azzurrina, cavata nella valle del torrente Mensola (tra Firenze e Fiesole, n.d.r.). La scala, che sembra quasi compressa, vista la vicinanza alle pareti, è stata considerata un’invenzione particolarmente originale. Paragonata a una colata di lava o a un fiume in
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Situata a pochi metri dal duomo della città, la biblioteca dei Medici fu edificata all’interno del complesso di S. Lorenzo. La basilica dedicata al martire fu consacrata da sant’Ambrogio alla fine del IV sec. L’aspetto attuale è frutto delle ristrutturazioni e degli ampliamenti del XV sec. affidati a Filippo Brunelleschi e completati dal suo allievo Antonio Manetti Ciaccheri.
piena, per la sua forma travolgente che contrasta con lo spazio a disposizione, presenta una struttura a pontile e una forma tripartita, con rampa centrale a gradini ellittici, dominata dalle linee curve, diversamente dalle due laterali. Michelangelo aveva pensato questo accesso «per il Signore [Cosimo I]» e quelle laterali per i «profani», le quali ultime «non vorrei ch’avessin nella estremità balaustri, come la principale, ma fra ogni dua gradi un sedere». 114
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Non a caso, Giulio Carlo Argan, nella sua Storia dell’arte italiana (1968) considera la sala e il vestibolo della Laurenziana come il punto di partenza dell’architettura del manierismo: di un’architettura, cioè, non piú rivolta a imitare o ripetere nella propria struttura la struttura dell’universo o a costruire uno spazio che fosse l’immagine razionale della natura. Questo ambiente, dalla forte valenza simbolica, in quanto concepito come una ouverture oscura, che avrebbe do-
vuto introdurre alla luce della Sala di lettura, simbolo dei lumi della conoscenza, rimase, però, incompleto fino agli inizi del Novecento, quando furono terminati i lavori della facciata esterna, con l’apertura di false finestre. Solo tra il 1894 e il 1905, infatti, fu completato il secondo ordine e vi furono aperte le finestre, le cui vetrate recano, in alcuni esemplari, i motivi araldici di casa Savoia. E, solo agli inizi del XX secolo, nel 1904, il soffitto ligneo a capriate del Vestibolo fu
In alto miniatura raffigurante Plinio il Vecchio che svolge un rotolo con la dedica all’imperatore Tito della propria opera, da un’edizione della Naturalis Historia. Realizzato nel XIII sec., il manoscritto si trovava in un convento domenicano di Lubecca quando fu acquistato intorno al 1430 dai Medici. Tutti manoscritti riprodotti in queste pagine fanno parte dei fondi della Biblioteca Medicea Laurenziana.
coperto con un telo dipinto, opera del pittore bolognese Giacomo Lolli (1857-1931), a imitazione del soffitto ligneo della Biblioteca.
Per la lettura e la custodia dei codici
Sviluppata orizzontalmente a differenza del Vestibolo, la Sala di lettura, presenta un particolare tipo di arredo, in quanto è scandita da due file di banchi lignei con seduta, leggio e spazio per la custodia dei codici, chiamati plutei (dal latino pluteus, «leggío», «scansía»), che avevano la duplice funzione di agevolare la lettura e tutelare i codici. I plutei vennero realizzati, secondo la testimonianza di Giorgio Vasari, dagli intagliatori Giovan Battista del Cinque e Ciapino, seguendo i disegni di Michelangelo, nella prima metà del Cinquecento. Realizzati in legno di recupero, rivestito in noce, sono complessivamente ottantotto: gli ultimi due sono doppi, con leggii e sedili affrontati. A MEDICI
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DAL PRIMO NUCLEO ALLA FISIONOMIA MODERNA Se è vero che la nascita della Biblioteca Medicea Laurenziana si deve a Cosimo il Vecchio (13891464), appassionato bibliofilo, che considerava i libri suoi compagni di viaggio, tanto da portarne spesso con sé nei suoi spostamenti, tutta la dinastia medicea è stata impegnata nell’arricchimento della raccolta di questa biblioteca, che ha seguito le alterne vicende del casato fiorentino. Nel 1495, esiliati i Medici, la biblioteca fu venduta ai frati del convento di S. Marco, per poi essere recuperata dal cardinale Giovanni de’ Medici, futuro papa Leone X, e trasportata a Roma, da
dove un altro papa Medici, Clemente VII, la restituí a Firenze: da lui, Michelangelo ebbe, nel 1522, l’incarico di progettare una nuova sede che la accogliesse e che venne terminata nel 1558. Nel 1571 la biblioteca, che già disponeva di oltre 3000 manoscritti, fu aperta al pubblico, legando, per sempre, il proprio nome alla dinastia medicea e al complesso laurenziano. Il fondo principale corrisponde ai circa 3000 manoscritti (inventario di Giovanni Rondinelli e Baccio Valori del 1589), il cui nucleo originario è rappresentato dai 63 libri posseduti da Cosimo il Vecchio e che, alla sua
morte, erano già 150. I suoi figli, Piero (1416-1469) e Giovanni (1421-1463), commissionarono molti manoscritti miniati; Lorenzo il Magnifico (1449-1492) amò particolarmente gli autori greci, richiedendo copie di testi, destinati a trasformare la biblioteca in un vero luogo di ricerca. Primo bibliotecario fu Baccio Baldini, medico e letterato, lettore nello Studio pisano, archiatra di Cosimo I. Una data fondamentale nella storia della biblioteca è il 1757, anno in cui la carica di bibliotecario fu affidata al canonico laurenziano Angelo Maria Bandini, grande erudito, che pubblicò
essi furono assicurati con catene i circa 3000 libri manoscritti e a stampa della biblioteca, secondo una sequenza tassonomica, ordinata e registrata dai primi bibliotecari laurenziani, Baccio Valori e Giovanni Rondinelli, nel 1589, e rispettata tuttora, con qualche modifica. Il soffitto, in legno di tiglio, diviso in quindici pannelli e ripreso dal pavimento a intarsi di terracotta rossa e bianca sottostante, fu progettato da Michelangelo e realizzato da Battista del Tasso e Antonio di Marco di Giano, detto il Carota. In esso, dietro richiesta del pontefice Clemente VII, vengono ripetuti simboli araldici e imprese direttamente o indirettamente ricollegabili alla famiglia dei Medici. Il pavimento è opera di Santi Buglioni (14941576), il quale, dalla metà del secolo, aveva
QUEL PRONTUARIO CHE CI FA «VEDERE» IL MEDIOEVO Il codice Plut. 18 sin. 7 contiene il Tacuinum sanitatis, la traduzione latina di un trattato redatto a Baghdad nell’XI secolo dal letterato e medico Ibn Butlan: Tacuinum sanitatis de sex rebus que sunt necessarie cuilibet homini ad cotidianam conservationem sanitatis sue. Il nome Tacuinum riflette la derivazione dall’arabo Taqwin alsihha, «Tavole della salute». Grazie alle precise e vivaci raffigurazioni, i Tacuina sono una fonte iconografica di eccezionale ricchezza e fedeltà per lo studio di molti aspetti della vita nel Medioevo. L’opera è divisa in 280 paragrafi e propone una presentazione sinottica delle sex res non naturales. A ogni voce è legata una definizione circa la sua natura, le sue buone e cattive proprietà, gli umori prodotti, gli effetti sul corpo umano e il modo di correggerli o favorirli.
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L’apparato decorativo di questo elegante esemplare si concentra sulla prima carta, che reca miniato un fregio arricchito da figure umane, due delle quali raffigurano probabilmente medici physici, e una piccola iniziale in campo dorato, sul cui fondo si staglia un ritratto, forse dell’autore. La miniatura potrebbe far pensare a una scuola di ambito bolognese, anche se il copista denuncia nel nome un’origine toscana: «Et ego Falivacius de Monterapoli hoc opus Altissimi adiutorio scripsi. Deo gratias» (Monterappoli è una località nel Comune di Empoli, in provincia di Firenze). Il codice è giunto nella Biblioteca Laurenziana nel 1766, dalla Biblioteca del convento fiorentino di S. Croce. (dalla scheda di Eugenia Antonucci)
numerosi scritti biografici e bibliografici, relativi alla storia letteraria della Toscana, compilando il catalogo dei manoscritti laurenziani. La fisionomia data alla raccolta nei cinquanta anni della sua direzione non è stata sostanzialmente modificata, e gli stessi criteri hanno presieduto alle selezioni del materiale acquisito attraverso le soppressioni leopoldina e napoleonica. Fra il 1755 e il 1789, infatti, pervennero le biblioteche di famiglie private e di Ordini religiosi.
In alto e in basso due pagine del manoscritto che contiene il Liber medicinalis Almansoris, del medico musulmano Rhazes (860 circa925 o 932), nel volgarizzamento attribuito a Zucchero Bencivenni (con interpolazioni). Nelle miniature qui riprodotte è raffigurato lo stesso Rhazes. Si tratta di un codice realizzato a Firenze nella prima metà del XIV sec. Nella pagina accanto disegno di Michelangelo Buonarroti raffigurante il
progetto dei banchi della Sala di lettura della Biblioteca. A destra uno dei plutei rivestiti in legno di noce e realizzati, secondo la testimonianza del Vasari, dagli intagliatori Giovan Battista del Cinque e Ciapino sulla base degli schizzi michelangioleschi. Gli 88 banchi della sala avevano anche funzione di custodia dei codici. Sul fianco del mobile, una tabella forniva la lista dei volumi contenuti all’interno.
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L’arte concentrato la sua attività a soddisfare la committenza medicea, collaborando, nel 1539, con il Tribolo, anche alla realizzazione del monumento equestre di Cosimo I. La raffinata rielaborazione tecnica della tarsia marmorea applicata al materiale laterizio si deve, infatti, alla regia progettuale di Niccolò Pericoli, detto il Tribolo, chiamato a completare la fabbrica michelangiolesca: Vasari scrive che lo scultore, rientrato a Firenze da Roma, dopo aver incontrato Michelangelo, «si diede a far il pavimento della detta libreria di mattoni bianchi e rossi, siccome alcuni pavimenti che aveva veduti in Roma; ma vi aggiunse un ripieno di terra rossa nella terra bianca mescolata col bolo per fare diversi intagli in que’ mattoni: e cosí in questo pavimento fece ribattere tutto il palco e soffitto di sopra; che fu cosa molto lodata».
Terra rossa e bianca
I quindici pannelli in cui è partito il soffitto, oltre a corrispondere alle quindici specchiature in cui sono divise le pareti laterali, che Michelangelo volle in pietra serena, sono riprodotti, infatti, nella decorazione delle quindici riquadrature, che animano il pavimento in terra rossa e bianca, partito in tre sezioni. L’insieme sembra dunque corrispondere alla struttura tripartita desiderata da Clemente VII per voce del suo
MANOSCRITTI CELEBRI Il patrimonio conservato dalla biblioteca assomma a circa 11 000 manoscritti, a cui vanno aggiunte 150 cassette di carte sciolte, 2500 papiri, 43 ostraka, 566 incunaboli, 1681 cinquecentine, 592 testate di periodici specializzati e un totale di 126 527 edizioni a stampa (dal XVII al XX secolo). Qui si descrivono alcune delle opere piú importanti del fondo.
l’opera omnia del poeta latino. Fu acquisito dal granduca Francesco I de’ Medici nella seconda metà del Cinquecento e rimase in Laurenziana fino alla fine del XVIII secolo, quando venne portato a Parigi, confiscato dal governo napoleonico. Fu restituito nel 1816, dopo che, però, la legatura originale era stata sostituita con quella napoleonica.
Tetravangelo di Rabbula, Plut. 1,56 Il Vangelo detto «di Rabbula», dal nome del monaco, che ne terminò di scrivere il testo nell’anno 586, in siriaco, in un monastero della Mesopotamia, è un documento di importanza eccezionale, poiché rappresenta l’unico manoscritto estesamente miniato pervenutoci dalla Siria paleocristiana. Acquisito dalla biblioteca nel 1573, negli anni del granduca Francesco I de’ Medici, il codice rappresenta uno dei manoscritti piú preziosi.
Plinio, Plut. 82.01 È questo il primo testo integro della Naturalis Historia, che venne acquistato da Cosimo il Vecchio a Lubecca, su consiglio di Niccolò Niccoli.
Virgilio mediceo, Plut. 39.01 Risale al V secolo e reca la sottoscrizione del console romano che, nel 494, dichiarava di aver letto il manoscritto e di averlo munito di punteggiatura. È il manoscritto piú antico che si conosca, contenente
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MEDICI
Tacito, Plut. 68.01 Questo manoscritto risale alla metà del IX secolo ed è l’unica testimonianza degli Annales, che si ritenevano dispersi. Quando venne acquistato da papa Leone X, figlio minore del Magnifico, il suo ritrovamento suscitò grande emozione, per l’eccezionalità della sua individuazione.
Miniatura raffigurante l’Ascensione di Cristo tratta dal Vangelo di Rabbula, manoscritto siriaco risalente all’anno 586.
segretario Giovanni Francesco Fattucci, secondo quanto scritto in una lettera a Michelangelo, il 3 aprile 1526. Questo sincretismo tecnico e formale inedito, realizzato fondendo l’uso della tarsia e l’applicazione virtuosistica del cotto, è magnificato nella Introduzione alle Tre Arti del Disegno, che apre la narrazione delle Vite, in cui Vasari ricorda il pavimento della Sala di lettura della Biblioteca Laurenziana come uno dei piú alti esempi di una tecnica costruttiva peculiare di terrecotte bicrome intarsiate: «Ed in Firenze il pavimento della libreria di San Lorenzo fatto fare dal Duca Cosimo: e tutte sono state condotte con tanta diligenza, che piú di bello non si può desiderare in tale magisterio». Le vetrate della Biblioteca di Michelangelo sono un capolavoro dell’arte vetraria, con molteplici riferimenti alla pittura cinquecentesca coeva. In origine le vetrate, molte delle quali riportano anche la data di esecuzione, erano trenta, disposte simmetricamente sui due lati della Sala di lettura, per illuminare i plutei; oggi ne restano ventisette, piú due cieche, poiché, nel 1841, l’assetto originario della sala fu modificato dalla costruzione della Tribuna D’Elci. La decorazione policroma è molto elegante, eseguita probabilmente con cartoni, almeno quattro, con la tecnica della pittura a grisaglia e del giallo argento. Vi campeggiano i simboli dell’araldica medicea, ascrivibili a Clemente VII e a Cosimo I, in un trionfo di motivi a grottesche, emblemi, armi e putti alati. In passato, si riteneva che fossero da attribuire a Giovanni da Udine, ma oggi si tende a valutare l’ipotesi che siano state realizzate da maestranze fiamminghe, su cartoni riconducibili ad ambiente vasariano, dal momento che un disegno preparatorio di un cartone delle vetrate, recentemente scoperto, lo rende attribuibile al fiammingo Wouter Crabeth, conosciuto come Gualtieri d’Anversa.
Una raccolta preziosa
Inaugurata nel 1841, la Tribuna D’Elci fu utilizzata come sala di lettura sino agli anni Settanta del Novecento: venne realizzata nei primi decenni dell’Ottocento e destinata a ospitare la collezione donata alla Laurenziana, nel 1818, dal patrizio fiorentino Angelo Maria D’Elci (1754-1824). Il conte D’Elci, letterato e bibliofilo appartenente a una importante famiglia della nobiltà senese, trasferitasi a Firenze, aveva raccolto numerose prime edizioni a stampa di autori classici, costituendo una ricca collezione, che comprendeva un gran numero di incunaboli (libri a stampa della seconda metà del XV secolo) ed edizioni aldine (stampate cioè da
Michelangelo presenta a papa Leone X i progetti per la fabbrica di San Lorenzo a Firenze, olio su tela di Jacopo da Empoli. 1617-1619. Firenze, Casa Buonarroti.
Aldo Manuzio detto il Vecchio, tra il 1494 e il 1515, dal suocero Andrea Torresani, tra il 1515 e il 1529, da Paolo Manuzio, tra il 1533 e il 1574, da Aldo il Giovane tra il 1574 e il 1597, a cui vanno aggiunti alcuni volumi stampati dai Torresani verso il 1560 e quelli con la marca dell’Accademia Veneziana, 1558-61). Tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento, D’Elci aveva provveduto a far rilegare tutti i libri della sua collezione, secondo i dettami della moda anglo-francese del tempo, per cui i volumi, che comprendono esemMEDICI
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MEDICI
L’arte
UN EPIGONO DI IPPOCRATE Il codice Conventi Soppressi 148, conosciuto come Zibaldone Andreini, dal nome di uno dei possessori, Andrea Andreini, contiene una miscellanea di testi volgari, tra i quali il Libello per conservare sanità (ff. 45r-47r; foto qui accanto). L’autore di questa breve operetta si rivela nel titolo: «Maestro Tadeo da Firenze, dottore di medicina in Bologna» ed è identificabile con Taddeo Alderotti (Firenze 1223-Bologna 1295). Di umili origini, l’Alderotti si dedicò agli studi in età già avanzata; dal 1260 esercitò la professione di medico e lettore allo Studio di Bologna. Dante Alighieri, nella Divina Commedia, lo ricorda come «ippocratista» e, infatti, Alderotti restaurò, seguendo Ippocrate, l’insegnamento clinico al letto del malato (Par. XII, 83). Il Libello venne composto nel 1293 e fu dedicato dall’autore all’amico e nobile fiorentino Corso Donati. L’autore fornisce consigli di ordine pratico sull’igiene personale, sui comportamenti dietetici, indicando i cibi piú adatti alle varie ore del giorno, sulle misure di prevenzione da adottare nelle diverse stagioni dell’anno. La prima edizione della versione latina fu stampata a Bologna da Domenico de’ Lapi nel 1477, in appendice al De conservatione sanitatis di san Benedetto da Norcia. Il manoscritto fiorentino, appartenuto alla Biblioteca del Convento della SS. Annunziata di Firenze, pervenne in Biblioteca Laurenziana nel 1809, in seguito alla soppressione napoleonica delle corporazioni religiose. (dalla scheda di Anna Rita Fantoni)
Una delle vetrate della Sala di lettura. Poste simmetricamente sui due lati lunghi, sono decorate con motivi araldici medicei associati alle figure di Clemente VII e Cosimo I. Furono probabilmente realizzate da maestranze fiamminghe legate alla cerchia di Giorgio Vasari. Nella pagina accanto particolare del pavimento in cotto bianco e rosso a intarsi della Sala di lettura, opera di Santi Buglioli, secondo il disegno del Tribolo (al secolo, Niccolò Pericoli). 1512. plari databili tra il XV e il XIX secolo, sono caratterizzati da vivaci rilegature, che li distinguono anche esteticamente: pelle rossa per le edizioni del Quattrocento e verde per quelle dei secoli successivi. Del progetto di questo ambiente venne incaricato l’architetto Pasquale Poccianti (1774-1858 ) e l’aggiunta della Tribuna, con la sua originale forma circolare, implicò alcune modifiche alla parete destra della biblioteca: due finestre furono murate, due furono accecate e una venne sostituita dalla porta di accesso. La Tribuna è sormontata da una magnifica cupola a lacunari e ripropone, in stile neoclassico, i motivi dominanti nell’architettura e nella decorazione della
biblioteca: le colonne, la bicromia delle pareti e il cotto del pavimento. Il progetto michelangiolesco prevedeva anche, in fondo alla libreria, una «pichola libreria », un ambiente trapezoidale segreto «per tenere certi libri piú pretiosi che gli altri», in seguito alla richiesta di papa Clemente VII, come confermato da una lettera a Michelangelo del 12 aprile 1525. Michelangelo progettò, al di là della parete di fondo, un locale apposito, ma per la sua realizzazione sarebbe stato necessario espropriare la casa di Ilarione Martelli, esterna alle proprietà del Capitolo di San Lorenzo. Michelangelo aveva pensato a una struttura in forma di «triangolo massiccio e munito come un bastione», ma le difficoltà economiche e l’incertezza politica conseguente al sacco di Roma (1527), ne impedirono la realizzazione. Alla fine del XIX secolo, proprio in questo spazio, venne aggiunto un corpo di fabbrica, perpendicolare alla Sala di lettura, costituito da sei sale, il cui allestimento fu opera di Guido Biagi (direttore della Laurenziana negli anni 1889-1894 e 18951924), e inizialmente destinate a ospitare la «Mostra permanente del libro e della miniatura», inaugurata nell’aprile del 1922. MEDICI
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L’arte
Alla costante ricerca del bello 122
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Oltre a promuovere le arti del loro tempo, i Medici patrocinarono la riscoperta e la valorizzazione dei maestri dell’età greca e romana. E in questa temperie si formarono raccolte di straordinaria ricchezza, prima fra tutte quella degli Uffizi di Stephen Fox La Tribuna degli Uffizi, olio su tela di Johann Joseph Zoffany. 1772-77. Londra, Castello di Windsor. MEDICI
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I
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l viaggio nel mondo mediceo proposto in questo Dossier si chiude – e non poteva essere altrimenti – con l’invito a scoprire uno dei nuclei espositivi piú famosi del mondo, quello degli Uffizi fiorentini, che si sviluppa nell’edificio voluto da Cosimo I per ospitare le principali magistrature dello Stato (gli «uffici»), e che da queste prese il nome. Il progetto architettonico ebbe inizio nel 1560, affidato al fedele Giorgio Vasari. Per quanto attiene alla raccolta di marmi antichi, essa non può prescindere dalla storia complessiva del collezionismo mediceo d’arte, sebbene detenga un carattere particolare. Logico corollario è la descrizione del Museo Archeologico Nazionale, nato nell’Italia postunitaria e allestito dapprima nel monastero di Foligno in via Faenza e dal 1880 nel seicentesco Palazzo della Crocetta. Il collezionismo fiorentino si era sviluppato già nel Rinascimento nel segno dell’Umanesimo, secondo un ideale exemplum virtutis, un modello su cui misurare se stessi e il mondo. È utile ricordare come gli Acciaioli furono anche duchi di Atene fino alla caduta della città in mano ottomana, nel 1456; e a Firenze, già dalla fine del Trecento, si era istituito lo studio del greco. Non stupisce, pertanto, il taglio particolare delle sempre crescenti collezioni medicee, plasmate dal desiderio di accrescere il prestigio politico e dinastico della famiglia, ma anche influenzate dallo spirito di personaggi come il bibliofilo Niccolò Niccoli, formidabile collezionista di gemme, o come Poggio Bracciolini. Sappiamo come quest’ultimo commissionasse intorno al 1427 acquisti di sculture greche, busti e ritratti di uomini illustri per arredare – in sintonia con lo spirito dell’homo novus rinascimentale – il gymnasiolum, uno spazio ricavato nella sua villa presso Terranuova di Valdarno e dedicato alla memoria accademica della Grecia classica e dell’antica Roma. Nel Cinquecento le raccolte medicee ebbero un carattere di iniziale parallelismo o meglio di «bi-centricità»: a Roma, infatti, si deve ancora guardare per molte delle antichità venute in possesso della famiglia fiorentina e in specie in rapporto alla magnifica villa sul Pincio che oggi ospita l’Académie de France. Fu il cardinale collezionista e mecenate Ferdinando de’ Medici (1549-1609) a rilevare la consistente proprietà pinciana dal precedente proprietario, il cardinale Giovanni Ricci da Montepulciano. Quest’ultimo, consigliere ed esperto di antichità legatissimo a Cosimo I, aveva già raccolto notevoli reperti, tra cui alcuni rilievi dell’Ara Pacis Augustae, a Roma. Nel 1569 oltre trenta 124
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pezzi – tra cui lo splendido pannello con la Tellus del recinto dell’altare augusteo (riportato a Roma negli anni Trenta del Novecento) – presero la via di Firenze. Ferdinando acquistò la proprietà del Ricci nel 1574-76 per trasformarne la residenza in un palazzo-museo, realizzandovi una galleria nella quale esporre la sua collezione di antichità e disponendo una notevole quantità di bassorilievi classici sulla facciata orientata verso il giardino.
Simboli del primato fiorentino
Nel 1584 il cardinale acquistò poi le antichità della collezione Capranica-Della Valle, una delle piú importanti della Roma rinascimentale. Solo un anno prima erano venute alla luce, nella vigna Tommasini presso Porta S. Giovanni al Laterano, le statue del gruppo noto col nome di Niobidi (che oggi rappresentano alcune delle maggiori antichità degli Uffizi fiorentini, insieme al Marsia appeso) anch’esse acquisite da Ferdinando e subito destinate a far parte delle raccolte della villa sul Pincio. La figura di Cosimo I ci riporta però a caratteri di maggiore toscanità, con la riaffermazione del primato fiorentino attraverso l’ostentazione orgogliosa delle antichità etrusche, come la Chimera. Non secondario fu l’allestimento, con ruolo di rappresentanza, della Sala delle Nicchie di Palazzo Pitti, il cui antiquarium, una delle prime raccolte di scultura antica della città, intendeva porsi – come ha scritto Cristina De Benedictis – come una sorta di «sotterraneo confronto con il celebre Belvedere vaticano». Fino a circa la metà del Seicento, la maggior parte delle piú rilevanti sculture antiche medicee – per questione di prestigio, per ragioni di diplomazia nei confronti dell’autorità pontificia, per dissapori all’interno della stessa famiglia fiorentina – erano però rimaste a Roma, nella villa sul Pincio. Nel 1673 il granduca Cosimo III (forse politicamente non resolutissimo, ma amante delle belle arti: un’incisone di Stefano della Bella del 1656 probabilmente lo ritrae, bimbetto, mentre copia il «Vaso Medici» nel giardino della villa pinciana della famiglia) aveva fondato un’accademia d’arte a Roma. Quattro anni piú tardi, Giovan Battista Foggini, uno dei piú brillanti artisti fiorentini del periodo, portò da Roma agli Uffizi tre delle sculture di Villa Medici: la Venere, il cosiddetto Arrotino e i Lottatori. Queste opere lasciarono l’Urbe non senza polemiche e rimpianti (Cristina di Svezia stessa chiese di poterle ammirare un’ultima volta) per essere collocate nella Tribuna degli Uffizi.
Il rilievo che orna il pannello con la Tellus, facente parte dell’apparato decorativo dell’Ara Pacis di Augusto. I sec. d.C. Roma, Museo dell’Ara Pacis. Acquisito da Cosimo I de’ Medici nel 1569, fu riportato a Roma negli anni Trenta del Novecento, quando l’altare augusteo, all’indomani degli scavi, venne ricomposto e musealizzato.
In basso Cosimo III de’ Medici disegna il cosiddetto Vaso Medici nei giardini di Villa Medici a Roma, incisione di Stefano della Bella. 1656.
Questa sala era stata voluta, nel 1584, dal malinconico granduca Francesco I, eccentrico collezionista e appassionato di alchimia, a completamento di tre gallerie poste al di sopra degli «uffizi» cittadini. L’ambiente ottagono, progettato da Bernardo Buontalenti, prevedeva una cupola incrostata di madreperla (a simboleggiare l’elemento dell’Acqua) sovrastata da una lanterna (rimando all’Aria) e decorata da lacche scarlatte (a simboleggiare il Fuoco); il pavimento era in preziosi marmi colorati (in riferimento alla Terra). L’ambiente doveva accogliere i capolavori dell’arte e le curiosità della natura delle collezioni medicee, stimolando – con artificio tardo-manierista ma spettacolarità propagandistica già barocca – la curiosità e lo stupore del visitatore.
Dipinti al posto delle conchiglie
Si definiva cosí il primo nucleo di quello che saranno gli Uffizi di Firenze, aperti in quello stesso anno. Nei secoli successivi l’arredo e la decorazione della Tribuna subirono sostanziali modifiche, e le incrostazioni di conchiglie vennero rimosse per collocarvi celebrati dipinti riMEDICI
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L’arte
La Chimera di Arezzo, capolavoro della bronzistica etrusca, databile alla prima metà del IV sec. a.C. Firenze, Museo Archeologico Nazionale.
nascimentali. Con l’inserimento delle opere di statuaria antica voluto da Cosimo III, la Tribuna mutò ancor piú carattere. Intorno a un tavolo con intarsi in pietre dure realizzato dalle officine granducali secentesche (che aveva preso il posto di uno scrigno ottagonale decorato dal Giambologna con pietre preziose e oro), vennero collocate, sotto la supervisione dello scultore Ercole Ferrata, sei statue: oltre alla Venere dei Medici, ai Lottatori e all’Arrotino, ecco anche il Fauno Danzante, la Venere Vincitrice e la Venere Celeste, quest’ultima acquistata a Bologna. La Tribuna cosí concepita godette di fama indiscussa presso gli eruditi e i viaggiatori del secolo successivo, al punto che Charles de Brosses nel 1739 la ritenne una temibile rivale del Belvedere Vaticano. Un intervento di restauro e recupero ha riportato gli interni della Tribuna alla bellezza originaria, con la ricollocazione di velluti cremisi e, soprattutto, il ripristino delle oltre cinquemila conchiglie nel soffitto a cupola.
Bellissima e contesa
Se le Niobidi rappresentano uno degli esempi piú rilevanti, sia per il forte pathos, sia per il valore squisitamente archeologico (complesse e ancora dibattute sono la ricostruzione e la paternità artistica dell’insieme), la Venere e la Chi-
mera sono due casi esemplari della fortuna e del significato delle antichità medicee. Opera di Cleomene, figlio di Apollodoro, come recita l’iscrizione sulla base, la Venere fu una delle statue piú idolatrate tra il Sette e l’Ottocento. Protagonista indiscussa della Tribuna, catturò l’ammirazione di molti: l’artista e collezionista Jonathan Richardson (1667-1745) non riusciva a distogliere lo sguardo dalle sue forme; in Letters to a College Friend, il critico d’arte John Ruskin (1819-1900) la definí rapito «una delle piú pure ed elevate incarnazioni della donna mai concepite». Essa suscitò la bramosia di Napoleone: benché trasferita, seguendo la dinastia Lorena in fuga, prima a Livorno e poi a Palermo, fu «rapita» e portata a Parigi, dove rimase nel Musée Napoléon fino al Congresso di Vienna, sostituita a Firenze dalla Venere Italica, elegante opera «sorella» scolpita da Canova. Tanto entusiasmo e la competizione – davvero degna della dea – con altre Veneri, come la Capitolina o quella di Milo, è forse spiegabile grazie ad alcuni trucchi molto femminili: il recente restauro avrebbe infatti confermato che la statua aveva i capelli dorati, le labbra rosse e indossava graziosi orecchini, di cui sarebbero traccia i fori nei lobi dell’orecchio. In un’intervista di alcuni anni fa, cosí spiegava
Fabrizio Paolucci, allora direttore del dipartimento di antichità classica degli Uffizi: «In seguito a un restauro eccessivamente zelante, compiuto probabilmente al momento del ritorno della scultura dall’esilio parigino imposto da Napoleone, la doratura scomparve del tutto e solo adesso, grazie ad analisi mirate, si è potuto dimostrare che quanto vedevano i protagonisti del Grand Tour non era frutto di un’allucinazione collettiva, ma la testimonianza dell’antico ornato della splendida scultura che, con l’aggiunta della doratura e della policromia (come dimostrano le tracce di rosso riconosciute sulle labbra), raffigurava in modo mimetico e realistico il corpo di una giovane donna».
Allegoria del potere mediceo
Meno charmante e piú terribile, la Chimera di Arezzo è uno dei bronzi antichi piú noti del Museo Archeologico fiorentino. Datata alla prima metà del IV secolo a.C. per confronto con alcuni leoni funerari coevi e forse opera di officina magno-greca attiva su committenza etrusca, la Chimera fu rinvenuta ad Arezzo il 15 novembre 1553, fuori Porta S. Lorentino. Non è chiaro se facesse parte di un gruppo con Bellerofonte e Pegaso. Fu immediatamente va-
La Tribuna degli Uffizi. Voluta nel 1584 da Francesco I e progettata da Bernardo Buontalenti, fu concepita come un prezioso scrigno architettonico per accogliere i capolavori d’arte delle collezioni medicee, tra cui la celebre statua di Venere, visibile sulla destra.
lorizzata da Cosimo I che, su iniziativa di Giorgio Vasari, la espose nella sala di Leone X a Palazzo Vecchio, per poi portarla nel suo studiolo a Palazzo Pitti, dove sembra ne curasse la manutenzione «con attrezzi da orafo». Rappresentazione allegorica del potere mediceo di Cosimo, il bronzo godette di fama indiscussa presso gli artisti del tempo: Cellini, Tiziano, Vasari. Fu quest’ultimo a ritrovarne la coda e a stabilire uno tra i primi confronti identificativi utilizzando la fonte numismatica: «Signor sí, perché ce n’è il riscontro delle medaglie che ha il Duca mio signore, che vennono da Roma con la testa di capra appiccicata in sul collo di questo leone, il quale come vede V.E., ha anche il ventre di serpente, e abbiamo ritrovato la coda che era rotta fra que’ fragmenti di bronzo con tante figurine di metallo che V.E. ha veduto tutte, e le ferite che ella ha addosso, lo dimostrano, e ancora il dolore, che si conosce nella prontezza della testa di questo animale» (Giorgio Vasari, Ragionamenti sopra le invenzioni da lui dipinte in Firenze nel palazzo di loro Altezze Serenissime, Firenze 1558). Purtroppo, nel 1785, la coda venne ricongiunta in modo sbagliato da Francesco Carradori: terminante a testa di serpente, doveva infatti slanciarsi contro l’avversario e non mordere un corno della testa della capra. MEDICI
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FIRENZE COM’ERA
Pianta della città di Firenze, dal Thesaurus antiquitatum et historiarum Italiae di Johann Georg Graeve. Leida, 1704-1705.
VO MEDIO E Dossier n. 55 (marzo/aprile 2023) Registrazione al Tribunale di Milano n. 233 dell’11/04/2007
Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Angelo Poliziano, 76 – 00184 Roma tel. 06 86932068 - e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (Ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Alessia Pozzato Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it Gli autori Francesco Colotta è giornalista. Stephen Fox è archeologo. Tommaso Indelli è assegnista di ricerca in storia medievale presso l’Università degli Studi di Salerno. Donatella Lippi è professore ordinario di storia della medicina all’Università degli Studi di Firenze. Chiara Mercuri è docente presso l’Istituto Teologico di Assisi. Alessio Montagano è membro dell’Accademia Italiana di Numismatica. Sergio Raveggi è storico del Medioevo. Lorenzo Tanzini è professore associato di storia medievale all’Università di Cagliari. Paolo Viti è professore ordinario di filologia medievale e umanistica all’Università del Salento.
Illustrazioni e immagini Mondadori Portfolio: pp. 32/33; AKG Images: copertina (e p. 25) e pp. 6, 25, 27, 38, 45 (alto e basso), 62, 85, 86, 87 (basso), 115, 128/129; Archivio Antonio Quattrone/ Antonio Quattrone: pp. 28/29, 43, 44/45; Electa/Antonio Quattrone: p. 34; Electa: p. 35; Erich Lessing/K&K Archive: p. 46; Electa/Mauro Magliani: p. 49; Album/Oronoz: pp. 50/51; Electa/Sergio Anelli: p. 120 – Shutterstock: pp. 6/7, 10, 17, 22/23, 47, 64/65, 66 (alto), 70, 88/89, 94 (basso), 95, 114/115 – Doc. red.: pp. 8/9, 11, 12-15, 16, 18-21, 26, 30-31, 32 (alto), 36/37, 38-41, 42, 51, 52-61, 63, 66 (centro), 67, 6869, 71, 72-83, 87 (alto, a destra), 89, 90-93, 94 (alto), 96-113, 116-119, 121, 122-127 – National Gallery of Art, Washington: pp. 24, 87 (alto, a sinistra) – The Cleveland Museum of Art, Cleveland: pp. 48/49.
Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com - tel. 335 8437534 Distribuzione in Italia Press-di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevodossier; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 49 57 20 16 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta, scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 – Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Servizio Arretrati a cura di Press-Di Distribuzione Stampa e Multimedia Srl 20090 Segrate (MI) I clienti privati possono richiedere copie degli arretrati tramite e-mail agli indirizzi: collez@mondadori.it e arretrati@mondadori.it Per le edicole e i distributori è inoltre disponibile il sito: https://arretrati.pressdi.it In copertina: i profili affrontati di Giuliano de’ Medici (in una tempera su tavola di Sandro Botticelli conservata alla National Gallery of Art di Washington, e datata intorno al 1478-1480) e di Cosimo il Vecchio (in un olio su tela di Alessandro Pieroni conservato nel Museo Bardini di Firenze, 1518).
Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.
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