Medioevo Dossier n. 57, Luglio/Agosto

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IN PRIMA LINEA FOLLIE, LEGGENDE E CONQUISTE DELLA MEDICINA NELL’ETÀ DI MEZZO a cura di Francesco Colotta testi di Andrea Barlucchi, Claudio Corvino, Chiara Crisciani, Giovanni Ferrari, Chiara Frugoni,

Donatella Lippi, Laura Prosperi, Francesco Sorrentino e Maria Paola Zanoboni

STORIA DI UNA SCIENZA LE ORIGINI 8. L’arte della cura L’ABITO DEL MEDICO 22. Di rosso e d’azzurro mi devo vestire... LO STUDIO DELL’ANATOMIA 24. Visti da vicino, anzi, dall’interno

L’ANORESSIA 70. Digiuni mistici

LE TERAPIE

LA CHIRURGIA 76. Principi del bisturi FRA MUMMIE E TRASFUSIONI 84. Rimedi dall’aldilà

LA SCUOLA MEDICA SALERNITANA 30. Un primato prestigioso

IL SALASSO 90. La salute nelle mani del barbiere

LE MALATTIE

OSPEDALI E FARMACIE

PESTE E PESTILENZE 34. Il piú temuto dei flagelli

GLI OSPEDALI 92. Assistenza organizzata

LA SIFILIDE 56. «Francese», «di Napoli» o... «americano»?

LA MALASANITÀ 110. Il Magnifico e un medico sfortunato

RISCHI ALIMENTARI 58. Il nemico che non ti aspetti

SPEZIALI E FARMACIE 112. Qui si vende la buona salute


GLI UOMINI E I VALORI DI UN GRANDE PASSATO


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I

l sangue era da togliere, non da infondere; la carne di vipera serviva come antidoto agli stessi veleni; per curare la peste si cospargevano i linfonodi con una «mistura» di escrementi; e come panacea di un gran numero di mali si utilizzavano nientemeno che le mummie – polverizzate – dell’antico Egitto. La medicina medievale, in base a queste informazioni, si configurerebbe come una vera e propria galleria degli orrori. Tale condanna sommaria, tuttavia, ampiamente condivisa in epoca moderna, risulta ingenerosa alla luce di indagini storiografiche piú rigorose. Accanto alle numerose stravaganze nella formulazione di diagnosi e terapie, infatti, sul piano scientifico l’età di Mezzo produsse innovazioni sorprendenti: basti pensare alla diffusione dell’anestesia. In proposito Chiara Frugoni osserva che, a differenza dell’età antica, nel Medioevo si cercava «di non fare soffrire durante gli interventi chirurgici», seppur «con qualche rischio»: fu cosí che le operazioni, da spettacolo di «lotta tra gladiatori» con il malato urlante tenuto fermo da due robusti «inferUna sala degli Hospices de Beaune (noti anche come Hôtel-Dieu de Beaune, Borgogna, Francia), fatti costruire alla metà del XV sec. da Nicolas Rolin, cancelliere del duca di Borgogna. Utilizzato come nosocomio fino agli anni Sessanta del Novecento, il complesso è stato trasformato in Museo della Medicina.

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STREGHE

mieri», divennero prove umanamente affrontabili, intraprese sotto gli auspici della guarigione. Ricordiamo, poi, l’intervento a cui fu sottoposto il duca di Urbino Lorenzo de’ Medici nel 1517, vittima di una schioppettata alla nuca, effettuato dal medico Berengario da Carpi: il resoconto stilato un anno dopo dallo stesso specialista nel De fractura calve sive cranei segna – secondo la storica della medicina Donatella Lippi – una «tappa miliare nello sviluppo della chirurgia cranica». Come non riconoscere, infine, l’importanza della quarantena, inventata nell’età di Mezzo (anche se si conoscono provvedimenti simili già per l’evo antico) per limitare il propagarsi della peste? Una misura di «sanità pubblica» nient’affatto obsoleta, rivelatasi drammaticamente attuale nei mesi critici della pandemia da Covid 19. La medicina del Medioevo, dunque, è un fenomeno complesso, un grande «cantiere di studi» ancora aperto. Senza dubbio fu il prodotto di un dinamico incontro tra culture: il retaggio antico del galenismo (dalle teorie del medico Galeno di Pergamo, vissuto nel II se-


colo d.C.) si fuse con la tradizione giudaicocristiana, recependo anche i contributi scientifici d’avanguardia provenienti dal mondo arabo e bizantino. L’architrave dottrinale continuava a essere costituito dalla teoria degli umori, concepita dal medico greco Ippocrate (VI-V secolo a.C.), secondo la quale le malattie erano causate dallo squilibrio tra i quattro fluidi presenti nell’organismo, la bile nera, la bile gialla, il flegma (il muco, banalmente!) e il sangue. Uno squilibrio che si traduceva il piú delle volte in diagnosi di eccesso e, pertanto, nella necessità di drenare liquidi attraverso salassi e altri trattamenti rischiosi. Il cristianesimo proiettò l’indagine sulle cause delle patologie comuni nella dimensione metafisica, chiamando in causa il peccato, il destino, le influenze astrali; tuttavia contribuí anche al grande progresso della pratica clinica. Fu il dovere cristiano dell’assistenza ai malati a trasformare i monasteri in centri di studio per le terapie; successivamente, e sempre in ambito religioso, sarebbero sorti i primi ospedali: «L’hospitalitas – osserva la storica

Maria Paola Zanoboni – percepita dagli antichi soltanto come attitudine individuale e come obbligo giuridico nei confronti dell’ospite, si affermò invece, a partire dalla tarda latinità, come comandamento condiviso, nonché come servizio reso al bisognoso e al sofferente nell’ambito di un cristianesimo che si proclamava religione dei poveri». Un ulteriore progresso della conoscenza medica si registrò con la traduzione di testi arabi operata, nell’XI secolo, dal letterato Costantino l’Africano, un lavoro straordinario divenuto poi patrimonio didattico della Scuola salernitana, la piú prestigiosa istituzione medica dell’Europa medievale. Una tra le tante eccellenze italiane del tempo, che si distinse anche per le prescrizioni sugli stili di vita, ancora oggi alla base delle elementari regole di igiene e di prevenzione primaria: «La prima digestione avviene in bocca»; «Se vuoi esser sano, lavati spesso le mani»; «Se ti mancano i medici, siano per te medici queste tre cose: l’animo lieto, la quiete e la moderata dieta»… Francesco Colotta


L’arte della cura

STORIA DI UNA SCIENZA

di Chiara Crisciani e Giovanni Ferrari


Forte della lezione dei grandi medici dell’antichità, primi fra tutti Ippocrate e Galeno, la pratica terapeutica medievale conosce importanti sviluppi. A cui contribuiscono la fondazione delle università e la creazione degli ospedali cittadini

San Cosma e San Damiano guariscono il diacono Giustiniano, scomparto della predella della Pala di San Marco, tempera su tavola del Beato Angelico. 1438-1440. Firenze, Museo di San Marco.

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ella cultura contemporanea, erede in ciò della classicità, la malattia è percepita come uno squilibrio, un’alterazione dello stato normale del corpo, la salute; e malato di conseguenza è chi si trova temporaneamente in questa condizione anomala, dalla quale chiunque gli augura di uscire al piú presto. Del tutto diversa è la natura delle idee, credenze e pratiche che organizzano il sistema mentale e sociale «malato-malattia-medico-cura-salute» nel Medioevo, in particolare prima del XII secolo. Innanzitutto perché nella concezione teologica della vita umana allora dominante, la malattia rappresenta la condizione naturale dell’uomo nella storia: peccando, infatti, Adamo ha perso per sé e i suoi discendenti ciò che lo rendeva simile al Padre, e dunque, insieme alla sapienza e alla virtú, l’integrità fisica e l’immortalità del corpo. Da allora ogni essere umano è infirmus, cioè fragile e «malato». In secondo luogo perché la malattia assume una valorizzazione religiosa che rende il malato un essere profondamente ambiguo, «reietto» ma anche «eletto», immagine vivente del peccato ma anche «vero medico». Se infatti la malattia è segno della giustizia e della punizione divina, essa è anche strumento privilegiato della misericordia di Dio, che sotto l’apparenza di un’amara medicina concede a ogni uomo, grazie ai patimenti sopportati con rassegnazione, l’unica vera salute, quella dell’anima. Anzi, secondo una gerarchia che privilegia lo spirito, mentre il benessere fisico può nascondere pericoli morali e occasioni di peccato, nella malattia si coglie la mano di Dio che induce a pentirsi, e lo sprone, per i sani, a compiere azioni misericordiose. Con simili argomenti nel VI secolo san Gregorio Magno ammonisce gli ammalati, ricordando loro che Dio colpisce con la sofferenza i suoi prediletti – Giobbe fra tutti – perché li vuole perfezionare.

La ricerca della salute eterna

In questa «pedagogia della sofferenza» lo strumento che permette ai malati di imitare Gesú è la pazienza, mentre a tutti, malati e sani, si raccomanda una «terapia dell’anima» fatta di amore e carità. Emblema ed esempio di una vita mirata alla ricerca della salute eterna è il Cristo, taumaturgo e piagato, sofferente nel corpo per avere assunto le colpe degli uomini, medico e farmaco dell’anima peccatrice. Tutti peccatori e in quanto tali infirmi davanti al Padre, gli esseri umani sono anche, nella realtà della cruda vita medievale delle campagne e dei borghi, in stragrande maggioranza pauperes: MEDICINA

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LA MEDICINA NEL MEDIOEVO

Storia di una scienza

poveri cioè per le pessime condizioni di vita e lavoro, la cronica mancanza o inadeguatezza del cibo, le ricorrenti carestie ed epidemie, le invasioni, le piccole e grandi guerre. Distinguere tra povero e malato, almeno fino al XII secolo, è spesso impossibile, perché per larghissimi strati di popolazione le due definizioni si sovrappongono quasi perfettamente. Come documentano le fonti dell’epoca – cronache, testi agiografici, scritti pastorali – infirmi, pauperes e sani convivono in uno spazio indifferenziato, sia nell’immaginario sia nell’esistenza concreta. Si incontrano nelle fiere e nelle piazze, nelle strade, durante le feste e le cerimonie, in chiesa e in particolare nei santuari, luoghi privilegiati della vita cristiana, dove la ricerca della salute dell’anima si fonde con l’ansia del miracolo che guarisce il corpo: un segno che parla a tutti, soprattutto agli increduli, con il linguaggio della potenza e della misericordia divina. Al di fuori di qualsiasi approccio tecnico-scientifico alla malattia, qui il farmaco è rappresentato dalle reliquie e il medico dal santo taumaturgo, che amministra i doni salutiferi a lui concessi dal Signore. In scenari solo apparentemente laici, miracoli simili vengono compiuti dai membri di alcune dinastie regali, sovrani unti da Dio e dotati di poteri curativi su particolari malattie: famosa e di lunga durata è la tradizione dei re francesi e inglesi, che per dovere dinastico imponevano periodicamente le mani sui sudditi per liberarli dalle scrofole (rigonfiamenti ghiandolari di origine tubercolotica).

Nascono gli ospizi

Se dunque la terapia di ogni povero-malato è fatta di preghiere, processioni e pellegrinaggi, la sua assistenza ricade sui religiosi, che realizzano in quest’opera uno degli imperativi piú forti della carità medievale: sin dai primi concili si prescrive a tutti i membri della Chiesa di soccorrere quanti siano cosí indeboliti da non poter piú sostentarsi col proprio lavoro. Questo stato generico di fragilità (infirmitas) richiede un’assistenza indifferenziata e non professionale. Nasce dunque, sugli itinerari dei pellegrinaggi e nei pressi di santuari, monasteri, chiese, l’ospizio gestito da monaci, il secondo luogo canonico in cui si esprime l’amore divino – la vicinanza di Cristo a tutti i sofferenti, in questo caso –, e la carità dei fratelli sani. Il soccorso che qui si presta al pellegrino di passaggio come al malato itinerante è fatto di un letto, un piatto di minestra, a volte di diete adatte e di medicazioni, ma non contempla un vero e proprio progetto terapeutico: il povero10

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Sulle due pagine miniature tratte da un’edizione manoscritta del Liber notabilium illustrissimi principis Philippi septimi... di Guido da Vigevano. 1345. Chantilly, Musée Condé. In alto, un medico esegue una trapanazione cranica; nella pagina accanto, l’esame dell’addome di un paziente.

malato sosta all’ospizio fino alla convalescenza, per poi riprendere il suo cammino, che è immagine del viaggio del credente – viator – per ritornare definitivamente a Dio. Il terzo luogo in cui si esprime – e al massimo grado – la visione ambivalente della malattia che caratterizza la cultura medievale è il lebbrosario. La lebbra, endemica in Europa fin dall’Alto Medioevo, conosce episodi di virulenza nei secoli VII-VIII e XII-XIII. La riconoscibilità del male, il suo diffondersi per contagio, l’incurabilità, e soprattutto la forte valenza simbolica della corruzione della figura umana per la cultura ebraico-cristiana, ne fanno l’espressione massima del peccato: il lebbroso è impuro e deve vivere isolato fuori della comunità (Levitico 13.15, 46). Mentre nell’Alto Medioevo viene colpito con il bando e costretto a


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LA MEDICINA NEL MEDIOEVO

Storia di una scienza

DIO, GUARITORE SUPREMO Le cronache, specie dell’Alto Medioevo, e ovviamente anche le storie della vita dei santi sono ricche di racconti di miracoli, e moltissimi sono quelli di guarigione. Queste cronache forniscono molte informazioni – che, dato il tipo di testi, vanno confrontate con altre testimonianze – sulle patologie piú diffuse, rispetto a cui segnalano l’impotenza della medicina. I miracoli di guarigione possono riguardare singoli o intere comunità. Gregorio di Tours (VI secolo), esaltando i meriti di san Martino vescovo, racconta di molte guarigioni di singoli malati accorsi alla tomba santuario del santo. La disgraziata Cunemonda, per esempio, cieca da anni, il corpo piagato, ricoperta da orrende pustole, passa tre anni presso le reliquie di san Martino, animata da fede e devozione: un giorno, all’improvviso, riacquista la vista e recupera in pieno la salute. Gregorio ci descrive anche un suo grave malanno: febbri continue e violente, con acuto dolore, completa inappetenza, dissenteria e vomito: si

vita errabonda, dopo il Mille il lebbroso appare piú pericoloso: la popolazione si addensa in agglomerati urbani e il contagio diventa piú facile, sí da obbligare i malati a vivere in comunità murate, con regole e statuti che imitano quelli degli Ordini religiosi.

La lebbra come metafora del peccato

Alla fine del Duecento i lazzaretti europei sono circa 19 000. Qui una popolazione di alcune centinaia di migliaia di lebbrosi vive priva di ogni diritto civile e di ogni bene temporale (non sono piú persone giuridiche), rinunciando alla sessualità per non propagare il male e osservando obbligatoriamente, come monaci, i voti di povertà, obbedienza e castità. La malattia infatti non guarisce ma ha un decorso lento. Corroso e sfigurato nella persona, ripugnante per i suoi simili, il lebbroso è preso a metafora di ogni peccatore e in particolare dell’eretico. Al contempo, si presta a rappresentare il Cristo sofferente, quel «prossimo» rispetto al quale si misura l’amore dei fratelli: di qui le numerose leggende di santi e penitenti che si accostano ai lebbrosi, si prendono cura di loro, o addirittura li baciano, secondo una tradizione che comprende anche san Francesco. Rispetto all’ospizio, il lebbrosario è un luogo piú minuziosamente regolato e stabile; inoltre è spesso finanziato dalle istituzioni cittadine che lo mantengono ai propri margini, dunque piú «ricco» anche in termini di addetti (rettori, sacerdoti, infermieri, inservienti). Tuttavia neanche qui la malattia è oggetto di un’attenzio12

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In alto capolettera miniato raffigurante san Francesco che guarisce i lebbrosi, da un’edizione della Leggenda Maggiore di Bonaventura da Bagnoregio. XIV sec. Nella pagina accanto miniatura raffigurante un paziente che viene curato con una pozione a base di menta. XIII sec.

ne di tipo specialistico: le misure previste dagli statuti sono di ordine profilattico, volte a evitare il contagio, mentre le indicazioni contenute nei trattati medici dell’epoca riguardano le terapie destinate a quei lebbrosi di alto lignaggio che sfuggono alla reclusione nei lebbrosari e vengono curati in casa. In questo sistema ancora magmatico vivono indifferenziati non solo i malati rispetto ai sani, ma anche coloro che li curano, fusi in uno stratificato insieme di operatori della salute: nelle fonti troviamo il medico dotto o comunque esperto, il monaco che abbandona la preghiera per occuparsi di ristorare l’anima e il corpo (incorrendo nella condanna di numerosi concili), i medici ebrei ricercati da potenti laici ed ecclesiastici (ancorché guardati con sospetto). Fonti dotte ed ecclesiastiche sottolineano il fallimento della medicina profana rispetto al potere di Dio e, dall’altra parte, illuminano un variopinto paesaggio di figure (soprattutto femminili) impegnate nelle comunità rurali dove è ben difficile affidarsi, anche per motivi economici, ad altri guaritori. Levatrici, vecchiette di villaggio, donne esperte di segreti, rimedi, erbe – le seguaci di Ecate e di Diana – preparano pozioni che non differiscono troppo da quelle che propina la medicina monastica. Fluidi infatti sono nell’Alto Medioevo i rapporti tra le pratiche di sacerdoti, medici, maghi, che spesso usano come farmaco le parole di Gesú nei Vangeli. Ma il contesto non cristia-


sentiva vicino alla morte e «a niente era valso l’antidoto del medico». Ma una pozione, fatta con la polvere proveniente dal sepolcro del santo, lo libera immediatamente da ogni male. Ugo di Farsit invece rappresenta con realistica efficacia gli atroci effetti di un’epidemia di «fuoco sacro» (male degli ardenti: una forma di ergotismo causata dall’ingestione prolungata di segale cornuta). L’intera comunità, i moribondi deliranti e quelli ancora sani, pervasi da terrore, si precipitano nella chiesa della beata Vergine di Soisson. Come un esercito, sotto la guida del sacerdote, usano l’arma della preghiera e lo scudo della fede per opporsi al male e supplicare soccorso. E infatti, ecco che «la potente regina e signora degli angeli, alla guida delle forti schiere degli spiriti celesti» accorre in aiuto, e i gemiti e le urla si trasformano in lodi e giubili per l’improvvisa e immediata guarigione di tutti. Colpisce, in questi racconti, la subitaneità e la pienezza della guarigione che viene donata da Dio.

soma che è il suo corpo, che non appartiene a lui solo ma è destinata al servizio della comunità»). Se da una parte Francesco d’Assisi, che pure mangia col lebbroso, canta la lode di «frate corpo» e ne riconosce i bisogni, dall’altra le stesse infermerie dei conventi in questo periodo accolgono fra i propri obiettivi la guarigione del corpo e i precetti dei medici per la cura dei confratelli. Tra i secoli XII e XIII, collegati alle necessità delle crociate, nascono inoltre gli Ordini Ospitalieri (di San Giovanni di Gerusalemme, di Santo Spirito), che fondano ospedali urbani notissimi in Terra Santa, Italia, Francia e Paesi Bassi, impegnandosi con precise Regole nella cura organizzata dei malati e pellegrini, come opera specifica di carità. La salute dei pontefici, ascesi nello stesso periodo al ruolo di sovrani dal cospicuo peso politico, diventa un impegno e una scommessa intorno alla quale si gioca la reputazione dei medici delegati alla loro cura, gli archiatri. Infine, molti Comuni affidano alla

no e l’assenza di controllo ecclesiastico in cui queste guaritrici agiscono le rende «detestabili» e sospette – a ragione – di essere eredi, portatrici e propagatrici di pratiche antiche, pagane e perciò «superstiziose». Le «vetule» continueranno ad affiorare nelle fonti fino al tardo Medioevo, quando la loro immagine slitterà in quella delle streghe e del loro patto nefando col demonio.

Una concezione «laica» della malattia

Man mano che, con il XII-XIII secolo, il mondo medievale si anima per l’ampliarsi e il moltiplicarsi delle città, la crescita demografica, la maggiore circolazione di denaro e merci, nonché di cultura, nella teologia e nella pastorale della sofferenza che abbiamo descritto si aprono crepe via via piú larghe. Contemporaneamente l’asfittico sistema sanitario a esse collegato inizia a diversificarsi e a crescere, le dottrine e le tecniche mediche ad affinarsi. Innanzitutto, la polarità salvezza spirituale/salute corporale si riassesta a maggior vantaggio della vita terrena: comincia cioè a farsi strada una visione positiva della salute e parallelamente una concezione che potremmo definire «laica» della malattia, svincolata almeno in parte dalla sua valorizzazione religiosa. Per gli Ordini mendicanti di recente istituzione (inizi del XIII secolo), Francescani e Domenicani, la salute del singolo religioso diventa un bene irrinunciabile al fine dell’apostolato (perché, secondo Umberto da Romans, generale dei Domenicani, «non sia resa inutile quella bestia da MEDICINA

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LA MEDICINA NEL MEDIOEVO competenza dei medici le cure della comunità cittadina, la supervisione degli ospedali fondati da congregazioni e confraternite, le diagnosi che precedono la reclusione nei lebbrosari.

La diffidenza della Chiesa

Tutti questi mutamenti si accompagnano al passaggio progressivo dalla semplice assistenza caritatevole alla definizione delle specifiche patologie e alla loro cura; di conseguenza si verifica un allontanamento dalla visione miracolistica della guarigione in favore della ricerca della salute condotta con mezzi umani, intellettuali e tecnici. Certi ambienti monastici – come si evince dagli scritti di san Bernardo di Chiaravalle – continuano tuttavia a considerare con diffidenza l’incerta medicina profana: farmaci e diete forse giovano al corpo, ma sicuramente non all’anima, che cosí non può avvantaggiarsi della sofferenza. E poi, perché aderire alla «scuola di Ippocrate» invece che alla «scuola del Salvatore», dal momento che Cristo ha sostituito Asclepio? Perché affannarsi nella ricerca di una salute del corpo che è vana, quando occorre occuparsi della salute dell’anima? La mancanza di autorevolezza della professione medica durante il periodo altomedievale era motivata anche dalla rarefazione della dottrina, esclusa dalle discipline del trivio e del quadrivio e non piú insegnata nelle scuole ecclesiastiche, tra le pochissime sopravvissute; ridotta pressoché alla sola pratica, si tramandava in forme artigianali o per parentela. Sola-

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MEDICINA

Storia di una scienza

Miniatura raffigurante un lebbroso e un paralitico a cui viene negato l’ingresso in città, da un’edizione francese dello Speculum historiale di Vincenzo di Beauvais. 1332-1335. Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal.

mente a Ravenna, sede dell’esarcato bizantino, era sopravvissuto fino all’VIII secolo il metodo alessandrino d’insegnamento della medicina dotta, tramite commenti; ma si trattava di una tradizione minoritaria. A disposizione dei monaci, nelle biblioteche dei monasteri, erano rimasti solo erbari e modesti manuali di medicina pratica estratti e compendiati dalla tradizione greco-bizantina (Dioscoride, Oribasio) o romana (Plinio il Vecchio, Celio Aureliano), mentre le rare opere di Ippocrate (Aforismi, Arie, acque e luoghi) e Galeno (Sulle sette, Sull’arte medica, Commento agli Aforismi) disponibili in traduzione venivano subissate da una gran quantità di apocrifi e rimaneggiamenti. Ciò non toglie che questa fu la via principale attraverso cui si conservò la tradizione testuale della medicina classica. Dopo il Mille, e soprattutto tra il Duecento e il Trecento, la biblioteca medica aumenta enormemente e muta qualitativamente. Attraverso le vie dell’Islam arrivano in Occidente e vengono tradotti in latino molti testi medici greci e arabi sconosciuti. Il primo grande corpus di traduzioni è opera di un monaco di Montecassino, Costantino Africano, a cui si devono le versioni (piuttosto libere) di alcuni testi arabi ispirati alla dottrina medica galenica, fondamentali per la sua precoce diffusione: la cosiddetta Pantegni («tutta l’arte medica») del persiano Alí ibn al Abbas (Haly Abas, X secolo), e l’Ysagoge di Hunayn ibn lshaq, noto in Italia con il nome di Giovannizio (IX secolo).


Miniature raffiguranti interventi per la cura delle emorroidi, di un’infezione oculare e di polipi nasali. XII-XIII sec. Londra, The British Library.

Questi e molti altri testi, arabo-galenici, greci o di ispirazione greco-alessandrina (come il De natura hominis di Nemesio, del III secolo) con i relativi commenti, entrano a far parte delle opere studiate nella Scuola di Salerno. Attiva già nel X secolo, fiorente soprattutto nel XIIXIII, la Scuola di Salerno è il ponte che fa entrare la medicina nelle future università: il ristretto canone medico che in essa si utilizia a partire dall’XI secolo – l’Articella, composta da opere teoriche e pratiche di Ippocrate, Galeno, Giovannizio e altri – resta in vigore fino al Rinascimento, e la miscela di dottrina, metodologia e didattica che alcuni maestri (in particolare Urso di Calabria) qui mettono a punto orienterà per secoli la formazione professionale del medico universitario europeo. Bisogna ricordare inoltre che una costituzione promulgata da Federico Il intorno al 1250 regolamenta il corso di studi necessario per ottenere dalla Scuola di Salerno il diritto a esercitare la medicina: tre anni di logica, cinque di

medicina (compresa anatomia e chirurgia), piú un anno di tirocinio con un maestro esperto.

Il Canone, un testo imprescindibile

Durante il Duecento e ancora piú nel Trecento l’insegnamento della medicina si istituzionalizza, seguendo le linee già tracciate a Salerno, nelle università di Montpellier, Bologna, Parigi, Padova, poi Siena, Pavia, Firenze. Il curriculum degli studi di questa nuova medicina teoricopratica, ormai definibile «scolastica», si amplia sulla base di alcuni testi galenici (tradotti da Burgundio da Pisa e Niccolò da Reggio) e arabi (tradotti da Gherardo da Cremona). Tra di essi spicca il Canone di Avicenna, medico persiano vissuto a cavallo del Mille, che entra come autorità di prima grandezza nei curricula delle maggiori università, diventando tra il 1270 e il 1320 il manuale di base degli studi medici (e tale resterà per circa tre secoli). Ma in questo stesso volgere di anni l’aspirante medico deve familiarizzare anche con i testi fondamentali MEDICINA

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LA MEDICINA NEL MEDIOEVO

della filosofia naturale aristotelica, quei libri naturales che erano stati commentati dal filosofo e medico arabo-andaluso Averroè nel secolo XII e tradotti dall’originale greco da Guglielmo da Moerbeke intorno al 1260. L’intenzione di conciliare l’anatomia e la fisiologia delle due autorità massime in campo scientifico, Aristotele e Galeno – in piú punti divergenti – è già centrale in Avicenna e animerà molte discussioni del tardo Medioevo e del Rinascimento medico. Ne viene condizionata anche l’identità professionale e intellettuale del medico universitario, che progressivamente ascende da operatore pratico della salute, encomiabile ma pur sempre «meccanico», a filosofoscienziato che conosce i segreti della natura. L’affermazione di origine alessandrina (ripresa nel VI secolo da Isidoro di Siviglia) secondo cui la medicina era una «seconda filosofia» diventa finalmente realtà. Questo cambiamento implica che il corpo umano – e con esso la salute, la malattia, la guarigione – diventa un fenomeno indagabile, che segue regolarità come il moto degli astri o altri eventi naturali. Dal XII secolo in poi, specie con le ricerche filosofico-naturalistiche della Scuola 16

MEDICINA

Storia di una scienza

di Chartres, la Natura tutta non è piú il terreno degli interventi miracolistici di un Dio che continuamente vi interviene, ma si presenta come un progetto razionale regolato da leggi previste all’atto della Creazione. Al tempo stesso, come opera di Dio, corpo e salute acquisiscono un valore che si riverbera su chi se ne occupa.

«Onora il medico»

Cosí, se nell’Alto Medioevo il riferimento biblico legato alla medicina era «Io, il Signore, sono colui che ti guarisce» (Esodo, 15,26), dal XII secolo si ricorre preferibilmente all’esortazione «Onora il medico perché è stato istituito da Dio e ne hai bisogno» (Ecclesiastico, 38. I). Il medico dunque è divenuto per tutti lo specialista della salute fisica, separato ormai dall’uomo di chiesa che si riserva il compito di curare l’anima. Dotato di un sapere razionale che gli è stato impartito secondo un curriculum ufficiale, egli è un peritus, un professionista che esercita determinati atti canonici (l’esame esterno, del polso e delle urine) finalizzati alla diagnosi e alla cura. La sua preoccupazione diviene ben presto quella di farsi compensare, o meglio di riuscire a giustificare le proprie parcelle (che stando alle

Miniatura raffigurante Claudio Galeno che raccoglie erbe medicinali, da Les Ditz Moraux de Philosophes tradotto dal latino al francese da Guillaume de Tignonville. Inizio del XV sec. San Pietroburgo, Biblioteca Nazionale. Nella pagina accanto miniatura raffigurante un paziente che mostra al medico il proprio piede malato, da un’edizione del Continens, traduzione in latino dell’al-Kitab al-Hawi, trattato del medico, filosofo e alchimista persiano Rhazes (forma latinizzata di Abu Bakr Muhammad ibn Zakariyya al-Razi). XIV sec. Parigi, Bibliothèque de la Sorbonne.


UN PO’ FILOSOFIA E UN PO’ ARTE MECCANICA Tra il Duecento e il Cinquecento, il problema teorico piú dibattuto dai medici riguarda la natura della disciplina: la medicina è definibile come scienza oppure è piú propriamente un’arte? La connessione con la filosofia naturale – che spiega elementi, principi e cause del mondo fisico e animale – le conferirebbe per estensione lo statuto di «scienza» secondo il paradigma aiistotelico. Ma la medicina è anche un sapere operativo, una tecnica indissolubilmente legata al fine che la identifica, cioè il mantenimento e il ripristino della salute. I due aspetti devono convivere in un rapporto dinamico, che leghi le regolarità delle leggi naturali all’occasionalità irripetibile dell’intervento singolo, la teoria alla pratica medica, e che assicuri alla medicina una collocazione «nobile» tra le discipline ma al tempo stesso autonoma. Nelle università italiane, in cui mancano a lungo le facoltà di teologia, e soprattutto a Padova, dove primeggia la facoltà di arti (cioè filosofia), la medicina tende a emulare

la filosofia naturale aristotelica, sottolineando il proprio carattere di scienza. Caposcuola di questa tendenza è Pietro d’Abano, con il suo Conciliator differentiarum philosophorum et praecipue medicorum (1310 circa). Alla fine di un secolare processo di discussione che coinvolge anche i debiti specifici della dottrina verso il filosofo per antonomasia (Aristotele) e il principe dei medici (Galeno), si trova la via per definire l’articolazione della disciplina. Nel primo dei suoi Sermones medicinales, Nicolò Falcucci, celebre medico fiorentino morto nel 1412, sancisce che la medicina si articola gerarchicamente, dalle conoscenze piú generali agli atti determinati, in scienza teorica, parte pratica della scienza, arte, intervento operativo puntuale. In questo modo la parte «alta» della medicina-scienza si connette alla filosofia naturale, mentre l’esito concreto si avvicina alle arti meccaniche, senza tuttavia cadere nell’empiria, grazie ai passaggi teorici precedenti che lo sorreggono.

fonti erano spesso esose), neutralizzando l’ingiunzione ecclesiastica a curare gratuitamente. Prima del Mille, infatti, una dura ammonizione del vescovo di Verona, Raterio, aveva ricordato ai medici che la salute del paziente, cosí come le capacità del medico, i suoi strumenti di cura e i farmaci erano tutti doni di Dio: perciò il vero medico cristiano, pena il peccato di simonia, non poteva pretendere alcun compenso. Tre secoli dopo, il medico laico dichiara di «vendere» non piú i doni di Dio, ma la propria fatica nello studio, con il quale egli ha fatto fruttare i talenti naturali ricevuti e li mantiene efficaci seguitando a leggere e a migliorarsi. Con questo argomento il medico dotto colpisce anche i ciarlatani: la loro sarebbe una truffa, perché nulla avrebbero da vendere se non servizi inesistenti e incompetenza. Sistemato cosí in modo soddisfacente il problema generale del diritto alla mercede, il

AL SERVIZIO DEI COMUNI Oltre a operare privatamente per lo piú nelle città, il medico si vede assegnare dalle autorità municipali numerose mansioni pubbliche e diventa in molti casi anche un alto funzionario. I medici coordinano l’organizzazione degli ospedali e sono chiamati nelle commissioni che legiferano su misure sanitarie e, soprattutto in caso di epidemia, sono i principali responsabili della salute pubblica. Tra le loro piú frequenti incombenze rientrano la partecipazione alle sedute di tortura giudiziaria e la collaborazione alle commissioni incaricate di scegliere altri funzionari – il maniscalco, il maestro di grammatica, il chirurgo, soprattutto – che il

Comune intende assumere. L’attività e le mansioni dei medici alle dirette dipendenze delle città («medici condotti») sono regolate da precisi contratti in cui sono specificati: le prestazioni professionali; gli obblighi (risiedere stabilmente in città); i compensi (variabili, ma in genere abbastanza dignitosi); i privilegi (esenzione dalle tasse comunali; l’affitto di una casa a sua scelta pagato dal Comune). Dal XIII secolo, quasi ogni comunità provvede sia a regolamentare l’attività dei liberi professionisti entro le proprie mura, sia ad assicurarsi i servizi di un medico municipale, a cui affidare in primo luogo la cura dei malati poveri del territorio. MEDICINA

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LA MEDICINA NEL MEDIOEVO

Storia di una scienza nuovo professionista della salute ne definisce lucidamente le quote a seconda del censo del paziente: secondo Gilles de Corbeil, il piú famoso medico francese a cavallo fra XII e XIII secolo (ma affermazioni simili sono diffuse), l’infermo povero ha diritto a essere curato gratuitamente per obbligo di carità, il potente e il nobile compenseranno il professionista con l’autorevolezza e il prestigio che indirettamente ne ricaverà (o tutt’al piú con qualche dono). Sarà dunque la nuova borghesia urbana a sostenere da sola i lauti onorari che permettono al medico tali larghezze.

Un modello comune

UNA PROFESSIONE REDDITIZIA Nelle storie della propria città che i cronisti scrivono sul finire del Medioevo, vengono menzionati anche i medici, a testimonianza del ruolo sociale eminente che hanno ormai assunto nella vita cittadina. Nelle Croniche dei Villani, tra le Vite di illustri Fiorentini, un’intera sezione è dedicata ai medici piú famosi. Taddeo Alderotti, nato a Firenze da modesta famiglia, pare che in gioventú fosse pigro, quasi ottuso e privo di obiettivi, e «lungamente poverissima e bruttissima vita menò». Sui trent’anni diventa un uomo nuovo, si dedica in modo forsennato agli studi, percorre tutto il curriculum velocemente e diventa insegnante autorevolissimo, e medico ricercato dai signori d’Italia «con salari smisurati». Dino del Garbo, oltre che medico e docente, è esperto anche di filosofia e di etica: talora è cosí preso dalle speculazioni filosofiche da apparire quasi sciolto da leganti terreni ed «estatico»; ma è pur sempre affabile e «umano e allegro nella visitazione degli infenni». Il figlio Tommaso, anch’egli filosofo e medico, data la sua «dottrina e diligenza nel medicare», diventa assai ricco con la professione, ma non smette mai di studiare, approfondendo sempre piú il suo sapere. Si rallegrava della compagnia degli uomini, ed era «giocondo, piacevole e lieto». Come si può notare, in queste descrizioni vengono sempre messi in rilievo il nesso tra teoria e pratica e la ricchezza che la professione garantisce; ma anche l’importanza del sapere e dei continui studi: quello studio, che nell’Alto Medioevo appariva una vana curiosità, è diventato il carattere che definisce il medico e il suo dovere etico principale.

Un’altra miniatura tratta da un’edizione del Continens, raffigurante un medico che pratica un’incisione sulla guancia del paziente. XIV sec. Parigi, Bibliothèque de la Sorbonne.

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MEDICINA

Le prime università di medicina nascono come regolarizzazione di rapporti tra studenti e maestri che in origine erano di tipo privatistico. Gli atti successivi sono la fondazione per concessione sovrana di uno Studium con i connessi privilegi, l’organizzazione delle corporazioni dei professori-professionisti e degli studenti, e la formulazione degli statuti che regolano il curriculum di studi. A Montpellier come a Parigi, a Bologna come a Padova, si studiano all’incirca gli stessi testi, e anche se gli statuti vengono via via aggiornati per far posto a nuove traduzioni e suddivisioni disciplinari, si può dire che il medico medievale europeo viene formato su un modello comune strutturato intorno alla divisione tra teoria e pratica, tra scientia e ars (per Aristotele, tra episteme e techne). Le autorità erano, come si è già detto, Galeno (per la teoria medica generale, la fisiologia, la teoria delle complessioni e la patologia), Ippocrate (per gli Aforismi, la clinica, la prognostica), Aristotele (per la zoologia, l’anatomia e la fisiologia comparate contenute nei libri De animalibus, ma anche per parti e definizioni contenute nel De anima, nella Metafisica, Fisica ed Etica), e Avicenna (soprattutto per il Canone, sterminata enciclopedia dalla struttura modulare le cui numerosissime sezioni tra loro relativamente indipendenti si prestavano all’insegnamento della farmacologia, della nosologia, delle febbri; un libro, il terzo, costituiva da solo in molti curricula la base dell’insegnamento di medicina pratica). A essi si aggiungevano testi specialistici sulle urine, le febbri, le malattie degli occhi, i battiti del polso. In Italia vi erano anche percorsi curricolari autonomi per i futuri chirurghi, che godevano di una posizione piuttosto elevata dovuta al rango di disciplina accademica attribuito fin dall’inizio alla materia. I testi previsti nei loro corsi erano soprattutto la Chirurgia di Bruno da Longobur-


UNA TERAPIA A BASE DI DIETA, MEDICINE E... BUONUMORE Taddeo Alderotti, medico bolognese, fu grande docente ma anche rinomato professionista. Frutto di questa attività sono i Consilia, descrizioni di casi clinici e di terapie per singoli pazienti: si tratta dunque di «pareri» terapeutici personalizzati. Naturalmente questi infermi sono per lo piú personaggi di alto rango, o almeno assai ricchi: da altre testimonianze sappiamo infatti che le prestazioni di Taddeo costavano molto; inoltre, solo malati abbienti potevano seguire il regime di vita (la dieta, il modo di riposare e di vestirsi, la convalescenza), e assumere i costosi farmaci da lui prescritti. Richiesto di curare il doge di Venezia, Taddeo scrive un lungo consilium sul caso. Inizia con i sintomi e la diagnosi: apparentemente il doge soffre di una malattia renale, dato che presenta forti disturbi urinari e perdita abbondante di sangue nelle urine. Rileva poi che, se

go o di Guglielmo da Saliceto, rinomati maestri duecenteschi rispettivamente a Padova e a Bologna, insieme alle parti chirurgiche del Canone di Avicenna, di testi di Galeno (De methodo medendi) e Rhazes (Continens o Liber regalis). L’insegnamento si articolava in diversi momenti con modalità comuni a tutta la didattica universitaria: la lectio, lettura e spiegazione di un testo con l’ausilio di autorevoli commenti; la quaestio, esercitazione per contraddittorio, ispirata alle pratiche dei giuristi, su difficoltà di interpretazione o su divergenze tra autori; la disputatio, esercizio di dialettica tra diversi studenti e maestri su un determinato problema. Dal Trecento in poi si aggiunse la dimostrazione anatomica, cioè la spiegazione dell’anatomia arabo-galenica (sul testo del bolognese Mondino dei Liuzzi) con ostensione delle parti sul cadavere e l’intervento dei chirurghi. La didattica della pratica medica era modellata su quella della teoria, e non si fondava, in Italia almeno, sul tirocinio regolamentato. Supplivano a questa carenza le raccolte di consilia, casi clinici affrontati dai maestri nell’esercizio della professione: le raccolte erano redatte per lo piú in uno stile descrittivo che illustrava con attenzione e abbondanti dettagli la diagnosi, la terapia e il decorso della malattia di personaggi identificati, spesso illustri, tali da comprovare la fama dell’autore (vedi, per esempio, il consilium per la malattia del doge di Taddeo Alderotti). Al limite tra insegnamento e professione si collocavano altri generi di opere afferenti alla parte pratica della medicina: raccolte di ricette, prontuari, enciclopedie terapeutiche (le Practicae) che solitamente presentavano le malattie se-

questa patologia principale è già in sé seria, le complicazioni che comporta potrebbero aggravarsi, diventando malattie derivate: consunzione, idropisia, danni permanenti alla vescica. Si procede dunque innanzitutto all’indicazione della cura per la malattia primaria e poi per le affezioni secondarie: per tutte vengono prescritti l’opportuna dieta (gli alimenti sono minuziosamente elencati), e i medicamenti specifici. Dal momento che all’inizio Taddeo aveva rilevato che la causa generale di questo complessivo malessere consisteva nel fatto che il doge aveva dovuto «moltiplicare oltre il consueto pensieri e preoccupazioni», il consilium, saggiamente si chiude raccomandando che egli «tenga lontano da sé ogni preoccupazione, malumore e ira, e si cerchi per quaino è possibile di dargli letizia e allegria».

condo la tradizionale organizzazione «dalla testa ai piedi», di origine araba.

Una scienza medica uniforme

Oltre all’omogeneità di percorso educativo, l’università garantiva agli aspiranti medici di tutta Europa una scienza medica uniforme, nonostante ogni sede fosse caratterizzata da accentuazioni su determinati aspetti, e da indirizzi dottrinari particolari. Dal punto di vista epistemologico, la medicina universitaria si

Ancora una miniatura tratta dal Continens, raffigurante un medico che esamina le urine del suo paziente. XIV sec. Parigi, Bibliothèque de la Sorbonne.

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LA MEDICINA NEL MEDIOEVO collocava deliberatamente, nell’albero delle scienze, in posizione intermedia tra la metafisica o la teologia, di cui non metteva in discussione i fondamenti, e le abilità artigianali, induttive, incontrollate, dei praticoni e dei ciarlatani, alle quali ormai guardava con superiorità. Essa era un’articolazione della filosofia naturale, con un «oggetto» particolare, l’uomo, e un fine pratico, la salute. Per quanto riguarda il contenuto dottrinale, i testi aristotelici fornivano la teoria naturalistica di base, mentre il sapere tecnico-specialistico era ispirato alla fisiopatologia galenica nella reinterprezione araba. Eccone un sintetico quadro. Nel complesso il sistema medico medievale si presenta con una struttura quadripartita, composta di elementi (acqua, aria, terra, fuoco), qualità (caldo, secco, freddo, umido), umori del corpo (bile, flegma, bile nera, sangue, a loro volta caratterizzati da coppie di qualità). La varia proporzione degli umori e dunque degli elementi, mescolati o raccolti nelle diverse parti del corpo, dà la complessione, o temperamento naturale, dell’organismo intero: dunque un individuo può essere flemmatico, bilioso, sanguigno, melanconico. Sulla complessione, cioè sulla diversa proporzione degli umori in ciascun organismo, incidono la collocazione reciproca degli astri e il loro moto. All’interno del corpo la vita si svolge secondo tre modalità o poteri dell’anima, dette «virtú», attribuite per natura a determinati membri con le loro funzioni e operazioni, e adempiute per mezzo di «spiriti» che si spargono per il corpo: la virtú naturale, situata nel fegato e negli organi riproduttivi, è preposta alla nutrizione, allo sviluppo e alla generazione; la virtú vitale, situata nel cuore, fornisce la vitalità fondamentale e il moto; la virtú animale, situata nel cervello, è preposta alla sensibilità, al pensiero e alla volontà.

Virtú e parametri

La fisiologia medievale, come il galenismo suo antecedente diretto, ha radicati debiti filosofici e scarso interesse a porre sotto esame la base anatomica del sistema delle «virtú» (solo nel XVI secolo si darà inizio a un rinnovamento corroborato dall’indagine diretta che metterà in discussione tutto il sistema medico galenico). Dall’altra parte, invece, la teoria patologica e la terapeutica si sviluppano rigogliosamente attorno a una gran quantità di parametri. Per determinare la complessione e le sue variazioni piú o meno patologiche il medico deve considerare le sette «cose naturali» (elementi, 20

MEDICINA

Storia di una scienza

NELLE CASE PER AIUTARE I MALATI Conservato anche nell’Alto Medioevo, e poi continuamente ripreso e commentato, il Giuramento di Ippocrate ha da sempre fondato la deontologia del medico: prospetta impegni etici (con i maestri e con i pazienti) considerati cosí elevati che Cassiodoro (VI secolo), per esempio, vi vede somiglianze coi voti sacerdotali. Offriamo qui una versione essenziale dei precetti. «Giuro su Apollo medico e su Asclepio (...) e su gli dèi tutti e le dee (...) di tener fede secondo le mie forze e il mio giudizio a questo giuramento (...) Riterrò chi mi ha insegnato quest’arte pari ai miei stessi genitori, e metterò i miei beni in comune con lui (...), e i suoi discendenti considererò alla stregua dei miei fratelli, e insegnerò loro quest’arte (...) senza compensi né impegni scritti; trasmetterò gli insegnamenti scritti e verbali e ogni altra parte del sapere ai miei figli cosí come ai figli del mio maestro e agli allievi che hanno sottoscritto il patto e giurato secondo l’uso medicale, ma a nessun altro (...) Non darò a nessuno alcun farmaco mortale neppure se rchiestone, né mai proporrò un tale consiglio: ugualmente non darò alle donne pessari per provocare l’aborto. Preserverò pura e santa la mia vita e la mia arte (...) In quante case entrerò, andrò per aiutare i malati, astenendomi dal recar volontariamente ingiustizia e danno, e specialmente da ogni atto di libidine sui corpi di donne e uomini, liberi o schiavi. E quanto vedrò e udirò esercitando la mia professione (...) lo tacerò ritenendolo alla stregua di un sacro segreto» (Opere di Ippocrate, a cura di Mario Vegetti, Torino 1965; pp. 415-416).

Affresco raffigurante Ippocrate (a destra) che discute con Galeno. Fine del XII-inizi del XIII sec. Anagni, cattedrale di S. Maria Annunziata, cripta di S. Magno.

qualità, umori, parti, facoltà, operazioni, spiriti); le quattro condizioni in cui può trovarsi ognuna delle «cose naturali» (età, sesso, colorito, figura); le sei «cose non naturali» che possono incidere sulle condizioni del corpo (clima, alimentazione, moto e quiete, sonno e veglia, svuotamento e riempimento, passioni dell’animo). Nella complessione poi il medico


deve calcolare i «gradi» in cui è presente l’una o l’altra qualità, elemento o umore.

Cure, farmaci e calcoli

Poiché la salute corrisponde, al di là delle variazioni individuali, al giusto equilibrio tra gli elementi che compongono l’organismo (man mano che esso se ne allontana, si avvicina alla malattia), la medicina si propone il compito di conservare lo stato di salute ovvero di equilibrio con appositi regimi di vita, oppure di farlo recuperare, contrastando la «discrasia» con cure (salassi, evacuazioni, ecc.) e con farmaci; all’impiego questi ultimi si applicano speculari calcoli dei gradi di caldo, secco, freddo o umido da

Miniatura raffigurante un medico che visita il suo paziente tastandogli il polso, poi lascia la stanza per comunicare la sua diagnosi ai parenti del malato, da un’edizione del Canone redatto dal filosofo, medico e letterato persiano Avicenna. 1438. Bologna, Biblioteca Universitaria.

somministrare al paziente (si vedano gli Aphorismi de gradibus di Arnaldo da Villanova). Naturalmente la realtà della malattia e della cura coinvolge molte altre figure al di là dei medici dotti di cui abbiamo seguito la formazione. Un gradino sotto di loro, per la scarsezza teorica e la prevalenza tecnico-operativa della disciplina, si collocano i chirurghi, spesso collaboratori esecutivi dei medici. Ancora piú in basso operano barbieri, flebotomi, conciaossa, «medici ocularii», erniari o che curano il mal della pietra, e poi levatrici ed erborizzatrici: una popolazione di empirici specialisti che spesso ruba il mestiere e il guadagno a chi ha studiato, e in cambio ne riceve disprezzo e dichiarata ostilità. MEDICINA

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LA MEDICINA NEL MEDIOEVO

Storia di una scienza

DI ROSSO E D’AZZURRO MI DEVO VESTIRE... Protagonista della Novella 155 del Trecentonovelle di Franco Sacchetti è il maestro Gabbadeo da Prato, il quale, all’indomani della morte del celebre medico Dino Del Garbo, decide di trasferirsi a Firenze, sperando di raccogliere l’eredità del collega, in termini di successo professionale. Gabbadeo, però, è un medico di campagna e si rende conto che deve assumere un aspetto piú autorevole e «renovare li (...) vestimenti e le (...) fodere di vai», dal momento che i «batoli» del suo tabarro erano tali «da sembrare due sugnacci di porco affumicato» e «vai e foderi, erano sí pelati, che non è niun pellicciaio, che avesse potuto conoscere di che bestie fusson fatte quelle pelli». Il vaio, la pelle dello scoiattolo grigio, con la pancia bianca, sul lucco o il lucchesino, il panno di lana piú fine, di colore rosso, rappresentava un elemento discriminante in una pur ricca società, che si vestiva di gamurra (abito che è, insieme, veste e sottana), mucaiarro (tessuto di origine mediorientale, di filaticcio) e pappafico (sorta di cappuccio che copre la testa e le spalle e che si può rialzare a riparare il viso)... L’abito del medico, quindi, si configurava come uno status symbol, che lo rendeva riconoscibile all’interno della società e ne qualificava il ruolo e il prestigio, come, del resto, accadeva anche per altre categorie professionali, come i giudici, gli avvocati, i notai: nell’uniformità delle vesti e nella condivisione di uno stesso tipo di linguaggio tecnico, si attuava l’autorappresentazione di una classe, professionale e sociale nello stesso tempo. Allo stesso modo, Boccaccio, nella nona novella dell’ottava giornata del Decameron, ironizza sul costume del medico: «E fu colui a cui fu fatto un medico, che a Firenze da Bologna, essendo una pecora, tornò tutto coperto di pelli di vai (...) co’ panni lunghi e larghi, e con gli scarlatti e co’ vai, e con altre assai apparenze grandissime».

Un originale sincretismo Con lucco rosso, veste azzurra e vaio sono raffigurati anche i santi Cosma e Damiano: fratelli, compagni di professione e poi di martirio, sono legati alla dinastia medicea sia per l’allusione al nome della casata, sia per onorare Cosimo, fondatore della potenza della famiglia. Anche quando Pontormo raffigurò sotto le sembianze di questi santi Cosimo

In alto, sulle due pagine La guarigione di Palladia da parte dei Santi Cosma e Damiano, scomparto della predella della Pala di San Marco, tempera su tavola del Beato Angelico. 1438-1440. Washington, National Gallery of Art. A destra San Cosma, particolare del trittico Annunciazione tra San Cosma e San Damiano, tempera su tavola di Taddeo di Bartolo. 1409. Siena, Pinacoteca Nazionale. 22

MEDICINA

Pater Patriae e Cosimo I, granduca di Toscana, ricorse al lucco rosso e pose in testa a Cosma il rosso berretto rotondo. Un abile gioco di armonie fa sí che Medici e medici ci sovrappongano in questo originale sincretismo. Protettori dei medici e dei chirurghi, presenti nella agiografia di varie zone d’Europa in questo ruolo, sono raffigurati sempre con gli attributi che li collegano al mondo della medicina: lucco rosso su veste blu, berretto e pelle di vaio costituiscono una sorta di uniforme, il cui colore dominante, lo scarlatto, è rimasto associato al percorso accademico degli studi medico-chirurgici. Completavano l’iconografia alcuni dettagli piú prettamente tecnici: una fiala, l’astuccio con gli strumenti chirurgici, la scatola coi «trocisci», la matula per l’esame delle urine. Questo abbigliamento, connotativo di uno status sociale e di un ruolo professionale, era regolamentato da una normativa ben precisa, che coinvolgeva anche la consorte del medico, come si legge nella Prammatica del vestire, che risale al 1388 e nel suo aggiornamento del 1396. Il medico poteva indossare perle,


all’interno del quale il medico teneva una spugna imbevuta di aromi. Questa «spongia» aveva lo scopo di filtrare i miasmi ed evitare che la «mal’aria» venisse respirata o penetrasse attraverso i pori, all’interno dell’organismo, secondo le concezioni della medicina del tempo. Il medico, che nei periodi di pestilenza era costretto a frequentare ambienti «a rischio», si tutelava con questa sorta di espediente igienico, una sorta di presidio sanitario ante litteram... Donatella Lippi

A destra incisione che ritrae il dottor Chicogneau, rettore dell’Università di Medicina di Montpellier, inviato a Marsiglia per aiutare la popolazione, vittima dell’epidemia di peste. 1720. L’abbigliamento, ideato nel XVI sec., è composto da una tunica cerata, guanti e una maschera con occhiali protettivi e un lungo becco contenente sostanze aromatiche,

pietre preziose e cinture di fili d’argento. È cosí che il Beato Angelico raffigura i santi Cosma e Damiano nella predella d’altare in S. Marco, a Firenze, mentre stanno effettuando il primo trapianto della storia, impiantando la gamba di un Moro al pio guardiano della chiesa, che papa Felice aveva fatto costruire a Roma in loro onore.

Prevenire il contatto In tempo di emergenza sanitaria e di pestilenze, però, l’abito del medico si colorava di nero: una lunga veste, indossata su scarpe con tacco alto, corredata di guanti e di cappello, veniva completata da due accessori fondamentali: la bacchetta, con cui indicare la parte offesa, e una vistosa maschera. Ogni dettaglio di questo tipo di abbigliamento aveva una precipua funzione sanitaria: nel momento in cui la medicina non possedeva armi per contrastare la malattia, i Regimina Sanitatis prescrivevano regole igieniche per conservare la salute, cosí come l’abito del medico aveva la funzione di isolare l’operatore della salute rispetto al contagio. Tacchi alti, mani guantate, cappello, gorgiera e maschera rappresentavano un mezzo per prevenire ogni tipo di contatto con elementi contaminati. In particolare la maschera, la cui sagoma ricordava quella di un uccello rapace, era provvista di un ampio becco,

che si credeva proteggessero dal contagio. Il bastone permetteva di sollevare coperte e indumenti dei malati, evitando il contatto diretto.

SACRO ROMANO IMPERO

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LA MEDICINA NEL MEDIOEVO

Lo studio dell’anatomia

Visti da vicino, anzi, dall’interno


Nel corso del Duecento si torna a praticare la dissezione dei cadaveri a scopo didattico. Si trattava di operazioni complesse, che potevano svolgersi nell’arco di diversi giorni, ciascuno dei quali veniva dedicato a una ben precisa parte del corpo di Andrea Barlucchi

I

l principe e letterato arabo Usama ibn Munqidh (1095-1188), che, in qualità di ambasciatore, ebbe frequenti contatti con gli eserciti crociati, narra nella sua autobiografia Kitab al-I’tibar (Il libro della riflessione) un episodio indicativo del livello raggiunto dalla medicina in Europa agli inizi del XII secolo. Si trovava presso il campo francese un cavaliere afflitto da un ascesso a una gamba, curato da un dottore arabo per mezzo di impiastri e decotti; sopraggiunse però un medico franco che si sdegnò della terapia, da lui considerata assolutamente errata, e domandò al cavaliere se preferisse vivere con una gamba sola o morire con due. Ricevuta l’ovvia risposta, fece chiamare un robusto guerriero e gli chiese di tranciare con un solo colpo di scure l’arto malato; di fronte allo sbigottito spettatore arabo si svolse l’operazione, che richiese non uno ma due fendenti ed ebbe purtroppo lo spiacevole effetto collaterale di accoppare il malcapitato cavaliere. Usama conclude sarcasticamente il suo racMiniatura raffigurante una dissezione a scopo didattico, da un’edizione del Livre des propriétés des choses di Bartolomeo Anglico. 1485-1490. Parigi, Bibliothèque nationale de France. MEDICINA

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LA MEDICINA NEL MEDIOEVO conto dicendo: «Me ne ritornai al mio paese avendo imparato sul conto della loro medicina ciò che prima non sapevo».

All’inizio furono i maiali

Ma se a quel tempo la scienza medica europea si riassume tutta in questo episodio, proprio nel corso del XII secolo ha inizio un periodo di grande rinascita culturale e di scoperte che dura fino alla metà del Trecento. Espressione chiara di questo processo è la ripresa della pratica della dissezione dei cadaveri, sebbene essenzialmente a scopo pedagogico e non di conoscenza anatomica. Caduta in oblio nei lunghi secoli seguenti la fine del mondo classico, la dissezione venne ripristinata dalla Scuola medica di Salerno, dove costituiva parte integrante dei corsi. A Salerno si usava a fini didattici sezionare i maiali, e quindi la piú antica opera di anatomia che vede la luce sul continente europeo è l’Anatomiaporci, attribuita a un certo Cofone (un noto medico della Scuola salernitana il cui profilo biografico è tuttavia difficile da ricostruire, n.d.r.); dopo di essa, nel corso del XII secolo, vengono pubblicati altri quattro lavori del genere, nell’ultimo dei quali si comincia a trattare di anatomia umana. Bisogna però attendere la seconda metà del Duecento per avere notizie certe di dissezioni di cadaveri umani. Come mai trascorse cosí tanto tempo prima che i medici passassero dai porci all’uomo? Piú che a precisi divieti dell’autorità ecclesiastica, dobbiamo pensare a profondi condizionamenti di carattere culturale che impedivano di compiere tale passo: si trattava di mettere le mani (in senso letterale) sulla creatura fatta a immagine di Dio, aprirne il corpo che era stato creato chiuso e quindi perfetto. La rispondenza geometrica, che secondo il pensiero medievale esisteva tra i corpi celesti e quelli degli uomini, veniva sconvolta dalle mani profane del chirurgo, protese nella ricerca di un sapere che richiamava alla memoria l’albero di Eva e insieme la torre di Babele. C’era poi, nell’immaginario medievale, la sinistra figura dell’imperatore Nerone, il grande persecutore dei cristiani, il quale, secondo una leggenda diffusa, avrebbe fatto sezionare il corpo della madre da lui avvelenata e si sarebbe soffermato a esaminare, commentando e tastando, il cadavere, sorseggiando una coppa di vino: il chirurgo che apriva un corpo umano ricordava troppo da vicino questo episodio e questa figura per suscitare consenso e approvazione nell’opinione pubblica. Ma oltre a questi elementi, era il fatto di ri26

MEDICINA

Lo studio dell’anatomia

prendere una pratica caduta in disuso dai tempi del grande Galeno, padre indiscusso della medicina vissuto nella splendida civiltà della Roma imperiale. Si trattava di porsi in certo qual modo al suo pari, considerarsi suoi colleghi: grande doveva quindi essere la coscienza di sé che questi uomini avevano. Il primo a varcare questa soglia fu probabilmente il fiorentino Taddeo Alderotti (1215/12231295), dal momento che diversi suoi discepoli accennano a tali pratiche nelle loro opere. Del 1275 è la descrizione piú antica di una dissezione e si trova in un trattato di un insegnante dell’Università di Bologna, Guglielmo da Saliceto (1210-1277 circa). In un manoscritto datato all’ultimo decennio del XIII secolo, conservato a Oxford, abbiamo una vivida illustrazione di una di queste operazioni, che divengono abituali a Bologna, a partire dagli inizi del XIV secolo, grazie soprattutto all’opera di Mondino de’ Liuzzi (1270 circa-1326), il primo a comporre un trattato interamente dedicato all’anatomia, là dove in precedenza essa era sempre stata considerata disciplina sussidiaria a studi piú importanti. La descrizione della dissezione da lui operata nel gennaio del 1316, contenuta nel suo volume intitolato Anothomia, pubblicato nello stesso anno, fece scuola e divenne il modello a cui guardare per secoli. In essa troviamo codificate delle precise procedure.

Col beneplacito delle autorità

L’operazione avviene in giorni successivi, ognuno dedicato a una certa parte del corpo; siamo in Quaresima, tempo propizio anche per la rigidità del clima, che consente una migliore conservazione del corpo. Sono presenti le autorità civili, che hanno fornito il cadavere di una donna, e quelle religiose, che hanno dato il loro benestare e hanno in precedenza celebrato l’ufficio funebre per l’anima della defunta. Il cadavere sta appeso verticalmente, come ci si trovasse in una macelleria. Davanti a un numero ristretto di studenti e colleghi Mondino pratica un’incisione verticale, dallo sterno al pube, e una orizzontale, poco sopra l’ombelico, mettendo in mostra i muscoli addominali dei quali dà una descrizione accurata. Per una qualche ragione che non è chiara, i medici dell’epoca dimostrano un interesse spasmodico, quasi maniacale, per questa muscolatura. Mondino si serve di una bacchetta per indicare i vari segmenti. Poi è la volta del diaframma, altro elemento considerato di fondamentale importanza dalla medicina medievale perché divideva la parte dell’in-

L’autopsia, miniatura dal Liber notabilium di Guido da Vigevano, codice contenente 16 tavole illustrative, estratti di traduzioni latine delle opere di Galeno, un Regimen sanitatis e una Anathomia Philippi septimi con 18 figure che illustrano il metodo anatomico, secondo l’insegnamento bolognese di Mondino de’ Liuzzi. 1345 circa. Chantilly, Musée Condé.


E LA SCIENZA SI FA SPETTACOLO Nelle piú antiche raffigurazioni di dissezioni il cadavere appare appeso verticalmente, secondo l’uso delle macellerie di ogni tempo. In seguito, per ovvia praticità, si affermò l’impiego del tavolo orizzontale sul quale distendere il corpo sezionato, intorno al quale si affollavano maestri e allievi. Quando in epoca rinascimentale la dissezione acquistò un carattere sempre piú ritualistico e divenne avvenimento mondano, cominciò a porsi il problema di sistemare il pubblico con ordine intorno al tavolo di operazione: nacque il teatro di anatomia. Dal momento che la dissezione non avveniva tutti gli anni, i piú antichi teatri erano realizzati in legno ed erano smontabili, come quello dell’Università di Padova costruito nel 1490. Il piú antico teatro stabile di anatomia, ancora oggi esistente e visitabile, fu eretto a Padova nel 1595 da Girolamo Fabrici da Acquapendente, famoso chirurgo dell’epoca che, avendo accumulato con la sua attività un patrimonio considerevole, ne investí una piccola parte in tale opera. In questi gabinetti di anatomia rinascimentali l’insegnante non mette le mani sul cadavere, ma si trova su un palchetto prominente la scena dal quale legge i brani di Galeno che scandiscono la lezione. I tagli sul cadavere vengono fatti dall’«incisore», un semplice barbiere-chirurgo a cui era consentito operare. Infine un «ostensore» aveva il compito di portare in giro per i palchi i visceri e quant’altro veniva dissecato, in modo da consentire a tutti i presenti una visione adeguata.

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LA MEDICINA NEL MEDIOEVO

Lo studio dell’anatomia

UNA VASTA GAMMA DI STRUMENTI Miniatura raffigurante alcuni ferri chirurgici, da un manoscritto latino che ne illustra l’uso. XV sec. Venezia, Biblioteca Marciana.

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, il chirurgo medievale aveva a disposizione un consistente e variegato istrumentario: agli arnesi ereditati dalla medicina classica se ne erano aggiunti molti altri, anche perché in genere egli se li fabbricava da solo, secondo il proprio genio. La chirurgia araba, per motivazioni religiose, aveva notevolmente ridotto l’uso degli strumenti taglienti, preferendo di gran lunga l’uso del cauterio: fu la scuola

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In basso miniatura raffigurante un chirurgo che opera al collo, da un’edizione della Chirurgia Magistri Rogerii. XIV sec. Montpellier, Musée Atger. In alcune città italiane ai chirurghi fu proibito di medicare, perfino in casi gravi, mentre in altre la loro attività fu posta sotto il controllo dei medici, ai quali dovevano rivolgersi per prescrivere terapie e dispensare farmaci. Tuttavia, in caso di pestilenze, erano di fatto i chirurghi (e i barbieri) a occuparsi dei malati e a farsi carico delle mansioni piú pericolose.


medica di Salerno a riportare in auge il bisturi, all’epoca chiamato «spatumine». Questi bisturi medievali appaiono piú essenziali rispetto a quelli dell’età greco-romana, hanno il manico di legno invece che in ferro lavorato e, tranne quelli copiati dai trattati arabi, denunciano senza vergogna la loro derivazione dalle pratiche culinarie. Di gran moda erano i salassi, per cui ogni buon chirurgo si portava dietro numerose lancette: ne esistevano due tipi principali, con la lama a foglia di mirto, per aprire vene contenenti sangue «grosso» e torbido, e con la lama a foglia di olivo, per il sangue «sottile». Si usava suturare le ferite, per cui c’erano tre tipi diversi di aghi: triangolare, con la punta a forma di lancia, rotondo, smussato per tutta la sua lunghezza tranne la punta, e curvo, a uncino. Il filo era in refe, di crine animale o di metallo. Lo strumento principe, esistente in una infinità di forme, era senz’altro il cauterio in ferro, usato per arrestare le emorragie, asportare tumori, sterilizzare ferite e piaghe, aprire cavità patologiche come coadiuvante del bisturi. Spesso al momento dell’uso veniva inserito all’interno di un tubo metallico, per proteggere dal fuoco le carni circostanti. Operazione ricorrente era l’estrazione di frecce, per la quale esistevano diversi strumenti: il piú comune, noto come «propulsorio», consisteva in un’asta di ferro che, introdotta nella ferita, spingeva la punta della freccia per farla uscire dall’altra parte.

testino, dove «cuocevano» i cibi ingeriti, dalla parte superiore, nobile, sede dei pensieri e dell’animo, che non doveva essere «disturbata» dai fumi e dai miasmi che si producevano al di sotto. Prosegue quindi con gli intestini, che devono essere trattati presto a causa della loro deperibilità. Il fegato viene descritto come una «botte» o una «giara» per contenere il cibo, lo stomaco invece è proprio un «paiolo» per «cuocerlo»; altri «sacchetti» sono il fiele e l’intestino cieco, mentre il retto è una «borsa» chiusa da «lacci» (i muscoli dello sfintere). La metafora della «borsa», del contenitore, regna sovrana in queste descrizioni: analogamente, «borsa ricoperta di due tuniche» è l’utero, la placenta un «mantello». Gli organi genitali femminili sono simili a quelli maschili, solo «rovesciati all’interno».

Colori diversi per vene e arterie

Il secondo giorno è la volta della cassa toracica e del cuore, il terzo del cranio. Il cadavere viene quindi bollito per mettere in evidenza i nervi e lo scheletro. Mondino è aiutato da alcuni assistenti, fra i quali si distingue una giovane donna, Alessandra Giliani da Persiceto, che aveva sviluppato una tecnica particolare

per mettere in evidenza il sistema circolatorio: secondo testimonianze dell’epoca, ella riempiva vene e arterie di liquidi di colori differenti, che in breve tempo condensavano facendole irrigidire e rendendole cosí facilmente esaminabili dagli astanti. Tutta l’operazione della dissezione è svolta tenendo in mano i trattati di Galeno, leggendone ampi brani ad alta voce e andando a ricercare sul corpo sezionato conferma di quanto in essi affermato. Bisogna considerare però che Galeno non sempre è preciso e anzi non di rado prende grossi abbagli: Mondino cerca allora di far concordare lo scritto del grande maestro con quanto gli mostra l’evidenza, e quando questo non è proprio possibile se la prende con i traduttori arabi, infuriandosi, e con i copisti che a suo dire avrebbero corrotto il testo originale. Perché Mondino è sostenuto da una cieca fiducia nell’autorità del grande maestro greco, una fiducia che non concepisce in lui l’errore. Ma qualcuno andò oltre. Henri de Mondeville (1260-1316), medico personale del re di Francia Filippo il Bello, fondatore della chirurgia francese, fu insegnante agli inizi del Trecento presso l’Università di Montpellier, dove eseguí numerose dissezioni: nella sua opera egli mostra uno spirito decisamente moderno e libero, che lo spinge ad affermare che «il chirurgo non deve avere una tale fede in ciò che è scritto nei libri da non riscontrarlo lui stesso con la sua ragione». Mondeville riportò dal suo soggiorno bolognese numerose tavole di anatomia, elaborazioni effettuate a partire da schizzi tracciati frettolosamente durante le dissezioni alle quali aveva assistito. Inoltre egli si serviva, nelle lezioni agli studenti, di un cranio perfettamente spolpato e ripulito del quale smontava e rimontava i pezzi. Questa generazione di grandi personalità era destinata a non avere discendenza: dalla metà del Trecento si riapre l’antica frattura fra medico e chirurgo, reputato un praticone, quasi un ciarlatano. Le dissezioni si fanno sempre piú rare. La cattedra di chirurgia a Parigi rimane vacante e dal 1350 si richiede per regolamento agli studenti il giuramento che non avrebbero mai esercitato la chirurgia: quanta distanza da un Mondeville, il quale aveva affermato che la mente deve informare la mano nel suo operare e la mano a sua volta insegnare alla mente come interpretare la proposizione generale nel caso particolare! Perché la conoscenza dell’anatomia, tramite le dissezioni, compia dei progressi sostanziali bisognerà attendere il Cinquecento e l’opera di Andrea Vesalio (1514-1564). MEDICINA

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LA MEDICINA NEL MEDIOEVO

La Scuola Medica Salernitana

Un primato prestigioso La Scuola Medica Salernitana fu la prima istituzione del genere dell’Occidente. Diffondendo le conoscenze acquisite nella pratica quotidiana, divenne un punto di riferimento per l’intera Europa Costantino l’Africano esamina le urine dei pazienti, miniatura da un manoscritto medievale. Medico musulmano, divenuto monaco a Montecassino, Costantino tradusse moltissimi testi medici dall’arabo al latino, contribuendo allo sviluppo della Scuola Medica Salernitana.

L

a tradizione medica salernitana trae la sua origine dal sincretismo culturale generato dal fondersi di elementi del mondo antico, bizantino e islamico, che caratterizzò il Mezzogiorno d’Italia durante il Medioevo e che diede luogo a espressioni culturali e artistiche di respiro internazionale. E proprio questa straordinaria sintesi culturale favorí lo sviluppo di quell’Ars medica che, già dal X secolo, era divenuta di respiro internazionale. La leggenda che attribuisce la fondazione della Scuola Medica Salernitana a quattro maestri – Helinus, Adela, Pontus e Salernus: un ebreo, un arabo, un greco e un salernitano – ha proprio il suo significato nella individuazione dei quattro indirizzi culturali che contribuirono alla definizione dell’Ars medica. Va sottolineato, in ogni caso, che fino a quando, nel 1231, Federico II non ne codificò ufficialmente l’esistenza nelle Costituzioni di Melfi, la Scuola rappresentò sicuramente un

Nella pagina accanto l’«Uomo melotesiaco», da un prontuario della Corporazione dei Barbieri e dei Chirurghi di York. XV sec. Londra, British Library. La melotesia è la teoria secondo la quale esiste un rapporto diretto tra gli organi e i corpi celesti, qui espresso dalla raffigurazione dei segni dello Zodiaco in corrispondenza di varie zone del corpo. 30

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fenomeno culturale di ampia diffusione dell’esercizio sia pratico che teorico della medicina in ogni suo aspetto, ma non un’istituzione organizzata e dotata di una propria sede, di uno statuto e di programmi di studio. Ciononostante, proprio in quest’epoca essa raggiunse il suo massimo splendore, mentre il riconoscimento ufficiale da parte dell’autorità pubblica arrivò proprio nel momento in cui la fase di decadenza già in atto causava ormai seri problemi di sopravvivenza alla Scuola, sopravanzata dalle istituzioni universitarie di Bologna, Padova, Parigi e Montpellier. La Scuola venne favorita in modo determinante dalla presenza in città di una forte tradizione monastica, e del monachesimo benedettino in modo particolare, per il quale prendersi cura degli ammalati era un preciso obbligo: «Prima di tutto e soprattutto ci si deve prendere cura dei fratelli malati servendoli veramente come Cristo in persona» sanciva infatti la Regola di san Benedetto che poneva cosí tra i primi impegni dei monaci quello di assistenza ai malati e di studio dell’arte medica. In ogni monastero, come comanda la Regola, il monaco infirmarius si occupava dell’infermeria, curava gli ammalati e somministrava i medicamenti, sapientemente confezionati con le erbe coltivate nel giardino dei semplici del convento. La presenza a Salerno di una consolidata cultura scientifica e di importanti medici è documentata fin dai secoli X-XI, con la compilazione, tra l’altro, di importanti manuali destinati all’insegnamento. Tra i medici va ricordato soprattutto Costantino l’Africano (1015-1086), musulmano proveniente dalla Tunisia, che ebbe il merito di tradurre buona parte dei testi arabi che compendiavano la scienza medica degli antichi, dando un contributo di primaria importanza alla conoscenza dei trattati e delle tecniche della medicina araba e allo sviluppo successivo della Scuola


SACRO ROMANO IMPERO

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LA MEDICINA NEL MEDIOEVO

La Scuola Medica Salernitana

FLEMMATICI

«I flemmatici: hanno le forze fiacche, sono tarchiati, ma di bassa statura; la flemma li rende pingui e di sangue moderati, non si danno allo studio, ma all’ozio e al sonno, il flemmatico è debole di ingegno, lento nel muoversi, amante della pigrizia e del sonno, sputacchioso, di scarso ingegno, con la faccia grossa, e il colorito bianco».

salernitana che raggiunse il suo apogeo nel XII secolo, grazie anche all’incremento degli scambi commerciali con la Spagna, l’Africa e la Terra Santa. Costantino fu poi autore di numerose opere mediche tra cui i Libri duo de melancholia, i «dieci capitoli sull’occhio», il De Anatomia, la Practica, la Cyrurgia, il De Ginecia. Un discepolo dell’Africano, Giovanni Afflacio, seppe invece avvicinarsi a una visione piú scientifica e filosofica della medicina, che cosí definiva: «La medicina pratica si divide in due parti: la scienza che conserva la salute e quella che cura la malattia. La scienza che conserva la salute è stata molto coltivata dai medici antichi, dal momento che conservare la salute è cosa che si può fare meglio e con piú certezza che non ripristinare la salute, una volta che è andata perduta. La scienza che cura la malattia si divide in tre parti: conoscenza delle malattie, conoscenza delle condizioni morbose da cui derivano le malattie, conoscenza di come e dove si deve intervenire per curare le malattie».

Dal compendium al commentarium

Per il resto, l’evoluzione degli studi durante il XII secolo fu segnata da un rapporto piú critico con i testi precedenti, portando al passaggio dal compendium, pura e semplice raccolta di norme e principi medici, al commentarium, consistente nella rielaborazione critica dei modelli, arricchita da osservazioni e glosse e aggiornata con il frutto delle nuove esperienze. Vennero compilati in quell’epoca anche prontuari farmacologici e manuali di terapia che si avvalevano essenzialmente dei «semplici» vegetali, di cui i mae32

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Sulle due pagine le vignette di un manoscritto medievale raffiguranti i quattro caratteri dell’uomo.

stri salernitani erano profondi conoscitori. Ne risultò l’elaborazione di trattati (modello per quelli delle epoche successive) in cui le erbe venivano scientificamente indagate e classificate in base alle loro proprietà medicamentose, diversamente combinate e dosate secondo le varie applicazione terapeutiche. Anche la chirurgia cominciò a rientrare in quest’epoca nelle pratiche dei medici di Salerno, pienamente riconosciuta nella sua valenza medica, mentre l’anatomia veniva studiata sui testi, ma praticata, in questa fase, solo sugli animali. Vero vanto della Scuola di Salerno fu la medicina e chirurgia oculistica, branca di derivazione araba, con la compilazione di due opere, la Pratica oculorum e il Liber pro sanitate oculorum, su cui si sarebbe basata tutta la dottrina oftalmoiatrica successiva. Gli insegnamenti della Scuola ebbero grande diffusione grazie al Regimen Sanitatis Salernitanum, opera di grande divulgazione, in cui è racchiusa la summa dei precetti della Scuola Medica Salernitana, che andò ampliandosi nel tempo. Scritto in versi in modo da poter essere ricordato facilmente, contiene rimedi e consigli per preservare la salute uniformando la condotta di vita ai ritmi naturali del proprio ambiente e del proprio organismo: dieta rigorosa, passeggiate, riposo e misura nel gestire se stesso: «Se vuoi star bene, se vuoi vivere sano, // scaccia i gravi pensieri,l’adirarti ritieni dannoso. // Bevi poco, mangia sobriamente; non ti sia inutile // l’alzarti dopo pranzo; fuggi il sonno del meriggio; // non trattenere l’urina, né comprimere a lungo il

COLLERICI

«I collerici: la collera è l’umore che si riscontra negli impetuosi e uomini siffatti bramano prevalere su tutti; facilmente imparano, molto mangiano, presto crescono; sono magnanimi, generosi, avidi di onori. Il collerico è ruvido, fallace, irascibile, prodigo, audace, astuto, gracile, magro e di colorito giallo».


ventre; // se questi precetti fedelmente osserverai, tu lungo tempo vivrai. // Se ti mancano i medici, siano per te medici // queste tre cose: l’animo lieto, la quiete e la moderata dieta».

Alla ricerca dell’armonia

L’Ars medica salernitana si fondava sulle teorie umorali ippocratico-galeniche, e riprendendo il concetto di armonia che governa la composizione della materia, proposto già dal VI secolo da Pitagora di Samo e dalla scuola di Crotone, individuava nel disequilibrio tra quattro umori il generarsi della malattia. Cosí come quattro sono gli elementi costitutivi della materia – aria, terra, acqua e fuoco –, con le rispettive qualità fondamentali – caldo, freddo, secco, umido –, anche l’organismo umano è provvisto di quattro entità, gli umori, che ne formano la costituzione strutturale: sangue, flegma, bile gialla e bile nera. Le terapie adottate per ristabilire l’equilibrio umorale dovevano tendere dunque a eliminare o ad accrescere le secrezioni, tenendo conto dell’età del paziente, della parte del corpo in cui esse si producono, della stagione dell’anno in cui si è verificata la malattia. L’armonia corporea sta nella ricerca costante di bilanciare modi di essere e quantità, situazioni del corpo ed età della natura, mentre il compito della medicina sta nel ristabilire l’armonia tra i quattro elementi, attraverso lo studio preciso delle sintomatologie, avvalendosi dell’esame dei polsi, delle urine, del tipo di alterazione febbrile. La terapia individuata deve contrastare l’umore

SANGUIGNI

«I sanguigni: sono di natura pingui e gioviali, e sempre amano udire nuove parole, provano diletto in Venere e Bacco, nei pranzi e nel ridere, sono ilari e loquaci, di dolci parole. Sono versatili in ogni cosa; per qualunque ragione non li muove facilmente l’ira. Il sanguigno è generoso, appassionato, allegro, sorridente, rubicondo, amante del canto, muscoloso, molto audace e benevolo.

MALINCONICI

«I malinconici: resta ora a parlare della nera collera, che rende gli uomini tristi, deboli e poco loquaci; sono questi attivi nello studio e non inclini al sonno; sono costanti nei propositi, giudicano che nulla sia loro sicuro. Il malinconico è invidioso e triste, cupido e avaro, è fraudolento, timido e di colore terreo».

in eccesso utilizzando un rimedio di natura opposta tratto dal mondo vegetale, semplice o composto. Erano i semplici vegetali, infatti, alla base di ogni terapia, e venivano studiati in tutte le loro caratteristiche e classificati nelle loro qualità: caldi, umidi, secchi e freddi. Dalla varia commistione degli umori derivano i cosiddetti temperamenti, ossia il carattere, l’indole, la complessione di ogni persona: il sanguigno, il flemmatico, il collerico, il malinconico. Dopo l’istituzionalizzazione avvenuta con le Costituzioni di Melfi, nel 1252 la scuola ricevette la qualifica ufficiale di Studium da Corrado II di Svevia, che tentò anche di aggregarvi l’Università di Napoli fondata dal padre nel 1224, ma nel 1258 Manfredi ripristinò lo stato precedente. L’evoluzione istituzionale della Scuola, tuttavia, non serví a colmare la distanza che si era andata creando con le altre scuole di medicina; a partire dal XIV secolo, quando il centro del potere e dell’elaborazione culturale si spostò dal Mediterraneo al cuore dell’Europa, la Scuola Salernitana perse definitivamente la sua funzione trainante di grande richiamo internazionale, entrando in una nuova, lunga fase di stagnazione e decadimento. (tratto da: Maria Pasca, La Scuola Medica Salernitana dalle origini alle Costituzioni di Melfi, Napoli 1988). MEDICINA

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Il piú temuto dei flagelli

LE MALATTIE

di Maria Paola Zanoboni

Tristemente nota già in età antica, quando terribili epidemie colpirono la Grecia di Pericle e la Roma imperiale, nel Medioevo la peste tornò a investire con violenza il mondo allora conosciuto. In particolare, nel 1348, quando il morbo sconvolse l’intera Europa

Particolare di una miniatura raffigurante le cure date agli appestati, dalla raccolta di manoscritti nota come Franceschina (MS 1328). Ante 1474. Perugia, Biblioteca Comunale Augusta.


RE ARTÚ

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LA MEDICINA NEL MEDIOEVO

A

ffrontare un argomento come la peste rappresenta un’impresa notevole, sia dal punto di vista cronologico, sia in rapporto alla molteplicità dei suoi aspetti. Infatti, l’arco di tempo in cui si verificarono le epidemie parte almeno dall’antichità greca e romana, per arrivare fino ai primi decenni del XVIII secolo, e sono molti gli ambiti disciplinari coinvolti dal fenomeno, che toccò tutti gli aspetti della vita pubblica e privata. La storia della medicina e la storia sanitaria in genere (intesa come organizzazione di nuovi edifici ospedalieri, i lazzaretti), ma anche la psicologia, la letteratura, la demografia, la storia economica (e quindi quella politica) hanno affrontato nel corso dei secoli, con modalità diverse, ma spesso anche con coincidenze impressionanti, questo tema affascinante e terribile. Il primo storico a descrivere accuratamente una pestilenza fu Tucidide, il quale, narrando la guerra del Peloponneso (431-430 a.C.) tra Atene e Sparta, racconta come l’epidemia fosse scoppiata in Etiopia, imperversando poi in Persia e in Egitto, prima di raggiungere la Grecia, in un momento critico, durante l’assedio di Atene, e in condizioni igienico-sanitarie disastrose. I morti furono migliaia, fra cui lo stesso Pericle (429 a.C.): «I medici non bastavano a curare un male sconosciuto e nuovo (...) Vana era ogni altra arte umana». Non c’era rimedio che funzionasse: quello che faceva bene in un caso, si rivelava nocivo in un altro e chi guariva non era immune da ricadute. Molti evitavano di soccorrere i loro cari, che rimanevano a gemere abbandonati; si moriva per strada e nei luoghi pubblici, perivano i genitori sui corpi dei figli; i cadaveri venivano lasciati insepolti o cremati in massa, e alcuni gettavano i propri parenti sui roghi attizzati per altri. Gli uomini avevano perduto ogni rispetto per l’onore, la legge e gli dèi, dilapidavano le loro sostanze nel godimento sfrenato, ritenendo ormai effimere la vita e la ricchezza. Gli Ateniesi persero anche la fiducia nell’aiuto divino: le suppliche nei templi e il ricorso ai vaticini o a pratiche simili erano tutte cose inutili, e alla fine le abbandonarono.

Uno storico preciso come un medico

Acuto e attento osservatore della realtà, lo storico enumera i sintomi e gli effetti della malattia con la precisione di un referto medico, per poi allargarsi alle ripercussioni sull’anima. Scopo di Tucidide, che aveva sperimentato personalmente la malattia, e aveva «visto gli altri soffrirne», era quello di descrivere «come la pestilenza si sia manifestata, e con quali sintomi; in modo che, se un 36

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Peste e pestilenze

giorno dovesse di nuovo tornare a infierire, ognuno conoscendone prima le caratteristiche, abbia modo di sapere di che si tratta». Benché il morbo venisse dall’Etiopia, Tucidide non nasconde che fu l’avvelenamento dei pozzi perpetrato dagli Spartani a favorirne la diffusione (cosa che ha fatto ipotizzare che si trattasse in realtà di tifo). L’epidemia indebolí Atene a tal punto, da essere considerata una delle cause della sua sconfitta. Anche Lucrezio inserí la peste di Atene nel De rerum natura, con una descrizione molto simile a quella di Tucidide, anche se con uno scopo completamente diverso: quello di dimostrare l’utilità della dottrina epicurea nello sconfiggere la paura e nel raggiungimento della serenità interiore, persino in presenza delle peggiori catastrofi. Dopo di lui, Tacito narrò l’epidemia scoppiata a Roma nel 66 d.C., mentre Galeno fu testimone della «peste antonina» del II secolo d.C. Le epidemie di peste si ripeterono periodicamente fino alla metà dell’VIII secolo. Imperversarono soprattutto tra il V e il VI secolo, al tempo dell’imperatore Giustiniano (482-565): la maggiore pestilenza verificatasi durante il suo regno, quella del 542, venne descritta dallo storico Procopio di Cesarea.

Il miracolo dell’Arcangelo

Tra le epidemie dell’Alto Medioevo va ricordata anche quella che colpí Roma nel 590, contrassegnata dalla miracolosa salvezza della città operata dall’Arcangelo Michele, dopo una processione guidata dal papa Gregorio Magno. A ricordare l’episodio, venne posta una statua in cima alla Mole Adriana, ribattezzata per l’occasione «Castel Sant’Angelo». In seguito la malattia scomparve dall’Europa, per ripresentarsi tra il 1347 e il 1348. Secondo il resoconto del cronista piacentino Gabriele de Mussis, la pestilenza arrivò in Sicilia, a Messina, nell’ottobre del 1347 a bordo di una flotta di galee della Repubblica di Genova in fuga dal porto di Caffa, colonia genovese sulla costa della Crimea, dove il morbo era stato diffuso nel 1346/47 da un esercito mongolo che aveva preso d’assedio la città. Dalla Sicilia, l’infezione si propagò al resto della Penisola. Nel giro di tre anni tutta l’Europa fu contagiata, e, da questo momento in poi, la peste avrebbe continuato a flagellare il Vecchio Continente fino alla prima metà del XVIII secolo. E con la descrizione dell’epidemia del 1348 Boccaccio diede inizio al Decameron, la cui introduzione ne costituisce un’attenta analisi nella molteplicità dei risvolti eziologici, sociali,

San Sebastiano intercede a favore degli appestati, olio su tavola di Josse Lieferinxe, detto «Maestro di San Sebastiano». 1497-1499. Baltimora, Walters Art Museum. San Sebastiano veniva invocato dai fedeli come protettore contro la peste, in quanto sopravvissuto al martirio delle frecce, paragonate ai segni (bubboni) lasciati dal morbo. Nel dipinto è raffigurata la città di Pavia, colpita dalla pestilenza, come narra Paolo Diacono, nell’anno 680. Sulla sinistra, il santo si inginocchia davanti a Dio per chiedere la fine dell’epidemia, mentre un angelo e un demone battagliano in cielo. La tradizione narra che, durante l’epidemia, nella notte, per le strade della città, i Pavesi videro aggirarsi un angelo bianco e uno nero, entrambi con la spada in mano. Quest’ultimo, batteva la porta delle case e, per ogni colpo, una persona era destinata a morire il giorno dopo. La piaga cessò solo quando san Damiano, vescovo di Pavia, ottenne da Roma una reliquia del martire taumaturgo, al quale consacrò un altare nella chiesa di S. Pietro in Vincoli.


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LA MEDICINA NEL MEDIOEVO

Peste e pestilenze

UNA PIAGA MILLENARIA 430-429 a.C. pestilenza di Atene descritta da Tucidide e da Lucrezio 66 d.C. epidemia a Roma narrata da Tacito V-VI sec. morbo endemico, continuo ripetersi di epidemie 542 «peste di Giustiniano» descritta da Procopio di Cesarea 590 pestilenza a Roma, dopo la quale la Mole Adriana venne ribattezzata

«Castel Sant’Angelo» VIII sec. la malattia scompare dall’Europa 1348 la peste torna in Europa, epidemia descritta da Boccaccio XIV-XVII sec. morbo endemico, continuo ripetersi di epidemie 1524 epidemia durante la quale a Milano venne creato un cimitero

apposito per gli appestati 1576-1577 «peste di San Carlo»: l’epidemia comparve in Trentino nel 1574, contagiò nel

1576 Milano e si diffuse poi in tutta Italia, anche a causa degli spostamenti continui dei pellegrini per il Giubileo indetto in quell’anno. Ebbe un impatto devastante anche a Venezia e a Mantova 1630 pestilenza narrata nei Promessi Sposi e documentata da Giuseppe Ripamonti 1665 epidemia di Londra descritta da Defoe 1720/21 epidemia di Marsiglia: il morbo viene debellato dall’Europa grazie a un rigido cordone sanitario

Mare del Nord

Oceano Atlantico

A sinistra cartina nella quale sono riportate le piú importanti epidemie che colpirono l’Europa. Le pestilenze, naturalmente, non interessarono solo le città indicate, ma ebbero sempre una diffusione ben piú ampia.

Mosca

Copenaghen Londra 1629 1665

Lubecca Amsterdam 1663-1664 Varsavia Francoforte

Rouen Parigi

Marsiglia 1720-1721 Barcellona

Praga Caffa 1346 -1347

Vienna Milano 1524 1576 1630

Toledo

Varsavia

Magdeburgo

Firenze 1348 1383

Venezia 1329

Bucarest

Ravenna Salonicco Roma 66 d.C. 590 Atene 430-429 a.C. Messina 1347

Mar Mediterraneo

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Ankara


economici e psicologici, rappresentando una testimonianza di primaria importanza sia per la storia della medicina, sia per quella del costume, della società, dell’assistenza. Venuto dall’Oriente nel momento in cui Firenze era piú bella, il morbo si diffuse – dice il Boccaccio – nonostante i provvedimenti igienici presi per cercare di fermarlo: la pulitura della città dalle immondizie e il divieto di entrarvi agli ammalati. Nell’accurata enumerazione dei sintomi della malattia, lo scrittore rivela chiaramente che si trattava di peste bubbonica, distinguendola dalla versione orientale, caratterizzata invece dal flusso di sangue dal naso (forse peste polmonare). Osserva poi che il contagio avveniva non soltanto mediante la vicinanza a un malato, ma anche attraverso il contatto con oggetti, e, soprattutto, con indumenti utilizzati da un infermo, passando indifferentemente dagli uomini agli animali e dagli animali agli uomini. Non c’era rimedio valido, pochissimi guarivano, e la maggior parte degli infettati moriva tre giorni dopo l’apparire dei sintomi. Devastanti gli effetti psicologici di tutto questo: si abbandonavano gli infermi e si evitava ogni contatto con loro e con le loro cose. Venne meno il rispetto per le leggi umane e divine, e ciascuno cominciò a ritenere lecito ciò che piú

gradiva. Alcuni si chiusero in casa mangiando e bevendo con moderazione, e isolandosi completamente dal mondo, non volendo «di fuori, di morte o d’infermi alcuna novella sentire». Altri si diedero agli eccessi piú sfrenati, vagando da una taverna all’altra senza negarsi nulla, ritenendo «il bere assai e il godere e l’andar cantando attorno e sollazzando e il soddisfare ogni cosa all’appetito che si potesse, e di ciò che avveniva ridersi e beffarsi esser medicina certissima a tanto male». Altri ancora si illudevano che fiori, erbe odorose e spezie li avrebbero preservati dalla malattia. Altri, infine, fuggirono dalla città per rifugiarsi nelle campagne.

Miniatura raffigurante una processione di Flagellanti durante un’epidemia di Peste Nera, da un’edizione della Chronique di Gilles Le Muisis. 1349-1353. Bruxelles, Bibliothèque royale de Belgique. Durante gli anni della grande pestilenza i movimenti dei Flagellanti si diffusero in quasi tutta Europa e particolarmente in Germania, Italia, Francia, Ungheria e Paesi Bassi. Centinaia di uomini, vestiti con saio e cappuccio, vagavano in processione per le città cantando lodi al Signore e percuotendo il proprio corpo pubblicamente con lunghe fruste dotate di punte metalliche, persuasi di placare l’ira divina che doveva essere all’origine dell’epidemia mortale. Nel 1349 papa Clemente VI condannò aspramente il movimento dei penitenti, ormai fuori controllo, giudicandolo eretico. La repressione dei Flagellanti durò per tutto il XIV e XV sec., con processi seguiti da molte condanne al rogo.

L’emergenza cancella la pietas

Il terrore del contagio si era insinuato cosí a fondo negli animi che «l’un fratello l’altro abbandonava, e il zio il nipote, e la sorella il fratello, e spesse volte la donna il suo marito; e (che maggior cosa è e quasi non credibile), li padri e le madri i figlioli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano». Agli infermi non rimaneva altro aiuto che la carità di pochi amici, e, soprattutto, l’avidità dei domestici i quali, attratti da «grossi salari», si prestavano a svolgere le mansioni piú rischiose, perdendo spesso essi stessi la vita insieme al guadagno. Vennero meno il senso del MEDICINA

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LA MEDICINA NEL MEDIOEVO

I RIFLESSI SULL’ECONOMIA

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Milioni di abitanti

1340 1400

16

12,5 11 9,5

9

8,3

7,7 5,3

Italia

4,4

Germania Inghilterra Francia

pudore, il decoro nei riti funebri: molti morivano soli, senza essere pianti da nessuno, anzi, in luogo delle lacrime «s’usavano per li piú risa e motti e festeggiar compagnevole». Raramente la bara veniva accompagnata in chiesa da piú di 10/12 persone, trasportata non da onorati cittadini amici del defunto, come di consuetudine, ma da «una maniera di beccamorti sopravenuti di minuta gente, che chiamar si facevano becchini, la quale questi servigi prezzolata faceva», e che «con poco lume» e spesso senza alcun seguito, sotterravano poi il feretro nella prima sepoltura che trovavano libera. Se questa era la sorte dei benestanti, molto peggiore era la situazione della povera gente e di gran parte del ceto medio: morivano a migliaia, senza alcun aiuto, per strada o imputridendo nelle case. I corpi erano gettati a centinaia nelle fosse comuni «e in quelle stivati come si mettono le mercatantie nelle navi a suolo a suolo». Tremende poi le condizioni del contado, i cui abitanti «non come uomini ma quasi come bestie morieno». Tra il marzo e il luglio del 1348 – conclude Boccaccio – «oltre a centomilia creature umane si crede per certo dentro alle mura della città di Firenze essere state di vita tolte».

Conseguenze devastanti

La tremenda pestilenza del 1348 è considerata dagli storici come un momento di cesura fondamentale nell’assetto economico europeo, rappresentando il culmine, nonché l’epilogo di una crisi «malthusiana» in atto già dalla fine del Duecento. Tra l’XI e il XIII secolo, infatti, la popolazione era complessivamente molto aumen40

MEDICINA

Peste e pestilenze

Dopo che per tre secoli si era registrata una crescita quasi continua, all’inizio del Trecento una serie di disastrosi eventi climatici e le gravi carestie che seguirono, indebolirono la popolazione europea, favorendo la diffusione delle epidemie di peste che investirono il continente a partire dal 1348, ripresentandosi piú volte lungo tutto il XV secolo e provocando forti cali nella popolazione. È stato stimato che, nei primi decenni del Quattrocento, in tutta la penisola italiana, la popolazione sia passata, da 12 milioni e 500 000 abitanti pre-pestilenza, a 9 milioni nei cinque anni successivi, per scendere fino a 7 milioni e 300 000 abitanti nella metà del Quattrocento. Le ripercussioni sul sistema economico furono gravissime, in quanto la carenza di manodopera provocò l’aumento incontrollato dei salari.

Spagna

tata, tanto da produrre un notevole divario tra le risorse disponibili e la popolazione da nutrire. La situazione si era aggravata appunto sul finire del XIII secolo, con l’inizio di un «ciclo infernale» di eventi climatici catastrofici, seguiti da carestie che, indebolendo la popolazione, prepararono il terreno a una massiccia e ripetuta diffusione dell’epidemia che le navi genovesi portarono in Italia dalla colonia di Caffa (sul Mar Nero) appunto nel 1348. Sul piano demografico le conseguenze furono devastanti: la sola popolazione italiana (che costituiva il 17,9% del totale europeo, esclusa la Russia) passò, nel giro di 5 anni, da 12 milioni e 500 000 a 9 milioni di persone, e il declino continuò fino ai 7 milioni e 300 000 abitanti della metà del Quattrocento. Di fronte a un tale crollo demografico e quindi a una simile carenza di manodopera, le ripercussioni sui salari furono immediate, non solo in Italia, ma in tutta Europa, come emerge sia dalle testimonianze degli scrittori contemporanei, che non perdevano occasione per stigmatizzare le richieste eccessive dei lavoratori sottoposti, sia dai provvedimenti governativi in materia. Se la tendenza dell’autorità pubblica alla disciplina dei salari (almeno per i mestieri ritenuti di interesse fondamentale per la comunità) risale almeno alla seconda metà del XIII secolo – quando in molti statuti comunali apparvero norme in proposito –, il lavoro salariato ottenne un’attenzione notevolmente maggiore proprio dopo la peste del 1348, quando il crollo demografico, unito al conseguente incremento delle retribuzioni, diede origine a un’intensa attività

Miniatura attribuita al Maestro «dell’Echevinage» di Rouen raffigurante i dieci giovani protagonisti del Decameron, da un’edizione francese dell’opera di Giovanni Boccaccio. XV sec. Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal. Nell’illustrazione è rappresentato, a destra, il gruppo di sette donne e tre uomini che, per sfuggire alla Peste Nera, trascorre dieci giorni nelle campagne fiorentine. Sulla sinistra, cinta dalle mura, è la città di Firenze, in cui la morte continua a mietere vittime un giorno dopo l’altro.


legislativa in tutta Europa. In Francia l’epidemia del 1348, riducendo drasticamente la manodopera, aggravò ulteriormente la crisi e aprí la strada a due importanti ordinanze governative (del 1351 e del 1354), con le quali si stabiliva che l’ammontare delle retribuzioni non potesse essere superiore a un terzo rispetto ai livelli in vigore prima della peste.

Provvedimenti inefficaci

Contemporaneamente, anche in Inghilterra, un’ordinanza del re Edoardo III (1349) decretava che le retribuzioni fossero fissate ai livelli di 20 anni prima, e che tutti i disoccupati di età inferiore ai 60 anni, privi di altri mezzi di sostentamento, dovessero trovarsi un lavoro il cui

compenso non sarebbe stato superiore a quello percepito prima della peste. Nel 1351 il Parlamento inglese, constatando che gli effetti dei provvedimenti erano stati pressoché nulli, li rinnovò, stilando anche un tariffario dettagliato dei salari, ma sempre senza risultato, dal momento che i datori di lavoro non esitavano a offrire compensi piú alti pur di accaparrarsi la manodopera. Nel 1361 le autorità londinesi arrivarono al punto di ordinare l’arresto e l’applicazione del marchio «F» («Fugitivus ») per tutti coloro che avessero lasciato la città o la contea natale alla ricerca di salari piú alti. Ma la volontà del legislatore continuava a rimanere impotente di fronte ai meccanismi del mercato del lavoro e non poteva spezzare la MEDICINA

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LA MEDICINA NEL MEDIOEVO

Peste e pestilenze

IL SANTO TAUMATURGO Considerato il patrono degli appestati, san Rocco – qui ritratto in un’ancona lignea attribuita al pittore Cipriano Valorsa e conservata nella chiesa dei Ss. Fedele e Gerolamo di Buglio in Monte (Sondrio) – nacque da genitori benestanti a Montpellier, in Francia, tra il 1345 e il 1350. Rimasto orfano, decise di donare l’eredità di famiglia ai bisognosi e di partire per Roma in pellegrinaggio. Giunto in Italia, flagellata in quegli anni dalla grave epidemia, si dedicò alla cura degli ammalati, senza paura del contagio, guarendone molti in modo miracoloso, fin quando anch’egli contrasse il morbo, nella città di Piacenza. La piaga sulla sua gamba, uno dei segni sempre presenti nell’iconografia del santo, ricorda infatti la malattia. Dopo la guarigione, sulla via del ritorno in patria, fu arrestato e accusato di essere una spia. Secondo la tradizione morí, probabilmente, nel carcere di Voghera, il 16 agosto di un anno compreso tra il 1376 e il 1379. La propagazione del culto di san Rocco fu immediata e il santo taumaturgo venne invocato non solo come protettore dalla peste, ma da ogni genere di malattia epidemica.

resistenza dei lavoratori. Ovunque l’efficacia di tali provvedimenti fu del tutto irrisoria, dimostrando che l’ammontare delle retribuzioni in un periodo di carenza di manodopera non poteva essere fissato artificiosamente, ma veniva regolato piuttosto dalle leggi della domanda e dell’offerta: gli operai parigini, come quelli londinesi, di fronte ai compensi troppo bassi si rifiutavano di lavorare a giornata, preferendo la retribuzione a cottimo, e se qualcuno cercava di convincerli a farsi assumere a tempo – recitava l’ordinanza francese del 1351 – rispondevano che avevano altro da fare. Ugualmente privi di qualsiasi effetto si rivelarono i decreti corporativi in materia. L’ordinanza regia francese del 1354 sottolineava come ogniqualvolta si tentava di far rispettare rigorosamente le tariffe stabilite, i salariati lasciavano la regione e andavano a lavorare là dove le tariffe non erano applicate. Nel 1399 un’altra pestilenza accentuò ulteriormente, in Francia, la carenza di braccia, provocando un nuovo provvedimento del prevosto di Parigi contro il vagabondaggio e i salari troppo elevati richiesti dai sottoposti. 42

MEDICINA


Ugualmente a Firenze, dopo l’epidemia del 1348, i salari crebbero di 3-4 volte rispetto ai livelli precedenti la pestilenza, con un’evoluzione discontinua ma incontestabile, rimanendo sempre molto elevati e producendo in ogni caso effetti duraturi e profondi. Nel periodo successivo alla pestilenza anche l’Arte della Lana fiorentina, che aveva sempre seguito una politica di non intromissione nella determinazione dei livelli salariali (in quanto al problema si ovviava, per cosí dire, «a monte», con l’assoluto divieto di associazionismo per gli operai salariati), fu costretta a intervenire in materia con espliciti provvedimenti per il contenimento delle remunerazioni: il 19 dicembre 1348, in considerazione dei compensi eccessivi richiesti da maestri e lavoranti, i consoli dell’Arte istituirono una commissione deputata a stabilire i compensi di tutte le categorie di lavoratori, e altri provvedimenti simili furono presi ripetutamente negli anni successivi.

Le pretese dei servitori

Molti scrittori toscani, tra cui Boccaccio e Sercambi, deprecarono aspramente l’abitudine dei servitori di chiedere, dopo la peste, salari eccessivi. In particolare, il mercante e cronista fiorentino trecentesco Marchionne di Coppo Stefani osservava con preoccupazione le nuove esigenze dei lavoratori dopo l’epidemia: i sarti e i servitori domestici chiedevano retribuzioni altissime – affermava il cronista –, che a fatica si potevano frenare; gli agricoltori imponevano condizioni tali che riuscivano a incamerare quasi totalmente il raccolto: le sementi, i buoi, e gli stessi poderi erano ormai quasi di loro proprietà. Anche tutti gli altri lavoratori chiedevano compensi elevatissimi. Ugualmente Giovanni Villani (esponente del ceto dirigente fiorentino) asseriva che dopo la peste il popolo minuto era ingrassato e impoltronito e pretendeva salari tre volte superiori a quelli percepiti in passato. Conseguenze simili si registrano anche a Bologna, dove il 35% della popolazione fu falcidiata e i salari immediatamente lievitarono, soprattutto quelli piú bassi (fino al 250%), ma anche quelli piú elevati (fino al 160%). Per cercare di contenerli, nel 1352, le autorità comunali emanarono un tariffario, seguito nei decenni successivi e per circa un secolo da altri provvedimenti dello stesso tipo, ancora una volta tutti inefficaci. Anche in questo caso veniva dunque ribadito il principio per cui la variabilità del costo del lavoro sarebbe dipesa, piú che dalla coercizione della legge scritta, dall’effettiva forza contrattuale dei lavoratori, piú o meno consistente a se-

UN DRAMMA CHE DIVENTA OPPORTUNITÀ In tempi di grave carenza di manodopera, come quelli che fecero seguito alla peste del 1348, in tutta Europa anche le donne godettero di straordinarie opportunità di impiego. Vennero loro offerti salari piú alti, e furono chiamate a esercitare una gamma di occupazioni molto piú varia che in passato, compreso l’apprendistato presso artigiani specializzati, nonché occupazioni maschili e ben pagate come quella del fabbro. In Inghilterra i verbali dei processi contro i trasgressori dell’ordinanza che limitava l’entità dei salari segnalano anche l’esistenza di donne sole, che si trasferivano da un luogo all’altro pretendendo retribuzioni eccessive.

Il pagamento dei salariati del Comune di Siena in una tavoletta di biccherna attribuita alla bottega di Sano di Pietro. XV sec. Siena, Archivio di Stato. Il declino demografico determinato dai cicli epidemici succedutisi nel XIV sec. produsse importanti conseguenze anche sul piano economico. Una delle piú significative fu il rilevante incremento dei salari, frutto della carenza di manodopera che si registrò in tutto il continente europeo. conda delle mutevoli contingenze economiche, sociali e demografiche generali. La contemporanea diminuzione del prezzo dei generi alimentari e degli affitti produsse un generale miglioramento delle condizioni di vita. Accanto alle richieste di aumenti salariali, un’altra tendenza si fece strada nei decenni successivi alla peste: quella ad accorciare la giornata lavorativa a parità di compenso, per dedicarsi ad altre occupazioni complementari. È quanto si verificò nel 1383 e nel 1393 a Sens e a Auxerre, dove i vignaioli incaricati della vendemmia, retribuiti a giornata, erano spesso essi stessi piccoli proprietari, interessati quindi a dedicare qualche ora ai propri terreni. MEDICINA

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LA MEDICINA NEL MEDIOEVO

Peste e pestilenze

ALLA RICERCA DI UN COLPEVOLE All’indomani dello scoppio dell’epidemia del 1348, tra i primi capri espiatori che molti cercarono affannosamente di individuare, furono indicati gli Ebrei, che vennero ritenuti responsabili di suscitare la collera divina e di causare cosí le pestilenze. Queste non erano però le prime persecuzioni nei loro confronti. Oggetto di ripetute espulsioni sin dalla fine del Duecento (soprattutto in Inghilterra), già nel 1215 gli Ebrei erano stati condannati dal IV Concilio Lateranense a indossare abiti particolari e a portare un contrassegno che permettesse di identificarli facilmente anche da lontano. Nel XIII e XIV secolo gli attacchi contro di loro si erano intensificati, anche a causa delle campagne denigratorie condottie dai predicatori e dagli Ordini Mendicanti. Con la comparsa della peste furono quindi incolpati di diffondere volutamente il morbo, con la conseguente richiesta, da parte degli Ordini Mendicanti, di una definitiva espulsione degli Ebrei dall’Europa. Si imputavano loro infatti molteplici accuse, tra cui quella di cospirare con i musulmani, gli eretici e gli ortodossi contro il cattolicesimo occidentale. A loro difesa si schierarono papa Clemente VI e i suoi successori, in quanto Ebrei e cristiani morivano in ugual misura della malattia. La peste dunque non fece altro che accelerare e intensificare un processo persecutorio già in atto da oltre un secolo: durante l’epidemia del 1348 gli Ebrei vennero indicati come untori in Francia, in Italia, in Svizzera e in Germania. Alcune comunità cittadine cercarono addirittura di sbarazzarsi di loro a scopo preventivo già prima dello scoppio della pestilenza: cosí avvenne a Norimberga, Ratisbona, Augusta, Francoforte, e a Strasburgo (dove 900 Ebrei furono arsi vivi). L’imperatore Carlo IV (1316-1378) emanò persino a emanare una serie di ordinanze con le quali si stabilivano i criteri da adottare per la ripartizione dei beni degli Ebrei in caso di distruzione di un ghetto.

Categorie sospette Dal Trecento alla fine del Seicento la persecuzione antisemita rimase una caratteristica costante durante le epidemie di peste, soprattutto nelle città d’Oltralpe. Eppure, proprio tra gli Ebrei si annoveravano validi medici, in grado di comprendere anche i testi arabi, e quindi di attingere direttamente alle piú importanti opere di medicina e di entrare in contatto con saperi scientifici preclusi agli Occidentali. Paradossalmente perciò, nonostante i decreti di espulsione, molti sovrani inglesi, fra il XIII e il XV secolo, si fecero curare da medici ebrei. Ugualmente molti centri italiani assegnarono a un Ebreo la carica di medico cittadino. Altre categorie viste con sospetto in tempo di peste erano le prostitute e gli omosessuali, gli stranieri, i poveri e i vagabondi. Degli «untori» intesi come categoria di persone (prevalentemente barbieri, chirurghi o «monatti») che, per aumentare i propri guadagni, propagavano volutamente il contagio imbrattando la città con sostanze appiccicose, si parlò per la prima volta, invece, soltanto verso la metà del Seicento nella Storia della peste (1640) del sacerdote milanese e dottore della Biblioteca Ambrosiana Giuseppe Ripamonti (1577-1643). Al Ripamonti appunto si rifece in gran parte Alessandro Manzoni per la sua Storia della Colonna Infame, dedicata soprattutto alla questione degli untori, e nella scrittura dei capitoli 31 e 32 dei Promessi Sposi.

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MEDICINA

A Sens l’agitazione durò quasi un anno: gli operai delle vigne si riunirono su di un colle di fronte alla città, decisi a difendere una giornata lavorativa di 6-7 ore al massimo, da loro già unilateralmente praticata, come lamentavano i proprietari terrieri: i salariati agricoli pretendevano di andarsene tra mezzogiorno e nona, cioè molto prima del tramonto del sole, per dedicarsi ai propri terreni o ad altre occupazioni, che premevano loro molto piú del lavoro per cui erano stati pagati per l’intera giornata. E che dire – continuavano i proprietari – dei guardiani assunti per custodire le vigne e il raccolto, che coglievano, mangiavano, regalavano i grappoli d’uva loro affidati, ne facevano mosto e vendemmiavano vino novello senza esserne proprietari, sublocavano il lavoro a titolo oneroso e sfruttavano gli stranieri? A Auxerre, dieci anni piú tardi, si verificò un episodio analogo, con la richiesta di ridurre la giornata a meno di 8 ore, mantenendo gli aumenti salariali già percepiti, ma, questa volta, la situazione si risolse in 4 mesi. Qui, nei periodi di piú intenso lavoro, gli operai delle vigne venivano assunti a giornata ogni mattina, al levar del sole, su una piazza della città a ciò deputa-


ta, e poi condotti nei campi, dove ciascuno riceveva la sua porzione di lavoro. I proprietari terrieri lamentavano gli eccessivi salari dei vignaioli e rimproveravano loro di «riempirsi le tasche come se avessero lavorato per l’intera giornata, andandosene invece, con quel guadagno immeritato, a occuparsi dei propri terreni, o a riempire le taverne, o a distrarsi in altro modo». In entrambi i casi la repressione fu dura solo apparentemente: venne sí ripristinata la giornata lavorativa dal levar del sole al tramonto, ma in termini cosí vaghi da invitare apertamente alla trasgressione; allo stesso modo si procedette a multe e arresti, ma con scarsi risultati e frequenti concessioni di grazie, con la motivazione che – si legge in un indulto di Carlo VI – «i vignaioli sono persone semplici a cui piace scherzare, e non ricadranno nell’errore».

Quasi un evento «normale»

Dopo la sua ricomparsa in Europa tra la fine del 1347 e il 1348, la peste rimase endemica, ripresentandosi un po’ dovunque con cadenza pressoché decennale, e divenendo quasi parte integrante del normale ritmo della vita, per cui la società, soprattutto nei centri urbani, fu co-

Miniatura raffigurante Ebrei mandati al rogo durante una pestilenza, da un’edizione della Chronique di Gilles Le Muisis. 1349-1353. Bruxelles, Bibliothèque royale de Belgique. Negli anni della Peste Nera, soprattutto in Germania, si ebbero gravissime persecuzioni contro gli Ebrei, rei, secondo la popolazione, di avvelenare fonti e pozzi per diffondere il contagio.

stretta suo malgrado ad adeguarvisi. Perciò si cercò in ogni modo, almeno a partire dal XV secolo, di prevenire l’insorgenza del morbo e di mitigarne gli effetti, con ordinanze e regolamenti che per tre secoli furono un punto di riferimento in tutta l’Europa Occidentale per la gestione delle pestilenze. Le misure adottate si possono ricondurre sostanzialmente a tre categorie. In primo luogo il tentativo dell’autorità pubblica di limitare la diffusione della malattia mediante la limitazione ai movimenti di persone e merci, attraverso la quarantena, i certificati sanitari e il miglioramento delle condizioni igieniche urbane. In secondo luogo la costruzione (nel corso del Quattrocento) di appositi edifici, i lazzaretti, nei quali riunire esclusivamente i malati di peste per cercare di curarli evitando l’ulteriore diffondersi dell’epidemia. La terza risposta, di carattere religioso, costituita da preghiere e processioni, si rivelò completamente deleteria perché contribuiva ad ampliare il contagio anziché limitarlo. Parallelamente, soprattutto a partire dal secondo Cinquecento, andò radicandosi un altro fenomeno: quello dell’individuazione di un capro espiatorio, ovvero della «caccia all’untore» (vedi box alla pagina precedente). La gamma di provvedimenti adottata durante le prime epidemie fu piuttosto scarsa: nella maggior parte delle città ci si limitò a pulire le strade e i canali di scolo, a ordinare la rimozione di tutto ciò che emanasse cattivo odore e a proibire l’attività dei mestieri potenzialmente inquinanti (soprattutto calzolai, conciatori e tintori); si espulsero vagabondi, mendicanti e prostitute. Contemporaneamente, si crearono magistrature sanitarie provvisorie composte dai cittadini piú eminenti, destinate a gestire la situazione di emergenza, in linea con quanto già fatto per altre malattie epidemiche. Ma quando fu chiaro che il rischio portato dalla peste era molto superiore a quello di tutte le altre epidemie, i maggiorenti cittadini si rifugiarono nelle campagne, lasciando le città prive di guida ed esposte al pericolo di saccheggi e disordini di ogni tipo. A Firenze, durante l’epidemia del 1383, per esempio, fuggito il ceto dirigente, gli artigiani si diedero a fare scorribande per la città urlando slogan rivoluzionari. Dopo questa esperienza – narra il cronista Marchionne di Coppo Stefani – nella città di Dante vennero emanate ordinanze che proibivano ai maggiorenti di lasciare la città in caso di peste, ma con scarso effetto. Piú razionali furono i provvedimenti entrati in vigore dalla metà del Quattrocento, quando MEDICINA

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LA MEDICINA NEL MEDIOEVO

Peste e pestilenze

mantenere l’ordine pubblico di fronte a un’epidemia divenne una questione di primaria importanza. Fu allora che molte città dell’Italia centrosettentrionale adottarono norme e regolamenti divenuti modello per il resto dell’Europa. Si trattava in ogni caso di provvedimenti che non erano – né potevano essere – rivolti alla cura del morbo, ma soltanto a prevenirne e a limitarne la diffusione, nonché a evitare disordini. Il cardine di questo sistema fu lo stretto controllo sui movimenti delle merci e delle persone, nonché il monitoraggio continuo delle aree geografiche colpite di volta in volta dall’epidemia, cosa che richiedeva un sistema costante di informazione sui luoghi e i tempi in cui si era manifestata. E le relazioni diplomatiche divennero una componente essenziale nel garantire un regolare e veritiero flusso di notizie in proposito. Al tempo stesso anche le grandi compagnie mercantili e bancarie richiedevano alle proprie filiali aggiornamenti continui su eventuali casi di peste. Fu poi istituita la quarantena per le navi e le merci provenienti da località infette.

Nascono i lazzaretti

Le famiglie colpite dalla malattia vennero segregate in casa o costrette a trasferirsi nei «lazzaretti», la cui costruzione, avvenuta nelle principali città italiane nel corso del Quattrocento, rappresentò una novità fondamentale nel campo delle strutture assistenziali e sanitarie. Di proporzioni enormi, paragonabili a quelle del filaretiano Ospedale Maggiore (costruito tre decenni prima), era il lazzaretto di Milano (nel quale Manzoni ambientò l’ultima parte dei Promessi Sposi), realizzato alla fine del Quattrocento (i lavori furono avviati nel 1488) grazie a un lascito, e sacrificato alla fine del XIX secolo dalla speculazione edilizia. Ne rimangono oggi soltanto la chiesa centrale e una piccola parte del muro di recinzione. Per avere un’idea delle proporzioni dell’edificio, basti pensare che ben 288 camere destinate a ospitare gli ammalati si aprivano sul chiostro, che delimitava un cortile quadrato di 377 x 370 m. Nei momenti critici di un’epidemia anche il cortile poteva ospitare gli infermi ricoverati in capanne temporanee, come avvenne nel 1630, quando circa 16 000 pazienti vi trovarono posto. Verso la metà del Seicento anche Genova disponeva di una struttura analoga al lazzaretto di Milano. L’edificio era pattugliato da mercenari tedeschi e dotato di due distinte aree di quarantena, una delle quali destinata alla convalescenza degli appestati veri e propri, e l’altra riservata a coloro che avevano avuto contatti 46

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con gli infermi senza contrarre il morbo, o che provenivano da zone infette. In totale il lazzaretto poteva ospitare circa 300 persone. In quello stesso periodo venne anche ipotizzata un’alleanza sanitaria a scopo preventivo tra Genova, Firenze, Roma e Napoli per l’organizzazione di una rete internazionale di quarantena mirante al contenimento della peste. Ogni città avrebbe dovuto uniformare le proprie regole a un’unica norma e, di comune accordo, sottoporre le aree dichiarate infette al blocco delle esportazioni e della circolazione degli individui. Il tentativo fallí sul nascere, ma appare comunque notevole la consapevolezza dell’importanza di organizzare quarantene e blocchi preventivi su ampie aree geografiche. Si stabilí poi che i morti di peste non potessero essere seppelliti all’interno delle mura cittadine, ma in fosse comuni fuori dall’area urbana, che venivano poi ricoperte abbondantemente di

In alto particolare di un affresco raffigurante il trasporto delle vittime della peste, mentre, sullo sfondo, una madre piange il figlio morto. 1481 Venanson, Chapelle Sainte Claire. La cappella fu eretta nel XV sec. dalla comunità del villaggio, all’ingresso del paese, per proteggere gli abitanti dal morbo.


Un medico cura gli appestati, attraverso l’incisione dei bubboni. Particolare di un affresco tratto dalle Storie di San Sebastiano, che decorano le pareti interne della cappella di Saint Sébastien di Lanslevillard, in Francia. Fine del XV sec. La cappella dedicata al santo taumaturgo venne edificata nel 1446 grazie alle donazioni di un benefattore sopravvissuto all’epidemia, che aveva colpito la cittadina francese nel Quattrocento.

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LA MEDICINA NEL MEDIOEVO

Peste e pestilenze

calce per disinfettare la zona. A Milano, per esempio, dopo la pestilenza del 1524 venne creata un’immensa fossa comune poco lontano dalla città, nella località detta «Gentilino», di proprietà dei Borromeo, in un’area prima occupata da giardini e frutteti. Nel 1576, all’epoca della «peste di San Carlo», il Gentilino era ormai un cimitero ben organizzato e un punto di riferimento per le successive epidemie, tanto che durante quella del 1630 fu addirittura necessario aprire una nuova strada per condurre i carri dei morti di peste in quel luogo.

L’affetto è piú forte della paura

Ma l’uso delle fosse comuni incontrava largamente l’opposizione della gente, che rifiutava decisamente l’anonimato e la barbarie delle sepolture di massa, al punto che nel 1710 la popolazione della cittadina svedese di Blekinge fece riesumare i corpi sepolti in una fossa comune per tumularli nuovamente nel cimitero locale. Neppure la paura del contagio, dunque, poteva troncare i legami di affetto con i defunti. Altro provvedimento che incontrò una notevole resistenza, fu la distruzione degli oggetti e degli indumenti appartenuti ai malati di peste: i becchini in particolare avevano infatti l’abitudine di chiedere come ricompensa parte degli abiti dei morti per poi rivenderli. Anche il divieto di libera circolazione delle merci, e dei tessuti soprattutto, trovava spesso la strenua opposizione dei mercanti, che disponevano di mezzi alquanto efficaci per impedire l’applicazione delle norIn alto il grande lazzaretto di Milano durante la peste del 1630, in un’incisione di Giovanni Francesco Brunetti (che vi era stato ricoverato), datata 29 gennaio 1631. Milano, Castello Sforzesco, Civica Raccolta delle Stampe «Achille Bertarelli». La struttura fu realizzata, alla fine del Quattrocento, all’esterno di Porta Orientale (attuale Porta Venezia) in una zona isolata. Il complesso si sviluppava su un quadrilatero porticato, occupando un’area di 14 ettari circa, circondata da un fossato. Le camere, in tutto 288, erano indipendenti l’una dall’altra. I morti venivano seppelliti in fosse comuni scavate appena fuori l’uscita posteriore del lazzaretto (nella pianta in alto, a sinistra). A sinistra Il cortile interno del Lazzaretto di Milano adibito a caserma durante l’occupazione napoleonica, con soldati, cavalli e carri, acquerello di Gaspare Galliani. 1810. Milano, Museo Civico. 48

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L’Inghilterra in particolare si mostrò sorprendentemente lenta ad adottare il modello italiano, forse perché, trattandosi di uno Stato già altamente burocratico e centralizzato, incontrava molte difficoltà nella creazione di nuove magistrature. I provvedimenti piú efficaci furono anzi presi a livello locale nei piccoli centri piuttosto che nelle grandi città: tra il 1537 e il 1545, per esempio, molte cittadine di provincia si attrezzarono per l’isolamento degli appestati nei lazzaretti, mentre Londra era ancora costretta a ricorrere quasi esclusivamente alla quarantena domiciliare. Un medico di Padova, incaricato nel 1563 di valutare la situazione inglese, dichiarò che in Inghilterra non esisteva ancora una struttura burocratica sanitaria e assistenziale efficace, né una copertura finanziaria adeguata a sostenerla, e invitò caldamente la Corona a prendere a modello l’apparato normativo adottato nelle città italiane.

Una città allo sbando me. Dal canto loro, i consigli cittadini tendevano a evitare la dichiarazione di inizio dell’epidemia per il timore dei danni che ne avrebbe subito il commercio. Si cercava in genere di minimizzare e di nascondere i primi casi sospetti. Nel 1629 a Venezia questo atteggiamento ritardò l’organizzazione di un efficace cordone sanitario, permettendo alla peste di diffondersi in città. Lo stesso avvenne nel 1630 a Milano, nel 1665 a Londra e nel 1720 a Marsiglia. Paradossalmente l’attuazione dei provvedimenti contro la peste fu molto piú rapida nelle città italiane (dove le magistrature sanitarie deputate alla gestione dell’emergenza vennero quasi subito rese permanenti), che nei grandi Stati nazionali come la Francia e l’Inghilterra. L’istituzione delle magistrature sanitarie permanenti fu appunto il caposaldo di questa politica di prevenzione. A Milano esisteva un ufficio di questo tipo già prima del 1450, a Venezia nel 1486, nel 1527 a Firenze e nel 1549 a Lucca. Dai primi anni del Seicento anche i piú piccoli centri italiani disponevano di un funzionario permanente deputato alla gestione dei problemi sanitari. A questo si accompagnava la redazione di rapporti statistici sulle cause dei decessi, compilati, a partire dalla seconda metà del Quattrocento, ancora una volta nelle città dell’Italia centro-settentrionale. Le città francesi si dotarono delle stesse strutture soltanto a partire dagli anni Venti del Cinquecento, e quelle fiamminghe solo alla fine del XVI secolo.

Milano, la chiesa di S. Carlo al Lazzaretto. L’attuale edificio ottagonale, progettato da Pellegrino Tibaldi per volere di Carlo Borromeo alla fine del XVI sec., sorse sulla precedente cappella di S. Maria della Sanità, posta al centro del cortile del lazzaretto. In origine, la cappella si presentava come un’edicola, aperta su tutti i lati per permettere agli appestati di assistere alla messa senza uscire dalla propria cella.

L’epidemia nota come «peste di San Carlo» comparve in Trentino nel 1574, contagiò nel 1576 Milano e si diffuse poi in tutta Italia, anche a causa degli spostamenti continui dei pellegrini per il Giubileo indetto in quell’anno. A Milano provocò la morte di oltre 18 000 persone (1/10 circa della popolazione cittadina), ed ebbe un impatto devastante anche a Venezia e a Mantova. Nel capoluogo lombardo i maggiorenti fuggirono tutti, lasciando la città in mano al vescovo Carlo Borromeo, che nell’occasione assunse i poteri assoluti per poterla governare. Il futuro san Carlo prese immediatamente una serie di provvedimenti urgenti, come quello di far terminare il lazzaretto; scrisse al papa per ottenere aiuto, indirizzò una serie di consigli pratici alla popolazione, compilò un opuscolo da distribuire ai sacerdoti sul comportamento da tenere con gli ammalati e sulle norme igieniche da rispettare; proibí di trasportare i cadaveri sui carri per evitare ulteriori veicoli di infezione; assegnò ai frati Cappuccini l’incarico di gestire il lazzaretto; inviò gruppi di sacerdoti per la città per dare aiuto agli infermi. Il morbo fu debellato solo all’inizio del 1578, e l’evento venne celebrato con una processione solenne, durante la quale san Carlo pronunciò un’omelia, poi data alle stampe, che rappresenta la prima descrizione di quell’epidemia, e al tempo stesso un modo per stigmatizzare il lusso, il malcostume, i riti del carnevale, e per sottolineare l’importanza dell’autorità civile della Chiesa, soprattutto in situazioni di emergenza. L’epidemia del 1630 rimase nella memoria dei MEDICINA

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LA MEDICINA NEL MEDIOEVO posteri per le sue dimensioni (si parlò di 150 000 morti nella sola Milano) e per la sua estensione geografica: da Lione a Berna, a Milano, a Venezia, a Mantova, a Modena, a Bologna, a Pistoia, a Pescia e a Lucca. La principale descrizione di un contemporaneo è la Storia della peste (1640) del sacerdote e dottore della Biblioteca Ambrosiana Giuseppe Ripamonti (1577-1643), opera nella quale compare per la prima volta un intero capitolo dedicato agli «untori», di cui non si era fatta invece quasi menzione all’epoca di san Carlo. L’autore cerca di spiegare razionalmente le origini dell’epidemia, individuando una serie di cause che la precedettero: l’assedio di Casale da parte del duca di Savoia, modesto episodio militare dalle innumerevoli conseguenze; l’imposizione fiscale eccessiva su una popolazione già sfibrata dalla carestia; l’aumento dei mendicanti che furono ospitati nei lazzaretti, e il loro afflusso dalla campagna in città; l’indebolimento degli organismi dovuto alla fame; i disordini e i tumulti per il pane. A coronare il tutto, la processione voluta dal cardinale Federico Borromeo quando si manifestarono i primi casi di peste, che diffuse enormemente il contagio.

Sottovalutazione fatale

Anche questa epidemia, come le precedenti, non arrivò all’improvviso: già nel 1628 il Tribunale della Sanità, date le poco rassicuranti notizie sui contagi che dilagavano in Europa, aveva emanato una grida per cercare di salvaguardare Milano (le gride erano ordini delle autorità cosí denominati perché «gridati» dai banditori, n.d.r.). In seguito vennero pubblicati alcuni bandi per vietare il commercio con Friburgo e Berna. La situazione fu aggravata dalla carestia e dalla guerra di successione nel Monferrato, per cui l’esercito spagnolo prese d’assedio Casale. Ciononostante, nell’ottobre del 1629 nessun provvedimento era ancora stato preso, a causa dello scetticismo delle autorità sulla possibilità che il contagio raggiungesse Milano. La paura cominciò a diffondersi veramente solo verso la metà di ottobre, con la notizia che poco lontano erano morte dodici persone. Alla fine di ottobre del 1629 il morbo era ormai in città. Dopo il primo caso di peste conclamata, furono pubblicate numerose gride che proibivano baratti coi soldati tedeschi di passaggio, mentre il Tribunale della Sanità milanese decretò l’utilizzo obbligatorio delle «bollette personali di sanità», una sorta di passaporto medico che accertava la provenienza da territori non toccati dall’epidemia di chiunque volesse entrare in Milano. Il rigore dell’inverno arrestò momenta50

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Peste e pestilenze

neamente il diffondersi del contagio, ma nei primi mesi del 1630 i festeggiamenti del carnevale, quelli per la nascita dell’erede al trono di Spagna e i movimenti di truppe (dalla Valsassina scesero 4000 lanzichenecchi, diretti nel Novarese e nel Mantovano), riacutizzarono l’epidemia. Nel maggio del 1630, il lazzaretto era ormai incapace di accogliere altri appestati. Si ventilò persino l’ipotesi di chiudere l’intero borgo di Porta Orientale, la zona di Milano col piú alto numero di malati e di decessi. L’indifferenza delle autorità, gli interessi commerciali e l’atteggiamento psicologico della popolazione avevano dunque reso la situazione irrimediabile. In questo clima si scatenò la caccia agli untori, descritta dal Manzoni nella Storia della Colonna Infame, sulla base degli atti di un processo coevo contro due barbieri accusati di avere volutamente diffuso il morbo mediante gli unguenti da loro prodotti. La situazione si era fatta a questo punto ingestibile: il numero dei decessi aumentava ogni giorno di piú, cosí come le tracce di sostanze appiccicose, rinvenute ormai dappertutto, nonostante le gride contro chi andava ungendo porte, catenacci, e muri della città. Alla fine di maggio, con quaranta decessi al giorno e centinaia di malati, fu allestito un secondo lazzaretto, al Gentilino, affidato ai Carmelitani. La situazione era ormai drammatica: migliaia di case deserte o abbandonate ai saccheggi, infermi lasciati senza conforto e senza alcun tipo di aiuto, un passaggio continuo di carri colmi di cadaveri. I maggiorenti cittadini si erano dati alla fuga, diretti nelle piú sicure dimore di campagna, nonostante le gride che proibivano di lasciare Milano, pena la confisca dei beni. Nell’agosto del 1630, anche a causa del caldo opprimente, l’epidemia toccò il suo picco massimo. I morti giornalieri ammontavano ormai a 600, e almeno 4000 cadaveri insepolti giacevano lungo le strade o abbandonati nelle case. Iniziarono a mancare i generi di prima necessità e a scarseggiare i monatti, al punto che venne emanata un’ordinanza per intimare di non «gettare, far gettare dalle finestre, lasciare o far lasciare in strada alcun cadavere, se non nell’atto che i monatti li ricevono». Secondo una missiva del 31 agosto 1630, «ormai a Milano è rimasta assai poca gente, e vi sono case disabitate, e i morti, dall’inizio del contagio, ammontano a settantaduemila». Quando, nel dicembre del 1630, l’epidemia era ormai quasi cessata, si calcolava che a Milano fossero rimasti solo 50 000 abitanti, e che l’epidemia avesse prodotto 150 000 morti: cioè i 3/4 della popolazione cittadina. Il morbo arrivò in Inghilterra probabilmente

Venezia. Veduta della basilica di S. Maria della Salute sul Canal Grande e la punta della dogana. La chiesa, a pianta ottagonale, fu costruita su progetto di Baldassarre Longhena (1597-1682) a partire dal 1631 e consacrata nel 1687, come ringraziamento alla Madonna, da parte dei Veneziani, per aver liberato la città dalla peste che l’aveva gravemente colpita.


tramite i marinai olandesi fatti prigionieri dagli Inglesi: nei Paesi Bassi, infatti, la peste si era diffusa fin dal 1663/64, mietendo 35 000 vittime nella sola città di Amsterdam. I primi a venire colpiti, durante l’inverno del 1664-1665, furono i sobborghi di Londra, in cui la concentrazione di poveri in condizioni igieniche disastrose favoriva il contagio. Il caldo estivo fece precipitare la situazione portando la peste in città, e provocando la fuga del re Carlo II. I mercanti lasciarono Londra, molte società commerciali fallirono. Anche in quest’occasione, come già era avvenuto durante le principali epidemie della storia, solo l’arcivescovo di Canterbury e il vescovo londinese, insieme a un piccolo gruppo di religiosi e ad alcuni medici e farmacisti, rimasero nella capitale inglese. Tra le misure prese per cercare di arginare l’epidemia, vanno ricordati il divieto di vendere

abiti usati e tessuti, nonché di esporli in pubblico; il massiccio sterminio di cani e gatti, nel cui pelo poteva annidarsi la malattia; l’incentivo a bruciare nelle case zolfo, luppolo, incenso, ambra e soprattutto tabacco, ritenuti adatti alla disinfezione dell’aria. Vennero addirittura collocati per le strade barili pieni di pece, cosí da farli ardere anche di notte. Nella sola Londra morirono circa 70 000 persone (cioè piú del 20% della popolazione), ma furono colpiti anche i villaggi vicini. Nel 1666 lo scoppio del Great Fire (il «grande incendio») che devastò gran parte della città pose fine alla pestilenza, l’ultima in Inghilterra.

Una tragedia difficile da dimenticare

Forse anche per questo (oltre che per la maggiore abbondanza di fonti) l’epidemia del 1665 rimase, piú delle altre, nell’immaginario popoMEDICINA

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San Carlo Borromeo somministra l’eucarestia agli appestati, olio su tela di Sigismondo Caula. 1670-1675. Modena, Biblioteca Estense Universitaria. Durante l’epidemia del 1576, il vescovo Borromeo si impegnò a governare Milano, abbandonata dai maggiorenti cittadini. In quegli anni fu terminato il grande lazzaretto e assegnato ai frati Cappuccini l’incarico di gestirlo. lare. L’epidemia di Londra venne narrata da Daniel Defoe (1660-1731) la cui opera (il Journal of the Plague Year), oltre a costituire l’importante testimonianza di un contemporaneo, offre un vero e proprio trattato medico sulla tipologia e le modalità di diffusione del contagio. Rifiutando categoricamente le teorie fantasiose che attribuivano le origini della pestilenza all’influsso degli astri e ai miasmi, e il contagio all’opera degli untori, lo scrittore cercava invece di mettere in evidenza le cause concrete e materiali dell’epidemia attraverso la descrizione delle disastrose condizioni in cui viveva la parte piú povera della popolazione londinese, nonché il ruolo degli interessi commerciali nel ritardare le informazioni sulla presenza della malattia, e quindi nel provocare una catastrofe irrimediabile.

La prevenzione non salva Marsiglia

L’epidemia di Marsiglia, nel corso della quale perí circa la metà della popolazione cittadina (circa 50 000 decessi su 100 000 abitanti), segnò, pur senza diminuire affatto la sua virulenza, il ritirarsi del morbo dall’Europa. Sebbene la peste fosse endemica nella città da circa 370 anni, i suoi abitanti, come quelli di tutte le altre località in cui il contagio si era manifestato, non davano il minimo segno di immunizzazione alla malattia. Anzi il morbo dimostrò di non essersi in alcun modo evoluto verso una forma meno virulenta. Su questa pestilenza rimane la dettagliatissima documentazione del principale medico cittadino attivo al tempo dell’epidemia, il dottor Bertrand, responsabile di una delle quattro circoscrizioni sanitarie in cui era divisa Marsiglia. Era incaricato, tra l’altro, di ispezionare i cadaveri in caso di morti sospette per appurare l’eventuale presenza di una malattia a carattere epidemico: si trovava perciò nella condizione ideale per studiare l’epidemia dal suo inizio. Fu un episodio morboso estremamente virulento e con percentuali di mortalità altissime, nonostante la città fosse straordinariamente ben preparata ad affrontarlo: era infatti dotata di un lazzaretto per la quarantena situato in 52

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LA MEDICINA NEL MEDIOEVO

Peste e pestilenze

I TRE VOLTI DELLA MALATTIA Sebbene sorprendente, ancora oggi si discute sull’esatta individuazione della malattia che solo alla fine dell’Ottocento fu identificata scientificamente come «peste». Il morbo, infatti, endemico dal 1347 all’inizio del Settecento, fu debellato in Europa grazie al «cordone sanitario» di Marsiglia (1720/21), per cui il dibattito clinico non poté proseguire parallelamente all’approfondirsi delle conoscenze mediche. Il bacillo fu isolato solo nel 1894 da Alexandre Yersin, quando l’epidemia si ripresentò a Hong Kong. Il batterio causa di quella pandemia, che imperversò in Asia tra il 1894 e il 1899, e contro la quale Yersin riuscí a produrre un siero, fu battezzato «Pasteurella pestis» ovvero «Yersinia pestis», ma non c’è modo di sapere se il bacillo isolato allora fosse lo stesso che aveva prodotto le epidemie europee dall’epoca del Boccaccio in poi. La malattia descritta da Yersin si presenta in tre forme: bubbonica, polmonare e setticemica. Il contagio colpisce in genere i roditori (soprattutto i topi) e viene trasmesso agli esseri umani dalle pulci, che possono però nascondersi e sopravvivere per un certo periodo (29 giorni circa), anche in riserve di cibo (carichi di grano soprattutto), abiti, tessuti, balle di lana, pellicce, tappeti. La maggior parte degli studiosi ritiene che l’epidemia del 1347/48 fosse di peste bubbonica, e che tale forma abbia caratterizzato quasi tutte le pandemie dei secoli XIV e XV.

Tra filosofia ed empiria Le teorie sull’origine e sulla diffusione della peste sono riconducibili a due matrici principali. Quelle filosofiche, rifacendosi alla dottrina aristotelica, ritenevano che una determinata posizione dei corpi celesti potesse provocare perturbazioni nell’atmosfera, che, a loro volta, producevano una corruzione dell’aria (miasma) causa della malattia. Oltre a quelli celesti, altri fattori che potevano provocare il «miasma» erano le esalazioni dagli stagni e dalle paludi prodotte dalla canicola, e quelle dovute alla putrefazione. Le teorie empiriche, invece, basandosi sull’osservazione e sull’esperienza, attribuivano il diffondersi del morbo al contatto diretto con uomini, animali od oggetti infetti. Questa seconda ipotesi, elaborata compiutamente solo verso la metà del Cinquecento dal medico Gerolamo Fracastoro, era in realtà già stata ventilata da Boccaccio e da Matteo Villani in occasione dell’epidemia del 1348. A tale proposito Villani scriveva: «Parea che questa impestifera infezione s’appiccasse per la veduta e per lo toccamento», mentre Boccaccio rilevava come anche il contatto con gli oggetti e soprattutto con gli indumenti degli infermi contribuisse a propagare la malattia. I rimedi erano quasi inesistenti, e inutili, se non dannosi: misture, cataplasmi, aromi, amuleti a base di arsenico, stagno o mercurio, che avrebbero dovuto far fuoriuscire ed eliminare il morbo, ma che invece erano altamente nocivi alla salute. E ancora: veleno di vipere, rospi o scorpioni, chele di granchio, limatura di zoccoli di cavallo, o impiastri a base di grasso di anatra, miele, trementina, fuliggine, melassa, tuorli d’uovo e olio di scorpione, da applicare sui bubboni.

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mare di fronte alla città, sull’isola di Jarre, in cui veniva fatto sostare chiunque provenisse dall’Oriente. Il personale incaricato di far rispettare la quarantena indossava abiti e calzature appositi. L’opera di Bertrand, che si apriva con una rassegna delle principali pestilenze, sottolineava in particolare l’atteggiamento psicologico della popolazione di fronte all’epidemia, il rifiuto iniziale di ammetterne l’esistenza, diffuso per motivi diversi sia tra la gente comune (motivata dalla paura), sia tra i funzionari pubblici, che speravano in questo modo di scongiurare il blocco del commercio e la crisi economica; la convinzione dell’efficacia dei principi curativi erboristici; la credulità e la psicosi collettiva contro gli untori. Circa le cause della malattia, il medico francese, opponendosi decisamente alla teoria dei «mia-


Abitanti di Londra in fuga dalla peste, xilografia acquarellata. Nel 1665 la Grande Peste scoppiata in Inghilterra uccise, nella sola capitale, 70 000 persone circa. Diffusosi rapidamente anche a causa delle scarse condizioni igieniche del tempo, il morbo cessò un anno piú tardi e fu definitivamente stroncato dal grave incendio che devastò la città nel 1666. Nella pagina accanto litografia raffigurante il vescovo di Marsiglia che visita le vittime della peste che colpí la città nel 1720. 1890 circa. Collezione privata. Henri François Xavier de Belsunce de Castelmoron, nominato vescovo di Marsiglia nel 1709, viene ricordato come il «buon vescovo» per essere rimasto, con altri religiosi, a fronteggiare la grande epidemia del 1720/21, quando molti notabili fuggirono dalla città per paura del contagio.

smi» che avrebbero corrotto l’aria, e a quella del morbo derivante dalla frutta eccessivamente matura, sosteneva invece la teoria del contagio. Era convinto perciò che se le rigide misure di quarantena di cui Marsiglia era dotata fossero state realmente osservate, la peste non avrebbe mai potuto colpire la città.

Le autorità nascondono il pericolo

La malattia in effetti si diffuse perché con alcune navi provenienti da Sidone, dove il morbo si era appena manifestato, non si erano adottate tutte le precauzioni necessarie: il chirurgo che aveva esaminato i casi sospetti, infatti, aveva ritenuto che si trattasse di semplice febbre. Soltanto quando molti scaricatori del porto, entrati in contatto con i carichi di cotone infetti, si ammalarono, si prese coscienza della gravità della situazione, che gli amministratori cittadini avevano cercato di tenere segreta per evitare la paralisi del commercio. Le autorità pubbliche tentarono però in ogni modo di scongiurare una quarantena generale della città, consapevoli degli effetti dirompenti che il provvedimento avrebbe avuto sull’economia di Marsiglia. La reticenza delle autorità e del chirurgo dell’ospedale illuse la popolazione che la situazione non fosse particolarmente grave: nessuno voleva prendere in considerazione la prospettiva di un collasso del commercio e dell’ordine sociale. Solo quando la notizia del contagio cominciò spontaneamente a diffondersi fuori dalla città, le autorità furono costrette a prendere provvedimenti adeguati. Il Parlamento della Provenza

proibí ogni contatto con la città e i suoi abitanti; fu nominato un comitato di persone qualificate a gestire l’epidemia; a ogni quartiere della città vennero assegnati un medico, un chirurgo, un vice chirurgo e un farmacista. Ciononostante, nel volgere di una settimana l’epidemia si era tanto diffusa che il lazzaretto non bastava piú, e si fu costretti a segregare i malati in casa. Eppure la popolazione continuava a rimanere incredula e ad accusare i medici di aver esagerato per sete di guadagno. Le autorità della regione continuarono in ogni caso a imporre la quarantena, al punto che i fornai non erano ormai piú in grado di produrre una quantità di pane sufficiente, cosa che provocò tumulti e rivolte. Per i rifornimenti alimentari si venne poi a un compromesso con l’istituzione di mercati fuori dalla città, dove i mercanti avrebbero deposto i loro prodotti e i bottegai di Marsiglia, i soli autorizzati ad accedervi, li avrebbero ritirati. In questa situazione, già di per sé disperata, un altro problema non trascurabile riguardava il mantenimento della flotta, indispensabile a contrastare gli attacchi dei pirati nord-africani e quelli degli Spagnoli. Anche in questo caso, come a Londra, furono accesi fuochi per la città per «purificare l’aria» e scavate immense fosse comuni subito fuori dalle mura. Il cordone sanitario predisposto a livello provinciale si dimostrò estremamente efficace nell’impedire il diffondersi dell’epidemia all’intera regione, per cui, dopo aver raggiunto il suo picco massimo durante l’estate del 1720, la pestilenza cessò spontaneamente all’inizio del 1721. MEDICINA

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LA MEDICINA NEL MEDIOEVO

La sifilide

«FRANCESE», «DI NAPOLI» O... «AMERICANO»?

N

el 1493, quando Cristoforo Colombo, al ritorno dal primo viaggio in America, riapprodò in un porto spagnolo, alcuni componenti del suo equipaggio erano affetti da una nuova malattia, la sifilide, contratta a seguito di contatti con donne caraibiche. Il morbo, che a quell’epoca aveva effetti devastanti e poteva causare la morte in pochi mesi, si diffuse rapidamente. Già nel 1494 vi furono in Italia le prime probabili vittime eccellenti della sifilide: Giovanni Pico della Mirandola e Agnolo Poliziano. Una responsabilità rilevante nella veloce diffusione del contagio va sicuramente attribuita alla campagna di Carlo VIII di Francia per conquistare il Regno di Napoli. A tale scopo, nel marzo 1494, aveva arruolato a Lione un esercito di 36 000 mercenari fra cui numerosi Spagnoli. A settembre attraversò le Alpi e il 31 dicembre entrò in Roma, dove, sotto papa Alessandro VI, i costumi erano quanto mai corrotti. Nel gennaio 1495, l’esercito francese lasciò Roma, portandosi dietro non meno di 800 prostitute, e occupò Napoli. La città dapprima accolse festosamente l’ingresso del re, ma poi la popolazione insorse per i soprusi degli occupanti. Dopo circa un mese, Carlo VIII prese la via del ritorno, lasciando un piccolo contingente a Napoli, dove già cominciava a diffondersi in forma epidemica la sifilide. I Francesi pensarono che si trattasse di una malattia endemica a Napoli e la battezzarono mal de Naples, mentre gli Italiani e poi anche gli altri popoli europei, ritenendola portata dai Francesi, la chiamarono «mal francese», «mal di Francia» o «morbo gallico». Se questa è oggi la ricostruzione corrente, nel primo trentennio del Novecento molti autorevoli storici della medicina, capeggiati da Karl Suedhoff di Lipsia, avanzarono l’ipotesi che la malattia fosse già presente nel Vecchio Mondo sin dal Medioevo e che dall’America sarebbe giunto

soltanto un ceppo microbico piú aggressivo. A sostegno della loro teoria essi portarono argomentazioni e ricerche condotte su tre direttive differenti: esaminarono ossa di cadaveri sepolti in cimiteri caduti in disuso prima del 1493 e riscontrarono la presenza di lesioni caratteristiche della sifilide; analizzarono antichi testi di medicina e affermarono che le lesioni e i sintomi descritti in alcuni pazienti dal medico bizantino Paolo d’Egina, da Avicenna e da vari medici italiani del Duecento, tra cui Lanfranco di Milano e Guglielmo da Saliceto, autorizzavano a dichiarare quei pazienti affetti da sifilide.

Ogni malattia ha il suo protettore A ulteriore conferma di ciò, citavano un saggio scritto nel 1720 con intenti moralistici da un teologo inglese, nel quale costui aveva raccolto casi di gravissimi disturbi ai genitali, interpretati come sifilitici, comparsi dopo rapporti sessuali extraconiugali, in personaggi a volte molto noti, come il duca di Lancaster (1430). Infine, la sifilide era comunemente indicata come malattia «di San Giobbe», «di santo Menna» o «di san Rocco», perché a essa, come avveniva per tutte le affezioni gravi, erano stati assegnati protettori; e siccome anche nel Medioevo vi erano stati malati affidati a tali santi, i suddetti storici ne dedussero che già in quell’epoca esisteva la sifilide. Inoltre, poiché già nel Medioevo si era parlato di «mal francese», essi ipotizzarono che sin da allora con questa espressione si alludesse alla sifilide. All’inizio la teoria anti-americanista trovò ampio credito e fu riportata con enfasi in vari trattati, come quello di Arturo Castiglioni, eminente storico italiano della medicina. Poi però crollò. Per quanto riguarda il primo punto, indagini piú accurate su registri parrocchiali dimostrarono che alcuni cimiteri, ritenuti abbandonati prima della fine del Medioevo, in realtà avevano continuato ad accogliere sepolture anche nel Cinquecento, altri, invece, erano stati riattivati dopo decenni di sosta. Era pertanto azzardato e non matematicamente certo che le ossa colpite da presunte lesioni sifilitiche, ritrovate in quei luoghi, appartenessero a individui sicuramente deceduti prima del 1493. Circa la seconda argomentazione portata a sostegno della teoria, si sostenne che la diagnosi a posteriori di sifilide formulata su casi descritti da autori medievali era da considerarsi un’ipotesi soggettiva e comunque indimostrabile, a maggior ragione per le ricostruzioni nosologiche fatte nel Settecento. Per esempio, il duca di Lancaster fu probabilmente affetto da gonorrea o blenorragia, infezione già diffusa nel Medioevo, e non da sifilide. Le due malattie erano confuse e assimilate fra loro ancora nell’Ottocento; solo nel 1838 il medico francese Philippe Ricord dimostrò che sifilide e gonorrea erano due malattie distinte. Quanto, infine, ai santi Giobbe, Menna e Rocco,

Un medico pratica un salasso su una persona affetta da sifilide, nella convinzione che tale pratica potesse curare la malattia. XVI sec. Perugia, Biblioteca Augusta. 56

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essi erano da sempre protettori dei malati di lebbra, vaiolo e peste, quindi è probabile che i casi citati nel Medioevo con questa perifrasi fossero in realtà casi riferibili a tali malattie. Per i pazienti che nel Medioevo si diceva fossero affetti da «mal francese» o «mal di Francia», non sappiamo di cosa soffrissero, sta di fatto però che quegli illustri studiosi formularono le diagnosi senza aver potuto controllare se in costoro fossero presenti lesioni o sintomi tipici della sifilide. Cosí, nella foga di riconoscere la sifilide in ogni dove, vi fu

chi sostenne, forse tradito anche da un’imperfetta conoscenza dell’italiano, che Filippo il Bello, re di Francia, ne fosse affetto unicamente sulla scorta di una terzina del Purgatorio: «Padre e suocero son del mal di Francia: / Sanno la vita sua viziata e lorda. / E quindi viene il duol che gli si lancia». Quando, invece, Dante intendeva solo dire che Filippo rappresentava un malanno per la Francia, e non che era affetto da «mal francese». Francesco Sorrentino

In alto incisione francese raffigurante un soldato spagnolo che riceve un trattamento a base di fumi di mercurio per curare la sifilide, in questo caso definita Mal de Naples. XVII sec. A destra I pericoli dell’amore, xilografia realizzata da Peter Flotner (attivo nel XVI sec.) e poi colorata per essere inserita nel volume dedicato al Rinascimento della Storia illustrata dei costumi dal Medioevo ai giorni nostri di Eduard Fuchs. 1909.

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LA MEDICINA NEL MEDIOEVO

I rischi alimentari

Il nemico che non ti aspetti

Contagi, truffe, intossicazioni: anche nell’età di Mezzo, mettersi a tavola poteva esporre a rischi molto seri – perfino mortali – soprattutto per la fiducia accordata a materie prime ritenute, a torto, innocue. Ma a rendere quell’epoca non molto dissimile dalla nostra vi era la tendenza a proiettare, su alcuni alimenti particolari, paure e ansie del tutto irrazionali... di Laura Prosperi


Doppio ritratto di un’anziana coppia, olio su tela di Lucas van Valckenborch (ultimato da Georg Flegel, suo allievo). Fine del XVI-inizi del XVII sec. Stoccolma, Museo Nazionale. In primo piano, sulla tavola, fanno bella mostra di sé pane e cibi freschi.


LA MEDICINA NEL MEDIOEVO

I rischi alimentari

L

e grandi campagne d’informazione condotte negli ultimi anni sono riuscite ad accendere un lampeggiante rosso tra gli scaffali della grande distribuzione. In alcuni frangenti la pressione mediatica è stata tale da trasformare la spesa dei consumatori piú informati in uno slalom acrobatico tra pericoli piú o meno remoti. Se la lista dei cibi a rischio è tristemente celebre, meno noti sono alcuni «effetti collaterali» provocati da tali campagne, effetti secondari, sicuramente non intenzionali, ma non per questo meno interessanti. Mentre la carne di struzzo ha visto aumentare vertiginosamente il proprio prezzo e le proprie fogge culinarie, qualche storico è tornato a interrogarsi sulle paure alimentari del passato, sollecitato dall’urgenza di verificare quanto di veramente nuovo e attuale vi fosse nelle ansie del consumatore medio odierno. È indubbio, in tal senso, che il vino al metanolo, i polli alla diossina e altre simili «amenità» siano stati tutti indistintamente recepiti come segno di un lento e inarrestabile declino dell’Occidente, l’ultimo segnale di un sistema produttivo sempre piú cinico e perverso. Di fronte a tale degrado, qualcuno, nel grande cantiere della storiografia, ha voluto dubitare di una verità spesso subdolamente suggerita, vale a dire dell’esistenza di un mitico passato esente da ogni sorta di timore e precauzione alimentare. L’esistenza di un’epoca, irrimediabilmente perduta, in cui non vi era motivo di diffidare della genuinità dei prodotti, un tempo in cui il cibo non nascondeva insidie per l’umana specie.

Un’ossessione ricorrente

Ripercorrendo questo cammino a ritroso, piú di uno storico ha potuto dimostrare, documenti alla mano, l’infondatezza di tale comune intendimento, lasciando adito a ben poca nostalgia per i tempi andati. Si comprenderà infatti, seguendo alcuni dei loro argomenti, che le molte fobie di oggi sono solo l’ultima espressione di un rapporto di eterna tensione tra l’uomo e la sua alimentazione, rapporto che ha sempre lasciato spazio ad ansie collettive e a fondati timori: contagi, truffe e intossicazioni alimentari non sono, insomma, un’invenzione della società contemporanea. Il primo grande errore commesso ai danni del passato è credere che lo spettro della fame abbia potuto in qualche modo contenere, o addirittura annientare, ogni altra ansia legata alla nutrizione. La fame è stata senza dubbio la vera ossessione alimentare di molte generazioni di uomini, ma figurare a buon diritto 60

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La cuoca (particolare), olio su tela del pittore fiammingo Joachim Beuckelaer. Seconda metà del XVI sec. Tolone, MAT-Musée d’Art de Toulon.

come la piú diffusa e la piú sentita paura alimentare della storia è ben altra cosa dall’essere stata la sola. Assillati dalla necessità di avere scorte sufficienti, i consumatori del passato non si sono per questo «fidati» del cibo a loro disposizione, e si vedrà invece come essi abbiano spesso dovuto coniugare l’ossessione per la quantità con preoccupazioni dovute alla cattiva qualità del cibo disponibile. Le paure alimentari del passato non sono mute. Nel Medioevo esse si esprimono, secondo diversi livelli di gravità, nella legislazione che regola il commercio e nella manualistica alimentare, sia essa dietetica o gastronomica. Questo tipo di documentazione offre i suoi primi spunti già a partire dal XIII secolo, ma sono il Trecento e il Quattrocento, almeno in Italia e in Francia, a consentire una ricostruzione piú articolata su tali aspetti. Gli statuti comunali e corporativi prodotti in gran parte delle città italiane e fran-


cesi in questi due secoli, contengono rimandi precisi alle patologie piú temute in relazione al cibo e sono ricchi di indicazioni sugli stratagemmi adottati dai commercianti per raggirare i consumatori sprovveduti, propinando loro merce scadente, contraffatta o contaminata.

Tre osservati speciali

Stando a queste fonti, risulta evidente come, nel XIV e XV secolo, l’allerta pubblica si concentrasse su tre generi alimentari: carne, pesce e pane. È chiaro che gli altri alimenti non erano al riparo dall’adulterazione, si pensi – per citare qualche caso eccellente – ai mille espedienti menzionati dai libri di segreti per «tagliare» il vino o il miele, ma l’attenzione e lo spazio dedicato dagli statuti comunali a queste tre categorie alimentari non lasciano dubbi: sono macellai e pescivendoli i possibili «untori» della società urbana bassomedievale, mentre il pane,

Banco di macelleria, olio su tela di Pieter Aertsen. 1568. Collezione privata. Nel Medioevo, la vendita delle carni era soggetta a regole precise, soprattutto nel caso del maiale.

controllatissimo perché affare politico e requisito di sussistenza, risulta passibile di frode, ma sarà preso di mira per ragioni sanitarie solo a partire dai secoli seguenti. La freschezza della merce è – in assoluto – la prima preoccupazione del legislatore e dell’interesse pubblico che egli rappresenta. In assenza di un’adeguata tecnologia del freddo, i provvedimenti in tal senso possono essere drastici. Risale al 1262 l’ordinanza della cittadina francese di Grasse che limita la vendita della carne al giorno stesso della macellazione e a quello seguente, imponendo, scaduto tale termine, di passare la carne in salagione (vedi box a p. 63). Le differenze climatiche potevano naturalmente giocare a favore di un’estensione del periodo di vendita, giungendo a un massimo di due o tre giorni nei mesi invernali, come attestato, per esempio, dagli statuti parigini del XIV secolo. Scaduto tale limite, la carne MEDICINA

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LA MEDICINA NEL MEDIOEVO

I rischi alimentari

In alto, a sinistra Il pasto dei contadini (particolare), olio su tela di Louis Le Nain. 1642. Parigi, Museo del Louvre. In alto, a destra pane e vino, particolare della Cena in Emmaus, olio e tempera su tela di Michelangelo Merisi da Caravaggio. 1601. Londra, National Gallery. A sinistra Venditore di lumache, olio su rame di Filippo Napoletano (al secolo, Filippo Angeli). Prima metà del XVII sec. Firenze, Palazzo Pitti, Galleria Palatina.

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poteva giungere sui banchi cittadini, almeno su quelli autorizzati, solo previa salatura o cottura: in ogni caso, altri professionisti l’avrebbero presa in carico, poiché il macellaio esauriva il suo mandato di vendita nella sola carne cruda, offerta allo stato naturale.

Misure drastiche

In questo tipo di disposizione è facile cogliere la presenza dello spettro della putrefazione: secondo la medicina ippocratica, insegnata presso le Università medievali, nulla risulta piú inviso alla salute umana della materia marcescente. Per tale motivo, le parti piú esposte alla degenerazione, vale a dire le interiora, non possono generalmente essere vendute insieme alle altre, ma vengono subito affidate ai trippai per le dovute lavorazioni. I tempi di vendita ristrettissimi e l’imposizione drastica di salatura o cottura dei pezzi rimanenti mostrano quali fossero le principali strategie per ovviare alla naturale degenerazione della carne e del pesce, senza garantire però che la merce cosí esclusa dai circuiti «alti» della vendita, non passasse poi, a prezzi estremamente ridotti, sui banchi della cosiddetta «bassa macelleria».


TUTELE RIDOTTE PER I MENO ABBIENTI

La salagione era prevista per tutte le carni non vendute a ridosso della macellazione e destinate quindi alla consumazione non immediata. Il potere antisettico del sale rappresenta una difesa antica contro le insidie alimentari e perciò il sale rimase, per secoli, non solo sinonimo di disponibilità di carne durante il corso dell’anno, ma anche di consumo sicuro. In tal senso la relazione tra fiscalità e intossicazione alimentare si rivela stringente, poiché è chiaro che ogni innalzamento di gabella, comportando l’inasprimento del prezzo del sale, induceva al suo risparmio forzato, costringendo le classi meno abbienti a consumare carni piú esposte a degenerazioni batteriche e a processi di putrefazione. L’uso del sale rimane dunque sinonimo di tutela alimentare per gran parte della popolazione, ma risulta vincolato ai flussi della politica fiscale.

Il criterio medico dell’epoca imponeva anche di evitare accuratamente l’eccessiva freschezza (che nel linguaggio coevo è detta «troppa calidità» e «troppa umidità»), riducendo ulteriormente il tempo di accesso al mercato di carne e pesce. Esisteva dunque anche un intervallo di tempo minimo che stabiliva l’inizio legale dell’esposizione della merce: nel caso della carne, sancisce un’ordinanza di Avignone del XVI secolo, mai prima che fossero trascorse quattro ore dalla macellazione, mentre altri statuti coevi impongono la sera, per capi abbattuti la mattina, e il giorno seguente per quelli uccisi in serata. Il presupposto che ispira questo genere di norma era che il cibo troppo fresco fosse nocivo per la salute, convinzione assunta con la massima gravità e portata alle sue estreme conseguenze, come mostra la sanzione parigina del 1559 che condanna tre macellai per avere venduto carni troppo fresche, e aver cosí attentato alla salute dei cittadini. Sulla «giusta» freschezza della merce l’esame

visivo del consumatore era allora – esattamente come oggi – della massima importanza. Mentre oggi, però, è solo l’occhio a «volere la sua parte», tatto e soprattutto olfatto guidavano il consumatore di allora nella scelta delle proprie derrate. La massima «Tutto ciò che puzza uccide» orienta questo cliente tra i banchi dei mercati cittadini. Egli annusa tutto ciò che gli par degno del suo naso, per dedurre se lo sarà poi, una volta cucinato, della sua bocca e del suo stomaco. Cosí facendo, egli non turba la benevolenza del commerciante, né infrange

Dall’alto, in senso orario la vendita delle cervella, una pescheria e la macellazione di un ovino, miniature tratte da un’edizione del Tacuinum Sanitatis, traduzione in latino del Taqwim al Sihha (Almanacco della salute), redatto a Baghdad dal medico e letterato Ibn Butlan nell’XI sec. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.

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LA MEDICINA NEL MEDIOEVO

I rischi alimentari

IL BIANCO, SINONIMO DI SANITÀ A influenzare il consumatore medievale è soprattutto la questione cromatica: nella scelta degli ingredienti la preferenza accordata al bianco non conosce rivali, e guida il consumatore nella selezione della merce. L’alimento bianco viene generalmente ritenuto piú salubre di altri, al riparo dalla contaminazione e dalla corruzione organica, e a esso la gastronomia internazionale dedica una portata di gran conto. Il biancomangiare, uno dei piatti di maggior successo della cucina tardo-medievale, è l’unico caso di preparazione determinata unicamente dal colore degli ingredienti (riso, latte e mandorle sono tra quelli sempre presenti, pollo o pesce figurano invece tra le varianti possibili). Sono state avanzate diverse ipotesi sulle ragioni del pregio alimentare conferito al bianco, e sulla sua facoltà di rassicurare il

in alcun modo il codice vigente delle buone maniere; esercita semplicemente il suo diritto di compratore avveduto, sapendo di non poter contare su alcuna associazione dei consumatori, né su alcuna etichetta affissa sulla merce. In tale contesto, i suoi cinque sensi e la sua personale esperienza diventano l’unica strategia possibile per farsi garante della propria incolumità: sui banchi del mercato, prima dell’acquisto, gli alimenti vengono scrutati, annusati, tastati e assaggiati. Nonostante l’accurato esame, l’insidia dell’in-

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Altre miniature tratte dall’edizione del Tacuinum Sanitatis della Österreichische Nationalbibliothek di Vienna. Fine del XIV-inizi del XV sec. Dall’alto, una giornata di pioggia, allusione della necessità di adeguarsi ai climi delle diverse stagioni per godere di buona salute; una bottega di generi alimentari e la lavorazione delle carcasse di capra.

ganno sulla freschezza della merce sembra rimanere in agguato, allora ben piú di oggi, perché il venditore dispone di svariati trucchi per depistare i suoi acquirenti. Tagliare l’animale nella zona ventrale e insufflare aria al suo interno è una pratica comunissima nel Basso Medioevo, sebbene spesso osteggiata dalla legislazione, che vede in essa la fonte di un possibile contagio – dall’alito umano alla carne dell’animale –, e un modo poco onesto per rendere artificialmente piú distesa e tonica, quindi apparentemente migliore, la carne esposta. Tale espediente, praticato in Sardegna come nella Francia meridionale, veniva ufficialmente utilizzato al solo fine di facilitare lo scuoiamento dell’animale, ma è chiaro che tutti i diversi ef-


consumatore. Accanto a spiegazioni di carattere metastorico – vale a dire legate al simbolismo della purezza e dell’innocenza –, ne sono state considerate altre di natura piú contestuale, quale, per esempio, il potere di neutralizzare la bile nera, ovvero l’umore nefasto ritenuto responsabile, dalla medicina del tempo, di moltissimi disturbi e patologie. Quali che ne siano state le ragioni, «bianco è sano» per il consumatore medievale, che, lasciandosi orientare da questo criterio, rimane spesso vittima della propria suggestione. I commercianti, infatti, sfruttano questo

fetti collaterali citati – ai quali va aggiunto l’aumento di peso del capo – deponevano a favore del commerciante, traducendosi per il consumatore in un binomio truffaldino, fatto di aria e carne scadente.

Una singolare inversione

Le autorità locali controllano la qualità della carne, che compare generalmente sui banchi del mercato solo nei giorni di «grasso» previsti dal calendario religioso, vale a dire 215 giorni all’anno, lasciando alla sola vendita del pesce quasi un terzo dell’anno. A differenza del pane e del pesce, la carne non è controllata dal servizio municipale solo per accertamenti relativi alla freschezza, ma anche perché ritenuta possibile vettore di malattia e quindi fonte diretta di contagio. Dati i mezzi diagnostici del tempo, non doveva risultare semplice distinguere un’intossicazione alimentare da un contagio vero e proprio, ma, al di là dell’esattezza del riconoscimento, esiste una distinzione netta tra cibo adulterato, avariato, e contaminato. Quest’ultima categoria è – in assoluto – la piú temuta. In termini teorici la sua costruzione avrebbe dovuto riguardare patologie trasmissibili dall’animale all’uomo, ma di fatto si trattò principalmente dell’inverso, ovvero di malattie umane proiettate impropriamente su capi di bestiame. La ricostruzione delle zoonosi medievali, cioè delle patologie condivise da uomo e animale, presenta una serie di difficoltà non aggirabili. Tali difficoltà sono dovute principalmente al fatto che sulle malattie degli animali la documentazione è caotica e carente, consentendo solo pochi casi di identificazione certa. Mentre le malattie umane dispongono quasi sempre di

luogo comune per depistarlo nell’acquisto delle derrate, e usano espedienti piú o meno innocui per conquistarne il favore. Illuminare il banco di esposizione con numerose candele accese serviva cosí per ridare al lardo il candore perduto, e dissimularne l’ingiallimento. A questo trucco di longeva fortuna, e utilizzato ancora in pieno XVIII secolo, se ne aggiungevano altri, praticati direttamente sugli alimenti e decisamente piú nocivi. Ne è un esempio l’uso, severamente bandito in un regolamento parigino del Trecento, di sbiancare artificialmente il merluzzo impastandolo con la calce.

Capolettera raffigurante la pulitura del riso, da un’edizione del Trattato di Medicina di Ildebrando da Firenze. XIV sec. Lisbona, Biblioteca Nacional.

una denominazione latina, ovvero universale, e di un ampio quadro sintomatologico, quelle animali vengono sbrigativamente liquidate nella documentazione con termini volgari e regionalismi, che ne rendono ancor piú arduo il riconoscimento. Esiste una relazione diretta tra la poca considerazione destinata alle patologie degli animali e la possibilità di fare di questi ultimi carne da macello. In questo contesto, infatti, evitare di prendersi troppa cura della salute e della vita dell’animale appare condizione necessaria, sebbene non sufficiente, per poterlo consumare senza scrupoli.

Nessuno mangi il cavallo

Non a caso, l’unico animale al quale vengono rivolti sforzi di cura considerevoli è il cavallo, che, infatti, non compare sui banchi delle macellerie medievali, probabilmente per via della sua utilità e del legame affettivo stabilito con il genere umano. La sua assenza, certo comprensibile anche sul piano della mera convenienza economica, rimanda a un antico timore che impedisce all’uomo di consumare esseri viventi con i quali esiste una relazione di promiscuità, collaborazione e solidarietà. Il tabú alimentare che tocca oggi gli animali domestici, in particolare cani e gatti, rappresenta il corrispettivo del divieto implicito che colpisce l’ippofagia in epoca medievale. Non è una resistenza di carattere emotivo, ma una preoccupazione che tocca la salute, invece, quella che porta a escludere la capra dalla macelleria dell’epoca. Della capra adulta è temuto il contagio di febbre di Malta, o brucellosi, male che affligge, secondo la visione del tempo, ogni capo adulto del genere caprino. Solo i cuccioli, ovvero i capretti, ne sono conMEDICINA

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LA MEDICINA NEL MEDIOEVO

I rischi alimentari

siderati esenti, ed è per questo che essi vengono destinati alla vendita senza ipotecare la salute del consumatore. Fra tutte le patologie comuni a uomo e animale, o presunte tali, la vera ossessione del consumatore medievale è la «lebbra» porcina. Ma poiché la lebbra, in realtà, non colpisce i suini, merita ritornare sulle ragioni di questa costruzione mentale e della sua fortissima incidenza.

Una fobia atavica

Fra tutti gli animali, il maiale è il bersaglio prediletto di ogni fobia alimentare. La medicina araba e quella ebraica riversano sul porco una diffidenza che è sostanziata, nelle rispettive religioni, nell’obbligo dell’astensione. Sebbene né l’Antico Testamento, né il Corano facciano riferimento a ragioni di ordine sanitario, la coincidenza non può essere passata sotto silenzio. L’area che si votò al cristianesimo, invece, coincide grosso modo con l’area di espansione della medicina ippocratica, che si pronunciò a favore della carne di maiale, e che sarà infatti l’unica a consentirne il libero consumo. Anche nell’Occidente cristiano, però, si avvertirono il peso e l’influenza di aree e culture limitrofe, capaci di

OCCHIO... ALL’ORECCHIO! In molti mercati dell’Europa continentale l’acquisto di carne suina avveniva previo controllo dell’orecchio dell’animale. A Parigi, per esempio, a seguito dell’ispezione sanitaria, l’orecchio veniva siglato, se si riscontravano tracce leggere – e pertanto incerte – di contagio da «lebbra», mentre veniva tagliato se la malattia era diagnosticata con certezza. In questo caso l’animale veniva messo comunque in vendita, ma solo sui circuiti meno esigenti, denominati di «bassa macelleria». Segnate, marchiate o amputate, le orecchie del suino funzionavano dunque, in molti mercati urbani, come una vera e propria etichetta, capace di informare l’acquirente rispetto alle condizioni della carne. Allo stesso modo nel pesce ispezionato e giudicato atto alla vendita veniva inciso un piccolo segno (un cerchio nella città di Lille), come garanzia di qualità.

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gettare una luce equivoca su questo genere di consumo: nella documentazione medievale vi sono moltissime tracce della diffidenza riservata al maiale, e non sarà pertanto difficile reperirne qualche esempio. A differenza di manzi e montoni, il maiale subisce in gran parte dei mercati francesi ben due controlli sanitari: uno per ispezionare le condizioni dell’animale ancora in vita, con particolare attenzione alla sua lingua, e uno, dopo l’abbattimento, per verificare che non ci siano larve incistate tra le sue fasce muscolari. Se il maiale è percepito come animale potenzialmente infetto, e come una delle fonti piú probabili di contagio, è anche perché esso poteva risultare affetto, esattamente come il paziente lebbroso, da pustole sotto la lingua. Leggiamo come il celebre enciclopedista Bartolomeo Anglico (1190-1250) inquadra le possibili vie di trasmissione alimentare della lebbra, attribuite al cattivo «tempera-


Nella pagina accanto e in basso, a sinistra miniature raffiguranti la macellazione e la lavorazione del maiale. Nella pagina accanto, dall’alto, da un codice del XIV sec. (Forlí, Biblioteca Comunale «Aurelio Saffi») e dal Martirologio di Adone (XII sec.; Cremona, Biblioteca Capitolare). In questa pagina, dal Breviario di Ercole I d’Este (1502-1506; Modena, Biblioteca Estense).

mento» di alcuni viveri, o per l’appunto al maiale contagiato: «Essa (la lebbra) può essere causata dall’aria corrotta o dal consumo di alimenti cattivi e melanconici, troppo freddi e secchi, quali la carne di manzo, di asino e di orso. Essa può, allo stesso modo, derivare da cibi troppo caldi: come nel caso di un consumo continuo di cipolle, pepe e simili sostanze. Essa è parimenti causata dall’ingestione di alimenti corrotti, come la carne di porco lebbroso o malato, cosí come di vino alterato».

Burro e aglio contro la tenia

Ciò che l’uomo può davvero contrarre a causa del consumo di carne porcina è la tenia, nota come verme solitario, inquilino poco gradito dell’apparato digerente umano, che in esso trova il suo habitat ideale, riuscendo a raggiungere dimensioni considerevoli. Una dieta primaverile a base di burro «di maggio» e aglio era il trattamento abitualmente riservato a tutti i pazienti che involontariamente ospitavano questo parassita opportunista, che risulta – è bene ricordarlo – ben piú dannoso in regimi alimentari spesso al limite della carenza e del fabbisogno. Ma per temibile e sconveniente che fosse, la tenia intestinale giustifica solo in parte l’accanimento legislativo a carico del suo primo ospite, ovvero del maiale, un accanimento che trova In alto e in basso altre miniature dal Tacuinum Sanitatis conservato presso la Österreichische Nationalbibliothek di Vienna. Fine del XIV-inizi del XV sec. In alto, la raccolta delle cipolle; in basso, una degente mangia un decotto curativo a base di erbe.

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LA MEDICINA NEL MEDIOEVO

I rischi alimentari mentazione in vita poteva preoccupare il consumatore. A sconcertare quest’ultimo era innanzitutto l’eventualità che qualche singolo capo, liberamente circolante, potesse aver attinto le proprie sostanze dalle lordure della città, cibandosi degli scarti dell’alimentazione umana e bevendo dagli scoli delle abitazioni.

Maiali di città

qualche argomento di sostegno anche nella scrittura gastronomica. Maestro Martino, il celebre cuoco del patriarca di Aquileia, scriveva nel Quattrocento che «carne de porco non è sana in nullo modo», offrendo una soluzione per mangiare il dorso dell’animale e facendo passare tutto il resto alla salagione: «Pur la schina vole essere arrosto quando è fresco con cipolle, et il resto per salare o come ti piace». Che le cipolle fossero un espediente utile a neutralizzare la pericolosità del maiale, del resto, è norma ben piú antica di questo ricettario, perché il connubio con le cipolle è suggerito già – con questa precisa finalità – nel manuale dietetico della Scuola Medica di Salerno, testo risalente all’XI secolo. Oltre a essere l’unico capo ispezionato «da vivo» e «da morto», il maiale era anche il solo animale da macello la cui ali68

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Miniature raffiguranti la semina e la mietitura del grano, da un Libro d’Ore. XVI sec. Rouen, Bibliothèque municipale. Nel Medioevo, i cereali causarono il piú alto numero di vittime per intossicazione alimentare, soprattutto in caso di carestie: in simili circostanze, infatti, molti consumavano anche i chicchi infestati dal fungo della segale, il Claviceps purpurea, che causa l’ergotismo (o «fuoco di Sant’Antonio»).

La presenza di maiali all’interno delle mura cittadine è riferita da numerose fonti del XV secolo come dato abituale, esattamente come il vagare dei cani: le Ordinazioni cagliaritane, ovvero le delibere emesse dal consiglio comunale, ci informano che solo quando i capi superavano certe proporzioni ne veniva vietata la libera circolazione. La spiccata propensione di quest’animale ad amare gli ambienti putridi contribuí verosimilmente alla sua cattiva reputazione, ma l’opinione corrente seppe andare oltre. Con un’anticipazione interessante su quelli che diverranno, secoli dopo, gli standard di qualità e salubrità del cibo, la legge di mercato distingue, differenziandone il prezzo, il maiale che si è nutrito esclusivamente di radici e di ghiande, vale a dire cresciuto allo stato brado, da quello allevato in ambiente cittadino e ingrassato con crusca e scarti di farina. Quest’attenzione per la nutrizione del bestiame, divenuta oggi cosí importante per gli standard dell’allevamento biologico, può offrire accesso, nel contesto cittadino tardo-medievale, a scenari inquietanti. Lo studio di Madeleine Ferrières intitolato Storia delle paure alimentari, un fondamentale contributo storiografico sull’argomento, cita ordinanze dell’epoca che vietano di nutrirsi di animali vissuti nei pressi di lazzaretti, di residenze di chirurghi, o di altri luoghi dove il bestiame potesse attingere nutrimento sospetto. Tra le righe di questo genere di provvedimento si percepisce la necessità di scongiurare il rischio di cibarsi di animali a loro volta nutriti di sangue umano o, ancora peggio, di carne umana infetta. Rimaniamo, in ogni caso, decisamente distanti da quello scenario idilliaco della nutrizione del bestiame fornito dal cronista Bonvesin della Riva (1240-1315) nella sua celebrazione della città di Milano: «Essi non si cibano solo di fieno, ma spesso sono portati al pascolo, a mangiare erba e frasche; e che nelle stalle si nutrono anche di erba fresca, paglia, rape, avena e molte altre cose ancora». Se volessimo indagare su cosa fossero, nella realtà, le «molte altre cose ancora», ci troveremmo talvolta di fronte a risposte assai poco rassicuranti. L’insieme di queste indicazioni può dare, com-


Particolare di una miniatura raffigurante la bottega di un mercante di granaglie, da un manoscritto lombardo. XV sec. Modena, Biblioteca Estense Universitaria.

plessivamente, l’impressione che fosse la carne il genere alimentare piú temuto in età medievale, mentre non va dimenticato che furono i cereali – e in particolare la segale – a mietere il piú alto numero di vittime per intossicazione alimentare. A dispetto dei fatti, tuttavia, gli occhi vennero puntati sulla qualità dei cereali solo molto piú tardi, ovvero a partire dal XVII secolo, quando all’interno della comunità scientifica si fece strada l’ipotesi che l’ergotismo fosse dovuto alla consumazione di ciò che venne comunemente denominata «segale cornuta».

Chicchi traditori

Chiamato «fuoco sacro» o «fuoco di Sant’Antonio» nelle fonti, l’ergotismo è malattia estremamente comune in tutta l’Europa medievale. Mortale nelle sue forme acute, si manifesta con paralisi progressiva degli arti e cancrena degli stessi, conducendo spesso alla loro perdita per autoamputazione. Il nesso con il fungo della segale, denominato Claviceps purpurea, venne ignorato per secoli, mentre non era sfuggita, già ai cronisti altomedievali, la relazione tra il dilagare della malattia e le annate di carestia. Erano queste, infatti, a costringere gran parte della popolazione a ingerire, insieme ai chicchi sani, anche quelli dal sapore sgradevole attaccati dal parassita, riconoscibili a occhio nudo perché di dimensioni molto piú grandi degli altri, e perciò scartati nelle annate di abbondanza. Per uno

strano paradosso, fu proprio il temutissimo maiale a fornire la materia prima – in questo caso il grasso – utile a confezionare un unguento di rinomata efficacia adottato nella cura della malattia. Nonostante il maiale sia dunque utilizzato come alimento, e alcune sue componenti come medicamento, esso rimane un animale infido per il consumatore medievale, che su di esso riversa, almeno in termini legislativi, il massimo delle precauzioni. L’accanimento di provvedimenti messi in atto contro il contagio porcino consente di fare una valutazione di ordine generale sulla distanza, sempre esistita, tra pericolo reale e pericolo percepito. Mentre il fungo della segale falcidiava indisturbato la popolazione europea, la carne di maiale catalizzava tutte le paure e le ansie del consumatore tardo-medievale. Per quest’ultimo, la forbice tra rischio effettivo e rischio immaginario sembra essere stata singolarmente ampia, ma è bene non illudersi, perché le epoche successive non sempre presentano una divaricazione meno pronunciata. Il progresso scientifico può sicuramente favorire una maggiore coscienza sulla reale entità dei pericoli connessi al consumo alimentare, ma a torto ci sentiremmo rassicurati da quest’ultima constatazione: le paure alimentari non sono, in tal senso, diverse dalle altre paure, e lasciano libero campo all’azione dell’irrazionale e dell’emotività. MEDICINA

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LA MEDICINA NEL MEDIOEVO

Digiuni mistici

L’anoressia, uno dei drammi della società contemporanea, risponde oggi a pulsioni estetiche. Ma c’è stato un tempo in cui il rifiuto del cibo nasceva dal desiderio di negare la propria dimensione corporale per esaltare l’essenza incorporea dell’anima. E avvicinarsi cosí a Dio di Claudio Corvino

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L’anoressia


L

a morte di una ragazza anoressica scatena un senso di pietà misto a turbamento verso un male che ha qualcosa di imperscrutabile, tragico ma al tempo stesso affascinante. C’è un mistero intorno all’anoressia mentale, e non solo perché in fondo non ne comprendiamo l’origine, né la prassi terapeutica. Come tanti turbamenti della psiche – l’epilessia o la melanconica depressione, per non dirne che due –, questa astensione forzata dal cibo ha sapore di altri tempi, come un male ereditario nato in un altrove lontano: forse dai deserti africani frequentati dai primi anacoreti o da qualche

Morte di Santa Margherita da Cortona, olio su tela di Marco Benefial. 1729-1732 circa. Roma, chiesa di S. Maria in Aracoeli. La santa esalò l’ultimo respiro il 22 febbraio 1297, dopo diciassette giorni di digiuno assoluto.

monastero femminile medievale. Perché l’anoressia colpisce le donne in numero straordinario, piú che gli uomini. Le statistiche cliniche le dicono adolescenti, di buona famiglia, occidentali e bianche. Quando una modella anoressica si consuma, persa dietro ai suoi pagatissimi drammi, ci si accanisce contro gli stilisti, le sfilate o un consumismo che cancella ogni originalità di pensiero, persino ogni originalità di corpi. Ma la moda, in fondo, non fa altro che assecondare, per meglio dire approfittare, di un modello asessuato, di un corpo anoressico che non ha e non vuole avere forme femminili. Una donna-manichino può solo tornare utile a una moda subordinata al dio-consumo. Proprio come il noto personaggio biblico, peccando d’orgoglio, questa vorrebbe assimilarsi a un Creatore e foggiare gli esseri a suo piacimento. Formare, plasmare o determinare il sesso di un essere vivente con una piega, un tessuto o un colore: è il sogno nascosto di ogni stilista. Siamo in piena logica da multinazionale: i corpi non devono avere forma o sesso, che devono essere acquistati entrambi, e non soltanto in senso metaforico. Non sorprenda dunque che alcuni stilisti ancora oggi, intervistati dopo la tragica fine di una delle loro gracili collaboratrici, continuino ad affermare che le loro modelle vanno benissimo magre come sono. Se il corpo è frutto di una plasmazione culturale durata secoli, ben venga sminuirlo, minimizzarlo fino alle ossa. Cosí, ridotto a uno scarnificato scheletro, potrà risaltare maggiormente il genio creativo di uno stilista con delirio di onnipresenza. Se un robot avesse lo stesso potere mitopoietico di una modella, sarebbe l’ideale, e l’atto creativo totale: «E maschio e femmina li creò». Ma i robot, almeno per ora, non riescono a portare i tacchi.

Un accostamento obbligato

Ciò che sta dietro il dramma dell’anoressia mentale, da un punto di vista antropologico, rivela una straordinaria solidarietà tipologica con i tanti digiuni di tipo magico-religioso che incontriamo in varie culture e in differenti epoche storiche. Dopo il volume di Rudolph M. Bell (1942-2022) sulle sante anoressiche (La santa anoressia. Digiuno e misticismo dal Medioevo a oggi, pubblicato nel 1985 e tradotto per la prima volta in Italia nel 1987), è diventato quasi d’obbligo avvicinare la patologia delle nostre adolescenti contemporanee a quella delle sante digiunatrici MEDICINA

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LA MEDICINA NEL MEDIOEVO

L’anoressia Nella pagina accanto Svenimento mistico di santa Caterina, affresco del Sodoma (al secolo, Giovanni Antonio Bazzi). 1526. Siena, basilica di S. Domenico, cappella di S. Caterina. Il mancamento della santa si verificò in seguito al ricevimento delle stimmate. suora. Inoltre l’astensione alimentare, le rinunce anche sensoriali, le macerazioni devote riescono a donare privilegiati accessi fisiologici a visioni ed esperienze allucinatorie, che non sono soltanto del mondo cristiano medievale. In molte religioni, infatti, i digiuni prolungati determinano la liberazione di tossine che causano ricercati stati allucinatori durante i quali ci si può avvicinare alla divinità.

L’anima è piú importante del corpo

E LA FRECCIA TORNÒ INDIETRO... Il digiuno poteva essere un mezzo per avvicinarsi a Dio e conoscere i suoi arcani. Narra il Libro dell’apparizione di San Michele, un testo variamente datato tra VI e X secolo, che un tal Gargano (siamo nella Puglia del V secolo) possedeva una grande mandria di vacche e tori. Un giorno, mentre era in procinto di tornare alla fattoria, si accorse che gli mancava il toro piú bello e grosso che possedeva. Lo cercò per quelle aspre terre, fino a che non lo ritrovò su di un alto ciglio. Impossibilitato a raggiungerlo, Gargano fu preso dall’ira e gli scagliò addosso una freccia, che però tornò indietro, ferendolo. Recatosi a Siponto, Gargano e tutto il popolo che era venuto a conoscenza del prodigio chiesero spiegazioni al vescovo, che invitò tutti a un triduo di digiuno e penitenza, per conoscere la volontà di Dio. Il vescovo alla fine ebbe in sogno san Michele, che gli disse che quella dov’era il toro sarebbe stata la sua dimora. Era l’8 maggio del 490, il giorno, e il luogo, in cui secondo la leggenda fu fondato il santuario pugliese di S. Michele sul Gargano.

medievali. Nel suo saggio Bell esaminava centinaia di casi di «sante, beate, venerabili o serve di Dio vissute tra il 1200 e i giorni nostri nella Penisola italiana». Moltissime tra loro, piú della metà, presentavano sintomi di anoressia. Per queste donne, il rifiuto del cibo sembrava essere l’unico modo per affermare la propria forza e per farsi ascoltare: dagli uomini, dai superiori in un convento, dai giudici in un tribunale. Digiunare significava allora per una donna affermare la propria capacità di essere nel mondo, a dispetto delle costrizioni e delle convenzioni che l’avrebbero voluta sposa, madre o 72

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In alto l’Arcangelo Michele pesa le anime, particolare del Giudizio Universale affrescato nella schiesa di S. Maria in Piano, a Loreto Aprutino (Pescara). Prima metà del XIV sec.

Le somiglianze tra le adolescenti e sante digiunatrici come Chiara d’Assisi o Caterina da Siena saltano all’occhio: la continua ricerca di privazioni, la costante frustrazione dei bisogni del corpo, un’astinenza alimentare che porta inesorabilmente a distorsioni percettive in cui, a seconda del contesto, le donne potranno avere visioni a sfondo mistico oppure, piú profanamente, la percezione di un corpo grasso anche in un evidente stato di dimagrimento. Con la notevole differenza però che, nel caso delle sante, il male è piú facilmente decodificabile, a patto che si conosca la storia cristiana e il suo continuo sminuire il corpo in favore dell’altra «metà» impalpabile, l’anima. A cominciare da Tertulliano (apologeta e scrittore cristiano attivo fra il II e il III secolo), quando scriveva che «il corpo, se emaciato, passerà piú facilmente la porta stretta (del Paradiso), se leggero risorgerà piú rapidamente e se deperito si conserverà meglio nella tomba». Nelle adolescenti anoressiche, la patologia è molto piú criptica, personale, segreta. In altre parole, mentre nella mistica cattolica l’annullamento e la negazione del proprio corpo diventano condizioni imprescindibili per avvicinarsi a Dio, in una totale pienezza ontologica («il Signore è il mio pastore, non manco di nulla…»), nelle nostre ragazze tali caratteristiche perseguono un’ideale di perfezione fisica che diventa anche un’immaginata perfezione interiore, necessaria anche all’attività intellettuale. A livello clinico, infatti, spesso si riscontra nelle adolescenti una dichiarata incompatibilità tra nutrimento del corpo e nutrimento dello spirito attraverso lo studio. Il digiuno accompagna da sempre le attività magiche degli esseri umani. Canidia, famosa strega del mondo romano, ha bisogno di un amoris poculum, un filtro che renderà chi lo beve


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L’anoressia

Scomparto di pala d’altare raffigurante il Giudizio Particolare, dipinto su tavola del Maestro di Soriguerola. Fine del XIII sec. Vic, Museu Episcopal de Vic. L’Arcangelo Michele pesa le anime dei defunti e un demonio cerca di far pendere la bilancia dalla propria parte. desideroso dell’amante. Ecco allora che, in una scena drammatica degli Epodi (V, 28-38) di Orazio, descrive il seppellimento fino al capo di un ragazzo, che morirà desiderando le pietanze che gli sono state messe a poca distanza dalla bocca. Ucciso nel desiderio, secondo il noto principio di magia imitativa, i suoi organi interni serviranno a confezionare un ottimo filtro d’amore per far desiderare l’amante, proprio come il ragazzo ha desiderato il cibo. Il digiuno rende piú efficace l’azione magica dello stregone, lo conduce a una condizione fisiologica e psicologica di limine, ai confini della sua presenza razionale: in questo modo e in questo momento ci si può avvicinare al mondo soprannaturale. Ma nell’antico Israele, come nel cristianesimo, il digiuno ha anche la funzione di intensificare la preghiera, o di avvicinare ai misteri impenetrabili del divino. Nell’antica liturgia cattolica esisteva una preghiera per chiedere la pioggia, legata a un periodo di digiuno e mortificazione, quello delle Rogazioni. I fedeli invocavano la pioggia «affinché produca fieno nelle montagne ed erba che serva agli uomini» (Rituale romanum, titulus X, caput VI). Probabilmente la stessa dinamica di digiuno-mortificazione della carne era alla base del rito dei «battenti» di Guardia Sanframondi (Benevento), che si svolge ancora oggi, ogni sette anni, in occasione dell’Assunta (15 agosto), ma che in origine veniva agito in occasione di carestia e mancanza di pioggia.

Un segno del demonio

Se il digiuno è ancora consigliato, nei rituali di esorcismo, sia al prete sia al presunto «posseduto», al contrario spesso il digiunare fu visto nel Medioevo come segno patognomico della presenza del demonio. In una biografia di sant’Emmeram della fine dell’VIII secolo, si parla di una ragazza che fu assalita da uno spirito impuro mentre era a pascolare il bestiame del padre. Da quel momento non volle piú assumere cibo, e ogni volta che la forzavano a mangiare qualcosa lei vomitava. La storia andò avanti per un anno, fino a quando non fu portata a Helfendorf, alla tomba di sant’Emmeram: appena entrata in chiesa la ragazza ebbe fame e ricominciò a mangiare normalmente. 74

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LA STREGONERIA? UNA QUESTIONE DI PESO La credenza nel «digiuno diabolico» si consolidò nei secoli centrali del Medioevo, facendosi strada anche nella giurisprudenza, tanto che inquisitori e giudici arrivarono a includere l’eccessiva denutrizione tra le prove di stregoneria. Per accertarla, le presunte streghe venivano poste su un’apposita bilancia: se il loro peso risultava inferiore alla norma, questo veniva acquisito come prova inoppugnabile del loro commercio col demonio. La spiegazione che ne diedero due inquisitori del Quattrocento, Sprenger e Kramer, autori del Malleus maleficarum, è sconcertante: se le streghe, adorando il diavolo, mostravano di odiare la Terra, questa le rifiutava, rendendole senza peso e perciò capaci di volare nell’aria. Piú che nel campo della teologia e della fede, sembra di trovarsi di fronte a un abbozzo di fantastica teoria antigravitazionale.

Acquerello ottocentesco raffigurante un sabba di streghe.


Scomparto di un retablo dedicato a san Bernardo di Chiaravalle, tempera su tavola di Ferrer Bassa. 1325-1350. Vic, Museu Episcopal de Vic. La scena raffigura il santo nell’atto di esorcizzare un’ossessa e, seguendo un modello piuttosto diffuso per questo tipo di soggetti, il successo dell’intervento è espresso dal diavoletto nero che fuoriesce dalla bocca della donna. In basso una scena del film L’esorcista (1973) diretto da William Friedkin.

Ma il diavolo poteva anche essere un astuto e fasullo dietologo, come quando, nel XIII secolo, persuase Margherita da Cortona a seguire le regole sul digiuno adottate dai Francescani: non erano forse quei bravi frati destinati al Paradiso? Ma, quando Margherita era ormai sul punto di morte, le riapparve il diavolo, perfido, che le disse: «Dio non ti perdonerà mai, né mostrerà l’agognata misericordia perché, col digiuno, hai compiuto il tuo suicidio». Ma già nel Cinquecento molti dubitavano del nesso digiuno-possessione diabolica. Tra costoro in prima linea ci fu il medico Johann Wier (1515-1588), che pubblicò un trattato, De Lamiis Liber. Item de Commentitiis jejuniis (1577), nel quale riportava casi come quello di Elisabeth Barton, la ragazza che diceva di nutrirsi solo con ostie provenienti dal Cielo. Anche se intorno alla sua figura era cominciata a nascere qualche forma di adorazione – e forse proprio per questo – il re la fece rinchiudere nella cella di un convento, per poterla meglio sorvegliare. Dopo tre giorni, la ragazza non ne poté piú dalla fame e si scoprí che alcune sue amiche complici le portavano delle ostie da mangiare nascondendole tra i capelli. Elisabeth fu giustiziata. Un altro esempio riportato da Wier è quello di una giovane veneziana che si rinchiuse in una stanza a digiunare, portando con sé solo due Bibbie. L’ascetica decisione però si rivelò un inganno ben architettato: una delle Bibbie era cava e piena di cibo.

Casi di anoressia considerata possessione non appartengono solo al mondo medievale. Nel 1970 Annelise, una ragazzina di Klingenberg in Baviera, ebbe le visioni e cominciò ad accusare sintomi anoressici. Dopo aver girato vari medici, capitò nelle mani di padre Alt, convintissimo di trovarsi di fronte a un caso di possessione diabolica: per mesi e mesi Annelise fu sottoposta a snervanti esorcismi, che a volte duravano anche sei ore. Morí il 1° luglio del 1976, di fame, come chiarí in seguito l’autopsia. L’esorcista e i suoi aiutanti furono condannati a sei mesi di prigione. Erano gli anni in cui nelle sale cinematografiche usciva il film L’esorcista (1973) di William Friedkin. MEDICINA

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Principi del bisturi di Donatella Lippi

LE TERAPIE

Nel solco di una tradizione terapeutica antica ricca e consolidata, i medici del millennio medievale furono artefici di importanti innovazioni nel campo della chirurgia. Progressi puntualmente registrati dai numerosi trattati che molti di essi vollero compilare


Strumenti chirurgici illustrati nelle pagine di un’edizione manoscritta del Kitab al-Tasrif, l’enciclopedia medica del medico di origine araba Abu l-Qasim az-Zahrawi, noto in Occidente come Albucasis. 1213-1223. Rabat, Bibliothèque Nationale du Royaume du Maroc.

RE ARTÚ

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LA MEDICINA NEL MEDIOEVO

I

l dolore, le infezioni e le emorragie furono gli ostacoli che rallentarono lo sviluppo della chirurgia fino al XIX secolo. E mentre le classi piú fortunate potevano augurarsi di evitare la malattia, con un adeguato regime di vita (dieta), in molti casi il ferro del chirurgo rimaneva l’unica speranza. È una lunga storia quella che accompagna lo sviluppo della chirurgia, documentata, anche sui resti umani piú antichi, dalla ricerca paleopatologica e dalle fonti letterarie. Riduzioni di lussazioni e fratture, avulsioni dentarie, ablazioni di «tumori» e cauterizzazioni hanno lasciato tracce vistose sui resti umani e sulle mummie. Dopo l’esperienza del mondo classico, a partire dalla traumatologia omerica, fino alla chirurgia ippocratica e alle testimonianze di Celso e di Galeno, la mano diventa strumento della terapia sempre piú raffinato, raggiungendo, nel tardo Medioevo, un’abilità sorprendente. La complessa chirurgia operativa del mondo classico, poi integrata dalle acquisizioni del bizantino Ezio di Amida (527-565 circa), che aveva raccolto nella sua opera testi e pareri di medici piú antichi, non fu trasmessa all’Occidente medievale dall’autorità di Claudio Galeno (il medico e filosofo pergameno vissuto nella seconda metà del II secolo d.C.): l’opera decisiva, attraverso cui quella competenza venne tramandata alle epoche successive fu l’Epitome, in sette volumi, di Paolo di Egina (625690 circa), un compendio di testi medici precedenti, redatto nel VII secolo. Il contenuto dell’Epitome spazia dal regime alimentare alle febbri, dalla medicina interna alla tossicologia e, infine, nel sesto libro, alla chirurgia, che l’autore considera, come Galeno aveva sottolineato, parte integrante di una pratica medica molto piú vasta. L’argomento è diviso in due parti: chirurgia operativa e trattamento di fratture e lussazioni. Nel IX secolo l’Epitome venne tradotta in arabo e divenne il testo chirurgico di riferimento per gli enciclopedisti medici del mondo islamico. Nel mondo di lingua latina, invece, dopo Aulo Cornelio Celso (erudito latino vissuto nella prima metà del I secolo d.C.) non si conoscono testi di una certa importanza in campo chirurgico, tanto che l’Europa occidentale do78

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La chirurgia

Nella pagina accanto miniatura raffigurante un intervento su un’ernia allo scroto, da un’edizione di Practica Chirurgiae, trattato composto dal chirurgo salernitano Ruggero di Frugardo nei primi anni del XII sec. XIV sec. Montpellier, Musee Atger.

Il cosiddetto «Uomo ferito», illustrazione contenuta in un manoscritto tedesco che raccoglie testi di astronomia, astrologia e medicina. 1485 circa. Monaco di Baviera, Bayerische Staatsbibliothek.

vette riscoprire le tecniche operatorie e ridefinire la giusta collocazione delle nozioni di chirurgia nell’ambito del sapere medico. Alla fine dell’XI secolo, infatti, nel quadro della rinascita della cultura occidentale, si verificò un risveglio anche in questo settore, che proseguí fino al XIV secolo, quando fu, del resto, «riscoperto» lo stesso Celso.

L’evoluzione della disciplina

I chirurghi dell’Alto Medioevo hanno lasciato una ricca serie di scritti, che interessano sia l’evoluzione della formazione teorica della chirurgia sia l’applicazione delle competenze tecniche. L’opera di traduttore del medico arabo Costantino l’Africano (1020 circa-1087) fu determinante a questo proposito: la sua opera venne proseguita da Johannes Afflacius (1040-1100 circa) e godette di grande considerazione anche negli autori successivi; grazie a lui, la tradizione chirurgica greca cominciò a trovare un suo spazio in quella latina, per quanto la sua risonanza sia stata inferiore a quella della medicina, poiché la chirurgia non era oggetto di insegnamento. L’influenza quasi esclusiva dell’opera chirurgica di Costantino si avverte nella Chirurgia di Bamberga, una compilazione redatta verso il XII secolo proprio a Salerno, in cui passi di argomento anatomico e teorico sono frammisti a materiale relativo a pratiche di tipo tradizionale, come l’uso della spongia somnifera (una spugna imbevuta di sostanze stupefacenti, n.d.r.), la descrizione del cinto di piombo per l’ernia inguinale, l’uso della cenere di spugne ad alto contenuto di iodio contro il gozzo. Nell’ambito della Scuola Medica Salernitana, infatti, era stata formulata una prescrizione di grande interesse, relativa alla spongia somnifera: questa pratica, di cui si hanno notizie già in Areteo di Cappadocia (I-II secolo d.C.) e nell’Ypnoticum Adiutorium di Montecassino, diventa in quel periodo una prassi costante nel tentativo di sedare il dolore. Nella seconda metà del XII secolo la pratica chirurgica ricevette un grande impulso, dovuto sia allo sviluppo economico, sia alle numerose guerre, che resero necessario un potenziamento delle tecniche. Se quanto insegnato da Albucasis (al secolo Abu l-Qasim az-Zahrawi, medi-


DALLE SUTURE AI TRAPIANTI L’armamentario chirurgico medievale, in gran parte legato a interventi di traumatologia, era ricco e vario, in quanto rifletteva le scelte e la manualità personali degli operatori. I chirurghi parlano, inoltre, di saeta, seta o filum sericum, utilizzato per le suture, insieme agli aghi che, come scriveva Guy de Chauliac, dovevano essere lisci e lubrificati. Al di là delle diverse soluzioni proposte dai singoli autori, la sutura incarnativa era quella che veniva eseguita nelle ferite a bordi molto distanziati, tali da non poter essere trattenuti da fasciatura; la sutura restrictiva veniva usata per legare i vasi e l’intestino; la sutura conservatrix serviva a mantenere i labbri della ferita fino a cicatrizzazione avvenuta. Le fasciature erano largamente usate sia per ridurre le lussazioni, sia per proteggere le ferite, sia per zaffare le ulcere profonde e potevano essere utilizzate a scopo contenitivo, incarnativo ed espulsivo, secondo regole ben precise. Se la tradizione araba ha contribuito, in modo particolare, a divulgare il metodo della cauterizzazione con l’impiego di un cauterio di ferro o di sostanze

co di origine araba, 936-1013) non viene contemplato nella Rolandina (di Rolando da Palma) è, invece, presente nelle opere di Bruno da Longobucco (XIII secolo) e Teodorico Borgognoni, intorno ai quali si costruisce la nuova scuola chirurgica dell’Italia settentrionale: il primo fu autore di una Chirurgia magna, ultimata a Padova nel 1252, l’altro di una Cyrurgia, diffusa definitivamente nel 1267.

caustiche, le applicazioni del trattamento appaiono estremamente diversificate. L’estrazione, di frecce prima e di proiettili poi, ha rappresentato un argomento molto dibattuto, unitamente alla riduzione delle lussazioni e delle fratture di vari distretti ossei. Anche la chirurgia toracica era praticata, soprattutto in riferimento ai versamenti pleurici, che venivano svuotati tramite perforazione del torace (Rolando da Parma), o alla sutura delle ferite. Per ridurre gli intestini protrusi da una ferita si poteva ricorrere a suture e drenaggi, mentre, per le ferite profonde, era prevista anche la possibilità di trapianto di intestini animali (Guglielmo da Saliceto), che alcuni, però, sconsigliavano per il rischio del rigetto (Guy de Chauliac). L’erniotomia (intervento chirurgico su un’ernia) e la litotomia (intervento per frantumare i calcoli dall’apparato urinario, in modo da renderne possibile l’espulsione) erano pratiche da sempre molto diffuse, insieme alle operazioni della cataratta, agli interventi estetici e alle amputazioni.

Teodorico Borgognoni, con ogni verosimiglianza figlio di Ugo, apprese l’arte della chirurgia dal padre, il quale aveva esercitato a Bologna, lasciando utili indicazioni sugli apparecchi di contenzione delle fratture. Secondo alcune testimonianze coeve, esercitò anche lui con successo: infatti, lo dicono «industrium et gratiosum, maxime in arte cyrusie, unde pluries vocatus a magnis viris, clericis et secularibus, et MEDICINA

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LA MEDICINA NEL MEDIOEVO

La chirurgia

ADDORMENTARSI PER NON SOFFRIRE C’è un celebre passo dell’Amleto (atto III, scena I): «To die, to sleep; to sleep: perchance to dream» («Morire, dormire; dormire: forse sognare», che si potrebbe applicare, con una piccola variante, al Medioevo: «Dormire, sognare, morire forse». Si cercava infatti di non fare soffrire durante gli interventi chirurgici, ma con qualche rischio. Nell’antichità non si pensò alla necessità dell’anestesia. Celso, nel 30 d.C., descrivendo con molti dettagli l’estrazione di un calcolo della vescica, in quel caso di un ragazzo, si preoccupò di spiegare che durante l’operazione occorreva legare in modo molto stretto l’ammalato; due uomini assai robusti dovevano impedire che coloro che già tenevano fermo il paziente cadessero, piombando sopra il medico e il giovane. Il sangue correva a fiotti e le grida di chi subiva l’intervento dovevano essere terribili. In un certo senso l’operazione corrispondeva a uno spettacolo, come la lotta dei gladiatori. Proprio perché si considerava la manifestazione del dolore fisico come una forma di trattenimento, mancò una sensibilità al problema della sofferenza, che il Medioevo invece si pose.

Basterà ricordare la novella del Boccaccio (Decameron, IV,10) che ha come protagonista il medico Mazzeo della Montagna, di Salerno, che si prepara a operare la gamba in cancrena di un suo paziente: «Il medico, avvisando che l’infermo senza essere adoppiato [senza l’anestesia dell’oppio] non sosterrebbe la pena né si lascerebbe medicare, dovendo attendere in sul vespro a questo servigio, fé la mattina d’una certa sua composizione stillare una acqua la quale l’avesse, bevendola, tanto a far dormire quanto esso avvisava di doverlo poter penare [fare soffrire] a curare». Non sempre, tuttavia, un dottore avrebbe operato senza mettere a repentaglio la vita del paziente, per le troppo generose dosi di anestetico (oppio, mandragora, giusquiamo, cicuta) con cui venivano impregnate le «spongiae somniferae» per stordire i pazienti durante le operazioni. La spugna, impregnata della mistura di anestetici, si faceva asciugare all’aria. Prima dell’inizio dell’operazione il chirurgo immergeva questa spugna in acqua calda e la poneva davanti alla bocca e al naso del paziente, che inalava il vapore ma ingoiava anche un po’ del liquido. Vediamo filze di spugne anestetiche, pronte all’uso, appese in farmacia nell’affresco degli inizi del XV secolo del castello di Issogne in Valle d’Aosta. In bella vista sono anche una fila di ex voto di cera (gambe, mani e altre parti del corpo): un’alternativa all’operazione ancora piú indolore, ritenuta piú sicura da chi avesse una fede sincera. Chiara Frugoni

magnis principibus, in diversis partibus mundi» («laborioso e autorevole, soprattutto nella chirurgia, per cui era ricercato frequentemente da uomini illustri, religiosi e laici, e grandi principi, in diverse parti del mondo»).

Sulla scia del padre

Nominato vescovo, prima di Bitonto e poi di Cervia, dedicò la sua opera piú importante, la Cyrurgia seu filia principis, al confratello Andrea Abalate, vescovo di Valenza. Il trattato, composto probabilmente negli anni Cinquanta del Duecento, fu poi rielaborato e accresciuto intorno al 1266-1267. Pubblicato a Venezia nel 1497, conobbe numerose ristampe. Si compone di quattro libri: il primo tratta delle ferite in generale, il secondo di particolari lesioni come fratture e lussazioni, il terzo di fistole, cancrene, ernie, scabbia, lebbra, il quarto di particolari malattie. Teodorico riprese e teorizzò metodi già sperimentati dal padre. Per la narcosi, consigliava l’uso della spongia; rifiutava l’uso di complicati apparecchi per la riduzione di fratture e 80

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Nella pagina accanto miniatura raffigurante un medico che cura una gamba ferita, da un’edizione del Romuléon – traduzione francese dell’opera di Benvenuto da Imola (1338-1388) di Jean Miélot – miniata dal fiammingo Loyset Liédet a Bruges, nel 1465, per Filippo III il Buono. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana.

lussazioni; si interessò anche della cura di lesioni del cranio e riconobbe il cancro della mammella, le fistole gengivali e l’embolia gassosa. A Padova e a Bologna, dove si formarono rispettivamente Bruno e Teodorico, si stava affermando una tradizione di studio della medicina che recuperava il patrimonio della tradizione grecoaraba; i due autori, le cui opere sono in parte molto simili, vollero inserire questa tradizione autorevole nella letteratura di argomento chirurgico, richiamandosi alle fonti: oltre alla Chirurgia di Albucasis, viene fatto riferimento ad alcuni passi del Canone di Avicenna (980-1037), del Continens di Rhazes (864-930), accanto al Methodus medendi di Galeno. Un tentativo ancora piú marcato di ricondurre a unità medicina e chirurgia appare palesemente nell’opera di Guglielmo da Saliceto (1210 circa-1275 o 1277), che praticò a Bologna oltre che a Cremona, Pavia e Milano, e fu autore di una Summa conservationis et curationis e di una Chirurgia.

L’importanza delle mani

Guglielmo cercò di emancipare la chirurgia dal ruolo ancillare a cui era relegata perché il chirurgo-barbiere, praticante manuale, non aveva dignità accademica ed era sprovvisto di quel bagaglio di teoria e di riflessione filosofica che contraddistingueva invece il medicus physicus: anche Ugo e Teodorico, in realtà, avevano definito la chirurgia uno strumento della medicina, secondo la presunta etimologia di Isidoro di Siviglia per cui nel termine chirurgia è da riconoscersi la parola greca «mano» (cheir): «Chirurgia, quam Latini manuum operationem appellant; manus enim apud Graecos cheir vocatur» («la Chirurgia, che i Latini chiamano “operazione delle mani”; infatti, presso i Greci la mano è detta cheir»). Proprio Guglielmo da Saliceto tentò di ricondurre la chirurgia alla stessa matrice di razionalità della medicina, utilizzando, anche nell’esposizione della materia, una diversa organizzazione, che interrompeva la tradizione precedente: se Ruggero di Frugardo, infatti, aveva usato una strutturazione topografica, Bruno e Teodorico avevano seguito un criterio patologico, mentre Guglielmo individua i disturbi prodotti da cause interne e quelli prodotti da cause esterne, tra cui ferite e fratture. L’opera di Guglielmo riveste, quindi, un’importanza centrale nella storia della chirurgia, ma anche in quella della scienza anatomica, a cui dedica un capitolo, sottolineando la necessità di questo tipo di conoscenze sia per quanto riguarda l’elaborazione della teoria medica sia per l’esercizio della pratica.

Gli scritti chirurgici degli autori dell’Italia settentrionale furono esportati in Francia da Lanfranco (1250 circa-1310), che aveva studiato a Bologna con Guglielmo, ma che fu costretto a fuggire per motivi politici. Lanfranco segue le tracce del maestro anche per quanto riguarda la struttura della sua opera, la Chirurgia magna, in cui dedica un capitolo a sé stante all’anatomia. La Chirurgia magna appare particolarmente completa, in quanto risponde a criteri rigorosi di ordinazione, ed è chiusa da un antidotarium in cui l’autore enumera tutti i farmaci che possono essere utilizzati dal chirurgo nei casi trattati. Il fatto che la sua opera fosse divulgata in Francia contribuí alla notorietà degli autori italiani di chirurgia, tanto che solo dieci anni piú tardi Henri de Mondeville (1260-1320), medico di Filippo IV il Bello, che aveva studiato a Montpellier, esercitando la chirurgia anche a Parigi, sosteneva che, oltre ad Avicenna e Teodorico, proprio Lanfranco era stato suo punto di riferimento. Dedica anche lui una sezione autonoma alla anatomia e chiude l’opera con un antidotario, sottolineando in modo esplicito la differenza non tanto tra chirurgo e medico, quanto tra chirurgo dotto e praticante di bassa lega. All’interno della sua opera, in realtà, è compreso un passo sul trattamento delle ferite che è stato il tema di una controversia ancora dibattuta: l’autore, infatti, sostiene che, anche ai suoi tempi, i chirurghi apparivano divisi in tre fazioni, che si distinguevano per il modo in cui trattavano le ferite e che riconoscevano come fautori delle diverse prassi rispettivamente Ruggero di Frugardo, Rolando da Parma e i loro discepoli; la scuola di Guglielmo da Saliceto e Lanfranco; Ugo e Teodorico Borgognoni e i loro seguaci. Rispetto ai primi, che applicavano una dieta stretta, priva di vino, i secondi fasciavano la ferita con metodi che non provocavano ascesso caldo, mentre gli ultimi intervenivano solo con le fasciature, utilizzando una dieta piú aperta. Henri de Mondeville sposa, senza restrizioni, il metodo di Teodorico, che prevedeva di pulire la ferita, tenendola immersa in vino caldo, per poi suturarla e fasciarla.

Il trattamento delle ferite

Il chirurgo di quel periodo, infatti, era costretto a prevedere la suppurazione come fattore inevitabile del processo di cicatrizzazione, tanto da limitare spesso gli interventi: la suppurazione aveva trovato una spiegazione nella dottrina umorale ed era attribuita all’alterato equilibrio con prevalenza locale di bile gialla; poteva esseMEDICINA

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LA MEDICINA NEL MEDIOEVO

La chirurgia

QUANDO IL DOTTOR BERENGARIO SALVÒ IL DUCA DI URBINO

Il primo marzo 1875, essendo stato rilevato un cedimento nelle statue michelangiolesche dell’Aurora e del Crepuscolo, all’interno della Sacrestia Nuova della basilica di S. Lorenzo (Firenze), su richiesta del direttore delle Regie Gallerie Fiorentine, venne iniziata una verifica del loro stato, che diventò l’occasione per una ricognizione delle salme di Lorenzo de’ Medici, duca d’Urbino, e di Alessandro, duca di Firenze, morti rispettivamente nel 1519 e nel 1537. Venne deciso di interpellare la sezione di scultura della Commissione Consultiva di Belle Arti di Firenze, che, unitamente ad altri esperti, rilevò la presenza di segni di danni nei due angoli della base, restaurati nel corso del tempo, perché nel 1537 vi fu «riposto anche il cadavere del figlio Duca Alessandro». In quella occasione, vennero realizzati anche i calchi in gesso dei due crani, oggi conservati nel Museo del Dipartimento di Anatomia dell’Università di Firenze: in particolare, quello di Lorenzo, duca d’Urbino, riveste grande interesse da un punto di vista storico-medico, in quanto conserva visibilmente la traccia dell’intervento effettuato dal celebre Berengario da Carpi, nel 1528, quando Lorenzo venne ferito da una palla di schioppetto alla nuca, durante l’assedio di Castel Mondolfo (località a poca distanza dall’Adriatico, tra Fano e Senigallia, n.d.r.). Il 26 maggio 1516, infatti, Lorenzo, «capitano della Chiesa» e, insieme, «capitano de’ fiorentini», era riuscito nell’impresa di «pigliare Urbino per conto del papa», con «tutto el suo territorio», ma lo spodestato Francesco Maria Della Rovere iniziò l’azione di

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recupero del ducato di Urbino nel febbraio 1517: già dalla fine del 1516, Lorenzo era «molto oppressato dalle bolle francesi», la sifilide, per cui dette prova di qualità militari modeste e, se il 16 settembre l’avversario desistette, fu perché finanziariamente debole. Lorenzo, ferito da una schioppettata «nella coloctola», il 29 marzo 1517, mentre si accingeva alla presa di Castel Mondolfo, fu costretto a una convalescenza ad Ancona: qui venne visitato da numerosi medici e fu operato da Berengario da Carpi. Il resoconto di questo intervento è stato riferito da Berengario nel trattato De fractura calve sive cranei, edito a Bologna da Gerolamo Benedetti nel 1518, dedicato proprio a Lorenzo duca d’Urbino. L’opera segna una tappa miliare nello sviluppo della chirurgia cranica, in quanto Berengario affronta e descrive tutti i tipi di fratture craniche possibili e, infine, spiega e disegna gli strumenti chirurgici da utilizzare nei diversi casi. Berengario dimostrava, cosí, che è possibile trattare anche le regioni delle suture craniche, tramite la prassi consueta di palpazione della piaga, incisione degli ematomi, trapanazione e medicazione. Nella seconda parte del volume, al capitolo VI, pubblica la ricetta di un suo medicamento, un’antica tradizione di famiglia, che ritiene essere miracoloso: si tratta del cerotto umano, una sorta di impiastro a base di mummia umana da applicarsi regolarmente sulle ferite, che favoriva la cicatrizzazione dei tessuti. L’analisi del calco del cranio ha confermato il punto di impatto della palla: inizialmente interpretato come l’esito di una lesione sifilitica, grazie alla testimonianza del testo di Berengario ha potuto essere ricondotto alla ferita di Castel Mondolfo.


A destra la corsia di un ospedale in una pagina del Canon medicinae, compendio di scienza medica in 5 libri, redatto dal medico arabo Avicenna e miniato a Ferrara. 1455-1464. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana. Nella pagina accanto, in alto i disegni dei teschi di Alessandro (a sinistra) e Lorenzo de’ Medici (a destra), morti rispettivamente nel 1519 e nel 1537, eseguiti in occasione della ricognizione del 1875, all’interno della Sacrestia Nuova nella basilica fiorentina di S. Lorenzo. Nella pagina accanto, in basso il calco del teschio di Lorenzo de’ Medici eseguito durante la ricognizione ottocentesca, insieme a quello del figlio Alessandro, e custodito nel Museo del Dipartimento di Anatomia dell’Università di Firenze.

re interpretata anche come risultato di una trasformazione chimica dei solidi in liquidi, come una secrezione della ferita. Nonostante Teodorico e Henri de Mondeville avessero dimostrato che il trattamento secco era da preferire a quello umido, suggerendo una pulizia accuratissima dei labbri della ferita, piú tardi ribadito da Ambroise Paré (1510 circa-1590), la prassi stentò ad affermarsi. Ferite piú gravi, invece, dovevano essere tenute aperte tramite l’uso di unguenti, che provocassero la suppurazione, sempre in riferimento alla teoria del pus bonum atque laudabile, di derivazione umorale. La divulgazione della chirurgia italiana in Gran Bretagna e il suo incontro con quella francese ebbero, come conseguenza, il rilevante sviluppo della disciplina, tanto che, nel 1363, poté vedere la luce la Chirurgia di Guy de Chauliac († 1368), che può essere a buon diritto considerata il punto piú alto della chirurgia medievale. Dopo un’introduzione storica della materia, in cui ne ripercorre le tappe fondamentali, a partire dal mondo greco e arabo, dà ampio spazio alla figura di Galeno, che dimostra di conoscere assai approfonditamente, in quanto non recupera le sue nozioni di chirurgia, ma individua nella sua opera le basi razionali per lo sviluppo della disciplina.

Descrizioni per sentito dire

Il costante sviluppo della tradizione scritta permette una possibile valutazione integrata dell’aumento delle conoscenze chirurgiche intorno al XIV secolo, per quanto le illustrazioni che corredano i manoscritti abbiano talvolta uno scopo piú decorativo che didattico, rendendo difficile comprendere fino a che punto questi codici rappresentino quel che i chirurghi facessero in realtà: l’abbassamento della cataratta, per esempio, è descritto, per la prima volta in età medievale, nell’opera di Bruno da Longobucco, ma è riportato nelle illustrazioni già nel XII secolo; manca in Teodorico e Lanfranco dà l’impressione di non avervi mai assistito di persona. Lo stesso Guglielmo da Saliceto ne parla in modo succinto e l’impressione generale è che i chirurghi non affrontassero l’intervento con sicurezza, come provano commenti e diffuse digressioni, nei casi in cui l’operazione fosse riuscita. Se l’inglese John Arderne (1307-1392) descrive compiutamente il trattamento della fistula in ano, il suo metodo riflette quanto sperimentato già da Paolo da Egina, ma i risultati positivi erano forse da imputare al trattamento conservativo postoperatorio: le illustrazioni a corredo

del testo offrono l’evidenza della procedura. Questi testi, nel momento in cui si diffuse la stampa, conobbero amplissima diffusione, sia nella loro componente teorica sia in quella pratica, e mentre il chirurgo stava lentamente emancipandosi e costruendo la propria competenza professionale, l’edizione a stampa dell’opera di Celso, nel 1478, permetteva una vera e propria riscoperta dei processi chirurgici classici; il recupero delle fonti antiche, i trattati chirurgici di Ippocrate e Galeno, prima non conosciuti, permise la acquisizione di tecniche fondamentali grazie all’arrivo in Italia del codice chirurgico di Niceta e all’opera di Guido Guidi (1544), che tradusse in latino i commenti di Galeno ai trattati chirurgici attribuiti a Ippocrate. Nelle epoche successive, la produzione manoscritta in ambito chirurgico rimane legata agli studi preliminari e ai testi delle lezioni accademiche: è il caso di Antonio Cocchi (1695-1758) che, nel 1722, iniziò a lavorare su un codice della Biblioteca Medicea Laurenziana contenente la collezione di scritti chirurgici greci del bizantino Niceta, giungendo alla pubblicazione della versione latina di alcuni di essi piú di trent’anni dopo. MEDICINA

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LA MEDICINA NEL MEDIOEVO

Rimedi dall’aldilà

Fra mummie e trasfusioni

Sangue «succhiato» dai cadaveri di uomini e donne passati a miglior vita, mummie fatte a pezzi e poi ridotte in polvere: sembrano esperimenti da apprendisti stregoni e, invece, fu una delle strade imboccate dalla farmacopea medievale, fra empiria e superstizione... di Francesco Sorrentino

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linio il Vecchio scriveva che quando nell’arena c’era un gladiatore agonizzante con la gola squarciata, spettatori affetti da epilessia invadevano il campo, si chinavano sul moribondo e ne bevevano il sangue, come da una coppa vivente. Plinio ne era inorridito e cosí stigmatizzava quegli episodi: «Gli uomini sono comunque destinati a morire, meglio morire con dignità che sopravvivere a prezzo di trasformarsi da uomini in belve». Quel comportamento trovava la sua giustificazione nell’opinione di alcuni medici greci, secondo i quali se si fosse spalmato del sangue umano sulla bocca di epilettici stramazzati al suolo in preda a un attacco, immediatamente essi si sarebbero ripresi. Nella Roma imperiale era credenza diffusa che il sangue fosse sede della giovinezza o della vecchiaia e ne troviamo testimonianza nelle opere di Ovidio. Cosí, nelle Metamorfosi, Medea per fare ringiovanire Esone gli toglie tutto il sangue e lo sostituisce con un filtro magico; mentre ne I Fasti si parla delle vecchie megere trasformate in strigae, gli uccellacci antenati delle nostre streghe, che per ringiovanire aggredivano i neonati, squarciavano loro il petto e ne bevevano il 84

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Medea ringiovanisce Esone, olio su tela di Pietro Bellotti. 1663. Rovigo, Accademia dei Concordi, Pinacoteca. Servendosi delle sue arti magiche, Medea fa tornare giovane Esone, anziano padre dell’amante Giasone.


LA MEDICINA NEL MEDIOEVO

Fra mummie e trasfusioni

TERAPIE «VAMPIRESCHE» Era opinione comune che il sangue umano per uso esterno fosse un rimedio efficace per la cura della lebbra e di altre malattie cutanee. A Roma, nella chiesa dei Ss. Quattro Coronati, vi è un affresco in cui l’imperatore Costantino, col volto sfigurato da pustole, conforta un gruppo di madri: non ucciderà i loro figli, rinunciando al bagno di sangue consigliatogli per guarire dal suo male. Secondo una vecchia tradizione, non vi avrebbe invece rinunciato Luigi XI di Francia per guarire dalla dermatosi che lo affliggeva. Entrambi gli episodi non sono attendibili, né vi sono agganci medici per giustificare il sorgere di tali credenze. Non sempre era necessario il bagno totale, bastava immergere nel sangue umano solo la parte malata; cosí, per esempio, per curare gli attacchi acuti di gotta era consigliata l’immersione soltanto dell’arto infiammato. Probabilmente tale cura era l’evoluzione di altre pratiche terapeutiche, di cui ignoriamo l’origine e il razionale, ma che ogni tanto venivano citate. Inizialmente si metteva sull’arto qualche animale vivo, cagnolino, lepre, piccione; successivamente si passò a squartare gli stessi animali prima dell’applicazione, in modo che col loro sangue colorassero la parte dolente, e infine si fece strada l’idea che il sangue di un bambino fosse piú efficace di quello di un animale. Pietro da Eboli scrisse che Matteo d’Aniello, cancelliere di Tancredi principe di Taranto, aveva fatto sgozzare un bambino per curarsi la gotta. Ma i due parteggiavano in campi avversi, per cui l’episodio potrebbe non corrispondere al vero.

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sangue. Potrebbe sembrare questo il punto di partenza per un vampirismo terapeutico, ma per diverso tempo non fu cosí. Per gran parte del Medioevo, per effetto della medicina galenica, fu in vigore il principio che il sangue era meglio perderlo che acquisirlo, e si impose una specie di follia collettiva, il salasso preventivo per serbare la salute, praticato anche quattro-cinque volte in un anno. Soltanto nella seconda metà del Quattrocento, lo scenario cambiò di nuovo e il filosofo e medico Marsilio Ficino scriveva che quando l’albero umano comincia a seccare per deficienza degli umori, generalmente dopo i settant’anni, giovano il latte e il sangue umano. «Se occorre, bevi del sangue umano» raccomandava, portando come esempio le strigae di Ovidio, prima citate. «Che male c’è – continuava – se un vecchio mal ridotto succhia il sangue di un adolescente, che sia consenziente, sano e che di ottimo sangue ne abbia fin troppo?». Non risulta che il consiglio di Marsilio sia stato messo in pratica da qualcuno. Ma pochi anni dopo, nel 1492, secondo cronisti dell’epoca, col sangue di adolescenti si tentò di restituire le forze a Innocenzo VIII, che da mesi languiva per una malattia ribelle a ogni cura.


Egli però non avrebbe dovuto bere il sangue che, estratto dalle vene di donatori, gli sarebbe stato invece reinfuso nelle vene. Ideatore della cura fu un medico ebreo, che convinse tre fanciulli promettendo a ciascuno di loro uno scudo. A questo punto vi sono due versioni divergenti: secondo alcuni il prelievo di sangue fu effettuato, ma per incidenti vari tutti e tre i donatori morirono, mentre il pontefice non avrebbe ricavato alcun beneficio dalla terapia; secondo altri Innocenzo VIII, avendo rifiutato con orrore di sottomettersi a una simile cura, in capo a poco tempo morí.

Esperimenti fallimentari

Tutti i testi di storia della medicina riportano la vicenda poiché, anche se non venne effettuata, è in quest’occasione che sarebbe stata proposta per la prima volta una forma molto sofisticata di vampirismo, la trasfusione di sangue. I primi effettivi tentativi di trasfusione del sangue avvennero in realtà quasi un secolo e mezzo dopo in Italia, spesso con risultati catastrofici, sia perché non si conosceva l’esistenza dei gruppi sanguigni, sia perché a volte veniva infuso nell’uomo sangue di animali. Alla fine del Seicento, prima il Parlamento di Parigi e poi una bolla papale, ne proibirono la pratica. È da sottolineare che, oltre all’indicazione terapeutica principale, l’anemia acuta o cronica, fino a tutto l’Ottocento la trasfusione era ipotizzata come rimedio per curare le malattie piú svariate: cosí, con il sangue di individui sani si sarebbero potuti trattare persino i malati di mente. Ancora da Plinio apprendiamo che, sempre per l’epilessia, in alternativa al sangue, si poteva fare ricorso al midollo osseo e al cervello umano. Terapia contrastata da Celio Aureliano, medico attivo a Roma verso la fine del II secolo d.C., il quale la condannava non per ragioni morali, ma perché la riteneva del tutto inefficace. In Europa, il boom dell’impiego di derivati da cadaveri umani in medicina si ebbe fra il XIV e il XVII secolo, con la lunga stagione della mummia. Gli antichi Egizi usavano diverse tecniche per imbalsamare i morti. Il sistema piú lungo e costoso prevedeva di aprire torace e addome con un’unica incisione, rimuovere tutti i visceri, che venivano conservati nei vasi canopi, riempire la cavità toraco-addominale con una miscela di mirra, aromi vari, resina e asfalto, ricucire l’incisione e quindi avvolgere il corpo in bende di lino. Dall’VIII secolo gli Arabi, che avevano conquistato l’Egitto, iniziarono a recuperare mummie preparate secoli o millenni prima, liberandole dai lini. Ciò che era rimasto del cor-

In alto incisione raffigurante la morte di papa Innocenzo VIII, che lo colse il 25 luglio del 1492. Nella pagina accanto affresco raffigurante l’imperatore Costantino colpito dalla peste, particolare della Leggenda di Costantino e San Silvestro. 1243-1254. Roma, basilica dei Ss. Quattro Coronati, oratorio di S. Silvestro.

po, frammenti di muscolo polverizzatisi a causa del molto tempo trascorso, e anche ammassi del composto usato per riempire la mummia stessa, era da loro considerato un medicinale denominato «mummia» (mumia in latino). Il presupposto era che ciò che aveva consentito ai cadaveri di non corrompersi per secoli, avrebbe agito anche sui vivi prolungandone la vita e tenendo lontano le malattie. Quella derivante dal tipo piú lungo di imbalsamazione veniva chiamata mummia nera ed era la piú costosa; quella proveniente dai corpi mummificati di giovani vergini era ritenuta dotata delle maggiori proprietà terapeutiche. Il grande medico arabo Rhazes fu il primo a decantare le virtú terapeutiche della mummia, che gli Europei conobbero attraverso le opere mediche arabe o per esperienza diretta durante le crociate.

La richiesta scatena la contraffazione

Il commercio della mummia era floridissimo ma, nonostante i sistematici scavi nelle antiche necropoli, la richiesta era molto maggiore dell’offerta. Si diffuse pertanto una notevole attività di sofisticazione, esumando cadaveri recenti, recuperando i corpi di impiccati lasciati MEDICINA

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LA MEDICINA NEL MEDIOEVO

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Fra mummie e trasfusioni


A sinistra la testa della mummia di Djed-Hapi, morto intorno ai 50 anni di età. Periodo tolemaico (305-30 a.C.). Filadelfia, Museo di archeologia e antropologia dell’Università della Pennsylvania. Sulle due pagine il dio Anubi che porta a termine la mummificazione di un defunto, pittura parietale della tomba di Amennakht e di sua moglie Iymway a Tebe (Egitto). XIX-XX dinastia.

per giorni a pendere dalle forche, e forse si giunse addirittura a uccidere qualche malcapitato per trasformarlo in materia prima. I cadaveri cosí reperiti venivano sottoposti a un trattamento intensivo per trasformarli in false mummie. E tutto ciò nonostante le gravissime pene previste e attuate per i sofisticatori. A volte, per convincere l’ignaro europeo che si trattava di vere mummie antiche, si simulavano false violazioni di tombe. Probabilmente in una di queste imprese fu coinvolto il viaggiatore italiano Pietro della Valle, che in una lettera del 1614 cosí descriveva il ritrovamento: «Si vedeva esser l’uomo disteso e nudo, ma fasciato e avvolto in una gran quantità di pannilini, imbalsamati con quel bitume che, incorporato poi con la carne, fra noi si chiama mummia e si dà per medicina».

Una panacea per tutti i mali

La mummia veniva assunta per via orale in pezzetti o polverizzata, mescolata a vini o in decotti, oppure era presentata sotto forma di pillole o entrava nella composizione di balsami per uso esterno. Le sue indicazioni terapeutiche erano innumerevoli: fratture, lussazioni, contusioni e ferite; emottisi, tosse, emicrania, paralisi, epilessia, vertigini, mal d’orecchi, ecc. Si riteneva che favorisse la cicatrizzazione, fortificasse e soprattutto conferisse lunga vita. La sua reputa-

zione era tale che si racconta che Francesco I di Francia non si metteva in viaggio senza essersi prima accertato che fra i medicinali al seguito vi fosse anche una scorta di mummia. La grande diffusione in Europa di un prodotto falsificato provocò un crollo del mercato, ma poiché la medicina non poteva fare a meno di una tale panacea si corse ai ripari. Medici e chirurghi del Cinquecento trovarono il modo per produrla autonomamente. Cosí Berengario da Carpi, che fu lettore di anatomia a Bologna, custodiva in casa delle teste mummificate (di provenienza probabilmente illecita) dalle quali staccava strisce da applicare sulle ferite: il cosiddetto cerotto umano. Farmacopee dell’epoca menzionavano l’olio di testa umana, ottenuto per distillazione del cranio tritato con il cervello; mentre Joseph Duchesne, piú noto come il Quercetano, medico di Enrico IV di Francia, insegnò a fare il magistero di crani umani pestati. Nel corso del Seicento la mummia e i suoi succedanei furono abbandonati dalla medicina ufficiale ma, in Italia, ancora nell’Ottocento la medicina popolare ricorreva a polvere di ossa umane che, sospesa in acqua e bevuta, veniva somministrata per guarire l’epilessia ma anche per fare riacquistare la verginità a chi l’avesse persa, purché ingerita almeno due giorni prima delle nozze! MEDICINA

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LA MEDICINA NEL MEDIOEVO

Il salasso

LA SALUTE NELLE MANI DEL BARBIERE Il salasso, l’incisione di un vaso sanguigno per sottrarre sangue all’organismo, è un’invenzione della medicina greca, diffusasi poi in tutto il mondo antico. Dopo l’XI secolo, il salasso veniva praticato non solo per curare ma anche per prevenire le malattie e mantenersi in salute. Intorno al 1100 fu proibito agli ecclesiastici di farsi crescere la barba, per cui in ogni monastero vi era il tonsor, un monaco addetto a radere i confratelli e a fare loro la tonsura; a costui fu affidato pure il compito di praticare il salasso, e divenne cosí anche minutor. L’accoppiamento delle due incombenze si estese anche all’esterno dei conventi, dove si affermò la figura del chirurgo barbiere. Era tale la fiducia riposta nelle virtú del salasso che i monaci tendevano ad abusarne, sicché il re di Francia, Luigi IX, fu costretto a limitare il numero degli interventi su un paziente a cinque per anno. In teoria l’indicazione al salasso spettava unicamente al medico, che però non si sarebbe mai abbassato a praticarlo di persona. Egli decideva quando eseguirlo, tenendo conto dei giorni favorevoli, della posizione dei pianeti e delle fasi lunari, stabiliva quale vena aprire e quanto sangue farne uscire; in genere 100-120 g, ma in casi eccezionali si arrivava anche al litro. Spesso però il chirurgo barbiere agiva di sua iniziativa. Tra le indicazioni: i traumi, la preparazione a interventi chirurgici, le malattie acute. Un’indicazione assoluta era rappresentata dalla polmonite. Per aprire le vene esistevano appositi strumenti, denominati lancette: la piú comune era una piccola lama triangolare a forma di lancia montata su un’impugnatura, ma ve n’erano molti altri tipi con differenti caratteristiche. I vari modelli erano conservati in un’unica custodia di pelle, da cui il chirurgo barbiere, dopo aver esaminato la vena da incidere, estraeva quello a suo giudizio piú idoneo. Verso la fine del Medioevo comparve uno strumento denominato «salasso», formato da lancette di piú fogge, montate su un unico manico in cui potevano rientrare, simile agli attuali temperini. Lo strumento salasso compariva nell’insegna dei Manfredi, che furono signori di Faenza fino al 1501, su monete e medaglie del Trecento coniate a Faenza, su un camino di Palazzo Manfredi, sul medaglione di Galeotto Manfredi, morto nel 1488. Inoltre era presente su vasi fabbricati a Faenza e su una piastrella maiolicata faentina che si trova nella cappella di S. Sebastiano in S. Petronio di Bologna. Con la grande diffusione del salasso sorse il problema di come disfarsi del sangue raccolto. La città di Bruges nel 1288 emise un editto che proibiva di gettarlo nelle strade e ordinava di versarlo in un apposito smaltitoio. Risultato poi insufficiente, nel 1336 fu necessario costruirne un altro piú capiente. Era facile con una tecnica cosí diffusa e spesso praticata da incompetenti che si verificassero episodi di malasanità.

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Nella pagina accanto miniatura raffigurante un laboratorio nel quale un medico pratica un salasso, mentre un altro dottore esamina le urine di un paziente. Fine del XV sec. In basso tavola nella quale sono indicate le zone del corpo umano nelle quali si possono effettuare i salassi, da una raccolta manoscritta di testi di medicina. 1280-1300 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

Lo scrittore Franco Sacchetti, caduto da un mulo mentre cavalcava durante un viaggio, volle sottoporsi a un salasso, ma un barbiere inesperto, pur avendo tentato piú volte con la lancetta di aprire una vena, non riuscí a trarre una stilla di sangue. Un chirurgo di Pistoia, non meno rozzo del barbiere, tentò anch’egli invano di eseguire il salasso. Sacchetti attribuí a costoro e alla mancata effettuazione del salasso se per molto tempo risentí dei postumi della caduta. Francesco Sorrentino


SACRO ROMANO IMPERO

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OSPEDALI E FARMACIE

Assistenza di Maria Paola Zanoboni

organizzata


Nel solco dei precetti cristiani, ma anche in risposta alla necessità di rendere sistematica l’erogazione delle cure, l’età di Mezzo tenne a battesimo l’istituzione dei primi ospedali. Strutture articolate secondo criteri assai simili a quelli dei moderni nosocomi e che, come nei casi di Siena o Milano, divennero vere e proprie «città nelle città»

A

ll’origine dell’ospedale che si affermò nel Medioevo è il sentimento cristiano dell’aiuto materiale e spirituale al prossimo bisognoso, secondo l’insegnamento evangelico: l’hospitalitas, percepita dagli antichi soltanto come attitudine individuale e come obbligo giuridico nei confronti dell’ospite, si affermò invece, a partire dalla tarda latinità, come comandamento condiviso, nonché come servizio reso al bisognoso e al sofferente nell’ambito di un cristianesimo che si proclamava religione dei poveri. E fu la Chiesa primitiva, appunto, ad amministrare la distribuzione di viveri ed elemosine, a preoccuparsi dell’assistenza a vedove e orfani e dell’alloggio di poveri e malati. Le prime «case ospitali», o domus episcopi, sorte accanto alle residenze vescovili, costituirono gli Miniatura raffigurante le quattro Virtú cardinali – Prudenza, Temperanza, Fortezza e Giustizia – che insegnano a un gruppo di suore in che modo prendersi cura degli ammalati, dal Livre de vie Active de L’Hôtel-Dieu di Jehan Henry. 1482 circa. Parigi, Musée de l’Assistance Publique. MEDICINA

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LA MEDICINA NEL MEDIOEVO

archetipi delle istituzioni ospedaliere. Una matrona romana convertita al cristianesimo fondò a Roma, nel 380, la prima «casa ospitale». A partire dal IV secolo i primi monasteri, inizialmente soprattutto in Oriente (Egitto, Palestina, Siria, Armenia, Asia Minore), aprirono le loro porte ai forestieri e agli infermi, dotandosi di strutture adeguate: gli «xenodochi» per ospitare gli stranieri, e i «nosocomi» per gli ammalati, strutture che si tradussero, in Occidente, in «foresterie» e «infermerie». Nel mondo occidentale il concetto di «xenodochio» andò poi 94

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Gli ospedali

Sulle due pagine gli Hospices de Beaune (Borgogna, Francia), sorti alla metà del XV sec. per volere di Nicolas Rolin, cancelliere del duca di Borgogna. Utilizzato come nosocomio fino agli anni Sessanta del Novecento, il complesso è stato trasformato in Museo della Medicina.

sempre piú a inglobare i soggetti che si trovavano all’alba o al tramonto della vita, come i vecchi e i bambini, nonché gli infermi e tutti coloro che vivevano in una condizione di debolezza, quindi anche i poveri, a cui la categoria degli infermi veniva assimilata, includendo tutti coloro che, colpiti da patologie invalidanti, o comunque privi di aiuto, non erano in grado di guadagnarsi da vivere, ed erano costretti dunque a vagabondare mendicando: ciechi, storpi, malati di mente, vecchi indeboliti dall’età, orfani. Da qui il fiorire di «case ospitali» urbane,


sotto la guida del vescovo, e di «foresterie» monastiche nelle campagne. Nel VI secolo, la Regola benedettina in particolare sottolineò l’importanza del prendersi cura degli infermi, e con il diffondersi a macchia d’olio del monachesimo benedettino, anche tale pratica ne ebbe un impulso determinante.

Lontano dalle chiese

Nel Museo della Medicina di Beaune vengono proposte ricostruzioni della vita quotidiana, animate da manichini di suore dell’Ordine delle Ospedaliere di Santa Maria, che hanno gestito ininterrottamente la struttura fin dalla sua fondazione.

Tra il VI e il VII secolo Isidoro, vescovo di Siviglia (560-636), dettò una regola monastica che prevedeva l’affidamento dei malati a un uomo assennato e pio (il medico) che si prendesse cura di loro, e stabilí i criteri di ubicazione dei locali per gli infermi: a grande distanza dalla chiesa e dalle celle dei frati, in modo che canti e orazioni non potessero recare loro disturbo. Verso il IX secolo l’organizzazione sanitaria dei grandi monasteri doveva corrispondere approssimativamente a quella del convento di San Gallo (Svizzera): un’infermeria con sala di degenza per malati gravi; un locale per clisteri e salassi; un altro ambiente contenente l’armadio dei libri e quello delle medicine confezionate dai monaci con le erbe; un giardino per la coltivazione delle piante medicinali. L’ospitalità misericordiosa da parte di vescovi e abati, che ripartivano cosí a favore dei poveri i proventi di elemosine e donazioni, oltre a costi-

tuire un dovere morale per i religiosi, serviva anche a colmare il vuoto di potere lasciato dall’autorità pubblica nei secoli precedenti la formazione del Comune. L’ospedale medievale fu quindi inizialmente un organismo dalle funzioni generiche e difficilmente definibili: il termine corrispondeva approssimativamente a quello di ospizio e non indicava un’istituzione finalizzata alla cura degli infermi (e non lo fu in questo senso esclusivo fino al XVIII secolo), ma designava piuttosto un luogo destinato prevalentemente all’ospitalità, funzione che viene confermata dall’uso del termine xenodochium (cioè luogo dove si accoglieva uno straniero o un ospite), in alternativa a quello di hospitale. L’idea di soccorso e della natura religiosa dell’istituzione è insita nei termini con cui ancora oggi in molte lingue europee essa viene designata: Maison-Dieu o Hôtel-Dieu, God’s House, e Godshuis in olandese. La sua funzione principale consisteva nell’accoglienza ai pellegrini, ai poveri e ai vagabondi. Per questo motivo tali istituzioni si trovavano spesso lungo le strade che portavano verso le grandi mete della cristianità: Roma, Gerusalemme, Santiago di Compostella, ubicati all’interno delle città, o fuori le mura; nel XII secolo furono spesso gestiti dagli ordini ospedalieri cavallereschi. I malati non vi erano accolti in quanto tali, ma perché spesso era lo stato di malattia a determinare quello di bisogno, e quindi la necessità di essere accolti e curati. La malattia rappresentava soltanto uno degli aspetti della povertà. Il momento strettamente terapeutico non ricopriva dunque un ruolo determinante negli ospedali medievali, il cui scopo primario consisteva nel fornire agli ospiti vitto, alloggio e assistenza spirituale. L’intervento di medici e operatori sanitari era casuale e discontinuo, e legato solo a necessità contingenti, in quanto l’attività nosocomiale non veniva contemplata nelle funzioni degli ospedali, e la disponibilità continua di un medico o di un chirurgo avrebbe comportato una spesa eccessiva per enti che spesso non erano in grado neppure di assicurare il pane quotidiano ai loro assistiti. Tra il XIV e il XV secolo, le condizioni di alcuni istituti erano infatti cosí disastrose che i degenti si vedevano costretti a mendicare. Persino in ospedali specializzati nel ricovero di particolari malati, come i lebbrosari (gestiti dall’ordine di San Lazzaro), l’assistenza terapeutica si rivelava alquanto modesta. Anche qui l’intento primario consisteva soltanto nell’offrire un soccorso morale e materiale a infermi che l’esigenza di salvaguardare la salute pubblica MEDICINA

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LA MEDICINA NEL MEDIOEVO

Gli ospedali

LA SEGREGAZIONE PER COMBATTERE I CONTAGI Ampiamente diffusi per tutto il Medioevo, i lebbrosari sorsero in Oriente probabilmente verso il III-IV secolo, e circa cento anni piú tardi in Occidente. In Italia la malattia si era presentata in forme preoccupanti verso il VII-VIII secolo, tanto che se ne era occupato l’editto di Rotari, decretando principi di segregazione e negazione dei diritti civili che furono poi recepiti dalla legislazione carolingia. Ma la diffusione piú massiccia dell’infezione si ebbe nel XII secolo, probabilmente a causa delle crociate, dell’intensificarsi dei traffici con l’Oriente, e dell’espansione delle rotte commerciali. A partire da quest’epoca, le città italiane ed europee misero a punto misure di isolamento e di segregazione che condizionavano completamente la vita dei contagiati e di coloro che erano sospettati di contagio, fino a escluderli del tutto dall’umana convivenza, come se fossero già morti. Prima ancora della segregazione nei lebbrosari, istituiti un po’ ovunque tra il XII e il XIII secolo, quello che colpisce sono le crudeli misure di isolamento a cui venivano assoggettati anche coloro che non avevano ancora la malattia, ma che si temeva la potessero sviluppare (si credeva infatti che la lebbra potesse essere ereditaria), togliendo cosí anche ai sani qualsiasi speranza di un futuro: ancora nel Trecento lo scrittore Paolo da Certaldo raccomandava di assicurarsi, prima di prender moglie, che la futura sposa non discendesse da una famiglia di lebbrosi. L’isolamento avveniva dopo la diagnosi (basata su prove spesso insussistenti) e il parere inappellabile formulato da una commissione che poteva stabilire la completa sanità dell’individuo, oppure la sua predisposizione alla malattia, oppure ancora l’ordine immediato di isolamento. L’internamento vero e proprio prevedeva un cerimoniale simile a un rito funebre, volto a simboleggiare il distacco definitivo dalla comunità e la morte civile dell’individuo; gli

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Miniatura raffigurante un lebbroso che si annuncia suonando un campanaccio, da un’edizione del Livre des propriétés des choses di Bartolomeo Anglico. 1480. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

oggetti e le vesti che gli appartenevano venivano bruciati, i beni confiscati (fatto che si traduceva nel furto legalizzato a favore di altri soggetti, come avvenne a Firenze per le ruberie perpetrate dall’Arte di Calimala che aveva in custodia la gestione dei beni dei questi ammalati). Il lebbroso non aveva diritto di possedere piú nulla, né di esistere: strappato alla famiglia e agli affetti, il suo unico mondo di relazione diventava la comunità del lebbrosario, nel quale viveva della carità pubblica. Anche quando gli si concedeva di entrare in città per chiedere l’elemosina (portando una campanella che ne annunciasse l’arrivo), gli veniva comunque preclusa qualsiasi occasione di vita collettiva: entrare in chiesa, al mulino, nelle taverne, al mercato. Non poteva intrattenersi con i passanti, né bere alle fonti. E sebbene la Chiesa avesse ribadito – non prima di aver dibattuto a lungo la questione – l’indissolubilità del matrimonio per il coniuge di chi avesse contratto la malattia, di fatto coniuge e figli venivano separati dal lebbroso (a meno che non avessero scelto deliberatamente di vivere nel lazzaretto col proprio congiunto per il resto dei loro giorni). Anche i nati da unioni di lebbrosi venivano tenuti isolati. Né erano rari altri tipi di accanimento contro questi sventurati, soprattutto in tempi di carestia, quando la psicosi collettiva li accusava di aver avvelenato le acque e distrutto i raccolti, perpetrando su di loro crudeli massacri. Rispetto alla peste, la lebbra rappresentava dunque una rinuncia alla vita, una «non vita» alla quale si era condannati per sempre, e questo si rifletteva sulle strutture destinate a ospitare gli ammalati. Nonostante la funzione apparentemente simile, consistente nella segregazione di individui infetti allo scopo di limitare la diffusione della malattia, la concezione e la «filosofia» del lebbrosario apparivano in realtà ben diverse rispetto a quelle dei lazzaretti. Nel primo infatti venivano reclusi malati irrecuperabili, colpiti da una malattia invalidante, potenzialmente ma non dirompentemente contagiosi, mentre nel


secondo i pazienti, passibili – se non morivano – di recupero completo in tempi piuttosto brevi, erano invece altamente contagiosi, tanto da richiedere l’isolamento piú totale e assoluto (loro, delle loro cose, nonché dei loro cadaveri) durante la malattia e per il periodo di quarantena successivo. Tutto questo si rifletteva sulla struttura e sull’organizzazione delle due istituzioni: la prima, segregata e fuori dalla città, non le si contrapponeva, ma riproduceva, pur nell’ambito della segregazione, il contesto urbano: luoghi di lavoro, di vita associata, di culto, di sepoltura. Un cronicario, dunque, in cui trascorrere un tempo indefinito, per gli affetti da una patologia invalidante, ma non mortale. Completamente diverse erano la struttura e la funzione del lazzaretto, assai piú simile, anche nelle forme organizzative, ai moderni ospedali. Concepito come isola di temporanea permanenza e di soggiorno transitorio verso un episodio risolutivo fausto o infausto, ma previsto in tempi brevi, non riproduceva il contesto urbano, ma gli si contrapponeva completamente, avviandosi verso un tipo di organizzazione che avrebbe portato l’ospedale medievale alla trasformazione da semplice luogo di accoglienza/segregazione, in struttura nosocomiale vera e propria.

Miniatura che, nelle intenzioni del suo autore, doveva raffigurare un ospedale dell’antica Roma: in realtà, l’immagine è piú vicina a una struttura ospedaliera del tipo di quella che dobbiamo immaginare in uso nella Spagna medievale. Da un’edizione manoscritta delle Cantigas de Santa Maria. XIII sec. San Lorenzo de El Escorial, Real Biblioteca del Monasterio de San Lorenzo de El Escorial.

costringeva ad allontanare dalla comunità, cosa che si concretizzava talvolta in una vera e propria segregazione. Soltanto fra il XIII e il XIV secolo, l’autorità laica cominciò a introdursi nell’ambito dell’assistenza ospedaliera, facendone un caposaldo nel controllo del pauperismo, percepito ormai come una potenziale minaccia per la comunità, e quindi come una piaga sociale. L’esperienza aveva insegnato, infatti, che le epidemie (prima ancora della peste, la lebbra) colpivano per primi i poveri e i mendicanti, e si diffondevano ovunque mediante il loro vagabondaggio: perciò molte città avevano già da tempo proibito a lebbrosi e ciechi di risiedere entro le mura, di andarvi elemosinando, e di essere accolti e ospitati dalla popolazione.

Un presidio per i piú bisognosi

A partire dalla prima metà del Duecento, dunque, parallelamente alla crescita della razionalizzazione politica e amministrativa messa in atto dai governi «popolari», in molti Comuni dell’Italia centro-settentrionale l’ospedale si era visto riconoscere, consapevolmente e sempre di piú dalle autorità cittadine, il ruolo di pubblico servizio orientato a sopperire alle necessità di coloro che, per vari motivi, non erano in grado di farvi fronte. E il modo conMEDICINA

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LA MEDICINA NEL MEDIOEVO Fondato nel XII sec., l’Ospedale del Ceppo di Pistoia fu arricchito agli inizi del Cinquecento, per iniziativa dell’allora Spedalingo Leonardo Buonafè o Buonafede, da un portico ornato da un magnifico fregio in terracotta policroma raffigurante le sette opere di misericordia alternate alle virtù cardinali e teologali. L’opera fu commissionata a Giovanni Della Robbia, ma vide anche la partecipazione di Santi Buglioni, e, per l’ultima formella, di Filippo Lorenzo Paladini.

Gli ospedali

creto di renderlo tale fu quello di indirizzare verso di esso le varie forme di carità, in denaro, in beni, o in prestazioni gratuite di lavoro. Dalla presa di coscienza che l’assistenza fosse una necessità, e quindi un dovere, dell’autorità pubblica, nacque dunque una faticosa e lenta ridefinizione dell’istituto ospedaliero. Ancor piú a partire dalla seconda metà del Trecento, in una società che, parallelamente allo sviluppo di una nuova concezione dell’indigenza, aveva elaborato una legislazione contro la marginalità e la mendicità, gli ospedali, contribuendo al recupero sociale degli elementi piú deboli, rispondevano a esigenze di equilibrio e di «buon governo». Da qui l’intervento sempre piú accentuato dell’autorità pubblica nel campo delle strutture assistenziali. Molte città emanarono norme apposite a proposito del ricovero ospedaliero: Venezia lo rese obbligatorio per i poveri solo in tempo di epidemia;

ALLOGGIARE I PELLEGRINI

Da sinistra si vedono quattro personaggi vestiti in abiti sgargianti, un dialogo tra due personaggi la cui identità è tuttora dibattuta, una lavanda dei piedi da parte di Leonardo Buonafede, e, infine, la scena in cui un ricco signore accoglie un pellegrino e gli mette a disposizione il suo comodo letto.

Genova preferí invece costringere gli indigenti ad abbandonare il territorio cittadino; Milano istituí un servizio permanente di sei uomini col compito di andare per la città e il circondario a cercare i poveri e gli ammalati per obbligarli al ricovero all’ospedale. Accanto alla carità, questi enti svolgevano dunque un ruolo importante di controllo sociale, come ricorda Leon Battista Alberti che nel 1440 scriveva: «in questo modo si evita che costoro [poveri e malati] disturbino gli onesti cittadini inutilmente con l’accattonaggio e li infastidiscano col loro aspetto ripugnante». In ogni caso, nonostante l’intervento del potere civile, gli ospedali rimasero soprattutto luoghi di assistenza all’indigenza in tutte le sue forme. Non si trasformarono dunque in nosocomi veri e propri: spesso la presenza del personale sanitario rimase occasionale e saltuaria, almeno sino alla fine del XV secolo, e l’assistenza venne affidata a frati e suore laiche. L’intento precipuo rimase

VISITARE GLI INFERMI

Al centro della scena, come sempre, si riconosce Messer Buonafede, intento ad ascoltare le raccomandazioni dei medici. Ai due lati vi sono i letti con gli ammalati. L’intera composizione si staglia su uno sfondo bianco, che verosimilmente allude agli interni dell’ospedale.

VISITARE I CARCERATI

A sinistra si vedono le grate di due celle, con uno dei carcerati confortato da un anziano visitatore; nella parte centrale vi sono un Cristo in catene e un santo, forse Lorenzo o Leonardo, che guida Messer Bonafede verso il compimento delle opere di misericordia; la scena si chiude con la figura di un altro visitatore, accompagnato da due servitori che portano provviste per i detenuti.

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MEDICINA


quello di segregazione degli individui potenzialmente sovvertitori dell’ordine pubblico, che perciò vedevano le strutture ospedaliere con sospetto. Fra il XIII e il XIV secolo, dunque, nonostante il fiorire delle università, i centri europei produttivi di scienza medica erano pochissimi, e paradossalmente, gli ospedali erano privi di medici, mentre le facoltà universitarie in cui i medici si formavano erano prive di malati. Le università erano luoghi di sola dottrina e gli ospedali luoghi di sola assistenza che non avevano come scopo la cura e la guarigione dei malati, ma soltanto il loro ricovero.

Il finanziamento

A finanziare gli ospedali, nella nuova forma che andarono assumendo a partire dal XIII secolo, furono le comunità cittadine, attraverso lasciti e donazioni, che, dal Duecento in poi,

crebbero vertiginosamente, favorite soprattutto dalla straordinaria accelerazione della circolazione del denaro e dell’accumulazione della ricchezza che caratterizzò in quell’epoca le città dell’Italia centro-settentrionale. Dato che «poveri» non erano soltanto coloro che erano dotati di scarsi mezzi economici, ma tutti quelli che si trovavano in una condizione di debolezza e avevano bisogno di essere aiutati (vedove, orfani, anziani, persone sole e malate, fanciulle senza dote), lasciare i beni a un ospedale significava donarli alla comunità cittadina perché mettesse in atto una forma di protezione sociale, per far fronte alle fasi di debolezza che potevano travolgere alcuni dei suoi componenti. In tale contesto, soprattutto tra il XIV e il XV secolo, assunse sempre maggior rilievo l’importanza del ruolo del denaro come mezzo concreto di aiuto, in grado di garantire il funzionamento efficiente delle strutture assistenziali. E, di conse-

DAR DA MANGIARE AGLI AFFAMATI

Nel quadro di sinistra, lo Spedalingo invita un povero ad accomodarsi al desco imbandito nella sua casa, mentre in quello di destra lo ritroviamo all’esterno dell’abitazione, intento a elargire cibi e bevande.

SEPPELLIRE I DEFUNTI

La prima scena, a sinistra, mostra la deposizione di un defunto; la seconda, sulla destra, l’ufficio funebre di una defunta, probabilmente una monaca; al centro, anche in questo caso, Lorenzo Buonafede assiste agli eventi.

DAR DA BERE AGLI ASSETATI

Con uno stile che si differenzia dai precedenti, Paladini compone una scena vivace e affollata, in cui la distribuzione delle bevande si svolge sotto la supervisione di un nuovo Spedalingo, Bartolomeo Montechiari.

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Il modello parigino

Tra il XIII e il XIV secolo una miriade di ospedali costellava le città dell’Europa, dando origine a una fioritura di statuti per ciascun ente, in applicazione delle norme previste da almeno tre Concili del secolo precedente (quello di Parigi del 1212, quello di Rouen del 1314 e soprattutto il IV Concilio Lateranense del 1215). A Parigi una sessantina di istituzioni ospedaliere bastavano appena per una popolazione che, verso il 1328, superava i 200 000 abitanti, e l’ospedaFirenze, Ospedale di S. Maria Nuova. La lunetta raffigurante la Pietà, opera di Giovanni della Robbia, collocata nel chiostro del complesso, fondato nel 1285-88 per iniziativa di Folco Portinari, il padre della Beatrice amata da Dante. 100

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S. MARIA NUOVA

FIRENZE

guenza, nella fondazione degli ospedali e nell’elargizione di lasciti assunse un ruolo fondamentale il ceto dei mercanti, che portarono all’interno degli enti assistenziali non solo forze economiche nuove, ma anche una piú corretta e oculata gestione delle risorse. Per avere un’idea dell’entità dei patrimoni che venivano talvolta donati, basti pensare al lascito che nel 1410 il mercante pratese Francesco Datini mise a disposizione della sua città per la fondazione dell’ospedale del Ceppo, destinato ai «poveri di Cristo», ma dalle connotazioni esclusivamente laiche, in quanto gli ecclesiastici – affermava il Datini – erano poco affidabili perchè intenti a spendere «in disfare debiti, e in cavalli, e in conviti». Stabiliva perciò la nascita di un’istituzione «non sacra, in niuno modo sottoposta alla Chiesa, o ecclesiastici ufici, o prelati ecclesiastici, o altra persona ecclesiastica, e che in niuno modo a ciò si possa ridurre; ma sempre sia dei poveri e a perpetuo uso de’ poveri di Giesú Cristo», nominando il Comune di Prato dispensatore di tutte le sue ricchezze come «alimento et emolumento perpetuo» dell’ospedale. I proventi di tutte le sue vastissime attività, che sarebbero cessate nel giro di cinque anni, venivano destinati all’istituzione.

L’ospedale fiorentino di S. Maria Nuova, tuttora esistente e funzionante nel centro della città, alle spalle del Duomo, sebbene profondamente modificato tra il XVI e il XVIII secolo nel suo assetto originario e nella sua estensione primitiva, venne fondato tra il 1285 e il 1286 da Folco Portinari, padre della Beatrice amata da Dante. Per la costruzione, che la tradizione vuole ispiratagli dalla fantesca Monna Tessa (distintasi per il suo fervore nella cura degli infermi e fondatrice delle Oblate francescane attive nell’ente caritativo-assistenziale), il Portinari aveva acquistato il 24 aprile 1285 un appezzamento di terra sul quale si trovava un casolare, nel rione («popolo») di S. Maria in Campo. Il 21 maggio 1286, quando Folco ottenne una bolla pontificia che autorizzava i frati del preesistente convento di S. Egidio a permutare con lui un terreno, in modo da poter continuare l’edificazione dell’ospedale, la costruzione era ormai a buon punto, tanto da poter essere definita «opere sumptuoso (…) ad opus pauperum et infirmorum». Il 23 giugno 1288, davanti al vescovo di Firenze Andrea dei Mozzi, venne stilato l’atto di fondazione dell’ospedale, che


Folco dotò abbondantemente di beni mobili e immobili, ottenendone al tempo stesso il patronato per la sua famiglia, anche se l’istituto era di personalità ecclesiastica. In questo modo cioè i Portinari si assicuravano poteri assai ampi nella gestione del luogo assistenziale: l’elezione dello spedalingo (preposto a tutta l’organizzazione ospedaliera) e del rettore della chiesa, e, soprattutto, il controllo completo della gestione finanziaria dell’ente, cosa che provocò durante il Trecento l’opposizione dei religiosi che si occupavano della conduzione materiale dell’ospedale, e quindi un progressivo svuotamento del contenuto effettivo del patronato, fino a farlo diventare una carica puramente onorifica quando le nomine e il controllo finanziario dell’istituto passarono in mano al vescovo di Firenze. Nel 1617 i Portinari, ormai rovinati economicamente, cedettero il patronato (in cambio di una rendita) al granduca di Toscana che aveva tutto l’interesse a evitare che l’ospedale passasse direttamente sotto il controllo della Santa Sede. Il legame della famiglia con l’ente assistenziale era tale che tutti i suoi principali esponenti vennero sepolti nella cappella di S. Egidio, annessa al complesso di S. Maria Nuova, a partire da Folco (del quale si conserva ancora la lapide con l’iscrizione e lo stemma

Rilievo raffigurante Monna Tessa, la domestica di Folco Portinari, al quale, secondo la tradizione, avrebbe ispirato la fondazione (1285-88) dell’ospedale fiorentino di S. Maria Nuova.

In alto il Trittico Portinari, dipinto su tavola di Hugo van der Goes. 1477-1478. Firenze, Galleria degli Uffizi. L’opera, che ha per tema l’Adorazione dei pastori, giunse a Firenze da Bruges e fu in origine collocata nella chiesa di S. Egidio, facente parte del complesso ospedaliero di S. Maria Nuova. di famiglia), fino al XVII secolo. E, per ornare la chiesetta, nel Quattrocento, i banchieri Pigello e Tommaso Portinari, discendenti di Folco, inviarono da ogni parte d’Europa i capolavori dei migliori artisti dell’epoca (tra i quali il trittico dell’Adorazione dei pastori di Hugo Van Der Goes proveniente da Bruges e attualmente conservato agli Uffizi, che suscitò un grandissimo interesse, ed ebbe un notevolissimo influsso sugli artisti toscani). Al momento della fondazione, l’istituto era dotato di 17 letti atti a ospitare circa una cinquantina di ammalati, mentre nel 1347, subito prima dello scoppio della peste, i ricoverati in S. Maria Nuova arrivavano a 220, alla fine del Quattrocento erano ormai 600 e un migliaio del Cinquecento. Dotato di corsie separate per uomini e donne, di refettorio, cucina, quartieri per il personale, farmacia, chiesa e cimitero, fin dai primi decenni del Trecento il S. Maria Nuova venne destinato precipuamente all’accoglienza dei poveri, purchè fossero malati, e dotato di un servizio medico permanente formato da 7 specialisti con ruoli differenti (un medico fisico, 2 chirurghi, un barbiere), oltre ad altri consulenti interpellati di volta in volta, tra i quali un esperto nella cura di ferite, ulcere e piaghe e un medico degli occhi. L’epidemia di peste del 1348 e quelle successive contribuirono con un numero sempre maggiore di lasciti alla crescente medicalizzazione dell’ospedale. MEDICINA

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S. MARIA DELLA SCALA

le maggiore della città poteva contenere dai 400 ai 600 degenti. Fondato probabilmente verso il VII secolo, sull’isola al centro della Senna, l’Hôtel Dieu parigino divenne nel corso del Medioevo il maggior ospedale della Francia, e serví a lungo come modello. A Firenze, nel 1339, circa 30 ospedali di differenti dimensioni disponevano complessivamente di un migliaio di letti. Pisa, che alla fine del Duecento contava circa 40 000 abitanti, vide sorgere tra l’XI e il XV secolo ben 55 ospedali, mentre Siena, con 35-40 000 abitanti all’inizio del Trecento ne aveva una decina, e Lucca, con 15-20 000 abitanti, ne contava 13. Fra Tre e Quattrocento, Perugia, con una popolazione di 30 000 abitanti e 25 ospedali poteva contare su circa 100 posti letto. Il «Santo Spirito» a Roma aveva una capienza di 300 letti, cosí come i principali istituti di Londra e di Barcellona. Milano, secondo le stime (sicuramente esagerate) di Bonvesin de la Riva (1288), alla (segue a p. 106) 102

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SIENA

Siena. Particolare della facciata dell’Ospedale di S. Maria della Scala, con uno degli ingressi. Secondo la tradizione, il nosocomio avrebbe aperto i battenti addirittura prima dell’anno Mille. La struttura è stata oggi trasformata in museo.

Sorto nel X secolo e divenuto nel Trecento una delle maggiori istituzioni ospedaliere europee, l’ospedale senese di S. Maria della Scala ospitava i pellegrini, si prendeva cura degli infermi, accoglieva e allevava i bambini abbandonati, elargiva elemosine e generi di conforto ai «poveri vergognosi», procacciava la dote alle fanciulle povere, e compiva tutte quelle opere di carità che gli splendidi affreschi del suo «pellegrinaio» ci illustrano ancora. Concepito per la città e nel cuore della città, sulla piazza del Duomo, fin dalle origini fu sostenuto e completamente permeato da quello spirito caritativo cittadino che portava i grandi banchieri senesi a costituire lasciti ingenti in suo favore, per prendersi cura dei concittadini meno abbienti dando loro la speranza, e spesso la possibilità concreta di un futuro migliore. L’ente rappresentava un vero e proprio mediatore tra la carità che riceveva e quella che donava, e come tale, anche un’impresa economica di primaria importanza, impegnata nella gestione e amministrazione di quello che nel Trecento era ormai un patrimonio vastissimo, e nella sua erogazione ai soggetti bisognosi. E in tutto questo intervenivano al massimo grado i criteri di «gestione aziendale» dettati dagli stessi amministratori/banchieri, ai vertici del ceto dirigente cittadino e del «consiglio di amministrazione» dell’ospedale, criteri che riecheggiano chiaramente negli statuti trecenteschi dell’ente (1318): chi non si prende cura adeguatamente, e con efficaci strumenti di revisione dei conti, delle proprie entrate e delle proprie uscite – scrivevano – è destinato a veder fallire miseramente la propria impresa e a veder svanire anche i patrimoni piú grandi. E di fallimenti, in quel periodo, i banchieri senesi avevano una notevole esperienza. Amministratori, dunque, dotati di una spiccata mentalità imprenditoriale ospedaliera, che, dando all’ente i caratteri di una vera e propria impresa, intendevano gestirne al meglio le risorse, in modo da poter garantire adeguatamente l’assistenza ai bisognosi, rispettando la volontà dei donatori. In linea con tutto questo si può interpretare quella che rappresentava forse la principale peculiarità dell’ospedale: svolgere anche, a tutti gli effetti, le funzioni di un vero e proprio istituto di credito, cosa che, allo stato attuale delle ricerche è abbastanza unica. Sebbene le fonti non parlino mai, esplicitamente, dell’esistenza


di un «banco» dell’ospedale, di fatto l’istituzione accolse in modo continuato e consistente, dal 1326 al 1377 almeno, il risparmio dei cittadini, che poteva reinvestire, sul quale pagava interessi, e che gestiva in conti correnti. Prestava poi il denaro ricevuto sia, moderatamente, a privati, sia, in larga misura, al Comune di Siena.

Anche l’ospedale, espressione suprema dello spirito caritativo cittadino, gestito secondo criteri imprenditoriali razionali, contribuiva quindi in modo non trascurabile a mettere in pratica quei principi di «Buon Governo», volto al raggiungimento del «bene comune», tanto efficacemente illustrati da Ambrogio Lorenzetti sulle pareti di Palazzo Pubblico, a celebrazione

La costruzione dell’ospedale di S. Maria della Scala, in un affresco di Domenico di Bartolo nel Pellegrinaio del complesso. 1442-1443.

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LA MEDICINA NEL MEDIOEVO di quello che era allora il governo cittadino, il «Buon Governo» appunto, cioè il governo «dei Nove» (1287-1355), ovvero del ceto mercantile di livello medio, alla guida della città. All’inizio del secolo XIV lo statuto dell’ente assistenziale prevedeva l’ammissione di tutti coloro che si trovassero in stato di bisogno, con l’esclusione di alcune categorie di malati, come i lebbrosi e i paralitici. Alla fine del secolo lo statuto dello stesso ospedale dimostra come esso potesse ormai essere considerato un luogo di cura: i malati potevano esservi ospitati fino alla guarigione, erano presenti medici che visitavano i pazienti due volte al giorno e avevano un chirurgo sempre a loro disposizione. L’ospedale nel Quattrocento era dotato anche di una farmacia, con uno speziale fisso, stipendiato dall’ente e assunto con contratto annuale, in genere rinnovato piú volte. Il suo compenso poteva essere contrattato e aumentare notevolmente nei periodi di epidemia. Aveva l’obbligo del servizio notturno, ed era tenuto ad alzarsi durante la notte per somministrare di persona le medicine a chi ne aveva bisogno. Poteva essere aiutato da uno o due apprendisti, scelti tra i fanciulli abbandonati dell’ospedale, che venivano cosí avviati alla professione.

Gli ospedali

L’IMPORTANZA DELLA DIETA Il cibo e le diete particolari destinate ai malati misero in atto in molti grandi ospedali un sistema economico di forniture e approvvigionamenti che ne fecero spazi proiettati verso l’esterno in continuo contatto con ogni tipo di struttura cittadina, con impatti non trascurabili sul tessuto sociale, economico e urbanistico. Il S. Maria della Scala, che nel Trecento divenne uno dei principali complessi nosocomiali d’Europa, consente un punto di vista privilegiato di questi meccanismi, grazie all’imponente quantità di documentazione inedita conservata nei suoi libri contabili che consente di ricostruire gli aspetti della vita materiale e quotidiana dell’istituzione. Spazio interno, ma al contempo proiettato verso l’esterno, attraverso una miriade

di fornitori e una fitta rete di transazioni, la cucina dell’ospedale rappresentava un indizio di quanto l’istituzione caritativo-assistenziale fosse profondamente coinvolta nella vita economica della città. Una vita materiale i cui multiformi aspetti partono proprio dal cibo, elemento fondamentale per la cura degli infermi in una società dominata dal principio aristotelico della «giusta misura» e in cui le medicine ancora non esistevano. Essenziale, perciò, risultava la dieta che per gli ammalati doveva essere leggera, ma varia e nutriente, cosa che permetteva, tra l’altro, di combattere quelle patologie dovute alla carenza di determinati alimenti (e quindi di determinati principi nutritivi). Erano dunque banditi dal desco degli infermi

Sulle due pagine altri particolari degli affreschi realizzati da Domenico di Bartolo per il Pellegrinaio del S. Maria della Scala. 1442-1443. A sinistra, il governo e la cura degli infermi; nella pagina accanto, la distribuzione delle elemosine.

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(con un’intuitiva capacità terapeutica che non ha nulla da invidiare a quella dei dietologi attuali) tutti i formaggi e la maggior parte dei condimenti (fatta eccezione per l’olio d’oliva e l’aceto), i dolci (salvo lo zucchero), spezie e salse, carni rosse (e la carne di maiale soprattutto); il loro vitto comprendeva carni bianche bollite (pollame in primo luogo, ma anche vitello), uova, pane, cereali, molta verdura (aglio, ancora una volta con grande intuizione molto apprezzato per le sue capacità terapeutiche, cipolle, cavoli, erbette, insalata) e molta frutta (pere, mele, cocomeri e mandorle, ma non le arance, difficili da digerire e riservate ai sani), il tutto sempre rigorosamente fresco, vino rosso (ancora oggi considerato piú digeribile del bianco), vino cotto e vino annacquato (acquerello). Oltre che col cibo, gli ammalati venivano curati anche con preparati a base di erbe e spezie, sebbene nel Trecento l’aspetto assistenzialecaritativo dell’ente prevalesse ancora nettamente su quello medico-sanitario. Molto piú vasta era la tipologia degli alimenti riservati ai sani (cioè ai frati e alla componente laica dell’ospedale addetta alla cura degli infermi): carne di ogni tipo, e soprattutto pesce, molto consumato nelle vigilie e durante la Quaresima (gli ammalati invece erano esentati dall’obbligo di astinenza dalla carne in tali periodi), spezie, salse, condimenti (tra i quali spicca la grande abbondanza di grassi animali come lardo e strutto), formaggi, pasta (lasagne e vermicelli), dolci, vino anche bianco, frutta (tra cui castagne, uva, fichi, susine, meloni, arance), verdura e moltissimi legumi. La divisione tra sani e malati non riguardava soltanto il tipo di dieta, ma anche la cucina in cui il pasto veniva preparato, e naturalmente l’ambiente in cui lo si consumava.

L’ospedale era infatti dotato di almeno 5 diverse cucine (per i sani, per gli infermi, per l’infermeria dei frati, per l’abitazione del rettore, per le donne), gestite da personale ordinato gerarchicamente. Frati e suore mangiavano nel refettorio, mentre gli infermi nel «pellegrinaio» (la grande sala affrescata nel Quattrocento da Domenico di Bartolo con episodi sui momenti salienti della vita dell’istituto e dell’assistenza erogata). Appositi ambienti erano destinati alla conservazione del cibo: il «guardaroba» (dispensa), il granaio, il locale per la produzione e conservazione del pane, il «celliere», cioè la cantina. All’acquisto delle provviste erano deputati appositi ufficiali: i «pellegrinieri» per gli ammalati e i «castaldi» per i sani. Anche attraverso la sua cucina, il S. Maria della Scala costituiva un motore primario per l’economia cittadina, non soltanto grazie agli acquisti delle materie prime per la preparazione dei cibi, ma anche per l’impulso dato alla produzione di oggetti e suppellettili di ogni tipo, necessarie agli ospiti dell’istituto. Da qui la commissione alle botteghe cittadine, in primo luogo di materiale ceramico, rappresentato da brocche, boccali, catini, ciotole, pentole di ogni dimensione, teglie, tegami, e pentolame di ogni genere (a volte di dimensioni enormi – come le olle – e realizzabile solo con particolari artifici tecnici), grandissime conche per il bucato o per il bagno degli ammalati, fuseruole per la lana, lucerne, borracce per l’acqua, e persino salvadanai, materiale che gli scavi archeologici ci restituiscono ancora

generosamente (dando modo, tra l’altro, di approfondire lo studio delle caratteristiche peculiari alla ceramica invetriata senese trecentesca). Molto piú modeste, ma pur sempre presenti, le ordinazioni di oggetti in legno (di cucchiai soprattutto), e in metallo (forbici, chiavi, pale, zappe, vanghe, candelieri, bacili, qualche paiolo e pentola in rame, spiedi, grattugie, bilance, candelieri, alari, catene), che dato il loro costo elevato (sia per il valore intrinseco della materia prima, sia perché comportavano un lungo e articolato processo di lavorazione), venivano raramente acquistati, ma davano comunque origine a un indotto di botteghe che riparavano e riciclavano le suppellettili metalliche permettendone il riutilizzo.

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LA MEDICINA NEL MEDIOEVO

Istituti fondati dalle comunità

Ogni ospedale ha la sua storia, la sua struttura architettonica, il suo fondatore, il suo posto particolare nella tradizione di ciascuna città, e di ogni singola istituzione si potrebbero scrivere innumerevoli capitoli, affrontandone l’analisi dal punto di vista delle origini dell’edificio, della sua struttura, dei suoi architetti, delle sovvenzioni e dei benefattori che ne fecero nel corso dei secoli un’opera d’arte, dei ceti sociali cittadini che presero parte all’impresa, del suo ruolo come motore, a sua volta, dell’economia cittadina. Proprio per questo, al di là delle nozioni generali sulla funzione dell’ospedale nel Medioevo, è impossibile effettuare una sintesi, dato che ogni ente appare immerso nel particolare contesto urbano di cui faceva parte nel modo piú completo e assoluto. Gli ospedali, insomma, «erano fondati dalla comunità, e a essa appartenevano di diritto», come ben sintetizza un documento parmense del 1328. Si possono perciò prendere in considerazione soltanto alcuni dei casi sui quali la storiografia si è soffermata maggiormente in quanto le fonti lo consentivano, e in quanto costituivano comunque modelli ai quali si ispirò tutto il sistema ospedaliero successivo. Ospedali modello sia dal punto di vista organizzativo e gestionale che da quello architettonico, da esso conseguente (S. Maria della Scala a Siena in primo luogo), e talvolta anche ragguardevoli per la figura del fondatore (come l’ospedale fiorentino di S. Maria Nuova, istituito verso il 1286 da Folco Portinari, padre della Beatrice dantesca, e funzionante tuttora), oppure che ebbero caratteristiche particolari (l’ospedale interamente femminile di Monna Agnese, ancora una volta 106

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a Siena), o che, infine, rappresentarono il fulcro della riforma ospedaliera per un’intera area geografica (come l’Ospedale Maggiore di Milano nel secondo Quattrocento). Rapporti di lavoro del tutto particolari, e dalle caratteristiche decisamente arcaiche, regolavano il trattamento del personale salariato degli ospedali e degli enti religioso-assistenziali in genere: nonostante le diverse prescrizioni degli accordi pattuiti per iscritto, erano all’ordine del giorno retribuzioni corrisposte in modo discontinuo e irregolare, spesso solo in seguito a esplicita richiesta del dipendente, incalzato dal bisogno di acquistare generi di prima necessità, e pagamenti in natura. La caratteristica principale dei salariati degli enti assistenziali era rappresentata dall’assoluta mancanza da parte del lavoratore di una consapevolezza del proprio diritto a un compenso. I dipendenti degli ospedali cercavano prima di tutto la sicurezza materiale: vitto, alloggio e il necessario per vestirsi, ma questo aveva come conseguenza l’emarginazione della categoria dalla scena sociale. Ignoravano infatti qualsiasi forma di divisione del lavoro e ogni pur rudimentale coscienza dei propri diritti. I rapporti tra gli enti assistenziali e i loro dipendenti erano improntati a un evidente paternalismo: i primi avrebbero provveduto alla maggior parte delle necessità dei loro salariati, procrastinando però il piú possibile il pagamento dei compensi stabiliti, e, una volta sborsato il denaro, cercando di assicurarsi che venisse speso bene, in generi necessari.

A un passo dalla schiavitú?

Dalla documentazione rimasta emerge in sostanza il quadro di un gruppo sociale modesto che conduceva un’esistenza grigia senza potersi permettere nulla oltre ai beni di prima necessità. Questi lavoratori erano afflitti da un indebitamento costante nei confronti del datore di lavoro e dalla necessità continua di chiedere nuovi prestiti, che venivano detratti dalle paghe successive, al punto che ci si è chiesti se alcuni enti assistenziali non fungessero anche da prestatori di denaro e da banchi dei pegni (come accadeva realmente per il S. Maria della Scala) che riducevano in una condizione di semi-schiavitú coloro che non erano in grado di restituire il denaro ricevuto in prestito. In tale situazione si trovavano per esempio, tra il XIV e il XV secolo, gli inservienti del S. Maria della Scala a Siena, di quello a esso affiliato di Poggibonsi e dell’ospedale di S. Gallo a Firen-

SIENA

fine del XIII secolo (quando contava circa 100 000 abitanti) poteva vantare 10 ospedali, tutti adeguatamente dotati di beni, tra cui primeggiava quello del Brolo, ricchissimo di possedimenti terrieri, che poteva ospitare talvolta, soprattutto nei periodi di carestia, fino a 500 malati poveri costretti a letto e un numero ancora maggiore di infermi non costretti a letto, tutti mantenuti a spese dell’ospedale. Dava poi asilo a piú di 350 bambini con altrettante balie. Vi erano accolti, ristorati e nutriti con generosità tutti i malati poveri, eccetto i lebbrosi, ai quali era destinato invece un ospedale apposito, quello di S. Lazzaro, fuori le mura di Porta Romana. Un’altra quindicina di ospedali si trovava nel circondario della città. Svariate erano poi le istituzioni assistenziali gestite in tutta Europa dagli ordini ospedalieri e cavallereschi.

Gli ospedali


Miniatura raffigurante quattro donne che si prendono cura di un bambino, dall’edizione manoscritta di un trattato di puericultura. Inizi del XIII sec. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana.

LO «SPEDALE» DI MONNA AGNESE Fondato tra il 1270 e il 1274 non lontano dal Duomo, l’ospedale di Monna Agnese, a Siena, si caratterizzò per ben tre secoli, (dalle origini alla fine del Cinquecento), per la sua conduzione e amministrazione interamente femminili, a opera di donne laiche, cosa raramente documentata per le istituzioni ospedaliere medievali. La componente maschile esisteva, ma era numericamente inferiore e priva di potere decisionale. L’universo femminile che ne caratterizzava la struttura organizzativa contribuí a indirizzare le attività dell’istituto (che accoglieva non solo vedove e nubili, ma anche donne sposate) verso la specializzazione nell’aiuto alle partorienti e ai neonati, anche se non mancò, fino a tutto il Cinquecento, l’assistenza ai poveri, ai malati e ai pellegrini. L’istituto poteva contenere fino a oltre 40 persone, e non era dotato di un medico fisso, neppure alla metà del Quattrocento, quando tale consuetudine andava sempre piú affermandosi. I professionisti venivano chiamati di volta in volta, quando necessario, retribuiti a prestazione (cosa che probabilmente preferivano), e tra loro figuravano anche numerose donne medico soprattutto per l’assistenza alle partorienti, ma non soltanto: i documenti citano per esempio una di loro specializzata nell’«acconciare le ossa». Le loro retribuzioni erano in genere inferiori, anche se non di molto, a quelle degli uomini. Oltre a essere diretto costantemente da laiche, l’ente non aveva alcuna dipendenza di carattere religioso: l’unica forma di controllo ecclesiastico consisteva nella conferma della rettrice da parte del vescovo, referente dell’ospedale. Il suo successo fu tale che, anche nei secoli XV-XVI, quando la tendenza all’accorpamento portava spesso a inglobare i piccoli

ospedali in strutture piú grandi, e quello vicinissimo di S. Maria della Scala aveva da tempo iniziato a farlo, lo «spedale» di Monna Agnese mantenne la propria autonomia. Alla fine del Cinquecento, quando si specializzò nella sola assistenza alle partorienti, riuscí addirittura a diventare esso stesso punto di riferimento per molti altri enti assistenziali urbani e delle campagne. Evidentemente tra i due ospedali non c’era rivalità ma dialogo, e le loro relazioni dovevano fondarsi su accordi e compromessi. E a volte gestivano insieme donazioni ricevute in comune. La fondazione senese rivestí una particolare importanza anche per un altro suo aspetto: il ruolo fondamentale rivestito dal lavoro femminile, organizzato in veri e propri laboratori, e i cui proventi venivano utilizzati per integrare i redditi derivanti dalla gestione dei beni fondiari. La filatura di lana, lino, cotone, la tessitura, i lavori di cucito, e, dal 1440, anche la lavorazione della seta, venivano esercitati dalle «donne di Monna Agnese» a livello collettivo, in piccoli opifici dove molte di loro potevano alternarsi nell’arco della giornata ai fusi e ai filatoi, garantendo una certa continuità produttiva, in primo luogo per far fronte alle necessità dell’ospedale con la realizzazione di abiti, fasce, bende, tovaglie; in secondo luogo per la vendita. Si produceva anche per conto terzi, un’attività dalla quale, soprattutto dalla metà del Quattrocento (in concomitanza con l’inizio della lavorazione della seta), vennero realizzati guadagni di una certa entità. Per il resto, l’ospedale si reggeva sull’attenta amministrazione degli immobili che possedeva in città e nelle campagne, nonché (anche se in misura minima) sulla gestione del denaro depositato dai pellegrini. MEDICINA

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LA MEDICINA NEL MEDIOEVO

Gli ospedali

MILANO

OSPEDALE MAGGIORE A partire dal XV secolo, a causa dell’incapacità delle piccole istituzioni di rispondere alle esigenze della società, andò affermandosi un po’ ovunque un’ulteriore evoluzione delle strutture ospedaliere, tesa a una loro riorganizzazione mediante l’accorpamento delle istituzioni minori e la centralizzazione amministrativa e gestionale sotto un unico ospedale, un fatto che ebbe ripercussioni notevoli anche sull’architettura e sulle strutture materiali dei nuovi edifici costruiti a tale scopo, e che si tradusse in primo luogo nell’elaborazione della struttura cruciforme (ancora oggi visibile alla «Ca’ Granda», l’Ospedale Maggiore di Milano), che consentiva un sistema piú razionale di accoglienza dei poveri e degli ammalati. Modello di tali mutamenti, tanto dal punto di vista amministrativo che da quello architettonico, furono gli ospedali toscani, e in particolare quello senese e quello fiorentino, ai quali si rifanno esplicitamente e ripetutamente i documenti e le bolle pontificie per l’approvazione delle nuove istituzioni centralizzate

lombarde che si volevano «ad instar florentinensis et senensis hospitalium». Il ducato di Milano costituí un ambiente privilegiato per la messa a punto di tali trasformazioni. I problemi affrontati furono dunque quello della centralizzazione dell’amministrazione che venne affidata a un capitolo di soli laici; quello conseguente di una piú accentuata laicizzazione delle strutture ospedaliere (anche se, a tale proposito, ogni istituzione aveva le sue caratteristiche peculiari non generalizzabili), e quello della necessità di una loro crescente medicalizzazione (nel senso dell’assunzione di personale medico fisso e retribuito). Una delle novità principali di tale processo è da ravvisare nella collegialità della direzione delle nuove istituzioni ospedaliere, in precedenza sottoposte a un unico rettore, fatto che consentí l’intervento diretto nella gestione degli enti caritativoassistenziali degli esponenti delle principali famiglie cittadine che ne fecero un mezzo per ampliare le proprie clientele e un trampolino di lancio verso vantaggi e privilegi di

ogni tipo. Tutto questo aveva talvolta come esito pratiche ambigue: elemosine, doti, ricoveri, sussidi agli infanti venivano decisi in base alla segnalazione di persone influenti, spesso appartenenti alla corte ducale. Per Milano il cardine di tale processo è costituito dall’edificazione dell’Ospedale Maggiore, fondato nel 1456 da Francesco Sforza affidandone la costruzione all’architetto toscano Antonio Averlino detto il Filarete, che ne realizzò il progetto a struttura cruciforme e il cortile principale in cui fuse i modelli costruttivi della sua terra con la tradizione della scultura in cotto, tipica dell’area lombarda. Alla nuova fondazione faceva capo lo smistamento di tutti coloro che dovevano essere ricoverati nelle strutture assistenziali milanesi: un medico dell’ospedale Maggiore era infatti incaricato di visitare i malati poveri e di destinarli, in base alla patologia diagnosticata, ai vari centri ospedalieri della città, ai quali venivano indirizzati in particolare gli infermi cronici. Il numero dei ricoverati superava

Milano. Il chiostro dell’Ospedale Maggiore, detto anche Ca’ Granda, fondato nel 1456 per iniziativa di Francesco Sforza.

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complessivamente le 2000 unità, oltre a un migliaio di bambini abbandonati. Il capitolo dell’Ospedale filaretiano gestiva al tempo stesso anche tutti gli altri principali ospedali cittadini, e nella nomina dei suoi rappresentanti rivestiva un peso preponderante l’autorità ducale, che interferiva cosí pesantemente nelle decisioni e nell’indirizzo della politica dell’ente assistenziale, e degli altri ospedali da esso amministrati, nonostante il formale rispetto dell’autorità religiosa da cui lo Sforza ostentava di dipendere. Quest’ingerenza costituí non di rado motivo di attrito con la Curia romana. Un piú marcato intervento delle comunità cittadine nel caldeggiare la riforma e la centralizzazione ospedaliera si riscontrò negli altri centri del ducato sforzesco, dove furono i ceti dirigenti locali a prendervi parte attiva, spinti da un pauperismo crescente che le vecchie istituzioni non riuscivano piú a fronteggiare né a controllare. A Piacenza, per esempio, fu proprio il consiglio cittadino a farsi promotore

del movimento che sfociò nella riforma: nel 1467, in seguito alle lamentele di molti per il cattivo funzionamento degli ospedali, venne nominata una commissione per chiedere al vescovo di porvi rimedio. Ugualmente a Pavia, nello stesso periodo, i cittadini furono artefici in prima persona della fondazione di un nuovo «ospedale grande», amministrato da una confraternita di laici, e che «accogliesse i pellegrini e i poveri, si prendesse cura degli ammalati, allevasse e nutrisse i bambini abbandonati». In quest’ambito si fece dunque strada l’idea di ospedale come luogo di ricovero in cui poveri e malati fossero accolti e accuditi da personale salariato (tra cui anche i medici, oltre a inservienti e a uno svariato numero di erogatori dei servizi piú diversi), organizzato e controllato da un consistente numero di amministratori, dediti a una razionale e oculata gestione dei beni e delle risorse dell’istituzione e incaricati di provvedere al funzionamento della struttura stessa.

ze. Tra loro c’erano gli addetti al «Pellegrinaio» (che a Siena accudivano i viaggiatori, i poveri e gli ammalati ricoverati al S. Maria della Scala), i cuochi, le lavandaie, i manovali assunti per la manutenzione degli edifici, i trasportatori, gli addetti alle stalle e i salariati agricoli incaricati della coltivazione delle terre dell’ente. Buona parte di questi lavoratori veniva reclutata in una fascia di sbandati che facevano capo all’ospedale per sopravvivere Dipendenti delle istituzioni assistenziali erano anche i medici: il S. Maria della Scala metteva a disposizione degli infermi un «fisico», un chirurgo e uno speziale, scelti tra i frati dell’ospedale stesso o designati dal Rettore e retribuiti con «convenevoli salarii». Oltre a questi professionisti fissi, in caso di necessità l’ente poteva ricorrere anche ad altre prestazioni occasionali. Non è chiaro però se i medici adottassero una gamma unica di tariffe o se ciascuno avesse un suo particolare onorario.

Una testimonianza significativa

Tra i salariati degli ospedali si possono annoverare infine le balie, alle quali venivano affidati i trovatelli fino allo svezzamento (3 anni circa) e talvolta anche per periodi piú lunghi. Si preferivano quelle di campagna perché avevano pretese economiche inferiori e piú tempo per i neonati, soprattutto durante l’inverno, quando erano libere dal lavoro nei campi. I loro compensi, sebbene alquanto modesti, erano comunque in grado di contribuire al reddito familiare, e passibili di incrementi notevoli in periodi di loro carenza: negli ultimissimi anni del Trecento e nei primi del Quattrocento, in seguito alla pestilenza che aveva colpito Firenze, le balie dipendenti dall’Ospedale di S. Gallo furono in grado di chiedere retribuzioni notevolmente piú alte. Il prodotto finale di tutta questa complessa evoluzione delle strutture, delle forme gestionali e organizzative, dell’amministrazione, della tipologia dei finanziamenti, che aveva caratterizzato, con modalità e tempi diversi, gli ospedali della Penisola tra il XIII e il XV secolo, riscosse un tale successo da essere frequentemente elogiato ed esaltato, quale modello di efficienza e di funzionalità, da insigni personaggi d’Oltralpe tra la fine del Quattrocento e il Cinquecento. Martin Lutero, ricordando l’accoglienza ricevuta all’ospedale fiorentino di S. Maria Nuova nel 1510-11, affermava: «gli ospedali sono provvisti di tutto ciò che è necessario, sono ben costruiti, vi si mangia e beve bene e vi si è serviti con sollecitudine; i medici sono abili, i letti e la mobilia puliti e ben tenuti». MEDICINA

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Storia di una scienza

IL MAGNIFICO E UN MEDICO SFORTUNATO Ritratto di Lorenzo de’ Medici, olio su tavola di Peter Paul Rubens. 1612-1616. Anversa, Museum Plantin-Moretus. Nella pagina accanto il medico Pietro Leoni in una xilografia di Tobias Stimmer. 1589. Londra, Wellcome Collection.


Per tutto il Medioevo, quando un paziente importante moriva, per il medico che lo aveva avuto in cura spesso si apriva un triste capitolo: accusato di malasanità da parenti e amici del defunto, era sospettato delle piú terribili nefandezze. Emblematica la tragica storia di Pier Leoni da Spoleto, professionista di gran fama che aveva insegnato a Pisa, a Padova e a Roma, medico curante di Lorenzo de’ Medici, che fu affetto durante la sua breve vita da molti mali, tra cui gotta e calcoli renali. Piú che appropriate le cure prescritte da Pier Leoni all’illustre paziente, consistenti nel bere acque di varie fonti salutari; un suo collega, invece, in linea con le terapie dell’epoca, per prevenire gli attacchi di gotta aveva consigliato di montare su un anello d’oro una pietra detta «elitropia», a cui si attribuivano poteri terapeutici. Quando, però, agli inizi del 1492, Lorenzo si era seriamente ammalato, Pier Leoni, che aveva in grande considerazione l’astrologia, studiando i corpi celesti aveva dedotto che la malattia sarebbe presto guarita spontaneamente e, quindi, sottovalutatane la gravità, non si era impegnato piú di tanto nella cura. Poiché le condizioni di Lorenzo peggioravano, fu chiamato Lazzaro di Dattilo, professore a Pavia, del quale non ci sono pervenute notizie biografiche. Questi, giunto al capezzale di Lorenzo, dichiarò che era stato mal curato dal medico precedente e oramai c’era ben poco da fare: propose, tuttavia, un rimedio portentoso per tentare l’impossibile. Lorenzo, per quanto giacesse nel letto defedato, era ancora lucido e la speranza non lo aveva abbandonato, tanto che ebbe la forza di chiedere notizie sulla nuova cura al fedele amico Poliziano, che gli era accanto. Qualunque fosse la malattia che affliggeva il Magnifico, col senno di poi possiamo affermare che egli in nessun caso avrebbe potuto beneficiare della terapia di Maestro Lazzaro, basata sulla somministrazione di pietre preziose polverizzate. In breve Lorenzo morí, qualcuno insinuò che fosse stato avvelenato da Pier Leoni su mandato di Ludovico il Moro, ma la voce non ebbe molto credito, perché nonostante tutto il medico di Spoleto aveva molti estimatori e difensori. Aspramente rimproverato di non aver fatto tutto il possibile, essendosi fidato del responso favorevole degli astri, Pier Leoni ritenne saggio allontanarsi e riparare in un’altra villa nei dintorni di Firenze dove, il giorno dopo, fu ritrovato morto

in un pozzo. Fu ucciso da qualcuno desideroso di accattivarsi la riconoscenza del figlio Piero o fu suicidio? E se fu suicidio, quali i moventi? Forse la paura della vendetta della potente famiglia de’ Medici, o la consapevolezza che la sua fama di medico era andata distrutta, o peggio ancora la delusione che l’astrologia, da lui tenuta in cosí grande considerazione, si era rivelata fallace? La tragica morte ebbe vasta eco in tutta Italia e da Napoli Jacopo Sannazaro scrisse un’elegia in difesa dello sfortunato medico, in cui narrò che apparsogli in sogno, Pier Leoni aveva recisamente negato di essersi tolto la vita: «E se del morir mio l’infamia io porto, / sappi che pur da me non fu’l difetto; / ché, mal mio grado, io fui sospinto e morto / nel fondo del gran pozzo orrendo e cupo». Francesco Sorrentino

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Speziali e farmacie


Qui si vende la buona salute Parallelamente allo sviluppo della scienza medica, città grandi e piccole si popolarono di un genere assai particolare di botteghe, nelle quali operavano gli speziali. Che dai loro mortai traevano preparati venduti come rimedi infallibili (o quasi...) per ogni tipo di malanno di Maria Paola Zanoboni

L’

attività di uno speziale costituiva un vero e proprio universo, molto piú articolato e complesso di qualsiasi altra attività artigianale o commerciale del Medioevo. Imprenditore, artigiano e mercante contemporaneamente, lo speziale praticava la compravendita di svariati prodotti e materie prime, affiancando alla cultura e all’esperienza tecnica nella pratica farmaceutica, la conoscenza delle altrettanto complesse pratiche mercantili. La sua figura faceva da tramite tra la scienza popolare, basata su nozioni pratiche – ma infarcita anche di credenze e superstizioni –, e i saperi della scienza medica. Sul piano del prestigio sociale, la professione dello speziale può essere considerata intermedia tra occupazioni intellettuali, quali quelle del medico o del notaio, e attività legate al commercio e all’artigianato. Pur non richiedendo, infatti, un elitario corso di studi universitari, ma soltanto alcuni anni di apprendistato in bottega, l’esercizio dell’attività implicava un vasto patrimonio di conoscenze e una professionalità che godeva ovunque di un notevole riconoscimento, sia sociale che giuridico. Dal punto di vista

Miniatura raffigurante l’interno di una farmacia, da un’edizione del Canone redatto dal filosofo, medico e letterato persiano Avicenna. 1438. Bologna, Biblioteca Universitaria.


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Speziali e farmacie


Sulle due pagine miniatura raffigurante un medico che, in un erbario, seleziona piante utili alla preparazione di farmaci, da una edizione del Roman de la Rose. 1400 circa. Gli erbolai erano fornitori abituali degli speziali, che, spesso, si dotavano di un proprio appezzamento di terra per la coltivazione delle specie utili alle loro preparazioni. In basso illustrazione raffigurante una pianta di cannella, da una traduzione in arabo del De materia medica, trattato scritto dal medico e naturalista greco Pedanio Dioscoride, attivo nel I sec. XI sec. Leida, Biblioteca Universitaria.

deontologico gli speziali erano equiparati ai medici: a Firenze, in particolare, facevano parte della medesima corporazione che rappresentava anche una delle Arti Maggiori della città. I precedenti storici in materia di legislazione farmaceutica trovano una matrice comune nell’Ordinanza medicinale emanata da Federico II intorno al 1240. Il provvedimento federiciano non fu comunque il primo testo legislativo in proposito: probabilmente, infatti, l’imperatore si rifece agli statuti di Arles, compilati fra il 1162 e il 1202. Conformandosi in misura maggiore o minore a queste disposizioni, dalla seconda metà del XIII secolo gli statuti degli speziali di tutte le città della Penisola prescrivevano l’obbligo di iscrizione alla corporazione per tutti coloro che maneggiavano spezie e confezionavano medicinali, proibendo al tempo stesso a chiunque di tenere in casa materie prime atte a realizzare medicamenti, con l’eccezione dei mercanti che importavano e rivendevano all’ingrosso le singole materie prime. Della corporazione degli speziali potevano far parte, in modo diverso a seconda della città, anche artefici minori, come i ceraioli e i fabbricanti di candele, i droghieri, i produttori di dolciumi e confetti. A Firenze, invece, i farmacisti costituivano il membro minore della potente corporazione dei medici e degli speziali.

Un lungo tirocinio

L’iscrizione all’albo professionale comportava sempre alcuni anni di tirocinio, variabili a seconda della città, l’approvazione dei maestri dell’Arte – che a volte diventava un vero e proprio esame –, il giuramento di esercitare la professione bene e lealmente, il pagamento della tassa alla corporazione. Ottenuta l’idoneità a esercitare, il nuovo farmacista veniva dotato di un marchio con cui doveva sigillare i prodotti che uscivano dalla sua bottega, in modo che ne fosse facilmente rintracciabile la provenienza e accertabile la responsabilità in caso di problemi. Quella dello speziale era un’attività alquanto articolata, comprendente un’ampia gamma di operatori commerciali, che andava dai rivenditori piú modesti ai grandi mercanti importatori di materie prime ed erogatori di prestiti. A Firenze nel Tre/Quattrocento gli speziali rappresentavano una categoria moderatamente abbiente, con un tenore di vita superiore a (segue a p. 120) MEDICINA

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RACCOGLIERE, PREPARARE, GUADAGNARE

I CONTI IN TASCA AGLI SPEZIALI L’esercizio della pratica farmaceutica richiedeva un cospicuo bagaglio di conoscenze tecniche, dal momento che spesso lo speziale coltivava e raccoglieva in prima persona gli ingredienti necessari alla composizione dei medicamenti, intervenendo poi nelle molteplici operazioni di lavorazione. Nella raccolta delle erbe i farmacisti avevano come validi collaboratori gli erbolai, che cercavano i vegetali particolarmente ricchi di principi attivi oppure li coltivavano in appositi orti, e i serpari, che cercavano le vipere e le vendevano agli speziali, i quali ne utilizzavano la parte centrale per preparare ricostituenti e impiastri. Gli speziali particolarmente benestanti (è il caso, per esempio, di un farmacista romano della seconda metà del Quattrocento) coltivavano nei propri poderi le erbe medicamentose, e talvolta si dedicavano anche all’apicoltura, cosí da poter disporre

sia del miele, ingrediente importante di molte medicine, sia della cera, utilizzata dai farmacisti per i «cerotti», e anche per fabbricare candele e fiaccole, della cui produzione detenevano il monopolio. Per gli speziali romani, naturalmente, la lavorazione della cera era un vero e proprio business, piú che in altre città, dato il gran numero di cerimonie solenni, feste religiose e banchetti che richiedevano un’imponente illuminazione. Accanto alla produzione diretta da parte di alcuni farmacisti, altre volte, in occasione di cerimonie particolari, era la spezieria pontificia a fare incetta di cera e a distribuirla poi agli speziali perché la lavorassero. Sempre a Roma, nel XV secolo, le farmacie piú attrezzate e specializzate

Due albarelli (vasi da farmacia o per spezie) di manifattura senese. 1500-1550. Siena, S. Maria della Scala.

rifornivano dei propri prodotti le botteghe piú piccole, pratica invece espressamente vietata dagli statuti degli speziali di altre città (Siena, per esempio), preoccupati di poter identificare facilmente chi aveva confezionato un determinato prodotto, e di evitare quindi che i medicamenti passassero di mano in mano, perdendo le tracce del produttore e col rischio che si adulterassero. Solo nelle botteghe piú importanti, situate nei rioni cittadini piú ricchi, si effettuavano la lavorazione e la vendita delle spezie, prodotti di grande valore, importate dall’Oriente dai grandi mercanti, e che solo i farmacisti piú affermati e abbienti erano in grado di acquistare. La maggior parte delle spezierie, invece, si dedicava a un commercio di


minore entità, trattando generi di tipologia svariata. Soprattutto tra la fine del Quattrocento e il secolo successivo queste botteghe potevano trasformarsi in laboratori di pasticceria per la preparazione di confetti, panpepati, mostarde e marzapani, in occasione di nozze, battesimi, o banchetti: a Siena la revisione statutaria del 1509 consentiva appunto agli speziali di lavorare nei giorni festivi per «servire a baptesimi, noze o collationi». E ugualmente a Roma le svariate occasioni offerte dai banchetti ufficiali del papa, procuravano continuamente ai maggiori farmacisti cittadini commissioni di questo tipo, per ottemperare alle quali erano dotati di un’attrezzatura specifica, costituita da stampi per confetti di varia tipologia,

marmo per pinolata, forme di piombo per cotognata, oltre all’attrezzatura per lavorare la cera e confezionare torce di varie forme e dimensioni. Per quanto riguarda il funzionamento della bottega, lo speziale poteva avere capitali propri, derivanti magari dalla gestione di proprietà terriere, oppure farsi finanziare da un socio che svolgeva la stessa o un’altra attività. Aveva alle dipendenze alcuni aiutanti (apprendisti o salariati), il cui numero variava a seconda delle dimensioni dell’esercizio commerciale, e si preoccupava in prima persona di aggiornarsi, assumendo maestri, spesso stranieri, affinché gli insegnassero le novità farmaceutiche piú esotiche. È il caso di uno speziale romano che, nel 1480, prese alle proprie dipendenze un maestro spagnolo (di

Valencia), perché gli tenesse un corso di perfezionamento insegnandogli le tecniche produttive della «polvere di Cipro» e di altri prodotti di bellezza. Quest’ultimo era un settore in espansione, soprattutto nella Roma del XIV-XV secolo, al punto che l’autorità pontificia dovette emanare disposizioni per porre un freno all’uso sempre piú dilagante di tali prodotti presso l’alto clero.

Miniatura raffigurante un medico (al centro), tra uno speziale che pesta nel mortaio un preparato e un erbolaio che raccoglie piante officinali, da un’edizione de L’antidotaire di Bernard de Gordone. 1461. Parigi, Bibliothèque nationale de France. MEDICINA

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RACCOGLIERE, PREPARARE, GUADAGNARE

DIVERSIFICARE PER ARRICCHIRSI Gli speziali piú importanti si occupavano anche del commercio all’ingrosso di materie prime molto pregiate e costose, che andavano dalle spezie vere e proprie (pepe, zenzero, cannella, chiodi di garofano, zafferano, anice, zucchero, rabarbaro, legno di sandalo, aloe, ambra, incenso), e dagli altri ingredienti per le medicine (ammoniaca, arsenico), ai coloranti (robbia, gomma arabica, «sangue di drago» [prodotto resinoso che si ottiene dai frutti del Calamus draco e di altre specie congeneri, palme rampicanti che crescono nelle foreste delle isole della Sonda, delle Molucche e della penisola di Malacca, n.d.r.]) e ai loro fissativi (allume), alle pietre e ai metalli preziosi. Nel 1456, quando venne allestita la flotta per la crociata contro i Turchi che avevano conquistato Costantinopoli, alcuni speziali romani rifornirono l’Arsenale di spugna, pece, sapone e zolfo. Ugualmente, nel 1460, furono ancora due aromatari a fornire la foglia d’oro e i colori necessari ad affrescare il Palazzo Apostolico. Negli anni Sessanta/Settanta del Quattrocento uno speziale aretino trapiantato a Venezia esportava nel Levante vetrerie di Murano prodotte nella celebre manifattura dei Barovier (canne colorate, specchietti, calici dorati, smalti, cristalli), stoffe lombarde e venete, metalli e oggetti di basso costo provenienti d’Oltralpe (aghi, ditali, fibbie). In direzione opposta importava dalla Siria spezie, pietre preziose, articoli esotici e cotone per vendere queste merci al dettaglio o riesportarle in Catalogna. Vendeva partite di cotone ai mercanti tedeschi dai quali acquistava occhiali in legno o in osso che esportava a Damasco. Molti farmacisti già nel Trecento e ancor piú nel Quattrocento, svolgevano anche l’attività creditizia, sia in modo «informale», con prestiti dissimulati dietro l’apparente acquisto di un immobile, sia in modo palese, come attività collaterale, tenendo banchi di prestito e arrivando ad accedere alle massime cariche della corporazione dei «campsores», come avvenne a Roma per uno speziale-banchiere della metà del Quattrocento. Concedevano poi piccole sovvenzioni per le necessità quotidiane e anticipavano le medicine ai clienti ritenuti solvibili, anche se la cosa non era poi cosí scontata, soprattutto nel caso della nobiltà e delle corti principesche. Le spese per il medico e le medicine, del resto, gravavano in modo pesantissimo soprattutto sui ceti medio-bassi, come viene spesso ricordato nei testamenti e l’aiuto di un parente stretto si rivelava in questi casi indispensabile a onorare il debito con il farmacista. Proprio per l’elevato costo delle cure, i contratti di apprendistato prevedevano quasi sempre che le spese per il medico e le medicine fossero a carico del padre del discepolo, anziché del maestro, che si limitava a farsi carico di vitto e alloggio.

Affresco raffigurante un farmacista nella sua bottega. L’opera viene tradizionalmente attribuita a un artista noto come Colin (e che talvolta si firma Magister Collinus). Fine del XV-inizi del XVI sec. Issogne (Aosta), Castello.


LOTTA AI MOROSI La difficoltà di ottenere il denaro loro dovuto per le medicine rappresentava per i farmacisti un problema endemico, ma a Roma, in particolare, era una piaga dilagante e un malcostume diffuso non tanto tra i meno abbienti, che avevano oggettive difficoltà a pagare, quanto piuttosto tra i nobili e l’alto clero. Gli statuti degli speziali romani emanati alla fine del Quattrocento (1473 e 1487), a differenza e molto piú di quelli di altre città, erano rivolti infatti a tutelare gli aderenti alla corporazione nelle controversie che potevano sorgere con i clienti. Quelli del 1473, in particolare, cercavano di tutelare gli interessi dei farmacisti nei confronti dei debitori fuggiti o in procinto di fuggire, e decretavano inoltre che nel caso in cui un convento, un nobile, o chiunque altro avesse contratto un debito con uno speziale rifiutandosi poi di onorarlo, i maggiorenti della corporazione avrebbero imposto a tutti i farmacisti della città di non vendere altri medicinali al debitore insolvente finché non avesse pagato il dovuto. Se poi il cliente moroso fosse passato a miglior vita senza onorare il debito, nessuno degli speziali romani avrebbe dovuto fornire ai parenti le candele e la cera per le esequie del defunto.


LA MEDICINA NEL MEDIOEVO

Speziali e farmacie

quello della maggior parte della popolazione, anche se lontano da quello dell’élite mercantile e bancaria che dominava l’economia della città.

In cerca di un salario sicuro

La situazione poteva naturalmente variare a seconda della congiuntura e del luogo: sempre a Firenze, negli anni Ottanta del Quattrocento, l’attività subí una crisi tanto grave che alcuni speziali, progrediti alla condizione di soci da quella di lavoratori sottoposti, rimpiangevano amaramente il proprio status precedente. La situazione era dunque tale che un salario sicuro, anche se modesto, era preferibile a una quota di utili incerti, col rischio di un bilancio passivo. A Roma, invece, negli stessi anni, numerosi

speziali collegati alla curia pontificia erano anche banchieri, prestatori, commercianti all’ingrosso di preziose materie prime. Nel XIV e nel XV secolo investivano i profitti sia in terre, sia in una svariata gamma di attività collaterali: l’acquisto di taverne, botteghe, macelli; la creazione di società per il commercio dei pellami e la lavorazione del cuoio; la stipulazione di contratti di soccida (contratto agrario secondo cui le due parti, soccidante e soccidario, si associano per l’allevamento e lo sfruttamento di una certa quantità di bestiame e per l’esercizio delle attività connesse, cosí da ripartire l’accrescimento degli animali e gli altri prodotti utili che ne derivano, n.d.r.); la gestione di mulini idraulici; l’attività estrattiva, eserSulle due pagine illustrazioni tratte da un’edizione del Tacuinum sanitatis, che rispettivamente raffigurano la vendita dello zucchero (qui accanto) e l’interno di una farmacia gestita da uno speziale ebreo. Con la denominazione di Tacuinum sanitatis si indica la traduzione in latino di un manuale redatto a Baghdad per iniziativa del medico e letterato Abu al-Hasan al-Mukhtar Ibn Butlan nell’XI sec. e intitolato Taqwim al Sihha (Almanacco della salute).

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A DISPOSIZIONE SETTE GIORNI SU SETTE Una regolamentazione particolarmente precisa e puntuale caratterizzava gli statuti delle città toscane, sensibili molto piú delle altre alle esigenze degli ammalati. Il piú completo in proposito è il trecentesco Breve degli speziali di Siena (1356) con le successive modifiche quattrocentesche e dell’inizio del Cinquecento, in cui, pur nel rispetto della chiusura nei giorni festivi, erano previste deroghe volte a garantire ugualmente la fornitura delle medicine agli ammalati, fino all’istituzione, nel 1452, di 3 farmacie di turno, una per ogni terziere (la ripartizione territoriale in cui era suddivisa Siena) della città, estratte a sorte di volta in volta. La legislazione senese non si fermò qui, divenendo sempre piú articolata nella seconda metà del Quattrocento e all’inizio del Cinquecento, non tanto per volontà della corporazione degli speziali, ma soprattutto per imposizione dei consoli dei mercanti e delle autorità di governo. Si stabilí dunque che, poiché le farmacie di turno spesso non avevano i medicamenti per una determinata affezione, era lecito a qualunque speziale, su presentazione di ricetta medica (e in seguito anche semplicemente su richiesta di chiunque ne avesse bisogno), aprire e fornire le medicine ai casi urgenti. Una serie di norme tutelava anche gli stranieri di passaggio che non conoscevano la città e l’ubicazione delle botteghe, e ai quali fu dunque consentito, in caso di necessità, di rifornirsi da chiunque anche nei giorni di festa. Naturalmente queste aperture straordinarie dovevano avvenire soltanto per la vendita di medicinali, facendo entrare solo il cliente che ne aveva bisogno, e richiudendo subito la porta. A Firenze, gli statuti del 1349, che prevedevano la chiusura delle botteghe nei giorni festivi,

concedendo però di fornire medicinali agli ammalati gravi, vennero aggiornati nel 1481 con l’istituzione di quattro farmacie di turno. Lo stesso avveniva a Pontremoli (1481) dove era prevista l’estrazione a sorte di quattro botteghe di speziale (una per quartiere) aperte nei giorni festivi. Anche gli statuti degli speziali pisani (1496) prevedevano nei giorni festivi due farmacie di turno, una su ciascuna

riva dell’Arno, estratte a sorte di volta in volta. Norme come queste non si trovano, invece, nei regolamenti degli speziali di Milano (1389), né in quelli di Roma (1473 e 1487), che si limitavano a prescrivere la chiusura festiva e la vendita, a bottega chiusa, dei soli medicinali indispensabili, ma solo fino a mezzogiorno (statuti di Roma, 1473). Quelli, piú tardi, di Verona (1596) non prevedevano neppure una normativa in proposito.

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LA MEDICINA NEL MEDIOEVO citata mediante l’acquisto di quote di miniere. La pratica farmaceutica non era dunque la sola attività degli speziali e la maggior parte degli statuti corporativi cittadini, dal Trecento in poi, si preoccupava perciò di definire dettagliatamente quali fossero i loro ambiti di competenza e i prodotti sui quali essi avevano l’esclusiva di vendita, e quali invece le merci che potevano essere trattate anche da altri commercianti (definiti «pizzicagnoli» in Toscana, e «droghieri» in Lombardia).

Norme rigorose...

La corporazione degli speziali di Milano, i cui primi statuti risalgono al 1389, comprendeva, accanto ai farmacisti veri e propri, anche coloro che lavoravano la cera e i droghieri (che trattavano, tra l’altro, frutta secca, canditi e confetti). Agli speziali spettavano la produzione e la vendita in esclusiva non solo di medicine, unguenti, lassativi, acqua distillata, ma anche di cera, candele, confetti, datteri, cannella, pepe, mandorle, riso, liquirizia, zafferano, noce moscata. Particolarmente dettagliati in proposito sono i trecenteschi statuti della corporazione senese (1356) con le successive revisioni quattrocentesche, che, dopo avere proclamato l’importanza della professione per la salute umana e la necessità quindi di svolgerla col massimo rigore e precisione – che solo il costante controllo dell’organismo corporativo poteva garantire –, stabilivano in primo luogo l’obbligo tassativo di iscrizione all’Arte (accompagnato da un giuramento solenne) per chi confezionasse e maneggiasse medicinali. Erano altresí previste severe sanzioni per quei farmacisti o garzoni che, abbandonata la corporazione e non piú in possesso di una bottega propria o di riferimento, andavano a confezionare medicinali nelle case e nelle botteghe altrui, con grave pregiudizio per la qualità del prodotto, e rendendo evidentemente impossibile rintracciarne il responsabile. Dopo avere ribadito a piú riprese la necessità di una divisione delle competenze con i pizzicagnoli, sia per motivi di igiene, sia per la necessità di rispettare la scienza medica, gli statuti prescrivevano poi di controllare ogni mese le botteghe di questi ultimi per accertarsi che non tenessero alcun medicinale o merce di cui non fosse consentita loro la vendita. Un controllo mensile non meno rigoroso da parte di tre ufficiali della corporazione era previsto anche per le botteghe degli speziali, per accertarsi che tutto funzionasse secondo le regole. Nel 1423, sempre a Siena, venne stilato un 122

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Speziali e farmacie

elenco delle merci che potevano essere trattate esclusivamente dai farmacisti: oltre che spezie, erbe, pillole, medicine e cose destinate agli infermi, anche semi, confetture e composte, colori per dipingere, sapone, zolfo, riso. A loro volta, i pizzicagnoli potevano adoperare, ma non vendere, trementina, pece nera, cinabro, e verde rame, con cui coloravano la cera e lo zolfo. Entrambe le categorie potevano tenere in bottega e vendere al minuto carta per scrivere, carta da imballo, filo, «bossoli da spezie» (vasetti o barattoli per unguenti o profumi). Le disposizioni corporative di ogni città erano particolarmente preoccupate di tutelare la qualità dei prodotti, sia che si trattasse di medicinali, che di altre merci vendute dai farmacisti. Cosí si proibiva di vendere zafferano adulterato «alla maniera genovese» (statuti di Milano, 1389), cera di cattiva qualità, mescolata a grassi, oli e trementina (statuti di Pisa, 1496, e di Milano, 1389), confetture contenenti amido o riso, e soprattutto medicinali contraffatti (statuti di Siena, 1356, di Milano e di Pisa), pena aspre multe e il sequestro dei beni.

...e controlli severi

I medicinali – e soprattutto teriache, unguenti, lattovari, cerotti, sciroppi – dovevano essere confezionati secondo quanto disposto dal collegio dei fisici (cioè dei medici: statuti milanesi del 1389), o secondo quanto prescritto dai consoli degli speziali, e venire sigillati col marchio della bottega che li aveva prodotti, in modo da poter identificare facilmente chi avesse venduto medicamenti adulterati e nocivi (statuti milanesi, 1389, e statuti pisani, 1496). Per lo stesso motivo, gli statuti pisani in particolare proibivano severamente di vendere teriaca che non fosse prodotta in città, davanti ai consoli dell’Arte e con tutte le buone regole che la complessa confezione di questo medicinale richiedeva. I farmacisti pisani, come anche quelli milanesi, aborrivano soprattutto la teriaca e i prodotti (cera, candele, zafferano) provenienti da Genova, considerandoli di qualità scadente. A Firenze e a Pistoia (XIV-XV secolo) la corporazione esercitava un rigido controllo sulla qualità dei medicinali, prevedendo che «veditori» e «saggiatori» appositamente designati facessero ispezioni periodiche, testandoli e verificando al tempo stesso la condizione dei locali e delle scaffalature della farmacia. Le merci non confezionate secondo i dettati statutari venivano bruciate in pubblico, e i colpevoli condannati ad aspre multe. Persino le pere

Illustrazione raffigurante una pianta di liquirizia, pianta molto usata dagli speziali nelle loro preparazioni, da un’edizione del Tacuinum sanitatis. XV sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.


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LA MEDICINA NEL MEDIOEVO cotogne, utilizzate per confezionare la cotognata, dovevano essere pesate e pestate in presenza degli ispettori, e la lavorazione veniva rigorosamente controllata. E, naturalmente, precauzioni particolarissime venivano imposte per la produzione, l’esposizione e la vendita dei veleni, che non potevano assolutamente essere consegnati a schiavi, a servitori o a ragazzi di età inferiore ai vent’anni, né a prostitute. Potevano essere venduti soltanto dal maestro speziale o dal capo dell’officina e sempre dietro prescrizione medica.

Ispezioni periodiche

A evitare frodi miravano le norme su pesi e misure e sulla precisione delle bilance, soggette al controllo della corporazione ogni tre mesi, e adeguate alle bilance di riferimento della corporazione, a loro volta tarate su quelle del Comune (statuti di Milano, 1389). A Pisa (1496) l’Arte era dotata di funzionari appositi, i «taratori», incaricati di verificare la purezza e la buona qualità delle materie prime che i farmacisti avrebbero acquistato dai mercanti, e con cui dovevano essere confezionati i medicamenti, mentre a Roma (1473 e 1487) era prevista una periodica taratura delle bilance, e a Firenze il compito di controllarle era demandato ai revisori incaricati delle periodiche ispezioni. L’ubicazione dei locali costituenti la farmacia (di solito almeno due, uno per il laboratorio e uno per la vendita) aveva poi un’importanza notevole nel garantire la buona riuscita dei prodotti e la loro corretta conservazione. La preparazione di unguenti, sciroppi, medicinali, creme di bellezza, richiedeva infatti una particolare attenzione sia alla pulizia dei locali, sia alla loro ampiezza, luminosità e aerazione, nonché al fatto che non vi fossero nelle vicinanze esercizi commerciali inquinanti (tintorie, macellerie, concerie). Perciò alcuni statuti (tra cui quelli romani della fine del Quattrocento) prescrivevano che le botteghe fossero ubicate in ambienti adatti. 124

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Speziali e farmacie

Nella pagina accanto, in alto ancora un’illustrazione dal Tacuinum sanitatis raffigurante uno speziale con il suo garzone di bottega. XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek. In basso medaglione in maiolica smaltata raffigurante l’insegna dell’Arte dei Medici e degli Speziali, opera di Luca della Robbia, 1460 circa. Firenze, Orsanmichele.

La facoltà per i medici di gestire in proprio delle farmacie, e le società tra medici e speziali, già vietate da Federico II, e proibite durante il Trecento dai governi di molte città (Napoli, Parma, Cremona, Verona, Venezia, Pisa), vennero invece consentite a Firenze dove sia gli statuti cittadini che quelli corporativi ne permettevano la costituzione, autorizzando i farmacisti a tenere nelle loro botteghe medici per curare gli ammalati che vi si recavano, e consentendo ai dottori di gestire in proprio le spezierie. Era però vietato l’accordo tra farmacista e medico per vendere i medicinali dividendo gli incassi. Il piú antico accordo di questo tipo a Firenze risale al 1279, quando un fisico e un chirurgo si associarono per curare gli ammalati in una bottega comune e vendere le medicine. Società di questo tipo erano in ogni caso ammesse di buon grado anche in molte altre città della Toscana (Siena, Pistoia, Lucca), e dell’Emilia (Bologna, Ferrara). Gli speziali associati con un medico non potevano però curare i feriti, né somministrare farmaci senza l’autorizzazione del medico stesso. Era consentito anche agli stranieri aprire una bottega di speziale, purché si iscrivessero alla corporazione versando una tassa doppia rispetto a quella pagata dai cittadini (statuti di Milano, 1389, di Siena nella modifica della fine del Quattrocento, e di Pisa, 1496), e a Roma addirittura tripla (1473).

«Semplici» e composti

Nella pagina accanto, in basso il medico, alchimista e filosofo svizzero Paracelso (al secolo Philipp Theophrast Bombast von Hohenheim), in una incisione del 1597.

Le trattazioni medievali distinguevano i farmaci in due categorie: quelli «semplici», costituiti da erbe, polveri minerali e spezie, e quelli composti, come elettuari (o lattovari), unguenti, sciroppi e ogni medicinale composto artificialmente. Gli speziali dovevano chiedere l’intervento di un medico prima di procedere alla preparazione di qualsiasi medicinale, o, almeno, questo è quanto si desume da alcuni statuti dei collegi dei medici, mentre, nella maggior parte dei dettati statutari corporativi dei farmacisti, essi sembrerebbero dotati della piú ampia autonomia. A Novara (stando a quanto sostenevano i


IL CORPO UMANO È COME UN ALAMBICCO Tra la fine del XV e il XVI secolo, grazie anche alla scoperta del Nuovo Mondo e all’introduzione in Europa di sostanze fino a quel momento sconosciute, si verificò in ambito medico e farmaceutico una rivoluzione epocale, che portò a un cambiamento completo nella produzione di svariati tipi di medicamenti: la «medicina dei semplici», basata sull’utilizzazione e sulla combinazione delle sostanze come esistono in natura, e senza alcuna manipolazione, veniva affiancata dalla farmacologia, basata invece sul tentativo di isolare, o almeno di concentrare, il principio attivo attraverso vari procedimenti (distillazioni, infusioni, sublimazioni). In quest’epoca infatti, grazie al mecenatismo di molti signori della Penisola (e primo fra tutti quello di Cosimo I in Toscana), vennero creati orti botanici, si realizzarono laboratori in cui distillare le piante e compiere esperimenti alchemici, grazie ai quali potè nascere e diffondersi la nuova disciplina della farmacologia, ideata dal tedesco Paracelso (nella prima metà del XVI secolo), che, associando la chimica alla botanica e alle conoscenze mediche, conferiva una netta svolta alla medicina, trasformandola da scienza filosofica e descrittiva in disciplina sperimentale in cui la chimica veniva posta a fondamento delle pratiche mediche. Secondo le idee paracelsiane il corpo umano è simile a un alambicco, al cui interno avvengono continue reazioni chimiche, da contrastare, se danneggiate dalle malattie, con altrettante reazioni chimiche. I farmaci andavano perciò creati attraverso distillazioni e sublimazioni (di vegetali, ma anche di metalli e di minerali) che selezionassero soltanto i principi attivi effettivamente utili a

una determinata terapia, diversamente dalla medicina tradizionale, che utilizzava invece solo

le erbe come si trovano in natura. L’influsso della cultura e della lingua greca, favorito, verso la metà del Quattrocento, dalla fuga di molti intellettuali da Costantinopoli minacciata dai Turchi, si rivelò determinante per il rinnovamento delle discipline scientifiche dell’età rinascimentale e per il progressivo superamento dell’aristotelismo col passaggio al metodo sperimentale. E fu proprio l’apporto dei classici una delle principali caratteristiche della scienza italiana rinascimentale rispetto a quella degli altri Paesi europei: il confronto continuo di matematici, medici e naturalisti con gli autori greci e latini, affiancato dal lavoro di edizione dei testi, si intrecciò a quello di verifica dei loro contenuti su base sperimentale, dando un contributo determinante soprattutto agli studi di medicina.

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LA MEDICINA NEL MEDIOEVO medici) gli speziali erano obbligati a ottenere il consenso preliminare del collegio dei fisici per la preparazione dei farmaci complessi, e ad accettare che un medico assistesse personalmente alla confezione del preparato. Sempre secondo i dettati statutari dei medici, il controllo di questi ultimi sull’attività degli speziali talvolta giungeva persino a imporre l’obbligo per i farmacisti di tenere sempre attivo un grande orto per l’approvvigionamento costante di erbe e piante medicinali, da affidare alle cure di un erborista esperto. Questo appunto stabilivano gli statuti trecenteschi dei medici di Milano (ma non quelli degli speziali), e quelli tardo-quattrocenteschi del collegio dei medici di Novara. A Roma, invece, erano i medici a essere sottoposti alla corporazione degli speziali, secondo quanto disposto dagli statuti di questi ultimi nel 1473.

Speziali e farmacie

Vaso da farmacia per teriaca. XVII-XVIII sec. Aix-en-Provence, Musée Arbaud. Nella pagina accanto l’interno del Museo Farmacia di Roccavaldina (Messina), che custodisce una preziosa raccolta di ceramiche del XVI sec.

Ricettari illustrati

Le medicine venivano confezionate secondo le norme dettate dai numerosi ricettari che circolavano all’epoca. In particolare l’antidotario di Nicolò Salernitano era considerato nel XV secolo il testo ufficiale di farmacopea. Sul finire del Quattrocento iniziò a diffondersi anche il Nuovo ricettario composto dal Collegio dei dottori di Firenze (1498): si trattava della prima farmacopea nell’accezione moderna del termine, cioè di un codice di norme scritto per ordine delle autorità cittadine e da esse vidimato, che elencava i medicamenti da

QUELLA MATERIA DISGUSTOSA, MA «INTELLIGENTE»... La teriaca era un elettuario aromatico-eccitante che doveva la sua fama alla virtú narcotica dell’oppio e, quindi, al «rito» della sua fabbricazione intervenivano medici e pubblici ufficiali. Era considerato un antiveleno e per questo, a Roma e a Venezia nel Cinquecento, lo si preparava durante una cerimonia pubblica in presenza del Collegio dei Fisici, dei Priori degli Speziali e del Magistrato della Sanità. I suoi componenti dovevano essere esposti per tre giorni in modo che chiunque potesse vederli: a Venezia erbe, cortecce, fiori e radici erano confezionati con eleganti nastri di seta colorati, mentre resine, gomme, balsami e oppio venivano esposti in

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preziosi vasi di vetro di Murano. Nel «medicinale» entravano anche le vipere, che venivano debitamente mostrate chiuse in gabbie di ferro. L’esposizione comprendeva infine le grandi caldaie in cui cuocere il miele nel quale venivano versati tutti gli altri ingredienti. Facchini con berretti adorni di piume o di fiori di carta, debitamente istruiti svolgevano le varie operazioni. Questa disgustosa pozione, secondo le credenze dell’epoca, avrebbe rappresentato una materia per cosí dire «intelligente» capace di attirare a sé

come un magnete la malattia, assorbendola per «affinità». Il «farmaco» avrebbe agito estraendo dal corpo i fluidi corrotti che vi circolavano. Della teriaca esistevano numerose varianti, tra cui quella di Galeno che su di essa scrisse ben due trattati.


I PRODOTTI PIÚ VENDUTI Ecco alcuni tra le medicine e i rimedi medicamentosi piú citati negli inventari medievali: capacità adesiva; si applicavano caldi sulla CEROTTI forme farmaceutiche per uso esterno superficie corporea da trattare; costituite da olio e da cera; COLLIRI forme farmaceutiche destinate alla cura ELETTUARI polveri di vario genere a cui venivano degli occhi e delle palpebre: si (o lattovari) aggiunti sciroppo o miele; distinguevano in colliri solidi (polveri EMPIASTRI medicamenti per uso esterno, costituiti da insufflate negli occhi attraverso un piccolo sapone di piombo e da altre sostanze tubo), molli (o pomate oftalmiche) e liquidi; terapeuticamente attive; fragili a «CONSERVE» fiori, semi, frutti, radici e simili canditi con temperatura ambiente, si ammorbidivano o «conditi» miele o zucchero. col calore, acquisendo resistenza e

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LA MEDICINA NEL MEDIOEVO tenere nelle farmacie e il modo di prepararli. In volgare e corredato di illustrazioni, era finalizzato a por fine alla confusione e all’approssimazione nella preparazione delle medicine, causati dall’eccessivo numero di ricettari in circolazione. A Firenze infatti queste compilazioni erano numerosissime, ma si trattava sempre di raccolte private, non ufficializzate dall’autorità pubblica. La nuova farmacopea, invece, venne redatta dal collegio medico di Firenze su istanza dei consoli dell’Arte, per uniformare le molte raccolte di ricette allora in uso, e per evitare gli inconvenienti e i pericoli che potevano derivare da un cattivo dosaggio dei componenti del farmaco, o da una sua cattiva conservazione.

Speziali e farmacie

Dipinto raffigurante un aspirante farmacista che sostiene l’esame per potersi avviare alla professione. Scuola francese, XVIII sec. Parigi, Biblioteca della Facoltà di Farmacia.

Ogni mese ha le sue piante

L’opera, che tutti gli speziali avrebbero dovuto possedere e i medici tener presente nelle prescrizioni, si divideva in tre parti: nella prima si dettavano norme generali sull’ubicazione della farmacia (lontana dal sole, dal vento, dalla polvere e dall’umidità) e sui libri di cui doveva essere fornita (un dizionario botanico e due trattati sulla preparazione delle erbe). Erano poi indicati mese per mese le erbe, i fiori, i semi e le cortecce che lo speziale doveva raccogliere; le norme per la conservazione dei «semplici», dei grassi, degli elettuari, degli sciroppi, dei canditi, e per distinguere le merci buone da quelle contraffatte o adulterate; l’elenco delle materie prime (i «semplici») da tenere in farmacia, tra cui figuravano cera, miele, liquirizia, assenzio, oppio, colla di pesce, gomma, semi di dattero, noccioli di ciliegie, amarene e pesche, avorio, dente di lupo, corno, osso, perle, coralli, antimonio, zolfo, allume, bolo armeno, vetriolo, ocra, arsenico. Venivano poi date indicazioni sulla composizione degli elettuari, cioè dei farmaci «ex electis rebus confectis», ovvero frutto della combinazione di diverse e determinate materie prime (= «semplici»), degli sciroppi, delle pillole, dei colliri, degli unguenti, degli empiastri, consentendo di realizzare, oltre alle medicine esplicitamente indicate, anche quelle che fossero state ideate dal medico che le prescriveva. L’ultima parte della farmacopea fiorentina dava ricchissime informazioni sulla preparazione, sul lavaggio e sul dosaggio delle spezie nella confezione dei medicamenti, nonché sulla soluzione di numerosi problemi di pratica farmaceutica. Tra le spezie piú utilizzate che gli operatori del settore dovevano sempre tenere in bottega c’erano il pepe e la cannella, quest’ultima impie128

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gata sia per aromatizzare i cibi, sia come medicina, prevalentemente per i disturbi gastrici. Proveniente dalla Cina, dall’India e dall’isola di Ceylon, la si otteneva dalle foglie triturate di un vegetale, il cinnamomo, oppure dalla sua corteccia. Molto usati erano anche la canfora (sempre ottenuta da un vegetale), i chiodi di garofa-


no, la noce moscata, lo zafferano (prodotto anche in Toscana, nelle Marche e in Abruzzo) e lo zenzero, proveniente dall’India e dalla Cina, e dal quale gli speziali ricavavano conserve e, con l’aggiunta di altri ingredienti, un medicinale oppiato. Lo si utilizzava poi ampiamente nella preparazione di vini aromatici.

Come eccipiente per rendere piú appetibili la maggior parte delle medicine si impiegava lo zucchero, di cui le farmacie erano sempre abbondantemente provviste. Tra le materie medicamentose principali figurava poi l’olio d’oliva, usato come eccipiente, come medicinale e come rimedio principale nella cura delle ferite. MEDICINA

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VO MEDIO E Dossier n. 57 (luglio/agosto 2023) Registrazione al Tribunale di Milano n. 233 dell’11/04/2007

Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Angelo Poliziano, 76 – 00184 Roma tel. 06 86932068 - e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (Ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Alessia Pozzato Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it Gli autori Andrea Barlucchi è ricercatore e professore aggregato di storia medievale presso l’Università di Siena, sede in Arezzo. Francesco Colotta è giornalista. Claudio Corvino è antropologo. Chiara Crisciani è professoressa ordinaria di storia della filosofia medievale all’Università degli Studi di Pavia. Giovanni Ferrari è storico. Donatella Lippi è professoressa ordinaria di storia della medicina all’Università degli Studi di Firenze. Laura Prosperi è studiosa di storia e antropologia dell’alimentazione. Maria Paola Zanoboni è dottore di ricerca in storia medievale e cultore della materia presso l’Università degli Studi di Milano. Illustrazioni e immagini Mondadori Portfolio: Album/Fine Art Images: copertina (e pp. 24/25); Erich Lessing/K&K Archive: pp. 8/9, 16; Album/Prisma: p. 10; Fototeca Gilardi: pp. 12, 14, 21, 88/89, 90-91; Album/Collection NB/Kharbine-Tapabor: p. 13; Album/British Library: p. 15; Album/Jean Vigne/Kharbine-Tapabor: pp. 18-19; Album: p. 20; Album/ Collection Jonas/Kharbine-Tapabor: p. 57 (alto); Fine Art Images/Heritage Images: pp. 76/77; Marco Ravenna: pp. 84/85; AKG Images: p. 86 – Shutterstock: pp. 6/7, 50/51 – Doc. red.: pp. 11, 17, 22, 23, 27, 28, 30-37, 38/39, 41, 42-49, 52-55, 56, 57 (basso), 58-75, 79, 80, 82-83, 87, 89, 92-109, 110, 112-129 – National Gallery of Art, Washington: pp. 22/23 – Bayerische Staatsbibliothek, Monaco di Baviera: p. 78 – Wellcome Collection, Londra: p. 111 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 38, 40.

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Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

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