PA AL IT TR LA IN IM SC E ON O R IO PER AR M TA I ED D IEV EL AL E
MEDIOEVO DOSSIER
EDIO VO M E Dossier
CAPOLAVORI DELL’ ITALIA MEDIEVALE N°21 Luglio 2017 Rivista Bimestrale
CAPOLAVORI DELL’ITALIA MEDIEVALE
€ 7,90
Dai Longobardi a Piero della Francesca, nuovi itinerari alla scoperta di un patrimonio millenario
♦ CASTELSEPRIO SANTA MARIA FORIS PORTAS ♦ MONZA CAPPELLA DI TEODOLINDA ♦ PADOVA PALAZZO DELLA RAGIONE ♦ PARMA BATTISTERO ♦ FIRENZE CAPPELLA DEI MAGI ♦ AREZZO LE STORIE DELLA VERA CROCE ♦ PERUGIA FONTANA MAGGIORE ♦ ROMA BASILICA DI SANTA PRASSEDE ♦ ANDRIA CASTEL DEL MONTE
IN EDICOLA IL 20 GIUGNO 2017 My Way Media Srl - Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c.1, LO/MI.
CAPOLAVORI DELL’ ITALIA MEDIEVALE testi di Chiara Mercuri, Elena Percivaldi e Furio Cappelli 6 Presentazione Nove gioielli 8 Castelseprio (Varese) S. Maria foris portas 22 Monza Cappella di Teodolinda 38 Padova Palazzo della Ragione 50 Parma Battistero 64 Firenze Cappella dei Magi 78 Arezzo Le Storie della Vera Croce 92 Perugia Fontana Maggiore 104 Roma Basilica di S. Prassede 118 Andria Castel del Monte
Nove gioielli L’
infanzia di Cristo, narrata da un vangelo apocrifo e riprodotta con colori attenuati dal tempo sulle pareti di una chiesetta riscoperta casualmente solo nel 1944; un palazzo che, ricorrendo ad ardite soluzioni tecniche e formali, celebra l’autonomia, l’orgoglio e l’intraprendenza di una città comunale; il ricordo di un’antica favola indiana, appresa e nuovamente narrata attraverso il geniale linguaggio scultoreo di un artista vissuto a cavallo tra XII e XIII secolo… Sono solo alcune delle mille suggestioni incontrate lungo l’itinerario che proponiamo ai nostri lettori con questa nuova raccolta di nove, eccellenti luoghi della memoria storicoartistica medievale. Riprendiamo, così, il discorso avviato con la pubblicazione - nella primavera dello scorso anno - di una prima guida ai monumenti del nostro Medioevo («I grandi monumenti dell’Italia Medievale», Medioevo Dossier, marzo 2016): come in quel caso, la partenza – obbligata - è dal nord del Paese, ma questa volta ci siamo spinti fino a Roma e, ancora oltre, alle terre di Puglia. Ci piace immaginare che, durante l’estate (o anche nei mesi autunnali e invernali che seguiranno), alcuni dei nove gioielli potranno essere riscoperti dai nostri lettori, guidati e «illuminati» proprio dalla lettura delle pagine di questa monografia. Perché, come ricordava già Johann Wolfgang Goethe, «si vede solo quello che si sa. O meglio: si riconosce solo quello che già conosciamo e comprendiamo». Buona lettura e buona visita. Andreas M. Steiner
Monza, Duomo, cappella di Teodolinda. Un particolare delle Storie di Teodolinda, affrescate dagli Zavattari. Il grandioso ciclo venne realizzato in due fasi, tra il 1440 e il 1446. MEDIOEVO IN GUERRA
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I colori di Castelseprio A sinistra una veduta della chiesetta di S. Maria foris portas, presso Castelseprio (Varese). Edificato a partire dal V sec. e affrescato tra il VI e il IX sec., l’edificio sacro venne abbandonato nel XVII sec. e riscoperto dallo storico Gian Piero Bognetti nel 1944.
di Elena Percivaldi
La piccola chiesa di S. Maria foris portas venne casualmente riscoperta nel 1944. Emerse cosí uno dei piú insigni cicli pittorici dell’Alto Medioevo. Di cui tuttora, però, si ignorano la data certa di realizzazione e il nome del loro geniale artefice
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utto ebbe inizio il 7 maggio 1944, quando lo storico Gian Piero Bognetti (1902-1963) si imbattè in una chiesetta quasi inghiottita dal bosco, fuori dal borgo di Castelseprio, a una quindicina di chilometri da Varese. Il grande studioso, che già conosceva la zona avendo pubblicato nel 1930 un saggio sulle rovine del noto castrum, stava eseguendo un sopralluogo insieme agli altri membri del comitato scientifico che si occupava della redazione della monumentale Storia di Milano edita dalla Treccani. La chiesa era in rovina, ma celava un tesoro inestimabile: uno dei principali cicli pittorici dell’Alto Medioevo italiano, miracolosamente sopravvissuto alle vicissitudini del tempo. Gli affreschi rappresentano alcune scene dell’Infanzia di Cristo ispirate ai Vangeli apocrifi, in particolare al Protovangelo di Giacomo, composto in greco intorno alla metà del II secolo e ricco di episodi improntati al gusto per il
Il Viaggio a Betlemme, uno degli episodi affrescati nella chiesa di S. Maria foris portas. Giuseppe accompagna Maria, seduta su un’asina, condotta per la briglia da un giovane, probabilmente un servitore, di cui si vede solo una gamba. I tre sembrano entrare in una delle porte della città di Betlemme, rappresentata da un grande arco. SAPER VEDERE
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Crocevia di popoli e culture
Ma quali sono le ragioni di tanta ricchezza? Per comprenderlo, occorre rileggere la storia di questo lembo di terra che oggi appartiene alla porzione centro-meridionale della provincia di Varese e a quella sud-occidentale del Comasco, ma che un tempo era un autentico – e vivace – crocevia di popoli e culture. Le radici del Seprio, come hanno dimostrato numerosi ritrovamenti archeologici che risalgono alla civiltà di Golasecca, affondano nella protostoria. L’etimo stesso del luogo, Sibrium, sembrerebbe risalire ai Celti Insubri. Grazie alla collocazione naturale, era una zona altamente strategica, non lontana dal fiume Ticino e a cavallo tra la pianura, i laghi e i passi alpini. Sin dall’antichità fu dunque attraversata da numerose strade; in età romana, la Comum-Novaria e la Mediolanum-Verbanus 10
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I gioielli del castrum SVIZZERA
Bormio
Chiavenna
Novate Mezzola
TRENTINO ALTO ADIGE
Trento
Meraggio
Lecco
Varese
Como Bergamo Castelseprio Monza Novara Milano
Brescia
VENETO
Verona Pavia
Cremona
Mantova
Meda
Piacenza Alessandria PIEMONTE
EMILIA-ROMAGNA Parma
Reggio nell’Emilia
In alto cartina della Lombardia con l’ubicazione di Castelseprio.
IL MONUMENTO IN SINTESI
sensazionale e il miracolistico, a tratti fin troppo ingenui. Ebbero una diffusione notevole: il testo fu copiato in Oriente per tutto il Medioevo e i suoi venticinque capitoletti ci sono giunti in ben 130 manoscritti. Dal momento della scoperta in poi, Gian Piero Bognetti si dedicò anima e corpo allo studio della «sua» S. Maria e lo fece collaborando con gli archeologi Alberto De Capitani d’Arzago (1909-1948) e Gino Chierici (1877-1961), promuovendone anche il restauro. Frutto di questo lavoro fu la monografia pubblicata nel 1948 con il titolo di Santa Maria di Castelseprio e che avrebbe rappresentato una pietra miliare negli studi sul tema. Il volume, attesissimo, doveva essere presentato nello stesso anno a Parigi durante il VI Congresso internazionale di Studi bizantini. Ma De Capitani si spense improvvisamente nella notte tra il 29 e il 30 luglio. Bognetti, e altri dopo di lui, continuarono l’opera di studio ed esegesi del sito, e scoprirono via via una realtà sempre piú composita e affascinante. Dopo S. Maria l’attenzione fu puntata sulla torre quadrangolare che si ergeva nella parte bassa della collina. E anche in questo caso le sorprese non mancarono: si scoprí che l’antico edificio, di origine bizantina, era stato inglobato piú tardi in un monastero femminile, quello di Torba, e celava interessanti affreschi. Tutto il complesso faceva parte di un insediamento sorto in età tardo-antica, su un’altura a strapiombo dell’Olona, con funzioni militari, abitative e religiose di primissimo piano. Distrutto nella seconda metà del Duecento dalle truppe di Ottone Visconti, era come uno scrigno sepolto sotto terra. Pieno di tesori ancora da scoprire.
Un capolavoro «anomalo» Perché è importante La chiesa di S. Maria foris portas rappresenta un unicum straordinario nel panorama pittorico altomedievale e una testimonianza significativa dei rapporti culturali e artistici tra Oriente e Occidente prima dell’anno Mille. S. Maria nella storia Molto controverso è il periodo di realizzazione degli affreschi, che oscilla tra l’età longobarda e quella carolingia. I graffiti presenti, comunque, sembrerebbero assegnarli al IX secolo e individuarne la commissione da parte di una famiglia comitale legata alla corte imperiale, con probabile destinazione a mausoleo privato. S. Maria nell’arte L’eccezionale qualità pittorica del ciclo affrescato, realizzato con molta probabilità da un maestro bizantino di primissimo piano, ne fa uno dei massimi capolavori dell’arte di tutti i tempi. La vivacità dei colori, l’evidente tratto naturalistico impostato su una base figurativa e compositiva di tradizione classica, la raffinatezza dell’esecuzione sono elementi decisamente inconsueti in un periodo in cui prevalgono i dettami simbolici dell’arte cosiddetta «barbarica».
S. MARIA FORIS PORTAS
BORGO
Via Castel Vecchio
BORGO
A tutta pagina planimetria del Parco Archeologico di Castelseprio. A sinistra la cosiddetta chiesa di S. Paolo, eretta probabilmente tra l’XI e il XII sec., forse su una preesistente struttura di epoca tardo-romana. Qui sotto l’interno della chiesa di S. Maria foris portas.
Ingresso del Parco
N
BORGO
CASAFORTE
S.PAOLO
BASILICA DI S. GIOVANNI
CASTRUM MONASTERO DI S. GIOVANNI
TORBA A destra la torre del complesso di Torba. Costruita nel V-VI sec. d.C. quale parte del sistema difensivo del castrum, la struttura fu in seguito trasformata in convento benedettino femminile.
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CASTELSEPRIO
S. Maria foris portas
LE DATE DA RICORDARE IV secolo d.C. Il sito di Castelseprio è documentato come luogo militare posto lungo la via Como-Novara a difesa dei confini (limes), al di qua delle Alpi. A questo periodo risalgono le tre torri ancora oggi visibili, a livello delle fondamenta, sul pianoro del castrum.
V-VI secolo Costruzione delle mura difensive per opera dei Goti, edificazione della torre di Torba e degli edifici sacri: la basilica di S. Giovanni Evangelista e il Battistero di S. Giovanni Battista.
XIII secolo S. Maria è citata nel Liber Notitiae Sanctorum Mediolani.
1154-1183 Lotte tra i Comuni lombardi e l’imperatore Federico Barbarossa. Il Seprio è alleato del sovrano contro i Milanesi.
1183 Pace di Costanza tra impero e Comuni. 774 Conquista franca. 568-9 Arrivo dei Longobardi in Italia V secolo Edificazione di S. Maria come xenodochio. Costruzione dell’aula, delle absidi e, successivamente, dell’atrio.
28 marzo 1287 Castelseprio, dove si erano rifugiati gli oppositori, viene raso al suolo (tranne gli edifici sacri) per ordine di Ottone Visconti. 1339 Il cronista Galvano Fiamma riporta il rinvenimento, nel monastero di Torba, della tomba di un «re longobardo». 1398 Citazione di S. Maria nella Notitia Cleri.
XVI secolo S. Maria è citata varie volte negli atti delle visite pastorali. Rifacimento degli intonaci, parziale distruzione degli affreschi, realizzazione del Presepe e della Madonna del Latte. Costruzione della sacrestia e dell’abitazione del cappellano.
XVII secolo Demolizione dell’abitazione del cappellano, del campanile e della sacrestia. Costruzione del nuovo pavimento di cemento. Copertura totale degli affreschi a eccezione del Presepe.
1185 Con il Trattato di Reggio le regalie del Seprio passano ai Milanesi.
collegavano fra loro la fascia pedemontana alla pianura e alla grande via d’acqua del Verbano, mentre i valichi del Gottardo, del Lucomagno e del S. Bernardino conducevano da Milano uomini e merci verso l’Europa centrale. La crucialità del Seprio – con Sibrium, Castelseprio appunto, come centro piú importante – valse nel bene, ma anche nel male. Nel IV secolo, con i barbari alle porte, fu costellato di torri di segnalazione e protetto da flotte stanziate sul Lario e sul Verbano. Questo sistema di fortificazioni, o chiuse, parte del cosiddetto «tractus Italiae circa Alpes», serviva come barriera fiscale e doganale ed era congegnato come contenimento in grado di rallentare l’avanzata dei nemici e consentire l’organizzazione delle difese.
Il governo dei funzionari regi
Non bastò. Il Seprio fu dapprima teatro della guerra greco-gotica (535-553), poi fu conquistato dai Longobardi. E da allora divenne un caposaldo politico, strategico e commerciale del costruendo regnum. Vista la funzione di ganglio vitale dell’intera zona, che richiedeva il controllo costante sulle vie di comunicazione dalla Lombardia occidentale all’area transalpina, il Seprio – che secondo Bognetti si estendeva a nord sino alla Valle d’Intelvi, Neggio in Valma12
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In alto resti del complesso basilicale di S. Giovanni, edificato tra il V-VI sec. e l’età carolingia. Nella pagina accanto ricostruzione ipotetica di Castelseprio, come doveva apparire prima di venire distrutto per ordine dell’arcivescovo Ottone Visconti nel 1287. Si notano S. Maria foris portas (1), il complesso di S. Giovanni (2), di Torba (3) e la Casaforte (4).
1845 La famiglia Archinto, proprietaria del luogo, durante scavi di sistemazione ritrova la lapide sepolcrale di «Wideramn», databile al VII secolo.
ante 1862 Demolizione delle absidi laterali. In questo periodo S. Maria foris portas è adibita a lazzaretto durante le epidemie di colera.
Primavera 2009 Inaugurazione dell’Antiquarium di Castelseprio.
1933 S. Maria viene sconsacrata dal cardinale Ildefonso Schuster. Trasferimento degli ultimi arredi e oggetti sacri nella chiesa di Carnago. 1934 L’Ispettore Onorario della Soprintendenza della zona opta per lo strappo del Presepe e il suo trasferimento presso il Museo di Gallarate. I lavori portano alla luce lacerti di affreschi sottostanti.
1912 Il dipinto del Presepe è notificato da parte dell’Ufficio di Conservazione dei Monumenti per la Lombardia al preposto di Carnago perché «dichiarato da annoverarsi ai monumenti nazionali».
1936 Abbandono della chiesa e dei lavori per mancanza di fondi. 7 maggio 1944 Lo storico Gian Piero Bognetti scopre il ciclo di affreschi.
4 settembre 1934 Il soprintendente notifica al preposto di Carnago lo scoprimento di tutti gli affreschi.
1964 Gian Piero Bognetti, lo scopritore di S. Maria e dei suoi tesori, viene sepolto nella chiesetta.
1946-47 Prime indagini archeologiche.
1954-1958 Campagne di scavo che riportano alla luce i complessi religiosi del castrum e le cinte turrite.
26 giugno 2011 Castelseprio e Torba sono inserite nella World Heritage List UNESCO quale parte del sito seriale «Longobardi in Italia: i luoghi del potere (568-774)».
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CASTELSEPRIO
S. Maria foris portas
gliasina, Canobbio a nord di Lugano, Campione, Bellinzona – fu trasformato cosí in area fiscale e sottoposto al governo diretto di funzionari di nomina regia. A reggere la iudiciaria fu posto uno iudex, un duca o un gastaldo, che aveva compiti sia giurisdizionali che militari: oltre all’obbligo di amministrare la giustizia per conto del re, egli era infatti il capo degli exercitales, gli uomini liberi che portavano le armi. Nell’esercizio delle sue funzioni era affiancato da cariche minori, come i centenarii (o sculdasci) e i decani: tutti assieme costituivano l’ossatura che gestiva le grandi curtes regie, aziende agricole che rappresentavano la base del potere regio nel territorio del regno e un cuore pulsante a livello economico. Se la vicina Arsago era sede di una delle arimannie piú importanti (terre concesse dal sovrano agli arimanni, gli uomini liberi che facevano parte dell’esercito, n.d.r.), come testimonia la ricchezza dei corredi rinvenuti nella locale necropoli, a Castelseprio e nella vicina Castelnovate erano attive due zecche. Da Angera e dalla Val d’Intelvi provenivano inoltre le pietre da costruzione utilizzate dai magistri commacini (che compaiono per la prima volta nei documenti proprio in questo periodo), dal Ticino si estraevano oro e sabbie silicee per la fabbricazione del vetro, a Laino d’Intelvi (Como) e nella stessa Castelseprio si producevano attrezzi da lavoro. Tutti beni poi commercializzati grazie alla fitta rete di comunicazione.
Una lenta decadenza
Nel 774 Carlo Magno conquistò il regno longobardo. I Franchi sostituirono la vecchia classe dirigente con nuovi funzionari che subentrarono nel possesso patrimoniale ai loro predecessori e trasformarono la Iudiciaria in Comitatus. Il Seprio iniziò una lenta decadenza che ne comportò la progressiva attrazione gravitazionale nei confronti di Milano. La grande crisi del potere centrale che seguí lo smembramento dell’impero carolingio e la conseguente situazione di precariato spinse l’aristocrazia locale a cedere i propri fondi mentre l’arcivescovo di Milano (da cui il Seprio ecclesiasticamente dipendeva) concedeva beni pievani situati a Varese alle famiglie nobiliari milanesi. L’occasione di una rivalsa nei confronti di Milano si presentò nel 1158, quando l’imperatore Federico Barbarossa assediò per la prima volta la città per riportarla all’obbedienza. I nobili del Seprio allora gli giurarono fedeltà finché, sconfitto il sovrano a Legnano nel 1167, il Seprio e Varese non aderirono alla Lega Lombarda. Da 14
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quel momento in poi, e rapidamente, l’autonomia sepriese si ridusse progressivamente a vantaggio sia dell’arcivescovo (che estese la sua ingerenza sulle pievi), sia del Comune di Milano. A conflitto terminato, il Barbarossa sancí il definitivo passaggio del Seprio sotto i Milanesi insieme ad altri contadi (pace di Costanza, 1183) e poco dopo (1185, Trattato di Reggio) conferí loro anche le regalie che ancora deteneva sul territorio. La fine ormai era segnata: durante le lotte che opposero l’arcivescovo Ottone Visconti alla fazione avversa dei Torriani, Castelseprio divenne l’ultimo caposaldo dei ribelli. Nel 1287, cadute le ultime resistenze, il castrum venne raso al suolo per ordine dello stesso Ottone, che ne risparmiò solo le chiese, e dispose che non venisse piú ricostruito. Da allora tutto il territorio seguí, nel bene e nel male, la sorte dei Visconti e poi degli Sforza. Ma torniamo a S. Maria. La chiesetta si trovava fuori dalle mura del castrum («foris portas», appunto). Orientata est-ovest, presentava una pianta a tre absidi e un atrio che riprendeva un modello architettonico piuttosto diffuso in Oriente. L’abside centrale è separata dall’aula da un arco trionfale. Le indagini archeologiche hanno permesso di conoscerne le varie fasi di costruzione e ristrutturazione: fu edificata come cappella annessa a un probabile xenodochio, ossia a un ricovero per pellegrini, e poi trasformata radicalmente nel corso dei secoli. Un elemento di datazione importante è dato dal pavimento originale, recuperato purtroppo solo in minima parte: era realizzato a esagoni e triangoli in marmo e calcare bianco e nero secondo modelli riscontrati anche in altri edifici (per esempio il battistero di S. Giovanni ad Fontes a Milano, di Gravedona, di Lomello) tutti anteriori all’invasione longobarda: la prima fondazione dell’edificio risale pertanto, con ogni probabilità, al V secolo. Sopravvissuta alla distruzione viscontea grazie anche alla sua posizione decentrata rispetto al castrum, S. Maria cadde in abbandono per circa due secoli, finché nel Cinquecento non fu restaurata e riaperta al culto: le pareti, reintonacate, furono allora affrescate con un Presepe e una Madonna del Latte, mentre a sud furono costruite una sacrestia e l’abitazione del cappellano che avrebbe dovuto officiare in loco. Tutti gli edifici furono abbattuti un secolo dopo, quando il culto della Madonna del Latte si esaurí e la chiesetta fu nuovamente votata all’oblio. Ma le sue vicissitudini non erano ancora terminate. Alla metà dell’Ottocento furono distrutte
Le scene: 1. Trono celestiale; 2. Annunciazione e Visitazione; 3. Prova dell’acqua amara; 4. Cristo; 5. Sogno di Giuseppe; 6. Viaggio a Betlemme; 7. Fuga in Egitto; 8. Strage degli innocenti; 9. Presentazione al tempio; 10. Natività e annuncio ai pastori; 11. I Magi portano doni; 12. Sogno dei Magi.
LE STORIE RACCONTATE DAL CICLO AFFRESCATO DI CASTELSEPRIO
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In basso planimetria della chiesa di S. Maria foris portas, con pianta a tre absidi e atrio.
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S. Maria foris portas
APPARIZIONI, ANNUNCI E PROVE MIRACOLOSE ● PROVA DELL’ACQUA AMARA
La fonte normativa è l’Antico Testamento (Numeri 5, 11-29), che decreta come secondo la Legge la moglie sospettata di infedeltà dal marito dovesse essere condotta per una prova davanti all’altare di Jahveh. Qui il Sommo Sacerdote le porgeva un vaso di terra in cui aveva posto, assieme all’acqua santa, un po’ di polvere prelevata dal pavimento della Dimora (ossia il tabernacolo). Dopo aver giurato e terminate le invocazioni di rito, la donna doveva bere l’acqua amara della ●
ANNUNCIAZIONE E VISITAZIONE
Il quadro si compone di due scene articolate da sinistra verso destra senza soluzione di continuità. Nella prima, l’Arcangelo Gabriele appare a Maria, seduta davanti alla sua casa e intenta a filare, annunciandole il concepimento. L’Arcangelo, che indossa una veste candida, regge nella mano sinistra la verga del comando che apparteneva al taxiarca, il comandante del battaglione – taxis – dell’esercito greco. All’interno dell’abitazione una donna, forse un’ancella, si affaccia alla finestra e contempla la scena: l’artista ne rappresenta in maniera fortemente realistica lo stupore, ritraendola con le mani alzate. Questa scena deriva dalla narrazione non presente nei Vangeli canonici, ma nell’apocrifo Protovangelo di Giacomo (XI,2), che contiene i particolari della filatura (compreso il filo di porpora, contenuto in un cesto ai piedi di Maria) e della brocca posata dalla Vergine una volta giunta a casa: il recipiente si trova infatti al centro. La seconda scena, la Visitazione, è parzialmente lacunosa: tuttavia, i particolari superstiti consentono di stabilire anche per questa composizione una derivazione dagli apocrifi perché l’abbraccio tra le due donne, Maria ed Elisabetta, avviene fuori e non dentro la casa di Zaccaria (come invece narra Luca), che probabilmente era rappresentata sulla destra e chiudeva – simmetricamente rispetto a quella della Vergine sulla sinistra – l’intero quadro.
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maledizione: qualora fosse risultata colpevole, la pozione le avrebbe gonfiato il ventre e avvizzito i fianchi, rendendola sterile. La scena dipinta è purtroppo mutila sulla sinistra, dove si conservano le sole gambe di Giuseppe che assisteva al rito di fianco a Maria. La Vergine è ritratta in maniera realistica (le labbra sono socchiuse) mentre sorseggia l’acqua dal recipiente che le viene porto dal Sommo Sacerdote, probabilmente Zaccaria, riccamente vestito e dotato di aureola azzurra. Anche in questo caso, la narrazione dell’episodio è contenuta nel Protovangelo di Giacomo, che sottolinea il superamento della prova e l’acclamazione della coppia da parte della folla.
le due absidi laterali e la chiesa fu usata come lazzaretto durante un’epidemia di colera. A poco valse il ritrovamento, avvenuto nel 1845 per opera dei proprietari Archinto, di una pregevole lastra del VII secolo (la lapide sepolcrale di Wideramn, oggi nelle Civiche Raccolte d’Arte Antica del Castello Sforzesco di Milano) e in seguito di frammenti di affreschi del Duecento giudicati interessanti persino dalla Soprintendenza, che si mosse (invano) per recuperarli: S. Maria fu di nuovo lasciata a se stessa, sconsacrata e privata di ogni residuo arredo. Finché il 7 maggio del 1944 Gian Piero Bognetti non vi mise piede, scoprendo l’immenso tesoro che era ancora nascosto.
Un racconto inconsueto
Gli affreschi di S. Maria sono stati oggetto di lunghi dibattiti, a cominciare dalla loro collocazione temporale, variamente assegnata, come vedremo fra poco, tra il VI e il IX secolo. Ma nessuno ha mai negato l’eccellente qualità pittorica e l’originalità del messaggio veicolato. Il ciclo narra, come anticipato, le vicende dell’Infanzia di Cristo ispirate ai Vangeli apocrifi, in particolare al Protovangelo di Giacomo, dando spazio ad alcuni episodi decisamente inconsueti nell’iconografia del tempo. Le pitture giacevano sotto strati di intonaci dovuti ai ripetuti rimaneggiamenti e risultavano parzialmente danneggiati dai martellamenti operati nel XVI secolo per far aderire l’intonaco destinato a supportare le nuove decorazioni. La sensazione di aver trovato qualcosa di unico fu comunque immediata. Come scrisse Bognetti appena entrato, «lo stupore doloroso di ritrovare la chiesa in quell’abbandono desolato doveva precedere di appena pochi istanti il tutto diverso stupore per la vista di quei frammenti di affreschi, cosí inclassificabili nello schema della pittura lombarda; e un loro rapido esame; e la scoperta, sullo zoccolo, di quei graffiti in caratteri capitali e onciali, che, fuori da ogni dubbio stilistico, denunciavano un’opera anteriore al Mille». Le storie dell’Infanzia di Cristo sono rappresentate lungo due registri articolati in varie scene. Nel primo, in alto, l’Annunciazione e la Visitazione, la Prova delle acque amare, l’Apparizione dell’Angelo a Giuseppe, il Viaggio a Betlemme erano intervallate da medaglioni: si conserva solo quello del Cristo pantocratore, situato tra la Prova delle Acque e l’Apparizione. Nel secondo registro, scandito dalle finestre, si susseguono nell’ordine la Natività, la Presentazione di Gesú al Tempio e due scene purtroppo perdute (forse la
Nascita della Vergine, o la sua Presentazione al Tempio, o ancora la Strage degli Innocenti). I due registri sono rinchiusi in basso, come in una cornice, da un motivo decorativo a ghirlande e nicchie dipinte a trompe l’oeil solo parzialmente conservato, in cui compaiono alcuni volatili e il motivo apocalittico del Trono coperto da un drappo su cui poggia il Libro chiuso. Infine, dietro l’arco trionfale che conduce all’abside, nel registro alto, due Arcangeli affacciati in volo protendono lo scettro e il globo sormontato dalla croce verso il Trono vuoto che sarà occupato da Cristo nel giorno del Giudizio (Etimasia). Chiude il ciclo in basso, a sinistra dell’arco, l’Adorazione dei Magi e a destra un’altra scena – forse l’Arrivo in Egitto – in gran parte perduta. A quando risalgono questi affreschi? Gli unici elementi certi di datazione (e che costituiscono il terminus ante quem del ciclo) sono i graffiti, ma anche in questo caso la certezza non è assoluta. Se Bertelli e altri considerano dirimente quello che nomina Ardericus, arcivescovo di Milano tra il 936 e il 948, Marco Petoletti ha recentemente individuato un riferimento a Tadone, che resse la cattedra di Ambrogio tra l’860 e l’868, retrodatando il termine all’869. Quanto «prima» di allora, però, le pitture siano state effettivamente realizzate è oggetto di uno dei dibattiti piú accesi e appassionanti della storia dell’arte. Proviamo a sintetizzarlo.
La lotta contro l’arianesimo
Bognetti, che scoprí il ciclo, lo assegnò alla seconda metà del VII secolo per una ragione storica ben precisa: il tema dominante, che ruota attorno al mistero dell’Incarnazione, sembrerebbe voler ribadire con forza il dogma della duplice natura del Cristo, umana (come si evince chiaramente dalle storie della sua infanzia) e divina (rappresentata nel medaglione del Cristo pantocratore). Ora, tale dogma era messo in discussione dall’arianesimo, eresia che riconosceva la sola essenza umana del Figlio negandone la consustanzialità con il Padre. Bognetti (e altri dopo di lui) era fermamente convinto che i Longobardi avessero in gran parte aderito all’arianesimo: ritenne dunque che il ciclo fosse da leggere in rapporto alla politica di lotta delle tesi eretiche intrapresa dalla corona longobarda a cominciare dal regno di Teodolinda e Agilulfo, i quali avevano favorito, in accordo con il papato e non senza opposizione interna, la conversione al cattolicesimo del loro popolo. A dire il vero, nel 1981 Stephen Fanning – seguito da numerosi epigoni – ha contestato SAPER VEDERE
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CASTELSEPRIO
S. Maria foris portas
duramente l’effettiva adesione dei Longobardi all’arianesimo, notando in primis come le fonti dell’epoca, assai prodighe di informazioni in merito se riferite ad altre genti germaniche, tacciano invece del tutto sulla questione quando parlano dei discendenti di Alboino. Ma le obiezioni alla tesi di Bognetti trovano elementi anche altrove. Essa fu subito messa in discussione da Kurt Weitzmann, per il quale le pitture di Castelseprio dovevano essere datate al primo quarto del X secolo e legate ai proficui rapporti diplomatici che in quegli anni legavano il regno d’Italia a Bisanzio. Altri studiosi in seguito cercarono di retrodatare il ciclo al VI secolo mettendolo in relazione con la riconquista dell’Italia settentrionale da parte dei Bizantini dopo la vittoria contro i Goti. Altri ancora (Lazarev) propongono come arco cronologico il periodo compreso tra la fine del VII e l’inizio dell’VIII secolo. L’ultima tesi in ordine di tempo, sebbene non risolutiva, è quella formulata da Carlo Bertelli, il quale data gli affreschi al IX secolo inquadrandoli all’interno dell’orizzonte culturale carolingio. A suo favore giocano alcune analisi condotte al radiocarbonio (sulle travi e su altri elementi lignei) e alla termoluminescenza (laterizi e tegole), ma, soprattutto, gli scavi condotti negli anni Ottanta del Novecento da Martin Carver e Gian Pietro Brogiolo, che hanno escluso l’annessione della chiesetta a un monastero: il ciclo di affreschi era stato dunque probabilmente realizzato per un importante committente privato, di raffinata cultura, in grado di apprezzarne la qualità pittorica e comprenderne il profondo messaggio teologico.
Il sepolcro del fondatore?
Le indagini hanno rivelato in effetti la presenza, a ridosso del muro ovest, di una tomba monumentale – battezzata la «tomba del fondatore» – chiusa da un lastrone di pietra con scolpita una croce-spada, simbolo di nobiltà e potere: il sepolcro, datato al IX secolo, potrebbe essere quello di Giovanni, comes (conte) del Seprio, la cui presenza è ben documentata e che apparteneva alla cerchia dell’imperatore carolingio Lotario. A lui, a questo punto, si dovrebbe la committenza dello splendido ciclo di affreschi. Ma andrebbe riconsiderata sotto una nuova luce anche la già ricordata epigrafe tombale di Wideramn: questo giovane longobardo, morto a 28 anni, era stato sepolto con corredo (ma furono ritrovati solo gli speroni di rame dorato, oggi dispersi) sotto il 18
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TRA MAESTÀ E REALISMO ● IL CRISTO PANTOCRATORE
La splendida figura del Cristo, collocata in un medaglione sopra la finestra centrale dell’abside, troneggia maestosa con la veste rossa che si staglia su un prezioso sfondo ceruleo. L’aureola crociata, il rotolo nella mano sinistra e la destra in atto di benedire con le tre dita, il volto finemente tratteggiato ricordano l’iconografia presente in S. Sofia a Costantinopoli.
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NATIVITÀ
È la scena piú complessa, composta da quattro episodi rappresentati in maniera sincronica: la Natività vera e propria, la Lavanda del Bimbo, il Miracolo dell’Ostetrica e l’Annuncio ai Pastori. I personaggi principali, Maria, Giuseppe e la levatrice Emea, sono indicati dal nome, scritto sulle loro teste. Nella grotta, indicata da una stella luminosa i cui raggi formano una croce, Maria si riposa dalle fatiche del parto contemplando il Bambino nella culla, dietro alla quale si intravedono il bue e l’asinello. Ai suoi piedi, una donna dal colorito scuro protende verso di lei il braccio destro, sorreggendolo col sinistro: è Emea, la levatrice che secondo il Protovangelo di Giacomo volle visitare Maria per verificarne la verginità (che riteneva impossibile conservare dopo il parto) e fu punita perdendo l’uso della mano, che si disseccò. In basso, due donne procedono alla Lavanda del Bambino sotto lo sguardo vigile di Giuseppe, la cui figura, al centro, collega la Natività all’Annuncio ai Pastori, illustrato a destra. La scena, lacunosa, è dominata dall’angelo che richiama i pastori. Molti sono i particolari realistici, dalla resa del paesaggio alla città di Betlemme che si vede in lontananza, dal cane che perlustra il terreno alle pecorelle che riposano o pascolano sull’erba.
● APPARIZIONE DELL’ANGELO A GIUSEPPE
Su uno sfondo con architetture di stampo classico (tra cui una colonna decorata con un drappo purpureo e sormontata da un capitello corinzio, molto simile a quello già presente nell’Annunciazione), la scena coglie l’attimo in cui l’Angelo appare a Giuseppe dormiente per informarlo che il concepimento di Maria è opera dello Spirito Santo. La figura dell’Angelo, splendidamente lumeggiata, ricorda quello della prima scena, qui in una sorta di «seconda Annunciazione», con la sola differenza che quest’ultimo procede da sinistra verso destra e rimane in volo. La testa e il busto di Giuseppe sono gravemente rovinati, tuttavia è ben visibile la scritta IOSEPH appena sotto la figura del santo. ●
ADORAZIONE DEI MAGI
Questa scena si trova sulla parte mediana dell’arco trionfale, a sinistra dell’ingresso, sotto i due Angeli che adorano l’Etimasia, e continua la sequenza della Natività. Perfettamente leggibili sono solo i tre Re Magi, rappresentati in coloratissime e ricche vesti di foggia orientale (si distingue anche il tipico copricapo a forma di cilindro attribuito loro dalla tradizione) mentre porgono alla Sacra Famiglia, seduta di fronte alla grotta, i doni su vassoi d’argento. La Madonna, situata piú in alto nel gioco prospettico, porge ai tre uomini adoranti il Bambino indicato da un Angelo in volo (di queste figure resta solo il disegno in rosso, il colore è andato quasi del tutto perduto). Piú in basso, sulla destra, Giuseppe osserva la scena leggermente discosto.
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PRESENTAZIONE DI GESÚ
Come la Prova delle Acque, anche questo episodio è raramente rappresentato. Nella grandiosa costruzione del Tempio, rappresentato con grandi finestre ad archi e un’abside decorata con una conchiglia rossa, Maria porge al sacerdote Simeone (il nome, ZYMEON, è ben visibile) il Bambino, che tende le manine verso di lui. Dietro Simeone, sulla sinistra, si intravede la profetessa Anna, mentre sulla destra Giuseppe, che reca con sé l’offerta delle colombe, osserva la scena assieme a due uomini anziani, forse altri due sacerdoti, ma la perdita quasi completa del colore rende pressoché impossibile l’identificazione.
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CASTELSEPRIO
S. Maria foris portas
TORBA
Dai soldati alle monache benedettine Il complesso di Torba, nel Comune di Gornate Olona, appartiene al FAI (il Fondo per l’Ambiente Italiano), e fa parte, con il parco archeologico di Castelseprio, del sito seriale UNESCO «Longobardi in Italia: i luoghi del potere». La torre, edificata nel V-VI secolo, rappresenta ciò che resta del sistema difensivo del castrum che, in età tardo-antica, si protendeva verso il fiume Olona ed è uno dei rarissimi esempi di costruzioni simili conservate in alzato. In seguito, venuto meno lo scopo militare, fu abitata da un gruppo di monache benedettine che la trasformarono in convento. Il primo piano della torre divenne area sepolcrale. Al primo piano sono visibili ancora oggi tracce di affreschi, risalenti, secondo Carlo Bertelli, all’VIII secolo, che rappresentano due monache – una di nome Aliberga – e un vescovo. Il ciclo piú interessante è però conservato al secondo piano della torre, che fungeva da oratorio, e risale anch’esso all’VIII secolo. Si distingue in particolare un gruppo di otto monache, quasi tutte «senza volto» (l’acqua piovana che filtrava dal muro ne ha cancellato i tratti), caratterizzato da un enigmatico movimento delle mani. La chiesetta, intitolata anch’essa a Maria, fu probabilmente fondata sempre nell’VIII secolo (epoca a cui risale la cripta) e poi rimaneggiata. La costruzione attuale, fatta di pietre provenienti dall’Olona, risale in gran parte al Mille mentre l’abside è duecentesca.
Sulle due pagine particolare dell’affresco con otto monache in processione sulla parete ovest del secondo piano della torre di Torba, adibita a oratorio.
In alto una veduta del complesso di Torba. 20
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pavimento della chiesa prima del cosiddetto «fondatore». Inaugurando cosí l’uso sepolcrale della chiesetta, inserita su un luogo di culto già esistente, ma che ora assumeva le funzioni di mausoleo familiare. I dubbi sulla datazione degli affreschi permangono e forse non saranno mai sciolti. Cosí come ignoto è anche l’autore (o gli autori) del capolavoro, attribuito a un generico «Maestro di Castelseprio» destinato a rimanere con ogni probabilità anonimo. Si è ipotizzato che fosse egiziano oppure siriaco, di certo orientale. Ma vista la qualità del lavoro e sulla base di confronti stilistici con le miniature della cosiddetta «Bibbia di Leone», del Rotolo di Giosuè e del Salterio di Parigi già evidenziati da Weitzmann, è probabile che provenisse direttamente da Costantinopoli e fosse un esponente della Rinascenza Macedone, corrente che, tra il IX e l’XI secolo, operò un corposo recupero dell’arte classica. Di certo conosceva il greco. Certo, i nomi che a mo’ di didascalia a volte accompagnano i personaggi non sono scritti in maniera sempre precisa. Ma hanno una loro precisa funzione. Per dirla con Bertelli, «sembra quasi che le affermazioni latine abbiano bisogno di un sostegno greco per essere piú autorevoli». Ossia servono a conferire alle scene solennità e mistero. La
presenza del greco rafforza la tesi che vuole il ciclo di affreschi realizzato in età carolingia: proprio a partire dal regno di Carlo Magno – e dalla diffusione del testo dello Pseudo-Dionigi l’Areopagita, allora riscoperto e studiato – la conoscenza della lingua poté diffondersi nuovamente in Europa. Non a caso alcuni degli intellettuali piú vicini all’imperatore – per esempio, il longobardo Paolo Diacono – ne erano discreti cultori.
Un capolavoro senza tempo
Greco, siriaco o egiziano che fosse, l’anonimo Maestro possedeva comunque un genio pittorico fuori dal comune. Certo, alcune caratteristiche iconografiche sono ricorrenti: i personaggi indossano, anche in scene diverse, gli stessi abiti (con lievi varianti, come per esempio la presenza o l’assenza del mantello); la mano sinistra di chi partecipa ai riti è normalmente coperta da un lembo di veste, l’aureola è presente sempre intorno al capo del Cristo e della Vergine mentre manca costantemente a Giuseppe. Inoltre gli episodi non seguono sempre un ordine temporale «corretto»: alcuni sono invertiti rispetto alle narrazioni protoevangeliche e in genere prevale la tendenza – comune all’arte orientale peraltro – a rappresentare piú episodi in un’unica scena senza
soluzione di continuità, affidando al massimo a una figura o a un elemento naturalistico, architettonico o paesaggistico il compito di «separarli» dividendoli in sequenze. Il tratto elegante e snello, gli accenni prospettici, il sapiente uso dei colori, la potenza inventiva, il grande realismo, la capacità quasi vignettistica nel rendere il particolare, la raffinatezza dell’esecuzione rendono a ogni modo il ciclo di Castelseprio un capolavoro assoluto dell’arte di tutti i tempi, una sorta di gemma impossibile da comprendere se si trascura il contesto che la vide nascere. Un’opera in cui la tradizione figurativa e compositiva classica, dominata con maestria e sapienza, riesce a imporsi sugli stilemi contemporanei dell’arte cosiddetta «barbarica» che invece rifuggiva da ogni naturalismo per concentrarsi sul significato puramente simbolico dell’oggetto narrato. Dal giugno 2011 S. Maria foris portas e i suoi affreschi fanno parte del sito seriale «Longobardi in Italia: i luoghi del potere»: insieme al castrum di Casteseprio con il complesso di Torba e ad altri sei luoghi simbolo dell’eredità materiale longobarda sono dunque iscritti nella Lista del Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO. Il loro scopritore, Gian Piero Bognetti, dal 1964 riposa nell’abside sud di questa piccola chiesa perduta nel bosco che vent’anni prima
egli seppe riportare all’attenzione del mondo. Grazie alla sua competenza di studioso e alla sua grande passione per quell’arte cosí remota, S. Maria e i suoi tesori poterono passare cosí dall’oblio alla fama eterna.
DA LEGGERE Paola Marina De Marchi (a cura di), Castelseprio e Torba: sintesi delle ricerche e aggiornamenti, SAP Società Archeologica, Mantova 2013 Gian Piero Bognetti, Santa Maria foris portas di Castelseprio e la storia religiosa dei Longobardi, in Idem, L’età longobarda, II, Giuffrè, Milano 1966; pp. 668-673. Carlo Bertelli, Ultimi studi sulle pitture di Castel Seprio e Torba, in Giornata di Studi «Castel Seprio e Vico SeprioAggiornamenti». 22 settembre 2001, atti del convegno,
Castelseprio, 2002; pp. 1-8 Elena Percivaldi (a cura di), Il Seprio nel Medioevo. I Longobardi nella Lombardia Settentrionale (secc. VI.XIII), atti del convegno, Il Cerchio, Rimini 2011 Paolo G. Nobili, Tra tardoantico e X secolo, gli scenari attorno agli affreschi di Castelseprio. Uno status quaestionis storiografico, in Porphyra, Anno VII, Supplemento 11 (aprile 2010) http://archeologiamedievale. unisi.it/castelseprio/ http://www.castelseprio.net/
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Scene da un matrimonio Secondo la leggenda, il Duomo di Monza sorse nel luogo che lo Spirito Santo avrebbe indicato alla regina Teodolinda. Al suo interno, nella celebre cappella dedicata alla sovrana, si può ammirare un magnifico ciclo di affreschi: che racconta un capitolo importante della storia della presenza longobarda in Italia di Elena Percivaldi
S
econdo una bella espressione della storica dell’arte Renata Negri, aprire la porta della cappella di Teodolinda è come sollevare il coperchio di un cofanetto prezioso: 500 metri quadrati di affreschi popolati da centinaia di nobili volti, istoriati da raffinate stoffe, eteree architetture e oggetti preziosi, vivificati dalla presenza di eleganti cavalcature e numerosi animali. Il tutto in un tripudio di oro, argento e lacche colorate. Collocato nel braccio settentrionale del transetto del Duomo di Monza, il ciclo di affreschi è visibile appena varcata la cancellata ottocentesca: l’ambiente è completato dall’altare neogotico che custodisce la celebre Corona Ferrea (vedi box a p. 36) e dal sarcofago nel quale, nel 1308, il corpo della regina fu traslato dall’originaria sepoltura terragna. Smontati i ponteggi, ecco dunque rivelarsi, in tutta la loro bellezza, le Storie di Teodolinda, l’opera piú pregevole e meglio conservata degli Zavattari, famiglia di pittori milanesi attivi presso la corte dei Visconti: cinque registri sovrapposti, con quarantacinque episodi (vedi schema alle pp. 28-29). Monza, Duomo, cappella di Teodolinda. Un particolare delle Storie di Teodolinda, affrescate dagli Zavattari. Il grandioso ciclo venne realizzato in due fasi, tra il 1440 e il 1446. SAPER VEDERE
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MONZA
Cappella di Teodolinda Villa Reale
Santuario di S. Maria delle Grazie
S. Pietro Martire
S. Maria
Palazzo Comunale DUOMO
Protagonista è la regina longobarda vissuta tra il VI e il VII secolo, la cui memoria si lega alla conversione del suo popolo al cattolicesimo (vedi box a p. 31). I personaggi raffigurati non hanno l’aspetto di «barbari»: niente tuniche, fibule, sax (il grande coltello a un solo taglio), spathae o corni potori, ma ricchi abiti realizzati con stoffe preziose, elaborate acconciature e oggetti raffinati, tipici delle corti quattrocentesche. Il ciclo, infatti, fu realizzato tra il 1440 e il 1446, con ogni probabilità su commissione del duca Filippo Maria Visconti, il quale intendeva celebrare le sontuose nozze della figlia con Francesco Sforza e, nel contempo, rendere omaggio a una stirpe, quella dei sovrani longobardi, dei quali egli stesso e la sua casata si proclamavano continuatori ed eredi.
In memoria del santo e della regina
La cappella fu costruita nelle forme attuali poco prima dell’inizio della decorazione pittorica. Sorse su un preesistente ambiente rettangolare molto piú piccolo, affrescato probabilmente all’inizio del Trecento, e di cui, nel 1889, l’architetto milanese Luca Beltrami riportò alla luce alcuni frammenti. Il nuovo altare, dedicato a san Vincenzo martire, venne consacrato il 5 24
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In alto, a sinistra cartina di Monza con i monumenti principali. In alto, a destra Monza. La facciata del Duomo, realizzata da Matteo da Campione e collaboratori. XIV sec. Vuole la leggenda che la chiesa sia sorta nel luogo miracolosamente indicato a Teodolinda dallo Spirito Santo, che si sarebbe manifestato sotto forma di colomba. Nella pagina accanto il presbiterio del Duomo. Ricchissimo insieme decorativo, comprende un magnifico paliotto con Storie del Battista, realizzato in lamina d’argento dorata su legno, smalti e pietre dure da Borgino dal Pozzo tra il 1350 e il 1357.
aprile 1433 dal vescovo della diocesi greca di Castoria, il francescano Bartolomeo da Cremona. Prendeva il posto di quello che, collocato vicino al sepolcro di Teodolinda, era stato a sua volta consacrato, secondo l’Obituario, il 19 giugno del 1346 dal vescovo di Bobbio: tale altare, però, esisteva già dalla prima metà del XII secolo e, stando alla testimonianza del Liber Ordinarius monzese, il 22 gennaio vi si celebravano la ricorrenza del santo e la memoria della regina, morta appunto in quel giorno. Il ciclo affrescato è come una grande, paradossale miniatura, finemente disegnata nei minimi particolari. Comincia dall’invio, da parte del re longobardo Autari, dei suoi legati presso la corte franca con la proposta di nozze per la sorella di re Childeberto. Respinta la profferta, Autari si rivolse allora a Teodolinda, ed ecco dunque i preparativi e le nozze dei due fino alla morte del sovrano (scene 3-23). Rimasta vedova, la regina ebbe diritto di scegliersi il nuovo marito. Si passa allora alle vicende relative alla preparazione del nuovo matrimonio, con il duca Agilulfo, e allo sposalizio vero e proprio (scene 24-31). Fin qui la narrazione si sussegue lenta, quasi a passo di corteo. Segue una brusca e (segue a p. 31)
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IL MONUMENTO IN SINTESI
Un mito riletto in chiave cortese Perché è importante Il ciclo con le Storie di Teodolinda è una delle uniche testimonianze pittoriche ancora visibili risalenti al periodo visconteo-sforzesco, durante il quale il ducato di Milano si trovava al centro di vivaci scambi culturali, economici e artistici con il resto d’Europa. La cappella nella storia Dimostra il forte radicamento, a Monza, di un vero e proprio «culto» della regina longobarda che secondo la leggenda fondò la città e la dotò di importanti monumenti come lo stesso Duomo che ne ospita le spoglie. L’opera fu commissionata in gran parte da Filippo Maria Visconti che si proclamava, con la sua casata, erede politico dei sovrani longobardi. La cappella nell’arte Gli affreschi sono uno tra i piú splendidi esempi di pittura gotica lombarda. Dipinti dai fratelli Zavattari in due riprese, tra il 1440-1444 e il 1445-1446, rappresentano il mito di Teodolinda in chiave squisitamente cortese fornendo importanti dettagli sulla moda, la vita e le abitudini dei nobili del tempo.
Sulle due pagine assonometria ricostruttiva del Duomo che ne evidenzia le strutture interne e mostra la localizzazione della cappella di Teodolinda.
LE DATE DA RICORDARE 595-600 circa Costruzione a Monza di una prima basilica dedicata a san Giovanni Battista per volere di Teodolinda, regina dei Longobardi. Ricostruzione del palazzo reale voluto da Teodorico e sua decorazione con un ciclo di affreschi che rappresenta i costumi dei Longobardi (ricordati da Paolo Diacono). 603 Battesimo di Adaloaldo, figlio di Teodolinda e del secondo marito Agilulfo, in basilica a opera dell’abate Secondo di Non, consigliere spirituale della regina.
627 Morte di Teodolinda e sua sepoltura in S. Giovanni assieme al figlio, deceduto l’anno prima.
1308 Traslazione dei resti della regina e del figlio in un sarcofago.
1300 Inizio della ricostruzione del Duomo per il primo Giubileo della cristianità.
1350 circa Matteo da Campione viene nominato direttore del cantiere dai Visconti, col compito di ricostruire l’edificio. L’architetto e scultore è autore della facciata, del battistero e del pulpito. Muore il 24 maggio 1396 e viene sepolto in Duomo (la lapide si conserva tuttora). 1440 circa-1444 Realizzazione dei primi quattro registri degli affreschi da parte della bottega degli Zavattari.
A sinistra particolare della scena della posa della prima pietra del Duomo, in cui sono raffigurati alcuni personaggi che trasportano materiali da costruzione. In basso pianta del Duomo con la localizzazione della cappella di Teodolinda.
CAPPELLA DI TEODOLINDA
N
1445, 10 marzo Un documento affida anche la seconda tranche di lavori agli Zavattari, da ultimare entro l’autunno del 1446.
XVI-XVIII secolo Vari interventi sull’edificio e sugli affreschi della cappella, alcuni dei quali rovinosi.
1489, 31 maggio Un fulmine miete varie vittime e rischia di compromettere l’edificio.
1889 Scavi condotti sotto la direzione di Luigi Beltrami. Viene aggiunta la cancellata di ferro che separa la cappella dal resto dell’edificio.
1895-96 Luigi Beltrami realizza l’altare neogotico posto nella cappella, che custodisce la Corona Ferrea.
2008 Inizio dei lavori di restauro degli affreschi, a cura dello studio milanese Luchini Restauri, in base al progetto varato da Regione Lombardia, Fondazione Cariplo, World Monuments Found, Marignoli Foundation e Fondazione Gaiani. 2015, aprile La cappella di Teodolinda viene riaperta al pubblico.
1933-1936 Nuovi interventi di restauro. I lavori continuano nei decenni successivi e si accompagnarono, alla fine degli anni Novanta, a scavi archeologici che riportano alla luce, all’interno della basilica, alcune sepolture privilegiate di età longobarda (la tomba terragna della regina?).
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MONZA
Cappella di Teodolinda
VISITIAMO INSIEME
Un racconto in 45 quadri PRIMO REGISTRO (lunettone) utari, re dei Longobardi, manda A inviati a Childeberto, re dei Franchi, per chiedere la mano della sorella Clodesinde ● Childeberto riceve gli inviati, ma ha già promesso la sorella al visigoto Recaredo ●
SECONDO REGISTRO (da sinistra a destra) ● ●
Ritorno in Italia dei legati longobardi Autari li incarica di recarsi dal duca
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dei Bavari, Garibaldo, per chiedere la mano della figlia Teodolinda ● Partenza dei legati per la Baviera ● Garibaldo riceve i legati longobardi ed esaudisce la loro richiesta ● Ritorno dei legati in Italia ● Autari riceve i legati dei Bavari ● Autari si reca in Baviera in incognito ● Teodolinda accoglie la delegazione e porge ad Autari la tazza contenente la bevanda di benvenuto senza riconoscerlo
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Autari torna in Italia Festa alla corte longobarda
TERZO REGISTRO (da sinistra a destra)
Childeberto sconfigge Garibaldo Garibaldo, Teodolinda e il fratello di quest’ultima fuggono in Italia ● Teodolinda giunge in terra longobarda ● Gli inviati informano Autari dell’arrivo di Teodolinda ● Autari a cavallo va incontro a Teodolinda ● Incontro di Teodolinda e Autari presso Verona ● Nozze reali ● Ingresso della coppia reale a Verona ● ●
F esteggiamenti per le nozze a Verona ● Autari conquista Reggio Calabria ●
QUARTO REGISTRO (da sinistra a destra)
Autari muore avvelenato a Pavia Teodolinda viene confermata regina dei Longobardi e ottiene di scegliere il secondo marito. La scelta cade su Agilulfo, duca di Torino ● Agilulfo riceve un messaggio di Teodolinda ● Agilulfo e Teodolinda si incontrano a Lomello ● Agilulfo si converte al cattolicesimo e cambia il suo nome in Paolo ● Incoronazione di Agilulfo a re dei Longobardi
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ozze di Teodolinda e Agilulfo N Banchetto di nozze Partenza della coppia reale per la caccia Teodolinda sogna una colomba che le indicherà il luogo dove erigere una chiesa. Sua partenza alla ricerca del luogo adatto Apparizione dello Spirito Santo in forma di colomba
QUINTO REGISTRO (da sinistra a destra) ●
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osa della prima pietra del Duomo P di Monza Teodolinda fa trasformare gli idoli pagani nel tesoro cristiano della nuova chiesa Donazioni di Teodolinda al Duomo
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I ncoronazione di Adaloaldo e donazione di altri tesori Morte di Agilulfo Papa Gregorio Magno consegna al diacono Giovanni ricchi doni per il Duomo di Monza Il diacono Giovanni consegna i doni al vescovo di Monza alla presenza di Teodolinda Morte della regina Teodolinda Il basileus Costante IV parte per muovere guerra ai Longobardi Arrivo in Italia di Costante IV Un eremita predice all’imperatore che non riuscirà a sconfiggere i Longobardi Costante lascia l’Italia
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MONZA
Cappella di Teodolinda
VISITIAMO INSIEME PRIMO REGISTRO Antefatto tratto da Paolo Diacono che illustra i tentativi, falliti, di Autari di stabilire un’alleanza matrimoniale con la corona franca. Accolti con tutti gli onori, i messi inviati a Childeberto per chiedere la mano della sorella Clodesinde si vedono infatti negare le nozze, perché la fanciulla è già promessa al visigoto Recaredo. SECONDO REGISTRO Anche la seconda fascia ricalca il resoconto di Paolo Diacono (Historia Langobardorum III, 30). Vengono valorizzati i particolari da romanzo cortese ante litteram, soprattutto quelli sul primo incontro dei due futuri sposi, con lui che si presenta a lei in incognito: «Garibaldo fece venire la figlia e Autari restò a guardarla in silenzio, poiché era molto graziosa. Infine, soddisfatto per la sua scelta, disse al re: “Vostra figlia è davvero bella e merita di essere la nostra regina. Ora, se siete d’accordo, vorremmo ricevere dalle sue mani una tazza di vino, come ella dovrà fare spesso in avvenire con noi”. Garibaldo acconsentí e la principessa, presa una tazza di vino, la porse prima a colui che sembrava il piú autorevole, poi la offrí ad Autari, senza immaginare neanche lontanamente che fosse il suo sposo. Autari, dopo aver bevuto, nel restituire la tazza, sfiorò furtivamente con un dito la mano e si fece scorrere la destra dalla fronte lungo il naso e il viso. La principessa riferí arrossendo la cosa alla nutrice e questa le rispose: “Se costui non fosse il re che deve essere tuo sposo, certo non avrebbe osato neppure toccarti. Ma adesso facciamo finta di niente: è meglio che tuo padre non ne sappia nulla. Secondo me, però, quell’uomo è un vero re e un marito ideale”. In effetti Autari era allora nel fiore
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della giovinezza, ben proporzionato di statura, biondo di capelli e assai bello d’aspetto». E cosí viene infatti rappresentato, incarnando quindi l’ideale di principe cortese.
TERZO REGISTRO Teodolinda giunge in Italia e sposa Autari: secondo Paolo Diacono, le nozze vengono celebrate, nel «campo di Sardi», tra Verona e Trento, il 15 maggio 589. Le scene successive rappresentano i festeggiamenti. Seguono le conquiste di Autari al Sud, contro i Bizantini.
QUARTO REGISTRO Sono illustrate la morte di Autari e le seconde nozze di Teodolinda con il duca Agilulfo. Anche in questo caso la narrazione ricalca fedelmente quanto scritto da Paolo Diacono. Unica eccezione è l’ultimo quadro, formato da due scene distinte: nella prima, composta da due episodi, Teodolinda sogna una colomba che le indicherà il luogo dove erigere una chiesa, poi parte alla sua ricerca; nella seconda lo Spirito Santo le appare in forma di colomba indicando il sito. La fonte è il trecentesco Chronicon Modoetiense di Bonincontro Morigia. I cartigli contengono le parole «Modo» («ora») ed «Etiam» («certo»), la cui unione genererebbe il nome Modoetia (Monza). La trentesima scena è tra le piú celebri: rappresenta il banchetto di nozze, celebrato sotto un elegante architettura. Gli sposi non sembrano particolarmente coinvolti, né dalle vivande disposte sulla mensa riccamente imbandita né dai commensali bardati in sontuose e colorate vesti. Il loro sguardo sembra assente e trasognato.
Il quarto registro, dopo la leggenda del sogno, è chiuso dalla scritta che fissa il termine dei lavori (1444) e reca la firma dei «De Zavatarijs».
QUINTO REGISTRO Fu eseguito come seconda tranche dei lavori, tra il 1445 e il 1446, e rappresenta, come un lungo inciso, alcuni momenti della vita di Teodolinda legati a ricordi locali: la fondazione del Duomo, la dotazione con doni di pregio da parte sua, del figlio Adaloaldo e di papa Gregorio Magno, l’incoronazione di Adaloaldo, la morte dei due sovrani fondatori, sepolti in Duomo. Segue l’effimero tentativo di riconquista del regno longobardo da parte dell’imperatore Costante IV, che viene convinto da un eremita a desistere dall’impresa. L’ultimo registro si chiude col mesto ritorno in patria del basileus, accompagnato da una scritta eloquente: il popolo longobardo non potrà mai essere sconfitto («gens Langobardorum modo superari non posset»), finché godrà della protezione di san Giovanni Battista.
TEODOLINDA
Quasi una femminista ante litteram Figlia del re baiuvaro Garibaldo e di Valdrada, a sua volta discendente da Longobardi della mitica stirpe dei Lithingi, Teodolinda nacque intorno al 570. Allora l’Italia usciva da un decennio di anarchia militare, seguita all’uccisione del re Alboino e del suo successore Clefi. Deboli e divisi, minacciati da Bisanzio e dalla nascente potenza franca, i duchi avevano poi deciso di porre fine ai contrasti ed eleggere un nuovo re nella persona di Autari. Il neosovrano si mostrò deciso a riprendere con forza la politica espansionista in Italia e a rafforzare il suo potere tramite alleanze dinastiche. Fallito il tentativo di unirsi ai Franchi, puntò al loro principale nemico: la corte bavarese, retta allora da re Garibaldo. Nel maggio 589, quando fu impalmata, Teodolinda era cattolica, mentre il marito era ancora pagano (o forse ariano). Ebbe però poco tempo per adattarsi alla vita di corte. Autari, infatti, venne avvelenato il 5 settembre 590, mentre erano in corso le trattative di pace con i Franchi. Data l’urgenza della situazione, e forse anche per il prestigio che si era guadagnata a corte, le fu dunque consentito di scegliere in autonomia il nuovo marito (ma la trasmissione del potere per linea femminile non era sconosciuta alle popolazioni di stirpe germanica). L’opzione cadde sul duca di Torino, Agilulfo, e le nozze furono celebrate a Lomello, non lontano da Pavia. Abbandonate dopo la morte del suo consigliere Secondo di Non le posizioni vicine allo scisma tricapitolino (che rappresentava il dissenso di alcuni vescovi su questioni teologiche inerenti la natura di Cristo), la regina iniziò ad avvicinarsi al papato, attirata dalla straordinaria personalità di Gregorio Magno. Non fu ostacolata dal marito, che pure cattolico non era:
Nella pagina accanto il banchetto nuziale di Teodolinda e Agilulfo. Gli sposi sono rappresentati in atteggiamento distaccato dallo sfarzo mondano che li circonda. In alto ritratto di Teodolinda in un particolare dalla scena del banchetto nuziale.
l’alleanza con la Santa Sede, infatti, poteva aiutare da un lato a consolidare il regno, dall’altro a togliere a Franchi e Bizantini un prezioso alleato. La regina si adoperò dunque per favorire la conversione dei Longobardi e facilitare la fusione definitiva tra conquistatori e conquistati. L’operazione fu condotta non solo restituendo al clero i beni sottratti durante l’invasione, ma anche costruendo chiese e monasteri (tra cui quello di Bobbio). Teodolinda e Agilulfo cercarono anche di conferire alla corona maggior prestigio, richiamandosi alla tradizione romana: privilegiarono Milano, ex capitale imperiale, a Pavia e avviarono un programma di evergetismo che prevedeva la costruzione di palazzi e il ripristino di chiese e monumenti. Monza, a sole 12 miglia dal capoluogo ambrosiano, fu scelta come residenza estiva e provvista di un palatium regio e di una basilica dedicata a san Giovanni Battista, subito dotata di ricchi doni (oggi conservati nel Museo del Tesoro del Duomo). La politica filocattolica di Teodolinda, però, suscitò i malumori dei tradizionalisti – i duchi di Trento, Cividale e Udine –, i quali rialzarono la testa alla morte di Agilulfo (616). La regina e il figlio riuscirono a governare per dieci anni: poi Adaloaldo fu detronizzato e, poco dopo, morí, forse avvelenato. Il 22 gennaio del 627 anche Teodolinda si spegneva. Le loro spoglie, seppellite nella basilica a loro tanto cara, furono traslate nel 1308 in un sarcofago di pietra collocato nei pressi dell’altare di san Vincenzo nel nuovo Duomo che stava sorgendo sull’antica chiesa per volere dei Visconti. Nel 1889, dopo vari spostamenti, la tomba fu innalzata su quattro colonne e posta nella cappella a lei dedicata, contornata dagli affreschi degli Zavattari, dove riposa tuttora.
decisiva impennata: la fondazione e la dotazione del Duomo e la morte della coppia reale (scene 32-40). Infine, il fallito tentativo da parte del basileus Costanzo IV di riconquistare l’Italia e il suo ritorno in Oriente accompagnato da un motto sull’invincibilità dei Longobardi fintanto che si manterranno fedeli a san Giovanni Battista (scene 41-45). Le scene offrono uno splendido spaccato sulla vita di corte nel Quattrocento, epoca in cui sono «trasferiti» gli eventi, resi quindi contemporanei ai committenti: si osservano balli, feste,
banchetti, battute di caccia, si ammirano i particolari sulla moda, i costumi, le acconciature dell’epoca, si possono apprezzare atteggiamenti, gesti e attitudini. Due sono le fonti principali degli episodi: l’Historia Langobardorum di Paolo Diacono, il piú importante testimone dell’epopea longobarda, e il ben piú recente Chronicon Modoetiense del cronista trecentesco Bonincontro Morigia. Dal primo, gli Zavattari ricavarono i particolari piú strettamente «storici», come i dettagli relativi al complesso iter che portò al matrimonio con SAPER VEDERE
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Cappella di Teodolinda
A sinistra una restauratrice al lavoro sulla nona scena del quarto registro che raffigura Teodolinda e Agilulfo che escono per una battuta di caccia. Nella scena successiva (a destra), Teodolinda, addormentata, sogna una colomba che le indicherà il luogo dove erigere una chiesa. In basso, a destra, si scorgono l’iscrizione «1444» e i versi in latino che marcano la conclusione della prima fase di esecuzione dei dipinti. A destra la quarta scena del quarto registro. Vedova di Autari e confermata regina dai Longobardi, Teodolinda ha già scelto come nuovo consorte Agilulfo, duca di Torino, e incontra il futuro sposo a Lomello, alla presenza del vescovo e della corte.
Autari (compresa la romantica storia dell’incontro tra i due futuri sposi) e poi alle seconde nozze con Agilulfo. Dal secondo, invece, i pittori milanesi trassero la leggenda che vuole il nome di Monza inventato dalla regina in persona mentre cercava il luogo adatto per fondare la chiesa del Battista, futura cattedrale della città. Una notte – racconta Bonincontro – Teodolinda sognò di doverla fabbricare là dove gli fosse apparso lo Spirito Santo in forma di colomba. Dopo aver a lungo viaggiato, la donna giunse a Olmea, una località sul Lambro cosí chiamata per via degli olmi che vi crescevano in abbondanza. Qui scese da cavallo e, riparatasi sotto l’ombra di un albero, vide finalmente comparire la colomba che, con voce umana, la esortò a procedere sul posto, pronunciando la parola latina «modo» («adesso»). Accogliendo il messaggio divino, la regina
rispose «etiam» («certo»), e dall’unione dei due vocaboli – ma l’etimologia è fantasiosa – sarebbe nato Modoetia, l’antico nome di Monza.
Un mistero in quattro versi
Le pitture vennero realizzate in due fasi distinte: la prima, terminata nel 1444, è conclusa da un’iscrizione datata e firmata «de Zavatarijs» alla fine del quarto registro; la seconda, iniziata nell’inverno dell’anno successivo, si chiuse entro l’autunno del 1446. La scritta in sé è piuttosto interessante e racchiude anche un piccolo «giallo». Sono quattro versi in un latino piuttosto colto: «Suspice qui transis, ut vivos corpore vultus / peneque spirantes, ut signa simillima verbis, / De Zavatarijs hanc ornavere capellam / Praeter in excelso convexae picta truinae». TradotSAPER VEDERE
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Cappella di Teodolinda
ti liberamente, significano: «O tu che passi, ammira i volti delle figure dipinte che quasi respirano e le immagini molto simili a un racconto. Gli Zavattari decorarono questa cappella eccetto la volta». Ed ecco il «mistero»: l’accenno agli Zavattari fu a lungo riferito ai committenti degli affreschi (alla fine del XVIII secolo, lo storico ed erudito Antonio Francesco Frisi li definiva «una delle estinte nobili famiglie monzesi») e non ai loro materiali esecutori. È invece ormai assodato che l’opera fu realizzata dall’omonima dinastia di pittori milanesi, costituita da Francesco («Franceschino»), Gregorio, Ambrogio e Giovanni: una famiglia il cui capostipite – il padre di Francesco, Cristoforo – all’inizio del Quattrocento aveva lavorato nel cantiere del nascente Duomo di Milano.
Una sovrapposizione ideale
Ma se gli Zavattari realizzarono gli affreschi, chi fu allora il committente? La questione è complessa, ma si può cosí sintetizzarla. La prima tranche, costituita dal blocco omogeneo delle «storie matrimoniali» di Teodolinda e terminata nel 1444, fu voluta da Filippo Maria Visconti per celebrare le nozze della figlia Bianca Maria con Francesco Sforza, officiate a Cremona il 25 ottobre del 1441, sovrapponendo cosí idealmente il personaggio di Teodolinda a quello di Bianca Maria. Un matrimonio dal forte sapore politico, che Francesco aveva perseguito tenacemente, ponendo le premesse per il passaggio del potere, per via dinastica, tra i Visconti e gli Sforza. Il programma iconografico sarebbe stato elaborato da un dotto monzese della cerchia ducale, probabilmente il teologo francescano Martino Reco («Rechus») che compare in varie carte d’archivio. Il secondo lotto, invece, fu voluto dal Capitolo di S. Giovanni, in accordo con il Comune di Monza. Lo dimostra il contratto relativo all’affidamento dei lavori del 10 marzo 1445, oggi conservato nel Fondo Notarile dell’Archivio di Stato di Milano. Rogato dal notaio monzese Gerardo Briosco, l’atto cita come committenti sette canonici appartenenti alla basilica: l’anziano arciprete Battista Bossi, i presbiteri Simone de Medici da Seregno e Stefano Vecchi, e Cristoforo da Lesmo, cappellano ducale di Filippo Maria Visconti. A questi si aggiungono due rappresentanti del Comune di Monza: il procuratore Bertolino Rabia e il fabbriciere Francesco Seroldono. Tutti personaggi locali, legati alla corte milanese. Costoro decisero quindi di aggiungere agli episodi già esistenti alcune scene di carattere 34
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locale: la critica ha anche proposto di individuare nella quarantunesima – che rappresenta la morte della regina – il ritratto di alcune di queste personalità monzesi. Ma dato il legame di molte di esse con la corte viscontea, anche questa parte dovette comunque essere realizzata con la piena approvazione del duca, il cui stemma compare infatti insieme alla sigla «FI MA» (Filippo Maria).
«Re di tutta Italia»
Il richiamo all’eredità longobarda da parte di Filippo Maria non era casuale: furono infatti per primi i Visconti a proclamarsene continuatori ed eredi come «re di tutta Italia». Lo dimostra la Chronica Danielis, scritta forse dal domenicano Galvano Fiamma prima del 1322, tracciando una linea ideale che da Desiderio – l’ultimo re, deposto da Carlo Magno nel 774 – giunge ai Visconti, passando per le controverse figure dei due Berengari e di Ugo di Provenza. Già Galeazzo II, nel 1359, aveva non a caso trasferito a Pavia, antica capitale del regno longobardo, la corte ducale ed eletto la basilica di S. Pietro in Ciel d’Oro, che già ospitava il sepolcro del grande re Liutprando, come ultima dimora per le sue ossa. Il processo si era compiuto con altri episodi. Nel 1397, due anni dopo l’acquisto del titolo
In alto particolare della decima scena del quarto registro del ciclo, in cui Teodolinda, esortata dall’apparizione in sogno dello Spirito Santo nelle sembianze di una colomba, parte alla ricerca del luogo in cui erigere una chiesa. Il punto esatto le sarà rivelato da una nuova manifestazione dello Spirito Santo sotto forma di colomba. Nella pagina accanto particolare della nona scena del secondo registro, raffigurante Autari che ritorna in Italia dalla Baviera assieme a una delegazione di Longobardi. Si è recato in incognito alla corte di Garibaldo duca di Bavari e padre di Teodolinda, che gli ha già concesso la mano della figlia.
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Cappella di Teodolinda
DOVE E QUANDO Cappella di Teodolinda Duomo, Monza Orario lu, 15,00-18,00; ma-sa, 9,00-18,00; do, 14,00-18,00; tutti gli orari sono garantiti compatibilmente con le funzioni liturgiche Info tel. 039 326383; e-mail: info@museoduomomonza.it; www.museoduomomonza.it
In basso la Corona Ferrea. Gioiello di oreficeria del IV-V sec., è venerata come una reliquia. Secondo la tradizione, fu realizzata con uno dei chiodi usati per la Crocifissione.
di duca, Gian Galeazzo aveva ottenuto dall’imperatore Venceslao anche il feudo di Angera, i cui conti discendevano dai re longobardi, e, con esso, l’avallo imperiale a chiudere il cerchio dell’illustre genealogia. E il suo elogio funebre, miniato da Michelino da Besozzo, avrebbe esposto tutti i nomi dei prestigiosi antenati, passando per Ratchis, Astolfo, Desiderio, fino al re d’Italia e imperatore Berengario del Friuli. Dalla metà del Trecento, inoltre, i Visconti si erano proclamati difensori della basilica di S. Giovanni Battista di Monza e del suo tesoro. E cosí come Teodolinda a suo tempo aveva fatto ricostruire a Monza il palazzo reale che era stato di Teodorico, adornandolo di affreschi che rappresentavano i costumi del suo
popolo d’adozione, ora Filippo Maria faceva affrescare il «suo» Duomo con un ciclo pittorico a lei interamente dedicato.
Diciassette mani diverse
La commissione del ciclo ai fratelli Zavattari e il relativo programma iconografico rivelano dunque l’intenzione, conclamata, di legare la stirpe regnante longobarda al casato visconteo. Una politica poi proseguita anche dagli Sforza, i cui storiografi di corte – da Giorgio Merula a Bernardo Sacco – si prodigarono in giudizi lusinghieri sull’antica gens germanica. Gli Zavattari realizzarono l’imponente apparato decorativo intervenendo di persona e coordinando un folto gruppo di artisti: sono state infatti individuate almeno diciassette mani diverse. Dal punto di vista stilistico, il ciclo è stato accostato ad altre
LA CORONA FERREA
Da Costantino a Napoleone Nell’altare della cappella di Teodolinda è custodita la Corona Ferrea, capolavoro di oreficeria e simbolo tra i piú importanti dell’Occidente. Formata da sei piastre d’oro finemente decorate con gemme e smalti incastonati, porta al suo interno un cerchio di metallo che secondo la tradizione fu ricavato da uno dei chiodi utilizzati per la crocifissione di Cristo e rinvenuto da sant’Elena nel 326 durante un viaggio in Palestina (in occasione del quale si dice che avesse trovato anche la Vera Croce): la preziosa reliquia sarebbe stata quindi inserita in un diadema fatto realizzare per il figlio Costantino. Grazie al prestigio conferito dal legame con la Passione di Cristo e con l’imperatore che diede libertà di culto al cristianesimo, la Corona Ferrea fu utilizzata nei secoli dai re d’Italia durante le incoronazioni per attestare l’origine divina del loro potere e, nel contempo, il loro legame con l’antico impero romano di cui si proclamavano eredi.
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Secondo le ultime ricerche scientifiche, la corona sarebbe stata realizzata in epoca tardo-antica – forse ostrogota – come insegna regale, poi trasferita ai re longobardi e infine pervenuta ai Carolingi, che l’avrebbero fatta restaurare e donata al Duomo di Monza. La sua storia è quindi indissolubilmente legata a quella del Duomo e della città ed è simbolo indiscusso di sovranità. Come tale, la Corona Ferrea venne utilizzata non soltanto dai re longobardi, ma anche da Carlo Magno (800), Corrado di Lorena (1093), Corrado III di Svevia (1128), Federico Barbarossa (1158), Enrico VI di Hohenstaufen (1186), Carlo IV di Lussemburgo (1355), Carlo V d’Asburgo (1530), Napoleone Bonaparte (1805) e Ferdinando I d’Austria (1838). Paradossalmente, non fu invece mai indossata dai Savoia. Nel 1895-96 Luca Beltrami fece realizzare il bell’altare neogotico nel quale è da allora conservata.
Un momento del restauro della prima scena del primo registro, in cui Autari, re dei Longobardi, invia una delegazione a Childeberto, re dei Franchi, per chiedere la mano della sorella Clodesinde. La richiesta, però, non può essere esaudita, perché la ragazza è già stata promessa in sposa al visigoto Recaredo.
importanti opere superstiti del primo Quattrocento lombardo, in particolare a quelle di Michelino da Besozzo, di Antonio Pisanello e di Bonifacio Bembo. Si richiamano certo i Tarocchi Viscontei del Bembo, ma anche, e soprattutto, i cicli del Pisanello nel castello di S. Giorgio a Mantova (1424-1426) e nella chiesa di S. Anastasia a Verona (variamente datati al 1433-34 oppure al 1437-38): affreschi dal gusto miniaturistico, in cui sono resi i ricchi particolari delle vesti e delle acconciature delle dame, i paramenti delle cavalcature, le armature dei cavalieri, il tutto immerso in una raffinata atmosfera cortese. Piú distanti, sebbene cronologicamente molto vicine (1435), sembrerebbero invece le Storie di san Giovanni Battista – e, in particolare, il Banchetto di Erode – realizzate da Masolino da Panicale nel battistero di Castiglione Olona (Varese) per il cardinale Branda Castiglioni. Insieme a queste opere citate, agli affreschi del «Maestro dei Giochi» conservati a Milano in Palazzo Borromeo (1450 circa) e a ciò che rimane dopo la distruzione seicentesca dell’opera di Gentile da Fabriano nella cappella di S. Giorgio
al Broletto di Brescia (1411-19), la cappella di Teodolinda è una delle uniche testimonianze pittoriche ancora visibili di quella straordinaria stagione in cui il ducato di Milano, in mano ai Visconti prima e agli Sforza poi, fu al centro delle piú interessanti dinamiche culturali, economiche e artistiche d’Europa.
DA LEGGERE Arte lombarda dai Visconti agli Sforza. Milano al centro dell’Europa, catalogo della mostra (Milano, Palazzo Reale, 12 marzo-28 giugno 2015), Skira, Milano 2015 Renata Negri, Gli Zavattari: la cappella di Teodolinda, FabbriSkira, Milano 1969 Roberto Conti (a cura di), Il Duomo di Monza, Electa, Milano 1990; 2 voll.
Marco Rossi (a cura di), Lombardia Gotica e tardogotica. Arte e architettura, Skira, Milano 2005 Roberto Cassanelli, Roberto Conti (a cura di), Monza. La Cappella di Teodelinda nel Duomo, Soroptimist International Club di Monza-Electa, Milano 1991 Monza. La sua storia, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2002
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Nel palazzo delle stelle
Voluto, innanzitutto, come sede delle attività giudiziarie, lo splendido edificio che per i Padovani fu, fin da subito, il «Salone», si caratterizza per lo straordinario ciclo affrescato che ne orna le pareti. Un racconto per immagini vivace e articolato, che descrive l’influsso degli astri e dei cicli cosmici sulla vita dell’uomo 38
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di Furio Cappelli
I
l Palazzo della Ragione di Padova era già una solida realtà, quando il giudice-cronista Giovanni da Nono (1275 circa-1346) lo presentò sotto forma di una visione. Nella Visio Egidii Regis Pataviae, immaginò, infatti, che un angelo fosse sceso a confortare il mitico re Egidio, dopo che era fuggito a Rimini, mentre la «sua» Padova veniva cancellata dalle fiamme appiccate dal feroce Attila. E che, per infondere speranza al re affranto, l’angelo avesse cantato le lodi della città destinata a risorgere dalle rovine, ben
piú grande e splendente di quella annientata dal re unno. L’angelo passò dunque in rassegna la cerchia delle mura urbiche, le case e torri gentilizie, i mercati e i palazzi pubblici. Tra questi ultimi, si soffermò sull’edificio-simbolo principale, il Palazzo della Ragione, prevedendo che sarebbe stato innalzato poco prima della salita al trono imperiale di Federico II di Svevia: il sovrano, infatti, venne incoronato dal papa nel 1220, mentre il palazzo era già stato realizzato tra il 1218 e il 1219.
Padova. Una delle pareti affrescate del Palazzo della Ragione. Il grandioso ciclo fu realizzato tra il 1420 e il 1425 da Niccolò Miretto, in sostituzione del precedente, dipinto da Giotto e andato distrutto a causa di un incendio.
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Palazzo della Ragione
L’area prescelta dai Padovani era interessata dal corso di un ruscello e da uno specchio d’acqua, presso il quale gli abitanti erano soliti andare a pesca. «Questo palazzo occuperà un’area pari ad un campo. Le fondamenta di esso saranno fatte con grandi pietre squadrate, legate insieme con ferro e piombo. La larghezza di tali fondazioni sarà di quattro piedi e quella del muro, costruitovi sopra, di tre. Ma l’altezza del muro, compresi i merli, sarà di sessanta cubiti». La grande mole dell’edificio, tutto realizzato in laterizio, sarebbe stata impreziosita dal marmo rosso di Verona, sia sulle colonnine delle finestre, sia sulle quattro rampe di scale simmetriche che avrebbero dato accesso al piano nobile, direttamente dalle piazze prospicienti: due sul fronte meridionale, verso la piazza delle Erbe, e due sul fronte settentrionale, verso la piazza della Frutta. In capo alle scale, quattro solenni portali, con il frontone sostenuto da grandi colonne anch’esse di marmo, avrebbero portato all’aula in cui si sarebbe amministrata la giustizia. Oggi quegli ingressi non sono piú impreziositi dalle colonne marmoree, ma presentano sul timpano quattro bassorilievi quattrocenteschi dedicati a letterati illustri della città. Varcata la soglia, si entra in un unico, vastissimo ambiente, tanto che l’intero palazzo è noto ai Padovani come il Salone della città. All’epoca
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di Giovanni da Nono, bancate di legno e tramezzi di muratura ne suddividevano invece lo spazio, per ricavare settori e ambienti ben distinti. Sul lato orientale, per esempio, come attestano gli affreschi superstiti a tema religioso sulla fascia inferiore della parete, era situata una cappella. Sui fronti maggiori, lungo le pareti rivolte alle piazze, si succedevano le cattedre lignee destinate ai giudici.
A ciascuno il suo disco
Ciascun magistrato era addetto a un comparto (disco) reso immediatamente riconoscibile dall’insegna dipinta sulla parete (quelle oggi osservabili sono in larga parte rifacimenti settecenteschi di pitture già rinnovate nel XIV e nel XV secolo). Secondo questo sistema ingegnoso, deliberato nel 1271, ogni tribunale era intitolato a un animale desunto dal consueto repertorio dei bestiari medievali, senza disdegnare gli esseri di pura fantasia, come il drago o l’unicorno. In questo modo, i convenuti, sia pure analfabeti, erano in grado di riconoscere con facilità il disco nel quale risiedeva il giudice preposto alla causa di proprio interesse. Come un monito inquietante, al centro della sala era situata la pietra del Vituperio (oggi trasferita in un angolo). Già attestata nel 1261, la pietra è, in sostanza, un singolare sedile a forma
Nella pagina accanto, in alto pianta di Padova, in cui al centro, facilmente riconoscibile dalla sagoma bombata della copertura, è il Palazzo della Ragione. XVII sec. Padova, Biblioteca Civica. In basso la facciata del Palazzo della Ragione che prospetta su piazza della Frutta. La costruzione dell’edificio prese avvio nel 1218 e si concluse nell’anno successivo.
di campana che sormonta un podio di tre gradini. Il nome deriva dall’epigrafe che si legge tutt’intorno: Lapis vituperii et cessionis bonorum. Il debitore insolvente era costretto a sedervisi, di fronte a una folla vociante opportunamente adunata, scalzo e vestito solo di camicia e mutande. La messa alla berlina prevedeva poi tre giri intorno alla pietra, durante i quali il condannato gridava: «Cedo bonis!» («Rinuncio ai beni!»), con ciò accettando la procedura di esproprio ai suoi danni. Era poi costretto all’esilio e poteva rientrare con il consenso dei creditori, ma, in caso di recidiva, avrebbe subito nuovamente l’onta del vituperio, con l’aggiunta di una serie di secchiate di acqua gelida.
Giotto: un nome, una garanzia
Tra il 1310 e il 1346, proprio sulle cattedre del Salone aveva esercitato la propria professione il nostro giudice-cronista Giovanni da Nono, il quale, nella sua «visione profetica», ricorda il ciclo pittorico che alla sua epoca coronava le pareti. Era un’opera che aveva visto allestire con i propri occhi, affidata a un maestro di indiscussa levatura, Giotto, già ben
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noto a Padova per gli affreschi che Enrico Scrovegni gli aveva commissionato per la propria cappella-mausoleo dell’Arena e per avere lavorato anche al Santo, ossia presso la basilica francescana di S. Antonio, realizzando alcuni affreschi oggi perduti. Il vastissimo lavoro di decorazione svolto presso il Palazzo della Ragione, d’altro canto, fu distrutto da un furioso incendio scoppiato nella notte del 2 febbraio 1420. Un testimone, l’umanista Sicco Polenton, scrisse a ridosso del tragico evento, otto giorni dopo: «[Il palazzo fu] consunto dopo appena duecento anni, mentre noi lo ritenevamo perpetuo! In un batter d’occhio le travi di larice, vetuste, arsero in una fiammata, e la volta eminente crollò col piombo liquefatto (il soffitto ligneo, allora come oggi, era infatti completamente rivestito sull’esterno da lastre di piombo, n.d.a.). Tanta massa di legname in sole tre ore fu divorata da un fuoco cosí rapido che di quanti erano accorsi, chiamati dalle grida e dal suono delle trombe e delle campane, molti videro le ceneri, pochissimi il fuoco. Periti i dipinti di Giotto e le (segue a p. 44) SAPER VEDERE
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IL MONUMENTO IN SINTESI
La «nave» delle meraviglie
Simbolo dell’orgoglio cittadino Perché è importante Il Palazzo della Ragione di Padova è una delle piú cospicue residenze superstiti del potere pubblico medievale. La sua rilevanza non è solo dovuta alle sue ampie dimensioni, ma alla sua scrupolosa articolazione in stretto rapporto con gli ambienti della vita economica. Il piano nobile, grazie alle soluzioni tecniche e agli apporti decorativi del Tre-Quattrocento, costituisce uno sgargiante insieme di rara completezza. Il Palazzo della Ragione nella storia Segno eloquente di autonomia, orgoglio e intraprendenza, il Palazzo della Ragione segna il culmine della vicenda del libero Comune della Padova medievale. L’edificio, infatti, trae ragion
d’essere dalle decisioni di una comunità che riesce a creare e a mantenere un proprio spazio di vitalità politica e commerciale, senza subire imposizioni da forze esterne o da poteri signorili, fatta salva la parentesi del dominio ghibellino di Ezzelino III da Romano. Il Palazzo della Ragione nell’arte La fase originaria si ricollega agevolmente alla tradizione dei palazzi civici dell’area padana. Grazie all’apporto di Fra’ Giovanni degli Eremitani, gli aspetti piú originali dell’edificio, in rapporto alla realtà civica, vengono esaltati con grande sapienza tecnica e formale. Perso l’originale giottesco, il ciclo astrologico di Niccolò Miretto è comunque un complesso pittorico straordinario per estensione e per accuratezza.
A destra santa Giustina, compatrona di Padova, raffigurata in cattedra, nella fascia ad affresco che corre sopra alla porta della Scala del Vino. XIV sec. Nella pagina accanto una veduta del Salone. In origine, il vasto spazio (80 x 27 m), non si presentava come un unico ambiente, ma era suddiviso in piú comparti da bancate in legno e tramezzi in muratura. In basso spaccato dell’edificio, che ne illustra l’articolazione e sottolinea la caratteristica sagoma del tetto, che lo rende simile allo scafo di un’imbarcazione.
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Palazzo della Ragione
cattedre dei giudici! Tutti ora vanno errando smarriti per strade della città, come colombi scacciati dal nido. E che dire della distruzione dei documenti? Mancando gli scritti che parlavano ora risorgeranno le liti che ormai tacevano». Non si hanno certezze sulla tecnica adottata da Giotto per la sua opera. Si trattò forse di un ciclo affrescato, come quello realizzato in sua sostituzione all’indomani del disastro, ma poteva anche trattarsi di un lavoro direttamente montato sulla struttura lignea del soffitto, costituito da tavole dipinte a tempera e incorniciate, come un gigantesco polittico. In ogni caso, Giovanni da Nono attesta che i dipinti erano a carattere profano, componendo un grande «almanacco» di astrologia, come gli affreschi quattrocenteschi che possiamo oggi ammirare. A completamento della decorazione, il soffitto era già rivestito di un manto di stelle dipinto su tavola, ripristinato durante i lavori di restauro del 1420-25, allorché si contarono oltre 7000 stelle d’oro su fondo blu. Il nuovo soffitto, invece, corrispondente alla struttura attuale e messo in opera dopo i gravi danni causati dalla tromba d’aria del 1756, è completamente spoglio. Il manto stellato fungeva da raccordo e da naturale coronamento del ciclo astrologico, ma era anche coerente con l’ispirazione generale dell’edificio, soprattutto nella forma definitiva assunta nel Trecento.
Come la carena di una nave
L’ingegnoso frate-architetto Giovanni degli Eremitani aveva sperimentato nella chiesa padovana dei propri confratelli (Eremiti di sant’Agostino o Agostiniani) un articolato soffitto a sezione polilobata, che doveva richiamare la forma della carena di una nave. La volta lignea cosí articolata si prestava a coprire la vasta aula con un forte senso di audacia tecnica e di esaltazione dello spazio. E i Padovani, nel 1306, pensarono bene di coinvolgere Fra’ Giovanni, per rendere ancor piú avvincente la mole del Palazzo della Ragione. La sua 44
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In basso particolare del ciclo affrescato che decora il Palazzo della Ragione. Inizia con il mese di marzo, del quale sono qui illustrati i primi riquadri. Nella fascia in alto, un airone e una cortigiana; a sinistra, l’apostolo Andrea; a destra, due
cavalieri con falcone e, in basso, un vescovo tra due dame. Nel 1440, il medico Michele Savonarola, ricondusse al medico e filosofo Pietro d’Abano questa grandiosa composizione: d’Abano, infatti, pur ammettendo che Dio fosse la causa prima di ogni cosa, sosteneva che le «cause seconde», individuate dalla scienza astrologica, agivano sulla realtà a prescindere dall’intervento divino.
perizia nell’allestire soffitti di effetto su ampie superfici suggeriva infatti di riconfigurare l’edificio proprio in funzione di una copertura assai originale e impegnativa. Le pareti furono rialzate di 6 m, ma non si cercava di competere in altezza con le altre componenti del paesaggio urbano. Si cercava bensí di realizzare una forma inconfondibile, tale da spiccare con maggior forza nello scenario delle due piazze del mercato, che erano (e sono tuttora) il fulcro della vita economica e sociale della città. Il soffitto carenato, con le sue profilature a sesto acuto e la sua forma bombata, magnificava il palazzo sia all’interno che all’esterno. Fu sigillato da costose lastre di piombo e contornato da una merlatura a pinnacoli assai particolare, di vaga ispirazione orientale, che competeva con gli analoghi esotismi del Palazzo Ducale di Venezia, l’eterna rivale di Padova. La decorazione astrologica di Giotto, corredata dal manto di stelle, dava al Salone una chiara dimensione cosmica e ne faceva una sorta di gigantesca nave, che solcava trionfalmente le vie del cielo. L’effetto non era fine a se stesso, ma perfettamente attinente alla rigorosa «macchina» dell’amministrazione della giustizia. Dice infatti il giurista Giovanni da Viterbo (XIII secolo), richiamato dagli studiosi Maria Beatrice Rigobello e Francesco Autizi: «Come il navigante dirige e governa la nave con l’albero e con il timone, cosí il podestà dirige e governa la città con la giustizia e il diritto». E dal momento che, in base alla scienza astrologica, leggere la mappa del cosmo consente di penetrare la natura di ogni individuo e di svelarne le inclinazioni, proprio la raffigurazione dello Zodiaco si presta bene a esaltare il ruolo del giudice, chiamato a valutare gli atti e la personalità degli uomini. Tanta profusione di scienza e di arte era frutto di un impegno comunitario, e il fascino del Palazzo della Ragione sta proprio nella sua capacità di innervare una raffinata sapienza filosofica ed estetica nel vivo della realtà padovana. Il Salone,
infatti, è il culmine delle piazze, integra l’ambiente urbano senza isolarsi ed è letteralmente permeato dalla vivace realtà del mercato, come già nella originaria concezione duecentesca.
Una coesione straordinaria
Come già ricordato, l’aula di giustizia è collegata da scaloni esterni. Un passaggio trasversale collega nel mezzo dell’edificio le due piazze e interseca le botteghe che si susseguono lungo i lati principali. I portici piú antichi sono inseriti nel solido volume della struttura duecentesca, mentre Fra’ Giovanni aggiunge su entrambi i lati due nuovi portici con loggiato che ampliano il volume dell’edificio, coinvolgendo ancor piú le piazze su cui prospetta.
Non si potrebbe raffigurare meglio la straordinaria coesione tra vita politica, amministrazione della giustizia ed economia in una florida e popolosa città comunale del Medioevo italiano. Come se non bastasse, i quattro scaloni che collegano l’aula di giustizia prendono nome dal genere delle merci vendute nei pressi: gli Osei (uccelli), il Vin, le Erbe e i Ferri. Al Salone si accede salendo la Scala dei Ferri che dà su Piazza delle Erbe. La porta corrispondente è sormontata dall’effigie scultorea di Pietro d’Abano (1255 circa-1315 circa), il medico e filosofo che fu grande protagonista dell’ambiente universitario padovano. Viaggiatore nelle terre d’Oriente, profondo studioso di Averroè (1126-1198) e della cosmologia araba, ebbe vita
Padova, Palazzo della Ragione. Particolare di uno dei riquadri della raffigurazione del mese di marzo del ciclo dello Zodiaco, che mostra due cavalieri con falcone.
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Palazzo della Ragione
LE DATE DA RICORDARE 1166 Prima menzione di un palazzo comunale padovano, probabilmente sul luogo dell’attuale Palazzo della Ragione. 1174 Un incendio distrugge centinaia di case della città, in gran parte edificata in legno. Padova risulta avere 15 000 abitanti.
1215-1216 Gli statuti comunali prevedono norme «antimagnatizie» a tutela dei diritti del popolo. 1218 Prende l’avvio la fabbrica del Palazzo della Ragione, che viene concluso l’anno seguente.
1175 Il podestà forestiero subentra al Collegio dei Consoli nel governo comunale.
1237-1256 Dominio di Ezzelino III da Romano, fiancheggiato dall’imperatore Federico II di Svevia.
difficile nel difendere le sue convinzioni riguardo agli influssi degli astri sulle attitudini e sui destini dell’uomo. Pietro, infatti, non negava che Dio fosse la causa prima di ogni cosa, ma non ammetteva che tutto fosse riconducibile direttamente alla sua volontà: in base al proprio pensiero, le «cause seconde», individuate dalla scienza astrologica, agivano sulla realtà a prescindere dall’intervento divino.
La città difende l’«eretico»
La Chiesa, naturalmente, contrastò le sue teorie. Lo scienziato morí nel corso del terzo processo intentato a suo carico dall’Inquisizione, e subí una condanna per eresia post mortem, cosicché la sua salma fu dissepolta e messa sul rogo. Ma la città rimase sempre al suo fianco e lo difese costantemente, serbandone la memoria con orgoglio. In particolare, il medico suo seguace Michele Savonarola, nel 1440, riconduce a lui l’ispirazione del ciclo astrologico che Giotto realizzò nel Salone: quello stesso ciclo che, dopo la distruzione del 1420, fu poi riproposto nella forma attuale dal pittore padovano Niccolò Miretto, in collaborazione con un maestro ferrarese non meglio identificato. Il ciclo pittorico che oggi si può ammirare è ricchissimo e sorprendente. Sono rari gli accenti «moderni» di gusto tardo-gotico, come se prevalesse la volontà quasi «filologica» di riproporre lo stile e l’impaginazione del ciclo perduto. Lo sviluppo complessivo sulle quattro pareti impegna un «circuito» di 217 m, senza soluzione di continuità. Le 319 scene sono in massima parte ripartite su tre fasce, lungo sequenze di 9 comparti (3 x 3), secondo un con46
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1281 Viene completato il Palazzo del Podestà. La città ha una popolazione di 27-30 000 abitanti. 1303-1305 Giotto è all’opera presso la Cappella degli Scrovegni.
1285 Vengono completati 1271 Vengono disposte le insegne il Palazzo del Consiglio e il che all’interno del Palazzo degli Anziani. Salone dovevano distinguere i diversi 1306-1309 Fra’ Giovanni tribunali, con il degli Eremitani provvede alla ricorso a una serie sopraelevazione del Palazzo della di animali-simbolo. Ragione, in funzione del nuovo soffitto carenato.
1319 ca. Lo stesso Fra’ Giovanni porta a compimento i due portici con loggiato sui fronti rivolti alle piazze. 1338 Con l’ascesa al potere di Ubertino, si apre il periodo della signoria dei Carraresi.
1405 Padova passa sotto il dominio di Venezia. 1420, 2 febbraio Durante la notte, da una bottega situata nel mezzanino, si sviluppa un gigantesco incendio, che provoca gravissimi danni al Palazzo della Ragione.
1433 Risultano già eseguiti i portichetti di aggiunta sui prospetti principali. 1756, 17 agosto Una tromba d’aria scoperchia il palazzo, imponendo la quasi totale ricostruzione del soffitto.
1420-1425 Lavori di restauro con l’appoggio del governo veneziano. Il soffitto viene ricostruito su direzione dell’ingegnere navale Bartolomeo Rizzo. Il padovano Niccolò Miretto ridipinge in toto il ciclo astrologico. Soffitti a volta rimpiazzano le coperture lignee dei portici e delle logge e si realizzano le balaustre delle logge stesse e delle scalinate, in candida pietra d’Istria e marmo rosso di Verona. Nella pagina accanto la parte finale della sezione dedicata al mese di Marzo (a sinistra). Nella fascia in alto, una casa con un topo nel solaio e, a destra, due donne litigiose; al centro, Marte in trono e un ponte che attraversa un fiume vorticoso; in basso, un arrotino e il laboratorio di un fabbricante di balestre. A destra una sequenza delle scene religiose interposte tra i mesi di Aprile e di Maggio (a destra). Nella fascia in alto, l’allegoria della Teologia e la raffigurazione della Pace; al centro, il Sangue di Cristo che sgorga da una croce posta su un altare, a destra l’adorazione dell’Agnello. Le due immagini sono separate da un sole dorato in rilievo; in basso, un edificio merlato, a destra un sacerdote asperge il sangue di Cristo su alcuni fedeli.
1819 Su donazione di Giovan Battista Belzoni, il Salone si arricchisce di due statue egizie del XIII secolo a.C., oggi trasferite ai Musei Civici.
2005 Giunge a termine il minuzioso restauro del ciclo astrologico.
1837, 11 dicembre Su donazione di Giorgio e Giordano Capodilista, il palazzo accoglie il grande cavallo ligneo da parata, opera quattrocentesca di anonimo artefice. Durante il rimontaggio, viene sottoposto a restauri e a integrazioni.
Il ciclo prende avvio dall’angolo sud-orientale, con il mese di Marzo. A est, infatti, sorge il sole, e Marzo apre la primavera, e con essa il ciclo delle stagioni, all’insegna del risveglio, della ritrovata vigoria, che può spingere anche a comportamenti violenti o collerici. Come in ogni mese, dopo la raffigurazione dell’Apostolo (in questo caso sant’Andrea), che impegna lo spazio corrispondente a due fasce, nella fascia centrale spiccano la personificazione del mese stesso, il segno dello Zodiaco e la personificazione del pianeta corrispondente. Di fianco a una elegante scena cortese con due giovani cavalieri con falcone, Marzo ha le solari sembianze di un robusto cacciatore che suona due corni.
Un mestiere per ogni segno
cetto generale di trasparente riferimento simbolico, dal momento che 3 è il numero perfetto della Trinità. Ogni mese è introdotto dalla raffigurazione di uno dei dodici Apostoli, a rimarcare il ruolo della «causa prima» (Dio) nei destini dell’uomo. La stessa volontà di stabilire un nesso diretto tra astrologia e Rivelazione è data da una sequenza di immagini a carattere religioso e da singole scene (l’Elemosina di San Marco, in omaggio a Venezia, e l’Incoronazione della Vergine) che si interpongono nella rappresentazione dei Mesi.
L’Ariete è raffigurato in salita, perché inizia a esercitare la sua influenza. Marte, dalla testa raggiata, si presenta come un guerriero vestito all’antica, solennemente seduto in trono. Tutt’intorno, si snoda l’evocazione dei caratteri connessi, insieme a scene dedicate ai mestieri, secondo la tradizione iconografica dei calendari medievali. Queste ultime, vivaci e dettagliate, punteggiano la fascia inferiore, dove troviamo un pescivendolo e un arrotino. Ma è l’evocazione dei caratteri che stupisce e affascina, per varietà di soggetti e di ispirazione. Dall’alto verso il basso, per esempio, scorrendo le fasce, si incontrano una donna nuda adagiata sul letto, un’evocazione del mitico Ercole, una scena di infanticidio, una casa deserta con un topo nel solaio, due enigmatiche grotte, un cavaliere che si accanisce contro una SAPER VEDERE
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Palazzo della Ragione
DOVE E QUANDO Palazzo della Ragione Padova, piazza delle Erbe Orario feb-ott: tutti i giorni: 9,00-19,00; nov-gen: tutti i giorni, 9,00-18,00; chiuso il lunedí; su prenotazione, è possibile anche visitare i sotterranei, laddove recenti scavi archeologici hanno individuato una domus romana e le probabili fondazioni del piú antico palazzo pubblico, attestato nel XII secolo Info tel. 049 8205006; www.padovanet.it; http://padovacultura. padovanet.it
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In alto, a sinistra la fascia finale della sezione dedicata al mese di Dicembre (nella pagina accanto). In alto, una coppia di amanti stretti in un amplesso (si nota il resto della pittura sovrapposta per «censura»); al centro, grandeggia Saturno; in basso si osserva un uomo triste che legge. Nella fascia a fianco, in apertura del mese di Gennaio, una montagna sormonta l’effigie di san Pietro. A sinistra particolare raffigurante il segno zodiacale del Cancro.
Nella pagina accanto, a destra una sezione degli scomparti del mese di Febbraio, l’ultimo del ciclo. Nei riquadri superiori, un dromedario alato e un’allegoria della costellazione del Sacrarium; al centro, due scene di investitura che simboleggiano l’autorità religiosa; nella fascia inferiore, due Sapienti a confronto e un nobile che dona il mantello a un povero. A destra particolare della sezione dedicata al mese di Gennaio, con una scena di vita familiare.
donna calpestandola con gli zoccoli della propria cavalcatura, un suicida. Tra i tanti episodi di presa immediata che si incontrano, mese dopo mese, basterà ricordare la «conturbante» scena degli amanti (Dicembre), in seguito censurata con la sovrapposizione di una immagine di dama in posa stante, oppure l’intensa scena di gruppo ambientata all’interno di una casa, di fronte al fuoco, per simboleggiare il mese di Gennaio. Per gli aspetti piú sottili ed «esotici», si possono ricordare i singolari richiami alla figura del dromedario, presente anche in versione alata (Febbraio), o l’immagine emblematica di un tipico mausoleo islamico (Giugno). In simili dettagli si coglie bene un’agguerrita cultura enciclopedica, che unisce l’Oriente all’Occidente nel segno della grandezza di Padova.
DA LEGGERE Serena Romano, La O di Giotto, Skira, Milano 2008 Elisabetta Antoniazzi Rossi (a cura di), Il Palazzo della Ragione a Padova, Skira, Milano 2007
Maria Beatrice Rigobello, Francesco Autizi, Palazzo della Ragione di Padova. Simbologie degli astri e rappresentazioni del governo, Il Poligrafo, Padova 2008
D’altronde, a prestar fede a un generoso cronista del Quattrocento, Paolo Ongarello, lo stesso Fra’ Giovanni degli Eremitani, per realizzare il fantastico soffitto carenato, aveva preso spunto da un edificio visitato durante un viaggio nella lontana India. SAPER VEDERE
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Un battistero da favola Voluto come teatro solenne del rito del battesimo, l’edificio consacrato dal vescovo Obizzo Sanvitale è uno dei monumenti piú insigni dell’arte medievale italiana. A caratterizzarlo, è soprattutto il complesso scultoreo realizzato da Benedetto Antelami, che affida alla pietra la singolare rivisitazione in chiave cristiana di un’antica leggenda tramandata nella lontana India
di Furio Cappelli Parma, piazza Duomo. Veduta complessiva della Cattedrale (a sinistra) e del Battistero.
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n’antica storia di origini indiane narra le peripezie di un uomo che fugge terrorizzato. Lo insegue un paossente unicorno imbizzarrito. In preda alla paura, l’uomo non vede bene dove mette i piedi e scivola cosí in un burrone. Fortunatamente, sull’orlo del precipizio si protende un solido arbusto, che il malcapitato riesce ad afferrare e, per un momento, pensa cosí di aver trovato un nascondiglio perfetto.
Ma poi si avvede che due grossi topi, uno bianco, l’altro nero, stanno rosicchiando la base della pianta su cui ha trovato rifugio. Il loro lavoro è ormai alla fine e, di lí a poco, l’arbusto si schianterà. Sul fondo del burrone attende ansioso un drago, dalle cui narici si protendono lingue di fuoco. A quel punto, la vittima guarda verso l’alto. Ignora la pianta che sta per schiantarsi e il drago pronto a divorarlo e riesce ad assaporare una goccia di miele che stilla da un
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ramoscello: la sua dolcezza è tale che tutte le avversità, per un attimo, sembrano dissolte. L’unicorno che insegue l’uomo incarna la morte; il burrone nel quale egli precipita è il mondo pieno di insidie; i topi che rosicchiano l’arbusto (la vita) rappresentano il tempo (infatti uno è bianco e l’altro è nero, come la luce e l’oscurità, il giorno e la notte); il drago, invece, allude agli orrori dell’Inferno.
Un piacere ingannevole
D’altro canto, la dolcezza della goccia di miele condensa le gioie di un’esistenza intera: è uno di quei piaceri ingannevoli a cui ci si aggrappa quando si vive nel presente, senza badare al proprio destino e alla salvezza della propria anima. È questo l’insegnamento che trassero dalla storia i predicatori cristiani, favorendone l’ampia fortuna nell’immaginario medievale. La parabola del burrone e del miele si diffuse a Bisanzio e poi in Occidente dopo essere stata incastonata dal monaco Eutimio (955-1028) nella Storia di Barlaam e Ioasaf. Ed è sorpren-
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dente l’interpretazione che ne fornisce lo scultore Benedetto Antelami nella lunetta dell’ingresso sud (il Portale della Vita) del Battistero di Parma. L’uomo della storia si è mutato in un fanciullo rifugiatosi nella folta chioma di un albero. Nella stretta connessione iconologica che lega la decorazione esterna all’interno dell’edificio, il protagonista infantile fa da pendant al Gesú Bambino che, nella lunetta interna, è il protagonista della Presentazione al Tempio. L’anima del fedele può smarrirsi tra le insidie del mondo, ma anche trovare la salvezza nell’insegnamento di Cristo. La goccia di miele, evocata da un grande favo, è cosí letteralmente soverchiata dalla poderosa raffigurazione della fede, l’unica forza a cui ci si può affidare contro l’inesorabile scorrere del tempo, e contro la minaccia degli Inferi. Il richiamo alla salvezza nella fede è dato dal Cristo dell’Apocalisse che campeggia al centro dell’architrave, affiancato dall’agnello
In alto la lunetta interna del portale meridionale del Battistero, con la Presentazione al Tempio. Nella pagina accanto Parma, Battistero. Particolare del timpano del portale meridionale (detto «della Vita»), la cui decorazione scultorea, realizzata da Benedetto Antelami, si ispira alla leggenda indiana di Barlaam e Ioasaf, riletta in chiave cristiana. 1196-1216. Al centro della lunetta compare il fanciullo che, rifugiatosi su un albero per scampare al drago, prende il miele da un favo.
mistico che simboleggia il suo sacrificio e da san Giovanni Battista, colui che ha iniziato il Cristo stesso battezzandolo nelle acque del Giordano. E proprio al Battista è dedicato l’edificio, deputato in primo luogo al rito del battesimo dei fedeli. Nella coreografia solenne che caratterizzava la cerimonia, nei battesimi di gruppo celebrati nella ricorrenza della notte di Pentecoste e del Sabato Santo, il Portale della Vita era l’ingresso riservato ai neofiti.
Nel nome dei patroni
Il vescovo, seguito da un corteo di chierici, entrava dalla porta nord, l’ingresso solenne rivolto alla piazza prospiciente la cattedrale di S. Maria. Il rito si apriva con il battesimo di un Giovanni e di una Maria, due neofiti che assumevano cosí il nome dei santi a cui il battistero e la cattedrale erano rispettivamente dedicati. E, inevitabilmente, la porta nord, nota come il Portale della Vergine, celebra entrambi i patroni. Nella lunetta, la Madonna in trono col Bambino riceve l’omaggio dei Magi, mentre san Giuseppe riceve da un angelo l’ispirazione della fuga in Egitto (la lunetta interna mostra il ritorno dalla fuga). L’architrave, come una sorta di predella, racconta le storie del Battista. Perno e avvio della narrazione è la scena del battesimo nel Giordano, in cui Cristo figura al tempo stesso come neofita e sacerdote. Com-
pare, infatti, nell’atto di benedire il Battista. All’interno, nella fronte marmorea dell’altare, lo stesso Battista è affiancato da un sacerdote benedicente, figura dello stesso Cristo. Benedicendo il proprio Precursore (definito tale nei Vangeli), Gesú lo assume in cielo nella somma schiera degli eletti, tanto da apparire di fianco a sé insieme alla Vergine. Cosí san Giovanni è infatti raffigurato nel ciclo pittorico interno, in corrispondenza del «suo» altare. Le acque del Giordano percorrono in basso le lunette dei portali, creando allusive linee ondulate. I rami d’albero che corrono lungo gli stipiti del Portale della Vergine, sui lati esterni, inquadrano le genealogie di Giacobbe (che culmina in Cristo, il nuovo Mosè) e di Jesse (che culmina nella Vergine), mentre, sui lati interni, i girali d’acanto trasfondono l’Albero della vita, con le anime dei fedeli simboleggiate da colombe posate sui rami, a cui si aggiunge un gallo a destra, emblema della vigilanza assicurata dalla Chiesa. E l’immagine dell’albero paradisiaco, carica di un grappolo d’uva, simbolo del «vino spremuto dal torchio della croce» (sono le parole del teologo Fulberto di Chartres, X-XI secolo), ritorna affiancata da due angeli sul Portale del Redentore, al culmine dell’archivolto, nel mezzo della schiera degli Apostoli. È il secondo ingresso di rappresentanza, rivolto a ovest, verso il vivo della città, sulla diretSAPER VEDERE
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IL MONUMENTO IN SINTESI
Per la maggior gloria della Vergine
Suggestioni classiche e vitalismo gotico Perché è importante Il Battistero di Parma è una delle piú cospicue chiese battesimali sorte in Italia a partire dal XII secolo, quando alcune città, Firenze per prima, decisero di celebrare con un monumento autorevole la loro autonomia e la loro intraprendenza. Non è solo un edificio religioso, ma l’emblema di una realtà civica, in cui la dimensione sacra e la dimensione laica sono armoniosamente compenetrate. Il Battistero nella storia Sorto in un momento di fattiva collaborazione tra il Comune e il potere vescovile, il Battistero di
Parma si colloca in una fase nodale della storia della città, all’epoca in cui si consolidò il suo orientamento filopapale, per effetto delle lotte contro Federico Barbarossa. Il Battistero nell’arte La sua conformazione architettonica rigorosa e compatta restituisce l’effetto di un monumento antico. La decorazione scultorea messa a punto da Benedetto Antelami e dai suoi collaboratori si inserisce in questo insieme con meticolosa attenzione, unendo la suggestione della classicità al vitalismo dell’arte gotica, in perfetto accordo con la piú autorevole tradizione padana.
In alto la lunetta del portale settentrionale, (detto «della Vergine»), con la raffigurazione della Vergine con il Bambino assisa in trono, tra i Magi e san Giuseppe. Nella fascia sottostante sono rappresentate scene dalla vita di san Giovanni Battista.
Due particolari della decorazione del Portale della Vergine. In alto, lo stipite sinistro, con la genealogia di Giacobbe; a sinistra, quello destro, con la Vergine in cima all’Albero di Jesse. trice di uno dei decumani dell’impianto urbanistico antico, oggi in parte ricalcato dalla Strada del Duomo. Nella lunetta si staglia Cristo in trono tra gli angeli nell’atto di benedire gli astanti. Mostra con evidenza i segni della Passione, e il gruppo angelico che si trova sulla destra esibisce la croce del supplizio: una croce di legno vivo, con la corteccia e le bugne lasciate dai rami recisi. La linfa che percorre quelle fibre è fonte di rigenerazione, alla stessa stregua dell’acqua lustrale del battesimo: la croce di Cristo è il lignum vitae e si riallaccia cosí all’Albero della vita evocato al culmine dell’archivolto, nel mezzo dei due angeli musicanti. E lo stesso Antelami aveva già fatto ricorso alla croce di legno vivo, nella lastra della Deposizione eseguita nel 1178 per lo smembrato pulpito della vicina cattedrale.
Un giudice dal volto umano
Sebbene eserciti il ruolo di giudice supremo, il Signore del mondo non si mostra soverchiante e minaccioso. Nell’architrave, infatti, assistiamo alla resurrezione dei morti, suddivisi nei gruppi SAPER VEDERE
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Battistero A sinistra particolare dello stipite sinistro del Portale del Redentore, con le Opere di Misericordia; nella foto, dall’alto: vestire gli ignudi, visitare i carcerati, dissetare gli assetati. A destra al centro della lunetta, Cristo assiso in trono mostra le stigmate, attorniato da angeli che reggono i simboli della Passione; in basso, a sinistra, san Giovanni Evangelista assiste alla scena. Nel fregio sottostante, la resurrezione dei morti, chiamati al suono delle trombe da due angeli. Intorno alla lunetta, sono raffigurati gli Apostoli, e, alla sommità dell’archivolto, l’Albero della Vita tra due angeli che suonano le trombe. Nella pagina accanto, a sinistra veduta d’insieme del portale che permette di apprezzare il complesso programma figurativo. Nella pagina accanto, a destra particolare dello stipite destro, dove un tralcio di vite delimita sette scene che illustrano la Parabola della Vigna. degli eletti e dei dannati, ma sono gli angeli a mostrarsi attivi in questa opera di ripartizione delle anime risorte, e tra i due gruppi non emerge la consueta contrapposizione drammatica tra chi giubila per la salvezza e chi si dispera per l’eterno castigo. L’accento è cosí posto, in definitiva, su Cristo come fonte di salvezza e lo spettatore non è chiamato a impressionarsi per le atrocità dell’Inferno. Piuttosto, viene invitato a compiere una precisa scelta di rettitudine. Il concetto è sviluppato nella decorazione degli stipiti, che immerge i precetti della carità cristiana nel vivo del mondo medievale, nelle due grandi dimensioni della città e della campagna. Sullo stipite sinistro, un nobile benefico si prende cura dei meno fortunati: carcerati, malati, pellegrini, poveri affamati, assetati o ignudi. Definito beatus dalle epigrafi, il benefattore mette cosí in atto le sei Opere di misericordia. Sullo stipite destro, un robusto viticcio fa da palcoscenico, sostituendosi alla rigorosa architettura in cui agisce il beatus cittadino.
Atmosfere agresti
Ci troviamo, infatti, nel mondo rurale, e il duplice tralcio di vite accoglie le figure disponendo alternativamente, a sinistra o a destra, il benefattore di campagna, a seconda dell’andamento del girale. Viene cosí illustrata la parabola evangelica 56
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Sulle due pagine particolare della lunetta interna del Portale del Redentore, con re Davide che suona il salterio attorniato da musici e danzatori, simbolo della beatitudine del Paradiso.
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della vigna, che evoca quella del Signore, fondata sulla giustizia e sulla rettitudine. Il padrone convoca aiutanti di età differente, a partire da un fanciullo. Nell’ultimo riquadro, in alto, i sei operai, alla fine della giornata, si ritrovano tutti insieme per ricevere lo stesso compenso, indipendentemente dalla loro età e dal tempo che hanno impiegato, esattamente come il Signore assegna la salvezza nella stessa misura, sia a chi si è comportato rettamente lungo tutta la propria vita, sia a chi si è pentito all’ultima ora. Le gioie del Paradiso sono poi evocate nella lunetta interna, dove il re David è contornato da musici e danzatori ed è egli stesso intento a suonare il salterio (un antico strumento a corda). Con un singolare virtuosismo, ai lati del re si aprono due feritoie che mettono in contatto visivo e in corrispondenza simbolica i rispettivi protagonisti della lunetta interna e della lunetta esterna. Il Cristo giudice che esibisce le ferite della passione è tutt’uno con il re David intento
a suonare. Come due facce della stessa medaglia, essi sono cosí chiamati a esprimere il nesso profondo tra morte e resurrezione, tra sacrificio e salvezza, tra rettitudine e gioia eterna. Il complesso delle immagini che percorrono e punteggiano l’esterno dell’edificio è poi costituito da gruppi di figure statuarie e da un fascione di formelle istoriate. Le statue, oggi presenti in copia sul monumento (gli originali sono al Museo Diocesano), raffigurano gli arcangeli Michele e Gabriele di fianco al Portale della Vergine, a difesa dell’ingresso principale. Sui lati adiacenti, due nicchie accolgono invece illustri personaggi dell’Antico Testamento. A sinistra si osservano due profeti: re David (che torna in veste di musico nella lunetta interna ovest) e Natan. A destra compaiono invece Salomone e la regina di Saba, simbolo dei popoli lontani che portano doni al re. Nelle celebrazioni dell’Epifania, l’arrivo della regina era messo sullo stesso piano della venuta dei Magi al co-
A destra veduta esterna di uno dei lati del Battistero. Nella nicchia, le statue di re David e Natan, opera di Benedetto Antelami (gli originali sono nel Museo Diocesano). In basso le statue di Salomone e della Regina di Saba, anch’esse di Benedetto Antelami, in un’altra nicchia sul perimetro esterno del Battistero (gli originali si trovano nel Museo Diocesano).
spetto di Gesú Bambino, gli stessi Magi raffigurati nella lunetta del portale principale. Il fregio noto come «zooforo» cinge tutto il perimetro dell’edificio e, formella dopo formella, propone un catalogo degli esseri viventi del mondo terrestre, che noi distinguiamo in reali e fantastici, ma che erano accomunati nei bestiari dell’epoca, «manuali di zoologia» su misura dell’immaginario medievale.
Una fausta congiuntura
Il prisma ottagonale del Battistero, impreziosito dall’uso del marmo bianco e rosso di Verona, è una presenza di grande fascino nel cuore della città medievale. Ancora oggi si innalza autorevole, suscitando sorpresa e soggezione non appena ci si affaccia sulle direttrici che conducono alla piazza della Cattedrale. Oltre a essere un edificio sacro, è un perno simbolico della città comunale, prima ancora che si realizzasse il definitivo palazzo civico (fino ad allora il CoSAPER VEDERE
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LE DATE DA RICORDARE 1178 Benedetto Antelami realizza la Deposizione per la Cattedrale di Parma.
1216, 9 aprile Nell’occasione del Sabato Santo, si tiene la prima cerimonia di battesimo collettivo all’interno del nuovo edificio.
1181 Primi accenni alla sede comunale istituita presso l’Episcopio nella piazza antica della Cattedrale.
1221 Inizia il trasferimento della sede comunale nel nuovo palazzo istituito nell’attuale piazza Garibaldi.
1194 Inizia l’episcopato di Obizzo.
1192 Il Comune di Parma scende in lizza contro il vescovo Bernardo II promulgando uno statuto che pone dei limiti al potere episcopale. Il presule reagisce scomunicando il podestà.
1247 Federico II assedia la città.
1196 Si gettano le fondazioni del Battistero. Benedetto Antelami «firma» il Portale della Vergine.
mune coabitava con il potere religioso nello stesso complesso del palazzo episcopale). Il suo progetto si concretizza in un momento molto particolare, in una fausta congiuntura che vedeva un rapporto di collaborazione tra il vescovo e le autorità laiche. Dopo i gravi dissidi culminati nella scomunica del podestà da parte del vescovo Bernardo II, il successore Obizzo (1194-1224) avviò una proficua politica di distensione. Due anni dopo la sua salita in cattedra, si ebbe la gettata delle fondazioni del Battistero, in forma di cerimonia pubblica. Tra i partecipanti figurava Guido de Adam, padre del cronista parmense Salimbene (1221-1287/88). Lo stesso Salimbene de Adam, come egli ricorda con orgoglio, fu battezzato nell’edificio, non ancora completo ma già in funzione, nel 1221. La prima cerimonia si svolse al suo interno il 9 aprile 1216, nella ricorrenza del Sabato Santo, con il primo battesimo collettivo, riservato ai neofiti della città di Parma e dell’intera diocesi.
Torna in auge il rito delle origini
Come nel caso di Firenze, il Battistero fu realizzato ex novo. Forse esisteva un battistero correlato all’antica Cattedrale paleocristiana, ma se ne era perso il ricordo e non se ne conservavano tracce. Il rito battesimale veniva celebrato in precedenza nella Cattedrale romanica, utilizzando un fonte per la consueta modalità ad abluzione tuttora in uso. Con l’erezione del Battistero, il fonte venne trasferito al suo inter60
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1224 Morte del vescovo Obizzo.
1229 Il cronista Salimbene de Adam attesta la composizione della salma all’interno del Battistero di un proprio congiunto, Bernardo di Oliviero.
1248 Il Carroccio di Parma viene esposto nel Battistero per celebrare la vittoria dell’esercito cittadino sulle truppe di Federico II. 1250 circa Decorazione pittorica della cupola, per mano di artisti ignoti, forse locali, ma che fanno propri i canoni dello stile bizantino. 1255 Il Comune approva una norma che prevede una pena a carico di tutti coloro che assumano comportamenti indecorosi nei pressi del Battistero.
1262 Il Comune si attiva per migliorare la percezione del monumento, provvedendo all’abbattimento di taluni edifici circostanti che creano disturbo. 1270 Consacrazione solenne a opera del vescovo Obizzo Sanvitale.
1282 Il carro con il gonfalone civico viene esposto all’interno del Battistero per celebrare la vittoria dei Parmensi sul margravio (marchese) del Monferrato. 1295 A seguito di una situazione di gravi lotte intestine, il Comune minaccia l’abbattimento del Battistero qualora una fazione decida di trasformarlo in un deposito d’armi.
A destra particolare dell’altorilievo di Benedetto Antelami che propone l’allegoria del mese di Settembre, di cui è simbolo un contadino intento alla vendemmia; sotto di lui, si riconosce la personificazione del segno zodiacale della Bilancia. A sinistra veduta dell’interno del Battistero; si distinguono, a destra, la porta del Redentore; a sinistra, la porta della Vita; al centro, il fonte battesimale ottagonale.
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no, simbolicamente surclassato dall’enorme vasca centrale, ricavata da un monolite di marmo (un solo blocco di pietra scavato e modellato), rifornita e svuotata grazie al flusso sottostante del Canale Maggiore. Vi si riportò in auge il prestigioso rito a immersione, che rimandava ai primordi della Chiesa e ai centri piú illustri di irradiazione della fede, come la Roma papale o la Milano ambrosiana. Cosí esaltato, il sacramento aveva anche un prezioso significato laico, poiché dava corso all’esistenza giuridica dei nuovi protagonisti della collettività parmense, che proprio lí assu62
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mevano il proprio nome. L’edificio era anche lo sfondo di solenni celebrazioni funebri: numerose sepolture si accalcavano tutt’intorno. In quanto punto di eccellenza della comunità, era poi luogo di esibizione della gloria di Parma. Nel 1248 vi fu esposto il Carroccio, all’indomani della vittoria riportata su Federico II.
I maestri della Val d’Intelvi
La data di fondazione del Battistero (1196) è la stessa menzionata nell’architrave del portale della Vergine («tolti quattro anni al 1200»), laddove si ricorda anche lo scultore principale
DOVE E QUANDO Battistero Parma, piazza Duomo Orario 9,00-12,30 e 15,00-18,45 Museo Diocesano Parma, vicolo del Vescovado, 3/A Orario 9,00-12,30 e 15,00-18,30 Cattedrale Parma, piazza Duomo Orario 09,00-12,30; 15,00-19,00 Info www.cattedralediparma.it http://turismo.comune.parma.it
Parma, Battistero. Una veduta interna dell’imponente impianto decorativo e architettonico della cupola, impreziosito da un magnifico ciclo pittorico, eseguito in tempera a secco e perfettamente conservato. L’opera è forse attribuibile a maestri locali.
e il probabile architetto dell’edificio, Benedetto Antelami. Già attivo in Cattedrale nel 1178, deve il proprio appellativo a quei magistri Antelami che erano attestati a Genova nel 1157 come lapicidi e scalpellini specializzati, provenienti dalla vallata del fiume Intelvi, tributario del Lago di Como. Benedetto si ricollega alla grande tradizione della scultura romanica padana, incarnata da Wiligelmo e da Niccolò, con il loro senso spiccato di evidenza plastica della figura, e aggiorna quel repertorio con una sensibilità classica e un’apertura verso le novità della scultura gotica delle cattedrali d’Oltralpe filtrate da uno spirito prettamente italico. L’arcangelo Michele, per esempio, è addirittura il frutto della rielaborazione di un fusto di statua antica dedicata a un personaggio della scena pubblica, un «togato» della Roma classica, e forse anche la testa dell’Arcangelo è la rielaborazione di un volto antico. Quanto alle suggestioni gotiche, nelle lunette dei portali ricorrono nessi significativi con l’impaginazione delle corrispettive composizioni delle chiese dell’Île-de-France: da Chartres alla Notre-Dame di Parigi, da Bourges a Nantes. I 16 lati della conformazione interna, che duplicano l’ottagono esterno (antichissimo simbolo del rito battesimale), evocano la cerchia dei dodici apostoli abbinata al 4 dei punti cardinali, degli Evangelisti e delle stagioni. Varcato il Portale della Vergine, domina la scena la vasta decorazione pittorica della cupola, legata ad artisti forse locali di robusta cultura bizantina, attivi intorno al 1250. È un raro complesso decorativo medievale integralmente e ottimamente conservato. I dipinti sono eseguiti con la tecnica della tempera a secco (non si tratta quindi, propriamente, di affreschi). Tutt’intorno alla stella culminante
centrale a cui tutto si rapporta, si succedono gli Apostoli e gli Evangelisti. Segue una teoria di Profeti interrotta dalla triade del Cristo, del Battista e della Vergine, con l’aggiunta di san Giovanni Evangelista. Nel registro seguente, ritroviamo le storie del Battista, mentre le lunette della fascia d’imposta raccontano la storia di Abramo, corredata, ai lati delle finestre, da figure di religiosi nell’atto di ammaestrare.
Simbolo di contiguità
Queste sedici lunette alla base della cupola, dove forse all’origine non erano previste finestre, né dipinti, dovevano verosimilmente accogliere, in principio, i famosi altorilievi dei mesi e delle stagioni. È un ciclo incompleto e privo di finiture policrome, come quelle recuperate dagli ultimi restauri nell’ambito di tutto il restante corpus antelamico. Vivaci e al tempo stesso solenni, di una compostezza classica, le sculture sono oggi in rassegna, in modo chiaramente incongruo, all’altezza della prima loggetta interna. Nella loro collocazione prevista in origine – in base all’ipotesi di Chiara Frugoni –, avrebbero magnificamente espresso la contiguità tra il tempo degli uomini e la dimensione celeste. I bassorilievi antelamici murati nelle nicchie mostrano, ai lati del Cristo in gloria, una schiera di angeli delle diverse specie, tra i quali si inserisce una figura originariamente aptera (senza ali), un uomo, come ha evidenziato ancora Chiara Frugoni: si prefigura cosí il giorno in cui l’uomo stesso, ormai del tutto purificato, potrà accedere al rango delle piú alte gerarchie del mondo eterno.
DA LEGGERE Chiara Frugoni (a cura di), Benedetto Antelami e il battistero di Parma, Einaudi, Torino 1995 Chiara Frugoni, Il battistero di Parma. Guida a una lettura iconografica, Einaudi, Torino 2007 Arturo Carlo Quintavalle, Benedetto Antelami, in Enciclopedia dell’Arte Medievale, Fondazione Treccani, Roma 1991, disponibile anche on line su treccani.it Alfredo Bianchi, Manuela Catarsi Dall’Aglio (a cura di), Il Museo Diocesano di Parma, Silva, Parma 2004
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Da Firenze a Betlemme La Cappella dei Magi di Benozzo Gozzoli è un’opera che unisce lo straordinario impatto visivo a un attento gioco di simboli e allegorie. Al di là della connotazione religiosa del tema, infatti, il ciclo dell’artista fiorentino dovette innanzitutto offrirsi come celebrazione dei suoi committenti: i Medici, decisi a farne uno strumento di tangibile consacrazione del proprio potere
di Chiara Mercuri
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occe scoscese, foreste lussureggianti e cipressi svettanti si perdono all’orizzonte di un cielo turchino che fa da sfondo allo scorrere di un corteo fitto di animali esotici e di uomini che indossano vesti trapuntate in oro, tuniche damascate e farsetti in seta rosa. Al centro di questo paesaggio incantato e quasi fiabesco, tre principi a cavallo guidano il corteo: sono i Re Magi. Dietro di loro si nascondono, in filigrana, i ricchi committenti dell’opera: i Medici. Ma facciamo un passo indietro, e cerchiamo di capire perché i Medici, potenti banchieri fiorentini, avessero scelto i Magi come icona. A progettare la costruzione di un nuovo palazzo, destinato a diventare la sede definitiva della famiglia fu Cosimo il Vecchio (1389-1464), vero responsabile dell’espansione finanziaria della sua casata e, nei fatti, primo signore di Firenze. All’interno dell’edificio volle aprire anche una cappella privata, sulle cui pareti l’artista fiorentino Benozzo Gozzoli affrescò poi la cavalcata dei Magi. Il palazzo di via Larga fu l’unica dimora medicea a possedere una cappella privata: fino ad allora, l’autorizzazione ad aprirne una
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Firenze, Palazzo Medici Riccardi, Cappella dei Magi. La parete Est, con il segmento terminale della processione, guidato da Gaspare, alle cui spalle vi è una schiera di personaggi noti, tra cui vari membri della famiglia Medici e Benozzo Gozzoli, l’artista fiorentino che realizzò le pitture nel 1459.
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Palazzo Vecchio
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Uffizi
In alto cartina della città di Firenze con, in evidenza, la localizzazione dei principali monumenti. A sinistra uno scorcio della corte interna di Palazzo Medici Riccardi. La sfarzosa dimora sorse alla metà del Quattrocento, per volere di Cosimo il Vecchio e su progetto di Michelozzo.
era stata concessa solo a principi e signori e, a quella data, almeno formalmente i Medici sono ancora semplici cittadini. Lo straordinario privilegio è frutto di una dispensa accordata nel 1422 da papa Martino V.
I migliori artisti in circolazione
Oltre a venire incontro alle naturali esigenze di riservatezza, dettate dallo status sociale dei proprietari, simili luoghi di culto si trasformavano spesso in vetrine del proprio sfarzo. Il progetto e la decorazione di tali edifici venivano perciò affidati agli architetti e ai pittori piú in vista del momento, e le stesse reliquie e suppellettili che vi trovavano posto avevano sempre un enorme valore pecuniario. Cosimo il Vecchio si era già distinto per le sontuose opere di restauro di varie chiese cittadi66
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ne, e S. Lorenzo e S. Marco erano divenute i luoghi simbolo del mecenatismo mediceo. Intorno al 1444, quando avviò la realizzazione del nuovo palazzo, scelse la via Larga, poiché si trattava di una zona strategica: situata, infatti, tra la Cattedrale e il Battistero, era teatro delle processioni civiche e religiose cittadine, che, da allora si trovarono a passare davanti alla dimora medicea. I contemporanei lo descrivono come «un palazzo che arrivava fino al cielo» e anche papa Pio II – a sua volta artefice di committenze sontuose – non esitò a definirlo «degno di un re». La facciata bugnata e splendidamente decorata, i suoi giardini profumati ne facevano la mostra permanente della potenza della ricchissima famiglia. Questo capolavoro dell’arte e dell’architettura rinascimentale fu ultimato in anni di grande
turbolenza per i committenti. Nel 1456, infatti, alcune famiglie patrizie, che mal sopportavano l’enorme prestigio raggiunto da Cosimo il Vecchio – che, di fatto, controllava Firenze attraverso uomini di sua fiducia posti in punti chiave del governo cittadino – decisero di destituire uno dei suoi, il capace cancelliere Poggio Bracciolini; seguirono, poi, congiure e insurrezioni, tese a spodestare lo stesso Cosimo. Quest’ultimo allora, da signore generoso e munifico, si fece duro e spietato, instaurando, con la forza e con l’aiuto dei suoi potenti alleati, gli Sforza di Milano, un governo giudicato «insopportabile e violento» da Niccolò Machiavelli, che pure lo aveva lodato in piú di un passo delle sue opere. Nel luglio del 1459, quando fu scelto Benozzo Gozzoli per iniziare i lavori di affrescatura della cappella, l’artista fiorentino ebbe il compito
L’angolo tra la parete Ovest e la parete Sud della cappella, sulle quali si snodano, rispettivamente, il gruppo guidato da Melchiorre e quello capeggiato da Baldassarre.
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GASPARE Il piú giovane dei Magi veste un elegante abito bianco, che, come gli altri dell’affresco, è una testimonianza eloquente dello sfarzo diffuso presso le classi piú abbienti.
non dichiarato di celebrare la famiglia dei Medici. Benozzo si rivelò molto abile nell’individuare – se non la tematica, probabilmente scelta dai committenti – il taglio da dare alla composizione. Appare inusuale, per esempio, la decisione di non rappresentare il momento dell’adorazione del Bambino da parte dei Magi. Il corteo di Benozzo, infatti, non giunge ad alcun presepe – com’era normale nell’iconografia dei Re venuti dall’Oriente –, ma è colto solo nel momento del viaggio. Segno evidente che al pittore interessava raffigurare unicamente la cavalcata verso Betlemme, cosí da poter celebrare i Medici – che seguono il corteo – come moderni sovrani.
Tutta la città in festa
Nel portare a termine quest’opera di esaltazione, Benozzo venne aiutato dal ricordo, ancora vivo nella mente dei contemporanei, di una serie di avvenimenti storici che ben si prestavano a creare il collegamento «Medici-Magi». Il suo lavoro iniziò, infatti, nel 1459, a ridosso di un grande evento: Pio II aveva convocato a Firenze, presso i Medici, Galeazzo Maria Sforza e Sigismondo Malatesta da Rimini, per discutere dell’indizione di una nuova crociata. Nei quindici giorni della loro permanenza, la città divenne teatro di ostensioni e processioni solenni, di 68
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Qui sopra, sulle due pagine fotomosaico che mostra lo sviluppo delle pitture di Benozzo Gozzoli. Nella pagina accanto, in basso particolare della parete Est in cui compare il ritratto di Cosimo il Vecchio.
IL MONUMENTO IN SINTESI
BALDASSARRE Raffigurato con i tratti di un uomo dalla pelle scura, in età matura, indossa abiti in broccato verde e reca una corona d’oro, ornata da piume verdi, bianche e rosse (i colori dei Medici). È stato ipotizzato che in lui si possa identificare l’imperatore bizantino Giovanni VIII Paleologo.
MELCHIORRE Il piú anziano dei Magi ostenta una lunga barba di foggia orientale e veste un sontuoso abito in broccato oro e cremisi, simile a quello dei fanciulli che lo accompagnano.
Preghiere e udienze in un Medioevo incantato Perché è importante Il palazzo mediceo di via Larga fu il primo a a possedere una cappella privata, grazie a una dispensa di papa Martino V (1422). La cappella ebbe anche una funzione pubblica, in quanto centro sacrale della casa in cui si ricevevano gli ospiti illustri, anche in udienza. La basilica nella storia La cappella fu costruita, insieme al palazzo, nel 1444, da Cosimo de’ Medici, detto Il Vecchio, che ne affidò la progettazione all’architetto Michelozzo di Bartolomeo.
L’edificio è una delle prime espressioni dell’architettura rinascimentale fiorentina (ma la struttura oggi visibile è frutto di un ampliamento promosso nel Seicento). La basilica nell’arte Il ciclo di Benozzo Gozzoli è uno dei maggiori capolavori dell’arte medievale per la ricchezza dei materiali impiegati, in particolare gli ori e gli azzurri, all’epoca costosissimi. Stupisce la complessità delle sinopie, dettagliate fin nei minimi particolari, e sovrabbondanti di personaggi, specie vegetali e animali.
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Cappella dei Magi
A destra due dei tre giovani che fanno parte della scorta di Baldassarre: montano bianchi cavalli e indossano lussuosi broccati oro e avorio e copricapi con piume rosse e blu. In basso particolare della gualdrappa del cavallo di Piero (riconoscibile nel seguito di Gaspare; vedi foto nella pagina accanto e alle pp. 64/65), sulla quale compare lo stemma mediceo, composto da tre piume e sette palle d’oro, accompagnato dal motto «SEMPER».
banchetti sontuosi e feste che culminarono in una giostra organizzata nella piazza di Santa Croce, con piú di 300 partecipanti.
A caccia di leoni e giraffe
Piero, figlio di Cosimo, sfruttò l’organizzazione di quelle giornate per fare mostra del peso raggiunto dalla propria casata. Gli ospiti furono alloggiati, con ogni onore, nell’appena costruito palazzo di via Larga e l’evento trovò eco nei diari e nelle cronache dell’epoca, che parlarono della dimora dei Medici come di un «palazzo pieno di meraviglia» con i suoi giardini ornati di specie botaniche rare; riferirono anche di un’esotica battuta di caccia con giraffe e leoni, tenuta in onore dei duchi di Milano. Nell’occasione la cappella palatina fu usata come luogo d’udienza e qui si tennero gli incontri ufficiali tra i convenuti. All’epoca le sue pareti si presentavano ancora spoglie, in quanto Benozzo Gozzoli iniziò a decorarvi il viaggio dei Magi solo tre mesi piú tardi, quando ancora, però, il passaggio dei principi di Milano e di Rimini, accolti 70
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Cappella dei Magi
con fasto e liberalità dalla famiglia medicea, risuonava nella memoria dei Fiorentini. Un secondo accadimento storico aveva lasciato ricordi indelebili, destinati a riecheggiare nelle sinopie di Benozzo Gozzoli. Nel 1439 il concilio per la riunificazione della Chiesa d’Oriente e d’Occidente, grazie agli sforzi della Repubblica fiorentina e della famiglia Medici, era stato spostato da Ferrara a Firenze. Qui i Medici erano stati solleciti nell’offrire ospitalità ai partecipanti, sovvenzionandone le spese con ingenti somme di denaro. L’ingresso a Firenze del patriarca di Costantinopoli e dell’imperatore d’Oriente, seguiti dai loro sontuosi, quanto esotici, corteggi suscitò uno stupore enorme nella comunità cittadina.
Vestiti all’orientale
Alla fine del Medioevo, si era soliti festeggiare il giorno dell’Epifania attraverso cortei rievocativi: dietro ai Magi a cavallo si muoveva la cittadinanza abbigliata con vesti orientaleggianti. Le famiglie piú in vista della città erano particolarmente sollecite nel curare la fedeltà del proprio abbigliamento alla foggia orientale, scegliendo le stoffe piú preziose, gli accessori piú lussuosi e gli animali piú rari o comunque da caccia, da esibire in processioni che si trasformavano puntualmente in vere e proprie parate. Famoso, nelle cronache bassomedievali, rimase il ricordo del corteo organizzato a Milano dalla famiglia Visconti, per l’Epifania del 1336: seguendo una stella issata su un’asta, la cittadinanza attraversò la città, spostandosi da S. Lorenzo a S. Eustorgio. Se il nuovo palazzo nacque per volere di Cosimo, il vero committente della decorazione della cappella va identificato con suo figlio Piero. Fu lui ad affidarne l’affrescatura a Benozzo Gozzoli, come dimostrano le lettere dell’artista che lamentano il mancato acquisto di materiali richiesti: 1500 fogli d’oro genovesi per le corone e le livree dei principi e il costosissimo azzurro veneziano per le vesti dei serafini. Ritardi di pagamento che il pittore lamenta anche per il suo stesso salario che – a giudicare dalle lettere – gli viene centellinato da Piero con voluta incuria.
IL SANCTA SANCTORUM
Reliquie degne di un re Nella cappella medicea si apre una piccola sala quadrangolare, sul cui lato settentrionale si trovava il sancta sanctorum. Al suo interno era stato collocato l’altare, dove, fino alla cacciata dei Medici, nel 1494, si conservava il reliquiario del Libretto, con le reliquie dei Santi e della Passione. Il manufatto, oggi custodito nel Museo dell’Opera del Duomo di Firenze, venne realizzato in oro e avorio intarsiato per volere di Carlo V e fu poi donato dal sovrano al fratello Luigi. Proviene dalla Sainte-Chapelle di Parigi, dal cui tesoro furono stornate le reliquie. La provenienza regia delle reliquie medicee, acquisite da Piero, intendeva suggerire il legame ideale tra la cappella di Palazzo Medici Riccardi e la cappella privata del re di Francia. Il potere laico dei Medici voleva emulare un altro grande potere laico, quello della corona di Francia, che tramite le reliquie di Cristo aveva voluto ammantarsi di un’aura sacrale.
Nella pagina accanto particolare delle pitture della parete Est in cui Benozzo Gozzoli ha ritratto se stesso, inserendo sul copricapo, a mo’ di firma, la scritta «Opus Benotii». A sinistra il reliquiario del Libretto. Il manufatto fu realizzato a Parigi nella seconda metà del XIV sec. e poi inserito nella teca realizzata da Paolo di Giovanni Sogliani nel 1500-1501, che tuttora lo custodisce. Firenze, Museo dell’Opera del Duomo. A opera ultimata, l’artista fiorentino mostrò di aver ben intessuto la sua trama dai molteplici significati simbolici che la scelta del tema iconografico dei Magi si proponeva di sintetizzare. Come abbiamo detto, la scelta originaria dovette essere dei committenti che, in passato, avevano già mostrato una particolare devozione verso i Magi, rappresentati nella cella assegnata a Cosimo nel complesso di S. Marco, che, come già detto, egli fece restaurare a sue spese. In quel caso, la realizzazione era stata affidata da Cosimo all’ancora vivente Beato Angelico, che aveva voluto come assistente Benozzo Gozzoli. Non stupisce, dunque, che quando si SAPER VEDERE
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Cappella dei Magi
Due dei personaggi che chiudono il lungo corteo alla cui testa cavalca Gaspare (vedi alle pp. 64-65): ne fanno parte, come in questo caso, uomini con turbanti e altri curiosi copricapi, scelti come evocazione delle mode esotiche a cui rimandava la tradizione dei Magi, venuti dall’Oriente.
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trattò di scegliere un artista per affrescare le pareti della propria cappella privata, Cosimo e il figlio Piero si fossero rivolti a uno degli allievi prediletti del defunto maestro. S. Marco, inoltre, era nota per essere la sede della Compagnia de’ Magi, che ogni anno organizzava, in occasione del 6 gennaio, il corteo rievocativo nella città di Firenze, ed è storicamente attestata la partecipazione di Cosimo a una di queste processioni, quella del 1450, quando venne descritto dalle fonti dell’epoca come un principe, vestito in abiti magnifici: «Una splendida tunica ornata di zibellino e martora polacca». Il corteo era solito partire dal Palazzo Vecchio e arrivare appunto in S. Marco, dove vigeva l’uso di deporre le offerte davanti a una mangiatoia. In tale occasione i Medici erano particolarmente prodighi al fine
di essere equiparati, nella splendida munificenza, ai re venuti dall’Oriente.
I candelabri e l’agnello mistico
La figura dei Magi, inoltre, rivestiva anche una simbolica apocalittica, una tematica molto apprezzata dai signori laici, i quali miravano a suggerire l’idea di una durata permanente del potere della propria famiglia. In quanto testimoni del primo Avvento di Cristo, i Magi furono associati anche al suo secondo Avvento sulla scena del mondo, quando sarebbe tornato per dare inizio al giudizio finale. Nella cappella tale richiamo è reso evidente dalla rappresentazione, sopra il portale, dei sette candelabri apocalittici e dell’agnello mistico, accovacciato sopra un drappo su cui pendono i
sette sigilli che si sarebbero rotti prima dello squillo della tromba. L’adorazione dei Magi era una delle rappresentazioni piú antiche dell’arte cristiana a cominciare dalle catacombe. Essi si presentavano, infatti, a rivestire molteplici significati allegorici: incarnavano le tre fasi dell’umanità (la divinità, lo spirito, il corpo); le sue diverse etnie, le tre diverse dimensioni temporali del passato, del presente e del futuro e, in particolare, le tre età dell’uomo, la giovinezza, la maturità e la vecchiezza. Tuttavia, come abbiamo accennato, il tema scelto da Benozzo non era quello assai diffuso dell’adorazione presso il Bambino, ma quello, meno rappresentato, del viaggio-corteo di avvicinamento a Betlemme. Un soggetto che dava la possibilità di celebrare
il mondo mercantile al quale i Medici appartenevano, poiché i Magi, nella loro accezione di pellegrini, erano i naturali patroni dei viaggiatori e dunque dei mercanti, sempre in movimento per i loro commerci. Tale tematica, inoltre, lasciava un notevole spazio all’esotico, grazie alla definizione evangelica dei «Magi venuti dall’Oriente». Ciò permetteva di inserire nelle vesti, nei paesaggi, negli animali quegli elementi atti a soddisfare il bisogno di meraviglioso dell’uomo medievale, per necessità piú stanziale di quello contemporaneo. La cavalcata dei Magi era dunque il tema che meglio si prestava a celebrare i Medici. Il corteo dei Magi ricordava in maniera efficace gli spostamenti della famiglia, seguita da servi, amici, alleati e cortigiani, che i Fiorentini erano
Un ghepardo accovacciato sulla sella di uno dei personaggi che precedono il corteo di Melchiorre. La sua presenza allude alle molte bestie esotiche che i Medici vollero per il proprio palazzo, cosí da conferirgli un tocco di esotismo capace di accrescere lo stupore dei propri ospiti.
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Cappella dei Magi
DOVE E QUANDO Palazzo Medici Riccardi, Cappella dei Magi Firenze, via Cavour 3 Orario tutti i giorni, 9,00-19,00; chiuso il mercoledí Info l’ingresso alla cappella è limitato a un massimo di 10 visitatori ogni 7 minuti; è possibile prenotare telefonicamente, rivolgendosi allo 055 2760340; e-mail: biglietteria@palazzo-medici.it; www.palazzo-medici.it
abituati a vedere per le strade della città. Infine, come abbiamo visto, il viaggio dei Magi richiamava scene di vita della Firenze quattrocentesca, dove, come in molte altre città e borghi italiani, era consuetudine celebrare le feste del calendario liturgico, in particolare quella dell’Epifania, con pie rievocazioni. Un uso peraltro ancora vivo, come mostrano in tutta Italia le molte rappresentazioni di presepi viventi nel tempo natalizio o della Passione di Gesú in quello pasquale.
Un capolavoro in penombra
La cappella è edificata su pareti doppie, una scelta costruttiva a cui si deve il perfetto stato di conservazione degli affreschi. Essa risultava poco illuminata, in quanto la luce filtrava solo 76
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da due oculi, destinati a lasciarla perennemente in penombra. L’effetto era probabilmente voluto, come sembra attestare il grande impiego, nei dipinti, di rivestimenti in metallo, oro e argento, atti a brillare alla luce delle fiaccole. Nel 1659, quando la famiglia Riccardi acquistò Palazzo Medici, furono aperte due finestre, una delle quali poi murata nel 1929, che cambiarono l’illuminazione dell’edificio. I re Magi procedono in corteo secondo le loro rispettive età: in testa il piú anziano Melchiorre, in mezzo Baldassarre, e infine il mago piú giovane, Gaspare. La loro cavalcata prende avvio dalla parete orientale, proprio come nel racconto evangelico. Nella parete Est, dunque, si trova la coda del corteo, la cui testa è posta nella parete Ovest. Qui il re piú anziano, dalla
Il sancta sanctorum della Cappella dei Magi (qui sopra), il cui altare è sormontato dalla copia (a sinistra) della pala di Filippo Lippi e nota come Adorazione di Palazzo Medici. Quest’ultima si data tra il 1455 e il 1459 ed è oggi conservata a Berlino, presso la Gemäldegalerie degli Staatliche Museen.
LA PALA D’ALTARE
L’evocazione della Trinità Nella cappella medicea, Benozzo Gozzoli non rappresentò l’adorazione dei Magi presso il presepe, ma il loro viaggio di avvicinamento a Betlemme. La meta finale del corteo è rappresentata da una pala d’altare dipinta da Filippo Lippi. Il bambino giace nudo su un prato erboso e fiorito, accanto alla madre, la Madonna, sullo sfondo di una fitta foresta di alberi dai colori scuri, che suggeriscono una cupa profondità, sulla quale si stagliano figure quasi trasparenti e sospese. Esse sembrano additare, in controluce, il significato simbolico dell’opera: sopra al Bambino, vi è la colomba dello Spirito Santo, sovrastata da Dio-Padre. Rappresentazione, dunque, della Trinità, probabile eco della discussione svoltasi in quegli anni tra Chiesa d’Oriente e d’Occidente durante il concilio di Firenze del 1439. Tale dipinto fu sostituito con una copia nel 1494, anno della cacciata dei Medici, e oggi si trova nella Gemäldegalerie di Berlino. La copia, presente oggi nella cappella, è attribuita allo pseudo Pietro Francesco Fiorentino.
lunga barba di foggia orientale, Melchiorre, apre la cavalcata ed è, quindi, quello piú vicino a Gesú Bambino. Si presenta vestito in broccato oro e cremisi, come i fanciulli che lo accompagnano. La cavalcata sale sulla collinetta con un affollato gruppo di persone che si perdono in lontananza: uomini con turbanti, muli e cavalli s’inerpicano carichi di casse, guidati da Africani in groppa a cammelli, efficaci nel richiamare i commerci.
I colori dei Medici
La scena continua nella parete adiacente, tra colline e montagne dove, a differenza che nella scena precedente, a dominare non sono gli uomini ma la natura rigogliosa e silente, interrotta solo di rado da fugaci segni antropici: qualche sperduto castelletto in pietra. Qui si assiste al trionfo dello stile proprio di Benozzo, con la celebrazione del paesaggio naturale, in questo caso uno squarcio tipico degli Appennini toscani con i suoi pini, cipressi e prati erbosi. Protagonista della composizione è Baldassarre, il quale indossa abiti in broccato verde e reca una corona d’oro, ornata da piume verdi, bianche e rosse (i colori dei Medici). I giovani che lo affiancano indossano tuniche damascate verdi bordate in oro da cui fuoriescono ampie camicie e calzamaglie rosse e blu. Il mago è inoltre seguito da un terzetto di giovani su bianchi cavalli, vestiti in modo identico: lussuosi broccati oro e avorio e copri-
capo con piume rosse e blu. Dietro Baldassarre sono visibili scene di caccia che sembrano voler celebrare l’epopea signorile. La processione prosegue e termina sulla parete orientale col giovane Gaspare, scortato questa volta da personaggi noti. Si tratta dei membri della famiglia Medici, collocati in una posizione preminente alla fine del grande corteo: Cosimo, che indossa una tunica di broccato blu intenso, cavalca un mulo in segno di umiltà. La sua fisionomia ricalca quella di una medaglia realizzata all’epoca in suo onore. Vicino al padre, Piero indossa una veste di velluto verde e oro, e monta un cavallo bianco, la cui gualdrappa rossa reca lo stemma della casata medicea: tre piume, sette palle d’oro, il motto «SEMPER» («Sempre»), che doveva ribadire l’eternità del potere della famiglia, già suggerita, come abbiamo visto, dall’agnello dell’Apocalisse. Alle spalle di Piero sono ritratti i due figli, Lorenzo e Giuliano, che all’epoca avevano dieci e sei anni. I Medici appaiono inoltre in compagnia dei loro alleati, Sigismondo Pandolfo Malatesta e Galeazzo Maria Sforza, ritratti anch’essi in abiti lussuosi dai colori brillanti, rifiniti in oro, a celebrare il potere e la ricchezza delle rispettive casate. Anche Benozzo si autoritrae per ben due volte in mezzo al corteo con la scritta sul copricapo «Opus Benotii», vera firma della sua opera. Nel corteo di Gaspare compaiono inoltre molte bestie esotiche: scimmie, cammelli, ghepardi. Le stesse che i Medici avevano scelto per arricchire le proprie abitazioni private, suscitando lo stupore e la curiosità cittadina. Oltre agli animali esotici, abbondano in questa parte del corteo anche i cavalli carichi di merci, omaggio reso alla ricchezza e alla liberalità della potente famiglia fiorentina. Si chiude cosí la prima parte del programma iconografico della cappella, dedicato al corteo dei Magi, la seconda invece, è dedicata all’adorazione del Bambino, non da parte dei Magi (ancora in viaggio verso Betlemme), ma degli angeli, qui rappresentati mentre intrecciano ghirlande sullo sfondo di un paesaggio idilliaco, probabilmente il Paradiso.
DA LEGGERE Franco Cardini, I Re Magi. Storia e leggenda, Giunti Editore, Firenze 2000 Marion Opitz, Benozzo Gozzoli,
Könemann, Colonia 2000 Diane Cole Ahl, Benozzo Gozzoli, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo (MI) 1997
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Arezzo e le storie di Piero La Cappella Maggiore della basilica aretina di S. Francesco custodisce uno dei capolavori dell’arte del Quattrocento: è il ciclo con le Storie della Vera Croce affrescato da Piero della Francesca, riscoperto nel XIX secolo da viaggiatori inglesi. Un racconto per immagini tanto spettacolare quanto insolito, che il maestro di Sansepolcro elaborò sulla base di un testo favoloso: la Legenda Aurea di Iacopo da Varazze di Chiara Mercuri
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lla metà dell’Ottocento, la costruzione della linea ferroviaria tra Firenze e Arezzo portò verso quest’ultima un consistente flusso di turisti e appassionati, in particolare inglesi, innamorati dell’arte e della storia della Toscana. Tra i tanti tesori, Arezzo nascondeva – in una chiesa intitolata a san Francesco – un ciclo di affreschi ormai quasi dimenticato, che catturò presto l’interesse dei nuovi arrivati. Le condizioni delle pitture erano gravemente compromesse: la scarsa manutenzione aveva provocato infiltrazioni d’acqua, con conseguente danneggiamento dell’intonaco murario; altri problemi erano stati portati dalle polveri e dalle resine impiegate in occasione dei primi tentativi di restauro; ma soprat-
Arezzo, basilica di S. Francesco, Cappella Maggiore. L’incontro tra la regina di Saba e Salomone, una delle scene del ciclo delle Storie della Vera Croce. Gli affreschi, realizzati da Piero della Francesca tra il 1452 e il 1466, si basano sulla Legenda Aurea, una raccolta di vite di santi composta dal domenicano Iacopo da Varazze alla metà del XIII sec. Salvo diversa indicazione, tutte le pitture riprodotte nell’articolo fanno parte del ciclo dipinto da Piero della Francesca ad Arezzo, nella Cappella Maggiore della basilica di S. Francesco.
tutto, durante l’occupazione napoleonica del 1799, la chiesa era stata adibita ad accampamento per le truppe, e ciò aveva causato ulteriori danni. Il degrado del ciclo aveva quindi trascinato nell’oblio perfino il nome dell’artista che, secoli prima, li aveva realizzati. Ma alle cattive condizioni si aggiungeva il fatto che le tematiche dipinte apparivano quanto mai inusuali, di difficile interpretazione. Del resto, senza la conoscenza del testo che aveva ispirato l’artista, i temi apparivano del tutto oscuri; vi erano, per esempio, accostamenti poco comprensibili, quali quelli tra un vetustissimo Adamo morente, la regina di Saba e il re Salomone. Enigmatica appariva anche la rappresentazione dell’Annunciazione legata al sogno di Costantino, o la battaglia di Ponte Milvio, messa in relazione con il rinvenimento delle tre croci che, invece di Gerusalemme, aveva come sfondo una squillante Arezzo rinascimentale.
Dalla fama all’oblio
Il ciclo di affreschi si basava su un testo ormai quasi dimenticato: la Legenda Aurea, un libro notissimo nel Medioevo, ma poco conosciuto a partire dall’età della Controriforma (XVI secolo). Era stato scritto dal domenicano Iacopo da Varazze (1228/30-1298), il quale aveva raccolto SAPER VEDERE
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LE DATE DA RICORDARE 1290 Fondazione della chiesa primitiva. Il nome del progettista è da cercare tra i discepoli di frate Elia da Cortona: fra Giovanni da Pistoia. 1298 Papa Niccolò IV concede un’indulgenza di 40 giorni a quanti avessero visitato la chiesa durante la festa dell’Annunciazione.
1314 Iniziano i lavori della nuova chiesa progettata da Giovanni da Pistoia. La chiesa francescana che sorgeva un tempo fuori dalle mura doveva essere molto grande: conteneva la grande Croce lignea (oggi spostata nella chiesa attuale) e una Maestà di Guido da Siena. Quest’ultima rimase esposta fino al 1863, quando venne destinata al Museo. XIV sec. Una pia donna di nome Monna Tessa dona alla Chiesa trecento lire per far rivestire la spoglia facciata. La cifra però copre appena le spese per il basamento, rimasto come testimonianza del progettato rivestimento in pietra scolpita. La facciata primigenia in mattoni bruniti si è preservata fino ai nostri giorni.
in piú volumi la storia dei santi e delle feste del calendario liturgico. Dalla fine del Duecento, la sua opera – prima copiata e successivamente stampata – conobbe un successo paragonabile a quelli della Bibbia e della Commedia di Dante, veri «best seller» dell’età di Mezzo. La Controriforma, però, nello sforzo di ripulire la tradizione cristiana dai culti «falsi e risibili» 80
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1397 Terminano i lavori della ricostruzione dell’abside maggiore perita nell’incendio. 1408 La famiglia aretina dei Bacci si offre di pagare le spese per la decorazione della cappella a condizione che i suoi familiari vi siano sepolti.
1374 L’abside brucia in un incendio. 1447 Gli eredi di Baccio di Magio Bacci vendono una vigna per eseguire le sue disposizioni testamentarie.
A sinistra la sobria facciata in pietra e mattoni della trecentesca chiesa di S. Francesco.
1452 Muore Bicci di Lorenzo, il pittore incaricato di affrescare la Cappella. Iniziano i lavori di Piero della Francesca chiamato a succedergli. 1466 Termine dei lavori di Piero della Francesca.
contro i quali aveva tuonato Martin Lutero, relegò la Legenda Aurea in soffitta, proprio a motivo del suo spiccato gusto per il meraviglioso e il leggendario. E cosí, nella memoria collettiva, gli affreschi ispirati alle sue storie persero la loro naturale didascalia. Agli occhi dei viaggiatori inglesi, essi si presentarono dunque danneggiati e senza paternità,
XVI sec. La costruzione di un campanile, addossato alla parete destra della Cappella Maggiore, provoca gravi danni alla lunetta su cui è dipinta la Morte di Adamo.
1990 Viene ricostruita la base su cui poggiava la facciata. 1992 Si procede a un imponente lavoro di restauro degli affreschi di Piero nella Cappella Maggiore, promosso dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, dalla Soprintendenza ai Beni Ambientali Architettonici Artistici e Storici di Arezzo, dall’Opificio delle Pietre Dure di Firenze e dalla Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio, finanziatrice del restauro.
2000 Terminano i lavori di restauro. A partire da questo momento la cappella Bacci viene musealizzata, consentendo l’accesso a piccoli gruppi di visitatori.
1980 Viene riportato nella chiesa il crocefisso ligneo attribuito a Margaritone d’Arezzo (1290 circa). 1927 Restauro del campanile. Nella pagina accanto, a destra Assisi, basilica di S. Francesco, Chiesa Superiore. San Francesco caccia i diavoli da Arezzo, dal ciclo realizzato da Giotto nell’ultimo decennio del XIII sec. La scena evoca un episodio della vita del santo che sarebbe avvenuto nel 1211. A destra l’area del centro storico di Arezzo in cui è compresa la chiesa di S. Francesco.
ma non mancarono di attirare – attraverso un diffuso passaparola – l’arrivo di altri visitatori stranieri. La svolta si ebbe quando il direttore dell’École des Beaux-Arts di Parigi ne fece realizzare una copia dipinta in scala naturale per il proprio istituto. Artisti di fama internazionale poterono, sulla base dell’accuratissima copia, attribuirne la fattura a Piero della Francesca. Da
quel momento, per la gioia degli Aretini che avevano seguito con spasmodico interesse la copiatura dell’opera, il capolavoro tornò al centro dell’attenzione degli studiosi. Ma facciamo un passo indietro e cerchiamo di capire come e perché Piero fu incaricato della realizzazione del ciclo. Arezzo costituisce una tappa importante nella storia francescana, un SAPER VEDERE
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dato che sembrerebbe non avere relazioni con le pitture, ma è invece di significativa importanza. Le biografie di san Francesco riportano l’episodio secondo il quale, nel 1211, giunto fuori le mura della città toscana, egli scorse un nugolo di diavoli che esultavano nel vedere quante e quali discordie serpeggiassero all’interno della comunità cittadina. Francesco li cacciò, riportando cosí Arezzo alla pace. L’episodio, citato fin dalle prime biografie, fu immortalato da Giotto ad Assisi e da Benozzo Gozzoli a Montefalco. Di qui l’indissolubile legame tra Francesco e la città di Arezzo.
In basso miniatura raffigurante Elena, madre dell’imperatore Costantino, che ritrova e identifica la Vera Croce, da un’edizione manoscritta della Legenda Aurea. 1400-1410 circa. Glasgow, Glasgow University Library.
Una chiesa semplice
Ad Arezzo, fuori le mura, proprio sul luogo in cui l’Assisiate aveva compiuto il miracolo della cacciata dei diavoli, i Francescani s’insediarono, ancora vivente il santo, costruendo una chiesa e un convento. Nel 1290, tuttavia, il luogo – posto, come si diceva, fuori dalle mura – si fece insicuro. I frati chiesero allora il permesso di trasferirsi all’interno della città e fecero costruire una chiesa semplice, a navata unica, come era costume degli Ordini mendicanti. Anche la facciata era di fattura umile, in pietre e mattoni, perché anch’essa doveva apparire espressione del programma di povertà e semplicità tipico dei Francescani. Tale aspetto fu mantenuto sia all’esterno che all’interno dell’edificio per molti decenni, fino a quando un importante lascito testamentario destinò una notevole somma alla realizzazione di un ciclo di affreschi nella Cappella Maggiore della chiesa. Il mecenatismo artistico-religioso finalizzato alla sopravvivenza post mortem va messo in relazione con la comparsa in Europa della Peste che, a partire dal 1348, si abbatté con ondate successive, determinando un clima di paura e insicurezza. I lasciti testamentari, destinati a opere d’arte a carattere religioso che potessero ricordare ai posteri la liberalità dei donatori, servivano anche a guadagnare una sepoltura privilegiata all’interno di chiese e cappelle. Tali furono le motivazioni che spinsero il mercante aretino Baccio di Magio Bacci, esponente di una delle famiglie piú in vista della città, a lasciare un’ingente somma di denaro per la decorazione della Cappella Maggiore di S. Francesco. Le sue volontà, tuttavia, vennero eseguite dagli eredi solo trent’anni dopo. Nel 1447, Francesco Bacci vendette una vigna e con il ricava-
to onorò la disposizione dell’avo, affidando la realizzazione della decorazione a un artista fiorentino legato alla precedente tradizione pittorica, Bicci di Lorenzo, maestro di una delle botteghe piú in vista nella città. Com’era consuetudine, per evitare che le colature di colore potessero rovinare gli affreschi, egli iniziò a dipingere dall’alto, dalla parte superiore; dipinse quattro evangelisti nei pennacchi della volta e due dottori della Chiesa, Gregorio e Girolamo, nella parte superiore del sottarco della cappella. Aveva appena iniziato a realizzare il Giudizio Universale nell’arco trionfale, quando, nel 1452, morí. Giovanni Bacci, figlio del committente dell’opera (Francesco Bacci), era un giovane ben inserito nei circoli piú all’avanguardia della città, cenacoli di umanisti tra i quali spiccava un pittore proveniente dalla vicina Sansepolcro, che aveva già lavorato presso corti prestigiose quali Ferrara, Rimini e Urbino ed era ritenuto una promessa della nuova corrente artistica rinascimentale. Fu Giovanni a scegliere Piero della Francesca per portare a termine il lavoro appena iniziato. Solo la raccomandazione del figlio poteva spingere il committente a scegliere un artista poco piú che trentenne (Piero era nato a Borgo Sansepolcro nel 1406 o 1412, n.d.r.) e legato a una cultura figurativa modernissima, ben piú difficile da comprendere rispetto al pittore che l’aveva preceduto nell’incarico.
Il santo e la Vera Croce
Nella pagina accanto particolare dell’affresco raffigurante l’imperatrice Elena che fa eseguire scavi che portano al rinvenimento della Croce di Gesú. Invece che a Gerusalemme, Piero della Francesca sceglie di ambientare la scena ad Arezzo.
All’epoca i mecenati non erano ancora soliti esprimersi sulla scelta dei soggetti che sarebbero stati rappresentati e a scegliere furono, invece, i Francescani, ai quali la chiesa era stata affidata. Il tema – individuato probabilmente già dalla prima assegnazione del ciclo a Bicci di Lorenzo – fu quello delle storie della Vera Croce, molto caro all’Ordine. Il crocefisso è infatti protagonista di molti passaggi salienti della vita di Francesco. È il crocefisso a parlare al Poverello nella chiesa di S. Damiano al momento della conversione: «Va’ Francesco, ripara la mia chiesa che sta cadendo in rovina». Il Cristo crocefisso della Passione resta, anche dopo la conversione, il centro della sua spiritualità. Inoltre, secondo la biografia ufficiale di Francesco scritta da Bonaventura da Bagnoregio, il santo ebbe il dono delle stimmate: unico tra tutti i santi a essere marchiato da Cristo col suo stesso sigillo. (segue a p. 87) SAPER VEDERE
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Il ciclo in sintesi
Nel distribuire le scene del ciclo, Piero della Francesca non si curò dell’andamento cronologico degli eventi. Qui le riportiamo nell’ordine naturale di lettura, cioè da sinistra a destra. 1. ERACLIO RIPORTA LA CROCE A GERUSALEMME Eraclio (al centro), a piedi nudi e vestito della sola tunica in segno di umiltà, porta la Croce verso un gruppo di uomini inginocchiati in preghiera. 2. INVENZIONE DELLA CROCE Elena, madre di Costantino fa scavare nel luogo svelatole da Giuda. La scena dovrebbe svolgersi a Gerusalemme, ma è invece ambientata ad Arezzo. Sulla destra, per identificarla, alla Vera Croce si avvicina il corpo di un giovane morto, che resuscita. Elena si inginocchia in segno di venerazione, cosí come la regina di Saba nel riquadro corrispondente sulla parete di destra. 3. BATTAGLIA TRA COSROE ED ERACLIO Nel 615 il re persiano Cosroe II ruba la Croce da Gerusalemme (a destra). L’imperatore d’Oriente, Eraclio, lo chiama in battaglia (a sinistra), ma questi si rifiuta di convertirsi ed Eraclio gli taglia la testa (a destra). La scena cita molte rappresentazioni di battaglia classiche, contenute anche nell’arco di Costantino a Roma.
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5. INCONTRO TRA LA REGINA DI SABA E SALOMONE L’albero è ormai divenuto grande e rigoglioso, e Salomone ha tentato di impiegarlo per la costruzione del Tempio, ma poiché gli operai non sono riusciti a lavorarlo, lo hanno gettato in un piccolo lago. Nella scena si vede la regina di Saba, in visita a Salomone, che si inginocchia (al centro della scena) davanti al legno e svela a Salomone che esso servirà per crocifiggere Cristo. 6. BATTAGLIA DI PONTE MILVIO Massenzio fugge davanti alla Croce che Costantino tiene nella mano destra alzata come vessillo (che ricorda quella recata in sogno dall’angelo). La parte destra di questo registro è stata rovinata dall’umidità.
parete destra
4. ADAMO MORENTE Adamo (sulla destra) manda il figlio Seth dall’arcangelo Michele per avere «l’olio della misericordia». Michele (sullo sfondo) gli consegna invece alcuni semi presi dall’albero della Conoscenza. Dovrà piantarli nella bocca di Adamo al momento del seppellimento (scena a sinistra): da questi semi nascerà un alberello.
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7. TORTURA DELL’EBREO Giuda, a conoscenza del luogo in cui è sepolta la Croce, viene fatto torturare dall’imperatrice Elena. Nella scena viene estratto dal pozzo in malo modo. 8. SEPOLTURA DEL LEGNO Salomone ordina di far sparire il legno nelle viscere della terra. 9. ANNUNCIAZIONE A MARIA Questa scena non si trova nella Legenda Aurea e si discute ancora sul perché Piero l’abbia voluta inserire nel suo ciclo. Potrebbe trattarsi di un semplice richiamo all’indulgenza concessa nel 1298 da papa Niccolò IV per quanti avessero visitato la chiesa nel giorno della festa dell’Annunciazione.
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10. SOGNO DI COSTANTINO Costantino sogna la Croce la notte prima della battaglia contro Massenzio (312; vedi anche il box a p. 87). Nella parte bassa della foto, al centro, è il grande crocifisso ligneo attribuito al Maestro di San Francesco, databile alla seconda metà del XIII sec.
LA NUOVA ARTE DI PIERO
Un paesaggio lunare La chiesa di S. Francesco custodisce uno dei capolavori dell’arte del Quattrocento, gli affreschi di Piero della Francesca, riscoperti nel XIX secolo da viaggiatori inglesi. Tra tutti troneggia il Sogno di Costantino, definito dalla critica come il primo paesaggio notturno prima di Caravaggio. In realtà, piú che di paesaggio notturno, si tratta di un paesaggio lunare, iconico ed enigmatico come pure sembra suggerire lo sguardo misterioso – fisso verso lo spettatore – del servitore, il quale veglia sull’imperatore addormentato. L’intera scena è costruita seguendo un rigoroso impianto geometrico giocato sulla «X» formata dall’apertura della tenda e dal triangolo del cono che la sovrasta. Gli attoniti soldati che montano di guardia appaiono come fulminati dalla luce dell’angelo che reca in mano una piccola croce, contribuendo a conferire alla rappresentazione un immobilismo surreale e incantato, che ha fatto diventare questa scena un’icona dell’arte rinascimentale. Il linguaggio fortemente simbolico e i sapienti richiami alla costruzione geometrica che si riflettono nello spazio prospettico, corredati da tratti naturalistici di sapore crepuscolare, fanno di questo affresco la summa della nuova arte di cui Piero è discepolo e maestro al tempo stesso. Nella biografia di Piero, la realizzazione del riquadro va posta infatti dopo la parentesi presso la corte papale, dove egli lavorò fianco a fianco con artisti fiamminghi di cui osservò l’uso sapiente della luce.
Proprio Bonaventura da Bagnoregio aveva creato un ulteriore elemento di collegamento tra Francesco e la Croce. Egli infatti, con una scelta dal deciso significato programmatico, aveva datato l’episodio delle stimmate alla Verna (il santuario francescano nei pressi di Chiusi, n.d.r.) al 14 di settembre, festa dell’Esaltazione della Croce – nella quale si commemorava il rientro a Gerusalemme della reliquia dopo il furto effettuato dal persiano Cosroe II – preferendolo al 3 maggio, data che il calendario liturgico aveva assegnato all’anniversario dell’Invenzione (cioè del ritrovamento della Croce a Gerusalemme da parte di Elena, madre di Costantino). I Francescani, del resto, erano molto attivi nella celebrazione di tale festa, come prova anche il fatto che Luigi IX di Francia li avesse incaricati di officiare i riti del 14 settembre nella Sainte-Chapelle di Parigi. D’altra parte, il legame con la Croce era motiva-
Nella pagina accanto veduta complessiva della Cappella Maggiore nella basilica di S. Francesco. In alto particolare del Sogno di Costantino. La scena si riferisce alla notte precedente la battaglia di Ponte Milvio, quando l’imperatore, sorvegliato da due guardie, sogna un angelo che reca una piccola croce.
to anche dalla significativa presenza dell’Ordine di Francesco in Terra Santa. Roberto d’Angiò (1277-1343) aveva concesso loro numerose custodie, sia a Nazaret che a Betlemme. Qui assunsero un ruolo di tutela delle vestigia cristiane, compito che li portò, alla fine, ad appoggiare le crociate. La festa dell’Esaltazione della Croce, piú di quella dell’Invenzione, veicolava l’invito alla crociata in nome della tutela dei luoghi di culto cristiani e della salvaguardia delle reliquie. Il ricordo della profanazione della basilica del Martiryum da parte di Cosroe II rinfocolava, infatti, anche il desiderio di sottrarre il Santo Sepolcro dalle mani degli «infedeli». Non stupisce, dunque, che i Francescani di Arezzo optassero per un tema già scelto, qualche decennio prima, dai confratelli fiorentini per la basilica di S. Croce. I frati offrirono come base del ciclo la Legenda Aurea, il cui racconto inizia da molto lontano. SAPER VEDERE
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L’ATTRIBUZIONE DEL CICLO
Un capolavoro in due fasi Ristabilita alla metà dell’Ottocento sulla base di indagini stilistiche, la paternità del magnifico racconto illustrato di Arezzo è oggi attestata da piú di un documento. Un atto notarile testimonia che la stesura del ciclo fu interrotta negli anni 1458-1459, quando Piero della Francesca fu a Roma, alla corte di papa di Niccolò V, presso il quale eseguí nel Palazzo Apostolico affreschi oggi perduti. Qui – come già accennato – subí l’influenza dei pittori fiamminghi che lavoravano alla corte papale. Influenza che non mancò di riflettere, al suo rientro
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in Arezzo, sugli affreschi della Croce, detti «della seconda fase». Un contratto stilato nel 1466, a nome della confraternita della Nunziata, attesta che Piero fu l’autore del ciclo e che esso aveva riscosso un grande successo nella comunità cittadina. Per tale ragione, si legge nel documento, la confraternita gli commissionò la realizzazione del proprio stendardo. Di notevole interesse nella chiesa: il grande Crocifisso ligneo del Maestro di San Francesco, contemporaneo di Cimabue (vedi a p. 86).
Adamo, ormai vecchio e prossimo a morire, chiede al figlio Seth di recarsi in Paradiso, per ottenere dall’Arcangelo Michele l’olio della misericordia, un viatico che dovrebbe rasserenare la sua morte. E Piero, in effetti, inizia il proprio ciclo pittorico dalla rappresentazione dell’Eden; tuttavia, come si noterà, egli segue solo alcuni degli elementi del lungo racconto sviluppato dalla Legenda Aurea, senza rispettarne in modo pedissequo la scansione cronologica. Egli organizza il ciclo in dieci riquadri: quattro maggiori, quattro minori e due lunette, distribuiti sulle due pareti laterali e sulle fasce di muro che fiancheggiano il finestrone del coro. Il ciclo si apre comunque con Adamo morente (vedi a p. 85, foto n. 4). In un unico riquadro egli ritrae in primo piano Adamo, circondato dai figli e da una vecchissima Eva, rappresentata con i seni seminudi e cadenti, quasi a contrastare la funzione di tentatrice avuta in gioventú. In lontananza dipinge invece Seth, il primogenito di Adamo, nel momento in cui si rivolge all’Arcangelo Michele. Secondo il racconto della Legenda, l’Arcangelo rispose a Seth di non poter soddisfare la sua richiesta, adducendo come motivazione il fatto che i tempi non fossero ancora maturi, in quanto l’olio del viatico era in relazione con la Resurrezione del Cristo, ancora di là da venire. Gli avrebbe però consegnato un ramoscello con alcuni semi, strappato dall’albero della conoscenza, dicendogli di metterli nella bocca di Adamo al momento della sepoltura.
Un legno prodigioso
Secoli dopo, l’albero nato sulla tomba di Adamo era divenuto maestoso e verdeggiante, e il re Salomone ordinò che fosse tagliato e utilizzato per la costruzione del Tempio di Gerusalemme. I falegnami lo tagliarono, senza riuscire tuttavia a lavorare l’asse ricavata da quel tronco: essa si allargava e restringeva per virtú divina, indocile all’uso che pretendevano di farne i costruttori. A quel punto, rassegnati, i falegnami posarono il legno prodigioso sulle sponde di un lago, per usarlo come passerella. Un giorno la regina di Saba, giungendo in Palestina attirata dalla fama del re Salomone, si trovò a percorrere – del tutto ignara – proprio quell’asse e in quell’istante ebbe una potente visione: a causa di quel legno il Salvatore del mondo sarebbe stato giustiziato, e ciò avrebbe coinciso con la fine del regno degli Ebrei. Tale complesso intreccio narrativo non fu rappresentato nella sua totalità da Piero, il quale, nel secondo riquadro (Incontro tra la regina di
In alto la raffigurazione di Dio Padre, particolare dell’Annunciazione a Maria. Nella pagina accanto particolare della Battaglia di Ponte Milvio, affresco nel quale si vede Costantino vittorioso che tiene nella mano destra una croce, alzata come un vessillo.
Saba e Salomone; vedi a p. 85, foto n. 5, e alle pp. 78-79), andò direttamente al momento in cui la regina di Saba, inginocchiata davanti al legno, rivela al re Salomone, sulla destra, la profezia. Il racconto di Iacopo da Varazze prosegue narrando che a quel punto Salomone, allarmato dalla profezia, ordina di seppellire il legno nelle viscere della terra. Di tale passo Piero raffigura la scena (Sepoltura del legno, vedi a p. 86) in cui tre nerboruti manovali spingono il gigantesco asse nelle profondità di un lago fangoso, il quale, grazie alle prodigiose virtú del legno, si trasformerà nella piscina probatica. La scena è di particolare realismo, soprattutto nella descrizione dei corpi dei manovali, ma appare anche di grande forza simbolica. L’asse smisurato che pesa sulla schiena del portatore aiutato da altri due uoSAPER VEDERE
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DOVE E QUANDO Museo Basilica di S. Francesco Arezzo, via di San Francesco Orario lu-ve, 9,00-18,30; sa, 9,00-17,30; do, 13,00-17,30; le visite si svolgono ogni 30 minuti, con prenotazione obbligatoria Info tel. 0575 352727; fax 0575 302001; e-mail: pierodellafrancesca-ar@beniculturali.it; web: pierodellafrancesca.it
Particolare della Battaglia tra Cosroe ed Eraclio, scatenata dall’imperatore d’Oriente dopo che il sovrano sasanide aveva trafugato la Croce a Gerusalemme.
mini è infatti una citazione della salita di Cristo con la Croce al monte Calvario. Iacopo da Varazze prosegue con il racconto della Passione. Venuti i giorni del processo a Gesú, la trave riaffiora dalle acque della piscina e viene scelta per costruire la Croce del supplizio. Dopo la Resurrezione, però, se ne perdono di nuovo le tracce, e qui il racconto di Iacopo subisce un notevole salto cronologico. Passati tre secoli, l’imperatore Costantino, alla vigilia della battaglia contro Massenzio, ha una visione: una croce su cui campeggia la scritta: «In hoc signo vinces». L’imperatore pone allora il suo esercito sotto la protezione del simbolo sognato ed esce vittorioso dalla battaglia. Ciò fa maturare in lui la volontà di concedere la libertà di culto ai cristiani, ponendo fine alle persecuzioni. Tali vicende sono riassunte da Piero in due scene: il Sogno di Costantino (vedi a p. 87) e la Battaglia di Ponte Milvio (vedi a p. 85, foto n. 6 e a p. 88).
I Cavalieri di Cristo
Occorre tenere conto che la letteratura cavalleresca medievale aveva da tempo trasformato alcuni imperatori cristiani in grandi eroi, primi fra tutti Costantino, Eraclio e Carlo Magno. Nelle chanson, essi furono descritti come «Cavalieri di Cristo», che avevano combattuto e difeso il Santo Sepolcro. In realtà, Carlo Magno non condusse mai alcuna crociata in Terra Santa e Costantino non ne avrebbe mai avuto necessità, visto che la Terra Santa faceva parte integrante dell’impero. Tra i tre, il solo ad avere realmente difeso con le armi Gerusalemme era il bizantino Eraclio; e, infatti, il pittore Agnolo Gaddi, per il suo ciclo in Santa Croce a Firenze, scelse proprio lui come protagonista delle sue storie. In Piero, invece, il vero protagonista del ciclo è Costantino. Probabilmente il maestro di Sansepolcro vuole sottolineare l’importanza di Costantino nella storia del cristianesimo, poiché è lui che ha dato ai cristiani la libertà di culto. L’intento di Piero di sottolineare la dimensione provvidenziale della storia cristiana è dimostrato dalla scelta di associare l’episodio del sogno di Costantino all’Annunciazione (vedi a p. 86, n. 9), che neanche figura nella narrazione della Legenda Aurea. Egli, insomma, vuole suggerire allo spettatore che entrambe le apparizioni preannunciano eventi fondamentali per il mondo cristiano: l’apparizione dell’angelo a Maria prepara la nascita di Cristo, mentre l’apparizione dell’angelo a Costantino determina la fine delle persecuzioni. 90
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Nella Battaglia di Ponte Milvio, inoltre, Massenzio fugge davanti alla Croce che Costantino tiene alzata nella mano destra come fosse un vessillo, e che ricorda quella esile recatagli in sogno dall’angelo. Di notevole bellezza appare la resa delle armature dei soldati descritti quasi come duellanti di giostra. Purtroppo, la parte destra di questo registro risulta quasi illeggibile a causa dei gravi danni provocati dall’umidità. Con la vittoria di ponte Milvio, insomma, per il cristianesimo si apre una nuova fase, che Piero riassume sinteticamente nella ricerca della Croce da parte della madre di Costantino, Elena. Il racconto di Iacopo da Varazze narra che una volta giunta a Gerusalemme, l’imperatrice non fu subito in grado di scoprire il luogo in cui Gesú era stato crocifisso e dove, di conseguenza, la croce di legno era stata abbandonata e sepolta. Informata però che un certo Giuda era il custode di tale segreto, decise di costringerlo a parlare: lo fece calare in un pozzo dove lo tenne a digiuno per sette giorni. Alla fine l’uomo parlò. Piero immagina la scena con particolare crudeltà, e rappresenta i carcerieri che estraggono Giuda (nome che allude allo stereotipo dell’Ebreo) dal pozzo, tirandolo per i capelli. Nella Legenda, questo episodio, per quanto drammatico, non era stato descritto con toni tanto violenti. Iacopo era convinto della ragionevolezza della decisione dell’imperatrice di torturare l’uomo, in realtà colpevole solo di conoscere il luogo dell’esecuzione, ma aveva anche precisato che Giuda non aveva voluto parlare per timore di illecite profanazioni e non per odio verso i cristiani. La descrizione vivida e crudele di Piero sembra piuttosto rappresentare un riflesso dell’ideologia dei committenti francescani, i quali avevano iniziato dai pulpiti delle chiese e delle piazze ad associare i temi della Croce e della Passione alla «colpa degli Ebrei».
La prova decisiva
La narrazione di Piero si chiude con l’identificazione della Vera Croce (vedi a p. 84, foto n. 2). Per distinguerla da quelle dei due ladroni, rinvenute anch’esse nello scavo, Elena fa portare il corpo di un giovane da poco deceduto, il quale, appena toccato dal Legno della Passione, riprende vita. Nella Legenda, a questo punto, si narra il furto della reliquia per mano del re sasanide Cosroe II, che riuscí a portarla via da Gerusalemme. Iacopo da Varazze lo descrive come un uomo dedito alle arti negromantiche, bramoso di rapire la reliquia per sfruttarne le virtú taumaturgiche. Tornato in
Particolare raffigurante un gruppo di uomini inginocchiati in preghiera di fronte alle porte di Gerusalemme che attendono che Eraclio riporti la Croce in città.
patria, il re fece costruire una torre d’oro e d’argento dove fece chiudere il sacro resto. Sempre nel racconto di Iacopo, l’imperatore bizantino Eraclio, venuto a conoscenza del furto della reliquia, decise di sfidare a duello il figlio di Cosroe; dopo aver vinto il duello, Eraclio decapitò anche il padre e si riappropriò della reliquia, portandola di nuovo a Gerusalemme. A questa seconda parte della storia Piero dedica le scene conclusive, nelle quali rappresenta Eraclio che, dopo la battaglia, taglia la testa a Cosroe II (vedi a p. 84, foto n. 3) e, infine, Eraclio che riporta la Croce a Gerusalemme (vedi a p. 84, foto n. 1).
DA LEGGERE Massimo Mussini, Luigi Grasselli, Piero della Francesca. De prospectiva pingendi, Aboca Edizioni, Sansepolcro 2008 Edgarda Ferri, Piero della
Francesca. Storia e misteri del maestro della luce, Mondadori Editore, Milano 2007 Carlo Ginzburg, Indagini su Piero, Einaudi editore, Torino 1981
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Il racconto della fontana Perugia, la Fontana Maggiore. Artefici dell’opera, realizzata nel 1277-1278, furono Nicola e Giovanni Pisano (subentrati ad Arnolfo di Cambio), per la gran parte degli elementi scultorei, e il fonditore Rubeus (Rosso) per la coppa di bronzo.
Al di là della sua pur vitale funzione originaria, uno dei monumenti simbolo di Perugia fu voluto a maggior gloria della città. E, per farlo, furono chiamati a realizzarlo Nicola e Giovanni Pisano, che assolsero al mandato plasmando un’opera straordinaria, in cui l’eleganza delle forme si unisce a un affascinante gioco di allegorie ed evocazioni
di Furio Cappelli
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uarda tu che passi la gioconda vita di questa Fontana. Se osservi bene puoi vedere cose mirabili. Sant’Ercolano, san Lorenzo, continuate a implorare. Che conservi le acque Colui che siede sopra gli astri». Inizia cosí la lunga iscrizione in esametri latini che si legge sulla Fontana Maggiore di Perugia, lungo la cornice che cinge la vasca superiore, in basso. I santi patroni della città, il martire locale Ercolano e san Lorenzo, al quale è dedicata la cattedrale prospiciente, rappresentano i Perugini al cospetto dell’Eterno, e si assicurano la sua benevolenza con le loro suppliche. È bene, infatti, che l’acqua continui a sgorgare senza sosta. Vengono poi menzionati gli artefici dell’opera. Perugia, innanzitutto, deve al sovrintendente fra’ Bevignate gli stessi onori che si devono a un padre. Egli infatti, su incarico del comune, «ha diretto ogni cosa». Perugino di nascita, oppure oriundo di Cingoli (Macerata), era un monaco benedettino, appartenente alla congregazione rigorista dei Silvestrini. Vantava molteplici competenze che oggi definiremmo ingegneristiche, e fu assai coinvolto nel grande fervore edilizio che caratterizzò il capoluogo umbro alla fine del Duecento.
Dodici mesi per un capolavoro
L’epigrafe si concentra quindi sugli autori principali del vasto apparato scultoreo, Nicola Pisano e suo figlio Giovanni, e ricorda infine Boninsegna da Venezia, un esperto di idraulica. Già impegnato a Orvieto, fu convocato dal Comune perugino per concludere la difficile impresa dell’acquedotto che doveva rifornire la fontana. Questa dovette essere realizzata in tempi assai brevi, nell’arco di un anno, visto che l’epigrafe è datata 1278, mentre il progetto era ancora in discussione nell’autunno 1277. Come attesta un’altra iscrizione, d’altronde, nel 1277 era già pronto il catino bronzeo sommitale, opera del fonditore Rubeus (Rosso), un maestro non meglio definito, attestato anche nel cantiere del Duomo di Orvieto, per l’architrave bronzeo istoriato della Porta della Postierla (o del Vescovado). Se per realizzare la fontana bastarono dodici mesi, l’acquedotto che giungeva fin lí richiese invece una gestazione di ventitré anni. La sorgente si trovava ben lontana, sul Monte Paciano, a quasi 4 km di distanza dalle mura urbiche, a nord di Porta Sant’Angelo. Realizzata interamente con tubature in piombo, la condotta necessitava di molteplici accorgimenti per vincere SAPER VEDERE
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1. LA COPPA bronzea della fontana, realizzata nel 1277 dal fonditore Rubeus. Al centro della tazza è il gruppo, anch’esso bronzeo, di evidente gusto classico: raffigura tre ninfe che sorreggono l’anfora da cui zampilla l’acqua.
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IL MONUMENTO IN SINTESI
2. LA VASCA SUPERIORE della fontana presenta figure allegoriche, personaggi storici, biblici e mitologici. Tra di essi, in corrispondenza di uno degli angoli principali, campeggia Euliste, il re etrusco a cui la tradizione attribuiva la fondazione di Perugia, che, secondo il trecentesco Conto di Corciano, sarebbe avvenuta proprio nel luogo identificato dalla Fontana Maggiore. 3. UN’INFERRIATA chiuse la Fontana Maggiore nel 1303. Il manufatto originario fu sostituito una prima volta nel 1806, ma anche quella recinzione è stata in seguito rimpiazzata da quella oggi visibile, posta in opera nel 1948-1949, in occasione di un piú ampio intervento di restauro e ricomposizione filologica del monumento.
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Il simbolo di una città «nuova» Perché è importante La Fontana Maggiore di Perugia è una delle piú antiche fontane pubbliche superstiti, ed è la prima in assoluto a essere concepita come un grande complesso figurativo di sgargiante impatto visivo, con un’ampia messe di significati e di implicazioni. È il fulcro della «nuova» città di Perugia, il suo stendardo e il «manifesto» che ne enuncia con orgoglio l’identità, i punti di forza e le aspirazioni. La Fontana Maggiore nella storia Ubicata nella sede delle magistrature civiche e del vescovo, in quella piazza dove già nel 1234 la Pietra della giustizia ricordava i primi successi riportati dal popolo sull’aristocrazia, la Fontana Maggiore segna la piú ambiziosa realizzazione promossa dal Comune perugino, ormai saldamente
guidato dalle forze popolari della società cittadina. Insieme alla scomparsa fontana di Arnolfo e al Palazzo dei Priori, rientra nel quadro di un vero e proprio «piano regolatore», che coinvolge l’intero tessuto urbano. La Fontana Maggiore nell’arte La Fontana Maggiore è l’ultima opera documentata di Nicola Pisano, ed è anche l’ultima che lo vede agire in collaborazione con il figlio Giovanni. Ma la sua singolarità è tale che la sua importanza prescinde dal difficile riconoscimento dell’apporto diretto dei due scultori. Opera corale, quasi una cattedrale laica in miniatura, è un episodio sorprendente di quella rinascita dell’antico che segna la vicenda artistica delle città italiane alla fine del Duecento.
A destra veduta d’insieme del cenotafio, con, in alto, lo spazio vuoto nel quale doveva verosimilmente trovarsi una statua del vescovo; al di sotto, la tomba vuota e le formelle che raffigurano gli episodi salienti della vita di Guido Tarlati.
Ancora un’immagine della fontana, dietro la quale è il Palazzo dei Priori (a destra). Sulla facciata, dell’edificio, sopra il portale che dà accesso alla Sala dei Notari, sono visibili le copie dei bronzi di un leone e di un grifo, animali-simbolo di Perugia (gli originali si trovano all’interno del palazzo).
le differenze di quota, sino a scavalcare le mura etrusche e a tagliare nel vivo l’incasato della città nella zona della Conca, dove tuttora emerge l’antico acquedotto, «alleggerito» alla base da una serie di arcate. L’impresa venne avviata dal Comune nel 1254, ma, dopo una lunga e difficoltosa lavorazione, già nel 1260 l’opera risulta abbandonata. Il progetto fu ripreso con particolare impegno nel gennaio 1277, e una ferrea volontà, condivisa da tutta la cittadinanza a costo di cospicui sacrifici, fece in modo che un lavoro tanto impegnativo da sembrare irrealizzabile venisse finalmente ultimato nel giro di pochi mesi. Già nell’estate dello stesso anno la condotta era giunta al traguardo, in quella piazza del Comune (oggi piazza IV Novembre) dove di lí a poco sorse la Fontana Maggiore, il fulcro e il baricentro della «nuova» città, a onore e gloria di un agguerrito governo di segno popolare che basava il suo prestigio sulla difesa del diritto, sull’ordine e sull’abbondanza delle risorse di vita. Anche ammettendo problemi strutturali o di
approvvigionamento dell’acquedotto, sicuramente l’acqua affluiva regolarmente in piazza nel 1280. Il getto che fuoriusciva in alto da una coppa di bronzo, sorretta da tre giovani donne abbigliate all’antica, per poi zampillare nel catino di Rubeus e nelle due vasche marmoree sottostanti, era già uno spettacolo che animava lo scenario della città, e di cui i Perugini, allora come oggi, andavano fieri.
La sorella minore
Mancava un ultimo tassello: proseguendo la condotta verso sud, sull’asse dell’attuale corso Vannucci, si realizzò un’altra fontana, di minore impatto, situata dai documenti dell’epoca «a piè della piazza», nell’area deputata al mercato che si trovava al margine del polo monumentale e urbanistico della città (la «piazza grande», che comprendeva l’invaso del corso). Per questa nuova impresa venne chiamato il senese Arnolfo di Cambio, che la ultimò nel gennaio del 1281. Per renderla ancor piú memorabile, il Comune la impreziosí con due considereSAPER VEDERE
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SAPER VEDERE
Fontana Maggiore
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Nella pagina accanto particolare della vasca superiore: la prima figura è Augusta Perusia, che regge la cornucopia, simbolo di abbondanza, ed è affiancata dalla domina del Lago Trasimeno, che reca i pesci. In basso la personificazione della città di Roma, compresa nella teoria di immagini che ornano la vasca superiore.
Porta San Pietro
voli sculture bronzee che dovettero esserle poste ai fianchi, sulla fascia sommitale. Rappresentavano un leone e un grifo, ossia gli animali-simbolo di Perugia. Vennero rivestiti di una lamina d’oro in vista della nuova collocazione, ma già nel 1301 furono dislocati sul Palazzo dei Priori, di fianco all’ingresso della Sala dei Notari (ossia di fronte alla Fontana Maggiore), laddove sono oggi sostituiti da copie. La fontana di Arnolfo, nel contempo, venne progressivamente smembrata. Sembra che il suo destino fosse segnato dal malfunzionamento dell’acquedotto, che nel 1308 risulta del tutto fuori uso. Venne intrapreso un vasto programma di interventi di modifica e di riattamento della condotta, coinvolgendo nomi di spicco come Lorenzo Maitani – il capomastro del duomo di Orvieto impegnato a Perugia per realizzare un’ala del Palazzo dei Priori – e solo nel 1322, come attesta un’epigrafe che si legge sulla Fontana Maggiore, i lavori giunsero felicemente a termine.
Euliste, il re fondatore
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«In quiete si stendano nella sua vista colli e vallate, verzieri quali nessuna terra nutre, colture di messi e bei vigneti e fonti quali nessuna città costruí: di là [nella fonte di Arnolfo, n.d.A.] l’immagine aurea di un grifo e di un leone, forme diverse e varie figure, di qua [nella Fontana Maggiore, n.d.A.] volti ed aspetti d’uomini, in alta mole. Tutto ciò che è placido e dilettevole a vedersi in te si contempla, o migliore fra le dimore, dolce di prosperità, amenissima, tranquilla di quiete sicura». Le due fontane pubbliche si trovano qui in seno a una lode alla città di Perugia, incastonata in un paesaggio all’insegna della quiete, della prosperità e dell’armonia. Con alcuni decenni di anticipo, sembra di «vedere» gli Effetti del Buon Governo dipinti da Ambrogio Lorenzetti nel Palazzo Pubblico di Siena (1338-40 circa). I versi appartengono alla Eulistea, un poema in latino commissionato dai reggitori della città umbra al retore Bonifacio da Verona nel 1299. Protagonista dell’opera è Euliste, il re etrusco che avrebbe dato luogo a Perugia. Stando a un ulteriore poema, il trecentesco Conto di Corciano, egli fondò la città proprio nel luogo identificato dalla Fontana Maggiore, di fronte all’antica residenza comunale (oggi inglobata nel Palazzo Arcivescovile) e alla cattedrale di S. Lorenzo (la cui facciata era in precedenza rivolta alla piazza). Il nome di Euliste si ricollega all’Auleste dell’Eneide, il re etrusco che si allea con l’eroe del poema di Virgilio, e la memoria di questo fondatore poteva essere ben antica e radicata SAPER VEDERE
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Fontana Maggiore
LE DATE DA RICORDARE 1234 aprile Dopo una significativa vittoria del popolo sull’aristocrazia cittadina, viene apposta sul campanile della cattedrale la Pietra della giustizia.
1255 Prima attestazione del capitano del popolo.
1254 Iniziano i lavori di costruzione dell’acquedotto che dovrà collegare la piazza del Comune alle sorgenti del Monte Paciano, a nord della città. Già nel 1260 l’opera risulta interrotta.
1260 Vengono stabiliti gli Ordinamenta populi, che definiscono i criteri di organizzazione di tutti i gruppi di professionisti, artigiani e commercianti che compongono il «popolo» perugino.
1266 In un atto ufficiale, i consoli dell’Arte della mercanzia figurano tra i rappresentanti della cittadinanza, di fianco al podestà e al capitano del popolo.
1277, gennaio Il Consiglio generale del Comune delibera la ripresa dei lavori dell’acquedotto. Vengono coinvolti due consulenti, il veneziano Boninsegna e frate Alberico, francescano. In seguito Boninsegna risulta affiancato dal sovrintendente fra’ Bevignate.
1274, febbraio Per solennizzare la festa del patrono sant’Ercolano, il Comune di Perugia commissiona il leone e il grifo di bronzo attualmente conservati nel Palazzo dei Priori.
1277, 10 settembre Convocazione degli abati e dei priori dei monasteri perugini allo scopo di reperire fondi per l’impresa. Nello stesso giorno re Carlo d’Angiò autorizza Arnolfo di Cambio a recarsi a Perugia per la realizzazione della Fontana Maggiore.
A destra l’immagine di un’aquila nella decorazione di una formella della vasca inferiore. nel territorio. È comunque interessante rilevare come il recupero di una memoria storica cittadina sia strettamente legato all’affermazione del libero Comune. Padova si riteneva fondata dal troiano Antenore, in onore del quale eresse una tomba monumentale (1283), mentre Genova, per facile etimologia, aveva eletto a proprio eroe Giano, trasformato da dio pagano bifronte a re italico. Dal canto suo, Euliste campeggia in forma di statua quasi a tutto tondo proprio sulla Fontana Maggiore, su uno degli angoli della vasca superiore. È una delle quattro figure poste sugli assi principali, e occupa per la precisione il vertice nord. Gli corrisponde, a sud, la personificazione della città, che assume la veste classica di Augusta Perusia, riportando in auge un titolo onorifico che risale all’età romana.
Il coronamento di una carriera
Nicola Pisano, ormai alla fine della sua carriera, aveva legato il proprio nome a complessi scultorei di notevole impegno, sfoggiando una maestria che traeva linfa dallo studio dell’arte antica. Elaborando la «macchina» della Fontana Maggiore, mise a frutto anni di esperienza, dall’apprendistato svolto in Puglia, nei cantieri promossi da Federico II (tra cui quello di Castel del Monte; vedi il capitolo alle pp. 118-129), sino alla realizzazione del pulpito del Duomo di Siena (1265-68). La Fontana Maggiore può richiamare concettualmente l’idea del battistero o del fonte batte98
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simale, trovandosi peraltro nei pressi di una cattedrale. I parapetti marmorei rigorosamente modellati – l’uno istoriato, l’altro scandito da statue, oltreché sostenuto da colonne – richiamano le celebri impaginazioni dei pulpiti che lo stesso Nicola aveva realizzato. Ma la nuova impresa compie uno stacco clamoroso nei confronti di ogni esperienza pregressa, ed esclude cosí ogni interferenza con i modelli e con le tipologie di ambito religioso, proprio grazie alla geniale e originalissima concezione dell’insieme.
Sulle due pagine formelle della vasca inferiore raffiguranti Romolo (a sinistra) e Remo: entrambi reggono un avvoltoio augurale, in riferimento al presagio che doveva indicare chi dei due doveva essere designato re.
1277-1278 Il fonditore Rubeus firma la coppa di bronzo della Fontana Maggiore (1277). Subentrati ad Arnolfo di Cambio, Nicola e Giovanni Pisano, sono gli artefici principali dell’apparato scultoreo, completato nel 1278.
1281, gennaio Arnolfo di Cambio realizza la fontana a pié della «piazza grande». 1292 Viene avviato il nuovo Palazzo del Popolo, oggi noto come Palazzo dei Priori.
1299 Il Comune di Perugia affida a Bonifacio da Verona la composizione della Eulistea, un poema in onore della città.
1300 Si delibera il rifacimento della cattedrale.
1303 Si instaura il governo dei Priori delle arti. La Fontana Maggiore viene chiusa da un’inferriata.
1322 Un’iscrizione osservabile sulla stessa Fontana Maggiore attesta cospicui lavori di ripristino dell’acquedotto.
La fontana, infatti, presenta un’articolazione geometrica e strutturale assai elaborata. La vasca inferiore, che si staglia dall’alto di un podio gradinato, si compone di un poliedro di 25 lati. Ogni lato, scandito da colonnine che si alternano in singole e a gruppi di tre, presenta due formelle istoriate, in modo da formare, nel complesso, un lunghissimo fregio costituito da 50 bassorilievi. La vasca superiore poggia su una selva di colonne, in larga parte nascoste nella penombra. Si evidenzia solo la cerchia delle 24
1948-49 Restauro e ricomposizione filologica della fontana. Viene realizzata l’attuale inferriata in sostituzione di quella ottocentesca. 1342 Lo Statuto comunale prevede un’ampia e dettagliata serie di disposizioni volte al decoro della fontana e alla conservazione dell’acquedotto. 1806 L’inferriata trecentesca viene sostituita da una nuova recinzione. 1508 In cima alla fontana viene apposto un gruppo scultoreo duecentesco in bronzo, con grifi e leoni alati, poi rimosso nel 1949. 1349 Restauro della fontana a seguito di un terremoto. 1999 Dopo un elaborato restauro, la fontana è riaperta al pubblico.
In alto le formelle della vasca inferiore con la Trasgressione e la Cacciata dal Paradiso terrestre. A destra la coppia di formelle del ciclo dedicato alle arti liberali raffiguranti l’Astronomia (a sinistra) e la Filosofia.
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Fontana Maggiore
Particolare delle formelle che compongono il Calendario, con le raffigurazioni allegoriche del mese di Maggio (a sinistra) e di Giugno. Nella prima coppia è raffigurata la caccia con il falcone, associata al segno dei Gemelli; nella seconda si vedono invece la mietitura e la battitura, associate al Cancro.
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colonne perimetrali, ma i fusti sono occultati dal parapetto della vasca sottostante, cosicché la vasca stessa sembra fluttuare nel vuoto.
Marmo rosso di Assisi
Il parapetto disegna una figura mistilinea ancor piú complessa del poligono di base. L’insieme appare infatti costituito da 12 lati di forma convessa che presentano due specchiature ciascuno, lisce, realizzate in marmo rosso di Assisi. Tra una specchiatura e l’altra, in un gioco ritmico di sporgenze e rientranze, si para una ghirlanda di 24 statue classicheggianti. Laddove si presenta la statua in posizione sporgente, spicca alla base un delizioso doccione di bronzo a forma di testa d’animale, che scarica l’acqua nella vasca sottostante. L’evidenza plastica delle forme e la ricercatezza nel segno dell’antico culmina nel gruppo bronzeo finale con le tre fanciulle che sorreggono la coppa da cui fuoriesce l’acqua. Nulla sappiamo sul fonditore che realizzò questo pezzo di grande maestria (oggi sostituito in situ da una co-
pia), ma l’idea delle tre cariatidi strette l’una all’altra, spalla a spalla, in una composizione «a colonna», rientra bene nel linguaggio di Nicola e dei suoi allievi. Nella vasca superiore, attorno al «vertice» nord segnato dalla statua di Euliste, spiccano le figure del podestà Ermanno da Sassoferrato e del capitano del popolo Matteo da Correggio. Sul lato opposto, Augusta Perusia, con la sua cornucopia che è antico simbolo di abbondanza, è affiancata da due personificazioni del territorio, la domina del Chiugino, che reca il grano, e la domina del lago Trasimeno, che reca il pesce. Ai lati, accompagnati dai rispettivi chierici, si evidenziano poi i patroni della città, san Lorenzo e sant’Ercolano. Sull’asse ovest-est le figure riallacciano la città a una piú ampia dimensione storica e religiosa. Salomone, a est, rappresenta Gerusalemme, l’antica capitale e la fonte della sapienza cristiana. Sul lato opposto si impone Roma, la nuova capitale della cristianità. Ai suoi fianchi spiccano san Pietro, con la personificazione della
Chiesa romana, e san Paolo, con l’immagine allegorica della Teologia. L’Urbe ritorna nelle formelle della vasca inferiore, laddove le origini della città rientrano nel piú vasto quadro della storia universale. Nell’arco di tre sequenze, si parte dalle vicende di Adamo ed Eva (Trasgressione e Cacciata dal Paradiso terrestre) e si giunge infine ai quattro pannelli dedicati a Romolo e Remo. La fondazione di Roma chiude cosí i primordi dell’umanità, in un’evidente ottica moralistica. Si parte, infatti, dal peccato originale e si giunge alla nascita dell’Urbe, in cui si allude al fratricidio che segna appunto il sorgere di Roma: la coppia RomoloRemo fa da pendant ai progenitori. Nel mezzo, Sansone e Dalila alludono al tradimento, Davide e Golia al coraggio.
Il leone e il cagnolino
Si interpone nella narrazione un sintetico bestiario, che impartisce lezioni di vita allo spettatore. Un leone si ritrae impaurito non appena si avvede che l’uomo che ha davanti colpisce a
Ancora un particolare del Calendario, con una delle immagini riferite alle occupazioni del mese di Novembre, la semina.
suon di verga un semplice cagnolino (catulus), secondo uno stratagemma diffuso dalla letteratura didattica dell’epoca: l’astuzia vale piú della forza. Ritroviamo poi due celebri favole di Fedro (Il lupo e la gru, Il lupo e l’agnello), riproposte anche negli affreschi della prospiciente Sala dei Notari (1298-1300), visto che le loro morali erano di grande attualità per i reggitori del Comune: non aiutate gli indegni; guardatevi dai manipolatori che ricorrono alle falsità per ottenere i propri scopi. SAPER VEDERE
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Fontana Maggiore
Proseguendo in senso antiorario, si sviluppa il celebre Calendario. Secondo una tradizione iconografica già consolidata, ogni mese è evocato dalle occupazioni che lo distinguono nella vita dei campi. Ogni mese impegna lo spazio di un dittico, cosicché la scena è suddivisa tra due personaggi che si aiutano vicendevolmente, svolgendo ciascuno la propria mansione. La figura del pannello di sinistra è associata al corrispondente segno zodiacale. La figura che la affianca è un aiutante (socius) o la moglie stessa del contadino (uxor).
Fatiche condivise
Le fatiche dei campi vengono rese con candida e immediata semplicità, senza che le figure manifestino un senso di oppressione. Come sottolinea Chiara Frugoni, siamo ben lontani dall’ottica biblica per cui il lavoro rappresenta un castigo individuale. Viene bensí celebrato lungo una schiera di 24 pannelli (quasi una metà del giro della vasca) come un’attività fondamentale, che richiede sí impegno e sacrificio, ma che è anche condivisa coralmente. I personaggi non si riducono a semplici tipi, essendo bensí figure vive, colte in diverse situazioni concrete, in uno
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DOVE E QUANDO La visita della Galleria Nazionale dell’Umbria, ospitata nel Palazzo dei Priori (corso Vannucci, 19), permette di completare al meglio la conoscenza della fontana. Il museo ospita infatti alcuni elementi dislocati dall’opera per ragioni conservative e vi si possono anche ammirare le stupende sculture superstiti della scomparsa fontana di Arnolfo (le due Assetate, il Malato alla fonte e i due Giuristi). Orario ma-do, 8,30-19,30; chiuso tutti i lunedí, a Natale, a Capodanno e il 1° Maggio Info www.gallerianazionaleumbria.it
scenario reso in modo coinvolgente dal penetrante realismo dei dettagli. C’è anche spazio per un semplice aneddoto o per un’annotazione briosa, come si vede nel mese di Marzo, quando un contadino se ne sta seduto a togliersi una spina dal piede, mentre il solenne e barbuto aiutante di Dicembre, inten-
sul tavolo da disegno, l’altra avvolta in un attimo di sospensione o di ispirazione, con uno strumento a corda sulle ginocchia e con un martelletto sollevato a mezz’aria, vicino a una serie di piccole campane.
L’orgoglio di un maestro
In alto il Malato alla fonte, una delle sculture di Arnolfo di Cambio che ornavano la fontana «a pié della piazza» oggi scomparsa. 1280-1281. Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria. Nella pagina accanto l’Assetata con la brocca, un’altra delle sculture realizzate da Arnolfo di Cambio per la fontana «a pié della piazza». 1280-1281. Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria.
to a camminare con il pesante fardello di una carcassa d’animale caricata sulle spalle, riceve le accoglienze festose di un cane. E, mentre Aprile è reso da due personificazioni anticheggianti, il mese di Maggio tralascia il mondo dei laboratores, dedicando spazio ai riti cavallereschi della caccia e del corteggiamento: da un lato il signore nell’atto di offrire un fiore, dall’altro la dama nell’inconsueto ruolo della cacciatrice, con il falcone posato sul braccio. A completare il giro, le otto personificazioni delle Arti liberali compongono una pagina davvero eloquente di tecnica e di ricerca espressiva. Tutte realizzate con un rilievo poco pronunciato, con le sagome ben rifinite che sembrano modellate nell’avorio, queste formelle non hanno nulla di statico o di ripetitivo. Anche in questo caso l’azione ha il sopravvento. Solo la Filosofia è raffigurata in una tipica posa frontale, ma in una postura che suggerisce comunque un senso di movimento, grazie alle ginocchia sfalsate e al volto proteso di lato. Spesse volte si inserisce in scena un allievo, e l’Arte, raffigurata di profilo, è in tal caso impersonata da una domina intenta ad ammaestrare. La Grammatica è rivolta al suo giovanissimo allievo con il volto dolcemente reclino, in una posa che esprime al tempo stesso tenerezza e premura. La Geometria e la Musica, dal canto loro, sono letteralmente avvinte dal proprio lavoro, l’una piegata
Nello snodo cruciale tra le Arti liberali e la Cacciata di Adamo ed Eva si evidenzia infine la duplice raffigurazione di un’Aquila dalle ali spiegate, saldamente artigliata a una roccia, con la testa girata nell’atto di emettere il suo strido. La forza espressiva della figura e lo studio meticoloso dei dettagli giustificano l’orgoglio con cui Giovanni Pisano vi appose la sua firma, affermando la propria individualità nei riguardi della celeberrima figura paterna. Non a caso, poi, l’aquila è l’animale-simbolo dell’evangelista Giovanni, suo omonimo. Si tratterebbe, quindi, di un vero e proprio spazio di autocelebrazione. Per il resto, in un’opera tanto vasta e complessa come la Fontana Maggiore, eseguita per di piú in breve tempo, è difficile riconoscere distintamente la mano dei due scultori principali, sicuramente coadiuvati da una squadra di aiuti. Ma il genio di Giovanni si avverte nelle statue piú vigorose della vasca superiore, quelle che si evidenziano per gli effetti della lavorazione al trapano, per l’espressività dei volti e per il dinamismo della figura: per esempio, i monumentali San Pietro e San Paolo, e le virtuosistiche personificazioni della Chiesa romana e della Teologia.
DA LEGGERE Chiara Frugoni, Una lontana città. Sentimenti e immagini del Medioevo, Einaudi, Torino 1983 Francesco Cavallucci, La Fontana Maggiore di Perugia. Voci e suggestioni di una comunità medievale, Quattroemme, Ponte San Giovanni (Perugia) 1993 Carlo Santini (a cura di), Il linguaggio figurativo della Fontana Maggiore di Perugia, Calzetti Mariucci, Perugia 1996 Vittoria Garibaldi, Bruno Toscano (a cura di), Arnolfo di Cambio. Una rinascita nell’Umbria medievale, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo (Milano) 2005
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Un gioiello nascosto Nella Roma degli imperatori infuriano le persecuzioni e una giovane cristiana, Prassede, cerca di proteggere i suoi confratelli e di dare degna sepoltura ai piú sfortunati. Il confronto, però, è impari e, alla fine, anche lei soccombe. Secoli dopo, papa Pasquale I decide di onorarne la memoria e le dedica una nuova grande chiesa, voluta a immagine e somiglianza della basilica vaticana di S. Pietro di Chiara Mercuri
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poche centinaia di metri dalla Stazione Termini, il piú grande e frequentato scalo ferroviario di Roma, proprio accanto alla sontuosa basilica di S. Maria Maggiore, che sovrasta il rione Esquilino nella sua opulenza barocca, sorge un vero e proprio gioiello dell’architettura dell’età di Mezzo: la basilica di S. Prassede. È una chiesa in mattoni rossi, quasi incastrata tra i vicoli, priva di facciata ornata, senza decorazioni marmoree, né un campanile che si stagli nel paesaggio cittadino, ma che, tuttavia, è uno degli edifici piú importanti e meglio conservati della Roma medievale, e in special modo dell’età carolingia. Un periodo in cui la città riemergeva a fatica dalle nebbie dell’Alto Medioevo, per disvelare al mondo l’eredità del suo intatto prestigio, e consegnarne una parte ai monarchi germanici del nascente Sacro Romano Impero. La chiesa riveste un’importanza eccezionale anche perché chi voglia avere la visione della S. Pietro medievale – la basilica preesistente a quella attuale realizzata nel Cinquecento – in S. Prassede può farlo semplicemente varcandone la soglia. Infatti, per esplicita intenzione del Roma, basilica di S. Prassede. Un angelo indica a Pietro e Paolo l’ingresso della Gerusalemme celeste, particolare del mosaico dell’arco trionfale. IX sec.
pontefice, l’edificio fu realizzato a imitazione della basilica vaticana dell’epoca, seppur su scala ridotta: a tre navate, coperto da un tetto a capriate, dotato di una vasta abside e preceduto da un ampio atrio, si può apprezzare nella sua vastità solo una volta entrati, visto che il suo esterno è quasi del tutto celato dalle case rinascimentali e barocche che le si sono addossate nel corso dei secoli.
Consumata dal dolore
La chiesa venne eretta da Pasquale I, pontefice tra l’817 e l’824, e dedicata a Prassede, una giovane fanciulla romana che aveva vissuto proprio su quel fianco del colle Esquilino tra il I e il II secolo. Aiutata dalla sorella Pudenziana, Prassede era stata una protagonista e vittima delle persecuzioni. Secondo la tradizione, la giovane, proveniente da una famiglia cristiana, avrebbe nascosto nella propria abitazione un gruppo di cristiani ricercati: scoperti dai persecutori, furono arrestati e condannati a morte. Prassede riuscí a trovarne i corpi e dare loro una sepoltura cristiana presso la catacomba di Priscilla, sulla via Nomentana – dove già riposavano il padre Pudente, la sorella Pudenziana e il fratello Novato, e sarebbe morta a causa dello sfinimento prodotto dalla febbrile ricerca delle spoglie dei confratelli –, consumata dal dolore e SAPER VEDERE
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dalla ferocia dell’autorità romana. Come presto si comprenderà, la devozione di Prassede verso i corpi dei martiri, capace di giungere fino all’estremo sacrificio, fu proprio uno degli aspetti che portarono Pasquale I a indicarla come esempio e a dedicarle la grandiosa basilica.
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Piazza Dante
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Già dopo l’avvento di Costantino e la progressiva cristianizzazione delle istituzioni romane, cioè tra IV e V secolo, la casa di Pudente, padre di Pudenziana e Prassede, fu dedicata al culto; secondo la tradizione, in essa erano stati ospitati Pietro e Paolo durante la loro permanenza a Roma. L’abitazione sorgeva presso la sommità del Cispio, uno dei rilievi piú significativi dell’Esquilino, sulla cui cima – imbiancata, secondo la leggenda, da una miracolosa nevicata – fu poi eretta la chiesa dedicata alla madre di Gesú, la grandiosa basilica di S. Maria Maggiore.
re i propri cimiteri comunitari, quelli che poi divennero note come «catacombe». I martiri cristiani – uomini e donne che all’epoca delle persecuzioni preferirono farsi uccidere piuttosto che riconoscere l’autorità divina dell’imperatore – vennero sepolti pietosamente in tali luoghi, in genere in sepolture umilissime, e furono qui ricordati e venerati dall’intera comunità. Le catacombe presto presero il nome del piú illustre dei martiri che vi era sepolto: Sebastiano, Domitilla, Priscilla, Agnese, ecc.
Il culto dei martiri
Sulle due pagine il mosaico del catino absidale: il Cristo dell’Ultimo Avvento è attorniato da Pietro e Paolo, che gli presentano le sante Prassede e Pudenziana. Sono poi visibili un giovane (forse il fratello Novato), e papa Pasquale I (817-824), coronato da un’aureola quadrata, a indicare che è ancora vivente, con il modello della basilica. Nella pagina accanto la facciata di S. Prassede, voluta da papa Pasquale a imitazione della chiesa di S. Pietro in Vaticano.
Sia la chiesa in onore di Pudente, che quella dedicata a Maria, non contenevano reliquie o corpi di martiri. In età paleocristiana, infatti, sebbene nelle aree abitate venissero aperte numerose chiese – e spesso fossero scelti luoghi in cui i martiri avevano vissuto –, la gran parte degli edifici religiosi veniva eretta là dove i corpi erano stati sepolti, e quindi fuori dalle mura. Sin dai tempi della Roma arcaica, una severa legge stabiliva che le zone sepolcrali dovessero sorgere fuori dal «pomerio», cioè dalla zona abitata. Le cinte murarie ricalcavano piú o meno tale perimetro, entro il quale «nessuno doveva essere seppellito, né arso», secondo una consuetudine che fu mantenuta sempre, e contraddetta solo da casi rarissimi e del tutto eccezionali. In età imperiale, dunque, anche la comunità cristiana – come i pagani, gli Ebrei e gli appartenenti alle altre confessioni – avevano acquistato terreni per farvi sorge-
Dopo la pace costantiniana, mano a mano che il cristianesimo si faceva spazio nella topografia urbana, sulle tombe dei martiri sorsero edifici di culto specifici, detti martyria, o basiliche «ad corpus». Le piú famose divennero quelle dedicate ai due piú celebri esponenti della comunità cristiana, tra i primi a subire il martirio: san Pietro, la cui tomba sorgeva nella necropoli vaticana, e san Paolo, seppellito sulla via Ostiense. Nei secoli successivi, segnati dal declino dell’impero, Roma conosceva un afflusso continuo di pellegrini e visitatori che venivano a pregare sulle tombe dei martiri; e decine di chiese martiriali – forse centinaia – sorsero all’esterno delle mura, lungo le vie consolari. Le cupe latebre delle catacombe sotterranee, agli occhi dei fedeli, divennero il simbolo della resistenza antipagana, rifugio dei cristiani nei tempi gloriosi in cui la Chiesa era perseguitata, missionaria, povera, tenuta in vita solo dalla forza della fede. Esistono numerose guide per pellegrini, scritte proprio tra il VII e l’VIII secolo, che illustrano la densità della topografia cristiana «extra muros». All’interno della cinta urbana di Roma, invece, a parte gli edifici usati per il culto degli abitanti, esistevano ben pochi santuari: c’era S. Giovanni in Laterano, all’epoca dedicata al Salvatore, che era la chiesa cattedrale della città, sede del vescovo, cioè del papa; e poi c’era il già ricordato santuario mariano di S. Maria Maggiore; e, infine, la chiesa in Hierusalem, poi nota come S. Croce in Gerusalemme, dove erano conservate le reliquie gerosolimitane che l’imperatrice Elena, madre di Costantino, avrebbe riportato dalla Terra Santa. Tali chiese, quindi, non erano, né potevano essere, «ad corpus». La situazione cambiò repentinamente verso la metà dell’VIII secolo. Da una parte il declino del potere bizantino in vaste regioni della Penisola, tra cui Roma, e dall’altro il conflitto sempre piú aperto tra Longobardi e Chiesa di Roma, schie(segue a p. 110) SAPER VEDERE
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Forme e colori di un capolavoro
IL MONUMENTO IN SINTESI
In basso i ritratti a mosaico di Teodora (a sinistra), madre di Pasquale I, e santa Prassede nella cappella di S. Zenone, che si apre nella navata destra della basilica.
Nella pagina accanto, in alto, a destra l’interno della basilica, che si articola in tre navate (con le laterali scandite da varie cappelle), con vasta abside e ampio atrio.
Un tripudio di mosaici e l’opera di un bambino prodigio Perché è importante La basilica fu realizzata da papa Pasquale I nella prima metà del IX secolo per custodire le ossa dei martiri traslate dalle catacombe della campagna romana. È il maggior capolavoro architettonico e artistico in perfetto stato di conservazione della Roma carolingia. S. Prassede nella storia La chiesa fu realizzata a imitazione – su scala ridotta – della basilica di S. Pietro, e ci offre la visione di come doveva apparire la chiesa vaticana prima che fosse trasformata dagli interventi rinascimentali e barocchi. S. Prassede nell’arte La basilica custodisce – nell’abside e nella cappella dedicata a Zenone – una decorazione musiva di eccezionale pregio artistico e di altissimo valore
simbolico. Oltre ai mosaici dell’età di Pasquale, la basilica conserva diverse opere d’arte; tra esse vanno almeno ricordati gli affreschi, anch’essi del IX secolo, che si trovano all’estrema sinistra dell’antico transetto, ora alla base del campanile, e che raffigurano storie di martiri. Nella cappella posta in fondo alla navata sinistra, va segnalata la tomba del cardinale Pantaleon Anchier de Troyes (che fu titolare della basilica dal 1282 al 1286), attribuita ad Arnolfo di Cambio. Infine, presso il terzo pilastro della navata, sul lato destro, va ricordata la memoria funebre del vescovo Giovanni Battista Santoni, con busto del defunto, da alcuni considerato una primissima opera di Gian Lorenzo Bernini (1610 circa), che l’avrebbe realizzata all’età di circa dieci anni.
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In alto particolare della scena della posa della prima pietra del duomo, in cui sono raffigurati alcuni personaggi che trasportano materiali da costruzione.
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1 Qui sopra pianta della basilica: 1. protiro; 2. cortile; 3. pozzo; 4. cappella di S. Carlo Borromeo; 5. cappella Olgiati; 6. cappella di S. Giovanni Gualberto; 7. altare maggiore; 8. arco trionfale; 9. cappella del Crocifisso; 10. cappella del cardinale CoĂŤtivy; 11. cappella di S. Zenone; 12. Colonna della Flagellazione; 13. cappella Cesi. Qui sotto assonometria ricostruttiva della basilica.
A destra il disco di porfido al centro del pavimento della basilica che copre il pozzo nel quale Prassede avrebbe raccolto con una spugna il sangue dei martiri.
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ROMA
Basilica di S. Prassede Alcuni santuari vennero fortificati e mantenuti cosí com’erano; nessuno ebbe il coraggio di spostare le ossa di Paolo, per esempio, e intorno alla sua chiesa sorse la Giovannipoli, in onore di Giovanni VIII, il pontefice che la tramutò in un vero e proprio castello inespugnabile. Altrettanto accadde alla tomba di Lorenzo, lungo la via Tiburtina, che divenne la Laurenziopoli, cinta da mura e torri merlate. Diverso fu il caso della tomba forse piú famosa: quella di san Pietro in Vaticano. I Romani dovettero assistere con orrore al saccheggio – da parte di pirati saraceni – del santuario, posto anch’esso fuori dalle mura, sebbene a poca distanza da esse. Sconfitti gli Arabi grazie a una temporanea alleanza navale con Napoli e Gaeta, i prigionieri furono poi costretti – da papa Leone IV – a realizzare una cinta muraria che correva intorno alla basilica e la collegava, passando per la fortificazione del mausoleo di Adriano (l’odierno Castel Sant’Angelo), alle mura urbane, poste al di là del Tevere. Cosí, alla metà del IX secolo, la basilica vaticana divenne un santuario cittadino. Salvo tali casi – ai quali si può aggiungere S. Sebastiano lungo la via Appia – il resto delle memorie cristiane nella campagna romana fu del tutto abbandonato; le entrate delle catacombe finirono presto occultate dai rovi e le chiese martiriali – perfino quelle piú maestose – furono lasciate crollare. All’interno della città, affluirono invece centinaia, anzi migliaia di corpi di martiri, che furono distribuiti in un gran numero di chiese urbane. Ma per la gran parte di queste reliquie, papa Pasquale I, il pontefice che portò a termine l’ultima fase della traslazione, pensò a un
rata dalla parte dei Franchi, provocarono la fine della sicurezza della campagna romana. A ciò dette il colpo di grazia l’affacciarsi sul Tirreno, con insediamenti costieri tra Lazio e Campania, di attivi navigli saraceni, cioè italo-arabi. Bande di predoni e saccheggiatori apparivano di colpo fuori dalle mura della città; assalivano pellegrini, viandanti e – in taluni casi – gli stessi santuari. La situazione si fece sempre meno sostenibile, finché la Chiesa – ormai unico potere costituito nella città e nella regione laziale – decise di smobilitare la gran parte dei santuari extraurbani, e traslare le spoglie dei martiri all’interno delle mura. È un fenomeno di portata enorme, noto come «traslazione delle reliquie». Dalle catacombe s’iniziò a portar via, con i carri, le spoglie dei martiri, che si cercò di rintracciare e catalogare con minuzia, affidandosi agli elenchi ecclesiastici, agli atti delle passioni e alla tradizione devozionale. In molti casi si procedette con ordine, in altri – insieme a quelle dei santi – dalle catacombe furono portate via decine e forse centinaia di ossa di defunti che avevano semplicemente cercato di farsi seppellire il piú possibile vicino alle tombe piú venerate. In tal modo, il numero di reliquie e «corpi santi» si moltiplicò in maniera geometrica.
La città del papa
Il processo di traslazione durò diverse decine di anni, e occupò numerosi pontefici tra la fine dell’VIII e l’inizio del IX secolo. Rallentava o s’intensificava a seconda dell’intensità della minaccia longobarda, delle voci sui saccheggi saraceni, sull’endemica pericolosità della zona.
LE DATE DA RICORDARE 140 circa La giovane cristiana Prassede cura l’inumazione di venti martiri nella catacomba di Priscilla.
XIII secolo (prima metà) Viene aggiunto il campanile e si fanno interventi sui pilastri e su parte del transetto. XVI secolo (seconda metà) Sotto Carlo Borromeo sono curati i rifacimenti della scalinata d’accesso, del portale centrale e si realizza la copertura a volte nelle navate laterali. Sono decorate le pareti della navata centrale.
817 Papa Pasquale I edifica la nuova basilica a imitazione di S. Pietro in Vaticano e la dedica a Prassede; vi trasferisce migliaia di ossa provenienti dalle catacombe e vi fa realizzare un’importante decorazione musiva.
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1730 Viene risistemata l’area del presbiterio e della cripta; si realizza l’attuale ciborio.
1918-1937 Vengono restaurati e in parte ripristinati gli elementi medievali della basilica originaria.
In alto l’ingresso alla cappella di S. Zenone. La finestra soprastante il portale è incorniciata da medaglioni a mosaico con busti del Cristo, degli apostoli e dei martiri. Nella pagina accanto il mosaico della Madonna con Bambino nell’abside sopra l’altare della cappella di S. Zenone. XIII sec.
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ROMA
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Basilica di S. Prassede
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te seguito e curato in modo personale dal nuovo pontefice, e rispondeva a un interesse preciso, che abbracciava diversi aspetti di natura religiosa, politica e culturale. Va anche accennato il fatto che forse, a poca distanza dal sito scelto per l’erezione della nuova chiesa, ne esisteva una piú piccola e vetusta, dedicata alla santa, presso la quale sembra che lo stesso Pasquale avesse officiato come prete in giovane età. Il pontefice decise che la nuova basilica doveva riprodurre, sia pure in scala ridotta, quella di S. Pietro in Vaticano, sia come richiamo al mondo del primo cristianesimo, sia come segnale del pieno compimento dell’immensa operazione di traslazione delle reliquie e dell’entrata in Urbe dei corpi santi. La tradizione riporta che nei vasti sotterranei della chiesa Pasquale fece sistemare qualcosa come 2300 corpi, traslati dalle catacombe. Il nuovo tempio fu ornato da mosaici di suggestiva bellezza, giunti a noi integri; ma occorre dire che il fatto che la basilica si presenti come imitazione di quella vaticana del tempo di Carlo Magno aggiunge di per sé valore e fascino all’edificio, visto che, anche nell’aspetto architettonico, salvo alcuni piccoli interventi successivi, esso si è conservato in modo eccezionale.
Solo pochi rimaneggiamenti
In alto uno scorcio dell’interno della cappella di S. Zenone, decorato con mosaici che rappresentano varie figure tra cui santa Agnese, santa Pudenziana e santa Prassede (nella pagina accanto il particolare di due sante).
deposito unico, costruito appositamente. Pasquale, che era dotato di grande passione antiquaria e spiccato interesse per la committenza artistica e architettonica, decise di rievocare la figura della giovane ragazza che aveva dedicato la propria vita alla cura delle sepolture dei martiri, fino a lasciarsene sfinire: Prassede. Raccolse il corpo della santa dalla catacomba di Priscilla e fece altrettanto con quello dei suoi familiari. Il corpo di Pudenziana, sorella di Prassede, venne portato nella chiesa esquilina eretta, secoli prima, nella casa del padre Pudente e, da quel momento, l’edificio fu noto come S. Pudenziana.
A imitazione della basilica vaticana
Per l’altra sorella, Prassede, Pasquale decise invece di realizzare un nuovo edificio. Il progetto architettonico della basilica fu certamen-
S. Prassede, infatti, presenta l’accesso originario, preceduto da una breve gradinata, che introduce in un atrio organizzato come un vasto ambiente quadrilatero, all’epoca sistemato a quadriportico. La facciata è disadorna, semplice, con la porta sormontata da finestre regolari come quelle di una qualsiasi antica aula romana. L’interno si articola in tre navate su colonne, parzialmente diaframmate da pilastri e setti murari in età bassomedievale. La navata centrale era da principio illuminata da dieci finestrelle, che nel Cinquecento furono chiuse e ridotte a quattro, ma rese piú grandi. Le navate laterali, invece di essere quattro come nell’originaria basilica vaticana, sono due, ma ben poco rimaneggiate rispetto al progetto di Pasquale. L’arco trionfale, che conclude la navata centrale, accompagna l’accesso a un transetto poco profondo, sormontato da un’abside unica, al di sotto della quale si stende la cripta sotterranea, dove Pasquale aveva fatto stipare i corpi dei martiri. La cripta ha forma semianulare, proprio come quella realizzata da Gregorio Magno a S. Pietro in Vaticano, e serviva a permettere ai pellegrini di accostarsi ai corpi santi, passando nel corridoio sotterraneo, senza interrompere il SAPER VEDERE
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ROMA
Basilica di S. Prassede
LE RELIQUIE
La Colonna, il letto e il pozzo Nella basilica di S. Prassede si conserva una preziosa reliquia proveniente dalla Terra Santa: la Colonna della Flagellazione. Con l’avvio delle crociate, in Occidente affluí un grande numero di reliquie gerosolimitane. Proprio a seguito delle guerre sante giunse a Roma, nel 1223, sotto il pontificato di Onorio III, la terza parte della Colonna della Flagellazione, in diaspro sanguigno, alla quale sarebbe stato appunto legato Cristo. Il monolite è oggi venerato in un vano che si apre a destra dell’ingresso della cappella di S. Zenone. Tuttavia, le prime attestazioni della presenza di tale reliquia nella chiesa risalgono solo alla metà del Quattrocento. Il suo arrivo in città è attribuito al cardinale Giovanni Colonna, che fu cardinale titolare della basilica. La tradizione sostiene che il cardinale, all’epoca legato apostolico e condottiero dell’esercito crociato, sarebbe caduto prigioniero dei Saraceni intenzionati a segarlo vivo. Il volto del cardinale sarebbe però improvvisamente divenuto luminoso ed essi, atterriti, l’avrebbero liberato regalandogli, in luogo di martirizzarlo, la colonna. Oltre alla Colonna, nella basilica sono custodite reliquie legate alla memoria di Prassede: in fondo alla navata sinistra si conserva il letto in cui la giovane avrebbe dormito: una tavola marmorea. Al centro della chiesa, invece, vi è un grande disco di porfido, che si tramanda fosse destinato a coprire il pozzo usato da Prassede per raccogliere – con una spugna – il sangue dei martiri. Infine, sotto l’altare si conservano – in sarcofagi di riutilizzo – le spoglie di Prassede e di molti altri santi.
servizio religioso che si svolgeva sopra di esso. Arco trionfale, abside e una cappella (che si apre nella navata destra) furono rivestiti da magnifici mosaici. Il risultato è un vero e proprio gioiello architettonico, in grado di riportarci alla Roma carolingia, anche per la scelta di una decorazione volutamente semplice e spoglia, costituita da colonne e mattoni, su cui gli interventi successivi sono risultati di scarsissimo impatto; non tali, però, da soffocare la suggestione paleocristiana, che era proprio ciò che Pasquale intendeva ricercare.
Un effetto attentamente studiato
In scala ridotta, dunque, l’attuale seminascosta S. Prassede è la S. Pietro che videro papa Leone e Gregorio Magno, e imperatori come Carlo e i suoi successori; l’edificio di cui vagheggiarono i pellegrini che per secoli si incammi114
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narono alla volta di Roma da ogni angolo del continente. Un miraggio, piú che un edificio di culto. L’insieme di tali effetti, fu voluto e studiato da Pasquale, che intendeva davvero riprodurre l’immensa chiesa costantiniana dedicata a Pietro. L’obiettivo era appunto tramutare la basilica di Prassede in uno scrigno, un prototipo, una chiesa «ad corpus» – anzi «ad corpora» – destinata a conservare e tramandare il ricordo fisico e spirituale dei martiri traslati dalle catacombe. I mosaici realizzati da Pasquale sono presenti, come già accennato, nel catino absidale, nell’arco posto al di sopra di esso, nell’arco trionfale e infine in una cappella dedicata a Zenone. Hanno come si vedrà, un complesso significato simbolico e allegorico, oltre a una valenza artistica e politica. Il mosaico rappresenta il Cristo dell’«Ultimo Avvento», che si libra in un cielo
La Colonna della Flagellazione, custodita in un reliquiario di bronzo dorato eseguito nel 1898 su disegno di Duilio Cambellotti.
LA COPPIA REALE ESCE PER LA CACCIA Una restauratrice al lavoro sulla nona scena del quarto registro. Teodolinda e Agilulfo escono per una battuta di caccia. Nella scena successiva (a destra), Teodolinda, addormentata, sogna una colomba che le indicherà il luogo dove erigere una chiesa. In basso, a destra, si scorgono l’iscrizione «1444» e i versi in latino che marcano la conclusione della prima fase di esecuzione dei dipinti. TEODOLINDA INCONTRA AGILULFO A LOMELLO È la quarta scena del quarto registro. Vedova di Autari e confermata regina dai Longobardi, Teodolinda ha già scelto come nuovo consorte Agilulfo, duca di Torino, e incontra il futuro sposo a Lomello, alla presenza del vescovo e della corte.
Ancora un’immagine della cappella di S. Zenone.
azzurro cupo, ravvivato da nuvole rosse, rosa, bianche e grigio-azzurre. Su un prato verde, Pietro e Paolo gli presentano Prassede, Pudenziana, un giovane uomo (forse il fratello Novato), e Pasquale recante un modello della basilica e contraddistinto dall’aureola quadrata che segnala che esso è ancora vivente. Ai lati della composizione, sono rappresentate due palme, all’interno di una delle quali si annida una fenice. Il Cristo ha la mano destra alzata per mostrare i segni dei chiodi e la mano sinistra racchiusa attorno a un rotolo. Sopra il Cristo è la dextera dei, che, emergendo tra le nuvole, impone al figlio la corona della gloria. Le due palme richiamano il Paradiso: la fenice raffigurata nella palma sinistra è simbolo di morte e di rinascita. Al di sotto di questa parte culminante del mosaico absidale, ve n’è un’altra inferiore, anch’es-
sa ricca di immagini e simboli, separata dalla rappresentazione stilizzata del fiume Giordano, come ricorda la scritta Iordanes. Vi sono rappresentati 13 agnelli, al centro dei quali è l’Agnus Dei, Cristo raffigurato come Agnello, posto su una piccola altura da cui sgorgano i quattro fiumi del Paradiso, che scorrono nella direzione dei quattro punti cardinali, che simbolicamente rappresentano anche i quattro evangelisti. I sei agnelli per lato, che guardano in direzione dell’Agnello-Cristo, raffigurano i dodici apostoli; ai lati dei due gruppi di apostoli vi sono le rappresentazioni delle città di Betlemme (a sinistra) e di Gerusalemme (a destra). Questa parte inferiore del catino absidale è chiusa dall’iscrizione fatta apporre da papa Pasquale I.
Echi dell’Apocalisse
L’arco absidale riprende temi e simboli dall’Apocalisse di Giovanni. All’interno di un medaglione blu vi è ancora la rappresentazione del Cristo come Agnus Dei: è seduto su un trono, ai cui lati ci sono i sette candelabri, che l’Apocalisse identifica con le chiese dell’Asia: Efeso, Smirne, Pergamo, Tiatira, Sardi, Filadelfia e Laodicea. Ai piedi del trono c’è un rotolo bianco, attraversato da sette segni neri: il rotolo dei sette sigilli, anch’esso citato nell’Apocalisse di Giovanni. Completano la rappresentazione quattro angeli, raffigurati in piedi, sopra delle piccole nubi. Vi sono poi i quattro evangelisti, ciascuno con in mano il proprio Vangelo: a destra, l’aquila (Giovanni) e il toro (Luca); a sinistra, un uomo (Matteo) e il leone (Marco). Si apre infine la processione mistica dei ventiquattro vegliardi dell’Apocalisse vestiti di bianco, che offrono a Cristo corone d’oro. L’arco trionfale – che segnala la conclusione della navata centrale e l’accesso al transetto – presenta, all’interno di una cittadella stilizzata (la Gerusalemme celeste), 21 personaggi. Al centro vi è Cristo con una tunica rossa, affiancato da due angeli; al di sotto, a sinistra, le figure di Maria e Giovanni Battista, a destra, santa Prassede; seguono i dodici apostoli, sei per lato. All’estremità sinistra si trova Mosè che tiene in mano una tavola con la scritta Lege (legge), e a destra il profeta Elia che tende le braccia verso Cristo. A fianco a Elia, vi è la raffigurazione di un angelo, che reca un libro (simbolo dell’Antico Testamento), e una canna. All’esterno della cittadella, su due ordini, sono rappresentati gli eletti di cui parla l’Apocalisse. Quelli dell’ordine superiore sono suddivisi in due gruppi, a destra e a sinistra, entrambi guiSAPER VEDERE
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ROMA
Basilica di S. Prassede
DOVE E QUANDO Basilica di S. Prassede Roma, via di Santa Prassede 9/a (l’entrata originaria, aperta solo per le celebrazioni maggiori, è segnalata dal protiro originale che si affaccia – stretto tra le case – su via di San Martino ai Monti) Orario feriale, 7,30-12,00 e 16,00-18,30; festivo, 8,00-12,00 e 16,00-18,30; durante la celebrazione della Santa Messa non è possibile visitare la chiesa; gli orari possono subire cambiamenti e si suggerisce di verificare contattando la chiesa Info tel. 06 4882456; e-mail: basilicas.prassede@libero.it
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dati da un angelo che indica loro l’entrata della città: si possono riconoscere Pietro e Paolo (a destra), vescovi (con casula e pallio), martiri (con la corona), donne riccamente vestite, ufficiali (con la clamide). In particolare il corteo di sinistra è aperto dalle sante Pudenziana e Prassede, seguite da una figura vestita di verde – un alto dignitario – e da un’altra con il pallio, probabilmente un papa. Nell’ordine inferiore, sono raffigurati altri eletti, in modo indistinto, che agitano rami di palma. Secondo lo storico dell’arte Richard Krautheimer, l’eco di tipologie espressive paleocristiane è qui del tutto evidente sia nei motivi presenti nel catino, sia in quelli dell’arco absidale e dell’arco
trionfale. La citazione del patrimonio figurativo del IV e V secolo rientra in un’operazione mirata di politica culturale: richiamare la tipologia espressiva paleocristiana, estromettendo i canoni bizantini che avevano caratterizzato l’arte romana nei secoli VII e VIII.
Il richiamo alla Chiesa delle origini
La cripta semianulare della basilica, con preziosi sarcofagi di recupero contenenti le spoglie di santa Prassede, parte di quelle di santa Pudenziana e di altri martiri. L’ambiente era stato costruito per ospitare i corpi, si dice, di ben 2300 martiri, traslati dalle catacombe.
Del resto, sin dalla notte di Natale dell’anno 800, ovvero a partire dall’incoronazione di Carlo Magno, la sede pontificia si è legata, in modo ormai indissolubile, al mondo carolingio europeo, cui essa ha traslato l’eredità romana tramite l’ascesa del neoimperatore. Quando Pasquale sale sul trono di Pietro, nell’817, Roma è una città che non riesce a controllare neppure il proprio contado, e, come abbiamo visto, è stata costretta ad abbandonare i suoi stessi santuari posti fuori dalle porte della città. Una città, dunque, mal difesa e povera, che però rivendica il suo ruolo di depositaria di ciò che resta del prestigio e del fascino del potere imperiale romano. È lei, attraverso la consacrazione degli imperatori franchi, a imporsi come garante del carisma imperiale. Una dicotomia, quella tra papato e impero, che segnò per secoli la storia europea, tra vicendevole riconoscimento e lotta per l’egemonia. Cosí, il richiamo di Pasquale I alla Chiesa del tempo di Costantino, cioè delle origini, passa anche per la frattura artistica – dopo quella politica, avvenuta da tempo – con il mondo bizantino. Il patrimonio figurativo d’influsso bizantino rimase comunque vivissimo e segnò ancora per secoli il mondo italiano, almeno fino al primo dischiudersi dell’arte schiettamente italiana tra Due e Trecento. Nella basilica di S. Prassede la commistione tra elementi paleocristiani – vissuti quasi come epopea nazionale – e l’influenza bizantina si riflette maggiormente in un piccolo monumento, perfettamente conservato: la cappella di S. Zenone. Voluta dallo stesso Pasquale in onore della madre Teodora, la cappella si apre nella sua navata destra e costituisce uno dei piú importanti capolavori dell’arte medievale presenti a Roma. Interamente rivestita di tessere musive, la cappella presenta uno dei piú antichi esempi esistenti di pavimento in opus sectile a marmi policromi. Di rilievo, per il richiamo ai mausolei tardo-imperiali, è la stessa pianta cruciforme con volta a crociera sorretta da colonne angolari. Il vero capolavoro è il mosaico della volta, che rappresenta il Cristo entro un medaglione sorretto da quattro angeli, secondo un prototi-
po ravennate. Sulla facciata esterna, la finestra soprastante il portale è incorniciata da un doppio giro di medaglioni con il busto del Cristo, degli apostoli e dei martiri. Sulla parete interna della stessa facciata, san Pietro e san Paolo indicano un trono adorno di gemme sul quale è insediata una croce: è l’etimasia, anch’essa già rappresentata a Roma nel V secolo. L’intradosso dell’arco sopra l’altare è decorato da volute classiche di acanto con uccelli e animali, riecheggianti anch’essi motivi ravennati.
Teodora, l’«episcopa»
L’interno – intradossi, nicchie, pareti – è decorato con altre figure (angeli, santi, martiri), ma in particolare da Teodora, definita «episcopa», in quando madre del vescovo di Roma. Essa vi è rappresentata con il nimbo quadrato, secondo una tipologia paleocristiana. La decorazione musiva ancora ricca di motivi e narrazioni, tra cui va segnalata una splendida Madonna col Bambino del XIII secolo, rappresentata nella piccola abside ricavata sopra l’altare. In ultima analisi, dunque, la basilica di S. Prassede è il frutto di una rilettura – «anche» bizantina – dell’arte paleocristiana, con un chiaro richiamo alle radici spirituali o, se vogliamo, ideologiche, del mondo romano imperiale. Una nuova Roma politica era rinata nell’anno 800 con la consacrazione di Carlo Magno da parte del pontefice: era il ritorno dell’impero a Roma tre secoli dopo la sua caduta. Insieme all’Urbe, risorse anche – dalle ceneri dell’antica città costantiniana, con le sue basiliche e le reliquie dei suoi martiri – una nuova estetica della città medievale; una città, ormai, dell’Europa carolingia, che però intendeva stagliarsi su quel nuovo scenario, carica del lustro e del prestigio, lasciatole in eredità dal proprio indimenticabile passato.
DA LEGGERE Caterina Giovanna Coda, Duemilatrecento corpi di martiri: la relazione di Benigno Aloisi (1729) e il ritrovamento delle reliquie nella Basilica di Santa Prassede in Roma, Edizioni della Biblioteca Vallicelliana, Roma 2004 Richard Krautheimer, Roma. Profilo di una città, 312-1308, Edizioni dell’Elefante, Roma, 1981
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Castel del Monte (Andria). Una veduta del piú famoso tra i castelli fatti costruire dall’imperatore Federico II di Svevia. A oggi, non si hanno notizie certe sulla data di realizzazione dell’edificio, ma è probabile che i lavori abbiano avuto inizio nel 1240, come proverebbe la lettera inviata dall’imperatore a un suo funzionario, affinché assicuri la fornitura del materiale necessario.
Nel castello perfetto Con il suo gioco di simmetrie impostate sulla figura dell’ottagono, la «corona di pietra» di Castel del Monte è l’espressione piú felice dell’architettura federiciana. Ma qual era, nelle intenzioni dello stupor mundi, la funzione a cui lo splendido edificio doveva effettivamente assolvere? di Elena Percivaldi
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solato su una lieve prominenza, nel mezzo della porzione pugliese dell’altopiano delle Murge, Castel del Monte è il piú celebre dei monumenti legati alla figura di Federico II di Svevia (1220-1250). Scarne sono le informazioni sulla sua origine ed è ancora aperto e intenso il dibattito sulle finalità di un edificio cosí singolare. Affascinante per la sua cristallina definizione geometrica e per il legame con un personaggio cosí poliedrico e discusso come lo stupor mundi (celebre appellativo attribuito a Federico II dal cronista coevo Matthew Paris), il castello ha infatti ispirato una lunga e non esaurita sequela di proposte interpretative. Le posizioni piú caute cercano di ricavare quanti piú indizi dalla struttura viva dell’edificio e dalle testimonianze di chi lo ha visitato nei secoli trascorsi, mentre le ipotesi piú impegnative, speculando sui suoi aspetti generali, vi ravvisano esoterici significati nascosti, con inevitabili implicazioni fantascientifiche. Dal castello come residenza di lusso, padiglione di caccia o simbolica manifestazione del potere federiciano, si giunge cosí al riconoscimento di una sorta di laboratorio magico, teatro di esperimenti e riti misteriosi. È invece certo che Castel del Monte risponde alla volontà di Federico II e rientra nel sistema di insediamenti fortificati che egli promosse nel suo regno, realizzandoli ex novo (come in
questo caso) o rielaborando preesistenze normanne. Con il suo ampio sistema castellare, l’imperatore dette luogo a una variegata fioritura di complessi, le cui esigenze funzionali (sede di rappresentanza, luogo di svago, presidio, magazzino per le merci) si uniscono in misura diversa alla cura degli aspetti estetici. E Castel del Monte ha senza dubbio molti legami con le altre strutture fortificate promosse da Federico II, come Castel Maniace a Siracusa o Lagopesole (Potenza), ma si distingue per la spiccata valenza monumentale, che tuttora si esprime nell’insieme della sua realtà architettonica cosí come nei dettagli residui della sua ornamentazione.
Le disposizioni dell’imperatore
Un solo documento ci fornisce alcuni dati sull’origine del castrum di S. Maria del Monte, nome originario del castello, derivante da un vicino monastero benedettino che dovette probabilmente chiudere i battenti quando Federico si stabilí nell’area. Orbene, il 29 gennaio 1240, mentre si trova a Gubbio, l’imperatore impartisce disposizioni straordinarie a un suo funzionario (che non era ufficialmente preposto a queste incombenze), affinché metta a disposizione il materiale edilizio necessario per il castrum «che noi vogliamo realizzare». L’informazione non permette di accertare se in SAPER VEDERE
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ANDRIA
Castel del Monte Vieste
San Severo
Manfredonia Foggia Bovino
M A R A D R I AT I C O
Barletta Molfetta
Cerignola
Castel del Monte
Venosa
Potenza
Matera
BASILICATA MAR TIRRENO
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Monopoli
Altamura
Stigliano
CAMPANIA
Bari
Taranto Policoro
Brindisi Ostuni Grottaglie Lecce Nardò
MAR IONIO CALABRIA
Otranto Gallipoli
Qui accanto veduta aerea del castello, la cui pianta si compone di un ottagono perimetrale che fa corpo unico con le torri angolari, a loro volta ottagonali. Nella pagina accanto, in basso il cielo inquadrato dall’ottagono del cortile.
quella fase il cantiere era già avviato o da avviare. La situazione organizzativa sembra comunque difficile, e il sovrano desidera che il cantiere proceda speditamente («sine mora»). Le indagini condotte sulla struttura hanno comunque stabilito che, quantomeno nell’allestimento degli ambienti, l’opera rimase incompiuta. Alcune pareti delle sale interne, infatti, non conservano tracce di rivestimenti in marmo. Considerando che, nelle intenzioni originarie, nessuna sala doveva mostrare per intero le pareti a facciavista, si desume cosí che il cantiere dovette a un certo punto interrompersi, o comunque tralasciare gli aspetti decorativi. E la circostanza del mancato completamento, seguendo la ricostruzione di Maria Stella Calò Mariani, si colloca bene proprio nel periodo dell’attestazione del 1240, che indicherebbe perciò la conclusione dei lavori. D’altro canto, Hubert Houben ha sottolineato che il castrum non figura in un elenco di fortificazioni reali steso nell’ottobre 1239, il che lascia bensí supporre che i lavori di costruzione fossero iniziati proprio nel 1240.
Un drastico ridimensionamento
Il 17 novembre 1239 Federico II aveva ordinato una drastica riduzione dei suoi programmi edilizi in Sicilia. La situazione era estremamente convulsa per via dell’acceso dissidio con le città lombarde e con il papato, che richiedeva un’incessante mobilitazione di truppe su un ampio scacchiere, con impieghi esorbitanti di denaro. L’imperatore è esplicito al riguardo: la riduzione degli impegni di spesa sul fronte dei castelli è
IL SISTEMA IDRICO
Acqua a volontà La presenza di un sistema idrico molto articolato, che forse culminava in una splendida vasca monumentale, è un tratto forte nella concezione del castello nei pressi di Andria e non ha confronti per complessità e raffinatezza con gli analoghi sistemi di altre strutture federiciane. Un’indagine degli architetti Giuseppe Fallacara e Ubaldo Occhinegro (Manoscritto Voynich e Castel del Monte. Nuova chiave interpretativa del documento per inediti percorsi di ricerca, Gangemi, Roma 2013), ha messo in risalto questo aspetto, ravvisandovi nientemeno che la possibile chiave interpretativa del monumento. Castel del Monte si proporrebbe dunque come una sorta di colossale battistero laico, nel quale l’acqua rigeneratrice era in funzione della gloria e del benessere del sovrano. Gli ampi camini potevano funzionare anche come riscaldatori d’acqua associati a tubature pavimentali, e la struttura avrebbe cosí assicurato la disponibilità di acqua calda e vapore (di qui il presumibile motivo degli sfiati delle sale riscaldate, laddove si sarebbero formate in tal modo elevate quantità di umido da smaltire). Federico II si sottoponeva a cure termali e promuoveva lo studio degli effetti benefici dei bagni, ed era dunque sensibile a questi temi. I due autori si sono spinti ben oltre, e hanno proposto il riconoscimento del progetto ideale del castello. Esso sarebbe tramandato da una delle illustrazioni che corredano il Manoscritto Voynich, un enigmatico codice quattrocentesco di carattere scientifico, che verte su temi di cosmologia, alchimia, biologia, erboristica, riconoscibili dalle immagini, ma non dal contenuto, sinora indecifrato (l’opera, oggi conservata presso la Beinecke Rare Book and Manuscript Library dell’Università di Yale, prende nome dal libraio di origine russo-polacca Wilfrid Michael Voynich, che ne era venuto in possesso durante un viaggio in Italia). Nella figura in questione si osserva una costruzione simbolica ottagonale, con torri d’angolo e una vasca centrale, laddove campeggia un sole. Qualora l’origine dell’opera fosse riconducibile all’ambiente di Federico II, per quella particolare attenzione alle scienze matematiche e naturalistiche che lí venne promossa – grazie, per esempio, al matematico pisano Leonardo Fibonacci (1175 circa-1235 circa) –, il sole centrale sarebbe riferibile al «Sole della giustizia» (lo stesso Federico, secondo la celebre definizione di Manfredi), e l’intera immagine costituirebbe la base ideale di Castel del Monte. La proposta, come dichiarano gli stessi autori, è del tutto ipotetica, ma la chiave di lettura del monumento, basata sulle sue evidenze, possiede una verificabile concretezza. Anche escludendo l’aggancio al manoscritto Voynich o la funzione termale delle stanze riscaldate, il riconoscimento del ruolo dell’acqua come fonte di vita in chiave laica, sotto l’aspetto medico e sotto l’aspetto trionfale, può essere risolutivo. Il complesso sistema idrico non indica infatti una semplice «esibizione tecnologica», dal momento che è intimamente connesso all’immagine e al concetto della struttura.
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Castel del Monte
dovuta alle numerose faccende che incombono al momento, e «il denaro ci è assai necessario». Non si dovevano tuttavia trascurare, nelle nuove strutture già avviate, la cura degli apparati difensivi e delle coperture, per evitare i danni che potevano derivare dall’acqua piovana. Né si doveva rinunciare a completare un’opera di altissima propaganda monumentale, la scomparsa Porta di Capua, avviata nel 1234: un vero e proprio arco trionfale rinserrato tra due torri, eretto da Federico II sull’asse della via Appia in onore di se stesso, alle soglie del suo regno. Proprio il 17 novembre 1239 lo Svevo dispone che le torri della Porta vengano lastricate sulle terrazze terminali, e richiede la fornitura di tutto il marmo necessario all’apparato decorativo.
energie e denari in grande quantità, a danno degli altri cantieri. E di certo, analogamente alla Porta di Capua, il castello dovette godere di una forte attenzione da parte dell’imperatore, vista la difficile congiuntura, tanto piú che l’opera era effettivamente «eccessiva» da un punto di vista strettamente strategico-militare, e anche piuttosto defilata come strumento di monito o di «propaganda». Si tratta infatti dell’unico castrum federiciano che faccia capo a sé, completamente sganciato da un centro abitato. A ogni modo, la prima notizia relativa a un utilizzo del castello risale al 1249, allorché fece da scenario alle nozze di Violante, figlia naturale di Federico II, con il fedele funzionario Riccardo, conte di Caserta, presente al capezzale del sovrano al momento della sua dipartita. Quanto allo stesso Federico, non si dispone di alcuna notizia su una sua permanenza a Castel del Monte, se si eccettua l’attestazione di un soggiorno avvenuto il 28 ottobre 1250 «a lo Castiello di Bellomonte», come riferisce una discussa fonte trequattrocentesca. La ricostruzione storica, con tutte le incertezze del caso, non può andare
Miniatura raffigurante le nozze tra Federico II e Jolanda di Brienne, da un’edizione illustrata della Nuova Cronica di Giovanni Villani. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.
Un’opera «eccessiva»
Il 13 aprile 1240, alcuni mesi dopo l’ordine relativo a Castel del Monte, Federico II prende atto della difficile gestione dei lavori nei castelli di Trani e di Bari, e ordina la messa al riparo delle strutture già edificate. Si configura, insomma, una situazione di crisi, con una selezione degli investimenti, e in un simile scenario un monumento cosí ambizioso e impegnativo come Castel del Monte dovette assorbire
LE DATE DA RICORDARE 1239 Papa Gregorio IX commina la seconda scomunica a Federico II. 1240, 29 gennaio Federico II, al momento presente a Gubbio, invia una lettera a Riccardo da Montefuscolo, giustiziere della Capitanata, affinché assicuri la fornitura di materiale per i lavori da effettuare a Castel del Monte.
1241-46 Nello Statutum de reparatione castrorum emanato da Federico II, si dispone che le popolazioni di Monopoli, Bitonto e Bitetto siano tenute alla manutenzione di Castel del Monte. La disposizione viene poi rinnovata da Carlo I d’Angiò.
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1250, 13 dicembre Morte in Puglia di Federico II.
1249 Si celebrano nel castello le nozze del conte di Caserta Riccardo con Violante, figlia naturale di Federico II.
1245 Rifugiatosi presso la corte di Luigi IX, Innocenzo IV indice un concilio a Lione e riconferma la scomunica a danno di Federico II. 1256 circa Manfredi fa incarcerare a Castel del Monte Marino da Eboli e suo figlio Riccardo, funzionari del regno accusati di tradimento, ordinando poi il loro accecamento e la loro uccisione.
1258, 23 agosto Papa Alessandro IV affida il vicino monastero benedettino di S. Maria del Monte Balneoli ai Cistercensi, dopo che l’abate e i confratelli avevano subito la «persecuzione tirannica» del «nemico della Chiesa» Federico II.
1277 Carlo I d’Angiò fa potenziare gli apparati di difesa del castello, disponendo bertesche e guardiole, e fa apporre inferriate a tutte le finestre.
oltre, e solo l’edificio può dunque fornire gli unici suggerimenti sul proprio significato. L’area in cui si inserisce appare oggi brulla, ma potevano esservi aree boschive e sorgenti d’acqua conosciute da tempo, come suggerisce il toponimo Balneoli («piccoli bagni») abbinato al monastero del Monte. L’ingresso principale è orientato a est, in direzione del mare, mentre il lato simmetrico ovest, dalla trifora del primo piano, offre una veduta sulla prediletta città di Andria: quella Andria fidelis, per citare lo stesso Federico, che, di ritorno dalla sesta crociata, nel 1229, volle omaggiare per non aver aderito a una ribellione. Nella cattedrale, per giunta, era sepolta la sua seconda moglie, Jolanda, figlia del re di Gerusalemme Giovanni di Brienne, morta proprio ad Andria nel 1228, a cui fece seguito (dopo l’amante Bianca Lancia) Isabella d’Inghilterra, morta nel 1241 a Foggia, ma poi traslata nella stessa Andria.
fettamente in vista percorrendo la via Traiana, ossia l’antica diramazione della via Appia che congiungeva Benevento a Brindisi, quella stessa via percorsa dal corteo funebre dello Svevo. Il castello, lungo il suo perimetro esterno, non era forse del tutto isolato. Si tramandano notizie di fabbricati a servizio della guarnigione, come per esempio «larghissime Scuderie». Di sicuro tutt’intorno c’era una cinta muraria. Quando, con l’avvento degli Angiò, Castel del Monte fu utilizzato come prigione (ma già Manfredi vi aveva rinchiuso due funzionari accusati di tradimento), un «ospite» ebbe la concessione di galoppare durante «l’ora d’aria» a dorso di mulo proprio lungo il muro di cinta, e alcuni anni dopo un altro carcerato riuscí a evadere, scavalcandolo senza troppi problemi. Ed è significativo che, dopo la disfatta di Manfredi, almeno fino al 1308, il castello sia ricorda-
In basso, a destra miniatura raffigurante il trionfo di Alfonso V d’Aragona detto il Magnanimo, da un manoscritto latino delle Gesta Ferdinandi regis Aragonum di Lorenzo Valla. 1445-46 circa. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Nella pagina accanto, in basso statua in marmo di Carlo I d’Angiò scolpita da Arnolfo di Cambio. 1277 circa. Roma, Musei Capitolini.
Fra la terra e il mare
In definitiva, il castello sembra ideato su un asse visivo che lega la vicina città alla costa adriatica, in una sorta di posizione baricentrica, tra la terra e il mare. D’altronde, nel descrivere le coste pugliesi, un portolano (una «guida» alla navigazione) databile agli anni 1275-80 ricorda proprio Castel del Monte come punto osservabile di riferimento. Sulla terraferma, inoltre, la «corona murale» dell’edificio era per-
1289, 4 settembre Carlo II d’Angiò dispone che un suo prigioniero recluso a Castel del Monte, il filosvevo Enrico di Castiglia, sia autorizzato a girare ogni tanto a dorso di mulo lungo il circuito murario esterno. 1299 Termina la detenzione nel castello di Enrico, Federico ed Enzo (detto Azzolino), figli di Manfredi, poi trasferiti a Napoli, in Castel dell’Ovo.
1317 Roberto d’Angiò trasferisce alcuni antichi elementi scultorei di Castel del Monte alla chiesa di S. Chiara di Napoli. 1449 Re Alfonso V d’Aragona, detto il Magnanimo, prende possesso del castello e vi risiede in seguito per diversi periodi, dando luogo a feste e a ricevimenti ufficiali.
1308, marzo Il castello fa da scenario alle nozze in pompa magna del cavaliere Bertrando del Balzo con Beatrice, figlia di Carlo II d’Angiò, e vedova del marchese di Ferrara Azzo VIII d’Este. La coppia principesca elegge Castel del Monte a residenza prediletta.
1507 Il gran capitano Consalvo (Gonzalo) Fernàndez de Còrdoba, al servizio di re Ferdinando il Cattolico, ottiene la signoria di Andria e di Castel del Monte.
1463 Per la prima volta è attestato il nome oggi in uso di Castel del Monte, in luogo dell’originaria dizione «Castello di S. Maria del Monte». 1552, 8 settembre Consalvo II, figlio del gran capitano, vende il feudo d’Andria, con l’annesso Castel del Monte, a Fabrizio Carafa conte di Ruvo.
1876 Dopo un lunghissimo periodo di abbandono, i conti Carafa rivendono Castel del Monte allo Stato italiano.
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A destra una delle sale del piano nobile. Al di sotto della cornice, le pareti si mostrano oggi spoglie, con la semplice muratura a vista, poiché sono state private dei rivestimenti in marmo che in origine le impreziosivano. to esclusivamente come carcere, con particolare riguardo proprio ai figli di Manfredi (che vi soggiornarono per circa trent’anni), in una sorta di crudele nemesi storica, come suggerisce Franco Cardini. Sembra quasi che già Carlo I d’Angiò volesse cosí cancellare ogni memoria del nemico e ogni valenza trionfale dell’edificio.
Gli ultimi fasti
Tuttavia, la sontuosa magnificenza del castello, nonostante le guardiole erette sugli spalti e le grate apposte alle finestre, resisteva indiscussa, se nel 1308 Beatrice figlia di Carlo II d’Angiò, ricevuto in dote il feudo di Andria, si risposò con un certo sfarzo proprio a Castel del Monte, eleggendolo a propria residenza di corte. E un altro momento di splendore, l’ultimo nella storia del castello, si concretizzò a quanto pare nel 1449, quando passò in mano ad Alfonso V d’Aragona. Nonostante diverse vicissitudini, insomma, la struttura si prestava volentieri a essere utilizzata come reggia di lusso, e forse proprio quella era la sua funzione principale, anche se attuata solo in parte, e tardivamente. Lo sfarzo degli ambienti, oggi solo in parte intuibile, è d’altra parte ancora attestato dai visitatori del Settecento, nonostante i danni e le spoliazioni che già si erano verificati. I pavimenti presentavano una decorazione a intarsio, e le volte del soffitto avevano una foderatura lignea rivestita di mosaici policromi. Gran parte delle pareti era foderata di marmi, tranne le lunette del piano superiore lavorate all’antica, in opus reticulatum, con le finiture dipinte in rosso scuro. Tuttora le riquadrature delle porte sfoggiano parati in rossa breccia corallina di provenienza locale, e si riscontra anche il riutilizzo di lastre antiche di bianco marmo cipollino. Ma, allo stato attuale, il castello è piú che altro uno «scheletro» poderoso, egregiamente realizzato in blocchi di un tipico calcare estratto dalle cave delle Murge, di colore biondo, e punteggiato da inclusi di quarzo. Cosí come nella muratura, anche nella pianta e nell’alzato esso appare rigoroso, compatto e «monolitico». L’ottagono perimetrale fa corpo unico con le otto torri, di otto lati anch’esse, anche se solo sei lati emergono dal volume esterno. Esse sono oggi delimitate sul piano della terrazza, ma forse in origine dovevano essere 124
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Nel segno dell’8
Qui sopra la planimetria di Castel del Monte evidenzia il ricorrere della figura dell’ottagono nell’assetto generale e nella articolazione dei diversi elementi.
IL MONUMENTO IN SINTESI
Qui accanto il cortile ottagonale, sul quale si affacciano portefinestre (in alto, a sinistra), che, in origine, si aprivano su un ballatoio ligneo sporgente, impostato su mensole di pietra. Nella pagina accanto, in basso il portale monumentale, in origine corredato, sul timpano, da un gruppo scultoreo in marmo, con la probabile effigie del sovrano in trono, affiancato da due illustri personaggi della corte.
Simbolo di un’epoca irripetibile Perché è importante Castel del Monte è forse l’espressione piú eloquente di un sovrano di vasta cultura e di ampi orizzonti come Federico II di Svevia. È un monumento che unisce suggestioni di ogni genere, dal mondo antico e dall’universo figurativo e architettonico delle cattedrali gotiche, dall’Oriente musulmano e dall’Occidente, in una summa di straordinaria unicità. Castel del Monte nella storia Rimasto incompiuto e forse mai utilizzato a fondo dal suo stesso committente, Castel del Monte è restato a lungo nell’ombra, ma ha custodito con forza la presenza ideale dello Svevo. Nonostante l’abbandono degli ultimi secoli, ha mantenuto intatto il suo fascino, riuscendo a trasmettere la sostanza di un’epoca irripetibile. Castel del Monte nell’arte Castel del Monte rappresenta in modo compiuto la poliedrica ricchezza della stagione federiciana, laddove il recupero del mondo antico, l’apporto dell’arte gotica e la suggestione dell’Oriente vennero chiamati a costituire una trionfale sintesi unitaria, di enorme peso negli sviluppi dell’arte italiana ed europea.
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Castel del Monte Una sala provvista di camino monumentale, di cui si conserva parte della cappa semiconica che arriva fino alla volta. Il camino è affiancato, in alto, da due monofore e, in basso, da credenze a muro per contenere ampolle con essenze, che il calore diffondeva nell’ambiente.
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In alto la sala piú importante del castello, detta convenzionalmente «del trono», per via della piccola gradinata, affiancata da due sedute che servivano per ammirare il panorama dalla finestra e che, in effetti, possono ricordare la sagoma di un trono. In alto, a destra uno dei portali che si aprono nel cortile e immettono nelle stanze del piano terra, secondo un assetto che sembra seguire una serie di «percorsi obbligati».
leggermente piú alte, emergendo cosí dal «blocco» dell’edificio. I due piani del castello, messi in comunicazione dalle scale a chiocciola alloggiate in alcune torri, hanno la stessa altezza e la stessa conformazione, con otto sale della medesima foggia che si corrispondono in modo quasi perfetto. Sebbene vi siano percorsi obbligati, come in una sorta di labirinto, tutte le sale sono comunicanti tramite ampie porte di raffinata fattura.
Panche, camini e credenze a muro
Le sale del primo piano (il piano nobile) sono impreziosite lungo le pareti da panche marmoree, che si articolano in gradinate e sedute assai eleganti in corrispondenza delle finestre polifore, in modo da godere comodamente della veduta esterna. I camini monumentali avevano l’alta cappa impostata su colonne, con l’architrave in rossa breccia corallina. Ai lati dei camini, sul piano nobile, si osservano poi raffinatissime credenze a muro, riquadrate in marmo, per contenere ampolle con soluzioni particolari o essenze, che potevano diffondersi nell’ambiente grazie al calore. Ed è interessante che le sale cosí riscaldate, dotate per giunta di toilette, dunque le piú confortevoli, si trovino al termine dei percorsi obbligati. Le feritoie che illuminano le torri, fungendo
anche da sistema di aerazione, erano di scarsa utilità da un punto di vista difensivo. La stessa saracinesca azionabile sul grandioso ingresso principale, finiva per avere un significato puramente simbolico. Il portale, d’altronde, è esaltato dalle torri di rinfianco, ed era in origine corredato sul timpano da un gruppo scultoreo in marmo, con la probabile effigie classicheggiante del sovrano in trono, affiancato da due illustri personaggi della corte. Assumeva dunque una valenza trionfale, in chiara corrispondenza con la Porta di Capua. E proprio la decorazione scultorea di altissima fattura, ancora oggi riscontrabile su larga parte degli ambienti interni (compresi alcuni vani delle torri), dà la misura della forte componente estetica dell’edificio. Maggiormente elaborato al primo piano, il corredo decorativo si sviluppa lungo i sistemi di copertura a volta, con un’ampia schiera di capitelli e di fioroni variamente elaborati, a cui si affianca un prezioso repertorio di rilievi figurati, sulle chiavi delle volte stesse o sulle mensole di sostegno: maschere e telamoni che attingono al repertorio delle cattedrali gotiche con uno spirito classico tipicamente federiciano, componendo nel loro insieme un vivace gioco di movenze e di espressioni, talvolta con esplicita allusione al riso, come si conviene alla gioia di un ambiente di corte. SAPER VEDERE
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Castel del Monte
DOVE E QUANDO Castel del Monte si trova nell’omonima frazione del Comune di Andria, da cui dista 18 km ed è raggiungibile in auto seguendo la SS 180 Orario tutti i giorni, 10,15-19,45 (dal 1° aprile al 30 settembre); 9,00-18,30 (dal 1° ottobre al 31 marzo); chiuso a Natale e a Capodanno Info casteldelmonte.beniculturali.it
Impressionante e quasi compiaciuto, poi, è il complesso sistema idrico della struttura, con tubature di carico e scarico in pietra, argilla, rame, sfiati e sgocciolatoi, cisterne pensili sulle torri, cisterne sotterranee, toilette e lavabi (vedi box a p. 121). Il grande apparato di conduzione era visivamente imperniato su una perduta struttura situata al centro del cortile: una grande fontana a getto, alimentata dalle acque che giungevano dalla terrazza o dalle cisterne pensili, tramandata anche come vasca ottagonale, con una panca che correva lungo il suo perimetro interno. Proprio la presenza di un sedile a contatto dell’acqua indicherebbe una struttura di svago, pensata per i bagni degli illustri ospiti del castello, prima ancora che per l’approvvigionamento di una guarnigione. Le porte-finestre che si affacciano sul cortile, di elegante fattura, davano poi su un ballatoio ligneo sporgente, impostato su mensole di pietra. Grazie a questa struttura, accessibile da tre sale, il piano nobile era dotato di un balcone che correva lungo tutto il perimetro, con vista sulla scenografica fontana al centro del cortile.
Un capolavoro senza confronti
Per tentare una spiegazione di Castel del Monte si è spesso fatto ricorso a confronti del tutto plausibili con esperienze analoghe, vicine e lontane, ma nessun aggancio è apparso mai risolutivo. Ogni volta il castello sfugge a qualsiasi classificazione, visto che è stato realizzato proprio per essere un’opera unica, fascinosa e irripetibile, come unico è il carisma del suo committente. Indubbio è il valore simbolico dell’ottagono, come figura mediatrice tra il cielo (il cerchio) e la terra (il quadrato), secondo un’iconologia architettonica elaborata già nei mausolei imperiali di epoca tardo-antica, e in seguito diffusa in edifici di ogni genere, dai battisteri alle torri campanarie o difensive, in Oriente e in Occidente. Elaborato con una simile solennità, l’ottagono rimanda senz’altro alla Cappella palatina di Aquisgra-
Nella pagina accanto l’interno di una torre del castello, in cui si sviluppa una delle scale a chiocciola che mettono in comunicazione i due piani dell’edificio.
na, dove Federico II fu incoronato re di Germania (1215), o alla Cupola della Roccia di Gerusalemme, che il sovrano ebbe modo di visitare durante la sesta crociata (1229). D’altro canto, il concetto della residenza come luogo di benessere e di delizia (solatium), secondo un’antichissima tradizione persiana mediata dal mondo arabo, era già ben presente nella Sicilia normanna, come tuttora ricorda la Zisa di Palermo (1164-1180), con le sue decorazioni musive e i suoi giochi d’acqua. E sono molti gli indizi che suggeriscono un aggancio con i palazzi nordafricani dei secoli XXII, come, per esempio, il concetto «labirintico» dei percorsi o la rigorosa struttura simmetrica intorno a un cortile, secondo schemi che risalgono in parte all’edilizia residenziale dei califfi abbasidi di Baghdad. È peraltro proverbiale l’apertura di Federico II verso la cultura araba, come pure l’abilità diplomatica con cui strinse l’accordo di pace con il sultano del Cairo al-Kamil (febbraio 1229). Troppo vasto e ridondante per essere una semplice domus dedicata agli svaghi del sovrano, troppo isolato e sontuoso per essere la semplice sede di un presidio militare, Castel del Monte è una residenza fortificata che doveva stare molto a cuore a Federico II, per una serie di componenti simboliche e funzionali intrecciate in modo indissolubile: è, al tempo stesso, luogo di delizie e manifestazione «intima» di potere, in una località isolata tra la terra e il mare, nel cuore dell’amata Puglia. Pensato forse, in prima battuta, per l’otium del sovrano, per fastosi ricevimenti, come pure per mettere in soggezione ambasciatori e prigionieri di lusso, Castel del Monte è comunque, nel suo affascinante ed enigmatico complesso, l’effigie piú potente dello stupor mundi.
DA LEGGERE Antonio Cadei, Castel del Monte, in Enciclopedia dell’Arte Medievale, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1993; anche on line su treccani.it Raffaele Licinio, Federico II e gli impianti castellari, in AA. VV., Federico II e l’Italia. Percorsi, luoghi, segni e strumenti, De Luca, Roma 1995; pp. 63-68
Maria Stella Calò Mariani, Raffaella Cassano (a cura di), Federico II. Immagine e potere, Marsilio, Venezia 1995 Franco Cardini, Castel del Monte, Il Mulino, Bologna 2000 Hubert Houben, Castel del Monte, in Federiciana, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 2005; anche on line su treccani.it
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VO MEDIO E Dossier n. 21 (luglio 2017) Registrazione al Tribunale di Milano n. 233 dell’11/04/2007 Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Realizzazione editoriale: Timeline Publishing S.r.l. Piazza Sallustio, 24 - 00187 Roma Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Lorella Cecilia (Ricerca iconografica) lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Alessia Pozzato Amministrazione: Roberto Sperti amministrazione@timelinepublishing.it Gli autori: Chiara Mercuri è dottore di ricerca in storia medievale. Elena Percivaldi è giornalista e storica del Medioevo. Furio Cappelli è storico dell’arte. Illustrazioni e immagini: Shutterstock: copertina. Il restante corredo iconografico dell’opera è stato realizzato grazie alla documentazione redazionale della rivista «Medioevo», e, in particolare, dai nn.: 207, aprile 2014 (pp. 8-21); 224, settembre 2015 (pp. 22-37); 220, maggio 2015 (pp. 38-49); 221, giugno 2015 (pp. 50-63); 227, dicembre 2015 (pp. 64-77); 208, maggio 2014 (pp. 78-91); 218, marzo 2015 (pp. 92-103); 215, dicembre 2014 (pp. 104-117); 210, luglio 2014 (pp. 118-129). Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. In copertina: veduta di Castel del Monte (Andria), la piú celebre tra le rocche federiciane, dalla caratteristica pianta ottagonale.
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