Medioevo Dossier n. 26, Maggio 2018

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SULLE VIE DEL

MEDIOEVO

IN VIAGGIO CON MERCANTI, POETI E PELLEGRINI TRA GEOGRAFIA E LEGGENDA

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SULLE VIE DEL MEDIOEVO

IN EDICOLA IL 4 MAGGIO 2018 Timeline Publishing Srl - Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c.1, LO/MI.

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MEDIOEVO DOSSIER

Dossier

EDIO VO M E

N°26 Maggio 2018 Rivista Bimestrale



SULLE VIE DEL

MEDIOEVO

IN VIAGGIO CON MERCANTI, POETI E PELLEGRINI TRA GEOGRAFIA E LEGGENDA testi di Franco

Cardini, Francesco Colotta, Dick E.H. de Boer, Marco Di Branco, Aart Heering, Chiara Mercuri, Luca Pesante, Lorenzo Tanzini, Maria Paola Zanoboni

PRESENTAZIONE 6 Viaggiatori instancabili LE GRANDI ESPLORAZIONI 8 Alla scoperta dell’Oriente Fascino di un mondo ignoto 24 La cartografia Disegnare la Terra LE MIGRAZIONI 52 Uomini in movimento Alla ricerca di nuove patrie 56 Francesco Datini VIAGGI DEVOZIONALI 72 I cammini della fede Sulle strade dei pellegrini VIAGGI IMMAGINARI 76 L’Ultima Thule Il sole a Mezzanotte 86 Il Purgatorio di san Patrizio Irlanda, isola della redenzione GRANDI VIAGGIATORI 88 Emo da Huizinge In cammino per 241 giorni 98 Francesco d’Assisi Missione in Egitto 100 Francesco Petrarca Memorie d’un pellegrino illustre 113 Marco Polo L’uomo di fiducia del Gran Khan 114 Ibn Battuta «Conoscere è il mio mestiere»


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IL VIAGGIO NEL MEDIOEVO


Viaggiatori instancabili

P

er come oggi lo intendiamo, il viaggio non faceva parte delle esperienze che gli uomini della preistoria conducevano nel corso della loro esistenza: piú semplicemente, dal momento che si affidavano alla caccia e alla raccolta per sopravvivere, le prime comunità umane vivevano spostandosi, di continuo. Poi vennero l’agricoltura e l’allevamento e con esse la sedentarizzazione, ma non per questo i nostri antenati si fermarono. Anzi, ebbero inizio i primi «viaggi d’affari», anche a lungo raggio, per esempio al fine di procurarsi materie allora considerate rare e pregiate, come l’ambra o l’ossidiana. E la storia potrebbe continuare, con Erodoto, Strabone, Pitea di Marsiglia, l’imperatore Adriano e tanti altri… Nei secoli del Medioevo la pratica del viaggio è ormai una prassi consolidata, che ha dunque fatto tesoro di numerosi e illustri precedenti. Come leggerete nelle pagine di questo Dossier, si prendeva la decisione di intraprendere lo spostamento – fosse esso a breve, medio o lungo raggio – per molte e diverse ragioni. Protagonisti della nostra rassegna sono quindi il mercante, il pellegrino, il principe, l’artista: uomini (e donne) mossi, di volta in volta, da motivazioni economiche, religiose, politiche o di opportunità. E, di conseguenza, è possibile definire vere e proprie categorie di viaggio, che vanno dalla partenza alla volta di mete lontane e lontanissime – per esempio per compiere esplorazioni

o ricercare nuovi mercati – all’allestimento delle grandi spedizioni militari, prime fra tutte le crociate, oppure ai viaggi compiuti nel segno della fede, i pellegrinaggi. A piedi, a cavallo, a bordo di un carro o di una nave, gli uomini del Medioevo erano, insomma, viaggiatori instancabili. Fra di loro spiccano personaggi che hanno scritto pagine di storia memorabili – si pensi a Marco Polo o a Ibn Battuta –, ma anche un autentico esercito di persone comuni e per noi anonime, i cui spostamenti hanno tuttavia rappresentato fenomeni altrettanto significativi. E c’è anche chi, invece, si dilettò nel raccontare di viaggi meravigliosi e strabilianti, attraverso terre paradisiache oppure orrorifiche, fra soli che mai tramontavano e labirintici antri infernali… In alto miniatura raffigurante il naufragio della flotta mongola, dall’edizione del Livre des Merveilles di Marco Polo illustrata dal Maestro di Egerton. 1410-1412. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Nella pagina accanto una pagina miniata dall’Historia Anglorum di Matteo Paris, opera in cui sono riportati l’itinerario percorso dai pellegrini da Londra verso Gerusalemme, la rappresentazione delle città attraversate e le indicazioni sulla lunghezza del viaggio. 1250-1259. Londra, British Library. IL VIAGGIO NEL MEDIOEVO

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ALLA SCOPERTA DELL’ORIENTE

Fascino di un mondo ignoto 8

IL VIAGGIO NEL MEDIOEVO


Nella seconda metà del Duecento, Marco Polo compie il piú celebre viaggio in Asia della storia. Ma anche altri Occidentali si spinsero nelle terre dello sterminato continente. Primi fra tutti i religiosi che accarezzarono il sogno di convertire al cristianesimo i Mongoli Miniatura raffigurante l’arrivo di una nave di mercanti a Hormuz, nel Golfo Persico, da un’edizione del Livre des Merveilles di Marco Polo illustrata dal Maestro della Mazarine. 1410-1412. Parigi, Bibliothèque nationale de France. IL VIAGGIO NEL MEDIOEVO

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LE GRANDI ESPLORAZIONI

C’

è una storia non troppo conosciuta, che corrisponde a una «grande illusione» e a una «falsa partenza». Fra il 1271 e il 1295, il viaggiatore e mercante veneziano Marco Polo viaggiò, per terra e per mare, da Venezia alla Siria al Golfo Persico, alla Cina e di lí, attraverso lo Stretto di Malacca, l’Oceano Indiano, la Persia e il Mar Nero, riguadagnò la patria. Catturato dai Genovesi dopo la battaglia di Curzola del 1298, Marco Polo dettò le sue memorie a un compagno di prigionia, Rustichello da Pisa. Ne uscí un celebre libro redatto in franco settentrionale, il Devisement du monde, forse piú noto con il titolo di Livre des

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di Franco Cardini

Alla scoperta dell’Oriente

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Persia

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Golfo di Aden

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Merveilles, e ben presto volgarizzato in varie redazioni italiche e conosciuto come Il Milione. Un libro strano e affascinante, a metà fra il testo memoriale autobiografico, il manuale geoantropologico, il taccuino d’appunti del mercante e il reportage cronistico: si è molto discusso sulle sue caratteristiche di autenticità, attendibilità e originalità. Poco noto è il fatto che Marco Polo s’inseriva, in un certo senso, in una tradizione già consolidata. Prima di lui, religiosi, missionari e mercanti, in un modo o nell’altro e per differenti ragioni, avevano percorso almeno in parte gli itinerari che egli stesso toccò. Dopo la grande avventura di Alessandro Magno, l’Asia, per il mondo ellenistico-romano e poi per il Medioevo euro-occidentale, era rimasta un continente profondo e misterioso, dal quale giungevano scarse e preziose merci insieme a favolose notizie di mostri, d’immense ricchezze, di deserti sterminati e di città popolose: mai il commercio e le strade lungo le quali esso si svolgeva – veicolando, fra l’altro, verso il Mediterraneo e l’Europa le apprezzate merci ch’erano sovente anche materie prime importanti per la medicina, la produzione manifatturiera e l’alimentazione, le «spezie» – erano affidati alle carovaniere percorse dai mercanti arabi, siriani e persiani.


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Verso l’India

Mar d’Arabia Verso l’India

In alto carta della Penisola Arabica con le principali rotte commerciali marittime e terrestri conosciute in epoca antica. A destra alcuni altari e bruciaprofumi per incenso di fattura sabea. San’a, Museo Nazionale. Nella pagina accanto testa femminile in pietra con iscrizione in alfabeto sabeo sulla fronte. I mill. a.C.

IL VIAGGIO NEL MEDIOEVO

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LE GRANDI ESPLORAZIONI

Alla scoperta dell’Oriente

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Hormuz

Conquiste dei successori mongoli

Itinerario di fra Guglielmo di Rubruck (1252-1256)

Principati russi tributari dell’Orda d’Oro Divisione del territorio intorno al 1260 Diocesi

Fra l’XI e il XII secolo, sulla scia del movimento crociato, i mercanti delle città marinare soprattutto italiane (Amalfi, Genova, Pisa, Venezia), ma anche provenzali e catalane (Marsiglia, Montpellier, Barcellona), avevano fondato tra impero bizantino, Vicino Oriente, Egitto e isole mediterraneo-orientali numerose colonie commerciali: tali sedi servivano da emporio e da collettore per le merci provenienti dall’Asia, oltre che prodotte in loco, e delle quali l’Europa aveva un crescente bisogno. Fino alla metà del Duecento, i mercanti occidentali non pensarono mai che fosse possibile, conveniente e opportuno spingersi oltre il margine sud-occidentale del continente asiatico

Srinagar

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Itinerario di fra Giovanni di Pian del Carpine (1245-1247)

Area di incursioni e di occupazione temporanea

Kabul Peshawar

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Conquiste di Gengis Khan (1206-1227)

IL VIAGGIO NEL MEDIOEVO

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SULTANATO DI DELHI

Itinerario di Marco Polo (1271-1295) Via della Seta Grande Muraglia Cinese

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tribú mongola

per attingere direttamente alle merci che venivano dalla favolosa India, di cui si parlava sulla scorta delle leggende nate dopo l’avventura di Alessandro Magno, o da quel «Catai», la Cina, ch’era poco piú che un nome. Ma qualcosa cambiò, appunto, verso la metà del XIII secolo. Maturò allora la «grande illusione» che fosse possibile convertire al cristianesimo quei popoli remoti; e si ebbe una «falsa partenza» dei rapporti tra Europa ed Estremo Oriente, che si cercò a lungo di raggiungere via terra. Entrambe svanirono per una serie di mutate circostanze storiche poco meno di un secolo piú tardi, verso la metà del Trecento. L’Estremo Oriente sarebbe stato

GOLFO DEL BENGALA


raggiunto solo alla fine del Quattrocento, ma grazie alla navigazione oceanica. Fra antichità e Medioevo, tre «grandi vie» del commercio intercontinentale collegavano l’Asia e l’Africa al Mediterraneo e all’Europa. La prima era già ben conosciuta agli stessi Romani: era la «Via delle Spezie» (o «dell’Incenso»): le preziose materie prime indispensabili per la medicina, la manifattura tessile, la cosmesi, la conservazione degli alimenti giungevano via mare dall’India e dal Sud-Est asiatico attraverso l’Oceano Indiano e approdavano negli scali dell’Arabia meridionale (l’Arabia Felix), dov’era situato il mitico regno della regina di Saba. Da lí si biforcavano. Potevano superare il Mar Rosso e la stretta striscia di sabbia del deserto arabico, nell’Egitto

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Karakorum Shangtu

Sulle due pagine cartina con gli itinerari percorsi dai viaggiatori europei nel XIII secolo. In basso la chiesa di S. Gregorio ad Ani, gioiello architettonico del Medioevo armeno, situata su un altopiano lungo la Via della Seta. Abbandonata da oltre tre secoli, e oggi in territorio turco, un tempo Ani era detta la città «delle Mille e una chiesa».

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IL VIAGGIO NEL MEDIOEVO

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LE GRANDI ESPLORAZIONI

Alla scoperta dell’Oriente

sud-orientale, per giungere al Nilo e di là, lungo il grande fiume, arrivare ai porti del Delta, soprattutto ad Alessandria; oppure percorrevano a dorso di cammello le carovaniere lungo la costa araba occidentale, parallela al Mar Rosso, fino al Golfo di Aqaba, da dove poi giungevano a Gaza e a Tiro; là s’incontravano con le piste provenienti dalle città carovaniere arabo-siriache, come Petra e Palmira; oppure procedevano verso Damasco e Beirut.

Avorio, oro e schiavi

Una variante di questa via oceanica penetrava dall’Oceano Indiano nel Golfo Persico: là le navi mercantili potevano guadagnare il porto di Bassora, raggiungere Baghdad lungo lo Shatt al Arab e il Tigri, oppure risalire l’Eufrate, per ricongiungersi con le piste terrestri fra Mosul e Aleppo. Quella che gli Arabi chiamavano «la Strada dei Quaranta Giorni» (Dar al-Arbain) si diramava dal Nilo in tre direzioni: verso oriente e il Mar Rosso, dove si collegava con la Via dell’Incenso; verso occidente e le oasi del Sahara; verso sud, a partire da Assiut, dove il fiume era meno facilmente navigabile e da dove ci si collegava con la regione sudanese del Darfur. Era quella la pista dell’avorio, dell’oro e degli

In alto miniatura raffigurante il gran consiglio (kuriltai) nel corso del quale Temujin si proclamò «Gengis Khan» («Oceanico signore»), da un’edizione del Giami’ at-Tawarikh (Raccolta di storie) dello storico persiano Rashid ad-din Fadl Allah. 1430-1434. Parigi, Bibliothèque nationale de France. A sinistra miniatura raffigurante Gengis Khan che combatte contro i Cinesi sulle montagne, da una raccolta di poemi epici. 1397-1398. Londra, British Library.

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IL VIAGGIO NEL MEDIOEVO

schiavi, che collegava il Nilo con la lontana Africa occidentale (il Mali e Timbuctu). La «Via della Seta» prende il nome dalla merce piú famosa e ricercata che costituiva materia d’importazione in Europa prima che, nell’XI-XII secolo, i preziosi bozzoli venissero importati anche in Grecia e in Italia meridionale, e, quindi, in altre parti dell’Europa occidentale. I vari itinerari percorsi dalle carovaniere che collegavano la Cina alle coste della Siria e a quelle del Mar Nero, fino a Damasco e a Costantinopoli, si diramavano in almeno tre differenti tracciati, che non si devono immaginare come «strade» (nel senso delle vie consolari romane o delle moderne vie di comunicazione), bensí come fasci di piste provvisti di molti diverticoli: ma comunque sempre «assi attrezzati», che passavano attraverso oasi, incrociavano pozzi d’acqua potabile, erano costellati a distanza abbastanza regolare da caravanserragli (dal persiano karvansaray, «palazzo della carovana», al quale si accostano altri termini arabi, come khan, funduq e wakala, n.d.r.) posti a circa 30-35 chilometri l’uno dall’al-


tro (la distanza media che si può percorrere in un giorno «al passo», a dorso di cammello). La via piú settentrionale si snodava lungo i margini della taiga (foresta boreale a prevalenza di conifere sempreverdi, n.d.r.) siberiana, e – considerata da ovest verso est – collegava Kiev (da dove si poteva raggiungere bene Cracovia, e di là l’Occidente) e Krasnodar, non lontana dal Mar Nero, a Saray da dove, sempre tenendosi a nord del Caspio e del lago d’Aral, si percorreva la «Zungaria» (tra Aral e Balhaš); da lí si poteva giungere all’antica capitale mongola di Karakorum oppure percorrere la Cina occidentale (Sinkiang). Gli itinerari meridionali procedevano invece – li descriviamo sempre nella medesima direzione – da Trebisonda sul Mar Nero o da Damasco e Baghdad attraverso la Persia fino a Merv, dove si sdoppiavano. Verso nord toccavano Bukhara, Samarcanda, il Ferghana, giungevano a Kashgar nel Sinkiang e da lí, attraverso città carovaniere celebri come Turfan, arrivavano alla Grande Muraglia e poi a Pechino. Se invece da Merv si preferiva la via di sud-est, si andava

verso Balkh, si ritrovava l’altra strada a Kashgar, ma poi si continuava a sud-est per Khotan, Cherchen e Xian. Le due vie «meridionali» attraversavano entrambe il bacino del fiume Tarim, nel Sinkiang. Abbiamo descritto questi itinerari procedendo da occidente verso oriente – cioè in senso inverso rispetto a quello percorso per secoli dalle carovane che portavano dalla Cina al Mediterraneo le sete, le porcellane, i bronzi lavorati, le gemme e le spezie –, perché cosí essi ci sono stati illustrati da un nutrito gruppo di viaggiatori-diplomatici-missionari che li percorsero fra Due e Trecento e ai quali naturalmente tennero dietro i mercanti, come i fratelli veneziani Matteo e Niccolò Polo tra il 1260 e il 1269, che qualche anno piú tardi ripresero la via dell’Asia, portando questa volta con sé il piú o meno diciassettenne Marco, figlio di Niccolò. Ma come iniziò la grande avventura? A renderla possibile fu, in realtà, la pax mongolica imposta dalle genti tartare che, unite all’inizio del XIII secolo da un grande capo militare e

In alto miniatura raffigurante la carovana dei Polo in viaggio verso le Indie, da una tavola comprensiva di tutti i mari del mondo, nota come Atlante catalano, perché realizzata appunto da geografi catalani che operavano a Maiorca; ultimata nel 1375, l’opera venne offerta in dono al re di Francia Carlo V. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

IL VIAGGIO NEL MEDIOEVO

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Sulle due pagine miniatura raffigurante il Prete Gianni, misterioso principe cristiano d’Asia, seduto sul suo trono in Etiopia, da un portolano del portoghese Diego Homem. 1558. Londra, British Library. In basso particolare di un facsimile del mappamondo di fra Mauro raffigurante la Cina. L’originale dell’opera, realizzata fra il 1457 e il 1459, si conserva a Venezia, presso la Biblioteca Nazionale Marciana.

politico, Temujin, meglio conosciuto con l’epiteto di «Gengis Khan» («l’Oceanico Signore»), avevano conquistato e unificato l’Asia Centrale impadronendosi quindi della Cina, della Persia – dove abbatterono il califfato abbaside –, delle pianure russe fino alla Crimea; e puntando quindi a sud-ovest, verso la Siria e la Palestina, a nord verso l’Europa. Esauritasi la loro travolgente cavalcata – che per oltre una quarantina d’anni aveva minacciato di travolgere l’intero continente asiatico – e morto nel 1227 Gengis Khan, l’immenso impero a cui quest’ultimo aveva dato vita fu spartito tra i suoi quattro figli, che dettero origine ad altrettanti regni, collegati tra loro da una sorta di legame genealogico-federale: nonostante la reciproca rivalità, che condusse anche a molti conflitti, l’«impero federale» mongolo riuscí a mantenere il continente asiatico in ordine e in pace per circa un secolo e mezzo. Tale circostanza, associata al fatto che tra le popolazioni mongole e sparse tra Persia, India e Cina occidentale v’erano molte comunità cristiane monofisite o nestoriane e che tra i primi obiettivi delle loro conquiste v’erano stati alcuni potentati musulmani, determinò la speranza – a lungo cullata dai papi e da molti sovrani europei – che con i Mongoli si potessero stabilire rapporti diploma16

IL VIAGGIO NEL MEDIOEVO

tici di buona amicizia, o persino forme d’alleanza militare in funzione antislamica; o che, addirittura, quelle genti asiatiche «pagane», ma che apparivano aperte e tolleranti sotto il profilo religioso e non del tutto estranee al cristianesimo, potessero venir convertite alla fede.

Discendenti dei Magi?

Nel 1241 i cavalieri mongoli guidati da Batu Khan, nipote di Gengis Khan, avevano dato l’impressione di voler fagocitare tutta l’Europa. In quell’occasione, mentre essi dilagavano in Polonia e in Ungheria, si erano diffuse voci a proposito di un interesse di questi nuovi «barbari» a puntare verso Colonia, dove avrebbero voluto impadronirsi delle presunte reliquie dei Magi, ch’essi consideravano loro antenati. La leggenda d’un legame tra i Tartari e i primi adoratori pagani del Cristo si fondava su alcuni apocrifi, ma, soprattutto, sulle notizie secondo le quali fra quei terribili barbari vi sarebbero stati gruppi di cristiani. Comunità cristianonestoriane erano in effetti presenti nel mondo nomade uralo-altaico fin dai primi secoli di sviluppo della nuova religione; e i dignitari della Chiesa nestoriana avevano un certo ascendente presso i khan. Nel XIII secolo si erano fatti strada taoismo e buddhismo: anzi, quest’ul-

In basso miniatura raffigurante una battaglia tra Peceneghi e le truppe del granduca di Kiev Svjatoslav I, dal Codex Graecus Matritensis Ioannis Skyllitzes, manoscritto greco di produzione siciliana che riporta la Sinossi della Storia di Giovanni Scilitze. XII sec. Madrid, Biblioteca Nazionale.


UNA MOLTITUDINE DI GENTI E DI LINGUE I viaggiatori duecenteschi che percorsero la «Via settentrionale della Seta» si trovarono di fronte a un coacervo di genti e d’idiomi d’origine uralo-altaica nel quale avevano molta difficoltà a districarsi. I Turchi Qipchaq, che le fonti occidentali chiamano «Cumani», si erano insediati in un’area vastissima, tra il basso corso del Volga, il nord del Mar Nero, il Mar Caspio e l’Irtysh. Nell’XI secolo, con l’aiuto dell’imperatore di Bisanzio, Alessio I Comneno, essi avevano battuto i Peceneghi, o Polovzi, di stirpe simile alla loro, che per molto tempo erano stati il terrore dei principati russi del Dnepr e del Don. Altri popoli vicini, come gli Yämäk, parlavano una lingua di famiglia turca simile alla loro, usavano l’alfabeto uigurico: è difficile distinguerli dai Qipchaq. Lungo il corso inferiore del Volga vivevano altre genti: i Saqsin (Saxi per i latini), i Wedin, considerati musulmani dalle fonti ungheresi, i «Bulgari del Volga», i Brodnici. Preziosa, in proposito, è la testimonianza di Benedetto di Polonia, compagno di viaggio di Giovanni di Pian del Carpine.

IL VIAGGIO NEL MEDIOEVO

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LE GRANDI ESPLORAZIONI

Alla scoperta dell’Oriente

QUANDO LA CHIESA SPERAVA NEI MONGOLI... Dopo la conquista di Baghdad del 1258, l’ilkhan Hulagu aveva mostrato chiaramente di puntare sulla Siria. Ciò aveva per un verso incoraggiato, per un altro preoccupato i baroni franchi di Siria, titolari di quel che restava del regno crociato di Gerusalemme. Il legato pontificio Tommaso Agni da Lentino si era alla fine deciso a inviare una missione diplomatica, composta naturalmente da Domenicani, presso l’ilkhan, il quale aveva infine accettato, a quanto pare, di restituire Gerusalemme ai cristiani d’Occidente, se gli fosse capitato di conquistarla (da qui ha forse origine la falsa leggenda della conquista tartara della Città Santa nel 1300). Dopo la sconfitta mongola di Ain Jalud, presso il Giordano, le speranze si fecero però meno intense. Nel 1263 Hulagu inviò a papa Urbano IV un’ambasceria, che però fu intercettata e trattenuta da Manfredi di Svevia, re di Sicilia e avversario del pontefice. Solo un chierico ungherese giunse alla corte pontificia. Nel 1274, comunque, al secondo concilio di Lione, erano presenti alcuni inviati dell’ilkhan, accompagnati dal domenicano inglese David d’Ashby. Questi aveva scritto un’operetta sui Tartari, che però è andata purtroppo perduta.

A sinistra due Francescani, particolare del Miracolo della sorgente, scena dal ciclo delle Storie francescane affrescato da Giotto nella Chiesa Superiore della basilica di S. Francesco ad Assisi. 1290-1295 circa. In basso particolare di una miniatura raffigurante i Polo che si separano da due frati predicatori a L’Aïas, da un’edizione del Livre des Merveilles. XVI sec. Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal.

timo talvolta era sembrato prevalere tra i vertici delle gerarchie tribali mongole, anche se le genti tartariche restavano fedeli agli antichi culti a carattere sciamanico (vedi box a p. 22). Ma Batu Khan s’era presto ritirato e gli Europei avevano tirato un sospiro di sollievo. Fu presto chiaro che i nuovi conquistatori non avevano né le intenzioni, né – forse – l’energia sufficiente a spingersi ancora verso ovest. Le notizie sul filocristianesimo dei Mongoli, alimentate anche dalla leggenda – giunta in Occidente già alla metà del XII secolo – di un misterioso e potente principe cristiano d’Asia, detto «Prete Gianni», avevano intanto indotto molti a elaborare una sorta di «ideologia» della crociata cristiano-tartara.

Le trame diplomatiche del papa

In quegli anni la Terra Santa era in pericolo: Gerusalemme era stata riconquistata dai musulmani guidati dal Saladino nel 1187 e due potenti principati guidati da altrettanti suoi discendenti, rispettivamente in Siria e in Egitto, davano chiari segni di voler cacciare i feudatari «franchi» (cioè euro-occidentali) dalla costa palestinese che ancora restava nelle loro mani e ch’era difesa 18

IL VIAGGIO NEL MEDIOEVO


anche dagli Ordini religioso-militari (Templari, Giovanniti, Teutonici) e dai mercanti-coloni italiani e occitani che vi erano insediati. Nel 1244, durante il concilio di Lione, papa Innocenzo IV mise a punto un complesso programma diplomatico-missionario il cui scopo era raggiungere i capi dell’«impero federale» mongolo, stringerci un’alleanza contro i musulmani e portare loro, nel contempo, quel messaggio cristiano che non sembrava d’altronde essergli del tutto ignoto. Si pensò naturalmente ai nuovi Ordini mendicanti come ai piú adatti a portare a buon fine l’arduo, delicato compito: e Francescani e Domenicani vi si accinsero con il solito spirito d’emulazione. Innocenzo IV pensò a due differenti ambascerie, che avrebbero dovuto percorrere, rispettivamente, i due rami della Via della Seta: quello meridionale, che – partendo dalla costa siro-palestinese – si addentrava nella Persia, e quello settentrionale che, avrebbe dovuto raggiungere la Mongolia vera e propria attraverso la Russia. La «Via meridionale» venne affidata al francescano Lorenzo dal Portogallo, ma sembra ch’egli non intraprendesse mai il viaggio. Ci si affidò allora al domenicano Ascelino da Cremona, che scelse un itinerario piuttosto tortuoso: sbarcato ad Acri, puntò a nord-est, verso la Mesopotamia, la Georgia e l’Armenia meridionale, per addentrarsi da lí in Persia; era di ritorno ad Acri nel 1247. Ben poco sappiamo di lui e dei suoi accompagnatori, i frati Simone di Saint-Quentin e Andrea di Longjumeau: il primo stese una relazione del viaggio che ci è pervenuta sia pur lacunosamente, poiché alcuni passi di essa furono inseriti nella piú celebre enciclopedia del

In alto miniatura che raffigura i Mongoli come cannibali, secondo la credenza diffusa al tempo, in Europa, che questo popolo avesse le caratteristiche piú disgustose, dalla Chronica maiora di Matteo da Parigi. XIII sec.

Qui sopra capolettera miniato da un’edizione della cronaca di viaggio di Guglielmo di Rubruck. 1253-1255. .

tempo, lo Speculum historiale di Vincenzo di Beauvais. I Domenicani si sarebbero, da allora, «specializzati» nelle ambascerie e nelle missioni tra Armenia e Persia. La «Via settentrionale» toccò invece ai Francescani. La conosciamo in quanto essa fu percorsa da un celebre frate minore, Giovanni di Pian del Carpine, di cui trattano sia Vincenzo di Beauvais sia Salimbene da Parma. Egli ci ha lasciato una celebre Historia Mongalorum, pervenutaci in due distinte redazioni entrambe scritte da lui; mentre un suo confratello e compagno di viaggio, Benedetto di Polonia, redasse un piú compendioso diario della medesima avventura. Latore di una lettera del papa al capo dell’impero familiare-federale mongolo, il «Gran Khan», Giovanni partí con i suoi compagni nell’aprile 1245 da Lione, attraversò Germania, Boemia, Polonia e Ucraina e quindi, seguendo il corso del Dnepr, raggiunse la corte di Batu Khan sul Volga. Muniti d’un salvacondotto del principe, i frati procedettero poi attraverso la Cumania (Russia meridionale), varcarono l’Ural e si addentrarono nell’immensa regione desertica, arida e stepposa a nord del Caspio e del lago d’Aral fino al Syr Darja. Quindi, seguendo la pista della «steppa della fame» – tra il lago Balhaš e i monti del Kirghizistan –, raggiunsero la valle del fiume Ili e di lí pervennero, nel luglio 1246, al centro dell’impero tartaro, la città-accampamento di Karakorum, alle sorgenti del fiume Orhon, presso l’odierna Tsetserlig, dove furono accolti dal Gran Khan Güyük. Trascorsi alcuni mesi presso il sovrano, Giovanni e i suoi compagni s’incamminarono di nuovo nel novembre verso ovest: il viaggio di ritorno durò un anno IL VIAGGIO NEL MEDIOEVO

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LE GRANDI ESPLORAZIONI

Alla scoperta dell’Oriente

CARNI COTTE IN CAMBIO DEL RESPONSO Il missionario francescano d’origine fiamminga Guglielmo di Rubruck (1215 circa-1270 circa) è la fonte migliore sullo sciamanesimo. Egli descrive la seduta nel capitolo dedicato alle pratiche divinatorie, ma chiama lo sciamano (termine di origine tungusa, passato nel vocabolario comune attraverso il russo) con il nome di qam, che aveva imparato presso i popoli turcofoni (e che è forse l’adattamento turco di una parola in origine araba, designante l’asceta solitario). Alcuni cronisti musulmani del tempo, in effetti, sostenevano che l’insieme di queste pratiche sarebbe passato dai Turchi ai Mongoli: ma si tratta di una teoria superata. Guglielmo racconta che, in mezzo alla iurta (la tipica tenda cilindro-conica delle popolazioni mongole, n.d.r.) vengono sistemate le carni cotte di un animale; lo sciamano comincia poi a battere sul tamburo, l’attrezzo piú comune nelle pratiche sciamaniche, e cade in trance. A questo punto, secondo Guglielmo, giunge il «demone», al quale lo sciamano dà in pasto le carni, ottenendone in cambio i responsi desiderati. Il racconto è molto dubbio: se ne riconosce una certa analogia con le pratiche conosciute dagli etnologi in tempi piú recenti, tuttavia qui la concezione cristiano-occidentale delle pratiche divinatorie è forse intervenuta a orientare il racconto. Sappiamo che lo sciamanesimo, secondo la classica definizione dello storico delle religioni e scrittore romeno Mircea Eliade (1907-1986), non si caratterizza come una religione, né, tanto meno, come uno stadio nello sviluppo religioso dell’umanità (secondo le idee dell’etnografia di stampo positivista): si tratta piuttosto di un insieme di tecniche che ruotano attorno alla capacità dello sciamano di uscire dal corpo e compiere il viaggio estatico che lo conduce a contatto con il mondo dell’invisibile, del soprannaturale. Il viaggio nell’aldilà è simboleggiato dall’Axis mundi, dal palo che idealmente collega questo mondo e l’altro, e che infatti nell’Asia Centrale si trova accostato alle tombe di alcuni khan mongoli, anche dopo l’islamizzazione.

Due sciamani in una pittura su carta del maestro Muhammad Siyah Qalam. XV sec. Istanbul, Biblioteca del Topkapi.

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IL VIAGGIO NEL MEDIOEVO

esatto. In realtà, la sua Historia Mongalorum è un immenso repertorio di fatti, ma anche un’indagine relativa alle leggende e alle tradizioni dei Paesi attraversati e delle genti. L’ora della crociata cristiano-mongola contro l’Islam vicino-orientale sembrava sul serio scoccata. Nel 1248 Luigi IX di Francia, sostando a Cipro diretto in Egitto – dove si apprestava ad attaccare il delta del Nilo –, ricevette un’ambasciata da parte dell’ilkhan (il «khan territoriale») di Persia alla quale rispose inviando come suo rappresentante frate Andrea di Longjumeau, quello stesso che – avendo già preso parte al viaggio di Ascelino – conosceva le contrade persiane. Il Domenicano s’imbatté però in un periodo di vacanza del trono, poiché l’ilkhan era da poco scomparso: e la sua missione non ebbe seguito. Ben diversamente andarono le cose con un Francescano, anch’esso inviato da san Luigi non appena questi fu liberato dalla prigionia egiziana nella quale aveva concluso la sfortunata avventura della sua crociata. Egli scelse per un nuovo viaggio politico e missionario, che avrebbe dovuto stavolta arrivare al Gran Khan, il Francescano fiammingo Guglielmo di Rubruck (o, alla francese, di Rubrouck): questi avrebbe dovuto compiere il viaggio scegliendo l’itinerario settentrionale, secondo una spartizione dell’Asia da evangelizzare che i due Ordini mendicanti fratelli e rivali avevano ormai stabilito fra loro.


Il viaggio di fra Guglielmo e del suo compagno, Bartolomeo da Cremona, durò ben quattro anni, dal 1252 al 1256. Esso cominciò da Acri, dove l’Ordine francescano aveva un importante centro conventuale, e da qui i frati raggiunsero via mare il porto di Soldaia (oggi Sudak), in Crimea. Dal Volga fino a Karakorum, Guglielmo seguí fedelmente l’itinerario ch’era già stato del suo confratello Giovanni di Pian del Carpine. Il Gran Khan allora sul trono, Mongka, gli affidò un messaggio per il re di Francia: il fatto che poco dopo, nel 1258, suo fratello Hulagu, ilkhan di Persia, avrebbe conquistato Baghdad ed estinto il califfato abbaside, fece giungere all’apice le speranze crociate tra i cristiani d’Occidente. In questo senso, il viaggio di fra Guglielmo segnò l’apice della «grande illusione». Al ritorno, il Francescano scelse la pista a nord del lago Balhaš, percorse quindi la «depressione caspica» fino alla sponda occidentale del «mare interno», alla foce dell’Araks, da dove la carovaniera, attraverso Azerbaigian e Armenia, gli consentí di guadagnare la costa cilicia e di lí, via mare, il suo convento in Acri.

La fine di un sogno

Il resoconto del viaggio abbonda di notizie sia sui costumi «pagani» (sciamanici) dei Tartari, sia sul mondo dei cristiani di Karakorum, dove, insieme con i nestoriani, c’erano anche i cristiani «latini» provenienti dall’Europa (circostanza confermata dalla scoperta una stele funeraria relativa a una famiglia di mercanti originari di Genova e stabilitisi in Mongolia). Interessanti risultano anche i rilievi geografici di Guglielmo, che, da buon Francescano, affrontava spregiudicatamente le auctoritates antiche: e sottolineava, per esempio, che il Caspio era un mare clausum, non un’insenatura dell’oceano come sostenevano Plinio e Isidoro da Siviglia; e che in Asia non v’era traccia alcuna delle razze mostruose di cui avevano parlato Solino e Isidoro (blemmii dal volto sull’addome, panotii dalle grandi orecchie di cui si servivano come mantelli e cosí via). Ma il sogno della crociata euro-mongola contro l’Islam, che pur aveva messo lunghe e robuste radici (sarebbe riaffiorato quasi un secolo e mezzo piú tardi, al tempo di Tamerlano) s’infranse nel 1260 in Palestina, nella battaglia degli stagni di Ain Jalud sul Giordano, dove il generale tartaro Qitbuqa (un cristiano nestoriano al quale l’ilkhan di Persia Hulagu, il conquistatore di Baghdad, aveva affidato il compito di battere i sultani mamelucchi d’Egitto, e che si vantava di discendere dai Re Magi) fu battuto e perse anche la vita. In quello stesso anno, da Costantinopoli – che

Miniature raffiguranti Gregorio X che riceve dai Polo le lettere del Gran Khan (in alto), a cui il papa invia a sua volta dei doni, da un’edizione del Livre des Merveilles di Marco Polo illustrata dal Maestro della Mazarine. 1410-1412. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

solo per pochi mesi sarebbe rimasta ancora fra le mani degli «imperatori latini» insediatisi con la IV crociata del 1204 – partivano Matteo e Niccolò Polo, desiderosi di instaurare rapporti commerciali stabili con i Mongoli della cosiddetta «Orda d’Oro», che dominavano la Russia meridionale, l’Ucraina e la Crimea. Dopo aver soggiornato tre anni a Sarak sul Volga, alla corte di Berke Khan, i due fratelli proseguirono seguendo in parte l’itinerario di Giovanni di Pian del Carpine fino a Bukhara, dove una serie d’imprevisti li costrinse a restare bloccati per IL VIAGGIO NEL MEDIOEVO

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LE GRANDI ESPLORAZIONI

In alto particolare della Pala di Santa Trinita tempera su tavola del Beato Angelico (fra Giovanni da Fiesole), nel cui paesaggio, sullo sfondo, si riconosce una veduta di Gerusalemme con il tempio di Salomone. 1437-1440. Firenze, Museo Nazionale di S. Marco.

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IL VIAGGIO NEL MEDIOEVO

Alla scoperta dell’Oriente

circa tre anni. Ripartiti, si accodarono a un’ambasceria mongolo-persiana diretta al Gran Khan Kubilai, che aveva intanto conquistato la Cina: con lui soggiornarono a lungo, fra la sua capitale estiva di Dolon-Nor (Tolun), a nord della Grande Muraglia, e quella, splendida, di Pechino, che i Mongoli chiamavano Khanbaluk. Il viaggio di ritorno, con ricche merci e messaggi del Gran Khan per il papa, durò tre anni. Il potente sovrano si era fatto promettere che sarebbero tornati e li aveva incaricati di recargli, fra l’altro, un po’ d’olio delle lampade del Santo Sepolcro di Gerusalemme, a cui attribuiva grandi virtú taumaturgiche. Ad Acri, nel 1269, il legato pontificio, il Piacentino cardinal Tedaldo Visconti, li consigliò di rientrare a Venezia per attendervi l’elezione del nuovo pontefice: papa Clemente IV era infatti morto l’anno prima, ed

era necessario ch’essi consegnassero al suo successore il messaggio del Gran Khan. La vacanza pontificia fu però troppo lunga: e il richiamo dell’Asia, gli impegni con il Gran Khan, la prospettiva di nuove avventure e di nuovi guadagni, era troppo forte. Matteo e Niccolò ripartirono nell’autunno del 1271 per l’Oriente: ad Acri furono di nuovo ricevuti dal cardinal Visconti, che si accingeva a raggiungere l’Italia perché il troppo lungo conclave viterbese l’aveva alla fine eletto papa (e sarebbe stato Gregorio X, il pontefice famoso per aver avviato una grande inchiesta sulle prospettive di fattualità effettiva della crociata).

Un’esperienza irripetibile

Con il padre Niccolò e lo zio Matteo viaggiava il giovanissimo Marco, che si accingeva a vivere il quarto di secolo piú bello della sua esistenza. Tuttavia, mentre Marco accumulava i ricordi e le esperienze che avrebbe poi riversato, grazie all’aiuto di Rustichello, nel Livre des Merveilles, i contatti tra Europa latina e mondo mongolo continuavano. Nel 1278 papa Nicolò III inviò ad Tartaros, diretta in Persia e in Cina, un’ambasceria della quale facevano parte i francescani Gerardo da Prato, Antonio da Parma, Giovanni da Sant’Agata, Matteo d’Arezzo, Andrea de’ Mozzi da Firenze. Le polemiche all’interno dell’Ordine francescano erano ormai durissime: e la Santa Sede si serviva spesso della «missione


LE STRABILIANTI IMPRESE DI GHAZZAN KHAN Nell’anno del Giubileo indetto da papa Bonifacio VIII, il 1300, si andò diffondendo in Occidente la falsa notizia secondo cui Ghazzan Khan di Persia, appoggiato dai re d’Armenia, di Georgia e, secondo alcuni, di Cipro, aveva riconquistato per intero la Siria e la stessa Gerusalemme riconsegnandola ai cristiani. In una lettera del 7 aprile del 1300, lo stesso pontefice annunziava la lieta novella a Edoardo I d’Inghilterra. Stando ad alcune cronache, l’ilkhan aveva preso non solo la Siria, ma anche l’Egitto: e nell’Epifania del 1300 aveva ascoltato la messa nella basilica del Santo Sepolcro in Gerusalemme, facendosi battezzare: come sempre in questi casi, la falsa notizia non era priva di alcuni elementi di verità, sui quali non ci soffermeremo. Ricordiamo solo come a Firenze, in una via non lontana dalla basilica francescana di S. Croce, un tale Ugolino, ch’era stato pellegrino a Roma, fecesse eternare su una lapide di pietra la memoria della restituzione del Sepolcro e della presenza di cristiani e Tartari insieme a Roma per festeggiare il Giubileo. Si trattava cioè della memoria di un fatto mai avvenuto, ma del quale molto si era parlato e che tutti ritenevano vero: «Ad perpetuam rei memoriam pateat omnibus evidenter hanc paginam inspecturis qualiter omnipotens Deus specialem gratiam contulit christianis. Sanctum Sepulcrum, quod extiterat a Saracenis occupatum, reconvictum est a Tartaris, et Christianis restitutum. Et cum eodem anno fuisset a papa Bonifacio solepnis remissio omnium peccatorum videlicet culparum et penarum omnibus euntibus Romam indulta. Multi ex Christianis et Tartaris ad dictam indulgentiam Romam accesserunt».

Sulle due pagine ancora una miniatura dall’edizione del Livre des Merveilles di Marco Polo illustrata dal Maestro della Mazarine raffigurante Ghazzan Khan che riceve un messaggero. 1410-1412. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

d’Oriente» per inviarvi, in una sorta di piú o meno larvato esilio, gli scomodi «Spirituali», fautori d’un’interpretazione rigorosa del messaggio di Francesco. Cosí fu spedito in Armenia frate Angelo Clareno. Mentre i sultani mamelucchi d’Egitto stringevano sempre piú la loro morsa su quel che restava del Regno crociato di Gerusalemme e sulla sua capitale, Acri, erano soprattutto gli ilkhan di Persia a proseguire con decisione la loro attività diplomatica nei confronti del mondo latino. L’ilkhan Arghun si serviva soprattutto di mercanti genovesi, numerosi nel suo principato, e di religiosi nestoriani. Nel 1285 un’ambasciata tartaro-persiana guidata dal genovese Tommaso degli Anfossi giungeva presso Onorio IV; due anni dopo, arrivava, ancora inviato da Arghun, il nestoriano Rabban Sauma, che a Roma s’incontrava con il collegio cardinalizio – la sede pontificia era di nuovo vacante – e procedeva quindi in direzione di Parigi, dove incontrò re Filippo IV di Francia, e poi di Bordeaux, dove ebbe un abboccamento con il re d’Inghilterra Edoardo I; infine, di ritorno a Roma, vide anche il nuovo papa, Nicolò IV. Nel 1288 giunse dalla corte persiana un nuovo ambasciatore genovese, Buscarello di Ghisulfo. Esito di questi contatti fu una nuova missione francescana, guidata da Giovanni da Montecorvino, che raggiunse l’India nel 1291 e che nel 1294 era a Pechino, dove avrebbe aperto una chiesa, convertito molti

personaggi anche d’alto rango e sarebbe stato nominato arcivescovo e patriarca dell’Oriente. Ma Arghun Khan, che forse nutriva davvero qualche interesse nei confronti della fede cristiana, morí nel 1291: l’anno stesso in cui i Mamelucchi conquistavano Acri, ultima roccaforte crociata in Terra Santa. Degli echi in Asia di quell’episodio abbiamo notizia anche attraverso un altro intelligente viaggiatore, il domenicano fiorentino Ricoldo di Montecroce. Ma nel 1295 il successore di Arghun Khan, Ghazzan, sceglieva di convertirsi all’Islam; i Tartari dell’Orda d’Oro si erano già convertiti da oltre mezzo secolo. La cristianità occidentale aveva perduto per sempre la sua grande occasione di espandersi in Asia. Di questa intensa e feconda attività diplomatica e missionaria, con le sue prospettive guerriere e mercantili, restarono le tracce nel Trecento, con viaggiatori quali Odorico da Pordenone e con il proseguire dell’organizzazione della Chiesa latina missionaria fra Armenia, Georgia, Persia, India e Cina, segnate anche dal sangue di molti martiri. E resta un mito fondato sulla «falsa notizia» della conquista mongola di Gerusalemme, della sua liberazione dai musulmani e della sua riconsegna ai cristiani latini, che sarebbe avvenuta proprio nell’anno del Giubileo, il 1300. Una lapide dell’epoca ricorda ancora, a Firenze, l’evento mai accaduto (vedi box in questa pagina). IL VIAGGIO NEL MEDIOEVO

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LA CARTOGRAFIA

Disegnare la Terra Fin dall’antichità, la trasposizione su carta di terre e mari non fu soltanto un esercizio di natura tecnica: i criteri di volta in volta adottati, infatti, scaturirono dalle conoscenze acquisite, ma anche dalla maniera in cui il mondo veniva considerato sotto il profilo filosofico e religioso di Lorenzo Tanzini

L’

abitudine di riprodurre le immagini, la capacità di guardare la Terra dallo spazio, la disponibilità di foto aeree di ogni tipo, ci dà a volte l’illusione di poter avere tra le mani una riproduzione fedele del nostro mondo. In realtà non è difficile rendersi conto del fatto che l’immagine del mondo è sempre una costruzione interessata: dalle dettagliatissime tavole degli istituti militari alle mappe catastali, fino ai planisferi politici, ogni carta nasconde una finalità piú profonda della pura descrizione; la guerra, la difesa della proprietà o i confini dello Stato sono valori che non stanno certo nelle cose, ma esistono soltanto, per l’appunto, sulla carta. E sono ciò che piú conta. Qualcosa di non molto diverso accadeva anche nel passato: le rare testimonanze, che per vie spesso avventurose ci sono giunte dopo secoli, delle rappresentazioni del mondo di età medievale, non sono semplici tentativi di disegnare la Terra, ma piuttosto messaggi trasmessi ai contemporanei e ai posteri per insegnare, per evidenziare, a volte per nascondere, sempre per comunicare contenuti di cultura. E cosí, scorrere le immagini – ora

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IL VIAGGIO NEL MEDIOEVO

scintillanti ora sbiadite e malridotte –, delle carte geografiche medievali, oltre a essere un’esperienza estetica tra bizzarrie e ingenuità quasi sempre apparenti, è un percorso attraverso i messaggi e gli insegnamenti che quel tempo volle tramandare.

Quel dotto alessandrino...

Quando si parla di Claudio Tolomeo, si pensa naturalmente alla vicenda della cosmologia geocentrica, a Copernico e a Galilei, associando il nome del dotto alessandrino del II secolo d.C. a tutto ciò che di vecchio, dogmatico e finanche falso vi fosse nelle conoscenze scientifiche dell’Occidente medievale. Molto meno noto è che una delle opere di Tolomeo, la Geografia, abbia rappresentato il punto d’arrivo delle conoscenze geografiche dell’antichità, rimasto praticamente sconosciuto per buona parte del Medioevo. Si trattava di un trattato piuttosto complesso, che univa un elenco ragionato dei porti mediterranei conosciuti a una lunga analisi matematico-geometrica del vero e proprio problema della cartografia terrestre, quello cioè della proiezione della superficie sferica

Il Geografo, olio su tela di Jan Vermeer. 1669. Francoforte, Städelsches Kunstinstitut und Städtische Galerie.


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LE GRANDI ESPLORAZIONI Una carta del mondo elaborata per un’edizione tedesca della Geografia di Claudio Tolomeo, insigne astronomo, matematico e geografo del II sec. d.C. vissuto ad Alessandria. 1482.

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IL VIAGGIO NEL MEDIOEVO

La cartografia

sul piano, con un corredo di mappe che conosciamo grazie a copie prodotte molti secoli piú tardi. Il mondo di Tolomeo, l’Ecumene in greco, è rappresentato come un trapezoide, proiezione della parte ritenuta abitata del globo terrestre, che comprende il Mediterraneo con l’Africa a nord del Sahara e l’Asia, disposte in modo da chiudere l’Oceano Indiano, ritenuto una sorta di grande lago.

Ma se è vero che la rappresentazione dello spazio è sempre un’affermazione di valori, e che il mondo nella sua interezza è sempre una concezione del mondo, una scelta di contenuti, è facile comprendere perché il cambiamento della cultura tardo-antica, con l’affermazione del cristianesimo come unica religione lecita, portasse con sé anche una trasformazione del modo di concepire il mondo, insieme


causa ed effetto della scomparsa del modello tolemaico dall’Occidente. Cosí, come sant’Agostino si dedicava a dare una nuova concezione cristiana della storia universale, mentre il vecchio impero andava letteralmente a pezzi, si faceva largo tra gli scrittori del primissimo Medioevo il tentativo di ridisegnare la forma stessa del mondo: come si poteva pensare che la Terra, redenta dalla Resurrezione e ora orizzonte della diffusione della fede, avesse ancora lo stesso aspetto dei secoli pagani? Di questo doveva essere convinto Cosma detto Indicopleuste (cioè «viaggiatore nelle terre dell’India»), mercante e scrittore del VI secolo di origini alessandrine come Tolomeo, noto come l’autore della piú antica rappresentazione del cosmo nella storia medievale: l’immagine antica dell’Ecumene è totalmente stravolta, e la forma della Terra modellata ex novo nell’ottica della fede cristiana.

Un tempio della sapienza divina

Il mondo secondo Cosma, a quanto si intende da una malandata copia del IX secolo del suo mappamondo, è una sorta di tabernacolo, nel quale si distinguono la Terra, il mare Oceano che la circonda, e il Paradiso terrestre. Una carta che è soprattutto la rappresentazione teologica del mondo: la sua forma ricorda come tutte le cose siano il tempio della sapienza divina, forgiate nella sua Creazione; il Paradiso terrestre è una terra creata per gli uomini, dalla quale questi vengono cacciati dopo il peccato di Adamo, ma che non perde la sua concretezza geografica. Questo antichissimo modello cosmografico godette di una certa fortuna durante i secoli medievali, e fu di volta in volta rielaborato dagli autori di carte, soprattutto i piú appassionati di simbologie e corrispondenze tra lo spazio terrestre e le verità della fede: ma non fu sicuramente il piú diffuso. La maggior parte dei mappamondi dell’Alto e pieno Medioevo, infatti, sono l’elaborazione di uno schema differente, vagamente ispirato dalla tradizione cartografica tardo-antica, ma codificato, per cosí dire, dal piú fortunato manuale di cultura generale del Medioevo latino, cioè le Etymologiae di Isidoro di Siviglia, scritte intorno all’inizio del VII secolo: il cosiddetto mappamondo T-O. Secondo questa tradizione iconografica la parte abitata del globo terrestre – l’unica che abbia una storia e quindi meriti di essere rappresentata –, si può schematizzare come un cerchio in cui sono iscritti un diametro trasversale e un raggio a quello perpendicolare, che formano una T; da questo il nome di map-

pamondo T-O, che ben si prestava anche come acronimo di Terrarum Orbis, globo terrestre. Una variante importante di questo modello compare nelle carte del cosiddetto Beato di Liebana, un monaco visionario della Spagna mozarabica dell’VIII secolo, il cui commentario illustrato all’Apocalisse venne copiato in moltissimi codici altomedievali. Il mondo di Beato è simile a quello di Isidoro, che ovviamente il monaco iberico conosceva molto bene: la sua forma, però, è piuttosto quadratorettangolare che rotonda; Asia e Africa sono molto meno nettamente distinte, e, soprattutto, si nota l’aggiunta nell’estremità destra, cioè nella parte piú lontana dell’Asia, di uno spicchio di Terra grossolanamente tagliata dal blocco continentale, con il quale si rappresentano gli antipodi, cioè le terre non abitate dagli uomini nell’altra parte del globo. A queste rappresentazioni propriamente geografiche della Terra va aggiunta una versione piú dotta e per cosí dire «tematica», risalente all’antichità (ne aveva parlato Cicerone nel Somnium Scipionis), adottata da Marziano Capella all’inizio del Medioevo, ma ripetuta ancora nel Quattrocento: la Terra veniva divisa in grandi fasce climatiche orizzontali, delle quali i poli estremi e la fascia centrale erano ritenuti disabitati per il gelo o caldo ardente, mentre l’esistenza di due fasce intermedie abitabili, tra cui quella conosciuta, lasciavano aperte le fantasie sui mitici abitatori dell’altro emisfero (vedi box a p. 38). In definitiva, si trattava di stilizzazioni prive di ogni verosimiglianza, addirittura bizzarre, come nel caso di Cosma, forgiate dall’ignoranza e dai pregiudizi ecclesiastici? Non proprio. Si deve infatti considerare che tutti gli esempi sin qui riportati provengono dall’ambito monastico, giacché per tutto l’Alto Medioevo non esistette alcuna figura professionale di cartografo: privi di scala e proiezioni geometriche, i mappamondi venivano utilizzati dagli scrittori ecclesiastici per integrare i propri testi, per insegnare ai lettori il senso delle varietà geografiche, e soprattutto per collocare nello spazio le vicende e i personaggi della Bibbia e delle storie. Si comprende quindi che il mappamondo finisse per essere una traduzione grafica di conoscenze libresche: la sua forma era una sorta di grande cornice teologica, i dettagli un piccolo concentrato di nozioni storico-religiose. Poco importa se la loro collocazione fosse approssimativa: l’importante era ricordare cosa fosse l’Asia degli autori romani, o dove si dovessero immaginare i popoli barbari del Nord, o quale IL VIAGGIO NEL MEDIOEVO

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LE GRANDI ESPLORAZIONI Mappa raffigurante Gerusalemme e la sua regione. XII sec. Besançon, Bibliothèque municipale. Malgrado la rappresentazione sia lontana dal dato reale, riesce tuttavia a descrivere la geografia dei luoghi di pellegrinaggio.

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La cartografia


posto avesse il Paradiso terrestre nell’orbe della Creazione; tutto il resto contava ben poco. Le carte geografiche, tuttavia, non ebbero sempre solo il ruolo per cosí dire sussidiario, e principalmente didattico che conferiva loro la cultura monastica: come è accaduto forse in ogni tempo, la rappresentazione dello spazio attirava anche allora la vanità e i sogni degli uomini, soprattutto dei potenti. Stando alle testimonianze dell’epoca, papa Zaccaria, vissuto alla metà dell’VIII secolo, aveva una descrizione di tutto il mondo dipinta su una parete del suo palazzo in Laterano: un’antica anticipazione di quella galleria delle mappe italiane, realizzata da Egnazio Danti alla fine del Cinquecento e ancora visibile nella Galleria del Belvedere in Vaticano. Pochi anni piú tardi, secondo quanto racconta il suo biografo Eginardo, Carlo Magno si fece costruire una tavola d’argento con un grande mappamondo, in cui era rappresentata la Terra con le sfere concentriche dei cieli. D’altra parte, era assai diffusa la convinzione che tutto l’orbe abitato fosse stato un tempo sotto il dominio dell’impero romano: e il vertice del nuovo impero cristiano non poteva resistere alla tentazione di immaginare un confronto senza dubbio esaltante, ancorché storicamente poco sensato. Tuttavia, ben altri imperi stavano già raccoA destra illustrazione di un mappamondo T-O, da un’edizione delle Etymologiae di Isidoro di Siviglia. XII sec. Aix-en-Provence, Bibliothèque municipale. In basso schemi della struttura dell’universo, da una raccolta di estratti delle Etymologiae di Isidoro di Siviglia. IX sec.

I CENTRI DELLA TERRA E DELLA STORIA Nel mappamondo T-O l’emiciclo corrispondente al lato orientale del cerchio rappresentava l’Asia, il continente piú lontano, enorme e quasi sconosciuto: dal resto del mondo lo separavano le acque del braccio trasversale, che univano in maniera stilizzata il tracciato del Nilo verso sud e quello del Don verso nord. La parte occidentale del cerchio, divisa in due dal Mediterraneo, corrispondeva quindi con l’Europa e l’Africa. All’intersezione tra le due linee della T, dove le acque dei tre bracci si incontrano, sta Gerusalemme, l’ombelico del mondo, il centro geografico della Terra, cosí come il Cristo risorto è il centro della storia. I significati simbolici potevano sbizzarrirsi in questa schematica, ma eloquente raffigurazione del mondo: se pare non fosse particolarmente fortunata la similitudine tra la T e la croce di Cristo, i tre continenti erano abitualmente associati ai tre figli di Noè, antenati di tutte le stirpi degli uomini, o alle virtú teologali, oppure alla Trinità…

In alto miniatura raffigurante Ottaviano Augusto che regge un mappamondo T-O, dal Liber floridus di Lamberto di Saint-Omer 1121. Gent, Bbilioteca Universitaria.

Quasi tutti i mappamondi medievali sono elaborazioni di uno schema codificato da Isidoro di Siviglia IL VIAGGIO NEL MEDIOEVO

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LE GRANDI ESPLORAZIONI gliendo, e in maniera anche piú approfondita, l’eredità scientifica della geografia classica. Proprio negli stessi anni della vicenda carolingia, il dotto islamico Muhammad ibn Kathir al-Fargani (morto verso l’830), piú tardi noto in Occidente come Alfraganus, redigeva una riduzione in lingua araba dell’opera di Tolomeo, probabilmente giuntagli a sua volta in traduzione siriaca: era la prima riscoperta di un testo che l’Occidente sarebbe tornato a leggere solo nel XV secolo. Ricollegandosi al suo modello antico, al-Fargani riprese i calcoli e le teorie di proiezione geodetica testimoniate in Tolomeo, rinnovando una tradizione di studio matematico della geografia.

Una matrice comune

Anche nel mondo islamico, tuttavia, la cartografia continuò a lungo a ripetere vecchi modelli stilizzati della tarda antichità: il confronto con le poche testimonianze superstiti, come la cosiddetta «carta di al-Istakhri», disegnata intorno al X secolo, mostra la fortuna di un modello abbastanza simile alle mappe T-O

La cartografia Nella pagina accanto il segmento della Tabula Peutingeriana in cui è disegnato il territorio di Novara. IV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.

In alto illustrazione raffigurante la terra divisa in fasce climatiche orizzontali, dal Commento al Sogno di Scipione di Macrobio. XI sec. Troyes, Bibliothèque municipale.

In alto Roma, Basilica di S. Giovanni in Laterano. una veduta del chiostro con la vera da pozzo risalente a IX sec. In alto Roma, Basilica di S. Giovanni in Laterano. una veduta del chiostro con la vera da pozzo risalente a IX sec.

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dell’Occidente cristiano: la comune matrice tardo-antica, e l’analoga funzione didatticostorica dei mappamondi producevano evidentemente realizzazioni vicine. La tradizione cartografica islamica ebbe quindi occasione di diffondersi nel mondo cristiano in quelle aree di confine che, nei secoli centrali del Medioevo, furono fucine di scambi intellettuali e artistici: il caso piú clamoroso è quello della Sicilia. Circondato da una multiforme corte di sapienti greci, latini e arabi, il primo re normanno dell’isola, Ruggero, accolse a lungo presso di sé un intellettuale di origine marocchina (era nato a Ceuta intorno al 1100), al-Idrisi: viaggiatore instancabile tra Europa e Oriente, studioso nella famosa scuola di Cordova, Idrisi dedicò nel 1154 al suo munifico sovrano una descrizione del mondo corredata da numerose carte, a cui diede il nome di Kitab al Rujar, il Libro di re Ruggero. Lo stesso Ruggero chiese al suo geografo di

A sinistra e qui sopra due mappae mundi, da codici del Commentario all’Apocalisse del Beato di Liebana. L’esemplare a sinistra risale all’XI sec. ed è conservato nell’Archivio de la Catedral di Burgo de Osma; l’altro (XII sec.) si trova presso la John Rylands University Library di Manchester.


corte di esemplificare la grande varietà di luoghi e Paesi della sua opera in un grande mappamondo: una tavola larga tre metri e mezzo e lunga uno e mezzo, che doveva essere una delle meraviglie della corte normanna. La tavola venne fatta a pezzi durante una congiura di palazzo intorno al 1160, ma la sua fama aveva già fatto sí che se ne riproducessero delle copie su manoscritti, che per fortuna si sono conservate fino a oggi (vedi box a p. 33). Mentre la Sicilia di re Ruggero attingeva alla tradizione tolemaica attraverso la cartografia islamica, l’Occidente latino, e la Francia innanzitutto, conosceva per parte sua una nuova ondata di interesse per l’eredità scientifica classica. La diffusione del commento di Macrobio al Somnium Scipionis di Cicerone, unita alla riscoperta del Timeo platonico e delle sue dottrine cosmologiche, accentuò l’attenzione degli autori ecclesiastici per i risvolti filosofici della geografia: i temi astrologici, le suggestive connessioni tra microcosmo umano e macrocosmo terrestre, le elucubrazioni sulla composizione del mondo in parallelo con le manifestazioni della Mente divina creatrice. Troviamo cosí nella Philosophia Mundi di Guglielmo di Conches,

TUTTO L’IMPERO IN SETTE METRI Per un Egiziano di cultura greca come Tolomeo, il mondo era fatto principalmente di mari: il mare è la piú grande via di comunicazione dell’Ecumene, e il tracciato delle acque ritaglia lo spazio terrestre conoscibile e abitabile. I Romani introdussero un nuovo modo di considerare lo spazio: il mondo romano è fatto soprattutto di strade, di vie di collegamento terrestri, attraverso le quali le legioni costruiscono e tengono in piedi un impero sterminato. Tale percezione si coglie in uno dei piú straordinari cimeli cartografici della storia dell’Occidente, la Tabula Peutingeriana. Disegnata probabilmente alla metà del IV secolo, copiata nel pieno Medioevo e riscoperta nel 1508 da quel Konrad Peutinger da cui ha tratto il nome, la Tabula è una striscia di pergamena lunga quasi 7 m, ma alta soltanto 35 cm, che rappresenta tutto il mondo conosciuto. È un mondo assurdamente deformato, ridotto praticamente alla sola dimensione orizzontale, e fatto di fitti reticoli stradali, intervallati da città, porti, stazioni di posta, tra i quali spicca Roma, simboleggiata da una matrona in trono. Tuttavia, a un’osservazione piú attenta, l’impressione di incoerenza scompare: le distanze tra un punto e l’altro delle strade sono scrupolosamente annotate, come in una moderna mappa stradale, tanto da consentire agli studiosi minute ricostruzioni dei reticoli viari e dei collegamenti tra le diverse parti dell’impero. La Tabula è insomma una sorta di carta tematica, nella quale i criteri di proiezione e proporzione sono stati sacrificati alle esigenze, meno evidenti ma altrettanto concrete, di descrizione delle vie di comunicazione.

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La cartografia A destra e a sinistra veduta d’insieme e particolare di una miniatura raffigurante il vescovo di Chalon-sur-Saône mentre offre un mappamondo al duca di Borgogna, Filippo il Buono, dal manoscritto Le mappemonde spirituelle. 1449. Lione, Bibliothèque municipale. In basso, sulle due pagine facsimile della Tabula Rogeriana, nome con il quale è noto il planisfero elaborato dal geografo arabo al-Idrisi nel 1154. La caratteristica piú evidente della carta consiste nell’avere il Nord in basso, che fa sembrare il mondo capovolto.

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maestro della famosa scuola cattedrale di Chartres alla metà del XII secolo, numerose riflessioni sulla composizione del mondo e degli elementi, mentre testi come il Liber floridus di Lamberto di Saint-Omer, o gli scritti della dotta Ildegarda di Bingen, si diffondevano in tutta Europa con i loro lussureggianti corredi di rappresentazioni del cosmo.

I primi approcci scientifici

Nascevano, insomma, mappamondi non meno stilizzati di quelli della tradizione monastica, ma piú filosofici, vere e proprie traduzioni grafiche di dottrine scientifiche sul cosmo e la sua composizione. D’altra parte, un filo diretto di temi e metodi univa gli scrittori della scuola di Chartres e della rinascita «naturalistica» del XII secolo ai primordi dell’istituzione universitaria in Francia, con la quale fece la sua comparsa un vero e proprio interesse scientifico per la rappresentazione del mondo. Non a caso, pochi decenni piú tardi, intorno al 1220-1230, proprio l’Università di Parigi ospitò colui che si può considerare il primo vero scienziato della cosmografia del Medioevo latino:

PUNTI CARDINALI E PUNTI DI VISTA Osservando le copie rimaste del mappamondo di al-Idrisi, si comprendono immediatamente i caratteri della tradizione cartografica islamica. In primo luogo, la conoscenza e la precoce fortuna del modello tolemaico: i tratti del Mediterraneo sono infatti molto affini a quelli dell’Ecumene ellenistica. L’altra caratteristica è anche piú evidente, e consiste nell’orientamento per noi inconsueto della carta, con il Nord posto in basso, e quindi il disegno capovolto rispetto alla tradizione occidentale. Per utenti abituati a vivere in Medio Oriente o nel Maghreb, con la mente rivolta alle terre sacre all’Islam, era evidentemente piú naturale porre in alto quello che era il baricentro della propria identità culturale, scendendo poi a considerare le terre sempre meno interessanti dell’Europa meridionale e continentale. D’altra parte anche i mappamondi dell’Occidente cristiano erano orientati in maniera altrettanto originale, giacché ponevano l’Oriente e l’Asia verso l’alto e quindi il Nord verso sinistra. Scelte non meno arbitrarie di quella che noi oggi adottiamo, pensando il mondo centrato sull’Europa e le coste dell’Atlantico, con il Pacifico diviso a metà nei due lati, e il Giappone o la Cina collocati in quella che (per noi) è la parte piú orientale del globo.

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LE GRANDI ESPLORAZIONI

La cartografia

A sinistra, in alto e qui sotto miniature da un’edizione del De Sphaera di Giovanni Sacrobosco. Lione, Bibliothèque municipale. Da sinistra, in senso orario: la nozione di longitudine illustrata attraverso il suo contrario; la teoria tolemaica dell’eclisse; la dimostrazione che la Terra non è piatta.

In basso la mappa mundi della cattedrale di Hereford, disegnata intorno al 1290 da Riccardo di Haldingham. Si tratta del piú grande planisfero medievale giunto fino a noi, con un ricco repertorio di scritte e di illustrazioni tratte dalle fonti del sapere medievale.

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l’inglese John Holiwood, meglio noto col nome latinizzato di Giovanni Sacrobosco. Docente presso l’ateneo parigino, Sacrobosco fu autore di un trattato, il De Sphaera, dedicato allo studio della forma, delle dimensioni e della rappresentazione della Terra secondo criteri matematici: tale fu la fortuna di questo manuale di cosmografia, che il testo e il suo ricco apparato di illustrazioni e tavole continuarono a essere studiati, trascritti e stampati fino al pieno Cinquecento, anche dopo la rivoluzione copernicana. D’altra parte, le conoscenze cosmografiche anche a carattere teorico cominciarono ben presto a diffondersi oltre gli ambienti piú ristretti delle aule universitarie. Ne è testimonianza l’opera di maestro Ristoro d’Arezzo, la Composizione del mondo, redatta intorno al 1280 in volgare toscano: il primo trattato scientifico in lingua vernacolare della storia dell’Occidente, nel quale l’eredità di Aristotele, Tolomeo e degli studiosi arabi come al-Fargani veniva raccolta e rielaborata per gli interessi e la curiosità dei lettori. Non si deve però pensare che queste novità

Fotoriproduzione del cosiddetto mappamondo di Ebstorf, disegnato per l’omonima abbazia tedesca intorno al 1234, da un autore ignoto. La grandiosa opera (il mondo misurava 3,5 m diametro) è andata perduta nel corso della seconda guerra mondiale.


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LE GRANDI ESPLORAZIONI sempre piú incalzanti nelle fonti e nei testi della cultura europea portassero all’abbandono dei vecchi modelli cartografici: gli approfondimenti teorici e i piú vasti interessi accumulatisi sopra le vecchie credenze geografiche alimentavano piuttosto una passione filosofica per le carte, che assumono sempre piú l’ambizione di grandi summae del sapere enciclopedico della scolastica. Fino ad arrivare a esempi veramenti spettacolari: il piú notevole e famoso, andato distrutto durante la seconda guerra mondiale, è probabilmente quello del cosiddetto mappamondo di Ebstorf.

Una vera e propria enciclopedia

Questa enorme mappa rappresentava il mondo come un disco circolare di tre metri e mezzo di diametro; venne disegnata per l’abbazia di Ebstorf in Germania intorno al 1234, da un autore ignoto, che però alcuni associano all’ambito italiano, dal momento che l’abate che commissionò la spettacolare opera, Gervasio di Tilbury, era stato maestro di diritto canonico all’Università di Bologna. Non sono le dimensioni l’aspetto piú singolare del mappamondo, del quale per fortuna disponiamo di ottime riproduzioni, ma piuttosto la sterminata messe di disegni e cartigli che ne affollano ogni angolo: il mondo è ricoperto di personaggi del presente, del passato e della fantasia; di storie e di descrizioni, di immagini e didascalie. La carta, insomma, è una vera e propria enciclopedia di cosmografia, teologia, storia sacra e profana. Altrettanto ricco e lussureggiante è un altro gigante della cartografia medievale, il mappamondo – in questo caso ancora visibile – della cattedrale inglese di Hereford, disegnato intorno al 1290 da Riccardo di Haldingham. Sotto questo affollato strato di storie, si possono ancora riconoscere nei capolavori duecenteschi alcuni tratti del vecchio modello dalla mappa T-O, con Gerusalemme nel suo punto centrale. La mappa di Ebstorf è anzi anche piú densa di contenuti teologici dei suoi predecessori: i quattro punti cardinali nelle estremità del globo sono segna36

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La cartografia ti dal volto, dalle mani e dai piedi di Cristo, che sembra cosí abbracciare tutta l’immensa varietà della sua Creazione, con il cuore sulla Città Santa. Non è la descrizione della Terra insomma, a interessare questi autori di mappamondi, ma l’abilità sempre piú raffinata di cesellare nello spazio la varietà delle conoscenze. Tanto che se alcune novità compaiono con i decenni rispetto agli antichi modelli isidoriani, queste vanno piuttosto allontanandosi dal già scarso realismo delle mappe T-O: tra le numerose carte contenute nel Polichronicon («il libro delle tante storie», ancora…) di Ranulfo Higden (1299 circa-1363), vi sono addirittura mappamondi a forma di mandorla, che adottano una


forma altamente simbolica, emblema di Cristo e della Resurrezione, per dare letteralmente forma al mondo degli uomini.

Chi viaggia non disegna

Quando Riccardo di Haldingham dipingeva la sua monumentale carta del mondo, Marco Polo aveva già viaggiato molti anni attraverso l’Estremo Oriente, ma sarebbero occorsi ancora alcuni decenni prima che l’esperienza dei viaggiatori attraverso l’Asia cominciasse a influire davvero sugli autori di quelle grandi enciclopedie figurate che erano i mappamondi. E questo non deve stupire piú di tanto, dal momento che gli stessi viaggiatori non erano soliti disegnare mappe dei loro percorsi, soprattutto se si trattava di viaggiatori-missionari come Giovanni da Pian del Carpine o Guglielmo di Rubruck; lo stesso Marco Polo, del resto, aveva

Nella pagina accanto e in basso, a sinistra capolettera miniato raffigurante Claudio Tolomeo e mappa dell’Africa e delle Terre Sconosciute del Sud, dall’edizione di Ulm della Cosmografia dello stesso Tolomeo. 1482. Bucarest, Museo Nazionale di Storia della Romania. In basso, a destra mappa mundi miniata, da un salterio inglese. 1265 circa. Londra, British Museum.

finito per mettere per iscritto il suo racconto soltanto, per cosí dire, suo malgrado. Disegnare un mappamondo era un’opera da intellettuali, un lavoro di studio e di scuola, molto meno di esperienza; conoscere gli antichi e i loro scritti, scovare i testi meno conosciuti dei grandi autori del passato, era ben piú importante che raccogliere i racconti dei contemporanei. Ma proprio tra gli intellettuali le conoscenze geografiche si diffusero sempre piú profondamente. A pochi decenni dalla trionfale conclusione della geografia dell’Aldilà di Dante Alighieri, un suo concittadino, Fazio degli Uberti, dava alla luce un fortunato poema, intitolato Dittamondo, nel quale percorreva tutte le plaghe del mondo conosciuto, dando fondo alla conoscenza degli scrittori antichi e di quelli piú recenti. Né si trattava di un argomento per poeti di se-

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LE GRANDI ESPLORAZIONI

La cartografia C’È VITA NELL’ALTRA METÀ DEL MONDO? Uno dei piú tenaci pregiudizi sulla cultura geografica medievale vuole che gli uomini dei secoli precedenti Colombo (o addirittura Magellano) credessero di vivere in un mondo piatto. Anche se non bastasse la Divina Commedia, che, in definitiva, racconta un viaggio tra gli anfratti di una Terra sferica, le opere fondamentali della cosmografia medievale, fra tutte il De Sphaera del Sacrobosco, provano quanto fosse diffusa la convinzione di una Terra sferica. I mappamondi non lasciano intendere questa convinzione per un motivo strettamente tecnico, ovvero l’incapacità (almeno fino alla riscoperta di Tolomeo) di proiettare sulle due dimensioni della carta la forma sferica del globo. Diversa, e piú affascinante, era una domanda lasciata senza risposta dagli stessi autori antichi: se la Terra è sferica, e gli uomini abitano in una delle aree climatiche temperate, non è forse possibile che anche l’altra sia abitata? Il tema degli antipodi, cioè degli abitanti dell’altra parte del mondo, ricorre con insistenza nel Medioevo: lo stesso Beato, nell’VIII secolo, ritagliava appositamente una porzione del suo mappamondo. Riflessioni piuttosto ottimistiche sulla possibilità di incontrare creature degli antipodi si trovano in opere del primo Quattrocento, come l’Historia di Enea Silvio Piccolomini, poi papa Pio II, e l’Imago mundi del cardinale Pierre d’Ailly, i cui codici vennero studiati appassionatamente dal giovane Cristoforo Colombo.

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cond’ordine: Giovanni Boccaccio compose il primo dizionario di geografia della letteratura italiana, a uso dei letterati che volessero servirsi dei nomi di fiumi, laghi, monti e simili, e si dedicò anche alla romanzata descrizione delle isole Canarie, da poco raggiunte da viaggiatori fiorentini; Petrarca, dal canto suo, oltre a comporre un’esercitazione erudita sui racconti riguardanti la leggendaria Thule, la terra sconosciuta dell’estremo Nord (vedi alle pp. 76-85), volle scrivere per un amico un itinerario verso la Terra Santa, una sorta di guida turistico-religiosa per la Palestina, che peraltro non aveva né avrebbe mai visitato. Negli stessi anni proprio Petrarca raccoglieva una vera e propria collezione di autori classici di geografia: Pomponio Mela, Vibio Sequestre, Solino e Plinio il Giovane.

Una rivoluzione in sette giornate

In alto una tavola tratta da un’edizione del trattato Imago mundi, opera del teologo francese Pierre d’Ailly, nella quale era indicata la via per giungere attraverso i mari nell’Estremo Oriente. 1480-1483. Siviglia, Biblioteca Colombina. Nella pagina accanto capolettera istoriato con mappa mundi, con indicazione delle terre sconosciute, da un manoscritto con una raccolta di trattati di geografia. 1417. Reims, Bibliothèque municipale.

E, finalmente, Tolomeo: il codice della Geografia giunse in Italia intorno al 1396, con il maestro greco Emanuele Crisolora, assunto come docente dal Comune di Firenze. La riscoperta del geografo alessandrino venne accolta con entusiasmo nell’Italia del primo Umanesimo: prima del 1410 era pronta la traduzione latina a cura di Jacopo Angeli da Scarperia, mentre alcuni decenni piú tardi, intorno al 1480, il fiorentino Francesco Berlinghieri ne fece una versione «divulgativa» volgare in terza rima, intitolata Le septe giornate della geografia. D’altra parte, le conoscenze cartografiche del XV secolo erano arrivate a introdurre correzioni non da poco all’Ecumene tolemaica: centrata sulla cultura del Mediterraneo ellenistico, la cartografia antica non conosceva l’Europa settentrionale, includeva solo un cenno generico alle Isole Britanniche, e nessuno alla Scandinavia, mentre per la parte asiatica disegnava l’Oceano Indiano come un mare chiuso, e giungeva a dare solo un cenno molto generico alle terre dell’Estremo Oriente. Quanto questi elementi fossero già superati nell’Europa del Quattrocento si può ben vedere dalla famosa carta genovese (ma conservata a Firenze) del 1457: a parte l’accuratezza nei tratti delle terre europee, l’autore mostra di essere consapevole della circumnavigabilità dell’Africa, e descrive con grande precisione le coste asiatiche fino al Pacifico e all’Indocina, visitata poco prima dal fiorentino Niccolò de’ Conti. La distanza fra la geografia come dottrina teorica e l’esperienza dei viaggiatori si era ormai sensibilmente ridotta. Ma la vera, grande novità del modello tolemaico era in un certo senso IL VIAGGIO NEL MEDIOEVO

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indipendente anche dal disegno delle mappe: il reticolo di meridiani e paralleli, che rendeva la carta geografica un oggetto di descrizione razionale dello spazio, consentendo misurazioni, proiezioni, verifiche oggettive al di là degli schemi e dei modelli teologici bassomedievali. Ce n’era abbastanza, insomma, per stravolgere l’intera tradizione cartografica medievale: e fu quello che accadde nel giro di qualche generazione, come si può ben vedere confrontando le mappe di Ebstorf e Hereford con i mappamondi disegnati nel Quattrocento, come quello di Pirro di Noha, o la stessa carta genovese appena vista. Per la prima volta nella storia dei mappamondi, abbiamo di fronte un mondo a noi familiare, non solo nella forma generale, ma anche e soprattutto nelle proporzioni, nell’organizzazione dello spazio: non a caso, del resto, nelle carte quattrocentesche compare per la prima volta l’indicazione della scala.

Il capolavoro di un monaco

Vera e propria summa di tutte le novità e le riscoperte (sia di terre che di codici…) del suo tempo è una carta che ancora si ammira a Venezia. Il mappamondo di fra Mauro, realizzato da un monaco camaldolese nel 1459 con l’aiuto di un cartografo «professionista», Andrea Bianco, misura quasi 2 m di diametro, e riunisce in sé le conoscenze geografiche degli autori antichi e di Tolomeo, le testimonianze arabe (da cui trae l’orientamento «capovolto» sud40

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La cartografia

In alto, a sinistra due geografi, particolare de La Vista, olio su tela di Gillis van Tilburg il Giovane. XVII sec. Digione, Musee des Beaux-Arts.

nord) e i racconti dei viaggiatori, tra cui Marco Polo e gli esploratori portoghesi delle coste atlantiche dell’Africa. Il disegno del mondo è grosso modo tolemaico, anche se profondamente ripensato alla luce delle conoscenze piú attuali, ma lo spirito dell’opera è ancora quello dei mappamondi medievali: le centinaia di immagini e gli innumerevoli cartigli o iscrizioni esplicative che ricoprono letteralmente la Terra, sembrano voler «raccontare» il mondo, e non soltanto riprodurlo. Era certo un racconto ben piú complicato e incoerente di quello a cui potevano pensare i monaci «cartografi» dell’Alto Medioevo, o anche i map-


pamondi giganti del XIII secolo. Ma quel che piú colpisce è l’assenza di Gerusalemme: la città santa è presente certo, e ben evidenziata in mezzo agli affollati nomi dell’area mediorientale, ma non è piú il centro del mondo, è un luogo come gli altri. Lo spazio razionale e uniforme che Tolomeo aveva riportato nell’Occidente medievale separava la teologia dalla geografia: mentre le terre si avvicinavano l’una all’altra, il Cielo sembrava allontanarsi dalla Terra.

Per navigare in sicurezza

In alto il mappamondo di fra Mauro. 1459. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana. L’opera è manoscritta su fogli di pergamena, fittamente annotati di iscrizioni (3000 circa) con informazioni d’ogni tipo sui vari luoghi del mondo, per come esso era concepito prima della scoperta delle Americhe.

«E con la carta, dove sono segnati / i venti e ‘ porti e tutta la marina / vanno per mar mercatanti e pirati, / que’ per guadagno e questi per rapina. / Ed in un punto ricchi e sventurati / sono alle volte da sera a mattina: / che’ la fortuna in alcun’altra cosa / non si dimostra tanto ruinosa». Non brillano certo per grande vigore poetico i versi de La sfera, poemetto che il Domenicano fiorentino Leonardo Dati scrisse all’inizio del Quattrocento, ispirandosi liberamente alle dottrine cosmologiche del Sacrobosco. Sono però una testimonianza vivace di come disegnare carte geografiche non avesse soltanto una funzione, per cosí dire, di alta cultura, come strumento di insegnamento, di contemplazione, di celebrazione: era anche la risposta all’esigenza vitale dei viaggiatori, soprattutto quelli per mare, di fronte a rischi che minacciano costantemente le imprese dei mercatanti (e dei pirati, del resto). I secoli del Basso Medioevo sono la stagione piú gloriosa della marineria commerciale mediterranea: i traffici dei navigatori genovesi, veneziani e pisani – ben presto affiancati dagli agguerriti concorrenti catalani – solcavano sempre piú spesso le acque del grande mare chiuso del Vecchio Mondo, spingendosi fino al Mar Nero, all’Atlantico e al Mare del Nord, dove si incontravano con l’altrettanto affollato reticolo delle vie marittime dal Baltico all’Inghilterra. Questa grandiosa «rivoluzione nautica» non deve tuttavia far dimenticare che, per tutto il Medioevo, la navigazione marittima restò un’attività straordinariamente pericolosa, legata al filo sottilissimo delle conoscenze nautiche dei marinai piú esperti. A quasi nulla potevano infatti servire i mappamondi: a parte lo scarso dettaglio, l’assenza di proiezione e di misurazioni delle distanze li rendeva totalmente inservibili alla navigazione, e del resto non per quello erano stati disegnati. Se anche poi vi fosse stata una mappa sufficientemente affidabile in questo senso, come orientarsi in mare aperto? La bussola, o quantomeno l’ago magnetico, era conosciuta già alla fine del

XII secolo – con buona pace della leggenda amalfitana sull’inventore Flavio Gioia –, ma il suo impiego sugli instabilissimi ponti delle navi in movimento doveva avere un’efficacia a dir poco approssimativa. D’altra parte, è vero che una certa consapevolezza della propria posizione rispetto alla latitudine era possibile grazie all’astrolabio nautico, uno strumento diffusissimo e abbastanza semplice che, grazie a un cerchio graduato e un puntatore ottico, permetteva la misurazione dell’altezza delle stelle e del sole rispetto all’orizzonte (vedi box a p. 45). Tuttavia, destinata al naufragio, è il caso di dirlo, era ogni speranza di calcolare la longitudine, che avrebbe richiesto l’impiego di orologi meccanici a bordo, costruiti in versioni soddisfacenti solo nel Settecento: la navigazione astronomica, fondata sul calcolo della posizione sulla base dell’osservazione delle stelle, venne praticata solo nei viaggi oceanici dei Portoghesi, e comunque con enormi approssimazioni. Ai mercanti del Duecento restava solo un modo per portare felicemente a termine (tempeste e pirati permettendo, s’intende) il proprio viaggio: la navigazione di cabotaggio, condotta cioè tenendo piú o meno sempre d’occhio la terra, spostandosi ogni giorno da un porto all’altro. Anche per questa pratica piú prudente, occorreva però una certa conoscenza dell’andamento delle coste e dei porti, le distanze dall’uno all’altro e le caratteristiche di ciascuno. A questa necessità specifica la pratica dei navigatori giunse a rispondere con uno strumento cartografico destinato a enorme fortuna, il portolano. Uno dei piú antichi portolani conosciuti, il Compasso da Navigare, risale agli anni della metà del Duecento: consiste in un elenco di porti mediterranei, disposti a comporre un ideale percorso di navigazione. Accanto a testi del genere dovevano però esistere, nello stesso periodo, apposite carte nautiche che traducessero sulla mappa le indicazioni del portolano: siamo meno fortunati per questa seconda, e piú affascinante tipologia, e il primo esempio compare intorno al 1275, con la cosiddetta Carta Pisana. Si tratta di un grande foglio di pergamena, che contiene una forma cartografica assolutamente originale: le coste del Mediterraneo, dell’Atlantico fino all’Inghilterra e del Mar Nero sono tratteggiate in maniera estremamente rapida da una sola sottile linea, e perpendicolarmente alla costa vengono riportati, uno dopo l’altro, centinaia di nomi di porti. Evidentemente, una carta come la Pisana doveva essere usata insieme all’elenco dei porti con le relative descrizioni, e per questo IL VIAGGIO NEL MEDIOEVO

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LE GRANDI ESPLORAZIONI gli studiosi usano per entrambi il nome generico di portolani, sebbene quest’ultimo debba a rigore spettare solo al testo scritto, chiamando piuttosto la mappa col nome di carta nautica; a ogni modo, di portolani nel senso di carte nautiche si sono conservati esempi abbastanza numerosi, soprattutto a confronto con i rarissimi mappamondi: se ne contano qualche decina fino a tutto il Trecento, in aumento nei secoli seguenti.

Alla maniera dei peripli

Tuttavia, al di là della funzione pratica di una carta del genere, da dove veniva il modello per una forma cartografica tanto innovativa? Il problema delle origini è in effetti il piú dibattuto tra gli studiosi. Innanzitutto, si è osservato che, per certi versi, il portolano ripeteva lo schema del cosiddetto periplo di età classica, che consisteva nella descrizione di un viaggio reale o immaginato di porto in porto: sembra però difficile che tra le due forme vi sia una reale continuità, visto che nulla di simile si è conservato per i lunghi secoli dall’età ellenistica al Duecento. Anche meno verosimile sarebbe attribuire l’invenzione, come talvolta si è tentato di fare, a un solo personaggio, come il famoso mercante-ammiraglio genovese Benedetto Zaccaria o l’eclettico filosofo maiorchino Raimondo Lullo, tantomeno agli onnipresenti (o presunti tali) Cavalieri Templari, anche se con Genova, con Maiorca e persino con le crociate le carte nautiche hanno molto a che fare. I portolani furono un’invenzione nata dalla pratica: dall’esperienza di generazioni di navigatori, dai racconti e probabilmente dagli schizzi usati dai piloti delle navi. Quanto dunque i mappamondi appaiono raccolte di contenuti intellettuali vari e sovrabbondanti, dense di significati teologici e storici, le carte nautiche sono schematiche, spartane nella forma, essenziali. Ma non è tanto una questione di realismo: è vero che certi elementi di misurazione – come l’estensione longitudinale del Mediterraneo – erano piú corretti nella tradizione delle carte nautiche che nella stessa cartografia tolemaica; ma d’altra parte anche i portolani hanno elementi di deformazione, per 42

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La cartografia

Carta del mondo, dalle coste orientali americane all’India, disegnata da Vesconte Maggiolo. 1516. San Marino (Stati Uniti d’America), Huntington Library.


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LE GRANDI ESPLORAZIONI

cui, per esempio, i tracciati delle coste, i promontori e le insenature sono accentuati artificialmente rispetto alla realtà. Oltretutto, anche dopo la mezza rivoluzione cartografica indotta dalla riscoperta di Tolomeo, l’impossibilità di misurare con precisione i gradi della posizione della nave avrebbe reso a lungo poco utile il modello dei meridiani e paralleli. I portolani, al contrario, sono caratterizzati da un singolare reticolo di linee e cerchi, apparentemente caotico ma piuttosto regolato da un modello ricorrente: il rettangolo della carta veniva diviso in un certo numero di grandi cerchi, su ciascuno dei quali erano fissati sedici punti, corrispondenti alle direzioni della rosa dei venti; da ogni punto poi erano tracciate le linee di collegamento con tutti gli altri. Le fonti chiamano normalmente questo reticolo «martelogio»: la sua utilità va compresa considerando l’uso che ne veniva fatto in combinazione con documenti diversi, in particolare le cosiddette «tavole del martelogio». Nel caso in cui il pilota della 44

IL VIAGGIO NEL MEDIOEVO

La cartografia

nave fosse stato costretto a deviare dalla propria rotta – per il vento avverso o qualche altro accidente –, le tavole e il reticolato già predisposto sulla carta gli avrebbero fornito i punti d’appoggio per un rapido calcolo di trigonometria empirica, in modo da riorientare la rotta e proseguire secondo la destinazione.

Solo i mari navigati

Lo spazio del portolano non è piú dunque quello letterario, storico, teologico dei mappamondi, e non è neppure quello astrattamente matematico della cartografia tolemaica moderna: è lo spazio del mercante, delle sue necessità vitali di praticità e sicurezza. E infatti non è uno spazio globale: il modello del «portolano normale» include soltanto le coste del Mediterraneo, dell’Atlantico tra le coste marocchine e l’Inghilterra e del Mar Nero, con l’esclusione dei mari dell’Oriente, pure già noti, ma nei quali non veleggiavano navi mercantili e che quindi non avevano bisogno di essere rappresentati. L’otti-

In alto miniatura raffigurante alcuni navigatori nell’Oceano Indiano, che si orientano servendosi delle stelle e di un astrolabio, dall’edizione del Livre des Merveilles di Marco Polo miniata dal Maestro della Mazarina. 1410-1412. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Nella pagina accanto, a sinistra incisione raffigurante strumenti per rilevamenti astronomici utilizzati nella navigazione, dall’Arte Pratica de Navegar di Luis Serrao Pimentel. 1699. Lisbona, Biblioteca Nacional.


STRUMENTI PER LA NAVIGAZIONE IL CIELO IN UN DISCO Al momento di partire per il primo viaggio di circumnavigazione del globo nel 1519, il portoghese Fedinando Magellano imbarcò un complesso armamentario di strumenti per l’orientamento e l’esplorazione delle nuove rotte e dei Paesi sconosciuti che avrebbe incontrato: il grande navigatore poteva contare su un astrolabio grande «da terra», 6 astrolabi metallici, un mappamondo, 21 quadranti di legno, 24 carte nautiche, un compasso a doratura, 33 aghi magnetici, 12 orologi a sabbia e 6 ad acqua, 3 bussole e 6 paia di compassi, oltre ad alcuni rotoli di pergamena per disegnare mappe. Accanto alle mappe, con l’indispensabile corredo di aghi magnetici per

orientare la lettura e compassi per il calcolo delle rotte, e accanto agli orologi per calcolare la velocità di crociera, si intuisce l’importanza degli astrolabi e dei quadranti, cioè di quelle apparecchiature necessarie alla navigazione astronomica, basata sull’osservazione delle

stelle. L’astrolabio grande di cui parlano i documenti, che aveva bisogno di essere usato a terra per le dimensioni poco pratiche e la sensibilità alle oscillazioni del ponte in movimento, era quello che gli studiosi chiamano astrolabio nautico o sestante, lo strumento piú efficace per il calcolo della latitudine sulla base dell’altezza del sole e delle stelle. L’astrolabio vero e proprio era invece uno strumento molto antico, testimoniato già dai navigatori greci e poi perfezionato dagli Arabi che lo trasmisero all’Occidente latino intorno al Mille, insieme alla nomenclatura delle sue componenti: almuri, alidada e cosí via. Nella forma piú diffusa, si tratta di un disco d’ottone abbastanza piccolo, sul quale scorre una sorta di ghiera incassata o rete, che ruota intorno allo stesso centro in cui è imperniata una traccia che taglia la circonferenza. Il fondo del disco aveva tracciata una sorta di sfera celeste stilizzata, mentre la rete aveva la funzione di individuare i segni dello Zodiaco e le stelle fondamentali: ruotando la rete sulla base dell’osservazione del cielo tramite la traccia-puntatore, si può in qualsiasi punto del globo avere di fronte una dettagliata e precisa mappa del cielo. L’astrolabio era uno strumento essenzialmente teoretico, piú adatto a studiare le configurazioni della sfera celeste che a osservare il cielo con fini d’orientamento: ne erano appassionati soprattutto i filosofi, tanto che Abelardo, in un momento di sconsideratezza, decise di chiamare Astrolabio il figlioletto nato dalla relazione con Eloisa. A partire dal Cinquecento, però, l’esperienza dei naviganti comincia, come era accaduto poco prima con la cartografia, a integrare teoria astronomica e prassi marinara, componendo un variegato complesso di strumenti variamente utili a rendere piú consapevole e sicura la navigazione.

In alto replica di un astrolabio nautico portoghese in bronzo, realizzato da Francisco de Goes nel 1608. Firenze, Istituto e Museo di Storia della Scienza.

Qui sopra astrolabio arabo. XII sec. Teheran, Museo Nazionale. Sul piatto è raffigurata la proiezione del cielo, secondo il sistema di Tolomeo. L’asta mobile centrale serviva per calcolare l’altezza di un astro sull’orizzonte.

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LE GRANDI ESPLORAZIONI

La cartografia

UNA MAPPA FRA STRATEGIA E IMMAGINAZIONE Il valore non soltanto pratico, ma anche politico, della cartografia è ben evidente nella ricca e variegata produzione di Pietro Vesconte. Del cartografo genovese, infatti, non ci sono rimaste soltanto varie carte nautiche e atlanti: Vesconte fu l’autore dei mappamondi che corredano il manoscritto del Liber secretorum fidelium crucis, redatto ad Avignone dal letterato veneziano Marin Sanudo il Vecchio, e presentato a papa Giovanni XXII nel 1321. Il codice descriveva minutamente la necessità, la possibilità e gli strumenti pratici di una nuova crociata contro gli infedeli, che avrebbe ricondotto la cristianità a riconquistare Gerusalemme e insieme a ritrovare la propria unità nella fede. Dal momento che l’ambizioso progetto di Marin Sanudo richiedeva uno svolgimento, per cosí dire, strategico molto dettagliato, sembrò opportuno corredare il tutto con qualche bella mappa, sulla quale il pontefice avrebbe potuto valutare il destino dell’impresa. In realtà, non se ne fece nulla o quasi: il prezioso codice rimase nella biblioteca dei papi, dove tuttora si trova. Anche in questo caso la funzione della mappa restava a metà strada tra l’uso pratico e il piú vasto campo dei sogni e dell’immaginazione.

ca mercantile si scorge persino nell’uso dei nomi dei porti. La Carta Pisana, per esempio, venne redatta sicuramente da un Italiano, ma la grafia dei nomi dei porti nelle diverse regioni mostra l’intento di adattarsi alla pronuncia locale: quando si arriva in un porto è sempre bene riuscire a farsi capire… Il portolano, insomma, è veramente uno strumento di lavoro: nel Trecento i sovrani, in primo luogo aragonesi, emaneranno direttive precise per imporne l’uso in ogni nave in viaggio nel Mediterraneo. E come tutti gli strumenti di lavoro, anche la carta deve essere redatta da professionisti. In effetti, nel primo Trecento, incontriamo le tracce evidenti della nascita della cartografia come attività professionale: il primo cartografo di cui si conosca il nome, anche perché il primo a firmare la propria opera, è Pietro Vesconte, genovese ma attivo soprattutto a Venezia, dove disegnò alcuni portolani, atlanti e mappamondi dal 1311 al 1321. I portolani di Pietro, cosí come quelli giuntici sotto il nome di Perrino Vesconte – forse la stessa persona o piú probabilmente suo figlio – sono testimoni della crescita, potremmo dire anno dopo anno, delle conoscenze geografiche del loro tempo: esempio eloquente è la raffigurazione delle coste in46

IL VIAGGIO NEL MEDIOEVO

Particolare del mappamondo disegnato dal cartografo Pietro Vesconte. 1320 circa. Londra, British Library.

glesi e irlandesi, prima estremamente stilizzata e povera, poi sempre meglio definita, con l’intensificarsi dei viaggi sull’isola da parte dei navigatori italiani e non. Se comunque è vero che la cartografia nautica è la prima forma di disegno geografico veramente funzionale all’uso pratico, non dobbiamo credere che gli aspetti culturali ed estetici avessero perso il loro valore.

All’insegna della sobrietà

D’altra parte, l’altissimo grado di maestria tecnica per confezionare un complicato – e costoso! – strumento come il portolano dava alla cartografia un profilo eminentemente artistico. Nelle carte nautiche del Tre e Quattrocento, si possono cosí distinguere veri e propri stili, soggetti, come è ovvio, a contaminazioni, ibridazioni e scambi reciproci. Il cosiddetto stile «italiano» è rappresentato dai primi esempi a noi noti, come la Carta Pisana o il portolano conservato a Cortona della fine del Duecento, e si caratterizza per la sobrietà estrema: oltre al tracciato delle coste e alla fitta sequenza dei nomi dei porti, nessun ornamento, storia o raffigurazione riempie gli spazi della terraferma, salvo talvolta il disegno stilizzato delle città piú grandi, quasi che l’unica dimensione che interessi al cartografo fossero le coste e i porti. Al contrario, molte delle carte nautiche piú affascinanti di questi secoli appartengono al cosiddetto «stile catalano»: il tracciato costiero non solo è corredato con l’indicazione di monti e città, ma è anche riempito di disegni, ritratti, cartigli, in maniera non troppo diversa da quanto accadeva per i mappamondi, e riporta molto spesso uno degli elementi che potremmo considerare la preistoria della cartografia politica, cioè le bandiere delle dinastie regnanti nei diversi territori d’Europa. Alla lunga, fu lo stile catalano a diffondersi in maniera piú ampia in tutta Europa, dove lo troviamo interpretato nelle sue diverse varianti dalle botteghe cartografiche sia italiane che iberiche: in un certo senso era la dimostrazione eloquente dell’incontro tra cartografia «dotta» e cartografia «pratica», che, come abbiamo visto, si compiva già nel corso del Trecento. La Spagna in effetti, o piú precisamente i territori della Corona d’Aragona, e in particolare Maiorca, furono a lungo sede della piú fiorente


La rosa dei venti in un’illustrazione dell’atlante nautico disegnato da Andrea Bianco. 1436. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana.

produzione cartografica della cristianità. Era un ebreo maiorchino quel Cresques Abraham, che insieme con il figlio Jefuda Cresques svolse alla metà del Trecento il ruolo di cartografo ufficiale di Pietro IV d’Aragona. Al nome di questi due grandi disegnatori, nonostante vi siano molti dubbi in proposito, viene tradizionalmente legata la paternità del cosiddetto Atlante catalano, conservato nella Biblioteca nazionale di Parigi.

Troppo elegante per finire a bordo

Il codice comprende 12 tavole su pagine in pergamena di grande formato, e suddivide quindi in altrettanti riquadri, segnati dal fitto reticolo delle linee del martelogio, l’intero mondo conosciuto, unendo cosí caratteri del portolano e del mappamondo. La raffinatezza delle immagini che lo ricoprono fa escludere che l’Atlante sia stato mai

usato in una nave, o sottoposto ai rischi di un viaggio dopo quello che lo portò – forse in dono, forse come prestito mai restituito – dalle botteghe catalane alla corte del re di Francia. Prima, e meglio di quanto avessero fatto i mappamondi propriamente detti, l’Atlante catalano traduceva nella carta il racconto dei viaggi di Marco Polo, e riportava cosí nelle sue immagini e didascalie l’espandersi delle conoscenze geografiche verso l’Oriente e l’Asia. Né, d’altra parte, era quella l’unica direzione dell’allargamento degli orizzonti della cristianità, perché dopo la temeraria e sfortunatissima spedizione dei fratelli Vivaldi verso le coste atlantiche dell’Africa nel 1291, la rotta africana aveva cominciato nel secolo seguente a essere pazientemente aperta dai navigatori portoghesi. I portolani registrano queste novità con una IL VIAGGIO NEL MEDIOEVO

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LE GRANDI ESPLORAZIONI

La cartografia

UN MODELLO DI SUCCESSO Considerando la necessità comune di strumenti cartografici per la navigazione e quindi il commercio, non stupisce che anche realtà politiche e culturali diverse da quelle occidentali abbiano seguito vie analoghe nella compilazione di carte nautiche. Colpisce, tuttavia, la diffusione incredibilmente rapida ed efficace delle tecniche cartografiche dei portolani mediterranei a tutti gli imperi del Vecchio Mondo. Fin dal II millennio a.C. la Cina era stata sede di raffinate conoscenze cosmologiche e geometriche, tali da avviare molto presto una tradizione cartografica illustre, segnata, tuttavia, da uno dei caratteri piú tipici dell’universo culturale cinese, cioè il sostanziale disinteresse per il mondo dei barbari circostanti. Non a caso, i piú importanti esempi cartografici cinesi furono per molto tempo mappe di tipo topografico e amministrativo, mentre assai meno documentate sono le conoscenze nautiche, soprattutto al di fuori dell’impero, a cui pure fanno cenno Marco Polo e i viaggiatori successivi. L’avvio di una vera e propria cartografia nautica in Cina risale alla piena età Ming, in particolare tra il 1402 e il 1433, anni in cui furono effettuati viaggi di esplorazione verso l’Indonesia da una parte e verso l’Oceano Indiano fino al Golfo Persico e l’Arabia dall’altra. Si suppone che proprio in questo periodo i cartografi cinesi abbiano appreso dai navigatori arabi con i quali vennero a contatto le tecniche di redazione di portolani: alcune testimonianze del primo Quattrocento mostrano infatti come i cartografi arabi avessero a loro volta rapidamente copiato dai colleghi occidentali del periodo dei Vesconte il modello del portolano, che troviamo già fedelmente trapiantato in una mappa del Mediterraneo occidentale, la cosiddetta mappa maghrebina, datata intorno al 1330. Evidentemente le buone idee corrono veloci.

In basso un portolano arabo del XVIII sec. Londra, Royal Geographical Society.

Lo spazio del portolano non ha nulla a che vedere con quello letterario, storico, teologico dei mappamondi

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IL VIAGGIO NEL MEDIOEVO

LE AMERICHE SECONDO PIRI RE’IS


A sinistra e nella pagina accanto, in alto carte della regione del Maghreb e di al-Andalus, dal Kitab al-masalik wa l-mamalik (Libro delle vie e dei regni), del geografo musulmano Ibrahim al-Istakhri. XII sec. Leida, Biblioteca Universitaria. In basso e nella pagina accanto, in basso la Sardegna e la Sicilia nella carta tratteggiata dal cosiddetto Piri Re’Is (1513), un grande navigatore e cartografo turco, capitano della flotta del sultano.

Il caso piú brillante di trasposizione di conoscenze geografiche da una parte all’altra delle grandi divisioni politico-culturali è sicuramente quello turco. Gli Ottomani non avevano una tradizione nautica propria, ma, già dal XV secolo, adottarono abilmente le conoscenze geografiche disponibili sia nell’esperienza araba e occidentale, sia nella cultura bizantina, depositaria diretta delle opere geografiche tardo-antiche. Il principale artefice dell’acquisizione delle conoscenze e dei modelli europei fu un grande navigatore e cartografo turco, noto con il nome di Piri Re’Is (1470 circa-1554), capitano della flotta del sultano, appassionato ricercatore e geografo delle terre piú lontane a occidente e a oriente della Sublime Porta, autore anche di un manuale di navigazione nel Mediterraneo, il Kitab-i bahriyye (Libro sulla navigazione), del 1521. In particolare, nel 1513, Piri Re’Is redasse una carta, conservatasi in parte, copiando tra gli altri un disegno che a quanto pare suo zio aveva fortunosamente acquistato da uno schiavo spagnolo, già marinaio di Cristoforo Colombo

certa lentezza, anche perché la custodia gelosa della rotta atlantica da parte dei sovrani del Portogallo limitava molto la diffusione delle conoscenze, ma il Quattrocento segna comunque un procedere continuo della descrizione dei porti africani verso sud: già una mappa disegnata nel 1448 da Andrea Bianco, il cartografo veneziano che abbiamo incontrato come consulente di fra Mauro, descriveva le coste del Senegal, mentre il cosiddetto Atlante Cornaro, della fine del secolo, prolunga la descrizione dei porti africani fin quasi al futuro Capo di Buona Speranza. Se lasciamo comunque l’analisi dei documenti conservati, sappiamo piuttosto poco del modo di lavorare di quelle prime generazioni di cartografi che furono gli autori di portolani. Conosciamo i luoghi della prima fioritura di questa affascinante tecnica: Venezia, Genova, Maiorca; i nomi riportati nelle carte ci parlano spesso di vere e proprie tradizioni familiari, come quella della comunità ebraica delle Baleari, dei Vesconte di Genova o dei fratelli Pizigano di Venezia, tutti del XIV secolo. Nel Quattrocento simili tradizioni si espandono, trovando nuove sedi di diffusione: è il caso di Ancona, dove furono attivissimi i cartografi della famiglia Benincasa, e soprattutto di Lisbona, dove giungevano ed erano tradotte nei

nei primi viaggi in America. Per quanto avventurosa ai limiti del verosimile sia la sua storia, la carta di Piri Re’Is rappresenta con grande precisione le coste dell’America centro-meridionale, dai Caraibi all’estuario del Paraná: filtrata da misteriosi passaggi in copie e rifacimenti, la carta di questo navigatore ottomano sembra davvero la mappa del Nuovo Mondo disegnata da Colombo dopo il suo terzo viaggio nel 1498, e mai ritrovata in Occidente.

IL VIAGGIO NEL MEDIOEVO

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LE GRANDI ESPLORAZIONI

La cartografia

MAPPE E MAPPAMONDI IL «RITORNO» DI TOLOMEO

Uno degli effetti piú spettacolari della diffusione di Tolomeo in Europa fu la disponibilità di un modello matematico per la misurazione dello spazio: il reticolo di meridiani e paralleli, con il relativo calcolo dei gradi, consentiva di disegnare non solo una mappa delle terre conosciute, per la quale sarebbero bastate in una certa misura conoscenze empiriche, ma anche di collocare quelle terre nel complesso del globo terrestre. E proprio questo fu quello che cominciarono a fare gli umanisti toscani che per primi studiarono la Geografia. Il piú geniale di loro, il fiorentino Paolo dal Pozzo Toscanelli, fu insieme letterato e matematico: dedicatosi allo studio di Tolomeo, ne divenne uno dei maggiori esperti, tanto che intorno al 1474 un prelato portoghese, Fernando Martins, a lui si rivolse per sapere quanto fosse distante la costa atlantica del Portogallo dall’isola di Cipango, il Giappone. La risposta di Paolo, a cui probabilmente era allegata una schematica mappa, è la prima testimonianza in assoluto del progetto di raggiungere le Indie veleggiando verso oriente: un viaggio, secondo Toscanelli, lungo 120 gradi di longitudine, pari a circa 9380 chilometri.

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IL VIAGGIO NEL MEDIOEVO

Il calcolo di Toscanelli era molto difettoso, peraltro non per colpa sua, ma di Tolomeo, il quale aveva sovrastimato la lunghezza dei gradi di longitudine nel mondo conosciuto, con una apparente riduzione di circa un quarto delle dimensioni del «resto del mondo». E fu un errore dalle enormi conseguenze, giacché la lettera al Martins venne letta dallo stesso Colombo. E conobbe la teoria di Toscanelli, come pure la sua misteriosa mappa, un singolare personaggio tedesco, Martin Behaim di Norimberga, finanziere appassionato di cosmografia, che aveva incontrato anche Colombo proprio a Lisbona. Le conseguenze che Behaim trasse dalla lettura dell’umanista fiorentino furono le stesse del navigatore genovese: proprio nel 1492, il cartografo di Norimberga realizzò il primo globo terrestre della storia, una sfera ricoperta da strisce di pergamena ancora oggi conservata, nella quale il mondo tolemaico era collocato in mezzo a una sterminata distesa oceanica dal Portogallo al Giappone. Per certi versi era un’opera sfortunata: nel giro di pochi mesi, in mezzo a quello sconosciuto oceano avrebbe dovuto esser disegnato un continente.


Nella pagina accanto planisfero genovese attribuito a Paolo dal Pozzo Toscanelli. Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale. A destra carte del Golfo Persico e del Mar Caspio, dall’Atlante catalano. 1375. Parigi, Bibliothèque nationale de France. In basso il primo globo terrestre realizzato da Martin Behaim. 1492. Norimberga, Germanisches Nationalmuseum.

portolani le conoscenze via via accumulate dai navigatori della monarchia lusitana.

L’importanza della tradizione

Tratto comune di queste officine cartografiche fu senza dubbio l’ambizione artistica degli autori: come abbiamo visto, anche il portolano, con le sue finalità pratiche, restava un’opera d’arte, non solo per il valore estetico piú o meno preponderante a seconda dei casi, ma anche perché occorreva una sensibilità artistica per tracciare linee e descrivere spazi partendo dalle testimonanze dei viaggiatori, e una pratica puramente tecnico-scientifica della carta sarebbe nata solo nella piena età moderna. Con il tempo, poi, nonostante i vari casi di contaminazione con il modello dei mappamondi, il canone del «portolano normale» divenne sempre piú stabile

specie dal Quattrocento. Capita cosí molto spesso di incontrare carte dell’Atlantico, dell’Africa e anche delle Americhe tracciate con gli stessi metodi e gli stessi caratteri grafici (il martelogio, i nomi dei porti perpendicolari alle coste) dei vecchi portolani, che continuarono a essere ripetuti fino al pieno Seicento. Era forse ormai un anacronismo? Evidentemente no. L’accuratezza del disegno dei portolani era pur sempre la forma piú raffinata di descrizione dello spazio marittimo alla quale i navigatori potessero aspirare, almeno finché strumenti di bordo piú raffinati non consentissero di usare sistematicamente il reticolo dei meridiani e paralleli per il calcolo della propria posizione. La tradizione, l’impiego di ciò che i predecessori hanno già visto, spiegato e raccontato, restò per molti secoli la materia prima essenziale tanto dei cartografi quanto dei navigatori: anche se con pericoli molto diversi, entrambi si affidarono, innanzitutto, all’esperienza del passato. IL VIAGGIO NEL MEDIOEVO

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MIGRAZIONI

Alla ricerca di nuove patrie


Anche nel Medioevo erano in molti, uomini e donne, a lasciare le proprie terre d’origine: migrazioni affrontate nella speranza di una vita migliore, ma anche per aumentare i propri guadagni, o per sfuggire a pressioni politiche e religiose di Maria Paola Zanoboni

L’

importanza dei flussi migratori nell’ambito del rinnovamento demografico di cui le città dell’Occidente medievale sono teatro a partire dall’XI secolo è stata ed è ampiamente studiata, analizzando i gruppi sociali coinvolti nella loro globalità. Se la comprensione di questi meccanismi costituisce un’impresa ardua per il mondo attuale, essa lo è ancora di piú per il Medioevo. Nei centri urbani, infatti, i nomi dei neocittadini non ancora naturalizzati venivano registrati molto raramente e, se anche ciò avveniva, le istituzioni si interessavano a loro solo indirettamente, per assicurarsi che pagassero le tasse, partecipassero agli obblighi comuni, si attenessero alle regole dei mestieri, non turbassero l’ordine pubblico (vedi box a p. 67). Se non si stabilivano in città in modo duraturo, raramente ne emergono le tracce. Negli ultimi secoli dell’età di Mezzo non vi furono in Europa migrazioni nel senso vero e proprio del termine, intese cioè come trasferimento durevole e massiccio di una popolazione, ma le società medievali nel loro complesso furono sempre in movimento, contrariamente a quanto è stato a lungo sostenuto. Il fenomeno migratorio verso le città assunse un’importanza fondamentale dall’XI secolo, con punte massime nel momento della rinascita dei centri urbani, e in quello successivo all’epidemia di peste del 1348, quando lo spaventoso crollo demografico produsse a ogni livello sociale enormi vuoti da colmare. Molto spesso gli emigranti non provenivano da lontano, come aveva sostenuto lo storico belga Henri Pirenne (1862-1935), ma erano invece villici delle Miniatura raffigurante le operazioni di carico di una nave mercantile. XIV sec. Torino, Biblioteca Nazionale. In queste attività veniva spesso utilizzata manodopera straniera: a Venezia, per esempio, erano appannaggio pressoché esclusivo degli Albanesi.

regioni vicine che si trasferivano in città, talora attirati dai privilegi offerti dall’autorità pubblica per stimolare l’urbanizzazione, altre volte costretti dalla necessità a rifugiarsi all’interno delle mura cittadine.

Per necessità, ma anche per affari

Le ragioni della migrazione potevano variare, cosí come i gruppi sociali in esse coinvolti: non si trattava, infatti, solo e necessariamente di individui ai limiti della sussistenza che si spostavano per disperazione in cerca di una vita migliore, ma anche di mercanti, artigiani, rappresentanti di compagnie bancarie inviati a gestire filiali lontane (basti pensare al Banco Mediceo che nel XV secolo aveva filiali in tutta Europa), diplomatici e uomini di governo che la madrepatria (le repubbliche di Genova e di Venezia in primo luogo) inviava nei territori colonizzati. La presenza di questi personaggi di alto livello in luoghi lontani contribuiva a sua volta a crearvi insediamenti (soprattutto mercantili) di determinate nazionalità, dotati di una propria sede, e di propri rappresentanti, che costituivano veri e propri capisaldi intorno ai quali si intrecciavano le reti di relazioni a livello politico, mercantile e bancario con le rispettive madrepatrie. Esempio emblematico di questa situazione fu l’insediamento mercantile/bancario dei Toscani a Bruges che vide l’apice nella seconda metà del Quattrocento, quando amministrava la locale filiale del Banco Mediceo Tommaso Portinari, la cui attività risultò determinante anche a livello politico per i suoi stretti contatti con la corte borgognona di Carlo il Temerario. Fra il XIV e il XV secolo, un altro cospicuo insediamento di mercanti toscani si trovava ad Avignone dove godeva – come gli altri numerosi uomini d’affari stranieri – di uno status giuridico particolare, a metà tra la condizione di semplice residente e quella di cittadino: venivano in questo modo garantite speciali misure di IL VIAGGIO NEL MEDIOEVO

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MIGRAZIONI

Uomini in movimento

TRASFERIMENTI DI DANARO, DECIME E PRESTITI Dal XIII secolo gli insediamenti mercantili e bancari toscani, veneziani e genovesi si erano diffusi un po’ ovunque in Europa, per fare fronte alle sempre crescenti richieste di merci e di trasferimenti di denaro che l’espansione commerciale connessa alle Crociate andava stimolando. I flussi di denaro, di materie prime e di mercanzie che dalla Terra Santa, per effetto dell’ascesa economica e politica del porto di San Giovanni d’Acri (XII-XIII secolo), giungevano fino al Nord Europa, richiedevano una solida organizzazione a livello locale, nonché il formarsi di reti di relazioni affidabili, tali da consentire il trasferimento di somme ingenti e di altrettanto ingenti quantitativi di merci e materie prime.

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IL VIAGGIO NEL MEDIOEVO

A questo si aggiungeva (XIII secolo) il business della riscossione delle decime per conto della Chiesa, in Francia e Inghilterra (del quale si fecero carico mercanti senesi, fiorentini, lucchesi, «lombardi»), e quello dei prestiti ai regnanti di quegli stessi Stati. Il diffondersi di queste pratiche ebbe come conseguenza la nascita – in Europa, ma anche al di là del Mediterraneo, per esempio nella regione del Maghreb – di comunità di stranieri ben organizzate.

In alto miniatura raffigurante i funzionari addetti alla riscossione delle tasse all’opera, dal Libro dei Privilegi. 1471-1473. Brescia, Biblioteca Queriniana.


In alto, a destra Avignone. Il Palazzo dei Papi, grandioso esempio di architettura gotica, costruito nel XIV sec. Il trasferimento della curia papale da Roma arricchí considerevolmente la città francese.

protezione, relative soprattutto alla regolamentazione delle locazioni. Grazie alle loro competenze finanziarie e alla loro condizione sociale, gli Italiani (e soprattutto i Fiorentini e i Lucchesi) riuscirono a occupare posti di rilievo anche nelle confraternite cittadine. Tra questi mercanti, va segnalato in primo luogo il celebre Francesco Datini (1335-1410; vedi box alle pp. 56-57), il quale emigrò ad Avignone all’età di 15 anni e vi fece fortuna grazie alla situazione particolare della città che in quel periodo ospitava la corte pontificia. Per i mercanti toscani il soggiorno all’estero era percepito come un periodo di formazione professionale: molti di loro partivano ancora bambini o molto giovani (a un’età compresa fra i 10 e i 25 anni), per apprendere le competenze di base e poi perfezionarsi nella scrittura dei libri mastri, nelle tecniche contabili, nella conoscenza dei mercati stranieri e delle lingue, gettando le basi di una rete di saperi professionali che avrebbero consentito loro di sviluppare i propri affari. Un altro gruppo importante era quello degli Spagnoli in Bretagna (XV secolo), dove costituivano la comunità straniera meglio organizzata e piú privilegiata. Si trattava di mercanti castigliani, originari soprattutto di Burgos, attivissimi su tutte le principali piazze europee. Essi si erano stabiliti in prevalenza a Nantes, sede ducale (1458-1488) e tappa obbligata per l’esportazione della lana spagnola dal 1430 in poi. La ricchezza di cui disponevano consentiva a questi uomini d’affari di raggiungere rapida-

mente le posizioni di potere e di legarsi all’élite locale, con la quale, però, non avevano alcun interesse a fondersi, in quanto lo status di straniero assicurava loro una condizione privilegiata e il monopolio sulla vendita di numerosi prodotti. Erano specializzati nel commercio, mentre le attività finanziarie erano in mano agli Italiani: fornivano prodotti di lusso alla corte ed erogavano prestiti indispensabili alle autorità municipali.

Una casistica ricca e diversificata

Alimentavano l’emigrazione anche gruppi sociali molto piú modesti. Nell’Avignone trecentesca, per esempio, gli abitanti delle aree montuose e povere circostanti costituirono il principale flusso migratorio verso la città. A Genova, nel XV secolo, la manifattura tessile reclutava i suoi operai nei villaggi della costa e nelle vallate alpine dell’interno. A Gerona (Spagna), nella stessa epoca, la manodopera tessile affluiva dalle campagne vicine; a Bordeaux un buon numero di apprendisti proveniva dalla Guascogna. Ovunque le aree d’immigrazione erano proporzionali all’importanza delle città e all’estensione delle loro relazioni commerciali. Molti emigranti erano schiavi fuggiaschi, come nel caso dei musulmani cacciati dall’Andalusia e dalla Sicilia o degli Ebrei che fuggivano le persecuzioni nella Penisola Iberica (1391 e 1492). Alcuni si stabilirono durevolmente nei centri che avevano raggiunto, altri solo temporaneamente. Altri ancora erano studenti, numeIL VIAGGIO NEL MEDIOEVO

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rosi nelle grandi città universitarie, dove si raggruppavano in «nazioni»; in continuo movimento erano inoltre i lavoratori occasionali dei cantieri, gli uomini d’arme e i mercenari, quanti fuggivano dalle tasse o dalla guerra, e poi esiliati, frati, mendicanti, artigiani specializzati, e persino podestà in trasferta temporanea nella città da amministrare. Particolare, durante il Duecento e il Trecento, era la situazione della popolazione musulmana sottomessa alla corona catalano-aragonese: la progressiva conquista cristiana della Penisola Iberica (iniziata nel XII secolo) non aveva infatti imposto l’esodo totale degli islamici, la maggior parte dei quali rimase dov’era. Inoltre, tutti i trattati di capitolazione loro accordati prevedevano alcuni diritti fondamentali: quello di rimanere, quello di emigrare, quello di conservare la propria religione, i propri usi e costumi, la propria lingua, la propria organizzazione, e, soprattutto, i propri beni. I musulmani si trovavano cosí di fronte al dilemma fra l’emigrazione, come prescriveva la loro religione – che proibiva, in teoria, di risiedere nelle terre cristiane–, ma che avrebbe causato la perdita dei loro beni, e la scelta di rimanere, mantenendo il proprio stile di vita e tutto quello che avevano.

La paura del mare scuro

Fra il XIII e il XIV secolo la maggior parte di loro scelse di non partire: come ammettevano gli stessi poeti arabi, la clemenza del nemico li tentava fortemente e molti di loro si erano lasciati tentare. L’amore per la terra che li aveva visti nascere, l’attaccamento ai propri beni ottenuti con anni di lavoro, la tolleranza della corona catalano-aragonese erano validi motivi per non affrontare «il mare scuro e il suo fragore», non possedendo nulla sull’altra sponda. I Saraceni potevano comunque emigrare, se lo volevano, e, fino alla metà del Trecento, non ci furono problemi. Questa opzione apportava anzi benefici fiscali alla corona, perché per partire occorreva il versamento di un’imposta e della decima sui beni esportati (ovvero 1/10 del loro valore). La licenza veniva in ogni caso negata ai fabbricanti di armi, poiché essi avrebbero sicuramente intrapreso la medesima attività al di là del mare. Il peso delle tasse da pagare per ottenere una licenza alimentava un notevole flusso di emigrazione clandestina, una circostanza alla quale si aggiungeva l’insicurezza delle rotte comA destra lettera spedita dalla sede di Avignone a quella di Firenze della compagnia di Francesco Datini. 56

IL VIAGGIO NEL MEDIOEVO

FRANCESCO DATINI LE DATE DI UNA VITA 1335 circa. Nascita di Francesco a Prato. 1348. Morte dei genitori di Francesco e di due dei loro figli, vittime della Peste Nera. marzo 1350. Partenza di Francesco per Avignone.

1349-1350. Apprendistato di Francesco nelle botteghe di Firenze.

1355. Stefano, ultimo fratello vivente di Francesco, lo raggiunge ad Avignone; le sue tracce si perdono intorno al 1359. 1373. Fondazione dell’agenzia individuale di Francesco ad Avignone. 1363. Prima compagnia conosciuta, creata in collaborazione con un mercante fiorentino che viveva ad Avignone.

1376. Matrimonio con Margherita, figlia di Domenico Bandini. 1382-1383. Ritorno definitivo di Francesco e Margherita in Toscana. 1383. Apertura delle agenzie di Pisa, Prato e Firenze; intensificazione dei lavori di costruzione del Palazzo Datini.


1390-1391. Francesco fugge la peste, rifugiandosi a Pistoia. 1392. Apertura dell’agenzia di Genova. 1394. Apertura dell’agenzia di Palma di Maiorca; Francesco acquisisce la cittadinanza fiorentina. 1395. La coppia Datini accoglie Ginevra, figlia naturale di Francesco. 16 agosto 1410. Morte di Francesco a Prato.

1393. Apertura delle agenzie di Barcellona e di Valencia.

1340. Dopo una fase di apogeo del sistema delle compagnie di Francesco di Marco (1398-1400), ha inizio una riduzione progressiva del volume di affari.

1423. Morte di Margherita, divenuta terziaria domenicana a Firenze.

1400-1401. Francesco fugge la peste rifugiandosi a Bologna.

A destra Francesco Datini nel ritratto di Tommaso di Pietro del Trombetto. 1491-92. Prato, Museo Casa Francesco Datini. A sinistra Madonna del Ceppo, tempera e oro su tavola di Filippo Lippi. 1452-53. Prato, Museo di Palazzo Pretorio. Nella parte inferiore del dipinto, vestito di rosso, figura Francesco Datini, che accompagna i committenti dell’opera.

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MIGRAZIONI

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IL VIAGGIO NEL MEDIOEVO

Uomini in movimento


In alto miniatura raffigurante un gruppo di mercanti in un porto, da un’edizione del Régime des princes di Gilles de Rome, precettore di Filippo il Bello. 1450 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France. A sinistra miniatura raffigurante la partenza dei Polo da Venezia, da Li Livres du Graunt Caam (Il Libro del Gran Khan), edizione in francese arcaico del Milione di Marco Polo. Inizi del XV sec. Oxford, Bodleian Library. Marco, allora diciassettenne, salpò nel novembre 1271, al seguito del padre Niccolò e dello zio Matteo, già da tempo inseriti nei redditizi traffici commerciali con l’Oriente.

merciali infestate dai pirati, che trasformavano gli emigranti in schiavi da vendere sui mercati meno controllati: in queste circostanze, i regolari salvacondotti ottenuti a caro prezzo potevano ben poco. La meta preferita dai clandestini era il regno di Granada, facilmente raggiungibile via terra. Mercanti cristiani di Barcellona, Valencia, Lleida e Tortosa si occupavano di organizzare il viaggio via mare dei musulmani diretti verso il Maghreb, verso l’Oriente, oppure verso Cipro, Alessandria, Beirut, Tunisi: i mercanti ottenevano una concessione dal re e versavano l’imposta per la nave, mentre gli emigranti pagavano la loro tassa di uscita. Si trattava perlopiú di grandi imbarcazioni mercantili (cocche), adibite al trasporto delle merci e che potevano ospitare da un minimo di 3 a un massimo di 100 emigranti, oltre all’equipaggio. Nel corso del Trecento però le cose cambiarono, e il permesso di partire venne accordato con minore facilità, in primo luogo perché la nobiltà spagnola cominciò a lamentarsi del fatto che gli IL VIAGGIO NEL MEDIOEVO

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La migrazione degli Ebrei durante la «seconda diaspora», nel 1492, iniziata dopo la reconquista cristiana della Penisola Iberica.

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Impero ottomano

emigranti portavano con sé in terra straniera le tecniche di coltivazione del lino, del riso dell’henné e di molti altri prodotti, facendo loro una concorrenza sleale e obbligandoli a lasciare molte terre incolte. In secondo luogo, perché l’epidemia di peste che alla metà del XIV secolo si era abbattuta sull’Europa aveva prodotto un drammatico calo demografico, che rendeva del tutto improponibile la concessione di licenze per emigrare, favorendo semmai una politica diametralmente opposta, volta piuttosto al ripopolamento.

Le prime restrizioni

Dopo secoli di sforzi per evitare l’emigrazione dei Saraceni, essi furono espulsi in massa tra il 1609 e il 1610, dando vita a una delle piú grandi migrazioni della storia, che vide oltre mezzo milione di persone lasciare la Penisola Iberica. Fino alla metà del Trecento, sotto il dominio aragonese fu riservato un equo trattamento anche agli Ebrei: essi godevano di assoluta libertà di movimento ed erano esenti da ogni segno distintivo. Progressive restrizioni vennero però introdotte a partire dagli anni Trenta del XIV secolo, quando, per prevenire l’evasione fiscale, il re d’Aragona cominciò a limitare gli 60

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spostamenti della popolazione ebraica all’interno del suo dominio: pur senza impedirli, venivano inquadrati, per evitare il rischio di perdere contribuenti. Anche su scala locale le restrizioni avanzarono progressivamente: a Valencia, per esempio, nel 1328, la residenza nel quartiere ebraico smise di essere facoltativa e divenne pressoché obbligatoria. La capacità di accettazione dei nuovi venuti da parte delle popolazioni residenti era messa a dura prova dai pregiudizi e dagli stereotipi, nonché dalle voci sulla loro reputazione. Per esempio, i Ragusei (gli abitanti della Ragusa adriatica, oggi Dubrovnik, in Croazia, n.d.r.) non avevano una buona opinione dei Catalani, spesso associati ad atti di pirateria nelle cronache cittadine. Allo stesso modo, a Napoli, dopo la conquista aragonese della città, ancora i Catalani erano percepiti come colonizzatori. Lo straniero suscitava in genere timore e quindi una predisposizione al rifiuto; un timore che aumentava in funzione dell’entità dei flussi migratori e della situazione economica della città ospitante: quando gli emigranti giungevano in gruppi nutriti e continui – come gli Albanesi nelle città italiane –, venivano percepiti come potenziale fonte di problemi per

Nella pagina accanto L’espulsione degli ebrei dalla Spagna (anno 1492), olio su tela di Emilio Sala Francés. 1889. Madrid, Museo del Prado. Torquemada, l’inquisitore (a sinistra), irrompe nella sala in cui Ferdinando II e Isabella I hanno ricevuto un rappresentante della comunità ebraica (in primo piano, di spalle): il Domenicano getta un crocifisso sul tavolo e, puntando l’indice contro il re, gli ingiunge di non minare l’unità raggiunta dal regno con la fusione fra Aragona e Castiglia (evocata dal motto TANTO MONTA sul baldacchino, che allude al nodo di Gordio), tollerando la presenza degli Ebrei nel Paese.


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MIGRAZIONI

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l’economia e per l’ordine pubblico, e relegati nelle periferie cittadine. E questo anche perché si trattava perlopiú di persone giovani, senza famiglia, per le quali risultava difficile trovare lavoro, se non occasionale e a giornata, e procurarsi un alloggio, tanto che in alcune città, ogni sera, venivano chiusi fuori dalle porte della cinta muraria.

Scontri e tensioni

Soprattutto nei periodi di difficoltà economica, quando il lavoro mancava, si scatenavano talvolta lotte violente con i nuovi venuti: anche a Venezia, che pure era particolarmente aperta e tollerante nei confronti degli stranieri, si verificarono a piú riprese scontri con la popolazione albanese (il cui afflusso era stato peraltro agevolato). Viceversa, l’immigrazione veniva agevolata nei periodi di carenza di manodopera: soprattutto dopo la pestilenza del 1348, la Serenissima, favorita anche dall’instabilità dell’area balcanica e dalla propensione degli Albanesi (aggregati in clan familiari, ma privi di uno Sta62

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Capolettera miniato raffigurante la pesatura della lana, da un manoscritto veneziano del XIV sec. Venezia, Museo Correr.

to territoriale) a sottrarsi al giogo dell’etnia slava, organizzò un vero e proprio traffico di persone da reclutare nelle proprie manifatture e come rematori sulle navi. In un primo tempo (1382), per attirare gli stranieri, il governo veneziano accordò loro il diritto di acquistare una casa in città e di comprare titoli del debito pubblico per un ammontare pari al valore degli immobili di cui erano proprietari, nonché di investire nel commercio a lunga distanza una somma massima equivalente al valore complessivo degli immobili e dei titoli del debito pubblico. Concesse loro anche la possibilità di ottenere la cittadinanza (i cui vantaggi erano prevalentemente di natura fiscale) dopo 10 anni di residenza anziché 25. Nel 1388 il Senato emanò una vera e propria regolamentazione del flusso migratorio a completo favore di Venezia: il costo del trasporto da Durazzo alla città lagunare venne aumentato, portandolo a 6 ducati (una somma all’epoca consistente). Se l’emigrante non possedeva il denaro, veniva stipulato con lui un contratto di lavoro di 4 anni senza stipendio, al termine del quale il disgraziato avrebbe potuto trovare impiego dove avesse voluto, cominciando a guadagnare qualcosa. Ciononostante, i datori di lavoro si lamentavano, denunciando l’incompetenza degli Albanesi, «pastori civilizzati male», che si ritrovavano liberi proprio nel momento in cui stavano cominciando a imparare qualcosa. Dato che la mano d’opera mancava, il Senato veneziano si dimostrava incline ad assecondare le lamentele degli imprenditori: il prezzo del trasporto venne aumentato ancora, portandolo a 8 ducati, e il periodo di lavoro forzato senza stipendio per pagare il viaggio venne portato addirittura a 10 anni. In cambio di questi vantaggi, i trafficanti si impegnavano a fornire i lavoratori esclusivamente a Venezia. Poteva però accadere anche di peggio: negli stessi anni, la Serenissima subiva la concorrenza dei Ragusei, i quali, volendo incentivare le proprie manifatture in un periodo di carenza di manodopera, non avevano alcuna remora a catturare le imbarcazioni su cui viaggiavano gli Albanesi, e a venderli come schiavi nella propria città. Dalla forte emigrazione dai Balcani traevano vantaggio anche i pirati (soprattutto quelli catalani di Sicilia e Barcellona), dediti apertamente alla tratta: un episodio toccante ci mostra un «onesto mercante» barcellonese che, avendo acquistato in Puglia, da un pirata di Otranto, 3 piccoli Albanesi di età compresa tra i


A sinistra pianta a volo d’uccello del porto albanese di Durazzo, dall’opera Isole che son da Venetia nella Dalmatia... dell’incisore ed editore Simon Pinargenti, stampata a Venezia nel 1573.

6 e i 10 anni, venne circondato, nel porto di Ancona, da una moltitudine di connazionali dei bambini che, indignati, vollero far mettere a verbale la loro protesta davanti a un notaio.

Parità di trattamento

Nonostante tutto, a Venezia gli Albanesi si integravano senza grandi difficoltà – favoriti anche dalla matrice latina della loro lingua –, trovando impiego nei mestieri piú faticosi (facchini, fabbri, barcaioli, addetti alle fornaci da vetro), nel tessile, nella pelletteria e come servitori domestici. In quest’ultimo settore non erano trattati peggio degli Italiani: alla fine del periodo di servizio, ricevevano la stessa somma dei colleghi veneziani, ed erano in grado di padroneggiare a proprio favore gli strumenti giuridici. Lo dimostra il fatto che, per esempio, erano soliti recarsi dal notaio per appurare la propria situazione nei confronti del maestro di cui erano in procinto di lasciare il servizio. Nella Roma del XV secolo, tra le minoranze viste con maggior sospetto, c’erano gli Albanesi, i Còrsi e gli Slavi, il cui grado di integrazione era comunque molto superiore a quello degli esponenti delle medesime nazionalità insediati nei borghi e nelle campagne laziali, ritenuti ben piú pericolosi in quanto «huomini senza timor di Dio», vagabondi privi di un lavoro stabile che vivevano di espedienti, inclini alla vio-

In basso miniatura raffigurante la soffiatura a bocca del vetro, da un’edizione quattrocentesca del Tractatus de Herbis. Modena, Biblioteca Estense Universitaria.

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SPAZI CONDIVISI E LAVORI IN COMUNE Uno dei principali meccanismi di integrazione erano le vicinie, ovvero le aggregazioni di nuclei familiari che costituivano la società cittadina (almeno fino al XIII secolo), la cui prossimità tesseva legami piú forti a livello di quartiere. Gli immigrati accomunati dalla medesima origine si raggruppavano appunto in vicinie, che li aiutavano a integrarsi all’interno dei quartieri, a loro volta dotati di luoghi di socializzazione (le piazze, la chiesa, il forno, il pozzo, le taverne) e di strutture militari per la difesa delle mura. Un importante fattore di integrazione era anche l’attività esercitata in comune, nelle botteghe o nei cantieri, dove gli immigrati erano particolarmente numerosi: i nuovi venuti erano reclutati in particolare per i mestieri piú faticosi, degradanti, pericolosi che gli abitanti del luogo rifiutavano (per esempio, a Treviso, nel Quattrocento, la quasi totalità dei facchini proveniva dalle valli bergamasche). Soprattutto nell’edilizia la mobilità geografica e professionale era estrema: si trattava di manodopera reclutata a giornata o pagata a cottimo.

lenza e in continuo attrito con le popolazioni locali. Nonostante la fama non eccelsa, nel secondo Quattrocento gli Albanesi non trovarono particolari difficoltà a stabilirsi nella Città Eterna e, un secolo piú tardi, risultavano integrati piuttosto bene. Erano tavernieri, pescivendoli, candelottai, mentre le donne lavoravano come domestiche e lavandaie. Anche l’insediamento degli Slavi (Dalmati, Croati, Bosniaci) costituiva una realtà ben consolidata a Roma, già alla metà del XV secolo, quando Niccolò V concesse loro di edificare una chiesa (S. Giacomo degli Schiavoni), con il relativo ospedale, allo scopo di riqualificare l’area marginale del Campo Marzio, nei pressi del Tevere, mediante l’insediamento di una popolazione stabilmente residente e legata da vincoli di solidarietà socio-religiosa. Svolgevano attività portuali o connesse al trasporto per via fluviale.

Una presenza poco rassicurante

Quanto ai Còrsi, la cui presenza nell’Urbe, legata alla commercializzazione dei prodotti tipici dell’isola (vino, grano, pesce salato, formaggio), si consolidò nel corso del Quattrocento, svolgevano mestieri legati all’agricoltura, all’allevamento e al commercio delle derrate alimentari. Sebbene alcuni di loro fossero riusciti a elevarsi socialmente (soprattutto come ecclesiastici), per tutto il XV secolo la loro situazione economica rimase in genere precaria, fatto che aveva come conseguenza una notevole instabilità, con frequenti fenomeni di violenza e banditismo. Tra il 1475 e il 1500 si moltiplicarono perciò i provvedimenti pontifici volti ad arginare la de-

Nella pagina accanto Case dei Pierleoni, acquerello di Ettore Roesler Franz. 1880 circa. Roma, Museo di Roma. Come molte altre opere dell’artista, la veduta documenta edifici di epoca medievale: è il caso appunto della dimora dei Pierleoni, famiglia romana discesa dal banchiere ebreo Baruch, che, al tempo della lotta per le investiture, prestò denaro ai pontefici e si convertí.

linquenza còrsa: una bolla di Sisto IV (1475) subordinò al versamento di una notevole cauzione, e al divieto di portare armi, la loro facoltà di stabilire la residenza nei territori pontifici; qualche anno piú tardi un provvedimento di Innocenzo VIII bandí dalle terre della Chiesa tutti i Còrsi che non vi possedessero beni immobili, mentre Alessandro VI, nel 1500, giunse a espellere tutti gli esponenti di tale nazionalità con le loro famiglie, a eccezione dei mercanti fornitori della curia pontificia. Tuttavia, queste disposizioni non risolsero il problema, perché a proteggere i banditi còrsi era la nobiltà feudale, che li utilizzava nelle proprie guerre private per opporsi all’autorità pontificia. I Farnese – i piú potenti feudatari del territorio pontificio – per esempio, avevano molti Còrsi al loro servizio, in parte come lavoratori agricoli e in parte come mercenari e bravi, che costituivano il principale pericolo per i pellegrini e i mercanti in viaggio verso Roma, e persino per i convogli pontifici che non si facevano scrupolo di assalire. Nella Maremma senese, anch’essa infestata dai banditi còrsi, la politica repressiva del Comune di Siena riuscí invece a debellare la criminalità. Per contro, nel 1475 e nel 1490, i Còrsi che si erano ben integrati nel Lazio e in Maremma si offrirono di risarcire i danni causati dai connazionali e di aiutare l’autorità pubblica nella ricerca dei colpevoli, per evitare i bandi di espulsione che avrebbero colpito anche loro.

Gli ostacoli all’integrazione

La diversa origine geografica, sociale, culturale ed economica influiva considerevolmente sui livelli di integrazione e sulle relazioni degli immigrati con le popolazioni autoctone. A seconda dell’epoca, della congiuntura economica e del luogo, si integravano o erano oggetto di discriminazione di vario genere. Le barriere linguistiche, religiose e culturali portavano spesso alla discriminazione civica e sociale che giungeva talvolta fino alla segregazione spaziale: i Tedeschi nelle città polacche e i Francesi lungo il cammino di Santiago di Compostella si integrarono meno bene degli Albanesi a Venezia, in quanto questi ultimi avevano una notevole familiarità con la lingua della Serenissima ed erano per la maggior parte cattolici. Allo stesso modo, i ricchi e le persone di livello sociale elevato si integravano piú facilmente, grazie anche alla loro buona fama e alla migliore accoglienza che ricevevano. Talvolta erano gli immigrati stessi a non volersi integrare, preferendo mantenere e coltiIL VIAGGIO NEL MEDIOEVO

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IDENTIFICARE PER TASSARE L’identificazione degli immigrati costituí sempre un serio problema per le autorità pubbliche cittadine. Fra il XIII e la metà del XIV secolo in particolare, la crescita demografica, l’espansione urbana, la mobilità degli individui e la contemporanea realizzazione di un apparato burocratico sempre piú raffinato consentirono di affrontare la questione dell’identificazione dei nuovi venuti e di cercare, al tempo stesso, di risolverla. È quanto si cercò di fare a Siena, il 27 dicembre 1329, emanando un decreto nel quale si constatava che, ormai da una dozzina d’anni, numerosi immigrati originari del contado o provenienti dall’estero, pur avendo ottenuto la cittadinanza, non erano stati iscritti nei registri fiscali e non pagavano perciò le tasse, perché non se ne conosceva il nome. I maggiorenti senesi decretarono perciò che si costituisse una commissione incaricata di indagare e di obbligare i nuovi cittadini a iscriversi nella circoscrizione fiscale di residenza e a versare il dovuto. Dalla metà del Duecento, nel momento di massima espansione demografica, era andata sviluppandosi una riflessione precisa a livello giuridico sulla necessità di un’identificazione chiara e puntuale delle persone residenti nel contesto urbano. E, dall’inizio del Trecento, andarono affermandosi, a partire dagli atti notarili, forme sempre piú complesse di denominazione, comprendenti, oltre al cognome, il patronimico e il luogo di residenza. L’autocertificazione era consentita e le dichiarazioni mendaci severamente punite. Il mezzo piú sicuro per l’identificazione era il ricorso alle testimonianze di terzi rese davanti al notaio.

Venditori di pesce al Portico d’Ottavia, acquerello di Ettore Roesler Franz, 1880. Roma, Museo di Roma. Nell’Urbe, molti operatori del settore erano albanesi.

vare le proprie tradizioni: si formavano allora grandi confraternite, come quelle dei Catalani a Bruges, Venezia e Firenze, che si occupavano di accogliere, alloggiare, assistere i connazionali. Riunivano spesso gli esponenti di un determinato gruppo sociale (mercanti, studenti, ecc.), consentendogli di continuare a parlare la propria lingua, esprimere le loro credenze e salvaguardare la propria cultura artistica, letteraria e musicale. Le numerose comunità di mercanti tedeschi sparse per l’Europa, per esempio, costituirono ovunque enclave esclusive, come quella di Londra o di Venezia, giungendo talvolta a imporre le proprie strutture amministrative, la propria lingua, il proprio modo di abitare. Altrettanto fecero in Andalusia i Castigliani, che in alcune località operarono una vera e propria ristrutturazione del tessuto urbano preesistente ed erede della cultura musulmana. Anche la vita religiosa costituiva un potente elemento di integrazione o di esclusione: se i cristiani cattolici non avevano problemi a trovarsi in contatto con i residenti durante le funzioni religiose della chiesa parrocchiale, a entrare nelle confraternite, a partecipare alle processioni e alle altre molteplici manifestazioni IL VIAGGIO NEL MEDIOEVO

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Uomini in movimento A sinistra il porto di Bruges in un’illustrazione quattrocentesca. Monaco di Baviera, Bayerische Staatsbibliothek. A destra miniatura raffigurante alcuni banchieri ebrei, da una delle Cantigas de Santa Maria del re Alfonso X il Saggio. XIII sec. El Escorial (Madrid), Biblioteca di San Lorenzo.

della vita collettiva, non succedeva lo stesso per le altre confessioni religiose. Ebrei, musulmani, Greci ortodossi di Calabria e Sicilia vivevano in propri quartieri e avevano contatti limitati con il resto della cittadinanza. Altrove le minoranze religiose riuscivano a integrarsi almeno parzialmente: a Barcellona e a Tortosa, nel Trecento, gli ebrei e i musulmani erano percepiti come parte della comunità cittadina, le disposizioni legislative si estendevano anche a loro e partecipavano alle attività artigianali e commerciali accanto alla comunità cristiana.

Piccoli artigiani specializzati

I musulmani barcellonesi erano perlopiú piccoli artigiani specializzati nella lavorazione dei metalli, nell’edilizia o nella pesca. Gli Ebrei, invece, erano attivi nel comparto tessile, nell’oreficeria, nella lavorazione del corallo, nel settore medico e in quello creditizio. A sua volta, la sfera del credito legava strettamente cristiani, ebrei e musulmani, anche se con innegabili 68

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squilibri dovuti alla logica del potere. L’appartenenza politica al dominio aragonese si manifestava anche attraverso la fiscalità, alla quale le due minoranze contribuivano abbondantemente, nonché attraverso la partecipazione alla costruzione delle mura cittadine. Non avevano però diritto alla cittadinanza, sancito invece in altri centri del Mediterraneo, e ciò si ripercuoteva in primo luogo nei tribunali, durante lo svolgimento dei processi. A partire dal XIV secolo, però, le minoranze ebraiche e musulmane delle due città furono oggetto di una progressiva segregazione in determinati quartieri, che divennero, poco a poco, i soli in cui i membri delle due comunità avessero il diritto di abitare e ai quali era proibito l’accesso a donne e bambini cristiani. A questo si aggiunse l’obbligo, per ebrei e musulmani, di portare abiti di foggia diversa da quella dei cristiani, in modo che li si potesse distinguere (come recitava un’ordinanza barcellonese del 1391). Nonostante la parziale


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Illustrazione raffigurante la bottega di un cartolaio e un pellegrino, dalle Memorie Istoriche di Bologna di Horiano di Pier Villola..., contenute nel Codice 1456 della Biblioteca Universitaria di Bologna. XVI sec.

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Uomini in movimento

integrazione, predominava la precarietà economica e giuridica dei due gruppi. Le autorità cercarono di controllare l’immigrazione, selezionandola, incoraggiandola con sgravi fiscali oppure frenandola e disincentivandola a seconda dei gruppi sociali ed economici di cui avevano bisogno. Tale pratica si riscontra fin dal XII secolo: nel 1115, Guglielmo IX d’Aquitania stabilí che le terre che egli stesso aveva concesso a un’abbazia potessero accogliere emigranti stranieri. La concessione di terre da coltivare e il reperimento della manodopera necessaria costituiva, infatti, il principale supporto economico delle fondazioni rurali. L’area andò poi a costitu-

ire un nuovo nucleo di popolamento. Negli anni Venti del Duecento, ancora in Aquitania, Tolosa godeva della fama di isola di libertà, rifugio per tutte le popolazioni rurali vittima degli eccessi del potere signorile e per i servi affrancati. Perciò l’immigrazione veniva accolta di buon grado e percepita, anzi, come espressione del prestigio della città, nonché come un fattore altamente positivo, che ne rafforzava il potere nei confronti delle signorie rurali. Tra il XII e il XIII secolo Tolosa era stata protagonista di una notevolissima espansione economica, per cui molti vi si trasferivano per cercare lavoro nelle manifatture urbane. Alla


mobilità geografica si accompagnava quella sociale e professionale: si trattava, infatti, di persone desiderose di abbandonare il lavoro nei campi per quello degli atelier cittadini. La città francese attirava inoltre numerosi studenti, che volevano apprendere il diritto civile e canonico presso lo studium che vi era stato fondato nel 1229. Per ottenere la cittadinanza era sufficiente che i nuovi venuti pronunciassero davanti a testimoni la formula di rito: «Ego volo intrare Tholosam et facere me civem Tholose», mentre maggiori garanzie (una cauzione e referenze adeguate) occorrevano per esercitare determinati mestieri, come la tessitura o la tintura. Non sempre gli immigrati erano poveri: a volte disponevano di un piccolo capitale, che consentiva loro di avviare un’attività in proprio. Il costo dell’alloggio si rivelava spesso insormontabile per i piú modesti, come gli studenti, spesso costretti (anche se potevano contare su affitti calmierati) a sublocare la propria stanza, a ricorrere agli usurai, o a rinunciare agli studi. Con questa categoria la comunità tolosana aveva un rapporto particolare e assai conflittuale: i notevoli privilegi di cui gli studenti godevano, infatti, ne facevano un gruppo a parte e, per di piú, assai turbolento. Dal momento che sfuggivano alla giustizia ordinaria, non potevano neppure essere incarcerati per debiti.

Incentivi per gli artigiani

Nelle città bassomedievali italiane ed europee era ampiamente diffusa la pratica di concedere sgravi fiscali agli artigiani specializzati per invogliarli a stabilirsi in un centro che di loro aveva bisogno. Si cercava di attirare soprattutto quanti potevano avviare lo sviluppo di nuove attività di cui detenevano le conoscenze: fra il XIV e il XV secolo, per esempio, in molte località italiane vennero concessi privilegi particolari alle maestranze della manifattura serica, agli esperti in quella del vetro, ai battiloro, ai costruttori di specchi. Tale prassi aveva spesso come contraltare rigidi divieti all’emigrazione da parte della madrepatria, che cercava di evitare la diffusione di saperi e segreti tecnologici. Un atteggiamento di questo tipo venne assunto, tra il XII e il XIV secolo, dalle autorità veneziane nei confronti dei propri artigiani del vetro (richiesti ovunque); altrettanto fecero poi Lucca e Bologna con i tecnici in grado di realizzare i mulini da seta idraulici. In certi periodi, quando il calo demografico lo rendeva necessario, i provvedimenti a favore

Ritratto di Jean de Bernuy, discendente di una famiglia ebraica castigliana che si stabilí a Tolosa, arricchendosi grazie al commercio del guado, pianta da cui veniva ricavata una sostanza colorante azzurra, utilizzata per tingere i tessuti. Nel 1533 fu ultimato il palazzo voluto da Jean de Berneuy, che rappresenta una delle piú pregevoli realizzazioni del tardo Medioevo a Tolosa.

dell’immigrazione si facevano piú frequenti e drastici: alla fine del Trecento Venezia, spopolata dalla peste, incentivò l’afflusso di manodopera albanese e dalmata, offrendole il lavoro e la cittadinanza e favorendone l’inserimento, con il diritto di abitare dove avesse voluto e senza l’obbligo di dimora in quartieri separati. Nel 1442 agli esponenti di queste nazionalità venne concesso anche il diritto di associarsi. Al contrario, i mercanti latini nei Paesi islamici furono sempre confinati – sia dal potere musulmano, sia dai consoli europei di stanza in loco – nei loro fondachi, strettamente controllati, che li isolavano dal resto della comunità. Nonostante questa segregazione abitativa, potevano commerciare liberamente e senza intermediari nei souk e circolare per le strade. In molte città si optò per una politica definibile «a elastico», che regolava l’afflusso degli stranieri in base alle necessità dell’economia urbana, consentendone o bloccandone l’accesso. È quanto si verificò, per esempio, a Bologna, fra il XII e il XIV secolo. IL VIAGGIO NEL MEDIOEVO

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VIAGGI DEVOZIONALI

I cammini della fede

SULLE STRADE DEI PELLEGRINI Novgorod

Stoccolma

I PERCORSI

Riga

Amburgo Brema

Northampton

Wilsnack

Londra Brugge Canterbury Gent Colonia 6 Calais Ypres

Lipsia

Francoforte

Parigi Provins Chartres Bar-sur-Aube Troyes 5 Offenburg Vezelay

Oceano Atlantico

Santiago de Compostela

Lione

Bordeaux

3

Le Puy Tolosa

Ginevra Milano

Beaucaire Marsiglia

Saragozza

Danzica

Lubecca

Kiev

Friburgo

Breslavia

Vierzehnheiligen Cracovia Norimberga Eichstätt Vienna

EUROPA

Verona Venezia

Tersatto

Piacenza Genova Lucca Firenze Siena

4

Monte Sant'Angelo Roma Barletta 2 Bari

Montserrat Barcellona

Costantinopoli Tessalonica

Sardegna

Efeso

Sicilia

AFRICA

Viaggiare alla volta dei luoghi santi fu un’esperienza di fede che mobilitò migliaia, se non milioni, di uomini. Ma che cosa spingeva masse di persone ad avventurarsi in spedizioni rischiose, dalle quali talvolta non tornavano piú? Certamente il bisogno di espiare i peccati e di ottenere un aiuto, magari una guarigione. Studi recenti, però, hanno evidenziato un aspetto piú «intimo» del pellegrinaggio, che spesso coesisteva con una motivazione profana. Si partiva per cercare un rapporto diretto, vissuto da protagonisti, con il trascendente, visitando i luoghi di Cristo e dei grandi martiri, ma, nello stesso tempo, si era irretiti dallo spirito di evasione, dalla curiosità di vedere «cosa c’era al di là della collina». È indubbio, comunque, che le notizie sul manifestarsi di miracoli provenienti dai luoghi santi abbiano svolto un ruolo determinante nella moltiplicazione delle destinazioni. Accanto a Roma,

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IL VIAGGIO NEL MEDIOEVO

Candia

Mar Mediterraneo

Sulle due pagine cartina dell’Europa e del Vicino Oriente nella quale sono indicati gli itinerari dei pellegrinaggi piú importanti e le principali città toccate dai diversi percorsi.


Santiago de Compostela e Gerusalemme, proliferarono itinerari verso città o anche piccoli villaggi che vantavano il possesso delle reliquie di santi piú o meno celebri. A partire dal XIV secolo la dimensione dell’«avventura» si manifestò con maggiore evidenza. E fu in parte testimoniata dalla pubblicazione del misterioso manoscritto I Viaggi di sir John Mandeville, che invitava i lettori a seguire la strada dei pellegrini perché «molti uomini provano un grande piacere a sentir parlare di Paesi diversi». Il tramonto del pellegrinaggio coincise con l’affermarsi dell’umanesimo cristiano del Quattrocento. Al posto della devozione per le reliquie e i santuari, stroncata spesso come deriva superstiziosa, si incoraggiavano pratiche piú utili per la vita sociale: la carità, i doveri educativi. All’orizzonte si profilava la Riforma che condannò le visite ai luoghi santi lontani come una tradizione pagana, restauratrice dell’idolatria: «Accade che un uomo – accusò Martin Lutero – compia il pellegrinaggio a Roma, spenda cinquanta, cento fiorini, a volte di piú, a volte meno, senza che nessuno glielo abbia ordinato, e lasci a casa la moglie, i figli o, perlomeno, il suo prossimo alle prese con la miseria». Ma i cammini della fede tornarono in seguito ad affollare quegli stessi itinerari tracciati nel Medioevo, come del resto accade ancora oggi.

Pistoia, Ospedale del Ceppo. Alloggiare i pellegrini, uno dei pannelli del fregio in terracotta dipinta e invetriata realizzato da Santi di Buglioni che illustra le Sette Opere di Misericordia. 1526-1528.

Mar Nero

ASIA

Seleucia

Antiochia

Tripoli Damasco

1 Gerusalemme Alessandria

1. Gerusalemme Sulla collina del Golgota sorge la Basilica del Santo Sepolcro, fatta erigere da Costantino e dalla madre Elena nel IV secolo, per venerare il luogo della morte e resurrezione di Cristo. 2. Roma La basilica di S. Pietro, iniziata da Giulio II nel 1506 e consacrata nel 1626 da Urbano VIII, sorse sui resti della basilica eretta da Costantino sulla tomba dell’apostolo. La basilica di S. Giovanni

in Laterano, consacrata agli inizi del IV secolo da papa Silvestro I, è la madre di tutte le chiese della cristianità. Il Giro delle Sette Chiese era l’itinerario tradizionale, poi formalizzato da san Filippo Neri nel XVI secolo. 3. Santiago de Compostela La cattedrale di S. Giacomo, consacrata nel 1211, si erge sulla tomba dell’apostolo. Grande centro devozionale, nell’XI secolo fu il fulcro della ricostruzione della città dopo la distruzione operata da Al Mansur. 4. Monte Sant’Angelo Il santuario di Monte Sant’Angelo sul Gargano è importante meta di pellegrinaggi fin dal V

secolo. Papa Gelasio I (492-496) vi fece costruire una basilica in conseguenza delle numerose apparizioni dell’Arcangelo Michele intorno al 490, riportate anche nella Legenda Aurea. 5. Chartres La Cattedrale di Notre-Dame, fu costruita tra il 1145 e il 1250. Considerata uno degli esempi migliori dello stile tardo gotico, è patrimonio dell’UNESCO dal 1979. 6. Canterbury Grande centro della predicazione benedettina in Inghilterra. Nella cattedrale di Christ Church si consumò, nel 1170, l’assassinio dell’arcivescovo Thomas Becket.

IL VIAGGIO NEL MEDIOEVO

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VIAGGI DEVOZIONALI

I cammini della fede

LA VIA FRANCIGENA

Stade Amsterdam Utrecht

Londra

Canterbury

Bruxelles Sombre

Praga

Arras Lussemburgo Laon Reims Chàlons-sur-Marne Parigi Troyes

Bar-sur-Aube

Magonza

Strasburgo

Basilea

Besançon Pontarlier

Vaduz

Berna

Losanna St. Maurice

Bourg-Saint-Pierre Aosta Ivrea Pavia Piacenza Vercelli

Lione

Tolosa Verso Compostela

Andorra

Arles

Lubiana

Susa Berceto Pontremoli Luni Lucca San Gimignano Siena San Quirico Bolsena Viterbo Sutri

Roma Verso Gerusalemme

Madrid

Esiste una fonte eccezionale che ci mostra il percorso della via Francigena nell’Alto Medieovo: si tratta della descrizione del viaggio che l’arcivescovo di Canterbury, Sigerico, fece a Roma nel 990. Eletto arcivescovo nel 989, Sigerico si mise in cammino per ricevere il pallium da papa Giovanni XV. Giunto al cospetto del pontefice nel luglio del 990, nel corso del suo breve soggiorno a Roma Sigerico annota nel suo diario tutti i luoghi da lui visitati. Nella Vita di San Dunstano, l’arcivescovo elenca, una dopo l’altra, tutte le submansiones incontrate sulla strada de Roma usque ad mare (le 78 tappe del viaggio di ritorno, da Roma fino a Calais sulla Manica). Vengono indicati borghi, città, santuari, chiese, ospedali, cosí come punti di attracco di traghetti, punti di ristoro e stalle per il ricovero delle cavalcature. Ne risulta una sorta di guida al viaggio lungo la via Francigena.

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IL VIAGGIO NEL MEDIOEVO

Napoli

Cartina con il tracciato della via Francigena e l’indicazione di alcune delle sue tappe principali.


Riportiamo, qui di seguito, le tappe dell’itinerario da Roma fino ad Aosta: I Urbs Roma (Roma, Borgo Leonino); II Iohannis VIIII (La Storta); III Bacane (Valle del Baccano, Campagnano di Roma); IV Suteria (Sutri); V Furcari (Vetralla); VI Sc.e Valentine (Bullicame, presso Viterbo); VII Sc.e Flaviane (Montefiascone); VIII Sc.a Cristina (Bolsena); IX Aqua Pendente (Acquapendente); X Sc.e Petir in Pail (Podere in Voltore, Abbadia San Salvatore); XI Abricula (Le Briccole, Castiglione d’Orcia); XII Sc.e Quiric (San Quirico d’Orcia); XIII Turreiner (Torrenieri, Montalcino); XIV Arbia (Ponte d’Arbia, Monteroni d’Arbia); XV Seocine (Siena); XVI Burgenove (Abbadia a Isola, Monteriggioni); XVII Aelse (Pieve d’Elsa, località scomparsa, nei pressi di Gracciano d’Elsa, Colle Val d’Elsa); XVIII Sc.e Martin in Fosse (Molino d’Aliano, Colle Val d’Elsa); XIX Sc.e Gemiane (San Gimignano); XX Sc.e Maria Glan (Pieve di S. Maria Assunta a Chianni, Gambassi Terme); XXI Sc.e Petre Currant (Pieve dei SS. Pietro e Paolo a Colano, Castelfiorentino); XXII Sc.e Dionisii (Borgo San Genesio, San Miniato); XXIII Arne Blanca (Fucecchio); XXIV Aqua Nigra (Ponte a Cappiano, Fucecchio); XXV Forcri (Porcari); XXVI Luca (Lucca); XXVII Campmaior (Camaiore); XXVIII Luna (Luni, Ortonovo); XXIX Sc.e Stephane (Santo Stefano di Magra); XXX Aguilla (Aulla); XXXI Puntremel (Pontremoli); XXXII Sc.e Benedicte (Montelungo, Pontremoli); XXXIII Sc.e Moderanne (Berceto); XXXIV Philemangenur (Felegara, Medesano, o forse Fornovo di Taro); XXXV Metane (Medesano o forse Costamezzana, Noceto); XXXVI Sc.ae Domnine (Fidenza); XXXVII Floricum (Fiorenzuola d’Arda); XXXVIII Placentia (Piacenza); XXXIX Sc.e Andrea (Corte Sant’Andrea, Senna Lodigiana); XL Sc.e Cristine (Santa Cristina); XLI Pamphica (Pavia); XLII Tremel (Tromello); XLIII Vercel (Vercelli); XLIV Sc.e Agath (Santhià); XLV Everi (Ivrea); XLVI Publei (Montjovet); XLVII Agusta (Aosta). Seguendo il percorso inverso, si osserva come i viaggiatori britannici, attraversato il Canale della Manica, da Calais si dirigevano ad Arras, Reims e Besançon, seguendo poi la valle del Rodano fino al lago Lemano. Dopo aver visitato l’abbazia di Saint-Maurice, i pellegrini si incamminavano alla volta del Gran San Bernardo, che, una volta attraversato, conduceva ad Aosta. Molte strade percorse fino a questo punto ricalcavano il tracciato delle grandi vie consolari romane. Per esempio, oltre Lucca, si sarebbe potuta raggiungere Roma non soltanto con la via Cassia, ma anche tramite l’Aurelia, che transitava da Pisa. Ma la strada costiera viene preferibilmente scartata, sia perché esposta agli attacchi provenienti dal mare, sia perché, per lunghi tratti, attraversava territori infestati dalla malaria, come le paludi della Maremma.

Canterbury (Kent, Inghilterra). La facciata della cattedrale. XII sec.

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Il sole a Mezzanotte

Pitea, uno dei primi grandi viaggiatori della storia, raccontò, nel IV secolo a.C., di un luogo straordinario, dal clima gelido eppure rischiarato dal sole per mesi. Oltre mille anni piú tardi, eruditi e scienziati cercarono di scoprirlo, alimentando il mito della misteriosa Ultima Thule... 76 IL VIAGGIO NEL MEDIOEVO


di Francesco Colotta

F

in dall’antichità poeti, navigatori e geografi si sono gettati alla ricerca di una terra posta all’estremo Nord del continente europeo della quale si raccontavano mirabilie e non solo di carattere climatico. Un’isola misteriosa, chiamata Thule, dove il sole non tramontava mai, un luogo che compariva nelle mappe e nelle opere letterarie per, poi, svanire nel momento in cui qualcuno davvero si avventurava a cercarlo. Nel tempo, l’enigma si trasformò in mito, al di là della reale esistenza di

una terra che portasse quel nome. A partire dal Medioevo, in seguito, sull’onda delle leggende, l’isola divenne sinonimo di viaggio ai confini del mondo, superati i quali si accedeva a una dimensione sovrannaturale. Solo in età moderna e contemporanea si diffuse, invece, la tradizione di Thule come polo d’origine della civiltà occidentale, una tesi che forní basi teoriche a diverse correnti ideologiche gravitanti nell’area del pangermanesimo. Le prime, frammentarie informazioni su Thule

Banchi di ghiaccio nei pressi delle Thule meridionali, in Antartide. Composto da tre isole, l’arcipelago fu cosí battezzato da James Cook, che lo individuò nel 1775, perché ritenuto simile all’Ultima Thule, la leggendaria terra posta ai confini del mondo.

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L’Ultima Thule Ma che cosa aveva visto Pitea in quello sperduto avamposto settentrionale? Il navigatore era rimasto colpito non solo dal «prodigio» della luce perenne estiva, ma anche dalla fertilità del suolo e da un suggestivo fenomeno in base al quale cielo, terra e mare sembravano fondersi, rendendo impossibile la navigazione. All’epoca quella curiosa manifestazione naturale venne definita «polmone marino» e, presumibilmente, era prodotta dall’effetto della nebbia che, di solito, si condensa sui blocchi di ghiaccio nel periodo estivo. Seguendo un filone ancor piú mirabolante, un altro autore greco, Ecateo di Abdera, definí Thule la terra degli Iperborei, una leggendaria popolazione nordica semidivina prediletta da Apollo (vedi box a p. 84).

Descrizioni fiabesche

si devono al navigatore e scrittore greco Pitea di Massalia, vissuto nel IV secolo a.C., il quale si sarebbe avventurato a latitudini estreme per esigenze di natura commerciale. Si ipotizzò, infatti, che egli fosse stato inviato in missione dalla sua città natale (l’odierna Marsiglia) per stabilire rapporti diretti con le miniere della Cornovaglia, aggirando il monopolio cartaginese sui commerci oceanici. Appare però piú probabile che il suo fosse invece un vero e proprio viaggio di esplorazione a scopo scientifico. Dopo aver raggiunto la Scozia, si spinse ancora piú a nord e, dopo sei giorni di navigazione, approdò su un’isola, che battezzò, appunto, «Thule». Al rientro, stilò un resoconto particolareggiato del viaggio e lo inserí nell’opera Sull’Oceano, in larga parte distrutta da uno degli incendi che colpirono la biblioteca di Alessandria, dov’era conservata. Molti dettagli su quella missione boreale sono tratti, pertanto, da rielaborazioni successive di scrittori greci e latini. 78

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In alto mappa di alcune delle terre bagnate dal Mare del Nord (indicato come Oceanus Germanicus), nella quale compare anche l’isola di Thule (evidenziata dalla cornice), secondo la descrizione del navigatore e scrittore greco Pitea di Massalia. Londra, British Museum. Nella pagina accanto Particolare della Carta Marina di Olao Magno, con la rappresentazione dell’isola di Tile (in basso) a sud dell’Islanda. 1539. Uppsala, Universitetsbibliotek.

Piú di uno storiografo mise in dubbio le fiabesche descrizioni su Thule, relegandole nella categoria delle fantasie letterarie. Strabone, il «padre» della geografia (64-63 a.C.-20 d.C. circa), evidenziò una palese anomalia nelle affermazioni di Pitea: nessuno dei visitatori delle terre settentrionali aveva mai nominato la fantomatica isola nei propri resoconti e per questo definí il navigatore «un mentitore». La presunta ricchezza del suolo in un territorio dal clima gelido, inoltre, appariva poco credibile, anche basandosi unicamente sulle scarse conoscenze geografiche degli antichi. In realtà lo scetticismo di Strabone derivava anche da una sorta di pregiudizio culturale, che tendeva a non riconoscere ai territori lontani dal Mediterraneo un sufficiente grado di sviluppo e di civiltà. Le tesi politiche sul Nord «barbaro e rozzo» prevalevano sulle scarne considerazioni geologiche, in virtú delle quali risultava impossibile sopravvivere alla latitudine piú estrema, all’epoca chiamata «settimo clima». La disputa sull’introvabile Thule – che secondo lo scandinavista Luigi De Anna rappresentò la prima polemica in assoluto sorta su una scoperta geografica – coinvolse altri prestigiosi scrittori dell’età antica come Eratostene, Plinio il Vecchio, Tacito e Polibio. Una polemica simile a quella esplosa qualche secolo piú tardi, dopo il viaggio oltreoceano di Cristoforo Colombo. In compenso, gli studi piú recenti hanno dimostrato l’attendibilità del racconto di Pitea e le sue osservazioni: in particolare, quelle relative alle latitudini, alle maree e al Circolo polare artico (che forse fu il primo a determinare) sono state confermate dalle conoscenze attuali. Un altro grande protagonista della letteratura classica, Publio Virgilio Marone, forní un contri-


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L’Ultima Thule

In questa pagina manufatti riferibili alla cultura di Thule: amuleto in forma di pesce (in alto) e pettine in forma di figura femminile stilizzata decorata con motivi incisi (a sinistra), conservati entrambi nel Canadian Museum of History di Gatineau.

UN NOME MAI SCOMPARSO L’etimologia di Thule sopravvive in vari luoghi rintracciabili sulle cartine geografiche: nel nome della regione norvegese del Telemark o Thilemark, per esempio, in quello di una zona dello Jutland danese chiamata Thy o Thyland e in quello della città di Tula, in Messico. Ma l’identificazione piú stretta tra la mitica isola e un luogo reale è avvenuta in Groenlandia. Una piccola città del Nord della terra dei ghiacci è chiamata proprio Thule e rappresenta uno dei Comuni situati piú a settentrione del mondo. È detta anche Qaanaaq (in lingua locale). Thule sono definiti anche i progenitori degli Inuit del Canada, una popolazione eschimese. Si stanziarono in Alaska nel 500 d.C., poi si trasferirono in parte in Canada nell’XI secolo e anche in Groenlandia nel XIII secolo. Proprio nell’odierna cittadina groenlandese di Thule furono trovati i primi resti archeologici di quell’antica cultura.

In basso figurine a fondo piatto con testa umana, ricavate da denti di mammiferi marini. 1100-1700. Anchorage, University of Alaska Museum.

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buto alla soluzione di quello che allora era ritenuto un enigma, raffigurando l’isola come sinonimo di lontananza: la chiamò «Ultima Thule», nel significato di terra estrema, frontiera invalicabile. In età classica questo limes si situò sempre all’interno dei confini del mondo, con indizi che potevano far pensare, di volta in volta, a diverse regioni dell’odierna Scandinavia o all’arcipelago scozzese.

Una nuova lettura del mistero

Alle soglie dell’età di Mezzo, accanto al dibattito sulla precisa collocazione dell’isola, fiorirono racconti allegorici che trasferivano le coordinate di Thule in una sfera puramente immaginifica. Nasceva la leggenda della «terra favolosa», di un regno destinato a restare una chimera e a nascondere valenze simboliche, come nei simili casi delle Isole Fortunate, dell’Avalon bretone e dell’introvabile patria del Prete Gianni (vedi box a p. 82). Questa rivoluzione interpretativa del mistero, che fino a quel momento era solo geografico, visse un preludio nel IV secolo, con il poema Descriptio orbis terrae di Rufo Festo Avieno: nei suoi versi la bellezza del sole di Mezzanotte di Thule si configura come metaforica fuga verso l’esotico in un’epoca di inesorabile decadenza del mondo latino. La ricerca di quel luogo nascosto, comunque, continuò e venne stimolata dall’accresciuto interesse sul mondo nordico generato dallo sviluppo di nuovi itinerari commerciali che collegavano il Mediterraneo al Mar Baltico. Nel VI

In questa pagina incisioni raffiguranti un Inuit, visto frontalmente e di spalle, una donna e un bambino della stessa popolazione, e una scaramuccia tra Inglesi ed Eschimesi. Le illustrazioni documentano la spedizione di Martin Frobisher sull’isola di Baffin del 1577.

secolo gli storici bizantini Procopio di Cesarea e Giordane identificarono l’antica Thule nella Scandinavia. Piú tardi i cronisti Adamo di Brema e Saxo Grammaticus avrebbero intravisto nell’isola il profilo dell’Islanda che, nel frattempo, era stata esplorata a fondo da un gruppo di coloni norvegesi. Proprio quest’ultima, con i suoi contrasti geotermici tra ghiaccio e fuoco, appariva come un modello perfetto di «terra favolosa», in accordo con la tradizione letteraria che andava affermandosi. Tuttavia, nelle narrazioni medievali, dominavano perlopiú le suggestioni fantastiche, come risulta nelle pagine dell’Antonii Diogenis incredibilium de Thule insula – un racconto riportato dal IL VIAGGIO NEL MEDIOEVO

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L’Ultima Thule

UN MONDO DI LUOGHI MISTERIOSI DALL’ELDORADO ALLA CUCCAGNA Molte sono le terre di cui mai fu accertata l’esistenza: dai luoghi biblici alle terre di Omero, dalle sette meraviglie al regno del Prete Gianni, e poi isole misteriose e continenti scomparsi...

L E ISOLE FORTUNATE Fertilissime, furono associate alle Antille o alle Canarie. Vi risiedevano diversi eroi inviati dagli dèi greci. L’ELDORADO Un luogo vanamente cercato nell’America centrale e meridionale, in cui si riteneva fossero ammassate quantità indicibili d’oro, nonché custodite antiche conoscenze esoteriche. ATLANTIDE La piú celebre delle terre nascoste, ricchissima di argento e metalli. Secondo la leggenda fu un potente regno, poi sommerso dal mare in un giorno e in una notte. Platone lo collocava oltre le «Colonne d’Ercole». MU Mito corrispondente a quello atlantideo, ma ambientato sul Pacifico. In base alla tradizione il continente sorgeva tra le Hawaii e l’isola di Pasqua ed era descritto come una sorta di Giardino dell’Eden. LEMURIA Altro continente orientale scomparso situato nell’Oceano Indiano o nel Pacifico. Stimolò la fantasia di numerosi scrittori che lo ritenevano il luogo di nascita del genere umano, in origine composto da esseri immateriali. IPERBOREA A volte identificata con Thule, era ritenuta dalla tradizione esoterica la terra primigenia della civiltà occidentale e i suoi abitanti venivano descritti come una razza trasparente. AVALON Il ciclo letterario legato a re Artú fece riferimento all’esistenza di un’isola nella Britannia occidentale dove, secondo alcune leggende, si rifugiò Giuseppe d’Arimatea dopo aver raccolto il sangue di Cristo in una coppa (il Graal). PAESE DI CUCCAGNA Di incerta collocazione. Il benessere, la pace e la felicità regnavano in questo introvabile

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luogo, evocato in molti testi fin dal Medioevo. TERRA AUSTRALIS Enorme continente, posto nell’estremo Sud del globo terrestre, che appariva in diverse mappe medievali. Il primo a citarlo fu Aristotele. AGARTHI Un altro luogo misterioso. Si trovava in Asia nelle profondità della terra. In questo regno sotterraneo si sarebbero rifugiate alcune semi-divinità insieme a «esseri illuminati» per preservare le loro conoscenze superiori.

In alto manufatto votivo (tunjo) in oro di cultura Muisca con la cerimonia dell’El Dorado, durante la quale il nuovo sovrano, coperto di resina e polvere d’oro, navigava sul lago Guatavita e, dopo aver sparso oggetti d’oro, si gettava in acqua. La cerimonia ha forse ispirato il mito dell’Eldorado. 600-1600. Bogotà, Museo del Oro. A sinistra Rapa Nui (Isola di Pasqua). Uno dei sette moai di Ahu Nau Nau, le gigantesche sculture monolitiche antropomorfe erette tra l’VIII e il XVII sec., che rappresentano l’immagine piú caratteristica dell’isola.


patriarca bizantino Fozio nel IX secolo –, nel quale si delinea l’incantevole immagine del mare a nord dell’isola che conduceva nelle vicinanze della luna. In quel panorama fiabesco, illuminato da un chiarore accecante, i protagonisti dell’opera ammiravano ciò che «non si poteva neppure immaginare». Altri racconti, poi, evocavano simbolismi religiosi, facendo riferimento a una dimensione del tempo che appariva in tutta evidenza come sovrannaturale. L’arrivo del periodo in cui il sole non tramontava era accolto come un segno divino, come il compimento di un rito che scongiurava profezie nefaste per un futuro prossimo.

Visioni contrapposte

Ma chi viveva su Thule? Oltre alla già citata tradizione relativa agli Iperborei, fu Procopio di Cesarea (500-565 d.C.) a dare una concreta dimensione antropologica alla leggenda. Descrivendo una terra somigliante alla penisola

In basso Il Paese di Cuccagna, olio su tavola di Pieter Brueghel il Vecchio. 1567. Monaco, Alte Pinakothek.

scandinava, lo storico bizantino riferí che gli abitanti professavano un culto di tipo solare e temevano di veder calare per sempre la notte sulla propria terra. Risultano invece contraddittorie le testimonianze sul carattere della popolazione: secondo Procopio e Antonino Etico Istriano, i Thuliani erano aggressivi di natura; per Adamo di Brema, al contrario, avevano un’indole pacifica; mentre Ludovico Ariosto li definiva cristiani. Non solo Ariosto, ma anche altri illustri letterati italiani dell’età di Mezzo citarono l’isola nelle loro opere: Brunetto Latini, che subí il fascino del suo suggestivo clima, e Francesco Petrarca, che la utilizzò come metafora poetica per esprimere la vastità di un sentimento. La vicenda di Thule, perciò, si rinnovava in quasi tutto l’Occidente medievale, facendo leva sul fascino dell’inconsueto e senza mai fornire precise coordinate di viaggio. Verso la fine del Medioevo, Thule tornò ad as-

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L’Ultima Thule sumere i connotati acquisiti in epoca classica: un luogo ai confini del mondo, situato a latitudini estreme, ma concreto e, pur tuttavia, non irraggiungibile. Era il segno dei tempi, il sintomo del propagarsi di un’attrazione irresistibile per le esplorazioni che spingeva tanti navigatori all’avventura, con l’ambizione di conoscere le terre al di là dell’orizzonte, soprattutto quelle ritenute inaccessibili.

La testimonianza di Colombo

La scoperta dell’America rese l’isola nordica un po’ meno lontana nelle mappe, privandola dell’aggettivo virgiliano di «ultima». Fu lo stesso Cristoforo Colombo a sottolinearlo, nella biografia scritta dal figlio Fernando, nella quale riferí di aver agevolmente raggiunto e oltrepassato Thule, in un periodo antecedente al 1492. Il testo, in realtà, cita due isole con quel nome, una piú a settentrione e l’altra, a sud, chiamata anche Frislandia, che compariva nelle mappe cinquecentesche a poca distanza dall’Islanda. Che Colombo abbia davvero visitato l’Islanda e le zone limitrofe non è provato, mentre sembra piú credibile un suo passaggio all’arcipelago scozzese delle Shetland. Nell’era delle esplorazioni, anche Thule divenne una terra «svelata», agibile, come aveva

VIVERE FELICI E MORIRE DI SAZIETÀ L’antica leggenda sulla popolazione degli Iperborei è strettamente legata alla figura del dio greco Apollo. Incaricato da Zeus di recarsi a Delfi per introdurvi la giustizia e la poesia, decise di cambiare all’ultimo momento destinazione. E con il suo carro, guidato dai cigni, si diresse verso nord, nella terra degli Iperborei, posta tra l’Oceano e i monti Rifei. Si fermò nella loro isola per un anno, passato il quale decise di raggiungere finalmente Delfi, dove gli abitanti reclamavano da tempo la sua presenza. Il dio rimase sempre molto legato a quella popolazione nordica con la quale aveva convissuto a lungo ed era solito manifestarsi spesso al loro cospetto. L’essere prediletti da Apollo conferí agli Iperborei uno stato semi-divino, come riporta Erodoto, che li definiva «esseri trasparenti». Non conoscevano infelicità, malattie e guerre e la loro terra godeva di un clima sempre mite. Morivano solo per sazietà di vita e usavano gettarsi da una rupe a picco sul mare per porre fine ai loro giorni. La tradizione narra che nel loro regno vivevano due creature della mitologia, i Grifoni e gli Ippogrifi.

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ALLE ORIGINI DEL MALE ASSOLUTO... Bevor Hitler kam (Prima che Hitler venisse) è il titolo di un libro pubblicato nel 1934 dal barone Rudolf Von Sebottendorff con il quale si intendeva dimostrare l’influenza della società segreta Thule Gesellschaft nella nascita e nell’ascesa del Partito nazionalsocialista. L’autore, appassionato di occultismo, era il capo dell’organizzazione, sorta nel 1910 e ispiratasi al mito della patria primigenia del popolo germanico, oltre che alle tesi razziste del monaco austriaco Lanz von Liebenfels. In realtà, la società si mostrò piú attiva sul piano politico che nelle pratiche esoteriche e si schierò in prima linea nelle lotte contro i governi bavaresi democratici e filo-comunisti insediatisi dopo la fine del primo conflitto mondiale. Il quartier generale della Thule era il lussuoso albergo «Vier Jahreszeiten» di Monaco, nel quale si tenevano le riunioni dei membri. Tra gli adepti figuravano i nomi di vari leader del nascente DAP (Deutsche Arbeiterpartei), il primo nucleo del Partito nazionalsocialista tedesco: Rudolf Hess, Karl Harrer, Dietrich Eckart, Anton Drexler, Alfred Rosenberg e Hans Frank. Il libro di Von Sebottendorff, uscito all’indomani della presa del potere di Hitler, non ebbe tuttavia fortuna e, anzi, fu quasi subito sequestrato dalle autorità. La società Thule sopravvisse ancora qualche anno e fu poi sciolta.

profetizzato molti anni prima Seneca nella Medea: «Nei secoli futuri – aveva scritto il filosofo – verrà il giorno in cui si scoprirà il grande segreto sepolto nell’oceano. E la potente isola sarà ritrovata. Teti, di nuovo, svelerà questa contrada. E Thule, ormai, non sarà piú il paese ai confini del mondo». Seneca preannunciava, in questo modo, la scoperta di nuovi mondi, non riferendosi solo al caso specifico dell’isola di Pitea. Compiute quelle imprese non avrebbe avuto piú senso delimitare i limiti del globo terrestre con i luoghi estremi fissati degli antichi. In seguito, Thule non scomparve dall’inconscio collettivo dell’Occidente, né dalla geografia. Anche nel Rinascimento la sua fisionomia appariva sulle mappe sotto svariate forme, in particolare nella celebre Carta Marina (1539) di Olao Magno, nella quale risultava collocata, con il nome di Tile, qualche miglio a sud-ovest dell’Islanda (vedi la foto a p. 79). Quasi piú nessun esploratore, però, si avventurava in mare a cercarla. Era il preludio del definitivo passaggio di Thule, da misteriosa isola boreale o ultima frontiera del mondo conosciuto, a territorio di esclusiva pertinenza del mito. I prodromi del fenomeno si manifestarono fin dal Seicento, in un periodo in cui gli Stati del Nord Europa, in particolare i regni scandinavi, si stavano affermando sullo scenario internazionale. L’exploit politico, in particolare quello della Svezia, fu affiancato da una letteratura celebrativa sulle origini delle genti nordiche,

In alto stemma datato 1919 della Thule Gesellschaft, società segreta ispirata al mito della patria primigenia del popolo germanico. Nella pagina accanto Apollo vola su un cigno verso il paese degli Iperborei, frammento di piatto a figure rosse del pittore Eufronio. 520-470 a.C. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

con l’intento di affermarne la superiorità culturale rispetto alle civiltà mediterranee. E un luogo leggendario, sperduto nell’Atlantico settentrionale, poteva diventare una patria ancestrale ideale, i cui fasti erano sopravvissuti all’oblio del tempo.

Nostalgie e nazionalismi

Piú tardi, nel Sette-Ottocento, in pieno Romanticismo, il nome di Thule si impose come archetipo di un passato splendore per il quale si provava una struggente nostalgia. Il mito dell’isola primordiale si diffuse perlopiú in Germania sotto l’influenza delle opere di Friedrich Gottlieb Klopstock (1724-1803), dei fratelli Jacob e Wilhelm Grimm (1785-1863 e 1786-1859) e di Clemens Brentano (1778-1842), in un clima culturale che vedeva l’affermarsi di radicali movimenti nazionalisti. Si teorizzava l’esistenza di un popolo primigenio (l’Urvolk), che aveva generato non solo la patria tedesca, ma anche l’intera civiltà europea. Fu cosí che la misteriosa Thule venne eletta come uno dei luoghi d’origine delle genti germaniche e i suoi abitanti associati agli antichi Iperborei, detentori della sapienza originaria. Nel XX secolo al fascino leggendario dell’isola primordiale e degli Iperborei non furono insensibili alcune società segrete di ispirazione occultista, che, secondo alcune ipotesi, avrebbero contribuito in modo determinante all’affermazione del nazionalsocialismo in Germania. IL VIAGGIO NEL MEDIOEVO

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Il Purgatorio di san Patrizio

IRLANDA, ISOLA DELLA REDENZIONE Nel Medioevo un misterioso itinerario di pellegrinaggio conduceva verso un’isola sperduta del lago Lough Derg, in Irlanda. Lo compivano cavalieri, notabili e comuni fedeli, malgrado il rischio di un viaggio in quelle latitudini settentrionali. La destinazione finale era un luogo sotterraneo – oggi tradizionalmente identificato con la Station Island – nel quale si riteneva che le anime dei dannati ottenessero il perdono scontando pene terribili. Anche i vivi, attraversando quei «gironi» di sofferenza, avrebbero potuto conseguire la remissione dei peccati. Secondo la leggenda, una delle porte dell’aldilà si trovava in un luogo cosí freddo e impervio in quanto legata al santo irlandese Patrizio, al quale Cristo aveva un giorno indicato una caverna, da cui si poteva accedere al regno dell’oltretomba. Tale rivelazione aveva una finalità evangelizzatrice: in quell’antro, chi dubitava della fede avrebbe potuto appurare in prima persona quanto atroci fossero le sofferenze per le anime dei peccatori. La tesi su un percorso riabilitativo post mortem fu elaborata in epoca antica negli Atti di Paolo e Tecla (II secolo) e da Agostino d’Ippona (354-430), ma solo a partire dal XII secolo trovò forma compiuta, anche lessicale: Purgatorium. Malgrado l’assenza di riferimenti biblici puntuali, la prospettiva di concedere un’occasione di riscatto ai peccatori non incontrò opposizioni all’interno della Chiesa.

A destra la caverna del Purgatorio e le strutture penitenziali in una mappa seicentesca della Station Island (Irlanda).

A sinistra Lough Derg, Station Island. Statua moderna che ritrae san Patrizio nelle vesti di pellegrino.

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Oceano Atlantico Donegal

Clifden

Lough Derg

REGNO UNITO Irlanda del Nord

Dublino Nenagh Kilkenny

Dingle Cork

Mare Celtico


A destra riproduzione moderna di una miniatura raffigurante san Patrizio che apre il suo Purgatorio. La collocazione in Irlanda del luogo di transito dei trapassati nasce da una presunta rivelazione di Cristo al santo irlandese. In basso, sulle due pagine la Station Island con la basilica sorta nel luogo del leggendario edificio sotterraneo.


GRANDI VIAGGIATORI

In cammino per 241 giorni

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Ottocento anni fa, l’abate frisone Emo da Huizinge decise di affidarsi al papa per risolvere la disputa che lo opponeva al vescovo di Münster. Partí dunque alla volta di Roma, lasciando uno straordinario resoconto del suo lungo viaggio di Dick E. H. de Boer e Aart Heering

N

ell’inverno del 1211-12, l’abate Emo da Huizinge, originario delle terre frisoni intorno alla città di Groninga (oggi nell’Olanda nord-orientale), intraprese un lungo viaggio fino a Roma. Non come pellegrino o penitente, ma mosso dall’indignazione: Emo, infatti, riteneva di essere stato trattato ingiustamente dal vescovo di Münster e intendeva manifestare i motivi del proprio risentimento a papa Innocenzo III. Dell’avventuroso viaggio – in 241 giorni, Emo, in gran parte a piedi, coprí una distanza incredibile per l’epoca – l’abate lasciò un resoconto contenuto nella Cronica Floridi Horti, da lui stesso redatta. Emo partí dunque alla volta di Roma il 9 novembre 1211, portando con sé l’amico Hendrik, il quale, dopo aver indossato il saio, aveva poi abbandonato il convento per lavorare come architetto. Obiettivo del viaggio, come accennato poc’anzi, era quello di ottenere il sostegno del papa nella disputa con Otto da Oldenburg, il vescovo di Münster, allora la prima autorità della zona. Pomo della discordia era la chiesa del villaggio di Wierum: Emo l’aveva chiesta per la fondazione di un nuovo convento destinato al suo Ordine, quello dei canonici regolari premostratensi (fondato nel 1120 da san Norberto a Prémontré, in Francia).

Un banale malinteso

Il 23 giugno del 1211 la maggioranza dei notabili locali aveva acconsentito al dono. Intorno alla metà di settembre, però, il vescovo aveva annullato tale decisione, in seguito all’opposizione di un nobile di Groninga molto influente (prepotens, come si legge nella Cronica). Una ricerca recente ha dimostrato che si trattava di un banale malinteso: una settimana prima della fatidica decisione, lo stesso nobile aveva infatti dato il suo sostegno al vescovo in una controversia che riguardava un’altra chiesa nella regione frisona. Il 23 settembre Emo presentò una protesta formale, ma senza successo, e non essendoci altro potere locale al quale appellarsi, dovette affrontare una scelta difficile: rassegnarsi e cedere,

oppure andare fino a Roma per esporre la sua causa alla Curia. La seconda opzione era anche la piú difficile per quei tempi burrascosi: i contrasti tra Francia e Inghilterra andavano inasprendosi, il trono imperiale tedesco era al centro di una lotta accanita e le persecuzioni dei movimenti eretici stavano sconvolgendo molte nazioni europee. Inoltre, stava approssimandosi l’inverno. Tuttavia, spinti da un misto di coraggio, rabbia e audacia, Emo e Hendrik decisero ugualmente di partire. Nella Cronica Emo descrive il viaggio in maniera molto sobria. Probabilmente, quando iniziò a elaborare i suoi appunti, intorno al 1219, ebbe l’impressione che molti dettagli non avessero piú importanza. Indicò in maniera generica l’itinerario che aveva seguito, si occupò ampiamente della lettera di raccoman-

In alto Wierum. La chiesa di S. Maria, edificata nel XIII sec. e ristrutturata all’inizio del XX. Nel villaggio olandese Emo da Huizinge fondò, nel 1213, l’abbazia premostratense di Bloemhof, dopo aver ottenuto l’assenso di papa Innocenzo III. Nella pagina accanto il Vaticano, particolare della pianta del Lazio e della Sabina. 1580-85. Città del Vaticano, Musei Vaticani, Galleria delle Carte Geografiche. IL VIAGGIO NEL MEDIOEVO

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GRANDI VIAGGIATORI

Emo da Huizinge

dazione lasciatagli dall’abate del convento di Prémontré, e descrisse brevemente gli avvenimenti principali della sua permanenza a Roma e della sua sosta forzata a Bologna. Per il tratto fino a Prémontré, sede dell’abbazia madre del suo Ordine, Emo elencò dodici luoghi con il loro nome, sei dei quali accoglievano un convento premostratense, due un convento cistercense e uno un convento benedettino. Una circostanza che prova quale fosse il principio fondamentale di quello che potremmo definire il viaggio «low cost» su base monastica: l’uso dell’ospitalità di conventi dell’Ordine proprio o di uno affine per pasti e pernottamenti (la Regola premostratense è agostiniana, con influssi cistercensi, n.d.r.).

Vie di terra e vie d’acqua

È probabile che il viaggio si facesse perlopiú a piedi, ma i due viandanti potrebbero anche aver fatto uso di un cavallo o di un asino come bestia da soma. Emo menziona esplicitamente un mezzo di trasporto solo in occasione del viaggio di ritorno, quando racconta il tratto da Strasburgo a Colonia, fatto per nave. In ogni caso, ai fini della velocità e della distanza coperta non faceva una grande differenza. La velocità media della corrente del Reno in quel tratto è di circa 6 km/h (in giugno), e, dovendo seguire i meandri del fiume, la distanza risultava superiore a quella che sarebbe stata coperta seguendo la strada. Il viaggio di Emo passò per quella che il geografo francese Roger Brunet ha definito «Banana blu». La curiosa denominazione indica la zona piú fortemente antropizzata dell’Europa: da Londra, seguendo una striscia che va dal Nord della Francia alla regione del fiume Ruhr in Germania, fino all’Italia del Nord e quella centrale. Un segmento che presenta la curvatura di una banana e il colore blu 90

IL VIAGGIO NEL MEDIOEVO

dell’Europa, nel quale le grandi città sono i principali motori dell’economia e dell’innovazione. Un concetto moderno che può sorprendentemente essere applicato anche alla fase di rinnovamento di cui il continente era protagonista intorno al 1200. La doppia «banana» delle rotte seguite da Emo ricalca le strade battute da mercanti e pellegrini, lungo le quali, anche allora, sia beni che idee si spostavano tra città nelle quali si sviluppavano nuove pratiche economiche, espressioni culturali e visioni scientifiche. Dal 19 gennaio 1212 Emo trascorse cinquanta giorni a Roma per poter presentare la sua causa al papa e ottenere un giudizio, un’impresa non certo facile. Sotto Innocenzo III (1198-1216) la Curia era cresciuta fino a diventare una buro-

In alto incisione del 1729 raffigurante una veduta della città di Groninga, nei cui dintorni, a Huizinge, nacque l’abate Emo. Qui sopra Il duomo di Siena, una delle città attraversate da Emo nel tragitto verso Roma, particolare di una miniatura dal Liber census communis senesis et liber memoriales offensarum. 1222-1224. Siena, Archivio di Stato.


IL VIAGGIO DI ANDATA

Nijeklooster Essen Rolde

Groninga

Coevorden Weerselo

OLANDA

BELGIO

Vreden Raesfeld Hamborn (Duisburg)

Meerbusch Mönchengladbach Maastricht Heinsberg Tongeren Houthem Heylissem Villers-la-Ville Bonne Esperance Hautmont Thenailles

Clairfontaine Laon

Premontré Soissons

Sezanne

Lussemburgo

Chateau Thierry Orbais L'Abbaye

GERMANIA

Mery-sur-Seine Troyes

Strasburgo

Bar-sur-Seine Chatillon-sur-Seine Baigneux-les-Juifs St.-Seine-L'Abbaye Digione Citeaux Allerey-sur-Saône

Basilea

Zurigo

SVIZZERA

TESTIMONE DEL TEMPO Rampollo di una famiglia nobile delle Ommelanden, la pianura a nord di Groninga, Emo da Huizinge (1175 circa-1237) ricevette una buona educazione e studiò nelle università di Parigi, Orléans e Oxford. Dopo una breve carriera come insegnante nel paesino di Westeremden e come parroco nella natia Huizinge, prese i voti, entrando nell’Ordine dei Premostratensi, fondato un secolo prima da Norberto di Xanten (i cui membri sono perciò anche detti Norbertini) e all’epoca assai popolare nel Nord Europa. Dobbiamo la maggior parte delle notizie su Emo alla Cronaca dell’Abbazia di Bloemhof, la Cronica Floridi Horti (qui sotto, due pagine del manoscritto), che copre gli anni 1204-96 ed è custodita dalla Biblioteca Universitaria di Groninga. La prima parte dell’opera (fino al 1234) è stata scritta dallo stesso Emo, il quale narra la storia del proprio convento e dà conto delle sue riflessioni sul sacerdozio e sulle sue difficoltà. Ma descrive anche gli eventi politici della Frisia contemporanea. Emo narra dei Frisoni che, nel 1214, si lasciano convincere da un predicatore a partecipare alla quinta crociata, fino al loro arrivo in Terra Santa. Descrive un’altra crociata, locale, invocata nel 1234 contro gli Stedinger, coloni che si rifiutarono di pagare le tasse al vescovo di Brema, non senza nascondere una certa simpatia per i primi. La seconda parte della Cronica è stata composta nel 1249-75, in parte dal suo successore Menko, che inizia con una breve agiografia del suo predecessore e prosegue come una cronaca classica. La terza e ultima parte, molto meno dettagliata, fu scritta tra il 1276 e il 1296 da un autore ignoto.

La Ferté La Salle Belleville Lione Fallavier Chambery La Tour du Pin ITALIA Aiguebelle Nances Saint-Jeoire-Prieurè Saint-Jean-de-Maurienne Lanslebourg Lucedio San Maro Torinese Avrieux Mortara Moncenisio Torino Calendasco Breme Novalesa Piacenza Pavia Susa Sacra Chiaravalle della Colomba di San Parma Fornovo di Taro Michele Berceto

FRANCIA

Pontremoli Santo Stefano di Magra Valdicastello Lucca Firenze San Miniato Poggibonsi Siena San Quirico D'Orcia

A piena pagina le tappe del viaggio compiuto dall’abate Emo verso Roma. In rosso, le località descritte in dettaglio nel resoconto contenuto nella Cronica Floridi Horti.

Radicofani San Lorenzo Vecchio Viterbo Sutri Roma

Qui sopra particolare di una veduta di Roma, tempera su tela di scuola mantovana, da un originale tardo-quattrocentesco. 1540-1545. Mantova, Museo di Palazzo Ducale.


GRANDI VIAGGIATORI

Emo da Huizinge

crazia forte ma lenta, piena di dotti giuristi che avevano dato vita a un sistema di regole impenetrabili. Innocenzo aveva a cuore, in maniera quasi ossessiva, la qualità della predica, l’essenza dell’essere prete, la purezza della Chiesa e il pericolo delle eresie. E il suo anelito di purezza si tradusse, dal punto di vista burocratico, in un sistema che, come il proverbiale cane, si mordeva la coda. La discussione di una causa qualsiasi a Roma divenne, già allora, una procedura assai lunga e costosa. La lunga durata del soggiorno di Emo a Roma dipendeva anche dal fatto che cadde in tempo di Quaresima. In quel periodo il papa e il suo entourage erano quotidianamente in giro per celebrare la messa nelle varie chiese stazionali di Roma. Siccome questo rito si svolge secondo lo stesso schema da millecinquecento anni, possiamo intuire dove Emo si trovasse, giorno dopo giorno, e seguirlo nei suoi tentativi di raggiungere i dignitari di cui aveva bisogno. Ma i suoi possibili interlocutori avevano problemi piú seri da risolvere che non la disputa tra un abate friso-groninghese e il suo vescovo. Essi dovevano infatti occuparsi della situazione dei Balcani, delle crociate contro gli albigesi, della 92

IL VIAGGIO NEL MEDIOEVO

lotta contro i Mori in Spagna e dei tentativi di diversi Ordini mendicanti di mettere piede (nudo) nel paesaggio ecclesiale. Finalmente Emo ottenne l’appoggio papale, seppure in una forma ben diversa da quella sperata: il suo convento poté conservare la proprietà della chiesa di Wierum, ma dovette pagare un compenso in denaro al nobile di Groninga che in precedenza si era opposto. Un compromesso in odore di simonia (il commercio di beni spirituali – per esempio indulgenze – o di beni temporali a essi inerenti – come le cariche ecclesiastiche – cosí chiamato dal nome di Simon Mago che, secondo gli Atti degli Apostoli, tentò di comperare da Pietro il potere di comunicare i doni dello Spirito Santo, n.d.r.), ma che alla fine Emo accettò come giusta soluzione.

Una scelta disperata

Sulla via del ritorno i viaggiatori incontrarono ostacoli enormi. In primo luogo, Emo aveva consumato tutti i suoi averi, a causa del protrarsi della permanenza romana e dei costi della procedura. In piú, andava inasprendosi lo scontro tra l’imperatore scomunicato Ottone

In alto i resti dell’abbazia cistercense di Villers-laVille (Belgio). Fondata nel XII sec. e distrutta alla fine del XVIII, fu uno dei luoghi in cui sostò Emo, secondo la regola che prevedeva l’ospitalità in conventi del proprio Ordine – o in uno affine – per pasti e pernottamenti. Nella pagina accanto Subiaco, Sacro Speco, Chiesa inferiore. Innocenzo III raffigurato in un particolare degli affreschi del Magister Consulus. XIII sec.


IL VIAGGIO NEL MEDIOEVO

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GRANDI VIAGGIATORI

Emo da Huizinge

IL VIAGGIO DI RITORNO

Nijeklooster

Groninga Essen Rolde

Coevorden Nordhorn

Qui sotto Parma, Duomo di S. Maria Assunta. Deposizione dalla Croce, particolare del bassorilievo di Benedetto Antelami. 1178.

Monastero di Langenhorst Monastero di Varlar

OLANDA

BELGIO

Meerbusch Dormagen Maastricht Colonia

Münster Cappenberg Dortmund Werden Monastero di Heisterbach Sinzig Bendorf

Boppard (Bacharach)

Magonza

Lussemburgo Worms Orbais L'Abbaye

Spira Schwarzach Strasburgo

In alto Il duomo di Spira, in Germania, edificato nell’XI sec., in una incisione del 1890 circa. In basso incisione cinquecentesca raffigurante Bologna, città in cui Emo dovette fermarsi per piú giorni, lungo il viaggio di ritorno verso Wierum.

FRANCIA Basilea

Offenburg Ettenheimmünster Freiburg im Breisgau Müllheim (Bad) Sackingen

GERMANIA

Zurigo Rüti Weesen Sargans SVIZZERA Chur Cazis San Bernardino Splügen Mesoco Bellinzona Lugano Chambery

Brugg

ITALIA

Como Milano Vertemate Chiaravalle Milanese Lodi Torino Pavia Calendasco Piacenza Chiaravalle della Colomba Fornovo di Taro Berceto

Parma Modena Villafranca

Bologna

Pietrasanta Firenze Galleno Poggibonsi Buonconvento Abbadia San Salvatore Acquapendente Montefiascone Sutri

94

IL VIAGGIO NEL MEDIOEVO

Roma


di Bloemhof («Giardino fiorito»), dove rimase fino alla sua morte nel 1237. Per alcuni secoli l’abbazia rimase un importante centro di cultura. I monaci, inoltre, parteciparono attivamente alla bonifica e alla gestione delle acque nelle zone circostanti. Nel 1561, con l’avanzare della Riforma protestante, il convento fu abbandonato e i suoi mattoni usati per la costruzione di un nuovo palazzo governativo a Groninga. Piú di un secolo dopo, nel 1683, nello stesso luogo sorse una chiesa protestante. Ma l’eredità di Emo sopravvive ancora nel nome del piccolo villaggio che ora conta un centinaio di abitanti: non si chiama piú Wierum, ma Wittewierum, cioè «Wierum bianca», bianca come il colore della tonaca dei monaci dell’Ordine premostratense.

Un assetto politico particolare

In alto Wierum. Ancora un’immagine della chiesa di S. Maria. XIII sec. Nella pagina accanto cartina con le tappe del viaggio di ritorno compiuto dall’abate Emo. In rosso, le località descritte in dettaglio nel resoconto contenuto nella Cronica Floridi Horti.

IV e l’eletto dal papa, Enrico II, motivo per il quale lungo tutta la strada era reale il pericolo di essere assaltati da mercenari antipapali. Perciò Emo diede in pegno la bolla papale, ottenuta con tanta fatica, a un gruppo di mercanti, i quali gliel’avrebbero resa a Bologna, in cambio della somma prestata. All’apparenza l’accordo garantiva un doppio vantaggio: un trasporto piú sicuro attraverso i pericolosi Appennini e la possibilità di farsi poi concedere un ulteriore prestito, piú consistente, da un banchiere di Lucca, Siena o Pavia. L’esito, invece, fu disastroso: giunto a Bologna, Emo venne informato del fatto che proprio i mercanti ai quali si era rivolto erano stati derubati. Allora, il suo compagno di viaggio, l’architetto Hendrik, decise di tornare subito a Roma, dove, conoscendo ormai la strada, arrivò molto piú velocemente e dove questa volta seppe aggirare gli scogli della burocrazia. Emo, invece, rimase a Bologna. In un primo tempo si ammalò per il dispiacere, ma poi si riprese e si mise diligentemente a copiare alcuni manoscritti conservati nella piú antica città universitaria d’Europa. Intorno al 12 maggio 1212 Hendrik tornò con un nuovo esemplare della bolla, e poco dopo i due ripresero il viaggio di ritorno. Il 6 luglio, Emo poteva riabbracciare i suoi fratelli del convento di Wierum, nella piacevole certezza che, finalmente, i problemi erano risolti. In 241 giorni, i due avevano percorso una distanza di circa 3000 km (2500 dei quali a piedi). L’anno successivo Emo fondò la sua abbazia, con il lieto nome

Ma perché Emo, abate di un piccolo convento nell’estremo Nord del Sacro Romano Impero, dovette andare fino a Roma per far risolvere dal papa un piccolo conflitto locale? La risposta si trova nella particolare situazione politica della sua regione, nota come Libertas Frisonica. Nella Frisia, che all’epoca di Emo comprendeva l’attuale omonima provincia olandese – in cui tuttora si parla la lingua frisona –, nonché i territori dell’odierna Frisia orientale tedesca fino alla costa della Danimarca sud-occidentale, non era mai stato introdotto il feudalesimo. Politicamente la regione era composta da città indipendenti nell’Ovest e piccole repubbliche contadine verso est, nell’attuale provincia di Groninga, dove si trovava il convento di Emo. Tale situazione viene a formarsi subito dopo la conquista della Frisia da parte dei Franchi, nell’VIII secolo. La leggenda vuole che l’imperatore Carlo Magno, nell’802, avesse garantito ai Frisoni la libertà da qualsiasi signoria come ringraziamento per l’aiuto dato, tre anni prima, dal loro capo Magnus Forteman alla discesa in Italia dell’allora re dei Franchi. L’editto che avrebbe stabilito questo Privilegium Frisiorum Caroli Magni è quasi certamente un falso (la piú antica copia conservata risale al XIV secolo), ma nel Medioevo la sua veridicità non fu messa in discussione. I privilegi della Frisia furono infatti riconosciuti e riconfermati piú volte, dall’imperatore Corrado II nel 1039, da Enrico V insieme a papa Pasquale II nel 1108, e dal re di Roma Guglielmo II d’Olanda nel 1248. Ancora nel 1417, l’imperatore Sigismondo dichiarò la Frisia come una sua dipendenza diretta, senza il tramite di un conte o duca, il che equivaleva a un riconoscimento indiretto della IL VIAGGIO NEL MEDIOEVO

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GRANDI VIAGGIATORI

Emo da Huizinge

sua indipendenza, visto che pochi imperatori avevano tempo e voglia di occuparsene. Per la verità, prima di lui alcuni imperatori avevano cercato di dare le terre frisone in feudo a un loro vassallo, ma con scarso successo. Cosí, nel 1101, Enrico il Grasso, marchese di Braunschweig, tentò di impossessarsi della regione, ma fu assassinato dagli abitanti del luogo durante un ricevimento a Stavoren. Una sorte non migliore toccò a un altro pretendente, il conte d’Olanda Guglielmo IV, che, nel 1345, fu battuto e ucciso da un esercito improvvisato di cittadini e contadini, che combatterono al motto di «Meglio morto che schiavo», che è tuttora la frase-simbolo dei Frisoni (sebbene sia stata usurpata, in tempi piú recenti, dagli anarchici di mezzo mondo). Per secoli, dunque, i Frisoni governavano se stessi, in una situazione di pace sostanziale, dopo la cessazione delle incursioni normanne nel X secolo. L’assenza di un’aristocrazia, con tutti gli oneri di tasse e corvée che ciò comportava, fu uno stimolo importante per l’economia locale, come riconosce lo stesso Emo. Nella sua Cronica l’abate di Wierum elenca come ricchezze regalate da Dio ai Frisoni, oltre al gran numero di abitanti, le grasse mandrie di bestiame e le terre fertili, appunto la loro libertà. Nella seconda metà del XV secolo, tuttavia, la situazione cambia, quando la Frisia occidentale è lacerata da lotte interne tra diverse fazioni e città, mentre la città di Groninga assume il controllo della zona circostante e la nobile casata dei Cirksena dà vita alla contea della Frisia orientale.

L’ultimo sussulto

La «libertà frisone» finisce di fatto nel 1498, quando l’imperatore Massimiliano I nomina l’elettore Alberto di Sassonia podestà della Frisia, che, nel 1515, entra nel novero dei possedimenti di Carlo V. I nobili frisoni ebbero un ultimo scatto d’orgoglio in occasione dell’incoronazione di suo figlio Filippo II, a Bruxelles, nel 1555. Invitati a inchinarsi davanti al sovrano si rifiutarono con la motivazione che «un Frisone si inginocchia solo davanti a Dio». Tuttora il forte senso di indipendenza e la testardaggine sono considerati l’essenza del carattere frisone. In questa situazione di anarchia moderata, l’unico a godere di un rispetto, almeno morale, in tutta la regione era il vescovo di Münster. A differenza del resto dell’Olanda, compresa Groninga, la sua diocesi amministrava gran parte della Frisia, una zona convertita solo nei decen96

IL VIAGGIO NEL MEDIOEVO

QUELLA SCHOLA AI PIEDI DEL GIANICOLO... Come altri pellegrini venuti dal Nord, l’abate Emo poteva contare sull’ospitalità offerta dalla foresteria di una piccola colonia di connazionali residenti a Roma. In seguito alla cristianizzazione della Frisia, avvenuta sul finire dell’VIII secolo, sorse una Schola Frisonum, ai piedi del Gianicolo. La Schola si trovava molto vicino alla tomba di san Pietro, nel rione di Borgo (l’ingresso è oggi al civico 21 di Borgo Santo Spirito), accanto a quella dei Sassoni, alla cui presenza deve il suo nome la chiesa di S. Spirito in Sassia. La Schola Frisonum viene menzionata per la prima volta nel 799, quando partecipò all’accoglienza tributata a papa Leone III al suo ritorno a Roma dopo un esilio durato sei mesi. Nell’846 i Frisoni sono tra i difensori che tentano, invano, di proteggere la città da un attacco di predoni saraceni. Anche la loro Schola è distrutta, ma si riprende subito dopo la costruzione della Città Leonina. In un editto dell’854, due anni dopo la benedizione delle nuove mura da parte di Leone IV, viene già menzionata una chiesa frisone, dedicata all’arcangelo Michele. A lui piú tardi si aggiungerà san Magno, vescovo e martire di Alatri, che nel Medioevo raggiunse una grande popolarità nell’Europa settentrionale. Di questa chiesa, distrutta a sua volta dai Normanni nel 1084, non resta che una lapide, ora incorporata in una parete della chiesa attuale, dedicata a un certo cavaliere Hebe (tipico nome frisone), morto a Roma nel 1004. Una nuova chiesa frisone viene inaugurata nel 1141. L’attuale edificio, raggiungibile per una scala che parte di fronte al colonnato di Bernini, è stato pesantemente rimaneggiato nel Sette e Ottocento, mentre il campanile è rimasto sostanzialmente inalterato. Nel XIII secolo chiesa e «burgus Frisonum» sono nominati in diversi documenti, ma allo stesso tempo subiscono le pressioni di prelati intesi ad annetterli ai possedimenti vaticani. Di questa lotta è testimone la lunga iscrizione nella parete sinistra della chiesa, che narra la vicenda di tre cavalieri frisoni, Ilderado di Groninga, Leomot di Stavoren e Hiaro di Esens. I Frisoni avrebbero combattuto i Saraceni nell’esercito di Carlo Magno, dopodiché l’imperatore e il papa, in segno di riconoscimento, avrebbero


Roma, Ss. Michele e Magno. Epigrafe che ricorda la costruzione della chiesa, al tempo di Leone IV, e i restauri eseguiti durante il papato di Clemente VIII, nel 1608. Sopra la lapide, un rilievo con san Michele che uccide il drago.

Nella pagina accanto e in alto la facciata e la navata centrale della chiesa dei Ss. Michele e Magno, a Roma. La prima fondazione del luogo di culto risale all’VIII sec., con il nome di Schola Frisonum.

fatto costruire per loro questa stessa chiesa, come luogo di accoglienza dei loro connazionali, «fino all’eternità». Inoltre, i cavalieri avrebbero trovato a Fondi il corpo di san Magno, portandone un braccio in patria e lasciando il resto nella chiesa che cosí fu dedicata anche a lui. Si tratta di un testo ovviamente apocrifo, scritto intorno al 1300, per difendere l’identità frisone della chiesa. Senza successo però, perché nel 1309 i papi si trasferirono ad Avignone, dove rimasero fino al 1376, con il conseguente arresto del flusso di pellegrini a Roma. Senza la comunità frisone la chiesa e i dintorni tornano in mano al papa, il quale nel 1446 ne toglie il possesso ai Frisoni, mentre, nel 1513, Giulio II incorpora la chiesa nel capitolo di San Pietro. Nel corso dei secoli, è stata utilizzata da varie istituzioni pie, ultima delle quali l’Arciconfraternita del Santissimo Sacramento. L’origine frisone-olandese non viene tuttavia dimenticata, come dimostra per esempio un disegno della «chiesa frisone» fatto nel 1932 dal grafico olandese Maurits Escher. Negli anni Ottanta del Novecento rinasce l’interesse per la chiesa, che allora si trovava in uno stato deplorevole. Furono avviati interventi di restauro conclusi nel 2011. Dal 1985 ogni domenica viene celebrata la messa in lingua olandese, e talvolta in frisone. Nel 2004 i proprietari, la diocesi di Roma e il capitolo di San Pietro, indicano Ss. Michele e Magno come chiesa degli immigrati olandesi, concludendo cosí un ciclo iniziato dodici secoli prima. Aart Heering

ni finali dell’VIII secolo. La diocesi continuò a comprendere la Frisia olandese (e tuttora comprende la Frisia orientale tedesca) fino al 1559, quando fu istituita la diocesi di Groninga, nel tentativo di fermare la Riforma protestante. Un tentativo comunque fallito, visto che, nel 1594, l’amministrazione cittadina vietò addirittura la messa cattolica e abolí la sede vescovile, ripristinata soltanto nel 1956. In assenza di un’autorità civile in grado di opporsi alla decisione del vescovo, Emo si vide costretto ad appellarsi a un’autorità ecclesiastica superiore. Seguendo la gerarchia ecclesiastica si sarebbe dovuto rivolgere all’arcivescovo di Colonia, superiore diretto del vescovo di Münster. In quel momento, però, la dignità arcivescovile era contesa tra due pretendenti, Adolfo di Altena e Dietrich di Engelbach, ambedue fortemente coinvolti nella lotta tra guelfi e ghibellini. E cosí, piuttosto che affidarsi alla dubbia autorità dei prelati germanici, Emo decise di rivolgersi al papa. Intraprese dunque il suo viaggio e ottenne quel che voleva. Non male per un abate di provincia! IL VIAGGIO NEL MEDIOEVO

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GRANDI VIAGGIATORI

Francesco d’Assisi

MISSIONE IN EGITTO Nel settembre del 1219 infuriava la quinta crociata e le truppe cristiane si trovavano in Egitto, nel tentativo di espugnare Damietta. Dopo un lungo stallo, i musulmani respinsero l’assedio e Francesco d’Assisi decise di recarsi dal vincitore, al-Malik al-Kamil, nel tentativo di convertire le sue genti. Il primo a parlare della missione oltremare dell’Assisiate è Giacomo da Vitry, vescovo di San Giovanni d’Acri. In una lettera del febbraio del 1220, Giacomo attesta che l’incontro tra Francesco e il sultano «non avesse ottenuto granché», riferendosi forse a una tregua, o forse a una conversione, o forse a una trattativa. Tra il 1223 e il 1225, Giacomo torna a parlarne nella sua Historia Occidentalis, precisando che «i Saraceni ascoltavano volentieri i frati minori quando predicavano la fede in Gesú Cristo e l’insegnamento del Vangelo». La seconda fonte è una cronaca anonima, databile agli anni 27-29 del XIII secolo. L’autore è un sostenitore di Giovanni di Brienne, il re di Gerusalemme sempre in lotta col delegato papale in Terra Santa, Pelagio. La cronaca intende mettere in buona luce al-Malik al-Kamil contro l’ottusità del cardinal Pelagio e, anche per questo, ci mostra un sultano illuminato, che ascolta di buon grado le parole di due chierici cristiani in udienza presso di lui. Si ritiene da sempre che tale fonte intenda riferirsi all’incontro tra Francesco e al-Kamil. Le fonti successive sull’incontro sono le biografie del frate Tommaso da Celano, che ci presenta un Francesco in Oriente, animato dalla sete del martirio. Nel poema del letterato Enrico d’Avranches, si introduce la novità di una disputa teologica sostenuta da frate Francesco con i sufi del sultano. I compagni di Francesco, che scrivono intorno al 1244, ci dicono solo che Francesco andò per predicare al sultano e che in quell’occasione contrasse una grave malattia agli occhi a motivo della grande fatica e calura sostenuta durante il viaggio. Un elogio funebre in onore di Ibn al-Zayyat, consigliere spirituale di al-Malik al-Kamil, attesta l’episodio anche da parte araba. Vi si dice che Ibn al-Zayyat ebbe l’avventura eccezionale d’incontrare un monaco cristiano, da sempre identificato con Francesco. Bonaventura da Bagnoregio, per parte sua, descrive un Francesco animato dal desiderio di martirio, che sfida la fede del sultano in un’ordalia. Nel Trecento altri due autori francescani tornarono sull’episodio; il primo, Angelo Clareno, parla della partenza di Francesco come momento di sventura interno all’Ordine, piú precisamente come l’occasione che in molti attendevano per stravolgere la Regola primitiva, approfittando della sua assenza. Infine, Ugolino da Montegiorgio, l’autore dei Fioretti, amplifica l’aspetto leggendario e miracoloso della vicenda. Parla di una inverosimile conversione del sultano, il quale, in punto di morte, avrebbe chiesto il battesimo, toccato dall’incontro con Francesco. Nei Fioretti, inoltre, il letto di brace, apprestato per l’ordalia davanti al sultano, diviene un letto in senso letterale, sul quale Francesco avrebbe invitato a congiungersi con lui una prostituta inviatagli dal sultano. Un richiamo evidente alle biografie dei padri del deserto, i quali, durante le ore di veglia nelle desolate lande della Tebaide, venivano tentati dal Demonio attraverso allucinazioni in forma di donna. Chiara Mercuri

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IL VIAGGIO NEL MEDIOEVO

Firenze, chiesa di S. Trinita, Cappella Sassetti. Prova del fuoco davanti al sultano, affresco di Domenico Ghirlandaio. 1482-1485 circa.


IL VIAGGIO NEL MEDIOEVO

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GRANDI VIAGGIATORI

Memorie d’un pellegrino illustre

Il giubileo del 1300 richiamò a Roma genti provenienti da ogni angolo d’Europa. Da quella prima volta, l’anelito all’indulgenza spinse al viaggio devozionale migliaia di fedeli. Tra i quali, nel 1350, vi fu anche Francesco Petrarca 100

IL VIAGGIO NEL MEDIOEVO

di Luca Pesante

P

er l’uomo del Medioevo il viaggio ha sempre origine da un impulso di trasgressione e di conoscenza: una prova dura, che offre la possibilità di riscattarsi da una condizione esistenziale di frustrazione, incapacità morale, identità perduta. Nei secoli dopo il Mille almeno tre circostanze determinano una forte intensificazione dei viaggi: lo sviluppo dell’economia di mercato, le crociate, e la pratica di pellegrinaggio in occasione dei giubilei. In quest’ultimo caso – già dal 1300 – si compie una delle piú grandiose manifestazioni di massa della cristianità medievale, che fu, pertanto, anche evento politico ed economico. Con essa si celebrava, innanzitutto, il trionfo di Roma e del papato, ma rappresentava anche la risposta a una forte istanza del popolo cristiano che dal

In alto una veduta di Roma nelle Storie di Sant’Agostino affrescate da Benozzo Gozzoli per la chiesa del santo omonimo a San Gimignano (Siena). 1465. Nella pagina accanto Francesco Petrarca ritratto in uno degli affreschi di Andrea del Castagno per il Ciclo degli uomini e donne illustri. 1450 circa. Firenze, Gallerie degli Uffizi.


IL VIAGGIO NEL MEDIOEVO

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GRANDI VIAGGIATORI

Francesco Petrarca

XII secolo, cioè dalla nascita di un nuovo luogo dell’aldilà, chiamato Purgatorio, aveva iniziato a confrontarsi con la propria vita ultraterrena. E proprio con la concessione di un’indulgenza la Chiesa poteva abbreviare la durata dei tormenti «purgatori» che ogni peccatore avrebbe sofferto post mortem, un privilegio che accrebbe ancor piú il potere del papa. Il secondo giubileo della storia del cristianesimo, quello del 1350, non fu indetto da papa Clemente VI di sua iniziativa. Come del resto avvenne anche per il primo solenne «centesimo anno», proclamato da Bonifacio VIII nel 1300, il papa volle in primo luogo assecondare e soddisfare le aspettative del popolo romano e di molti pellegrini dell’Occidente cristiano.

A MIGLIAIA IN CAMMINO VERSO ROMA

Clemente dimezza l’attesa

Clemente VI (pontefice dal 1342 al 1352) si trovava nel palazzo dei papi di Avignone quando, poco dopo la sua elezione, ricevette da Roma un gruppo di diciotto ambasciatori, tra i quali due senatori, incaricati di offrirgli i titoli di senatore, sindaco, capitano e difensore del popolo romano, insieme alla richiesta di riportare la corte papale dalle rive del Rodano a quelle del Tevere e di indire un giubileo nel 1350. Sul ritorno del papa a Roma gli stessi ambasciatori non confidavano piú di tanto, mentre nella richiesta del giubileo le speranze erano molte. E infatti, dopo averne discusso con i cardinali nel corso di alcuni concistori, il 27 gennaio del 1343 il papa promulgò la bolla Unigenitus Dei filius, con cui istituiva il grande evento (Petrarca lo chiama il «perdono») a Roma per il 1350. Accogliendo la richiesta dei Romani, il papa ordinò inoltre che, da allora in poi, il giubileo si celebrasse ogni cinquant’anni, in considerazione anche della brevità della vita media, a differenza di quanto disposto da Bonifacio VIII nel 1300, che prevedeva la concessione dell’indulgenza plenaria giubilare soltanto ogni cento anni. Il papa dunque offriva la possibilità di una remissione totale dei peccati in occasione del giubileo in modo che potesse «crescere la pietà del popolo romano e di tutti i fedeli». Rispetto al 1300 era ora possibile ottenere l’indulgenza anche nella basilica di S. Giovanni in Laterano, che si aggiunse a S. Pietro in Vaticano e S. Paolo fuori le Mura. Per il resto le modalità rimasero invariate: per i Romani era indicata la visita delle basiliche prescritte una volta al giorno per un periodo di trenta giorni mentre per i pellegrini venuti da fuori sarebbero stati sufficienti quindici giorni. 102

IL VIAGGIO NEL MEDIOEVO

Ecco come Matteo Villani, nella Cronica, dà conto del diffondersi del desiderio di recarsi a Roma in pellegrinaggio: «Nelli anni di Cristo della sua Natività MCCCL, il dí di Natale, cominciò la santa indulgenzia a tutti coloro che andarono in pellegrinaggio a Roma, faccendo le vicitazioni ordinate per la santa Chiesa alla bassilica di Santo Pietro e di San Giovanni in Laterano e di Santo Paolo fuori di Roma: al quale perdono uomini e femine d’ogni stato e dignità concorse di Cristiani, maravigliosa e incredibile moltitudine, essendo di poco tempo inanzi stata la generale mortalità, e ancora essendo in diverse parti d’Europa tra’ fedeli cristiani; e con tanta divozione e umiltà seguieno il romeaggio [pellegrinaggio] che con molta pazienza portavano il disagio del tempo, ch’era smisurato freddo, e ghiacci e nevi e aquazzoni, e le vie per tutto disordinate e rotte, e i camini pieni di dí e di notte d’alberghi, e le case sopra i camini non erano sofficienti a tenere i cavalli

Questo giubileo fece registrare molte presenze illustri: il re d’Ungheria Luigi I, che lasciò un’offerta di 4000 scudi, santa Brigida di Svezia, santa Caterina da Siena, Cola di Rienzo, il poeta Buccio di Ranallo e Francesco Petrarca. Chi non riuscí a mettersi in viaggio verso Roma avanzò la richiesta direttamente al pontefice di ricevere un Privilegio, ossia la possibilità di ottenere l’indulgenza pur restando lontano da Roma: cosí fecero anche il re di Cipro, il re di Castiglia – che motivò la richiesta mo-

In alto miniatura raffigurante pellegrini giunti a Roma per il giubileo del 1300, dalle Croniche di Giovanni Sercambi. Inizi del XV sec. Lucca, Archivio di Stato.


e li uomini al coperto (...). Per li ostellani non si potea rispondere, non che a dare il pane, il vino e la biada, ma di prendere i denari. E molte volte avenne che i romei [pellegrini] volendo seguire il loro camino, lasciavano i denari del loro scotto sopra le mense, seguendo il loro viaggio: e non era chi li togliesse de’ viandanti, infino che dall’ostelliere venia chi li togliesse. Nel camino non si facea riotte né romori ma comportava e aiutava l’uno a l’altro con pazienza e conforto. E cominciando alcuni ladroni a rubare e a uccidere in terra di Roma, da’ romei medesimi erano morti e presi, atando a soccorere l’uno l’altro (...). La moltitudine de’ Cristiani ch’andavano a Roma era impossibile a numerare: ma per stima di coloro ch’erano risedenti nella città che il dí di Natale, e di giorni solenni apresso, e nella quaresima sino alla Pasqua della santa Resurressione, al continovo fossono in Roma romei dalle mille migliaia alle dodici centinaia di migliaia. E poi per l’Asensione e Pentecosta piú di DCCCM; essendo i camini pieni il dí e la notte come detto è. Ma venendo la state cominciò a mancare la gente per l’acupazione delle ricolte, e per lo disordinato caldo; ma non sí che, quando v’ebbe meno romei, non vi fossono continovamente ogni dí piú di CCM di uomini forestieri. Le vicitazioni delle tre chiese, movendosi d’onde catuno era albergato, e tornando a casa, undici miglia di via. Le vie erano sí piene al continovo, che convenia a catuno seguitare la turba a piede e a cavallo (...). I romei ogni dí della vistazione offerevano a catuna chiesa, chi poco e chi assai come li parea. Il santo sudario di Cristo si mostrava nella chiesa di San Piero, per consolazione de’ romei, ogni domenica e ogni dí di festa solenne; sicché la maggiore parte di romei il potevano vedere. La pressa v’era al continovo grande e indiscreta. Perché piú volte avvenne, che quando due, quando quattro, quando sei, e talora fu che dodici vi si trovarono morti dalle strette, e dallo scalpitamento delle genti. I Romani tutti erano fatti albergatori, dando le sue case a’ romei a cavallo; togliendo per cavallo il dí un tornese grosso, e quando uno e mezzo, e talvolta due, secondo il tempo, avendosi a comprare per la sua vita e del cavallo ogni cosa un romeo, fuori che il cattivo letto. I Romani per guadagnare disordinatamente, potendo lasciare avere abondanza e buono mercato d’ogni cosa da

strando la necessità di non lasciare indifese le frontiere con il regno islamico di Granada –, Elisabetta d’Ungheria, i membri della famiglia reale d’Inghilterra, e l’intero popolo dell’isola di Maiorca che, pur evitando i pericoli di un lungo viaggio verso Roma, ottenne l’indulgenza dopo aver versato nelle casse della Camera Apostolica una somma di 30 000 fiorini da destinarsi a opere pie. La Roma del XIV secolo non era attrezzata ad accogliere 1 milione e 200mila pellegrini – se-

vivere a’ romei, mantennono carestia di pane e di vino e di carne sí tutto l’anno, facendo divieto che’ mercatanti non vi conducessono vino forestiere, né grano né biada, per vendere piú cara la loro. Valsevi al continovo uno pane grande di dodidi o diciotto once a peso denari dodici. E ‘l vino soldi tre, quattro, e cinque il pitetto, secondo ch’era migliore. Il biado costava un rugghio, ch’era dodici profende comunali, a comperallo in grosso, quasi tutto l’anno, dalle libbre quattro soldi diece in lire cinque: il fieno, la paglia, le legne, e ‘l pesce, e l’erbaggio vi furono in grande carestie. Della carne v’ebbe convenevole mercato ma frodavano il macello, mescolando e vendendo insieme con sottili inganni, la mala carne colla buona. Il fiorino dell’oro valea soldi quaranta di quella muneta. Nell’ultimo dell’anno come nel cominciamento v’abondò la gente, o poco meno. Ma allora vi concorsono piú signori, e gran dame, e orrevoli uomini, e femine d’oltre a’ monti e di lontani paesi, ed eziandio d’Italia, che nel cominciamento o nel mezzo del tempo: e ogni dí presso alla fine si facevano delle dispensagioni, del visitare le chiese, maggiori grazie».

condo la stima fatta Matteo Villani (morto a Firenze nel 1363) nella Cronica – provenienti da quasi tutta Europa. La capitale della cristianità non contava piú di 25 000 abitanti (anche se, per esempio, il medievista Jean-Claude Maire Vigueur ha sostenuto che gli abitanti della Roma medievale dovevano essere almeno 60 000, n.d.r.), ed era drammaticamente decaduta nel corso della lunga assenza della corte pontificia. Decimata dalla peste nera del 1348, la popolazione si era concentrata nell’a-

In alto Roma, basilica di S. Giovanni in Laterano. Veduta dell’abside con la cattedra papale cosmatesca del XIII sec. (la sistemazione del luogo è però frutto dell’intervento voluto da Leone XIII alla fine dell’Ottocento).

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GRANDI VIAGGIATORI

Francesco Petrarca

LE DATE DI UNA VITA 1304. Francesco Petrarca nasce ad Arezzo da Eletta Canigiari e dal notaio fiorentino ser Petracco.

1320-26. Avviato, per imposizione del padre, agli studi giuridici, frequenta l’Università di Montpellier e poi quella di Bologna, ma è attratto dalla lettura dei classici latini e questo spiega perché non consegua alcun titolo accademico.

1311. Segue il padre ad Avignone, allora sede del pontefice, dove ser Petracco aveva trovato lavoro.

In basso il frontespizio dell’edizione manoscritta di una raccolta di sonetti di Francesco Petrarca. XV sec. Montpellier, Bibliothèque Universitaire de Médecine.

1326. Tornato in Provenza, prende gli ordini minori che, senza imporgli obblighi ecclesiastici, gli permettono di avere incarichi redditizi.

1330. Viene assunto come cappellano di famiglia dal cardinale Giovanni Colonna. Sono anni di grandi fermenti: la sua natura inquieta, curiosa di uomini e di cose, lo spinge a viaggiare in tutta Europa; alla fine, però, sceglie di rifugiarsi a Valchiusa, in Provenza. 1327. Il 6 aprile, un Venerdí santo, nella chiesa di S. Chiara di Avignone, vede per la prima volta Laura, figura dominante e fulcro d’ispirazione della sua esperienza poetica.

1370. Parte per Roma, per incontrare il papa, ma a Ferrara è colto da una sincope e, dopo essere rimasto trenta ore senza conoscenza, si fa portare a Padova e di lí ad Arquà, sui Colli Euganei, dove trascorre gli ultimi anni, mentre la sua salute peggiora rapidamente.

1341. Riceve in Campidoglio la corona di poeta.

1374. Nella notte tra il 18 e il 19 luglio 1374 1348. Annota sul codice del esala l’ultimo suo Virgilio la notizia della morte respiro, di Laura, avvenuta durante secondo la l’epidemia di peste che infuriava tradizione, col in Europa. capo reclinato sull’amato 1353. Si stabilisce definitivamente in Italia, dove la codice sua attività di diplomatico si fa piú intensa: dal 1353 al dell’Eneide 1361 è a Milano, presso i Visconti, dove rivede piú volte virgiliana. Boccaccio; dal 1361 al 1362 a Padova, e poi a Venezia, dove la Serenissima gli assegna un palazzo in cambio dell’impegno a lasciare erede la città della sua ormai famosa biblioteca; nel 1368 è di nuovo a Padova.

rea tra il Campidoglio e il colle Vaticano; altrove, tra boscaglie, pascoli e zone acquitrinose, insediamenti simili a piccoli villaggi si erano addensati accanto a chiese e monasteri, come quello sorto intorno al Laterano.

Le chiese in rovina

Prima di giungere nel centro della città, i pellegrini attraversavano una straordinaria successione di rovine semisepolte dalla vegetazione. Ma anche molte delle chiese piú note apparivano in rovina: cosí Ss. Apostoli, S. Pietro in Vincoli, S. Anastasia. In questo paesaggio urbano le principali famiglie baronali romane si erano ritagliate antiche strutture poi trasformate in vere e proprie rocche fortificate: i Savelli si erano insediati nel teatro di Marcello, da cui controllavano i ponti dell’Isola Tiberina, mentre gli Orsini nel teatro di Pompeo, da cui era possibile sorvegliare il transito dei pellegrini sotto il Campidoglio. Lungo le vie della città – ne parla anche il Villani – quando non erano invase d’acqua a causa 104

IL VIAGGIO NEL MEDIOEVO


QUANDO PETRARCA SCRISSE A GIOVANNI BOCCACCIO, «NEL SILENZIO DI UNA NOTTE TENEBROSA»... «Dopo averti salutato, come sai me ne andavo verso Roma in quest’anno che noi peccatori abbiamo tanto desiderato e che ha chiamato a raccolta quasi tutta la cristianità. Per non annoiarmi avevo scelto dei compagni che mi sembravano capaci di rendere agevole anche il viaggio piú faticoso: il piú anziano per la venerabile età che dimostrava, un secondo per la scienza e la loquela, gli altri per esperienza, fedeltà e dedizione. Quel che poi è successo ti dimostrerà quanto il criterio sia stato affrettato anziché felice. Ero tutto zelante di deporre finalmente i miei peccati perché, come dice Orazio: “la vergogna non è di aver peccato, ma di non saper smettere”, e da questo proposito mai la fortuna ha potuto né potrà distogliermi. Anche se sbatte contro gli scogli il mio povero corpo e mi spacca la testa sui sassi ricoprendoli del mio sangue, forse potrà farmi esalare l’anima (che disprezza lei e i suoi modi), ma non la dominerà, mai riuscirà a indebolirla per quanto la mia carne possa soffrire. Per non stancarti con una lunga attesa, sappi che ha infierito non poco sul mio corpo. Lasciata Bolsena, oggi piccola e ignota e un tempo fra i centri principali dell’Etruria, mentre mi affrettavo verso la città santa che avrei visto per la quinta volta, pensavo fra me e me: guarda come corre veloce la nostra vita, come cambiano le cose e i pensieri degli uomini. È proprio vero quel che scrissi nelle Bucoliche: “le voglie che hai da giovane disprezza la vecchiaia e i desideri cambiano se imbiancano i capelli”. Sono già quattordici anni da quando venni a Roma la prima volta soltanto per il desiderio di vederne le meraviglie; dopo alcuni anni vi fui attratto una seconda volta dall’ambizione, forse prematura, ma dolce, della laurea; la terza e la quarta volta fu perché non ebbi timore nel cercare di sostenere degli amici illustri caduti in disgrazie troppo gravose per le mie spalle. Questo è il mio quinto, forse ultimo viaggio a Roma, ben piú felice degli altri quanto è piú generoso occuparsi dell’anima piuttosto che del corpo, della salvezza eterna che della gloria terrena. Mentre pensavo queste cose e in silenzio rendevo grazie a Dio, il cavallo del vecchio e venerabile abate di cui ti ho detto, che mi stava alla sinistra, volendo colpire il mio cavallo – dicono –, con ben sinistro esito tirò invece a me un calcio tale al ginocchio che per il rumore di ossa rotte corsero allo spettacolo anche quelli piú lontani. Il dolore fu atroce. Subito pensai di fermarmi, ma il luogo mi atterriva. Cosí, fatta di necessità virtú, piú tardi giunsi a Viterbo e, con gran sforzo, dopo tre giorni a Roma. Furono chiamati i medici: si vedeva biancheggiare orribilmente l’osso e si temeva che fosse rotto. Erano ancora chiarissimi i segni dello zoccolo ferrato. L’odore della ferita trascurata era cosí forte che io stesso mi dovevo girare perché non riuscivo a sopportarlo. Anche se ognuno ha col proprio corpo una sorta di legame privilegiato, per cui sopporta facilmente quello che lo disgusterebbe in altri, io non avevo mai provato per un cadavere quel che provai per le mie carni: davvero l’uomo è un nulla, un vile e misero animale se un animo nobile non riscatta il suo corpo meschino. Insomma, giaccio nelle mani dei medici incerto nella salute, fra la speranza e il timore, già da quattordici giorni per me piú lunghi e piú noiosi di altrettanti anni. Infatti il mio ingegno, per quel che vale, mentre è corroborato da un moto regolato, si intorpidisce piú di quanto accada ad altri in questa situazione di riposo forzato. Cosí, dannoso in ogni luogo, qui mi è tanto piú penoso e insopportabile per l’acuto desiderio di vedere la regina delle città, che piú contemplo piú la ammiro e piú sono disposto a credere quello che di lei si legge. Ma mi consolo della sofferenza e della disgrazia come se mi venissero dal cielo e penso che, se il mio confessore fu troppo indulgente, a quel che ha lasciato correre ora altri supplisce. E credo che sia per volontà di Dio, che ha sollevato con le sue mani questo mio animo tanto a lungo zoppicante, se ora è il mio corpo a zoppicare. A ben considerare, il cambio non mi pare triste e svantaggioso grazie a Colui che mi restituí la speranza di rivederti presto, guarito nell’anima e nel corpo. Del resto, caro amico, ti scrivo dal mio letto di pena, da coricato come si può certo capire dalla calligrafia, non per addolorarti, ma perché tu sia contento di sapere che ho sopportato tutto di buon grado e che son pronto anche a cose peggiori, se dovessero capitarmi. Ricordati di me e vivi felice. Ti saluto Roma, il 2 novembre, nel silenzio di una notte tenebrosa».

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GRANDI VIAGGIATORI

Francesco Petrarca

UN LUOGO AMENO, MA DOVE «TUTTO È ODIO E GUERRA» Francesco Petrarca scrisse da Capranica una splendida lettera al suo patrono, Giovanni Colonna: siamo nel gennaio del 1337, 16 giorni dopo l’arrivo nel castello degli Anguillara. Quello del poeta è un vero e proprio reportage su questo angolo del Lazio: «Nel territorio romano mi sono imbattuto in un luogo piú che adatto ai miei umori, se col pensiero non ne sognassi un altro. Un tempo venne chiamato il monte delle Capre, forse perché talmente assiepato di cespugli selvatici da sembrare un posto piú da capre che per uomini. Poi, a poco a poco, notato per la bella posizione e per la particolare fertilità, accolse alcuni uomini che su un’altura piuttosto elevata fondarono una rocca. Quel tanto di case che il piccolo colle poteva ospitare non ha perso finora l’antico nome dovuto alle capre. Luogo poco conosciuto, è circondato da altri molto famosi: il Monte Soratte dove abitava Silvestro, ma già prima celebrato dai poeti, il Monte Cimino col lago, ricordati da Virgilio e, distante forse due miglia, Sutri sacra a Cerere e, si dice, fondata da Saturno. Non lontano dalle mura c’è un campo dove raccontano che per la prima volta il re straniero seminò il frumento e che per la prima volta vi fu mietuto: con questo dono miracoloso egli si accattivò il favore e gli animi degli abitanti che, da vivo lo vollero come regnante e, da morto, lo adorarono come vecchio re e dio con la falce. Per quanto si può giudicare da un breve soggiorno il clima è ottimo (...). I boschi frondosi da ogni parte ti proteggono dal sole, tranne a nord dove un colle piú basso si distende in una valle aprica, paradiso di fiori per le api. Nel fondovalle mormorano fonti di acque dolci; vagano per i colli i cervi, i daini, i caprioli e tutti gli animali dei boschi (...) e non ti dico delle mandrie dei buoi e delle pecore mansuete, dei frutti delle fatiche dell’uomo, delle dolcezze di Bacco e dell’abbondanza di Cerere (...). Sola la pace è in bando non so per quale colpa di questa gente o per quale legge del cielo o destino o influsso di stelle. Pensa che il pastore veglia nelle selve armato, e non ha paura dei lupi ma dei briganti; il contadino porta la corazza e usa l’asta come pungolo per spronare il bue che ricalcitra; l’uccellatore copre le reti con lo scudo e il pescatore appende l’amo e l’esca ingannatrice a una rigida spada. Ancora piú ridicolo è chi va al pozzo per l’acqua e a una cordaccia lega un elmo arrugginito: insomma, qui non si fa niente senza le armi. Ma cos’è questo grido nella notte delle scolte sulle mura? Queste voci che incitano alle armi hanno preso per me il posto degli accordi della dolce mia lira. Fra le genti di questi posti non trovi niente di sicuro o di pacifico, niente di umano. Tutto è odio e guerra, tutto sembra opera del demonio».

Una veduta di Capranica. All’epoca del soggiorno di Petrarca il borgo era controllato dagli Anguillara.

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IL VIAGGIO NEL MEDIOEVO

In alto e a destra Capranica. Il castello degli Anguillara con la torre dell’Orologio e la facciata della chiesa di S. Pietro. Petrarca fece sosta nella cittadina laziale nel 1337, prima di raggiungere Roma.


A destra mosaico policromo in pasta vitrea raffigurante l’Ecclesia Romana con il capo coperto da una corona gemmata, dalla primitiva decorazione dell’abside di S. Pietro. XII sec. Roma, Museo Barracco.

dalle frequenti piene del Tevere (che scorreva senza argini), accompagnati da un’aria pestilenziale, ci si doveva imbattere in rifiuti di ogni genere, carcasse di animali, cadaveri umani, lupi e cani alla continua ricerca di cibo. Per rendersi conto delle condizioni del pellegrino sarà utile ricordare il provvedimento preso da Bonifacio IX il 31 maggio 1390: per prevenire le ricorrenti epidemie di peste causate dalla presenza dei pellegrini, il papa ridusse a una settimana il tempo necessario di permanenza a Roma per ottenere l’indulgenza. Ciononostante, subito dopo la Pentecoste, il morbo si era già diffuso in città, obbligando il pontefice a fuggire con la propria curia a Rieti. La malaria rappresentava un ulteriore flagello che acuiva la propria forza nei mesi estivi; e chi poteva, lasciava la città per spostarsi sulle colline o verso l’Appennino.

La fede diventa un business

Nell’anno giubilare molti Romani si trasformarono in albergatori, lucrando sul prezzo degli alloggi e delle vettovaglie, attuando in alcuni casi una brutale speculazione. Fu senza dubbio un grande affare economico anche per le moltissime persone che lungo la via Francigena, cioè la via Cassia, avevano saputo trarre vantaggio dal continuo passaggio di pellegrini diretti a sud. Ha scritto il cronista viterbese Niccolò della Tuccia (XV secolo): «1350. Fu l’anno del giubileo, e rimasero assai quatrini spesi in Viterbo di quelli [che] andavano a Roma». Il pontefice non lasciò Avignone nel 1350 e si fece rappresentare a Roma dal cardinale di Ceccano e dal vescovo di Orvieto. Matteo Villani (vedi box alle pp. 102-103) non manca di sottolineare il flusso straordinario di pellegrini, sebbene la peste nera, dal 1348, avesse falciato un terzo della popolazione europea. Ma fu forse il terrore appena sofferto il vero incentivo della devozione che spinse al cammino verso Roma. La presenza maggiore si ebbe nelle ricorrenze di Pasqua e Natale (date in cui era d’obbligo il sacramento della confessione e dell’eucarestia): circa un milione e piú di pellegrini, mentre ottocentomila furono per l’Ascensione e la Pentecoste. Quando, nella seconda metà dell’anno, decise di recarsi anch’egli a Roma, Francesco Petrarca aveva 46 anni. Inviò prima una lettera metrica a Guglielmo da Pastrengo, per pregarlo di accompagnarlo in viaggio, ma l’amico rifiutò. Il 21 settembre il poeta era ancora a Padova. Poco prima di mettersi a cavallo diretto a Roma (cioè sul finire del mese di settembre) Petrarca

ricevette una lettera in versi da Giovanni Boccaccio. I due ancora non si conoscevano personalmente, e la lettera rappresentava perciò il primo contatto del devoto ammiratore con il grande e affermato poeta. Boccaccio scrisse di non riuscire a trovare alcune opere petrarchesche che invece sapeva essere in circolazione. Il poeta rispose immediatamente, in versi, ripetendo quanto fastidio gli era causato dalla popolarità ed espresse il desiderio di essere amato da pochi e di restare lontano dal volgo. Pochi giorni dopo, non appena Boccaccio seppe che l’illustre corrispondente s’era messo in viaggio per Roma e che sarebbe passato per Firenze, gli corse incontro. Si videro in un freddo pomeriggio autunnale: varcarono insieme le mura della città e Petrarca accolse anche l’invito del Boccaccio a trascorrere qualche giorno presso di lui. Ciò accadeva attorno all’8 di ottobre e, da questo momento, iniziava un’amicizia intima e profonda, che sarebbe durata per tutta la vita. IL VIAGGIO NEL MEDIOEVO

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GRANDI VIAGGIATORI

Francesco Petrarca

Petrarca non dovette fermarsi molto a Firenze. Quando, la notte del 2 novembre, scrisse al Boccaccio da Roma per raccontargli del grave incidente che gli era occorso a Bolsena, erano già quattordici giorni che vi si trovava. Il poeta ripartí dunque da Firenze per Roma intorno al 12 ottobre, dopo aver ricevuto dal Boccaccio, al momento del commiato, un prezioso anello in segno di devozione. Per non annoiarsi, Petrarca decise di fare il viaggio con alcuni compagni, tra i quali un vecchio abate. E proprio il cavallo di quest’ultimo – come ci racconta nella lettera al Boccaccio – gli provocò un dolore indescrivibile al ginocchio, compromettendo gran parte del viaggio. L’uomo è dunque un nulla – ripete il poeta – un vile e misero animale, se un animo nobile non riscatta il suo corpo meschino. Nella straordinaria lettera del 2 novembre (vedi box a p. 105) scopriamo anche noi, con lui, l’odore della ferita, il sangue, il bianco dell’osso, il dolore, la fatica del viaggio, il disagio di notti insonni su scomodi giacigli, e si svela ai nostri occhi la vita corporea di uomo che nulla sembrava avere di umano.

Una malattia dello spirito

Petrarca era un uomo fortemente scontento e irrequieto: desiderava la pace, il riposo e la solitudine, ma, al tempo stesso, ardeva dalla voglia di viaggiare, di muoversi da una città all’altra e di incontrare amici. Perfino il doge Andrea Dandolo s’era meravigliato del continuo vagabondare del poeta che egli stesso giustificava come una malattia dello spririto insita nella natura umana: «Lo ripeto – egli dice – sono malato e lo si vede anche se non lo dico, se fossi sano mi comporterei con maggiore fermezza. (…) Io vivrei bene se potessi volgere a mio vantaggio un rimedio che ho sempre consigliato agli altri: quello di cercare dentro di me quella pace che non riesco a trovare fuori di me e di trovare nel mio animo o, molto meglio, in Colui che signoreggia e illumina l’animo mio, quel riposo che non trovo in nessun luogo della terra». Un motivo di profonda inquietudine era dovuto ai problemi legati alla salute. La ferita riportata a Bolsena non è altro che una disgrazia che si somma ad altre. E qui si comprende pertanto il risentimento e lo sdegno contro chi avrebbe dovuto curare i suoi malanni: in uno dei suoi viaggi il poeta aveva contratto la scabbia e nessun medico era riuscito a sollevarlo dal tormento, anzi aveva semmai peggiorato le sue condizioni. Di qui le Invenctive contra medicum, soprattutto contro quei ciarla108

IL VIAGGIO NEL MEDIOEVO

QUEL VELO MIRACOLOSO Alla devozione per il velo della Veronica (menzionato per la prima volta sotto il pontificato di Giovanni VII, 705-707), che Francesco Petrarca vide a Roma in occasione del giubileo del 1350, si ispira la similitudine del sonetto XVI del suo Canzoniere. Il velo era uno dei Mirabilia Urbis che i pellegrini, fin dal primo giubileo di Bonifacio VIII, potevano osservare direttamente, e veniva solitamente conservato nella basilica di S. Pietro. Lo stesso Bonifacio, il 17 gennaio del 1300, trasformò la processione della Veronica nella prima grande manifestazione dell’istituzione giubilare. Movesi il vecchierel canuto et biancho del dolce loco ov’à sua età fornita et da la famigliuola sbigottita che vede il caro padre venir manco; indi trahendo poi l’antiquo fianco per l’extreme giornate di sua vita, quanto piú po’, col buon voler s’aita, rotto dagli anni, et dal camino stanco; et viene a Roma, seguendo ‘l desio, per mirar la sembianza di colui ch’ancor lassú nel ciel vedere spera: cosí, lasso, talor vo cerchand’io, donna, quanto è possibile, in altrui la disiata vostra forma vera. (Canzoniere, sonetto XVI)

Miniatura raffigurante l’ostensione della Veronica, da un Libro d’Ore illustrato da Simon Bening, celebre miniatore di Bruges. 1530-65. Collezione privata. tani fattucchieri sciocchi e vanitosi, indegni della loro professione. Ma torniamo all’insofferenza, all’incapacità di radicarsi in un medesimo luogo (dice di sé «di nessun luogo abitante, ovunque sono straniero»). Come gli eroi della classicità, che sempre sono andati vagando, nobilitando la propria natura, e alla continua ricerca di una identificazione, cosí Petrarca vede se stesso come «perpetuo viaggiatore». Non potrebbe essere in alcun modo piú chiaro rispetto alle parole che destina al doge veneziano: «Credimi, e ti sarà piú facile se la conosci, c’è un non so che di dolce e faticoso insieme in questa curiosità di girare il mondo. A chi rimane fermo in un posto, con la quiete sopraggiunge la noia: Dio solo sa cosa sia meglio, per questo come per gli altri problemi degli uomini. Certo se c’è chi crede che la virtú risieda nei luoghi


e non nell’anima, e chi chiama costanza l’immobilità, saranno costanti i gottosi, ancor piú costanti i morti, costantissimi i monti». Nel 1337, durante il suo primo viaggio a Roma, all’età di 33 anni, giunto non molto lontano da dove il calcio di un cavallo anni dopo gli avrebbe fracassato un ginocchio, l’illustre viandante trovò un «luogo piú che adatto alla mia natura», un luogo che sembra finalmente mitigare quell’ansia che per tutta la vita lo costringe a una frenetica mobilità. Sul finire del 1336 Petrarca si trovava ad Avignone come cappellano del cardinale Giovanni Colonna, e, intenzionato a visitare Roma, si imbarcò a Marsiglia «tra i fulmini dell’inverno, del mare e della guerra». Giunto a Civitavecchia, non si incamminò nella direzione della Città Eterna, ma si diresse a nord-est, per giungere in un piccolo borgo a metà strada tra Viterbo e Roma, Capranica, dove sorgeva il castello di Orso degli Anguillara, che aveva sposato la sorella del cardinale. La causa della temporanea deviazione fu la feroce guerra allora in atto tra gli stessi Colonna – dei quali Petrerca era un protetto – e i rivali Orsini. Pertanto la sosta a Capranica si prolungò per circa un mese, prima di proseguire il viaggio verso Roma con Giacomo e Stefano Colonna (vedi box a p. 106).

A Roma, finalmente

Finalmente, dopo la sosta a Capranica, Petrarca giunge a Roma, primo contatto con la città che aveva a lungo occupato gran parte dei suoi pensieri. Era stato messo in guardia dagli amici, era stato in un certo senso preparato al peggio, alla rovina, alla drammatica desolazione. Eppure la realtà dissolve ogni timore, al punto che il poeta sembra meravigliarsi di se stesso. Lo stupore è tale da creare confusione. Scrive ancora a Giovanni Colonna scegliendo luogo e data carichi di valore simbolico. Dal Campidoglio, il giorno delle idi (15) di marzo 1337: «Cosa ti aspetti da Roma, dopo che tanto hai ricevuto dai monti? Credevi che appena tornato a Roma avrei scritto grandi cose, e forse ho trovato straordinari argomenti per il futuro. Ma ora come ora non saprei da dove cominciare: sono sopraffatto dalle tante meraviglie e dal mio stesso stupore. Solo una cosa non taccio: è successo il contrario di quello che pensavi. Mi ricordo dei tuoi tentativi di dissuadermi dal venire a Roma col pretesto che l’aspetto della città in rovina, cosí diverso dalla sua fama e dall’immagine che i libri me ne avevano data, avrebbe smorzato il mio entusiasmo. E anch’io, nonostante ardessi dal desiderio, tendevo a rimandare. Temevo che quello che IL VIAGGIO NEL MEDIOEVO

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GRANDI VIAGGIATORI

Francesco Petrarca

Una veduta del Campo Vaccino, olio su rame di Paul Bril. 1600. Dresda. Gemäldegalerie Alte Meister. Al centro si riconoscono le colonne del tempio dei Dioscuri: il carattere agreste del luogo, conservatosi fino ai primi scavi archeologici nell’area del Foro Romano, è lo stesso osservato da viaggiatori e pellegrini durante i secoli del Medioevo. avevo immaginato si sarebbe dissolto di fronte alla realtà, cosí nemica della fama. Invece incredibilmente questa non ha diminuito alcunché, anzi ha tutto accresciuto. Roma fu veramente piú grande di quanto pensassi, e piú grande è quanto ne resta. Non mi meraviglia che il mondo le sia stato sottomesso, ma che lo fu solo cosí tardi». Anche qui emerge una sensibilità straordinaria, che prefigura l’uomo del Rinascimento: la passione per le opere classiche, la ricerca di manoscritti, l’attenzione «archeologica» per Roma, l’approccio «geografico» nello studio delle campagne; in questo Petrarca incarna la figura emblematica di un Umanesimo che ebbe la sua massima fioritura nel XV secolo. Ma, soprattutto, come «inventore» e fondatore della moderna cultura del paesaggio, egli è davvero in anticipo con i tempi dello sviluppo della cultura occidentale. Per Petrarca il fascino di Roma non è circoscritto in un ambito letterario o estetico, esso tocca e coinvolge invece la morale e – grande novità – perfino la politica. Una frase piú di ogni altra sembra illuminare questa nuova consapevolezza: «Chi potrebbe dubitare che Roma resusciterebbe immediatamente, se cominciasse a conoscersi».

Città di cose celesti e terrene

Dopo 13 anni dal primo, giunto al quinto viaggio a Roma (siamo ora tornati al giubileo del 1350), lo stupore è invariato rispetto alla prima volta. In occasione del viaggio fatto per ottenere l’indulgenza giubilare nel 1350, Petrarca scrive una lettera a Philippe de Vitry, sapendo oltretutto che probabilmente sarebbe stata per lui l’ultima volta a Roma: «Il viaggiatore passerà le soglie delle chiese degli apostoli e calcherà la terra rosseggiante del sacro sangue dei martiri; vedrà l’effigie del divino volto conservata sul velo della Veronica o sulle pareti della madre di tutte le chiese; noterà il luogo dove Cristo si fece incontro al profugo Pietro (…), se poi piacerà al viaggiatore di rivolgere la mente dalle cose celesti alle terrene, alzerà gli occhi agli stupendi palazzi dei duci e dei principi romani, sebbene in rovina, degli Scipioni, dei Cesari, dei Fabi, e di altri innumerevoli personaggi, ammirerà i sette colli chiusi dentro una sola cerchia di mura, un tempo dominatori di tutta la terra, di 110

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GRANDI VIAGGIATORI

Francesco Petrarca

tutti i mari, di tutti i monti, e le larghe strade, allora anguste a contenere le schiere dei prigionieri di guerra; vedrà gli archi trionfali, carichi delle spoglie dei re e dei popoli un tempo domati; salirà sul Campidoglio, dominatore e propugnacolo della terra intera, ove fu una volta la cella di Giove, e ora è l’Aracoeli, da cui, come narrano a Cesare Augusto apparve Gesú fanciullo».

La Sibilla e la Vergine

In quest’ultimo passo Petrarca fa riferimento a una leggenda molto popolare nel Medioevo che collocava la chiesa di S. Maria in Aracoeli in corrispondenza del sito in cui, nella Roma antica, sorgeva il palazzo di Augusto. L’imperatore avrebbe avuto una visione profetica mentre dormiva nella sua camera, dove gli sarebbe apparsa una Vergine con un bambino. Per commemorare il prodigio, su una colonna della navata venne aggiunta l’iscrizione commemorativa «a cubiculo Augustorum», tuttora ben leggibile. Inoltre, all’epoca del Petrarca, era ancora visibile nell’abside della chiesa un ciclo pittorico in cui compariva la Sibilla Tiburtina nell’atto di indicare a Ottaviano la Vergine, madre del Salvatore. Dunque la Roma cristiana e quella pagana non sono in conflitto, ma vivono in una continuità leggendaria, e tipicamente medievale, tra l’antico e il presente. La capitale della cristianità è onorata dalle chiese dei martiri come dai monumenti antichi, e i papi dovrebbero custodire con orgoglio le memorie di una città cosí sacra. Nella Roma tardo-medievale, dunque, i resti

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Nella pagina accanto miniatura raffigurante il re di Lar che compra delle perle, da un’edizione del Livre des Merveilles di Marco Polo illustrata dal Maestro della Mazarine. 1410-1412. Parigi, Bibliothèque nationale de France. In basso Disegno di Marteen van Heemskerck, nel quale si vede la statua equestre di Marco Aurelio nella sua collocazione in Laterano, dove rimase fino al 1538, quando fu trasferita sul Campidoglio. 1532-36. Berlino, Kupferstichkabinett.

archeologici cominciavano a essere riconosciuti, apprezzati e tutelati. Si pensi che, già nel 1162, il Comune di Roma aveva emesso un editto di tutela per la Colonna Traiana. Nelle sue rievocazioni storiche e mitiche appare evidente come Petrarca avesse letto a fondo le due fonti letterarie sui monumenti romani piú note dell’epoca: i Mirabilia urbis Romae, redatti negli anni 1140-1143, e la Narracio de mirabilibus urbis Romae di Maestro Gregorio, scritta tra il XII e il XIII secolo da un ecclesiastico proveniente dall’Inghilterra. Petrarca riprende notizie da queste fonti ma le integra con molte osservazioni personali e continui richiami e confronti tra età antica e presente. Il poeta è dunque un viaggiatore instancabile e irrequieto, volubile, e continuamente attraversato dal timore di tutto ciò che è finito e definitivo. Si paragona a Ulisse nel proemio delle lettere familiari, e dirà di sé di avere un occhio mai sazio di vedere cose nuove. Poco prima di morire scrisse una lettera a Giovanni Boccaccio, l’amico a cui era legato indissolubilmente fin dal 1350, quando si incontrarono a Firenze per la prima volta. Petrarca scrisse dell’importanza di non abbandonare mai gli studi, neanche nell’età della vecchiaia, e, in qualche modo, si compiace di un piccolo ma significativo risultato che vede realizzato grazie alla propria opera culturale: «Gli italiani – scrive il poeta – fanno di tutto per sembrare dei barbari», ma sembra che, tuttavia, finalmente «presero a coltivare questi studi negletti per tanti secoli».


MARCO POLO L’UOMO DI FIDUCIA DEL GRAN KHAN Marco Polo nacque a Venezia, nel 1254, da Niccolò, un facoltoso mercante che, con il fratello Matteo, svolgeva frequenti traffici commerciali con l’Oriente. Nel novembre del 1271 partí con il padre e lo zio alla volta della Cina, allora detta Catai, dove i fratelli Polo avevano già soggiornato; ora tornavano alla corte del Gran Khan Qubilai. I tre veneziani giunsero a Cambaluc (l’attuale Pechino) dopo un lungo viaggio, durato trenta mesi, attraverso l’Anatolia, la Mesopotamia, l’altopiano dell’Iran, il Pamir, il Turkestan Orientale, il deserto del Gobi e infine le province cinesi di Gansu, Shensi, Shansi e Hebei. Ricevuti a corte con grandi onori, essi entrarono ben presto nelle grazie del Gran Khan, il quale permise loro di osservare la vita del suo popolo in ogni particolare, ma, soprattutto, apprezzò le doti di intelligenza e di coraggio del giovane Marco. Nei 17 anni che seguirono, Polo, come incaricato di fiducia dell’imperatore, ebbe modo di visitare gran parte dell’Oriente e studiarne la geografia, la storia e i costumi. Imparati i principali idiomi parlati nell’immenso impero del Catai, svolse importanti missioni diplomatiche e commerciali per conto del Gran Khan, che lo portarono a viaggiare nelle province cinesi di Shensi (dove visitò la città di Singganfu, l’attuale Sian), Shansi, Hebei, Honan, Anhui, Kiangsu, Hubei e Szechwan, spingendosi fino al

Tibet; e poi ancora lo Yunnan, nella Cina meridionale, la Birmania e le regioni indocinesi dell’Annam e della Cocincina. Agli inizi del 1292, il Gran Khan permise ai Polo di tornare in patria, affidando però loro l’incarico di scortare fino in Persia una principessa della sua famiglia che doveva andare in sposa al sovrano di quel Paese, Argun Khan. Con 600 uomini imbarcati su 14 navi, i Polo partirono da Zadon (l’odierna Chuanchow) alla volta della Cocincina, da dove raggiunsero la penisola di Malacca e l’isola di Sumatra. Dopo una sosta forzata di 5 mesi a causa dei venti contrari, si diressero verso le Andamane e Ceylon, costeggiarono la costa indiana del Coromandel, doppiarono l’estremità meridionale della penisola del Deccan e giunsero, infine, dopo 18 mesi di viaggio e con soli 20 superstiti, al porto persiano di Hormuz, dove terminava la loro missione e da dove proseguirono via terra il viaggio di ritorno. Tornato a Venezia nel 1295, dopo 24 anni di assenza, Marco riprese la sua attività di mercante. Fatto prigioniero dai Genovesi, probabilmente durante la battaglia di Curzola (1298), nel corso della prigionia dettò a Rustichello da Pisa Il Milione, l’opera cui è legata la sua fama di esploratore e di scrittore. Morí l’8 gennaio del 1324, a Venezia. (red.)

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GRANDI VIAGGIATORI

«Conoscere è il mio mestiere» Nato a Tangeri nel 1304, Abu ‘Abdallah Muhammad Ibn Battuta trascorse oltre metà della sua esistenza viaggiando: fu dunque un esploratore infaticabile, animato non solo dal desiderio di vedere nuove terre, ma anche dalla ricerca dell’incontro con le genti che le abitavano di Marco Di Branco

L

a città di Tangeri si staglia, bianca e ventosa, sulla costa del Marocco, nella punta sud-occidentale dello stretto di Gibilterra, dove la fredda corrente dell’Atlantico confluisce nel braccio di mare per poi incanalarsi verso il Mediterraneo. Secondo la leggenda, sarebbe stata fondata da Ercole in onore di sua moglie, dopo che l’eroe ebbe separato i continenti e costruito le sue celebri «colonne»: la montagna del Jebel Musa, sulla sponda africana, e la roccia di Gibilterra, sul lato europeo. Un luogo ricco di fascino, dunque, che ha però conservato solo in parte il carattere cosmopolita assunto tra il 1925 e il 1956, quando la città fu sottoposta a regime internazionale per decisione delle maggiori potenze europee del tempo e l’Hotel Continental, nella città vecchia, divenne la dimora di scrittori e artisti come Paul Bowles, Tennessee Williams, Truman Capote, Gore Vidal, Jean Genet e William Burroughs. La Medina di Tangeri, alla quale si accede attraversando la pittoresca piazza del «Grand Socco», si estende a ridosso del porto, dal suo lato occidentale. A differenza di quelle di altre città del Marocco, risulta piuttosto compatta, ma è comunque contraddistinta da un labirintico sistema di vicoli dove un occidentale può facilmente perdere l’orientamento. Tra le minuscole stradine di questo dedalo, nella parte piú alta della Medina, la «rue Ibn Battuta», conduce a una piccola cappella funeraria. All’interno della

tomba, copie del Corano sono posate su ripiani e lungo le pareti sono appese collane di giganteschi grani da rosario. Il sepolcro vero e proprio, coperto da un drappo nero ricamato, custodisce le spoglie di colui che viene ritenuto il piú grande viaggiatore dell’epoca pre-moderna, Abu ‘Abdallah Muhammad Ibn Battuta, da molti considerato «il Marco Polo arabo». Tuttavia, Ibn Battuta visitò molti piú luoghi del «collega» veneziano e i suoi resoconti offrono informazioni su quasi tutti gli aspetti della vita dell’epoca, dalle cerimonie della corte del sultano di Delhi ai costumi sessuali delle donne delle isole Maldive alla raccolta delle noci di cocco nell’Arabia meridionale.

Nella pagina accanto Abu ‘Abdallah Muhammad Ibn Battuta in Egitto, illustrazione per la Découverte de la terre di Jules Verne. XIX sec.

Un osservatore acuto e puntuale

Questo straordinario personaggio trascorse in viaggio una buona metà della sua esistenza. E nessuno meglio di lui potrebbe introdurci nella dimensione «globale» che fu propria della civiltà islamica: le sue eccezionali avventure, infatti, ci offrono una visione chiara e ampia delle forze che fecero della storia dell’Eurasia e dell’Africa del XIV secolo un complesso e unitario sistema di connessioni reciproche. Ibn Battuta, infatti, fu un perfetto rappresentante di quell’élite colta e cosmopolita che cercava ospitalità, onori e impieghi prestigiosi nei centri di civiltà islamica di recente istituzione nelle piú remote regioni dell’Asia e dell’Africa. IL VIAGGIO NEL MEDIOEVO

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GRANDI VIAGGIATORI

Ibn Battuta

I VIAGGI DI IBN BATTUTA 1325-1354 Viaggi 1325-1327 Viaggi 1327-1341 Viaggi presunti

Mosca

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In tutte queste vesti, tuttavia, egli si considerava non un cittadino di un paese chiamato Marocco, bensí della dar al-Islam, la «Casa dell’Islam», cioè la comunità islamica «internazionale» di cui rispettava, innanzitutto, lo spirito universalista, la morale e i valori sociali. La sua vita e la sua carriera sono il portato di una straordinaria circostanza della storia islamica verso la fine del Medioevo: la cosiddetta Pax Mongolica, promossa dai potenti khan mongoli della Persia e dell’Asia centrale. Costoro infatti, dopo essersi convertiti all’Islam, garantirono per circa un secolo condizioni di 116

IL VIAGGIO NEL MEDIOEVO

ordine e sicurezza che favorirono piú che mai gli spostamenti dei musulmani in tutta l’Eurasia e l’instaurazione di un ordine mondiale contrassegnato dagli stessi standard economici, sociali, religiosi e perfino culturali.

Dodicimila vescovi e altre «stranezze»

Ibn Battuta nacque a Tangeri nel 1304 da una famiglia di origine berbera ma completamente arabizzata, che apparteneva alla classe colta e che, per tradizione, forniva i piú importanti giudici islamici del Maghreb. Della sua giovinezza non sappiamo nulla, ma è probabile che


IL MAROCCO DEI MERINIDI

Karakorum IMPERO DEL GRAN KHAN Khanbaliq (Pechino)

Hangzhou

Guangzhou

Quanzhou

All’epoca in cui si svolsero i viaggi di Ibn Battuta, il Marocco era governato dalla dinastia berbera dei Merinidi, appartenente al clan degli Zanata, che scelse come suo centro politico e religioso Fes. I Merinidi si erano infatti impadroniti dell’impero conquistato dagli Almohadi, giungendo, nel 1269, a impadronirsi di Marrakech, la loro capitale. Eredi del titolo califfale almohade, i sovrani merinidi non eguagliarono però le ambizioni religiose e politiche dei predecessori e il loro regno ebbe portata soprattutto regionale, nonostante i frequenti conflitti con i re cristiani di Spagna e i tentativi di ricostituire l’unità dei domini maghrebini, contendendo il territorio delle attuali Tunisia e Algeria alle dinastie degli Hafsidi e degli Abdalwadidi. Alla fine del XV secolo, travolti da lotte di successione interne e da un gran numero di rivolte tribali, i Merinidi furono soppiantati dai Wattasidi, loro consanguinei e, per un certo periodo di tempo, loro vizir. La dinastia lasciò una traccia importante soprattutto in campo artistico e architettonico: basti pensare alle opere che abbelliscono la cosiddetta Fes al-Jadida (la «Nuova Fes»), da essi costruita accanto alla precedente città di epoca idriside (IX secolo d.C.). Tra i mecenati merinidi piú celebri va annoverato proprio Abu ‘Inan al-Faris (1348-1358), il sultano che dette a Ibn Juzayy l’incarico di pubblicare la Rihla: la madrasa Bu ‘Inaniya di Fes, da lui fondata nel 1351, è uno dei monumenti piú straordinari dell’architettura islamica maghrebina.

Pagan (Bagan)

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6

Angkor

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abbia ricevuto un’istruzione adeguata al suo ceto. All’età di ventuno anni, partí per il tradizionale pellegrinaggio (hajj) a Mecca, uno dei cinque Pilastri dell’Islam. Le uniche informazioni dettagliate su di lui ci sono fornite da uno studioso del XIV secolo, Ibn Hajar, autore di un dizionario biografico intitolato Le perle nascoste, una sorta di Who’s Who islamico del XIV secolo. Scrive dunque Ibn Hajar: «Ibn Battuta possedeva una modesta conoscenza delle scienze; si mise in viaggio verso l’Oriente nel mese di Rajab dell’anno 725 (1325 secondo il calendario gregoriano), ne attraversò le terre, penetrò nell’Iraq, poi passò in

India, Sind e Cina, e tornò attraverso lo Yemen. In India il re gli conferí la carica di qadi («giudice»). In seguito, ripartí e tornò nel Maghreb, dove riferí le sue imprese e ciò che gli era accaduto e quanto aveva imparato delle genti di diversi paesi. Il nostro shaykh Abu ’l-Barakat Ibn al-Bafiqi ci raccontò di molte stranezze che Ibn Battuta aveva avuto modo di osservare. Tra l’altro, affermava di essere entrato a Costantinopoli e di aver visto nella chiesa di questa città dodicimila vescovi». «In seguito, attraversò lo Stretto della costa spagnola, e visitò le terre dei Negri. Poi il sultano di Fes lo convocò e gli ordinò di mettere per iscritto

In alto Fes, resti di una fortezza dell’età dei Merinidi, la dinastia berbera che assunse il controllo del Marocco tra il XIII e il XV sec.

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GRANDI VIAGGIATORI

Ibn Battuta

UNA RISCOPERTA RECENTE La Rihla (Cronaca di viaggio) di Ibn Battuta rimase sconosciuta in Occidente fino all’inizio del XIX secolo, quando due studiosi tedeschi pubblicarono traduzioni di alcune parti del testo, sulla base di manoscritti incompleti reperiti in Oriente. Nel 1829, l’orientalista britannico Samuel Lee ne editò una traduzione inglese basata su versioni ridotte del testo ritrovate in Egitto da Johann Ludwig Burckhardt, lo scopritore di Petra. Verso la metà dell’Ottocento, in Algeria, dopo l’occupazione francese, vennero alla luce cinque manoscritti della Rihla che furono portati alla Bibliothèque nationale di Parigi. Due di essi contengono le versioni piú complete dell’opera finora emerse; gli altri tre ne riportano solo alcune parti. Grazie a questi cinque testimoni, due studiosi francesi, Charles Défrémery e Beniamino Raffaello Sanguinetti, prepararono, tra il 1853 e il 1858, l’edizione a stampa del testo arabo, accompagnata da una traduzione

francese e da un ricco apparato critico. Da allora, l’opera è stata tradotta in molte lingue: tedesco, russo, polacco, ungherese, persiano, giapponese, tutte basate sul testo arabo di Défrémery e Sanguinetti. Nel 1929, l’arabista scozzese Sir Hamilton A.R. Gibb curò una traduzione inglese ridotta del testo e cominciò a prepararne una versione integrale commentata: il primo volume dell’opera uscí nel 1958, il quinto e ultimo, contenente gli indici, nel 2000. In Italia, alcune sezioni del testo furono tradotte da Francesco Gabrieli, uno dei nostri maggiori arabisti, ma la prima traduzione integrale della Rihla si deve a Claudia M. Tresso (vedi nota bibliografica a p. 119). Questa meritoria edizione permette anche al lettore italiano di seguire lo svolgimento delle avventure di Ibn Battuta, e di collocarle nella cultura islamica del suo tempo, raffrontandole con quelle del «nostro» viaggiatore per eccellenza: Marco Polo.

Sulle due pagine miniature dalle Maqamat di al-Hariri: a sinistra il viaggiatore Abu Zays, eroe dei racconti, insieme al mercante al Harith in navigazione; sopra una tenda di ricchi pellegrini. 1240 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.


i suoi viaggi. Ho visto scritta di pugno di Ibn Marzuq l’affermazione che Ibn Battuta visse fino all’anno 770 (1368-69) e morí mentre rivestiva la carica di qadi in una qualche città. Ibn Marzuq scrisse anche: “E non conosco alcuno che abbia attraversato tante terre quante ne vide Ibn Battuta nei suoi viaggi; ed era inoltre generoso e ricco di virtú”». Lo storico Ibn al-Khatib ci ha trasmesso una sua lettera a Ibn Battuta, qadi di Tamasna. Poiché la capitale della regione di Tamasna era allora Anfa, possiamo concludere che proprio in questa città, che è l’odierna Casablanca, Ibn Battuta abbia ricoperto la carica di giudice fino al momento della morte. Ibn Battuta tornò definitivamente in Marocco nel 1353, su espresso ordine del sultano merinide Abu ‘Inan, il quale, tre anni piú tardi, ordinò a un giovane letterato di origina andalusa, il granadino Abu ‘Abd Allah Ibn Juzayy al-Kalbi, di preparare una vera e propria edizione annotata del «diario» che il viaggiatore aveva tenuto nel corso delle sue lunghe peregrinazioni. Il ri-

sultato fu, appunto, una Rihla, cioè una «cronaca di viaggio», terminata, come dice il testo, «nel mese di Safar dell’anno 757», ovvero nel febbraio del 1356, e pubblicata qualche mese piú tardi con il titolo di Tuhfat al-nuzzar fi ghara’ib al-amsar wa-aja’ib al-asfar (Il dono prezioso di chi contempla gli splendori delle città e le meraviglie dei viaggi). Poco dopo, Ibn Juzayy morí e, come si è detto, Ibn Battuta assunse il ruolo di giudice, fino alla fine dei suoi giorni.

Narratore, piú che scrittore

Come è stato giustamente sottolineato, se per la stesura del libro il sultano decise di rivolgersi a Ibn Juzayy, è probabile che Ibn Battuta non fosse dotato di grandi qualità letterarie: ma se forse non fu uno scrittore, egli fu senza dubbio un grande narratore di storie ammalianti. E proprio Ibn Juzayy mette l’accento su questo aspetto, quando riferisce del suo primo incontro con il suo «autore», avvenuto in un giardino di Granada: «Eravamo in questo giardino quando lo (segue a p. 122)

Nota per i lettori Tutte le citazioni della Rihla riportate in queste pagine sono tratte da: Ibn Battuta, I Viaggi, a cura di Claudia M. Tresso, illustrazioni di Aldo Mondino, traduzione di Claudia M. Tresso, Einaudi, Torino 2006 (disponibile anche in versione tascabile, pubblicata, per i tipi della stessa Einaudi, nel 2008).

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GRANDI VIAGGIATORI

Ibn Battuta

UN INCONTRO STRAORDINARIO A Costantinopoli, nei pressi di S. Sofia, avvenne uno degli incontri piú straordinari di tutta la letteratura di viaggio: quello fra Ibn Battuta e un monaco, che, secondo l’autore, sarebbe stato il padre dell’imperatore allora regnante Andronico III Paleologo. Nonostante alcuni problemi legati alla cronologia del soggiorno costantinopolitano di Ibn Battuta, sembra assai piú probabile che il monaco in questione – che l’autore chiama «Giorgio» (Jirjis), ma che in realtà si chiamava Antonio – fosse Andronico II, il nonno di Andronico III, deposto da quest’ultimo e ritiratosi in monastero.

Il re Jirjis che si fece monaco «Questo sovrano lasciò il regno al figlio per consacrarsi al servizio di Dio, e fece costruire un monastero fuori dall’abitato, sulla riva del mare. Un giorno ero con il mio accompagnatore bizantino e lo vedemmo che se ne andava in giro a piedi, con indosso il saio e in testa un cappuccio di feltro: aveva una lunga barba bianca e un bel viso segnato dall’ascesi. Procedeva in mezzo a un gruppo di monaci con in mano un bastone e un rosario appeso al collo e quando il bizantino lo vide smontò da cavallo per andare a rendergli omaggio.

Poi mi disse: “Scendi anche tu: è il padre del re!”. L’ex sovrano gli chiese chi fossi, si fermò e mi fece chiamare. Io gli andai vicino, ed egli, prendendomi per mano, disse al bizantino che conosceva l’arabo: “Dí a questo saraceno (cioè a questo musulmano) che stringo la mano che è entrata a Gerusalemme e il piede che ha camminato all’interno della Cupola della Roccia, nella grande chiesa del Santo Sepolcro e in Betlemme”. Detto questo, mise la mano sul mio piede e poi se la passò sul volto, lasciandomi sorpreso dalla considerazione in cui qui tengono chi è stato in quei posti, anche se non è della loro religione. Quindi mi prese per mano e camminai un po’ con lui, rispondendo alle sue domande a proposito di Gerusalemme e dei cristiani che vi risiedono, finché entrammo insieme nel sagrato della basilica di Santa Sofia. Arrivati al grande portone, un gruppo di sacerdoti uscí fuori a salutarlo, perché era un loro superiore nella vita monastica. Vedendoli, egli mi lasciò la mano. “Vorrei entrare in chiesa con voi”, gli dissi; ma rivolgendosi all’interprete, mi rispose: “Digli che chiunque entra deve prosternarsi davanti alla Somma Croce. È una regola stabilita dai nostri antenati e non può essere trasgredita”. Cosí, lo lasciai. Egli entrò da solo e io non lo rividi mai piú».

A sinistra l’Asia Minore e l’Egitto, rappresentati nella Tabula Peutingeriana, copia medievale di una carta del mondo abitabile (ecumene) conosciuto da Roma intorno al IV sec. XII-XIII sec. Vienna, Biblioteca Nazionale. Nella pagina accanto miniatura di scuola islamica raffigurante il faro di Alessandria. 1582. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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NEL PAESE DEI FARAONI L’Egitto è una delle prime tappe del peregrinare di Ibn Battuta, che descrive alcuni degli elementi del paesaggio egiziano che ancora oggi attirano i viaggiatori: il faro di Alessandria (trasformato in fortezza dal sultano mamelucco Qayt Bay), le piramidi e il Nilo.

siano state erette. Fra quanto si narra a tal proposito c’è che, prima del Diluvio, un certo re egizio fece un sogno spaventoso che lo indusse a costruire le piramidi sulla riva occidentale del Nilo come luogo dove custodire i principi del sapere e le spoglie dei re.

Il faro di Alessandria

Il Nilo

«Andai a vedere il faro: uno dei lati era caduto in rovina, ma lo descriverei comunque come un edificio quadrato che si staglia nel cielo. La porta è in alto rispetto al terreno e di fronte, alla stessa altezza, c’è un edificio quadrato che si staglia nel cielo. La porta è in alto rispetto al terreno e di fronte, alla stessa altezza, c’è un edificio: fra questo e la porta vengono messe delle assi di legno a mo’ di passerella e quando le tolgono non vi è piú modo di entrare. Dentro la porta c’è una nicchia dove il guardiano può starsene seduto e all’interno si aprono diversi locali. Il passaggio di entrata misura 9 spanne, il muro 10 e ognuno dei quattro lati, 140. Sorge su un’alta collina a una parasanga (circa 5 km) da Alessandria, al termine di una lunga striscia di terra che ospita il cimitero, circondata per tre lati dal mare, il quale giunge sino alle mura della città, sicché solo partendo da Alessandria si può arrivare al faro via terra. Quando feci ritorno nel Maghreb, andai a rivederlo e lo trovai in un tale stato di rovina che non si riusciva non solo a entrare ma nemmeno a raggiungere la porta.

Il Nilo dell’Egitto supera tutti i fiumi della terra per la dolcezza delle acque, l’ampiezza dell’alveo e la sua immensa utilità. Città e paesi si succedono ordinatamente sulle sue rive come in nessun altro posto del mondo, né si conosce fiume le cui sponde siano altrettanto coltivate o che, al par di questo, venga detto “mare”. In una tradizione autentica si dice (…) che il Nilo, l’Eufrate, il Sayhan e il Jayhan sono tutti fiumi del Paradiso. Il Nilo scorre da Sud a Nord, cioè al contrario rispetto agli altri fiumi, e ha una caratteristica straordinaria: l’inizio della sua piena avviene nella stagione del grande caldo, quando gli altri fiumi

decrescono e vanno in secca, e viceversa comincia a diminuire quando gli altri aumentano e straripano. Il primo inizio della piena del Nilo avviene a giugno: quando il livello dell’acqua raggiunge i sedici cubiti, l’imposta fondiaria dovuta al sultano va pagata per intero, e se poi cresce ancora di un altro cubito, quell’anno sarà fertile e il benessere assicurato; ma se raggiunge i diciotto cubiti, l’acqua danneggia le coltivazioni e causa epidemie. Se invece manca un cubito perché il livello dell’acqua arrivi a sedici, l’imposta fondiaria diminuisce, ma se ne mancano due, la gente implora la pioggia e i danni sono ingenti. Il Nilo è uno dei cinque fiumi piú grandi del mondo, che sono il Nilo, l’Eufrate, il Tigri, il Syr Darya e l’Amu Darya (…)».

Le piramidi Le piramidi sono una delle meraviglie da sempre celebrate nel corso del tempo e le genti ne hanno disquisito a lungo, indagando a fondo le circostanze e l’epoca della loro costruzione (…). Esse sono edifici in pietra dura e ben tagliata. Estremamente alte, hanno pianta circolare e sono ampie alla base e strette alla sommità, a mo’ di cono; non hanno porte e non si sa come

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GRANDI VIAGGIATORI Sulle due pagine veduta della piana di Giza, con la Sfinge e le piramidi di Cheope, Chefren e Micerino. Nella pagina accanto Gerusalemme. La Cupola della Roccia, di cui Ibn Battuta fornisce un’ammirata e minuziosa descrizione.

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Ibn Battuta

shaykh Abu ‘Abd Allah Ibn Battuta ci deliziò con il racconto dei suoi viaggi: io annotai dalla sua viva voce i nomi dei personaggi illustri che aveva incontrato e tutti traemmo grande utilità dalle sue meravigliose storie». Come ricorda anche il già citato Ibn Hajar, il suo piú che sintetico biografo, Ibn Battuta partí per il pellegrinaggio a Mecca nel 1325. Per giungere a destinazione, impiegò un anno e mezzo e, durante il tragitto, visitò il Nordafrica, l’Egitto, la Palestina e la Siria. Compiuto il primo hajj nel

IL VIAGGIO NEL MEDIOEVO

1326, visitò l’Iraq e la Persia e tornò a Mecca. Nel 1328 (o forse 1330), intraprese un viaggio via mare che lo portò lungo la costa orientale dell’Africa fino alla regione dell’odierna Tanzania. Sulla via del ritorno, visitò l’Oman e il Golfo Persico e, questa volta via terra, attraverso l’Asia centrale, tornò nuovamente a Mecca. Nel 1330 (o 1332) si spinse fino in India per cercare un incarico prestigioso presso la corte del sultano di Delhi. Durante questo lungo itinerario, toccò l’Egitto, la Siria, l’Asia Minore, la regione del Mar Nero, Costantinopoli, la Transoxiana, il Khorasan e l’Afghanistan. Raggiunse le sponde del fiume Indo nel settembre del 1333 (o del 1335). In India rimase per otto anni, esercitando a lungo la carica di giudice nel governo di Muhammad Tughluq, sultano di Delhi. Nel 1334, il sovrano gli affidò la guida di una missione diplomatica in Cina, ma la nave di Ibn Battuta naufragò sulla costa sud-occidentale dell’India, lasciandolo senza impiego e senza risorse. Per poco piú di due anni viag-


giò attraverso l’India meridionale, Ceylon e le isole Maldive, dove esercitò il mestiere di giudice presso la dinastia musulmana che governava l’arcipelago. Poi, nel 1345, decise di raggiungere ugualmente la Cina a titolo individuale: via mare, raggiunse il Bengala, la costa della Birmania e l’isola di Sumatra, per proseguire alla volta di Canton. Poco o nulla si sa del suo soggiorno cinese, su cui la Rihla non fornisce informazioni.

Fino alla favolosa Timbuctu

Nel 1346-47 tornò nuovamente a Mecca, passando per l’India meridionale, il Golfo Persico, la Siria e l’Egitto. Dopo aver preso parte, per l’ultima volta, alle cerimonie del pellegrinaggio, si mise in viaggio verso casa. Giunse a Fes verso la fine del 1349, ventiquattro anni dopo la sua partenza. L’anno successivo, attraversò lo stretto di Gibilterra, per una breve visita del regno musulmano di Granada. Infine, nel 1353, intraprese l’ultima spedizione: (segue a p. 129)

«COME UN BLOCCO D’ORO» Di Gerusalemme, città santa degli Ebrei, dei cristiani e dei musulmani, Ibn Battuta si sofferma in particolare a descrivere la Cupola della Roccia, costruita tra la fine del VII e l’inizio dell’VIII secolo dai califfi umayyadi ‘Abd al-Malik e al-Walid.

La Cupola della Roccia «Giungemmo a Gerusalemme, che Iddio la onori, terza in grado di eccellenza dopo i due nobili santuari e il luogo donde l’Apostolo di Dio ascese al cielo (…). La Cupola della Roccia è uno degli edifici piú mirabili e meglio costruiti al mondo, di singolarissima forma. È ricco di bellezze e di singolari attrattive. Sorge su un rialzo in mezzo al recinto della Moschea, a cui si ascende per una gradinata di marmo; ha quattro porte, e il pavimento circostante è lastricato di marmo ottimamente lavorato, e cosí pure l’interno (…). La cupola intera rifulge come un blocco d’oro e di lampi di luce, lasciando sbalordito l’occhio di chi la contempla e muta la lingua di chi la vuole raffigurare. Al centro della Cupola è la nobile Roccia, di cui parla la Tradizione, da cui il Profeta ascese al cielo. È una roccia compatta, alta quasi come un uomo, al di sotto della quale vi è una grotta, una piccola stanza della medesima altezza, a cui si discende per dei gradini e dove vi è una sorta di mihrab (…). Altri sono anche i santuari benedetti in Gerusalemme: sul margine della valle nota come Valle della Gheenna (…) c’è un edificio dove si dice che Gesú, sia su di lui la pace, sia asceso al cielo (…). Entro la suddetta valle c’è una chiesa assai venerata dai Cristiani, che dicono contenga la tomba di Maria, sia su di lei la salute (…)».

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IL PELLEGRINAGGIO A MECCA Mecca è uno dei luoghi-chiave della Rihla di Ibn Battuta, luogo di pellegrinaggio, ma anche base di partenza per ulteriori spedizioni. L’attenzione del nostro viaggiatore è qui particolarmente attirata dal grande santuario della Ka‘ba e dalla sua misteriosa «Pietra nera» e dai riti ancestrali dell’hajj, il pellegrinaggio islamico.

La Ka’ba «Giungemmo dunque alfine al santuario dell’Altissimo, dimora del Suo Amico Abramo e luogo di missione del Suo eletto Muhammad. Mecca è una grande città fittamente costruita, che si allunga in fondo a un wadi circondato da montagne, sicché chi arriva la vede solo quando ormai vi è giunto (…). Come dice Iddio nel Suo eccelso Libro, Mecca è posta “in una valle deserta”, ma la santa prece di Abramo si è volta in suo favore: vi si importa ogni cosa rara e per lei si raccolgono frutti di ogni specie. Io stesso vi ho gustato uva, fichi, pesche e datteri che non hanno pari al mondo, senza contare i meloni, ineguagliabili per profumo e dolcezza. La carne è bella grassa e mangiarla è una delizia. Insomma, vi si trovano riunite le merci di svariati paesi del mondo, e frutta e ortaggi (…). La Sacra Moschea si trova al centro della città e copre un’area molto estesa, lunga oltre 400 cubiti da est a ovest e larga suppergiú lo stesso (…). In mezzo alla Moschea s’erge la Ka‘ba. È un edificio quadrato alto 28 cubiti su tre lati e

In alto miniatura raffigurante la Ka’ba. XIII sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Qui accanto Pellegrini in viaggio per Mecca, olio su tela di Léon Belly. 1861. Parigi, Musée d’Orsay.

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29 sul quarto (…). Essa è costruita in dure pietre scure, mirabilmente congiunte l’una all’altra in modo solido e preciso, sí che i giorni non la cambiano e il tempo non vi lascia traccia. La porta della venerabile Ka‘ba si apre sul lato fra la Pietra nera e l’angolo rivolto verso l’Iraq, a dieci spanne dalla prima: questo spazio è chiamato multazam e


A destra Mecca. Una folla di pellegrini compie i tradizionali sette giri intorno alla Ka’ba. qui le suppliche vengono esaudite. La porta, che si trova a undici spanne e mezzo dal suolo, è tutta ricoperta di lamine d’argento mirabilmente lavorate. Ha due grandi anelli, anch’essi d’argento, chiusi da un chiavistello, e viene aperta ogni venerdí dopo la preghiera e il giorno dell’anniversario della nascita dell’inviato di Dio. Secondo il rituale, quando si apre la porta viene appoggiato al muro dell’insigne Ka‘ba uno scanno con gradini e piedi in legno (…) in modo che lo scalino piú alto sia a livello della nobile soglia. Poi il capo della tribú dei Banu Shayba sale sullo scanno tenendo in mano la nobile chiave insieme ai guardiani della Ka‘ba preposti a reggergli il drappo che la ricopre, mentre apre la porta. Quindi bacia la nobile soglia ed entra da solo nella Ka‘ba, chiude la porta e vi si trattiene il tempo di compiere una preghiera (…). In ultimo, la porta viene di nuovo aperta e la gente si affretta a entrare. L’interno della nobile Ka‘ba è lastricato di marmo venato, lo stesso che riveste anche i muri. Al centro si elevano tre altissime colonne di legno di teck. I velari della nobile Ka‘ba sono di seta nera, con iscrizioni ricamate in bianco che rifulgono splendenti e luminose e la ricoprono per intero, dall’alto fino a terra. Uno dei mirabili segni divini della santa Ka‘ba è che quando se ne apre la porta, la santa moschea è gremita da tanta di quella gente che solo Dio riesce a contarla. Un’altra meraviglia è che notte e giorno c’è sempre almeno un fedele che compie i riti: nessuno ricorda di averla mai vista senza qualcuno che vi girasse intorno. Un’altra ancora è che i numerosissimi colombi e gli altri uccelli di Mecca non vi si posano mai sopra, né passando la sorvolano: si vedono i colombi librarsi in volo sopra la moschea, ma quando arrivano all’altezza della nobile Ka‘ba deviano di lato ed evitano di passarci sopra. La Pietra nera è posta a sei spanne dal suolo sicché, per baciarla, chi è alto deve chinarsi e chi è piccolo deve allungare il collo. Incastonata nell’angolo rivolto a Est, è larga due terzi di spanna e lunga una; è saldamente fissata e non si sa quanto a fondo penetri nel muro. È formata da quattro frammenti uniti insieme: c’è chi dice che l’abbia rotta la setta eretica dei carmati (che Dio la maledica!), ma alcuni dicono invece che l’avrebbe fatta a pezzi qualcun altro colpendola con una mazza, e aggiungono che la gente si sarebbe avventata contro costui per ucciderlo, e che per quel suo gesto sarebbero morti molti maghrebini. I lati della Pietra sono stretti in una piastra d’argento il cui biancore risalta sulla sua nobile nerezza e guardandola, gli occhi s’abbagliano per sí grazioso splendore. Al baciar la Pietra, la bocca gode di una deliziosa sensazione e per via della particolarità conferitale dalla Sollecitudine divina, le labbra non vorrebbero mai lasciare quel bacio».

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CITTÀ SPLENDIDE, ABITATE DA GENTI BELLISSIME E OSPITALI Come altri viaggiatori arabi, Ibn Battuta non sfugge al fascino della Persia, e in particolare delle sue città piú famose, Isfahan e Shiraz.

Isfahan «Proseguendo tra giardini, corsi d’acqua e bei paeselli con molte colombaie, giungemmo a Isfahan, una fra le piú belle e grandi città del mondo, anche se ormai è mezza in rovina per le faide tra sunniti e sciiti che continuano ancora oggi a combattersi a vicenda. A Isfahan cresce moltissima frutta: un tipo di albicocche eccezionali dette “luna della religione” che racchiudono nel nocciolo una mandorla dolcissima e si conservano secche; mele cotogne impareggiabili per bontà di gusto e dimensioni; un’uva squisita e splendidi meloni dal gusto delizioso, con la buccia verde e la polpa rossa (...). Gli abitanti di Isfahan sono belli e hanno la pelle bianca e lucente con note di incarnato. Le loro principali virtú sono il coraggio, l’ardimento e la generosità, e sul loro fare a gara per offrirsi l’un l’altro i cibi migliori si raccontano storie straordinarie! Se qualcuno, per esempio, invita un amico, gli dice: “Vieni da me a mangiare pane e latte”, ma se l’altro accetta, gli offre ogni sorta di cibi prelibati e cerca di stupirlo con grande ostentazione. O ancora, ogni categoria di artigiani forma una gilda con un proprio capo eletto tra i suoi membri, e cosí fanno non solo gli artigiani, ma anche i notabili della città. C’è addirittura un gruppo dei giovani scapoli! Orbene, i membri dei vari gruppi fanno a gara nell’invitarsi a vicenda ed esibire ciò di cui sono capaci, curando con gran scrupolo le varie portate e tutto il resto. Mi hanno raccontato che una volta un gruppo ne invitò un altro e fece cuocere il cibo al fuoco delle candele, e quando quelli ricambiarono l’invito, alimentarono il fuoco con fili di seta!

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A Isfahan presi alloggio nel convento dedicato allo shaykh ‘Ali ibn Sahl: un luogo venerato dove gli abitanti si recano per ricevere la benedizione (baraka) e i viandanti trovano di che rifocillarsi, con annesso un hammam («bagno») meraviglioso, dal pavimento in marmo e i muri rivestiti di

Isfahan (Iran). La Moschea Masjid-i Shah (Moschea dell’imam), innalzata nel XVII sec. per volere dello shah Abbas I.


piastrelle di maiolica, dove non si paga l’ingresso perché si tratta di una fondazione pia. Shaykh del convento, all’epoca, era il devoto e fedele Qutb al-Din Husayn. Rimasi suo ospite quattordici giorni e osservai ammirato il suo zelo nel compiere le pratiche religiose, la sua

predilezione per i poveri e l’umiltà che con essi dimostrava. Nei miei confronti usò grandi riguardi, trattandomi con ospitalità e donandomi anche un bel vestito.

Shiraz Poi, imboccata la strada della Dasht al-Rum, una piana abitata dai Turchi, giungemmo finalmente a Shiraz. Famosa città di gran rango, ben costruita e molto estesa, Shiraz vanta eleganti giardini, ruscelli gonfi d’acqua, magnifici mercati, strade eccellenti, numerosissimi abitanti e palazzi edificati a regola d’arte secondo un mirabile piano urbanistico. Ogni gilda possiede un suo mercato, in modo da evitare di mischiarsi con le altre, e la gente, bellissima, veste abiti puliti: in tutto l’Oriente Shiraz è l’unica città paragonabile a Damasco per la bellezza non solo dei mercati, dei giardini e dei corsi d’acqua, ma anche della popolazione. Posta in un pianoro e attorniata da giardini, l’attraversano cinque fiumi e possiede acque dolcissime, fresche d’estate e calde d’inverno. Quanto alla moschea principale, dove i notabili della città si riuniscono tutti i giorni per compiere le preghiere del tramonto e quelle della sera, è fra le piú grandi e meglio costruite al mondo e possiede un vasto cortile lastricato in marmo che nella stagione calda viene lavato ogni notte. A nord della moschea, la porta detta “di Hasan” si apre sul mercato della frutta, uno dei piú belli della terra. Gli abitanti di Shiraz sono buoni, pii e virtuosi: soprattutto le donne, le quali non solo calzano stivaletti ed escono di casa avvolte in veli e mantelli che celano agli sguardi, ma danno anche elemosina con gran munificenza e, fatto curioso, tutti i lunedí, i giovedí e i venerdí si ritrovano in gran numero con il ventaglio in mano per rinfrescarsi dal caldo ad ascoltare il predicatore nella grande moschea».

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ALLA SCOPERTA DEI «LUOGHI DI MEZZO» A circa 650 anni dai viaggi di Ibn Battuta, Tim Mackintosh-Smith, un giovane orientalista inglese, attratto dal fascino del racconto, ha voluto ripercorrere il cammino dell’autore della Rihla e raccontare la sua eccezionale esperienza. Avventura, cronaca, viaggio, questo libro nasce non solo dal piacere irresistibile di raccontare una grandiosa storia medievale, ma anche dalla necessità di scoprire un mondo per molti aspetti ancora sconosciuto. Cosí La strada di Tangeri (traduzione di Lorenza Lanza e Patrizia Vicentini, Rizzoli, Milano 2002) permette al lettore di incontrare un autore che si inserisce nella brillante tradizione letteraria inglese di viaggi e di conoscere quei paesaggi paralleli, profondi e nostalgici, i molteplici «luoghi di mezzo» che insieme rappresentano l’anima dell’Islam contemporaneo.

Nella pagina accanto miniatura raffigurante un principe che presiede una seduta del tribunale. XV sec. Istanbul, Palazzo Topkapi.

una traversata del deserto del Sahara con una carovana di cammelli che lo condusse fino al regno del Mali e alla favolosa Timbuctu. Nel 1355 tornò in Marocco per rimanervi. In quasi trent’anni di peregrinazioni aveva attraversato l’intero emisfero orientale, visitato territori che oggi costituiscono circa 44 Paesi diversi e percorso oltre 117 000 chilometri. Ci sono tantissimi libri. Ci sono tanti grandi libri. E ci sono poi alcuni libri che vogliono essere un’altra cosa: monumenti, cattedrali letterarie. Testi sacri, se possibile. Opere epiche: enciclopediche, polifoniche, aperte, coltissime, stratificate, didascaliche, interminabili. È senz’altro il caso della Rihla di Ibn Battuta, un libro sul quale molto è stato scritto e molto ancora si dirà. Per esempio, ci si è spesso soffermati sui problemi di datazione e di attendibilità dei fatti narrati, accusando l’autore di aver attinto a relazioni di viaggio del periodo precedente, o di riportare aneddoti falsi e inventati. In effetti, l’opera di Ibn Battuta sembra a prima vista far parte di quel genere di letteratura geografica araba che si sviluppa a partire dall’VIII secolo per poi confluire successivamente nell’adab, la letteratura amena a scopo didattico, che ha il fine di stimolare l’immaginazione dei lettori con dati topografici che si uniscono a racconti su mirabilia e a ogni tipo di aneddoti. Ma gli studiosi piú avvertiti hanno da tempo compreso un dato di fatto fondamentale: la Rihla non è una semplice cronaca, né tantomeno un manualetto di geografia commerciale. E Ibn Battuta non è un geografo: non si preoccupa certo di fornire informazioni organiche ed esatte. Come sottolinea giustamente Claudia M. Tresso, il suo racconto, pur talvolta pedantemente descrittivo, segue un approccio del tutto personale: «Il filo conduttore è l’io narrante, l’itinera-

rio si dipana mediato dai ricordi, e se la memoria fa difetto, o se l’attenzione rischia di smorzarsi, eccolo inserire, attingendo a tradizioni arabe, persiane e indiane a mo’ dei racconti delle Mille e una notte, qui una storia meravigliosa, là un racconto edificante. Sí, probabilmente Ibn Battuta era in grado di stupire i suoi ascoltatori: un po’ per quell’accattivante tendenza a svelarsi che contraddistingue, appunto, la sua opera, e un po’ per quell’insieme di aneddoti, leggende e mirabilia – miscuglio di spezie d’Oriente – che insaporisce le sue storie».

Il contatto con le persone

Un elemento tipico del viaggiatore Ibn Battuta, che lo rende particolarmente simpatico, è il fatto che, nel corso delle sue peregrinazioni, egli si interessa molto di piú delle persone che dei luoghi che si trova a visitare: egli, in effetti, sembra godere non tanto nello scoprire il mondo quanto piuttosto nell’entrare in contatto con i suoi abitanti. A questo proposito, va sottolineato come nei suoi spostamenti egli sia guidato da due «stelle polari»: da un lato, la ricerca di un buon posto di lavoro nelle corti dei grandi sovrani musulmani, sempre desiderosi di avere al proprio servizio uomini di cultura formati nelle piú importanti scuole coraniche del mondo islamico, allo scopo di garantire l’unità religiosa e culturale della comunità (umma) e al tempo stesso di legittimare la loro autorità politica; dall’altro, il pellegrinaggio nei luoghi santi dell’Islam, non solo Mecca, ma anche i siti in cui riposano i piú famosi santi dell’Islam, al fine di ottenere la loro benedizione (baraka) e la loro protezione spirituale. Un grande viaggiatore contemporaneo, Bruce Chatwin (1940-1989), diceva che «quelli che presumono di scrivere libri si dividono in due categorie, gli stanziali e gli itineranti. Ci sono scrittori che funzionano soltanto “a domicilio”, con la seggiola giusta, gli scaffali di dizionari ed enciclopedie, e oggi magari un computer. E ci sono quelli come me, che sono paralizzati dal domicilio, e che sono candidamente persuasi che tutto andrebbe bene se solo fossero in qualche altro posto» (Anatomia dell’irrequietezza, traduzione di Franco Salvatorelli, Adelphi, Milano 1996). Come Chatwin, anche Ibn Battuta apparteneva senza dubbio alla categoria degli «itineranti». La chiave del suo grandissimo successo di narratore sta infatti proprio nella sua straordinaria irrequietezza, che ogni volta lo induce a rimettersi in cammino alla ricerca di nuove esperienze umane. IL VIAGGIO NEL MEDIOEVO

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VO MEDIO E Dossier n. 26 (maggio 2018) Registrazione al Tribunale di Milano n. 233 dell’11/04/2007

Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 - 00187 Roma tel. 06 86932068 - e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (Ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Alessia Pozzato Amministrazione Roberto Sperti amministrazione@timelinepublishing.it Gli autori: Franco Cardini è storico del Medioevo. Francesco Colotta è giornalista. Dick E.H. de Boer è professore emerito di storia medievale all’Università di Groninga. Marco Di Branco è assegnista di ricerca all’Università degli Studi di Padova. Aart Heering è giornalista. Luca Pesante è archeologo medievista. Chiara Mercuri è dottore di ricerca in storia medievale. Lorenzo Tanzini è professore associato di storia medievale all’Università di Cagliari. Maria Paola Zanoboni è dottore di ricerca in storia medievale e cultore della materia presso l’Università degli Studi di Milano. Illustrazioni e immagini: Doc. red.: copertina e pp. 6, 22/23, 40-43, 46, 51 (a destra), 56-57, 73, 86 (centro e basso), 86/87, 87, 98/99 – Mondadori Portfolio: AKG Images: pp. 7, 8/9, 10, 11, 113; Album: pp. 16/17 (in basso), 32/33 (in basso), 34/35, 39, 50, 93; Leemage: pp. 22, 54/55 – Shutterstock: pp. 12/13, 55, 75, 89 – Da: Die Mongolen, Im Reich des Dschingis Khan, Theiss, Stoccarda 2005: p. 19 – Cippigraphix: cartina a p. 10 – Patrizia Ferrandes: cartine alle pp. 12/13, 60, 72/73, 74, 86, 91, 94, 116/117. Il restante corredo iconografico dell’opera è stato realizzato grazie alla documentazione redazionale della rivista «Medioevo», e, in particolare, dai nn.: 101, giugno 2005 (pp. 1415, 16, 16/17 [in alto], 18, 20-21); 117, ottobre 2006 (pp. 24-31, 32/33 [in alto], 33, 34, 36-38, 40, 44-45, 47, 48-49, 51 [a sinistra]); 230, marzo 2016 (pp. 52/53, 58-59, 61, 62-71); 214, novembre 2014 (pp. 76-85); 191, dicembre 2012 (pp. 88, 90, 91, 92, 94, 95, 96-97); 194, marzo 2013 (pp. 100-112); 211, agosto 2014 (pp. 114, 117-128). Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

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In copertina: Pistoia, Ospedale del Ceppo. Alloggiare i pellegrini, uno dei pannelli del fregio in terracotta dipinta e invetriata realizzato da Santi di Buglioni che illustra le Sette Opere di Misericordia. 1526-1528. Nella pagina accanto: pagina miniata dall’Historia Anglorum di Matteo Paris, opera in cui sono riportati l’itinerario percorso dai pellegrini da Londra verso Gerusalemme, la rappresentazione delle città attraversate e le indicazioni sulla lunghezza del viaggio. 1250-1259. Londra, British Library.

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