Medioevo n. 293, Giugno 2021

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AL MILI DE LA S A-RO I C CO MA HI PE GN OS R A TR TA I

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MEDIOEVO n. 293 GIUGNO 2021

EDIO VO M E www.medioevo.it

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TREVISO

MISTERI DELL’ABBAZIA

GIUGNO 1119 LA BATTAGLIA DEL CAMPO DI SANGUE DOSSIER

L’ARTE DELLA CERAMICA

INGHILTERRA ASSASSINIO SUL TAMIGI OLTRE LO SGUARDO IL MOSAICO DI OTRANTO

TESORI, TECNICHE E CIVILTÀ I LABORATORI DI DERUTA, FAENZA E MONTELUPO FIORENTINO

10293

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www.medioevo.it

€ 5,90

AGER SANGUINIS ASSASSINIO SUL TAMIGI ALESSANDRO A OTRANTO S. MARIA DI FOLLINA DOSSIER ARTE DELLA CERAMICA

Mens. Anno 25 numero 293 Giugno 2021 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

UN PASSATO DA RISCOPRIRE

IN EDICOLA IL 3 GIUGNO 2021



SOMMARIO

Giugno 2021 ANTEPRIMA

LUOGHI

UN ANNO IN DIVINA COMPAGNIA Pentimento in extremis

MEDIOEVO NASCOSTO

di Federico Canaccini

ITINERARI Andar per monasteri di Stefania Romani

MUSEI La pietra e la memoria Storie di minatori e feudatari

Veneto

Assassinio nel chiostro

14 20

APPUNTAMENTI L’Agenda del Mese

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OLTRE LO SGUARDO/5 Alessandro a Otranto

BATTAGLIE

Ager Sanguinis

STORIE Inghilterra Mistero sul Tamigi di Tonmmaso Indelli

46 COSTUME E SOCIETÀ

STORIE di Federico Canaccini

94

6

di Giampiero Galasso

Sotto una pioggia di frecce

di Serena Zanetto

5

di Furio Cappelli

58

94 CALEIDOSCOPIO STORIE, UOMINI E SAPORI L’ineguagliabile leggerezza del wafer di Sergio G. Grasso 106

34

46

LIBRI Lo Scaffale

a cura di Stefano Mammini

MUSICA Alfonso, re compositore di Franco Bruni

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Dossier TESORI DAL TORNIO

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di Sonia Merli

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MEDIOEVO n. 293 GIUGNO 2021

MEDIOEVO www.medioevo.it

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TREVISO

MISTERI DELL’ABBAZIA

GIUGNO 1119 LA BATTAGLIA DEL CAMPO DI SANGUE DOSSIER

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UN PASSATO DA RISCOPRIRE

IN EDICOLA IL 3 GIUGNO 2021

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18/05/21 14:05

MEDIOEVO Anno XXV, n. 293 - giugno 2021 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Alessandria, 130 - 00198 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it

Presidente Federico Curti

Hanno collaborato a questo numero: Franco Bruni è musicologo. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Furio Cappelli è storico dell’arte. Francesco Colotta è giornalista. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Sergio G. Grasso è giornalista specializzato in tradizioni enogastronomiche. Tommaso Indelli è assegnista di ricerca in storia medievale presso l’Università degli Studi di Salerno. Sonia Merli è storica del Medioevo. Stefania Romani è giornalista. Serena Zanetto è archeologa. Illustrazioni e immagini: Shutterstock: copertina (e p. 103) e pp. 42, 94/95, 96, 99 (alto), 100-101, 104, 107, 108 (basso) – Mondadori Portfolio: Fototeca Gilardi: p. 5; AKG Images: pp. 36/37, 48, 64-65, 66, 67 (alto), 68-69, 97; Album/Collezione Cowen/KharbineTapabor: p. 50; Album: pp. 52/53; Album/Collezione Jonas/Kharbine-Tapabor: p. 55; Mauritius Images/ Steve Vidler: p. 56; Erich Lessing/Album: pp. 58-63, 106/107 – Cortesia Visit Emilia: pp. 6-10 – Cortesia Ufficio Stampa Istituzione Bologna Musei: pp. 14-16 – Cortesia Soprintendenza per i beni culturali della Provincia autonoma di Trento: pp. 20-22 – Doc. red.: pp. 34/35, 38, 40-41, 46/47, 51, 53, 54, 67 (basso), 71-93, 98, 110-111 – Alamy Stock Photo: p. 39 – The Cleveland Museum of Art, Cleveland: pp. 108/109 – National Gallery of Art, Washington DC: p. 109 – Cippigraphix: cartina a p. 37 – Patrizia Ferrandes: cartine alle pp. 96, 102.

Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 - Via Dalmazia, 13 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno.

Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Impaginazione Alessia Pozzato

Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: collez@mondadori.it Tel.: 045 8884400 Posta: Press-di Servizio collezionisti Casella postale 1879, 20101 Milano

In copertina uno scorcio del chiostro romanico dell’abbazia di S. Maria di Follina (Treviso).

Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Nel prossimo numero scandinavia

Birkebeiner e Bagler. La guerra dimenticata

costume e società

grandi monarchie

Il Medioevo ecologico

La Rus’ di Kiev

dossier

Apecchio Nella contea degli Ubaldini


dante alighieri, 1321-2021

Un anno in divina compagnia di Federico Canaccini

Pentimento in extremis

I

n quanto cittadino maschio e adulto del Comune di Firenze, Dante Alighieri doveva assolvere agli obblighi della leva militare. Nel 1289 fu quindi convocato a prendere parte alla campagna contro Arezzo: non sappiamo se dovette prestare servizio anche negli anni precedenti, giacché la guerra contro i ghibellini aretini era scoppiata nel 1287 e, nel 1288, vi erano già stati un grande assedio e una battaglia tra Senesi e Aretini presso Pieve al Toppo, che il poeta ricorda quando incontra Lano Maconi da Siena nella «Selva dei Suicidi e degli Scialacquatori». Non esistono documenti ufficiali che attestino la partecipazione di Dante alla battaglia, combattuta a Campaldino l’11 giugno 1289, ma l’umanista, storico e uomo politico Leonardo Bruni (1370-1444) afferma che «questa battaglia racconta Dante in una sua epistola e dice di esservi stato a combattere e disegna la forma della battaglia». Il poeta affermava di aver partecipato «non fanciullo nell’armi» e dichiarava di aver avuto «temenza molta e nella fine allegrezza grandissima, per li vari casi di quella battaglia», cioè per il rovesciarsi della sorte ora in favore dei ghibellini, ora in quello dei guelfi. Dante, scrive Bruni, «si trovò nell’armi combattendo vigorosamente a cavallo nella prima schiera, dove portò gravissimo

pericolo»: trovandosi nel punto piú nevralgico di tutto lo schieramento, ricevette infatti l’urto della cavalleria pesante nemica, comandata dai famosi condottieri Guglielmo dei Pazzi e Buonconte da Montefeltro. E proprio sulla sorte di questo comandante avverso il poeta si sofferma nel V canto del Purgatorio, quando incontra la schiera di coloro che si pentirono tardivamente. A battaglia conclusa, il cadavere di Buonconte non venne probabilmente riconosciuto: il poeta ne approfitta per fantasticare e immaginare una morte epica per colui che dovette considerare un degno avversario. Ferito alla gola, forse in un combattimento presso Bibbiena, il ghibellino si trascina per la valle, giungendo alla confluenza dell’Arno con il torrente Archiano. Con la gola squarciata invoca la Vergine e, grazie a quel sincero pentimento, la sua anima si salva e giunge in Purgatorio. Il Diavolo rimane cosí beffato e decide di vendicarsi, scatenando un temporale che occulti il corpo: quando giungono le tenebre si scatena una tempesta (ed è il solo Alighieri a parlarne). Il Diavolo, che può controllare gli agenti atmosferici, si prodiga nel far tracimare i torrenti, affinché il cadavere del Montefeltro venga sbatacchiato tra i flutti, fino a che il fango «lo coperse e cinse».

Vignette che illustrano il V canto del Purgatorio: a sinistra, Dante Alighieri allo scrittoio; a destra, il cadavere di Buonconte da Montefeltro, caduto in battaglia, invoca la Vergine Maria sfuggendo in extremis al Diavolo che era già venuto a prenderlo, cromolitografia da una serie di Egisto Sborgi Editore (Firenze, 1918).

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ANTE PRIMA

Andar per monasteri

ITINERARI • Fra Piacenza e Reggio Emilia si snoda un tour grazie al quale

si risale nel tempo, fino all’epoca in cui, nelle silenziose atmosfere dei loro conventi, i monaci copisti addetti agli scriptoria trascrissero il sapere dell’umanità

S

ono scrigni nascosti, che raccontano secoli di arte, cultura, meditazione, lavoro e vita comunitaria. Parliamo dei chiostri all’ombra di abbazie, basiliche, complessi religiosi, che si possono visitare grazie a un tour messo a punto da VisitEmilia, l’ente Destinazione Turistica Emilia, fra le città e i territori di Parma, Piacenza e Reggio Emilia, per godersi angoli immersi nel silenzio, che hanno ispirato romanzi e film. L’itinerario «Il tempo dei chiostri» parte da Parma, con il monastero di S. Giovanni Evangelista, celebre per l’affresco realizzato da Correggio nella cupola della chiesa, dove le figure si muovono con levità nello spazio privo di supporti architettonici, attraverso un linguaggio rinascimentale libero, che fonde riferimenti classici e illusionismo prospettico. Fondato nel X secolo, il cenobio benedettino racchiude ben tre cortili porticati, ai quali si accede uscendo

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dalla basilica, a destra. Il primo che si incrocia, quello di S. Giovanni o della Porta, è una galleria su colonne ioniche con la regola Ora et labora che sovrasta la parete, una fontana centrale e affreschi del tardo Cinquecento. Dopo la biblioteca, la sala capitolare si apre sul chiostro successivo, il piú datato e chiamato appunto del Capitolo. Il piú ampio dei tre è il claustrum di S. Benedetto, eretto fra il 1508 e il 1512, con un impianto lineare che prevede 36 colonne intervallate da tondi con figure secentesche di santi (www.monasterosangiovanni.com).

Sulle due pagine, dall’alto in senso orario il chiostro dell’abbazia di Chiaravalle della Colomba ad Alseno (Piacenza); il monastero di S. Giovanni Evangelista a Parma; il chiostro della badia di S. Maria della Neve a Torrechiara (Langhirano, Parma).

Solo venti monaci Sulle colline di Torrechiara, frazione di Langhirano (Parma) a poco piú di cinque chilometri dalla città, la badia di S. Maria delle Neve sorse nel 1471 attorno a una struttura antecedente per volere di Pier Maria Rossi, conte di San Secondo: una ventina di monaci della Congregazione di Santa Giustina di giugno

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Errata corrige con riferimento all’articolo Tutti i leoni del re (vedi «Medioevo» n. 292, maggio 2021) desideriamo segnalare che, nel box Simmetrie e simbolismi (p. 67), la frase «Manca l’albero centrale, ma a questo alludono proprio le code dei leoni, che si in un viticcio» deve leggersi in: «Manca l’albero centrale, ma a questo alludono proprio le code dei leoni, che si legano in un viticcio». Del refuso ci scusiamo con l’autore dell’articolo e con i nostri lettori. Padova viveva fra il luogo di culto, il refettorio, il dormitorio, il giardino e l’orto. Il cortile coperto ha arcate eleganti, fra le quali si possono intravvedere gli ambienti interni, e capitelli che si rifanno a quelli del cortile d’onore del castello vicino, famoso per essere stato scelto come set di alcune scene del film Ladyhawke, di Richard Donner, con Michelle Pfeiffer fra i protagonisti. Spostandosi verso Piacenza, il circuito riserva altre tappe interessanti a ritroso nel tempo. In pianura, ad Alseno (Piacenza), si snoda il complesso di Chiaravalle

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ANTE PRIMA

In alto il chiostro del convento di S. Domenico a Reggio Emilia.

La Biblioteca Monumentale del monastero parmense di S. Giovanni Evangelista, riccamente impreziosita da pitture che comprendono carte geografiche, la genealogia di Cristo, illustrazioni delle costruzioni archetipiche dell’Antico Testamento e la celebrazione della vittoria di Lepanto. della Colomba, con un claustrum integro e fra i meglio conservati nell’ambito delle abbazie cistercensi. Il monastero, all’ombra della chiesa dedicata a santa Maria Assunta, fu fondato da san Bernardo, l’abate di Clairvaux che nella Commedia di Dante recita una preghiera mariana: dopo la riforma benedettina che fra l’XI e il XII secolo privilegiava le mansioni manuali, il monaco, per la sua dedizione nel rinnovamento religioso, riceveva richieste di istituire nuove comunità. In questo contesto si inserisce la fondazione piacentina, che risale al 1136, data della «institutionis paginam» con cui il vescovo di

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Piacenza, Arduino, concesse i primi beni alla struttura, che oggi conserva un luogo di preghiera di impianto romanico, a tre navate, con uno slancio accentuato verso l’alto, quasi ad anticipare il Gotico.

Influenze antelamiche Il chiostro del Trecento, lungo 40 m nel lato interno, conta 96 arcatelle, 130 colonnine binate in marmo rosa di Verona, una cornice ad archetti e tortiglione. L’esuberanza dei capitelli figurati, delle mensole che sostengono i costoloni delle volte e lo stile delle colonne annodate fra loro, poste a ogni angolo del quadrato, rimandano alla ricchezza del bagaglio figurativo antelamico, piú che ai dettami severi dell’architettura cistercense. Nel convento, che rientra nei due Itinerari culturali del Consiglio d’Europa, la Via Francigena e la Route Européenne des Abbayes Cicterciennes, merita una tappa anche la liquoreria,

posta nell’antico calefactorium destinato alla meditazione (www. chiaravalledellacolomba.it). Il percorso continua con S. Sisto a Piacenza, centro in origine femminile, fondato alla metà del IX secolo per volere dell’imperatore carolingio Ludovico II, che lo affidò alla moglie Angilberga (vedi anche «Medioevo» n. 292, maggio 2021; anche on line su issuu. com). Prediletto dai Farnese e dalla regina Margherita d’Austria, il cenobio venne ristrutturato da Alessio Tramello, allievo del Bramante, che concepí il chiostro come un triportico con 21 arcate che poggiano su eleganti colonne di granito e sopra alle quali sono affrescati in altrettanti medaglioni diciotto fra abati e imperatori. È invece di fondazione longobarda S. Colombano di Bobbio (Piacenza), nel territorio collinare della Val Trebbia, che prende il nome dal monaco irlandese giunto nel Piacentino nel 614, dopo un giugno

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un’enciclopedia ante litteram risalente al IX secolo. Sembra che lo scriptorium e la sua attività febbrile abbiano ispirato Il nome della rosa di Umberto Eco, romanzo da cui è stato tratto anche il film di Jean-Jacques Annaud con Sean Connery.

Un cenobio articolato Con l’ingresso di S. Colombano nella Congregazione di Santa Giustina di Padova, prese avvio una campagna di ristrutturazione, che fece della chiesa un esempio di transizione fra Gotico e Rinascimento. Il cenobio si articola in diversi stabili: la basilica, il corridoio-cavedio – dove l’abate risiedeva e riceveva –, il chiostro

interno che accoglie il Museo della Città, allestito anche nei locali del IX secolo, come il refettorio, con affresco della Crocefissione attribuito al pittore rinascimentale Bernardino Lanzani, le cucine e i sotterranei con la ghiacciaia e la cantina con volta a botte. Il Museo dell’Abbazia si trova invece nell’area dell’originario scriptorium, non lontano da altre strutture, quali l’ex carcere e il tribunale, oggi diventato ostello. I portici affacciati sul giardino interno sono un rifugio di pace, ideale per una pausa o una riflessione. Spostandosi nell’ultima provincia, Reggio Emilia, il cammino muove dal centro storico della città, dove A sinistra e in basso uno scorcio e un particolare della decorazione del chiostro grande di S. Pietro a Reggio Emilia.

periodo di predicazione in Europa. Fra le abbazie strategiche del Vecchio Continente, con beni in Emilia, Liguria, Toscana, lungo le coste del lago di Garda, Bobbio viene consegnato alla storia dal celebre scriptorium, che nel 982 vantava piú di 700 codici, con 25 dei 150 manoscritti piú antichi della letteratura latina esistenti al mondo. I religiosi irlandesi hanno dato un contributo notevole alla produzione scritta, con miniature dallo stile riconoscibile: una delle creazioni piú prestigiose è il Glossarium bobiense,

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ANTE PRIMA

Dall’alto il chiostro piccolo e una sala affrescata del complesso monastico di S. Pietro a Reggio Emilia. fra le antiche mura e il tracciato della via Emilia, sorge il complesso monastico di S. Pietro, che vanta due chiostri rinascimentali: quello piccolo, di stampo classicheggiante, ha volte a botte e piccole cupole angolari che scaricano su colonnine binate in marmo rosso e bianco, la cui leggerezza è esaltata dalle bifore, inquadrate da timpani e lesene,

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che si aprono sulle pareti del primo piano. La sua progettazione viene attribuita al piacentino Alessio Tramello, che lavorò a S. Sisto di Piacenza, mentre il cortile grande, maestoso e di gusto manierista, viene ricondotto a Giulio Romano, per la decorazione a bugnato che gioca un ruolo di primo piano, nell’incorniciare le arcate (www.chiostrisanpietro.it). Sempre a Reggio Emilia, il convento di S. Domenico è fra i piú antichi luoghi di preghiera della città:

il seguito del predicatore fra’ Giacomino da Reggio ne ha spinto la costruzione in soli tre anni, fra il 1233 e il 1236, ma nel corso del XV secolo il monastero è stato rimaneggiato, con l’ampliamento della chiesa e l’aggiunta di una biblioteca. Utilizzato dal Settecento, prima come caserma e poi come deposito per gli stalloni, S. Domenico conta due splendidi chiostri. Se sul piú ampio, con pilastri e arcate a tutto sesto, si aprivano le celle dei religiosi, quello piú piccolo, all’ombra del fianco della prima basilica, ospita la scultura contemporanea in bronzo Less than, un corpo cavo, senza testa e parte del busto, piegato dal fardello di un otre, realizzato ad hoc per il contesto di silenzio claustrale dal minimalista statunitense Robert Morris (turismo.comune.re.it). Per informazioni sul tour «Il tempo dei chiostri», su modalità di visita dei singoli monumenti o sulle altre eccellenze del territorio emiliano: www.visitemilia.com Stefania Romani giugno

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ANTE PRIMA

Doppio sforzo per un doppio successo

INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

E

sattamente come un anno fa, l’avvicinarsi della stagione estiva porta la speranza di una ritrovata normalità, anche nel settore fieristico. Cosí, proprio come un anno fa, Piacenza Expo, Wavents ed Estrela hanno deciso di giocare in anticipo e, in attesa dei protocolli ufficiali per la gestione di espositori e visitatori, hanno comunicato le date della diciassettesima edizione di «Armi&Bagagli», il piú grande Mercato Internazionale della Rievocazione Storica in Europa. Sabato 3 e domenica 4 luglio il quartiere fieristico piacentino aprirà le proprie porte ad appassionati e operatori di Rievocazione Storica per quella che si annuncia essere un’edizione ancora una volta in formato leggermente ridotto, ma – come fu nel luglio 2020 – comunque ricca di espositori italiani e stranieri suddivisi in spazi diversificati per tematica: dall’artigianato storico all’arcieria, dal collezionismo militare all’enogastronomia tradizionale, dallo spettacolo rievocativo al collezionismo militare e al giocattolo d’altri tempi. Tra gli organizzatori da sempre impegnati nell’evento figurano Cesare Rusalen di Estrela Fiere e Massimo Andreoli di Wavents, che dichiarano: «Un anno fa, insieme alle istituzioni locali, che saranno sicuramente presenti anche il prossimo mese di luglio, decidemmo di dare insieme un forte segnale di determinazione, speranza e rinascita a territorio e settore fieristico/espositivo». «Quest’anno – puntualizza Andreoli, presidente anche del CERS, il Consorzio Europeo Rievocazioni Storiche

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che con l’ente fieristico piacentino collabora alla realizzazione dell’iniziativa – ci siamo ritrovati a dover raddoppiare lo sforzo organizzativo di fronte alle nuove ondate di Covid che hanno avuto un effetto devastante sia a livello economico che psicologico». «Ma non ci siamo mai persi d’animo – ha precisato Rusalen – certi che a fronte di un doppio sforzo organizzativo seguirà un successo doppio, per partecipazione ed entusiasmo, rispetto all’edizione straordinaria del luglio 2020». Si attendono circa 200 espositori da Italia, Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia, Olanda, Polonia, Repubblica Ceca, Svizzera e Ungheria per un appuntamento che, anche in una situazione di totale straordinarietà, non deluderà le attese di appassionati e curiosi. In contemporanea al mercato della rievocazione storica, con artigiani per tutte le epoche uniti a giullari, musici, teatranti, giocolieri, nonché a un’intera area riservata all’enogastronomia storica e tradizionale, confermati anche gli eventi collaterali: «Expo Arc», dedicato al mondo dell’arco in tutte le sue espressioni e declinazioni sportive, culturali, artigianali, didattiche, storiche e venatorie; «Piacenza Militaria», storica mostra/mercato di collezionismo militare; «Coltelli», expo dedicata all’arte della coltelleria di pregio. Info Armi&Bagagli tel. 345 7583298 o 333 5856448; e-mail: info@armiebagagli.org Info ExpoArc, Piacenza Militaria, Coltelli tel. 02 7010989; e-mail: info@estrela.it giugno

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ANTE PRIMA

La pietra e la memoria

MUSEI • La preziosa

collezione epigrafica del Museo Civico Medievale di Bologna è ora accessibile anche on line. Uno strumento prezioso per conoscere la storia della città felsinea

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l portale Storia e Memoria di Bologna – un progetto digitale avviato nel 2014 dal Museo civico del Risorgimento-Istituzione Bologna Musei – si è arricchito di una nuova sezione, dedicata al Lapidario del Museo Civico Medievale. La collezione comprende materiali di natura eterogenea, per lo piú provenienti dall’area urbana bolognese, acquisiti in seguito a ristrutturazioni di chiese e monumenti, scavi o demolizioni di edifici e cinta murarie, donazioni. Il nucleo piú ragguardevole si compone di 41 manufatti tra epigrafi (31) e stemmi (10), databili tra l’Alto Medioevo e il XVII secolo, e si connota per la ricorrenza di iscrizioni relative alle professioni e alle attività di società e comunità organizzate, soprattutto laiche.

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A partire dai fondamentali studi di Bruno Breveglieri, ex docente di diplomatica all’Università «Carlo Bo» di Urbino e curatore dell’attuale ordinamento espositivo del Lapidario del Museo Civico Medievale, per ogni lapide è stata predisposta una scheda che contiene informazioni sull’utilizzo originario, la destinazione e i fruitori, oltre alla riproduzione fotografica. Le iscrizioni latine ed ebraiche sono state trascritte e tradotte e, ove necessario, commentate. Con la riscoperta della funzione

In alto la sala del Lapidario del Museo Civico Medievale di Bologna. Qui sopra la lapide Aelia Laelia Críspis. 1672-1676. Si tratta del rifacimento – voluto dal senatore Achille Volta – di un monumento epigrafico risalente al secolo precedente, fatto incidere dall’omonimo antenato del Volta, priore della commenda dei Frati Gaudenti di Casaralta. Il testo della lapide è esemplare di una cultura ermetica ed emblematica, variamente congiunta alla componente ludica, in voga negli ambienti colti bolognesi del Cinquecento. giugno

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civile e politica dello spazio urbano aperto intervenuta in Italia tra l’XI e il XIII secolo, in naturale connessione con l’evolversi delle strutture politiche, sociali e culturali dell’istituzione comunale di Bologna, la nuova epigrafia pubblica trovò la sua sede naturale innanzitutto nelle stesse strutture degli edifici sacri.

Messaggi per la collettività Nelle chiese e cattedrali la materializzazione della parola aveva continuato a trasmettersi dalla tarda antichità attraverso tutto l’Alto Medioevo, seppur con esistenza stentata, non solo sulle superfici

A destra stemma della famiglia Della Rovere. Prima metà del XVI sec. Se ne ignora la collocazione originaria, ma la sua presenza a Bologna è riconducibile a quella di papa Giulio II nella città felsinea. In basso un’altra immagine della sala del Lapidario. Se dunque i nuovi spazi che la civiltà comunale dischiude all’uso della scrittura, in primo luogo nei monumenti all’aperto, non potevano non essere condizionati dagli atteggiamenti mentali degli incisori e dei committenti, nelle epigrafi si

politica che le corporazioni di arti e mestieri ebbero nel periodo bassomedievale, vi sono le due lapidi della Società degli Speziali e della Società dei Fabbri.

Un documento unico

interne, ma anche su quelle dei grandi muri esterni che divennero i supporti epigrafici per eccellenza. Le iscrizioni finirono cosí per costituire parte essenziale dello spazio urbano prospiciente, e perciò della vita cittadina che in esso si svolgeva. Anche per chi non sapeva leggere o i cui occhi non erano in grado di distinguere i segni alfabetici, la consuetudine visiva maturata con la parola iscritta attribuí alla scrittura monumentale una crescente funzione didascalica di trasmissione di messaggi rivolti alla collettività.

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giugno

trova depositata la registrazione di eventi pubblici e privati, in vario grado memorabili. Questi fogli di pietra ancora oggi ci parlano, come fonti uniche e inusuali della vita quotidiana del loro tempo, e raccontano la storia minima di figure comuni come ostiari, studenti, fabbri, speziali, notai oppure la grande storia di abati e potenti famiglie nobiliari come i Della Rovere di papa Giulio II, di cui si conserva lo scudo araldico. A testimonianza della fondamentale rilevanza sociale, economica e

L’iscrizione incisa in scrittura maiuscola gotica nella prima lapide, documento unico nel suo genere, contiene le quattro forme e misure in cui doveva essere prodotta a Bologna e nel contado la carta bambagina. Reca ai lati lo stemma della società degli Speziali (due pestelli dentro un mortaio), in quanto i produttori di carta locali all’epoca erano iscritti a questa società. Il presente bassorilievo è probabilmente un documento interno a uso degli Speziali; i formati riproducono quelli riportati dal 1389 sulle mura del palazzo del Comune, analogamente alle altre misure in parte ivi ancora visibili in uso nel territorio bolognese. La copia rinascimentale dell’iscrizione funeraria romana dedicata a Aelia Laelia Crispis è

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ANTE PRIMA A sinistra lapide della Società degli Speziali. XIV-XV sec. Il documento, unico nel suo genere, contiene le quattro forme e misure in cui doveva essere prodotta a Bologna e nel contado la carta bambagina. In basso memoria sepolcrale di Àbramo Jaghel da Fano (1508), poi reimpiegata nel 1660 come lapide commemorativa di Simone Tassi.

invece celebre esemplare di una cultura ermetica congiunta a componenti ludiche, in voga negli ambienti colti bolognesi del Cinquecento. L’enigmatico epitaffio dedicato da Lucio Agatone Prisco a Elia Lelia Crispi fu scolpito nel XVI secolo per volontà del Gran Maestro dei Cavalieri Gaudenti Achille Volta e in origine apposto nel complesso di S. Maria di Casaralta, priorato dell’Ordine, alla periferia di Bologna. Noto come «pietra di Bologna», questo manufatto dall’aura alchemica ebbe uno straordinario successo fra gli studenti universitari e i viaggiatori italiani e stranieri. Pensatori, eruditi, storici e cultori di esoterismo si avvicendarono nel fornire spiegazioni dell’«enigma», mentre il nome di Aelia trovava posto in dizionari enciclopedici settecenteschi. Il Romanticismo

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risvegliò l’interesse per l’iscrizione, piú volte citata nella letteratura europea (Walter Scott, Gérard de Nerval). La pietra ebbe ancora diverse vicissitudini, giungendo persino a scampare a un bombardamento aereo nel 1943. Di rilevante interesse è inoltre la memoria sepolcrale di Avraham Yaghel da Fan (Àbramo

Jaghel da Fano), poi lapide commemorativa di Simone Tassi. Il marmo, databile al XVI secolo, proviene dall’antico Cimitero ebraico di Bologna, in seguito distrutto e profanato, appartenente alla comunità prima della bolla emanata da papa Pio V nel 1569 con la quale si bandivano tutti gli Ebrei residenti nello Stato pontificio, a eccezione delle città di Roma e Ancona. L’epigrafe ebraica è scritta in poesia rimata, su due colonne. Avraham apparteneva certamente alla famiglia dei banchieri da Fano, che avevano ottenuto il permesso di aprire banchi di prestito a Firenze nel 1514, e la sua presenza a Bologna è con ogni probabilità da ricondursi al trasferimento dopo l’espulsione degli Ebrei da Firenze nel 1527. La collezione del Lapidario è raggiungibile all’indirizzo www. storiaememoriadibologna.it/ lapidario-museo-civico-medieval (red.) giugno

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ANTE PRIMA

Un’opportunità preziosa

INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

L’

Art Bonus sarà presente anche alla Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico di Paestum in programma dal 30 settembre al 3 ottobre 2021. ALES s.p.a., infatti, la società responsabile del programma di gestione e promozione dell’Art Bonus per conto del Ministero della Cultura, parteciperà alla manifestazione mettendo a disposizione uno spazio espositivo e momenti di incontro per conoscere e approfondire tutti gli aspetti applicativi della normativa. Ai sensi dell’art.1 del D.L. 31.5.2014, n. 83, «Disposizioni urgenti per la tutela del patrimonio culturale, lo sviluppo della cultura e il rilancio del turismo», convertito con modificazioni in Legge n. 106 del 29/07/2014 e s.m.i., è stato introdotto un credito d’imposta per le erogazioni liberali in denaro a beneficio della cultura e dello spettacolo, il cosiddetto Art Bonus, quale sostegno del mecenatismo a favore del patrimonio culturale. Ma quando il beneficio fiscale dell’Art Bonus è applicabile al settore dell’archeologia? In base alla norma possono essere destinatari di donazioni Art Bonus: A) interventi di restauro di reperti archeologici di proprietà pubblica rinvenuti a seguito di una campagna di scavo; B) progetti di manutenzione e valorizzazione di siti archeologici di appartenenza pubblica: le aree archeologiche infatti sono espressamente citate nella norma quale luogo della cultura ai sensi del

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Il tempio di Atena a Paestum. Il locale Parco Archeologico è uno dei beneficiari dell’Art Bonus. Codice dei beni culturali e del paesaggio (D.L. 22 gennaio 2004, n. 42), e possono ricevere erogazioni liberali Art Bonus per il sostegno alle proprie attività. E, similmente, anche tutti i musei archeologici di appartenenza pubblica possono aprire raccolte fondi Art Bonus di tipologia B per il sostegno alla propria missione e attività. L’Art Bonus quindi anche in questo settore può rappresentare una grande opportunità per integrare le risorse pubbliche e stabilire collaborazioni tra pubblico e privati. Anche perché, grazie a tecnologie innovative e approcci scientifici esperienziali e di grande impatto emotivo, l’interesse per la valorizzazione dei siti archeologici coinvolge una sempre piú ampia comunità culturale di studiosi, appassionati e cittadini. Tutti elementi che favoriscono azioni di fundraising mirate per una migliore gestione dei siti stessi anche a favore dell’offerta turisticoculturale dei territori. A oggi, gli enti beneficiari di donazioni Art Bonus registrati sul sito governativo www.artbonus.gov.it sono oltre 2000, e grazie a oltre 22 000 mecenati sono stati già raccolti in tutta Italia piú di 560 milioni di euro per sostenere circa 4000 interventi di tutela e valorizzazione del patrimonio. Info e-mail: info@artbonus.gov.it giugno

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ANTE PRIMA

Storie di minatori e feudatari MUSEI • Intitolato a san

Michele e a lungo conteso per la sua posizione strategica, il castello di Ossana (Trento) ha una storia secolare. La racconta il museo allestito negli ambienti occupati nel Medioevo

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Ossana, in provincia di Trento, su un’alta rupe immersa fra i boschi, si trova uno dei piú antichi insediamenti fortificati della Val di Sole, il castello di San Michele, il cui primo nucleo architettonico risale al VI-VIII secolo. Con l’annessa chiesa intitolata a san Michele – da cui il castello avrebbe tratto il nome – di questo complesso si ha la prima menzione in un atto notarile del 1191. Dopo essere stato oggetto di contesa nel corso del XIII secolo tra i principi

vescovi di Trento e i conti di Tirolo per la sua posizione strategica, sull’importante direttrice di transito che, attraverso il passo del Tonale, collega la Valtellina al Trentino nord-occidentale, entrò in possesso nel 1239 del podestà di Trento Sodegerio da Tito per poi passare ai cavalieri dell’Ordine Teutonico. Successivamente, agli inizi del XV secolo, il fortilizio fu completamente riedificato, assumendo l’imponente forma attuale, per iniziativa della famiglia de Federici, titolare del

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feudo di Ossana e del governo delle miniere di ferro della zona e fu abitato fino al XVII secolo, cadendo poi in rovina fino al 1992, quando fu acquisito dalla Provincia autonoma di Trento, che ne avviò la messa in sicurezza e il restauro, concluso con la riapertura al pubblico nel 2014. Oggi rappresenta uno dei siti monumentali piú importanti e visitati della Val di Sole e al suo interno è stato realizzato, a cura dell’Ufficio beni archeologici della Soprintendenza per i beni culturali di Trento, un nuovo allestimento espositivo permanente, focalizzato su due temi: le miniere di ferro e la vita a cavallo fra il XV e il XVI secolo. Il percorso espositivo offre uno sguardo inedito sulla vita all’interno del maniero nei secoli a cavallo fra Medioevo e Rinascimento. Una selezione di un centinaio di reperti archeologici e artistici esposti al pubblico per la prima volta, conduce il visitatore nelle affascinanti vicende storiche del castello e dell’intera vallata.

La lavorazione del ferro La prima parte dell’allestimento racconta il ciclo di produzione del ferro attraverso una serie di immagini cinquecentesche a commento dei campioni di rocce contenenti minerali ferrosi, di alcuni esemplari di oggetti in ferro battuto e delle scorie dei processi fusori, tuttora presenti in abbondanza sul territorio e reimpiegate, fra l’altro, nelle murature del castello. Il minerale era estratto dalle gallerie in quota sui versanti della Val di Pejo e dopo essere stato trasferito a valle subiva rispettivamente i processi di fusione e di lavorazione in fucina, che portavano alla produzione di oggetti e utensili finiti e semilavorati distribuiti nelle piazze commerciali di tutta la regione. La seconda e piú importante sezione espositiva allestita all’interno del

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In alto il castello di San Michele a Ossana (Trento), la cui prima menzione certa si data all’anno 1191. Nella pagina accanto stoviglie esposte nel museo allestito nel castello, nella sezione dedicata alla vita quotidiana fra il XV e il XVI sec. nuovo ambiente museale racconta, invece, della vita quotidiana e dei costumi dei feudatari che vissero nella fortezza grazie a una serie di oggetti provenienti dall’esplorazione archeologica dei fabbricati residenziali. Si segnalano soprattutto i reperti datati tra la fine del XIV e i primi anni del XVII secolo, quando il complesso visse il momento di maggiore sviluppo dal punto di vista costruttivo e architettonico: tracce per lo piú frammentarie, ma in grado di evocare suggestivamente alcuni aspetti di vita dei nobili che per lunghi periodi dovettero abitare nel castello. Di questi ultimi, i reperti testimoniano l’elevato tenore di vita, come nel caso dei frammenti di lussuose stufe a

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ANTE PRIMA A sinistra un particolare dell’allestimento, con i frammenti di una stufa a olle di produzione tirolese ricomposti in modo da offrire un’idea della sagoma originaria del manufatto. 1480 circa. In basso una formella in ceramica smaltata della stufa a olle con Adorazione del Bambino.

olle di produzione tirolese, risalenti all’ultimo quarto del XV secolo, ricomposti all’interno di un espositore che rievoca la sagoma di uno di questi manufatti. Serrature, chiavi, maniglie, cardini di ferro battuto testimoniano la presenza di porte e arredi lignei oggi scomparsi. Una campana bronzea con artistiche decorazioni del primo quarto del XVI secolo riporta alla memoria la «voce» che doveva scandire le giornate degli abitanti della rocca fortificata. Dalla chiesa di S. Michele, oggi allo stato di rudere, provengono poi i frammenti di pitture parietali, mentre un gruppo di monete di provenienza italiana e tirolese riflette la strategica collocazione geografica di Ossana, per secoli crocevia per uomini e merci. Non mancano frammenti di armi e di apparati per la difesa, che attestano il ruolo di presidio militare svolto dal maniero, mentre una selezione di frammenti di

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di elementi metallici di vestiario, spilli e ditali per il cucito, frammenti di guarnizioni di libri di pregio o di oggetti liturgici, piccoli giochi – come uno scacciapensieri o una serie di dadi –, un anello e un raro bruciaprofumi tardogotico in bronzo. Grazie all’allestimento permanente, il Castello di San Michele non solo accoglie nuovamente fra le sue mura le testimonianze materiali sopravvissute all’azione degli uomini e del tempo, ma soprattutto diviene il principale custode della storia dell’alta Val di Sole e delle comunità che attorno al castello gravitarono lungo i secoli. Giampiero Galasso DOVE E QUANDO forme ceramiche da mensa e oggetti in metallo rievocano le abitudini alimentari. Il percorso espositivo si chiude con una serie

Castello di San Michele Ossana (Trento), via al Castello Info www.visittrentino.info, www.visitvaldisole.it giugno

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IN EDICOLA

IL MILLENNIO DEGLI ANIMALI

Storie di uomini, fiere e lupi mannari Miniatura raffigurante un segugio che, tenuto da un valletto, segue una pista, da un’edizione del Livre de la chasse di Gaston Fébus illustrata sotto la direzione del Maestro dell’Épître d’Othéa. 1408-1410. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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GLI ARGOMENTI LI O MA EV NI IO A D I E GL L M NE

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STORIE DI UOMINI, FIERE E LUPI MANNAR I

IL MILLENNIO DEGLI ANIMALI

Ma il Medioevo è anche l’epoca in cui molti animali assumono valori simbolici potenti, fino a diventare, spesso, l’incarnazione di principi filosofici e religiosi. E, naturalmente, accanto a questo universo immateriale e spesso onirico, c’è invece la concretezza della vita quotidiana, fatta di allevamento, sfruttamento e, soprattutto, caccia. Il nuovo Dossier di «Medioevo» offre dunque l’occasione di scoprire questa realtà multiforme, che assume anche il valore di specchio della società. Proponendo un vivace e variopinto «serraglio», tutto da sfogliare, per vedere da vicino sua maestà l’orso (perché il leone venne dopo), i nobili destrieri dei cavalieri, ma anche l’inafferrabile fenice…

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ascino, ammirazione, curiosità… ma anche terrore e repulsione: sono questi i sentimenti suscitati, da sempre, dal mondo animale e che, nel millennio medievale, trovano nuove forme d’espressione, prime fra tutte l’arte della miniatura e la scultura. I secoli dell’età di Mezzo, infatti, ci appaiono letteralmente affollati dalle creature che con noi abitano la terra e, non a caso, proprio in quel tempo prendono forma i bestiari, vivacissime raccolte in cui sfilano esseri reali e fantastici, resi con tratti ora realistici, ora grotteschi.

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• NOI E GLI ANIMALI Insieme da sempre • IL CANE Compagni di caccia • L’ORSO Cosí bestiale, cosí umano! • LA LEPRE O la fuga o la vita • IL CAVALLO Una storia al galoppo • ANIMALI SELVATICI ED ESOTICI Liberi per natura • LA SCIMMIA Quel «parente» poco amato • IL LEONE Sia lode al re! • ANIMALI FANTASTICI Prodigi viventi • I LUPI MANNARI Stregati dalla luna • LA FENICE La magnifica illusione MEDIOEVO

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Mostre FIRENZE RAFFAELLO E IL RITORNO DEL PAPA MEDICI: RESTAURI E SCOPERTE Palazzo Pitti fino al 27 giugno

Dopo il restauro dell’Opificio delle Pietre Dure e l’esposizione proprio all’inizio della grande mostra organizzata alle Scuderie del Quirinale a Roma in occasione del cinquecentenario della morte di Raffaello, il Ritratto di Papa Leone X con i cardinali

a cura di Stefano Mammini

tutto di mano di Raffaello. Di grande attualità l’appello ecologico emerso con la revisione del supporto ligneo: purtroppo le variazioni del clima sono divenute cosí brusche e violente da mettere in crisi sistemi ed equilibri che, all’interno degli stessi materiali delle opere d’arte, avevano funzionato per secoli. info tel. 055 294883; www.uffizi.it RAVENNA LE ARTI AL TEMPO DELL’ESILIO Chiesa di San Romualdo fino al 4 luglio

Secondo appuntamento del ciclo espositivo «Dante. Gli occhi e la mente», la mostra riunisce testimonianze emblematiche delle tappe dell’esilio dantesco, proponendo ciò che il poeta ebbe occasione di ammirare nel suo lungo peregrinare per

Giulio de’ Medici e Luigi de’ Rossi torna a casa, nella sua Firenze. La mostra ne documenta il restauro e interpreta le analisi scientifiche del dipinto: adesso sono percepibili le sottili differenze tra le varie sfumature di rosso, le differenti consistenze dei tessuti e la capacità di introspezione ritrattistica dell’artista. Vengono inoltre spiegate le indagini diagnostiche che hanno dimostrato che il capolavoro è

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l’Italia, opere la cui eco influenzò la sua Commedia, straordinario «poema per immagini». Ad aprire il percorso espositivo è l’effigie in bronzo dorato raffigurante Bonifacio VIII, cioè di colui che condannò Dante all’esilio. L’ambiente di origine e formazione del poeta, Firenze, è quindi documentato da opere di Cimabue e di Giotto, che con ogni probabilità egli ebbe modo di ammirare. Negli anni successivi l’Alighieri, dopo essere stato costretto ad abbandonare anche Roma, soggiorna in diverse città, tra cui Arezzo, Verona, Padova, Bologna, Lucca e Pisa, in una fase di profonde mutazioni e novità nell’arte, che la mostra documenta attraverso dipinti, sculture, manoscritti miniati, oreficerie. Intorno al 1319, Dante giunge a Ravenna, mentre in città operavano Giovanni e Giuliano da Rimini, chiamato quest’ultimo a decorare la cappella a cornu epistulae della chiesa di S. Domenico, seguito anche da Pietro da Rimini, di cui la città conserva ancora oggi varie testimonianze. Ed è ai capolavori di questi due artisti che la mostra riserva ampio spazio nella sua sezione conclusiva, intervallandoli a testimonianze legate alla cultura figurativa veneziana, a documentare l’ultima impresa diplomatica svolta nella Serenissima dal poeta. Chiude il percorso la Madonna con Bambino che in origine proteggeva il modesto sarcofago dell’Alighieri e che, per questa occasione, torna per la prima volta a Ravenna, concessa in prestito dal Museo del Louvre, del quale è ora patrimonio. info www.mar.ra.it

FORLÍ DANTE, LA VISIONE DELL’ARTE Musei San Domenico fino all’11 luglio

La mostra non vuol essere solo l’occasione per celebrare l’anniversario dantesco, ma, nel momento difficile che tutto il mondo vive, anche un simbolo di riscatto e di rinascita. A Forlí Dante trovò rifugio, lasciata Arezzo, nell’autunno del 1302, rimanendo per oltre un anno presso gli Ordelaffi, signori ghibellini della città. Per la mostra gli Uffizi hanno concesso in prestito alla città romagnola il ritratto dell’Alighieri e quello di Farinata degli Uberti di Andrea del Castagno, nonché un altro ritratto, dipinto da Cristofano dell’Altissimo per la serie commissionata da Cosimo I

de’ Medici dedicata agli uomini illustri. Si possono inoltre ammirare la Cacciata dal Paradiso terrestre di Pontormo e un disegno di Michelangelo che ritrae un dannato nell’Inferno della giugno

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MOSTRE • Masaccio, Madonna del solletico. L’eredità del cardinal Antonio Casini, principe senese della Chiesa Siena – Cripta del Duomo

fino al 2 novembre info https://operaduomo.siena.it

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l Complesso monumentale del Duomo di Siena presenta la mostra dedicata alla committenza del cardinal Antonio Casini, vescovo della città toscana tra il 1408 e il 1426, un principe della Chiesa al centro della politica religiosa del suo tempo, tanto da essere definito «l’altro papa» da un diplomatico. Fra le opere appartenute all’insigne umanista e teologo si segnala la Madonna col Bambino, detta «del solletico», di Masaccio, tangibile segno del legame intenso di Casini con la Vergine Maria. Antonio Casini nacque, per via paterna, da una eminente famiglia di archiatri pontifici, mentre la madre era imparentata con la famiglia Colonna, la medesima di Martino V, il papa dal quale fu creato prete cardinale del titolo di San Marcello nel 1426. Come ha osservato Antonio Paolucci, «è ragionevole pensare che la Madonna del solletico sia stata dipinta in quella occasione o poco dopo. In quel dipinto si incontrano due destini. Da una parte il potente prelato, ricco e sagace protagonista del suo tempo, già vescovo di Siena che con la nomina cardinalizia tocca il culmine della sua fortuna politica. Dall’altra Masaccio, un giovanissimo artista che sta affermandosi faticosamente sulle piazze artistiche di Firenze e della Toscana. Due uomini, Masaccio e Antonio Casini, divisi da rango sociale e dal censo e tuttavia arrivati fino a noi grazie a un piccolo dipinto che racconta di una mamma che gioca con il suo bambino». settecentesco Carlo Albacini, e una delle piú recenti acquisizioni degli Uffizi, la tela ottocentesca del protoromantico toscano Nicola Monti intitolata Francesca da Rimini all’Inferno. A questa pregevole selezione si aggiungono le opere prestate da musei di tutto il mondo. «Dante, la visione dell’arte» intende dunque essere un momento di riflessione sulla figura del poeta, simbolo dell’Italia, e sul suo immenso lascito: in un rispecchiamento unico tra linguaggio dell’arte e figura letteraria. info www.mostradante.it TORINO Divina Commedia, oltre a una scelta di disegni di Federico Zuccari per l’edizione cinquentesca illustrata del testo. E poi i personaggi: un busto marmoreo di Virgilio, realizzato dallo scultore

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RITRATTI D’ORO E D’ARGENTO. RELIQUIARI MEDIEVALI IN PIEMONTE, VALLE D’AOSTA, SVIZZERA E SAVOIA Palazzo Madama, Sala Atelier fino al 12 luglio

La mostra presenta una galleria di busti reliquiario dal

Duecento al primo Cinquecento, provenienti da tutte le diocesi del Piemonte e raffiguranti santi legati alle devozioni del territorio e alle titolazioni di determinate chiese locali, oltre ad alcuni esemplari dalla Svizzera e dall’Alta Savoia. Documentati già dall’XI secolo per contenere la reliquia del cranio di certi

santi, i busti sono a tutti gli effetti dei ritratti in oreficeria, solitamente in rame o in argento dorato, spesso arricchiti da pietre preziose, vetri colorati e smalti. Una produzione specificatamente medievale, in cui convivono il gusto per il ritratto di tradizione classica – di qui la presenza di dettagli relativi all’acconciatura o all’abbigliamento – e le pratiche devozionali teorizzate da alcuni ecclesiastici e filosofi del XII secolo, secondo cui la contemplazione dell’immagine di un santo, realizzata con materiali preziosi, poteva condurre il fedele verso l’elevazione spirituale. I busti e le teste reliquiario si configurano quindi come opere di valenza doppia: sia opere d’arte sia ricettacolo delle reliquie dei santi che rappresentano e in quanto tali oggetto della venerazione

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AGENDA DEL MESE dei fedeli. Il Piemonte e l’area alpina contano un numero molto elevato di queste testimonianze per il periodo XII-XVI secolo, soprattutto in rapporto alle altre regioni d’Italia. La mostra vuole documentare questa ricchezza, anche stilistica, cercando di comprendere le ragioni del successo di questa tipologia nel nostro territorio. info tel. 011 4433501; e-mail: palazzomadama@ fondazionetorinomusei.it; www.palazzomadamatorino.it RAVENNA INCLUSA EST FLAMMA. RAVENNA 1921: IL SECENTENARIO DELLA MORTE DI DANTE Biblioteca Classense fino al 17 luglio

«Inclusa est flamma» è un percorso di documentazione storica che ha il suo nucleo centrale nelle celebrazioni nazionali per il VI centenario dantesco del 1921, inaugurate l’anno prima proprio in Classense alla presenza dell’allora Ministro della Pubblica Istruzione Benedetto Croce. Vengono esposti libri, manifesti, fotografie, dipinti, manoscritti e numerosi oggetti d’arte conferiti come omaggio a

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Dante e alla città «ultimo rifugio» del poeta. Ciascuno degli oggetti, testimonianze della storia «ufficiale», offre spunti per raccontare anche storie particolari, spesso sconosciute al grande pubblico e a volte sorprendenti. Il Secentenario del 1921 fu preceduto da altri momenti celebrativi di valenza nazionale, come per esempio le «Feste dantesche» del settembre 1908, organizzate dalla Società Dantesca Italiana, che riunirono a Ravenna rappresentanti di città e territori allora sotto la sovranità dell’impero asburgico. Fra i pezzi piú importanti riuniti per l’esposizione vi sono il modello in bronzo del monumento di Dante a Trento, realizzato da Cesare Zocchi nel 1896; Dante nella pineta e I funerali di Dante, opere del triestino Carlo Wostry (1865-1943) e i celebri sacchi donati da Gabriele D’Annunzio e decorati da Adolfo De Carolis col motto «Inclusa est flamma» («la fiamma è all’interno») che dà il titolo alla mostra. I sacchi in tela di juta, contenenti foglie di alloro in omaggio a Dante, furono trasportati in aereo a Ravenna da tre aviatori che avevano partecipato a famose imprese militari di D’Annunzio, come il volo su Vienna del 1918 o l’Impresa di Fiume. Il Vate stabilí un parallelo tra la fiamma che ardeva sulla tomba di Dante e la fiamma perenne che veniva custodita presso il santuario di Apollo a Delfi, considerato dagli antichi Greci il cuore vivo della loro civiltà. Una simbologia iniziatica che intendeva rappresentare Dante visto come profeta della Nazione oltre che padre della lingua italiana.

info tel. 0544.482112; e-mail: informazioni@classense.ra.it; www.classense.ra.it

RAVENNA DANTE NELL’ARTE DELL’OTTOCENTO. UN’ESPOSIZIONE DEGLI UFFIZI A RAVENNA Chiostri Francescani fino al 5 settembre

Dante in esilio è un olio su tela di Annibale Gatti, pittore forlivese che si formò a Firenze, raggiungendo l’apice della sua carriera artistica nel momento in cui la città divenne la nuova capitale del Regno. Proveniente dagli Uffizi di Firenze, è un’opera notevole sotto il profilo artistico e fondamentale per valore simbolico. La sua presenza a Ravenna nasce, infatti, dal progetto di stretta collaborazione pluriennale tra il Comune di Ravenna e le Gallerie degli Uffizi, definito

con un protocollo ufficiale di intesa. Il documento prevede prestigiosi prestiti per la mostra «Dante. Gli occhi e la mente. Le Arti al tempo dell’esilio» e la concessione da parte degli Uffizi – in un deposito a lungo periodo – di un nucleo di opere ottocentesche dedicate alla figura di Dante Alighieri, da esporre a Ravenna come parte integrante del progetto Casa Dante. Inoltre ogni anno, in concomitanza con l’annuale cerimonia del dono dell’olio da parte della città di Firenze, gli Uffizi presteranno alla città di Ravenna un’opera a tema dantesco. Rinnovando, cosí ancora una volta, il profondo legame tra Firenze, città natale del sommo poeta, e Ravenna, città che lo accolse e suo «ultimo rifugio». All’interno di questo accordo ha preso forma anche il progetto che ha portato all’esposizione giugno

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MOSTRE • La Madonna delle Partorienti dalle Grotte vaticane Torino – Palazzo Madama, Corte Medievale

fino al 20 luglio info www.palazzomadamatorino.it

L

a Madonna delle Partorienti di Antoniazzo Romano, opera risalente all’ultimo decennio del XV secolo, viene esposta in anteprima assoluta al pubblico dopo un lungo e complesso restauro, e la mostra è l’occasione per ammirare il prezioso dipinto, prima che faccia definitivamente rientro nelle Sacre Grotte della Basilica vaticana. Si tratta di un affresco – o, meglio, del frammento di un affresco – di grande importanza per la fede e per l’arte. Realizzato da Antoniazzo Romano alla vigilia del Giubileo del 1500, si trovava in origine nel transetto meridionale della vecchia basilica, sopra l’altare della cappella Orsini. Durante i lavori per la costruzione del nuovo S. Pietro, fu staccato dalla parete e collocato nel 1574 in una nicchia dietro un altare, a ridosso del muro che divideva l’antica chiesa dal cantiere della nuova basilica. Qui continuò a raccogliere la devozione dei fedeli e, soprattutto, delle donne in attesa del parto. Rimosso anche da questo luogo nel 1605, venne poi portato nelle Grotte Vaticane e, nel 1616, trovò definitiva collocazione in una cappella appositamente ricavata sotto il pavimento della basilica. L’immagine della Madonna delle Partorienti - o «degli Angeli» come veniva chiamata nel Cinquecento - venne allora ridotta di dimensione, perdendo l’originaria mandorla con variopinte figure di cherubini, che tuttavia possiamo ammirare nell’inedita e attendibile proposta ricostruttiva presentata in mostra.

della tela a tema dantesco di Annibale Gatti nei Chiostri Francescani. Nel dipinto il poeta è ritratto in un momento di intima riflessione, in compagnia del figlio, nella pineta di Classe, citata da Dante nel Purgatorio e luogo a lui caro. E la pineta classense rivive, in questa mostra, oltre che nel dipinto, anche in una selezione di fotografie storiche provenienti dal Fondo «Corrado Ricci» della Biblioteca Classense. info tel. 0544 482.477-356; e-mail: info@museocitta.ra.it; www.mar.ra.it FIRENZE «ONOREVOLE E ANTICO CITTADINO DI FIRENZE». IL BARGELLO PER DANTE Museo Nazionale del Bargello fino all’8 agosto

Articolata in sei sezioni, la mostra riunisce oltre cinquanta tra manoscritti e

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opere d’arte provenienti da biblioteche, archivi e musei e presenta le tappe e i protagonisti della ricostruzione postuma del rapporto tra Firenze, l’Alighieri e la sua opera, nel secondo quarto del Trecento. Si tratta di copisti, miniatori, commentatori, lettori, volgarizzatori, le cui vicende professionali e umane si intrecciano fittamente, restituendo l’immagine di una città che sembra trasformarsi in uno scriptorium diffuso, al centro del quale campeggia la Commedia, e in cui i libri circolano con abbondanza e prendono vita nuove soluzioni artistiche e codicologiche proprio in relazione al poema dantesco. Il Museo Nazionale del Bargello è la sede ideale per una mostra che ripercorre il complesso rapporto tra Dante e la sua città natale: nella Sala dell’Udienza dell’allora Palazzo del Podestà (oggi Salone di Donatello), il 10 marzo 1302, il sommo poeta venne condannato all’esilio definitivo; nell’attigua Cappella del Podestà, solo pochi anni piú tardi (entro il

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AGENDA DEL MESE

1337), Giotto e i suoi allievi ritraevano il volto di Dante includendolo tra le schiere degli eletti nel Paradiso. Proprio attorno a questo ritratto, la prima effigie a noi nota del padre della lingua italiana, si delinea cosí quel processo di costruzione della memoria che permetterà a Firenze di riappropriarsi dell’opera e della figura dell’Alighieri. info tel. 055 0649440; e-mail: mn-bar@beniculturali.it; www.bargellomusei. beniculturali.it URBINO SUL FILO DI RAFFAELLO. IMPRESA E FORTUNA NELL’ARTE DELL’ARAZZO Palazzo Ducale fino al 12 settembre

Realizzata in collaborazione con i Musei Vaticani e con il Mobilier National di Parigi, la mostra è dedicata a Raffaello e al mondo degli arazzi e indaga sia l’apporto che il pittore forní in questo specifico settore – per il quale sperimentò invenzioni e realizzò cartoni poi tessuti nelle botteghe fiamminghe –, sia la fortuna che le opere dell’Urbinate conobbero nel corso dei secoli

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nella produzione di arazzi. Con dodici grandiose pezze tessute nelle migliori arazzerie europee, raffiguranti principalmente le pitture delle Stanze Vaticane, Urbino può esibire, nel maestoso salone del Trono, tutta la monumentale opera pittorica del suo cittadino piú illustre, la potenza e l’equilibrio classico che Raffaello raggiunse a Roma, circa 25 anni dopo aver lasciato la sua città natale. Gli spazi nei quali l’artista aveva camminato da bambino accompagnato dal padre Giovanni Santi accolgono la sua opera piú grandiosa, realizzata a Roma per i papi, apprezzata da artisti, critici, conoscitori e dai turisti di tutte le epoche. info www.galleria nazionalemarche.it MILANO LA FORMA DEL TEMPO Museo Poldi Pezzoli fino al 27 settembre

Tema della mostra è il rapporto dell’uomo con il tempo, dall’antichità alle soglie dell’età moderna, sviluppato attraverso una trentina di opere tra orologi, sculture, codici e dipinti (tra gli autori: Tiziano, Gian Lorenzo

Bernini, Andrea Previtali, Bernardino Mei e Giovan Battista Gaulli detto il Baciccio). Fulcro dell’esposizione – che si articola in in quattro sezioni: La misura del Tempo e dello spazio, Le immagini del Tempo e Nottetempo, Ombre magiche – è una serie di preziosi orologi notturni italiani del Seicento, invenzione dei fratelli Campani per papa Alessandro VII Chigi, con i quadranti dipinti con allegorie del tempo da famosi artisti barocchi. Accanto ai due esemplari del Museo Poldi Pezzoli, l’uno di Giovan Pietro Callin e l’altro di Wendelinus Hessler, dodici sono provenienti da collezioni private. Da segnalare, nella prima sezione, dedicata alle tappe fondamentali dell’evoluzione tecnologica degli strumenti di misurazione del tempo, la presenza di un rarissimo – praticamente l’unico – svegliatore monastico originale risalente al XV secolo, l’antenato dei primi orologi a pesi e di una replica dell’Astrario di Giovanni Dondi, la piú complicata macchina astronomica ideata nel Medioevo europeo. Per tutta la durata dell’esposizione sono

in programma attività didattiche collaterali: visite guidate con tagli diversi su prenotazione, itinerari didattici e laboratori per bambini e famiglie, un ciclo di conferenze sui temi della mostra affidate a specialisti degli argomenti affrontati. Il calendario degli appuntamenti è consultabile sul sito web del Museo. info www.museopoldipezzoli.it CLASSE (RAVENNA) CLASSE E RAVENNA AL TEMPO DI DANTE Classis Ravenna-Museo della Città e del Territorio, Parco Archeologico di Classe fino al 30 settembre

Quale città incontra Dante quando arriva a Ravenna nel 1318? Il rapporto con il mare e con le vie d’acqua riveste ancora la stessa importanza che aveva durante l’epoca romana? Che cosa è cambiato e qual è la relazione con Classe? Qual è la città e quali giugno

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sono i monumenti che Dante vede? Queste sono le domande alle quali intende rispondere la mostra documentaria allestita al Museo Classis Ravenna. All’epoca di Dante il centro abitato distava circa due miglia dalla costa, era delimitato a est dalla fitta fascia dei pineti, a nord dal fiume Montone, a sud dal Ronco e a ovest da terreni solo in parte bonificati; attraversata da una fitta rete di fiumicelli e canali limacciosi, la città viveva in una sorta di precario equilibrio fra acque dolci e acque marine. La pineta costituiva una vasta area boschiva che dal Reno arrivava fino a Cervia, correndo parallelamente alla costa adriatica. Alle case povere e per lo piú pedeplane, si affiancavano i rari palazzi signorili, quelli dei Traversari e dei Polentani. Le chiese sono numerosissime, per una popolazione di circa 10 000 abitanti. Ravenna, che aveva tratto profitto dall’attività edilizia in epoca romana, conservava un complesso, unico nel suo genere, di monumenti del V e VI secolo di cui non esisteva l’eguale in altra città. L’unicità, di cui godiamo tuttora, considerando la quasi totale scomparsa delle chiese erette in quei secoli a Costantinopoli, in Palestina e in Siria, era al tempo di Dante ancora piú significativa. La mostra si propone di ricostruire, anche attraverso una ricerca originale e mirata, monumenti e paesaggi di Ravenna e di Classe ai tempi di Dante. Oltre al recupero e alla interpretazione/sistemazione dei documenti disponibili, vengono proposte anche ricostruzioni complessive sia della città che di singoli

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monumenti, allo scopo di fornire un quadro generale della città e delle sue strutture urbanistiche e architettoniche ai tempi di Dante, con soluzioni fortemente evocative. info https://classisravenna.it/ VERONA TRA DANTE E SHAKESPEARE. IL MITO DI VERONA Galleria d’Arte Moderna A. Forti fino al 3 ottobre

L’esposizione è uno dei fulcri dell’articolata mostra diffusa ideata per le celebrazioni del centenario del 2021, che prevede il duplice omaggio al Poeta e alla città di Verona, che gli diede «lo primo tuo refugio e ’l primo ostello» (Paradiso, XVII, 70). La città scaligera, infatti, non è semplicemente lo sfondo della vicenda dantesca, ma ne diventa essa stessa protagonista. Questa specificità, che la caratterizza rispetto alle altre città

dantesche, viene valorizzata attraverso un itinerario cittadino che, tramite l’ausilio di una mappa cartacea, porta il visitatore alla riscoperta di ventun luoghi – tra piazze, palazzi, chiese, emergenze monumentali in città e nel territorio – direttamente legati alla presenza del poeta, dei suoi figli ed eredi, e a quelli di tradizione dantesca. La Galleria d’Arte Moderna propone una selezione di oltre 100 opere, tra dipinti, sculture, opere su carta, tessuti e testimonianze materiali dell’epoca scaligera, codici manoscritti, incunaboli e volumi a stampa in originale e in formato digitale provenienti dalle collezioni civiche, dalle biblioteche cittadine, da biblioteche e musei italiani ed esteri. Nel percorso espositivo, che copre un arco cronologico compreso tra Trecento e Ottocento, c’è spazio per la fortuna iconografica dei

personaggi danteschi, a partire da Beatrice e Gaddo, ma anche di altre figure femminili e delle tragiche vicende, legate al tema dell’amore e degli amanti sfortunati, di Pia de’ Tolomei e Paolo e Francesca. E proprio quest’ultimo tema introduce il mito di Giulietta e Romeo, giovani innamorati nati dalla penna di Luigi da Porto nel Cinquecento e resi celebri da William Shakespeare in tutto il mondo. info www.danteaverona.it, gam.comune.verona.it PERUGIA RAFFAELLO IN UMBRIA E LA SUA EREDITÀ IN ACCADEMIA Fondazione CariPerugia Arte, Palazzo Baldeschi fino al 3 ottobre

Tra reale e virtuale: cosí Raffaello abita le sale di Palazzo Baldeschi al Corso fino al 6 gennaio. La mostra propone un’esperienza immersiva che consente di ammirare in sequenza tutte le opere umbre dell’Urbinate – se ne contano a oggi dodici (la Pala di San Nicola da Tolentino, il Gonfalone della Trinità, la Crocefissione Mond, lo Sposalizio della Vergine, la Pala Colonna, la Pala degli Oddi, la Pala Ansidei, la Madonna del Libro (piú nota come Conestabile), l’affresco di San Severo, la Deposizione Baglioni, la Madonna con il Bambino e i Santi e, infine, l’Incoronazione della Vergine) – permettendo ai visitatori di esplorarne anche i dettagli, accompagnati da informazioni lette da una voce narrante. Da segnalare, inoltre, tre prestigiose opere del Rinascimento umbro appartenenti alla collezione della Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia e realizzate da tre maestri a cui Raffaello si ispira e con i

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AGENDA DEL MESE internazionali dell’epoca. info tel. 075 5734760; e-mail: palazzobaldeschi@ fondazionecariperugiaarte.it; www.fondazionecariperugiaarte. it; facebook: @fondazionecariperugiaarte; twitter: @CariPerugiaArte; instagram: cariperugiaarte, #PerugiacelebraRaffaello, #RaffaelloinUmbria BRESCIA DANTE E NAPOLEONE Palazzo Tosio-Ateneo di Brescia fino al 15 dicembre

La mostra è compresa nel piú vasto programma di iniziative organizzate dall’Ateneo di Brescia-Accademia di Scienze Lettere e Arti con Fondazione Brescia Musei per celebrare due miti, a 700 anni dalla morte di Dante e, al quali si relaziona quando arriva in Umbria: la Madonna col Bambino e due cherubini del Perugino, la Madonna con il Bambino e San Giovannino del Pintoricchio e il Santo Stefano lapidato di Luca Signorelli. La seconda sezione della mostra, «L’Accademia di Perugia e Raffaello: da Minardi e Wicar al Novecento», si articola in quattro parti tematiche e cronologiche che vogliono mostrare e dimostrare come, per tutto l’Ottocento, Perugia, grazie alla presenza di Tommaso Minardi, fu un epicentro insieme a Roma della corrente purista e del ritorno all’arte di ispirazione religiosa. L’Accademia fu infatti un vivaio di pittori talentuosi, che rielaborano la lezione degli antichi maestri, Perugino e Raffaello prima di tutti, attualizzandone modelli e stile, interpretando quel gusto neorinascimentale, molto apprezzato anche dal collezionismo e dal mercato

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contempo, a 200 da quella di Napoleone. Il progetto indaga valori, ideali e sentimenti che si addensarono intorno ai due personaggi, descrive un’epoca, i suoi protagonisti, il collezionismo, le tendenze, all’insegna di un comune denominatore: l’Europa. Per la mostra «Dante e Napoleone» sono state riunite oltre 80 opere, fra dipinti, sculture, disegni, stampe e medaglie, provenienti da collezioni pubbliche e private, in dialogo con il percorso permanente della casa-museo di Paolo Tosio. Opere che documentano l’interesse largamente diffuso per i due grandi personaggi: Alighieri in quanto riferimento delle aspirazioni civili e identitarie della nazione, della quale il poeta era considerato l’unificatore dal punto di vista linguistico; Bonaparte in quanto percepito come colui che, grazie alla costituzione della Repubblica prima e del Regno italico poi, aveva avviato un processo di formazione della coscienza nazionale che diede vita al Risorgimento e all’unificazione della Penisola. info www.ateneo.brescia.it, www.bresciamusei.com AREZZO OMAGGIO AL SOMMO POETA. PER I 700 ANNI DALLA MORTE DI DANTE ALIGHIERI Palazzo della Fraternita dei Laici fino a dicembre

La mostra propone documenti d’archivio e testi a stampa che inseriscono a pieno titolo la città di Arezzo nell’itinerario delle vicende dantesche. Il percorso, volutamente circoscritto, ma scientificamente documentato, è organizzato nelle sale del prestigioso e antico palazzo di Fraternita

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(XIV-XV secolo). L’esposizione si apre con una sezione che, attraverso documenti notarili e autorevoli fonti, illustra il legame di Dante e della sua famiglia con Arezzo: il soggiorno del poeta tra il 1303 e il 1304 e la presenza del fratello Francesco in città per la stipula di un contratto. Nel nucleo centrale appare egemone il ruolo svolto in quegli anni dall’antica Fraternita dei Laici, che vive allora il passaggio da istituzione religiosa e assistenziale a organismo laico riconosciuto dal Comune. Sono quindi esposti gli antichi Statuti, l’elenco dei confratelli iscritti, le riforme e i lasciti testamentari. È poi la volta dalle splendide edizioni

a stampa della Commedia e volumi un tempo appartenuti alla stessa Fraternita che, riccamente illustrati, testimoniano dal XV al XVI secolo, l’enorme fortuna dell’opera dantesca. Tra queste, spicca la pregiata edizione della Commedia (1481), illustrata, secondo l’attribuzione di Giorgio Vasari, da Sandro Botticelli. L’esposizione si conclude con il ritratto a stampa di Dante proveniente dalla Collezione Bartolini ed eseguito da Angelo Volpini nel XIX secolo (stampa di Carlo Lasinio),

icona e simbolo della mostra: l’immagine si distingue da altre effigi del poeta in virtú del cartiglio esplicativo, che ne ricorda la genesi da una maschera originale del poeta. info e-mail: info@ fraternitadeilaici.it; www. fraternitadeilaici.it; Fb: Fraternita dei Laici

Appuntamenti SIENA

un ricco calendario di iniziative, fra le quali figura un ciclo di incontri, organizzato con la consulenza scientifica del Comitato di Pavia della Società Dante Alighieri, che mira ad approfondire la figura dell’autore della Divina Commedia e a scoprire le ragioni del suo successo, ancora immutato dopo 700 anni. A seguire, il programma degli appuntamenti. 22 luglio, ore 18,30, Castello Visconteo: Dante. Un’epopea

CONFERENZE DANTESCHE Accademia senese degli Intronati fino al 24 giugno

Ultimi appuntamenti con il ciclo di conferenze organizzato dall’Accademia per celebrare il settimo centenario della morte di Dante Alighieri. Questi gli interventi in programma: 9 giugno, Roberta Mucciarelli, La Pia; 17 giugno, don Enrico Grassini, Un teologo di nome Dante; 24 giugno, Marilena Caciorgna, Savia non fui. Dante e Sapia tra letteratura e arte. Le conferenze si tengono alle ore 17,30 ed è possibile assistervi sulla pagina Facebook dell’Accademia. I video delle conferenze verranno successivamente caricati sul canale YouTube «Accademia senese degli Intronati» e resteranno a disposizione del pubblico. info www.accademiaintronati.it; Fb: Accademia senese degli Intronati PAVIA PROGETTO DANTE Castello Visconteo e Broletto fino al 22 ottobre

La città di Pavia rende omaggio al sommo poeta con

pop, conferenza di Giuseppe Antonelli (professore ordinario di linguistica italiana, Università di Pavia). 9 settembre, ore 21,00, Broletto: DIVINARMONIA. Il viaggio di Dante nella conoscenza, con Vincenzo Zitello (arpista) e Davide Ferrari (attore). 22 ottobre, ore 18,00, Castello Visconteo: Dal peccato alla virtù: l’amore in tre canti della Commedia, commento di Mirko Volpi (ricercatore di linguistica italiana, Università di Pavia), lettura di Davide Ferrari (attore). info tel. 0382 399343; e-mail: cultura@comune.pv.it; www.vivipavia.it

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battaglie ager sanguinis Miniatura raffigurante una fase della battaglia dell’Ager Sanguinis, da un’edizione dell’opera in versi nota come Romanzo di Goffredo di Buglione. 1337. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

28 GIUGNO 1119

Sotto una

pioggia di frecce

di Federico Canaccini

Fu uno degli episodi piú cruenti nella lunga storia di belligeranza fra cristiani e musulmani nelle terre del Levante: in una piana in seguito conosciuta come il «Campo di Sangue», l’esercito crociato del principato d’Antiochia, guidato da Ruggero di Salerno, sfidò Ilghazi ibn Artuq, signore di Mardin e governatore di Aleppo. A decidere le sorti fu la micidiale efficacia degli arcieri turcomanni... 34

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battaglie ager sanguinis

L L

a battaglia combattuta il 28 giugno del 1119 presso Sarmada (nell’odierna Siria), e passata alla storia col nome del «Campo di Sangue» (Ager Sanguinis), fu una delle piú pesanti disfatte patite dai Franchi del principato di Antiochia, guidati dal principe Ruggero di Salerno, contro una lega musulmana capeggiata dal signore di Mardin, Najm-alDin Ilghazi ibn Artuq. La coalizione guidata da Ilghazi attaccò i Franchi in risposta alle richieste di aiuto da parte degli abitanti di Aleppo, contro i quali si era volto il principe Ruggero di Salerno, reggente di Antiochia. Negli anni precedenti, infatti, Ruggero

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aveva condotto brillanti campagne nel territorio circostante, conquistando le fertili pianure comprese fra Jabal Talat e Aleppo, che poi cinse d’assedio nel 1119. La situazione era precipitata nel 1117, quando venne assassinato l’atabeg – una sorta di «ministro» – di Aleppo, l’eunuco Lu’Lu’. Secondo lo storico Kamal adDin (1192-1262), «I soldati della sua scorta avevano tramato un complotto contro di lui. Mentre camminava a est della città, tesero improvvisamente i loro archi gridando: “La lepre!” per fargli credere che volessero cacciare questo animale, mentre invece fu lui a essere crivellato di frecce». Alla sua morte, il potere passò a un nuovo eunu-

co di corte, il quale, però, incapace di imporsi, chiese aiuto a Ruggero facendo piombare nel caos istituzionale l’intera area.

L’appello degli Aleppini

Ruggero ne approfittò immediatamente, spostando le proprie truppe e conquistando la città di ‘Azaz, 40 km a nord di Aleppo, sulla via per Edessa. Senza attendere l’intervento dell’atabeg di Damasco, Tugtekin, gli Aleppini, già nell’estate del 1118, «inviarono messi esortando Ilghazi ad accorrere, perché si susseguivano le razzie da parte dei Franchi dalla parte di al-Atharib su Aleppo, i cui abitanti erano ridotti alla disperazione», scrive Kamal ad-Din. Ilgha-

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Sultanato di Rum

Contea di Edessa Ager Sanguinis 1119

Atabeg di Mosul

Aleppo

Antiochia

Principato ato to Regno di Antiochia di Aleppo

Eufrate

(1098-1268)

Regno di Cipro (1192-1489)

Or

Famagosta

Contea di Tripoli (1102-1146)

Nicosia

on

te

Palmira Krak dei Cavalieri Homs

Tripoli Beirut

Mar Mediterraneo

Tiro

Beaufort

Montfort

no

Chastel Pélerin Cesarea

Belvoir

Amman Gerusalemme

Regno di Kerak Gerusalemme (1099-1187)

Califfato fatimide di Egitto (968-1171)

Golfo di Suez

DESERTO DI SIRIA

Ajlun

Gaza

El Mansûra Il Cairo

Regno di Damasco

Damasco

Le Chastellet

Acri

Damietta

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Edessa

(1138-1375) Adana

Giaffa Ascalona

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(1098-1146)

Piccola Armenia

Giorda

zi, allora, «marciò per Marg Dabiq e Maslamiyya e Qinnasrin, alla fine di giugno: le sue gualdane (scorrerie) invasero i territori franchi e la zona di arRug, uccidendo e catturando e presero la rocca di Qastun». L’esercito era composto prevalentemente da arcieri a cavallo provenienti da diverse tribú nomadi di origine turcomanna. A seguire doveva esserci una sorta di milizia urbana, la ahdhat, con cui Ilghazi cinse d’assedio al-Atharib, mentre le truppe a cavallo presidiavano la vasta pianura, in attesa dell’arrivo del nemico. Nel frattempo, il principe Ruggero «raccolse i Franchi e gli Armeni e uscí diretto al Ponte di Ferro», cioè il ponte sul fiume Oronte, alla testa di

Stati latini d’Oriente Regno di Gerusalemme Contea di Tripoli

Shawbak Petra

SINAI

‘Aqaba

Mar Rosso

Principato di Antiochia Contea di Edessa Principali fortezze crociate Principali fortezze musulmane

A sinistra la città di Antiochia in una incisione dall’opera di John Carne, Syria, The Holy Land and Asia Minor (Londra, 1836-1838).

In alto l’assetto geopolitico della regione levantina al tempo in cui si combatté la battaglia dell’Ager Sanguinis, presso Sarmada, fra Antiochia e Aleppo.

un esercito composto da circa 7000 cavalieri e 3000 fanti. Il 20 giugno, i cristiani si accamparono a Balat, a est di Sarmada, in una valle che ritennero ben protetta dalle colline da cui era circondata. Nella settimana seguente gli emiri musulmani, preoccupati dall’approssimarsi dei Franchi, spinsero Ilghazi a rompere ogni indugio e ad affrontare il nemico. «Ilghazi – scrive Kamal ad-Din – fece rinnovare i giuramenti agli emiri e ai generali di combattere da valorosi, tener fermo e non arretrare e offrire la vita nella Guerra Santa: ed essi giurarono ciò di buon grado». Il 27

giugno i musulmani lasciarono le loro tende a Qinnasrin e trascorsero la notte in prossimità dei Franchi «che avevano cominciato a costruire una rocca dominante Tell Afrin, immaginando che i musulmani assediassero Atharib o Zardana». Il 27 giugno gli abitanti di alAtharib, nel tentativo di forzare il blocco, attaccarono i Turchi con i rinforzi guidati da Roberto di Vieux-Pont, ma, per ben due volte, furono respinti. Informato della disfatta, Ruggero convocò uno straordinario consiglio di (segue a p. 40)

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battaglie ager sanguinis najm-al-din ilghazi ibn artuq

Una vita con le armi in pugno Il condottiero che sconfisse i cristiani al «Campo di sangue», noto come Ilghazi, era figlio di Artuq, della tribú Döger, nominato governatore di Gerusalemme dall’emiro selgiuchide Tutush, signore della Palestina e di Siria. Alla morte di Artuq, i suoi due figli, Ilghazi e Soqman, divennero governatori di Gerusalemme. Tra i due, però, sorsero attriti per il controllo della Siria: Ilghazi uscí sconfitto dallo scontro e fu imprigionato. Tornato in libertà, riuscí però a recuperare Gerusalemme, che tenne fino al 1098, quando fu presa dal visir d’Egitto, mentre i Selgiuchidi erano impegnati con i crociati che assediavano Antiochia e che, pochi mesi dopo, sarebbero giunti fino alla Città Santa. In quegli anni Ilghazi si mise al servizio del sultano selgiuchide Mahmud I, rivestendo il ruolo di governatore militare e rappresentando il sultano presso il califfo. Solo nel 1104, alla morte del fratello, divenne unico erede e capo della famiglia degli Artuqidi. Quale nuovo leader, si distinse per una politica di interesse, alleandosi ora coi Franchi ora con i musulmani, a seconda dell’opportunità. Nonostante alcune rivalità, nel 1114 fece fronte comune con il nipote Balak contro Aq-SunqurBursuqi, a cui il sultano aveva affidato il compito di una guerra contro i crociati: le pretese egemoniche di Aq-Sunqur indussero alla rivolta gli Artuqidi, che lo obbligarono a ritirarsi a Mossul. Forte di questo successo, Ilghazi tentò di conquistare Homs e Antiochia, caduta in mano cristiana, ma senza riuscirci. Alla morte del governatore di Aleppo,

l’eunuco Lu’Lu’, i cittadini, minacciati da Ruggero di Salerno, chiesero l’intervento di Ilghazi, il quale, nell’estate del 1118, entrò in città e sposò la figlia dell’ultimo signore selgiuchide di Aleppo. In realtà il condottiero non incontrò mai la ragazza, Farkhunda Khatun, e il matrimonio non fu mai consumato. Ma agli occhi degli Aleppini, il legame dinastico era sugellato. Dopo la vittoria dell’Ager Sanguinis, caddero nelle sue mani molte città della Siria. Il 12 agosto del 1121, dopo aver stipulato una pace coi crociati, Ilghazi mosse un grande esercito contro il regno di Georgia, ma, a Didgori, 40 km a sud di Tbilisi, fu duramente sconfitto dal re Davide IV: lo stesso Ilghazi e pochi altri comandanti riuscirono a scampare al massacro. L’anno seguente riuscí a catturare il conte di Edessa, Jocelyn di Courtenay: sarebbe stato liberato poco tempo dopo da un manipolo di soldati travestiti da mercanti. Il 3 novembre del 1122, il campione dell’Ager Sanguinis moriva di malattia a Diyarbakir, lungo le sponde del fiume Tigri. Il suo corpo fu però trasportato e sepolto a Mayyafariqin, l’odierna Silvan. I suoi possedimenti furono spartiti tra i figli, avuti dalla seconda consorte, figlia di Tugtekin, fondatore della dinastia buride di Damasco, e assieme al quale aveva sfidato i crociati nella piana di Hab. Il titolo di atabeg di Aleppo, che Ilghazi ricoprí fino al 1123, sarebbe passato successivamente in eredità ai suoi fratelli ‘Abd al-Jabbar, che lo tenne dal 1123 al 1124, e poi a Bahram sino al 1125.

Ruggero di Antiochia

Il caduto piú illustre del Campo di Sangue Ruggero era nipote di Tancredi di Altavilla, morto ad Antiochia nel 1112. Dopo la liberazione di Nicea, Antiochia e Gerusalemme, Tancredi, che aveva partecipato con il cugino Boemondo d’Altavilla alla prima crociata, divenne reggente di Antiochia per conto di Boemondo, al quale succedette formalmente solo nel 1111, per morire di tifo l’anno seguente. Nel testamento nominò erede il nipote, Ruggero di Salerno, che, pur fregiandosi del titolo di principe di Antiochia, avrebbe dovuto governare come reggente in nome di Boemondo, il giovane erede di Boemondo I d’Altavilla. Intraprendente come lo zio, sconfisse nel 1113 il sultano di Damasco e l’esercito inviato due anni piú tardi dal califfo di Baghdad. Galvanizzato da questi successi spinse le proprie truppe fin sotto le mura di Aleppo. Fu lí, nel giugno del 1119 che, tentando di aver ragione dell’esercito nemico, senza l’aiuto del re di Gerusalemme e del conte di Tripoli, trovò la morte nel «Campo di Sangue». Sarebbe stato riconosciuto, a battaglia conclusa, con il cranio fracassato all’altezza del naso da un fendente mortale.

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Dritto e rovescio di una moneta in rame battuta al tempo di Ruggero di Salerno. 1112-1119. Londra, Museum of the Order of St. John. giugno

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Ilghazi concede la grazia a Gualtieri il Cancelliere, il cronista cristiano che partecipò alla battaglia dell’Ager Sanguinis e venne catturato. Incisione realizzata da Gutave Doré per l’opera di Joseph-François Michaud Histoire des croisades, pubblicata in cinque volumi fra il 1811 e il 1828.

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battaglie ager sanguinis Miniatura raffigurante Alessandro Magno e il profeta al-Khidr, vestito di verde, di fronte alla fonte della vita eterna, da un’edizione manoscritta delle opere del poeta persiano Nizami Ganjavi. XVI sec. Baltimora, The Walters Art Museum.

guerra e stabilí di spostare tutte le truppe verso al-Atharib l’indomani, con lo scopo di affrontare in campo aperto l’esercito di Ilghazi. Il signore di Antiochia non poteva però sospettare che, nel frattempo, spie turcomanne avevano acquisito preziose informazioni sulla posizione dei suoi uomini, nonché sulla topografia del luogo del loro accampamento, che si trasformò in una trappola mortale. Ancor prima che i Franchi avessero potuto abbandonare la valle in cui si erano accampati, tre divisioni di arcieri a cavallo avevano superato le colline, «come leoni che cercano la preda e falchi che roteano su chi debbono dilaniare», passando per sentieri secondari, e avevano parzialmente accerchiato il nemico, disperdendo un manipolo di 40 cavalieri cristiani, mandato in avanscoperta.

le fonti

Quell’uomo vestito di verde... Della battaglia dell’Ager Sanguinis ci sono giunti i resoconti dei cronisti Kamal Ad-Din e da Ibn Al-Qalanisi. Entrambi sottolineano il ruolo decisivo degli arcieri, scrivendo che «le frecce volavano fitte come le cavallette» o che «nei resti carbonizzati di un sol cavaliere si trovarono infitti quaranta ferri di freccia». Kamal Ad-Din narra di un miracolo avvenuto a battaglia conclusa: «Quando furono portati i prigionieri, ce n’era uno di gran corporatura, famoso per la sua forza, che era stato catturato da un musulmano basso, mingherlino e male armato. Al suo apparire davanti a Ilghazi, i Turcomanni gli dissero: “Non ti vergogni che ti abbia preso questo piccolino, quando hai addosso un’armatura simile?”. E lui rispose: “Per Dio, non mi ha catturato costui, né è lui il mio padrone. Mi ha catturato un uomo grande, piú grande

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e forte di me, e mi ha consegnato a costui: era vestito di verde e montato su un cavallo verde!”». Forse il riferimento è a al-Khidr, misterioso profeta islamico, citato nella Sura XVIII del Corano e detto «il Verde». Sarebbe stato lui a soccorrere Mosè di fronte al Mar Rosso e sempre lui avrebbe accompagnato Alessandro Magno, come riporta il Romanzo di Alessandro, abbeverandosi alla fonte della vita eterna. Non deve essere una casualità che il giorno in cui si festeggia al-Khidr coincida con quello del santo guerriero della cristianità, san Giorgio, anch’egli a metà fra mito e religione, nemico del Male e guerriero impavido. giugno

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«Al primo albore videro avanzare gli stendardi musulmani, che li circondarono da ogni parte», scrisse Kamal ad-Din. Quando Ruggero fu informato del rischio di accerchiamento totale, riuscí a posizionare un plotone di cavalieri, sotto il comando di Rainaldo Mazoir, per fronteggiare un attacco sul fianco. Ruggero, invece, avrebbe guidato personalmente il corpo principale destinato a scontrarsi col grosso dell’esercito nemico. Il signore di Antiochia, con il tempo che non giocava a suo favore, riuscí comunque a ordinare le truppe per evitare che venisse completa-

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mente circondato. A quel punto, fu ordinata la carica, ma, pur tentando di sfondare le linee nemiche piú volte, la manovra non riuscí. A ogni carica fallita, di contro, i Turchi rinserravano le proprie fila, caricando e facendo piovere sul nemico migliaia di frecce.

Una fuga disperata

Dopo questi ripetuti attacchi, l’esercito cristiano cominciò a cedere: la rotta ebbe inizio quando fu annientata la cavalleria leggera, guidata da Roberto di Saint-Lô. A quel punto, i Franchi iniziarono a fuggire, inseguiti dal nemico. Rug-

La battaglia dell’Ager Sanguinis in una miniatura tratta da un’edizione manoscritta del Mare historiarum ab orbe condito ad annum Christi 1250 di Giovanni Colonna. 1447-1455. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

gero venne ucciso da un colpo di spada che gli trapassò la testa, e molti altri nobili caddero o furono catturati nella ritirata: centinaia di prigionieri furono decapitati direttamente sul campo di battaglia. L’unico contingente che riuscí a infliggere numerose perdite al nemico fu quello di Rainaldo Mazoir, posizionato fuori dalla tenaglia

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battaglie ager sanguinis organizzata da Ilghazi: a battaglia conclusa, riuscí a rifugiarsi nel castello di Sarmada, ma, poco dopo, fu costretto anch’egli alla resa. Il fiero comportamento di Rainaldo impressionò Ilghazi, che gli risparmiò la vita: gli altri furono trucidati. I prigionieri furono portati in catene attraverso la pianura e torturati nei vigneti ai piedi di Sarmada: altri furono condotti fino ad Aleppo dove incontrarono lo stesso tragico destino. «Questa fu una delle piú belle vittorie, quale mai era capitata all’Islam nei tempi passati», scrisse Ibn al-Qalanisi. I cronisti cristiani, come Gualtiero il Cancelliere, Guglielmo di Tiro o Fulcherio di Chartres, battezzarono la battaglia col triste appellativo di «Ager Sanguinis» attribuendone la responsabilità alla collera di Dio, infuriato per i numerosi adulteri di Ruggero. Alcuni commentatori biasimarono Ilghazi che, pur avendo sconfitto l’esercito cristiano, non La cittadella di Aleppo, centro di cui Najm-al-Din Ilghazi ibn Artuq, il vincitore della battaglia dell’Ager Sanguinis, fu atabeg (governatore) fino al 1223.

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condusse le proprie truppe fino ad Antiochia, tentando di espugnarla: non sarebbe comunque stata impresa facile, giacché la città era ben fortificata e guidata dal patriarca Bernardo di Valence. Sarebbe stato poi arduo per Ilghazi convincere la variopinta compagine di Turcomanni a seguirlo in una lunga campagna di assedio, che poteva rivelarsi insidiosa e interminabile.

Annebbiato dall’alcol

Il già citato Ibn al-Qalanisi, nonostante si mostri piuttosto neutrale nei confronti di Ilghazi, ricorda che quando «beveva vino e questo aveva la meglio su di lui, egli rimaneva per diversi giorni inebetito, senza riuscire a recuperare i sensi a sufficienza per poter riprendere il controllo o essere consultato in merito a qualsiasi decisione» e, secondo lo storico Raymond Small (1913-1986), fu proprio «la sua prolungata ubriachezza che privò il suo esercito del comando e lasciò i turkmeni liberi di disperdersi per cercare bottino». Gualtiero il Cancelliere, dopo la disfatta cristiana del 1119, nel corso della quale fu catturato, definí

Ilghazi come un tiranno, dedito all’alcol e «principe della delusione e discordia tra i Turcomanni». La morte di Ruggero e la distruzione della sua armata inflissero un duro colpo alle forze cristiane del Nord. A seguito della vittoria dell’Ager Sanguinis, di fronte alle truppe di Ilghazi caddero rapidamente le città di AlAtharib, Zerdana, Sarmin, Ma’arrat al-Nu‘man e Kafr Tab, prima sotto il controllo di Antiochia. Per restituire sicurezza all’area, dovettero rapidamente intervenire il re di Gerusalemme, Baldovino II, e il conte di Tripoli, che il 14 agosto dello stesso anno riuscirono a infliggere una significativa sconfitta a Ilghazi presso Hab. Le sorti della battaglia furono salvate dall’intervento del re, a capo della riserva, giacché il contingente di Robert Fulcoy si era allontanato troppo e le truppe del conte Folco erano state disperse dal nemico. Nonostante la vittoria di Hab, che apparve come una rivincita, da allora le forze crociate sarebbero state costrette a compiere campagne militari per difendere Antiochia da nuove minacce, quasi ogni anno, fino al 1125.

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storie inghilterra

Mistero sul Tamigi

di Tommaso Indelli

Nel 1483, alla morte di Edoardo IV d’Inghilterra, i suoi figli Edoardo e Riccardo, dichiarati illegittimi, vengono rinchiusi nella Torre di Londra, da dove non usciranno vivi. Mandante dell’odioso atto è lo zio, il conte di Gloucester, incoronato, lo stesso anno, re d’Inghilterra con il nome di Riccardo III. Ma fu davvero lui l’unico a trarre beneficio dalla morte dei due principi? Il «caso», cosí sembra, è ancora aperto…

I figli di Edoardo, olio su tela di Paul Delaroche. 1830. Parigi, Museo del Louvre. Nel dipinto si immaginano Edoardo V e il fratello Riccardo che, rinchiusi nella Torre di Londra, attendono il momento in cui saranno giustiziati.

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a fine misteriosa riservata ai principi York – Edoardo e Riccardo – dallo zio Riccardo di Gloucester è uno dei «gialli» piú noti del Medioevo europeo. Partendo dal presupposto che – dopo averne disposto la reclusione nella Torre di Londra – sia stato veramente Riccardo a ordinarne l’assassinio, è opportuno soffermarsi sul triste evento, cercando di fare luce su una vicenda ancora oscura. Secondo la vulgata ufficiale, l’uccisione di Edoardo e Riccardo di York, figli del defunto re Edoardo IV († 1483), e la sparizione dei loro corpi costituiscono l’atto finale di una lunga serie di assassinii che accompagnarono la trentennale guerra civile inglese nota come Guerra delle due Rose (vedi «Medioevo», n. 224, settembre 2015; anche on line su issuu.com). Nella memoria collettiva, il principale responsabile dell’assassinio dei fanciulli fu lo zio Riccardo, duca di Gloucester e fu-

David Garrick nel Riccardo III di William Shakespeare (particolare), olio su tela di Francis Hayman. 1760. Bath, The Holburne Museum. Garrick è stato il piú grande attore teatrale inglese del Settecento.

LE CASATE DEI LANCASTER E DEGLI YORK Edoardo, il Principe Nero, sposa Giovanna di Kent

Lionello, duca di Clarence, sposa (1) Violante Visconti (2) Elisabetta de Burgh

Riccardo II

(1377-1399)

sposa (1) Anna di Boemia figlia dell’imperatore Carlo IV (2) Isabella di Francia, figlia di Carlo VI di Francia

Filippa sposa Edmondo Mortimer

Ruggero Mortimer sposa Eleonora Holland

Tommaso, duca di Clarence Enrico V (1413-1422) sposa Caterina di Francia, poi consorte di Owen Tudor, conte di Richmond Enrico VI

(1422-1461 e 1470-1471)

sposa Margherita d’Angiò Edoardo

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turo re (con il nome di Riccardo III), fratello di Edoardo IV, il quale, disattendendo le disposizioni testamentarie del fratello, sottrasse il trono al nipote, Edoardo V. Tuttavia, al di là della leggenda, alimentata anche dalla tragedia shakespeariana Riccardo III (vedi box alle pp. 50-51), non va sottovalutata l’influenza esercitata dall’amata moglie e fidata consigliera Anna Neville, sempre ammettendo che a loro, e non ad altri, sia da imputare l’assassinio dei principi. Moglie e regina consorte di Riccardo III, Anna Neville nacque nel 1456, nel castello di Middleham, nel North Yorkshire, possesso di famiglia del padre, Riccardo Neville, conte di Salisbury, piú noto come «The Kingmaker». Questi, abile politico e condottiero fu, durante la guerra civile, un esponente di spicco degli York e, grazie alla sua perizia militare, riuscí a sconfiggere ripetutamente i Lancaster e a mettere sul trono d’Inghilterra il suo pupillo, Edoardo IV. Il Kingmaker era anche cugino del re, poiché la madre di Edoardo, Cecilia Neville († 1495), era sorella di suo padre. Madre di Anna Neville era Anna de Beauchamp († 1492), che aveva portato in dote al Kingmaker la contea di Warwick. Anna Neville aveva anche

una sorella maggiore, Isabella, che, proprio come lei, divenne una pedina politica nei complessi giochi di potere di cui il padre era maestro. Dati i rapporti di stretta parentela, è molto probabile che le sorelle Neville abbiano familiarizzato, fin dall’infanzia, con i cugini York e, cioè, con Giorgio, duca di Clarence e Riccardo, duca di Gloucester, entrambi fratelli di Edoardo IV.

Le trame del Kingmaker

Nel 1469, Riccardo Neville si ribellò a Edoardo IV di York, nonostante lo avesse posto sul trono d’Inghilterra, per contrasti dovuti alla politica interna ed estera del re che, ormai, appariva sempre piú succube della moglie, Elisabetta Woodville († 1492), appartenente alla piccola nobiltà lancasteriana di provincia (vedi «Medioevo» n. 292, maggio 2021; anche on line su issuu.com). Il Kingmaker giocò il tutto per tutto e decise di far sposare la sua primogenita, Isabella, a Giorgio di Clarence che intendeva mettere sul trono al posto di Edoardo. La ribellione, però, fu repressa e Warwick costretto a fuggire in Francia, dove cambiò disinvolta(segue a p. 53)

Edoardo III

(1327-1377)

sposa Filippa di Hainault Tommaso, duca di Gloucester

Edmondo, duca di York, sposa Isabella di Castiglia

Giovanni di Gand sposa (1) Bianca di Lancaster (2) Catherine Swynford Enrico IV

(1399-1413)

sposa Maria di Bohun

Giovanni Beaufort, conte di Somerset, sposa Margaret Holland

Giovanni, duca di Bedford

Humphrey, duca di Gloucester

Riccardo, conte di Cambridge, sposa Anna, figlia di Ruggero Mortimer

Edoardo duca di York

Riccardo, duca di York, sposa Cecily Neville

Giovanni, duca di Somerset, sposa Margaret Beauchamp Edoardo IV

(1461-1470 e 1471-1483)

Edmondo Tudor, conte di Richmond, sposa Margherita Beaufort

sposa Elisabetta Woodville

Enrico VII (1485-1509) sposa Elisabetta

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Edoardo V (1483)

Riccardo III

(1483-1485)

Giorgio, duca di Clarence

Edmondo, conte di Rutland Riccardo, duca di York

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Riccardo III di York

Fu vero «mostro»? È davvero difficile formulare un giudizio obiettivo sul regno di Riccardo III di York, sia per la sua brevità (1483-1485), sia per la deformazione – persino fisica! – che la sua immagine ha subito presso i posteri, a opera della propaganda dei Tudor e di William Shakespeare, che ne fu, inevitabilmente, condizionato. Il drammaturgo inglese visse infatti durante il regno di Elisabetta I Tudor (1558-1603) e, nel suo Riccardo III (1592 circa), dramma in cinque atti, rielaborando i fatti storici, intese rappresentare la figura del Lord Protettore come incarnazione del potenziale diabolico e corruttore del potere. Nella stesura dell’opera, Shakespeare attinse soprattutto alla biografia di Riccardo III (History of Edward V and Richard III), scritta, anni prima da Tommaso Moro, cancelliere di Enrico VIII, che risentiva, nel giudizio sul duca di Gloucester, della mentalità

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di un funzionario fedele ai Tudor. Per Shakespeare, Riccardo «Crookback» – «il Gobbo» –, era, nella sua stessa deformità fisica, l’emblema del male, dell’ingiustizia e della prevaricazione. Tuttavia, la deformità del re, per quanto enfatizzata, sembra essere stata confermata dal ritrovamento dei suoi resti ossei, avvenuto nel 2012 a Leicester – presso il luogo in cui combatté la sua ultima battaglia – sotto le fondamenta della chiesa francescana dei Grey Friars. Le analisi del DNA dello scheletro e della struttura dentaria, effettuate presso l’Università di Leicester, hanno confermato la presenza di una scoliosi idiopatica, sviluppatasi durante l’adolescenza, ma tale da non deformare l’immagine fisica del sovrano in maniera eccessiva. Dal punto di vista politico, all’indomani del «colpo di Stato», Riccardo si preoccupò soprattutto di

trovare una legittimazione giuridica e costituzionale al suo potere. Pertanto, ricorse all’espediente – non sappiamo quanto fondato – di dichiarare nulle le nozze del fratello Edoardo IV con Elisabetta Woodville e, quindi, l’illegittimità della sua discendenza. Tutte le giustificazioni legali addotte da Riccardo per dare una parvenza di legittimità alla sua azione politica, furono messe per iscritto in un documento ufficiale – il Titulus Regius –, approvato solennemente dal parlamento inglese nel giugno del 1483. Nel documento, dopo un preambolo in cui venivano esposte, analiticamente, le vicende che avevano indotto Gloucester a esautorare Edoardo V, seguiva una «supplica» del parlamento – nel ruolo di organo rappresentativo del popolo inglese –, affinché il Lord Protettore assumesse su di sé il fardello della corona, non lasciando la nazione priva giugno

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Nella pagina accanto Stanford-on-Avon, chiesa di St. Nicholas. Vetrata policroma nella quale figurano i ritratti di Enrico VII ed Elisabetta di York, fra i quali stanno le figure araldiche di un dragone e di un levriero. L’opera oggi visibile si compone di elementi databili al XIV e XV sec., integrati da parti realizzate in epoca vittoriana. In basso ritratto postumo di Riccardo III, olio su tavola commissionato da Ralph Sheldon, produttore di arazzi e mecenate, a un artista ignoto, che lo realizzò, verosimilmente, fra il 1580 e il 1610.

di una guida in un frangente tanto difficile. Nel Titulus Regius, inoltre, si escludevano dalla successione al trono, perché illegittimi, non solo i figli di Edoardo IV ed Elisabetta Woodville, ma anche quelli di Giorgio di Clarence e Isabella Neville, adducendo come motivazione il tradimento del padre. Con la promulgazione del Titulus Regius, la forma del potere era salva, tuttavia, nel corso del 1483, Riccardo III dovette fronteggiare ben due complotti orditi dalla fazione yorkista a suo danno. Il primo fu organizzato, in giugno, da Guglielmo Hastings, barone di Hastings, Gran ciambellano di Edoardo IV e marito di Caterina Neville, sorella del Kingmaker. In un primo tempo, Hastings aveva sostenuto Riccardo ma, quando si accorse delle sue reali intenzioni, si ribellò con alcuni nobili e finí giustiziato. Il secondo complotto fu scoperto in autunno e si concluse con la condanna a morte dei rivoltosi, compreso il capo, Enrico Stafford, duca di Buckingham e cognato di Elisabetta Woodville. Stroncate le ribellioni, a partire dal 1484 Riccardo iniziò a governare con maggiore tranquillità e fece approvare dal parlamento alcune norme che impedivano i «prestiti forzosi» – estorti dalla Corona a carico

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dei contribuenti –, di cui in passato si era abusato. Nello stesso anno, Riccardo siglò anche un trattato di pace con la Scozia, ponendo fine a una guerra che durava da ben tre anni. Mentre il re era intento all’opera di governo, nell’aprile del 1484 il principe del Galles Edoardo – unico figlio di Riccardo –, morí improvvisamente. Su sollecitazione della regina Anna e benché il Titulus Regius lo proibisse, Riccardo designò erede il nipote, Edoardo di Warwick, figlio di Giorgio di Clarence.

Nel marzo del 1485, quando anche Anna morí, Riccardo cambiò parere e designò suo erede l’altro nipote, Giovanni de la Pole, conte di Lincoln, figlio di sua sorella Elisabetta di York e di Giovanni de la Pole, duca di Suffolk. Ma Riccardo non fece in tempo a fondare una dinastia, né a vedere la fine del suo regno, perché a corte qualcuno tramava per detronizzarlo.

I cospiratori erano Elisabetta Woodville e lady Margherita Beaufort. L’ex regina era tornata a corte poco tempo dopo l’uccisione dei principi, dietro garanzia di immunità, e aveva incoraggiato una relazione extraconiugale tra la figlia, Elisabetta di York e lo zio. La relazione tra i due screditò il sovrano e peggiorò i suoi rapporti con la moglie Anna e, dopo la morte di questa, contribuí alla diffusione di voci sul suo presunto assassinio, perché il re voleva sposare la nipote. Ma il matrimonio non ebbe luogo, perché, in realtà, Elisabetta, mentre recitava la parte di amante dello zio, era già stata promessa in sposa dalla madre a Enrico Tudor, conte di Richmond e pretendente al trono per i duchi di Lancaster. Enrico, infatti, aveva sangue Lancaster nelle vene, perché discendente, attraverso la madre, Margherita Beaufort, da un ramo dei duchi di Lancaster, mentre il padre, Edmondo Tudor, era un fratellastro del re Enrico VI. Pertanto, forte di queste «credenziali» dinastiche, Enrico – che da anni viveva in esilio in Bretagna –, il 7 agosto del 1485, con circa 2000 uomini, sbarcò a Milford Haven, nel Galles, e, il 22 agosto, vinse e uccise Riccardo III nella battaglia di Bosworth Field, nel Leicestershire. Incoronato re come Enrico VII Tudor, nel 1486, secondo gli accordi siglati tra Margherita Beaufort ed Elisabetta Woodville, sposò Elisabetta di York che, poco tempo dopo, fu consacrata regina. Tuttavia, prima di sposarsi, Enrico dichiarò la nullità del Titulus Regius, ripristinando i diritti dinastici della discendenza di Edoardo IV ed Elisabetta Woodville – le cui nozze furono considerate valide –, perché altrimenti la sua unione con Elisabetta di York – una «bastarda» –, non avrebbe potuto fondare una nuova dinastia.

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A sinistra L’assassinio dei figli di Edoardo IV, olio su tela di Theodor Hildebrandt. 1835. Düsseldorf, Museum Kunstpalast.

mente partito e si schierò con l’esule Margherita d’Angiò († 1482), già regina d’Inghilterra e moglie di Enrico VI di Lancaster, il re che era stato deposto dagli York ed era trattenuto prigioniero nella Torre di Londra. Entrò allora in gioco l’altra figlia del Kingmaker, Anna, a cui il padre impose il matrimonio con Edoardo, principe del Galles e figlio di Margherita. Le nozze furono celebrate nella cattedrale di Angers e, alla fine del 1470, Warwick sbarcò in Inghilterra con un grosso esercito, messo a disposizione dal re di Francia, e, sconfitto Edoardo IV di York, rimise sul trono Enrico VI. Ma la situazione era destinata a complicarsi e, nella primavera del 1471, Edoardo IV – che era

In alto la pianta della Torre di Londra disegnata nel 1597 da William Hayward e John Gascoigne in una riproduzione settecentesca. La struttura fu a lungo utilizzata anche come carcere e comprendeva un’area in cui veniva allestito il patibolo per le esecuzioni.

fuggito nelle Fiandre e, poi, in Borgogna – sbarcò in Inghilterra e sconfisse il Kingmaker ed Edoardo Lancaster nelle battaglie di Barnet (aprile) e Tewkesbury (maggio), dove trovarono la morte.

Il perdono del re

Poco dopo, fatto giustiziare anche Enrico VI, Edoardo IV poté iniziare la seconda fase del suo regno, compiendo un importante gesto di pacificazione nazionale. Concesse infatti il perdono al fratello, Giorgio di Clarence, e alla moglie, Isabella Neville, e, su intercessione dell’altro fratello, Riccardo di Gloucester, perdonò anche Anna Neville, benché la posizione di questa fosse piú grave di quella degli altri due complottisti, perché aveva sposato Edoardo di Lancaster. Anna Neville andò ad abitare presso il maniero di Middleham,

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storie inghilterra Giovani pretendenti La morte dei due principi York non impedí che alcuni pretendenti rivendicassero la corona d’Inghilterra, profittando dell’alone di mistero che gravava sulla loro fine. Il primo ad avanzare pretese fu l’inglese Lambert Simnel – nato a Oxford, intorno al 1475 –, che fu riconosciuto come Edoardo V o, secondo alcuni, Edoardo di Warwick (il figlio di Isabella Neville e Giorgio di Clarence), da un prete di nome Riccardo Symonds. Riuniti intorno a sé alcuni uomini di provata fede yorkista – persuasi della veridicità delle sue asserzioni –, Simnel, nel 1487, fu sconfitto dalle milizie di Enrico VII Tudor a Stoke Field e fatto prigioniero. Portato a Londra, dopo un breve soggiorno nella Torre, fu «perdonato» da Enrico e trascorse il resto dei suoi

giorni (morí intorno al 1534), come «sguattero» e falconiere di corte. Ben piú complessa fu la vicenda del secondo pretendente, Perkin Warbeck – nato a Tournai, nelle Fiandre, intorno al 1474. Figlio di un barcaiolo – Jehan de Warbecque –, e, quindi, di origini «plebee», Warbeck, per ragioni a noi sconosciute, intorno al 1484 entrò a servizio, come paggio, di sir Edoardo Brampton, ammiraglio di origine portoghese di fede yorkista che, dopo la vittoria di Enrico VII Tudor, era fuggito presso la duchessa di Borgogna, Margherita di York, sorella del defunto Edoardo IV e, quindi, zia dei principi assassinati. Dopo la morte nella battaglia di Nancy (1477) del marito, il duca di Borgogna Carlo il Temerario, Margherita si era trasferita a Malines, nelle Fiandre, assieme alla figliastra, Maria – figlia del «Temerario» e di Isabella di Borbone – mentre la Borgogna veniva annessa alla Francia. Secondo le volontà del defunto marito, Margherita aveva combinato le nozze tra la figliastra e il futuro l’imperatore germanico, l’arciduca Massimiliano I d’Asburgo, che aveva ricevuto, come dote dalla sposa, le Fiandre, l’Artois e la Franca Contea, già domini borgognoni. La corte di Margherita si era dunque trasformata in un rifugio per i dissidenti yorkisti perseguitati in patria e, proprio a Malines, la duchessa incontrò Warbeck e, pubblicamente, riconobbe in lui suo nipote, Riccardo di York! Warbeck riuscí a riunire intorno a sé un vasto seguito e, grazie all’appoggio di Margherita, fu riconosciuto come legittimo erede d’Inghilterra dalle cancellerie dei principali sovrani europei: l’imperatore tedesco Massimiliano I d’Asburgo, Ferdinando II d’Aragona e Isabella I di Castiglia, Carlo VIII, re di Francia, e Giacomo IV Stuart, re di Scozia. Giacomo decise di dare in sposa a Warbeck persino sua cugina, Caterina Gordon, contessa Perkin Warbeck nel solo ritratto che di lui si conosce, realizzato al tempo in cui visse. Arras, Bibliothèque municipale.

di Huntly. L’Inghilterra dei Tudor si trovò quindi diplomaticamente isolata nell’affrontare la spedizione militare del presunto usurpatore! Nel 1496, dopo essere sbarcato con alcuni uomini in Irlanda, Warbeck passò in Scozia, dove sposò Caterina Gordon e ottenne ulteriori aiuti da Giacomo IV. L’anno successivo, il giovane fiammingo sbarcò in Cornovaglia e marciò su Exeter, ma venne battuto dall’esercito di Enrico VII e fu costretto a rifugiarsi nell’abbazia di Beaulieu, nell’Hampshire, sperando nel diritto di asilo. Ma i monaci lo consegnarono a Tudor, che lo condusse a Londra e, dopo averlo pubblicamente smascherato come impostore, lo fece servire come paggio a corte. Tuttavia, la sorte di Warbeck non fu la stessa di Simnel! Imprigionato nella Torre di Londra e coinvolto in un tentativo di fuga assieme al piccolo Edoardo di Warwick – figlio di Giorgio di Clarence e Isabella Neville –, fu catturato e impiccato a Tyburn, nel 1499. Poco dopo, anche Edoardo lo seguí nella tomba. Enrico VII Tudor, infatti, temeva Edoardo per la sua nobilissima ascendenza, in quanto nipote del re Edoardo IV di York e del Kingmaker, sebbene il giovane fosse, a detta di tutti, mentalmente ritardato e inadatto a governare. Salito al trono, Enrico Tudor aveva fatto quindi arrestare il fanciullo, dopo averlo privato dei titoli e dell’intero patrimonio, e, alla fine, si decise a giustiziarlo. La moglie di Warbeck, Caterina Gordon, catturata dopo la disfatta del marito, data la parentela con il re di Scozia, fu risparmiata e costretta a servire come dama della regina Elisabetta di York, ma dovette rinunciare al figlio avuto da Warbeck che, consegnato ad alcuni gentiluomini di corte, scomparve. Caterina si sposò altre tre volte e morí nell’Oxfordshire, nel 1537. La reale identità di Perkin Warbeck continuò a suscitare, nel tempo, non pochi dubbi, e la sua vita avventurosa e tragica ispirò, ben presto, la composizione di opere giugno

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letterarie. Nel 1634, il drammaturgo inglese John Ford compose il Perkin Warbeck, primo dramma storico ispirato alle vicende del presunto usurpatore. Nel 1830, la scrittrice inglese Mary Shelley pubblicò The Fortunes of Perkin Warbeck, il primo romanzo storico incentrato sulla figura dell’avventuriero, anche se l’autrice – che rilesse la vicenda secondo una prospettiva «yorkista» e «femminile» –, accettò come vera l’ipotesi che l’usurpatore fosse, realmente, il principe Riccardo di York fuggito dalla Torre, e simpatizzò per la tragica figura di Caterina Gordon. Perkin Warbeck ed Edoardo di Warwick, però, non furono le sole vittime dell’ascesa al potere dei Tudor. La «maledizione» che gravava sul casato degli York, infatti, fece sentire i suoi effetti anche negli anni a venire. Margherita di Clarence, sorella del piccolo Edoardo di Warwick e nipote di re Edoardo IV, fu giustiziata nella Torre di Londra nel 1541, su ordine di Enrico VIII Tudor, con l’accusa di alto tradimento! Margherita di Clarence, contessa di Salisbury, era stata dama di corte della regina Elisabetta di York, e, in seguito, di Caterina d’Aragona, la prima moglie di Enrico VIII, che aveva deciso di reintegrarla nel possesso dei titoli e dei beni confiscati al fratello da suo padre. Quando Enrico VIII chiese al papa l’annullamento delle nozze con Caterina d’Aragona per sposare Anna Bolena e si decise per lo scisma da Roma, Margherita, da convinta cattolica, espresse riserve sulla politica del sovrano. Inoltre, uno dei figli di Margherita, il cardinale Reginald Pole – acerrimo avversario dello scisma –, scrisse contro Enrico VIII il pamphlet Pro ecclesiasticae unitatis defensione, che suscitò le ire del re. E, cosí, le critiche al sovrano e la nobilissima ascendenza costarono a Margherita la vita. Imprigionata nella Torre di Londra, fu decapitata. Nel 1886, infine, la nobildonna venne beatificata da papa Leone XIII.

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Lambert Simnel in una tavola realizzata per La Semaine des Enfants del 1° agosto 1863.

assieme alla sorella e al marito, Giorgio di Clarence, venendo poco dopo raggiunta anche dalla madre, Anna de Beauchamp, che, per un certo periodo, dopo la morte del Kingmaker, si era rifugiata in una abbazia. Giorgio di Clarence, designato dal re «tutore» di Anna Neville, era chiaramente intenzionato, abusando del suo ufficio, a monacarla, per entrare in possesso dell’intero patrimonio di famiglia, ma la giovane riuscí a ottenere, ancora una volta, la protezione di Riccardo di Gloucester. La leggenda racconta gli incontri clandestini dei due amanti e la decisione, presa da Riccardo, di nascondere Anna in un’abbazia, sottraendola all’autorità del fratello, responsabile di continue prepotenze a suo danno. Finalmente, nel 1472, Riccardo ottenne da Edoardo IV il permesso di sposarla, a patto che Anna rinunciasse a una parte consistente dell’eredità del

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storie inghilterra Kingmaker, compresi i titoli di conte di Warwick e Salisbury, che andarono al cognato Giorgio di Clarence e alla sua discendenza. Ma chi era, realmente, il «mostro» Riccardo di Gloucester? Duca di Gloucester dal 1461, Riccardo era nato nel 1452 a Fotheringhay Castle, nel Northamptonshire, ed era figlio di Riccardo († 1461), duca di York, e di Cecilia Neville. Dopo la morte del padre, nella battaglia di Wakefield (1460), Riccardo era sempre stato al fianco del fratello Edoardo, sia in guerra che a corte, condividendone le scelte e guadagnandosi la fama di uomo spietato, ma abile amministratore e politico. Rispetto all’altro fratello, Giorgio di Clarence, Riccardo non criticò mai apertamente la politica, né la vita sentimentale di Edoardo, né mostrò un’avversione particolare nei confronti di Elisabetta Woodville. Nel 1469, quando Giorgio di Clarence si ribellò, Riccardo rimase fedele al re e, dopo la sua vittoria, ne ottenne l’assenso per impalmare Anna Neville. Nel 1473, le nozze furono allietate dalla nascita dell’erede Edoardo. La fedeltà del Gloucester al fratello Edoardo non venne meno neanche quando, nel 1478, fu scoperto un altro complotto volto a detronizzarlo, ordito

da Giorgio di Clarence, il quale, questa volta, pagò con la vita il tradimento. Giorgio, infatti, dopo essere rimasto vedovo della prima moglie, Isabella Neville († 1476), aveva avviato trattative segrete con la Borgogna, per sposare la duchessa Maria († 1482), figliastra della sorella Margherita di York († 1503). Intanto, dopo la morte di Isabella, probabilmente a causa di una febbre puerperale, Riccardo ne aveva accolto in casa i figli, Edoardo e Margherita, ma Anna Neville iniziò a essere sempre piú ostile a Elisabetta Woodville, sospettata di stregoneria e pratiche malefiche e, quindi, della morte della sorella. Riccardo di Gloucester fu ancora al fianco di Edoardo IV nella breve guerra contro la Scozia (1482-1483), e, infine, sul letto di morte, quando il re gli affidò la custodia dei figli, designandolo Lord Protettore del regno e, quindi, capo del consiglio di reggenza, data la giovane età del suo erede.

Nipoti sventurati

Il 9 aprile del 1483, morto Edoardo IV, gli successe, secondo la legge salica e le espresse disposizioni del padre, il primogenito Edoardo V. Nato nel 1470 e designato principe del Galles nel 1472, Edoardo aveva trascorso I principi dormienti nella Torre (particolare), gruppo scultoreo in marmo di Augusta Freeman. 1862. Bournemouth, Russell-Cotes Art Gallery & Museum.

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piú di dieci anni nel castello di Ludlow, in Galles, dove era stato inviato dal padre per completare la sua formazione sotto la tutela di Antonio Woodville, conte di Rivers e fratello di Elisabetta. I genitori avevano programmato per il principe un futuro radioso e avevano combinato le sue nozze con la duchessa di Bretagna, Anna († 1514), poi andata in sposa al re di Francia. Edoardo V, tuttavia, fu re solo di nome, perché, secondo il protocollo ufficiale, non venne mai ufficialmente incoronato nell’abbazia di Westminster dall’arcivescovo di Canterbury. Subito dopo la morte del padre, infatti, la situazione politica precipitò, quando il Lord Protettore Riccardo di Gloucester, adducendo a pretesto un complotto organizzato dai Woodville e da alcuni nobili, fece prelevare il nipote in Galles e lo fece trasferire nella Torre di Londra con la scusa di proteggerlo. E, poco dopo, fece altrettanto con l’altro nipote, Riccardo di Shrewsbury (n. 1474), dopo che la regina madre Elisabetta, che aveva trovato rifugio nell’abbazia di Westminster con gli altri figli, per garantire la loro sicurezza, glielo aveva consegnato, rassicurata della bontà delle sue intenzioni. Riccardo di Shrewsbury, non essendo il primogenito, non era destinato alla corona, ma era stato ugualmente insignito dal padre del prestigioso titolo di duca di York ed era stato fidanzato, fin dalla tenera età, alla duchessa di Norfolk, Anna di Mowbray († 1481). Fatti giustiziare i congiurati, Riccardo fece dichiarare da un parlamento riunito frettolosamente l’illegittimità giuridica dei nipoti, perché – secondo quanto asserí –, nel 1464, al momento delle nozze con Elisabetta Woodville, Edoardo IV era già vincolato da una «promessa di matrimonio» con Eleonora Talbot, vedova di Tommaso Butler, signore di Sudeley, e figlia di Giovanni Talbot, conte di Shrewsbury. La dichiarazione di Riccardo fu confermata dal reverendo Roberto Stillington, vescovo di Bath e Wells, che aveva officiato la cerimonia di fidanzamento di Edoardo con la Butler. Il prelato era tuttavia un personaggio ambiguo, che, pur avendo rivestito importanti incarichi – era stato Lord Cancelliere e Lord del Sigillo privato –, fu poi allontanato dalla corte per la sua partecipazione al complotto di Giorgio di Clarence del 1478, e finí la sua vita nella Torre di Londra, dopo aver preso parte al tentativo di usurpazione di Lambert Simnel (vedi box alle pp. 54-55). Secondo quanto asserito davanti al parlamento, per il diritto canonico, le «seconde» nozze di Edoardo IV non avevano valore e i figli nati dalle stesse erano da considerarsi «bastardi» e, quindi, esclusi dalla successione al trono. Dunque, il 6 luglio del 1483, nell’abbazia di Westminster, Riccardo di Gloucester, assieme alla moglie Anna, si fece incoronare re dall’arcivescovo di Canterbury, Tommaso Bourchier (vedi box alle pp. 5051). Poco dopo, i principi rinchiusi nella Torre furono giustiziati e i loro corpi fatti sparire, molto probabil-

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mente su ordine dello stesso zio, che ne incaricò il sovrintendente della Torre, sir James Tyrrell.

Una ricostruzione poco convincente

Ancora oggi, questa è la versione ufficiale dei fatti, basata su una confessione estorta nel 1502, probabilmente sotto tortura, allo stesso Tyrrell, poco prima di essere giustiziato per tradimento. Infatti Tyrrell – convinto yorkista –, anni dopo la morte dei principi, partecipò a un complotto contro Enrico VII Tudor organizzato dal duca di Suffolk, Edmondo de la Pole. Suffolk mirava a strappare la corona a Tudor, proprio in virtú della sua discendenza yorkista, essendo figlio di Elisabetta di York, sorella di Riccardo III, e fratello di quel Giovanni de la Pole che, come detto, fu designato erede da Gloucester dopo la morte del figlio Edoardo. Risparmiato da Enrico VII, Suffolk fu imprigionato nella Torre e prontamente messo a morte, nel 1513, da Enrico VIII, figlio e successore di Enrico VII. Sulla base di questi fatti, quindi, la testimonianza di Tyrrell va attentamente soppesata, perché potrebbe essersi trattato di un «depistaggio» voluto dai Tudor, per allontanare il sospetto dell’assassinio dei principi da chi, molto probabilmente, traeva dalla loro morte maggiori vantaggi di Riccardo III. Quindi, benché l’opinione corrente individui in Riccardo III il mandante dell’omicidio, probabilmente incoraggiato dalla regina Anna Neville – che odiava Elisabetta Woodville e voleva garantire la successione a suo figlio Edoardo –, si deve ricordare che anche altri avevano interesse all’assassinio e, tra questi, Margherita Beaufort, madre di Enrico Tudor, pretendente al trono d’Inghilterra, nella quale, forse, andrebbe individuato il vero mandante. Nel 1674, durante lavori di restauro nella Torre di Londra, furono scoperti i corpi di due fanciulli di età compresa tra i dieci e i quindici anni, identificati con i figli di Edoardo IV. Tuttavia, non è mai stato eseguito alcun esame scientifico su quei resti, sepolti piú tardi a Westminster, su espresso ordine del re Carlo II Stuart. Ancora oggi, dunque, la scomparsa dei principi York è un «mistero» fondamentalmente irrisolto.

Da leggere Vittorio Gabrieli, La storia d’Inghilterra nel teatro di Shakespeare, Bulzoni Editore, Roma 1995 Kenneth Bruce McFarlane, I re della casa di Lancaster, 1399-1461, in Zachary Nugent Brooke, Charles William Previté-Orton, Joseph Robson Tanner (a cura di), L’autunno del Medioevo e la nascita del mondo moderno, Storia del mondo medievale, vol. 7, Garzanti, Milano 1981 Kenneth O. Morgan, Storia dell’Inghilterra. Da Cesare ai nostri giorni, Bompiani, Milano 2001

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Alessandro a Otranto di Furio Cappelli

Fra il 1163 e il 1165, un prete di nome Pantaleone compone uno dei piú spettacolari monumenti dell’arte medievale: il mosaico pavimentale della cattedrale di Otranto, in Puglia. Un’opera affollata di immagini, fra le quali spicca quella del condottiero macedone Alessandro Magno: scopritore di terre esotiche ed esploratore ante litteram degli spazi celesti

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a cattedrale di Otranto (Lecce) racchiude un tesoro prezioso, un’opera d’arte unica nel suo genere, per dimensioni, qualità e inventiva: si tratta di un tappeto musivo istoriato che si estende su tutta la navata centrale, per «svalicare» poi sul transetto e nello spazio delimitato dall’abside centrale, nell’area cioè riservata ai celebranti. Le iscrizioni di corredo forniscono le uniche coordinate disponibili per inquadrare l’opera, che fu intrapresa al tempo del re Guglielmo I d’Altavilla (1154-1166), al quale vengono indirizzate significative espressioni di encomio («magnifico», «generoso», «vittorioso», «trionfante»), a dispetto del soprannome di Malo («il Cattivo») che gli venne affibbiato. Siamo, per la precisione, tra gli anni 1163 e 1165 e il committente è l’arcivescovo Gionata, che ha l’accortezza di legare il proprio nome alla figura del biblico re Salomone. L’artefice è invece un religioso non altrimenti attestato, un prete di nome Pantaleone, che doveva di certo essere fiero del proprio lavoro, proprio perché ha lasciato nel suo mosaico parole di evidente orgoglio, da cui emerge la coscienza di quanto l’opera fosse ben riuscita («insigne»). Ne consegue l’invito a rimirarla con commozione. Un testo figurativo cosí brulicante di personaggi e di animali di varia natura (mostri ed esseri ibridi compresi) richiede senz’altro un grande impegno, se non ci basta l’impatto emotivo di una visione d’insieme. Possiamo

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Salvo diversa indicazione, le immagini si riferiscono al mosaico pavimentale della cattedrale di S. Maria Annunziata a Otranto (Lecce), realizzato tra il 1163 e il 1165 dal prete Pantaleone. Particolare raffigurante Alessandro Magno che siede su un trono sorretto da due grifoni.

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«Vinse molte battaglie, ed espugnò dappertutto le città forti, e uccise i re della terra; e si spinse sino agli ultimi confini del mondo, e si arricchì con le spoglie di molte nazioni, e la terra si tacque dinanzi a lui». (I Libro dei Maccabei, 1:2-3) MEDIOEVO

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comunque dire che, nel complesso, esso costituisce un’immagine del mondo (Paradiso terrestre e oltretomba inclusi), una sorta di mappa che sembra voler includere ogni cosa nella sua articolazione, creando uno spazio smisurato, sospeso tra svariate dimensioni temporali, dal momento che congiunge la Genesi biblica alle allegorie dei Mesi e allo Zodiaco, fino a una visione dell’aldilà, con il paradiso e l’inferno ai lati di un albero.

Echi della tradizione greco-romana

Tranne che nell’abside, la composizione si impernia sempre su un albero, che ripartisce lo spazio con il suo tronco e i suoi rami. In questo modo riemerge l’antico gusto del tralcio abitato, tanto diffuso nell’arte musiva greco-romana delle domus piú fastose, per esprimere il senso di un naturalismo «barocco», popolato da personaggi di genere e da animali. E già l’arte paleocristiana si appropriò di questo tema, per comporre in ambiente religioso una visione delle insidie terrene o delle meraviglie celestiali. Nello specifico, l’albero si ricollega senz’altro all’Al-

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Nella pagina accanto veduta d’insieme del mosaico, nel settore della navata centrale della cattedrale otrantina. A sinistra particolare raffigurante un’elefantessa (a sinistra) e un elefante contrapposti di schiena, poiché cosí si credeva che avvenisse il loro accoppiamento. Sotto la femmina compare infatti un elefantino in cerca del latte materno.

te iniziale, ossia all’imbocco della navata centrale, in prossimità della controfacciata, siamo subito colpiti da presenze e da dettagli assai intriganti, e spesso enigmatici. L’albero si imposta su due elefanti contrapposti di schiena, secondo le presunte modalità di accoppiamento allora note. Sono infatti un maschio e una femmina, visto che l’animale situato a sinistra presenta sotto di sé un elefantino in cerca del latte materno. Si evoca cosí una generazione cosmica, simile a quella che vede l’universo poggiato sul guscio di una tartaruga.

Immagini mostruose

bero della Vita e all’Albero della Conoscenza del Bene e del Male. Salvo alcuni comparti molto compatti, come quelli dei girali dedicati ai Mesi e allo Zodiaco, è però difficile isolare distintamente zone tematiche specifiche. Si può comunque notare che le figure legate alla realtà profana si concentrano nello spazio della navata centrale, che è infatti l’ambito a cui possono accedere tutti i fedeli. I personaggi biblici di alto rango – come i Profeti, Sansone o il predetto re Salomone – si trovano invece negli spazi riservati al clero. Era già un fatto inusuale che figure del genere prendessero forma su un pavimento, ed è a maggior ragione naturale che si precludesse alla maggior parte delle persone la possibilità di calpestarle. La mancanza tassativa di personaggi tratti dal Nuovo Testamento evidenzia poi, per esclusione, lo snodo della Rivelazione, che si sostanzia invece nelle pareti della chiesa, immagine in sé di Cristo e dell’assemblea dei fedeli, anche a prescindere dalla presenza eventuale di tavole o affreschi che potessero proseguire la narrazione sacra. Ora, se osserviamo la composizione nella sua par-

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Subito sopra si protendono due grandi rami. Su quello destro spicca Alessandro Magno, assiso in trono tra due grifoni (vedi foto alle pp. 58/59). Dalla parte opposta, alla stessa altezza, si delinea un mostro, ossia un leone dallo sguardo ipnotico, che si compone di quattro corpi, rigorosamente disposti lungo gli assi cardinali (vedi foto a p. 62). Subito sotto, un rettile orecchiuto sta partorendo due cuccioli, e trangugia al tempo stesso un enorme serpente. La scena, dal gusto quasi horror, è ispirata dal passo delle Etimologie di Isidoro di Siviglia nel quale viene descritto l’accoppiamento della vipera, che culmina con la morte di entrambi i partner. La femmina avvolge nelle fauci la testa del maschio e, nello spasimo dell’atto, lo decapita, dopodiché i frutti del concepimento la uccidono a loro volta, squarciandone il ventre. Piú sotto ancora, un’amazzone – riconoscibile grazie al seno amputato per facilitare l’uso dell’arco – trafigge un cervo con una freccia, mentre un centauro «trillafiore» – con un fiore che fuoriesce dalla bocca, antica allusione persiana al canto – sembra sostenere sulla testa una scacchiera, perfettamente regolamentare ai fini del gioco (le pedine però non ci sono; vedi foto a p. 69). Sopra il leone «tetracorpore», viene invece rievocato l’episodio biblico della Torre di Babele (Genesi 11:1-9): l’opera è giunta al culmine, con gli operai al lavoro sulla terrazza, difesa dai merli di coronamento, e in mezzo a tanto fervore edilizio, spicca sull’alto di una scala un uomo sfaccendato e ignudo, dallo sguardo smarrito (vedi foto a p. 68). La presenza del rex Alexander è particolarmente succosa sia in sé, sia in rapporto a un contesto cosí variegato. Già nell’antichità, proprio per la sua qualifica di conquistatore spintosi verso le terre piú remote dell’Asia, il Macedone vide associata la sua figura a quell’immaginario che popolava le zone incognite di esseri

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In alto la figura mostruosa di un leone monocefalo, ma con quattro corpi. A destra particolare raffigurante gli animali, reali e fantastici, dell’India, che il condottiero macedone descrive in una lettera al filosofo Aristotele, riportata nell’opera nota come Romanzo di Alessandro (vedi box qui sotto).

Alessandro scrive ad Aristotele

Leoni piú grandi dei tori e pipistrelli con le zanne... Ecco come il Macedone descrive le meraviglie dell’India ad Aristotele: «Marciammo per dodici giorni e giungemmo a una città, che sorgeva in mezzo a un fiume: là c’erano canne alte trenta cubiti (15 m circa, n.d.A.) (…), la città ne era circondata, e non poggiava sulla terraferma, ma stava sopra queste canne. Ordinai che là si ponesse il campo (…) scesi al fiume trovammo che l’acqua era piú amara dell’elleboro. Mentre alcuni cercavano di raggiungere a nuoto la città, emersero degli ippopotami che li afferrarono. (…) Giungemmo poi casualmente a un luogo dove era uno stagno con intorno una selva di varia forma: lo raggiungemmo e vi trovammo acqua dolce che pareva piú dolce del miele. (…) ordinai di porre il campo, preparare i giacigli e accendere un fuoco. Al comparire della luna, luminosa nel cielo, all’ora terza di notte, tutti gli animali della

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selva arrivarono al vicino stagno per bere. [C’erano scorpioni bianchi e rossi lunghi un cubito. Guardandoli fummo presi dal terrore, e qualcuno morí.] (…) c’erano gemiti dovunque e inauditi lamenti; poi arrivarono a bere mostruosi quadrupedi: c’erano leoni piú grossi di quanto lo sono da noi i tori, e i rinoceronti, e tutti uscivano dalla selva di canne. Cinghiali ancora piú grandi dei leoni – le loro zanne erano alte un cubito – linci e leopardi e tigri e code-di-scorpione ed elefanti e arieti-bove ed elefanti-toro, uomini con sei mani e piedi lunghissimi [– cosí erano pure le loro donne –], cani-pernici e altri esseri di forme animali. [Eravamo terrorizzati, perché ci stavano venendo addosso; con lance e frecce riuscimmo ad allontanarli; mettemmo anche un fuoco nel bosco, cosicché le fiere fuggirono. Ma ecco che su di noi si precipitò giugno

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una bestia molto peggio che l’elefante, l’odontotiranno (animale leggendario non altrimenti attestato, n.d.A.); scappando di qui e di là mi misi a confortare i soldati perché resistessero. La bestia, attaccando da un’altra parte, ne ammazzò ventisei. Ma alcuni soldati, armati, riuscirono a liberarcene.] [La notte dopo,] nittàlopi (animali capaci di vedere nel buio, n.d.A.) di dieci cubiti balzavano fuori dalla sabbia, altri di otto cubiti, coccodrilli uscivano dalla foresta e uccidevano le bestie da soma. C’erano pipistrelli con le zanne, piú grandi di piccioni [e avevano denti come quelli degli uomini: a morsi strappavano il naso, orecchie e dita]». Il brano è tratto dal Romanzo di Alessandro nella sua versione greca «alfa» (III-IV secolo d.C.), qui nella traduzione di Carlo Franco (Sellerio Editore, Palermo 2005). Le integrazioni tra parentesi quadre derivano dalla versione latina «delta» dell’arciprete Leone (X secolo), nella sua Storia delle battaglie di Alessandro Magno (traduzione di Chiara Frugoni, La Nuova Italia Editrice, Firenze 1978).

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favolosi di ogni genere, non solo animali smisurati e terribili ma anche amazzoni e uomini selvaggi, di natura pressoché ferina, con particolari anatomici orribili o magari ibridati con le stesse bestie (come i centauri). Il Romanzo di Alessandro dello pseudo-Callistene, una narrazione in greco che risale al 200 d.C. circa, ha fornito un contributo decisivo alla trasmissione di questa visione epico-favolistica al Medioevo. La Bibbia, dal canto suo, chiama in causa la grande forza conquistatrice del Macedone per esaltare, in contrappunto, la misera fine di tanta gloria. Alla morte prematura del sovrano nascono infatti dissidi tra i successori, di ben altra tempra, ed emergono infine quei sovrani seleucidi che fanno strage e vilipendio della Gerusalemme dei Maccabei. Le vittime sono gli Ebrei perseguitati in particolare dal re di Siria Antioco III il Grande (223186 a.C.), emulo di Alessandro, il quale si impone, di conseguenza, come un personaggio demoniaco, gettando un’ombra proprio sul grande conquistatore. Per giunta, i Maccabei vengono visti anche come una pre-

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Il presagio di un sacerdote caldeo «Alessandro si trovava in Babilonia: mancava poco tempo alla sua morte. Allora la divinità si manifestò dando un grande segno. Una donna del posto partorí: nella parte superiore del corpo, fino all’ombelico, il nato era in tutto e per tutto un bimbo. Ma la parte bassa del corpo era cinta da teste di fiere, sicché tutta la figura era simile a Scilla come è nei quadri, non fosse stato

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per il diverso tipo e le dimensioni degli animali [il mostro marino citato era per metà donna e per metà una “ghirlanda” di sei cani feroci, n.d.A.]. C’erano teste di leoni e leopardi e lupi. Le loro forme si muovevano (…) invece il bambino era morto». Il re chiese cosa significasse ciò a un Caldeo, appartenente alla classe sacerdotale, sapiente in fatto di astrologia e di segni prodigiosi. Questi rispose:

«“Fortissimo tra tutti! La forma umana del mostro rappresenta te, le forme degli animali coloro che ti stanno intorno. Se la parte superiore fosse viva e si muovesse come le bestie che sono di sotto sarebbe un presagio favorevole per te, ma poiché essa ha lasciato la vita, cosí anche tu sei assegnato a quelli che non sono piú. Come le bestie che sono di sotto non sono concordi, giugno

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In basso miniatura raffigurante Alessandro, con le sembianze dell’Uomo dalle due Corna, che innalza una muraglia per fermare l’attacco delle forze infernali di Gog e Magog, da un’edizione dell’opera Qisas al-anbiya (Storie di profeti) di ibn Ibrahim al-Naysaburi. XVI sec. Istanbul, Biblioteca del Topkapi.

A sinistra miniatura raffigurante Alessandro sul letto di morte, da un’edizione manoscritta della Historia scholastica di Pietro Comestore. 1332. Parigi, Bibliothèque Sainte-Geneviève.

ma mostrano ostilità verso gli uomini, cosí coloro che ti stanno intorno sono nei tuoi riguardi. Ci sarà una grande tempesta sul mondo alla tua morte, e quelli che sono intorno a te litigheranno e tra loro si uccideranno”». Il brano è tratto dal Romanzo di Alessandro nella sua versione greca «alfa» (III-IV secolo d.C.), secondo la traduzione di Carlo Franco (Sellerio Editore, Palermo 2005).

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figurazione dei cristiani, e Antioco diviene cosí l’immagine stessa dell’Anticristo. Alessandro viene espressamente citato nel I Libro dei Maccabei (1:1-8), ma tutti gli esegeti, a partire da san Girolamo, hanno colto un riferimento implicito al Macedone anche in due visioni ricevute in sogno dal profeta Daniele. Nella prima, il nesso viene stabilito dal leopardo con quattro ali e quattro teste che si impone sulla terra (Daniele, 7:6): per Girolamo, le quattro ali alludono alla rapidità delle conquiste di Alessandro e le quattro teste ai successori, che ne disperdono la gloria. Nella seconda, grazie anche alla lunga spiegazione fornita al profeta dall’arcangelo Gabriele in persona, il «re dei Greci» si riconosce facilmente. Un capro attacca l’ariete e lo soggioga spezzandogli le corna (Daniele 8:3-

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La versione biblica

Il rimprovero divino «“Ora io vorrei sapere volentieri quali meraviglie ci sono su nel cielo. Devo provare”. E ordinò di trovargli giovani grifoni e di portarli fuori dal nido e disse di prepararglieli per bene e disse: “Voglio andare verso il cielo e voglio avere cura del mio corpo, che non mi succeda niente”. E quando i grifoni furono di un mezzo anno comandò di portargli un bel seggio. Egli vi si sedette sopra con la sua corona. E comandò di legare col ferro due stanghe di ferro al sedile e disse che a ciascuna si legasse della carne. E legò i grifoni ad una stanga e i grifoni lo portarono in alto verso il trono celeste. Allora venne una voce a lui e parlò adirata a lui: “Alessandro, cosa vuoi tu qui? Agisci scioccamente se ti sforzi di andare contro Dio. Nessuno può venire in cielo se non l’ha meritato con le buone azioni e Iddio non l’ha favorito”. Allora ad Alessandro fu come se si dicesse nelle alte nuvole che doveva essere bruciato, e disse alla voce: “Dimmi dove devo andare, giacché non posso andare dagli angeli”. E la voce disse: “Vai sulla terra, questa va bene per te”. E lui disse: “Io non vedo che acqua e un cappello che naviga sopra”. Allora disse la voce: “Il cappello è la

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In alto Alessandro in trono nel mosaico di Otranto (vedi immagine intera in apertura, alle pp. 58/59). Nella pagina accanto miniatura raffigurante Alessandro che vola a bordo di una portantina tirata da grifoni, da un’edizione de La Vraye Histoire du Bon Roy Alixandre. XV sec. Londra, British Library.

terra”. Subito egli alzò la stanga con la carne sotto di sé verso la terra. Allora i grifoni lo portarono di nuovo sulla terra». Il brano è tratto da una narrazione della Bibbia in tedesco (Historienbibel) diffusa nel XV secolo, secondo la traduzione di Chiara Frugoni (La Nuova Italia Editrice, Firenze 1978).

26). Il capro, che sfoggia un «insigne» corno in mezzo alla testa, è Alessandro. L’ariete è il sovrano achemenide da lui sconfitto, Dario III, le cui corna sono la Media e la Persia. Dopo la vittoria, il corno di Alessandro si amplia a dismisura e si tramuta in quattro corni, che si orientano sui quattro venti principali. Da uno di essi emerge poi un piccolo corno, che si ingrandisce su ogni direzione. Si tratta di quel «re impudente» (Antioco) che ucciderà i valorosi e il popolo dei santi, e che finirà per essere annientato, ma non per opera dell’uomo. È interessante notare che un presagio mostruoso (ma «reale», non onirico) è anche presente nel Romanzo di Alessandro proprio per esaltare la dissoluzione che fece seguito alla sua fortunata brama di conquiste. D’altro canto, la curiosa immagine del leone tetracorpore del mosaico di Otranto – in chiaro rapporto con Alessandro – sembra reinventare un gusto per la divinazione di antichissimo reIn basso l’ascensione in cielo di Alessandro in un rilievo di produzione bizantina (1080 circa) inserito nella facciata settentrionale della basilica di S. Marco a Venezia.

taggio, allorché prodigi naturali di vario genere erano sottoposti all’analisi di sacerdoti e indovini per ricavarne indicazioni sul futuro. La curiosa immagine di un Alessandro unicorno compare poi in una luce tutta positiva nel Corano: qui il Macedone – che non viene nominato esplicitamente – diventa l’Uomo dalle due Corna, un glorioso combattente in nome di Allah. Sempre proteso verso l’Oriente, ricaccia le forze infernali di Gog e Magog dietro fortificazioni inespugnabili (Sura XVIII: 83-98; vedi foto a p. 65). Come ricorda l’orientalista Alessandro Bausa-

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oltre lo sguardo/5 Sulle due pagine altri particolari del mosaico di Otranto. A sinistra, la costruzione della Torre di Babele; nella pagina accanto, un’amazzone trafigge con una freccia una cerva, oltre la quale si vede un centauro «trillafiore», cioè con un fiore che fuoriesce dalla bocca, che sostiene con il capo una scacchiera.

non esitano ad associare il volo di Alessandro al testo sacro, come se ne fosse parte integrante. La versione figurativa di Otranto, in significativa connessione con la Torre di Babele, compare tra le piú famose interpretazioni di questo soggetto.

In volo con i grifoni

ni, d’altronde, una leggenda cristiana diffusa in Siria ai tempi di Maometto fa dire proprio ad Alessandro, rivolto al Signore: «So che tu mi hai fatto crescer delle corna sulla testa perché io possa abbattere gli imperi del mondo». Proteso com’era alla conquista dei regni piú grandi della terra, il Macedone avrà senz’altro bramato le vette del cielo. Alcune tra le piú recenti edizioni del Romanzo di Alessandro – e in particolare quella elaborata nell’ambiente culturale del ducato di Napoli dall’arciprete Leone negli anni 951-969 –, immaginano cosí una scena di ascesa di grande fortuna letteraria e iconografica. Per giunta, alcune narrazioni della Bibbia diffuse in Germania nel tardo Medioevo,

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Nel racconto di Leone, Alessandro si trova in Egitto, e sale su un’altissima montagna nei pressi del Mar Rosso. Giunto alla vetta, ha la sensazione di trovarsi a un passo dal cielo, e nutre cosí il desiderio di trovarsi realmente sulle nubi. Vuole toccare con mano quella regione ignota. A questo fine fa realizzare un velivolo che è costituito da un’armatura di ferro su cui si dispone il suo seggio. Vengono poi scovati due grifoni (esseri ibridi per metà leoni, per metà aquile) che si provvede a incatenare alla portantina. Per indurre i due favolosi esseri a spiccare il volo, il re tiene in mano due spiedi con succulenti bocconi di carne. I grifoni tentano di raggiungere il cibo, e cosí facendo mettono in moto il velivolo. Ma la divinità non gradisce l’intrusione, avvolge Alessandro nell’ombra e lo fa ricadere in terra. Il Macedone raccoglie però una bella impressione del suo mondo visto dall’alto. La terra non è altro che un piccolo spazio in mezzo alle acque dell’oceano, che avvolge ogni cosa nelle sue spire, come se fosse un drago. Oppure, come si legge nella versione quattrocentesca qui riportata, la terra non sembra altro che un cappello che galleggia su quelle stesse acque. Ed è lí soltanto che il grande conquistatore può vantare la sua gloria. Evidentemente, il racconto si prestava a una lettura moralistica che prendeva di mira la superbia. La visione di Otranto è, in tal senso, chiaramente negativa. Mentre il re sacerdote Salomone, ma anche Artú in persona, possono essere annoverati nell’area della celebrazione, Alessandro si trova a piè della navata, in un coacervo di figure esotiche e mostruose. L’enigmatica scacchiera cita dal canto suo un gioco che nel Medioevo era spesso associato alla morte e alla sfortuna, come ci ha ricordato, in tempi ben piú recenti, il regista Ingmar Bergman nel film Il Settimo Sigillo (1957). La stessa Torre di Babele è costruita da pietre di colore alternato, chiaro e scuro, alludendo alla bicromia della scacchiera. L’inutile slancio verso il cielo di quella grande costruzione, destinata all’abbandono, fa poi da pendant al breve volo di Alessandro. Tuttavia, il Medioevo elaborò un atteggiamento giugno

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tutt’altro che univoco verso il grande conquistatore: non solo egli fu ben accolto dall’Islam e poté divenire uno dei grandi protagonisti dell’epica mediopersiana, ma a Bisanzio costituiva un modello di regalità. Già ai tempi di Eraclio (610-641) l’ultimo grande conflitto greco-persiano aveva rinverdito il ricordo di Alessandro, e la stessa scena della sua ascesa al cielo, accolta in numerosi esemplari di oreficeria, si prestava a esaltare il senso di sacralità del sovrano bizantino. Come ha evidenziato Chiara Frugoni, l’imperatore Costantino VII Porfirogenito (912959), nel corso delle solenni udienze, si mostrava su un trono che lo innalzava verso il soffitto grazie a un sofisticato congegno meccanico, emulando cosí l’ascesa del Macedone. La presenza di due ruggenti leoni artificiali ai fianchi del trono, esaltava poi la virtú del dominatore degli animali feroci, allo stesso modo in cui Alessandro soggiogava i grifoni. È interessante notare, a questo punto, che il rex Alexander di Otranto ha tutta l’aria di un sovrano bizantino. Al tipico look dell’imperatore di Costantinopoli si rifanno infatti la corona con i pendenti, la veste di seta con grandi campi circolari (di solito istoriati con figure di tipo araldico, anche se il mo-

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saico non ne dà alcuna precisa allusione), i calzari rifiniti. Dal momento che sin dal tempo di Ruggero II (1130-1154) i Normanni erano spesso in aperta ostilità con il regno del Bosforo, questa precisa caratterizzazione, unita alla visione negativa del Macedone, non deve affatto sorprendere.

Da leggere Chiara Frugoni, La fortuna di Alessandro Magno dall’antichità al Medioevo, La Nuova Italia editrice, Firenze 1978 Carl Arnold Willemsen, L’enigma di Otranto. Il mosaico pavimentale del presbitero Pantaleone nella Cattedrale, Congedo Editore, Galatina 1980 Chiara Frugoni, Alessandro Magno, in Enciclopedia dell’Arte Medievale, Fondazione Treccani, Roma 1991; disponibile anche on line su treccani.it Chiara Frugoni, Uomini e animali nel Medioevo. Storie fantastiche e feroci, Il Mulino, Bologna 2018

NEL PROSSIMO NUMERO ● Il grifone

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Viaggio nelle antiche

CITTÀ DEL TUFO pitigliano • sorano • sovana • vitozza

Nel lembo di Toscana che confina con il Lazio si conserva un patrimonio unico e spettacolare: sono le Città del Tufo, un nucleo di centri accomunati dall’aver vissuto la propria storia in una costante e felice simbiosi con la pietra che è il nocciolo e l’anima di questa terra, il tufo, appunto. Le vicende di ciascuno di questi insediamenti – Pitigliano, Sovana, Sorano, Vitozza – attraversano i secoli e le testimonianze di questo passato sono oggi mete ricche di fascino. Capillare fu la presenza degli Etruschi, che nella pietra seppero scavare e scolpire monumenti imponenti, dalle «vie cave», che si snodano come canyon tra un sito e l’altro, alle tombe rupestri, decorate da eleganti sculture e maestosi elementi architettonici. E dopo la lunga e importante fase della romanizzazione, altrettanto significativo fu il millennio medievale, nel corso del quale i borghi ebbero ruoli di primo piano negli equilibri politici e sociali e godettero anche di grande notorietà grazie ad alcuni dei loro figli. Come accadde soprattutto a Sovana, che diede i natali al monaco Ildebrando, asceso al soglio pontificio come papa Gregorio VII e destinato a segnare una svolta cruciale nella storia della Chiesa. La nuova Monografia di «Archeo» è dunque l’occasione per conoscere le Città del Tufo, viaggiando in un tempo lungo e denso di avvenimenti, ma, soprattutto, vuol essere un invito a scoprire e visitare un vero e proprio scrigno di tesori.

IN EDICOLA


di Sonia Merli

Bacile da versatore (a destra) e vaso a corpo globulare, entrambi prodotti a Deruta nella prima metà del XVI sec. e conservati, rispettivamente, nel locale Museo Regionale della Ceramica e nel Museo Internazionale delle Ceramiche di Faenza.

Tesori dal

tornio o Sin dalla sua «scoperta» la ceramica è il materiale piú amato e utilizzato per accogliere cibi, bevande e medicamenti. Grazie anche alle innovazioni introdotte nel Medioevo e nel Rinascimento, epoche in cui primeggiarono i maestri italiani


Dossier

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a sempre collocata fra le cosiddette arti minori, la ceramica è tra le espressioni artigianali e artistiche che piú hanno beneficiato di un’attenzione non solo critica ma anche amatoriale. Dapprima grazie ai numerosi estimatori e cultori del genere che, tra Sette e Ottocento, se ne occuparono in veste di eruditi-collezionisti; poi, sul finire del XIX secolo, per la necessità di ricercare in loco le radici storiche di mestieri d’arte di lunga tradizione o appena riscoperti. La necessità di uno studio a tutto tondo dei numerosi centri italiani di produzione di ceramica artistica e d’uso comune nel Basso Medioevo e in età rinascimentale ha fatto sí che negli ultimi anni la ricerca documentaria abbia affiancato il lavoro di scavo archeologico e quello critico di attribuzione e di classificazione dei singoli oggetti. Come infatti i reperti e le testimonianze materiali ci «parlano» di tecniche e di stili – restituendo, anche attraverso piccoli frammenti, tipologie decorative e forme utilizzate nei secoli –, cosí i documenti, attestando per esempio la proprietà e l’ubicazione di fornaci e botteghe o descrivendo l’organizzazione del lavoro nei suoi aspetti produttivi e commerciali, hanno permesso di chiarire non solo l’insieme dei rapporti economici e sociali alla base del ciclo della lavorazione e della commercializzazione dei prodotti ceramici, ma anche la diffusione di influenze culturali, di linguaggi decorativi e di tecnologie in ben precisi ambiti cronologici. Naturale punto di partenza sono stati, quando conservati, gli Statuti e le Matricole dell’Arte dei vasai che, sebbene quasi sempre carenti di informazioni significative sulle tecniche e sulle fasi di lavorazione della ceramica, forniscono invece preziose informazioni di altro genere. Dagli Statuti della corpora-

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Il consorzio di Faenza

Gelosi della propria arte Presso l’Archivio Notarile di Faenza, tra gli atti del notaio Francesco di Simone «de Scarduis», si conserva un documento di particolare interesse per la storia della corporazione degli orciolai faentini. Il 4 luglio 1497, infatti, in rappresentanza di ben 35 fra conduttori di bottega e associati operanti nel settore della maiolica, si riunivano presso il chiostro del convento domenicano di S. Andrea 22 artigiani, i quali, affermando di essere la maggior parte degli uomini che in città esercitavano artem orzolarie, fissavano una serie di patti e convenzioni a tutela della categoria. In primo luogo, veniva espressamente proibito ai singoli orciolai di vendere direttamente o indirettamente, apertamente o di nascosto, in piccola o grande quantità, qualsiasi loro prodotto ai tenutari di fondaci o magazzini a Faenza e a Ravenna. Per la commercializzazione dei prodotti si prevedeva infatti l’istituzione di un magazzino o fondaco a Ravenna, comune punto di vendita dei prodotti degli artifices del consorzio. Si vietava inoltre agli aderenti di contrarre società ad artem orzolarie con chi non risultasse iscritto all’arte, faentino o forestiero che fosse. La riscossione delle multe comminate ai contravventori delle norme fissate nella convenzione era affidata a due soci, agenti in qualità di procuratori dell’Arte, ai quali era conferita la facoltà di trattenere sugli incassi un compenso personale nella misura del 10%.

In alto piatto con decori in azzurro prevalente, produzione montelupina. 1460-1470. Berlino, Museo delle Arti applicate. A sinistra boccale in maiolica di Faenza che presenta nella parte anteriore due mani che si stringono e la parola FIDES. Fine del XIVinizi del XV sec. Torgiano, Museo del Vino.

Nella pagina accanto, in alto particolare di una pergamena con l’emblema dell’Arte dei vasai di Orvieto. 1602. Orvieto, Museo dell’Opera del Duomo. I documenti degli Statuti e delle Matricole di queste associazioni forniscono informazioni preziose sulle botteghe e sulle regole imposte ai loro appartenenti. Nella pagina accanto, in basso piatto che reca lo stemma della famiglia fiorentina dei Minerbetti, produzione montelupina. 1485-1495. Parigi, Museo del Louvre.

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Dossier zione è infatti possibile conoscere non solo le magistrature interne all’Arte, la composizione e la durata degli organi collegiali, le modalità di elezione degli ufficiali, le condizioni necessarie per ottenere l’immatricolazione all’Arte, le forme di solidarietà e assistenza da prestare ai propri iscritti, le festività da osservare, ma anche i provvedimenti atti a tutelare il lavoro degli artifices.

Regole precise

Nel caso di Perugia – che conserva una redazione del 1426 dello Statuto dell’Arte dei vasai, sebbene sia attestata almeno dal 1287 – si prevedevano, per esempio, discriminazioni di natura fiscale fra artigiani iscritti e non iscritti alla Matricola che esercitavano l’arte dei vasai in città o nel contado, come venditori o come artigiani, e una soprattassa di dieci soldi per l’impiego di manodopera forestiera per un periodo superiore a tre giorni. A Orvieto, alcune aggiunte e correzioni apportate alla fine del Trecento al testo normativo duecentesco erano volte non solo alla tutela della qualità dei prodotti – proibendo, tra l’altro, l’utilizzo di argilla di cattiva qualità e obbligandone l’estrazione dai luoghi tradizionalmente utilizzati –, ma anche a garantire gli appartenenti alla corporazione, imponendo dazi

sulla vendita dei prodotti ceramici importati. Dal giugno 1426 anche nella Mariegola dei bocalieri veneziani sono contemplate piú attente misure per proteggere l’Arte dalla concorrenza dei lavori forestieri: si vieta, infatti, l’importazione di terrecotte invetriate e non, fatta eccezione per quelle provenienti da Maiorca. Del 1510 è infine la riforma degli Statuti dell’Arte dei vasai di Montelupo, che si aprono con l’auspicio di un miglior trattamento degli orciolai, ben consapevoli di quale utilità provenga al borgo dall’esercizio dell’arte «degli orciuoli e dei vasi», dal momento che quasi tutta la popolazione traeva da essa le risorse per vivere. Dallo Statuto erano inoltre regolamentati i contratti di apprendistato degli artigiani. In linea di massima, i giovani lavoranti doveIn alto boccale in maiolica di Faenza con il leone di San Marco. 1549. A destra intestazione del catasto della comunità di Deruta. Perugia, Archivio di Stato.

Il «Trust» Antinori

Il fiuto per gli affari di messer Francesco Un caso estremo di sviluppo di un centro di produzione ceramica totalmente sorretto dalla committenza e dai capitali della dominante è rappresentato dal cosiddetto «Trust» Antinori, che dimostra come, alla fine del Quattrocento, la produzione dei prodotti ceramici del borgo murato di Montelupo Fiorentino fosse gestita e commercializzata in modo assolutamente monopolistico. Sappiamo infatti che, nel 1490, Francesco di Antonio degli Antinori, mercante fiorentino con ricchi possedimenti nella zona di

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Montelupo, acquistava per contratto la produzione di 23 maestri vasai del borgo, impegnandosi a rilevarla per ben tre anni a prezzi concordati. Approfittando della fase di stanchezza che colpiva la produzione del luogo, Antinori aveva certo intravisto la possibilità di realizzare un brillante affare, monopolizzandola a proprio vantaggio, cosí da offrire prodotti ceramici di buona qualità e a prezzi competitivi, in un mercato ormai sempre piú interessato dalla concorrenza dei produttori faentini e derutesi. giugno

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vano servire i maestri per almeno otto anni gratis et amore Dei, per poi essere regolarmente inseriti nella produzione, o nella bottega del maestro o in modo autonomo. Le Matricole dell’Arte, invece, contenendo l’elenco nominativo degli iscritti che esercitavano la professione, forniscono preziose informazioni di tipo quantitativo. Tramite i registri delle delibere dei consigli comunali, invece, si è potuto spesso verificare l’adozione di forme di controllo pubblico sulla produzione ceramica, oltre che conoscere provvedimenti normativi riguardanti la vendita, la distribuzione e la commercializzazione dei prodotti. Frequenti, innanzitutto, sono le misure di natura protezio-

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A sinistra piatto di maiolica di Montelupo con l’immagine di una donna che regge un fiasco e un bicchiere. XVII sec. Torgiano, Museo del Vino. In basso diversi tipi di orci e boccali in Dar da bere agli assetati e da mangiare agli affamati, una delle Opere di Misericordia, affrescata in una delle lunette dell’oratorio dei Buonomini di S. Martino, a Firenze. XV sec. Il ciclo viene attribuito alla bottega di Domenico Ghirlandaio.

nistica riscontrate. Nel 1456, per esempio, il gonfaloniere e i consoli di Gubbio accedevano alle richieste della corporazione dei vasai intervenendo con provvedimenti di chiusura dei mercati alla produzione non locale, fatta eccezione per il

vasellame da fuoco dei vasai della vicina Gualdo Tadino. E analoghe misure si ritrovano, come si è già visto, a Orvieto, con l’esclusione, però, per i prodotti dei vasai derutesi, per i quali nel 1472 fu prevista una apposita riduzione fiscale, in misura di due terzi, rispetto a quella fissata per le altre importazioni.

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Dossier Di grande significato è poi l’intervento, del tutto eccezionale, che nel 1458 le magistrature perugine compiono nei confronti del castello di Deruta. In questo caso la dominante mette a punto un’operazione di ripopolamento e di sostegno economico alle attività produttive del piccolo centro, prevedendo l’esenzione fiscale completa per quarant’anni a favore di tutti i forestieri che vi si volessero stabilire. La ripresa della produzione ceramica, rafforzata dagli apporti di maestranze forestiere, determinò cosí un forte rinnovamento sociale e urbanistico: interi quartieri vennero adeguati alle nuove esigenze abitative e lavorative, mentre nuovi laboratori e fornaci sorsero soprattutto nella zona extraurbana del Borgo. Tutto ciò risulta confermato da un’approfondita indagine dei

i butti di orvieto

Nelle viscere della rupe L’interesse del mercato di antichità per la ceramica orvietana d’età medievale sembra essere stato avviato agli inizi del Novecento in modo bizzarro da un antiquario abruzzese, Domenico Fuschini, il quale, alla morte del canonico Girolamo Saracinelli, discendente di una nobile e antica famiglia orvietana, ne acquistò la collezione di carte e disegni. Tra queste carte, un prete francese avrebbe comperato per una discreta somma un solo documento, a condizione che ne rivelasse al Fuschini, il quale non si intendeva né di paleografia né di diplomatica, il contenuto. Si sarebbe trattato della copia di una bolla di Bonifacio VIII,

datata 1299 e mai ritrovata, né in originale, né sotto altra forma, con la quale si prescriveva agli Orvietani di non gettare rifiuti sulla strada e di scavare invece a tale fine un buco profondo nelle loro case o nell’orto. Certo di poter trovare nei «butti» di Orvieto oggetti preziosi, Fuschini cominciò a scavare e, in pochi mesi, rinvenne una bella quantità di ceramiche medievali, dando inizio cosí a quella febbre di scavi autorizzati e clandestini che avrebbe portato alla dispersione di un gran numero di ceramiche orvietane. Lasciandone da parte la presunta

A sinistra boccali di varie misure in un altro affresco del ciclo Opere di Misericordia nell’oratorio dei Buonomini di S. Martino, a Firenze. XV sec.

Qui sopra catino di produzione orvietana. Roma, Museo Nazionale di Palazzo Venezia. Qui accanto boccale in maiolica prodotto a Deruta. XV sec. Deruta, Museo Regionale della Ceramica.

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origine storica, sta di fatto che, tra le innumerevoli cavità che attraversano le «viscere» della rupe su cui sorge Orvieto (cantine, bottini, cunicoli, pozzi e cisterne), compare, con caratteri propri, anche la tipologia dei «butti» o catasti, fonte preziosa per individuare non solo la consistenza patrimoniale dei singoli artigiani e la clamorosa ascesa sociale di alcuni di essi, ma anche l’ubicazione dei luoghi di esercizio della loro attività e della commercializzazione dei prodotti, essendo registrati tra i beni posseduti anche laboratori, fornaci, grotte (necessarie per la conservazione dell’argilla fresca, cosí da mantenerla lavorabile al tornio piú a lungo) e botteghe. Nel 1361 risultavano accatastati nella zona del Borgo 5 laboratori e 3 fornaci; nel 1489, il numero delle fornaci era salito a 14, con annesse 8 grotte, mentre i laboratori e le relative botteghe erano passati a 16.

Un vaso come simbolo

Il rinnovato slancio nella produzione ceramica produsse dunque significativi vantaggi per l’intera comunità di Deruta, che ben presto giunse a considerare sostanzialmente coincidenti gli interessi dei vasai con quelli della restante

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pozzi di scarico, appendici sotterranee annesse alle case e ai palazzi orvietani tra il XIII e il XIV secolo. Generalmente collocati in corrispondenza dei muri d’angolo, in modo da non compromettere la stabilità dell’edificio, questi immondezzai, a forma di fiaschi o bottiglie, avevano una profondità di 6/8 m e un diametro variabile fra i 3 e 4 m. Tra i rifiuti e gli scarti stratificati furono isolate quantità consistenti di oggetti ceramici o di loro frammenti a fondo bianco e con ornamentazioni in verde e nero e coperti di una leggera invetriatura, appartenenti al periodo popolazione. Questa unità di intenti si riscontra, tra l’altro, anche nella scelta di far rappresentare da un simbolico vaso biansato la communitas e gli homines del castello di Deruta nella intestazione del catasto del 1489. Negli ultimi anni, infine, grazie allo spoglio della documentazione notarile, sono emerse numerose informazioni relative a società e contratti temporanei di compagnia tra vasai. Una volta stabilita la parte di lavorazione condotta in modo autonomo e a proprie spese dai singoli soci (realizzazione dei vari pezzi e relativa decorazione) e quella che invece doveva essere eseguita a spese della società (applicazione del lustro e terza cottura), si formalizzavano i termini del contratto per disciplinare la commercializzazione dei prodotti e la ripartizione degli utili. Sappiamo cosí che gli oggetti piú grandi (tazzoni, bacili e «bronçi», piatti grandi, vasi da con-

della cosiddetta «maiolica arcaica» e oggi conservati, dopo diverse vicissitudini, presso prestigiose istituzioni italiane e internazionali, come il Museo Nazionale di Palazzo Venezia a Roma, il Museo Internazionale delle Ceramiche di Faenza o il Fitzwilliam Museum di Cambridge. Sono invece andate perdute le ancora piú numerose ceramiche da cucina o da fuoco e le ceramiche acrome, oggetti d’uso domestico realizzati con argilla spesso impura e senza decorazione, e come tali di nessun interesse per il raffinato mercato antiquario di inizio Novecento.

In questa pagina e nella pagina accanto, in alto ceramiche orvietane rinvenute nei «butti» o discariche dei palazzi e case medievali della città umbra. XIII-XIV sec. I vasi sono conservati al Fitzwilliam Museum di Oxford e nel Museo Nazionale di Palazzo Venezia a Roma.

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Dossier Albarelli, piattelli e piattelletti

Nella pagina accanto, in alto, a sinistra bottiglia di Deruta. XVI sec. Deruta, Museo Regionale della Ceramica.

Tipologie dettate dall’uso Da una vacchetta (libretto o registro coperto con pelle di vacchetta, n.d.r.) di conti compilato da un non meglio identificato maestro faentino, pittore di tavole e di vasi per buona parte della seconda metà del XV secolo, sappiamo che costui era solito distinguere i suoi prodotti invetriati secondo la qualità – dozzinale o gentile – la misura, la forma, l’ornato e il tipo. Il boccale, utilizzato come misura di capacità, serviva di base alla produzione degli altri recipienti, che però si facevano anche piú scarsi del normale («men che da mezzo», «men che da quarto»). Quanto alla forma, gli oggetti riproducevano spesso le sagome dei recipienti di metallo piú in uso – da cui il nome di «brongi» o «bronçi» e

piattelli peltrini – mentre i calcedri erano modellati a guisa dei vasi di rame per attingere acqua. L’ornato utilizzato piú di frequente era «a fasce», a «occhi di pavone», a corone», a «volti», a crocette, a «scagliette» (cioè a embricazioni), a «brevi» (cioè con cartellini portanti diciture), a fogliami, «con l’arme» (ossia con il disegno di stemmi araldici), oppure, nel caso di un piatto, con un soggetto dipinto «dentro il tondo». Le tipologie, fortemente legate all’uso, facevano invece sí che si parlasse di albarelli da pinoli, orce e orcette da speziali, coppe da frutta, coppe con coperchio o senza, coppette, scodelline, mezzette, mezzettine, tazzoni, bacili, rinfrescatoi, salaroli, con fettieri, piatti, piattelli e piattelletti. fetti, rinfrescatoi, scodelle coperte e coppe da frutta) erano stimati due bolognini al pezzo; quelli medi (tazze comuni, scodelle con il bordo largo, piattelletti piani e tondi) un bolognino; quelli piccoli (boccaletti, tazzette, scodellini) un soldo. I prezzi dei pezzi lustrati erano dieci volte maggiori rispetto a quelli dei prodotti ceramici d’uso comune.

Fragile, ma duratura

In alto riproduzione di una miniatura raffigurante la bottega di uno speziale con vasi da farmacia. A sinistra particolare di un boccale d’epoca rinascimentale con un ritratto femminile. Montelupo, Museo della Ceramica.

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Tra tutti gli oggetti prodotti dall’uomo, la terracotta ha resistito nei tempi e al variare delle condizioni atmosferiche come non è avvenuto nemmeno per i metalli. Nonostante la sua fragilità all’urto, infatti, il frammento di cotto rinvenuto nel profondo delle tombe antiche, sotto i detriti stratificati dei tell (colline artificiali formatesi per l’accumulo dei resti di insediamenti succedutisi sempre nel medesimo luogo), tra i rifiuti dei «butti», nelle anse dei fiumi o nei pozzi, ha sfidato inalterato i millenni, ed è grazie a un suo ritrovamento che spesso si danno nome e carattere a culture e civiltà. D’altra parte nessun materiale al pari della ceramica è stato cosí «amico» dell’uomo: grazie all’abbondanza della materia prima necessaria, alla facilità di lavorazione, giugno

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A destra orciolo biansato con scritta Bituro, dalla farmacia di S. Fina. 1505 circa. San Gimignano, Musei Civici. In basso ampollone con versatoio «a becco» e recante l’emblema di S. Fina e il cartiglio «A(cqua) di Brugosa». 1520-1530. San Gimignano, Musei Civici.

la farmacia di s.fina

Lettere veloci e volute svolazzanti Medicina e farmacia sono state da sempre legate all’utilizzo di contenitori in ceramica che, grazie all’applicazione di uno strato di smalto stannifero capace di garantirne l’impermeabilità, erano in grado di conservare droghe, medicamenti e altri rimedi salutiferi in condizioni ottimali e soprattutto, a differenza del vetro, al riparo dalla luce. Particolarmente famosi sono i corredi ceramici appartenuti ai due conventi domenicani fiorentini di S. Marco e di S. Maria Novella – rispettivamente provvisti di una farmacia e di una officina profumo-farmaceutica – e della spezieria dell’Ospedale di S. Fina di San Gimignano, fortunati casi di conservazione di suppellettili un tempo patrimonio di istituzioni ecclesiastiche o civiche di assistenza sanitaria e ora utilissima testimonianza delle pratiche mediche e farmacologiche sviluppatesi tra Medioevo ed età moderna. In particolare, la farmacia di S. Fina, istituita tra il 1505 e il 1507, si dotò subito di un cospicuo numero di suppellettili, oggi conservate presso i Musei Civici di San Gimignano, tra cui almeno un orciolo biansato da elettuari, 11 utelli (ampolloni) grandi con versatoio a becco da acqua, 5 utelli piccoli e 5 utelli con pippio da sciroppi. L’intera fornitura è caratterizzata dalla presenza di cartigli con volute

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svolazzanti sempre muniti di scritte, tranne nel caso di due ampolloni, uno dei quali con il cartiglio completamente vuoto e l’altro con sola lettera A (consueta abbreviazione della parola acqua), probabilmente a causa della fretta con cui i fornitori consegnarono il lotto di vasi al committente. Dalle scritte ultimate sappiamo che nove ampolloni erano destinati a contenere le acque prodotte dalla distillazione di capelvenere, artemisia, menta, sambuco, piantaggine, endivia, borragine, melissa e pimpinella. C’erano poi gli utelli per gli olii essenziali estratti da piante e da vari preparati, quali ruta, scorpione, costo, mirtino, mastice e quelli per gli sciroppi a base di papavero, fumosterno e liquirizia, che per la loro maggiore densità dovevano essere contenuti in utelli con versatoio a pippio, capace di garantire un piú efficace passaggio del liquido. Della dotazione originaria della spezieria facevano parte anche gli albarelli o alberelli – probabile corruzione della voce orientale el barani, vaso da droghe – sia di maggiori dimensioni (da elettuari) che piú piccoli (per la conservazione di unguenti, erbe, polveri e pillole) contraddistinti dall’emblema SF dell’ospedale disposto su uno scudo spaccato nei colori del bruno e dell’arancio.

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In alto piatto con decorazioni ingobbiate e graffite, da Montelupo. 1580-1620. Montelupo, Museo della Ceramica.

alla capacità di conservare la forma quando l’impasto si è seccato, essa è divenuta utensile d’uso e contenitore per cibi, bevande e medicamenti, sposando le molteplici forme dell’oggetto pratico e della quotidianità fino ai nostri giorni. Utilizzata dagli esperti come «fossile guida» della ricerca archeologica e considerata come uno degli elementi fondamentali per la ricostruzione del patrimonio materiale e culturale di una civiltà o, piú in piccolo, di un territorio, la ceramica indica nel terreno la continuità della vita, cosí come i suoi traumi, le assenze e la morte. È cioè, a piú livelli, documento e traccia per la storia dell’uomo, che è segnata dall’utilizzo di materiali, dalla creazione di strutture di produzione e circolazione, dalla sperimentazione di tecnologie e tecniche, dalla creazione di stili e linguaggi decorativi. Lo studioso della cultura materiale, quindi,

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In basso boccale di produzione montelupina con decori in azzurro prevalente. 1480 circa. Londra, Victoria and Albert Museum.

non può che lamentare quella separazione un po’ snob, verificatasi nello studio della ceramica, tra botteghe che si dedicavano alla produzione bella e colta e quelle che invece producevano semplice vasellame destinato al consumo popolare. Non solo, infatti, non è per nulla certo che tutto ciò si sia storicamente verificato, ma sembra anzi essere vero il contrario: anche i centri di fabbrica piú rinomati hanno prodotto ceramiche, terrecotte e maioliche ordinarie, dozzinali, che rappresentavano la fascia quantitativamente piú significativa del mercato.

Registri e contratti

Se le campagne di scavo e di restauro forniscono frammenti piú o meno completi di ceramiche medievali di uso domestico o da trasporto, ulteriori informazioni provengono dai contratti conservati nei registri notarili, pieni di ordinazioni di manufatti giugno

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A destra Tolentino, basilica di S. Nicola. I vasi delle Nozze di Cana, affresco sulla parete est del cappellone di S. Nicola, a Tolentino, variamente attribuito al cosiddetto Maestro di Tolentino, a Pietro da Rimini o a Giovanni Baronzio. Prima metà del XIV sec. In basso boccale viterbese o toscano. XV sec. Torgiano, Museo del Vino.

comuni da parte di enti ecclesiastici e assistenziali, e, soprattutto, dai registri delle uscite degli stessi enti. I vasai di Deruta e Perugia, per esempio, oltre a essere presenti in tutte le fiere e «perdonanze» d’Italia, rifornivano abitualmente di stoviglie e vasellame l’abbazia benedettina di S. Pietro in Perugia, il convento francescano di Assisi e la basilica di S. Maria degli Angeli, gremita di devoti e pellegrini da sfamare e dissetare in occasione della festa dell’Indulgenza della Porziuncola, il 2 agosto. Ecco allora che il lavoro dei vasai si intrecciava a tal

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Dossier Il lustro

Riflessi di Spagna Mentre oggi si designa genericamente con maiolica tutta la produzione a smalto, i vasai italiani denominarono maioliche (de maiorica) solo i prodotti impreziositi dai riflessi metallici, richiamando cosí la provenienza dei bellissimi prodotti lustrati di tipo ispano-moresco che per primi erano stati ottenuti con questa tecnica e già da tempo importati in Italia per l’appunto tramite l’isola di Maiorca. L’effetto si otteneva con un impasto di sali di argento e rame, mescolati a terra d’ocra e diluiti in aceto, che veniva applicato sullo smalto già cotto. Seguiva un’ulteriore cottura (il cosiddetto terzo fuoco), in un forno riducente (cioè povero di ossigeno) e a temperatura piuttosto bassa (600° C circa), che ammorbidiva lo smalto, senza fonderlo consentendo al lustro di fissarsi. La presenza di fumo (ottenuto soprattutto dalla combustione di ginestre), restituiva allo stato metallico gli ossidi coloranti, cosicché, una volta usciti dal forno, gli oggetti, dopo un’energica pulitura, sprigionavano finalmente brillanti riflessi dorati e cangianti. punto con i mercati locali legati alle feste del Perdono da rendere talvolta necessarie deroghe e norme apposite. Sempre nello Statuto dell’Arte dei vasai di Perugia si stabiliva infatti che gli artigiani erano tenuti a osservare le festività indicate nello Statuto del Comune, sotto pena di 10 lire di denari, prevedendo però, al contempo, che agli stessi artifices fosse consentito di vendere i loro prodotti, in qualunque luogo della città e nel contado, presso quelle chiese ove fosse possibile lucrare un’indulgenza. Quanto alle forniture di stoviglie per gli enti religiosi, sappiamo che, tra il 1355 e il 1362, il vasaio e grossista derutese Cecce d’Alessandro vendeva al convento di S. Francesco per la festa del

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In alto e in basso, a sinistra piatti da parata derutesi in maiolica con sant’Antonio Abate e ritratto di donna con dedica amorosa. XVI sec. Deruta, Museo Regionale della Ceramica. In basso, a destra vaso veneziano di Maestro Domenico. 1560-70. Torgiano, Museo del Vino.

Perdono e in occasione dei vari Capitoli dell’Ordine almeno 6000 pezzi tra brocche e gavatelli, scodelle, piatti, anfore e vasi; nel 1513 Piermatteo di Fioravante forniva all’abbazia di S. Pietro di Perugia 350 pezzi di vasi per il refettorio e la cucina, e, nel 1517, 300 pezzi per il refettorio e la cucina del monastero di S. Paolo in Roma. Francesco di Tartaglia, nel 1532, vendeva, sempre a S. Pietro, ben 603 tra piattelletti, scodelle, tondi e scodellini, 22 salettiere, 41 boccali, 5 piatti, 216 boccalini da refettorio, 177 coppe e 116 scodellini rossi per un compenso di 43 fiorini. E mastro Giorgio Andreoli rimetteva, nel 1533, al monastero olivetano di S. Pietro di Gubbio, che serviva già da oltre trent’anni, il proprio conto per la fornitura di 54 boccali da vino e da olio e 41 tra mezzette e tazze di ceramica non lustrata, ma con le armi di Monte Oliveto.

Vasi con le insegne

Negli ultimi secoli del Medioevo, la ceramica, inoltre, venne man mano a sostituire i corredi di metallo o di vetro delle spezierie, costituiti da recipienti atti alla preparazione e alla conservazione dei prodotti farmaceutici, quasi

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sempre decorati con l’insegna del committente (per il monastero di S. Pietro di Perugia, le chiavi, per il Sacro Convento di Assisi, S. Francesco che riceve le stimmate). Si trattava, in genere, di vasi, orci, versatoi, bottiglie, pillolieri, unguentari e soprattutto albarelli, vasi dalla tipica forma cilindrica ripresi dalla produzione ispano-moresca, con una leggera strozzatura «a rocchetto», perché non sfuggissero di mano, e scanalati al collo per consentirne la chiusura con un foglio di pergamena o di carta stretto da un legaccio, e con cartiglio contenente il nome del prodotto. Già ricordati da Piccolpasso nel suo trattato sulla ceramica (vedi box in questa pagina) tra i lavori che si modellano al tornio «con il giro perfetto», gli albarelli erano da costui distinti in quattro tipi: da spetiare, da confetioni, lettovari (= da elettuari, miscele di vari medicamenti con sciroppo e miele) et unguenti. Dal punto di vista tecnico, le due

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Fondo di piatto di Maestro Domenico, autore di opere istoriate, con Bacco ebbro e satiri. 1569. Torgiano, Museo del Vino.

cipriano piccolpasso

I segreti dei maestri ceramisti Alla metà del XVI secolo il cavaliere Cipriano Piccolpasso di Casteldurante scriveva Li tre libri dell’arte del vasaio, una sorta di enciclopedia tecnica del tempo con la quale si proponeva di illustrare i modi di lavorazione della ceramica, rivelandone anche tutti i relativi segreti altrimenti gelosamente custoditi dai maestri delle botteghe dei piú rinomati centri di produzione. Convinto del fatto che «fra tutte le cose che si ricercano in quest’arte, il tenere i colori netti ed avere buon occhio al fuoco (...) sia di gran considerazione», Piccolpasso dedicava importanti sezioni della sua opera alla realizzazione materiale dei colori – indicandone le miscele e le proporzioni secondo le diverse consuetudini e tradizioni locali –, alle differenti tecniche di lavorazione e decorazione e, infine, alle modalità di cottura dei pezzi, fornendo, tra l’altro, un’attenta descrizione e un disegno delle fornaci – da realizzarsi con mattoni crudi, «a guisa di camerette» lunghe 6 piedi, larghe 5 e alte 6 – in tutto simili a quelle scoperte in alcuni centri di produzione indagati archeologicamente.

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Dossier componenti essenziali della ceramica sono il «corpo», ossia il materiale di cui essa è fatta (argille, caolino, feldspati) e la cottura, ossia il procedimento attraverso cui il materiale modellato viene poi consolidato. In relazione al corpo, gli oggetti si distinguono in due categorie fondamentali: quelli in terracotta, ottenuti da una miscela a pasta porosa, senza rivestimento, cotta una sola volta, e quelli in maiolica o faenza, sempre ottenuti da una miscela a pasta porosa, ma con rivestimento trasparente, vetroso (invetriatura) od opaco (smalto), cotta due o tre volte a diverse temperature.

La decorazione

Ai fini dell’apprezzamento estetico dei prodotti ceramici è però fondamentale un terzo elemento, la decorazione, che già 2500 anni fa, per esempio, impreziosiva i vasi greci destinati a contenere olio o vino. Se le ragioni che in origine spinsero i

vasai ad arricchire di disegni e colori le loro opere sono probabilmente da ricercare soprattutto nel tentativo di incrementare le vendite offrendo un prodotto meglio rifinito e piú appariscente, è comunque evidente che i motivi dell’ornato via via utilizzati sono anche il riflesso immediato di gusti e tendenze dell’ambiente di produzione. Ecco allora che lo studio storico-artistico delle ceramiche, basandosi sull’analisi combinata di materiali, tecniche di realizzazione ed elementi decorativi utilizzati, ha raccolto sotto la denominazione di «maiolica arcaica» tutti gli oggetti ceramici rivestiti di smalto stannifero opaco realizzati nell’Italia centro-settentrionale dalla prima metà del Duecento fino a tutto il Trecento. Assolutamente caratteristiche sono in questo periodo le decorazioni, eseguite dapprima in verde ramina e bruno manganese, poi anche con il blu cobalto della

Piatto di Faenza a fondo azzurrato con stemma di alleanza Medici-Strozzi. Prima metà del XVI sec. Londra, Victoria and Albert Museum.

Araldica

Piatti pieni di nobiltà La presenza di motivi araldici tra i temi decorativi della ceramica medievale e rinascimentale, applicati sempre piú di frequente su stoviglie, piastrelle e decori architettonici, non fu solo un fatto estetico o una moda, ma anche efficace strumento per l’affermazione e la diffusione di un segno di proprietà, oltre che raffinato marchio di potenza di cui si subiva il fascino sottile. Inizialmente, l’arma gentilizia, dipinta o graffita che fosse sulle ceramiche, veniva spesso offerta a nobili e signori dai produttori di vasellame, in segno di omaggio o per ricevere favori e riduzioni doganali. Nel tardo Medioevo e in età rinascimentale, invece, furono gli stessi committenti, nobili o prelati che fossero, a incaricare i maestri vasai della realizzazione di interi serviti da tavola «personalizzati» sui quali comparisse in bella mostra il proprio scudo gentilizio,

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nella consapevolezza che ostentare stoviglie con emblemi araldici non rappresentava solo un segno di forza e potere, ma anche di distinzione nella scala sociale. Se, a fronte di un diffuso utilizzo arbitrario degli stemmi da parte dei vasai, nel 1378 nello Statuto dei vascellari di Orvieto si vietava di dipingere su vasi e prodotti ceramici le armi di famiglie titolari di uno stemma senza la loro espressa volontà, i motivi araldici in ogni caso influenzarono inevitabilmente il repertorio decorativo delle botteghe, dando luogo cosí al fenomeno dei disegni pseudo-araldici e degli stemmi generici, frutto della contaminazione fra emblemi gentilizi e creatività dei maestri. giugno

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In alto un’altra piastrella del Palazzo Ducale di Mantova a fondo viola, con «museruola» azzurro scuro. XVI sec. Sulle due pagine pavimento a piastrelle di produzione umbra della cappella Baglioni in S. Maria Maggiore di Spello. In basso piastrella con guanto da torneo a fondo bianco e decorazioni azzurre e bianche, realizzata nel XVI sec. per il Palazzo Ducale di Mantova.

«zaffera», che facevano risaltare vivacemente sul fondo bianco dello smalto stannifero soggetti fantastici e mostruosi, decorazioni vegetali, animali, astratte o figure di «regine», donne coronate antesignane delle «belle» rinascimentali.

Motivi graffiti

Altrettanto antico era l’impiego di un’altra tecnica che ha dato luogo, sempre dalla metà del XIII secolo, alla cosiddetta «ceramica graffita arcaica» o «ingobbiata», caratterizzata dalla presenza di un rivestimento terroso di colore bianco (chiamato appunto ingobbio o terra di Vicenza), steso sopra il manufatto ceramico prima della cottura iniziale. A questo punto il pezzo era pronto per essere inciso con una punta, cosí da ottenere i motivi decorativi, sfruttando il riemergere

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del colore rosso dell’impasto lasciato scoperto dal segno graffito. Dopo essere stato colorato con ossidi di rame e ferro e rivestito di una trasparente vetrina al piombo, che fissava la decorazione e rendeva impermeabile il recipiente, il pezzo veniva cotto per la seconda volta. L’evoluzione della ceramica italiana compie però importanti progressi nei primi anni del Quattrocento, quando si riesce a mettere perfettamente a punto la tecnica dello smalto stannifero, mescolando insieme la «fritta» (sabbie silicee e alcali mescolati e cotti) e il «calcino» (piombo e stagno insieme ossidati). Si formava cosí lo smalto che, per l’apporto dello stagno e una volta passato in seconda cottura a un fuoco di quasi 1000 °C, faceva guadagnare al pezzo di terracotta su cui era stato applicato lucentezza e bianchezza. Il nuovo smalto infatti – grazie all’introduzione nella vecchia miscela piombifera della ceramica arcaica di una certa percentuale di ossido di stagno – riuniva in sé le proprietà dell’ingobbiatura (colorazione bianca) e del rivestimento piombifero (impermeabilità).

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Dossier L’adozione di questo involucro candido, levigato e lucente, e nel quale l’ornato dipinto si incorporava durante la cottura, segnò la nascita della maiolica nel significato oggi inteso e forní il fondo luminoso, la «tela» che i pittori di ceramiche italiane cercavano con insistenza. A una prima fase, detta dello Stile Severo, seguirono quelle dello Stile Bello e dello Stile Fiorito, in cui la ceramica costituí il supporto per la realizzazione di vere e proprie opere d’arte che presentavano ritratti di nobildonne e gentiluomini, scene mitologiche o religiose, scritte e motti, dediche amorose ed elementi araldici, tutti

motivi richiesti da una committenza colta e raffinata e che trovavano ragione e ispirazione anche dal confronto con le opere dei grandi maestri del Rinascimento.

A ciascuna il suo

Tra gli oggetti piú frequentemente accolti nella casa signorile, oltre ai serviti da tavola (credenze) destinati ad abbellire ambienti di rappresentanza, spiccavano per bellezza le fiasche da parata, i vasi e le coppe amatorie. Quest’ultimo tipo di dono, se offerto all’innamorata, si chiamava «gamelio»; se dedicato alla sposa in occasione delle nozze, «nuziale»; se destinato alla ma-

dre a cui era appena nato un figlio «impagliata», indicando con questo nome un servito di stoviglie con scene allusive alla maternità, appositamente creato per la puerpera piú come oggetto beneaugurante che non per la sua funzionalità. Si chiamava infine «ballata» quel particolare tipo di piatto di forma concava e con i bordi assai ampi con su dipinti strumenti, brani musicali, versi su quaderni aperti, nel quale si offrivano, durante i balli, dolci e confetti alle fanciulle. Nei piatti da pompa, invece, una tipologia decorativa particolarmente diffusa era quella delle «belle»: al centro venivano rappresentati ri-

I vasai italiani coronarono la loro evoluzione tecnica con l’utilizzo del lustro Nella pagina accanto, in alto intestazione del catasto di Simone e Nicola di Raffaele Masci di Deruta. Nel XVI sec. il piccolo centro umbro divenne famoso per la sua produzione, che riforniva conventi e case signorili. A sinistra piatto decorato a grottesche, prodotto a Montelupo. 1509. Parigi, Collezione privata. Nella pagina accanto, in basso, a sinistra orcio in maiolica proveniente da Montelupo o da Cafaggiolo, i due centri che rifornivano il mercato fiorentino. Fine del XVI sec. Torgiano, Museo del Vino.

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Qui sotto boccale Medici-Salviati, il cui emblema all’interno di un grande anello diamantato, è probabilmente voluto per celebrare le fastose nozze (1516) fra Giovanni delle Bande Nere e Maria Salviati. Firenze, Museo Nazionale del Bargello.

tratti di donne, il cui nome, scritto su nastri a svolazzo, era spesso accompagnato dall’aggettivo «bella» e dal nome dell’innamorato; mentre sulla tesa a scomparti si alternavano embricazioni, girali fioriti, foglie lanceolate e infiorescenze.

Quasi un prodigio

Tuttavia, il coronamento dell’evoluzione tecnica dei vasai italiani fu raggiunto soltanto con l’utilizzo del lustro, procedimento introdotto nel bacino del Mediterraneo dai ceramisti islamici, i quali aggiravano cosí, in un certo senso, il divieto religioso di utilizzare stoviglie e vasellame d’oro o d’argento in tavola (vedi box a p. 82). Rivestendo infatti la ceramica di una patina dorata o ramata, le si conferiva l’aspetto di un metallo prezioso e, per una sorta di «trasmutazione alchemica», la terracotta veniva cosí nobilitata e resa all’altezza delle mense signorili. Probabilmente comparsa per la prima volta nel IX-X secolo in Mesopotamia, la tecnica del lustro si diffuse in Egitto, in Iran e in gran parte del mondo islamico, compresa la Spagna, che si segnalò ben presto per le sue officine di Malaga, Granada, Valenza e Manises.

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I grandi piatti lustrati dagli ornati geometrici, floreali (a foglie d’edera, a prezzemolo, a brionia) o con note musicali erano infatti importati e molto apprezzati in Italia, dove alcuni ceramisti cercarono di imitarli fin dai primi decenni del XIV secolo, limitandosi però all’inizio a riprenderne solo le forme e i motivi decorativi, non

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Dossier collezionismo

Quel «bellissimo Gabinetto»... Già alla corte medicea, intorno alla metà del XVII secolo, il cardinale Leopoldo amava collezionare oggetti di maiolica, di fattura contemporanea o di poco precedenti, accuratamente descritti nei suoi inventari. Il principe Ferdinando, suo pronipote, si impegnava alcuni decenni dopo a realizzare «un bellissimo Gabinetto (…) delle terre di Raffaello» (antesignano del Museo Nazionale del Bargello di Firenze, il cui nucleo piú antico proviene proprio dalle collezioni dei Medici), alludendo cosí non solo al contributo che il pittore aveva portato alla decorazione ceramica in età rinascimentale, ma indicando anche implicitamente la ragione forse piú autentica della fortuna storica e critica della maiolica rinascimentale e dell’eccezionale interesse collezionistico a essa collegato. Straordinaria fu poi la passione per «la moda d’Italia» che in Francia avevano dimostrato il cardinal Tournon o il cardinale Mazzarino e che in Inghilterra rivelerà, poco dopo l’inizio del Settecento, sir Andrew Fountaine, precursore del grande collezionismo inglese. Tanta attenzione non ha peraltro giovato alla conservazione in loco del patrimonio ceramico italiano, come si legge nelle pagine de L’antiquario del 1910, in cui si racconta della venuta in Italia del negoziante parigino Lowengard, il quale, tenendo «i fogli sciolti a manciate nella tasca del soprabito» comperava in blocco e a basso prezzo tutti gli albarelli che trovava, lasciando invece «correre i cordoni della borsa» per i piatti o i vasi a riflesso. Già nel 1896, inoltre, il Fortnum, lamentando la bramosia dei collezionisti, aveva constatato come l’Inghilterra e la Francia possedessero effettivamente «piú esemplari di queste maioliche che non ne resti nella loro terra natia». E infatti, a tutt’oggi, oggetti ceramici italiani sono presenti in notevoli quantità in collezioni pubbliche e private di mezzo mondo, a riprova di una produzione quantitativa, e soprattutto qualitativa, di tale livello da aver costituito nei secoli un forte motivo di richiamo per cultori del genere e amatori, i quali spesso hanno poi contribuito in modo determinante, con i loro lasciti a musei e istituzioni di conservazione pubbliche, a creare importanti sezioni settoriali. Emblematici sono i casi dell’Ashmolean Museum di Oxford, del Musée de la Renaissance Française nel quale sono confluite per intero le collezioni private del Fortnum e del Du Sommerard, e della Robert Lehman Collection, presso il Metropolitan Museum di New York, che raccoglie oltre 130 pezzi, per lo piú a lustro, datati fra gli anni 1400-1580 e realizzati in botteghe toscane, di Faenza, Deruta, Casteldurante e Urbino, Gubbio e Castelli d’Abruzzo, oltre a un significativo numero di altri oggetti di piú incerta datazione e provenienza.

essendo ancora giunti a possedere il segreto del lustro. Solo a partire dagli ultimi anni del Quattrocento la nuova tecnica risulta applicata con diversa fortuna in alcuni centri dell’Italia centrosettentrionale – Deruta, Faenza, Pesaro – che ospitavano già da tempo numerose botteghe di vasai e vantavano un’importante produzione sia per quantità che per qualità. Non sembrano invece partecipare a questo primo momento di sperimentazione sul lustro i ceramisti toscani – la produzione lustrata di Cafaggiolo è infatti del pieno Cinquecento – probabilmente per il fatto che le ricche famiglie fiorentine potevano procurarsi con facilità oggetti personalizzati (come nel caso del bellissimo vaso mediceo valenzano conservato al British Museum di Londra), commissionandoli di-

Qui accanto fiasca «da pellegrino» di Faenza. Fine del XVI sec. Torgiano, Museo del Vino. A destra boccale di Montelupo decorato a «zaffera a rilievo». 1380-1400. Faenza, Museo Internazionale delle Ceramiche.

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rettamente nei piú noti centri della Spagna, ai quali erano legati da stretti contatti commerciali. Le enormi potenzialità della ceramica cominciarono a manifestarsi già nel corso del XIII secolo, quando piastrelle maiolicate di probabile fabbricazione derutese furono murate sui gradini dell’altare maggiore della Chiesa Superiore della basilica di S. Francesco ad Assisi, e ancora nei primi decenni del Trecento, allorché a Orvieto il maestro Buccio di Paolo veniva pagato per la realizzazione di piastrelle di terrecotte «invetriate di vetro bianco», a completamento del mosaico a vetri colorati della facciata della cattedrale.

Mattoncini d’autore

Ma è nei due secoli successivi che sempre piú i manufatti ceramici di uso architettonico divengono espressione della migliore creatività artistica per una committenza sempre piú importante ed esigente. Se a Siena, nel duomo, sono ancora visibili gli splendidi pavimenti smaltati della Biblioteca Piccolomini (1495), a Perugia il maestro Giacomo di Marino, detto il Cavalla, si impegnava, già nel 1455, a produrre in due formati mattoncini «di terra, dipinti, cotti e invetriati» per il pavimento della cappella dei Priori, ancora visibili in parte in originale e in parte in copia nella sala XXIII della Galleria Nazionale dell’Umbria. I mattoncini piú grandi, di forma rettangolare e pagati dodici soldi al pezzo, dovevano servire per il fregio perimetrale. I piú piccoli, di forma quadrata e pagati due soldi al pezzo, prevedevano l’alternanza di due motivi ornamentali – il primo raffigurante un putto alato che sorreggeva un cartiglio o un tralcio di foglie, il secondo un rosoncino vegetale composto da quattro foglie a cartoccio – che doveva ripetersi per tutta la restante superficie secondo la tipologia della cosiddetta «famiglia floreale gotica».

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Altri importanti lavori di pavimentazione realizzati nei due decenni successivi dallo stesso Cavalla, l’attestazione della realizzazione di pavimenti smaltati da parte di artigiani di Montelupo – che nel 1454 fabbricano 11 970 mattonelle invetriate di grande formato per la fabbrica di Castel S. Angelo a Roma –, le superstiti

Giorgio Andreoli

Niente tasse per il maestro La prestigiosa produzione della ceramica lustrata eugubina di età rinascimentale fece capo alla bottega di mastro Giorgio Andreoli, vasaio lombardo stabilitosi a Gubbio nell’ultimo decennio del Quattrocento, ben presto insignito dal duca di Urbino Guidobaldo I della cittadinanza e beneficiario a piú riprese dell’immunità fiscale, a riconoscimento della sua grande abilità nella lavorazione della maiolica «da non aver pari in quell’arte». Se è vero che la tecnica del lustro in quegli stessi anni era diffusa anche a Deruta, mastro Giorgio è però colui che l’ha perfezionata nello splendore dei riflessi (in particolare del rosso) e soprattutto le ha conferito uno stile inconfondibile, applicandola ai soggetti istoriati e alle decorazioni a trofei d’arme e a grottesche proprie della tradizione metaurense, a conferma certo della preminenza culturale della vicina corte di Urbino, ma anche della circolazione e dello scambio di oggetti, oltre che di artisti, fra Gubbio e gli altri centri del ducato, bisognosi per i loro istoriati del tocco finale del lustro cosí straordinariamente padroneggiato dal maestro. La perizia di mastro Giorgio Andreoli da Gubbio si può ammirare in questo bellissimo piatto firmato con satiro e fanciullo, riproposti anche nel particolare qui accanto. 1528. Torgiano, Museo del Vino.

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Dossier contaminazioni

L’unione fa la perfezione Urbino, Pesaro e Casteldurante (spesso riunite sotto la formula di Scuola metaurense) eccelsero dai primi decenni del XVI secolo in un nuovo genere di decorazione della maiolica, l’istoriato, che, ispiratosi ai motivi derivati dalla pittura e dalla letteratura, diffondeva quei soggetti presso un pubblico piú vasto. Ricorrenti fonti iconografiche delle «storie» rappresentate sulla superficie maiolicata furono le Metamorfosi di Ovidio, l’Eneide, l’Orlando innamorato e l’Orlando furioso, il Decameron e il De claris mulieribus di Giacomo Foresti. Tra i maestri, si distinsero Francesco Xanto Avelli, Nicolò Pellipario e Guido Fontana, con i quali si raggiunse il culmine del virtuosismo della Scuola urbinate: perfezione di esecuzione, brillantezza della vernice, disegno abilissimo, composizione carica di figure con costante riferimento alla lezione di Raffaello, sommo fra gli artisti urbinati. Ciò significa che da un mondo chiuso, nel quale soggetti e modelli iconografici venivano gelosamente tramandati all’interno della bottega o erano attinti dalla corte signorile e dalla cattedrale o dagli artisti che gravitavano attorno a questi due poli culturali, si passò a un repertorio di modelli piú ampio e condiviso, proveniente dalla nuova koinè culturale del Rinascimento, che favorí, anche grazie alla crescente diffusione del libro a stampa con xilografie, la creazione di un thesaurus di soggetti per le arti decorative in generale e per la ceramica in particolare. Non a caso, il maestro vasaio Baldantonio scriveva al duca Guidobaldo II della Rovere che spesso le arti sono fra loro cosí strettamente congiunte «che l’una non può avere perfezione senza l’altra», portando come esempio proprio i vasi di terracotta «ai quali per ridurli a qualche vaghezza di necessità la dipintura si richiede: et quella senza la cognizione delle favole non può aver compimento: et chi aver le vuole bisogna che legga i poeti, et cosí da vasi di terra l’uomo alla poesia si conduce».

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In questa pagina la stretta corrispondenza tra pittura, letteratura e decorazione ceramica appare evidente in questa alzata con Venere e Bacco, prodotta a Rimini o Urbino nella seconda metà del XVI sec. Torgiano, Museo del Vino. Nella pagina accanto, a sinistra fiasca con decorazione dipinta e a rilievo raffigurante varie divinità, tipica della bottega dei Fontana di Urbino 1560-1570.

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piastrelle di artigiani pesaresi nelle stanze d’Isabella d’Este nel Palazzo Ducale a Mantova, quanto resta della decorazione del palazzo papale di Avignone, i frammenti ricomposti delle piastrelle della perduta loggia dell’Alessi della Rocca Paolina di Perugia, il magnifico e va-

riegatissimo pavimento maiolicato della cappella Lando nella chiesa di S. Sebastiano a Venezia, quelli della chiesa di S. Paolo a Parma e della cappella Baglioni nella chiesa di S. Maria Maggiore di Spello dimostrano come l’uso della ceramica dalla seconda metà del XV secolo non si limitasse piú alla decorazione di piccoli spazi privati. Le mattonelle di terracotta invetriata divennero una vera e propria moda, prestandosi alla propensione al lusso delle corti rinascimentali e al desiderio di nobili e signori di possedere pavimenti preziosi ed esclusivi.

Produzioni specializzate

Per le sue specifiche caratteristiche, l’arte della ceramica è stata esercitata in un quadro produttivo che difficilmente ha coinciso con lo spazio urbano delle grandi città. A partire dal Trecento,

si constata infatti un processo di specializzazione in virtú del quale le città principali tendono sempre piú a limitare la produzione destinata al fabbisogno interno, mentre alcuni centri periferici – sostenuti dai capitali mercantili cittadini e da una committenza spesso di elevato livello – acquistano la capacità di produrre grandi quantità di ceramica, sia per uso quotidiano che di tipo artistico, destinata soprattutto all’esportazione. Questo fenomeno di decentramento delle attività produttive legate alla ceramica è chiaramente riscontrabile tanto per il territorio toscano, nello stretto rapporto venutosi a instaurare fra Firenze, Montelupo Fiorentino e Cafaggiolo, quanto per l’Umbria, nell’evoluzione inversamente proporzionale di Deruta e Orvieto. Deruta, infatti, cittadina di

In basso boccale a ventre ovoidale e con collo a bocca trilobata, decorato con la figura di un banditore. Prodotto a Pesaro tra il 1540 e il 1550. Torgiano, Museo del Vino.

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Dossier modeste dimensioni, ma provvista di argilla di buona qualità e posta su un asse viario favorevole, aumentava gradualmente la sua produzione anche grazie alla vicinanza con Perugia, fino a diventare il maggior centro ceramico dell’Umbria; a Orvieto, invece, città ben piú importante, la produzione si ridusse nel corso del XV secolo, assumendo caratteri sempre piú locali e modesti. La ceramica derutese è stata a lungo considerata come la produzione piú famosa del territorio umbro e, in quanto tale, oggetto privilegiato di studi e ricerche che permettessero di ripercorrere le tappe di una tradizione certo molto antica, ma non supportata da reperti ceramici certi per la sua fase piú arcaica.

«Una soma di vasi»

Se una corporazione locale di vasai esisteva già negli anni Ottanta del Duecento, è però ancora piú interessante il fatto che, almeno dal 1290, la chiesa di S. Nicolò di Deruta, soggetta al capitolo della cattedrale di Perugia – e per ciò tenuta a versare annualmente nel giorno di S. Lorenzo un censo – soddisfaceva tale obbligo non versando denaro, ma «una soma di vasi». Tale pagamento in generi dimostra come già alla fine del Duecento la ceramica fosse chiaramente considerata il prodotto di spicco della comunità. La regolare committenza del Sacro Convento di Assisi, documentata almeno dalla metà del Trecento, dell’abbazia di S. Pietro e dell’Ospedale della Misericordia a Perugia, contribuí

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a sostenere una produzione ormai di elevato livello, ma che subí un drammatico arresto intorno alla metà del Quattrocento, a causa delle ricorrenti epidemie di peste. Tuttavia, le provvidenze particolari in favore di forestieri che avessero scelto di stabilirsi a Deruta fecero sí che negli ultimi decenni del secolo prendesse avvio la grande stagione rinascimentale della ceramica derutese, che incontrò subito il favore del mercato. Animata nella prima metà del Cinquecento dalla famiglia dei Masci, protagonisti di una clamorosa ascesa economica, favorita

proprio dall’utilizzo della tecnica del lustro, la produzione di maioliche del piccolo centro divenne a tal punto ammirata da far scrivere nel 1553 al francescano Leandro Alberti che gli artigiani di Deruta «tanto sottilmente conducevano i loro lavori dorati che nessuno in Italia era in grado di imitarli».

Il declino di Firenze

Negli ultimi anni si è inoltre assistito al ridimensionamento del ruolo di Firenze nella produzione della maiolica toscana a tutto vantaggio di centri minori come Montelupo Fiorentino e Cafaggiolo, sorta di sobborghi produttivi della dominante che, come risulta dagli studi piú recenti, dal 1530 non aveva addirittura piú fornaci all’interno delle sue mura. La vicinanza con l’Arno – principale via di comunicazione con il mare dopo che, con la sconfitta dei Pisani nel 1406, Firenze si era garantita uno sbocco sul Tirreno – e la ricca committenza fiorentina fecero di Montelupo il principale produttore di ceramiche della Toscana, che nel Quattrocento si segnalava per l’utilizzo della decorazione detta «della zaffera a rilievo». Funzionale alla comparsa di nuovi generi di lusso, questo tipo di decorazione era realizzato mediante una colorazione in blu cobalto intenso Boccale rinascimentale con stemma della famiglia Medici. Montelupo, Museo della Ceramica. Gli scavi condotti nel Pozzo dei Lavatoi della stessa Montelupo hanno restituito una considerevole quantità di ceramiche realizzate nella cittadina toscana su commissione delle piú prestigiose casate del tempo. giugno

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Piatto d’imitazione del lustro con giaggiolo o giglio. Fine del XV sec. Montelupo, Museo della Ceramica. Il fiore, florido nei dintorni di Firenze, è il simbolo della città, largamente riprodotto sulle maioliche montelupine.

che rimaneva rilevata sullo smalto, presentando un gradevole effetto a goccia, dovuto alla fusione del piombo mescolato al cobalto durante la cottura. Grazie ai materiali emersi dallo scavo del «Pozzo dei Lavatoi» si dispone inoltre per il primo Rinascimento di una ricca campionatura delle decorazioni utilizzate (a reticolo puntinato, a embricazioni, a grottesche con blu graffito) e, soprattutto, della variegata committenza, chiaramente attestata dagli stemmi delle principali famiglie della nobiltà fiorentina (Medici, Strozzi, Pucci, Canigiani, Fioravanti, Machiavelli) e toscana in genere. Prestigiose ordinazioni continuarono a pervenire alle botteghe montelupine ancora nel Seicento, quando Cosimo II de’ Medici donava alla cugina Maria, vedova del re di Francia Enrico IV, i pavimenti destinati alla decorazione dei nuovi appartamenti reali a lei riservati nel Palazzo del Lussemburgo; e, qualche anno dopo, in occasione della realizzazione delle piastrelle del pavimento della cosiddetta Sala della Stufa in Palazzo Pitti. L’arte della maiolica è universalmente conosciuta col nome faïence, dalla traduzione francese del nome della città di Faenza, dal Medioevo a oggi uno dei principali centri italiani di produzione della ceramica. Se già nel 1142 è attestato un Petrus orzolarius, è però verso la fine del XV secolo che Faenza, per il temperamento intraprendente dei suoi artefici che si diffusero rapidamente in tutta Italia, si pose ai vertici della decorazione artistica grazie all’opera di eccellenti maestri che, soprattut-

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to con i loro istoriati, raggiunsero ben presto elevatissimi risultati nella pittura su maiolica.

Nella città dei vasai

Sebbene non sia possibile stabilire con precisione quante fossero nel Cinquecento le botteghe faentine, i cronisti del tempo ci dicono che una persona su nove in città era addetta all’industria della ceramica. La maggior densità si trovava probabilmente nel Rione Rosso, nel triangolo fra porta Imolese e porta Ravegnana. Nelle contrade di San Vitale e San Biagio si trovavano infatti la Ca’ Pirota, famosa per i suoi caratteristici ornati azzurri; la bottega degli Orcellari, di Virgilio Calamelli e di Baldassarre Manara, celebri pittori di istoriati. La straordinaria attività delle botteghe faentine emerge nettamente anche dalla documentazione notarile e contabile: nel 1545

Francesco Mezzarisa si impegnava a fabbricare 3500 pezzi di maiolica e, l’anno dopo, addirittura 7000, per soddisfare le richieste dei signori e dei mercanti di Toscana e di Roma. Ma ciò che salta all’occhio è la quantità di legname grosso e di fascine necessari per alimentare i fuochi delle fornaci e, ancor piú, di materie prime necessarie alla produzione. Nel 1517 Bartolomeo di Lodovico Viani, Antonio di Andrea Viani e Paolo Brigantini acquistavano insieme 2500 libbre di piombo; nello stesso anno Giovan Francesco di Ca’ Pirota ne comperava da solo 6085 libbre, la stessa quantità che l’anno dopo veniva acquistata anche da Giuliano Manara. A riprova del grande successo e della continua richiesta sul mercato della maiolica faentina, già lodata dal Piccolpasso per la straordinaria «candidezza» del rivestimento che l’ha resa famosa in tutto il mondo.

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medioevo nascosto veneto

Assassinio nel chiostro

di Serena Zanetto

Con le sue architetture, S. Maria di Follina incanta i visitatori. L’abbazia cistercense, fondata nel 1146 grazie alle ingenti donazioni di una potente famiglia trevigiana, fu protagonista assoluta della vita economica e politica di un vasto territorio prealpino. Un dominio durato quasi un secolo e mezzo, fino a quando…


Abbazia di S. Maria di Follina (Treviso). Uno scorcio del chiostro romanico, la cui costruzione venne portata a termine nel 1268. La vasca in marmo collocata al centro veniva probabilmente utilizzata come fonte battesimale.


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Cortina d’Ampezzo

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on la fondazione dell’abbazia di S. Maria di Follina nella Sanavallis, oggi Valsana, anche il Veneto apre le porte alla riforma monastica iniziata nella lontana Borgogna con Roberto di Molesme (1027-1111) e destinata a lasciare un segno indelebile nella storia della cristianità e del pensiero medievale. Povertà, eremitismo e vita apostolica sono le tre idee guida del nuovo Ordine cistercense; fedeltà alla Regola e indipendenza economica di ogni abbazia – garantite da un sistema di ispezione tra abbaziemadri e abbazie-figlie, nonché per mezzo dell’annuale Capitolo Generale – sono invece l’ossatura portante della vasta rete di fondazioni fiorite in tutta Europa (vedi box alla pagina seguente). Attraverso gli atti del Capitolo Generale, e grazie anche al Manoscritto 109 della Biblioteca comunale di Treviso – che consiste in una trascrizione seicentesca di tutti i documenti prodotti nell’abbazia di Follina dal XII al XV secolo –, si disvela la storia di una comunità monastica ricca di contraddizioni, che altro non è se non il riflesso di quel macrocosmo politico e sociale che gravitava intorno a essa. Disordini interni, condotte riprovevoli di monaci e abati, oltre che l’eccessiva autonomia dalla casa madre, fanno del Duecento follinate un secolo particolarmente inquieto, fino a che un episodio di sangue non impone un deciso intervento dell’Ordine. È infatti il 1290 quando il Capitolo Generale, che ogni anno riuniva a Cîteaux gli abati provenienti da tutte le abbazie cistercensi d’Europa, ordina l’arresto e l’incarcerazione di alcuni monaci resisi colpevoli, in momenti diversi, e in due distinte abbazie del Nord Italia, dell’uccisione dei loro abati. La prima abbazia a finire sotto accusa è quella di S. Stefano al Corno, nel Lodigiano; la seconda è invece l’abbazia trevigia-

Friuli-Venez ia G iul ia

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Bernardo che, insieme ai monaci di Cîteaux, prende possesso dell’abbazia di Clairvaux, da un’edizione delle Chroniques abrégées des Anciens Rois et Ducs de Bourgogne, opera attribuita al diplomatico, poeta e cronista francese Olivier de La Marche. 1485-1490. Londra, British Library.

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L’Ordine cistercense

Roberto di Molesme e le prime abbazie L’Ordine cistercense ebbe origine in Borgogna, dove nel 1098 Roberto di Molesme fondò a Cîteaux la prima abbazia. Fu però con Bernardo di Chiaravalle che crebbe di importanza, con la fondazione di altre abbazie (La Ferté, Pontigny, Morimond, Clairvaux) e con il riconoscimento formale da parte di papa Callisto II nel 1119. Nel giro di pochi anni, ognuna delle abbazie-

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madri generò a sua volta nuove fondazioni su cui era tenuta a vigilare, creando cosí un sistema di abbazie autonome, legate tra loro da legami di fratellanza e sotto il controllo del Capitolo Generale. L’idea guida dell’Ordine fu il ritorno a una stretta osservanza della Regola di San Benedetto e uno stile di vita piú austero, in aperta critica verso i secolari istituti monastici simboleggiati da Cluny.

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i principi dell’ordine

Nel segno dell’autosufficienza La ricerca della solitudine e il lavoro manuale, finalizzato alla sola sussistenza della comunità, rappresentano altrettanti pilastri per l’Ordine cistercense. I monaci sono quindi tenuti a gestire direttamente le loro proprietà, facendosi però aiutare dai fratelli conversi (laici che offrono manodopera gratuita in cambio di vitto e alloggio), senza cedere terreni in affitto o stipulare soccide. Ne consegue che la tipica

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azienda agricola cistercense, la grangia, gestisce proprietà compatte a non oltre un giorno di cammino dall’abbazia. Sono inoltre vietate le rendite di tipo feudale, come le decime, e la pratica del commercio che non sia finalizzato ad acquisire i beni elementari di cui la comunità non disponeva. Molte di queste norme con gli anni vennero abrogate dal Capitolo Generale, soprattutto in relazione alla progressiva scomparsa dei conversi. giugno

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Nella pagina accanto monastero di Zwettl (Austria). Un gruppo di monaci cistercensi impegnati nella mietitura, particolare della pala dipinta da Jörg Breu il Vecchio per l’altare di san Bernardo di Chiaravalle. 1500 circa.

na di S. Maria di Follina. Entrambe sono filiazioni di Chiaravalle Milanese, la casa-madre che, attraverso le visite di ispezione dei suoi abati, avrebbe dovuto garantire la conformità alla Regola, la salute morale delle comunità e l’adeguamento alle direttive impartite dal Capitolo Generale.

Una piaga ricorrente

Le coordinate cronologiche sono tali per cui atti di violenza, risse e omicidi non rappresentano episodi cosí singolari, nemmeno in seno alle comunità monastiche, e sono almeno una sessantina i casi di omicidio documentati in un periodo di sette secoli di storia dell’Ordine cistercense. Il fenomeno è cosí ben manifesto che, alla fine del XII secolo, il Capitolo Generale stabilisce pene molto severe per gli appartenenti all’Ordine che si rendono colpevoli di omicidio, arrivando, nel 1206, a concedere agli abati il permesso di allestire prigioni all’interno delle loro abbazie, destinate ad accogliere falsari, ladri, piromani e assassini; un permesso convertito in obbligo nel 1230. Sorprendentemente, l’archivio dell’abbazia di Follina non reca traccia dell’omicidio di un abate, ma l’attività amministrativa, che fino al novembre del 1288 procede in modo sostenuto sotto l’abate Tuttobene – tra compravendite di beni, permute, donazioni e riscossioni di affitti – si arresta bruscamente a partire dai primi mesi dell’anno successivo e scarsissimi sono i documenti anche nel biennio seguente. Il 1289 sembra comunque essere solo il punto di arrivo di un malessere che ha radici ben piú profonde, a cominciare dalla deposizione dell’abate Uberto di Vercelli (il quale andò poi a vivere a Ceneda dove ebbe anche una donna e una figlia che divenne badessa), avvenuta nel 1182 per gravi misfatti. Sempre attraverso il Capitolo Generale, veniamo a conoscenza della prova di forza del monaco Davide, deposto dall’abate per gravi e molteplici colpe e che, nel 1249, mette insieme un exercitus copiosus di gen-

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In alto particolare della decorazione di uno dei capitelli del chiostro di S. Maria di Follina. A sinistra lo stemma dei da Camino, la potente famiglia della Marca Trevigiana che diede un contributo decisivo allo sviluppo dell’abbazia follinate.

taglia che invade il monastero e ne distrugge le fabbriche. Nel 1266 a essere deposto è invece l’abate Galvanio, il quale si sarebbe rifugiato presso l’abbazia piacentina di Chiaravalle della Colomba, dopo aver sottratto a Follina libri e vesti sacre del valore di 400 libbre. Appena dieci anni piú tardi, è la volta di un converso di nome Isachino, che trova rifugio a Valdobbiadene, allora sotto la giurisdizione diocesana di Padova, di cui il monastero trevigiano reclama la restituzione pena la scomunica. Un documento, questa volta proveniente dall’archivio dell’abbazia e datato all’anno 1287, testimonia invece del processo a una tal Sofia, imputata di essere femina dei monaci del monastero e che viene invitata dal vescovo di Ceneda a comparire davanti ai giudici insieme al marito.

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medioevo nascosto veneto L’età moderna

La nuova vita del monastero Il 3 febbraio del 1573 una nuova comunità monastica, appartenente questa volta alla congregazione camaldolese, si insedia nel monastero follinate, rimasto ormai pressoché spopolato. Inizia cosí la sua seconda vita, ben documentata dai libri di conto che, con dovizia di particolari, registrano spese ed entrate di una piccola comunità monastica del SeiSettecento, restituendoci un curioso spaccato di vita quotidiana. Il restauro di edifici e di impianti idraulici rappresenta ogni anno una delle spese piú consistenti e si deve ai Camaldolesi la

ricostruzione dell’antico dormitorio dei monaci (tra il 1610 e il 1655) e di tutta l’ala ovest, destinata ai conversi (tra il 1729 e il 1731). Il 20 settembre del 1767 il monastero venne soppresso dal Maggior Consiglio della Serenissima, mettendo cosí fine anche all’esperienza camaldolese a Follina.

Tuttavia, solo l’eco degli episodi piú clamorosi giunge fino a Cîteaux, mentre dal Capitolo Generale non piovono ammonimenti per l’inaudita quantità di infrazioni alla Regola, tra cui il possesso di decime, chiese, castelli e mulini, la stipulazione di soccide (contratti per la creazione di imprese agricole di natura associativa, nelle quali collaborano economicamente chi dispone del bestiame e chi deve allevarlo, n.d.r.) e di contratti di affitto, fino alla cessione dei beni dell’abbazia in feudo (vedi box a p. 98). Non è chiaro se il Capitolo e la casa-madre fossero semplicemente disinformati su quanto si stava consumando nel chiostro follinate, oppure se la pratica Sulle due pagine vedute dell’interno e la facciata della chiesa abbaziale. L’aspetto odierno del complesso è l’esito di vari interventi succedutisi nel corso dei secoli, gli ultimi dei quali, per la fase medievale, furono promossi al tempo dell’abate Nordio, nella prima metà del XIV sec.

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di trasgredire le norme, vuoi per il degrado morale delle comunità, vuoi per l’inevitabile convergere di troppi interessi del mondo laico, fosse tanto diffusa da costringere il Capitolo a chiudere un occhio nei riguardi di questa abbazia come anche di molte altre. È comunque un dato di fatto che l’Ordine cistercense non riuscí mai a radicarsi in Veneto e che l’abbazia di Follina, prima fondazione in questa regione, manifestò sin da subito una tale divergenza rispetto ai pilastri del nuovo Ordine riformato da aprire seri dubbi circa le sue stesse origini.

Un «deserto» solo ideale

Situata nell’arco prealpino, in una valle ricca d’acque e di boschi, la fondazione dell’abbazia di Follina risale al 30 maggio del 1146 e si lega alla volontà della contessa Sofia di Colfosco, piú tardi moglie di Guecellone II da Camino. E proprio l’appoggio della potente famiglia dei da Camino – la cui forza consisteva nel possesso di una fitta rete di castelli distribuiti dalla fascia prealpina fino alla bassa pianura e nell’avere legami con il patriarca di Aquileia e con i vescovi di Feltre e di Belluno – determinò l’ascesa dell’abbazia. Le ingenti donazioni dei da Camino, in grado di assicurare delle rendite continuative, la rete di relazioni con personaggi di spicco della società trevigiana che ogni abate portava con sé e un’accorta politica di nuove acquisizioni fecero sí che, in pochi anni, le proprietà dell’abbazia arrivassero a inglobare territori vastissimi, estesi dalla pedemontana al Cadore e comprendenti selve, boschi e paludi, ma anche pascoli e terreni arativi. Mentre nelle aree di montagna l’interesse era rivolto soprattutto all’acquisizione di boschi e di impianti di segagione per il legname, nella pianura adiacente alle Prealpi i monaci seppero farsi largo in un territorio fittamente popolato, prendendo possesso di impianti idraulici, edifici e terreni vitigati e arborati, fino a dare vita alle due grange di Sottoselva e di Stabiuzzo. Va da sé che la pianura costellata di mercati e di fiere stagionali (documentati a Vidor, Montebelluna, Castelfranco, Vazzola, Ronchi di Ponte di Piave, Chiarano, San Filiade, Stabiuzzo, Santa Lucia e Oderzo), nonché la città di Treviso – dove l’abbazia dal 1280 possiede una «casa dell’abate» nei pressi del Palazzo Comunale – rappresentarono sicuramente la naturale destinazione del surplus della comunità, la cui vocazione al commercio sembra dunque ovvia. Ben lontani dall’essere alla costante ricerca del

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«deserto», inteso come distanza dai peccati del mondo e dalle lotte di potere, i primi monaci cistercensi in Veneto sono strumenti in mano alle logiche del potere temporale o ne sono essi stessi i promotori. Non è un paradosso, quindi, che l’apice dei malesseri della comunità follinate, coinciso con l’assassinio dell’abate Tuttobene, si tocchi proprio nel momento di massima ascesa politica dei da Camino, signori incontrastati di Treviso dal 1283 al 1312. A dispetto delle prime fondazioni cistercensi, che attraverso i loro fondatori conobbero gli ideali delle origini ancora molto convinti e permeati di forte spiritualità, e che davvero nacquero da qualcosa di nuovo, l’abbazia di Follina fu pioniera tardiva in una regione poco incline ai cambiamenti. Da Cîteaux a

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medioevo nascosto veneto Hovedøya Falkenau

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L’ORDINE CISTERCENSE

L’ORDINE PPrincipali i i liCISTERCENSE monasterii di dipendenti d da: PPrincipali i i Clairvaux li monasteri di d da: (80i dipendenti femminili) Cîteaux (28femminili) femminili) Clairvaux (80 Morimond (28 femminili) Cîteaux (28 femminili) Pontigny (16femminili) femminili) Morimond (28 La Ferté (5 femminili) Pontigny (16 femminili) Zona(5difemminili) grande densità monastica La Ferté cluniacense e cistercense Zona di grande densità monastica L’Ordine ecistercense comprende cluniacense cistercense 525 abbazie alla fine del XII sec. L’Ordine e 694cistercense abbazie allacomprende fine del XIII sec.

525 abbazie alla fine del XII sec. e 694 abbazie alla fine del XIII sec.

Zwettl Zwettl

Heiligenkreuz Heiligenkreuz

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Belapatfalva Belapatfalva

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S.S.Maria di di Follina Maria Follina Chiaravalle ChiaravalleMilanese Milanese DanDuabnioubio Morimondo Morimondo

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S. Spirito

In alto la diffusione in Europa dell’Ordine cistercense, che conobbe un notevole sviluppo sotto la guida di san Bernardo di Chiaravalle (1090-1153). Nella pagina accanto un altro scorcio del chiostro dell’abbazia follinate.

Follina, passando per Clairvaux e Chiaravalle Milanese, vi sono infatti circa mezzo secolo e 800 km di distanza a dissipare la spinta propulsiva dell’Ordine. Il risultato fu che la prima fondazione cistercense in Veneto sembrò nascere da qualcosa di molto vecchio, le cui consuetudini erano ormai cosí radicate che di tutto quel fermento intellettuale che voleva la separazione del potere della Chiesa da quello temporale, e

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Pforta

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Aiguebelle Aiguebelle Valsainte Valsainte Sénanque Sénanque Castagnola Monte Acuto Castagnola Monte Acuto Silvacane S. Galgano Silvacane La Oliva Fontfroide S. Galgano S. Martino Le Thoronet La Oliva Fontfroide Valbuena Le Thoronet Roma S. Martino Casamari Valbonne Valbuena Roma Casamari Valbonne Fossanova Fossanova Santes Creus Monsalud Santes Creus S. Maria Monsalud delle S. Paludi Maria S. Stefano delle Paludi S. Stefano

Sobrado Sobrado

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Les LesVaux Vaux Carnoët Carnoët Trappe Trappe Melleray Melleray LaLa

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di quella critica spietata mossa all’«impero» di Cluny, a Follina giunse solo un’eco indecifrabile.

Un grande cantiere

L’abbazia di Follina oggi costituisce un complesso architettonico molto suggestivo, esito di piú cantieri costruttivi, che sorge nel cuore della Valsana in provincia di Treviso. L’impianto generale, e gli interventi maggiori, si giugno

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devono agli abati che ressero il complesso nel corso del Duecento fino almeno al 1268, quando un’iscrizione ricorda il completamento dello splendido chiostro a opera di due fratelli conversi e dei magistri Zardino e Armano, ai tempi dell’abate Tarino. Abside e transetto della chiesa, parte del campanile, refettorio, calefettorio, sala dei monaci e chiostro sono quanto sopravvive di quest’epoca di favorevoli congiunzioni economiche, che permisero di mettere in piedi uno dei maggiori cantieri di tutta la Valsana, ovvero una catena produttiva che comportò la messa a regime delle cave locali di calcarenite e il coinvolgimento di maestranze con specializzazioni diverse, dal semplice muratore allo scultore. Nel 1290, quando il Capitolo Generale ordinò l’arresto e l’incarcerazione dei monaci implicati nella cospirazione e nell’omicidio, il complesso doveva essere in parte concluso, eccetto il campanile e la chiesa. Nel 1291 venne concesso di accogliere novizi per reintegrare la comunità, ridotta ormai a pochi elementi, e il nuovo abate fu richiamato per l’eccessiva leggerezza e autonomia con cui delegava gli affari e amministrava l’abbazia. Seguirono anni in cui la carica abbaziale sembrò quanto mai instabile e garantita da incarichi provvisori, mentre si accesero una serie di rivendicazioni da parte di comunità confinanti a proposito della proprietà di pascoli e di decime.

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Il Duecento si chiuse con la salita in carica di un abate proveniente dalla regione lombarda, Gualtiero da Lodi (1294-1308), promotore degli ultimi grandi cantieri dell’abbazia insieme al suo successore, l’abate Nordio da Treviso (1319-1359). Gualtiero portò con sé, insieme forse ad alcuni novizi, anche maestri muratori provenienti da Como, presenti come testimoni in una donazione avvenuta nel maggio del 1308 in abbazia, proprio quando riprendeva il cantiere della chiesa. L’arrivo di un abate da Lodi, che suggerisce finalmente un maggiore controllo da parte della casa-madre di Chiaravalle Milanese, rappresentò uno spartiacque nella storia dell’abbazia, con ricadute importanti anche nella sua architettura, che nei decenni successivi si caratterizzerà per l’accostamento del laterizio, una materia prima pressoché sconosciuta nella Valsana, e del biancone.

Nuovi scenari

Cessò inoltre l’epoca dei grandi acquisti e degli investimenti, a favore di una politica di assestamento e di gestione delle proprietà; gestione che consisterà nell’incrementare le cessioni in affitto e nel definitivo abbandono di un progetto di conduzione diretta che forse a Follina non ebbe mai inizio. D’altronde anche i Capitoli Generali furono costretti, molto precocemen-

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medioevo nascosto veneto Uno scorcio del cosiddetto Chiostrino dell’Abate, un’elegante ala porticata lungo la quale corre una loggia, realizzata nel XVI sec., quando S. Maria di Follina tornò a essere abitata da una comunità di religiosi, questa volta camaldolesi, che promossero interventi di ampliamento e di restauro del complesso. Questa seconda vita dell’abbazia terminò nel 1767, quando il monastero venne soppresso dal Maggior Consiglio della Serenissima.

Da leggere Pier Angelo Passolunghi, S. Maria di Follina, monastero cistercense, Treviso 1984 Anna Rapetti, I cistercensi a Follina tra conservazione e innovazione, in Luciano Bertazzo - Donato Gallo, Raimondo Michetti, Andrea Tilatti (a cura di), Arbor ramosa. Studi per Antonio Rigon da allievi amici colleghi, CSA, Padova 2011; pp. 405-414

Kaspar Elm, Questioni e risultati della recente ricerca sui cistercensi, in Hubert Houben e Benedetto Vetere (a cura di), I Cistercensi nel Mezzogiorno medievale, Congedo, Galatina 1994; pp. 7-32. Louis J. Lekai, I cistercensi. Ideali e realtà, Certosa di Pavia 1989. Anna Rapetti, Storia del monachesimo medievale,il Mulino, Bologna 2013

te, a prendere atto dell’anacronismo di alcuni dei pilastri cistercensi di fronte a un’economia sempre piú monetizzata, alla crisi vocazionale di conversi e all’entrata in scena dei nuovi Ordini mendicanti che su di loro convogliarono risorse e attenzioni. La grande spinta al rinnovamento monastico portata avanti dall’Ordine di Cîteaux, di cui Bernardo di Chiaravalle fu il vero promotore, finiva cosí per adattarsi inesorabilmente alle condizioni sociali ed economiche del tempo, e per sottomettersi a logiche politiche di una storia sempre in divenire. Scriveva lo

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Serena Zanetto, I cantieri edilizi dell’Abbazia di S. Maria di Follina (TV) nel Medioevo e Post Medioevo: dalla pietra agli artefici, in Archeologia dell’Architettura, XV, 2009, pp. 23-37 Serena Zanetto, Il monastero cistercense di Follina tra Due e Trecento: due secoli a confronto, in Rivista Cistercense, XXVI, gennaio-aprile 2009, pp. 55-85

storico Kaspar Elm nel 1994: «Ogni giorno sperimentiamo la difficoltà di rimanere fedeli a certi principi e norme ritenuti eterni. E ripetutamente si afferma con chiarezza, oggi, ancora piú che in epoche passate, il divario fra parole ed azioni, fra desiderio e realtà». Cosí, di pari passo con il declino dei da Camino, indeboliti da crisi dinastiche e dal logoramento delle risorse familiari, anche l’abbazia di Follina iniziava la sua parabola discendente, culminata con la sua cessione in commenda ai primi del Quattrocento e con la fine del sodalizio con la potente famiglia trevigiana. giugno

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Storie, uomini e sapori

L’ineguagliabile leggerezza del wafer di Sergio G. Grasso

Le Dessert de gaufrettes, olio su tavola di Lubin Buagin. 1631 circa. Parigi, Museo del Louvre. Nella pagina accanto, in basso un waffle, biscotto importato in Nordamerica dagli Olandesi nel XVII sec. e che può essere considerato un’evoluzione del wafer.

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C

ome tutti gli alimenti «semplici», anche i wafer hanno un’origine remota. Se ne trovano tracce già nel mondo dei faraoni egizi, al quale sono sopravvissuti per arrivare piú o meno intatti, fino all’attuale Chiesa copto-ortodossa d’Egitto. Al pari degli odierni cracker, delle piadine, del pane carasatu, del chapati indiano, della matzah ebraica, del lavas turco o del copto duhn, appartengono alla grande famiglia dei pani azzimi a sfoglia sottile, confezionati con acqua e farina e cotti fino a croccantezza. Ateneo di Naucrati (II-III secolo a.C.) chiama i piú piccoli di questi pani obolias artòs, in ragione del fatto che venivano venduti al porto di Alessandria per un sesto di dramma (obolòs). In latino il pane azzimo era oblatum (offerto, destinato al sacrificio), parola entrata nella terminologia cattolica come «oblata hosta» (vittima sacrificale) per l’ostia eucaristica non ancora consacrata. Il tedesco die Oblate indica sia la glassa zuccherina utilizzata come velo di copertura dei biscotti, sia la cialda usata, per esempio, nella cottura delle meringhe per non farle attaccare alla placca del forno.

Genesi ed evoluzione di un vocabolo Il moderno vocabolo wafer deriva dall’anglosassone waba, weben (favo d’api) riferito al disegno impresso a rilievo sulla superficie. In ambito carolingio si incontra il termine wafel, che all’epoca dei trovatori muta in waufre, per arrivare all’odierno francese gaufre e all’italiano goffrato, per indicare un disegno a rilievo impresso su stoffa, carta o altro materiale cedevole. Come ha fatto osservare Otto Meinardus (1925-2005), uno dei massimi studiosi del cristianesimo copto in Egitto (Chiesa fondata nel I secolo da san Marco), l’azzima eucaristica è per i copti «prosphora» o «qrban», termine mutuato dall’arabo qarab, nel significato di «stare vicino». Si tratta di un wafer bianchissimo e rotondo, piuttosto spesso, fatto di acqua e farina stampato con croci intrecciate a nido d’ape.

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In alto un banchetto nuziale, stampa facsimile di un particolare del quarto pannello della trasposizione pittorica della novella del Decameron che ha per protagonista Nastagio degli Onesti realizzata da Sandro Botticelli nel 1483.

In basso i moderni wafer conservano il caratteristico disegno della superficie, simile a un favo d’api.

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Per Meinardus se ne ritrova la radice nei pani distribuiti a manovali e braccianti nell’Egitto precristiano, ma anche nelle azzime offerte ai sacerdoti di Osiride da quei fedeli e poi consumate nel tempio. Nulla vieta di pensare al qrban copto come all’ispiratore dell’ostia eucaristica (anch’essa un wafer e cosí chiamata in inglese) comunemente adottata dal rito cristianocattolico solo nel X secolo in sostituzione del pane lievitato e spezzato. Nel XII secolo i monasteri producevano due varietà di ostie, una consacrabile, con su impressa l’incisione della croce o il cristogramma IHS, e una commerciale, da vendere ai fedeli come «alimento di astinenza», in quanto esente da uova, grassi e latte. I monaci elaboravano su giugno

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A sinistra xilografia raffigurante la manna che cade dal cielo, dalla Bibbia di Norimberga. XV sec. Cleveland, The Cleveland Museum of Art. In basso tavola raffigurante un ferro da wafer e il suo stampo. 1937 circa. Washington, National Gallery of Art.

tal guisa ne veniva suggerita la preparazione da alcuni ricettari medievali. Tra il Medioevo e il Rinascimento i wafer – oltre beninteso alle ostie eucaristiche – hanno rivestito ruoli insigni in molte osservanze religiose europee. In Franconia, per la festa dell’Ascensione, si celebrava una Auswerfung des Himmelbrots (letteralmente, «Pioggia di cibo celeste»), durante la quale il celebrante faceva cadere sfoglie di wafer spezzettato sui fedeli a imitazione della manna inviata da Dio come cibo agli Israeliti nel deserto. Nell’Alsazia del XV secolo, ostie non consacrate, dipinte con croci e altri simboli religiosi, venivano appese a ornamento dei primi alberi di Natale. Queste usanze, unite al ruolo di cibo di astinenza delle ostie, portarono alla nascita di produttori «laici» di wafer e cialde in concorrenza coi monasteri: i cialdonai. Il primato spetterebbe ai panettieri inglesi e olandesi del Trecento, che fecero conoscere in tutta Europa il wafer moderno, dolce, leggero e friabile, cotto imprimendovi

richiesta anche ostie speciali, arricchite con ingredienti costosi, come zafferano, zucchero o rare spezie, destinate a principi e nobili disposti a pagare lautamente un’astinenza degna del loro status.

sopra un reticolo inciso su speciali ferri a tenaglia scaldati al calore diretto della fiamma, di cui già si parla nel 1433 nel Compte de la bonne maison des Ladres. Questo attrezzo permetteva di stampare a ripetizione motivi o disegni sugli impasti – soprattutto dolci rituali o celebrativi – e fu presto adottato dai panettieri di Zurigo per produrre i tirggel, piccoli (e costosi) biscotti al miele «figurati», tipici del Natale e impiegati come talismani capaci di prevenire disgrazie e di guarire malattie. Come in molte altre città, anche a Firenze si organizzò una corporazione di cialdonai, dalle cui botteghe uscivano ostie, biscotti, ferratelle, brigidini e cialde-wafer. Nel XVI secolo, il wafer inteso in senso moderno si era pienamente affrancato dal contesto religioso ed eucaristico, evolvendo in un dolce popolare, simbolo di festa, dal

Cialde a volontà Nel 1200 il wafer dolce era già integrato nelle cucine di corte come testimoniato dal Tretiz (Trattato) di Walter di Bibbesworth, scritto in versi nel 1285 per insegnare ai figli della cognata di Enrico III il linguaggio dell’aristocrazia anglo-normanna. Nella parte dedicata ai banchetti e ai menu, si cita un dessert con oubleie a fuissun, traducibile come «profusione di wafer». Si può anche ipotizzare che questi fossero addolciti con zucchero di Cipro e aromatizzati da zafferano, poiché in

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In alto Natura morta con waffeln, olio su tavola di Jan Willemszoon van der Wilde. 1623. A sinistra Natura morta con brocca, piatti in peltro e waffeln, olio su tavola attribuito alla cerchia di Georg Flegel. XVII sec.

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la cialda appena cotta attorno a un tronchetto di canna – sia stata ispirata da una specialità dei cristiani di Siria, celebri tra i Bizantini per i loro dolcetti ripieni e molto alla moda nella Cipro dei Lusignani. Altri wafer, in tutto identici agli odierni waffels, spiccano, per esempio, in un dipinto di Jan van der Wilde (vedi alla pagina precedente, in alto) e nella coeva Natura morta con brocca, piatti in peltro e waffeln, assegnata alla cerchia di Georg Flegel (vedi alla pagina precedente, in basso).

Le varianti regionali

In alto e in basso i tirggel, tipici biscotti «figurati» a base di miele e spezie, realizzati per la prima volta dai panettieri della città di Zurigo.

costo ragionevole, facile da produrre anche a casa, grazie agli appositi «ferri» a tenaglia venduti nei mercati. Nel Seicento i wafer divengono soggetto o complemento di molte opere pittoriche, a cominciare dal notevole Boerengezelschap met pannenkoekenbakster di Pieter Aertsen del 1560. Soggetto preferito di molte nature morte, i friabili dolcetti appaiono arrotolati a tubo in Le dessert de gaufrettes di Lubin Baugin (vedi foto alle pp. 106/107). Si ritiene che questa forma a sigaro – ottenuta arrotolando

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I wafer della festa sono rimasti sostanzialmente identici nella forma e negli ingredienti per secoli, pur assumendo denominazioni regionali: pizzelle o ferratelle in Italia, eiserkuchen (biscotti del ferro) in Germania, nijarskouk (dolci dell’Anno Nuovo) in Olanda. Nel Settecento divennero popolari in Inghilterra i Twelfth Night cakes, dolci celebrativi del Capodanno – dodicesimo giorno dopo il Natale – guarniti con profusione di wafer in forma di figure umane, maschere o carte da gioco. Non si deve infine dimenticare che anche il cono gelato appartiene alla grande famiglia dei wafer. Fu brevettato a New York nel 1903 dall’immigrato bellunese Italo Marchionni e ottenuto arrotolando una sottile cialda di wafer caldo, lasciandone chiusa un’estremità. I detrattori del primato di Marchionni sostengono che l’idea partí da un pasticciere siriano, che a Saint Louis vendeva ai passanti sorbetti appoggiati sulla zalabya, un antico dolce arabo, consistente in una larga frittella di acqua e farina che, arrotolata a cono, poteva fungere da comodo contenitore per il gelato. Di certo quell’impasto, fritto nell’olio, era ben lontano dalla leggerezza e croccantezza del cono di wafer. Il moderno waffle, portato in Nordamerica dagli Olandesi alla fine del XVII secolo, rappresentò (forse) l’ultima mutazione del wafer originario e lo colloca su un diverso piano metaforico: da cibo di astinenza a metafora protestante delle tavole borghesi in cui l’essenzialità dell’acqua-e-farina si arrese alla presenza dell’uovo, del burro, della panna. All’epoca della Guerra Civile americana i grandi ferri da wafer in ghisa comparivano tra i benauguranti regali di matrimonio e facevano bella mostra di sé in molte cucine del ceto medio. Alla metà dell’Ottocento gli hotel di New York, Chicago, Boston, Los Angeles e New Orleans includevano i waffels nei breakfast e, in versioni non dolci e confezionate anche con patate o formaggi, come supporto per uova strapazzate, fricassee di selvaggina o nelle zuppe di verdura, carne o pesce. Tra il 1920 e il 1930 i waffel-dinners divennero perfino occasioni pubbliche di raccolta fondi per chiese e stazioni di pompieri.

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CALEIDO SCOPIO

Lo scaffale Riccardo Martin La Torre degli Anziani a Padova Vicende di carta, pietra e bronzo CLEUP, Padova, 164 pp., ill. col. e b/n

19,00 euro ISBN 978-88-5495-369-7 www.cleup.it

Innalzata con ogni probabilità nel corso del XII secolo, la Torre degli Anziani è uno degli edifici simbolo di

Padova e la sua lunga storia viene ripercorsa in maniera esemplare da Riccardo Martin in questo volume. Merita d’essere spiegato, innanzitutto, il sottotitolo, perché racchiude, come scrive l’autore stesso, le tre direttrici lungo le quali ha sviluppato la sua ricerca: con la pietra, s’intende evocare la vicenda costruttiva, il bronzo allude alle campane che a lungo hanno suonato al culmine della struttura e la carta è infine quella dei numerosi documenti d’archivio esaminati. Prima

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dell’analisi della Torre degli Anziani – che, nel tempo, è stata variamente denominata e indicata, per esempio, come «del Comune» o «Bianca» – Martin propone un inquadramento di carattere storico piú ampio, delineando il contesto nel quale il monumento patavino prese forma e il fenomeno della costruzione delle torri civiche, che fu elemento caratterizzante dell’età medievale. Si passa quindi alla ricostruzione sistematica della storia della protagonista del libro e, fin dall’inizio, ne appaiono evidenti la complessità e le non poche traversie, come nel caso dei danni causati da terremoti e improvvide realizzazioni di condotti fognari o come in occasione dei ripetuti interventi di restauro e parziale ristrutturazione, ai quali la struttura deve un aspetto oggi ben diverso dall’originale. Si può quindi affermare che la Torre degli Anziani non è stata solo testimone inanimato di tutte le piú importanti tappe della storia di Padova, ma anche riflesso, o forse vittima, del succedersi di gusti

e canoni estetici diversi: un destino che nel libro viene sapientemente raccontato, con un ricco corredo di immagini d’archivio davvero preziose. Il Calendario dei Mesi e le miniature delle «Très Riches Heures» del duca di Berry

con uno scritto di Luciano Bellosi, Abscondita, Milano, 164 pp., ill. col. e b/n

22,00 euro ISBN 978-88-8416-882-5 www.electa.it

Il Libro d’Ore del duca di Berry, oggi custodito dal Musée Condé, a Chantilly, è unanimemente ritenuto uno dei capolavori della miniatura e qui l’attenzione si concentra sulla sua prima sezione, il Calendario dei Mesi, alla quale lavorarono i fratelli Limbourg, che, tra la fine del Trecento e l’inizio del Quattrocento furono maestri indiscussi

di quell’arte. Nel volume, dopo le riproduzioni dei fogli originali dell’opera, sono infatti riportate considerazioni dello storico dell’arte Luciano Bellosi (1936-2011) in merito alle immagini che accompagnano i vari periodi dell’anno, offrendo al lettore un’analisi di grande interesse. Bellosi si concentra in particolare sul valore documentario delle composizioni, attraverso le quali è possibile ricavare una «fotografia» della moda e del costume dell’epoca in cui esse presero forma. Una disamina originale, alla quale fa da corollario la storia dell’intero Libro d’Ore, che, a causa della morte dei Limbourg nel 1416, fu poi completato da Jean Colombe di Bruges, fra il 1485 e il 1489, sebbene Bellosi non escluda l’intervento anche di un altro artista. Aristide Bresciani Spinello di Luca detto Aretino

Edizioni Polistampa, Firenze, 311 pp., ill. b/n

25,00 euro ISBN 978-88-596-2151-5 www.polistampa.it

Scrive Angelo Tartuferi nella Prefazione

che questo lavoro di Aristide Bresciani è «denso, impegnato», ma, al contempo, ne sottolinea l’accessibilità anche al pubblico dei non addetti ai lavori. Parallelamente, evidenzia il carattere piú significativo della trattazione, che consiste nel presentare l’opera di Spinello Aretino (al secolo, Spinello di Luca) seguendo la biografia dell’artista, che, nato con ogni probabilità fra il 1346 e il 1347,

fu uno dei grandi maestri della pittura trecentesca. Partendo dall’apprendistato alla bottega di Andrea di Nerio, viene quindi ripercorso un lungo e lusinghiero cammino, che fra le sue ultime tappe ebbe le Storie di papa Alessandro III, realizzate nel Palazzo Pubblico di Siena. (a cura di Stefano Mammini) giugno

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CALEIDO SCOPIO

Alfonso, re compositore MUSICA • Egregiamente diretta da Carles

Magraner, la Capella de Ministrers si cimenta con successo con le Cantigas de Santa María, offrendo un’interpretazione capace di rendere le sonorità e le atmosfere originali

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e Cantigas de Santa María costituiscono, nel panorama del secondo Trecento, un repertorio di grande interesse, dal punto di vista del contenuto lirico e dello stile musicale. Si tratta di un vasto corpus di oltre 400 brani su testi in galiziano e portoghese, accompagnati dalla notazione musicale, che ci riporta alla figura di re Alfonso X el Sabio, re di Castiglia e Léon (1221-1284), nonché grande protagonista della scena culturale castigliana. Se, in realtà, è difficile ascrivere con certezza al sovrano la paternità di questo immenso repertorio, a lui si deve comunque il fatto d’essere stato il promotore assoluto di questo vasto progetto poetico-musicale, che si incentra sulla figura della Vergine Maria, dispensatrice di miracoli, e alla cui figura è dedicata tanta letteratura del periodo. A dominare è la vena popolare di queste composizioni, basate sulla narrazione di episodi che rivelano un variegato tessuto sociale. Lo stile musicale è lontano dalle ricercatezze che i teorici dell’ars antica andavano infondendo nella musica del tempo attraverso la sperimentazione delle prime forme di polifonia. Qui è l’immediatezza melodica che colpisce – influenzata dalla tradizione trobadorica provenzale – sostenuta da una semplice struttura metrico-musicale basata sul modello del virelai – vicino,

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stilisticamente parlando, al genere dello zajal tipico della lirica andalusa – con ritornello che alterna le varie strofe nelle quali si raccontano gli interventi prodigiosi della Madonna in soccorso del popolo. La presenza della cultura araba in suolo ispanico costituisce, del resto, un altro degli elementi che contraddistinguono questo repertorio.

Come antichi menestrelli Altro elemento determinante che caratterizza il corpus delle Cantigas de Santa María è la presenza, in uno dei due codici della biblioteca dell’Escorial in cui esso ci è stato tramandato, di numerosissime miniature che mostrano menestrelli con strumenti musicali: una fonte iconografica di grande interesse musicologico e che fornisce informazioni dirette sulle pratiche musicali nell’ambiente di corte del tempo. Grazie anche a queste informazioni di tipo iconografico, la Capella de Ministrers, diretta da Carles Magraner, affronta il repertorio delle Cantigas mettendo in mostra un incredibile paesaggio sonoro, che sintetizza la pratica strumentale del periodo: a fare da protagonista sono la viella, il flauto, la citara, l’arpa, il salterio, l’organetto, la ghironda, l’oud, il

Cantigas de Santa María La Capella de Ministrers direttore Carles Magraner CDM 2150, 1 CD https://capelladeministrers.com chirimias, solo per citarne alcuni, accompagnati dalle percussioni. Strumenti della tradizione occidentale che si uniscono ad altri della tradizione arabo-andalusa, in un affascinante scambio multietnico, tipico della cultura ispanica del periodo. Agli strumenti si accompagnano sette interpreti vocali che danno prova di grande maestria e versatilità nell’alternanza degli assolo e del coro. Passando da esecuzioni affidate ai soli strumenti ad altre vocalistrumentali, l’interpretazione della Capella de Ministrers si rivela pienamente convincente, ricca, capace, a 800 anni di distanza, di comunicare in maniera egregia lo spirito piú autentico di questo interessante repertorio. Franco Bruni giugno

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