Medioevo n. 307, Agosto 2022

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MEDIOEVO n. 307 AGOSTO 2022

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Mens. Anno 26 numero 307 Agosto 2022 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

LE SPADE DELLA LEGGENDA

ORDINI RELIGIOSI IL SEGRETO DEI FRATI GAUDENTI DECAMERON I CONTADINI CREDULONI DI CERTALDO

GUBBIO E URBINO FEDERICO DA MONTEFELTRO NAPOLI UNA FORTEZZA NEL GOLFO 20307 9

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SOMMARIO

Agosto 2022 ANTEPRIMA AMORI MEDIEVALI L’ultimo bacio

di Domenico Camardo

ARCHEOLOGIA Ululati sul fiume

QUANDO I SANTI PRENDEVANO LE ARMI Il Messia trafitto da uno «spiedo» di Paolo Pinti 106

STORIE

COSTUME E SOCIETÀ GUITTONE D’AREZZO Gaudenti in nome di Maria

di Giulia Maria Gliozzi Wilkins 28

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FEDERICO DA MONTEFELTRO Attenti a quei due di Furio Cappelli

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LIBRI Lo Scaffale

Dossier

EXCALIBUR

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Una spada tra storia e leggenda 67

VIVERE AL TEMPO DEL DECAMERON/8 Con la penna e il carbone di Corrado Occhipinti Confalonieri

STORIE, UOMINI E SAPORI Carne e kumys per il Gran Khan di Sergio G. Grasso 100

8 20

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CALEIDOSCOPIO

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ITINERARI Nel paradiso dei maccheroni di Domenico Camardo e Mario Notomista

MEDIOEVO NASCOSTO Campania Sulla pietra di Ercole

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di Federico Canaccini

APPUNTAMENTI Medioevo Oggi L’Agenda del Mese

LUOGHI

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di Domenico Sebastiani 56


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Mens. Anno 26 numero 307 Agosto 2022 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

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Hanno collaborato a questo numero: Domenico Camardo è archeologo dell’Herculaneum Conservation Project. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Furio Cappelli è storico dell’arte. Francesco Colotta è giornalista. Emidio Fantuzzi è presidente dell’Associazione Comitato Matildico di Quattro Castella. Giulia Maria Gliozzi Wilkins è dottoranda in italianistica alla University of Notre Dame (USA). Paolo Golinelli è presidente dell’Associazione Matildica Internazionale. Sergio G. Grasso è giornalista specializzato in tradizioni enogastronomiche. Mario Notomista è archeologo dell’Herculaneum Conservation Project. Corrado Occhipinti Confalonieri è storico e scrittore. Paolo Pinti è studioso di oplologia. Domenico Sebastiani è cultore di tradizioni e leggende medievali.

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MEDIOEVO Anno XXVI, n. 307 - agosto 2022 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Alessandria, 130 - 00198 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Alessia Pozzato Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Illustrazioni e immagini: Bridgeman Images: copertina (e pp. 84/85) e pp. 86/87 – Ufficio Stampa e comunicazione «Sapienza» Università di Roma: Davide Persico: p. 6 (alto); Dawid A. Iurino: p. 6 (basso); Alessandro Barbieri: p. 7 – Cortesia Associazione Matildica Internazionale: pp. 8-9 – Cortesia degli autori: pp. 12-18, 30, 35, 37, 90, 91 (basso, a sinistra), 94/95, 95 (alto), 98, 107, 108 (basso), 110 – Mondadori Portfolio: Marta Carenzi: pp. 28/29; Electa/Sergio Anelli: pp. 46, 109; Album/Fine Art Images: p. 67; Erich Lessing/K&K Archive: p. 70; AKG Images: pp. 72, 74/75, 76-77, 102-105, 106; Orion/Warner Brothers/Album: pp. 80/81; Everett Collection: p. 81; Fine Art Images/Heritage Images: p. 82; Picturehouse/ Cortesia Everett Collection: p. 101; Electa: p. 108 (alto) – Doc. red.: pp. 31, 34, 36/37, 40-41, 56-65, 69, 71, 73, 78-79, 82/83, 84 – Shutterstock: pp. 32/33, 48/49 – Cortesia Ufficio Stampa mostra «Federico da Montefeltro e Gubbio» (Gubbio): pp. 38-39, 44-45, 48, 51 – Alamy Stock Photo: pp. 42/43 – Cortesia Ufficio stampa mostra «Federico da Montefeltro e Francesco di Giorgio» (Urbino): pp. 43, 47, 52 – Nino Longobardi: pp. 88/89, 90/91, 92/93, 96/97 – Flavio Russo: p. 95 (basso) – Biblioteca Nazionale di Napoli, Sezione Manoscritti: p. 99 – Patrizia Ferrandes: cartina a p. 91. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 49572016 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 - Via Dalmazia, 13 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Servizio Arretrati a cura di Press-Di Distribuzione Stampa e Multimedia Srl 20090 Segrate (MI) Le edicole e i privati potranno richiedere le copie degli arretrati tramite e-mail agli indirizzi: collez@mondadori.it e arretrati@mondadori.it e accedendo al sito: https://arretrati.pressdi.it In copertina un acceso scontro fra cavalieri in una miniatura tratta da un’edizione dell’Estoire de Merlin. XV sec. Parigi, Bibiliothèque nationale de France.

Prossimamente costume e società

A letto nel Medioevo

irlanda

dossier

Terra di druidi e re

Ucraina Le origini


amori medievali di Federico Canaccini

L’ultimo bacio

C’

è un fondamento di verità nella vicenda amorosa di Romeo e Giulietta: siamo a Verona, nel 1303, sotto la signoria degli Scaligeri. Al potere era salito, nel 1301, il figlio di Alberto I della Scala, il quale tentò, senza troppo successo, di sedare la lotte di fazione che dilaniavano la città veneta, cosí come del resto la gran parte delle città italiane, divise tra guelfi e ghibellini. Le parti, a seconda delle città, assumevano i nomi delle principali famiglie attorno a cui si creavano alleanze interfamiliari e cosí Dante, nel VI canto del Purgatorio, invita «a veder Montecchi e Cappelletti, / Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura: / color già tristi e questi con sospetti!». La lotta fra Montecchi e Capuleti era quindi ormai già esplosa ai primi del Trecento ed era talmente famosa da esser citata nella Commedia. La vicenda letteraria nasce invece nel 1531, in forma embrionale, dalla penna di Luigi da Porto, nell’Historia novellamente ritrovata di due nobili amanti con la loro pietosa morte intervenuta già al tempo di Bartolomeo della Scala, un’opera che mise per iscritto tanti elementi di una tradizione popolare probabilmente orale e che sarebbero divenuti l’ossatura della celebre tragedia scritta da William Shakespeare nel 1596. In realtà, però, il dramma era già stato ripreso da altri autori italiani, come Gerardo Boldiero e Matteo Bandello (1554), nonché dagli inglesi Arthur Brooke (1562) e William Painter (1569), e dallo spagnolo Felix Lope de Vega (1590). L’intreccio è originale, ma Shakespeare è riuscito a trasformare una storia d’amore, travolgente e sfortunata, in una delle piú iconiche vicende dell’umanità.

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L’addio o L’ultimo bacio di Romeo e Giulietta, acquerello su carta di Francesco Hayez. 1830 circa. Milano, Collezione privata. Romeo Montecchi partecipa in incognito a una festa in maschera in casa dei rivali Capuleti, dove si innamora di Giulietta: l’amore esplode e il giovane la convince a convolare segretamente a nozze, nonostante l’inimicizia interfamiliare. Frate Lorenzo celebra le nozze, convinto che esse contribuiranno a portare la pace, ma gli eventi precipitano: durante un litigio Romeo, pur riluttante, finisce per colpire a morte Tebaldo Capuleti e viene messo al bando. Lascia quindi la città su consiglio del frate, che promette di rendere pubblico quanto prima il loro matrimonio. Frattanto Giulietta finge di convolare a nozze con tal Paride ma, d’accordo con frate Lorenzo, beve un narcotico che la farà sembrare morta per quaranta ore. Del tutto dovrebbe essere naturalmente allertato Romeo, il quale, però, riceve malamente solo la notizia della morte di Giulietta: travolto dal dolore, acquista un veleno che berrà sulla tomba dell’amata. Prima di entrare nel mausoleo, si trova persino a uccidere in combattimento Paride, ignaro di tutto. Un ultimo bacio a Giulietta e poi Romeo beve la coppa mortale: poco dopo l’amata si risveglia e, scoperta la tragica fine del suo amato, si pugnala al cuore. L’amore che ha condotto alla morte entrambi i giovani, pur divisi dalle fazioni, diventa un monito senza eguali tra le famiglie, che ora si ritrovano accomunate dal dolore, e, a quale prezzo, frate Lorenzo riesce a stipulare finalmente una tregua.

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ANTE PRIMA

Ululati sul fiume ARCHEOLOGIA •

Ritrovato sul greto del Po, questo cranio fossile apparteneva a un lupo vissuto nel Medioevo. Il cui identikit è ora stato definito in ogni minimo dettaglio

È

stato pubblicato nelle scorse settimane lo studio di un cranio fossile di lupo (Canis lupus), rinvenuto nel settembre 2018 nel fiume Po. Il fossile, completo e in ottimo stato di conservazione, è esposto nel Museo Paleoantropologico del Po di San Daniele Po (Cremona) ed era già stato oggetto di uno studio paleogenetico nel 2019. Grazie alle nuove indagini, però, è stato possibile presentarne la prima descrizione completa, basata su un approccio multidisciplinare. «Il riconoscimento e la prima classificazione tassonomica dell’esemplare – spiega Davide Persico, professore all’Università

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degli Studi di Parma e scopritore del reperto – nonché la determinazione dell’età anagrafica e del sesso, sono state eseguite attraverso un’analisi biometrica svolta presso il Dipartimento di Scienze Chimiche della Vita e della Sostenibilità ambientale dell’Università di Parma».

La scoperta Il cranio quasi completo è stato ritrovato sulla barra alluvionale del fiume Po denominata Boschi Maria Luigia, in sponda destra ma in territorio cremonese. Mediante l’analisi radiometrica al Carbonio 14, il fossile è stato collocato in pieno Medioevo, esattamente

In alto il ritrovamento del cranio di lupo sulla spiaggia Boschi Maria Luigia, presso Coltaro (Parma), 2018. tra il 967 e il 1157 d.C. Il periodo medievale ha rappresentato una fase cruciale per la storia evolutiva del lupo in quanto segnato sia da importanti cambiamenti ecosistemici, soprattutto nei paesaggi boschivi, sia da pesanti persecuzioni umane, che hanno portato questa specie a un drammatico declino demografico. Nonostante il lupo sia senza dubbio uno dei predatori piú iconici e ampiamente studiati di tutti i tempi, in Europa i resti osteologici di lupi medievali sono estremamente rari,

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limitando la comprensione delle dinamiche e dei fenomeni che hanno influenzato l’evoluzione delle popolazioni passate di questa specie. Per questo motivo, il cranio fossile oggetto di studio ha rappresentato un’eccezionale e rara opportunità di ricerca. «Le analisi biometriche e quelle basate sulla Tomografia Computerizzata (TC) – afferma Raffaele Sardella, professore presso il Dipartimento di Scienze della Terra di “Sapienza” Università di Roma – indicano che il lupo del Po rientra nella variabilità cranica della sottospecie Canis lupus italicus esistente tutt’oggi nella nostra Penisola».

A destra esemplare di lupo fotografato di recente nella bassa Pianura Padana. Nella pagina accanto, in basso confronto tra l’immagine fotografica del cranio (a sinistra) e il modello 3D ottenuto tramite l’elaborazione di immagini tomografiche.

Era una femmina adulta «L’usura dei denti – ha sottolineato Dawid Adam Iurino, primo autore dell’articolo, esperto di paleopatologie e applicazioni della paleontologia virtuale presso Sapienza – ha consentito di ricondurre il cranio a un individuo adulto tra i 6 e gli 8 anni, di sesso femminile. Questo esemplare manifesta chiare prove di una grave parodontite che ha causato la completa perdita del canino sinistro producendo un grande foro che collega l’alveolo con la cavità nasale. Tale condizione patologica ha probabilmente debilitato gravemente il soggetto; non è però possibile stabilire con certezza se la morte sia stata una conseguenza di questa malattia». Le analisi filogenetiche, condotte presso il Laboratorio del DNA antico dell’Università di Bologna, hanno collocato il pool genetico del DNA mitocondriale (piccola porzione del genoma ereditata solo per via materna) del reperto all’interno della variabilità genetica dei lupi moderni, chiaramente distinto da quello dei cani. In particolare, secondo Elisabetta Cilli, professoressa di archeogenetica all’Università

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di Bologna, il campione rientra nell’aplogruppo (tipo mitocondriale) 2 dei lupi, cioè fa parte delle linee di discendenza materne piú antiche che derivano tutte da un antenato comune. In Europa tale aplogruppo, a partire da almeno 2700-1200 anni fa, è stato in gran parte sostituito dal piú recente aplogruppo 1, tranne in Italia dove persiste solo l’aplogruppo 2. Le stesse analisi hanno inoltre dimostrato che la sequenza mitocondriale dell’esemplare studiato è molto simile a quella tipica greca, chiamata W15, da cui mostra solo una mutazione di differenza. Secondo Elisabetta Cilli, questa

sequenza di DNA rappresenta parte dell’antica variabilità genetica della popolazione italiana di lupi oggi persa a causa dell’impatto negativo delle persecuzioni antropiche perpetrate nel Medioevo e, per l’Europa occidentale, in particolare negli ultimi 150 anni. Questo studio multidisciplinare fornisce la descrizione a oggi piú completa di un campione di lupo del Medioevo in Italia e costituisce la prova di come i campioni archeozoologici rappresentino una fonte essenziale di informazioni per comprendere le dinamiche, la diversità e la distribuzione dei lupi tra presente e passato. (red.)

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ANTE PRIMA

EDIO VO M E OGGI

I I

l Comune di Quattro Castella, in provincia di Reggio Emilia, si avvia a tenere a battesimo il primo Festival Matildico Internazionale, in programma nei giorni del 10 e dell’11 settembre. Molti sono gli appuntamenti previsti, fra i quali spicca il IV Convegno dell’Associazione Matildica Internazionale, organizzato in collaborazione con il Centro «Gina Fasoli» per la storia delle città (Università di Bologna) e il Comune di Quattro Castella e intitolato «Matilde e le città. Nuove prospettive di ricerca sui rapporti tra domus canossana e contesti urbani». Il tema è stato scelto per rispondere all’esigenza di una riconsiderazione della relazione tra Matilde e le città, che possa rendere ragione della sua complessità, cercando di andare oltre la contrapposizione quasi epocale tra mondo feudale e società comunale, tenendo conto che la città medievale è un contesto-scenario denso e permeabile, in cui si muovono molteplici soggetti, spesso in concorrenza, uniti reticolarmente al territorio, alle altre realtà urbane e anche alla domus di Matilde. In particolare, si individuano al suo interno: vescovi, capitoli delle cattedrali, monasteri, vassallità e cives (borghesi). Ciascuna di queste componenti ha un modo diverso di rapportarsi ai signori, che va valutato singolarmente e in confronto a quanto accade in altri contesti urbani. Il convegno intende impostare la ricerca, ovviamente limitata ad alcune prospettive specifiche, non su di una singola città, ma per gruppi o grappoli

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In basso il Salone d’Onore del castello di Bianello, una delle sedi del IV Convegno dell’Associazione Matildica Internazionale. (clusters), legati da aspetti comuni di tipo istituzionale, geografico, sociale, in vista di un’analisi di rete.

Storia e tesori naturalistici I lavori del convegno si svolgeranno, nelle giornate di venerdí 9 e sabato 10 settembre (vedi box a p. 9), fra Bologna e il castello di Bianello. Quest’ultimo sorge su di uno dei quattro colli che si elevano dalla bassa collina all’altezza di circa 300 m, e che hanno dato il nome al Comune di Quatto Castella, nell’ordine da ovest ad est: Montevetro, Bianello, Montelucio e Montezane. Essi costituiscono oggi l’oasi naturalistica di Bianello (125 Kmq), gestita dal 1993 dalla Lipu, per la particolare ricchezza floro-faunistica che vi si trova, per cui si possono incontrare specie rare come l’upupa, l’allocco, il gheppio, lo sparviere, o specifiche di questi luoghi fin dal Medioevo, come il tasso, la faina, lo scoiattolo, la volpe, la donnola, il capriolo e il cinghiale. Il castello di Bianello è l’unica struttura edilizia rimasta sulle cime di queste colline, e la sua pianta mostra lo stratificarsi degli edifici nel corso dei secoli. Al tempo di Matilde aveva un’importante funzione militare di difesa del territorio, all’interno della rete dei castelli che lo presidiavano dall’alto, mentre alla torre di guardia originaria si erano già affiancate altre costruzioni, che ne facevano anche un luogo di residenza e di ospitalità. Prima di recarsi alla pubblica rappresentazione della sua penitenza, nel gennaio del 1077 Enrico IV lasciò qui il suo esercito; qui tornò sei giorni dopo l’assoluzione; qui risiedette Gregorio VII nel febbraio-marzo di quell’anno. Bianello assunse un’importante posizione strategica agosto

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IV Convegno dell’Associazione Matildica Internazionale Venerdí 9 settembre Bologna, Centro «Gina Fasoli» per la storia delle città, Aula 7.11, via Saragozza 8, ore 15,00-18,00 Presiede: Rosa Smurra (Referente scientifico del Centro «Gina Fasoli» per la storia delle città, Università di Bologna) Danilo Morini (Università di Bologna), Perché Matilde di Canossa e le città? Paolo Golinelli (Università di Verona), Matilde di Canossa tra «civitas» e comune nella storiografia Régine Le Jan (Sorbonne Université, Parigi), Mathilde et les cités lotharingiennes: un héritage revendiqué? Alfredo Lucioni (Università Cattolica di Milano), Elementi per una riflessione sulle relazioni tra Matilde e l’ambiente milanese Sabato 10 settembre Quattro Castella (Reggio Emilia), Castello di Bianello Sessione mattutina, ore 10,00-12,30 Presiede: Clementina Santi (Associazione Scrittori Reggiani) Eugenio Riversi (Università di Bonn), Matilde di Canossa e i conflitti insorti intorno alle figure dei vescovi Giuseppe Gardoni (Accademia Virgiliana), Optima civitas

Longobardie. Le città, Matilde e le autonomie cittadine Gabriele Fabbrici (Deputazione Reggiana di Storia Patria), Tradizione e innovazione nell’onomastica dell’Emilia occidentale in età matildica Carlotta Taddei (Università di Parma), Racconti di consacrazioni, di vescovi e cattedrali, nelle città matildiche Sessione pomeridiana, ore 15,30-18,30 Presiede: Paola Galetti (Università di Bologna) Alberto Cotza (Università di Pisa), La prima storiografia delle città toscane in età matildica. Continuità e innovazione Raffaele Savigni (Università di Bologna, sede di Ravenna), Una città ribelle: la società cittadina lucchese e i Canossa tra XI e XII secolo Paolo Tomei (Università di Pisa), Matilde e il tessuto aristocratico toscano. Fra continuità e mutamento Andrea Puglia (Università di Pisa), Nuove forme e nuovi documenti dell’amministrazione della giustizia nella Toscana occidentale tra XI e XII secolo: potere marchionale, signori territoriali e comunità locali Rosa Smurra (Università di Bologna), Proposte per un Atlante Matildico

durante l’attacco portato da Enrico IV a Canossa. Dopo l’inutile assedio di Monteveglio nel Bolognese, nel 1092 l’imperatore portò il suo esercito alla volta di Canossa, ma non giunse alla rocca, stretto come fu dalle truppe di Matilde, divise in una parte rimasta a difesa di Canossa e una condotta direttamente a Bianello. L’esercito imperiale fu cosí stretto in una morsa, che permise a Matilde di sconfiggerlo nella battaglia di cui è rimasto il ricordo a Madonna della Battaglia. Paolo Golinelli

Nelle mani del superiore Da cinquantasei anni si tiene a Quattro Castella un corteo matildico divenuto giustamente famoso per il grande numero di persone coinvolte, per la bellezza dei costumi. Quest’anno, ricorrendo il millenario della prima menzione della località, il Comune ha accettato di ospitare il primo Festival Matildico, organizzato dall’Associazione Matildica Internazionale, che avrà un seguito negli anni a venire in altre località dei territori matildici, che oltre all’Emilia interessavano la Lombardia, la Toscana, l’alto Lazio e il Veneto in Italia, e la Lorena in Europa. Sono oltre 800 le comparse in costume d’epoca coinvolte, suddivise in 35 gruppi d’arme, impegnati in diversi intrattenimenti (bandiere, battaglie, scene della vita della contessa, ma anche gente comune, contadini, bambini, giocolieri, ecc.). Al centro del corteo c’è la rievocazione dell’incontro

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Una veduta del castello di Bianello, nel territorio del Comune di Quattro Castella (Reggio Emilia). di Enrico V con Matilde di Canossa, il 6 maggio 1111, nel quale l’imperatore riconsegna alla contessa i suoi poteri feudali, col rito della immixtio manuum, col quale l’inferiore si metteva nelle mani del superiore. Quest’anno Matilde sarà impersonata da Lucia Batassa, mentre Enrico V sarà Jacopo Olmo Antinori. Durante la lotta per le investiture, Enrico IV privò Matilde dei suoi poteri feudali, con il bando di Lucca del 1081, quando la contessa si rifiutò di fornirgli l’accompagnamento a Roma, dove voleva essere incoronato dall’antipapa Clemente III, avversario di Gregorio VII. Siccome i Canossa per gran parte del loro dominio erano vassalli

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ANTE PRIMA Gli appuntamenti del Festival Matildico Oltre al IV Convegno dell’AMI-MIA, ecco gli eventi programmati in occasione del Primo Festival Matildico Internazionale. Sabato 10 settembre Quattro Castella, chiesa di S. Antonino Rappresentazione della reinfeudazione di Matilde di Canossa da parte dell’imperatore Enrico V (6 maggio 1111): viene rievocato il rito della immixtio manuum (immissione delle mani) con il quale il feudatario si mette nelle mani del suo signore, a cura dell’Associazione Comitato Matildico di Quattro Castella (Emidio Fantuzzi) Quattro Castella, strade cittadine Tradizionale Corteo Matildico lungo le strade arredate a festa. Il corteo scende in piazza Dante dove, in onore all’imperatore Enrico V e dopo il sorteggio tra le 4 Gualdane (Montevecchio, Bianello, Montelucio, Montezane), si disputerà il gioco del Ponte, detto anche Gran passo d’armi. Alla squadra vincitrice verrà consegnato il Palio 2022. A seguire spettacoli di giocoleria e fuoco. Domenica 11 settembre Essere donna nel Medioevo-Incontri con gli autori Seduta del mattino Quattro Castella, Castello di Bianello, Salone d’onore 9,30-10,15: Rossella Rinaldi (Istituto Storico Italiano per il Medio Evo), Donne del Medioevo. Studi di Bruno Andreolli, (a cura di Rossella Rinaldi, ed. B.U.P., Bologna 2018) 10,15-11,00: Tiziana Lazzari (Università di Bologna), Beatrice di Lorena (da Le donne nell’alto Medioevo, ed. Bruno Mondadori, Milano 2010) 11,00-11,45: Paolo Golinelli (Presidente AMI-MIA o.d.v.), Matilde di Canossa. Vita e mito (ed. Salerno, Roma 2021) 12,00: assegnazione dell’attestato di Socio Onorario dell’Associazione Matildica Internazionale al senatore Alessandro Carri. Sia nella sua militanza politica (deputato dal 1972 al 1976 e poi senatore dal 1976 al 1979; sindaco di Ciano d’Enza e di Carpineti; piú volte segretario del PCI di Reggio Emilia), sia nei suoi interessi culturali e umani, Carri ha sempre mostrato un’attenzione particolare dell’imperatore, il rifiuto fu interpretato come un atto di lesa maestà. Dopo la morte di Enrico IV nel 1106, il figlio cercò di trovare una soluzione al contrasto col papa e venne in Italia nell’autunno del 1110. Matilde accolse al Bianello gli ambasciatori dell’imperatore che intendeva passare per le sue terre, e Donizone narra che conclusero un patto che doveva prevedere la cessazione delle ostilità e una nuova investitura di Matilde nei suoi dominî. Nel viaggio di ritorno verso la Germania il patto fu onorato con la riassegnazione alla contessa dei suoi

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alla figura di Matilde di Canossa e alle terre che la videro protagonista della storia quasi mille anni fa. È stato artefice dell’intitolazione alle «Terre di Canossa» di un’uscita dell’A1, e della trasformazione del nome del comune di Ciano d’Enza in Canossa. A Matilde ha dedicato due libri: Matilde: una paziente mediatrice tra Impero e Papato (Roma, Aliberti, 2012), e Il volto politico di Matilde: dialogo tra memoria, storia e cultura (Reggio Emilia, Consulta libri e progetti, 2019), nei quali ha visto nella contessa la cucitrice di rapporti positivi tra gli opposti papa e imperatore. Tra i fondatori dell’Associazione Matildica Internazionale, ha sempre sostenuto le iniziative matildiche. Essere donna nel Medioevo-Incontri con gli autori Seduta del pomeriggio Quattro Castella, Castello di Bianello, Sala conferenze 15,30-16,15: Adelaide Ricci (Università di Pavia), Donne e sacro (ed. Viella, Roma 2022) 16,15-17.00: Maria Giuseppina Muzzarelli (Università di Bologna), Madri, madri mancate, quasi madri (ed. Laterza, Roma-Bari 2021) 17,00-18,00: Giusi Zanichelli (Università di Salerno) con Paolo Golinelli, Ricordo di Chiara Frugoni Sono inoltre previste due mostre: «Matilde di Canossa nei libri per bambini», a cura della Biblioteca Comunale di Quattro Castella, allestita nel corridoio d’ingresso del Castello di Bianello, e «Il sacro delle chiese di Matilde di Canossa», a cura del pittore Maurizio Setti, nella chiesa di S. Antonino di Quattro Castella. E sarà organizzata anche la Fiera del libro medievale, a cura di Mario Bernabei. Infine, il gruppo storico Lux Victrix allestirà un campo medievale all’interno delle mura del Bianello, e nella stessa area verranno organizzati giochi medievali per bambini e adulti. Info e prenotazioni: info@ associazionematildicainternazionale.it; turismo@comune.quattro-castella.re.it; tel. 0522 24782.43; Centro turistico «Andare a Canossa»: mario_bernabei@ libero.it; tel. 333 4419407 poteri feudali, «in vice regis»: non come una viceregina, ma come persona delegata dall’imperatore su di un vasto territorio. In effetti il dominio dei Canossa occupava un’ampia parte dell’Italia medievale, con le contee di Reggio, Modena, Mantova e vaste aree del Parmense, del Cremonese, del Bresciano, del basso Veronese, del Ferrarese e del Bolognese a nord degli Appennini; tutta la marca di Toscana, e il Nord del Lazio, fino all’attuale Tarquinia; nonché parte dell’Umbria. Emidio Fantuzzi agosto

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ANTE PRIMA

Nel paradiso dei maccheroni ITINERARI • Gragnano, in provincia di Napoli, è

una delle «capitali» della pastasciutta. Un primato nato nel Medioevo, quando nel suo territorio furono installati mulini per macinare il grano e i mastri pastai svilupparono sopraffine tecniche di produzione

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ra il XVI e il XVII secolo nel Viceregno di Napoli si diffuse l’uso della pasta secca, dapprima come scorta alimentare con la quale far fronte alle ricorrenti carestie, poi, gradualmente, come cibo dall’alto valore nutritivo, trasformandosi ben presto in un elemento fondamentale del sistema alimentare napoletano che portò, nel corso del XVII secolo, a trasformare l’intera popolazione da «Mangiafoglia» a «Mangiamaccheroni». La pasta era quindi considerata un mangiare povero, anche se, in realtà, aveva

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ancora un costo maggiore rispetto al pane, che rimaneva saldamente alla base della dieta. Questo processo di diffusione della pasta fu favorito, anche a livello politico, dall’imposizione di prezzi calmierati e fece sí che nel Napoletano si sviluppassero importanti centri di produzione di pasta secca.

Una posizione ideale Fin dall’epoca medievale i luoghi di molitura del grano che rifornivano la città partenopea furono fondamentalmente l’area tra Vietri e Amalfi, nel Salernitano, e quella

In alto, a sinistra e nella pagina accanto, in basso due vivaci immagini degli inizi del Novecento che immortalano i tipici «Mangiamaccheroni» napoletani mentre consumano i loro bei piatti di pastasciutta davanti ai banchi di vendita disposti lungo la strada. tra Torre Annunziata e Gragnano nel Golfo di Napoli. Oltre a essere favorita dalla presenza dell’acqua, che costituiva la forza motrice dei molini, tale posizione era legata anche alla facilità di collegamento con il mare, e quindi con i porti per il rifornimento di grano. agosto

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Per quanto riguarda il territorio gragnanese i molini furono costruiti in una profonda valle, attraversata dal torrente Vernotico. La loro presenza fece definire questo luogo come Valle dei Molini e la strada che l’attraversa ha rappresentato da sempre una fondamentale via di comunicazione tra il litorale stabiese e il territorio amalfitano. La presenza di una delle poche vie di valico verso la costiera amalfitana nella compatta struttura dei Monti Lattari portò gli Amalfitani a fortificare lungo questo tracciato il borgo di Castello di Gragnano.

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In alto, sulle due pagine veduta panoramica di Gragnano con il Vesuvio sullo sfondo. In primo piano il Borgo fortificato di Castello, edificato dagli Amalfitani nel corso del X sec. A sinistra si apprezza la profonda incisione della cosiddetta Valle dei Molini.

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In alto cartina del territorio del ducato amalfitano in epoca medievale, con evidenziato il valico di Pino-Agerola che risaliva lungo la Valle dei Molini di Gragnano. A destra pianta a colori del territorio gragnanese, lunga circa 4 m, realizzata nel 1784 che riporta il tracciato dell’acquedotto Chiroga e i molini a esso collegati. In basso tipico carro dalle grandi ruote, trainato da un mulo, un bue e un cavallo, utilizzato per il trasporto di grano a Gragnano fino agli inizi del XX sec. All’interno di questo abitato passava la via del valico, che poi risaliva verso il borgo fortificato di Pino e quindi si dirigeva ad Agerola, per poi scendere verso Amalfi. Questo sistema di fortificazioni in successione difendeva Amalfi da attacchi provenienti dalla Valle del Sarno. L’elemento principale di questa rete difensiva era il castello di Lettere in cui fu posta, nel 987, la sede del vescovo dei castelli stabiani, che dipendeva dall’arcivescovo di Amalfi (vedi «Medioevo» nn. 273 e 289, ottobre 2019 e febbraio 2021; anche on line su issuu.com). Decine di documenti amalfitani attestano che il versante settentrionale della catena montuosa dei Monti Lattari è stato parte del ducato amalfitano per tutto il Medioevo. Lo stretto legame tra i due lati della costiera si mantenne per molti secoli, tanto che i documenti narrano che, ancora nel XV secolo, quando un abitante di Lettere o di Gragnano si trovava in un paese

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straniero, dichiarava la propria origine definendosi abitante del ducato d’Amalfi.

Le notizie d’archivio Oggi la memoria di aver fatto parte della gloriosa repubblica marinara si è quasi completamente persa nei paesi del versante settentrionale della catena montuosa dei Monti

Lattari. Ma proprio le fonti amalfitane narrano della presenza di molini a Gragnano, presso le sorgenti della Forma e lungo il corso del torrente Vernotico. È interessante notare che il toponimo Forma, con il quale sono denominate questa sorgente e tutta l’area circostante, è proprio il termine utilizzato nel latino

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medievale per indicare i canali e le condutture; in particolare quelle degli acquedotti. La prima attestazione dell’esistenza di molini lungo il corso del Vernotico si trova in due documenti datati al 1266 e al 1272, nei quali si dà notizia della concessione del regio assenso per la costruzione di due molini in flumine Graniani.

In basso ruderi dei molini costruiti lungo il torrente Vernotico a Gragnano. La loro presenza ha dato il nome alla suggestiva valle in cui si inseriscono.

La fedeltà premiata La presenza di molini in quest’area ritorna nel XIV secolo, quando un atto di Ladislao d’Angiò-Durazzo, re di Napoli, descrive il feudo, concesso a Martino di Martino per la sua fedeltà alla corona. Nella descrizione dei beni che compongono la prprietà è citata la presenza di un molino rovinato situato presso il fiume di detta terra nel luogo denominato la Forma. In questa fase i molini sembrano attestati in maniera puntiforme. I pochi che conosciamo dovevano essere posti presso le sorgenti, dove potevano sfruttare la forza motrice dell’acqua con un minimo

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apprestamento di condutture. La creazione di un acquedotto che attraversa tutta la Valle della Forma sembra quindi collocabile in epoca successiva. Nel corso del XVI secolo la nobile famiglia Chiroga iniziò a edificare numerosi molini nel territorio di Gragnano, segno anche di un aumentato afflusso verso la cittadina dei Monti Lattari dei carichi di grano provenienti dalla Puglia che necessitavano di essere macinati per rispondere al fabbisogno giornaliero di farina della città di Napoli.

I viaggi del grano Anche se non tutto il grano consumato nella capitale veniva macinato a Gragnano, una parte consistente si lavorava nella Valle, dove arrivava grazie ai carri provenienti direttamente dalla Puglia o dal porto della vicina Castellammare di Stabia, al quale attraccavano le navi che giungevano dagli scali pugliesi. Una volta macinato, il grano veniva di nuovo avviato verso il porto di Castellammare, da dove raggiungeva Napoli via mare. Nella seconda metà del XVI secolo il nobile don Nicola d’Antonio,

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che univa in sé le antiche famiglie d’Antonio e Chiroga, acquistò i diritti di diverse sorgenti nel territorio di Gragnano. Ottenuto il controllo delle acque decise quindi di avviare un ingente investimento per costruire lungo il corso del Vernotico un acquedotto che, tramite un complesso sistema di canali, fosse in grado di alimentare un nutrito gruppo di molini posti in successione. Questa situazione lo poneva in una posizione vantaggiosa, anche dal punto di vista legale. Egli poteva infatti progettare di costruire un acquedotto avendo il diritto di realizzare espropri forzosi e costituire servitú nelle porzioni di fondi dove dovevano passare le condutture. Di questo progetto è giunta fino a noi una pianta fatta redigere nel 1784 per fissare il tracciato dell’acquedotto e i molini che erano a questo collegati. Con la costruzione dell’acquedotto, la famiglia Chiroga, che era proprietaria delle sorgenti, collegò allo stesso i suoi molini, ma concesse anche ad altri proprietari di costruirne altri e, a pagamento, di collegarli all’acquedotto. Nel XVIII secolo lungo il tracciato

A sinistra un’altra immagine dei ruderi dei molini sul torrente Vernotico. In alto uno scorcio della Valle dei Molini di Gragnano dipinto da Giuseppe Palizzi nel XIX sec. Si individuano i due molini posti in prossimità della sorgente Forma e, sulla sinistra, una piccola calcara. dell’acquedotto Forma esistevano quattordici molini: sei erano di proprietà della famiglia Chiroga, mentre otto erano di privati. Di molti si conservano oggi i ruderi, in buono stato di conservazione.

Acqua ad alta pressione La scarsa portata del fiume impediva la creazione di molini con ruota verticale e obbligava alla creazione di molini a ruota orizzontale. In questi ultimi l’acqua, tramite canali, veniva convogliata in un torrino di caduta, dove un getto ad alta pressione era indirizzato verso le pale di una ruota orizzontale, il cui movimento azionava le macine. Tutti i molini di Gragnano erano di questo tipo, come testimoniano chiaramente i canali di adduzione ancora ben visibili in molti molini che conservano il torrino per la caduta dell’acqua. L’intera rete dei canali agosto

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Qui accanto il molino «la Pergola» in un dipinto del XIX sec. di autore ignoto. Sulla sinistra, si nota il fumo che esce dalla calcara di Pasquale Pomontale, una di quelle presenti nella valle e utilizzate per la produzione della calce.

dell’acquedotto della Valle dei Molini era stata concepita in modo che l’acqua dalla sorgente, scorrendo per gravità, azionasse le macine del primo molino. La stessa veniva poi recuperata e reimmessa nel sistema per attivare il secondo molino, posto piú in basso, e cosí via, fino ad alimentare tutta la rete ed essere infine scaricata sul litorale di Castellammare di Stabia dove si trovavano gli ultimi molini. La forza motrice dell’acqua, oltre che per la macinazione del grano, veniva sfruttata anche per azionare una segheria, nella quale si lavoravano i tronchi tagliati nei fitti boschi circostanti, e una fusara, cioè un molino in cui l’acqua serviva per azionare i pesanti magli necessari per battere la canapa e ricavarne le fibre, con una tecnica molto simile a quella usata ad Amalfi, dove, in piú di un molino, grandi magli battevano gli stracci che erano all’origine del processo di fabbricazione della carta. Lo splendido ambiente naturale collegava idealmente la Valle dei Molini di Gragnano a quella di Amalfi, tanto che anche la Valle della Forma, tra il XVIII e il XIX secolo, fu meta di molti artisti

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italiani e soprattutto stranieri che, nell’ambito del Grand Tour, si recarono in questi luoghi per immortalarne gli splendidi scorci. Questa tradizione è continuata anche tra la fine dell’Ottocento e il Novecento, quando numerosi fotografi fissarono immagini Assonometria ricostruttiva del sistema di funzionamento di uno dei molini di Gragnano: 1. canale dell’acquedotto; 2. torrino di caduta; 3. tramoggia; 4. macina; 5. ruota a pale orizzontale; 6. fuoriuscita dell’acqua che aziona la ruota orizzontale collegata alla macina; 7. canale di scolo che porta l’acqua al molino successivo (disegno di Aldo Cinque).

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In alto una foto dei primi del Novecento che mostra una scena di vita nella Valle dei Molini di Gragnano con le arcate dell’acquedotto che scavalcano la strada in corrispondenza di un molino e i carri utilizzati per il trasporto del grano. In alto il molino «della Fusara» in un dipinto del XIX sec. di autore ignoto. A destra foto degli inizi del Novecento che mostra la pasta stesa ad asciugare per le strade di Gragnano. suggestive della Valle dei Molini, spesso raffigurando gli alti carri utilizzati per il trasporto del grano o personaggi tipici, come il sacerdote o il proprietario del molino.

Ingredienti di prima qualità La semola utilizzata per la pastificazione era tradizionalmente quella di grano duro, il che spiega anche l’elevata qualità della pasta prodotta nell’area gragnanese rispetto a quelle di altre regioni d’Italia, dove spesso al grano duro si aggiungeva una percentuale di grano tenero, che aveva un deleterio effetto sulla tenuta della pasta al momento della cottura. Alla qualità delle materie prime, tra cui l’acqua utilizzata per l’impasto, si deve aggiungere anche la favorevole condizione climatica dell’area gragnanese. Qui la naturale costante bassa umidità dell’aria e la ventilazione controllata da parte dei pastai permettevano una giusta essiccazione del prodotto, che si realizzava all’aperto, lungo le strade. Nella gestione della fase di

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essiccazione i maestri pastai gragnanesi avevano raggiunto un alto livello di specializzazione, che permetteva loro di ottenere prodotti finiti dopo un’essiccazione che poteva durare da una settimana a trenta giorni, a seconda della stagione e del clima. La giusta asciugatura garantiva un migliore sapore al prodotto, annullando i rischi dell’insorgere di muffe e permetteva una piú lunga

conservazione. Le favorevoli condizioni naturali portarono al nascere e al trasmettersi di fondamentali saperi da parte dei mastri pastai. La conoscenza delle migliori materie prime e delle adeguate tecniche di lavorazione hanno fatto della pasta di Gragnano un prodotto famoso ed esportato in tutto il mondo. Domenico Camardo e Mario Notomista agosto

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Per non dimenticare L

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INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

a Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico di La locandina dell’8ª edizione dell’International Archaeological Paestum e la rivista «Archeo» hanno inteso dare il Discovery Award «Khaled al-Asaad». giusto tributo alle scoperte archeologiche attraverso un Premio annuale, assegnato in collaborazione con Clément, responsabile degli scavi, per la «piccola le testate internazionali media partner della Borsa: Pompei francese» di Vienne (2018); Jonathan Adams, Antike Welt (Germania), Archäologie in Deutschland Responsabile del Black Sea Maritime Archaeology Project (Germania), Archéologia (Francia), as. Archäologie der (MAP), per la scoperta nel Mar Nero del piú antico Schweiz (Svizzera), Current Archaeology (Regno Unito), relitto intatto del mondo (2019); Daniele Morandi Dossiers d’Archéologie (Francia). Il direttore della BMTA, Bonacossi, direttore della Missione Archeologica Ugo Picarelli, e il direttore di Italiana nel Kurdistan Iracheno «Archeo», Andreas M. Steiner, e ordinario di archeologia e hanno condiviso questo storia dell’arte del Vicino Oriente cammino, consapevoli che «le antico dell’Università di Udine, civiltà e le culture del passato e per la scoperta di dieci rilievi le loro relazioni con l’ambiente rupestri assiri raffiguranti gli dèi circostante assumono oggi dell’Antica Mesopotamia (2020); sempre piú un’importanza legata alla scoperta di «centinaia di alla riscoperta delle identità, in sarcofagi nella necropoli di una società globale che disperde Saqqara in Egitto» (2021). sempre piú i suoi valori». Il Per l’edizione di quest’anno della Premio, dunque, si caratterizza Borsa, in programma a Paestum per divulgare uno scambio di dal 27 al 30 ottobre 2022, il esperienze, rappresentato dalle Premio, assegnato alla scoperta scoperte internazionali, anche archeologica prima classificata, come buona prassi di dialogo sarà selezionato tra le 5 finaliste interculturale e cooperazione tra segnalate dai direttori di ciascuna i popoli. testata e sarà consegnato nella Giunto alla 8ª edizione, giornata di venerdí 28 ottobre in l’International Archaeological occasione della XXIV BMTA. Discovery Award «Khaled al-Asaad» Verrà inoltre attribuito uno è intitolato all’archeologo di «Special Award» alla scoperta, tra Palmira, che ha pagato con la le cinque candidate, che, fino al vita la difesa del patrimonio prossimo settembre, culturale. Si tratta dell’unico avrà ricevuto i maggiori consensi Errata riconoscimento a livello espressi dal pubblico attraverso mondiale dedicato all’archeologia e in particolare suoi la pagina Facebook della Borsa (www.facebook.com/ corrigeaicon riferimento al Dossier L’umanista protagonisti, gli archeologi, che con sacrificio, borsamediterraneaturismoarcheologico). Le cinque che dedizione andò alle crociate (vedi «Medioevo» n. e competenza affrontano quotidianamente220, il loro scoperte archeologiche aprile 2015) desideriamo precisare chedel la 2021 finaliste dell’8ª compito nella doppia veste di studiosi del passato e di medaglia in bronzoedizione riprodottadell’International a p. 93 (in basso)Archaeological Discovery Award professionisti a servizio del territorio. «Khaled al-Asaad» sono: Egitto: dal deserto riaffiora la ritrae Malatesta Novello (al secolo Domenico Nelle passate edizioni, il Premio è stato assegnato città fondata Amenhotep III a Luxor; Italia: Pompei, Malatesta, 1418-1465) signore didaCesena, e a: Katerina Peristeri, responsabile degli scavi, la a Civita come Giuliana scoperta nonper Sigismondo Malatesta, indicato in la stanza degli schiavi; scoperta della Tomba di Amphipolis (Grecia; 2015); Dell’errore Pakistan: nellacon valle dello Swat, a Barikot, il piú didascalia. ci scusiamo l’autore INRAP Institut National de Recherches Archéologiques tempio buddhista; Regno Unito: in Inghilterra, dell’articolo e con iantico nostri lettori. Préventives (Francia), nella persona del presidente nella contea di Rutland, uno straordinario mosaico Dominique Garcia, per la tomba celtica di Lavau con scene dell’Iliade; Turchia: in Anatolia il sito di (2016); Peter Pfälzner, direttore della missione Karahantepe, un santuario rupestre di oltre 11mila archeologica, per la città dell’età del Bronzo presso il anni fa. villaggio di Bassetki nel nord dell’Iraq (2017); Benjamin Per info: www.bmta.it


AGENDA DEL MESE

Mostre MARSIGLIA LA GIOCONDA. ESPOSIZIONE IMMERSIVA Palais de la Bourse fino al 21 agosto

Qual è il motivo (o il segreto) della popolarità di cui gode la Gioconda, il dipinto senza dubbio piú conosciuto al mondo? Da questo interrogativo, all’apparenza semplice, è nato il progetto espositivo che si è ora tradotto nella mostra immersiva presentata a Marsiglia, il cui obiettivo è quello di far

comprendere le ragioni del mito e, soprattutto, di far conoscere il dipinto per quel che è effettivamente, al di là dei presunti misteri e dei luoghi comuni. Una riscoperta del capolavoro leonardesco che si avvale di storie narrate ed esperienze sensoriali organizzate su differenti livelli. Vengono per esempio illustrati i luoghi nei quali il maestro ambientò il celebre ritratto e altre opere celebri – come la Vergine delle rocce – e il contesto storico e culturale in cui maturò la realizzazione del quadro. E c’è spazio anche per ripercorrere la fortuna moderna della Gioconda, nonché le traversie di cui fu

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a cura di Stefano Mammini

involontaria protagonista, prima fra tutte il furto di cui fu vittima nel 1911. Si tratta dunque di una mostra ricca di contenuti, che ha il suo punto di forza nell’altrettanto ricco apparato di supporti multimediali. info www.grandpalais.fr MILANO MEDIOEVO. STORIA, STORIE E MITO A FUMETTI Museo del Fumetto, dell’Illustrazione e dell’Immagine animata fino al 18 settembre

Il termine Medioevo, inteso come età di Mezzo, viene inventato nel Rinascimento e agli occhi dei sapienti di quel tempo si era trattato di un lungo periodo di decadenza, tra le meraviglie dell’antichità e le nuove che sarebbero sicuramente arrivate. Ma non fu cosí! In un periodo di 1000 anni, accadde davvero di tutto e molti di quegli eventi hanno ispirato fumettisti, artisti, ma anche registi e scrittori, imponendosi come un tassello fondamentale del nostro immaginario e della nostra storia. Fumetto, illustrazione e cinema d’animazione hanno avuto un ruolo fondamentale, parlando ai giovani lettori, talvolta ingannandoli, talvolta istruendoli, ma sempre con grandi immagini magnifiche di castelli, dame, armi, qualche

mago e strega di troppo, e cavalieri a catturare l’attenzione. La mostra racconta attraverso tavole originali a fumetti, riproduzioni di armi e armature, manifesti, e molto altro un periodo storico fondamentale, sia attraverso i punti fondamentali che permettono di comprendere meglio un millennio di storia, sia attraverso i miti e le leggende ancora amatissime ai giorni nostri, dal Sacro Graal a re Artú fino a Robin Hood passando, ovviamente, per il falso mito della terra piatta. info tel. 02 49524744; www.museowow.it ROMA TIZIANO. DIALOGHI DI NATURA E DI AMORE Galleria Borghese fino al 18 settembre

L’esposizione è nata in occasione del prestito di Ninfa e pastore, opera autografa realizzata dal maestro veneto intorno al 1565, concessa dal Kunsthistorisches Museum di Vienna nell’ambito di un programma di scambio culturale con la Galleria Borghese. L’incontro tra l’opera

di Vienna e i dipinti di Tiziano presenti a Roma ha offerto l’opportunità di mettere in connessione le opere intorno ad alcuni temi costanti nella produzione del pittore: la natura, intesa come paesaggio ma anche luogo dell’agire umano; l’amore nelle sue diverse forme, divino, naturale, matrimoniale; e il tempo, che scandisce la vita dell’uomo, ne regola il ciclo e lo assimila all’armonia dell’universo. Natura e amore sono legati da un rapporto armonico, parte del ciclo della vita, a cui allude l’allegoria amorosa e musicale di Ninfa e pastore, tra le ultime opere del maestro, considerata da alcuni la summa delle sue aspirazioni artistiche. La mostra ha trovato la sua sede naturale nella sala XX, al primo piano del museo, dove sono già esposti dipinti di scuola veneta e di Tiziano. L’attuale disposizione di Amor sacro e Amor profano e di Venere che benda Amore – posti uno di fronte all’altro – ha suggerito la collocazione di Ninfa e pastore lungo l’altro asse, di fronte a Le tre età sulla parete opposta, qui proposto nella replica di Sassoferrato che nel agosto

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corso del Seicento copia – con ogni probabilità proprio per i Borghese – una versione presente a Roma del dipinto di Tiziano. Ninfa e pastore è il pendant perfetto del dipinto sulla parete opposta: si tratta della medesima riflessione, ma alla fine della vita del vecchio pittore, sull’amore, sul tempo che scorre e tutto divora. info tel. 06 8413979; e-mail: ga-bor@beniculturali.it; www.galleriaborghese.it GUBBIO FEDERICO DA MONTEFELTRO E GUBBIO. «LÍ È TUCTO EL CORE NOSTRO ET TUCTA L’ANIMA NOSTRA» Palazzo Ducale, Palazzo dei Consoli, Museo Diocesano fino al 2 ottobre

La mostra ripercorre i momenti gloriosi vissuti dalla città di Federico e del figlio Guidubaldo, l’ultimo dei Montefeltro, dalla nascita del duca nel 1422 alla morte di Guidubaldo nel 1508. Diventa

occasione per rileggere la storia di Gubbio tra la fine del Trecento e gli inizi del Cinquecento. Il percorso espositivo dà spazio, secondo ambiti peculiari, alle opere concesse in prestito da prestigiose istituzioni italiane e straniere nonché da collezionisti privati: manoscritti, dipinti, documenti, medaglie, monete, armi, armature, sculture, arredi. In particolare dalla Biblioteca Apostolica Vaticana, che conserva l’intera biblioteca di Federico e dei suoi successori, giungono eccezionalmente quindici splendidi manoscritti, distribuiti fra le tre sedi. I natali eugubini di Federico sono avvalorati dalle sue stesse parole, quando, nel 1446, scrive che a Gubbio andavano il suo affetto e la massima intensità dei suoi sentimenti: «perché ve acertamo che lí è tucto el core nostro et tucta l’anima nostra», frase che diventa anche motivo di titolo

per la mostra. Federico, inoltre, fece edificare a Gubbio un proprio palazzo, integrandovi quelle che erano le sedi delle antiche magistrature della città umbra, abbandonate già nel 1321. Con una residenza in posizione urbica elevata e fronteggiante la cattedrale, ripropone la condizione del suo palazzo a Urbino: poteri politico e religioso affiancati e l’uno in prosecuzione dell’altro. Sottolinea cosí, anche idealmente e in continuità con la memoria dei luoghi del potere, il suo dominio. Federico muore il 10 settembre 1482 e gli succederà il figlio Guidubaldo. info Ufficio IAT Gubbio, tel. 075 9220693; e-mail: info@iat.gubbio.pg.it; www.mostrafedericogubbio.it VERONA CAROTO E LE ARTI TRA MANTEGNA E VERONESE Palazzo della Gran Guardia fino al 2 ottobre

Gli spazi monumentali del Palazzo della Gran Guardia accolgono la prima mostra dedicata interamente a Giovan Francesco Caroto (1480 circa1555), con oltre 100 opere provenienti da alcune delle piú prestigiose collezioni italiane e internazionali, che documentano l’evoluzione del grande pittore, seguendolo dagli esordi giovanili al riconosciuto ruolo di artista. Attraverso una serie di restauri sostenuti per l’occasione e un’estesa campagna di analisi diagnostiche, l’esposizione diventa anche l’occasione per approfondire la conoscenza dell’operatività tecnica del pittore e degli interventi che nel corso del tempo hanno interessato le sue creazioni. Negli ultimi anni, la storia che ha legato Verona a uno dei suoi pittori piú affascinanti e

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rappresentativi si è arricchita di nuove testimonianze e significati, il primo dei quali ci viene dal gesto generoso di cittadini veronesi a favore dell’artista e del Museo di Castelvecchio. Nel 2019, infatti, è giunta alla Pinacoteca del Museo, in dono dalla famiglia Arvedi, la splendida Veritas filia Temporis (La Verità è figlia del Tempo), una grande tela ottagonale che decorava in origine la volta dello studiolo privato del gentiluomo e intellettuale veronese Giulio Della Torre, e che ora costituisce uno dei punti focali del percorso. Da segnalare anche la presenza della Madonna della farfalla, un’opera fra le piú belle e famose del pittore. Si tratta di un lavoro giovanile, un dipinto eseguito a olio su tavola, risalente agli anni 1510-1515 e al clima stilistico dell’esperienza a fianco di Mantegna e a contatto con la cultura mantovana e leonardesca. info www.mostracaroto.it FIRENZE LE TRE PIETÀ DI MICHELANGELO. NON VI SI PENSA QUANTO SANGUE COSTA

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AGENDA DEL MESE Museo dell’Opera del Duomo, sala della Tribuna di Michelangelo fino al 3 ottobre (prorogata)

Vengono per la prima volta messe a confronto l’originale della Pietà Bandini, di cui è da poco terminato il restauro, e i calchi della Pietà Vaticana e della Pietà Rondanini provenienti dai Musei Vaticani. Collocate una vicina all’altra, le tre Pietà offrono l’opportunità di vedere l’evoluzione dell’arte di Michelangelo, nonché la sua maturazione spirituale, dalla prima giovinezza – quando a Roma scolpí per la Cappella dei Re di Francia nell’antica S. Pietro l’opera ora nella navata laterale nord della basilica – alla sua ultima stagione, quando, ormai vecchio, mise mano alla Pietà oggi a Firenze e poi alla Pietà Rondanini conservata a Milano. Si tratta di un percorso lungo piú di cinquant’anni, che conduce dall’ambizione del giovane che scolpí il proprio nome sul petto della Madonna della versione vaticana all’immedesimazione personale dell’anziano artista, che, in quella del Museo dell’Opera, raffigura se stesso nelle sembianze di Nicodemo.

Vicino alla propria morte, Michelangelo meditava profondamente sulla Passione di Cristo, come egli stesso fece capire in un coevo disegno della Pietà, donato alla marchesa di Pescara Vittoria Colonna, dove scrisse la frase dantesca: «Non vi si pensa quanto sangue costa» (Paradiso XXIX, 91). Risultato sublime di questa meditazione spirituale fu l’esecuzione della Pietà Rondanini, la cui estrema bellezza rifulge nel tramonto della figura. info https://duomo.firenze.it URBINO FEDERICO DA MONTEFELTRO E FRANCESCO DI GIORGIO: URBINO CROCEVIA DELLE ARTI (1475-1490) Palazzo Ducale, Galleria Nazionale delle Marche fino al 9 ottobre

Nel sesto centenario della nascita di Federico da

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Montefeltro, la Galleria Nazionale delle Marche di Urbino presenta, a partire dal prossimo 23 giugno, la grande mostra «Federico da Montefeltro e Francesco di Giorgio: Urbino crocevia delle arti (1475-1490)», che riunisce 80 opere – tra pitture, sculture, disegni, medaglie, affreschi staccati e codici –, un terzo delle quali provenienti dall’estero. L’esposizione propone un viaggio attraverso un periodo cruciale sia per Urbino e la sua corte, sia per la storia dell’arte italiana, che a quegli anni deve molto. Il percorso espositvo si articola in sette sezioni, che spaziano dall’epoca in cui Francesco di Giorgio viene incaricato del ruolo di «architettore» del duca, assumendosi le funzioni anche di soprintendere ai lavori strutturali e decorativi per la fabbrica del palazzo ducale, nel nome del quale si

snodano anche gli approfondimenti conclusivi. Nel mezzo, come ha dichiarato Luigi Gallo, Direttore della Galleria Nazionale delle Marche, c’è spazio per documentare come il duca Federico avesse saputo «trasformare Urbino in una capitale del Rinascimento: alla sua corte si incontrarono artisti e letterati di estrazione e provenienza diversa, le cui reciproche influenze generano un clima culturale che si ripercuoterà nei decenni a venire. Quell’ambiente, che vide incontrarsi pittori come Piero della Francesca, Giusto di Gand, Pedro Beruguete e Luca Signorelli, gli architetti Luciano Laurana, Francesco di Giorgio Martini e Donato Bramante, fu l’humus dal quale fiorì la genialità di Raffaello e sul quale, Baldasar Castiglione, plasmò il Cortegiano». Ad arricchire la rassegna contribuisce una seconda mostra, «“Quando vedranno i richi vistimenti”. Federico da Montefeltro e Battista Sforza. Vesti e Potere nel primo Rinascimento italiano», che propone la ricostruzione di sei abiti storici del XV secolo: due richiamano gli abbigliamenti del Dittico di Urbino di Piero della Francesca, il famoso doppio dipinto custodito nella Galleria degli Uffizi di Firenze; gli altri quattro (due femminili e due maschili) sono rifacimenti fedeli di abiti dell’epoca, frutto di un approfondito studio delle fonti storiche, giacché degli originali abiti dell’epoca purtroppo a noi non è giunto niente. info tel. 0722 2760; www.gallerianazionalemarche.it SUTTON HOO (UK) SPADE REALI. IL TESORO DELLO STAFFORDSHIRE A SUTTON HOO

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Exhibition Hall

fino al 30 ottobre

L’esposizione riunisce, per la prima volta, due fra le piú importanti scoperte di archeologia medievale mai compiute in Inghilterra: il tumulo n. 1 della necropoli di Sutton Hoo e il tesoro dello Staffordshire. Contesti che offrono una testimonianza straordinaria della maestria raggiunta dagli artigiani anglosassoni specializzati nella lavorazione dei metalli e dell’oro in particolare. Nel primo caso, scavi condotti nel 1939 portarono al ritrovamento di una nave funeraria reale che, alla luce degli studi piú recenti, avrebbe accolto le spoglie di Raedwald, re di East Anglia. Il tesoro dello Staffordshire è invece un insieme di 4600 frammenti di metallo prezioso, rinvenuto da un amatore, grazie al metal detector, nel luglio del 2009. Nella mostra viene sottolineato come gli oggetti, per via delle affinità stilistiche e tecnologiche, sembrano appunto riferibili all’ambito culturale del regno di East Anglia e databili nel VII secolo. Nel caso del tesoro, si tratta, in larga prevalenza, di armi e accessori facenti parte di equipaggiamenti militari ed è stato calcolato che quelli rinvenuti siano i resti di almeno 100 o forse 150 spade differenti, i cui proprietari potrebbero essere stati i condottieri impegnati in molte delle grandi battaglie combattute nell’Inghilterra anglosassone in un’epoca di grandi mutamenti politici, religiosi e culturali. Quanto a

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Sutton Hoo, i reperti, concessi in prestito dal British Museum, comprendono, fra gli altri, vari esemplari delle spettacolari terminazioni piramidali dell’impugnatura delle spade, realizzate in oro, con inserti di granati, e lavorate a cloisonné. Oggetti che, quando affiorarono nel corso dello scavo, lasciarono subito intuire l’eccezionalità del tumulo n. 1 della necropoli reale. info www.nationaltrust. org.uk FIRENZE DA VINCI EXPERIENCE Cattedrale dell’Immagine, chiesa di S. Stefano al Ponte fino al 1° novembre

Torna, interamente rinnovata, Da Vinci Experience, un viaggio immersivo attraverso la vita e le opere di Leonardo. La parabola artistica e personale del maestro viene affrontata in 35 minuti di video immersivo suddiviso in sei blocchi tematici: biografia, colore, pittura, ingegneria/anatomia, acqua e aria. Una narrazione che parte dal racconto cronologico della vita del genio e poi si dirama tra gli effetti visivi dei video generativi che affrontano i tanti temi legati a Leonardo. La nuova Da Vinci Experience è una produzione divulgativa e, nella sezione didattica, è peraltro possibile osservare numerosi modelli delle macchine leonardesche, sia a grandezza naturale che in

scala, mentre nell’area introduttiva sono esposte pregevoli riproduzioni anastatiche dei disegni del Genio. La visita permette infine di sperimentare la Da Vinci VR Experience, un’esperienza di realtà virtuale grazie alla quale il visitatore può confrontarsi con il funzionamento delle invenzioni di Leonardo da Vinci, entrando all’interno del carro armato e azionandone i meccanismi, navigando con la barca a pale, e inseguendo il sogno del volo umano. info tel. 055 2989888; e-mail: info@davinciexperience.it; www.davinciexperience.it; Facebook Cattedrale dell’Immagine ASCOLI PICENO SULLE ORME DI SAN MICHELE ARCANGELO. PELLEGRINI E DEVOTI NELL’ARTE Pinacoteca Civica fino al 6 novembre

Approda ad Ascoli Piceno la mostra itinerante voluta per approfondire il tema del pellegrinaggio attraverso opere che spaziano dal Medioevo al

Seicento, seguendo un percorso all’insegna dei luoghi di culto di san Michele Arcangelo. I pellegrini e i devoti che in gran numero percorrevano gli itinerari di fede europei sono stati piú volte rappresentati dagli artisti che ne hanno messo in evidenza le particolarità dell’abbigliamento, con i segni caratteristici dell’avvenuto pellegrinaggio che consentiva di riconoscerli. I santi invocati durante il percorso, come san Rocco e san Giacomo Maggiore, venivano dunque effigiati dagli artisti con le vesti tipiche dei pellegrini al pari dei santi che nel Medioevo avevano portato la parola di Cristo in luoghi lontani e pericolosi, come san Giacomo della Marca raffigurato sempre con il bordone. La mostra vuole rendere omaggio a questo particolare legame e attingendo a un ricco patrimonio iconografico si è selezionato un nucleo di opere, in un percorso tematico che mette in risalto alcuni elementi particolari, come l’abito caratteristico dei pellegrini e le insegne esibite per certificare di aver intrapreso il viaggio verso i remoti luoghi santi. Fra le opere giunte ad Ascoli si segnala la tela del seicentista Francesco Cozza, recentemente rinvenuta a Roma presso un convento dove era stata nascosta sotto un dipinto moderno affinché le monache non fossero turbate dalla visione del demonio nudo sconfitto da un atletico san Michele Arcangelo. info tel. 0736 298213 oppure 333 3276129; e-mail: info@ascolimusei.it TEGLIO (SONDRIO) CARLO V, DAGLI UFFIZI A PALAZZO BESTA Palazzo Besta fino al 6 aprile 2023

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AGENDA DEL MESE

La mostra si inserisce nel progetto «100 opere tornano a casa. Dai depositi alle sale dei musei», voluto per promuovere e valorizzare il patrimonio storico-artistico e archeologico italiano conservato nei depositi dei luoghi d’arte statali, mettendo cosí in collegamento musei grandi e piccoli. L’opera giunta a Palazzo Besta, un Ritratto di Carlo V a figura intera armato, è stata realizzata da Tiziano Vecellio e dai suoi collaboratori: databile al 1550 circa, proviene dalle collezioni della Galleria degli Uffizi. È un esempio di «ritratto di Stato» introdotto da Tiziano in luogo del piú tradizionale ritratto di corte. Il grande ritratto di Carlo V è messo a confronto con l’effigie dello stesso imperatore affrescata nel Salone d’Onore di Palazzo Besta a Teglio e dialoga con alcuni dei piú illustri personaggi che lo hanno incontrato, come Ludovico Ariosto, Erasmo da Rotterdam, Pietro Aretino; ma anche con i suoi antagonisti politici: Francesco I di Francia, Massimiliano d’Austria, Enrico VIII d’Inghilterra. Tutti, in

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diverso modo, erano contemporaneamente al centro degli interessi culturali e politici dei Besta, che li vollero presenti sulle pareti del Salone d’Onore. La figura di Carlo V è l’occasione dunque per leggere da uno specifico angolo visuale alcuni dei soggetti e dei temi che legano il Palazzo e la famiglia Besta al territorio e alla storia europea loro contemporanea. info tel. 0342 781208; e-mail: drm-lom.palazzobesta@ beniculturali.it

distanza dall’abitato. I Goti di Frascaro vissero separati, ma non isolati, dalla popolazione romana per quasi un secolo (dalla fine del V al terzo venticinquennio del VI secolo), mantenendo tradizioni tipiche della cultura barbarica. info tel. 0144 57555; e-mail: info@acquimusei.it: www.acquimusei.it

ACQUI TERME (ALESSANDRIA)

FESTIVALFILOSOFIA XXII EDIZIONE 16-18 settembre

GOTI A FRASCARO. ARCHEOLOGIA DI UN VILLAGGIO BARBARICO Museo Archeologico di Acqui Terme fino al 27 maggio 2023

Appuntamenti MODENA, CARPI, SASSUOLO

Il Festivalfilosofia torna in piena capienza con quasi 200

L’esposizione presenta per la prima volta insieme i materiali restituiti dalle indagini archeologiche condotte negli ultimi vent’anni nel tratto di

pianura compreso tra la Statale Alessandria-Acqui e il fiume Bormida. Sull’ampio terrazzo fluviale che ha conservato testimonianze di insediamenti pre- protostorici, alcune famiglie gote occuparono un impianto di conduzione agricola di epoca romana imperiale, al quale diedero nuovo impulso, fondando un villaggio di capanne in legno e seppellendo i propri defunti in un cimitero posto a breve

appuntamenti gratuiti in tre giorni per approfondire il tema «giustizia». Oltre 50 lezioni magistrali affidate a grandi protagonisti del pensiero contemporaneo, mostre, spettacoli, iniziative per bambini e cene filosofiche. In società interessate da una ricostruzione materiale e spirituale, la questione della giustizia riguarda temi di redistribuzione, ma anche criteri di accesso, tra merito, competenze e tutele. Tema non solo filosofico e politico, ma anche teologico, per eccellenza, il discorso della giustizia interseca il suo rapporto con la legge e la pena, ivi incluse le questioni di riconoscimento. Mentre nuovi soggetti emergono come destinatari e oggetti di giustizia, il tema si presta per una valutazione complessiva di

passaggi di fondo della storia e della cultura italiana. info www.festivalfilosofia.it CACCAMO (PALERMO) LE GIORNATE MEDIEVALI: UN SALTO NEL PASSATO Castello fino all’11 dicembre

Curata dalla Società Italiana per la Protezione dei Beni Culturali-Sezione Regione Siciliana (SIPBC Sicilia), con la collaborazione del Comune di Caccamo e il patrocinio gratuito della Federazione Storica Siciliana, l’iniziativa propone rievocazioni storiche che si ripetono ogni mese. Fino a dicembre, presso il Castello medievale, si può assistere a una rievocazione intervallata da momenti di narrazione e spiegazione degli ambienti della fortezza. Il programma inizia alle 10,00 nella Sala Prades del Castello, per poi concludersi al baglio centrale. I visitatori saranno accompagnati alla visione

commentata delle sale del piano nobile del maniero da figuranti in abito d’epoca. Questo il calendario delle prossime giornate: domenica 21 agosto; domenica 18 settembre; domenica 23 ottobre. info tel. 091 8149744, cell. 339 3721811 o 320 0486901; e-Mail: sipbc.regionesiciliana@gmail.com, sicilia@sipbc.it agosto

MEDIOEVO



ANTE PRIMA

IN EDICOLA

TEMPLARI

La storia, la leggenda, la memoria

N

el 1095, nel corso del concilio di Clermont-Ferrand, papa Urbano II pronuncia il fatidico discorso con il quale esorta la cristianità a strappare il Santo Sepolcro di Gerusalemme dalle mani degli «infedeli»: le sue infuocate parole danno l’avvio all’epopea delle crociate ed è questa l’atmosfera nella quale germoglia il glorioso Ordine del Tempio, protagonista del nuovo Dossier di «Medioevo». Gli uomini che ricamano sulle loro bianche uniformi la croce rossa si dedicano, inizialmente, all’assistenza dei pellegrini diretti verso i luoghi santi, ma presto scelgono di imbracciare le armi e danno cosí vita a una congregazione di veri e propri monaci-cavalieri, di cui Bernardo di Chiaravalle esalta le virtú. L’ascesa dei Templari diviene inarrestabile, anche grazie all’accumulo di ricchezze sempre piú consistenti, che consentono loro di moltiplicare le sedi, non piú soltanto in Oriente, ma, soprattutto, li fanno entrare a pieno titolo nei grandi giochi finanziari del tempo, come prestatori di denaro. E proprio questa svolta sarà all’origine della fine: agli occhi di molti l’Ordine del Tempio si è tasformato in una potenza pericolosa e incontrollabile e cosí, fomentata dal re di Francia Filippo il Bello, ha inizio una campagna denigratoria che assume in poco tempo i contorni della persecuzione. Si susseguono arresti, torture, condanne a morte e, con l’avallo di papa Clemente V, nel 1312, la nobile confraternita viene definitivamente soppressa. Una storia dapprima gloriosa e poi sempre piú fosca che il nuovo Dossier di «Medioevo» ripercorre passo dopo passo, fino ai non pochi tentativi di rivitalizzare l’Ordine templare in età moderna.


Jacques de Molay conquista Gerusalemme, 1299, olio su tela di Claude Jacquand. 1846. Versailles, Musée national des châteaux de Versailles et de Trianon. L’artista ha qui immaginato un evento immaginario: alla data del 1299, infatti, il Gran Maestro dell’Ordine templare non si trovava nella Città Santa.

GLI ARGOMENTI

• Alle origini di un mito • L’età delle crociate • La nascita e la Regola • La vita quotidiana • L’organizzazione • La crisi • Il templarismo

IOEVO MED Dossier

353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c.1, LO/MI.

M TE

Timeline Publishing Srl - Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L.

MEDIOEVO DOSSIER

I DE I NE R DI LA R P L’O

TEMPLARI

STORIA

LEGGENDA

MEMORIA N°51 Luglio/Agosto 2022 Rivista Bimestrale

20051 9

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€ 7,90

L’ORDINE DEI TEMPLARI

di Federico Canaccini

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IN EDICOLA IL 15 LUGLIO 2022

05/07/22 16:56


costume e società

Gaudenti in nome di Maria

di Giulia Maria Gliozzi Wilkins

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Reazionari o illuminati? Nasce a Bologna, alla fine del Duecento, un Ordine di frati cavalieri dal nome e dallo statuto singolari. Composto da laici esclusivamente nobili, erano votati, soprattutto, all’impegno politico e alla repressione dell’abuso di potere. Per alcuni cronisti dell’epoca, però, erano semplici pedine nelle mani del pontefice…

N

ell’Italia centro-settentrionale del XIII secolo, quando il potere imperiale ed ecclesiastico veniva fortemente contestato in favore delle autonomie comunali, alcuni nobili in difesa dei propri diritti e dell’autorità papale decisero di fare fronte comune e fondare l’Ordine dei frati Gaudenti. Ma chi erano questi frati? Come ha sottolineato il giornalista e scrittore Giancarlo Riversi, nonostante la carenza di fonti, vasta è la bibliografia sull’Ordine dei Milites Beatae Virginis Mariae, detto appunto dei Gaudenti. Il soprannome ha varie possibili origini. Una prima ipotesi vuole che si rifaccia a un epiteto beffardo, in quanto si trattava di frati coniugati e non claustrali; una seconda è che possa semplicemente derivare dai misteri gaudiosi; oppure, come terza possibilità, il soprannome potrebbe

I frati Gaudenti sfilano sotto gli occhi di Virgilio e di Dante, che li colloca all’Inferno, tra gli ipocriti, in una tavola realizzata da Gustave Doré per un’edizione illustrata della Divina Commedia. 1906.

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costume e società la regola dell’ordine

I requisiti del Gaudente Nella Cronaca di Ronzano e Memorie di Loderingo D’Andalò, frate gaudente (1851), Giovanni Gozzadini riporta il testo della Regola che l’Ordine si era data. Eccone alcuni dei passi piú significativi: «Obbediscano al loro prelato, e non escano dal monastero senza licenza di lui: giacciano nel comune dormitorio, mangino nel refettorio comune. Se qualcuno vuole entrare nell’ordine vi sia ricevuto dal generale, purché sia idoneo e non sospetto di eresia, o gravato di debito o d’usure, e niuno ne esca se non per entrare in ordine piú austere. I clerici portino il guarnello bianco, e le soprappellicce e cappa chiusa. I laici abbiano tunica interna colle maniche chiuse di panno bianco, sulla quale possano portare la guarnaccia di simile colore e il mantello bianco. (...) Abbiano lo scudo, l’elmo, la sella e le altre insegne militari di color bianco colla croce e due stelle rosse, i freni dei cavalli non dorati ma semplici. Possano portare armi per difesa della fede cattolica e delle libertà ecclesiastiche, e per sedare i tumulti nelle città, con licenza del diocesano, (...) ma badino non estendere il permesso in favore o ingiuria di alcuno. (...) I frati coniugati promettano vivere obbedienti al prelato, salvo il diritto di matrimonio; vestano come i conventuali, e di piú possano portare il guascapo do panno grigio. (...) I coniugati possano essere ammessi fra conventuali dopo che le loro mogli siano morte o entrare in religione, o siano di tale età da poter restare al secolo senza sospetto, o abbiano conceduto al marito licenza di far quella professione». riferirsi alla chiesa di S. Maria del Gaudio di Bologna, dove effettivamente l’Ordine nacque. Fu papa Alessandro IV (1254-1261) ad autorizzarne la fondazione, senza però aver emanato una bolla e cosí, il 25 marzo 1261, venne costituito nel giorno dell’Annunciazione, da cui il nome di Cavalieri della Milizia di Santa Maria.

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Lo storico Giovanni Gozzadini (1810-1887) insistette sul fatto che il nome fosse stato attribuito in quanto «i militi fossero piú impegnati a combattere l’eresia predominante, che impugnava la virginità e maternità divina di Maria santissima». I Gaudenti vennero in ogni caso ufficialmente riconosciuti il 23 dicembre 1261, con la bolla

Tavola raffigurante il girone infernale nel quale si trovano i Gaudenti, da La Comedia di Dante Alighieri con la nova espositione, edizione commentata del poema dantesco curata dal letterato lucchese Alessandro Vellutello. Venezia, 1544.

Sol ille verus di Urbano IV (12611264). Erano laici, prettamente cavalieri e nobili, come testimoniano la bolla stessa e il poeta Guittone d’Arezzo (1230/1235-1294), il quale, nella lettera XXXVI, indirizzata al notaio messer Ranuccio da Casanova, futuro frate gaudente, scrive: «saver dovete che Cavallaria nobilissimo è ordin seculare». agosto

MEDIOEVO


Sei poeti toscani, olio su tavola di Giorgio Vasari. 1544. Minneapolis, Minneapolis Institute of Art. In primo piano, Francesco Petrarca (a sinistra) e Dante Alighieri; in secondo piano, da sinistra, Guittone d’Arezzo, Cino da Pistoia, Giovanni Boccaccio e Guido Cavalcanti.

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costume e società Se inizialmente papa Alessandro IV aveva autorizzato l’Ordine di gentili omini e cavalieri, papa Urbano IV volle che ne facessero parte non solo i laici, ma anche i professi e i clerici. Come si legge nella Sol ille verus, i fondatori furono Peregrino Castelli, Castellano Malavolta, Giramonte Caccianemici e Ugolino Lamberti, tuttavia, grazie alla Divina Commedia (Inf. XXIII, 104), i nomi dell’Ordine rimasti immortali sono quelli di Loderingo d’Andalò e Catalano Malavolti. Sebbene Catalano non venga citato nella bolla papale e il suo nome sia pervenuto solo grazie alla testimonianza del cronista guelfo fra Salimbene da Parma (1221-1281), non vi è dubbio che egli sia stato fra i primi adepti e che abbia ricoperto, come vedremo poi, un ruolo centrale nell’ambito dell’Ordine.

Povertà e castità

Fondandosi sulla Regola agostiniana, i frati Gaudenti facevano voto di obbedienza, povertà e castità, quest’ultima intesa come continenza maritale per i cavalieri coniugati (vedi box a p. 30). Fra i membri laici si potevano quindi distinguere coloro che erano sposati dai conventuali. I primi potevano avere moglie, proprietà e non vivere in comunità, conservando l’obbligo di attendere alle prediche, discutere gli interessi comuni e prender parte ai capitoli, inoltre non potevano esser ammessi al gruppo dei conventuali a meno che fossero vedovi oppure che la moglie avesse preso ugualmente i voti. I conventuali potevano invece vivere in comunità, pur non prendendo i voti. Entrambi i gruppi, comunque, rimanevano cavalieri, connotandosi come un ceto benestante munito d’armi e cavallo, al servizio del vescovo per sedare le rivolte popolari. L’Ordine dei Gaudenti aveva un preciso programma socio-economico. Al tempo, papa Urbano IV (il francese Jacques Pantaléon), si proponeva di restaurare il potere del-

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la Chiesa negli Stati italiani e, una volta eletto, si circondò a tal fine di collaboratori che lo appoggiarono sulla questione del lignaggio della corona siciliana. Non volle mai riconciliarsi con Manfredi di Svevia, figlio illegittimo di Federico II, che si era fatto incoronare re di Sicilia nel 1258 e propose la corona a Carlo d’Angiò. Il papa gli impose il cosiddetto «patto angioino», un accordo che assicurava importanti benefici per le casse della Santa Sede. L’agenda papale era dunque incentrata su obiettivi politicoeconomici e la fondazione dell’Ordine gaudente poteva trasformarsi in un’occasione per assoggettare la cavalleria al pontificato, soprattutto dopo che il 4 settembre del 1260, a Montaperti, nei pressi del fiume Arbia, i guelfi di Firenze erano stati sbaragliati dai ghibellini di Siena. Questi ultimi erano capeggiati da Manfredi e poterono contare sull’appoggio degli esuli ghibellini fiorentini, capitanati da Farinata degli Uberti.

Uomini illuminati

L’impegno politico era dunque centrale per i Gaudenti, come si evince anche dalla già menzionata bolla Sol ille verus, nella quale si asserisce la dedizione a un progetto reazionario, quello cioè di ristabilire il potere della classe aristocratica/ecclesiastica nei comuni. Nelle direttive papali, i membri dell’Ordine dovevano essere uomini illuminati di luce divina, che li elevava al di sopra del popolo e dunque delle fazioni, per conferirgli il potere di operare al fine del bene comune. E una delle regole dell’Ordine era indirizzata proprio a reprimere l’abuso di potere «in favore o ingiuria di alcuno». Nel 1266, Loderingo e Catalano furono inviati a Firenze da papa Clemente IV (1265-1268), successore di Urbano IV. Furono strumenti della politica pontificia che voleva il ritorno dei guelfi a scapito agosto

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Veduta aerea dell’eremo di Ronzano (Bologna), nel quale si ritirò a vivere sino alla fine dei suoi giorni Loderingo degli Andalò, uno dei fondatori dell’Ordine dei Gaudenti, e, successivamente, anche il poeta Guittone d’Arezzo.

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costume e società

dei ghibellini, ai quali, una volta allontanati, furono confiscati i beni. Purtroppo, l’intento di pacificare Firenze fallí miseramente e, con esso, la loro reggenza, sulla quale i giudizi dei cronisti sono alquanto contrastanti: alcuni considerano l’operato dei due Gaudenti come il frutto di ipocrisie e corruzione; altri, invece, li biasimano in quanto pedine nelle mani del pontefice. Scrisse per esempio, lo storico Ludovico Savioli (1729-1804): «Acquistarono dapprincipio fama di esatta giustizia, non preferendo piú i guelfi che i ghibellini, fra i quali divisero in ugual misura l’interna amministrazione, e addolcirono gli animi a modo che sorse giusta speranza di salda conciliazione».

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Mentre il cronista Giovanni Villani (1280-1348), piú vicino all’epoca in cui gli eventi ebbero luogo, ricorda: «Sotto coperto di falsa ipocrisia furono in concordia piú vantaggio loro proprio che al bene comune». Ciò non comportò la scomparsa dell’Ordine gaudente, che cercava di difendere i privilegi dati dallo status di nobilis, miles ed ecclesiasticus dei suoi membri. E il già citato Salimbene da Parma li aveva accusati di essere «avarissimi» e di servire solo a se stessi. Sulla stessa linea si collocò Dante, condannando i Gaudenti fra gli ipocriti (Inf. XXIII, 103-108), rei di aver governato subdolamente Firenze durante il loro mandato e di non aver pacificato le opposte fazioni, badando solo ai propri interessi.

Il giudizio appare in realtà basato sull’erronea convinzione che aver accettato quell’incarico fosse andato contro le regole dell’Ordine, nonostante avessero obbedito a una richiesta del pontefice. Proprio per questo, in tempi piú recenti, Gaetano Salvemini (18731957) ha riabilitato i Gaudenti, reputandoli invece meri strumenti della politica pontificia.

Il figlio del camerlengo

In questo quadro storico si colloca Guittone d’Arezzo, che entrò nell’Ordine dei frati Gaudenti nel 1265. Poco è dato sapere su di lui e gli scarsi accenni biografici provengono principalmente dagli scritti del poeta stesso. Grazie al padre, agosto

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Nella pagina accanto l’interno dell’eremo di Ronzano, situato sui colli bolognesi, dove Guittone d’Arezzo ebbe modo di incontrare Loderingo degli Andalò. A destra ritratto di Guittone d’Arezzo, olio su tavola di Cristofano dell’Altissimo. 1552-1568. Firenze, Galleria degli Uffizi.

Viva di Michele, Guittone aveva potuto ricevere un’educazione adeguata presso lo Studium aretino, tuttavia, nonostante l’agiatezza delle sue condizioni, nella canzone XV, Gente noiosa e villana, si lamenta del prezzo dell’affitto ch’era costretto a pagare: «la casa e ’l poder ch’eo / li aveva era non meo, / mai lo teneva dal comune in fio» (vv. 63-65). La figura paterna compare anche nella lettera XVIII, che Guittone scrive a Marcuzzo Iscornigiano, dapprima chiedendogli di riscattare il debito contratto durante il suo assessorato con il podestà d’Arezzo nel 1249, per poi ritrattare, fidando nella lealtà del debitore e annullando il risarcimento. Iscornigiano aveva infatti ricevuto una somma ingente dal padre di Guittone, camerlengo del comune d’Arezzo, come si legge appunto nella missiva: «come credo a voi sovenga, nel tempo che fuste ascessore d’Arezzo, Viva de Michele, lo quale fo detto mio padre, camarlingo fue del Comune e me vedeste picciul garzone molte fiate servi lui in Palazzo» (XVIII, 4). Altre note biografiche provengono dalla canzone XXXII, O cari frati miei, con malamente, che risalirebbe al 1266, secondo la dedica a Tarlato di Pietramala, capitano d’Arezzo in quell’anno, e nella quale si legge che aveva moglie e tre figli, che abbandonò quando lasciò la città natale «e bella donna e piacentera avia; / (...) ch’abandoni / figliuol che picciol vede, / com’io tre picciolelli abandonai» (vv. 86-92).

Lo scontro con il vescovo A tal proposito, si ricorda il dissidio con Guglielmo degli Ubertini, ghibellino e vescovo d’Arezzo

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(1248-1289). Questi era a favore di un’alleanza con i ghibellini fiorentini, una scelta che probabilmente fu causa di dissapori con Guittone, di fazione guelfa, il quale decise di autoesiliarsi nel 1266. Dello screzio si trova testimonianza anche nella canzone XVIII, Ora che la freddore, nella quale il poeta esorta ser Orlando da Chiusi a riacquistare «per forza di guerra» le proprie terre. Nei Documenti per la Storia della Città di Arezzo nel Medio Evo (1899), opera curata da Ubaldo Pasqui, si legge che ser Orlando da Chiusi aveva effettivamente fatto violenza ad alcuni sostenitori del vescovo degli Ubertini, causandogli la perdi-

ta di feudi che aveva ricevuto in usufrutto dalla Chiesa aretina. Il fatto che Guittone fosse schierato con i guelfi è attestato anche dalle canzoni XIX, Ahi Lasso, or è stagion de doler tanto, e XXXIII, O dolce terra aretina, scritte per la già citata battaglia di Montaperti. In entrambe il poeta si lamenta dapprima della disfatta di Firenze e poi della supremazia ghibellina instauratasi ad Arezzo dopo lo scontro, che portò discordia fra concittadini: «e foll’è anche chi mal mette e ha messo / nel suo vicin prosmano» (O dolce terra 129-130). L’adesione all’Ordine dei Gaudenti avvenne intorno alla mezza etate della sua vita, come Guit-

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costume e società

tone stesso dice nella canzone XXVII, Ahi, quant’ho che vergogni e che doglia aggio. È verosimile ipotizzare che, entrando nell’Ordine, il poeta facesse parte dei coniugati, non solo perché aveva moglie e figli, un legame indissolubile, ma anche perché, come si può constatare nel ritratto dipinto da Cristofano dell’Altissimo (vedi foto a p. 35) veste di grigio, colore che la regola dei Gaudenti assegna appunto ai membri sposati.

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Nel 1285, Guittone soggiornò all’eremo di Ronzano (vedi foto alle pp. 32/33), sui colli bolognesi, dove si occupò degli affari dei Gaudenti. Tutti gli atti furono redatti dal notaio Martinus Roselli, anch’egli frate dell’Ordine. In realtà, la relazione del poeta aretino con il convento gaudente è ancora piú fitta, se si considera l’acquisizione di un appezzamento di terra per 60 libre, forse proprio quella vigna comprata il 3 aprile 1285 con il già citato nota-

io Ranuccio da Casanova. A questo punto, è d’obbligo ricordare la stima di Guittone per il fondatore Loderingo d’Andalò, con il quale quasi sicuramente si incontrò di persona a Ronzano, dove Loderingo visse 26 anni e morí nel 1293. Stima espressa nella canzone XL, Padre dei padri miei e mio messere, che testimonierebbe, come, pur non essendo un cavaliere, avesse ricoperto un ruolo centrale nell’Ordine dovuto alla sua notorietà di poeta duecentesco. agosto

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In basso disegno raffigurante l’eremo di S. Maria degli Angeli, alla cui costruzione contribuí il donativo accordato da Guittone d’Arezzo ai Camaldolesi, dal Codice Rustici. 1425-1450. Firenze, Seminario Arcivescovile.

La battaglia di Montaperti, dall’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

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Negli ultimi anni di vita, però, Guittone si allontanò dai Gaudenti, come testimoniano gli atti per un cospicuo donativo di duecento libre pisane a favore dei Camaldolesi, che sarebbe servito alla costruzione del monastero ed eremo di S. Maria degli Angeli di Firenze, in cambio di un vitalizio annuo di otto libre pisane. Si tratta di un gesto significativo, poiché sappiamo che i Gaudenti avevano confiscato un’abbazia ai Camaldolesi, e Guittone sembra

voler attestare la sua autonomia rispetto all’Ordine. Restano ignote le ragioni di questo allontanamento, ma qualunque sia stato il motivo, l’orgoglio di essere stato frate gaudente è indiscutibile, come prova la canzone XXVII, Ahi, quant’ho che vergogni, nella quale si parla della grazia fattagli dalla «tradolze e beata Maria» (v. 43) di essere entrato «a vostro cavaleri / mi convitaste, e mi degnaste amare, / e del secol retrare, / che loco è de bruttezza e de falsía» (vv. 45-49).

Da leggere Antonello Borra, Guittone d’Arezzo e le Maschere del Poeta, Longo, Ravenna 2000. Claude Margueron, Recherches sur Guittone d’Arezzo, Presses Universitaires de France Paris, 1966. Giovanni Gozzadini, Cronaca di Ronzano e Memorie di Loderingo D’Andalò Frate Gaudente, Società Tipografica Bolognese Bologna, 1851. Giancarlo Roversi, L’Ordine della Milizia di Maria Vergine Gloriosa Detto dei Frati Gaudenti,

Ronzano e i Frati Gaudenti, 1965, pp. 11-50. Cesare Paoli, Il Libro di Montaperti, G.P. Vieusseux, Firenze, 1889. Gilles Gerard Meersseman, Ordo Fraternitatis. Confraternite e Pietà dei Laici nel Medioevo, Herder Editrice e Libreria, Roma, 1977. Antonino De Stefano, Riformatori ed Eretici del Medioevo, Cuini Libraio, Palermo 1938. Franco Fabio, Guittone e i Guittoniani. Libreria Scientifica, Napoli, 1971.

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federico da montefeltro

Attenti

a quei

di Furio Cappelli

due

Sulle due pagine medaglie raffiguranti Federico da Montefeltro, conte e poi duca di Urbino. Milano, Civiche Raccolte.

Seicento anni fa nasceva a Gubbio uno dei piú celebrati signori d’ogni tempo, Federico da Montefeltro. La sua città ricorda la ricorrenza con una grande rassegna, allestita in tre splendide sedi. A Urbino, invece, un’esposizione nel «suo» Palazzo Ducale coglie l’occasione per mettere a confronto la «luce d’Italia» con uno dei massimi ingegni dell’epoca, il poliedrico Francesco di Giorgio Martini 38

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F F

ederico della casata dei Montefeltro, conte (14441474) e poi duca di Urbino (1474-1482), nacque a Gubbio il 7 giugno 1422. Personaggio poliedrico, affascinante – protagonista di un ampio capitolo della storia politica e culturale del Quattrocento nella sua veste di guerriero, uomo di lettere e di Stato –, viene celebrato, nel sesto centenario della nascita, con due mostre, che si svolgono in contemporanea a Gubbio e a Urbino. La prima è curata da Francesco Paolo di Teodoro, con Lucia Bertolini, Patrizia Castelli e Fulvio Cervini, mentre la seconda si deve ad Alessandro Angelini, a Gabriele Fattorini e a Giovanni Russo. Le esposizioni coinvolgono i rispettivi palazzi ducali, intrapresi da Federico in persona, e nella città umbra l’evento si estende anche al Palazzo dei Consoli e al Museo Diocesano. Grazie a un accurato coordinamento, i due percorsi espositivi si integrano agevolmente, in modo da comporre un quadro quanto piú completo e avvincente di una grande realtà politica e culturale, estesa agli ambiti di tre attuali regioni (Marche, Umbria, Emilia-Romagna). Allo stesso tempo, entrambe le mostre permettono di approfondire aspetti della specifica realtà interessata, consentendo uno sguardo ancora piú attento sulla celebre corte urbinate o rivelando dettagli poco noti della realtà eugubina del Quattrocento, a partire dallo stesso Palazzo Ducale, di gran lunga meno celebre del suo equivalente marchigiano. Federico costituisce naturalmente una presenza costante in ogni sala, ma un significativo traitd’union è costituito dalla figura e dall’opera di uno dei principali talenti che lavorarono al suo servizio, l’architetto-ingegnere Francesco di Giorgio Martini da Siena (1439-1501), che, sostanzialmente, è il protagonista della mostra di Urbino ed è titolare di due preziose

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federico da montefeltro sezioni della rassegna di Gubbio. Per giunta, ha lasciato una forte impronta proprio sulle due principali sedi espositive. Ha realizzato il Palazzo Ducale di Gubbio (14741482) e già nel 1477 era impegnato nel compimento del Palazzo Ducale di Urbino, avviato dal dalmata Luciano Laurana.

Una paternità discussa

Federico da Montefeltro è avvolto in un alone romanzesco già al momento della sua venuta al mondo. Secondo la versione ufficiale, era figlio naturale del conte Guidantonio. Sua madre dovette essere una nobile damigella di corte, e la sua nascita fu motivo di gioia per il conte di Urbino, poiché la sua consorte non gli aveva dato eredi. Ma una versione alternativa della vicenda, fortemente appoggiata dai Malatesta – la potente famiglia dei signori di Rimini cui apparteneva Rengarda, prima moglie di Guidantonio –, escludeva recisamente una tale illustre paternità. Federico, secondo la propaganda dei Malatesta, era sí di nobili ascendenze, ma suo padre era un’altra persona. I duchi di Urbino Federico da Montefeltro e Battista Sforza, dittico a olio su tavola di Piero della Francesca. 1473-1475 circa. Firenze, Galleria degli Uffizi.

La perdita dell’occhio

Il profilo migliore Federico da Montefeltro rimase vittima dell’incidente all’occhio nel 1451, allorché nelle manovre di preparazione di una giostra che si doveva tenere proprio in suo onore, la lancia di un contendente aveva perforato la visiera dell’elmo del duca, privandolo in un sol colpo dell’occhio destro e della parte sommitale del naso. Per questo motivo i ritratti del

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duca lo presentano rigorosamente di profilo, con l’unico occhio sano in vista, senza tuttavia privilegiare sempre lo stesso lato del volto. L’esempio proverbiale è il dittico di Piero della Francesca (vedi foto in queste pagine), dove si contrappongono i ritratti di Federico e della sua seconda consorte, Battista Sforza, sullo

sfondo di un paesaggio concreto e al tempo stesso lontano da qualsiasi immediata percezione terrena. Alla rappresentazione di profilo, in primo piano, si abbina sul retro una rappresentazione allegorica con il corredo di versi poetici, dove i due coniugi si delineano a figura intera dall’alto di due carri, in un’atmosfera trasfigurata e impalpabile. agosto

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Naturalmente l’interessato respinse sempre con forza questa ricostruzione dei fatti, bollandola come una bieca maldicenza, ma nessuno poté mai appurare la verità, né escludere che le cose fossero andate davvero in un altro modo. Basta a questo riguardo una testimonianza illustre. Il papa umanista Pio II, al secolo Enea Silvio Piccolomini, nella sua celebre biografia (Commentarii: IV, 8), narra di aver ricevuto l’allora conte di Urbino Federico nel 1459, per concordare un’alleanza contro l’irrequieto condottiero Giacomo Piccinino. E il papa non esita a presentare Federico come un uomo «abile ed eloquente». Sottolinea il fatto che avesse perso un occhio durante un torneo (vedi box alla pagina precedente). Dopo questi rapidi cenni, Pio II passa subito a definire il personaggio riportando la diceria sui suoi oscuri natali: «Si racconta che egli fosse figlio di Bernardino della Garda, un comandante di milizie che un tempo aveva goduto di buona fama; e una concubina di Guido [Guidantonio, n.d.A.] signore d’Urbino lo avrebbe sostituito, ancora piccolo, a un suo figlio morto». Il papa non si preoccupa di verificare questa versione, ma la accetta senza remore per delimitare la potenza e la legittimità del signore di Urbino. Egli se ne serve per le indubbie abilità militari, lo ammira per la sua strepitosa cultura, ma non esita a sottolinearne la natura tirannica.

Lussurioso e iniquo

Di seguito, infatti, Pio II narra l’episodio che stende un’ombra inquietante sulla sua ascesa al potere. L’ostacolo era costituito dal fratellastro Oddantonio, erede legittimo che Guidantonio ebbe dalla sua seconda consorte, Caterina Colonna, nel 1427. Costui aveva una triste fama per via della sconfinata propensione alla lussuria – «aveva piú volte violato la purezza di mogli e figlie di cittadini urbinati» – a cui si

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federico da montefeltro

grandi a confronto

Tra passato e presente Il colloquio tra il papa e il principe è citato a Gubbio nella sezione della mostra in Palazzo dei Consoli, dedicata a Federico uomo d’arme. Vi si mette in rilievo proprio la dimensione estetica della guerra rinascimentale, proponendo il confronto tra elementi dell’armamentario dell’epoca e alcune iconografie. Un fronte di cassone ligneo, in particolare, rappresenta uno scontro tra cavalieri con una grande accuratezza nella resa delle armi e delle bardature, sullo sfondo di uno splendido paesaggio. Realizzato da Andrea del Verrocchio intorno al 1475, il dipinto rappresenta la battaglia di Pidna, combattuta in Grecia, nel 168 a.C., tra Romani e Macedoni (vedi foto in alto, sulle due pagine). In realtà, il pittore propone una visione ideale della guerra propria del suo tempo, e la proietta nel passato. Cosí, come accade anche nel colloquio tra Federico e papa Pio II, le glorie del mondo antico e le glorie del presente si rispecchiano in modo assai significativo. era aggiunta l’imposizione di un regime fiscale piuttosto pesante sui suoi sudditi (su questo il papa non si sofferma). Oddantonio si era cosí creato una tale ostilità che ben facilmente si costituí una congiura ai suoi danni. Il 22 luglio 1444 il piano dei cospiratori si compí con immane ferocia. Il papa non entra nei det-

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Battaglia di Pidna, fronte di cassone dipinto a tempera da Andrea del Verrocchio. 1475 circa. Parigi, Musée Jacquemart-André. Nella pagina accanto Ritratto di Federico da Montefeltro e del figlio Guidobaldo, tempera su tavola del pittore spagnolo Pedro Berruguete. 1476-1477. Urbino, Galleria Nazionale delle Marche.

tagli, ma si trattò di una vendetta in piena regola. Pugnalato ripetutamente, finito con un colpo d’ascia sulla testa, il signore di Urbino fu anche oggetto di vilipendio. Il cadavere fu gettato in strada e il suo sesso amputato gli fu infilato in bocca. La notizia dell’assassinio fu prontamente trasmessa a Federico, che si trovava in quel mentre

a Pesaro. Senza alcuna esitazione, come racconta Pio II, il 23 luglio «si presentò alle porte della città e, fatto entrare dagli abitanti, se ne arrogò la tirannide in qualità di figlio di Guido [Guidantonio, n.d.A.], sia pure nato da una concubina. Questo è infatti il costume degli Italiani: che i figli illegittimi governino tranquillamente gli Stati. Federico fu cosí propiziato non tanto dal padre vero e legittimo [il condottiero Bernardino della Garda, n.d.A.] quanto da quello finto e adulterino [Guidantonio da Montefeltro, n.d.A.]».

Una macchia indelebile

Si disse subito che Federico era coinvolto nella congiura, e di sicuro non si adoperò molto per assicurarne i responsabili alla giustizia. I suoi nemici gli affibbiarono subito l’epiteto di Caino, e il presunto fratricidio macchiò per sempre la sua immagine. Papa Pio II raccoglie la maldicenza e la presenta in termini meno netti che nel racconto della nascita oscura di Federico. Afferma infatti che il crimine si consumò «a quanto pare» con la sua complicità, ma tanto basta per tessere un alone sinistro sul signore di Urbino, facendo seguire un’amara riflessione sul malcostume imperante negli Stati italiani. In perfetta coerenza, il pontefiagosto

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ce si guardò bene dal concedere a Federico garanzie sulla trasmissione del proprio dominio a un erede. D’altronde, il conte di Urbino ebbe modo di accedere al titolo ducale, su nomina di papa Sisto IV, solo nel 1474. Lo stesso titolo, che conferiva la qualifica di vicario apostolico, era stato già concesso da papa Eugenio IV al fratellastro Oddantonio nel 1443, prima ancora che ereditasse la signoria. Piú di un’ombra, insomma, si addensava sulla coscienza di Federico, a tal punto che egli stesso poteva pensare, nei momenti di sconforto e di malinconia, di essere vittima di un castigo divino per i peccati commessi. In una lettera inviata a Francesco Sforza l’11 agosto 1458, interpretava la perdita dell’occhio appunto come una punizione celeste, che si perpetuava ancora piú atrocemente in quel momento, per via della morte dell’amato figlio naturale Buonconte: erede designato e provetto conoscitore delle lingue classiche, tanto da suscitare a soli 17 anni l’ammirazione del cardinal Bessarione, illustre cultore della sapienza greca, di passaggio a Urbino nel 1453. Prima ancora di divenire un illustre principe mecenate, Federico si era fatto le ossa come mercenario di prim’ordine, e piú di una espe-

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federico da montefeltro Frontespizio di un’edizione dei Precetti della militia moderna, opera del poligrafo Girolamo Ruscelli. Venezia, 1572.

rienza militare può aggiungersi a comporre un quadro sinistro, anche nel momento del suo apogeo. Basti pensare a quel sacco di Volterra, compiutosi nel 1472, dove una sequela di crimini si consumò senza freni ai danni della popolazione inerme, e Federico, al soldo di Lorenzo de’ Medici, ne fu il diretto responsabile, sebbene avesse stabilito che le truppe non dovessero infierire sulla città per piú di una mezza giornata. Ma tutto questo si dilegua d’incanto quando lo vediamo nel pieno del suo splendore, a rivestire in modo sublime il ruolo di «uno dei piú illustri rappresentanti del potere principesco», come lo definí lo storico svizzero Jacob Burckhardt (1818-1897). Piú vicino alla sua sensibilità umanista e meno coinvolto nel suo ruolo di pastore delle anime e di uomo di Stato, papa Pio II Piccolomini ha modo di riparlare diffusamente di Federico in un altro famoso passo dei Commentarii (V, 26), e questa volta il tiranno fratricida e illegittimo lascia spazio a tutta un’altra visione, come se ci trovassimo di fronte all’immagine

La corte

Un’invenzione del Medioevo Quando parliamo di un illustre ambiente di corte ci troviamo solitamente alle prese con il Rinascimento, eppure, nonostante l’importanza dell’eredità greco-romana in questa fase storico-culturale, una corte propriamente detta nell’antichità non è mai esistita. Anche se qualcosa di simile si è concretizzato ai tempi dell’antica Roma, non ha dato luogo ad alcuna nozione specifica.

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Solo nel Medioevo lo «stare a corte» suscita l’idea di una condizione privilegiata in chiave morale e culturale, ed espressioni come «fare le corte» o «essere cortesi» non avrebbero senso senza l’esperienza specifica che si maturò in quel periodo. Come sottolinea lo storico Peter Burke, infatti, già nel X secolo il vocabolario ciceroniano delle buone maniere si adatta in modo identificativo all’ambiente di corte.

Lo stesso Burke sottolinea, d’altronde, che le parole elogiative che il Castiglione indirizza all’imperatore Carlo V d’Asburgo (15191566), proprio in ragione della sua «cortesia», potevano essere rivolte con la stessa efficacia al duca-trovatore (poeta) Guglielmo IX d’Aquitania (1071-1126/7). Manoscritto con miniatura che ritrae il duca Guidubaldo, da un’edizione del Cortegiano di Baldassarre Castiglione. XVI sec. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. agosto

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Il camino monumentale nel Salone del Palazzo Ducale di Gubbio. L’edificio fu realizzato su progetto di Francesco di Giorgio Martini fra il 1474 e il 1482.

di un generale che incede vittorioso alla testa delle sue truppe, in un fregio dell’antichità romana. L’occasione è fornita da un episodio che si verificò nel luglio 1461. Per sfuggire all’asfissiante calura estiva, il papa aveva deciso di trasferirsi da Roma a Tivoli. Durante il viaggio – non privo di insidie per via di una situazione di grande irrequietezza di parecchie città –, Piccolomini poté contare per un tratto sulla scorta dei cavalieri di Federico in persona: «Il pontefice ammirò compiaciuto lo splendore delle armi e delle bardature di uomini e cavalli. Che vi è infatti di piú bello di una schiera di soldati in ordine di battaglia? Il sole splendeva sugli scudi e la superficie lucente degli elmi e dei cimieri rinviava mirabili bagliori. Sembrava di vedere tante selve di lance, quante erano le squadre dei soldati. I giovani correvano qua e là, facevano volteggiare i cavalli, sguainavano le spade, roteavano le aste, simulando una battaglia». Gioiosa e scintillante, la scena restituisce perfettamente la dimen-

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sione giocosa e l’aspetto estetico di un esercizio delle armi che era ormai divenuto un’arte. Questo aspetto era sempre piú evidente sia nella predisposizione delle armi stesse, delle armature, dei vessilli e di ogni altro apparato, sia nella maestria nel manovrare i cavalli e nel maneggiare aste, lance e spade che ogni guerriero doveva dimostrare nel tripudio dei tornei, cosí come nel vivo delle battaglie.

Un amabile conversare

L’atmosfera suscita poi un senso di inevitabile confronto con il mondo dell’epica classica e delle grandi contese del tempo antico. «Federico, uomo di molte letture, domandò al papa se gli antichi capitani fossero stati armati come quelli del nostro tempo. Il papa rispose che in Omero e in Virgilio si trova descritto ogni genere delle armi ancora in uso ai nostri giorni, ed altre molte che sono cadute in disuso». La discussione, «piacevole e vivace», si protrae a lungo, e tocca tra l’altro la guerra di Troia. I due uma-

nisti si confrontano sull’importanza dell’evento. Federico non è troppo convinto che si fosse trattato di un episodio davvero epocale, come i poeti lo hanno tramandato, ma Piccolomini è invece dell’opinione che quel «vivo ricordo» dei fatti doveva necessariamente essere scaturito da un grande avvenimento. L’epica guerra offre anche lo spunto per alcune precisazioni geografiche. Il papa, infatti, parlando con Federico si rende conto che non è facile intendersi sui confini dell’Asia Minore, e concepisce allora l’idea di un nuovo trattato da dedicare proprio alla descrizione dell’Asia (il De Asia, appunto), sulla scorta delle notizie fornite dagli autori classici. Non appena giunge a Tivoli, si mette subito al lavoro. Sebbene papa Pio II non fosse pienamente soddisfatto delle sue conoscenze in fatto di geografia, Federico era comunque un uomo che per sua stessa ammissione praticava molto la lettura. I testi di storia antica erano i suoi prediletti,

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federico da montefeltro ma spaziava anche nella filosofia e nella teologia. Aveva poi i suoi gusti personali, naturalmente, e non apprezzava molto Platone, nonostante fosse il riferimento ideale nella immagine stessa della corte che Baldassarre Castiglione ci ha tramandato. La biblioteca urbinate, di ampiezza e di varietà davvero ragguardevoli, vantava peraltro un gran numero di traduzioni dal

greco, disposte personalmente da Federico, con un impegno paragonabile nella sua epoca soltanto a quello espresso da papa Niccolò V (1447-1455). E forse il ritratto del principe piú completo e incisivo, anche alla luce della viva testimonianza di Pio II, è proprio quello che ci offre Pedro Berruguete (vedi foto a p. 43), nel quale Federico, rivestito

della sua armatura di tutto punto (ma l’elmo è posato a terra), si trova nel suo studiolo, intento all’esercizio infaticabile della lettura, con un grande codice tra le mani. Appoggiato alla sua gamba destra appare il piccolo Guidobaldo, il suo successore, che già impugna il bastone del comando. Siamo negli anni 1476-77, e il duca sfoggia per giunta due onorificenze, vale a dire la collana dell’Ermellino, concessa dal re di Napoli Ferdinando I, e la Giarrettiera in mostra sulla gamba sinistra, conferita invece dal re d’Inghilterra Edoardo IV, entrambe ottenute nel 1474.

Omaggi esclusivi

Il ritratto ufficiale poteva essere declinato in vari modi, e Federico curò molto la diffusione della propria effigie, sia nelle opere d’arte che nelle medaglie, che svolgevano un ruolo molto importante nelle relazioni personali. Erano omaggi esclusivi che dovevano mantenere ben forte il ricordo del principe. L’impegno profuso nel plasmare un’immagine autorevole di sé si estendeva poi alla costruzione delle sue sedi di rappresentanza. Nella loro collocazione, nel loro impatto visivo e nella cura di ogni dettaglio costruttivo e decorativo, dovevano manifestare pienamente il valore della sua persona, come uomo di Stato e come cultore delle lettere e delle arti. Oggi noi restiamo affascinati da tanto impegno e da tanta profusione di talenti, e non sappiamo ben misurare nella realtà dei fatti quanto questa immagine cosí vincente rispondesse al vero. Burckhardt parlava dello Stato A sinistra Annunciazione, tempera su tavola di Francesco di Giorgio Martini. 1470 circa. Siena, Pinacoteca Nazionale. Nella pagina accanto Flagellazione di Cristo, rilievo in bronzo di Francesco di Giorgio Martini. 1477-1480. Perugia, Pinacoteca Nazionale dell’Umbria

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federico da montefeltro A sinistra e in basso particolari della replica dell’arredo dello Studiolo di Federico da Montefeltro nel Palazzo Ducale di Gubbio (2009). Le tarsie lignee, su disegno di Francesco di Giorgio Martini, furono realizzate da Giuliano da Maiano, che le ultimò nel 1482. A destra, sulle due pagine la rocca di San Leo (Rimini) ristrutturata da Francesco di Giorgio Martini.

rocche e bombarde

Le «teste» di una città Rocche marchigiane realizzate da Francesco di Giorgio Martini si possono ammirare, per esempio, a Sassocorvaro, a Cagli e a Mondavio. Va inoltre ricordata la ristrutturazione della medievale rocca di San Leo (Rimini), che trae risalto dalla sua caratteristica collocazione su un alto sperone di roccia. Si tratta di opere che abbinano senso estetico ed efficacia pratica con un tocco personale, sempre riconoscibile, nonostante la diversità delle soluzioni adottate. Ognuna di

principesco come «opera d’arte», ma era davvero cosí? Effettivamente, se osserviamo le cose con gli occhi del sovrano possono sfuggirci tanti aspetti, soprattutto sul piano della situazione generale dello Stato, sul versante economico e sociale. Non sempre e non necessariamente una splendida corte era il segno di benessere e di armonia per la popolazione. D’altro canto, le situazioni politiche generali e i problemi interni di successione minavano spesso la solidità del mondo principesco proprio nel suo centro di potere.

Un principe illuminato

Ma nel caso di Federico possiamo contare su alcune certezze. Egli poté davvero mantenere un regime di pace e di armonia nei suoi domini, e non sottopose i suoi sudditi a gravi tassazioni, mantenendo saldo il principio di investire nell’ambito dello Stato ogni risorsa proveniente dall’esterno. L’ambasciatore Francesco Vettori (1474-1539) cosí riassumeva la situazione urbinate,

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tenendo conto della linea di governo tenuta dallo stesso Federico, da suo figlio Guidobaldo e da Francesco Maria Della Rovere: «Eressero edifici, promossero l’agricoltura, vissero sempre in patria e tennero al loro soldo una buona quantità di armati: il popolo li ebbe cari». La corte era un organismo che arrivava a contare 500 persone nel proprio ambito, e fungeva come luogo di formazione per i quadri dell’amministrazione e della milizia. Tuttavia, proprio per

la sua natura di punto di ostentazione e di esercizio dell’autorità, poteva assumere l’aura di un luogo elitario, raffinato, distante dalle miserie del mondo. Baldassarre Castiglione (14781529), il letterato che abbiamo menzionato a proposito di Federico e di Platone, è l’interprete principale dell’atmosfera urbinate. Entrato a corte al servizio di Guidobaldo nel 1504, rimase nella città ducale per 9 anni, passando al servizio di agosto

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queste costruzioni, infatti, era il frutto di studi meticolosi su aspetti squisitamente tecnico-militari, ma era anche la coerente espressione di un ingegno. L’opera architettonica, asserisce proprio Martini, deve essere sempre frutto di «sottile immaginazione». Neanche un fortilizio poteva sfuggire, per esempio, a una concezione organica dell’ambiente urbano, dove ogni parte costituiva un insieme integrato e coerente, come le membra di un corpo, sicché la rocca doveva costituire la testa («il capo») della città. Martini muniva le sue strutture in modo da rispondere con la massima efficacia al sempre piú forte ricorso alla polvere da sparo.

Egli stesso definisce «diaboliche» le bombarde, con un’associazione alle fiamme infernali che lo accomuna all’Ariosto dell’Orlando furioso (canto XI), quando dedica versi struggenti alla decadenza dell’arte della guerra, trasformata dalle armi da fuoco in un feroce gioco balistico che spazza via il senso del valore e della forza. Tuttavia proprio Martini non disdegnava di utilizzare

la polvere da sparo. Ideò e in parte realizzò bombarde di forte potenza, insieme a vari altri congegni di uso bellico, e mise in atto un ingegnoso sistema per stanare i francesi asserragliati a Napoli, in Castel Nuovo: fece scavare sotterranei e li fece riempire di barilotti colmi di polvere, per poi farli saltare in aria (1495).

Francesco Maria Della Rovere, e da tutta questa esperienza scaturí un celebre trattato, il Cortegiano, nel quale Federico è ricordato come «luce d’Italia». Iniziato nel 1513, proprio quando si concluse la sua permanenza a Urbino, il libro fu pubblicato solo nel 1528, ed è una guida preziosa per comprendere gli ideali che davano un senso di perfezione a un simile ambiente. Nella corte si richiedono in primo luogo persone di nobile ascen-

denza, e lo scopo dell’esperienza è il compimento della migliore formazione possibile. Il perfetto cortigiano non è tanto importante nelle funzioni effettive che svolge, gli basta semmai un ruolo di consigliere. Quel che conta non è ciò che compie, ma il modo in cui appare. Ed ecco allora gli ampi spazi dedicati a tutto ciò che riguarda la forma, il modo di vestire e di muoversi. E, sulla linea di un’antica tradizione che trae linfa proprio

dal Medioevo, l’arte di corteggiare le donne diviene nodale. L’amore platonico, infatti, permette di raggiungere le vette della propria realizzazione interiore.

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I talenti di un ingiegniere

Presso il convento di S. Bernardino all’Osservanza di Siena, il Libro dei morti registra in data 29 novembre 1501 la scomparsa dell’ingiegniere Francesco di Giorgio Martini. La sua qualifica non può essere resa

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federico da montefeltro in un solo tratto facendo ricorso al nostro concetto di «ingegnere», perché quel che contava all’epoca in quella definizione era proprio l’ingegno in sé, l’esercizio di una creatività multiforme, prima ancora che l’esercizio pratico di una professione ben precisa e delimitata. E dunque, come ha evidenziato lo storico dell’arte Piero Torriti (1924-2015), occorre vedere in Martini ingiegniere una somma di aspetti e di competenze. Egli era infatti un umanista, un ricercatore, un inventore e un trattatista, e da queste specialità scaturivano poi i profili evidenti della sua professione, come architetto e ingegnere nel senso a noi familiare, senza dimenticare gli esiti tutt’altro che secondari in attività «di contorno» come la pittura e, soprattutto, la scultura. La pittura, in particolare, fu un’attività da lui coltivata quasi per puro diletto. Di sicuro non possiamo annoverarlo tra i grandi artisti di quel settore, soprattutto in un’epoca e in una terra come le sue che abbondavano in talenti di fama immortale. Eppure era in grado di lasciare un contributo personale anche in un ambito cosí competitivo. Osservando, per esempio, l’Annunciazione di Siena – in mostra a Gubbio (1470 circa; vedi foto a p. 46) –, si può notare come l’apparente semplicità e l’altrettanto apparente «imprecisione» dell’insieme nascondano una ricercatezza sorprendente. Ci sono gli echi della grande tradizione del gotico senese, con il suo senso di morbida eleganza cromatica, eppure non si può parlare di un dipinto tardo-gotico, per via della sua insistita costruzione spaziale. Proprio questo senso di un ambiente ben caratterizzato e percepito nelle sue linee e nelle sue suggestioni tattili, rimanda invece alla tradizione rinascimentale, eppure lo scorcio insistito del leggio della Vergine e quel

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pavimento che «precipita» verso il primo piano, appaiono cosí irreali da negare ogni plausibilità alla scena, il che sarebbe inconcepibile in un dipinto di Masaccio o di Piero della Francesca. Ma proprio queste «deformazioni» del reale offrono un effetto coinvolgente. Martini, cioè, sa utilizzare la prospettiva in funzione di una resa immaginosa dello spazio, proprio per suggerire una dimensione che travalica il mondo terreno. Ma dove la ricerca figurativa di Martini raggiunge risultati stravolgenti è nella scultura, soprattutto nei bronzi. In questo ambito l’artista senese raccoglie senz’altro la lezione di Donatello, ma sviluppa una ricerca personale ricca di effetti drammatici, con un senso dello spazio e una concretezza plastica di alto virtuosismo.

Opere sublimi

La mostra di Urbino, nella sezione dedicata a Francesco di Giorgio bronzista e plasticatore, ci offre alcuni saggi indimenticabili del suo talento. Dalla chiesa del Carmine di Venezia deriva innanzitutto la Deposizione (1476-77), un bassorilievo bronzeo originariamente conservato proprio nella città ducale. L’opera, per la precisione, presenta un Compianto sul Cristo morto deposto ai piedi della croce, e offre aspetti di estremo interesse. Sullo sfondo, appena in rilievo, si delineano le sagome del committente e dei suoi congiunti. Da destra verso sinistra, si succedono Battista Sforza, Federico da Montefeltro e il piccolo Guidobaldo. In primo piano, si delinea con tutta la forza dell’altorilievo l’immagine di Cristo, con il volto esanime piegato all’indietro, e da quel punto focale fino allo sfondo del cielo, sfila in perfetta gradazione prospettica una schiera vivacissima di figure. Di pari passo alla perfetta costruzione spaziale, il rilievo delle figure si assottiglia man mano che si sposta

lo sguardo verso il fondo. La gloria degli angeli ai lati della croce si rileva appena dalla superficie. E nel gruppo fremente delle figure ai piedi della croce, spicca una stupefacente Maddalena, il cui dolore immenso si esprime con un impeto irrefrenabile, con la bocca gridante e i capelli che sembrano attraversati da una scarica elettrica. Lo storico dell’arte Cesare Brandi (1906-1988) sottolineava che costei è pervasa da una furia degna di una menade (un «essere folle» tipico del mondo epico-religioso greco-romano, presente per esempio nei riti orgiastici). Si evidenzia cosí la capacità di dare un nuovo significato e una nuova funzione alle immagini antiche. A Perugia si conserva la Flagellazione di Cristo (1477-1480), un altro bronzo che si inserisce perfettamente nella cultura urbinate per effetto della complessa costruzione del fondale (vedi foto a p. 47). Martini, infatti, elabora una complessa quinta teatrale di evidente segno classico, che nella sua nitida prospettiva compone una vera e propria «città ideale», come una di quelle scenografie raffigurate in una modalità quasi metafisica (senza alcuna figura di corredo) in una serie di celebri tavole dell’epoca, oggi conservate a Baltimora (USA), a Berlino e nella stessa Urbino. La mostra della città ducale offre inoltre due versioni dell’Allegoria della discordia (1477-80), realizzata a stucco, e ancor piú ricca di effetti nel contrappunto tra le figure e la complessa scenografia di stampo antico. Proprio la compostezza dei colonnati gioca un ruolo nell’esaltare il fremente dinamismo delle figure in primo piano. Tra queste, spicca al centro una menade urlante (che si ricollega naturalmente alla Maddalena della Deposizione), mentre ai lati si stagliano nudi in posa statuaria, che preludono alle ricerche espressive di Michelangelo in persona.


Tre sedi per una mostra «Federico da Montefeltro e Gubbio. Lí è tucto el core nostro et tucta l’anima nostra» Gubbio, Palazzo Ducale, Palazzo dei Consoli e Museo Diocesano fino al 2 ottobre Orario tutti i giorni, 10,00-19,00 Info www.mostrafedericogubbio.it In alto replica dell’astrario costruito da Giovanni Dondi alla metà del XIV sec. Milano, Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia «Leonardo da Vinci». Qui accanto celata alla veneziana, opera di un maestro del legno attivo alla fine del XV sec. Firenze, Museo Stibbert.

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In alto Tersicore, dipinto su tavola di Giovanni Santi. 1480. Firenze, Galleria Corsini. L’opera faceva parte di un ciclo collocato nella Cappellina delle Muse del Palazzo Ducale di Urbino.

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federico da montefeltro Una coppia magnifica

«Federico da Montefeltro e Francesco di Giorgio: Urbino crocevia delle arti (1475-1490)» Urbino, Palazzo Ducale

fino al 9 ottobre Orario ma-do, 8,30-19,15 Info tel. 0722 2760; www.gallerianazionalemarche.it

In alto un particolare dell’allestimento della mostra ospitata dal Palazzo Ducale di Urbino. A sinistra Battista Sforza, scultura in marmo di Francesco Laurana. 1480-1485. Firenze, Museo Nazionale del Bargello. A destra Dio Padre benedicente, affresco (trasportato su tela) di Melozzo da Forlí. 1475-1485. Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria.

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Per dare, poi, un’idea dell’attività profusa da Martini in campo architettonico, basterà elencare le località che si contesero i suoi servigi: Urbino, Siena, Milano, Pavia, Napoli, Gubbio e altre ancora. E il nucleo forte della sua attività è individuato proprio dalla città ducale e da taluni castelli che rientravano nel suo territorio di pertinenza. E si distinse, tra l’altro, nelle molte rocche che tuttora costituiscono un segno forte di alcuni centri storici delle Marche (vedi box alle pp. 48/49). Ma l’ingegno di Martini è soprattutto chiamato in causa dai palazzi ducali in cui venne coinvolto. Il cortile d’onore della residenza urbinate, con l’epigrafe che corre tutt’intorno a magnificare il signore della città, fu ultimato grazie al suo impegno. Ma non meno memorabile, sebbene meno noto, è il cortile d’onore del palazzo eugubino, con la sua inconfondibile eleganza, che si infonde nella linearità e nella ritmica delle perfette proporzioni, e nel gioco del sottile dialogo cromatico tra la pietra e il mattone. E tanti altri aspetti vanno rilevati nel suo impegno svolto a Urbino. Sulla piazza venne a comporsi su suo disegno un fregio di formelle a bassorilievo – eseguite da Ambrogio Barocci –, con una inconsueta parata di macchine di ogni genere, dove si trasfondevano la sua abilità e il suo ingegno nella tecnica. Tra le molte altre cose, realizzò una scuderia capace di contenere i 300 cavalli che deteneva Federico, e fece sfoggio della sua abilità nel campo dell’idraulica con il celebre bagno alla pompeiana. In realtà non c’è campo in cui l’abilità e la curiosità intellettuale di Martini non si siano propagate. Si interessò per giunta all’acustica dei teatri e agli accorgimenti che potevano consentire all’uomo di volare o di scendere sott’acqua. E se il grande Leonardo raccoglie-

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va spesse volte idee portentose senza però condurle a perfezione, Francesco studiava meticolosamente ogni dettaglio dei suoi progetti. L’abilità grafica dei suoi disegni, come evidenzia il suo taccuino personale che si ammira nella mostra di Gubbio, lascia stupefatti. Ma non si trattava solo di un talento naturale, poiché i suoi scritti (tra cui due trattati di architettura) rendono conto di una profonda cultura, imbevuta di studi e di riflessioni sui tesori della sapienza antica. Proprio il recupero dei classici anche nel campo della scienza edilizia, bellica e idraulica, garantí l’aprirsi di un nuovo grande capitolo nella storia dell’architettura e dell’ingegneria. Prima ancora di Leonardo, le basi di questa brillante «rinascita» furono poste a Siena, con Mariano di Jacopo, detto il Taccola (1381-1455 circa), in contatti proficui con Brunelleschi e Leon Battista Alberti. Lo stesso Martini è un anticipatore del genio di Vinci. Peraltro ebbe modo di conoscerlo e fece con lui un viaggio a Pavia, nel 1490.

Studi rigorosi

Talvolta le invenzioni e gli accorgimenti di Martini avevano applicazioni pratiche, nella realtà concreta di una costruzione o di una manovra militare, ma non erano mai il prodotto di un’esigenza o di una commissione. L’architetto-ingegnere era sempre e solo guidato da una ricerca personale impostata su uno studio rigoroso. Proprio questo spirito di ricerca, sganciato nelle sue premesse da immediate esigenze, si intona idealmente con l’atmosfera culturale della corte. In questo ambiente, cioè, l’esercizio di un’arte e lo studio dei trattati devono servire in prima battuta alla formazione personale. L’ambiente che meglio denota questi aspetti si trova a Gubbio, ed è il cuore del Palazzo Ducale,

ossia lo Studiolo, che si pone a conclusione della mostra attualmente in corso. Quello che oggi si vede all’interno di quell’ambiente è la fedelissima ricostruzione dell’arredo originario, andato disperso nel 1874 e infine approdato al Metropolitan Museum di New York. Le magnifiche tarsie lignee che rivestivano le pareti furono disegnate da Martini per poi essere eseguite da Giuliano da Maiano, che ultimò il lavoro nel 1482. Si delinea cosí un mobilio illusorio, con scaffali in cui si propone una grande varietà di oggetti significativi, perfettamente scalati in prospettiva. Vi si notano libri, naturalmente, ma anche macchine per misurare il tempo e lo spazio, strumenti musicali, armi, insegne onorifiche. Il tutto era congegnato per accogliere adeguatamente i visitatori piú illustri in uno spazio intimo, che fosse in grado di manifestare le qualità e le passioni del principe. In quello spazio, dove c’era tutto l’occorrente per indagare il mondo, per conquistarlo e per evocarne l’armonia, è racchiuso il senso di tutta una vita, insieme a un capitolo irripetibile dell’avventura umana.

Da leggere Jacob Burckhardt, La civiltà del Rinascimento in Italia, Newton Compton, Roma 1987 Eugenio Garin (a cura di), L’uomo del Rinascimento, Laterza, RomaBari 1988 Piero Torriti, Francesco di Giorgio Martini, Giunti, Firenze 1993 Gino Benzoni, Federico da Montefeltro, duca di Urbino, in Dizionario Biografico degli Italiani, Fondazione Treccani, Roma 1995; anche on line su treccani.it Enea Silvio Piccolomini-Papa Pio II, I commentarii, a cura di Luigi Totaro, Adelphi, Milano 2008

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vivere al tempo del decameron/8 Miniature che illustrano la sesta novella della decima giornata, da un’edizione del Decameron illustrata dal Maestro di Jean Mansel. 1430-1450. Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal. Da sinistra, Giovanni del Bragoniera e Biagio Pizzini rubano a frate Cipolla la reliquia dell’arcangelo Gabriele; il frate segna con una croce le vesti dei paesani utilizzando carboni, che spaccia per reliquie del martirio di san Lorenzo. Nella pagina accanto ampollinereliquiario in vetro soffiato.

Con la penna e il carbone

di Corrado Occhipinti Confalonieri

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el natio borgo di Certaldo, «già di nobili uomini e d’agiati fu abitato», Giovanni Boccaccio (1313 /1375) ambienta la burla di due concittadini ai danni di frate Cipolla (giornata X, novella 6). Il tema è ironico, tanto che la brigata dei narratori ne trae «grandissimo piacere e sollazzo» e grazie a questa novella del Decameron abbiamo la possibilità di conoscere da vicino gli esponenti dei ceti piú umili del Medioevo. Frate Cipolla è «un de’ frati di santo Antonio», che ogni anno si reca a chiedere l’elemosina ai contadini di Certaldo, perché «buona pastura vi trovava». Organizzatore delle prime comunità di monaci anacoreti in terra d’Egitto, sant’Antonio abate (261-356 circa) è considerato il protettore degli animali e viene spesso ritratto con un porcellino ai piedi. Nel Medioevo, però, i frati antoniani venivano considerati come avidi questuanti, che sfruttavano la credulità dei semplici, tanto che nel 1240 Gregorio IX aveva inflitto loro gravi pene. Cipolla si chiama cosí probabilmente per il suo aspetto: «Di persona piccolo, di pelo rosso e lieto nel viso», di carattere «è il miglior brigante [compagnone] del mondo», ma non ha molte altre qualità: «Niuna scienza avendo, sí ottimo parlatore e pronto era, che chi conosciuto non l’avesse, non solamente un gran rettorico [oratore] l’avrebbe estimato, ma avrebbe detto esser Tulio medesimo o forse Quintiliano [Cicerone stesso o forse Quintiliano]: e quasi di tutti quegli della contrada era compare [legato da vincolo spirituale: padrino, testimone] o amico o benvogliente [benevolo]». Una domenica mattina d’agosto Cipolla annuncia durante la messa: «Signori e donne [appellativo di rispetto al posto di signore], come voi sapete, vostra usanza è di mandare ogni anno a’ poveri del baron [titolo d’onore che si usava premettere anche ai nomi dei santi] messer

Protagonista della sesta novella della decima giornata è frate Cipolla, un religioso scaltro e spegiudicato: per raccogliere fondi nel nome di sant’Antonio, approfitta infatti dell’ingenuità dei fedeli, millantando il possesso di una prodigiosa reliquia... MEDIOEVO

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vivere al tempo del decameron/8 Santo Antonio del vostro grano e delle vostre biade, chi poco e chi assai, secondo il podere e la divozion sua, acciò che il beato santo Antonio vi sia guardia de’ buoi e degli asini e de’ porci e delle pecore vostre; e oltre a ciò solete pagare, e spezialmente quegli che alla nostra compagnia [confraternita] scritti sono, quel poco debito che ogni anno si paga una volta. Alle quali cose ricogliere [riscuotere] io sono dal mio maggiore [superiore], cioè da messer l’abate, stato mandato; e perciò con la benedizione di Dio dopo nona [dopo le tre pomeridiane], quando udirete sonare le campanelle, verrete qui di fuori dalla chiesa là dove io al modo usato vi farò la predicazione, e bascerete la croce; e oltre a ciò, per ciò che divotissimi tutti vi conosco del barone messer santo Antonio, di spezial grazia [per concessione speciale] vi mostrerò una santissima e bella reliquia, la quale io medesimo già recai dalle sante terre d’oltremare: e questa è una delle penne dell’agnolo Gabriello [dell’angelo Gabriele], la quale nella camera della Vergine Maria rimase quando egli la venne a annunziare in Nazarette [Nazareth]». In realtà, si tratta di una penna di pappagallo, un volatile esotico all’epoca poco conosciuto, ma Cipolla fa leva sulla sua personale testimonianza per sostenere che la penna sia autentica: si è recato personalmente in Terra Santa a prenderla! Già Giordano da Pisa, nelle sue Prediche (13021305), metteva in guardia contro le false reliquie: «Avere l’uomo in amore, e in reverenzia, e in devozione le reliquie de’ Santi, e fare loro onore sí è molto lodato nella Scrittura. Non dico di reliquie non vere, perrocché se ne fanno

A destra la novella di frate Cipolla nelle miniature di un’edizione del Decameron illustrata da un miniatore della scuola del Maestro del Duca di Bedford. 1430 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France. In basso vignetta raffigurante frate Cipolla che segna i paesani con il carbone, da un’edizione del Decameron illustrata da un miniatore fiorentino. 1427-1430. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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molte bufferie; e non si dee reverenzia ad ogni orliquia, se non a quelle, che ben si sa che son di Santi, come quelle, che sono approvate dalla Chiesa». Nel Medioevo si credeva che attraverso il contatto con i resti dei santi o di Cristo stesso si guarisse dalle malattie del corpo e dello spirito: non solo parti del corpo, ma anche oggetti a loro appartenuti. Ciò provocò un intenso traffico di oggetti sacri, con frequenti casi di truffa e di furti. Nel 1215 il IV Concilio Lateranense tentò di porre fine al fenomeno, proibendo l’adorazione di reliquie prive di «certificato di autenticità», ma senza successo.

Il piano perfetto di Giovanni e Biagio

Venerare reliquie non accettate dalla Chiesa implicava la condanna al Purgatorio, anche se Cipolla non se ne curava. Nella chiesa sono presenti Giovanni del Bragoniera e Biagio Pizzini «due giovani astuti molto». Sono nomi di famiglie realmente esistite a Certaldo, in particolare Pizzini era amico del padre di Boccaccio. Dopo aver ridacchiato alle spalle del frate «ancora che molto fossero suoi amici e di sua brigata» i due decidono di fargli uno scherzo. Saputo che Cipolla pranza con un amico nella parte alta del borgo in cui si trova il castello,

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gli amici scendono nell’albergo in cui alloggia, nella parte bassa del paese da dove passa la via Francigena. Il piano prevede che Biagio intrattenga il servitore di Cipolla, mentre Giovanni cerca la penna nella camera del frate: vogliono rubarla per vedere come il religioso giustificherà l’assenza della reliquia ai contadini. Il piano si rivela piú facile del previsto: il servitore di Cipolla chiamato «Guccio Balena e altri Guccio Imbratta, e chi gli diceva Guccio Porco» è un inetto, tanto che il frate lo prende in giro quando si trova in compagnia: «Il fante mio ha in sé nove cose tali che, se qualunque è l’una di quelle fosse in Salamone o in Aristotile o in Seneca, avrebbe forza di guastare ogni loro vertú ogni loro senno, ogni lor santità. Pensate adunque che uomo dee essere egli, nel quale né vertú né senno né santità alcuna è avendone nove!». A chi gli domandava quali fossero i nove difetti del suo servitore, Cipolla rispondeva in rima: «Egli è tardo, sugliardo [sporco] e bugiardo; negligente disubidiente e maldicente; trascutato [che non pensa a nulla] smemorato e scostumato; senza che egli ha alcune altre teccherelle [difettucci] con queste che si taccion per lo migliore». Nonostante Cipolla gli avesse raccomandato di stare in camera a guardia delle «bisacce per ciò che in quelle

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erano le cose sacre», Guccio è «piú vago [desideroso] di stare in cucina che sopra i verdi rami l’usignuolo, e massimamente se fante vi sentiva niuna [se si accorgeva che vi fosse qualche serva]». Il rozzo servitore ne ha adocchiata una, chiamata Nuta (diminutivo di Benvenuta) «grassa e grossa e piccola e malfatta, con un paio di poppe che parea due ceston da letame e con un viso che parea de’ Baronci [famiglia fiorentina nota per la loro bruttezza], tutta sudata unta e affumicata». Guccio «non altramenti che si gitti l’avoltoio alla carogna, lasciata la camera di frate Cipolla aperta e tutte le sue cose in abbandono, là si calò». Mentre Guccio cerca di sedurre Nuta, raccontandole un sacco di frottole in cucina, i due complici si intrufolano con facilità nella camera di Cipolla, rubano la penna di pappagallo dalla cassetta e la sostituiscono con del carbone che trovano in un angolo della stanza. Probabilmente i tizzoni spenti sono nel-

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la camera da parecchio tempo, perché la vicenda è ambientata in piena estate, forse segno che gli ospiti d’inverno si scaldavano con i bracieri. Nel frattempo, in paese si è sparsa la voce della straordinaria reliquia e tutti attendono di vederla: «Tanti uomini e tante femine concorsono nel castello, che appena vi capeano, con disidero aspettando di veder questa penna».

Al suono delle campanelle

Frate Cipolla «avendo ben desinato e poi alquanto dormito, un poco dopo nona levatosi e sentendo la moltitudine grande essere venuta di contadini per dovere la penna a vedere, mandò [mandò a dire] a Guccio Imbratta che là sú con le campanelle venisse e recasse le sue bisacce». Quando si esponevano le reliquie, era consuetudine che si suonassero le campanelle. Guccio borbotta perché deve lasciare la sua ultima fiamma, si carica delle bisacce e tutto accalagosto

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Prato, Cattedrale, Cappella della Cintola. Particolare delle Storie della Vergine e della Sacra Cintola, ciclo affrescato dipinto nel 1392-95 da Agnolo Gaddi e dalla sua bottega. La sequenza raffigura il mercante pratese Michele Dagomari che consegna la Cintola al proposto Uberto, mentre una processione porta la reliquia nella pieve di S. Stefano (purtroppo, l’immagine della chiesa fu distrutta nel 1454 dall’apertura della mostra per l’organo a canne). La vicenda è imperniata sulla cintura che, secondo la tradizione, al momento dell’Assunzione in cielo, la Madonna avrebbe consegnato a san Tommaso, il quale la donò a un sacerdote. Dopo ulteriori passaggi di mano, ne entrò in possesso Dagomari, recatosi in pellegrinaggio a Gerusalemme.

penna, con un funambolico discorso basato sul nonsenso: «Signori e donne, voi dovete sapere che, essendo io ancora molto giovane, io fui mandato dal mio superiore in quelle parti dove apparisce il sole [dove si vede il sole, un luogo qualsiasi, ma fa cadere apposta il popolo nell’equivoco «di dove sorge il sole» cioè a Oriente], e fummi commesso con espresso comandamento che io cercassi tanto che io trovassi i privilegi del Porcellana [via di Firenze!], li quali, ancora che a bollar niente costassero, molto piú utili sono altrui che a noi. Per la qualcosa messom’io in cammino, di Vinegia partendomi e andandomene per lo Borgo de’ Greci e di quindi per lo reame del Garbo cavalcando e per Baldacca, pervenni in Parione, donde non senza sete, dopo alquanto pervenni in Sardigna».

Da una parte all’altra di Firenze

dato sale verso la chiesa e qui incomincia «le campanelle a sonare» davanti al portale per attirare i fedeli. Dopo aver radunato tutto il popolo, il frate «senza essersi avveduto che niuna sua cosa fosse stata mossa, cominciò la sua predica e in acconcio de’ fatti suoi [traendo profitto per il suo caso] disse molte parole». Per dare ancora piú solennità all’evento, accende due grossi ceri ed esprime parole a lode e a ricordo dell’angelo Gabriele. Quando Cipolla trae la reliquia dalla cassetta, si accorge che al posto della penna c’è il carbone, ma non fa una piega, anche se dentro di sé si maledice per aver dato il compito di vigilare sulla reliquia a quel «negligente, disubidiente, trascurato e smemorato» di Guccio e con eccezionale prontezza di spirito invoca: «O Idio lodata sia sempre la tua potenzia!». La gente si guarda intorno stupefatta, il geniale Cipolla inventa di sana pianta una spiegazione sull’assenza della

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Sembra che Cipolla abbia fatto un lunghissimo e avventuroso viaggio per il mondo, in realtà si tratta solo di strade e contrade di Firenze attraversata da est a ovest, ma i contadini lo ignorano, perché si muovono raramente dal loro borgo. Il frate continua nel suo roboante racconto: «Ma perché vi vo io tutti i paesi cerchi [visitati] da me divisando [descrivendo]? Io capitai, passato il Braccio di San Giorgio in Truffia e in Buffia, paesi molto abitati e con gran popoli [cioè nei paesi dei truffatori e dei beffatori]; e di quindi pervenni in terra di Menzogna, dove molti de’ nostri frati e d’altre religioni [Ordini religiosi] trovai assai, li quali tutti il disagio andavan per l’amor di Dio schifando, poco dell’altrui fatiche curandosi dove la loro utilità vedessero seguitare, nulla altra moneta spendendo che senza conio [chiacchere] per quei paesi: e quindi passai in terra d’Abruzzi [per indicare un paese lontano], dove gli uomini e le femine vanno in zoccoli su pe’ monti [frase equivoca, che evoca pratiche sodomitiche] rivestendo i porci delle lor busecchie medesime [facendo i salami e le salsicce]; e poco piú là trovai gente che portano il pan nelle mazze e ’l vin nelle sacca [le ciambelle infilate nei bastoni e il vino negli otri]: da’ quali alle montagne de’ bachi [terra dei baschi] pervenni dove tutte l’acque corrono alla ’ngiú. E in brieve tanto andai adentro, che io pervenne mei [addirittura] fino in India Pastinaca

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vivere al tempo del decameron/8 [radice dolciastra che allude alle spezie orientali], là dove io vi giuro per l’abito che io porto addosso che io vidi volare i pennati [equivoco fra coltellacci per la potatura e i pennuti], cosa incredibile a chi non gli avesse veduti; ma di ciò non mi lasci mentire Maso del Saggio [famoso burlone] il quale gran mercatante io trovai là, che schiacciava noci e vendeva gusci a ritaglio [al minuto]. Ma non potendo quello che io andava cercando trovare, per ciò che da indi in là si va per acqua, indietro tornandomene, arrivai in quelle sante terre dove l’anno di state [d’estate] vi vale il pan freddo quatro denari e il caldo v’è per niente [il caldo che l’estate non costa nulla]. E quivi trovai il venerabile padre messer Nonmiblasmete Sevoipiace [non mi biasimate per favore] degnissimo patriarca di Ierusalem. Il quale, per reverenzia dell’abito che io ho sempre portato del baron messer santo Antonio, volle che io vedessi tutte le sante reliquie le quali egli appresso di sé aveva; e furon tan-

te che, se io ve le volessi tutte contare, io non ne verrei a capo in parecchie miglia, ma pure, per non lasciarvi sconsolate [deluse], ve ne dirò alquante».

Inventiva senza freni

A questo punto Cipolla scatena la sua immaginazione: «Egli primieramente mi mostrò il dito dello Spirito Santo cosí intero e saldo come fu mai, e il ciuffetto del serafino che apparve a San Francesco, e una dell’unghie de’ gherubini, e una delle coste del Verbum-caro-fatti-alle finestre [storpiatura di Verbum caro factum est] e de’ vestimenti della santa Fè catolica [la Fede personificata negli abiti di una donna!], e alquanti de’ raggi della stella che apparve a’ tre Magi in Oriente, e un’ampolla del sudore di san Michele quando combatté col diavole, e la mascella della morte di San Lazzero [la mascella della Morte che colpí Lazzaro prima di essere resuscitato da Gesú] e altre». L’abbondanza di sconosciute reliquie affascina la platea, a questo punto Cipolla cala l’asso: «[Il patriarca] donommi uno de’ denti della santa Croce e in

La replica della Cathedra Petri, commissionata da Clemente VII nel 1705. Roma, Tesoro della basilica di San Pietro. L’originale è custodito all’interno del trono bronzeo, opera di Gian Lorenzo Bernini, nella basilica di S. Pietro.

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La Santa Veronica, olio su tavola di Rogier van der Weyden. 1443-45. Vienna, Kunsthistorisches Museum. Assieme ad altri due pannelli raffiguranti La Crocifissione e La Maddalena, il dipinto compone il Trittico della Crocifissione.

una ampoletta alquanto del suono delle campane del tempio di Salomone e la penna dell’agnol Gabriello, della quale già detto v’ho e l’un de’ zoccoli di san Gherardo da Villamagna [contadino (1174/1267) fra i primi a seguire Francesco d’Assisi, viene raffigurato con gli zoccoli]… e diedemi de’ carboni co’ quali fu il beatissimo martire san Lorenzo arrostito; le quali cose io tutte di qua [qua dal mare] con meco divotamente le recai e holle tutte». Cipolla sostiene che il suo superiore non gli ha mai permesso di mostrare tutte queste reliquie fino a quando non fosse stata garantita l’autenticità, ma ora che lo sono «m’ha conceduta licenzia che io le mostri». Afferma di conservare la penna dell’angelo Gabriele in una cassetta e i carboni di san Lorenzo in un’altra che però sono simili e spesso le confonde: «Credendo io qui avere arrecata la cassetta dove era la penna, io ho arrecata quella dove sono i carboni». In realtà Cipolla sostiene che non si è trattato di un errore, ma della volontà divina per ricordargli «che la festa di san Lorenzo sia qui a due dí», ovvero il dieci agosto. L’astuto frate prosegue per rafforzare il segno divino: «Volendo Idio che io, col mostrarvi i carboni co’ quali esso [san Lorenzo] fu arrostito, raccenda nelle vostre anime la divozione che in lui aver dovete, non la penna che io voleva, ma i benedetti carboni spenti dall’omor [dall’umore, grasso liquefatto e sangue] di quel santissimo corpo mi fé pigliare». Fa poi togliere il cappuccio ai fedeli, affinché possano vedere la reliquia e annuncia che «chiunque da questi carboni in segno di croce è tocco [toccato], tutto quello anno può viver sicuro che fuoco nol cocerà che non si senta [senza che egli non lo senta]».

Sotto la graticola di san Lorenzo

Nel Medioevo era diffusa la convinzione che se si trovavano carboni sottoterra il dieci di agosto, giorno dell’onomastico di san Lorenzo, questi avessero un potere taumaturgico perché erano gli stessi bruciati sotto la graticola del martire. E cosí: «La stolta moltitudine ebbe con ammirazione reverentemente guardati, con grandissima calca tutti s’appressarono a frate Cipolla e, migliori offerte dando che usati non erano, che con essi gli dovesse toccare li pregava ciascuno. Per la qualcosa frate Cipolla, recatisi questi carboni in mano, sopra li loro camiscion bianchi e sopra i farsetti e sopra li veli delle donne cominciò a fare le maggior croci che vi capevano, affermando che tanto quanto essi scemavano a fare quelle croci, poi ricrescevano nella cassetta, sí come egli molte volte aveva provato». In epoca medievale, i camicioni dei contadini erano bianchi perché tessuto povero, non tinto. Il farsetto era un indumento maschile

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A destra replica della fronte di un sarcofago con gli apostoli Pietro e Paolo. II sec. d.C. Roma, Museo della Civiltà Romana. Nella pagina accanto Roma in una miniatura di Pietro del Massaio. 1469. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

corto indossato sopra la camicia. Per esempio, nel ciclo dei Mesi nella Torre Aquila di Trento, affrescato alla fine del 1300, ottobre è dedicato alla vendemmia e si vedono i contadini vestiti di bianco. Intanto i due amici burloni hanno assistito al discorso di frate Cipolla, si sono sbellicati dalle risate per come l’amico sia riuscito a volgere la situazione a suo favore prendendo il discorso alla lontana. Giovanni e Biagio aspettano di rimanere soli assieme a Cipolla e «con la maggior festa del mondo» gli restituiscono la penna che l’anno seguente «gli valse non meno che quel giorno gli fosser valuti i carboni».

Contadini creduloni

Da questa divertente novella possiamo trarre alcune considerazioni sulla società rurale all’epoca del Decameron e di come i religiosi tenessero i contadini al giogo, sfruttando in modo distorto il potere delle reliquie. Gli agricoltori sono fra le principali vittime del traffico di presunti oggetti sacri e vengono descritti da Boccaccio come stolti, disposti a credere a tutto quello che scaltri religiosi come Cipolla raccontano per trarre oboli consistenti. In un mondo agricolo sempre in balia di disastri atmosferici, epidemie e carestie, dove l’incertezza regna sovrana, il potere apotropaico delle reliquie è di grande consolazione. Cipolla conosce bene il suo pubblico, non si fa scrupoli a manovrarlo per ottenere quelle generose offerte che fanno andare avanti il suo Ordine e mettono in circolo la moneta, contribuendo cosí al progresso della società. Ma non solo: grazie alla sua dialettica, il frate assicura donazioni ancora piú generose agli Antoniani anche per l’anno seguente e scongiura uno dei timori che serpeggiava nel mondo dei religiosi: i pellegrinaggi in città lontane che sottraevano fedeli e offerte alle parrocchie. Anche Giordano da Pisa mette in guardia da questo

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pericolo: «Ben son spesse volte piene le strade, chè vanno a Roma, a San Jacopo, al Monte San Michele; ma guarda bene, frate, che molti vanno per via, che sono fuori della via. Non è ogni uomo che va a Roma, nella via del perdono, perché? Perocché non è quella la prima via che si richiede. La prima via, chi vuole perdono di peccati, ne va ai piedi del prete». Nell’età di Mezzo erano molto sentiti i viaggi devozionali diretti a Roma – dove san Pietro e san Paolo avevano le tombe – e a Santiago di Compostella, in Spagna, dove era stata scoperta una sepoltura attribuita a san Giacomo Maggiore. In entrambe le località erano custodite reliquie preziosissime. Nella Città Eterna era molto venerata la Veronica (contrazione di vera icona): durante la salita al Calvario, una donna cosí chiamata avrebbe asciugato il viso di Gesú con un panno su cui sarebbe rimasta impressa l’impronta. La Veronica era conservata in S. Pietro e andò perduta forse durante il sacco di Roma del 1527. In Vaticano si conservava anche la cattedra di Pietro, dalla quale l’apostolo aveva predicato il primo cristianesimo: un bellissimo trono in avorio, argento e paste vitree che rappresentava le fatiche d’Ercole. Si trattava in realtà del trono di Carlo il Calvo (823-877), portato in dono da questo imperatore al papa nell’875. I canonici della basilica avevano incoraggiato l’oblio della verità storica a favore della leggenda, cosí da attirare i pellegrini che in massa accorrevano a ammirare la sacra reliquia. Tanta era la devozione che il 22 febbraio si festeggiava «la cattedra di san Pietro». Da Certaldo passava la via Francigena che raggiungeva Santiago di Compostella e Roma: una pericolosa tentazione da scongiurare tramite le reliquie a domicilio, come insegnava frate Cipolla.

NEL PROSSIMO NUMERO ● Artigiani e salariati

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di Domenico Sebastiani

Artú vede spuntare dal lago la spada Excalibur, tavola realizzata da Aubrey Beardsley per un’edizione illustrata de Le Morte Darthur di Thomas Malory. 1893-1894.

EXCALIBUR

Una spada tra storia e leggenda Se ne parla per la prima volta nelle cronache del XII secolo e ben presto raggiunge fama imperitura: ma l’arma preferita di re Artú, donata al sovrano da una misteriosa dama del Lago e non – come vorrebbe un diffuso malinteso – estratta da una roccia, non è l’unica lama a conferire gloria e rendere invincibile il suo fortunato proprietario…


Dossier

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el Medioevo l’eroe e la spada sono un’unità indissolubile. La seconda non è una semplice arma, ma qualcosa di piú complesso: possiede un nome, una sua personalità, qualità spesso magiche, ed è la fedele compagna del cavaliere. Cosí come Rolando, paladino di Carlo Magno, è unito alla sua Durendal o Durlindana, allo stesso modo re Artú è legato inscindibilmente a Excalibur, alla cui notorietà hanno contribuito, oltre che la letteratura, opere cinematografiche e film d’animazione. Excalibur compare per la prima volta sulla scena nella Historia regum Britanniae, nota anche come De gestis Britonum, scritta da Goffredo di Monmouth (1100-1155), un ecclesiastico nato in Galles, forse da famiglia di origini bretoni. Nell’Historia, oltre al concepimento di Artú grazie all’intercessione magica di Merlino, si narra di come il sovrano assuma il potere già a quindici anni e, a differenza dei romanzi successivi – nei quali appare come un sovrano saggio e imperturbabile che lascia ai suoi cavalieri il compito di impegnarsi attivamente nella lotta –, si dimostra da subito un capo carismatico alla guida del popolo dei Britanni contro i Sassoni. Prima della battaglia decisiva combattuta nei pressi del monte Badon, viene descritta la scena di vestizione di Artú: egli indossa la corazza, porta un elmo d’oro con l’effigie di un drago – simbolo già usato da suo padre, Uther Pendragon –, pone sulle spalle lo scudo Pridwen, cinge la spada Excalibur (chiamata in questa prima opera Caliburn) e impugna con la mano destra la lancia Ron. Proprio per il fatto che possiedano un nome proprio, si evince che le armi siano di grande importanza. Di Caliburn viene detto che era un’ottima spada e che era stata forgiata nell’isola di Avalon; grazie alla stessa, Artú riesce a uccidere

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nella battaglia predetta ben quattrocentosessanta Sassoni. Il re però non si ferma: dopo aver sconfitto i Sassoni, sottomette Pitti e Scoti, impone il suo dominio su Irlanda, Isole Orcadi, Norvegia e Danimarca, raggiunge poi Parigi, in mano ai Romani, dove si scontra con il tribuno Frollo e lo sconfigge, trapassando con la sua spada l’elmo e spaccandogli il cranio. Anche Parigi è conquistata. Il riposo di Artú dura poco, dal momento che è presto costretto a portare il conflitto fino a Roma, non prima di avere ucciso – sempre con Excalibur – un gigante che aveva rapito e portato sul monte di Saint-Michel la figlia di un suo feudatario.

Come un leone feroce

Un passo della Historia di Goffredo è indicativo dell’ardore con cui Artú si batte grazie alla sua spada: «Urlando queste e molte altre parole si lanciava contro i nemici, li abbatteva, li massacrava, uccidendo con un solo colpo chiunque gli si opponesse o il suo cavallo. Pertanto, quelli scappavano via da lui come le bestie fuggono da un feroce leone che una fame insaziabile spinga a divorare qualsiasi cosa incontri. A nulla gli giovavano le corazze, perché Caliburn, vibrata dalla destra di un re cosí valoroso, li costringeva a buttar fuori insieme al sangue anche le anime». Prima di poter partire per l’Italia, Artú viene raggiunto dalla notizia del tradimento perpetrato dal nipote Mordred con la regina Ganhumara (Ginevra): tornato indietro, lo affronta in Cornovaglia nella battaglia di Camblan. Nello scontro Mordred viene ucciso, ma Artú riporta gravi ferite e viene portato nell’isola di Avalon per essere curato. La Vita Merlini, altra opera di Goffredo, specifica che nell’«Isola delle mele», detta anche Isola Fortunata, sarà Morgana ad accudire il sovrano, che forse un giorno tornerà per guidare la vendetta del suo popolo.

Nella pagina accanto miniatura raffigurante re Artú che riceve la spada Excalibur, da un’edizione in lingua francese del De casibus virorum illustrium di Boccaccio. 1435-1440. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

Pertanto Artú torna nell’isola nella quale è stata forgiata la sua spada, ma Goffredo mantiene un alone di mistero sia sulla sorte del re, sia sulla vera origine della spada. I sostenitori della pista celtista, ritengono che Goffredo possa aver attinto a leggende gallesi: nell’opera Culhwch ac Olwen, contenuta in alcuni codici del XIV secolo, ma di origine ben piú arcaica, si nominano infatti le armi del re, tra cui la spada Caledfwlch, che potrebbe corrispondere al Caliburnus gladius di Goffredo e alla Escalibor ed Excalibur, come sarà poi denominata nei racconti cortesi francesi e inglesi. Per sapere qualcosa in piú su Excalibur, occorre fare un bel balzo e giungere a Le Morte Darthur, romanzo quattrocentesco scritto da Sir Thomas Malory, cavaliere dalla vita abbastanza turbolenta. Per quanto riguarda l’origine, Malory ci racconta che la spada, grazie all’intercessione di Merlino, è stata donata ad Artú dalla Dama del Lago, dopo che il precedente ferro del re era rimasto spezzato durante uno scontro con il cavaliere Pellinor. In tal caso Artú e Merlino raggiungono con una barca le acque dalle quali spunta un braccio coperto di sciamito bianco, la cui mano impugna la spada. Il suo nome, come rivela la stessa Dama, è Excalibur, ossia «taglia acciaio», e l’arma ha proprietà stupefacenti: per esempio, quando viene sfoderata per la prima volta, il suo splendore acceca i nemici, e il suo fodero, finché pende dal fianco del possessore, impedisce alle ferite di sanguinare. Chrétien de Troyes (11351190), nel suo Perceval, la definisce «la migliore spada mai esistita, che taglia il ferro come fosse legno». agosto

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Dossier Anche nel romanzo di Malory, quindi, l’origine della spada è oltremondana, sebbene non sia collegata all’isola di Avalon, ma alla figura di una fata. Malory ci informa anche sul destino di Excalibur: dopo la battaglia finale contro Mordred, che in questo caso viene collocata a Salisbury, Artú, ormai morente, chiede al fedele Bedivere di gettare la preziosa spada nelle acque del mare. Bedivere non ha il coraggio di disfarsi di una spada cosí preziosa, ma alla terza richiesta del re scaglia l’arma verso le acque. Una mano si leva allora dal mare, la impugna e, dopo averla brandita tre volte, si inabissa con l’arma. Infine, Bedivere aiuta Artú morente a raggiungere la riva del mare, dove viene caricato su una barca, a bordo della quale si trovano alcune dame e la regina Morgana, per essere trasportato e curato nell’isola di Avalon.

Nelle acque dei laghi

Come ha scritto il filologo Carlo Donà, le spade fatate non debbono e non possono cadere in mani indegne. L’episodio, peraltro, si collega all’uso, attestato anche da ritrovamenti archeologici fin dall’età del Bronzo, di gettare la spada appartenuta a un eroe nelle acque profonde di un lago o di un fiume, oppure di depositarla in luoghi ritenuti sacri, inviolabili e inaccessibili, affinché nessun altro guerriero potesse impossessarsene. La restituzione alle acque della spada di Artú ricorda curiosamente, come è stato sottolineato, le mitiche vicende degli Osseti del Caucaso e del loro eroe Batradz. Stanco del mondo, questi decide di morire ma, poiché il suo destino è legato a quello di una spada magica, da lui estratta in gioventú dalle radici di un albero, capisce che potrà esaudire il suo desiderio solo liberandosi della spada. Come Artú, ordina a un suo guerriero di gettare l’arma nell’Oceano, ma l’uomo si dimo-

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Re Artú in armi, con lo scudo sul quale ha come emblema la Vergine con il Bambino, da un’edizione della Chronicle of England di Peter de Langtoft. 1307-1327 circa. Londra, British Library. Sotto il sovrano, le corone dei trenta regni d’Inghilterra. agosto

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stra riluttante a eseguire l’ordine. Alla fine, però, getta l’arma, che viene presa da una dea delle acque. Come si può evincere dal racconto di Malory, Excalibur non sarebbe la prima spada di Artú, bensí la seconda, che egli acquista in sostituzione della prima che si è spezzata. A dire il vero, in altre opere del ciclo arturiano Excalibur appare accostata anche a Galvano. Artú, infatti, la concede al nipote, e gliela regala dopo averlo fatto cavaliere: essa splende in modo straordinario, quanto due torce accese, e nelle mani di Galvano diviene piú lieve e maneggevole a mezzogiorno. In altri testi viene utilizzata anche da Meliadus e da Lancillotto (prestata loro, rispettivamente, da Artú e da Galvano), per scontri eccezionali. In Morte Arthure si accenna al fatto che Artú avesse anche la spada Clarent, rubata dal malvagio Mordred, che con essa sferrò ad Artú il colpo mortale.

L’etimologia

I molti nomi di un’arma prodigiosa Secondo Edmond Faral (1882-1958) e Roger Sherman Loomis (1887-1966) il nome della spada Excalibur sarebbe da riconnettersi al latino, calibs < chalybs «acciaio» (dal greco chalips «acciaio»), da cui il Caliburnus di Goffredo di Monmouth e le successive varianti francesi. Un’altra pista tenta di ricollegare Excalibur alla spada di Artú Caledvwulch, menzionata nel racconto gallese Kulhwch ac Olwen, o all’altra forma gallese Caledvwlch (da calet, «forte, duro», e bwlch, «taglio, filo»), ispirata dalla spada Caladbolg, presente nell’opera irlandese Tain bo Cuailnge, spada che appartiene a Fergus, eroe che con essa taglia la cime di tre colline. Nei vari romanzi arturiani, peraltro, sono attestate numerose varianti del nome della spada, tra cui Calabrun, Calabrum, Calibourne, Callibourc, Calliborc, Calibourch, Escaliborc, Escalibor. Tavola a colori raffigurante Artú che, in viaggio con Merlino verso l’isola di Avalon, vede affiorare dal lago la mano che gli porge la spada Excalibur, da un libro per bambini della metà dell’Ottocento.

Il sacro calice

Comunque sia, Excalibur non coincide con quella che è stata la prima spada di Artú, ossia «la spada nella roccia», estratta dal futuro re nel celeberrimo episodio, poi tramandato dalla letteratura arturiana e reso immortale da film e cartoon (vedi box alle pp. 80-81). Il primo a parlare dell’estrazione della spada dalla roccia è stato il francese Robert de Boron (vissuto tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo), autore dei romanzi Joseph d’Arimathie e Merlin, nei quali l’epopea arturiana viene inserita all’interno di un piano salvifico incentrato sul Graal, per la prima volta identificato con il calice usato da Gesú nell’Ultima Cena e in cui è stato raccolto il sangue del Redentore. Ebbene, nel Merlin si racconta di come, rimasto il regno senza re alla morte di Uther Pendragon, Merlino prometta ai baroni, che non riescono ad accordarsi sul no-

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Per Chrétien de Troyes, Excalibur è «la migliore spada mai esistita, che taglia il ferro come fosse legno» 71


Dossier In questa pagina la rilegatura e un foglio di un’edizione quattrocentesca de Le Morte Darthur di Thomas Malory. Londra, British Library. Nella pagina accanto miniatura raffigurante la morte di Artú per mano di Mordred, da un’edizione in lingua francese del De casibus illustrium virorum et feminarum di Giovanni Boccaccio. Fine del XV sec. Londra, British Library.

la irrogò di acqua benedetta. Poi lesse ciò che era scritto sulla spada: chi fosse stato capace di estrarre la spada nella roccia sarebbe diventato re per elezione di Gesú Cristo».

Tentativi infruttuosi

me di un nuovo sovrano, che sarà un segno divino nella notte di Natale a indicare il re prescelto dal Signore: «Signori, se vi fiderete di me, vi darò un buon consiglio. Sapete che è imminente la festa del Natale di Gesú Cristo. Pregatelo, come è vero che è nato dalla Vergine Maria, di inviarvi un segno dal quale il popolo riconosca che il nuovo re è stato scelto da lui. Vi assicuro che, se lo farete, nostro Signore vi manderà un segno verace». E infatti a Logres, capitale del regno, mentre l’arcivescovo celebra la santa messa, fuori dalla chiesa appare per miracolo una roccia squadrata, sulla quale è posta un’incudine dove è infissa una spada. L’iscrizione sull’arma è chiara e spiega in cosa consista la prova: «Quelli che avevano visto il prodigio corsero in chiesa per raccontarlo alla gente. L’arcivescovo uscí portando l’acqua benedetta e le preziose reliquie; andò a vedere la roccia e

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Com’è noto, tutti i cavalieri tenteranno senza successo di estrarre la spada, mentre il giovane Artú, che era in cerca di una spada per il fratellastro Keu, che aveva dimenticato l’arma per partecipare a un torneo, si imbatte nell’incudine accanto alla chiesa, estrae la spada senza difficoltà e la porta a Keu e al padre adottivo Entor. Essendo acclarato in seguito che un umile giovane è riuscito nell’impresa, i baroni manifestano il loro dissenso e pretendono che la prova venga ripetuta in occasione della Candelora. Anche in tal occasione, a differenza degli altri pretendenti, il giovane Artú è l’unico capace di estrarre la spada. La prova viene ripetuta poi a Pasqua e il giorno della Pentecoste: «si inginocchiò, prese la spada a mani giunte, la estrasse senza il minimo sforzo, come se nulla la trattenesse, e la impugnò con entrambe le mani levandola in alto». Alla fine tutti i nobili si convincono e al termine della cerimonia Artú viene consacrato e unto come re. L’episodio dell’estrazione della spada, che è nato con Robert de Boron e che poi è passato anche in altri racconti del ciclo bretone, ha però veicolato con il tempo nell’immaginario collettivo che «la spada nella roccia» ed Excalibur fossero la medesima cosa. Il motivo dell’estrazione, ancora nell’interpretazione di Carlo Donà, appare come una prova che solo l’eletto può condurre a buon fine, non perché mostri capacità eccezionali, o fornisca prestazioni straordinarie, ma per il semplice fatto di rivelarsi. Il tema della prova della spada nelle sue varie forme, pertanto, renderebbe palese l’eccezionale destino dell’eroe, e si agosto

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Miniatura raffigurante la leggendaria battaglia di Camlann, l’ultimo scontro al quale Artú partecipò e che gli costò la vita, da un’edizione de La Mort le Roi Artus. 1316 circa. Londra, British Library.

atteggerebbe a una sorta di giudizio rivelatore del fatto che il prescelto sia l’uomo a lungo atteso. In sostanza, nella vicenda arturiana e in altre similari, l’eroe non dimostra mai doti straordinarie sul piano fisico (al massimo rivela la superiore natura del suo animo), ciò che conta è semplicemente che egli sia il prescelto, in quanto le spade in questione sono il segno di uno judicium Dei, non il premio di una prestazione. Ad avviso di Francesco Marzella, ricercatore presso l’Università di Cambridge e autore di un recente studio in materia, l’estrazione della spada dalla roccia potrebbe condensarsi nel motivo in base al quale «in uno spazio e in un tempo sacri, il protagonista, partendo da una posizione di svantaggio e pur non essendo il solo a cimentarsi nella prova, è l’unico in grado di estrarre un oggetto simbolo di una carica dalla pietra (o, piú in generale, da un materiale duro) e cosí facendo dimostra al giudice della prova e all’assemblea dei presenti che è volontà divina che la carica sia ricoperta proprio da lui».

Un’origine remota

Ma quali potrebbero essere gli antecedenti, nel caso in cui ve ne siano, che possano aver ispirato la narrazione della spada nella roccia di Robert de Boron? Si è supposto, per esempio, che il motivo abbia una lontana origine scito-caucasica: Erodoto (484-425 a.C.), infatti, scriveva che gli Sciti veneravano Ares nelle forme di un’antica spada di ferro, elevata su un tumulo, alla quale venivano offerti sacrifici di capi di bestiame e cavalli, e similmente si esprimevano Ammiano Marcellino (330-400 d.C.) e Clemente Alessandrino (150-215 d.C.) circa gli Alani e i Sauromati. In questi casi, in verità, ci si trova al cospetto di spade divinizzate e confitte per terra quali rituali di appropriazione dello spazio fisico, una

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Dossier Sulle due pagine miniature tratte da un’edizione del Lancillotto in prosa (LancelotGraal). 1280-1290. Parigi, Bibliothèque nationale de France. A destra, Merlino detta le sue profezie al suo scriba e confidente Biagio; in basso, decorazione raffigurante un uccello con due teste e un lanciatore di spade.

circostanza che differisce dal topos dell’estrazione della spada, che non manifesta la presa di possesso della terra facendo penetrare in essa la spada sacra ma, viceversa, mostra la terra stessa (sotto forma di roccia e/o di incudine) che offre all’eletto la spada che rappresenta il potere. L’idea similare che una spada divina, posta nella terra o sotto la terra, possa conferire sovranità e legittimazione è estremamente antica, tanto che taluni hanno cercato di rinvenirne un antecedente nel mito di Teseo, in cui il figlio sconosciuto del re Egeo riesce a farsi riconoscere e a far valere i suoi diritti al trono grazie al ritrovamento di una spada nascosta sotto un pesante masso.

Le saghe nordiche

Una seconda pista ci porta verso la mitologia del Nord Europa. Esempi interessanti di spade estratte da un supporto solido – roccia o altro – vengono infatti dalle saghe norrene. Un primo è contenuto nella Saga dei Volsunghi (tardo XIII se-

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colo): il giorno delle nozze fra Siggeir, re dei Gauti, e Signí, figlia di Völsungr, fa ingresso nella grande sala uno sconosciuto di statura elevata, anziano e orbo. Si tratta di Odino, che impugna una spada e la conficca nel tronco di un albero, il Barnstokkr, promettendola in dono a colui che saprà estrarla. Vi riuscirà Sigmundr, che dalla spada riceverà perpetua fama, ma anche dolore, a causa della vendetta perpetrata contro di lui dal cognato. Dai tronconi della spada, in seguito, il nano Reginn forgerà per Sigurðr la celeberrima spada Gramr, grazie alla quale l’eroe sconfiggerà il drago Fáfnir. Un altro caso si trova nella Saga di Hrólfr Kraki (1230-1450), ove Böðvarr, figlio di Björn, eredita dal padre una spada dai poteri magici, ma, per farlo, deve sottoporsi a una sorta di prova, estraendola dalla roccia di una grotta ove è conficcata. Allo stesso modo, celata sotto terra e infissa nella roccia è la spada maledetta Tyrfingr, la cui storia (segue a p. 81) agosto

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Dossier San Galgano

Ma quella non è una vera «spada nella roccia» Sebbene molti affermino che la spada di san Galgano, posta nella Rotonda di Montesiepi, nei pressi di Siena, sia la vera e unica spada realmente conficcata nella roccia, Francesco Marzella ritiene che il caso sia differente e fuorviante rispetto alla prova dell’estrazione della spada da parte di Artú. Galgano Guidotti, infatti, cavaliere realmente vissuto (1148/1152 circa-1181) e dalla giovinezza piuttosto turbolenta, arrivò a infiggere la sua arma nella roccia (o meglio nella terra) al culmine del suo cammino di conversione. Durante un sogno, gli apparvero san Michele e i dodici apostoli, che lo esortarono a costruire una chiesa in loro onore, e di trascorrere lí il resto della sua vita. Dopo molte peregrinazioni, Galgano, nel 1180, arrivò a Montesiepi e riconobbe il luogo che aveva visto in sogno; sceso da cavallo, sentí la pressante esigenza di pregare e, in mancanza di una croce, conficcò la sua spada nella terra a mo’ di crocifisso. Da quel giorno, per un prodigio divino, nessuno, nemmeno Galgano, riuscí mai a rimuoverla. Galgano, quindi, compie il gesto perché ha identificato il luogo in cui poter erigere la costruzione e, per rendere grazie al Signore, si serve della spada come sostituto della croce. Sussiste, peraltro, solo il conficcamento dell’arma e non la sua estrazione, né la spada veicola l’elezione di un predestinato che si trova in una situazione di svantaggio, come nel caso di re Artú. In questa pagina una veduta esterna e l’interno della Rotonda di Montesiepi. Nella pagina accanto tavoletta di biccherna raffigurante don Stefano, monaco di S. Galgano, inginocchiato davanti al santo. 1320 circa. Siena, Archivio di Stato. agosto

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Dossier al cinema

Un successo planetario

Nel 1938 lo scrittore inglese Terence H. White (19061964) diede alle stampe The Sword in the Stone, poi trasposto nel celebre film d’animazione prodotto dalla Walt Disney nel 1963; grazie a quella pellicola, intere generazioni di bambini vennero cosí a conoscenza delle imprese di re Artú e della sua spada. L’adattamento presenta notevoli differenze rispetto ai racconti medievali: nella versione italiana, Artú si chiama Semola, è stato adottato da Ettore, e fa da scudiero al fratello adottivo Caio. Merlino, dalla lunga tunica, con lunga barba e occhiali senza asta – e assistito dal gufo Anacleto –, diventa il simpatico e trasandato tutore di Artú/Semola e lo segue nel suo percorso di apprendimento. L’episodio della spada si trova verso la fine della pellicola, e Semola riesce a estrarla solo al terzo tentativo, al cospetto di tutti gli esseri del mondo animale, vegetale e minerale. Se passiamo dai cartoni animati al cinema propriamente detto, degno di nota è Excalibur (1981), con la regia di John Boorman, ispirato liberamente a Le Morte Darthur. L’opera si caratterizza per le oltremodo lucenti armature

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dei cavalieri, per le atmosfere preraffaellite, nonché per la superba fotografia; notevoli sono anche le interpretazioni degli attori, a cominciare da Nicol Williamson nei panni di un ironico e teatrale Merlino, Helen Mirren in quelli di Morgana e Nigel Terry in quelli di Artú. Il film ruota comunque attorno alla «spada del potere» (la locandina del film recita «Forgiata da un dio, annunciata da un mago, trovata da un re»), della quale viene fornita una versione differente dall’usuale. È la Dama del Lago a consegnare la spada a Merlino, il quale la consegna a Uther Pendragon e lo aiuta, grazie alle sue arti magiche, a sedurre Igrayne. L’accordo tra il mago e il sovrano prevede che il frutto dell’unione, il futuro Artú, apparterrà a Merlino stesso; quando ciò accade, Uther si pente e insegue Merlino nella foresta, ma cade in un’imboscata e, prima di morire, conficca Excalibur in una roccia. Anni dopo Artú, che era stato allevato da Sir Ector su delega di Merlino, va alla ricerca di un’arma per il fratellastro Kay, la cui spada era stata rubata poco prima dello svolgimento di un torneo; si imbatte casualmente agosto

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è narrata soprattutto nella Hervarar saga ok Heiðreks: chi la possiede è costretto a uccidere qualcuno e nessun essere vivente, se da essa colpito, è destinato a vedere la luce del giorno seguente. Tyrfingr diventa spada nella roccia nel momento in cui Sigrlami, appreso il carattere mortifero dell’arma, la scaglia contro i nani che l’avevano forgiata, ed essa penetra nella pietra per intero. Allo stesso modo può essere definita spada nella roccia, in quanto viene sepolta insieme al berserkr Angantýr, suo possessore, e viene recuperata dal tumulo dalla figlia Hervör, sebbene sia stata messa in guardia dallo stesso spettro circa il suo destino di procurare rovina a tutta la stirpe. Le saghe scandinave, peraltro, presentano vari casi in cui un soggetto va a recuperare una spada sepolta in un tumulo ipogeo, comSulle due pagine una scena del film Excalibur (1981) di John Boorman. In basso una sequenza de La spada nella roccia, film di animazione prodotto da Walt Disney nel 1963.

nella medesima spada conficcata nella roccia e la estrae, assurgendo quindi a sovrano del regno. Nella pellicola di Boorman la mitica spada Excalibur, dai riflessi verdi atti a sottolinearne i caratteri magici, coincide quindi con la spada nella roccia e appare in diversi frangenti. Riappare anche nel finale, prima della battaglia conclusiva tra Artú e suo figlio Mordred, frutto di un’unione incestuosa con la sorellastra Morgana: Ginevra, ritiratasi in convento, consegna infatti l’arma ad Artú, dopo averla a lungo conservata. A seguito della cruenta battaglia, che vede Mordred ucciso e Artú ferito mortalmente, il re consegna a Parsifal (e non quindi a Bedivere) la spada, con l’incarico di gettarla in un lago, in quanto «un giorno un re verrà e la spada sorgerà di nuovo». Parsifal lancia la spada, e prima che questa tocchi la superficie, il braccio della Dama del Lago si leva dalle acque, la brandisce per poi inabissarsi. Quando Parsifal torna dal suo re, non trova Artú, ma vede in lontananza, sulle acque del mare nei pressi del campo di battaglia, una nave che prende il largo per condurre Artú ad Avalon.

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Dossier battendo con il draugr (creatura non morta, n.d.r.) che la detiene, tanto da far ipotizzare l’esistenza di un rito che prevedesse di prelevare una spada dalla tomba di famiglia, affinché fosse consegnata in modo solenne al bambino appena nato che aveva preso il nome del morto, o a un giovane che aveva mostrato di esserne degno. Ma esistono anche altri casi, naturalmente con varianti, in cui l’eroe deve andare a recuperare una spada del destino e datrice di sovranità sottoterra, oltre che in tombe ipogee, anche in caverne sorvegliate da draghi. Elemento comune, secondo Donà, è il fatto che tutte queste storie, mitiche o folcloriche, esprimono il concetto che la spada sia un dono delle profondità ctonie (roccia, caverna, drago e cosí via) e, in quanto prigioniera, essa venga «liberata» dall’eroe prescelto, che la estrae dalle profondità.

Un’ipotesi alternativa

Alle piste fin qui citate, che hanno tentato di individuare i possibili antecedenti mitici o letterari della spada nella roccia arturiana, se ne aggiunge un’ulteriore, fortemente innovativa, proposta recentemente dal giò menzionato Francesco Marzella. Si tratta di un episodio agiografico, narrato da Osberto di Clara, priore di Westminster nella prima metà del XII secolo, nella Vita beati Eadwardi regis Anglorum, da lui scritta in onore del re Edoardo il Confessore, poi santificato, e che precede di piú di mezzo secolo l’o-

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pera di Robert de Boron. Ebbene, un capitolo della Vita racconta di una sorta di controversia, avvenuta durante il regno di Guglielmo il Conquistatore, che vede contrapposti Lanfranco, arcivescovo di Canterbury, e Wulfstan, vescovo di Worcester dal 1062 fino alla sua morte, avvenuta nel 1095. L’episodio viene collocato a Westminster, durante un concilio tenutosi qualche tempo dopo la conquista normanna. Nel corso dello stesso, Lanfranco, raffinato teologo alla cui scuola si erano formati anche Ivo di Chartres, Anselmo d’Aosta e Anselmo di Lucca, affronta il problema della deposizione del vescovo Wulfstan, uomo retto, ma privo, a suo dire, di cultura appropriata e di capaciSulle due pagine Füssen (Germania), Castello di Neuschwanstein. Pittura murale raffigurante Sigfrido, mentre si fa forgiare dal nano Regin la spada Gram, che gli servirà per affrontare in un duello il drago Fáfnir. 1882-83. A sinistra e in basso spada di produzione scitica con il suo fodero, riccamente decorato. IV sec. a.C. Simferopol, Accademia Nazionale delle Scienze.

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tà oratorie. Per cui ne propone la rimozione dalla carica. Lanfranco pretende la consegna del pastorale, bastone simbolo del vescovo, da parte di Wulfstan: questi non si oppone all’umiliazione, ma risponde di volerlo restituire a chi glielo aveva consegnato tempo prima, ossia a re Edoardo, ormai deceduto. Perciò Wulfstan procede verso il sepolcro del sovrano, recita una preghiera e gli chiede di manifestare la sua volontà. Indi infigge il pastorale nella pietra che copre il sepolcro del re: questa sembra come cera liquida e il bastone vi rimane

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In alto il re (poi beatificato) Edoardo il Confessore in una tavola tratta dall’opera The saints and missionaries of the AngloSaxon era. 1897. Sulle due pagine miniatura raffigurante, sulla destra, Artú che estrae la spada Excalibur dall’incudine, da un’edizione dell’Estoire de Merlin. XV sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

imprigionato, senza che nessuno sia capace di rimuoverlo. Il prodigio viene riferito a Lanfranco, che chiede a Gundulf, vescovo di Rochester, di recarsi al sepolcro e di prendere il pastora-


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Da leggere Francesco Marzella, Excalibur. La spada nella roccia tra mito e storia, Salerno Editrice, Roma 2022 Carlo Donà, La Spada nella Roccia e altre spade del destino, in Leonardo Terrusi, Angelo Chielli (a cura di), Filologia e Letteratura: studi offerti a Carmelo Zilli, Cacucci Editore, Bari 2014; pp. 63-80. Kathleen Toohey, King Arthur’s Swords, in The Grail Quest Papers, University of Technology, Sydney 2000 Leardo Mascanzoni, Durendal, Excalibur e le altre: la spada nell’universo epico e cavalleresco-cortese, Nuova Rivista Storica, anno XCVII, gennaio-aprile 2013, fascicolo I; pp. 185-210. Artú con Excalibur, guazzo e oro su pergamena del pittore preraffaellita Edward Coley Burne-Jones. Collezione privata.

le, ma egli, naturalmente, non vi riesce. A questo punto Lanfranco intuisce che il prodigio è avvenuto per volontà divina, avverte il re Guglielmo e vuole che lo stesso sia presente come testimone del miracolo. Dopo un ultimo tentativo, Lanfranco fa chiamare Wulfstan e, in lacrime, chiede perdono e lo invita a riprendere il pastorale e quindi la carica di vescovo. Wulfstan si rivolge a Dio, esortandolo a manifestare il suo volere, e al defunto Edoardo, al quale chiede di restituirgli il pastorale con la stessa facilità con cui lo aveva accolto nel sepolcro. Naturalmente, Wulfstan supera agevolmente la prova estraendo il pastorale, e viene reintegrato nella carica di vescovo di Worcester tra le acclamazioni e la commozione generale.

Analogie suggestive

Marzella sottolinea le analogie tra il pastorale di Wulfstan infisso nel sepolcro e l’arturiana spada nella roccia. In primo luogo i protagonisti sarebbero entrambi sottoposti a una prova, ossia l’estrazione di un oggetto che è infisso prodigiosamente in un materiale rigido; sussisterebbe l’elemento dell’elezione, il fatto cioè che la prova non consista in un atto di forza, ma in un’azione che viene superata con estrema facilità da chi dimostra di

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essere adeguato a una carica e già predestinato a ciò; il volere divino, che si rivela tramite l’estrazione dell’oggetto; la posizione di svantaggio da cui partono i protagonisti (Artú è considerato un giovane di bassa condizione, mentre Wulfstan viene ritenuto un vescovo troppo semplice al cospetto del colto e integerrimo Lanfranco); il fatto che la prova avvenga in uno spazio e tempo sacri, il ruolo degli antagonisti che, pur provando, non riescono in alcun modo nell’impresa e cosí via. D’altra parte, come ammette lo stesso studioso, è innegabile che sussistano anche sostanziali differenze, visto che la spada nella roccia arturiana compare già infissa nell’incudine e nella roccia e il giovane si sottopone alla prova in piú di un’occasione, mentre nella Vita beati Eadwardi è lo stesso Wulfstan a conficcare il pastorale nella tomba e lo estrae una sola volta. La possibilità, al dunque, che l’episodio del pastorale abbia in qualche modo influenzato la prima redazione della spada nella roccia da parte di Robert de Boron rimane, allo stato, solo un’ipotesi che, oltre che indimostrata, si aggiunge al largo ventaglio di possibilità, già precedentemente citate. A dirla tutta, in effetti, rimane centrale in molte culture il concetto secondo il quale spade magiche conferiscono sovranità a un eroe giovane e inesperto e devono essere estratte a forza dalla roccia che rappresenta il regno nella sua piú fisica concretezza. Probabilmente non riusciremo mai a decifrare con certezza le origini della spada nella roccia di Artú. Come chiosa infatti Carlo Donà, i dati raccolti bastano «per comprendere quanto sia vasta la diffusione di questi narremi, quanto sia ramificata e complessa la loro evoluzione, quanto profondi (e oscuri) siano gli abissi mitici da cui emergono queste spade regali».

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Sulla pietra di Ercole di Domenico Camardo, con foto di Nicola Longobardi

L’isolotto di Rovigliano, nel Golfo di Napoli, è poco piú di uno scoglio. Eppure quel fazzoletto di roccia affiorante ha una storia lunghissima, iniziata in epoca romana e proseguita nei secoli del Medioevo, quando il sito fu scelto per l’insediamento di un monastero. Una funzione in seguito abbandonata, in favore di una ulteriore riconversione, questa volta in chiave militare 88

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L’isolotto di Rovigliano, nel Golfo di Napoli, al centro del quale si conservano i resti di una torre d’avvistamento.

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isolotto di Rovigliano si trova nel quadrante meridionale del Golfo di Napoli, poche decine di metri a nord della foce del fiume Sarno, a 500 m circa dalla riva. Ha un’estensione di appena 5800 mq ed è situato al confine tra i comuni di Castellammare di Stabia e Torre Annunziata. La prima notizia che lo riguardi risale all’epoca romana, quando Plinio il Vecchio definisce l’isolot-

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to Petra Herculis (letteralmente, la «pietra di Ercole») nella Naturalis Historia (XXXII, 17). Tale denominazione potrebbe essere legata all’esistenza di un tempio dedicato all’eroe e infatti a Rovigliano è ancora possibile vedere strutture murarie in opera reticolata risalenti al I secolo d.C. Inoltre, riutilizzati in murature piú recenti, sono visibili anche lacerti di muri in reticolato e di pavimenti in cocciopesto,

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medioevo nascosto campania nonché uno spesso riempimento, sigillato da un pavimento anch’esso in cocciopesto, formato prevalentemente da frammenti di intonaco dipinto che recano sul retro le impronte dei tufelli dell’opera reticolata. Queste testimonianze possono essere collegate a una notizia riportata nella Descrittione della cittá di Castell’a mare di Stabia, un manoscritto redatto tra il 1599 e il 1601 e oggi conservato presso la Biblioteca Nazionale di Napoli, in cui si narra di come, fra il 1564

e il 1567, nel preparare le fondamenta della torre vicereale presente sull’isolotto si rinvenne un Eracle di bronzo, alto circa tre piedi, quindi poco meno di un metro. L’autore della cronaca non ricollega lo Scoglio di Rovigliano alla Petra Herculis ricordata da Plinio e non è quindi condizionato dall’autorevole fonte nell’identificazione con Ercole della statua rinvenuta. Della scultura non si hanno piú tracce, ma il soggetto, le dimensioni e la materia in cui era realizzata

In basso planimetria di Rovigliano con la torre vicereale e i resti delle fortificazioni successive. 1. un tratto di muro in opera reticolata; 2-3. parti di muro in opera reticolata riutilizzati nella torre; 4. strato di riempimento realizzato con intonaci romani.

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In alto muro in opera reticolata conservato alla base della torre. Nella pagina accanto, a sinistra particolare del riempimento sul quale poggia la torre vicereale. Nella parte alta si individua un pavimento in cocciopesto che sigilla uno strato costituito per lo piú da intonaci romani. agosto

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suggeriscono che potesse trattarsi della statua di culto del sacello seppellita dal crollo dell’edificio. Un tempietto dedicato a Ercole sull’isolotto di Rovigliano avrebbe avuto una evidentissima funzione di punto di riferimento per le rotte marittime verso Napoli e verso Punta Campanella e, in particolare, per i traffici che dovevano confluire verso la foce del Sarno e il porto fluviale di Pompei. Né è casuale che le importanti saline esistenti sul litorale di Pompei siano defini-

te dalle fonti «saline di Ercole», creando un ulteriore collegamento con la piccola terra emersa. Tutta la zona compresa fra Pompei e Punta Campanella sembra punteggiata da edifici templari posti su promontori o su luoghi elevati in modo da poter essere facilmente visibili dal mare, segnalando punti pericolosi per la navigazione, sacralizzando i confini fra le varie città e costituendo, al tempo stesso, una rete di punti di riferimento in successione, tali cioè da Sulle due pagine una veduta panoramica del Golfo di Napoli. Sulla sinistra, l’isolotto di Rovigliano, con il Vesuvio sullo sfondo; sulla destra, la foce del fiume Sarno e, in primo piano, il porto turistico della Marina di Stabia.

Bracigliano

Bagnoli

Ercolano San Valentino Torio Pompei

Rovigliano

Sarno

Castel San Giorgio

Scafati Lettere

Napoli

Nocera Inferiore Chiunzi

Gragnano

Ravello

Pino

Amalfi

Piano di Sorrento

Siano

Cava de’ Tirreni Cetara

Positano Nerano

Isola di Capri

In alto l’area del Golfo di Napoli con la posizione di Rovigliano.

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facilitare la navigazione. Il nome moderno della Petra Herculis, Scoglio di Rovigliano, è riportato in documenti altomedievali come insula Rubiliana o Rubelliana e sembra legato alla gens romana dei Rubellii, già attestata a Pompei prima dell’eruzione del 79 d.C. e che doveva avere dei possedimenti in zona.

Le prime menzioni del monastero

Dopo l’eruzione che segnò la fine della vicina Pompei, Rovigliano dovette rimanere disabitato per molti secoli. La ripresa della vita sembra infatti risalire all’Alto Medioevo, quando le fonti ci informano della presenza sull’isola di un monastero benedettino. La prima notizia è del 938 e appare in un documento notarile con il quale un tale Gregorio figlio di Giovanni, dona i suoi beni composti da case, terreni, montagne, boschi, pascoli, castagneti, querceti e rendite al venerabile abate Giovanni del monastero dell’isola Ruviliane, con la clausola che lo stesso Gregorio doveva, a sua richiesta, essere accettato nel cenobio quale monaco benedettino. Oltre all’appartenenza del

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monastero all’Ordine benedettino, dal documento si può quindi dedurre che il cenobio, in questa epoca, godesse già di una certa floridezza. Non abbiamo altri documenti per fissare l’occupazione dell’isolotto di Rovigliano da parte della comunità monastica, ma l’evento sembrerebbe inquadrarsi in una vera e propria riorganizzazione territoriale dell’intera penisola sorrentina, messa in atto dall’Ordine benedettino. Nei secoli dell’Alto Medioevo l’area stabiana divenne luogo di confine tra il territorio controllato dal ducato amalfitano e quello dominato dai Longobardi di Salerno. Questa situazione portò gli abitanti della zona a vivere in un clima di continuo pericolo, causando il graduale spopolamento dei luoghi. Alle scorrerie longobarde dall’entroterra campano ben presto si aggiunsero quelle che venivano dal mare. Le incursioni erano opera di pirati che avevano provenienze diverse: dai porti dell’Africa settentrionale, dalla Spagna araba, dalla Sicilia islamica o anche dalle colonie costiere costituite dai musulmani a Bari, a Taranto, Agropoli e alle foci del Garigliano. Gli incursori agosto

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Porta Ercolano

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ANTICA POMPEI

Porta Marina

GOLFO DI NAPOLI

LEGENDA corso del fiume sarno linea di costa

Scoglio di Rovigliano (Petra Herculis)

pianoro porto fluviale di pompei saline e palude pompeiana

In alto l’antico corso del fiume Sarno a sud di Pompei con l’area del porto fluviale delle Saline di Ercole. Di fronte, l’isolotto di Rovigliano, la Petra Herculis ricordata da Plinio il Vecchio. A sinistra i resti della cappella di S. Michele Arcangelo risalente alla fase del monastero benedettino.

sono genericamente chiamati Saraceni dalle fonti e non agivano a scopo di conquista, ma si dedicavano al saccheggio e alla tratta degli schiavi oppure si facevano assoldare come mercenari in conflitti locali. L’Historia Duplex de S. Costantio, una cronaca della fine del X secolo, dà conto di alcune scorrerie saracene nell’area della penisola sorrentino-amalfitana. La narrazione segue un filo cronologico e geografico, riportando che i Saraceni guidati da Boalim, dopo aver assalito e depredato i paesi della costiera amalfitana, decisero di portare i propri attacchi direttamente contro Napoli. Invasero quindi prima Capri, che era controllata dagli Amalfitani, e si diressero quindi verso Stabia, da dove furono costretti ad allontanarsi a causa dell’intervento delle truppe del duca Sergio III di Napoli. Puntarono poi sull’Insula Rubilianam, dove devastarono il monastero. Non abbiamo notizie per ricostruire la struttura del monastero in questo periodo, anche se possiamo ipotizzare che al momento dell’arrivo dei monaci benedettini sullo scoglio dovevano essere ancora visibili i

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ruderi del tempio romano che furono sfruttati per la costruzione del nuovo edificio. Visto il concreto pericolo di attacchi dal mare, il cenobio doveva presentarsi come una struttura fortificata.

Una traslazione rocambolesca

Dopo l’assalto subito alla fine del X secolo, i monaci rioccuparono immediatamente il monastero, che ricompare in un documento del 994 riguardante una proprietà collocata sul monte di Peraniano e in cui è citato un tale Teodorico, i cui eredi hanno fatto donazioni al complesso religioso sull’isola di Rovigliano. Una successiva bolla del 1110 dell’arcivescovo sorrentino Barbato ci informa che il monastero era posto sotto il controllo del vescovo stabiano Gregorio. Agli inizi del XIII secolo fu poi abbandonato e le sue rendite passarono alla diocesi di Sorrento. A quell’epoca, infatti, l’isolotto ricompare nella cronaca dell’arcidiacono Matteo d’Amalfi, nella quale si narra dell’avventurosa traslazione del corpo dell’apostolo Andrea, da Costantinopoli ad Amalfi, dove giunse l’8 maggio 1208. In particolare, si racconta di un mercante amalfitano che, mentre costeggiava il litorale stabiano, era stato assalito dai pirati appostati a Rovigliano. Fatto prigioniero era stato segregato per alcuni giorni sull’isolotto, evidentemente nel monastero che doveva essere in stato d’abbandono. La prigionia del mercante durò fino a una notte in cui gli apparve in sogno sant’Andrea, che gli consigliò di fuggire immediatamente. L’uomo seguí il consiglio e, rubata una barca, si diresse

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medioevo nascosto campania a Castellammare e poi ad Amalfi, dove subito si recò in cattedrale a ringraziare il santo. I monaci di Rovigliano rimasero a Sorrento fino al secondo decennio del 1200, quando tornarono a occupare il monastero isolano in seguito al passaggio all’Ordine dei Florensi, una congregazione benedettina che è una diramazione dei Cistercensi. Nel corso del XIII secolo, dopo il rientro dei monaci e l’adozione della regola florense, piú di un pontefice confermò la sottomissione del nostro cenobio al monastero di S. Maria di Monte Mirteto, in provincia di Latina. In un documento del 1291 il monastero di Rovigliano appare intitolato a san Michele Arcangelo, ma non sappiamo se la dedica vada ricollegata al culto dell’arcangelo che si praticava presso il cenobio di Monte Mirteto o alla dedica presente fin dalle prime fasi della storia dell’insediamento monastico. Si deve infatti sottolineare che nella zona della costiera sorrentino amalfitana, fin dal VII secolo, appare molto presente il culto di san Michele, che, dal IX-X secolo, diviene il protettore della popolazione contro i Saraceni. Sembra in ogni caso trattarsi di una sorta di ponte lanciato dal passato pagano verso il futuro cristiano dell’isolotto, che nel corso dei secoli mantenne la sua destinazione di luogo sacro, passando appunto da tempio pagano a monastero cristiano. La dedica a san Michele Arcangelo si inserirebbe bene in questo ideale passaggio di testimone: sono infatti numerosi gli esempi in cui è proprio il culto micaelico a prendere il posto di quello di Ercole. Il monastero di Rovigliano appare molto attivo tra il XIV e il XV secolo, al tempo del regno angioino, quando una serie di documenti ci informa di concessioni fatte dalla corte a S. Michele Arcangelo dell’isola di Rovigliano per il pascolo, il legnatico e l’erbatico, da esercitarsi nell’area della Valle del Sarno. I documenti indicano quindi la proprietà di mandrie e greggi da parte del cenobio, che continuava ad avere un’importante funzione di punto di riferimento per i traffici commerciali che dalla foce risalivano il fiume Sarno. Nel corso del XV secolo iniziò il lento declino di Rovigliano, coincidente con il declino dell’Ordine florense, che si concretizzò con l’introduzione della commenda, un beneficio ecclesiastico che portava all’affidamento dei monasteri a cardinali che ne gestivano le entrate, godendone parte dei benefici e in parte stornandoli alla Santa Sede. Questa situazione portò alla perdita di autonomia e forza dei monasteri, che si vedevano cosí privati di ricche rendite. Quale fu dunque il destino dell’antico monastero di S. Michele Arcangelo sull’isola di Rovigliano? Le fonti non lo dicono in maniera esplicita, ma l’aumento delle scorrerie saracene nel corso del XVI secolo spinse i monaci ad abbandonare il cenobio, rifugiandosi nel

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monastero di S. Pietro alla Marina Grande di Sorrento. Proprio il ripetersi di queste incursioni aveva messo in luce l’inadeguatezza delle difese costiere del Viceregno spagnolo e la necessità di creare una difesa organizzata contro i pirati. I castelli esistenti nei principali centri abitati non erano infatti in grado di difendere adeguatamente le lunghissime coste meridionali e anche le torri d’avvistamento, risalenti all’epoca angioino-aragonese, erano poche e in cattivo stato. Soprattutto i piccoli centri isolati risentivano di questa minaccia. Le fulminee scorrerie saracene non davano infatti il tempo alle popolazioni di porsi in salvo e anche quando dalle fortezze partiva la cavalleria leggera spagnola in aiuto degli assaliti, raramente giungeva in tempo per evitare saccheggi e devastazioni.

La torre vicereale

Alla metà del XVI secolo, sotto il viceré spagnolo don Parafan De Ribeira duca d’Alcalà, si concretizzò l’idea di una ristrutturazione generale delle difese costiere attraverso la costruzione di una linea continua di torri. Questo complesso piano di difesa prevedeva la fortificazione di tutte le coste tirreniche, adriatiche e ioniche dell’Italia meridionale, attraverso una serie di torri che dovevano servire sia all’avvistamento delle navi dei pirati, sia alla difesa del litorale per contrastare gli sbarchi, essendo armate con pezzi d’artiglieria. Si superava quindi il vecchio concetto della torre d’avvistamento che, dando l’allarme, doveva servire agli abitanti dei dintorni per porsi in salvo. I progressi delle artiglierie consentivano infatti di creare baluardi che fossero vere e proprie piattaforme cannoniere che, con i loro tiri, potevano colpire le navi in avvicinamento alla costa e spazzare il litorale per impedire gli sbarchi. Il progetto di questa rete difensiva costiera fu eseguito da regi ingegneri, le aree su cui costruire le torri furono espropriate e i proprietari indennizzati. La spesa per la loro realizzazione ricadde sotto forma di tassazione sulle comunità che avrebbero beneficiato di questo sistema di difesa. Lungo la costa dalla foce del Sarno fino a Sorrento si

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In alto l’isolotto di Rovigliano in una foto della fine del XIX sec., quando ancora conservava la struttura di una fortificazione al cui centro si ergeva la torre vicereale. A sinistra falcone in bronzo con affusto ligneo utilizzato alla fine del XVI-XVII sec. A destra assonometria ricostruttiva di una torre vicereale a tre troniere. S’individuano gli elementi fondamentali dell’edificio dalla cisterna al piano terra, agli alloggi per i torrieri al primo piano, fino alla terrazza con le artiglierie.

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Un’altra immagine dell’isolotto di Rovigliano, con il Vesuvio sullo sfondo.

sfruttarono le torri angioine e aragonesi già esistenti e la rete fu potenziata con l’edificazione di altre nuove torri poste sui promontori che si protendevano sul mare, con un’attenta scelta della posizione in modo da ottenere il completo controllo del litorale. Le torri erano in comunicazione visiva fra loro, cosí da poter segnalare con fumo o messaggi luminosi di giorno, con fuochi o rintocchi di campana di notte l’appressarsi del pericolo e quindi garantire una certa tranquillità ai piccoli ma numerosi abitati che si disponevano lungo la fascia costiera o nella zona interna della penisola sorrentina. Anche a Rovigliano, tra il 1564 e il 1567, fu edificata una torre d’avvistamento, una decisione che andò quindi a mutare la millenaria destinazione dell’isolotto, da sacra a militare. Fu, peraltro, una delle poche torri vicereali a non essere costruite sulla terraferma e si andò a sovrapporre e in parte riutilizzò le strutture del monastero benedettino, che, a sua volta, aveva sfruttato il preesistente tempio romano, attuando, ancora una volta, un abbondante riutilizzo di tutto il materiale edile reperibile sul posto. La costruzione della torre fu dettata da un duplice motivo: da un lato proteggere la Reale Via delle Ca-

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labrie, che correva lungo la costa e, dall’altra, difendere la foce del Sarno, impedendo cosí ai corsari di approvvigionarsi d’acqua dolce e allo stesso tempo di risalire il fiume verso i paesi dell’entroterra. La torre di Rovigliano era già attiva nel 1567, quando è ricordato come capitano lo stabiese Giovanni Leonardo Montanaro.

Una struttura poderosa

Come la maggior parte delle torri vicereali, anche quella di Rovigliano fu concepita di pianta quadrangolare con le pareti perimetrali che non si presentavano verticali, ma con un’inclinazione compresa tra il 5 e il 10 per cento, funzionale ad aumentare la robustezza della struttura, diminuendo anche l’efficacia dei colpi delle armi da fuoco degli assalitori. Con la sua forma tronco-piramidale, la struttura dava l’impressione di grande solidità e robustezza, presentando muri che alla base erano spessi oltre 4 m. La torre di Rovigliano è costituita da tre piani coperti a volta, uno per i magazzini, uno per l’alloggiamento del contingente di guardia e una terrazza di copertura che serviva anche da punto di avvistamento per le minacce provenienti dal mare. agosto

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Lo spessore delle mura perimetrali e la robustezza delle volte erano finalizzati anche a resistere al peso delle artiglierie collocate sulla terrazza e che al momento del loro impiego davano notevoli sollecitazioni alla struttura. Per evitare cedimenti dei solai, le volte dei due piani furono orientate in senso opposto, in modo da distribuire equamente i pesi sulle mura perimetrali. Il coronamento superiore della torre è caratterizzato dalla presenza di tre troniere per lato, robusti parapetti aggettanti rispetto alla sommità della struttura, in cui erano previste aperture funzionali a colpire con scariche di mitraglia tutti gli assalitori che avessero cercato riparo alla base della stessa. Non conosciamo con certezza il nome dell’ingegnere che diresse la costruzione della torre di Rovigliano che potrebbe comunque essere attribuita a Pietro de Trivigno che ristrutturò le fortificazioni di Sorrento e fu attivo in zona proprio fra il 1558 e il 1567. La torre sorse nella parte centrale dell’isolotto di Rovigliano, sovrapponendosi al monastero di cui sono ancora leggibili ampi lacerti delle mura inglobati nella parte bassa della costruzione. Nel caso delle torri vicereali fu pratica diffusa il com-

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pleto riuso di ciò che si trovava sul posto, servendosi spesso di antichi ruderi come cava di pietre. Nell’edificare la torre fu rispettata la cappella del monastero che sopravvisse conservando la dedica a san Michele Arcangelo e proprio durante le opere di scavo per gettare le fondazioni fu rinvenuta la statua bronzea di Ercole appartenuta al tempio romano che aveva preceduto il monastero benedettino nella millenaria storia dell’isolotto. Il personale della torre era formato da un caporale torriere, di solito un veterano con esperienza di combattimento che, per l’epoca, doveva avere una preparazione non comune: doveva saper leggere e scrivere ed essere un buon conoscitore delle artiglierie. Questi aveva alle sue dipendenze i pedoni, soldati semplici il cui numero variava a seconda delle dimensioni della torre e delle possibilità economiche dei centri difesi dalla struttura, che dovevano sobbarcarsi il costo dei loro stipendi. Era inoltre prevista la presenza di feluche di guardia appartenenti alla Regia Marina, che servivano a intensificare i controlli e la difesa tra torre e torre. Come già sottolineato, uno degli elementi fondamentali per la scelta della struttura e dell’orga-

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In alto la zona delle cucine della fortezza, che ancora conserva i banconi in pietra e i resti di un forno per la cottura dei cibi, in una foto degli anni Novanta del Novecento. A sinistra il punto di approdo all’isolotto dove, attraverso una lunga scalinata contenuta in una galleria coperta, si giunge al livello della terrazza posta alla base della torre.

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Pianta settecentesca con il posizionamento delle batterie presenti sulle diverse terrazze dell’isolotto di Rovigliano. Napoli, Biblioteca Nazionale, Sezione Manoscritti.

nizzazione della rete di torri vicereali fu l’evoluzione delle artiglierie. I cannoni in uso alla metà del XVI secolo consentivano di controllare l’area circostante la torre con un’efficacia di tiro di circa 1 km, utilizzando cannoni che erano in pratica dello stesso tipo di quelli imbarcati sulle navi. L’elemento principe per la difesa delle torri fu il petriero, piccolo cannone a retrocarica. Era dotato di un rozzo otturatore, detto mascolo, che conteneva sia la camera di scoppio con la polvere, sia i proiettili; fondamentalmente chiodi, frammenti di ferro e pietre, da cui il nome. Il poter preparare piú mascoli pronti all’uso consentiva un’eccezionale cadenza di tiro impensabile per le altre artiglierie. Inoltre, il tipo di struttura del mascolo consentiva al pezzo di sparare non solo in orizzontale, con ogni tipo di alzo, ma praticamente anche in verticale, assicurando il controllo della base della torre. Questa poteva essere spazzata grazie alle aperture presenti nelle troniere, che, come detto, costituirono una delle novità delle torri vicereali. L’effetto di un tiro in verticale verso la base della torre era una scarica a mitraglia, micidiale sulle corte distanze. Il petriero era inoltre molto rumoroso, cosa che aveva un effetto psicologico non trascurabile, oltre a essere un valido mezzo di segnalazione per imminenti pericoli. In questo modo i corsari avrebbero avuto timore di avvicinarsi e, se pure fossero sbarcati, avrebbero dovuto fare i conti con i petrieri e con il cannoneggiamento che avrebbe messo in allarme gli abitanti dell’area e anche la milizia territoriale, sventando quindi il pericolo delle scorrerie, che avevano come scopo principale il saccheggio e la cattura di prigionieri.

Il «motore» come obiettivo

Oltre ai petrieri nelle torri erano impiegati cannoni affustati di piccolo calibro come il falconetto, il falcone o il sangro, che non erano in grado di affondare una nave, pur centrandola con piú palle. Il loro obiettivo era sparare al «motore» delle imbarcazioni, il che significa alle velature o ai remi e rematori. Considerando l’altissimo affollamento presente su questi legni, anche una piccola palla con alta velocità cinetica poteva fare una strage, con devastanti effetti psicologici sugli assalitori. Non bisogna inoltre dimenticare che incassare un colpo capace di uccidere alcuni dei pirati, poteva innescare una ribellione negli schiavi cristiani messi ai remi, sempre pronti a sfruttare una situazione favorevole per recuperare la libertà. Individuare la nave pirata e farla oggetto di un cannoneggiamento era spesso sufficiente a indurla alla ritirata, proprio

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perché a quel punto era svanito l’effetto sorpresa fondamentale per una fruttuosa razzia. Tra il XVII e il XVIII secolo, mantenendo centrale il ruolo della torre, si provvide a rinforzare le difese dell’isolotto, che assunse l’aspetto di una piccola fortificazione. Furono costruite altre terrazze per ospitare artiglierie e risistemate parti del monastero medievale in cui erano ospitati alcuni ambienti di servizio, le cucine e la cappella dedicata a san Michele arcangelo. Lo sviluppo delle artiglierie rendeva infatti valida la posizione dell’isolotto, oltre che per difendere la foce del Sarno, anche per controllare le navi in avvicinamento ai porti di Castellammare di Stabia e Torre Annunziata. La storia militare di Rovigliano si concluse con l’Unità d’Italia quando la fortificazione, non ritenuta piú d’interesse strategico, fu disarmata e l’isolotto fu venduto a privati, restando quindi abbandonato ed esposto a un lento degrado, che ha intaccato buona parte delle strutture, anche se la formidabile torre vicereale ancora si erge a sfidare il mare e l’incuria degli uomini.

Da leggere Domenico Camardo, Antonio Ferrara, Petra Herculis: un luogo di culto alla foce del Sarno, in Annali dell’Istituto Universitario Orientale-Sezione Archeologia e Storia Antica, XII (1990); pp. 169-175 Carlo Giordano, Vittorio Cimmelli, Angelandrea Casale, Rovigliano, Orientamenti, Napoli 1990 Domenico Camardo, Un insediamento monastico benedettino sull’isolotto di Rovigliano, in Felice Senatore (a cura di), Pompei il Sarno e la Penisola Sorrentina, Rufus, Castellammare di Stabia 1998; pp. 99-121 Flavio Russo, Le torri costiere del Regno di Napoli, Edizioni Scientifiche e Artistiche, Napoli 2009

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CALEIDO SCOPIO

Storie, uomini e sapori

Carne e kumys per il Gran Khan di Sergio G. Grasso

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iovanni da Pian del Carpine (1182-1252) fu uno dei primi compagni di san Francesco e tra i piú attivi predicatori del nascente ordine dei Frati Minori. Poliglotta, dotato di splendida eloquenza e grande energia, durante il Capitolo Generale alla Porziuncola del maggio 1221, fu scelto da Francesco per una missione di evangelizzazione in Germania. Nominato custode dell’Ordine prima in Sassonia e poi in Spagna, durante il suo soggiorno a Colonia visse la grande invasione mongola dell’Europa orientale che si concluse con la disfatta dei cavalieri teutonici, ospitalieri e templari a Liegnitz nel 1241. Nel 1245 Fra Giovanni, ormai sessantaduenne, fu inviato da papa Innocenzo IV alla corte dell’imperatore dei Mongoli Ögödei Khan, terzo figlio di Genghis Khan. Portava con sé la bolla Cum non solum, con cui il pontefice chiedeva all’imperatore dei Mongoli di cessare le ostilità, di convertirsi al cristianesimo e di allearsi con la Chiesa contro l’Islam. Il giorno di Pasqua del 1245, Giovanni partí col confratello Stefano di Boemia. Arrivati a Cracovia, furono raggiunti da Benedetto il Polacco, un altro Francescano con incarico di interprete. A Breslavia i tre si fermarono qualche mese a corte, poi raggiunsero Kiev, dove Stefano li abbandonò e dove comprarono

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cavalli tartari abituati a cercare il loro nutrimento sotto la neve. Ripartirono «equitando quanti equi poterant ire trotando (...) de mane usque ad noctem, immo de notte saepissime» («stando a cavallo quanto i cavalli potevano andare al trotto (...) dalla mattina fino alla notte e spesso anche di notte») e per altri 40 giorni cavalcarono nella sconfinata pianura coperta di neve, cibandosi quasi sempre di miglio con acqua e sale. La missione entrò nelle postazioni mongole a Kanev e raggiunse il Volga, sulle cui sponde sorgeva l’accampamento di Batu Khan, nipote di Genghis Khan, comandante supremo delle terre mongole occidentali.

Cento giorni nella steppa Ottenuto da Batu il permesso di raggiungere le pendici del Karakorum, dov’era la corte di Ögödei Khan, dovettero affrontare altre 3000 miglia e 106 giorni di steppa, neve e gelo per giungere al campo imperiale di Sira Ordu («Padiglione giallo»), sulle rive del fiume Orkhon. Lí giunti, scoprirono che il vecchio Ögödei Khan era morto e che proprio in quei giorni si celebrava la successione al trono di suo figlio maggiore Güyük. La designazione formale del 24 agosto riuní piú di 3000 aristocratici, governatori, delegati, cavalieri e sciamani provenienti da tutte le parti dell’enorme impero

mongolo: Fra Giovanni e Fra Benedetto erano gli unici europei presenti. Pochi giorni dopo furono ammessi alla presenza di Güyük Khan, che Giovanni descrive come un uomo di media statura, prudente ed estremamente scaltro, ma serio e tranquillo nei suoi modi. Dopo la consegna della missiva il khan fece attendere i due frati fino a novembre inoltrato, quindi li autorizzò a ripartire con una lettera indirizzata al papa scritta in mongolo, arabo e latino. Si trattava poco piú di una breve affermazione imperiosa del ruolo del khan come flagello di Dio: «Voi dovete dichiarare con un cuore solo: siamo a voi sottomessi, e vi sottomettiamo le nostre forze. Devi venire di persona con tutti i tuoi re, senza eccezioni, e portare tributi in omaggio. Solo a queste condizioni accetterò la vostra sottomissione». I frati soffrirono molto nel loro lungo viaggio invernale verso casa e solo il 9 giugno 1247 raggiunsero Kiev, dove furono accolti dai cristiani slavi come resuscitati dai morti. Alla fine di quell’anno, duramente provati da piú di trenta mesi di peregrinazioni, fatiche e stenti, spettacoli raccapriccianti e incontri favolosi, consegnarono la risposta del khan al papa, che era ancora a Lione. Subito dopo Fra Giovanni redasse per il pontefice una minuziosa relazione sulla geografia, la storia e la civiltà del popolo mongolo e lo intitolò Historia Mongalorum quos nos agosto

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Tartaros appellamus. Rimaneggiata piú volte dal suo autore nel corso degli anni, l’opera fu conosciuta solo attraverso un parziale compendio contenuto nello Speculum historiale di Vincenzo di Beauvais (1473). Hakluyt (1598) e Bergeron (1634) pubblicarono ampie parti del testo, ma l’opera completa non fu stampata fino al 1839, anno in cui la Società Geografica di Parigi pubblicò il Recueil de voyages et de mémoires, per i tipi dell’editore d’Avezac. Come ricompensa per la missione svolta, Giovanni da Pian del Carpine fu nominato arcivescovo di Antivari in Dalmazia e gli fu assegnato l’incarico di legato pontificio presso Luigi IX di Francia. L’Historia Mongalorum è ritenuto tra i piú antichi e completi

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documenti storico-geografici dedicati all’Asia centrale a opera di uno scrittore cristiano medievale. Il successivo viaggio missionario di Guglielmo di Rubruck (12531255) e la stessa impresa di Marco Polo (1271-1295) non sarebbero stati possibili senza il contributo di questo frate, che percorse con i suoi confratelli quasi ventimila chilometri, armato solo di una grande forza d’animo e sostenuto da una fede granitica.

Uno scenario desolante La sua relazione rivoluzionò l’immaginario europeo sui Mongoli o Tartari, fino ad allora considerati come demoni dai capelli rosso fuoco, corpulenti, a cavallo di

L’attore Tadanobu Asano nei panni di Gengis Khan, in una scena del film Mongol (2007) di Sergej Bodrov. belve infernali, assetati di sangue ed eretici. In merito ai costumi alimentari del popolo mongolo, la cronaca di Giovanni da Pian del Carpine ci tramanda un quadro poco edificante e ben oltre i limiti dello squallore gastronomico. Afferma che gli abitanti delle steppe erano dediti al cannibalismo, che in preda alla fame si nutrivano della placenta delle partorienti, che consideravano prelibata la carne di lupi, cani, orsi, volpi, topi, che mangiavano persino i pidocchi che toglievano dalle loro vesti e «quando si imbattono nei resti di qualsiasi

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CALEIDO SCOPIO animale morto sulla loro strada prendono le interiora e le cucinano, scartando solo lo sterco». Quanto agli armigeri che facevano da scorta ai due Francescani per lunghi tratti del viaggio, Fra Giovanni notò che durante il giorno mangiavano solo una specie di zuppa di miglio che li manteneva forti in sella fino alla sera, quando si accampavano intorno al fuoco per consumare una lauta porzione di carne in brodo.

Una pasta simile agli spaghetti E prosegue: «Il mongolo non beve mai acqua pura, ma non può mai privarsi dell’infuso di tè, nonostante anche la pulizia degli utensili sia tutt’altro che scrupolosa. Il loro cibo preferito è sicuramente la carne, in particolare quella di pecora, ma si cibano anche di quella di cammello e della carogna; non conoscono il pane, ma mangiano una specie di pasta simile ai vermicelli. Per preparare la salsiccia utilizzano il sangue e gli intestini dell’animale non lavati. Si nutrono anche di latte preparato con miglio e con kumys (latte fermentato) di giumenta o pecora che dà ebbrezza. Una delle loro caratteristiche è proprio la ghiottoneria e un uomo consuma circa quasi mezzo chilo di carne in un giorno, ma per necessità un Mongolo riesce a digiunare anche per ventiquattr’ore». Il suo contemporaneo armeno Frate Kirakos di Gandzak, imprigionato dai Mongoli nel 1236, conferma e arricchisce molte delle informazioni lasciateci da Fra Giovanni. Nel 1265 compone la ponderosa Patmut’iwn Hayots (Storia degli Armeni), in cui racconta di come i Tartari o Mongoli fossero soliti mangiare e bere in modo insaziabile qualsiasi tipo di animali sia «puliti che impuri», ma aggiunge che amavano particolarmente la carne di cavallo tagliata a pezzi e cotta molto a lungo. «Alcuni mangiano in ginocchio, come cammelli, senza distinzione tra signori e servi. Bevono con avidità kumys che è il loro principale piacere della vita, ma prima uno di loro ne attinge una

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Miniatura raffigurante il domenicano lombardo Ascelino che riceve da papa Innocenzo IV la lettera che poi consegna al generale mongolo Baiju Noyan, dalla Chronique des empereurs di David Aubert. 1472. Inviato dal pontefice nel 1245 in missione presso i Tartari, il religioso non fu ammesso alla presenza del Gran Khan, essendosi rifiutato di sottoporsi al cerimoniale. piccola tazza che scaglia in cielo, poi ne sparge a est, ovest, nord e sud. Poi lo stesso spargitore ne beve un po’ e lo offre ai nobili. Se qualcuno gli porta cibo o bevanda, prima li fa mangiare e bere i servi, e poi lo accetta per timore di essere tradito da qualche veleno». Nel 1230, un cronista cinese di nome T’ing annota: «Il loro cibo è carne e non grano. Gli animali cacciati sono la lepre, il cervo, i maiali selvatici, la marmotta, le pecore selvatiche, l’antilope, i cavalli selvatici e i pesci provenienti da fiumi e sorgenti. L’animale normalmente allevato per essere mangiato è la pecora poi viene il bue. Macellano i cavalli solo quando devono fare feste o assemblee. La carne è quasi sempre arrostita e solo raramente viene cotto in una pentola».

Ricette per gli imperatori Gli usi culinari di corte erano di tutt’altro livello, soprattutto dopo l’ascesa al potere in Cina della dinastia mongola Yuan, costituita nel 1271 da Kublai Khan, nipote di Genghis. A pochi decenni dal viaggio dei due Francescani si era compiuto il passaggio dalla zuppa di miglio al pane, dalla coda grassa di pecora grigliata al granchio ripieno al miele descritto da Ni Tsan, autore di un libro di cucina per i re. Il piú importante documento a nostra disposizione per conoscere la cucina sino-mongola è lo Yin-shan cheng-yao (Cose giuste ed essenziali per il cibo e le bevande dell’imperatore), presentato dal medico e dietista imperiale Hu Szu-hui nel 1330 all’imperatore mongolo Jayaatu Tüg Temür. Il testo combina nella pratica agosto

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CALEIDO SCOPIO A sinistra miniatura raffigurante un banchetto alla corte di Güyük Khan, da un’edizione del Tarikh-i Jahangushay-i Juvaini (Storia del Conquistatore del mondo). XV sec. Nella pagina accanto miniatura raffigurante un festino nel quale i commensali praticano il cannibalismo, dal manoscritto Li Livres du Graunt Caam, basato sui resoconti di Marco Polo dei suoi viaggi in Asia. 1400 circa. Oxford, Bodleian Library.

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culinaria di corte elementi cinesi, turco-islamici e persiani acquisiti in almeno cent’anni di conquiste. Ni Tsan si preoccupa innanzi tutto di descrivere le malattie collegate alla carenza di alcuni componenti nel cibo e come queste possano essere curate attraverso una variata e corretta alimentazione praticata con moderazione e regolarità. Nella parte dedicata agli ingredienti, si trattano proprietà e virtú di oltre 220 sostanze, mentre le ricette vere e proprie (229 in tutto) riguardano un’ampia varietà di zuppe e minestre d’orzo, di paste (soprattutto «vermicelli») e pane, di carni e pesci di lago e fiume.

Lupo e «ostriche di montagna» Ecco, qui di seguito, alcuni esempi di ricette «mongole» curtensi – alcune curiose e altre facilmente replicabili – tradotte da Buell e Anderson nel 2002.

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Zuppa di lupo arrosto: prendi zampa di lupo tagliata; tre grandi cardamomi; 15g di pepe nero; 3g di kansi [asafoetida]; 6g di pepe lungo; 6 g di «grani del paradiso» [piccoli cardamoni]; 6 g di curcuma; 3 g di zafferano. Prepara una zuppa con questi ingredienti. Al termine, insaporire con cipolle, salsa (?), sale e aceto. Jasa’a [«Ostriche di montagna»]: rimuovi i testicoli dallo scroto della capra. Salali e uniscili a 3g di kansi e 30g cipolle. Friggi rapidamente in olio vegetale. Batti con zafferano sciolto in acqua. Aggiungi spezie. Quando è pronto, cospargi di coriandolo macinato. Bocconcini di pollo: pulisci e taglia dieci polli grassi, disossa, rendi minuti e cuocili in acqua con succo di zenzero, cipolle, pepe. Impasta farina e fanne vermicelli, lessali in quell’acqua con le carni e regola il sapore con sale e aceto.

Oca arrosto: prendi un’oca selvatica, rimuovi piume, intestino, stomaco, lavala bene; mettici dentro due cipolle e coriandolo. Prendi uno stomaco di pecora, puliscilo, usalo per avvolgere stretta l’oca e arrostiscila. A differenza di Marco Polo, non risulta che Fra Giovanni da Pian del Carpine abbia avuto l’occasione di sedere alla tavola del khan, visto che le sue memorie gastronomiche si limitano alla cucina popolare e di sussistenza. Tuttavia, benché il suo viaggio fallí nei suoi propositi politici, ebbe sicuramente l’effetto di mostrare che quel popolo terribile che sfiorò soltanto l’Europa medievale, non era una compagine smarrita di guerrieri a cavallo, bensí una potenza militare ben definita, un gruppo omogeneo, una civiltà/ cultura «altra». E che soltanto per puro caso decise di non continuare la guerra contro la cristianità.

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Quando i santi prendevano le armi

Il Messia trafitto da uno «spiedo» di Paolo Pinti

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on è tra i piú famosi campioni della fede, eppure la figura di Longino è molto conosciuta, anche se in pochi sanno che si tratta di un santo, proclamato tale il 2 dicembre 1340 sotto il papato di Innocenzo VI, e che, inaspettatamente, è molto legato all’Italia. Chi, del resto, non conosce l’episodio del soldato romano che colpí con la sua lancia il costato di Gesú per constatarne la morte? Oppure di quello che ne riconobbe la deità subito dopo la morte: «Gesú, emesso un grande grido, spirò. Allora il velo del tempio si squarciò in due dall’alto fino al basso. E il centurione, vistolo spirare gridando a quel modo, esclamò: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio”?» (Marco, 15,33-39). O, infine, dell’uomo che fu messo a guardia del corpo di Cristo nel Santo Sepolcro? Si tratta sempre di un soldato o centurione romano, citato brevemente in alcuni Vangeli e in altre fonti piú o meno accreditate. Forse è lo stesso soggetto, forse si tratta di figure diverse, ma confluite a formare quella di Longino, indissolubilmente legata alla lancia, dal cui nome antico «lònche», deriva, piú o meno ragionevolmente, quello del santo. Varie tradizioni confondono sensibilmente le acque in merito alla figura storica di Longino e ai fatti che lo legano cosí da vicino a Gesú. Il nome stesso non

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compare nei Vangeli e, come detto, sembrerebbe derivare dall’episodio della lancia e, quindi, non sarebbe originale, ma creato ad hoc.

Un’assonanza sospetta C’è invece concordanza nella sua conversione al cristianesimo e nell’azione di proselitismo a Gerusalemme: iniziativa che gli valse l’ostilità delle autorità che decisero di farlo assassinare. Longino, però, ne ebbe sentore e lasciò l’esercito insieme a due commilitoni, rifugiandosi niente meno che in una località vicino a Lanciano, in Abruzzo. Quasi inutile sottolineare come l’accostamento lanciaLanciano risulti fin troppo puntuale per non suscitare qualche legittimo sospetto. Sempre secondo una delle tante fonti/tradizioni, venne comunque raggiunto da emissari di chi lo voleva morto, che lo uccisero nei pressi di Mantova. Come, quando e perché fosse arrivato in Abruzzo e poi in Lombardia resta un mistero. Le tradizioni orientale e occidentale ritengono che, una volta istruito nella dottrina e nella fede dagli Apostoli, si fosse recato a Cesarea di Cappadocia, dove si

adoperò per la conversione dei gentili e dove fu decapitato. Nella tradizione latina è considerato un soldato isaurico (l’Isauria era un’antica regione dell’Asia Minore, situata a sud della penisola anatolica) processato dal preside di Cesarea, Ottavio, che poi si convertí insieme al suo segretario, Afrodisio, subendo il martirio. Nella tradizione greca, invece, lo si ritiene originario di Cesarea, fatto uccidere da Ponzio Pilato, su istigazione dei Giudei. La sua testa sarebbe stata portata a Gerusalemme e mostrata a Pilato, per poi essere gettata nell’immondizia, dalla quale fu recuperata da una vedova, guarita miracolosamente dalla cecità. In verità, altre fonti lo dicono La Sacra Lancia conservata nella Schatzkammer dell’Hofburg di Vienna. Recenti studi hanno accertato che si tratta di un manufatto di tipo carolingio, databile all’VIII sec. Nella pagina accanto San Longino, statua in marmo di Gian Lorenzo Bernini, commissionata da papa Urbano VIII e ultimata nel 1638. Città del Vaticano, basilica di S. Pietro. Qui Longino non è raffigurato come legionario/ centurione, ma il suo passato è ricordato dall’elmo posizionato ai suoi piedi. agosto

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nato a Anxanum, l’attuale Lanciano (Chieti), dove tornò in vecchiaia, dopo aver militato nella legione Fretense, di stanza in Siria e in Palestina. E proprio a Lanciano venne giustiziato e tumulato: nell’VIII secolo, nel punto in cui era stato sepolto, sopra una cappella utilizzata come luogo di culto per il martire, fu edificato il convento di S. Legonziano (l’attuale santuario del Miracolo Eucaristico). Il legame col santo è attestato anche dalla presenza della lancia nello stemma della città abruzzese. Un’altra versione lo vuole invece martirizzato vicino a Mantova, dove giunse nell’anno 36, portando con sé l’ampolla contenente il sangue di Cristo, da lui raccolto sotto la croce, e dove fu ucciso il 15 marzo del 37, in una frazione chiamata Cappadocia. Nel luogo del martirio fu poi eretta la basilica di S. Andrea, nella cui cripta si conservano ancora oggi i resti del corpo di Longino e l’ampolla suddetta, nonché la spugna usata da lui per far bere l’aceto a Gesú. E proprio in S. Andrea si possono vedere ben cinque rappresentazioni artistiche con Longino, segno della devozione della quale è oggetto.

Testimone eccellente Paradossalmente, Longino è di certo uno dei santi piú rappresentati nell’arte – l’opera piú famosa è la sua statua, ultimata da Gian Lorenzo Bernini nel 1638: alta oltre 4 m, si trova in una delle nicchie della basilica di S. Pietro in Vaticano (vedi foto qui accanto) – non tanto come protagonista, ma come partecipe del fatto piú importante della storia, la Crocifissione, dove è sempre raffigurato mentre trafigge il costato di Gesú. Si tratta dunque di un personaggio non ben definito e oggetto di una serie infinita di storie, che a fatica collimano fra loro oppure divergono macroscopicamente, ma che concordano tutte nel collegarlo alla

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CALEIDO SCOPIO Crocifissione, affresco dei fratelli Lorenzo e Jacopo Salimbeni. 1416 cica. Urbino, oratorio di S. Giovanni a Urbino, 1416.

A sinistra particolare dell’affresco raffigurante un uomo che toglie dagli occhi di Longino il sangue schizzato dalla ferita sul costato di Cristo inferta con la sua lancia.

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lancia con la quale volle constatare l’effettiva morte del Messia ovvero porre fine alle sue sofferenze. E poiché in questa rubrica ci occupiamo di armi, ricordiamo l’esistenza di una delle reliquie piú famose e sacre al mondo: la lancia stessa (rectius: il ferro, giacché l’asta di legno è andata, ovviamente, distrutta nel tempo), custodita oggi nella Schatzkammer dell’Hofburg di Vienna (vedi foto a p. 106). Non è la sola reliquia del genere (cioè della lancia che colpí il corpo agosto

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Crocifissione, olio su tela di Lorenzo Lotto. 1529-1534. Monte san Giusto (MC), chiesa di S. Maria in Telusiano. Lo storico e critico d’arte Bernard Berenson definí il dipinto «la piú bella rappresentazione del Calvario del Rinascimento». Vediamo Longino, a cavallo, che tende le braccia verso Gesú, mentre la lancia è semplicemente appoggiata in terra e mantenuta dritta dalla gamba destra e dal collo del cavallo. Si tratta di una vera lancia da cavaliere, lunga almeno 4 m, mentre gli armati a piedi, sotto la Croce, impugnano gli «spiedi», lunghi circa 2 m: nella costruzione prospettica di Lotto gli «spiedi» non possono raggiungere i tre condannati e solo Longino con la sua lunga lancia può farlo (si notano altre due lance dello stesso tipo, ai lati dell’opera).

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CALEIDO SCOPIO di Cristo), ma è certamente la piú nota e importante. Pochi anni fa il laboratorio del Kunsthistorisches Museum di Vienna, sotto la guida di Franz Kirchweger, ha sottoposto ad accurate analisi il reperto, concludendo che la lancia è di tipo carolingio e risale all’VIII secolo. Non può quindi tattarsi di quella impugnata da Longino, ma la circostanza è di scarso rilievo, dal momento che la fede non ha bisogno di prove. Né mancano i sostenitori della tesi secondo la quale la SS di Hitler ne

avrebbe realizzato una copia fedele (quella esposta a Vienna), mentre l’originale sarebbe ancora nascosto. Un’iniziativa che, per altri, avrebbero avuto anche gli Americani, dopo averla recuperata a fine guerra, in un’operazione guidata dal generale Patton. La storia di questa reliquia è insomma fra le piú confuse e controverse – ma anche fra le piú interessanti – di tutte quelle riguardanti il settore «sacri resti». E chi voglia approfondire l’argomento entrerà in un mondo fatto di mille storie in cui si mescolano fantasia, rigore documentario, fede sfrenata.

In alto sesino in argento con l’immagine di san Longino, coniato sotto Federico II Gonzaga (1500-1540), duca di Mantova e marchese del Monferrato. In basso Cristo Risorto tra Sant’Andrea Apostolo e San Longino, incisione di Andrea Mantegna. 1475.

Un’arma da fanti

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Se la figura stessa di Longino è estremamente confusa, quella della sua lancia lo è ancor di piú. E sono bellissime entrambe. A voler essere pignoli, da quel che si vede nelle foto, non si tratta di una lancia (arma per cavalieri) ma di uno «spiedo» (arma in asta per fanti), che dalla morfologia degli arresti si potrebbe collocare intorno al IX-X secolo. Il nome richiama molto da vicino l’attrezzo per infilzare e cuocere arrosti sul fuoco, ma è quello ortodosso per tale tipologia di armi. Certo, scrivere che Gesú fu trafitto da uno spiedo può sembrare irriverente e, quindi, utilizzare il termine «lancia» è ben piú gradevole e consono al contesto, indipendentemente dall’effettiva natura dell’arma. Non importa dunque di dove Longino fosse originario (c’è anche chi lo ritiene nato nella provincia di Ascoli Piceno), né dove sia stato ucciso: conta il fatto che ebbe pietà di Gesú. Nella salita al Golgota, la tradizione vuole che fosse lui a dissetarlo e sulla Croce intese porre fine alle sue sofferenze con un colpo di lancia: un’arma che non può essere quella conservata a Vienna, ma che è diventata un simbolo per l’intera cristianità. agosto

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Lo scaffale Antonio Musarra Le crociate L’idea, la storia, il mito

Christian Freigang, Dorothea Hochkirchen, Dieter Kimpel, Serafin Moralejo, Klaus Jan Philipp, Barbara Schock-Werner Cantieri medievali in Europa

il Mulino, Bologna, 334 pp.

24,00 euro ISBN 978-88-15-19509-5 www.mulino.it

A un approccio distratto, si potrebbe pensare che sulle crociate sia stato detto tutto, ma basta scorrere le pagine introduttive del saggio di Antonio Musarra per intuire quanto il tema sia invece ancora vivo e suscettibile di nuovi approfondimenti e di altrettanto innovative riletture critiche. È proprio questa la direzione scelta dall’autore – già noto ai lettori di «Medioevo» –, il quale, programmaticamente, vede nel tema crociato «un grande capitolo di storia della mentalità», figlio di «un’idea mutevole, sorta in seno alla grande riforma della Chiesa dell’XI secolo», ma non solo. Ne consegue una trattazione di grande interesse, articolata da Musarra in tre parti principali che, come anticipa il sottotitolo del volume, sono rispettivamente dedicate all’idea, alla storia e al mito delle crociate. Nei capitoli iniziali viene quindi descritto e analizzato l’humus

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Editoriale Jaca Book, Milano, 199 pp., ill. col.

nel quale l’idea della difesa armata della fede ebbe modo di germogliare, soprattutto all’indomani delle veementi parole pronunciate da papa Urbano II al concilio di ClermontFerrand, nel 1095. Si passa quindi alla cronaca dei fatti, che abbraccia un orizzonte temporale piú ampio di quello coperto dalle canoniche sette crociate, poiché, come già ricordato nell’introduzione, «È un errore di prospettiva ritenere che la storia della crociata si sia conclusa col Medioevo». I capitoli finali offrono invece un repertorio puntuale delle testimonianze attraverso le quali è possibile individuare in che modo le crociate siano state percepite e, spesso, mitizzate, fino alle molteplici riletture moderne del fenomeno. Stefano Mammini

49,00 euro ISBN 978-88-12660-673-9 www.jacabook.it

Jaca Book da tempo affianca alla pubblicazione di nuovi titoli le riedizioni e in questo solco si colloca l’opera a piú mani

dedicata ai cantieri medievali, che vide la luce per la prima volta nel 1995. Il volume si apre con un ampio capitolo introduttivo, il cui autore, Dieter Kimpel, precisa le linee guida lungo le quali si sono mossi gli studiosi coinvolti nel progetto editoriale e sottolinea la complessità del tema affrontato. L’attività costruttiva si dipana infatti nell’arco di oltre sette secoli

e, a fronte della sua consistenza – Kimpel ricorda che, dopo la produzione agricola e quella tessile, l’edilizia fu il terzo grande settore economico del Medioevo –, le notizie sono relativamente limitate (un’osservazione che però, a quasi trent’anni dalla sua formulazione, va probabilmente rivista). Seguono quindi i casi di studio raccolti nella rassegna, che spaziano dal Duomo di Spira (Germania) allo stadhuis (municipio) di Gand (Belgio). Storie che illuminano le dinamiche di alcune tra le piú grandi fabbriche dell’età di Mezzo. S. M. Florence Buttay Storia vera di un impostore Giorgio del Giglio nel Mediterraneo del Cinquecento

Officina Libraria, Roma, 246 pp.

22,00 euro ISBN 978-88-3367-146-8 www.officinalibraria.net

Il Giorgio protagonista del libro nacque (forse) nel 1507, nell’isola dell’Arcipelago Toscano di cui porta il nome per poi vivere un’esistenza a dir poco avventurosa, accompagnata da una sterminata produzione di libri manoscritti.

In particolare, per la stesura di questo volume, Florence Buttay ha preso in considerazione le edizioni conservate nella Biblioteca Apostolica Vaticana e nella Biblioteca degli Intronati di Siena, opere attraverso le quali si cimenta nella definizione del profilo di un personaggio decisamente sfuggente, soprattutto per via delle evidenti falsità e fantasiose invenzioni che disseminò in tutti i suoi scritti. Ma se pure Giorgio fu un «impostore», la sua grafomania assume un valore documentario comunque prezioso. S. M. Tommaso Indelli Confini e stranieri nell’Italia longobarda La disciplina giuridica (VII-X secolo)

Volturnia Edizioni, Cerro al Volturno (IS), 120 pp., con un’appendica cartografica

35,00 euro ISBN 978-88-31339-72-8 www.volturniaedizioni.com

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L’idea di un Medioevo diverse, in ogni tempo perennemente mobile, e in ogni luogo, quindi in cui singoli e gruppi anche nel Medioevo, umani si spostavano com’è dimostrato da un luogo all’altro dalle fonti scritte per le finalità piú e archeologiche. diverse – politiche, Rispetto alle epoche diplomatiche, religiose, successive, le cose nel economiche –, senza Medioevo andavano incontrare alcuna un po’ diversamente, forma di ostacolo perché l’idea del sul loro cammino, «confine» quale linea costituito da barriere divisoria segnata da e confini è, in parte, elementi artificiali – infondata. Secondo città, fortezze, barriere alcune interpretazioni, –, o naturali – monti, infatti, i «confini», le laghi, fiumi –, nacque «frontiere» – come le solo in «età moderna», intendiamo oggi –, non prima con lo Stato sarebbero un’eredità assoluto e, poi, con del Medioevo (V-XV quello costituzionale. secolo), ma il prodotto A prescindere della «modernità» da queste verità (XVI-XVIII secolo) che indiscutibili, anche nel vide affermarsi, sotto Medioevo è accertata, il profilo filosofico e in alcuni casi, come giuridico, il concetto l’archeologia ha avuto di «Stato» come modo di dimostrare, soggetto internazionale l’esistenza di confini e sintesi indissolubile lineari. Si pensi al di sovranità, nazione Danevirke, una barriera e territorio. Tuttavia, artificiale consistente l’esigenza di marcare in fossati, palizzate lo spazio, il territorio, e mura a secco, circoscrivendo un’area realizzata tra l’VIII e il entro la quale un XII secolo e lunga circa gruppo umano, con 30 km, che andava specifici requisiti dal Baltico al Mare del identitari, possa Nord, con la funzione vivere stabilmente di proteggere il regno e in prosperità, di Danimarca da escludendone tutti incursioni provenienti gli altri – se non nel dalla Sassonia. Ondas. Codax, Oppure, in Italia, al rispetto di Martín specifiche Cantigas–,de Amigo condizioni sembra Tractus Italiae circa Vivabiancaluna Biffi, Pierre Hamon una costante Alpes, struttura di Arcana (A390), ineliminabile della 1 CD difesa confinaria che, www.outhere-music.com «civiltà umana», con torri, castelli e riscontrabile, seppure sbarramenti in legno con declinazioni e muratura, collocati

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allo sbocco delle strade transalpine, proteggeva la Penisola, lungo l’intero arco alpino, da potenziali invasioni. Costruito in epoca romana (IV-V secolo d. C.), il Tractus fu «ereditato» dalle stirpi germaniche – Longobardi, Franchi –, che occuparono la Penisola e se ne servirono, poi, anche per fini fiscali, cioè per controllare il flusso di merci in entrata e uscita. Caduto l’impero romano

d’Occidente nel V secolo d. C., le stirpi «germaniche», dopo aver fondato i regni romano-barbarici, ne ereditarono l’organizzazione amministrativa e, con essa, la tradizione culturale e giuridica, atteggiandosi a difensori di quelle frontiere – il limes! –, che esse stesse, molto tempo prima, avevano impunemente violato, determinando il tracollo di Roma. Escludendo i rari esempi di frontiere

lineari, durante il Medioevo il confine tra due Stati aveva, solitamente, un aspetto molto diverso da quello di una «linea» tracciata su una carta geografica. Piuttosto, esso era «zonale», cioè consisteva in un territorio piú o meno vasto, in cui potentati diversi si confrontavano militarmente con guerre e razzie, ma le popolazioni, in tempo di pace, vivevano in simbiosi, intrattenendo scambi commerciali e culturali. La frontiera, quindi, benché non contraddistinta da elementi materiali o geografici precisi, esisteva. È il caso dell’Italia meridionale altomedievale (VI-X secolo), dove Saraceni, Longobardi e Bizantini si confrontarono militarmente, in un incessante susseguirsi di conflitti, fino all’avvento dei Normanni e alla formazione, nell’XI secolo, di un regno unitario. Ebbene, l’inesistenza di sbarramenti, palizzate, muri di confine tra compagini statuali differenti, non cancella il fatto che, nel Mezzogiorno, le popolazioni fossero tenacemente ancorate alla loro identità e che

l’ingresso di individui e gruppi «stranieri» nel territorio di uno Stato, diverso dal proprio, fosse sottoposto a una severa disciplina. È quanto emerge anche dall’analisi della disciplina giuridica contenuta nell’Editto di Rotari, promulgato dal re longobardo Rotari (636-652), nel VII secolo, e perno di tutta la legislazione del regno longobardo. E proprio al regno longobardo è dedicato questo saggio di Tommaso Indelli. Un’attenzione particolare è riposta alla Longobardia meridionale, cioè ai principati longobardi del Mezzogiorno d’Italia – Benevento, Salerno, Capua – in cui l’Editto di Rotari trovò applicazione fino all’XI secolo e alla conquista normanna, che segnò il loro declino politico. L’autore analizza anche le disposizioni giuridiche contenute in accordi internazionali, siglati tra i potentati locali longobardi e bizantini, che disciplinavano il flusso transfrontaliero di uomini, pellegrini e merci. Ovviamente, nulla impediva che tali norme potessero essere violate, ma la disciplina giuridica restava in vigore. (red.)

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