P A M ISA AN NEL TO LO VA
MEDIOEVO n. 309 OTTOBRE 2022
EDIO VO M E www.medioevo.it
UN PASSATO DA RISCOPRIRE
LEGGENDE QUANDO IL LUPO SI FA BUONO
Mens. Anno 26 numero 309 Ottobre 2022 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
DECAMERON RELIGIOSI SÍ MA NON TROPPO OLTRE LO SGUARDO GIONA NEL VENTRE DELLA BALENA
MANTOVA
PISANELLO
IL TORNEO RITROVATO
20309 9
771125
689005
www.medioevo.it
€ 6,50
SAN FRANCESCO POETA IL LUPO GIONA E LA BALENA RELIGIOSI NEL DECAMERON DOSSIER PISANELLO
SAN FRANCESCO POESIE E COLPI DI SCENA
IN EDICOLA IL 4 OTTOBRE 2022
SOMMARIO
Ottobre 2022 ANTEPRIMA
CALEIDOSCOPIO
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AMORI MEDIEVALI Una pozione fatale
STORIE, UOMINI E SAPORI Carlo, imperatore e buon massaro di Sergio G. Grasso 102
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di Federico Canaccini
MOSTRE Siena, caput mundi
QUANDO I SANTI PRENDEVANO LE ARMI Con la spada e con il giglio di Paolo Pinti 108
6
di Stefano Mammini
APPUNTAMENTI Essere donne nell’età di Mezzo 11 L’Agenda del Mese 14
LIBRI Lo Scaffale
Dossier
STORIE SAN FRANCESCO Rime in cerca della luce di Arnaldo Casali
28
28
VIVERE AL TEMPO DEL DECAMERON/10 Predicare bene e razzolare male di Corrado Occhipinti Confalonieri
OLTRE LO SGUARDO/17 Nel ventre del «grande pesce» di Furio Cappelli
COSTUME E SOCIETÀ IL LUPO Cattivo ma non troppo
di Domenico Sebastiani
112
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68
68
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44 PISANELLO Il tumulto del mondo
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di Stefano L’Occaso, Monica Molteni, Andrea De Marchi e Giulia Marocchi
P A M ISA AN NEL TO LO VA
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UN PASSATO DA RISCOPRIRE
LEGGENDE QUANDO IL LUPO SI FA BUONO
Mens. Anno 26 numero 309 Ottobre 2022 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
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MEDIOEVO Anno XXVI, n. 309 - ottobre 2022 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Alessandria, 130 - 00198 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Alessia Pozzato Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it
Hanno collaborato a questo numero: Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Furio Cappelli è storico dell’arte. Arnaldo Casali è giornalista, storico e saggista. Francesco Colotta è giornalista. Andrea De Marchi è professore ordinario di storia dell’arte medievale all’Università degli Studi di Firenze. Sergio G. Grasso è giornalista specializzato in tradizioni enogastronomiche. Stefano L’Occaso è direttore del Museo di Palazzo Ducale di Mantova. Giulia Marocchi è co-curatrice della mostra «Pisanello. Il tumulto del mondo». Monica Molteni è professore aggregato di storia delle tecniche artistiche e del restauro presso l’Università degli Studi di Verona. Corrado Occhipinti Confalonieri è storico e scrittore. Paolo Pinti è studioso di oplologia. Domenico Sebastiani è cultore di tradizioni e leggende medievali. Maria Paola Zanoboni è dottore di ricerca in storia medievale e cultore della materia presso l’Università degli Studi di Milano. Illustrazioni e immagini: Cortesia Ufficio Stampa Electa: Ministero della CulturaPalazzo Ducale di Mantova: Ghigo Roli: copertina e pp. 81, 82-95; Archivio di Palazzo Ducale di Mantova: pp. 96-97; Veneranda Biblioteca Ambrosiana, Milano: p. 100 (alto, a sinistra); Museo di Castelvecchio, Verona: Paolo Villa: p. 100 (alto, a destra); Comune di MilanoGabinetto Numismatico e Medagliere, Castello Sforzesco: p. 101 – The Metropolitan Museum of Art, New York: p. 5 – Cortesia Ufficio Stampa Opera Laboratori: pp. 6/7, 8-9, 10, 10/11 – Cortesia Ufficio Stampa Festa del libro medievale e antico di Saluzzo: p. 11 – Doc. red.: pp. 28/29, 30, 32, 34, 36/37, 38-39, 40, 50-51, 56-65, 68-71, 74, 102-103, 106, 110-111; Giorgio Albertini: p. 107 – Mondadori Portfolio: AKG Images: pp. 29, 74/75; Fototeca Gilardi: pp. 31, 53, 73; Archivio Lensini/Fabio e Andrea Lensini: pp. 44/45; Zuma Press: p. 46; Album/ Oronoz: p. 47; Album/British Library: pp. 48-49; Cortesia Everett Collection: p. 72; Electa/Sergio Anelli: pp. 78, 109 (destra); Album/Fine Art Images: p. 79; Album/ Collection IM/Kharbine Tapabor: p. 105; Electa/Paolo e Federico Manusardi: p. 108 – Shutterstock: pp. 33, 52/53, 54, 98/99, 100 (basso) – Alamy Stock Photo: pp. 76-77 – Norton Simon Museum, Pasadena: p. 109 (sinistra) – Patrizia Ferrandes: cartina alle pp. 104/105.
Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 49572016 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 - Via Dalmazia, 13 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Servizio Arretrati a cura di Press-Di Distribuzione Stampa e Multimedia Srl 20090 Segrate (MI) Le edicole e i privati potranno richiedere le copie degli arretrati tramite e-mail agli indirizzi: collez@mondadori.it e arretrati@mondadori.it e accedendo al sito: https://arretrati.pressdi.it In copertina particolare del Torneo di cavalieri, pittura murale strappata, tecnica mista di Antonio Pisano, detto «Pisanello». 1430-1433. Mantova, Palazzo Ducale.
Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.
Prossimamente l’inchiesta
Chi era, davvero, Federico da Montefeltro
oltre lo sguardo
Il diluvio universale
costume e società
I cassoni nuziali
amori medievali di Federico Canaccini
Una pozione fatale
L
a tormentata vicenda di Tristano e Isotta è tra le piú famose storie d’amore di tradizione medievale. Le sue origini sono probabilmente celtiche, quando i Vichinghi esercitavano un certo potere in Irlanda e in Inghilterra, ma le prime redazioni sono da ascriversi a poeti anglo-normanni vissuti nel XII secolo. L’opera fu scritta in antico francese per poi essere tradotta in tedesco dal poeta Gottfried da Strasburgo, ma anche in inglese antico e norreno, divenendo cosí un best seller del Medioevo. La vicenda si svolge in Cornovaglia, in particolare a Tintagel, anche se vengono evocati la Cumbria, l’Irlanda, la Britannia e i paesi scandinavi. I protagonisti sono Tristano, Marco – re di Cornovaglia (e zio di Tristano) – e Isotta di Britannia. Il re Marco aveva cresciuto come un figlio il giovane e sfortunato Tristano, orfano, approdato per miracolo in Cornovaglia, dopo essere stato catturato dai Vichinghi ai quali era poi riuscito a sfuggire. I due non sapevano di essere zio e nipote: la madre di Tristano, la regina Biancofiore, era infatti sorella del re di Cornovaglia. Sarà proprio Tristano a essere inviato dal sovrano per prenderne la futura sposa, la bella Isotta, e condurla, su un vascello, sino alla corte di Cornovaglia, là dove verranno celebrate le nozze. La storia però si complica, quando Tristano e Isotta, per errore, bevono un filtro d’amore destinato ai futuri sposi: ha cosí inizio la relazione clandestina tra i due che non si interrompe nemmeno dopo che le nozze con Marco sono state regolarmente celebrate. Tuttavia, l’idillio viene infine scoperto e Tristano, seppur a malincuore, si convincerà a restituire l’amante al legittimo sposo.
Il giovane sembra rassegnarsi e convola a nuove nozze, ma, durante una battaglia, cade ferito e chiede ancora una volta di poter vedere l’indimenticata Isotta. La donna, che non aveva mai dimenticato il suo amante, parte per raggiungere Tristano esanime che però, nel frattempo, viene ingannato dalla moglie, ferita nell’orgoglio. È lei, infatti, a far credere a Tristano che Isotta lo ha dimenticato, gettandolo nel dolore piú profondo, al punto che l’eroe – mentre la sua bella è in viaggio – prefersice lasciarsi morire. E la fine di Isotta non sarà diversa. Giunta sul campo, troppo tardi per consolare Tristano, Isotta, in preda alla disperazione, si uccide, congiungendosi cosí per sempre al suo unico vero amore. La vicenda di Tristano e Isotta contiene tutti gli elementi tipici del romanzo d’amore medievale, anche se – nelle varie versioni che ne sono state tramandate – vengono di volta in volta utilizzati parzialmente o in maniera diversa: un nipote perduto, un signore che si fida e la cui fiducia viene ingannata, pozioni d’amore, coppe e armi avvelenate, filtri misteriori, draghi, disastri, morti tragiche e inevitabili. Ma, su tutto, l’amore che – a dispetto della morte – resta eterno e indissolubile.
Tristano e Isotta (sulla sinistra) conversano e re Marco li spia dall’alto, particolare della decorazione di un cofanetto in avorio ispirata ai temi arturiani e della letteratura cortese. Produzione francese, 1310-1330 circa. New York, The Metropolitan Museum of Art. Sulla destra, una scena di caccia all’unicorno.
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ottobre
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ANTE PRIMA
Siena caput mundi MOSTRE • Il complesso museale del Santa Maria
della Scala accoglie una ricca selezione di opere appartenenti alle collezioni del Monte dei Paschi di Siena. Dipinti e sculture che documentano gli oltre sette secoli di storia di una realtà artistica di primo piano
In basso Crocifissione con la Vergine e i santi Maddalena e Giovanni Evangelista dolenti; Vergine annunziata, i santi Pietro e Paolo, san Giovanni Evangelista (?) e committente, pannello centrale e laterale destro di un piccolo trittico portatile per la devozione personale e domestica,
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tempera e oro su tavola di Pietro Lorenzetti. 1335 circa. Siena, Museo di San Donato. Sulle due pagine Adorazione dei Magi, tempera e oro su tavola del Sassetta (al secolo, Stefano di Giovanni). 1433 circa. Siena, Palazzo Chigi Saracini.
ottobre
MEDIOEVO
MEDIOEVO
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ANTE PRIMA
C’
è stato un tempo, fra la seconda metà del Duecento e il Trecento, in cui Siena si impose come una delle capitali dell’arte medievale, grazie ad artisti quali Simone Martini, Pietro e Ambrogio Lorenzetti o Duccio di Buoninsegna. Di quella stagione straordinaria, ma non soltanto, dà conto la mostra ora allestita nei magnifici spazi del Santa Maria della Scala, che riunisce poco meno di 70 opere, facenti parte delle ricche
collezioni – circa 30 000 pezzi – riunite in oltre cinque secoli dal Monte dei Paschi di Siena.
Un illustre economista Il percorso espositivo si apre trasportando idealmente il visitatore in piazza Salimbeni, sede dell’istituto bancario, poiché si è scelto di presentare il bozzetto plasmato in gesso nel 1878 da Tito Sarrocchi per il monumento all’economista senese Sallustio
Bandini (1677-1760). Monumento che fu quindi realizzato in marmo bianco dallo stesso Sarrocchi e donato alla città nel 1880, affinché potesse appunto essere collocato al centro di piazza Salimbeni, dove tuttora si può vederlo. La rassegna dei dipinti si apre con due opere che testimoniano in modo significativo i modi dell’arte duecentesca. La prima, in particolare, si distingue per essere una delle piú antiche icone
A destra Madonna col Bambino in trono fra i santi Pietro e Lucia (?) e due angeli, tempera su tavola del Maestro di Tressa. 1230-1240 circa. Siena, Palazzo Chigi Saracini. In basso Sant’Antonio Abate, terracotta policroma di Francesco di Giorgio Martini. 1490-1500. Siena, Archivio Storico.
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mariane senesi. Eseguita con ogni probabilità fra il 1230 e il 1240, è una tavola raffigurante la Madonna con il Bambino fra due santi e due angeli attribuita a un artista di cui si ignora il nome, ma che viene convenzionalmente designato come Maestro di Tressa, poiché il dipinto era originariamente custodito nella chiesa di S. Maria a Tressa. Poco oltre, spiccano un piccolo trittico (1329-1332) e un tabernacolo (1330-1332 circa), entrambi in marmo, scolpiti rispettivamente da Tino di Camaino e Giovanni d’Agostino, altri illustri esponenti della scuola senese. Le sculture si presentano oggi candide, ma, soprattutto nel caso del trittico, analisi condotte sul manufatto hanno rivelato la presenza di tracce di colore e dobbiamo dunque immaginare che il loro aspetto originario fosse ben diverso.
La visita dell’imperatore Tornando alla pittura, la parata dei maestri si arricchisce di altri nomi prestigiosi: da Pietro Lorenzetti a Benedetto di Bindo, da Andrea di Bartolo a Stefano di Giovanni, detto il Sassetta. A quest’ultimo si deve, tra gli altri, l’Adorazione dei Magi scelta come immagine simbolo della mostra. Si tratta di un dipinto su tavola, originariamente compreso in una composizione piú ampia (un frammento piú piccolo è oggi conservato al Metropolitan Museum di New York), eseguito intorno al 1433, che, oltre alla squisita cifra stilistica, ha un notevole valore documentario. La scena è stata infatti concepita come una commemorazione della visita a Siena dell’imperatore Sigismondo di Lussemburgo, che soggiornò in città fra il 12 luglio 1432 e il 25 aprile 1433. Le fattezze del sovrano sono state infatti riconosciute nel Mago inginocchiato davanti alla Vergine e uno dei falconieri inseriti dal Sassetta
MEDIOEVO
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In alto tabernacolo murale raffigurante l’Annunciazione, scultura in marmo senese della Montagnola di Giovanni d’Agostino. 1330-1332 circa. Siena, Palazzo Chigi Saracini. In basso Madonna col Bambino, santa Caterina e san Giovanni Battista, trittico in marmo apuano di Tino di Camaino. 1329-1332. Siena, Museo di San Donato.
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ANTE PRIMA Santo evangelista, tempera su tavola di Andrea di Bartolo. Secondo/ terzo decennio del XV sec. Siena, Museo di San Donato.
Errata corrige con riferimento all’articolo I misteri di un bel horrore (vedi «Medioevo» n. 305, giugno 2022) desideriamo precisare che la planimetria dell’Ipogeo di Piagge (Pesaro e Urbino), pubblicata a p. 97 e che qui riproponiamo, è opera dell’architetto Gabriele Polverari ed è stata pubblicata per la prima volta nell’opera Piagge, a cura dello stesso architetto Polverari e di Gianni Volpe, edita a Fano nel 2009 per i tipi di Grapho 5.
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Planimetria dell’Ipogeo di Piagge con la distribuzione degli apparati decorativi: 1. ingresso con scalinata; 2. nicchie con gigli e rosette; 3. volta con grande rosetta, gigli e fioroni; 4. nicchie con rosette; 5. volta con rosetta iscritta in una croce; 6. ambiente terminale; 7. camere aggiunte nel XVIII sec.
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MEDIOEVO
nel dipinto indossa un chapka, cioè il tipico copricapo boemo di cui dovevano evidentemente fare uso gli uomini al seguito di Sigismondo. Inoltre, è opinione di piú di un critico che il calice esibito dall’ancella che compare sulla destra sia quello che il Comune di Siena donò all’illustre ospite. Di grande interesse sono anche sculture e reliquiari in legno e terracotta policroma, come la Madonna con il Bambino (post 1419) di Jacopo della Quercia o il Sant’Antonio Abate (1490-1500) di Francesco di Giorgio Martini.
Verso la modernità Scendendo nel tempo, è espressione del passaggio a nuovi canoni una delicata Natività dipinta su tavola da Girolamo di Benvenuto, inquadrabile nel primo decennio del Cinquecento e nella quale si colgono il permanere di caratteri tipici dell’arte fiamminga ma anche la ricezione delle novità che si andavano allora sperimentando a Firenze e a Roma. Il viaggio nell’arte senese continua quindi con i capitoli dedicati alle produzioni dei secoli successivi, che testimoniano capacità di rinnovare la lezione del passato e, al contempo, di proporre significative innovazioni, in un ideale dialogo fra generazioni che coinvolge anche gli artisti dell’Ottocento e del Novecento. Stefano Mammini DOVE E QUANDO
«Arte Senese. Dal tardo Medioevo al Novecento nelle collezioni del Monte dei Paschi di Siena» Siena, Santa Maria della Scala fino all’8 gennaio 2023 Orario tutti i giorni, 10,00-19,00 Info e prenotazioni tel. 0577 286300; e-mail: booking@operalaboratori.com; www.verniceprogetti.it Catalogo Sillabe
MEDIOEVO
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Essere donne nell’età di Mezzo «U
no spirto celeste, un vivo sole»: sulla scia dei versi di Francesco Petrarca che ritraggono la donna amata, torna la Festa del libro medievale e antico di Saluzzo, manifestazione libraria e fieristica nata nel 2021 per raccontare e approfondire la cultura e storia medievale attraverso romanzi, saggi, lezioni magistrali, spettacoli, performance, concerti, momenti conviviali e cene a lume di candela, azioni pittoriche, occasioni di giochi a tema, laboratori per adulti, bambine e bambini. La seconda edizione della rassegna è in programma da venerdí 21 a domenica 23 ottobre, con diversi momenti di avvicinamento nelle giornate precedenti, a partire da sabato 15 ottobre e la serata conclusiva mercoledí 26 ottobre. Come fa intendere il verso di Petrarca, tratto da una poesia del suo Canzoniere, l’edizione 2022 della Festa è dedicata alle donne nel Medioevo, per cercare di esplorare tutto ciò che caratterizzò la figura femminile in questo periodo storico, e per omaggiare Chiara Frugoni, scomparsa nello scorso mese di aprile. Al programma si affiancherà una parte espositiva, sabato 22 e domenica 23, nella quale il pubblico sarà accolto da editori, librerie, enti culturali con le loro proposte di catalogo, le novità sul tema e la presenza di copie di libri esclusivi, sia manoscritti che a stampa. Case editrici specializzate e generaliste e librerie antiquarie offriranno al pubblico il meglio delle uscite editoriali che raccontano il Medioevo. Tra le curiosità e le novità della seconda edizione: le cene medievali, le rappresentazioni dei mestieri medievali, i concerti a cura del Marchesato Opera Festival, l’iniziativa Facciate parlanti (itinerari alla scoperta degli affreschi nei palazzi del centro storico) e performance di mangiafuoco, acrobati e suonatori grazie alla collaborazione con Mirabilia. Sarà riproposto anche uno dei momenti che ha saputo raccogliere un folto pubblico curioso e ammirato nella via del borgo che porta al Castello: lo spettacolo di falconeria che vedrà in volo, tra gli altri, l’aquila reale e il falco sacro. Info www.salonelibro.it; www.visitsaluzzo.it (red.) Un’immagine dell’edizione 2021 della Festa del Libro medievale e antico di Saluzzo.
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ANTE PRIMA
Valorizzare rievocando G
iunto alla sua decima edizione, «Usi&Costumi», evento fieristico incentrato sulla valorizzazione dei beni culturali e del territorio attraverso le rievocazioni storiche, lascia per la prima volta l’Emilia-Romagna per trasferirsi in Veneto e piú precisamente a Rovigo, all’interno del Cen. Ser. Il 5 e 6 novembre prossimi sarà infatti il centro fieristico ubicato nell’ex zuccherificio rodigino a ospitare gli oltre 200 espositori provenienti da tutta Europa e operanti principalmente nella tutela dell’artigianato storico. Fabbri, falegnami, sarti, calzolai opereranno insieme come all’interno di un immaginifico villaggio dei saperi e dei sapori, arricchito infatti da stand enogastronomici che offrono al visitatore ricette antiche e pietanze locali.
Un’esperienza nuova
INFORMAZIONE PUBBLICITARIA
«La scelta di spostarsi in Veneto non è stata facile – sostiene Cesare Rusalen di Estrela Fiere, uno dei due soggetti organizzatori – dopo tanti anni di bellissime esperienze vissute a Ferrara Fiere, che ringraziamo davvero per la felicissima collaborazione. Ma da un lato alcune motivazioni oggettive, dall’altro anche la considerazione che eventi come questi possano trovare una propria logica nell’essere itineranti e toccare le varie regioni d’Italia ci ha portato a optare per questa nuova esperienza». Gli fa eco l’altro organizzatore, Massimo Andreoli, di Wavents: «Da veneto, mi fa particolarmente piacere che si sia scelto il Cen. Ser. di Rovigo, struttura certamente importante e posta nel cuore di un territorio che nella storia e nel paesaggio ha il proprio fiore all’occhiello: basti pensare agli eventi rievocativi
Immagini d’archivio delle passate edizioni della fiera «Usi & Costumi», che quest’anno si tiene per la prima volta in Veneto, presso il Cen. Ser. di Rovigo, nei giorni del 5 e 6 novembre. di Villadose o Fratta Polesine, alle Ville o alla casa natale di Giacomo Matteotti site proprio a Fratta, o al magnifico Delta del Po, vero e proprio paradiso per una flora e una fauna senza eguali in Europa». «Usi&Costumi», che gode del Patrocinio della Regione del Veneto e del Comune di Rovigo, rimarrà aperta sabato 5 novembre dalle 10,00 alle 18,00 e domenica 6 novembre, dalle 10,00 alle 17,00, insieme alle collaterali «Via Historica-Fiera del Turismo Storico», «Sagitta Expo» (area destinata al Tiro con l’Arco), e al Piccolo Salone del Romanzo Storico «Scripta Manent», prima iniziativa in Italia dedicata a questo particolare settore dell’editoria, che sta avendo sempre maggiore successo. Info: tel. 345 7583298 oppure 333 5856448; e-mail: info@usiecostumi.org
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ottobre
MEDIOEVO
AGENDA DEL MESE
Mostre FIRENZE LE TRE PIETÀ DI MICHELANGELO. NON VI SI PENSA QUANTO SANGUE COSTA Museo dell’Opera del Duomo, sala della Tribuna di Michelangelo fino al 3 ottobre
Vengono per la prima volta messe a confronto l’originale della Pietà Bandini, di cui è da poco terminato il restauro, e i calchi della Pietà Vaticana e della Pietà Rondanini provenienti dai Musei Vaticani. Collocate una vicina all’altra, le tre Pietà offrono l’opportunità di vedere l’evoluzione dell’arte di Michelangelo, nonché la sua maturazione spirituale, dalla prima giovinezza – quando a Roma scolpí per la Cappella dei Re di Francia nell’antica S. Pietro l’opera ora nella navata laterale nord della basilica – alla sua ultima stagione, quando, ormai vecchio, mise mano alla Pietà oggi a Firenze e poi alla Pietà Rondanini conservata a Milano. Si tratta di un percorso lungo piú di cinquant’anni, che conduce dall’ambizione del giovane che scolpí il proprio nome sul petto della Madonna della
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a cura di Stefano Mammini
versione vaticana all’immedesimazione personale dell’anziano artista, che, in quella del Museo dell’Opera, raffigura se stesso nelle sembianze di Nicodemo. Vicino alla propria morte, Michelangelo meditava profondamente sulla Passione di Cristo, come egli stesso fece capire in un coevo disegno della Pietà, donato alla marchesa di Pescara Vittoria Colonna, dove scrisse la frase dantesca: «Non vi si pensa quanto sangue costa» (Paradiso XXIX, 91). Risultato sublime di questa meditazione spirituale fu l’esecuzione della Pietà Rondanini, la cui estrema bellezza rifulge nel tramonto della figura. info https://duomo.firenze.it URBINO FEDERICO DA MONTEFELTRO E FRANCESCO DI GIORGIO: URBINO CROCEVIA DELLE ARTI (1475-1490) Palazzo Ducale, Galleria Nazionale delle Marche fino al 9 ottobre
Nel sesto centenario della nascita di Federico da Montefeltro, la Galleria Nazionale delle Marche di Urbino presenta, a partire dal prossimo 23 giugno, la grande mostra «Federico da Montefeltro e Francesco di Giorgio: Urbino crocevia delle arti (1475-1490)», che riunisce 80 opere – tra pitture, sculture, disegni, medaglie, affreschi staccati e codici –, un terzo delle quali provenienti dall’estero. L’esposizione propone un viaggio attraverso un periodo cruciale sia per Urbino e la sua corte, sia per la storia dell’arte italiana, che a quegli anni deve molto. Il percorso espositivo si articola in sette sezioni,
che spaziano dall’epoca in cui Francesco di Giorgio viene incaricato del ruolo di «architettore» del duca, assumendosi le funzioni anche di soprintendere ai lavori strutturali e decorativi per la fabbrica del palazzo ducale, nel nome del quale si snodano anche gli approfondimenti conclusivi. Nel mezzo, come ha dichiarato Luigi Gallo, direttore della Galleria Nazionale delle Marche, c’è spazio per documentare come il duca Federico avesse saputo «trasformare Urbino in una capitale del Rinascimento: alla sua corte si incontrarono artisti e letterati di estrazione e provenienza diversa, le cui reciproche influenze generano un clima culturale che si ripercuoterà nei decenni a venire. Quell’ambiente, che vide incontrarsi pittori come Piero della Francesca, Giusto di Gand, Pedro Beruguete e Luca Signorelli, gli architetti Luciano Laurana, Francesco di Giorgio
Martini e Donato Bramante, fu l’humus dal quale fiorì la genialità di Raffaello e sul quale, Baldasar Castiglione, plasmò il Cortegiano». Ad arricchire la rassegna contribuisce una seconda mostra, «“Quando vedranno i richi vistimenti”. Federico da Montefeltro e Battista Sforza. Vesti e Potere nel primo Rinascimento italiano», che propone la ricostruzione di sei abiti storici del XV secolo: due richiamano gli abbigliamenti del Dittico di Urbino di Piero della Francesca, il famoso doppio dipinto custodito nella Galleria degli Uffizi di Firenze; gli altri quattro (due femminili e due maschili) sono rifacimenti fedeli di abiti dell’epoca, frutto dello studio delle fonti storiche, giacché degli originali abiti dell’epoca purtroppo a noi non è giunto niente. info tel. 0722 2760; www.gallerianazionalemarche.it ottobre
MEDIOEVO
RIVA DEL GARDA MICHELANGELO BUONARROTI E LA CAPPELLA SISTINA NEI DISEGNI AUTOGRAFI DI CASA BUONARROTI MAG-Museo Alto Garda fino al 23 ottobre
Attraverso uno scelto florilegio di disegni provenienti dall’istituzione fiorentina, la mostra consente di ripercorrere il lungo e complesso processo creativo di Michelangelo, chiamato a realizzare la decorazione della Cappella Sistina in due diversi momenti. Fra il 1508 e il 1512 Michelangelo realizzò l’impresa titanica della decorazione della volta della Cappella Sistina, che lo costrinse a lavorare per mesi a testa in su, sdraiato sui ponteggi a ridosso della volta. Solo venti anni piú tardi completò definitivamente
fogli che vanno da studi di singole membra, figure isolate di ignudi reggifestone, figure nelle piú varie posizioni, con capolavori quali gli studi, in due fogli, per la Cacciata dal Paradiso terrestre della volta. La seconda parte dell’esposizione annovera disegni preparatori per il Giudizio Finale, dallo studio d’insieme a quelli per singole figure, accompagnati, in chiusura, da copie antiche delle figure dei Dannati, a testimonianza di come il grande affresco fosse divenuto un testo di studio per generazioni di artisti. In mostra anche un ciclo di incisioni a bulino, in dieci tavole, del mantovano Giorgio Ghisi, databile alla fine degli anni Quaranta del Cinquecento che testimonia la grande ammirazione suscitata nei decenni a seguire dall’opera e dei profondi studi che ne seguirono. Particolarmente interessante, inoltre, un’incisione di Francesco Barbazza su disegno di Francesco Panini, figlio del celebre vedutista romano Gian Paolo, uscita dalla Calcografia Camerale romana, testimonianza di come si presentasse la Cappella Sistina nel 1766. info tel. 0464 573869; e-mail: info @museoaltogarda.it; www.gardatrentino.it SUTTON HOO (UK)
la decorazione della Cappella, realizzando il celeberrimo Giudizio Finale sulla parete dell’altare fra il 1535 e il 1541. Nella sezione dedicata alla volta della Sistina, l’esposizione propone una selezione di disegni realizzati da Michelangelo e poi confluiti nei cartoni per il trasferimento sul muro in previsione della pittura ad affresco. Si tratta di
MEDIOEVO
ottobre
SPADE REALI. IL TESORO DELLO STAFFORDSHIRE A SUTTON HOO Exhibition Hall fino al 30 ottobre
L’esposizione riunisce, per la prima volta, due fra le piú importanti scoperte di archeologia medievale mai compiute in Inghilterra: il tumulo n. 1 della necropoli di Sutton Hoo e il tesoro dello Staffordshire. Contesti che
offrono una testimonianza straordinaria della maestria raggiunta dagli artigiani anglosassoni specializzati nella lavorazione dei metalli e dell’oro in particolare. Nel primo caso, scavi condotti nel 1939 portarono al ritrovamento di una nave funeraria reale che, alla luce degli studi piú recenti, avrebbe accolto le spoglie di Raedwald, re di East Anglia. Il tesoro dello Staffordshire è invece un insieme di 4600 frammenti di metallo prezioso, rinvenuto da un amatore, grazie al metal detector, nel luglio del 2009. Nella mostra viene sottolineato come gli oggetti, per via delle affinità stilistiche e tecnologiche, sembrano
appunto riferibili all’ambito culturale del regno di East Anglia e databili nel VII secolo. Nel caso del tesoro, si tratta, in larga prevalenza, di armi e accessori facenti parte di equipaggiamenti militari ed è stato calcolato che quelli rinvenuti siano i resti di almeno 100 o forse 150 spade differenti, i cui proprietari potrebbero essere stati i condottieri impegnati in molte delle grandi battaglie
combattute nell’Inghilterra anglosassone in un’epoca di grandi mutamenti politici, religiosi e culturali. Quanto a Sutton Hoo, i reperti, concessi in prestito dal British Museum, comprendono, fra gli altri, vari esemplari delle spettacolari terminazioni piramidali dell’impugnatura delle spade, realizzate in oro, con inserti di granati, e lavorate a cloisonné. Oggetti che, quando affiorarono nel corso dello scavo, lasciarono subito intuire l’eccezionalità del tumulo n. 1 della necropoli reale. info www.nationaltrust.org.uk FIRENZE DA VINCI EXPERIENCE Cattedrale dell’Immagine, chiesa di S. Stefano al Ponte fino al 1° novembre
Torna, interamente rinnovata, «Da Vinci Experience», un viaggio immersivo attraverso la vita e le opere di Leonardo. La parabola artistica e personale del maestro viene affrontata in 35 minuti di video immersivo suddiviso in sei blocchi tematici: biografia, colore, pittura, ingegneria/anatomia, acqua e aria. Una narrazione che parte dal racconto cronologico della vita del genio e poi si dirama tra gli effetti
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AGENDA DEL MESE visivi dei video generativi che affrontano i tanti temi legati a Leonardo. La nuova «Da Vinci Experience» è una produzione divulgativa e, nella sezione didattica, è peraltro possibile osservare numerosi modelli delle macchine leonardesche, sia a grandezza naturale che in scala, mentre nell’area introduttiva sono esposte pregevoli riproduzioni anastatiche dei disegni del Genio. La visita permette infine di sperimentare la Da Vinci VR Experience, un’esperienza di realtà virtuale grazie alla quale il visitatore può confrontarsi con il funzionamento delle invenzioni di Leonardo da Vinci, entrando all’interno del carro armato e azionandone i meccanismi, navigando con la barca a pale, e inseguendo il sogno del volo umano. info tel. 055 2989888; e-mail: info@davinciexperience.it; www.davinciexperience.it; Facebook Cattedrale dell’Immagine
visione del demonio nudo sconfitto da un atletico san Michele Arcangelo. info tel. 0736 298213 oppure 333 3276129; e-mail: info@ascolimusei.it SIENA ARTE SENESE. DAL TARDO MEDIOEVO AL NOVECENTO NELLE COLLEZIONI DEL MONTE DEI PASCHI DI SIENA Santa Maria della Scala fino all’8 gennaio 2023
ASCOLI PICENO SULLE ORME DI SAN MICHELE ARCANGELO. PELLEGRINI E DEVOTI NELL’ARTE Pinacoteca Civica fino al 6 novembre
Approda ad Ascoli Piceno la mostra itinerante voluta per approfondire il tema del pellegrinaggio attraverso opere che spaziano dal Medioevo al Seicento, seguendo un percorso all’insegna dei luoghi di culto di san Michele Arcangelo. I pellegrini e i devoti che in gran numero percorrevano gli itinerari di fede europei sono stati piú volte rappresentati dagli artisti che ne hanno messo in evidenza le particolarità dell’abbigliamento, con i segni caratteristici dell’avvenuto pellegrinaggio che consentiva di riconoscerli. I santi invocati durante il
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percorso, come san Rocco e san Giacomo Maggiore, venivano dunque effigiati dagli artisti con le vesti tipiche dei pellegrini al pari dei santi che nel Medioevo avevano portato la parola di Cristo in luoghi lontani e pericolosi, come san Giacomo della Marca raffigurato sempre con il bordone. La mostra vuole rendere omaggio a questo particolare legame e attingendo a un ricco patrimonio iconografico si è selezionato un nucleo di opere, in un percorso tematico che mette in risalto alcuni elementi particolari, come l’abito caratteristico dei pellegrini e le insegne esibite per certificare di aver intrapreso il viaggio verso i remoti luoghi santi. Fra le opere giunte ad Ascoli si segnala la tela del
seicentista Francesco Cozza, recentemente rinvenuta a Roma presso un convento dove era stata nascosta sotto un dipinto moderno affinché le monache non fossero turbate dalla
Raccontare la storia dell’arte senese dal tardo Medioevo al Novecento grazie a capolavori conservati nelle collezioni della Banca Monte dei Paschi di Siena: è questo l’obiettivo della mostra allestita nel Complesso Museale Santa Maria della Scala. Opere di maestri del calibro di Pietro Lorenzetti, Tino di Camaino, Stefano di Giovanni detto il Sassetta, Giovanni Antonio Bazzi detto il Sodoma, Domenico Beccafumi, Bernardino Mei, Cesare Maccari e Fulvio Corsini permettono di ripercorrere il secolare amore di Siena per le arti figurative, attraverso alcune grandi personalità artistiche capaci di affermarsi in patria e non solo, dando conto dello straordinario valore
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delle collezioni della Banca Monte dei Paschi di Siena, indissolubilmente legate alla città, alla sua memoria e ai suoi valori. Le collezioni sono costituite da un numero impressionante di dipinti, sculture e arredi, per lo piú di scuola senese dal XIV al XIX secolo, non senza interessanti incursioni sul Novecento italiano. Esse sono il frutto di una prolungata sedimentazione storica, avviata con vere e proprie committenze da parte di una pubblica istituzione fondata nel 1472, e proseguita in tempi piú vicini a noi con importanti acquisizioni e con l’allestimento, negli anni Ottanta del secolo scorso, di veri e propri spazi museali nell’antica chiesa di S. Donato, all’interno della sede storica di piazza Salimbeni. La raccolta è stata peraltro incrementata grazie a nuclei di opere provenienti dalle banche incorporate nel corso degli anni e, particolarmente, con l’acquisizione di una parte della celebre Collezione Chigi Saracini di Siena: una delle piú importanti collezioni private italiane, che ancora oggi si conserva nel palazzo di via di Città. Di tutto ciò la mostra offre una ponderata selezione, focalizzata sulle maggiori testimonianze della scuola senese, celebre in tutto il mondo. info tel. 0577 286300; e-mail: booking@operalaboratori.com; www.verniceprogetti.it
è pensata in occasione dei 50 anni dall’esposizione curata da Giovanni Paccagnini, con la quale fu presentata una delle piú importanti acquisizioni nel campo della storia dell’arte nel XX secolo: la scoperta nelle sale di Palazzo Ducale di Mantova del ciclo decorativo di
tema cavalleresco dipinto a tecnica mista intorno al 14301433 da Antonio Pisano, detto il Pisanello. L’esposizione fa parte di un programma di ampia visione e lungo periodo per la valorizzazione dell’opera e della Sala dedicata all’artista, insieme all’attigua
Sala dei Papi. Verrà infatti ripensato in maniera permanente l’allestimento dell’intero ambiente per la migliore fruizione di un ritrovamento eccezionale del patrimonio artistico italiano. Il progetto prevede di restituire una leggibilità completa delle
MANTOVA PISANELLO. IL TUMULTO DEL MONDO Palazzo Ducale fino all’8 gennaio 2023 (dal 7 ottobre)
La mostra (alla quale è dedicato il Dossier di questo numero; vedi alle pp. 81-101)
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AGENDA DEL MESE pitture, strappate e ricollocate oltre cinquant’anni fa, grazie a un nuovo sistema di illuminazione e a una pedana sopraelevata che per la prima volta pone il visitatore a distanza ravvicinata dalle pareti (oggi il pavimento si trova a una quota piú bassa di ben 110 cm di quando l’opera fu realizzata). Circa 30 opere, tra cui prestiti internazionali, quali i capolavori del Pisanello la Madonna col Bambino e i santi Antonio e Giorgio della National Gallery di Londra, per la prima volta in Italia dalla sua «partenza» nel 1862, e i disegni del Museo del Louvre di Parigi; ma anche l’Adorazione dei Magi di Stefano da Verona dalla Pinacoteca di Brera di Milano e, non da ultimo, la preziosa Madonna della Quaglia, una tavola giovanile di Pisanello, considerata tra le opere simbolo del Museo di Castelvecchio di Verona, disponibile anche in virtú di un accordo di valorizzazione in essere tra i due musei sui rapporti artistici tra Verona e Mantova. info tel. 0376 352100; https:// mantovaducale.beniculturali.it; Call Center: tel. 041 2411897; www.ducalemantova.org TREVISO PARIS BORDON 1500-1571. PITTORE DIVINO Museo Santa Caterina fino al 15 gennaio 2023
Treviso dedica al suo piú grande pittore, Paris Bordon (1500-1571), definito dallo storiografo veneziano Marco Boschini, il «Divin Pitor» – termine che ha usato solo per Raffaello e Tiziano – la piú ampia rassegna monografica mai realizzata finora con opere eccezionali, molte delle quali mai esposte in Italia. L’esposizione racconta la
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creatività e la qualità straordinaria dell’opera dell’allievo di Tiziano, riunendo i suoi capolavori provenienti dai piú prestigiosi musei del mondo, tra i quali la National Gallery di Londra, il Louvre di Parigi, il Kunsthistorisches Museum di Vienna, l’Ashmolean Museum di Oxford, le Gallerie degli Uffizi di Firenze e i Musei Vaticani. È Giorgio Vasari a considerare Paris Bordon l’unico allievo di Tiziano meritevole di attenzione, tanto da dedicargli una lunga appendice nella biografia del Vecellio nell’edizione del 1568 delle Vite. Non esistono opere e documenti capaci di fare chiarezza sulle date del suo apprendistato, ma di certo sappiamo che nel 21 giugno 1518 Paris è indicato come «pictor habitator in Venetiis in contrata Sancti Iuliani». Il giovane pittore non tarda a dimostrare una certa emancipazione dal maestro, volgendo il suo interesse alle nuove tendenze introdotte da Palma il Vecchio e dal Pordenone. La mostra intende riscoprire proprio la varietà,
l’originalità e la ricchezza della produzione del genio trevigiano riunendo insieme i suoi sensuali ritratti femminili, le rappresentazioni mitologiche, le scene sacre delle grandi pale d’altare e le piccole opere destinate alla devozione privata. A coronamento della visita in mostra viene proposto un itinerario di confronti e rimandi, curato dal direttore dei musei cittadini, Fabrizio Malachin, per riscoprire capolavori della Pinacoteca del Museo Santa Caterina o disseminati all’interno del territorio trevigiano e veneto. info tel. 0444 326418; e-mail: mostraparisbordon@gmail.com; www.mostraparisbordon.it BOLOGNA GIULIO II E RAFFAELLO. UNA NUOVA STAGIONE DEL RINASCIMENTO A BOLOGNA Pinacoteca Nazionale fino al 5 febbraio 2023 (dall’8 ottobre)
Il Ritratto di Papa Giulio II della Rovere, uno dei capolavori di Raffaello, viene eccezionalmente esposto alla Pinacoteca Nazionale di Bologna, opera clou della
mostra «Giulio II e Raffaello. Una nuova stagione del Rinascimento a Bologna». Giulio II fu il pontefice che assoggettò Bologna allo Stato della Chiesa, cambiando profondamente il corso della storia cittadina e avviando, anche grazie alla presenza di artisti come Bramante e Michelangelo, una nuova stagione del Rinascimento in città. Il Ritratto è un dipinto a olio su tavola, commissionato da papa della Rovere a Raffaello e realizzato a Roma intorno al 1511-1512. Oltre alla versione conservata alla ottobre
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National Gallery di Londra, se ne conoscono diverse copie, alcune anonime, altre di importanti artisti come quella attribuita a Tiziano, conservata alla Galleria Palatina di Firenze. Si tratta di esemplari che testimoniano l’interesse per il personaggio effigiato e per il modello interpretativo raffaellesco, che rimane dominante nella ritrattistica dei papi per la gran parte degli artisti nei secoli successivi. Vasari e Lomazzo parlano di un ritratto del papa realizzato da Raffaello presente nella basilica di S. Maria del Popolo a Roma. L’opera, passata nella collezione Borghese nel 1608, era stata in seguito venduta all’imperatore Rodolfo II e da allora se ne erano perse le tracce. Nel 1976 uno studioso della National Gallery di Londra sciolse l’enigma del dipinto, che era stato acquistato nel 1824 dal museo e che si trovava in Inghilterra dalla fine del Settecento. Fu ritrovato infatti sulla tavola un numero d’inventario, il 118, che si scoprí corrispondere con quello della Galleria di Scipione Borghese al 1693. Le analisi scientifiche hanno poi confermato l’autografia raffaellesca e un restauro ha restituito la qualità pittorica dell’opera, fino ad allora nascosta sotto strati di vernice ingiallita. info www.pinacotecabologna. beniculturali.it TEGLIO (SONDRIO) CARLO V, DAGLI UFFIZI A PALAZZO BESTA Palazzo Besta fino al 6 aprile 2023
La mostra si inserisce nel progetto «100 opere tornano a casa. Dai depositi alle sale dei musei», voluto per promuovere e valorizzare il
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centro degli interessi culturali e politici dei Besta, che li vollero presenti sulle pareti del Salone d’Onore. La figura di Carlo V è l’occasione dunque per leggere da uno specifico angolo visuale alcuni dei soggetti e dei temi che legano il Palazzo e la famiglia Besta al territorio e alla storia europea loro contemporanea. info tel. 0342 781208; e-mail: drm-lom.palazzobesta@ beniculturali.it ACQUI TERME (ALESSANDRIA)
patrimonio storico-artistico e archeologico italiano conservato nei depositi dei luoghi d’arte statali, mettendo cosí in collegamento musei grandi e piccoli. L’opera giunta a Palazzo Besta, un Ritratto di Carlo V a figura intera armato, è stata realizzata da Tiziano Vecellio e dai suoi collaboratori: databile al 1550 circa, proviene dalle collezioni della Galleria degli Uffizi. È un esempio di «ritratto di Stato» introdotto da Tiziano in luogo del piú tradizionale ritratto di corte. Il grande ritratto di Carlo V è messo a confronto con l’effigie dello stesso imperatore affrescata nel Salone d’Onore di Palazzo Besta a Teglio e dialoga con alcuni dei piú illustri personaggi che lo hanno incontrato, come Ludovico Ariosto, Erasmo da Rotterdam, Pietro Aretino; ma anche con i suoi antagonisti politici: Francesco I di Francia, Massimiliano d’Austria, Enrico VIII d’Inghilterra. Tutti, in diverso modo, erano contemporaneamente al
GOTI A FRASCARO. ARCHEOLOGIA DI UN VILLAGGIO BARBARICO Museo Archeologico di Acqui Terme fino al 27 maggio 2023
L’esposizione presenta per la prima volta insieme i materiali restituiti dalle indagini
archeologiche condotte negli ultimi vent’anni nel tratto di pianura compreso tra la Statale Alessandria-Acqui e il fiume Bormida. Sull’ampio terrazzo fluviale che ha conservato testimonianze di insediamenti pre- protostorici, alcune famiglie gote occuparono un impianto di conduzione agricola di epoca romana imperiale, al quale diedero nuovo impulso, fondando un villaggio di capanne in legno e seppellendo i propri defunti in un cimitero posto a breve
distanza dall’abitato. I Goti di Frascaro vissero separati, ma non isolati, dalla popolazione romana per quasi un secolo (dalla fine del V al terzo venticinquennio del VI secolo), mantenendo tradizioni tipiche della cultura barbarica. info tel. 0144 57555; e-mail: info@acquimusei.it: www.acquimusei.it
Appuntamenti CACCAMO (PALERMO) LE GIORNATE MEDIEVALI: UN SALTO NEL PASSATO Castello fino all’11 dicembre
Curata dalla Società Italiana per la Protezione dei Beni Culturali-Sezione Regione Siciliana (SIPBC Sicilia), con la collaborazione del Comune di Caccamo e il patrocinio gratuito della Federazione Storica Siciliana, l’iniziativa propone rievocazioni storiche che si ripetono ogni mese. Fino a dicembre, presso il Castello medievale, si può assistere a una rievocazione intervallata da momenti di narrazione e spiegazione degli ambienti della fortezza. Il programma inizia alle 10,00 nella Sala Prades del Castello, per poi concludersi al baglio centrale. I visitatori saranno accompagnati alla visione commentata delle sale del piano nobile del maniero da figuranti in abito d’epoca. Questo il calendario delle prossime giornate: domenica 23 ottobre; domenica 20 novembre; domenica 11 dicembre. info tel. 091 8149744, cell. 339 3721811 o 320 0486901; e-Mail: sipbc.regionesiciliana@gmail.com, sicilia@sipbc.it
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fra gli attori principali degli eventi che scandiscono i secoli dell’Alto Medioevo europeo e non soltanto di quello scandinavo. Alla loro parabola è dedicato il nuovo Dossier di «Medioevo», nel quale Tommaso Indelli ripercorre l’intera vicenda di questa popolazione e sottolinea l’eredità che essa ha lasciato, permettendoci di scoprire, per esempio, che anche l’Italia, almeno per quanto riguarda le sue regioni meridionali, ha avuto un importante passato «vichingo». Storie come sempre accompagnate da un ricco apparato iconografico e cartografico, che contribuisce a inquadrare nel modo migliore i caratteri salienti dell’era vichinga.
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IOEVO MED Dossier
353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c.1, LO/MI.
ul finire dell’VIII secolo, la costa orientale dell’Inghilterra viene investita per la prima volta dalle incursioni di gruppi provenienti dal Grande Nord: sono i Vichinghi, un popolo che, da quel momento in poi, farà molto parlare di sé, soprattutto perché la loro comparsa sulla scena della storia è segnata da razzie e violenze. Nel tempo, tuttavia, l’espansione di questi abili navigatori e temibili guerrieri assume connotazioni diverse e le genti vichinghe si insediano stabilmente in molte regioni del Vecchio Continente e la loro cultura si fonde con quella delle genti autoctone. Ecco perché, oggi, possiamo a buon diritto considerarli
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GLI ARGOMENTI
• Una storia europea • L’espansione • I regni scandinavi • Nel Mezzogiorno d’Italia
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storie san francesco
Rime in cerca della luce di Arnaldo Casali
Quella dei versi composti (o attribuiti) a san Francesco d’Assisi è un’avventura lunga ottocento anni, in cui non mancano miti, misteri, inganni, tesori perduti, lunghe ricerche e clamorosi ritrovamenti. Ma, soprattutto, tanta poesia e spiritualità…
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a storia delle liriche scritte da Francesco d’Assisi è affascinante quasi quanto la sua vita. Tommaso da Celano racconta che, sin dai primissimi tempi della sua conversione, il Giullare di Dio «se ne andava per i boschi cantando le lodi del Signore» e che non era un orante «ma un uomo tutto fatto preghiera». Se il ruolo di primo poeta della letteratura italiana gli è stato insidiato, qualche anno fa, dalla scoperta di due canzoni del XII secolo conservate a Ravenna, a Francesco è rimasto almeno quello del piú poliedrico e sorprendente. Nella dozzina di canti, preghiere ed esortazioni che gli sono attribuiti, accanto al celeberrimo Cantico di frate sole, trovano posto infatti uffici liturgici, manoscritti autografi, rivisitazioni di antichi testi, collage e curiosi innesti, ma anche scoperte recenti e recentissime e clamorosi falsi, «imboscati» impunemente in una galassia di liriche tanto popolata quanto variegata e discontinua.
Un ritrovamento inaspettato
Una straordinaria scoperta è stata rivelata quest’anno, nel numero di aprile della rivista Frate Francesco, da Aleksander Horowski, membro dell’Istituto Storico dei Cappuccini e direttore della rivista Collectanea Franciscana. Mentre analizzava un manoscritto – il numero 1258 – custodito nell’Archivo Histórico Nacional di Madrid, il francescano polacco si è trovato di fronte a una preghiera attribuita dal copista a Francesco d’Assisi. Il codice è composto da 359 fogli e raccoglie una serie di testi (tra i quali il Testamento di santa Chiara) ripresi – secondo Horowski – da diversi altri volumi, e non da una precedente raccolta già predisposta. Ai fogli 286rb-287ra del manoscritto è riportata una preghiera latina introdotta dalle parole Oratio composita a beato Francisco. La preghiera (di cui riportiamo il testo a p. 35) è un invito a tutti gli spiriti celesti, alle categorie dei santi e a tutte le creature a unirsi nella lode per il grande dono, fatto agli uomini, dell’incarnazione del Figlio di Dio e l’autore attinge abbondantemente alla liturgia e alla Scrittura Sacra, usando un metodo molto familiare a Francesco. «Alla luce di questi elementi unitamente ai risultati delle fonti e del lessico dell’Oratio – scrive lo studioso – possiamo considerare questa preghiera, fino alla prova contraria, come un testo di Francesco sufficientemente avvalorato». Secondo padre Pietro Messa della Pontificia Università Antonianum, la preghiera rappresenta «una invocazione al Re pacifico ma anche una esortazione agli uomini di buona volontà a essere operatori di pace». «La scoperta – aggiunge Messa – è una notizia importante dal punto di vista religioso e storico».
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Sulle due pagine La predica agli uccelli, nel ciclo delle Storie francescane affrescato da Giotto nella Chiesa Superiore della basilica di S. Francesco ad Assisi. 1290-1295 circa. In basso flauti in legno. Assisi, Museo di San Francesco. Per i Francescani, la pratica musicale faceva parte dei doveri devozionali e della preghiera quotidiana.
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storie san francesco Non è la prima volta, negli ultimi cinquant’anni, che viene scoperto un inedito dell’Assisiate: il caso piú clamoroso è avvenuto nel 1976, con il ritrovamento di Audite poverelle, testo indirizzato da Francesco a Chiara e alle sorelle di S. Damiano e che, come il Cantico di frate Sole, è stato scritto in lingua volgare (vedi box qui accanto). A differenza del caso piú recente, però, quella di Audite poverelle non è stata una scoperta casuale, bensí l’approdo di una ricerca durata quasi settecento anni. Nella Compilazione di Assisi, infatti, gli stessi compagni di Francesco raccontano che nei giorni in cui il santo componeva il Cantico di frate sole, scrisse anche «alcune parole con melodia, a maggior consolazione delle signore povere del monastero di San Damiano». Rimaste nascoste per sette secoli, quelle parole vengono alla luce solo quando le novizie del Protomonastero di Assisi notano sorprendenti corrispondenze fra quanto era riferito di quelle «parole con melodia» e un testo pubblicato nel 1941 da padre Leonardo Bello, rinvenuto in due codici conservati dalle Clarisse di No-
l’audite poverelle
Per Chiara e le sue sorelle Audite, poverelle dal Signore vocate, ke de multe parte e provincie sete adunate: vivate sempre en veritate ke en obedienzia moriate. Non guardate a la vita de fore, ka quella dello spirito è migliore. Io ve prego per grand’amore k’aiate discrezione de le lemosene ke ve dà el Segnore. Quelle ke sunt aggravate de infirmitate et l’altre ke per loro suò affatigate, tutte quante lo sostengate en pace, ka multo venderite cara questa fatiga, ka ciascuna serà regina en celo coronata cum la Vergene Maria A sinistra Assisi, basilica di S. Francesco, Chiesa Inferiore. Matrimonio mistico di san Francesco d’Assisi con madonna Povertà, affresco attribuito a Giotto e alla sua bottega. 1334 circa. Nella pagina accanto San Francesco e Santa Chiara, affresco attribuito a Memmo di Filippuccio in qualità di aiuto di Giotto nella Chiesa Superiore della basilica di S. Francesco ad Assisi. 1290 circa.
stata ricostruita dal poeta Giulio Salvatori, utilizzando versi simili a quelli del Cantico di frate sole, «usando parole di san Francesco, o proprie del suo parlare e lasciandosi influenzare soprattutto dal Saluto alle virtú e dal Cantico».
Di fronte al crocifisso
vaglie. La lirica viene inserita da suor Chiara Augusta Lainati nella prima edizione delle Fonti Francescane del 1977. Nel frattempo, padre Giovanni Boccali esamina i codici, datando il piú antico al XIV secolo e giudicando autentico il testo attribuito – dal codice stesso – a Francesco. Un aspetto molto curioso – raccontato da Felice Accrocca in un articolo pubblicato su L’Osservatore Romano nel 2015 – è che cinquant’anni prima di essere ritrovata e identificata, questa esortazione era
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Una tradizione ininterrotta da secoli è invece quella della Preghiera di fronte al crocifisso, la piú antica e tra le piú celebri liriche composte dal santo: «Altissimo, glorioso Dio, illumina le tenebre de lo core mio. E damme fede dritta, speranza certa e caritade perfetta, umiltà profonda. Segno e cognoscemento, Signore, che faccia lo tuo santo e verace comandamento». Secondo la tradizione, si tratta della preghiera che Francesco rivolgeva al crocifisso di S. Damiano nel 1206, nella fase della sua vita in cui, dopo aver abbandonato la famiglia ed essersi spogliato di tutti i beni, non aveva ancora trovato la sua strada. Tutti i manoscritti che riportano la preghiera sono concordi nell’affermare che fu pronunciata in volgare italico e solo successivamente tradotta in latino. Il testo ottobre
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usato per l’edizione critica, realizzata da Kajetan Esser nel 1976, risale al XV secolo e si trova in un codice custodito alla Bodleian Library di Oxford. «Sofferta invocazione di un uomo alla ricerca della luce e della via di Dio – scrive Carlo Paolazzi nell’introduzione alla preghiera pubblicata nell’edizione del 2004 delle Fonti Francescane – è rilevante che si tratti della prima “prosa rimata” volgare com-
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posta da Francesco e l’insistenza con la quale Francesco chiede “illuminazione” sembra denunciare uno stato di oscurità interiore, che corrisponde bene al momento biografico che sta vivendo».
Una composizione celeberrima
Sublime preghiera e raffinatissima lirica, il Canto di frate sole, o Laudi delle creature, meglio conosciuto come ottobre
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Nella pagina accanto La preghiera dinanzi al Crocifisso di san Damiano, scena dal ciclo delle Storie francescane affrescato da Giotto nella Chiesa Superiore della basilica di S. Francesco ad Assisi. 1290-1295 circa. A destra il crocifisso di S. Damiano, l’icona in forma di croce davanti alla quale Francesco stava pregando quando ricevette dal Signore l’ordine di riparare la sua casa. XII sec. Assisi, basilica di S. Chiara.
Cantico delle creature, è il piú antico testo poetico della lingua italiana di cui si conosca l’autore e ha ispirato centinaia di artisti. Sul capolavoro francescano è stato scritto già tutto e il contrario di tutto, dissertando sulle implicazioni ecologiste e sul significato delle particelle per e con, nonché del verbo «skappare» (se vada interpretato in italiano, come «fuggire» o in dialetto umbro, come sinonimo di «uscire»), ma anche sul suo ruolo nella lotta all’eresia. A differenza di illustri colleghi, come Bernardo di Chiaravalle e il suo coevo Domenico, Francesco non ha mai speso una sola parola contro gli eretici. La lode del creato, però, rappresenta una pacifica ma radicale confutazione della teologia catara, che considerava la natura maligna. La piú antica stesura del Cantico che si conosca è riportata nel Codice 338, risalente al XIII secolo e custodito nella Biblioteca Comunale di Assisi, ma ad avvalorarne l’autenticità contro ogni ragionevole dubbio c’è il fatto che i biografi del santo non solo lo menzionano ma ne raccontano anche la nascita e l’evoluzione. Gli stessi compagni, nella Compilazione di Assisi, spiegano che la parte principale della lirica – in cui si lodano il sole, la luna, le stelle, il vento, l’acqua, il fuoco e la terra – è stata scritta nel 1225 a S. Damiano. Vale la pena di ricordare che questo inno alla bellezza del creato è stato composto da un uomo gravemente malato e quasi completamente cieco. «Io devo molto godere adesso in mezzo ai miei mali e dolori – dice Francesco – e trovare conforto nel Signore, e render grazie sempre a Dio Padre. Voglio quindi comporre una nuova lauda del Signore per le sue creature. Ogni giorno usiamo delle creature e senza di loro non possiamo vivere, e in esse il genere umano molto offende il Creatore. E postosi a sedere, si concentrò a riflettere e poi disse: “Altissimo, onnipotente, bon Signore…”». Francesco stesso scrive anche la musica, e la fa insegnare ai frati da frate Pacifico «che nel secolo veniva chiamato “il re dei versi” ed era gentilissimo maestro di canto». Francesco li manda per il mondo a predicare e lodare Dio. «Quando fossero terminate le Laudi, il predicatore diceva al popolo: “Noi siamo i giullari del Signore, e la ricompensa che desideriamo da voi è questa: che viviate nella vera penitenza”». Se piú di un cantautore moderno – a cominciare da Angelo Branduardi – ha messo in musica i versi, c’è chi
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ha tentato di ricostruire la melodia originale, come frate Alessandro Brustenghi, celebre francescano tenore del convento di S. Maria degli Angeli. Ancora i ricordi dei compagni spiegano che la strofa sul perdono è nata nel corso di una vera e propria «missione di pace» per sanare il gravissimo scontro tra il podestà e il vescovo di Assisi, i quali, dopo averla ascoltata, si abbracciano e si riconciliano. Ma la storia del Cantico non è ancora finita. Come tutti i grandi artisti, Francesco continua a lavorare al suo capolavoro fino alla morte. È Tommaso da Celano, suo primo biografo, a raccontare che nei suoi ultimi giorni di vita Francesco «invitava tutte le creature alla lode di Dio, e con certi versi, che aveva composto un tempo, le esortava all’amore divino. Perfino la morte, a tutti terribile e odiosa, esortava alla lode, e andandole incontro lieto: “Ben venga, mia sorella morte”».
Quel bigliettino per frate Leone
Le sole liriche di Francesco di cui abbiamo il manoscritto autografo si trovano su un bigliettino scritto a frate Leone durante il ritiro alla Verna, conservato oggi nella basilica di S. Francesco ad Assisi. Nel settembre 1224 Francesco si è rifugiato nell’eremo toscano in un momento di particolare sofferenza spirituale. Proba-
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Francesco e il sultano
Mondi a confronto
Didascalia aliquatur adi odis L’incontro que vero ent quitra Francesco doloreium conectu d’Assisi e il Sultano al-Malik rehendebis eatur al-Kamil, avvenuto a Damietta tendamusam nel luglio 1219, segna il primo consent, perspiti confronto pacifico tra un cristiano conseque nis e un musulmano in un’epoca in maxim cui laeaquis Chiesa benedice la spada earuntia cones «perché chi uccide insanguinata, apienda. un musulmano – secondo le parole
di san Bernardo – non commette omicidio ma malicidio, e può essere considerato il carnefice autorizzato di Cristo contro i malvagi». Si tratta peraltro, di un episodio testimoniato «in presa diretta» da fonti esterne al mondo francescano. Il primo a citarlo, infatti, è un cronista della crociata: Giacomo da Vitry, il quale, nel marzo del 1220, lo racconta in una lettera in cui non fa il nome di Francesco, ma ne parla come del fondatore dell’Ordine dei Frati Minori, commentando che con la sua iniziativa «non ha ottenuto granché». Qualche anno dopo – ancora vivente Francesco – Giacomo torna a parlare dell’episodio nella sua Historia Occidentalis, in cui riconosce, al contrario, il successo dell’iniziativa, visto che «ora i saraceni ascoltano volentieri i frati minori quando predicano la fede in Gesú Cristo e l’insegnamento del Vangelo». Ma il racconto piú attendibile dell’episodio è probabilmente quello del cronista Ernoul, che non conosce Francesco e parla di «due chierici che si trovavano nell’esercito a Damiata». Vinta la resistenza del cardinale legato (convinto che verranno uccisi) i due cristiani – racconta Ernoul – imbastiscono con il sultano un vero e proprio dibattito teologico. Poi Malik li fa riaccompagnare all’accampamento dei crociati dopo aver offerto loro doni e un abbondante pasto. Particolarmente interessante
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è il fatto che l’incontro tra Francesco e Malik non sia ricordato solo da fonti cristiane, ma anche islamiche: nell’epigrafe funeraria di un saggio musulmano, Ibn al-Zayyât, che era consigliere spirituale di Malik, si dice infatti che aveva avuto «un’avventura memorabile con un monaco cristiano». «L’incontro, dunque, vi è stato – come spiega il francescanista Marco Bartoli – è stato percepito come straordinario dai contemporanei e i due protagonisti erano uomini, per ragioni diverse, propensi alla pace». Successivamente, anche i biografi ufficiali come Tommaso da Celano e Bonaventura da Bagnoregio racconteranno l’episodio, aggiungendo particolari che mirano a «normalizzare» l’evento come presunte violenze, minacce, torture e la passeggiata sui carboni ardenti con cui Francesco «batte» il sultano,
mentre i Fioretti aggiungono l’episodio della «femmina bellissima nel corpo ma sozza nell’anima» che cerca di indurlo al peccato. In seguito la storiografia francescana si sarebbe divisa tra storici «guerrafondai» (secondo cui Francesco aveva appoggiato la crociata) e «pacifisti» (che vedono addirittura un tentativo di fermare la guerra). Di certo, il viaggio cambia completamente il rapporto di Francesco con l’Islam: «I frati poi che vanno fra gli infedeli – fa scrivere sulla Regola non bollata – non facciano liti o dispute, ma siano soggetti a ogni creatura umana per amore di Dio e confessino di essere cristiani». Le Lodi di Dio altissimo rappresentano quindi l’ennesima testimonianza di come quell’impresa voluta per sete di martirio si fosse trasformata in uno straordinario incontro umano e spirituale. ottobre
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A destra la traduzione italiana della Oratio composita a beato Francisco scoperta dal francescano polacco Aleksander Horowski all’interno del manoscritto 1258 custodito nell’Archivo Histórico Nacional di Madrid. Nella pagina accanto San Francesco davanti al Sultano (o Prova del fuoco), nel ciclo delle Storie francescane affrescato da Giotto nella Chiesa Superiore della basilica di S. Francesco ad Assisi. 1290-1295 circa.
L’INEDITO SCOPERTO IN SPAGNA NEL 2022 Voi, o figli degli uomini, lodate bene il Signore della gloria sopra tutte le cose, magnificatelo e molto esaltate! E glorificatelo nei secoli dei secoli, affinché sia ogni onore e gloria nelle altezze a Dio, creatore onnipotente, e sulla terra sia pace agli uomini di buona volontà! Assai magnifico è questo Re pacifico, al di sopra di tutti i re dell’universo intero, Signore Dio, nostro Creatore, Redentore e Salvatore, Consigliere e nostro ammirabile Legislatore!
bilmente su richiesta dello stesso compagno, scrive per lui una benedizione su un foglio di pergamena che Leone porterà con sé per tutta la vita. Il frate si cuce infatti sulla tonaca una tasca interna in cui custodisce la pergamena per quasi cinquant’anni: gli verrà trovata addosso alla morte nel 1271. «Il Signore ti benedica e ti custodisca, mostri a te il suo volto e abbia misericordia di te. Rivolga verso di te il suo sguardo e ti dia pace. Il Signore ti benedica, frate Leone» si legge sul foglio. La benedizione non è altro che una citazione biblica. Nel Libro dei Numeri Dio detta a Mosè la benedizione che Aronne dovrà tramandare per i figli di Israele: «L’Eterno ti benedica e ti custodisca! L’Eterno faccia risplendere il suo volto su di te e ti sia propizio! L’Eterno rivolga il suo volto su di te e ti dia la pace!». Negli spazi rimasti liberi del foglio lo stesso Leone annota: «Il beato Francesco scrisse di suo pugno questa benedizione per me frate Leone. Allo stesso modo fece lui, di sua mano, il segno del Tau con la sua base». Scritta a caratteri grandi con inchiostro grigio-marrone, la benedizione di Francesco è firmata infatti con un Tau.
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E, a esplicitare la simbologia del Calvario, Francesco ci ha disegnato alla base una montagna e una testa barbuta fasciata da un turbante.
Dall’altra parte della pergamena
Ancora piú sorprendente è il retro del foglio: «Dopo la visione e le parole del serafino e l’impressione delle stimmate di Cristo sul suo corpo – scrive Leone – fece queste lodi scritte dall’altra parte della pergamena e le fece di sua mano, rendendo grazie a Dio per il beneficio a lui fatto». «Tu sei santo, Signore solo Dio, che compi meraviglie. Tu sei forte, Tu sei grande, Tu sei altissimo». Anche in questo caso la lirica sembra riecheggiare un’altra preghiera. La cosa piú straordinaria, però, è che non si tratta di un testo cristiano o ebraico, ma islamico. «A Dio appartengono i nomi piú belli: invocatelo con quelli» si legge nel Corano. Secondo la teologia islamica, a Dio vengono attribuiti 99 nomi che rappresentano gli aspetti molteplici della divinità: Il Misericordioso, il Compassionevole, Il Sovrano, Il Santo, La pace, Colui in cui si ha fede, Il custode, Il potente e cosí via. Difficile non
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CRONOLOGIA DELLE FONTI ANTICHE
(XIII SECOLO)
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Nel 1228 Gregorio IX affida a un frate minore, l’abruzzese Tommaso da Celano, la redazione di una leggenda agiografica, che questi porta a termine nel periodo compreso fra la cerimonia di canonizzazione del luglio 1228 e gli inizi del 1229. Tale Leggenda – che in latino significa «da leggersi» – viene comunemente chiamata Vita prima ed è la prima biografia composta su Francesco. Da essa dipende la Leggenda a uso del coro, che lo stesso Tommaso redige intorno al 1230, per la messa cantata. Fra il 1232 e il 1235, un altro Minore, il tedesco Giuliano da Spira, compone un ufficio in versi – sulla base delle notizie della Vita Prima di Tommaso da Celano – e altri materiali da utilizzare per la recita del breviario, il libro di preghiere dei frati. Nel 1234, il letterato Enrico d’Avranches termina di comporre una vita di Francesco, anch’essa in versi e tratta dalla Leggenda di Tommaso da Celano. Nel 1244, durante il capitolo generale di Genova, il ministro generale, Crescenzio da Jesi, apre una nuova inchiesta su Francesco, sollecitando l’invio di materiale relativo alla vita e ai miracoli dell’Assisiate. Nel 1246, i compagni piú stretti di Francesco, Leone, Rufino e Angelo inviano a Crescenzio una lettera che ancora ci resta – datata 11 agosto 1246 – e che accompagna il materiale richiesto dal ministro. Si tratta di un perduto florilegio, tramandatoci in parte dalla Compilazione di Assisi e dalla leggenda denominata Leggenda dei Tre Compagni. La Compilazione di Assisi, opera probabilmente del solo frate Leone, è nota anche come Leggenda perusina dal nome dell’unico manoscritto che la tramanda, il 1046 della Biblioteca Augusta di Perugia. La Leggenda dei Tre compagni si deve probabilmente al solo frate Rufino, il cugino di Chiara, che con Francesco aveva condiviso lo stile di vita giovanile cosí ben descritto nella sua opera. 1240-1250 circa. Un anonimo compone il Sacro commercio di Francesco con madonna povertà, un’allegoria in chiave cortese del sodalizio tra Francesco e la povertà. Il testo è datato inverosimilmente in alcuni manoscritti al 1227, ma assegnabile invece ai decenni centrali del XIII secolo. Nel 1246-47, Tommaso da Celano viene incaricato dal ministro generale, Crescenzo da Jesi, di scrivere una nuova leggenda sulla base del materiale inviato nel corso della nuova inchiesta. La nuova opera viene da lui intitolata Memoriale delle gesta e delle parole di san Francesco, ma è conosciuta con il nome di Vita secunda per distinguerla dalla prima. 1253-54. Tommaso da Celano termina una raccolta dedicata ai miracoli di Francesco, nota col nome di Trattato dei miracoli. 1263. Bonaventura da Bagnoregio, divenuto ministro generale dell’Ordine nel 1257, presenta al capitolo generale di Pisa la biografia da lui scritta: la Leggenda Maggiore. 1266, capitolo generale di Parigi: Bonaventura da Bagnoregio dà mandato di distruggere ogni precedente materiale bio-agiografico su Francesco. 1276, capitolo generale di Padova: un nuovo ministro – probabilmente con l’intento di riparare al danno operato dal capitolo del 1266 – fa richiesta ai frati di inviare al ministro nuovo materiale biografico su Francesco. 1276. A seguito della richiesta del capitolo di Padova, viene composta a Perugia l’opera Sugli inizi dell’Ordine dei frati Minori. L’autore, frate Giovanni, fu amico e seguace di Egidio, uno dei primi compagni di Francesco. Il testo è conosciuto anche come Anonimo perugino, perché cosí tramandato dall’unico manoscritto superstite, conservato nel capoluogo umbro. ottobre
San Francesco riceve le stimmate, olio su tela di Antonio Pirri (al secolo Antonio di Manfredo da Bologna). 1525-1530. Madrid, Museo Nazionale ThyssenBornemisza.
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trovare nelle Lodi di Dio altissimo un’eco dei 99 nomi di Dio. Tanto piú dal momento in cui Francesco scrive la sua preghiera di ritorno dall’Egitto, dove ha avuto modo di confrontarsi con la cultura islamica.
Saluto alle virtú
Un eredità del viaggio in Egitto, secondo Stanislao da Campagnola, potrebbero essere anche le Lodi delle virtú: «O regina sapienza, il Signore ti salvi con tua sorella, la pura e santa semplicità. Signora santa povertà, il Signore ti salvi con tua sorella, la santa umiltà (…) Non c’è proprio nessuno in tutto il mondo che possa avere una sola di voi se prima non muore a se stesso». «Questo poetico encomio delle virtú francescane sembre-
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rebbe composto dopo il suo soggiorno in oriente – spiega in Francesco nei suoi scritti – il riferimento alla docilità e alla sottomissione dell’uomo è un concetto squisitamente orientale se non addirittura della spiritualità islamica, del sufismo per intenderci». A testimoniare l’autenticità della preghiera, trasmessa da numerosi codici, anche Tommaso da Celano, che nella Seconda vita ne cita il primo versetto.
Prima del Cantico
Una storia straordinaria e avventurosa è anche quella dell’Esortazione alla lode del Signore, lirica in latino in cui si rintracciano versi che sembrano preannunciare il Cantico delle creature. «Ambedue i testi – scrive Paolazzi – ci mostrano come il Santo si sentisse unito a tutte le cre-
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In alto il biglietto scritto da san Francesco a frate Leone durante il ritiro alla Verna che costituisce il solo manoscritto autografo esistente delle liriche dell’Assisiate. Assisi, basilica di S. Francesco, cappella delle Reliquie. A destra, sulle due pagine un’edizione manoscritta del Cantico di frate Sole (o delle Creature) di Francesco d’Assisi. XIV sec. Assisi, Biblioteca Comunale.
ature, che da lui vengono invitate a lodare il Signore». Anche questa preghiera arriva da un autografo dello stesso santo. Tracciato non in una pergamena, però, ma su una tavoletta di legno esposta in una chiesa e oggi perduta. Protagonista della vicenda è la Romita di Cesi, in provincia di Terni: un antico romitorio situato a 800 m di altezza e risalente al IV secolo, che Francesco ha restaurato nel 1213 e che in seguito è diventato un grande convento ampliato da Bernardino da Siena. Requisito dal governo italiano nel 1867, ha vissuto un progressivo abbandono fino ad andare quasi completamente distrutto fino al 1991, quando un altro francescano – Bernardino Greco – lo ha ricostruito con le sue mani insieme a un gruppo di volontari, trasformandolo in una delle mete piú amate da pellegrini e camminatori. A seguito del rifiuto di lasciare il romitorio, nel 2012 Bernardino è stato espulso dall’Ordine francescano ed è morto nel giugno di quest’anno, lasciando la sua opera nelle mani dei compagni laici. Intorno al Cinquecento due testimoni oculari han-
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no rinvenuto nella cappella una tavola dipinta e scritta di suo pugno da Francesco, probabilmente per la consacrazione della stessa chiesetta, trascrivendone le parole: «Temete il Signore e rendetegli onore / Il signore è degno di ricevere la lode e l’onore recita l’esortazione». Secondo Kajetan Esser un versetto – «questo è il giorno che ha fatto il Signore, esultiamo e rallegriamoci per esso» – lascia pensare che la lauda sia stata scritta in occasione di una festa, forse la consacrazione dell’altare. La frase «voi tutti che leggete queste parole» conferma invece che il testo fosse esposto in un luogo pubblico. Il verso «voi tutti, uccelli del cielo, lodate il Signore» rappresenta infine l’unico caso in cui negli scritti di Francesco compaiono gli uccelli, che invece hanno tanto spazio nelle biografie.
La parafrasi del «Padre Nostro»
«Un Padre Nostro pregato versetto per versetto, assaporato nelle sue pieghe segrete, allargato con risonanze bibliche e liturgiche». Cosí Leonhard Lehmann ottobre
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nere e aggiunte personali. «L’Ufficio è un testo importante – commenta Paolazzi – perché Francesco nell’utilizzare preghiere del Vecchio Testamento omette deliberatamente tutto ciò che ripugna allo Spirito cristiano e compone dei salmi in armonia perfetta con l’insegnamento del Vangelo».
Un’orazione antichissima
dell’Antonianum definisce il Commento al Padre nostro di Francesco d’Assisi. Lehmann sostiene che piú che una spiegazione della preghiera, quella di Francesco è una meditazione, della quale – peraltro – non sono stati rintracciati modelli: «Nessuna delle numerose parafrasi del Padre Nostro a oggi conosciute ha molte somiglianze con quella di Francesco, che resta unica». La preghiera è riportata in molti codici, alcuni dei quali però la uniscono alle Lodi per ogni ora, pensate come preparazione spirituale alla recita della liturgia delle ore, e saldamente garantite da un’antica e ricca tradizione manoscritta. Al contesto liturgico appartiene anche il Saluto alla Beata Maria Vergine, che attinge in parte alla Bibbia e in parte ai Padri della Chiesa. Un’altra preghiera liturgica è l’Ufficio della Passione, «lunga, sofferta e gioiosa invocazione di Cristo al suo Padre Santissimo» secondo le parole di Carlo Paolazzi: un mosaico composto in gran parte da salmi, alcuni dei quali scritti dallo stesso Francesco cucendo insieme citazioni di vario ge-
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Per secoli attribuita a Francesco d’Assisi, si è invece rivelata un falso storico Absorbeat, breve e intensa orazione messa anche in musica da Marco Frisina: «Rapisca, ti prego, o Signore, l’ardente e dolce forza del tuo amore / la mente mia da tutte le cose che sono sotto il cielo, perché io muoia per amore dell’amor tuo, come tu ti sei degnato di morire / per amore dell’amor mio». Tramandata da Ubertino da Casale, Francescano spirituale morto nel 1328, la preghiera è stata ripresa e divulgata anche da Bernardino da Siena nel Quattrocento. Si tratta, in realtà, di un’orazione antichissima, che ha preceduto di due secoli la nascita dello stesso Francesco. Si trova infatti negli scritti di Giovanni di Fécamp, monaco benedettino morto nel 1078, ma non è escluso che si tratti di un testo ancora piú antico, arrivato in forma anonima a Giovanni. «Si può concludere che Francesco ha conosciuto questa preghiera e ne ha fatto uso – commenta Esser – tutto il resto appartiene al regno delle congetture».
Intrigo internazionale
Ben piú clamoroso è invece il caso della Preghiera semplice, divenuta addirittura la piú celebre lirica francescana dopo il Cantico delle creature e che però con Francesco d’Assisi non ha proprio niente a che fare. Si tratta infatti del piú clamoroso falso della spiritualità contemporanea. Tanto piú clamoroso proprio perché contemporaneo. In questo caso, infatti, non parliamo di un’antica orazione erroneamente attribuita al santo di Assisi, bensí di un testo «giovanissimo», dal momento che è stato scritto appena cento anni fa. Una vera e propria leggenda contemporanea, quindi, cresciuta nel secolo del razionalismo e della scienza e formatasi, per di piú, negli stessi anni in cui gli studi su san Francesco compivano passi da gigante. Ma come è nata, dunque, la tradizione che vuole la Preghiera semplice composta da Francesco d’Assisi? Alla vicenda lo storico Christian Renoux ha dedicato un in-
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storie san francesco San Francesco d’Assisi (particolare), tempera e oro su tavola, aureola raggiata in rilievo, attribuito a Cimabue. 1290 circa. Assisi, Museo della Porziuncola. Secondo la tradizione, il ritratto sarebbe stato realizzato sul coperchio del primitivo feretro che custodí il corpo del santo d’Assisi. L’immagine è assai fedele alla descrizione di Francesco presente nelle fonti francescane.
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tero libro: La prière pour la paix attribuée à saint François, une énigme à résoudre, pubblicato dalle Edizioni francescane di Parigi nel 2001. Tutto inizia nel dicembre 1912, quando la poesia viene pubblicata per la prima volta in Francia, nella rivista ecclesiastica La Clochette, da padre Esther Bouquerel. Il testo è in francese, anonimo, e si intitola Belle prière à faire pendant la messe (Bella preghiera da recitare durante la messa).
Contro l’«inutile strage»
La Clochette conta 8000 abbonati e, fra questi, c’è il canonico Louis Boissey, anch’egli editore di un bollettino – gli Annales de Notre-Dame de la Paix –, all’interno del quale – nel gennaio del 1913 – pubblica la preghiera, lasciando invariato il titolo e indicandone l’origine. Tramite questa seconda diffusione la lirica viene conosciuta dal marchese Stanislas de la Rochethulon et Grente, presidente del Souvenir Normand, un’associazione che vanta, tra l’altro, legami con il Vaticano, grazie ai quali nel dicembre 1915 – nel pieno della prima guerra mondiale, definita da Benedetto XV «un’inutile strage» – il marchese invia al segretario di Stato vaticano una serie di preghiere per la pace da trasmettere al papa. Il 20 gennaio 1916 L’Osservatore Romano pubblica la preghiera, con una traduzione italiana. Il legame con la figura di Francesco d’Assisi era nato già con padre Bouquerel (probabilmente l’autore stesso della preghiera) che in Normandia aveva svolto attività pastorale in una comunità di Francescani. Ma è proprio sul fronte della Grande Guerra che cominciano a circolare volantini con il testo destinato a diventare celebre in tutto il mondo. «È una preghiera che parla di pace – osserva Alfonso Marini – trascritta, tradotta e diffusa da uomini che stavano vivendo l’orrore della guerra: questo la rende quindi ancora piú bella e significativa che se fosse stata scritta dallo stesso Francesco». Qualche tempo dopo la lirica appare in alcuni santini, affiancata all’immagine del santo di Assisi. Nelle prime immaginette viene scritto che questa preghiera «riassume meravigliosamente la fisionomia esteriore del vero seguace di san Francesco» mentre dopo il 1920 si diffonde anche in ambito protestante, soprattutto in Svizzera e in Belgio, attraverso carte postali con il titolo «Prière des Chevaliers de la paix» e con la menzione: «attribuée a St. François d’Assise». Tra gli anni Venti e Trenta appare in Inghilterra e in Germania, mentre nel 1945 la Chiesa di Ginevra la definisce «opera di Francesco d’Assisi». «La preghiera è stata diffusa inizialmente in francese, poi in inglese e in tedesco – aggiunge Marini – è quindi molto buffo il fatto che per avvalorarne l’autenticità sia stata in seguito tradotta anche in italiano antico».
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«Negli Stati Uniti e nel Canada conobbe una diffusione enorme – racconta Pietro Messa – e alcuni Francescani canadesi affermano che sarebbe stata letta nel 1945 al momento della conferenza di San Francisco da cui nacque l’ONU. Il primo febbraio 1946 fu presentata al Senato di Washington definendola «preghiera di san Francesco» e nel 1952 la adotta il pellegrinaggio di Pax Christi a Roma e Assisi». «Dagli anni Cinquanta – aggiunge il frate minore – le edizioni francescane iniziano a diffondere la nostra preghiera in varie lingue sulle cartoline e in questo modo si è letteralmente sparsa in tutto il mondo, senza che i Francescani fossero allarmati dalla falsa attribuzione». Tra le numerose versioni musicali quella di Sebastian Temple eseguita al funerale della principessa Lady Diana e quella scritta da Riz Ortolani per il film Fratello sole, sorella luna, cantata da Claudio Baglioni.
Un patrimonio condiviso
«Ormai essa è divenuta una preghiera universale fatta propria dal movimento gandiano di Lanza del Vasto, dal vescovo brasiliano Helder Câmara, dal Consiglio Ecumenico delle Chiese. Madre Teresa di Calcutta la fece recitare nel 1979 quando le fu assegnato il premio Nobel per la pace. Anche dei politici la citarono, come il primo ministro inglese Margaret Thatcher e il presidente americano Bill Clinton». E se è vero – come nota Messa – che il 27 ottobre 1986 papa Giovanni Paolo II la citò durante la giornata con tutti i rappresentanti delle religioni, «è pure vero che la scelta di Assisi per quel raduno fu determinata in parte anche alla attribuzione a san Francesco di tale preghiera per la pace». D’altra parte, se è vero che possiamo escludere con certezza che la preghiera non è stata scritta da Francesco d’Assisi, il testo sembra riecheggiare una fonte francescana come i Detti del beato Egidio: «Beato colui che ama e non desidera essere amato, beato colui che teme e non vuole essere temuto, beato chi si cura degli altri e non vuole cure per sé». Ovviamente la Preghiera semplice non trova posto nelle raccolte ufficiali delle Fonti Francescane; ciononostante è tanta la sua diffusione popolare che Kajetan Esser, autore della piú importante edizione critica degli scritti di Francesco, ha sentito l’esigenza di fare almeno un breve cenno al celebre apocrifo, mentre Leonardo Boff le ha dedicato il libro La preghiera semplice di san Francesco: «La preghiera per la pace – scrive il teologo brasiliano – non viene direttamente dalla penna del Francesco storico, ma dalla spiritualità del San Francesco della fede. Francesco ne è il padre spirituale e per questo il suo autore nel senso piú profondo e comprensivo di questa parola».
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battaglie clontarf
Cattivo ma non troppo di Domenico Sebastiani
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La reputazione del lupo ha vissuto fasi altalenanti: modello di fierezza e coraggio per molte civiltà antiche, nel millennio medievale, oltre a rappresentare un pericolo concreto diviene sinonimo di malvagità fino a farsi immagine stessa del Maligno. Una visione rispetto alla quale si pone in clamorosa controtendenza san Francesco d’Assisi, che a Gubbio si rende protagonista di un episodio – celeberrimo – di fratellanza «animale»...
L L’
immagine del lupo quale bestia crudele, famelica e divoratrice di uomini, è tipicamente medievale. Durante l’età antica, sia presso la civiltà classica che quella nordica, il lupo è animale dalla simbologia ambivalente, in parte negativa, ma anche solare e positiva. Molte tribú turco-mongole dell’Asia centrale lo considerano un loro antenato, e lo stesso Gengis Khan ama farsi chiamare «figlio del lupo blu». In Grecia appare come attributo di Zeus, Ares, Ecate e Apollo, e quest’ultimo, infatti, viene appellato Liceo. La stessa Roma, dove pure il lupo è prevalentemente malevolo, vede l’eccezione della lupa nutrice, che allatta Romolo e Remo e diventa emblema della futura città. Maggiore dignità il lupo incontra presso le culture dell’Europa settentrionale. Nel mondo celtico Lug, dio della creazione, delle arti e della medicina, ha quali compagni corvi e lupi. Nonostante nella mitologia norreno-germanica esista il lupo Fenrir, figlio del malefico Loki, quale creatura mostruosa e distruttiva, Odino, principale divinità del pantheon nordico, mago e onnisciente, viene qualificato co-
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San Francesco e il lupo di Gubbio, affresco di Cristoforo di Bindoccio e Meo di Pero. 1370-1380. Pienza, chiesa di S. Francesco.
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costume e società Miniatura raffigurante Gaston Fébus, conte di Foix, impegnato in una battuta di caccia al lupo, dal Livre de la chasse. 1407-1408. Parigi, Bibliothèque nationale de France. L’opera, scritta dallo stesso Fébus, fu illustrata sotto la direzione del Maestro del duca di Bedford. Nella pagina accanto miniatura raffigurante il Buon Pastore che cerca di difendere il gregge dall’attacco di un lupo, da un evangelario medievale. Madrid, Biblioteca Nazionale.
me «dio dei lupi» e nel suo palazzo ha accucciati ai suoi piedi i due fedeli lupi Geri e Ferki. L’aggressività lo rende inoltre animale venerato dalle caste guerriere che, coperte solo di pelli d’orso e di lupo, combattono in preda a un furore incontenibile, il cosiddetto berserksgangr. Tuttavia, pur essendo un predatore temibile e feroce, il lupo non costituisce mai presso le culture antiche e fino al VI-VII secolo un pericolo concreto per l’uomo. Se ci rifacciamo alle numerosissime favole esopiane, per esempio, il lupo non attacca mai l’uomo, ma è divoratore di greggi e armenti. Come scrive Gherardo Ortalli, uno stereotipo di lupo ben diverso e molto piú preoccupante di quello trasmesso dall’età classica si viene costruendo durante
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il Medioevo. I caratteri di pericolosità, che prima erano relegati in secondo piano, vengono esasperati, e l’aggressione all’uomo, che prima era un fatto del tutto eccezionale, diventa la normalità. Il lupo diviene bestia antropofaga, e innumerevoli sono – in varie parti d’Europa – le segnalazioni e le cronache, sia civili che ecclesiastiche, circa uomini e soprattutto fanciulli attaccati e sbranati.
I fedeli come un gregge
La demonizzazione del lupo dipende innanzitutto da fattori culturali, è nata all’interno della cristianità ed è stata diffusa dagli scritti di monaci ed ecclesiastici. Piú che nel Vecchio Testamento, è nel Vangelo che si rintracciano passi in cui si fa riferimento in mo-
do negativo al lupo. Matteo (7,15) ammonisce: «Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro son lupi rapaci», e in un altro passo del medesimo (10,16) è Gesú stesso che invita i propri discepoli ad andare a predicare la propria parola tra i pagani e ad affrontare le persecuzioni, cosí come le pecore in mezzo ai lupi. Nell’ottica pastorale giudaicocristiana, se l’agnello è simbolo di Cristo, se il gregge di pecore è la comunità dei fedeli e il pastore è la rappresentazione del clero e della Chiesa, il ruolo del cattivo spetta al lupo, naturale nemico di greggi e armenti. Nasce cosí l’idea del lupo rapace, divoratore di anime, personificazione del male, del demonio, dei falsi profeti o degli eretici, come tuona Euticherio, ottobre
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costume e società vescovo di Lione, attorno al V secolo: «Lupo, diavolo o eretici». In breve il lupo entra nel bestiario di Satana, come il peggiore e il piú crudele degli animali; non soltanto divoratore di anime, esso diviene un pericolo concreto per uomini, donne e bambini, sia di piccoli villaggi in prossimità di boschi e selve, sia di coloro che risiedono all’interno delle mura delle città. Al di là di un’enfatizzazione del fenomeno, in epoca medievale il lupo è un pericolo effettivo: senza ricorrere a spiegazioni poco probabili – è stato ipotizzato, per esempio, un massiccio spostamento di branchi dall’Europa centro-orientale verso quella occidentale e meridionale, analogamente a quanto era avvenuto per le migrazioni di popoli – è piú fondato ritenere che i cambiamenti del paesaggio e del rapporto selva-terra coltivata abbiano provocato una modificazione delle abitudini di tali animali predatori. I forti disboscamenti e l’aumento delle zone coltivate mettono il lupo in uno stato di stress: l’animale non trova piú nel suo naturale habitat, la selva, la selvaggina di cui si nutre solitamente ed è costretto a uscirne, avvicinan-
Miniature raffiguranti l’incontro di un prete con uno dei leggendari lupi mannari di Ossory (un antico regno irlandese). 1220 circa. Londra, British Library. In basso la raffigurazione di un lupo, da un’edizione del De animalium proprietate di Manuele File. XVI sec. Londra, British Library.
dosi a spazi urbanizzati, per attaccare animali domestici e, talvolta, le stesse persone. Questo spiega la spietata guerra sferrata al lupo a partire dal IX secolo. Carlo Magno, nel suo Capitulare de villis, emanato attorno all’800, ordina ad appositi funzionari imperiali, i cosiddetti lupari, di andare a caccia di lupi e lupacchiotti, con cani, trappole, tagliole
ed esche avvelenate, e di riferire periodicamente sul numero di lupi uccisi. Un secolo e mezzo dopo, Berengario II, in Italia, dichiara guerra ai lupi della Lomellina, a poca distanza dal palazzo reale di Pavia, perché essi attaccano le persone che, provenienti dal Piemonte, vi si recano.
Una devozione diffusa
Il timore e la paura del lupo fanno sí che la gente cerchi conforto nel ricorso al divino e al sovrannaturale. Ciò spiega il moltiplicarsi, in tutta Europa, del culto di santi protettori dai lupi. Il culto di tali santi, sebbene molti vivano e operino nei primi secoli della cristianità, è tipicamente medievale. Si possono citare, solo a titolo esemplificativo, Defendente, Radegonda di Poitiers regina dei Franchi, Pietro di Trevi, sant’Alessandro patrono di Bergamo (del quale si parla in questo numero anche alle pp. 108-111), Verecondo – che presso Gubbio avrebbe liberato le campagne dai lupi – e Remaclo, che avrebbe
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fatto altrettanto presso l’abbazia di Stavelot, nelle Ardenne. Con formule a metà strada tra magia e superstizione, attorno al IX secolo si invocano Cristo e san Martino per difendere i cani dalle aggressioni dei lupi. Il piú celebre tra tutti i santi «lupini», probabilmente, è l’arcivescovo Lupo di Sens, morto nel 623, che diviene protettore dei pastori, degli ovini e dei bambini contro i lupi, probabilmente sulla sola base delle assonanze del nome. Numerosissimi sono anche gli episodi agiografici che vedono un santo prevalere sulla belva. Il topos piú diffuso, che lo accomuna ai casi che riguardano l’orso e che sono stati narrati da Michel Pastoureau, vede il lupo rendersi colpevole di aver sbranato un bue che tira l’aratro o un asino che trasporta la legna sul dorso. Il santo, allora, ammansisce la belva e gli comanda, per punizione, di prendere il posto dell’animale ucciso per prestarsi a un lavoro di fatica. Il motivo del lupo che traina un aratro o che trasporta una fascina di legna si ritrova con molta frequenza nell’Italia appenninica dell’XI secolo, in particolar
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modo tra Umbria, Abruzzo, Lazio e Campania. Celebri sono i casi di Amico di Avellana e Amico di Rambona, che nell’iconografia di molte chiese del centro Italia vengono associati a un lupo carico di legna, ammansito dopo aver divorato un somaro, ovvero Guglielmo da Vercelli (ma operante in Campania), che ordina a un lupo di trasportare i materiali per costruire una chiesa. In altri casi il santo vincitore sulla belva ingiunge alla stessa di risparmiare un’altra vita: cosí Domenico da Foligno (X secolo) ordina alla fiera di liberare un bambino che aveva afferrato, Anselmo da Lucca – invocato dalla madre di una bimba aggredita da un lupo nei pressi di Mantova – fa sí che l’animale molli la preda, Biagio di Sebaste ingiunge a un lupo di restituire un maiale rubato a una povera vedova che non possedeva altro. Il cieco sant’Erveo, invece, impone a un lupo di fargli da guida al posto del suo cane che aveva ucciso; il lupo obbedisce e ne diventa fedele compagno. La stessa santa Chiara di Assisi viene ricordata quale protagonista di due miracoli, uno nei pressi di monte Galliano, ove ob-
bliga un lupo a restituire alla madre un bambino che aveva rapito e portato nel bosco, l’altro presso Cannara, ove viene invocata con successo da una donna attaccata dall’animale.
Miracolo a Gubbio
Il miracolo piú noto, universalmente conosciuto, è però quello riguardante Francesco d’Assisi e il lupo di Gubbio. L’episodio è raccontato per la prima volta negli Actus beati Francisci et sociorum eius, opera in latino composta tra il 1327 e il 1340 forse da Ugolino da Montegiorgio, ma la versione piú conosciuta è quella dell’anonimo toscano che, nella seconda metà del XIV secolo, compose i Fioretti, scritti quindi a oltre un secolo dalla morte di Francesco d’Assisi. Recita la parte iniziale dei Fioretti: «Al tempo che santo Francesco dimorava nella città di Agobbio, nel contado d’Agobbio apparí un lupo grandissimo, terribile e feroce, il quale non solamente divorava gli animali, ma eziandio gli uomini; in tanto che tutti i cittadini stavano in gran paura, però che spesse volte s’appressava alla città; e tutti andava(segue a p. 53)
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costume e società Iconografia
Un soggetto di successo Il lupo al guinzaglio, appesantito dal carico di legna e con la testa china, è un tratto caratteristico di Amico di Rambona (abate e poi santo marchigiano, n.d.r.). Lo vediamo in molti affreschi, per esempio nella stessa Rambona (Macerata), nella cripta medievale dell’abbazia e nella chiesa parrocchiale di S. Maria Assunta (affresco del 1538); a S. Silvestro a Tivoli (affresco del 1380), a S. Maria Infraportas a Foligno (vedi foto qui accanto) e nel santuario della Madonna delle Grazie a Rasiglia (vicino Foligno), in un affresco del Quattrocento. Il pittore senese Sano di Pietro, invece, dedicò un polittico (1449) a san Biagio di Sebaste, ritraendo, tra le altre, la scena della restituzione del maialetto a una donna, rappresentato come un piccolo cinghiale scuro trattenuto dai denti del lupo. Un altro pittore senese, Giovanni di Paolo, rappresentò poi il miracolo di santa Chiara che costringe a riportare il bambino dalla foresta (1470). Nel quadro viene rievocato nei tratti essenziali
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il miracolo compiuto dalla santa dopo la sua morte, invocata dalle preghiere di una donna (vedi foto in basso). Da un lato vi è la madre in ginocchio che invoca la santa, a destra in alto Chiara accorre dal cielo, nella parte centrale il bambino e a destra il lupo, che porta in bocca un braccio del bambino (rispetto alla storia originale, non sono rappresentati morsi alla testa o al fianco del fanciullo). Il tutto inquadrato in uno spazio aperto e luminoso, con una foresta soltanto accennata. Nel dipinto
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San Francesco d’Assisi e il lupo di Gubbio, scomparto del polittico dipinto dal Sassetta (al secolo Stefano di Giovanni di Consolo) per la chiesa di S. Francesco di Borgo San Sepolcro. 1437-1444. Londra, National Gallery. Nella pagina accanto, in alto un lupo carico di legna in un particolare dell’affresco ispirato alla vita di Amico da Rambona. Foligno, S. Maria Infraportas. Nella pagina accanto, in basso Santa Chiara salva un bambino sbranato da un lupo, tempera e foglia d’oro su tavola di Giovanni di Paolo. 1455-1460. Houston The Museum of Fine Arts.
il lupo compare anche nel momento successivo, quando giace a terra morto, colpito dalla punizione divina. Per quanto concerne invece il caso di Francesco e il lupo di Gubbio, cosí come esso non viene registrato dai primi biografi, allo stesso modo nei cicli pittorici dedicati al santo figura tra gli ultimi episodi rappresentati. Si segnala, innanzitutto, la pittura murale realizzata da Cristoforo di Bindoccio e Meo di Pero, nella chiesa di S. Francesco a Pienza (1370-1380; vedi alle pp. 44/45). Nel dipinto di Stefano di Giovanni di Consolo da Cortona, detto il Sassetta (XV secolo), attualmente alla National Gallery di Londra, l’autore, in un’unica scena, illustra le varie fasi dell’incontro col lupo (vedi foto in alto). Dall’alto delle mura merlate della città, donne e fanciulle si affacciano osservando la scena che si svolge fuori delle porte della città. I frati e i cittadini piú importanti si trovano vicino a Francesco, il quale ha preso la zampa dell’animale e la stringe come una mano, sancendo il patto. Seduto sulla sinistra, un notaio mette per iscritto i termini dell’accordo tra il santo e il lupo, che gli Eugubini dovranno rispettare. Sullo sfondo, in un cielo chiaro e
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terso, un gruppo di uccelli disegna una leggera curva. Come ha osservato Chiara Frugoni, «il dramma è superato, tutto sta volgendo al meglio. Quelle membra mozzate che si intravedono sul prato verde, e poi inoltrando lo sguardo nella foresta, quelle ossa allineate come disegnando un macabro sentiero, appartengono al passato. Il lupo è un carnivoro, non è cattivo: è stato creato cosí. I cittadini perciò devono preoccuparsi dei suoi pasti che non possono essere a base di fieno!». Ai primi del XVII secolo, l’episodio viene raffigurato anche in edifici non religiosi, come nel caso di Federico Brunori (Patto di pace tra san Francesco e il lupo al cospetto degli Eugubini), che lo dipinge nella Sala dell’Udienza a Palazzo dei Consoli di Gubbio (1612). Le rappresentazioni del lupo di Gubbio sono proseguite ininterrottamente fino ai nostri giorni. Si può pensare, nell’ambito della pittura storica del XIX secolo, al dipinto di Luc-Olivier Merson (Il lupo di Gubbio, 1877, Lille, Palais des Beaux- Arts) in cui, sullo sfondo della città innevata, l’animale è nutrito da un macellaio, accarezzato da una bimba e un’aureola gli circonda la testa.
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costume e società il parere di chiara frugoni
Gli animali come fratelli
Didascalia aliquatur adi odis Insigne studiosa della figura di que vero ent qui doloreium conectu san Francesco, Chiara Frugoni rehendebis eatur (1940-1922), nel volume Uomini tendamusam e animali nel Medioevo, analizza consent, perspitil’episodio del lupo di brevemente conseque Gubbio:nis«La maledizione divina, maxim eaquis di Abele, costituiscono la l’uccisione earuntia cones precisa antitesi alla primitiva armonia; la apienda. trasgressione di Adamo ed Eva ha avuto
conseguenze anche sul modo di vivere degli animali che da vegetariani si sono fatti carnivori, obbligati anch’essi, per sopravvivere, a uccidere e a sopraffare. In questa chiave va letto l’episodio del lupo di Gubbio. Il santo dimostra agli abitanti che la presunta ferocia della belva nasce dalla sua condizione di essere carnivoro che ha bisogno, come gli uomini, di mangiare». Secondo Frugoni il lupo grandissimo, terribile e feroce, è un lupo solitario, un vecchio lupo che il branco ha cacciato e che ha disperatamente fame e per questo è costretto ad arrivare alle case degli uomini. Francesco, nel momento in cui si incammina per affrontarlo e per stringere con esso un patto, si pone come negoziatore, tenendo conto sia delle esigenze di chi non vuol essere sbranato, come gli abitanti della città, sia di chi non vuol morire di fame, come l’animale. Infatti il lupo è stato creato carnivoro e la sua indole non dipende quindi da una sua cattiveria interiore. Conclude la studiosa: «Dalla precisa cognizione di un’armonia perduta negli uomini e nelle bestie nasce la particolare comunanza che Francesco istituisce con gli animali, sentiti in senso pieno fratelli, riconoscendo i diritti dei loro comportamenti non certo dovuti a crudeltà, ma all’essere stati, come gli uomini, travolti dalla tragedia di Adamo ed Eva, di Abele e di Caino. È un atteggiamento unico, nel Medioevo, sordo in generale ai bisogni e alle sofferenze degli animali».
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Sulle due pagine monumento a san Francesco e il lupo, opera di Roberto Bellucci. 1997. Nella pagina accanto vignetta raffigurante san Francesco che ammansisce il lupo di Gubbio. Illustrazione colorizzata su base xilografica del XVII sec.
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no armati quando uscivano della città, come s’eglino andassono a combattere, e con tutto ciò non si poteano difendere da lui, chi in lui si scontrava solo. E per paura di questo lupo e’ vennono a tanto, che nessuno era ardito d’uscire fuori della terra. Per la qual cosa avendo compassione santo Francesco agli uomini della terra, sí volle uscire fuori a questo lupo, bene che li cittadini al tutto non gliel consigliavano; e facendosi il segno della santissima croce, uscí fuori della terra egli co’ suoi compagni, tutta la sua confidanza ponendo in Dio. E dubitando gli altri di andare piú oltre, santo Francesco prese il cammino inverso il luogo dove era il lupo».
«Tu fai molti danni...»
Arrivato in prossimità dell’animale, Francesco lo rimprovera per il suo comportamento passato: «Frate lupo, tu fai molti danni in queste parti, e hai fatti grandi malifici, guastando e uccidendo le creature di Dio sanza sua licenza, e non solamente hai uccise e divorate le bestie, ma hai avuto ardire d’uccidere uomini fatti alla immagine di Dio; per la qual cosa tu se’
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degno delle forche come ladro e omicida pessimo; e ogni gente grida e mormora di te, e tutta questa terra t’è nemica». Il santo fa il segno della croce, che ha un effetto quasi magico in quanto la fiera diventa immediatamente mansueta come un agnello e si accuccia ai suoi piedi. Francesco si fa promettere dal lupo che non aggredirà piú uomini e animali, e in cambio i cittadini non solo smetteranno di cacciarlo, ma si impegneranno a provvedere alla sua alimentazione: «Frate lupo, poiché ti piace di fare e di tenere questa pace, io ti prometto ch’io ti farò dare le spese continuamente, mentre tu viverai, dagli uomini di questa terra, sicché tu non patirai piú fame; imperò che io so bene che per la fame tu hai fatto ogni male. Ma poich’io t’accatto questa grazia, io voglio, frate lupo, che tu mi imprometta che tu non nocerai mai a nessuna persona umana né ad animale: promettimi tu questo?». Il patto è suggellato dagli inchini dell’animale alle domande del santo e da una sorta di stretta di mano, in quanto la bestia pone la
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costume e società sua zampa sulla mano di Francesco a garanzia dell’impegno assunto. Il rituale viene poi ripetuto pubblicamente, nella piazza di Gubbio, innanzi a tutta la popolazione. Il racconto dei Fioretti si conclude con il lupo che muore di vecchiaia, dopo essere vissuto in pace con tutti, cani compresi, ben voluto dalla popolazione e ben nutrito come da accordi. Questa in sostanza la narrazione letterale dell’episodio. Ma c’è forse un altro significato che si nasconde nelle pieghe delle parole? In un saggio risalente negli anni ma sempre valido, Franco Cardini, dopo aver fatto cenno a precedenti tentativi di interpretazione dell’episodio a livello simbolico da parte di specialisti di studi francescani,
propone tre possibili chiavi interpretative, non necessariamente suscettibili di escludersi a vicenda.
Immagine del demonio
La prima, l’interpretazione allegorico-sociologica, potrebbe porsi su due piani: da un lato la visione del lupo come immagine del demonio, della morte e del peccato, dall’altro quella dell’animale quale simbolo del male dilagante all’interno di un consorzio civile organizzato. In particolare, il lupo potrebbe rappresentare il peccato che, per diabolica ispirazione, ostacola la felice convivenza della città di Gubbio. Il lupo, per antonomasia avido e feroce – si pensi alla lupa dantesca quale personificazione dell’avidità
– rispecchierebbe i difetti tipici delle città comunali dell’epoca, Gubbio compresa. Francesco, ammansendo il lupo, si sarebbe in realtà reso fautore di una pacificazione cittadina, esortando – in nome della carità cristiana – all’allontanamento della discordia in seno alla civitas comunale, e al contenimento dell’enorme differenza esistente tra ricchi e poveri affamati. La seconda chiave evidenziata dallo storico è quella della dimensione allegorico-antropologica. Seguendo questa linea, il lupo di Gubbio potrebbe nascondere «un qualche nemico storico della città, un protervo signore feudale del contado, o un brigante»; in tal caso, l’intervento del santo e il patto con il lupo equivarrebbero a una conversione. Ma si potrebbe pensare anche alla figura di un ossesso o di un indemoniato, e quindi inquadrare l’accaduto come un episodio di esorcismo, visto che il modo di atteggiarsi del santo – il fare il segno della croce e il comandare dolcemente di appressarsi senza nuocere – potrebbero ben attagliarsi a una tecnica terapeutiUn esemplare adulto di lupo (Canis lupus).
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ca. Qualunque cattivo, del resto, è posseduto dal male e, in definitiva, conversione ed esorcismo verrebbero a coincidere. Cardini si domanda poi se, sotto le spoglie del feroce lupo, possa intravedersi la figura di un «guerriero belva» di norrena memoria, una sorta di berserkir o di ulfhedhnar. Osserva lo storico che l’area in cui Francesco si muoveva «corrispondeva non solo a una zona di tenaci residui culturali italici, ma anche grosso modo al territorio del ducato longobardo di Spoleto. L’imbattersi in tracce di folklore longobardo non dovrebbe essere cosa straordinaria anche se, allo stato delle nostre conoscenze, resta la difficoltà di riconoscere tali tracce». L’ipotesi sembra francamente un po’ forzata, mentre pare piú plausibile l’interpretazione del lupo quale deviante sotto le spoglie del signore prepotente o del brigante. Tale tesi è stata riproposta recentemente dal medievista Riccardo Rao, il quale sottolinea come la vicenda del lupo di Gubbio sia unica, in quanto il lupo ha tratti quasi umani e Francesco a lui si rivolge come a un uomo. Per questo il lupo di Gubbio potrebbe essere l’immagine zoomorfa di qualche personaggio davvero esistito, forse un magnate in conflitto con il popolo di Gubbio, oppure un brigante che seminava il terrore nelle campagne. L’analogia con il bandito viene evocata dalle parole di rimprovero del santo («ladro e omicida pessimo», nonché per il riferimento alla forca che si merita), e dall’immaginario medievale, che vede nei malfattori e nei fuorilegge – che si rifugiavano nei boschi – altrettante «teste di lupo», assimilandoli ai licantropi. Il rituale, con il duplice giuramento del lupo, prima in privato con il santo e poi in pubblico al cospetto del popolo eugubino, ricorderebbe invece le pacificazioni che avvenivano tra signori ribelli e au-
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torità comunali, spesso grazie alla mediazione di religiosi.
E se fosse tutto vero?
L’ultima ipotesi è la dimensione cronistico-letterale. Cardini, infatti, si chiede «perché, tutto sommato, frate lupo non avrebbe potuto essere un autentico lupo». Tale soluzione, infatti, ripropone da un lato il problema del rapporto tra uomo e animale e il potere del primo sul secondo (basti pensare agli studi etologici di Konrad Lorenz), dall’altro presuppone l’accettazione del miracolo da parte del santo. In particolare di un santo, come Francesco, che si pone come una sorta di «mago bianco», e ciò non può stupire, tenendo conto del suo innovativo e particolarissimo rapporto con il mondo animale. Si può pensare, in maniera analoga, a tanti episodi della vita di Francesco, in primis alla sua famosa predica agli uccelli; sotto tale aspetto, la vittoria o meglio la pace con chi da belva diviene «frate lupo», si colloca in modo coerente all’interno della sua personale visione del Creato. Secondo Ortalli, nell’episodio del lupo di Gubbio il mondo della realtà e quello dell’allegoria si compenetrano in un insieme in cui simbolo e fatto concreto non sono piú individuabili. Quel che colpisce è il profondo amore che Francesco dimostra nei confronti degli stessi elementi naturali piú avversi all’uomo e che, forse, è rivelatore di un modo nuovo di porsi da parte della società comunale nei confronti della natura, che si concretizza nella tendenza a darsi delle precise norme di tutela dell’ambiente. In ogni caso, il lupo di Gubbio finisce per essere venerato come un santo: infatti è come se si emancipasse dal legame con san Francesco, e acquisisse una dimensione autonoma nell’immaginario collettivo degli eugubini. L’episodio comincia ad avere una ricca rap-
presentazione a livello iconografico a partire dagli ultimi anni del Medioevo sino all’età moderna, sia nei luoghi sacri che in quelli profani, arrivando a essere affrescato nel 1612 nella Sala dell’Udienza del Palazzo dei Consoli di Gubbio. Nel XVII secolo viene addirittura costruito un santuario dedicato al lupo, la chiesa di S. Francesco della Pace, nel luogo della sua presunta morte. Tutto ciò lo differenzia di gran lunga dagli altri lupi ammansiti da santi. Come chiosa Rao, nella città di Gubbio «si scrive dunque una storia diversa dal resto dell’Europa medievale e moderna, in cui il lupo diventa buono».
Da leggere Franco Cardini, Il lupo di Gubbio. Dimensione storica e dimensione antropologica di una «leggenda», Studi francescani 74 (1977); pp. 315-43 Franco Cardini, «Nella presenza del soldan superba». Saggi francescani, Centro italiano di studi sull’Alto Medioevo (CISAM), Spoleto (Perugia) 2009 (Medioevo francescano 19. Saggi [CISAM] 13); pp. XIII-307, 251-82 Riccardo Rao, Il tempo dei lupi. Storia e luoghi di un animale favoloso, UTET, Milano 2018 Chiara Frugoni, Uomini e animali nel medioevo. Storie fantastiche e feroci, il Mulino, Bologna 2018 Gherardo Ortalli, Lupi, genti, culture. Uomo e ambiente nel Medioevo, Einaudi, Torino 1997 Ettore. A. Sannipoli, Sull’iconografia eugubina di san Francesco e il lupo, in Uomini, demoni, santi e animali tra Medioevo ed Età Moderna (a cura di Salvatore Geruzzi), Fabrizio Serra Editore, Pisa-Roma 2010; pp. 217-249 Michel Pastoureau, Il lupo. Una storia culturale, Ponte alle Grazie, Milano 2018
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vivere al tempo del decameron/10
In alto la seconda novella della prima giornata in una edizione del Decameron illustrata da un miniatore francese. 1425-1450. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek. A sinistra, Giannotto convince l’ebreo Abraham a convertirsi al cristianesimo; sulla destra, Abraham riceve il sacramento del battesimo all’interno di un battistero. Nella pagina accanto vignetta raffigurante il battesimo di Abraham, da un’edizione del Decameron illustrata da un miniatore fiorentino. 1427-1430. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
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Predicare bene e razzolare male di Corrado Occhipinti Confalonieri
All’occhio acuto dell’autore del Decameron non potevano sfuggire i comportamenti, spesso tutt’altro che irreprensibili, di quanti avevano scelto di prendere i voti. Ecco dunque, tra una novella e l’altra, un campionario di personaggi inclini a interpretazioni dei dogmi della fede... a dir poco personali
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ell’introduzione alla prima giornata del Decameron, la narratrice Pampinea mette in evidenza come il sovvertimento di ogni valore morale causato dalla peste del 1348 fosse accentuato nel clero: «Non che [solo] le solute persone [le persone non vincolate da voti religiosi], ma ancora le racchiuse ne’ monisteri, faccendosi a credere [inducendosi a credere] che quello a lor si convenga e non si disdica che all’altre, rotte della obedienza le leggi, datesi a diletti carnali (...) son divenute lascive e dissolute». Ma, si sa, il «pesce puzza dalla testa»... Nella prima giornata, seconda novella (I, 2), a Parigi il mercante Giannotto di Civigní cerca di convertire l’ebreo Abraham al cristianesimo. Dopo aver ascoltato l’amico, Abraham gli risponde: «Ecco, Giannotto, a te piace che io divenga cristiano: e io sono disposto a farlo, sí veramente [a questo patto] che io voglio in prima andare a Roma e quivi
vedere colui il quale tu di’ che è vicario di Dio in terra e considerare i suoi modi e i suoi costumi, e similmente de’ suoi fratelli cardinali; e se essi mi parranno tali, che io possa tra per le tue parole e per quegli comprendere che la vostra fede sia miglior che la mia, come tu ti se’ ingegnato di dimostrarmi, io farò quello che detto t’ho: ove cosí non fosse io mi rimarrò giudeo come io mi sono». Giannotto cerca di dissuadere il collega dal viaggio, perché lungo e pericoloso, ma, in realtà, sa che «se egli va in corte di Roma e vede la vita scellerata e lorda de’ cherici, non che [non solo non ] egli di [da] giudeo si faccia [si farà] cristiano, ma se egli fosse cristian fatto senza fallo [senza dubbio] giudeo si ritornerebbe». Abraham non dà retta all’amico, monta a cavallo e giunto nell’Urbe «da suoi giudei fu onorevolmente ricevuto. E quivi dimorando, senza dire a alcuno perché ito vi fosse, cautamente cominciò a riguardare alle maniere del Papa e de’ cardinali ed egli altri prelati e di tutti i cortigiani: e tra
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che egli s’accorse, sí come uomo che molto avveduto era, e che egli ancora da alcuno fu informato [tra quel che vide da sé e quel che seppe da altri], egli trovò dal maggiore infino al minore generalmente tutti disonestissimamente peccare in lussuria, e non solo nella naturale ma ancora nella sogdomitica, senza freno alcuno di rimordimento [rimorso] o di vergogna, intanto che la potenza delle meretrici e de’ garzoni in impetrare [a ottenere] qualunque gran cosa non v’era di picciol potere [era grande]».
Parole ipocrite
Abraham scopre che i chierici sono «universalmente [tutti quanti] gulosi, bevitori, ebriachi e piú al ventre serventi a guisa d’animali bruti». Eppure non c’è limite al peggio: «E piú avanti guardando, in tanto tutti avari e cupidi di denari gli vide, che parimente l’uman sangue, anzi il cristiano, e le divine cose, chenti [quali]
che elle si fossero o a sacrificii o a benefici appartenenti, a denari e vendevano e comperavano, maggior mercatantia faccendone e piú sensali [mediatori] avendone che a Parigi di drappi». Il mercante ebreo nota l’ipocrisia dei chierici anche nell’utilizzo delle parole: «Alla manifesta simonia “procureria” [mediazione] posto nome e alla gulosità “substentazioni”, quasi Idio, lasciamo stare il significato di [dei] vocaboli, ma la ’ntenzione de’ pessimi animi non conoscesse e a guisa degli uomini a’ nomi delle cose si debba lasciare ingannare». Abraham ha visto abbastanza, torna a Parigi e Giannotto gli chiede cosa pensi del papa e dei cardinali: «Parmene male che Idio dea a quanti sono: e dicoti cosí, che, se io ben seppi considerare, quivi niuna santità, niuna divozione, niuna buona opera o essemplo di vita o d’altro in alcuno che cherico fosse veder mi parve, ma lussuria, avarizia e gulosità, fraude, invidia superbia e simili cose e peggiori, se piggiori esser possono in alcuno, mi vi parve in tanta grazia ottobre
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In alto la prima novella della terza giornata in una edizione del Decameron illustrata da un miniatore francese. 1425-1450. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek. A sinistra, fingendosi sordomuto, Masetto chiede al castaldo di poter entrare nel convento delle monache; a destra, Masetto e una monaca si baciano di nascosto nel giardino. Nella pagina accanto la medesima novella in un’edizione del Decameron illustrata da un miniatore fiorentino. 1427-1430. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Da sinistra, lo stratagemma di Masetto per entrare nel convento e poi due monache che conducono furtivamente il giovane in una capanna.
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vivere al tempo del decameron/10 La decima novella della terza giornata in una edizione del Decameron illustrata da un miniatore francese. 1425-1450. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek. Alibech incontra l’eremita Rustico e poi si unisce in matrimonio con Neerbale. In basso, sulle due pagine Alibech prega insieme all’eremita Rustico, da un’edizione del Decameron illustrata da un miniatore fiorentino. 1427-1430. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
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di tutti vedere, che io ho piuttosto quella per una fucina di diaboliche operazioni che di divine». Giannotto è sconsolato, pensa che il suo progetto di convertire Abraham sia fallito, ma rimane sorpreso dal ragionamento dell’amico: «E per quello che io estimi, con ogni sollecitudine e con ogni ingegno e con ogni arte mi pare che il vostro pastore e per conseguente tutti gli altri si procaccino [si curino] di riducere a nulla e di cacciare dal mondo la cristiana religione, là dove essi fondamento e sostegno essere dovrebber di quella. E per ciò che io veggio non quello avvenire che essi procacciano, ma continuamente la vostra religione aumentarsi e piú lucida e piú chiara divenire, meritamente mi pare discerner lo Spirito Santo essere d’essa, sí come di vera e di santa piú che alcuna altra, fondamenta e sostegno. Per la qualcosa dove io rigido e duro stava a’ tuoi conforti [consigli] e non mi volea far cristiano, ora tutto aperto [apertamente] ti dico che io per niuna cosa lascerei di cristian farmi». Abraham ha capito che la Chiesa ha bisogno di fedeli come lui proprio perché i suoi rappresentanti in terra sono avidi e meschini; accetta cosí il battesimo e, ammaestrato nella fede, «fu poi buono e valente uomo e di santa vita». Nonostante il tono satirico della novella, possiamo cogliere il senso del degrado morale che doveva colpire ogni pellegrino recatosi nella città del vicario di Cristo a venerare le sacre reliquie. La satira mordace di Boccaccio contro il clero si sposta poi sugli Ordini monastici a cui accenna Pampinea. I Benedettini vengono descritti particolarmente lussuriosi, nonostante fuori dalle mura cittadine dovessero essere esempio di castità e custodi della morale. Nella
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novella I, 4 un giovane monaco benedettino «caduto in peccato degno di gravissima punizione» con una giovane contadina, «onestamente rimproverando al suo abate quella medesima colpa, si libera della pena», secondo una morale molto disinvolta; nella novella III, 1 le monache si scambiano a turno il giardiniere Masetto, che sembra un sultano nell’harem (vedi «Medioevo» n. 306, luglio 2022; anche on line su issuu.com).
Eremiti... gaudenti
Addirittura comica appare la morale dei padri del deserto. Alibech (III, 10) figlia di un ricco uomo tunisino, si fa cristiana e diventa eremita. Frate Rustico «assai divota persona e buona», diventa suo maestro e compagno di cella, ma, vedendola «bella e gentile», non resiste alla tentazione e le insegna a «rimettere il diavolo in Inferno» per onorare Dio. L’allusione erotica è evidente, i due eremiti fornicano con frequenza ininterrotta, fino a quando Alibech è costretta a tornare a casa: come unica erede dei beni di famiglia deve sposare il ricco Neerbale. La notte prima delle nozze, l’ingenua ragazza racconta alle altre donne come serviva Dio nel deserto e queste, incuriosite, le chiedono «come si rimette diavolo in Inferno». Alibech «con parole e con atti il mostrò loro» e fra le risate le dicono: «Non ti dar malinconia, figliuola, no, ché egli si fa bene anche qua; Neerbale ne servirà bene con esso teco Domenedio». Ma Boccaccio riserva ai Francescani le sue critiche piú pesanti, ammantate dalla satira, perché appaiono lontanissimi dal principio della povertà assoluta propugnata dal loro fondatore. A Firenze un «frate minore
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inquisitore» (I, 6), anche se «molto si ingegnasse di parer santo e tenero amatore della cristiana fede, sí come tutti fanno, era non meno buono investigatore di chi piena aveva la borsa che di chi scemo nella fede sentisse [di chi in qualcosa fosse manchevole nei riguardi della religione]». Un giorno il religioso si imbatte in un buon uomo, ricco ma stolto, che durante un convito «non già per difetto di fede ma semplicemente parlando forse da vino o soperchia letizia riscaldato» si vanta con gli amici di avere un vino «sí buono che ne berrebbe Cristo». L’avido francescano mette l’uomo sotto processo per blasfemia, accusandolo di aver «fatto Cristo bevitore e vago de’ vin solenni [squisiti], come se Egli fosse Cinciglione [soprannome di un famoso bevitore] o alcuno altro di voi bevitori, ebriachi e tavernieri». In breve tempo l’inquisitore lo spaventa cosí tanto «che il buono uomo per certi mezzani [mediatori] gli fece con una buona quantità della grascia di San Giovanni Boccadoro ugner le mani [gli fa una generosa donazione; per grascia si intendono i fiorini che avevano impresso san Giovanni Battista, trasformato in modo irriverente in Boccadoro]». Lo scrittore sottolinea l’avidità dei Francescani nel raccogliere moneta per la remissione dei peccati: «La quale molto giova alle infermità delle pistilenziose avarizie de’ cherici e spezialmente de’ frati minori che denari non
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In alto miniatura raffigurante un frate inquisitore che interroga un uomo il quale poi gli consegna di nascosto del denaro, dalla novella I, 6 nell’edizione del Decameron illustrata dal Maestro di Guillebert de Mets. 1430-1450. Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal.
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osan toccare». Grazie ai ricchi doni, il malvagio francescano tramuta la minaccia delle fiamme dell’inferno in una pena piú leggera: il brav’uomo deve portare una croce gialla sulla veste nera «quasi al passaggio d’oltremare andar dovesse [dovesse partire per la crociata]». Oltre a questa penitenza, tutte le mattine il penitente è costretto ad assistere alla messa in Santa Croce e presentarsi davanti al frate all’ora di pranzo. Una mattina, mentre assiste alla funzione religiosa, l’uomo viene colpito da un passaggio del Vangelo: «Voi riceverete per ognun cento e possederete la vita eterna [Matteo 16, 29]».
Caritatevoli, ma non troppo
Durante il pranzo con gli altri frati, l’inquisitore chiede alla sua vittima se ha seguito la messa, ed egli, a sorpresa, rivela di provare compassione per il francescano e i suoi fratelli «pensando al malvagio stato che voi di là nell’altra vita dovrete avere». L’inquisitore gli chiede stupito il motivo, il brav’uomo confessa: «Poi che io usai qui [Da quando io frequentai questo convento] ho io ogni dí veduto dar qui di fuori a molta povera gente quando una e quando due grandissime caldaie di broda [recipienti con la brodaglia della minestra], la quale a’ frati di questo convento e a voi si toglie, sí come soperchia [superflua] davanti; per che, se per ognuna cento ve ne fieno rendute, di là voi ne avrete tanta, che voi dentro tutti vi dovrete affogare». La battuta suscita grasse risate nei frati e trafigge l’ipocrita inquisitore che per
«bizzarria [ira] gli comandò che quello che piú gli piacesse facesse, senza piú davanti venirgli». In questa novella notiamo la feroce delusione di Boccaccio per la piega presa dai Francescani conventuali, che adottavano una versione sfumata della povertà assoluta propugnata da san Francesco (11811226) rispetto ai piú osservanti spirituali. Il fondatore dell’Ordine non voleva che i suoi frati accettassero elemosine in denaro, perché era come rubare ai poveri, voleva che lavorassero e ricevessero in cambio cibo e strumenti per il lavoro. La simpatia di Boccaccio verso i Francescani spirituali è stata recentemente dimostrata dallo studioso Antonio Montefusco perché «rappresentante di una élite cittadina non estranea a una predicazione pauperista». I Francescani di Santa Croce, devoti unicamente al dio fiorino, erano invece lontanissimi dalla regola originaria della povertà assoluta ma rappresentavano la maggioranza dei Minori di quell’epoca. Drastica è la posizione dello scrittore contro l’Ordine di san Domenico (1170-1221). Nel Trecento massima era la fama di predicatori dei dotti domenicani, abituati a spaventare i fedeli con immagini paurose dell’aldilà, come rappresentato negli affreschi del Trionfo della Morte nel Camposanto di Pisa (vedi «Medioevo» n. 257, giugno 2018); anche on line su issuu. com. Il silenzio che Boccaccio adotta nei loro riguardi è forse piú forte di qualsiasi racconto, ma intuiamo la Vignetta relativa alla sesta novella della prima giornata nell’edizione del Decameron illustrata da un miniatore fiorentino. 1427-1430. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Un uomo discute con l’inquisitore, che siede a tavola insieme ad altri religiosi.
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sua disistima per la scelta dei narratori di scappare da Firenze alla volta del piccolo eden rappresentato dalle colline di Fiesole partendo dalla chiesa domenicana di S. Maria Novella. La massima concentrazione delle novelle anticlericali di Boccaccio è nelle prime tre giornate del Decameron. Qui è piú forte la critica verso una società che aveva perso gli antichi valori cavallereschi rappresentati dalla misericordia, dall’altruismo e dalla concordia. Nelle altre sette giornate (IV, 2; VII, 3; VIII, 2; IX,10) troviamo ancora questi temi contro il clero, spesso approfittatore della dabbenaggine dei fedeli, ma in modo piú sporadico: lo scrittore vuole dimostrare come il tempo lieto trascorso dai narratori lontani dagli orrori della peste abbia permesso loro di ritrovare la purezza dei valori originari della società.
L’abate e il brigante
Lo scopriamo nella seconda novella dell’ultima giornata (X, 2). Ghino di Tacco «per la sua fierezza e per le sue ruberie uomo assai famoso» è un gentiluomo senese caduto in disgrazia che ha occupato il castello di Radicofani in Maremma e «chiunque per le circustanti parti passava rubar faceva a’ suoi mansnadieri». L’abate di «Cligní» (Cluny), «il quale si crede essere uno de’ piú ricchi prelati del mondo», è partito da Roma dove ha incontrato papa Bonifacio VIII. Il viaggio si rivela tutt’altro che piacevole per il prelato: fortissimi dolori di stomaco lo tormentano e decide di recarsi ai bagni di Siena perché i medici gli hanno detto «guerirebbe senza fallo [senza
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dubbio]». In quel tempo erano famosi i bagni di San Casciano e San Rapolano, vicino a Radicofani. La cura con acque surgive e termali derivava dagli insegnamenti dei Romani e si praticava anche nel Medioevo. Ghino di Tacco «sentendo la sua venuta, tese le reti e senza perderne un sol ragazzetto [ senza che gli sfuggisse neppure una servitorello, un mozzo di stalla] con tutta la sua famiglia [servitú] e le sue cose in uno stretto luogo racchiuse; e questo fatto, un de’ suoi, il piú saccente [accorto], bene accompagnato mandò allo abate, al quale da parte di lui assai amorevolmente [con bel garbo] gli disse che gli dovesse piacere da andare a smontare con esso Ghino al castello». L’abate rifiuta sdegnosamente l’invito, ma l’ambasciatore insiste umilmente: «Messere, voi siete in parte venuto [vi trovate] dove, dalla forza di Dio in fuori, di niente ci si teme per noi [eccetto la forza di Dio, niente è qui temuto da noi], e dove le scomunicazioni e gli interdetti sono scomunicati tutti [non hanno né forza né valore]; e per ciò piacciavi per lo migliore [per il vostro meglio] di compiacere a Ghino di questo». L’abate è circondato dai briganti, non ha scelta e segue l’ambasciatore al castello con sdegno. Qui viene alloggiato in una stanzetta «assai obscura e disagiata» e riceve la visita in incognito di Ghino che gli chiede dove si stesse recando. Venuto a conoscenza dei problemi di salute dell’abate, Ghino pensa «di volerlo guarire senza bagno: e faccendo nella cameretta sempre ardere un gran fuoco e ben guardarla, non tornò a lui infino alla seguente mattina, e allora in una tovagliuola bianchissima gli portò due fette di pane arrostito e un gran bicchiere di vernaccia da ottobre
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Miniatura raffigurante, da sinistra, Ghino di Tacco che cattura l’abate di Cligní e l’abate che poi intercede per Ghino presso il papa, da un’edizione del Decameron illustrata da un miniatore francese. 1425-1450. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek. Nella pagina accanto vignetta raffigurante Ghino di Tacco che porta cibo e vino all’abate di Cligní, prigioniero in una stanza, dall’edizione del Decameron illustrata da un miniatore fiorentino. 1427-1430. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
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vivere al tempo del decameron/10 Corniglia [vino bianco secco assai pregiato proveniente da Vernazza e Corniglia, paesi delle cinque terre in provincia di La Spezia]». Allo stupore dell’abate, Ghino – sempre in incognito – gli spiega che da giovane ha studiato medicina ed è in grado di guarirlo dal mal di stomaco. Lo tiene cosí con quella dieta per diversi giorni, poi il nobile brigante si accorge che l’abate ha mangiato anche le fave secche «le quali egli studiosamente [a bella posta] e di nascoso portate v’aveva e lasciate». Le fave secche erano un cibo povero, da contadino: se Ghino le avesse proposte all’abate, non le avrebbe neppure toccate. L’illustre ospite è finalmente guarito, manifesta il desiderio «di mangiare, sí ben le sue medicine guerito» e Ghino gli risponde: «Messere, poi che voi ben vi sentite, tempo è d’uscire d’infermeria». Il giorno dopo, l’abate viene ricevuto nella sala d’onore del castello e può finalmente gustare un lauto banchetto; guarito e rifocillato si sente pronto a ripartire. Gli vengono portati tutti i suoi beni e dalla finestra Ghino gli mostra «tutti i suoi cavalli infino al piú misero ronzino» a dimostrare che non gli ha portato via nulla. Solo in quel momento il brigante rivela la sua vera identità: «Messer l’abate, voi dovete sapere che l’essere gentile uomo e cacciato di casa sua e povero e avere molti e possenti nimici hanno, per potere la sua vita difendere e la sua nobiltà, e non malvagità d’animo, condotto Ghino di Tacco, il quale io sono, a essere rubato ora delle strade e nimico della corte di Roma. Ma per ciò che voi mi parete valente signore, avendovi io dello stomaco guerito come io ho, non intendo di trattarvi come un altro farei, a cui [rispetto al quale], quando
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nelle mie mani fosse come voi siete, quella parte delle sue cose mi farei che mi paresse: ma io intendo che voi a me, il mio bisogno considerato, quella parte delle vostre cose facciate che voi medesimo volete. Elle sono interamente qui dinanzi da voi tutte, e i vostri cavalli potete voi da cotesta finestra nella corte vedere: e per ciò e la parte e ’l tutto come vi piace prendete, e da questa ora innanzi sia e l’andare e lo stare nel piacere vostro». L’abate si meraviglia delle nobili parole di quel «rubator di strada», muta l’ira e lo sdegno in benevolenza e abbraccia il nuovo amico: «Io giuro a Dio che, per dover guadagnar l’amistà d’uno uomo fatto come omai io giudico che tu sii, io sofferrei di ricevere troppo maggiore ingiuria che quella che infino a qui paruta [sembrata] m’è che tu m’abbi fatta. Maladetta sia la fortuna, la quale a sí dannevole [biasimevole] mestier ti cotrigne!».
L’appello al papa
L’abate torna a Roma «con pochissime cose e oportune [necessarie]» e rivela a Bonifacio VIII la sua avventura: «Santo Padre, io trovai piú vicino che’ bagni un valente medico, il quale ottimamente guerito m’ha». Il pontefice sorride per la metodologia delle cure spartane, l’abate «da magnifico animo mosso [magnanimo]» avanza una richiesta: «Santo Padre, quello che io intendo di domandarvi è che voi rendiate la grazia vostra a Ghino di Tacco mio medico, per ciò che tra gli altri uomini valorosi e da molto che io accontai [conobbi] mai, egli è per certo un de’ piú, e quel male il quale egli fa, io il reputo molto maggior peccato della fortuna che suo: la qual se voi con alcuna cosa dandogli [col dargli alcuna cosa], donde egli possa secondo lo stato suo
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La rocca di Radicofani (Siena), dove Ghino di Tacco pose la base per le sue attività di brigantaggio.
vivere, mutate, io non dubito punto che in poco di tempo non ne paia a voi quello che a me ne pare». Bonifacio VIII «sí come colui che di grande animo fu e vago [amante] de’ valenti uomini, disse di farlo volentieri se da tanto fosse come diceva, e che egli il facesse sicuramente [con un salvacondotto] venire. Venne adunque Ghino, fidato [assicurato sulla fede del papa], come allo abate piacque, a corte; né guari [molto] appresso del Papa fu che egli il reputò valoroso, e riconciliatoselo gli donò una gran prioria di quelle dello Spedale [cioè dell’Ordine degli Ospedalieri di San Giovanni di Gerusalemme], di quello avendol fatto far cavaliere». Cosí da nemico della Chiesa, Ghino diventa amico e servitore fino alla fine dei suoi giorni. In questa novella dell’ultima giornata è evidente lo spirito di riconciliazione della società sulla base degli antichi valori cavallereschi auspicati da Boccaccio «tutelata e vigilata dal ceto ecclesiastico» – come scrive Vittore Branca – anche se quella speranza si rivelerà solo un utopia al termine della peste.
NEL PROSSIMO NUMERO ● I bambini, la loro istruzione e i giochi
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Nel ventre del «grande pesce» di Furio Cappelli
Scaraventato in mare dopo aver disatteso l’ordine del Signore, Giona verrà salvato da una gigantesca creatura marina: un racconto paradigmatico, con protagonista un profeta minore, eppure in grado di «suggerire» un passo del Vangelo e sopravvivere in numerose, bellissime raffigurazioni Sulle due pagine l’episodio del profeta Giona, inghiottito (nella pagina accanto) e vomitato dal mostro marino nei mosaici che ornano i parapetti delle scale del pulpito piú antico del duomo di Ravello. L’opera fu eseguita per volere del vescovo Costantino (1094-1150) e ultimata, verosimilmente, intorno al 1130.
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evangelista Matteo attesta che Cristo in persona si ispirò all’immagine di Giona per prefigurare la propria resurrezione. Era entrato trionfalmente a Gerusalemme ed era intento a rintuzzare le accuse e i dubbi degli scribi e dei Farisei. In quel frangente, il Messia evocò quel personaggio biblico davvero esemplare, con una vicenda ricca di significati, e densa di situazioni coinvolgenti. Cosí come Giona era finito nel ventre di un pesce, per poi uscirne illeso, cosí Cristo sarebbe rimasto chiuso nel proprio sepolcro, per lo stesso tempo in cui il profeta era rimasto prigioniero della creatura marina. E dal proprio sepolcro il Salvatore sarebbe poi risorto, cosí come Giona era stato scaraventato a terra dal pesce che lo aveva ingoiato. Si trattava di un parallelo molto efficace, che faceva leva su una storia che noi stessi troviamo familiare e accattivante, come se leggessimo un racconto di fantascienza ante litteram. Ma ciò che all’epoca dell’evangelista contava – al di là dell’aspetto avventuroso e
fantastico della narrazione – era il suo significato. Proprio il parallelo tra il ventre del pesce e il sepolcro di Cristo faceva capire che Giona era piombato in una tomba molto particolare, da cui sarebbe potuto uscire (ossia rinascere a nuova vita) soltanto confidando nella misericordia divina. Di conseguenza, l’avventura di Giona si prestava a simboleggiare il percorso di ogni fedele, che aveva modo di salvarsi dall’abisso in cui poteva precipitare, per via di qualsiasi peccato, facendo affidamento sulla penitenza e sulla preghiera. E ciò, naturalmente, garantí l’immediato successo di questa storia nella iconografia cristiana, con particolare riguardo all’episodio del «grande pesce». Il libro biblico intitolato proprio a Giona, si colloca tra i meno estesi delle scritture dei profeti dell’Antico Testamento. Di conseguenza, Giona rientra tra i profeti «minori», sebbene sia tra quelli che hanno goduto di piú larga fama. Si tratta inoltre di una compilazione realizzata due secoli dopo l’epoca presunta del profeta, quando il popolo ebraico aveva subíto l’esilio a Babilo-
«Come Giona stette nel ventre del pesce tre giorni e tre notti, cosí il Figlio dell’Uomo starà nel cuore della terra tre giorni e tre notti» (Matteo, 12:40-41)
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Mosaico raffigurante Maria che riceve l’annuncio dell’arcangelo Gabriele mentre attinge acqua da un pozzo con una brocca. XII sec. Venezia, basilica di S. Marco. Il gesto della Vergine evoca le versioni dell’Annunciazione tramandate dai Vangeli apocrifi.
nia (VI secolo a.C.). Il Libro di Giona, d’altronde, mette subito in evidenza una presenza ostile che scaturisce anch’essa dalle terre tra il Tigri e l’Eufrate. All’epoca del nostro profeta, i terribili nemici del popolo eletto sono gli Assiri, sempre pronti a scatenare le loro forze inesauribili per spingersi fino al Mediterraneo.
Un incarico sgradito
La narrazione si apre bruscamente con le parole che il Signore rivolge a Giona: lo incita innanzitutto ad alzarsi e poi lo incarica di recarsi a Ninive, la grandiosa capitale del regno assiro. Il profeta avrebbe dovuto manifestare lo sdegno che Yahweh aveva maturato per quella gente corrotta e malvagia e la predicazione avrebbe dato l’opportunità agli Assiri di redimersi e di evitare il castigo divino. Giona non gradisce l’incarico e mette in atto un piano alquanto ingenuo per sottrarsi ai suoi compiti. Cerca di fuggire il piú lontano possibile, dalla parte opposta rispetto a Ninive, e giunge sulla costa mediterranea, al porto di Giaffa: lí si imbarca su una nave mercantile diretta alla città di Tarsis, rinomata per l’abbondanza di beni di lusso. L’identificazione di questa meta non è accertata e non sappiamo di conseguenza quanto lungo dovesse essere il tragitto da compiere. Occorreva comunque attraversare un ampio tratto di mare aperto, e su questo fece affidamento il Signore scatenando una tempesta. Sotto l’effetto del vento impetuoso, le onde del mare erano sul punto di ridurre la nave in frantumi. I marinai erano terrorizzati e già si vedevano in balía delle acque, con scarse probabilità di sopravvivere al naufragio. Ognuno invocava il proprio dio, sperando
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il mosaico di otranto
La versione di Gionata La rappresentazione piú gustosa della storia di Giona è presente nel mosaico pavimentale della cattedrale di Otranto, disposto tra il 1163 e il 1165 dall’arciprete Gionata. Si è pensato che le assonanze tra i nomi del sacerdote e del profeta favorissero il rilievo assegnato alla figura del personaggio biblico. Di sicuro, nella grande profusione di immagini che costellano la zona absidale, i dettagli della storia di Giona spiccano per l’ampiezza della superficie impegnata e per la facilità con cui il nostro eroe può essere identificato. Il suo settore è rimarcato dalla sua figura in posa stante mentre espone su un lungo cartiglio la propria profezia, secondo la norma tipica della tradizione iconografica dei profeti. Nell’area absidale l’unico altro personaggio trattato con la stessa evidenza, e con il nome riportato nella rispettiva epigrafe, è il celebre
Qui accanto e a destra particolari della rappresentazione della storia di Giona nel mosaico pavimentale della cattedrale di Otranto. 1163-1165.
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A sinistra la storia di Giona scolpita sulla fronte di un sarcofago rinvenuto nel XVI sec., durante la costruzione della nuova basilica di S. Pietro. IV sec. Città del Vaticano, Museo Pio Cristiano.
Sansone, raffigurato nell’atto di smascellare un leone. Come ha sottolineato Chiara Frugoni, d’altronde, lo stesso eroe biblico – al pari di Giona – rientrava in un discorso di salvezza che favoriva l’identificazione con Cristo. In particolare, la sua prodezza poteva essere letta come un simbolo della vittoria su Satana. Particolare risalto ha, naturalmente, l’avventura di Giona
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in mare. Proprio l’ambientazione del racconto suggerisce la presenza di un ampio numero di pesci. Non manca un pescatore all’opera e c’è anche una barchetta con due naviganti che stanno studiando la direzione del vento. La nave di Giona, d’altro canto, fa da teatro a una scena concitata: un marinaio cerca di manovrare il timone, mentre altri
uomini sono intenti ad ammainare rapidamente le vele; nel mezzo vediamo il profeta che viene gettato in mare e il pesce pronto a inghiottirlo. Ritroviamo poi Giona all’ombra della pianta di ricino, dopo che il re di Ninive, deposto lo scettro, si è stracciato la veste. La figura dell’Assiro, identificato da un’epigrafe, è naturalmente in relazione con il cartiglio della profezia.
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oltre lo sguardo/17 in un immediato soccorso che poteva giungere solo dal cielo. Si correva ai ripari nel modo piú disperato, gettando in mare l’intero carico delle mercanzie, affinché lo scafo si alleggerisse. Nel mezzo di questa baraonda, Giona si trovava tranquillamente coricato nel proprio alloggio e dormiva profondamente. Non appena il capitano della nave lo scova, lo richiama subito ai suoi doveri di passeggero in pericolo: «Che fai qui? Dormi? Àlzati, invoca il tuo dio! Forse egli si darà pensiero di noi e non periremo» (1:6).
disperato tentativo di guadagnare la riva piú vicina a forza di remi, ma risulta sempre piú evidente che solo liberandosi di quel malaugurato passeggero la nave potrà uscire indenne da questa disavventura. I marinai, quindi, si rivolgono a Dio dicendo: «Signore, non lasciarci perire per risparmiare la vita di quest’uomo
A mali estremi...
Frattanto gli uomini dell’equipaggio cercano di stabilire chi sia la causa della catastrofe che incombe. Tirano a sorte, e viene estratto proprio Giona, che viene interrogato in modo insistente e tutta la situazione si chiarisce. Si apprende, infatti, che questi ha trasgredito a un preciso ordine del Signore e ha tentato di fuggire, perciò la nave è finita nella tempesta. Giona, quindi, ammette la propria colpa e fornisce persino una terribile soluzione: perché il mare si plachi basterà che i marinai lo gettino tra le onde. L’equipaggio è titubante, anche se la tempesta si fa sempre piú forte. Si compie un ultimo,
Riletture di un mito
Dallo squalo alla balena Basta già soltanto nominare il profeta Giona e subito ci appare in mente il culmine della sua avventura tra i flutti del mare, quando finisce nel ventre di una balena. In realtà la Bibbia, come si è visto, parla genericamente solo di un «grande pesce». L’iconografia complica il quadro, poiché spesso, quando un’opera d’arte paleocristiana o medievale racconta questa storia, mostra dal canto suo un tipico mostro marino dalla caratteristica coda spiraliforme, vale a dire il pistrice. La vicenda di Giona ha poi ispirato lo scrittore Collodi per uno degli episodi piú famosi del suo Pinocchio (1883), quando il burattino finisce in mare. Anche in questo caso diamo per scontato che finisca nel ventre di una balena, ma il romanzo parlava in realtà di un grande pescecane. La variazione si spiega agevolmente, poiché ha
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un preciso «responsabile». Quando infatti Walt Disney realizzò il film d’animazione liberamente ispirato al libro di Collodi (1940), i disegnatori sostituirono la balena allo squalo. Nella cultura statunitense, infatti, il cetaceo si associa agevolmente all’idea del mostro marino, grazie alla suggestione di Moby Dick (1851), il romanzo di Melville che ha per protagonista una terribile balena bianca. L’associazione di idee e di immagini ha cosí finito per creare una identificazione tra gli esseri marini di Pinocchio e di Giona, sia pure in contraddizione con le rispettive narrazioni originali. D’altra parte, il ventre di una balena come luogo di «soggiorno» e d’incontro si ritrova in Una storia vera, un racconto parodistico di Luciano di Samosata (II secolo d.C.), nel quale lo scrittore
ellenistico narra di essere finito con i suoi compagni tra le fauci di un grande cetaceo, lungo millecinquecento stadi (circa 270 km!). Lí ha modo di conoscere un vecchio naufrago rimasto prigioniero per ventisette anni. Comunque, al di là della qualifica della creatura marina, il legame tra Giona e il burattino di Collodi rende evidente la forza perenne del racconto biblico, capace di trasmettere emozioni anche quando viene trasfigurato in una favola. Rimane indiscusso, infatti, lo schema narrativo che prevede l’inabissarsi del personaggio smarrito e il suo riemergere con una nuova consapevolezza. L’avventura nel ventre del mostro, quale che ne sia l’eroe, si presenta cosí come una storia di iniziazione e di redenzione. ottobre
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In questa pagina miniatura raffigurante Giona che esce dalla bocca del mostro marino, da un lezionario illustrato dal miniatore armeno T’oros Roslin. XIII sec.
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Nella pagina accanto il manifesto dell’edizione originale di Pinocchio, il film di animazione di Walt Disney ispirato al racconto di Collodi.
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In alto la scena di Giona gettato in mare e inghiottito dal mostro marino in un mosaico della cattedrale di Aquileia. 304-315. A destra, sulle due pagine la vivace rappresentazione della storia di Giona offerta da uno dei mosaici della sinagoga di Hukkok (Galilea, Israele). V sec.
e non accusarci del sangue innocente; poiché tu, Signore, hai fatto come ti è piaciuto» (1:14). Stabilito quindi che la colpa della morte di Giona non doveva ricadere sulla loro anima, afferrano il profeta e lo scaraventano in mare. Non appena finisce in acqua, il mare si calma d’incanto, e non soffia piú neanche un alito di vento. Il Signore ingaggia allora un «grande pesce» che, dietro suo ordine, si dirige prontamente su Giona e lo inghiotte. Mentre si trova nel ventre della creatura, il profeta rivolge a Dio una lunga invocazione, intuendo che la sua vita è stata in grave pericolo: «Tu mi hai gettato nell’abisso, nel cuore del mare; la corrente mi ha circondato, tutte le tue onde e tutti i tuoi flutti mi hanno travolto» (2:4). L’angoscia era giunta al culmine non appena aveva pensato che ogni contatto con il sacro tempio gli sarebbe stato negato per sempre. «Io dicevo: “Sono cacciato lontano dal tuo sguardo! Come potrei vedere ancora il tuo tempio santo?”. Le acque mi hanno
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sommerso; l’abisso mi ha inghiottito; le alghe si sono attorcigliate alla mia testa» (2:5-6). Ma la sua richiesta d’aiuto è stata recepita, ed è per questo che il grande pesce è intervenuto. Il suo ventre, infatti, funge da prigione, ma anche da punto di approdo e di salvezza. Alla fine dell’invocazione, Giona rende lodi al Signore, e tanto basta per essere liberato. Il pesce raggiunge la riva e vomita il profeta sulla terraferma.
Quaranta giorni e poi la fine
A questo punto, Yahweh torna alla carica e rinnova a Giona l’ordine di andare a predicare: «Àlzati, va’ a Ninive, la gran città, e proclama loro quello che io ti comando» (3:2). Questa volta il profeta si attiva prontamente: raggiunge la metropoli e inizia ad attraversarla, il che richiede un percorso di tre giorni a piedi. Il suo messaggio è piuttosto stringato, se non addirittura telegrafico. Durante la prima giornata di predicazione si ottobre
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le fonti
Uno scenario di conquiste Nel Secondo Libro dei Re (14:25-29) leggiamo che il profeta Giona era figlio di Amittài ed era originario di Gat-Chefer, città situata a pochi chilometri da Nazaret. La sua attività è ambientata nell’VIII secolo a.C., all’epoca di Geroboamo II (783-743 a.C.), un re di Israele storicamente comprovato. La Bibbia presenta questo sovrano come un peccatore, e corrotta era anche la sua gente, visto che i predicatori della fede lanciavano i loro strali contro
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l’inutile accumulo di ricchezze a cui era dedita l’aristocrazia. Giona, tuttavia, risulta soprattutto attivo nel diffondere il messaggio benevolo di Dio, in modo tale da consolidare i domini del re, quando il popolo d’Israele versava in uno stato tale di miseria che il nome stesso d’Israele rischiava di cancellarsi. Effettivamente il regno di Geroboamo fu nel segno di una certa prosperità, come sottolinea lo storico Mario Liverani.
Grazie alle campagne militari svolte, sul fronte nord, contro Damasco, e, sul fronte est, contro Mo’ab, il regno di Israele (con capitale a Samaria) si consolidò, e in questo scenario di conquista si colloca la predicazione di Giona. Iniziava tuttavia a profilarsi la minaccia degli Assiri, specie quando, nel 745 a.C., salí al trono di Ninive l’agguerrito Tiglat-pileser III. E proprio l’instabilità che scaturí da questa circostanza ha ispirato il libro profetico di Giona.
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oltre lo sguardo/17 limita infatti ad annunciare: «Ancora quaranta giorni, e Ninive sarà distrutta!» (3:4). Gli effetti delle sue parole furono immediati. «I Niniviti credettero a Dio, proclamarono un digiuno, e si vestirono di sacchi, tutti, dal piú grande al piú piccolo. E poiché la notizia era giunta al re di Ninive, questi si alzò dal trono, si tolse il mantello di dosso, si coprí di sacco e si mise seduto sulla cenere. Poi, per decreto del re e dei suoi grandi, fu reso noto in Ninive un ordine di questo tipo: “Uomini e animali, armenti e greggi, non assaggino nulla; non vadano al pascolo e non bevano acqua; uomini e animali si coprano di sacco e gridino a Dio con forza; ognuno si converta dalla sua malvagità e dalla violenza compiuta dalle sue mani. Forse Dio si ricrederà, si pentirà e spegnerà la sua ira ardente, cosí che noi non periamo”» (3:5-9). A quel punto Yahweh si impietosí e rinunciò a compiere la sua vendetta. Questa felice conclusione fu motivo di grande irritazione per Giona. Dalle sue parole veniamo infatti a sapere che egli non vedeva di buon occhio la natura misericordiosa di Dio. Sapeva benissimo che Yahweh tuonava minacce, ma al momento cruciale tornava sui suoi passi e risparmiava la vita
Sulle due pagine Roma, catacomba dei Ss. Marcellino e Pietro. In basso, la volta in cui, intorno alla figura del Buon Pastore, si succedono le scene della storia di Giona; a destra, il momento in cui il profeta viene scaraventato in mare e sta per essere inghiottito dal mostro marino. Le pitture sono databili alla fine del III sec.
ai peccatori piú infami. Per questo motivo aveva disobbedito in prima battuta, e invece di perder tempo ad annunciare una catastrofe che non si sarebbe compiuta, aveva preferito imbarcarsi per andare da tutt’altra parte. La sua amarezza è tale che non esita a invocare la morte. Yahweh ascolta pazientemente questo lungo sfogo e poi domanda candidamente: «Fai bene a irritarti cosí?». Ma Giona rimane chiuso nel suo malumore, rabbuiato come un bambino che non ha avuto quel che si aspettava (la distruzione di Ninive e la morte di tutti i suoi abitanti!). Si reca in un luogo a oriente di Ninive dove si vede bene la distesa della metropoli. Decide di costruirsi una capanna per rimanere a guardare la città, forse sperando che il Signore faccia quello che ha annunciato. Ma Yahweh è piuttosto interessato a liberare il profeta dai suoi assilli e dispone che una pianta di ricino cresca accanto a Giona e gli faccia ombra. Il profeta ne è inebriato. «L’indomani, allo spuntar dell’alba, Dio mandò un verme a rosicchiare il ricino e questo seccò. Dopo che il sole si fu alzato, Dio fece soffiare un soffocante vento orientale e il
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sole picchiò sul capo di Giona cosí forte da farlo venir meno. Allora egli chiese di morire, dicendo: “È meglio per me morire che vivere”» (4:7-8). Il Signore gli chiede se vale la pena irritarsi cosí tanto per una pianta che si è seccata, ma Giona rimane sempre di malumore e invoca nuovamente la morte. A quel punto Yahweh lo rintuzza con un abile paragone tra la pianta di ricino e la città di Ninive: se Giona ha tanto a cuore una semplice pianta di cui mai si è curato e che è vissuta nell’arco di una sola notte, come può Dio non avere pietà di Ninive, una grande città che – oltre a una gran quantità di bestiame – accoglie ben 120mila abitanti? Per giunta, i Niniviti sono tanto ingenui da non saper distinguere la mano destra dalla sinistra. Che senso ha farne una strage?
Come un «romanzo»
Già agli inizi del IV secolo, il vescovo Teodoro di Aquileia (304-315) aveva accolto la storia di Giona nei mosaici pavimentali della sua «chiesa doppia», sul luogo dell’attuale cattedrale (vedi foto a p. 74). Ma
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Nella pagina accanto la versione della storia di Giona proposta da Giotto nella Cappella degli Scrovegni (Padova). 1303-1305. In basso miniatura raffigurante Giona seduto nel ventre del mostro marino, dal Salterio Chudlov. Metà del IX sec. Mosca, Museo Statale di Storia.
se risaliamo all’epoca antecedente all’editto di Milano (313), è facile notare come la popolarità di questo breve «romanzo» biblico fosse già evidente. Si tratta infatti di un soggetto che si rinviene sia nella pittura delle catacombe, sia nella decorazione dei sarcofagi. Nel cimitero dei Ss. Pietro e Marcellino a Roma, alla fine del III secolo, una cupola presenta la storia di Giona sotto forma di una sequenza di quattro riquadri tutt’intorno alla figura del Buon Pastore che spicca al centro (vedi foto alle pp. 76-77). Completano la composizione una sequenza di oranti e i busti con le personificazioni delle stagioni, che simboleggiano chiaramente il ciclo del rinnovamento, in perfetta assonanza con l’idea della redenzione e della salvezza. Le scene «storiche» di Giona non hanno epigrafi di corredo e sono trattate con estrema linearità, il che le rendeva indecifrabili se non si conoscevano in partenza personaggi e dettagli narrativi. Erano quindi presenti proprio per manifestare la fede di chi aveva disposto il dipinto, nella speranza di ottenere la salvezza ultraterrena cosí come Giona si era salvato dalla sua avventura in mare.
Quasi un atleta
Sempre a Roma, un bell’esempio di sarcofago istoriato con la fronte dedicata a Giona si può ammirare in Vaticano. Risale ai primi anni del IV secolo ed è stato rinvenuto in stato frammentario nel Cinquecento, durante la ricostruzione della basilica di S. Pietro. Manca del tutto il lato posteriore e i fianchi sono ridotti a due monconi, ma la splendida fronte è perfettamente conservata. Con grande virtuosismo, gli elementi di spicco della vicenda (la nave e la pianta di ricino) «rompono» la suddivisione in due registri, e il «grande pesce» è presente al centro in doppia veste simmetrica, trasformato in un terribile mostro dalla coda sinuosa, degna di un serpente (vedi foto alle pp. 70/71, in alto). Quando viene gettato in mare, Giona assume una posizione
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Da leggere André Grabar, Le vie della creazione nell’iconografia cristiana. Antichità e Medioevo, Jaca Book, Milano 1983 Dorothy F. Glass, Pulpito, in Enciclopedia dell’Arte Medievale, Fondazione Treccani, Roma 1998; anche on line su treccani.it Chiara Frugoni, Uomini e animali nel Medioevo. Storie fantastiche e feroci, il Mulino, Bologna 2018
quasi atletica, come se si tuffasse da un trampolino, mentre la sua posa efebica, all’ombra del ricino, si ricollega chiaramente alla tradizione classica del nudo maschile. In quella fase storica, d’altronde, per evocare una sensazione «tattile» di piacere e di armonia con la natura, era facile attingere alle iconografie «pagane», anche in un contesto cristiano. Passando al pieno Medioevo, una particolare accoglienza della storia di Giona si evidenzia nei pulpiti presenti nelle chiese campane piú illustri. Nel contesto beneventano, d’altronde, è attestato che era prevista proprio una lettura del Libro di Giona nelle liturgie del Martedí Santo e del Sabato Santo. Nell’esemplare piú antico superstite, disposto per il duomo di Ravello dal vescovo Costantino (1094-1150), il «grande pesce» – sotto forma di pistrice – è rappresentato simmetricamente, in doppia versione, mentre inghiotte e mentre vomita il profeta, sui parapetti delle scale (vedi foto alle pp. 68-69). Gli schemi iconografici si perpetuavano con estrema facilità, ma il genio di Giotto fece in modo che il dettato biblico si ravvivasse. Nella sua versione della scena in cui Giona viene inghiottito, nella Cappella degli Scrovegni a Padova (1303-1305), si «recupera» il pesce evocato dalle Scritture, con una fisionomia credibile e un occhio splendidamente inespressivo, degno di uno squalo (vedi foto nella pagina accanto). E Giona è ormai scivolato quasi del tutto nelle sue fauci, con le gambe all’aria che sembrano dibattersi inutilmente.
NEL PROSSIMO NUMERO • Il diluvio universale
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testi di Stefano L’Occaso, Monica Molteni, Andrea De Marchi e Giulia Marocchi
Il 26 febbraio 1969 un annuncio sensazionale fu comunicato ai giornalisti radunati al Palazzo Ducale di Mantova: quello della scoperta, in una sala della reggia gonzaghesca, di un ciclo dipinto da Antonio Pisano, detto «Pisanello», e ritenuto irrimediabilmente perduto a causa dei continui rimaneggiamenti subiti dall’edificio nel corso della sua lunga storia. Oggi quei magnifici (e rarissimi) affreschi sono al centro di una straordinaria mostra incentrata sull’opera del maestro, esponente di spicco del gotico internazionale in Italia Particolare del Torneo di cavalieri, pittura murale strappata, tecnica mista di Antonio Pisano, detto «Pisanello». 1430-1433.
IL TUMULTO DEL MONDO
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UN TESORO NASCOSTO CHE TUTTI DAVANO PER DISPERSO di Stefano L’Occaso
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l titolo della mostra «Pisanello. Il tumulto del mondo» allude alla grande battaglia dipinta sulle pareti del Palazzo Ducale e alla vita dell’artista, il quale, «corteggiato dalle corti», partecipò anche con Gianfrancesco Gonzaga, marchese di Mantova, all’occupazione di Verona avvenuta tra il 17 e il 20 novembre 1439, attirandosi le ire del Consiglio dei Dieci di Venezia, sotto il cui dominio allora cadeva la città scaligera. Questo avvenimento fu probabilmente la causa del domicilio coatto imposto al pittore nel 1442 con conseguente divieto di recarsi a Mantova. Se il rapporto tra l’artista e la corte sarebbe sopravvissuto ancora alcuni anni, a quella data si chiude probabilmente ogni possibilità di presenza fisica di Pisanello a Mantova, laddove il primo documento che lo dice residente in città è del 7 luglio 1422, giusto seicento anni fa. La coincidenza cronologica che questa mostra vuole ricordare è tuttavia un’altra: i cinquant’anni dall’esposizione curata dall’allora Alcuni dei ritratti compresi nel Torneo di cavalieri, pittura murale strappata, tecnica mista di Antonio Pisano, detto «Pisanello». 1430-1433. Salvo diversa indicazione, tutte le immagini del Dossier si riferiscono alle opere e all’allestimento della mostra «Pisanello. Il tumulto del mondo», allestita in Palazzo Ducale a Mantova.
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soprintendente Giovanni Paccagnini (1910-1977), con la quale fu presentata quella che deve essere considerata una delle piú importanti acquisizioni nel campo della storia dell’arte nel XX secolo. Fu Paccagnini a scoprire, alla metà degli anni Sessanta del secolo trascorso, il ciclo arturiano dipinto da Antonio Pisano, il Pisanello: il tesoro nascosto, che tutti davano per perduto. Da allora i murali di Pisanello si sono imposti come uno dei principali testi figurativi del primo Quattrocento italiano, di quel periodo comunemente noto come Tardogotico, Gotico fiorito, Gotico internazionale o Gotico cortese.
Fama imperitura
Giovanni Paccagnini s’è ben meritato che Mantova gl’intitolasse una piazza: l’aver rintracciato il grandioso ciclo di Antonio Pisano, detto il Pisanello, è impresa che da sola gli garantisce fama imperitura. Paccagnini, nato nel 1910 a Livorno, prese servizio come soprintendente a Mantova nel 1952 e vi rimase fino al 1973: tre anni dopo si spostò a Firenze, dove morí nel 1977. La scoperta delle pitture murali avvenne intorno alla metà degli anni Sessanta, ma il ciclo fu presentato pubblicamente nel 1972, in occasione di un’importante mostra che riassunse e presentò anni di ricerca. Le pitture erano state nel frattempo strappate dal muro e con esse le sottostanti sinopie (i disegni
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Un genio eclettico e versatile La formazione di Antonio di Puccio Pisano, detto «Pisanello», avvenne probabilmente a Verona, città d’origine della madre, nella quale, alla fine del Trecento, si erano trasferiti molti Pisani. Di lui si hanno notizie tra il 1395 e il 1455, anno della sua morte. Pisanello si affermò come pittore e medaglista e, dal 1420 in poi, soggiornò a lungo presso le maggiori corti principesche italiane: Mantova, Ferrara, Rimini, Pavia, Roma, Napoli, centri vitalissimi della nuova cultura umanistica, che l’artista interpretò nella sua accezione piú aristocratica secondo gli elegantissimi moduli del gotico internazionale vivificati da un acuto senso del dato naturale. Della sua attività di decoratore si ricordano, oltre al ciclo arturiano
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nel Palazzo Ducale di Mantova, presentato in queste pagine, gli affreschi veronesi con l’Annunciazione (restaurati) per la tomba Brenzoni in S. Fermo (1426 circa) e di San Giorgio e la Principessa (realizzato intorno al 1436; ma secondo alcuni verso il 1450) per la cappella Pellegrini in S. Anastasia. Del Pisanello si conserva anche un vasto corpus di disegni, caratterizzati da una linea elegantissima e sempre attenta alla notazione naturalistica, e che comprendono studi di ritratti e di costumi, ma soprattutto di piante e di animali. Quanto alla sua arte di medaglista, essa raggiunse vertici tali da farlo unanimemente considerare come il creatore della medaglia rinascimentale. (red.)
Sulle due pagine altri particolari del Torneo di cavalieri, pittura murale strappata, tecnica mista di Antonio Pisano, detto «Pisanello». 1430-1433.
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preparatori eseguiti con della terra rossa sul muro da affrescare, n.d.r.), fino agli strati piú vicini al muro. Le pitture strappate negli anni sessanta sono esposte nella sala per la quale sono state dipinte; l’allestimento precedente a quello presentato in quest’occasione risaliva al 1996, quando il soprintendente di Mantova, Aldo Cicinelli, fece anche realizzare una campagna di interventi, condotti da Marcello Castrichini e Leonilde Dominici. Che Pisanello avesse dipinto in Palazzo Ducale lo si sapeva dal 1888, quando fu pubblicato un documento, del 1480, attestante la presenza nel palazzo di una «salla del Pisanello», sulla cui ubicazione, tuttavia, la stessa fonte non offriva ragguagli. Era ed è di per sé straordinario anche solo il fatto che un ambiente – una sala per di piú, non una camera o un camerino – prendesse il nome dall’artista che ci aveva operato, anziché dal soggetto delle pitture, dalla funzione, da una determinata cromia, o da chi l’abitava; che sono poi i criteri toponoma-
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Dossier stici nei palazzi dell’epoca. In seguito sono affiorati documenti di piú antica data, relativi alla «sala del Pisanello». La prima menzione sembra essere del 1471 e riguarda Niccolò d’Este, nipote di Ludovico II Gonzaga, in quanto figlio di sua sorella Margherita Gonzaga e di Leonello d’Este,
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duca di Ferrara. Niccolò nacque nel 1438, nel 1471 fu bandito da Ferrara e si rifugiò appunto a Mantova. Nel settembre del 1476 Niccolò tentò di detronizzare lo zio Ercole d’Este e conquistare Ferrara con le armi. Il fallimento del suo tentativo lo condusse alla morte, il 4 settembre 1476.
Una «cosina» che incombe sulla sala …
Il 12 dicembre 1471 Giovanni Michele Pavesi informa il marchese Ludovico II Gonzaga che il nipote desidera «far la cosina per piú sua secureza su la sala del Pisanelo donda fin hora ha manzado la famiglia sua», precisando di aver temporeggiato,
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«consciderato che a far cosina lí, per il guazzo si fa continuamente in le cosine, che se marcirà tuto il solaro». Se la cucina fu autorizzata, potrebbe aver lasciato traccia di sé sulla parete occidentale, dove Paccagnini poté ancora vedere tracce compatibili, in rottura degli affreschi trecenteschi. Nel 1472,
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«super saletam quadam posita intra pallacium curie», «in quo pallatio infrascriptus dominus Nicolaus de presenti morat», Niccolò afferma di aver «recevuto [da Giovanni fu Giacomo da Vicomercato residente a Brescia] per compimento tuto lo resto de corazine quatrocento cioè tre(segue a p. 91)
Veduta d’inseme del Torneo di cavalieri, pittura murale strappata, tecnica mista di Antonio Pisano, detto «Pisanello». 1430-1433.
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Dossier Veduta d’insieme del Paesaggio con cavalieri, realizzato dal Pisanello. 1430-1433. Dell’opera
Didascalia odis si conservano in larga parte aliquatur la sinopiaadi e alcuni que vero ent qui lacerti del dipinto finito. doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.
«raffigurati da un pennello non molto abile» La testimonianza di tre «turisti» tedeschi Nel 1579 la sala – detta allora «degli Arcieri» – è in stato di semi-abbandono, poiché «scoperta et piena di rottami»: è pertanto affidata a Pompeo Pedemonte per un restauro e l’anno seguente è arredata con paramenti di corami; nel 1595 è dipinta dal «solaro fino a terra», «a color di marmore», da Domenico Lippi e aiuti, nel momento in cui quelle stanze sono destinate alla duchessa Eleonora de’ Medici, moglie di Vincenzo I Gonzaga. Nel 1601, tre nobili tedeschi di passaggio per Mantova vedono che «nel palazzo vecchio, nella banda della madonna duchessa, nella prima stanza affrescata sono
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raffigurati, ma da un pennello non molto abile, i seguenti eroi: Campsone Gauro sultano dell’Egitto siriaco, Giorgio Castriota Scanderbeg signore dell’Epiro, Celebino Tarico, l’imperatore Basilio principe di Moscovia, Tamerlano imperatore degli sciti, Muleamete soprannominato Sciriffo, gran re di Mauritania, Ludovico re di Pannonia e di Boemia, Muleasse re di Toledo, il sultano Saladino, Sigismondo re di Polonia. Nella seconda stanza si trovano i ritratti dei pontefici», e siamo quindi proprio nell’appartamento della duchessa (e la sala del Pisanello precede la sala dei Papi). Nel 1614 la sala del Pisanello è citata come «sala di sopra alle camere lunghe». ottobre
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La sinopia del Paesaggio con cavalieri. 1430-1433.
La cronologia
L’enigma delle date In queste pagine, la datazione del ciclo è indicata tra il 1430 e il 1433, subito prima o subito dopo il soggiorno romano, comunque prevedendo che la sala mantovana sia stata approntata per la venuta dell’imperatore Sigismondo di Lussemburgo. Il 6 maggio 1432 l’imperatore, a Parma, concedeva a Gianfrancesco il titolo di marchese, da trasmettere per via ereditaria, rinnovando poi la concessione il 22 settembre 1433, con una cerimonia in piazza San Pietro (oggi piazza Sordello).
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Se fu in questo intervallo di tempo che si decise di decorare la sala, pur non potendo facilmente immaginare la velocità di esecuzione da parte di Pisanello e dei suoi collaboratori, sembra difficile pensare che Gianfrancesco si aspettasse ragionevolmente di vedere compiuta in cosí poco tempo una decorazione di oltre 300 metri quadrati. Non si può escludere che all’evento si alluda nel ciclo, dato che, come attesta una cronaca dell’epoca, ottobre
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sento […] et balistre cinquanta fornite et schiopeti cinquanta spidi centocinquanta et zaneti cento e feri da lanza cento et una armatura per la persona mia da capo a pede et altri pezi de fero»; armi e armature per 1400 ducati, facendo seguito ad accordi stipulati a Ferrara nel 1469. Non so se i manicaretti o la ferraglia concorsero al parziale crollo
del solaio, avvenuto pochi anni dopo. Il 15 dicembre 1480, l’architetto toscano Luca Fancelli informa il marchese Federico Gonzaga: «è chaduto una chorda da chiave della sala del Pisanello chon una parte di sofita, perché tute dite chorde sono state azunte per lo pasato perché erano marze nel muro e non àno sostegnio alquno». Fancelli interviene con
l’imperatore «donò le insegne del marchesato al signore Giovanni Francesco e fece cavallieri tre suoi figlioli, cioè Lodovico, Carolo et Alessandro». La cronologia del ciclo rimane dunque il suo aspetto piú enigmatico, in mancanza di puntuali fonti d’archivio o anche solo di copie o derivazioni che ci offrano termini di riferimento. Venute meno le ipotesi «estreme» di Paccagnini agli inoltrati anni Quaranta e quella di Boskovits agli anni Venti
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puntelli e tirando «giú el resto della soffita aciò non cadese adoso a persona». Da allora, la «sala del Pisanello» si eclissa dalle cronache e dalle fonti. Non sappiamo se le pitture rimasero a vista e per quanti decenni ancora; certo è che nessuna altra fonte le rileva a vista e Vasari ne tace, per quel che la sua omissione possa significare.
del Novecento, Andrea De Marchi sostiene con validi argomenti una datazione prima del 1433. Va detto che la decorazione è priva di riferimenti araldici al marchesato: le aquile imperiali che, dal 1433, arricchirono lo stemma gonzaghesco. Sembra poco probabile che un ciclo di tale respiro non celebrasse un traguardo tanto importante, ma va detto che le ampie lacune non consentono di escludere che l’elemento araldico fosse in qualche brano mai realizzato o perduto.
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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.
La sinopia del Torneo di cavalieri. 1430-1433.
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UN TORNEO CRUENTO di Andrea De Marchi
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he il capitano di Mantova, Gianfrancesco Gonzaga (1395-1444), decidesse di consacrare il salone piú magniloquente del suo palazzo a un ciclo di storie dei cavalieri della tavola rotonda può sembrare sorprendente e un po’ fuori tempo massimo. Le «stanze di Artú» conobbero, assieme alla divorante passione per la materia bretone nei milieux signo-
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rili ma pure cittadini, un’estrema fortuna a cavaliere fra Tre e Quattrocento, da Frugarolo a Schloß Runkelstein/Castelroncolo, per lo piú in castelli e dimore di piacere, ma in fondo era l’ultimo fuoco. I tempi stavano rapidamente cambiando. Anche a Mantova. Fin dal 1423, in sostanziale sincronia coi primi impegni a corte del veronese Pisanello, vi si era
stabilito Vittorino da Feltre (1373 o 1378-1446) e aveva fondato la prima scuola di ispirazione umanistica, la «Ca’ Zoiosa«, dove si sarebbe formato fra gli altri Federico da Montefeltro, a lato di Ludovico II Gonzaga. Lo stesso Pisanello fin da giovane era imbevuto di cultura umanistica, se è davvero lui – come sembra – quel «m(agister) Antonius Pisanus» che doveva restituire a
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Dossier Guarino Veronese (1374-1460) un anche di viaggi importanti – sicuri so d’Aragona; e a Mantova, dove codice di Cicerone che gli aveva af- quelli a Roma (1431-1432) e poi a erano rimaste vuote le «camere et fidato, in occasione di un suo pas- Ferrara e Firenze in occasione del luogi che solevi tenire qui in corte» saggio per Padova, affinché lo con- Concilio (1438-1439) – egli co- (cosí gli scrive Gianfrancesco l’11 segnasse a un certo maestro Pietro nobbe una maturazione decisiva, marzo 1444, poco prima di morie di cui Guarino parla in una epi- per cui prese congedo definitivo da re), probabilmente non tornò mai stola a Zaccaria Barbaro del giugno certe predilezioni, anche tecniche piú, proiettato com’era verso altri 1416. Ipotesi affatto convincente e materiche, che trionfano nelle scenari. Un’esecuzione dei murali perché il grande umanista vero- complesse applicazioni pittoriche arturiani in quel decennio è allonese fu uno dei suoi primi e piú e metalliche dei murali mantova- ra del tutto inverosimile, non solo autorevoli mentori e forse il primo ni. Chissà, forse i murali perduti per le sue vicissitudini biografiche, poeta latino a dedicargli un carme, nel castello visconteo di Pavia, am- ma perché i tempi erano radicalperché in quegli anni il pittore la- mirati nel Cinquecento da Cesare mente mutati, per tutti, per lui e vorava a Venezia, alla decorazione Cesariano (esempio sommo dell’a- per i suoi committenti. della sala del Maggior Consiglio, al bilità a sfruttare l’intonaco per «reGli affreschi della cappella nel seguito di Gentile da Fabriano. cevere la splendentia et nitore») e da duomo di Verona del canonico Domenica 28 aprile 1415 in Marcantonio Michiel («le pitture nel Antonio Malaspina, a seguito piazza San Marco a Venezia si castello a fresco furono de mano del Pi- delle disposizioni testamentarie svolse un torneo grandioso, per sano, tanto lisse et tanto risplendenti»), del 27 maggio 1440, che prevedefesteggiare il nuovo dovano un’integrazione orgage, Tommaso Mocenigo, nica con un’ancona lignea «Hinnitus audire videmur un torneo favoloso di cui che avrebbe intagliato il veBellatoris equi, si parlò a lungo. Seconneziano Giacomo Morando Marin Sanudo qua- clangorem horrere tubarum» zon, furono forse l’ultima si sessantamila persone grande impresa monumen(«Ci sembra di sentire il nitrito tale per cui venne cercato, e assistettero alla sfida fra le compagnie di Niccolò del cavallo da combattimento, di che egli non poté eseguire, III d’Este (1383-1441) e impossibilitato com’era dal tremare al suono delle trombe», bando veneziano a rientradel piú giovane, diciannovenne, Gianfrancesco Guarino Veronese, carme latino re nella sua città. Gonzaga, capitano di Ma in quegli anni era orin onore di Pisanello) Mantova. Forse anche mai preso dalla realizzazioAntonio Pisano assistette ne delle medaglie onorarie, a quell’evento memorabile, sen- da datare probabilmente verso il in una successione incalzante ed za immaginare che proprio per il 1440, quando l’artista è documen- entusiasmante, dopo quella sesignore di Mantova avrebbe un tato a Milano, facevano tesoro in minale per Giovanni VIII Paleologiorno concepito una spettacola- qualche modo di intuizioni di am- go, concepita a Firenze al tempo re celebrazione delle virtú caval- biente e di atmosfera piú schiarite, del Concilio, nella primavera del leresche. Le pitture riscoperte da quali sono presagite nei fondali del 1439: un genere di modellazioGiovanni Paccagnini alla fine degli San Giorgio e la principessa Pellegrini, ne propriamente pittorica, in cui anni sessanta del secolo scorso ci in Sant’Anastasia a Verona, verso poteva mettere in campo tanto la hanno restituito una faccia della il 1436, dopo aver visto a Firenze sua acutezza ritrattistica quanto la medaglia Pisanello, intimamente opere di pittori come Fra Giovanni sottigliezza dell’inventio dei roveambivalente, fra fantasie sensuali da Fiesole o Paolo Uccello. sci, assicurandosi per entrambe le e lussuose da una parte, ambizioni Dopo il bando da Mantova, virtú il plauso degli umanisti e la intellettuali e fin antiquarie dall’al- imposto fra il 1442 e il 1443 dal- fama di corte in corte. Allora non tra. La faccia piú oscura e notturna, la Serenissima, a seguito della sua avrebbe avuto nessun senso atche alligna le sue radici nell’uni- arrischiata partecipazione al sacco tardarsi a impalcare le narrazioni verso internazionale del piú sfre- visconteo di Verona nel novembre strabilianti dei cavalieri erranti, nato gotico cortese. Questa endia- del 1439, Pisanello dovette trasfe- persi fra valli e boschi per esaudire di percorre in maniera continua e rirsi a Ferrara alla corte estense di i loro voti efferati, o a sciorinare sotterranea tutta l’opera, esclusiva Lionello e quindi nel 1444 «andar mischie crudeli fra armi rilucenti e e sfuggente, del maestro, ma nel a la maiestà del re», a servizio del rutilanti stendardi, sotto lo sguarcorso degli anni trenta, al seguito nuovo sovrano di Napoli Alfon- do trepidante di pallide dame…
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Un altro particolare del Torneo di cavalieri. 1430-1433.
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Dossier Un evento epocale
Giovanni Paccagnini e la riscoperta del ciclo di Pisanello a Mantova di Monica Molteni
A mezzo secolo di distanza, il recupero del ciclo cavalleresco di Pisanello da parte di Giovanni Paccagnini negli anni compresi fra il 1963 e il 1968 è impresa che sotto tutti i punti di vista mantiene intatto il suo valore, continuando a suscitare sentimenti di ammirazione. Certo per l’importanza in sé della riscoperta, che per estensione, complessità narrativa e qualità delle pitture e delle sinopie aggiungeva un capitolo fondamentale – seppur ancora oggi denso di quesiti irrisolti – alla conoscenza del pittore, del palazzo, del mecenatismo e della cultura della corte gonzaghesca. Ma anche, e non in ultimo, per la difficoltà materiale dell’operazione, il cui fortunato esito è a sua volta rappresentativo dell’illuminata acribia che guidò il soprintendente nei meandri di una ricerca poggiante su esilissimi presupposti storiografici. «Speranza, Pazienza et Perseveranza», dunque, a far da contraltare al quasi sconcertante silenzio delle fonti, che, pur conservando lusinghiera memoria dei perduti cicli
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murali eseguiti da Pisanello a Venezia, Pavia e Roma, avevano completamente mancato di registrare l’esistenza della sala dipinta nella reggia mantovana. Nel quadro delle intricate stratificazioni che nei secoli avevano via via trasformato la facies degli spazi del palazzo, si trattava di una lacuna disorientante e all’apparenza insormontabile, sebbene a posteriori perfettamente comprensibile. Per un verso è in effetti del tutto verosimile che la condizione di «non finito» del ciclo ne avesse inibito la tempestiva iscrizione nella panegiristica coeva, sia perché percepita come elemento di imperfezione, sia perché motivo per rimandarne la memorizzazione, infine lasciandola in sospeso. D’altra parte, il lungo oblio toccato in sorte alle pitture si ricollega indubbiamente anche a circostanze piú concrete, ovvero ai fatti rovinosi e alle trasformazioni subite dall’ambiente nel corso dei secoli, con un sovrapporsi di fasi decorative che andarono a occultare le pitture quattrocentesche già alla fine del secolo successivo.
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In alto, a sinistra Giovanni Paccagnini alla mostra su Pisanello realizzata nel 1972. ottobre
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Sulle due pagine immagini d’archivio della Sala dei Principi del Palazzo Ducale, prima e dopo la scoperta del ciclo cavalleresco dipinto
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dal Pisanello. I magnifici affreschi vennero alla luce tra il 1963 e il 1968 e furono esposti al pubblico per la prima volta nel 1972.
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QUANDO L’ARTE VOLTA PAGINA: IL TARDOGOTICO A MANTOVA Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.
di Giulia Marocchi Uno scorcio del lato sud-orientale della cattedrale di S. Pietro (il duomo di Mantova), con , in evidenza, il coronamento a cuspidi alternate a pinnacoli, unica testimonianza superstite degli interventi architettonici eseguiti sull’edificio alla fine del XIV sec.
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ue date separate da sessant’anni possono costituire i riferimenti ideali di un quadro d’insieme delle arti a Mantova nella prima metà del Quattrocento: l’anno 1401, al cui mese di ottobre risale l’accordo con Pierpaolo Dalle Masegne per il completamento dell’apparato scultoreo dei prospetti del duomo, e il 1461, anno in cui Girolamo da Cremona subentra a Belbello da Pavia nell’opera di illustrazione del Messale di Barbara di Brandeburgo. Dai prospetti grandiosi della cattedrale di Mantova, con il loro carattere di presenza viva per la città, alla pagina miniata di un messale destinata all’esclusiva fruizione del principe, sembra delinearsi una stagione fiorita con la piú grandiosa delle imprese e tramontata nella riservatezza di un codice sfogliato in silenzio: l’arte, pare suggerirci questa immagine, volterà gradualmente pagina. Se l’epoca del governo di Gianfrancesco Gonzaga – quinto capitano del popolo dal 1407, primo marchese dal 1433 – vide la convivenza di espressioni artistiche e protagonisti della cultura afferenti ad aree di gusto opposte – basti pensare che, negli stessi anni di attività di Pisanello per la corte, Gianfrancesco e la moglie Paola Malatesta chiamarono a Mantova il celebre pedagogo e umanista Vittorino da Feltre (1423), incaricandolo dell’educazione dei propri figli, o che nel 1435 Leon Battista Alberti dedicò al marchese il suo De Pictura in versione latina –, con l’avvento di Mantegna sul finire del sesto decennio si dovrà riconoscere l’evidenza del «passaggio dal gusto gotico, o meglio tardogotico, all’apertura Rinascimentale». Gli anni a cavallo tra Trecento e Quattrocento coincisero con l’affermarsi della signoria gonzaghesca su quanto sopravvissuto delle strutture comunali: un processo culminato con la pubblicazione dei nuovi statuti cittadini, nel 1404, e
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Dossier Studi di figure in abiti contemporanei, un cavaliere seduto su una roccia, un drago, punta metallica e penna su pergamena. Bottega del Pisanello, 1433 circa. Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana.
segnato anche dal punto di vista urbanistico – dunque simbolico – dal decisivo intervento del signore in opere di forte impatto architettonico. Con Francesco I (1388-1407) sboccia, infatti, quella che è stata definita «la passione del bell’edificio», che porterà, nel giro di pochi anni, alla nascita di opere di prim’ordine per la città: il castello di San Giorgio, innanzitutto, edificato forse entro il 1397 e attribuito a Bartolino Ploti da Novara, già autore del castello di Ferrara, ma an-
la mostra
Riunioni eccellenti Fulcro della mostra (curata da Stefano L’Occaso, con Giulia Marocchi e Michela Zurla) sono le pitture murali di Palazzo Ducale, lo straordinario ciclo arturiano, il cui apprezzamento da parte del pubblico non era immediato. Il visitatore, se non invitato da una guida ad ammirare i dipinti, tendeva a passare oltre, contentandosi di uno sguardo distratto a pitture lontane e difficili da comprendere. La mostra garantisce migliori condizioni di osservazione, tramite il riallestimento permanente della sala. Una pedana soprelevata permette di avvicinarsi al ciclo, tornando alla quota del pavimento originale, e si è inoltre realizzato un che i rinnovati prospetti della cattedrale, il monumento funebre per Margherita Malatesta e, nel contado, il santuario di Santa Maria delle Grazie. Si tratta di imprese che, dal punto di vista stilistico, denunciano la contemporanea presenza di influssi diversi, riconducibili ai due poli di attrazione della strategia politica – ancor prima che della vita artistica – di Mantova, in questo momento: Milano e Venezia. Tra la fine del XIV secolo e l’inizio del XV raggiungono il culmine
In alto, Madonna con Bambino, detta Madonna della Quaglia, tempera su tavola del Pisanello. 1420 circa. Verona, Museo di Castelvecchio.
le mire espansionistiche di Milano, guidata da Gian Galeazzo Visconti, e, sul lato opposto, le strategie di proiezione difensiva di Venezia. Nel 1392 Francesco I Gonzaga ratificava a Mantova la propria partecipazione al-
La piazza Sordello di Mantova, sulla quale prospettano il duomo (noto anche come cattedrale di S. Pietro) e, sulla destra, il Palazzo Ducale.
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Medaglia in bronzo realizzata dal Pisanello con, al dritto, il ritratto di Gianfrancesco Gonzaga e, al rovescio, il marchese a cavallo. 1445-1447. Milano, Castello Sforzesco.
apparato illuminotecnico che evidenzia lo splendore materico delle pitture di Pisanello. Inoltre, una sezione della mostra presenta una panoramica delle arti a Mantova nell’età del Pisanello, con pitture, sculture e miniature; opere che si datano dal 1400 circa alla metà del XV secolo: preziosi dipinti su tavola, sculture in marmo e in terracotta, disegni e miniature. Non è frequente vedere riunite e in mutuo dialogo opere come la pisanelliana Madonna della Quaglia, del Museo di Castelvecchio di Verona, l’Adorazione dei Magi di Stefano da la lega antiviscontea stipulata tra Firenze, Bologna, Padova, Ferrara, Imola e Ravenna, cui nel 1398 prendeva parte anche Venezia: l’orientamento filoveneziano della politica paterna fu inizialmente portato avanti da Gianfrancesco (1407-1444), anche in ragione della fedeltà alla Serenissima del proprio tutore, lo zio Carlo Malatesta, signore di Rimini, fratello della madre Margherita e marito della zia Isabetta Gonzaga. Sposando nel 1409 Paola Malatesta, figlia di Malatesta dei Malatesta di Pesaro e di Elisabetta Varano dei conti di Camerino, Gianfrancesco prosegue quell’alleanza matrimoniale con il casato romagnolo inaugurata a inizio Trecento e consolidatasi proprio con le unioni del padre e della zia Isabetta.
Una mossa azzardata
Il quarto decennio del secolo, cruciale per la nomina a primo marchese da parte dell’imperatore Sigismondo, nel 1433, vede Gian-
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Verona, della Pinacoteca di Brera, la tavoletta firmata da Pisanello della National Gallery londinese, l’affresco di Palazzo Venezia a Roma. La mostra permette di apprezzare questi capolavori riuniti in Palazzo Ducale, nelle stanze che un tempo furono abitate da Paola Malatesta, moglie di Gianfrancesco Gonzaga. Nella sala del Pisanello, infine, sono esposti i disegni francesco dapprima capitano generale della Serenissima, quindi, dal 1438, alleato di Milano contro Venezia: un azzardo strategico che non porta ad alcun accrescimento territoriale, per i Gonzaga, bensi alla perdita di alcuni possedimenti (come Asola, Lonato, Peschiera). Purtuttavia, l’alleanza con Venezia, che contraddistingue le scelte sul piano politico della casata negli anni a cavallo dei due secoli, è il fattore determinante l’inclinazione delle arti a Mantova verso il Veneto, e la Laguna in particolare. L’impresa di maggior rilievo tra i cantieri cittadini verso la fine del XIV secolo e agli albori del successivo è dunque il rinnovamento della cattedrale di S. Pietro, voluto dal vescovo Antonio degli Uberti (1390-1417) e da Francesco I Gonzaga, e affidato ai veneziani Jacobello e Pierpaolo Dalle Masegne. Oltre alla costruzione di una serie di cappelle laterali, si provvide a modificare i prospetti esterni della chiesa: un intervento di cui rimane
preparatori del ciclo arturiano, mentre la sala dei Papi presenta la scoperta delle pitture, con l’esposizione di strappi, sinopie e foto dell’epoca del loro ritrovamento. unico testimone il lato sudorientale dell’edificio sacro, caratterizzato da un coronamento a cuspidi alternate a pinnacoli. I testi di questo Dossier sono tratti dal catalogo della mostra e appaiono per gentile concessione degli organizzatori e della casa editrice Electa.
Dove e quando «Pisanello. Il tumulto del mondo» Mantova, Palazzo Ducale fino all’8 gennaio 2023 (dal 7 ottobre) Orario martedídomenica, 8,15-19,15; lunedí chiuso Info tel. 0376 352100; https://mantovaducale. beniculturali.it Catalogo Electa
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Storie, uomini e sapori
Carlo, imperatore e buon massaro di Sergio G. Grasso
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Franchi – un insieme di tribú guerriere germaniche originariamente stanziate sulle rive del Mare del Nord e nel delta del Reno e della Schelda – stipularono, verso il 350, un patto (foedus) di amicizia e di mutua assistenza con Roma e ebbero il diritto di occupare le terre del limes a sud del Reno, in quelli che oggi sono i Paesi Bassi meridionali e il Belgio settentrionale, regione che, fino all’impaludamento del XIII secolo, fu provvida di prodotti agricoli e commercialmente attiva.
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I costumi gastronomici di quelle popolazioni erano comuni a tutte le genti teutoniche: polentine di cereali cotte nel latte, bolliti e arrosti di carne, verdure fermentate, idromele e birra. Forse con l’ambizione di adattarsi alla civiltà latina, non tardarono ad apprezzare tutto ciò che i Romani avevano importato in Francia. Si mescolarono agli indigeni senza violenze, con buona volontà e spirito di cooperazione, riuscendo a stabilire un proprio regno in Gallia e nell’est da Germania, ottobre
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del quale, nel V secolo, divenne re Clodoveo della dinastia dei Merovingi. Per poter contare sull’appoggio dell’imperatore d’Oriente e della popolazione galloromana, il sovrano si convertí al cristianesimo, e, secondo l’Historia Francorum di san Gregorio di Tours, si fece battezzare nella Cattedrale di Reims la notte dei Natale del 496. Nei suoi 15 anni di regno sconfisse gli Alamanni, i Burgundi e i Visigoti, occupò l’Aquitania fino alla Garonna e unificò gran parte della Gallia. Alla sua morte, il regno venne spartito tra i quattro figli, che però non riuscirono a consolidare in senso unitario i propri possedimenti. In meno di un secolo, tra contrasti, divisioni dinastiche e dispute territoriali – ma
dal suo maggiordomo Pipino, detto «il Breve» per la sua statura. Iniziava con lui una nuova dinastia, passata poi alla storia come «carolingia» dal nome del sovrano piú importante, Carlo Magno, figlio di Pipino.
Occhi grandi e vivaci... L’architetto e latinista Einhart (Eginardo), che dal 796 fu sovrintendente alle fabbriche imperiali, ebbe un lungo rapporto di amicizia e confidenza con l’imperatore, dopo la cui morte (814) compose la Vita et gesta Caroli Magni, un’opera biografico-agiografica che ci consegna un ritratto ossequioso ed eroico del sovrano fin dall’aspetto fisico: «Era di costituzione robusta e possente con occhi grandi Qui accanto pagina miniata di un Calendario dei mesi, ciascuno dei quali simboleggiato dalle attività stagionali, dall’abbazia di S. Pietro a Salisburgo. Età carolingia. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek. A sinistra, sulle due pagine miniatura raffigurante papa Leone III che, nella notte di Natale dell’800, incorona imperatore Carlo Magno, dalle Chroniques des empereurs di David Aubert. 1462. Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal.
soprattutto come conseguenza della larga autonomia concessa alla nobiltà locale in cambio della fedeltà – la decadenza della dinastia merovingia era cosa fatta. I consiglieri del re e i suoi ministri (i maggiordomi o «maestri di palazzo» che controllavano de facto l’intera amministrazione del regno) acquisirono sempre piú autonomia e autorità, esasperando l’indolente debolezza dei cosiddetti «re fannulloni». L’ultimo di questi, Childerico III, fu liquidato senza cruenti drammi
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e vivaci, il naso un po’ piú grande del normale, bei capelli candidi, il volto lieto e sereno, per cui cosí in piedi come seduto dava un’impressione di grande autorità e dignità». L’opera di Eginardo ricalcava lo schema e lo stile adottati dallo storico romano Svetonio nel De vita Caesarum, con particolare riguardo alla esaltazione delle virtú e delle gesta di Augusto imperatore: «[Carlo] superava tutti i principi del suo tempo in sapienza e grandezza d’animo, a nulla di tutto ciò che doveva essere preso o portato a termine
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REGNO DI SCOZIA
POPOLAZIONI
Nord
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REGNO DI bovini DANIMARCA
Novgorod Reval Dorpat
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RISORSE E PRODUZIONI NELL’ALTO MEDIOEVO
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ambra, birra, canapa cereali, legno pellicce, pesce
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Principali centri bancari Itinerari commerciali terrestri Rotte commerciali marittime
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Principali prodotti, produzioni e attività commerciali Importazioni o esportazioni dell’Europa
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lana, frutta oro, schiavi
egli rinunciò per eventuali difficoltà e pericoli, essendo stato abituato a sopportare qualsiasi difficoltà, senza mai cedere nelle avversità o affidarsi ai favori ingannevoli della fortuna nella prosperità». E ancora: «Si occupava cosí tanto del soccorrere i poveri, in quella generosità gratuita che i Greci chiamano elemosina, che non solo si occupò dei poveri della sua patria e del suo regno, ma, quando scoprí che vi erano
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E D I T E R R A N E O pes ca
cotone, lana, frutta, cuoio
lana
Cristiani che vivevano in povertà in Siria, Egitto, in Africa, a Gerusalemme, ad Alessandria e a Cartagine, ebbe compassione di loro e gli inviò denaro attraverso i mari». «Tutto ciò che Carlo fece per difendere e aumentare l’estensione del suo regno è ben noto; e qui lasciatemi esprimere la mia ammirazione delle sue grandi qualità e la sua straordinaria costanza nella buona e nella cattiva sorte». ottobre
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Sulle due pagine cartina con le principali risorse e attività produttive nell’Alto Medioevo.
Volga
pellicce
pellicce
Bulgar
MORDVINI pellicce
Volga
dall’Asia centrale: cavalli, miele, oro, pellicce, schiavi schiavi
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In alto Carlo Magno in visita all’abbazia di S. Vittore, cartolina pubblicitaria degli inizi del Novecento facente parte di una serie sulla storia dell’alimentazione per aneddoti.
cavalli, pecore
Eginardo descrive anche le (quasi) sobrie abitudini alimentari di Carlo Magno, con toni che sembrano studiati per distinguerlo dallo stereotipo che Tacito aveva riscontrato negli altri popoli germanici, eternamente indeboliti dalla loro tendenza a ingozzarsi e ubriacarsi: «Modesto nel mangiare e nel bere, e in modo particolare nel bere, perché aborriva l’ebrezza in qualunque uomo, molto piú in lui e
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in quelli della sua famiglia». Da questa e altre fonti coeve, sappiamo che re Carlo non era solito far imbandire fastosi banchetti e che nel corso dei pasti si accontentava di quattro servizi, uno dei quali immancabilmente a base di selvaggina arrosto, preferibilmente da lui stesso cacciata. Neppure negli ultimi anni di vita, ormai sulla settantina, seppe rinunciare alle sue cacce e ai suoi arrosti, nonostante soffrisse da tempo di gotta e manifestasse una generale debolezza, a suo dire dovuta al regime di carni bollite prescrittegli dai medici. D’altronde, il consumo di carni e selvaggina cotte al fuoco vivo evidenziava, fin dai tempi omerici, lo status di guerriero e condottiero; cosí nel Medioevo ostentare di essere un forte mangiatore di carne era non solo un comportamento di classe, ma una sorta di obbligo morale, un dovere sociale del «signore».
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Nei pranzi ufficiali Carlo sedeva in posizione piú elevata rispetto agli altri commensali, ed erano gli stessi conti, marchesi e duchi a servirlo mentre ascoltava letture storiche o di testi edificanti, con preferenza per sant’Agostino. Sembra anche che fosse un grande estimatore di formaggi e le leggende fiorite su di lui a questo proposito lo vedono «scopritore» di prelibatezze casearie monacali come il Roquefort, il Brie e il Maroille. Non mancava ovviamente di curare il rispetto del calendario cristiano anche a tavola e impone che dalle sue fattorie (oltre duemila) sparse nell’enorme impero: «Ogni anno vengano inviati per nostro uso due terzi degli alimenti adatti al digiuno quaresimale: legumi, pesce, formaggio, burro, miele, senape, aceto, miglio, ortaggi freschi e secchi e inoltre cera e sapone». Carlo Magno fu soprattutto uomo politico alle prese con lusinghe, ambizioni, lotte sociali, problemi economici, culturali e ideologico-religiosi. Non solo estese il suo dominio dall’Atlantico al Mediterraneo, dalla Sassonia alla Croazia, dal regno longobardo fin’oltre Roma, ma adottando perentorie e spesso violente politiche di conversione di massa (Frisoni, Sassoni, Àvari), sottomise Moravia e Serbia, aprendo cosí le porte del mondo slavo al cattolicesimo. Grazie al suo sincero fervore religioso, nel Natale dell’anno 800 papa Leone III lo incoronò «Serenissimus Augustus, a Deo coronatus, magnus et pacificus Imperator, Romanum gubernans Imperium», realizzando non solo la restaurazione dell’impero
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CALEIDO SCOPIO romano d’Occidente creato da Teodosio, ma anche la realizzazione di un ideale politico-religioso fondato sulla dignità e la forza dell’imperatore quale defensor fidei. Carlo riuscí a unificare ed armonizzare la convivenza di paesi e popoli diversi per lingua, cultura e costumi. Il principale strumento legislativo adottato fu quello dei «capitolari» ovvero i verbali – se ne conoscono a oggi 107 – delle sue decisioni in merito alla vita pubblica, alla politica, all’economia e all’agricoltura. A quest’ultimo argomento l’imperatore, in qualità di oculato amministratore e praticissimo massaro ma soprattutto di maggior proprietario terriero del suo tempo, dedica il Capitulare de villis vel curtis imperii. Si tratta di una raccolta di norme gestionali e amministrative con cui si regolamentava ogni aspetto concernente le curtes, cioè le aziende agricole e che ancora oggi rappresenta una vivida e minuziosa fotografia del paesaggio rurale e agrario dell’Alto Medioevo, rimasto poi inalterato per quasi un millennio. Il Capitulare esordisce con una perentoria dichiarazione di Carlo: «Vogliamo che le nostre terre, le cui rendite si
devolveranno a nostro profitto, siano sfruttate integralmente a nostro vantaggio e non all’altrui» (cap. I), a cui fa seguito un’affermazione di benevolenza e protezione del sovrano verso chi in quelle terre viveva e lavora per lui: «Comandiamo che la nostra servitú sia ben trattata e non sia condotta in povertà da nessuno» (cap. II).
Disposizioni puntuali I primi destinatari del Capitulare erano gli iudices, gli amministratori delle villae, la cui condotta doveva sottostare a precisi limiti: «Gli iudices si astengano dal porre la nostra familia al proprio servizio, non li obblighino a corvées, a tagliar legna per loro o ad altri lavori né accettino alcun dono da essi, né cavallo, né bue, né maiale, né montone, né maialino da latte, né agnello, né altra cosa a meno che non si tratti di bottiglie, verdura, frutta, polli, uova» (cap. III). Ogni iudex doveva garantire che una parte dei proventi della villa, in natura o in denaro, andasse a sostenere l’attività del clero: «Vogliamo che i nostri iudices versino l’intera decima di ogni raccolto alle chiese che sorgono sulle nostre terre fiscali e che la nostra decima non sia versata alla chiesa di un altro, a meno che non si debba rispettare un’antica consuetudine» (cap. VI). A loro era comandato di far eseguire nel migliore dei modi e nel periodo appropriato le operazioni di semina e aratura, raccolta delle messi, falciatura del fieno e vendemmia dell’uva. Tutti – fattori, forestali, allevatori, cantinieri, decani, esattori e ministeriali – erano tenuti a collaborare ai lavori con particolare attenzione per il vino: «Che i nostri amministratori si incarichino delle vigne, che appartengono al loro ufficio, e le facciano ben coltivare, che mettano il vino in buoni recipienti e veglino diligentemente a che non vada in alcun modo perduto. Se è necessario procurarsi altro vino, che lo facciano acquistare in località donde possano condurlo alle nostre ville. E se avviene che ne sia acquistato piú di quanto ne abbisogni alle nostre ville, che essi ce ne preavvertano (...). Che essi destinino a nostro uso il prodotto delle nostre vigne e che mettano nelle nostre cantine i versamenti in natura delle ville che devono consegnare del vino» (cap. VIII). Piú oltre si impone che: «I torchi nelle nostre ville siano efficienti e funzionali. I nostri iudices provvedano che nessuno si permetta di pigiare la nostra uva con i piedi, ma tutto si faccia con decoro e pulizia» (cap. XLVIII). Un altro articolo elenca tutte le parti di un’efficiente azienda agraria altomedievale: chiese, case, mulini, frantoi, depositi, stalle, fienili, botteghe e ogni altra struttura utile alle attività agricole, silvo-pastorali e artigianali della villa. Stabilisce inoltre che: «In ogni villa, negli alloggi ci siano a disposizione letti, materassi, cuscini, Miniatura raffigurante Carlo Magno e il figlio Pipino nell’atto di promulgare leggi, da un’edizione manoscritta della Lex Salica. X sec. Modena, Archivio Capitolare.
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Disegno ricostruttivo di una curtis, cosí come possiamo immaginarla agli inizi del X sec.: 1. stalle; 2. abitazioni per contadini liberi, legati al signore da un rapporto di dipendenza; 3. abitazioni per i servi; 4. magazzini; 5. dimora signorile, con torre ancora in costruzione; 6. cappella. lenzuola, tovaglie, tappeti, recipienti di rame (...) ganci per paioli, scalpelli e ogni tipo di utensile in modo che non sia necessario cercarli altrove. Li arnesi di ferro da impiegare nelle spedizioni militari siano in buono stato e quando si rientra dalla spedizione siano conservati a casa» (cap. XLII).
Uno spaccato della comunità Quale fosse la popolazione attiva in ogni villa oltre ai contadini, ai pastori e ai manutentori del bosco è cosí spiegato: «Ogni iudex abbia nel suo ministerium buoni artigiani cioè fabbri ferrai, orefici o argentieri, calzolai o tornitori, carpentieri, fabbricanti di scudi, pescatori, uccellatori, fabbricanti di sapone, di birra, di sidro (...) fornai che ci forniscano pane di semola, fabbricanti di reti che sappiano fare delle reti buone sia per la caccia che per la pesca che per catturare uccelli» (cap. XLV). Non manca un lungo elenco di animali che Carlo obbligava ad allevare in ogni tenuta, oltre agli quelli comuni come buoi, mucche, maiali, pecore, capre e
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montoni: «Nei nostri granai delle ville piú grandi allevino non meno di cento polli e non meno di trenta oche, nelle ville piú piccole non meno di cinquanta polli e dodici oche» (cap. XIX) e «Ogni iudex faccia allevare nelle nostre ville sempre, senza eccezioni, uccelli caratteristici come pavoni, fagiani, anatre, colombe, pernici, tortore a scopo ornamentale» (cap. XL). L’ultimo articolo enumera ben 89 specie di alberi, piante e fiori da coltivare, distinte in alimentari (cereali, legumi, frutta e verdure), medicinali e cosmetiche, incluse quelle impiegate nelle attività artigianali come la robbia, usata per tingere, e il cardone, da impiegare nella cardatura della lana: «Vogliamo che nell’orto sia coltivata ogni possibile pianta: il giglio, le rose, la trigonella, la balsarita, la salvia, la ruta, (...) i cetrioli, i meloni, le zucche, il fagiolo, (...) il rosmarino, il cumino, il cece, il gladiolo, l’artemisia, l’anice, l’indivia, (...) la lattuga, il ginepro, l’aneto, il finocchio, la senape, (...) la menta, il cavolo-rapa, i cavoli, le cipolle, i porri, il rafano, lo scalogno, l’aglio, i cardi, le fave, i piselli, il coriandolo, il cerfoglio (...). Quanto agli alberi vogliamo che ci siano frutteti di vario genere: meli cotogni, noccioli, mandorli, gelsi, lauri, pini, fichi, noci, ciliegi di vari tipi. (...) mele gozmaringa, geroldinga, crevedella, spiranca, dolci e acri, tutte quelle di lunga durata e quelle da consumare subito e le primaticce, e pere a lunga durata, quelle dolci, quelle da cuocere e quelle tardive» (cap. LXX).
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Quando i santi prendevano le armi
Con la spada e con il giglio di Paolo Pinti
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ant’Alessandro di Bergamo nacque forse a Tebe (Egitto) nel III secolo e morí a Bergamo (l’antica Bergomum) il 26 agosto 303. Quel che sappiamo di lui si fonda su fonti molto tarde, risalenti all’VIII secolo: lo si dice vessillifero della leggendaria legione tebea, comandata dal generale romano Maurizio, che poi sarà venerato anch’egli dalla Chiesa cattolica con il nome di san Maurizio. Secondo
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queste fonti, intorno all’anno 301, Alessandro, con la sua centuria, fu in Mesopotamia e poi a Colonia e a Brindisi, sino a giungere in Africa: in questo lungo viaggio i legionari da lui comandati si rifiutarono in varie occasioni di eseguire gli ordini dell’imperatore Massimiano per la persecuzione dei cristiani e furono puniti con la decimazione, avvenuta ad Agaunum, nell’odierna Saint Maurice-en-Valais in Svizzera.
Affresco raffigurante sant’Alessandro a cavallo. 1336. Bergamo, chiesa di S. Maria Maggiore a Bergamo. Scampato al massacro, Alessandro si rifugiò con alcuni suoi compagni in Italia, ma fu imprigionato a Milano (dove oggi sorge la basilica di S. Alessandro in Zebedia, in piazza di Sant’Alessandro) e qui si rifiutò di abiurare la fede cristiana come impostogli dall’imperatore. ottobre
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A sinistra Sant’Alessandro (particolare), olio su tavola di Bernardino Luini. 1525. Pasadena, Norton Simon Museum. Qui non compaiono armi, ma solo la palma dei martiri e lo stendardo.
Riuscí a fuggire, con l’aiuto di san Fedele, che andava a visitarlo in carcere, e si rifugiò a Como, ma presto venne di nuovo catturato e portato al cospetto di Massimiano, che gli ordinò di sacrificare agli dèi romani: cosa che non fece e, anzi, distrusse l’ara preparata allo scopo (c’è un bel quadro di Enea Talpino detto Salmeggia, nell’Accademia Carrara di Bergamo, del 1620 circa, nel quale il santo rovescia con un calcio l’altare sul quale avrebbe dovuto sacrificare), mandando su tutte le furie l’imperatore, che lo condannò alla decapitazione.
Lo spavento del boia Ma il boia (di nome Marziano: uno dei rarissimi casi nei quali queste figure passano alla storia) non riuscí nel suo triste compito, perché ebbe paura di Alessandro, che gli appariva «come un monte» (secondo altre versioni, gli si paralizzò il braccio): altrettanto accadde ad altri soldati ai quali fu dato quest’ordine. Il condannato fu allora rinchiuso nel carcere Zebedeo (carcere d’epoca romana, chiamato anche «di Zebedia»), perché vi morisse di stenti, ma riuscí a evadere, passando il fiume
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A destra Sant’Alessandro, scomparto del Trittico di Lepreno, di Francesco di Simone da Santacroce. 1506. Bergamo, Accademia Carrara. Realizzato per la chiesa di S. Giacomo Maggiore Apostolo e S. Alessandro Martire di Lepreno, mostra il martire in armatura, con spada al fianco e lo stendardo tenuto con la mano destra.
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CALEIDO SCOPIO A sinistra Martirio di Sant’Alessandro, olio su tela di Enea Talpino, detto il Salmeggia. 1617. Bergamo, Accademia Carrara. Il santo giace a terra, decapitato, mentre il carnefice rimette la spada nel fodero. In basso Sant’Alessandro, opera d’oreficeria facente parte della decorazione dell’altare nel quale è custodita l’urna con le spoglie del martire. Bergamo, cattedrale. Il santo indossa un’armatura del tipo detto «all’eroica» e sorregge il vessillo con il giglio. Adda, che era in secca, e si nascose in un bosco presso il ponte della Morla, nelle vicinanze di Bergamo, ospitato da un patrizio del posto, tale Crotacio. E proprio a Bergamo condusse una forte azione di proselitismo verso i cittadini, fra i quali figurano Fermo e Rustico, parenti di Crotacio e futuri martiri. In breve, però, alcuni soldati romani lo riconobbero e lo catturarono, conducendolo a Bergamo, dove venne decapitato il 26 agosto 303, nel luogo in cui è ancora oggi visibile la Colonna di Crotacio, sul sagrato della basilica di S. Alessandro in Colonna.
Una pia nobildonna Secondo la tradizione, analogamente ad altre storie di santi (come, per esempio, san Sebastiano), una nobildonna, tale Grata, riuscí a impossessarsi del corpo del martire, trasportandolo in un suo terreno e dandogli sepoltura cristiana. Il ritrovamento del corpo di Alessandro fu reso possibile dalla presenza di gigli, cresciuti dove era caduto il suo sangue: e proprio il giglio è il simbolo del santo, presente sulla bandiera (rectius: stendardo) che quasi sempre regge stando a piedi o a cavallo. Va detto che non c’è unanimità sulla figura di Alessandro: alcuni studiosi contestano il quadro storico che lo riguarda, mentre altri lo identificano con uno dei martiri dell’Anaunia (Valle di Non) e, piú esattamente con il compagno di
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Martirio di sant’Alessandro, olio su tela di Pietro Moro. 1790-1791. Brescia, chiesa di S. Alessandro. Sisinnio e Martirio, tutti chierici originari della Cappadocia, ai quali il vescovo Ambrogio da Milano ordinò di evangelizzare appunto l’Anaunia e che furono uccisi dai pagani del luogo. Dal punto di vista iconografico, il santo è raffigurato in veste militare, quasi sempre in armatura, con la spada, quale simbolo della sua qualifica, ma anche, e soprattutto, come strumento del martirio. Il segno piú indicativo è la bandiera col giglio. Occorre tuttavia fare attenzione a non confondere il giglio con la cosiddetta «alabarda di san Sergio», perché si tratta di cose diverse, che indicano due santi ben distinti. In tutta sincerità, viene spesso da chiedersi come potevano pensare gli antichi artisti e/o i loro committenti di rappresentare un tal santo munendolo di segni/ simboli identici anche a quelli di altri personaggi. Soprattutto di santi con una spada e con la palma del martirio abbiamo una riserva infinita: come dovevano e potevano fare i fedeli per identificarli?
Ritratti senza nome Non di rado, soprattutto negli affreschi del XV secolo, troviamo il nome vicino all’immagine del personaggio, ma, a parte il fatto che erano davvero pochi quelli che sapevano leggere, molte altre volte non c’era scritto nulla e ci si doveva arrangiare, rischiando di rivolgersi al santo sbagliato. Nel nostro caso, lo stendardo con il giglio permette di identificare sant’Alessandro, ma vediamo che ci sono anche immagini del santo con uno stendardo bianco con una croce rossa, analogamente allo scudo e alla sopravveste di san Giorgio. Va detto che il giglio figurerebbe anche sul vessillo della legione tebea, costituita da soldati egiziani
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reclutati nella zona di Tebe: di stanza in Oriente, fu trasferita nel 301 in Occidente per combattere Turcomanni (o Turkmeni, popolazione di stirpe turca, abitante nel Turkmenistan, il Nord-Est dell’Iran e parte dell’Afghanistan) e Quadi (antica popolazione germanica, della stirpe dei Suebi, stanziata nell’odierna Moravia). Quel che qui c’interessa, però, è l’arma che dovrebbe caratterizzarlo, cioè la spada, certamente molto pertinente in quanto – come per numerosi altri
casi simili – evocativa sia della professione militare di Alessandro che dello strumento del suo martirio. Tuttavia, osserviamo che la spada è poco presente e, comunque, non ha un ruolo importante, come ci si aspetterebbe in un caso del genere. Difficile trovare una spiegazione: sant’Alessandro è, per lo piú, provvisto di armatura e di ramo di palma, ma la spada è facoltativa, mentre altri santi con una storia simile ne hanno una sempre in primo piano. Misteri dell’arte e della fede.
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CALEIDO SCOPIO
Lo scaffale Maria Giuseppina Muzzarelli Andare per le vie italiane della seta il Mulino, Bologna,
168 pp., ill.
12,00 euro ISBN 978-88-15-29577-4 www.mulino.it
Concepito come una «guida turistica» agli itinerari della seta, il volumetto illustra i principali percorsi lungo i quali si dipanò
nel corso dei secoli la tecnologia di un tessuto tra i piú diffusi in Italia. Percorsi che interessarono sia le città (partendo dal Meridione, dove la seta arrivò da Bisanzio – giunta a sua volta dalla Cina – a Lucca Bologna, Genova, Venezia, Firenze, Milano, Napoli), sia le campagne, dove, a partire dal Cinquecento, la gelsibachicoltura fu di supporto alla produzione cittadina. Una storia fatta di emigrazioni, scambi,
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imitazioni, furti di idee, ma anche di appoggio reciproco. Dobbiamo ai Bizantini l’avvio della coltivazione del gelso in Calabria (verso l’anno 1000), e agli Arabi la tessitura serica in Sicilia (dal XII secolo), alla quale diedero notevole impulso i Normanni. I mosaici di S. Vitale a Ravenna, raffiguranti i dignitari della corte di Giustiniano vestiti di preziosi e colorati tessuti serici (VI secolo), il mantello di Ruggero II (prima metà del XII secolo), in sciamito cremisi ricamato con fili d’oro, smalti e perle, realizzato a Palermo da maestranze straniere, costituiscono solo alcune tra le pricipali testimonianze che nel corso dei secoli hanno costellato la produzione serica della Penisola. L’arte della seta approdò poi a Lucca (XI-XII secolo), portata forse da famiglie ebraiche provenienti dal Sud, e da tessitori e filatori di Amalfi e Gaeta, e da lí si irradiò negli altri centri italiani. Broccati, velluti e veli ornarono corti e residenze dell’intera Europa, facendo della produzione serica italiana un’eccellenza e consentendo l’accumulo di immense
fortune. Il volume ripercorre la storia dell’attività e dei suoi principali manufatti anche nei centri minori, spingendosi a volte fino al XX secolo, e costituisce senz’altro una base indispensabile sia per gli specialisti, sia per chi si accosta per la prima volta all’argomento. Maria Paola Zanoboni Rodo Santoro Il Castello di Tripoli Storia e architettura Tabula Fati, Chieti, 124 pp., ill. col.
13,00 euro ISBN 978-88-7475-840-1 www.edizionitabulafati.it
Il volume nasce dalle attività di ricerca e di studio condotte sul Castello di Tripoli dall’autore, nell’ambito di una serie di missioni condotte alla metà degli anni Novanta del secolo scorso. Quegli interventi permisero a Santoro di acquisire una mole notevole di dati che, dopo una prima, parziale, pubblicazione, vengono ora proposti in forma piú ampia. L’autore ripercorre dunque la lunga storia della struttura e del contesto in cui vide la luce, anche se proprio la nascita della fortificazione costituisce, a oggi,
uno degli elementi piú incerti della vicenda. La prima notizia in cui il Castello viene esplicitamente citato risale infatti al XIV secolo ed è probabile che la fortezza esistesse già da tempo. Tuttavia, a oggi, appare difficile stabilire di quanto la sua costruzione avesse preceduto quella attestazione. Molto piú chiaro è invece lo svolgersi delle vicende moderne e contemporanee, delle quali Rodo Santoro offre un riepilogo esauriente e puntuale. Stefano Mammini Adriana Valerio Eretiche Donne che riflettono, osano, resistono il Mulino, Bologna,
154 pp., ill. col.
14,00 euro ISBN 978-88-15-19573-6 www.mulino.it
Come scrive Adriana Valerio nelle pagine introduttive, questo libro nasce con l’intento di colmare
un vuoto storiografico, poiché le «esperienze ereticali femminili (…) sono spesso state occultate o poco rappresentate». Nelle pagine del volume, in realtà, c’è molto altro, perché la trattazione prende le mosse dalla definizione stessa di eresia, possibile solo nel momento in cui si stabilisca cosa sia l’ortodossia. E dunque, dopo l’ampia disamina della questione, si passa alla rassegna dei
casi di studio veri e propri, che si apre con l’analisi dell’«eresia» proposta dallo stesso Gesú di Nazareth. Sfilano quindi le vicende di donne che hanno segnato momenti importanti nella storia della Chiesa e della dottrina religiosa, in un excursus che spazia dai primi secoli del cristianesimo all’età contemporanea. S. M. ottobre
MEDIOEVO