Medioevo n. 317, Giugno 2023

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MEDIOEVO n. 317 GIUGNO 2023

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SOMMARIO

Giugno 2023 ANTEPRIMA CARTOLINE Due registi per un capolavoro di Giuseppe M. Della Fina

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APPUNTAMENTI Medioevo oggi L’Agenda del Mese

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STORIE BATTAGLIE Arbedo Vittoria di picche di Federico Canaccini

LUCA SIGNORELLI IN UMBRIA/4 Un martirio «neomedievale» di Giulio Angelucci

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COSTUME E SOCIETÀ IL TRECENTONOVELLE DI FRANCO SACCHETTI/5 Artigiani alla sbarra di Corrado Occhipinti Confalonieri

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QUANDO I SANTI PRENDEVANO LE ARMI Giuda Taddeo e l’alabarda misteriosa di Paolo Pinti 106 LIBRI Lo Scaffale

Dossier

COPERNICO L’inizio di un nuovo mondo di Jerzy Miziołek

CALEIDOSCOPIO STORIE Brescia Quel tesoro da difendere di Cristina Ferrari

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STORIE, UOMINI E SAPORI «Come far cantare un pollo arrosto» di Sergio G. Grasso 98

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19/05/23 12:10

MEDIOEVO Anno XXVII, n. 317 - giugno 2023 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Angelo Poliziano, 76 - 00184 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Alessia Pozzato Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Hanno collaborato a questo numero: Giulio Angelucci è storico dell’arte. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesco Colotta è giornalista. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Cristina Ferrari è archeologa. Sergio G. Grasso è giornalista specializzato in tradizioni enogastronomiche. Jerzy Miziołek è storico dell’arte. Corrado Occhipinti Confalonieri è storico e scrittore. Paolo Pinti è studioso di oplologia. Illustrazioni e immagini: Mondadori Portfolio: copertina (e p. 89, alto); Veneranda Biblioteca Ambrosiana: p. 26; Fototeca Gilardi: pp. 30, 69, 71, 100, 102 (basso); Album/ Quintlox: pp. 32/33 (basso); Archivio Grzegorz Galazka/ Grzegorz Galazka: pp. 48/49; Fine Art Images/Heritage Images: pp. 65, 109; AKG Images: pp. 66, 79 (destra), 86/87, 98/99; Album/Collection J. Vigne/KharbineTapabor: p. 68 (alto); Erich Lessing/K&K Archive: p. 76; Archivio GBB: p. 78; Darchivio/Opale.photo: pp. 79 (sinistra), 91; Electa/Paolo e Federico Manusardi: pp. 82/83; Album/Fine Art Images: pp. 84/85; Heritage Images: p. 88; Image-Index/Heritage Images: p. 89 (basso); Electa/ Sergio Anelli: p. 92/93, 110 (sinistra); The Print Collector/ Heritage Images: pp. 100/101 – Cortesia degli autori: pp. 6-8, 39-47, 49, 73, 77, 81, 85, 89, 92, 94 (basso), 96-97, 106-107, 108, 110 (destra) – Cortesia Festival delle città del Medioevo: p. 12 – Doc. red.: pp. 27, 28/29, 31, 32/33 (alto), 64/65, 66/67, 68 (basso), 70, 101, 102 (alto), 103, 104 – National Gallery of Art, Washington: pp. 28 (alto), 32 – Shutterstock: pp. 34/35, 62 (alto), 63, 72, 94 (sinistra), 95 – Cortesia Compagnia dei Custodi delle Sante Croci, Brescia: p. 54: Matteo Colli: pp. 50-53, 55, 56 (alto), 57, 58-61, 62 (basso); Fotostudio Rapuzzi: p. 56 (basso) – Alamy Stock Photo: p. 75 – Cortesia Museo Astronomico e Copernicano dell’INAF-Osservatorio Astronomico di Roma: pp. 90/91 – Patrizia Ferrandes: cartina a p. 29 Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 49572016 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 - Via Dalmazia, 13 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Servizio Arretrati a cura di Press-Di Distribuzione Stampa e Multimedia Srl 20090 Segrate (MI) I clienti privati possono richiedere copie degli arretrati tramite e-mail agli indirizzi: collez@mondadori.it e arretrati@mondadori.it Per le edicole e i distributori è inoltre disponibile il sito https://arretrati. pressdi.it In copertina Copernico osserva a Roma l’eclissi lunare, illustrazione realizzata per l’opera di Louis Figuier Vies des Savants illustres de la Renaissance avec l’appréciation sommaire de leurs travaux. 1868.

Prossimamente luglio 1260

Durbe, una pagina nera nella storia dei Teutonici

collezionismo

dossier

I cassoni nuziali del conte Lanckoronski

La mela, simbolo senza tempo



il medioevo in

rima

agina

Due registi per un capolavoro

CARTOLINE • Nel Duomo di Orvieto si conserva una delle migliori espressioni

del talento artistico di Luca Signorelli: sono gli affreschi realizzati per la Cappella Nova (poi di S. Brizio), un ciclo alla cui ideazione contribuí in maniera decisiva l’arcidiacono Antonio Albèri 6

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ella giornata del 5 aprile 1499 Luca Signorelli firmò il suo primo contratto con l’Opera del Duomo di Orvieto per intervenire all’interno della Cappella Nova (poi di S. Brizio) e portare a termine il lavoro che era stato iniziato nel giugno del 1447 da fra’ Giovanni da Fiesole, meglio noto come Beato Angelico. Questi aveva abbandonato il cantiere dopo breve tempo, limitandosi a realizzare soltanto due delle vele: quelle con Cristo Giudice e i Profeti. Dopo di lui erano stati contattati altri artisti, tra cui Pietro di Cristoforo Vannucci, detto il Perugino, con il quale si era arrivati a stipulare un accordo (30 dicembre 1489), ma senza che i lavori ripartissero. Sulle due pagine gli affreschi della Cappella Nova (poi di S. Brizio) nel Duomo di Orvieto, alla cui realizzazione fu chiamato Luca Signorelli, per completare l’opera lasciata incompiuta dal Beato Angelico. 1499-1502. Da sinistra, in senso orario: l’Inferno, il Paradiso e una delle pareti con le storie dell’Anticristo.

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Nel volgere di pochi anni il lavoro era stato portato a termine, dal momento che l’ultimo pagamento attestato risale al 1504. Nella Cappella vediamo dunque il Cristo Giudice del Beato Angelico, in alto, seduto su un trono di nuvole: alla sua sinistra c’è la campata con la raffigurazione dell’Inferno (o della Cattura dei dannati) e, alla sua destra, la campata con il Paradiso (o l’Incoronazione degli Eletti). Le due campate, che s’incontrano appena entrati, sono occupate invece dalle storie dell’Anticristo, a sinistra, e, a destra, dalla Resurrezione dei corpi («quei nudi di terra che escono dalla terra», come ha osservato Cesare Brandi in Terre d’Italia); la controfacciata della parete, su cui è situato l’ingresso, accoglie la raffigurazione del Finimondo. In questi tre spazi, nel loro insieme, sono rappresentate le fasi che precederanno il Giudizio Universale. Nella parte inferiore delle pareti il ciclo è completato da una serie di ritratti di uomini illustri: poeti del mondo classico, come per esempio Virgilio, e di quello medievale, testimoniato da Dante Alighieri.

Signorelli e la Commedia

Particolare delle storie dell’Anticristo con l’autoritratto di Luca Signorelli (a sinistra) e il ritratto di un monaco tradizionalmente identificato con il Beato Angelico.

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A Luca Signorelli venne affidato inizialmente il completamento delle vele. Poi, con un secondo contratto, datato 27 aprile 1500, gli venne commissionato l’incarico di dipingere l’intera cappella per un compenso che, oltre alla somma di 575 ducati, gli assicurava la disponibilità di una stanza a due letti – con ogni probabilità per il figlio Antonio –, la fornitura di due quartenghi di grano al mese, dodici some di mosto all’anno, i ponteggi, la rena, la calcina e i colori piú costosi, quali l’oro e l’azzurro.

Nel tempo, il ciclo degli affreschi è stato letto secondo linee interpretative diverse, dopo essere andati alla ricerca delle numerose fonti d’ispirazione possibili: da testi della letteratura teologica, scritti in epoche diverse e piú o meno noti, alla Divina Commedia di Dante Alighieri o, ancora, alla Legenda Aurea di Jacopo da Varagine. Centrali sono i Vangeli e, in particolare, quello di Matteo (24, 1-40; 25, 31-46): dopo il tempo dei falsi profeti («Sorgeranno molti falsi profeti e inganneranno molti»), della fine del mondo e della resurrezione dei corpi, Cristo giudicherà: «Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra». Un peso notevole ha, come accennato, la Divina Commedia di Dante Alighieri. Osservando, per esempio, la parete con la Resurrezione dei corpi, gennaio

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I Templari nell’ora dell’Apocalisse Un particolare del Paradiso, scena nota anche come Incoronazione degli Eletti. si possono richiamare alcuni versi del canto XIV del Paradiso (43-45): «Come la carne gloriosa e santa fia rivestita, la nostra persona piú grata fia per esser tutta quanta». Versi noti sicuramente a Luca Signorelli e all’arcidiacono Antonio Albèri che – studi recenti – tendono a riconoscere come il personaggio che seguí da vicino il lavoro del maestro e interagí con lui nella scelta dei temi da raffigurare nel rispetto dell’idea generale di realizzarvi un Giudizio Universale suggerita, cinquant’anni prima, dal Beato Angelico. Uomo di cultura profonda, Albèri era legato agli ambienti ecclesiastici piú aperti verso le idee nuove che andavano affermandosi nella Chiesa. Nacque verosimilmente negli anni Venti del Quattrocento e, dopo essere divenuto doctore in utraque jure, fu precettore e poi segretario del nipote del pontefice Pio II, il cardinale Francesco Todeschini Piccolomini, che divenne a sua volta papa come Pio III, seppure per un periodo brevissimo di tempo, nemmeno un mese. Settimane che gli furono tuttavia sufficienti per assegnare al suo segretario il titolo di vescovo, nell’ottobre del 1503. Poco piú di due anni dopo, nel novembre del 1505, Albèri morí avendo avuto la possibilità di vedere completata sia la Cappella che la Libreria, che – a sue spese – aveva fatto costruire annessa alla Cattedrale orvietana e nella quale scelse di collocare i libri e i manoscritti che aveva raccolto nell’arco della vita. Un’esistenza trascorsa accanto a Francesco Todeschini Piccolomini, al «Cardinale de Siena», e agli umanisti che gravitavano nella sua cerchia. Grazie a Luca Signorelli e Antonio Alberi, l’Umanesimo irruppe nel Duomo di Orvieto e nella sua Cappella Nova. Giuseppe M. Della Fina

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lessandria si appresta ad accogliere la III edizione del Festival internazionale dei Templari, in programma dal 29 giugno al 2 luglio. Il tema scelto quest’anno dalla rassegna – «L’Apocalisse dei Templari» – invita storici e artisti a interrogarsi: che cosa ci rivela l’ultimo fra i libri della Bibbia, il misterioso libro dell’Apocalisse? I Templari e i primi crociati aspettavano la fine del mondo e la discesa della Gerusalemme celeste? Come si manifesta la fine del mondo per cristiani, ebrei e musulmani? Epidemie, carestie, guerre e siccità sono segni dei tempi? Domande e provocazioni alle quali risponderanno storici e artisti, nelle serate-spettacolo allestite in piazza del Duomo (29-30 giugno, 1° luglio), volte a raccontare come i frati cavalieri piú affascinanti del Medioevo incrociarono il misterioso libro dell’Apocalisse. Sono inoltre previste conferenze degli studiosi invitati a partecipare, mentre il pomeriggio di domenica 2 luglio la chiesa di S. Giovanni Evangelista nel quartiere Cristo di Alessandria ospiterà l’evento conclusivo, che, scritto da Gian Piero Alloisio, compone gli interventi dei relatori con canzoni d’autore, cabaret, canti medievali, letture, musica sacra, brani teatrali e performances. Tra i relatori, coordinati da Simonetta Cerrini, ascolteremo Franco Cardini; lo storico belga Baudouin Van Den Abeele, esperto di falconeria, bestiari e enciclopedie medievali; Antonio Musarra, studioso di storia marittima del Mediterraneo, di storia delle crociate e di storia francescana; Stefano Tessaglia, studioso dei rapporti fra religione e società; oltre al vescovo di Alessandria Guido Gallese e, in video, agli interventi di Alessandro Barbero, Gian Luca Potestà, Benjamin Kedar, André Vauchez. Per ulteriori informazioni e il programma dettagliato: e-mail: festivaldeitemplari@gmail.com; www.teatroitalianodeldisagio.it; pagine Facebook e Instagram: @festivaldeitemplari (red.)

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ANTE PRIMA

Una rivoluzione di... carattere

Immagini della prima edizione di «Matelica 1473», manifestazione in occasione della quale, oltre a rievocare i primi sistemi di stampa, vengono allestiti spazi dedicati ai mestieri tipici del tempo.

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INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

na giornata di studi dedicata al tema «Il contributo delle Marche alla tipografia delle origini», in programma per sabato 1 luglio a partire dalle ore 15,30 presso la sala conferenze della Fondazione Il Vallato di Matelica (Macerata), aprirà la II edizione della manifestazione «Matelica 1473», dedicata ai 550 anni dell’arrivo della stampa a caratteri mobili nelle Marche. Relatori saranno la paleografa e archivista della Biblioteca Sublacense Luchina Branciani, il grafico e storico del libro Franco Mariani, il docente universitario e storico della tipografia James Clough, il libraio antiquario Pietro Masturzo. L’incontro aiuterà a far luce sulle condizioni storico-sociali che permisero la nascita della tipografia nel cuore delle Marche, celebre per la carta di Fabriano, sia a Jesi che a Matelica, dove nel 1460 giunse l’eclettico abate benedettino Bartolomeo Colonna, di origine genovese,

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ma nato sull’isola greca di Chio. Il Colonna diede impulso culturale al piccolo centro di Matelica, fino ad allora noto solo per la produzione dei pannilana e per la prestigiosa schola grammaticae, dove aveva studiato anche il cardinale Alessandro Oliva, stretto collaboratore di papa Pio II e promotore dell’incarico all’abate. Per il pubblico di tutte le età poi, nelle giornate di sabato 8 e domenica 9 luglio, il centro storico di Matelica si animerà con una ricostruzione storica di botteghe e attività che consentiranno di immergersi all’epoca della prima stampa a diretto contatto con stampatori, cartai, amanuensi, pittori, tessitori, tintori, vasai e ceramisti, fabbri, cuoiai, militari e gabellieri, tutti con costume d’epoca. Per tutti sarà possibile visitare la città rinascimentale e scoprire pietanze d’epoca. Per informazioni: tel. 0737 85671 e 366 2538656.

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ANTE PRIMA

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a città ideale non esiste. O meglio, esiste nei testi di filosofia e nelle opere d’arte. Esistono invece le città reali che hanno plasmato la storia e il nostro immaginario. Ognuna con la sua identità, i suoi monumenti e abitanti. Raccontare le città, al plurale, e di come contribuiscono a definire la nostra identità, è l’ambizione del Festival delle città del Medioevo, in programma a L’Aquila da mercoledí 21 giugno a domenica 25 giugno. Un evento di divulgazione storica ideato dall’Università degli Studi dell’Aquila con il sostegno del Comune aquilano nell’unica grande città italiana nata in età medievale, precisamente nel 1254. Il tema di questa prima edizione sarà «Rinascite» e tutti gli appuntamenti, a ingresso libero, si terranno presso l’Auditorium del Parco, progettato da Renzo Piano. Fuori dall’Auditorium invece ci sarà il villaggio della rievocazione medievale (vedi box alla pagina accanto). Nel corso del Festival, grazie agli interventi di studiosi e docenti universitari, si parlerà della storia delle città, con focus in particolare sul Medioevo. L’Aquila, città medievale di confine, ospiterà per cinque giorni lezioni storiche di alto livello. Si parte nel pomeriggio di mercoledí 21 giugno. Dopo i saluti istituzionali del ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, del sindaco dell’Aquila Pierluigi Biondi e del rettore dell’Università degli Studi dell’Aquila Edoardo Alesse, il grande appuntamento culturale sarà inaugurato da una lectio magistralis dello storico Franco Cardini dal titolo La città medievale. La giornata si concluderà con la lezione spettacolo Strade del mondo, un dialogo fra parole e musica degli storici Amedeo Feniello e Alessandro Vanoli accompagnati dall’Orchestra Sinfonica Abruzzese. Gli incontri di giovedí 22 giugno, saranno dedicati alla storia dell’Aquila. Le lezioni del mattino, introdotte e coordinate dal giornalista Angelo de Nicola, si apriranno con il professor Amedeo Forgione che parlerà dell’evoluzione nel tempo del contado aquilano: dalle curtes carolinge ai castelli dell’epoca normanno-sveva. Pierluigi Terenzi con L’Aquila nel Medioevo: fatta, disfatta, rifatta, racconterà il destino di una città che nei secoli, nonostante mille avversità, è sempre stata capace di

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risorgere dalle sue ceneri. Cristiana Pasqualetti chiuderà la prima sessione di incontri con una lezione su uno dei luoghi simbolo della città: la Fontana della Rivera. Nel pomeriggio, il giornalista Giustino Parisse modererà le lezioni di storia di Francesco Zimei, Luca Pezzutto e Michele Maccherini. La storica Silvia Mantini chiuderà gli appuntamenti della giornata raccontando il peculiare ruolo geografico, politico e culturale de L’Aquila, cerniera tra Medioevo e modernità. La serata del 22 giugno sarà dedicata al regista Pupi Avati, che dialogherà con Mirko Lino, docente di Storia del cinema all’Università dell’Aquila, ripercorrendo la sua filmografia, segnata da molti lavori dedicati al Medioevo, dal recentissimo Dante (2022), fino a Magnificat (girato in Abruzzo, 1993) e I cavalieri che fecero l’impresa (2001).

Sfumature di vita quotidiana Nella giornata di venerdí 23 giugno, introdotta e coordinata dal giornalista Mario Prignano, si esploreranno le diverse sfumature della città nel Medioevo: l’accesso al sapere, gli scambi commerciali, le norme sociali e il rapporto tra cittadini e potere. Intervengono Franco Cardini (L’invenzione dell’Università), Alessandro Vanoli (Il mare e i commerci), Franco Franceschi (Le città della lana) e Maria Giuseppina Muzzarelli (Dall’igiene ai prestiti: le regole della città medievale). Valeria Valeri, docente e presidente dell’associazione di promozione sociale «L’Aquila volta la carta», accompagnata dalle letture dell’attore Giuseppe Tomei, introdurrà il primo di tre speciali appuntamenti che il Festival dedica alla promozione della lettura. Libri e autori impegnati nella appassionante sfida della divulgazione storica: Franco Cardini e Marina Montesano, Medioevo globale. Avventurieri, viandanti e narratori a Samarcanda (venerdí 23 giugno); Duccio Balestracci, Stato d’assedio. Assediati e assedianti dal Medioevo all’Età Moderna (sabato 24 giugno) e Paolo Golinelli, Celestino V. Il papa contadino (domenica 25 giugno). La serata si concluderà con il monologo «La città delle donne», della scrittrice Melania Mazzucco. Sabato 24 giugno l’archeologo Marco Valenti (Tra l’Urbs e la Citade) indagherà sul ruolo e l’evoluzione delle città tardo antiche, mentre la storica Francesca Roversi Monaco parlerà di medievalismi in Città immaginate, città sognate: da Camelot a Gotham City, una lezione sul sogno Il Gruppo Storico Sbandieratori Città di L’Aquila, fra i protagonisti della prima edizione del Festival delle città del Medioevo, in programma dal 21 al 25 giugno. giugno

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Il villaggio della rievocazione medievale Esibizioni e didattica Parco del Castello, dalle 10,00 alle 19,00 Fiera del libro mercoledí 21-domenica 25 Tutti i libri sul Medioevo, con la partecipazione delle case editrici Laterza, Il Mulino, Carocci, Odoya, Viella, EFG e Penne e Papiri. Il mestiere delle armi venerdí 23-domenica 25 La fedele ricostruzione di un accampamento di armigeri: esibizioni e didattica a cura degli Uomini d’arme della città dell’Aquila e della Compagnia Rosso d’Aquila. Arcieri in città: Palio dei Quattro Quarti venerdí 23-domenica 25 Didattica sull’arco a cura della Compagnia Arcieri Storici Medievale «Virtus Sagittae» di L’Aquila. sabato 24 giugno, ore 16.00 AD 1254-CERTAMEN 99 Una competizione tra gli arcieri dei quattro quartieri storici dell’Aquila organizzata dalla Compagnia Arcieri Storici Medievali «Virtus Sagittae» di L’Aquila. La disfida del Forte sabato 24 giugno Esibizione e didattica sull’arco storico della Compagnia arcieri Arcus Tuder di Todi e della Compagnia Arcieri Storici Medievali «Virtus Sagittae» di L’Aquila.

L’accampamento templare venerdí 23-domenica 25 Storia e vita quotidiana dei monaci guerrieri del XIII secolo attraverso la ricostruzione di una mansio e un ospedale da campo a cura dei rievocatori emiliani della Mansio Templi Parmensis. Scuola di scherma venerdí 23-domenica 25 Rievocazione e attività di divulgazione sull’abbigliamento civile e l’equipaggiamento militare nel Basso Medioevo a cura di Federico Marangoni e dei rievocatori della Società dei Vai di Bologna. Il mercato delle spezie giovedí 22-domenica 25 Il racconto dell’arte della spezieria attraverso metodi e strumenti della medicina monastica del XII secolo. Elisabetta Marchi, rievocatrice ferrarese, ricostruisce e valorizza le pratiche di Ildegarda di Bingen, la mistica autrice di trattati di medicina e opere sull’uso terapeutico di sostanze naturali. Laboratori didattici per illustrare le tecniche erboristiche e la creazione dei medicamenti. La miniatura medievale giovedí 22-domenica 25 Il miniaturista romano Alfredo Spadoni ricostruisce e illustra le tecniche e segreti degli scriptoria medievali.

di un Medioevo ancora vivo e presente, dal cinema alla letteratura fino ai fumetti e all’intrattenimento televisivo. La città come luogo di scontro politico tra fazione è al centro dell’intervento dello storico Federico Canaccini (Guelfi e Ghibellini), mentre l’archeologo Andrea Augenti parlerà della città come scrigno della memoria storica (I monumenti e la memoria). In serata il saggista e giornalista Adriano Monti Buzzetti e lo studioso Salvatore Santangelo, con Tolkien a 50 anni dalla morte, si confronteranno con l’eredità culturale del grande scrittore, filologo e linguista britannico. Il viaggio attraverso le città del Medioevo terminerà domenica 25 giugno tra storia, musica, arte e politica. La mattinata verrà aperta e chiusa da due concerti: al mattino Stella Splendes del Concentus Serafino Aquilano (Auditorium del Parco) e la sera Legenda Sanctorum, con

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Il mestiere dell’amanuense giovedí 22-domenica 25 Lo scrittore Fernando Lembo di Pino introduce il pubblico ai segreti del calamo e della scrittura medievale. La calligrafia giovedí 22-domenica 25 Un’arte paziente e terapeutica: didattica e laboratori di Ernesto Casciato, esperto di inchiostri e sperimentatore di strumenti di scrittura. L’arte della bandiera sabato 24 Gruppo storico sbandieratori città di L’Aquila. ore 17,00 Corteo delle bandiere dal Parco del Castello a Piazza del Duomo. ore 19,00 Esibizione nel piazzale antistante l’Auditorium del Parco. domenica 25 Bandierai dei Quattro Quarti. Corsi di bandiera e tamburo, lezioni per imparare i primi passi delle danze medievali e mostra degli scudi dei Quattro Quarti aquilina. ore 19,00 Corteo per le vie della città con esibizione finale nel Parco del Castello. Il volo del falco sabato 24-domenica 25 I segreti dell’Ars Venandi spiegati dai Falconieri dell’Aquila di Antonello Dundee. L’abito storico sabato 24-domenica Mostra didattica dell’abito storico a cura dell’Associazione Quarto di San Pietro.

l’esibizione congiunta dell’Aquila Altera Ensemble e del gruppo musicale Le Cantrici di Euterpe (chiesa di S. Basilio). Nel mezzo una lezione di Amedeo Feniello, docente di Storia medievale all’Università dell’Aquila, dedicata a Napoli (Napoli e il Regno). Nel pomeriggio si terranno gli interventi di due grandi storici europei: Jean-Claude Maire Vigueur (L’acqua, vitale risorsa della città medievale) e Josè Enrique Ruiz Domènec (Le città del Mediterraneo). Chiude il festival il dialogo tra la scrittrice Annarosa Mattei e lo storico dell’arte Claudio Strinati (Rinascere con l’Arte). Non solo lezioni. Nel Parco del Castello, attorno all’Auditorium, sarà presente il villaggio della rievocazione medievale, che ospiterà la Fiera del libro e stand con maestranze, artisti e rievocatori impegnati in esibizioni e attività didattiche.

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ANTE PRIMA

Scoprire e dialogare S

ono state annunciate le 5 scoperte archeologiche del 2022 candidate alla vittoria della 9ª edizione dell’International Archaeological Discovery Award «Khaled al-Asaad», premio che, promosso dalla Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico e da «Archeo», sarà consegnato a Paestum venerdí 3 novembre. Il Premio viene assegnato in collaborazione con le testate internazionali media partner della Borsa: Antike Welt (Germania), arCHaeo (Svizzera), Archäologie in Deutschland (Germania), Archéologia (Francia), Current Archaeology (Regno Unito), Dossiers d’Archéologie (Francia). Il Direttore della BMTA, Ugo Picarelli, e il Direttore di «Archeo», Andreas M. Steiner, hanno condiviso questo cammino in comune, consapevoli che «le civiltà e le culture del passato e le loro relazioni con l’ambiente circostante assumono oggi sempre piú un’importanza legata alla riscoperta delle identità, in una società globale che disperde sempre piú i suoi valori». Il Premio, dunque, si caratterizza per divulgare uno scambio di esperienze, rappresentato dalle scoperte internazionali, anche come buona prassi di dialogo interculturale e cooperazione tra i popoli. L’International Archaeological Discovery Award «Khaled al-Asaad» – intitolato all’archeologo di Palmira che ha pagato con la vita la difesa del patrimonio culturale – è l’unico riconoscimento a livello mondiale dedicato al mondo dell’archeologia e, in particolare, ai suoi protagonisti, gli archeologi, i quali affrontano il loro compito nella doppia veste di studiosi del passato e di professionisti a servizio del territorio.

INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

La consegna a Zahi Hawass dell’8° International Archaeological Discovery Award «Khaled al-Asaad», nel 2022.

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Nel 2015 il Premio è stato assegnato a Katerina Peristeri per la scoperta della Tomba di Amphipolis (Grecia); nel 2016 all’INRAP Institut National de Recherches Archéologiques Préventives (Francia), nella persona del Presidente Dominique Garcia, per la Tomba celtica di Lavau; nel 2017 a Peter Pfälzner, direttore della missione archeologica, per la città dell’età del Bronzo presso il villaggio di Bassetki nel Nord dell’Iraq; nel 2018 a Benjamin Clément, responsabile degli scavi, per la «piccola Pompei francese» di Vienne; nel 2019 a Jonathan Adams, responsabile del Black Sea Maritime Archaeology Project (MAP), per la scoperta nel Mar Nero del piú antico relitto intatto del mondo; nel 2020 a Daniele Morandi Bonacossi, direttore della Missione Archeologica Italiana nel Kurdistan Iracheno, per la scoperta dei rilievi rupestri assiri di Faida; nel 2021 alla scoperta di «centinaia di sarcofagi nella necropoli di Saqqara in Egitto»; nel 2022 a Zahi Hawass, Direttore della Missione Archeologica che ha scoperto «la città d’oro perduta», fondata da Amenhotep III, riaffiorata dal deserto nei pressi di Luxor. Il Premio sarà selezionato tra le 5 finaliste segnalate dai direttori di ciascuna testata e sarà consegnato alla presenza di Fayrouz, Omar e Waleed Asaad, archeologi e figli di Khaled. Inoltre, sarà attribuito uno «Special Award» alla scoperta, tra le cinque candidate, che avrà ricevuto il maggiore consenso dal grande pubblico nel periodo 5 giugno-5 ottobre sulla pagina Facebook della Borsa (www.facebook.com/ borsamediterraneaturismoarcheologico). Le cinque scoperte archeologiche del 2022 finaliste della 9ª edizione dell’International Archaeological Discovery Award «Khaled al-Asaad» sono: • Egitto: nell’antica necropoli di Saqqara a Giza, a circa 30 km a sud del Cairo, la piramide della regina Neith con 300 bare e 100 mummie • Guatemala: le tracce del piú antico calendario Maya • Iraq: dal fiume Tigri nel bacino idrico di Mosul riappare una città dell’età del Bronzo • Italia: in Toscana nella provincia di Siena, a San Casciano dei Bagni dal fango riaffiorano 24 statue di bronzo di epoca etrusca e romana nascoste per millenni • Turchia: a Midyat, nella provincia di Mardin, una grande città sotterranea risalente a 2000 anni fa. Per informazioni: www.bmta.it giugno

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AGENDA DEL MESE

Mostre PERUGIA «IL MEGLIO MAESTRO D’ITALIA». PERUGINO NEL SUO TEMPO Galleria Nazionale dell’Umbria fino all’11 giugno

In occasione del V centenario della morte, la Galleria Nazionale dell’Umbria celebra Pietro Vannucci (1450 circa1523), il piú importante pittore attivo negli ultimi due decenni del Quattrocento. Il progetto espositivo, composto da oltre settanta opere, ha scelto d’individuare solo dipinti del Vannucci antecedenti al 1504, anno nel quale egli lavorava a tre commissioni che segnano il punto piú alto della sua carriera: la Crocifissione della Cappella Chigi in S. Agostino a Siena, la Lotta fra Amore e Castità già a Mantova, ora al Louvre di Parigi, e soprattutto lo Sposalizio della Vergine per la cappella del Santo Anello del Duomo di Perugia, oggi nel Musée des Beaux-Arts di Caen (Francia). La mostra dà conto, nella maniera piú completa

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a cura di Stefano Mammini

possibile, dei passaggi fondamentali del suo percorso: dalle prime collaborazioni nella bottega di Andrea del Verrocchio alle capitali imprese fiorentine che fecero la sua fortuna (come per esempio le tre tavole già in S. Giusto alle Mura, oggi nelle Gallerie degli Uffizi, o la Pala di San Domenico a Fiesole); dagli straordinari ritratti alle monumentali pale d’altare, quali il Trittico Galitzin, ora alla National Gallery di Washington, e il Polittico della Certosa di Pavia, per gran parte alla National Gallery di Londra ed eccezionalmente ricomposto per l’occasione. info tel. 075 58668436; e-mail: gan-umb@beniculturali.it; www. gallerianazionaledellumbria.it; www.peruginocinquecento.it TORINO ALL’OMBRA DI LEONARDO. ARAZZI E CERIMONIE ALLA CORTE DEI PAPI Reggia di Venaria, Sale delle Arti fino al 18 giugno

La nuova stagione della Reggia

di Venaria si apre con una mostra che offre l’occasione di compiere un viaggio all’interno di alcune fra le piú importanti cerimonie papali: la Lavanda dei piedi e la Coena Domini che si svolgevano il Giovedí Santo nel cuore del Palazzo Vaticano, in ambienti solenni impreziositi da straordinarie opere d’arte, legate ai nomi di Leonardo e Raffaello. Cogliendo il senso di antiche cerimonie, ricche di simboli e di significati, arazzi, quadri, incisioni e oggetti raccontano una storia che affonda le sue radici lontano nel tempo, immergendo il visitatore in un mondo di tradizioni e antichi riti. Non solo atti esteriori, ma importanti testimonianze della Chiesa romana. La storia che si racconta ebbe inizio nel 1533 quando, in occasione del matrimonio di Caterina de’ Medici, nipote di papa Clemente VII, ed Enrico di Valois, secondogenito del re di Francia Francesco I, quest’ultimo donò al pontefice un prezioso arazzo raffigurante l’Ultima Cena di Leonardo. Un matrimonio e un regalo importante che suggellavano l’alleanza tra la Francia e il papato contro l’imperatore Carlo V (responsabile del sacco di Roma, avvenuto solo sei anni prima, nel 1527). L’opera fu realizzata dopo il 1516 su ordine dello stesso Francesco I e di sua madre Luisa di Savoia. Questo spiega

la presenza di simboli sabaudi lungo tutta la bordura dell’arazzo. Nel prezioso panno, interamente tessuto in oro e seta, l’Ultima Cena milanese è trasposta con assoluta fedeltà, ma con un’importante variazione. Lo sfondo – che nell’originale è quasi un’astrazione – diviene un’architettura rinascimentale: come se l’Ultima Cena si svolgesse alla corte di Francia. Francesco I era un grande estimatore di Leonardo, tanto da averlo chiamato alla sua corte, ed è ormai opinione di molti che il cartone dell’arazzo, su cui fu poi effettuata la successiva tessitura, sia stato realizzato in Francia sotto la supervisione dello stesso Leonardo. info www.lavenaria.it VENEZIA VITTORE CARPACCIO. DIPINTI E DISEGNI Palazzo Ducale, Appartamento del Doge fino al 18 giugno

Frutto di una proficua collaborazione fra musei ed enti italiani e stranieri, la retrospettiva riunisce soprattutto opere oggi in musei e collezioni internazionali, oppure in chiese degli antichi territori della Serenissima, dalla Lombardia all’Istria e alla Dalmazia: opere che illustrano compiutamente la varietà e l’altezza della pittura di Carpaccio, giugno

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seguendone anche l’evoluzione; fino al capitolo conclusivo della sua carriera, tra secondo e terzo decennio del Cinquecento, quando l’arte del maturo maestro, pur rimanendo colta e suggestiva, pare non tenere il passo delle novità tematiche e tecniche introdotte da Giorgione. Carpaccio era anche un disegnatore superlativo: dal notevole corpus dei suoi

disegni – il maggiore pervenuto a noi di un pittore veneziano del suo tempo – in mostra sono presenti numerosi studi su carta, spesso straordinari di per sé, che spaziano da rapidi schizzi compositivi d’insieme ad accurati studi preparatori di teste e pose. Carpaccio formò e alimentò la sua arte nella tradizione pittorica veneziana dei Bellini, dei Vivarini, nonché di altre influenti personalità e tendenze, come la lezione dei Toscani, dei Ferraresi, di Antonello da Messina, dei Tedeschi (Dürer) e dei «primitivi» fiamminghi. Ne derivò una personalità subito originale e autonoma, soprattutto attratta dai particolari di flora, fauna e paesaggio, di architettura, arredo e decorazione, di abbigliamento ed esotismo. info https://palazzoducale. visitmuve.it

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FERRARA RINASCIMENTO A FERRARA. ERCOLE DE’ ROBERTI E LORENZO COSTA Palazzo dei Diamanti fino al 19 giugno

La rassegna tiene a battesimo la riapertura dei nuovi spazi espositivi di Palazzo dei Diamanti, oggetto di un complesso intervento di restauro e riqualificazione, e costituisce la prima tappa di un progetto piú ampio e ambizioso intitolato Rinascimento a Ferrara 14711598 da Borso ad Alfonso II d’Este, che indagherà la vicenda storico-artistica del periodo compreso tra l’elevazione della città a ducato e il suo passaggio dalla dinastia estense al diretto controllo dello Stato Pontificio. Gli altri momenti del percorso saranno dedicati ai grandi protagonisti di quella stagione: Mazzolino e Ortolano, Dosso e

Garofalo, Girolamo da Carpi e Bastianino. Le oltre cento opere esposte, provenienti da musei e collezioni di tutto il mondo, offrono l’occasione di scoprire (o riscoprire) l’arte di due grandi interpreti del Rinascimento italiano, entrambi ferraresi: Ercole de’ Roberti e Lorenzo Costa. Dotato di un incredibile talento compositivo, straordinario per qualità ed espressività emotiva, Ercole de’ Roberti (1450 circa1496) era l’erede dell’Officina ferrarese, il piú giovane e intelligente tra quanti parteciparono al clima culturale di Palazzo Schifanoia, negli ultimi anni del governo di Borso che proprio allora riceveva il titolo di duca (1471). Operò a piú riprese a Bologna, dove lasciò una impronta profondissima, ma non vi è dubbio che a Ferrara trovò l’ambiente piú adatto in cui esprimersi durante l’ultimo

decennio della sua vita, trascorso alle dipendenze della corte. Fu Lorenzo Costa (1460-1535), di dieci anni piú giovane, a raccoglierne l’eredità e a continuarne lo stile nelle opere giovanili. Ma durante un lungo soggiorno a Bologna la sua pittura mutò in direzione di una maggiore morbidezza, di una classicità calma e distesa. Il mondo stava cambiando, Leonardo e Perugino stavano imponendo una nuova «maniera», che Costa comprese subito e della quale fu tra i maggiori interpreti, anche dopo il trasferimento a Mantova alla corte dei Gonzaga. info tel. 0532 244949; e-mail: diamanti@comune.fe.it; www.palazzodiamanti.it NAPOLI GLI SPAGNOLI A NAPOLI. IL RINASCIMENTO MERIDIONALE Museo e Real Bosco di Capodimonte, Sala Causa fino al 25 giugno

Il progetto espositivo è stato realizzato in partenariato con il Museo Nacional del Prado, dove una prima versione della mostra è stata inaugurata il 18 ottobre 2022. Grazie a questa importante collaborazione, tornerà a Napoli per la prima volta dopo 400 anni la Madonna del pesce eseguita da Raffaello. Il dipinto, destinato alla cappella della famiglia del Doce in S. Domenico Maggiore a Napoli, divenne un punto di riferimento fondamentale per gli artisti attivi a Napoli durante il Cinquecento. L’opera fu asportata dai governanti spagnoli e trasferita a Madrid intorno alla metà del Seicento. La mostra è dedicata a uno dei momenti piú fecondi e meno conosciuti della civiltà artistica napoletana: il trentennio che va dal 1503 al

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1532 circa. È il periodo che, sotto il profilo politico, vide l’estinguersi della dinastia aragonese, con il passaggio del Regno di Napoli sotto il dominio della Corona di Spagna; sotto il profilo culturale, il raggiungimento dell’apice della sua grande stagione umanistica, con il passaggio di consegne da Giovan Gioviano Pontano a Iacopo Sannazaro. Le novità artistiche elaborate in quegli anni da Leonardo, Michelangelo e Raffaello furono prontamente recepite e reinterpretate in modo originale in una Napoli ancora molto viva, per la quale la

perdita della funzione di capitale autonoma non costituí un ostacolo allo sviluppo culturale, ma, al contrario, contribuí alla definizione di un nuovo ruolo di cinghia di trasmissione della cultura rinascimentale tra le due sponde del Mediterraneo. info tel. 081 7499111 oppure 7499130; e-mail: mu-cap@ cultura.gov.it; https:// capodimonte.cultura.gov.it/ ACQUI TERME (ALESSANDRIA) GOTI A FRASCARO. ARCHEOLOGIA DI UN VILLAGGIO BARBARICO Museo Archeologico di Acqui Terme fino al 1° luglio

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L’esposizione presenta per la prima volta insieme i materiali restituiti dalle indagini archeologiche condotte negli ultimi vent’anni nel tratto di pianura compreso tra la Statale Alessandria-Acqui e il fiume Bormida. Sull’ampio terrazzo fluviale che ha conservato testimonianze di insediamenti pre- protostorici, alcune famiglie gote occuparono un impianto di conduzione agricola di epoca romana imperiale, al quale diedero nuovo impulso, fondando un villaggio di capanne in legno e seppellendo i propri defunti in un cimitero posto a breve distanza dall’abitato. I Goti di Frascaro vissero separati, ma non isolati, dalla popolazione romana per quasi un secolo (dalla fine del V al terzo venticinquennio del VI secolo), mantenendo tradizioni tipiche della cultura barbarica. info tel. 0144 57555; e-mail: info@acquimusei.it: www.acquimusei.it

finora riservata all’influenza che l’importante collezione di statue, sarcofagi, cammei, rilievi, libri e monete antiche raccolte nella Villa Farnesina da Agostino Chigi, hanno avuto sull’Urbinate. Chigi e Raffaello sono stati accomunati non solo da una triste coincidenza (il banchiere è morto cinque giorni dopo il Sanzio), ma da una profonda intesa fondata sull’amicizia e sul lavoro: dopo i papi Giulio II e Leone X, Agostino Chigi è stato il committente piú assiduo e munifico di Raffaello.

andava raccogliendo nella villa e nei giardini (non solo statue, ma rilievi, medaglie e spettacolari cammei), modelli autorevoli per le invenzioni che l’Urbinate e la sua scuola diffondevano attraverso dipinti, disegni, stampe, arazzi, vasellami. Le «magnifiche raccolte» dal ricco mecenate sono state disperse dopo la sua morte, andando a incrementare le altre grandi collezioni romane ed europee; e ulteriormente depauperate sia con il Sacco di Roma sia con i successivi spogli, fino

Quest’ultimo ha frequentato la villa di Chigi, l’attuale Villa Farnesina, non solo come artista incaricato della decorazione a fresco della Loggia della Galatea e della Loggia di Amore e Psiche, ma anche come «familiare» del padrone di casa, ammirando e studiando le collezioni antiquarie che il banchiere

alla vendita del Palazzo ai Farnese, avvenuta nel 1579. Grazie a importanti prestiti la mostra è l’occasione per riallestire, almeno in parte, la collezione di Agostino Chigi nel suo luogo originario e avere piena comprensione di quanto sia stata fonte d’ispirazione per lo stile classico di Raffaello e della sua scuola, di Peruzzi,

ROMA RAFFAELLO E L’ANTICO NELLA VILLA DI AGOSTINO CHIGI Villa Farnesina fino al 2 luglio

L’esposizione mette in luce un aspetto cruciale del Rinascimento, finora non sufficientemente evidenziato: se la svolta classica di Raffaello nel secondo decennio del Cinquecento è ben nota grazie a numerosi studi, poca attenzione è stata

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di Sebastiano del Piombo e del Sodoma, contribuendo allo sviluppo del pieno Rinascimento. In tal modo, per la prima volta e dopo cinquecento anni, la «casa» di Agostino Chigi torna a essere quello «scrigno» capace di racchiudere in un luogo unico lo spirito del Rinascimento: un concentrato particolarmente suggestivo che solo la percezione fisica, pur limitata al tempo della mostra, può assicurare. info tel. 06 68027268; e-mail: farnesina@lincei.it; www.lincei.it, www.villafarnesina.it VICENZA RAFFAELLO. NATO ARCHITETTO Palladio Museum fino al 9 luglio

Tutti conoscono il Raffaello pittore, ma non tutti sanno che è stato un grandissimo architetto, uno dei piú influenti di tutto il Rinascimento. E la mostra, dunque, percorre venticinque anni della vita dell’Urbinate, decisa a dimostrare una tesi radicale: che Raffaello non nasce pittore e poi diviene architetto, quando gli viene affidato il cantiere dell’enorme basilica di S. Pietro, dopo la morte di Bramante nel 1514. Non solo le sue prime opere edilizie, per il banchiere senese Agostino Chigi, risalgono a tre anni prima, ma Raffaello architetto lo è sin dall’inizio della propria attività di artista. Lo provano indizi concreti nei suoi disegni e dipinti a partire dal 1501, e nelle sue opere figurative vive da subito una nuova e innovativa idea di spazio, alimentata dallo studio e dall’imitazione dell’architettura della Roma antica, che porta l’osservatore all’interno degli edifici dipinti, con vedute che oggi definiremmo «cinematografiche» e

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«immersive». In mostra disegni originali, fra cui preziosissimi autografi di Raffaello, provenienti dal Royal Institute of British Architects di Londra e dagli Uffizi, taccuini e manoscritti dalla Biblioteca Centrale di Firenze, sculture antiche e libri rinascimentali, presentano non solo le architetture costruite da Raffaello ma anche quelle – non meno affascinanti – rimaste sulla carta o andate distrutte, come palazzo Branconio dell’Aquila. Due riproduzioni ad altissima fedeltà degli enormi, intrasportabili cartoni per gli arazzi della Cappella Sistina, come il «Sacrificio di Listra» e la «Predica di San Paolo ad Atene», porteranno in mostra l’intreccio inscindibile del Raffaello pittore e architetto, realizzati dalla celebre Factum Arte di Madrid, il leader internazionale di queste produzioni in bilico fra tecnologia e arte. info tel. 0444 323014; e-mail: accoglienza@palladiomuseum.org; www.palladiomuseum.org

mostra allestita nel Regno Unito, in occasione della quale sono riunite oltre quaranta opere d’arte provenienti da collezioni europee e statunitensi pubbliche e private, che coprono oltre sette secoli. Le opere spaziano da pannelli dipinti

medievali a reliquie e manoscritti e persino un fumetto Marvel. La rassegna vuole far luce su come san Francesco ha catturato l’immaginazione degli artisti, su come la sua immagine si è evoluta nel corso dei secoli e su come il suo messaggio universale abbia trasceso i secoli, i continenti e le diverse tradizioni religiose. La vita e i miracoli di Francesco si prestarono alla creazione di un ricco immaginario e furono una grande fonte d’ispirazione per gli artisti. Oltre a quelli del Nuovo Testamento, Francesco è probabilmente il santo piú rappresentato nella storia dell’arte e la popolarità del movimento francescano è cresciuta di pari passo con la rapida diffusione dell’immaginario, da parte di alcuni

LONDRA SAN FRANCESCO D’ASSISI National Gallery fino al 30 luglio

San Francesco viene per la prima volta celebrato da una

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AGENDA DEL MESE dei piú grandi artisti, che raccontano la sua figura e leggenda. Gli storici dell’arte ritengono che, solamente nel secolo successivo alla sua morte, potrebbero essere comparse circa ventimila immagini di Francesco, senza contare quelle in manoscritti miniati. info www.nationalgallery.org.uk NEW YORK RICCHI, POVERI: ARTE, CETO E COMMERCI IN UNA CITTÀ DEL TARDO MEDIOEVO The Metropolitan Museum of Art, The Cloisters fino al 20 agosto

All’epoca dei Tudor, i membri dell’emergente classe media inglese individuarono nella casa un bene attraverso il quale ostentare l’affermazione del proprio status sociale e un veicolo di autorappresentazione. È questa l’idea che ha ispirato il progetto espositivo realizzato nella sezione medievale del Metropolitan, The Cloisters, e che si è concretizzata nella documentazione dell’abitazione e della vita di un mercante vissuto a Exeter nel XVI secolo, Henry Hamlyn. Per farlo, attingendo alle collezioni del museo newyorkese stesso, sono state selezionate oltre 50 opere, fra tessuti, stampe, elementi d’arredo e oggetti d’arte decorativa. Hamlyn, che per due volte resse le sorti della municipalità cittadina, fu un ricco mercante di stoffe e si affermò come uno dei personaggi piú in vista della Exeter cinquecentesca. E la casa che si fece costruire costituí una vivace anomalia nel panorama urbano dell’epoca, caratterizzata com’era da una serie di sculture di grande formato che raffiguravano soggetti

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ricavati da stampe popolari e racconti boccacceschi: ecco cosí sfilare un giullare, una coppia che litiga, contadini e musicanti. Ma perché uno degli uomini piú ricchi e potenti della città avrebbe scelto di dare visibilità alle classi meno abbienti? Due sono le ipotesi suggerite dalla mostra: il desiderio di celebrare la vita quotidiana di Exeter o forse, e piú probabilmente, la volontà di sottolineare il proprio ruolo nella comunità. info www.metmuseum.org

Napoli. Rispetto al primo allestimento, la versione torinese ripropone il corpus espositivo principale, integrato però da una sezione dedicata al rapporto con l’area piemontese. Oltre 350 opere – sculture, mosaici, affreschi, vasellame, sigilli e monete, smalti, oggetti d’argento, gemme e oreficerie, elementi architettonici – danno conto delle strutture, dei sistemi organizzativi, dei commerci e dei rituali di una complessa realtà politica, testimoniando nel contempo le eccellenze delle manifatture bizantine, gli incroci di cultura, gli stilemi e i simboli dell’impero d’Oriente attraverso i secoli. Prestiti provenienti da raccolte italiane e da oltre venti musei greci giungono a Torino a narrare il millenario sforzo di un impero teso al dialogo tra la cultura classica e quella orientale. Per una Bisanzio, legata al territorio piemontese, che vedrà nel Principato d’Acaia, fin dalle origini proiettato verso l’Oriente greco e bizantino,

l’origine della dinastia dei Savoia-Acaia – formatasi dal matrimonio nel 1301 tra Filippo di Savoia e Isabella di Villehardouin, principessa d’Acaia – ma anche una strettissima connessione con la dinastia dei Paleologi, ascesa nel 1261 con Michele Paleologo al trono imperiale, conservato sino al tramonto definitivo di Bisanzio nel 1453 tramite questo suo ramo occidentale, che si dimostra capace di ravvivare gli splendori della corte aleramica, rimanendo al potere fino all’ultimo discendente, Gian Giorgio, morto nel 1533. info tel. 011 4433501; e-mail: palazzomadama@ fondazionetorinomusei.it; www.palazzomadamatorino.it TORINO

BUDDHA10. FRAMMENTI, DERIVE E RIFRAZIONI DELL’IMMAGINARIO VISIVO BUDDHISTA MAO-Museo d’Arte Orientale fino al 3 settembre

Quali significati hanno gli

TORINO BIZANTINI. LUOGHI, SIMBOLI E COMUNITÀ DI UN IMPERO MILLENARIO Palazzo Madama-Museo Civico d’Arte Antica, Sala del Senato fino al 28 agosto

Giunge a Torino la rassegna sul «millennio bizantino» già presentata al Museo Archeologico Nazionale di giugno

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oggetti rituali presenti nelle collezioni del MAO e come venivano utilizzati e percepiti nel loro contesto originario? Perché e come sono entrati a far parte del patrimonio del museo – cosí come di altri musei di arte asiatica in ambito europeo? E ancora: quali sono i problemi posti dalla conservazione e dal restauro, subordinati al gusto e alle tecniche che cambiano nel tempo? Qual è il rapporto fra buddhismo e nuove tecnologie? Da queste domande prende avvio la nuova mostra «Buddha10», un progetto che parte dalle opere presenti nelle collezioni per aprire prospettive piú ampie relative a questioni che riguardano il museo, le sue collezioni e su cosa significa gestire, custodire e valorizzare un patrimonio di arte asiatica in ambito occidentale. Nelle sale dedicate alle esposizioni temporanee, in uno spazio essenziale ed evocativo, oltre venti grandi statue

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buddhiste in legno o pietra di epoche diverse (dal V al XIX secolo) delle collezioni del MAO sono accostate ad alcune sculture – tra cui oltre trenta bronzetti votivi della collezione Auriti e due straordinarie teste scultoree in pietra di epoca Tang (618-907 d.C.) – provenienti dal Museo delle Civiltà di Roma, con cui il museo ha avviato una proficua e articolata collaborazione, e a un importante prestito proveniente dal Museo d’Arte Orientale E. Chiossone di Genova. info tel. 011 4436927; www.maotorino.it FIRENZE GHIBERTI, VERROCCHIO E GIAMBOLOGNA. OSPITI «ILLUSTRI» DA ORSANMICHELE Museo Nazionale del Bargello fino al 4 settembre

Sono eccezionalmente riuniti nel Museo del Bargello il San Giovanni Battista di Lorenzo Ghiberti, l’Incredulità di san Tommaso di Andrea del Verrocchio e il San Luca del Giambologna, tre fra i massimi capolavori della statuaria bronzea rinascimentale, provenienti dal Museo di Orsanmichele. L’esposizione offre l’occasione per ammirare l’allestimento di tre opere del celebre ciclo scultoreo di Orsanmichele, trasferite presso l’antica sede del Palazzo del Podestà durante la temporanea chiusura del Complesso monumentale

(12 dicembre 2022-22 settembre 2023) per lavori straordinari di restauro, messa in sicurezza, riallestimento e miglioria degli accessi. Noto come l’antica loggia per il mercato e per il deposito del grano, il Complesso di Orsanmichele è uno dei piú importanti monumenti pubblici fiorentini ed è parte dei Musei del Bargello. Al primo piano del palazzo trecentesco dalla metà degli anni Novanta sono conservate le statue originali, marmoree e bronzee, raffiguranti i santi patroni delle Arti fiorentine, progressivamente rimosse dai tabernacoli esterni e sostituite da copie. Le opere selezionate per l’esposizione temporanea al Bargello provengono tutte dalle edicole situate sulla facciata orientale di via de’ Calzaiuoli: il San Giovanni Battista di Ghiberti (14131416), la prima statua monumentale del Rinascimento, viene dal tabernacolo dell’Arte di Calimala, mentre il San Luca del Giambologna (1602) fu commissionato dall’Arte dei Giudici e dei Notai. L’opera dello scultore fiammingo si contraddistingue per la grande potenza espressiva e, a differenza degli altri due bronzi, non aveva mai avuto altre occasioni fino a oggi per lasciare il palazzo di Orsanmichele, se non per la necessaria messa in sicurezza durante la seconda guerra mondiale e per il restauro del 2001. Infine, il gruppo verrocchiesco dell’Incredulità (1467-1483), scenograficamente allestito in mostra entro una nicchia sopraelevata a una altezza

prossima a quella del tabernacolo originale, rappresenta l’Università della Mercanzia. info tel. 055 0649440; e-mail: mn-bar@cultura.gov.it; www. bargellomusei.beniculturali.it SIENA DALLA SPADA ALLA CROCE. IL RELIQUIARIO DI SAN GALGANO RESTAURATO Cripta del Duomo fino al 5 novembre

Un furto clamoroso, nel lontano 1989, dal Museo del Seminario Arcivescovile di Siena. Uno straordinario recupero, oltre trent’anni piú tardi, grazie al Comando dei Carabinieri, Tutela Patrimonio Culturale. E infine il restauro, eseguito nei Laboratori dei Musei Vaticani. È questa l’occasione per inaugurare la mostra «Dalla Spada alla Croce». Al centro della vicenda, una croce liturgica, due pissidi, cinque calici e soprattutto un capolavoro della produzione orafa senese del XIV secolo, il Reliquiario di San Galgano, oggetto mirabile e di intensa devozione popolare. Su di esso, decorate finemente in preziosi smalti traslucidi, sono

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AGENDA DEL MESE nell’aspero sito di Urbino edificò un palazzo, secondo la opinione di molti, il piú bello che in tutta Italia si ritrovi; e d’ogni opportuna cosa sí ben lo forní, che non un palazzo ma una città in forma di palazzo esser pareva». Cosí scrisse Baldassarre Castiglione ne Il libro del cortegiano pubblicato nel 1528; in effetti, la ricchezza del Palazzo Ducale di Urbino non è data solo dalla sua qualità architettonica e decorativa, ma anche nell’essere un frammento di città, una sorta d’infrastruttura che si unisce a Urbino e genera una complessità unica tra gli spazi privati del Duca e della corte, i luoghi pubblici della città e il paesaggio verso il quale si apre. Nonostante il ruolo centrale e un’essenza da

raffigurate le scene della vita del santo e della sua spada. Secondo la tradizione, Galgano sarebbe nato nel borgo senese di Chiusdino. Cavaliere appartenente alla piccola nobiltà locale, si convertí alla vita ascetica ed eremitica dopo le visioni dell’Arcangelo Michele, come rappresentato nelle sei scene del Reliquiario. Condusse la sua vita monastica nell’Eremo di Montesiepi, da lui edificato su una collina vicina al luogo dove sarebbe sorta l’Abbazia.

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Morí, secondo le fonti, il 30 novembre 1181. Appena quattro anni dopo, a seguito dei doverosi accertamenti canonici, papa Lucio III lo proclamò santo nel 1185. info tel. 0577 286300; e-mail: opasiena@operalaboratori.com URBINO IL PALAZZO DUCALE DI URBINO. I FRAMMENTI E IL TUTTO Palazzo Ducale, Galleria Nazionale delle Marche fino all’11 novembre

«Tra le altre cose sue lodevoli,

manufatto spaziale raffinato e complesso che può coinvolgere i visitatori con la ricchezza dei suoi dettagli e del suo impianto. info tel. 0722 2760; www.gallerianazionalemarche.it

Appuntamenti NEPI (VT) PALIO DEI BORGIA fino al 18 giugno

La XXVII edizione della manifestazione, basata sulla rievocazione storica rinascimentale, propone un calendario ricco di appuntamenti: per due settimane si susseguono cortei, conferenze, spettacoli che animano il borgo con una sorta di tuffo nel passato, in un suggestivo viaggio a ritroso nel tempo che fa tornare i visitatori fino al Rinascimento: protagoniste assolute sono la controversa figura di Lucrezia Borgia e la perenne rivalità fra le quattro Contrade di San Biagio, de La Rocca, di Santa Maria e di Santa Croce. Organizzata dall’Ente palio, la manifestazione si svolge in varie sedi: dal Forte dei Borgia al centro storico, dal palazzo Comunale al Duomo. info www.paliodeiborgianepi.it; Facebook @paliodeiborgia

capolavoro indiscusso del Rinascimento italiano, il Palazzo Ducale di Urbino non ha l’attenzione e la comprensione pubblica che merita. Da qui l’idea di una grande mostra nell’edificio che ospita la Galleria Nazionale delle Marche, con l’obiettivo di far scoprire al grande pubblico il Palazzo Ducale, la sua importanza e complessità storica e architettonica, non solo come spazio di grande qualità che ospita preziose opere d’arte, ma anche come giugno

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ANTE PRIMA

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SACRO ROMANO IMPERO LA STORIA · I LUOGHI · I PROTAGONISTI

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ella notte di Natale dell’anno 800, la basilica vaticana di S. Pietro fu teatro di un evento epocale: papa Leone III consacrò imperatore Carlo Magno e quell’atto, al di là degli aspetti formali, assunse una valenza simbolica straordinaria, destinata a segnare le sorti dell’intero Occidente medievale. Prendeva infatti avvio un grandioso progetto politico e culturale, il Sacro Romano Impero, che, come la denominazione stessa lascia intuire, ambiva, nelle intenzioni del re franco, a restaurare i fasti dei Cesari nei secoli cristiani. Questa eccezionale vicenda è l’argomento scelto per il nuovo Dossier di «Medioevo», che ne ripercorre l’intero svolgersi, passando in rassegna tutti i protagonisti e gli eventi piú importanti di una storia che andò ben oltre i confini temporali dell’età di Mezzo, chiudendosi alle soglie dell’epoca contemporanea. Oltre, quindi, che per Carlo Magno, c’è spazio per una schiera di figure che, al di là dei luoghi comuni, hanno davvero fatto la storia. A reggere le sorti del Sacro Romano Impero si sono infatti avvicendati personaggi del calibro di Federico Barbarossa, Federico II di Svevia, Massimiliano I d’Asburgo e Carlo V, il re che arrivò a vantarsi di controllare un territorio talmente esteso da poterlo attraversare senza mai veder tramontare il sole... Quello del Sacro Romano Impero fu insomma un millennio cruciale, del quale il Dossier non manca di descrivere i molteplici risvolti politici, culturali ed economici.

art. 1, c.1, LO/MI.

LA STORIA I LUOGHI I PROTAGONISTI

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MEDDoIOssieEr VO

SACRO ROMANO IMPERO

In alto il «Talismano di Carlo Magno», in oro, rubini e smeraldi. IX sec. Reims, Palais du Tau. A destra, sulle due pagine Città del Vaticano, Sala Regia. Affresco di Marco da Siena raffigurante l’imperatore Ottone I che restituisce alla Chiesa, nella persona di Giovanni XII, le province occupate da Berengario II e da suo figlio Adalberto. GLI ARGOMENTI

SACRO ROMANO

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no 2023 Rivista Bimestrale N°56 Maggio/Giug

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IMPERO

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• Carlo Magno e i Carolingi • L’età degli Ottoni • Il Regno d’Italia • Gli Hohenstaufen al potere • Massimiliano I d’Asburgo • Carlo V



battaglie arbedo

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Ritratto di Francesco Bussone, detto il Carmagnola, olio su tela di scuola lombarda. Prima metà del XVII sec. Milano, Pinacoteca Ambrosiana. Nella pagina accanto lo stemma realizzato per celebrare la battaglia di Arbedo nella cappella di S. Pietro a Lucerna in una riproduzione contenuta nella Luzerner Chronik di Diebold Schilling il Giovane. 1513. La composizione evoca l’alleanza fra i cantoni di Lucerna (a sinistra) e Uri, rappresentati dai rispettivi stemmi.

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30 GIUGNO 1422

Vittoria di picche

di Federico Canaccini

Nei primi decenni del Quattrocento, le mire espansionistiche della Confederazione elvetica subirono una brusca battuta d’arresto ad Arbedo, nei pressi di Bellinzona. Uno scontro nel quale i picchieri ebbero un ruolo decisivo, firmando il successo delle truppe che il duca di Milano aveva affidato al conte di Carmagnola e ad Angelo della Pergola

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el 1403 truppe provenienti da alcuni cantoni svizzeri riuscirono a occupare la Valle Leventina – che era l’accesso piú meridionale, lungo il Ticino, allo strategico Passo del San Gottardo – a discapito del dominio visconteo. Pochi anni piú tardi, nel 1419, riuscirono ad acquistare la città e le fortezze di Bellinzona dai signori de Sacco, andando cosí a creare una linea fortificata posta a difesa delle loro piú recenti acquisizioni, Valle Leventina, Blenio e Riviera. Deciso a ricostituire il proprio ducato, Filippo Maria Visconti, duca di Milano, propose agli Urani e agli Obvaldesi di rivendergli questi territori, ma ricevette un secco rifiuto: decise allora di rivolgersi a uno dei condottieri piú in vista del tempo, Francesco Bussone, detto il Carmagnola (vedi box alle pp. 3031), coinvolgendo anche Angelo della Pergola (vedi box a p. 33), un altro capitano di ventura distintosi in quegli anni nelle lotte tra vari signori e vari regni che stavano insanguinando la penisola italiana. Il Mezzogiorno era infatti conteso tra gli Angioini e gli Aragonesi, i quali si appoggiarono a mercenari italici, comandati da condottieri come Facino Cane o Jacopo dal Verme, ma anche Tedeschi, Ungheresi, Brabanzoni e persino Svizzeri, campioni contro gli Asburgo e contro la Borgogna, grazie ai loro temibili

quadrati di picche e alabarde. Forti dei successi ottenuti nei decenni precedenti, gli Svizzeri speravano ora di farsi valere anche nella richiesta di pedaggi e nel controllo dei valichi tra l’Italia e il resto d’Europa. A questa altezza temporale, la Confederazione era divenuta ormai una vera potenza, comprendendo otto Orte (territori), quali Schwyz, Uri e Unterwalden – i primi tre membri della lega del 1291 –, e poi Lucerna, Zurigo, Berna, Glarona e Zug.

Mossa a sorpresa

Per ricostruire lo svolgersi degli eventi di cui si dà conto in queste pagine, possiamo ricavare molte notizie dai Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (1513-1517 circa) di Niccolò Machiavelli e dal De viris illustribus (1455-1457) di Bartolomeo Facio. Tutto sembrava annunciare uno scontro campale in piena regola, quando nel 1422, con una mossa a sorpresa, Angelo della Pergola – «considerato il capitano che sapeva meglio disciplinare le milizie e la sua cavalleria come la migliore in tutto il paese» – occupò Bellinzona, che controllava l’accesso alla Valle Leventina e al Passo del San Gottardo, sottraendola cosí ai cantoni di Uri e Obwalden, inducendoli a prepararsi all’assedio. I due cantoni tentarono allora di convincere gli altri confederati a inviare truppe per aiutarli a ripren-

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battaglie arbedo il 9 luglio 1386, fra il ducato d’austria e la Confederazione svizzera e che si risolse con la vittoria degli Elvetici e la débâcle di Leopoldo III d’Asburgo che rimase sul campo). Gli Elvetici, «benché sapessero che le forze del conte di Carmagnola e di Angelo della Pergola in Bellinzona fossero ingenti, benché ne fossero stati espressamente ammoniti, non presero alcuna misura di precauzione» per compiere la scorreria a Mesocco, perché «avevano un concetto esagerato del proprio valore e un grande sprezzo del nemico». Un reparto di circa 800 uomini del cantone di Uri si staccò dal resto dell’esercito per saccheggiare la Valle Mesolcina, mentre il grosso si preparava ad assediare Bellinzona. Il Carmagnola era famoso nell’ambito militare per il suo ingegno «negli stratagemmi di guerra»: lasciò dunque credere al nemico «non essergli possibile, colla sua cavalleria, sostenere un combattidere Bellinzona, ma, anche a causa della riluttanza della maggior parte degli interpellati a intraprendere una politica aggressiva nei confini militari del Sud della Confederazione, alla metà di giugno si unirono a Uri e Obwalden solo i contingenti di Lucerna e Zug e, il 24 giugno, insieme, superarono il San Gottardo, puntando su Bellinzona per prenderla d’assedio.

Alle porte di Bellinzona

Gli aggressori avevano riunito un esercito composto prevalentemente da uomini appiedati, come era loro uso: l’armata poteva contare su circa 3-4000 alabardieri, ai quali si erano aggiunte alcune centinaia di picchieri e di balestrieri. «Le milizie si accamparono davanti a Bellinzona» e il «comando supremo era, sembra, nella mani del capitano dei Lucernesi, lo scoltetto – una sorta di podestà – Johann Walker, che nella sua gioventú aveva combattuto a Sempach» (lo scontro, combattuto,

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Il profilo di Filippo Maria Visconti, duca di Milano, sul dritto di una medaglia in bronzo del Pisanello. 1441 circa. Washington, National Gallery of Art. A destra piante delle principali città e di alcuni cantoni della Confederazione elvetica, dal Civitates Orbis Terrarum, la raccolta di mappe di Georg Braun e Franz Hogenberg pubblicata tra il 1572 e il 1617.

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LO SVILUPPO TERRITORIALE DELLA CONFEDERAZIONE (XIII-XV sec.)

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Estensione durante il XV secolo Confini odierni della Confederazione

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Estensione fra il 1292 e il 1417

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I tre cantoni originari nel 1291

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Le origini della Confederazione

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Cartina che mostra il progressivo espandersi della Confederazione elvetica.

Compresa tra le province romane della Gallia Narbonese, della Belgica, della Rezia e delle Alpi Graie e Pennine, l’area elvetica fu occupata prevalentemente da Burgundi e Alamanni, dopo che il generale Stilicone, agli inizi del V secolo, aveva disposto il progressivo arretramento dall’antico limes renano. Alla metà del VI secolo l’area era caduta già in mano ai Franchi, mentre gruppi di monaci iniziavano a «colonizzarla», dando vita a importanti centri religiosi e culturali, il piú noto dei quali è l’abbazia di San Gallo. L’area elvetica era nettamente divisa in due sezioni, poiché quella occidentale era molto piú latinizzata dell’orientale, nella quale l’influsso germanico era molto piú forte e piú antico: ciò fu confermato al momento della tripartizione sancita dal Trattato di Verdun (843), allorché a Ludovico il Germanico andò in eredità la Rezia occupata dagli Alamanni, mentre Lotario ottenne la Borgogna e la parte occidentale. Anche se Corrado II riuscí, per motivi ereditari, a riunificare i territori elvetici (1032), nel corso dell’XI e del XII secolo, l’affermazione di potenti famiglie feudali e di poteri locali diedero ben presto vita a quello che può essere definito il primo nucleo della futura Confederazione. Nel 1291 le comunità di Schwyz, Uri e Unterwalden si unirono in una lega per tutelarsi dagli Asburgo: dopo la vittoria di Morgarten (1315), i cantoni videro riconosciute le autonomie acquisite e ben presto aderirono alla confederazione molte altre città, che, questa volta insieme, sconfissero gli Asburgo prima a Sempach (1386) e poi a Näfels (1388). Ai primi del Quattrocento aderí alla Confederazione anche la regione dell’Argovia, mentre l’annessione della Turgovia, alla metà del secolo, diede vita a una feroce lotta con la Borgogna. Nel 1476, però, presso Morat, lo stesso duca di Borgogna, Carlo il Temerario, trovò la morte in battaglia, contro un esercito di fanti ormai molto professionalizzato e divenuto, presso le corti europee, sempre piú richiesto.

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battaglie arbedo L’estremo giorno del Conte di Carmagnola, incisione a bulino su rame di Giuseppe Beretta da un dipinto di Francesco Hayez. 1821. Milano, Biblioteca Nazionale Braidense. Nella pagina accanto disegno raffigurante la battaglia di Arbedo, dalla Tschachtlanchronik. XV sec. Zurigo, Biblioteca Centrale.

Il conte di Carmagnola

Da capitano di ventura a eroe manzoniano Tutti lo conoscono come «il conte di Carmagnola» o, piú semplicemente, come «il Carmagnola». In realtà, Francesco Bussone non fu mai «conte» di Carmagnola, mentre lo fu di Castelnuovo Scrivia. Ma cosí lo ha eternato Alessandro Manzoni, con un errore forse voluto. Bussone nacque, intorno al 1380, in un piccolo paese, Carmagnola, non lontano da Torino, appartenente al marchesato di Saluzzo, e al quale avrebbe legato indissolubilmente il suo nome. Da giovane si trovò a lavorare come soldato presso la compagnia di Facino Cane, di cui assunse il comando nel 1412. Alla morte del suo vecchio comandante, nonché datore di lavoro, rimase al servizio della moglie vedova,

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Beatrice di Tenda, che si risposò con Filippo Maria Visconti. Il Carmagnola la seguí e iniziò per lui una formidabile ascesa militare, dando un gran contributo all’ascesa politica dei Visconti, che trovarono in Francesco Bussone uno dei principali esecutori del programma di ricostituzione dello Stato e della potenza viscontea. Con una serie impressionante di campagne militari, il condottiero riuscí, infatti, a recuperare Alessandria, Como, Lecco, Piacenza, Cremona, Bergamo, Brescia, superando gli Appennini, e arrivando a occupare persino Genova, di cui fu nominato governatore. Nel 1423, però, cadde in disgrazia alla corte dei Visconti e si mise al servizio dell’eterna rivale di Milano del tempo:

la Repubblica di Venezia. Al soldo dei dogi, il Carmagnola riconquistò alla Serenissima Brescia, Bergamo e parte del territorio cremonese, giungendo a sconfiggere i Visconti nella battaglia di Maclodio nel 1427. Il suo pencolare tra questi due colossi politici del tempo gli attirò antipatie e sospetti: fu infatti accusato di tradimento, per aver stretto nuovamente contatti con il suo antico signore, Filippo Maria Visconti. Dopo aver subito un processo, Bussone fu condannato e giustiziato dai Veneziani in piazza San Marco nel 1432, fatto che suscitò scalpore nell’opinione pubblica. La sua figura, cosí spregiudicata e affascinante, ha attirato, nel tempo, l’attenzione di storici, romanzieri e poeti, tra cui il giugno

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mento nella montagne» e quindi «si tenne queto in Bellinzona, cosí queto che s’avrebbe potuto supporre si fosse ritirato col suo esercito». Informato della defezione degli uomini di Uri, il condottiero ordinò al suo esercito di dividersi in quattro tronconi: il primo ai suoi ordini, il secondo comandato «da Angelo della Pergola, il terzo da Zenone di Capo d’Istria e il quarto da Piacentino da Brescia». In maniera del tutto inaspettata, all’alba del 30 giugno, gli Elvetici furono dunque attaccati dalle forze congiunte di Angelo della Pergola e del Carmagnola, capitano generale del duca di Milano, uno di «quei condottieri che facevano assegnamento specialmente sopra piccole colonne di cavalieri egregiamente esercitati e armati a dovere, i quali se nell’armatura completa erano invulnerabili non potevano per altro reggere a lungo nella mischia». L’esercito mercenario del Visconti era ben piú cospicuo di quello degli Svizzeri

rimasti ad Arbedo, e consisteva in circa 6000 lance di cavalieri pesanti e almeno 3000 fanti.

Il quadrato vincente

Colto alla sprovvista, il contingente elvetico si schierò nella sua classica e ormai consueta – nonché vincente! – formazione a quadrato e, nelle prime fasi dello scontro, riuscí a rintuzzare con successo le ripetute cariche della cavalleria nemica che subí anche ingenti perdite: «Con circa mille cavagli e pochi fanti a incontrarli con i suoi cavagli, presumendo poteri subito rompere. Ma trovatigli immobili, avendo perduti molti de’ suoi uomini, si ritirò». Lo scontro sembrava ripetere ancora una volta ciò che era accaduto per

tutto il XIV secolo: infatti gli Svizzeri «si condussero molto bene in sulle prime atterrando a colpi di lancia i cavalli e cercando di atterrare i cavalieri», combattendo attorno «all’insegna confitta nel terreno» dall’alfiere del contingente di Lucerna, il piú numeroso, e portando «un indicibile scompiglio nelle file nemiche» con gli alabardieri che «si opposero alla carica della cavalleria ducale, combattendo compatti e utilizzando le alabarde con l’obbiettivo di mozzare le gambe ai destrieri e le lance per andare a squarciarne il ventre o arrivando addirittura ad afferrare le zampe dei cavalli per farli rovinare al suolo con chi li cavalca per poi finire i cavalieri feriti e moribondi con le armi bianche».

già citato Manzoni che gli dedicò appunto Il conte di Carmagnola, la sua prima tragedia. Il romanziere approfittò del momento di bellicismo del XV secolo, per condannare le discordie italiane che, proiettate nell’Ottocento, avrebbero ostacolato l’unificazione della patria. Non a caso, la vicenda editoriale del Conte di Carmagnola fu particolarmente burrascosa, giacché la polizia austriaca, dopo il Concilio di Vienna (1815), aveva intensificato la censura, ordinando addirittura la chiusura del periodico Il Conciliatore (1819), vera anima politica, letteraria e morale del momento. Ciononostante, un anno piú tardi, Il conte di Carmagnola veniva dato alle stampe dalla tipografia di Vincenzo Ferrario, personaggio vicino all’ambiente del Conciliatore.

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battaglie arbedo A questo punto, però, i due condottieri italici cambiarono strategia e ordinarono ai propri cavalieri di smontare da cavallo, impugnare le spade e le lance che, brandite a mo’ di spiedi, superavano in lunghezza le alabarde degli avversari. Allestita cosí una schiera, il Carmagnola ordinò una carica frontale mentre le fanterie milanesi, sostenute da un fitto tiro di verrettoni da parte dei reparti di balestrieri, attaccavano sui fianchi i quadrati svizzeri: fu quin-

di ordinato «ai cavalieri di scendere da cavallo e affrontare colle spade le alabarde» e «colla forza del numero» soverchiarli, «incalzandoli sempre con nuove schiere, a stancarli». Secondo Machiavelli, i soldati dei Visconti, ben protetti dalle loro armature a piastre, non ebbero «altra difficultà che accostarsi a’ Svizzeri tanto che gli aggiunga con la spada» e, superato l’ostacolo di picche e alabarde, inefficaci contro le armature, agli Elvetici convenne «metter mano alla spada, la quale è a lui inutile, ‘sendo egli disarmato

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In basso Filippo Maria Visconti a cavallo fra le montagne, rovescio di una medaglia in bronzo del Pisanello. 1441 circa. Washington, National Gallery of Art.

e avendo all’incontro uno nimico che sia tutto armato» inducendolo a scegliere inevitabilmente tra la morte e la resa. Dunque il Carmagnola, «essendo valentissimo uomo e sappiendo negli accidenti nuovi pigliare nuovi partiti, rifatosi di gente gli andò a trovare; e venuto loro all’incontro, fece smontare a piè tutte le sue genti d’armi, e, fatto testa di quelle alle sue fanterie, andò a investire i Svizzeri. I quali non ebbono alcuno rimedio: perché, ‘sendo le genti d’armi del Carmignuola a piè bene armate, poterono facilmente entrare intra gli ordini de’ Svizzeri, sanza patire alcuna lesione; ed entrati tra quegli poterono facilmente offenderli».

In alto, sulle due pagine la battaglia di Arbedo in una tavola tratta dalla contenuta nella Luzerner Chronik di Diebold Schilling il Giovane. 1513. A sinistra e nella pagina accanto, in basso alabarde seicentesche di produzione svizzera.

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angelo della pergola

Una vita sui campi di battaglia Angelo dal Foco, detto della Pergola dal nome della cittadina marchigiana in cui nacque, era probabilmente figlio di una famiglia contadina dell’area di Fano, dove la sua presenza è attestata sullo scadere del XIV secolo, quando è indicato già come uno dei comandanti assoldati da Pandolfo Malatesta nella lotta ingaggiata da papa Bonifacio IX contro i Colonnesi. Angelo aveva dunque intrapreso la carriera del condottiero, il «mestiere delle armi», e il suo nome inizia a comparire sempre piú frequentemente nelle cronache del tempo: da buon mercenario, fu al soldo di vari signori, per lo piú nell’Italia Centro-settentrionale. Nel 1405 lo si incontra mentre marcia verso Pisa, assediata dai Fiorentini che furono poi sconfitti dal signore di Fermo, Ludovico Migliorati. L’anno seguente combattè senza fortuna contro Fortebraccio da Montone presso Rocca Contrada. Nel 1409 era nell’esercito della Lega che si oppose a Ladislao di Durazzo, re di Napoli, sconfitto alle porte di Roma. Il re di Napoli sottoscrisse allora una pace con Firenze, ma ciò indusse Siena ad assoldare diversi contingenti mercenari, tra cui quello comandato da Angelo – formato da 150 lance e da numerosi fanti –, col fine di proteggere i confini della Repubblica senese dalle mire fiorentine. Angelo della Pergola fu nominato da Siena Capitano Generale e, con questo titolo, riuscí a recuperare molte terre perdute dalla città toscana. Nel 1416 fu nuovamente ingaggiato dai Malatesta e sconfitto ancora una volta da Fortebraccio nella battaglia di Sant’Egidio, dove, nonostante si battesse in maniera valorosa, fu catturato e imprigionato dal suo antagonista. Negli anni seguenti prestò i suoi servigi nel Bolognese, combattendo per il Comune di Bologna, poi per il legato papale contro i Montefeltro e poi contro la stessa Bologna, questa volta accanto al suo vecchio nemico, Fortebraccio. Si mise poi al servizio del duca di Milano e con i suoi mercenari, al fianco del Carmagnola, sconfisse gli Svizzeri ad Arbedo nel 1422 e, due anni piú tardi, i Fiorentini – guidati da Carlo Malatesta – nella battaglia di Zagonara, che decretò il successo dei Visconti. Questi ultimi, tuttavia, non poterono approfittare della vittoria a causa della perdita di Brescia per mano di Venezia (1426), determinata anche dal passaggio di campo del Carmagnola, che lasciò i Visconti per accettare il titolo di Capitano Generale della Repubblica di Venezia. Angelo della Pergola, invece, dovette rimanere fedele a Filippo Maria Visconti, al punto che, quando il condottiero morí, nel 1428, il signore di Milano ne annunciò la morte all’imperatore Sigismondo con particolare commozione, lasciando trapelare un rapporto di stima e di amicizia assai raro nel brutale mondo del mercenariato.

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battaglie arbedo

La strategia, a volte attribuita ad Angelo della Pergola, ebbe successo e i confederati, circondati e superati numericamente, iniziarono rapidamente ad arretrare, non senza difficoltà, cercando scampo nel vicino villaggio di Arbedo, tentando di riparare oltre il Ticino: il Carmagnola però ordinò ai suoi di insistere e di inseguire e uccidere i fuggiaschi. Alcune cronache riportano che uno dei comandanti elvetici voleva trattare una tregua «ma tosto da’ suoi fu senza pietà trucidato». Narrazioni posteriori

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vogliono che «lo stendardo di Uri fu strappato dalle mani di Henry de Brunberg che morí eroicamente», salvando il vessillo.

La lotta per la bandiera

Sotto i colpi caddero anche Jean Rot, landamano, e il magistrato e alfiere di Zugo, Peter Kolin, uno dei cui figli avrebbe recuperato la bandiera dalle mani insanguinate del padre, per finire ucciso anche lui. A dimostrazione di quanto ormai fosse divenuta importante, un suo amico, Jeckli Landtwing, avrebbe a

sua volta recuperato la bandiera per farla sventolare ancora una volta. Di ritorno dal saccheggio della Valle Mesolcina, la colonna di Uri arrivò sul luogo dalla battaglia e, superando «le schiere nemiche, dopo aver incendiato il villaggio» di Arbedo riuscí «nell’intento di riunirsi su di un’altura» agli altri commilitoni, ma, «veggendosi consumare sanza avere rimedio, gittate l’armi in terra, si arrenderono». La battaglia ormai era perduta e «non esendovi luogo a difesa», senza per di piú raggiungere l’eventuale via di fuga giugno

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Un tratto della cinta muraria di Bellinzona.

del Ticino, gli Elvetici, «mettendo a terra le punte delle spade e de’ dardi, com’era loro costume, diedero segno di volersi arrendere». Le narrazioni a questo punto divergono: Angelo della Pergola avrebbe consigliato il Carmagnola di «riceverli prigionieri e condurli tutti in trionfo a Milano», ma il condottiero «irritato, disse che ciò poteva parere fatto per paura (...) e mostrò la spada sguainata». Un diverbio che avrebbe agevolato la fuga degli Svizzeri «verso il fiume Tesino», lasciando sul campo mor-

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ti e feriti, «1200 cavalli da soma» e stendardi. Solo una delle bandiere di Lucerna tornò in città, «l’altra (...) andò vergognosamente perduta».

Una fuga disordinata

Una versione diversa, e forse piú realistica, vuole che la battaglia abbia infuriato ancora a lungo e, dopo ben otto ore di combattimenti, giunse al Carmagnola la notizia di un contingente in avvicinamento. Si trattava, in realtà, di seicento carriaggi che però, nella confusione del momento, furono forse scambiati per l’a-

vanguardia di un’ulteriore armata nemica: ciò indusse i condottieri ad allentare la presa e gli Svizzeri approfittarono del momento di smarrimento per spezzare la morsa, attraversare il Ticino e iniziare una fuga disordinata, ma necessaria, verso il San Gottardo. La battaglia si era conclusa in maniera inaspettata, quando gli Svizzeri sembravano oramai sopraffatti. La rotta dei confederati assicurò all’esercito del duca di Milano una piena vittoria, nonostante le gravi perdite: se infatti gli Svizzeri avevano lasciato sul campo «da 900 a 1000 uomini» e tutto il loro equipaggiamento, i Milanesi avevano perduto comunque un centinaio di uomini nel corso dei combattimenti. Quando la notizia della vittoria giunse a Milano, Visconti proclamò tre giorni di festa cittadina e Angelo della Pergola fu ricompensato con il feudo di Sartirana Lomellina e diecimila fiorini. I cantoni di Uri e di Obwalden persero il controllo sui territori a sud della gola del Piottino ma, alla luce della sconfitta patita ad Arbedo, rafforzarono i propri eserciti con un maggior numero di picchieri, dominando i campi di battaglia per quasi un altro secolo. Una vittoria sofferta, dunque, ripagata in parte dall’alto numero di comandanti avversari fatti prigionieri. Benché incompleta, la vittoria sugli Svizzeri garantí al duca di Milano il controllo su Bellinzona per oltre ottant’anni e inaugurò la prassi guerresca di usare la picca in maniera sistematica contro la temibile alabarda. Di fatto, il successo ottenuto ad Arbedo rivoluzionò il sistema di fare la guerra: persino gli Svizzeri – che per la prima volta dovettero ritirarsi senza poter neppure seppellire i propri caduti – appresero cosí bene la lezione che presero a sostituire progressivamente l’alabarda con la picca, continuando a ottenere successi fino al XVI secolo, quando dovettero cedere di fronte alle armi da fuoco.

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luca signorelli in umbria/4

Un martirio «neomedievale»

di Giulio Angelucci

È l’ultima terza grande pala d’altare dipinta da Luca Signorelli a Città di Castello dopo l’Adorazione dei Magi e l’Adorazione dei pastori. L’opera prende avvio dalla Legenda aurea di Jacopo da Varagine e fu realizzata nel 1498, nell’anno stesso in cui a Firenze veniva messo a morte Girolamo Savonarola. Chiare corrispondenze simmetriche reggono l’impaginato della composizione: in un’atmosfera rarefatta, la pittura ostenta un nitore classico, espresso dal ruolo narrativo affidato alle architetture in rovina. Con i moderni e gli antichi ugualmente avidi di sangue innocente

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i Sebastiano martire, il repertorio delle santità compilato nella seconda metà del Duecento da Jacopo da Varagine (l’attuale Varazze) e noto come Legenda aurea propone una narrazione che non corrisponde a quella successiva del santo invocato contro la peste. L’autore, vescovo e vicario generale dell’Ordine domenicano, aveva redatto l’opera a uso dei suoi confratelli predicatori, che dalla lettura della stessa (donde il titolo Legenda) avrebbero dovuto trarre gli spunti tra i quali scegliere quelli piú consoni al luogo, alla circostanza e all’uditorio della predicazione. All’alba della diffusione della stampa, tra Umanesimo e Rinascimento, l’opera di ogni artista chiamato a dipingere storie di martiri era infatti l’occasionale, ultimo anello di una catena di trasmissione orale che liberamente sfoltiva, integrava, deformava e conforma-

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va alle diverse circostanze anche le virtú dei santi. Ecco perché la valutazione del Martirio di san Sebastiano di Luca Signorelli, dipinto nel 1498 per la chiesa di S. Domenico e ora conservato nella Pinacoteca Comunale di Città di Castello, prende avvio dalla Legenda: l’immagine deformata offerta dal pittore costituisce infatti la lente piú fedele attraverso la quale osservare l’opera.

Martirizzato due volte

Jacopo da Varagine ha premesso alla narrazione apologetica intorno a san Sebastiano la seguente nota sintetica: «Sebastiano Narbonense fu cittadino di Milano, nell’abito esteriore soldato ma nell’interiore invincibile capitano, et difensore della fede. Fu molto gra[di]to a Diocletiano, & Massimiano. Egli predicava à Marco, & Marcellino il martirio; dal quale il Demonio, con lusinghe del padre loro, et madre, et moglie, et figliuoli

Nella pagina accanto Martirio di san Sebastiano, tempera su tavola di Luca Signorelli. 1498. Città di Castello, Pinacoteca Comunale.

voleva rimuovere; et non solo di loro fu vittorioso, ma etiamdio de’ loro parenti. Fece ancora molti miracoli, tra i quali convertí il Prefetto, che distrusse gl’idoli, & la scientia degli Astrologi. Furono martirizzati S. Tiburtio, & Marco, & Marcellino. Et S. Sebastiano fu martirizzato due volte». Nel racconto che segue, Sebastiano è presentato come il militare d’alto rango incaricato di vegliare sulla sicurezza della famiglia imperiale. Dissimulatore del proprio cristianesimo, egli rese nota la propria fede per contrastare i genitori di Marco e Marcellino, i quali invitavano i figli all’abiura per scongiurarne il martirio. Con la sua orazione sulla «scelerità» dell’esistenza in vita – «questa vita infin dal principio del mondo ha ingannato molti, che giugno

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luca signorelli in umbria/4 hanno sperato in lui» – avvalorata da alcuni risanamenti miracolosi, Sebastiano convertí molti personaggi della corte. Condannato, fu «legato in mezo del campo, & da i cavalieri saettato. Et essi lo riempirono sí di saette, che pareva un riccio» e, ritenuto morto, lasciato insepolto. Rimessosi in salute, si ripresentò a Diocleziano per rimproverarlo «de’ mali, ch’egli faceva a’ Christiani (...), onde disse l’Imperatore: Non è questi Sebastiano, il quale già molti giorni [fa] habbiamo comandato, che fosse ucciso con le saette? Al quale rispose Sebastiano: Per questa cagione s’ha degnato il Signore resuscitarmi, acciocché io vi convinca, & riprenda i mali, che voi fate ai servi di Cristo». Per questo egli fu nuovamente condannato e torturato a morte. Gettato in una fogna, il suo corpo fu recuperato da santa Lucia che lo seppellí «appresso i piedi degli Apostoli», com’egli aveva chiesto apparendole in sogno.

In questa notizia è da riconoscere il primo nucleo del culto del santo come protettore dalla peste, sviluppatosi al tempo delle grandi epidemie tre-quattrocentesche in virtú dell’analogia tra le ferite da freccia e i bubboni degli appestati. La prima osservazione relativa al Martirio di san Sebastiano di Luca Signorelli conservato a Città di Castello riguarda il fatto che il

Santo e guaritore

La Legenda aurea tratteggia dunque la figura di Sebastiano come campione della fermezza nella fede, il cui corrispondente simbolico è la causa intenzionale del suo secondo martirio. La capacità di risanare è invece adombrata nella sua «resurrezione» e nel duplice miracolo della restituzione della parola a due muti, la cui invalidità nulla aveva a che fare con la malattia. Nel testo della Legenda, il riferimento «epidemiologico» fa la sua comparsa solo in calce a una sorta di Addenda, in cui, dopo la liberazione dalla possessione diabolica (di una donna che alla vigilia della consacrazione d’una chiesa intitolata al santo non s’era astenuta dal rapporto matrimoniale) è riferita la notizia, ricavata dai «gesti de’ longobardi», stando alla quale «ne’ tempi di Re Giberto» Dio avrebbe rivelato che la peste non sarebbe cessata «in fino a che à Pavia non fusse fabbricato un altare à san Sebastiano».

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Particolare del Martirio di san Sebastiano di Luca Signorelli che evidenzia come il palo di legno, biforcandosi, crei una sorta di piedistallo per il santo martire.

santo vi è rappresentato con il corpo ancora praticamente incolume, segno che il pittore non s’è curato dello spunto offerto da Jacopo da Varagine «[lo] riempirono sí di saette, che pareva un riccio». Egli ha scelto di profilare la figura del martire nell’aria, isolata

al centro della metà superiore della tavola e con il viso volto verso l’alto, ove l’Eterno gli si fa incontro dalla sommità della cimasa benedicendolo con la mano destra e conferendogli la santità con la sinistra ben prima che muoia.

Archi e archibugi

Nella metà sottostante, i carnefici calcano un suolo arido – il «campo» (di Marte) di cui nella Legenda – disposti a semicerchio davanti al legno al quale il martire è legato. I cinque sono distinti in due gruppi ben differenziati: i due a sinistra sono in penombra, seminudi e armati di semplici archi; gli altri tre sono invece in piena luce, vestiti alla moderna e armati d’archibugio (vedi foto alla pagina seguente). Tra questi ultimi, i due disposti ai lati del palo compaiono in simmetria opposta sia per posizione (uno di fronte e l’altro di spalle) sia per postura (uno in atto di caricare l’arma e l’altro di scaricarla); la modernità del loro armamento è evidenziata dal dettaglio dei numerosi proiettili variamente disposti sul suolo. Al contrario degli altri due, evidentemente rozzi e primitivi, tanto questi che il loro terzo compagno risultano eleganti nelle figure, nei movimenti e nell’abbigliamento. Il rosso copricapo di feltro di quello in primissimo piano, contrapposto all’arcaico casco metallico del seminudo che gli sta a fianco, inserisce tra gli aguzzini la distanza storica che corre tra la barbarie primitiva dei primi e la moderna inciviltà dei secondi. Inoltre, l’eleganza ammirevole e tutt’affatto moderna dell’archibugiere rappresentato di spalle colma la distanza cronologica tra tempo presente e tempo storico del martirio: la cura che egli pone nel puntare l’arma prima di scoccare il dardo letale fa di chi osserva il dipinto un complice potenziale di quella ferita. La spigliatezza di tale artificio suggerisce d’indugiare giugno

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Un altro particolare del Martirio di san Sebastiano di Luca Signorelli. In primo piano, tre degli arcieri che scagliano i loro dardi contro il santo; in secondo piano, Diocleziano (riconoscibile perché coronato), attorniato da membri della corte e della famiglia imperiale.

sui particolari che caratterizzano il legno del martirio. A un primo sguardo, esso presenta le caratteristiche di un palo ben sbozzato, infisso al suolo sul quale agiscono i cinque aguzzini e culminante nella biforcazione dei rami dell’albero da cui sarebbe stato ricavato. A percorrere con lo sguardo l’intera lunghezza del palo, si scopre però un’altra improbabile biforcazione che, collocata a metà della sua altezza, funge da piedistallo del santo. Il legno a cui questi è legato si direbbe infisso, o radicato, su zolla di terreno che a mezz’aria galleggia verdeggiante come il fertile prato situato dietro (vedi foto alla pagina precedente). Lo sdoppiamento del legno si offre allo sguardo come duplice corrispondente visivo della storia di san Sebastiano: la presa di distanza dalla condizione terrestre e il «fu martirizzato due volte» di cui nella Legenda. Il legno superiore, ove il corpo del martire campeggia isolato, sottrae il santo alla condizione naturale («Questa vita infin dal principio del mondo ha ingannato molti, che hanno sperato in lui») e giunge al cospetto di Dio; il legno inferiore divide invece l’orizzonte mondano separando le scene rappresentate ai suoi lati. Sul lato sinistro, compaiono Diocleziano (con il capo coronato; vedi foto qui accanto), un consigliere che gli bisbiglia all’orecchio e una donna che allatta dietro di loro, a rappresentare la corte e la famiglia imperiale che era stata affidata alla protezione di Sebastiano; alle loro spalle, sulla cima del colle, spicca un arco di trionfo integro. Sull’altro versante della vallata si vede

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luca signorelli in umbria/4 Ancora un particolare del Martirio di san Sebastiano di Luca Signorelli, che mostra un borgo cittadino, con le case affacciate sulla strada percorsa dal gruppo che porta il martire al patibolo. Nella pagina accanto Martirio di san Sebastiano, olio su tavola di Piero del Pollaiolo. 1475 circa. Londra, National Gallery.

invece un elegante doppio portico moderno in rovina, posto in stretta relazione con la zolla aerea, che da questa parte pare grondare sangue. Sul lato destro, in contiguità immediata con la gamba del santo compare un ridente borgo cittadino contemporaneo sorto in prossimità di edifici monumentali moderni, ma anch’essi in rovina. Due schiere di case di tipologia borghese fiancheggiano una strada animata dal gruppo che porta il martire al patibolo; in fondo alla stessa compaiono due donne in atteggiamento contrito, collocate in posizione corrispondente al gruppo imperiale visibile sul lato opposto (vedi foto in questa pagina).

Un eroe a mezz’aria

Rispetto al testo di Jacopo da Varagine, il racconto di Signorelli ha oscurato la virtú taumaturgica di Sebastiano, l’efferatezza del supplizio inflittogli e la cornice palatina in cui il racconto duecentesco è iscritto; isolando a mezz’aria la figura eroica del santo, il pittore ha invece dato rilievo all’argomento che convertí i cortigiani di Diocleziano. Sia il doppio martirio – che trova il suo corrispondente simbolico nella duplicità del legno – sia il nucleo spirituale dell’allocuzione – che si riconosce adombrato nella sospensione aerea – sono contenuti agiografici tratti dalla Legenda, e con molta probabilità mediati da un predicatore. A tale riguardo, giova ricordare che l’opera fu dipinta per la chiesa tifernate di S. Domenico nell’anno stesso della messa a morte di Savonarola, le

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luca signorelli in umbria/4 cui ceneri furono disperse in Arno come mille anni prima s’era inteso disperdere il corpo del santo. Ai contemporanei, il «neomedievale» martirio del Sebastiano moderno sarà parso la conclusione traumatica del sogno umanistico dell’Antico come destino del Moderno; l’arcaismo di quella messa a morte offre una chiave plausibile per interpretare l’ambiguità della relazione con l’Antico che si coglie nel dipinto tifernate e lo «scandaloso» naturalismo che ne è veicolo. È stata già rilevata la forzatura naturalistica del primo piano, ove l’unità d’azione compone figure armate tra loro incoerenti ed esposte a una luce di qualità diversa. Inoltrandosi nella profondità fittizia della pittura, l’incongruenza si fa piú vistosa: a Diocleziano, che nella penombra della lontananza storica assiste compiaciuto al martirio di Sebastiano, sul lato opposto corrisponde la turba urbana che nella luce del presente porta al supplizio la vittima. Della moderna identità di quest’ultima offrono chiaro indizio i cavalieri duellanti nello slargo antistante la chiesa: essi non possono che recare memoria della cattura di Girolamo Savonarola, avvenuta forzando manu militari l’edificio religioso in cui il frate domenicano alloggiava. Il pittore pare infatti consapevole del fatto che l’opera collocata sull’altare sarebbe stata illustrata da un predicatore, al quale egli ha offerto utile conforto, inserendo alcune figure femminili le cui presenze accessorie fungono da stimolo al commento patetico: alla corte di Diocleziano, la madre colta nel gesto ordinario dell’allattare il figlio e, davanti alla chiesa, la vecchia impietosita a colloquio con la giovane indignata. La critica è concorde nel riconoscere la discendenza del Martirio di san Sebastiano di Signorelli dal dipinto dello stesso soggetto (ora alla National Gallery di Londra) realiz-

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zato da Piero del Pollaiolo intorno al 1475 (vedi foto a p. 43). L’evidente riproposizione della struttura compositiva rischia di far passare in secondo piano la divergenza di stile dei due dipinti, che non va riferita soltanto al fatto che nel quarto di secolo che li separa il segno spezzato di Pollaiolo non ha trovato seguito nell’arte fiorentina che conta. Il suo vitalismo s’era dissolto nella solennità classica e il suo nitore stemperato nei toni ambrati che, in particolare in Perugino, imbevono quella monumentalità d’un sentimento patetico.

Contro il potere laico

Di tale patetismo nel Martirio di san Sebastiano tifernate non c’è traccia. Al contrario, l’atmosfera è nitida e rarefatta; astratta. Il nesso analogico che compone le vicende di due protagonisti diversi vissuti in tempi e situazioni diverse non risiede infatti nel martirio (che si vede rappresentato), ma nella (irrappresentabile) motivazione della condanna che li accomuna in quanto oppositori del potere laico. Il dipinto non assimila il personaggio Savonarola (che non compare effigiato) al santo Sebastiano (che è bene individuato); non tende cioè a iscrivere il frate nella cornice immutabile delle virtú esemplari. Facendo ricorso al santo e alla sua epoca, esso intende muovere l’osservatore a un giudizio sulla vicenda fiorentina a lui contemporanea, spostando cosí l’asse della rappresentazione dalla religione alla politica. Il naturalismo perfetto di Signorelli deraglia all’incrocio di due generi narrativi: l’agiografia e il commento politico. Si consideri il ruolo narrativo svolto dalle architetture che fanno da contrappunto alla narrazione delle due vicende, una illustrata e l’altra adombrata. Gli edifici dell’Antico-antico e del Moderno antichizzante sono ugualmente in rovina; in contrasto con il loro de-

città di castello e l’arte

Tre capolavori tifernati Il Martirio di san Sebastiano (1498) è l’ultima grande pala dipinta da Luca Signorelli a Città di Castello e l’unica ancora rimasta nella città umbra. Fu realizzata per l’altare della famiglia Brozzi nella chiesa di S. Domenico. La datazione, riportata sulla predella (ormai perduta) indica l’anno 1498. Appena qualche mese prima, nel 1497, la città dell’alta valle del Tevere era stata colpita da una epidemia di peste. Forse proprio per questo motivo il potente priore Tommaso Brozzi, in segno di pubblica devozione, volle per la sua cappella mortuaria un’opera dedicata al santo martire che la Chiesa aveva ormai da qualche secolo eletto a protettore delle pestilenze, dopo il terribile morbo che devastò Roma nell’anno 680. Nel suo testamento, Tommaso lasciò ben 50 fiorini per la realizzazione del sepolcro di famiglia. La forza e la bellezza del dipinto ammaliano ancora. Il critico Antonio Paolucci ha scritto che davanti alla grande pala «sembra di assistere a uno dei tanti episodi di sopruso e di violenza comuni in quegli anni di torbidi politici e di guerre endemiche» (Pittori del Rinascimento, 2004). In una delle parti piú emozionanti della pala d’altare, a destra del santo martire, si scorge l’irta strada di un borgo medievale lungo la quale soldati a piedi e a cavallo conducono il santo imprigionato fino al luogo del martirio. Per Mario Salmi e altri storici dell’arte, a ispirare Signorelli fu forse il Borgo la Croce della vicina Anghiari. Luca Signorelli aveva dipinto la sua prima opera tifernate appena due anni prima: l’Adorazione dei Magi, ora al Museo del Louvre di Parigi, fu realizzata giugno

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nel 1495 per l’altare maggiore della chiesa del convento di S. Agostino, su richiesta del condottiero Vitellozzo Vitelli, conte di Montone e signore di Città di Castello, Monterchi e Anghiari. Dopo il terremoto del 1789, i frati cedettero l’opera a papa Pio VI Braschi che la destinò all’abbellimento del palazzo romano della sua famiglia. Agli inizi del XIX secolo la pala venne acquistata da Giampietro Campana, precoce intenditore di opere pittoriche dei maestri del Quattrocento. E, nel 1863, entrò nelle collezioni parigine. La terza opera realizzata a Città di Castello da Signorelli, l’Adorazione dei pastori (1496) firmata «Luce de Cortona» è conservata invece alla National Gallery di Londra. In origine si trovava nella chiesa di S. Francesco. Lo stesso edificio pochi anni dopo, nel 1504, ospiterà un altro capolavoro, il celebre Sposalizio della Vergine di Raffaello: firmato «Raphael Urbinas»,

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il dipinto segna l’inizio della maturità artistica del grande maestro del Rinascimento. Oggi è conservato a Milano, nella Pinacoteca di Brera. Fu la quarta e ultima importante opera commissionata al giovane Raffaello a Città di Castello, dopo lo Stendardo della Santissima Trinità, l’unico dipinto dell’Urbinate ancora rimasto in Altotevere (1499), la Pala del beato Nicola da Tolentino (1500–1501), smembrata e dispersa in vari frammenti, ora esposti in musei

italiani e stranieri e la Crocifissione Gavari, un dipinto a olio su tavola del 1503 finito anch’esso, dopo alterne vicende, fra le collezioni della National Gallery di Londra. In alto Adorazione dei pastori, olio su tavola di Luca Signorelli. 1496 circa. Londra, National Gallery. A sinistra, in alto Adorazione dei Magi, olio su tavola di Luca Signorelli. 1496. Parigi, Museo del Louvre.

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luca signorelli in umbria/4 Repliche d’autore

Un regalo per il re pittore Una copia del Martirio di san Sebastiano grande quanto l’originale, riprodotto nei minimi dettagli grazie alla tecnica della pictografia, è stata donata a re Carlo III d’Inghilterra in occasione della sua incoronazione. L’omaggio è stato spedito a Buckingham Palace da Stefano Lazzari e da sua sorella Francesca, titolari della Bottega Tifernate, considerati due tra gli artigiani-artisti piú bravi a livello mondiale nella riproduzione delle opere d’arte. Un dono prezioso, per il quale sono stati utilizzati le stesse ricette e gli stessi colori che usavano Luca Signorelli e le botteghe del Quattrocento. Identico anche il supporto dell’opera, in legno massello. La tecnica adottata è costruita su tre fondamentali passaggi: la ripresa fotografica ad altissima definizione, il trasferimento pictografico e la successiva pittura, realizzata a mano con l’utilizzo dei colori a olio per ricreare il cromatismo delle opere del XV e XVI secolo. Gran parte della ricostruzione del Martirio di san Sebastiano è stata realizzata nella sede della Pinacoteca comunale, proprio di fronte al dipinto originale, cosí da esaltare dettagli e colori nella maniera piú esatta possibile. Poi il trasferimento in bottega, per correggere le ultime imperfezioni e ricreare ogni minimo particolare del dipinto. L’iniziativa, sostenuta dal Comune tifernate e pensata anche come operazione di marketing turistico per i molti Inglesi che frequentano l’alta valle del Tevere, non è casuale. Asseconda l’attenzione quarantennale dei Windsor per l’Umbria e i suoi capolavori artistici. A partire dalla visita in incognito che Elisabetta II fece nell’abbazia perugina di S. Pietro per ammirare da vicino le opere di Guido Reni, Perugino, Sassoferrato, Guercino e Vasari. Fino al bagno di folla che accompagnò, sempre a Perugia, la regina madre nel 1992, durante i restauri di alcune opere del Perugino e al viaggio della principessa Margaret nel 1994, programmato per scoprire le collezioni della Galleria Nazionale dell’Umbria e seguire da vicino il restauro della Fontana Maggiore, vero e proprio capolavoro dell’arte medievale e simbolo del capoluogo. E poi le visite alla metà degli anni Novanta del secolo scorso di Carlo, allora soltanto principe di Galles, a Spoleto e ad Assisi, per ammirare sotto la guida sapiente del critico d’arte Federico Zeri il ciclo di affreschi della basilica di S. Francesco. In quella occasione, di fronte alla vista del Subasio e della valle del Tescio, seduto su uno sgabellino e incurante di una pioggia leggera, l’erede al trono, pittore nemmeno troppo dilettante, dipinse un acquerello, protetto per un paio d’ore dall’ombrello di una guardia del corpo.

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La rifinitura della copia del Martirio di san Sebastiano realizzata dalla Bottega Tifernate di Città di Castello e donata a Carlo III d’Inghilterra. Nella pagina accanto il Palazzo Vitelli di Città di Castello, sede della Pinacoteca Comunale.

grado, a essi è accostata la fiorente edilizia del borgo moderno, che è però il teatro in cui si rinnova l’antica efferatezza.

Ambiguità e doppiezza

La crudeltà politica costituisce il punto di contatto tra due storie che corrispondono a due concezioni del tempo tra loro inconciliabili: il Tempo del Sacro è l’eternità, e a essa corrisponde l’icona del santo, mentre il Tempo della Storia è la transitorietà, e a essa corrisponde l’attualità politica. Non per nulla l’intero dipinto è pervaso d’ambiguità, a partire dal giugno

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primo piano (con l’impegno comune di barbari e inciviliti), passando per il piano intermedio (la corte imperiale e l’assembramento cittadino), fino all’apoteosi gloriosa dell’arco trionfale e al culmine vergognoso delle moderne costruzioni signorili dirute. Nel surrealismo di tale doppiezza si può anche leggere il disagio del pittore, che sarà stato tirato per la manica dal committente religioso, per il quale la condanna a morte di Savonarola era l’equivalente del martirio del santo, ma militava nella cultura laica moderna e aveva memoria recente dei riconosci-

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Predica e fatti dell’Anticristo, affresco di Luca Signorelli. 1499-1502. Orvieto, Duomo, cappella di S. Brizio.

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menti avuti alla corte dei Medici. Non per nulla il corpo del santo irradia un’olimpica bellezza, l’impaginato del dipinto è retto da chiare corrispondenze simmetriche e la pittura ostenta un nitore classico. Indagare sulla posizione politica di Signorelli sarebbe esercizio arduo e ozioso, ma le problematicità individuate nel dipinto (i moderni

e gli antichi ugualmente avidi di sangue innocente e gli aguzzini cristiani intenti a martirizzare insieme ai loro omologhi pagani) suggeriscono considerazioni estendibili agli affreschi d’Orvieto, che sono di poco successivi e costituiscono l’opera piú impegnativa del pittore. L’apocalittico ciclo orvietano (1499-1502) trasferisce sulla giugno

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La Sala della Contemplazione «Signorelli e Raffaello giovane» è il titolo del nuovo percorso d’arte che, dall’inizio del 2023, arricchisce la Pinacoteca Comunale di Città di Castello. Voluto dall’amministrazione comunale in accordo con la Regione dell’Umbria, l’allestimento propone un incontro ideale, che in vita non avvenne, fra i due artisti che con le loro opere rendono il museo tifernate la seconda galleria dell’Umbria. Nella Sala della Contemplazione convivono lo Stendardo della Santissima Trinità di Raffaello e il Martirio di san Sebastiano di Luca Signorelli, con una seduta che permette al visitatore di fermarsi con tutta la calma necessaria per ammirare due tra le opere piú significative del Rinascimento italiano.

scala massima il tema della Danza macabra. Nella Cappella di S. Brizio la Storia, che nel Martirio di Sebastiano sfiora ambiguamente il Sacro, giunge alla «fine dei tempi» e, in maniera ancor piú esplicita che in Michelangelo, si dissolve nel Giudizio di Dio. Nella lunetta Predica e fatti dell’Anticristo (vedi foto sulle due

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pagine) Signorelli si presenta alla ribalta. Insieme a Beato Angelico, che in quel cantiere l’aveva preceduto, si è ritratto sul lato opposto a quello in cui nella rappresentazione alle sue spalle compare il gruppo delle personalità politiche (tra le quali il Borgia figlio del papa regnante) che segue e commenta la predica dell’Anticristo. Come non pensare alla caduta dei Medici e alle incerte traiettorie politiche che ne erano seguite? È possibile che nelle vicende fiorentine egli non abbia avvertito il lacerarsi della rete dei centri signorili che era stata la culla del protorinascimento centroitaliano? Severamente vestito di nero, si dichiara estraneo alla carneficina che avviene proprio dietro di lui. Con espressione intensa volge lo sguardo verso lo spazio reale e

La Sala della Contemplazione nella Pinacoteca Comunale di Città di Castello, nella quale sono posti in dialogo il Martirio di san Sebastiano di Luca Signorelli e lo Stendardo della Santissima Trinità di Raffaello.

tiene le mani abbandonate sul davanti con le dita intrecciate nel gesto dell’impotenza. Alla svolta del secolo, il pittore sapeva che quello era il momento in cui c’era da chiedersi chi, tra Savonarola e il duca Valentino, fosse il profeta veritiero dell’epoca che stava iniziando. Certo è che, lavorando a Roma e a Firenze egli avrebbe avuto modo di fiutare l’evo moderno, in cui le scuole pittoriche locali sarebbero state omologate e le grandi potenze nazionali avrebbero tracciato scenari politici insostenibilmente complessi.

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Quel tesoro da difendere

di Cristina Ferrari

Fortunosamente scampate al saccheggio dell’XI secolo, le Sante Croci, tesoro cittadino di Brescia, sono da allora custodite da un Ordine appositamente costituito. Una compagnia ancora oggi molto attiva, i cui cavalieri, oltre a garantire la sicurezza delle reliquie, sono da sempre in prima linea nell’assistenza ai bisognosi

I

n una notte del 1091, la città di Brescia subí uno sconvolgente tentativo di furto: un soldato, per ordine dell’imperatore Enrico IV, cercò di trafugare le Sante Croci, tesoro della città, conservate nel monastero dei Ss. Faustino e Giovita. L’uomo si diede quindi alla fuga, ma, al mattino, scoprí di trovarsi miracolosamente ancora a Brescia, nello stesso punto, come se non si fosse mai allontanato. A seguito di questo evento straordinario, per maggiore sicu-

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rezza le Croci vennero trasferite nella concattedrale invernale di S. Maria Assunta, attuale Duomo Vecchio, e a loro difesa venne istituita una Compagnia di cavalieri che, come riporta lo storico Ottavio Rossi nel 1616, comprendeva 100 membri, ai quali fu dato il titolo di Cavalieri delle Croci. Inizia ufficialmente cosí la storia del Tesoro e della Compagnia dei Custodi delle Sante Croci. «Il primo documento che attesta il Tesoro – spiegano Arturo Bettoni e Filippo Picchio Lechi,

rispettivamente Cancelliere e Presidente della Compagnia – è una disposizione risalente al 1251 (o 1260), in cui si delibera che il Podestà prenda accordi con il Capitano della città e gli Anziani del Comune e del popolo per la tutela delle Sante Croci (a chi affidare le chiavi del Tesoro e dove custodirlo)». Per quanto riguarda il XIII e il XIV secolo vi sono solo altri due atti: l’archivio ha infatti subito vari smembramenti e la documentazione riparte dal 1400. Ma da che cosa è costituito il giugno

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Particolare della Croce del Campo raffigurante la Crocifissione. Le origini del manufatto sono incerte, ma si ritiene che possa essere stato realizzato da un’oreficeria lombarda fra l’XI e il XII sec. La sua prima menzione documentata risale invece al 1251.

Tesoro? Da oggetti e reliquie che, con il loro profondo significato spirituale e storico, simboleggiano la Fede, la Speranza e la Carità in Gesú Cristo, e sono aumentati di numero nel tempo grazie a lasciti e alla commissione di nuove opere (vedi box alle pp. 58-61). L’oggetto piú prezioso è la Reliquia della Santa Croce (detta anche Reliquia Insigne), un frammento del Legno della Croce a cui fu appeso Gesú, opera bizantina del X secolo. Precedentemente conservato nella stauroteca, una

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cassettina in legno rivestita di lamina d’argento dorata e sbalzata di incerta datazione, dal 1532 è custodito in un reliquiario commissionato nel 1477 dal Comune al Maestro Bernardino delle Croci di Parma, in argento dorato, smalti e pietre preziose.

Il miracolo

La leggenda piú nota risale al 1400 ed è riportata dallo speziale Leoncino Ceresoli, il quale, alla presenza dell’abate, degli Anziani, dei Priori e di tre notai, raccon-

ta come il 9 maggio 806, in occasione della solenne processione per la traslazione dei corpi dei santi Faustino e Giovita dalla basilica di S. Faustino ad Sanguinem alla chiesa a loro dedicata, durante una sosta presso Porta Bruciata, nel sito dell’attuale chiesa di S. Faustino in Riposo (detta anche S. Rita), le reliquie avessero trasudato sangue. Al miracolo assistette anche il duca Namo di Baviera, che si convertí al cristianesimo e guarí dalla lebbra. Namo di Baviera è un personaggio descritto

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storie brescia

A sinistra la Cappella delle Sante Croci, in Duomo Vecchio, chiusa dalla grande inferriata realizzata nel 1500 dal fabbro Jeronimo da Noboli e fatta dorare in oro zecchino nel 1707. A destra la faccia superstite dello stendardo della Compagnia dei Custodi delle Sante Croci, dipinto a olio dal Moretto (al secolo, Alessandro Bonvicino). XVI sec. Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo. Rappresenta i santi patroni Faustino e Giovita che reggono il Reliquiario della Santa Croce, alla presenza di vari personaggi, fra cui, probabilmente, i vescovi Paolo Zane e Mattia Ugoni e Altobello Averoldi.

nel ciclo carolingio, forse mai realmente esistito, e, secondo la leggenda, governatore di Brescia ma ancora pagano, nonostante fosse amico e paladino di Carlo Magno. Fattosi monaco benedettino, il duca donò all’abate del monastero dei

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Ss. Faustino e Giovita la Reliquia della Santa Croce ricevuta dall’imperatore, il quale l’aveva a sua volta avuta in dono da Costantino IV, insieme «alla Croce del Campo e all’Orifiamma». L’episodio è stato raffigurato in un grande dipinto a olio realizzato nel 1605 da Antonio Gandino, nella Cappella delle Sante Croci (vedi foto a p. 54).

Ipotesi alternative

Secondo altre ipotesi, la Reliquia Insigne sarebbe invece arrivata da Costantinopoli a seguito del sacco subito dalla città nel 1204, durante la quarta crociata, oppure portata a Brescia dal vescovo Alberto da Reggio, che aveva combattuto nella quinta crociata tra il 1219 e il 1221. Ipotesi però smentite dagli studiosi, che attribuiscono la stauroteca a un orefice di area lombarda attivo nell’XI-XII secolo

(e quindi presente in città almeno due secoli prima), mentre altri la ritengono un manufatto bizantino (VII-IX, ma anche XI-XII secolo). Incerte sono anche le origini della Croce del Campo, detta anche Orifiamma (fatto che ha generato confusione con l’Orifiamma citata nella leggenda di Namo di Baviera), fabbricata nell’età dei Comuni come croce comunale (da cui pendeva lo stendardo o, appunto, orifiamma) da issare sul Carroccio della città durante le guerre, il cui primo riferimento è nell’inno composto per la battaglia di Rudiano (1191) ed è menzionata negli Statuti del 1251 o 1260. Varie teorie vogliono la Croce portata a Brescia dall’Oriente dal vescovo Gaudenzio, oppure dal vescovo (e poi santo) Filastrio, o come dono del patriarca di Antiochia, che l’avrebbe ricevuta da Eugenio giugno

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La Reliquia della Santa Croce (o Reliquia Insigne), un frammento del legno della Croce a cui fu appeso Gesú. X sec.

IV. Secondo altre versioni sarebbe stata invece ideata dal vescovo Alberto, capitano dei Bresciani durante l’assedio di Diamata (1221) e patriarca di Antiochia e legato pontificio in Siria (1226-1246). La fattura e vari elementi del modellato e del rilievo fanno però ipotizzare che, come la stauroteca, possa trattarsi di un’opera di oreficeria lombarda dell’XI-XII secolo. È dunque per difendere queste preziose opere che la Compagnia è stata istituita. «La Compagnia dei Custodi delle Sante Croci che oggi conosciamo – continuano Bettoni e Picchio Lechi – è un Ordine cavalleresco laico in realtà fondato nel 1520, come riportato da un atto del 3 marzo, che descrive una riunione del Consiglio Comunale di Brescia per la richiesta avanzata da Mattia Ugoni, vescovo di Famagosta e suffraganeo del vescovo di Brescia Paolo Zane. Ugoni chiedeva di disporre una sovvenzione di 100 lire a vantaggio di una confraternita descritta come recentemente costituita “in onore” del Tesoro delle Sante Croci del Duomo Vecchio». Nella stessa riunione fu inoltre deciso di commissionare lo stendardo delle Sante Croci al pittore Alessandro Bonvicino, detto il Moretto da Brescia (vedi foto a p. 52, a destra). Oltre alla difesa delle Sante Croci, la Compagnia si occupava di opere di beneficienza, come riportato dal decreto del 30 giugno 1569, in cui il vescovo Domenico Bollani ordina ai curati e ai rettori delle chiese della diocesi di Brescia di raccomandare ai fedeli di essere generosi con le elemosine nel periodo dei raccolti «perché la Scuola delle Sante Croci possa mantenere le sue buone iniziative». Le offerte in natura, convertite in denaro dal Massaro della Compagnia, venivano utilizzate per fornire ogni anno

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storie brescia Il Duca Namo dona a Brescia le Sante Croci, olio su tela di Antonio Gandino. 1605. Brescia, Duomo Vecchio, Cappella delle Sante Croci.

una dote a dieci ragazze povere, scelte in Duomo il giorno di Pasqua o il Lunedí dell’Angelo, per aiutare persone inferme, religiosi mendicanti e le suore di S. Chiara Nuova, alle quali era stata vietata la questua, ma anche per sepolture (nel 1571) o per liberare persone povere dalla prigione (1569). Inoltre era necessario provvedere alle spese per «ornamento dell’altare delle Sante Croci, acquisto della cera per le sante messe, candele per processioni per implorare la pioggia o la serenità secondo le esigenze della campagna, olio per lampade, stipendi dati al saggista, al custode della Cappella del Tesoro, all’organista ed al campanaro» e per pagare le opere di artigiani e artisti. Si era infatti deciso di spostare il Tesoro, conservato fino al 1527 in un cassone di ferro dorato chiuso da sette chiavi nella sagrestia della Cattedrale, in una sede piú consona. Per questo motivo, il 31

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marzo 1489, il Consiglio Speciale della Città aveva ordinato la costruzione della Capella Magna sotto la direzione dell’architettocapomastro Filippo da Caravaggio, sostituito dal bergamasco Bernardino da Martinengo nel settembre 1490.

La nuova cappella

La Cappella delle Sante Croci, la cui edificazione fu deliberata il 25 settembre 1495, venne costruita entro il 1496 nel transetto nord del Duomo Vecchio sopra la vecchia sagrestia (abbattuta) e decorata tra il 1490 e il 1494 da Vincenzo Civerchio. Una nuova decorazione pittorica, resasi necessaria dopo l’incendio del 1526, fu affidata nel 1527 al pittore Floriano Ferramola, e la cappella venne ricostruita nel 1527 a opera di Giovan Maria Piantavigna. Infine, agli inizi del XVII secolo, venne nuovamente affrescata da Francesco Zugno. Sempre tra la fine del

XVI e l’inizio del XVII secolo vennero realizzati gli stucchi, le due tele di Antonio Gandino e Grazio Cossali e una revisione delle decorazioni marmoree. Un ulteriore restauro avvenne nel 1876. Nel 1499 era stata disposta la costruzione di un’arca di pietra di Botticino a sostituzione del cassone ferrato e, nel 1500, anno giubilare in cui le Sante Croci vennero esposte alla venerazione, fu aggiunta un’inferriata lavorata dal fabbro Jeronimo da Noboli, a sua volta chiusa a chiave. Per quanto riguarda le chiavi, vennero distribuite a differenti persone (il vescovo e rappresentanti del Comune) indicate dalle delibere del 25 maggio 1295, 1429, 27 agosto 1445 e 21 dicembre 1579. In situazioni eccezionali dovute a calamità naturali o ad avvenimenti causati dall’uomo (per esempio, per ottenere la pioggia, per invocare la fine di una pestilenza o di un assedio o per celebrare una vittoria) potevano essere indette processioni straordinarie della durata di tre giorni. Tali celebrazioni si svolgevano lungo tre itinerari (uno per giornata) che, partendo da S. Maria de Dom (oggi Duomo Vecchio), toccavano i settori centrali della città entro la cinta muraria e le principali chiese, presso le quali venivano ostentate le Sante Croci (sugli altari maggiori o su altari appositamente allestiti all’esterno). Le strade percorse dai cortei erano ornate con «installazioni» dagli effetti teatrali: padiglioni e velari tesi tra gli edifici, velluti, arazzi e festoni appesi alle finestre e ringhiere, finte fontane e «macchine» che riproducevano altari, scene sacre in stucco e cartapesta e quadri viventi. Nel XVIII secolo veniva usata anche una preziosa portantina in argento, di proprietà della Compagnia, in seguito venduta per salvare il Tesoro dalle spoliazioni napoleoniche e per giugno

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Veduta d’insieme e particolari del Reliquiario della Santa Croce, in argento dorato e smalti. Commissionato nel 1477 dai deputati del Comune di Brescia al Maestro Bernardino delle Croci di Parma, venne da questi ultimato nel 1487.

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storie brescia L’elmo

Simbolo dell’identità cittadina Didascalia Durante le solenni processioni i membri della aliquatur adi odis dei Custodi delle Sante Croci, Compagnia que ent quicavalieri, indossavano un’armatura ed invero quanto doloreium conectu erano accompagnati da un paggio che reggeva l’elmo, rehendebis tradizioneeatur durata fino al 1830. Forse riferibile proprio ai tendamusam Custodi è un elmo del tipo detto morione, conservato consent, perspiti al Museo delle Armi «Luigi Marzoli» di Brescia, la conseque nis cui decorazione riunisce le principali immagini che maxim eaquis l’identità cittadina. Esposto anche nella esprimono earuntia mostracones «La città del Leone. Brescia nell’età dei Comuni apienda. e delle Signorie» (vedi «Medioevo» n. 310, novembre

2022; on line su issuu.com), l’elmo è a cuspide aguzza rivolta verso la parte posteriore a tesa a barca, e presenta una raffinata decorazione all’acquaforte. Sui lati del coppo è raffigurato il leone rampante, stemma della città, dentro uno scudo ovale in cartiglio decorato sormontato dalla Reliquia della Santa Croce, in una mandorla di luce, e affiancato dai santi Faustino e Giovita in abiti militari e con la palma del martirio. Il bordo inferiore del coppo è decorato con fasce diagonali e motivi vegetali, mentre sulle falde compaiono foglie di quercia e lungo il dorso armi e strumenti musicali racchiusi tra liste.

In alto la copia settecentesca del vessillo dell’Orifiamma, realizzata in sostituzione dell’originale, verosimilmente usurato. Al centro del drappo, finemente ricamato su entrambi i lati, con fili in oro

e argento, si riconosce la Reliquia della Vera Croce. A sinistra l’elmo che veniva portato da un paggio durante le processioni solenni della Compagnia. Brescia, Museo delle Armi «Luigi Marzoli».

restaurare il Duomo. Alle processioni partecipavano naturalmente i membri della Compagnia, che, in quanto cavalieri, indossavano, come riportato sempre da Ottavio Rossi, una «corazza d’argento, inquartata di griffoni, di sfingi, di lioni e di fiamme dorate. Portavan la collana, e nel frontispicio dell’elmo, l’immagine della Croce, con le loro giubbe d’oro l’antica dignità Bresciana». Ogni confratello teneva in mano una candela ed era accompa-

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La faccia posteriore della Croce del Campo con la figura dell’Agnus Dei crocifero realizzata a sbalzo.

gnato da un paggio che portava l’elmo (vedi box a p. 56). L’armatura però, ormai mero retaggio del passato, costituiva una fonte di distrazione e poteva addirittura offrire «pericolo di scandalo muovendo taluno al riso», cosicché, nel 1830, si decise di non farla piú indossare (riunione della Compagnia del 15 marzo). La tradizione delle processioni in occasione delle pestilenze si è rinnovata il 10 aprile 2020 in occasione dell’epidemia di COVID con

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monsignor Tremolada, Vescovo di Brescia, che ha attraversato le vie deserte portando la Reliquia Insigne, testimonianza del forte legame tra la città e le Sante Croci che continua ancora oggi.

Visitatori eccellenti

Naturalmente le reliquie potevano venire mostrate a personaggi illustri, come san Carlo Borromeo o l’imperatore Francesco Giuseppe. Il Comune fece inoltre sempre in modo di assicurare che fossero

offerte annualmente alla venerazione, esponendole in Cattedrale con particolari solennità liturgiche e processioni. Nel 1519, per esempio, si istituí il giorno dell’Esaltazione della Santa Croce (con esposizione e processione) e nel 1586 si stabilí che ogni 3 maggio, ricorrenza dell’Invenzione della Vera Croce, il clero, le discipline e i paratici della città fossero tenuti a partecipare alla processione. Altro evento storico eccezionale a cui la Compagnia prese parte

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storie brescia è la difesa di Malta, attaccata nel 1565 dal sultano Solimano II e difesa dalla Lega Santa, a cui Brescia forní un corpo di mille uomini e due galee, una delle quali aveva l’orifiamma e i due santi patroni come simbolo. Per invocare la protezione dell’Europa e del mondo cristiano, l’11 agosto 1565 venne cantata una messa solenne all’altare dell’Orifiamma in Duomo e, cinque anni piú tardi, i Confratelli delle Sante Croci invitarono il vescovo a celebrare una nuova messa solenne nella cappella di S. Pietro, a comunicare i Deputati e i Capitani inviati a combattere contro i Turchi e a benedire cinque bandiere. Inoltre, nel corso dell’evento, la Santa Croce e l’Orifiamma furono portate in processione dalla Cattedrale alla chiesa dei Ss. Faustino e Giovita. Le preghiere vennero esaudite: il 7 ottobre 1571 ebbe luogo la battaglia di Lepanto, vinta dalla Lega Santa sull’impero ottomano e durante la quale le galee bresciane furono schierate in prima fila.

Un nuovo assetto

Nel giugno 1649 si decise di dare un nuovo impulso e rinnovare la Compagnia delle Sante Croci, decaduta «per ragione delle guerre et altre malvagità», e si data al 1650 il nuovo Statuto, che prevedeva un Governo composto da quaranta consiglieri aiutati da venti persone, che il Governatore venisse scelto dal Consiglio Generale della Città e fossero eletti quattro assistenti, il cancelliere e il tesoriere. Al momento dell’aggregazione alla Compagnia, ogni Confratello doveva offrire un’elemosina «per spendere in honore delle SS. Croci». Il successo fu immediato e il rapporto con la città rinsaldato, e un’attenta gestione del patrimonio permise di restaurare e abbellire la cappella, grazie anche al contributo del Comune, da sempre coinvolto (segue a p. 62)

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Il Tesoro delle Sante Croci Oltre alla Reliquia della Vera Croce, alla Stauroteca e alla Croce del Campo, il Tesoro comprende anche altri oggetti artistici di varia natura che si sono aggiunti durante i secoli, sia frutto di donazioni, sia perché commissionati ad artisti e artigiani. La Reliquia della Vera Croce (o Reliquia Insigne). Dal punto di vista religioso è considerata il pezzo piú importante del Tesoro, formata da tre frammenti di legno di cedro (uniti nella forma detta «croce di Lorena» o «croce patriarcale») ritenuti appartenenti alla Vera Croce, cioè il crocifisso a cui venne appeso Gesú, larghi circa 1 cm e lunghi rispettivamente 14,5 cm il primo, 6,5 cm il secondo e poco meno il terzo (il braccio orizzontale superiore è meno largo dell’inferiore). Le estremità dei bracci sono racchiuse

entro guaine in oro massiccio adornate di smalti cloisonné con motivo decorativo detto «a tapparella» e fili d’oro che formano due X ai punti di incrocio dei bracci della croce. La Stauroteca. Si tratta di una cassettina di forma rettangolare (17,5 x 9,5 x 3 cm) in legno ricoperto da lamina d’argento puro, in parte dorato, sia sul coperchio che all’interno della custodia e sulle costolature, e decorata a sbalzo. Sul coperchio è raffigurata la Crocifissione, con Maria a sinistra e san Giovanni Evangelista a destra del crocifisso a doppia traversa e, in alto, due angeli e le immagini del Sole e della Luna. L’interno, rivestito di velluto rosso, presenta l’incassatura a doppia croce (per custodire la reliquia) e le figure a sbalzo dell’imperatore Costantino a sinistra e giugno

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Le Sante Croci esposte nel Duomo Vecchio di Brescia in occasione della festa dell’Esaltazione della Santa Croce (14 settembre). A destra la stauroteca in legno rivestito d’argento che custodisce la Reliquia della Vera Croce. La preziosa cassettina viene variamente datata fra il VII e il XII sec. e assegnata da alcuni a una bottega bizantina e da altri a un orefice lombardo.

sua madre Elena a destra, identificati da scritte in greco. Sulla costolatura la lamina d’argento di rivestimento è arricchita da dischi con rosette. La Croce del Campo od Orifiamma. Donata secondo la leggenda dal duca Namo di Baviera, l’Orifiamma presenta un’anima di legno di noce rivestita di lamina d’argento puro in parte dorata, a forma di croce greca patente (con i bracci espansi alle estremità), delle dimensioni di 42 x 28,5 x 3 cm. Ai bordi è rifinita con una striscia d’argento dorato fissata da chiodi d’argento. Sul recto sono decorati a rilievo Gesú crocifisso con a sinistra la Vergine Maria e, a destra, san Giovanni Evangelista e ai piedi Adamo avvolto in bende e sulla sommità due figure identificate come il Sole e la Luna. Sul verso emerge un disco con l’Agnus Dei crocifero a sbalzo. Ricoperta da gemme in pasta vitrea, castoni e pietre dure, tra cui quattro

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rarissime alsengemme, la croce è un vero e proprio «capolavoro dell’arte romanica» oltre a essere una delle rarissime croci in lamina d’argento dell’epoca ancora esistenti. Il Reliquiario della Santa Croce. Il prezioso manufatto in argento dorato e smalti (44,5 x 21,5 cm) è stato commissionato nel marzo 1477 dai deputati del Comune di Brescia al Maestro Bernardino delle Croci di Parma, che lo terminò nel 1487. Il piedistallo è in argento dorato con otto palline tenute dalle bocche di delfini le cui code poggiano sul ripiano della base, costituito da otto archi anch’essi suddivisi in spicchi in smalto verde e blu. Sugli spigoli è raffigurata un’anfora da cui nascono rami a girale con palline d’argento. L’ottagono superiore, sempre in argento dorato, presenta una serie di bifore architravate, nelle cui nicchie concave sono collocate figure di profeti a mezzo busto in argento. La parte superiore presenta una porzione di calotta semisferica, divisa in scomparti, dal cui centro nascono foglie che innalzano un calice con una superficie a squame e un cespo di foglie di acanto. Sul retro del basamento resta la firma dell’autore «BER’ . PAR . ARG. OPERA» Bernardino delle Croci. La Reliquia della Vera Croce è collocata in una teca che ne ricalca la forma, composta da due cristalli di quarzo incorniciati in oro, realizzata nel 1533 dall’orafo Gianmaria Mondella. Il perimetro della teca presenta un ramo di vite con fogliame e grappoli d’uva su cui sono posati fiori quadrilobati smaltati rossi, verdi e blu con diamanti incastonato al centro e perle, mentre all’interno i bracci della reliquia sono retti da calici in oro a forma di giglio. La teca poggia su un anello di sicurezza formato da un lastrone in oro massiccio decorato con foglie smaltate in rosso e verde e rubini, su cui è riportata la firma «M. MONDELLA. AURIF. FECIT». Il Reliquiario delle Sante Spine. Si tratta di un pregevole manufatto commissionato tra la

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storie brescia fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento alla bottega dei Delle Croci dalle monache del monastero di S. Giulia per custodire due spine ritenute provenienti dalla corona di spine di Gesú. Rimasto nel tesoro del monastero fino alla soppressione di quest’ultimo nel 1797, venne in seguito trasferito nel tesoro delle Sante Croci, di cui divenne parte. Il vescovo Girolamo Verzeri fece aggiungere nella teca una terza spina, da lui donata, mentre Giacinto Gaggia, nel 1933, inserí una piccola croce in cristallo contenente un presunto frammento della Vera Croce.

In alto e in basso veduta d’insieme delle due facce della replica della Croce del Campo che viene portata in processione al posto dell’originale.

A sinistra un’altra immagine della Reliquia della Vera Croce all’interno del suo Reliquiario. Nella pagina accanto, in alto particolare della Croce del vescovo Paolo Zane. Oreficeria bresciana, metà del XIX sec. Nella pagina accanto, in basso il Reliquiario delle Sante Spine. Fine del XVinizi del XVI sec.

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La Croce del vescovo Paolo Zane. È un reliquiario a forma di croce realizzato nel 1841 dall’orafo bresciano Antonio Pedrina per conservare un crocetta in legno composta da due frammenti provenienti dalla Vera Croce, donata il 12 marzo 1531 dal vescovo Paolo Zane, Nei verbali della donazione è attestato che la reliquia era appartenuta a papa Eugenio IV che l’aveva poi donata al vescovo Lorenzo Zane, predecessore di Paolo Zane. Il Bauletto. Opera di un ebanista della prima metà del XV secolo, è un cofanetto di forma rettangolare (6 x 4,5 x 5,5 cm) con coperchio ribaltabile a sezione semicilindrica, in anima in legno rivestita in velluto verde a sua volta fasciato di listelli metallici in lega di oro, argento e rame. L’interno è rivestito di carta rosa filigranata a righe, mentre all’esterno è posta una piastra per la serratura. Conserva una borsettina in velluto rosso con ricami d’oro realizzata nel XVI secolo e una scatoletta d’argento contenente il puntale a vite a foglie di acanto della prima teca del Reliquiario, poi sostituita da quella del Mondella.

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La Crocetta del Governatore. Si tratta di una crocetta in legno di cedro con rifiniture in oro, donata per lascito testamentale nel 1656 da Ettore Nassino, Governatore della Compagnia, «affinché sia portata al collo e avanti al petto dal Governatore di detta Società», ancora oggi portata dal Presidente. Al Tesoro appartengono inoltre: i due grandi dipinti a olio custoditi all’interno della cappella delle Sante Croci in Duomo Vecchio raffiguranti l’Apparizione della Croce a Costantino (opera di Grazio Cossali, 1606) e Il duca Namo dona a Brescia le Sante Croci (Antonio Gandino, 1605); il cassone, forse il primo e unico cassone realizzato per la custodia del tesoro nel Medioevo; le mezzelune collocate sopra le porte laterali del Duomo Nuovo, commissionate dalla Compagnia a Giuseppe Tortelli nel 1705; sei candelieri in legno dorato del XVII secolo e sei candelieri d’argento del XVIII secolo (questi ultimi realizzati dall’argentiere Domenico Arici); la grande lampada votiva appesa sulla sinistra del presbiterio della Cattedrale, la cui realizzazione venne affidata a Giuseppe

Lugo nel 1696; una copia della Croce del Campo, commissionata dal visconte Girolamo Martinengo, Governatore della Compagnia, e portata in processione al posto dell’originale; un paliotto d’argento, realizzato a partire dal 1772 dall’intagliatore Bernardino Carboni (fondale e disegno del paliotto stesso) e dall’argentiere Giuseppe Crescini; l’ancona d’argento, posta sul cassone ferrato per indicare il luogo dove è custodita la Santa Croce; la grande inferriata che chiude la cappella delle Sante Croci, realizzata nel 1500 dal fabbro Jeronimo da Noboli e fatta dorare in oro zecchino nel 1707; il vessillo dell’Orifiamma del 1764, sicuramente una copia dell’originale. È parte del Tesoro anche lo stendardo della Compagnia, dipinto a olio dal Moretto in origine su entrambe le facce, poi divise tra XVII e XVIII secolo. La parte superstite, oggi conservata alla Pinacoteca Tosio Martinengo, rappresenta i santi patroni Faustino e Giovita che reggono il Reliquiario della Santa Croce alla presenza di numerosi spettatori, tra cui probabilmente Paolo Zane, Mattia Ugoni e Altobello Averoldi. Il Tesoro comprendeva inoltre oggetti d’arte e liturgici andati perduti nel Novecento, forse rubati o trasferiti e non piú trovati, oltre alla Croce di San Faustino, ceduta nel XIX secolo alla chiesa dei Ss. Faustino e Giovita e da allora proprietà della parrocchia.

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nella conservazione delle reliquie. Ulteriore prova del grande legame delle Sante Croci con i cittadini sono le leggende sorte sul destino del Tesoro durante le due guerre mondiali, leggende che lo vogliono diviso e nascosto in luoghi sicuri nella provincia (forse a Villa Pace a Rezzato, a Castenedolo o nei sotterranei del Duomo), ma delle quali non esiste alcun riscontro. All’indomani del periodo napoleonico, la Compagnia fu nuovamente riorganizzata: si stabilí che «rimanga presso la Presidenza dei Divoti l’amministrazione dei redditi del venerando altare, e la custodia degli effetti preziosi e dei sacri arredi del medesimo», punti di fondamentale importanza per i

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Nella pagina accanto due immagini del romanico Duomo Vecchio di Brescia (intitolato a santa Maria Assunta), al cui interno si trova la Cappella delle Sante Croci.

Confratelli. Nel 1902 sono indicate come funzioni ordinarie «la sacra commemorazione in ogni Venerdí del mese di Marzo (oggi venerdí di Quaresima). La festa dell’Invenzione di Santa Croce (3 Maggio). La festa dell’Esaltazione (14 Settembre)», e il numero dei cavalieri è fissato a 100, tutti di nobile origine e nominati a vita, poi diventati 300 nel 1949. Sempre all’inizio del XX secolo, vengono modificati i titoli: il Governatore diventa Presidente, mentre i 2 assistenti Vicepresidenti. Conservano il titolo il Cancelliere, il Massaro e il Cappellano, eletto tra 3 candidati su proposta della Compagnia al Vescovo. Dal 23 dicembre 1935 il Tesoro è conservato in una nuova custodia,

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In questa pagina il Duomo Nuovo di Brescia, sorto agli inizi del Seicento sulla precedente basilica paleocristiana (IV-V sec.) nota come San Pietro de Dom.

chiusa da tre chiavi, consegnate al vescovo, guida spirituale e religiosa della città, al sindaco, capo del governo cittadino, e al Presidente della Compagnia, rappresentante dell’intera civitas (da qualche anno è stato reintrodotto il rito di apertura del forziere).

Un impegno costante

«Oggi la Compagnia è un’Associazione di Fedeli retta da uno Statuto approvato dall’Ordinario Diocesano composta da 300 membri effettivi nominati a vita, quasi tutti laici e con un numero massimo di sacerdoti, scelti per autocoptazione (presentati da altri 3 confratelli), che ha come scopo la custodia delle Reliquie delle Sante Croci,

la diffusione del culto delle stesse con funzioni ordinarie e straordinarie e il compimento di opere di misericordia verso i fratelli bisognosi», concludono Arturo Bettoni e Filippo Picchio Lechi. «Come da tradizione organizza i Quaresimali in Cattedrale e ha un ruolo attivo e di rilievo nelle esposizioni ordinarie del Tesoro che si tengono nel Duomo Nuovo l’ultimo venerdí di Quaresima (non il venerdí Santo) e il 14 settembre, festa dell’Esaltazione della Santa Croce. Inoltre promuove e finanzia pubblicazioni sul tema e partecipa ai principali eventi religiosi della città». Attualmente sta facendo realizzare un nuovo reliquiario dedicato al Giubileo e alle vittime del COVID.

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il trecentonovelle di franco sacchetti/5 Il ritratto di Dante Alighieri realizzato ad affresco da Luca Signorelli nella Cappella Nova (o di S. Brizio) del Duomo di Orvieto. 1499-1502. Franco Sacchetti fa dell’autore della Commedia il protagonista delle novelle CXIV e CXV del Trecentonovelle. Nella pagina accanto fabbri al lavoro in una tavola tratta da un’edizione dello Speculum vitae humanae di Rodericus Zamorensis. 1479. Collezione privata.

Artigiani alla sbarra di Corrado Occhipinti Confalonieri

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Tra fabbri che recitano la Commedia dantesca e artigiani che accusano Giotto di scarse doti pittoriche, Franco Sacchetti mette in mostra una classe lavoratrice assai variegata e dai comportamenti non sempre irreprensibili. Come nel caso di un gruppo di produttori di panni, i cui muli devastano i banchi del Mercato Vecchio di Firenze, facendo finire i loro proprietari davanti al giudice...

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a Firenze del Trecento rappresenta per Franco Sacchetti lo scenario ideale delle sue novelle: la città brulica di vita, di attività commerciali, di artisti e ha raggiunto i centomila abitanti, una cifra record, che non raggiungerà piú fino al diciannovesimo secolo. A causa di questa esplosione demografica, nel 1333 viene conclusa la sesta cerchia (la seconda in epoca comunale) con una circonferenza di otto chilometri e mezzo. Un osservatore che dalle colline circostanti vedeva la metropoli per la prima volta restava sbalordito: le mura erano alte dodici metri e spesse due, coronate da merli; ogni centoquindici metri, settantatré torri d’avvistamento alte ventitré metri si aggiungevano alle centinaia dislocate all’interno, proprietà delle famiglie piú importanti. In questo microcosmo, Sacchetti trova tante storie e tanti personaggi per le sue novelle, anche ispirate al sorprendente rapporto fra gli artigiani e i grandi personaggi del suo tempo. Dante Alighieri (novella CXIV) passa nei pressi di Porta San Piero e qui si accorge che «battendo ferro uno fabbro su la ’ncudine, cantava il Dante come si canta uno cantare [ovvero non solo ritmicamente, come una filastrocca, ma con notevole libertà di varianti] e tramestava i versi suoi, smozzicando e appiccando [accorciandoli e allungandoli] che pare a Dante ricever di quello grandissima ingiuria». Senza dire una parola, il sommo poeta «s’accosta alla bottega del fabbro, là dove avea di molti ferri con che facea l’arte [il suo mestiere]; piglia Dante il martello e gettalo per la via, piglia le tanaglie e getta per la via, piglia le bilance e getta per la via, e

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il trecentonovelle di franco sacchetti/5 A sinistra statua di Giotto di Bondone, opera di Giovanni Dupré. 1845. Firenze, Loggiato degli Uffizi. Il grande artista compare nella novella LXIII del Trecentonovelle. A destra una vivace scena di vita cittadina, nella quale si riconoscono vari artigiani al lavoro; porzione del ciclo affrescato Allegoria ed Effetti del Buono e Cattivo Governo, realizzato da Ambrogio Lorenzetti e dalla sua bottega nel Palazzo Pubblico di Siena tra il 1338 e il 1339.

cosí gittò molti ferramenti». Il fabbro è furente: «Che diavol fare voi? Sete voi impazzato?». Il poeta ribatte: «O tu che fai?» e il fabbro risponde che sta svolgendo il suo lavoro «e voi guastate le mie masserizie, gittandole per la via». Dante replica: «Se tu non vogli che io guasti le cose tue, non guastare le mie». Il fabbro non capisce, non ha riconosciuto l’autore dei versi che stava recitando: «O che vi guast’io?» e lo scrittore: «Tu canti il libro o non lo di’ com’io lo feci; io non ho altr’arte, e tu me la guasti». Il fabbro «gonfiato [arrabbiato]» raccoglie le sue cose e torna al suo lavoro e «se volle cantare, cantò di Tristano e di Lancelotto e lasciò stare il Dante [l’opera di Dante]».

Tutti conoscono la Commedia

In questa novella, sorprende che un fabbro abbia imparato a memoria la Commedia, segno di una conoscenza diffusa dell’opera dantesca anche nei ceti popolari – nonostante la stampa venga inventata da Johann Gutenberg solo alla metà del Quattrocento

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il trecentonovelle di franco sacchetti/5 –, ma anche che il Tristano venisse considerato un testo alla portata di tutti. Oltre agli artigiani, Dante viene cantato malamente anche dai prestatori di servizi (CXV). Un giorno il poeta cammina per la città indossando «la gorgiera e la bracciaiuola [con l’armatura a riparare gola e braccia]», un’antica moda fiorentina. Questo dettaglio conferma come Dante fosse anche un uomo d’arme, una circostanza provata storicamente dalla sua partecipazione, l’11 giugno 1289, alla battaglia di Campaldino, che aveva visto contrapposti i Fiorentini, in larga parte guelfi, agli Aretini, in maggioranza ghibellini. Il poeta si imbatte dunque in «uno asinaio, il quale avea certe some di spazzatura innanzi: il quale asinaio andava drieto agli asini cantando il libro di Dante, e quando aveva cantato un pezzo, toccava l’asino e diceva: “Arri” [voce onomatopeica d’incitamento per sollecitare le bestie da soma]». Il poeta irritato gli assesta una «grande batacchiata [urtone]» sulla spalla e gli dice: «Cotesto Arri non vi miss’io». L’asinaio è stupito del gesto, non sa che ha di fronte l’autore dei versi e neppure il motivo dello spintone; per dispetto, ripete a gran voce «Arri, arri» e quando si allontana un po’ «si volge a Dante, cavandoli In alto miniatura raffigurante un corvo (animale citato a p. 71), da un’edizione del Livre des propriétés des choses. 1447. Amiens, Bibliothèque Municipale. A sinistra tondo con lo stemma dell’Arte dei Beccai (macellai), realizzato dalla Manifattura Ginori. Firenze, Orsanmichele. Nella pagina accanto replica del tondo con lo stemma dell’Arte della Lana (l’originale è opera della bottega di Andrea Della Robbia).

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la lingua e facendoli con la mano la fica [gesto osceno] e gli dice “Togli! [prendi!]”». Il poeta non si scompone: «Io non ti darei una delle mie per cento delle tue». Sacchetti conclude ammirato: «O dolci parole piene di filosofia [significato]! Che sono molti che sarebbono corsi dietro all’asinaio e gridando e nabissando [facendo sfracelli]; ancora tali che averebbono gittate le pietre; e ’l savio poeta confuse l’asinaio, avendo commendazione [lode] da qualunche intorno l’avea udito, con cosí savia parola, la quale gittò contr’a uno sí vile uomo come fu quell’asinaio».

Lo stemma sullo scudo

Anche Giotto ha una disavventura con un ammiratore «di picciol affare [condizione umile]» a cui dà una lezione (LXIII). «Sentendo la fama sua un grossolano artefice [artigiano] e avendo bisogno forse per andare in castellaneria di far dipignere un suo palvese, subito n’andò alla bottega di Giotto avendo chi gli portava il palvese drieto e giunto dove trovò Giotto». Il palvese è uno scudo da parata, ricoperto di stoffa, dipinta di solito con l’insegna araldica del proprietario. L’artigiano aveva ricevuto probabilmente l’incarico di dirigere un castello, nel Medioevo una delle cariche minori che potevano toccare a un cittadino. Senza neppure presentarsi, l’uomo chiede al maestro di dipingere il suo stemma sullo scudo, senza specificare quale sia. Giotto accetta il compito ma poi si chiede: «Che vuol dir questo? Sarebbemi stato mandato costui per ischerne [scherno]? Sia che vuole; mai non mi fu recato palvese a dipignere: e costui che ’l reca è un omicciatto semplice, e dice che io gli facci l’arme sua, come se fosse de’ reali di Francia; per certo io gli debbo fare una nuova arme». Prende lo scudo, ci disegna sopra quello che gli pare e incarica un suo allievo di colorarlo. Il risultato è «una cervelliera, una gorgiera, un paio di bracciali, un paio di guanti di ferro, un paio di corazze, un paio di cosciali e gamberuoli, una spada, un coltello e una lancia [elmo, piastra a difesa del collo, coperture per le braccia, guanti, corazza per il torace,

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coperture per cosce e stinchi, spada pugnale e lancia]», l’armamentario generico di un cavaliere. Quando l’artigiano va a ritirare lo scudo, rimane di sasso: accusa Giotto di averlo solo imbrattato e si rifiuta di pagare il lavoro. Alla domanda di Giotto su cosa voleva che dipingesse, risponde: «l’arme mia», il maestro replica che sullo stemma ci sono tutte le armi e aggiunge: «Déi essere una gran bestia, che chi ti dicesse: “Chi sei tu?” a pena lo sapresti dire; e giungi qui, e di’: “Dipingimi l’arme mia”. Se tu fossi stato de’ Bardi, sarebbe bastato [dirmi cosí sarebbe bastato se tu fossi stato un personaggio noto]». Giotto ha portato come esempio i Bardi, celebri banchieri di cui tutti conoscevano lo stemma araldico. Il maestro aggiunge: «Che arma porti tu? Di qua’ sei tu? Chi furono gli antichi tuoi? Deh, che non ti vergogni! Comincia prima a venire al mondo, che tu ragioni d’arma, come stu fussi il Dusnam di Baviera». L’artista si riferisce al duca Namo di Baviera, personaggio dei romanzi cavallereschi. La forma Dusnam pare derivi dalla pronuncia distorta dei testi francoitaliani che, come abbiamo visto prima nel caso del fabbro, erano assai diffusi all’epoca. Giotto conclude dicendo: «Io t’ho fatta tutta armadura sul tuo palvese; se ce n’è piú alcuna [se manca qualcosa], dillo e io la farò dipignere». La diatriba ha strascichi legali: l’artigiano si rivolge al tribunale della Grascia incaricato di risolvere le controversie commerciali. I giudici convocano Giotto, gli danno ragione e condannano il committente al pagamento della commessa. Sacchetti trae dalla vicenda una caustica conclusione: «Cosí costui non misurandosi, fu misurato [incapace di valutare se stesso, fu valutato dal tribunale]; ché ogni tristo [persona di infimo stato] vuol fare arma e far casati; e chi? Tali che li loro padri saranno stati trovati agli ospedali [i loro padri saranno stati dei trovatelli, allevati per carità]». La battuta allude alla funzione principale degli ospedali, che nel Medioevo era quella di accogliere i bimbi orfani o abbandonati. A Firenze, chi voleva abbandonare i bam-

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il trecentonovelle di franco sacchetti/5

Miniatura raffigurante la bottega di un venditore di carne ovina, da un’edizione del Tacuinum Sanitatis. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek. Nella pagina accanto miniatura cinquecentesca raffigurante un tosapecore al lavoro.

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bini, ma lasciando loro anche una speranza di sopravvivenza, li portava sotto la loggia del Bigallo. Qui c’era la sede dei Capitani della Misericordia, che raccoglievano ed esponevano i bimbi con la speranza di trovare donne misericordiose disposte a fare loro da madri, prima di portarli negli ospedali. La sdegno dell’autore in questa novella per l’atteggiamento dell’artigiano mostra il degrado della società comunale, ben lontana dall’immagine di una realtà fatta di ruoli e funzioni ben definite che davano identità ai cittadini. Giovanni Boccaccio, nel Decameron (giornata VI, novella 2) racconta di Cisti, un fornaio che per fare amicizia con un gruppo di nobili gli offre il suo vino migliore, ma sa stare al suo posto: quando viene invitato a una loro festa, rifiuta. In queste novelle di Sacchetti assistiamo invece a un’invasione di campo da parte di artigiani e di prestatori di servizi che viene prontamente sventata sia da Dante che da Giotto. Entrambi sanno che l’ordine sociale in una grande città nella quale si mescolano popolo grasso (borghesi ricchi), popolo minuto (artigiani, lavoratori salariati, plebe) e una grande moltitudine di poveri dev’essere preservato, al fine di evitare pericolose e violente rivolte.

Il mercato a soqquadro

muli «vollono delle frutte; e verso la Lisa trecca [rivenditrice di verdure al minuto] s’inviarono e voltorono con li calci tutti i loro panieri, assai si potesseno elle arrostare [le ortolane non potevano difendersi]. I panni delle gualchiere che aveano a dosso tutti gli aveano gittati per terra, e quali erano su per li deschi; ed e’ castroni erano per terra. E quando ebbano assai tempestato, s’andarono a rinfrescare con monna Menta che vendea l’erbe e là si rodeano sue lattughe e suo’ camangiari [erbe da cottura]». In questa scena, notiamo che anche le donne tengono i banchi del mercato, sono piccole imprenditrici locali, come del resto avveniva anche in altre città, per esempio a Piacenza, dove troviamo donne vedove che portano avanti l’attività del marito anche in lavori pesanti come i fabbri.

Linciaggio mancato

Tutto affannato, il proprietario dei muli riesce a riprenderli, i commercianti che hanno subito danni lo coprono d’insulti: «Sozzo ladro, sozzo traditore, tu ci hai disfatti», lo stanno per ammazzare, se non fossero intervenuti altri cittadini, che, per calmare gli animi, suggeriscono di portare l’artigiano dal podestà per ottenere l’indennizzo. «Costoro convertirono la loro furia in menarlo [portarlo] preso al Podestà; e non poté ricogliere i panni né menar seco i muli; li quali furono legati a’ piedi

Nella novella CLX, ambientata sempre a Firenze, lo impara a sua spese un artigiano tessile: «Non è molti anni che in Mercato Vecchio (...) era allevato un corbo [corvo], tanto piacevole a far male quanto fosse altro fosse mai. Il quale uno dí di sabato santo, quando la beccheria [macelleria] era piú fornita di carne e e’ cittadini in moltitudine a comperarne, essendo venuto a un desco molto ben fornito di castroni [agnelli castrati] uno con dua muli carichi di panni che veníano dalle gualchiere [battipanni, macchine che comprimono la lana, di solito mosse dall’acqua dei mulini e quindi poste sull’Arno] e lasciato i muli da parte e comprando castrone, [il corvo] si mosse a volo e, postosi su uno soccodagnolo [sottocoda] de’ detti muli, volto con la coda verso la groppa del mulo cominciò a chinar la testa verso il rotto [ano] del detto mulo ed entro vi diede del becco. Il qual mulo sentendosi bezzicare quel luogo, di che piú sono schifi [infastiditi], come ciascuno puote imaginare, cominciò a trarre e a tempestare sí diversamente che, dando tra le caviglie [stanghe per appendere la carne offerta in vendita] e tra’ castroni, tutti facendoli cadere, con questi calci diede tra’ deschi de’ tavernai [commercianti]. L’altro benché non fosse trafitto, con grande diversità [violenza] seguía il compagno traendo e saltando non men di lui» perfino sui banchi del mercato; intanto, i commercianti e i clienti si rifugiano nelle botteghe. Finito di danneggiare i banchi dei macellai, i

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il trecentonovelle di franco sacchetti/5 Statua di Michele di Lando, uno dei leader della rivolta dei Ciompi (1378), collocata in una delle nicchie angolari della fiorentina Loggia del Mercato Nuovo e opera dello scultore pugliese Antonio Bortone. 1895.

d’un desco»; altri macellai erano rimasti a raccogliere la carne finita per terra e «veggendola convolta nel fango e guasta, sí come arrabbiati si mossono con coltellacci e con stangoni ad andare verso i muli e a loro, come avessono a mazzicar verri [come dovessero ammazzare maiali], con li coltellacci di piatto e con gli stangoni gli mazzicarono per tal forma [li colpirono tanto] che quasi guasti rimasono». Gli animali da soma erano una risorsa importante per le famiglie medievali, spesso la loro unica fonte di reddito. Altri cittadini, mossi da pietà, raccolgono da terra e piegano i panni che venivano dalle gualchiere, tutti rovinati e tagliati dai ferri dei macellai. Di fronte al podestà, il povero artigiano si difende come può: «Signor mio io non ci ho colpa, però che io venía dalle gualchiere e portava panni a certi lanaiuoli nella Vigna, di che passando per mercato io lasciai li muli da parte e comperava un poco di castrone; li muli non so ch’elli hanno pericolato tutta quella piazza; e di ciò io sono dolente, non è mia colpa». Il poveretto non sa che la causa dei suoi muli imbizzarriti è il corvo. Il podestà mette l’uomo in prigione, vuole andare a fondo della questione e scoprire la verità. Nel frattempo, la notizia giunge nel quartiere in cui vivono i lanaioli proprietari dei panni danneggiati, che si recano al Mercato Vecchio per sapere cosa fosse successo: «Fu detto loro a passo a passo come il fatto era andato e del principio del corvo e d’ogni altra cosa». Quando gli artigiani vedono i loro panni danneggiati e i muli feriti, montano su tutte le furie: «Andiamo al Podestà noi, e vedremo se ci fia [sarà] fatta ragione e se l’Arte della lana e que’ che fanno i panni in Firenze sono venuti sí al poco che parecchi ladroncelli di beccai li trattino a questo modo». Al proposito, possiamo segnalare che scene di questo tenore sono state talvolta riprese nell’arte, come nel caso degli affreschi dell’oratorio di S. Stefano a Lentate sul Seveso (Monza e Brianza), risalenti al 1369, nei quali vediamo condannati all’inferno anche alcuni macellai che hanno venduto carne barando sul peso e sulla freschezza, riconoscibili per la mannaia appesa al collo. Punti sul vivo, i beccai replicano: «E voi andate al Podestà; ché se voi vendete e fate panni, noi vendiamo la carne, la quale nutrica questo popolo». Sta per scoppiare una rissa, un lanaiolo tira fuori il coltello, ma un altro, piú ragionevole, invita tutti a presentarsi dal podestà con i muli feriti e i panni «tinti in loto [nel fango]». Davanti al giudice una frotta di beccai espone le proprie ragioni: «Messer lo Podestà non credete loro, però che per maggioranza [perché sono di piú] ci vogliono torre il nostro; noi siamo poveri uomeni, e hannoci questi loro

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muli concio sí oggi la nostra mercatantia che non ce ne rizzeremo a panca [non ci risolleveremo] di questo anno; li muli e’ panni son fatti come là vennono; ma la carne nostra non si può celare: mandate il vostro cavaliere [ispettore] a vederla ché non troviamo alcuno che ne voglia dare denaio». I lanaioli si difendono dalle accuse: «Questi muli hanno avuto tante stangonate, e con coltellacci e con ogni altra cosa, da loro, che di cento fiorini che valeano non se ne troverebbe quaranta, sanza i panni che son peggio assai piú; noi vi preghiamo che voi ci facciate ragione».

Un verdetto salomonico

Le accuse reciproche continuano, finché il podestà manda via tutti: prenderà una decisione dopo aver indagato; scopre cosí che l’origine di tutto è stato il corvo. Convoca le due parti in lite e, per sedare gli animi, conclude: «Savi lanífici e beccari: io aggio molto pensato su questa vostra questione, e ho veduto che ’l nimico dell’umana ienerazione [il demonio] s’è ingegnato di commettere rissa e scandalo tra voi, li quali dovete essere uniti come fratelli; però che come l’Arte della lana e quella della beccheria paiano molto dissimilanti, elle sono tutte una; però che [poiché] della pecora si può dicere sia principio l’arte di ciascuno. L’uno di voi fa l’arte con la sua lana e l’altro con la sua carne. E che ’l nimico di Dio ci abbia fatto quello che detto v’è, io vel mostro, e ancora vi voglio mostrare che ogni rettore non può mai dare diritto iudicio se non truova la radice e ’l fondamento d’ogni delitto e d’ogni questione che inanzi gli viene; e io cosí ho trovato in questa vostra questione. E per farvi di ciò chiari, voi dovete sapere, è cosí ho saputo io, che un corbo è stato principio di tutto questo male; e sapete che ’l corbo è proprio affigurato [paragonabile] al demonio però ch’egli è nero e ha voce infernale e tutte l’opere sue sono a far e a operare male; e tutta questa è la natura del demonio. Cosí ha fatto questo maledetto corbo, che è venuto a mettere scandolo tra quelle due arti che fanno mestiero [lavorano] di quello animale dove nel figliuolo è affigurato l’agnello di Dio; sí che si può dire questa questione essere tra ’l corbo e la pecora. E se qui ciò è come vedete, la questione mosse il diavolo e mossela contro il figliuolo di Dio, cioè contra la pecora e l’agnello suo figliuolo. E però, figliuoli miei, siate fratelli e comportate [sopportate] in pazienza il danno che avete ricevuto, ché da nessuno di voi è venuta la colpa. Colui da cui ella è venuta, cioè quello maladetto corbacchione, se ce lo potrò avere, punirò lui e uno ch’ha nome Luisi barattiero che lo tiene, in forma che sarete contenti». La decisione salomonica cosí ben argomentata sembra accontentare le due parti in causa, il corvo e il suo proprietario scappano a Roma fino al termine del mandato del podestà che rimaneva in carica un anno. Viene cosí evitato un tumulto popolare che all’epoca si ingenerava anche per futili motivi come questo: nel modo in cui i macellai e i tessili espongono le loro ragioni al podestà, si trova l’eco di reali conflitti

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La raffigurazione dell’Inferno nel Giudizio Universale affrescato nell’oratorio di S. Stefano a Lentate sul Seveso (Monza e Brianza). 1369. In primo piano si riconoscono i macellai, identificabili dai coltelli che portano appesi al collo, condannati per aver frodato la clientela sul peso e la freschezza delle carni vendute.

sociali già avvenuti. Sacchetti ricorda bene la rivolta dei Ciompi del 1378, nome dei salariati addetti alla lavorazione della lana, provocata dalle spese per la fallimentare guerra degli Otto Santi (Firenze e altre città contro lo Stato pontificio), che aveva fortemente impoverito la città. Le corporazioni artigiane avevano organizzato una sollevazione popolare per protestare contro i banchieri e i mercanti che detenevano il potere cittadino. A loro si erano uniti i Ciompi che, essendo in gran numero, avevano preso il controllo della piazza. La restaurazione del popolo grasso era avvenuta quattro anni piú tardi. L’episodio raccontato nella novella, all’apparenza comico, costituisce quindi una parodia dei tumulti popolari; il commento di Sacchetti alla novella precedente, simile a questa, lo porta a concludere con amarezza: «Or pensino quelli che tengono gli stati, quanto è leggiera cosa quella che fa muovere a rumore i popoli! Per certo che vi pensasse, quanto piú gli paresse essere di grande stato, con maggior paura viverebbe. E se ciò è intervenuto in molti popoli già, pensa tu, lettore, e sotto qual fidanza [fiducia] si può star sicuro».

NEL PROSSIMO NUMERO ● I religiosi

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di Jerzy Miziołek

copernico

L’inizio di un nuovo mondo

Il suo diagramma con il sole al centro è, insieme all’Uomo Vitruviano di Leonardo da Vinci, un’icona del Rinascimento. Oggi, a 550 anni dalla sua nascita, celebriamo il padre della moderna astronomia. Ricordando come il rivoluzionario modello dell’universo da lui evocato si rifletta nelle opere di artisti del calibro di Giorgione, Michelangelo, Tintoretto...

Ritratto di Niccolò Copernico inserito alla sinistra del monumentale orologio astronomico della cattedrale di Strasburgo. 1571-1574. L’opera di Tobias Stimmer si basa sull’autoritratto del grande scienziato.


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ome si addice a un vero uomo del Rinascimento, Nicolaus Copernicus (1473-1543) non fu solo astronomo, matematico, avvocato, medico, traduttore, esperto di economia e strategia militare (difese il castello di Olsztyn dagli attacchi dei Cavalieri Teutonici), ma fu anche attratto dalla pittura. È stata infatti avanzata l’ipotesi che nel periodo in cui studiò a Bologna (1496-1500) abbia preso lezioni di pittura dall’allora famoso Francesco Francia. All metà del XVII secolo, Pierre Gassendi, filosofo francese al quale si deve una biografia del nostro astronomo, scrisse: «Si preoccupò di apprendere tutti i campi del sapere e quindi si dedicò allo studio della prospettiva, interessandosi in questa occasione alla pittura. Divenne cosí esperto che, si dice, re-

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alizzò perfettamente il suo ritratto utilizzando uno specchio. Inoltre, gli fu consigliato di raffigurare tutto ciò che aveva in mente. Quando viaggiava, soprattutto in Italia, esprimeva ciò che era degno di nota, non solo con schizzi ma il piú possibile con la pittura».

La vera immagine

Le parole di Gassendi sono confermate dall’iscrizione che accompagna l’immagine di Copernico sull’orologio della Cattedrale di Strasburgo (1571-1574), dove si vede la sua figura a grandezza quasi naturale, seduta e seminascosta dietro una grande targa, con l’iscrizione: «Vera immagine di Nicolaus Copernicus fatta secondo il suo autografo» (vedi foto in apertura, a p. 75). Lo conferma anche Conrad Dasypodius, autore del program-

Nella pagina accanto Battaglia di Isso, olio su tavola di Albrecht Altdorfer. 1529. Monaco di Baviera, Bayerische Staatsgemäldesammlungen-Alte Pinakothek. In basso l’edizione manoscritta del De revolutionibus in cui Niccolò Copernico disegnò il sistema solare. 1543. Cracovia, Università Jagellonica, Collegium Maius.

ma iconografico dell’orologio, con queste parole: «Il ritratto raffigura il grande scienziato, il matematico Nicolaus Copernicus, ed è una copia fedele di un’effigie fornita da Danzica dallo stimato scienziato, il dottor Tidemann Gyse. Il ritratto è stato riprodotto il piú accuratamente possibile dall’originale da Tobias Stimmer». L’autoritratto originale è andato purtroppo perduto, ma la sua copia di Strasburgo è stata riprodotta in

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Dossier Niccolò Copernico in un olio su tavola di autore anonimo. 1580. Torun, Municipio, Sala dei Borghesi. Nella pagina accanto i frontespizi di due edizioni del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo di Galileo Galilei. A sinistra, in un’edizione del 1632, Copernico appare, alla destra, come un anziano, barbato, insieme ad Aristotele e Tolomeo; a destra, in un’edizione di poco posteriore (1641), ha invece le sembianze di un giovane.

Note biografiche

La vita di un «rivoluzionario» Niccolò Copernico nacque a Torun il 19 febbraio (il 29, secondo il calendario gregoriano) del 1473 e morí il 24 maggio (3 giugno, secondo il calendario gregoriano) del 1543 a Frombork. Il padre, Mikołaj Kopernik, era un mercante, nato e cresciuto a Cracovia da una famiglia originaria di Koperniki, un villaggio della Slesia, mentre la madre, Barbara Watzenrode, era una nobildonna di ascendenza tedesca, nata e cresciuta a Torun. Criticando severamente il sistema eliocentrico, lo

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studioso tedesco Filippo Melantone, chiamava Copernico «astronomo sarmatico», ovvero polacco. Copernico fu sempre un suddito fedele del regno di Polonia. Rimasto orfano di entrambi i genitori, venne adottato dallo zio materno, Lucas Watzenrode, vescovo cattolico della Varmia (regione settentrionale della Polonia). Nel 1491 entrò all’Università di Cracovia. Di questo periodo, e del suo approccio all’astronomia, che studiò con Wojciech di Brudzewo, restano alcune sue entusiastiche descrizioni in

testi oggi conservati nella biblioteca di Uppsala. Nel 1496 si recò in Italia, dove studiò diritto presso l’Università di Bologna e incontrò Domenico Maria Novara, già celebre astronomo, con cui fece osservazioni astronomiche nel 1497. Nello stesso anno Copernico divenne canonico di Frombork. Nel marzo del 1500 giunse a Roma, dove osservò una eclissi e dove, secondo Rhaeticus e Gassendi, tenne lezioni di astronomia. Nel 1501 andó a «prendere servizio» a Frombork e subito ottenne il giugno

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numerose incisioni che hanno permesso di cogliere, con molti adattamenti e ripetizioni, il caratteristico volto dell’astronomo cosí come lo conosciamo oggi. Anche le tracce dell’attività di Copernico nell’arte del disegno sono giunte fino a noi; si tratta degli schizzi compresi nel manoscritto del De revolutionibus (1543) e, soprattutto, di un vero e proprio capolavoro, il diagramma

permesso di tornare in Italia, al fine di completare la sua formazione, prima a Padova, studiando medicina, e poi a Ferrara dove si adottoró in diritto canonico nel mese di maggio 1503. In Italia imparò il greco, riuscendo cosí a leggere in lingua originale le opere degli autori classici, in particolare quelle di Tolomeo. Lasciata l’Italia, tornò a Frombork, dove divenne membro del Capitolo di Varmia e nel castello di Olsztyn, dove passò quattro o cinque anni, fece alcune osservazioni importanti e scrisse una parte della sua opera principale De revolutionibus, dedicata a papa Paolo III (1534-1549). Già intorno al 1510

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con il Sole al centro (vedi foto a p. 76), che è una delle icone del Rinascimento, insieme all’Uomo Vitruviano di Leonardo da Vinci inscritto in un cerchio e in un quadrato.

La dedica per il papa

Un affascinante riferimento alla pittura si ritrova nella dedica a papa Paolo III aggiunta da Copernico al De revolutionibus e in una

distribuí tra i suoi amici alcune copie del Commentariolus, un breve trattato nel quale presentava le sue innovative teorie sulla struttura del cosmo e sul moto dei pianeti, della Luna e del Sole ed esplicitava i sette postulati su cui si fonda la sua teoria eliocentrica. Fu Maciej di Miechów, professore dell’Università di Cracovia, a documentare per primo l’esistenza del Commentariolus nel marzo 1514, in cui si legge: «Tutte le sfere ruotano intorno al Sole»: iniziava cosí una nuova era nella storia della scienza. Da molte parti del continente gli pervennero infatti pressanti inviti a pubblicare

sua traduzione delle Lettere morali (la prima in assoluto) del poeta bizantino Teofilatto Simocatta, pubblicata a Cracovia nel 1509. La dedica recita: «Essi [gli antichi astronomi] non riuscirono a ricavare la cosa piú importante, cioè la disposizione dell’universo e l’ordine stabilito delle sue parti, ma accadde loro la stessa cosa che accadrebbe a chi prendesse da qui a lí le braccia, le

i suoi studi, ma Copernico, non senza ragione, temeva la prevedibile reazione che le sue idee, per certi versi destabilizzanti, avrebbero potuto suscitare. Una sorta di riassunto delle ricerche di Copernico fu pubblicato dal suo unico allievo, Rhaeticus, nel libro intitolato Narratio prima (1540). Nel 1543, sul letto di morte, a Copernico venne consegnata la prima copia a stampa del volume De revolutionibus orbium coelestium, libro che segna l’inizio della cosiddetta rivoluzione scientifica. Nell’arco di 150 anni Keplero, Galileo e Newton confermarono in maniera convincente il sistema eliocentrico di Copernico.

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Dossier «Si è tentati di considerare [la pubblicazione del De Revolutionibus orbium caelestium] come quella della “fine del Medioevo e l’inizio dei tempi moderni”, perché, molto piú della conquista di Costantinopoli da parte dei Turchi o della scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo, segna la fine di un mondo e l’inizio di uno nuovo. Eppure, sarebbe forse una valutazione sbagliata: il taglio operato da Copernicus non segna solo la fine del Medioevo. Segna la fine di un periodo che abbraccia sia il Medioevo che l’Antico, perché è con Copernico, e solo da allora, che l’uomo non si trova piú al centro del mondo». (Alexandre Koyré, 1943) gambe, la testa e altre parti del corpo e le dipingesse, è vero, molto bene, ma in modo tale che, riferendosi a uno stesso corpo, non corrispondessero l’una all’altra e risultasse una specie di scherzo della natura piuttosto che l’immagine di un essere umano». Parole che sembrano suggerire come il loro autore fosse ben consapevole dei disegni di Francesco di Giorgio Martini e dell’Uomo Vitruviano di Leonardo da Vinci.

Fonte d’armonia

Un altro esempio dei legami del nostro astronomo con il mondo dell’arte è l’impronta di una gemma antica, probabilmente incastonata in un anello con sigillo, conservata sulle pagine delle sue lettere; l’anello è andato perduto, ma ne rimane, appunto, l’impronta. La gemma raffigurava Apollo citaredo ricoperto solo da un manto che gli cade sul fianco dalle spalle: una rappresentazione della divinità solare, concepita come fonte dell’armonia, anche musicale, del cosmo. Il simbolismo della gemma

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si sposa perfettamente con il contenuto del De revolutionibus, in cui si intrecciano filoni di pensiero artistico ed estetico caratteristici del Rinascimento, che si riferiscono alla semplicità, alla chiarezza, alla perfezione e all’armonia della bellezza. Ci si chiede se la cosiddetta Rivoluzione copernicana – che ha radicalmente modificato la visione del Cosmo e ha assegnato al Sole il posto che gli spetta nel nostro universo – abbia influenzato la cultura artistica del Rinascimento e delle epoche successive. Molti tentativi sono già stati fatti per rispondere a questa domanda, considerando le opere, tra gli altri, di artisti come Giorgione, Michelangelo e Tintoretto. Tuttavia, vale la pena ricordare le parole di Galileo Galilei, il quale, in una lettera a Keplero, il grande sostenitore dell’eliocentrismo, scrisse che anche lui «lavora da molti anni nello spirito di questa teoria, ma non può osare pubblicare le sue deduzioni per timore della sorte di Copernico, il quale, sebbene abbia

conquistato per sé una fama immortale presso alcuni, ha purtroppo incontrato il ridicolo e la condanna tra innumerevoli (perché tale è il numero degli sciocchi)». Eppure l’ammirazione copernicana per il Sole e il suo splendore, probabilmente predicata già durante gli studi a Cracovia e nelle università italiane (Bologna, Padova, Ferrara, Roma), aveva il suo potere. Nel marzo del 1514 Maciej di Miechów, professore dell’Università di Cracovia, notò l’esistenza di un Commentariolus (Piccolo commento) di Copernico con il seguente pensiero: «Tutte le sfere ruotano intorno al Sole». Grazie a Copernico, la nostra stella portatrice di vita cessò di essere un disco piatto con raggi dorati e divenne una sfera incandescente come, per esempio, nella Battaglia di Isso di Albrecht Altdorfer, dipinta nel 1529 e conservata nell’Alte Pinakothek di Monaco (vedi foto a p. 77).

Un terzetto illustre

Mentre Copernico studiava ancora a Padova e lavorava al suo dottorato a Ferrara (1503), Giorgione iniziò forse a dipingere un quadro con tre saggi e una luce dorata e splendente che evocava uno stato d’animo particolare, prima sconosciuto (vedi foto alla pagina accanto). Nel 1525, nella casa di Taddeo Contarini a Venezia, il cronista Marcantonio Michiel vide questo particolare dipinto tra quattro opere di Giorgione e lo descrisse come segue: «La tela, dipinta a olio, di tre filosofi in un paesaggio, due in piedi, uno seduto che contemplano i raggi del sole, con la roccia resa cosí meravigliosamente, fu iniziata da Zorzi [Giorgio] da Castelfranco e terminata da Sebastiano il Veneziano». I filosofi sembrano essere matematici o astronomi e il piú anziano di loro ha in una mano un foglio con complessi calcoli astronomici e la scritta celus, mentre nell’altra tiene un compasso. Al centro c’è giugno

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un uomo in abiti orientali, con turbante e doppia tunica. Il terzo è un giovane vestito con una tunica che ricorda le vesti degli antichi greci; tra le mani ha un compasso e una squadra per i calcoli geometrici, mentre guarda con estasi quasi mistica i raggi del Sole. Si tratta davvero del giovane Copernico, come suggeriscono alcuni studiosi? L’ipotesi è del tutto plausibile, soprattutto se si considera che Contarini, proprietario del dipinto, e il pittore stesso erano persone colte, che conoscevano bene gli strumenti astronomici. Giorgione

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li aveva raffigurati, tra l’altro, negli affreschi di una delle case della sua città natale, Castelfranco Veneto. I riferimenti all’astronomia nel dipinto in questione indirizzano il pensiero verso i Re Magi, ma l’identificazione piú probabile dei «tre filosofi» è con Aristotele, Tolomeo e Copernico. Il giovane filosofo di Giorgione, allontanatosi dalle antiche autorità – fondatrici della teoria geocentrica – contempla i raggi del Sole, cercando le proprie innovative soluzioni. Le raffigurazioni di questi tre astronomi, seppure con un ap-

I tre filosofi, olio su tela del Giorgione (al secolo, Giorgio da Castelfranco). 1508-1509. Vienna, Kunsthistorisches Museum. Tradizionalmente identificati con Pitagora, Ferecide di Siro e Talete, oppure con i Re Magi, i personaggi, secondo recenti ipotesi, potrebbero invece essere Aristotele, Tolomeo e Niccolò Copernico, che sarebbe il piú giovane dei tre, seduto.

proccio leggermente diverso, godettero di grande popolarità nei secoli successivi. Le troviamo, per esempio, nel frontespizio dell’opera di Galileo Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, Tolomeo e Co-

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pernico (1632). Qui l’autore del De revolutionibus è reso come un vecchio barbato, in piedi, alla destra dei suoi due predecessori, nel campo dell’osservazione celeste (vedi foto a p. 79, a sinistra). Nonostante la fantasiosa rappresentazione di un Copernico barbato, nell’opera di Galileo si nota un nuovo attributo tenuto in mano come simbolo della sua grande scoperta, un disco radiato del sole con l’orbita della terra e della luna che girano intorno a esso; il tutto strutturalmente collegato da una croce e posto su un’asta. Appena tre anni dopo l’edizione italiana dell’opera di Galileo, ne fu pubblicata un’altra nei Paesi Bassi; questa volta il volto del nostro astronomo è già giovanile, come quella del perduto autoritratto diffuso dalle incisioni (vedi foto a p. 79, a destra). Colpisce il fatto che il frontespizio delle edizioni successive del Dialogo... metta in evidenza la posizione sempre piú dominante di Copernico, che, invariabilmente posizionato a destra, cresce, fino a superare definitivamente Aristotele e Tolomeo.

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In alto il sistema copernicano in una tavola realizzata per l’Harmonia Macrocosmica di Andreas Cellarius. 1660. A destra Il Paradiso (particolare), olio su tela del Tintoretto (al secolo, Jacopo Robusti), affiancato per il completamento dell’opera dal figlio, Domenico Robusti. 1588-1592. Venezia, Palazzo Ducale, Sala del Maggior Consiglio.

Inoltre, il suo attributo con il disco solare al centro, originariamente abbassato, viene sollevato sempre piú in alto fino a quando, nelle edizioni del libro stampate intorno al 1700, viene trionfalmente sollevato verso l’alto e colorato. Prendendo come esempio quest’unica composizione con i tre astronomi, ma costantemente modificata, possiamo vedere come, grazie alle ricerche di Keplero, Galileo e infine Newton, il sistema solare di Copernico stesse diventando una verità sempre piú conosciuta e accettata.

L’omaggio di Wilkins

Del nostro discorso su Copernico e della fortuna della sua teoria eliocentrica dà conto anche il fa-

moso libro di Galileo, ma manca una sua immagine. La troviamo, insieme con quella di Copernico, in un’opera del teologo e filosofo inglese John Wilkins (1614-1672) del 1640. Si tratta di un volume che rappresenta una sorta di apologia di Copernico: A Discourse concerning a new Planet, tending to prove That ‘tis probable our Earth is one of the Planets. Wilkins, che fu autore anche di varie altre opere di argomento astronomico, studiò a Oxford, Londra e Cambridge, fu uno dei fondatori della Royal Society, giugno

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di cui fu il primo segretario. Nel 1668 divenne vescovo di Chester. In A Discourse concerning a new Planet, volle presentare la superiorità del sistema copernicano rispetto alle altre teorie, compresa quella di Tycho Brahe (Ticonio). Dimostrò anche l’assurdità del sistema geocentrico. Il trattato di Wilkins è interessante anche perché mostra il grado di accettazione della teoria dell’astronomo polacco in Inghilterra già prima della fine della prima metà del XVII secolo. «È degno di nota – scrive Wilkins

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– che tra i seguaci di Copernico non c’è quasi nessuno che non sia stato in precedenza contrario a lui o che non abbia avuto inizialmente un’istruzione approfondita basata sui principi di Aristotele. (...) D’altra parte, tra i seguaci di Aristotele e Tolomeo sono pochissimi quelli che hanno letto qualcosa su Copernico e che comprendono a fondo i fondamenti della sua teoria». Lo studioso inglese nota giustamente quanto sia difficile per le persone rifiutare la visione dell’Universo in cui sono cresciute e accettare «il paradosso copernicano condannato

nelle scuole e universalmente salutato come assurdo e ridicolo». Nelle sue riflessioni, John Wilkins conclude che coloro che ancora rifiutano la teoria eliocentrica, malgrado il fatto che essa sia fortemente «attestata dalle nuove scoperte» (si riferisce senza dubbio a Keplero e Galileo), si basano su queste tre premesse: il compiacimento acritico per le proprie ricerche, come nel caso di Tycho Brahe; il desiderio di violare l’autorità di Aristotele e Tolomeo; la decisa opposizione alla Bibbia;

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Frontespizio di un’edizione del Discourse Concerning a New Planet di John Wilkins, con un’incisione nella quale «dialogano» Niccolò Copernico, Galileo Galilei e Giovanni Keplero. 1640.

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dalle Scritture essi «traggono conclusioni filosofiche e ignorano i fondamenti dell’astronomia». Un’incisione che correda il Discourse di Wilkins (vedi foto a sinistra) mostra Copernico, Galileo e Keplero, sopra i quali è raffigurato un sistema solare con un disco radiante del Sole al centro, splendidamente rappresentato, e le personificazioni dei pianeti che vi orbitano intorno. È interessante notare che le sfere non sono ellittiche, come calcolato da Keplero, bensí circolari, come immaginato da Copernico, in linea con lo spirito del Rinascimento. L’autore del De revolutionibus è raffigurato a sinistra, con il simbolo della sua scoperta nella mano destra, mentre la sinistra indica un diagramma del sistema solare. Galileo Galilei è raffigurato a destra, con un telescopio nella mano destra, e Keplero, che gli sussurra all’orecchio, nascosto alle sue spalle. Tutti e tre sono identificati dalle iscrizioni incise nella parte inferiore; essi conversano tra loro, attra-

verso una sorta di fumetto ante litteram: Copernico dice: Quid, si sic? («E se cosí fosse?»); Galileo pronuncia queste parole: Hic eius oculi («Qui i suoi occhi»); Keplero, a sua volta, risponde: Utinam. Et alae («Magari. E le ali»). Quest’ultima battuta si riferisce probabilmente all’uccello in volo – un’aquila – visibile sopra la testa di Galileo. Ecco insomma un eccellente esempio del discorso sulla scoperta di Copernico prima che Isaac Newton facesse la sua comparsa nel firmamento dell’astronomia.

La teoria eliocentrica

Ma torniamo all’epoca di Copernico. Già nel 1533, le tesi principali del De revolutionibus, che, come abbiamo detto, era stato dedicato a Paolo III, furono presentate al suo predecessore Clemente VII, che commissionò un affresco per la parete dell’altare della Cappella Sistina. È probabile che la visione copernicana dell’Universo si riflettesse qui in modo spettacolare, come scrisse la storica dell’arte e giugno

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In alto Incoronazione della Vergine (detta anche Il Paradiso), olio su tela del Tintoretto. Ultimo quarto del XVI sec. Parigi, Museo del Louvre. Sopra la testa di Maria roteano sfere luminose il cui inserimento è probabilmente un’eco della diffusione delle teorie copernicane. A destra Giudizio Universale, olio su tela del Tintoretto. 1562-1563. Venezia, chiesa di S. Maria dell’Orto. Secondo l’autore di questo Dossier, quest’opera è quella che meglio esprime il travaso della teoria eliocentrica copernicana nella produzione artistica rinascimentale.

mecenate Karolina Lanckoronska nella sua tesi di dottorato del 1926 e successivamente in un articolo del 1933: «Una componente essenziale della totalità del Giudizio Universale è il movimento. Il movimento diventa quindi un concetto fondamentale nella nostra cultura. Negli stessi anni, infatti, lontano da Roma, in un’altra parte d’Europa, in un altro tipo di creazione, un uomo scopre che cos’è il movimento e scrive De revolutionibus». Sette anni piú tardi, nel 1940,

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La volta della Cappella Sistina, affrescata da Michelangelo Buonarroti. 1508-1512. Nella grandiosa composizione compare anche la Creazione del Sole e della Luna.

Charles de Tolnay, che nelle sue pubblicazioni aveva piú volte fatto riferimento alle ricerche di Lanckoronska, si spinse oltre, ipotizzando che Michelangelo potesse aver inserito un’eco della conoscenza della teoria eliocentrica nel suo capolavoro: il Cristo-Sole della giustizia splende con grande luminosità al centro del vortice cosmico.

Una distanza incommensurabile

Sia la studiosa polacca del Rinascimento che i suoi contemporanei videro un riflesso del pensiero astronomico di Copernico anche nell’opera del grande veneziano Tintoretto, affascinato dal capolavoro di Michelangelo. «Ecco la luce – scrive Lanckoronska a proposito del Paradiso di Tintoretto in Palazzo Ducale (vedi foto alle pp. 82/83) – mentre si allontana dallo spettatore, ricopre le figure con una nebbia di luce sempre piú fitta, che dà l’impressione di una distanza incommensurabile, e la rete di raggi copre l’intero quadro fino ai suoi ultimi bordi. Cristo è come il Sole, che dà luce a tutta quella miriade di pianeti che orbitano intorno a lui. La luce svolge qui un ruolo simile al movimento, accentrando in Cristo l’intera composizione». Pensieri simili sull’ultima opera del Tintoretto (morí nel 1597), l’Ultima Cena, si trovano nelle riflessioni di Otto von Simson, pubblicate negli atti del simposio americano per il 500° anniversario della nascita di Copernico. Questo nuovo pensiero copernicano sul cosmo e sulle stelle si manifesta anche nelle prime opere del pittore veneziano, nella sua luminosa Origine della Via Lattea (1575 circa). Tuttavia, il riflesso piú chiaro della teoria eliocentrica di Copernico è forse contenuto nell’enorme tela del Tintoretto che raffigura il Giudizio Universale in S. Maria dell’Orto a Venezia. In alto, il Cristo seminudo che emana raggi

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Dossier Xilografia con il ritratto di Niccolò Copernico iniziato da Tobias Stimmer, ma probabilmente portato a termine da Christoph Murer dopo la morte del primo, che non poté quindi ultimare l’opera. Collezione privata.

di luce, regna sulle nuvole, con la mano sinistra alzata in segno di benedizione e la destra abbassata che condanna i dannati (vedi foto a p. 85). Al suo fianco si librano un giglio e una spada. Maria e Giovanni Battista sono inginocchiati in basso e intercedono per l’umanità. Questa è la scena nota come Deesis, un tema bizantino trasposto nelle rappresentazioni del Giudizio Universale. L’aspetto piú importante per le nostre osservazioni è che, sopra la testa di Cristo, è chiaramente rappresentato un punto luminoso, con sfere intorno, come nel diagramma di Copernico. Sfere simili compaiono nell’Incoronazione della Vergine, nel modello per

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il Paradiso conservato al Louvre (vedi foto alle pp. 84/85).

Il soggiorno romano

Dal momento in cui Copernico annunciò la teoria eliocentrica, nonostante il lungo percorso che si rese necessario per giungere alla sua piena accettazione, essa ha lentamente, ma potentemente trasformato la visione del Cosmo e dell’arte, anche se ciò non è sempre immediatamente percepibile. Rivediamo quindi la Creazione del Sole e della Luna, sulla volta della Cappella Sistina, per renderci conto che, anche in questo caso, la nostra stella vivificante, dipinta da Michelangelo poco dopo il 1510,

è diventata una bella e maestosa sfera che brilla di grande splendore (vedi foto alle pp. 86/87). Georg Joachim von Lauchen (detto Rhaeticus), austriaco, unico allievo di Copernico, scrisse quanto segue sul suo maestro nella Narratio prima, pubblicata nel 1540: «Mio Maestro [Copernico] a Bologna, non tanto allievo quanto piuttosto aiutante e testimone delle osservazioni dell’eminente studioso Domenico Maria [Novara], mentre a Roma, intorno al 1500, all’età di 27 anni circa, in mezzo a una grande folla di studenti e tra uomini augusti ed esperti in questo campo della scienza, come professore di astronomia (Mathematum) [insegnava]». Basandosi su questo episodio, il pittore polacco Wojciech Gerson (1837-1901) dipinse un quadro per il 400° anniversario della nascita del grande astronomo (1873), che fu subito riprodotto in Polonia e in Italia in numerose incisioni, reperibili anche al Museo Astronomico e Copernicano di Roma dell’INAF (vedi foto alle pp. 90/91). Qui il giovane Copernico «in mezzo a una grande folla di studenti e in compagnia di uomini illustri ed esperti in questo campo della scienza [l’astronomia]» sta tenendo una conferenza. In mezzo al pubblico, con papa Alessandro VI, in prima fila, vediamo il bel volto barbato di Leonardo da Vinci e quello di Michelangelo, immerso nei suoi pensieri. Si tratta di una raffigurazione fantasiosa, ma una riunione simile avrebbe potuto effettivamente avere luogo. Il potere di attrazione tra persone geniali è ben noto, anche se a volte si applica solo nel regno del pensiero. Tutte le opere fin qui citate – l’Uomo Vitruviano di Leonardo da Vinci, il diagramma «solare» di Copernico e il Giudizio Universale di Michelangelo – condividono la stessa idea di un centro nel quale stanno l’uomo, il Sole, o Cristo come luce del mondo. Il soggiorno romano di Copernico è storicamente accertato. Ne giugno

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parla non solo Rhaeticus nel brano citato, ma anche il nostro astronomo nel De revolutionibus (IV, 14). Ricordando l’eclisse di Luna da lui osservata alle due della notte tra il 5 e il 6 novembre 1500, scrive: «La seconda eclissi abbiamo noi stessi osservato con la massima diligenza a Roma, nel 1500, alla fine del 5 [dopo le None di] novembre, e piú esattamente 2 ore prima di mezzanotte che preludeva all’ottavo giorno prima delle Idi [il 6 novembre]».

Le vite dei sapienti

Queste annotazioni di Copernico e le sue biografie redatte da Rhaeticus, Gassendi e i testi di altri autori, tra cui il polacco Jan Sniadecki (1801), furono studiate nel secondo Ottocento dallo scrittore e divulgatore francese Louis Figuier (1819-1894), autore dell’imponente opera intitolata Vies des Savants illustres de la Renaissance avec l’appréciation sommaire de leurs travaux, edita dapprima in Francia,

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nel 1868, con illustrazioni incise, e poi in Spagna, nel 1880, corredata da tavole a colori. Il capitolo dedicato all’astronomo riporta dettagliatamente quanto noto all’epoca su Copernico, dalla sua nascita sino alla morte, sugli studi in Polonia e in Italia e, naturalmente, sul suo

Copernico osserva a Roma l’eclissi lunare, illustrazioni realizzate per l’edizione originale francese delle Vies des Savants illustres de la Renaissance avec l’appréciation sommaire de leurs travaux (1868) di Louis Figuier (in alto) e per la versione in lingua spagnola dell’opera (1880; in basso).

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Dossier soggiorno romano. Una delle tre illustrazioni che corredano il capitolo raffigura l’eclisse lunare nella notte tra il 5 e 6 novembre 1500 (vedi foto a p. 86, in alto). Il giovane Copernico, di spalle, osserva il cielo da un terrazzamento che guarda verso il Foro Romano. Partendo da sinistra, si riconoscono, tra gli altri, l’arco di Costantino, l’arco di Tito nella forma già ricostruita da Giuseppe Valadier, il campanile e la chiesa di S. Francesca Romana e, sullo sfondo, la mole del Palazzo Senatorio in Campidoglio e la torre capitolina del palazzo stesso. L’astronomo porta i capelli tagliati sulle spalle e indossa un baschetto; gli abiti sono quelli tipici cinquecenteschi. Dietro di lui ci sono un globo celeste, una lanterna posata sul muro, un compasso, un foglio con appunti e

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accanto a lui uno sgabello. Copernico osserva la luna attraverso uno strumento ottico in legno che presenta ai due capi un mirino, una sorta di ibrido tra un cannocchiale e una mira. Lo strumento è retto da un’asta a tre piedi, che ha la foggia dei supporti per cannocchiale in uso nel XVIII secolo. La scena è ambientata su una terrazza con balaustra in muratura e a destra si notano glossi blocchi e l’accenno di un’arcata. Dato il panorama, parrebbe trattarsi di una balconata all’interno dell’Anfiteatro Flavio.

Sugli Orti Farnesiani

Nella versione spagnola del volume di Figuier, La ciencia y sus hombres: vidas de los sabios ilustres desde la antigüedad hasta el siglo XIX, la raffigurazione di Copernico che guarda la luna cambia totalmente il

punto di vista dell’astronomo, scegliendo come elemento principale del panorama notturno la mole dell’Anfiteatro Flavio, sicuramente meglio riconoscibile e d’impatto per i lettori dell’opera rispetto alla piú specifica panoramica del Foro Romano della stampa francese (vedi foto a p. 89, in basso). Anche qui Copernico osserva il cielo usando uno strumento molto simile a un cannocchiale e intorno vi sono gli stessi oggetti che compaiono nell’edizione francese; soltanto il foglio con il disegno è piú dettagliato. Copernico si trova su un terrazzo all’aperto recintato da grossi blocchi di pietra che potrebbe situarsi presso gli Orti Farnesiani sul Palatino. Sebbene piuttoso naïf nella resa artistica, l’incisione riesce a ben rappresentare Copernico immerso nell’osservazione del mistero stel-

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In alto L’astronomo Copernico (o Il dialogo con Dio), olio su tela di Jan Matejko. 1873. Cracovia, Museo dell’Università Jagellonica. A sinistra Niccolò Copernico tiene una lezione a Roma, acquarello di Wojciech Gerson. 1877. Roma, Museo Astronomico e Copernicano.

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lare e il piú noto monumento romano del mondo, il Colosseo, illuminati dal chiarore della Luna che a breve subirà l’eclisse.

Immagini potenti

La storia di Copernico e della sua epocale scoperta è splendidamente raccontata anche nei dipinti di Jan Matejko (1838-1893), il piú grande pittore polacco dell’Ottocento, e del suo allievo Stanisław Wyspianski (1869-1907), che, incantato dalle vetrate medievali, iscrisse Copernico nel loro splendore di luce. Nel grande dipinto di Matejko, L’astronomo Copernico (o Il dialogo con Dio, 1873; vedi foto in questa pagina), lo scienziato è in posa estatica, come nelle immagini di san Francesco quando riceve le stimmate, e un diagramma «solare», è stato vividamente descritto dallo storico di Cracovia Józef Szujski: «Ascolta! La notte era stellata, lucente // Sopra la torre di Frombork, inginocchiato // Scrutavo l’immenso mistero celeste // Rapito e tra le braccia protese verso l’alto // è calato il grande mistero Divino // È discesa

la grande luce della vita // Ciò che rompeva i numeri e le lettere // È bastato un attimo a ispirarmi // Poi l’intuizione s’è vestita di certezza // I miei calcoli sono assurti a prova // Insieme alla terra, che recava il mio pensiero alato // Mi sono sentito trasportare nello spazio verso soli e verso mondi». Alla tela, di notevoli dimensioni (225 x 315 cm), Matejko cominciò a lavorare nel 1871, o forse già prima; lesse libri, si procurò la strumentazione, fotografie (tra cui quelle della cattedrale di Frombork in cui l’astronomo visse per decenni e dove morí) e, infine, eseguí due bozzetti preparatori, uno dei quali simile alla versione definitiva. L’opera venne prontamente esposta nel febbraio 1873 (Copernico era nato il 19 febbraio) nel Municipio di Cracovia per celebrare solennemente la grande ricorrenza. A tutti i visitatori fu donata una xilografia della nuova opera del maestro. Di lí a poco, il quadro fu trasferito all’Esposizione Universale di Vienna. Frutto di studi eruditi e della

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In alto, sulle due pagine Trionfo della Verità, olio su tela di Luigi Mussini. 1847. Milano, Pinacoteca di Brera. A sinistra Apollo-Sole attorniato da sette pianeti, ovvero il Sistema copernicano (particolare), vetrata policroma realizzata da Piotr Ostrowski dal disegno di Stanisław Wyspianski.

scrupolosa ricerca di un modello per il grande astronomo (individuato, infine, in un medico e naturalista polacco, Henryk Levittoux), il dipinto divenne proprietà dell’Università Jagellonica, nelle cui mura il geniale astronomo studiò dal 1491 al 1495. Dopo il 1873 il

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quadro viaggiò all’estero una volta soltanto, nel 1950, per essere esposto a Mosca. La sua recente presenza a Londra nella mostra intitolata «Conversations with God. Jan Matejko’s Copernicus» (2021) è stato un evento di grande prestigio. Grazie alle scoperte copernicane, del resto, il Rinascimento, che regalò al mondo il culto della simmetria, dell’armonia e miriadi di raffigurazioni del cielo stellato sotto cupole altere con i loro oculi al centro, poté dirsi compiuto. Il dipinto di Matejko è ambientato nell’osservatorio allestito su un terrazzo con vista sulle due torri della chiesa di

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Frombork, in una notte di luna di straordinario chiarore. Copernico è chino sul ginocchio destro, il volto rapito, come se la geniale intuizione gli fosse balenata nella mente in quel preciso istante, coronando tutta la mole del suo lavoro e delle sue speculazioni. Ecco confermati i presentimenti di quella nuova visione del cosmo.

Quasi come Francesco

Si affrontano, in uno scontro quasi sublimato, tre fonti di luce: la luna, l’alba e la lanterna. L’astronomo solleva le mani estasiato come san Francesco quando riceve le stim-

mate o quando dialoga con Dio. Nella sinistra tiene il compasso. Accanto a lui risplendono la tavola del sistema eliocentrico e un metro rigido dispiegato. L’osservatorio sul terrazzo è il palcoscenico; i libri, gli strumenti (tra cui il triquetrum, il triangolo parallattico usato per misurare la distanza tra la terra e la luna) caratterizzano il ritratto di uno scienziato. Matejko riempie lo spazio in primo piano di utensili dipinti con realismo, ma non sempre fedeli alla realtà storica. Il cannocchiale e il compasso, inventati da Galileo dopo la morte di Copernico, sono un voluto richiamo al

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L’ultima dimora Nell’ultimo periodo della sua vita Copernico fu canonico della cattedrale di Frombork e gli venne affidata la custodia dell’altare di S. Andrea (oggi della S. Croce). All’età di 70 anni, nel maggio del 1543, l’astronomo morí e fu sepolto nella chiesa, in una tomba anonima di cui si persero le tracce. Nel 2004, il vescovo della cattedrale volle ritrovare la sepoltura di Copernico e, grazie agli scavi eseguiti dall’Università di Pultusk (Jerzy Gassowski), presso l’altare affidato all’astronomo furono ritrovati i resti di diverse persone, tra i quali parte del cranio di un settantenne. Ipotizzando che potesse essere proprio quello di Copernico, un campione di DNA ricavato dal teschio è stato messo a confronto con quello di due capelli ritrovati in un volume appartenuto all’astronomo, il Calendarium Romanum Magnum (1518) di Johannes Stoeffler, oggi conservato nella biblioteca del Museum Gustavianum dell’Università di Uppsala in Svezia, Paese nel quale il volume era giunto nel XVII secolo come bottino di guerra. Effettivamente i due campioni di DNA combaciavano: il cranio era proprio quello di Copernico. Seguendo i metodi propri delle indagini forensi e basandosi sui tradizionali ritratti di Copernico si è potuto ricostruire il suo volto da settantenne. Nel maggio del 2010 il corpo è stato solennemente «riseppellito» con tutti gli onori nella cattedrale di Frombork in un piccolo riquadro pavimentale rivestito da una lastra di vetro e sormontato da un alto epitaffio, con un monumento di tre metri in marmo nero che riporta il ritratto di Copernico, le sue date e il modello del sistema solare. Francesca Ceci A sinistra la tomba di Niccolò Copernico nella cattedrale di Frombork. A destra ricostruzione del volto dell’astronomo. Nella pagina accanto il monumento in onore di Niccolò Copernico innalzato all’esterno della cattedrale di Frombork.

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grande scienziato italiano del Seicento, fautore e propagatore della scoperta dell’astronomo polacco. Per riprodurre le sembianze del grande astronomo e individuare il modello adatto, Jan Matejko ricorse a varie illustrazioni, tra cui la già citata xilografia di Tobias Stimmer del 1587 e un’incisione di Jeremias Falck del 1645 circa.

Apollo come dio-sole

La grande tela di Matejko elettrizzò la Polonia intera, che all’epoca non era sulla mappa del mondo, e commosse soprattutto i suoi allievi. Anche un genio versatile, Stanisław Wyspianski, fu tra loro. La sua carriera artistica culminò, per cosí dire, con il progetto di un’enorme vetrata raffigurante Apollo-Sole tra i sette pianeti. Realizzato a pastello alla fine del 1904, il modello colpisce per il suo concetto artistico e l’alto livello di esecuzione. L’elemento centrale della composizione è la figura monumentale di Apollo, simile a quella del sigillo di Copernico. Il dio della luce, patrono della poesia, della musica, delle belle arti, della scienza e della medicina, circondato da vorticose sfere celesti con le personificazioni dei pianeti, appare come un dio-sole. Il suo volto, il suo petto e il suo strumento brillano di un giallo intenso che brucia in mezzo a sfumature di blu. Sebbene Wyspianski abbia stravolto la disposizione dei pianeti, separando il maschile dal femminile (ha collocato Saturno, Giove, Marte e Mercurio a sinistra, e a destra, in basso, Venere, la Luna (Luna latina) e la Terra calpestata dal Sole), la sua composizione si riferisce chiaramente alla tesi principale del De revolutionibus ed è un omaggio alla grande conquista delle ricerche scientifiche. Julian Nowak, presidente della Società Medica, un eminente medico che commissionò la vetrata a Wyspianski, scrisse quanto segue a proposito del concetto

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Dossier Copernico, statua in marmo di Tomasz Oskar Sosnowski. 1873. Roma, Congregazione dei Padri Resurrezionisti. In basso e nella pagina accanto un’incisione e un olio su tela facenti parte della serie realizzata da Silvio Loffredo per la mostra allestita a Firenze nel 1973, in occasione del quinto centenario della nascita dell’astronomo polacco.

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dell’opera, ispirato dal dipinto di Matejko: «Desideriamo che questa vetrata sia dedicata a Copernico, e questo è dovuto al fatto che la nostra casa è un tabernacolo delle scienze naturali polacche e deve anche includere una società intitolata a Copernico».

Nella luce di una vetrata

Come i suoi idoli rinascimentali, Michelangelo e Raffaello, di cui studiò e copiò piú volte le opere nell’ambito dei suoi studi (tra cui le scene delle volte della Cappella Sistina e le Logge di Raffaello), Wyspianski si distinse anche questa volta per la forza della sua immaginazione, costruita sulla vasta conoscenza dell’astronomo formatosi a Cracovia, dell’iconografia dei pianeti e del simbolismo solare. Il bellissimo disegno del sistema solare di Copernico per la sede della Società Medica, fu inscritto nella luce di una vetrata nel 1905. Di-

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strutta quarant’anni piú tardi, alla fine della seconda guerra mondiale, è stata ricostruita negli anni Sessanta e, piú recentemente dal maestro vetraio Piotr Ostrowski, con un magnifico effetto cromatico (vedi foto a p. 92). Insieme al suo modello a pastello, ci ricorda l’eterna scoperta di Copernico e ci incoraggia a compiere i prossimi passi nell’esplorazione dell’Universo, alla scoperta di altre galassie e dei loro Soli. Wyspianski ha seguito creativamente le orme del suo maestro Matejko nell’onorare il grande astronomo, ma attraverso la forza della sua immaginazione, la sua vasta conoscenza e sensibilità e il misticismo della luce delle vetrate, ha prodotto un capolavoro unico nel suo genere. Ecco una perfetta visualizzazione delle parole del Libro I, cap. X del De revolutionibus: «In mezzo a tutti sta il Sole. In effetti, chi, in questo tempio bellissimo, potrebbe collocare questa lampada in un luogo diverso o migliore di quello da cui possa illuminare tutto insieme? (...) Troviamo dunque in questa disposizione una ammirevole simmetria del mondo e un rapporto armonico preciso tra movimento e grandezza delle sfere, quale non è possibile rinvenire in altro modo».

Epilogo

Vale infine la pena di ricordare un bel dipinto di Luigi Mussini del 1847 e una statua di Copernico situata a Roma, realizzata in marmo dallo scultore polacco Tomasz Oskar Sosnowski. L’opera di Mussini, esposta alla Pinacoteca di Brera, è intitolata Il trionfo della Verità (vedi foto alle pp. 92/93). Nella parte destra, attorno alle figure centrali di Galileo e Copernico (lo identifica il volume con il suo nome che tiene tra le mani) si vede un gruppo di astronomi: Tolomeo inginocchiato, piú in basso, Keplero e, poco piú indietro, Isaac Newton. Galileo volge lo sguardo alla Verità toccando con la mano sinistra il

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volume di Copernico (ovviamente il De revolutionibus), che indica pure con il pollice destro. La statua di Copernico venne eseguita da Sosnowski in occasione del 400° anniversario della nascita di colui che «fermò il Sole, mosse la Terra». Un motto epocale, «SOL STAT TERRA MOVETUR», è l’elemento chiave della scultura, innalzata nel cortile della sede della Congregazione dei Padri Resurrezionisti a Roma, accanto a piazza di Spagna (vedi foto a p. 96, in alto). Si auspica che le opere di Matejko, Wyspianski, Sosnowski e alcuni dipinti italiani possano essere presentate a Roma, nella prestigiosa sede della Curia Iulia, nell’ambito di una serie di eventi dedicati a Copernico per celebrare il suo anno giubilare, onorando cosí il nome dello studioso polacco che tanto deve all’Italia. Questa iniziativa polacco-italiana verrebbe cosí a inserirsi nella se-

rie di eventi nati a Roma nel 1873 in occasione del 400° anniversario della nascita di Copernico quando prese forma l’idea del Museo Copernicano (oggi Museo Astronomico e Copernicano di Monte Mario) e continuati nella mostra al Museo Galileo di Firenze e nel convegno nella sede dell’Accademia dei Lincei a Roma organizzati nel 1973 in occasione del V centenario della nascita dell’astronomo. Per la mostra fiorentina, l’artista Silvio Loffredo realizzò una serie di venti dipinti e incisioni su temi astronomici, tra cui i piú importanti sono le due versioni, una dipinta e una incisa, della Rivoluzione copernicana, entrambe piene di vigore espressionistico (vedi foto in queste pagine). Il tema di queste immagini è il sistema di Copernico rivisto da Giovanni Keplero (con l’ellisse al posto delle sfere circolari) e l’ammirazione del Sole, stella vitale del nostro universo.

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CALEIDO SCOPIO

Storie, uomini e sapori

«Come far cantare un pollo arrosto» Viaggio nell’universo di una cucina del Trecento di Sergio G. Grasso

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primi ricettari medievali compaiono fra il XIII e il XIV secolo, ben mille anni dopo il De re coquinaria attribuito, o meglio intitolato, ad Apicio. Ciò non significa che la pratica e la ricerca gastronomica «colte» (per esempio nelle corti romano-barbariche e bizantine o nella Sicilia arabonormanna) si fossero fermate, ma che le scorrerie e i saccheggi – con il conseguente spopolamento delle campagne e il declino degli scambi commerciali –, avevano troncato ogni forma di produzione letteraria e culturale, obbligando alla sola trasmissione orale anche le esperienze e i saperi culinari. Una ripresa della scrittura gastronomica è testimoniata in ambito angioino-federiciano dall’anonimo Liber de Coquina, databile tra il 1285 e il 1304, e da due suoi quasi coevi «bricolages testuali»: il Libro de la Cucina dell’Anonimo Toscano e l’Anonimo Meridionale. Solo nel XV secolo si verificano le condizioni per una decisa ripresa dei ricettari; sicuramente grazie all’invenzione della stampa, ma anche perché le professioni legate alla cucina ottennero la rispettabilità già

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riconosciuta ad altre arti in virtú della contiguità della gastronomia con la dietetica e il sapere medico. Fino al XIII secolo, a eccezione delle residenze nobiliari e dei conventi, la stragrande maggioranza delle abitazioni non disponeva di una vera e propria cucina e la preparazione dei cibi si faceva all’aperto o, nella stagione fredda, su un focolare situato al centro della stanza (spesso l’unica), in modo da sfruttare il calore anche per riscaldare l’ambiente domestico.

Utensili d’ogni sorta Gli strumenti di una di queste cucine erano gli stessi in uso nelle insulae ai tempi dei Cesari: un pentolone di rame, qualche tegame di coccio, uno o due coltelli, un mestolo e alcune brocche. Di ben altra levatura erano le cucine dei manieri e dei palazzi gentilizi, ricavate in capienti spazi generalmente sotterranei (ma nelle case a torre venivano confinate all’ultimo piano per evitare devastanti incendi), con uno o piú camini a parete e grandi tavoli centrali per l’appoggio e la lavorazione degli alimenti. Il cuoco professionista del

Trecento disponeva di un vasto armamentario, ai nostri occhi arcaico e laborioso ma assolutamente efficiente. Cucinava su fiamma e brace, usando paioli di rame e tegami di coccio, spiedi, griglie e leccarde, maneggiando lunghi coltelli e pietre per affilare, mannaie e mazze spaccaossa, brandendo lunghi mestoli, pale, grattugie, setacci, pinze e un grande assortimento di cesti, brocche, fiaschi, vassoi, aspersori e saliere. Aveva a disposizione uno o piú forni e un grande acquaio vicino al quale non mancavano sacchi di sabbia per pulire le stoviglie ma anche utilissimi per domare i frequenti incendi. Il posto d’onore spettava ai mortai e ai pestelli, indispensabili per macinare e frantumare spezie, mandorle, pane, semi, radici, croste e cortecce. Era convinzione comune che qualsiasi cosa ridotta in forma granulare o in polvere, «evaporasse» le corruzioni e manifestasse con piú efficacia le sue prerogative e virtú a contatto con un’altra sostanza. Anche le carni e le verdure, cotte o crude, dopo essere state pestate nel mortaio, venivano inumidite, impastate, talvolta filtrate con un panno per giugno

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estrarne succhi e umori o vagliate al setaccio di crine per ottenere quelle salse lisce e fluide che erano il segno distintivo della cucina medievale di classe. Si tenevano in gran conto le fàrcie o «carni di forza» usate come ripieni, trasformate in «ballotte» o ricomposte attorno alle ossa di animali. Le carni essiccate (e, a partire dalla metà del Quattrocento, anche lo stoccafisso) dovevano essere battute con un martello e immerse in acqua tiepida prima della cottura. I tagli piú teneri e succosi passavano direttamente alla frittura (in sugna o strutto) o alla cottura al forno; quelli coriacei o ricchi di connettivo venivano bolliti o «brasati» ovvero cucinati lentamente dentro un contenitore

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sommerso da braci. Caratteristica del millennio medievale era la lessatura delle carni prima di essere lardellate, legate e arrostite; l’operazione era lunga e laboriosa, specialmente nel caso di grandi animali da servire interi, e aveva lo scopo di depurare, sbianchire e rassodare la carne riducendo anche il tempo di arrostitura allo spiedo.

Pesci scomposti e... ricomposti Una curiosa e divertente cottura multipla era quella riportata in alcuni ricettari per i pesci di dimensioni maggiori, la cui coda veniva bollita, la parte centrale arrostita e la parte anteriore fritta; ricomposto il pesce, si nappava di salsa verde la parte lessata, di salsa

Una cucina in piena attività nel rilievo che orna uno dei portali del Palais JacquesCœur di Bourges (Francia). XV sec. d’arancia la parte arrostita e di salsa «cameline» (a base di cannella) la parte fritta. Sia la casalinga media che il cuoco neofita dovevano fare i conti con questioni ben piú importanti della scenografia del piatto, come le frodi sui prodotti alimentari di largo scambio come vino, birra, pane, carne, pesce e sale. Per proteggere i consumatori da prezzi ingiusti o alimenti di dubbia qualità che potevano mettere in pericolo la salute pubblica, i governi di molti stati e regni cominciarono a elaborare fin dal XII secolo codici editti e statuti

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CALEIDO SCOPIO cantina erano all’ordine del giorno: non solo il vino francese col tedesco e il buono col cattivo, ma il troppo forte con l’acqua, quello amaro col miele e quello debole con aceto, resina e segatura; sappiamo anche di vini artificiali confezionati con alcol puro e spezie senza la minima traccia d’uva. Le punizioni per l’oste e il mercante che vendevano vino cattivo o adulterato variavano dal fargliene trangugiare parecchie brocche, al legarlo in una botte colma di quel vino sulla pubblica piazza, fino alla fustigazione. A nord delle Alpi, soprattutto la birra era sottoposta a continui controlli. In Inghilterra gli Alkonneres verificavano la capienza di brocche e bicchieri, misuravano il contenuto di alcol e di zuccheri e, se riscontravano annacquature o aggiunte di sale e resina, erano autorizzati a frustare pubblicamente l’oste o il mercante, a rompere le sue botti e a ritiragli la licenza. Non si contano in tutta Europa le denunce a carico di fornai e panettieri accusati di produrre e vendere pane di pezzature inferiori della cui osservanza erano incaricati ufficiali annonari, pubblici ispettori e funzionari delle diverse gilde e corporazioni. Una di queste fu l’Assisa Panis et Cervisae (Adunanza del Pane e della Birra) approvata in Inghilterra nel 1266 per regolare il peso e il prezzo di pane e birra. In area francese e padana oltre alle ordinanze sulle farine, il pane e le carni, si intervenne costantemente sulle «misure» da adottare nel commercio del vino. Una volta risolto il problema del peso – anche grazie agli ispettori che verificavano stadere, bilance, bascule, fino alle brocche per mescere, alle scodelle e ai bicchieri – al consumatore restavano i dubbi sulle adulterazioni. Al vino debole o mediocre si aggiungeva il mosto cotto, se era di gusto scadente lo si correggeva

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con erbe (Paganino Bonafede nel Tesoro dei rustici, del 1360, suggerisce di aggiungervi fiori di sambuco), se amaro e lo si addolciva con piombo (tossico!), se puzzava di botte o aveva troppo deposito lo si correggeva con albume d’uovo.

Vini che sanno d’erba Le tecniche enologiche del tempo non permettevano ai vini di raggiungere una gradazione alcolica e un’acidità che li facesse durare piú di qualche mese senza difetti. In una lettera scritta dal notaio fiorentino Lapo Mazzei (1350-1412) a Marco Datini, si legge che il vino, passata la metà di luglio, aveva già il sapore del «guaime», un’erba usata come foraggio per il bestiame. Per ovviare a questi inconvenienti, il prodotto a rischio poteva essere sottoposto a bollitura o affumicato. I miscugli in

In alto copia colorata di una xilografia raffigurante una cucina medievale, realizzata per il Kuchenmaistrey, ricettario tedesco pubblicato per la prima volta nel 1485. A destra, sulle due pagine miniatura raffigurante due panettieri al lavoro, dal Libro d’Ore di Charles d’Angoulême. 1490-1495. Parigi, Bibliothèque nationale de France. giugno

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a quelle prescritte, di cuocerlo insufficientemente o di appesantire l’impasto con sabbia, polvere di marmo, ragnatele, cenere e ogni sorta di sporcizia. La pena piú comune per un fornaio fraudolento, descritta in molti manoscritti, consisteva nel legarlo a un cavallo e trascinarlo per le vie del paese con le pagnotte legate al collo.

Piú preziose dell’oro Per ciò che riguarda le spezie, è difficile ricostruire quanto il loro aroma in un piatto fosse dominante poiché i ricettari trequattrocenteschi non ne indicano mai le quantità. Agli inizi del Trecento l’Europa occidentale importava dall’Oriente circa 1000 tonnellate annue di pepe e altrettante di zenzero, chiodi di garofano, noce moscata e cannella. Si trattava di generi di lusso commerciati in quantità nettamente inferiori rispetto ad altri prodotti. L’alto costo era garanzia di ampi margini di profitto, che incoraggiavano i venditori sleali a impiegare truffe e raggiri ai

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La prima pagina del Buoch von guoter spise (Libro del buon cibo), il piú antico ricettario in lingua tedesca, la cui trascrizione è compresa nell’Hausbuch des Michael de Leone. 1345-1354. Monaco di Baviera, Universitätsbibliothek der LMU München. danni degli acquirenti meno scaltri e delle famiglie medie che potevano a malapena permettersi in un anno da 20 a 25 grammi di pepe, generalmente venduto macinato a minor prezzo poiché miscelato con sostanze estranee. Anche il pepe venduto in grani non sfuggiva alla logica dell’illecito; si bagnava con acqua per aumentarne il peso, lo si mescolava con bacche di ginepro acerbe, veccia ed escrementi di topo. Va ricordato che i lunghi viaggi per terra o per mare dai luoghi d’origine, gli eventi atmosferici nel corso del tragitto e le sommarie condizioni di trasporto e magazzinaggio facevano quasi

sempre perdere alle spezie gran parte della loro forza tra il momento in cui erano state raccolte e quello, mesi dopo, in cui raggiungevano il consumatore europeo. Nonostante i funzionari addetti all’ispezione dei carichi di spezie importate da oriente provvedessero a esaminarle

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In alto indicazioni delle misure da conferire a vari tipi di pane, con i riferimenti agli anni (1320, 1270 e 1317) incise sul muro di una delle torri della cattedrale di Friburgo (Germania). A sinistra miniatura raffigurante una scena di taverna, con un gruppo di bevitori e un cantiniere. Fine del XIV sec. Londra, British Library. Nella pagina accanto miniatura raffigurante l’assaggio del vino rosso, da un’edizione del Tacuinum Sanitatis. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.

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con cura e a rimuovere ogni materia estranea, la frode avveniva quasi sempre nei retrobottega degli speziali all’atto della macinazione. Il botanico e medico tedesco Hieronymus Bock, nel suo New Kreütter Büch (1539), riporta alcune «malefiche pratiche» perpetuate da secoli dai venditori «di polveri»: farina di grano mescolata a zenzero macinato, chiodi di garofano tritati con pezzetti di legno essiccato, cannella mescolata a corteccia di quercia e noci secche vendute per noce moscata. Il preziosissimo zafferano si sofisticava con curcuma e sandalo, talvolta addirittura con polvere d’oro che ne aumentava il peso ed era meno costosa dello zafferano stesso. Nel Quattrocento i medici stilarono liste di quid pro quo che invitavano a sostituire il pepe con i capperi, lo zenzero con la radice di mirto, i datteri coi fichi secchi, lo zafferano con il cartamo tintorio, il timo con l’issopo. Le liste indicano che i segmenti piú poveri della società medievale tentavano di emulare gusti e colori dei piatti delle classi agiate, salvo poi restare fedeli alle erbe spontanee e a quelle dell’orto quali l’aneto, il finocchio, l’erba cipollina, i porri, l’aglio, la salvia, il basilico e il prezzemolo.

Portate multicolori I cuochi dell’antica Roma possedevano un’idea ben chiara dell’importanza scenografica del colore per rendere piú attraenti i piatti serviti nei banchetti, ma, all’indomani della caduta dell’impero, l’alimentazione si fece grigia e spenta, almeno fino al IX secolo, quando, soprattutto in Sicilia e nel Sud della Spagna, iniziò a prendere piede – assieme a quello per il dolce e lo speziato – il gusto per il cromatico degli «invasori» arabo-maghrebini. La moda del colore esplose nel XII e XIII secolo, grazie anche ai contatti dei crociati europei con gli Arabi in Terra Santa. Vivande colorate di rosso, bianco, giugno

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argento, giallo e verde oppure ricoperte di polvere d’oro e argento figurano nei piú antichi testi di cucina araba come il Libro dei Piatti (Kitab al-Tabikh al-Mahdî) dell’VIII secolo, il Taqwîm as-sihha (Tavole della salute), scritto verso il Mille a Baghdad, e il Kitâb al-wusla (Profumi e aromi), redatto ad Aleppo al tempo del Saladino, alla fine del Duecento. Nei ricettari europei trequattrocenteschi si fa uso reiterato del giallo dorato del tuorlo d’uovo e quello aranciato dello zafferano, mentre il verde dalle foglie di ortica o di edera mescolato al giallo dell’Anthemis tinctoria conferiva un aspetto brillante alle verdure. Molto apprezzato sulle tavole era il rosso in diverse tonalità, dal rosa chiaro al viola intenso; si ricorreva al sandalo per produrre il rosa antico, all’Alkanna tinctoria, al succo d’uva rossa e ai petali di rosa per il color porpora, mentre il carminio si estraeva dalla resina della Dracaena draco, piú nota col nome di «sangue di drago». L’orceina ottenuta da alcuni licheni permetteva di tingere le pietanze di blu, cosí come la polpa di mora secca. Per il marrone si ricorreva ancora al sandalo oppure alla cannella, alla crosta di pane tostata o al sangue di bue, mentre per il nero si impiegava il fegato di pollo cotto, l’uvetta bruciata e le prugne secche. E quando i cuochi volevano esagerare con la loro grande maestria, provvedevano a ricoprire selvaggina e pesci con sottilissime foglie d’oro. L’appetibilità del cibo poteva migliorare anche modificandone la forma con l’uso di stampi e matrici, particolarmente popolari nel mondo germanico e alsaziano. La pentola di rame medievale a forma di turbante, conosciuta come «padella a testa del turco» – ancora impiegata per preparare il Gugelhupf, una torta lievitata a forma di alta ciambella – potrebbe derivare da alcuni stampi da panettiere documentati nella Roma tardo-imperiale.

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Oltre che in rame e bronzo, i vasi di cottura medievali venivano realizzati con argilla o pietra, ma la maggior parte di essi era ricavata dal legno, materiale il cui rapido deterioramento ne giustifica la rarità. Gli stampi per la cottura al forno venivano spalmati all’interno con un grasso (burro, olio o strutto) e ricoperti all’esterno con argilla.

Nidi d’ape per il gran finale I ricettari menzionano matrici in cera per la preparazione di figurine di zucchero, forme in legno per il marzapane e stampi in pasta cotta in cui colare le gelatine. Esistevano anche «bolli» (timbri) usati per imprimere su paste, cialde e pani disegni e stemmi; se ne ha una vitale sopravvivenza nei «corzetti» o «croxetti» liguri, ma anche in alcuni

pani di Sicilia, Sardegna e Murge. Immancabili alla conclusione di un pasto a piú portate erano i gaufres (dal francese «nidi d’ape», piú noti oggi come waffles o wafers), confezionati cuocendo un impasto semiliquido, dolce o salato, tra due piastre incernierate di ferro o ghisa. Il funambolismo creativo dei cuochi si spingeva fino alla creazione di «piatti di imitazione», soprattutto nei periodi di astinenza: verdure che fingevano di essere carne, mandorle che simulavano uova o formaggi, pesci che prendevano la forma di pernici allo spiedo. Nell’Asia buddista (rigorosamente vegetariana) esistono testimonianze di sostituti della carne in epoca Tang, come nel caso di un banchetto offerto nel 907 ai visitatori di in un monastero buddista in cui, per

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CALEIDO SCOPIO Miniatura raffigurante la raccolta dello zafferano, da un’edizione del Tacuinum Sanitatis, denominazione che indica la traduzione in latino del Taqwim al Sihha (Almanacco della salute), un manuale redatto a Baghdad dal medico e letterato Abu al-Hasan al-Mukhtar Ibn Butlan nell’XI sec. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.

non interferire con le abitudini alimentari degli ospiti, si servirono imitazioni di maiale e montone fatte di verdure, tofu e glutine. Oggi può essere difficile immaginare che per la maggior parte della storia umana la cucina stagionale fosse la norma. Se un alimento non era di stagione o non poteva essere conservato per un uso futuro, la cosa migliore che i cuochi potevano fare era far credere ai commensali che lo stessero mangiando, sostituendolo con qualcos’altro concepito per assomigliare alla cosa reale. È emblematico il caso delle monache del monastero della Martorana di Palermo che in pieno inverno, per onorare il vescovo in visita pastorale, abbellirono gli alberi del chiostro con frutta fatta di marzapane. Oltre all’indisponibilità «naturale» del cibo nel Medioevo, giocavano un ruolo importante le restrizioni imposte dalla Chiesa ai fedeli per molti periodi dell’anno.

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Dopo un lungo inverno con poco o nessun cibo fresco, i successivi quaranta giorni di Quaresima lasciavano in molti il desiderio di un succulento arrosto.

Imitazioni quasi perfette In questi casi i cuochi riuscivano a elaborare piatti che almeno visivamente assomigliavano a un maialino o a un capretto utilizzando ingredienti che non infrangevano i decreti sull’astinenza e il digiuno. Le mandorle tritate sostituivano egregiamente il latte animale, il burro, il formaggio, la ricotta; opportunamente tinte con lo zafferano simulavano le uova, e mescolate con l’uva passa imitavano la carne macinata; e per dare alla finta carne una parvenza d’arrostitura la si cospargeva di pan di zenzero fritto e macinato. La carne dei pesci si passava al mortaio e si modellava in foggia di cosciotto d’agnello, di salsicce o di

selvaggina; un ricettario francese del XIV secolo spiega come imitare alla perfezione il prosciutto e la pancetta alternando la carne rosa di salmone a quella bianca del luccio. Alla metà del Quattrocento, quando la Chiesa iniziò a consentire il consumo di uova e latticini in Quaresima, i cuochi ebbero modo di realizzare imitazioni di piatti carnei piú sostanziose e verosimili, come nel caso dell’albume d’uovo crudo che, versato su un arrosto di «maiale» realizzato con mandorle e pesce, imitava il grasso della leccarda. Fuor di penitenza il cuoco aristocratico e il suo personale potevano sbizzarrirsi con intriganti trucchi culinari. Pavoni e gru comparivano in tavola rivestiti con le loro piume; altre volte il piumaggio di un cappone veniva «indossato» da un’oca e quello di un fagiano da tre colombe cucite insieme. Cuochi fantasiosi riuscivano a costruire animali completamente nuovi, come quello descritto nel The Forme of Cury (1390): il cockentrice, la cui metà superiore apparteneva a un cappone, mentre i quarti posteriori erano di un maiale. Un effetto molto drammatico si otteneva quando l’animale portato in tavola dai valletti «vestito» di pelle e penne emetteva fumo e fiamme dalla bocca. In una raccolta di ricette francesi del XV secolo, il Vivendier – titolo che parodiava il piú celebre e antico Viandier di Guillame Tirel – si può leggere la ricetta «per far cantare un pollo arrostito come fosse vivo»; il procedimento richiedeva di imbottire il collo dell’uccello con argento vivo e zolfo macinato prima di posarlo su un vassoio scaldato da candele. Piú comune era la pratica di far uscire lingue di fuoco dalla testa di un cinghiale, di un maialino o di un grosso pesce, inserendogli nella bocca cotone imbevuto di canfora o alcol per poi accenderlo subito prima del servizio. giugno

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Quando i santi prendevano le armi

Giuda Taddeo e l’alabarda misteriosa di Paolo Pinti

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an Giuda Taddeo era uno dei dodici apostoli di Gesú, figlio di Cleofa (fratello di san Giuseppe) e di Maria di Cleofa (sorella della Madonna), nonché fratello di san Giacomo «il Minore» e di san Simone. Vi era, quindi, una stretta parentela con Gesú – alcune fonti ipotizzano che fosse lo sposo delle famose nozze di Cana – al quale, secondo la tradizione, somigliava moltissimo, tanto che in molti dipinti è indistinguibile da lui. In una delle sette lettere cattoliche è forse lui stesso a definirsi «Giuda, servo di Gesú Cristo e fratello di Giacomo» (le lettere cattoliche sono epistole comprese nel Nuovo Testamento, non redatte da Paolo di Tarso e tradizionalmente attribuite a Pietro Apostolo, Giovanni Apostolo, Giacomo e, appunto, a Giuda, n.d.r.). È nominato in Matteo (10,3), Marco (3,18), Luca (6,16) e negli Atti degli Apostoli (1,13), ma di lui si sa ben poco: secondo Niceforo Callisto (monaco e storico bizantino, nato nel 1256 e morto nel 1335) avrebbe predicato il Vangelo in Giudea, Samaria, Idumea, Siria e Mesopotamia, subendo il martirio a Emessa, in Turchia. Per altri, sarebbe morto lí, ma per cause naturali. Secondo una delle ipotesi che lo vogliono martirizzato, a Giuda Taddeo e Simone, nella città di Suanir (nella Colchide, in Persia), fu ordinato di sacrificare, nel tempio del Sole, al sole e alla

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luna: al che i due risposero che gli astri erano semplici creature del Dio che essi annunziavano; allora i sacerdoti e il popolo si precipitarono sui due apostoli, lapidandoli e colpendoli con una mazza: «In particolare, dopo essere stato trafitto da lance e mazze, Giuda Taddeo sarebbe stato finito con un colpo d’ascia sulla testa». In altre versioni si dice che fu ucciso a colpi di bastone, ovvero decapitato con la spada, oppure con un’ascia. Né manca una tradizione che vuole il corpo del martire addirittura fatto a pezzi con una sega, circostanza in ossequio alla quale Giuda viene a volte raffigurato con questo simbolo ed è patrono dei boscaioli. La tesi piú diffusa, comunque, è quella della lapidazione e della bastonatura, quest’ultima ripresa in molte immagini del santo: risulta perciò difficile stabilire perché sia comparsa l’alabarda, che è finita con il diventare addirittura il simbolo piú tipico di Giuda Taddeo.

Il furto delle reliquie

Alabarda svizzera o tedesca che rappresenta la morfologia di quest’arma, con il ferro (scure) adatto a colpi di taglio e una lunga e robusta cuspide per colpi di punta, con un becco dorsale per colpire anche con tale lato, solitamente per sgarrettare i cavalli avversari. L’asta è a sezione rettangolare, interessata per un lungo tratto da bandelle uscenti dalla gorbia: se incontriamo aste a sezione circolare o esagonale/ ottagonale, dobbiamo pensare a rifacimenti piú recenti.

Secondo la tradizione, avvalorata da alcune lettere dell’epoca, nel 1438 un francescano di Lanciano (Chieti), di nome Jacopo, si era recato a Venezia per venerare le reliquie dei santi Simone e Giuda nella basilica omonima. Come spesso accadeva con i sacri resti, il giugno

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Il martirio degli apostoli Simone e Giuda Taddeo, con l’allegoria del carro della morte, in un dipinto tedesco della scuola di Stephan Lochner. XV sec. Città del Vaticano, Pinacoteca Vaticana. Compaiono bastoni, una sorta di corta scimitarra e un’alabarda. In qualche modo ci si rifà alla tradizione per descrivere le armi usate per il martirio.

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CALEIDO SCOPIO frate pensò bene di trafugare la testa di san Simone e un avambraccio e una tibia di Giuda Taddeo, lasciando il tutto a Lanciano, affinché proteggesse la città dalle carestie. I Veneziani si accorsero del furto e il doge (probabilmente, Francesco Foscari, in carica dal 1423 al 1457: il dogato piú lungo della storia) scrisse al vescovo di Chieti richiedendo indietro le reliquie, ma il presule si rifiutò. Il doge arrivò a dichiarare guerra a Lanciano e organizzò l’attacco per mare, avendo come obiettivo San Vito Chietino, che allora si chiamava solo «San Vito». Ma i Veneziani sbagliarono paese e colpirono, molto piú a sud, San Vito dei Normanni, in provincia di Brindisi, che nulla aveva a che fare con la vicenda. Vista la situazione, il re di Napoli, Ferdinando, ordinò il cessate il fuoco e, un secolo piú tardi, Venezia si decise a riconoscere la nuova proprietà lancianese (anche se non proprio ortodossa) delle reliquie. Attualmente, le

Martirio di San Giuda Taddeo, olio su tela attribuito a Carlo Scapin. XVIII sec. Il martire viene aggredito con bastoni e con una sorta di grosso spiedo, mentre sullo sfondo compare un soldato con un’alabarda. In basso Giuda Taddeo in un dipinto di scuola lombarda. XVII sec. Qui l’attrezzo non è rappresentato troppo bene, ma si intuisce che si tratta di una scure o di un’accetta, attrezzi da boscaiolo. presunte reliquie dei due santi si trovano nella cappella omonima del complesso conventuale di S. Agostino a Lanciano. Giuda Taddeo è anche il santo delle «cause perse» – e se ne ignora la ragione –, ma non perché le cause da lui patrocinate andassero sempre a finire male, bensí perché ci si rivolgeva a lui solo in extremis, affidandogli richieste quasi impossibili, che però lui riusciva, a volte, a soddisfare.

Una presenza incongrua Come già accennato, stranamente, fra le numerose armi menzionate per il martirio di Giuda Taddeo, non figura l’alabarda, che, invece, è l’arma piú spesso collegata alla sua figura. Troviamo mazze ferrate (bastoni muniti a un’estremità di rinforzi in ferro con cuspidi acuminate), spade, lance (rectius: spiedi), partigiane, spiedi ad ali, scuri/accette e, in prevalenza, le alabarde. Manca l’ascia, che invece

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San Giuda Taddeo, olio su tela di El Greco (al secolo, Domínikos Theotokòpulos), 1606. Toledo, Museo di El Greco. Il santo ha qui come attributo un’alabarda, molto stilizzata, che richiama modelli della fine del Cinquecento. è nominata come arma utilizzata per la sua decapitazione ovvero per finirlo dopo gli altri supplizi. Questo per un motivo ben preciso: l’ascia è un attrezzo per la lavorazione del legno, tipico dei fabbricanti di botti e dei carpentieri navali (che hanno la qualifica di «maestri d’ascia») e viene esattamente definita «Attrezzo da taglio per lavorare il legno, caratterizzato dall’avere il taglio normale al manico (a foggia di zappa)». È evidente che con un manufatto del genere, decapitare una persona è un’impresa non da poco, eppure molti storici e studiosi insistono nel definire ascia quella che intendono essere una scure o un’accetta, fatta per tagliare un albero. E sarebbe interessante vedere costoro in azione, muniti di un’ascia vera e propria, per tirar fuori un tronco da un bosco...

Basterebbe un dizionario... Si tratta di errore palese, che si potrebbe evitare consultando un dizionario: mai piú gli alberi verrebbero abbattuti a colpi d’ascia e non ci sarebbero piú vittime uccise con un’ascia. Resta il fatto che si parla di ascia, che va dunque tradotta in scure o accetta, che in effetti compare in molte raffigurazioni del santo. Ma l’alabarda mal si spiega, visto che, in quanto tale, compare solo agli inizi del XIV secolo, in Europa. Si tratta di una scure con un manico molto lungo, 2 m circa, e munita di una lunga cuspide terminale e di un forte «becco» (uno spunzone) sul dorso. Eppure, un santo con una lancia, una spada o una mazza ferrata è, con tale attributo come solo indizio, difficilmente identificabile, ma se

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Giuda Taddeo, statua in marmo di Lorenzo Ottoni. 1708-1715. Roma, basilica di S. Giovanni in Laterano. L’arma, tecnicamente, è una partigiana, che compare solo alla fine del XV sec. e rimane in uso per tutto il XVII sec. Martirio di San Giuda Taddeo, olio su tela di Pietro Damini. 1625-1630. Padova, chiesa di S. Gaetano.

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munito di scure o alabarda si pensa proprio a Giuda Taddeo. Oppure a Mattia Apostolo. Personaggio, quest’ultimo, che sembra fatto apposta per confondere le idee, già non chiarissime, in merito alla figura di Giuda Taddeo. Secondo gli Atti degli Apostoli (1,2122) Mattia, da non confondere con Matteo, fu uno dei settanta discepoli di Gesú, predicò il Vangelo in Etiopia e morí a Sebastopoli, mentre per

un’altra tradizione venne lapidato a Gerusalemme dai Giudei, finendo poi decapitato con un’alabarda, che rappresenta il suo attributo iconografico. Quindi, un personaggio con un’alabarda, e la palma del martirio, può indifferentemente raffigurare san Giuda Taddeo e Mattia Apostolo. Distinguerli è impossibile, accumunati come sono dalla stessa arma, che per di piú non esisteva all’epoca in cui vissero. giugno

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Lo scaffale Lucia Sinisi I cicli illustrativi su un archivolto della Cattedrale di Barletta Edipuglia, Bari, 106 pp., ill. col.

30,00 euro ISBN 979-12-5995-013-0 www.edipuglia.it

Costruita a partire dalla metà del XII secolo e intitolata a santa Maria Maggiore, la Cattedrale di Barletta ha successivamente subito vari rimaneggiamenti, ma conserva almeno

in parte elementi dell’apparato decorativo originario. Fra questi, in facciata, si annovera l’archivolto che corona il portale laterale sinistro, oggetto dello studio condotto da Lucia Sinisi. L’autrice si era già in passato dedicata all’analisi del manufatto, identificando in episodi tratti dalla versione anglonormanna della

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Chanson de Roland le scene che si dispiegano sulla parte destra del manufatto. Ora ha esteso l’indagine all’altra metà del rilievo e ne dà conto, con dovizia di particolari, in questa sede. Nel dettaglio, si tratta di quattro scene che, a partire dalla base, mostrano: un giovane in armi, l’uccisione di un orso da parte di un uomo barbuto, la consegna di un bastone di comando e un personaggio che incede a cavallo di un’asina. Ebbene, sulla scorta dei confronti con la tradizione iconografica e, soprattutto, delle chiavi interpretative rintracciabili nelle fonti letterarie, Sinisi propone, convincentemente, di leggere la sequenza come una celebrazione delle gesta di Goffredo di Buglione, campione della cristianità e divenuto un eroe quasi leggendario per le gesta compiute in Terra Santa. Un omaggio al quale, come scrive l’autrice stessa, farebbe da «controcanto» la sequenza dedicata all’epica di Roncisvalle, «con l’evidente intento di paragonare i crociati ai paladini di Carlomagno».

Tommaso Duranti Ammalarsi e curarsi nel medioevo Una storia sociale Carocci editore, Roma, 235 pp., ill. b/n

19,00 euro ISBN 978-88-290-1997-7 www.carocci.it

Come lascia intuire il sottotitolo, il volume di Tommaso Duranti non propone al lettore una storia della pratica medica esercitata nel millennio medievale, ma mira piuttosto a definire in che modo la malattia e il malato fossero percepiti dalla comunità. Un intento illustrato nell’ampia introduzione, nella quale l’autore si sofferma a lungo anche sull’importanza delle terminologie alle quali fare ricorso, sottolineando, per esempio, come la lingua italiana offra a suo avviso soluzioni meno efficaci di quelle messe a disposizione dall’inglese per

definire i diversi aspetti della malattia. Che non va intesa esclusivamente come fenomeno fisiologico, ma che rappresenta una condizione rispetto alla quale variavano (e variano) sia la considerazione che di se stesso ha la persona che ne è colpita, sia l’approccio della società nei confronti di chi, appunto, è malato. Stabilite queste coordinate, i vari capitoli dell’opera si soffermano dunque sulle principali problematiche legate al fenomeno – dalle speculazioni filosofiche alle diverse categorie di malati, dai terapeuti ai luoghi di cura, senza naturalmente trascurare un capitolo sulla peste e le epidemie –, proponendo al lettore un costante confronto tra le realtà storicamente documentate e la loro lettura in chiave sociale e filosofica. Ne scaturisce una trattazione di notevole interesse, anche perché, sebbene Duranti affermi di non voler cadere nel «facile stratagemma del continuo rimando all’oggi», non è difficile individuare i passaggi che si offrono come

stimolante confronto con la realtà contemporanea, su un tema che, mai come altri, attraversa tutte le classi sociali. Franco Cardini Le vie del sapere Ritrovare l’Europa, il Mulino, Bologna, 293 pp., ill. b/n

16,00 euro ISBN 978-88-15-38292-4 www.mulino.it

Franco Cardini tiene a battesimo questa nuova collana varata dal Mulino, Ritrovare l’Europa, con un volume che ne costituisce una sorta di manifesto programmatico. Un’opera che si snoda come un viaggio, non solo fisico e geografico, ma pensato – come si legge nelle pagine introduttive – per proporre al lettore «un itinerario nella cultura medievale, nei suoi modi di far circolare il sapere, di diffondere le idee». E poiché, come scrive poco oltre

giugno

MEDIOEVO


l’autore, «guardando al sapere medievale, lo sguardo deve rivolgersi dapprima alla nascita della religione cristiana», la trattazione si apre con il capitolo dedicato ai Vangeli e alla conseguente diffusione della dottrina di cui essi divennero i testi di riferimento. E subito affiora la scelta di Cardini di associare alla narrazione dei fenomeni e degli eventi i profili biografici dei loro principali protagonisti. Ne risulta una cavalcata che, abbracciando l’intero continente europeo (ma non solo), si snoda lungo oltre mille anni di storia, chiudendosi alle soglie del Rinascimento. Come sempre e come anche i lettori di «Medioevo» hanno piú volte avuto modo di apprezzare, l’autore mette al servizio del suo magistero di storico un piglio letterario che rende il suo testo vivace e accattivante, capace di rendere accessibili anche realtà complesse, quali, solo per fare qualche esempio, l’avvento del movimento cluniancense o gli sviluppi culturali maturati presso le corti di Federico II e Alfonso X di Castiglia.

MEDIOEVO

giugno

Herbert L. Kessler L’esperienza medievale dell’arte Gli oggetti e i sensi

Officina Libraria, Roma, 336 pp., tavv. col.

35,00 euro ISBN 978-88-3367-192-5 www.officinalibraria.net

Le espressioni dell’arte medievale sono un patrimonio a molti familiare, soprattutto in un Paese come l’Italia, ma gli occhi con i quali a esse si guarda non sono certo gli stessi di chi vedeva e ammirava quelle stesse opere al tempo in cui presero forma. È questo l’assunto piú importante del saggio di Herbert Kessler, che, ora tradotto in italiano, propone riflessioni

e considerazioni di notevole interesse, anche per il pubblico dei non addetti ai lavori. Il campo nel

quale l’autore ha qui scelto di muoversi è per l’appunto la regione italiana, che non deve però essere intesa soltanto come contenitore geografico, ma anche come culla di sperimentazioni e invenzioni destinate a conoscere una diffusione straordinaria. E, fra l’altro, Kessler sottolinea a piú riprese come l’«italianità» di opere distribuite in Europa e non solo sia stata riconosciuta solo in tempi relativamente recenti dagli studiosi. Arricchita da un’ottantina di tavole a colori, la trattazione si articola in sezioni nelle quali l’analisi degli elementi concreti – come per esempio

Custodia in avorio di specchio con l’Assalto al castello di Amore. 1320-1340. Baltimora, The Walters Art Museum.

le materie di volta in volta scelte come supporti (pietra, legno, carta, avorio, tessuti...) – procede quindi di pari passo con la ricostruzione di quale percorso intellettuale guidasse l’operato di pittori, scultori o miniatori e di come le loro creazioni fossero recepite. Rivelazioni che senza dubbio propongono a chi legge prospettive nuove e chiavi di lettura forse inaspettate. (a cura di Stefano Mammini)

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CERVETERI e TARQUINIA capitali d’ etruria

UNA GUIDA AL PARCO ARCHEOLOGICO DI CERVETERI E TARQUINIA

Cerveteri e Tarquinia sono state città etrusche di primaria importanza e hanno lasciato straordinarie testimonianze di quel glorioso passato, tanto che sono state entrambe inserite dall’UNESCO nella Lista del Patrimonio Mondiale dell’Umanità. Una «comunanza» ribadita, in tempi piú recenti, dall’istituzione del PACT, il Parco Archeologico di Cerveteri e Tarquinia, ai cui tesori è dunque dedicata la nuova Monografia di «Archeo». L’ampia trattazione – questa volta il fascicolo ha un numero di pagine maggiore del consueto, 160 – è un viaggio alla scoperta dei due siti, ciascuno dei quali comprende aree archeologiche e musei. Si comincia quindi con Cerveteri, la cui attrattiva maggiore è costituita dalle monumentali tombe a tumulo della necropoli della Banditaccia. Complessi che provano la maestria sviluppata dagli architetti e dagli scalpellini etruschi nell’esaltare le proprietà plastiche del tufo, la roccia vulcanica tipica della zona. Nell’arco di oltre quattro secoli, presero forma tombe magnifiche che sono anche uno specchio fedele di come le case dovevano essere strutturate. Corollario irrinunciabile dell’esperienza en plein air è la visita del Museo allestito nel Castello Ruspoli, divenuto casa, fra gli altri, del prezioso cratere di Eufronio.

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Altrettanto emozionante e suggestiva è la rassegna dei monumenti tarquiniesi, fra i quali spiccano le splendide tombe dipinte della necropoli dei Monterozzi, che, in un tripudio di colori, restituiscono scene allegoriche, episodi mitologici e vivaci spaccati della vita quotidiana. Anche in questo caso, non può mancare la visita del Museo, che ha sede nell’elegante Palazzo Vitelleschi e vanta collezioni di primissimo piano.




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