Medioevo n. 319, Agosto 2023

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MEDIOEVO n. 319 AGOSTO 2023

L AC E C VI Q ERA TE UA M RB PE IC O ND H EN E D TE I

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Mens. Anno 27 numero 319 Agosto 2023 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

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IN EDICOLA IL 3 AGOSTO 2023



SOMMARIO

Agosto 2023 ANTEPRIMA

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IL MEDIOEVO IN PRIMA PAGINA Una tradizione a tinte forti

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RESTAURI È tutta farina del suo sacco!

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APPUNTAMENTI L’Agenda del Mese

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STORIE BATTAGLIE Marchfeld Una mossa «sanz’arme», ma decisiva di Federico Canaccini

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24 MATILDE DI CANOSSA La signora delle cento chiese di Paolo Golinelli

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COSTUME E SOCIETÀ IL TRECENTONOVELLE DI FRANCO SACCHETTI/7 Severo ma non troppo di Corrado Occhipinti Confalonieri

LUCA SIGNORELLI IN UMBRIA/6 Le meraviglie di Morra di Valentina Ricci Vitiani

50

50 38

CALEIDOSCOPIO

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LIBRI Come una polifonia di Chiara Mercuri Lo Scaffale

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Dossier

CON IL VENTO IN POPPA... di Alessandro Bedini

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MEDIOEVO n. 319 AGOSTO 2023

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14/07/23 08:43

MEDIOEVO Anno XXVII, n. 319 - agosto 2023 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Angelo Poliziano, 76 - 00184 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it

Hanno collaborato a questo numero: Alessandro Bedini è giornalista e scrittore. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Francesco Colotta è giornalista. Paolo Golinelli è presidente dell’Associazione Matildica Internazionale. Chiara Mercuri è docente presso l’Istituto Teologico di Assisi. Corrado Occhipinti Confalonieri è storico e scrittore. Valentina Ricci Vitiani è storica dell’arte. Illustrazioni e immagini: Shutterstock: copertina e pp. 53, 55, 60/61, 64/65, 66, 80-81, 98/99, 105, 106/107 – Cesare Goretti: pp. 6-8 – Cortesia Ufficio stampa Villaggio Globale International Srl: pp. 12-14 – Cortesia degli autori: pp. 12-14, 41, 47, 68-69 – Mondadori Portfolio: AKG Images: pp. 24/25; Fine Art Images/Heritage Images: pp. 26, 36/37; Erich Lessing/K&K Archive: pp. 28, 76; The Print Collector/Heritage Images: p. 51; Album/ Prisma: p. 54; Album/Oronoz: p. 57; Ann Ronan Picture Library/ Heritage Images: pp. 58/59 – Doc. red.: pp. 28/29, 30, 34/35, 50/51, 52/53, 56, 62-63, 71, 72, 75, 78/79, 82-85, 89, 92-97, 100-103, 104/105, 107, 109; Giorgio Albertini: tavole alle pp. 73, 86/87, 90/91, 99, 108/109 – Museo Nazionale di Cracovia: pp. 32/33 – Su concessione dell’Ufficio Beni Culturali Diocesi Città di Castello: pp. 38/39, 40/41, 42-45 – da: Nel segno di Matilde, Artioli Editore, Modena, 1991: tavola a p. 64 – Davids Samling, Copenaghen: p. 74 – Cortesia Ufficio stampa Editori Laterza: pp. 110/111, 112 – Patrizia Ferrandes: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 27, 31, 106. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Impaginazione Alessia Pozzato

Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 49572016 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 - Via Dalmazia, 13 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Servizio Arretrati a cura di Press-Di Distribuzione Stampa e Multimedia Srl 20090 Segrate (MI) I clienti privati possono richiedere copie degli arretrati tramite e-mail agli indirizzi: collez@mondadori.it e arretrati@mondadori.it Per le edicole e i distributori è inoltre disponibile il sito https://arretrati. pressdi.it In copertina Lisbona. La cinquecentesca Torre di Belém. Affacciata sulla foce del fiume Tago, venne eretta per rievocare il ruolo egemone del regno portoghese nell’era delle grandi esplorazioni.

Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Prossimamente altopascio, settembre 1325

Il trionfo di Castruccio Castracani

trecentonovelle

ordine teutonico

Chi la fa, l’aspetti...

I cavalieri della croce nera



il medioevo in

rima

agina

Una tradizione a tinte forti MOSTRE • Grazie a un repertorio variegato e dominato dall’uso sapiente

e fantasioso del colore, le ceramiche di Acquapendente godettero di grande notorietà e fortuna fra Medioevo e Rinascimento

P

er spiegare il titolo della mostra attualmente allestita presso il Museo della Città di Acquapendente (Viterbo), è sufficiente soffermarsi ad ammirare le ceramiche riunite per l’occasione ed esposte in senso cronologico; ci si accorge che dalla monocromia o bicromia dei secoli XIV e XV si arriva, fra Cinque e Seicento, a una varietà di colori e temi decorativi davvero straordinaria, un’autentica «esplosione», appunto. A sinistra e a destra brocche che riprendono il motivo delle «Belle» (grandi piatti senza tesa con ritratti femminili e cartigli), limitandosi alle sole immagini. Fine del XVI sec.

Piatti pieni di bellezza Una tipologia aquesiana di grande successo commerciale, alla fine del CInquecento, è quella delle «Belle»; grandi piatti senza tesa del diametro di circa 30 cm, con al centro una donna in abiti sfarzosi e cartiglio con nome e appellativo di bella datati sul fronte, mentre il retro è solamente invetriato. Conosciamo: Lionia (1579), Frolita (1583), Livisa (1588), Cremelia (1596), Domenica (senza data) e Vidonia (frammento). Ciò dimostra che, per circa vent’anni (1579-1596), la produzione di queste tipologie di piatti ha utilizzato gli stessi spolveri e lo stesso modus operandi, con lievi modifiche che riguardano l’ornato e gli accessori.

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Gli oggetti selezionati per questo excursus coloristico provengono da scavi effettuati nella stessa Acquapendente. I primi oggetti risultano acromi, cioè privi di colore o, piú esattamente, del colore naturale dell’argilla in prima cottura, il cosiddetto biscotto. Le ceramiche a biscotto esposte si collocano cronologicamente nei secoli XIV e XV e sono state ritrovate nei sotterranei del convento

dei frati di S. Agostino nel 1995. La tecnica di produzione impone due cotture in fornace a circa 950 gradi; la prima realizza il biscotto prima descritto, la seconda ci dà l’oggetto colorato. I tre colori usati nel secolo XIV sono il bianco, il verde e il bruno o meglio gli ossidi metallici che stesi a pennello sul biscotto, dopo la seconda cottura fondendo ricoprono l’oggetto di uno smalto colorato.

Una tavolozza sempre piú ricca A caratterizzare i decori per tutto il XIV secolo e oltre saranno quindi i colori del bianco-stagno, bruno-manganese, verderame. A partire dalla metà del XV secolo si aggiungono il giallo e il blu: il primo ricavato dall’ossido di antimonio; il secondo dall’ossido di cobalto. Nel pieno Rinascimento, i colori principali – bianco, bruno, verde, blu e giallo – formano la tavolozza pittorica con cui il decoratore si cimenta ogni giorno,

In questa pagina altri vasi di varia foggia selezionati per la mostra in corso ad Acquapendente. In particolare, in basso, sono riprodotti due piatti che recano il trigramma di san Bernardino.

Tre lettere per Bernardino Gli ultimi anni del Cinquecento sono caratterizzati da una miriade di ceramiche comuni da mensa, per lo piú di forme aperte, avente decori a forme geometriche o vegetali combinate tra loro sia in varietà di colori che di decori in maniera tale da generare decine e decine di tipologie ceramiche. Per tutti i primi anni del Seicento si è continuato a produrre questa tipologia di ceramiche con continui intrecci di decori multicolori. Molte le ceramiche che presentano la particolarità di avere nel decoro centrale il trigramma di san Bernardino. Il santo è presente ad Acquapendente intorno al 1435 ed è ospitato nel convento dei Francescani presso la chiesa di S. Maria. Per diffondere la devozione al «Santissimo Nome di Gesú», aveva adottato un nuovo simbolo detto «Trigramma» o «Orifiamma» o anche «Cristogramma». Grazie a lui il «JHS” entrò nell’uso iconografico comune e divenne familiare alla gente; venivano fatte baciare, ai fedeli, delle tavolette di legno incise con questo monogramma sormontato da una croce e attorniato da un sole. Questo simbolo era composto da un sole d’oro in campo azzurro; al centro del cerchio del sole le tre lettere JHS. Il sole aveva dodici raggi (per alcuni rappresentano i dodici apostoli).

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Lo stile compendiario e i «bronzi negri» Le caratteristiche della ceramica cinquecentesca di Acquapendente sono l’impasto del corpo ceramico di colore rosso mattone e la presenza nella maggior parte degli oggetti dell’ingobbiatura in prima cottura, cioè la forma in argilla cruda essiccata viene immersa in un bagno liquido a base di caolino che permette di ottenere dopo la cottura un pezzo completamente bianco, su cui poi applicare gli ossidi dei colori e ottenere dopo la seconda cottura, l’oggetto finito apparentemente simile agli oggetti smaltati. La quasi totalità delle ceramiche prodotte ad Acquapendente in questo secolo hanno il rovescio dei piatti solamente invetriati con ossido di piombo, cosí come l’interno delle brocche risulta coperto con la sola vetrina piombifera. Fanno eccezione a questa prassi alcune tipologie di piatti compendiari stemmati i cosiddetti «bianchi» o i «negri» o «bronzi negri» che compaiono nei documenti notarili dalla seconda metà del Cinquecento, e sono completamente smaltati sia al verso che al recto. I primi a base di smalto bianco di stagno e piombo bianchissimo, i secondi che altrove vengono chiamati con tecnica a marmorizzazione, a base di ossido di manganese e stagno, in alcuni casi nerissimo. ma è anche presente in mostra la monocromia bianca in stile compendiario, dei bronzi negri e turchini della metà del XVI secolo, alla fine del quale si registra l’esplosione di colori a cui corrisponde il periodo di maggiore sviluppo delle produzioni di Acquapendente. Le tecniche produttive locali avevano da tempo sostituito lo smalto di stagno con un sottile strato di ingobbio bianco dato in prima cottura che, essendo piú economico, rendeva competitiva la produzione. Giallo, arancio, ocra, nero, bruno, celeste, turchino, blu e verde, insieme a temi originali, faranno la fortuna dei vasai aquesiani fino alla metà del secolo successivo. Soprattutto

gli abbinamenti del bruno-ocra-arancio-giallo renderanno immediatamente riconoscibili le ceramiche aquesiane in tutta Italia. Dalla fine del Seicento il ciclo pittorico si inverte nuovamente e torna la bicromia bianco-blu, con un decadimento degli abbinamenti e dei decori. La mostra ha il patrocinio della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la provincia di Viterbo e per l’Etruria meridionale, dell’AICC-Associazione Italiana Città della Ceramica, del Comune di Acquapendente ed è stata organizzata dall’associazione ArcheoAcquapendente. (a cura di Giuseppe Ciacci)

In alto un piatto compendiario appartenente alla tipologia dei «bronzi negri». Seconda metà del XVI sec.

A sinistra e a destra un vaso da cucina e un piatto decorato.

DOVE E QUANDO

«Il ‘600, un’esplosione di colori» Acquapendente (VT), Museo della Città (Palazzo Vescovile) fino al 31 dicembre Info www.archeoclubacquapendente.it; Facebook: ArcheoAcquapendente

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ANTE PRIMA

Nell’Isola delle quattro contrade

INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

È

in programma dall’8 al 10 settembre la 56^ edizione del Palio di Isola Dovarese, che quest’anno ha come tema Homulus-Il Viaggio di Ognuno. Il palio rievoca il periodo di appartenenza di Isola Dovarese (oggi in provincia di Cremona) allo Stato Gonzaghesco nella seconda metà del Quattrocento, celebrando la venuta della corte mantovana in forma di festa su pubblica piazza, in onore dei marchesi Ludovico Gonzaga e Barbara di Brandeburgo. Lo sfondo cronologico per la ricostruzione del borgo, delle taverne e delle ricette culinarie, dei costumi abbraccia un periodo piú ampio per poter attingere a un numero maggiore di fonti e documenti sia storici che iconografici. Tale periodo prende avvio dall’anno del giuramento di fedeltà di Isola Dovarese a Ludovico Gonzaga, II marchese di Mantova, il 1451, sino al 1490, anno dell’arrivo di Isabella d’Este a Mantova. Da che se ne abbia memoria, il borgo di Isola Dovarese è sempre stato distinto in quattro contrade: Porta Tenca, Le Gerre, San Giuseppe, San Bernardino. Tra i loro abitanti è sempre esistita un’accesa rivalità, che si palesava in particolar modo in occasione delle feste popolari, quando i giovani maschi si affrontavano in giochi e gare di abilità. Riprendendo questa tradizione, nel 1967 un gruppo di Isolani diede vita al Palio. Nel corso degli anni, da festa di paese in cui le contrade si affrontavano in giochi popolari (tiro della fune, corsa coi sacchi, arrampicata della cuccagna, ecc.), la manifestazione si è trasformata in una ricostruzione storica raffinata, apprezzata a livello nazionale e internazionale, che non ha però rinunciato al legame con le proprie tradizioni locali, che sopravvivono nei tre giochi storici che si disputano il giorno del Palio: la corsa del gallo, la corsa coi trampoli e il màgher. Quest’ultimo, in particolare, fonde insieme tiro di precisione, mira e velocità e il campo di gioco è la piazza del paese, lastricata di porfido. Si sfidano quattro popolani in costume, uno per contrada: tre concorrenti devono colpire il maggior numero di volte possibile, con un ciottolo di fiume, una latta d’olio circolare in banda stagnata da 5 litri (tòla) posta a 10 m di distanza dalla linea di tiro, recuperandolo e tornando rapidamente sulla linea di tiro; un concorrente – il custode – deve riposizionare la tòla ogni volta che gli altri concorrenti

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Immagini di repertorio del Palio di Isola Dovarese (Cremona).

la colpiscono. Per liberarsi e poter anche lui tirare alla tòla, il custode deve toccare uno dei concorrenti che non l’hanno colpita al proprio turno di tiro e prima che gli altri tiratori attivi la colpiscano a loro volta, nel qual caso è costretto a riposizionarla. Vince la contrada il cui concorrente totalizza il maggior numero di tòle. Nei tre giorni del Palio la moneta ufficiale è il Quattrino, reperibile presso l’apposito «Ufficio de Cambio» e le tre casse d’ingresso. È possibile pranzare e cenare, senza possibilità di prenotazione, nelle quattro taverne: Taverna del Viandante, Taverna de li Sette Peccati, Taverna dell’Aquila d’Oro e Taverna de la Tinca. Per informazioni e programma completo: Associazione Pro Loco Isola Dovarese, tel. 339 7489760; per prenotazioni convivio, tel. 333 2535386; e-mail: prolocoisoladovarese@gmail.com; www.proloco-isola.org; www.palioisola.it agosto

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ANTE PRIMA

È tutta farina del suo sacco! RESTAURI • L’intervento su una pala finora attribuita

a Tiziano e alla sua bottega ha invece permesso di assegnare al solo maestro la realizzazione dell’opera. Che ora torna a farsi ammirare nella chiesa arcidiaconale di Pieve di Cadore

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ieve di Cadore (Belluno), paese natale di Tiziano Vecellio, ha salutato il ritorno di una preziosa pala dipinta dal suo figlio piú famoso, la Madonna col Bambino tra i Santi Tiziano e Andrea (1560ante 1568), che, al termine di un importante restauro, è stata ricollocata nella chiesa arcidiaconale di S. Maria Nascente, dotata di una nuova illuminazione a led. L’intervento sul dipinto, realizzato da Francesca Faleschini, è stato accompagnato da analisi diagnostiche sull’opera e ha avuto esiti di eccezionale importanza, poiché non ha soltanto rivelato la qualità dell’opera e i colori ritrovati, ma anche la piena autografia di Tiziano, laddove si riteneva che la tela fosse invece frutto della collaborazione con la bottega o aiuti. Un risultato di rilievo per la biografia dell’autore, considerando anche la valenza quasi «privata» della piccola pala (138,5 x 104 cm), realizzata per la cappella dei Vecellio nella chiesa dedicata a Maria – che qui è dolcemente raffigurata nell’atto di allattare Gesú – e donata da Tiziano alla città. In quel sacro contesto, inoltre, il pittore cadorino si raffigura, umilmente, nel fedele a sinistra che regge il bastone pastorale del

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suo santo omonimo, titolare della cappella della famiglia; mentre nel volto di sant’Andrea, secondo una fonte attendibile del 1622, Tiziano avrebbe raffigurato il fratello Francesco, scomparso nel 1560. Una sorta di ritratto di famiglia. Già nella Visita Pastorale del 1604, il dipinto – citato da Vasari

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nell’edizione delle Vite del 1568 (menzione che quindi fornisce una data ante quem per la tela) – veniva definito «bellissimo» e di mano del Tiziano. Gli interventi conservativi, effettuati presso alcuni ambienti della Fondazione Centro Studi Tiziano e Cadore, attrezzati allo scopo, hanno permesso di mostrare al pubblico i toni cromatici occultati e di raccontare la storia delle «cicatrici» che questo dipinto porta con sé, come i segni dei tagli eseguiti nel tentato furto settecentesco (precedente al 1729) che circoscrivono la figura della Madonna con Bambino.

Indagini a tutto campo

Sulle due pagine immagini della Madonna col Bambino tra i Santi Tiziano e Andrea, olio su tela di Tiziano. 1560-ante 1568. Pieve di Cadore (Belluno), chiesa arcidiaconale di S. Maria Nascente. In alto, il dipinto al termine dell’intervento di restauro; in basso, sulle due pagine, due momenti delle operazioni condotte sulla tela.

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Lo studio della materia costitutiva ha svelato e chiarito alcuni quesiti e aiuterà a meglio definire nei prossimi mesi le curiose vicende subite dalla pala durante questi ultimi cinque secoli – compresi restauri e scempi, come il furto subito dall’opera in epoca moderna – valendosi anche delle analisi diagnostiche fisiche e chimiche effettuate e dello studio analitico delle fonti storiche e d’archivio. Anche perché il restauro è stato occasione per unire competenze, conoscenze da parte di piú professionisti, attraverso confronti costanti tra storici dell’arte, tecnici scientifici, fotografi, ricercatori e studiosi. Tutte informazioni e considerazioni che confluiranno nel volume che la Fondazione pubblicherà in autunno, a cura di Stefania Mason Presidente del Comitato Scientifico della stessa, con saggi di Don Paolo Barbisan, Elisa Buonaiuti, Davide Bussolari, Alessandra Cusinato, Enrico Maria Dal Pozzolo, Francesca Faleschini, Nicole de Manincor. Fin d’ora si può dire che la radiografia RX, la riflettografia IR e i micro prelievi stratigrafici hanno a ogni modo convalidato il disegno preparatorio, la tecnica esecutiva,

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ANTE PRIMA La Madonna col Bambino tra i Santi Tiziano e Andrea prima del restauro. In basso particolare del dipinto nel quale Tiziano ha ritratto se stesso nei panni di un fedele che regge il pastorale del suo santo omonimo.

Una veduta esterna e l’interno della Torre Donà.

i pigmenti utilizzati dal Tiziano e gli interventi successivi. La linea del disegno è un tratto espressivo, sul piano tecnico conoscitivo ed emotivo, e rappresenta l’impronta inconfondibile di chi ne è l’esecutore. Lo stato conservativo

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estetico superficiale non consentiva la lettura oggettiva delle effettive cromie perché occultate dai vari strati di vernici ossidate e da campiture pittoriche pertinenti a interventi successivi. Un esempio è il tendaggio verde alle spalle

della scena: sono stati rilevati sette strati sovrapposti. I piú superficiali, velature e pennellate utilizzate nel tentativo di ravvivare la luminosità del dipinto, risultavano alterati e anneriti. La rimozione degli strati alterati ha riportato cosí alla luce le pieghe e la luminosità al tendaggio. L’osservazione dei materiali costitutivi e della tecnica esecutiva utilizzata dal Tiziano ha permesso di comprendere ancora una volta la grande conoscenza e l’estro di questo maestro della pittura, ma anche i vari pentimenti/ ripensamenti in fase di esecuzione, come nel caso dell’autoritratto. In radiografia si evince il cambiamento della posizione del volto, inizialmente posto di tre quarti, verso l’osservatore, e poi rimodulato con lo sguardo rivolto alla scena centrale della Madonna lattante. L’intervento di restauro è stato promosso e sostenuto dal Centro Studi Tiziano e Cadore, con il sostegno della ditta Galvalux. (red.) agosto

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AGENDA DEL MESE

Mostre NEW YORK RICCHI, POVERI: ARTE, CETO E COMMERCI IN UNA CITTÀ DEL TARDO MEDIOEVO The Metropolitan Museum of Art, The Cloisters fino al 20 agosto

a cura di Stefano Mammini

state selezionate oltre 50 opere, fra tessuti, stampe, elementi d’arredo e oggetti d’arte decorativa. Hamlyn, che per due volte resse le sorti della municipalità cittadina, fu un ricco mercante di stoffe e si affermò come uno dei personaggi piú in vista della Exeter cinquecentesca. E la casa che si fece costruire costituí una vivace anomalia nel panorama urbano dell’epoca, caratterizzata com’era da una serie di sculture di grande formato che raffiguravano soggetti ricavati da stampe popolari e racconti boccacceschi: ecco cosí sfilare un giullare, una coppia che litiga, contadini e musicanti. Ma perché uno degli uomini piú ricchi e potenti della città avrebbe scelto di dare visibilità alle classi meno abbienti? Due sono le ipotesi suggerite dalla mostra: il desiderio di celebrare la vita quotidiana di Exeter o forse, e piú probabilmente, la volontà di sottolineare il proprio ruolo nella comunità. info www.metmuseum.org TORINO

All’epoca dei Tudor, i membri dell’emergente classe media inglese individuarono nella casa un bene attraverso il quale ostentare l’affermazione del proprio status sociale e un veicolo di autorappresentazione. È questa l’idea che ha ispirato il progetto espositivo realizzato nella sezione medievale del Metropolitan, The Cloisters, e che si è concretizzata nella documentazione dell’abitazione e della vita di un mercante vissuto a Exeter nel XVI secolo, Henry Hamlyn. Per farlo, attingendo alle collezioni del museo newyorkese stesso, sono

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BIZANTINI. LUOGHI, SIMBOLI E COMUNITÀ DI UN IMPERO MILLENARIO Palazzo Madama-Museo Civico d’Arte Antica, Sala del Senato fino al 28 agosto

Giunge a Torino la rassegna sul «millennio bizantino» già presentata al Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Rispetto al primo allestimento, la versione torinese ripropone il corpus espositivo principale, integrato però da una sezione dedicata al rapporto con l’area piemontese. Oltre 350 opere – sculture, mosaici, affreschi, vasellame, sigilli e monete, smalti, oggetti d’argento, gemme e oreficerie, elementi architettonici – danno conto

delle strutture, dei sistemi organizzativi, dei commerci e dei rituali di una complessa realtà politica, testimoniando nel contempo le eccellenze delle manifatture bizantine, gli incroci di cultura, gli stilemi e i simboli dell’impero d’Oriente attraverso i secoli. Prestiti provenienti da raccolte italiane e da oltre venti musei greci giungono a Torino a narrare il millenario sforzo di un impero teso al dialogo tra la cultura classica e quella orientale. Per una Bisanzio, legata al territorio piemontese, che vedrà nel Principato d’Acaia, fin dalle origini proiettato verso l’Oriente greco e bizantino, l’origine della dinastia dei Savoia-Acaia – formatasi dal matrimonio nel 1301 tra Filippo di Savoia e Isabella di Villehardouin, principessa d’Acaia – ma anche una strettissima connessione con la dinastia dei Paleologi, ascesa nel 1261 con Michele Paleologo al trono imperiale, conservato sino al tramonto definitivo di Bisanzio nel 1453 tramite questo suo ramo occidentale, che si dimostra capace di ravvivare gli splendori

della corte aleramica, rimanendo al potere fino all’ultimo discendente, Gian Giorgio, morto nel 1533. info tel. 011 4433501; e-mail: palazzomadama@ fondazionetorinomusei.it; www.palazzomadamatorino.it TORINO ALL’OMBRA DI LEONARDO. ARAZZI E CERIMONIE ALLA CORTE DEI PAPI Reggia di Venaria, Sale delle Arti fino al 3 settembre

La nuova stagione della Reggia di Venaria si apre con una mostra che offre l’occasione di compiere un viaggio all’interno di alcune fra le piú importanti cerimonie papali: la Lavanda dei piedi e la Coena Domini che si svolgevano il Giovedí Santo nel cuore del Palazzo Vaticano, in ambienti solenni impreziositi da straordinarie opere d’arte, legate ai nomi di Leonardo e Raffaello. Cogliendo il senso di antiche cerimonie, ricche di simboli e di significati, arazzi, quadri, incisioni e oggetti raccontano una storia che affonda le sue radici lontano nel tempo, immergendo il agosto

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visitatore in un mondo di tradizioni e antichi riti. Non solo atti esteriori, ma importanti testimonianze della Chiesa romana. La storia che si racconta ebbe inizio nel 1533 quando, in occasione del matrimonio di Caterina de’ Medici, nipote di papa Clemente VII, ed Enrico di Valois, secondogenito del re di Francia Francesco I, quest’ultimo donò al pontefice un prezioso arazzo raffigurante l’Ultima Cena di Leonardo. Un matrimonio e un regalo importante che suggellavano l’alleanza tra la Francia e il papato contro l’imperatore Carlo V (responsabile del sacco di Roma, avvenuto solo sei anni

molti che il cartone dell’arazzo, su cui fu poi effettuata la successiva tessitura, sia stato realizzato in Francia sotto la supervisione dello stesso Leonardo. info www.lavenaria.it

mostra che, grazie anche al generoso prestito di una collezione privata, espone, assieme per la prima volta dalla dispersione, le tredici tavolette finora rintracciate e, grazie alla collaborazione con la Diocesi di Sulmona, la statua del santo un tempo conservata nella Custodia. info museonazionaledabruzzo. cultura.gov.it

VENEZIA IMAGO IUSTITIAE Museo Correr fino al 3 settembre

Aulo Gellio, giurista e scrittore latino del II secolo d.C. delinea un ritratto «tipico» di Iustitia: una giovane donna dall’aspetto solenne e pieno di dignità; espressione severa; fronte aggrottata; sguardo a un tempo scuro e pieno di energia. Si tratta, commenta

governo. La mostra attraversa il tempo alla ricerca della formazione del primitivo concetto di Giustizia e mostra i mutamenti dell’immagine nei secoli, magistralmente resi da grandi artisti di tutti i tempi, fra cui Guercino, Andrea Del Sarto, Martini, Nani, Reni, Sansovino, Vasari, Maccari e Raffaello. info call center, tel. 848082000; https://correr.visitmuve.it/ L’AQUILA IL MAESTRO DI CAMPO DI GIOVE. RICOMPORRE UN CAPOLAVORO Museo Nazionale d’Abruzzo, Sala Francescana fino al 3 settembre

prima, nel 1527). L’opera fu realizzata dopo il 1516 su ordine dello stesso Francesco I e di sua madre Luisa di Savoia. Questo spiega la presenza di simboli sabaudi lungo tutta la bordura dell’arazzo. Nel prezioso panno, interamente tessuto in oro e seta, l’Ultima Cena milanese è trasposta con assoluta fedeltà, ma con un’importante variazione. Lo sfondo – che nell’originale è quasi un’astrazione – diviene un’architettura rinascimentale: come se l’Ultima Cena si svolgesse alla corte di Francia. Francesco I era un grande estimatore di Leonardo, tanto da averlo chiamato alla sua corte, ed è ormai opinione di

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Gellio, di fattezze simboliche che si interpretano facilmente: «Giustizia è vergine poiché incorruttibile, volitiva poiché non conosce cedimenti, austera poiché non lascia spazio a preghiere o lusinghe, temibile poiché nemica implacabile con chi sceglie di non rispettarla». Questa caratterizzazione contiene, tuttavia, solo parte delle storie precedenti, che si rivelano ben piú complesse e illuminano un orizzonte molto piú antico quando l’ordine e l’armonia delle parti erano emanazione di divinità superiori. Al sovrano, eroe eponimo o capo della comunità spettava essere il tramite e l’esecutore del buon

Il furto, nel 1902, degli sportelli della custodia di Sant’Eustachio privò l’arte abruzzese di un tassello importante per la ricostruzione della pittura centro-italiana del XIV secolo, oltre che del ciclo narrativo piú grande dedicato alla figura del santo. Dopo il furto l’opera fu tagliata nelle scene che la componevano, immesse come «tavolette» sul mercato antiquariale. Nel 2022, grazie all’acquisto di quattro tavolette da parte della Direzione generale Musei del Ministero della cultura, il Museo Nazionale d’Abruzzo ha oggi nella sua collezione otto delle sedici scene. Dall’importante acquisizione è nata l’idea della

TORINO

BUDDHA10. FRAMMENTI, DERIVE E RIFRAZIONI DELL’IMMAGINARIO VISIVO BUDDHISTA MAO-Museo d’Arte Orientale fino al 3 settembre

Quali significati hanno gli oggetti rituali presenti nelle collezioni del MAO e come venivano utilizzati e percepiti nel loro contesto originario? Perché e come sono entrati a far parte del patrimonio del museo – cosí come di altri musei di arte asiatica in ambito europeo? E ancora: quali sono i problemi posti dalla conservazione e dal restauro, subordinati al gusto e alle tecniche che cambiano nel tempo? Qual è il rapporto fra buddhismo e nuove tecnologie? Da queste domande prende avvio la nuova mostra

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«Buddha10», un progetto che parte dalle opere presenti nelle collezioni per aprire prospettive piú ampie relative a questioni che riguardano il museo, le sue collezioni e su cosa significa gestire, custodire e valorizzare un patrimonio di arte asiatica in ambito occidentale. Nelle sale dedicate alle esposizioni temporanee, in uno spazio essenziale ed evocativo, oltre venti grandi statue buddhiste in legno o pietra di epoche diverse (dal V al XIX secolo) delle collezioni del MAO sono accostate ad alcune sculture – tra cui oltre trenta bronzetti votivi della collezione Auriti e due straordinarie teste scultoree in pietra di epoca Tang (618-907 d.C.) – provenienti dal Museo delle Civiltà di Roma, con cui il museo ha avviato una proficua e articolata collaborazione, e a un importante prestito proveniente dal Museo d’Arte Orientale E. Chiossone di Genova. info tel. 011 4436927; www.maotorino.it FIRENZE GHIBERTI, VERROCCHIO E GIAMBOLOGNA. OSPITI «ILLUSTRI» DA ORSANMICHELE Museo Nazionale del Bargello fino al 4 settembre

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Sono eccezionalmente riuniti nel Museo del Bargello il San Giovanni Battista di Lorenzo Ghiberti, l’Incredulità di san Tommaso di Andrea del Verrocchio e il San Luca del Giambologna, tre fra i massimi capolavori della statuaria bronzea rinascimentale, provenienti dal Museo di Orsanmichele. L’esposizione offre l’occasione per ammirare tre opere del celebre ciclo scultoreo di Orsanmichele, trasferite presso l’antica sede del Palazzo del Podestà durante la

temporanea chiusura del Complesso monumentale per lavori straordinari di restauro, messa in sicurezza, riallestimento e miglioria degli accessi. Le opere provengono tutte dalle edicole situate sulla facciata orientale di via de’ Calzaiuoli: il San Giovanni Battista di Ghiberti (14131416), la prima statua monumentale del Rinascimento, viene dal tabernacolo dell’Arte di Calimala, mentre il San Luca del

Giambologna (1602) fu commissionato dall’Arte dei Giudici e dei Notai. Infine, il gruppo verrocchiesco dell’Incredulità (1467-1483), scenograficamente allestito in mostra entro una nicchia sopraelevata a una altezza prossima a quella del tabernacolo originale, rappresenta l’Università della Mercanzia. info tel. 055 0649440; e-mail: mn-bar@cultura.gov.it; www. bargellomusei.beniculturali.it

artistica musulmana. Una creatività che dalla Persia si diffondeva nel mondo come un linguaggio, raggiungendo a Oriente l’India e la Cina e arrivando in Occidente alle pendici dell’Atlante. Frutto di ammirazione e di imitazione raggiunse anche l’Europa, dimostrando quanto le frontiere politiche e religiose non corrispondessero affatto a quelle della percezione estetica. info tel. 011 4436932; www.maotorino.it

TORINO

FERRARA

METALLI SOVRANI. LA FESTA, LA CACCIA E IL FIRMAMENTO NELL’ISLAM MEDIEVALE. MAO, Museo d’Arte Orientale fino al 17 settembre

CASE DI VITA. SINAGOGHE E CIMITERI IN ITALIA Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah – MEIS fino al 17 settembre

La seconda tappa del viaggio di avvicinamento alla grande mostra dell’autunno dedicata all’arte dei Paesi tra estremo Oriente e centro Asia fino alle sponde del Mediterraneo è un progetto dedicato ai piú raffinati oggetti di arte islamica in metallo e rappresenta la prima collaborazione fra il Museo d’Arte Orientale e la Aron Collection. L’esposizione presenta una mirata selezione delle principali tipologie di oggetti della metallistica islamica (bruciaprofumi, portapenne, candelieri, vassoi, bacili, coppe, bottiglie porta profumo) che, insieme alla miniatura, può essere considerata tra le piú alte espressioni della creatività

Storie di città e umanità si intrecciano nella nuova esposizione del MEIS, che approfondisce in modo originale l’aspetto architettonico, rituale e sociale della sinagoga e del cimitero ebraico e, parallelamente, il rapporto tra luoghi sacri, la loro evoluzione e i cambiamenti che ha affrontato l’Italia in oltre duemila anni di storia dell’ebraismo italiano. Le sale ricostruiscono un percorso che, attraverso la speciale lente della agosto

MEDIOEVO


storia delle architetture, testimonia i momenti piú complessi e quelli piú felici della presenza ebraica in Italia. Dalla sinagoga di epoca romana di Ostia Antica a quelle rinascimentali adibite alla preghiera e allo studio, passando per quelle nascoste negli edifici dei ghetti del XVI secolo, la mostra attraverso disegni, documenti e oggetti straordinari ricostruisce le varie tappe evolutive degli spazi di culto ebraici. info tel. 0532 1912039; e-mail: info@meisweb.it ANGHIARI INTELLETTUALI IN BATTAGLIA, FAMA E OBLIO DI DUE LETTERATI DALLA BATTAGLIA DI ANGHIARI ALL’ASSEDIO DI FAMAGOSTA Museo della Battaglia e di Anghiari fino al 17 settembre

Obiettivo della mostra è quello di narrare gesta e opere dei letterati Federigo Nomi e Girolamo Magi, vissuti nel Cinquecento e nel Seicento e nati ad Anghiari. Il borgo ospita opere manoscritte e a stampa provenienti da importanti istituzioni culturali e dipinti dalla Galleria degli Uffizi: un vero e proprio itinerario tra le corti dei Medici e Venezia, dove Nomi e Magi vissero e lavorarono. Tra i prestiti dagli Uffizi, La fama e l’oblio di Nicolas Tournier, La donna e il

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agosto

soldato di Gerard Ter Borch e alcuni ritratti dei protagonisti della mostra, come quelli di Francesco Redi, Selim II, Pietro Aretino. E poi ancora, dalla Biblioteca Città di Arezzo, alcuni dei volumi a stampa delle opere piú significative di Magi, dal Museo delle Arti e Tradizioni Popolari dell’Alta Valle del Tevere di Palazzo Taglieschi il Ritratto di Federigo Nomi, dalla biblioteca della Nuova Fondazione Pedretti una rara edizione degli Elogia di Paolo Giovio e grazie alla collaborazione con la Biblioteca comunale degli Intronati di Siena è possibile il confronto fra l’opera di Dürer e gli studi di Girolamo Magi. Sono stati inoltre realizzati alcuni modelli di macchine inventate da Girolamo Magi, con i quali è possibile sperimentare direttamente in mostra le invenzioni tecnologiche che egli realizzò nel XVI secolo. info tel. 0575 787023; e-mail: museobattaglia@anghiari. it; www.battaglia.anghiari.it ROMA

è giunta a Palazzo Venezia, dove si trova ancora oggi. Il manufatto è il fulcro intorno a cui viene ricostruita e narrata la figura di Innocenzo III, un papa capace di condizionare l’intero Medioevo, come dimostra fra l’altro il rapporto con san Francesco. Parallelamente, si vuole far meglio comprendere l’assetto dell’antica basilica di S. Pietro, nell’occasione restituita attraverso la realtà immersiva. info vive.cultura.gov.it

assumendo anche incarichi pubblici nonostante i viaggi e la ripetuta lontananza – getta nuova luce sull’artista, con una mostra che volutamente si concentra sulla produzione pittorica del maestro con l’obiettivo di ripercorrerne la carriera, rendendo evidente la forza del suo colorismo, la portata e l’originalità della sue invenzioni tanto ammirate da Vasari, la potenza narrativa delle opere e la capacità che egli ebbe di andare oltre i suoi contemporanei, divenendo «un

CORTONA

BRONZO E ORO. ROMA, PAPA INNOCENZO III: RACCONTO IMMERSIVO DI UN CAPOLAVORO Vittoriano, Sala Zanardelli fino al 1° ottobre

SIGNORELLI 500. MAESTRO LUCA DA CORTONA, PITTORE DI LUCE E POESIA Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona fino all’8 ottobre

L’esposizione ruota intorno alla lunetta della Nicchia dei Palli, uno straordinario manufatto di oreficeria medievale in bronzo dorato e, insieme, anche la piú importante opera d’arte superstite connessa alla figura di papa Innocenzo III (1198-1216). Realizzata da maestranze di Limoges che al tempo risiedevano a Roma, la lunetta era in origine destinata con ogni probabilità alla basilica costantiniana di S. Pietro in Vaticano: sopravvissuta alla demolizione della basilica primitiva, l’opera

Straordinario innovatore della stagione rinascimentale, Luca Signorelli (1450-1523) – al secolo, Luca d’Egidio di Ventura o Luca da Cortona – è stata una figura per molti versi sfuggente per la critica e il pubblico, eppure fondamentale nel tracciare la strada che sarà seguita da Raffaello e Michelangelo: i due giganti che, ironia della sorte, finirono in seguito per oscurarne la fama. Nel cinquecentenario della morte, Cortona – la città natale a cui Signorelli fu sempre legato,

faro per i grandi del Rinascimento». La mostra di Cortona, riunendo nella città di Luca dopo settant’anni una trentina di opere dell’artista provenienti da prestigiosi musei italiani ed esteri, compresi importanti prestiti da collezioni private e da oltreoceano, sarà dunque un’occasione per celebrare e consacrare definitivamente Luca da Cortona tra i grandi artisti del tempo, alla luce anche degli studi piú recenti. info tel. 0575 630415; e-mail: info@cortonamaec.org; https://cortonamaec.org/ SIENA DALLA SPADA ALLA CROCE. IL RELIQUIARIO DI SAN

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AGENDA DEL MESE

Un furto clamoroso, nel lontano 1989, dal Museo del Seminario Arcivescovile di Siena. Uno straordinario recupero, oltre trent’anni piú tardi, grazie al Comando dei Carabinieri, Tutela Patrimonio Culturale. E infine il restauro, eseguito nei Laboratori dei Musei Vaticani. È questa l’occasione per inaugurare la mostra «Dalla Spada alla Croce». Al centro della vicenda, una croce liturgica, due pissidi, cinque calici e soprattutto un capolavoro della produzione orafa senese del XIV secolo, il Reliquiario di San Galgano, oggetto mirabile e di intensa devozione popolare. Su di esso, decorate finemente in preziosi smalti traslucidi, sono raffigurate le scene della vita del santo e della sua spada. Secondo la tradizione, Galgano sarebbe nato nel borgo senese di Chiusdino. Cavaliere appartenente alla piccola nobiltà locale, si convertí alla vita ascetica ed eremitica dopo le visioni dell’Arcangelo Michele, come rappresentato nelle sei scene del Reliquiario. Condusse la sua vita monastica nell’Eremo di Montesiepi, da lui edificato su una collina vicina al luogo dove sarebbe sorta l’Abbazia. Morí, secondo le fonti, il 30 novembre 1181. Appena quattro anni dopo, a seguito dei doverosi accertamenti canonici, papa Lucio III lo proclamò santo nel 1185. info tel. 0577 286300; e-mail: opasiena@operalaboratori.com

«Tra le altre cose sue lodevoli, nell’aspero sito di Urbino edificò un palazzo, secondo la opinione di molti, il piú bello che in tutta Italia si ritrovi; e d’ogni opportuna cosa sí ben lo forní, che non un palazzo ma una città in forma di palazzo esser pareva». Cosí scrisse Baldassarre Castiglione ne Il libro del cortegiano pubblicato nel 1528; in effetti, la ricchezza del Palazzo Ducale di Urbino non è data solo dalla sua qualità architettonica e decorativa, ma anche nell’essere un frammento di città, una sorta d’infrastruttura che si unisce a Urbino e genera una complessità unica tra gli spazi privati del Duca e della corte, i luoghi pubblici della città e il paesaggio verso il quale si apre. Nonostante il ruolo centrale e un’essenza da capolavoro indiscusso del Rinascimento italiano, il Palazzo Ducale di Urbino non ha l’attenzione e la comprensione pubblica che merita. Da qui l’idea di una grande mostra nell’edificio che ospita la Galleria Nazionale delle Marche, con l’obiettivo di far scoprire al grande pubblico il Palazzo Ducale, la sua importanza e complessità storica e architettonica, non solo come spazio di grande qualità che ospita preziose opere d’arte, ma anche come manufatto spaziale raffinato e complesso che può coinvolgere i visitatori con la ricchezza dei suoi dettagli e del suo impianto. info tel. 0722 2760; www.gallerianazionalemarche.it

URBINO

VERBANIA

IL PALAZZO DUCALE DI URBINO. I FRAMMENTI E IL TUTTO Palazzo Ducale, Galleria Nazionale delle Marche fino all’11 novembre

VERONESE SUL LAGO MAGGIORE. STORIA DI UNA COLLEZIONE Museo del Paesaggio fino al 25 febbraio 2024

GALGANO RESTAURATO Cripta del Duomo fino al 5 novembre

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Sono riunti nel Palazzo Viani Dugnani di Verbania due capolavori cinquecenteschi di Paolo Veronese – una coppia di importanti Allegorie –, arricchiti dalla storia del loro ritrovamento e dalla descrizione del loro luogo di provenienza: Villa San Remigio, di proprietà del Marchese Silvio della Valle di Casanova e di sua moglie Sophie Browne. Il complesso comprende un ampio giardino disposto su terrazze e una villa su due piani. Il piano rialzato dell’abitazione richiama una dimora signorile del

Appuntamenti SARZANA FESTIVAL DELLA MENTE XX EDIZIONE LA MERAVIGLIA 1-3 settembre

Scrittori, artisti, storici, filosofi e scienziati tornano nelle piazze e nei teatri di Sarzana e, a vent’anni dalla sua nascita, la manifestazione ribadisce l’intenzione di proporre una visione integrata della cultura, dove l’ambito umanistico dialoga in modo serrato con quello scientifico per darci strumenti di lettura di realtà complesse come quelle che stiamo vivendo oggi. Quest’anno, le riflessioni, i pensieri e i dialoghi dei relatori si incroceranno e intrecceranno sul tema della Meraviglia. info festivaldellamente.it MODENA-CARPISASSUOLO FESTIVALFILOSOFIA XXIII EDIZIONE PAROLA 15-17 settembre

Cinquecento: gli ambienti interni, gli arredi e le opere d’arte alle pareti sono caratterizzati da un forte gusto neorinascimentale. Nel 1977 la Villa viene destinata alla Regione Piemonte. Cristina Moro, nel 2014 ritrova due opere di soggetto allegorico attribuite alla «Scuola di Veronese» che a un piú attento esame si mostrano riconducibili alla mano del maestro stesso. E proprio da qui parte la mostra. info tel. 0323 502254; e-mail: segreteria@museodelpaesaggio.it; www.museodelpaesaggio.it

L’edizione 2023 del Festivalfilosofia è dedicata a parola, per discutere la centralità del linguaggio, della lingua e della presa di parola in un’epoca – caratterizzata dal dominio della comunicazione – che paradossalmente sembra tuttavia indebolirla. Si mostrerà il carattere istitutivo e performativo della parola nei suoi vari registri, stando sul crinale tra natura evoluzionistica e carattere culturale del parlare. Tra «logos» e fondamenti teologici, creazione di mondi istituzionali e fantastici, la parola si rivelerà essenziale alla vita e alla convivenza, con la responsabilità che ne consegue di farne buon uso. info www.festivalfilosofia.it agosto

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MEDICI IN PRIMA LINEA A IN O IC EV ED DIO M E LA L M NE

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FOLLIE, LEGGENDE E CONQUISTE DELLA MEDICINA NELL’ETÀ DI MEZZO N°57 Luglio/Agosto 2023 Rivista Bimestrale

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MEDICI IN PRIMA LINEA

l di là dell’argomento a cui è dedicato, questo nuovo Dossier di «Medioevo» offre l’ennesima conferma di quanto poco credibile possa ancora essere considerata la vulgata secondo la quale i secoli dell’età di Mezzo avrebbero costituito una fase «buia» nella storia dell’umanità. Infatti, forti della consolidata tradizione greca e romana, i medici attivi nel millennio medievale furono artefici di importanti sviluppi nel campo della pratica terapeutica e della chirurgia. Senza dubbio, alcuni dei rimedi e delle cure proposti ai pazienti possono apparire ai nostri occhi piú vicini a riti sciamanici o stregoneschi, ma si tratta di casi circoscritti e, comunque, dettati dal desiderio di trovare soluzioni a malattie non di rado devastanti, prima fra tutte la peste. E, a riprova di un approccio razionale e sistematico, non si può dimenticare che proprio nel Medioevo venne fondata la Scuola Medica di Salerno, furono create le prime facoltà universitarie di medicina e al ricovero dei pazienti si fece fronte con la realizzazione dei primi grandi ospedali. Vicende che nel nuovo Dossier di «Medioevo» vengono puntualmente ripercorse e illustrate da immagini in molti casi coeve, segno tangibile della diffusione su larga scala di pratiche sempre piú specializzate.

IOEVO MED Dossier

Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004,

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FOLLIE, LEGGENDE E CONQUISTE DELLA MEDICINA NELL’ETÀ DI MEZZO

IN EDICOLA IL 15 LUGLIO 2023 Medicina_COP.indd 1

GLI ARGOMENTI

05/07/23 11:30

• Storia di una scienza • Le malattie • Le terapie • Ospedali e farmacie San Cosma e San Damiano guariscono il diacono Giustiniano, scomparto della predella della Pala di San Marco, tempera su tavola del Beato Angelico. 1438-1440. Firenze, Museo di San Marco.



battaglie marchfeld

Una mossa «sanz’arme», ma 26 AGOSTO 1278

decisiva

di Federico Canaccini

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Salito al trono di Boemia nel 1253, Ottocaro II avviò una decisa politica espansionistica e, in pochi anni, il suo regno si estese considerevolmente. Una crescita che finí con l’allarmare il Sacro Romano Impero e sfociò nello scontro campale con Rodolfo d’Asburgo. La contesa si risolse nella piana della Morava e, a determinarne l’esito, fu, probabilmente, un’imboscata...

I I

l 26 agosto del 1278, tra Dürnkrut e Jedenspeigen – località situate nell’odierna Austria, una sessantina di chilometri a nord-est di Vienna, nella piana attraversata dalla Morava – si combatté la battaglia detta di Marchfeld (dal nome tedesco del sito: March, Morava; feld, campo), una delle piú importanti del Medioevo europeo, sia per il numero e la qualità di combattenti impegnati nello scontro, sia per le conseguenze che derivarono dal responso sul campo. «La battaglia di Marchfeld – ha scritto Spencer Tucker, studioso statunitense di storia militare – fa svanire definitivamente il sogno di un grande regno slavo in Europa centrale». Lo scontro vide infatti soccombere il re Ottocaro II di Boemia, la cui sconfitta aprí la strada Battaglia fra Rodolfo d’Asburgo e Ottocaro di Boemia 1278, olio su tela di Julius Schnorr von Carolsfeld. 1838. Schweinfurt, Museum Georg Schäfer.

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battaglie marchfeld all’avvento degli Asburgo, destinati a governare sull’Austria e in Europa centro-orientale nei secoli a venire.

Una decisione clamorosa

Per introdurre gli eventi che condussero alla battaglia di Marchfeld, occorre tornare al 17 luglio 1245 quando, nella cattedrale di Lione, alla presenza di appena 150 prelati, papa Innocenzo IV depose l’imperatore Federico II Hohenstaufen: fu un atto di portata storica, giacché, sino ad allora, solo Gregorio VII aveva deposto Enrico IV, mentre i suoi successori si erano limitati a procedere contro sovrani indegni scomunicandoli o sciogliendo i vassalli dal

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ottocaro ii di boemia

Acesa e declino del «Vittorioso» Ottocaro II Premyzl nacque intorno al 1233 da Venceslao I, detto il Guercio, e da una Hohenstaufen. Suo padre si era dedicato con successo al consolidamento della giovane monarchia ceca, difendendola dalle incursioni mongole. Ottocaro, in realtà, era il secondogenito: l’erede era infatti Ladislao, che venne fatto sposare con Gertrude, figlia di Federico Babenberg ed erede del ducato d’Austria. Alla morte di Federico Babenberg (1246), nello stesso anno delle nozze di Ladislao, il ducato passò nelle sue mani, ma, appena un anno dopo moriva anche lui, riaprendo cosí la lotta per il controllo dell’Austria. Approfittando della confusione istituzionale, Ottocaro, istigato dalla nobilità boema e da Federico II di Svevia, entrò in competizione col padre, ottenendo la partecipazione al trono boemo nello stesso 1247. Ottocaro, non a caso detto «il Vittorioso», aveva già il titolo di margravio di Moravia: nel 1251 ottenne dal clero e dalla nobiltà il ducato d’Austria dopo l’estinzione della casa dei Babenberg. A queste terre aggiunse ben presto la Stiria, la Carinizia e la Carniola, ampliando notevolmente i domini iniziali. Quando fu eletto re di Germania Rodolfo d’Asburgo, entrò in conflitto con lui per la corona imperiale e nel 1273 non ne riconobbe l’autorità. Quando poi Rodolfo gli intimò di restituire i territori imperiali occupati a vario titolo nel corso degli anni a partire dalla morte di Federico II, Ottocaro si rifiutò, meritando la scomunica e il bando dall’impero (1276). Due anni piú tardi affrontava il suo destino nella piana di Dürnkrut, dove moriva, insieme a lui, anche il sogno di un vasto regno in Europa centro-orientale.

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Il Sacro Romano Impero all’epoca della battaglia di Marchfeld, con l’indicazione, nel riquadro, dei territori acquisiti al regno di Boemia da Ottocaro II. Nella pagina accanto Ottocaro II di Boemia accoglie gli invitati alle nozze di sua nipote Cunegonda con il figlio di Bela IV d’Ungheria, tempera su tela facente parte del ciclo L’epopea slava di Alfons Mucha. 1924. Praga, Galerie hlavního mesta.

Il Sacro Romano Impero (950-1360) Confini dell’impero al 1356

Regno d’Italia (XII-XIII secolo)

Confini della Francia orientale e dell’Italia (900 circa)

Passi alpini

Regno di Ottone I (936)

Battaglie

Regno di Borgogna (1032 circa)

Luoghi di residenza delle dinastie imperiali Asburgo

Liudolfingi Salici

SASSONIA Principi elettori

Wittelsbach Lussemburgo

Hohenstaufen

HOLSTEIN FRISIA

POLONIA

TURINGIA Merseburg MEISSEN SLESIA Francoforte sul Meno Gelnhausen Karlovy Vary MAGONZA Praga

ALTA Worms Bamberg Eger LORENA RENANIA PALATINATO FRANCONIA Waiblingen Hagenau Lechfeld 955 Ratisbona

FRANCIA

SVEVIA

Besançon Basilea

CONTEA DI BORGOGNA Lione Legnano 1176 Pavia

BOEMIA

Mühldorf 1322

Monaco Costanza Morgarten 1315

BAVARIA

Innsbruck Brennero Splügen TIROLO

MORAVIA

AUSTRIA Vienna

Danubio Friestand

CARINZIA

Cortenuova 1237 Verona Milano Canossa

CARNIOLA

to di

Tev e

re

Contea del Tirolo

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Slesia

o at vi a ra ravi g ar o M iM d

Arciducato d'Austria Ducato di Stiria

MARCA ANCONITANA

TOSCANA

Duca

Franconia

Ducato di Baviera

ROMAGNA

PROVENZA

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UNGHERIA Ducato di Regno di Boemia

STIRIA

LOMBARDIA Roncaglia Arles

Marchfeld 1278

Voglang

COLONIA

TREVIRI

POMERANIA

Magdeburgo Goslar Quedlinburg Q Elb Welfesholz 1115 a

Aquisgrana

Lussemburgo

BRANDEBURGO

SASSONIA Gandersheim

BASSA LORENA Bouvines 1214

MECLEMBURGO

Lunenburg

Ducato di Carinzia Duc di at M Ma Carno del arca r Friu i v li indi ca ola ca

Regno d'Ungheria

Roma Benevento 1266

San Germano Castel del Monte

Capo Colonna 982

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battaglie marchfeld Rodolfo I d’Asburgo

Al potere col favore del papa Rodolfo d’Asburgo nacque il 1° maggio del 1218 nel castello di Limburg, in Brisgovia, da una nobile famiglia con possedimenti in Alta Alsazia e nell’area attorno a Zurigo. Non è certa la notizia secondo la quale suo padrino di battesimo sarebbe stato nientemente che Federico II. Durante la lotta tra quest’ultimo e il papato, suo padre, Alberto IV il Saggio, appoggiò lo Stupor Mundi e, in cambio, ricevette la Foresta Nera e San Blasio. Alla morte del padre Rodolfo, ricevette la contea di Asburgo nonché i territori avuti in feudo dagli Hohenstaufen. Pur avendo appoggiato gli Svevi, e fautore di Corradino, i vescovi renani gli diedero l’appoggio per la candidatura imperiale e ottenne il favore di papa Gregorio X. Il 1° ottobre del 1273 i Grandi elettori lo nominarono a Francoforte re di Germania e re dei Romani. L’anno seguente il papa lo riconobbe durante il concilio di Lione, nel corso del quale fu addirittura prospettato un matrimonio tra la figlia di Rodolfo e il figlio di Carlo II d’Angiò, unione che giunse a compimento grazie all’intervento di papa Niccolò III. Nonostante questa intesa con il papato, dopo un lungo periodo di interregno, l’Asburgo si decise a rifiutare l’incoronazione imperiale a Roma, e preferí cingerla ad Aquisgrana, dando un chiaro segnale di disinteresse verso le terre del Mezzogiorno, oramai in mano angioina dal 1266. Di fatto, per questo motivo, rimase imperatore solamente designato, dal momento che – senza la consacrazione papale – il rito non era compiuto. Proprio per contrastare il potere di Carlo d’Angiò, la sua elezione fu paradossalmente favorita dal papato, in una chiave conciliatoria con l’impero e che segnò il ritorno dell’autorità regia e la rapida ascesa della casata d’Asburgo. Nel 1275 restituí a Roma molti territori nella Penisola e, con un patto stretto a Losanna, veniva sancito in modo definitivo il distacco tra la corona di Sicilia e quella imperiale. Alla metà degli anni Settanta del Duecento si scontrò e si impose contro il re di Boemia, Ottocaro II, che si era rifiutato di riconoscere la sua elezione: Rodolfo ne rivendicò i territori di eredità dei Babenberg, e occupò l’Austria, la Stiria e la Carinzia nel 1276. Quando poi Ottocaro non mantenne il giuramento di fedeltà, nel 1278 gli mosse guerra e lo sconfisse a Dürnkrut. A seguito di questa vittoria accrebbe il proprio dominio, espandendosi verso est, sottomettendo il ducato di Carniola, imponendo il proprio controllo anche su Boemia e Moravia, che concesse al figlio di Ottocaro, Venceslao, a cui diede in sposa sua figlia Guta. Rodolfo ebbe grandi capacità amministrative e diplomatiche: dopo anni di interregno, seppe conquistare la fiducia dei Grandi elettori di Germania, confermando i loro possessi, e anche del pontefice, con cui ebbe un’ottima intesa. Non riuscí invece ad assicurarsi una continuità dinastica. Quando, infatti, tentò di designare il proprio figlio Alberto a re di Germania, nella Dieta di Francoforte, incontrò l’opposizione dei principi. Quando la morte lo colse a Spira, nel 1291, fu nominato suo successore Adolfo di Nassau.

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Dipinto raffigurante Rodolfo I d’Asburgo che concede in sposo suo figlio Rodolfo II ad Agnese di Boemia, figlia del defunto Ottocaro II, olio su metallo. XIX sec. Collezione privata.

A sinistra particolare del monumento funebre di Rodolfo I d’Asburgo. 1285. Spira, Cattedrale.

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giuramento di fedeltà dovutogli. Il papa, inoltre, con una sentenza propria, scioglieva tutti i sudditi dal giuramento di fedeltà nei confronti dello Svevo, promulgando la scomunica anche per tutti coloro che in futuro lo avessero aiutato, sia in quanto imperatore, sia perché re. Ciononostante, Federico sfidò l’autorità papale, rifiutandosi di cedere i territori di giurisdizione ecclesiastica, rintuzzando anche i molti nobili che tentarono di approfittare senza successo della difficile situa-

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zione in cui l’imperatore era venuto a trovarsi negli ultimi anni di vita. Una situazione che si protrasse sino al dicembre del 1250 quando, improvvisamente, l’imperatore morí, forse colpito da peritonite.

In lotta per la corona

A quel punto le pedine, sino ad allora piú o meno rispettose dell’obbedienza imperiale, iniziarono a muoversi: Ottocaro II, figlio di Venceslao I, re di Boemia, penetrato nel 1250 nei ducati di Stiria e Austria, otten-

ne il supporto della nobiltà locale e fu proclamato rapidamente duca. Nel 1253, poi, alla morte di suo padre Venceslao, ottenne la corona boema e iniziò ad ambire a quella imperiale, lanciandosi in una lotta per il potere che la vacanza aveva scatenato tra vari candidati. In Germania, però, i principi elettori vanificarono le velleità di Ottocaro, eleggendo a Francoforte, il 1° ottobre del 1273, Rodolfo d’Asburgo, principe di una certa importanza nella Svizzera nord-occidentale, di età

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battaglie marchfeld Il memoriale innalzato sul luogo in cui si combatté la battaglia di Marchfeld. Nella pagina accanto schema della disposizione e dei movimenti delle truppe che presero parte alla battaglia.

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Bandito dall’impero

Tra tutti i principi, il piú potente era certamente Ottocaro II, il quale dominava anche sul piú vasto territorio di competenza imperiale. Rodolfo tentò dapprima una conciliazione di tipo formale, facendo confermare in una prima Dieta di Augusta i doveri vassallatici del re di Boemia di homagium nei confronti del nuovo imperatore, ma, visto il rifiuto di Ottocaro, in una nuova Dieta gli furono revocati tutti i feudi e i vari uffici

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Sterndorf

Jedenspeigen

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Dürnkrut Weidendorf

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BATTAGLIA DI MARCHFELD 26 AGOSTO 1278

March

piuttosto avanzata per l’epoca, avendo oramai superato i cinquant’anni. Un ruolo dovette giocarlo anche il nuovo papa, Gregorio X, il quale, come narra il cronista Giovanni Villani, «ordinò concilio generale a·Leone sopra Rodano in Borgogna, e fece che per suo mandato gli elettori dello ‘mperio d’Alamagna elessono re de’ Romani Ridolfo conte di Furimborgo, il quale era valente uomo d’arme, tutto che fosse di piccola potenza» (Nuova Cronica, XLII). Il 24 ottobre Rodolfo venne incoronato re dei Romani nella Cappella Palatina di Aquisgrana dall’arcivescovo di Colonia, Engelberto II di Falkenburg. La politica conciliatoria del neore, oltre che nei confronti della Chiesa, si manifestò anche con i principi tedeschi, ai quali richiese la restituzione dei beni patrimoniali e territoriali che erano stati loro sottratti durante la prima metà del secolo, sotto il dominio svevo e che, nel lungo interregno durato dal 1250 al 1273, erano stati abusivamente recuperati. Il nuovo sovrano assicurò che il recupero di questi domini sarebbe avvenuto, comunque, solo dopo il formale consenso dei principi proprietari. Dal canto suo, Rodolfo poteva contare sull’appoggio dei suoi parenti, come Mainardo del Tirolo, ma anche su quei nobili che avevano i territori nelle regioni ora controllate da Ottocaro, come Raimondo d’Aquileia, l’Arcivescovo di Salisburgo, Alberto di Görz, Federico di Nuremberg e molti altri.

Gayring

Austriaci – A-A. Due contingenti austriaci; B. L'imperatore con gli uomini provenienti da Stiria e Svevia Ungheresi – C-C. Cumani e altra cavalleria leggera; D. Mattia di Trenczin; E. Conte di Schildberg Esercito di Ottocaro – F. Boemi; G. Moravi; H. Contingenti da Meissen e Turingia; I-J. Polacchi

di spettanza imperiale (24 giugno 1275). Infine, cosa ancor piú grave, fu bandito dall’impero. Rodolfo giocò quindi una carta ambiziosa e forse spregiudicata, riuscendo a stipulare, nel giro di pochi mesi, un’alleanza con il re d’Ungheria, Ladislao II, desideroso di vendicare il padre, Béla IV d’Ungheria, sconfitto anni prima dal Boemo. Il primo scontro militare tra i due contendenti avvenne nell’ottobre del 1276, quando Rodolfo e Ladislao, dopo aver guadagnato una posizione strategica vantaggisoa, riuscirono a respingere Ottocaro fin dentro la città di Vienna che poi fu stretta d’assedio. Ottocaro fu costretto a cedere, siglando un trattato di pace con cui riconosceva Rodolfo come legittimo sovrano e rinunciava formalmente alle sue pretese sull’Austria e la Svizzera. Ancora Giovanni Villani segnala che «per sua prodezza

conquistò Soavia e Osteric: e [in] Osteric che vacava per lo dogio che fu morto con Curradino dal re Carlo [cioè Federico di Baden] fece dogio Alberto suo figliuolo» (Nuova Cronica, XLII). La tregua fu però di breve durata, poiché la pace resse per poco piú di un anno. Nel giugno 1278 le ostilità si riaccesero piú intense di prima, al punto che, intuendo la potenza dei due contendenti, molti dei precedenti alleati di Rodolfo, in questa occasione preferirono non prendere posizione, mantenendosi neutrali in attesa degli eventi. Sulle prime Ottocaro riuscí ad avere un vantaggio strategico, avendo ingrossato le proprie fila in maniera impressionante, senza che l’avversario se ne avvedesse: Rodolfo, allora, per contrastare l’armata nemica, fu costretto a richiamare le divisioni della sua terra natale, l’Alsazia e la Svizzera, e a coscrivere

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battaglie marchfeld

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

nella divina commedia

Il rimprovero di Dante Il personaggio di Rodolfo d’Asburgo e di suo figlio Alberto sono evocati in piú di un passo da Dante Alighieri nella Commedia e sempre con un certo rimprovero. Secondo Dante, infatti, Rodolfo avrebbe potuto restaurare l’autorità imperiale in Italia e riportarvi la tanto sospirata pace e la giustizia che, oramai ai suoi tempi, erano una chimera. «Rodolfo imperador fu che potea / sanar le piaghe c’hanno Italia morta» (Purg. VII v. 94). L’interesse per l’ampliamento dei domini in terra tedesca e il conseguente disinteresse per l’Italia sono per l’Alighieri la causa di questo sfacelo. Rivolgendosi al figlio Alberto gli ricorda con asprezza «ch’avete tu e’l tuo padre sofferto, / per cupidigia di costà distretti, / che ‘l giardin de lo ‘mperio sia diserto» (Purg. VI, vv. 103-105). Dante colloca Rodolfo nella valletta dei principi negligenti, pieno di rimorsi, pur se assiso in alto, a motivo del suo titolo imperiale. Rodolfo non canta con le altre anime, concentrato com’è sui rimproveri della propria coscienza. Se non altro, per l’Asburgo, c’è una speranza: trovandosi in Purgatorio, è già confortato dall’avere accanto l’anima del suo antico rivale, Ottocaro II di Boemia, assieme al quale supera quella sete di potere che condusse l’uno e l’altro a darsi la guerra fino alla morte del Boemo il cui «destino da re, concluso con una morte in battaglia» forse anche affascinò l’Alighieri, come ipotizzò il dantista Daniele Mattalia.

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L’imperatore Rodolfo I alla battaglia di Marchfeld, olio su tela di Leopold Loeffler. 1860. Cracovia, Museo Nazionale.

truppe dall’Austria e dal Sud della Germania, fidando sul grande esercito dell’alleato ungherese. Il Boemo, però, perse il vantaggio acquisito evitando di puntare su Vienna, dove Rodolfo lo attendeva con le sue truppe, e si diede, inspiegabilmente e senza successi di un qualche peso, a riconquistare piccoli presidi, neppure particolarmente significativi da un punto di vista strategico. Intuendo l’occasione che gli si presentava, Rodolfo lasciò Vienna con le sue truppe per unirsi all’esercito di Ladislao. Finalmente i due contendenti giunsero a contatto visivo e, dopo alcune scaramucce tra piccoli reparti, Ottocaro decise di accamparsi il 20 agosto presso Jedenspeigen. Cinque giorni piú tardi Rodolfo ordinò ai suoi di piantare le tende a sud di Dürnkrut. Tra le due località, nella piana che le separa, l’indomani si sarebbe risolta con le armi la contesa che vedeva protagonisti alcuni tra i piú importanti sovrani dell’Europa centrale.

Tre plotoni

Benché su questa battaglia le fonti siano ricche di notizie e affidabili rispetto ad altri eventi militari, la disposizione e il numero delle forze in campo si possono solo supporre. È comunque probabile che entrambi i contendenti avessero distribuito le proprie forze in tre plotoni, che presero parte allo scontro uno dopo l’altro. Rodolfo d’Asburgo schierò in prima linea i suoi alleati ungheresi, concedendo loro l’onore di portare il primo attacco. Si trattava prevalentemente di guerrieri cumani, una popolazione nomade di ceppo turco, originaria dell’Asia centrale e stabilitasi intorno al Mille nelle terre comprese tra il Don, il Volga e il Mar Nero. Erano per lo piú arcieri armati alla leggera, la cui tattica consisteva nel bersagliare il nemico con attacchi portati da piccoli gruppi che, prima di entrare in

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battaglie marchfeld Dalla Nuova Cronica

Un’aspra battaglia fra «aspre genti d’arme» Il cronista fiorentino Giovanni Villani ha raccontato cosí la battaglia di Marchfeld: «Negli anni di Cristo 1277, essendo grande guerra tra ‘l re Ridolfo della Magna e lo re di Boemia per cagione che nol volea ubbidire nè fare omaggio. Per la qual cosa il re Ridolfo eletto imperadore con grandissima oste andò sopra il detto re di Boemia, il quale gli si fece incontro con grandissima cavalleria, e dopo la dura e aspra battaglia che fu tra cosí aspre genti d’arme (...) il detto re di Boemia nella detta battaglia fu morto e la sua gente sconfitta (...) e quasi tutto il reame di Boemia Ridolfo ebbe a sua signoria. E ciò fatto, col figliuolo del detto re di Boemia fece pace, faccendolsi prima venire a misericordia: e stando il re Ridolfo in sedia in uno grande fango, e quello di Boemia stava dinanzi a lui gionocchione innanzi a tutti i suoi baroni. Ma poi riconciliato, il re Ridolfo gli diede la figliuola per moglie e rendégli il reame: e ciò fu a dí 26 d’agosto del detto anno. Questo re Ridolfo fu di grande affare e magnanimo e pro’ in arme e bene avventuroso in battaglie, molto ridottato dagli Alamanni e dagl’Italiani. E se avesse voluto passare in Italia, sanza contrasto n’era signore. E mandocci suoi ambasciadori l’arcivescovo di Trievi e fu in Firenze negli anni di Cristo 1280, significando sua venuta, onde i Fiorentini non sapeano che si fare. E se fosse passato, di certo l’avrebbono ubbidito. E lo re Carlo, ch’era cosí possente signore, il temette forte e per essere bene di lui, diede a Carlo Martello figliuolo del figliuolo, la figliuola del detto re Ridolfo per moglie» (Nuova Cronica, LV). Rodolfo d’Asburgo sul cadavere di Ottocaro, re di Boemia, olio su tela di Anton Romako. Ante 1854. Vienna, Castello del Belvedere.

contatto con l’avversario, voltavano i propri destrieri per far posto ad altri, in una terribile giostra. La seconda divisione di Rodolfo era composta da soldati austriaci, mentre la terza, che il re comandava personalmente, includeva le milizie provenienti dalla Svizzera e dall’Alsazia, le uniche truppe del suo personale dominio, che, se prese da sole, non raggiungevano neppure la metà dell’armata di Ottocaro. Fu abile l’Asburgo a ingrossare le fila grazie ad accorte alleanze, prima fra tutte quella con il re ungherese, desideroso di vendicare le ripetute invasioni perpetrate da Ottocaro e culminate nella sconfitta magiara di Kressenbrunn (1260). Ora Ladislao aveva la possibilità di vendicare il padre Béla malamente sconfitto: e questo Rodolfo doveva saperlo.

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Il re di Boemia dispose in maniera analoga i suoi contingenti, ponendosi al comando della linea centrale, formata da cavalieri tedeschi: nonostante l’origine germanica si deve tenere a mente che la Sassonia, il Brandeburgo e la Germania settentrionale si schierarono con Ottocaro. I Bavaresi – che mal sopportavano l’idea di potersi ritrovare stretti tra la Svevia e l’Austria, domini dell’Asburgo – propendevano per sostenere Rodolfo, ma, alla fine, decisero di schierarsi al fianco del re boemo. L’avanguardia era composta da milizie boeme e morave, mentre la terza e ultima schiera era formata da cavalieri giunti dalla Polonia e dalla Slesia, un ducato dominato dalla dinastia dei Piast sin dal XII secolo, successivamente frammentatosi in una serie di picco-

li ducati, tra cui i piú famosi erano quelli di Jawor, Legnica, Pless, Raciborz, Troppau e Sagan.

Le forze in campo

La battaglia vide impegnati i vari plotoni in tre momenti diversi, cosí che nessuno dei due contendenti potè sfruttare al massimo il proprio potenziale, dovendosi limitare di volta in volta alla forza del singolo contingente impegnato in una sorta di piccola battaglia all’interno del piú grande scontro complessivo. Sui numeri di questi contingenti è difficile avanzare ipotesi precise: Ottocaro schierò circa 6000 cavalieri, di cui 1000 pesantemente armati, affiancati da altri 5000 cavalieri piú leggeri. Rodolfo, di contro, poteva contare forse su 3000 cavalieri pesanti e 4000 leggeri, per lo piú Unagosto

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gheresi, oltre ai Cumani, dei quali è difficile fornire una stima. Se le cifre proposte sono corrette, l’esercito di Rodolfo era numericamente superiore, ma l’imperatore aveva sotto il proprio diretto comando un numero inferiore di cavalieri pesanti, fondamentali per la buona condotta e riuscita di una battaglia. Il teatro dello scontro offriva la possibilità alle cavallerie di eseguire grandi cariche e manovre di ritirata. Entrambi i contendenti, poi, si erano accampati nei pressi di un torrente, cosí da avere un fianco protetto: gli uomini di Rodolfo erano sistemati a sud del Waidenbach, i Boemi a nord dello Jedenspeigen, due fiumi che confluivano entrambi in una palude che delimitava il campo di battaglia a sud-est, mentre a est correva la Morava.

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Forse di buon mattino, entrambi gli schieramenti erano già disposti in assetto da guerra e scesero in campo: ad aprire le ostilità furono probabilmente i Cumani a dorso dei loro agili cavalli, seguiti dalla cavalleria leggera ungherese. Sembra che la prima linea di Ottocaro sia stata scompaginata dai ripetuti lanci di frecce dei Cumani e poi costretta a ritirarsi dalla carica degli Ungheresi. I cavalieri pesanti della seconda linea del re di Boemia, però, peraltro comandati personalmente dal sovrano, respinsero brutalmente l’attacco della seconda divisione di Rodolfo, composta da cavalieri austriaci che furono ricacciati indietro fino al fosso del Waidenbach. A questo punto Rodolfo si lanciò all’attacco guidando la terza e ultima divisione del proprio esercito,

quella composta dai vassalli del sud della Germania e dalla sua terra di origine. Nello scontro decisivo, entrambi i sovrani presero parte allo scontro, combattendo quella che fu una «dura e aspra battaglia che fu tra cosí aspre genti d’arme» (Giovanni Villani, Nuova Cronica, LV).

Attimi decisivi

Durante la carica, Rodolfo d’Asburgo sarebbe stato attaccato e disarcionato da un soldato nemico proprio nel momento in cui stava avanzando nel tentativo di attraversare il fosso: l’attimo fu cruciale, dal momento che la compattezza di un esercito medievale poggiava essenzialmente – se non totalmente – sul carisma del proprio condottiero. Se Rodolfo fosse morto, o fosse rimasto a terra ferito, schiacciato sotto

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battaglie marchfeld

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il proprio cavallo, probabilmente l’esito della battaglia sarebbe stato completamente diverso. Invece l’Asburgo, un uomo di ormai 60 anni, si rialzò, riprese le redini, rimontò a cavallo e gridò a squarciagola la carica, infondendo coraggio ai suoi uomini che, cosí galvanizzati, si gettarono sulla schiera guidata da Ottocaro, composta da cavalieri te-

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deschi, che rinculò talmente tanto da coinvolgere nella ritirata anche l’ultima schiera, quella composta da Polacchi e Slesiani, che vennero battuti e messi in fuga. Alcune fonti però fanno chiarezza su un altro punto che dovette essere determinante nello svolgimento dello scontro e che, in altre occasioni, aveva già stravolto l’esito di alcune

battaglie. Sembra, infatti, che Rodolfo avesse nascosto nelle boscaglie un drappello di circa 200 cavalieri, pronto a intervenire nel momento cruciale, attaccando il fianco della schiera di Ottocaro. A riportare tale notizia è in primo luogo la cosiddetta Steirische Reimchronik (Cronaca rimata della Stiria), datata ai primi del Trecento. L’opera riporta che Rodolfo ebagosto

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Venceslao chiede a Rodolfo d’Asburgo il corpo di suo padre Ottocaro, olio su tela di Anton Pettel. 1826. Vienna, Castello del Belvedere.

a Tagliacozzo ed era ancora viva la memoria della trappola messa in atto da Carlo d’Angiò e Alardo di Valery che rovesciò le sorti di una battaglia creduta vinta e poi irrimediabilmente perduta, proprio grazie a un analogo stratagemma, che Dante definí «sanz’arme», proprio perché poco cavalleresco. Per i cavalieri tedeschi, ancora molto legati a ideali cavallereschi e anche alla ritualità feudale, era impensabile osservare impassibili lo svolgersi della battaglia, vedendo i propri commilitoni combattere, senza poter prendervi parte: questo almeno è ciò che l’autore della Cronaca vuole trasmetterci. Di fatto, alla fine – se la narrazione dei fatti è attendibile – Rodolfo trovò un candidato e un paio di centinaia di cavalieri disposti a combattere in questo modo che, ormai, stava prendendo piede anche in Europa, importato dalla Terra Santa e dalle lande dei Magiari e dei Mongoli, dove le incursioni erano all’ordine del giorno.

La fine

be non poche difficoltà a trovare chi fosse disponibile a guidare questa piccola schiera, dal momento che avrebbe dovuto tendere un agguato, che molti ancora consideravano disonorevole. Non si deve dimenticare che forse alcuni dei cavalieri tedeschi schierati con Rodolfo quel giorno del 1278, avevano seguito Corradino e Federico di Baden fino

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Nel fuggi fuggi generale, sembra che Ottocaro fosse rimasto indietro, con pochi fedeli vassalli ad assicurargli protezione, ma venne ucciso, forse addirittura per una vendetta personale. Nel corso della battaglia «il detto re di Boemia (...) fu morto e la sua gente sconfitta», sentenziò Villani (Nuova Cronica, LV). I Cumani fecero strage dei Boemi, il contingente sicuramente piú penalizzato nel momento della ritirata. Nonostante la vittoria piena e schiacciante, il fatto che Ottocaro avesse perso la vita generò commenti negativi da parte dei cronisti e dei commentatori contemporanei, sempre stupiti di fronte alla morte dei sovrani. Il portato politico dell’esito della battaglia di Marchfeld fu «ben piú grande della sua importanza a livello militare», ha scritto in proposito lo storico della guerra Charles Oman. Tutto ruotava attorno al problema, tutt’altro che seconda-

rio, di chi avrebbe controllato tutto il quadrante orientale dell’impero: nonostante la vittoria, alla fine, arrise a Rodolfo d’Asburgo, all’epoca Ottocaro era considerato «la figura piú forte nella storia del lungo interregno», continua Oman, e aveva chiaramente l’intento di estendere il proprio dominio verso le regioni d’Italia, penetrando dal Tirolo che già era di spettanza imperiale. La potenza di Ottocaro dovette probabilmente mettere in allarme i Grandi Elettori, che, non a caso, optarono per una figura come Rodolfo d’Asburgo, non particolarmente potente e senza una base fondiaria personale tale da impensierire i vari duchi tedeschi. Dopo essere stato sconfitto nel 1276, Ottocaro riprese le ostilità nel 1278, ma non senza ragioni, dal momento che Rodolfo aveva chiaramente mostrato di voler interferire nella politica interna in Boemia, cosa che esulava di fatto dalle sue competenze. A ciò si aggiunga che gli abitanti di Vienna mal sopportavano il nuovo sovrano e gli avevano fatto intendere che avrebbero presto riallacciato i rapporti con il loro formale signore, cioè Ottocaro. Di fatto, Rodolfo poteva contare su pochi sostenitori, dal momento che la maggior parte dei duchi guardò con sospetto la fine dell’interregno e ancor piú all’idea di dover sopportare un sovrano che, già nei primi cinque anni di regno, se aveva mostrato disinteresse per l’Italia, suscitando l’amarezza di Dante, di contro aveva dato da intendere che in Germania avrebbe governato con decisione e con l’intento di riunificarla il piú possibile. Per farlo, considerate tutte queste premesse, l’unica strada era sconfiggere questo pericoloso concorrente: la vittoria e forse persino la morte di Ottocaro di Boemia, erano tasselli imprescindibili per garantire il successo di Rodolfo e per dargli libertà nell’attuazione del suo grande progetto.

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luca signorelli in umbria/6

Le meraviglie

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di Morra

di Valentina Ricci Vitiani

Tra il 1504 e il 1507, Luca Signorelli mette mano alla decorazione dell’oratorio di S. Crescentino, un luogo di culto sorto nel borgo di Morra, non lontano da Città di Castello. Il Cortonese, coadiuvato dalla sua bottega, realizzò un ciclo di grande potenza visiva, nel quale si succedono episodi della vita del Cristo e della Vergine. Pitture molto amate anche da Alberto Burri, maestro dell’arte informale, che volle finanziarne il primo restauro

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uasi sei ore di cammino, dalla natia Cortona, lungo la valle del Nestore, a pochi chilometri da Città di Castello: il borgo di Morra, immerso nel verde – oggi in provincia di Perugia, al confine fra Umbria e Toscana –, agli inizi del XVI secolo era un luogo di sosta abituale per i viandanti che all’epoca attraversavano l’Appennino ripercorrendo una antica strada dei pastori. Qui, tra il 1507 e il 1510, Luca Signorelli affrescò buona parte delle pareti di un oratorio dedicato a san Crescentino, un soldato romano, martirizzato sotto l’imperatore Diocleziano, che la tradizione religiosa ricorda come uno dei primi cristiani impegnato nella evangelizzazione dell’alta valle del Tevere (vedi box a p. 45). L’attuale chiesa di Morra, edificata nel 1420, fu voluta dai membri della Confraternita del SS Sacramento e di San Crescentino, una pia associazione nata alla metà del Duecento. Alla costruzione dell’oratorio contribuirono con frequenti elemosine tutti i fedeli e, in particolare, i grandi possidenti tifernati. I consistenti legati servirono a pagare Signorelli e gli altri artisti della sua bottega. Per il maestro cortonese – impegnato tra il 1499 e il 1504, nella realizzazione Cristo Redentore benedicente, affresco di Luca Signorelli e aiuti. 1504-1507. Morra (Perugia), oratorio di S. Crescentino. Il dipinto sormonta il tabernacolo della chiesa e mostra Gesú con le lettere greche (omega e alfa) in posizione invertita rispetto all’iconografia tradizionale, scelta che vuole ricordare come il Figlio abbia vinto la morte (l’Omega) per rinascere a nuova vita (l’Alfa).

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degli affreschi del Duomo di Orvieto –, quella nuova, importante commessa rappresentò l’occasione di un ritorno nel territorio di Città di Castello, dove ormai era stato sostituito dal giovane Raffaello, il quale, proprio intorno al 1504, aveva appena licenziato per la chiesa tifernate di S. Francesco uno dei suoi capolavori piú celebri, lo Sposalizio della Vergine. Due iscrizioni sulla facciata dell’oratorio di S. Crescentino, rispettivamente risalenti al 1420 e al 1507,

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ricordano la costruzione originale e il suo successivo ampliamento. L’edificio oggi accoglie i visitatori con una facciata a capanna in conci di pietra arenaria nella quale si apre un grande portale sovrastato da una lunetta decorata con un motivo a intreccio. L’interno, a navata unica, conserva nella sagrestia affreschi tardo-gotici relativi alla struttura originale e, lungo le pareti, le splendide decorazioni di Luca Signorelli e degli altri artisti della sua bottega. agosto

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Gli angeli di Citerna

Da un cantiere all’altro

Sulle due pagine Crocifissione, affresco di Luca Signorelli e aiuti. 1504-1507. Morra, oratorio di S. Crescentino. A destra, in alto l’oratorio di S. Crescentino, la cui costruzione fu promossa nel 1420 dalla Confraternita del SS. Sacramento e di San Crescentino.

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È probabile che, conclusi i lavori presso l’oratorio di S. Crescentino a Morra, Luca Signorelli e altri pittori della sua bottega abbiano avviato un nuovo cantiere a Citerna, affascinante borgo costruito sulle colline che dominano la parte nordoccidentale dell’Alta Valle del Tevere. L’ipotesi viene suggerita dal ripetersi, nell’affresco posto all’interno di una nicchia nella chiesa citernese di S. Francesco, una Madonna col Bambino tra san Michele arcangelo e Francesco, di elementi direttamente desunti dal ciclo precedente. È il caso del motivo ornamentale nell’intradosso della nicchia, caratterizzato da due delfini che si affrontano e dai mascheroni, presenti anche nelle pareti dell’oratorio di Morra, e anche dell’immagine dei bellissimi angeli, frutto del riutilizzo diretto dei medesimi cartoni adoperati nei dipinti da poco terminati. Purtroppo l’affresco risulta piuttosto alterato dall’intervento di mani successive, che non solo hanno complicato la lettura di quello che doveva essere l’aspetto originario del lavoro, ma hanno reso dubbia pure l’identità del santo francescano alla sinistra della figura della Madonna. Di questa immagine possiamo solo supporre una perduta volumetria grazie alle incisioni che contornano la figura e descrivono le pieghe delle vesti, immaginando una soluzione molto prossima alla Maddalena del citato cantiere di Morra e, soprattutto, simile alla Maddalena dipinta da Luca Signorelli per i Conservatori della Pace di Orvieto. Gli angeli in alto, insieme a san Michele alla destra della Vergine, dalla posa elegante, la cromia vivace, la descrizione raffinata di dettagli come i capelli e l’armatura, costituiscono certamente i risultati piú alti dell’opera. V. R. V.

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luca signorelli in umbria/6 il restauro degli affreschi

Alberto Burri, maestro e mecenate Il restauro del ciclo di affreschi di Luca Signorelli nell’oratorio di S. Crescentino a Morra fu voluto da Alberto Burri (19151995), uno dei piú grandi artisti del Novecento. Nel 1973 l’artista tifernate decise infatti di destinare la somma del Premio Feltrinelli per la Grafica, che aveva ricevuto dall’Accademia Nazionale dei Lincei, al recupero degli affreschi del grande artista cortonese. Il maestro dell’arte informale, anticipatore dell’arte povera e del nuovo realismo realizzava i suoi dipinti materici grazie all’utilizzo di materiali nuovi e d’avanguardia come catrami, ferro, muffe, legno, colla e terra. Ma, come ricorda la storica dell’arte Vittoria Garibaldi, «era solito ripercorrere le vie del Rinascimento dell’Italia centrale insieme ai suoi piú cari amici come per esempio Nemo Sarteanesi». Soste abituali tra borghi e musei, nelle terre fra Sansepolcro, Perugia

e Città di Castello per ammirare le opere del Perugino, di Piero della Francesca e di Luca Signorelli. Dopo l’iniziativa di Burri, l’oratorio di S. Crescentino fu poi oggetto di un secondo ciclo di restauri, nel 1991-1994: venne consolidato l’impianto generale degli

I critici concordano nel ritenere completamente di mano del Cortonese gli affreschi della parete di fondo e delle due nicchie laterali (Padre Eterno tra gli angeli, Santa Maria Maddalena e un altro santo; Madonna della Misericordia e Madonna di Loreto). Alle scene cristologiche (Orazione nell’orto e Ultima Cena; Flagellazione e Crocifissione) collaborarono di certo anche altri artisti della bottega. Tutti gli altri episodi (Incredulità di San Tommaso; Ingresso di Gesú a Gerusalemme; Deposizione; Resurrezione; Cristo nel Limbo) sono invece frutto dell’attività di qualche seguace del Signorelli che potrebbe aver operato in modo autonomo, forse, anche dopo la morte del maestro, avvenuta nel 1523.

La Maddalena dai lunghi capelli

L’oratorio venne ammodernato agli inizi del Cinquecento: in quell’occasione, tra il 1504 e il 1507, Luca Signorelli venne chiamato a decorarne le pareti con affreschi dall’iconografia decisamente interessante. L’altare maggiore dell’edificio è decorato con un tabernacolo che custodisce all’interno una scultura

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intonaci danneggiato da ripetute infiltrazioni d’acqua e rafforzata la struttura architettonica delle capriate. Un terzo e ultimo restauro, finanziato dalla Regione Umbria e dalla Diocesi di Città di Castello e concluso nel 2005 ha permesso il potenziamento antisismico dell’edificio.

Sulle due pagine l’interno dell’oratorio di S. Crescentino e una veduta ravvicinata dell’altare maggiore della chiesa (nella pagina accanto). Intorno al tabernacolo – che accoglie una statua raffigurante la Vergine che schiaccia il drago – si dispiega l’affresco Cristo Redentore benedicente tra due angeli, santa Maria Maddalena e un santo, opera di Luca Signorelli e aiuti.

raffigurante la Vergine che schiaccia il drago, simbolo del male che viene sconfitto. Ai lati della Madonna il pittore pone l’immagine della Maddalena, riconoscibile per la consueta soluzione iconografica dei lunghi capelli sciolti sopra le vesti e per il vaso dell’unguento che la prima annunciatrice dell’avvenuta resurrezione regge con la mano sinistra. A Morra Signorelli giunse certamente con una nutrita schiera di collaboratori ed è probabile che l’immagine della Maddalena sia stata realizzata riutilizzando il cartone eseguito per dipingere lo stesso soggetto nella tavola, peraltro contemporanea, oggi conservata presso il Museo dell’Opera del Duomo di Orvieto. Sulla sinistra dell’affresco è ritratta l’immaagosto

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luca signorelli in umbria/6 gine di Lazzaro, protagonista della parabola del ricco epulone e del povero mendicante, riconoscibile per le pustole che si intravedono nella parte del corpo lasciata scoperta dalle lacere vesti. Sopra il tabernacolo Gesú è colto in atto benediFlagellazione, affresco di Luca Signorelli e aiuti. 1504-1507. Morra, oratorio di S. Crescentino. Si tratta di una delle scene del ciclo che piú impressionano per il realismo con il quale sono stati resi i corpi e le espressioni dei protagonisti, sottolineati dal gioco delle luci creato dall’artista cortonese.

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cente: con la mano sinistra regge il libro apocalittico con le lettere greche dell’omega e dell’alfa disposte in maniera invertita rispetto all’iconografia tradizionale, a ricordare che il Figlio ha sconfitto la morte (l’Omega) per rinascere a nuova vita (l’Alfa; vedi foto in apertura, alle pp. 38/39). Accanto al Salvatore, due angeli dalle vesti svolazzanti si dispongono armoniosamente ad assecondare la forma centinata dello spazio pittorico. La figura del Cristo dolente compare sotto ogni nicchia delle pareti laterali. L’intervento del grande artista e dei suoi collabo-

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A destra san Crescentino in un affresco attribuibile a un pittore tardo-gotico. Morra, oratorio di S. Crescentino, sagrestia.

San Crescentino

Evangelizzatore, martire e patrono... conteso Nessuna lapide, nessun documento, nessuna epigrafe. Almeno fino al VII secolo. Del martire Crescentino (o Crescenziano), il legionario di Roma che fu tra i primi evangelizzatori cristiani dell’Alta Valle del Tevere, ucciso nel 303, all’epoca dell’imperatore Diocleziano, rimane appena qualche riga in una Passio: la leggenda sacra gli attribuisce l’uccisione di un drago alle porte di Tiferno, l’attuale Città di Castello. La belva feroce ammorbava la vallata con i suoi miasmi e uccideva i contadini. I santi uccisori di draghi o di serpenti nell’agiografia cristiana sono quasi sempre legati ad antichi culti acquatici. Il dragone ucciso dal coraggioso Crescentino rappresenta quindi l’idolatria sconfitta dalla nuova fede, ma è anche il simbolo della furia distruttrice delle acque: le frequenti e disastrose piene del Tevere che si sono susseguite nel corso dei secoli in tutta la valle. La piú antica immagine conosciuta del soldato cristiano, un bassorilievo in pietra, databile all’ultimo scorcio del XIII secolo, è invece conservata alla Pieve de’ Saddi, nei pressi di Pietralunga, luogo di sepoltura dei martiri perseguitati da Diocleziano. Crescentino rimane un santo conteso: gli Urbinati ne trafugarono le spoglie e poi lo scelsero come loro protettore. Cosí oggi i resti del martire sono conservati a Urbino. Agli abitanti di Città di Castello, che lo hanno eletto compatrono della città insieme a san Florido, è rimasta solo la reliquia della testa che i legionari romani staccarono di netto dal collo del martire dopo altri innumerevoli supplizi. Il capo mozzato di Crescentino oggi è protetto da una teca nella cripta del Duomo tifernate: una devota consuetudine vuole che i fedeli possano guarire dalle fortissime emicranie con una speciale benedizione e l’imposizione della reliquia sulla testa. Il culto del santo abbraccia anche altre confessioni: il 1° marzo 2005, sotto il patronato della Chiesa anglicana, è nato l’Ordine cavalleresco denominato «The noble order of Saint David of Wales, Saint Alban and Saint Crescentino».

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luca signorelli in umbria/6 LE DATE DA RICORDARE 1450 Luca Signorelli nasce a Cortona (Arezzo) nel territorio allora governato dalla Repubblica di Firenze. 1470 Si sposa con Gallizia di Piero Carnesecchi. 1474 A Città di Castello realizza la sua prima opera: è una Maestà tra i Santi. Dell’affresco è rimasta una traccia in alcuni frammenti staccati, tra cui il San Paolo, oggi conservato nella Pinacoteca Comunale della città umbra. 1479 Viene eletto nel Consiglio dei Diciotto a Cortona. 1482 A Roma, nella Cappella Sistina, dipinge il Testamento e morte di Mosè e le scene della Disputa sul corpo di Mosè. 1484 Firma la sua prima opera: una Flagellazione sul verso dello Stendardo di Fabriano (ora a Milano nella Pinacoteca di Brera). Dipinge a Perugia la Pala di Sant’Onofrio, conservata nel Museo del Capitolo della Cattedrale di San Lorenzo. Realizza la Natività di Giovanni Battista, ora al Louvre. 1486 Dipinge il Gonfalone per la confraternita di Santa Maria di Città di Castello (l’opera è andata perduta). Nello stesso anno lavora a Roma alla Madonna col Bambino e i santi. 1488 Riceve la cittadinanza onoraria di Città di Castello. A Siena realizza la Pala Bichi. 1490 A Firenze entra in contatto con gli artisti della Accademia voluta da Lorenzo il Magnifico e crea il Regno di Pan (distrutto durante la seconda guerra mondiale), la Circoncisione (ora alla National Gallery) e una Madonna con Bambino (Alte Pinakothek di Monaco di Baviera). 1491 A Volterra dipinge la maestosa Annunciazione e la Vergine in trono e santi. 1492 A Firenze realizza la Sacra famiglia con una santa e la Madonna con Bambino, San Giovannino e un pastore. 1494 Insieme ai pittori della sua bottega dipinge a Città di Castello l’Adorazione dei Magi (oggi al Louvre). A Loreto (Ancona) realizza un ciclo di Profeti nella basilica della Santa casa. 1495 A Città di Castello dipinge il Gonfalone di San Giovanni Battista. 1496 Nella chiesa di S. Francesco di Città di Castello, insieme ad altri artisti della sua

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bottega, realizza l’Adorazione dei pastori, un dipinto a olio su tavola trasportato su tela che oggi è conservato presso la National Gallery di Londra. 1497 Inizia a lavorare ad alcuni affreschi (poi completati dal Sodoma) nel chiostro dell’abbazia di Monteoliveto Maggiore (Siena). 1498 A Città di Castello dipinge il Martirio di San Sebastiano, ora conservato nella Pinacoteca Comunale della città umbra. 1499-1504 Realizza il grande ciclo affrescato del Giudizio Universale nella Cappella di S. Brizio del Duomo di Orvieto. 1502 Perde il figlio Antonio a causa della peste che flagella Cortona. Nella sua città realizza il Compianto sul Cristo morto. Inizia a dipingere anche il Cristo in croce e Maria Maddalena (ora agli Uffizi) e lo Stendardo della Crocifissione (oggi al Museo civico di Sansepolcro). 1507-1510 Nell’oratorio di S. Crescentino a Morra realizza alcuni affreschi ispirati al tema della Passione di Cristo. 1507 A Rocca Contrada (oggi Arcevia, in provincia di Ancona) realizza un grandioso Polittico. 1508 Dipinge il Battesimo di Cristo per la Fraternità del Crocifisso di Rocca Contrada. 1511 A Citerna, insieme a un artista della sua bottega, Tommaso Bernabei detto il Papacello, Luca Signorelli realizza l’affresco Vergine con Bambino tra i santi Michele Arcangelo e San Bernardino da Siena. 1512 A Cortona dipinge la Comunione degli Apostoli. 1515 Realizza a Montone la Madonna con Bambino e Santi (l’opera è conservata alla National Gallery di Londra). 1516 A Città di Castello dipinge la gigantesca Pala di Santa Cecilia. Nella vicina Umbertide realizza la Deposizione per la chiesa di Santa Croce. 1517 Per i frati minori osservanti dipinge la Pala di Paciano ora conservata alla Galleria Nazionale dell’Umbria. 1519 Per la Confraternita di San Girolamo ad Arezzo realizza la sua ultima opera nota: una Madonna col Bambino e santi. 1523 Muore a Cortona, il 16 ottobre. agosto

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Uno degli angeli che compaiono nell’affresco Madonna col Bambino tra san Michele arcangelo e Francesco conservato nella chiesa di S. Francesco a Citerna, il cui stile presenta chiare affinità con la decorazione dell’oratorio di S. Crescentino a Morra.

ratori si dispiega lungo le pareti dell’oratorio. La Crocifissione colpisce per la concitazione dei personaggi e i dettagli patetici dello svenimento della Vergine raccolta dalle pie donne, dell’abbraccio del sacro Legno di Maddalena, del pianto mesto di san Giovanni col bel viso scorciato all’insú (vedi foto alle pp. 40/41). Segue un affresco non piú leggibile. In basso c’è la nicchia con l’immagine della Madonna di Loreto: due angeli sorreggono le colonne di un tabernacolo al centro del quale è posta la Vergine con il Bambino.

Corpi scolpiti dalla luce

Nella parete di fronte il pittore raffigura gli episodi dell’Ultima cena e Orazione nell’orto e quello della Flagellazione (vedi foto a p. 44). Qui l’artista esprime tutta la potenza della propria pittura, effigiando corpi

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vigorosamente scolpiti dalla luce e sistemati secondo improbabili pose contorte. Piú sotto, la nicchia con la Madonna della Misericordia, per la qualità alta della pittura, è verosimilmente quasi del tutto autografa, e non è improbabile che i volti che spuntano nel gruppo degli incappucciati siano i ritratti dei personaggi direttamente coinvolti nella commissione del ciclo pittorico.

Dove e quando Il paese di Morra dista 20 km da Città di Castello. Per informazioni sulle visite all’oratorio di S. Crescentino, ci si può rivolgere al Museo del Duomo – piazza Gabriotti, 3/a – tel. 075 8554705 oppure 331 5793733; e-mail: museo@diocesidicastello.it

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il trecentonovelle di franco sacchetti/7

Severo ma non troppo

di Corrado Occhipinti Confalonieri

Sulle due pagine Bernabò Visconti e la moglie Beatrice Regina della Scala, affresco di Andrea di Bonaiuto. 1365-1367. Firenze, basilica di S. Maria Novella, Cappellone degli Spagnoli.

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Nella pagina accanto un mugnaio al lavoro, tavola realizzata da Jost Amman per il trattato sulle arti e i mestieri Eygentliche Beschreibung aller Stände auff Erden. XVI sec. agosto

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Fra i bersagli di Franco Sacchetti non potevano mancare gli esponenti dell’aristocrazia: troviamo, dunque, piú d’un «signore» sbeffeggiato o ingannato da ben piú modesti membri della comunità. Tuttavia, l’autore del Trecentonovelle cerca di non essere mai troppo netto, lasciando spazio alle rivincite dei blasonati personaggi che fanno capolino nei suoi racconti

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otto la pressione di avvenimenti pubblici e privati – la guerra tra Milano e Firenze, la rivolta dei Ciompi, la perdita della moglie, problemi di salute – nel Trecentonovelle Franco Sacchetti si domanda se i nobili rappresentino ancora la classe sociale di riferimento, protettrice di valori quali la giustizia, la prodigalità e la compassione,

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come pensava di aver individuato il suo maestro Giovanni Boccaccio. Nella novella IV, Bernabò Visconti, signore di Milano dal 1354 al 1385, è solito affidare i suoi numerosi molossi alle cure dei cittadini. Ne possedeva talmente tanti per la caccia al cinghiale che il suo palazzo era chiamato dai milanesi «ca’ de can», casa dei cani.

Un giorno «uno ricco abate, avendo commesso alcuna cosa di negligenza di non avere ben notricato due cani alani che erano diventati stizzosi [malati di scabbia per denutrizione] – ed erano di detto signore – li disse che pagasse fiorini quattromila». L’abate invoca misericordia a Bernabò «e’ ’l detto signore veggendolo a domandare misericordia, gli disse: “Se

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il trecentonovelle di franco sacchetti/7 tu mi fai chiaro di quattro cose io ti perdonerò in tutto; e le cose sono queste che io voglio che tu mi dica: quanto ha [che distanza c’è] di qui al cielo; quant’acqua è in mare; quello che si fa in inferno; e quello che la mia persona vale”». L’abate è terrorizzato, conosce bene le terribili pene corporali che il cinofilo signore infligge a chi non tratta bene i suoi cani: «Ma pur, per cessare furore e avanzare tempo, disse che li piacesse darli termine a rispondere a sí alte cose. E ’l signore gli diede termine tutto il dí seguente». Mentre torna alla badia «soffiando come un cavallo quanto aombra [si spaventa]», l’abate incontra il mugnaio che gli chiede il motivo di quella inquietudine. Dopo averlo ascoltato, il mugnaio si offre di aiutarlo: si sostituirà all’abate nell’incontro con Bernabò, per questo «mi voglio vestire la tonica e la cappa vostra e raderomi la barba, e domattina ben per tempo anderò dinanzi a lui, dicendo che io sia l’abate e le quattro cose terminerò [risolverò] in forma che io credo farlo contento». Il religioso è rincuorato, gli promette qualsiasi cosa se ci riuscirà. Il fatto che l’abate non porti la barba conferma che, fino al Quattrocento, i prelati tenevano il volto glabro, perché una lunga barba indicava un eremita o un membro della chiesa d’Oriente. Nel Cinquecento la barba diventa un modo per manifestare una vicenda drammatica: dopo il Sacco di Roma del 1527 papa Clemente VII ne porta una lunga e canuta. La mattina dopo il falso abate «di buon ora si mise in camino; e giunto alla porta là dove entro il signore dimorava, picchiò [bussò], dicendo che tale abate voleva rispondere al signore sopra certe cose che gli avea imposte. Lo signore, volonteroso di udire quello che lo abate dovea dire e maravigliandosi come sí presto tornasse, lo fece a sé chiamare: e giunto dinanzi da lui un poco al barlume [alla luce fioca], facendo reverenza, occupando spesso il viso con la mano

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Affresco che ritrae Guglielmo di Azzone da Castelbarco, opera di un artista noto come Maestro del Redentore. 1314-1320. Verona, chiesa di S. Fermo Maggiore.

per non esser conosciuto, fu domandato dal signore se avea recato risposta delle quattro cose che l’avea addomandato». Il mugnaio risponde con sicurezza: «Signor sí. Voi mi domandaste: quanto ha di qui al cielo. Veduto a punto [con precisione] ogni cosa, egli è di qui lassú trentasei milioni e ottocento cinquantaquattro mila e settantadue miglia e mezzo e ventidue passi».

La lezione di Fibonacci

Bernabò è molto stupito della precisione, gli chiede come può dimostrarlo: «Fatelo misurare, e se non è cosí, impiccatemi per la gola. Secondamente domandaste: quanta acqua è in mare. Questo m’è stato molto forte [difficile] a vedere, però che [poiché] è cosa che non sta ferma, e sempre ve n’entra; ma pure io ho veduto che nel mare sono venticinque milia e novecento ottantadue di milioni di cogna [antica misura equivalente a dodici barili] e sette barili e dodici boccali e due bicchieri». Sorprende la facilità con cui il mugnaio snocciola numeri complicati: alla fine del XII secolo Leonardo Fibonacci aveva

introdotto in Europa la numerazione araba e lo zero che semplificò moltissimo la contabilità rispetto a quella romana, deficitaria per moltiplicazioni e divisioni. In seguito, il matematico pisano introdusse le operazioni sui numeri interi e frazionali, la trigonometria e l’algebra che evidentemente affascinavano anche Bernabò. L’abate impostore risponde allo stupito signore di Milano su come sappia queste cose: «Io l’ho veduto il meglio che ho saputo: se non lo credete, fate trovare de’ barili e misurisi; se non trovate essere cosí, fatemi squartare. Il terzo mi domandaste quello che si faceva in inferno. In inferno si taglia, squarta, arraffia [afferra con uncini] e impicca né piú né meno come fate qui voi». Il tiranno è basito e gli chiede come lo sa: «Io favellai già con uno che vi era stato, e da costui ebbe Dante fiorentino ciò che scrisse delle cose dell’inferno; ma egli è morto; se voi non lo credeste, mandatelo a vedere». In questo passaggio abbiamo una conferma di quanto la Commedia di Dante fosse diffusa alla fine del agosto

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A destra il castello di Avio (Trento). Fu costruito a partire dall’XI sec. in cima a uno sperone che domina la frazione di Sabbionara e si affaccia sulla Vallagarina solcata dal fiume Adige.

XIV secolo anche nei ceti popolari, come quello di appartenenza del mugnaio che risponde all’ultimo quesito: «Quarto mi domandaste quello che la vostra persona vale; e io dico che la vale 29 danari». Bernabò è furioso: «Ma ti nasca il vermocan; sono io cosí da poco ch’io non vaglia piú che una pignatta?». Nel Medioevo si pensava che il «vermocan» fosse un minuscolo verme annidato nel cervello che provocava l’ictus; la maledizione corrisponde all’attuale «ti venisse un colpo». Il mugnaio capisce di aver tirato troppo la corda e si affretta a dare la spiegazione di quanto affermato: «Signor mio, udite la ragione. Voi sapete che ’l nostro signore Iesú Cristo fu venduto trenta danari; fo ragione che valete un danaro meno di lui».

Il mugnaio pentito

Udendo queste parole, Visconti si accorge di un modo di ragionare tipico da «uomo di scienza» che non era certo l’abate, lo guarda bene in viso e si accorge dello scambio di persona. Il mugnaio si inginocchia

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davanti a Bernabò, gli chiede misericordia: l’inganno è stato costruito «piú per darli piacere che per malizia». Dopo aver udito queste motivazioni, Visconti conclude: «Poi ch’ello t’ha fatto abate e se’ da piú di lui, in fé di Dio, e io ti voglio confirmare e voglio che da qui inanzi tu sia l’abate, ed ello sia il mulinaro, e che tu abbia tutta la rendita del monasterio ed ello abbia quella del mulino». Il mugnaio ha rischiato grosso,

ma ha ricevuto la sua ricompensa per l’intelligente arguzia delle sue risposte a un tiranno famoso per la sua ferocia. Sacchetti conclude che però non sempre funziona cosí con i nobili: «Molto è scura [incerta] cosa e gran pericolo d’assicurarsi dinanzi a’ signori, come fe’ questo mugnaio, e avere quello ardire ebbe lui. Ma de’ signori interviene come del mare, dove va l’uomo con grandi pericoli, e ne’ gran pericoli li gran guadagni. Ed è gran

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il trecentonovelle di franco sacchetti/7 Miniatura raffigurante donne che preparano il pane e la pasta, da un’edizione del Tacuinum Sanitatis, denominazione che indica la traduzione in latino del Taqwim al Sihha (Almanacco della salute), un manuale redatto a Baghdad dal medico e letterato Abu al-Hasan al-Mukhtar Ibn Butlan nell’XI sec. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek. Nella pagina accanto Verona. Replica della statua equestre di Mastino II Della Scala che sormonta la sua arca. L’originale si trova nella torre dell’orologio di Castelvecchio.

vantaggio quando il mare si truova in bonaccia, e cosí ancora il signore: ma l’uno e l’altro è gran cosa di potersi fidare, che fortuna tosto non vegna [è cosa troppo incerta fidarsi che non venga presto un temporale].

Il Guglielmo furioso

L’umore di messer Guglielmo da Castelbarco signore di Avio (Trento) è proprio quello del mare in burrasca (LXI): «Avendo seco uno (...) a provisione [dipendenza], ch’avea nome Bonifazio da Pontriemoli, e volendoli sommo bene, però che lo meritava come valente uomo ch’avea guidato suo’ dazi e gabelle; e per questa sua provisione e per l’uti-

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le delli uffici, facendo pur lealmente [anche se aveva agito onestamente , secondo le regole] era divenuto ricco di forse sei mila lire di bolognini; essendo un venerdí costui a tavola col signore e con altra sua brigata, essendo recati maccheroni e messi su per gli taglieri inanzi a ciascheduno, essendo venuto il cosso [malumore improvviso] al signore e veggendo il detto Bonifazio mangiare li maccheroni col pane, ed era carestia ne’ detti paesi subito comandò a’ suoi sergenti che ’l detto Bonifazio fusse preso; li quali mossi subito il presono». La pasta ai tempi del Sacchetti era considerata una vera leccornia, simbolo d’abbondanza e di gioia,

non a caso lo scrittore la mette a confronto con la carestia. Bonifazio è sorpreso dalla reazione del suo signore, gli chiede il motivo ma suscita ulteriore irritazione: «Tu ’l saprai bene: dunque mangi tu il pane col pane? E guardi d’affamare il mondo, che vedi il caro [l’aumento del prezzo della farina] esser sí grande? E credi che io sia uno matto, e non me ne aveggia?». Alla surreale spiegazione, Bonifacio pensa a uno scherzo, sorride, ma il nobile si irrita ancora di piú: «Tu ridi, ah? Io ti farò ben rider d’altro verso. Menatelo là alla prigione, e guardate non fuggisse». Bonifazio viene portato in galera e condanagosto

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nato a pagare seimila bolognini di cauzione per «aver voluto turbare lo stato non che di lui, ma di tutta la sua provincia, e spezialmente per fame [per aver voluto diffondere la carestia]». Bonifazio si trova cosí a dover cedere tutti i suoi beni e il signore di Avio gli rinfaccia di essere stato fin troppo generoso a non averlo condannato a morte. Sacchetti trae una morale da questa storia: «Stia dunque con signori a bastalena [sull’altalena, in equilibrio instabile] chi vuole; che per certo, chi non si sa partir da loro e sta con essi a bastalena rade volte ne capita bene come a molti è intervenuto».

Una richiesta esagerata

Anche Mastino della Scala, signore di Verona dal 1329 al 1351, ha un valido collaboratore «pratico ed esperto» che è diventato ricco dopo vent’anni di fedele servizio (LXII). Il nobile, preso da un attacco di avidità, vuole mettere le mani nelle tasche del dipendente, una mattina lo fa chiamare e gli ordina: «Apparecchia tutte tue scritture de’ fatti miei che ti sono pervenuti per le mani, poi che [da quando] tu fusti nella corte mia». La richiesta appare impossibile da soddisfare ma il buon uomo prende tempo e gli risponde che provvederà il prima possibile. Quando torna a casa «pensando e ripensando, quanto piú pensava piú gli pareva essere impicciato; e guardando per casa, ebbe veduta la rotella [scudo rotondo], la cervelliera [elmo da fante, privo della protezione per il viso], uno lanciotto [lancia corta], uno farsettaccio [giubbone malridotto] con un coltello, con le quali cose era venuto di prima, quando s’era acconcio al servigio di detto signore. E vestitosi nel modo ch’era venuto, e prese quelle medesime arme a punto, in quella forma l’altra mattina [la mattina seguente] sen-

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za piú aspettare s’appresentò innanzi a messer Mastino» che si meraviglia di vederlo cosí armato e gli chiede il motivo. «Signor mio – disse quelli – voi m’avete comandato che io vi mostri ragione di ciò c’ho aúto a fare de’ vostri fatti, poi che io fui servitore di vostra signoria; io vi dico cosí, signor mio, che io non veggio modo nessuno ch’io ve la potessi mai mostrare, se non questo che voi vedete. Voi sapete, signor mio, che quando io venni al vostro servigio, io era povero mascalzone [soldato di ventura a piedi], con quello in dosso e con quelle povere armicelle, con le quali mi vedete al presente. E per tanto la ragione è fatta; nessuna altra cosa che quello che io ci recai me ne porterò; e cosí me n’andrò povero, com’io ci venni: tutto l’altro mio rimanente

e la casa con ciò che v’è dentro lascio alla vostra signoria». Mastino «come savio signore» apprezza il modo di essere avveduto del suo collaboratore: «Non voglia Dio che io ti tolga quello che hai con me guadagnato; va’, e fa’ lealmente e’ fatti miei, e da mo inanzi non aver pensiero che io ti vegna meno». Il nobile mantiene la parola e il collaboratore rimane con lui per tutta la vita. Anche se in questo caso l’astuzia borghese risulta vincente, Sacchetti mette in guardia il lettore della novella: «Or considera, lettore, quant’è ignorante chi fa lunga dimora nella corte d’uno signore, e come in uno punto e’ si volgono [i signori cambiano opinione] e disfanno altrui»; lo scrittore dà un consiglio agli uomini che lavorano per i potenti: «E però chi si può levar dal giuoco quando ha piena la tasca, non vi stia a guerra finita [quando ha terminato il servizio per cui il signore lo riteneva necessario]; però che [poiché] la maggior parte ne rimangon disfatti». In entrambe queste due novelle notiamo la meschinità e la prepotenza dei potenti che nel caso di Mastino della Scala rientra nei ranghi solo per un moto di spirito del suo sottoposto.

I regali dello speziale

Tuttavia Sacchetti – nel tentativo di essere sempre equilibrato e rispettoso del potere porta come esempio anche nobili che si lasciano correggere ed educare. Federico di Sicilia (1295/1336) «di valoroso e gentile animo» riceve ogni anno in dono dallo speziale Mazzeo «con una sua zazzera pettinata in cuffia [dai capelli lunghi acconciati in una cuffia]» un piatto di cedri e uno di mele «e lo re questo dono ricevea graziosamente» (II). Nel Medioevo l’elaborata pettinatura di Mazzeo era considerata un raro tratto di raffinatezza maschile. Passano gli anni, lo speziale è ormai anzia-

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il trecentonovelle di franco sacchetti/7 A sinistra mosaico che ritrae Federico III di Sicilia, uno dei protagonisti della seconda novella dell’opera di Sacchetti. Messina, Duomo. Nella pagina accanto miniatura raffigurante due donne che raccolgono e assaggiano cedri, da un’edizione del Tacuinum Sanitatis. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.

no, ma, sebbene cammini a fatica e non sia sempre lucido, vuole continuare a portare i doni al re. Un giorno si presenta alle porte di palazzo in perfetto ordine come sempre, ma il servitore alla porta si fa scherno di lui, gli tira un lembo della linda cuffia che gli scende fino al petto e lo stesso dileggio compie il secondo portinaio con l’altro lembo; i due considerano lo speziale un vecchio rimbambito da schernire. Tutto scarmigliato e scomposto per la prima volta dopo tanti anni, l’anziano speziale si presenta al re che gli chiede: «Ser Mazzeo che vuol dir questo, che tu sei cosí avviluppato

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[conciato]?». Mazzeo gli risponde citando quella che considera la piú bella storia nella Bibbia: «La reina di Saba, udendo la sapienza mirabile di Salamone, si mosse cosí da lungi per andare a vedere le terre sue e lui in Egitto; la quale, giugnendo alle terre governate per Salamone, tanto trovava ogni cosa ragionevolmente disposta che, quanto piú vedeva, piú si maravigliava e piú s’infiammava di vedere Salamone, tanto che, giugnendo alla principal città, pervenne al suo palazzo e di passo in passo ogni cosa mirando e considerando vidde li servi e’ sudditi suoi molto ordinati e costumati; tanto che, giunta in su la sua gran sala, fece dire a Salamone come ella era e perché qui

venuta. Salamone subito uscío dalla camera e faglisi incontro; il quale la detta reina veggendo si gittò inginocchioni, dicendo ad alta voce: “O sapientissimo re, benedetto sia il ventre che portò tanta prudenza [saggezza] quanta in te regna”».

I servitori puniti

A questo punto ser Mazzeo si interrompe nel racconto, Federico gli chiede quale sia la morale di quella storia. Mazzeo risponde: «Monsignor lo re, voglio dire che se questa reina comprese bene, per l’ordine e costume delle terre e de’ sudditi di Salamone, esser lui il piú savio uomo del mondo, io per quella medesima forma posso considerare voi essere piú matto re che viva, pensando che io, vostro minimo servo, venendo con questo usato dono alla vostra maestà, li servi vostri m’abbino concio come voi vedete». Federico consola Mazzeo prima a parole, poi davanti al fedele suddito punisce i due servitori e li caccia dal suo servizio «comandando a tutti gli altri che quando ser Mazzeo volesse venire a lui, già mai porta non gli fosse tenuta e sempre a lui facessono onore; e cosí seguirono [continuarono] di fare, maravigliandosi il detto del fine di sí notabile istoria, a proposito detta per un vecchierello a cui la mente già difettava». Il cortese ma fermissimo richiamo di Mazzeo fa accorgere il re della prosopopea della sua corte, lo porta a educarla al rispetto dei suoi ospiti, anche se sono anziani borghesi come lo speziale. In ogni caso Sacchetti sa che non esiste un metodo certo per garantirsi un comportamento corretto dei nobili: per questa ragione accosta due novelle dal contenuto simile ma dall’esito opposto. A Modena, madonna Cecchina è rimasta vedova di un mercante molto ricco con un figlio di dodici anni. Sola e indifesa, non trova validi avvocati disposta a difenderla contro la prepotenza dei piú forti. La donna ricorre a uno stratagemma: acquista agosto

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il trecentonovelle di franco sacchetti/7

un grosso pesce, ci mette in bocca uno piú piccolo e va per le vie della città con il figlio che ha il compito di suonare una campanella. A tutti i passanti che le chiedono il motivo del gesto, Cecchina risponde ossessivamente con il proverbio secondo cui il pesce piú grosso mangia il piú piccolo. Nonostante questo gesto eclatante, la famiglia di Pio da Carpi, signori della città, non interviene a tutelare i diritti della povera vedova perseguitata dall’ingiustizia (CCI).

Morte della ragione

A Faenza invece vive un povero

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contadino, depredato del suo terreno a ogni aratura da un potente vicino confinante. L’agricoltore impegna tutte le sue risorse economiche nell’affittare le campane della sua città. Quando qualcuno gli chiede il motivo, il contadino risponde: «Perché la ragione è morta». Trascorso qualche tempo Francesco Alberghettino, signore della città, si informa dei motivi di quell’eclatante iniziativa e il contadino gli rivela: «Signor mio io ve lo dirò, ma priegovi che io vi sia raccomandato; il tale vostro cittadino ha voluto [vorrebbe] comprare un mio campo di terra, e io non gli l’ho voluto

vendere; di che non potendolo avere, ogni anno quando s’è arata la sua ha preso della mia quando un braccio e quando due [la misura del braccio fiorentino corrispondeva a 0,58 metri], tanto ch’egli è venuto a lato a un ciriegio [ciliegio] che piú là non può bene [facilmente] andare che non fosse molto evidente; che benedetto sia chi ’l piantò! Ché, se non vi fosse stato, e’ s’avea in poco tempo tutta la terra. Di che, essendomi tolto il mio da uomo sí ricco e sí possente, e io essendo, si può dire, un poverello non sanza gran pena sostenuta e soperchio dolore, mi mossi come disperato a salariare [pagare] quelle chieagosto

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Miniatura raffigurante una battuta di caccia, dal Livre de la chasse di Gaston Fébus. 1407-1408. Parigi, Bibliothèque nationale de France. L’opera, scritta dallo stesso Fébus, fu illustrata sotto la direzione del Maestro del duca di Bedford.

cia di quaglie fra Prato e Pistoia e decide di condividere il ricco carniere da Curradino Gianfigliazzi (CCX). Quando arrivano al castello, la prima amara sorpresa: «là dove giugnendo, pero che ’l luogo era afossato [difeso da un fossato pieno d’acqua] intorno e valicavasi il fosso su per un’asse assai stretta di faggio» che «per la debolezza si piegava sí che parea ognora ch’ella si volesse rompere». I cavalli devono attraversare il fossato a nuoto, la scuderia si rivela una tale stamberga che i quadrupedi «per la strettezza s’accostava sí l’uno l’altro che poteano ben mordere, ma non trarre [tirare calci] l’uno a l’altro».

Carne affumicata

se che hanno sonato per l’anima della ragione, ch’è morta». Dopo aver udito questa storia, il signore di Faenza manda dei tecnici misuratori a verificare i confini e avuta conferma della ruberia, restituisce la terra al pover’uomo, compreso il rimborso dei due fiorini spesi per le campane. Sacchetti commenta che quelle, anziché suonare a morto avevano suonato per la rinascita della giustizia. I signori della fine del Trecento peccano anche nell’ospitalità, valore fondamentale della cavalleria. Un giorno d’autunno, un gruppo di giovani fiorentini si reca a cac-

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Non c’è legna per arrostire le quaglie perché costosa e al suo posto Curradino fa utilizzare «saginali» – erbe secche di palude con cui si facevano le scope – che affumicano la tenera carne dei volatili. La cantina è priva di vino tanto che vengono premuti «in un orciuolo grappoli d’uva con le mani». I cacciatori sperano che la serata finisca al piú presto e «pensorono di passare le loro pene (...) col dormire il piú tosto che potessono; e inviati a una camera, o vero cella cavata o vivaio [cantina o vasca per allevare pesci] che vogliamo dire, scesono quattro scaglioni, e a l’ultimo era una asse che era ponte dallo scaglione alla panchetta del letto; però che nella detta camera era l’acqua alta un mezzo braccio». Nel Medioevo a fianco del letto veniva posta una cassa in cui erano conservati gli indumenti. Dopo aver passato questo improvvisato ponte «lieti come ciascun dee credere; e volendo andar alla guarderoba [gabinetto], tre passi in su tre pietre convenía lor fare in punta di piedi, per non toccare l’acqua; poi entrorono, quattro che egli erano, in uno letticciuolo che avea una coltricetta cattiva, che parea piena di gomitoli e di penne d’istrice, con uno copertoio tutto stampanato [rotto] e con ogni

altra cosa da far penitenza». L’unico vantaggio di quella notte insalubre e insonne è che «pisciorono per la camera e non si parea [non si vedeva]». La mattina seguente «passorono il ponte e’ cavalli il fosso a nuoto; e saliti a cavallo come se ’l diavolo gli ne portasse si dileguorono». Sacchetti osserva: «Molto ha preso oggi la gentilezza romitana forma [la nobiltà ha assunto costumi rusticani], però che [poiché] con grande astinenza vivono quelli che sono chiamati gentiluomini: salvo che quando pigliano di ratto [quando fanno i briganti]; e siano questi di qualunche vita sia, o viziosa o scellerata, si dice: “E son pur de’ tali che sono gentilissima famiglia”. E pare che per tale titolo e’ si convenga loro usare qualunche vita piú laida sia, e non s’intende per costoro che non aveano piú che savessono. E cosí s’usa il verso di Dante per lo contrario: “È gentilezza [nobiltà] dovunch’è virtute”». Non a caso l’autore prende a esempio del decadimento della classe nobiliare Curradino Gianfigliazzi: è discendente del suo illustre omonimo Currado, definito «liberale e magnifico» nel Decameron (giornata IV, quarta novella). Le conclusioni a cui Sacchetti arriva sulla classe nobiliare sono opposte a quelle di Boccaccio. Lo scrittore certaldese aveva proposto una rifondazione cavalleresca della società come risposta alla peste del 1348, vista come punizione divina contro un mondo governato dall’avarizia, dalla superbia e dall’invidia. Sacchetti fa notare nel Trecentonovelle come quell’aspirazione fosse fallita alla fine del Trecento: i nobili non hanno raccolto i valori di liberalità, giustizia e misericordia dei loro avi ma sembrano contagiati piuttosto dall’egoismo borghese e dalla logica del vantaggio economico, elementi tipici della società moderna.

NEL PROSSIMO NUMERO ● I burloni

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matilde di canossa

La signora delle cento

chiese

di Paolo Golinelli

La Rotonda di S. Lorenzo a Mantova, la cui costruzione viene attribuita a Matilde di Canossa.

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Al nome di Matilde di Canossa sono legati castelli e luoghi di culto disseminati in tutta l’Italia centro-settentrionale. Siti il cui legame con la contessa non è sempre storicamente provato, ma che conservano forte la suggestione del passaggio o del soggiorno di questa indiscussa protagonista del Medioevo

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matilde di canossa

O O

ltre che personaggio di primo piano nella sua epoca, Matilde di Canossa (o di Toscana, come la chiamano gli stranieri) trascorse gran parte della sua esistenza in quelli che a noi oggi appaiono piccoli centri, lontani dai luoghi del potere e da città e che, proprio dopo la sua morte (e anche in conseguenza di essa), presero lo slancio per diventare importanti comuni medievali. In ciò si misura anche l’alterità del passato: quelli che oggi possono apparire solo come villaggi sparsi nelle campagne o sui monti, se non scomparsi, allora potevano avere un rilievo nella storia, perché ben difesi, o su assi stradali e fluviali al tempo frequentati, o luoghi di pellegrinaggio. Qui, naturalmente, non potremo presentare che qualche caso, tra i tanti possibili. Per esempio, un villaggio come Pappiana, oggi frazione di San Giuliano Terme, in provincia di Pisa, al tempo di Matilde era un centro incastella-

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Sulle due pagine miniature tratte dal manoscritto originale della Vita Mathildis di Donizone. 1115. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. A destra, il padre di Matilde, Bonifacio, marchese di Toscana; nella pagina accanto, Beatrice di Lorena, madre della contessa. In basso la pieve della Beata Vergine assunta di Frassinoro (Modena). La chiesa è quanto resta dell’abbazia benedettina fondata da Beatrice di Lorena e dalla figlia Matilde di Canossa.

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i signori di canossa

L’ascendenza della contessa Sigifredo da Lucca Atto Adalberto sposa Idegarda (Supponidi)

Rodolfo

Gotifredo (vescovo)

Tedaldo (988-1012) Sposa Guilia

Tedaldo (vescovo)

Corrado

Bonifacio (1012-1052) Sposa in II nozze Beatrice di Lorena (?-1076)

Beatrice muore in giovane età

Federico muore in età minore nel 1053 (la dinastia si estingue in linea maschile)

Matilde (1046-1115) Sposa (1) nel 1069 Goffredo il Gobbo (nasce una figlia che muore in tenera età); (2) nel 1089 Guelfo V di Baviera

to, con un palazzo pubblico, nel quale risiedette l’imperatore Enrico II nel 1014, e dove Matilde amministrò la giustizia il 21 e il 27 giugno 1077 (l’anno dell’incontro di Canossa), trasferendolo poi, nel 1103, con altri beni, al Capitolo del Duomo di Pisa, per completarne la costruzione. Attualmente sono rimasti lacerti di bassorilievi romanici e la facciata dell’antica chiesa di S. Maria.

L’infanzia e la giovinezza

Matilde nacque nel 1046 probabilmente a Mantova, dove suo padre, Bonifacio di Canossa, aveva fissato la propria residenza costruendo un palazzo, davanti al quale teneva legato un leone, in segno di potenza. Un giorno l’animale scappò, seminando il terrore nella piccola città, a quel tempo ridotta alla punta dell’isola che il Mincio formava, circondandola tutta (quella che fu poi chiamata

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la civitas vetus); per fortuna si trovava là l’eremita armeno Simeone, che ammansí il leone. Qui Matilde trascorse i suoi primi anni di vita. Intorno al Mille la città era racchiusa in un’area corrispondente all’attuale piazza Sordello fino al lago a nord-est, con, a ovest, la cattedrale e gli edifici limitrofi, e, a sud, le mura che la delimitavano tra le attuali via Accademia e via don Tazzoli. Un’area di circa dodici ettari, che appare ristretta sí, ma non diversamente da altre città padane come Reggio o Modena, dove la parte incastellata, circondata cioè dalle mura, pare avesse un perimetro di circa 700 m. D’altra parte, la popolazione di queste città era allora limitatissima: 8-10 000 abitanti, mentre nell’intera Italia si contavano 5-6 milioni di persone (un decimo degli attuali residenti). All’epoca di Matilde risale la Rotonda di S. Lorenzo, a lei attri-

buita e variamente interpretata come cappella palatina del Palazzo di Bonifacio (Arturo Calzona), o come edificio in collegamento con la chiesa di S. Andrea, ove furono ritrovati i resti di san Longino, che avrebbe portato a Mantova i Sacri Vasi col sangue di Cristo, raccolto sul Golgota. Una pietosa leggenda, che ancora si rinnova ogni settimana di Passione nella città virgiliana, e che nel Medioevo era supportata da un percorso gerosolimitano che culminava nella Rotonda, fatta a imitazione del Santo Sepolcro (come in altre città vicine: Bologna e Brescia). All’età di sei anni, la vita di Matilde fu sconvolta dalla morte del padre, ucciso da una freccia avvelenata durante una battuta di caccia a San Martino dell’Argine, tra Mantova e Cremona. A questa morte seguirono in poco tempo quelle del fratello, Federico, e della sorellina, Beatrice, come se chi

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matilde di canossa aveva ucciso il padre si fosse voluto liberare anche della sua prole. Ecco allora che vediamo la madre, Beatrice di Lorena, fuggire da Mantova con la figlia superstite, e a Felonica Po, davanti al cimitero del piccolo monastero, compiere una donazione per l’anima dei suoi cari. Un luogo insolito per un simile atto, che fa pensare che proprio in quel luogo ella avesse appena sepolto uno dei suoi figli.

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Poi la madre si risposò con un cugino lorenese, Goffredo il Barbuto, contro il parere dell’imperatore, Enrico III, che imprigionò lei e Matilde, portandole nell’appena costruito castello di Goslar, dove la piccola poté incontrare l’ancor piú piccolo (era nato nel 1050) Enrico IV. Al matrimonio dei genitori, seguí anche la promessa di unione tra i due figli di primo letto della coppia: Goffre-

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Il torrione detto di Matilde, a Tarquinia (Viterbo), che domina la Porta di Castello. Nella pagina accanto, in alto sigillo in cera di Matilde di Canossa. Londra, British Library. Nella pagina accanto, in basso mappa dei territori controllati dai Canossa, con l’indicazione dei siti piú importanti.

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matilde di canossa do il Gobbo e Matilde. Il matrimonio fu celebrato al capezzale del Barbuto morente a Verdun, pochi giorni prima del natale 1069. Mentre Beatrice tornò a occuparsi del suo dominio in Italia, Matilde restò col marito in Lorena, probabilmente nel castello di Bouillon, sulla Semois, allora appena fondato (poi sede di Goffredo di Buglione, che guidò la prima crociata).

L’anello e la trota

Lí Matilde ebbe una bambina, Beatrice, che morí in fasce il 29 gennaio 1071. Fu probabilmente per l’anima della piccola, che fece costruire, su proprie terre, l’abbazia di Notre-Dame d’Orval, dove il ricordo di Matilde sopravvive in una sorgente, la Fontaine Mathilde, all’interno dei resti dell’antica abbazia, e nella leggenda secondo la quale in questa sorgente Matilde avrebbe perduto l’anello nuziale, e una trota glielo avrebbe riportato. Al che la contessa esclamò: «Veramente questa è la valle dell’oro: Or-Val». Da ciò il simbolo di una famosa birra trappista che vi si produce con questa acqua sorgiva: la trota con l’anello in bocca. Fu un momento particolarmente difficile della sua vita e, per lei e la sua «incolumità», la madre fondò l’abbazia di Frassinoro, sull’Appennino modenese, vicino al valico di San Pellegrino in Alpe. Ritrovatesi a Mantova nel gennaio 1072, le due donne governarono insieme il vasto territorio ereditato da Bonifacio, ma dovettero rinunciare ai loro possessi lorenesi. Le troviamo insieme nel 1074 a Montefiascone, a incontrare papa Gregorio VII, per preparare una spedizione contro i Normanni, e piú tardi, il 26 marzo 1080, Matilde è a Corneto (come allora si chiamava Tarquinia), a tenere un giudizio in favore di Bernardo, abate del monastero di Farfa in Sabina. A Tarquinia il ricordo di Matilde è legato al torrione cilin-

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L’assedio di Monteveglio

Meglio la morte della pace «Quando giugno asciugò le acque del Po, il re lo passò seguito da molti soldati, longobardi e tedeschi; occupò i luoghi migliori della pianura e salí sui monti del Modenese, ai quali ambiva da tempo; prese Monte Morello senza colpo ferire, e Mont’Alfredo con un assalto di cavalleria. (…) Il re si mostrò quella volta ancor piú crudele: assediò il castello di Monteveglio, sperando di conquistarlo dopo averlo stretto lungo d’assedio; ma non riuscí a sbarrare ad esso l’entrata e nemmeno l’uscita. Un forte presidio teneva infatti quel monte, e soleva, dall’alto, tormentare il sovrano impotente. Il falso papa Clemente venne allora a incontrarlo e parlando con lui di diverse questioni, approvò quell’assedio; ma attorno a quel monte il re perse tutta l’estate. Mentr’egli a lungo indugiava, la parte al papa fedele iniziò a trepidare, e i potenti vassalli della grande signora cominciarono a chieder la pace, insistendo con buoni argomenti. Ciò piacque al sovrano; ma solo se essi avesser lodato ciò che aveva compiuto Guiberto, e si fosser chinati ai suoi piedi come a un papa, egli subito avrebbe conclusa la pace. Le orecchie della contessa non vollero udir queste cose: “Se aspirate alla pace col re”, ella disse, “con lui tratterò, ma voglio sappiate che ciò non è giusto”. Mediatori esplorarono subito le vere intenzioni del re Veduta di Monteveglio, castello che, nel 1092, subí l’assedio dell’imperatore Enrico IV, il quale dovette però desistere, vinto dalla resistenza delle truppe fedeli a Matilde.

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sulla pace, domandandogli di non differirla; acconsentí finalmente il sovrano alle loro richieste, ma simulava; si diedero molto da fare gli intermediari perché la stessa contessa aderisse alla proposta di pace che il re a parole apprezzava, ma Matilde era restia a prestar fede a costoro. Riunite molte persone, abati, eremiti e vescovi santi, espose le condizioni di pace, chiedendo di dirle se un giusto trattato di pace si poteva concluder su di esse. Il presul di Reggio, Eriberto, di specchiata virtú luminosa, sostenne con gli altri che davver si dovesse concluder la pace; aggiunse: “La sofferenza dei tempi non ci dà tregua”. A queste parole la mente della signora quasi iniziò a piegarsi; ma alla fine parlò l’eremita Giovanni, dicendo: “Non sia mai, poiché questa pace è contraria allo Spirito Santo, al Padre ed anche al Suo Figliolo. Non vorrai gettare cosí le tante fatiche e i sacrifíci, che in nome di Cristo tu hai sostenuto? Combatti, non esitare, poi che una grande vittoria presto il Cielo ti concederà; sarà un dono di Cristo, reso benigno dalle preghiere di Pietro, e per essa t’allieterai”. Furon fruttuose le parole di questo eremita, vero profeta, per quella fede che compie prodigi: lasciò la contessa inattuato il patto col re e promise, da ancella, di restar fedelissima a Pietro, fino a che il Signore le avesse concesso di viver nel mondo. Fu rassicurata cosí la schiera del clero al papa fedele, che preferiva morire che scendere a patti col re. Questo nobil convegno si tenne a Carpineti. Mentre il re non cessava l’assedio di Monteveglio». (Donizone, Vita di Matilde di Canossa, II, vv. 603-663) drico col suo nome che sovrasta la Porta di Castello, e porta all’esterno alla chiesa di S. Maria in Castello. Altre torri vengono attribuite a Matilde, come a Livorno e a Bondeno di Ferrara, ma non sono documentate come questa. Uno dei piccoli centri nei quali piú spesso Matilde si trovò a operare fu Màrturi, località posta sull’altura sovrastante l’attuale Poggibonsi (Siena), ove c’è il monastero di S. Michele. Anche qui si fermò un imperatore, Enrico II, il 14 luglio 1022. Qui si tenne nel marzo 1076 un famoso placito (giudizio), presieduto da Nordillo, missus di Beatrice, proprio in favore di quel monastero. Nel testo della sentenza si nomina, per la prima volta nel Medioevo, il Codi-

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ce delle leggi di Giustiniano, riscoperto da poco, e sul quale nascerà poi l’Università di Bologna, e in particolare un passo del Digesto (lege Digestorum libris inserta considerata, per quam copiam magistratus non habentibus restitutionem in integrum pretor pollicetur = D. 4.6.26.4). A Màrturi Matilde è documentata e tenne sedute giudiziarie anche il 27 agosto 1077, l’11 febbraio 1078, il 3 aprile 1100, l’11 novembre 1103, e ancora fu presente nel 1109; mentre Antonella Ghignoli ha dimostrato che l’atto del 22 giugno 1099 è un falso fabbricato dopo la morte della contessa (il che fa riflettere sull’attendibilità anche di una edizione scientifica dei documenti matildici come quella degli MGH, a opera di Elke e Werner

Goez del 1998, che l’accetta come autentico). Nel luogo un tempo occupato dal monastero sorge ora il Castello di Badia, e dell’antico complesso conventuale restano poche testimonianze sparse nel territorio.

I castelli fedeli

Nel 1091, quando Enrico IV portò il suo attacco piú diretto alle terre di Matilde di Canossa, per punirla dell’umiliazione che egli aveva dovuto subire in quel freddo gennaio del 1077, solo quattro castelli le rimasero fedeli e resistettero all’assedio dell’imperatore, mentre Mantova passava dalla sua parte. Questi castelli erano: Piadena nel Cremonese, Nogara nel Veronese, Monteveglio nel Bolognese e, ovviamente, Canossa nell’Appennino Reggiano. Piadena e Nogara erano villaggi fortificati in seguito alle incursioni degli Ungari che assalirono la Pianura Padana, quasi ogni anno, dall’899 al 955. Di fronte a queste orde di combattenti a cavallo, che saccheggiavano le messi, assalivano gli abitanti, seminando il terrore, l’unica difesa fu la costruzione di canali che circondavano l’abitato, protetto dai terrapieni elevati con la terra di riporto prodotta dallo scavo dei canali, e integrati con palizzate e torri mobili, in legno, dette bertesche. Erano i castelli di pianura, protagonisti dell’età dell’incastellamento, prima forma di autodifesa delle comunità locali, le quali, come seppero proteggersi dagli Ungari, cosí riuscirono a resistere agli attacchi di Enrico IV. Monteveglio si trova invece su di un colle ai piedi dell’Appennino Tosco-Emiliano, a sud-ovest della città di Bologna. Donizone dedica un intero capitolo, il settimo del secondo libro, all’assedio di Monteveglio, che durò tutta l’estate del 1092 (vedi box in queste pagine). Oltre che dalla sua posizione sommitale, Monteveglio era difeso dalle truppe di Matilde. Si av-

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matilde di canossa viarono allora trattative di pace: la guerra, come sempre, logorava i contendenti; a capo di queste trattative, condotte da laici, ci doveva essere il giudice Ubaldo da Carpineti, perché è in quel castello (ancora un piccolo centro!) che si tenne la riunione decisiva. Erano presenti, con Matilde e i suoi consiglieri il vescovo di Reggio, Eriberto; quello di Mantova in esilio, Ubaldo; l’abate di Polirone, Guglielmo, anch’egli costretto a lasciare il suo monastero. I convenuti stavano per accettare le profferte di pace di Enrico IV, quando si alzò Giovanni, un eremita che viveva nell’eremo di Marola, il quale, con parole rivelatesi profetiche, sostenne invece la necessità di non abbandonare la guerra, che sarebbe stata vittoriosa. E la guerra continuò. Il castello di Carpineti (o delle Carpinete) è situato sulla sommità del monte Antognano, a 805 m. Fu costruito dall’avo di Matilde, Adalberto Atto, alla fine del X secolo, quando questi trasferí la sua fami-

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Novecento e ne sono visitabile la torre quadrata, le mura e la chiesa di San Vitale al suo interno, grazie a un gruppo di volontariato locale (per informazioni, e-mail: gruppostoricoilmelograno@gmail.com).

Una concessione straordinaria

glia dalla Lucchesia all’Appennino Reggiano. Nel 1077, dopo l’incontro di Canossa, ospitò Gregorio VII e il suo seguito, e nel 1082 il vescovo di Lucca in esilio, Anselmo, protetto da Matilde. Piú a sud e piú in alto di quello di Canossa (576 m. slm), è stato oggetto di un importante restauro alla fine del

Molte sono le chiese medievali dei territori matildici che pretendono di essere state costruite dalla contessa, anche sulla scia della leggenda delle cento chiese che ella avrebbe edificato per poter dire messa, secondo la volontà del papa. Nota per la sua pietà religiosa, Matilde avrebbe chiesto a Gregorio VII il permesso di celebrare il mistero dell’eucarestia. Il papa glielo avrebbe concesso a patto che costruisse cento chiese. Arrivata all’ultima, ella si rivestí dei paramenti sacri, ma, al momento della consacrazione del pane e del vino, dal calice uscí un nero serpente, che atterrí l’incauta contessa, che aveva osato profanare il sacro rito della transustanziazione, costringendola a fuggire da quell’altare, mentre un terremoto lo faceva sprofondare nel cuore della terra. Questa è la versione che è stata raccolta a Nasseta (frazione di Collagna, Reggio Emilia), sulla strada verso il passo di Pradarena. In altre versioni la centesima chiesa sarebbe stata quella di S. Maria di Sasso di Neviano degli Arduini, nel Parmense. Nella chiesa di S. Michele Arcangelo di Montebaranzone si conservava un calice trecentesco, che si attribuiva a Matilde di Canossa ora nel Museo Diocesano di Nonantola. Margherita Giuliana Bertolini aveva contato sino a 84 istituzioni «matildiche» (pievi, chiese, ospizi e monasteri); Michelle Spike è arrivata a 136. Si tratta di tre tipologie di chiese attribuite a Matilde: quelle presenti in documenti matildici; quelle che la tradizione locale vuole fondate dalla contessa; infine edifiagosto

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Un appuntamento da non perdere A Reggiolo, per ricordare Matilde, si tiene quest’anno, dal 15 al 17 settembre, il II Festival Matildico Internazionale, con un convegno su «I centri minori nei territori matildici e canossani», presentazioni di libri, anche con studiosi di fama come Marina Montesano e Massimo Oldoni. Domenica 17 settembre, alle ore 18,00, davanti al Teatro Comunale, chiuderà il festival l’esecuzione dei Carmina Burana di Carl Orff, una Produzione del Teatro Giovanni Rinaldi, con la direzione del maestro Luigi Pagliarini, alla cui bacchetta è affidato un ensemble composto da oltre 80 esecutori. ci di impianto romanico attribuitile dagli studiosi, magari in località sperdute, o nelle periferie di piccoli centri, sparsi tra Emilia, Lombardia, Veneto, Toscana e Lazio.

Quei cattivi sacerdoti...

In Lombardia molte chiese «matildiche» sono tra le dipendenze dell’abbazia di San Benedetto Polirone, e tra queste spicca il priorato di S. Benedetto di Gonzaga, assegnato a Polirone da parte della contessa intorno al 1100. Si trattava di una chiesa gestita da «malos sacerdotes fornicarios et adulteros» («cattivi sacerdoti fornicatori e adulteri»), che Matilde, sempre attenta alla moralità dei preti, secondo i principi della Riforma di Gregorio VII, passò ai monaci (cluniacensi) di S. Benedetto Po, come fece poi, nel 1112, col monastero di S. Sisto di Piacenza, sottraendolo alle monache e affidandolo a Polirone: «Monacos ad reformandam religionem in eandem ecclesiam introduxit» («Introdusse in quella chiesa i monaci, perché ne riformassero la vita religiosa»). Nel Veneto si segnalano le chiese di S. Zeno di Cerea, località dove c’era un castello di cui si era appropriato Bonifacio di Canossa, e di S. Pietro di Villanova, dipendente da Polirone, nell’ambito dei beni dei conti di San Bonifacio (poi eredi della contessa). Molto suggestiva resta ancor oggi la chiesetta di S.

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La chiesa di S. Benedetto a Gonzaga (Mantova). Nella pagina accanto, in alto calice attribuito a Matilde di Canossa. Nonantola, Museo Diocesano. Nella pagina accanto, in basso la pieve di S. Maria a Sasso di Neviano degli Arduini (Parma).

Salvaro di San Pietro di Legnago, su un angolo della facciata della quale un’iscrizione, certamente successiva, rimanda alla fondazione di Matilde: «Contes(s)a / Matelda / hoc op(us) f(ieri) f(ecit) / 1117 / D(omini) I(esu) C(hristi)» (secondo la trascrizione di Silvia Musetti). Se non che nel 1117 Matilde era morta da due anni. Quello però è l’anno del piú tremendo terremoto che colpí la Pianura Padana, causando molti crolli documentati sia dalle fonti letterarie, sia da iscrizione e dalle analisi delle strutture architettoniche. In quell’epigrafe quindi si è voluto ricordare da una parte la protettrice mitica della chiesa, dall’altra quell’evento epocale. Di nessuna chiesa abbiamo però una documentazione che sia stata

Da leggere Dante Colli, Alfonso Garuti, Romano Pelloni, Nel segno di Matilde, Artioli, Modena 1991 Margherita Giuliana Bertolini, Studi canossiani, a cura di Ovidio Capitani e Paolo Golinelli, Pàtron, Bologna 2004

costruita da Matilde di Canossa, a eccezione dell’ultima: la cappella dedicata a san Giacomo, che ella si fece costruire in Bondanazzo di Reggiolo, per poter seguire, benché inferma nel letto, le celebrazioni eucaristiche. Purtroppo di essa non è rimasto nulla, ma uno studioso del luogo, Aldo Zagni, è riuscito a ritrovare memorie di questa chiesa sin dal Quattrocento.

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di Alessandro Bedini

CON IL VENTO IN POPPA...

Incontri e scontri, guerre, scambi e conquiste: sin da tempi remotissimi, il regno di Nettuno è stato una «via», tanto avventurosa quanto ricercata, per diffondere conoscenza e sviluppo. Nel millennio medievale, poi, la conquista dei mari compie passi da gigante, grazie alla messa a punto di eccezionali progressi tecnologici. Che permetteranno la scoperta di nuove terre e l’aumento, a livelli mai raggiunti in precedenza, della circolazione di uomini e merci Il porto di Classe (Ravenna), particolare di uno dei mosaici della basilica ravennate di S. Apollinare Nuovo. 493-569. Fra le torri che delimitano il porto sono raffigurate tre navi.


Dossier

L L’

Alto Medioevo è un’epoca importante nella storia della navigazione poiché si presenta come un periodo di transizione e, al tempo stesso, d’evoluzione per quanto riguarda le tecniche marinaresche. Secondo la tesi esposta dallo storico Henri Pirenne (1862-1935) nel suo Mahomet et Charlemagne, pubblicato postumo nel 1937, la fulminea espansione araba nel Sud del Mediterraneo interruppe o comunque ostacolò i commerci tra le diverse sponde del Mare Nostrum, creando una depressione che fu superata solo nei secoli successivi. In realtà, l’archeologia proverebbe che la causa del ridimensionamento dei traffici internazionali non andrebbe attribuita all’espansione araba poiché la crisi era iniziata prima della metà del VII secolo.

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Occorre inoltre operare una distinzione tra piccolo commercio locale e scambi internazionali. Per esempio, i ritrovamenti di ceramiche a vetrina pesante fanno pensare che tra IX e X secolo nel Tirreno settentrionale vi fosse una certa circolazione di merci. Lo spartiacque per quanto riguarda la storia del commercio, in special modo marittimo, si colloca dunque tra la seconda metà del VII secolo e la prima metà dell’VIII, periodo in cui le conquiste arabe subiscono una battuta d’arresto.

Una fase di contrazione

Nel IX secolo sono pressoché inesistenti scambi marittimi regolari tra il mondo arabo-musulmano e la cristianità. Venezia manteneva un canale di comunicazione navale con Bisanzio e cosí Amalfi. Il

tonnellaggio delle navi viene quasi dimezzato e le imbarcazioni sono piccole, di poca portata, adatte quasi esclusivamente alla navigazione sottocosta e commerci piú circoscritti. Rari navigli trasportano prodotti di lusso: il papiro, il pepe, raffinate qualità di vino. Niente a che vedere con l’epoca precedente. È ancora Pirenne a insistere, infatti, sulla vitalità degli scambi commerciali molto fiorenti nel IV e V secolo, ma assai ridotti a partire dalla metà del VII. La situazione cambia con la conquista dell’Africa da parte dei Vandali, provenienti dalla Spagna, in particolare dall’Andalusia, dove avevano appreso i rudimenti della navigazione e avviato i primi contatti costieri con quelle genti in grado di renderli edotti in fatto di cabotaggio e disposte a sfidare le

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Ricostruzione di un dromone bizantino, imbarcazione sottile e allungata, bireme, ma dotata anche di vela. Nella pagina accanto mosaico raffigurante l’arrivo di san Marco ad Alessandria. XIII sec. Venezia, basilica di S. Marco, Cappella Zen. In basso ricostruzione di un veliero da trasporto bizantino, con due grossi remi laterali e vela triangolare latina.

severissime leggi che prevedevano la pena capitale per chi fornisse uomini, conoscenze e mezzi ai barbari per la costruzione di navi. Nel 426 i Vandali attaccano le Baleari e la Mauretania, corrispondente all’attuale Marocco e parte dell’Algeria, e due anni piú tardi si impadroniscono del piú importante porto iberico, quello di Cartagena.

Avevano imparato a costruire imbarcazioni piuttosto piccole e agili, in grado tuttavia di trasportare molte persone. Quando Genserico riuscí a impadronirsi dell’Africa romana e a impiantarvi insediamenti stabili, si serví di queste navi per trasportare tutto il suo popolo. La navigazione dalla Spagna al porto di Tangeri non fu lunga,

né complessa. Conquistata buona parte dell’Africa settentrionale, i Vandali, che avevano nel frattempo distrutto Leptis Magna, diedero vita a scorrerie marittime in Sardegna e, nel 440, Genserico sbarcò in Sicilia. Le continue incursioni dei Vandali fin nell’Egeo e nell’Epiro testimoniano del grado di sviluppo della loro marineria, capace di rendere irregolari e pericolosi i traffici commerciali nel Mediterraneo.

Parassiti dell’economia

La flotta vandala si spinse persino nell’Oceano Atlantico; scopo principale era il saccheggio e la conquista del bottino. I Vandali furono pertanto anche pirati e il pirata è in fondo il testimone, per quanto contraddittorio, delle attività e delle difficoltà del commercio, in un certo senso anche del suo scadimento. Il pirata vandalo, come del resto quello delle epoche successive, è alla fine un parassita della normale economia, un caso limite e tipico al tempo stesso dell’interazione tra il mare e le società terrestri. Anche per questo i pirati, con-

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Dossier Miniatura raffigurante un traghetto che attraversa il fiume Gagos, da un’edizione del Kitab al-hashaish, traduzione araba del De Materia Medica di Dioscoride. 1224. Copenaghen, Davids Samling.

siderati una delle maggiori iatture presenti nel Mare Nostrum, furono una costante di tutta l’epoca medievale e oltre. I barbari guidati da Genserico salpavano dunque dal porto di Cartagine, conquistata nel 439, per dar luogo a scorrerie in tutto il Mediterraneo del Sud, ma anche in Corsica e in Sardegna. Utilizzavano piccoli dromoni, piuttosto agili, che permisero loro, tra l’altro, di sconfiggere la flotta bizantina nel Mare di Sicilia. Il dromone, o dromen, fu utilizzato come nave da guerra tanto dai Vandali quanto dai Bizantini. Occorre sottolineare che nell’Alto Medioevo non si registrarono significative innovazioni nel campo

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della tecnica e della tipologia navale. Quest’epoca ereditò dalla tarda antichità romana i vari tipi di nave e li trasmise alle Repubbliche marinare italiane. In tale periodo, vi fu una lenta evoluzione nella tipologia delle imbarcazioni, ma sostanzialmente il modello tardo-romano restò prevalente. Il dromone bizantino somiglia pertanto alla liburna romana. I documenti ci permettono di stabilire, sebbene con una certa approssimazione, che si tratta di una nave di forma piuttosto allungata, che misura circa 40 m in lunghezza e 7 in larghezza.

Venti remi per fila

Di forma sottile, lo scafo è composto da un’unica grande trave centrale, la chiglia, che fa da spina dorsale all’imbarcazione da cui si irradiano le «ossature» laterali che danno forma allo scafo e vengono poi fasciate con lunghe tavole di-

sposte in senso longitudinale. La struttura era tenuta insieme e resa stabile dal «calafataggio», ovvero mediante la frapposizione di stoppa e di una copertura di pece. Si tratta di biremi, con due file sovrapposte per ogni fiancata. Ogni fila era composta da piú di venti remi. Tramite questa spinta propulsiva, pari a quasi cento braccia, l’imbarcazione poteva raggiungere la velocità di cinque-sei miglia marine l’ora. I dromoni possedevano anche la vela. Montata sull’albero centrale, l’unico della nave, di forma dapprima rettangolare, col tempo divenne triangolare, e fu detta «vela latina». Come in tutte le altre navi di questo periodo, il timone era composto di due grandi remi posti sulle due fiancate a poppa. Il dromone rimase in auge fino al Mille, poiché sul declinare dell’Alto Medioevo si fece largo quella che diverrà in breve la regina delle flot-

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te: la galea. Fino ad allora tutte le imbarcazioni erano state concepite sul modello del dromen: di minor grandezza e con un solo ordine di remi, la chelandia; molto piú grande del dromone e provvisto di ben duecento rematori, il panfilo.

Snella e veloce

La galea fu, almeno all’inizio, visto che la sua è una storia di lunghissima durata, una via di mezzo tra chelandia e dromone, e uscí dagli arsenali bizantini alla fine dell’Alto Medioevo. Il suo nome deriva dal greco galeos, pesce spada, a sottolinearne la velocità e le forme dinamiche e snelle. È una nave da guerra. Pur avendo una lunghezza simile a quella del dromone, era larga appena 5 m o poco piú: strutturalmente piú leggera delle altre imbarcazioni, la sua linea di galleggiamento era molto bassa. I remi erano posti in un solo ordine, ma il numero dei rematori – 100 o 200 – era comunque molto elevato. Per quanto riguarda l’altro aspetto della navigazione, ovvero il trasporto mercantile e dunque il commercio, i Bizantini utilizzavano velieri di forma rotondeggiante, lunghi circa 20 m e larghi 5. Due grossi remi laterali servivano a governare la nave che aveva una vela triangolare latina. La piú famosa tra queste imbarcazioni fu l’acazia, una nave da carico che incontriamo per tutto l’Alto Medioevo, un po’ come il dromone come nave da guerra. Anch’essa deriva dalla liburna romana, sebbene piú piccola e piú leggera. In quest’epoca le navi mercantili viaggiavano a vela per risparmiare sul costo dei rematori e l’acazia possedeva due, anche tre alberi con vele in un primo tempo rettangolari e poi triangolari. Le acazie del primo periodo

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In alto miniatura raffigurante una battaglia navale, da un’edizione francese del Decameron. 1427. Parigi, Bibliothèque nationale de France. A sinistra catino in maiolica tunisina raffigurante una nave a vela latina, dalla chiesa pisana di S. Michele degli Scalzi. XIIXIII sec. Pisa, Museo Nazionale di San Matteo.

dizione di circa 10 000 uomini e 6000 cavalli. Piú di quattro secoli dopo, nel 960, nel corso della guerra che Bisanzio condusse per strappare agli Arabi l’isola di Creta, fu messa in mare una flotta di 1500 navi da carico insieme ad altrettante navi da guerra. erano prive o quasi del ponte di coperta, che comparve solo in un secondo tempo. Le navi da trasporto venivano talvolta impiegate anche per la guerra. La produttività dei tanti cantieri navali sparsi per il Mediterraneo non fu inferiore, nell’Alto Medioevo, a quella del periodo romano. Ne è testimonianza il fatto che, nel 533, l’imperatore Giustiniano, per sconfiggere i Vandali in Africa, riuscí a far confluire nelle acque del Bosforo ben 500 navi mercantili che trasportarono un corpo di spe-

Una «mutazione antropologica»

Insieme allo sviluppo delle tecniche di costruzione e di navigazione, si ha, intorno al IX secolo, un’evoluzione, o meglio una «mutazione antropologica» degli uomini che vanno per mare, soprattutto sulle galee da trasporto. Compare la figura del mercante-marinaioguerriero che trasformò profondamente e fece sviluppare i commerci mediterranei. Questi uomini conducevano personalmente le loro navi, sapevano individuare gli scali piú adatti a un determinato

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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

L’arazzo di Bayeux

Una cronaca fedele Convenzionalmente nota come «arazzo», la tela ricamata di Bayeux (Normandia), è il piú esauriente documento storico sull’invasione dell’Inghilterra del 1066. È inoltre un documento di inestimabile valore per conoscere la vita dell’epoca, anche nei minimi particolari. Non si tratta di un arazzo nel senso tecnico della parola, bensí di un ricamo ad ago delineato attraverso fili di lana di otto differenti colori, su una banda di tela di lino grossolano lunga 70 m e larga circa 50 cm. Vi si illustra la storia della conquista dell’Inghilterra da parte di Guglielmo il Bastardo, duca di Normandia, detto poi il Conquistatore e, in dettaglio, la battaglia di Hastings del 14 ottobre 1066. Occorre tuttavia

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Particolare della tela ricamata (piú nota come «arazzo») di Bayeux raffigurante una delle navi della flotta di Guglielmo in viaggio alla volta di Pevensey. XI sec. Bayeux, Musée de la Tapisserie.

sottolineare che buona parte delle immagini riporta avvenimenti accaduti prima della conquista normanna dell’Inghilterra. Sono 126 i personaggi presenti e ogni scena rappresentata è arricchita da un commento in latino. Con tutta probabilità fu realizzato in una bottega inglese, su commissione di Odone di Conteville, fratellastro di Guglielmo e da questi nominato vescovo di Bayeux nel 1059, per ornare la navata della cattedrale della città. Alcuni sostengono che la tela fu tessuta da Matilde di Fiandra, moglie di Guglielmo, con le sue dame, ma questa tesi non trova un convincente supporto documentario. C’è discussione tra gli storici sul luogo

di fabbricazione di questo prezioso documento: per alcuni fu realizzato nel Kent, per altri a Winchester, nell’Hampshire, venti o trent’anni dopo gli avvenimenti riportati. Fu esposto dunque nella cattedrale di Bayeux, ultimata nel 1077 e, dopo varie vicissitudini, si trova adesso nel museo della cittadina normanna. Anche il vescovo Odone prese parte alla battaglia di Hastings, che richiese una lunga preparazione e una flotta molto numerosa. Sin dai primi di agosto del 1066 i Normanni stazionavano lungo la foce del fiume Dives, presso l’attuale Dives-surMer. Guglielmo aveva già radunato un esercito di 10 000 uomini e agosto

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tipo di commercio e, se necessario, erano in grado di difendere la loro imbarcazione, e dunque i loro interessi, armi in pugno. Veri protagonisti di questo fenomeno furono i Veneziani; amanti del rischio, dotati di una grande fantasia, questi marinai-commercianti-guerrieri spesso salpavano insieme a tutti i membri maschili della famiglia: se avessero perso la nave l’intera stirpe sarebbe scomparsa, se invece avessero avuto successo, essa avrebbe goduto per decenni del benessere e del prestigio sociale che ne sarebbe derivato. Una figura, questa del mercantemarinaio-guerriero, che ritroveremo anche nel mondo islamico. Il marinaio arabo è anch’esso un ottimo combattente e, quanto al commercio, nessuno meglio di un trafficante di Aleppo, di Beirut, di Sidone, di Tiro o dell’Africa settentrionale, sapeva piazzare le proprie merci sui mercati mediterranei. Tra il 632 e il 655, gli Arabi conquistano le province bizantine

2500 cavalli, con i quali intendeva attraversare la Manica e affrontare Harold, incoronato nel frattempo re d’Inghilterra dall’arcivescovo di Canterbury, sul suo terreno. Il 12 settembre circa 700 navi trasportarono l’imponente corpo di spedizione lungo la costa fino a Saint-Valéry, 25 km a est dell’estuario della Somme. Nelle immagini dell’«arazzo» sono rappresentate con grande precisione le navi normanne, lunghe e strette, con poppa e prua eguali, dotate di uno o piú ordini di remi, con un unico albero e vele sia rettangolari che triangolari. Sono undici i pannelli dove si trovano le immagini delle navi normanne, o alcuni singoli particolari di esse.

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dell’Armenia e della Siria, poi si spingono in Persia e si impadroniscono dell’Egitto, assestando un duro colpo all’impero bizantino. Addirittura nel 717 la stessa Costantinopoli fu sul punto di crollare sotto la pressione araba. Fu allora che l’imperatore Leone III Isaurico pose mano alla riorganizzazione della marina imperiale, dal momento che il pericolo maggiore proveniva dal mare.

La marina araba

È un peccato che il divieto tassativo di ogni raffigurazione ci abbia privato della possibilità di avere una conoscenza grafica delle navi arabe dei primi secoli dopo l’Egira. Si può comunque affermare che, benché gli Arabi prima dell’islamizzazione fossero già buoni navigatori – basti pensare ai marinai dello Yemen –, la marina islamica è debitrice delle esperienze navali dei Paesi conquistati. La denominazione delle navi arabe proviene da quella greca. Gli adrumunun traggono origine dai dromoni, gli shalandi dalle chelandie. Le navi da guerra arabe erano tuttavia piú grandi e meno veloci dei dromoni, per cui, nelle guerre navali contro i Bizantini, cercavano l’abbordaggio per arrivare il prima possibile al corpo a corpo e togliere cosí alla flotta nemica il vantaggio rappresentato dalla maggiore manovrabilità delle sue imbarcazioni. Le navi da trasporto erano a vela e gli Arabi inizialmente impiegarono lo stesso tipo di quelle usate dai Bizantini. Si chiamavano qarib, dal greco kàrabos. In seguito furono introdotte nuove imbarcazioni, come la tarida, che pare derivasse da un modello di piroga molto usata in Egitto. Sempre per il trasporto venivano utilizzati i qunbar, velieri governati da remi laterali e provvisti di vele latine. Un altro veliero usato dagli Arabi è il khinzira. Spesso le razzie della marina araba miravano a procurarsi la materia prima, ossia il legname,

per costruire navi, che nei loro domini cominciava a scarseggiare. La conquista di Creta, della Sicilia, di Bari hanno certamente avuto motivazioni diverse, cosí come i raids in Sardegna e Corsica, ma la ricerca del legname ha sicuramente rappresentato una spinta. Per tornare alle imbarcazioni arabe, uno dei massimi studiosi europei di storia della navigazione, Marco Tangheroni (1946-2004), sostenne che, in riferimento ai secoli XII e XIII, «due bacini ceramici, utilizzati a Pisa nella decorazione delle chiese, ma di importazione islamica, raffigurano due velieri, uno a una sola vela latina, l’altro a tre alberi, con le vele latine quello maestro e di prua, con la vela quadrata quello di poppa; in questo secondo bacino è dipinta anche un’imbarcazione a remi con una piccola vela a triangolo rovesciato sull’unico albero. Dei due velieri, il secondo ha forma disimmetrica, il primo simmetrica con alte terminazioni curvilinee a poppa come a prua». Il Libro delle meraviglie dell’India prova come i piloti arabi fossero in grado di fare calcoli molto precisi riguardo le condizioni di navigazione e la rotta, tramite l’osservazione del sole e delle stelle. Alcuni dei piú importanti testi di navigazione sono arabi. Il passaggio della terminologia nautica araba in Occidente e dunque nel Mediterraneo, è attestato dal linguaggio acquisito dalle Repubbliche marinare: il veneziano, il genovese, il pisano. Ammiraglio, per esempio, deriva dall’arabo amêras, che vuol dire capo d’armata, mentre sempre dall’arabo dar as-sina, proviene, con successivi adattamenti, l’italiano «arsenale» e anche «darsena». Uno dei porti islamici piú importanti nell’Alto Medioevo, e non solo, fu quello di Alessandria, che gli Arabi stessi restaurarono dopo un breve periodo di decadenza. Altri degni di nota sono nel Maghreb, in Siria e nella Spagna musulmana.

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Dossier Nella Penisola Iberica troviamo Almeria, Malaga e poi Denia. Nell’Africa del Nord spiccano i porti di Tripoli e Tunisi, mentre, sulla costa siriana, d’eccellenza è quello di Tiro.

Gli uomini delle baie

Ma la storia della navigazione nell’Alto Medioevo non si arresta al Mediterraneo, e in particolare alla sua area sud-orientale. Nel Nord Europa, il Mare del Nord e lo stesso Oceano Atlantico erano solcati dalle grandi navi vichinghe. I Vichinghi erano popolazioni d’origine germanica, poi stabilitesi nella Penisola Scandinava, dove assunsero il nome di Danesi, Norvegesi e Svedesi. Il termine «vichingo», da vik, baia, significa «uomo delle baie» e veniva usato per indicare quei popoli del Nord Europa che pirateggiavano, tra VII, VIII e IX secolo, sulle coste inglesi, francesi e tedesche. A partire dalla seconda metà del IX secolo e nel X, una volta stanziatisi in Normandia,

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vennero chiamati Normanni (uomini del Nord) e questa denominazione è ampiamente riportata dai cronisti franchi. Quanto alle origini, il dibattito tra gli studiosi è ancora aperto. La Scandinavia era stata considerata il punto di partenza degli invasori germanici e da qui derivarono le identificazioni con i Marcomanni, i Vandali, gli Scito-Sarmati. Ancora Marco Tangheroni, pur invitando alla prudenza, riporta l’ipotesi avanzata da Durone di San Quintino, il quale «scopre le corrispondenze tra i Daci e i Danesi, i Norici e i Norvegesi, gli Svevi e gli Svedesi». Nel 911 Rollone, conquistatore

La battaglia di Svolder, olio su tela di Nils Bergslien. 1900. Collezione privata. Lo scontro si combatté nell’anno Mille tra il re Olaf Tryggvason di Norvegia e la vittoriosa alleanza tra il re di Danimarca, il re di Svezia, e lo Jarl di Lade.

della Normandia, accettò di diventare vassallo del re di Francia, Carlo il Semplice, fondando il ducato di Normandia, che sarà la base di partenza per la conquista dell’Inghilterra portata a termine da Guglielmo il Conquistatore nel 1066, dopo la battaglia di Hastings. I Vichinghi disponevano di una tecnica marinara superiore sia nella costruzione delle navi sia nella capacità di orientarsi, tanto da essere in grado di effettuare lunghe traversate. I loro battelli dalle caratteristiche prue, i Drakkar, cosí chiamati a causa della prua ornata da una testa di drago o di mostro, erano capaci di trasportare fino a un centinaio di uomini. C’erano poi altri tipi di navi: lo Skeidh o

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la pirateria

Un’«arte» dalle origini antiche I romanzi d’avventura ci hanno consegnato un cliché forse suggestivo ma irreale del pirata, spesso, oltre tutto, confuso col corsaro. In realtà, la pirateria, legata, com’è ovvio, alla navigazione ma anche al commercio, attraversa le varie epoche storiche: dall’antichità fino al XIX secolo. Dunque, anche l’Alto Medioevo. Nell’antichità, i piú abili in quest’«arte» erano stati gli Egizi, nonché i Fenici che usavano navi molto leggere, veri capolavori della tecnica, ed erano inoltre provetti marinai. Piombavano all’improvviso sulle navi indifese e sulle città costiere saccheggiando, rapendo le donne, uccidendo gli uomini e catturando schiavi da vendere sui mercati d’Oriente. Nell’Alto Medioevo, i primi pirati a comparire all’orizzonte furono nel V secolo i Pitti della Scozia, che presero a compiere razzie in Irlanda e Inghilterra. Si annidavano nelle scogliere delle loro inospitali coste per lanciarsi in incursioni rapide e improvvise. I loro bersagli preferiti erano le ricche ville romane, gli arredi preziosi conservati nelle chiese, il bestiame ben pasciuto nelle campagne dell’Isola. Ma ancora piú feroci dei Pitti furono i pirati Angli, provenienti dallo Jutland, che piombarono sulle coste della Britannia seminando terrore e devastazione. Nel 442, dopo aver fiaccato la resistenza delle popolazioni locali, gli Angli intrapresero la conquista dell’Isola. Dai fiordi della

Scandinavia, dalle spiagge della Danimarca e dalle impervie coste dell’Atlantico, tra VIII e IX secolo, partivano i pirati vichinghi per saccheggiare le coste della Francia, della Germania e dell’Inghilterra. La loro prima apparizione è del 789, allorché alcune navi vichinghe si presentano al largo della costa del Dorset in Inghilterra: sbarcarono una agguerrita pattuglia di uomini che si diedero al saccheggio per poi ripartire col bottino. Sull’albero dei vascelli pirati dei Vichinghi sventolava la bandiera bianca in cui campeggiava un’aquila azzurra con gli artigli spiegati. Mentre i mari del Nord Europa erano infestati dai pirati angli e vichinghi, anche nel Mediterraneo la pirateria riprendeva vigore. Dopo essersi insediati in Spagna, i Vandali iniziarono le loro scorrerie sulle rive del Marocco, della Tunisia e dell’Algeria. Miravano al bottino, ma anche a indebolire e possibilmente distruggere la classe dirigente romana, per sottomettere piú facilmente le popolazioni. La pirateria araba nell’Alto Medioevo fu un vero flagello. I pirati saraceni partivano dall’Africa del Nord e dall’Asia Minore giungendo sulle coste occidentali: nell’846 arrivano fino alla foce del Tevere. Le Baleari, prima che i Pisani le riconquistassero, all’inizio del XII secolo, erano un attivissimo centro della pirateria islamica, che da lí salpava per saccheggiare le coste spagnole. Non a caso, i Pisani ebbero ragione dei pirati islamici anche grazie all’alleanza col conte di Barcellona Ramon Berenguer.

Knšrr, che portava una quarantina di uomini e in piú i cavalli, i viveri e il carico per i commerci; era lungo all’incirca 10 m e largo 3.

Forme peculiari

Nella maggior parte dei casi si trattava di imbarcazioni prive di ponte, con un pescaggio ridotto che ne consentiva l’utilizzo anche nei fiumi dalle acque poco profonde, cosí da poterli facilmente risalire sorprendendo le popolazioni anche lontano dal mare. Le navi vichinghe possedevano una struttura assai caratteristica: forma allungata e simmetrica, prua e poppa praticamente eguali per poter piú facilmente invertire la marcia, specie nella navigazione fluviale. I Vichinghi utilizzavano inoltre la

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Ferja, una nave adatta alla pesca, lunga circa 12 m e larga 2 e mezzo, la Karfi, molto veloce, lunga all’incirca 18 m, e infine la Skuta, una nave da cabotaggio, adatta a ogni impiego, lunga 13 m e larga circa 3. La nave è dunque la fedele compagna del guerriero vichingo. Persino sui monumenti funebri si trovano pietre a forma di nave e i nobili erano usi farsi seppellire nelle loro imbarcazioni tirate a riva e ricoperte da un tumulo di terra. Le piú antiche imbarcazioni dei Norvegesi e dei Danesi erano formate da uno scafo costruito con tavole prese da un solo tronco e impiegavano esclusivamente i remi. Intorno al IX secolo compaiono le velature e si perfeziona la chiglia che, con la struttura a «T», permet-

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Dossier A destra, dall’alto ricostruzione e pianta di un drakkar vichingo a 32 remi. In basso, sulle due pagine la nave vichinga di Oseberg (Norvegia). Oslo, Museo delle Navi Vichinghe. Costruita intorno all’820, l’imbarcazione, quattordici anni piú tardi, fu tirata in secca e quindi ricoperta da un tumulo, ricavandone una camera funeraria utilizzata come sepoltura femminile, forse per la regina Åsa Haraldsdottir di Agder.

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Particolare della testa d’animale scolpita come terminale di uno dei quattro pali in legno di questo tipo rinvenuti nella sepoltura contenuta nella nave di Oseberg. IX sec. Oslo, Museo delle Navi Vichinghe.

terà una maggiore stabilità dell’imbarcazione, anche in condizioni di vento sfavorevoli. Insieme alle vele venivano utilizzati anche i remi, sei paia per le navi piú piccole, fino a trentadue per le piú grandi. La loro nave-tipo si chiamava Tvitugsessa, che significa «nave a venti sedili». Vi erano poi le imbarcazioni usate per il commercio, provviste di una chiglia piú grande, piú larghe e un po’ meno lunghe, all’incirca 20 m. L’equipaggio era composto da non piú di 10 uomini. Queste navi avevano un solo albero a vela quadrata e come timone un unico, grande remo. In grado di navigare in alto mare, la loro capacità di carico era di 3-4 tonnellate. I marinai vichinghi erano anche abilissimi guerrieri, usavano scudi circolari che durante la navigazione erano posti all’esterno delle fiancate e, inoltre, erano dotati di

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lunghe spade a doppia lama. A partire dall’XI secolo, i Vichinghi presero a trasportare sulle loro imbarcazioni anche i cavalli, elemento che aumentò le capacità offensive delle loro armate. In seguito, le lunghe navi da guerra furono migliorate grazie a una tecnica di costruzione piú evoluta, detta «a clinker»; la struttura portante era costituita da tavole sovrapposte tenute insieme da funi cosparse di pece e legate alle costole da vimini che passavano attraverso cunei tagliati tra le assi. In tal modo, la manovrabilità e al tempo stesso la resistenza alle tempeste furono incrementate. Con queste imbarcazioni, Guglielmo, duca di Normandia, attraversò la Manica per raggiungere e conquistare l’Inghilterra, come si può vedere ancora oggi nell’arazzo di Bayeux (vedi box alle pp. 76-77).

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Miniatura raffigurante navigatori in viaggio nell’Oceano Indiano che si orientano con le stelle e un astrolabio, da un’edizione del Livre des merveilles di Marco Polo. 1410-1412 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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L’

LE QUATTRO REGINE DEL MEDITERRANEO MEDIOEVO

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XI secolo segna la grande ripresa della vita e dell’economia urbane e il definitivo decollo del commercio. Tutto ciò coincide con la generale fioritura della civiltà europea e con il forte sviluppo della circolazione di merci e uomini. Ma l’enorme incremento dei traffici mediterranei non sarebbe del tutto comprensibile e non avrebbe avuto le dimensioni che ha avuto senza la rapida evoluzione del commercio marittimo. La navigazione a scopi commerciali contribuí all’allargamento degli spazi geografici, determinò un nuovo orientamento dei traffici, ne mutò assetto e connotati, sia in termini quantitativi che qualitativi. Un vero e proprio salto di qualità che portava con sé l’esigenza di recuperare il terreno perduto nei confronti degli Arabi musulmani, dominatori di buona parte del Mediterraneo, in specie dell’area meridionale e orientale; senza contare che la marineria islamica organizzava con frequenza sempre maggiore pericolose incursioni anche nel Nord del Mediterraneo, verso il medio e l’alto Tirreno. Sebbene gli scontri tra le città marittime e le flotte arabe siano iniziati ben prima dell’XI secolo, fu tuttavia la fulminea espansione di due città costiere come Pisa e Genova a contribuire in modo determinante alla progressiva fine della supremazia araba nel Mediterraneo. Il che non significò affatto la scomparsa delle marinerie islamiche dal Mare Nostrum, ma un notevole cambiamento degli assetti geopolitici e geoeconomici, accompagnato peraltro da nuovi rapporti tra la cristianità e l’Islam. Si pensi anche che, di lí a poco, sarebbe partita la prima spedizione crociata. Il successo della «riconquista cristiana» fu senza dubbio dovuto anche a fattori interni di divisione e dunque di debolezza del mondo musulmano; in meno di un secolo, tuttavia, le spedizioni marinare

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Dossier organizzate da Pisa e Genova, prima per acquisire sicurezza nella navigazione e poi per stabilire il proprio predominio sul Tirreno e in seguito sul Mediterraneo centro-occidentale, assestarono un durissimo colpo ai potentati arabi. Lo storico inglese Arnold Toynbee (1889-1975) individuò, tra i fattori che contribuirono a sancire la fine della supremazia araba nel Mediterraneo, il meccanismo di «sfida e risposta» delle nascenti potenze marinare a fronte della pressione islamica, capace tra l’altro di conferire a Genova e Pisa «una eccezionale forza di attrazione nei riguardi delle forze esterne». Tra il 1061 e il 1090 vengono riconquistate la Sicilia e Malta. Nel 1064 i Pisani saccheggiano il porto di Palermo. In precedenza Genovesi e Pisani, nel 1015-16, erano intervenuti in Sardegna per impedire che i musulmani costituissero uno Stato islamico sull’isola. Nel 1034, ancora i Pisani erano giunti fino in Africa e avevano attaccato la città di Bona, mentre nel 1087, insieme ai Genovesi, avevano saccheggiato la città di el-Mahdiah a nord del golfo di Gabes, capitale di un pericoloso regno corsaro. Talvolta accadeva che, insieme ai proventi dei saccheggi, i marinai ri-

portassero anche preziose reliquie, oppure che le ricchezze ricavate da un’incursione venissero devolute in opere pie.

Il dominio dei Rum

Si delineava in tal modo una stretta connessione tra l’aspetto economico e il fervore religioso, che rappresenta un’importante caratteristica del contributo delle città marinare, per esempio alla crociata, nonché a imprese come la spedizione e riconquista delle Baleari portata a termine dai Pisani tra il 1113

e il 1115. A sancire l’avvenuto passaggio di consegne in merito alla supremazia nel Mediterraneo, è il geografo arabo di Gerusalemme alMuqaddasi che, alla fine del X secolo, afferma: «Sono i Rum ad avere il controllo di questo mare e a imporre in esso il timore». Amalfi fu la piú antica fra le Repubbliche marinare. Ancor prima di Venezia, si era di fatto resa autonoma da Bisanzio, pur riuscendo a salvaguardare la propria indipendenza dai Longobardi che controllavano gran parte della

In alto una cocca da trasporto, imbarcazione in uso nel X-XIII sec. A sinistra le Tavole Amalfitane. Amalfi, Museo della Bussola e del Ducato Marinaro. Nella pagina accanto Veduta di Genova nel 1481, dipinto di Cristoforo Grassi. 1597. Genova, Galata Museo del Mare.

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Una galea veneziana Q

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Ricostruzione di una galea del tipo di quelle in dotazione della flotta di Venezia nel XIV secolo: A. proda; B. sperone; C. coperta; D. stiva; E. fondo con zavorra mobile: costituita da pietre e sabbia, poteva essere rimossa per pulire le sentine; F. forcata; G. corsia; H. pavesata; I. schermo, scalmo al quale venivano legati i remi; L. banco; M. posticcio: questa sorta di cornice lungo le fiancate della galea era il punto piú avanzato dove venivano fissati i remi e poteva costituire un camminamento per i balestrieri a bordo; N. vela latina serrata; O. antenna; P. albero maestro; Q. coffa di maestra; R. albero di mezzana; S. cucina; T. castello di poppa.

Campania. Nell’812 galee amalfitane erano intervenute contro i Saraceni in soccorso del governatore della Sicilia bizantina in lotta contro l’emiro Kairoum Abu al-Abbas. Nell’872 la città mise di nuovo la sua flotta a disposizione dell’imperatore Ludovico II per liberare il vescovo di Napoli Attanasio, tenuto prigioniero dai musulmani sull’isola del Salvatore. Come premio, Amalfi ottenne l’isola di Capri. Dopo ripetuti scontri con gli Arabi – contro i quali conseguí nelle acque di Ostia una vittoria decisiva nell’849 – Amalfi scelse una politica di equilibrio tra le potenze interessate al dominio del Mediterraneo, concludendo trattati commerciali sia con i musulmani d’Africa, di Spagna e di Sicilia, sia con i Bizantini. Nell’879 fu stilato un trattato di amicizia con i Saraceni, che assicurava ad Amalfi la libertà di commercio nel Mediterraneo, ma, poco piú tardi, la Repubblica riprese la lotta contro i musulmani, appoggiando con le sue navi il principe di Capua Atenolfo I.

Portolani e bussole

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Lo sviluppo delle tecniche di navigazione raggiunto da Amalfi è testimoniato non solo dalla vastità dei suoi traffici marittimi, ma anche dall’abilità dei suoi navigatori: agli Amalfitani si devono infatti l’aver raccolto per primi il materiale per disegnare i portolani, la diffusione della bussola, già nota ai Cinesi e agli Arabi, e le famose Tavole Amalfitane, il primo codice di navigazione e di commercio marittimo, che restò in vigore per secoli. Amalfi fu la prima potenza marittima mediterranea a possedere fin dall’XI secolo un arsenale, in cui si costruivano le galee da combattimento, imbarcazioni assai lunghe e agili, dotate di centoventi remi. Le navi mercantili erano invece di basso cabotaggio e venivano costruite sugli arenili, indicati col termine bizantino di scaria.

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Dossier I fondaci di Venezia

Una città multietnica Molte comunità di stranieri s’insediarono a Venezia a partire dal XII secolo. Vi giunsero soprattutto per ragioni economico-commerciali e non si trattò solo di uomini d’affari, ma anche di interpreti, intermediari, semplici lavoratori salariati. La Repubblica assegnava loro degli che servivano sia come deposito per le merci che per uso abitativo: i fondaci, dall’arabo fonduq, che indica per l’appunto il luogo in cui si abita e nel quale, allo stesso tempo, avvengono gli scambi commerciali. Gli stranieri provenivano principalmente dai Paesi mediterranei e per loro le leggi erano assai dure e le tasse da pagare molto piú salate che per i Veneziani. Tuttavia, la Serenissima assicurava loro la tutela dei beni e il permesso di costruire luoghi di culto, ospizi, case. La presenza dei Mori a Venezia è segnalata fin dal XII secolo. Con il termine Mori si finí per intendere piú generalmente gli Arabi, i quali abitavano in un fondaco andato poi distrutto, situato in prossimità di Madonna dell’Orto, a Cannareggio, nella zona dove oggi si trova il Campo dei Mori. Si ha notizia della presenza in città di un fondaco dei Persiani, vicino Dopo un periodo in cui Venezia restò nell’orbita carolingia, Bisanzio riuscí, tra l’807 e l’810, a riportare tutto l’Adriatico settentrionale,Venezia compresa, sotto la propria egida. Fu questa la svolta decisiva, perché il rapporto privilegiato con Bisanzio permise alla Serenissima di assumere un ruolo preponderante nel commercio marittimo con l’Oriente. I traffici si sviluppavano su due direttrici: una locale, che non si spinse oltre la linea immaginaria che dalle Marche arriva a Zara, l’altra internazionale. Nel primo caso si mosse una miriade di navi – i gondoloni, i burchi, le scaule, i sandoli, le plate e i plati –, che approvvigionavano i centri minori sotto tutela veneziana, trasportando vino, olio, sale e grano. I plati, con una carena piuttosto larga, timoni laterali, due ancore e due alberi, avevano un raggio d’azione piú vasto, si spingevano infatti fino nel

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al ponte di Rialto, andato distrutto nel 1600, ove si commerciavano merci molto preziose per i Veneziani, come le spezie e i famosi tappeti. I primi Ebrei, invece, approdarono a Venezia intorno alla metà del XIV secolo, da clandestini, e solo nel 1381 la Repubblica diede il nulla osta a questi insediamenti, subordinato all’osservanza di regole ben precise: gli Ebrei dovevano stipulare un contratto temporaneo con lo Stato veneziano, la «condotta», che fissava il periodo di residenza e l’onere finanziario. Con le prime condotte venne disposto che gli Ebrei gestissero i banchi di pegno ed effettuassero prestiti a usura, poiché ai cristiani era proibito. Essi erano obbligati a svolgere queste attività e a versare gran parte degli interessi alla Repubblica. Dal 1397, fu loro imposto di portare un segno distintivo: un turbante o un cappello di colore giallo, oppure un cerchio giallo appuntato sull’abito. Nei pressi di piazza S. Marco si trova poi la chiesa di S. Croce degli Armeni, l’unica rimasta funzionante a Venezia dal Medioevo, a testimoniare la presenza in città di questa comunità, documentata fin dal XIII secolo.

Peloponneso. Un sandolo lo ritroviamo addirittura nel Mar Nero. Le imbarcazioni impiegate per le rotte internazionali non si differenziano molto, salvo alcune varianti, dalla tipologia in voga negli altri Paesi mediterranei. Le fonti documentarie ci parlano prima di tutto delle taride, dei banzoni, delle buzonavi.

Navi di Stato

Un fattore di grande importanza è che a Venezia era presente una vera e propria Marina di Stato con compiti prevalentemente militari, che tuttavia veniva impiegata anche per i controlli doganali ma che in genere rimaneva estranea ai traffici commerciali. L’imbarcazione piú importante della Marina di Stato veneziana è senz’altro la galea: le sue varianti, la sagittéda e il galeone. La sagittéda o saettía, aveva, come la galea, un solo albero con vela latina ed era molto veloce grazie alla forma slanciata e

Incontro dei fidanzati e partenza per il pellegrinaggio (particolare), telero (tempera su tela) dipinto per le Storie di sant’Orsola da Vittore Carpaccio. 1495. Venezia, Gallerie dell’Accademia. La nave inclinata sul fianco mostra una delle attività tipiche del porto veneziano, cioè il calafataggio per riparare le falle.

ai cinquanta remi di cui era equipaggiata. Il galeone differiva dalla galea, almeno in questo periodo, solo per la grandezza. Poteva imbarcare fino a centocinquanta uomini e aveva ottanta remi. Piú piccole erano le vacchette e i barcosi, questi ultimi erano la versione per la navigazione d’alto mare delle scaule, navi armate alle quali era assegnata la vigilanza doganale: venivano utilizzate per pattugliare l’imboccatura dei fiumi, porta d’ingresso per la terraferma. La flotta di Stato rivestiva inoltre grande importanza per il servizio di scorta che svolgeva nei agosto

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Dossier Porto Pisano all’inizio del XIV secolo Per assorbire il traffico dei velieri di grosso cabotaggio che dalla fine dell’XI secolo furono impiegati in Europa al fianco delle snelle galee, Pisa ampliò Porto Pisano e lo cinse di mura e di torri. Dalla grande torre fanale, con funzione di faro (1), partiva una catena che veniva tirata fino alla prima delle tre torri e che chiudeva il varco durante l’inattività o in caso di attacco. Fra le navi piú utilizzate per il trasporto di merci vi era la cocca (2), che poteva stazzare fino a 500 tonnellate. Nel corso del secolo, i bastimenti a vela – denominati semplicemente naves – andarono incontro a un crescente gigantismo (3). Molte navi non attraccavano in porto, ma stazionavano in mare aperto. Le merci venivano trasferite su piccole imbarcazioni da trasporto (4) dirette a Pisa attraverso il corso dell’Arno. Nel Mediterraneo, fino al XVII secolo, la nave da guerra per eccellenza fu la galea (5): mossa da esperti rematori, trasportava soldati generalmente armati di balestra.

confronti dei convogli mercantili. I traffici marittimi, specie quelli piú lontani, si svolgevano infatti in convogli – le famose mude – che venivano concentrati in diversi periodi dell’anno, a seconda della stagione piú favorevole. Le due mude piú importanti erano quelle che prendevano il mare in prima-

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vera, nel periodo pasquale, e in autunno. Dalla metà del Duecento si aggiungerà la muda d’agosto. Tuttavia, fino al XII secolo, Venezia aveva sperimentato altri tipi di navigazione. Un certo numero di imbarcazioni navigava isolato, senza convoglio, sia sugli itinerari meno frequentati come quelli ver-

so la Barberia, sia verso il Levante. Spesso queste navi trasportavano merci proibite come legname, ferro, stagno e potevano avere per meta porti inibiti allo scalo, come lo furono per un certo periodo quelli egiziani. I viaggi organizzati al di fuori dei convogli dovevano essere autorizzati dal doge e dal agosto

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Minor Consiglio. Gli approdi piú frequenti di tali spedizioni erano i porti di Cipro, Alessandria d’Egitto, dell’Armenia e della Barberia. I territori paludosi e montuosi che circondavano le città di Genova e Pisa lasciavano loro un solo sbocco: quello verso il mare. E in tale direzione si indirizzò l’e-

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spansione di queste città, che subí un’eccezionale accelerazione tra il X e l’XI secolo, quando la città ligure e quella tirrenica collaborarono contro i musulmani. A differenza di Venezia, dove c’era una Marina di Stato, a Genova le navi erano esclusivamente di proprietà dei privati: le compagnie di navigazio-

ne erano in mano a poche famiglie che detenevano il potere. Elemento comune che contribuí allo sviluppo sia di Genova che di Pisa fu l’elevatissimo livello dei profitti dovuto sia alla possibilità di procurarsi il bottino di guerra attraverso la pirateria e le spedizioni vere e proprie sia alla funzione di

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Dossier cerniera che esse svolsero tra aree commercialmente deboli, come la Sardegna e la Corsica, e le coste spagnole e francesi. È opportuno ricordare che il saccheggio di Palermo del 1064 da parte pisana fece la fortuna della città che, tra l’altro, diede inizio proprio allora alla costruzione della celebre cattedrale.

In Terra Santa

La prima crociata rappresentò, per le Repubbliche marinare, un notevole impegno e un fattore di ulteriore consolidamento nel Vicino Oriente. Genova fu la prima a raggiungere il Vicino Oriente nel 1097, con una flotta piccola, messa in piedi in tutta fretta, richiesta alla città marinara da emissari di Urbano II. Le navi genovesi sostennero la conquista di Antiochia ma non poterono partecipare all’assedio di Gerusalemme poiché furono bloc-

Rilievo di Porto Pisano. 1290. Genova, Museo di Sant’Agostino. Sulla lapide, da sinistra a destra, sono rappresentate la Turris Formicis, sovrastata da una gabbia contenente un braciere ardente, probabilmente eretta contestualmente alle altre torri e utilizzata quale riferimento per la navigazione; quindi, ai lati d’una pesante catena di ferro, le due Turres de Magnali. È poi visibile l’ampia palizzata ad arco, promanante dalla magna domus marinariorum, anch’essa fortificata, e, piú distanziata, una

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torre sopra uno scoglio o una secca, che potrebbe identificarsi con la Meloria (situata, in realtà, a sud-ovest) oppure con la torre della Frasca, volendo tener fede al piano topografico. In tal caso, la visuale rappresentata dalla lapide coinciderebbe con quella che si parava di fronte al navigante che si avvicinava al porto dal cosiddetto «solco di Livorno»: una direttrice marittima sicura, che permetteva d’evitare le secche, nota – come si legge in queste pagine – all’autore del Compasso de navegare. agosto

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In basso il Grifone di Pisa, scultura in bronzo proveniente dalla Spagna islamica. Fine dell’XI-inizi del XII sec. Pisa, Museo dell’Opera del Duomo.

In alto la cosiddetta Carta Pisana, la piú antica carta nautica conosciuta. 1275 circa. Parigi, Bibliothèque Nationale de France.

pisa e l’ oriente

Cosmopolitismo all’ombra della Torre pendente Pisa, in quanto potenza mediterranea, crocevia commerciale tra Occidente e mondo islamico, conserva testimonianza di svariate influenze provenienti dal mondo vicino-orientale. Innanzitutto, è una delle poche città dell’Italia centro-settentrionale ad aver ospitato gli Ebrei fin dalla prima metà del XII secolo. Questa comunità era formata da Ebrei italiani, ma anche da israeliti provenienti dai Paesi islamici. Il suo monumento piú importante, il duomo, è la dimostrazione plastica delle diverse influenze che la città toscana assorbí. La somiglianza tra la cupola del duomo e quella della basilica siriana di S. Simeone è una delle tante dimostrazioni degli influssi arabi sull’architettura pisana. L’uso della policromia, l’organizzazione degli spazi interni e l’articolazione dei colonnati, rimandano sia alla costituzione spaziale delle moschee sia all’architettura costantinopoliana che ritroviamo nella chiesa di S. Sofia. Il grifone che campeggia

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sulla cattedrale, una copia – l’originale è nel Museo dell’Opera del Duomo –, è un’importante opera bronzea di manifattura islamica databile tra l’XI e il XII secolo. L’ipotesi piú accreditata è che sia giunta a Pisa come bottino di guerra forse in seguito alla battaglia delle Baleari (1113-15). Tutto ciò non sarebbe stato possibile se non ci fossero stati intensi rapporti culturali e ricognizioni sul campo da parte degli architetti pisani che sicuramente si servirono della rete commerciale che Pisa aveva stabilito nel Mediterraneo. È certo che in città operassero maestranze islamiche, gli apparati decorativi del Battistero e le tarsie policrome che si trovano nelle chiese di S. Paolo in Ripa d’Arno e S. Nicola lo attestano chiaramente. Che Pisa fosse una città cosmopolita lo sottolinea inoltre il monaco Donizone all’inizio del XII secolo, quando afferma che: «Questa città è sozza per la presenza di Turchi, Libici e anche Parti, i tetri Caldei frequentano i suoi lidi».

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Dossier A destra astrolabio in bronzo di fattura araba proveniente da Toledo. XI sec. Berlino, Staatsbibliothek.

Nella pagina accanto mappa trecentesca del mondo disegnata dal cartografo genovese Pietro Vesconte tratta dal Liber Secretorum Fidelium Crucis del veneziano Marin Sanudo il Vecchio. 1320 circa. Londra, British Library.

Strumento portatile per la navigazione, formato da una bussola e da una meridiana racchiusi in un involucro di legno richiudibile a scatola. XV sec. Madrid, Museo Naval.

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cate nel porto di Giaffa dalla marineria egiziana, partita dal vicino porto di Ascalona. Le navi pisane presero il mare piú tardi, probabilmente nell’autunno del 1098, ma in compenso la flotta era molto piú consistente di quella genovese. Ben 120 imbarcazioni opportunamente armate, con alla guida il vescovo Daiberto, dopo aver fatto tappa in Puglia per svernare a Cipro, raggiunsero la costa siriana e attraccarono a Laodicea. Era il settembre del 1099 e Gerusalemme era già in mano cristiana. Venezia, da parte sua, restò in prudente attesa: i rapporti con l’impero bizantino, che non vide mai di buon occhio i crociati, la indussero a una posizione di cautela. Tuttavia, dopo la conquista di Gerusalemme, la Serenissima giunse nel Vicino Oriente con circa 200 navi e si rivelò un elemento importantissimo per assicurare i collegamenti con l’Europa Occidentale. Ma le protagoniste di questa fase storica, legate alla prima crociata, sono Genova e Pisa le quali, ancora una volta, agirono di concerto. Genovesi, Pisani e Veneziani ottennero ben presto importanti basi e possedimenti nelle città e nei agosto

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territori del Regno Latino d’Oriente. Concessioni molto consistenti le ottennero i Genovesi, tra cui la libertà di azione delle proprie navi, compresa la pirateria, oltre a importanti esenzioni doganali. I Pisani contribuirono alla conquista delle città di Cesarea e Arsuf, nel 1101, e anche a quella di Acri e di Laodicea. In cambio, Pisa ottenne la concessione di un quartiere nella stessa Laodicea e uno ad Antiochia, oltre alla completa libertà di navigazione e l’esenzione da tasse portuali nell’area controllata da Tancredi d’Altavilla, che tali privilegi aveva accordato ai Pisani.

Nomen omen

L’imbarcazione piú comune utilizzata a Genova come nave da carico per tutto il XII secolo, ma anche nei decenni precedenti, è chiamata navis e presenta caratteristiche assai simili a quelle di altre città mediterranee: di forma tondeggiante, è dotata di un albero maestro a prua e di uno a poppa. Entrambi hanno vele latine e due timoni laterali a poppa. Verso la fine del XII secolo le imbarcazioni genovesi avevano quasi tutte due ponti, salvo qualche eccezione. Erano inoltre dotate di un castello di prua e uno di poppa, e anche di cabine per ospitare passeggeri di riguardo. Lunghe all’incirca 24 m, larghe 7 e con 3 m e mezzo circa di profondità, erano in grado di trasportare da 100 a 150 tonnellate marine e le piú grandi avevano un equipaggio di 100-120 marinai. La navis era usata in prevalenza per il trasporto di merci, raramente veniva impiegata in guerra o per la pirateria poiché assai lenta e priva dei remi ausiliari.

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Se la navis era l’imbarcazione piú grande, a Genova si avevano anche, in ordine decrescente di grandezza: la galea, la sagitta, il galeotus o golabum. La galea era piú stretta e piú lunga rispetto alla navis e quindi anche piú veloce. Dotata di remi, da 20 a 80, secondo la grandezza, era inoltre fornita di due alberi con vele latine. È molto probabile che avesse un solo ponte, due timoni laterali, castelli a prua e a poppa. La sua funzione era molteplice: poteva essere usata per la guerra e la pirateria ma anche per il trasporto di merci, nonostante lo spazio ristretto per il carico. Le altre navi menzionate han-

no piú o meno le stesse caratteristiche della galea, ne differiscono solo per la grandezza. La galea pisana, di pescaggio assai ridotto, era particolarmente adatta alla navigazione lungo i bassi fondali dell’Arno; quelle di dimensioni piú ridotte erano probabilmente in grado di percorrere

anche il canale navigabile realizzato fra l’attuale Stagno, nei pressi di Livorno e la Vettola, il quale consentiva l’accesso diretto da Porto Pisano, che si trovava a Bocca d’Arno, alla città. Le galee avevano una lunghezza compresa fra i 30 e i 60 m, venti o piú remi su ciascun lato, uno o due alberi con vele latine.

Gli spazi di manovra

Quanto alla vera e propria galea da combattimento, stretta e leggera, le descrizioni del XII secolo la rappresentano con banchi di rematori disposti su due gradini, il piú elevato dei quali veniva sgombrato al momento della battaglia, per lasciare maggior spazio alle operazioni militari. Spesso l’imbarcazione era dotata al centro di una sorta di castello (castrum) posticcio, costruito per gli arcieri e i frombolieri. Intorno al bordo venivano collocati gli scudi dei guerrieri che servivano da difesa; a prua si trovavano catapulte, mangani, briccole e altre macchine da lancio, e molto spesso c’era anche un grosso palo acuminato e ferrato, fissato a un supporto snodabile cosí da poter essere orientato in ogni direzione per colpire le imbarcazioni nemiche. Un ampio telone proteggeva i rematori dal sole e dalle intemperie, ma anche questo veniva rimosso in caso di battaglia. Fino alla metà del XIII secolo, questi legni erano dotati di due grossi remi laterali, posti nel quartiere di poppa, da utilizzarsi come timone. Per rivoluzione nautica si intende quel complesso di innovazioni nell’arte di navigare e nelle tecnologie nautiche, sviluppatesi tra il XII e il XIV secolo. Sappiamo

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In alto Longitudini terrestri trovate con la declinazione del magnete del polo, incisione realizzata da Giovanni Stradano per la serie intitolata Nova reperta. 1587-1589.

In basso replica di un astrolabio nautico portoghese in bronzo, realizzato da Francisco de Goes nel 1608. Firenze, Istituto e Museo di Storia della Scienza.

dei rapporti che intercorrevano tra il Mediterraneo orientale e il lontano Oriente, in special modo con l’Oceano Indiano, con il Golfo Persico e con la Cina. Proprio dall’arte marinara cinese sembra siano giunte le principali innovazioni che si diffusero nel Mediterraneo. I primi ad adottarle furono i Bizantini e ancor piú gli Arabi. Conosciamo inoltre quanto fossero stretti i rapporti tra Venezia e Bisanzio e gli intensi contatti di Genova e Pisa col mondo islamico. Fu quindi grazie a questa catena di trasmissione che arrivarono in Occidente quelle novità in campo marinaro che diedero im-

pulso alla navigazione medievale permettendo di allargare il raggio d’azione delle potenze occidentali mediterranee. Altro elemento decisivo fu l’esponenziale crescita delle esigenze mercantili, che diedero una notevole spinta alle marinerie occidentali, come pure la necessità di intensificare la navigazione verso il Vicino Oriente per trasportare i crociati e i pellegrini. Un «servizio di linea» che coinvolse principalmente Venezia, ma anche Pisa e Genova. Nel corso del XIII secolo, sia le galee sia i velieri aumentarono progressivamente le dimensioni e ciò fa supporre che vi siano stati sensibili

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miglioramenti nelle tecniche di costruzione. Divennero inoltre sempre piú frequenti le navi a tre ponti. Anche la velatura subí notevoli trasformazioni. Se tra X e XI secolo le vele triangolari latine avevano consentito una maggiore manovrabilità dovuta all’aumentata capacità di stringere il vento, tra XIII e XIV secolo si andò affermando la velatura mista: quadrata e triangolare, almeno nei velieri piú grandi, che ne favorí ulteriormente la manovrabilità. Altra importantissima innovazione riguardò il timone. Nel corso del XIII secolo si andò affermando il timone unico di poppa in luogo dei due grandi remi laterali. Dapprima in Inghilterra e in Fiandra, poi sul Baltico e solo nel XIV secolo nel Mediterraneo, il timone assiale permise di governare in maniera ottimale le navi a vela. La maggiore governabilità della nave favorí un migliore utilizzo del cosiddetto «ago calamitato», conosciuto fin dall’XI secolo, ma divenuto una bussola vera e propria soltanto alla fine del Duecento. La possibilità di orientarsi anche nei momenti in cui non era possibile osservare la Bussola a sospensione cardanica. Genova, Museo Navale di Pegli.

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volta celeste permise di navigare anche in inverno e quindi di eliminare i lunghi periodi morti. Ciò fu possibile non solo grazie all’uso della bussola, ma anche, come afferma Marco Tangheroni, «all’invenzione delle “Tavole di Marteloio” (...) Grazie a esse era possibile calcolare la risultante rettilinea di una serie di percorsi a zigzag: solo allora possiamo considerare aperta la strada per il calcolo stimato del punto, una tecnica assai valida soprattutto nel Mediterraneo».

Il mondo in rombi

La cartografia marittima si sviluppò nella seconda metà del Duecento. Il piú antico esempio in materia è la Carta Pisana; altri importanti esemplari provengono da Venezia e, prima ancora, da Genova, dove era fiorente una vera e propria scuola che si incrementò nei primi anni del XIV secolo. Non dobbiamo pensare che le carte nautiche somigliassero a quelle che conosciamo oggi: non si determinava la rotta secondo latitudine e longitudine, non si conoscevano ancora le proiezioni, le carte erano divise in trentadue rombi che davano loro il classico aspetto reticolato. Comunque, almeno fino al XV secolo, la navigazione astronomica, basata cioè su calcoli precisi, non venne adottata. Per tutto il Medioevo si può parlare dunque di navigazione preastronomica, che avveniva in prevalenza vicino alla costa e molto spesso a vista. Occorreva quindi conoscere bene le coste, i porti, i rifugi atti a ospitare le imbarcazioni, anche in casi di emergenza e, non ultimo, le rotte e le distanze. Per questo, verso la metà del XIII secolo

comparvero dei manuali che contenevano tutte queste informazioni: i portolani. A completare la profonda trasformazione relativa all’arte del navigare, è la comparsa di un nuovo tipo di nave, la cocca, che funse da ricambio per flotte mercantili specie di Genova e Venezia, a partire dal primo decennio del XIV secolo. Si trattava di una nave a vela, di forma tondeggiante, piú piccola e agile rispetto ai grandi velieri; poteva avere uno o due alberi, quello maestro a vela quadrata, e il timone assiale le conferiva maggior sicurezza. Aspetto non certo secondario fu la possibilità di contenere i costi dell’equipaggio riducendo il numero dei marinai, grazie alla notevole manovrabilità della nave. Economicità e sicurezza furono dunque le caratteristiche di questa imbarcazione. Le conseguenze delle innovazioni nel campo della navigazione e dei commerci marittimi si fecero presto sentire. Si aprirono nuove rotte, si intensificarono i traffici con il Levante e la Penisola Iberica. Nel 1314 la Repubblica di Venezia iniziò a finanziare e regolamentare i viaggi delle galee che si recavano nel Mare del Nord e nel 1315 le imbarcazioni veneziane cominciarono a navigare verso i mari freddi con flotte organizzate. Nei primi due decenni del XIV secolo, Genova e Venezia avevano stabilito regolari collegamenti navali con l’Inghilterra e le Fiandre e la città ligure aveva inoltre stretto buoni rapporti con gli scali mercantili del Mar Nero. La flotta pisana, ridotta nel numero e nella potenza, vedeva poche delle sue navi spingersi nell’Atlantico, verso le nuove rotte che la «rivoluzione nautica» aveva reso piú accessibili. D’ora in poi prendere il mare diventava piú sicuro e anche piú redditizio. Nuove rotte e mete si profilavano all’orizzonte. E con esse un nuovo mondo.

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CAPITANI CORAGGIOSI

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Didascalia partire dal XII-XIII secolo aliquatur eadisoprattutto odis in quelli seque vero ent qui con lo sviluppo dei guenti, doloreium conectu commerci, l’accresciuto fabbisorehendebis eatur alimentari, che il piú gno di derrate tendamusam delle volte viaggiano sull’acqua, la consent, perspiti dei mezzi e dei sitrasformazione conseque stemi di nis trasporto, l’uomo di mare maxim eaquis acquista un’importanza davvero earuntia cones rilevante. A bordo delle navi si troapienda. vano vari personaggi che ne costi-

tuivano l’intelaiatura organizzativa, oltre naturalmente ai passeggeri. In primo luogo il patronus, ossia l’armatore, per usare un termine


Sulle due pagine Lisbona. Particolare del Padrão dos Descobrimentos, monumento realizzato nel 1960 per celebrare l’era delle grandi scoperte. A destra caravella portoghese del 1450 circa.

moderno, che si occupava della gestione mercantile, dell’amministrazione e dell’aspetto tecnico-nautico. Per tutto il XII secolo a comandare la nave era stato il nauclerius, perché l’armatore, a differenza di quanto accadrà nei secoli successivi, restava a terra e si dedicava solo agli aspetti affaristici, come le trattative con i mercanti, con i pellegrini che si volevano imbarcare, ecc. Quando il patronus deciderà di salire a bordo e prendere le redini dell’imbarcazione che egli stesso ha armato, il nauclerius diverrà una specie di ufficiale in seconda. Cosí accadeva a Venezia e anche in Catalogna, dove il comite, corrispondente al nauclerius, era dapprima il comandante della nave per trasformarsi poi in ufficiale subalterno. Sul Baltico la vita di bordo era per lo piú organizzata come nel Mediterraneo. Lo Schepherr, letteralmente «signore della nave», da cui il termine scheepper, era al tempo stesso capitano della nave e comproprietario della stessa.

A bordo dei natanti di una certa consistenza non mancava mai lo «scrivano», a cui era affidato il compito di redigere il diario di bordo e, soprattutto, di tenere la contabilità generale, annotando ogni spesa, dal momento della partenza a quello del ritorno. Era lo scrivano a mantenere i rapporti contabili con l’equipaggio e anche con i mercanti che utilizzavano la nave per il trasporto delle loro merci.

Fedeltà al patronus

Da documenti sia genovesi che veneziani, appare evidente che egli era un vero e proprio notaio di bordo, incaricato, tra l’altro, di certificare e valutare il carico in nome e per conto della compagnia da cui dipendeva. A Pisa, accanto allo scrivano, troviamo il «massaro», probabilmente un economo che ricopriva incarichi che altrove erano assolti dallo scrivano stesso. Ambedue, data la delicatezza delle loro funzioni, erano tenuti a prestare giuramento di fedeltà al patronus. Per tutto il Medioevo, l’equipaggio era formato da uomini liberi che percepivano un regolare salario. Il reclutamento tra gli schiavi o fra i condannati alla pena del remo appartiene, a differenza di quanto

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A sinistra il porto di Genova verso la fine del Medioevo, in una xilografia di Hartmann Schedel, dalla Cronaca di Norimberga (1493).

spesso si crede, all’età moderna. Solo in caso di grave pericolo si ricorreva alla coscrizione obbligatoria e comunque, anche nei casi di forza maggiore, si ricorreva quasi sempre al sistema misto, con l’arruolamento di volontari integrati dai coscritti. Ne abbiamo testimonianza sia per le galee genovesi che per quelle veneziane. Il marinaio diveniva tale per tradizione familiare, ovvero per essere nato vicino al mare, oppure per il desiderio di guadagno e d’avventura. Il suo era un lavoro rischioso – i naufragi erano all’ordine del giorno – e assai duro; in compenso, il salario era buono, molto superiore a quello che si poteva racimolare a terra. In piú, per arrotondare i guadagni, al marinaio era concesso il «diritto di paccottiglia», ossia la possibilità di portare con sé un po’

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di merce da commerciare all’arrivo in porto. Sulle navi piú grandi, che percorrevano lunghe distanze, troviamo anche artigiani specializzati in grado di eseguire riparazioni in caso di necessità.

Marinai armati

Nel XIV e XV secolo, gli statuti marittimi delle principali città portuali del Mediterraneo fissavano la composizione dell’equipaggio e il numero dei marinai secondo le caratteristiche della nave; inoltre, indicavano le armi di cui ciascuno doveva essere provvisto. Si andava da un minimo di 50 marinai e 8 balestrieri a un massimo di 148154 marinai e 30-40 balestrieri. I primi godevano di svariati diritti. Per esempio, non potevano essere facilmente licenziati e il patronus doveva rispettarne la dignità.

Con la «rivoluzione nautica», la vita di bordo subisce notevoli cambiamenti. La concentrazione di competenze sempre piú specialistiche nelle mani di pochi finí per evidenziare i rapporti gerarchici, cosicché le decisioni non venivano piú prese dalla maggior parte degli uomini di mare, ma da chi era in grado di eseguire complicati calcoli sulle carte nautiche, di usare la bussola, di servirsi insomma dei nuovi strumenti che la tecnica metteva loro a disposizione. Il vitto a bordo era abbondante e soprattutto sicuro. Pane e vino non mancavano mai e spesso si potevano consumare alimenti freschi come frutta e verdura, specie se gli scali erano frequenti e si poteva fare rifornimento. Nei viaggi piú lunghi la base del cibo era il biscotto – pane cotto due volte, a lunga agosto

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conservazione – e, per il resto, ci si arrangiava con la pesca. Nel XIV e XV secolo i mercanti presero a navigare sempre meno con le loro merci, trasformandosi sempre di piú in spedizionieri. Inoltre, esauritosi il movimento crociato, erano adesso i pellegrini i piú assidui frequentatori delle navi, veneziane, in particolare, ma anche genovesi. A prendere il mare erano anche personaggi altolocati, nobili o appartenenti all’alto clero. Dai loro resoconti di viaggio si possono trarre interessanti notizie sulla vita di bordo. Un anonimo pellegrino tedesco della metà del Quattrocento dispensa alcuni consigli utili per chi voglia recarsi in Terra Santa via mare. In primo luogo suggerisce di procurarsi un «gabbano», cioè un grande mantello da usare sia per ripararsi dalla pioggia che per dormirci. «Cosí prendi con te il gabbano in esso avrai il tuo giaciglio», il che significa che raramente a bordo si trovavano materassi per potersi coricare piú comodamente. I viaggiatori facoltosi potevano procurarsi un giaciglio piú comodo negli empori, assai forniti, delle principali città di mare – in primo luogo Venezia –, ma il piú delle volte il

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passeggero era costretto ad arrangiarsi. Per quanto riguarda i pasti, l’anonimo pellegrino consiglia di consumarli con l’equipaggio: «C’è talvolta una piccola colazione per due o tre centesimi» e inoltre suggerisce di stabilire buoni rapporti col personale di bordo, poiché questo può rendere migliore il viaggio ed evitare i soprusi che a quanto pare non erano infrequenti.

Promiscuità coatta

Alessandro Rinuccini, che da Firenze si recò in Terra Santa nel 1474, racconta dei cattivi rapporti avuti a bordo con uno dei due comandanti, Andrea Bono, e che sulla sua nave erano imbarcate anche undici donne; un fatto inusuale per i viaggi devozionali, che creò qualche problema a bordo. Rinuccini ci informa che in caso di necessità i passeggeri collaboravano con i marinai per governare meglio la nave, ma si lamenta della promiscuità a cui si era costretti. Una notizia curiosa ci viene da Marco di Bartolomeo Rustici, che si recò in Terra Santa nel 1441. Un suo compagno di viaggio, maestro Leale, si ammala e «un marinaio vuole incantare la febbre con arti magiche». Naturalmente maestro Le-

Miniatura raffigurante il carico di una galea a Napoli nel 1351, nel periodo della guerra fra Angioini e Aragonesi, da un manoscritto francese del Trecento. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

ale rifiuta. Mariano da Siena, che viaggia nel 1431, ci informa che, nel suo caso, il vitto di bordo per i passeggeri era scarso e doveva essere integrato a proprie spese. Per avere un quadro preciso del sistema portuale europeo nei secoli XIV e XV occorre concentrare l’attenzione sui due poli che fanno da catalizzatori per la circolazione marittima: i Paesi Bassi a nord e i grandi porti mediterranei a sud. La tipologia dei porti, in prossimità dei quali si trovano spesso anche gli arsenali, presenta caratteri di sviluppo abbastanza omogenei in tutto il continente, fatta eccezione, come vedremo, per Venezia. Il porto sorgeva di solito in un accesso naturale, stretto, con torri tra le quali di notte veniva tesa una catena. I fari o fuochi sorvegliavano l’entrata in porto: ne troviamo a Genova, Dieppe, Calais. C’erano inoltre fortificazioni costiere, talvolta imponenti: la torre di Belem a Lisbona, lo Steen ad Anversa, il Burg a Lubecca. Oltre alle zone

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Dossier Il sale

L’oro che viene dal mare Prima dell’oro nero, il petrolio, era l’oro bianco, il sale. Esso è stato la ricchezza di tutti i mari, e l’attività dei salinari ha rappresentato una delle costanti nell’economia europea. Venezia aveva cominciato a organizzare le proprie saline fin dall’XI secolo. La Repubblica si incaricò di gestire in proprio la produzione e il commercio di questo prezioso prodotto, basilare per l’economia dell’epoca, senza lasciarne il monopolio ai privati e assoggettandolo a dazio, caso unico nell’Italia del Trecento. Le saline di Venezia si trovavano dapprima a Chioggia ma poi si sparsero per tutto il territorio della Repubblica. La difficoltà nel commercio del sale consisteva principalmente nello stoccaggio. A Venezia il problema cominciò a porsi in concomitanza con lo sviluppo delle importazioni mediterranee e col monopolio delle saline adriatiche della riva orientale; in precedenza, i magazzini di Chioggia assicuravano una buona capacità di stoccaggio essendo ben dislocati nella città, in stretto collegamento con la navigazione fluviale atesina e padana. La prima menzione di uno stoccaggio di sale mediterraneo a Venezia risale al 1293, quando il Maggior Consiglio autorizzò le navi che trasportavano sale dal Mediterraneo a stazionare presso il canale della Trinità. Nel 1326 lo stesso organismo promosse la costruzione di numerosi magazzini di stoccaggio, chiamati «magazzini della Trinità», dove potevano essere conservate in condizioni ottimali le grandi quantità di sale importate a Venezia, evitando che venissero mischiate le diverse qualità – quello grigio dell’Adriatico e il grosso e bianco del Mediterraneo, per esempio. Grazie al sale Venezia riusciva a pareggiare il mercato delle importazioni dei prodotti alimentari acquistati in terraferma. Il Maggior Consiglio aveva istituito l’Ufficio del sale a Rialto e, nel Trecento, la Camera del sale, che regolava gli acquisti. Proprio le disposizioni statutarie del Maggior Consiglio diedero vita all’Ordo salis, secondo cui il prodotto doveva arrivare «su ordine» o «per ordine» nel porto di Venezia. Ciò significava che a ogni mercante era fatto obbligo, pena onerose multe, di importare il sale, che poi veniva acquistato dallo Stato. In pratica le navi mercantili che esportavano spezie o altri prodotti erano tenute a rientrare a Venezia con un corrispondente carico di sale. I mercanti dovevano dichiarare alla partenza il tonnellaggio delle merci in modo che l’ufficio statale preposto potesse calcolare la quantità di sale da trasportare al ritorno. L’Ordo imponeva anche un calendario: le navi veneziane dovevano salpare dai porti di carico prima del 30 novembre, giorno di sant’Andrea, sia per evitare il cattivo tempo, sia per preservare il sale dalle piogge dell’inverno. Ai mercanti era inoltre fatto obbligo di dichiarare l’esatta provenienza del prodotto e dunque la qualità del sale stesso.

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La produzione del sale mediante evaporazione dell’acqua di mare, tavola realizzata da Peter Schmidt per un’edizione del De re metallica (1556) di Georg Agricola. Nella pagina accanto l’Arsenale di Venezia nel 1797, in un’incisione di Gian Maria Maffioletti. Venezia, Museo Storico Navale.

d’ormeggio vere e proprie, dove si caricavano e scaricavano le merci, c’erano le banchine, dapprima in terra battuta e poi in pietra, inoltre magazzini per le merci e bacini perpendicolari alla riva che facilitavano tutte le operazioni nautiche.

Carico e scarico

I porti, sia mediterranei che del Nord Europa, disponevano di vere e proprie gru da manovrate a mano in grado di facilitare le operazioni di carico e scarico. Abbiamo notizia di queste macchine ad Anversa, Lubecca, Danzica, Venezia. Alcune aree portuali erano adibite alla gestione di particolari prodotti come il vino, il sale, le granaglie, il legname, la lana. Nel Mediterraneo occidentale dei secoli XIV e XV un posto di rilievo è occupato dal porto di Barcellona. Da lí partivano grandi quantità di merci alla volta del Levante e altre rotte facevano caagosto

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po alla capitale catalana. I collegamenti col Maghreb, da dove si importavano cera, lana, cereali, pelli e si esportavano tessuti, olio e metalli, erano regolari. Altra rotta particolarmente frequentata era quella che collegava Barcellona ai porti della Francia meridionale, a Genova e a Pisa. Il porto di Genova è uno dei piú importanti nel Mediterraneo. Le cronache ne descrivono il grande molo e la torre alta e bianca, sulla quale sorge la chiesa di S. Benigno, e fanno menzione del suo enorme faro. Nel XIV secolo, il volume dei commerci del capoluogo ligure è ragguardevole, non solo verso il Levante, ma anche nel Mediterraneo occidentale e verso il Mar Nero. A partire dal XIV secolo Livorno diverrà un elemento importante nel sistema portuale dell’Italia centro-settentrionale. Situato nei pressi di Stagno, non lontano dalla città, era collegato a Porto Pisano, il quale andava subendo un rapido insabbiamento. Lo descrive accuratamente Francesco Petrarca nel suo Itinerarium Siryacum, parlando della «solidissima torre», la torre di Fanale, che sormonta il porto e indica la rotta sicura ai naviganti. Lo scrittore precisa che si tratta di un porto artificiale e ne descrive le fortificazioni. Dalla fine del Trecento, Livorno amplierà sempre piú il suo porto che si affermerà definitivamente quando, nel 1421, sarà acquistato dai Fiorentini che nel 1406 avevano conquistato Pisa e si affacciavano sulla scena marittima mediterranea.

Un sistema integrato

Quello tra la città di Venezia e il suo porto è un legame talmente stretto che difficilmente lo sviluppo dell’una può essere disgiunto da quello dell’altro. Venezia è un caso piú unico che raro e per essa, piú che di un porto, si deve parlare, come suggerisce Elisabeth Crouzet-Pavan, di un sistema portuale urbano

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che ingloba anche l’arsenale, dovuto alla particolare conformazione della città lagunare. Una cittàporto, insomma. Già nel XIV secolo, per esempio, il Bacino di S. Marco era considerato parte integrante del porto che si estendeva poi su entrambe le rive del Canal Grande, nella zona di Santa Trinità e del Castello, e nel quartiere portuale di Dorsoduro, secondo una straordinaria armonia spaziale e funzionale. I traffici del porto, del commercio e quello dei viaggiatori, coesistevano in uno stesso perimetro; essenziali per il sistema portuale veneziano erano la protezione della navigabilità del

Canal Grande e la facilità d’accesso alle rive di S. Biagio e di Rialto. Il piccolo e grande commercio collegato al carico e scarico delle merci venne dislocato tra Rialto Vecchio e Rialto Nuovo, mentre sull’altra riva si sviluppò il Fondaco de’ Tedeschi. Nel XV secolo saranno numerosi gli interventi di ampliamento dovuti al diversificarsi delle funzioni a seconda delle zone portuali. Dal XIII secolo, le galee, sia mercantili sia da guerra, venivano costruite, riparate e custodite in appositi spazi circondati da mura chiamati darsene, che diverranno spesso parte integrante degli arsenali. I Veneziani le chiamavano

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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

«arzanà», taraçana in Castiglia, drassanas in Catalogna. Questi termini derivano dall’arabo dar-as-sina-’a, che significa appunto «edificio o casa da costruzione». L’arsenale piú importante e anche piú antico del Mediterraneo era quello di Venezia. Attestato alla fine del XII secolo nella zona orientale della città, strettamente collegato al porto, fu ampliato alla fine del Trecento, quando fu costruito l’Arsenale Nuovo che, dal secolo successivo, diverrà il modello per

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eccellenza imitato in tutto il bacino mediterraneo. Per Venezia l’arsenale è stato il motore dello sviluppo navale, industriale e anche edilizio. Nell’Arsenale Nuovo si costruivano le grandi galee utilizzate per i traffici commerciali e un apposito spazio era riservato alla realizzazione delle navi da guerra. A comandare la struttura era preposto l’ammiraglio: nell’arsenale veneziano lavoravano migliaia di uomini, inquadrati in un sistema corporativo, dagli artigiani ai capocantiere.

A Pisa l’arsenale prese il nome di Tersana: qui non venivano costruite navi, ma solo riparate e custodite quelle militari. La costruzione vera e propria avveniva nei cantieri fuori dal recinto dell’arsenale. L’inizio dei lavori per l’edificazione della Tersana risale ai primi anni del XIII secolo: a forma di trapezio, conteneva all’interno uno specchio d’acqua che comunicava con l’Arno per mezzo di un canale e sul quale si affacciavano le rimesse porticate in cui trovavano ricovero agosto

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In alto gli Arsenali medicei di Pisa, la cui costruzione fu avviata da Cosimo I de’ Medici. A sinistra il porto di Genova in un dipinto cinquecentesco. Genova, Civico Museo Navale.

le navi. Le fortificazioni intorno alla Tersana si trasformarono, a partire dal primo Quattrocento, in una vera e propria cittadella. La Torre Ghibellina e quella di San Giorgio sormontavano l’arsenale pisano, al cui governo era preposta l’Opera della Tersana. Nel complesso, la struttura era molto avanzata e funzionale, tanto che il re Alfonso d’Aragona, quando ordinò di costruire un arsenale a Porto Torres in Sardegna, volle che fosse preso a modello quello pisano.

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A Genova l’arsenale era formato da due darsene dove si trovavano i capannoni nei quali avevano riparo le imbarcazioni; anche qui le navi non venivano costruite negli edifici dell’arsenale utilizzati per il ricovero e le riparazioni, ma lungo la costa genovese, negli «scari», dislocati principalmente sulla Riviera tra Sanpierdarena e la Foce.

La commessa mancata

Il Comune non gestí mai direttamente l’attività di costruzione delle navi – erano infatti le compagnie a far questo –, si limitò a creare un’apposita magistratura, che aveva il compito di far osservare i regolamenti, denominata Salvatores portus et moduli. Nel corso del XV secolo, l’arsenale genovese conobbe un periodo di decadenza e nel 1471 i costruttori dovettero rinunciare a un’importante commessa del duca di Milano che aveva ordinato cinquanta galee. Le fonti arabe ci danno informazioni sull’arsenale di Palermo. Sappiamo che era distante dal porto e che perse importanza nel corso del XIV secolo a vantaggio di Mes-

sina, il cui porto era lo snodo che metteva in comunicazione l’area occidentale e quella orientale del Mediterraneo. Sotto la dominazione angioina gli edifici dell’arsenale di Messina passarono dalla struttura in legno a quella in muratura. Dopo la guerra del Vespro, nel 1282 e per tutto il Trecento, venne qui costruita gran parte della flotta e l’arsenale messinese rimase attivo per tutto il Quattrocento. Grande importanza, a partire dal XIV secolo, ebbe l’arsenale di Barcellona. Alla metà del Trecento possedeva ben undici navate atte a ospitare le navi, ed era difeso da robuste mura. Oltre alle navi da carico e a quelle da guerra, a Barcellona, come si apprende dalle fonti, vennero costruite le imbarcazioni utilizzate da Giacomo I per la conquista di Maiorca. È testimoniato inoltre che nell’arsenale catalano si costruivano navi su commissione per clienti stranieri. Nella Penisola Iberica aveva grande rilevanza anche l’arsenale di Siviglia, dotato di un esteso edificio costituito da ben sedici navate e lungo 182 m. Spostandoci a Oriente, è indi-

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Dossier Bergen Novgorod

Visby

Danzica

Lubecca Brema

Amburgo

Braunschweig

Londra Bruges

Colonia

Magdeburgo Breslavia Cracovia

Principali città anseatiche Filiali Principali rotte commerciali marittime

spensabile rammentare che nella seconda metà del Trecento gli Ottomani, essendosi resa necessaria la costituzione di un’imponente flotta, edificarono un grande arsenale presso Gallipoli, in posizione strategica, dove tra l’altro abbondavano le materie prime come il legname. L’arsenale fu fondato dal sultano Bayazid nel 1390. Maometto II fece a sua volta costruire un nuovo, grande arsenale sul Corno d’Oro, a Costantinopoli.

Nuovi scenari

Nel corso del Tre- Quattrocento lo scenario del Mediterraneo subisce mutamenti significativi e cambiano altresí gli equilibri geopolitici ed economici. Il «Mediterraneo del Nord», come lo ha definito Fernand Braudel riferendosi al Baltico e al Mare del Nord, stava diventando uno dei massimi baricentri della navigazione commerciale europea; per di piú, entrò prepotentemente in scena l’Oceano.

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La Lega Anseatica, costituitasi nel corso del XII secolo e che aveva come città pilota Lubecca, arrivò a comprendere circa duecento città mercantili e conobbe la sua maggiore espansione nel XIV secolo. Le linee di traffico commerciale si sviluppavano tra Danzica, Riga, Visby, Bruges, Amburgo e Brema. Lo

spirito d’iniziativa dei mercanti e la grande abilità nella navigazione fecero sí che gli Anseatici si consolidassero nei Paesi Bassi, in Danimarca e in Inghilterra. Esportavano granaglie e legname in Portogallo e, dopo aver cacciato gli Inglesi da Bergen, si erano aperti la strada di Calais verso le agosto

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Miniatura raffigurante il porto di Amburgo, da un manoscritto contenente lo statuto della citta tedesca (Bilderhandschrift des Hamburger Stadtrechts). 1497. Amburgo, Staatsarchiv. Nella pagina accanto, in alto le rotte commerciali delle maggiori città appartenenti alla Lega Anseatica nel XIV sec. In basso, sulle due pagine veduta di Lubecca, la città piú importante della Lega Anseatica.

saline atlantiche del Poitou e della Bretagna. La concorrenza nei confronti delle potenze marittime mediterranee era dunque fortissima. Per tutto il XIV secolo dalle città anseatiche continuavano a giungere sui mercati dell’Occidente la cera, l’ambra, le pregiate pellicce russe. Genovesi e Veneziani, fin dall’inizio

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del Trecento, inviavano le loro galee cariche di mercanzie verso i porti di Bruges, Southampton, Londra. Tutto ciò nonostante il fatto che, che a partire dal 1360, la Lega Anseatica avesse perso il monopolio del commercio nel Baltico a causa dell’espansione inglese e olandese. Gli Olandesi, in particolare, costru-

irono nuove imbarcazioni di grande tonnellaggio adatte alla pesca, in grado di rimanere nel Mare del Nord per una settimana, e misero a punto un sistema di conservazione del pesce che permise loro di mutare rapidamente i flussi commerciali. Gli Olandesi arrivarono cosí a controllare il 50% dell’impor-

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Lubecca nella seconda metà del Trecento Ricostruzione grafica di come il porto di Lubecca doveva presentarsi alla seconda metà del XIV sec. Nella maggior parte delle case (1), strutture portanti in legno formavano intelaiature nelle quali si inserivano muri in mattoni. Per movimentare le merci (2) si usavano sia semplici carrucole sia argani piú complessi, a ruota avvolgente. Ancora nel XIV secolo, le imbarcazioni piú

tantissimo mercato europeo delle aringhe, supremazia che conserveranno nei due secoli successivi. Nel Mediterraneo emerse nel frattempo la potenza marittima aragonese e catalana. Lo sviluppo delle attività mercantili catalane, il cui perno era Barcellona con il suo grande porto, e l’espansionismo

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piccole (3) mantenevano la struttura dello Knörr vichingo. Oltre che ad abitazioni, le case dei mercanti erano adibite a botteghe nei piani inferiori e a magazzini in quelli superiori (4). La nave piú comune, nei porti della Lega Anseatica, era la Kogge, o cocca, veliero di grande stazza adatto al trasporto delle merci negli agitati mari del Nord (5).

politico del Regno d’Aragona furono i fattori fondamentali che ben presto consacrarono quest’ultimo come un vero e proprio impero mediterraneo, quale neppure gli Svevi e gli Angioini avevano conosciuto. Grazie a una provvisoria alleanza con Genova, gli Aragonesi poterono stabilirsi in Sicilia e

i Catalani vi impiantarono fiorenti imprese commerciali. La rottura con la città ligure avvenne quando Giacomo II acquisí anche Sardegna e Corsica, mettendo a repentaglio il bacino commerciale genovese. Il re aveva sconfitto i Pisani dando vita al Regno di Sardegna e Corsica e consolidando la propria agosto

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In alto Lisbona. La Torre di Belém che si affaccia sulla foce del fiume Tago. Eretta nel Cinquecento, rievoca il ruolo egemone del regno portoghese nell’era delle grandi esplorazioni.

egemonia su tutto il medio-alto Tirreno. Inoltre nel 1311 gli Almugàveri, che erano mercanti catalani, si erano impadroniti del ducato d’Atene impiantando una testa di ponte commerciale che durò fin quasi alla fine del Trecento. Nel 1383 la Corona aragonese aveva acquisito anche Maiorca. Genova

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non poteva restare inerte di fronte alla sottrazione di importanti aree di influenza come appunto la Sardegna. Il conflitto era inevitabile. I Catalani si erano nel frattempo alleati con Venezia e proprio una flotta veneto-catalana sconfisse i Genovesi nel 1353 in una battaglia navale a nord della Sardegna.

Il re navigatore

Sempre nella Penisola Iberica, il Portogallo aveva ricomposto prima degli altri i propri conflitti interni e, fin dal 1385, Giovanni I d’Avis, con il determinante aiuto dei mercanti di Lisbona, era riuscito ad assicurare la corona a sé e alla sua dinastia. Ma il vero organizzatore della potenza marittima portoghese e dei grandi viaggi mediterranei e oceanici fu il figlio di Giovanni, Enrico, detto poi il Navigatore. In primo luogo i Portoghesi conquistarono Ceuta, in Marocco, la chiave di tutto il Mediterraneo. Per iniziativa dell’allora principe Enrico, dal 1419 iniziò l’esplorazione sistematica delle coste africane che il futuro re portò avanti fino alla morte, nel 1460. Negli anni successivi i navigatori portoghesi

si spinsero nell’Atlantico e scoprirono gli arcipelaghi delle Azzorre e di Madera, dove promossero la coltivazione della canna da zucchero. Nel 1434, Gil Eanes riuscí a superare il Capo Bojador lungo la difficoltosa costa sahariana; lí la corrente impediva alle navi di superarlo navigando sottocosta, allora Eanes puntò sulle Azzorre per poi rientrare in Portogallo da sud. Questa nuova rotta, detta della «Volta», fu uno dei fattori che permisero una ancor maggiore espansione della potenza marittima portoghese che, nell’arco di un secolo, era diventata un fatto unico nella storia dell’umanità. Mai nessuno in cosí poco tempo aveva esplorato aree tanto vaste del pianeta: tutta la costa occidentale dell’Africa e poi l’India, il Brasile, fino a Malacca. L’innata vocazione dei Portoghesi per il mare, la compattezza del piccolo Stato lusitano, la solidità della sua classe mercantile, contribuiscono a spiegare il perché di questo exploit portoghese ma, come sempre nei grandi fatti della storia, resta qualcosa di imponderabile che non si riesce a spiegare con gli strumenti degli uomini.

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CALEIDO SCOPIO

Come una polifonia LIBRI • «Che cos’è un santuario?»: un interrogativo solo all’apparenza semplice

e dietro al quale si celano invece questioni storiche e dottrinarie complesse. Che André Vauchez ripercorre e analizza magistralmente nel suo saggio piú recente

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André Vauchez Sulle orme del sacro I santuari dell’Europa occidentale. IV-XVI secolo Editori Laterza, 366 pp., ill. 25,00 euro ISBN 9788858149690 www.laterza.it

osa sarebbe lo spazio se fosse tutto calpestabile? E il tempo, se fosse tutto ordinario? Per uscire dalla condizione di ferinità, l’uomo ha avuto bisogno di sacralizzare parte dello spazio e del tempo. Mediante operazioni rituali, ha sottratto terreno all’incolto, cioè allo spazio indistinto. Lo ha recintato e ne ha fatto un luogo «altro», nel quale non è possibile lavorare, marciare, vendere o comprare. Altrettanto ha fatto col tempo, sottraendo alcuni giorni all’alternarsi ripetitivo del sonno e della veglia, della caccia e del lavoro. Il rito ha saputo bonificare tempi buoni per la celebrazione e per il ringraziamento. Nel mondo cristiano, quando sono stati i sacerdoti a decidere quali giorni e quali spazi sottrarre alla dittatura dell’ordinario, l’intesa tra il «gregge» e i «pastori» è stata perfetta, ma quando sono arrivati invece i laici a pretendere – al di fuori di ogni mediazione ecclesiastica – che il sacro abitasse in luoghi non riconosciuti dal culto

ufficiale, presso fonti nascoste, isole remote o impervi speroni di roccia, il rapporto si è fatto complicato. Da sempre zona di frontiera, luogo d’incontro e di scontro tra religiosità ufficiale e devozione spontanea, il santuario ha ottenuto molto tardi il suo pieno riconoscimento.

Storia e memoria Di tutto questo parla il nuovo libro di André Vauchez, Sulle orme del sacro: pellegrinaggi spontanei, reliquie dubbie, apparizioni misteriose, miracoli straordinari, santuari brulicanti di luminarie ed ex voto, che hanno contribuito a disegnare l’identità europea non meno dei siti ufficiali del culto cristiano. Il volume, mappandoli, ne ricostruisce la storia e la memoria, rovesciando la nostra percezione degli uomini e delle donne che li hanno frequentati. Negli anni Sessanta del Novecento per esempio, un noto demografo francese, Philippe Ariès, aveva sostenuto con successo che il Medioevo non ebbe né cura, né

La basilica della Santissima Trinità di Saccargia, chiesa in stile romanico pisano, situata nel territorio del comune di Codrongianos in provincia di Sassari.

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amore per l’infanzia. Dal setaccio delle fonti medievali compiuto da André Vauchez emerge invece una nutrita schiera di madri e di padri in cerca di un patrono celeste per il proprio figlio o la propria figlia. A volte, tale patrono non è riconosciuto dalla Chiesa, ma essi non esitano a farvi ricorso quando è forte la speranza di ottenere una grazia. A Lione, per esempio, fin dall’età medievale, le bambine e i bambini gracili, o cagionevoli di salute, venivano condotti presso la tomba di «un martire», il cui nome inutilmente si cercherebbe tra le le pagine di un santorale cristiano. Si tratta infatti di un cane, che ebbe però fama di aver salvato dal morso di una vipera, il figlio di un nobile locale. Questi, a causa di un equivoco, in luogo di premiarlo per quel suo pronto intervento, lo giustiziò passandolo a filo di spada. Agli occhi della comunità locale, quell’esecuzione cruenta e ingiusta fece guadagnare al levriero la palma del martirio. Un pellegrinaggio spontaneo subito si sviluppò sul luogo della sua sepoltura e, nel tempo, si diffuse anche la credenza che il «santo levriero» – cosí era invocato – fosse in grado di trattenere i bambini malati presso

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di sé, restituendo ai genitori un loro «avatar» sano. L’inquisitore francese Stefano di Borbone, che ci ha lasciato testimonianza di questa storia, ordinò il disseppellimento e la dispersione delle ossa dell’animale, ma il culto non si fermò, proseguí anzi ancora piú forte e si mantenne vivo fino agli anni Trenta del Novecento. Piccole scarpine, lasciate come ex voto sull’antico sito di sepoltura, sono state lí rinvenute nel corso di una recente campagna

di scavi. La morte di un figlio o di una figlia non ancora battezzati tormentava i genitori medievali piú del loro decesso. Quando ciò accadeva, essi si recavano speranzosi presso alcuni speciali luoghi di culto, dove era possibile impetrare un frammento di vita: giusto il respiro necessario a ricevere l’unzione e il signum crucis. «Santuari di respiro» erano chiamati, e, anche in questo caso, la Chiesa intervenne a combatterne il culto.

Un rapporto complesso Nel tempo, il rapporto tra i laici e i religiosi non è stato sempre buono. Nel mondo cristiano, forse è stato meno difficile che presso altre religioni, ma si è rivelato comunque molto complesso. Proprio come nel caso del già citato Stefano di Borbone, il clero non sempre seppe, o volle, fornire risposte adeguate alle paure del gregge. Attraverso l’intricata storia dei santuari cristiani, André Vauchez ci fa scoprire tutti i fili che ne intrecciano la trama: dalla mancata comprensione verso i bisogni dei piú fragili alla necessaria prudenza di fronte a culti che rischiavano di scadere a fenomeno superstizioso. Se, in molti casi, fu il clero a fomentare la credulità

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CALEIDO SCOPIO «popolare» con l’intento di sfruttarla e servirsene, in altrettanto numerose ocasioni fu la comunità dei fedeli a chiedere con insistenza il riconoscimento di riti apotropaici e scaramantici. Accadde qualcosa di simile anche con il vituperato commercio delle indulgenze, sostiene Vauchez: anche in questo caso il percorso andò in senso inverso rispetto a come lo abbiamo immaginato. Fu la mentalità mercantile bassomedievale, abituata ad assegnare un prezzo a ogni cosa, a strappare alle gerarchie ecclesiastiche la concessione di un generale «sconto di pena», da ottenere in cambio di una congrua somma di danaro. Certo, la Chiesa si intestò un potere sull’Aldilà, che probabilmente sapeva di non avere, ma la dinamica – avverte Vauchez – fu piú complessa di come venne poi presentata dai protestanti.

La basilica della Santa Casa di Loreto (Ancona). Edificata tra il 1469 e il 1587, la chiesa è il cuore dell’omonimo Santuario Pontificio.

Non solo devozione

All’ascolto di tutti André Vauchez – beninteso – non si schiera né dalla parte degli uni, né degli altri, né con chi cercò o concesse, entro il perimetro del santuario, una grazia speciale, né con chi – tra le gerarchie ecclesiastiche, ma anche tra chi le contestava – combatté invece a priori ogni forma di miracoloso, derubricandolo con disprezzo a retaggio pagano. Da storico, Vauchez si limita a farci ascoltare le contrapposte voci in campo. L’oggetto del suo studio, il santuario, produce del resto un’articolata polifonia di suoni che distinti con attenzione ci restituiscono lo spaccato della società medievale. Da sempre, il santuario è stato il luogo in cui religiosità «popolare» e religiosità

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– presso un’antica statua della Madonna e strappatole il Bambino Gesú dal grembo, le disse: «Non riavrai il tuo bambino, se prima non mi restituirai il mio!».

istituzionale si sono incontrate, spesso senza stringersi la mano, trovando però un punto di equilibrio tra superstizione e devozione, tra proterva pretesa di ottenere un miracolo e umile ricerca di protezione. Non sempre – avverte Vauchez – chi si è inginocchiato per impetrare una grazia, lo ha fatto in modo disciplinato, mostrando reverenza nei confronti della divinità e fiducia nel suo operato. A volte è accaduto il contrario, come nel caso della donna di nome Jutta che, nei pressi di Nohfelden, in Germania, smarrí la propria figlia e, in seguito a fallimentari ricerche, si recò – come ci racconta il monaco cistercense Cesario di Heisterbach

Ma non sono solo i laici a mostrarsi rancorosi e aggressivi nei confronti della divinità, trattandola come semplice dispensatrice di grazie e favori. A volte, sono i religiosi stessi a farsi vendicativi verso i santi, Gesú o la Madonna, quando invocati, non concedono il miracolo sperato. Tra l’XI e il XII secolo, in pieno periodo di lotte per la definizione dei confini territoriali, abbazie e feudi laici si affrontano, e i monaci non accettano di vedersi sostenuti dai patroni celesti, che, danno per scontato, debbano stare dalla parte del potere religioso. In diverse abbazie del Nord Europa s’iniziò cosí a ricorrere all’«umiliazione dei santi»: a seguito di un miracolo disatteso, si estraevano le reliquie dalle nicchie e dalle teche in cui erano custodite e le si deponevano a terra, in modo che fossero svergognati pubblicamente per la loro impotenza. Il libro di André Vauchez offre una preziosa mappatura dei santuari cristiani d’Occidente, che ci permette di orientare i nostri passi «sulle orme del sacro», ma il suo saggio non è solo questo. La disamina minuziosa delle fonti storiche, archeologiche e iconografiche, piú che farci infatti avvicinare le strutture della devozione cristiana, ci fa cogliere la mentalità delle donne e degli uomini che quelle strutture frequentarono. Reliquie, oggetti agosto

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preziosi, magnifiche pale d’altare, antiche vie di pellegrinaggio, statue miracolose, sorgenti ritenute taumaturgiche, edicole votive affacciate a strapiombo sul Mediterraneo, formano il caleidoscopio attraverso il quale diviene possibile osservare le paure, i sogni e i bisogni dell’età medievale. Nel corso dei secoli, quelle paure e quei sogni sono stati capaci di tracciare un’identità precisa, quella europea. Un’identità marcatamente cristiana, che ha, però, e non di rado, inglobato – con o senza il consenso della Chiesa ufficiale – molti elementi della religiosità precedente, celtica o greco-romana. Che cos’è un santuario? Tutti, almeno una volta nella vita, abbiamo messo piede dentro le mura di un santuario, senza riuscire

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tuttavia a spiegare con chiarezza in cosa esso differisca da una chiesa ordinaria. È normale averne una percezione sfocata, spiega André Vauchez, perché la gestazione del fenomeno ci ha messo secoli a fornire una sua definizione.

Un riconoscimento tardivo Si è dovuto attendere il 1983, perché la parola «santuario» entrasse nel diritto canonico. Prima di allora, il santuario visse per lo piú da clandestino, osteggiato o appena tollerato dalla Chiesa ufficiale. Anche dopo il suo riconoscimento, sono stati comunque necessari decenni di dibattiti e convegni per arrivare a definirne il suo proprium. André Vauchez, che di quei dibattiti e di quei convegni è stato uno dei principali animatori, prima in veste di direttore dell’Ecole Française de Rome, poi in qualità di accademico

Glauco Maria Cantarella Inventario medievale Percorsi, storie e protagonisti dell’età di mezzo Carocci editore, Roma, 160 pp.

15,00 euro ISBN 978-88-290-1827-7 www.carocci.it

Mette voglia di leggerlo fin dal titolo, questo Inventario medievale, e bastano poche pagine per convincersi d’aver fatto la scelta giusta. Fin dalla prima affermazione di Cantarella, quando scrive che «Il Medioevo è un tempo strano» o, subito dopo, quando gli argomenti

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affrontati nel saggio vengono riuniti in una mappa concettuale

coloratissima e organizzata in uno stile che ricorda le

dell’Académie des Inscriptions et Belles Lettres, raccoglie in questo prezioso volume i frutti di una lunga e proficua stagione di studi. Lo fa con la penna felice degli storici francesi, che per tradizione vogliono raccontare la storia, prima ancora che analizzarla. Il peso dello spoglio dei tanti documenti, dei molti rilievi a grafite o a mezzo fotografico eseguiti sul posto, le interrogazioni di software e database, necessari per arrivare a quella definizione «che-cos’è-un-santuario?», non si avverte nelle pagine del libro. Reliquia dopo reliquia, miracolo dopo miracolo, ex voto dopo ex voto, senza che neppure ce ne accorgiamo, ci troviamo immersi nel vivo di questa complessa, quanto misteriosa materia, e, sulle «orme del sacro», troviamo da soli la nostra risposta. Chiara Mercuri

reti metropolitane di Parigi o New York. Argomenti che spaziano da quelli che l’autore indica come I fondamentali del millennio medievale ai Mondi della preghiera, dagli Interrogativi alla Costruzione della verità... Ciò che piú conta, però, è che, al di là di formule lessicali o invenzioni grafiche, le 160 pagine dell’opera sono dense di notizie e considerazioni sugli eventi e i protagonisti dell’età di Mezzo dispensate in una forma tutt’altro che aneddotica. Forte del suo magistero, infatti, Cantarella offre al lettore una griglia solida e puntuale, che

permette di collocare ogni elemento nel suo contesto e, soprattutto, di coglierne le relazioni con realtà coeve o le influenze esercitate nelle epoche successive. La rassegna, che si apre con un riepilogo degli estremi cronologici dell’epoca, a tutt’oggi fluttuanti, vede dunque sfilare tutti i protagonisti di dieci secoli di storia, dai grandi sovrani ai predicatori, dai cavalieri ai papi, in un «inventario» che dell’idea di un’elencazione asettica e un po’ polverosa ha solo il nome. Stefano Mammini

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ALLA SCOPERTA DELLE MERAVIGLIE DELL’ANATOLIA CLASSICA

TURCHIA EGEA La Turchia possiede un patrimonio culturale di straordinaria ricchezza e, per quanto riguarda l’archeologia, la sua porzione piú consistente si concentra nelle regioni bagnate dal Mar Egeo. Come grani di uno sfavillante diadema, lungo le coste che si snodano dallo Stretto dei Dardanelli al Golfo di Antalya e nel loro immediato entroterra si succedono siti e città di eccezionale rilevanza storica, architettonica e artistica: da Troia a Pergamo, da Smirne a Efeso, da Mileto ad Afrodisia... Centri toccati dal viaggio che Fabrizio Polacco propone nella nuova Monografia di «Archeo», sottolineando, di volta in volta, il ruolo svolto da ciascun insediamento nel corso delle vicende succedutesi nell’arco di molti secoli e le testimonianze che di quegli eventi si possono ancora oggi ammirare. Del resto, la Turchia egea fu teatro di avvenimenti davvero epocali, basti pensare alla guerra di Troia o alla realizzazione del mausoleo di Alicarnasso (oggi Bodrum), considerato una delle Sette Meraviglie dell’antichità. Un itinerario avvincente, dunque, costruito sulle puntuali descrizioni dei siti – frutto della personale conoscenza dei luoghi che l’autore ha acquisito nel corso di ripetuti soggiorni – alle quali si affianca un ricco corredo fotografico e cartografico. Gli argomenti

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