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O S U DI L LLI E PE LE UG TR OR AN AR M EI CA E
MEDIOEVO n. 320 SETTEMBRE 2023
EDIO VO M E www.medioevo.it
UN PASSATO DA RISCOPRIRE
SETTEMBRE 1325 SCONFITTA AD ALTOPASCIO
TRECENTONOVELLE CHI PERDONA I BURLONI?
Mens. Anno 27 numero 320 Settembre 2023 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
COSTUME E SOCIETÀ QUANDO LO STATO BATTE CASSA
DOSSIER
ORDINE
TEUTONICO
I CAVALIERI DALLA CROCE NERA
30320 9
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€ 6,50
COLLI EUGANEI ALTOPASCIO 1325 SIGNORELLI RISCOPERTO BURLONI FISCO DOSSIER ORDINE TEUTONICO
ESCLUSIVA CLAUDIO STRINATI «RISCOPRE» LUCA SIGNORELLI
IN EDICOLA IL 1° SETTEMBRE 2023
SOMMARIO
Settembre 2023 ANTEPRIMA
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IL MEDIOEVO IN PRIMA PAGINA Chiari, dolci, freschi, colli... di Stefania Romani
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APPUNTAMENTI L’Agenda del Mese
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STORIE BATTAGLIE Altopascio Castruccio ad Altopascio di Federico Canaccini
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20 COSTUME E SOCIETÀ IL TRECENTONOVELLE DI FRANCO SACCHETTI/8 Alla fiera delle burle di Corrado Occhipinti Confalonieri
LUCA SIGNORELLI IN UMBRIA/7 Il gran signore dell’Arte di Claudio Strinati
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IL FISCO NEL MEDIOEVO Mille anni di «questione fiscale» di Lorenzo Tanzini
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58 CALEIDOSCOPIO QUANDO I SANTI PRENDEVANO LE ARMI Sette teste sulla spada di Paolo Pinti 108
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LIBRI Lo Scaffale
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Dossier
ALLA CONQUISTA DELL’EST
La grande epopea dell’Ordine Teutonico di Tommaso Indelli 83
CO
DISUL LLI E PE LE UG TR OR AN AR M EI CA E
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Mens. Anno 27 numero 320 Settembre 2023 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
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MEDIOEVO Anno XXVII, n. 320 - settembre 2023 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Angelo Poliziano, 76 - 00184 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Alessia Pozzato
Hanno collaborato a questo numero: Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Francesco Colotta è giornalista. Tommaso Indelli è assegnista di ricerca in storia medievale presso l’Università degli Studi di Salerno. Corrado Occhipinti Confalonieri è storico e scrittore. Paolo Pinti è studioso di oplologia. Stefania Romani è giornalista. Claudio Strinati è storico dell’arte. Lorenzo Tanzini è professore associato di storia medievale presso l’Università degli Studi di Cagliari. Illustrazioni e immagini: Doc. red.: copertina (e p. 83) e pp. 22, 24, 26, 32-33, 48, 56-57, 59, 60, 62-65, 67, 70-73, 75, 76-80, 88-89, 94/95, 98-99, 108-109, 110 (sinistra) – Cortesia Studio ESSECI: pp. 6-9 – Mondadori Portfolio: Veneranda Biblioteca Ambrosiana: p. 20; Heritage Images: pp. 28/29; Electa/Sergio Anelli: pp. 36, 39; Erich Lessing/K&K Archive: pp. 37, 61; Archivio Grzegorz Galazka/Grzegorz Galazka: pp. 42/43; Archivio Lensini/ Fabio e Andrea Lensini: p. 44; Album/Prisma: pp. 49, 50; Album/Jeab Vigne/Kharbine-Tapabor: pp. 52/53; Album/ Quintlox: pp. 54, 97; Fine Art Images/Heritage Images: p. 55; Darchivio/opale.photo: p. 58; Index/Heritage Images: pp. 66/67; Heritage Images: pp. 68/69; The Print Collector/ Heritage Images: p. 90; AKG Images: p. 104; Album/Fine Art Images: pp. 106/107 – Shutterstock: pp. 21, 26/27, 30/31, 34/35, 40-41, 50/51, 84/85, 86/87, 100-103, 104/105 – National Gallery of Art, Washington: p. 25 – Stefano Mammini: p. 28 – Cortesia degli autori: pp. 38 – The Cleveland Museum of Art, Cleveland: p. 74 – Staatliche Museen zu Berlin, Skulpturensammlung und Museum für Byzantinische Kunst: Antje Voigt: p. 110 (destra) – Patrizia Ferrandes: cartine alle pp. 23, 91, 93 – Cippigraphix: cartine alle pp. 86, 96. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.
Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it
Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 49572016 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 - Via Dalmazia, 13 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Servizio Arretrati a cura di Press-Di Distribuzione Stampa e Multimedia Srl 20090 Segrate (MI) I clienti privati possono richiedere copie degli arretrati tramite e-mail agli indirizzi: collez@mondadori.it e arretrati@mondadori.it Per le edicole e i distributori è inoltre disponibile il sito https://arretrati. pressdi.it In copertina riproduzione di un perduto acquerello seicentesco raffigurante la Morte e il cavaliere teutonico. Berna, Bernisches Historisches Museum.
Prossimamente itinerari
uomini e sapori
dossier
Le mura di Monteriggioni
Le virtú del vino medievale
Chiavi e serrature
Errata corrige con riferimento al dossier La traversata maledetta (vedi «Medioevo» n. 318, luglio 2023) desideriamo rettificare le date relative a Guglielmo I di Normandia, il Conquistatore, che fu re d’Inghilterra dal 1066 al 1087 (e non dal 1087 al 1134), e segnalare che la foto di p. 95 riproduce un particolare della tomba di Eleonora d’Aquitania e non di quella di Isabella di Angoulême. Del tutto ci scusiamo con l’autore dell’articolo e con i nostri lettori
il medioevo in
rima
agina
Chiari, dolci, freschi colli... ITINERARI • Con epicentro ad Arquà Petrarca, è stato attivato il Parco Letterario,
un’iniziativa pensata per favorire la conoscenza degli incantevoli paesaggi dei Colli Euganei, seguendo le suggestioni offerte dalle testimonianze dei molti e illustri scrittori e poeti che frequentarono i luoghi già cari all’autore del Canzoniere
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er gli amanti della letteratura, alla celebre Casa Museo di Francesco Petrarca ad Arquà (Padova), sui Colli Euganei, dove l’autore del Canzoniere trascorse gli ultimi anni di vita, si sono ora aggiunte le numerose tappe del Parco Letterario, inaugurato a coronamento di anni di ricerche d’archivio e progetti sul territorio. Il circuito della Via Poetica si dipana attraverso 57 targhe, che riportano altrettanti brani di prosa o di poesia dedicati al paesaggio da scrittori di epoche diverse. Dopo il soggiorno del grande compositore aretino, che lanciò una tendenza europea, i dolci rilievi divennero infatti una destinazione fra le piú gettonate del Grand Tour: per l’area termale a pochi chilometri da Padova sono passati, fra gli altri, George Byron, Ugo Foscolo, Gabriele d’Annunzio, Antonio Fogazzaro e Dino Buzzati. L’idea del percorso tematico muove dall’obiettivo di suggerire la visita ai luoghi attraverso gli
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In alto una veduta di Arquà Petrarca. A sinistra la Casa Museo di Francesco Petrarca. Qui il poeta trascorse i suoi ultimi anni di vita, lavorando al Canzoniere e ad altre opere.
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MEDIOEVO
occhi e le emozioni dei narratori, con un punto di vista inedito su borghi, profili collinari, vigneti che si adagiano sui terrazzamenti. Le targhe sono collocate all’interno di un anello attrezzato per il cicloturismo, che, in 67 chilometri, racchiude castelli, conventi, ville, giardini storici, il cui fascino è esaltato dalle citazioni letterarie.
Una straripante ricchezza di fertilità Naturalmente tutto parte da Arquà, che conserva l’impronta del borgo trecentesco circondato dal verde scelto da Petrarca. Segna l’ingresso alla parte bassa dell’abitato un arco con una frase di Joseph Viktor Widmann, autore tedesco di viaggi che si cimentò anche in drammi e poesie: «ovunque lo sguardo si posi, tutto colpisce in questa incantevole zona montuosa, per la straripante ricchezza di fertilità». Di fronte alla chiesa di S. Maria Assunta si trova la Tomba del poeta, ricordata da Byron ne Il pellegrinaggio del giovane Aroldo, mentre la salita verso la porzione alta del paese è inserita da Foscolo ne Le ultime lettere di Jacopo Ortis. Fra alberi di giuggiola, frutto alla base di diverse ricette locali, l’itinerario porta all’Oratorio della Santissima Trinità, dove l’anziano Francesco pregava, e alla Casa Museo, introdotta da una targa con versi del Canzoniere dedicati al territorio. Nella struttura, con una loggia del Cinquecento che si apre sul giardino interno, lo scrittore, che nel tempo libero amava occuparsi di innesti, si dedicò alla revisione del Canzoniere, ai Trionfi, In alto l’abbazia di Praglia (Teolo, Padova), una delle mete suggerite dalla Via Poetica del Parco Letterario. A sinistra il canale Battaglia.
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In questa pagina, dall’alto il chiostro dell’abbazia di Praglia, l’oratorio della Santissima Trinità di Arquà Petrarca e la Tomba di Francesco Petrarca, che morí nella notte tra il 18 e il 19 luglio del 1374.
alle Senili e alla traduzione in latino della novella boccaccesca Griselda.
Turisti illustri Poi è possibile ripercorrere in barca un tratto del circuito che Petrarca seguiva per spostarsi fra Padova e la campagna. Partendo dal castello tardo-cinquecentesco del Catajo, l’imbarcazione raggiunge il centro storico di Battaglia Terme, solcato dai canali Battaglia, Bisatto e Vigenzone, che gli conferiscono un aspetto pittoresco. Qui, fin dal Medioevo arrivavano ospiti illustri per la grotta termale, frequentata nei secoli successivi anche da Stendhal e Michel de Montaigne. A testimonianza del passato, quando parecchi abitanti erano barcaioli o lavoravano nella seconda cartiera italiana
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MEDIOEVO
Dida, niet qui odio quisquunt, soluptae? Pe moloressenim estis enduci quia nim sequi doluptu rescius eni optiur, quae
In alto, sulle due pagine il giardino dell’abbazia di Praglia. A destra il laboratorio di restauro del libro dell’abbazia di Praglia. dopo Fabriano, merita una visita il Museo della Navigazione Fluviale. Un’altra meta interessante è sicuramente l’abbazia benedettina di Praglia, eretta fra l’XI e il XII secolo lungo la via che da Padova portava a Este, nell’attuale Comune di Teolo. Dipendente dal centro mantovano di San Benedetto al Polirone, per volontà del pontefice Callisto II, la comunità divenne autonoma all’inizio del Trecento, scegliendo l’abate fra i propri religiosi. Dopo un periodo di splendore e ben due chiusure nel corso del XIX secolo – prima per le soppressioni napoleoniche e poi per quelle di una legge varata in Veneto –, il convento nel 1904 accolse i primi due monaci.
Il fascino del mare verdognolo Oggi i religiosi sono 35 e si dedicano a diverse attività: grazie agli 11 ettari di vigneti ogni anno vengono prodotte fra le 50 e le 60mila bottiglie, di una quindicina di etichette, a cui aggiungere il vino venduto sfuso. L’orto dà prodotti utilizzati per creme, liquori, saponi, tisane, articoli parafarmaceutici, c’è un laboratorio
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Un sistema di fruizione integrato I circuiti letterari del Parco Letterario Francesco Petrarca e dei Colli Euganei si possono intrecciare con le piste ciclabili, con i percorsi legati al vino, con quelli termali o sportivi, con una possibilità vastissima di combinazioni. Sul sito si trovano anche informazioni su iniziative quali serate di musica, presentazioni di libri, incontri letterari. Info: www.parcopetrarca.com per il restauro del libro e della carta, mentre la biblioteca custodisce circa 160mila volumi. Tra questi, spicca il Fondo Fogazzaro, composto da 1500 volumi donati dal proprietario, che si possono vedere su richiesta. Del resto, l’autore modernista ha ambientato proprio fra Praglia e il borgo vicentino di Montegalda il suo Piccolo mondo moderno. Nella badia si possono ammirare il refettorio attraverso le parole della protagonista del romanzo Jeanne Desalle e la campagna, dalla terrazza, con gli occhi dell’altro personaggio Piero Maironi che si inebriava per la veduta di «mare verdognolo». Stefania Romani
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ANTE PRIMA
La disfida si rinnova
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a «guerra di Serrezzana» è un evento bellico integrante della storia della città di Sarzana. La fortuna di aver potuto ritrovare e conservare, nel XIX secolo, l’omonima Guerra di Serrezzana, un poema sincronico in ottava rima di autore fiorentino, ci permette di conservare alcuni dettagli importanti della tattica militare ossidionale del tardo XV secolo. La disfida tra i Genovesi capitanati da Gianluigi Fieschi e i Fiorentini di Lorenzo il Magnifico tornerà a prendere forma sotto le imponenti mura della fortezza Firmafede il 7-8 ottobre prossimi a Sarzana. Un gran numero di gruppi storici italiani ed europei specializzati nella ricostruzione di eventi del XV secolo accorreranno per poter rievocare questo episodio importantissimo per la storia della Liguria di Levante. «Sarzana Senza Tempo» è uno spettacolo che si svolge dal vivo, realizzato su solide basi filologiche e creato per suscitare stupore. Ma, allo stesso tempo, è didattica per grandi e piccini grazie alla collaborazione con i musei spezzini del Sigillo e del Castello di San Giorgio. Dove archeologi e operatori del settore offrono la possibilità alle famiglie di poter apprendere le tecniche di una vita semplice ormai dimenticata... dall’accensione del fuoco con pietra focaia, alla realizzazione di formelle in argilla, alla pittura miniata. Il poema La Guerra di Serrezzana fu composto sul finire del XV secolo da mano ignota, probabilmente uno degli alfieri del Magnifico; inoltre è musica originale composta da Isaac Heinrich proprio presso la corte del Magnifico per esaltare la vittoria con il brano «a la Battaglia» e ora è rievocazione per la valorizzazione del patrimonio monumentale, le splendide fortezze sarzanesi costruite dai Medici a protezione del confine. Uno stile architettonico che ha dato a Sarzana una connotazione medicea, per cui è lecito ribattezzarla come la «Firenze della Lunigiana».
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Immagini di repertorio delle passate edizioni di «Sarzana Senza Tempo», la rievocazione storica che animerà la cittadina ligure il 7 e 8 ottobre prossimi e avrà il suo momento clou nella ricostruzione della disfida tra Genovesi e Fiorentini.
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MEDIOEVO
ANTE PRIMA
Un festival fatto di segni
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eltre si appresta a tenere a battesimo un nuovo e originalissimo Festival dedicato all’araldica, ovvero alla disciplina che studia gli stemmi: un mondo fatto di segni, simboli, colori e figure piú o meno fantastiche nati a partire dal Medioevo e che costituivano gli emblemi d’identità di famiglie nobili e cittadinesche, uomini di Chiesa, corporazioni, città, ordini. Un vero e proprio linguaggio per immagini e smalti ancora oggi visibile sulle vie e i palazzi di tante città e che a Feltre in particolare si è conservato con un numero straordinario di testimonianze. Da qui – spiega l’Amministrazione cittadina – la scelta di realizzare a Feltre un Festival dell’Araldica, che offra a curiosi e appassionati l’opportunità di scoprire i messaggi e le storie racchiusi dietro gli stemmi: non solo quelli feltrini o veneti, cui verranno dedicati ovviamente dei momenti di approfondimento specifici, ma in generale tutte le insegne araldiche. Sarà un viaggio attraverso la storia dell’Occidente europeo, alle radici culturali del nostro presente. Basti a questo proposito pensare come proprio gli stemmi siano gli antenati dei nostri «loghi». La manifestazione, che si articola nelle prime due settimane di ottobre, intende offrire momenti di approfondimento agli studiosi della disciplina, ma anche proporre a curiosi e appassionati di tutte le età occasioni per conoscere un mondo tanto ricco quanto affascinante. Interamente curato dall’Ufficio Cultura, Politiche
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A sinistra una veduta di Feltre e, qui sopra, lo stemma Muffoni, uno dei numerosi emblemi presenti nella cittadina. In basso stemma dei Ramponi, dallo Stemmario delle famiglie nobili di Feltre. 1928. Giovanili, Istruzione, Servizi all’Infanzia del Comune di Feltre con il patrocinio di Città di Venezia e Regione del Veneto, il Festival dell’Araldica è realizzato sotto gli auspici di sodalizi e realtà di riferimento del settore, che a titolo diverso hanno collaborato alla sua realizzazione: Associazione Nobiliare Regionale Veneta, Gran Priorato di Lombardia e Venezia dell’Ordine di Malta, Società Italiana di Studi Araldici. Tra i relatori ci saranno studiosi di assoluto riferimento a livello internazionale come l’insigne medievista Franco Cardini, che parlerà di araldica e mezzaluna, spaziando tra la storia e la simbologia (15 ottobre) e con riferimenti anche al contesto veneto. Sarà dedicata alla percezione dei colori, tra Medioevo ed età contemporanea, l’intervento (8 ottobre) di Riccardo Falcinelli. Non mancheranno approfondimenti rivolti a insegnanti, genitori ed educatori, uno spettacolo inedito di e con Luca Scarlini dedicato proprio all’araldica (7 ottobre), attività per i piú piccoli e poi molteplici eventi e iniziative come la mostra mercato di libri d’arte, storia, araldica organizzata il 7 e 8 ottobre a cura e nel contesto del Mercatino dell’oggetto ritrovato e realizzata con il patrocinio e la presenza dell’Associazione Editori Veneti. settembre
MEDIOEVO
AGENDA DEL MESE
Mostre TORINO METALLI SOVRANI. LA FESTA, LA CACCIA E IL FIRMAMENTO NELL’ISLAM MEDIEVALE MAO, Museo d’Arte Orientale fino al 17 settembre
La seconda tappa del viaggio di avvicinamento alla grande mostra dell’autunno dedicata all’arte dei Paesi tra estremo Oriente e centro Asia fino alle sponde del Mediterraneo è un progetto dedicato ai piú raffinati oggetti di arte islamica
in metallo e rappresenta la prima collaborazione fra il Museo d’Arte Orientale e la Aron Collection. L’esposizione presenta una mirata selezione delle principali tipologie di oggetti della metallistica islamica (bruciaprofumi, portapenne, candelieri, vassoi, bacili, coppe, bottiglie porta profumo) che, insieme alla miniatura, può essere considerata tra le piú alte espressioni della creatività artistica musulmana. Una creatività che dalla Persia si diffondeva nel mondo come un linguaggio, raggiungendo a Oriente l’India e la Cina e arrivando in Occidente alle pendici dell’Atlante. Frutto di ammirazione e di imitazione raggiunse anche l’Europa, dimostrando quanto le frontiere politiche e
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a cura di Stefano Mammini
religiose non corrispondessero affatto a quelle della percezione estetica. info tel. 011 4436932; www.maotorino.it FERRARA CASE DI VITA. SINAGOGHE E CIMITERI IN ITALIA Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah – MEIS fino al 17 settembre
Storie di città e umanità si intrecciano nella nuova esposizione del MEIS, che approfondisce in modo originale l’aspetto architettonico, rituale e sociale della sinagoga e del cimitero ebraico e, parallelamente, il rapporto tra luoghi sacri, la loro evoluzione e i cambiamenti che ha affrontato l’Italia in oltre duemila anni di storia dell’ebraismo italiano. Le sale ricostruiscono un percorso che, attraverso la speciale lente della storia delle architetture, testimonia i momenti piú complessi e quelli piú felici della presenza ebraica in Italia. Dalla sinagoga di epoca romana di Ostia Antica a quelle rinascimentali adibite alla preghiera e allo studio, passando per quelle nascoste negli edifici dei ghetti del XVI secolo, la mostra attraverso disegni, documenti e oggetti
straordinari ricostruisce le varie tappe evolutive degli spazi di culto ebraici. info tel. 0532 1912039; e-mail: info@meisweb.it ANGHIARI INTELLETTUALI IN BATTAGLIA, FAMA E OBLIO DI DUE LETTERATI DALLA BATTAGLIA DI ANGHIARI ALL’ASSEDIO DI FAMAGOSTA Museo della Battaglia e di Anghiari fino al 17 settembre
Obiettivo della mostra è quello di narrare gesta e opere dei letterati Federigo Nomi e Girolamo Magi, vissuti nel Cinquecento e nel Seicento e nati ad Anghiari. Il borgo ospita opere manoscritte e a stampa provenienti da importanti istituzioni culturali e dipinti dalla Galleria degli Uffizi: un vero e proprio itinerario tra le corti dei Medici
e Venezia, dove Nomi e Magi vissero e lavorarono. Tra i prestiti dagli Uffizi, La fama e l’oblio di Nicolas Tournier, La donna e il soldato di Gerard Ter Borch e alcuni ritratti dei protagonisti della mostra, come quelli di Francesco Redi, Selim II, Pietro Aretino. E poi ancora, dalla Biblioteca Città di Arezzo, alcuni dei volumi a stampa delle opere piú significative di Magi, dal Museo delle Arti e Tradizioni Popolari dell’Alta Valle del Tevere di Palazzo Taglieschi il Ritratto di Federigo Nomi, dalla biblioteca della Nuova Fondazione Pedretti una rara edizione degli Elogia di Paolo Giovio e grazie alla collaborazione con la Biblioteca comunale degli Intronati di Siena è possibile il confronto fra l’opera di Dürer settembre
MEDIOEVO
e gli studi di Girolamo Magi. Sono stati inoltre realizzati alcuni modelli di macchine inventate da Girolamo Magi, con i quali è possibile sperimentare direttamente in mostra le invenzioni tecnologiche che egli realizzò nel XVI secolo. info tel. 0575 787023; e-mail: museobattaglia@anghiari. it; www.battaglia.anghiari.it
divenendo «un faro per i grandi del Rinascimento». La mostra di Cortona, riunendo nella città di Luca dopo settant’anni una trentina di opere dell’artista provenienti da prestigiosi musei italiani ed esteri, compresi importanti prestiti da collezioni private e da oltreoceano, sarà dunque un’occasione per celebrare e consacrare definitivamente Luca da Cortona tra i grandi artisti del tempo, alla luce anche degli studi piú recenti. info tel. 0575 630415; e-mail: info@cortonamaec.org; https://cortonamaec.org/
ROMA BRONZO E ORO. ROMA, PAPA INNOCENZO III: RACCONTO IMMERSIVO DI UN CAPOLAVORO Vittoriano, Sala Zanardelli fino al 1° ottobre
L’esposizione ruota intorno alla lunetta della Nicchia dei Palli, uno straordinario manufatto di oreficeria medievale in bronzo dorato e, insieme, anche la piú importante opera d’arte superstite connessa alla figura di papa Innocenzo III (1198-1216). Realizzata da maestranze di Limoges che al tempo risiedevano a Roma, la lunetta era in origine destinata con ogni probabilità alla basilica costantiniana di S. Pietro in Vaticano: sopravvissuta alla demolizione della basilica primitiva, l’opera è giunta a Palazzo Venezia, dove si trova ancora oggi. Il manufatto è il fulcro intorno a cui viene ricostruita e narrata la figura di Innocenzo III, un
MEDIOEVO
settembre
FELTRE
papa capace di condizionare l’intero Medioevo, come dimostra fra l’altro il rapporto con san Francesco. Parallelamente, si vuole far meglio comprendere l’assetto dell’antica basilica di S. Pietro, nell’occasione restituita attraverso la realtà immersiva. info vive.cultura.gov.it CORTONA SIGNORELLI 500. MAESTRO LUCA DA CORTONA, PITTORE DI LUCE E POESIA Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona fino all’8 ottobre
Straordinario innovatore della stagione rinascimentale, Luca Signorelli (1450-1523) – al secolo, Luca d’Egidio di Ventura o Luca da Cortona – è stata una figura per molti versi sfuggente per la critica e il pubblico, eppure fondamentale nel tracciare la strada che sarà seguita da Raffaello e Michelangelo: i due giganti che, ironia della sorte, finirono in seguito per oscurarne la fama. Nel cinquecentenario della morte, Cortona – la città natale a cui Signorelli fu sempre legato, assumendo anche incarichi pubblici nonostante i viaggi e la ripetuta lontananza – getta nuova luce sull’artista, con una mostra che volutamente si concentra sulla produzione pittorica del maestro con l’obiettivo di ripercorrerne la carriera, rendendo evidente la forza del suo colorismo, la portata e l’originalità delle sue invenzioni tanto ammirate da Vasari, la potenza narrativa delle opere e la capacità che egli ebbe di andare oltre i suoi contemporanei,
LE PRIGIONI DELLA MENTE. DRAGHI, BASILISCHI, RETTILI FANTASTICI Antiche prigioni di Palazzo Pretorio fino al 31 ottobre
Allestita negli spazi delle antiche prigioni veneziane, l’esposizione è una delle attese anteprime del Festival dell’araldica di Feltre, in programma per le prime due settimane del prossimo ottobre e che si proporrà come un’occasione per esplorare il mondo degli stemmi e il loro linguaggio di figure, segni, simboli e colori. Tra di essi anche draghi e creature a essi affini, espressioni di un
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immaginario collettivo che dalle testimonianze di epoca classica arriva, passando per i bestiari medievali e i racconti della tradizione orale, fino ai giorni nostri e a serie televisive e film di straordinario successo. Lungi dall’essere solo figure dell’immaginario, essi – come raccontano gli organizzatori del Festival – costituivano presenze concrete nella vita reale ed esprimevano nel loro stesso esistere sogni, credenze e paure: «le prigioni della mente», cioè quell’insieme di convinzioni attraverso cui noi uomini ieri come oggi filtriamo l’esperienza del reale. In mostra installazioni costituite da video e immagini, sculture e decorazioni di draghi e rettili ancora visibili sul territorio feltrino. Un’esperienza immersiva visiva che interagisce con narrazioni sonore in dialetto e in italiano di leggende della tradizione orale della montagna bellunese raccolti e pubblicati da Daniela Perco e Carlo Zoldan in due volumi editi dalla Provincia di Belluno. info www.visitfeltre.info SIENA DALLA SPADA ALLA CROCE. IL RELIQUIARIO DI SAN GALGANO RESTAURATO Cripta del Duomo fino al 5 novembre
cinque calici e soprattutto un capolavoro della produzione orafa senese del XIV secolo, il Reliquiario di San Galgano, oggetto mirabile e di intensa devozione popolare. Su di esso, decorate finemente in preziosi smalti traslucidi, sono raffigurate le scene della vita del santo e della sua spada. Secondo la tradizione, Galgano sarebbe nato nel borgo senese di Chiusdino. Cavaliere appartenente alla piccola nobiltà locale, si convertí alla vita ascetica ed eremitica dopo le visioni dell’Arcangelo Michele, come rappresentato nelle sei scene del Reliquiario. Condusse la sua vita monastica nell’Eremo di Montesiepi, da lui edificato su una collina vicina al luogo dove sarebbe sorta l’Abbazia.
Morí, secondo le fonti, il 30 novembre 1181. Appena quattro anni dopo, a seguito dei doverosi accertamenti canonici, papa Lucio III lo proclamò santo nel 1185. info tel. 0577 286300; e-mail: opasiena@operalaboratori.com URBINO IL PALAZZO DUCALE DI URBINO. I FRAMMENTI E IL TUTTO Palazzo Ducale, Galleria Nazionale delle Marche fino all’11 novembre
«Tra le altre cose sue lodevoli, nell’aspero sito di Urbino edificò un palazzo, secondo la opinione di molti, il piú bello che in tutta Italia si ritrovi; e d’ogni opportuna cosa sí ben lo forní, che non un palazzo ma una città in forma di palazzo esser pareva». Cosí
scrisse Baldassarre Castiglione ne Il libro del cortegiano pubblicato nel 1528; in effetti, la ricchezza del Palazzo Ducale di Urbino non è data solo dalla sua qualità architettonica e decorativa, ma anche nell’essere un frammento di città, una sorta d’infrastruttura che si unisce a Urbino e genera una complessità unica tra gli spazi privati del Duca e della corte, i luoghi pubblici della città e il paesaggio verso il quale si apre. Nonostante il ruolo centrale e un’essenza da capolavoro indiscusso del Rinascimento italiano, il Palazzo Ducale di Urbino non ha l’attenzione e la comprensione pubblica che merita. Da qui l’idea di una grande mostra nell’edificio che ospita la Galleria Nazionale delle Marche, con l’obiettivo di far scoprire al grande pubblico il Palazzo Ducale, la sua importanza e complessità storica e architettonica, non solo come spazio di grande qualità che ospita preziose opere d’arte, ma anche come manufatto spaziale raffinato e complesso che può coinvolgere i visitatori con la ricchezza dei suoi dettagli e del suo impianto. info tel. 0722 2760; www.gallerianazionalemarche.it
Un furto clamoroso, nel lontano 1989, dal Museo del Seminario Arcivescovile di Siena. Uno straordinario recupero, oltre trent’anni piú tardi, grazie al Comando dei Carabinieri, Tutela Patrimonio Culturale. E infine il restauro, eseguito nei Laboratori dei Musei Vaticani. È questa l’occasione per inaugurare la mostra «Dalla Spada alla Croce». Al centro della vicenda, una croce liturgica, due pissidi,
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neorinascimentale. Nel 1977 la Villa viene destinata alla Regione Piemonte. Cristina Moro, nel 2014 ritrova due opere di soggetto allegorico attribuite alla «Scuola di Veronese» che a un piú attento esame si mostrano riconducibili alla mano del maestro stesso. E proprio da qui parte la mostra. info tel. 0323 502254; e-mail: segreteria@museodelpaesaggio.it; www.museodelpaesaggio.it
Appuntamenti VENEZIA TIZIANO 1508. AGLI ESORDI DI UNA LUMINOSA CARRIERA Gallerie dell’Accademia fino al 3 dicembre (dal 9 settembre)
Nel 1508, in una Venezia dominata dai celebri Giovanni Bellini e Giorgione, inizia a emergere la figura di Tiziano che presto supererà la fama di entrambi. È quello, infatti, un anno di svolta, non solo per la carriera di Tiziano, ma per l’intera arte veneziana e, in qualche modo, europea. È in questo momento che il giovane cadorino, quasi ventenne, dimostra il suo talento grazie a imprese pubbliche importanti come la Giuditta con la testa di Oloferne, affresco realizzato sulla facciata laterale del Fondaco dei Tedeschi che, per la vivacità delle tinte e l’impostazione grandiosa, lasciò increduli i contemporanei e, in seguito, i posteri. La mostra racconta appunto la nascita del talentuoso artista attraverso 17 opere autografe di Tiziano e una decina di confronti con dipinti, incisioni e disegni di autori a lui contemporanei come Giorgione, Sebastiano
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del Piombo, Albrecht Dürer e Francesco Vecellio. Tra i lavori esposti ci sono importanti prestiti, per esempio la grande stampa del Trionfo di Cristo della Bibliothèque nationale de France, il Cristo risorto degli Uffizi, la Madonna con il Bambino tra sant’Antonio da Padova e san Rocco del Museo del Prado e il Battesimo di Cristo dei Musei Capitolini. Il percorso accompagna il visitatore nel comprendere la capacità straordinaria dell’artista di assimilare velocemente componenti culturali diverse – in particolare giorgionesche, düreriane e michelangiolesche – e indirizzare il linguaggio pittorico veneziano verso una commistione di naturalismo e classicismo. info www.gallerieaccademia.it VERBANIA VERONESE SUL LAGO MAGGIORE. STORIA DI UNA COLLEZIONE Museo del Paesaggio fino al 25 febbraio 2024
Sono riunti nel Palazzo Viani Dugnani di Verbania due capolavori cinquecenteschi di Paolo Veronese – una coppia
MODENA-CARPISASSUOLO FESTIVALFILOSOFIA XXIII EDIZIONE PAROLA 15-17 settembre
L’edizione 2023 del Festivalfilosofia è dedicata a parola, per discutere la centralità del linguaggio, della lingua e della presa di parola in un’epoca – caratterizzata dal dominio della comunicazione – che paradossalmente sembra tuttavia indebolirla. Si mostrerà
di importanti Allegorie –, arricchiti dalla storia del loro ritrovamento e dalla descrizione del loro luogo di provenienza: Villa San Remigio, di proprietà del Marchese Silvio della Valle di Casanova e di sua moglie Sophie Browne. Il complesso comprende un ampio giardino disposto su terrazze e una villa su due piani. Il piano rialzato dell’abitazione richiama una dimora signorile del Cinquecento: gli ambienti interni, gli arredi e le opere d’arte alle pareti sono caratterizzati da un forte gusto
il carattere istitutivo e performativo della parola nei suoi vari registri, stando sul crinale tra natura evoluzionistica e carattere culturale del parlare. Tra «logos» e fondamenti teologici, creazione di mondi istituzionali e fantastici, la parola si rivelerà essenziale alla vita e alla convivenza, con la responsabilità che ne consegue di farne buon uso. info www.festivalfilosofia.it
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ANTE PRIMA
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MEDICI IN PRIMA LINEA FOLLIE, LEGGENDE E CONQUISTE DELLA MEDICINA NELL’ETÀ DI MEZZO
A
l di là dell’argomento a cui è dedicato, questo nuovo Dossier di «Medioevo» offre l’ennesima conferma di quanto poco credibile possa ancora essere considerata la vulgata secondo la quale i secoli dell’età di Mezzo avrebbero costituito una fase «buia» nella storia dell’umanità. Infatti, forti della consolidata tradizione greca e romana, i medici attivi nel millennio medievale furono artefici di importanti sviluppi nel campo della pratica terapeutica e della chirurgia. Senza dubbio, alcuni dei rimedi e delle cure proposti ai pazienti possono apparire ai nostri occhi piú vicini a riti sciamanici o stregoneschi, ma si tratta di casi circoscritti
e, comunque, dettati dal desiderio di trovare soluzioni a malattie non di rado devastanti, prima fra tutte la peste. E, a riprova di un approccio razionale e sistematico, non si può dimenticare che proprio nel Medioevo venne fondata la Scuola Medica di Salerno, furono create le prime facoltà universitarie di medicina e al ricovero dei pazienti si fece fronte con la realizzazione dei primi grandi ospedali. Vicende che nel nuovo Dossier di «Medioevo» vengono puntualmente ripercorse e illustrate da immagini in molti casi coeve, segno tangibile della diffusione su larga scala di pratiche sempre piú specializzate. San Cosma e San Damiano guariscono il diacono Giustiniano, scomparto della predella della Pala di San Marco, tempera su tavola del Beato Angelico. 1438-1440. Firenze, Museo di San Marco.
art. 1, c.1, LO/MI.
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N°57 Luglio/Agosto 2023 Rivista Bimestrale
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GLI ARGOMENTI
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• Storia di una scienza • Le malattie • Le terapie • Ospedali e farmacie MEDIOEVO
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Ritratto di Castruccio Castracani, olio su tela attribuito ad Antonio Maria Crespi. Post 1613-ante 1621. Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana. Nella pagina accanto Lucca, la cattedrale di S. Martino.
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Castruccio ad Altopascio di Federico Canaccini
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Annoverato tra i piú esperti condottieri del Trecento: il ghibellino Castracani, divenuto signore della città di Lucca, assunse presto il controllo della Lunigiana e di parte della Liguria. Nell’estate del 1325, però, contro di lui mosse un esercito enorme capeggiato da Firenze, con l’intenzione di ristabilire l’equilibrio regionale. I guelfi fiorentini, però, non avevano fatto i conti con le abilità del comandante lucchese, poi decantate, anche da Niccolò Machiavelli… MEDIOEVO
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l 21 maggio del 1325, dopo i rintocchi di campana delle tre del pomeriggio, «uno grandissimo tremuoto» scosse le case di Firenze. Benché breve, a detta del cronista fiorentino Giovanni Villani, esso turbò certamente la quotidianità dei Fiorentini. Il giorno dopo, alla sera, alcuni giurarono di aver visto in cielo «uno grandissimo raggio di vapore di fuoco» proprio sopra la città. Alla luce di questi eventi, immediatamente interpretati come nefasti, in molti credettero che stesse per avvicinarsi un «futuro pericolo e novitade». Non fu certamente casuale la scelta narrativa operata dal Villani di apporre queste note nei capitoli che precedono la descrizione degli eventi che culminarono nella giornata di Altopascio (borgo della Toscana settentrionale, nell’odierna provincia di Lucca, n.d.r.), teatro di una delle piú gravi sconfitte mai subíte da Firenze. Ai primi del Trecento, la Toscana era nuovamente divisa in due schieramenti che ancora utilizzavano gli altisonanti nomi di «guelfi» e «ghibellini», benché il significato dei
due termini fosse ormai completamente mutato e certamente diverso da quello che avevano nel corso del Duecento, quando infuriava il conflitto tra gli Svevi, il papato e gli Angiò. A Firenze, ormai, si erano imposti i guelfi e, tra i bianchi e i neri, avevano prevalso i secondi: nello scacchiere geopolitico toscano si era poi formata da decenni una lega tra città cosiddette guelfe che, di volta in volta, si schieravano contro centri di minoranza e di opposizione che, come una cartina di tornasole, divenivano per contrasto, immediatamente ghibelline. Tra queste figuravano, negli anni Venti del Trecento, Arezzo, capeggiata da un anacronistico vescovosignore, Guido dei Tarlati da Pietramala, e Lucca, guidata da Castruccio Castracani, uno dei piú abili ed esperti condottieri del Trecento. Nel 1316, dopo un periodo di esilio e dopo essere stato liberato dal carcere – e, probabilmente, anche da morte certa per il dissidio con il suo antagonista, Uguccione della Faggiuola –, Castracani ottenne il titolo di Capitaneus et Defensor Civitatis di Lucca.
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battaglie altopascio Negli anni seguenti il suo potere e la sua fama crebbero rapidamente al punto che i Lucchesi lo elessero signore della città a vita.
Un valico cruciale
Tra il 1317 e il 1321, il leader ghibellino della Toscana occidentale assunse il controllo della Lunigiana, di parte della Liguria orientale, nonché del borgo e del passo di Pontremoli, cruciale valico che immetteva in Lombardia dove, in quegli anni, signoreggiavano i ghibellini Visconti, alleati preziosi nel conflitto che stava incendiando il Centro-Nord della Penisola. Nel quadrante orientale della Toscana, poi, il vescovo aretino Guido Tarlati, stava contemporaneamente conducendo un’analoga politica di espansione contro Firenze, Siena e Perugia, conquistando o radendo al suolo castelli e fortilizi di importanza strategica e venendo nominato, al pari di Castruccio, signore a vita della città. Firenze guelfa si trovava di fatto in una situazione pericolosa, stretta tra due territori di posizione ghibellina con due signori particolarmente intraprendenti che, se avessero stipulato un’alleanza, avrebbero potuto rivelarsi una minaccia, complice anche il risorgere di speranze imperiali, alimentate da figure di
Nella Germania del XII secolo, alla morte di Enrico V (1125), si svilupparono due partiti dinastici opposti che appoggiarono, nella guerra per la successione al trono, la casata di Baviera e Sassonia dei Welfen (da cui guelfo) o quella di Svevia degli Hohenstaufen, signori del castello di Waiblingen, presso Stoccarda (da cui ghibellino). In Italia i due termini si diffusero tra il XII e il XIII secolo, assumendo, nel contesto della lotta per le investiture, il significato di sostenitore del papa o dell’imperatore. In alcuni Comuni sorsero fazioni che si ricollegarono al movimento guelfo o ghibellino. Tuttavia, non sempre l’appellativo coincise con una convinzione politica fedele all’una o all’altra causa, mascherando piuttosto un interesse volto al dominio politico ed economico. PRINCIPALI CITTÀ GUELFE ALESSANDRIA BOLOGNA BRESCIA COLLE DI VAL D’ELSA CREMA CREMONA FAENZA FIRENZE (tranne un breve governo ghibelino dal 1248 al 1250) GENOVA (brevi periodi: 1256-1270; 1317-1319) LUCCA ORVIETO PERUGIA PRATO (a lungo ghibellina) MILANO (guelfa fino all’arrivo dei Visconti) MONDOVÍ VOLTERRA
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In alto calco del sigillo della parte guelfa di Firenze con l’aquila che artiglia il drago. Fine del XIII sec. Firenze, Museo Nazionale del Bargello. A sinistra calco del sigillo della parte ghibellina di Firenze che reca l’immagine identificata con Sansone che smascella il leone. Ultimi decenni del XIII sec. Firenze, Museo Nazionale del Bargello.
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PRINCIPALI CITTÀ GHIBELLINE AREZZO CASTIGLION FIORENTINO CREMONA COMO FORLÍ FOLIGNO GENOVA (predominio 1270-1317) GROSSETO GUBBIO (con schieramento guelfo durante la signoria dei Gabrielli) LODI MANTOVA MODENA OSIMO PAVIA PISA PISTOIA POGGIBONSI SPOLETO TERNI TODI URBINO SAN MINIATO (ghibellina fino al 1291, poi guelfa) SIENA (ghibellina fino al 1287, poi guelfa con l’instaurazione del governo dei Nove)
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L’assetto geopolitico dell’Italia all’epoca della battaglia di Altopascio.
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battaglie altopascio castruccio castracani
Un principe forte e virtuoso Castruccio degli Antelminelli, figlio di Ruggero di Castracane, nacque il 29 marzo del 1281 da una famiglia mercantile appartenente a uno dei piú grandi gruppi patrizi lucchesi. Essendo membro di un ramo appartenente alla Parte Bianca, nel 1301 fu costretto a lasciare la città di Lucca dopo la vittoria dei Neri. Mete del suo esilio furono dapprima Ancona e poi l’Inghilterra dove, nel contesto delle lotte di fazione, uccise un suo concittadino e fu costretto quindi a riparare nelle Fiandre. Lí si diede al mestiere delle armi e, quale mercenario, continuò a esercitare questa professione, quando, nel 1304, rientrò in Italia. Sempre in esilio, il giovane Castruccio si mise al servizio prima della Repubblica di Venezia e poi della signoria degli Scaligeri di Verona. Nel 1314 riuscí a rientrare a Lucca, a fianco dell’imperatore Enrico VII e promosse la signoria di Uguccione della Faggiuola, che ascese anche grazie alla vittoria ottenuta su Firenze nel 1315 presso Montecatini. Tra i due signori sorsero ben presto divergenze che sfociarono in rotta, al punto che Uguccione ordinò a suo figlio Nieri di arrestare e imprigionare Castracani con l’accusa di frode e ruberie. Il condottiero, sul punto di essere condannato a morte, fu però liberato dal carcere a seguito di una sollevazione popolare col concorso di membri della famiglia Della Gherardesca e, nel 1316, fu nominato capitano e difensore della città di Lucca, inizialmente per un semestre, poi per un decennio. Infine, nell’aprile del
1320, la sua autorità raggiunse l’apice al punto che fu eletto signore della città a vita. In questi anni, tra il 1317 e il 1321, iniziò a conosolidare il proprio potere nel territorio della Lunigiana, nella Liguria orientale e a Pontremoli, cittadina che gli garantiva l’accesso verso la Lombardia: proprio di questo passaggio Castracani approfittò per inviare truppe di mercenari in soccorso dei Visconti, impegnati in operazioni militari contro i propri antagonisti, garantendosi probabili ingaggi per il futuro, nonché un eventuale prezioso alleato nel conflitto interregionale in corso. Nel 1325 Castracani rivolse le proprie attenzioni verso Pistoia: dopo aver preso contatti con la famiglia Tedici, nel maggio del 1325 ne ottenne la cessione grazie al matrimonio con Dialta, figlia di Filippo Tedici. La mossa provocò la pronta reazione della dominante regionale, Firenze, che inviò un esercito che si inoltrò nella Valdinievole: lo stratega ghibellino lasciò che i Fiorentini assediassero e prendessero Altopascio, mentre si premuniva di ingrossare le fila del proprio esercito con truppe a cavallo provenienti da Milano. Il 22 settembre del 1325 la vittoria ghibellina di Castruccio fu completa anche perché, dopo lo scontro, i fuggiaschi furono o uccisi o catturati. Divenuto leader incontrastato della fazione ghibellina in Toscana, venne riconosciuto quale signore da Federico I d’Asburgo, detto il Bello, e poi da Ludovico il Bavaro che lo nominò anche duca di Lucca e Pistoia nel 1327. Erano gli anni in cui la lotta fra papato e Il ponte fatto costruire da Castruccio Castracani sul fiume Lima, presso Piteglio (Pistoia). Nella pagina accanto medaglia in bronzo con il profilo di Castruccio Castracani. 1530 circa. Washington, National Gallery of Art.
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impero si rinnovava grazie al conflitto tra Ludovico IV e Giovanni XXII che scomunicò anche Castruccio in quanto fautore del novello imperatore. I Fiorentini nel frattempo riuscirono a recupere Pistoia, ma Castracani riuscí a riprendere la città, impedendo agli avversari di correre in soccorso, avendo preventivamente schierato le proprie truppe a Ovest di Firenze, tagliando cosí fuori i Fiorentini. In quello stesso anno scortò il Bavaro a Roma, ma, il 3 settembre, colpito probabilmente da febbri malariche in Maremma, morí senza aver raggiunto neppure i cinquant’anni. La morte improvvisa causò una rapida e grave crisi nello Stato che era riuscito a costruire: Ludovico il Bavaro approfittò della sua morte per depredare Lucca e rimpolpare le sue finanze assai precarie. Non contento di ciò, abbandonò la città ai suoi soldati che attendevano la paga e che provarono a venderla al miglior offerente. Lucca e Pisa, nuovamente libere da un dominio personale, tentarono di recuperare la propria indipendenza ma furono ben presto sopraffatte dalla potenza fiorentina già nel 1329. La caduta della signoria di Castruccio mostra certamente la debolezza di questo tentativo di emancipazione politica ma, al contempo, dimostra che – in un tempo in cui si stavano formando grandi signorie cittadine come Milano o Firenze – era possibile che centri minori, grazie a successi militari, enorme peso politico internazionale, come Enrico VII o Ludovico il Bavaro, il quale con questi signori si era alleato, promettendo aiuti dopo l’incoronazione avvenuta in Milano, fra l’altro anche per mano del vescovo aretino. Nel maggio del 1325 Castruccio Castracani, dopo aver consolidato le precedenti aree, riuscí a ottenere anche la città di Pistoia, grazie al matrimonio contratto con la figlia di Filippo Tedici, membro di una famiglia tra le piú importanti di Pistoia, che, in questo modo, gli concesse anche la signoria della città. A questo punto Firenze e le altre città guelfe della Toscana e dell’Italia decisero di attaccare il territorio lucchese sotto il dominio del signo-
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potessero incunearsi in maniera vincente in questa dinamica. Castracani seppe dar prova di sè in azioni guerresche, ma anche in diplomazia e in strategia matrimoniale, dimostrando una lungimiranza a quel tempo rara. La sua abilità militare e politica, la sua parabola veloce e brillante ispirarono Niccolò Machiavelli che scrisse una vita di Castruccio, in cui il condottiero viene ritratto come il modello di principe forte e virtuoso.
re che stava diventando, anno dopo anno, una concreta minaccia per l’equilibrio regionale.
Una cronaca minuziosa
Il racconto di questi anni, di questi mesi e, in particolare, della battaglia stessa, è stato minuziosamente redatto dal già citato Giovanni Villani che, nella sua Nuova Cronica, dedica numerosi capitoli all’ascesa e al tracollo di Castruccio: il cronista si sofferma a lungo anche sulla battaglia di Altopascio e, come detto, segnala i presagi del terremoto e del fuoco nel cielo, segni inequivocabili del futuro disastro. L’8 giugno venne dunque ordinato di marciare contro Pistoia e contro Castruccio: dopo aver con-
segnato le insegne di guerra e averle poste a San Piero a Monticelli, l’esercito partí, guidato dall’aragonese messer Ramon di Cardona. Tra le varie campane che accompagnavano l’enorme serpente formato da migliaia di uomini quella strappata al castello di Montale, «cominciando a sonare si ruppe, onde per molti si duvitò di segno di mala fortuna». I presagi continuavano, ma la spedizione non si fermò. L’esercito del comune seguiva un rigido ordine: davanti si distinguevano 400 cavalieri «migliori della città, grandi e popolani, che con loro compagni furono piú di cinquecento uomini a cavallo d’arme ben montati». Seguivano molti uomini armati, circa 1500, dei quali «seicento erano
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Franceschi, con piú grandi signori e gentili uomini, e dugento Tedeschi, molta buona gente e isprovata». C’era poi una schiera formata da mercenari, francesi, guasconi, fiamminghi, provenzali e italiani «scelti di tutte le masnade vecchie, pochi per bandiera». Un’enorme schiera di fanteria contava, «tra cittadini e contadini, piú di 15 000 bene armati». Il capitano aragonese – accompagnato dal maliscalco, messer Bornio di Borgogna – era circondato da un drappello particolare, composto da 230 soldati, di cui 100 Borgognoni, gli altri Catalani. Il 12 di giugno, l’armata si accampò a Prato dove fu raggiunta, l’indomani, da «tutte le cavallate di Firenze, e ogni gente, popolo e cavalieri, sonando le campane del comune». La vista doveva essere spettacolare e spaventosa al contempo: c’erano infatti «800 e piú trabacche e padiglioni e tende di panno lino, e andavano con una cam-
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Rilievo raffigurante l’imperatore Ludovico il Bavaro. Norimberga, Castello, Sala degli Imperatori. Sulle due pagine Pistoia, il battistero di S. Giovanni.
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battaglie altopascio Gli umanisti su Castruccio
Un soldato dal fine intelletto Leonardo Bruni (1370-1444) fu allievo di Coluccio Salutati e di Manuele Crisolora, rivestendo poi la carica di Cancelliere della Repubblica fiorentina dal 1427 sino alla morte. Umanista fine e colto, consapevole del ruolo civile dell’impegno letterario, oltre a tradurre opere di Platone e Aristotele, realizzò i 12 libri delle Historiae Florentine populi, iniziate nel 1414. Ormai lontano da ogni visione provvidenzialistica, ma mosso da un metodo storico piú obiettivo, basato sul confronto di vari documenti, quando Bruni si trovò a dover delineare la figura di Castruccio, lo tratteggiò come il condottiero piú abile del Trecento, benché fosse stato nemico acerrimo di Firenze e l’avesse addirittura sconfitta in battaglia ad Altopascio. Nel libro V delle sue Historiae, Bruni delinea le molte vicende vissute da Castruccio e non disdegna di aggiungere qualche lode per le capacità dimostrate sul campo. Cosí, per esempio, dopo aver riportato come nel 1313 Castruccio avesse devastato il territorio fiorentino, aggiunge che al rientro a Lucca fu accolto con «magno applausu», mentre dopo una nuova devastazione di altro territorio, sempre sottomesso a Firenze, celebrò una sorta di trionfo alla maniera degli antichi: «Suorum operum ostentator speciem quandam triumphi egit. Apud Signiam quoque monumentum victoriae nummum percussit». Fra le imprese di Castruccio, Bruni ricorda in particolare l’occupazione della città di Empoli e di altri castelli nel 1320, e ancora quella di Fucecchio del 1322. Il punto massimo della sua abilità militare, però, dovette toccarlo nel 1328, quando riuscí a riprendere la città di Pistoia, caduta per l’ennesima volta nelle mani dei Fiorentini. Una delle doti fondamentali del condottiero doveva essere l’accortezza e Bruni non manca di sottolinearlo fin dalle prime note in cui si accinge a narrare le vicende che condurranno Castracani a recuperare Pistoia. L’autore si dilunga poi in un vero e proprio encomio in cui esalta la sua industria, la sua scientia rei militaris, grazie alla quale riuscí a respingere tutti i tentativi degli avversari e, una volta trionfatore, a impadronirsi della città sotto gli occhi attoniti dei nemici. Per Bruni, Castruccio incarnava la figura del buon soldato e del bravo comandante e quando nel 1520 Machiavelli si accinse a sua volta a scriverne la biografia, lo delineò come il ritratto del principe valoroso, forte, del comandante sempre vincitore proprio grazie alla conoscenza dell’arte della guerra appresa fin da giovane, ma anche per la prontezza e per le intuizioni risolutive. Insomma, un uomo che, a seconda che ci si affidi alle parole del Bruni o del Machiavelli, incarnava ora il civis bonus et fortis, amante dei propri concittadini, ora il custode della patria che, per dirla con Platone, doveva essere duro in armis e feroce contro i nemici. Se Castruccio poteva comportarsi cosí con i suoi uomini e sui campi di battaglia era dovuto, sempre secondo la narrazione di Machiavelli, a un profondo spirito filosofico. Sul letto di morte il condottiero avrebbe chiamato a sè il figlio del signore di Lucca, il giovane Paolo Guinigi, e fra i vari consigli per la vita gli avrebbe sussurrato: «È cosa in questo mondo di importanza assai, cognoscere se stesso, e sapere misurare le forze dello animo e dello stato suo».
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pana in sul carro, al suono della quale si mutava l’oste e s’armava». Tale mossa, organizzata in grande stile, era la risposta a quella di Castruccio che, l’11 di giugno, si era portato presso il castello di Montale, con la speranza di frenare l’avanzata del nemico. Il 17 giugno, poi, «cosí nobile oste e cosí fornita, aggiuntivi dugento cavalieri di Siena, si partirono di Prato e puosonsi ad Agliana a campo in su quello di Pistoia, guastandogli intorno da piú parti, abbattendo molte fortezze e con gran prede». Alla fine del mese, In alto particolare del Trionfo della Morte affrescato da Buonamico Buffalmacco nel Camposanto di Pisa. 1336-1341. Il secondo personaggio da sinistra potrebbe essere Castruccio Castracani. A destra Ingresso di truppe fiorentine in una città, tempera e oro su tavola di Apollonio di Giovanni e Marco del Buono. 1450-1460 circa. Bergamo, Accademia Carrara.
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ai piedi di Pistoia, l’esercito fiorentino fece correre anche il palio di San Giovanni sotto gli occhi dei nemici, con lo scopo di fiaccare il morale degli avversarsi, asserragliati all’interno delle mura della città sotto la sagace guida di Castruccio.
Sortita notturna
Nella prima metà di luglio l’esercito fiorentino si pose ad assediare Tizzano e, senza esser visto, la notte del 9 dello stesso mese, con un nutrito gruppo di cavalieri un distaccamento devastò il territorio pistoiese e poi, il giorno dopo, tutto l’esercito superò «il poggio del monte di sotto e la sera medesima» si accamparono vicino al castello di Cappiano, «che mai per forza né per altro modo quel passo non s’era potuto acquistare per gli Fiorentini». Dopo aver tentato di espugnare Pistoia, alla metà di luglio l’esercito guelfo si impadroní dunque del castello, ma, sopratutto, del ponte di Cappiano, sul fiume Usciano, e dello strategico castello di Monfalcone che capitolò il 29 del mese, lasciando intendere di voler puntare su Lucca: «A dí 13 di luglio s’arrenderono a loro le torri e ‘l ponte da Cappiano ch’era molto forte e a dí 19 di luglio s’arrendè Cappiano, salve le persone per
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ramon de cardona
Il cavalier perdente A comando delle truppe fiorentine c’era messer Ramondo de Cardona, un capitano di ventura aragonese, le cui prime azioni furono al soldo del papa e dei sovrani angioini intorno al 1320. Il 6 luglio 1322 Ramon fu messo a capo delle truppe guelfe sbaragliate da Marco Visconti, detto Balatrone, nella battaglia di Bassignana. Due anni piú tardi, il 28 febbraio 1324, subí un’altra sconfitta, ancora piú grave, sempre per mano dei Visconti, a Vaprio d’Adda. Questa volta, l’esercito pontificio, guidato da Raimondo di Cardona, Enrico di Fiandra e vari membri della famiglia dei Torriani, fu sconfitto dalle truppe di Galeazzo e Marco Visconti che costrinsero Cardona a impegnar battaglia in quanto, dopo aver conquistato il borgo di Vaprio, si trovò totalmente privo di vettovagliamento. In un disperato tentativo di fuga, attraverso l’Adda in piena, Cardona fu catturato mentre altri condottieri annegarono nel fiume. Fatto prigioniero, Cardona venne liberato solo dopo il pagamento di un pesante riscatto e non prima di aver giurato di non combattere mai piú contro i Visconti e i loro alleati. In realtà, poco tempo dopo, il papa, nuovamente in lotta contro i ghibellini, sciolse Cardona dal giuramento. Il 6 maggio 1325 venne «eletto capitano di guerra per gli Fiorentini». Già la sera, «in sul vespro giurò l’uficio in su la piazza di San Giovanni, con grande trionfo e parlamento» per guidare le truppe contro Castruccio nel tentativo di recuperare, in primo luogo il castello di Artimino, che fu preso il 22 maggio, e poi Pistoia e Lucca. Ad Altopascio fu nuovamente sconfitto e catturato: al comando delle truppe papali fu dunque richiamato Enrico di Fiandra. Solo dopo la morte di Castruccio Castracani (3 settembre 1328), Ramon fu liberato e, nel novembre del 1328, fu inviato dal papa per trattare le condizioni di pace tra i Visconti e Roma. Sulla fine di questo sfortunato condottiero aragonese, sconfitto praticamente in ogni battaglia di cui si abbia notizia, non possediamo dettagli. Infatti, dopo la sua liberazione, le sue tracce documentarie si perdono.
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battaglie altopascio Una veduta del borgo di Altopascio (Lucca), presso il quale si combatté la battaglia del 23 settembre 1325.
tema di cave e di dificii». Vedendo il successo di Firenze, i vari alleati guelfi mandarono immediatamente altre truppe. A questo punto l’esercito guelfo era composto da una vasta coalizione e riuniva diverse migliaia di cavalieri provenienti da Firenze (900 cavalieri), Siena (400), Perugia (260), Bologna (200), Camerino e Gubbio (50 cavalieri ciascuna), Grosseto (30), Colle e San Miniato (40 ciascuna), Volterra (30) e ancora Faenza e Imola (100), Logliano (15) e i 20 cavalieri inviati dai conti di Battifolle, a cui si unirono i 125 cavalieri fuorusciti provenienti da Lucca e Pistoia. Si trattava di un’armata di grandi dimensioni, composta da cavalieri, da mercenari a cavallo e a piedi, da grandi contingenti di fanteria, di arcieri e balestrieri. Solo con questi nuovi aiuti provenienti dagli alleati, dopo la presa di Cappiano, «l’esercito crebe in piú di tremila cavalieri». Castracani non tergiversò e richiese aiuti ai suoi alleati, ricevendo consistenti rinforzi militari: accampatosi a Vivinaia, in Valdinievole, ebbe aiuti da Lucca e dal vescovo di Arezzo che gli inviò ben trecento cavalieri. Dalle terre ghibelline di Marca e Romagna giunsero altri duecento cavalieri, mentre dai conti di Santa Fiora e da altri signori ghibellini della Maremma, furono inviati circa centocinquanta uomini a cavallo. Solo dalla città di Pisa «nullo aiuto ebbe, perché il conte Nieri e quegli che reggeano la terra si teneano suoi nimici, per quello ch’egli avea operato contro loro», dopo la battaglia di Montecatini. Il 3 agosto l’esercito fiorentino stabilí di assediare il castello di Altopascio, protetto da fossati, steccati, mura e torri: consapevole della propria inferiorità numerica – poteva contare su 1500 cavalieri e repar-
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ti di fanteria –, Castruccio si accampò sui colli intorno ad Altopascio, osservando le mosse del nemico in attesa degli eventi.
Fiaccati dal caldo
L’estate avanzava e l’esercito fiorentino era tormentato dai disagi causati dal caldo e dalle malattie che provenivano dalle acque stagnanti della zona: scoppiò dunque una «pestilenzia, che per lo dimoro ch’aveano fatto in su la Guisciana, molti n’ammalarono e molti ne morirono, pure de’piú cari cittadini di Firenze e altri forestieri assai, onde l’oste affievolí molto». Nel mentre Castracani, attraverso il passo di Pontremoli, ingrossava le fila del proprio esercito, coscrivendo grandi contingenti di cavalieri milanesi in cambio di enormi somme di denaro: al costo vertiginoso di 10 000 fiorini d’oro Azzo Visconti condusse perso-
nalmente 800 cavalieri pesanti fino alle colline attorno ad Altopascio. Ulteriori cavalieri gli giunsero da altri signori: messer Passerino, signore di Mantova e Modena, gli inviò duecento cavalieri ai quali si aggiunsero ancora ben mille cavalieri tedeschi e mercenari ultramontani. Castruccio, naturalmente, si premuní che di queste mosse, i Fiorentini non sapessero nulla; inoltre, il condottiero ghibellino intavolò segrete trattative con due conestabili francesi, «messer Miles d’Alzurro e messer Guglielmo di Noren d’Artese», tentando di indurli al tradimento: il complotto sarebbe andato forse anche a buon fine, se non che venne scoperto, a detta del Villani, per il fatto che messer Miles cadde malato e poi morí. Guglielmo di Noren fu arrestato e cacciato dall’esercito ma poi, anzisettembre
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ché raggiungere Napoli, avrebbe fatto ritorno da Castruccio, passando per la Maremma. Se la fonte è degna di fede, di certo all’interno dell’esercito guelfo doveva esserci piú di qualche malumore e, dopo settimane di campagna militare sotto il caldo, forse qualcuno voleva tornare a casa, magari anche con qualche denaro in tasca. Dopo aver saputo di una disfatta di alcune truppe di Castruccio presso Carmignano avvenuta pochi giorni prima, il 25 di agosto il castello di Altopascio accettò la resa: fu un duro colpo per Castracani, dal momento che il castello era protetto da ben cinquecento uomini e c’erano provviste per molti mesi se non addirittura per un paio di anni. Si era giunti ormai ai primi di settembre e, nel comando dell’esercito guelfo, vi furono
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aspre discussioni sulla strategia da adottare a questo punto, se proseguire oppure «tornare all’assedio a Santa Maria a Monte».
Abbandoni a catena
Nel frattempo, i giorni passavano «con grande spendio e scemamento dell’oste de’ Fiorentini»: molti soldati, infatti, alla luce della paga, preferirono abbandonare l’impresa e, ottenuti i fiorini concordati, fecero ritorno a casa. Ramon di Cardona, a questo punto, radunò l’esercito rimasto e si diresse fino alla abbazia di Pozzoveri, in direzione di Lucca. Castruccio seguiva i movimenti del nemico, forte dei rinforzi ricevuti e del fatto che l’avversario ignorasse le sue mosse. Presso il paese di Porcari, il 21 settembre, si ebbe il primo scontro: l’esercito guidato da Castruccio
sconfisse un’avanguardia guelfa e, nel corso della battaglia, persero la vita 40 cavalieri. Alla luce di questa disfatta, forse intuendo il pericolo e forse anche timoroso di una ennesima sconfitta, Ramon decise di ritirarsi verso Firenze, guidando un esercito che, a questa altezza temporale, Giovanni Villani dice composto da 2000 cavalieri e 8000 fanti. Da un punto di vista numerico le differenze non sarebbero state poi sostanziali, ma il morale delle truppe guelfe era probabilmente al minimo: queste si erano inutilmente impegnate in un assedio senza esito, avevano sopportato i miasmi dell’afosa estate appena trascorsa e ora, sulla via del ritorno, pativano ancora psicologicamente della disfatta subíta a Porcari. Castruccio approfittò del lento movimento della colonna guelfa e,
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battaglie altopascio Il monumento funebre realizzato da Giovanni di Balduccio Albonetti per Azzone Visconti, raffigurante l’investitura dello stesso Azzone ai piedi di sant’Ambrogio e di fronte all’imperatore. XIV sec. Milano, chiesa di S. Gottardo in Corte. Nella pagina accanto la città di Lucca, dalle Croniche delle cose di Lucca di Giovanni Sercambi. Inizi del XV sec. Lucca, Archivio di Stato.
spostandosi con la sola cavalleria, raggiunse il nemico e lo costrinse alla battaglia nella piana prospiciente il paese di Altopascio, lunedi 23 settembre del 1325. Ramon dispose le sue truppe secondo una prassi antica, suddividendo i suoi uomini montati in tre squadroni: il primo era un piccolo contingente di circa 150 cavalieri francesi, a cui faceva seguire una schiera di 700 feditori borgognoni, pronti a reggere l’eventuale urto o a portare l’attacco, dietro alla
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quale,schierò il corpo principale della cavalleria, circa 1200 cavalieri, guidati da Ramon in persona e dalle migliaia di fanti, forse ottomila, che seguivano le bandiere dei propri comuni e dei propri signori.
Due volte piú numerosi
In realtà, considerata la difficoltà del momento, scrive Villani che in qualche modo deve giustificare la futura sconfitta, «tutti ad agio si poteano partire e venire a Gallena. Ma per arroganza si misono a roteare colle
schiere verso l’oste di Castruccio, trombando e drappellando, richeggendo di battaglia». L’esercito di Castruccio Castracani a questo punto doveva ammontare a circa mille e trecento cavalieri che presero a scendere dai poggi circostanti per disporsi ordinatamente nella piana, in attesa di altri mille cavalieri alleati sistemati nei pressi, raggiungendo cosí una ragguardevole cifra, pari a quasi il doppio dei cavalieri guelfi. Il primo scontro avvenne tra l’avanguardia francese e le truppe settembre
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guidate da Azzo Visconti e, sulle prime, pareva che i cavalieri guelfi avessero la meglio sui ghibellini lombardi, infatti «fedirono vigorosamente e trapassarono le schiere d’Azzo». A questo punto, però, avvenne l’impensabile, dal momento che, probabilmente per il tradimento del maresciallo Bornio di Borgogna, la seconda schiera, anziché caricare per dar man forte ai 150 Francesi, voltò i propri cavalli e si diede alla fuga: «messer Bornio, veggendo cominciata la battaglia, non resse ma incontanente volse la sua bandiera». Il comandante aragonese rimase stordito ed esitò prima di dare l’ordine alla terza schiera di attaccare, mentre alcuni «incominciarono a temere e parte a fuggire»: nel frattempo, invece, Castruccio approfittò del momento di smarrimento e ordinò ai suoi di caricare a fondo, mettendosi alla testa del proprio contingente. Al grido di battaglia e alla carica furiosa di Castracani, il resto dell’esercito fiorentino e guelfo fu preso dal panico, anche se la numerosa fanteria riuscí a resistere per un po’ agli attacchi nemici.
Bornio, capro espiatorio
Lo smarrimento iniziale aveva favorito Castruccio, al punto che «se messer Ramondo colla schiera grossa avesse ancora pinto dietro a’primi feditori, avea vinta la battaglia»: una simile valutazione, redatta anni dopo, a battaglia conclusa e sconfitta subíta, non è verosimile, ma è pur sempre comprensibile per come Villani tratti la materia, con occhio spesso poco obiettivo. Anche la fuga di messer Bornio viene utilizzata come motivo quasi esclusivo della disfatta, poiché «l’detto Bornio maliscalco, per tradimento ordinato, si mise prima a fuggire che a fedire». Sembra che messer Bormio fosse stato ordinato cavaliere per mano di Galeazzo Visconti, padre di Azzo, col quale evidentemente doveva essere rimasto un qualche legame, considerato che il cronista
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riporta che avesse combattuto piú volte per lui come mercenario. La battaglia non era ancora conclusa e anzi infuriava quando Castruccio seppe trovare il punto debole nello scenario in cui si stava svolgendo il combattimento: dopo aver identificato due squadroni di mercenari tedeschi, ordinò rapidamente loro di andare a presidiare il ponte di Cappiano, eliminando cosí ogni possibilità di fuga al nemico. Alla fine della battaglia la fanteria lucchese si uní all’esercito e si mise all’inseguimento dei fuggiaschi: lo scontro si trasformò in una vera e propria carneficina. La vittoria di Castracani fu completa e schiacciante. Sul campo i Fiorentini persero migliaia di uomini e, alla fine, furono 5000, fra caduti e prigionieri, tra cui anche Ramon, lo sfortunato comandante aragonese. La sconfitta guelfa era lo specchio di una profonda trasformazione militare che stava attraversando l’Europa ormai da alcuni decenni: gli eserciti stavano mutando e, rispetto a quelli composti dalle sole forze cittadine, ora diventavano sempre piú importanti i contingenti di mercenari guidati da capitani di ventura. Il condottiero ghibellino, a
vittoria in pugno, condusse le proprie truppe a Cappiano e ad Altopascio e, dopo averle riconquistate, non esitò a lanciarsi in una marcia di razzia e devastazione nel territorio fiorentino, a dimostrazione del trionfo appena conseguito.
Un disastro annunciato
Come era stato preannunicato dai segni infausti, che il cronista fiorentino aveva sagacemente sistemato prima di narrare questi eventi tragici per la sua città, con un fine giustificativo, la sconfitta di Altopascio, a suo dire, «di certo fu giudicio di Dio per soperchi peccati, d’abbattere tanta superbia potenza. E cosí nobile cavalleria e valente popolo, come furono alla prima i Fiorentini nella detta oste, per piú vili di loro sconfitti. E cosí non è d’aver speranza in forza umana, altro che nel piacere e volontà di Dio e la sua disposizione». La paura fu certamente tanta, ma il 3 settembre del 1328, colpito da febbri malariche, Castruccio improvvisamente moriva e con la sua morte crollava anche la rete di alleanze antifiorentine e antiguelfe costruita grazie a piú di un decennio di sottile arte diplomatica e sagace perizia militare.
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Il gran signore
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dell’Arte
IL COLOSSALE CICLO PITTORICO DI SAN BRIZIO DEL DUOMO DI ORVIETO di Claudio Strinati
Nel tempio orvietano Luca Signorelli ha dato una prova eccelsa del suo magistero, sviluppato nell’arco di una lunga e fortunata parabola. Che qui viene ripercorsa puntando l’obiettivo soprattutto sui rapporti con gli altri grandi maestri del tempo. E proponendo una nuova e clamorosa attribuzione...
Uno scorcio della cappella di S. Brizio (già Cappella Nova) nel Duomo di Orvieto, alla cui realizzazione fu chiamato Luca Signorelli, per completare l’opera lasciata incompiuta dal Beato Angelico. 1499-1502. Da sinistra, Inferno e Resurrezione della carne.
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ignorelli e Perugino vengono festeggiati insieme nel 2023, coincidendo le date di morte dei due artisti, 1523. Uno toscano, l’altro umbro hanno in effetti stretti rapporti tra loro sotto il profilo stilistico e iconografico; ma solo a costo di qualche forzatura, peraltro del tutto legittima, possono essere omologati in un comune sentire o in un comune gusto. La loro formazione è diversa. Sappiamo dalla Cronaca rimata di Giovanni Santi, il padre di Raffaello, che Perugino sarebbe stato, giovanissimo, allievo del Verrocchio avendo come compagno di studi e amico carissimo Leonardo da Vinci di cui è probabile fosse pressoché coetaneo. Signorelli, invece, su testimonianza precisa di Giorgio Vasari che lo conosceva bene, fu ai suoi inizi non solo scolaro ma addirittura imitatore abilissimo di Piero della Francesca, al punto che le primissime opere del Signorelli quasi non si distinguevano dalle opere originali di Piero stesso. Si tratta di un autentico mistero inerente alla reciproca formazione dei due sommi maestri che gli studi, antichi e recenti, non hanno mai sciolto. Nessuna opera che appaia ai nostri occhi evidentemente pierfrancescana e nel contempo possa essere riferibile con un buon margine di approssimazione al Signorelli giovanissimo, è mai stata identificata dalla storiografia, tranne per qualche goffo ma assai improbabile tentativo da parte soprattutto dei vecchi conoscitori del primo Novecento.
Sicuramente antico
Anche se potrebbe spettare al Signorelli «pierfrancescano» il ritratto in profilo su sfondo scuro di Sigismondo Pandolfo Malatesta conservato al Museo del Louvre e acquisito dalla collezione D’Ancona nel primo Novecento. Si tratta di un dipinto non attestato dalla storiografia antica ma giudicato, dopo serie e approfondite analisi tecnico-scientifiche, come sicuramente antico. L’opera riprende tale e quale il ritratto del Malatesta nell’affresco del Tempio Malatestiano di Rimini firmato e datato 1451 da Piero della Francesca e conclamato come autografo indiscusso del sommo maestro. Il quadro del Louvre è come ricalcato sul modello di Piero ma stilisticamente di Piero non c’è nulla. C’è però una fortissima somiglianza che ha indotto anche grandi conoscitori come Roberto Longhi a confermare l’attribuzione del quadro del Louvre a Piero in persona, equivocando sulla corretta applicazione del principio in base a cui la somiglianza può essere scambiata per identità. Le indagini tecniche condotte al Louvre hanno confermato la datazione antica dell’opera e questa costatazione è sembrata ad alcuni la conferma
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Una nuova attribuzione
La firma di Luca Non solo scolaro. Ma imitatore abilissimo. Per lo storico dell’arte Claudio Strinati il Ritratto di Sigismondo Pandolfo Malatesta conservato nel Museo del Louvre di Parigi non è opera di Piero della Francesca (1412-1492) come sostiene gran parte della critica, sulla scorta di un autorevole parere di Roberto Longhi. Con ogni probabilità va invece attribuito a Luca Signorelli (1441-1523) nato ben 29 anni dopo il grande pittore di Sansepolcro. L’opera è molto simile al ritratto del Malatesta realizzato da Piero della Francesca nell’affresco del Tempio Malatestiano di Rimini, probabilmente nel 1541, durante un soggiorno riminese dell’artista. Secondo Strinati «è proprio la grafia di Piero che è totalmente assente in questo notevole dipinto. Si tratta quindi di una copia antica, di una vera e propria imitazione fatta settembre
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da un pittore che ha una sua personalità netta e che trapela, forse involontariamente, proprio nella tipologia del disegno e della stesura. E queste potrebbero ben essere confacenti al Signorelli giovane, confermando quindi la testimonianza vasariana». Sigismondo Pandolfo Malatesta nel ritratto affrescato nel Tempio Malatestiano di Rimini da Piero della Francesca (a sinistra, in alto) e in quello dipinto su tavola del Museo del Louvre, che Claudio Strinati propone di attribuire a Luca Signorelli.
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«Fece tutte le istorie della fine del mondo; invenzione bellissima, bizzarra e capricciosa per la varietà di vedere tanti angeli, demoni, terremoti, fuochi, ruine e gran parte dei miracoli di Anticristo; dove mostrò la invenzione e la pratica grande che egli aveva degli ignudi, con molti scorti e belle forme di figure, imaginandosi stranamente il terror di quei giorni. Per il che destò l’animo a tutti quelli che dopo di lui sono venuti, di far nell’arte le difficultà che si dipingono in seguitar quella maniera». (Giorgio Vasari, Le Vite) dell’autografia pierfrancescana. Ma è proprio la grafia di Piero che è totalmente assente in questo notevole dipinto. Si tratta quindi di una copia antica, di una vera e propria imitazione fatta da un pittore che ha una sua personalità netta e che trapela, forse involontariamente, proprio nella tipologia del disegno e della stesura. E queste potrebbero ben essere confacenti al Signorelli giovane, confermando quindi la testimonianza vasariana.
Un accertamento dall’esito spiazzante
Nessuna opera giovanile, invece, del Perugino, interpretabile in chiave verrocchiesca e leonardesca sembrerebbe sopravvivere piú. Quindi appare pressoché
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impossibile individuare i precisi elementi della consistente differenza formativa tra Perugino e Signorelli. Ma ancor piú strana è l’immediata conseguenza di tale accertamento. Perché è vero che nulla sappiamo delle origini precise dei due artisti messi a confronto, ma nulla trapela di quelle presunte origini nelle opere che oggi effettivamente conosciamo, sia dell’uno sia dell’altro. In Perugino, insomma, non sembra di notare niente di leonardesco, se non vaghi accenni che tuttavia non è facile inquadrare. È vero, per esempio, che la misteriosa Annunciazione degli Uffizi oggi quasi universalmente giudicata come un Leonardo giovanile, mostra qualche traccia di mani diverse all’insettembre
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In alto, sulle due pagine Annunciazione, olio su tavola di Leonardo da Vinci. 1472-1475. Firenze, Galleria degli Uffizi. A destra San Sebastiano e altri santi, affresco del Perugino (al secolo, Pietro Vannucci). 1478. Cerqueto (Perugia), chiesa di S. Maria Assunta.
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luca signorelli in umbria/7 terno della stessa opera e si potrebbe, allora, ben supporre che quel dipinto, invero mirabile, sia stato veramente eseguito negli anni Settanta del Quattrocento, come per lo piú si legge nella bibliografia accreditata, quando Perugino e Leonardo sono giovanissimi per cui potrebbe essere lecito rintracciarvi la mano di entrambi.
Somiglianze e suggestioni
Qualche somiglianza, infatti, tra la Madonna annunziata e la piú antica opera nota del Perugino (l’affresco frammentario con l’immagine del San Sebastiano e altri santi nella chiesa parrocchiale di S. Maria a Cerqueto databile al 1478) potrebbe abilitare, per l’Annunciazione degli Uffizi, a una ipotesi di dipinto eseguito insieme (l’angelo annunziante è un evidente autografo leonardesco) da artisti ancora molto vicini tra loro nella comune ispirazione verrocchiesca che nel quadro è evidente, anche se nessuna prova documentaria o attestazione d’epoca autorizza a spingersi oltre. Come è vero che la solidità disegnativa che contraddistingue l’opera del Signorelli, culminando nei celebratissimi nudi della Cappella di S. Brizio a Orvie-
to (vedi foto in apertura, alle pp. 34/35 e in queste pagine), denota una non irrilevante derivazione dal disegno pierfrancescano (specie in S. Francesco ad Arezzo, per esempio nella scena meravigliosa della Morte di Adamo) ma parlare di influsso sembrerebbe azzardato. Piero costruisce volumi statici la cui contemplazione ispira, almeno all’osservatore odierno, quel senso di calma, di compostezza, di controllo vigile e solenne, che non ha nulla a che spartire col pandemonio signorellesco, con la sua ansietà e la sua grafia
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Sulle due pagine altri particolari degli affreschi di Luca Signorelli nella cappella di S. Brizio del Duomo di Orvieto. A destra, un dettaglio dell’Inferno; in basso, il Compianto sul Cristo morto. 1499-1502.
turbolenta, che invece potrebbe ben aver poi ispirato, anche qui con molti «distinguo», Michelangelo Buonarroti nella sua attività di pittore sacro nelle Cappelle vaticane Sistina e Paolina. Quindi l’influsso pierfrancescano su Signorelli è oggi per noi un dato attendibile ma generico che però può essere rintracciato anche in innumerevoli altri comprimari del tempo veramente fatale per la storia dell’arte in Italia nel passaggio tra quindicesimo e sedicesimo secolo. settembre
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Alla fine l’unico carattere in comune tra Perugino e Signorelli sembrerebbe essere piuttosto la ripetitività, sia iconografica sia stilistica. Del Perugino è fin troppo noto l’episodio della crescente insoddisfazione da parte del pubblico fiorentino per il continuo replicare delle sue immagini. Perugino, in età ormai matura, applicava con insistenza eccessiva il principio del brand. Se un tipo di figura, nel suo caso, ha ottenuto un successo strepitoso, come è possibile, si chiedeva l’artista che continuando a reiterarla non
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trovi piú consenso ma anzi ripulsa? Lo scrisse in una sua lettera famosa: se queste immagini vi sono sempre piaciute, perché adesso non vi piacciono e anzi sembrano venirvi a noia? Per questo motivo, sarebbe stata l’ovvia risposta, ma Perugino non riuscí mai a liberarsi da tale luogo comune che aveva nella testa, e infatti l’ultima fase della sua carriera fu umbratile e incerta, anche se non priva di autentici, mesti capolavori. Sul punto della ripetitività Signorelli si direbbe
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uguale. Anche lui, individuate alcune tipologie di Santi, Madonne, figure sacre, figure persino mitologiche, le ripete sempre uguali e anche lui sembra andare incontro a una fase tarda deludente e stanca. Tuttavia non è questa la chiave di lettura corretta per entrare piú profondamente nella immensa grandezza del Signorelli. C’è invece una ben diversa chiave di lettura che, in effetti, può sfuggire ad una analisi superficiale del suo lavoro. In realtà disponiamo oggi di una bibliografia ragguardevole e proprio di recente la bella mostra (e relativo catalogo) all’Accademia Etrusca di Cortona, «Signorelli 500. Maestro Luca da Cortona, pittore di
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luce e poesia», curata da Tom Henry che del Signorelli è il massimo e conclamato specialista, ha contribuito non poco a mettere sempre piú in evidenza la vera storia di questo eminente maestro, individuando il senso profondo della sua antica fama di degno erede di Piero della Francesca. Erede, però, non imitatore, se non nella fase giovanile. C’è, infatti, un elemento che può far pensare a una interessante desunzione da parte del Signorelli da fattori stilistici peculiarmente pierfrancescani ma da lui metabolizzati in modo personalissimo per cui il fattore della ripetitività assume per Signorelli un senso e una forza che non hanno nessuna reale resettembre
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La pittura «musicale» di Luca Signorelli: una sorta di jazzista «ante litteram», vivacissimo e pacato, mosso e immobile, dominatore della visione, ferreo e divagante Predica e fatti dell’Anticristo, affresco di Luca Signorelli. 1499-1502. Orvieto, Duomo, cappella di S. Brizio.
dell’Anticristo e della fine del mondo nella Cappella di S. Brizio del Duomo di Orvieto. Vasari, nel raccontare la vita e le opere del Signorelli, che peraltro venerava, non dà a questo colossale ciclo la rilevanza che diamo noi oggi. Per noi, infatti, Signorelli è praticamente tutto lí: l’epica delle storie; il profondissimo significato religioso, etico-teologico; la spettacolare ed espansa composizione premichelangiolesca; la formidabile tensione a fior di pelle che si avverte in tutto il complesso, tanto piú significativa se paragonata al clima savonaroliano da cui il lavoro largamente promana, in un clima quasi immediatamente antecedente alla Riforma. Il peso colossale di questa impresa che consacra, quante altre mai, l’attività artistica per il Giubileo del 1500, è tale da farla apparire ai nostri occhi il capolavoro assoluto e normativo del maestro. E cosí è effettivamente ma Vasari non ha tutti i torti quando la colloca in una sequenza che annovera altrettanti se non maggiori apici.
Quell’invenzione bellissima...
lazione con il metodo peruginesco. E si tratta della mirabile attitudine del Signorelli alla circoscrizione della figura, ritagliandola letteralmente nello spazio della rappresentazione generale, e dotandola contemporaneamente dell’elemento della profondità spaziale e di quello, apparentemente bizzarro e paradossale, della sagoma, due fattori in contraddizione totale rispetto alla logica del ragionamento ma coerenti ed esaltanti nella quintessenza stilistica (del resto, è di arte che stiamo parlando). Ciò appare evidente in quella che è, al contempo l’opera piú emblematica e caratteristica del Signorelli e quella piú anomala: il ciclo di affreschi con le Storie
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Vale quindi la pena di rileggere la testimonianza del Vasari: «Fu condotto a Orvieto da gli operai del Duomo di Santa Maria e interamente finí loro di mano sua tutta la cappella di nostra Donna già cominciata da Fra Giovanni da Fiesole (qui è interessante come Vasari sottolinei che si tratta di un’opera completamente autografa) nella quale fece tutte le istorie della fine del mondo; invenzione bellissima, bizzarra e capricciosa per la varietà di vedere tanti angeli, demoni, terremoti, fuochi, ruine e gran parte dei miracoli di Anticristo; dove mostrò la invenzione e la pratica grande che egli aveva degli ignudi, con molti scorti e belle forme di figure, imaginandosi stranamente il terror di quei giorni. Per il che (questo è il punto cruciale del commento vasariano) destò l’animo a tutti quelli che dopo di lui sono venuti, di far nell’arte le difficultà che si dipingono in seguitar quella maniera». In proposito è strano e sconcertante l’equivoco in cui il Vasari stesso cade subito dopo, ammesso che di equivoco si tratti: «sparsesi talmente la fama dell’opera di Orvieto e delle altre tante che aveva fatte, che da papa Sisto fu mandato a Cortona per lui, che venisse a lavorare in concorrenza con gli altri acciò che nella cappella di palazzo nella quale tanto rari e belli ingegni lavoravano, fosse ancora dell’opere di Luca». Ma noi sappiamo che gli affreschi delle pareti late-
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luca signorelli in umbria/7 Una scena facente parte del ciclo Vita di San Benedetto affrescato da Luca Signorelli a Monte Oliveto Maggiore. 1497.
rali della Cappella Sistina vennero eseguiti all’inizio degli anni Ottanta del Quattrocento mentre la cappella di san Brizio comincia negli ultimissimi anni del Quattrocento e termina nei primissimi del 1500. Dirimere questo dubbio può essere difficile, anche se non si può escludere del tutto che Signorelli non sia intervenuto insieme con gli altri nella Sistina (come normalmente si pensa) ma in tempi diversi. Ma quel che conta è la messa in luce della sua singolarità anche rispetto alla grandiosa squadra fiorentina (il Perugino stesso ne era considerato parte essenziale come, del resto, Bartolomeo della Gatta) che mise mano alla decorazione della cappella Sistina. La verità è che i riferimenti del Signorelli erano piú vasti rispetto a quelli dei pur insigni colleghi e di certo comprendevano, sí, agganci con fiorentini coevi, in specie i fratelli Piero e Antonio del Pollaiolo (non Verrocchio e la sua cerchia, però) ma si estendevano ai sommi veneti della famiglia Bellini e al gigantesco maestro ferrarese Ercole Roberti. Nel senso che Signorelli contiene in sé sia l’energico disegno fiorentino che innerva i corpi e conferisce alle figure uno scatto e una maestria impareggiabili, sia la maestà di quel grande tema figurativo che è quello delle campiture cromatiche, delle figure ritagliate su sfondi neutri, chiari o scuri che siano, della circoscrizione solenne delle figure ciascuna facente parte per se stessa. Lo si vede bene in quello che è forse da indicare come il vero capolavoro del Signorelli, il ciclo di
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affreschi della Vita di San Benedetto a Monte Oliveto Maggiore. Qui l’epica e la quotidianità trovano dei momenti di vertice assoluto come nella scena, la cosa forse piú bella mai dipinta dal sommo maestro, dei monaci rimproverati da san Benedetto per il mancato rispetto della regola. Qui rifulge ciò che forse il maestro stesso sentiva come implicito nel suo nome: chiamarsi signorelli, il gran signore dell’arte, in altre parole. E cosí pare che Luca Signorelli fosse veramente. Uomo di nobile ed elegante aspetto, sapiente ed accurato nel vestire e nella conversazione, di limpida coscienza e alta moralità, di intensissimo e inesausto impegno nella delineazione di un universo figurativo vasto e ramificato ma insieme ridotto a pochi essenziali elementi. E di certo da questo punto di vista una affinità col Perugino c’è, eccome! Ma in Signorelli questa «reductio ad unum» assume significato diverso rispetto al Perugino e a qualunque altro del suo tempo. La sua pittura fa l’effetto di quella musica che, basata su semplici e schematici accordi, mette l’artista nella condizione di improvvisare senza fine e sempre restando ben incardinato al tema, quello che nel jazz moderno si definisce lo standard. Scherzando un po’ potremmo dire che in questo senso Signorelli è veramente una sorta di jazzista ante litteram, vivacissimo e pacato, mosso e immobile, dominatore della visione, ferreo e divagante. Forse è questa la caratteristica che Michelangelo vide come degna di essere assimilata e metabolizzata in vista di altre audaci avventure. settembre
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Mens. Anno 27 numero 319 Agosto
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il trecentonovelle di franco sacchetti/8
Alla fiera delle burle
di Corrado Occhipinti Confalonieri
Scherzi e battute salaci si susseguono senza sosta nel Trecentonovelle. Ma, come l’autore dell’opera si sforza di precisare, le reazioni di chi ne è vittima non sono sempre uguali. E, in fin dei conti, in pochi sono disposti a perdonare veramente i burloni, perché punti nel vivo del proprio orgoglio o, peggio, perché esponenti di categorie che non tollerano certe libertà
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ll’inizio del proemio al Trecentonovelle, Franco Sacchetti annuncia la sua intenzione di proporre un’opera divertente che arrechi conforto e qualche risata al lettore colpito da numerose calamità, in primis la terribile epidemia di peste del 1348. Per questo motivo, un quarto delle novelle sono dedicate alle burle, sebbene non manchino riflessioni moraleggianti. Al marchese Aldobrandino III d’Este – signore di Ferrara e di Modena dal 1353 al 1561 – «gli venne vaghezza [desiderio], come spesso viene a’ signori, di avere qualche nuovo uccello in gabbia» (novella VI). Un giorno il nobiluomo convoca a palazzo «uno Fiorentino che tenea albergo in Ferrara, uomo di nuova [originale, pazzerellone] e di piacevolissima condizione che avea nome Basso della Penna. Era vecchio e piccolo di persona e sempre pettinato andava in zazzera e in cuffia [teneva i capelli lunghi acconciati in una cuffia]». Il marchese gli rivela: «Basso,
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io vorrei qualche uccello per tenere in gabbia che cantasse bene, e vorrei che fosse qualche uccello nuovo, che non se ne trovassono molti per l’altre genti, come sono fanelli e caldarelli [cardellini] e di questi non vo cercando; e però ho mandato per te, perché diversa gente e di diversi paesi ti vengono per le mani al tuo albergo; di che possibile ti fia che qualcuno di questi ti metta in via, donde se ne possa avere uno».
Nobili capricciosi
Da queste prime battute, notiamo il carattere capriccioso dei nobili e come nel Medioevo fosse importante lo scambio di informazioni fra i viaggiatori e i locandieri. Basso accetta volentieri l’incarico, al marchese «gli parve avere già in gabbia la fenice»; tornato in albergo, l’anziano locandiere chiama il falegname: «Io ho bisogno di una gabbia di cotanta lunghezza e tanto larga e tanto alta; e fa’ ragione [provvedi] di farla sí forte ch’ella sia sofficiente [adatta a contenere] a un asino, se io ve l’avessi a metter dentro e abbia uno sportello di
In alto miniatura che ritrae Aldobrandino III d’Este. XV sec. Modena, Biblioteca Estense Universitaria. Nella pagina accanto miniatura raffigurante un uomo che raccoglie pigne, mentre l’altro sembra voler ammaestrare un uccello da tenere in gabbia – un vezzo assai amato dalla nobiltà medievale –, da un’edizione del Tacuinum Sanitatis, denominazione che indica la traduzione in latino del Taqwim al Sihha (Almanacco della salute), un manuale redatto a Baghdad dal medico e letterato Abu al-Hasan al-Mukhtar Ibn Butlan nell’XI sec. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.
tanta grandezza». Quando la gabbia è pronta, Basso ci entra dentro e si fa trasportare al palazzo del marchese «con grande moltitudine di popolo che correa dietro alla novità». Aldobrandino rimane stupito nel vedere l’albergatore dentro la gabbia e gli chiede spiegazioni: «Messer lo marchese, voi mi comandaste pochi dí fa che io trovasse modo che voi avesse qualche nuovo uccello settembre
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il trecentonovelle di franco sacchetti/8
Un’altra miniatura tratta da un’edizione del Tacuinum Sanitatis raffigurante un cantore accompagnato dal suono di una viella e di un organo portativo. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek. Nella pagina accanto il Castello estense di Ferrara, teatro della novella VI, di cui sono protagonisti Aldobrandino III d’Este e Basso della Penna.
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in gabbia, e che di quelli tali pochi ne fossono al mondo; di che, considerando chi io sono e quanto nuovo [pazzerellone] sono, che posso dire che nessuno ne sia piú nuovo di me in su la terra, in questa gabbia intrai, e a voi mi rapresento [mi presento] e mi vi dono per lo piú nuovo uccello che tra cristiani si possa trovare; e ancora vi dico piú, che non ce n’ha niuno fatto com’io: il canto mio fia tale, che vi diletterà assai; e però [perciò] fate posare la gabbia da quella finestra».
Il marchese sta allo scherzo, ordina ai servitori di posare il gabbione sul davanzale, ma Basso si spaventa: «Oimé non fate, ché io potrei cadere». Aldobrandino lo rassicura, dicendo che il davanzale è largo, comanda a un servitore di far dondolare la gabbia e allo stesso tempo di tenerla salda. «Marchese io ci venni per cantare e voi volete ch’io pianga» si lamenta il locandiere. Dopo ulteriori rassicurazioni, Basso prende coraggio: «Marchese se settembre
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mi darete mangiare delle vivande che mangerete voi, io canterò molto bene».
Pane e aglio
Aldobrandino gli passa dalle sbarre pane e una testa d’aglio, mentre il popolo accorre in piazza a vedere la scena; la sera, l’albergatore canterino cena con il marchese che «da quell’ora inanzi ebbe il Basso piú caro che mai e spesso l’invitava a mangiare, e facevalo cantare nella gabbia e pigliava gran diletto di lui».
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L’atteggiamento sfrontato di Basso appare molto diverso dal protagonista della seconda novella della sesta giornata del Decameron, il fornaio Cisti. Questi, infatti, nonostante aspiri all’amicizia dei nobili, sa rimanere al suo posto e, dopo aver conquistato la loro amicizia con un buon vino, rifiuta un invito a pranzo per rispettare la gerarchia sociale, perno della societas medievale: vuole solo essere riconosciuto come bravo cittadino
dalle persone altolocate. Sacchetti sottolinea come a Basso sia andata bene, anche se non sempre succede cosí con i nobili: «Chi sapesse la disposizione de’ signori, quando fossono in buona tempera [quando fossero di buon umore], ognora penserebbe di cose buone, come fece il Basso, che per certo ben serví il marchese; e non andò in India per l’uccello; ma essendogli presso presso, [Aldobrandino] fu servito del piú nuovo e unico uccello che si potesse trovare».
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il trecentonovelle di franco sacchetti/8 Spostiamoci ora dal palazzo del marchese all’albergo di Basso, che si trova a ospitare «certi Genovesi arcatori», giocatori truffaldini (XVIII). I bari di professione erano figure frequenti nell’età di Mezzo: si spostavano di città in città alla ricerca di qualche festa religiosa che attraeva un folto pubblico da imbrogliare. Un gioco molto amato era quello dei dadi, anche se considerato pericoloso per la quiete pubblica, perché, complici gli alcolici, spesso gli uomini bestemmiavano e alzavano le mani, soprattutto in caso di perdite rovinose di denaro. L’atteggiamento delle autorità pubbliche verso il gioco di azzardo era incerto: illecito ma a volte giustificabile se regimentato nella «baratteria», la casa da gioco dei comuni, perché i proventi economici finivano nelle casse pubbliche. Basso vuole render pan per focaccia agli imbroglioni: «Un giorno inanzi desinare si mise a lato lire venti di bolognini d’ariento e una pera mézza [al massimo della maturazione] ché era di luglio, considerando che dopo desinare, lavate le mani, in su la sparecchiata tavola [decide] d’arcare loro, e cosí fece». I bolognini erano una moneta originariamente bolognese che valeva sei quattrini. L’albergatore propone un gioco ai truffatori «che non ci potrà avere malizia alcuna» e tira fuori i bolognini: «Io porrò a ciascuno di noi uno bolognino inanzi su questa tavola, e colui, a cui sul suo bolognino si porrà prima la mosca, tiri a sé i bolognini che gli altri averanno inanzi».
Imbrogli e sospetti
I bari professionisti non vedono l’ora che il gioco cominci. Basso «come reo, si mette i bolognini sotto con le mani tra le gambe sotto la tavola, dove elli avea una pera mézza: e venendo a porre a ciascuno il bolognino inanzi, quello che dovea porre a sé ficcava nella pera mézza, onde la mosca continuo si ponea sul suo bolognino, salvo che delle quattro volte l’una ponea quello
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Miniatura raffigurante l’interno di una taverna, nella quale, fra gli altri, si vedono uomini intenti al gioco, da un’edizione delle Conquestes et croniques de Charlemaine di David Aubert, illustrata da Jean Le Tavernier. 1458-1460. Bruxelles, Bibliothèque royale de Belgique.
della pera dinanzi a uno di loro, acciò che vincendo qualche volta non si avvedessero della malizia». Nonostante la precauzione, gli imbroglioni professionisti diventano sospettosi, vogliono utilizzare i loro bolognini e Basso è d’accordo: «Allora uno di loro co’ suoi bolognini asciutti e aridi, che non aveano forse mai tocca pera mézza, cominciò mettere a ciascuno il suo bolognino. Il Basso lasciava andare sanza malizia alcuna volta che vincessino;
quando volea vincere elli, e ’l bolognino gli era posto inanzi, spesse volte il polpastrello del dito toccava il mézzo della pera e, mostrando di acconciare [sistemare al proprio posto] il bolognino che gli era messo inanzi, lo toccava con quel dito, onde la mosca subito vi si ponea; (...) e cosí provando or l’uno or l’altro dei Genovesi, non poterono tanto fare che ’l Basso non vincesse loro lire cinquanta di bolognini con una fracida pera, onde gli arcatori furono arcati». settembre
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Secondo Sacchetti, le persone dedite a ingannare il prossimo non pensano che lo stesso destino possa capitare a loro, non se ne curano. Se invece tenessero conto degli interessi del compagno di giochi «il quale molte volte non è cieco» non succederebbe quello che è capitato ai Genovesi con Basso «però che [in quanto] spesse volte l’ingannatore rimane a piede [rimane sconfitto] de l’ingannato». Oltre gli imbroglioni
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di professione, Basso si burla anche dei mercanti (XIX): «A Ferrara arrivorono alcuni Fiorentini a l’albergo suo una sera e, cenato che ebbono, dissono: “Basso, noi ti preghiamo che tu ci dia istasera lenzuola bianche”». L’albergatore annuisce vigorosamente, dice che sarà fatto. Venuta l’ora di coricarsi, i mercanti si accorgono che le lenzuola «non essere odorose ed essere suscide [sudice]». All’epoca si aggiungevano ra-
metti di rosmarino o di pino all’acqua in cui si lavavano i panni per renderli profumati.
Bianche o colorate?
La mattina seguente i mercanti si lamentano con il truffaldino albergatore: «Di che ci servisti, Basso, che tanto ti pregamo [pregammo] iersera ci dessi lenzuola bianche, e tu ci hai dato tutto il contrario?». Basso si finge stupito: «O questa è ben bella
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il trecentonovelle di franco sacchetti/8
Una pianta di gelsomino e un pero, incisione facente parte della serie Cognoscite lilia, da un originale attribuito a Crispijn van de Passe. 1600-1604. Amsterdam, Rijksmuseum.
novella; andiamle a vedere». Giunto in camera, Basso toglie il copriletto e dice: «Che son queste? Son elle rosse? Son elle azzurre? Son elle nere? Non son elle bianche? Qual dipintore direbbe che le fossono altro che bianche?». Uno dei mercanti guarda l’altro e scoppia a ridere, dicendo che Basso aveva ragione: quelle lenzuola erano bianche di colore. Grazie a questo approccio scherzoso, il furbo locandiere attrae clienti che non si curano del letto e del cibo, ma apprezzano il suo umorismo. Sacchetti sottolinea come questa sia una logica piacevole che vale per tutti quelli che esercitano un mestiere e soprattutto per gli albergatori «a’ quali molti e di diversi luoghi vengono alle mani». Da questo dettaglio possiamo intuire come le locande medievali
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fossero luoghi poco confortevoli in cui si scatenavano risse furibonde. In caso di necessità l’albergatore metteva nello stesso letto molti sconosciuti e arrivava perfino a dividere la propria camera con gli ospiti. Sacchetti conclude: «Questa novelletta ha fatti molti, che l’hanno udita, savi; e io scrittore sono uno di quelli che giugnendo a uno albergo, volendo lenzuola nette, addomando che mi dea lenzuola di bucato». Un aspetto che conferma la simpatia di Sacchetti nei confronti della classe mercantile è come li mostri sollazzevoli: anziché protestare con veemenza per il cattivo servizio, ridono della prontezza di spirito di Basso.
Manca il vino
Anche per il servizio di cucina, l’anziano locandiere mostra la sua predisposizione a prendersi gioco dei suoi ospiti (XX). Qualche tempo dopo, Basso è colpito da febbri e «parve volesse fare la cena come fece Cristo co’ discepol suoi; e fece invitare molti suoi amici, che la tal sera venis-
sono a mangiare con lui». La brigata accetta l’invito, la tavola è ben apparecchiata, ricca di vivande, ma ben presto gli invitati si accorgono che i bicchieri sono vuoti e nessun servitore versa il vino. Alla richiesta di spiegazioni, i camerieri attoniti rispondono: «E non c’è vino». Gli invitati fanno chiamare Basso, che si giustifica: «Signori, io credo che voi vi dovete ricordare de l’invito che vi fu fatto per mia parte: io vi feci invitare a mangiare meco, e non a bere, però che io non ho vino che io vi desse [dessi], né che fosse buono da voi; e per ciò chi vuol bere, si mandi per lo vino a casa sua, o dove piú li piace». Gli invitati si mettono a ridere, sostenendo che Basso diceva la verità e chi voleva bere doveva portare il proprio vino. Anche in questa novella, Basso usa la logica per il suo scherzo, ma qui non lo fa per trarne un guadagno, come nella precedente, perché altrimenti non avrebbe offerto la cena. Qualche mese dopo (XXI), Basso si trova in punto di morte a settembre
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Miniatura di scuola boema raffigurante la Morte che strangola una vittima della peste, dal Codice Stiny. XIV sec. Praga, Biblioteca Universitaria.
causa della peste: «La mortalità sí grande che la moglie non s’accostava al marito, e ’l figliuolo fuggía dal padre, e ’l fratello dal fratello, però che [poiché] quella pestilenza, come sa chi l’ha veduto, s’appiccava forte». Questa breve descrizione della peste è tratta dall’introduzione del Decameron: «Era con sí fatto spavento questa tribulazione entrata ne’ petti degli uomini e delle donne, che l’un fratello l’altro abbandonava e il zio il nepote e la sorella il fratello e spesse volte la donna il suo marito; e, che maggior cosa è e quasi non credibile, li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero di visitare e di servire schifavano».
Un lascito bizzarro
Anche Basso subisce la stessa sorte dei malati di peste: viene abbandonato dalla sua famiglia. Per questo motivo, l’anziano malato fa scrivere al notaio nel testamento che «suoi figliuoli ed eredi dovessino ogni anno il dí di san Jacopo di luglio dare un paniere di tenuta [contenuto] d’uno staio [unità di misura che corrisponde a 24,36 litri] di pere mézze alle mosche, in certo luogo per lui deputato [scelto]». Il notaio è stupito dalla richiesta e pensa che Basso stia scherzando, ma l’uomo insiste: «Scrivete come io dico, però che in questa mia malattia io non ho aúto né amico né parente che non mi abbia abandonato, altro che [se non] le mosche. E però essendo a loro tanto tenuto, non crederei che Dio avesse misericordia di me, se io non ne rendesse loro merito. E perché voi siate certo che io non motteggio [scherzo] e dico da dovero [per davvero], scrivete che se questo non si facesse ogni anno, io lascio diretati [diseredati] li miei figliuoli, e che il mio pervenga alla tale religione [ordine religioso]». Il notaio non può fare altro che scrivere quest’ultima volontà del suo
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cliente e cosí «fu discreto [generoso] il Basso a questo piccolo animaluzzo». Ma l’uscita di scena del burlesco albergatore riserva ancora qualche sopresa: «Non istante molto e venendosi nelli stremi, che poco avea di conoscimento, andò a lui una sua vicina, come tutte fanno, la quale avea nome Donna Buona». La visitatrice si avvicina a Basso e gli dice: «Basso, Dio ti facci sano; io sono la tua vicina donna Buona». Con la sua consueta vena ironica il moribondo sus-
surra: «Oggimai, perché io muoia, me ne vo contento, ché ottanta anni che io sono vissuto mai ne trovai alcuna buona». Tutti quelli che aveva intorno non trattengono una risata e Basso muore contento. Sacchetti si dimostra legato da amicizia al protagonista della sua novella e ne trae una morale: «Della cui morte io scrittore, e molti altri che erano per lo mondo ne portorono dolore, però che egli era un elemento [un’istituzione] a chi in Ferrara capitava.
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il trecentonovelle di franco sacchetti/8
E non fu grande discrezione [generosità] la sua verso le mosche? Sanza che fu una grande reprensione [rimprovero] a tutta sua famiglia; ché sono assai che abandonano in cosí fatti casi quelli dove doverrebbono mettere mille morti per la loro vita, e tale è il nostro amore che non che li figliuoli mettessino [fossero disposti a dare] la vita per li loro padri, ma gran parte desiderano la morte loro, per essere piú liberi». Rispetto a Boccaccio, il tragico tema della peste assume con Sacchetti
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una svolta originale, in linea con i propositi del Trecentonovelle: suscitare un sorriso nel lettore.
Orinali per il podestà
Ma non tutte le burle vanno a buon fine come quelle di Basso della Penna. A Firenze viene nominato podestà messer Macheruffo da Padova (XLII). Nel Duecento e nel Trecento i comuni italiani sperimentano una nuova forma di governo per evitare violente li-
ti cittadine: affidano il potere a un podestà. Si tratta di un cavaliere forestiero, di solito esperto di diritto, che amministrava la giustizia per un anno. Il podestà padovano «con uno tabarro e co’ batoli [liste di pelle che guarnivano i mantelli specie dei medici] dinanzi in forma da parere piú tosto un medico che cavaliere fu raguardato [guardato attentamente] e considerato da tutti , e massimamente da certi nuovi uomeni e sollazzevoli, li quali piú che gli altri settembre
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facendosene beffe, proposono di fare sopra lui qualche cosa». Una sera i burloni inchiodano alla porta del podestà dieci orinali «ciascuno con orina dentro». La mattina seguente il cavaliere di ronda avvisa il podestà dell’affronto. Macheruffo non si scompone, esamina gli orinali uno per uno, come se fosse un medico, poi ordina al cavaliere e ai soldati di appenderli nella Sala maggiore della podesteria. Nell’età di Mezzo i medici esaminavano il colore delle orine per capire di quale malattia soffrissero i pazienti. Il giorno seguente i nobili cittadini di Firenze entrano nella sala per il Consiglio e rimangono sorpresi di fronte a quella esposizione. Il podestà spiega loro: «Signori fiorentini, io ho sempre udito dire che voi sete li piú savi uomeni del mondo; e poi che io venni qui, in sí piccolo tempo conosco voi siete molto piú savi che non ci si crede; e la prova il manifesti: che, essendo io venuto qui vostro podestà, e voi, come savi, considerando che ’l rettore della terra conviene che purghi li vizi e malori di quelli che ha a reggere, né piú né meno come il medico conviene [è necessario] che curi le infirmità de’ suoi infermi, mi avete in questa notte appresentato le vostre acque, li vostri segni [i campioni di orina che si presentavano ai medici per la visita] in questi orinari che vedete d’intorno appiccati, li quali orinari mi sono stati tutti confitti alla porta; e io avendoli proccurati [studiati], come che molto sofficiente in medicina non sia, veggio e ho compreso in questi vostri cittadini grandissime infirmità, le quali con la grazia di Dio penserò di curare sí che io vi credo lasciare piú sani e in migliore stato che io non vi truovo». Il rappresentante dei cittadini
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Nella pagina accanto miniatura raffigurante un medico che esamina le urine del suo paziente, da un’edizione del Continens, traduzione in latino dell’al-Kitab al-Hawi del medico, filosofo e alchimista persiano Rhazes. XIV sec. Parigi, Bibliothèque de la Sorbonne.
Un impiccato, simbolo dell’inflessibilità della legge nei riguardi dei trasgressori, particolare del ciclo Allegoria ed Effetti del Buono e Cattivo Governo, affrescato da Ambrogio Lorenzetti e dalla sua bottega nella Sala della Pace del Palazzo Pubblico di Siena tra il 1338 e il 1339.
sostiene che in un territorio grande come quello di Firenze era normale che ci fosse gente sciocca o pazza, occorreva che il podestà trovasse e punisse chi aveva messo in atto quello scherzo di pessimo gusto.
Macheruffo ribatte: «Voi mi dite che ci sono diverse genti, e ignoranti e stolti; per quelli tali e io e gli altri rettori siamo eletti: ché, se tutti li populi fossero savi, non bisognerebbe ci andasse rettori o officiali». Il podestà passa ai fatti: «Con informazioni e con gran sollecitudini segretamente seppe chi erano quelli che erano di mala condizione e di cattiva vita; e comincio ora uno per ladro, ora due per micidiali [omicidi], e quando tre e quando quattro, e mettitori di mali dadi [bari] e d’altre pessime condizioni, a spacciare [togliere di mezzo] e mandarli ne l’altro mondo, e ancora fu in questo numero di quelli che aveano appiccati gli orinali. E in brieve tanti ne impiccò e tanti ne decapitò e jiustiziò per ogni forma, che nella fine del suo officio lasciò sí sanicata [sanata] e sí guerita la nostra città che si riposò [restò] molto bene per assai tempo». Sacchetti invita i lettori ad andare al di là delle apparenze: anche se il podestà padovano vestiva in modo appariscente, si dimostra inflessibile nell’applicare la giustizia cosí «che quella mala erba fosse diradicata per forma che questa città ne rimanesse in buono stato». In queste novelle possiamo notare la diversa reazione alle burle di tre categorie sociali: i nobili, i mercanti e i podestà. Secondo Sacchetti, i nobili possono accettare lo scherzo se sono di buon umore, ma una reazione negativa è sempre possibile e anche pericolosa; i mercanti sono uomini dotati di senso della misura, sanno divertirsi con chi si prende gioco di loro; con gli uomini di legge invece è come scherzare con il fuoco, anche se purificatore.
NEL PROSSIMO NUMERO ● I contadini
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costume e società
Mille anni
di «questione
fiscale»
di Lorenzo Tanzini
Dopo la caduta dell’impero d’Occidente e del suo grandioso sistema amministrativo, il fisco, strumento indispensabile per la sopravvivenza di ogni governo, viene ripensato: dall’abbandono di ogni pressione tributaria durante i regni barbarici, attraverso le inedite forme di tassazione introdotte nell’Italia del Duecento, fino alle rilevanti innovazioni messe a punto in età comunale, ecco come i sistemi fiscali escogitati nel millennio medievale prefigurano la nascita della fiscalità moderna 58
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a guerra e il diritto, l’esercito e la cultura giuridica: questi i pilastri su cui era fondato l’impero romano, e grazie ai quali la sua eredità ha continuato a vivere fino al nostro tempo. Entrambi sono tuttavia strettamente congiunti a un altro fondamento della civiltà politica romana, cioè il sistema fiscale. Le tasse sono la vera e propria linfa dello Stato: raccolte attraverso una complessa e grandiosa macchina amministrativa, confluiscono da tutto l’impero verso la capitale, dalla quale ritornano a circolare sotto forma di investimenti statali, di opere pubbliche, di spese per l’approvvigionamento dell’Urbe e il suo governo. La fiscalità romana, fin dai tempi di Augusto, aveva il suo cuore nel prelievo diretto dello Stato, nelle due forme di imposizione sulle persone (tributum capitis) e sulla proprietà (tributum soli): a seguito del dissesto militare e sociale del III secolo il sistema
Nella pagina accanto L’ingresso di Alboino a Pavia, incisione da un dipinto di Ludovico Pogliaghi del 1890. In basso stele funeraria con scena di pagamento delle tasse, da Noviomagus Treverorum (Neumagen). II-III sec. d.C. Treviri, Rheinisches Landesmuseum.
MEDIOEVO
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fiscale aveva assunto caratteri piú rigidi e centralizzati, aumentando anche progressivamente il proprio peso sui cittadini con le riforme di Diocleziano e Costantino. Il sistema fiscale romano, insomma, è per molti versi il modello della nostra stessa idea di potere pubblico: un potere che ancor oggi non sapremmo neppure pensare senza la costante delle tasse.
La scomparsa di un sistema ben rodato
Ma da quella grandiosa costruzione amministrativa ci separano molti secoli nei quali la realtà e l’idea della fiscalità assunsero caratteri profondamente diversi. La fiscalità romana, infatti, non sopravvisse alla catastrofe dell’impero d’Occidente: i regni barbarici come quello ostrogoto di Teodorico, nei quali i resti della vecchia aristocrazia latina erano ancora tutt’altro che scomparsi, riuscirono per qualche decennio a tenere insieme una parvenza della vecchia organizzazione fiscale, ma non a lungo. In Italia questa silenziosa scomparsa porta la data del 568, l’anno della conquista longobarda: da allora cessa definitivamente nei territori latini l’imposizione diretta, che invece restava, in forme per
noi difficilmente ricostruibili, nei territori rimasti bizantini. Possiamo immaginare cosa accada con la scomparsa del prelievo fiscale dello Stato: impossibile il mantenimento degli ufficiali pubblici, inesistenti le risorse per le opere pubbliche, nulla la possibilità di sostenere il commercio. L’immagine con cui si apre la storia della fiscalità nel Medioevo è quella, del resto ricorrente negli scrittori contemporanei, di un impressionante silenzio. La fiscalità non è questione solo di tecnica, ma di cultura: non esiste senza la convinzione che l’autorità pubblica abbia il diritto di prelevare dai cittadini una quota di ricchezza per il proprio funzionamento. Ed è proprio ciò che mancava al mondo germanico. Di certo, infatti, le aristocrazie germaniche erano del tutto prive delle conoscenze tecniche necessarie per un’amministrazione fondata sulla scrittura. Ma ciò che piú importa è che nel mondo politico germanico il sovrano è prima di tutto il capo di un esercito, levato sugli scudi dai suoi uomini, dei quali si deve guadagnare fiducia e fedeltà: non è l’espressione di un potere astratto che vige sul territorio, ma il termine di un rapporto personale
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costume e società Nella pagina accanto allegorie dei mesi, ciascuno dei quali è rappresentato da una specifica attività, miniate su un codice di epoca carolingia. IX sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.
di autorità. Non a caso le nationes germaniche potevano anche restare senza re, affidate ai loro legami militari e tribali: come accadde all’Italia longobarda dal 574 al 584. Per questo, sebbene nei simboli e nelle attitudini i re germanici assumessero (esteriormente) elementi della tradizione romana, mai riuscirono a rimettere in piedi una macchina fiscale paragonabile a quella di Roma.
Patrimoni reali
Ma com’è fatto uno Stato quasi del tutto privo di uno strumento tanto irrinunciabile del potere pubblico come le tasse? Nel primo Medioevo nasce, se non nella teoria certo nei fatti, un’idea destinata a una durevole fortuna nei secoli seguenti, quella secondo cui il re deve «vivere del suo»: non può attendersi un vero e proprio contributo dai sudditi, ma deve trarre le proprie ricchezze da ciò che possiede. E che cosa «possiede» il re? Esistono dei diritti tipicamente pubblici, che la tradizione romana era riuscita a trasmettere al Medioevo barbarico: battere moneta, esercitare la giustizia, controllare il transito degli uomini e delle merci, restano pur sempre appannaggio dei sovrani, che di questi diritti sfruttano le rendite attraverso monopoli, dazi e ammende. Ma si tratta di fonti di introito solo nella misura in cui i sovrani riescano ad amministrarle: e soprattutto di fonti tanto piú magre quanto piú spenti sono i traffici interni, rada la moneta circolante; aleatoria e inattiva la giustizia pubblica. Per il resto, il patrimonio del sovrano consiste nelle sue terre e nei frutti che riesce a trarne. E poco conta ormai che quelle terre
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Il Capitulare de villis
Quell’elenco «distinto e ordinato» Il Capitulare de villis, emanato da Carlo Magno poco prima dell’800, è un vero e proprio programma di buona amministrazione delle rendite e dei possedimenti regi: le sue pantagrueliche enumerazioni sono un esempio eloquente della natura disordinata ma copiosa delle entrate che i re carolingi si attendevano dalle proprie curtes: «Ogni giudice ci renda noto, a Natale, con un elenco distinto e ordinato, l’entità delle rendite di ogni singolo prodotto in modo che possiamo sapere che cosa e quanto ci venga da ogni cosa: il numero delle terre arate, dei possessori di mansi, dei porci, dei censi, delle obbligazioni e ammende; il conto della selvaggina catturata senza permesso nei nostri boschi e delle relative composizioni; il numero dei mulini, delle foreste, dei campi, dei ponti e delle navi; quanti sono gli uomini liberi e le prestazioni che devono al nostro fisco; dei mercati, delle vigne, di chi deve del vino, del fieno, della legna da ardere, delle torce, delle assi e dell’altra legna; delle terre incolte, dei legumi, del miglio e del panico, della lana, lino e canapa, dei frutti degli alberi, delle noci e delle nocciole, degli orti, del cuoio, delle pelli e delle corna di animali, del miele, della cera, del lardo, del sego e del sapone; del vino di more, vino cotto, idromele e aceto, della birra, del vino nuovo e vecchio, del grano vecchio e nuovo, dei polli e delle uova, delle oche, dei pescatori, dei fabbri, dei fabbricanti di scudi, dei calzolai, delle madie e delle cassapanche, dei tornitori e dei sellai, delle miniere di ferro e di piombo, dei tributari, dei puledri e delle puledre...».
Particolare di un capolettera miniato raffigurante Carlo Magno, dal Codex Calixtinus. 1140 circa. Santiago di Compostella, Cattedrale.
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costume e società in maniera parziale e intermittente, si occupano principalmente di assicurare al re le rendite delle sue aziende agricole sparse sul territorio, le curtes regiae. Ciò comporta, tuttavia, che gli introiti del regno siano prevalentemente in natura: bestiame, vino, prodotti dell’agricoltura, solo difficilmente metallo prezioso, che i sovrani devono procurarsi altrove, spesso con il saccheggio e la rapina, inevitabili corollari delle guerre di conquista.
La terra rende fedeli
Anche per garantirsi la fedeltà dei propri ufficiali ai re non resta che usare quella tessa terra che fornisce loro di che vivere. Di questo strumento faranno un elemento di forza soprattutto i monarchi carolingi: grandissimi proprietari terrieri e avidi conquistatori, i discendenti di Carlo Martello si serviranno a piene mani dei possedimenti propri, del fisco e in certi Miniature raffiguranti la regola sulle tasse sui raccolti da imporre ai contadini, da un’edizione dello Iustinianum digestum. XIV sec. Vicenza, Biblioteca Civica Bertoliana.
la decima
Un’imposta per chiese e sacerdoti siano patrimonio del regno in quanto tale, cioè quel che rimane delle sterminate proprietà dello Stato romano, il fisco regio, o piuttosto il patrimonio privato della famiglia regnante: l’uno è mescolato all’altro senza grande chiarezza. Del resto, quale catasto avrebbe potuto ormai serbare memoria di una cosí fine distinzione? Un buon re altomedievale è dunque innanzitutto un buon amministratore dei propri beni. I suoi ufficiali hanno in buona parte questa funzione: i gastaldi, cioè gli ufficiali regi dell’Italia longobarda, oltre ad amministrare la giustizia
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L’Alto Medioevo è in gran parte un’età del tutto priva di forme di tassazione generale: vi è però un’importante eccezione, vale a dire la decima. Pur esistendo già nei primi secoli del cristianesimo l’idea che i fedeli contribuissero al mantenimento dei sacerdoti e delle chiese della comunità, la fissazione di un decimo delle rendite agricole come quota da versare ogni anno alla chiesa di appartenenza risale al regno carolingio: fu Carlo Magno, in un capitolare dell’813, a specificare l’obbligo e le modalità di pagamento. Dai domini dei re franchi la decima venne introdotta in Italia con la conquista del regno longobardo nel 774, e si diffuse lentamente in tutta la Penisola, salvo a Venezia, dove non entrò mai nella pratica comune. Versare un decimo del raccolto, considerando le rese agricole assai misere del tempo, era per i lavoratori un impegno gravoso, e doveva essere per le pievi e le chiese parrocchiali un introito non trascurabile: per questo archivi delle istituzioni ecclesiastiche conservano tra i documenti piú antichi numerosi atti di liti e controversie per il riconoscimento o la contestazione delle decime. E non stupisce che le famiglie signorili cercassero spesso di accaparrarsene gli introiti o almeno l’amministrazione, mettendo cosí le mani su una regolare e consistente fonte di reddito. settembre
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Gli emporia
Il contributo dei mercati I mercati sono uno dei luoghi in cui si svolge la funzione pubblica di custodia e, allo stesso tempo, di tassazione del commercio. I sovrani carolingi furono particolarmente solleciti a curarne l’impianto e lo sviluppo: già Pipino il Breve nel 744 ordinava che se ne tenesse uno in ogni città vescovile. Ma non solo di mercati cittadini si tratta. Proprio in età carolingia venne costituita – in parte autonomamente, in parte per impulso regio – una vera e propria rete di «cittadelle commerciali» o emporia, che univano i territori dell’impero alle sponde del Baltico: nel porto di Quentovic (situato probabilmente alla foce della Canche, poco a sud di Calais), proiettato verso l’Inghilterra, il fisco regio imponeva il dazio del 10% sul valore di tutte le merci in uscita dai territori dell’impero, mentre da Dorestad, nel territorio dei Frisoni, partivano i collegamenti commerciali verso est, dove l’emporio danese di Hedeby (oggi in Germania) e quello di Birka in Svezia raccoglievano le merci dalle foreste del profondo Nord. casi della Chiesa per comprare, è proprio il caso di dirlo, la fedeltà di un raggio sempre piú ampio di vassalli. In questo modo, il regno si reggeva letteralmente sulle proprietà che la dinastia regia riusciva ad accaparrarsi: tanto che quando la fase espansiva finí dopo la morte di Carlo Magno, e i territori dell’impero cominciarono a non crescere piú, anzi a contrarsi per effetto delle prime incursioni ungare e soprattutto normanne, l’impero carolingio si dissolse nel giro di un paio di generazioni. La sfortunata vicenda dell’impero carolingio è l’esempio piú manifesto di una difficoltà vissuta da tutti i poteri pubblici dei secoli dell’Alto Medioevo: una fiscalità fondata sulla buona amministrazione delle proprietà pubbliche o dinastiche, o degli introiti ben piú magri dei diritti di transito o di giustizia, poteva reggersi in tempo di pace, contando sulla leggerezza di un potere pubblico che in effetti ben poco faceva
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Questo sottile ma vitale corridoio commerciale sotto tutela regia non resse al crollo del dominio carolingio sotto i colpi dell’espansione normanna: Quentovic fu distrutta dai Vichinghi nel 900, mentre Dorestad era già scomparsa del tutto intorno all’850.
Moneta vichinga con l’immagine di un drakkar, da Birka (Svezia). X sec. Stoccolma, Historiska Museet.
oltre a mantenere se stesso. Ma di fronte a impellenti necessità di difesa del territorio, quali quelle che si presentarono già nel corso del IX secolo, urgevano soluzioni drastiche. Non ultima, il tentativo di tornare a una forma di imposizione fiscale simile alla tassazione diretta del tardo impero romano. Qualcosa di simile accadde in effetti in Inghilterra, quando il sovrano sassone Alfredo il Grande, re del Wessex e dominatore della parte meridionale dell’isola, si trovò a fronteggiare la minaccia e la stessa presenza dei temuti pirati danesi. Costretto a impiegare enormi ri-
In alto una spilla e un pendente in oro filigranato di produzione romana, da Hedeby (Germania). Schleswig, Landesmuseen Schleswig-Holstein.
sorse per combattere gli invasori venuti dal mare o per acquistarne a caro prezzo l’acquiescenza, introdusse una prima forma di tassa straordinaria su tutti i possidenti liberi, che piú tardi avrebbe preso il nome di Danegeld: per l’appunto, il «soldo dei Danesi»; questa forma di tassazione molto rozza, ma a suo modo efficace, sopravvisse alle trasformazioni politiche del regno e venne riscossa in maniera intermittente fino al XII secolo. Anche i primi sovrani francesi tentarono di fare qualcosa di simile, ma con minor successo: i tempi per la rinascita della fiscalità regia sarebbero stati ancora molto lenti.
Un mosaico di poteri
A partire dall’XI secolo il panorama geopolitico dell’Europa cambia profondamente. Quello che era stato il grande impero carolingio è ormai solo un lontano ricordo: il continente, passata la grande paura delle «seconde invasioni»,
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costume e società è un mosaico di innumerevoli poteri locali, principati, contee, città vescovili, castelli. La stessa immagine frammentata appare nel panorama della fiscalità: i poteri pubblici che ancora nei regni altomedievali, e piú chiaramente nel periodo carolingio, erano stati faticosamente gestiti dalle dinastie regie, ora sono esercitati di fatto da chiunque abbia la forza di controllare un territorio: vediamo cosí signori di castello che esercitano la giustizia, vescovi che incassano i proventi dei mercati cittadini, signori rurali che battono moneta, usano risorse del fisco, impongono dazi di transito. Ma proprio a partire da una situazione cosí complessa, si assiste al ricostruirsi dei nuovi poteri pubblici nelle grandi monarchie che due secoli dopo si divideranno la carta politica dell’Europa. Lo strumento della fedeltà vassallatica, perfezionato e trasformato dalle sue origini carolingie, è la chiave per questa ricostruzione. È l’età delle monarchie feudali. La natura feudale dei regni portava con sé forme peculiari di fiscalità. La fedeltà vassallatica nei confronti del re, infatti, aveva come traduzione concreta il cosiddetto auxilium, l’obbligo di sostenere il sovrano nelle sue imprese: un obbligo che ben si prestava a essere sostituito con prestazioni in Miniatura raffigurante la partenza dei crociati da Antiochia, da un’edizione della Historia rerum in partibus transmarinis gestarum di Guglielmo di Tiro. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana. Nella pagina accanto facsimile del Domesday Book, una sorta di catasto regio fatto redigere da Guglielmo il Conquistatore.
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le regalíe
Quando il Barbarossa volle fare un po’ d’ordine I proventi delle funzioni tipicamente pubbliche, come la custodia dei mercati, il controllo dei passi o l’amministrazione della giustizia, rappresentavano complessivamente una parte consistente, e per certi regni prevalente degli introiti regi. I cosiddetti regalia iura, come dire «i diritti del re», o piú volgarmente le «regalíe», non erano però un corpo organico e chiaramente definito, ma piuttosto un deposito piuttosto disordinato di consuetudini dalle origini assai varie. Quando Federico Barbarossa, nella Dieta di Roncaglia, volle richiamare l’esclusivo diritto sulle regalíe, piuttosto che usare una definizione unitaria non settembre
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denaro, come accadeva per esempio con il cosiddetto scutagium del regno inglese. Tutti i vassalli regi erano dunque tenuti a contribuire finanziariamente alle campagne militari del re, cosí come a testimoniare la propria fedeltà con congrui donativi nei momenti simbolicamente importanti per la corona, come le successioni, le incoronazioni o i matrimoni della casa reale. I feudatari erano spesso, è vero, dei piccoli sovrani, che governavano per proprio conto i territori loro sottoposti, al di là di una formale
investitura regia: ma quell’investitura aveva pur sempre un costo, e rinnovarne il valore di generazione in generazione fruttava ai re non trascurabili introiti.
Nuovi strumenti
Ma i secoli centrali del Medioevo non sono soltanto l’età del feudalesimo: è questo il tempo dell’esplosione della cultura, della diffusione della scrittura come strumento per conoscere e dominare la realtà. E allora ciò che cambia sono soprattutto gli strumenti con cui gestire le stesse risorse.
trovò di meglio che fare un elenco, del quale riportiamo il passo iniziale: «Le regalíe sono queste: le arimannie, le vie pubbliche, i fiumi e i canali navigabili, i porti, i tributi che si percepiscono sulle rive dei fiumi, le esazioni chiamate telonei, le monete, le multe e le pene, i beni vacanti e quelli che per legge vengono tolti agli indegni, i beni dei proscritti e dei condannati, le prestazioni di angarie e perangarie, le imposizioni straordinarie a favore della maestà regia, le zecche e i pubblici palazzi nelle città in cui esistono per tradizione, i redditi della pesca e delle saline, i beni dei rei di lesa maestà e i tesori ritrovati in luogo sacro o in terre di pertinenza dell’imperatore».
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Il regno d’Inghilterra è ancora una volta un modello: già nel 1086 Guglielmo il Conquistatore aveva fatto redigere una sorta di grande catasto regio, il cosiddetto Domesday Book, per avere sott’occhio il quadro dei domini fondiari della sua feudalità. Ma soprattutto nei decenni successivi compaiono i primi documenti di contabilità statale: noti col nome di Pipe Rolls, i rotoli redatti dai contabili del re (il primo noto è del 1129) elencano in maniera ancora piuttosto discontinua ma chiara le risorse di cui disponeva il sovrano normanno. Soltanto vari decenni piú tardi, intorno al 1202, la monarchia francese potrà fare di meglio lasciando agli archivi il primo vero bilancio dello Stato. Quello che fino ad allora possiamo ricostruire piú che altro per indizi e silenzi comincia a poter essere quantificato. E quali sono dunque le entrate che i maggiori regni della cristianità cominciano a contare e a prevedere? Almeno la metà del bilancio dei re inglesi o francesi consiste ancora nelle rendite delle fattorie regie, che continuano a essere un polmone irrinunciabile delle cas-
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se pubbliche; d’altra parte proprio l’amministrazione delle proprietà e dei diritti regi è oggetto di profonde trasformazioni nel corso del XII secolo: l’istituzione di veri e propri ufficiali pubblici, i celebri sceriffi inglesi o i balivi del regno capetingio, trasforma in una rete organizzata quella che per secoli
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era stata una gestione intermittente e consuetudinaria. Anche l’altra grande voce d’entrata, quella degli introiti giudiziari, conosce una radicale riorganizzazione con la nascita di corti e ufficiali regi stabili, dei quali l’esempio forse piú lampante è quello dei giustizieri del regno
normanno dell’Italia meridionale: una vera e propria fonte strategica per la costruzione dello Stato, non solo perché elaboravano una giustizia regia sulla rete di diritti dei signori locali, ma anche per la loro importanza economica. Accanto a un interesse rinnovato per le vecchie fonti di introisettembre
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Il foraggio
La primavera si addice alla guerra Tra le piú importanti voci in uscita del bilancio di ogni monarchia vi è senza dubbio la guerra. Una voce che nel pieno Medioevo era coperta in gran parte senza passaggi di denaro, dal momento che il servizio militare è uno degli obblighi dovuti dai vassalli al re: almeno entro determinati limiti, oltre i quali gli stessi vassalli finivano con il trasformarsi in veri e propri mercenari stipendiati. Tuttavia, a prescindere dai combattenti, un esercito ha bisogno di mezzi, e, tra questi, il piú indispensabile è l’approvvigionamento di uomini e animali: non a caso, d’altronde, le campagne militari si tenevano abitualmente a primavera, quando era piú facile procurarsi il fieno.
In particolare gli imperatori germanici, in occasione delle loro discese nel regno italico, rivendicavano il diritto di ricevere quanto necessario per il mantenimento del proprio seguito dai sudditi delle terre attraversate: il fodrum, cioè la fornitura in foraggio per i cavalli, insieme a una serie di ulteriori prestazioni che esprimevano il cosiddetto servitium regis. Il fodro, conteggiato in moneta per poter essere riscosso anche al di fuori delle campagne militari, divenne cosí una vera e propria tassa imperiale: un’imposizione tra le tante che i Comuni cittadini si trovarono a contestare, ma anche a sfruttare a proprio vantaggio, nel conflitto con l’autorità imperiale al tempo del Barbarossa. Miniatura raffigurante un’allegoria del mese di giugno, rappresentato da un uomo impegnato nella falciatura, dal Martirologio di Adone, manoscritto latino. 1181. Cremona, Biblioteca Governativa.
Miniatura raffigurante i banchi della fiera di Lendit, da un’edizione delle Grands Chroniques de France. Fine del XV sec. Castres, Musée Goya.
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Miniatura raffigurante l’assedio di Gerusalemme del 1187, da un’edizione del Roman de Godefroi de Bouillon di Gugliemo di Tiro. 1337. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
to, la rivoluzione commerciale e il riattivarsi dei mercati, protagonisti sempre piú ingombranti della società europea, fornirono ai sovrani nuove possibilità di guadagno: i re francesi favorirono per quanto possibile l’afflusso di mercanti italiani e fiamminghi nelle fiere della Champagne, dove per molti decenni la corona incassò i diritti di fiera, cosí come i sovrani plantageneti d’Inghilterra seppero fare dell’esportazione di lana dal sud del Paese una notevole fonte di ricchezza. Le città erano a questo proposito i luoghi naturalmente deputati ad attrarre commerci e traffici: ed erano soprattutto centri di vivaci attività politiche, che aspiravano a poter governare autonomamente i propri interessi. Nulla di piú adatto a sostenere le magre finanze regie: i sovrani di tutta Europa non esitarono cosí a elargire carte di comune o di franchigia alle piú attive e ricche città del regno, che letteralmente compravano a peso d’oro la propria libertà.
Uno scontro inevitabile
Molto meno fortunata fu la politica attuata dagli imperatori germanici nei confronti delle città italiane. Il Nord Italia, a differenza delle altre regioni europee, non aveva conosciuto il costituirsi di un’autorità regia capace di tenere in piedi un controllo fiscale: ne avevano approfittato i Comuni piú potenti, per assumere direttamente il controllo delle strade e dei mercati e per esercitare la giustizia con propri ufficiali (i consoli), traendone i consueti introiti. Quando Federico Barbarossa pretese di riprendere l’esercizio dei suoi diritti regi, con la Dieta di Roncaglia del 1158, lo scontro fu inevitabile.
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costume e società Le vicende ben note della guerra coi Comuni si conclusero di fatto con la resa dell’imperatore, che nella Pace di Costanza del 1183 riconosceva – se pur nella forma di una graziosa concessione sovrana e fatta teoricamente salva l’autorità dei propri ufficiali – ai Comuni gli stessi diritti che esercitavano ormai da decenni. Era in effetti la rinuncia alla costruzione di un regno d’Italia: le risorse erano gestite dalle città, e con esse il potere.
Una formidabile macchina fiscale
Tra gli Stati del XII secolo ve ne è infine uno molto particolare, che per molti aspetti fu un vero e proprio modello. I pontefici romani, infatti, non sono solo signori di un vasto – anche se molto frammentato – territorio dell’Italia centrale: soprattutto dopo la conclusione della lotta per le investiture, i papi sono il vertice di una gigantesca gerarchia le cui basi si estendono fino ai piú lontani confini della cristianità. Che è anche una formidabile macchina fiscale: i doni che tutti i vescovi sono tenuti a presentare al pontefice nella loro periodica – e obbligatoria! – visita «al cospetto dei Santi Apostoli», o i contributi che piú tardi gli stessi presuli corrisponderanno al papa per la propria nomina, erano già da soli un introito di tutto rispetto per un regno. Ma lo strumento piú raffinato apparve sul finire del secolo, a seguito delle sfortunate vicende del regno latino di Terra Santa. Nel 1187, infatti, l’esercito di Saladino aveva riconquistato Gerusalemme, gettando nello sgomento tutte le potenze cristiane: il papa aveva immediatamente raccolto il grido d’aiuto degli Stati crociati, richiedendo a tutte le Chiese d’Occidente un contributo speciale, destinato a finanziare una grandiosa impresa di riconquista della Città Santa. La decima di Saladino, come venne chiamata la nuova tassa, divenne
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Conversione di San Matteo, olio su tavola di Marinus van Reymerswaele. 1536. Gand, Museum voor Schone Kunsten.
ben presto un contributo periodico, e il meccanismo di prelievo si perfezionò fino a costituire una straordinaria macchina di controllo: i registri delle decime, conservatisi a partire dal secondo Duecento col nome di Rationes Decimarum, sono una sorta di sterminata mappa delle istituzioni ecclesiastiche d’Europa, dalle grandi chiese cattedrali fino alle piú oscure parrocchie di campagna, emblema del potere e della capacità amministrativa della monarchia pontificia.
I dubbi della duchessa
Tommaso d’Aquino, maestro di teologia all’Università di Parigi e sommo interprete della logica duecentesca, non era soltanto uno studioso: nella sua carriera francese ebbe importanti relazioni con sovrani potenti come Luigi IX di Francia, e, tra gli altri, anche con la duchessa di Brabante. La quale volle rivolgersi a lui anche per una serie di consigli sull’amministrazione dello Stato. Tra le varie domande, una appare ai nostri occhi singolare: è lecito che il sovrano chieda ai suoi sudditi di contribuire con il proprio denaro alle spese del regno? Il grande maestro domenicano scrisse un breve trattato in risposta alla premurosa nobildonna, nel quale conclude che, in linea di massima, il re può pretendere il pagamento di imposte, dal momento che, come tutti gli uffici, anche il suo merita di essere remunerato: ma questo soltanto entro limiti dettati dalla necessità e dal buon senso, superati i quali l’imposizione da diritto sovrano si trasforma in tirannica spoliazione dei sudditi. Ancora nel Duecento, insomma, resta viva l’idea che la tassazione sia legittima solo a determinate condizioni; ma allo stesso tempo Tommaso è ormai consapevole che
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Un servizio ad alto rischio I sovrani del XIV secolo ricorsero sempre piú spesso ai prestiti per placare le necessità delle finanze del regno. E molto spesso erano i mercanti italiani, presenze immancabili in ogni angolo d’Occidente dove circolasse denaro, a fornire il liquido necessario. In certi casi a guadagnarci erano sia gli uni che gli altri: i grandi mercanti fiorentini, prestatori per conto del papa o personalmente dell’aspirante re di Sicilia e di Napoli Carlo d’Angiò, guadagnarono un vero e proprio dominio del regno, acquistando in virtú dei propri crediti le maggiori sedi del potere. Ma avere a che fare con i sovrani poteva essere pericoloso: ne è prova la vicenda dei mercanti fiorentini prestatori del re d’Inghilterra Edoardo III: il suo rifiuto di restituire i debiti accumulati con le compagnie
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toscane fece fallire i «banchi» Bardi e Peruzzi tra 1342 e 1346, trascinando alla rovina schiere di investitori e influendo non poco sulla crisi dell’economia fiorentina. D’altra parte i sovrani non perdevano occasione di sfruttare anche nelle forme piú scorrette la presenza dei danarosi – ma spesso odiati – mercanti stranieri, minacciati di espulsioni e confische e quindi costretti a comprare il favore dei monarchi. Questo gioco di intimidazioni e privilegi, che prese l’altisonante nome di «financia italicorum», arrivò a fruttare oltre duecentomila lire d’argento in alcuni anni del regno di Filippo il Bello, che del resto operava nello stesso modo, semmai con brutalità ancora piú spudorata, con le famiglie di prestatori ebrei.
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l’imposizione fiscale è parte del potere sovrano: i suoi limiti sono i limiti stessi di ogni autorità pubblica. I regni del Duecento sono davvero, piú di quanto non siano stati nei secoli precedenti, cronicamente assetati di denaro. Lo stabilirsi di un sistema amministrativo pubblico, le relazioni diplomatiche sempre piú intense, la guerra e le esigenze stesse di immagine che conducono i sovrani a intraprendere grandi imprese architettoniche o artistiche ingigantiscono le esigenze finanziarie: d’altro canto l’inflazione legata a un’economia in tumultuosa espansione fa lievitare le spese.
Come una rivoluzione
Nei regni dove questa evoluzione si fece meno sentire, come nell’area scandinava o nell’Est Europa, le basi della fiscalità pubblica poterono rimanere fondate sul demanio regio. Ma altrove la necessità spinse alle piú innovative soluzioni: fino a far parlare gli studiosi di una vera e propria «rivoluzione fiscale», dalla quale nasce in un certo senso la fiscalità moderna. Segnali di questa rivoluzione sono una serie di forme del tutto nuove di tassazione, che superano la vecchia contabilità fondata sulle proprietà e i diritti regi. Federico II per esempio, in veste di re di Si-
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In alto miniatura francese con vignette che raffigurano la monarchia e i diversi ceti sociali. XIV sec. A destra tavoletta di biccherna senese raffigurante una scena ambientata nell’ufficio della Biccherna: si vedono il camarlingo Don Matteo, dietro al bancone, e un uomo in piedi, probabilmente un contribuente che deve versare o ricevere soldi. 1340. Siena, Archivio di Stato. Nella pagina accanto banchieri, particolare delle Storie di San Matteo affrescate da Niccolò di Pietro Gerini nella sala capitolare della chiesa di S. Francesco a Prato. 1395-1400.
Chiesa e finanza
Monaci dietro al banco Nel Medioevo l’amministrazione delle finanze è un’attività non di rado esercitata da uomini di Chiesa: vuoi per una maggiore diffusione della cultura scolastica, necessaria all’uso della scrittura e del calcolo, vuoi per il valore in qualche modo sacrale delle casse pubbliche, vero e proprio cuore del potere, vuoi infine per una ben nota dimestichezza degli ecclesiastici con la ricchezza terrena. Tutte e tre queste caratteristiche, con una certa predominanza della terza, si riunivano per esempio nell’Ordine dei Cavalieri Templari, che furono, a partire dal 1146, i custodi del tesoro regio della dinastia capetingia. La ricorrenza di religiosi negli uffici finanziari è particolarmente fitta anche nei Comuni cittadini, che depositavano nei conventi francescani o domenicani le casse del fisco (cosí come i pesanti bauli dell’archivio comunale) e spesso sceglievano contabili, massari e camerari tra i frati dei maggiori Ordini religiosi della città: i celebri registri contabili del Comune di Siena, le Biccherne, riportano spesso nelle decorazioni delle costole immagini di monaci e religiosi al lavoro tra le casse e i ponderosi libri di conti degli uffici cittadini.
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costume e società cilia, costituí un organico sistema di tassazione sulle esportazioni: il modello siciliano venne rapidamente assimilato dalle grandi monarchie europee, che tra Due e Trecento assunsero sistemi sempre piú raffinati di tassazione delle compravendite. Ma la vera grande novità del tardo Medioevo è il ritorno dell’imposta diretta sulla ricchezza. Le cosiddette «taglie» introdotte dai sovrani inglesi alla fine del XII secolo sono ancora forme evolute di contributi di natura feudale: la collecta universalis del solito Federico II, o la cosiddetta moneda forera del re di Castiglia Alfonso X il Saggio, riportavano invece per la prima volta dopo secoli la pratica di un’imposta universale sul regno, destinata a diffondersi lentamente negli altri regni.
Il dietrofront di Carlo V
Si trattava per ora soprattutto di contributi straordinari, giustificati con la necessità impellente di rimediare ai bisogni dello Stato; a lungo rimase viva non solo nei riottosi contribuenti, ma anche negli stessi sovrani la consapevolezza che si trattasse di un intervento contestabile, che violava la tenace consuetudine regale di «vivere del proprio»: basti pensare che il re di Francia Carlo V, oberato dalle necessità finanziarie della guerra con gli Inglesi (che peraltro procedeva disastrosamente), dopo aver deciso di introdurre una taglia generale su tutti i sudditi nel 1360, ordinò per testamento che fosse cancellata, quasi si trattasse di un furto. Che però i suoi eredi non si fecero scrupolo di ripristinare. Non erano del resto solo dubbi etici quelli che rendevano la tassazione diretta un grossissimo rompicapo per i sovrani, ma anche meccanismi molto piú concreti. Nel corso del Duecento, infatti, la percezione dell’imposta diretta come contributo eccezionale obbligava
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svalutazione e politiche monetarie
I fraudolenti artifici di Filippo il Bello La politica monetaria è uno degli strumenti piú tradizionali in mano ai re per impinguare le casse dello Stato senza dover introdurre impopolari misure fiscali. A esercitarsi in una simile pratica furono soprattutto i sovrani del tardo Medioevo, in un periodo di intensa circolazione monetaria e di consolidato dominio regio sull’emissione di valuta pregiata: il trucco consisteva nel mettere in circolazione monete con il medesimo valore nominale ma con un contenuto inferiore di metallo prezioso, ottenendo cosí di pagare la medesima somma con minor spesa. Nonostante allora si ignorasse la «legge di Gresham», per cui «moneta cattiva caccia moneta buona», erano però ben noti ai contemporanei i gravi svantaggi del diffondersi di quella che veniva chiamata «moneta nera», composta sempre meno d’argento e sempre piú di rame o stagno: l’abbassamento del valore intrinseco del denaro provocava inflazione, erodeva i redditi commerciali e in generale la ricchezza del Paese, con effetti controproducenti per la stessa finanza regia. Sebbene la svalutazione fosse un’operazione di dubbia legittimità, una sorta di furto ai danni dei sudditi, i sovrani francesi ne fecero ampiamente uso, tanto che Filippo il Bello si meritò l’appellativo di «falseggiatore di moneta», mentre alla corte di Carlo V uno dei maggiori intellettuali del pieno Trecento, Nicola Oresme (1320-82), concepí il De moneta, ancor oggi considerato il primo trattato scientifico dedicato alla politica monetaria: per Oresme la svalutazione rappresenta una vera e propria forma di tassazione, che non solo è universale – perché colpisce chiunque maneggi denaro, chierico o laico – ma anche piú equa di qualsiasi altra, perché grava molto sui ricchi e molto meno sui poveri. Il giovane arciduca Massimiliano d’Asburgo visita una zecca, nella quale si vedono gli operai addetti alle varie fasi di realizzazione delle monete, xilografia di Leonhard Beck. XVI sec. Cleveland, The Cleveland Museum of Art.
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Miniatura raffigurante una battaglia fra cristiani e Arabi combattuta nell’ambito della Reconquista, da un’edizione delle Cantigas de Santa Maria di Alfonso X, detto il Saggio. XIII sec. Madrid, Real Biblioteca del Monasterio de San Lorenzo de El Escorial.
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costume e società Tavoletta di biccherna attribuita alla bottega di Sano di Pietro e raffigurante il pagamento dei salariati del Comune. 1430 (?). Siena, Archivio di Stato.
li il teatro di un equilibrio pieno di tensioni tra i sovrani e gli ordini, determinati a salvaguardare i propri privilegi e a ridurre al minimo il peso della politica fiscale regia. In effetti, se il re usciva dal parlamento incassando i ricchi donativi degli ordini – specialmente delle città – difficilmente poteva ottenere il risultato senza aver allo stesso tempo dato forza di legge alle richieste dei «contribuenti», che cosí venivano fondate sullo stesso diritto regio. Soltanto nel Quattrocento nuove circostanze ed equilibri consentiranno ai sovrani di scalzare in parte questo pesante impedimento: ma ancora per secoli i Parlamenti continueranno a vantare i propri diritti in materia fiscale, se non negando i sussidi ai re, almeno ponendo limiti e condizioni, tanto da fare della questione fiscale il cuore stesso dell’attività politica. Del resto, ancora nel 1776, non era forse lo slogan «no taxation without representation», traduzione anglosassone del vecchio parlamentarismo medievale, ad animare l’insurrezione delle colonie americane contro l’avida madrepatria inglese?
La Chiesa non paga gran parte dei sovrani a chiederne l’autorizzazione alle rappresentanze di tutte le forze del regno, in quelle assemblee di ceto che prendono il nome di Parlamenti o (in Francia) di Stati generali. Il principio che si ripeteva volentieri è quello del legame tra tassazione e rappresentanza, espresso dal fortunato adagio «quod omnes tangit ab omnibus approbari debet» («quello che tocca tutti deve essere approvato da tutti»): se il re ha bi-
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sogno di denaro, è necessario che ne discuta la necessità con i rappresentanti degli ordini che compongono la società e che si trovano a pagarne le spese: i baroni e la nobiltà, il clero, le aristocrazie delle città libere. Le imposte piú innovative vengono in quasi tutti i regni sottoposte all’approvazione delle assemblee di ceti: il Parlamento inglese, gli Stati Generali francesi e le Cortes dei Regni castigliano e aragonese sono per circa due seco-
Un altro dei gravi limiti alla politica fiscale dei regni era rappresentato dal piú antico dei privilegi, quello che prevedeva l’esenzione totale del clero e dei beni ecclesiastici da ogni forma di tassazione. La Chiesa è un ordine a parte della società che, come si è visto, ha i suoi sistemi di tassazione del tutto indipendenti da quelli dei regni. Ma il flusso di denaro che da tutta la cristianità scorreva copioso verso la Camera Apostolica, il vero e proprio Tesoro della Sede pontificia, non poteva non far gosettembre
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Catasto del XIV-XV sec. Città della Pieve, Archivio Storico.
la alle assetate finanze regie. In questo senso la crociata si rivelava uno strumento estremamente efficace: visto che la decima sul clero esiste principalmente per riconquistare la Terra Santa, i re che potevano dimostrarsi coinvolti in quella santa impresa potevano sperare di attingere anche alle sue fonti di finanziamento. Che poi non proprio di Gerusalemme si trattasse, ma piuttosto di combattere i nemici della fede in altra sede, era un problema superabile, purché d’accordo con la Chiesa. Nel Duecento, il regno di Castiglia, che era sottoposto a un rapporto di speciale fedeltà a Roma, aveva acquistato dai papi il diritto di esigere un terzo delle decime e altre imposizioni su tutte le istituzioni ecclesiastiche del suo territorio. I re inglesi e soprattutto francesi – questi ultimi legittimati soprattutto dallo zelo del piissimo Luigi IX, che in crociata trovò la morte nel 1270 – ricorsero con metodi anche piú sbrigativi alla stessa fonte: incaricandosi personalmente di riscuotere le decime per l’impresa crociata, salvo poi usare abitualmente lo stesso denaro per fini piú impellenti, e certamente meno devoti. Fu Bonifacio VIII, con l’enciclica Clericis laicos, a vietare espressamente questa pratica: ecco uno dei motivi del conflitto feroce con il re di Francia, che si concluse con la sconfitta del papa e la sua umiliazione ad Anagni. Il re di una delle maggiori potenze europee
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non si era arrestato davanti alla persona sacra del pontefice pur di salvaguardare le sue irrinunciabili fonti di entrata.
Una pratica consolidata
Abbiamo lasciato il mondo delle città italiane all’indomani della vittoria del 1183: per graziosa concessione imperiale, i Comuni erano autorizzati in nome dell’imperatore a esercitare quei diritti che ormai da decenni usavano nella pratica. Ma se necessità politiche e amministrative spingevano i grandi regni europei a formulare nuove forme di finanziamento, ancor piú questa esigenza doveva sentirsi nelle città italiane: realtà territoriali piccole o microscopiche, impegnate in ambiziosi disegni di conquista, e in interminabili lotte per l’esistenza o il predominio sui centri vicini; spesso prive – ed è quel che conta – di grandi proprietà demaniali su cui fare affidamento, come
accadeva per le dinastie regie per il proprio sostentamento. Ma non solo di bisogno di denaro si tratta. Le città italiane sono laboratori sociali e politici in vorticosa evoluzione, dove già tra il XII e il XIII secolo gruppi di origine e interessi economici contrastanti si confrontano duramente. Il vecchio ceto dirigente, che aveva guidato la città nell’epica lotta con l’impero, si trovava ogni giorno di piú non solo diviso e in conflitto al suo interno, ma anche incalzato da gruppi di estrazione meno illustre, spesso legati alle attività artigianali, che mal sopportavano il vecchio modo di gestire le finanze comunali. Non tolleravano l’idea che le finanze cittadine fossero fondate solo sulle gabelle, che gravavano sui traffici e limitavano i guadagni, cosí come non erano piú disposti ad accettare che il ceto dei cavalieri pretendesse l’immunità dalle imposte in nome del proprio servizio delle armi, scambiando per opera pubblica al Comune quello che in realtà era essenzialmente un privilegio. Le nuove forze emergenti tra le fila dei cittadini, unite sotto il nome di «Popolo», riuscirono spesso a imporre il proprio dominio sul Comune, o quantomeno a instaurare a proprio favore l’equilibrio con il vecchio ceto dirigente. Nel campo della fiscalità avvenne l’innovazione piú rilevante:
Registrazione di un controllo fiscale eseguito dal Dazio veneziano. XVII sec. Venezia, Museo Correr.
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costume e società
fin dal primo Duecento gli uffici comunali furono impiegati nell’opera grandiosa della redazione di lunghe liste, dette estimi o libre, nelle quali ogni capofamiglia vedeva assegnata una quota in ragione delle sue ricchezze. Ogni volta che il Comune si fosse trovato nel bisogno di imporre nuove tasse e contributi straordinari, la quota di ciascuno si sarebbe concretizzata in ragione dei suoi mezzi, e non in maniera arbitraria, tanto meno nella forma iniqua del «focatico», che gravava allo stesso modo sulle famiglie (o «fuochi») ricche come su quelle povere. L’estimo, fondato sulla valu-
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tazione del valore delle proprietà, aveva anche un effetto, per cosí dire, di politica economica: i grandi proprietari terrieri ne erano penalizzati piú duramente, mentre sfuggiva al fisco la ricchezza mobile, quindi gli investimenti commerciali in primo luogo, fonte di guadagno per la porzione piú attiva e intraprendente della cittadinanza.
Strategie di parte
Ma le grandi questioni della politica fiscale che impegnavano i regni europei non potevano essere risolte facilmente neanche nelle piccole e turbolente patrie cittadine. Il problema del consenso, che
altrove era affrontato con lo strumento complicato e faticosissimo delle assemblee parlamentari, si traduceva nei Comuni nella lotta politica dei consigli cittadini o nelle strategie di parte che conducevano a penalizzare le ricchezze dei ceti o dei partiti di volta in volta sconfitti. Non meno complesso era però il problema della legittimità della tassazione. Entro certi limiti la distribuzione della spesa attraverso l’estimo risultava accettabile: ma con l’aumentare esponenziale della spesa pubblica diventava impossibile sostenere le uscite con un mezzo cosí ordinario. Si dovette ricorrere al prestito: in certi casi si settembre
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Tavoletta di biccherna senese raffigurante l’ufficio di Biccherna, con il camarlingo (a sinistra) e lo scrittore dietro al bancone, intenti a contare denari. 1393. Siena, Archivio di Stato. Nella pagina accanto miniatura raffigurante alcuni mercanti che pagano il dazio all’ingresso in città, dal Libro dei Privilegi dei Bresciani. XV sec. Brescia, Biblioteca Queriniana.
trattò di prestiti volontari dei grandi ricchi cittadini, in altri di prelievi forzosi su una parte o su tutta la cittadinanza. Di anno in anno, però, i prestiti si sommavano ai prestiti, fino a raggiungere quote gigantesche, superiori agli stessi gettiti del bilancio comunale, e di certo molto superiori alle possibilità ragionevoli di restituzione.
La nascita del «Monte»
Per far fronte a una simile emergenza finanziaria, i piú grandi Comuni italiani, come Venezia, Genova, Firenze o Lucca, introdussero nel corso del Trecento una novità assoluta nella finanza pubblica: l’ammontare della somma dovuta ai cittadini venne trasformata in un enorme fondo virtuale di denaro, il cosiddetto «Monte» dal quale i creditori non ricevevano mai indietro quanto avevano prestato, ma percepivano una quota annua d’interesse. I Comuni avevano inventato i titoli di debito pubblico: e dal momento che spesso quei medesimi titoli si potevano liberamente commerciare, ecco che assieme al debito nasce la speculazione finanziaria. Anche il sistema del Monte, tuttavia, aveva grossi limiti. In primo luogo era un sistema socialmente iniquo, perché premiava le possibilità di investimento speculativo dei ricchi senza alleviare il peso fiscale generale. D’altro canto l’ingegnosa alchimia contabile del Monte si prestava, come abbiamo visto per le finanze regie del tardo Medioevo, a pressanti dubbi etici.
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Il catasto di Siena
Un censimento capillare e sistematico La valutazione della ricchezza immobiliare era un’operazione che poneva enormi difficoltà organizzative, giacché una stima affidabile avrebbe potuto trarsi solo da un catasto generale di tutte le proprietà cittadine. In questo senso il risultato piú brillante fu quello raggiunto dal Comune di Siena nel periodo della sua maggiore fioritura. Dal 1316 al 1320 gli uffici cittadini furono impegnati in una colossale realizzazione documentaria, che avrebbe dato luogo alla cosiddetta Tabula possessionum: nei ponderosi libri della tavola vennero registrate le proprietà di ogni singolo abitante della città e del contado, complete di dettagliate informazioni sull’ubicazione, il valore e il tipo di coltivazione di migliaia e migliaia di appezzamenti agricoli. La completezza e la precisione di questo eccezionale catasto agrario non sono soltanto l’emblema delle capacità organizzative del Comune senese, ma mostrano anche meglio di qualsiasi esempio quanto l’imposizione diretta sulla ricchezza fosse ormai acquisita come funzione ordinaria del potere pubblico cittadino, non diversamente da quanto siamo abituati a vedere negli Stati moderni.
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costume e società Miniatura raffigurante alcuni mercanti che cercano di corrompere i funzionari preposti alla riscossione del dazio, dal Libro dei Privilegi dei Bresciani. XV sec. Brescia, Biblioteca Queriniana.
la lotta all’evasione fiscale
Uno «specchio» per i reprobi Formulare e organizzare le varie forme di prelievo fiscale è già un problema: ottenere il pagamento regolare delle imposte è questione ancora piú complicata, specialmente laddove le difficoltà amministrative accentuano la possibilità di frodi. Gli strumenti messi in opera dalle autorità comunali per far fronte al problema erano di una durezza esemplare: a Firenze, per esempio, i debitori del fisco venivano registrati in un apposito libro, detto «specchio»: chiunque si trovasse «a specchio» veniva privato dei diritti politici finché non avesse regolarizzato la sua posizione col fisco; nelle altre città i cosiddetti «malpaghi» (una categoria evidentemente molto ampia, Prestare allo Stato non è forse qualcosa di assai simile al prestare a usura? E se prestito in sé sembra un’azione cristianamente accettabile, se non addirittura lodevole, davvero non si può dire lo stesso se chi presta si attende un interesse, anzi impiega i propri soldi proprio nella certezza di percepire l’interesse, forzatamente alzato
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tanto da dare luogo ad alcuni cognomi ancor oggi in uso…) erano esclusi dai processi civili, e quindi dalla possibilità di difendere i propri diritti. Piú in generale, vigeva l’idea di una responsabilità collettiva della comunità rispetto al fisco: il Comune, infatti, stabiliva una quota generale di introito fiscale atteso da ogni quartiere, vicinía o parrocchia, che sarebbe stato distribuito in ragione dell’estimo. Nel caso in cui l’importo effettivamente incassato non avesse raggiunto la quota fissata, si procedeva a ripartire di nuovo la somma mancante tra i vari contribuenti. Un sistema che certo stimolava il controllo reciproco tra i cittadini!
dalle autorità cittadine per attirare gli investitori. I pensatori trecenteschi discussero a lungo sulla legittimità morale di simili operazioni, ma senza trovare un accordo: alcuni ordini propendevano per una posizione piú permissiva, altri per un rifiuto rigido. In definitiva cittadini e autorità pubbliche restavano soli con la
propria coscienza: l’autorità che un secolo prima aveva avuto Tommaso d’Aquino con la duchessa di Brabante non era piú la stessa. Quello della fine del Medioevo è un mondo piú complesso, e soprattutto piú disincantato: un mondo in cui pochi limiti ormai sapevano trattenere le scelte dettate dalla necessità o dall’interesse del potere. settembre
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di Tommaso Indelli
ALLA CONQUISTA DELL’EST LA GRANDE EPOPEA DELL’ORDINE TEUTONICO Nati per fornire assistenza e protezione ai pellegrini in Terra Santa, dopo la fine degli Stati crociati d’Oltremare i cavalieri dell’Ordine Teutonico scelsero un nuovo campo d’azione, insediandosi definitivamente nel Nord Europa. Con un obiettivo ben preciso: quello di conquistare – e cristianizzare – i popoli baltici
Riproduzione dell’acquerello (oggi perduto) raffigurante la Morte e il cavaliere teutonico. 1649. Berna, Bernisches Historisches Museum. L’opera originale apparteneva al ciclo di pitture sul tema della Danza Macabra realizzato, tra il 1516 e il 1520, da Albrecht Kauw nel cimitero del convento domenicano di Berna, distrutto nel 1660.
Dossier
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enché non vi siano certezze in proposito, l’Ordo fratrum domus hospitalis Sanctae Mariae Theutonicorum Ierosolimitanorum – meglio conosciuto come Ordine Teutonico – venne fondato molto probabilmente nel 1191, in Palestina, come ordine religioso preposto all’assistenza dei pellegrini diretti in Terra Santa. Fondatori furono i commercianti di Brema e Lubecca e alcuni cavalieri di origine tedesca al seguito dell’imperatore Federico I Barbarossa (11521190), durante la terza crociata. A San Giovanni d’Acri, nel quartiere di porta San Nicola, sorse il primo ospedale dell’Ordine – destinato, ben presto, a diventare la «casa-madre» – a cui erano annessi la chiesa e il convento, per ospitare i «fratelli», come furono denominati gli appartenenti alla congregazione. Ben presto, all’ospedale di Acri si aggiunsero altre analoghe fondazioni a Tiro e Gerusalemme, e i membri dell’Ordine iniziarono a vestire l’abito che, in seguito, li avrebbe contraddistinti, cioè la tunica bianca con croce nera patente. La fondazione dei Teutonici fu approvata, una prima volta, da papa Celestino III che, probabilmente, li pose sotto il controllo dell’Ordine degli Ospitalieri e, nel 1199, arrivò la conferma definitiva, con bolla Sacrosancta Romana, promulgata da papa Innocenzo III. Alla fine del XII secolo, i Teutonici avevano già assunto, accanto alla funzione prettamente assistenziale, compiti di natura militare, dotandosi della struttura
Statue in bronzo di Grandi Maestri dell’Ordine Teutonico collocate nei giardini del castello di Marienburg (Malbork): da sinistra, Hermann von Salza (1209-1239), Siegfried von Feuchtwangen (1303-1311), Winrich von Kniprode (1351-1382) e Alberto del Brandeburgo-Ansbach (1510-1525). Le sculture appartenevano in origine a un monumento in onore di Federico il Grande, poi smembrato.
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Dossier amministrativa propria di un ordine religioso-militare e, proprio in quel periodo, è attestata la presenza, ai vertici dell’organizzazione, del primo gran maestro, il tedesco Heinrich Walpot von Bassenheim († 1200; vedi alle pp. 88-89).
Concessioni e privilegi
I Teutonici si legarono subito agli Hohenstaufen, inserendo nello stemma, sugli stendardi e i sigilli l’aquila, simbolo della casata germanica. Gli imperatori Enrico VI (11901197) e Federico II (1198-1250) li beneficiarono con ogni genere di concessioni e privilegi e, cosí, i cavalieri poterono acquisire feudi, beni e fortezze nel regno di Sicilia. Nel 1197, fu istituito l’ospedale di S. Tommaso a Barletta e, poco dopo, quello della SS. Trinità della Magione, a Palermo. Federico II concesse ai «monaci-guerrieri» di inserirsi nel tessuto economico-produttivo del Mezzogiorno, donando loro molte aziende rurali, come la mas-
Veduta aerea del porto dell’odierna Acri/Akko (San Giovanni d’Acri) che si affaccia sulla costa meridionale di Israele. Nella città sorse il primo ospedale dell’Ordine Teutonico. In basso pianta di San Giovanni d’Acri con i principali monumenti della città.
Templari
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Dossier La struttura e le regole
Pregare, obbedire e combattere La creazione dell’Ordine Teutonico rientra nel piú ampio fenomeno degli ordini religioso-militari costituiti all’indomani della prima crociata. La formazione di queste congregazioni di «monaci-guerrieri», autorizzati non solo a pregare, ma anche a combattere in difesa della fede – e agli ordini del papa – si inserisce, storicamente, nel tentativo, perseguito dal clero cattolico fin dall’Alto Medioevo, di disciplinare la violenza della feudalità, indirizzandola verso finalità etiche piú alte, anche di tipo spirituale. Si pensi al fenomeno delle «tregue» o «paci di Dio» e alla stessa crociata, istituto associato a quello dell’indulgenza, ossia alla possibilità, da parte del clero, di rimettere i peccati – purché debitamente confessati – cancellando la penitenza dovuta, in cambio del compimento di opere meritorie a favore della Chiesa. Rispetto ad altri ordini – come gli Ospitalieri o i Templari –, i Teutonici ebbero fin da subito alcune particolarità. Il loro bacino di reclutamento fu sempre «tedesco», cioè limitato a individui di sesso maschile e di origine germanica, di almeno 14 anni, celibi, di ascendenza nobile e senza pendenze giudiziarie o debitorie, moralmente e fisicamente integri. Quindi, rispetto ad altre organizzazioni simili, l’ordine non ebbe mai aspirazioni cosmopolite e, fin dai primi tempi, teatro delle imprese dei Teutonici non fu solo la Terra Santa, ma anche l’Europa orientale. Infatti, il baricentro militare e amministrativo dell’ordine fu, sempre di piú, seria di Torre Alamanna, nel territorio di Cerignola, e gli affidò anche la ristrutturazione e il controllo di molte fortificazioni come Rocca Janula, Atina, Castrocielo, ubicate nel giustizierato di Terra di Lavoro. I Teutonici acquisirono anche la proprietà di ospedali, conventi
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spostato verso occidente, anziché oriente e, con la caduta degli Stati crociati, alla fine del XIII secolo, la vocazione militare dell’istituzione soppiantò quasi totalmente quella assistenziale a favore dei pellegrini gerosolimitani. L’organizzazione istituzionale dei Teutonici era simile a quella di congregazioni analoghe e la vita dei suoi membri era disciplinata da una regola, ricalcata su quella dei Templari, a sua volta modellata sulla regola degli ordini di ispirazione agostiniana. Trattandosi di «monaciguerrieri», il tempo della preghiera era limitato dalle incombenze belliche e dalle esercitazioni militari. L’alimentazione dei «monaciguerrieri», inoltre, prevedeva il consumo di carne, generalmente proibito ai semplici religiosi. Gli appartenenti all’ordine non costituivano un complesso socialmente uniforme e si distinguevano in tre categorie, a seconda delle funzioni svolte, all’interno dell’istituzione. La prima era quella dei «monaci-guerrieri» – o fratelli cavalieri – di estrazione nobile e germanica che, dopo un periodo di noviziato, facevano voti pubblici e solenni di castità, povertà e obbedienza – come i monaci tout court – e, in aggiunta, il voto di combattere in difesa della fede e della Chiesa, agli ordini del pontefice. Sotto questa categoria c’erano i fratelli sergenti o servienti, distinti in servienti «di milizia» e «di mestiere». Si trattava di monaci non nobili, spesso non alfabetizzati, ai quali era proibito indossare la tunica dei fratelli cavalieri, a cui
e chiese che non erano di nuova fondazione, ma appartenevano ad altri ordini religiosi, come il monastero di S. Leonardo di Siponto, già proprietà dei canonici agostiniani. Gli Svevi consentirono che l’Ordine acquistasse proprietà anche in territorio germanico – ospedali di
Sachsenhausen, Marburgo – mentre Beatrice di Hohenstaufen († 1235), cugina di Federico II e regina di Castiglia, ne favorí l’insediamento in Spagna, concedendo loro la piazzaforte di Higarés, sul Tago. La fedeltà dei Teutonici agli Hohenstaufen ebbe modo di settembre
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era demandato il compito di combattere in reggimenti distinti – ma sotto il comando dei fratelli cavalieri – o di svolgere attività manuali non militari, ma di tipo agricolo e artigianale. All’interno dei conventi-fortezza, nell’organizzazione degli spazi, ai servienti erano riservati ambienti propri. Per esempio, a Marienburg, nel medesimo perimetro murario, coesistevano ambienti distinti e separati da un fossato: il «castello alto» – Hochschloss – riservato ai fratelli cavalieri e la parte «bassa», riservata ai fratelli servienti. Ai cavalieri e ai servienti si aggiungevano, infine, i fratelli canonici, ossia i chierici che svolgevano il servizio liturgico e amministravano i sacramenti al servizio degli altri fratelli e si occupavano dell’evangelizzazione delle popolazioni sottomesse. Contrariamente ai servienti, i canonici potevano indossare la tunica bianca con croce nera patente dei fratelli cavalieri. Dal punto di vista amministrativo, gli organi di governo dell’Ordine Teutonico erano cosí strutturati: al vertice, il gran maestro – Hochmeister – che aveva la direzione dell’istituzione con ampi poteri discrezionali, limitati solo dalla regola e dagli statuti emanati dal capitolo generale che lo eleggeva. Il capitolo era un organo collegiale in cui sedevano i piú alti dignitari dell’Ordine e che aveva il potere di emanare statuti, cioè norme integrative della regola. Altri grandi dignitari erano il vice-maestro – facente funzione del gran maestro, in caso di impedimento – il maresciallo – che comandava le truppe –, il senescalco – preposto agli approvvigionamenti –, il tesoriere e l’economo – preposti all’amministrazione finanziaria –, il drappiere – che provvedeva al vestiario e custodiva le insegne – e, infine, l’ospitaliere, che sovrintendeva a tutta l’organizzazione assistenziale. A livello periferico, l’Ordine Teutonico era diviso in baliati, affidati al governo di un maestro provinciale designato dal gran maestro, e i baliati, a loro volta, erano divisi in circoscrizioni minori – le commende – ciascuna delle quali faceva capo a un convento-fortezza ed era affidata al governo di un commendatore. manifestarsi soprattutto durante il governo del quarto maestro dell’Ordine, il turingio Hermann von Salza (1209-1239), il quale, come diplomatico e consigliere, fu sempre al fianco di Federico II nei momenti piú duri dello scontro tra impero e papato. Nel 1225,
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In alto e nella pagina accanto la croce nera, simbolo dei Cavalieri Teutonici, in forma di pendente e dipinta su un pavese della metà del XV sec.
von Salza favorí il matrimonio dell’imperatore con la regina di Gerusalemme Iolanda di Brienne († 1228) e, nel 1230, negoziò con papa Gregorio IX il trattato di San Germano, che poneva fine allo scontro con l’imperatore. Qualche anno prima, tra il 1228
e il 1229, i Teutonici – unici tra gli ordini religioso-militari – avevano partecipato alla sesta crociata, che l’imperatore Federico II aveva guidato, nonostante fosse stato scomunicato dal papa. Federico aveva infatti deciso di partire ugualmente per la Palestina e, con un trattato, era riuscito a ottenere dal sultano la restituzione di Gerusalemme. L’imperatore premiò la fedeltà dell’Ordine durante la crociata con la donazione, in Galilea, del castello di Montfort – o Starkenberg – posto a presidio della strada tra Acri e Damasco, dove i Teutonici trasferirono da Acri l’archivio e la tesoreria. Il castello divenne l’epicentro di una vera e propria signoria monastica, comprensiva delle fortezze di Judin, Casal Imbert e Thoron, attualmente dislocate tra Israele e Libano.
Contro i nomadi cumani
Nel frattempo, mentre i Teutonici erano attivi in Terra Santa, a difesa dei principati crociati, furono gettate le premesse per il loro insediamento in Europa orientale, prima in Ungheria e poi lungo le rive del Baltico. Nel 1211, il re d’Ungheria, Andrea II (1205-1235), chiamò l’Ordine in Transilvania, nella regione sud-orientale del Burzerland, col compito di difendere i confini orientali dalle incursioni dei Cumani – noti anche come Kipchak o Polovtsy – una popolazione nomade turcofona, stanziata nell’area a nord del Mar Nero e a est del Danubio e dei Carpazi. I Teutonici agirono con brutalità e spietatezza – due caratteristiche che li resero famosi – e si dimostrarono fin troppo fedeli alla Chiesa di Roma e poco propensi a obbedire al re, il quale, nel 1225, li allontanò. Nel 1226, si insediarono in Prussia, regione ubicata lungo il
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Nella pagina accanto riproduzione di un dipinto a tempera su tavola raffigurante il vescovo di Praga, e poi santo, Adalberto. L’opera originale si data al 1370 circa. In alto la distribuzione delle tribú baltiche intorno al XIII sec.
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I popoli insediati sulla riva meridionale del Baltico, contro cui combatterono i crociati tedeschi prima, e i Teutonici poi, appartenevano a due grandi raggruppamenti etnolinguistici: gli Slavi e i Balti (o Baltici). Entrambi facevano parte della piú vasta famiglia dei popoli indoeuropei. Facevano eccezione gli Estoni e i Finni, appartenenti al raggruppamento etnolinguistico delle stirpi ugrofinniche o uraloaltaiche, di cui facevano parte anche gli Ungari, i Turchi e i Mongoli. Provenienti dalla valle del Volga, gli Slavi si erano stanziati sul Baltico tra il VI e l’VIII secolo, dopo la fine delle invasioni germaniche che avevano determinato il collasso dell’impero romano d’Occidente. I Balti, invece, erano stanziati in quei luoghi già dalla prima metà del I millennio a.C. Nel XIII secolo, agli inizi della conquista teutonica, queste genti vivevano a est del Sacro Romano Impero e al di là del fiume Elba. Piú precisamente, tra Elba e Oder erano collocati i Vendi, di ceppo slavo, tra Oder e Vistola, i Pomerani, slavi anch’essi, tra Vistola e Niemen, i Prussi, di ceppo baltico, e, infine, tra Niemen e Dvina, i Livi, i Liti e gli Esti, di ceppo baltico i primi due e ugrofinnico il terzo. Quando i Teutonici si stabilirono in Prussia, intorno al 1230, i Vendi erano stati già del tutto sottomessi e germanizzati dalle crociate condotte dai principi tedeschi a partire dalla metà del XII secolo. Furono pertanto le altre stirpi a causare all’Ordine i maggiori problemi. Fatta eccezione per i Lituani, tutte queste popolazioni avevano una struttura politica di stampo clanico-tribale, quindi relativamente semplice, comprendente un’assemblea tribale, un consiglio ristretto di anziani e un capotribú, denominato in vario modo – «Kunedzi», «Korlji» – di solito attraverso il ricorso a sostantivi tedeschi – König – adattati alla lingua locale. Esclusa la guerra e la razzia, le tribú erano per lo piú dedite a un’agricoltura estensiva e all’allevamento, oltre che a un modesto artigianato. La terra, generalmente, era posseduta e gestita in comune, dalle assemblee di villaggio, composte dai capi-clan piú importanti. I luoghi erano scarsamente antropizzati, cosparsi di boschi e paludi, e non esistevano vere e proprie
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Un mosaico di genti e tribú
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Polacchi città ma, al massimo, borghi fortificati, costruiti in pietra o materiale deperibile come il legno. Tentativi di convertire pacificamente al cristianesimo queste popolazioni erano stati esperiti, senza successo, già prima del XIII secolo. Tra i primi missionari, si ricordino il vescovo di Praga (e futuro santo) Adalberto che, per primo, tentò di evangelizzare i Prussi, ma fu martirizzato nel 997, e Ottone († 1139), vescovo di Bamberga, che tentò di convertire i Pomerani. Queste popolazioni praticavano culti politeistici, fondati sulla divinizzazione delle forze naturali e, non di rado, ricorrevano a sacrifici umani. Le divinità erano venerate nei boschi o nelle paludi, in grotte o in sacelli assemblati con pietre, o in santuari, sempre in pietra, come quello che sorgeva sull’isola di Rügen, dedicato a Svantovit, una divinità della guerra. Il pantheon delle popolazioni baltiche è di difficile ricostruzione – anche perché si trattava di culture orali – e non si può prescindere dalle fonti latine, opera di ecclesiastici, che, però, sono generalmente poco obiettive. Tra le divinità principali si ricordino Perun – dio del tuono – Svarog – personificazione del sole e del fuoco – e Dažbog, personificazione del cielo.
Baltico, tra i fiumi Vistola e Niemen – Memel, in tedesco – popolata dalla tribú dei Prussi – detti anche Pruzzi, Pruteni o Borussi, ma denominati, in seguito, Prussiani – anche se lo stanziamento divenne definitivo solo nel 1230
e la sede principale dell’Ordine rimase in Terra Santa. Nel 1226, il duca polacco, Corrado di Masovia († 1247), impegnato nell’evangelizzazione dei Prussi richiese l’aiuto dei Teutonici contro questa popolazione che compiva continue in-
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Dossier cursioni nel suo territorio e offrí ai «monaci-cavalieri» il possesso del Kulmerland, ossia della regione dell’odierna Chelmno, in Polonia, ma all’epoca denominata Kulm. Si tenga presente che, all’epoca, la Polonia non era un regno unitario, ma era suddivisa in ducati distinti, spesso in conflitto reciproco, e Corrado era uno di duchi.
Il controllo della Prussia
Nel 1226, l’imperatore Federico II emanò, a Rimini, una bolla d’oro con cui attribuiva all’impero germanico la piena sovranità sulla Prussia – ancora da conquistare – e assegnò al gran maestro il titolo di «principe dell’impero», con il diritto di sedere nel Reichstag – l’assemblea dei principi territoriali tedeschi – e di conquistare, evangelizzare e governare la Prussia. Mentre i Teutonici erano impegnati nell’opera di conquista, anche papa Gregorio IX intervenne sulla questione con una propria bolla – Pietati proximum – promulgata a Rieti, nel 1234. Il documento confermava all’Ordine il possesso della Prussia, autorizzandolo a condurre una vera e propria crociata contro i «pagani» del Baltico, ma, al contempo, affermava la sovranità della Santa Sede sulla regione, entrando in conflitto con l’impero riguardo allo status dei territori e delle popolazioni eventualmente conquistati (vedi box in queste pagine). Giunti in Prussia, in un primo tempo, i Teutonici operarono in accordo con un altro ordine religioso-militare, quello dei cavalieri di Dobrzyn, che prendeva nome dalla località sulla Vistola, nel ducato di Masovia, dove era la loro sede, e che era stato fondato dal duca Corrado, nel 1220, per sostenerlo nell’opera di conversione dei Prussi. L’Ordine dei cavalieri di Dobrzyn era anche conosciuto come Ordine dei cavalieri della Spada o dei cavalieri della Stella, perché l’emblema (segue a p. 96)
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Le crociate del Nord
Guerre sante fra i ghiacci Le campagne militari condotte dei Teutonici lungo il Baltico assunsero, col tempo, il carattere di una crociata permanente contro le popolazioni «pagane». Le imprese dei Teutonici furono precedute dalle «crociate del Baltico», campagne militari condotte dall’aristocrazia germanica, con l’autorizzazione del papa. Le crociate del Baltico ebbero inizio intorno alla metà del XII secolo e proseguirono fino agli inizi del XIII, quando l’attività di sottomissione e conversione delle stirpi baltiche venne monopolizzata dai Teutonici. Nel 1147, papa Eugenio III promulgò la bolla Divina Dispensatione, con la quale concesse l’indulgenza – riservata ai crociati che partivano per la Terra Santa – anche a quei cavalieri che, pur non partendo per la Palestina, avessero preso le armi per combattere contro i «Saraceni del Nord», cioè le popolazioni del Baltico. All’appello del papa risposero subito, con il loro seguito di vassalli, molti nobili e principi territoriali tedeschi, come il duca di Sassonia, Enrico il Leone (1139-1180), e Alberto l’Orso (1130-1170), margravio del Brandeburgo, un principato collocato tra il corso dell’Elba, dell’Havel e dell’Oder. Il Brandeburgo – cosí denominato dalla fortezza di Branibor – prima di diventare un principato territoriale dell’impero germanico, era popolato dalla tribú slava degli Evelli – o Havelli – che erano stati sottomessi e germanizzati da Alberto l’Orso. Il margravio avviò la trasformazione in vere e proprie città dei preesistenti borghi slavi della regione, come Brandeburgo – poi diventata capitale del principato – e Berlino. Intorno al 1150, alla morte di Premislav, il capo degli Evelli, Alberto ne aveva raccolto l’eredità, assumendo pieni poteri di governo su quel territorio. Contrariamente alle crociate dirette in Terra Santa, quelle contro i popoli baltici si distinsero subito per brutalità contro le popolazioni del luogo, costrette ad accettare il battesimo cristiano o a essere sterminate. Si trattò, nella gran parte dei casi, di conversioni forzate, sulla cui validità, solitamente, la Chiesa aveva sempre espresso riserve, ma che, in tali circostanze, furono accettate come efficaci a causa della primitività delle tribú locali e del loro credo «pagano» – cioè politeista – che le rendeva, agli occhi dei cristiani, inferiori agli stessi musulmani, i quali, in quanto monoteisti, erano visti all’epoca come eretici. La prima crociata contro gli Slavi del Baltico, ebbe come esito l’occupazione dell’attuale Meclemburgo e la conversione delle tribú che vivevano tra l’Elba e l’Oder, come gli Obodriti, i Sorabi, i Rugi, i Veleti e i Polabi. settembre
MEDIOEVO
LO STATO DEI CAVALIERI TEUTONICI NEL 1260 Territori dell’Ordine Teutonico nel: 1260 CONTESI
Cavalieri portaspada
Tribù prussiane non assoggettate
Ordine Teutonico
Masovia
1260 1223
Cuiavia
Luoghi e date di importanti battaglie
Livonia
Co
REGNO DI SVEZIA
ur
Kalmar
Lund
CO
1260
Durbe
AL
Balga Danzica 1234 Christburg
Braunsberg Elbing
Kulm
Noteć
PRINCIPATI
Francoforte
Poznań Gniezno
a
GRANDUCATO DI LITUANIA
Allenburg
Heilsberg 9
PRINCIPATI RUTENI
Rehden
Thorn
Na
rew
POLACCHI Dobrin
Vistola
Queste popolazioni, all’epoca, erano note ai cristiani come «Vendi», termine, probabilmente derivante dall’etnonimo latino «Veneti», con cui erano state appellate dai Romani, quando vivevano ancora al di là della Vistola. Tra tutte le tribú, gli Obodriti erano i piú potenti ma, sconfitti, si sottomisero ai crociati e accettarono il battesimo. Il loro principe, Niklot († 1160) divenne vassallo del duca di Sassonia e lasciò che coloni e missionari tedeschi si trasferissero nei suoi territori permettendo, cosí, la germanizzazione della popolazione. I coloni edificarono città, bonificarono paludi e favorirono il progresso economico di quelle regioni, in gran parte disabitate. Questo flusso coloniale in direzione dell’Europa orientale fu ricordato, nella tradizione storiografica tedesca, come Drang nach Osten, ossia «Spinta verso Est». Il processo di germanizzazione dei settembre
Ludsen (Ludza)
Kreuzburg
Bertenstein
-4 1242
Lago di Rensen
Netze
Zemgale
Polack
Königsberg
Rügen
SACRO ROMANO IMPERO
Rositten (Rëzekne)
Memel
Neman
Stettino (Szczecin)
Riga Kokenhunsen (Rïga) (Koknese)
1236
Bornholm
Kolberg
Wenden (Cesis)
Mitau
Grobin
TI B
R MA
Lemsal (Limbazi)
a Diin auga v D
REGNO DI DANIMARCA
MEDIOEVO
l an d
Goldingen
Öland
1242
Pskov
Gotland
Città
Grande Polonia
Fellin (Viljandi)
Saaremaa
Luoghi e date delle principali rivolte Anti-Teutoniche Castelli dell’Ordine Teutonico
Pomerelia
Dorpat (Tartu)
Arensburg (Kuressaare)
a
Principati Polacchi
Hiiumaa
Wasenberg (Rakvere)
ia Eston
h kv
Diocesi e città di Riga in Livonia
Reval (Tallinn)
- Pi ipsi i Pe od Lag
1226
Linee di attacco
territori di nuova acquisizione fu rapido e poté dirsi compiuto sotto Pribislav († 1178), figlio di Niklot, ma, solo nel XIV secolo, il Meclemburgo fu innalzato al rango di ducato dall’imperatore Carlo IV di Lussemburgo (1347-1378) ed entrò a far parte, a pieno titolo con gli altri principati, dell’impero germanico. La conversione dei Vendi fu affidata non solo alla spada, ma anche all’intenso apostolato religioso dei missionari tedeschi, coordinato dall’arcidiocesi di Magdeburgo – fondata nel 968 – da cui dipendevano le suffraganee di Meissen, Zeit e Merseburgo. Ben presto, ai principi tedeschi, nelle crociate contro le stirpi baltiche, si unirono anche i regni scandinavi, ormai cristianizzati da tempo e, tra essi, fu molto attiva la Danimarca. Infatti, re Canuto VI (segue a p. 94)
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Dossier (1182-1202) scatenò una crociata contro le popolazioni slave e si impossessò dell’isola di Rügen, del Meclemburgo e persino di Amburgo e Lubecca, intitolandosi «re dei Vendi». Il successore, Valdemaro II «il Vittorioso» (1202-1241), ne continuò l’opera, avanzando lungo il Baltico e, nel 1219, conquistò l’Estonia, dopo aver sbaragliato la tribú degli Esti, nella battaglia di Lyndanisse. La leggenda vuole che, in quell’occasione, la vittoria fosse stata assicurata ai Danesi da un vessillo miracoloso – raffigurante una croce bianca in campo rosso – che cadde dal cielo, in risposta alle preghiere dei chierici che accompagnavano le truppe. Quel vessillo – il Dannebrog – è, ancora oggi, la bandiera dello Stato danese. Il pericolo rappresentato da un’espansione eccessiva della Danimarca, indusse i principi dell’impero a coalizzarsi e, cosí, nel 1227, i Danesi furono sconfitti nella battaglia di Bornhöved e il loro re, Valdemaro II, fatto prigioniero. Liberato, Valdemaro fu costretto a rinunciare ai territori acquisiti lungo il Baltico, esclusa l’Estonia. Il regno svedese, invece, fu attivo nell’attuale Finlandia, nell’opera di conquista e conversione dei «pagani» Finni, contro i quali re Erik IX «il Santo» (11551160) promosse una crociata. La Finlandia fu conquistata e
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annessa alla Svezia agli inizi del XIV secolo, quando anche le tribú dei Careli e degli Ingri – affini ai Finni e collocate piú a sud – furono sottomesse e cristianizzate. Fonte preziosa per la ricostruzione di questi eventi è la Chronica Slavorum, scritta in latino dal chierico sassone Helmold di Bosau († 1177), che ne fu testimone. La cronaca ripercorre le vicende della cristianizzazione delle genti slave dall’VIII secolo fino al 1177. Il benedettino sassone Arnolfo di Lubecca († 1214) – autore di un’altra Chronica Slavorum – proseguí la narrazione di Helmold fino al 1209. Da ricordare è anche il Chronicon Livoniae di Enrico di Livonia – vissuto tra il XII e il XIII secolo –, che è una fonte importante per ricostruire le campagne di evangelizzazione delle stirpi baltiche dei Livi e degli Esti – tra il 1180 e il 1227 – e di cui l’autore fu testimone
settembre
MEDIOEVO
La leggenda della bandiera danese (il Dannebrog) che scende dal cielo durante la battaglia di Lyndanisse (Tallin) in Estonia nel 1219, olio su tela di Christian August Lorentzen. 1809. Copenaghen, Statens Museum for Kunst.
MEDIOEVO
settembre
95
Dossier
Vescova
Leal Pernau
di C
nd rla
ia
Golfo di Riga
Windau
Vescova do Memel
Cavalieri Teutonici
Lagoo ddei eii C Ciudi Vescovado di
Portaspada
Dorpat
Riga
Kokenhusen
Sau e Saule 1236
Granducato di Lituania
della congregazione era, appunto, una spada rossa, sormontata da una stella del medesimo colore, su fondo bianco, raffigurata anche sugli scudi e sulle tuniche dei cavalieri. L’Ordine di Dobrzyn ebbe comunque vita breve e, nel 1235, fu assorbito da quello Teutonico. Impotenti contro una cosí efficiente macchina da guerra, i Prussi, nel 1249, furono sottomessi e costretti a battezzarsi, mentre i capi tribali siglarono con l’Ordine Teutonico la pace di Christburg. Tuttavia, la durezza dei nuovi sovrani li spinse alla ribellione molto presto e, cosí, dopo una nuova guerra, furono definitivamente sottomessi nel 1283. Intanto, i Teutonici ampliavano il raggio delle loro conquiste a spese dei Pomerani, una popolazione slava insediata lungo il Baltico – tra Oder e Vistola – che fu definitiva-
L’assetto geopolitico della Livonia al tempo della battaglia del lago dei Ciudi. Nella pagina accanto vignette raffiguranti, dall’alto, la decapitazione dell’arciduca Enrico II di Slesia dopo la battaglia di Legnica (1241) e il trasporto in cielo della sua anima da parte degli angeli, tempera su pergamena di autore ignoto. Polonia, 1353.
1242
Arcivescovado di Riga
Sede Vescovile
96
Dorpat
Pskov
Goldingen
Durbe Durbe Dur 1260
Repubblica di Novgorod
Wolmar
Piltene
Ca vali er i
Narva
a
Haspal
Arensburg
u
Estonia danese
Reval
Cavalieri Portaspad
ek Wi l se
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Golfo di Finlandia
0
50 Km
mente sottomessa solo agli inizi del XIV secolo. I «monaci-guerrieri» si spinsero anche piú a est, con campagne militari contro i Livi, gli Esti e i Liti, tribú che popolavano territori grosso modo corrispondenti alle attuali Lettonia, Estonia e Lituania, tra i fiumi Niemen e Dvina, lungo il Baltico (vedi box a p. 91). Mentre la sottomissione della Lituania si rivelò difficile – se non impossibile – la resistenza delle altre due regioni venne facilmente piegata. In Estonia, i Teutonici subirono anche la concorrenza dei Danesi che, sotto la guida del re Valdemaro II, nel 1219 si impossessarono della regione, fondando l’insediamento e la diocesi di Reval, l’odierna Tallinn. In Livonia – l’odierna Lettonia – la presenza degli evangelizzatori tedeschi fu costante, ben prima dell’arrivo dei Teutonici. Nel 1198,
il canonico di Brema, Albrecht von Buxhövden († 1229), fu designato da Innocenzo III vescovo di Livonia e, nel 1201, fondò la diocesi di Riga, col compito di evangelizzare la popolazione e, nel 1207, il prelato ottenne anche il titolo di «principe dell’Impero». Oltre all’afflusso massiccio di missionari e di coloni tedeschi, Albrecht von Buxhövden decise di costituire, con l’approvazione pontificia, un ordine religioso-militare, con sede a Riga, che lo aiutasse a evangelizzare la popolazione anche con l’uso della forza. Nacque, cosí, l’Ordine dei Portaspada – Fratres militiae Christi –, cosí detti dalla spada rossa, posta sotto la croce del medesimo colore, su fondo bianco, che ne costituiva l’insegna. In base a un accordo tra il vescovo e l’Ordine, al primo fu riservato il governo spirituale della Livonia, al secondo quello temporale, mentre i territori conquistati sarebbero stati spartiti tra la diocesi di Riga e l’Ordine.
Un vero principato
I Portaspada, per lo piú cavalieri germanici, furono attivi fino al 1236 quando, nella battaglia di Šiauliai, vennero quasi totalmente massacrati dai Livi. Nel 1237, i cavalieri superstiti, con il consenso di Gregorio IX, furono aggregati all’Ordine Teutonico, già insediato stabilmente in Prussia, che, sotto il controllo del vescovo di Riga, subentrò ai Portaspada nell’opera di evangelizzazione della Livonia: alla fine del XIII secolo, la Livonia, ormai sottomessa, fu trasformata in un baliato teutonico. Estesi settembre
MEDIOEVO
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Dossier dall’Oder, a ovest, alla Dvina, a est, i possessi dell’Ordine Teutonico si trasformarono, poco a poco, in un vero e proprio principato, retto da «monaci-guerrieri» che ne costituivano non solo l’élite di governo, ma anche la milizia e una fetta consistente del clero. Nonostante avesse ottenuto tanto potere, proprio in quegli anni l’Ordine subí due gravi sconfitte che ne infransero l’aura di invincibilità. Il 9 aprile del 1241, a Liegnitz, in Polonia, dove erano accorsi per portare aiuto al duca di Slesia, Enrico II il Pio († 1241), contro i Mongoli di Batu Khan († 1255), i Teutonici andarono incontro a un totale disastro. Il 5 aprile del 1242, nella battaglia del lago Peipus – attuale lago dei Ciudi – l’Ordine fu nuovamente sconfitto dal principe di Novgorod, Kiev e Vladimir, Aleksandr Nevskij († 1263). Infatti, non paghi delle loro conquiste, e con il pieno appoggio della Santa Sede, i Teutonici avevano superato la Dvina ed erano penetrati nel principato di Novgorod, con l’intenzione di condurre una crociata contro i Russi che, a causa del loro credo ortodosso, era-
no considerati eretici e scismatici. L’Ordine subí una grave disfatta e Nevskij – già vittorioso sulla Neva, nel 1240, contro l’esercito invasore di re Erik XI di Svezia (1235-1250) – li sconfisse. La vittoria gli meritò fama imperitura tanto che, nel 1380, fu anche canonizzato dalla Chiesa ortodossa.
Il trasferimento
Nel 1271, i Teutonici persero la piazzaforte di Montfort, in Terra Santa, a opera dei Mamelucchi, dinastia musulmana di origine turca, insediata in Egitto intorno al 1250. Il 18 maggio del 1291, dopo un lungo assedio, cadde in mano mamelucca anche Acri, ultima piazzaforte crociata. L’Ordine abbandonò definitivamente la Palestina e trasferí la sua sede prima a Roma e, poi, a Venezia. Nel 1309, il gran maestro Siegfried von Feuchtwangen (1303-1311) decise di trasferire definitivamente la sede dei «monaci-guerrieri» in Prussia, e precisamente a Marienburg (oggi Malbork), sul fiume Nogat, affluente della Vistola. Da quel momento, la conquista e cristianizzazione dei popoli baltici divenne
l’obiettivo prioritario dell’Ordine e, intorno alla metà del XIV secolo, la conquista della Pomerania e della Prussia poteva dirsi conclusa. Sotto la guida del gran maestro Winrich von Kniprode (13511382), l’Ordine Teutonico raggiunse la massima espansione e potenza, arrivando a contare piú di mille cavalieri e altrettanti sergenti. La fama dei Teutonici raggiunse tutte le corti europee e non pochi nobili decisero di diventarne membri onorari, recandosi in Prussia per partecipare alle Reisen, le spedizioni punitive annuali organizzate dall’Ordine, dalla primavera all’autunno, contro i Prussi, per fiaccarne ogni volontà di ribellione. Tra i partecipanti, si ricordino Enrico Bolingbroke († 1413), futuro re d’Inghilterra, e Giovanni senza Paura, futuro duca di Borgogna († 1419). L’epopea dei Teutonici, le loro conquiste sul Baltico e l’opera di assistenza ospedaliera prestata in Terra Santa furono oggetto, all’inizio del XIV secolo, della narrazione del canonico Pietro di Duisburg († 1326 circa), membro dell’Ordine e autore del Chronicon terrae Prussiae.
Nel 1291, dopo la caduta di Acri, i Teutonici abbandonarono la Terra Santa, stabilendosi dapprima a Roma e poi a Venezia Aleksandr Nevskij, olio su tela del pittore russo Afanasij Efremovich Kulikov (1884-1949). Kaluga, Regional Art Museum. Sulle due pagine, in basso la battaglia del lago dei Ciudi ricostruita nel film Aleksandr Nevskij, girato da Sergej Ejzenstejn nel 1938.
Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.
Scritto in latino, il Chronicon è una narrazione, cronologicamente ordinata, della storia dell’Ordine Teutonico dalle origini fino agli inizi del Trecento. Seppur apologetica, l’opera fornisce dettagliate descrizioni dei costumi delle popolazioni baltiche, senza lesinare critiche alla brutalità dei «monaci-guerrieri». Sottomesse le stirpi baltiche, l’Ordine continuò l’opera di germanizzazione delle terre conquistate, attraverso l’afflusso di un
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numero sempre maggiore di coloni tedeschi e la creazione di nuovi insediamenti, alcuni rurali, altri vere e proprie città, spesso originate dalla formazione di vasti agglomerati intorno alle fortezze.
Edifici imponenti
Questi insediamenti – con planimetria generalmente ortogonale o a pettine – erano costruiti, in un primo tempo, con materiale deperibile e, solo in una seconda fase,
con pietra e mattoni. Ciò che li caratterizzava, però, era la monumentalità degli edifici, dovuta agli imponenti corpi di fabbrica apprestati per la difesa bellica, per cui, i conventi teutonici erano molto simili a vere e proprie fortezze. In questi conventi, gli ambienti riservati ai «monaci-guerrieri» – chiesa, refettorio, sala capitolare, dormitorio – si distribuivano, solitamente, intorno a un cortile rettangolare o quadrato, spesso dotato di un porsettembre
MEDIOEVO
I resti del castello crociato di Montfort, nell’Alta Galilea (Israele).
entrano piú nei confini dell’attuale Germania. Per esempio, la Pomerania è, oggi, parte della Polonia, e la Prussia è attualmente divisa tra Polonia e Russia.
Anche una flotta
tico. La chiesa monasteriale era a una sola navata e spiccava per la sua imponenza dato che, in genere, la facciata era delimitata da enormi torri quadrangolari che le davano l’aspetto di un castello. Le fortificazioni propriamente militari avevano planimetria rettangolare o quadrata con, ai lati, torri poderose, anch’esse quadrate o poligonali. Tra gli insediamenti fondati dai Teutonici – spesso su borghi slavi preesistenti – si
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settembre
ricordino, oltre Marienburg, sede principale dell’Ordine, Elbing, Marienwerder, Stettino, Danzica, Königsberg. Alcune di queste città, dopo la seconda guerra mondiale e lo spostamento dei confini russi e polacchi a ovest – verso la Vistola e l’Oder – hanno cambiato denominazione: si pensi a Königsberg, oggi in Russia, e ribattezzata, dopo l’ultima guerra, Kaliningrad. Inoltre, molti dei territori conquistati e sottomessi dai Teutonici non ri-
Molte delle città fondate sul Baltico entrarono a far parte della Lega Anseatica, composta da città della Germania settentrionale che, sotto la guida di Lubecca e Amburgo – i centri piú importanti – dal 1241 egemonizzava il commercio tra il Mare del Nord e il Baltico. I Teutonici si assicurarono anche il controllo del traffico commerciale di ambra, grano, legname, pesce e pellicce che, attraverso lo stretto del Sund, raggiungeva – dal Baltico – l’Europa occidentale e, da lí, il Mediterraneo. Per assicurare il pacifico svolgimento dei traffici, i Teutonici si dotarono di una flotta imponente e, in alleanza con la Danimarca e la Lega Anseatica, mossero guerra ai «Fratelli Vitaliani» – Vitalienbrüder – un’organizzazione di pirati, spesso attivi anche nella guerra da corsa, che operavano tra il Mar Baltico e il Mare del Nord. I Vitalienbrüder – il cui nome, in tedesco, significa probabilmente «Fratelli degli approvvigionamenti» (dal latino, victualia) – erano noti anche come Likedeeler, gli «Sterminatori», ed erano guidati dall’avventuriero Klaus Störtebeker. Nel 1398, il gran maestro Konrad von Jungingen (1393-1407), espugnò il principale covo dei pirati – Visby – nell’isola svedese di Gotland, che fu annessa ai domini teutonici. Infine, nel 1401, Störtebeker fu catturato nelle acque di Amburgo e giustiziato e, cosí, la pirateria fu definitivamente debellata. Nel 1436, la Danimarca conquistò e annesse Gotland, sottraendola all’Ordine che, nel frattempo, pativa grosse difficoltà sul continente. Infatti, benché i Teutonici, nel 1346, avessero acquistato l’Estonia dalla Danimar-
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Dossier Il grandioso castello dell’Ordine Teutonico di Marienburg (l’odierna Malbork), sul fiume Nogat, in Polonia.
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ca, ampliando i loro domini, il granducato di Lituania resisteva alla loro espansione militare. Come si è visto, i Liti furono sempre i piú forti avversari dei Teutonici
e, nel corso del XIII secolo, tentarono di arginarne l’avanzata non solo con le armi, ma anche con un’astuta diplomazia. Nel 1250, il granduca di Lituania, Mindaugas
settembre
MEDIOEVO
(1236-1263), si fece battezzare e ottenne il riconoscimento del titolo regio da papa Innocenzo IV (1243-1254), dietro promessa di convertire l’intera popolazione,
MEDIOEVO
settembre
ma ciò non valse ad arrestare l’aggressività dei «monaci-guerrieri». Morto Mindaugas, sotto il granduca Gedimino (1316-1341), la Lituania ritornò al «paganesimo»,
ma, pur di arrestare l’espansione teutonica, non esitò ad allearsi con la Polonia, un regno cattolico. I successori di Gedimino – Algirdas (1341-1377) e Kestutis (1377-
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Dossier
Affresco che ritrae Werner von Orseln, diciassettesimo gran maestro dell’Ordine Teutonico, in carica dal 1324 fino alla morte, nel 1330. Kwidzyn (Polonia), Cattedrale. Nella pagina accanto il castello dell’Ordine Teutonico di Marienwerder (oggi Kwidzyn), edificato nel 1232 e la cui costruzione diede avvio allo sviluppo della città.
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1382) – rafforzarono i rapporti col regno polacco e prepararono la strada all’ascesa di Jagellone, figlio di Algirdas, che prese il potere nel 1382, dopo una guerra civile contro lo zio Kestutis, che non esitò ad allearsi con i Teutonici, pur di contrastare il nipote. Nel 1386, consolidata la sua posizione nel granducato, Ladislao – questo il nome assunto da Jagellone – sposò la regina di Polonia, Edvige († 1399), che gli portò in dote il regno. La Polonia, infatti, dopo piú di un secolo di divisione politico-territoriale in vari ducati, era tornata a essere un regno unitario sotto la guida settembre
MEDIOEVO
del duca di Cuiavia, Ladislao I «il Breve» (1320-1333). In occasione delle nozze con Edvige, l’aristocrazia polacca pretese la conversione di Ladislao II Jagellone al cattolicesimo, a cui, poco tempo dopo, seguí il battesimo dei Lituani e la fondazione della diocesi di Vilna. Il regno polacco e il granducato di Lituania, tuttavia, erano molto diversi per composizione etnica e strutture amministrative, pertanto re Ladislao II decise di attribuire il titolo di granduca, con funzioni di governo vicariale, al cugino Vytautas († 1430), noto anche come Vitoldo. Quest’ultimo, tra il 1390 e il 1400, ampliò i domini polacco-
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settembre
lituani verso oriente e – nonostante la disfatta subita dai Tartari sulla Vorskla nel 1399 – occupò la Bielorussia e parte della Rutenia – l’odierna Ucraina – estendendo i confini orientali fino al Dnepr a al Mar Nero, a spese del principato slavo di Mosca. La Polonia divenne, cosí, uno dei regni piú popolosi ed estesi dell’Europa medievale.
La disfatta di Tannenberg
Il 15 luglio del 1410, l’Ordine Teutonico fu gravemente sconfitto dai Polacco-Lituani nella battaglia di Tannenberg, presso Grünwald – oggi in Polonia – e il gran mae-
stro, Ulrich von Jungingen, in carica dal 1407, fu ucciso assieme a molti «monaci-guerrieri». L’anno successivo, fu stipulata con la Polonia la pace di Thorn – attuale Torun – che, pur salvaguardando l’integrità territoriale dello Stato teutonico, impose all’Ordine il pagamento di una pesante indennità di guerra, la restituzione dei prigionieri e la cessione alla Polonia della Samogizia, regione della Lituania nord-occidentale, popolata dai balti Samogizi, ancora in parte «pagani». Nonostante la sconfitta subita, la persistente aggressività dei Teutonici verso la Polonia e la Lituania – ormai Stati formalmente
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Dossier
La battaglia di Grünwald, olio su tela di Tadeusz Popiel. 1910. Leopoli, Museo Storico.
cristiani – provocò grave scandalo negli ambienti ecclesiastici. Ciò fu chiaro durante i lavori del concilio ecumenico di Costanza, riunito nel 1413, per sanare il Grande Scisma che, da tempo, divideva la Chiesa. Sia l’Ordine che il regno di Polonia inviarono delegazioni al concilio per esporre le proprie ragioni e, benché i Teutonici fossero stati diffidati, in quella sede, dal proseguire la crociata contro popolazioni ormai cristiane, continuarono ad attaccare la Polonia, violando le prescrizioni ecclesiastiche. Intanto, il consolidamento isti-
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tuzionale del regno polacco proseguí con il re Casimiro IV Jagellone (1447-1492), successore di Ladislao II, sotto il quale, nel 1490, furono annesse anche la Boemia e l’Ungheria. Nel 1454, Casimiro colse l’opportunità di liberarsi, per sempre, dell’acerrimo avversario, appoggiando la ribellione all’Ordine delle città pomerane e prussiane che, oppresse dal fiscalismo e dagli abusi dei «monaci-guerrieri», si erano confederate nella Preussischer Bund, la Lega prussiana. Dopo una guerra durata circa tredici anni, nel 1466 i Teutonici persero Marienburg, furono nuovamente battuti a Tannenberg e costretti a ratificare una seconda pace di Thorn. In base al trattato, lo
Stato teutonico venne fortemente ridimensionato e dovette cedere alla Polonia l’intera Pomerania, con Stettino e Danzica, e la Prussia occidentale. Invece, la Prussia orientale – dove era stata trasferita, a Königsberg, la capitale – rimase all’Ordine, ma a titolo di feudo concesso dal re di Polonia, a cui il gran maestro doveva giurare fedeltà. In tal modo, la Polonia acquisí finalmente quello sbocco sul Mar Baltico – il famoso «corridoio» – che fu causa di aspri conflitti diplomatici e militari fino alla seconda guerra mondiale. Nel 1525, il gran maestro dell’Ordine, Alberto di Hohenzollern (1510-1568), si convertí al luteranesimo e secolarizzò la settembre
MEDIOEVO
Da leggere
Prussia orientale trasformandola in un ducato laico, retto da un sovrano luterano, vassallo del re di Polonia Sigismondo I Augusto Jagellone (1506-1548) che – con il trattato di Cracovia – approvò la secolarizzazione.
Gli ultimi fuochi
Nel 1618, alla morte senza eredi del duca Alberto Federico di Hohenzollern, in carica dal 1568, il ducato di Prussia fu acquisito dal margravio del Brandeburgo Giovanni Sigismondo di Hohenzollern († 1619), suo parente, e cosí nacque lo stato di Brandeburgo-Prussia, poi conosciuto come Prussia. Nel 1660, infine, la Prussia orientale ottenne la piena in-
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settembre
dipendenza dalla Polonia, riacquistando la sua sovranità. Nel 1530, dopo la conversione al protestantesimo di Alberto di Hohenzollern, il maestro provinciale dell’Ordine Teutonico di Germania, rimasto fedele al cattolicesimo, si proclamò gran maestro dei Teutonici e ne fissò la sede a Mergentheim, mentre le province di Estonia e Livonia rimasero fedeli al cattolicesimo fino al 1560, quando, con l’annessione dell’Estonia alla Svezia e della Livonia alla Polonia, il maestro provinciale Gotthard Kettler († 1587) passò alla Riforma e secolarizzò la sua provincia, ma limitatamente alla regione della Curlandia, nella Lettonia occidentale. L’Ordine Teutonico continuò a
Alain Demurger, I cavalieri di Cristo. Gli ordini religioso-militari del Medioevo (XI-XVI secolo), Garzanti, Milano 2004 Eric Christiansen, Le crociate del Nord. Il Baltico e la frontiera cattolica (1100-1525), il Mulino, Bologna 2008 Karol Górski, L’Ordine teutonico. Alle origini dello stato prussiano, Einaudi, Torino 2007
sopravvivere come ente cattolico, saldamente radicato in Germania, fino al suo scioglimento a opera di Napoleone I, nel 1809. Nel 1834, fu ricostituito a Vienna dall’imperatore d’Austria Francesco I col nome di Deutscher Orden che, ancora oggi, opera nel campo dell’assistenza sociale come Ordine cattolico di canonici regolari.
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CALEIDO SCOPIO
Quando i santi prendevano le armi
Sette teste sulla spada di Paolo Pinti
T
rattando qui di santi i cui simboli o attributi sono costituiti da armi, una donna che impugna una spada sulla cui lama sono appoggiate ben sette teste umane è un personaggio, oltre che rarissimo, all’apparenza particolarmente difficile da identificare: si tratta invece, come spiegheremo, di santa Felicita. Detta «di Roma», ma nativa di Alife, nell’odierna provincia di Caserta, Felicita è venerata come martire dalla Chiesa cattolica insieme ai suoi sette figli, denominati anche «Santi Sette
Fratelli» e dalla pietà popolare detti pure «Santi Sette Frati». La commemorazione è fissata al 23 novembre per Felicita e al 10 luglio per i figli. Secondo una Passio composta tra la fine del IV e l’inizio del V secolo, Felicita era una ricca vedova romana, che, al tempo di Antonino Pio (imperatore dal 138 al 161 d.C.), venne accusata di essere cristiana. Inizialmente, il prefetto di Roma, Publio, la interrogò ma senza ottenere alcuna ammissione di colpevolezza: al che, fece condurre davanti alla donna i suoi sette figli Xilografia tratta da Le Cronache di Norimberga, opera compilatoria di Hartmann Schedel, scritta in lingua latina nel 1493. Caratteristica unica, che consente di identificare immediatamente santa Felicita, è la spada sulla cui lama sono allineate le teste dei figli.
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(Gennaro, Felice, Filippo, Silano, Alessandro, Vitale e Marziale), i quali si rifiutarono anch’essi di rinnegare la propria fede e furono perciò martirizzati, uno alla volta, con supplizi vari. Solo dopo che l’ultimo era caduto senza vita, anche Felicita venne uccisa. Il racconto, che evoca la vicenda dei sette fratelli Maccabei, è considerato da alcuni studiosi del tutto leggendario, cosí come la stessa esistenza storica di Felicita. Secondo altri, invece, alla luce dell’interpretazione di documenti e risultanze archeologiche, la storia potrebbe essere plausibile.
Il sepolcro sulla via Salaria Il culto di Felicita (da non confondere con l’omonima martire compagna di Perpetua, entrambe morte nel 203) e dei suoi sette figli è documentato fin dal IV secolo e papa Bonifacio I (418-422) volle far edificare una basilica sul sepolcro della santa, nei pressi del cimitero di Massimo, sulla via Salaria. Si ha peraltro notizia che presso questo sepolcro ebbe a soffermarsi in preghiera san Gregorio Magno. Le reliquie della martire sono ritenute presenti in molti luoghi, fra cui Vergo Zoccorino (Monza e Brianza), Affile (Roma), Firenze e al Sacro Monte di Crea (Alessandria). Nell’839 le spoglie di Felicita e dei suoi figli furono sistemate nel Duomo di Benevento, allora capitale del principato longobardo, di cui la città di Alife faceva parte. Un anno piú tardi, sempre nel Duomo beneventano, il vescovo Orso fece costruire un altro altare settembre
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dedicato alla santa, a san Martino Vescovo e a san Paolo Apostolo. Nel frattempo, i corpi dei Sette Santi Fratelli e di Felicita furono collocati sotto l’altare maggiore, dove rimasero per oltre undici secoli. Nel 1943, tra le macerie del Duomo, quasi completamente distrutto da un bombardamento nel corso della seconda guerra mondiale, fu
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rinvenuta l’arca che custodiva le reliquie e, nel 1988, i sacri resti sono stati riuniti in un antico sarcofago in pietra, collocato nella navata sinistra del Duomo stesso.
Martiri sotto gli occhi della madre
Martirio dei sette figli di Santa Felicita, olio su tela di Francesco Trevisani (firmato sul retro «Trevisani pinxit, 1709»). 1709. Amsterdam Rijksmuseum. Come in altre opere, viene rievocato l’episodio del martirio, senza dare particolare risalto alle armi utilizzate.
Santa Felicita viene normalmente rappresentata nel momento del martirio dei figli, al quale è
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In alto particolare di un retablo raffigurante santa Felicita. 1520 circa. Berlino, Staatliche Museen, Skulpturensammlung und Museum für Byzantinische Kunst. I simboli qui sono la spada, impugnata con la mano destra, e un grande volume, quasi certamente un Vangelo, con le teste dei sette figli sulla copertina. Vetrata policroma con i santi Erasmo e Felicita, dalla chiesa di S. Egidio a Stökach (Stoccarda). 1517. Norimberga, Germanisches Nationalmuseum Germania. Si tratta di uno dei pochi esempi nei quali figura il soggetto della santa con la spada e le teste dei figli appoggiate sulla lama. costretta ad assistere oppure con un piatto sul quale sono appoggiate le teste dei figli, come nel retablo cinquecentesco conservato nei Musei di Stato di Berlino, nel quale
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la santa impugna una corta e robusta spada e con la mano sinistra tiene un grosso volume (Vangelo) sulla copertina del quale sono fissate le sette teste (vedi foto in alto, a destra). Da notare la spada con lama fortemente sgusciata, che ricorda quella di Giuditta con la testa di Oloferne (1530), di Lucas Cranach il Vecchio (oggi al Kunsthistorisches Museum di Vienna). Insomma, non si tratta certo di una santa legata a un’arma in particolare, né, solitamente,
l’iconografia che la riguarda ne raffigura una, a eccezione di rare opere, come la xilografia delle Cronache di Norimberga (vedi foto a p. 108) o la vetrata policroma oggi al Germanisches Landesmuseum di Norimberga (vedi foto in alto, a sinistra), che mostrano la santa che impugna una spada, sulla cui lama sono allineate le teste mozzate dei sette figli. Un’iconografia, come già detto, difficile da incontrare, ma, incontrandola, d’ora in poi ne sappiamo il significato. settembre
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Lo scaffale Bernardo Oderzo Gabrielli Giacomino da Ivrea. Dallo stile alla tecnica, storia di un pittore itinerante Officina Libraria-Regione Autonoma Valle d’Aosta, Roma, 192 pp., ill. col.
29,00 euro ISBN 978-88-3367-216-8 www.officinalibraria.net
Giacomino da Ivrea nacque nel primo decennio del Quattrocento a Bollengo (Torino), ma la sua qualifica di civis et habitator del centro eporediese ne spiega il nome con il quale è passato alla storia. Un nome e un personaggio che sono rimasti a lungo confinati in una cerchia piuttosto ristretta di specialisti, ma sui quali, in anni recenti, si è cominciato a fare luce, grazie a nuovi studi e, soprattutto, al riconoscimento della sua mano in numerose opere distribuite tra Valle d’Aosta, Piemonte e Liguria e Savoia. Una vicenda
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ripercorsa nelle pagine del volume, che si apre con saggi dedicati a vari aspetti della carriera del pittore, ai quali fa seguito la schedatura sistematica dei dipinti che, a oggi, possono essere certamente ascritti a lui e alla sua bottega, nella quale operò anche il figlio Gaspare. Si tratta, nel complesso, di una produzione di notevole qualità, peraltro esaltata dall’impeccabile campagna fotografica realizzata per l’occasione da Ernani Orcorte, in cui spiccano composizioni di gusto popolareggiante, ma di grande potenza visiva. A titolo di esempio si può citare la decorazione della cappella di Saint-Michel, nella frazione di Marseiller a Verrayes, per la quale Giacomino realizza affreschi comprendenti Storie dell’Epifania, la Fuga in Egitto, la Strage degli Innocenti, il Giudizio Universale e figure di Santi, che occupano interamente le superfici murarie dell’edificio e furono ultimati nel 1441. A corredo del catalogo, l’Appendice dà conto delle indagini scientifiche grazie alle quali le attribuzioni
delle opere hanno trovato ulteriore conferma. Richard Hodges La Pompei del Medioevo San Vincenzo al Volturno dalle origini al sacco dei Saraceni
Carocci editore, Roma, 140 pp., ill. b/n + XI tavv. col.
20,00 euro ISBN 978-88-290-2053-9 www.carocci.it
Richard Hodges esorcizza il cliché «pompeiano» e non esita ad applicarlo all’abbazia molisana di S. Vincenzo al Volturno, alla quale, a partire dal 1980, ha dedicato un capitolo importante della sua carriera di archeologo. E in effetti, scorrendo le pagine del volume, si può per una volta convenire sull’adeguatezza della definizione, poiché gli scavi condotti nel sito hanno rivelato un complesso assai articolato e, soprattutto, hanno restituito un vivido fermo immagine
del piú importante evento di cui fu teatro: l’assalto portato dai Saraceni nell’ottobre dell’881. Un episodio, quest’ultimo, che costituisce uno dei principali fili conduttori del volume. Il monastero venne fondato in epoca carolingia per iniziativa di tre nobili benevantani – Paldone, Tatone e Tasone –, che in seguito ne divennero abati, in un’area nella quale sorgeva una chiesa dedicata a san Vincenzo di epoca costantiniana, che fu presto rimpiazzata dalle nuove e ben piú ampie strutture religiose, abitative e produttive. Perché, di fatto, S. Vincenzo al Volturno divenne una sorta di piccola città, la cui vita quotidiana è stata ricostruita grazie all’esplorazione archeologica, in un confronto costante con la piú preziosa fonte documentaria che la riguarda, vale a dire il Chronicon Vulturnense, un codice miniato redatto intorno al 1130 dal monaco Giovanni, che fu poi anch’egli abate. Una storia, insomma, lunga e appassionante, che Hodges ripercorre puntualmente, suggerendo, fra l’altro, una significativa rilettura delle
motivazioni che, dopo il sacco saraceno, impedirono a S. Vincenzo di tornare ad avere la rilevanza fino ad allora acquisita. Annalisa Ponti Polvere di vipera Romanzo medievale
ÀncoraWow, Àncora Editrice, Milano, 272 pp.
15,00 euro ISBN 978-88-514-2644-6 www.ancoralibri.it
Il romanzo è pensato soprattutto per il pubblico dei piú giovani, ma, in realtà, la sua lettura può essere consigliata a chiunque sia interessato a gettare uno sguardo sulla vita quotidiana medievale. Tutto ruota intorno alla vicenda, ambientata nella Napoli del XII secolo, di una ragazza, Maria, grande conoscitrice delle piante e delle loro proprietà curative, e dello speziale per il quale va lavorare, apprendendo tutti i segreti del mestiere. (a cura di Stefano Mammini) settembre
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L’ARCHEOLOGIA ITALIANA NEL MONDO
Quella delle missioni archeologiche all’estero è una tradizione ormai consolidata per l’Italia e, grazie al sostegno del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, sono centinaia gli studiosi attivi in oltre 80 Paesi, dall’Europa all’Oceania. A questa importante realtà è dedicata la nuova Monografia di «Archeo», che propone la rassegna dei progetti attualmente in corso, illustrati in prima persona dai loro stessi protagonisti. Le schede dedicate a ciascuna missione, corredate da un ricco apparato iconografico, danno vita a un ideale viaggio intorno al mondo, che permette di scoprire quanto importante sia il contributo italiano allo studio, alla tutela e alla valorizzazione del patrimonio archeologico e storico-artistico degli Stati in cui i progetti vengono svolti. Perché un tratto comune a tutte le missioni è proprio quello del coinvolgimento di istituzioni e studiosi locali, nella convinzione che ciò rappresenti un passo fondamentale sulla strada della conoscenza e della conservazione. In tutti i territori nei quali operano, gli archeologi italiani si fanno dunque portatori di un know how di altissimo livello, ma sono al tempo aperti alla ricezione delle istanze dei partner con i quali condividono le proprie attività sul campo.