Medioevo n. 327, Aprile 2024

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MEDIOEVO n. 327 APRILE 2024

EDIO VO M E

IN EDICOLA IL 4 APRILE 2024



SOMMARIO

Aprile 2024 ANTEPRIMA LA RELIQUIA DEL MESE Un velo di mistero

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di Federico Canaccini

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IL MEDIOEVO IN PRIMA PAGINA Uno sperimentatore raffinato

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MOSTRE I capolavori di un artista misterioso

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RECUPERI Mai dire mai

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APPUNTAMENTI L’Agenda del Mese

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STORIE

COSTUME E SOCIETÀ

LA MONETAZIONE Quando la storia batte moneta

IL NOVELLIERE DI GIOVANNI SERCAMBI/1 Con gli occhi di ser Giovanni

di Alessandro Bedini

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EVENTI Festival

di Corrado Occhipinti Confalonieri

Federico II Stupor Mundi

La «crociata della pace»: cosa può dirci ancora oggi? di Fulvio Delle Donne

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LA MELA I molti spicchi di un simbolo

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LUOGHI FIRENZE Orsanmichele Un luogo per pregare e commerciare 38

CALEIDOSCOPIO ICONOGRAFIA Il volto piú bello del Trecento di Debora Gusson

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STORIE, UOMINI E SAPORI Prelibatezze all’ingrasso di Sergio G. Grasso 102 QUANDO I SANTI PRENDEVANO LE ARMI Voglio la testa del Battista! di Paolo Pinti 108 LIBRI Lo Scaffale

Dossier

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di Domenico Sebastiani

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MEDIOEVO n. 327 APRILE 2024

MEDIOEVO

Hanno collaborato a questo numero: Alessandro Bedini è giornalista e scrittore. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Francesco Colotta è giornalista. Fulvio Delle Donne è professore ordinario di letteratura latina medievale e umanistica presso l’Università degli Studi della Basilicata. Sergio G. Grasso è giornalista specializzato in tradizioni enogastronomiche. Debora Gusson è studiosa di arte e storia. Corrado Occhipinti Confalonieri è storico e scrittore. Paolo Pinti è studioso di oplologia. Domenico Sebastiani è cultore di tradizioni e leggende medievali.

IN EDICOLA IL 4 APRILE 2024

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MEDIOEVO Anno XXVIII, n. 327 - aprile 2024 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Angelo Poliziano, 76 - 00184 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Alessia Pozzato Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Illustrazioni e immagini: Mondadori Portfolio: Archivio Antonio Quattrone/Antonio Quattrone: copertina (e p. 92); Album/Oronoz: p. 33; Fototeca Gilardi: p. 36; Electa/ Remo Bardazzi: p. 53; Album/Prisma: pp. 58, 80, 93, 96, 104; Historica Graphica Collection/Heritage Images: pp. 65, 84; Veneranda Biblioteca Ambrosiana: p. 67; Fine Art Images/Heritage Images: pp. 68/69; Erich Lessing/K&K Archive: p. 75; Album: pp. 76-79, 85, 86, 89, 102; Album/ Fine Art Images: pp. 80/81; AKG Images: pp. 83, 88, 105; Album/IM/Kharbine-Tapabor: p. 94; Album/Collection CL/Kharbine-Tapabor: p. 95; The Print Collector/Heritage Images: pp. 96/97; MIC/Musei Reali/Galleria Sabauda/ Archivio Mauro Magliani/Mauro Magliani: p. 110 (alto); Electa/Antonio Quattrone: p. 110 (basso) – Doc. red.: pp. 5, 28, 31, 32, 34-35, 37, 38, 50/51, 52, 54-55, 59, 63, 66/67, 68, 72, 82, 90, 100 (destra), 106, 108-109, 111 – Cortesia Studio Esseci: pp. 6-10 – Cortesia CLP Relazioni Pubbliche: pp. 12-14 – Cortesia Nucleo Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale: p. 16 – Shutterstock: pp. 28/29, 30/31, 36/37, 56-57, 62, 70, 71 (basso) – Cortesia Tabloid società cooperativa-Musei del Bargello: Nicola Neri: pp. 39, 40-49 – The Cleveland Museum of Art, Cleveland: pp. 64/65 – National Gallery of Art, Washington: p. 91 – Cortesia degli autori: pp. 98-99, 100 (sinistra) – Patrizia Ferrandes: cartina a p. 71. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 49572016 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 - Via Dalmazia, 13 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Servizio Arretrati a cura di Press-Di Distribuzione Stampa e Multimedia Srl 20090 Segrate (MI) I clienti privati possono richiedere copie degli arretrati tramite e-mail agli indirizzi: collez@mondadori.it e arretrati@mondadori.it Per le edicole e i distributori è inoltre disponibile il sito https://arretrati. pressdi.it In copertina Madonna col Bambino e angeli («Madonna della melagrana»), tempera su tavola di Sandro Botticelli. 1487 circa. Firenze, Galleria degli Uffizi.

Prossimamente protagonisti

costume e società

dossier

Caterina Sforza

La donna nel Medioevo islamico

Islanda Tra vulcani e ghiacciai


LA RELIQUIA DEL MESE di Federico Canaccini

APRILE

Un velo di mistero

Q

uando agli Apostoli giunse la notizia che il sepolcro di Gesú era stato aperto, Pietro e Giovanni corsero alla tomba per verificare il fatto clamoroso. Unico testimone oculare dell’evento, Giovanni riporta che, giunto per primo, «chinatosi, vide le bende per terra, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro che lo seguiva ed entrò nel sepolcro e vide le bende per terra e il sudario che gli era stato posto sul capo, non per terra con le bende, ma piegato in un luogo a parte» (Giovanni 20,1-10). Se si presta fede a questa testimonianza, il corpo di Cristo fu dunque avvolto in bende, come una mummia, mentre sul solo capo venne posto, a completamento di questo rito, una sorta di fazzoletto, detto Mandylion. Del resto, le prime iconografie cristiane che mostrano Lazzaro resuscitato dai morti, consistono in un corpo avvolto in bende, che però risparmiano il viso, e con le braccia aperte, a significare la avvenuta resurrezione. Se cosí fosse, la reliquia attualmente piú famosa della cristianità, la Sacra Sindone, risulterebbe per lo meno controversa. A meno che, come alcuni sostengono, il termine tradotto con «bende», non debba intendersi con «lenzuoli». Non vi sono dubbi, invece, sul fatto che il capo del Salvatore fosse stato coperto da un fazzoletto, oggi erroneamente noto come «Veronica», dal nome della donna che avrebbe asciugato il volto di Cristo durante la salita al Calvario, ma della quale non c’è traccia nei Vangeli e neppure nelle tradizioni di reliquie medievali. In realtà, il gesuita e storico dell’arte Heinrich Pfeiffer (1939-2001) ha ipotizzato che il velo sarebbe quello posto sul capo di Cristo al momento della sepoltura, recuperato da Maria dopo la resurrezione e consegnato poi a Giovanni. Da Efeso l’immagine acheropita («non fatta da mano [umana]») giunse a Kamulia, in Cappadocia, dove fu ritrovata e portata a Costantinopoli nel VI secolo. Poi la preziosa reliquia scompare e si deve attendere il 753 perché venga esposta da papa Stefano II a Roma per scongiurare l’assedio longobardo di Astolfo. La Vera Icona – denominazione che, distorta, avrebbe originato il termine e la vicenda della Veronica – diventa ufficialmente venerata con papa Innocenzo III, ai primi del Duecento. La reliquia non viene piú esposta al pubblico a partire dal XVII secolo, mentre la Sindone, acquistata dai Savoia nel 1453, ha ormai un successo internazionale. La vicenda è, in ogni caso, assai piú complessa, dal momento che, nel 1999, Pfeiffer ha proposto come autentica Veronica una reliquia conservata a Manoppello, un paese

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Il Volto Santo di Manoppello (Pescara). La reliquia consiste in un panno (17 x 24 cm) sul quale compare l’effigie del Cristo, visibile da entrambi i lati. È possibile che si tratti di una copia della Veronica romana, alla quale si avvicina molto per tipologia. in provincia di Pescara. Tale reliquia, infatti, si sovrappone in maniera problematica a quella che sarebbe ancora conservata in Vaticano – osservata ancora alla metà del Novecento – e alla Sindone, anche perché i volti raffigurati non sono tra loro affatto somiglianti. Nel Basso Medioevo nasce il bisogno di «vedere il Mistero», come ha scritto lo storico André Vauchez, giacché assistere al rito della Consacrazione e all’elevazione del Corpus Christi già racchiudeva un che di salvifico. In un modo o nell’altro si passava cosí dalla venerazione delle reliquie a quella delle immagini, dal bisogno di toccare il sacro a una cogente necessità di vederlo.

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il medioevo in

rima

agina

Uno sperimentatore raffinato MOSTRE • Massa Marittima rende

omaggio a Stefano di Giovanni, detto il Sassetta, unanimemente riconosciuto come il piú importante e originale pittore senese della prima metà del Quattrocento. Del quale la rassegna propone un importante inedito e documenta il proficuo dialogo con gli altri grandi protagonisti di una stagione artistica di prim’ordine Angelo annunciante, tempera e oro su tavola del Sassetta (al secolo, Giovanni di Stefano). 1423-1426. Massa Marittima, Museo di San Pietro all’Orto.

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a prima metà del Quattrocento fu caratterizzata dall’ultima vitale stagione dello stile gotico, che assunse aspetti di internazionale comunanza fra l’Italia e i Paesi dell’Europa del Nord. A Siena un bel gruppo di artisti mantennero ad alti livelli la produzione della scuola locale, sapendo recuperare la lezione dei grandi novatori del primo Trecento, innervandola con tendenze di decorativismo estremo, ma non dimenticando di aprirsi al nuovo mondo rinascimentale fiorentino. Stefano di Giovanni, detto il Sassetta (attivo a Siena dal 1423), seppe meglio di tutti esprimere questa cultura, di cui dà conto la mostra in corso a Massa Marittima, città che ha la fortuna di conservare, nel locale Museo di San Pietro all’Orto, una preziosa «reliquia» dell’artista. Si tratta di una piccola tavola, raffigurante l’Arcangelo Gabriele, un tempo collocata fra le cuspidi di una pala d’altare a pendant di una Vergine annunciata, oggi conservata nella Yale University Art Gallery a New Haven. Proprio intorno all’Angelo annunciante, la mostra riunisce una significativa corona di opere del Sassetta, tra le quali spicca un’inedita Madonna col Bambino, recuperata grazie a un restauro, che ha rimosso una pesante ridipintu-

A destra Santa Margherita (particolare), tempera su tavola del Sassetta. 1434. Cortona, Museo diocesano. In basso Adorazione dei Magi, tempera e oro su tavola del Sassetta. 1433 circa. Siena, Palazzo Chigi Saracini. ra seicentesca. Questa elegantissima e raffinata figura della Vergine presenta un nimbo raggiato contenente una significativa iscrizione, che replica quanto inciso dallo stesso Sassetta nella pala della Madonna della neve: «SI CONFIDIS IN ME SENA ERIS GRATIA PLENA» («Se confiderai in me, o Siena, sarai piena di grazia»). Il motto di sapore sapienziale ci assicura la provenienza della tavola da una chiesa cittadina. Potrebbe trattarsi di S. Francesco, dove Fabio Chigi, agli inizi degli anni Venti del Seicento, poteva vedere una tavola firmata dal Sassetta nella cappella Petroni.

Oro, argento e lacche Ripercorrendo gli anni salienti della cronologia del Sassetta, la mostra presenta nuovi confronti e sottolinea gli aspetti piú interessanti e innovatori dell’arte del maestro senese. Il suo estro creativo seppe armonizzare le conquiste sulla

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rappresentazione spaziale di tipo prospettico del primo Rinascimento fiorentino, con la tradizionale raffinatezza tecnica e preziosità materica della pittura senese. Il Sassetta sperimentò con ottimi risultati l’uso delle lamine metalliche preziose, come l’oro e l’argento, coperte di lacche traslucide di vari toni e poi sgraffite, per rendere l’apparenza del luccichio delle stoffe e del loro movimento. Questa complessa tecnica aveva raggiunto un alto livello esecutivo nelle opere dei maestri del primo Trecento, come Simone Martini e Ambrogio Lorenzetti, mentre all’aprirsi del secolo successivo fu portata alla perfezione da Gentile da Fabriano. E proprio con l’arte di Gentile e con la miniatura gotica internazionale mostra particolari tangenze un altro capolavoro presente in mostra: la sontuosa tavoletta con l’A-

In alto Madonna col Bambino, tempera e oro su tavola del Sassetta. Terzo decennio del XV sec. Siena, Museo Diocesano. L’opera, inedita, è stata riscoperta grazie al restauro che l’ha liberata da una ridipintura seicentesca. A sinistra Sant’Andrea, tempera e oro su tavola di Giovanni di Paolo. 1435-1440. Siena, Pinacoteca Nazionale. Nella pagina accanto Madonna delle ciliegie, tempera su tavola del Sassetta, dalla Cattedrale di S. Lorenzo a Grosseto. 1440-1450 circa. Grosseto, Museo d’Arte Sacra della Diocesi di Grosseto.

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DOVE E QUANDO

«Il Sassetta e il suo tempo. Uno sguardo all’arte senese del primo Quattrocento». Massa Marittima, Musei di San Pietro all’Orto fino al 14 luglio Orario fino al 30 giugno: martedídomenica, 9,30-13,00 e 14,3018,00; dal 1° al 14 luglio: tutti i giorni, 9,30-13,00 e 14,30-18,00 Info tel. 0566 906525; e-mail: accoglienzamuseimassa@gmail.com; www.museidimaremma.it In basso Cristo risorto, scultura in legno policromo di Domenico di Niccolò dei Cori. XV sec. Siena, Collezione Chigi Misciatelli.

In alto vetrata policroma di Nastagio di Guasparre raffigurante i santi Rocco, Sebastiano e Leonardo. XV sec. Chiusdino, Museo Civico e Diocesano d’Arte Sacra di San Galgano. dorazione dei Magi, nella quale sfarzosi dettagli tardo-gotici innervano un perfetto impianto spaziale tridimensionale.

Devozione domestica e pubblica La mostra inoltre documenta la varietà di commissioni a cui attese il pittore che realizzò grandi e complesse opere per edifici religiosi, piccole opere per la devozione domestica, nonché tavole per la devozione pubblica, come quella dipinta nel 1438 per un tabernacolo posto nell’atrio del Palazzo del Comune di Siena. Su quest’opera, oggi conservata nella Pinacoteca Nazionale di Siena, il pittore raffigurò la Madonna col Bambino incoronata dagli angeli e lasciò scritto il proprio nome. Accompagnano le opere del Sassetta alcuni importati esempi della produzione di artisti del tempo, come Pietro di Giovanni Ambrosi, Giovanni di Paolo, Sano di Pietro e il suo anonimo collaboratore noto con il nome critico di Maestro dell’Osservanza. La mostra inoltre presenta

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per la prima volta le opere di Nastagio di Guasparre, nuovo nome nel panorama artistico del periodo tardo-gotico senese, al quale si riconosce un gentile Sant’Ansano, disegnato nel codice dei capitoli dell’omonima Compagnia, e una bellissima Madonna in umiltà con il Bambino della Pinacoteca Nazionale di Siena. Oltre ai pittori è presente anche lo scultore Domenico di Niccolò dei Cori. Lo si può considerare l’artista che tradusse nell’intaglio ligneo lo stile sofisticato e astratto del Sassetta. Di questo artista è presentata per la prima volta una piccola scultura con le Stigmate di San Francesco, intagliata per un coro ligneo. Stefano di Giovanni, detto il Sassetta, senza dubbio il piú importante e originale pittore senese della prima metà del Quattrocento, morí nel 1450, nel pieno della sua attività, lasciando la «sventurata vedova con tre povari pupilli che il maggiore è d’anni sette, et Idio sa in che stato» e numerose opere incompiute, ultimate in seguito dal collega Sano di Pietro, come viene documentato in mostra grazie a due pannelli dello smembrato polittico proveniente dalla chiesa senese di S. Pietro in Castelvecchio. (red.) aprile

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ANTE PRIMA

I capolavori di un artista misterioso MOSTRE • L’identità

del Maestro di San Francesco è ancora oggi un enigma per gli studiosi. Non vi sono dubbi, invece, sul suo brillante talento artistico, ribadito dalla rassegna allestita alla Galleria Nazionale dell’Umbria

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rganizzata nel quadro delle celebrazioni per l’ottavo centenario dall’impressione delle stigmate a san Francesco, la nuova mostra della Galleria Nazionale dell’Umbria di Perugia documenta l’attività del cosiddetto Maestro di San Francesco, uno degli artisti piú importanti del Duecento, dopo Giunta Pisano e prima di Cimabue. Dalla raccolta perugina, che conserva il principale nucleo delle opere su tavola del Maestro, il

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percorso si estende idealmente al ciclo con Storie del Cristo e Storie di san Francesco da lui eseguito nella Chiesa Inferiore della basilica di Assisi, anche in virtú dell’accordo di valorizzazione che lega il Sacro Convento alla Galleria Nazionale. Il Duecento fu un secolo di grandiosi sommovimenti e l’Umbria fu la regione che meglio seppe assorbire e rielaborare la rivoluzione religiosa e culturale provocata dalla nascita degli Ordini

In alto il Trittico di Perugia (Trittico Marzolini), tempera su tavola del Maestro del Trittico di Perugia. 1280-1290. Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria. A sinistra capolettera di un corale francescano decorato dal Maestro della Bibbia di Gerona. XIII sec. Bologna, Museo Civico Medievale. Nella pagina accanto San Giacomo Maggiore (a sinistra) e San Giovanni Evangelista, tempere su tavola del Maestro di San Francesco. 1272 circa. Washington, National Gallery of Art. aprile

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mendicanti. L’Umbria e Assisi, dove furono create alcune delle opere pittoriche piú singolari dell’epoca, divennero il nuovo fulcro europeo nel sistema delle arti, nel quale emerse la misteriosa figura del Maestro di San Francesco, a cui gli studiosi non sono ancora riusciti a dare un nome, cosí chiamato dalla tavola con l’effigie del santo dipinta su un’asse dove, secondo la tradizione, Francesco spirò, conservata all’interno del Museo

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della Porziuncola presso il santuario di S. Maria degli Angeli (Assisi) ed eccezionalmente esposta nella mostra perugina.

Nella basilica di Assisi Proprio a lui si rivolsero i frati minori, dapprima per lavorare alle vetrate della Chiesa Superiore della basilica, accanto a maestri tedeschi e francesi, quindi per decorare l’intera Chiesa Inferiore. Tra mille fregi diversi, emuli dell’oreficeria e degli

smalti, il Maestro aveva incastonato nella navata ad aula unica il primo ciclo delle Storie di Francesco, narrate in parallelo con quelle di Cristo, secondo le indicazioni di Bonaventura da Bagnoregio, allora generale dell’Ordine: il santo veniva per la prima volta identificato come Alter Christus, come uomo simile a Cristo anche nel corpo, grazie al dono delle stigmate. Grazie a rilievi acquisiti con laserscanner 3D in occasione della

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ANTE PRIMA DOVE E QUANDO

«L’enigma del Maestro di San Francesco. Lo stil novo del Duecento umbro» Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria fino al 9 giugno Orario martedí-domenica, 8,30-19,30 Info tel. 075 58668436; e-mail: gan-umb@cultura.gov.it; www.gallerianazionaledellumbria.it; Facebook @ GalleriaUmbriaPerugia; Instagram @gallerianazionaledellumbria In basso San Francesco e quattro miracoli post mortem, tempera e oro su tavola attribuita alla bottega di Giunta di Capitino, detto Giunta Pisano. 1260-1270. Città del Vaticano, Pinacoteca Vaticana.

A sinistra i Santi Bartolomeo e Simone, tempera e oro su tavola del Maestro di San Francesco. 1266-1275. New York, The Metropolitan Museum of Art. mostra, all’interno del percorso è allestita una sala immersiva che ricostruisce le pitture murali realizzate dal Maestro nella Chiesa Inferiore di Assisi, in parte compromesse dagli interventi avvenuti alla fine del XIII secolo, in particolare dopo l’arrivo di Giotto. Cardine dell’esposizione è la Croce datata 1272, proveniente dalla

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chiesa perugina di S. Francesco al Prato, uno dei pezzi in assoluto piú importanti della Galleria, attorno alla quale ruotano gran parte delle opere del pittore, che tornano in Umbria da vari musei del mondo. Obiettivo del progetto espositivo è inoltre quello di offrire una documentazione articolata e per quanto possibile sistematica

dell’intera produzione pittorica in Umbria negli anni di attività del Maestro di San Francesco, dalla metà del secolo all’avvio del cantiere pittorico della Chiesa Superiore della basilica assisiate, con papa Niccolò IV. Punto di partenza emblematico è comunque l’opera umbra di Giunta Pisano, rivalutando con una data piú alta, verso il 1230, il dossale con San Francesco e quattro miracoli post mortem del Museo del Tesoro della Basilica papale di San Francesco in Assisi, uno dei capolavori del secolo, a confronto con l’altra versione della Pinacoteca Vaticana e con la Croce firmata della Porziuncola. (red.) aprile

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ANTE PRIMA

Mai dire mai RECUPERI • A oltre

cinquant’anni dal suo trafugamento, un pregevole trittico tardo-quattrocentesco è stato riconsegnato dal Nucleo Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale al comune umbro di Arrone Immagini del trittico trafugato dalla chiesa di S. Maria Assunta ad Arrone (Terni) nel 1970 e recuperato dai Carabinieri del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale. L’opera, datata al 1487, è attribuita a un artista convenzionalmente designato come Maestro del Trittico di Arrone.

Non mi si apre la foto con i carabinieri

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I

l 3 ottobre del 1970, la chiesa di S. Maria Assunta ad Arrone (Terni) fu vittima del furto di tre dipinti, a tempera e oro su tavola, che compongono un trittico datato 1487 e raffigurano, rispettivamente, una Madonna col Bambino, San Giovanni Battista e Sant’Antonio Abate. Già attribuita a un anonimo pittore umbro del XV secolo, convenzionalmente denominato Maestro del Trittico di Arrone, l’opera è stata da alcuni assegnata al maestro spoletino Bernardino Campilio (attivo fra il XV e il XVI secolo), mentre altri studiosi hanno invece proposto di identificarne l’autore con Antonio da Viterbo del Massaro, detto Pastura (1450 circa-ante 1516). Quest’ultimo, artista di notevole interesse, è considerato come il piú alto esponente della pittura viterbese, tale che la sua formazione è da contestualizzarsi al fianco del Perugino e del Pinturicchio. Al di là dell’attribuzione, del trittico rimase soltanto l’immagine, prodotta all’epoca della denuncia del furto e inserita nella Banca dati dei beni culturali illecitamente sottratti gestita dal Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale. E, com’è accaduto in molti casi analoghi, proprio quella fotografia è stata la chiave del nuovo successo ottenuto dal nucleo specializzato dell’Arma: la sua comparazione con una piú recente riproduzione del trittico ha infatti permesso di ricostruire l’intera vicenda.

All’oscuro di tutto L’attività investigativa, coordinata dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Firenze, ha consentito di appurare che l’opera, all’indomani del furto, era rimasta per anni nella disponibilità di un noto antiquario toscano defunto nel 2022, ignaro della sua provenienza furtiva. Ne è prova il ritrovamento di una lettera, datata 2 giugno 2000, con la quale una società che

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La parola alla storia È

in programma dall’11 al 14 aprile, a Legnano, la seconda edizione de «La storia tra le righe», Festival di Letteratura Storica. In omaggio al centenario che la città festeggia proprio quest’anno, il Festival si apre giovedí 11 aprile (alle ore 21,00), presso la Sala degli Stemmi del Comune in Piazza San Magno, con Ugo Savoia e il suo libro Dalla parte giusta, la storia dell’industriale Guido Ucelli di Nemi e della moglie, la legnanese Carla Tosi, gli «Schindler» italiani che sfidarono le SS e il regime per aiutare i tanti amici ebrei a fuggire in Svizzera durante l’occupazione nazista. Venerdí, sabato e domenica gli incontri proseguiranno sia presso la sede della Famiglia Legnanese, a Villa Jucker, sia negli spazi del Castello Visconteo. Studiosi, accademici, giornalisti, scrittori ed esperti si alterneranno con approfondimenti sulla Storia antica, moderna e contemporanea nei suoi molteplici e variegati aspetti: dalla mitologia al Medioevo, dalla letteratura classica alla narrativa ucronica, dalla biografia alla saggistica divulgativa, dai testi accademici alle graphic novel e alle tavole di fumetti a tema. Tra gli ospiti: Chiara Bianchi, Paola Cadelli, Valentina Cambi, Giacinta Cavagna di Gualdana, Imma Eramo, Livio Gambarini, Christian Jennings, Jean-Claude Maire Vigueur, Chiara Mercuri, Silvia Montemurro, Giovanni Nucci, Luca Ongaro, Sara Rattaro, Matteo Rubboli e Daniele Ventre. Per informazioni: segreteria@fondazionepalio.org Tutto il programma su www.fondazionepalio.org/la-storia-tra-le-righe

gestisce un archivio internazionale di opere d’arte rubate, dopo una sua richiesta, riferiva al predetto antiquario che il trittico non era inserito nel loro database come opera da ricercare. Ciononostante, l’ultimo proprietario del trittico, essendosi reso conto della pregevole fattura dell’opera, che gli era pervenuta in eredità, ha preferito richiederne il controllo al reparto TPC: controllo grazie al quale è emersa l’effettiva provenienza dei dipinti. Va peraltro sottolineato che le indagini hanno consentito di accertare l’estraneità ai fatti per la persona a cui è stata sequestrata l’opera, in quanto detentore in buona fede. Ai sensi dell’art. 54 del Codice dei Beni culturali e del paesaggio, il

trittico è un bene inalienabile e dunque, dopo il sequestro, ne è stata formalizzata la restituzione al Comune di Arrone, suo legittimo proprietario, che potrà cosí procedere alla sua ricollocazione nella chiesa di S. Giovanni Battista, sua sede originaria. La positiva conclusione dell’operazione ha ribadito l’importanza della catalogazione e fotografia dei beni culturali. Informazioni che, se fornite in sede di denuncia, alimentano la già citata Banca dati dei beni culturali illecitamente sottratti e possono favorire il ritrovamento di opere scomparse, anche a distanza di ben cinquantatré anni come nel caso del trittico di Arrone. (red.)

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AGENDA DEL MESE

Mostre VENEZIA RESTITUZIONI. LA MADONNA SORLINI DI GIOVANNI BELLINI IN MOSTRA PRIMA DEL RESTAURO Gallerie dell’Accademia fino al 7 aprile

a cura di Stefano Mammini

centrale all’interno del catalogo dell’autore, sempre presente nei principali cataloghi ragionati dell’opera belliniana del 1974, 1992 e 1997. Il soggetto è quello maggiormente affrontato dall’autore, considerato tra i

volta come «Madonna in rosso». Venne poi chiamata «Madonna Sorlini» dopo che, nel 2004, l’imprenditore e collezionista bresciano Luciano Sorlini la acquisí. Contestualmente alla scelta, venne istituita la Fondazione Luciano Sorlini, ente predisposto a custodire la propria straordinaria collezione. info tel. 041 5222247 oppure 2413942; e-mail: ga-ave@cultura.gov.it; https://gallerieaccademia.it PADOVA LO SCATTO DI GIOTTO. LA CAPPELLA DEGLI SCROVEGNI NELLA FOTOGRAFIA TRA ‘800 E ‘900 Museo Eremitani fino al 7 aprile

La Cappella degli Scrovegni è stata fra i primi monumenti italiani riprodotti in fotografia in modo sistematico e puntuale. Carlo Naya, uno dei pionieri italiani della fotografia, immortala gli affreschi in alcuni scatti già nell’estate del 1863, a meno di venticinque anni dall’invenzione ufficiale di questa tecnologia, e piú avanti Opera icona della prima maturità artistica di Giovanni Bellini e proprietà della Fondazione Luciano Sorlini di Calvagese della Riviera (Brescia), la Madonna in adorazione del Bambino dormiente sarà oggetto di un intervento di restauro affidato a Giulio Bono e patrocinato da Banca Intesa Sanpaolo nell’ambito del programma Restituzioni. E prima dell’inizio dei lavori viene eccezionalmente esposta nelle Gallerie dell’Accademia, che conservano numerose opere del pittore veneziano. La «Madonna Sorlini» è indicata dalla storiografia critica come

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maggiori interpreti del tema della Madonna con il Bambino. La figura appare saldamente ancorata nella composizione, mentre lo sguardo rivolto all’Infante tradisce la consapevolezza della Passione futura, confermata dagli elementi iconografici a corollario della composizione: il panneggio in cui è avvolto il bambino, trattato come un sudario, e il manto rosso, all’epoca colore del lutto. L’originalità del dipinto è stata sancita da Roberto Longhi, che ne parla nel suo Viatico per cinque secoli di pittura veneziana (1946) citandola per la prima

Il percorso espositivo de «Lo scatto di Giotto» parte da riproduzioni di grande fascino e si apre in uno scenario in bianco e nero creato dalle lastre fotografiche realizzate da Luigi Borlinetto a partire dal 1883 e conservate dalla Biblioteca Civica di Padova. La mostra si affaccia poi al Novecento attraverso le campagne fotografiche Alinari e di Domenico Anderson, il cui valore si intreccia con quello dell’editoria d’arte e di divulgazione. Proprio grazie alle campagne della Casa Editrice Alinari di Firenze le immagini della Cappella degli Scrovegni vengono inserite nei cataloghi d’arte a partire dal 1906. Qui il capolavoro di Giotto viene presentato nella sua straordinarietà per la prima volta quale ciclo narrativo completo, ma non solo: da questo momento in poi si sorpassa l’idea dell’esclusività nella riproduzione degli affreschi della Cappella e viene esplicitamente specificato nei verbali delle adunanze della città di Padova che lasciar circolare l’opera di Giotto attraverso la fotografia avrebbe consentito di diffondere nel mondo il valore della sua arte e non avrebbe mai potuto provocare una riduzione dei visitatori. Da quel momento in poi, grazie ai cataloghi Alinari, la Cappella degli Scrovegni sarà conosciuta in tutto il mondo, giacché le pubblicazioni avevano edizioni anche in lingua francese e inglese. info tel. 049 8204551 FANO

realizza una intera campagna fotografica del monumento a scopo conservativo prima dei restauri di Guglielmo Botti, realizzati fra il 1869 e il 1871.

PIETRO PERUGINO A FANO. PRIMUS PICTOR IN ORBE Museo del Palazzo Malatestiano fino al 7 aprile

Torna a Fano, dopo un importante intervento di aprile

MEDIOEVO


pala d’altare, la Sacra Famiglia con San Giovannino (1526-1530), già presente nelle collezioni della Galleria dell’Accademia di Firenze, un dipinto cruciale per capire la sua produzione giovanile e come ha fatto propri gli insegnamenti di Andrea del Sarto. Il percorso espositivo si articola in cinque sezioni, che approfondiscono i principali aspetti della sua prolifica attività, a partire proprio dalla restauro, la Pala di Durante dipinta da Pietro Perugino, opera identitaria per la città marchigiana, tanto da essere conosciuta anche come Pala di Fano. «Primus pictor in orbe» («Primo pittore al mondo»): cosí viene definito Perugino nel contratto del 1488 che lo portava a lavorare a Fano dove avrebbe realizzato due opere eminenti: la Madonna con il bambino in trono e i santi Giovanni Battista, Ludovico di Tolosa, Francesco, Pietro, Paolo e la Maddalena, detta Pala di Durante, e l’Annunciazione. La Pala di Durante, dipinta a olio su tavola, fu eseguita per l’altare maggiore della chiesa di S. Maria Nuova di San Lazzaro e fu realizzata a piú riprese, tra il 1488 e il 1497. È cosí definita dal nome che compare nell’iscrizione sul piedistallo ai piedi della Vergine: Durante di Giovanni Vianuti, che nel 1485 fece un lascito ai frati Minori Osservanti, il cui convento venne piú tardi trasferito nell’attuale sede della chiesa di S. Maria Nuova. Il pannello principale raffigura la Madonna con il Bambino seduta su un alto trono con ai lati i santi. Il gruppo è disposto all’ombra di un chiostro rinascimentale, aperto sullo sfondo verso un luminoso

MEDIOEVO

aprile

paesaggio collinare. A completamento della pala, una lunetta con Cristo in Pietà tra i dolenti e santi Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea e una predella con cinque Storie della vita della Vergine, alla cui realizzazione o perlomeno progettazione grafica, alcuni storici dell’arte ritengono che abbia collaborato il piú geniale allievo di Perugino e futuro protagonista della scena artistica, Raffaello Sanzio, allora appena quattordicenne. info tel. 0721 887.845-847; e-mail: museocivico@ comune.fano.pu.it; museocivico.comune.fano.pu.it FIRENZE PIER FRANCESCO FOSCHI (1502-1567) PITTORE FIORENTINO Galleria dell’Accademia fino al 14 aprile (prorogata)

La fortunata carriera di Pier Francesco Foschi (1502-1567) – allievo di Andrea del Sarto, che collaborò anche con Pontormo – si svolse nei decenni centrali del Cinquecento e viene ora ripercorsa dalla prima rassegna monografica dedicata all’artista. L’esposizione riunisce una quarantina di opere autografe, tra dipinti e disegni, tra cui la

saranno finanziati importanti restauri di alcuni dipinti del pittore fiorentino come quelli nella basilica di Santo Spirito a Firenze e nella Propositura dei Ss. Antonio e Jacopo a Fivizzano. info www.galleriaaccademiafirenze. it

WEILBURG AN DER LAHN MATILDE DI CANOSSA, MEDIATRICE DI PACE NEL MEDIOEVO TRA IMPERATORE E PAPA Bergbau-und Stadtmuseum fino al 21 aprile

Matilde di Canossa torna per la prima volta nella terra dei suoi avi, essendo anch’ella legata da rapporti di parentela con la dinastia salica. Lo fa grazie a una mostra che ripercorre la vita e le imprese della contessa, una delle figure piú emblematiche del Medioevo europeo. Si apre con la ricca collezione privata di Giuliano Grasselli, un formazione presso Andrea del Sarto fino alle commissioni di grandi pale d’altare e ai numerosi ritratti, genere in cui ottenne notevole successo. Troviamo un importante nucleo di studi giovanili tratti da modelli del maestro, insieme ad accostamenti tra alcuni originali di Andrea del Sarto e le repliche che Foschi realizzò, confronti che fanno comprendere meglio la sua personalissima declinazione della maniera sartesca. L’esposizione propone anche dipinti destinati alla devozione privata di soggetto mariano, insieme a rare e preziose opere legate ai temi del Vecchio Testamento, in cui si evidenzia l’influenza del Pontormo. Per l’occasione

appassionato collezionista che ha dedicato cinquant’anni alla raccolta di oltre 1200 oggetti legati alla storia di Matilde e dei territori detti canossiani, dove visse e agí, da Canossa a Monteveglio. Prosegue con pannelli fotografici, riproduzioni artistiche e video.

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L’allestimento si articola in tre sezioni principali: la personalità di Matilde come donna forte, governante di un vasto territorio nel cuore d’Italia, e l’inquadramento storico e geografico, le relazioni con la Germania e imprese salienti della sua vita; l’incontro a Canossa con Enrico IV, uno degli eventi storici piú importanti d’Europa nel Medioevo; l’eredità di Matilde: la sezione che riconduce alla modernità del personaggio con il mito perpetuato nel territorio dove visse con i suoi castelli, le sue pievi e i suoi borghi, oggi fonte di cultura e attrazione turistica. info www.museum-weilburg.de FIRENZE SOVRANE OREFICERIE. IL RELIQUIARIO DI MONTALTO DELLE MARCHE, DALLA PARIGI DEI VALOIS ALLA ROMA DEI PAPI Museo dell’Opificio delle Pietre Dure fino al 4 maggio

A dieci anni di distanza dal restauro eseguito dall’Opificio delle Pietre Dure nel 2013, torna a Firenze il Reliquiario di Montalto delle Marche, capolavoro dell’oreficeria gotica e rinascimentale,

passato per i Valois, gli Asburgo, gli Este e il tesoro pontificio, poi donato alla cittadina marchigiana da papa Sisto V. Per qualità e per storia il reliquiario è tra le opere di oreficeria piú affascinanti di ogni tempo. Motivo del ritorno è la necessità di eseguire una accurata revisione, sia della struttura metallica che degli elementi smaltati. Oggetto delicatissimo, il reliquiario risplende per la straordinaria raffinatezza tecnica, per la preziosità dei materiali. Realizzato in oro (fuso, smaltato en ronde-bosse, raffinata tecnica in cui lo smalto viene applicato su superfici a tutto tondo o in altorilievo) e in argento (fuso, sbalzato, inciso, smaltato e in parte dorato ad amalgama di mercurio), circonda le scene toccanti legate alla passione di Cristo con diciannove zaffiri, venti spinelli, cinquantanove perle e un raffinato cammeo in sardonice di manifattura bizantina. info opificiodellepietredure. cultura.gov.it NANTES GENGIS KHAN. COME I MONGOLI HANNO CAMBIATO IL MONDO Château des ducs de BretagneMusée d’histoire de Nantes fino al 5 maggio

Dalle steppe della Mongolia all’estremo Sud della Cina, dall’Oceano Pacifico ai confini del Medio Oriente, Gengis Khan e il suo esercito hanno dato vita, nel corso del XIII secolo, a un vasto impero. Al culmine del loro potere, i Mongoli controllavano oltre il 22% delle terre del pianeta, e il nipote di Gengis Khan, Kubilaï, gran khan dei Mongoli, divenne anche imperatore della Cina. Fondò la dinastia Yuan e stabilí la sua capitale a Dadu (l’attuale

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Bassano del Grappa, Museo Civico

fino al 23 giugno

Pechino). Dopo anni di conquiste violente per dare vita a questo impero, l’istituzione della Pax Mongolica permise lo sviluppo di relazioni commerciali, scientifiche e artistiche tra Oriente e Occidente. L’esposizione si propone di far scoprire la storia dell’impero di Gengis Khan, attraverso la presentazione di oggetti provenienti dalle collezioni nazionali della Mongolia, a cui fanno da contorno manufatti concessi in prestiti da musei francesi ed europei. Fra i temi del progetto espositivo spicca l’attenzione rivolta alle interazioni dell’impero mongolo con le altre potenze dell’epoca, in particolare con il regno di Francia. Ed è stato un Europeo, Marco Polo, a riassumere con efficacia che cosa abbia significato l’incontro con i Mongoli: il suo Milione, infatti, ebbe una diffusione straordinaria e conserva intatto il suo eccezionale valore documentario. info www.chateaunantes.fr VENEZIA-BASSANO DEL GRAPPA RINASCIMENTO IN BIANCO E NERO. L’ARTE DELL’INCISIONE A VENEZIA (1494-1615) Venezia, Ca’ Rezzonico-Museo del Settecento Veneziano fino al 3 giugno

Due sedi per un’unica grande mostra, dedicata alle «felicissime linee nere» dell’incisione veneziana e a quell’autentica rivoluzione mediatica che fu la nascita e la diffusione della stampa, fenomeno epocale che investí l’Europa e trasformò Venezia in un imprescindibile crocevia di esperienze artistiche, generando alcune delle piú affascinanti realizzazioni di tutto il Rinascimento. L’esposizione propone oltre 180 capolavori grafici, circa 90 opere per sede, appartenenti al ricco corpus grafico delle

raccolte civiche di Bassano del Grappa e a rilevanti collezioni pubbliche e private. Nei due percorsi viene presentata una significativa selezione di capolavori di artisti italiani ed europei del XVI secolo che rivoluzionarono il modo stesso di guardare alla realtà: Andrea Mantegna, Albrecht Dürer, Jacopo de’ Barbari, Tiziano e le botteghe dei suoi incisori, Tintoretto, Veronese, Benedetto Montagna, Ugo da Carpi, Domenico Campagnola, aprile

MEDIOEVO


Agostino Carracci e Giuseppe Scolari. In un percorso cronologico-tematico articolato in dieci sezioni, le due esposizioni trasportano i visitatori nell’universo monocromatico della stampa grazie anche a un allestimento che conduce alla scoperta di un’arte raffinata e sorprendente, ricercata da tutti i collezionisti, volano per la diffusione delle piú importanti novità artistiche del tempo, e lo fa svelando i segreti delle sue differenti tecniche e l’articolazione delle botteghe di stampatori dell’epoca. info www.museibassano.it, carezzonico.visitmuve.it BOLOGNA STREGHERIE. ICONOGRAFIA, FATTI E SCANDALI SULLE SOVVERSIVE DELLA STORIA Palazzo Pallavicini fino al 16 giugno

Dopo essere stata proposta con successo a Monza, «Stregherie» giunge a Bologna, in una nuova e piú ricca edizione. Alla collezione di stampe e incisioni di Guglielmo Invernizzi, famoso “collezionista dell’occulto”, si aggiungono nuove opere d’arte, provenienti da collezioni private, italiane ed estere, e oggetti legati al mondo della stregoneria, concessi in prestito dal Museum of Witchcraft and Magic in Cornovaglia, e dal Museo delle Civiltà di Roma, che per la prima volta presenta la sua straordinaria collezione di amuleti in argento ottocenteschi, veri e propri gioielli, utilizzati dalle donne definite streghe o, piú spesso, contro di loro. Accanto alle opere d’arte, sono stati riuniti per l’occasione preziosi manuali di esorcismo e trattati storici imprescindibili in un percorso dedicato alla

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aprile

attesta tutti gli aspetti. info www.stregherie.it PARIGI LA ARTI IN FRANCIA SOTTO CARLO VII (1422-1461) Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge fino al 16 giugno

stregoneria. Fra tutti, spicca il Malleus Maleficarum, il manuale sulla caccia alle streghe piú utilizzato dalla Chiesa, che indicava, caso per caso, i supplizi e le pene da infliggere a chi era accusato di stregoneria, del quale si può ammirare la seconda edizione, stampata nel 1520. Il progetto espositivo mira a ricostruire una cultura dispersa e oppressa, ma che risorge continuamente, partendo dalle sue origini e raccontandone la storia attraverso una ricerca iconografica rigorosa, che ne

Dagli anni Venti del Quattrocento, mentre ancora si combatte la guerra dei Cent’anni (1337-1453), il regno di Francia subisce profonde mutazioni politiche e artistiche. Nel Nord, occupato dagli Inglesi e dai Borgognoni, emergono molteplici centri artistici. Quando il delfino Carlo riesce a riconquistare il suo trono, grazie soprattutto a Giovanna d’Arco, e successivamente il suo regno, si creano le condizioni per un rinnovamento. Grandi committenti, come Jacques Cœur, richiamano una nuova generazione di artisti. Questi si convertono al realismo fiammingo, definito «ars nova», in pieno sviluppo soprattutto con Jan van Eyck, mentre attraverso l’influenza italiana

si impregnano dell’eredità antica sviluppata da artisti come Filippo Brunelleschi, Donatello o Giovanni Bellini. La creazione artistica si distacca progressivamente dal gotico internazionale e si orienta verso una nuova visione della realtà, preludio del Rinascimento. Il percorso espositivo documenta dunque la multiforme produzione artistica fiorita durante il regno di Carlo VII. Per l’occasione sono stati riuniti manoscritti miniati, dipinti, sculture, opere di oreficeria, vetrate e arazzi, che comprendono opere eccezionali, come il baldacchino di Carlo VII, il manoscritto delle Grandi Ore di Rohan o l’Annunciazione di Aix di Barthélémy d’Eyck, pittore del duca Renato d’Angiò che realizzò le miniature per il suo Libro dei tornei. Infine, un’intera sezione è dedicata a Jean Fouquet, autore del ritratto dipinto su legno di Carlo VII, presentato nel giusto contesto nell’esposizione. info musee-moyenage.fr FORLÍ PRERAFFAELLITI. RINASCIMENTO MODERNO Musei San Domenico fino al 30 giugno

Tra gli anni Quaranta dell’Ottocento e gli anni Venti del Novecento, l’arte storica italiana, dal Medioevo al Rinascimento, ha un forte impatto sulla cultura visiva britannica, in particolare sui preraffaelliti. Questo movimento artistico, nato nell’Inghilterra vittoriana di metà Ottocento a opera di alcuni artisti ribelli – William Holman Hunt, John Everett Millais e Dante Gabriel Rossetti – aveva lo scopo di rinnovare la pittura inglese,

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AGENDA DEL MESE

considerata in declino a causa delle norme eccessivamente formali e severe imposte dalla Royal Academy. Attraverso circa 300 opere – dipinti, sculture, disegni, stampe, fotografie, mobili, ceramiche, opere in vetro e metallo, tessuti, medaglie, libri illustrati, manoscritti e gioielli – l’eposizione forlivese racconta questa storia, affiancando per la prima volta alle opere britanniche, grazie ai generosi prestiti concessi dai musei europei, in particolare inglesi e italiani, nonché americani, una consistente rappresentanza di modelli italiani, tra cui opere di antichi maestri; ma anche dipinti di artisti italiani della fine dell’Ottocento ispirate ai precursori britannici. info www.mostremuseisandomenico.it

MASSA MARITTIMA IL SASSETTA E IL SUO TEMPO. UNO SGUARDO ALL’ARTE SENESE DEL PRIMO QUATTROCENTO Musei di San Pietro all’Orto fino al 14 luglio

Dopo Ambrogio Lorenzetti, il Museo di San Pietro all’Orto, a Massa Marittima, propone un altro grande appuntamento con l’arte senese, questa volta con Stefano di Giovanni, meglio noto come il Sassetta (attivo a Siena dal 1423 al 1450),

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l’artista che immise i fermenti del Rinascimento nella grande tradizione trecentesca senese. Come per Lorenzetti, anche questa mostra prende spunto da un’opera facente parte della collezione permanente del Museo di San Pietro all’Orto: l’Arcangelo Gabriele, piccola tavola del Sassetta un tempo collocata fra le cuspidi di una pala d’altare. La Vergine Annunciata, protagonista della stessa pala, non ha potuto fare ritorno, sia pur temporaneamente per ritrovare il suo Angelo Annunciante, essendo oggi patrimonio della Yale University Art Gallery a New Haven. Accompagnano l’Angelo una cinquantina di opere, ventisei delle quali firmate dal maestro senese e le altre da artisti attivi in quegli anni nel medesimo contesto. Fra di loro vi sono il Maestro dell’Osservanza, Sano di Pietro, Giovanni di Paolo, Pietro Giovanni Ambrosi e Domenico di Niccolò dei Cori. Si può inoltre ammirare una importantissima «prima», scoperta dal curatore della mostra, Alessandro Bagnoli: una Madonna con Bambino, proveniente dalla pieve di S. Giovanni Battista a Molli (Sovicille), ma originariamente realizzata per una chiesa senese, probabilmente S. Francesco. info tel. 0566 906525; e-mail: accoglienzamuseimassa@gmail.com; www.museidimaremma.it

British Museum

fino al 28 luglio (dal 2 maggio)

È dedicata agli ultimi tre decenni della vita e della carriera di Michelangelo Buonarroti – il periodo piú significativo e forse piú impegnativo della vita dell’artista – la mostra proposta dal British Museum, che si concentra su come la sua arte e la sua fede si siano evolute attraverso la comune sfida dell’invecchiamento in un mondo in rapido cambiamento. Per l’occasione, dopo l’intervento di restauro di cui è stata fatta oggetto nel 2018, viene esposta per la prima volta la monumentale Epifania (alta oltre 2 m): databile fra il 1550 e il 1553, è il solo cartone completo sopravvissuto di Michelangelo ed è una delle piú grandi opere rinascimentali su carta. Il disegno è peraltro affiancato al dipinto realizzato sulla sua base dal biografo di Buonarroti, Ascanio Condivi. Tornano in esposizione dopo oltre vent’anni anche molte altre opere della collezione permanente del museo londinese, fra cui alcuni disegni preparatori per il Giudizio Universale, che illustrano come Michelangelo avesse elaborato una nuova visione di come la forma umana sarebbe stata rimodellata alla fine del mondo. info britishmuseum.org

LONDRA

BERLINO

MICHELANGELO: LE ULTIME DECADI

IL FASCINO DI ROMA. MAARTEN VAN HEEMSKERCK

DISEGNA LA CITTÀ Kulturforum fino al 4 agosto (dal 26 aprile)

Il pittore e incisore olandese Maarten van Heemskerck (1498-1574) soggiornò a lungo a Roma, tra il 1532 e il 1538 e affidò la memoria di quegli anni a studi e disegni poi confluiti in due album, che complessivamente riuniscono oltre 150 opere e sono oggi conservati presso il Kupferstichkabinett di Berlino, che li acquisí nel 1886 e nel 1892. Da allora, le due raccolte non sono mai state esposte nella loro interezza e la mostra in programma al Kulturforum è dunque un’occasione da non perdere per ammirare vedute panoramiche e vedute della città, cosí come studi di rovine e sculture. Per motivi di conservazione, la rilegatura del

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MEDIOEVO


cosiddetto primo album romano, rinnovata negli anni Ottanta, è stata aperta, cosí che 66 pagine del taccuino con le loro 130 pagine disegnate sul recto e sul verso possono essere mostrate al pubblico per la prima volta. Il secondo album, contenente solo venti fogli di Van Heemskerck, viene invece esposto in forma rilegata e le pagine potranno essere sfogliate. info www.biblhertz.it, www.smb.museum TORINO TRAD U/I ZIONI D’EURASIA MAO Museo d’Arte Orientale fino al 1° settembre

Oggetto della mostra, terzo esito del ciclo espositivo «Frontiere liquide e mondi in connessione», sono i concetti di traduzione, trasposizione e interpretazione culturale, illustrati attraverso oggetti provenienti dall’Asia occidentale, centrale e orientale che permettono di interrogarsi su fenomeni quali la circolazione materiale e immateriale, le modalità di trasformazione del significato e la fruizione avvenute tra Asia ed Europa nel corso di duemila anni di storia. Fra i materiali riuniti per l’occasione si possono ammirare splendide sete della Sogdiana, ceramiche bianche e blu prodotte tra il Golfo Persico e la Cina, una raffinata selezione di «panni tartarici» – preziose stoffe d’oro e di seta del XIII secolo prodotte tra Iran e Cina durante la dominazione mongola, ammirate dall’aristocrazia medievale e dall’alto clero d’Europa –, rari esemplari di tiraz (Egitto, X

secolo), tessuti con iscrizioni ricamate che evidenziano l’importanza della calligrafia in ambito islamico, nonché una serie di bruciaprofumi zoomorfi in metallo (Iran, IX-XIII secolo), a ribadire la centralità delle essenze nelle società islamiche medievali. info tel. 011 5211788; www.maotorino.it FIRENZE PULCHERRIMA TESTIMONIA. TESORI NASCOSTI NELL’ARCIDIOCESI DI FIRENZE Basilica di S. Lorenzo, Salone di Donatello fino all’8 settembre

Le oltre duecento opere selezionate per la mostra sono una significativa sintesi dell’immenso patrimonio artistico conservato e custodito nel territorio della diocesi che si estende dalle pendici dell’Appennino toscoemiliano fino a lambire la provincia di Siena. Il progetto espositivo è nato da un importante lavoro di inventariazione e catalogazione avviato nell’ottobre del 2009 che si è concluso dopo dieci anni, nel dicembre del 2019. La ricognizione, che ha portato alla compilazione di oltre 271 000 schede, è stata possibile grazie a una parte dei fondi 8xmille che la diocesi ha destinato a questo scopo. Si possono dunque ammirare autentici capolavori, provenienti dalla città, frutto di ricche committenze, ma anche di oggetti piú semplici, realizzati per piccole parrocchie di campagna. Opere quindi molto diverse fra loro, non solo per qualità artistica, ma anche per

tecniche di esecuzione e materiali utilizzati: dipinti su tavola e su tela, crocifissi, statue, oreficerie, reliquari, arredi e paramenti, tabernacoli, libri e codici, fino a umili rosari. info www.diocesifirenze.it ALESSANDRIA ALESSANDRIA PREZIOSA. UN LABORATORIO INTERNAZIONALE AL TRAMONTO DEL CINQUECENTO Palazzo del Monferrato fino al 6 ottobre

Dopo «Alessandria scolpita» (2019), esposizione dedicata al contesto artistico alessandrino tra Gotico e Rinascimento, questa nuova mostra racconta la civiltà creativa della città piemontese tra Cinque e primo Seicento, focalizzandosi in particolare sulle arti suntuarie, a ridosso dell’avvento del manierismo internazionale negli anni della Controriforma cattolica. «Alessandria preziosa» si articola in sette sezioni composte da circa ottanta

opere, in cui protagoniste sono le sculture in metallo prezioso, evidenziando il ruolo determinante svolto dalle arti suntuarie, dall’oreficeria alla toreutica, dall’arte degli armorari all’intaglio delle pietre dure. L’obiettivo della mostra è duplice: da un lato delineare l’avvento del manierismo internazionale foriero di un nuovo senso della realtà e della forma, attraverso una selezione di oreficerie e oggetti in metallo, ma anche dipinti su tela e tavola e sculture in legno e marmo che meglio dialogano con le arti preziose; il secondo focus del progetto è quello di mostrare e dimostrare come l’attuale territorio della provincia di Alessandria fosse luogo di convergenza di forze e culture diverse, che non sfiguravano al confronto di altre piú gloriose città padane, ma anzi rappresentava una felice eccezione, in cui influenze nordiche si misuravano con quelle provenienti da Firenze e Roma. Alessandria e il suo

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AGENDA DEL MESE territorio fungevano da cerniera tra Milano e Pavia da un lato e Genova dall’altro, mentre proprio alle porte della città era sorto il convento di Santa Croce a Bosco Marengo, voluto da papa Pio V, che racchiudeva in sé il clima artistico di provenienza tosco-romana. info e prenotazioni e-mail: info@palazzomonferrato.it; www.palazzomonferrato.it

centro di produzione di oggetti d’oreficeria e prima Hugo d’Oignies, e poi il suo laboratorio, sviluppano un’arte in costante evoluzione, come emerge dalla mostra. info musee-moyenage.fr TOLOSA «CATARI». TOLOSA ALLA CROCIATA Musée Saint-Raymond e Convento dei Giacobini fino al 5 gennaio 2025 (dal 5 aprile)

PARIGI IL MERAVIGLIOSO TESORO DI OIGNIES: BAGLIORI DEL XIII SECOLO Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge fino al 20 ottobre

Una delle sette meraviglie del Belgio, il Tesoro di Oignies, viene per la prima volta concesso in prestito quasi integralmente dal Musée des Arts Anciens du Namurois di Namur e approda a Parigi. Della trentina di pezzi giunti in Francia fanno parte oreficerie – per lo piú reliquiari, come quelli del latte della Vergine e della costola di san Pietro – e una selezione di tessuti. La mostra ripercorre la storia del priorato di Saint-Nicolas d’Oignies, una comunità di canonici agostiniani fondata alla fine del XII secolo, intorno a tre figure centrali: Maria d’Oignies (1177-1213), Jacques de Vitry (11851240) e il talentuoso orafo Hugues de Walcourt, detto Hugo d’Oignies († 1240 circa). Le sue creazioni e quelle del suo laboratorio, riconoscibili per l’abbondanza di nielli, filigrane, motivi naturalistici e di caccia, costituiscono una testimonianza virtuosa del lavoro sui metalli preziosi. Alcuni anni dopo la fondazione del priorato, la mistica Maria d’Oignies vi si stabilisce e piú d’una delle

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opere esposte evoca il destino di quella che è stata dichiarata beata poco dopo la sua morte e che è ancora venerata oggi. Nello stesso periodo, Jacques de Vitry, brillante predicatore e per un certo tempo vescovo di Acri, in Terra Santa, diventa il principale mecenate del priorato e fornisce reliquie e materiali preziosi. Il suo sostegno permette al priorato di diventare un importante

Il catarismo ha da tempo ampiamente superato i confini della Francia per diventare un vero e proprio fenomeno internazionale. Al quale Tolosa dedica un’esposizione di grande respiro, distribuita in due sedi: il Musée SaintRaymond e il convento dei Giacobini. I catari, la crociata, i castelli, l’Inquisizione, i roghi... sono molti i termini e le immagini associati alla crociata contro gli Albigesi (1209-1229), un episodio

che, a Tolosa e in Occitania, ha tinto di nero buona parte della storia del XIII secolo: sconfitto dai crociati provenienti dal Nord, il Midi avrebbe perso la sua anima e la sua indipendenza a vantaggio dei re di Francia. Il progetto espositivo si sofferma da un lato sugli eventi e sui colpi di scena che hanno caratterizzato la crociata contro gli Albigesi, intorno a figure emblematiche come Simone di Montfort, e dall’altro, sulla questione dell’eresia catara, senza trascurare i dibattiti che tuttora animano la comunità degli storici. Una ricostruzione che si avvale di oltre 300 oggetti, tra i quali spiccano il manoscritto della Canzone della crociata albigese (Canso de la Crozada) e il Trattato di Parigi che, nel 1229, sancí la sottomissione dei conti di Tolosa alla corona capetingia. info info saintraymond.toulouse.fr, jacobins.toulouse.fr

APPUNTAMENTI • Luce sull’archeologia. X edizione Roma – Teatro Argentina 14 aprile info www.teatrodiroma.net

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i conclude domenica 14 aprile la decima edizione di «Luce sull’Archeologia» la rassegna di storia e arte ospitata dal Teatro Argentina di Roma che quest’anno ha avuto come tema «La “villeggiatura” nell’antica Roma: l’otium come sentimento sublime di bellezza ed esperienza di civiltà». Un tema che ha permesso di approfondire il rapporto dei Romani con la terra e la natura, quando, alla fine dell’età repubblicana, ragioni storico-politiche e culturali determinano la trasformazione della mentalità e del costume delle élites, che prediligono sempre piú una vita lontano dalla città e dal centro del potere. «Luce sull’Archeologia» è un progetto del Teatro di Roma a cura di Catia Fauci, in collaborazione con la Direzione generale Musei del Ministero della Cultura, con il contributo dell’Istituto Nazionale di Studi Romani, di «Archeo» e della società Dialogues Raccontare L’arte, arricchito dagli interventi di storia dell’arte di Claudio Strinati e dalle Anteprime del passato di Andreas M. Steiner. L’edizione 2024 ha aggiunto agli incontri un nuovo contributo per una prospettiva multifocale, dal titolo «La parola oltre il sipario», un momento di riflessione e approfondimento del tema da un punto di vista letterario, teatrale, giornalistico e con rimandi al tempo presente. Questi gli interventi che chiuderanno la manifestazione: Giuliana Calcani, Università di Roma Tre, Immagini dell’otium. Tra realtà e ricerca della perfezione; Monica Salvadori, Università di Padova, L’otium e l’arte di vivere nelle case romane; Paolo Di Paolo, scrittore, Il tempo pieno e vuoto del teatro. aprile

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TO I OS R SC RA NA E O IN V T E IO I I ED V M O

PARTE I: ITALIA CENTRO-SETTENTRIONALE

A

MEDIOEVO NASCOSTO. I NUOVI ITINERARI.

LUOGHI · STORIE · ITINERARI

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MEDIOEVO NASCOSTO NASCOSTO LUOGHI ♦ STORIE ♦ ITINERARI PARTE I: ITALIA CENTRO-SETTENTRIONALE

N°61 Marzo/Aprile 2024 Rivista Bimestrale

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PARTE I ITALIA CENTRO-SETTENTRIONALE

ll’ombra dei grandi monumenti medievali italiani, dei celeberrimi gioielli delle città d’arte conosciuti in tutto il mondo, la nostra Penisola ospita uno straordinario e infinito patrimonio architettonico e artistico, talora definito, a torto, «minore». Centinaia, migliaia di borghi e interi quartieri cittadini, pievi e abbazie, castelli e fortificazioni compongono il «Medioevo nascosto» a cui è dedicata la nuova edizione del Dossier di «Medioevo», realizzata a oltre dieci anni dalla prima rassegna sull’argomento: una rassegna di monumenti probabilmente meno noti e inseriti in contesti paesaggistici che ne esaltano la suggestione e il fascino. A guidare la redazione dell’opera non è stata soltanto la volontà di valorizzare questi beni, ma anche l’auspicio che, scorrendo le pagine del Dossier, nasca il desiderio di vederli da vicino. Il viaggio si snoda attraverso le regioni del Settentrione e del Centro del Paese, dalla Valle d’Aosta all’Umbria e, naturalmente, al resto d’Italia sarà riservata la seconda parte del progetto. Qui, dunque, ci si muove dai castelli sorti lungo l’arco alpino agli insediamenti sviluppatisi nell’area padana, dalle rocche che punteggiano gli Appennini ai borghi della Maremma tosco-laziale... Un palinsesto di eccezionale ricchezza, le cui storie raccontano di ignoti cavalieri, mercanti, contadini, che però hanno spesso intrecciato le loro esistenze con le gesta di molti celebri protagonisti del Medioevo italiano ed europeo, come il re longobardo Desiderio o come san Colombano, il grande evangelizzatore irlandese. Storie avvincenti, che attendono solo di essere lette...

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IN EDICOLA IL 22 MARZO 2024

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Una veduta del borgo di Castell’Arquato (Piacenza), che conserva una evidente impronta architettonica medievale.



storie la monetazione

Quando la storia batte di Alessandro Bedini

moneta

Dopo la caduta dell’impero romano e il disfacimento di un sistema economico imposto su gran parte del mondo allora conosciuto, nuove scelte si succedono per rispondere a una necessità fondamentale: quella di stabilire il controvalore dei beni da vendere o scambiare

Il denaro lucchese Tra le zecche piú importanti create nella penisola italica, figura quella di Lucca, città che, nel VI secolo, con la conquista longobarda, divenne la capitale del ducato di Tuscia. Nel corso dei dodici secoli in cui rimase attiva, furono battuti circa 2000 tipi di monete. La zecca lucchese iniziò la sua attività intorno alla metà del VII secolo. Le prime monete prodotte furono i tremissi d’oro. Con l’avvento dei Franchi, la moneta d’oro scomparve progressivamente, per essere sostituita dal denaro in argento. Tuttavia, la zecca di Lucca rimase attiva anche sotto i Carolingi e Ottone I la confermò a sua volta. Il denaro lucchese circolava prevalentemente nell’Italia centrale considerata stabile e affidabile, ma con l’andar del tempo, grazie anche allo sviluppo economico e commerciale della città, il taglio lucchese si affermò anche oltre i confini della penisola italica.

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ra il V e il X secolo, l’Europa visse un periodo difficile: quelle che siamo soliti definire «invasioni barbariche», ovvero l’affermarsi di popoli d’origine germanica in seguito al collasso dell’impero romano – almeno quello d’Occidente –, avevano determinato mutamenti profondi e un diffuso peggioramento delle condizioni di vita. Sul sistema socio-economico dell’epoca ebbero un impatto fortemente negativo la crisi demografica, dovuta anche alle epidemie – drammatica fu quella verificatasi nel VI secolo, detta «peste di Giustiniano», dal nome dell’imperatore –, l’impoverimento conseguente alla riduzione dei terreni agricoli, il deterioramento delle vie di comunicazione, la drastica riduzione degli spazi urbani, associato ai conflitti sempre presenti nell’area euro-occidentale.

L’affermarsi del feudalesimo, a discapito delle città che erano state centri propulsori, con la conseguente

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Mosaico raffigurante l’imperatore Giustiniano e il suo seguito. 540-547. Ravenna, basilica di S. Vitale. Nella pagina accanto, in basso tremisse aureo battuto a Lucca al tempo del re Desiderio. 757-773.

comparsa della servitú da parte dei contadini nei confronti del signore, favorirono, di fatto, l’instaurazione di un’economia non piú fondata sulla moneta, bensí sul pagamento in natura. Segno evidente di una drastica riduzione degli scambi commerciali e della comparsa di un’economia autarchica. Si smise di coniare monete di piccolo taglio, in argento e in bronzo, cioè quelle che servivano per gli scambi di valore modesto e le spese quotidiane; e solo alcuni sovrani germanici continuarono a battere moneta, che però serviva soltanto per acquistare merci di pregio, spesso provenienti dall’Oriente, dirette a una clientela elitaria.

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In genere, i Germani non coniavano monete nell’epoca che definiamo per convenzione Alto Medioevo, sebbene utilizzassero sovente quelle già circolanti nell’area dell’impero romano. Una volta stabilitisi nella pars occidentis dei territori assoggettati da Roma, lasciarono che le monete circolassero sotto il loro controllo, come monete imperiali, ossia con l’effigie dell’imperatore all’epoca regnante e, dopo il 476, con quella del basileus d’Oriente. La questione è di natura politica: i sovrani germanici, in realtà, erano assai restii a percepire se stessi come capi di uno Stato o, meglio, di una nazione, in quanto, per la maggior parte, erano stati in effetti al servizio dell’impero e, almeno formalmente, governavano in nome dell’imperatore. Non a caso, nel 476, Odoacre, re degli Eruli, ma anche patricius dei Romani, inviò le insegne imperiali a Zenone, che regnava a Bisanzio. Tanto che sulle monete battute dalle varie zecche che si erano andate costituendo, sempre in nome degli imperatori, compariva soltanto il monogramma del sovrano germanico allora regnante. Soltanto nel corso del VI secolo i re vandali iniziarono a inserire il loro nome completo sulle monete. Teodorico I, figlio di Clodoveo, decise di fare apporre sulla moneta d’argento il proprio nome per esteso. È uno dei tasselli che ci fanno comprendere quanto la storia economico-monetaria sia figlia della condizione politica e anche culturale, nei secoli dell’età di Mezzo.

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Nonostante la crisi che, come abbiamo detto, ha caratterizzato l’Europa tra V e X/XI secolo, sia sotto il profilo economico che simbolico, il metallo per eccellenza rimaneva l’oro. Vi era un aspetto sacrale legato al nobile metallo e poter battere moneta aurea era sinonimo di prestigio e anche di potere. Non solo una questione strettamente economica, dunque. Tuttavia, la moneta aurea era utilizzata solo per transazioni particolarmente importanti, per donazioni o per scopi fiscali. Quella che potremmo definire «economia povera» non utilizzava questo tipo di moneta, ovvero il solidus, che conteneva 4,48 grammi d’oro, il semis, che corrispondeva a mezzo solidus, e il triens, eguale a un quarto di solidus.

Un simbolo di autonomia

Secondo la testimonianza di Procopio di Cesarea, storico nonché generale bizantino, fu il re merovingio Teodoberto I, che regnava sull’Austrasia, a decidere di battere monete auree, allo scopo di affermare la propria autonomia rispetto all’impero d’Oriente, anche in ragione del fatto che Giustiniano, intorno al 576, giunse in Occidente con le sue armate che furono sconfitte nell’anno seguente. La moneta aurea, tuttavia, non portò alla scomparsa degli antecedenti pezzi romani, che continuarono a circolare a lungo nel Mediterraneo occidentale, in particolare in Spagna. aprile

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A sinistra, sulle due pagine Verona, basilica di S. Zeno. Due riquadri scolpiti a rilievi ai lati del protiro della chiesa raffiguranti il duello fra Odoacre e Teodorico (sulla sinistra) e un combattimento tra fanti. XII sec.

A destra moneta in argento al nome di Carlo I (CARLVS I REX FR), cioè Carlo Magno. Agen, 780-800.

Caratteristiche dell’economia monetaria altomedievale sono inoltre la varietà delle monete e la frammentazione delle zecche e del sistema di coniazione. Quest’ultimo non era, almeno in Occidente, monopolio dello Stato, come avveniva invece nell’impero romano , ma monete differenti venivano battute in diversi territori e spesso riportavano sull’effigie il nome del monetiere anziché quello del sovrano. È il caso dei territori dominati dai Merovingi. Alcune monete venivano battute nel palazzo reale, altre in nome di un vescovo o di una chiesa, magari particolarmente importante, altre ancora venivano coniate in occasione delle sedute dei tribunali. La presenza di zecche era insomma molto diffusa, cosí come elevato era il numero dei monetieri. La stessa cosa accadeva sia nei

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reami longobardi, sia in Gran Bretagna. Una simile situazione, che come possiamo notare appare abbastanza caotica, può essere imputata all’indebolimento del potere regale. Possiamo infatti notare che, laddove il potere monarchico è piú forte, si tende a ripristinare il monopolio statale sulle coniazioni monetarie. Il contrario avviene dove la frammentazione feudale ha maggior peso nell’ambito sociale e politico.

Una punizione esemplare

Un esempio significativo è quello del re longobardo Rotari – come suggerisce Carlo Maria Cipolla – il quale emana una legge nella quale si legge testualmente: «Se qualcuno ha posto un effige su dell’oro o battuto moneta senza l’ordine del re, abbia la mano tagliata». Può apparire paradossale che comunque sia, nonostante il frazionamento delle zecche, l’idea di una moneta di Stato rimanga come una costante o, perlomeno, come un’aspirazione. Il motivo principale di tale frazionamento, era che la moneta circolava poco e dunque a ogni comunità che interagiva con il mercato locale, necessitava una propria zecca. I metalli con cui veniva battuta la moneta erano tre: rame o bronzo, argento e oro. Il rame veniva utilizzato nei territori in cui l’economia era piú stabile. Nel primo periodo delle invasioni germaniche, l’oro veniva utilizzato ancora per battere moneta; il prezioso metallo scomparve solo in seguito, durante l’epoca carolingia, soppiantato dall’argento. Soltanto nella Sicilia normanna e in Castiglia, territori strappati ai musulmani, si continuava a coniare moneta aurea; nel caso dell’Italia meridionale, il famoso augustale aureo di Federico II (vedi box a p. 32). I valori dell’oro restarono quelli già presenti nell’impero romano. A riprova di quanto l’idea di una monetazione di Stato sia rimasta viva, vi è l’esempio della riforma carolingia. I sovrani carolingi stabiliranno infatti che la coniazione della moneta doveva appartenere esclusivamente al potere pubblico. Come abbiamo già osservato, con tale riforma cesserà la coniazione in oro. Il denarius novus, voluto da Carlo Magno, conterrà 1 grammo e mezzo d’argento. Verrà inoltre ridotto il numero delle zecche, attentamente sorve-

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storie la monetazione Oro zecchino per lo Stupor mundi Durante il regno di Federico II, le zecche piú importanti furono quelle di Amalfi e di Brindisi. Nella prima venivano coniate monete d’oro, i tarí, nome che in arabo significa «fresco»; nella seconda, oltre a quelle d’oro, si coniavano monete di mistura, ovvero realizzate con un componente di altro metallo. In Sicilia furono fondate la zecca di Messina e quella di Palermo, che coniavano in oro. All’indomani della pace di San Germano, sottoscritta da Federico II e papa Gregorio IX, nel 1230, l’imperatore fece coniare una moneta in oro, detta augustale, del peso di 5,25 grammi: lo scopo era quello di mettere in rapporto l’imperatore svevo con Cesare Augusto. Sul rovescio della moneta si legge infatti l’iscrizione: Caesar Augustus Imperator Romanorum. A sinistra augustale di Federico II. 1231-1250. Cambridge, Fitzwilliam Museum. In basso solido aureo di Teodoberto I, re d’Austrasia, figlio di Teodorico. Mayence, 534 circa.

gliate dai conti quali fiduciari del re. Questo sistema di controllo, tuttavia, non resse a lungo; ben presto i conti e anche alcuni vescovi cui era stato consentito di battere moneta, finirono per sostituire il potere regio in fatto di monetazione. Addirittura alcuni conti facevano incidere il loro nome sulle monete per sottolineare il loro prestigio, oltre al controllo su un determinato territorio.

Solo un’aspirazione

Il frazionamento politico finí insomma per influire in modo diretto su quello economico sociale e di conseguenza sul sistema monetario. L’idea di uno Stato che controlla l’economia monetaria, rimase un’aspirazione, ma niente di piú. È una delle caratteristiche dell’epoca medievale, soprattutto dell’Alto Medioevo, un fenomeno che ci permette di comprendere piú da vicino le dinamiche socio-politiche di quel periodo: la divisione dei poteri, i differenti tipi di economia, il sistema degli scambi nell’area occidentale ed euromediterranea. Come abbiamo visto, venuta meno la coniazione in oro, fa il suo ingresso sulla scena il soldo, valutato come l’equivalente di dodici denari d’argento. Al fine di calcolare cifre piú consi-

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stenti però, si puntò a una sorta di semplificazione, voluta dallo stesso Carlo Magno, che consistette nel dover «tagliare» 240 denari per una libbra. Fu quindi stabilito che 240 denari equivalevano a una libbra o lira, secondo questa tabella: 240 denari uguale 20 soldi uguale 1 lira. «Questo sistema – ha osservato Marc Bloch – era comodo soprattutto per uomini che non conoscevano lo zero e contavano ancora in cifre romane». Accanto alle monete intese tradizionalmente, si andarono sviluppando, sempre nell’Alto Medioevo, le cosiddette monete non metalliche, ovvero una serie di beni materiali che corrispondevano, grosso modo, alla moneta stessa. Presso i Germani, laddove il metallo scarseggiava, per esempio, un bue cornuto sano equivaleva a due soldi. Anche la stoffa divenne un bene di scambio, per esempio per i Frisoni, ma, a partire dal X secolo e fino al XIV, in Europa la moneta non metallica per eccellenza sarà il pepe, che si utilizzava addirittura per i prestiti: a Venezia c’erano persino i «messeri del pepe», che si incaricavano di stabilire le quotazioni di questa preziosa spezia tramite bollettini giornalieri. aprile

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Il medaglione aureo di Morro d’Alba, consistente in una moneta da tre solidi di re Teodorico rinvenuta nel 1894 in una tomba presso Senigallia. Roma, Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo.

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In alto miniatura raffigurante la raccolta del pepe a Coilun (Quilon, nel Kerala, India), da un manoscritto del Devisement du monde o Livre des Merveilles, versione francese del Milione di Marco Polo, illustrato dal Maestro della Mazarine. 1410-1412 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France. A sinistra e in basso le due facce di un grosso veneziano in argento, battuto dalla zecca della città lagunare al tempo del doge Francesco Dandolo. 1337-1339.

L’Europa dell’XI-XII secolo, come sappiamo, conobbe un periodo di grande espansione e di profonde trasformazioni sul piano socio-politico ed economico. Incremento demografico, miglioramento climatico, aumento delle terre coltivabili – che permettevano un migliore sistema alimentare –, urbanizzazione, con la nascita dei comuni – almeno in alcune importanti aree del continente europeo –, comportarono cambiamenti significativi riguardo il sistema economico-monetario, dovuti soprattutto all’aumento del volume degli scambi commerciali. Il baratto, che spesso sostituiva la moneta, scomparve quasi del tutto e il vecchio denarius non era piú adatto a un’economia di scambio cosí sviluppata. A

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quel punto diversi comuni decisero di dotarsi di monete piú forti rispetto al vecchio denaro.

Nuove emissioni

Nel 1172 Genova coniò una moneta d’argento, chiamata grosso, che equivaleva a 4 denari. Qualcosa di simile accadde anche a Firenze e a Roma. Dal canto suo Venezia, al centro degli scambi con il mondo orientale, ebbe la necessità di coniare una moneta che corrispondesse al valore di 24 denari l’albulus o blanco, in argento. Sulla scia dell’espansione economica dell’Europa occidentale, si ricominciò a battere la moneta d’oro: il genovino a Genova, nel 1252, a imitazione del tarí arabo, il fiorino a Firenze, con

L’Occidente perde il suo primato Alla fine del VII secolo, con l’affermarsi dell’Islam nel Mediterraneo, anche la monetazione risentí di questo nuovo assetto «geopolitico». Le due monete usate per gli scambi internazionali, furono il nomisma bizantino e il dinar, arabo-musulmano, che spezzò il monopolio della moneta di Bisanzio, pur senza estrometterla dai circuiti commerciali mediterranei. La debolezza economica e politica dell’Occidente lo relegò in un ruolo subalterno rispetto al sistema monetario mediterraneo. Solo verso la fine dell’XI secolo e nel successivo, comparvero le monete d’argento coniate nelle zecche italiane e non soltanto: i grossi, che si affiancarono al nomisma e al dinar con funzione di monete internazionali nell’area mediterranea. A destra, in alto grosso da 6 denari della Repubblica di Genova. 1139-1339. Qui accanto il tesoro dell’avinguda Constitució, cosí chiamato dal luogo del suo ritrovamento, a Valencia. Si compone di 1543 monete d’età islamica (fra cui 19 dinari in oro). XI sec. Valencia, Museu d’Història de València.

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storie la monetazione La Torre della Zecca di Firenze. Alta 25 m, sorse fra il 1320 e il 1324 con un ruolo difensivo importante, essendo la torre piú a est della seconda cerchia muraria comunale cittadina, con una vista privilegiata a protezione dell’Arno. La struttura è quanto rimane del complesso della zecca, da cui prende il nome: nei locali sottostanti l’acqua azionava i magli utilizzati per coniare le monete fiorentine e, in particolare, il fiorino d’oro. A sinistra pagine del Fiorinaio, denominazione attribuita al «Libro della Zecca» di Firenze, istituito per volere di Giovanni Villani dal 1317. Firenze, Archivio di Stato. Nella pagina accanto fiorino largo di Firenze, coniato nel 1437.Presenta al dritto il giglio e san Giovanni Battista che regge lo stemma dei Canigiani al rovescio.

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Nel segno del giglio

Da leggere Carlo Maria Cipolla, Moneta e civiltà mediterranea, il Mulino, Bologna 2020 Carlo Maria Cipolla, Le avventure della lira, il Mulino, Bologna 2012 Marc Bloch, Lineamenti di una storia monetaria d’Europa, Einaudi, Torino 1981

l’oro a 24 carati, 3,5 grammi del prezioso metallo piú o meno nello stesso periodo, il ducato a Venezia nel 1284, simile al fiorino fiorentino. È la cartina di tornasole di un’economia solida, espansiva, di ampio respiro. Prima ancora della coniazione in oro, a Venezia fu battuto il grosso veneziano, in argento, unica moneta di scambio con l’Oriente. Se specialmente nella seconda parte del Medioevo, la moneta d’oro d’argento poteva circolare in Europa, a prescindere dalla nazionalità del conio, diverso era per la moneta piccola, in bassa lega d’argento o in rame. Questa circolava solo negli Stati che l’avevano emessa. Si prenda l’esempio del soli-

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Il fiorino d’oro venne coniato nel 1252 a Firenze, grazie al podestà di origine bresciana, Filippo Ugoni, che successe a Uberto da Mandello. Il fiorino pesava 3,5 grammi di oro puro a 24 carati. La coniazione avveniva nei locali di Ponte Vecchio e poi nella Torre della Zecca, alta 25 m, che oggi si trova in piazza Piave, nei pressi del Lungarno della Zecca Vecchia. Sul dritto vi era impresso il giglio e la denominazione del pezzo deriva appunto dal fior di giglio, simbolo di Firenze; la coniatura avveniva tramite i magli azionati dalla forza dell’acqua, prima quella dell’Arno, nei pressi del Ponte Vecchio e poi del torrente Scheraggio, vicino alla Torre della Zecca.

dus aureo coniato a Bisanzio: era accettato in tutto il mondo conosciuto. Cosí come il nomisma, i dinar arabo e il dirham persiano. Erano queste insomma le monete internazionali. Come abbiamo visto, solo nel XIII-XIV secolo la moneta fiorentina iniziò il cammino che la porterà a prevalere in tutta l’area mediterranea. È ancora Carlo Maria Cipolla a sottolineare quanto il sistema monetario fosse collegato ai fattori di espansione politico-economica dei diversi Stati o imperi: «Alto valore unitario, stabilità intrinseca, supporto di una economia forte, sana e al tempo stesso predominante nel sistema degli scambi internazionali, questi – osserva lo studioso – sembrano essere stati i tre fondamentali elementi della formula che fece la fortuna dei dollari del medioevo».

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Un luogo per pregare e

commerciare

Dopo oltre un anno di intensi lavori, riapre le sue porte al pubblico il fiorentino Complesso di Orsanmichele, monumento unico e straordinario, in cui si suggellano funzioni civili e religiose 38

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l completo rinnovamento del Complesso di Orsanmichele, il restauro e il riallestimento dei ben 1800 metri quadri di superficie di questo venerando e storico museo fiorentino, è stato commissionato dai Musei del Bargello. L’iniziativa nasce dall’esigenza di ripensare il rapporto statua-spettatore secondo il punto di vista di antichi maestri – Donatello in primis –, che nell’ideazione delle statue tenevano in conto la collocazione finale,

in questo caso la serie di nicchie sopraelevate a due metri di altezza dal suolo, per cui le opere hanno appositi accorgimenti prospettici. In quest’ottica, il riposizionamento delle tredici statue monumentali – per cui si sono rese necessarie complesse operazioni di movimentazione – ha tenuto conto dell’originaria disposizione nel ridisegnare le antiche geometrie delle opere centrate sui moderni fondali, e ripristinare le relazioni spaziaaprile

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Veduta esterna del complesso fiorentino di Orsanmichele. Nella pagina accanto replica ottocentesca della Veduta della Catena, realizzata da Francesco di Lorenzo Rosselli. 1472 circa. Firenze, Palazzo Vecchio. Nel riquadro, l’Orsanmichele.

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li un tempo esistenti tra le figure dei gruppi scultorei come i Quattro Santi Coronati di Nanni di Banco o l’Incredulità del Verrocchio. Particolarmente suggestive sono le statue posizionate in diagonale sugli angoli delle pedane, come il San Luca del Giambologna o il San Matteo di Ghiberti, che sembrano affacciarsi oltre il profilo degli schienali, guardando lo spettatore, e sporgendo le possenti braccia nell’atto di sorreggere i libri. A una differente altezza riacquistano solennità anche le statue piú rigidamente frontali, come il San Giacomo Maggiore di Niccolò Lamberti o il Santo Stefano di Ghiberti, il cui sguardo apparentemente spento si rianima se proiettato in lontananza. E si tornano ad apprezzare anche particolari rimasti a lungo in ombra come i bellissimi calzari ai piedi del gruppo verrocchiesco dell’Incredulità di San Tommaso (vedi nelle foto a destra e a p. 46).

In alto l’altana al secondo piano del Museo di Orsanmichele. A destra, sulle due pagine la sala del Museo di Orsanmichele. Da sinistra, il San Giovanni Battista (1414-1416 circa) di Lorenzo Ghiberti, l’Incredulità di san Tommaso (1466-1483) di Andrea del Verrocchio e il San Luca (1602 circa) del Giambologna.

I restauri

La temporanea chiusura del Complesso di Orsanmichele ha consentito, inoltre, di intraprendere una consistente serie di operazioni di restauro e manutenzione straordinaria delle sculture, dei dipinti

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murali, dei paramenti lapidei della chiesa e di alcune delle celebri statue conservate al Museo, oltre alla realizzazione dei supporti per la messa in sicurezza delle opere, interventi questi diretti da Benedetta Matucci funzionaria storica dell’arte e responsabile del Complesso di Orsanmichele con Benedetta Cantini, funzionaria restauratrice dei Musei del Bargello. In chiesa, dove i restauri sono stati condotti con attenta dedizione da Bartolomeo Ciccone, Gabriela Simoni e Muriel Vervat, è stato possibile procedere a una spolveratura integrale del tabernacolo dell’Orcagna (a distanza di cinque anni dal precedente intervento di manutenzione straordinaria; vedi a p. 45) come anche dell’altare con il gruppo della Vergine con Bambino e Sant’Anna di Francesco da Sangallo (vedi alle pp. 48-49), e della tavo-

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la di Bernardo Daddi, sottoposta quest’ultima a un controllo metodico dello stato conservativo. Nella parte absidale della chiesa si è proceduto al restauro di gran parte delle pareti, grazie alla pulitura dei colonnini alla base delle grandi trifore e al ripristino degli intonaci di tamponatura; inoltre, grazie alla rimozione della vecchia sagrestia addossata alla parete nord-est, sostituita oggi da una nuova struttura ad armadio staccata dal muro, sono tornate visibili alcune porzioni degli affreschi raffiguranti San Domenico e San Francesco, sulle quali è stato necessario intervenire con un restauro.

Il recupero delle pitture

Sempre nella zona absidale sono stati poi restaurati tutti i basamenti dei sei pilastri delle campate che risultavano alquanto sporchi a

causa di consistenti macchie e tracce di materiali cerosi, stratificatisi nel corso del tempo. Un recupero significativo è stato quello delle pitture delle facce di tre pilastri, raffiguranti San Giovanni Evangelista, San Barnaba e San Pietro, posizionati nelle campate nord-est e sud-est, il cui stato conservativo risultava alquanto degradato a causa di gravi distacchi degli intonaci, sollevamenti e disgregazione della pellicola pittorica. L’intervento di pulitura, e di ritocco pittorico a velatura, e a neutro (laddove non era possibile integrare la pittura), ha restituito unitarietà al ciclo pittorico, in particolare al brano con la figura di san Barnaba. È stata infine condotta una integrale campagna di monitoraggio e manutenzione delle volte: già cinque anni fa tutti gli affreschi del soffitto furono monitorati per aprile

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San Marco Evangelista, statua in marmo bianco di Carrara di Donatello. 1413 circa. Nella pagina accanto un’altra immagine della sala del Museo di Orsanmichele dedicata alla scultura.

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musei firenze Orsanmichele

Dodici secoli di storia straordinaria

Un’altra immagine del Complesso di Orsanmichele.

Nel IX secolo, nell’area del Complesso di Orsanmichele si trovava un oratorio dedicato a san Michele circondato da un giardino, da cui il nome S. Michele in Orto o Orsanmichele. Dopo essere stato a lungo un convento benedettino, all’inizio del Duecento diviene la sede cittadina del mercato del grano. Nel 1284, Arnolfo di Cambio vi costruisce una grande loggia adibita al commercio, che cresce d’importanza nel 1290, quando al suo interno viene affrescata un’immagine della Madonna. La cosiddetta «Vergine del Grano» si rivela foriera di miracoli e presto si costituisce una confraternita che ne diffonde il culto. Da quel momento inizia la doppia vita di Orsanmichele: luogo di commercio e di preghiera. A causa di un incendio, all’inizio del 1300, la struttura viene restaurata e ripensata, ma sempre tenendo conto della doppia funzione. È il 1337 quando si avvia il nuovo cantiere in cui prende forma la meravigliosa struttura che ancora oggi possiamo ammirare. Una delle caratteristiche che ha reso immortale la bellezza di Orsanmichele è la presenza delle 14 nicchie sulle sue facciate, ciascuna «abitata» dalla statua di uno o piú santi. Volute dalle Arti fiorentine, le nicchie negli anni si popolano di capolavori firmati dai piú importanti artisti del Quattrocento fiorentino; un ciclo di opere che, da solo, racconta un passaggio epocale nella storia dell’arte: dalla scultura tardo-gotica a quella rinascimentale. Nella chiesa, un altro grande artista, Andrea di Cione detto l’Orcagna, dà vita a un maestoso tabernacolo. Un’architettura imponente che, come uno scrigno prezioso, racchiude la Madonna delle Grazie dipinta da Bernardo Daddi. Orsanmichele, che nel XV secolo assumerà la sua definitiva struttura, resta nodale anche per la signoria medicea. Nel 1569 Cosimo I trasforma i piani superiori in un archivio. In questa occasione Bernardo Buontalenti progetta l’arco esterno munito di scala, per l’ingresso diretto all’archivio: struttura che dà al monumento la sua forma definitiva. Nel corso dei secoli, Orsanmichele vede scorrere sotto la sua facciata la storia della città: dalla Signoria al Granducato, fino alla Repubblica italiana, passando per gli anni duri del fascismo e della guerra: un momento, quest’ultimo, molto delicato. Si temono i bombardamenti e le statue vengono spostate dalle nicchie in un luogo sicuro, per poi tornare ai loro posti una volta terminato il conflitto. Nel frattempo, il salone al primo piano diventa la sede dove dare pubblica lettura della Divina Commedia, a cura della Società Dantesca Italiana. E negli anni Sessanta del secolo scorso, in occasione del settimo centenario dalla nascita del Sommo Poeta, arriva il momento di nuovi e strutturali lavori che prevedono, tra le altre cose, la costruzione di una moderna scala di collegamento tra il primo e il secondo piano progettata dallo studio Archizoom. Il secondo piano, parte del percorso museale, offre una splendida vista su Firenze e ospita da decenni le statuine che un tempo ornavano la sommità delle colonne delle trifore esterne. Negli anni Ottanta, per i rischi derivanti dall’inquinamento, le grandi statue vengono tolte dalle nicchie, restaurate, sostituite da copie e trasferite al primo piano del palazzo nella grande sala espositiva che, allestita secondo il progetto di Paola Grifoni, diviene il museo delle sculture di Orsanmichele, aperto al pubblico per la prima volta nel 1996. Nel 2005 la chiesa e il museo vengono affidati per decreto ministeriale alla gestione della Soprintendenza per il Polo Museale Fiorentino. Dal 2015, a seguito della riforma dei musei autonomi, il Complesso di Orsanmichele fa parte dei Musei del Bargello.

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valutarne lo stato conservativo e in quell’occasione si intervenne con numerose iniezioni di malta premiscelata per far riaderire gli strati di intonaco fra loro e alla struttura muraria. Il nuovo intervento ha potuto avvalersi della precedente mappatura per rivalutare lo stato di degrado e la presenza di nuovi distacchi, confermando quanto siano importanti i monitoraggi periodici e gli interventi di manutenzione nell’ambito dei beni culturali. Durante lo svolgimento dei lavori al primo piano del Museo, grazie all’apposita predisposizione di una serie di aree di cantiere, è stato invece possibile intraprendere alcuni interventi di restauro e manutenzione straordinaria di alcuni celebri capolavori qui conservati. La statua del Sant’Eligio di Nanni di Banco, precedentemente restaurata nel 1989, è stata oggetto di una manutenzione straordinaria da parte di Gabriella Tonini, che ha condotto una puntuale e attenta rifinitura della pulitura della superficie lapidea, resa notevolmente disomogenea per la presenza di aloni scuri dovuti ad antichi trattamenti superficiali, e La chiesa di Orsanmichele con la Madonna col Bambino (1347) di Bernardo Daddi incorniciata dal tabernacolo marmoreo (1359) dell’Orcagna.

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musei firenze In basso la replica dell’Incredulità di san Tommaso del Verrocchio collocata nella nicchia che ospitava l’originale del gruppo, ora esposto nel Museo. A destra uno scorcio del Complesso di Orsanmichele, con le nicchie nelle quali sono state collocate le repliche delle statue. Nella pagina accanto il soffitto affrescato della chiesa di Orsanmichele.

maestri scultori

Le statue e lo sguardo dei passanti Nel nuovo allestimento, le 13 statue originali esposte nel Museo, opera dei piú grandi scultori del Rinascimento fiorentino, ovvero Lorenzo Ghiberti (San Giovanni Battista, Santo Stefano e San Matteo), Donatello (San Marco e San Pietro), Nanni di Banco (Sant’Eligio, San Filippo, Quattro Santi Coronati), Andrea del Verrocchio (Incredulità di San Tommaso), Baccio da Montelupo (San Giovanni Evangelista), Giambologna (San Luca), accanto a quelle trecentesche di Piero di Giovanni Tedesco (Madonna della Rosa) e Niccolò di Pietro Lamberti (San Giacomo Maggiore) tornano a interagire con il pubblico, come quando si trovavano nelle nicchie esterne e incrociavano lo sguardo dei passanti per le strade circostanti Orsanmichele.

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ai residui dell’antica «bronzatura» che ha interessato in passato tutte le statue. Grazie all’utilizzo della tecnologia a laser sono stati rimossi i residui della patinatura bronzea sulla mitria e tra i riccioli della barba e dei capelli, valorizzando le tracce di doratura, ancora visibili a occhio nudo. Nell’ambito della convenzione di partenariato pubblico, stipulata nel 2023 tra i Musei del Bargello e l’Opificio delle Pietre Dure per il monitoraggio dello stato conservativo e delle operazioni di disallestimento delle statue in occasione dei lavori del museo di Orsanmichele, si è proceduto alla manutenzione del San Matteo di Lorenzo Ghiberti. L’intervento è stato sapientemente condotto dalle restauratrici del Settore Bronzi e Armi Antiche (Stefania Agnoletti, Maria Baruffetti, Annalena Brini e Elisa Pucci), in un cantie-

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re didattico che ha visto coinvolti anche gli allievi del quarto anno della Scuola di Alta Formazione Studio. Precedentemente restaurato dall’Opificio nel 2005, il monumentale bronzo del Ghiberti è ora stato sottoposto ad attività manutentive inerenti a una revisione della pulitura e della protezione delle superfici di lega di rame e l’inibizione dei cloruri. Si evidenzia come particolarmente rilevante il recupero delle lettere capitali del libro e della sclera degli occhi, il cui decoro ad agemina è tornato perfettamente leggibile grazie all’utilizzo della metodologia laser.

Focolai di corrosione

A distanza di due decenni dal restauro del 2000-2001, si è resa poi necessaria una revisione conservativa dei due bronzi di Santo Stefano di Ghiberti e del San Giovanni Evangelista di Baccio da Montelu-

po, a cura di Nicola Salvioli. È stata condotta una pulitura generalizzata per rimuovere i vecchi protettivi, ormai alterati al punto da non assolvere piú completamente alla loro funzione e che, in particolare in certe zone, offuscavano la piena leggibilità della scultura. È seguito un attento e mirato controllo dei focolai di corrosione attiva sulla superficie, maggiormente localizzati nelle zone piú nascoste del modellato, e una loro conseguente rimozione. Particolare cura è stata dedicata ad attenuare la cromia di certe vecchie patinature di tonalità violacea usate in passato per accordare la superficie, ma che non era conveniente rimuovere. In previsione del riposizionamento dei Quattro Santi Coronati di Nanni di Banco si è infine deciso di restaurare l’antico frontone in marmo di Portovenere, rimasto fratturato in tre parti in seguito

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musei firenze Dove e quando Chiesa e Museo di Orsanmichele Firenze, via dell’Arte della Lana Orario lunedí-sabato, 8,3018,30; domenica, 8,30-13,30 (ultimo accesso in chiesa alle 12,00); chiuso il martedí Info https://bargellomusei.it/ musei/orsanmichele/

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L’interno dell’oratorio intitolato a san Michele in Orto, da cui è stato tratto il nome di Orsanmichele. Nella pagina accanto Madonna col Bambino e Sant’Anna (particolare), gruppo scultoreo in marmo bianco di Francesco da Sangallo. 1526 circa.

La soprintendente Antonella Ranaldi

«Una bellezza a porte aperte» «Durante il periodo di chiusura – racconta la soprintendente Antonella Ranaldi – dalla vetrata su via Calzaioli, turisti e passanti curiosi sbirciavano ammirati verso l’interno dove i restauratori erano impegnati nella spolveratura del grande tabernacolo dell’Orcagna. La chiesa di Orsanmichele si apre e si mostra all’esterno. Grazie alle nuove bussole che permettono di lasciare aperti i grandi portoni, dalle vetrate si potrà vedere l’interno da via dell’Arte della Lana. È un invito a entrare, ma non solo, è un’idea di bellezza accessibile, a porte aperte, valorizzata dalla nuova e riuscita illuminazione interna, che esalta le vetrate colorate, le grandi volte e i capolavori scultorei che la rendono splendida. Una chiesa particolare, molto civica, che nella sua lunga vita ha ospitato funzioni miste, chiesa, granaio, archivio, museo. Ha visto sulla sua pelle, tra Trecento e Quattrocento, artisti ancora impegnati negli stilemi tardo-gotici – che oggi pur ammiriamo stupefatti – superati dal vento di rinnovamento degli artefici del primo Rinascimento fiorentino. Un trapasso tra generazioni vicine. Le grandi statue dei protettori delle Arti di Firenze si sono imposte superbe e maestose, in una gara tra artisti e tra corporazioni delle arti. Nel nuovo allestimento degli studi Map Architetti e Natalini Architetti – continua Ranaldi – le statue sono state rialzate, perché erano state concepite per essere viste dal basso. Si è ricercata la frontalità originaria ponendo dietro ognuna di esse fondali bianchi, creando un percorso che apre a scorci diagonali. Ringrazio per questo e per molto altro Paola D’Agostino, che nei suoi 8 anni di direzione ha fatto tantissimo. E che oggi conclude il suo mandato con l’Orsanmichele che riapre rinnovato con sapienza».

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al trasferimento dell’opera dal tabernacolo al museo nel 2001. Una volta ricollocato il gruppo scultoreo sul nuovo basamento, si è inoltre proceduto a nascondere gli spazi vuoti fra i tre blocchi di marmo, ricomponendo il piano di appoggio delle quattro figure, originariamente colmato in nicchia da una colata di malta. Le parti mancanti sono state ricostruite in resina grazie a un elaborato progetto di Mattia Mercante, che ha acquisito i dati preliminari alla stampa tramite la tecnologia della scansione 3D. Appositi supporti per la messa in sicurezza di una serie sculture sono stati realizzati dalla Fucina Ervas, in collaborazione con i progettisti, tenendo conto di specifiche esigenze di movimentazione e di allestimento, grazie a un avanzato sistema di elementi regolabili e di attacchi. La realizzazione del progetto di Map Architetti e Natalini Architetti affidata, dopo concorso, alla ditta Salvatore Ronga Srl (vedi relazione tecnica e scheda tecnica del progetto) è stata messa in opera da numerose ditte specializzate nei diversi settori: le strutture di sostegno delle sculture progettate dallo studio d’ingegneria Sertec, le opere di allestimento da Opera Laboratori, i vetri da Trait D’Union s.r.l., l’illuminazione da iGuzzini, ideata con la consulenza dello Studio Rossi&Bianchi lighting design, gli impianti da CMA engineering srl, la grafica da Paper Paper, i supporti per statue da Fucina Ervas di Alessandro Ervas, i ponteggi da «D.K. s.r.l.s e Hasa Elvis, le modifiche all’impianto elettrico da S.I.E.M. di Simone Campolmi e Valter Pancrazzi s.n.c., il trattamento ai pavimenti da Stio Emilio. Ad affiancare i direttori dei lavori (Barni e Natalini) e il coordinatore della sicurezza (Marcello Cipriani) sono stati presenti in cantiere il Direttore Operativo Benedetta Matucci, i RUP che si sono avvicendati, Maria Cristina Valenti e Costantino Ceccanti, e lo staff dell’ufficio tecnico dei Musei del Bargello.

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il novelliere di giovanni sercambi/1

Con gli occhi di ser Giovanni di Corrado Occhipinti Confalonieri

Adottando uno schema affine a quello del Decameron, Giovanni Sercambi ci ha lasciato una raccolta di novelle che si offre come vivido specchio della società italiana del tardo Trecento. Anche in questo caso, infatti, le invenzioni letterarie corrono di pari passo con notazioni moraleggianti, ammonimenti e pungenti ironie sulle debolezze umane

I I

l Novelliere di Giovanni Sercambi (1348-1424) è una sorta di proseguimento ideale del Decameron di Giovanni Boccaccio (1313-1375), come già nel caso del Trecentonovelle di Franco Sacchetti (1332-1400), componimenti, questi ultimi, ai quali sono state dedicate altrettante serie a puntate. Del Trecentonovelle il Novelliere ha condiviso anche la sorte: è stato infatti scoperto solo negli ultimi decenni del secolo scorso, sia perché se ne possedeva solo una copia cartacea risalente alla fine del Quattrocento – conservata alla Biblioteca Trivulziana di Milano – che è rimasta a lungo non consultabile per volontà dei proprietari, sia per una certa diffidenza della critica letteraria dell’Ottocento verso questi emuli del Boccaccio. La raccolta organica dell’opera sercambiana si deve a Luciano Rossi, che, nel 1974, ha riunito e commentato tutte le 155 novelle. Oggi Sercambi viene finalmente considerato come uno degli scrittori piú originali nel recepire la lezione decameroniana per il modo in cui tratta i temi narrativi dell’epoca; tuttavia, resta ancora molto da approfondire, anche in relazione alla storia sociale del tardo Trecento. Ma chi è Giovanni Sercambi? Nasce in una famiglia di ricchi speziali lucchesi, ma nella sua bottega si vendono an50

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Miniatura raffigurante la processione guidata a Roma da papa Gregorio Magno per invocare la fine della pestilenza; in secondo piano, si riconosce l’arcangelo Michele che rinfodera la spada, segno del suo miracoloso intervento in favore della città, da Les Très riches Heures du Duc de Berry, capolavoro dei tre fratelli Limbourg, 1413 circa. Chantilly, Musée Condé.

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il novelliere di giovanni sercambi/1

Miniatura raffigurante le cure agli appestati, da La Franceschina, libro dell’Ordine francescano redatto da Giacomo Oddi e dedicato alla vita di san Francesco e dei primi Francescani. XV sec. Perugia, Biblioteca Comunale Augusta.

che libri, tanto che la sua biblioteca è molto ricca per l’epoca, quando non è ancora stata inventata la stampa: tra i venti volumi troviamo una copia del Decameron, una del Milione e un’edizione commentata della Commedia dantesca. Da subito Sercambi si interessa di politica e diventa anche gonfaloniere di giustizia, altissima carica comunale: è fra i maggiori sostenitori della famiglia Guinigi che, alla fine del Trecento, prende il potere a Lucca, spodestando il regime repubblicano. Oltre al Novelliere, composto in tarda età, scrive le Croniche, una storia della sua città, intorno al 1369, quando Lucca sta affrancandosi dal dominio di Pisa (1342). Divide quest’opera in tre periodi: il 52

primo va dal 1164 al 1313 (anno dell’inizio del dominio sulla città di Castruccio Castracani); il secondo dalla conquista di Lucca di Uguccione della Faggiola fino al 1368; il terzo, dalla recuperata libertà e dalla fine dell’occupazione pisana fino al momento in cui terminò di scrivere. Giovanni Sercambi muore quasi ottantenne nella sua città: non avendo figli, lascia una somma ragguardevole tra case e terreni alla moglie Pina, che era pure sua zia materna, e ai suoi nipoti. Paolo Guinigi, signore di Lucca e vedovo di Ilaria del Carretto, come estremo saluto e gesto di stima verso l’amico e fidato consigliere, stanzia la somma di 100 fiorini per il suo funerale. Come nel Decameron, anche nel Novelliere troviamo una cornice ai racconti: un gruppo di uomini, donne e religiosi per sfuggire alla peste del 1374 (anche se in realtà la peste a Lucca infuriò due anni prima) scappa aprile

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Incoronazione della Madonna tra Santi, tempera su tavola di Baldassarre di Biagio. 1460 circa. Lucca, chiesa dei Ss. Paolino e Donato. In basso compare una veduta della città, per la quale intercedono i santi Sebastiano e Paolino.

dalla città. Tuttavia, mentre nel Decameron i dieci giovani si rifugiano nelle loro ville sulle colline di Fiesole e a turno raccontano una novella, nell’opera di Sercambi la brigata si reca di città in città sotto la guida di un preposto che tiene anche la cassa comune; il compito di rinfrancare lo spirito dei viaggiatori con le novelle è affidato a un solo narratore, lo stesso Sercambi. Al termine di ogni racconto, il gruppo di viaggiatori trae un giudizio morale sul comportamento dei protagonisti oppure, quando non è possibile, lo relegano nel comico o nel fiabesco. Il fine del Decameron e quello del Novelliere sono però gli stessi: ricompattare la società sui valori messi in crisi dall’epidemia che sconvolge gli equilibri sociali, facendo emergere il lato peggiore dell’umanità. Dal punto di vista della soluzione politica da adottare nel nuovo ordine sociale, il pensiero di Boccaccio non coincide con

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quello di Sercambi: lo scrittore certaldese propone una rifondazione della società sulla base degli antichi valori portati avanti dal ceto nobiliare: misericordia, pietà, difesa dei piú deboli; il parvenu Sercambi è ben piú realista: sa che, grazie al dio denaro, la classe mercantile alla fine del Trecento è quella dominante ed è un fermo sostenitore dell’uomo forte al vertice del potere, capace di garantire decisionismo, ordine e stabilità. L’espediente adottato nel Novelliere di porre la brigata sotto il comando di un preposto che ha pure l’incarico di tenere la cassa comune risponde allo scopo dell’autore di proporre la signoria come forma di governo piú adeguata, in particolare nei momenti di crisi. Anche la spiegazione sulla causa del «morbo pestifero» è diversa fra i due autori. Per Boccaccio, la peste è causata «per operazione dei corpi celesti o per le 53


il novelliere di giovanni sercambi/1 nostre inique opere» (Decameron, Introduzione): appare come qualcosa di imprevedibile e inevitabile, ma non necessariamente da attribuire alla malvagità dell’essere umano; per Sercambi, la peste rappresenta la giusta punizione impartita da Dio per i peccati dell’uomo: la sola soluzione è rappresentata dal perseguire il bene che diventa «la medicina che salva l’anima e ’l corpo» (Novelliere, Introduzione)».

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Proveremo a leggere l’opera di Sercambi secondo il sistema già sperimentato con il Decameron e il Trecentonovelle, soffermandoci cioè sui numerosi aspetti che, senza volerlo, permettono a noi lettori di scoprire aspetti poco noti ma particolarmente interessanti del mondo medievale. Alla fine di questo viaggio, ne avremo una conoscenza piú approfondita perché illustrata dagli stessi protagonisti con il loro modo di parlare, di pensare e di agire.

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GANFO IL PELLICCIAIO

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iunta a Pisa, la brigata dei fuggitivi chiede al narratore una novella che li allieti sulla strada per Volterra. La novella II (chiamata exempla per il suo carattere di esemplarità) vede protagonista il pellicciaio lucchese Ganfo «omo materiale e di grossa pasta [semplicione]» tranne che nei suoi affari «assai guardingo e sottile». L’artigiano improvvisamente si ammala e «fu dai medici lodato il Bagno a Corsena esserli utile piú tosto che lle medicine». Si tratta di una celebre stazione termale in Val di Lima, oggi Bagni di Lucca. Ganfo chiede alla moglie, monna Teodora, «denari per portare al bagno e vivere. La donna sua moglie li dié x lire di sestini [moneta lucchese] dicendoli: “Fa piccole spese”». Da questo passaggio, notiamo che è la moglie dell’artigiano a tenere i cordoni della borsa, indicando rapporti familiari ben definiti: Ganfo lavora, Teodora amministra, in un rapporto matrimoniale paritetico. Dopo un viaggio piuttosto disagevole che agita Ganfo, non abituato agli spostamenti, finalmente giunge alle Terme. Qui la sua sorpresa è grande vedendo nell’acqua centinaia di uomini nudi: «Or come mi cognoscerò tra costoro? Per certo io mi smarirei con costoro se io non mi segno di qualche segno». Il senso di identità nel Medioevo era dato dal ruolo ricoperto nella società cittadina, riconoscibile dal mestiere e dall’abbigliamento: il luogo sconosciuto e la nudità, che fa apparire tutti uguali, confondono l’artigiano, che decide di mettersi una croce di paglia sulla spalla: «Mentre che io arò ta croce in sulla spalla io serò desso [sarò proprio io]». È probabilmente un riferimento alla croce, vista come la malattia di Ganfo.

In alto miniatura raffigurante un pellettiere, dall’Hausbuch der Mendelschen Zwölfbrüderstiftung. 1426-1549. Norimberga, Stadtbibliothek. A destra stemma dell’Arte dei Vaiai e dei Pellicciai nella residenza fiorentina della corporazione. Nella pagina accanto miniatura raffigurante uno speziale con il suo garzone di bottega, da un codice del Tacuinum Sanitatis. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.

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Quando si immerge nella vasca: «Dimorando alquanto e facendoli alle spalle freddo, e l’acqua galdegiava [era calda] tirandosi abasso, la croce della spalla se li levò [si staccò] e a uno fiorentino che a lato a lui era presso, la ditta croce in sulla spalla li puose». L’artigiano si volta e vede la sua croce appoggiata alla spalla del vicino e gli dice: «Tu se’ io e io son tu». Il Fiorentino non sapendo cosa intende Ganfo, lo scaccia in malo modo; quando si sente ripetere quella frase oscura, pensando di trovarsi di fronte un mentecatto, gli dice: «Và via, tu se’ morto». Quando l’artigiano si sente dire che è morto, esce dal bagno e si riveste spaventato. Poi «sensa parlare, né mangiare né bere si misse a camminare venendo

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verso Lucca, e quantunqua [quanti] ne scontrava che lui salutasseno a neuno rispondea».

La disperazione di Teodora

Quando arriva a casa, la moglie è stupita dal ritorno repentino di Ganfo e gliene chiede il motivo: «Teodora dolce, io sono morto»; si getta sul letto, chiude gli occhi immobile «ché [per] pogo spirito avea, sí [sia] per la malatia avuta, sí per lo caminare sensa aver mangiato né bevuto, sí [sia] per la paura». Teodora pensa che il marito sia morto veramente: «E subito gridando, scapigliandosi, Ganfo suo esser morto, li vicini tragano [accorrono] a confortare la sconsolata di sí [cosí] buon marito, dando consiglio che Ganfo sia sopellito [seppellito]». Il gesto di Teodora di strapparsi i capelli è tipico della simbologia medievale per indicare grande disperazione. Come ha scritto Chiara Frugoni nel saggio La voce delle immagini, «Simone Martini aveva mostrato anche il dolore di una madre qualunque mentre si sporge dal balcone di legno vedendo precipitare il proprio figlio a terra, miracolosamente salvato dal beato Agostino Novello, e di nuovo un’altra madre mentre piange il figlio creduto morto, non essendosi accorta dell’arrivo dal cie-

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lo di san Ludovico da Tolosa. Entrambe si strappano discretamente i capelli in un gesto che l’osservatore distratto potrebbe scambiare per un semplice riassetto del velo; tali atti facevano parte dell’esperienza quotidiana dei cittadini medievali e dunque erano assai piú diretti e parlanti di quanto ci possano apparire oggi». Ganfo viene messo nella bara e «stando cheto e come morto si lassa menare [portare]». Durante la processione verso la chiesa per il funerale, «una fantesca [donna di servizio] nomata Vettessa, domandando quello era [chi c’era nella bara], fulli ditto che Ganfo era morto». Quando Vettessa sente questo, comincia a gridare e a ripetere: «Maladetta sia l’anima di Ganfo, che in quel maladetto punto li diedi un mio piliccione [pellicciotto] a raconciare [sistemare], che mai lo potei avere [potrò avere]!». Sebbene chiuso nella bara, gli improperi giungono all’orecchio dell’artigiano, che, sentendosi punto sul vivo, grida: «Vettessa, Vettessa, s’io fusse vivo come son morto, io ti risponderei bene!». A queste parole, gli uomini che trasportano la bara «lassaron cader in terra dubitando fusse spirito fantastico [pensando fosse un fantasma] e tutto Ganfo di macolò [si ammaccò]». I sacerdoti, i frati e gli altri partecipanti alla cerimoaprile

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Una veduta di Bagni di Lucca, stazione termale nella Val di Lima che era un tempo conosciuta come Bagno a Corsena, toponimo citato anche da Giovanni Sercambi nel Novelliere.

nia, scoprendolo vivo, gli chiedono perché volesse farsi seppellire nonostante non fosse morto. Ganfo «vedendosi intorno li parenti e’ vicini disse loro la novella de bagno. Li preti se n’andarono con la cera auta [con le candele che avevano ricevuto] e Ganfo fu rimenato a casa, e confortato divenne sano e la sua arte esercitò». Notiamo come l’artigiano «risorge» solo quando si sente insultare dalla cliente proprio perché la sua identità è legata al mestiere che svolge. La vicinanza della moglie, dei parenti e dei vicini, fanno capire a Ganfo che non è solo come ai Bagni, bensí membro attivo della operosa città.

È tempo di rimettersi in marcia

Il tema dello stupido che si finge morto ma non resiste a rispondere per le rime a chi lo insulta era diffuso come tradizione orale in Toscana e in altre zone europee, ma Sercambi è il primo a metterlo per iscritto. Nel breve commento della brigata, Sercambi mette in luce che l’exemplo è piaciuto in particolare a tutte le donne, forse perché viene messo in ridicolo un uomo sciocco. È tempo che il gruppo riparta per la nuova meta: il castello di San Miniato, nel Valdarno Inferiore. Nessuno vuole cedere all’ozio perché l’horror otii è

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tipico della mentalità medievale e dell’etica dello stesso Sercambi. Durante il tragitto viene raccontata la seconda novella che vede protagonista il pellettiere Ganfo (III): qui dimostra la sua attenzione negli affari che lo riguardano ed è anche in grado di punire in modo esemplare la malvagità e la malizia di cui è vittima per la sua presunta stoltezza. A Lucca, l’artigiano ha affittato il solaio della sua bottega di pellettiere a Zanobi, un calzolaio di Firenze: «E pensando il ditto Zanobi che per fare dispetto al ditto Ganfo la bottega dovesse abandonare acciò che lui l’avesse per potervi l’arte sua delle scarpe fare – e avendo sentito il modo che Ganfo avea tenuto quando disse esser morto, pensò: “Io potrò con costui fare ogni dispiacere, e come matto non lasserà credino cosa che io li faccia [non riuscirà a far credere a nessuno che sia stato io a fargli del male]”». Visto il campanilismo di allora, non è un caso che Sercambi affidi la parte del cattivo a un Fiorentino. Due volte al giorno, Zanobi infila il suo «marcifaccio [pene]» in un buco che ha ricavato nella scala che lo porta al solaio e con la sua orina bagna le pelli di Ganfo. Ogni mattina il pellettiere si lamenta con il calzolaio che crede amico «perché di sopra li stava e dicendo

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A destra un calzolaio al lavoro in un’altra miniatura tratta dall’Hausbuch der Mendelschen Zwölfbrüderstiftung. 1426-1549. Norimberga, Stadtbibliothek. Nella pagina accanto miniatura raffigurante un malato che si chiede come potrà sfuggire alla morte, mentre angeli e demoni aspettano di contendersene l’anima, da un manoscritto del Trésor de Sapience di Jean Gerson. XV sec. Chantilly, Musée Condé.

che facea male a gittar l’acqua in sulle suoi [sue] pelli». Zanobi risponde che i «topi sono quelli che bagnanon le pelli e non sia acqua; dolendosi Zanobio che per le pelli di Ganfo non potea vivere in casa, tanti topi n’aveano allettati [richiamati]». L’artigiano decide di prendere una gatta da tenere in bottega per cacciare i ratti e aggiunge che abbandonerà la bottega se non ci riuscirà. Saputo questo, Zanobi «solicitamente piú che di prima orinava in sulle pelli». Anche se Ganfo è sciocco «con un sottile ingegno, come sogliono fare alcune volte i matti, stimò lo bagnare le sue pelli non esser topi, e dispuose quello di certo vedere». Chiusa la bottega, fa finta di andarsene e si nasconde per scoprire la verità: «Venuta la sera, Zanobio, com’era sua uzansa, si puose il marcifaccia per lo pertuzo pendente molto, a similitudine che ogni tristo cane [cagnaccio] ha gran coda». Appare originale la considerazione psicologica di Sercambi dei lampi di genio dei pazzi, segno che l’autore nota attentamente il comportamento degli ultimi nella società medievale. L’artigiano non interviene subito ma «come savio rafrena la furia e a suo tempo delibera di manifestare il suo senno contra la mattia [stoltezza] di Zanobio». La mattina seguente, Ganfo si lamenta ad alta voce: «Di vero se lla gatta che io ci merrò [ci porterò] non prenderà li topi, che non mi lassano le miei [le mie] pelli asciutte, io mi partirò della bottega e provederòne [me ne procurerò] un’altra». Il calzolaio fiorentino «che tutto ode, pensa in tutto ’l dí non orinare per poter la sera bagnare compiutamente le pelli».

Un equivoco fatale

L’artigiano, accortosi del tiro mancino, «andò alla pescaria e quine trovò un luccio grosso di piú di libre xx e quello comprò». Gli viene chiesto cosa vuole fare con quel grosso pesce, e lui risponde: «Li preghi che monna Teodora mia dolce moglie fece a Dio e l’oratione de’ frati mi fenno risussere [resuscitare], e pertanto voglio che quelli godano» e si libera cosí dei curiosi che ridono di lui. Arrivato a casa, Ganfo chiede alla moglie che cucini quel luccio, tranne la grossa testa che vuole portare a quel sant’uomo di Zanobio. Il calzolaio «avendo il giorno molto bevuto per poter le pelli di Ganfo guastare, giunse con grande volontà [necessità] alla scala e aperto il buco misse il marcifaccio giuso e cominciò a orinare. Ganfo questo vedendo, aperto la testa del luccio e ’l marcifaccia preso e strettamente colle mani serrato la testa, intanto che Zanobio credette che fusse la gatta, dicendo e alettando la gatta con dolci parole».

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Ganfo fa finta di essere la gatta e miagola «stringendo la testa del luccio. Zanobio non potendo piú sostener [resistere] per lo dolore, e fu costretto a dover gridare». I vicini accorrono alle urla e trovano Zanobio evirato: «Stimando la gatta di Ganfo averlo preso, e biasimando Zanobio del vituperio che avea fatto a Ganfo – avendo sempre afermato Zanobio che i topi eran quelli che lle pelli bagnavano – disseno tutti al ditto Zanobio che se male nel’è avenuto l’ha bene comperato [se l’è meritato]». Il calzolaio è moribondo e non riesce neppure a parlare. Viene trasportato nel letto «e chiesto il prete per confessarsi per fallo [l’errore] commesso, chiedendo a Ganfo perdon, e in poghi [pochi] giorni passò di questa vita». L’artigiano appare dispiaciuto ma non pentito per la terribile fine del falso amico e «segretamente ogni dí per la sua anima diceva una avemaria». La reazione della brigata è di sorprendente ilarità, nessuno si mostra pietoso per l’orribile fine del calzolaio: in particolare «alquante giovanette baldansose» ridono per il «marcifaccio» del calzolaio. Questo comportamento è coerente con l’obiettivo di Sercambi: mostrare una punizione esemplare verso chi è portatore di «malvagitate e malisia», come recita il titolo della novella, e ha trascinato l’umanità a subire la punizione divina della peste.

NEL PROSSIMO NUMERO ● Mercanti dalle mani bucate

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eventi festival federico ii

La «crociata della pace»: cosa può dirci ancora oggi? di Fulvio Delle Donne

Nel 1228, dopo ripetuti rinvii, a causa dei quali era stato perfino scomunicato, Federico II parte finalmente alla volta della Terra Santa. Un anno piú tardi giunge a Gerusalemme e lí trasforma la crociata in un’operazione diplomatica inaspettata, stringendo un accordo con il sultano d’Egitto al-Malik al-Kamil: senza ricorrere alle armi, ottiene un successo straordinario, che assicura ai cristiani la possibilità di compiere in tutta sicurezza i loro pellegrinaggi 62

Il Trono Reale, detto anche «di Carlo Magno», nella Cappella Palatina di Aquisgrana. Nella pagina accanto Federico II in trono, particolare dell’arca reliquiario in oro, pietre e smalti, di Carlo Magno. XII sec. Aquisgrana, Cappella Palatina. Inserita fra quelle degli imperatori romani d’Occidente, l’immagine dello Svevo ricorda la sua incoronazione a re di Germania e dei Romani, avvenuta ad Aquisgrana nel luglio del 1215. aprile

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a crociata condotta dall’imperatore Federico II di Svevia nel 1228-1229 fu davvero straordinaria. Come si svolse lo esporremo in maniera piú dettagliata, ma invertiamo l’ordine e spieghiamo prima perché risulta eccezionale a chiunque la osservi. Due elementi la rendono sorprendente e singolare rispetto a tutte le altre imprese di conquista o di riacquisizione alla fede cristiana delle terre sante, quelle imprese che comunemente chiamiamo crociate. Il primo è che non ci fu alcuno spargimento di sangue: nonostante da ogni parte si invocassero stragi e bagni di sangue, tutto fu risolto in maniera pacifica, attraverso accordi diplomatici tra l’imperatore Federico e il sultano d’Egitto al-Kamil. Nei trionfalistici messaggi solenni inviati da Gerusalemme a tutta l’ecumene cristiana, l’imperatore svevo attribuí il fatto che fu incruenta a un miracolo celeste, La basilica del Santo Sepolcro in una litografia a colori di David Roberts. 1839. Cleveland, The Cleveland Museum of Art.

segno della speciale protezione che Dio gli aveva riservato. Il secondo elemento, che desta altrettanta se non ancora maggiore sorpresa, perché apparentemente incongruente, è dato dalla circostanza che fu compiuta da uno scomunicato. In altri termini, l’impresa che rappresentava il dovere piú alto della militanza spirituale cristiana fu portata a termine proprio da chi era stato escluso dalla comunità dei fedeli. Federico era stato infatti fulminato dalla scomunica di papa Gregorio IX nel 1227, proprio perché non aveva ancora avviato la spedizione d’Oltremare, promessa sin dal 1215.

Né battaglie, né morti

I principali motivi che rendono straordinaria e affascinante la crociata di Federico II sono tutti qui. Fu una «crociata di pace», nel senso piú pieno e anche contraddittorio dell’espressione, perché non ci furono battaglie, né morti, al con-

trario di quanto era avvenuto ancora pochi anni prima (nel 1221) a Damietta, in Egitto, presso la foce del Nilo, dove i crociati avevano deciso di dirottare l’azione, al fine di trovare una via piú agevole per conquistare la Terra Santa. Le contraddizioni hanno sempre caratterizzato la vita comune, quella di otto secoli fa e quella di oggi. Federico non era uomo disabituato all’uso delle armi, anzi. Quella crociata pacifica fu il frutto di una meditata strategia diplomatico-politica e proprio per questo divenne oggetto di gioiosa esaltazione, ma anche di violenta riprovazione. Fu vista, in ogni caso, come una tappa di avvicinamento alla fine dei tempi, allora sentita come imminente. Quelli erano anni in cui si riteneva prossimo l’arrivo dell’Anticristo, preceduto immediatamente dal trionfo di colui che i testi chiliastici chiamavano «imperatore della fine dei tempi»: colui


l’ingresso a gerusalemme e l’incoronazione

Terribile nella magnificenza, glorioso nella maestà... Ecco alcuni brani del Manifesto di Gerusalemme, reso pubblico da Federico II il 18 marzo 1229, terza domenica di quaresima, quando entrò a Gerusalemme, presentandosi come strumento di un miracolo divino: «Si allietino nel Signore ed esultino tutti coloro che sono retti nel cuore, poiché Egli ha il potere sul suo popolo di esaltare i mansueti nella salvezza. Lodiamo anche noi lo Stesso che lodano gli angeli, poiché Egli stesso è Dio nostro Signore, che solo compie grandi cose mirabili e che, non dimentico della sua antica misericordia, rinnovò nei nostri tempi quei miracoli di cui si legge per i tempi antichi. Perché, per rendere nota la sua potenza, dal momento che Egli non si gloria sempre nei cavalli o nei carri, ora ha concesso a sé la gloria in un esiguo numero degli uomini, perché tutte le genti conoscano e comprendano che Egli stesso è terribile nella magnificenza, glorioso nella maestà e mirabile nei consigli relativi ai figli degli uomini: in questi pochi giorni, miracolosamente piú che virtuosamente, si è conclusa felicemente quella vicenda che da lungo tempo un grandissimo numero di uomini potenti e molteplici príncipi della terra non riuscirono a portare a termine né con enormi eserciti, né col timore né con qualsiasi altro mezzo. (...) Il giorno sabato 17 marzo della seconda indizione, con tutti i pellegrini che con noi seguirono fedelmente Cristo figlio di Dio entrammo nella santa città di Gerusalemme, e subito, da imperatore cattolico, dopo aver adorato con reverenza il sepolcro del Signore, nel giorno successivo portammo la corona, e il Signore onnipotente, prevedendo dal trono della sua maestà che noi dovessimo riceverla, per la grazia speciale della sua pietà ci ha mirabilmente posto al di sopra di tutti i príncipi del mondo, in modo che, mentre noi tripudiamo per questa tanto grande dignità, che ci spetta per il diritto del regno, sempre piú risulti noto a tutti che è stata la mano del Signore a fare tutto questo. E siccome la misericordia è la piú grande delle Sue opere, i cultori della giusta fede sappiano e proclamino per tutto il mondo, in lungo e in largo, che Colui che è benedetto nei secoli ha visitato e salvato il suo popolo, e ha innalzato per noi il corno della salvezza nella casa di suo figlio Davide» (da Constitutiones et acta publica imperatorum et regum, ed. L. Weiland, II, Hahn, Hannoverae 1896; traduzione di Fulvio Delle Donne). che, riunendo Oriente e Occidente, avrebbe ricondotto sulla terra l’età dell’oro. Solo allora, dopo un breve periodo di pace e felicità universali, sarebbero sopravvenuti l’Anticristo e il giudizio finale, in cui i malvagi sarebbero stati condannati a pene eterne e i puri d’animo sarebbero ascesi alla contemplazione del Signore. Era quella, dunque, la temperie in cui Federico compí la sua impresa. Dai nemici fu visto come il tremendo Anticristo; dai sostenitori come il salvifico imperatore della fine dei tempi. Le cose, insomma, non ap-

In alto Federico II si pone sul capo la corona di imperatore nella basilica del Santo Sepolcro, tavola a colori realizzata per l’opera A History of Germany di Henrietta Elizabeth Marshall. 1913.

paiono mai a tutti nello stesso modo. La storia, lo studio del passato fatto con i giusti metodi filologici, se ha qualcosa da insegnare è proprio questo: a cambiare prospettiva e a mettere in discussione ogni convinzione preconcetta. Per rompere le convinzioni preconcette, soffermiamoci proprio sulla definizione di «crociata». Il

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termine, com’è ormai ben noto, è piuttosto moderno, almeno nel senso storico che tendiamo ad attribuirgli. Anche il concetto che esprime, del resto, è stato alterato dalla tradizione storiografica, che, spesso, lo ha piú o meno implicitamente caratterizzato come una sorta di fenomeno omogeneo o unitario, precisamente classificabile e ben definito, con spedizioni che vengono numerate in maniera sequenziale e ordinata: finita una, ne comincia un’altra. La spedizione organizzata e condotta da Federico II costituisce la prova piú evidente del fatto che i numeri ordinali attribuiti alle crociate non hanno alcun senso: quella di Federico viene solitamente

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numerata come la sesta, ma la precedente non si era chiusa. La disfatta di Damietta del 1221 (culmine della cosiddetta quinta crociata), in effetti, fu un evento tragico e certamente importante, ma non fu percepito come la conclusione di un’impresa bellica, e Federico risultò implicato – nel bene e nel male – tanto in quella che nelle successive.

Un accordo riprovevole

D’altro canto, la crociata che piú specificamente lo vide coinvolto nel 1228-1229, da alcuni (papa Gregorio IX in testa) non fu affatto considerata azione degna di un cristiano: condotta da uno scomunicato, si estrinsecò in un inammis-

sibile e riprovevole accordo con gli infedeli. Eppure fu quella che, piú di altre, garantí successo e vantaggi per i pellegrini che volevano recarsi al Santo Sepolcro di Gerusalemme. Ma addentriamoci sia pure rapidamente nella vicenda. Fu promessa per la prima volta da un giovane Federico, allorquando, il 25 luglio 1215, fu incoronato re dei Romani ad Aquisgrana: imprescindibile preludio per l’unzione imperiale, che sarebbe avvenuta a Roma, in S. Pietro, il 22 novembre 1220. Facendosi incoronare ad Aquisgrana, Federico rivendicava l’antichità dell’origine del proprio ruolo universale: la stessa scelta aveva già compiuto suo nonno, Federico I Barbarossa, il quale, a partire dal aprile

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In alto ritratto di papa Gregorio IX (al secolo, Ugo o Ugolino dei conti di Segni), olio su tela attribuito a Giuseppe Franchi. Prima metà del XVII sec. Milano, Pinacoteca Ambrosiana. A sinistra, sulle due pagine miniatura raffigurante la battaglia di Damietta, combattuta nel 1218, nell’ambito della quinta crociata, da un codice dell’Historia rerum in partibus transmarinis gestarum di Guglielmo di Tiro. 1337. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

1157 aveva imposto l’aggettivo «sacro» al titolo imperiale. Del resto, Aquisgrana era stata la capitale di Carlo Magno, colui che il Barbarossa nel 1165 aveva reso santo, festeggiandone la canonizzazione il 29 dicembre, il giorno in cui veniva ricordato anche David: in quel modo veniva sancito il rapporto di continuità tra il biblico re David eletto da Dio, il fondatore dell’impero d’Occidente e i suoi successori. Federico II si collocava dunque in prosecuzione di quella sequenza di sacri sovrani e imperatori. La presa della croce ad Aquisgrana avviò un percorso lungo, pieno di lentissimi preparativi. Continui e ripetuti, da allora, furono i rinvii chiesti da Federico.

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Rinvii che i fedeli e i papi sopportarono pazientemente, almeno fino al 1227, quando, dopo l’ennesimo ritardo, Federico fu scomunicato.

Un regno come dote

Ma riassumiamo con ordine: nel 1225 Federico aveva preso in moglie Isabella di Brienne, regina di Gerusalemme, che portava in dote quel Regno d’Oltremare e rendeva piú allettanti gli interessi per la Terra Santa: Federico sarebbe diventato signore dell’intero Mediterraneo, da Occidente a Oriente. Mentre i preparativi per la crociata si intensificavano, il 18 marzo 1227 papa Onorio III morí a Roma. Passò un solo giorno e venne eletto nuovo pontefice il cardinale Ugolino

da Ostia, col nome di Gregorio IX, il quale, con fermezza e decisione, fece subito capire che non avrebbe accettato altri indugi da parte di Federico. E questi non dimostrò alcuna esitazione: la flotta era pronta. Insomma, nell’estate del 1227 tutto sembrava procedere speditamente. A Brindisi, scelta come porto d’imbarco, si erano radunati ben piú dei mille cavalieri previsti dai precedenti accordi col papa. Oltre ai soldati, poi, si accalcavano in gran numero i pellegrini, ansiosi di recarsi in viaggio nei luoghi santi. Ma la stagione calda, le pratiche igieniche dell’epoca e l’improvviso assembramento furono all’origine di una devastante epidemia in una città impreparata a ospitare masse cosí imponenti di uomini e animali. Le ripetute dilazioni precedenti non permettevano a Federico di tirarsi piú indietro. Bisognava procedere a tutti i costi. L’8 settembre lo Svevo partí assieme al langravio di Turingia Ludovico. Il giorno dopo si fermò poco oltre, presso l’isola di S. Andrea, sul limitare del porto. Il 10 fece tappa a Otranto, dove avrebbe dovuto far imbarcare l’imperatrice, ma la situazione si era aggravata e l’11 morí il langravio Ludovico. A quel punto, ammalatosi egli stesso, Federico decise di sospendere il viaggio e si ritirò per cure a Pozzuoli, dove si trovavano rinomati bagni termali. Il papa non volle sentire ragioni e ritenne che fosse un’altra scusa accampata da Federico per non compiere quanto promesso: il 29 settembre pronunciò la sentenza di scomunica. Si trattava di un atto di eccezionale gravità, che metteva al bando della comunità cristiana chi ne era colpito: nessuno avrebbe dovuto avere alcun contatto con lui. A quel punto, Federico decise di accelerare, tanto piú che in Oriente la situazione era divenuta imprevedibilmente piú favorevole. Dopo la perdita di Damietta, avvenuta nell’estate del 1221, il sulta-

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eventi festival federico ii no d’Egitto al-Kamil era venuto a conflitto col fratello al-Mu’azzam: non gli conveniva aprire un nuovo fronte di guerra con i crociati, che anzi potevano aiutarlo contro il nemico. Cosí iniziò a intavolare trattative di pace con l’imperatore. I preparativi ripresero nella primavera del 1228, appena la stagione consentí di tornare a navigare: attraversare il mare in inverno, affrontando freddo e tempeste, era sempre impresa mortale, da evitare. Federico celebrò a Barletta la Pasqua del 1228 e poco dopo, il 25 aprile, gli nacque il figlio Corrado; in conseguenza del parto, 10 giorni dopo morí Isabella, il 5 maggio. Federico divenne allora re, o meglio reggente di Gerusalemme.

La partenza, finalmente

Federico partí da Brindisi il 28 giugno e giunse in Siria il 5 settembre. Occorsero oltre due mesi per arrivare sulle coste medio-orientali, ma il viaggio fu intervallato da alcune soste, talvolta durate diverse

settimane, come a Cipro, cruciale per gli snodi mediterranei, dove l’imperatore deviò per risolvere alcune delicate faccende di governo. Le tappe che conducevano verso oriente erano all’incirca le stesse che compivano tutte le navi che andavano in quella direzione: erano di fatto obbligate, perché si cercava di evitare il piú possibile le traversate in mare aperto, sempre pericolose, soprattutto per le navi dell’epoca. In linea di massima si cercava di sfruttare la bella stagione, per evitare burrasche o mare grosso, e di effettuare tragitti non superiori alle 50 miglia marine giornaliere; sul far della sera, solitamente, si attraccava in terre non ostili e in porti conosciuti e attrezzati, indicati precisamente da mappe dettagliate, dove ci si potesse rifocillare, trascorrere la notte e fare rifornimento di cibo, ma, soprattutto, di acqua potabile. In ogni caso, la scelta del percorso dovette essere guidata anche dai rapporti di amicizia e alleanza con

L’imperatore Federico II dà il benvenuto a Stolzenfels alla sua sposa Isabella di Brienne, litografia a colori di Alexander Zick (1845-1907). Coblenza, MittelrheinMuseum.

A sinistra miniatura raffigurante l’incontro tra Federico II e il sultano d’Egitto, dal codice della Nuova Cronica di Giovanni Villani denominato Ms Chigiano L VIII 296, f. 75r. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

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i signori locali, o dalla decisione di reimporre il predominio imperiale.

Quel gesto oltraggioso

In conclusione, Federico II entrò a Gerusalemme sabato 17 marzo 1229, in seguito a un accordo diplomatico e pacifico con il sultano al-Kamil: lí, secondo alcune fonti, il giorno dopo si auto-incoronò («portò la corona») nella basilica del Santo Sepolcro, con gesto ritenuto inammissibilmente superbo e oltraggioso da parte papale. Inutile soffermarsi sui dettagli delle trattative col sultano che precedettero quell’ingresso trionfale: è sufficiente ricordare che gli accordi concessero ai cristiani vari vantaggi, ma soprattutto quello di accedere liberamente al Santo Sepolcro per 10 anni, 5 mesi e 40 giorni (il massimo consentito dalla legge islamica sarebbe stato 10 anni, 10 mesi, 10 settimane e 10 giorni).

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L’accordo tra quei due grandi, gli uomini piú potenti della terra, dovette colpire molto l’immaginario collettivo, anche a distanza di tempo, tanto che, in maniera idealizzata ma davvero icasticamente simbolica, fu rappresentato in una miniatura, attribuibile alla mano di Pacino di Bonaguida, che decora il meraviglioso codice della Cronica figurata di Giovanni Villani oggi conservato presso la Biblioteca Apostolica Vaticana (il manoscritto, Chigi L VIII 296, risalente al 1340 circa, è liberamente consultabile on line: https://digi.vatlib.it/ view/MSS_Chig.L.VIII.296). All’esterno di una città protetta da mura merlate – certamente identificabile con Gerusalemme – essi si incontrano e si danno la mano, sancendo cosí il loro accordo. Il sultano, riconoscibile dalla corona che porta sul turbante e da un manto rosso, indica all’imperatore

(anch’egli incoronato e con manto rosso) la porta di accesso alla città santa, mostrandogli che non è chiusa. I soldati, dall’una e dall’altra parte, portano le armi sí, ma sono riposte e tenute basse, a rappresentare che non saranno usate (vedi foto alla pagina accanto).

Una lezione da non dimenticare

Come abbiamo detto all’inizio, la crociata condotta da Federico fu davvero straordinaria. Ma che cosa può dirci ancora oggi? Da decenni assistiamo a una lunga e frequente serie di avvenimenti tragici e sanguinosi, a partire dalla distruzione delle Torri gemelle di New York o dagli assalti alla redazione di Charlie Ebdo e al Teatro Bataclan a Parigi, per non parlare dei conflitti che senza sosta insanguinano i territori che circondano Gerusalemme. Al di là del

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eventi festival federico ii senso di attonito e addolorato stupore per eventi che capitano dietro l’angolo di un mondo globalizzato, di un’Europa patria comune, le reazioni collettive si dividono sempre tra rabbia e riflessione, tra esigenze di comprensione e slanci di vendetta contro tutto ciò che è sentito (o ci è presentato) come diverso. Nel caso specifico, quello connesso piú strettamente con la tematica della crociata (ma il discorso si può estendere a tanti altri ambiti), quando leggiamo di attentati, sentiamo di bombe o di lanci di missili, la reazione piú pericolosa è quella di cercare un nemico che attenta alla sicurezza del nostro mondo. Non importa chi sia e spesso neppure interessa: tutti quelli che non integriamo nel nostro sistema di valori sono uniti in un «altro» indistinto. Ecco che la mancanza di conoscenza (per non dire ignoranza) ci porta a respingere istintivamente tutti coloro che sono diversi da noi per etnia, religione, lingua, ideologia politica, orientamento sessuale, persino regioni di provenienza (i terroni e i polentoni…). A quel punto, il nemico può diventare chiunque, da un giorno all’altro, anche il nostro vicino di casa: il passato ci mostra che è capitato molto di frequente.

Se vogliamo comprendere come siamo divenuti nel presente dobbiamo ricordare ciò che siamo stati. Dobbiamo conoscere bene la nostra storia, stando attenti ai suoi abusi. Le vicende passate non possono essere richiamate alla memoria solo quando fa comodo (magari per proporne la cancellazione), e non possono essere attualizzate impropriamente. Le «guerre sante» – crociata o jihad – sono un retaggio ineludibile del nostro passato, tanto a Occidente quanto a Oriente, ma, al di là del fatto storico in sé, sono un fenomeno ideologico, sistematicamente curvato secondo le esigenze politiche: sono una sineddoche della nostra rappresentazione del mondo. Nel bene e nel male, costituiscono un punto di riferimento e un monito. E non sono gli unici fenomeni storici di cui dobbiamo prenderci cura. Al paradigma della crociata come guerra sanguinosa può essere associato quello della sfida diplomatica, forse non meno difficile o indolore. In un’enciclica del 2019 papa Bergoglio ha proposto il modello irenico del santo di cui ha preso il nome pontificio, di quel Francesco che «mentre tanti parti-

Festival Federico II

Una primavera nel segno dello Svevo La prima edizione del Festival Federico II Stupor Mundi si svolge ad Ancona e Jesi nei mesi di aprile e maggio. Si tratta di due distinti appuntamenti di grande valore scientifico. «Cercare la pace e stupire il mondo» è il tema della prima parte della manifestazione, prevista ad Ancona dall’11 al 14 aprile. Chiuderà il festival una due giorni di lezioni di storia, «Condividere i saperi tra Oriente e Occidente». Appuntamento l’11 e il 12 maggio, a Jesi, la città dove l’imperatore svevo nacque il 26 dicembre del 1194. Curatore scientifico del festival è Fulvio Delle Donne, professore ordinario all’Università della Basilicata, considerato come uno dei massimi studiosi di Federico II di Svevia. Protagonisti delle lezioni di storia, gratuite e aperte al pubblico, saranno altri storici di grande valore. A partire da Franco Cardini, principe dei medievisti europei e da altri docenti di riconosciuta fama fra cui

Accettare la diversità

Insomma, in questa situazione il rischio piú grande è di dimenticare il maggiore insegnamento dell’Illuminismo, ovvero di quel pensiero che ha permesso all’Occidente di intraprendere definitivamente il suo distinto percorso di evoluzione razionale: il rischio maggiore è di far tacere la ragione, di dimenticare la «tolleranza», o, per meglio dire, la disponibilità ad accettare e ammettere l’altro, ciò che è diverso da noi; e, al contempo, di limitarci nella libertà di espressione, autocensurando anche il nostro pensiero. Se lo facessimo, torneremmo indietro di secoli.

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EMILIA ROMAGNA

S. Marino

In basso il duomo di Ancona, intitolato a san Ciriaco, importante esempio di arte romanica. Nella pagina accanto uno scorcio della cinta muraria che racchiude il cuore medievale della città di Jesi.

apposita legge firmata dal consigliere Carlo Ciccioli. La manifestazione è finanziata in modo congiunto anche dal Comune di Ancona e dal Comune di Jesi. L’evento culturale gode del patrocinio scientifico dell’Università degli Studi di Napoli Federico II e dell’Università Politecnica delle Marche insieme a CESN (Centro Europeo di Studi Normanni); CESURA (Centro Europeo di Studi su Umanesimo e Rinascimento Aragonese); ISIME (Istituto storico italiano per il Medioevo italiano); SISMEL (Società Internazionale per il Medioevo Latino); Associazione del Centro Studi Normanno Svevi; Festival del Medioevo e Museo Federico II Stupor Mundi, Jesi.

Fondazione Teatro Regio di Torino e promotore anche della realizzazione, proprio a Jesi, del Museo multimediale «Stupor mundi» (www.federicosecondostupormundi. it), che rievoca l’irripetibile parabola dell’imperatore svevo. La Regione Marche sostiene l’evento grazie a una

L’ingresso al Festival Federico II Stupor Mundi (Ancona, 11-14 aprile e Jesi, 11-12 maggio) è libero, ma è richiesta la prenotazione on line. Per informazioni, ci si può rivolgere all’Associazione culturale Sulvic: tel. 071 55165; e-mail: info@festival-stupormundi.it

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Agostino Paravicini Bagliani, Umberto Longo, Marina Montesano, Ortensio Zecchino, Amedeo Feniello, Alessandro Vanoli, Francesco Panarelli, Laura Minervini, Annick Peters-Custot, Oleg Voskoboynikov, Giuseppe Perta, Antonio Musarra, Giancarlo Lacerenza, Giuseppe Mandalà, Emmanuele Francesco Maria Emanuele, Francesco Pirani, Andrea Mazzucchi, Pietro Colletta, Stefano D’Ovidio, Francesco Cotticelli, Nicoletta Rozza, Stefano Rapisarda, Luisa Derosa e Teofilo De Angelis. Organizzato dalla Associazione culturale Sulvic (www.sulvic. it), il festival è frutto di un accordo quadro finalizzato alla valorizzazione della figura di Federico II di Svevia siglato da Regione Marche, Regione Campania, Università degli Studi di Napoli Federico II e Università Politecnica delle Marche. La manifestazione è stata inserita all’interno delle celebrazioni per gli 800 anni della Università Federico II, il piú antico ateneo statale del mondo, fondato a Napoli nel 1224 dall’imperatore svevo. La manifestazione nasce da un progetto di William Graziosi, a lungo amministratore della Fondazione Pergolesi Spontini di Jesi, già sovrintendente della

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eventi festival federico ii L’incontro tra san Francesco d’Assisi e il sultano d’Egitto al-Malik al-Kamil, in uno degli affreschi realizzati da Giotto nella Cappella Bardi della basilica fiorentina di S. Croce. 1325 circa.

vano rivestiti di pesanti armature» si recò dal sultano al-Kamil «armato solo della sua fede umile e del suo amore concreto». Ma Francesco era un santo, votato al martirio, non un uomo di governo. Alla prospettiva cristiana e francescana, sulla stessa linea, si può accostare quella laica e piú spiccatamente politica di Federico II e di al-Kamil, i due massimi sovrani del mondo. Forse può essere utile ricordare che mentre tutti attorno pretendevano che si lavasse col sangue la strada per il Santo Sepolcro, mentre da ogni parte tutti attorno pronunciavano parole di odio, la decisione di non imbracciare le armi e di condurre una trattativa pacifica portò vantaggi che non si sarebbero potuti conseguire altrimenti. Avevano potentissimi eserciti e imbracciavano le armi, ma decisero di tenerle nei foderi.

Vantaggi reciproci

Certo, l’imperatore e il sultano mirarono a un loro vantaggio, al loro «particulare» (per usare il termine che molto dopo, nella prima metà del XVI secolo, avrebbe ben connotato Francesco Guicciardini), perché con la loro tregua decennale poterono piú agevolmente

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risolvere i problemi che li affliggevano sul fronte interno. Ma quel particulare fu utile a tutti, a cristiani e musulmani, in Terra Santa, in Occidente e in Oriente. E, per ottenerlo, entrambe le parti fecero un passo indietro, rinunciando a qualcosa di importante, a pretese e rivendicazioni. Questo è il messaggio politico che ancora oggi può essere di insegnamento. Le contraddizioni – apparentemente irrimediabili – della nostra attualità già caratterizzavano, in

forma sia pure diversa, il mondo di otto secoli fa. Forse, se non può indicarci la strada da percorrere nel presente (la storia ha smesso, purtroppo, di essere magistra vitae, se pure lo è mai stata davvero), il passato può almeno aiutarci a riflettere, quanto meno sul fatto che si può trovare sempre un’alternativa. Se si vuole, si può sempre trovare una via, anche in questo nostro presente, in cui si sentono, sempre piú vicini, i rombi dei cannoni e il sibilo dei missili.

Da leggere Federico II e la crociata della pace è l’ultimo libro di Fulvio Delle Donne, storico medievista, ordinario all’Università della Basilicata, considerato uno dei massimi specialisti della storia dell’imperatore svevo. La crociata di Federico II di Svevia (1228-1229) fu straordinaria per vari motivi. Contrariamente a quanto era sempre accaduto, la Terra Santa fu riacquisita alla cristianità senza alcuno spargimento di sangue, ma soltanto con accordi diplomatici, secondo i proclami imperiali. Inoltre, a compiere l’impresa fu uno scomunicato, un escluso dalla comunità dei cristiani. Un’eccezionale aura mistica avvolse poi l’evento in un’epoca che attendeva la fine dei tempi: l’arrivo imminente dell’Anticristo sarebbe stato preceduto dal trionfo di un ultimo imperatore, che, secondo i vaticini, avrebbe riunito Oriente e Occidente, riportando sulla Terra l’età dell’oro. Fulvio Delle Donne, Federico II e la crociata della pace, Carocci editore, Roma ISBN 978-88-290-1338-8 - www.carocci.it aprile

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di Domenico Sebastiani

la mela

I molti spicchi di un simbolo Emblema dell’amore, causa scatenante del Peccato originale e della guerra di Troia... infiniti sono i ruoli assegnati alle mele dalla religione, dalla mitologia e poi dalla tradizione letteraria. Un universo ricco e affascinante, raccontato per immagini dai piú grandi artisti di ogni tempo Il giudizio di Paride, olio su tavola di Girolamo di Benvenuto. Fine del XV-inizi del XVI sec. Parigi, Museo del Louvre.


Dossier

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o storico e filologo Piero Camporesi (1926-1997), tra i pochi a essersi occupato del simbolismo della mela, la definisce come un frutto à double face, oggetto vegetale dalla doppia identità, simbolo bivalente denso di significati di segno opposto e contrastanti tra loro. A suo dire, essa, «umido geroglifico del mondo», è pomo sferoidale simbolo di totalità, dall’anima al contempo sacra e profana, paradisiaca e infernale, beatificante e conturbante, virtuosa e peccaminosa. La densità di significati della mela emerge sin dai motivi che il folklore popolare ha conservato fino a noi, contenuti in quel serbatoio arcaico e meraviglioso rappresentato dai racconti fiabeschi. In questo campo, la mela appare innanzitutto come il frutto piú conteso e dai connotati magici. Se pensiamo, per esempio, a Le fiabe del focolare di Jacob e Wilhelm Grimm (1812-1822), incontriamo ne La serpe bianca (17) il motivo della mela d’oro dell’albero della vita, che tre corvi vanno a prendere ai confini del mondo e consegnano a un giovane servo, che li aveva precedentemente aiutati, affinché lo stesso possa sposare una principessa che esigeva il ritrovamento dei frutti come prova da superare. Appena quest’ultima mangia un po’ della mela, il suo animo si riempie d’amore per il giovane, con il quale vivrà fino a tarda età. Un motivo analogo si trova ne Il principe senza paura (121), ove un gigante malvagio chiede al protagonista di andargli a prendere una mela dell’albero della vita, che si trova in un giardino dove la pianta è circondata da una cancellata di ferro e protetta da bestie feroci, e ne Il Rugginoso (136), in cui un uomo selvatico – nella realtà un re colpito da un incantesimo – aiuta un ragazzo ad armarsi per un torneo di tre giornate, durante le quali riesce a prendere le tre mele d’oro

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lanciate dalla principessa, con la quale convola poi a giuste nozze. A tutti è poi nota la fiaba di Biancaneve (53), nella quale il motivo della mela è differente e presenta aspetti mortiferi: la protagonista, infatti, cade in una sorta di morte apparente dopo aver addentato una mela avvelenata preparata per lei dalla regina malvagia, sua matrigna. Biancaneve viene allora deposta dai nani in una bara di cristallo, nella quale piú tardi si imbatte un principe: il giovane è profondamente colpito dalla bellezza della ragazza e chiede di poter portare la bara nel suo castello. I nani, inizialmente, non vogliono saperne, ma infine cedono e, quando la bara viene presa dai servitori del principe, uno di essi inciampa, facendola cadere. Lo scossone fa sputare a Biancaneve il pezzo di mela avvelenata che le era rimasto in gola e cosí la fanciulla torna in vita. Come si vede, ben diversa è l’altrettanto nota versione proposta dal film di animazione della Disney, realizzato nel 1937, in cui è invece un bacio del principe a risvegliare Biancaneve.

Una prova difficile

I legami con l’oltretomba risultano ancora piú chiari se pensiamo alla trama de La storia di Conn-Eda, nota soprattutto attraverso la versione inserita da William Butler Yeats (1865-1939) nelle sue Fiabe irlandesi. Il principe Conn-Eda, destinato a ereditare la corona dell’Ovest, è inviso alla matrigna che, nel tentativo di eliminarlo, gli impone una geis – cioè un obbligo imprescindibile – di grande difficoltà, ossia di portarle entro un anno le tre mele d’oro del re dei Firbolg, che abita nel lago Erne, il suo cavallo nero e il suo cane soprannaturale. Dopo varie peripezie, grazie a un piccolo cavallo dal pelo corto che funge da animale guida, ConnEda raggiunge la città oltremondana, viaggiando indenne sotto la

superficie dell’acqua, superando i due terribili serpenti che guardano l’accesso al mondo sublacustre e attraversando un muro di fuoco che circonda la città. Il cavallo, in realtà, è il fratello del re della città, trasformato in forme equine da un druiaprile

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do. Riacquistate le sembianze umane, i due principi entrano insieme nella città, dove vengono trionfalmente ricevuti dal re. Questi promette a Conn-Eda le mele d’oro, il cavallo nero e il segugio magico, a patto però che egli rimanga ospite

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nella città sotto il lago, e prometta comunque di far visita al regno oltremondano almeno una volta all’anno. Conn-Eda ritorna poi nel mondo degli uomini, insieme ai tesori guadagnati, e le mele d’oro, piantate nel giardino del castel-

Ippomene e Atalanta, olio su tela di Guido Reni. 1618-1619. Madrid, Museo del Prado.

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Dossier lo, assicureranno al regno – di cui Conn-Eda è divenuto re – un’eccezionale fertilità e prosperità. Nella cultura italiana, Gian Paolo Caprettini ha evidenziato la presenza di molte fiabe in cui la mela (intercambiabile con l’arancia o altri frutti quali limone o melagrana) si collega alla fiaba-tipo 408 della classificazione Aarne-Thompson (un indice tipologico elaborato dallo scrittore e folkorista finlandese Antti Amatus Aarne e poi ripreso e ampliato dall’etnologo statunitense Stith Thompson nei primi decenni del Novecento, n.d.r.) e assume connotazioni di fertilità: in questi casi, infatti, il frutto opera come vero «contenitore» di una fanciulla che diventerà poi la sposa del giovane che riceve in dono i frutti. Il tema della fecondità è riaffermato anche dalle fiabe in cui una regina senza figli, su consiglio di una fata o di una vecchia, mangia una mela o sotterra le bucce del frutto nell’orto per rimanere incinta.

Ippomene e gli altri

Alcuni dei significati simbolici della mela giunti sino a noi attraverso le fiabe – che, è bene ricordarlo, nella forma letteraria fissano motivi tramandati oralmente e vecchi di millenni –, si ritrovano nella mitologia di varie culture. Se pensiamo a quella greca, il frutto assume valenze erotiche, come quando risulta galeotto nella storia d’amore tra Aconzio e Cidippe, narrata da Callimaco e Ovidio. Tre pomi d’oro sono presenti nella leggenda di Atalanta, l’eroina che accettò di farsi sposare da chi fosse stato capace di batterla nella corsa a piedi. Ippomene, con l’aiuto di Afrodite, riesce ad avere la meglio facendo cadere ai suoi piedi le tre mele, che avevano il potere di sprigionare un irresistibile fascino amoroso. Atalanta, dall’invincibile falcata, si ferma a raccoglierle e viene superata al traguardo dall’astuto giovane, che cosí riesce a sposarla.

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Il culto di Venere, olio su tela del Tiziano (Tiziano Vecellio). 1518. Madrid, Museo del Prado.

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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

Tuttavia, due sono gli episodi piú noti imperniati sulle mele. Il primo riguarda il famoso «pomo della discordia», ossia la mela che reca incisa la scritta «alla piú bella», lanciata dalla dea della discordia Eris – irata per non essere stata invitata alle nozze di Peleo e Tetide – alle dee riunite alla festa nuziale. Da ciò nasce la contesa tra Afrodite, Era e Atena per entrare in possesso della mela e ottenere il titolo di piú bella. A risolvere la contesa viene chiamato Paride, il quale assegna la vittoria ad Afrodite, mettendo però in moto una serie di invidie e gelosie che portano alla guerra di Troia.

Nel giardino fatato

Il secondo episodio è quello dei pomi d’oro del giardino delle Esperidi. Si narra che, in occasione del suo matrimonio con Zeus, Era avesse ricevuto da Gea un albero

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che produceva mele d’oro: i pomi piacquero talmente alla dea che la stessa ordinò di piantare l’albero nel giardino degli dèi, posti ai confini occidentali del mondo. Custodi dei pomi erano le Esperidi, Ninfe della sera, assieme al drago Ladone, mostro dalle cento teste. Come tutti i luoghi divini, il giardino era interdetto ai mortali. Eracle, però, nella sua undicesima fatica, riesce a raggiungerlo e, secondo la versione di Apollonio Rodio, a impadronirsi delle mele dopo avere ucciso il serpente che le custodiva. Secondo altre versioni, fa ricorso all’astuzia, inviando Atlante a recuperare i pomi e facendolo poi cadere in un tranello per farsi consegnare i frutti preziosi. Presso i Greci, dunque, la mela è simbolo d’amore e attributo di Afrodite, particolare questo che ci servirà a spiegare anche come il

In alto il Giardino delle Esperidi, particolare di un cratere a figure rosse del Pittore di Licurgo. IV sec. a.C. Ruvo di Puglia, Museo Nazionale Jatta. A destra, sulle due pagine Ercole ruba i pomi delle Esperidi, olio su tavola di Lucas Cranach il Vecchio. 1537. Braunschweig, Herzog Anton Ulrich-Museum.

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Dossier Attributo regale

Signori della mela-globo Già nella mitologia celtica la mela rimanda al valore regale dell’individuo. Un ramo o una bacchetta adorna di tre mele è infatti una delle insegne della maestà regale, come quella che, si narra, si trovava sopra il re Conchobar, all’epoca degli eventi narrati nel Ciclo dell’Ulster, ossia attorno al I secolo, sebbene i manoscritti che ne contengono le gesta risalgano al XII secolo: «Una bacchetta d’argento con tre mele d’oro stava sopra Conchobar per impartire ordini alla folla: quando egli batteva un colpo o quando alzava lui stesso la voce, la folla si zittiva». Un ruolo simile si rinviene presso la civiltà norrena, come accennato dall’episodio della Saga dei Volsunghi in cui Odino conficca nel legno di un melo la spada che poi apparterrà a Sigmundr. Discendente di tale stirpe, Sigurðr viene definito in un carme «melo dell’assemblea delle corazze (cioè della battaglia)», kenningar che, oltre a mettere in relazione il guerriero e l’albero, allude al melo in quanto pianta dispensatrice di frutti eccellenti di conoscenza e di prosperità. Ma tale simbologia risulta presente anche nell’area mediterranea. La forma della mela infatti, con la sua rotondità, rimanda al globo terrestre e quindi, indirettamente, al concetto di sovranità. Per questo gli imperatori romani portano una mela d’oro, raffigurazione dell’orbis terrae, e Caracalla, figlio di Settimio Severo, è il primo a farsi effigiare in questa maniera. La mela-globo, su cui talvolta campeggia la Vittoria alata, diviene quindi il simbolo del potere assoluto. Piú tardi, gli imperatori del Sacro Romano Impero sovrappongono alla mela-globo una Croce, per dimostrare l’esercizio del potere in nome del Cristo Re. Questa insegna accompagna gli imperatori romani di Germania fino a Napoleone I, restauratore dell’impero di Carlo Magno (perciò fino alle soglie dell’Ottocento), per ricordare ai sudditi l’origine divina dell’autorità. frutto venne poi interpretato nel mondo cristiano medievale. Presso i Celti, la quercia, il nocciolo, il tasso e il melo sono alberi druidici. La mela, in particolare, è frutto simbolo dell’immortalità, della scienza e della saggezza. Essa è considerata un mezzo per accedere all’Altro Mondo, o per restare in contatto con lo stesso. Si pensi, per esempio, all’avventura di Conle (Echtra Condla), racconto

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irlandese contenuto in manoscritti piuttosto tardi, ma risalente al VIIVIII secolo, opera di un letterato di ambiente monastico. Conle Ruad, figlio del re Cond Cètchathach «dalle cento battaglie», si trova insieme al padre sulla collina di Usnech quando appare una donna fatata, visibile solo a lui, che lo invita a seguirla nell’Altro Mondo, dove non ci sono morte, né peccato, né trasgres-

sione, e l’esistenza si svolge tra feste e in assenza di guerre. Cond, che non può vedere la donna, ma che riesce ad ascoltare la sua voce, chiama immediatamente il druido Corán e riesce a far allontanare la donna la quale, prima di sparire, getta a Conle una mela: «Conle rimase senza bere e senza mangiare fino al compimento di un mese: gli sembrava che nessun altro cibo fosse degno di essere mangiato se non quella mela. aprile

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Per quanto ne mangiasse non toglieva nulla al frutto, che rimaneva intatto. Crebbe quindi in Conle il desiderio per la donna che aveva visto». Dopo un mese, quando la donna fatata si ripresenta, invitando il giovane a seguirlo, nessuno potrà piú trattenere Conle: egli sale insieme a lei su una barca di cristallo e sparisce in mare, senza fare mai piú ritorno. Nell’episodio è presente, peraltro, anche un elemento erotico, giacché la donna fatata riesce a far innamorare Conle attraverso la mela. Anche alcune ballate del folklore presentano strutture similari. L’eroe irlandese Oisín arriva nel paese dell’eterna giovinezza seguendo una bella fanciulla che cavalca un cavallo nero e porta in mano una mela d’oro. Se il destriero è un tipico animale psicopompo, la mela d’oro riconferma di essere il tramite per entrare in una dimensione altra.

Lucenti come l’oro

Un episodio affine all’impresa di Ercole nel giardino delle Esperidi è narrato nel componimento Oidhe Chloinne Tuireann (La tragica morte dei figli di Tuireann). Qui, infatti, il dio Lug chiede ai tre figli di Tuireann, come risarcimento dell’assassinio del padre Cian, talismani prodigiosi. Tra questi vi sono le tre mele che si trovano nel giardino delle Esperidi, che, in base alle parole del dio stesso, «hanno il colore dell’oro lucido e la testa di un bambino di un mese non è piú grande di ciascuna mela. Hanno il sapore del miele, a mangiarle; non lasciano né ferite sanguinanti né malattie maligne a chi le mangia; non diminuiscono anche se le si mangia per molto tempo e per sempre». I fratelli riusciranno in questa impresa, riportando i frutti dagli straordinari poteri, ma la loro sorte è segnata, in quanto alla fine periranno, sfiniti dalle prove alle quali saranno sottoposti. Nella mitologia celtica è ben radicato il tema delle isole so-

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Il gigante Thjazi, sotto forma di aquila, rapisce la dea Idhunn e le mele dell’eterna giovinezza, xilografia da un originale di Max Koch, pubblicata nell’opera Walhalla Germanische Götter und Heldensagen di Gustav Schalk. 1906. Nella pagina accanto Carlo Magno in un ritratto eseguito da Albrecht Dürer. 1512 circa. Norimberga, Germanisches Nationalmuseum. L’artista immagina il sovrano come un uomo anziano e fiero dai lunghi capelli e barba bianca, con la corona del Sacro Romano Impero sul capo, e la spada cerimoniale e il globo dell’impero in mano. Sullo sfondo si notano il blasone imperiale con l’aquila e i gigli, simbolo del re di Francia.

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Dossier La dea Idhunn e le mele dell’eterna giovinezza, tavola a colori realizzata per l’opera Teutonic Myths and Legends di Donald A. Mackenzie. 1890. Nella pagina accanto Le tre Grazie, olio su tavola di Raffaello. 1504-1505. Chantilly, Musée Condé.

prannaturali, nelle quali si vive un universo parallelo alla vita reale, l’esistenza – priva di affanni e fatiche – è caratterizzata da uno stato di eterna beatitudine, allietata dalla ricchezza delle messi e dei frutti che il suolo spontaneamente produce. Tra queste, Tir na n-Óg, Mag Mell, Emain Ablach e la mitica Avalon, dove, secondo le leggende arturiane, viene forgiata la spada Caliburn (Excalibur) e dove Artú, ferito a morte dopo la battaglia di Camlan, viene trasportato da Morgana per curarsi. Ebbene, il primo a parlare di un’Insula Avallonis è stato Goffredo di Monmouth (1100-1155 circa) nella sua Historia Regum Britanniae. Come nota Marina Montesano, Abal, aval è la radice indoeuropea che nelle lingue celtiche, germaniche e slave dà origine al sostantivo «mela» (apple, Apfel, jabloko), per cui l’isola di Avalon non è altro che «l’isola delle mele». Infatti Goffredo, nella successiva Vita Merlini, chiama Avalon «Insula pomorum que Fortunata vocatur» e cosí la descrive: «L’isola delle mele che viene chiamata «Fortunata» trae il nome dal fatto che offre spontaneamen-

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te i singoli prodotti. Essa non ha alcun bisogno di contadini che traccino solchi nei campi, manca qualsiasi sistema di coltivazione a parte quello che la natura offre. Spontaneamente genera fecondi campi e uve e le mele nate nei suoi boschi dall’erba appena tagliata. La terra traboccante produce ogni prodotto spontaneamente, come fa con l’erba, là si vive per cento anni e piú». In questo Goffredo risulta debitore di Isidoro di Siviglia (560-636) che, nel libro XIV delle sue Etimologie, parlava in termini piuttosto simili delle Isole Fortunate, e si riallaccia comunque a una lunga tradizione risalente al mondo classico (si pensi a Diodoro Siculo, Strabone, Orazio, Pomponio Mela) circa l’esistenza, ai limiti del mondo, delle Isole Fortunate o isole Felici.

Una musica celestiale

Secondo i testi medievali celtici, la divinità marina Manannan Mac Lir ha il suo regno oltremondano nella citata Emne Ablach, da alcuni identificata con l’Isola di Man, ove il dio cerca di attirare i mortali da lui scelti. Nel racconto La Navigazione di Bran figlio di Febal (Immram Brain maic Febail), il cui nucleo risale al

VII secolo, si narra che il protagonista, mentre cammina da solo nei pressi di una fortezza, sente dietro di sé una musica. Essa è talmente dolce che cade in un sonno profondo e, quando si sveglia, trova vicino a sé un ramo d’argento coperto di fiori bianchi, che porta nella casa regale. In mezzo alla sala, dove si trovano molte persone, appare una donna vestita con abiti stranieri, che inizia a declamare cinquanta strofe e dice: «Porto da Emne un ramo dell’albero di melo simile a quelli che a voi sono familiari: ha i ramoscelli di bianco argento, e punte con in cima fiori di cristallo». Emne è Emain, la sopra menzionata Emne Ablach, «degli alberi di mele» (aball), ed è la sede principale dell’Altro Mondo. La donna inizia a cantarne soavemente le lodi. Similmente all’avventura di Conle, con la musica prodotta scuotendo il ramo di melo in fiore fa addormentare Bran e, lasciandogli in mano quel ramo, fa sorgere in lui il desiderio di raggiungere Emne. Infatti il giorno seguente l’eroe decide di mettersi in viaggio insieme ai suoi uomini alla ricerca di questo luogo paradiaprile

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siaco. Mentre naviga, vede avvicinarsi su un carro un uomo; si tratta del dio Manannan figlio di Ler, che sta tornando in Irlanda dopo molto tempo. Manannan invita Bran a continuare a remare per arrivare alle isole desiderate. Cosí il protagonista prima raggiunge Inis Subai (isola della gaiezza), e poi Tír na mBan, isola dove l’equipaggio si ferma, per un periodo stimabile in un anno, conducendo una vita piena di letizia.

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I suoi uomini sentono però nostalgia dell’Irlanda e chiedono a Bran di tornare indietro; partendo, la donna che li ha accolti li ammonisce di non toccare terra. Arrivati presso la costa, avvistano sulla spiaggia alcuni uomini, che chiedono a Bran chi sia: il protagonista urla loro di essere Bran, figlio di Febal, ma nessuno dichiara di conoscerlo, anzi sostengono che la navigazione di Bran è narrata nei loro antichi annali. Nel momento

in cui uno degli uomini dell’imbarcazione appoggia il piede sul suolo irlandese e si sgretola in un mucchietto di cenere, Bran capisce che la loro assenza non è stata di un anno, ma di centinaia di anni. Per loro, in Irlanda non è piú possibile tornare, per cui racconta il suo viaggio ai presenti per poi riprendere la via del mare per sempre. Anche nel mondo norreno permane il legame tra la mela e la frutta in genere con l’Aldilà, inteso

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Nella pagina accanto Adamo ed Eva, olio su tavola di Lucas Cranach il Vecchio. 1538-1539. Praga, Galleria Nazionale.

sicuramente in senso meno idilliaco rispetto a quello celtico. Risulta infatti attestato che nella nave funeraria norvegese di Oseberg, che conteneva gli scheletri di due donne di alto rango sociale, sono stati ritrovati resti di frutta, mele comprese, cosí come l’ambasciatore arabo Ahmad ibn Fadlan, che nel X secolo assistette alla cerimonia funebre di un capo vichingo morto durante uno dei viaggi lungo il Volga, asserisce la presenza di bevande inebrianti e di frutta, posti nel corredo funebre a bordo della nave. Frutta e mele, quindi, accompagnano i defunti nel viaggio verso una diversa dimensione. Tali tematiche, dalla mitologia celtica e nordica filtrano nella successiva letteratura medievale. Nella tradizione antico francese troviamo il personaggio di Guigemar (Guiomar/Guingamor), il quale compare come protagonista nell’omonimo componimento di Maria di Francia (seconda metà del XII secolo), ma che mantiene piú integre le radici folkloriche nel lai anonimo Guingamor, in cui risalta ancora la connessione tra le mele e i viaggi in mondi fatati. In questo caso Guingamor, nipote del re di Bretagna, suscita l’amore della regina, la quale gli si offre, ma egli, scandalizzato, rifiuta. Temendo che possa rivelare tutto al re, la donna decide allora di allontanare definitivamente Guingamor dalla corte e fa in modo che parta alla caccia di uno spaventoso cinghiale bianco. Inoltratosi nel bosco, Guingamor incontra a una fontana una fanciulla, evidentemente una fata, che promette di aiutarlo nella caccia al cinghiale a patto che trascorra la notte presso di lei. Cosí avviene e la coppia passa due giorni in lieta compagnia. Ucciso l’animale, il terzo giorno l’eroe decide

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di ripartire per la corte dello zio, portando indietro la testa del cinghiale come trofeo, ma si accorge che nel mondo degli uomini sono passati trecento anni: tutti coloro che il cavaliere ha conosciuto sono morti, e il paese è cambiato. Sconsolato, Guingamor racconta la sua avventura a un carbonaio incontrato per caso, gli lascia l’ormai inutile trofeo di caccia e riprende la strada verso l’Altro Mondo. Verso sera il cavaliere viene colto da una fame irresistibile e, dimentico degli avvertimenti della fata che lo aveva ammonito di non mangiar nulla, si ciba di tre mele selvatiche. Immediatamente il peso degli anni trascorsi cade su di lui, e, disfatto e invecchiato, cade da cavallo. Due fate però giungono a soccorrerlo, e fattolo salire sul destriero, lo riportano con loro nel paese al di là del fiume. Anche qui, come già con Bran, il protagonista non potrà piú tornare alla vita reale, il suo posto è ormai l’Altro Mondo e, anora una volta, la presenza delle mele e la violazione del divieto alimentare sembra rimarcare il confine tra le due dimensioni.

Fecondità e immortalità

Accanto alle caratteristiche fin qui descritte, la mela ha altre rilevanti valenze nel mondo celto-germanico. In alcuni racconti irlandesi, come nella Navigazione di Mael Duin, il frutto è in grado di placare la fame e la sete. Si legge infatti che «partiti da quell’isola, fecero una lunga navigazione in mare, senza cibo e in preda alla fame. Trovarono un’altra isola, circondata da ogni lato da una grande scogliera. Là sorgeva una foresta lunga e stretta, di grande lunghezza e di grande strettezza. Passando accanto a tale foresta, Mac Duin prese in mano un ramo da essa, mentre la barca veleggiava lungo la scogliera. Il terzo giorno egli trovò un grappolo di tre mele in cima al ramo. Ognuna di queste mele bastò loro per quaranta notti».

Poteri meravigliosi vengono attribuiti al frutto anche nel Libro Di Fermoy, un manoscritto del XV secolo che, piú che ispirarsi all’opera precedente, attinge a un patrimonio mitico comune: «Poi remarono per molto tempo, finché non apparve loro un’altra isola meravigliosa dove sorgeva una magnifica foresta di meli odorosi. Un bellissimo fiume scorreva in mezzo alla foresta. Quando il vento scuoteva le cime degli alberi, la musica cantata da loro era piú melodiosa di ogni altra cosa. Gli Ui Corra mangiarono qualche mela e bevvero un poco al fiume di vino. Immediatamente furono sazi e non sentirono piú né ferita né malattia». Oltre ad avere la capacità di sfamare in modo miracoloso molti uomini, il frutto riesce quindi a lenire e guarire ogni male. Nella mitologia germanica la mela è, innanzitutto, simbolo di fecondità, come dimostra un episodio contenuto nella Saga dei Volsunghi. Re Ferir e sua moglie non riescono ad avere eredi e pregano le divinità affinché possano avere un figlio. Frigg ascolta la supplica e chiede a suo marito Odino di intervenire. Questi chiama la fanciulla Hljóðr, figlia di un gigante, le mette in mano una mela e le ordina di portarla al re Rerir. Assunte le sembianze di un corvo, la fanciulla vola dal re e lascia cadere il frutto sulle sue ginocchia. L’uomo, credendo di indovinare il significato di quel segno, porta a casa la mela e la consegna a sua moglie, affinché ne mangi. Di lí a poco la donna si accorge di essere in attesa di un bambino. Nello stesso componimento, durante lo svolgimento di un matrimonio che si tiene in una stanza in cui c’è un grande melo, all’improvviso si presenta un uomo anziano, orbo e incappucciato, evidentemente Odino, il quale conficca una spada nel ceppo, dichiarando ai presenti che la spada apparterrà a chi sarà in grado di estrarla. Costui è Sigmundr, futuro padre di Sigurd/Sigfrido.

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Come lo dimonio rompe la campanella, episodio dal ciclo affrescato con le storie della vita di san Benedetto iniziato da Luca Signorelli e portato a termine nel 1505 dal Sodoma. Asciano (Siena), abbazia di Monte Oliveto Maggiore.

L’episodio, che richiama in parte il motivo della spada della roccia di Artú, assume una doppia valenza, proprio sulla base della presenza del massiccio albero del melo: lo stesso riconferma di essere simbolo di fecondità, vista la celebrazione delle nozze, e diviene anche simbolo di potenza guerriera.

Rapimento e riscatto

Che le mele siano simbolo di fecondità ed energia vitale è confermato dal fatto che nell’Edda in prosa di Snorri Sturluson (11791241) la dea Idhunn («colei che rinnova, ringiovanisce») conserva «nella madia le sue mele che gli dèi mangeranno quando invecchieranno e allora ridiverranno giovani tutti e tali rimarranno sino alla fine del mondo». Un giorno Loki viene fatto prigioniero dal gigante Thjazi sotto forma di aquila, e, per poter riottenere la libertà, deve portare al gigante Idhunn e le mele dell’eterna gio-

la frutta e le regole

Alla mensa dei monaci Nel monachesimo del X-XI secolo, molto attento agli esempi orientali dei Padri del deserto, i frutti, sia spontanei che coltivati, non incontravano i divieti che colpivano il regime dietetico monastico (come carni animali, vino, grassi e latticini) e la loro assunzione era permessa anche nelle forme di astinenza piú estreme. Dal punto di vista nutrizionale, la mancanza di vitamine dovuta all’eccessiva cottura di cibi come i legumi, era compensata proprio dall’assunzione di frutta e verdure fresche, anche perché indicati nella Bibbia come collegati alla sua condizione primordiale nel Paradiso terrestre. Cassiodoro raccomandava ai monaci di coltivare il giardino e la vigna e di gioire nel raccogliere i frutti della terra da essi lavorata; il poemetto Hortulus di Walahfrido Strabone era corredato dalla descrizione di ventitré essenze arboree, compresi gli alberi da frutta; mentre il biografo di Benedetto di Aniane annotava che nella Gallia narbonense il monastero di Gellone presentava, oltre alle vigne, orti molto ricchi di alberi da frutto di ogni tipo. Ildegarda di Bingen scriveva che le piú adatte a fini alimentari erano le piante coltivate,

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in quanto addomesticate dall’uomo, a differenza di quelle spontanee. In ogni caso, nella dieta dei monaci figuravano frutti commestibili sia coltivati che spontanei, poiché, oltre ad assolvere a esigenze prettamente alimentari, rivestivano un ruolo importante nel cammino spirituale verso l’ascesi. Gregorio di Tours (538-594) descrive l’asceta Mariano intento a sfamarsi di poma agrestia e miele raccolti nella selva, mentre Aureliano coltivava un piccolo orto. L’irlandese Colombano, nel rifugio della grotta di Annegray presso Faucogney, raccoglieva erbe campestri e meline selvatiche, o meglio i parvula poma spontanei che forniva l’eremo. Le varie regole monastiche, a cominciare da quella di san Benedetto, chiamavano poma i frutti d’albero, ossia mele, pere, fichi e cosí via; l’abate Smaragdo di S. Michele della Mosa, già nel IX secolo, indicava che la terza pietanza era costituita da frutti freschi di stagione (crudum de pomis), mentre Ildemaro, commentatore carolingio della Regola benedettina, spiegava che il consumo di frutta era consentito a pranzo e a cena, ma non per lo spuntino, ossia fuori dai pasti normali, in quanto contrario alla norma che stabiliva di non fare piú aprile

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di due pasti al giorno. Frutti e primizie erano un fatto comunitario e non era permesso assumerne fuori pasto, né privatamente; come osservava Giovanni Cassiano era sacrilegio non solo assaggiare, ma anche soltanto toccare i frutti che nella loro stagione giacevano sotto gli alberi, tranne quelli mangiati al pasto comune. Nella Regola di Paolo e Stefano (VI secolo), relativa all’Italia centrale, si confermava che a nessun fratello era consentito portare per sé a tavola un frutto, mentre in quella provenzale di Ferreolo, della seconda metà del secolo, si affermava ancor piú decisamente: «Se un monaco, chiunque egli sia, a causa soltanto della gola coglie un frutto di qualsiasi genere che è ancora sull’albero senza averne ricevuto il permesso, o se, incapace di dominare la gola, ne raccoglie uno caduto a terra, o, come avviene di solito, ha l’audacia di prendersi le primizie di qualche prodotto della terra quale uomo simile al primo Adamo, faccia degnamente penitenza, per la sua voracità, con la corrispondente pena del digiuno, e sia ritenuto indegno di partecipare al pasto comune, che è come un’immagine di paradiso».

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Il giardino dell’Eden, olio su tavola di Lucas Cranach il Vecchio. 1530. Dresda, Gemäldegalerie Alte Meister.

vinezza. Con un inganno, Loki fa uscire da Ásgard sia Idhunn che le mele, e l’aquila le trascina nella sua dimora. Gli dèi si allarmano immediatamente, perché, senza le mele straordinarie, progressivamente avvizziscono e i loro capelli ingrigiscono: perciò costringono Loki con le minacce a rimediare alla situazione causata. Travestito da falco, Loki trova Idhunn, la trasforma in noce e riesce a riportarla ad Ásgard, mentre il gigante viene eliminato. In questo contesto norreno, pertanto, le mele sono cibo divino, dotato degli straordinari poteri di assicurare l’eterna giovinezza. Il significato fecondante delle mele è riconfermato dalla storia in cui il dio Freyr si innamora di Gerðr, figlia del gigante Gymir, e invia un suo servo presso di lei per donarle undici mele d’oro come pegno del suo amore. Non bisogna dimenticare, tra l’altro, che le Matres o Matronae,

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Dossier Madonna col Bambino, particolare del Polittico di Sant’Emidio (o di Ascoli Piceno), tempera e oro su tavola di Carlo Crivelli. 1473. Ascoli Piceno, cattedrale di S. Emidio. Si noti il particolare del Figlio di Dio che tiene una mela fra le mani.

divinità femminili venerate all’incirca dal I al V secolo in vaste zone dell’Europa occidentale, soprattutto nella Gallia, nella Cisalpina e lungo la valle del Reno – pertanto comuni sia alla cultura celtica che a quella germanica – appaiono nell’iconografia come sedute con in grembo una cornucopia o ceste piene di frutta e mele, chiaro rimando alla loro valenza simbolica di fertilità e abbondanza.

Il pomo del peccato

Quando dai miti del meraviglioso pagano si passa al Medioevo cristiano, la mela va incontro a un processo di degradazione simbolica, e generalmente non viene considerata positivamente. Michel Pastoureau, nel suo celebre studio sul simbolismo medievale, nel quale ha dedicato uno spazio all’aspetto simbolico degli alberi, ci insegna che il simbolo medievale si lascia piú facilmente definire e caratterizzare attraverso le parole, per cui lo studio del simbolismo medievale deve sempre iniziare da quello del vocabolario e del lessico. Per molti autori anteriori al XIV secolo, infatti, la verità degli esseri e delle cose è da cercare nelle parole: solo ritrovando l’origine e la storia di ciascun vocabolo si può accedere alla verità «ontologica» dell’essere o dell’oggetto che essa designa. E, di solito, nella stessa lingua latina si cerca l’origine e la storia di una parola latina, con conseguenze che stridono anche fortemente con l’attuale filologia e concezione della lingua. Per fare un esempio, il noce nel Medioevo viene considerato malefico perché il nome latino che lo designa, nux, viene normalmente

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ricollegato al verbo che significa nuocere, nocere. Quindi è un albero nocivo e se ci si addormenta sotto di esso si può essere visitati dal Diavolo o da spiriti cattivi. Altrettanto vale per il melo, il cui nome latino, malus, evoca il male. L’albero del frutto proibito, causa della Caduta e del peccato originale, deve al nome che porta la sua progressiva trasformazione, nella tradizione e nelle immagini. E, di conseguenza, la mela viene vista come frutto peccaminoso. In verità, se si esamina il noto passo della Genesi (Genesi 2, 15-17; 3, 6), esso non fa riferimento a nessun albero in particolare. Si legge infatti: «Il Signore Iddio prese dunque l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse. Poi il Signore Iddio diede all’uomo quest’ordine: “Tu puoi mangiare di ogni albero del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non ne mangerai, perché il giorno in cui ne mangiassi, di certo moriresti”. (...) La donna vide che l’albero era buono a mangiarsi, piacevole agli occhi e desiderabile per avere la conoscenza, colse perciò del suo frutto, ne mangiò e ne diede all’uomo che era con lei, il quale pure ne mangiò».

Gola o superbia?

Se in altre tradizioni tale albero è stato identificato nel fico o nella vite, per la tradizione cristiana latina esso è invece il melo, e la mela è il frutto che Eva, invitata dal Nemico, mangia e fa mangiare ad Adamo, facendo precipitare il genere umano da un’esistenza edenica all’abisso del peccato. Anche su quale sia stato il vero peccato commesso, i pensatori medievali si affaticarono non poco. Se Agostino, nel De Civitate Dei, afferma che il motore dell’azione è stata la superbia, per molti degli autori attivi tra V e VI secolo il peccato in cui cadono Adamo ed Eva fu quello di gola. Cosí si esprime Giovanni Cassiano nelle Collationes

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sioni materiali. Non è piú il peccato della mente superba, ma del corpo desiderante. Diviene cedimento alle tentazioni e agli istinti della carne: quindi la gola e, subito dopo, la lussuria. Quest’ultima, infatti, è esplicitamente chiamata in causa nel racconto della Genesi in quanto, una volta che Eva e Adamo ebbero mangiato il frutto proibito «si aprirono gli occhi di ambedue e conobbero di essere nudi; intrecciarono delle foglie di fico e se ne fecero delle cinture» (Genesi 3, 7.). La cacciata dall’Eden coincide quindi con la scoperta della sessualità e con la perdita dell’originario stato di innocenza.

Esseri deboli e cedevoli

Madonna col Bambino in trono con un donatore, tempera su tavola di Carlo Crivelli. 1470. Washington, National Gallery of Art.

(«fu un atto di gola, per Adamo, mangiare il frutto dell’albero proibito»), oppure Ambrogio (il desiderio del cibo «scacciò dal paradiso l’uomo che vi regnava») o Girolamo («Il primo uomo fu scacciato dal paradiso (...) per la sua sottomissione al ventre piuttosto che a Dio»). Lo stesso Abelardo tuona che l’antico avversario «comprese che non il cibo, ma il suo desiderio è causa di dannazione e sottomise a sé l’uomo con una mela e non con la carne!». Come evidenzia Massimo Montanari, il peccato dei progenitori, spogliato della sua natura intellettuale, viene ricondotto a dimen-

Se volgiamo lo sguardo alle rappresentazioni iconografiche dell’episodio, si pensi a Hugo van der Goes o a Lucas Cranach il Vecchio, non può sfuggire che Eva, come le altre Eve raffigurate dai pittori di ogni epoca, presenta lunghi capelli sciolti, simbolo di seduzione e di mancata disciplina del corpo. Per la Chiesa del Medioevo, la fisicità di Eva incarna la debolezza femminile, la quasi naturale propensione delle donne alla cedevolezza. Come ha evidenziato Chiara Frugoni, se gli uomini peccano per un uso smodato delle proprie capacità e iniziative, diverso è il caso delle donne, che non devono impegnarsi per peccare in quanto è il loro stesso corpo a portarle inesorabilmente alla trasgressione. Se in un primo momento, da un punto di vista iconografico, la rappresentazione del peccato originale è orientata ad attribuire responsabilità in modo condiviso tra uomo e donna, con il tempo, soprattutto a partire dalla seconda metà del Cinquecento, la donna diventa la protagonista principale delle rappresentazioni del peccato originale. A tal proposito, Giuseppina Muzzarelli rimarca come la donna non venga intesa tanto come soggetto peccante, ma come occa-

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Dossier sione e strumento di peccato per l’uomo. Di conseguenza la mela «diviene il tramite del tramite, rappresenta il simbolo vegetale del peccato, l’oggetto citabile della seduzione, la rappresentazione in chiave alimentare della forza trascinante del desiderio, della «fame» del corpo e della difficoltà del dominio su di esso».

Tra sacro e profano

Ad avviso del già citato Camporesi, la mela è emblema della condizione femminile e carica su di sé una lunga storia di sessualità e fecondità. Ricorda infatti che il mito vuole che sia stato Dioniso, dio dell’ebbrezza, a creare la mela e a donarla ad Afrodite, dea dell’amore. La dea della terra Gea, inoltre, dona a Era una mela come emblema di fecondità in occasione del suo matrimonio con Zeus, e ad Atene ricorre l’usanza che gli sposi dividano e mangino una mela prima

La melagrana

Un frutto positivo

Madonna col Bambino e angeli («Madonna della melagrana»), tempera su tavola di Sandro Botticelli. 1487 circa. Firenze, Galleria degli Uffizi.

La melagrana, il frutto dell’albero del melograno, ha un ruolo importante come cibo dei morti nel mito greco. Ade, innamorato di Persefone, la rapisce con l’accordo di Zeus. Sua madre, Demetra, la cerca inutilmente per nove giorni, arrivando fino alle regioni piú sperdute: il decimo giorno, con l’aiuto di Ecate ed Elio, apprende che il rapitore è il dio degli Inferi. Allora scatena una carestia tale da affliggere tutta la terra, finché Zeus non è costretto a inviare il messaggero Ermes al fratello Ade, con l’ordine di restituire Persefone, a patto che ella non si cibi del cibo dei morti. Ade accetta, ma con l’inganno induce Persefone a nutrirsi di alcuni semi di melagrana. Zeus propone allora un nuovo accordo, in base al quale, poiché Persefone non ha mangiato un frutto intero, rimarrà negli inferi solo per un numero di mesi equivalente al numero di semi da lei mangiati. Il mito spiega quindi l’avvicendarsi delle stagioni: la primavera e l’estate sono i mesi che Persefone trascorre in superficie insieme alla madre, l’autunno e l’inverno sono invece quelli che passa nell’oltretomba, durante i quali terra e natura cadono in uno stato di sterilità.

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Nel Vecchio Testamento e nella tradizione ebraica, la melagrana è un simbolo di forte pregnanza, evocata nel Deuteronomio come quinto frutto fra i sette della Terra Promessa («terra di frumento, di orzo, di viti, di fichi e di melograni; terra di ulivi, di olio e di miele»), nel Libro dell’Esodo e nel Cantico dei Cantici come simbolo di fertilità. Il frutto diventa anche simbolo di morte e resurrezione, reinterpretando il mito greco alla luce del Cristo. Per questo la melagrana, nella simbologia cristiana, è sempre un frutto positivo. Una delle piú antiche raffigurazioni cristologiche, quella del mosaico di Hinton St Mary in Inghilterra (IV secolo circa, oggi al British Museum), presenta il Cristo con due melagrane ai lati; mentre le raffigurazioni di Lorenzo di Credi, la Madonna Dreyfus (o Madonna della melagrana), dipinta tra il 1475 e il 1480 (alla National Gallery of Art di Washington), e di Sandro Botticelli, la Madonna del Magnificat del 1485 e la Madonna della melagrana del 1487 (entrambe agli Uffizi), rappresentano la melagrana, aperta in modo da mostrare i chicchi, quale simbolo del destino di morte e resurrezione che attende il Cristo ancora bambino. aprile

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di accedere al talamo nuziale. Sulla base di tali premesse, sul finire del Medioevo le connotazioni erotiche della mela, a livello di immagini, equiparano la stessa ai seni femminili tondi, sodi e piccoli, come emerge nella descrizione di Giovanni Marinello, medico e letterato nel XVI secolo: «Le mammelle che piacciono piú che le altre sono picciole, tonde, sode et simili a due rotondi e belli pomi, vogliono alcuni che elle non siano troppo attaccate né troppo picciole et del colore che tiene il seno». Anche nell’Orlando Furioso (1516) dell’Ariosto vi è una similitudine tra le mele acerbe e il seno di Alcina, una delle tre fate sorelle («Bianca nieve è il bello collo e ‘l petto latte; / il collo è tondo, il petto colmo e largo; / due pome acerbe, e pur d’avorio fatte, / vengono e van come onda al primo margo»). D’altro canto, le mele sono associate anche alle natiche nella lirica cinquecentesca e alla sessualità intesa come frutto gustoso da cogliere e gustare. Nel Decameron (13491353) di Giovanni Boccaccio, nella quarta novella della terza giornata, vi è l’identificazione fra donna e mela: il poeta scrive che Isabetta, giovane sposa di meno di trent’anni, era «fresca, bella e ritondetta che pareva una mela casolana». Nell’immaginario erotico si afferma quindi la «donna-mela», simbolo di femminilità carnosa, fresca e sana. Tuttavia, dietro l’angolo, le mele possono essere associate anche all’idea di dissolvimento: «Oggetti di desiderio, come le vergini, finché acerbe resistono sui rami: mature, cadono, marciscono e nessuno le concupisce, secondo un frammento di Saffo in cui l’arcaica condizione femminile trova nella mela il simbolo piú efficace», annota ancora Camporesi. Il pomo caro ad Afrodite può trasformarsi cosí in lugubre ammonimento, in segnale funereo dello sfacelo della bellezza femminile che viene minacciata da un lombrico insidioso. Il verme che

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attacca la mela e il frutto bacato sono sinistri avvertimenti di fragilità effimera e di bellezza transeunte.

Insegna del Paradiso

Ma non solo, nell’immaginario che si afferma nel periodo barocco, la mela e la morte, in forma di teschio, vengono spesso associate anche a livello iconografico: nella sensibilità della Controriforma, la mela entra negli interminabili cataloghi delle vanitates. Proprio in base alla sua polisemia, la mela, al contrario, può essere vista anche insegna del Paradiso. Secondo quanto riporta Johan Huizinga (1872-1945), il mistico tedesco Enrico Suso (12951366) aveva l’abitudine, quando mangiava una mela, di tagliarla in

Miniatura raffigurante la raccolta delle melagrane, da un’edizione del Tacuinum Sanitatis. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.

quattro parti. Tre ne mangiava in nome della Trinità e la quarta la mangiava «per amore della Madre celeste che dette da mangiare una mela al suo dolce bambino Gesú; e perciò le mangiava con la buccia, perché cosí fanno i bambini». Nella leggenda medievale de I tre monaci che vanno al paradiso terrestre, i monaci si imbattono in «pomi molto bellissimi e amorosi da mangiare», che sono dolcissimi dilettevoli e soavissimi, colti da un albero che non lascia invecchiare.

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Dossier La produzione del sidro in una cartolina postale realizzata intorno al 1908.

il sidro

«Un utile arredo della domestica dimora...» Bevanda alcolica ottenuta dalla fermentazione alcolica dei frutti delle mele, il sidro ebbe ampia diffusione nel Medioevo, soprattutto nelle regioni del Centro e Nord Europa. Bevande a base di mele erano già conosciute dai Romani, i quali, per supplire alla mancanza di zucchero nel mosto delle mele, producevano un idromele con miele e succo di mela della migliore qualità, chiamata matiana. Vista la grande quantità di mele prodotte nel NordOvest della penisola iberica, il sidro era prodotto dai Baschi, i quali, secondo la tradizione, trasmisero i segreti della fabbricazione del sidro agli abitanti della futura Normandia intorno al VI secolo. In ogni caso, l’utilizzo del sidro risale a tutti gli effetti all’inizio dell’epoca merovingia: secondo le attestazioni, re Teodorico II (587-613) offre sidro durante un banchetto al quale è presente anche san Colombano (540-615), e sembra che santa Radegonda (518-587), a quanto dice Fortunato, vescovo di Poitiers, ne bevesse abitualmente. Il Capitulare de villis (770-800) attesta che nei possedimenti di Carlo Magno i birrai producevano la cervogia e il sidro di mele e di pere. Durante l’Alto Medioevo il sidro era probabilmente di qualità piuttosto scadente, in quanto veniva consumato con spirito di mortificazione: basti pensare che san Vinvaleo (V-VI secolo) non beveva

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altre bevande se non l’acqua della linfa degli alberi o delle mele selvatiche. Col tempo, però, il sidro diviene bevanda apprezzata e, di pari passo, aumenta la produzione di mele. La Lex Salica (VI secolo), per esempio, puniva severamente contro chi sradicava o distruggeva meli e peri intorno alle abitazioni. Dal XII secolo in poi la produzione e il consumo di sidro si affermano sempre piú in Normandia, tanto che comincia a far parte dei tributi dovuti ai monasteri e alle signorie del Centro e del Nord della Francia. Dalla Normandia, l’uso della bevanda si sposta pure in Inghilterra, infatti già Guglielmo il Conquistatore (1028-1087) aveva portato con sé barili di sidro dopo la sua conquista. Nella fabbricazione del sidro, vengono utilizzate sia mele coltivate che selvatiche: nel 1183, il conte Robert di Meulan consente ai religiosi di Jumièges di raccogliere mele nelle sue foreste per preparare la bevanda per se stessi e per la propria servitú. Il poeta francese Olivier Bassellin, nel XIII secolo, loda in un suo componimento il sidro («Se vi è sidro eccellente, / molto sovente / piú di altre bevande è amabile. / Tu sei, o buon sidro dal colore dell’arancio, / oggetto di ogni cura, / un utile arredo della domestica dimora»). Tuttavia, il sidro si afferma come bevanda d’uso corrente in Bassa Normandia solo nel XV secolo, a detrimento della birra, preferita nei aprile

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Pomi beatificanti, di eterna salute e giovinezza, alla stregua di quelli visti in altre culture. Il Cantico dei Cantici (II, 3) assimila il Salvatore a un melo («come il melo tra gli alberi del bosco, cosí il mio diletto tra i figli»), e anche nella Commedia di Dante (Purg., XXXII, 73-75) il melo fiorito viene utilizzato per una similitudine con la bellezza del Cristo nel momento della trasfigurazione sul monte Tabor («Quali a veder de’ fioretti del melo / che del suo pome gli angeli fa ghiotti / e perpetue nozze fa nel cielo»). Lo stesso Torquato Tasso, ne Il mondo creato (1407-1409) individua il melo come simbolo di castità, d’innocenza, di dolcezza immune dal peccato («Ma d’innocenza han sovra gli altri vanto / il bel pomo granato e ‘l dolce melo, / Né fanno ad altra pianta oltraggio ed onta»).

Simbolo ambivalente, la mela appare cosí anche nei dipinti. Se molto spesso, come nel caso della Madonna col Bambino che regge una mela di Carlo Crivelli (1480), essa è immagine del peccato originale e del peso dei peccati del genere umano che Cristo è destinato a prendere sulle sue spalle, altre volte, come ne La vergine sotto il melo di Lucas Cranach il Vecchio (1530), la mela in mano a Gesú Bambino e, soprattutto, il ricco melo alle spalle della Madonna assumono il significato di salvezza e redenzione.

Nella realtà materiale

Passando da un piano miticosimbolico a uno piú materiale, occorre dire che la frutticoltura non era molto praticata nei secoli altomedievali in Europa, a parte i territori occupati dagli Arabi. La

secoli precedenti. Il diffondersi del sidro si spiega per diverse ragioni. La cervogia, bevanda normalmente utilizzata da gente di umili condizioni, richiedeva un’ingente quantità di cereali. D’altra parte l’orzo veniva utilizzato per la fabbricazione del pane. Nei periodi di crisi, nel momento in cui il prezzo dell’orzo si alzava, il suo utilizzo per ottenere la cervogia era oggetto di critiche, in quanto sarebbe stato piú opportuno utilizzarlo per ottenere il pane. Allo stesso tempo, il vino prodotto dai vigneti normanni risultava scarso e il prezzo molto alto. Pertanto, la produzione del sidro si afferma come maggioritaria rispetto ad altre bevande e il sidro inizia a essere bevuto correntemente nelle taverne. Nel 1588 Julien La Paulmier, medico personale di Enrico III, scrive il De vino et pomaceo, primo trattato sul sidro, nel quale cerca di spiegare quanto l’uso dello stesso sia buono e salutare. L’opera è importante non solo a livello medico, ma anche a livello tecnico, in quanto contiene molte informazioni circa la coltivazione del melo da sidro, sulla preparazione e sulle caratteristiche del prodotto.

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Incisione raffigurante i monaci trappisti che producono il sidro, dalla Description du plan en relief de l’abbaye de La Trappe. 1708.

frutta, infatti, non era un alimento quotidiano, ma poteva diventarlo quando, invece che essere coltivata, veniva raccolta nei boschi ed era quindi il prodotto di un’economia silvo-pastorale. A ogni modo, il Capitulare de Villis di Carlo Magno, in cui l’imperatore impartiva disposizioni sulla conduzione delle aziende rurali, riporta una serie di frutti molto ricca e varia, e si prevede che debbano essere coltivati meli di diverse varietà. Questi, insieme ad altri tipi di alberi da frutto, vengono previsti anche nel piano di ricostruzione dell’abbazia di San Gallo in Svizzera (IX secolo). Per quanto riguarda l’Italia, nei secoli che vanno dall’XI al XV si assiste a un’espansione della pratica arboricola, accanto alla cerealicoltura e viticoltura. A partire dal Duecento, il consumo della frutta

aumentò nella dieta dei ceti benestanti urbani, di pari passo con lo sviluppo di commerci locali o di raggio piú ampio. Si ritiene che a dare impulso alla frutticoltura furono i detentori di vasti patrimoni terrieri, anche se non è da escludersi l’iniziativa di piccoli e medi proprietari fondiari. La coltivazione degli alberi a frutto dolce e oleoso aveva come scopo quello di avere un buon rifornimento di frutta di qualità, simbolo di signorilità e agiatezza,

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Dossier A sinistra miniatura raffigurante la raccolta delle mele e delle pere, da un Libro d’Ore illustrato dal Maestro di Adelaide di Savoia. XV sec. Chantilly, Musée Condé.

la relativa domanda provenivano da ambienti sociali che erano in grado di inserire nella propria alimentazione cibi che venivano considerati un lusso e non strettamente necessari, infatti i ceti rurali – legati a una dieta di pura sussistenza – fecero fino alla fine del Medioevo un consumo di frutta marginale e sporadico.

Colture miste con la quale imbandire la mensa domestica in caso di ospiti di riguardo e festività, ma anche per far fronte alle necessità quotidiane. La frutta era anche oggetto di donativi di prestigio e l’immissione sul mercato procurava redditi rilevanti. A ciò si aggiunga il fatto che la presenza di alberi da frutto allietava il soggiorno estivo dei padroni presso le case di campagna. Anche chiese e monasteri erano molto interessati all’incremento dell’arboricoltura da frutto, sia per le necessità della mensa, sia per realizzare cortine protettive intese a delimitare zone di rispetto e silenzio adatte alla meditazione, alla lettura e ai conversari (vedi box

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alle pp. 88-89). Anche le comunità cittadine presero a incentivare, se non a obbligare, attraverso normative statutarie, la coltivazione di alberi da frutto, regolando la proprietà delle piante e dei frutti, disciplinando il commercio degli stessi e sanzionando i danni arrecati alle piantagioni da uomini e animali. La diffusione degli alberi da frutto, incentivata dai proprietari contadini, era invece malvista dai mezzadri, i quali, a causa della breve durata dei contratti che li impegnavano, non beneficiavano della produzione degli alberi piantati. Occorre comunque dire che, per larga parte del periodo medievale, il consumo di frutta e

Tra gli alberi a frutto dolce il melo, il pero e il ciliegio sono quelli piú frequentemente attestati. La loro presenza risulta la piú varia, e trovano spazio sia in aperta campagna (anche come tutori della vite), sia dentro le mura, ossia entro le parcelle ortive e i giardini delle dimore piú agiate. Raramente si segnalano appezzamenti a esclusiva destinazione arboricola e ancor piú terreni nei quali si coltiva un’esclusiva essenza; ciononostante, pomerii e pererii sono attestati in piú aree, ma soprattutto in Piemonte. Il melo viene designato sia con il termine malus, sia con il termine pomum, anche se, spesso, pomum e il plurale poma vengono utilizzati per indicare in genere i frutti degli alberi. Sebbene non si registrino la stessa produzione e consumo aprile

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Facsimile di una miniatura raffigurante una donna che offre al marito un cesto di mele, da Verve n. 8, 1939.

attestati negli Stati europei in cui si produceva il sidro (sicera), ovvero la Normandia e la zona bascogaliziana (vedi box alle pp. 94-95), in Italia il melo è coltivato ovunque. Si ha cosí, in Sardegna, il melappiu, che costituisce una specie pregiata; nel Fiorentino le mele «casolane» sono assai rinomate; e, a Milano, godono di buona fama le mele «ravasia», «poppine» e altre. Documenti fanno riferimento anche al melo cotogno, coltivato in Sicilia, Toscana, Lombardia, Piemonte e Sardegna, ove esistono aree a esclusiva sua destinazione. Nelle zone pedemontane, per esempio nel Cuneese e Canavese, esso è presente sia nella varietà selvatica che in quella innestata. L’importanza rivestita dalla coltivazione delle mele è sottolineata, in Piemonte, dallo statuto di Genola: nel caso di danni arrecati ad alberi, venivano comminate forti multe e obblighi di risarcimento. Se inadempiente, il colpevole veniva pure colpito da crudeli pene corporali («amputetur ei auricola»). Mele e pere rappresentano anche i frutti normalmente menzionati nei contratti di mezzadria in Toscana, le rare volte in cui non ci si accontenti del generico riferi-

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Da leggere Marina Montesano, Frutta avvelenata, frutta stregata, in Irma Naso (a cura di) Le parole della frutta. Storia, saperi, immagini tra medioevo ed età contemporanea, Silvio Zamorani editore, Torino 2012; pp. 167-176 Alessandra Tozzi, Brunilde e Rosaspina. Mito e fiaba dagli Indoeuropei ai fratelli Grimm, Il Cerchio, Rimini, 2018 Gianna Chiesa Isnardi, I miti nordici, Longanesi, Milano 2006 Françoise Le Roux, Christian-J.

Guyonvarc’h, I druidi, ECIG, Genova 2000 Massimo Montanari, Mangiare da cristiani, Rizzoli, Milano 2015 Maria Giuseppina Muzzarelli, Fiorenza Tarozzi, Donne e cibo. Una relazione nella storia, Bruno Mondadori, Milano 2003 Piero Camporesi, Le officine dei sensi. Il corpo, il cibo, i vegetali. La cosmografia interiore dell’uomo, Garzanti, Milano 2009 Jean Verdon, Bere nel Medioevo, Dedalo, Bari 2005

mento a fructus arborum. In alcuni contratti il coltivatore è tenuto a porre a dimora un certo numero di alberi da frutto, altre volte una parte del raccolto deve essere recato alla residenza padronale.

speculative, attraverso le quali la fruttivendola puntava a mettere le mani sulla frutta di molti coltivatori del Montello, tra cui, appunto, mele «carbonesi», «calimane», «rosse» e «trevigiane». In definitiva, immaginata nei miti, nelle fiabe e nella letteratura, o consumata da nobiltà, clero, borghesia e ceti meno abbienti, la mela ha senz’altro rappresentato un frutto centrale nell’ambito della cultura simbolica e materiale dell’Occidente che attorno a essa è andata elaborandosi tra Antichità e Medioevo, fino ad arrivare alle soglie della modernità.

Scambi e speculazioni

Interessante è la testimonianza, risalente agli anni 1344-47, relativi ai commerci di una fruttivendola trevigiana, denominata «dona Diana, fructera de Ripa», e attiva anche nella zona del mercato veneziano. Mele, pere e altri frutti erano oggetto di vivaci scambi e potevano dar vita a manovre

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Il volto piú bello del Trecento ICONOGRAFIA • Tra i capolavori

dell’arte medievale si può a buon diritto annoverare il ritratto di sant’Agnese affrescato da Tommaso da Modena su una colonna del tempio di S. Nicolò, a Treviso. La martire ha tratti soavi e radiosi e, soprattutto, sembra seguire con lo sguardo chiunque si fermi a contemplarla...

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l 21 gennaio di ogni anno, al termine del Pontificale celebrato nella basilica romana di S. Agnese fuori le Mura, due agnelli vengono benedetti e portati in Vaticano, dove in seguito vengono offerti al monastero di S. Cecilia. Con la lana di questi animali le monache tessono i Sacri Palii, destinati a essere a loro volta benedetti dal papa il 28 giugno, sulla tomba di san Pietro. Toccando l’altare delle reliquie, gli agnelli s’impregnano simbolicamente delle virtú della santa, il cui nome significa sacra, pura, casta (deriva da Agnes, forma latinizzata del greco Hagné, che a sua volta nasce dall’aggettivo hagnós, «puro», n.d.r.), e la cui vita si basa su diverse fonti incerte e contraddittorie. Per papa Damaso (366-384) il suo martirio consistette nel rogo; sant’Ambrogio, invece, parla di una spada con la quale le sarebbe stata

A destra Sant’Agnese (particolare), affresco di Tommaso da Modena. Treviso, S. Nicolò (vedi anche a p. 100).

La lapide che ricorda come la chiesa romana di S. Agnese in Agone sia sorta sul luogo del martirio della santa a cui il tempio è intitolato.

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Particolare della statua di sant’Agnese realizzata da Ercole Ferrata, ispirato nella realizzazione da un disegno del Bernini. XVII sec. Roma, S. Agnese in Agone. tagliata la gola; Prudenzio, infine, parla di decapitazione: la seconda e l’ultima tesi sembrerebbero quelle piú convincenti, in quanto le ossa, appartenenti a una fanciulla di circa dodici-tredici anni, come ha confermato l’analisi anatomica, non presentano traccia di combustione.

Nella piazza dell’antico stadio Le reliquie, come già detto, si trovano a Roma, nei sotterranei della chiesa di S. Agnese fuori le Mura, dove i resti della santa sono conservati assieme a quelli di sant’Emerenziana in un reliquiario fatto realizzare da papa Paolo V nel 1615. Il capo della martire si trova invece nella chiesa di S. Agnese in Agone, proveniente dal Sancta Sanctorum in Laterano, dove era conservato presumibilmente già dal IX secolo, e donato da papa Pio X nel 1903-1914. In questo luogo, un primo edificio sorse già a partire dall’VIII secolo sul lato occidentale di piazza Navona, dove vi era lo Stadio di Domiziano e dove, secondo la tradizione, la giovane subí il martirio durante le persecuzioni di Diocleziano. La sua Passio è simile a quella di altre sante: giovanissima, si consacrò a Dio negli anni delle persecuzioni di Diocleziano, resistendo e mantenendo la sua fedeltà a Cristo. Respinto il figlio del prefetto di Roma che si era invaghito di lei, venne denunciata alle autorità ed esposta senza vesti di fronte alla folla, per essere umiliata. Gettata nel fuoco, le fiamme si divisero senza bruciarla, mentre i suoi capelli crescevano e si allungavano per coprirne il corpo nudo. Fu infine trafitta o sgozzata con una spada, proprio come si uccidevano gli agnelli sacrificali. Il suo culto era già presente a Roma nella prima

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metà del IV secolo, ed è una tra le Sette Antiche Martiri (con Lucia, Agata, Anastasia, Cecilia, Felicita e Perpetua) il cui nome è inserito nel Canone Romano. La devozione ad Agnese è attestata e diffusa già dall’Alto Medioevo, e la ritroviamo in numerose opere che la ritraggono con il suo attributo iconografico per antonomasia: l’agnello.

La «Monna Lisa Trevigiana» A Treviso, nel duomo di S. Nicolò, è Tommaso da Modena a regalarci una delle sue raffigurazioni piú significative e, probabilmente,

tra le piú belle: affrescata nella seconda colonna di sinistra, insieme a San Girolamo, San Giovanni Battista e San Romualdo, la santa si distingue per grazia, realismo e dettagli rappresentativi. La giovane, con una lunga veste a scollatura esagonale, porta sulle spalle un mantello foderato di pelliccia, probabilmente di vaio, come all’epoca si usava per distinguere le alte cariche. La tunica è bicolore, ma la tinta che doveva coprire la parte sinistra del vestito è scomparsa, lasciando intravedere l’intonaco sottostante.

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CALEIDO SCOPIO In basso il ritratto del cardinale Hugues de Saint-Cher (Ugo di San Caro o Ugone di Provenza) affrescato da Tommaso da Modena nella Sala Capitolare del convento di S. Nicolò a Treviso (oggi Seminario Vescovile). 1352.

In braccio tiene un agnello, e nella mano destra la palma del martirio. Tra le tante opere d’arte qui conservate, la Sant’Agnese ha preso un nome particolare: viene denominata come la «Monna Lisa Trevigiana» e sembra che il suo volto sereno sia considerato il piú «bello del Trecento». Se la osserverete da varie angolazioni, il suo sguardo vi seguirà, esattamente come quello della Gioconda.

In alto veduta integrale della Sant’Agnese, affrescata da Tommaso da Modena nel duomo trevigiano di S. Nicolò. Post 1353-ante 1366.

Domenicani illustri Poche le notizie sull’attività giovanile di Tommaso da Modena, pittore e miniatore: nacque con il nome di Tommaso Barisini e lavorò tra il 1350 e il 1375 nell’Italia settentrionale, soprattutto nella sua città natia e a Bologna. Un documento modenese del 1349 lo ricorda a Treviso e qui, nel 1352, firma un ciclo di affreschi con personaggi illustri dell’Ordine Domenicano sulle pareti della

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Sala Capitolare del convento di S. Nicolò (oggi Seminario Vescovile), dove si distingue per un realismo fisionomico inedito per l’epoca: tra i quaranta ritratti di studiosi, vescovi e teologi appartenenti all’Ordine, un paio meritano una menzione a parte. Uno è quello che rappresenta il cardinale Hugues de Saint Cher (Ugone di Provenza), con quella che

forse è la piú antica testimonianza iconografica dell’uso degli occhiali da vista, l’altro è il ritratto del cardinale francese, Nicolas de Freauville, mentre osserva un libro con una lente d’ingrandimento: anche in questo caso, sembra sia la prima rappresentazione pittorica tale strumento ottico. Debora Gusson aprile

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CALEIDO SCOPIO

Storie, uomini e sapori

Prelibatezze all’ingrasso di Sergio G. Grasso

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Romani erano golosissimi di selvaggina e di cacciagione. Alle oche selvatiche, ai colombi, ai piccioni, alle tortorelle, già cacciate nel periodo da dicembre a marzo dai popoli italici, i Romani aggiunsero il pavone, originario dell’India e la cui conoscenza giunse loro dalla Persia, attraverso la Grecia. Si deve a Quinto Ortensio – anfitrione, amico e collega di Cicerone – la valorizzazione della sua carne nella cucina romana, mentre M. Alfidio Lurcone, magistrato della repubblica e bisnonno

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dell’imperatore Tiberio, viene ricordato come il primo a praticarne l’ingrasso. Anche le uova di pavone erano estremamente ricercate oltreché costose. Nelle Historiae Augustae, a cui lavorò anche l’umanista dalmata Elio Lampridio Cerva (1463-1520), si trovano preziose informazioni, forse tanto improbabili quanto molto vicine al vero, degli esagerati baccanali dell’imperatore Eliogabalo che: «faceva servire agli ufficiali di palazzo piatti enormi riempiti (...) di teste di pappagalli, di fagiani e di pavoni. (...)

La cucina ben fornita (con Gesú sullo sfondo con Marta e Maria), olio su tavola di Joachim Bueckelaer. 1566. Amsterdam, Rijksmuseum. Si fece servire spesso creste strappate da polli vivi, lingue di pavoni e di usignoli, e mangiava cosí per essere sicuro dalla peste». Un’altra prelibatezza avicola di cui si praticava l’ingrasso presso i Romani erano i piccioni che venivano allevati (fino a 5000) nei cosiddetti columbaria, strutture scavate nella roccia, piú spesso adattate da antichi puticula aprile

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(pozzi usati come fosse comuni) sulle cui pareti venivano scavate piccole nicchie e a cui si accedeva da un’angusta apertura da cui potevano entrare solo i piccioni e non gli uccelli rapaci.

Giuramento con... arrosto Il pavone rimase una presenza costante sulle mense nobiliari fino a tutto il Rinascimento anche grazie ai suoi precisi valori simbolici, quali l’orgoglio la vanità, il lusso, la longevità e la fortuna. Tipico dei rituali cavallereschi medievali fu il «Giuramento del pavone», con cui il principe e i suoi compagni d’arme si impegnavano alla mutua assistenza in vista di una pericolosa impresa o di un pellegrinaggio in Terra Santa. Il giuramento di mutuo soccorso avveniva di fronte a un pavone cotto allo spiedo e rivestito delle sue stesse piume; le carni venivano scalcate dal signore, che le divideva tra i presenti con la solennità di un’eucarestia laica e militaresca. Di un «pavone vestito», che fungeva piú da pièce montée che da pietanza, ci è giunta una dettagliata ricetta stilata da Maestro Martino da Como, il piú importante cuoco europeo del Quattrocento. Secondo il commentatore Pomponio Porfirione (II secolo d.C.), «Un certo Sempronio Rufo fu colui che introdusse la moda di mangiare i cicognini come una ghiottoneria». Una moda ribadita da Petronio Arbitro, il quale, nel Satyricon, la considera quasi una depravazione: «Le mura di Roma guerriera stan quasi per terra, marce alle radici per il lusso sfrenato dei Romani. Per te, e per il tuo raffinato palato, sono allevati pavoni di Babilonia con penne dorate, capponi e galline di Numidia. Mi dicono che anche la cicogna, poveraccia, sempre piena di freddo e da sempre abituata agli spazi aperti, ha fatto il nido nel tuo pentolone». Gli uccelli piú rari, esotici e dispendiosi restarono sublimi prelibatezze anche per i buongustai dell’Alto Medioevo,

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al punto che papa Zaccaria, nell’VIII secolo, ritenne opportuno interdirle «ai buoni cristiani che aborrono il peccato di gola». L’uccellagione, cioè la cattura dei volatili «di passo» per mezzo soprattutto di reti, fu praticata – sia per scopi alimentari che per ottenere uccelli da richiamo per la caccia – in tutte le epoche. I sistemi medievali contemplavano i roccoli e i copertoni (appostamenti fissi e sorvegliati di reti verticali disposti a semicerchio tra gli alberi), le reti volanti e le paníe (lastre di pietra o rami d’albero cosparsi di vischio posti nei pressi dei luoghi di abbeveramento); servitori esperti nell’imitare i richiami di diverse specie di volatili, erano contesi a peso d’oro dai patrizi. Contadini e popolani non avevano bisogno di strutture fisse, né elaborate per procacciarsi il pasto quotidiano; si nascondevano tra le fronde delle rive tenendo in mano il capo di un filo alla cui estremità opposta era legato un pezzo di legno che galleggiava sull’acqua. Quando l’oca vi si avvicinava e iniziava a beccarlo, il cacciatore tirava a sé la corda e il pennuto inseguiva il pezzo di legno finché finiva nella zona di acqua dove rete lo intrappolava.

Pietanze pesanti e sostanziose Piatti «di piuma» dei commensali medievali erano i fagiani allo spiedo, i cigni arrosto con salsa al garofano, gli schidioni di merli e tordi, le pernici in umido con salsa «camellina», i pasticci di cappone, tutte pietanze pesanti, forti, oltremodo sostanziose e degne di quei grandi bevitori che erano i signorotti del Medioevo. D’altra parte, la Scuola medica salernitana avvertiva che: «Sono augelli a mangiar buoni / le galline ed i capponi / starne, tortore e pernici / piccioni, merli e conturnici, / ballerine, tordi e ralli / fagian, smerghi ed uragalli». Anche le nazioni esotiche del tempo, come l’impero bizantino e i regni

arabi, avevano in onore i volatili in cucina; a Bisanzio trionfavano le anatre e le gru condite con salse agrodolci e speziate simili al curry indiano, mentre gli Arabi si erano specializzati nell’ingrassare i piccioni con pastoni a base di frumento e semi di canapa; dopo di che li servivano cotti allo spiedo e accompagnati da olive in salamoia e cipolla stufata nel grasso di pecora. Anche alla corte del Saladino (1138-1193), sultano di Siria, Mesopotamia ed Egitto, la selvaggina da piuma era assai apprezzata e lo stesso sultano praticava regolarmente la caccia col falcone.

A caccia con gli uccelli L’addestramento e l’utilizzo dei rapaci in ambito venatorio giunse in Europa con i Goti, i quali, a loro volta, l’impararono dai nomadi della steppa euroasiatica. A partire dal IX secolo la falconeria si radicò capillarmente nelle diverse aree europee e le fonti letterarie raccontano di sovrani dell’epoca come Enrico I di Sassonia (876-936) noto come «l’Uccellatore» proprio per via della sua passione della caccia con falcone, oppure del conte Byrhtnoth che, nella battaglia di Maldon (991), liberò il suo falcone contro i Vichinghi di Olaf I di Norvegia prima di perire. Nell’arte della falconeria eccelse certamente l’imperatore Federico II di Svevia, che cacciava preferibilmente con i falchi d’ala lunga, gli stessi impiegati dagli Arabi la cui civiltà tanto ammirava. Sappiamo che le sue prede preferite erano l’airone cenerino, la cicogna, il germano reale, la pernice rossa, la quaglia, il fagiano, la gru e la folaga. La passione di Federico per la falconeria lo spinse a leggere tutto ciò che era a sua disposizione riguardo quest’arte e a invitare presso la sua corte i migliori falconieri dell’epoca provenienti anche dall’Oriente. Raccolse le

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CALEIDO SCOPIO Miniatura raffigurante la caccia alla gru, da un codice del Tacuinum Sanitatis. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.

sue osservazioni ed esperienze nel trattato in sei libri De arte venandi cum avibus (Sull’arte di cacciare con gli uccelli), il piú importante documento sull’arte venatoria di tutti i tempi, che spazia dalla classificazione degli uccelli a tutte

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le nozioni necessarie al falconiere, fino ad approfondimenti specifici riguardo le tecniche di caccia con una singola specie di rapace per predare un particolare uccello. Grandi golosi di volatili furono i pontefici Sisto IV, Adriano VI

e Clemente VI. In occasione dell’elezione a papa di quest’ultimo (1342) fu dato un banchetto in cui si servirono oltre 1400 oche e altrettante starne. Uno dei piú spettacolari banchetti a base di selvaggina fu quello offerto al duca aprile

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di Ferrara, Ercole II, che Cristoforo Messisbugo descrive composto da capponi lessi e fritti, pasticcio di pernici, capponi disossati farciti di fegati e mortadelle, pasticcio di anatra con tortellini, capponi arrosto con contorno di sanguinacci, piccioni ripieni di salsicce allo zafferano, fagiani in salsa reale, tortore in brodo di lardo e polpa di fagiano in gelatina. Nel 1503, durante il banchetto per il matrimonio di Lucrezia Borgia con Alfonso d’Este, vennero mangiati 1500 capi di pollame e in un altro pranzo per festeggiare le nozze di Alfonso II d’Este con Barbara d’Austria, i piatti forti furono pavoni arrosto e pasticcio di capponi.

Pagina miniata di un codice del De arte venandi cum avibus, il trattato scritto da Federico II. 1250-1275. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

La regina cacciatrice Tre le tante, forse troppe, gesta gastronomiche attribuite a Caterina de’ Medici (di cui tuttavia non esistono documenti che ne comprovino l’autenticità) s’incontra anche quella che la vuole provetta cacciatrice, capace di abbattere gli uccelli di palude con precisi colpi di balestra per poi cibarsene con gioia; alla raffinata nipotina di Leone X si attribuisce l’introduzione in terra di Francia della selvaggina alla toscana, marinata in aceto bianco e succo di limone. La si vuole anche ideatrice dell’anatra all’arancia, per quanto una ricetta di paperi annaffiati con succo di «melangole» (arance amare) sia già presente nei ricettari toscani trecenteschi. In quanto all’oca e all’anatra, o meglio al loro fegato-grasso, si deve al console Metello Scipione l’introduzione del suo uso sulle tavole romane a partire dal I secolo a.C. La novità proveniva dalla Grecia, dove già tre secoli prima il poeta comico Euboulas ne aveva decantato i pregi gastronomici. I Romani sfruttavano la capacità di anatre e oche di immagazzinare grasso nel loro fegato come riserva di energia prima di affrontare le lunghe migrazioni. L’alimentazione

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forzata dei volatili con alimenti ricchi di carboidrati come la frutta secca e soprattutto i fichi – tecnica già nota agli Egizi – provocava una steatosi epatica ovvero l’abnorme ingrossamento del fegato. Una volta estratto il fegato (in latino iecur), i Romani lo facevano ulteriormente gonfiare nel latte mielato; si otteneva cosí lo iecur ficatum, cioè ingrassato con fichi, da cui appunto l’italiano «fegato». Per tutto il Medioevo il fegatograsso d’oca o anatra compare

raramente nei ricettari europei, sostituito dai «pasticci» e «budini» di fegato di maiale, pecora e pollo. Se ne consumava certo a Bisanzio, ultima roccaforte della cultura romana, e in alcune località padane produttrici di pollame, dove, a causa della sua difficile conservabilità, rimase però confinato e per lo piú limitato al consumo familiare. Musulmani ed Ebrei continuarono a produrlo come fonte economica di grasso halal e kosher. Bartolomeo Scappi (1500-1577) – cuoco

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CALEIDO SCOPIO Vignetta raffigurante due Aztechi a banchetto, dal Codice Fiorentino, redazione bilingue della Historia universal de las cosas de Nueva España di frate Bernardino de Sahagún. 1577. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana.

privato di papa Pio V e autore di uno dei piú completi libri di Gastronomia del XVI secolo – pare lo avesse assaggiato per caso in un ghetto ebraico e pensò di proporlo al pontefice che a sua volta lo trovò delizioso. A dar manforte al successo del foie gras contribuí anche la Controriforma che, dopo il Concilio di Trento (1545-1563), sancí la liceità del consumo delle carni degli uccelli di palude nei giorni di quaresima, penitenza e astinenza equiparandola a quella dei pesci, dei delfini (mammiferi) e delle lumache. Da allora nelle nazioni il cui territorio presentava e presenta ampie zone paludose, oche, anatre, folaghe, aironi, fenicotteri, pavoncelli, cicogne e beccaccini entrarono di diritto nelle rispettive cucine nazionali.

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Il tacchino o «gallo d’India» fu visto per la prima volta da Cristoforo Colombo nell’agosto 1502, quando approdò sulla costa dell’attuale Honduras ed ebbe in dono dagli indigeni alcune «gallinas de la tierra» dalle «piume come lana».

Una novità di grande successo Una lettera del vescovo di Valencia datata 24 ottobre 1511 testimonia dell’arrivo in quella città dei primi dieci esemplari da riproduzione, metà maschi e metà femmine. Hernàn Cortés nel 1520 rimase stupito dall’abbondanza di tacchini che razzolavano per le strade e di quanti se ne vendessero vivi nei mercati di Tenochtitlán; seppe poi che la corte di Moctezuma ne consumava un migliaio ogni giorno. Al maestoso pennuto gli

Aztechi assegnavano oltre a un ruolo alimentare elevato anche quello simbolico e culturale. Nella loro millenaria mitologia il tacchino era huexolotl (da cui il nome messicano guajolote), una delle manifestazioni del dio ingannatore Tezcatlipoca, e questa natura divina è sottolineata dal suo comparire tra i simboli del calendario. Forse per questi motivi i resti di tacchino tra i rifiuti domestici esaminati dagli archeologi sono rari, a differenza di quelli ritrovati nei templi e in molte sepolture umane, probabilmente come compagni per la vita nell’aldilà. Con le sue ossa si costruivano utensili e monili e alla loro polvere si attribuivano poteri medicamentosi e funzioni magiche. Anche le piume di tacchino erano tenute in gran conto per confezionare copricapi, vesti e oggetti impiegati nei riti. Sull’onda dei successi di Cortés, Francisco Pizarro, sbarcato in Perú, annotò che anche i popoli incaici si cibavano di tacchini accompagnandone la carne con patate e mais cotti sulle braci e cospargendo sul tutto una piccantissima salsa al peperoncino. Portato sulle mense europee il gallo d’India entrò quasi di prammatica nei pranzi delle festività, senza distinzione di religione e ceto; si affermò in modo particolare, in Inghilterra, dove, alla metà del Cinquecento, già sostituiva sulle mense natalizie i cigni e i pavoni che fino ad allora vi avevano imperato. Le cronache inglesi ricordano nel Settecento un enorme pasticcio di selvaggina in stile tardo-medievale, ideato dal nobile inglese Henry Gray, realizzato con ben quattro oche, sei piccioni, tre beccaccini, sette merli e un tacchino. aprile

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Quando i santi prendevano le armi

Voglio la testa del Battista! di Paolo Pinti

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ato a Gerusalemme alla fine del I secolo a.C., Giovanni Battista morí a Macheronte, in Giordania, tra il 29 e il 32 d.C. Qui la sua vita, certamente intensa e ampiamente narrata nei Vangeli – persino nel Corano è nominato piú volte – non interessa: sono le circostanze della sua morte a essere rilevanti per il nostro argomento. Sappiamo tutti, anche per merito dei numerosi film che hanno trattato questo tema, che, nelle sue predicazioni, Giovanni condannava apertamente Erode Antipa, in quanto convivente con la cognata Erodiade, vedova di Filippo, fratello di Erode: la cosa risultò piuttosto sgradita al re, il quale lo fece mettere in prigione, per poi farlo uccidere, per decapitazione, allo scopo di compiacere Salomè, figlia di Erodiade, che allo scopo si era esibita nella famosa «Danza dei sette veli». L’evangelista Marco scrive: «Entrata la figlia della stessa Erodiade, danzò e piacque a Erode e ai commensali. Allora il re disse alla ragazza: “Chiedimi quello che vuoi e io te lo darò”. E le fece questo giuramento: “Qualsiasi cosa mi chiederai te la darò, fosse anche la metà del mio regno”. La ragazza uscí e disse alla madre: “Che cosa devo chiedergli?”. Quella rispose: “La testa Decollazione del Battista, olio su tavola di Callisto Piazza da Lodi. 1526. Venezia, Gallerie dell’Accademia. Dell’arma si vede soltanto la parte finale della lama, decisamente larga, robusta e curva, come quella di una storta. La testa del santo viene deposta

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su un piatto di metallo. Quello che, come reliquia, è custodito a Genova, nel Museo del Tesoro di S. Lorenzo, è invece di calcedonio (vedi foto alla pagina accanto, in basso). Un frammento è conservato nell’oratorio di S. Giovanni Battista a Loano. aprile

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Decollazione di san Giovanni Battista, olio su tela di Matteo Baldini. 16601670 circa. Prato, Museo di Palazzo Pretorio. L’arma che viene infilata nel fodero sembra avere la lama dritta, ma il fornimento la indica come storta, quindi con lama curva, a un solo filo. Il pomo parrebbe essere a testa di leone, come spesso si trova proprio nelle storte. del Battista”. Il re ne fu rattristato; tuttavia a motivo del giuramento e dei commensali non volle opporle rifiuto. E subito mandò una guardia con l’ordine che gli fosse portata la testa. La guardia andò, lo decapitò in prigione e portò la testa su un vassoio, lo diede alla ragazza e la ragazza lo diede alla madre» (Marco, 6, 21-28). Di questi fatti parla anche Giuseppe Flavio, il quale li colloca a Macheronte, poi distrutta da Areta IV, re dei Nabatei, nel 36/37, dopo la sconfitta dell’esercito di Erode: una sciagura che gli Ebrei attribuirono a una punizione divina per l’uccisione del Battista.

La ragazza e l’anziana Nei quadri sono spesso presenti due figure femminili, una giovane e una piú matura, se non addirittura vecchia: la prima tiene in mano il vassoio/bacile (quasi sempre simile a un piatto elemosiniere del XVIXVII secolo). Si dovrebbe pensare a Salomè ed Erodiade, ma non si spiega del tutto il personaggio della madre, quando è raffigurato molto vecchio e avvizzito, non coerente con il ruolo di amante del re. C’è un indubbio richiamo all’episodio di Giuditta e Oloferne, dove troviamo la protagonista, giovane eroina, assistita da una vecchia ancella. Si tratta certamente di uno dei santi piú rappresentati nell’arte e anche uno dei piú facilmente identificabili: di norma è un uomo di mezza età con capelli ispidi e lunga barba, vestito di una rustica pelle di cammello, che tiene in mano, o comunque venera, una piccola croce, solitamente di canna;

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A destra la reliquia costituita dal piatto sul quale, secondo la tradizione, fu deposta la testa di san Giovanni Battista dopo la decollazione. Donata da papa Innocenzo VIII, nel 1492, alla Protettoria della Cappella di S. Giovanni, a Genova, è ora custodita nel Museo del Tesoro di S. Lorenzo del capoluogo ligure. Il piatto vero e proprio è in calcedonio e di fattura romana del I sec. d.C., mentre la cornice che lo circonda, nonché la testa al centro, sono attribuiti a un orafo parigino e datati agli inizi del XV sec.

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CALEIDO SCOPIO Decollazione del Battista, tempera su tavola di Daniele da Volterra. 1550 circa. Torino, Galleria Sabauda. Nessun dubbio che si tratti di una storta, giacché se ne vede bene la parte finale, rastremata e con doppio filo. L’artista, però, ha esagerato in lunghezza: le storte erano decisamente piú corte. altre volte è raffigurato nell’atto di battezzare Gesú nelle acque del fiume Giordano; altre ancora è la vittima di Erode Antipa, con la testa mozzata e raccolta in un piatto prezioso (secondo la leggenda, questo piatto è quello conservato a Genova, in calcedonio, risalente proprio al I secolo d.C.).

Una presenza ricorrente In quest’ultimo caso è definito «san Giovanni decollato» e nella scena compare sempre la spada (spesso, una storta: una sorta di scimitarra, ma di ambito europeo, con lama molto larga e robusta) del carnefice che ha posto fine alla sua vita: quella legata alla sua morte è dunque un’arma ben precisa, che però, stranamente, è presente solo nelle raffigurazioni di tale evento e mai come vero simbolo legato alla sua figura. Decapitazione del Battista, olio su tela del Caravaggio. 1608. La Valletta (Malta), concattedrale di S. Giovanni. Vediamo solo la parte finale della lama, che è dritta: quindi si tratta di una spada. Il carnefice è raffigurato in procinto di sollevare la testa del santo per metterla in una sorta di piatto elemosiniere sorretto da una donna.

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Salomè con la testa di Giovanni Battista, olio su tela di Artemisia Gentileschi. 1615. Budapest, Galleria Nazionale Ungherese. Della spada si vede bene il tratto iniziale della lama, a sezione rombica, piú adatta per stoccate (colpi di punta) che per fendenti.

Eppure, sappiamo bene che l’arma utilizzata per uccidere un martire costituisce quasi sempre il suo simbolo o uno dei suoi simboli. Non raramente la stessa vuole indicare, invece, il passato violento o comunque di militare del santo, ucciso poi in vario modo. Il motivo che ha spinto generazioni di pittori a raffigurare o meno l’arma del martirio quale simbolo di un personaggio è senz’altro un mistero: per ricordare alcuni fra i molti esempi possibili, santa Caterina d’Alessandria, caratterizzata dalla ruota dentata (spezzata), quale strumento di tortura, e la spada, quale arma con la quale fu infine uccisa; ma santa Teodora, che pure fu decapitata, non è collegata quasi mai all’arma.

Un legame indissolubile Si conosce un quadro di Mattia Preti e allievi, nella chiesa di S. Teresa a Malta, del 1699, con rappresentato San Giovanni

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In basso piatto elemosiniere tedesco in rame dorato. XVI sec. Trevi, Museo Civico. In questi manufatti, a forma di grande bacile o di piatto, quasi sempre in bronzo, ottone, e addirittura argento e oro, si raccoglievano le elemosine. Venivano impiegati anche per il rito dell’aspersione dei fedeli o come contenitori dell’acqua benedetta. In numerosi dipinti, si vede utilizzato un recipiente del genere per la testa del Battista.

Battista che consegna una spada ai cavalieri di san Giovanni: ulteriore collegamento del santo con l’arma. Giovanni Battista è, pertanto, indissolubilmente legato alla spada (o storta), ma non l’ha come simbolo. Possiamo, però, esaminare le numerose opere pittoriche con la sua decapitazione, o decollazione, per studiare le varie tipologie di armi dipinte: anche solo cosí, il santo è di diritto uno di quelli legati al mondo dell’oplologia (disciplina che studia le armi) e va dunque inserito in questa serie. Resta senza risposta la domanda sulle ragioni che hanno motivato tanti pittori a non eleggere l’arma quale simbolo del santo, a dispetto di uno strettissimo collegamento con essa, mentre per infinite altre figure, la spada che ha posto fine alla vita terrena di un santo è sempre rappresentata come simbolo dello stesso, in grado di farlo identificare.

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CALEIDO SCOPIO

Lo scaffale Anna Martellotti La cucina normannoaraba alla corte di Guglielmo II di Sicilia Indagine storico-filologica sui ricettari Normanni Leo S. Olschki, Firenze, 383 pp.

39,00 euro ISBN 978-88-222-6895-2 www.olschki.it

Il cibo inteso come cultura, la gastronomia come elemento identitario: sono affermazioni sempre piú ricorrenti in una società che ha da tempo elevato la cucina e i suoi artefici a ruoli di primo piano. Al di là delle frasi fatte, tuttavia, quel che mangiamo può realmente costituire una chiave di lettura delle tradizioni e della storia e un brillante esempio in tal senso è dato da questo volume di Anna Martellotti, la quale, dalla sua prospettiva di filologa e studiosa della gastronomia medievale, ha

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affrontato un tema di notevole interesse e, al contempo, di stretta attualità. Fra i leitmotiv legati alla cucina contemporanea c’è, infatti, anche il concetto di contaminazione e, di fatto, quanto emerge dalle dense pagine del libro ne è un esempio straordinario: partendo dal riesame di due manoscritti contenenti altrettante raccolte di ricette e oggi conservati in Inghilterra, Martellotti ricostruisce il contesto nel quale le preparazioni descritte siano state messe a punto e, soprattutto, l’evidente influenza esercitata sulle successive compilazioni di tale natura. Convenzionalmente etichettati come NormannoA e NormannoB, i due codici, databili fra il XIII e il XIV secolo, mettono nero su bianco qualche decina di ricette, scelte fra quelle piú in voga alla corte arabonormanna di Guglielmo II di Sicilia e che, come spiega l’autrice, furono fatte proprie, non senza variazioni sul tema, dai cuochi attivi in Inghilterra e altre corti europee. Com’è facile

intuire, si tratta di una vicenda suggestiva che Anna Martellotti ha avuto il merito di raccontare con il rigore della studiosa, ma, al tempo stesso, con uno stile capace di conquistare anche i non addetti ai lavori. Per di piú, accanto alle considerazioni di natura filologica e linguistica, non mancano le trascrizioni/traduzioni delle preparazioni: un’ottima occasione per allestire un banchetto alla moda della raffinata corte palermitana dei sovrani normanni... Stefano Mammini Franco Suitner Iacopone da Todi Poesia, mistica, rivolta nell’Italia del Medioevo

Le Lettere, Firenze, 274 pp.

19,00 euro ISBN 978-88-9366-4004 www.lelettere.it

Come scrive nella Premessa, Franco Suitner era stato piú volte invitato a ripubblicare la

biografia di Iacopone da Todi data alle stampe nel 1999 e ha ora dato corso alle molte esortazioni con una versione aggiornata dell’opera. Rispetto alla prima edizione è rimasto inalterato l’assetto generale della trattazione, ma, naturalmente, l’autore è intervenuto laddove gli studi piú recenti sul personaggio gli hanno consentito di tratteggiarne un profilo ancor piú puntuale. La ricostruzione della sua parabola terrena si snoda nel costante intreccio fra gli aspetti piú propriamente letterari e le questioni dottrinarie scaturite dalle posizioni assunte da Iacopone, che, lo ricordiamo, dopo la tragica morte della moglie, avrebbe deciso di porre fine a un’esistenza fin lí assai poco esemplare e prese i voti, vestendo il saio francescano. Il condizionale è d’obbligo, perché su questo e altri episodi della sua vita non si hanno, a oggi, riscontri certi. Lacune che però nulla tolgono al valore della sua opera poetica, le Laude, che naturalmente costituiscono uno dei principali argomenti del volume. S. M.

Bianca Rusconi Ferrari, Giorgio Ferrari Ospedali in Vercelli dal Medioevo al secolo XX Contributo alla conoscenza delle istituzioni ospedaliere Publycom Editore, Vercelli, 250 pp.

16,00 euro ISBN 978-88-98873-22-7 http://libri.publycom.it/

Definito da alcuni autori «il primo, grande ospedale all’interno di una città italiana», il S. Andrea di Vercelli apre la rassegna proposta nel volume, che ripercorre la storia del centro piemontese attraverso le vicende dei suoi nosocomi. Una storia antica e illustre, i cui primi capitoli vengono scritti in pieno Medioevo e si avvalgono del contributo di personalitò di spicco, primo fra tutti il cardinale Guala Bicchieri, che della nascita del S. Andrea fu l’artefice, nel 1215. S. M. aprile

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ROMA

La vita quotidiana I monumenti della Roma imperiale – basti pensare al Colosseo – si sono in piú di un caso conservati in condizioni straordinariamente vicine a quelle originali, che rendono dunque abbastanza agevole immaginare quali fossero le loro funzioni e il loro funzionamento. Piú difficile può essere, a volte, immaginare quegli spazi al tempo in cui furono creati, quando ad animarli erano gli abitanti di una città nella quale, secondo stime attendibili, viveva piú di un milione di persone. Ecco allora che questa nuova edizione della Monografia di «Archeo» dedicata alla vita quotidiana dei Romani si cimenta nel «rianimare» gli uomini e le donne che di quell’epoca furono gli attori, ricostruendone l’esistenza quotidiana, fatta di condivisione degli spazi domestici e, soprattutto, di quelli pubblici. Gli abitanti dell’Urbe, infatti, erano innanzitutto «gente di strada», che amava ritrovarsi nelle grandi piazze forensi, alle terme, nelle tabernae... Una moltitudine assai composita e vociante, sulla quale il potere imperiale manteneva ben saldo il controllo. Un potere, tuttavia, capace anche di garantire una rete di servizi efficiente e capillare: dalla gestione delle risorse idriche al sistema fognario, dall’illuminazione delle strade alla prevenzione degli incendi, solo per fare alcuni degli esempi piú significativi. Una realtà, insomma, che potremmo definire moderna e che la Monografia di «Archeo» descrive nel dettaglio, con l’abituale ausilio di un ricco corredo iconografico.

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