Archeo Monografie n. 17, Febbraio 2017

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Viaggio nella terra dei faraoni di Sergio Pernigotti

N°17 Febbraio 2017 Rivista Bimestrale

€ 7,90

VIAGGIO IN EGITTO

EGITTO

My Way Media Srl - Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c.1, LO/MI.

ARCHEO MONOGRAFIE

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IN EDICOLA IL 20 GENNAIO 2017



EGITTO Viaggio nella terra dei faraoni di Sergio Pernigotti, con un contributo di Euphrosyne Doxiadis

6. Presentazione Un fascino senza tempo

82. Ritratti del Fayyum Sguardi incantati

100. Medio Egitto

8. Il Cairo

Nella terra di mezzo

18. Da Saqqara a Tebe

110. Alessandria e il Delta

Da «tenda» a capitale

Splendori lungo il Nilo

Le regine del Delta

52. Deir el-Medina

118. Oasi esterne

Nella città degli artisti-operai

Miraggi nel mare di sabbia

64. Da Esna ad Abu Simbel

124. Bassa Nubia

Operazione Nubia

74. Fayyum

126. Conventi del Mar Rosso

I templi salvati

L’oasi delle meraviglie

Cristiani nel deserto


Una fotografia scattata tra il 1867 e il 1899 e che mostra la Sfinge di Giza in stato di parziale scavo, sullo sfondo delle piramidi di Cheope, a destra, e di Chefren, a sinistra.

UN FASCINO

SENZA TEMPO


L’attuale (e complessa) situazione del Paese sul piano interno e su quello internazionale ha fatto sí che i lavori sul campo di molte missioni archeologiche abbiano subito un’interruzione (che si spera di breve durata), interruzione dovuta soprattutto alle esigenze della sicurezza. Ciò ha però consentito a molti studiosi di dedicarsi allo studio e alla rielaborazione dei dati raccolti in anni di scavi e spesso noti solo parzialmente: in tal modo la nostra conoscenza della storia e della civiltà dell’Antico Egitto ha potuto progredire di molto. Quando l’esplorazione archeologica potrà riprendere, si potrà dare attuazione a nuovi progetti che riguarderanno non solo lo scavo dei vari siti ma anche – e soprattutto – il restauro degli edifici e di altri monumenti significativi, attività quest’ultima che si va rivelando sempre piú importante, come hanno dimostrato e dimostrano le esperienze maturate a Medinet Madi e a Tebtynis nel Fayyum e che rappresenta giustamente una priorità per le autorità egiziane preposte alle antichità.

L’

Egitto ha sempre ammaliato l’Occidente: basti pensare ai primi del Novecento, quando, sulla scia delle grandi scoperte archeologiche che andavano succedendosi, facoltosi personaggi sceglievano la Valle del Nilo per assaporare l’affascinante amalgama tra l’esotismo del mondo arabo musulmano e la grandiosità dei monumenti dell’età faraonica. Erano esperienze riservate a pochi, vissute in maniera individuale, che spesso sfociavano in forme di mecenatismo e portavano contributi notevoli alla stessa egittologia. La vicenda di Lord Carnarvon – nobiluomo britannico animato da una grande passione per la civiltà dei faraoni – ne è un esempio tipico: recatosi in Egitto per trovare sollievo ai propri mali, divenne il finanziatore di importanti scavi archeologici culminati con il ritrovamento della tomba di Tutankhamon. Quel che accadde in quegli anni è una pagina importante dei rapporti tra la cultura europea e la riscoperta della civiltà dell’Egitto antico, anche perché molti dei visitatori di allora riportarono nel Vecchio Continente ricche collezioni di oggetti egiziani. Era del resto una prassi diffusa quella del signore europeo che, visitando uno scavo in corso, riceveva in omaggio dall’archeologo impegnato nella missione uno o piú reperti. Oggi un simile comportamento sarebbe inaccettabile, ma allora era un fatto del tutto usuale nel panorama della buona società egiziana e del mondo diplomatico del Cairo. Né si deve dimenticare che proprio questo fenomeno ha alimentato l’interesse per la civiltà antica del Paese sia in Europa che negli Stati Uniti, suscitando gusti e mode che si sono ampiamente diffusi anche negli anni fra la prima e la seconda guerra mondiale. Da allora le cose sono molto cambiate, soprattutto perché negli ultimi decenni il turismo di massa ha trasformato un’esperienza individuale in un prodotto di consumo. Una mutazione che, tuttavia, ha avuto e ha il merito di far sí che le conoscenze sul mondo antico escano da un ambito riservato a pochi e diventino un patrimonio piú largamente condiviso. Che cosa significa dunque compiere oggi un viaggio in Egitto? Vi sono molti modi per trasformare un viaggio turistico in un’esperienza culturale: nel caso del Paese dei faraoni, il segreto sta nel cercare di comprendere quali siano stati i rapporti culturali tra la civiltà egiziana e la nostra, dall’antichità ai nostri giorni. Parlare di rapporti significa stilare una sorta di inventario di ciò che noi dobbiamo all’Egitto antico, ma, anche, di quel che da noi ha avuto in cambio. Ci accorgeremo allora che, superato l’aspetto esotico che il Paese conserva (fatto di moschee, minareti, mercati arabi, ecc.) e che gli deriva dalla sua storia medievale, per nulla legata al suo passato piú remoto, la riscoperta della civiltà egiziana antica è stata fortemente voluta e infine realizzata dalla cultura europea, dal Rinascimento ai giorni nostri. L’interesse per l’Egitto antico ci è giunto come eredità della cultura greca. E nella Valle del Nilo possiamo scorgere quello che già gli scrittori greci vi vedevano: una civiltà «veneranda per la sua antichità» e per avere realizzato, cosí almeno credeva Platone, uno Stato governato da uomini sapienti dalla vita santa. L’Egitto sembrava insomma corrispondere all’ideale della sua Repubblica: un modo, questo, di rendere nostro ciò che in realtà era molto lontano, sia come origini che come sviluppo. Tenendo conto di questi presupposti, diviene piú facile comprendere il significato di questa civiltà, che ha a lungo dominato il Mediterraneo: un’esperienza che ha accompagnato e sempre si è svolta vicino a quella greca, proponendo tuttavia un modello di diversità rispetto alle soluzioni poi adottate dal mondo ellenico. Una diversità che va capita, rispettata e ammirata per gli straordinari risultati che essa ha consegnato all’umanità intera. Sergio Pernigotti Professore emerito di egittologia dell’Università di Bologna

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DA «TENDA» A CAPITALE

Veduta del Cairo verso ovest, litografia a colori di Louis Haghe su disegno di David Roberts. 1846-1849. In primo piano, la moschea del sultano Hassan.

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Rispetto al resto del Paese, il Cairo è una città «giovane», la cui storia comincia nel VII secolo d.C., dopo la conquista araba. Rappresenta, tuttavia, una tappa irrinunciabile, soprattutto per il suo Museo Egizio, la maggiore raccolta di antichità egiziane esistente al mondo


IL CAIRO

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rima dello sviluppo del trasporto aereo, il viaggio in Egitto cominciava ad Alessandria, dove approdavano le navi di linea e quelle che compivano le crociere nel Mediterraneo. Era un approccio affascinante e, non a caso, tutti i memorialisti di un tempo descrivono il delinearsi all’orizzonte della bassa costa africana e l’improvviso apparire di Alessandria con le sue palme, i suoi minareti e la solitaria «colonna di Pompeo». Giunti ad Alessandria e visitati i luoghi che conservavano antichità di epoca greca e romana, ci si disponeva a raggiungere il Cairo, da dove iniziava il lungo viaggio che sarebbe terminato a Luxor, se non ad Assuan e Abu Simbel. I visitatori provenienti dall’Europa o da altri continenti «attraversavano» cosí la storia moderna e medievale dell’Egitto prima di prendere contatto con le antichità faraoniche. E queste ultime apparivano ancor piú lontane nel tempo, ma tanto piú suggestive nella loro (segue a p. 14)

In alto Piramidi egiziane viste verso Est, disegno ad acquerello dal Diario di viaggio di Vitaliano Donati. 1770. Torino, Biblioteca Reale.

Sulle due pagine La spedizione franco-toscana in Egitto, olio su tela di Giuseppe Angelelli. 1829. Torino, Museo Egizio. A sinistra Veduta di Alessandria con il faro, incisione di Luigi Mayer. 1802.

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Il mito dell’Egitto

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er qualche secolo la cultura europea ha guardato all’Egitto come a una sorta di mito, un Paese del pensiero e dell’immaginazione, conosciuto solo attraverso il racconto dei pellegrini che si recavano in Terra Santa e appena lo sfioravano nel loro viaggio. Questo mito costituiva lo stimolo per cercare di decifrarne la scrittura cosí affascinante e misteriosa, presupposto indispensabile per penetrare in quella altrettanto misteriosa sapienza di cui, secondo gli scrittori classici, gli Egiziani erano i depositari. Il processo giunse a maturazione tra la fine del Settecento e i primi dell’Ottocento. Prima la spedizione in Egitto di Napoleone (1798-99)

permise di conoscere il Paese nella sua realtà fisica, di visitare e di riprodurre i monumenti antichi. Poi, nel 1822, grazie al genio di Jean-François Champollion, la decifrazione dei geroglifici, a lungo ricercata, permise di leggere i testi che le sabbie dei deserti egiziani hanno conservato attraverso i millenni. Ciò significava sostituire all’Egitto dell’immaginazione e della filosofia l’Egitto della storia e della scienza. Poco tempo dopo, cominciò l’esplorazione sistematica dei monumenti egiziani a opera di innumerevoli missioni archeologiche europee, tra le quali anche quelle italiane hanno avuto e hanno una parte non secondaria.

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IL CAIRO

Il Museo Egizio

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l Museo Egizio del Cairo custodisce la piú grande raccolta di antichità egiziane del mondo, grazie al fatto che vi sono andati confluendo la maggior parte dei ritrovamenti compiuti in Egitto a partire dalla sua costruzione, all’inizio di questo secolo, e dei monumenti che già si

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trovavano nei musei che lo avevano preceduto, a Bulaq prima e Giza poi, oggi semplici quartieri della capitale. Non si tratta, però, solo di un fatto quantitativo. Nei circa 150 000 oggetti che il museo – che ha sede in un edificio costruito ad hoc e inaugurato nel 1902 – oggi

conserva ci sono tutti i piú grandi capolavori della storia dell’arte egiziana: soprattutto sculture a tutto tondo e su superficie piana, ma anche una serie sterminata di oggetti attribuibili alle cosiddette arti minori e un numero impressionante di documenti storici di ogni tipo. Può perciò


risultare difficile districarsi in una serie di sculture e di oggetti di ogni genere, ma è uno sforzo che deve essere fatto, non solo per imparare a distinguere gli autentici capolavori dalle opere che non vanno al di là di un dignitoso artigianato, ma anche per comprendere le ragioni e la

vera natura dell’arte egiziana. Un’arte che ha saputo esprimersi sia attraverso le statue dei sovrani, dei funzionari o dei sacerdoti, sia con la sapiente cura dei particolari riservata, per esempio, ai gioielli e agli amuleti, che culmina nei capolavori che compongono il corredo funerario

del faraone Tutankhamon. Questa è, in definitiva, la vera funzione che può avere la visita del Museo Egizio del Cairo: imparare a capire e a distinguere prima di affrontare i monumenti che danno vita all’altro museo ideale, a cielo aperto, dei grandi siti archeologici dell’Egitto.

A sinistra Il Cairo, Museo Egizio. Una veduta d’insieme della sala principale del museo dopo la ricostruzione dei danni causati dalla guerra. In basso ll Cairo. Una veduta della moschea-madrasa del sultano Hassan. Una tra le piú grandi del mondo, fu edificata nei pressi della cittadella del Cairo in tre anni di lavori ininterrotti, dal 1356 al 1359.

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IL CAIRO

intatta bellezza: un viaggio a ritroso nella storia del Paese, che permetteva di risalire fino alle sue fonti piú remote. Anche oggi le crociere che fanno tappa ad Alessandria prevedono una veloce escursione al Cairo, per visitarne il Museo, e a Giza, per vedere le piramidi. Una soluzione che non consente quell’avvicinamento graduale e tanto piú ricco di valenze culturali dei viaggiatori di un tempo. Per questo l’arrivo al Cairo è oggi preferibile. In questo modo ci si cala subito all’interno dell’Egitto «faraonico», anche se ciò comporta la «perdita» di interi periodi della storia del Paese, come il tardo-antico, rappresentato fondamentalmente dall’età copta (V-VII secolo d.C.) e poi, dopo la conquista araba avvenuta nel 639-642 d.C., la ricca esperienza della conversione all’Islam della maggior parte della sua popolazione e l’adozione dell’arabo come lingua nazionale. Questi ultimi furono eventi di grande portata, che fecero entrare l’Egitto nell’ecumene musulmana e aprirono una fase storica completamente nuova, quella che continua ancora oggi. Eventi nei quali dobbiamo vedere il definitivo tramonto del mondo antico sulle rive del Nilo.

Una storia plurisecolare Queste vicende sono ancora ben testimoniate da numerosi monumenti conservatisi integri attraverso i secoli: si pensi alle moschee e alle chiese copte in alcuni quartieri del Cairo o ai monasteri che si trovano nelle zone desertiche, in qualche caso ancora oggi in funzione. Se in un primo approccio alla civiltà egiziana queste testimonianze possono passare quasi inosservate, esse meritano tuttavia d’essere conosciute nel loro valore intrinseco e non come specchi di epoche di decadenza e oscurità e possono quindi costituire una piú che valida

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Nell’aldilà con ogni sfarzo

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uella di Tutankhamon è la piú famosa delle tombe reali di Tebe, nonché uno dei complessi archeologici piú celebri al mondo. La sua scoperta fu in primo luogo frutto dell’ostinazione di Howard Carter, l’egittologo che aveva cominciato a lavorare con Lord Carnarvon nel 1907 e che aveva insistito per sfruttare fino in fondo la licenza ottenuta da quest’ultimo, valida fino al novembre del 1923, per scavare nella Valle dei Re. Il 4 novembre del 1922, la tenacia di Carter venne ricompensata: dalla sabbia emerse il primo dei sedici gradini che portavano a una porta chiusa con un sigillo del tipo di quelli usati dai sacerdoti che custodivano la necropoli. Praticato un foro nella porta, Carter intravide un corridoio in fondo al quale si distingueva un’altra porta. A quel punto, l’archeologo fermò i lavori e telegrafò a Carnarvon, il quale, sfiduciato per gli scarsi esiti delle ricerche fino ad allora condotte, era rientrato in Inghilterra. Ricevuto il messaggio di Carter, Carnarvon partí immediatamente e, finalmente, il 26 novembre lo scavo venne ripreso. Ben presto il contenuto del sepolcro si rivelò in tutta la sua opulenza ed ebbe inizio il recupero del tesoro che oggi fa bella mostra di sé nelle sale del Museo Egizio del Cairo. Una seconda campagna di scavo, avviata esattamente un anno piú tardi, fu dedicata alla camera sepolcrale, all’interno della quale stava il sarcofago con la bara dorata di Tutankhamon che, protetta da una lastra di cristallo, è stata lasciata nella sua collocazione originaria. A sinistra particolare di una statua di Tutankhamon come re dell’Alto Egitto, status indicato dalla corona bianca, il khaydet, che indossa. XVIII Dinastia, 1336-1327 a.C. Il Cairo, Museo Egizio. A destra la maschera di Tutankhamon, capolavoro realizzato in oro massiccio e pietre preziose. 1332 a.C. 1323 a.C. Il Cairo, Museo Egizio.


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IL CAIRO

motivazione per tornare nella Valle del Nilo. Il Cairo in sé non presenta alcun interesse per la storia della civiltà dell’Egitto faraonico, fatto salvo, naturalmente, il suo grandioso Museo Egizio (vedi box alle pp. 12-13). La città ha avuto un ruolo di fondamentale importanza nell’età medievale e in quella moderna, fino a diventare uno dei piú importanti centri culturali della civiltà che si esprime nell’Islam e usa l’arabo come lingua della religione e del sapere. In quello che oggi è solo un quartiere della megalopoli moderna, il cosiddetto «Cairo vecchio», si installarono gli Arabi agli ordini del generale Amr ibn el-As al momento della conquista del Paese, in un

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In alto particolare di una nicchia con dipinto murale raffigurante la Vergine circondata dagli apostoli, dal monastero copto di S. Apollonio a Bawit. VI sec. d.C. Il Cairo, Museo Copto.

accampamento posto di fronte alle mura di un insediamento di cui si conservano resti imponenti e che veniva chiamato «Babilonia d’Egitto». Qui i nuovi signori del Paese posero le loro tende, donde il nome che il luogo assunse, e che ancora mantiene, di el-Fostat (la tenda); e qui costruirono i loro primi edifici e naturalmente la loro prima moschea.

Una moltitudine di confessioni diverse Il quartiere appare oggi come un insieme quasi inestricabile di edifici religiosi di epoche e di fedi diverse. Accanto alle moschee dei musulmani sorgono le chiese dei cristiani, che rispecchiano puntualmente le loro divisioni


Li chiameremo Copti

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Egitto venne conquistato dagli Arabi alla metà del VII secolo d.C. e i nuovi signori del Paese si trovarono alle prese con una popolazione indigena ormai completamente cristianizzata e dominata da una minoranza di origine e di lingua greca, fedele al governo bizantino. Trovando inadeguate le espressioni esistenti nella loro lingua per designare la terra appena conquistata e i suoi abitanti, gli Arabi scelsero di adattare al proprio idioma la parola greca aigyptios, «egiziano». Eliminando il dittongo iniziale ai- e la desinenza finale -ios, ricavarono il termine gypt, dal quale, attraverso il latino, derivo il nostro «copto». Il nome entrò a far parte della lingua ufficiale e, col tempo, assunse un significato sia etnico che religioso: esso finí infatti con l’indicare gli Egiziani di religione cristiana. Quest’ultima accezione si è conservata

fino ai giorni nostri e la Chiesa copta ortodossa è quella che in egiziano si chiama semplicemente «Chiesa degli Egiziani». L’introduzione del vocabolo ha avuto anche un valore retroattivo e nella storia dell’Egitto, soprattutto dal punto di vista delle manifestazioni artistiche, l’età copta è divenuta per convenzione quella che abbraccia i primi otto secoli dell’era volgare. Fra le testimonianze piú importanti a essa attribuibili, spicca la produzione di stoffe di lino decorate. Questi preziosi manufatti, che si sono conservati grazie al clima eccezionalmente secco della regione egiziana, sono uno strumento di grande importanza non solo per lo studio dell’evoluzione del costume, ma anche per la conoscenza dell’arte copta. I tessuti provengono perlopiú dai cimiteri, dove venivano impiegati per rivestire i defunti; altri venivano utilizzati per decorare i luoghi di culto o nelle liturgie.

In basso un esempio di arte devozionale copta: una formella in avorio raffigurante Cristo in atto benedicente che regge una Bibbia. VI sec. d.C.

interne: vi sono infatti chiese distinte per i copti, per gli ortodossi e per i cattolici. Questo primo insediamento si andò in seguito sviluppando verso nord, assumendo un ruolo egemone nella storia dell’Egitto, in una sorta di condominio con Alessandria che, seppure in forme diverse, si è protratto fino ai nostri giorni. Prima del Medioevo, dunque, il Cairo non esiste, né rappresenta la continuazione diretta di alcun centro egiziano antico. La città mantiene tuttavia un suo legame con il passato, se non altro nel suo collocarsi in una zona che per il Paese è stata sempre della piú grande importanza, vale a dire il luogo in cui termina la Valle del Nilo e ha inizio il Delta. Del resto, secondo una tradizione antica assai attendibile, non molto lontano da qui, sulla riva sinistra del fiume, il sovrano che ha unificato il Paese, dando vita alla prima dinastia (3200 a.C. circa) fondò la città di Menfi, destinata a essere per tutto il III millennio a.C. la residenza dei sovrani e poi per sempre la capitale amministrativa dello Stato egiziano.

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Sulle due pagine Giza. Uno scorcio delle imponenti piramidi di Cheope (IV dinastia, 2609-2580 a.C.), sulla sinistra, e di Chefren (IV dinastia, 2570-2545 a.C.), sulla destra.


SPLENDORI LUNGO

IL NILO La guida ideale per scoprire le meraviglie della civiltà egiziana è il grande fiume che rese prospera la sua terra: sulle sue sponde, infatti, si succedono i principali siti archeologici del Paese

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DA SAQQARA A TEBE

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lla periferia occidentale del Cairo si trova parte di una delle piú vaste aree archeologiche del mondo, nella quale si conservano i resti delle necropoli regali dell’Antico Regno (dinastie III-VI, 2700-2195 a.C.). Si tratta di una serie pressoché ininterrotta di piramidi, a partire da Abu Rawash a nord per giungere a sud fino a Meidum, nelle quali sono stati sepolti i sovrani del III millennio a.C., e, in tombe ordinatamente poste accanto a quelle dei loro signori, i funzionari piú importanti che con loro avevano collaborato su questa terra. Quei funzionari formavano la sua corte anche in cielo, dove il sovrano aveva raggiunto gli dèi suoi fratelli, dai quali si era temporaneamente separato per rivelarsi agli uomini come re d’Egitto. Una notevole porzione di questa immensa area è esclusa dai circuiti turistici abituali: per visitarla è necessario organizzare escursioni per piccoli gruppi accompagnati da guide. Tuttavia, quel che si può visitare nell’ambito dei percorsi tradizionali fornisce un’idea esauriente della civiltà faraonica, dalla sua epoca piú antica sino al momento in cui assunse, verso la metà del III millennio a.C., i caratteri che la rendono familiare e che conservò intatti, o quasi, fino alla fine del mondo antico. La logica, e la cronologia, vorrebbero che la visita iniziasse dalla zona di Saqqara, uno dei piú importanti siti archeologici che si trovino in Egitto.

L’unificazione dell’Egitto Il nome Saqqara è forse di origine antica e deriverebbe da quello di una divinità funeraria, Sokaris, che era posta a tutela della zona. Con esso si indica ora una grande area archeologica, nella quale sorgeva la necropoli di sovrani e di importanti funzionari dello Stato egiziano fin dalla I dinastia (3100-2890 a.C. circa), cioè fin da quando il Paese non venne unificato per opera di un re di nome Aha «il A destra Menfi. Un primo piano del volto della sfinge di Amenhotep I (XVIII dinastia, 1518-1497 a.C.). Realizzata in alabastro, è la piú grande oggi superstite tra quelle ricavate da un unico blocco di materiale, con i suoi 4,5 m di altezza e 8 m di lunghezza.

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Mar Mediterraneo Porto Said Alessandria

Cairo Suez

Giza

Saqqara

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Golfo di Suez

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In alto Menfi. Particolare del Colosso di Ramesse II (XIX dinastia, 1279-1212 a.C.), statua in calcare che misura oltre 10 m di altezza. Rinvenuta nel XVIII sec. dall’esploratore Giovanni Battista Caviglia, anticamente era parte di una coppia posta all’ingresso del tempio di Ptah. A destra cartina dell’Egitto con l’indicazione dei luoghi citati nel testo.

el-Balyana Abydos

Qena Coptos Dendera Tebe Esna

Luxor

Egitto Edfu

Kom Ombo

Assuan

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DA SAQQARA A TEBE

Plasmata in corso d’opera Lo studio della struttura della piramide a gradoni innalzata per Djoser ha dimostrato che, in realtà, Imhotep intendeva inizialmente costruire solo una mastaba in pietra per il suo re: tuttavia, mano a mano che il lavoro procedeva, il grande architetto modificò il suo progetto fino a costruire la struttura che oggi ammiriamo. Secondo alcuni studiosi, in realtà, non si tratterebbe di una vera piramide, ma di una specie di mastaba plurima, il che è vero dal punto di vista strutturale, ma non da quello funzionale e ideologico.

Sulle due pagine Saqqara. Una veduta panoramica della piramide a gradoni di Djoser (III dinastia, 2680-2660 a.C.). In alto ricostruzione grafica del complesso funerario del faraone, circondato da un muro alto oltre 10 m, con finte porte e bastioni.

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Qui sopra i resti del complesso funerario di Djoser, che si estende intorno alla piramide a gradoni. Qui Imhotep dispose la costruzione di una corte legata alla celebrazione dell’Heb Sed, la festa giubilare che segnava il trentesimo anno di regno di un faraone, e di una serie di false cappelle.

Combattente», da identificare, per generale consenso degli studiosi, con quel Menes che le fonti egiziane posteriori e gli scrittori classici indicavano come il primo sovrano che abbia regnato su tutto l’Egitto. Oggi sappiamo che i sovrani della I e della II dinastia (2890-2686 a.C. circa), originari del Sud, non furono sepolti a Saqqara: le loro tombe sono state infatti

localizzate nella necropoli di Abydos. Qui però essi furono attivi fin dal momento in cui l’unificazione fu compiuta: una tradizione, che sembra assai attendibile, vuole che lo stesso Menes abbia fondato Menfi in questa zona. Menfi sorgeva sulla riva sinistra del Nilo, nella zona in cui si trova il villaggio moderno di Bedrashein. Era una città grande e bella, una

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DA SAQQARA A TEBE

L’«inventore» della pietra

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mhotep (architetto che visse durante il regno del faraone Djoser, III dinastia, 2680-2660 a.C. circa) decise che tutti gli edifici fossero costruiti non piú in mattoni crudi, come era avvenuto fino ad allora, ma in pietra, materiale che aveva avuto al contrario un impiego molto piú limitato e sempre in associazione con i mattoni crudi. Ed è altrettanto certo che in questo periodo molti edifici di culto, se non tutti, erano costruiti con elementi vegetali: semplici capanne all’interno delle quali erano custodite le statue delle divinità. La decisione di Imhotep può forse sembrare ovvia, ma ha invece un significato piú profondo: riflette, infatti, una scelta «ideologica», in cui la pietra diventa lo strumento per la costruzione di edifici destinati all’eternità – e quindi in primo luogo la dimora eterna del sovrano –, da contrapporre a quelli in mattoni crudi, intrinsecamente minati dalla caducità e destinati al mondo perituro degli uomini. È il palazzo per l’eternità del sovrano che si distingue da quello in cui egli stesso e gli uomini passano la loro vita terrena. La dottrina della regalità di origine divina, tipica dell’Antico Egitto, si afferma cosí attraverso il linguaggio dell’architettura, che si rivolge a un pubblico assai piú ampio di quello che può essere raggiunto dalla scrittura. Per di piú, Imhotep va ancora oltre e giudicando la tomba «a mastaba» inadeguata a esprimere l’enorme differenza che separa il sovrano – un dio disceso dal cielo per governare l’Egitto – dai suoi sudditi, «inventa» la prima piramide della storia egiziana. Partendo dalla mastaba originaria, attraverso una serie di aggiustamenti successivi – gli studiosi hanno individuato sei mutamenti di progetto, evidentemente realizzati sul campo – egli costruisce una piramide a gradini dell’altezza di 60 m circa. Quel che piú stupisce, contemplando da una certa distanza il complesso funerario di Djoser costruito da Imhotep, è la straordinaria capacità del grande architetto di inserire l’opera nel paesaggio in cui si colloca, suggerendo una spinta ascensionale che senza dubbio allude al percorso che il sovrano dovrà compiere quando, dopo la morte, dovrà salire in cielo per unirsi agli altri dèi.

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metropoli cosmopolita, almeno in certi momenti della storia egiziana del Nuovo Regno (1543-1069 a.C.). Nell’Epoca Tarda (747-332 a.C.) vi abitavano, oltre agli Egiziani, anche Greci, Cari e Fenici, ordinatamente suddivisi in quartieri separati. Qui, già nei primi tempi della sua storia, si era formato presso il tempio del dio locale, Ptah, un grande centro di cultura, dal quale ha preso impulso la stessa civiltà egiziana, nella letteratura e nella scienza come nell’architettura e nelle arti figurative.

Campi coltivati e palmizi Se oggi dall’altopiano di Saqqara si guarda verso il Nilo, non si scorgono altro che il verde intenso del terreno coltivato e le chiome dei palmizi. Nulla è rimasto dell’antica metropoli, se non qualche brandello di muro che indica il luogo in cui sorgeva il tempio di Ptah e le fondazioni di qualche altro edificio di culto. Nel cortile del locale museo sono stati collocati i pochi monumenti che si sono conservati, tra cui una delle due statue colossali di Ramesse II ritrovate nella zona; l’altra è stata infatti portata al Cairo e si trova ora in Midan el-Mahatta (piazza della Stazione). La scomparsa di Menfi è certo da imputare al fatto che la città sorgeva sul bordo del fiume, in una zona umida, con un terreno instabile, da A sinistra statuetta in bronzo raffigurante Imhotep, l’architetto della piramide di Saqqara, seduto su un sedile in legno. Torino, Museo Egizio. Nella pagina accanto statua in pietra calcarea dipinta del faraone Djoser (III dinastia, 2680-2660 a.C.), da Saqqara. Il Cairo, Museo Egizio.


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DA SAQQARA A TEBE Mastaba Cappella Statua del defunto

10 m

Pozzi

Camera sepolcrale

Sarcofago

Piramide a gradoni 60 m 2 1 Mastaba

Evoluzione di un modello

Pozzi Camera sepolcrale e sarcofago 1e2 Fasi dell’ampliamento

146 m

Dall’alto, in senso antiorario quattro disegni che illustrano i diversi stadi di evoluzione delle tombe reali nell’Antico Egitto. Si inizia dalla mastaba, passando poi alle piramidi a gradoni come quella di Saqqara, quindi alla celebre tipologia di Giza, per finire con le tombe ipogee.

Piramide di Giza

Ipogeo

Camera sepolcrale e sarcofago 4 4

1

2

3 3

1 Entrata 2 Grande galleria

1

Corridoio

10 m Camera sepolcrale e sarcofago

3 Camere abbandonate

1 Anticamera

4 Cunicoli di aerazione

2 Cappella funeraria

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2 Pozzi


Sulle due pagine Saqqara, mastaba di Mereruka. Due immagini dell’interno in cui si può ammirare la ricca decorazione a rilievo dipinto. VI dinastia, 2350-2195 a.C. Nella pagina accanto particolare di un pilastro con rilievo raffigurante il defunto.

sempre intensamente abitata: condizioni poco propizie per la conservazione dei monumenti antichi. Di fronte a Menfi, nel deserto, a breve distanza dal centro abitato, si trovava la necropoli. In un primo tempo qui vennero sepolti, in tombe monumentali del tipo detto a «mastaba», alcuni dei piú eminenti funzionari di corte e, successivamente, a partire dalla III dinastia (2700-2630 a.C. circa), anche i sovrani. Della necropoli fa parte uno dei monumenti piú importanti del mondo antico: il complesso funerario del re

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DA SAQQARA A TEBE

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Djoser, che ha regnato sull’Egitto proprio all’inizio della III dinastia, tra il 2680 e il 2660 a.C. L’insieme delle sue costruzioni è stato progettato e realizzato da una delle prime personalità della storia identificate con certezza: è Imhotep, l’architetto che, sommando in sé compiti e di funzioni anche sacerdotali presso la corte di Djoser, fu incaricato di costruire la tomba del suo re (vedi box a p. 24).

Un modello totalmente nuovo Fino ad allora le tombe regali si distinguevano da quelle dei privati solo per le dimensioni e la ricchezza del corredo funerario. Imhotep progettò qualcosa di completamente nuovo: un grande recinto, delimitato da un muro che aveva la stessa decorazione della facciata del palazzo regale, all’interno del quale stava una serie di edifici destinati a servire al sovrano per

Sulle due pagine Saqqara, mastaba di Ti. V dinastia, 2510-2502 a.C. Nella pagina accanto un’immagine dell’interno del monumento funerario, in cui si possono apprezzare le pareti interamente ricoperte di geroglifici. In alto particolare di uno dei rilievi, raffigurante Ti sulla sua barca.

i riti che egli doveva compiere nell’aldilà e nel quale doveva trovarsi infine la vera e propria tomba del re. L’armonioso dispiegarsi delle linee architettoniche fa di questo complesso di costruzioni uno dei piú grandi capolavori della storia, godibile anche senza conoscere il complesso sistema di idee su cui si fonda e al quale si è accennato. Esso è il frutto dell’attività e delle speculazioni di un circolo di intellettuali che aveva il suo centro nel tempio di Ptah a Menfi, anche se poi la sua realizzazione è toccata al genio personale di Imhotep. Gli Egiziani hanno conservato un lucido ricordo dell’evento e del suo artefice, come prova il fatto che, in Epoca Tarda, essi innalzarono questo straordinario personaggio all’onore degli altari, facendone un dio, figlio di Ptah, naturalmente, e dio della medicina, un’altra delle attività in cui si sarebbe distinto.

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La necropoli di Saqqara non si esaurisce nella pur straordinaria esperienza della piramide a gradoni. Come abbiamo poc’anzi ricordato, in essa vi sono infatti i sepolcri, scolpiti e dipinti, di molti dei piú importanti funzionari dell’Antico Regno. Molte sono le tombe riportate alla luce ed è forse ancora maggiore il numero di quelle che devono essere scavate. Fra i complessi funerari visitabili ricordiamo quelli di Ti, di Mereruka, di Kagemni e quello di Ptahhotep, un visir della V dinastia, autore di un’opera letteraria, gli Insegnamenti al figlio, che rappresenta l’unico testo del III millennio a.C. a esserci giunto completo.

I Testi delle Piramidi A Saqqara, oltre alle mastabe private e alle piramidi dei sovrani della V e della VI dinastia – assai piú piccole e degradate di quelle di Giza, ma tuttavia interessanti per la scoperta all’interno di alcune di esse dei cosiddetti Testi

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In basso un’immagine del rilievo raffigurante il visir Ptahhotep e la sua consorte Tauseret, in cui i coniugi sono ritratti mentre ricevono offerte dal loro figlio maggiore Amenheb e dagli altri figli, da Saqqara. XIX dinastia, 1292-1186 a.C. Bologna, Museo Civico Archeologico.

delle Piramidi (il rituale funerario dei sovrani dell’Antico Regno) –, vi sono molti altri monumenti di straordinaria importanza. Nella zona sud dell’area archeologica si trova, per esempio, la tomba del generale Horemheb, poi divenuto faraone, i cui splendidi rilievi sono conservati in vari musei europei. E nella stessa area sorge il cosiddetto Serapeum, un insieme di grandi gallerie sotterranee nelle quali venivano sepolti, in grandi sarcofagi di pietra e con onori pari a quelli riservati ai sovrani, i tori Api, una fra le divinità animali piú venerate nell’Antico Egitto, il cui culto risale a una assai remota antichità. La necropoli di Saqqara è rimasta in uso per millenni, per cui vi si trovano sepolture di tutte le epoche, in un affollamento che ha dell’incredibile, fino all’età tarda e anche oltre. Basti pensare che qui, in epoca tardo-antica è stato costruito, in mezzo ai resti delle sepolture pagane, un monastero copto dedicato a san


Geremia, di cui oggi si possono visitare le rovine e che, a sua volta, disponeva di un piccolo cimitero dal quale provengono numerose stele cristiane. Risalendo verso nord per una trentina di chilometri, fino alla periferia del Cairo, si raggiunge Giza. Qui, su un altopiano roccioso di poco elevato sulle rive del fiume, si trovano le tre grandi piramidi, una sorta di insegna dell’Egitto moderno. Si tratta dei monumenti funerari di Cheope, Chefren e Micerino, per usare le tradizionali grafie dei nomi egiziani

Saqqara, mastaba di Kagemni. Particolare di uno dei rilievi dell’interno del monumento funerario, raffigurante una scena di mungitura di mucca. VI dinastia, 2350-2196 a.C.

usate da Erodoto e mirabilmente vicine a quelle originali. Per sgombrare il campo da interpretazioni piú vicine alla fantascienza che all’egittologia, varrà la pena di precisare subito che non esiste alcun dubbio sulla datazione di questi imponenti monumenti. Essi risalgono alla IV dinastia (2630-2510 a.C.) e sono opera degli architetti e delle maestranze egiziane della metà del III millennio. Del resto, i tre grandiosi monumenti costituiscono lo sviluppo coerente non solo della piramide di Djoser a Saqqara, ma anche delle piramidi di altri sovrani

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Il leone di sabbia

L

a grande Sfinge di Giza, uno dei monumenti simbolo dell’antico Egitto, nasce dalla volontà di riutilizzare una collinetta di calcare di cattiva qualità, residuo della lavorazione di una cava a cielo aperto, dalla quale venivano tratti i blocchi destinati alla costruzione della piramide di Chefren. Qui l’architetto del sovrano, invece di ordinare la distruzione dell’inutilizzabile residuo, decise di trasformarlo in una gigantesca statua del suo re, raffigurato come un leone con la testa di uomo, in riposo, ma potenzialmente aggressivo contro i nemici che ne potessero turbare il sonno della morte. Il volto della Sfinge è quello di Chefren cosí come lo conosciamo dalle molte statue che lo raffigurano. La Sfinge non ha avuto un vero seguito nella storia dell’arte egiziana: rimane un esempio inimitato, forse per l’eccezionalità dell’esperienza intellettuale che ne costituiva il retroterra. Essa venne ammirata e rispettata dagli Egiziani delle epoche successive, che ne fecero un dio del loro immenso pantheon, Harmachis (Horo dell’orizzonte).

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Sulle due pagine Giza. Uno scorcio ravvicinato dell’imponente statua della Sfinge con, sullo sfondo, la piramide di Chefren. A destra pianta che evidenzia la localizzazione dei diversi monumenti funerari nella pianura di Giza.

che si collocano tra la III e la IV dinastia. Il loro studio permette di seguire il lento evolversi di questo tipo di costruzioni, che costituiscono una sovrastruttura delle sepolture regali, cosí come si è venuta evolvendo dalla mastaba originaria. La loro datazione è certa poiché si basa su prove archeologiche indiscutibili. Le piramidi di Giza rappresentano il momento centrale del processo di sviluppo di questo genere di monumenti. Dopo di esse si aprí un

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periodo di improvvisa quanto inspiegabile decadenza, con piramidi piú piccole e realizzate con materiali molto piú poveri: un fenomeno osservabile già a Giza nella contrapposizione tra le due piramidi maggiori, quelle di Cheope e Chefren, con quella assai piú piccola di Micerino. In questo caso si tratta solo di un’avvisaglia di quanto accadde subito dopo, nella V e VI dinastia (2510-2195 a.C.). Intanto, il succedersi dei tre grandiosi monumenti in un’area molto ristretta, con i loro spigoli vivi che rivelano una ben diversa concezione dei rapporti con lo spazio circostante – rigidamente razionale, In alto e a sinistra due disegni di Giovanni Battista Belzoni raffiguranti l’entrata e la grande camera della piramide di Chefren a Giza. 1822.

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se contrapposta a quella «sentimentale» della piramide di Djoser –, ci dimostra quale profonda avventura intellettuale stia vivendo l’Egitto, mobilitato nella costruzione delle immense dimore per l’eternità del re-dio che governava il Paese.

Una stagione di grande fervore È un’età di fervida creatività, nel corso della quale si realizza in maniera compiuta la definizione del canone nella scultura e nella pittura, in un insieme di regole e di convenzioni che vennero in seguito sempre rispettate e riprese dagli artisti egiziani, che non a caso vedevano in quest’epoca quella

della loro classicità. La necropoli regale di Giza riflette bene questo clima di inesauribile creatività nel monumento che è certamente una delle piú sorprendenti creazioni dell’arte egiziana antica: a guardia delle tombe dei sovrani e dei loro funzionari, sta un’immensa scultura, la Sfinge (vedi box a p. 32). La visita a Saqqara e a Giza permette di comprendere in che modo si fosse formata la civiltà egiziana. La tappa successiva di questo «primo viaggio», Tebe, nel Sud del Paese, nell’area in cui oggi sorge il villaggio di Luxor, dà invece modo di seguirne lo (segue a p. 38)

Sulle due pagine Giza. Una veduta panoramica delle piramidi; da sinistra, in primo piano, le tre piramidi delle Regine e, in secondo piano, quelle di Micerino, Chefren e Cheope.

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Il faraone nascosto

N

el Nuovo Regno cessa la costruzione delle piramidi e il legame tra la tomba del sovrano e il tempio nel quale veniva praticato il suo culto si interrompe. Mentre le tombe si trovano tutte nella Valle dei Re e non vi è alcun segno esteriore che ne indichi la posizione, i templi funerari, di dimensioni non meno imponenti di quelli dedicati agli dèi, sono disposti in una lunga fila, ai limiti del terreno coltivato. Alcuni, come si è visto per quello di Amenhotep III sono oggi distrutti, ma altri sono ancora in buono stato di conservazione e permettono di cogliere appieno il fasto da cui essi erano circondati. Il nuovo rituale, con la tomba separata dal tempio funerario, era dettato anche dalla volontà di tenere nascosto il luogo in cui i sovrani erano stati sepolti, per evitare che i loro ricchi corredi funerari venissero depredati. Un accorgimento destinato a rivelarsi inutile, visto che tutte le tombe della Valle dei Re furono profanate e depredate già in antico. Solo Tutankhamon e il suo corredo funerario, costituito da una serie incredibile di opere d’arte, si sono salvati

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per un caso fortunato dal saccheggio. Alcuni templi funerari si distinguono per la bellezza delle strutture architettoniche, come quello della regina Hatshepsut, opera dell’architetto Senmut. Con la sua struttura a terrazze, esso riprende un modello del Medio Regno (2064-1797 a.C.), inserendosi armoniosamente nella montagna che sta alle sue spalle con un irresistibile movimento ascensionale. Altri, come quello di Ramesse II (il cosiddetto Ramesseum) o quello di Ramesse III a Medinet Habu – poche centinaia di metri piú a sud –, spiccano per l’imponenza delle dimensioni, che ben corrisponde al ruolo del sovrano che per l’ultima volta nella storia egiziana qui si cerca di riaffermare: quello di un dio vivente che governa gli Egiziani e ne costituisce il baluardo invalicabile contro i nemici. I grandi fatti d’arme di quest’epoca, come la guerra contro gli Ittiti e la vittoriosa difesa dell’Egitto contro i «popoli del mare», sembrano confermare questa concezione della regalità che risale peraltro molto addietro nel tempo, addirittura al III millennio a.C. Si tratta però di una

semplice parentesi destinata ben presto a chiudersi con una lenta quanto inarrestabile decadenza.

In alto Luxor, Tempio di Hatshepsut. Uno scorcio della decorazione dell’ingresso. Nella pagina accanto, a sinistra Luxor, Tempio di Hatshepsut. La statua della regina raffigurata come Osiride. XVIII dinastia, 1479-1457 a.C. Nella pagina accanto, a destra disegno ricostruttivo ipotetico dell’aspetto originario del Tempio della regina Hatshepsut a Luxor. A sinistra Luxor. Una veduta frontale del Tempio di Hatshepsut.

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A sinistra cartina che evidenzia la localizzazione dei principali complessi funerari e santuari dell’Antico Egitto. In basso Rovine del tempio di Karnak, disegno di Giovanni Battista Belzoni. 1822. Gerusalemme, Museo di Israele. A destra Karnak. Panoramica aerea dell’area con, in secondo piano, il Nilo e, sullo sfondo, la Valle dei Re.

Valle dei Re Deir el-Bahari Dra Abu el-Naga

Qurna El-Khokha

Ramesseum Colossi di Memnone Medinet Habu

Valle delle Regine

o

Deir el-Medina

El-Asasif

Nil

Sheikh Abd el-Qurna

lo

Ni

Karnak

EGITTO Luxor (Tebe)

sviluppo circa mille anni piú tardi e di cogliere sia la profonda continuità che essa presenta nei secoli, sia le innovazioni che hanno segnato una vicenda storica a prima vista tra le piú conservatrici e tradizionaliste di sempre. Dopo la fine dell’Antico Regno, l’asse politico dell’Egitto si è spostato progressivamente verso sud, per approdare definitivamente a Tebe nel XVI secolo a.C., quando una famiglia

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di principi locali diede vita alla XVIII dinastia (1543-1292 a.C.), trasformando nella propria residenza quello che fino ad allora era stato un villaggio di modesta importanza, nonostante vi fossero nati i sovrani della XII dinastia (1994-1797 a.C.). Per questo motivo, per tutta la durata del Nuovo Regno (1543-1069 a.C.) e anche oltre, Tebe è stata il centro dell’Impero creato grazie alle vittoriose guerre condotte


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In alto Karnak. Un’immagine dei resti del complesso templare. Sulle due pagine Karnak. Una veduta di un tratto superstite della cosiddetta strada delle sfingi, un percorso viario che anticamente collegava i templi di Luxor a Karnak ed era fiancheggiato da statue di sfingi. Veniva utilizzato a scopo cerimoniale una volta all’anno, in occasione delle celebrazioni per il matrimonio divino tra Amon e Mut.

dall’Egitto nei primi anni della XVIII dinastia. A Tebe, la città «dalle cento porte» cantata da Omero, il visitatore ha piú che altrove la sensazione di trovarsi nella capitale di uno Stato antico, grande e potente. Qui sono ancora in piedi grandi edifici religiosi e non è difficile immaginare il loro splendore originario. Con la loro magnifica decorazione pittorica, le tombe conservate nella necropoli situata sulla riva sinistra offrono un’idea molto viva del fatto che qui aveva la sua residenza la corte e, con essa, la classe dirigente del Nuovo Regno. La situazione archeologica di questa zona è piú complessa di quanto possa apparire a prima vista. Per potersi orientare tra i numerosi monumenti bisogna tener presente che qui il fiume separa la città dei vivi, che si trovava a oriente sulla riva destra, dalla città dei morti, l’immensa area in cui si trovavano le necropoli,

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In alto Karnak, complesso templare di Amon. Particolare di uno dei rilievi con scene di battaglia che ornano i muri esterni della Grande Sala Ipostila. Sul carro, in atto di scoccare una freccia, è il faraone Sethi I (XIX dinastia, 1290-1279 a.C).

A destra Luxor, complesso templare di Amon. Uno scorcio del grande cortile fatto realizzare da Ramesse II (XIX dinastia, 1279-1212 a.C.), contornato da colonne a foglia di papiro e nel quale sono inserite statue che ritraggono il faraone.

le quali, nel rispetto del rituale degli antichi Egiziani, dovevano, nei limiti del possibile, trovare posto a Occidente. Poco si è conservato della città antica e solo qualche limitato settore è stato riportato alla luce. Del resto, le città dell’Antico Egitto,

costruite quasi interamente in mattoni crudi, si sono conservate poco e male, cosicché solo di recente gli studiosi hanno fermato la loro attenzione su di esse. A Tebe la situazione è ulteriormente complicata dal fatto che i resti della città antica si trovano

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L’ultimo dono di Amon

D

al 1995, il Museo di Arte antica di Luxor ha allestito una sezione dedicata all’esposizione delle splendide statue rinvenute qualche anno prima nel tempio di Amon. La scoperta, senza dubbio una delle piú importanti nella storia dell’egittologia, è giunta del tutto inaspettata, perché si riteneva che il monumento fosse stato sufficientemente indagato e non celasse piú alcun segreto. Questi i fatti: il 22 gennaio 1989, tra la sesta e la settima colonna del cortile quadrangolare fatto realizzare da Amenhotep III subito dopo il Grande Colonnato del tempio, si stavano effettuando alcuni saggi per accertare la composizione del terreno su cui poggiava una parte del colonnato. A un tratto, dopo averr rimosso lo strato superficiale di sabbia e terra, venne alla luce la superficie di alcune grandi pietre levigate di granito grigio. A quel punto si decise di ampliare l’indagine e la presenza dei blocchi fu presto spiegata: a poca profondità dal piano di calpestio del cortile giaceva una splendida statua, che, grazie alle iscrizioni presenti sul piedistallo e sul dorso, fu subito identificata come un ritratto dello stesso faraone Amenhotep III.

sotto il villaggio moderno, per cui lo studio della prima comporterebbe la distruzione del secondo.

Un grande centro di potere Si è invece ben conservato il tessuto dei grandi edifici religiosi attorno ai quali la città antica era disposta. La loro visita è un’esperienza impressionante, perché in ben pochi luoghi al mondo si può avere un’idea altrettanto vivida di che cosa fosse un centro di potere nell’antichità. Tebe non fu solo la residenza dei sovrani del

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L’estensione degli scavi permise di localizzare una fossa votiva e furono recuperate altre statue, per un totale di quattordici manufatti, il cui ritrovamento ha permesso l’acquisizione di una serie di veri e propri capolavori della scultura egiziana del

Nuovo Regno, il che basterebbe a giustificarne l’importanza e la ricchezza, ma anche il luogo in cui si svilupparono altri gruppi di potere economico e politico. Questi dapprima appoggiarono i sovrani, poi vi si opposero, dando luogo alle drammatiche vicende della rivoluzione di Amenhotep IV/Akhenaton (1348-1331 a.C.), e infine giunsero, con la XXI dinastia (1069-945 a.C.), alla conquista del trono stesso. Il piú importante di questi gruppi faceva capo al clero del dio Amon. L’immenso tempio di questa divinità che si trova nella zona chiamata (segue a p. 48)


periodo compreso tra il Nuovo Regno (1543-1069 a.C.) e l’inizio dell’Epoca Tarda (747-332 a.C.). Le statue furono seppellite nella fossa forse perché si era deciso di sostituirle con altre immagini oppure per metterle al riparo da possibili saccheggi.

Nella pagina accanto statua in quarzite di Amenhotep III, dal tempio di Luxor. XVIII dinastia, 1387-1348 a.C. Luxor, Museo di Luxor. In alto veduta di una delle sale del Museo di Luxor. A destra statua in granito raffigurante Horemheb davanti al dio Amon, dal cortile di Amenhotep III a Luxor. XVIII dinastia, 1314-1292 a.C. Luxor, Museo di Luxor.

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Sulle due pagine Kom el-Hettan. I Colossi di Memnone. Le due enormi statue gemelle ritraggono il faraone Amenhotep III e furono erette quando era ancora in vita, come parte del complesso funerario. XVIII dinastia, 1387-1348 a.C.

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Principi e regine

Necropoli di Tebe (Valle dei Re)

1 (Ramesses VII)

A

N

Tebe, la riva sinistra del fiume offre ancora molte tappe interessanti, Mar Mediterraneo anche al visitatore piú frettoloso. Qualche centinaio Cairo Sinai 2 (Ramesse IV) di metri piú a sud della Valle ARABIA S A U D I TA dei Re, in una seconda valle laterale vi sono le tombe di Valle dei Re 3 alcuni principi del Nuovo 62 (Tutankhamon) 46 (Yuya and Tuya) Regno e di alcune regine: è 8 (Merneptah) 7 (Ramesse II) E G I T TO Mar 4 Rosso 5 (Ramesse XI) Lago per questo che essa viene Nasser chiamata Valle delle Regine. 6 (Ramesse IX) (Ramesse VI) 55 9 Qui, agli inizi del Novecento, 45 (Userhet) 58 56 ha lavorato per il Museo Egizio di Torino 44 12 (Horemheb) 57 35 un archeologo italiano, Ernesto 10 (Amenhotep II) 28 48 (Amenmeses)16 11 (Amenemipet) Schiaparelli (1856-1928). A lui si devono 27 (Ramesse III) 17 (Ramesse III) (Sethi I) 18 54 36 molte importanti scoperte, la piú 21 (Ramesse X) (Mei-her-peri) 61 significativa delle quali è stata quella 13 29 della tomba di Nefertari, una delle spose (Tewosret) 60 14 (Hatshepsut) 47 di Ramesse II, adorna di splendide pitture 20 (Siptah) 19 38 40 che il restauro ha salvato dal degrado: un (Mentu-her-khepshef) (Thutmosi I) 26 30 ciclo pittorico tra i piú belli di tutto 59 43 15 (Thutmosi IV) 31 (Sethi II) l’antico Egitto (vedi box a p. 51). 37 32 Tra la Valle dei Re e quella delle Regine vi 42 è la lunga serie delle tombe dei funzionari, N ilo

In alto Luxor. Veduta panoramica della Valle dei Re. Qui sopra cartina che illustra l’imponente estensione della necropoli tebana.

34 (Thutmosi III)

0

dal Nuovo Regno fino alla XXVI dinastia. Le prime, realizzate nella stessa epoca di quelle dei sovrani sepolti poco lontano, sono spesso decorate con scene di vita quotidiana e religiosa dipinte sulle loro pareti. Comprendono alcuni degli esempi piú importanti della pittura dell’antico Egitto e costituiscono una sorta di galleria di dipinti all’interno della quale non è difficile cogliere, nella vivacità dei colori in genere assai ben conservati, il mutare del linguaggio figurativo e l’emergere, anche, della personalità di singoli maestri, destinati purtroppo a rimanere anonimi.

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75 m


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Karnak, 2 km a nord di Luxor, parla piú di ogni altro documento storico. Chiunque visiti le sue sterminate rovine, può intuire come qui, molto piú che nello stesso palazzo reale, avesse avuto sede per molto tempo l’effettivo potere politico in Egitto.

Il viale delle sfingi I resti della struttura testimoniano con eloquenza una grande e complessa vicenda, fatta di lotte politiche che avevano come posta in gioco non soltanto il governo dell’Egitto, ma anche il controllo della fascia siro-palestinese, attraverso la quale passava tutto il commercio con i grandi Stati del Vicino Oriente. Un magnifico viale di sfingi a testa di ariete – uno degli animali sacri al dio Amon –, solo in parte scavato, collegava il tempio di Karnak con il tempio di Luxor, che si trova proprio in mezzo al villaggio moderno e del quale era una semplice dépendance. Attorno al tempio di Amon e

Sulle due pagine Luxor. Un’immagine dell’interno della tomba dei figli di Ramesse II (KV5). XIX Dinastia, 1279-1212. In basso Luxor. Particolare di un rilievo dalla decorazione interna della tomba dei figli di Ramesse II.

I figli di Ramesse

N

el 1820, durante le sue ricerche nella Valle dei Re, l’inglese James Burton localizzò un sepolcro che, non sembrandogli particolarmente ricco o interessante, decise di non scavare. Cento anni piú tardi, nel 1922, Howard Carter non riservò alla tomba maggiori attenzioni e, anzi, ne fece la discarica dei materiali di risulta provenienti dallo scavo della tomba di Tutankhamon. Quando, negli anni Ottanta, il governo egiziano avviò i lavori per la realizzazione di un parcheggio nell’area

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del sepolcro, si decise comunque di verificare che, nonostante i precedenti, non vi fossero resti di una qualche importanza. Le indagini, affidate all’egittologo statunitense Kent R. Weeks, ebbero inizio nel 1989 e, nel febbraio del 1995, culminarono nella clamorosa scoperta di quella che, a tutt’oggi, è la piú grande tomba mai ritrovata in Egitto. La struttura, è di dimensioni enormi: Weeks e i suoi collaboratori hanno localizzato oltre 130 vani, fra camere sepolcrali e corridoi. È per questo


che si può ragionevolmente supporre che il monumento fosse una sorta di mausoleo familiare, realizzato per dare sepoltura ai figli di Ramesse II. Secondo alcune fonti, Ramesse ebbe infatti ben 162 figli e soltanto i resti di due di loro sono stati finora ritrovati. Dai primi studi eseguiti sui geroglifici trovati nella tomba, sembra infatti certo che fra i suoi occupanti vi fossero almeno il primo, il secondo, il settimo e il quindicesimo figlio di Ramesse.

Ricostruzione virtuale tridimensionale che evidenzia la struttura e la grande estensione della tomba dei figli di Ramesse II.

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La signora delle due terre

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efertari andò in sposa a Ramesse II prim’ancora che questi ascendesse al trono e fu la madre di almeno cinque dei suoi figli. Morí a poco piú di quarant’anni e per lei Ramesse fece realizzare una magnifica tomba ed erigere un tempio. La tomba, localizzata nella Valle delle Regine, è stata riportata al suo splendore originario grazie ai restauri finanziati dal Getty Conservation Institute. Un’équipe composta da restauratori italiani, egiziani e britannici e guidata da Paolo Mora e Laura Sbordoni Mora, ha recuperato i vividi colori degli affreschi che decorano la tomba e ha potuto anche scoprire molti dei «trucchi del mestiere» adottati per la realizzazione del sepolcro.

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anche all’interno del suo recinto si trovano però molti altri luoghi di culto dedicati alle piú importanti divinità del luogo. È verosimile supporre che qui si trovasse anche il palazzo regale, del quale, però, nulla si è conservato.

I «colossi di Memnone» Una situazione diametralmente opposta Sulla riva sinistra del fiume la situazione è del tutto diversa. Qui si trovano le necropoli, nascoste tra le montagne che si innalzano immediatamente a ridosso della terra coltivata. La prima testimonianza archeologica che il visitatore incontra è costituita dai cosiddetti «colossi di Memnone», le enormi statue che si trovavano davanti al tempio funerario del faraone Amenhotep III (1387-1348 a.C.). Alle loro spalle oggi non c’è nulla: il gigantesco tempio è infatti crollato non molto tempo dopo la sua costruzione. Anche gli architetti egiziani potevano fallire

Nella pagina accanto Luxor, Valle delle regine, Tomba di Nefertari (QV66). Particolare degli affreschi della camera funeraria raffiguranti Iside e la regina. Regno di Ramesse II, XIX dinastia, 1279-1212 a.C. Sulle due pagine affresco dell’architrave della porta che immette nella camera funeraria della regina, raffigurante la dea Maat con le ali spiegate.

e questo è certo uno dei casi piú impressionanti, dovuto certamente al fatto che il tempio fu innalzato in mezzo al terreno coltivato, per sua natura instabile. In una delle valli laterali che si aprono nelle montagne della catena libica, poco piú a nord, e che oggi si chiama Biban el-Muluk (le porte dei re, in arabo, ma nota anche come Valle dei Re), si trovano le tombe di quasi tutti i sovrani del Nuovo Regno, scavate profondamente nel sottosuolo e riccamente decorate. Esse mettono in luce una delle differenze piú grandi con il rituale funerario che avevamo osservato tra Saqqara e Giza nel III millennio. Allora i sovrani erano sepolti al di sotto delle piramidi e il loro culto dopo la morte veniva compiuto nel tempio che poggiava contro la faccia est della piramide. Questa era il centro di una serie di edifici che assicuravano il ricevimento del corpo del sovrano e il perpetuarsi del suo culto nei secoli. Tutto attorno erano disposte le tombe dei suoi funzionari piú importanti.

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Sulle due pagine dall’alto, in senso antiorario tre ostraka in calcare: esemplare con scena satirica, disegnata a inchiostro e dipinta, di un gatto che serve un topo (XIX-XX dinastia, 1292-1069 a.C.; Bruxelles, Musées Royaux d’Art et d’Histoire); esemplare con disegno a inchiostro e pittura di personaggio reale (XX dinastia, 1186-1069 a.C.; Parigi, Museo del Louvre); esemplare con figura di danzatrice (Nuovo Regno, 1543-1069 a.C. Torino, Museo Egizio).

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NELLA CITTĂ€ DEGLI

ARTISTI-OPERAI Gli scavi condotti nel sito di Deir el-Medina hanno restituito una vivida testimonianza della vita quotidiana degli uomini che, con il loro lavoro, seppero dare vita ai grandiosi monumenti funerari realizzati per rendere eterna la gloria dei faraoni

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DEIR EL-MEDINA

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archeologia egiziana ha una lunga storia, considerando che i primi scavi scientifici si possono individuare nelle ricerche condotte dal francese Auguste Mariette (1821-1881) nel 1850: da allora, essa ha fatto registrare una serie pressoché ininterrotta di scoperte straordinarie, molte delle quali – certo le piú importanti e anche le piú «visibili» – hanno avuto ampia eco presso il vasto pubblico dei cultori della civiltà dell’antico Egitto. La divulgazione di molte altre scoperte, invece, e si tratta spesso di acquisizioni ancor piú significative, si è fermata alla ristretta cerchia degli studiosi; ed è un peccato, perché, in tal modo, hanno finito con l’essere privilegiati alcuni aspetti della civiltà egiziana e in particolar modo quelli, per cosí dire, «ufficialissimi», che riguardano i vertici della società: il sovrano, innanzitutto, e poi i funzionari e i sacerdoti di alto grado, tutti esponenti di un Egitto ricco, talvolta ricchissimo, e del potere politico; un Egitto che, in alcune fasi storiche, è stato una grande potenza del Vicino Oriente antico. Da tali circostanze deriva una visione deformata e deformante dei fatti e della realtà di un mondo molto piú ricco e variegato di quanto si possa pensare. Fra le acquisizioni solo all’apparenza «minori», si colloca senza dubbio il villaggio degli «operai» scoperto a Deir el-Medina. Deir el-Medina (in arabo «il convento della città») è il nome moderno di un antico insediamento urbano, in uso per circa cinquecento anni dal regno del faraone Thutmosi I (1497-1483 a.C.) a quello di Ramesse Xl (1106-1069), quando i suoi abitanti lo abbandonarono definitivamente per trasferirsi altrove, cioè all’interno del tempio di

A destra Deir el-Medina. Una veduta da sud-est dei resti dell’insediamento. Nella pagina accanto stele in calcare del «cavatore di pietre» Karo, con scene dipinte e incise. XIX dinastia,1295-1186 a.C. Torino, Museo Egizio. Nel registro superiore, Karo liba agli dèi, al centro purifica delle offerte con l’incenso, nella fascia inferiore riceve doni dal figlio.

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Le prime ricerche

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esplorazione delle aree archeologiche dislocate sulla riva ovest di Tebe ebbe inizio all’indomani delle campagne napoleoniche. I primi scavi furono effettuati – tra il 1811 e il 1815 – da Bernardino Drovetti, un piemontese che aveva seguito Napoleone nelle sue campagne in Italia e, nel 1803, era stato inviato in Egitto, divenendo poi Console Generale. I circa 3000 oggetti che egli trovò, soprattutto nella zona di Karnak e Luxor, formarono la sua prima collezione di antichità, acquistata dai Savoia nel 1824: nacque cosi a Torino il primo grande Museo di Antichità Egizie del mondo. Intorno al 1880, Gaston Maspero visitò il museo torinese e fu particolarmente attratto da stele e documenti della collezione Drovetti, che portavano titoli connessi con le tombe regali, come quello di «segem ash em set maat», ossia «colui che ascolta la voce nella Sede della Verità» e ne riconobbe la provenienza da Deir el-Medina. Nel 1904 Ernesto Schiaparelli, allora direttore del Museo Egizio di Torino e già allievo di Maspero, decise di intraprendere indagini sistematiche nella zona. Fino ad allora, infatti, si erano avute solo rapide esplorazioni, di cui una, particolarmente fruttuosa, aveva portato, nel 1886, alla scoperta, da parte di Maspero e dello spagnolo Toda, della tomba intatta di Sennedjem, con un magnifico corredo che fu purtroppo disperso tra vari musei. Nel 1905 Schiaparelli mise in luce varie piccole tombe dipinte, tra cui quella del pittore Maia, mentre al 1906 risale la scoperta della tomba intatta dell’architetto Kha e di sua moglie Merit, uno dei gioielli del museo torinese. Gli scavi italiani continuarono fino al 1909, quando Schiaparelli abbandonò la concessione, che, dopo essere stata affidata per un breve periodo al tedesco Georg Müller (1911-1913), prima dell’interruzione dovuta alla Grande Guerra, venne assegnata all’Istituto Francese di Archeologia Orientale.


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DEIR EL-MEDINA

Medinet Habu, poco piú a sud. Deir el-Medina si trovava sulla riva sinistra del Nilo, presso Tebe, la città che fu residenza dei sovrani del Nuovo Regno e «capitale» dell’Egitto.

L’organizzazione del territorio Piú precisamente occupava una valle laterale, sospesa tra la necropoli dei funzionari e la cosiddetta Valle delle Regine, in una zona archeologica di enorme interesse per avere ospitato nell’antichità un gran numero di sepolture disposte secondo una precisa organizzazione del territorio, dettata da esigenze di carattere rituale – non sempre facilmente apprezzabili – e da motivi di carattere pratico, come è nel caso del nostro villaggio. Il panorama è vasto e complesso: in una zona relativamente ristretta, nella catena di basse colline che si ergono a 5 km circa dalla riva del Nilo, dietro la lunga fila dei templi funerari dei

sovrani del Nuovo Regno, si trovano – procedendo da sud verso nord, la Valle delle Regine – con le sepolture di regine e di altri componenti della famiglia regale –, il villaggio di Deir el-Medina, la necropoli dei cosiddetti «nobili» – in realtà sacerdoti e funzionari di alto grado che prestavano servizio nell’area tebana – e, infine, a

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Suppellettili per l’aldilà 2

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ella zona di Deir el-Medina, la maggior parte delle tombe riccamente decorate che risalgono all’epoca ramesside furono violate e saccheggiate già in epoca antica. Per contro, non sono pochi i casi di sepolcri databili alla XVIII dinastia rinvenuti del tutto intatti o, comunque, in buono stato di conservazione. Da questi contesti proviene un gran numero di vasi, che sono componenti tipici dei corredi funebri. Si tratta, perlopiú, di vasellame d’uso domestico: ne fanno parte coppe, bicchieri, piccole giare e anforette. Assai diffusi sono anche i vasi miniaturistici, che potevano forse contenere oli o essenze, ma che, piú probabilmente, erano inclusi nel corredo come oggetti aventi un valore rituale.

1 ceramiche d’uso funerario dell’epoca di Thutmosi III. Prima metà della XVIII dinastia, 1543-1424 a.C. Parigi, Museo del Louvre. 2 seggiola in legno con sedile impagliato. XVIII dinastia, regno di Thutmosi III, 1479-1425 a.C. Parigi, Museo del Louvre. 3 ricostruzione grafica ipotetica di una tipica casa di Deir el-Medina (studio Inklink, Firenze). 4 cofanetto in legno. XVIII dinastia, regno di Thutmosi III, 1479-1425 a.C. Parigi, Museo del Louvre.


coronamento di tale imponente complesso di deposizioni, la Valle dei Re, nella quale erano scavate le tombe dei sovrani. Fra le sepolture dei sovrani e quelle dei componenti delle loro famiglie e dei funzionari di corte, si insinuava dunque un insediamento non funerario, destinato a ospitare le case in cui abitavano i vivi, benché, accanto a esso, vi fosse la necropoli in cui, a loro volta, essi venivano sepolti mano a mano che la loro vicenda terrena giungeva al suo compimento.

Un’articolata catena di operazioni Deir el-Medina si configurava perciò come una città dei vivi, in mezzo a un’immensa città di defunti molto illustri, le cui tombe richiedevano un grande impegno artistico e finanziario, dalla fase della preparazione fino al momento in cui la sepoltura veniva sigillata: e

tutti ormai conosciamo quali tesori d’arte siano racchiusi nelle tombe che si trovano nella necropoli tebana. L’esistenza e la vita di Deir el-Medina furono sempre strettamente legate a quella delle necropoli in mezzo alle quali il villaggio si trovava: lí venivano ospitati, con le loro famiglie, gli «operai» che lavoravano alla costruzione e alla decorazione delle tombe. La scelta di costruire insediamenti temporanei accanto ai grandi edifici – piramidi, templi e altro ancora – destinati a ospitare coloro che vi lavoravano (dalla manovalanza fino agli architetti che li avevano progettati e poi dirigevano i lavori sul cantiere) è una tradizione molto antica in Egitto e sempre rispettata già dal III millennio a.C. Conosciamo un buon numero di villaggi di questo genere, che avevano caratteristiche ricorrenti: la rigida pianificazione delle strutture, che presentano

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DEIR EL-MEDINA

Eleganti e ingioiellati

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li abiti ritrovati nel corso degli scavi e, in particolare, le splendide tuniche di lino rinvenute nella tomba di Kha, cosí come numerosi oggetti da toletta, dimostrano che gli abitanti di Deir el-Medina curavano con grande attenzione il loro aspetto, una circostanza confermata dai dipinti e dai rilievi. Uomini e donne si cingono la fronte di grandi fasce ornate da fiori di loto e si agghindano con diversi tipi di gioielli: collane, braccialetti, orecchini, ritrovati in genere anche sulle mummie. Le collane sono semplici fili di grani d’oro, di corniola e di faïence e, a volte, includono amuleti. I braccialetti, ritrovati in generale al polso sinistro delle mummie, sono quasi sempre composti da numerosi scarabei in pietra smaltata o faïence. Si conoscono, tuttavia, anche braccialetti a forma di anello, fabbricati con avorio e fili di perle. Le radiografie delle mummie di Kha e di sua moglie Merit hanno rivelato, al di sotto delle fasce, l’esistenza di ricchi ornamenti: Kha è stato sepolto con una collana a grandi grani, molto probabilmente d’oro, e Merit con una collana formata da molti fili di grani a motivi floreali di pietra e di vetro; le analisi hanno inoltre permesso di individuare molteplici amuleti, anelli e braccialetti. Alcuni gioielli, come lo scarabeo del cuore, erano oggetti esclusivamente funerari, altri, invece, erano probabilmente usati nella vita di tutti i giorni. I numerosi stampi per gioielli e amuleti ritrovati nelle case del villaggio dimostrano che gli abitanti fabbricavano con Ie loro mani la maggior parte di questi accessori.

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Veduta frontale (in questa pagina) e profilo (nella pagina accanto, a sinistra) della statuetta che ritrae un uomo di nome Satnem. XVIII dinastia, regno di Hatshepsut e Thutmosi III, 1479-1424 a.C. Parigi, Museo del Louvre. Per la fabbricazione dell’oggetto furono impiegati legno di giuggiolo, dipinto (per la statua vera e propria) e di acacia (per il piedistallo). Nella pagina accanto, in alto collana con scarabeo, dalla tomba di Sennefer. Fine della XVIII dinastia, regni di Tutankhamon, Ay, Horemheb, 1328-1292 a.C. Parigi, Museo del Louvre. Nella pagina accanto, in basso specchio in rame dalla tomba di Madja. XVIII dinastia, regno di Hatshepsut e Thutmosi III, 1479-1424 a.C. Parigi, Museo del Louvre.

piante assai regolari e che si ripetono pressoché identiche in varie aree del Paese; e il carattere temporaneo dell’insediamento, per cui, terminati i lavori dell’edificio per il quale ciascuno di essi era stato costruito, venivano abbandonati e smantellati. Ciò che restava degli agglomerati veniva interrato e tale pratica si è tradotta in una vera e propria «manna» per gli archeologi, poiché il ritrovamento della parte inferiore dei loro muri permette di ricostruire planimetrie accurate.

Cinque secoli di vita In tale panorama, Deir el-Medina costituisce una duplice eccezione. In primo luogo, per la durata dell’insediamento che, come già detto, è stata estremamente lunga – quasi cinquecento anni –, ed è stata dettata dalla necessità di costruire non un singolo monumento, ma una serie di sepolture che si dispongono per un periodo di tempo altrettanto lungo. In secondo luogo, perché la pianificazione non è stata cosí rigida come avveniva per gli altri villaggi degli operai: ne possiamo seguire l’evoluzione nel tempo, individuando almeno tre fasi principali, con successivi ampliamenti; e anche la disposizione delle abitazioni e lo stesso andamento delle strade appaiono piú «liberi», nel senso che non obbediscono a meccanici principi di ortogonalità. Il villaggio presenta inoltre un’altra peculiarità importante: le case non sono cosí modeste come avviene nella maggior parte degli altri esempi di cui disponiamo, dove spesso consistono in semplici cubicoli per offrire un riparo per la notte a chi ha lavorato durante il giorno sotto il sole, con modesti focolari per cuocere il cibo. Le case di Deir el-Medina sono ampie, belle e confortevoli – per quanto potevano esserlo nell’antico Egitto le abitazioni di chi non faceva parte della classe dirigente –: nel sottosuolo vi era una cantina per tenere al fresco cibi e bevande e, sul tetto, si trovava probabilmente una terrazza, in cui gli abitanti potevano trovare refrigerio durante le calde serate dell’estate tebana.

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DEIR EL-MEDINA

A destra statuetta in legno di un personaggio che porta un’insegna. XIX dinastia, 1292-1186 a.C. Torino, Museo Egizio. Rientra in una tipologia ben documentata a Deir el-Medina, soprattutto in età ramesside. A destra, in basso e nella pagina accanto fronte e retro di statua in calcare dipinto di Ramose, lo scriba reale che diresse i lavori di Deir el-Medina per oltre trent’anni. XIX dinastia, regno di Ramesse II, 1279-1212 a.C. Parigi, Museo del Louvre.

Tuttavia, l’elemento piú singolare era la straordinaria umanità che abitava nel sito. Si è parlato in precedenza di «operai», ma in questo caso il termine risulta fuorviante: non si trattava certo di manovali – anche se fra di loro dovevano certamente esserci gli scalpellini –, ma del fior fiore degli artisti dell’epoca.

Nelle grazie dei faraoni A Deir el-Medina lavorarono pittori e scultori, radunati in quel luogo dai sovrani che volevano che le loro tombe, e quelle dei familiari, venissero decorate in modo degno del proprio rango. Questo spiega l’agio, non certo il lusso, delle loro dimore e non c’è dubbio che essi godessero di molti privilegi, in primo luogo di carattere economico. Ricercati e coccolati, questi artisti finivano con l’essere «viziati» dai faraoni, i quali, pur di non privarsi del loro talento, erano disposti

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A ciascuno la sua mansione

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entre le famiglie di Deir el-Medina vivevano nel villaggio, lasciando alle donne la cura di fare il pane, di tessere i tessuti e di fabbricare le vesti, gli uomini lavoravano alla tomba reale. Il sepolcro del faraone, nella Valle dei Re, era il loro principale luogo di lavoro, ma anche l’esecuzione della tomba della regina o dei principi poteva tenerli pienamente occupati, non appena terminata quella del sovrano. Si stima infatti che per lo scavo e la decorazione di una tomba si impiegassero all’incirca sei anni; ma la durata variava considerevolmente in ragione delle dimensioni dell’ipogeo. Le condizioni del lavoro sono ben conosciute grazie ai rendiconti giornalieri


dello scriba della tomba. L’illuminazione era la stessa utilizzata nelle case: gli stoppini imbevuti d’olio e accesi si consumavano lentamente in coppe; ogni stoppino durava 4 ore e in una giornata di lavoro ne erano necessari 2, il che ci permette di calcolare che si lavorava 8 ore al giorno. La settimana lavorativa era di 8 giorni, al termine della quale si avevano due giorni di riposo in cui gli uomini rientravano al villaggio per occuparsi delle proprie tombe e partecipare a feste religiose e profane. Il mese egiziano era di trenta giorni, di cui sei festivi. Attrezzi, materiale di cantiere, papiri e ostraka raccontano il lavoro nelle tombe reali. Lo studio di questo campo, particolarmente vivo, è completato dall’osservazione di alcune tombe della Valle dei Re rimaste incompiute. Le pareti delle tombe di Horemheb e di Sethi I sono esempi eloquenti in questo senso, perché permettono di ricostruire la tecnica di lavoro, fase per fase. Sembra che dopo lo scavo delle camere e dei corridoi, eseguito facendo saltar via la roccia calcarea per mezzo di scalpelli di bronzo, si passasse a levigare la superficie dei muri e dei soffitti. Si stendeva quindi un fine strato di intonaco sulla superficie ripulita, per cancellarne le asperità e livellare le irregolarità. L’intonaco veniva poi smerigliato e ricoperto di un latte di calce, destinato a omogeneizzare il tutto. A quel punto interveniva lo «scriba dei contorni», usualmente tradotto con «disegnatore», il quale tracciava col pennello rosso le figure previste per la decorazione del monumento. Talvolta lo seguiva un correttore, che rettificava gli errori con un colpo di pennello nero. Poi veniva il turno dello scultore, che doveva dar corpo alle figure, sbalzando in rilievo l’interno dei contorni preparati a pennello. L’arte dello scultore stava nel conferire al rilievo un modellato molto sfumato e morbido. I muscoli delle gambe, la rotondità delle guance, le forme piene del seno delle dee e delle regine sono suggerite da rilievi talvolta appena sporgenti, ma molto espressivi. Il pittore interveniva per ultimo, con la sua tavolozza di colori, per animare con tinte sempre vivaci le figure scolpite. Nei gruppi di artisti di Deir el-Medina, i disegnatori vanno senza dubbio sempre distinti dai pittori: i primi erano capaci di eseguire il repertorio iconografico e mitologico fissato dallo scriba della tomba e dal caposquadra, i secondi sapevano applicare i colori di cui essi stessi componevano le miscele.

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DEIR EL-MEDINA Mariti e mogli

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amore, la coppia, la vita familiare e la risoluzione dei conflitti a Deir el-Medina sono illustrati da una grande varietà di documenti, che consentono di affermare che il villaggio fu teatro di un’intensa vita sociale, animata da uomini e donne che avevano preoccupazioni non molto diverse dalle nostre. Dopo essersi applicati ai lavori di disegno di cui erano ufficialmente incaricati, gli uomini di Deir el-Medina tracciavano su frammenti di calcare (gli ostraka figurati) quasi sempre scene di vita privata, in cui, per esempio, appaiono donne svestite che cantano e danzano o giovani madri che offrono il seno ai loro

bambini. Tali immagini non hanno eguali: in nessun altro sito, infatti, sono state ritrovate testimonianze cosí intime sulla vita privata degli abitanti dell’Antico Egitto. Un’altra fonte di informazioni sulla vita amorosa è costituita da un genere particolare di testi letterari, rinvenuti soprattutto a Deir el-Medina. Redatti sui papiri o sugli ostraka, i «canti d’amore» sono componimenti poetici, probabilmente cantati da donne che si accompagnavano con uno strumento musicale (il liuto). La conclusione sociale del trasporto amoroso era il matrimonio, di cui, però, non sono state individuate forme particolari di celebrazione.

a fare molte concessioni, a sopportare i loro capricci, che arrivarono al punto di organizzare il primo sciopero della storia. Il fatto che abitassero tutti insieme consentiva comunque ai sovrani di controllarli e di sorvegliarli meglio, magari facendo riacciuffare chi avesse tentato di svignarsela. Questa variopinta umanità costituiva una vera comunità, non solo perché di fatto conviveva, ma perché godeva di una vera autonomia. I suoi membri avevano un tempio in cui adoravano i loro dèi, scuole proprie, una propria amministrazione, giudici che risolvevano le frequenti liti, e persino medici a loro riservati. Nella collina che sovrastava il villaggio verso ovest, avevano la loro necropoli, composta da tombe che presentano spesso una

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magnifica decorazione, perché erano essi stessi, cioè i migliori artisti d’Egitto, a costruirle e decorarle.

Scene di vita quotidiana Da Deir el-Medina, gli scavi archeologici hanno portato alla luce una quantità enorme di oggetti, provenienti in gran parte dalle grandi discariche del villaggio e dalle tombe. Tali ritrovamenti permettono di ricostruire, come raramente accade in Egitto, la vita di un villaggio, invero molto singolare, ma non per questo meno interessante: conosciamo i suoi abitanti per nome, ne possiamo ricostruire le piccole vicende quotidiane e persino gli amori, tradimenti compresi. Ma altri ritrovamenti ci parlano dell’aspetto piú importante, ai nostri

In alto un esemplare di lira, da Gurna. 1450 a.C. circa. Parigi, Museo del Louvre.


I reperti che consentono di ricostruire la vita quotidiana comprendono oggetti fatti di legno e di elementi vegetali, in parte provenienti dai corredi funerari, giunti fino a noi in uno stato di conservazione sorprendente, grazie alle particolari condizioni climatiche dell’Egitto. A essi si accompagnano vasi – spesso magnificamente decorati –, piatti, ceste di ogni tipo e dimensione. Se può essere interessante ripercorrere la vita quotidiana fatta di minuzie, rivivendo un’esperienza umana non molto dissimile dalla nostra, è però il mondo dell’arte che ci consente di ricollocare gli abitanti del villaggio nel loro vero ambito, quello della storia delle arti figurative di una civiltà che cosí tanto ha dato sotto questo punto di vista.

Negli atelier degli artisti

In alto piccolo gruppo in legno che ritrae Amenemipet e sua moglie Hator. XIX dinastia, 1280 a.C. circa. Berlino, Museo Egizio. L’uomo fu un personaggio molto influente a Deir el-Medina durante i regni di Sethi I e Ramesse II: nella sua tomba viene ricordato come «scriba reale e capo degli artigiani».

occhi, della vita della comunità, ovvero la pratica artistica: numerosi ostraka, in realtà scaglie di levigato calcare, recano studi e prove d’artista tra i piú suggestivi e interessanti di tutta la storia dell’arte egiziana. I molti documenti scritti recuperati, su ostraka e papiri, ci parlano della vita del villaggio: spesso si tratta di esercizi scolastici che ci conservano i testi letterari studiati nelle scuole, talvolta noti solo per questa via. Doveva essere certo uno spettacolo straordinario quello al quale si poteva assistere ogni mattina, alle prime luci del sole, quando dalle case del villaggio si dipanava la lunga fila degli «operai» che si dirigevano, lungo uno stretto sentiero di 1,5 km circa che si arrampicava sulle colline, verso la Valle dei Re, dalla quale tornavano al tramonto.

Nel vasto repertorio figurativo conservato sugli ostraka non cogliamo l’opera d’arte compiuta (a tal proposito disponiamo delle splendide tombe della Valle dei Re o della stessa Deir el-Medina): qui si vedono piuttosto la ricerca, i tentativi – sovente abbandonati –, lo studio preparatorio, la formazione di un linguaggio e di un repertorio, gli esperimenti, la satira e perfino l’erotismo, che nell’Antico Egitto viene raffigurato molto raramente. Con essi abbiamo la possibilità di entrare negli atelier degli artisti, un’esperienza che, almeno per la pittura, si realizza soltanto a Deir el-Medina e solo nel periodo di tempo in cui il villaggio è stato abitato. Grazie ai materiali recuperati nel sito, possiamo in definitiva seguire tutti gli aspetti della vita del villaggio, dagli strumenti di lavoro e dagli aspetti amministrativi – conti e registri delle presenze e delle assenze per i lavoratori impegnati nella decorazione delle tombe –, fino al papiro che ci informa dello sciopero poc’anzi ricordato, avvenuto durante il regno di Ramesse III per protestare contro la mancata corresponsione delle razioni alimentari che costituivano il salario degli operai. Né mancano patetiche espressioni della pietà personale, la descrizione dei culti e dei riti funerari ben esemplificati dalle decorazioni tombali.

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Agilkia. Una panoramica aerea dei templi di File. Le strutture furono trasferite qui nel 1977 dalla vicina isola di File, per preservarle dalle inondazioni causate dall’innalzamento del livello del Nilo per effetto della diga di Assuan.

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I TEMPLI

SALVATI Scendendo verso Assuan, si incontrano importanti complessi templari. Alcuni di essi si possono oggi ammirare grazie a un epocale intervento di smontaggio e ricostruzione, in grado di preservare i preziosi monumenti prima che la loro zona d’origine fosse ricoperta dall’invaso artificiale del Lago Nasser

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DA ESNA AD ABU SIMBEL

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e dalla zona tebana ci si dirige a sud, verso Assuan, si incontrano tre siti archeologici importanti – Esna, Edfu e Kom Ombo – che ci pongono di fronte a esperienze di tipo totalmente diverso da quelle vissute in precedenza. In queste località si possono visitare tre templi di dimensioni imponenti e di struttura non dissimile da quelli di Tebe, ma si tratta di monumenti che appartengono a un’epoca ben diversa della storia egiziana, quella che comprende l’età tolemaica (332-30 a.C.) e l’età romana (30 a.C.-324 d.C.), durante la quale l’Egitto aveva ormai perduto la sua indipendenza, essendo stato prima un regno ellenistico e poi una provincia dell’Impero romano. Rispetto ai monumenti di Karnak e a Luxor ci sono piú di mille anni di differenza, ma, a prima vista, nulla sembra essere cambiato.

Dai faraoni agli imperatori La struttura degli edifici di culto, la loro pianta, le selve di colonne gigantesche sono le medesime, cosí come identiche sembrano (anche se non lo sono) le iscrizioni incise o scolpite sulle loro pareti. Eppure, quando questi grandi complessi sono stati costruiti, i faraoni erano scomparsi da tempo, sostituiti dapprima da sovrani di origine macedone e poi dagli imperatori romani. Una simile situazione è l’indizio piú eloquente della continuità della civiltà egiziana anche sotto la dominazione straniera. Le strutture ereditate da un passato illustre sono rimaste a lungo intatte anche quando l’indipendenza politica era ormai perduta. Il fenomeno riguarda non solo l’architettura e, in misura minore, le arti figurative, ma anche la letteratura e la religione, che a lungo perpetuarono la tradizione faraonica. Per rendersi conto della forza della continuità culturale di quell’antica civiltà è sufficiente considerare che le ultime iscrizioni egiziane redatte in caratteri geroglifici e in A sinistra Edfu. La facciata laterale interna del pilone del tempio di Horo, riccamente decorata da rilievi ai quali fanno da corredo iscrizioni in caratteri geroglifici.

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A Edfu possiamo invece ammirare un grande tempio di età tolemaica e dunque piú antico di quello di Esna. L’edificio ci è giunto in perfetto stato di conservazione e completo di tutte le sue parti e delle sue decorazioni. Era dedicato al dio Horo, nel suo aspetto di divinità celeste che si rende visibile agli uomini sotto forma di un falco. È stato giustamente osservato che uno dei motivi del grande fascino emanato da questo tempio consiste nel trovarsi alle prese con un monumento conservatosi cosí come venne lasciato dai sacerdoti egiziani nel giorno in cui, per l’ultima volta, officiarono i loro riti, prima di andarsene per sempre, chiudendo la porta alle proprie spalle.

Sull’ansa del fiume A Kom Ombo, ormai quasi alle porte di Assuan, la situazione è ancora diversa. Anche qui vi è un tempio e anch’esso, come quello di Esna, è di età romana. A differenza dei precedenti presenta varie anomalie, che lo rendono particolarmente interessante per la storia dell’architettura egiziana. Innanzitutto, sorge su una sorta di acropoli naturale, in un punto in cui il fiume descrive un’ansa: si trova quindi su una posizione rilevata e molto suggestiva dal punto di vista paesaggistico. La circostanza è inconsueta, perché gli edifici dell’Antico Egitto danno solitamente l’impressione di opporsi allo spazio circostante demotico sono del IV e del V secolo d.C. A Esna si conserva parte di un tempio romano mai terminato e che si trova proprio al centro del villaggio moderno. Di esso rimangono numerose colonne, di dimensioni colossali, coperte di rilievi e di iscrizioni geroglifiche scritte secondo un sistema che soltanto lo studio specialistico ha permesso di decifrare. Nell’area davanti al tempio si trovano i resti di una chiesa: un esempio del diffondersi del cristianesimo in Egitto e del suo insinuarsi tra i monumenti pagani ormai in decadenza. Sulle due pagine particolare dell’interno del tempio, di cui si può apprezzare la ricchissima decorazione. A destra Esna. La facciata del tempio romano di Khnum.

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DA ESNA AD ABU SIMBEL

piuttosto che inserirsi in esso. L’aspetto piú importante del tempio di Kom Ombo sta però nell’essere «doppio», dedicato cioè a due diverse triadi divine, con altrettanti assi paralleli, che svolgono due percorsi rituali, distinti ma racchiusi nel medesimo edificio. Ad Assuan la situazione archeologica, inserita in un paesaggio tra i piú belli dell’Egitto, è assai piú complessa. Dal punto di vista geografico, siamo ai confini meridionali del Paese: il Nilo scorre tra le rocce della Prima Cataratta e il suo percorso è interrotto da varie isole, la piú importante delle quali è Elefantina, che si trova proprio di fronte alla città moderna,

sopra i resti di quella antica. Poco piú a sud si trovano le due grandi dighe che tagliano il fiume, la seconda delle quali, la cosiddetta «diga alta», ha creato l’enorme invaso del Lago Nasser, le cui acque hanno inghiottito numerosi monumenti egiziani e le testimonianze piú importanti della civiltà nubiana. L’Egitto terminava qui e gli Egiziani ne


Nella pagina accanto in alto Elefantina. Una panoramica aerea dell’isola sul Nilo, sede di insediamenti egiziani fin dall’antichità. Sulle due pagine Kom Ombo. Uno scorcio delle imponenti rovine del tempio di età romana.

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avevano piena coscienza, anche quando i confini politici correvano molto piú a sud. Ciò spiega la straordinaria varietà di situazioni archeologiche di questa regione, che sono di estrema importanza per la comprensione della storia del Paese. Va detto, innanzitutto, che il luogo piú importante era proprio l’isola di Elefantina, occupata da insediamenti egiziani fin dalle prime dinastie. Assuan ha sempre avuto un ruolo assai meno importante: era semplicemente un luogo di mercato nel quale i Nubiani venivano a vendere le loro povere merci agli Egiziani.

La tomba di un capo carovaniere

Assuan. Una panoramica aerea delle rovine del monastero di S. Simeone, sullo sfondo delle dune desertiche. VI-IX sec. d.C.

A Elefantina vi erano invece un insediamento urbano, fortificazioni e luoghi di culto la cui frequentazione si protrasse fino all’Epoca Tarda. Di tutto questo oggi si vede ben poco e lo studio delle tracce rimaste è arduo. Tuttavia, sulla riva sinistra del fiume, sulla collina di Qubbet el-Hawa si trovano le belle tombe dei funzionari delle prime dinastie. Tra di esse, spicca quella di Herkhuf, un capo carovaniere della VI dinastia (2350-2195 a.C.), che vi ha fatto incidere la sua autobiografia, divenuta una importante fonte per lo studio della fase finale dell’Antico Regno. Ad Assuan si sono conservate poche testimonianze della città antica e tutte di età molto tarda. Fra queste, è però interessante visitare un piccolo tempio dedicato alla dea Iside da Tolomeo III e IV che è in perfetto stato di conservazione. Poco a sud del tempio c’è poi una meta da non mancare: la cava di granito rosso nella quale si trova un obelisco di circa 40 m, abbandonato per i difetti della pietra riscontrati durante i lavori di estrazione. Qui sono visibili le tracce di lavorazione e ci si può rendere conto delle tecniche che venivano usate per estrarre questi giganteschi monoliti. Sulla riva sinistra del fiume, poco lontano dalla riva, si trovano infine le imponenti rovine del monastero di S. Simeone, attivo nella zona tra il VI e il IX secolo. L’edificio rappresenta un’altra testimonianza preziosa dell’intrecciarsi e del convivere in Egitto, in

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DA ESNA AD ABU SIMBEL

uno spazio piuttosto ristretto, dei monumenti pagani e di quelli del cristianesimo. Poco a sud di Assuan, si trovava un tempo il grande complesso monumentale dell’isola di File, che aveva come cuore il tempio della dea Iside. Si tratta di un culto iniziato negli ultimi tempi della storia egiziana, già nella XXVI dinastia (664-525 a.C.) e continuato poi per tutto il periodo tardo antico, fino a quando questo tempio venerando venne definitivamente chiuso, nel VI secolo, dall’imperatore Giustiniano, dopo essere divenuto l’ultimo baluardo del paganesimo in un Paese ormai completamente cristianizzato.

Un’impresa titanica Parlando di File, occorre usare il passato perché l’isola è oggi sommersa dalle acque del Nilo, dopo la costruzione della già citata seconda diga di Assuan. Tutti i monumenti che vi si trovavano sono stati smontati e trasportati sulla vicina isola di Agilkia, dove, nei limiti del possibile, si è cercato di ricostruire anche il contesto in cui File si trovava. Un’impresa titanica dal punto di vista tecnico, che lascia però negli studiosi il rimpianto per una perdita irreparabile, quella dell’antico sito, che era una realtà archeologica e paesaggistica ben diversa dall’attuale. Quanto è stato ricostruito, restituisce di File un’idea abbastanza vicina all’originale, con il suo affollarsi di templi e di edifici d’ogni genere, tutti d’età tolemaica e romana, quando l’isola conobbe il suo massimo splendore. Alcuni di essi, come il cosiddetto «chiosco di Traiano», con le sue colonne slanciate, sono tra i capolavori dell’architettura egiziana di ogni tempo. Anche dal punto di vista religioso il sito rivestiva una grande importanza, proprio per il culto di Iside, una dea che, soprattutto in età tardo-antica, era diventata un punto di riferimento non solo per gli Egiziani rimasti fedeli al paganesimo, ma anche per le numerose comunità straniere che si trovavano in Egitto. Del resto, attraverso la pietosa storia della dea che veniva raffigurata in atto di allattare Horo fanciullo non era difficile scivolare dal paganesimo al cristianesimo.

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In alto Abu Simbel. Panoramica aerea dell’area con i templi di Ramesse II e di Nefertari nella loro collocazione attuale. In basso illustrazione artistica ipotetica che immagina l’aspetto originario dei templi di Abu Simbel, collocati a ridosso del fiume Nilo e nel pieno splendore della loro decorazione.


Solitamente Assuan costituisce la base di partenza per una rapida escursione in aereo ad Abu Simbel, che si trova circa 300 km piú a sud. Anche qui si è vissuta la vicenda del salvataggio dei monumenti minacciati dalle acque del Nilo dopo la costruzione della diga alta e anche qui vi è stata una grande mobilitazione internazionale per trovare i fondi necessari all’impresa. I templi di Ramesse II (1279-1212 a.C.) e della regina Nefertari sono stati tagliati dalla roccia nella quale erano stati scavati e ricostruiti circa 60 m piú in alto in grandi hangar mascherati da colline nel tentativo, nell’insieme ben riuscito, di riprodurre le condizioni iniziali del sito. I templi vennero realizzati per volere di Ramesse II e sono dunque databili all’epoca del suo regno: il maggiore per sé e l’altro, piú piccolo, per la regina Nefertari. Quello dedicato al sovrano presenta in facciata quattro statue colossali, alte circa 20 m, che raffigurano

Ramesse seduto in trono. È un’opera gigantesca, che va ben oltre i confini dell’Egitto. Tale circostanza è testimonianza a un tempo della politica di espansione anche verso sud dell’Egitto nell’età dell’Impero e insieme del timore che il faraone voleva incutere in chiunque, dal Sud, si avvicinasse ai confini egiziani. Si spiega cosí il gigantismo della statue della facciata che sono piú il frutto di una volontà di intimidire i «vili» Nubiani che una forma di megalomania del sovrano. Accanto vi è il grazioso tempio di Nefertari: il sovrano ha voluto che la regina fosse in qualche modo presente accanto a lui in questa affermazione solenne della regalità egiziana in terra straniera. Si tratta forse di una manifestazione dell’ideologia del potere piú che di un atto di devozione nei confronti di una sovrana verso la quale, comunque, Ramesse II ebbe modo di manifestare la sua regale tenerezza in piú di un’occasione.

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Hawara. Una veduta dell’imponente piramide di Amenemhat III. XII dinastia, 1861-1813 a.C.

U

n centinaio di chilometri a sud-ovest del Cairo, nel Deserto Libico, si trova una grande oasi, di 4500 kmq circa, oggi collegata alla capitale egiziana da una comoda strada. In realtà, non si tratta di un’oasi vera e propria, ma piú propriamente, per esprimersi come alcuni studiosi fanno, di una «quasi-oasi». La porzione sud-orientale di questa vasta regione è infatti collegata alla Valle del Nilo da una sorta di cordone ombelicale, costituito da un grande canale chiamato Bahr Yussef («il canale di Giuseppe»). Il canale si stacca dal Nilo all’altezza di Dairut, in Medio Egitto: dopo aver a lungo costeggiato il fiume,

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piega verso occidente ed entra nell’oasi portandovi le acque del fiume.

Un mare nel deserto La regione si chiama al-Fayyum, adattamento all’arabo di una denominazione antica che in copto suona Phiom («il mare»). Il nome non deve sorprendere, perché la caratteristica piú singolare di questa regione è l’essere coronata a nord da un grande lago dalle acque leggermente salate, al di là del quale si estende un deserto particolarmente inospitale: ed è questo lago, «il mare», appunto. Il Fayyum costituisce al tempo stesso una


L’OASI DELLE

MERAVIGLIE A sud del Cairo, le distese di sabbia del deserto sono chiazzate dal verde e dall’azzurro del Fayyum: un’oasi abitata fin dall’epoca preistorica e frequentata intensamente anche al tempo dei faraoni

delle aree piú importanti dell’archeologia egiziana. La struttura fisica di questa regione, quale sopra l’abbiamo descritta, somiglia molto a quella del Delta del Nilo, nel complesso poco favorevole alla conservazione dei resti archeologici nella sua parte centrale, intensamente coltivata fin dall’antichità, abitata da una popolazione numerosa, con un terreno umido e instabile. E sono infatti pochissimi i monumenti che si sono conservati in questa zona: una stele-obelisco a nome di Sesostri I (XII dinastia, 1964-1929 a.C.) e due basi di statue colossali di Amenemhat III (XII dinastia, 1861-1813 a.C.) nella località di Biahmu, che

furono viste anche da Erodoto quando visitò l’Egitto verso la metà del V secolo a.C. Le aree archeologiche si trovano tutt’intorno alla zona coltivata ai limiti del deserto e al suo interno, là dove si sono create condizioni idonee alla conservazione delle testimonianze del passato. Qui sono giunte fino a noi non soltanto le necropoli – che pure hanno dato moltissimo alla conoscenza della regione, soprattutto per il suo periodo piú tardo, con i magnifici «ritratti del Fayyum» (vedi il capitolo successivo, alle pp. 82-99), ma anche le città che facevano da corona alla regione. Si tratta di un fenomeno di rilevanza assoluta,

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FAYYUM

perché in Egitto la conservazione dei centri urbani è un fatto eccezionale. Cosí come noi li conosciamo, questi agglomerati sono databili all’età tolemaica e romana. Si tratta di città e di villaggi «veri», non pianificati come quelli che si trovano qua e là nel resto dell’Egitto e perciò tanto piú interessanti in quanto ci permettono di vedere i luoghi e le condizioni nelle quali si viveva nel Paese nella fase piú tarda della sua storia.

Consigli per la visita Per visitare le aree archeologiche del Fayyum occorre una decina di giorni. Conviene prendere come punto di partenza uno degli alberghi che si trovano sulla riva meridionale del lago e di qui recarsi nei vari siti, mettendo in conto di visitarne due o tre ogni giorno. Le distanze non sono mai molto grandi, ma le strade sono talvolta disagevoli: spesso si tratta di semplici piste nel deserto, per cui in qualche caso è opportuno avvalersi di una guida.

Per rispettare almeno in parte l’ordine cronologico si deve iniziare dalla zona sud-orientale della regione, dove, in un’area relativamente ristretta, a Illahun e a Hawara, si trovano le piramidi di due importanti sovrani della XII dinastia, Sesostri II (1898-1881 a.C.) e Amenemhat III (1861-1813 a.C.). Può sembrare sorprendente trovare qui, lontano dalla zona menfita, monumenti cosí caratteristici del III millennio a.C., come le piramidi. Va però ricordato che la tradizione di seppellire i sovrani in questi imponenti monumenti venne ripresa proprio dai sovrani della XII dinastia, dopo il lungo periodo di crisi designato dagli studiosi come Primo Periodo Intermedio (2195-2064 a.C.), che segnò la frantumazione dello Stato unitario e la fine dell’Antico Regno. Vi fu allora uno spostamento dell’asse politico verso sud. Alla città che era stata la residenza regale e la capitale per quasi mille anni, Menfi, fu contrapposta una nuova residenza e una nuova capitale: Iti-tawy, «(la città del)

Stele in pietra calcarea del sacerdote Aamerout, che lo raffigura mentre adora il dio-coccodrillo Sobek. XIX dinastia, 1292-1186 a.C. Parigi, Museo del Louvre.

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di una tradizione di cui si sentiva ancora l’enorme prestigio, malgrado o forse a causa della crisi da cui l’Egitto era appena uscito.

Un rinnovato interesse

In alto veduta dei resti del tempio di Medinet Madi. In basso statuetta in bronzo e lega di elettro niellata raffigurante un coccodrillo, dal Fayyum. Regno di Amenemhat III, XII dinastia, 1861-1813 a.C.

sovrano delle Due Terre», fondata per l’occasione nella Valle del Nilo proprio all’altezza del Fayyum, regione per la quale i sovrani della XII dinastia, originari del Sud, mostrarono subito una particolare predilezione. Vicino alla nuova capitale essi cominciarono a costruire le loro piramidi, riprendendo il rituale funerario dei sovrani dell’Antico Regno che era stato abbandonato durante il Primo Periodo Intermedio. In questo ricollegarsi con un passato non troppo lontano c’era la volontà di collocarsi nel solco

A partire dal regno di Sesostri II, crebbe l’attenzione per il Fayyum, una terra fino ad allora poco conosciuta per gli stessi Egiziani e un luogo che i sovrani dell’Antico Regno e gli alti funzionari della corte consideravano solo come una riserva di caccia e pesca. Fra le ragioni di questo accresciuto interesse c’era senza dubbio l’esigenza di mettere a coltura nuove terre per far fronte all’aumento della popolazione dovuto al lungo periodo di pace che fece seguito alle turbolenze interne del Primo Periodo Intermedio. La bonifica ebbe forse inizio con Sesostri II. Il sovrano volle che la sua sepoltura fosse costruita nella località di Illahun, dalla quale lo sguardo può spaziare verso l’oasi e ammirarne, dall’alto di una sorta di zoccolo di calcare, le ampie praterie. La piramide di Sesostri II è oggi molto degradata, per effetto dell’adozione di nuove tecniche di costruzione, basate sull’impiego di materiali assai piú poveri di quelli delle piramidi dei sovrani della III e della IV dinastia. Accanto vi sono tombe principesche e i resti di una di quelle città pianificate che gli Egiziani costruivano per ospitare gli operai che venivano impiegati nelle grandi opere pubbliche. Poco piú a nord, ad Hawara, si trova la piramide di Amenemhat III, il sovrano con cui il processo di bonifica del Fayyum ebbe il maggiore impulso. La sua opera rimase cosí profondamente incisa nella memoria degli abitanti del luogo che in Epoca Tarda, vale a dire

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FAYYUM

circa millecinquecento anni dopo, egli veniva fatto oggetto d’un culto familiare. Anche questa piramide è realizzata con materiali poveri e si presenta piú degradata di quella di Sesostri II. Davanti al monumento si estende un enorme campo di detriti, attraversato da un canale per l’irrigazione scavato nel secolo scorso, nel quale sono da riconoscere i resti di uno dei piú famosi monumenti dell’antichità. Erodoto ne parla con cognizione di causa per averlo visitato durante il suo viaggio in Egitto e gli ha dato un nome assai familiare ai Greci, con il quale ancora oggi lo designiamo: il Labirinto.

Nel labirinto del faraone Secondo il racconto dello storico greco l’edificio era formato da due piani, ciascuno dei quali comprendeva 1500 stanze intervallate da cortili. Erodoto visitò il piano superiore, mentre quello inferiore gli rimase inaccessibile per motivi di ordine religioso. Le ricerche condotte nel sito nel secolo scorso da sir William Flinders Petrie (1853-1942), uno dei padri della moderna egittologia, hanno sostanzialmente confermato il racconto erodoteo: ciò che chiamiamo Labirinto era in realtà l’immenso tempio funerario destinato al culto di Amenemhat III. Oggi non ne rimane piú nulla e a stento possiamo riconoscerne i resti informi nell’area che si trova davanti alla piramide. Partendo dal lago possiamo iniziare la visita delle città di età tolemaica e romana che fanno da corona al Fayyum. Procedendo in senso orario, poco oltre la strada che collega il Cairo con Medinet el-Fayyum – il capoluogo della regione che sorge sul sito nel quale si trovava l’antica Shedet, capitale e principale centro religioso dell’oasi fino dal III millennio a.C. –,

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Un granaio fertilissimo

I

l Fayyum è costituito da una vasta pianura solcata da innumerevoli canali d’irrigazione che ne fanno una delle regioni piú ricche e piú fertili dell’Egitto. Queste erano le sue caratteristiche anche nell’antichità, da quando venne bonificata una prima volta dal faraone Amenemhat III (1861-1813 a.C.) della XII dinastia e poi una seconda volta da Tolomeo II nel III secolo a.C. La regione merita di essere visitata anche per le bellezze paesaggistiche, originate dal contrasto tra il verde intenso delle vaste praterie, il giallo del deserto che la circonda quasi da ogni lato e l’azzurro del lago e dell’acqua dei canali grandi e piccoli che si incontrano un po’ ovunque. Nel Fayyum piú che altrove si possono cogliere, per certi aspetti ancora ben conservati, i caratteri originali della società antico-egiziana, fondata sul lavoro dei campi e su una scrupolosa cura della distribuzione delle acque, che in Egitto costituiva la base stessa dell’esistenza dello Stato unitario. Nell’antichità, dopo la prima bonifica, la regione divenne la riserva da cui il Paese traeva la maggior parte della sua produzione di cereali, che costituivano la base dell’alimentazione, e anche una buona parte della produzione di frutta e verdura, proprio come avviene ancora oggi. Delimitato per quasi tutto il suo perimetro dal deserto, il Fayyum presenta caratteri molto unitari in ogni sua parte e consente, come in nessun’altra provincia nel Paese, lo studio di quella componente regionale che la ricerca storica sta dimostrando essere stata la vera forza su cui si fondava un organismo potentemente unitario quale fu l’Egitto faraonico.


In alto Medinet el-Fayyum. Una veduta panoramica delle rovine dell’antica città di Karanis. Periodo tolemaico.

incontriamo in poco piú di 30 km tre centri urbani. Insediamenti che conosciamo molto bene grazie allo studio combinato dei dati archeologici e di quelli che si possono ricavare dai papiri perlopiú scritti in greco e che nella zona sono stati ritrovati in grande quantità. La prima città si chiama Karanis ed è stata a lungo scavata, soprattutto grazie a una missione statunitense. Malgrado i danni subiti dalla parte centrale dell’abitato a opera dei ricercatori del fertilizzante naturale che si trova là dove sorgevano centri antichi (e che in arabo si chiama sebbakh), il tessuto urbano è in buono stato di conservazione. Visitando i resti di Karanis, è possibile farsi un’idea molto precisa di come fosse organizzato un centro urbano in Egitto almeno a partire dall’età tolemaica, quando il Fayyum fu oggetto di una seconda grande bonifica, voluta da Tolomeo II. Si sono conservati anche due templi in pietra dedicati a due diverse divinità coccodrillo, una particolarità che accomuna Karanis alla maggior parte delle città del Fayyum.

Il tempio del dio coccodrillo A poco piú di 11 km verso oriente, una distanza che, secondo un papiro greco, poteva essere coperta in circa due ore, si trova un’altra città dal nome greco: Bakchias. A differenza di Karanis, si tratta di un’area archeologica poco scavata. Dopo una breve campagna compiuta nel 1896 da una missione britannica, scavi sistematici sono stati ripresi, per opera di una missione italiana, solo nel 1993. Le indagini hanno dato risultati di notevole importanza, tra cui vanno segnalati i ritrovamenti di iscrizioni geroglifiche e di numerosi papiri greci. Bakchias sorprende per la notevole quantità di resti ancora visibili e per l’imponente struttura in mattoni crudi che sorge nella sua parte centrale e nella quale già i primi scavatori avevano giustamente individuato i resti del tempio dedicato al locale dio coccodrillo. L’area coperta dalle rovine è molto vasta, circa 50 ettari, paragonabile per estensione a quella di Karanis. In entrambi i casi si può dunque constatare l’imponenza di questi centri urbani,

Il Museo di Karanis

È

stato recentemente riaperto il Kom Aushim Museum, piccolo museo alle porte del sito tolemaico di Karanis, nel Fayyum. L’edificio era chiuso dal 2006 per i lavori di rinnovo del sistema di sicurezza, d’illuminazione e delle teche espositive. La raccolta, nata nel 1974, comprende 320 reperti che descrivono la vita quotidiana dell’oasi e i riti funerari, dal periodo predinastico a quello romano. Da notare un gruppo di cosiddetti «ritratti del Fayyum». Con l’attuale riapertura, inoltre, al nucleo originale sono stati aggiunti altri oggetti provenienti dal Museo Egizio del Cairo e da nuovi scavi.

destinati soprattutto a ospitare i contadini che coltivavano le tenute agricole della zona, ma anche dotati di templi grandi e piccoli, di scuole e di tutti gli uffici e i servizi indispensabili alla vita di grandi comunità. Procedendo in direzione est per circa 16 km, dopo aver lasciato Bakchias, si giunge nel luogo in cui sorgeva Philadelphia, un grande centro urbano che, negli anni Venti del Novecento, era ancora in buono stato di conservazione, piú o meno come Karanis e Bakchias. Le poche fotografie pubblicate ci mostrano un bel tempio e un tessuto urbano ancora ben leggibile. Tutto ciò è oggi ridotto a un’informe spianata, nella quale a stento si riconosce un’area archeologica, la cui esistenza è segnalata da pochi brandelli di murature e frammenti di ceramica. Eppure qui fu trovato, in scavi non documentati, un insieme di papiri di età tolemaica, noto come «archivio di Zenone». Esso costituisce una delle fonti piú importanti per lo studio delle strutture economiche e amministrative del Paese durante la dominazione greca e, nel contempo, conferma l’importanza di Philadelphia nel piú ristretto ambito del Fayyum tolemaico e romano.

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FAYYUM

Nella parte opposta dell’oasi, nella zona sud-occidentale, proprio al limitare del Deserto Libico, sorgevano altre due città, anch’esse già scavate in passato e poi esplorate da due missioni italiane: Tebtynis e Narmouthis. Tebtynis ha restituito una quantità considerevole di papiri e il suo tessuto urbano si è delineato con precisione. L’estensione delle ricerche ha permesso di riportare alla luce i quartieri che si trovano vicino al tempio, dedicato anche in questo caso a un dio coccodrillo locale. L’altro centro, che in età tolemaica e romana si chiamava Narmouthis (in egiziano: «la città della dea Renenutet») e oggi è noto come Medinet Madi (in arabo: «la città di Madi», eroe di una leggenda locale), vanta uno dei pochi templi databili al Medio Regno (2064-1797 a.C.) tuttora integri anche in alzato.

Al tempo della bonifica Come racontano le iscrizioni geroglifiche che sono scolpite sulle sue pareti, fu costruito dai faraoni Amenemhat III e IV, ai tempi della prima bonifica del Fayyum, e in seguito incorporato in una serie di ampliamenti di età tolemaica e romana, dedicato a una dea locale protettrice delle messi, Renenutet, che si manifestava in forma di un cobra. Il tempio è piccolo, come si conviene a un modesto centro di provincia, ma decorato con splendidi rilievi. È uno dei complessi monumentali piú importanti del Fayyum e merita senz’altro una visita. La sua presenza prova, tra l’altro, che Medinet Madi/Narmouthis fu fondata nella XII dinastia (1994-1797 a.C.). Un riferimento cronologico importante, poiché, allo stato attuale delle conoscenze, per nessun altro centro del Fayyum, tranne Shedet e forse Tebtynis, si può risalire oltre l’inizio dell’età tolemaica. Riprendendo la strada che conduce verso il Nord della regione, si giunge, dopo pochi chilometri, sulla riva meridionale del lago. Qui sorgeva Dionysias, che, come Bakchias, aveva un nome greco ispirato al culto di Dioniso, divinità particolarmente cara alla dinastia tolemaica. La città è stata indagata solo in minima parte, ma una visita è

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giustificata dal fatto che proprio nella sua parte centrale si erge in buono stato di conservazione e ben restaurato, uno splendido tempio in pietra, in puro stile egiziano classico, dedicato anch’esso a Sobek il dio coccodrillo ovunque venerato nel Fayyum. Nell’antichità il lago era un importante riferimento per tutta la regione, sia dal punto di vista fisico – una grande riserva d’acqua per l’irrigazione –, sia da quello religioso – l’acqua nella quale abitava il grande dio coccodrillo. Oggi la riva meridionale è fittamente abitata e coltivata, mentre la riva nord, anch’essa coltivata e abitata in antico, è deserta. Qui la presenza umana è attestata dall’età preistorica fino a quando, forse a partire dal V secolo d.C., l’area si è completamente desertificata, divenendo sede di sperdute comunità monastiche cristiane.

In alto Qasr Qarum, Tempio di Sobek-re. Particolare di un rilievo parietale raffigurante il dio Sobek, ritratto in sembianze umane con testa di coccodrillo. 323-330 a.C.


In basso Qasr Qarum. Una veduta esterna delle rovine del tempio di Sobek-re. 323-330 a.C.

Per visitare la riva nord del lago conviene tornare a Karanis e di lí prendere una pista in direzione ovest. Il viaggio richiede un’automobile adatta e una guida affidabile ed esperta, ma offre l’opportunità di visitare una delle zone piú suggestive dell’intero Egitto. La bellezza del deserto, uno dei piú aspri e selvaggi del Paese, lascia senza fiato e poi, dopo circa 25 km di pista, si raggiunge Qasr el-Sagha («il palazzo dei gioielli»). Qui si staglia solitario un piccolo tempio, orientato verso sud, e quindi in direzione del lago, in perfetto stato di conservazione, costruito con grandi blocchi di pietra, ma privo di iscrizioni e di scene figurate sulle pareti. In ragione delle tecniche impiegate nella sua costruzione lo si era inizialmente attribuito all’Antico Regno, ma studi successivi hanno dimostrato che risale anch’esso al Medio Regno, l’epoca in cui la regione conobbe il suo rilancio economico, puntualmente testimoniato dal fiorire di una ricca serie di monumenti. Accanto al tempio si trova l’insediamento in cui furono alloggiati gli operai che avevano lavorato alla sua costruzione. Purtroppo, la mancanza di iscrizioni non ci permette di dire quale fosse il

sovrano che ne volle la costruzione, né gli dèi a cui era stato dedicato: certo vi era ospitata piú di una divinità, perché sette sono le celle che si trovavano al suo interno.

Uno splendido isolamento Si prosegue verso il lago e, poco dopo, si distinguono le «guglie» di Soknopaiou Nesos, altro centro greco-romano del Fayyum, l’unico i cui resti si trovino nella parte nord del lago. Di fatto, non si tratta di guglie vere e proprie, ma dei resti degli altissimi muri del recinto del tempio, in alcuni punti conservatisi per oltre 10 m. La visita della città, orientata a sud verso il lago è una delle esperienze piú affascinanti che si possano vivere in Egitto e prova quanto anche l’epoca tolemaica e romana sia stata importante per la storia della civiltà nata sulle rive del Nilo. La parte che comprende gli edifici sacri è la meglio conservata. All’interno del grande muro di cinta di cui sopra si è parlato, vi sono i resti del tempio del dio Sobek e di quello in cui era adorata una forma locale della dea Iside. Dagli archivi di questi due luoghi di culto provengono papiri redatti in greco e in demotico che si trovano ora in vari musei europei e che nella maggior parte dei casi attendono ancora d’essere pubblicati. Davanti al tempio ha inizio una via processionale, lastricata in belle pietre, che si dirige verso il lago per una lunghezza di 400 m circa. Intorno al tempio vi sono i ruderi delle case, di cui si conservano le fondazioni e, in alcuni casi, l’alzato. Benché il sito sia stato scavato in passato da una missione archeologica statunitense la planimetria della città è poco nota. Del resto, le difficoltà logistiche, in primo luogo quella relativa all’approvvigionamento dell’acqua, hanno preservato il luogo da ogni contaminazione turistica, salvandone lo splendido isolamento tra lago e deserto. Per lo stesso motivo, però, per molto tempo non vi sono piú stati condotti scavi ufficiali; solo di recente, nuove indagini sono state avviate da una missione italiana che fa capo all’Università del Salento, con risultati molto promettenti anche dal punto di vista papirologico.

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SGUARDI

INCANTATI Per circa tre secoli, nelle necropoli del Fayyum invalse la moda di corredare le sepolture con il ritratto del defunto. Un’usanza alla quale dobbiamo un eccezionale patrimonio di immagini che, oltre al pregio estetico, possiedono uno straordinario valore documentario

di Euphrosyne Doxiadis Sulle due pagine ritratti funerari provenienti dalla necropoli del Fayyum. A sinistra ritratto femminile di età flavia, 69-96 d.C. Londra, British Museum. Nella pagina accanto ritratto di Eirene. 37-50 d.C. Stoccarda, Württembergisches Landesmuseum. L’iscrizione in demotico sul collo si augura che l’anima della donna possa risorgere presso Osiride-Sokar.

I

l Fayyum è una rigogliosa pianura che si estende a ovest del Nilo, 100 km circa a sud del Cairo, lungo il margine orientale dell’immenso Deserto Libico. Lí, sulle alture dove la depressione incontra il deserto, e dunque al sicuro dalle acque che tutti gli anni allagavano la zona, sin dall’età ellenistica gli abitanti della regione seppellirono i loro morti. Per le famiglie ricche dell’Egitto romano nei primi tre secoli dell’era cristiana era ancora pratica corrente mummificare i morti e applicare un ritratto, che poteva essere dipinto direttamente sul sudario o su un leggero pannello ligneo poi fissato sul volto. I ritratti del Fayyum sono il piú straordinario corpus pittorico che sia giunto fino a noi dal mondo antico. Il loro valore documentario, per tutto quello che ci dicono del contesto socio-psicologico del loro tempo, e la qualità artistica della maggior parte di essi sono impressionanti; eppure, sono stati a lungo trascurati dagli storici dell’arte e sono pressoché sconosciuti al grande pubblico. Per spiegare questo fatto è possibile avanzare qualche ipotesi. Prima di tutto, i ritratti sono «vittime dell’anonimato», non essendo attribuibili ad alcun pittore di cui si conosca il nome. Poi perché dispersi in varie parti del


mondo e nei settori piú diversi dei musei, dove li si può trovare indifferentemente tra l’arte egizia, greco-romana o copta. E infine perché Theodor Graf, il mercante austriaco che ne aveva acquistato una quantità di tutto rispetto, dichiarò – antedatandoli – che si trattava di ritratti di Tolomei, col risultato che per un certo periodo vennero ritenuti falsi, anche per via delle straordinarie condizioni di conservazione, naturali o prodotte dagli eccessivi restauri. La difficoltà di trovare loro un posto nella storia dell’arte in qualche modo persiste: sono da considerare egiziani, greci o romani? Non c’è dubbio che erano incorporati in mummie egiziane, ma d’altra parte le capigliature, il vestiario e i gioielli li ascrivono senz’altro alla cultura romana, anche se i piú belli si direbbero per lo stile puri esemplari dell’arte greca, eredi della scuola di Alessandria. Ad Alessandria, infatti, la città piú importante del mondo ellenistico, i pittori mantenevano viva la grande tradizione artistica greca. E, del resto, anche sotto i Romani, l’arte, come la lingua ufficiale, aveva continuato a essere greca.

L’Egitto dei Greci e dei Romani Nel 30 a.C. Cleopatra, ultima erede dei Tolomei, si suicidò e l’Egitto divenne provincia romana. Per la maggior parte della popolazione questo non avrebbe cambiato granché le cose. Tasse piú alte, amministrazione piú efficiente, un praefectus Aegypti al posto del faraone e della sua corte, una nuova capitale, Alessandria: furono queste le modifiche sostanziali. Già nel 332 a.C., dopo la conquista del Paese da parte di Alessandro Magno, una comunità greca di notevole consistenza si era stabilita in Egitto. Nel periodo greco-tolemaico che seguí, molte fertili terre vennero assegnate ai veterani greco-macedoni come ricompensa per il servizio militare prestato. Si formò cosí una classe ereditaria di proprietari terrieri. I Greci non erano i soli immigranti, anche gli Ebrei, i Siriani e i Libici si sposavano tra di loro e con le popolazioni locali, dando luogo a una


RITRATTI DEL FAYYUM

società cosmopolita e a una cultura sincretica che conobbe il massimo splendore nel II secolo d.C., epoca a cui risale anche la maggior parte dei migliori ritratti del Fayyum. L’esercito era sotto il controllo romano, ma anche i Greci, gli Egiziani e gli altri potevano ottenere lo status militare romano. E questo spiega la presenza, tra i dipinti, di un magnifico ritratto virile in cui un giovane, dall’apparenza somala, indossa l’uniforme romana. I Greci vivevano soprattutto in quattro grandi città, distinte per molti aspetti dalle città dell’antico Egitto. I membri della comunità greca venivano chiamati «metropoliti» (quelli, appunto, che vivevano nelle metropoli, ovvero le capitali regionali), titolo a cui avevano diritto solo se entrambi i genitori erano greci. E, di fatto, la cultura e lo stile di vita greci vennero mantenuti, in particolare nelle città, anche nel periodo romano. Pur non godendo di tutti i privilegi dei Romani, i Greci continuarono a mantenere una posizione sociale invidiabile: oltre alla casa di città essi avevano, di norma, una «seconda casa» in campagna, erano proprietari terrieri, banchieri, piccoli imprenditori. Anche gli Ebrei dell’Egitto romano – profondamente assimilati alla cultura

Nella pagina accanto particolare di un sudario in lino dipinto a tempera. I sec. d.C. Mosca, Museo Pushkin. La scena, benché insolita, illustra in modo eloquente il sincretismo religioso grecoegiziano. Il defunto, abbigliato in una tunica bianca, è accolto da Anubi, mentre a sinistra è Osiride, raffigurata in forma di mummia.

ellenistica – facevano parte della classe alta: spesso erano proprietari terrieri, banchieri o ricchi mercanti. Filone, il piú famoso filosofo del tempo, era appunto ebreo. Il lavoro dei campi e tutte le altre forme di lavoro materiale, come la costruzione dei templi e delle necropoli, erano invece svolti dagli Egiziani. La distribuzione sociale non era tuttavia cosí automatica e la maggior parte delle città era popolata da una classe media classificata come «egiziana», ma di discendenza, di lingua e di cultura greche.

Una società stratificata Da quelle città proviene la maggior parte dei nostri ritratti. La vita in quei luoghi non differiva granché da quella che si conduceva nelle città greco-romane del Mediterraneo orientale. La società era stratificata e i ricchi si sposavano solo all’interno della propria classe (curiosamente, tra i costumi matrimoniali locali trasmessi dalla società egiziana a quella greca, perdurava quello dei matrimoni tra fratello e sorella). La natalità infantile era alta, ma cosí pure lo erano la mortalità neonatale e quella infantile. Come in tutta la società antica, poi, molte erano anche le giovani donne che

Il Re Divino

T

ra le caratteristiche dell’Egitto greco romano v’era quella della divinizzazione del re. Cosí era stato per il faraone nell’antico Egitto, mediatore tra il regno degli dèi e quello dei mortali. Il faraone era un dio, designato in vita come «Horus vivente» e dopo la morte identificato con Osiride. Diversamente stavano le cose in Grecia, almeno fino all’avvento di Alessandro Magno. Nell’Ellade essi godevano di uno statuto quasi divino solo gli eroi del mito. Fu Alessandro Magno il primo re del mondo greco ufficialmente

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divinizzato, anche se in vita non fu fatto oggetto di culto, che venne introdotto, dopo la sua morte, da Tolomeo I. Tale decisione rafforzò la stessa autorità del sovrano e istituí un precedente nella venerazione del re. Cosí procedettero le cose con i Tolomei fino a che la venerazione del re-dio divenne abituale. Arsinoe – sorella e moglie del re – fu deificata per iniziativa del consorte, Tolomeo II Filadelfo, che le dedicò la città omonima. Le vennero attribuiti i caratteri di Iside e anche quelli di Afrodite. Nella regione del Fayyum le veniva tributato un culto speciale.

Tali pratiche inevitabilmente avrebbero influenzato anche i Romani. Sappiamo da Plutarco che Marco Antonio era detto «Nuovo Dioniso», mentre Cleopatra veniva chiamata «Nuova Iside» e cosí pure Augusto, per ragioni politiche, avrebbe accettato la divinizzazione in diverse città orientali. È probabile che l’Egitto abbia influito pesantemente nella sua decisione, poiché, per esercitare pienamente il potere in quel Paese, aveva bisogno di essere adorato come un dio, come era stato per i faraoni prima e per i Tolomei dopo.


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RITRATTI DEL FAYYUM

Per effetto del clima secco e delle sabbie del deserto si sono conservati – oltre ai ritratti – una serie di papiri che testimoniano la ricchissima vita culturale di quella provincia romana, che, grazie a tanti fortunati ritrovamenti, sembra rivivere sotto i nostri occhi. Cosí pure ci restano testamenti, contratti, accordi matrimoniali e lettere.

Il «paniere del mondo»

morivano di parto, una tragedia, questa, testimoniata da tante iscrizioni, papiri e sicuramente anche alcuni ritratti del Fayyum. Non è perciò difficile trovare tra quei ritratti fanciulli e giovinette. Anzi, piú in generale, si può dire che si tratta sempre di immagini di giovani, tranne che in qualche raro caso. Ma questo non deve stupire, se si considera che la maggioranza delle persone moriva prima di raggiungere i 35 anni di età. La provincia dell’Egitto – come piú in generale ogni provincia dell’impero romano – dipendeva dal lavoro degli schiavi. Anche in Egitto, dunque, quasi ogni famiglia ne possedeva uno o due e qualcuna arrivava ad averne piú di 100. Alla morte del padrone molto spesso gli schiavi venivano liberati, in osservanza alle indicazioni lasciate nel testamento.

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Ritratto di Aline, dipinto a tempera su lino. Berlino, Ägyptisches Museum. Il ritratto della donna, vissuta in età traianea (98-117 d.C.) e morta all’età di 35 anni, fu ritrovato insieme a quelli di due bambine, forse sue figlie, nel 1892 da R. von Kaufmann.

Quella egiziana aveva fama di essere una società violenta, ma dai documenti legali ritrovati emerge il quadro di una comunità con problemi assolutamente analoghi a quelli delle altre del tempo e in cui, nel complesso, la legge veniva rispettata e i legami familiari erano forti. Tutta l’economia del Paese, come ricorda Erodoto nel V secolo a.C., era un «dono del Nilo»; un dono universale (o quasi), se si tiene conto che Roma esigeva un terzo dei raccolti annui e che quella terra a giusto titolo poteva essere definita il «paniere del mondo». Nel 99 d.C., quando le acque del Nilo furono meno generose del solito, la crisi investí tutto l’impero. Ma dall’Egitto provenivano anche altri prodotti essenziali, come il vino, le olive e il cotone, e i proprietari terrieri erano ricchi, malgrado fossero obbligati a vendere il grosso della produzione allo Stato e a prezzi controllati. Sempre dall’Egitto – e solo dall’Egitto – veniva un altro prodotto di non meno vitale importanza per il mondo antico: il papiro (la cui esportazione sarebbe proseguita fino al Medioevo). Oltre che di poprietari terrieri, il ceto sociale piú elevato si componeva di banchieri, ma anche di attori, atleti, dottori e sacerdoti; per la maggior parte, erano greci. Infine c’erano gli ufficiali e i funzionari romani, incaricati di riscuotere le tasse e amministrare. L’Egitto greco-romano era una comunità che oggi chiameremmo «multiculturale»: è dunque ovvio che in quel contesto convivessero le pratiche religiose di piú gruppi. Con l’andare del tempo, si verificò comunque un’integrazione tra il pantheon egiziano e quello greco-romano e gli dèi dell’uno cominciarono a essere identificati o


assunti in quello dell’altro. Cosí, per esempio, successe a Demetra/Iside o alla tradizione del divino faraone, facilmente confluita in quella dell’imperatore divinizzato.

Intreccio di culture A resistere all’integrazione furono solo gli Ebrei prima e i cristiani poi. Ma facevano anch’essi parte della popolazione ellenizzata, condividevano molte delle tradizioni e dei rituali funebri egiziani: per questo motivo troviamo anche i loro ritratti tra quelli del Fayyum. In nessun altro campo come nella religione è visibile l’intrecciarsi con risultati originali delle tre culture, quella egiziana, quella greca e quella romana, soprattutto nell’importantissimo ambito delle tradizioni funerarie. Cosí nel Paese si veneravano divinità ibride a prevalenza però egiziana e questo si spiega, tra

In basso ritratto di un sacerdote di Serapide, da Hawara. 138-161 d.C. Londra, British Museum. La sua qualifica è desunta dalla presenza di una stella a sette punte sul diadema.

l’altro, col fatto che la casta sacerdotale nell’Egitto antico era molto potente. Nel culto egiziano dei morti i ritratti del Fayyum erano necessariamente oggetto di venerazione, poiché, in quanto parte delle mummie su cui si trovavano, erano visti come il surrogato immortale del defunto e dunque erano di per sé oggetti sacri. I defunti di sesso maschile venivano identificati con Osiride ed erano quindi pervasi della sua natura divina, mentre le donne venivano legate a Iside e forse anche alla dea-mucca Hathor; le mummie col ritratto venivano chiamate col nome del dio e ci si riferiva a loro come all’«Osiride», all’«Iside» o all’»Hathor». Ma il dualismo stilistico e culturale di questi oggetti rimane un fenomeno straordinario: si tratta infatti di ritratti greci su mummie egiziane. E se la mummificazione (un modo per

La fortuna di Serapide

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l culto di Serapide fu fondato per iniziativa di Tolomeo I Sotere per favorire l’adattamento dei coloni greci ai costumi della loro nuova patria. Ciò comportava, in qualche misura, l’accettazione della religione indigena. Fu scelto allora Serapide che, da figura mitologica secondaria, divenne una delle divinità piú importanti del nuovo pantheon, riunendo in sé i caratteri di tanti altri dèi, sia greci sia egiziani. Il nome stesso, derivato dalle divinità egiziane Osiride e Api, era greco, e infatti Serapide era apparentemente un dio greco. Rappresentato perlopiú con la barba e con il bastone, portava il modius o kalathos, tipico della personificazione di Ade. L’acconciatura era alta e cilindrica, svasata in alto. Ai suoi piedi era il cane dalle tre teste, Cerbero, guardiano dei cancelli dell’Ade. Serapide ereditò molti degli attributi di Ade e di Osiride e, prima di tutto, il regno dell’Oltretomba. Come Asclepio guariva i malati e aveva la possibilità di apparire ai mortali durante il sonno. I suoi adepti portavano un caratteristico diadema con stella a sette punte. Secondo la tendenza sincretica invalsa, Iside, moglie di Osiride e madre di Horus, divenne sposa di Serapide nel contesto dell’Egitto ellenizzato.

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RITRATTI DEL FAYYUM

preservare la forma fisica considerata essenziale per la vita dopo la morte) appartiene indiscutibilmente al rito religioso egiziano, i ritratti fanno parte della tradizione pittorica naturalistica greca, importata in Egitto dalla Macedonia: una tradizione straniera, mai prima associata con un fine religioso. Durante i primi anni del regno di Tiberio (14-37 d.C.) sembra che, per ragioni a noi ancora oscure, i ritratti dipinti cominciassero a essere inseriti nelle mummie, al posto della tradizionale maschera funeraria egiziana che era tridimensionale. Si trattava di una superficie piatta, dipinta con le fattezze del defunto: un’innovazione geniale che riflette la grande stima di cui godeva in quella società la pittura illusionistica greca e l’importanza che era andata via via assumendo l’identità individuale – si direbbe quasi la quotidianità umana –, rispetto all’astrazione e all’omologazione sul modello regale che erano state tipiche dei sarcofagi egiziani. Ai pittori dunque era affidato un compito non effimero. Fu alla fine dell’Ottocento che in Europa e negli Stati Uniti cominciò a circolare una gran quantità di splendidi ritratti provenienti dall’Egitto, e in particolare dall’oasi del

Fayyum. Un altro gruppo proveniente dalla zona di Hawara – la città piú importante del Fayyum – fu scavato e documentato dall’archeologo inglese, Sir William Matthew Flinders Petrie, che aveva cominciato a lavorare nella zona nel 1888 e aveva visto i suoi sforzi subito coronati da notevoli risultati.

I colori di un pittore

In alto e in basso la mummia della cosiddetta «fanciulla d’oro». 125-150 d.C. circa. Il Cairo, Museo Egizio. I gioielli e lo sfondo d’oro la rendono simile a un’icona. La corona allude al culto di Iside.

Petrie aveva infatti recuperato numerosi reperti di grande interesse, tra cui il papiro manoscritto del II libro dell’Iliade e, particolare che poi avrebbe assunto enorme rilevanza, il primo ritratto incorniciato che ci sia arrivato dall’antichità. Aveva inoltre riportato alla luce la tomba di un pittore, con i suoi barattoli di colore e con il teschio dello stesso, nonché un grande deposito pieno di ritratti funerari. Si trattava di dipinti naturalistici di stile greco, cere su tavolette di legno, di epoca romana, e soprattutto del II e III secolo d.C. Oggi se ne conoscono circa 1000, ma ai tempi ne circolavano per musei e collezioni private appena una ventina. Il primo di quei ritratti era stato trovato 250 anni prima da un viaggiatore italiano, Pietro della Valle, nel 1615. Ma già nel 1887, Theodor Graf, un mercante

A tavola con le mummie

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a divinizzazione postuma non si limitava ai personaggi di alto lignaggio. Secondo le credenze egiziane tutti – se imbalsamati a regola d’arte – potevano andare nel regno degli dèi, purché si officiassero per loro i rituali funebri appropriati. Di fatto si trattava di una sorte felice ed esclusiva: la mummificazione era una pratica molto costosa e pochi potevano permettersela. Tra i rituali che accompagnavano il morto nella vita ultraterrena c’erano i banchetti, celebrati dopo la morte e poi a ogni anniversario successivo, spesso con il defunto nel suo sarcofago, trattato come ospite d’onore. Erodoto racconta questa

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usanza egiziana di tenere i morti nel mondo dei vivi e spiega che la mummia veniva restituita alla famiglia e posta dentro una statua di legno vuota, una specie di custodia antropomorfa che veniva collocata in una speciale zona della casa, in genere dritta, appoggiata al muro. Diodoro Siculo descrive l’abitudine di tenere la mummia in casa, di «vivere col morto», aggiungendo un particolare toccante: «Guardano in faccia quelli che sono morti generazioni prima e, osservando la statura, le proporzioni, l’aspetto e il tratto di ciascuno, provano una strana gioia, come se avessero vissuto con coloro su cui posano gli occhi».


Ritratto di Isidora, una esponente dell’alta società , come si evince dalla ricchezza dei gioielli e dalla corona. 130-161 d.C. Malibu, The J. Paul Getty Museum.

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RITRATTI DEL FAYYUM

Mummia di un uomo e particolare del suo ritratto. Metà del III sec. d.C. Dresda, Staatliche Kunstsammlungen. Assieme a quella alla pagina accanto, rappresenta il primo ritrovamento di mummie del Fayyum.

austriaco, aveva comprato un altro carico di quei ritratti, all’incirca dello stesso periodo, anche se in molti casi si trattava di tempere e non di cere, il che ne riduceva l’interesse. Petrie ne era a conoscenza e sapeva che alcuni di quei dipinti erano già comparsi sui mercati di Parigi e di Londra a prezzi da capogiro. Inoltre sulla Allgemeine Zeitung di Monaco, Georg Ebers, un divulgatore egittologo dalla fantasia romanzesca, andava pubblicando articoli in merito a quei dipinti che venivano disinvoltamente attribuiti all’epoca dei Tolomei. I finanziatori privati di Petrie si erano perciò affrettati a prenotare uno spazio all’Egyptian

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Hall a Piccadilly. Arrivato in Inghilterra, in due settimane Petrie aprí le casse, incorniciò personalmente i ritratti, scrisse il catalogo e allestí l’esposizione, che aprí i battenti il 18 giugno del 1888. Graf, interessato com’era al valore commerciale degli oggetti, accolse con entusiasmo la datazione precoce di Ebers che, sulla scorta della loro alta qualità, ne attribuí un certo numero al II secolo a.C.,datando il corpus nel complesso tra il 200 e l’80 a.C. Ma Ebers, per sostanziare la sua ipotesi, poggiava su una serie di «prove»a suo parere inconfutabili: prime fra tutte quelle papirologiche. Dai papiri sappiamo infatti che la pratica della mummificazione era stata adottata dai coloni greci fin dal III secolo a.C. Inoltre a suo favore c’erano i riccioli raccolti da un lato dei ritratti maschili. L’uso voleva che quei riccioli venissero tagliati dopo i 14 anni, ma poiché alcuni dei ritratti virili riccioluti erano riferibili a individui ben piú maturi, l’egittologo tedesco ne dedusse che doveva trattarsi di príncipi o di paggi della corte di Alessandria, dove il taglio dei capelli non era imposto con altrettanta rigidità. Infine il colore rosso porpora dei mantelli di alcuni degli «ufficiali», a suo parere, poteva trovarsi solo in epoca ellenistica, perché in seguito tale colore fu riservato agli imperatori. Inoltre le acconciature delle donne, cosí come le barbe degli uomini, non erano «alla romana».

La giusta intuizione Furono Richard Graul e Petrie a giungere, sulla scorta di considerazioni in parte convergenti e in parte diverse, alla conclusione che si doveva trattare di ritratti del II e III secolo d.C. Anche se molte delle conclusioni di Petrie sarebbero state corrette in seguito, resta il fatto che a lui si deve l’intuizione di datare i ritratti in base alle caratteristiche delle acconciature femminili e delle barbe maschili. Altri studiosi invece, poiché la maggioranza dei ritratti maschili era barbata, ne deducevano che si dovesse trattare di opere di epoca postadrianea, giacché Adriano era stato il primo


imperatore con barba. E oggi viene unanimemente riconosciuto che nelle provincie gli usi della corte imperiale erano accolti immediatamente, tanto che le acconciature forniscono importanti elementi cronologici. Il vespaio delle diverse datazioni alla fine non giovò ai ritratti, sui quali finí per gravare un sospetto di impostura e di frode. Ma proprio Petrie – archeologo e pittore egli stesso – sostenne che la maggior parte di quei dipinti era di epoca adrianea e dunque del II secolo d.C. Quando scoprí i primi ritratti, Petrie era convinto che si trattasse di pitture realizzate dopo la morte del personaggio raffigurato e poi applicate sulla mummia con funzione decorativa. In seguito sarebbe tuttavia giunto alla conclusione che si trattava di opere realizzate con il modello ancora vivo, e questo sulla scorta di due considerazioni. Prima di tutto il fatto che le dimensioni all’origine erano evidentemente maggiori e poi che il ritratto veniva successivamente tagliato per essere adattato alla mummia. Si tratta di una teoria confermata in seguito da alcune radiografie. In proposito gli studiosi non sono però concordi e resta comunque aperto il dibattito.

L’incoerenza «anagrafica» Comunque si può senz’altro affermare che, se alcuni di quei ritratti furono eseguiti post mortem, altri, in cui la resa dei lineamenti e delle espressioni è straordinaria, furono sicuramente realizzati da un modello vivo, o basandosi su un ritratto esistente del defunto. Questo spiegherebbe anche la «discrepanza anagrafica» a volte riscontrabile tra mummie e ritratti. Mentre questi ultimi sono quasi sempre di persone giovani, le mummie stesse, in certi casi, sono risultate assai piú vecchie. Una delle circostanze che piú meravigliarono Petrie fu il fatto di trovare, nella stragrande maggioranza dei casi, ritratti magnifici e accuratamente realizzati in sepolture a dir poco «tirate via». L’archeologo ne dedusse che l’usanza funeraria doveva essere quella di esporre per un certo periodo la mummia col suo ritratto in un luogo visitabile da amici e

Mummia di una donna e particolare del suo ritratto. Metà del III sec. d.C. Dresda, Staatliche Kunstsammlungen. Fu acquistata nel 1615 a Saqqara da Pietro della Valle, assieme a quella alla pagina accanto.

parenti. Quel che avveniva successivamente doveva essere meno importante, e ciò spiegherebbe lo stato precario delle sepolture. D’altra parte, le condizioni spesso assai deteriorate dell’involucro di cartapesta, in qualche caso recante graffiti di bambini o solcato da tagli e fratture, confermano la teoria secondo la quale le mummie venivano conservate insepolte per un lungo periodo – fino a due generazioni – in modo che parenti e amici potessero rendere loro omaggio. La grande somiglianza dei ritratti compensava in qualche modo la perdita della persona cara e la famiglia poteva andare a vedere i suoi morti

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RITRATTI DEL FAYYUM

Le meraviglie di Antinopoli

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ntinopoli e Akhmim sono le altre due località, al di fuori della zona del Fayyum, che hanno restituito un buon numero di ritratti funerari. Quelli di Antinopoli, 41 reperti, sono di eccellente fattura e fra di essi si contano alcuni degli esemplari piú belli, compresa la splendida matrona con la croce ansata. Anche in questo caso alcuni sono su tavole lignee, altri su sudari di lino. La città era stata costruita da Adriano in onore e a memoria dell’amato Antinoo, annegato nel Nilo il 22 ottobre del 130 d.C. Gli Egiziani credevano che che chi affogava nel Nilo fosse accolto tra i beati immortali: cosí era stato per il dio Osiride, cosí sarebbe stato anche per Antinoo, che diventò una delle ultime divinità

pagane. Antinopoli fu costruita secondo modelli greci, ma risentiva molto del carattere monumentale tipico dell’architettura e della scultura egizia. Anche se Adriano favoriva la popolazione greca, i ritratti – con la loro varietà di tratti etnicoculturali – ci dicono che si trattava di un centro cosmopolita. Inoltre, l’altissima qualità di molti dipinti provenienti da quella località è indizio del fatto che la città, appena fondata dall’imperatore Adriano, dovette subito diventare un centro di attrazione per gli artisti migliori. Valga per tutti l’esempio dei due ritratti femminili di grande finezza, in cui si riscontra la peculiarità, caratteristica di Antinopoli, del legno modellato a seguire le spalle e poi restringentesi intorno al capo.

ogni volta che lo avesse voluto. Quelle immagini infatti erano altrettante incarnazioni pittoriche dei personaggi ritratti: il contributo greco alla tradizionale lotta della cultura egiziana contro la morte. L’uso di mummificare i morti continuò e si diffuse anche tra i cristiani, almeno stando alle pitture rinvenute su sudari del III secolo d.C. trovati ad Antinopoli, dove sono raffigurati i simboli della nuova fede, come la croce ansata e il piccione o il melograno.

Considerazioni stilistiche I ritratti – a seconda del loro stile e della loro qualità – possono essere ascritti a quattro categorie, dai piú complessi, di evidente tradizione greca, in cui la persona viene

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In alto ritratto di una donna di età traianea, da Antinopoli. 130-161 d.C. Detroit, The Detroit Institute of Arts. Nella pagina accanto Sir William Matthew Flinders Petrie e, sullo sfondo, parte di una lettera dell’agosto 1888 in cui l’archeologo fa riferimento agli scavi da lui condotti a Hawara.

rappresentata di tre quarti, fino a quelli frontali, di carattere piú schematico, in cui il colore è stato applicato in modo piatto. I primi, piú sofisticati, sono veri e propri capolavori che reggono allo sguardo di tutti i tempi. La loro forza è tale da risultare addirittura inquietante. Tra i numerosi esempi possibili, ci basterà menzionare il ritratto virile del Sacerdote di Serapide, il ritratto di fanciulla con la mamma, Demos, e quello del giovane Artemidoro, tutti provenienti da Hawara. La concentrazione dell’industria della mummificazione e della ritrattistica funeraria in quella zona era tale da far pensare che la città fosse abitata essenzialmente dalle famiglie di coloro che lavoravano per la necropoli.


Un eccentrico baronetto inglese

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el maggio del 1888, Sir William Matthew Flinders Petrie salpò da Alessandria per Liverpool con un bottino decisamente notevole. Sembra, del resto, che il grande archeologo non si fosse risparmiato durante gli anni di scavo in Egitto, perfino dormendo in una tomba antica e lavorando nottetempo nudo; unica protezione quella di uno schiavo che gli faceva da guardia. Ma le stranezze

non finiscono qui: le sue colleghe inglesi, per esempio, erano sconvolte dal fatto che lo studioso non portasse i calzini. Quanto alla sua dieta spartana, Lawrence d’Arabia si domandava come avesse fatto a non morire di botulismo. Ciò non toglie che Petrie sia stato una delle figure di maggior spicco dell’egittologia. Nato nel 1853 a Charlton (Kent), nel 1881 si era dedicato alla sua prima missione in terra egiziana, a Giza.

In seguito scavò nell’area del Delta (a Tanis e a Naucrati), e nel 1888 diede inizio alle sue ricerche nel Fayyum. Fu professore di egittologia all’Università di Londra (1892-1933) e, nel 1894, diede vita alla Scuola britannica di archeologia in Egitto. A lui e alla sua scuola, cui si deve, tra l’altro, la prima sistemazione dei reperti di epoca predinastica.

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RITRATTI DEL FAYYUM

1-100 D.C.

Anzi, verosimilmente, gli artisti vivevano proprio nella necropoli, giacché quella era la «specializzazione» economica della città. L’area era uno dei siti sepolcrali piú ambiti e appropriati, in quanto si credeva che la secolare tradizione funeraria avesse santificato la terra.

La moda e i giorni

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no dei maggiori meriti di Sir Petrie sta nell’aver elaborato un metodo di datazione dei ritratti basato sullo stile delle acconciature femminili e sulla presenza o meno delle barbe maschili. Egli consolidò questa impostazione attraverso le informazioni ricavate dallo stile della decorazione delle mummie e dei gioielli che esse sfoggiavano. Le sue ipotesi lo portarono anche a sostenere un’evoluzione (o, per meglio dire, un’involuzione) tipologica: dalla notevole qualità dei primi ritratti a quella, decisamente inferiore, dei dipinti di epoca piú tarda. Il sistema adottato da Petrie si scontrò in molti casi con scetticismi e perplessità e il dibattito sulla datazione si protrasse per quasi un secolo, con colpi di scena e improvvise intuizioni capaci di rimettere tutto in discussione. Gli studi condotti dimostrarono, per esempio, che l’acconciatura cosiddetta «a turbante» dei tempi di Adriano era tornata di moda in epoca costantiniana.


Nella pagina accanto ritratto femminile di età antonina. 161-192 d.C. Sulle due pagine disegni delle acconciature ricavate dai ritratti rinvenuti nelle province romane e databili ai primi secoli dell’Impero.

100-200 D.C.

I ritratti della seconda categoria sono meno complessi e meno sottili nella loro resa naturalistica. Questo non significa che i loro autori fossero meno bravi, ma forse soltanto che erano meno legati alla tradizione greca. Questi ritratti, meno realistici dei precedenti,

200-300 D.C.

sono comunque pieni di fascino e di colore e ne sono esempio il ritratto virile dell’ultimo quarto del I secolo d.C. Un certo numero di immagini di questo tipo fu recuperato nell‘area di Philadelphia.

Immagini stilizzate

Il metodo piú sicuro a cui si è infine approdati consiste sí comunque nel tenere conto dello stile delle capigliature femminili, ma sempre in relazione alla coeva ritrattistica romana in marmo, per la quale si hanno datazioni certe. Si può quindi concludere che i primi ritratti femminili furono dipinti al tempo di Tiberio (14-37 d.C.), mentre gli ultimi coincidono con lo stile delle acconciature delle imperatrici dei Severi e quelle immediatamente successive. Per gli uomini, l’ultimo stile è quello a taglio corto militare, che si incontra già nel II secolo d.C., ma che diventa comune solo ai tempi di Caracalla e di Geta (primo decennio del III secolo d.C.). Dopo la massima espansione, nel II secolo, la produzione dei ritratti andò lentamente diminuendo, fino a esaurirsi verso la metà del III secolo. Tra le cause determinanti, il declino economico e la diffusione del cristianesimo. Tale mutamento investí ogni aspetto della società e portò all’abbandono di un costume funerario osservato per 250 anni.

Nella terza categoria troviamo i ritratti piú schematici, sicuramente non dipinti dal vivo e forse neppure dal cadavere. Anche se molto stilizzati, i migliori presentano un interessante tentativo di rendere il carattere del personaggio, come è evidente nei due ritratti femminili di epoca antonina e antoninoseveriana, in cui sembra di intravvedere tratti che saranno caratteristici dell’arte bizantina . Infine esiste tutta una serie di dipinti di grande interesse dal punto di vista documentario, anche se poco significativi dal punto di vista artistico. I tratti sono dipinti su una superficie piatta dello stesso colore della pelle, cosicché il volto si riduce a un semplice disegno lineare. Questa forma, piú schematica e certamente basata su formule pittoriche automatizzate, è visibile nei due insoliti ritratti maschili,

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RITRATTI DEL FAYYUM

caratterizzati anche dal fatto, atipico, di non guardare dritto in faccia l’osservatore. Nell’analizzare i ritratti ci si rende conto della loro grande varietà: alcuni sono dipinti a encausto, altri a tempera, alcuni su tela di lino, altri su pannelli lignei, alcuni rappresentano solo la testa e altri la figura intera. Di alcuni si direbbe che siano stati dipinti dal vero e appesi alle pareti domestiche prima di finire sulla mummia, altri debbono essere stati postumi, soprattutto in caso di morte improvvisa. Perfino staccati dallo loro mummia i ritratti del Fayyum conservano una loro forza metafisica. Infatti, benché il loro sguardo «immortale» si posi sereno e tranquillo sull’osservatore, quei dipinti hanno la vividezza e l’animazione – quella che i Greci chiamavano emphasis ed enargeia – che sono tra le qualità piú preziose della pittura naturalistica. Ciò che li rende ancora piú preziosi ai nostri occhi, poi, è che in quei ritratti vediamo le reali fattezze degli uomini che vissero 2000 anni fa, con il loro abbigliamento, le acconciature tipiche dei diversi periodi, i gioielli e cosí via.

L’eredità della pittura greca...

Ritratto maschile dipinto a tempera su pannello. 138-161 d.C. Vienna, Kunsthistorisches Museum.

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Nella tecnica pittorica è presente con forza l’eredità greca. E il naturalismo, caratteristica principale dei migliori ritratti del Fayyum, è filiazione diretta della pittura greca del IV secolo a.C., dal famoso Apelle e dai suoi contemporanei. E spesso sono greci gli artisti stessi del Fayyum e in generale dell’Egitto greco-romano. Non ci stupirà dunque scoprire che nel villaggio di Heptakomia, nel 116 d.C., Chairas, di professione pittore, era il solo greco di una popolazione tutta egiziana di 1273 case. Gli artisti del Fayyum, alcuni dei quali dovevano essersi trasferiti in Egitto da generazioni, erano dunque accomunati anche dall’appartenenza etnica, oltre che dal comune rifarsi alla tradizione del naturalismo pittorico greco. In una delle sue epistole, Seneca descrive la grande rapidità con cui il pittore passa


Particolare del ritratto della mummia del giovane Artemidoro. Età traianea, 98-117 d.C. Londra, British Museum.

dall’immagine al dipinto cui sta lavorando, mentre gli occhi fanno la spola tra il modello e la superficie pittorica e le mani tra le cere e il dipinto. E questo perché l’effetto da ottenere è quello della massima «naturalezza», della massima immediatezza.

...e le affinità con le icone bizantine E proprio con la loro grande verosimiglianza, i ritratti del Fayyum sono una dimostrazione dell’importanza delle tecniche utilizzate dai pittori. Non solo: essi ci dicono molto anche sulla tradizione pittorica ellenistica piú in generale, cioè sul trait d’union fra il mondo antico e Bisanzio dove, non a caso, ritroviamo alcuni tratti caratteristici dei dipinti del Fayyum. Ad accomunare i ritratti delle mummie con le icone bizantine c’è per esempio il fondo scuro sul quale, in entrambi i casi, le figure si stagliano chiare. A seconda che lavorassero con la tempera o con la cera (calda o fredda), il metodo di applicazione del colore era molto

diverso. Mentre la tempera a base d’uovo, applicata con pennello fino, permette una grande precisione di segno, fino a raggiungere la tonalità desiderata, la cera calda – che richiede un gesto di grande velocità – produce effetti piú impressionistici, dall’impasto piú corposo. Infine, l’effetto che si ottiene con la cera fredda (o «punica») è una via di mezzo tra i due precedenti. I ritratti, per la maggior parte, danno l’impressione di essere a grandezza naturale. Di fatto sono invece notevolmente piú piccoli. Questo potrebbe essere dovuto all’effetto ottico di riduzione che si verifica per il pittore che guarda il suo modello da una certa distanza. Tale effetto ottico si verifica ovviamente in senso inverso anche per chi poi guarderà il dipinto. Fatto sta che i ritratti – salvo qualche rara eccezione – si adattavano bene alle dimensioni della mummia nella quale erano inseriti. La loro misura standard era di 35 x 18 cm, anche se spesso è evidente quello che lo stesso Petrie notò subito, ovvero che la tavoletta originale doveva essere piú grande. Veniva tagliata a misura in un secondo tempo, per essere inserita nelle bende all’altezza della testa della mummia. Per quanto riguarda i materiali, i ritratti sono essenzialmente di due tipi: su legno o su lino. Il legno può essere diverso per il tipo e per lo spessore, ma generalmente si tratta di sicomoro – anche se ve ne sono di cipresso, cedro e pino – , che ha la caratteristica di essere molto flessibile e quindi di poter essere curvato fino ad assumere la necessaria forma rotondeggiante. Lo spessore in media va da 1,6 a 2 mm e la direzione delle venature è verticale. In alcuni casi si direbbe che il supporto ligneo sia stato curvato in precedenza, per scongiurare il pericolo che si deformasse una volta applicato alla mummia. Un altro supporto comune dei ritratti funerari è il lino, lo stesso lino che veniva usato per le bende che avvolgevano il corpo delle mummie. È il caso, per esempio, dei ritratti di Hawara, in cui i volti dipinti sulla tela di lino si affacciavano tutto intorno a formare una sorta

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Ritratto di giovane uomo su legno, tra i piú pregevoli e realistici rinvenuti. 125-150 d.C. Mosca, Museo Pushkin.

di cornice. Ma c’era anche il tipo in cui il ritratto era dipinto direttamente sull’ultimo strato della benda funebre. Nella maggior parte dei casi la tecnica adottata sulla tela di lino è quella della tempera e il ritratto del volto è incollato sulle bende decorate. La preparazione della superficie variava a seconda della tecnica prescelta. Nel caso dell’encausto, che non aderisce sul gesso, il legno poteva essere lasciato cosí com’era (ma questo è raro), oppure vi veniva applicata una sostanza preparatoria: la piú comune era una colla trasparente che col tempo tendeva a non lasciare traccia, o ancora (eccezionalmente) poteva essere una cera scura. Nel caso della tempera, invece, la superficie da dipingere veniva ricoperta da uno o piú strati di colla animale mista a gesso, tecnica che ritroveremo nella preparazione delle icone bizantine. Il lino veniva preparato con un collante colorato, cosí da renderlo piú rigido e quindi in grado di supportare meglio il colore. A volte veniva utilizzato anche un leggero strato di stucco, come nel caso dello straordinario ritratto di «Aline», che è dipinto a tempera con applicazioni di stucco (per la collana e gli orecchini), su lino preparato con collante colorato scuro; si tratta di una cosa insolita nelle opere a tempera.

Dipingere con la cera L’encausto è tecnica nota fin dall’antichità per la sua resa naturalistica. L’etimologia (dal verbo enkaio,«brucio») indica l’uso del colore, anche se oggi si definisce «a encausto» ogni pittura che abbia a che fare con la cera, sia calda che fredda. La cera calda era perlopiú cera d’ape sciolta alla quale erano aggiunte sostanze coloranti. Alla cera venivano poi aggiunte sostanze resinose, come il mastice di Chio o la gomma arabica, e le fonti antiche, tra le sostanze utilizzate in pittura, citano la colla, l’uovo, la gomma, la cera, la resina e l’olio. Quanto agli strumenti utilizzati per dipingere con la cera, ne conosciamo almeno tre: il cauterium, il cestrum e il penicillum o pennello. Cosí almeno sappiamo da Plinio.

Dopo che la cera era stata stesa col pennello, il cauterium, uno strumento duro, arroventato, serviva a ritoccare le zone della pelle, a cui conferiva movimento e profondità, laddove la cera stesa col pennello risultava troppo piatta e uniformemente brillante. Il cestrum poi, una sorta di stilo, che infatti poteva essere sostituito dall’estremità appuntita del manico del pennello, serviva a incidere i contorni e a ritoccare e sfumare le aree già coperte dall’impasto di colore. La cera fredda (o «punica») per essere stesa va prima sottoposta a un processo di emulsione o saponificazione, che si può ottenere con l’uovo o con l’olio. La tecnica a freddo risulta piú facile perché, una volta emulsionata, la cera non si asciuga con altrettanta velocità e perché è piú facile lavorare sul colore dopo averlo steso. Di questo gruppo fanno parte tutti i dipinti realizzati con colori solubili in acqua. La tempera poteva essere usata in combinazione con colle animali, gomma arabica e mastice di Chio, oltre che con la chiara o il tuorlo d’uovo. Alla maggiore precisione permessa da questa tecnica, in cui il colore viene steso dal pennello con tratteggio incrociato per produrre le ombre, si oppone però il minore realismo dei risultati, dovuto all’impasto meno corposo e piú piatto. I colori usati per il volto sono perlopiú quattro: bianco, giallo ocra, terra rossa e nero. Poi su vesti, monili o corone di fiori si trovano anche il blu, il verde e il viola, oltre alle dorature ottenute col sistema della foglia d’oro. È ancora Plinio, quando si riferisce ai pochi colori di cui disponevano gli eccelsi pittori del IV secolo a.C., a lamentare il fatto che ai suoi tempi la gente sembrava dare piú importanza alle sostanze usate che all’abilità dell’artista. Il cromatismo dei migliori ritratti del Fayyum comunque dà ragione in pieno allo scrittore latino, giacché, servendosi di pochi colori, quegli artisti hanno ottenuto i risultati che oggi tutti possiamo ammirare. La loro abilità coloristica consisteva nel creare dei volumi, col relativo effetto di profondità, proprio grazie alla giustapposizione di determinate superfici cromatiche.

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NELLA TERRA

DI MEZZO La distinzione del Medio Egitto è frutto di una convenzione stabilita dagli studiosi moderni: una scelta voluta per sottolineare le peculiarità di una regione in cui si concentrano alcune fra le espressioni piú alte dell’arte e dell’architettura egiziane

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Qena. Un suggestivo scorcio dell’interno del tempio di Dendera, in cui si possono ammirare i capitelli dei pilastri decorati con le sembianze della dea Hator e i rilievi che si estendono su tutte le superfici.


MEDIO EGITTO

L’

idea di un «Medio Egitto», di un Egitto di mezzo, non rientrava nel modo di pensare degli antichi Egiziani. Essi, infatti, dividevano il Paese in Alto e Basso Egitto o, se si preferisce, in Valle del Nilo e Delta, regioni che chiamavano le «Due Terre» e oltre le quali non ne distinguevano, giustamente, una terza. La parte centrale della Valle del Nilo, che noi chiamiamo Medio Egitto, non presenta caratteri particolari rispetto al resto del Meridione, cioè dalla regione che va da Luxor ad Assuan, né dal punto di vista fisico, né da quello archeologico. La fascia di terreno coltivabile sulle due rive del fiume, sempre molto modesta in tutto l’Alto Egitto, è qui molto ridotta e il deserto è in piú punti assai vicino al Nilo, spesso fiancheggiato sulla riva destra dalle montagne della catena arabica. È un’area

geografica lunga alcune centinaia di chilometri che in vari tratti del suo paesaggio rurale, specialmente nelle zone lontane dalle grandi città moderne di Minya, Assyut e Sohag, mantiene ancora abbastanza riconoscibili i caratteri originali dell’Egitto antico. Eppure sarebbe sbagliato credere che si sia trattato di una regione di secondaria importanza nella lunga storia del Paese. Grazie a studi recenti, nei quali è stato messo in particolare evidenza il contributo delle singole regioni allo sviluppo della civiltà egiziana, il Medio Egitto si colloca come un’area singolarmente ricca di fermenti innovativi. E non si tratta solo di questo: qui si sono infatti svolti gli avvenimenti che hanno portato all’unificazione dell’Egitto, alla formazione dell’idea di regalità di origine divina – che è cosí caratteristica di questo Paese – e allo svolgersi della sua storia politica piú antica, in un alternarsi di spinte verso l’unità e di tentativi di ritornare al frazionamento territoriale originario. Anche in seguito, a distanza di quasi due millenni, altri avvenimenti di straordinaria importanza hanno portato il

In basso Tuna el-Gebel. Un’immagine delle catacombe di Thot, in cui i fedeli deponevano numerose mummie di animali sacri che venivano offerti al dio, tra cui ibis e babbuini.

Una mummia per il babbuino

C

iò che di Tuna el-Gebel maggiormente impressiona sono le immense gallerie sotterranee. In esse si trovano ordinatamente disposte le piccole mummie di un’immensa quantità di ibis, uno degli animali sacri al dio Thot (l’altro era il babbuino), che qui venivano deposte in un atto di suprema devozione verso un animale nel quale il grande dio del luogo si manifestava agli uomini. Senza dubbio, gli animali venivano allevati appositamente per essere messi a morte e sepolti quando lo richiedevano i devoti che qui venivano in pellegrinaggio: una consuetudine devozionale oggi criticabile, ma che in Egitto era largamente praticata. Grandi necropoli di animali si trovavano anche altrove, nei grandi centri religiosi: a Saqqara, a Bubastis e in molti altri luoghi ancora. Venivano sepolti gli animali piú diversi: tori, gatti, babbuini, manguste, coccodrilli e falchi, tutti connessi con il culto di importanti divinità. Il fenomeno dimostra l’importanza che il culto degli animali ha avuto nella religione egiziana, un retaggio ereditato dalla preistoria.

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A destra Beni Hassan, Tomba di Knumhotep II. Particolare della decorazione interna. XII dinastia, 1929-1881 a.C.

Medio Egitto alla ribalta della storia. In questa area geografica ha infatti avuto luogo la parte piú significativa della grande quanto effimera «rivoluzione» di Amenhotep IV/Akhenaton (1348-1331 a.C.), il faraone «eretico». I siti archeologici che si possono visitare procedendo dal Cairo verso Dendera sono numerosi e coprono tutti i periodi della storia egiziana, cosicché è possibile cogliere una grande varietà di situazioni e insieme il carattere profondamente unitario che essi presentano. È tuttavia indispensabile operare una selezione, anche perché molti si trovano in zone impervie e la loro visita richiederebbe un soggiorno prolungato. Un approfondimento nella conoscenza della civiltà egiziana, che vada al di là delle sue manifestazioni piú visibili e dunque piú ovvie, non può prescindere dalla visita dei siti che oggi si chiamano Beni Hassan, Tuna el-Gebel, Tell el-Amarna e di quelli che conservano gli antichi nomi di Abydos e Dendera.

Colonne doriche ante litteram A Beni Hassan, sulla riva destra del fiume e dunque in una posizione a rigor di termini opposta a quella che il rituale antico-egiziano richiedeva per le necropoli (che dovevano essere situate a occidente), si trovano le tombe dei governatori delle province tra la fine del Primo Periodo Intermedio (2195-2064 a.C.) e l’inizio del Medio Regno (2064-1797 a.C.). Profondamente scavate nella roccia delle colline della catena arabica, qui assai vicina al Nilo, sono caratterizzate dalla presenza, nella parte antistante all’entrata, di due colonne di forma molto simile a quella delle colonne doriche, la cui maturazione nell’ambito dell’architettura greca ebbe luogo circa 1500 anni piú tardi. All’interno le pareti sono spesso decorate da pitture ottenute spalmando direttamente il colore sulla superficie della pietra opportunamente preparata. Queste sepolture formano un complesso di grande importanza. Esse testimoniano, infatti, l’affermarsi in Egitto, durante la crisi del Primo Periodo Intermedio e poi ancora fino ai primi

Un’arte spregiudicata

L

e manifestazioni artistiche osservabili nelle tombe di Beni Hassan sono riconducibili a uno stile che trae la sua origine da centri di potere piú o meno indipendenti dalla corte, alla quale in certi casi si contrappongono anche sul piano politico, e che, proprio per questo, ambiscono a presentarsi come centri culturali autonomi. I cicli pittorici di Beni Hassan svolgono temi ignoti agli artisti menfiti. Vi sono pitture di argomento militare e sportivo, come la celebre scena di lotta tra due personaggi resa in sequenze che si succedono come i fotogrammi di un film, oppure dipinti «esotici», che mostrano l’arrivo in Egitto di personaggi provenienti dall’area siro-palestinese e recanti i loro doni e i loro tributi. Anche le scene religiose svolgono temi nuovi, come quello del viaggio-pellegrinaggio in barca verso Busiris, mentre le raffigurazioni di episodi legati alla vita quotidiana – che risultano piú in linea con la tradizione menfita – rivelano una libertà di impostazione fino ad allora mai sperimentata nell’arte egiziana.

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MEDIO EGITTO

tempi della XII dinastia, di un’arte provinciale che si contrappone consapevolmente a quella dell’Antico Regno, tutta accentrata nella corte menfita; un’arte piú libera nei temi e nel linguaggio figurativo che a prima vista può apparire – e forse lo è – anche piú rozza e ingenua di quella fin troppo intellettualistica delle tombe di Giza e Saqqara.

Da Gebelein a Torino Questo atteggiamento nuovo, spregiudicato e ben poco rispettoso della tradizione si trova anche altrove, nella necropoli di Assyut, o ancora piú a sud, a Gebelein, dove hanno lavorato agli inizi del Novecento missioni archeologiche italiane. Alcuni dei corredi funerari portati alla luce in quella occasione si trovano oggi al Museo Egizio di Torino. In proposito va detto che una visita al Museo Egizio di Torino costituisce un complemento ideale dell’esperienza vissuta in Egitto. La tappa a Torino permette infatti di comprendere quanto stretti siano i rapporti tra la civiltà antico-egiziana e la cultura europea che, nel secolo scorso, ha portato alla formazione delle collezioni egiziane dei grandi

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musei del nostro continente. Le tombe di Beni Hassan sono elevate di qualche decina di metri rispetto al livello del fiume: guardando verso nord e poi verso sud si può ammirare un panorama di grande bellezza, un colpo d’occhio con il quale si può verificare quanto ristretti fossero gli spazi dei quali ha potuto usufruire l’agricoltura egiziana, il cui perfetto funzionamento ha costituito la base della civiltà faraonica. A distanza di millenni è ancora ben visibile il non casuale rapporto tra centri abitati e terreni coltivati: sulla riva destra del Nilo, i villaggi sono sí nei pressi dei campi, ma sul deserto, in modo da non togliere terra alla produzione agricola. Sulla riva sinistra del fiume, alle propaggini del deserto libico, si trovano i resti della città che i Greci chiamarono Hermopolis («la città di Hermes»), perché era il piú importante centro di culto del dio Thot, protettore degli scribi e delle lettere, che essi identificavano appunto con il loro Hermes. Le rovine della città forse «parlano» poco a chi non sia archeologo, ma le colonne della basilica di età tolemaica che si stagliano sul fondale di palme costituiscono uno spettacolo di grande suggestione per il


Nella pagina accanto Tuna el-Gebel. Uno scorcio delle tombe della necropoli di Khmun. Periodo tolemaico. In basso Tuna el-Gebel, necropoli di Khmun. Scena di mietitura da un particolare di un rilievo del vestibolo della tomba di Petosiris. Periodo Tolemaico.

contrasto tra gli elementi architettonici di chiara impronta greca e il paesaggio inconfondibilmente africano. Il complesso archeologico piú importate della zona è quello di Tuna el-Gebel, dove si trova la necropoli di Hermopolis. Qui vi sono anzitutto da visitare le sepolture di età tolemaica costituite da una serie di cappelle costruite sul terreno. La piú bella e la piú interessante è quella in cui venne sepolto un sacerdote del dio Thot di nome Petosiris, un uomo dalla vita santa, vissuto fino agli albori della dominazione greca (300 a.C. circa). All’interno della sepoltura, che ha la struttura di un piccolo tempio, una ricca serie di iscrizioni geroglifiche ci conserva il ricordo della vita esemplare del suo proprietario; accanto alle iscrizioni corre un ciclo di bassorilievi che svolgono un programma figurativo in cui è ben visibile il tentativo di conciliare l’arte egiziana con quella

dei nuovi signori del Paese, i Greci. In questa parte del sepolcreto la presenza ellenica si fa sentire con forza: ancora in epoca romana, accanto alla tomba di Petosiris, sempre piú venerato come una specie di santo locale, vennero costruite tombe in forma di tempio e con l’interno preziosamente decorato di stucchi e pitture in stile ellenistico e romano. Un esempio molto bello è la tomba di Isidora, che risente in maniera evidente dell’influenza greca.

La città dell’eresia Poco piú a sud della moderna città di Mallawi, dobbiamo passare nuovamente il fiume per recarci in una pianura di modeste dimensioni, delimitata a est da una catena di basse colline e a ovest da una breve striscia di terreno coltivato fin dove giungono le acque del fiume. Il suo nome moderno è Tell el-Amarna, uno dei toponimi piú suggestivi per chi si occupa della civiltà dell’Antico Egitto perché evoca la personalità e l’opera del faraone eretico Amenhotep IV/Akhenaton (1348-1331 a.C.). In questa zona, fino ad allora non toccata da nessuno dei suoi predecessori, Akhenaton decise di fondare, nel quinto anno di regno, una città nuova, cui diede il nome di Akhet-Aten («l’orizzonte dell’Aten»). Vi si trasferí con i suoi piú fedeli seguaci per realizzare lontano da Tebe, centro principale del culto di Amon, il dio contro il quale si andava sviluppando la sua riforma religiosa e politica, un’opera di profondo rinnovamento dello Stato egiziano. Attraverso una rivoluzione che doveva coinvolgere religione letteratura e arti figurative, l’iniziativa di Akhenaton era destinata a porre il sovrano nuovamente al centro della vita del Paese, detentore di un potere politico effettivo, cosí come già era accaduto nel corso del III millennio a.C. Akhet-Aten era una città di nuova fondazione, costruita secondo princípi urbanistici nuovi, destinata a contenere i templi in cui veniva praticato il culto del dio di Akhenaton, l’Aten (il disco solare), il palazzo regale per il sovrano e la sua famiglia, le case per i fedelissimi che lo avevano accompagnato nella sua avventura.

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MEDIO EGITTO

Città costruita in fretta, Akhet-Aten fu in fretta abbandonata, circa quindici anni piú tardi, alla morte di Akhenaton. Scavi iniziati nel secolo scorso l’hanno riportata alla luce. Oggi Tell el-Amarna è uno dei luoghi piú importanti dell’archeologia egiziana per la possibilità che offre di studiare una città «vera» e per di piú fondata secondo un piano che rifletteva un progetto ispirato a una precisa ideologia, come dimostra la catena di stele, al di qua e al di là del Nilo, che ne delimitavano l’area, posta sotto la protezione dell’Aten.

Sulle tracce di uno scultore Sul terreno si possono vedere solo le fondazioni di alcuni edifici: il resto è stato nuovamente ricoperto dalla sabbia o non è stato ancora scavato. Eppure, sebbene non ci siano da vedere né templi, né obelischi, né statue, né altri grandi monumenti, ma solo una pianura desertica che si esaurisce quasi sulla riva del Nilo, il luogo è carico di suggestione. Qui si è svolta una delle piú affascinanti avventure del pensiero umano e qui hanno lavorato grandi artisti ai quali dobbiamo alcune tra le piú significative opere d’arte (sculture e pitture) che ci siano giunte dall’Antico Egitto. Non lontano dal palazzo regale è stato trovato l’atelier dello scultore Thutmosis, nel quale sono stati portati alla luce il celebre busto policromo della regina Nefertiti (ora nel Museo di Berlino) e tanti altri capolavori dell’arte amarniana. A est del sito sul quale sorgeva la città antica si trovano, scavate nella roccia delle colline, le tombe dei grandi funzionari e dello stesso sovrano, perlopiú incompiute e comunque mai utilizzate per la fine prematura dell’esperienza di Amarna. Molte di esse conservano scritto sulle pareti il testo dell’inno che il sovrano in persona scrisse in onore del suo dio. Nei pressi della città di Sohag è possibile visitare due delle piú importanti testimonianze del cristianesimo egiziano. A poca distanza dal centro abitato si trovano i due monasteri fondati quasi nella stessa epoca, il 440 d.C. circa, dall’abate Shenute, vissuto per quasi

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cento anni tra il IV e il V secolo. L’abate viene unanimemente considerato dagli studiosi come la maggiore personalità della comunità copta, sia per le sue straordinarie capacità in campo organizzativo, sia per la non comune qualità delle opere letterarie da lui scritte. I due edifici – che prendono rispettivamente il nome di Monastero Bianco, quello in cui Shenute operava personalmente, e di Monastero Rosso – sono ancora in eccellente stato di conservazione e abitati da famiglie cristiane. Il Monastero Bianco possedeva inoltre una grande biblioteca di testi che è stata dispersa tra le grandi collezioni di manoscritti antichi formatesi in Europa e che gli studiosi stanno tentando di ricomporre ormai da vari decenni. Visti da lontano, i due monasteri, circondati da alte mura di pietra rastremate verso l’alto, ricordano i templi egiziani pagani. Questa somiglianza non può essere frutto del caso: va piuttosto interpretata come una sfida dell’orgoglioso abate Shenute verso il paganesimo, i cui edifici – non va dimenticato – erano all’epoca ancora tutti in piedi e, almeno in parte, ancora in uso.

Le tombe dei primi sovrani Proseguendo verso sud, sempre sulla riva sinistra del fiume, si giunge, dopo un percorso piuttosto lungo attraverso gli innumerevoli villaggi che si trovano sul terreno coltivabile lungo il Nilo, nella zona in cui è nata la civiltà egiziana cosí come noi la conosciamo. Qui si è conservata una grande necropoli, chiamata Abydos dai Greci, perché cosí suonava piú o meno ai loro orecchi il suo nome egiziano, simile a quello di una loro città. L’importanza di questa area archeologica è paragonabile per certi aspetti a quella di Saqqara e per altri è forse anche superiore. Qui furono sepolti i sovrani delle prime due dinastie (3100-2686 a.C. circa), tra cui lo stesso unificatore del Paese,

In basso frammento di statua colossale di Akhenaton, da Karnak. XVIII dinastia, regno di Akhenaton, 1348-1331 a.C. Parigi, Museo del Louvre.


A destra Tell el-Amarna. Resti dei complessi palatini situati all’estremità nord della città. La nuova capitale si sviluppava in direzione nord-sud lungo un asse cerimoniale detto la «Strada Reale». In basso cartina dell’area di Amarna con indicazione dei diversi edifici. Necropoli settentrionale Palazzo del Fiume Altari del deserto Palazzo settentrionale Quartiere settentrionale Tempio Maggiore

Casa del sovrano Palazzo reale Tempio Minore

Centro amministrativo e religioso Villaggio degli operai Quartiere meridionale

colui che le fonti egiziane del Nuovo Regno e quelle classiche chiamano Menes e che si deve forse identificare con il personaggio chiamato Necropoli reale Aha nei documenti della I dinastia. Scavi recenti hanno fugato ogni dubbio sull’identificazione delle sepolture regali, prima di localizzazione incerta, e hanno anche permesso di riportare alla luce le barche che dovevano servire ai sovrani per «traghettare», come dicevano gli antichi Egiziani, nell’aldilà e che furono sepolte con loro. Si è trattato di una delle piú grandi scoperte archeologiche del XX secolo, effettuata in una zona sconvolta da scavi mal condotti in passato e che sembrava destinata a non dare piú risultati importanti.

Necropoli meridionale

Maru-aton

Il palazzo che non c’è Se i sovrani delle prime due dinastie vennero sepolti in questa zona significa che la loro residenza non doveva essere lontana. Essa si trovava, secondo le fonti scritte, nella città di This, un centro urbano la cui precisa collocazione non è stata accertata né le sue rovine riportate alla luce, forse perché interamente distrutta a causa della sua alta antichità – 5000 anni – o perché si trova al di sotto di un villaggio moderno e quindi non può essere raggiunta dagli scavi. Abydos cessò di essere la necropoli regale a partire dalla III dinastia (2700-2630 a.C. circa), quando i sovrani cominciarono a essere inumati a Saqqara e la sovrastruttura delle loro

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MEDIO EGITTO

Le barche di Abydos

A

lla missione statunitense diretta da David O’Connor e William Kelly Simpson che ha operato ad Abydos si devono alcune scoperte di eccezionale importanza. Il ritrovamento piú spettacolare ha avuto luogo nel 1992, quando gli archeologi hanno localizzato una serie di barche funerarie di sovrani della I e II dinastia, perfettamente conservate all’interno dei loro alloggiamenti e ancora provviste di tutto il loro equipaggiamento. Alla fine delle ricerche sono state contate 14 imbarcazioni e molti non hanno esitato a definire la loro scoperta come una delle piú importanti di sempre. Nel 1993, sono stati invece riportati alla luce i resti di un edificio di culto dedicato a Nefertari e una quantità impressionante di frammenti del rilievo che

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decoravano il tempio eretto in onore di Amosi (15431518 a.C.), fondatore della XVIII dinastia, nonché fratello e sposo di Nefertari. Il ritrovamento di questi frammenti è testimonianza del fatto che la corte interna del tempio custodiva i piú antichi rilievi narrativi o storici del Nuovo Regno, tra le cui raffigurazioni sono state identificate scene di una battaglia contro genti asiatiche occidentali o Cananei e le prime rappresentazioni di carri finora attestate in Egitto. Nel 1994, è stata avviata una nuova campagna di indagini sul complesso templare realizzato in onore del faraone Sesostri III (1881-1861 a.C.). Le ricerche hanno consentito una piú corretta interpretazione delle strutture e, anche in questo caso, il recupero di centinaia di frammenti decorati.


tombe assunse la forma della piramide. Ciò malgrado, continuò a essere un centro di primaria importanza per le credenze religiose antico-egiziane, perché si riteneva che nella sua necropoli fosse sepolto il corpo del dio Osiride, dopo che la sua sposa Iside ne ebbe raccolto le membra lacerate dal dio Seth che lo aveva messo a morte. Abydos divenne cosí una sorta di Santo Sepolcro degli antichi Egiziani, il luogo in cui tutti si riconoscevano malgrado il carattere estremamente composito e per certi aspetti contraddittorio della loro religione. Non vi era Egiziano che non desiderasse recarsi in pellegrinaggio presso la tomba del grande dio dinanzi al quale avrebbe dovuto presentarsi un giorno per affrontare il giudizio che doveva aprirgli le porte dell’aldilà. Chi non poteva farlo di persona inviava una stele, spesso piccola e povera, che conservasse presso la tomba del grande dio il suo nome e quello dei componenti della sua famiglia. Questo spiega anche perché qui si trovassero, già a partire dall’Antico Regno, le tombe di alcuni importanti funzionari e perché qui a partire dal Nuovo Regno alcuni grandi faraoni, come Sethi I e Ramesse II, primo e secondo sovrano della XIX dinastia (1292-1186 a.C.), abbiano svolto un’intensa attività edilizia.

Come un colossale ex voto Abydos. Una veduta dall’alto delle barche funerarie risalenti alla I e II dinastia.

Il tempio piú bello e piú importante venne realizzato per volere di Sethi I (1290-1279 a.C.) presso la tomba di Osiride. Il monumento, in eccellente stato di conservazione, è in sostanza un gigantesco ex voto che il faraone volle costruire perché il suo nome e quello degli altri componenti della sua dinastia rimanessero per sempre presso il grande dio che presiedeva all’aldilà. I bassorilievi che ne adornano le pareti sono tra gli esempi piú importanti della scultura egiziana del Nuovo Regno (1543-1069 a.C.). L’eleganza delle forme che caratterizza l’arte di quest’epoca viene portata a un grado estremo di raffinatezza che durerà ancora qualche tempo, durante il regno di Ramesse II (1279-1212 a.C.), figlio e successore di Ramesse, per isterilirsi subito

dopo, nella parte finale della XIX e nella XX dinastia (1186-1069 a.C.). Poco a sud di Abydos, dopo una grande ansa del fiume, si trova il gigantesco tempio di Dendera, giunto fino ai nostri giorni in perfetto stato di conservazione e notevole anche per il modo in cui si inserisce in uno splendido paesaggio. Tra Abydos e Dendera vi è un grande salto cronologico: qui siamo di nuovo al cospetto di un monumento dell’età tolemaica, cioè piú recente di circa mille anni rispetto al tempio i Sethi I che si trova nella necropoli abidena. Dedicato alla dea Hathor, il tempio di Dendera manca soltanto del primo pilone e della prima corte che non vennero mai costruiti. Le gigantesche dimensioni delle sue strutture, la possibilità di muoversi liberamente al suo interno, tra una selva di colonne altissime che culminano in capitelli riproducenti la testa della dea Hathor, per ammirare le decorazioni di contenuto religioso sulle pareti e sulle colonne stesse, rendono assai emozionante la visita di questo complesso. In effetti, qui si ha l’impressione di trovarsi nelle stesse condizioni in cui si muovevano i sacerdoti egiziani quando l’edificio era ancora in uso. Impressione rafforzata e accresciuta dalla visita alla cripta e al tempio che fu costruito sul tetto del santuario principale, secondo un uso comune a molti grandi edifici di culto in Egitto. Da qui si può agevolmente osservare come, all’interno del recinto che delimita l’area sacra al centro della quale si trova il tempio di Hathor, vi fosse un altro edificio assai piú piccolo dedicato al parto della dea Iside nelle paludi del Delta, dove, secondo il mito, essa diede alla luce il dio Horo. Un tempio siffatto, di cui si trovano esempi anche altrove e che venne chiamato mammisi (in copto, «luogo della nascita») da Jean-François Champollion, il decifratore dei geroglifici, comincia ad apparire nella XXX dinastia (380-343 a.C.) ed è una delle poche vere novità dell’arte egiziana in epoca tarda. Accanto si trovano i resti di una chiesa che i cristiani costruirono riutilizzando blocchi degli edifici di culto pagani: è l’unica chiesa in Egitto costruita interamente in pietra.

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LE REGINE DEL DELTA Là dove le acque del Nilo si confondono con quelle del Mediterraneo sorsero, in epoche diverse, città magnifiche. Fra tutte, spicca Alessandria, capace di imporsi come uno dei principali poli culturali dell’antichità, di cui furono emblemi il leggendario Faro e una biblioteca che custodiva tutto il sapere del mondo | NELLA TERRA DEI FARAONI | 110 |


Alessandria. Una veduta panoramica aerea della cittĂ moderna, con, in primo piano, la quattrocentesca fortezza di Qaitbay.


ALESSANDRIA E IL DELTA

L’

odierna situazione archeologica e monumentale del Delta del Nilo non è certo paragonabile all’importanza che questa regione ebbe nell’antichità, quando formava una delle «Due Terre» e poteva rivaleggiare – per la ricchezza e la grandezza delle sue città e per la bellezza dei suoi monumenti – con i maggiori centri della Valle del Nilo, prima fra tutti Tebe. Sul terreno, infatti, resta oggi ben poco: il terreno, umido e instabile, ha causato la rovina dei grandi edifici e la perdita pressoché totale dei materiali deperibili, del legno, delle stoffe e, soprattutto, dei preziosissimi papiri. Le grandi distese di terreno coltivabile, solcate nell’antichità dai rami in cui si divideva il corso del Nilo e da una rete assai estesa di canali, hanno fatto sí che il Delta sia

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In questa pagina l’«Obelisco di Cleopatra» in un disegno acquarellato di Dominique Vivant Denon. XVIII sec. Nella pagina accanto, in alto Alessandria, catacombe di Kom el-Shogafa. Particolare della decorazione pittorica che evidenzia la mescolanza della tradizione egiziana e di quella greco-romana.


sempre stato fittamente abitato in ogni epoca della storia, fino all’età contemporanea. E proprio la continua presenza di insediamenti umani costituisce uno dei maggiori ostacoli alla conservazione dei monumenti antichi e poi, quando essi crollano, dei resti archeologici. Infatti i templi crollati su se stessi per l’abbandono e l’incuria diventano cave di pietra e i cumuli di mattoni crudi sono una riserva inesauribile di materiali edilizi e di fertilizzanti naturali. Ciononostante, un viaggio nel Delta è ricco di motivi di interesse. In primo luogo, esso permette di comprendere la natura piú vera della civiltà del Paese che nasce dal confronto – talvolta dallo scontro – tra realtà profondamente diverse. In secondo luogo, dà modo di verificare come la storia che noi

Un mercato antiquario sommerso

N

elle acque del porto di Alessandria sono stati localizzati numerosi monumenti antico-egiziani, verosimilmente provenienti da vari centri del Delta e destinati a essere imbarcati per l’Italia. In età imperiale, a Roma, vi era infatti una forte domanda di antichità provenienti dalla Valle del Nilo, soprattutto in relazione al diffondersi del culto della dea Iside, nei cui templi venivano collocati, per conferire a essi un tono egiziano. Il recupero di molti di questi monumenti, avviato nel 1992 da un’équipe guidata da Franck Goddio, ha fornito notizie sia sul commercio delle antichità egiziane in età romana, sia sui luoghi di provenienza degli oggetti riportati alla luce: è molto probabile che facessero parte di templi e di necropoli oggi distrutti.

ricostruiamo dell’Egitto antico sia soprattutto storia del Sud, cioè dell’area geografica che ci ha restituito una quantità incomparabilmente piú grande di documenti, e quindi unilaterale e tendenziosa.

Qui si fermò Alessandro Magno Un viaggio nel Delta deve avere come punto di partenza Alessandria, facilmente raggiungibile dal Cairo. La città è stata fondata da Alessandro Magno al momento della conquista dell’Egitto, nel 332 a.C. Da allora fu la capitale del Paese, sede della corte, grande centro politico e di cultura cosmopolita. La sua storia ha ben poco a che vedere con quella dell’Egitto Antico, per il suo carattere di città greca di lingua e di cultura, aperta verso gli altri grandi centri del Mediterraneo. In essa non vi è praticamente nulla che la leghi all’Egitto faraonico: anche dal punto di vista archeologico, le testimonianze che si sono conservate appartengono, quasi senza eccezioni, all’età ellenistica e romana. Fra i pochi monumenti visibili in superficie, spicca il complesso di Kom el-Dikka. Gli scavi che lo hanno interessato hanno riportato alla luce l’Odeon di età romana, A sinistra un momento delle ricerche archeologiche subacquee condotte nel porto di Alessandria.

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ALESSANDRIA E IL DELTA

capace di contenere 700-800 persone circa. Non molto lontano si trova, nei pressi dell’antico Serapeum, la cosiddetta «colonna di Pompeo», alta 27 m, oggi assurta a simbolo di Alessandria e cosí chiamata perché si riteneva indicasse appunto la collocazione della tomba di Pompeo. In realtà, sembra che fosse stata eretta per l’imperatore Diocleziano, nel 302 d.C., come indicherebbe un’iscrizione che si trova alla sua base. Per il resto, il patrimonio archeologico alessandrino è costituito dalle sue necropoli: Kom el-Shogafa, di età romana e scavata su diversi piani sotto il livello del suolo; Anfushi, che si trova nella penisola sulla quale svettava il Faro; e altre minori, come Qabbari e Shatbi, dove sono stati molto attivi, dall’inizio del Novecento fino agli anni Cinquanta, archeologi italiani di grande prestigio quali Evaristo Breccia e Achille Adriani, entrambi direttori del Museo di Alessandria. Non va infine dimenticato che, secondo la tradizione, ad Alessandria si trovava la tomba di Alessandro Magno, ma la sua esatta collocazione nella topografia della città antica resta oggetto di discussione tra gli studiosi. Ad Alessandria vi è inoltre un grande museo, in cui sono raccolti monumenti di età tolemaica e romana provenienti da varie parti d’Egitto. Si tratta di una raccolta specialistica, indispensabile punto di riferimento per chi si occupi della storia dell’Egitto «dopo i faraoni». Per renderne la visita piú agevole, il Delta si può dividere in tre settori: occidentale, centrale e orientale e dedicare uno o due giorni a ciascuno di essi. Nel Delta occidentale i centri piú interessanti sono indubbiamente Naukratis, Buto e Sais. Naukratis è un ottimo osservatorio per analizzare il fenomeno della presenza greca in Egitto. Fondata forse nel 620 a.C., quando sul trono d’Egitto si trovava Psammetico I (664-610 a.C.), divenne ben presto l’emporio a cui era riservato il commercio tra l’Egitto e il mondo greco. Benché certamente

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Nella pagina accanto maschera funeraria di Amenemope. XXI dinastia, 991-984 a.C. Il Cairo, Museo Egizio. In basso statuetta in bronzo della deagatto Bastet, venerata a Bubastis. La dea è raffigurata in piedi, con il braccio sinistro piegato a reggere uno scudo con protome leonina.

nata in un sito nel quale si trovava già un insediamento egiziano, fin dalla sua fondazione presenta una struttura e caratteri che appaiono indubbiamente piú greci che egiziani.

Il cobra e l’avvoltoio Buto, forse, non fu mai un vero insediamento urbano, ma piú probabilmente un centro religioso formato da vari edifici di culto. Di origini estremamente antiche, svolse sempre un ruolo fondamentale nella vita religiosa dell’Antico Egitto, visibile in modo particolare nel formarsi della dottrina della monarchia di diritto divino. Buto, infatti, fu sede del culto di una divinità che si manifestava sotto forma di cobra, Uto e che – insieme alla dea-avvoltoio del Sud, Nekhbet – costituí la coppia di divinità poste a protezione del sovrano e insieme emblema del suo potere. Per questo le sue rovine meritano la massima attenzione: esse si dispongono, non sempre facilmente leggibili, dalla preistoria fino all’età romana, a dimostrazione della continuità cultuale del sito. Nella località di Sa el-Hagar si trovano i resti dell’antichissima città di Sais, sede principale del culto della dea Neith, una divinità guerriera che i Greci identificarono con la loro Atena. Sais fu capitale dell’Egitto durante la XXVI dinastia (664525 a.C.), costituita da sovrani che ne erano originari, e che qui furono infine sepolti, in tombe costruite all’interno del recinto del tempio della loro dea, come sappiamo da una precisa testimonianza di Erodoto. Da Sais provengono moltissimi oggetti, come statue, stele e sarcofagi, anche piuttosto importanti da un punto di vista storico e artistico. Nella parte centrale della regione la visita può limitarsi al sito che oggi si chiama Behbeit el-Hagar, dove si conservano le rovine di un tempio dedicato alla dea Iside. Le colonne e i blocchi che recano iscrizioni e rilievi di eccellente qualità sono ancora nel pittoresco disordine in cui vennero a trovarsi quando l’edificio sacro crollò, un disordine che ci


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ALESSANDRIA E IL DELTA

permette di rivivere l’esperienza provata dai primi visitatori dell’Egitto, prima che gli archeologi giungessero a «mettere ordine». Nel Delta orientale conviene visitare soprattutto Tanis e Bubastis, anche se ora la situazione è assai piú ricca e complessa di un tempo perché da qualche anno è stata identificata Avaris, la città che fu la capitale dell’Egitto durante il periodo della dominazione degli Hyksos (1640-1540 a.C. circa) sulla maggior parte del Paese.

Un Paese diviso in due Diverso è il caso delle altre due città che, tra la XXI (1069-945 a.C.) e la XXII (945-715 a.C.) dinastia, hanno avuto un ruolo di primo piano. Sono tra i pochi siti archeologici del Delta che conservino rovine «visibili», accomunate dal fatto di essere state entrambe città regali. Tanis lo fu ai tempi della XXI dinastia, in un Egitto nuovamente in crisi, diviso tra Nord e Sud, mentre Bubastis nel corso della XXII, in un’epoca caratterizzata dallo spostarsi dell’asse politico nel Delta orientale, certamente per il prevalere delle preoccupazioni di carattere militare e le esigenze sempre piú pressanti della difesa del Paese da attacchi provenienti dall’Oriente. Fondata in età ramesside (XIX dinastia, 1292-1186 a.C.), Tanis possedeva una serie di edifici religiosi racchiusi all’interno di un grande muro di cinta e circondati in seguito da un secondo muro costruito dal faraone Psusenne. Gli scavi condotti nella seconda metà del Novecento hanno portato alla luce una situazione di difficile interpretazione, resa ancor piú complessa dalla natura del terreno e dal disordinato accatastarsi di blocchi, di frammenti di grandi statue e di obelischi. La scoperta piú importante fatta a Tanis e che a suo tempo non ebbe la dovuta risonanza a causa dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale, fu quella delle sepolture dei sovrani della XXI e della XXII dinastia. Nel recinto di Psusenne, nell’angolo sud-ovest, furono trovate le tombe dello stesso Psusenne e di altri faraoni. Quella di Psusenne e degli altri

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eminenti personaggi inumati con lui era intatta, cosicché fu possibile recuperarne il ricco corredo funerario. I sarcofagi in argento e gli altri oggetti d’arte in metalli preziosi sono oggi conservati al Museo Egizio del Cairo. È comunque interessante notare come a partire dalla XXI e XXII dinastia si sia affermato un nuovo rituale per la sepoltura dei faraoni. Dopo le piramidi dell’Antico Regno e le tombe scavate nella roccia della Valle dei Re, ora le sepolture dei sovrani vengono collocate nel recinto del tempio principale della città in cui si trova la loro residenza. Erodoto, nelle Storie, testimonia che il medesimo rituale veniva osservato a Sais nel tempio della dea Neith. Non conosciamo le ragioni di un mutamento che sovvertiva la regola sempre rispettata di costruire le necropoli lontano dai centri abitati. La motivazione solitamente addotta, ovvero la volontà dei sovrani di stringere il loro rapporto con la divinità di cui erano fedeli, è lungi dall’essere soddisfacente.

Tanis. Una veduta della porta monumentale del faraone Sheshonq III, parte del grande tempio di Amon. XXII dinastia, 825-773 a.C.


bene, anche in alzato, mentre quel che resta del tempio è spesso sommerso dalle acque che vengono dal sottosuolo e sono molto vicine alla superficie. Il tempio ha avuto l’onore di essere stato visitato da Erodoto, che lo descrive situato su un’isola. La circostanza è stata in parte confermata dalle ricerche archeologiche, grazie alle quali sappiamo che era circondato su tre lati da un fossato colmo d’acqua che risultava dalla confluenza di due canali, cosa del tutto inconsueta in Egitto. La grande antichità della città e dei suoi culti è testimoniata, tra l’altro, dalla presenza di un imponente edificio costruito da Pepi I durante la VI dinastia (2360-2195 a.C.) e restaurato.

I musei di Alessandria

I Poco lontano si trova Bubastis, città che esisteva certamente già nella IV dinastia (2630-2510 a.C.) e fu sempre un centro di grande importanza fino a diventare la residenza dei sovrani di origine libica che regnarono sull’Egitto nella XXII dinastia.

Il culto della dea gatto Ma anche in seguito, per tutta l’Epoca Tarda e quella tolemaica e romana, mantenne un ruolo di primo piano, poiché era il centro principale del culto di Bastet, una dea che si manifestava in forma di gatta e che godette sempre di grande popolarità. Qui, in certi periodi dell’anno, si radunavano folle immense per celebrare le feste in suo onore. Ne sono una prova le migliaia di ex voto, perlopiú statuine in bronzo raffiguranti un gatto, che sono stati ritrovati e i cimiteri di gatti in cui sono state sepolte in grande quantità le piccole mummie degli animaletti sacrificati in quelle occasioni. Le case di Bubastis si sono conservate assai

stituito nel 1996, il Museo Nazionale di Alessandria presenta in modo accurato la summa della storia della città sui tre piani del rinnovato Palazzo Al-Saad Bassili Pasha, in stile italiano. Questo magnifico edificio espone 1800 reperti della civiltà egiziana dall’età antica e grecoromana a quella copta e islamica. Lo storico Museo greco-romano, invece, fondato nel 1892 grazie al fondamentale apporto dell’archeologo italiano Giuseppe Botti, offre, attraverso l’esposizione di circa 40 000 reperti distribuiti in ordine cronologico lungo un percorso di 27 sale, una straordinaria panoramica della cultura artistica greco-romana in Egitto, a partire dalla comparsa di Alessandro Magno (il Museo è attualmente chiuso per restauro). Della ricca raccolta possiamo ricordare tre teste dello stesso Alessandro, due busti di Serapide e il mosaico circolare che ritrae Berenice II, consorte di Tolomeo III, re dell’Egitto dal 246 al 221 a.C., scoperto a Tel-Tamai, nel Delta.

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MIRAGGI NEL

MARE DI SABBIA Acqua, palmizi, riposo dopo un lungo viaggio nel deserto: in una parola, oasi. E quelle del Sahara egiziano sono anche custodi di una storia affascinante, che affonda le sue radici nella preistoria

N

el Deserto Libico, che si estende a ovest della Valle del Nilo, disposte a formare una lunga linea che va da nord a sud – dunque grosso modo parallela al corso del fiume –, si estendono le oasi esterne. La loro visita rappresenta però un’esperienza unica per cogliere la natura profondamente africana della civiltà egiziana nel rapporto fra terra coltivata e deserto e insieme sulla sua capacità di diffondersi al di là dello stretto ambito della Valle del Nilo. L’esplorazione archeologica delle oasi esterne è recente, anche se in passato non sono mancate ricerche pionieristiche, a opera di un coraggioso archeologo egiziano, Ahmed Fakhry (1905-1973), che hanno almeno permesso di stilare un inventario di ciò che si poteva ancora scorgere in superficie. La visita delle cinque oasi principali – da nord sono Siwa, Bahariya, Farafra, el-Dakhla ed

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el-Kharga – si può organizzare in piccole tappe, partendo dalla Valle del Nilo e a essa ritornando dopo un soggiorno di un paio di giorni in ciascuna di esse. Se si preferisce una soluzione piú avventurosa, si può seguire un altro percorso, che va da Siwa a nord fino a el-Kharga a sud, passando di oasi in oasi per il deserto, senza rientrare nella Valle del Nilo.

Sulle tracce di Alessandro Magno Il percorso è in genere agevole, tranne che per il lungo tratto tra Siwa e Bahriya, dove la strada si riduce a una pista non sempre facile e che rende indispensabile la presenza di una guida esperta. Si parte da Alessandria, lungo la costa verso ovest in direzione di Marsa Matruh: da qui si procede quasi in linea retta verso sud, in direzione di Siwa, che si raggiunge dopo un viaggio che si snoda sulle tracce di quello compiuto da Alessandro Magno al momento

Sulle due pagine oasi di Kharga. Una veduta delle tombe di Bagawat, una delle piú antiche necropoli cristiane del mondo. Nella pagina accanto una delle spettacolari mummie dorate recuperate nella necropoli greco-romana scoperta nell’oasi di Bahariya.


della conquista dell’Egitto quando si recò nell’oasi per consultare l’oracolo di Amon che doveva confermargli la sua origine divina. L’arrivo a Siwa ci proietta in un mondo in cui vi sono usi, costumi e perfino una lingua (la maggior parte degli abitanti parla berbero, mentre l’arabo è usato quasi solo dagli uomini) profondamente diversi dal resto dell’Egitto. Nei pressi della località di Agurmi, dove si trovava l’antica capitale, vi sono i resti di un tempio dedicato ad Amon da Amasi, faraone della XXVI dinastia: proprio in questo tempio Alessandro Magno si recò per ascoltare l’oracolo. Vi sono anche i resti di un secondo tempio della XXX dinastia e varie tombe, disposte in almeno due necropoli, entrambe databili all’Epoca Tarda.

La Valle delle Mummie d’Oro Una lunga pista nel deserto conduce a Bahariya, che è collegata anche alla Valle del Nilo da una strada asfaltata e da una ferrovia. Qui la sensazione di isolamento «culturale» che si prova a Siwa non si sente piú, perché nell’oasi è in atto un rapido processo di modernizzazione che ci fa sentire in un Egitto proiettato verso il futuro. Bahariya è balzata agli onori delle cronache di tutto il mondo nel 1996, quando in circostanze del tutto accidentali – lo sprofondamento nella sabbia di un contadino in groppa al suo asino – venne alla luce una mummia ricoperta d’oro. Tre anni piú tardi ebbero inizio scavi regolari, che rivelarono un vasto complesso sepolcrale, dal quale sono state recuperate oltre 200 mummie di epoca greco-romana, molte delle quali caratterizzate, come la prima, da decorazioni sontuose. In quella che è stata da allora ribattezzata la Valle

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OASI ESTERNE

delle Mummie d’Oro fu impiantata una necropoli che rimase in uso dal 332 a.C. fino al IV secolo d.C. A Farafra, la meno popolata di queste oasi, un punto sperduto nell’immenso deserto libico, Ahmed Fakhry segnalò la presenza di alcune tombe scavate nella roccia e, soprattutto, di un forte romano conservatosi in maniera eccellente e che ora si trova incorporato nell’area urbana del capoluogo. In tempi piú recenti, Farafra è divenuta oggetto di un progetto di ricerca inizialmente condotto dall’Università di Roma «Sapienza» e poi continuato dall’ISMEO (Associazione Internazionale di Studi sul Mediterraneo e

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l’Oriente) in collaborazione con l’Università di Cambridge. Scopo delle indagini è la ricostruzione del processo economico che si compí in questo ampio territorio, con la trasformazione fondamentale da un modello di caccia-raccolta verso prime forme di orticoltura e di domesticazione animale. I dati della ricerca sul campo vengono studiati in riferimento alle società nilotiche che svilupparono le prime forme di agricoltura durante le fasi culturali di Badari e Naqada (V-IV millennio a.C.).

Da Nerone a Domiziano Piú ricca e variegata è la situazione nelle due oasi meridionali. A el-Dakhla vi sono molti siti

El-Qasr, oasi di Dakhla. Una veduta del tempio di Deir el-Hagar, eretto durante il regno dell’imperatore Nerone e decorato sotto Vespasiano, Tito e Domiziano. Il santuario era dedicato alla triade tebana di Amon, Mut and Khonsu, ma qui si venerava anche il dio Seth, principale divinità delle oasi.


di notevole interesse. In primo luogo, nei pressi della cittadina di el-Qasr, in una località chiamata Deir el-Hagar, vi è un tempio di epoca romana, che conserva i nomi di diversi imperatori, da Nerone fino a Domiziano, dedicato agli dèi Amon e Amonet. Esso si trovava all’inizio della strada che le carovane dovevano intraprendere per recarsi nell’oasi di Farafra. Attorno si trovava un piccolo insediamento urbano, di cui vi sono tracce vistose sul terreno e la cui necropoli è stata localizzata poco lontano, sulle colline. A non molta distanza c’è un’altra necropoli, che prende il nome di Qaret el-Musawaqa, con tombe decorate da pitture parietali. Il loro stile

è molto ingenuo, ben diverso da quello che si trova un po’ ovunque nella Valle del Nilo, e riflette molto bene la sensazione di essere ai confini del mondo, in un luogo in cui la civiltà egiziana arriva come una specie di eco molto attenuata dalla distanza dal grande fiume. Dal punto di vista storico e archeologico il rinvenimento piú significativo è quello di grandi tombe a mastaba dell’Antico Regno, a partire dalla V dinastia. La loro presenza dimostra come già dal III millennio a.C. il sito fosse sotto il controllo egiziano, che vi aveva inviato suoi funzionari con la carica di governatore, i quali, alla loro morte, venivano inumati in tombe imponenti. Nel sito di Ain Asil sono stati

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OASI ESTERNE

Wadi el-Natrun, monastero copto di S. Macario (Deir Abu Makar). Particolare di uno degli affreschi della cappella dei Santi Eremiti. IV sec. d.C.


rinvenuti i resti di una città dell’Antico Regno, in cui risiedevano i governatori che venivano dalla Valle del Nilo: qui vi sono i resti delle abitazioni e delle cappelle del loro culto funerario, mentre le tombe a mastaba si trovano poco lontano, nella località di Qila’ el-Dabba. Infine, prima di lasciare questa affascinante località, sarà bene ricordare che nel sito di Kellis sono stati riportati alla luce molti importanti manoscritti, recanti, tra l’altro, opere dell’oratore greco Isocrate, e frammenti di testi manichei, in copto.

Al tempo della dominazione persiana A el-Kharga la situazione si presenta diversa perché qui si trovano monumenti già ben noti e studiati prima che iniziassero gli scavi recenti. Vicino all’attuale capitale dell’oasi, che si chiama anch’essa el-Kharga, si trova un grande tempio dedicato al dio Amon, fatto costruire da Dario I durante la prima dominazione persiana in Egitto (525-402 a.C. circa), restaurato in età tolemaica e romana e ancora in buono stato di conservazione. Oggi è inserito in un bel paesaggio ricco di palmeti, costruito per il capoluogo che allora si chiamava Hibis e davanti al quale si trovava un piccolo lago formato dalle acque che alimentavano i pozzi e che tracimavano in una modesta depressione. Qualche chilometro dopo questo edificio, sulla riva opposta del lago, nella località di Nadura vi sono due templi costruiti sotto il regno di Antonino il Pio (138-160 d.C.). Poco piú a nord si trova il cimitero cristiano di Bagawat, costituito da circa 260 cappelle in mattoni crudi costruite al di sopra di tombe di famiglia adorne di pitture di notevole valore per la storia dell’arte in età romano-bizantina. Gli scavi condotti da una missione francese all’estremità meridionale dell’oasi hanno chiarito in modo definitivo la situazione archeologica di Dush, un centro urbano, munito di un tempio fortezza, che, tra il III e il IV secolo d.C., aveva il compito di proteggere le vie carovaniere meridionali che da qui partivano e che giungevano a el-Kharga. All’interno della fortezza, qualche anno fa, è stato scoperto il

cosiddetto «tesoro di Dush», costituito da una serie di preziosi oggetti cultuali pagani databili tra il IV e il V secolo d.C. Non si possono abbandonare le oasi senza fare tappa a Wadi el-Natrun (la Valle del Natron), che oggi si raggiunge facilmente grazie all’autostrada del deserto, che unisce il Cairo ad Alessandria. A circa metà del percorso, provenendo dalla capitale, all’altezza del posto di ristoro, si devia verso occidente, imboccando una strada ora molto agevole. In realtà, come dice il suo nome, lo Wadi el-Natrun non è propriamente un’oasi, ma piuttosto una modesta depressione che forma una valle molto allungata, di 32 km circa, caratterizzata dalla presenza di una quindicina di laghi di acqua salata. Prosciugandosi durante l’estate, i laghi permettono di estrarne il natron (soda), che nell’antichità veniva impiegato nel processo di mummificazione e che oggi trova applicazione in diversi usi industriali, in primo luogo nella produzione del sale. In età bizantina, nello Wadi el-Natrun è stata scritta una pagina importante del cristianesimo egiziano, testimoniata dalla presenza di quattro grandi monasteri. Fondati tra il IV e il VI secolo d.C. e poi profondamente trasformati nel corso dei secoli, sono ancora oggi in uso e danno un’immagine molto viva della comunità copta d’Egitto, una minoranza di cristiani che, pur vivendo dal VII secolo all’interno di un mondo di fede e di cultura islamica, è riuscita a sopravvivere attraverso i millenni, rimanendo fedele al proprio credo religioso. I monasteri sono nati perlopiú attorno a figure di eremiti che avevano scelto di isolarsi nella regione per vivere in modo eroico e solitario la loro fede cristiana. In seguito, proprio per la loro posizione appartata nel deserto, divennero il rifugio del patriarca copto Teodosio I, cacciato da Alessandria nel 551, e dei suoi successori. I monasteri furono costruiti come fortezze, cosí da poter resistere agli assalti. I quattro attuali sono quanto resta di una comunità che nel Medioevo era molto piú ampia e contava ben cinquanta complessi monastici, il piú importante dei quali è S. Macario.

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OPERAZIONE

NUBIA

La creazione del Lago Nasser ha sommerso una vasta porzione della regione di Assuan. Tuttavia, grazie al generoso sforzo collettivo di studiosi e tecnici di ogni parte del mondo, molti dei piú importanti monumenti che si conservavano nella zona furono strappati all’oblio e si possono oggi visitare in vari siti circostanti il bacino

Q

uando il governo egiziano, nato dalla rivoluzione del 1952, decise di far fronte alle esigenze di sviluppo economico e sociale del Paese mediante la costruzione di una seconda diga a sud di Assuan, si trovò di fronte al problema gravissimo della salvaguardia dei monumenti. Da File fino ad Abu Simbel tutto sarebbe stato sommerso dalle acque dell’immenso invaso che si sarebbe venuto a formare, il Lago Nasser. Il problema presentava due diverse esigenze: il salvataggio dei molti monumenti fatti costruire dai faraoni in Nubia – quando essa era sotto il loro dominio – per affermare in modo visibile la presenza dell’Egitto in terra straniera; e il salvataggio dei monumenti e dei siti, spesso non ancora scavati, in cui si era sviluppata la civiltà nubiana, ben diversa e del tutto indipendente da quella egiziana, ma che, nondimeno, meritava di essere tutelata come patrimonio dell’umanità. L’appello del governo egiziano venne accolto dalla comunità internazionale che si mobilitò per raccogliere i fondi necessari alla grande impresa. Furono condotti

numerosi scavi d’emergenza e, tuttavia, un congruo numero di siti sparí sotto le acque del nuovo bacino artificiale. La perdita di una parte notevole delle testimonianze di un’antica civiltà africana come quella nubiana fu il prezzo pagato per la costruzione della diga. Alcuni dei monumenti egiziani (templi e tombe rupestri) furono rimossi e donati ai Paesi che avevano partecipato al salvataggio. Il tempio rupestre di el-Lessiya, per esempio, fu donato all’Italia ed è stato ricostruito nel Museo Egizio di Torino.

Superstiti eccellenti La tecnica adottata per File è stata usata per un gruppo di altri templi che sono stati spostati di poco, quanto bastava per tenerli al riparo dalle acque, in siti che si trovano a sud di Assuan e che ora si possono visitare facilmente prendendo come base di partenza la stessa Assuan, con una crociera sul Lago Nasser della durata di una settimana. Poco oltre la diga, nella località che ha assunto il nome di Nuova Assuan (nota anche come Nuova Kalabsha), sono stati ricostruiti i templi di Kalabsha, di

Nuova Sebua. Particolare di una sfinge del tempio di Sebua, eretto per volere di Ramesse II (XIX dinastia, 1279-1212 a.C.). Si tratta di uno degli edifici di culto smontati dalla loro collocazione originale e qui rimontati per salvarli dalle acque del Nilo.


Qertassi e di Bet el-Wali, i primi due di età tolemaica e il terzo costruito da Ramesse II. Piú a sud, a Nuova Sebua (la «vecchia» è ora sotto le acque del lago), sono stati riuniti altri tre edifici di culto: quello già a el-Dakka, di età tolemaica, una grande costruzione dedicata a una forma locale del dio Thot; quello di el-Maharraqa, anch’esso di età tolemaica e dedicato a Serapide; e, infine, quello della stessa Sebua, costruito da Ramesse II, molto attivo in Nubia. Questa serie di templi smontati, riuniti e ricostruiti si conclude ad Amada Nuova. Qui c’è, innanzitutto, il tempio di Amada, costruito nella XVIII dinastia, da Thutmosi III e Amenhotep II, con ampliamenti a nome di Thutmosi IV, e dedicato ad Amon-Ra e Ra-Harakhti. Anche il tempio rupestre di el-Derr, dedicato da Ramesse II al dio Ra-Harakhti, è stato spostato a un livello piú alto con un procedimento simile a quello usato ad Abu Simbel.

Il Museo di Assuan

D

a non mancare è la visita ad Assuan del Museo della Nubia: un piccolo gioiello ricco d’importanti reperti provenienti dall’area nubiana, come la statua di Ramesse II che spicca nella sala d’ingresso o l’anfora in oro di periodo islamico decorata con scritte in arabo. Le sale del museo rivelano la ricchezza della civiltà nubiana in gran parte persa o dispersa in musei esteri a seguito dell’inondazione causata dalla costruzione dell’Alta Diga. Un’interessante maquette mostra il tempio di Abu Simbel nel livello originario (poi inondato) e in quello attuale dove fu spostato. Da segnalare, inoltre, le ricostruzioni di scene della vita quotidiana nubiana con realistici personaggi in cera.

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CRISTIANI NEL DESERTO L’Egitto è stato una delle culle del cristianesimo delle origini. Ne sono una testimonianza vivissima gli importanti complessi monastici sorti a ridosso del Mar Rosso

L’

Egitto offre percorsi e località che si possono scegliere quando la conoscenza del Paese e della sua civiltà sia tale da volersi dedicare a rifiniture «virtuosistiche». Simile a quello delle oasi esterne (vedi il capitolo alle pp. 118-123) è l’itinerario che si può percorrere seguendo la strada costiera del Mar Rosso. Benché lo si possa iniziare anche dal Cairo, diviene piú interessante se come punto di partenza si prende Luxor. Le precauzioni logistiche sono le medesime che si raccomandano per le oasi del

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Deserto Libico. Partendo da Luxor e dirigendosi verso nord, lungo la riva destra del Nilo, si incontra dapprima la città di Copto (in questo caso il nome non ha niente a che vedere con i Copti) dove si sono conservati resti significativi del tempio del dio Min che qui aveva il suo centro di culto piú importante. Poco dopo, piegando verso est, si trova l’inizio dello Wadi Hammamat, la valle che giunge fin quasi al Mar Rosso, al quale si arriva nel piccolo porto di Qoseir, tagliando trasversalmente la catena di montagne del Deserto Libico.


Ras Zafarana, monastero di S. Paolo. Particolare degli affreschi che decorano la cupola della chiesa. VII sec. d.C.

Lo Wadi Hammamat è una delle aree piú suggestive e piú interessanti dal punto di vista archeologico del deserto egiziano e si presenta oggi come un gigantesco museo all’aperto. Per tutto il suo percorso, sia pure a larghi intervalli, si trovano testimonianze della frequentazione che questa zona ha conosciuto fin da una remota antichità, svolgendo la duplice funzione di via di comunicazione tra la Valle del Nilo e il Mar Rosso, e di strada di accesso a importanti siti minerari.

Pietra di prima qualità Gli Egiziani frequentavano la zona fin dal III millennio a.C., inviando nello Wadi Hammamat carovane per raggiungere le cave di una pietra grigia di eccellente qualità, usata soprattutto per statue e sarcofagi, ma impiegata anche nell’edilizia. La zona archeologica piú importante è quella delle cave di el-Fawakhir, con i resti delle case degli operai e le iscrizioni rupestri che rappresentano per noi una fonte storica fondamentale. Raggiunta Qoseir, si aprono due opzioni, che non si escludono necessariamente l’una con l’altra. La prima consiste nel piegare verso sud, raggiungendo Berenice, il porto fondato dai Tolomei nel III secolo a.C. per rendere piú agevoli le comunicazioni marittime tra l’Egitto, l’Arabia e l’India, dove si possono visitare i resti

della città antica e un tempio di età romana. L’altra possibilità è di volgersi verso nord, un percorso piú agevole del precedente, che tocca anche la rinomata località balneare di Hurghada (che in realtà si chiama el-Ghurdaqa). Proseguendo verso nord, in direzione del Golfo di Suez, si possono raggiungere, piegando verso l’interno, due monasteri copti. Il monastero di S. Antonio, fondato nel IV-V secolo, è il piú antico tra i monasteri che si sono conservati in Egitto ed è attualmente ancora in uso. Non molto distante è il monastero di S. Paolo, anch’esso assai antico e simile come struttura al precedente, ma di dimensioni piú modeste. Entrambi sono una pregevole testimonianza del monachesimo egiziano, nato dalla vita solitaria degli eremiti e vissuto poi, dopo la conquista araba, nella solitudine dei deserti piú inospitali, dove la distanza dai grandi centri abitati e la natura ostile li metteva al riparo dai pericoli. Chi voglia completare questo percorso, dedicato prevalentemente al cristianesimo delle origini, potrà poi volare dal Cairo al convento di S. Caterina nel Sinai, un luogo tra i piú antichi e i piú sacri per ogni cristiano, ma che non ha molto a che fare con l’Egitto antico, quanto piuttosto con innumerevoli reminiscenze bibliche, dal momento che sorge sul luogo del «roveto ardente».

Copti e Islamici

P

er ammirare i capolavori dell’arte copta e islamica, non si può mancare la visita del Museo di Arte islamica e del Museo Copto del Cairo. Il primo venne fondato alla fine del XIX secolo e raccoglie oltre 80 000 reperti che documentano le principali espressioni artistiche in Egitto dopo la conquista araba: nelle sue sale si possono vedere manufatti in legno, ceramiche, vetri smaltati e dipinti, tessuti libri e tappeti. Gli oggetti piú straordinari sono le mashrabiyya, fatte da migliaia di pezzetti di legno. Presenti ancora oggi in molti vecchi palazzi, esse servivano per riparare le stanze dal sole e far entrare allo stesso tempo una lieve brezza. Queste particolari

tende consentivano poi alle donne di casa di osservare fuori senza essere viste. Nella Cairo vecchia, nella cittadella fortificata, si trova invece il Museo Copto, la piú importante raccolta di reperti copti del mondo tra documenti, statue e manufatti di epoca cristiano-egiziana e include anche numerosi elementi architettonici come porte e soffitti in legno, provenienti da case e chiese. Al piano superiore del museo sono esposti i tessuti per i quali i Copti erano famosi. Oltre agli indumenti di seta ricamati e alle icone, figura quello che viene considerato il piú antico libro esistente, una versione copta dei Salmi di David, risalente a 1600 anni fa.

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CAPITOLO

CRONOLOGIA Predinastico: 5500-3100 a.C. circa

Primo Periodo Intermedio: 2195-2064 a.C.

Lungo periodo di formazione della civiltà egiziana. Dalle prime forme di organizzazione politica alla creazione di due Stati: uno al nord, l’altro al sud. Probabili tentativi di unificazione, con risultati non duraturi.

VII-X dinastia: crisi profonda del Paese con dissoluzione del potere regale e frazionamento politico.

Protodinastico (o thinita) 3100-2700 a.C. circa

XI dinastia: riunificazione politica del Paese per opera di Montuhotep I. Crescente importanza di Tebe. XII dinastia: Amenemhat I, Sesostri I. Politica economica e spirituale del Paese su basi ideologiche completamente nuove. Amenemhat II-Amenemhat IV: bonifica del Fayyum e attiva presenza in politica estera.

I e II dinastia: inizio della storia egiziana con l’unificazione del Paese per opera di Menes (forse da identificare con Aha o con Narmer). Consolidamento delle strutture politiche ed elaborazione dei caratteri fondamentali della civiltà egiziana di epoca storica. Negli ultimi anni della II dinastia si manifestano difficoltà politiche interne. L’epoca si chiude con l’ascesa al trono di Khesekhmui. Antico Regno: 2700-2195 a.C. III dinastia: Djoser e il complesso funerario di Saqqara con la piramide a gradini. IV dinastia: Senefru e le sue tre piramidi: Cheope, Chefren e Micerino, le tre piramidi di el-Ghiza. V dinastia: avvento al trono dei sacerdoti eliopolitani. Templi solari. Unas e i «Testi delle piramidi». VI dinastia: Pepi I, Teti, Pepi II. Prime avvisaglie della crisi.

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Medio Regno: 2064-1797 a.C.

Secondo Periodo Intermedio: 1797-1543 a.C. XIII e XIV dinastia: nuova crisi nelle strutture interne del Paese. Neferhotep I. XV e XVI dinastia: gli Hyksos nel Delta con capitale ad Avaris. XVII dinastia: inizio della «guerra di liberazione» a opera di una dinastia di principi tebani. Kamose. Nuovo Regno: 1543-1069 a.C. XVIII dinastia: da Ahmosi a Tutmosi III: politica di conquista nel Vicino Oriente Antico con ampi acquisti territoriali. Da Amenhotep II a Amenhotep III: lungo


periodo di pace e di consolidamento delle posizioni in Asia. Amenhotep IV (Akhenaton): crisi politica e religiosa ricomposta e superata dai successori Tutankhamon, Ay e Horemheb. XIX dinastia: prevalere dei problemi militari. Ramesse II e la guerra con gli Ittiti. Esodo degli Ebrei dall’Egitto. Meneptah e la guerra con i Libi. XX dinastia: Ramesse III e la guerra contro i «popoli del mare». Progressivo declino economico e politico dell’Egitto.

XXVII dinastia: conquista dell’Egitto da parte di Cambise. L’Egitto diventa una satrapia persiana. XXVIII-XXX dinastia: l’Egitto si libera dei Persiani e vive un momento di ripresa sotto Nectanebo I, Tacho e Nectanebo II, prima di cadere nuovamente sotto la dominazione persiana. Epoca tolemaica: 332-31 a.C. Dopo la conquista di Alessandro Magno, l’Egitto viene governato dalla dinastia ellenistica dei Tolomei.

Terzo Periodo Intermedio: 1069-715 a.C. Epoca romana: 31 a.C.-324 d.C. XXI dinastia: avvento al trono del sacerdozio di Amon a Tebe. Herihor diventa faraone. XXII e XXIII dinastia: i Libi sul trono dell’Egitto. Sheshonq e Osorkon. XXIV dinastia: ripresa egiziana con Boccori sul trono. XXV dinastia: gli Etiopi sul trono dell’Egitto. Conquista assira del Paese (nel 671 a.C. viene conquistata Menfi e nel 663 a.C. è la volta di Tebe).

L’Egitto diventa provincia romana. A partire dal I secolo il Cristianesimo si diffonde nel Paese. Epoca bizantina: 324-639 d.C. Al momento della divisione dell’Impero romano, l’Egitto segue Bisanzio. Conquista araba (639-642 d.C.).

Epoca Tarda: 747-332 a.C.

Epoca copta: V-VII secolo d.C.

XXVI dinastia: grande ripresa dell’Egitto sotto la guida di Psammetico I, Necao, Psammetico II, Aprie, Amasi e Psammetico III. Capitale a Sais. I primi Greci in Egitto. Fondazione di Naukratis.

L’islamizzazione del Paese segna l’epilogo della storia dell’antico Egitto. Wadi Hammamat. Particolare di un’incisione rupestre raffigurante un’imbarcazione di tipo egiziano.

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MONOGRAFIE

n. 17 Registrazione al Tribunale di Milano n. 467 del 06/09/2007 Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Realizzazione editoriale: Timeline Publishing S.r.l. Piazza Sallustio, 24 – 00187 Roma Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Davide Tesei Gli autori: Euphrosyne Doxiadis è artista e scrittrice. Sergio Pernigotti è professore emerito di egittologia all’Università di Bologna. Illustrazioni e immagini: Shutterstock: copertina (e pp. 18/19) e pp. 12-13, 15, 20-21, 22/23, 23 (basso), 32/33, 34/35, 36 (sinistra), 37, 40-43, 46-47, 66-67, 68/69, 72/73 (alto), 74/75, 100/101, 118/119, 120/121, 124/125 – Doc. red.: pp. 6/7, 24, 28, 52-63, 77 (alto), 82-98, 106-107, 112-113, 119 – DeA Picture Library: pp. 10 (alto), 22 (basso), 25, 34, 36 (destra), 72/73 (basso), 115; G. Dagli Orti: pp. 8/9, 16-17, 31, 44, 45, 77 (basso); M. Seemuller: p. 10 (basso); A. Dagli Orti: pp. 10/11, 30; C. Sappa: pp. 26, 29, 80-81, 102; S. Vannini: pp. 26/27, 48, 48/49-51, 104/105; E.T. Archive: p. 38 (basso); G. Veggi: pp. 44/45; G. Sioen: p. 104; A. Garozzo: pp. 116/117; Castiglioni: pp. 128/129 – Mondadori Portfolio: AKG Images: pp. 14, 102-103, 114, 126 – Bridgeman Images: pp. 38/39 – Getty Images: George Steinmetz: pp. 64/65; Hope Productions/ Yann Arthus-Bertrand: pp. 68, 70/71, 110/111; Kenneth Garrett: p. 108 – Archivi Alinari, Firenze: RMN-Grand Palais (Musée du Louvre)/Franck Raux: p. 76 – Marka: Bildarchiv Hansmann: pp. 78/79 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 21, 33, 38, 47 Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. In copertina: Giza. Le piramidi di Cheope (a sinistra; IV dinastia, 2609-2580 a.C.) e di Chefren (IV dinastia, 2570-2545 a.C.).

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