Archeo Monografie n. 2 - 2014

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SICILIA ITINERARI TRA MITO E STORIA

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itinerari tra mito e storia

Bimestrale - My Way Media Srl

archeo monografie

monografie

€ 6,90 N°2-2014

SICILIA

LA TERRA • LE GENTI • I SITI • I MUSEI



viaggio in SICILIA la terra • le genti • i siti • i musei di Alessandra Costantini e Christoph Hausmann

4. introduzione

Un’isola per mille culture

28. catania

Tra il mare e il vulcano 32. Nasso 34. Taormina 37. Tindari 41. Patti Marina

42. siracusa

Nella città del genio 56. Thapsos, Megara Iblea 57. Pantalica 58. Palazzolo Acreide 60. Villa romana del Tellaro 61. Eloro 63. Camarina 66. Gela

68. agrigento Sublimi armonie

80. Eraclea Minoa 83. Piazza Armerina 88. Morgantina 91. Monte Adranone 92. Selinunte 98. Mazara del Vallo

100. marsala

Tra Fenici e Greci 104. Mozia 112. Segesta

116. palermo

Il porto degli aranci 125. Monte Iato 128. Solunto 134. Imera

140. isole eolie Le figlie del vento


un’isola per mille

culture

S

ituata al centro del Mediterraneo, la Sicilia è stata fin dai tempi piú antichi un crocevia naturale tra Oriente e Occidente, capace di accogliere le piú eterogenee sollecitazioni culturali e, al tempo stesso, di diffonderle. Le prime tracce di presenza umana sull’isola risalgono al Paleolitico Superiore (30 000-15 000 anni fa) quando il livello del mare era molto piú basso e ampie parti del territorio oggi sott’acqua erano emerse. All’epoca le isole Egadi erano collegate con la terraferma e l’arcipelago maltese formava un’unità territoriale con l’area iblea. In un ampio arco cronologico, compreso tra il Paleolitico e l’età del Bronzo, fanno la comparsa nell’isola espressioni culturali di grande rilievo, ben evidenti nell’arte rupestre del periodo. Le piú antiche raffigurazioni sono attestate nelle grotte siciliane, dove si stanziarono stagionalmente gruppi di cacciatori. Celebri sono i graffiti di animali incisi nella Grotta Cala dei Genovesi a Levanzo, nell’arcipelago delle Egadi, risalenti a circa 12 000 anni fa. Le figure,


Il tempio C di Selinunte. Databile intorno al 560 a.C., l’edificio si trova sul punto piú alto dell’acropoli, ben visibile da lontano. Le colonne e parte della trabeazione furono rialzate durante il restauro compiuto nel 1925.


tra le quali si distingue una cerva che improvvisamente si volta all’indietro, come sorpresa da un predatore, presentano una forte impronta naturalistica e trovano confronti nell’arte rupestre franco-cantabrica. Di interpretazione piú complessa è il ciclo figurativo scoperto nella Grotta dell’Addaura, alle pendici del Monte Pellegrino, vicino Palermo. La scena esibisce un gruppo di personaggi disposti in circolo, alcuni con il volto coperto da una maschera a becco di uccello, in atto di compiere una danza rituale attorno a due figure a terra con il corpo fortemente inclinato all’indietro. Il significato, difficile da afferrare, è stato ricollegato a esercizi acrobatici connessi a pratiche rituali oppure a un sacrificio umano provocato dalle due stesse vittime, per autostrangolamento, come rivelano le corde che uniscono il collo ai glutei, costringendo il corpo a un doloroso inarcamento.

La Sicilia prende forma e si popola Dopo la fine dell’ultima glaciazione, intorno ai 10 000 anni fa, il livello del mare salí, la Sicilia assunse l’aspetto attuale e sia le Egadi sia l’arcipelago maltese tornarono a essere isole. La Grotta dell’Uzzo a San Vito Lo Capo, prezioso documento del Mesolitico siciliano, offre un quadro interessante sui rituali funerari, con dodici sepolture a inumazione in fosse terragne. Agli scheletri, deposti in posizione supina e rannicchiata, erano associati pochi elementi di

In basso calco di un graffito paleolitico, dalla Grotta dell’Addaura sul Monte Pellegrino (Palermo). Palermo, Museo Archeologico Regionale «Antonio Salinas». La scena mostra personaggi disposti in circolo, alcuni con il volto coperto da una maschera a becco di uccello, che danzano intorno a due figure a terra con il corpo fortemente inclinato all’indietro. Il significato, difficile da afferrare, è stato ricollegato a pratiche rituali oppure a un sacrificio umano provocato dalle due stesse vittime, per autostrangolamento, come rivelano le corde che uniscono il collo ai glutei.


A sinistra vaso neolitico da Monte Cuccio. Cultura di Stentinello. Palermo, Museo Archeologico Regionale «Antonio Salinas». In basso testa di cane (o di lupo) in ceramica, dalla necropoli di Stentinello. Cultura di Stentinello. Palermo, Museo Archeologico Regionale «Antonio Salinas».

corredo, tra cui conchiglie e manufatti in selce. Piú tardi, sulle pianure fluviali, intorno alle coste e sui bassi rilievi collinari, nacquero i primi insediamenti neolitici. Nel Siracusano sono stati individuati i villaggi di Stentinello, Megara Hyblaea e Matrensa, formati da capanne circondate da mura di fortificazione o da fossati. Di un certo rilievo è il sito della Collina di Piano Vento, presso Palma di Montechiaro, la cui necropoli documenta per la prima volta il passaggio dalla tomba a fossa semplice a quella ipogeica, tipica dell’Eneolitico. L’arte rupestre risalente a un periodo compreso tra il Neolitico Finale e l’Eneolitico è ben rappresentata dai complessi della Grotta Cala dei Genovesi, riutilizzata da nuovi gruppi umani, dipinta con figure di uomini, animali terrestri e marini, e quello della Grotta dei Cavalli di San Vito Lo Capo, con complesse rappresentazioni spiraliformi e curvilinee.

Un’epoca di prosperità La cultura di Castelluccio è la piú rappresentativa del Bronzo Antico siciliano. Prende nome da un sito localizzato nel territorio di Siracusa dove è stata messa in luce una necropoli con centinaia di tombe a grotticella. L’orizzonte cronologico abbracciato dalla cultura castellucciana (1800-1400 a.C.) è contraddistinto da una notevole prosperità economica a cui corrispose la fioritura della civiltà eoliana con la cultura di Capo Graziano, sull’isola di Filicudi. Le isole Eolie furono uno scalo importante lungo la rotta dei naviganti micenei e, proprio nella facies di Capo Graziano, sono documentate le prime

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importazioni ceramiche dell’Elladico Medio e del Miceneo I, II e III (XVI-XIV secolo a.C.). Di particolare rilievo è il sito di Monte Grande, nell’Agrigentino, dove è stato messo in luce un vasto santuario consacrato al culto della fertilità, ricco di reperti indigeni ed egei, risalente al XVI secolo a.C. L’area sacra si configura come un complesso organico, riunito intorno a un grande recinto centrale connesso ad altri recinti. A questi ultimi erano collegate fornaci in cui si fondeva lo zolfo, importante conferma che questa tecnologia era già conosciuta nel Bronzo Antico. Il santuario fu abbandonato nel XV secolo a.C.

In questa pagina pianta del villaggio dell’età del Bronzo (XIV-XIII sec. a.C.) scoperto a Punta Milazzese, sull’isola di Panarea, e una foto aerea del sito, di cui si conservano i resti di una ventina di capanne.

Un richiamo per i mercanti dell’Egeo L’età del Bronzo Medio (1450-1250 a.C.) si distingue per una koinè culturale. I contatti con le civiltà egee e, piú in generale, con il Mediterraneo orientale, diventano piú frequenti, come è evidente soprattutto nel Sud-Est della Sicilia e nelle Eolie, dove la presenza di numerosi reperti micenei documenta anche la forte attrazione che i mercati tirrenici esercitavano sulle popolazioni egee. In questo periodo compare una facies culturale unitaria, caratterizzata da nuove forme vascolari – con le produzioni eoliane del Milazzese e di Thapsos –, fra loro molto simili, che seppur con varianti locali, si diffuse in tutta l’isola. La facies del Milazzese è cosí definita dal promontorio sull’isola eoliana di Panarea (vedi alle pp. 140-145). La coeva facies di Thapsos trae il nome dal sito sulla penisola di Magnisi, nell’ampia insenatura dell’odierna città di Augusta. I principali abitati a essa riferibili sorgono in aree aperte, di fronte al mare, a

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diretto contatto con gli approdi, in una posizione favorevole per gli scambi commerciali e l’incontro con altre civiltà. La grande quantità di vasi e manufatti in oro, argento, bronzo, pietre dure, ambra e osso di importazione micenea, insieme alla presenza di vasi riferibili alla produzione cipriota e maltese, documentano che Thapsos nel XIV secolo a.C. era un importante e attivo emporio in cui confluivano i principali commerci del Mediterraneo. Oltre alle mercanzie, le comunità egeo-micenee introdussero le loro tecnologie e usanze religiose, recepite nell’adozione delle tecniche murarie micenee, dei motivi ornamentali pittorici, che le genti autoctone riproposero nei loro vasi mediante l’incisione, e della tholos (falsa cupola) nell’architettura funeraria. La tomba tholoide, contraddistinta da cella circolare e profilo a ogiva, è molto diffusa nella parte orientale dell’isola (Thapsos, Matrensa, Cozzo Pantano) e nella media valle del fiume Platani (Sant’Angelo di Muxaro, «tomba del principe»).

Coppa efirea (classe di vasi micenei cosí denominati dall’omerica città di Ephyra) in terracotta, da una tomba di Thapsos. Età del Bronzo. Taranto, Museo Nazionale Archeologico.

Il nuovo quadro storico Nel passaggio dal Bronzo Medio al Bronzo Recente (inizi del XIII secolo a.C.) si verificò uno iato culturale nell’arcipelago eoliano; furono distrutti tutti gli abitati della facies del Milazzese e sull’acropoli di Lipari si insediò una civiltà completamente diversa, appartenente al Subappenninico peninsulare. Questo nuovo quadro storico troverebbe conferma nella notizia riferita da Ellanico e riportata da Dionigi di Alicarnasso secondo cui gli Ausoni, stanziati nell’Italia centro-meridionale, guidati dal loro re Siculo, sarebbero arrivati in

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Sicilia tre generazioni prima della guerra di Troia, in corrispondenza del repentino mutamento di facies culturale nelle Eolie. L’isola, quindi, sarebbe stata abitata esclusivamente dai Sicani, fino a quando non fu toccata da ondate migratorie provenienti dalla Penisola. Le nuove genti, di cultura appenninica e protovillanoviana, si insediarono in parte della Sicilia orientale e nelle isole Eolie, introducendo forme urbane e sociali diverse dalle precedenti. In questo periodo i contatti con le civiltà egeomicenee si ridussero a favore di un legame piú stretto con la penisola. Nella Sicilia orientale sono state individuate due facies culturali differenti ma contemporanee: una autoctona, definita Pantalica (I e II), dall’omonimo sito del Siracusano, l’altra mista, derivata dalla sovrapposizione al sostrato indigeno di elementi culturali protovillanoviani riconducibili all’Ausonio II di Lipari. La facies culturale mista, ben riconoscibile nel

ELIMI SICANI Bronzo Finale (XI-X secolo a.C.), è documentata dalle necropoli di Molino della Badia presso Grammichele e Cassibile e dagli abitati di Morgantina-Cittadella e Metapiccola di Lentini. Per il resto dell’età del Bronzo il territorio della Sicilia sud-occidentale, oltre il fiume Salso, è caratterizzato da una fase piú evoluta della cultura di Thapsos.

Gli indigeni tra mito e storia Quando i primi coloni greci sbarcarono in Sicilia, trovarono le popolazioni indigene che si erano stanziate nell’isola già da lungo tempo: nella parte occidentale si erano insediati i Sicani, con l’enclave elima delle città di Segesta, Erice ed Entella, mentre l’area orientale era occupata dai Siculi. In origine, però, l’intera Sicilia era considerata sede dei Sicani, che, a detta di Diodoro Siculo, erano autoctoni. L’antefatto al racconto della spedizione ateniese del 415 a.C. in Sicilia in cui Tucidide, nelle Storie, ricostruisce l’etnogenesi dell’isola prima dell’arrivo dei Greci è il resoconto piú completo dell’evento (vedi box alla pagina accanto).

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SICULI


| Gli abitanti della Sicilia secondo Tucidide |

La Sicilia in una foto satellitare, con la distribuzione delle principali genti indigene.

| Le caratteristiche del territorio | La geomorfologia della Sicilia è piuttosto varia e si articola in tre settori: la catena montuosa lungo la fascia settentrionale dell’isola che raggiunge la massima altezza di 1979 m con le Madonie; l’area centro-meridionale, caratterizzata da rocce sedimentarie, altopiano gessoso e terreni argillosi facilmente esposti a frane ed erosioni; la zona sud-orientale, formata dalle rocce basaltiche e calcaree dell’altipiano ibleo, con una morfologia piatta, tagliata dai percorsi fluviali in valli incassate. Fenomeni naturali con cui i Siciliani convivono fin dall’antichità sono le eruzioni laviche dell’Etna, la piú antica delle quali è stata individuata ad Acireale e risale alla prima età del Bronzo. Strabone racconta che le ceneri vulcaniche e i lapilli di cui si ricoprivano i campi favorivano la crescita di una rigogliosa vegetazione molto gradita agli animali i quali ingrassavano a tal punto che era necessario salassarli periodicamente.

«Ecco come fu un tempo abitata [la Sicilia] e quanti furono nel complesso i popoli che l’occuparono. Si dice che i piú antichi siano stati i Ciclopi e i Lestrigoni che abitarono una parte dell’isola (...). Dopo di essi, pare che per primi vi si siano stanziati i Sicani; anzi, a quanto essi affermano, avrebbero preceduto addirittura i Ciclopi e i Lestrigoni, poiché si dicono nati sul luogo; invece la verità assodata è che i Sicani erano degli Iberi, scacciati ad opera dei Liguri dalle rive del fiume Sicano, che si trova appunto in Iberia. Dal loro nome l’isola fu chiamata Sicania, mentre prima era chiamata Trinacria; e anche ora essi vi abitano nella parte occidentale. Espugnata che fu Ilio, alcuni dei Troiani sfuggiti agli Achei approdarono con le loro imbarcazioni in Sicilia, ove si stabilirono ai confini dei Sicani; e tutti insieme ebbero i nomi di Elimi; Erice e Segesta furono le loro città. Ad essi si aggiunsero e con loro abitarono alcuni dei Focesi che, al ritorno da Troia, erano stati dalla tempesta prima sbattuti in Libia e di là poi in Sicilia. Dall’Italia, dove abitavano, i Siculi, che fuggivano gli Opici, passarono in Sicilia su zattere, come si può pensare e come anche si racconta, attraversando lo stretto dopo avere aspettato che il vento fosse propizio. (…) Passati dunque in Sicilia in gran numero, vinsero in battaglia i Sicani che confinarono nelle regioni meridionali e occidentali e fecero sí che l’isola da Sicania, si chiamasse Sicilia. Compiuto il passaggio, occuparono e abitarono le zone piú fertili del paese, circa 300 anni prima che vi ponessero piede i Greci: e ancora adesso essi si trovano al centro e al nord dell’isola. Anche i Fenici abitavano qua e là per tutta la Sicilia; dopo avere occupato i promontori sul mare e le isolette vicine alle coste per facilitare i rapporti commerciali con i Siculi. Quando poi vennero d’oltre mare in gran numero i Greci, essi sgombrarono la maggior parte del paese e si concentrarono a Motia, Solunto e Panormo, vicino agli Elimi dove abitarono, rassicurati dall’alleanza degli Elimi stessi e dal fatto che quel punto della Sicilia distava pochissimo da Cartagine. Tanti furono i barbari che in questo modo abitarono la Sicilia» (Tucidide, Storie, VI, 2).

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È importante precisare che sia i dati riferiti dallo storico ateniese, sia le notizie riportate da altri autorevoli scrittori (Erodoto, Ellanico di Mitilene, Antioco di Siracusa, Filisto, Timeo, Dionigi di Alicarnasso, Diodoro Siculo) rispecchiano il punto di vista greco, per cui conosciamo le genti autoctone della Sicilia attraverso eteronomi (nomi dati da altri), che non sempre corrispondono a distinzioni reali. Il dato che emerge da Tucidide è che i primi coloni ellenici, al momento del loro arrivo in Sicilia nel corso dell’VIII secolo a.C., trovarono sul territorio Fenici, Sicani, Siculi ed Elimi. Si trattava di popoli di origine non greca, dunque identificati come «barbari», con i quali, fin dall’inizio, i nuovi arrivati entrarono in conflitto o, al contrario, stabilirono relazioni amichevoli che diedero vita a fenomeni di acculturazione. L’Odissea è la piú antica testimonianza letteraria in cui si menzionano la Sicilia, definita Sikanie e i suoi abitanti, Sikeloi. Gli storici antichi concordano sul fatto che in origine i Sicani si erano insediati su tutta l’isola, anche nella parte orientale, ma nel XIII secolo a.C., in seguito all’arrivo dei Siculi, si spostarono verso occidente, stanziandosi a ovest del fiume Imera (l’attuale Salso). Erodoto riferisce il toponimo Sikania «alla regione nei pressi di Akragas», Stefano Bizantino la definisce «la regione degli agrigentini».

Il viaggio di Minosse Alla Sikania è collegato un patrimonio di leggende incentrate sulle figure del sovrano cretese Minosse e del re sicano Kokalos. Di grande interesse è il racconto di Erodoto: «Si racconta infatti che Minosse, giunto in Sicania (oggi detta Sicilia) alla ricerca di Dedalo, vi perí di morte violenta. Tempo dopo i Cretesi, indotti da un dio, tutti tranne quelli di Policne e di Preso, arrivarono in Sicania con una grande flotta e strinsero d’assedio per cinque anni la città di Camico (ai miei tempi abitata dagli Agrigentini)». Il viaggio dei Cretesi in Sikania è raccontato anche da Diodoro Siculo, il quale riferisce che il re sicano Kokalos aveva accolto il fuggiasco Dedalo. Per ricambiare il favore, l’artista, con uno scavo, rese accessibile un’ampia rupe che chiamò Camico e la offrí in dono al sovrano. Sulla rupe, Kokalos fece costruire la sua nuova reggia, vi depositò le proprie ricchezze e la mantenne ben difesa. La leggenda tramandata dalle fonti trova riscontri archeologici nei rinvenimenti, sempre piú frequenti nell’Agrigentino, di manufatti di importazione egea ascrivibili al XIII secolo a.C. La fortezza dedalica di Camico, le cui caratteristiche corrispondono a molti siti d’altura dei monti Sicani, è stata identificata con Sant’Angelo Muxaro. La monumentale necropoli, in uso dal XIII secolo fino al V secolo a.C., ha restituito oltre settecento reperti, tra cui una grande quantità di pregevoli oreficerie. In particolare, un gruppo di vasi, bronzi, bacili e spade, che risale al

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XIII-XII secolo a.C., riflette storicamente l’epoca a cui si riferiscono le vicende di Camico (età del Bronzo Medio). Piú evanescente è l’identificazione della sepoltura del re sicano Kokalos con la tomba a tholos detta «del Principe», che, come altre strutture analoghe per monumentalità e ricchezza del corredo, doveva probabilmente rientrare nelle sepolture dell’élite del popolo sicano. Alcuni scrittori, tra cui Filisto di Siracusa ed Ellanico di Mitilene, retrodatano l’arrivo dei Siculi nell’isola rispettivamente a 90 o 150 anni prima della conquista di Troia, convenzionalmente posta nel 1180 a.C. Dionigi di Alicarnasso ricorda, come, accanto a gruppi di Siculi, anche gli Elimi e gli Ausoni sbarcarono in Sicilia, sospinti dagli Enotri e dagli Iapigi dell’Italia meridionale, sempre tre generazioni prima della guerra di Troia.

A sinistra copia di una phiale (coppa senza manici) in oro, da una tomba di Sant’Angelo Muxaro. 600 a.C. circa. Agrigento, Museo Archeologico Regionale. In basso veduta delle tombe rupestri della necropoli di Pantalica.

Un’identità sfuggente Gli Elimi, la cui economia di sussistenza si basava sulla coltivazione di un cereale povero, l’elymos (panico), costituivano una enclave nel territorio sicano, nella parte nord-occidentale dell’isola. Le loro città principali erano Segesta, Erice ed Entella. Tucidide li considera un gruppo etnico misto, derivato dalla fusione di Troiani in fuga dalla loro patria e genti autoctone sicane. Lo storico Ellanico, invece, riferisce che gli Elimi erano giunti dalla penisola italiana pochi anni prima dei Siculi. Indipendentemente dalla tradizione letteraria, è difficile, allo stadio

| Le sepolture megalitiche | Particolari e rare tipologie tombali sono le sepolture dolmeniche, ricavate da massi rocciosi alla cui forma si adeguano; generalmente, come nel caso del dolmen di Mura Pregne, presso Termini Imerese, hanno dimensioni piuttosto ridotte. Di particolare rilievo è il «dolmen di Sciacca», in contrada San Giorgio, scavato in una enorme roccia naturale, la cui superficie è stata levigata e scolpita su tutti i lati. All’interno si trova una tomba a grotticella a pianta circolare e pareti convesse; sulla facciata monumentale è scolpita una banchina con coppelle e canalette, ascrivibili, probabilmente, a un uso cultuale. La cronologia dei dolmen siciliani è incerta, ma risulta costante l’associazione con reperti dell’Eneolitico Finale e dell’età del Bronzo Antico.

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attuale della ricerca, individuare una specifica identità culturale e linguistica elima e definirne l’espansione territoriale. La presenza degli Elimi sfuma, infatti, in quella dei Sicani, con i quali condividono cultura materiale, modalità abitative, credenze religiose e usi funerari. In questa complessa e articolata realtà etnica si inserirono, a partire dalla metà dell’VIII secolo a.C., le due grandi ondate colonizzatrici che interessarono l’isola e diedero vita, attraverso una profonda interazione culturale, a modalità insediative sempre differenti a seconda delle aree geografiche e dell’impatto sul territorio. Tucidide riferisce che i Fenici abitavano qua e là in Sicilia dopo avere occupato i promontori e le isolette per facilitare i commerci con la gente del luogo e che, all’avvento dei Greci, si ritirarono nei centri della parte occidentale, Mozia, Solunto e Palermo, dove potevano avvantaggiarsi della vicinanza a Cartagine (fondata nell’814 a.C.) e dell’alleanza con gli Elimi.

L’espansione fenicia Se nella testimonianza dello storico ateniese è esplicitamente dichiarata l’anteriorità della presenza fenicia sull’isola rispetto ai Greci, il progresso della ricerca archeologica sul campo ha, invece, evidenziato la contemporanea frequentazione delle coste siciliane da parte di Fenici e Greci tra la fine del IX e la prima metà dell’VIII secolo a.C. L’espansione fenicia in Sicilia si configura, inizialmente, con scali marittimi, emporia, poi, nell’VIII secolo a.C., con insediamenti stabili. Diodoro Siculo racconta: «E cosí questo commercio praticato per molti anni i Fenici, avendo acquistata molta ricchezza, mandarono molti gruppi di coloni, alcuni in Sicilia e nelle isole vicine, altri in Libia, in Sardegna ed in Iberia». I luoghi prescelti riflettono quelli della madrepatria: isole, come nel caso di Mozia, o promontori che sovrastano insenature dalle acque poco profonde adatte all’approdo. La nascita dei tre insediamenti fenici nel settore nordoccidentale della Sicilia va esaminata alla luce di equilibri piú ampi creatisi sul territorio, abitato all’interno da Sicani ed Elimi, e raggiunto, in seguito, lungo la fascia costiera, sia a nord che a sud, dai Greci con le fondazioni di Himera e Selinunte. Stando alle testimonianze archeologiche, non sembra che i primi coloni fenici fossero interessati a espandersi all’interno, come risulta anche dalla scelta, per i nuovi abitati, di luoghi liberi da stanziamenti indigeni. I Fenici, probabilmente condizionati dalla presenza greca, avrebbero intrattenuto un rapporto alla pari con le genti del luogo, favorendo relazioni commerciali e scambi, senza introdurre nuovi modelli culturali. In questa ottica, si sarebbero innescate dinamiche di «doppio flusso», per cui gli indigeni avrebbero fornito generi di sussistenza, schiavi e donne, mentre i Fenici avrebbero veicolato particolari mercanzie, nuove tecnologie per la lavorazione dei materiali e l’utilizzo delle risorse. L’evolversi della ricerca sul territorio ha registrato un cambiamento a partire dal VI secolo a.C., quando cominciarono a intensificarsi i contatti tra i Fenici, le genti autoctone e i coloni greci, dando vita a forme culturali miste e articolate. Il

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Maschera punica ghignante, da Mozia. VI sec. a.C. Mozia, Museo Archeologico «G. Whitaker».


rinvenimento, a Mozia, di materiali di provenienza locale e sarda nella zona sudest, lascia trapelare l’esistenza di un piccolo insediamento che, ancora nell’età del Bronzo Finale, era stanziato nella stessa area che fu occupata dai coloni fenici. In questo caso non ci sono elementi sufficienti che documentino un’iniziale coabitazione tra Fenici e indigeni, mentre indizi piú concreti attestano i contatti con i Greci, soprattutto alla luce delle nuove scoperte a Birgi. Il sito, ubicato sul tratto di terraferma di fronte a Mozia, ha restituito corredi funerari di epoca tardo-arcaica che mostrano la commistione tra le due culture, attestata anche da tre epigrafi greche. Abbandonata definitivamente l’ipotesi che identificava in Birgi il cimitero moziese in uso dal VI secolo a.C., si propone di leggerlo come un abitato parallelo a Mozia, alla quale lo collegava una strada a pelo d’acqua, parzialmente ancora visibile sul fondale marino. La ceramica greca è documentata anche nei contesti abitativi moziesi, soprattutto quella legata al consumo, preparazione e cottura degli alimenti, mentre non circolano beni di lusso, attestati, invece, in molti centri indigeni dell’entroterra.

Statuetta fenicia in bronzo, dal mare di fronte a Selinunte. X-IX sec. a.C. Palermo, Fondazione Banco di Sicilia, Palazzo Branciforte.

Il controllo del territorio La fondazione di Palermo e Solunto sulla costa nord-occidentale, a una distanza di circa 15 km l’una dall’altra, fu dettata da esigenze di controllo del territorio, soprattutto dopo la fondazione delle colonie greche Himera a nord e Selinunte a sud. Il piccolo emporio costiero di Solunto, sorto alla foce di una fertile vallata fluviale, fu sicuramente orientato, fin dall’inizio, verso i fiorenti abitati indigeni attestati lungo il fiume Eleuterio, tra cui Montagnola di Marineo (Makella), e aperto sia ai mercati coloniali greci, sia ai commerci in direzione tirrenica. Lo studio di un settore della necropoli soluntina ha evidenziato, tra il VI e il IV secolo a.C., la notevole presenza di ceramica d’importazione greca, documentando anche, accanto alle sepolture a incinerazione, altre tombe differenti per tipologia, orientamento e rituale. Le sepolture alla cappuccina o a fossa con copertura di tegole sono riconducibili, verosimilmente, a individui di origine ellenica, mentre un piccolo nucleo di semplici fosse con inumazioni in posizione rannicchiata potrebbe essere pertinente a soggetti di etnia locale. I diversi gruppi sembrano condividere pacificamente lo stesso spazio funerario, nel reciproco rispetto di usi e rituali, a testimonianza di una società multietnica, caratterizzata da un’interazione culturale profonda. Per quanto concerne Panormos, la documentazione archeologica proviene quasi esclusivamente dalla necropoli punica, e solo pochi frammenti attestano l’arcaicità del sito nell’area della paleapolis (la «città vecchia»). Recenti studi sull’impianto urbanistico, pur riconducendone la definitiva messa in opera alla fine del IV secolo a.C., hanno rivelato caratteristiche affini a quelle arcaiche e classiche delle vicine colonie elleniche. Almeno fino alla metà del VI secolo a.C. la cultura materiale mostra un sostanziale uniformarsi della popolazione punica agli usi e costumi dei Greci, a prescindere dall’eventuale esistenza di una comunità ellenica stanziata nell’emporio fenicio. Panormos non sembra mostrare particolari interessi verso il mondo indigeno e, oltre a privilegiare i contatti con i Greci, tende a conservare gli elementi legati alla cultura originaria, soprattutto nei manufatti connessi alla sfera religiosa (amuleti, uova di struzzo, cippi, altarini) che evocano suggestioni del mondo orientale.

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Questo scenario di equilibri e pacifica convivenza tra Fenici, Elimi e Greci mutò a partire dalla metà del VI secolo a.C., quando Cartagine si vide costretta a intervenire militarmente in Sicilia per contrastare la politica espansionistica di Agrigento e Siracusa. Dopo una prima, disastrosa sconfitta patita a Himera nel 480 a.C. per mano delle forze congiunte siracusano-agrigentine, l’esercito punico invase nuovamente la Sicilia nel 409-06 a.C. distruggendo Himera, Selinunte, Agrigento e Gela. La guerra con Siracusa terminò nel 405 a.C. con un trattato tra Imilcone e Dionisio I, in cui furono definiti i confini del dominio cartaginese nella Sicilia nord-occidentale, indicato dalle fonti con i termini epikrateía ed eparchía. Le successive campagne di Dionisio I, in cui venne distrutta completamente Mozia (397 a.C.), si conclusero nel 374 a.C. con la battaglia del Kronio in cui venne fissato il limite dell’eparchía punica al corso dell’Halykos, identificato con l’odierno Platani. Il controllo esercitato da Cartagine in questa parte dell’isola ebbe implicazioni culturali, specialmente sul piano religioso, come attestano edifici di culto tipicamente punici sorti in contesti culturali già ellenizzati, come Solunto e Monte Adranone.

Una risposta a problemi sociali ed economici Il processo storico che portò all’affermarsi della cultura greca in Occidente fu determinato, all’inizio, da una grave crisi socio-politica che, verso la metà dell’VIII secolo a.C., colpí alcune fiorenti città della madrepatria. In questo periodo cominciarono le tensioni tra l’aristocrazia e la nuova classe degli opliti per l’amministrazione istituzionale delle città. Molti disastri naturali, epidemie e carestie flagellavano diverse parti della Grecia. Al forte incremento demografico si aggiunsero lotte politiche interne, carenze di approvvigionamento e mancanza di terre fertili. I problemi sociali ed economici richiesero una soluzione

Qui sotto modellino di una galea con 50 rematori dell’VIII sec. a.C. In basso, a sinistra una bireme, nave a vela con una doppia fila di remi, in piena tempesta. Disegno da una pittura su un vaso del VI sec. a.C.

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La grande espansione coloniale dei Greci nel Mediterraneo (VIII-VI sec. a.C.) Dori

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drastica: alcuni giovani avventurieri si misero in viaggio verso nuove terre che sembravano promettenti e facili da conquistare. Questi primi coloni erano guidati da un ecista, un capo di spedizione di ceto aristocratico, il quale con audacia perseguiva l’ambizione politica di distinguersi dalla massa. La scelta delle sedi coloniali non fu casuale, ma ben preparata in base a notizie sicure circa le risorse locali esistenti e le possibilità di sviluppo. Il principale obiettivo dei coloni greci fu quello di fondare insediamenti lungo le coste dell’Italia meridionale, in luoghi circondati da ampie zone coltivabili. Benché i nuovi siti fossero organizzati secondo i modelli politici e istituzionali propri della madrepatria, erano indipendenti da essa; cosí ben presto le città d’origine persero ogni importanza e ogni valore. Già dopo poche generazioni le uniche sedi greche con le quali le colonie mantenevano relazioni costanti erano i santuari panellenici, come Delfi e Olimpia. I criteri piú importanti per la scelta dello stanziamento erano l’accesso facile, ma ben difendibile, l’estensione del

In basso, sulle due pagine l’espansione coloniale dei Greci nel Mediterraneo.

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terreno coltivabile sufficiente anche per lo sviluppo economico futuro, la presenza di ampi boschi per il rifornimento di legna da costruzione e la vicinanza di fiumi sia per l’acqua potabile, sia per la comunicazione con l’entroterra. I siti prescelti sorgevano su isole o penisole (Siracusa), bassi promontori (Naxos, Eloro, Mylai), alture costiere e dorsi collinari (Megara Iblea, Gela, Selinunte, Imera, Camarina, Eraclea Minoa). Estremamente rare, invece, erano le fondazioni interne come Akragas, Leontinoi, Akrai e Casmene. Quando i primi coloni greci sbarcarono in Sicilia avevano le idee chiare sull’organizzazione della comunità e dello spazio urbanistico. A quanto sembra, laddove i Greci trovarono case indigene, le rasero al suolo, rilevarono topograficamente il terreno da occupare e lo suddivisero in zone residenziali, comunali e sacre. Inoltre, definirono la chora, l’area coltivabile, tramite santuari eretti ai confini che circondavano lo spazio agricolo come una specie di muro sacro. Nella città stessa, le case singole venivano raggruppate in quartieri residenziali, mentre altre aree erano destinate già dall’inizio alla comunità, alcune per gli edifici pubblici, altre per i santuari. Anche se la documentazione archeologica è molto scarsa in merito alla fondazione delle città e alla piú antica fase coloniale, è evidente che i primi coloni fossero consapevoli dell’importanza di occupare un insediamento centrale abbastanza grande che potesse ulteriormente svilupparsi. Come zona pubblica veniva riservata di solito un’area molto vasta all’interno del sistema urbanistico, mentre gli edifici si creavano di volta in volta secondo le necessità. A ogni colono fu aggiudicato un lotto abitativo dentro la città e uno agricolo da coltivare nella chora. Inizialmente questi lotti avevano la stessa estensione ed erano concentrati in quartieri residenziali, ma distribuiti in modo rado, in previsione di uno sviluppo futuro. Lo spazio comunitario, l’agorà, era spesso collocato al centro della città, all’incrocio delle strade principali. Altre grandi zone pubbliche vennero riservate ai santuari, spesso sull’acropoli, ma anche nell’agorà, alla foce dei fiumi o in punti ben visibili da lontano. I santuari extraurbani, invece, erano costruiti sempre in rapporto con il territorio, in un punto cruciale della chora, spesso sopra santuari indigeni.

Le prime colonie La piú antica città greca in Sicilia è Naxos, sulla costa orientale (vedi alle pp. 32-33). I primi coloni partirono dall’Eubea e, guidati da Teocle da Calcide, nel 734 a.C. raggiunsero il basso promontorio di Capo Schisò, a est del torrente Santa Venera. Secondo le fonti, eressero sulla spiaggia un altare in onore di Apollo Archeghete che divenne luogo di riferimento e di identità dei Greci in Sicilia. La colonizzazione si svolse probabilmente in maniera piuttosto pacifica, poiché sia i Greci, sia gli indigeni erano interessati a scambi economici e culturali. Pochi anni piú tardi, verso il 727 a.C., coloni dorici di Megara, nel Golfo Saronico, fondarono una prima colonia in Sicilia, Megara Iblea, sempre sulla costa orientale, nella baia dell’odierna città di Augusta (vedi a p. 56-57). Il luogo era precedentemente già occupato da indigeni, ma, ancora una volta, la colonizzazione fu pacifica. Il territorio circostante, la chora, era esiguo e neanche molto fertile, per cui, già un

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Statua votiva in terracotta, da Megara Iblea. IV sec. a.C. Palermo, Fondazione Banco di Sicilia, Palazzo Branciforte.


secolo dopo, Megara Iblea fondò una seconda colonia sulla costa meridionale, al confine con i Cartaginesi: Selinunte (vedi alle pp. 92-97). Appena un anno dopo la fondazione calcidese di Naxos, un gruppo di Corinzi, guidati dall’ecista Archia approdò a Ortigia e fondò Siracusa (vedi alle pp. 42-55), nel 733 a.C. L’isola di Ortigia, con le sue baie ben difese, era ricca di acqua dolce e possedeva un entroterra molto esteso e fertile. Ortigia era abitata da popoli indigeni, e in questo caso, la colonizzazione avvenne con la forza, cacciando i Siculi. In breve la città prosperò a tal punto da dominare tutto l’entroterra: nella pianura costiera verso sud i siracusani fondarono la sub-colonia di Eloro (vedi a p. 61) alla quale seguirono, in pochi anni, Akrai (vedi alle pp. 58-59), Kasmenai e Camarina (vedi alle pp. 63-65), per il controllo strategico dei Monti Iblei e di tutto l’entroterra. In molte colonie, qualche generazione dopo la fondazione, si stabilirono regimi tirannici. Le città si organizzarono secondo una pianificazione sempre piú chiara e decisa, dotandosi di poderose fortificazioni per esibire un’identità specifica e scoraggiare eventuali attacchi. Gli spazi privati erano ben definiti, come anche l’agorà, nella quale si svolgevano tutte le funzioni pubbliche: il commercio e il mercato, le riunioni del consiglio, l’accoglienza di ospiti d’onore e di forestieri, ma anche le festività cittadine e le gare sportive. Per tutto il VI secolo a.C. gli edifici piú importanti furono i templi monumentali di tipo periptero (con colonne intorno a tutti i lati della cella, n.d.r.), eretti con cura in luoghi prominenti, ben visibili da lontano.

Il secolo dei grandi templi Nel secolo successivo il tempio rimase l’edificio piú rappresentativo, ma, al tempo stesso, le città furono rese piú vivibili per gli abitanti. Nuove strade pavimentate collegavano i vari centri fra di loro, snellendo il traffico e intensificando il commercio, altre conducevano ai santuari extraurbani facilitando le processioni. All’interno delle città, le strade furono provviste di canaletti laterali per far defluire le acque piovane. Gli isolati abitativi erano ben definiti, raggruppati in quartieri densamente popolati e solo gli spazi periferici rimasero liberi o poco edificati. La maggior parte delle città non aveva ancora raggiunto il limite massimo del popolamento e poteva assorbire senza problemi un ulteriore sviluppo demografico. Anche l’agorà, la zona pubblica per eccellenza, fu riordinata e meglio definita, ma, durante il V secolo a.C., si

In alto veduta dell’area archeologica di Tindari. Qui sopra tetradramma in argento di Naxos. Al recto, testa di Dioniso con i capelli raccolti in un nodo e cinti da una ghirlanda; al verso, un Sileno nudo accovacciato che sorregge con la mano sinistra un kantharos (coppa a due manici). 460 a.C. Siracusa, Museo Archeologico Regionale «Paolo Orsi».

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costruirono soprattutto templi monumentali, collocati sull’acropoli come a Gela o a Selinunte, su alture vicino alle mura cittadine, come ad Akragas, oppure al centro della città, come a Siracusa. In questo secolo due città si contesero quasi esclusivamente il potere in Sicilia: Siracusa e Agrigento. Con l’avvento della tirannide, la prima divenne una megalopoli e ancor piú imponente fu il progresso economico della seconda sotto il tiranno Terone. Lo stesso Terone, dopo la vittoria dei Greci sui Cartaginesi, prese il potere anche a Himera. In un primo momento rase al suolo un intero quartiere della città bassa per far posto al tempio della Vittoria, sicuramente il monumento piú rappresentativo del nuovo potere greco. Nel 476 a.C. il tiranno cacciò gli abitanti e ripopolò la città con coloni dorici. Il sistema urbanistico rimase quello del VI secolo a.C., i lotti abitativi, invece, soprattutto nella città alta, vennero ripartiti e suddivisi in unità piú piccole. L’agorà, sebbene non ancora attestata archeologicamente, si trovava nella città bassa. Il benessere di Himera non durò a lungo, nel 409 a.C. la città fu completamente rasa al suolo dai Cartaginesi. Naxos, all’inizio del V secolo a.C., cadde nelle mani del tiranno Ippocrate di Gela. Nel 476 a.C. Ierone di Siracusa deportò i pochi abitanti rimasti a Leontinoi, e rifondò la città con mercenari dorici. Dopo la caduta di Trasibulo nel 466 a.C., i vecchi abitanti tornarono da Leontinoi e, da questo momento in poi, Naxos conobbe un rapido sviluppo e un lungo periodo di pace. Nei quartieri residenziali furono costruite nuove case, molto varie nella tipologia e nelle dimensioni, mentre il santuario centrale rimase al suo posto e non venne quasi toccato. All’inizio del V secolo a.C. si verificò un vero e proprio boom edilizio anche a Selinunte. La costruzione di peripteri monumentali documenta la ricchezza della città e le case private lasciano trapelare un salto di qualità nell’edilizia di questi anni. In sintesi si può dire che, durante il V secolo a.C., le città si infittirono di abitazioni, furono fortemente urbanizzate e densamente popolate.

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Qui sotto verso di un decadramma d’argento siracusano raffigurante la Vittoria alata che accompagna una quadriga durante l’attacco. La moneta commemora la vittoria greca nella battaglia di Himera del 480 a.C. Collezione privata. In basso altare votivo decorato da un rilievo che raffigura un leone che assale un toro, da Centuripe. V sec. a.C. Siracusa, Museo Archeologico Regionale «Paolo Orsi».


Le case private erano ormai piú grandi, ma rimasero sempre dentro il lotto originario, recintato da muri, mentre le strade vennero pavimentate. Lo spazio dell’agorà conservò la sua notevole estensione e la centralità nell’assetto urbano. Le città fiorirono e la ricchezza è dimostrata dalla costruzione di peripteri monumentali in luoghi eccellenti, visibili da molto lontano. Questo periodo di prosperità terminò all’improvviso tra il 409 e il 406 a.C. con la distruzione di Himera, Selinunte, Akragas, Gela e Camarina da parte dei Cartaginesi e la crisi generalizzata che seguí in tutta la Sicilia.

Dalla crisi cartaginese alla pax Romana Dopo le distruzioni del 409-06 a.C. da parte dei Cartaginesi, solo Siracusa fu in grado di sollevarsi e con il tiranno Dionisio I cominciò la controffensiva. La città era dotata di un’enorme cinta muraria che inglobava anche il vasto pianoro dell’Epipole fino alla rocca del Castello Eurialo. Siracusa era diventata una megalopoli di circa un milione di abitanti, costituita dall’unione di quattro città: l’isola Ortigia con i due templi piú importanti, Akradina con l’agorà, poi in epoca romana il foro, Tyche e Neapolis con i loro quartieri residenziali. Nel contempo, sempre sotto il tiranno Dionisio I, furono costruiti importanti presidi militari in tutta la Sicilia contro i Cartaginesi. All’inizio del IV secolo a.C. Dionisio I fondò Tindari (vedi alle pp. 37-40) sulla costa settentrionale e la popolò con mercenari siracusani; altri suoi alleati, i superstiti di Himera, fondarono Termini Imerese. Nella seconda metà dello stesso secolo Timoleonte, il nuovo tiranno di Siracusa, ripopolò alcune città greche distrutte dai Cartaginesi, Camarina, Agrigento, ma anche Eraclea Minoa. Queste città si arricchirono sul piano economico e sociale e di nuove tipologie monumentali come bagni, teatri, sale di riunione, stoà, mentre l’architettura sacra perse il suo valore d’avanguardia: per tutto il IV secolo a.C. non fu piú costruito alcun periptero. Durante il III secolo a.C. solo Siracusa preservò l’autonomia e svolse un ruolo importante in Sicilia. Dal 270 a.C. al 215 a.C., regnò il tiranno Ierone II, il quale impostò la sua corte sul modello dei re macedoni o alessandrini, un monarca assoluto con tutto il fasto autoreferenziale e con forti desideri espansionistici. Ierone II fece di Ortigia la sua grande reggia personale, come sappiamo da Cicerone (Verr. II.4,118), anche se non sono rimaste tracce archeologiche. Dopo la metà del III secolo a.C. cominciò la fase delle grandi realizzazioni nella Neapolis. Il nuovo quartiere residenziale fu monumentalizzato, Ierone II fece costruire il grande altare in onore di Zeus e il teatro alle pendici del colle Temenite, con una vista incantevole sulla baia antistante e sul mare. Al di fuori di Siracusa, nel resto della Sicilia, imperversarono le guerre puniche tra i Romani e i Cartaginesi, coinvolgendo quasi tutte le città che presero parte per gli uni o per gli altri. Questa situazione, in un’epoca del tutto instabile, determinò lo spopolamento progressivo dei centri urbani. Nelle città greche seguí un periodo di stagnazione e di crisi; particolarmente grave fu la situazione sulla costa (segue a p. 24)

Testa in marmo di Druso Maggiore, figlio della terza moglie di Augusto Livia Drusilla, e padre dell’imperatore Claudio. Età giulio-claudia, 14-68 d.C. Centuripe, Museo archeologico regionale.


i millenni della sicilia 30 000-15 000 anni fa Paleolitico Superiore Prime tracce di presenza umana sull’isola. Risalgono a questa fase importanti manifestazioni di arte rupestre (Grotta dell’Addaura, Levanzo) VI-III mill. a.C. Neolitico

XVIII-XV sec. Cultura di Castelluccio XV-fine XII sec. Cultura di Thapsos

800-770 a.C. Fase di contatti precoloniali (ceramiche greche dalla valle di Marcellino).

581 Fondazione di Agrigento 570 Tirannide di Terone a Selinunte e di Falaride ad Agrigento

734 Fondazione di Naxos 1270-1000 Cultura di Pantalica I (Nord) 1000-850 Cultura di Pantalica II (CassibiIe)

V-IV mill. Cultura di Stentinello

733 Fondazione di Siracusa

500 Gelone prende il potere a Gela e poi (485) a Siracusa

716 Fondazione di Mylai

480 Battaglia di Himera

688 Fondazione di Gela

478 Gerone I tiranno di Siracusa

III-II mill. Età del Rame

850-730 Cultura di Pantalica III (Sud)

648 Fondazione di Himera

XVIII-IX sec. Età del Bronzo

730-650 Cultura di Pantalica IV

628 Fondazione di Selinunte

415 Seconda spedizione ateniese in Sicilia e sconfitta dell’Assinaro (413)


409 Cartagine distrugge Selinunte, Himera (408) e Agrigento (406). Dionigi I prende il potere a Siracusa 405 Trattato fra Cartagine e Siracusa 400 Inizio della guerra di Dionigi contro Cartagine. Distruzione di Mozia nel 397. Trattato con i Cartaginesi del 392 383-374 Seconda guerra punica di Dionigi

350 Cartaginesi e Romani rinnovano il trattato del 509

306Pace con Cartagine e terzo trattato fra Roma e Cartagine

344 Timoleonte corinzio arriva a Siracusa. Guerra contro Cartagine

276 Gerone II prende il potere a Siracusa

340 Sconfitta dei Cartaginesi al Crimiso e pace con Cartagine. Ricostruzione delle città siceliote per opera di Timoleonte

261 Inizia la prima guerra punica fra Roma e Cartagine

318-317 Agatocle prende il potere a Siracusa e porta la guerra in Africa (310-306) contro i Cartaginesi

241 Quinto Lutazio Catulo sconfigge la flotta cartaginese alle Egadi. Fine della prima guerra punica. Cartagine perde la Sicilia

214-213 Marco Claudio Marcello distrugge Megara Hyblaea 213-212 Assedio e presa di Siracusa da parte di Marcello 211 Presso il fiume Himera, vittoria di MarceIlo su Cartagine 207-205 Viene ridefinito a Roma l’assetto giuridico e tributario delle città siceliote

Segesta. Veduta del teatro, costruito intorno alla metà del IV o nel II sec. a.C. (vi sono due teorie al proposito).


meridionale. Gela, Akragas e Camarina furono saccheggiate dai Romani ancora nella prima metà del III secolo a.C., Selinunte fu abbandonata per non cadere nelle mani romane, Eraclea Minoa sopravvisse, ma rimase sotto la tutela dei Cartaginesi. A Morgantina, invece, la vita prosperò sotto il dominio siracusano; gli isolati rettangolari della rete urbana regolare, creata all’epoca della rifondazione della città verso la metà del V secolo a.C., vennero ora riempiti di case private, mentre gli edifici pubblici nell’agorà, le stoà, il teatro, le terme e il bouleuterion, furono costruiti piú tardi, tra la fine del III e la prima metà del II secolo a.C.

La romanizzazione Alla fine della seconda guerra punica, con la caduta di Siracusa nel 211 a.C. e la definitiva cacciata dei Cartaginesi, per alcune città ebbe inizio una nuova epoca di pace e benessere. Il grande modello da seguire erano ormai le città ellenistiche d’Egitto e di Macedonia con i loro nuovi tipi architettonici e decorativi. La maggior parte delle città in Sicilia, anche quelle di origine indigena, una volta nelle mani dei Romani, furono inserite nelle reti commerciali e culturali con il resto dell’Italia del Sud. Dopo un breve periodo di prosperità, nel I secolo a.C. si ebbe una nuova crisi con la deduzione di colonie romane e l’invio di pretori e propretori, tra cui Gaio Licinio Verre, che saccheggiò l’isola.

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In basso Piazza Armerina, Villa del Casale. Particolare del mosaico della Grande Caccia raffigurante guerrieri con grandi scudi tondi, in piedi o a cavallo, catturano animali feroci; in primo piano una coppia di buoi, guidati da due servi, traina un carro-gabbia. IV sec. d.C.


glossario Acropoli Complesso architettonico posto nella parte piú alta della città. In età classica divenne il luogo ove vennero eretti gli edifici in onore degli dèi. Adyton La parte in fondo o ambiente separato nella cella del tempio, contenente la statua della divinità, o adibito a culti particolari. Agorà Piazza al centro della città greca, punto di incontro delle principali vie cittadine, sede di affari, mercato e luogo di scambio e di assemblea. In genere era rettangolare e porticata, circondata dagli edifici pubblici piú importanti e rappresentativi. Anfiprostilo Tempio che ha una fila di colonne su entrambe le fronti e ne è privo sui lati. Bouleuterion Edificio per assemblee (vi si riuniva la boulè, il consiglio decisionale nelle città dell’antica Grecia) con sala centrale a gradinate, tetto ligneo sorretto da colonne e un aspetto simile al teatro. Cardo La strada principale della città romana, che si svolgeva da sud a nord, incrociando il decumano ad angolo retto. Cavea Insieme delle gradinate destinate agli spettatori nel teatro classico. Era addossata a un pendio naturale nel teatro greco, mentre in quello romano era sostenuta da strutture murarie, digradante e divisa in tre settori da ambulacri. Cella Parte interna quadrangolare del tempio, in cui si custodiva la statua della divinità.

Decumano Strada della città romana che si svolgeva da oriente a occidente, incrociando il cardo ad angolo retto. Diptero Tempio greco circondato da due file di colonne su ogni lato. Dromos Nell’architettura greca arcaica, corridoio a gradini o a pendio che conduce a una tomba ipogea, cioè sotterranea. Intercolumnio Spazio compreso tra due colonne. Megaron Sala rettangolare coperta, con quattro colonne che fiancheggiano un focolare e sorreggono una parte di tetto sopraelevato per fare uscire il fumo, preceduta da un vestibolo e da una antisala. Caratteristico dei palazzi reali micenei. Metopa Elemento architettonico quadrangolare alternato ai triglifi nel fregio del tempio dorico. In origine era costituito da lastre dipinte, poi da formelle in pietra o marmo scolpite. Naos Cella del tempio greco, a pianta rettangolare, allungata; prendeva luce dalla porta di accesso, in quanto era priva di finestre. Era orientata verso est, conteneva la statua di culto ed era preclusa ai fedeli. Odeon piccolo edificio teatrale destinato alle audizioni poetiche e musicali. Opistodomo Parte posteriore del tempio greco, dietro la cella, nella quale erano raccolte le offerte alla divinità e venivano custoditi gli oggetti per il culto.

Ordine Complesso di norme costruttive e regole relative alle forme e proporzioni di un edificio; tre sono quelli classici dell’architettura greca: dorico, ionico e corinzio, due quelli romani: composito e tuscanico. Peribolo Il portico o il colonnato che circonda la cella del tempio greco. Piú in generale: recinto sacro intorno al tempio. Periptero Tempio greco circondato da colonne su ogni lato. Peristasi Portico, colonnato che corre intorno al naos del tempio. Peristilio Colonnato o portico a colonne che gira intorno a un edificio o a un cortile. Si chiama peristilio il cortile porticato della casa ellenistica e romana su cui si aprono i vari ambienti. Pronao Ambiente antistante la cella nel tempio. Prostilo Tempio con colonnato sulla fronte. Rocchio Blocco cilindrico, generalmente in pietra, che, sovrapposto ad altri, costituisce la colonna.

Tablino Locale della casa romana a cui si accedeva dall’atrio e che aveva luce dal peristilio, con iniziali funzioni di camera da letto, da pranzo, di rappresentanza. Dall’età ellenistica in poi ebbe solo funzione di sala di ricevimento e di rappresentanza. Temenos Il termine originariamente indicava l’appezzamento di terreno inalienabile trasmesso ereditariamente. In seguito è passato a indicare un recinto sacro nel quale sono l’altare e il tempio, e altri edifici intorno. Tholos Costruzione circolare con copertura a falsa cupola di uso civile e funerario. Triclinio Ambiente della casa romana adibito a sala da pranzo. Il latino triclinium deriva dal triklinion, composto da tri, tre e kline, letto, i tre letti collocati su tre lati della sala, ove prendevano posto i commensali. Il quarto lato era libero per il servizio. Triglifo Elemento architettonico in pietra, quadrangolare, decorato da tre scanalature verticali, alternato alle metope nel fregio del tempio dorico.

Sima Modanatura spesso decorata a rilievo con funzione di gronda o gocciolatoio che corona le cornici dei frontoni o di un edificio. Stilobate Piano basamentale sul quale poggiano il colonnato e le mura della cella del tempio. Stoà Edificio, in genere a pianta rettangolare, con un lato aperto a colonnato che dà su una piazza, un cortile, un giardino.

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itinerari di visita | SICILIA | 26 |

Catania e dintorni 1. Catania 2. Naxos 3. Taormina 4. Tindari 5. Patti Marina (villa romana)

Siracusa e dintorni 1. Siracusa 2. Thapsos 3. Megara Iblea 4. Pantalica (necropoli rupestre) 5. Cava d’Ispica 6. Palazzolo Acreide/Akrai 7. Tellaro (villa romana) 8. Eloro 9. Camarina – Kamarina

Agrigento e dintorni 1. Agrigento 2. Eraclea Minoa 3. Monte Saraceno di Ravanusa 4. Piazza Armerina, Villa romana del Casale 5. Morgantina e Museo Archeologico di Aidone 6. Monte Adranone 7. Selinunte 8. Mazara del Vallo

Palermo Solunto Trapa pan ni

Erri Er Eri ric ic ce e

Monte Iato

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Lilibeo (Marsala) Mazara del Vallo Selinunte

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a Sicilia è grande: per il viaggiatore, che probabilmente scoprirà come il tempo sembri sempre troppo poco per visitare tutto; per le soprintendenze, che non dispongono di fondi e risorse sufficienti per conservare adeguatamente ogni sito; per gli storici e gli archeologi, che cercano di ricostruire i rapporti e le interazioni culturali tra genti etnicamente eterogenee presenti sull’isola fin da tempi antichissimi. Ma la Sicilia si è dimostrata grande anche per gli autori di questa monografia, che, obbligati a una selezione, forse non sempre hanno potuto dare il giusto spazio a siti archeologici meritevoli di una visibilità piú ampia. Gli itinerari prendono spunto da cinque grandi centri, importanti nell’antichità come oggi, dove il viaggiatore si può fermare e trovare facilmente alloggio. Da queste città, i percorsi di visita – ai quali si aggiunge il giro dell’arcipelago eoliano – si irradiano per toccare i siti archeologici del territorio circostante.

Agrigento

M a r

M


Marsala e dintorni 1. Marsala 2. Mozia 3. Segesta

Isole Eolie 1. Lipari 2. Panarea 3. Filicudi 4. Salina

Palermo e dintorni 1. Palermo 2. Monte Iato 3. Solunto 4. Imera

Lipari

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Patti Marina

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Tindari C alĂş Cef

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Gal Ga G allipoli al allip liiip lip po oli ol llii

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Taormina Mo Mon M onte o te E Ettn Etn tna

Naxos

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Catania

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Thapsos

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Megara Iblea

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Grrra Gra G am mm mmi miiche m iche che hele le Ser Ser Se erra ra Orl Orland Or rla rl and an nd n o

Siracusa

Akrai

Cas C Ca assibile le Tel Te Tel e laro lar lla arro a Cava d’Ispica

Eloro

Camarina

e d i t e r r a n e o

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catania

Una veduta della Catania moderna, con l’Etna sullo sfondo. La città venne fondata intorno al 729 a.C. da coloni greci provenienti da Calcide,

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nell’Eubea. Poco si è conservato della Katane piú antica e i monumenti oggi meglio visibili sono quelli riferibili all’epoca romana.


tra il mare e

il vulcano fondata ai piedi dell’etna da coloni partiti dall’eubea, catania visse vicende travagliate, fino a quando non venne risucchiata nell’orbita di roma. una seconda vita a cui sono riferibili le testimonianze piú importanti del suo passato

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CATANIA e DINTORNI

CATANIA

CATANIA C

In alto Catania. Il teatro romano come si presenta oggi, circondato da edifici posteriori.

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atania fu fondata verso il 729 a.C. da coloni greci di Calcide nell’Eubea. La città crebbe velocemente e nei secoli VII e VI a.C. si espanse verso l’interno, trovandosi in continuo conflitto con i Siculi. Nel 476 a.C. Gerone di Siracusa la conquistò: ne trasferí gli abitanti a Leontinoi, la ribattezzò Aitna e la ripopolò con genti doriche di origine siracusana e peloponnesiaca. Nel 461 a.C., dopo la morte di Gerone e la caduta della tirannide siracusana, i vecchi abitanti tornarono e ridiedero all’abitato l’antico nome di Katane. Alla fine del V secolo a.C. la città fu nuovamente saccheggiata, questa volta perché i Catanesi si erano schierati contro Siracusa nel corso della spedizione ateniese in Sicilia. Il tiranno Dionisio I la rase al suolo nel 403 a.C. e vendette gli abitanti come schiavi. Catania fu ricostruita e popolata con mercenari campani. Nel 263 a.C., agli inizi della prima guerra punica, la città venne conquistata da Marco Valerio Messalla e poi assoggettata all’impero. Per tutta l’epoca romana, Catania godette di notevole prosperità e prestigio, senza però distinguersi in particolar modo. Oggi l’antica

Katane giace sotto l’abitato moderno e soltanto in alcune zone emergono le vestigia di alcuni monumenti, perlopiú di epoca romana. Il teatro romano sorge sul versante meridionale della collina dell’acropoli, in prossimità dell’odierna via Vittorio Emanuele. Gli scavi hanno documentato che l’area era già occupata in precedenza da un teatro ellenistico, di cui non rimane quasi nulla. Del tutto infondata è l’identificazione con il teatro greco all’interno del quale Alcibiade tenne nel 415 a.C. un discorso all’assemblea civica, come tramanda Tucidide. Nella sua forma attuale, l’edificio sembra risalire al II secolo d.C. Un ulteriore rifacimento si ebbe tra la fine del III e la prima metà del IV secolo d.C., con l’ampliamento del palcoscenico e la realizzazione di un grande ambulacro sugli ultimi gradoni nella parte orientale del teatro. L’orchestra conserva ancora il pavimento marmoreo in opus sectile, e anche la scena presenta resti del rivestimento marmoreo. Nel 2001 è stato allestito un Antiquarium, ricavato negli ambienti di una palazzina costruita nel Settecento sui resti della scena


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del teatro e ampliato nel 2007. I reperti in mostra appartengono sia al teatro, sia alla decorazione architettonica di edifici medievali e settecenteschi, distrutti durante gli scavi per liberare l’edificio. A ovest del teatro è situato l’odeon, costruito anch’esso in pietra lavica. La scena è ancora coperta da costruzioni settecentesche; la cavea, invece, è in vista, e poggia su muri con aperture ad arco. L’odeon venne probabilmente costruito nel II o verso l’inizio del III secolo d.C., poco dopo il teatro romano. Piú avanti, sempre su via Vittorio Emanuele, nel cortile di S. Pantaleone si trovava forse l’antica zona del Foro. Oggi si vedono solo due ambienti individuati a oltre 7 m di profondità, sul lato settentrionale del cortile di S. Pantaleone, e parte di un muro in opus reticulatum sotto un edificio moderno. I resti del complesso sono troppo scarsi per identificarlo con certezza con il foro della Catania romana; recenti interpretazioni vedono in queste strutture semplici magazzini (horrea). Le terme della Rotonda sono ubicate a nord del teatro. Il solo settore conservato è una sala circolare con esedre all’interno, coperta da una grande cupola. Si tratta probabilmente del calidarium. La sala fu trasformata in chiesa cristiana verso il IX-X secolo e consacrata alla Madonna. L’impianto termale si data, nella sua prima fase, in età imperiale, intorno al I o II secolo d.C., pesantemente rimaneggiato e ampliato intorno al III secolo d.C. Un altro complesso termale si estendeva sotto l’odierna Cattedrale: sono le terme Achilliane, di cui rimangono una grande sala rettangolare e resti di piccoli ambienti comunicanti. La denominazione terme Achilliane proviene da un’iscrizione, datata al 434 d.C., che parla di restauri eseguiti nell’impianto di riscaldamento. Per la datazione delle terme in epoca romana non ci sono dati conclusivi, ma sembrano risalire alla prima età imperiale (I o II secolo d.C.). Poco piú avanti, al centro del vecchio mercato del pesce, si trovavano le cosiddette terme dell’Indirizzo, che traggono il loro nome dal soprastante convento carmelitano di S. Maria dell’Indirizzo. Dell’edificio si conservano dieci ambienti, con una grande

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Porto

sala centrale ottagonale coperta a cupola e finestre arcuate sopra le nicchie nelle pareti. L’analisi delle tecniche costruttive impiegate riconduce la costruzione dell’impianto all’epoca imperiale avanzata. Dell’anfiteatro romano in piazza Stesicoro sono visibili, oggi, la parte nord della cavea e dell’arena, separate fra di loro da un alto podio, con il corridoio inferiore percorribile e un sistema di archi e volte del corridoio superiore sotto le gradinate. Si conservano solo poche file di gradini della cavea, ampiamente restaurata, poiché, già dall’età bizantina, il monumento serviva da cava e i blocchi vennero impiegati nella costruzione di edifici cittadini. Le dimensioni notevoli dell’orchestra (70 x 50 m circa) fanno dell’anfiteatro di Catania il piú grande di tutta la Sicilia, capace di accogliere 15 000 spettatori seduti. La data di costruzione è incerta, ma l’analisi della tecnica costruttiva lo colloca intorno alla metà del II secolo d.C. Molto singolare e tipica di Catania, già in epoca antica, era la combinazione cromatica dei materiali da costruzione. Il nero dei blocchi squadrati di pietra lavica dà risalto al rosso dei mattoni usati per le arcate e per alcuni livelli orizzontali e, soprattutto, al bianco brillante del marmo impiegato per il rivestimento e le colonne.

Pianta del nucleo antico di Catania: l’area colorata coincide con la possibile estensione della città. Sono evidenziati i monumenti piú importanti: 1. monumento funerario di via Ipogeo; 2. edificio sepolcrale di viale Regina Margherita; 3. cimitero di via Androne; 4. anfiteatro; 5. terme della Rotonda; 6. edificio termale; 7. odeon; 8. teatro; 9. «foro»; 10. terme Achilliane; 11. terme dell’Indirizzo; 12. presunta area del circo.

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CATANIA e DINTORNI

NASSO

nasso (naxos)

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In alto altare con sfingi, dagli scavi di Naxos. V sec. a.C. Giardini Naxos, Museo Archeologico. In basso la plateia B, la strada principale dell’antica Naxos.

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econdo la tradizione, Naxos è la colonia greca piú antica di tutta la Sicilia. Fondata da coloni della Calcide, che giunsero nella baia tra Taormina e Capo Schisò nel 734 a.C., la città ebbe vita breve. Quando scoppiò la guerra triennale tra Siracusa e Atene, offrí il suo porto come base di appoggio al comandante ateniese Nicia. Ma la vendetta del tiranno siracusano Dionisio I fu terribile: nel 403 a.C. Naxos fu incendiata e rasa al suolo, i cittadini venduti come schiavi e i loro territori vennero assegnati agli indigeni. I superstiti furono accolti nella vicina Tauromenion (Taormina), fondata in sostituzione di Naxos sulle vicine alture del Tauro. L’antico abitato di Naxos occupava la bassa piattaforma lavica della penisola di Schisò, delimitata a sud-est dal torrente Santa Venera e a nord-est dalla baia. Al momento della fondazione coloniale, come risulta anche da Diodoro – secondo il quale sarebbero stati cacciati i Siculi che vi abitavano –, il sito non doveva essere disabitato. Dalle piú recenti indagini archeologiche risulta che i due impianti urbani della città, quello arcaico e quello classico, si sovrappongono l’uno all’altro,

ciascuno con un proprio orientamento. Sondaggi in profondità hanno identificato le strutture di una casa dell’VIII secolo a.C. e i resti di almeno altre sette, impostate secondo un orientamento est-ovest che rimase invariato fino al VI secolo a.C. creando un impianto regolare con incroci quasi ortogonali. Costruite interamente in pietra lavica, le case avevano dimensioni modeste, pianta rettangolare ed erano vicine le une alle altre; stretti camminamenti a cielo aperto le separavano e ne definivano il perimetro, a conferma di un abitato densamente popolato. Questo primo insediamento coloniale si sviluppò in stretto rapporto con il bacino portuale, identificato all’estremità sud-occidentale della baia. Di grande interesse è la scoperta dell’arsenale navale dell’antica colonia, situato sulle propaggini della collina di Laurunchi, ai margini settentrionali della città. Costruito tra la fine del VI secolo a.C. e gli inizi del secolo successivo, e distrutto certamente da Dionisio I, l’apprestamento per tirare in secca le navi


(neoria) era dotato di quattro scivoli coperti destinati a quattro triremi: una flotta piccola, adeguata alle dimensioni della colonia. Intorno al 475 a.C. la città ricevette un nuovo impianto urbano, impostato su tre direttrici viarie con orientamento est-ovest (plateiai), di cui la centrale è molto piú larga delle altre due, incrociate ortogonalmente da strade sull’asse nord-sud (stenopoi), che danno origine a isolati lunghi e stretti. Agli incroci sono state rinvenute basi quadrangolari, destinate, forse, a sostenere altrettanti altarini. L’agorà, non si trovava al centro dell’impianto, ma, secondo i risultati delle ultime campagne di scavo, era collocata al margine settentrionale della città, in stretto contatto con il porto militare. Questa era la città che il tiranno siracusano Dionisio I distrusse completamente nel 403 a.C. Situato presso l’attuale porto di Giardini Naxos, ai margini dell’area archeologica della città antica, il Museo Archeologico illustra la storia della colonia greca, evidenziando anche le testimonianze preistoriche che documentano l’ininterrotta continuità di vita nel sito, dal Neolitico fino all’epoca ellenistica. I reperti provengono per la maggior parte dagli scavi effettuati nella città e sono ordinati secondo un criterio cronologico. Al piano terra sono esposti i materiali relativi alle fasi di vita piú antiche della colonia (ceramica tardogeometrica corinzia ed euboico-cicladica; anfore da trasporto arcaiche riutilizzate come sepolture). Al piano superiore sono visibili le monete del V secolo a.C. rinvenute nel quartiere nord della città, i rivestimenti architettonici e le antefisse a maschera silenica che decoravano gli edifici sacri, i reperti pertinenti all’abitato arcaico e classico, i corredi delle necropoli del V secolo a.C. e dell’età ellenistica. All’esterno sono esposti reperti di provenienza subacquea (ancore, anfore). La passeggiata nel parco archeologico di Naxos, al quale si accede direttamente dal museo, si svolge in una splendida cornice naturale tra rigogliosi agrumeti (da cui il nome «Giardini»), palme e ulivi. Il percorso ricalca parte del tracciato di uno degli assi viari principali del V secolo a.C. (plateia) ed è

costeggiato da un lungo tratto delle mura in opera poligonale in blocchi lavici risalenti al VI secolo a.C., che resistettero all’attacco di Ippocrate di Gela (492 a.C.). La strada conduce al margine sud-occidentale dell’area urbana di Naxos, vicino alla foce del torrente Santa Venera, dove si trovano i resti del santuario piú antico. L’area sacra aveva due accessi monumentali, uno a nord, direttamente collegato alla città, l’altro a sud, in stretto rapporto con il litorale e il mare. All’interno del santuario rimangono i resti di un sacello della fine del VII secolo a.C. e di un altare in opera poligonale a gradoni, degli inizi del VI secolo a.C. Nello spazio intermedio si trovano due fornaci, coeve all’altare, destinate alla produzione di oggetti votivi in terracotta ed elementi di copertura (tegole, lastre architettoniche). In seguito a un evento naturale verificatosi nella metà del VI secolo a.C., fu costruito un edificio sacro piú grande sui resti del sacello precedente ornato da un fregio architettonico con palmette e fiori di loto. Il santuario è stato identificato con quello di Afrodite ricordato da Appiano (Bellum Civile, V, 109) presso il mare. Al di là del fiume sorgeva un altro complesso sacro, risalente allo stesso periodo (fine del VII secolo a.C.) che ha restituito una dedica molto arcaica in alfabeto nassio alla dea Enyò, assimilabile all’Afrodite armata.

In basso un tratto delle mura di recinzione del santuario di Naxos.

| Il sacrificio dei sacri inviati | «Fra i Greci giunsero per primi i Calcidesi dell’Eubea che, guidati da Tucle, fondarono Nasso ed eressero l’ara di Apollo Archegete, che ora è fuori dalla città e sulla quale i sacri inviati [gli ambasciatori] compiono il sacrificio prima di salpare dalla Sicilia (…) Tucle e i Calcidesi, quattro anni dopo la fondazione di Siracusa, partiti da Nasso, scacciarono con le armi i Siculi e diedero vita a Leontini» (Tucidide, Storie).


capitolo

taormina (tauromenion)

L

e origini di Taormina sono sicuramente precedenti alla colonizzazione greca. Già durante l’età del Bronzo, il sito era abitato da genti autoctone, che però non hanno lasciato molte tracce. Nel 735 a.C. i primi Greci che qui fondarono Naxos occuparono, forse, anche il monte Tauro, che ancora oggi domina l’intera pianura ed era sicuramente un luogo di grande importanza strategica. Non sappiamo in quale misura fosse abitato da Siculi o da Greci, né abbiamo notizie sul tipo di relazione che si stabilí tra coloni e indigeni. Il sito sul monte si affaccia sulla scena della storia solo

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verso la fine del V secolo a.C., quando il tiranno Dionisio di Siracusa distrusse Naxos e gli abitanti sopravvissuti trovarono rifugio sul monte Tauro. Forse già nel 396 a.C. i Siculi locali, insieme a questi rifugiati, fondarono Tauromenion, oppure la città nacque nel 358 a.C., quando Andromaco, padre dello storico Timeo, prese il potere. La città entrò nell’orbita siracusana e vi rimase fino alla conquista romana della Sicilia, nel 212 a.C. Tauromenion conobbe allora un periodo florido, fino a quando si lasciò coinvolgere nel conflitto tra Ottaviano e Sesto Pompeo. Nel 21 a.C.


Tauromenium diventò colonia romana, ma mantenne una certa prosperità anche durante l’età imperiale, come dimostrano le diverse ristrutturazioni del teatro. L’attrazione principale della Taormina attuale, simbolo di tutta la Sicilia, è il teatro, detto «greco-romano». Un primo edificio, con la cavea ricavata nel fianco della collina, venne costruito forse già in età ellenistica, nel III secolo a.C., anche se recentemente tale ipotesi è stata messa in dubbio. L’impianto oggi visibile è del tutto romano; fu edificato entro la prima metà del II secolo a.C., ma venne ristrutturato e ampliato nell’età augustea. Un ulteriore rifacimento si ebbe in età imperiale, intorno al II secolo d.C., con l’adattamento del teatro ai giochi gladiatori. Con un diametro della cavea di 109 m, il teatro di Taormina è il secondo in Sicilia, dopo quello

di Siracusa; l’ampliamento di età augustea permise di accogliere fino a 10 000 spettatori. Nel II secolo d.C., a seguito della trasformazione in arena per i giochi gladiatori e i combattimenti di animali, le prime gradinate della cavea furono sostituite con un corridoio sotterraneo, realizzato per consentire l’ingresso delle fiere. Lo stesso corridoio serviva anche da transenna protettiva per gli spettatori. Nel settore superiore della cavea, sul muro di fondo, venne aggiunto un doppio portico con gradinate lignee sul tetto, riservato alla plebe. Davanti alla scena, al centro dell’arena si scavò una grande piscina, profonda circa 2 m, per i combattimenti acquatici. Fiancheggiata da due torri con sale voltate, la scena presentava una fronte con un doppio ordine di colonne corinzie, scandito da nicchie. Il suo assetto attuale è frutto del

Sulle due pagine il teatro di Taormina con l’Etna sullo sfondo.

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In alto una suggestiva veduta di Giardini Naxos, inquadrata da uno degli archi dell’orchestra del teatro greco-romano di Taormina. A sinistra statua romana di una sacerdotessa di Iside, da Taormina. II sec. d.C. Palermo, Museo Archeologico Regionale «Antonio Salinas».

restauro ottocentesco, che segue le linee guida della letteratura romantica dell’epoca. All’inizio di corso Umberto, la strada principale dell’odierna Taormina, si trova piazza Vittorio Emanuele con il palazzo Corvaia, che coincide con l’area dell’agorà greca, e poi del foro di epoca romana. In posizione piú arretrata, presso la chiesa di S. Caterina, si vedono ancora i resti dell’odeon, costruito in epoca imperiale, con una cavea per gli spettatori suddivisa in cinque settori. Non lontani si trovano anche i resti della cosiddetta naumachia, un grandioso prospetto monumentale di oltre 100 m di lunghezza, probabilmente una grande fontana nell’ambito del ginnasio romano, che serviva in primo luogo come muro di sostegno per la collina retrostante.


Tindari (tyndaris) La «basilica» di Tindari. Sullo sfondo, a sinistra, si vede la cupola del santuario di Maria Santissima del Tindari, dove si conserva la statua della Madonna Nera.

T

indari, una delle piú recenti fondazioni coloniali d’Occidente, sorge sopra un promontorio roccioso che domina il Golfo di Patti. L’articolata geomorfologia del sito è caratterizzata da un vasto altopiano sommitale di forma allungata in senso nord-ovest/sud-est con versanti che degradano fino al mare. Sulla vetta del promontorio in cui si è proposto di riconoscere l’acropoli e le principali aree sacre dell’antica Tyndaris, si erge, oggi, il santuario della Madonna di Tindari. Tyndaris fu fondata nel 396 a.C. dal tiranno di Siracusa Dionisio il Vecchio per insediarvi 600 Messeni, già suoi mercenari, al fine di costituire una colonia a controllo della costa nord-orientale e dello Stretto di Messina. Il nuovo insediamento si stanziò sul territorio precedentemente occupato dall’abitato siculo, poi grecizzato, di Abacaenum, corrispondente all’attuale Tripi. Il nome della colonia è probabilmente collegato al culto messenico dei Tindaridi, i Dioscuri Castore e Polluce ed Elena, figli di Leda e Tindaro, raffigurati su alcune monete. Nel 344-343 a.C. la città offrí il suo appoggio a Timoleonte, guadagnando un periodo di prosperità economica e un notevole incremento demografico, che portò il numero degli abitanti a piú di 5000. Durante la prima guerra punica Tindari fu per alcuni anni una base navale cartaginese, finché decise di seguire Segesta nella scelta di allearsi con Roma. I Cartaginesi, prevedendo questa sua intenzione, deportarono a Lilibeo i cittadini che rivestivano le piú alte cariche. Nel 254 a.C. Tindari entrò nell’orbita di Roma come civitas decumana, una condizione che prevedeva l’obbligo di versare all’Urbe una decima quota

dei proventi dalle risorse del suo territorio mantenendo, però, indipendenza e libertà civili. In quanto alleata dei Romani, Tindari, durante l’ultima guerra punica, forní navi in appoggio alle spedizioni contro Cartagine, conquistata e distrutta nel 146 a.C. e, per questo, fu ricompensata da Scipione Emiliano con parte del bottino. Durante la guerra contro Ottaviano, la città forní l’appoggio a Sesto Pompeo e nel 36 a.C. fu conquistata da Agrippa. Pochi anni dopo, nell’ambito del nuovo assetto amministrativo della Sicilia voluto da Augusto, la città ottenne lo status di Colonia Augusta Tyndaritanorum, come è attestato da alcune iscrizioni. Nel I secolo d.C. una parte dell’abitato fu distrutta da una frana, ricordata da Plinio il Vecchio e, in epoca tardo-imperale (IV secolo d.C.), Tindari subí ingenti danni e distruzioni a causa di due violenti terremoti. L’insediamento occupava un vasto altopiano di


CATANIA e DINTORNI

TINDARI

Cercadenari

Roccafemmina

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In alto pianta degli scavi di Tindari: appare evidente l’impianto urbano regolare, scandito dagli assi viari principali. Sono indicati i monumenti piú importanti: 1. teatro; 2. insula IV; 3. casa romana; 4. terme; 5. basilica; 6. mura greche. A destra testa colossale in marmo di Augusto imperatore, dall’area della «Basilica». I sec. d.C. Tindari, Antiquarium.

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forma pseudo-rettangolare e si distribuiva lungo i declivi e sulle terrazze. I dati di scavo documentano un impianto urbano regolare risalente all’epoca ellenistica, conservatosi senza soluzioni di continuità per tutta l’epoca romana. Larghe plateiai/decumani con orientamento nord-ovest/sud-est, tre delle quali seguono l’originaria orografia del pianoro, erano incrociate ortogonalmente da stenopoi/cardines in discesa formando una griglia di isolati rettangolari di cui l’insula IV è stata interamente riportata alla luce. Il decumano mediano, pavimentato con blocchetti di arenaria, era l’arteria principale della città, alla quale si ricollegava anche la via che scendeva verso il mare e l’area portuale. Particolarmente complessa è l’identificazione degli edifici e spazi pubblici, in particolare dell’agorà, divenuta il foro della città romana, che Cicerone, nel I secolo a.C., descrive ornato da portici e statue. Alcuni l’hanno identificata con i resti addossati ai muri e porticati a sud della cosiddetta «Basilica», altri a valle del teatro, in posizione centrale, su un terrazzamento a nord del decumano superiore. Le necropoli, risalenti ai primi periodi di vita della città greca e utilizzate fino all’epoca imperiale, si dispongono a sud, in contrada Locanda, in un’ampia zona in declivio al di fuori della cinta muraria, e a nord-est, sopra un terrazzamento all’interno delle mura. Indagini recenti hanno interessato il settore della contrada

Cercadenari, ubicato lungo il decumano centrale, dove è stato identificato un edificio monumentale, in blocchi di arenaria con ampio portico, a carattere pubblico, accessibile da una grande scalinata. L’insediamento è racchiuso da una imponente cinta muraria difensiva di oltre 3 km, risalente all’età ellenistica, realizzata con un sistema a doppia cortina di blocchi squadrati in arenaria, con riempimento (emplekton) di terra e pietre, intervallata da torri quadrangolari. L’ingresso principale è costituito da una grande porta a tenaglia semicircolare a due fornici (dypilon). Il percorso della fortificazione greca può seguirsi lungo il tratto meridionale del promontorio roccioso, risalendo la collina fin quasi all’altezza del teatro; poi diventa difficile identificarlo, per la presenza della cinta muraria tardo-romana e bizantina che ne riutilizzò diversi blocchi. La scoperta, all’interno del riempimento, di ceramica a figure rosse, a vernice nera e monete di Iceta (289-279 a.C.), seguito ad Agatocle nel dominio di Siracusa, ne datano la costruzione alla prima metà del III secolo a.C. A una fase successiva (metà del III secolo a.C.) risale il tratto delle mura in opera incerta e struttura «a telaio».


Situato all’entrata dell’area archeologica, l’Antiquarium, che si consiglia di visitare prima del percorso, si articola in cinque sale. Sala I: plastico ricostruttivo della scena ellenistica del teatro, e pannelli didattici che introducono il visitatore alla storia, alla topografia e ai monumenti di Tindari. Sala II: iscrizioni, reperti marmorei, due statue frammentarie in marmo di Nikai in volo, forse acroteri di un tempio, della prima età ellenistica, e un’interessante riproduzione in marmo di maschera teatrale tragica di età imperiale romana, proveniente dall’edificio monumentale a gradoni di contrada Cercadenari. Sala III: grande testa in marmo di Augusto divinizzato (I secolo d.C.) e alcune statue onorarie di personaggi maschili togati di epoca imperiale avanzata. Sala IV: capitello corinzio in terracotta proveniente dalla casa C dell’insula IV; nelle vetrine, vasi di epoca greca e romana rinvenuti nelle cisterne e nelle fognature della città. Sala V: nelle vetrine, ceramiche di impasto dall’insediamento dell’età del Bronzo, riferibili alla cultura di Rodí-Tindari-Vallelunga e rinvenute sotto il tablino della casa C, corredi funerari di età greca, terracotte figurate varie, tra cui frammenti di lastre di rivestimento architettonico decorate a rilievo, intonaci dipinti e stucchi con elementi decorativi. L’impianto dell’insula IV risale al II secolo a.C. e si è mantenuto, pur con i sostanziali rifacimenti del I secolo d.C., per tutta l’età imperiale, forse sino al terremoto del 365 d.C. Il quartiere si sovrappone a un nucleo abitativo originario del IV secolo a.C. i cui resti

presentano lo stesso orientamento, attestando la continuità dell’impianto. Gli edifici si dispongono su quattro terrazze adeguandosi razionalmente all’orografia del terreno. Sulla terrazza inferiore, lungo il decumano centrale, si aprono sei tabernae, tre delle quali fornite di un retrobottega. La terrazza superiore è occupata da una ricca domus signorile a due piani, la casa B, con le stanze disposte lungo l’asse peristilio-tablino. Scandito da dodici colonne in laterizio intonacate, l’ampio peristilio, era dotato di un giardino con impluvium centrale. Sul lato sud-orientale si apriva il tablinum, per il quale si ipotizza una originaria articolazione in atrio di tipo tuscanico, privo di colonne, secondo il modello delle case romano-italiche. Il settore della casa sopra le tabernae era verosimilmente dotato di una terrazza panoramica con vista sul mare. All’impianto originario della casa appartiene un mosaico con ornato geometrico policromo che decorava una vasta sala, probabilmente l’oecus (sala di rappresentanza), le cui pareti conservano tracce della coeva decorazione di I stile, con fasce e riquadri. L’abitazione ha subito profonde modifiche nel I secolo d.C.; i pavimenti sono stati sostituiti da mosaici geometrici in bianco e nero, uno dei quali con figura di capra. Sulla terrazza superiore sorge la casa C, il cui impianto originario risale alla fine del II secolo a.C. e rientra, insieme alla casa B, in un progetto unitario. Gli ambienti si dispongono intorno a un ampio atrio-peristilio rettangolare, ritmato da dieci colonne intonacate con capitelli dorici. A nord-est si apre un grande ambiente, riconosciuto come tablinum, ma

In alto i resti della casa B nell’insula IV.

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CATANIA e DINTORNI

TINDARI

Qui sotto la cosiddetta «basilica», che è in realtà un passaggio monumentale tra la zona residenziale e l’area sacra.

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recentemente interpretato come esedra, che presenta sulla fronte due colonne con pregevoli capitelli in terracotta. Sulla parte piú alta dell’insula si trova un edificio termale pubblico costruito agli inizi del III secolo d.C. ristrutturando una precedente domus di cui conserva parte del peristilio nell’ampio cortile porticato. Gli ambienti termali si dispongono lungo un unico asse: il frigidarium con vasca per le abluzioni (natatio), decorato con mosaici pavimentali, uno con figure di lottatori identificati con i nomi latini (Verna e Afer), mentre in greco è il nome del mosaicista (Agathon Eikias, Doulos Dionisiou, schiavo di Dionisio), e un altro con centauro marino. Seguono una piccola sala absidata ornata da un mosaico con cavallo marino, il tepidarium con i tubuli attraverso cui passava l’aria calda ancora addossati alle pareti, e infine, il calidarium, con vasca per i bagni caldi. Ubicato nel settore sud-orientale della città

lungo il percorso del decumanus superiore, l’edificio convenzionalmente indicato come Basilica è stato identificato con un propylon, un passaggio monumentale che separa la zona pubblica e abitativa, a nord-ovest, dall’area sacra, a sud-est. In base alle analisi stratigrafiche effettuate in corrispondenza delle fondazioni, alcuni studiosi hanno proposto una datazione in epoca tardo-imperiale, successiva al terremoto del 365 d.C. Secondo, altri, invece, l’edificio risalirebbe alla prima età imperiale. In origine la Basilica era a tre piani, di cui rimane parte di quello inferiore, che consiste in una lunga sala suddivisa da nove grandi arcate realizzate con conci squadrati, sostenuti da pilastri che scandiscono le pareti; le volte tra gli archi sono costruite in calcestruzzo. Il prospetto principale, a sud, è fiancheggiato da un ambiente rettangolare absidato, forse un sacello. L’ingresso principale della Basilica, a sud-est, affacciava su una grande piazza porticata, identificata da alcuni studiosi con l’agorà-foro della città ma la cui attribuzione è ancora incerta. Il settore nordorientale dell’edificio, piú volte ristrutturato, è stato inserito nelle mura di fortificazione di epoca tardo-bizantina. Il teatro fu costruito tra la fine del IV e gli inizi del III secolo a.C., addossato al pendio sovrastante, al centro della collina. La cavea, che si apriva verso il mare con una splendida vista panoramica, era suddivisa in undici settori da dieci scalette. Le estremità erano sostruite artificialmente con muri di sostegno (anallemmata). La scena era del tipo a paraskenia (con due avancorpi laterali) e, secondo alcune ipotesi ricostruttive, era costituita da tre piani: il livello inferiore, ritmato da un porticato, il piano mediano, scandito da tre porte con semicolonne doriche ai lati; il piano superiore, decorato da un fregio dorico con metope e triglifi. In epoca romana imperiale il teatro fu ristrutturato per consentire lo svolgimento di spettacoli gladiatori e venatori. L’orchestra venne trasformata in arena e furono eliminati i primi quattro gradini della cavea per realizzare un alto podio che proteggesse gli spettatori da eventuali assalti delle fiere.


Patti Marina L

a villa romana di Patti Marina è una grande dimora di epoca tardo-imperiale venuta alla luce nel 1973, durante i lavori per la costruzione di un viadotto dell’autostrada Messina-Palermo. Il complesso residenziale sorgeva su un’area pianeggiante a breve distanza dal mare. La villa fu edificata nel IV secolo d.C. sopra le strutture di un contesto edilizio precedente (II-III secolo d.C). Sono emerse le fondazioni di ambienti che occupano la metà settentrionale del peristilio pertinente alla villa successiva, tra cui il tablinum, decorato da un mosaico pavimentale policromo con la figura di Dioniso; ai lati sono visibili riquadri con bighe trainate da antilopi e fiere guidate da Amorini. Gli scavi hanno riportato in luce quattro settori della villa tardo-imperiale, il primo dei quali all’estremità ovest, è costituito da vani che gravitavano intorno a un ingresso secondario. Il nucleo centrale e piú rappresentativo della residenza si articola intorno a un grande peristilio porticato sul quale si aprivano vari ambienti: si distinguono, a sud, un’ampia sala con tre absidi coperte da semicupole, adibita a triclinium, e a est la grande sala absidata, in posizione eccentrica. Il peristilio e la sala tricora (a tre absidi) erano collegati da un ampio arco a tutto sesto e da due colonne che ripartivano la soglia di ingresso in tre parti. Tutti i pavimenti delle stanze intorno al peristilio e il peristilio stesso erano decorati da preziosi mosaici policromi riconducibili a maestranze dell’Africa settentrionale. Nei portici il tappeto musivo esibiva una doppia serie di riquadri a motivi geometrici o floreali incorniciati da festoni di alloro, trecce e meandri spezzati. La parte centrale della sala tricora ha svelato un bel mosaico con deliziose figure di animali domestici o selvatici, fra cui anche fiere, inserite all’interno di forme ottagonali.

In alto un ambiente con pavimento a mosaico della villa romana di Patti Marina. IV sec. d.C. In basso l’Antiquarium di Patti Marina, con al centro due dolia per la conservazione del vino.

Il terzo settore della villa, ancora in corso di scavo, si estende all’estremità settentrionale ed è costituito da un grande portico che risulta aprirsi su una zona interna mediante pilastri quadrangolari in successione. Gli ultimi ambienti della villa sono pertinenti a un impianto termale, ubicato a nord-est del peristilio. Alla fine del IV o agli inizi del V secolo d.C. la villa di Patti fu distrutta da un terremoto, ma continuò a essere frequentata fino oltre il VI secolo d.C., come attestano alcune sepolture costruite sul nucleo delle terme. Il piccolo Antiquarium, aperto nel 2001, guida il visitatore in un percorso didattico che, attraverso l’esposizione di reperti pertinenti alle diverse classi ceramiche (sigillata africana, anfore, dolia), terracotte figurate, lucerne, oreficerie e monete, offre un quadro esaustivo della cultura materiale che ha caratterizzato le varie fasi della residenza. L’allestimento comprende frammenti marmorei di pregio che erano posti a decoro della villa, tra cui mensole architettoniche, una lastra a rilievo con figura femminile e una Nike in atto di compiere una libagione presso un altare, una figura panneggiata in trono e un busto maschile.

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siracusa | SICILIA | 42 |

Una spettacolare veduta aerea del teatro di Siracusa. Realizzato in epoca greca, l’edificio fu piú volte rimaneggiato e, nel XVI sec., spogliato di tutti i materiali da costruzione riutilizzabili.


nella città

del genio fondata sull’isola di ortigia nella seconda metà dell’VIII secolo a.C., siracusa crebbe velocemente, fino a diventare una delle città piú importanti dell’intera regione mediterranea. e, al culmine della sua potenza, diede i natali ad archimede, uno degli intelletti piú brillanti della storia

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SIRACUSA e DINTORNI

SIRACUSA

SIRACUSA Q

uando i primi coloni corinzi, guidati dall’ecista Archia, approdarono verso il 733 a.C. sulla piccola isola al centro della grande insenatura la assimilarono per la sua forma a Delo, l’isola sacra di Apollo nelle Cicladi, e le diedero il vecchio nome del santuario panellenico, Ortigia, l’isola della quaglia. Il sito era sicuramente già abitato in precedenza da indigeni siculi, i quali vennero sopraffatti facilmente e cacciati. La nuova colonia prosperò velocemente, si estese sulla terraferma pochi anni dopo la fondazione, creando il nuovo quartiere residenziale di Achradina. Già nel 664 a.C. Siracusa era in

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grado di fondare la colonia di Akrai nell’alta valle dell’Anapo, alla quale seguirono Casmenai, nel 644 a.C., e Camarina, nel 599 a.C. Cosí, non solo tutto l’entroterra era solidamente nelle mani dei Greci, ma i Siracusani controllavano quasi tutta la costa sud-orientale della Sicilia. All’inizio del V secolo a.C. il tiranno Gelone (485-78 a.C.), discendente di un’importantissima famiglia di Gela, si impadroní della città, facendone in pochi anni l’epicentro del potere greco in Occidente. Insieme al suo alleato Terone di Akragas, Gelone, nel 480 a.C., riportò una strepitosa vittoria sui Cartaginesi nelle pianure


di Himera e, pochi anni piú tardi, nel 474 a.C., il suo successore, il tiranno Ierone, inflisse agli Etruschi, l’altro grande nemico che minacciava il commercio internazionale nel bacino del Mediterraneo, una sconfitta definitiva nelle acque di Cuma. Le due vittorie non soltanto eliminarono pericolosi avversari, ma affermarono l’assoluto predominio politico di Siracusa in Sicilia, aumentando considerevolmente le risorse finanziarie necessarie per lo sviluppo culturale. La città era ormai il centro del potere in Sicilia e, grazie alla gloria delle sue vittorie e alla ricchezza dei bottini, divenne un forte polo di attrazione per il mondo culturale in campo architettonico, letterario, artistico e teatrale. Alla morte di Ierone, nel 467 a.C., la tirannide cominciò a vacillare e, poco dopo, a Siracusa si instaurò la democrazia, con nuove forme di governo e di amministrazione, ma senza frenare l’espansione politica e territoriale.

e alzò le mura cittadine, dando cosí inizio a una politica difensiva, seguita anche dai suoi successori, da Timoleonte (344-337) fino a Ierone II (275-215). Con la prima guerra punica, i Romani arrivarono in Sicilia, attraversando lo stretto di Messina nel 264 a.C. Ierone II si uní a Roma, dando a Siracusa un altro mezzo secolo di relativa pace. Ma dopo la morte del tiranno, nel 215 a.C., i Siracusani cambiarono fronte e si allearono con i Cartaginesi, trovandosi subito nel mirino del comandante dell’esercito romano, Marcello. Questi si rivolse contro la città: l’assedio durò ben tre anni e i Romani subirono gravi perdite per colpa delle

Nella pagina accanto pianta di Siracusa nel Seicento, elaborata dal geografo tedesco Filippo Cluverio (1580-1622). In basso pianta dell’isola di Ortigia con l’indicazione della rete stradale antica; sono indicati i tratti sicuramente accertati (linee continue) e quelli ipotizzati (linee tratteggiate).

Una ricchezza smodata Quasi mezzo millennio piú tardi, il geografo greco Strabone descrisse l’opulenza della città con queste parole: «Siracusa si trovò in uno stato di ricchezza cosí eccezionale che il nome dei suoi abitanti passò anche in proverbio, dicendosi, di quelli troppo ricchi, che a essi non basterebbe nemmeno la decima dei Siracusani» (6.2.4). Un fasto cosí spudorato non poteva durare. Verso la metà del V secolo a.C., Atene cominciò a preoccuparsi del potere assunto da Siracusa, e, nell’estate del 415 a.C., inviò una flotta in Sicilia, decisa a ristabilire l’equilibrio politico. Ma dopo tre anni di assedio, la flotta ateniese venne sconfitta. Siracusa si dimostrò durissima nei confronti dei prigionieri: il comandante della flotta nemica, Nicia, fu messo a morte e i 7000 soldati sopravvissuti vennero rinchiusi nelle latomie, le cave di pietra, dove presto morirono d’inedia. Nel IV secolo a.C. a Siracusa si ristabilí la tirannide e le ostilità con i Cartaginesi ripresero. La città aveva ormai oltrepassato il limite del suo potere: il tiranno Dionisio I (406-367) trasformò Ortigia in roccaforte e residenza privata, costruí la fortezza del Castello Eurialo

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SIRACUSA e DINTORNI

SIRACUSA

A destra la facciata settecentesca del Duomo di Siracusa, che sorge nel punto piú alto dell’isola di Ortigia, nell’area occupata prima da un santuario indigeno e poi da un tempio in onore di Artemide, mai ultimato, e da un tempio consacrato ad Atena. In basso i resti del tempio di Apollo, all’inizio di Ortigia.

ingegnose macchine belliche di Archimede. Nel 212 a.C. Marcello riuscí infine a prendere Siracusa: la città cadde nelle sue mani e i soldati romani si diedero al saccheggio e al massacro. Persa la sua indipendenza, Siracusa, in epoca romana, fu capitale della provincia di Sicilia e sede del pretore. Ciononostante, seguí un lungo periodo di decadenza e di malgoverno finché, nel 21 a.C., divenne colonia romana e tornò a prosperare.

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L’ingresso in Ortigia è dominato dal piú antico edificio sacro dorico dell’Occidente greco, il tempio di Apollo, eretto intorno al 580 a.C. Si tratta del primo periptero costruito in Sicilia, realizzato completamente in pietra. Le colonne monolitiche vennero portate probabilmente via mare dalle cave di Capo Plemmirio, di fronte al porto grande di Siracusa. Oggi rimangono in piedi due colonne intere e un tratto del muro della cella, su un basamento con quattro scalinate. La forma molto allungata del tempio, con tarchiate colonne monolitiche serrate l’una all’altra, testimonia l’alto arcaismo dell’edificio. Un’iscrizione, incisa su un gradino della fronte, documenta l’orgoglio dei costruttori e ci fornisce, oltre al nome del dio titolare del tempio, anche l’architetto che lo realizzò: «Kleomene, figlio di Cnidieidas, l’ha fatto ad Apollo, ed Eipklès le colonne, pregevole opera». Le proporzioni sono ancora rozze e per nulla ponderate. Le singole parti non stanno in relazione fra di loro, ogni elemento (le colonne, i triglifi, le metope, l’architrave) è considerato per sé e non dà l’idea di unità. Lo stilobate (il piano su cui sorge il tempio) misura 22 x 55 m circa, con 17 x 6 colonne; la fronte è accentuata con due file di colonne.


La cella contiene pronao (vestibolo antistante la cella, spesso delimitato dal prolungamento delle mura laterali della cella stessa), naos (la parte piú interna del santuario, che ospitava la statua del dio titolare) e adyton (la zona piú sacra, vietata ai comuni fedeli). Il tempio di Siracusa non sembra essere stato influenzato da un modello greco, ma risulta, piuttosto, un’invenzione del tutto indipendente. In epoca bizantina l’edificio fu trasformato in chiesa cristiana, in età araba in moschea; tornò a essere una basilica cristiana con l’avvento dei Normanni, fino a diventare, nel Cinquecento una caserma per i soldati spagnoli. Verso il centro si trova piazza Duomo, il punto piú alto dell’isola di Ortigia. Già in epoca sicula, sotto l’attuale Palazzo del Senato, doveva trovarsi un santuario indigeno, come documentano alcuni reperti dell’età del Bronzo. Un primo santuario greco del VII secolo a.C. ha lasciato poche tracce, ma era sicuramente dedicato ad Atena. Verso la fine del VI secolo a.C. si costruí un grande tempio di ordine ionico, dedicato ad Artemide, che non venne mai ultimato e del quale rimangono pochi resti delle fondamenta, oggi visitabili sotto il palazzo del Senato. Dopo la grande battaglia di Himera nel 480 a.C., il tiranno Gelone decise di edificare a Ortigia uno splendido periptero in onore di Atena per commemorare la vittoria sui Cartaginesi; allora si abbandonò il cantiere del tempio ionico e si cominciò di fronte con il grande periptero dorico. Il tempio di Atena somiglia molto a quello di Himera, eretto anch’esso all’indomani della vittoria sui Cartaginesi, e con misure quasi uguali: uno stilobate di circa 22 x 55,5 m, con 6 x 14 colonne. Costruito in pietra calcarea locale come tutti gli altri templi di Sicilia, l’edificio, secondo le fonti antiche, fu riccamente ornato di marmo greco – dalla trabeazione alle tegole di copertura –, di affreschi policromi sulle pareti interne, di preziose opere in avorio e oro. Sul tetto era collocata una statua di Atena, con la spada e lo scudo dorato, che brillava nel sole e serviva da faro alle navi in avvicinamento. In epoca romana questo fasto scomparve: Verre spogliò il santuario e ne portò nell’Urbe sia le

opere d’arte, sia il rivestimento marmoreo. Piú tardi, intorno al V-VI secolo d.C., l’edificio fu trasformato in chiesa cristiana, e, poco dopo, elevato a cattedrale di Siracusa. In questo periodo vennero chiusi gli intercolunni del peristilio e ricavate arcate nelle pareti laterali della cella, creando in questo modo una basilica a tre navate. Il pavimento della cella venne abbassato al livello di quello del colonnato e l’entrata spostata sul lato corto ovest. Dopo il terribile terremoto del 1693 fu aggiunta la splendida facciata barocca e venne risistemata la piazza antistante. Poco piú avanti, verso il mare, si trova la fonte Aretusa, oggi un belvedere, con la sorgente d’acqua dolce, l’unica a Ortigia, e il bacino ricco di papiri, anatre, pesci. In origine la fonte era in diretto contatto con il mare, e la sistemazione attuale risale alla metà dell’Ottocento. Nella sorgente è ambientata la leggenda greca della bella ninfa Aretusa, che, facendo il bagno in un fiume a Olimpia, infiammò di desiderio il dio fluviale Alfeo, figlio di Oceano e Teti. Per sfuggire alle persecuzioni dell’innamorato, Aretusa si rifugiò nell’isola di Ortigia, dove, con l’aiuto di Artemide, fu trasformata in fonte di acque chiare. Alfeo non si diede per vinto e attraversò il mare dal Peloponneso fino al nascondiglio di Aretusa, dove confuse le sue acque con quelle della ninfa.

Tetradramma d’argento con la testa della ninfa Aretusa, coniato a Siracusa intorno al 405-400 a.C. Siracusa, Museo Archeologico Regionale «Paolo Orsi».

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SIRACUSA e DINTORNI

SIRACUSA Latomia di S. Venera

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Latomia Intagliatella

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Grotta dei Cordari

Orecchio di Dionisio

Tomba di Archimede

Latomia del Paradiso

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Teatro Greco

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A destra pianta del Parco Archeologico della Neapolis, con l’indicazione dei monumenti principali. In basso un’altra veduta del teatro greco di Siracusa.

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Agorà

Il Parco Archeologico della Neapolis, realizzato negli anni Cinquanta del secolo scorso, riunisce in un unico complesso i maggiori monumenti greco-romani della Neapolis (città nuova): il teatro, con il santuario di Apollo Temenite, gran parte delle latomie – le cave di pietra di epoca greca –, la «tomba di Archimede» e le necropoli circostanti, l’altare di Ierone II e l’anfiteatro romano.

Lo scenario naturale sulla terrazza calcarea che domina la piana costiera con la vista spettacolare verso la mitica Ortigia fece della collina Temenite il punto ideale per la costruzione del teatro greco, con la cavea scolpita quasi integralmente nel pendio roccioso. Verso la metà del V secolo a.C. Eschilo scelse Siracusa per la prima delle Etnee e probabilmente anche I Persiani venne


| «Genio» per antonomasia | Archimede fu un genio universale: matematico, fisico, astronomo, ingegnere e architetto nello stesso tempo. Non sappiamo molto della sua vita. Figlio di un astronomo e forse parente, ma certamente amico, del tiranno Ierone II, nacque a Siracusa intorno al 287 a.C. I suoi studi lo portarono in Egitto, ad Alessandria, dove si legò in amicizia con i massimi scienziati del suo tempo. Ben presto Archimede godette di una fama enorme, dovuta soprattutto alle sue opere meccaniche che non soltanto rivoluzionarono la fisica, ma aiutarono a risolvere molti problemi della vita quotidiana. I contemporanei si impressionarono soprattutto davanti alle potenti e micidiali macchine belliche che lo scienziato creò per la difesa di Siracusa. Durante l’assedio, imprevedibili catapulte lasciavano piovere pietre o blocchi di piombo sui soldati, potenti arpioni agganciavano le navi e le facevano sbattere contro gli scogli, specchi riflettevano il sole, abbagliando gli assalitori. Alla fine, i Romani non riuscirono a conquistare Siracusa con la forza militare, ma solo con l’astuzia, e, durante la presa della città, il vecchio Archimede fu ucciso da un soldato romano.

rappresentata nella città, ma l’ubicazione esatta del teatro e il suo aspetto architettonico sono a tutt’oggi sconosciuti e molto discussi. Il teatro, per come ci si presenta oggi, non conserva elementi decisivi per una datazione certa. Intorno al 230 a.C., il tiranno Ierone II iniziò grandi lavori di ricostruzione per adattare

l’orchestra e il palcoscenico alle nuove esigenze teatrali dell’ellenismo. Un secondo intervento, in epoca romana, cambiò di nuovo l’edificio scenico, che assunse una monumentalità senza precedenti, ma, nello stesso tempo, tolse agli spettatori quel meraviglioso panorama; per un breve periodo fu usato come arena per i giochi gladiatori. Nel Cinquecento si colloca l’asportazione di tutti i materiali riutilizzabili, in primo luogo la scena e i blocchi dei sedili, poi vennero scavate le canalette che servivano ai nuovi mulini ad acqua, costruiti nei dintorni; uno di essi è rimasto in piedi sul lato nord-est. Il teatro ha un diametro di quasi 140 m, con la cavea suddivisa in nove settori. Nel III secolo d.C. l’orchestra e i posti delle prime file risultano ricoperti da un pavimento in marmo. Sopra il teatro corre la cosiddetta «strada delle tombe», lunga piú di 150 m, ai lati della quale vi sono sepolture cristiane incavate nella roccia. Verso il centro del percorso si trova una caverna, adibita a ninfeo in epoca greca e decorata con statue delle Muse. L’acqua del ninfeo arrivava da una fonte vicino a Pantalica tramite un canale, usato poi nel Cinquecento per avviare i mulini ad acqua. A ovest del teatro si vedono ancora i resti di un santuario di Apollo Temenite, risalente alla fine del VII secolo a.C., che fu radicalmente modificato

In alto Archimede in atto di incendiare le navi romane del console Marcello con lo specchio ustorio, olio su tela attribuito a Cherubino Cornienti, 1855 circa. Milano, Pinacoteca Ambrosiana. A sinistra ritratto immaginario di Archimede, illustrazione a colori realizzata per l’opera Cent Portraits d’Hommes célèbres, pubblicata a Bruxelles nel 1920. Parigi, collezione privata.

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SIRACUSA e DINTORNI

SIRACUSA

In alto una veduta delle latomie, le cave di pietra sotterranee, sfruttate in epoca greca. A sinistra l’entrata della grotta battezzata dal Caravaggio l’«Orecchio di Dionisio».

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con la costruzione del teatro e probabilmente non era piú in uso in epoca ellenistica. Le latomie, le cave di pietra dell’antica Siracusa, si estendono per oltre 1500 m lungo la terrazza calcarea di fronte alla pianura costiera, per una profondità di circa 30 m. In antico le cave erano sotterranee e le grotte furono scavate, strato dopo strato, lasciando pilastri al centro che sostenevano il soffitto. All’indomani della vittoria sugli ateniesi del 423 a.C., i Siracusani rinchiusero nelle latomie piú di 7000 prigionieri, e solo pochi di loro sopravvissero. Le cave vennero abbandonate probabilmente già in epoca romana, poi, negli anni, crollò il soffitto, lasciando scoperti qua e là i pilastri portanti, che vediamo ancora oggi. L’«Orecchio di Dionisio» è una grotta artificiale di 65 m di lunghezza e 23 di altezza che segue il corso di un antico acquedotto. Per la forma a «S» e la rastremazione verso l’alto, ma anche per i racconti sulla grande sofferenza di chi, anticamente, era costretto a lavorare nelle cave, nacque la leggenda secondo cui il tiranno Dionisio ascoltava dall’alto le parole dei prigionieri ingigantite dall’eco. Durante il suo soggiorno in Sicilia, il pittore Caravaggio visitò le latomie di Siracusa, venne a conoscenza della leggenda e coniò l’espressione «Orecchio di Dionisio». In epoca greca la grotta ebbe probabilmente una funzione sacrale, come fanno pensare i resti di un santuario di Demetra. La Grotta dei Cordari, anch’essa artificiale, venne usata per secoli dai fabbricanti di corde; da tempo è chiusa al pubblico per il pericolo di


| La «tomba» di Archimede | La cosiddetta «tomba di Archimede» è situata a nord delle latomie, nella necropoli greco-romana dei Grotticelli. Durante il saccheggio di Siracusa da parte dei Romani, nel 212 a.C., il vecchio Archimede era preso a tal punto dalle sue ricerche che rifiutò di presentarsi davanti al comandante Marcello. Il soldato che doveva accompagnarlo, irritato dalla sua resistenza, si adirò e lo uccise. Quando venne a conoscenza della morte del grande matematico, Marcello rimase addolorato e si prese cura del sepolcro, sul quale venne inciso un cilindro circoscritto alla sfera, cosí come Archimede aveva disposto. Un secolo dopo, Cicerone raccontava di essere riuscito a ritrovare la tomba che nel frattempo era già in rovina e caduta nell’oblio. Quello che oggi si chiama per tradizione «tomba di Archimede», è in verità un colombario di età romana con nicchie per la sistemazione delle urne cinerarie, ma non ha niente a vedere con la vera sepoltura del grande matematico.

In alto il colombario romano nella necropoli dei Grotticelli tradizionalmente identificato con la tomba di Archimede. In basso Cicerone scopre la tomba di Archimede, olio su tela di Paolo Barbotti, 1853. Pavia, Musei Civici del Castello Visconteo, Pinacoteca Malaspina. Al tempo del filosofo arpinate il sepolcro era già stato dimenticato e se ne ignorava l’ubicazione.

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SIRACUSA e DINTORNI

SIRACUSA

In alto la facciata normanna della chiesa di S. Giovanni alle Catacombe. In basso il sarcofago di Adelfia, dalle catacombe di S. Giovanni. Siracusa, Museo Archeologico Regionale «Paolo Orsi». Si tratta di un sarcofago romano, databile intorno al 330-350 d.C., reimpiegato per la sepoltura di Adelfia, moglie di un importante nobile siracusano degli inizi del V sec. d.C.

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crolli. Le latomie di Santa Venera sono famose per il loro giardino sub-tropicale, coltivato a partire del Settecento. Sull’altro lato della strada si trova l’Ara di Ierone II, il piú grande altare per sacrifici del mondo antico. Costruita fra il 241 e il 215 a.C. dal tiranno Ierone II, l’ara aveva una lunghezza pari a 1 stadio, vale a dire 198 m, per quasi 23 m di larghezza. Due rampe davano accesso alla piattaforma sulla quale ogni anno si sacrificarono 450 tori durante la grande festa delle Eleutheria, in onore di Zeus liberatore. Davanti all’altare si estendeva una grande piazza sacra per gli spettatori, circondata in età augustea su tre lati da un portico colonnato e dotato al centro di un grande propileo. All’interno di quest’area sacra, piantata con pini sacri, si trovava una piscina rettangolare con una statua di Zeus al centro. Oggi si conserva solo il basamento dell’altare,

ma è facile immaginare lo sfarzo di un tempo. La maggior parte delle pietre fu riutilizzata nel Cinquecento per la costruzione delle fortificazioni spagnole. L’anfiteatro romano di Siracusa, costruito nel I secolo d.C., probabilmente in età flavia, misura 140 x 119 m, con un’arena di 70 x 40 m, ed è il piú grande del suo genere in Sicilia. Intorno all’arena corre un corridoio coperto, con varchi che davano ai gladiatori e agli animali accesso all’arena. Non del tutto chiara è la funzione della grande piscina situata al centro dell’arena e collegata con l’ingresso meridionale per mezzo di un canale sotterraneo. Si tratta, probabilmente, di un vano rettangolare originariamente coperto, che serviva per i macchinari utilizzati durante gli spettacoli. I sarcofagi disposti nel piccolo parco di fronte all’anfiteatro provengono dalle necropoli di Siracusa, e si datano nel IV-III secolo a.C. Dopo quelle di Roma, le catacombe di Siracusa sono le piú estese e le piú importanti d’Italia. Le tombe cristiane sotterranee si sviluppano in vari complessi, su diversi piani; le piú rilevanti sono le catacombe di S. Lucia, dell’inizio del III secolo, quelle di Vigna Cassia della metà dello stesso secolo e le catacombe di S. Giovanni, che risalgono alla prima metà del IV secolo d.C. e sono le uniche aperte al pubblico, che può accedervi dalla chiesa di S. Giovanni Evangelista. L’asse principale segue


un acquedotto greco, ampliato dai cristiani, di cui si vedono ancora tracce nella volta. Da questa galleria con centinaia di loculi e arcosoli si dipartono cunicoli laterali che sboccano in cappelle circolari. Al centro delle catacombe si trova la tomba di san Marziano, il primo vescovo di Siracusa, ucciso nel 68 d.C., secondo le fonti. Intorno al 315 d.C. si costruí sopra la sua tomba una prima basilica, e si cominciò a seppellire i cristiani nelle vicinanze. Le catacombe vennero usate e ingrandite fino alla fine del V secolo d.C. Nell’area dell’odierna piazza Vittoria, in prossimità del santuario della Madonna delle Lacrime, sono venuti alla luce i resti di un antico quartiere, con fasi di frequentazione comprese tra il VI secolo a.C. e l’epoca bizantina. Interessante è il tratto di una strada principale con direzione est-ovest che attraversava il quartiere Achradina. Scarsi resti si conservano del santuario di

Demetra e Kore, eretto nel V secolo a.C. e distrutto poco dopo dal condottiere cartaginese Imilcone II. Situato a circa 7 km da Ortigia, nell’antico quartiere di Epipoli, il Castello Eurialo venne costruito da Dionisio I in soli sei anni, tra il 402 e il 397 a.C., come ci tramanda Diodoro Siculo. La fortezza si ergeva in una posizione strategica, dominando tutto il territorio siracusano, ed era il punto culminante della grande cinta muraria di quasi 27 km che circondava la terrazza dell’Epipoli a sud e a ovest fino al mare. L’ingresso al castello era da ovest, protetto da tre fossati in sequenza, poi da un recinto con cinque torri quadrangolari di un’altezza di circa 15 m; superato questo imponente baluardo difensivo, ci si trovava di fronte la porta d’ingresso. Nel 212 a.C. la fortezza cadde nelle mani dei Romani, poi, in epoca bizantina serví contro gli Arabi, i quali la distrussero.

In alto disegno ricostruttivo del Castello Eurialo. A sinistra il Castello Eurialo cosí come si presenta oggi.

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SIRACUSA e DINTORNI

SIRACUSA

| Il Museo Archeologico Regionale «Paolo Orsi» | Situato nel parco di Villa Landolina, non lontano dal santuario della Madonna delle Lacrime, il Museo Archeologico Regionale «Paolo Orsi» di Siracusa venne costruito a partire dal 1967 e aperto al pubblico nel 1988. Dagli scavi di Megara Hyblaea proviene la statua in calcare della Dea Madre in trono che allatta due gemelli, databile in epoca arcaica, nel VI secolo a.C. La scultura è ricostruita da innumerevoli frammenti, mancano la testa e parte del mantello che la avvolge come un guscio d’uovo. Interessanti sono i plastici in scala 1:50 del tempio ionico di Artemide e del tempio dorico di Atena all’Ortigia, esposti nella sala con le decorazioni architettoniche recuperate dai due monumenti, le antefisse in terracotta, e parte della sima marmorea con gocciolatoi a teste di leone. Il famoso kouros in marmo greco, databile al 560-550 a.C., venne eretto a Megara Hyblaea dal medico Sombrotida, figlio di Mandrocle, come recita l’iscrizione sulla coscia destra della statua. Mancano la testa, il braccio destro e le gambe fino alle ginocchia, ma si nota bene il sistema delle proporzioni con i lineamenti anatomici idealizzati, la gamba sinistra leggermente avanzata e le braccia tese lungo i fianchi, i pugni chiusi. Un gruppo significativo di reperti proviene da un santuario di Grammichele, databile al VI e V secolo a.C. Ancora al VI secolo a.C. appartiene la statua fittile di una figura femminile seduta,

In alto la «Venere Landolina», adattamento romano dell’Afrodite Cnidia di Prassitele, da Siracusa. II sec. d.C.

A destra la Dea Madre in trono, da Megara Iblea. VI sec. a.C.

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splendidamente lavorata nei dettagli delle pieghe della veste e con il viso irradiato da un misterioso sorriso. La terracotta rappresenta sicuramente il tipo della dea greca in trono, Demetra o Kore, come veniva spesso ritratto nella scultura dell’epoca. La piú importante scultura del museo è però la statua di una Venus pudica, la cosiddetta «Venere Landolina», trovata nel 1804 da Francesco Saverio Landolina Nava. L’opera fece enorme scalpore all’epoca della sua scoperta per la bellezza del soggetto, per essere, nelle parole dello scrittore francese Guy de Maupassant, «la donna cosí com’è, cosí come la si ama, come la si desidera, come la si vuole stringere». La nudità viene esaltata dal movimento del panneggio che la avvolge come una conchiglia e che sottolinea ed evidenzia la bellezza del corpo femminile. Si tratta di un adattamento romano, probabilmente databile al II secolo d.C., della famosa scultura dell’Afrodite Cnidia di Prassitele, il primo nudo femminile dell’arte greca, scolpita verso la metà del IV secolo a.C.

In alto il kouros di Megara Iblea con un’iscrizione sulla coscia. 560-550 a.C.

A sinistra statua fittile della Dea Madre in trono, da un santuario di Grammichele. VI-V sec. a.C.

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SIRACUSA e DINTORNI

THAPSOS-MEGARA IBLEA-PANTALICA

THAPSOS O

Coppa in terracotta su alto piede tubolare. Età del Bronzo, cultura di Thapsos, XIII sec. a.C. Siracusa, Museo Archeologico Regionale «Paolo Orsi».

ggi è difficile riconoscere in Thapsos (nel territorio del Comune di Priolo Gargallo) il delizioso luogo scelto dai piú antichi abitanti della Sicilia per il loro stanziamento; quel sito che, come racconta Tucidide, sorse sulla «penisola che si protende in mare con una stretta lingua e dista poco dalla città di Siracusa, sia per mare sia per terra». L’abitato di Thapsos, ben noto dagli scavi, si caratterizza per una continuità di vita che occupa un lungo arco cronologico, dal XV al IX secolo a.C., rivelando una chiara organizzazione protourbana a cui non furono estranei influssi micenei. Il primo livello, relativo all’età del Bronzo Medio (XV-XIV secolo a.C.), è costituito da capanne a pianta circolare, situate all’interno di recinti indipendenti gli uni dagli

Megara Iblea (megara hyblaea) E

A destra pianta degli scavi di Megara Iblea.

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altri e raccordati da stretti sentieri. Nel Bronzo Recente (XIII-XII secolo a.C.) il tradizionale aggregato di capanne venne superato da un impianto urbano fornito anche di una viabilità interna regolare. Nella zona centrale, il villaggio si arricchí di due articolati complessi architettonici, formati da vani rettangolari gravitanti attorno a un cortile lastricato. Le indagini hanno svelato anche una terza fase di vita del villaggio, tra l’XI e il IX secolo a.C., documentata da reperti affini alla cultura eoliana dell’Ausonio e a quella maltese, mentre del tutto scomparsa è quella micenea. In questa fase si assiste a una ripartizione funzionale dello spazio interno, che presenta zone destinate ai magazzini per le derrate, alla tessitura, all’artigianato e al consumo del cibo.

steso su una superficie di circa 60 ettari, il sito di Megara Hyblaea sorge su una bassa piattaforma calcarea circondata dal fiume Cantera a nord e dal San Gusmano a sud, nella baia dell’odierna città di Augusta. Intorno al 728 a.C. qui giunsero coloni dorici provenienti da Megara, in Attica, e fondarono Megara Iblea in questo luogo, ceduto in maniera pacifica dal re siculo Iblone. La città non era dotata di un territorio circostante molto ampio e neanche troppo fertile, per cui, già un secolo piú tardi, i Megaresi si videro costretti a fondare una seconda colonia, Selinunte. Dopo un periodo di prosperità vissuto durante il VI secolo a.C., Megara Iblea subí l’attacco del tiranno siracusano Gelone nel 483 a.C. e fu abbandonata. Nel 340 a.C. Timoleonte rifondò la città, facendone una colonia siracusana con poca autonomia. Per scongiurare il pericolo romano, Megara si circondò di nuove mura difensive verso la fine del III secolo a.C., ma venne distrutta da Marcello nel 213 a.C., poco prima di Siracusa. In epoca romana sopravvisse come piccolo villaggio, finché, nel VI

secolo d.C., venne abbandonata. Una passeggiata tra i resti della città riesce a restituire un’immagine abbastanza precisa dell’impianto urbanistico della colonia. Si può ancora individuare la rete ortogonale con le strade principali, le plateiai, e le strade secondarie, gli stenopoi, che si intersecano formando isolati rettangolari regolari. Impressionanti sono poi i resti delle mura cittadine che risalgono alla fine del III secolo a.C.


PANTALICA I

In alto la catacomba paleocristiana della Larderia, nel Parco Archeologico di Cava d’Ispica. In basso un gruppo di tombe della necropoli rupestre di Pantalica.

mperdibile è la visita al sito di Pantalica. Il percorso si snoda nella riserva naturale della valle dell’Anapo, immersi in una natura incontaminata, accompagnati da un magico silenzio interrotto soltanto dallo scorrere delle acque del fiume.La monumentale necropoli rupestre, riferibile a comunità autoctone, è incuneata in un suggestivo contesto ambientale, in una posizione strategica e inaccessibile. Il sito occupa uno sperone calcareo protetto dalle profonde vallate dei fiumi Anapo e Calcinara. Il pianoro è difeso su tutti i lati tranne a ovest, dove una sella lo collega all’altopiano retrostante. Probabilmente costituitosi nel corso del XIII secolo a.C., l’abitato si estende per un perimetro di 5 km e conserva un’unica costruzione che si articola in piú ambienti rettangolari aperti su un corridoio laterale. La complessa identificazione dell’edificio, inizialmente interpretato come la residenza del principe sul modello dell’anaktoron miceneo, è resa ancora piú difficile dalla sua trasformazione, durante l’epoca bizantina, in fattoria fortificata. La totale uniformità degli ambienti, non collegati tra loro e accessibili solo da porte aperte verso l’esterno, ha fatto recentemente ipotizzare che l’edificio fosse destinato allo stoccaggio delle derrate. Spettacolare e suggestiva è la necropoli (1270-1000 a.C.), costituita da circa 5000 tombe a grotticella artificiale ricavate nelle pareti rocciose come «alveari funebri», fusi in

| Una frequentazione plurisecolare | Il Parco Archeologico di Cava d’Ispica si trova nell’omonima vallata fluviale, lungo quasi 14 km, tra le città di Modica e Ispica. Dall’età del Bronzo fino al Medioevo la valle fu utilizzata per sepolture rupestri, tombe ricavate nella roccia o in grotte naturali, catacombe e piccoli ipogei cristiani, fosse d’inumazione scavate nel sottosuolo, ma anche eremi monastici e piccole chiese medievali. I reperti trovati nelle tombe sono conservati, per la maggior parte, nel Museo Civico di Modica.

un tutto armonico con il paesaggio circostante. Le tombe sono in gran parte a cella singola, con una o due deposizioni destinate a famiglie nucleari; in alcuni casi sono attestate sepolture a cella plurima che si dispongono su un corridoio comune, quasi a volere evidenziare l’esistenza di legami familiari all’interno della comunità.

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SIRACUSA e DINTORNI

PALAZZOLO ACREIDE

PALAZZOLO ACREIDE (akrai)

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T

ucidide elenca le sub-colonie siracusane e riferisce che Akrai fu fondata settant’anni dopo la nascita di Siracusa (663-662 a.C.). La città sorge su un alto pianoro, delimitato

dalle valli dei fiumi Anapo e Tellaro, già occupato in età protostorica. La posizione strategica dell’abitato sui percorsi che risalgono l’altopiano ibleo, consentiva a Siracusa il controllo delle vie di comunicazione con le città greche della costa meridionale e con gli insediamenti siculi dell’interno. Nel 263 a.C. Akrai entrò a far parte del nuovo regno siracusano e in età romana era annoverata tra le civitates stipendiariae (città-stato soggette a tributi, n.d.r.). L’impianto urbano di Akrai, che nel VI secolo a.C. era stata cinta da fortificazioni, non piú visibili, si attesta su una grande plateia che la percorreva in senso est-ovest dalla Porta Siracusana alla Porta Selinuntina, pavimentata con blocchi poligonali di basalto, risalente all’età tardo-ellenistica. Sul lato orientale di questa via si incontra il teatro (III-II secolo a.C.), molto rimaneggiato in epoca romana. A sud-ovest del teatro si trova il bouleuterion (III-II secolo a.C.), destinato alle riunioni del senato cittadino. L’edificio, che presenta una pianta quasi quadrata, era costituito all’interno da una cavea formata da sei ordini di gradini. Il piú importante luogo di culto della città era sulla collina che domina il teatro da sud, dove sono stati riportati alla luce i resti di un tempio del VI secolo a.C. attribuito ad Afrodite. A oriente del teatro si trovano le latomie, dette Intagliata e Intagliatella, utilizzate in età greca e romana prima come cave di pietra, poi come luoghi di culto, e, in epoca tardo-antica, come necropoli. All’interno dell’Intagliatella, lungo una «via sacra», sono visibili rilievi votivi dedicati ai defunti, secondo un uso molto comune nel mondo greco tra il IV e il III secolo a.C. Tra tutti si distingue il piú grande, che raffigura una scena di sacrificio compiuto in onore del defunto e un banchetto collegato al rito della celebrazione. Alle pendici del colle di Akrai si trova il santuario rupestre dei cosiddetti Santoni, datato tra il IV e il III secolo a.C. Si tratta di dodici rilievi che riproducono, con poche variazioni, la dea Cibele, seduta e di prospetto; in due casi, la scena comprende piú personaggi. Le figure sono state scolpite a rilievo sul fondo di nicchie o incavate nella roccia, senza decorazioni esterne.

Una veduta aerea del teatro di Akrai, costruito nel III-II sec. a.C. e modificato in epoca romana. A ridosso dell’edificio si trova il bouleuterion, di età ellenistica.

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SIRACUSA e DINTORNI

VILLA ROMANA DEL TELLARO-ELORO

VILLA ROMANA DEL TELLARO L

Mosaico dalla villa romana del Tellaro con un gruppo di cavalli che si riposano dopo la caccia. IV sec. d.C.

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a villa romana del Tellaro è una dimora signorile di epoca tardo-imperiale sorta nei pressi del fiume Tellaro, l’antico Heloros, da cui prese il nome la città greca di Eloro, che dista solo 3 km e fu un importante avamposto siracusano (vedi alla pagina seguente). Identificata ed esplorata nel 1971 in seguito a scavi clandestini, la villa era stata inglobata da una masseria sette-ottocentesca che oggi, restaurata e musealizzata, costituisce parte del percorso di visita. Il complesso, per l’area finora scavata, copre una superficie di circa 3000 mq. Gli ambienti messi in luce, che gravitavano intorno a un peristilio rettangolare circondato da un portico, hanno restituito dei preziosi mosaici pavimentali datati alla metà del IV secolo d.C., stilisticamente affini a quelli di Piazza Armerina (vedi alle pp. 82-87) e di alcune città dell’Africa Proconsolare. La visita segue un percorso obbligato attraverso quattro sale della masseria e prosegue fino al padiglione che copre gli ambienti della villa; da una passerella che li sovrasta, si possono ammirare i pregevoli

mosaici pavimentali. Il primo tappeto musivo policromo decorava il lato settentrionale del portico con uno straordinario disegno di motivi floreali e figure geometriche. Festoni di alloro si intrecciano circolarmente nei due sensi, delimitando forme ottagonali marcate da listelli bianchi e ornate internamente da elementi geometrici stilizzati. Nel secondo mosaico è raffigurato un episodio tratto dal ciclo omerico e narrato nella tragedia perduta I Frigi di Eschilo: il riscatto del corpo di Ettore. La scena centrale rappresenta il momento in cui i Greci e i Troiani scambiano il corpo di Ettore con un piatto pieno di oro. Al centro risalta una grande bilancia con i due piatti, che contengono l’uno il vasellame aureo offerto ai Greci dai Troiani per riscattare le spoglie del loro eroe, l’altro il corpo esanime di Ettore. Il terzo mosaico viene definito generalmente dei «Crateri», per via dei quattro vasi che in origine decoravano gli angoli della sala. Dai crateri fuoriescono festoni floreali con melograni che suddividono lo spazio in cinque parti: il riquadro centrale e le quattro formelle rettangolari esibiscono figure di satiri e menadi presso un altare, rappresentati in diversi atteggiamenti e con vari attributi. Nel quarto mosaico sono raffigurate scene di caccia che si svolgono intorno a una monumentale figura femminile seduta, forse una personificazione dell’Africa. La composizione racconta quattro momenti della caccia: la cattura delle fiere che vengono indirizzate verso una gabbia; un leone, in posa araldica, colpito dalla lancia di un cacciatore mentre sta per divorare una gazzella; una figura femminile assisa su una roccia con lo sguardo rivolto verso un cacciatore caduto sopraffatto da una tigre e alla sua destra un carro con le belve catturate trainato da buoi, scortato da un cavaliere; infine, una scena di banchetto all’aperto, a caccia conclusa.


Eloro (heloros)

L

In alto il sito dell’antica Eloro. In basso resti di strutture dell’abitato, fondato dai Siracusani alla fine dell’VIII o agli inizi del VII sec. a.C.

e rovine dell’antica Heloros, fondata dai Siracusani alla fine dell’VIII o agli inizi del VII secolo a.C., si trovano nel territorio di Noto, a nord della foce del Tellaro, su uno splendido tratto della costa caratterizzato da bassi rilievi collinari alternati a spiagge sabbiose. Le fonti non forniscono notizie sulla sua fondazione, Tucidide riferisce soltanto che Eloro era collegata alla madrepatria Siracusa attraverso la via Elorina. Da Diodoro Siculo sappiamo che la città restò fedele a Ierone II nella guerra contro i Romani e perciò rientrò nel regno siracusano (263-62 a.C.), arricchendosi di templi, rafforzando il proprio sistema difensivo e modificando il vecchio impianto urbano. Nel 213 a.C. la città fu conquistata dal console romano Claudio Marcello. Cicerone riferisce che Eloro fu depredata da Verre delle sue opere d’arte e la include tra le città decumane. Gli scavi hanno riportato alla luce un settore

delle mura urbiche, con le due fasi databili al VI e al IV secolo a.C., i resti del teatro, un tempietto con altare, un grande edificio sacro nel quadrante meridionale della città, abitazioni ellenistiche, necropoli datate tra il VI e il III secolo a.C. e un santuario greco extraurbano di epoca arcaica dedicato a Demetra e Kore (koreion). L’impianto urbano si sviluppava su un asse nord-sud che collegava le due porte corrispondenti, una delle quali era della forma a tenaglia tipica delle fortificazioni coeve siracusane. Al centro della città è stato scavato uno spazio trapezoidale, identificato con l’agorà, sul quale si affacciavano alcuni edifici porticati. Nel IV secolo a.C. Eloro fu interessata da un rinnovamento urbanistico che vide la costruzione di un piccolo tempio dedicato ad Asclepio e di un santuario piú grande, collocato nella zona meridionale della città. Agli inizi del II secolo a.C., questo tempio, che

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SIRACUSA e DINTORNI

ELORO-CAMARINA

una iscrizione e un ex voto consentono di attribuire a Demetra, fu inquadrato in una stoà (portico) monumentale, del tipo a paraskenia (con due avancorpi laterali), scandita da un colonnato dorico sulla fronte. Il vasto complesso religioso si dispone su piú terrazze e in posizione scenografica sul paesaggio circostante, riprendendo i modelli dell’architettura pergamena, tipica della fine del III secolo a.C. In un’epoca imprecisata, il santuario fu distrutto da un incendio e sui suoi resti venne costruita una basilica bizantina a tre navate, utilizzando i materiali lapidei dell’antico edificio. Il teatro (IV-III secolo a.C.), in cattivo stato di conservazione, era costituito da una cavea divisa in cinque settori che poteva accogliere 1500 spettatori. A sinistra La «colonna pizzuta», presso Eloro, monumento funebre in uso agli inizi del III sec. a.C. Sulla struttura è affissa una lapide che ne ricorda il restauro, compiuto nel 1795, al tempo di Ferdinando I di Borbone, re di Sicilia.

| Il mistero della colonna | Il monumento funebre noto come «Colonna Pizzuta» che si erge, isolato, nella campagna a 1,5 km da Eloro, ha suscitato per secoli la curiosità di eruditi e viaggiatori. Alta 18 m, la colonna, sorge su un basamento a quattro ordini di gradini e doveva essere recintata da una transenna calcarea impostata su colonnine doriche. Sino alla fine del XX secolo si credeva che l’opera fosse un monumento celebrativo in onore dei caduti di Gela della battaglia del 493 a.C. o dei caduti siracusani della battaglia dell’Assinaro del 413 a.C. Gli scavi effettuati dal grande archeologo Paolo Orsi (1859-1935) risolsero l’enigma, poiché, sotto la colonna, lo studioso roveretano scoprí una camera funebre quadrangolare stuccata di rosso, sigillata da una porta in pietra. All’interno erano tre letti funebri e un sedile per le offerte, scavati nella roccia. Il rinvenimento di una moneta di bronzo dell’epoca di Ierone II nella mano di uno dei defunti consentí di datare l’utilizzo dell’ipogeo sepolcrale al III secolo a.C.

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Camarina (kamarina) A destra, in alto tetradamma in argento di Camarina. 410-405 a.C. Siracusa, Soprintendenza ai Beni Culturali e Ambientali, Gabinetto di Numismatica. Al dritto, Atena alla guida di una quadriga incoronata da una Nike; al rovescio, testa di Eracle.

C

amarina venne fondata dai Siracusani nel 598 a.C. sul promontorio attraversato dai fiumi Ippari e Oanis (l’attuale Rifriscolaro) allo scopo di arrestare l’espansione di Gela verso sud. Divenuta in breve tempo una fiorente città agricola e commerciale, punto di riferimento anche dei Siculi stanziati nell’hinterland ibleo con i quali intratteneva buoni rapporti, Camarina entrò in conflitto con la colonia madre Siracusa che la distrusse nel 553 a.C. Rifondata piú tardi da Gela (492 o 461 a.C.), la città visse un momento di prosperità nel corso del V secolo a.C., grazie all’alleanza

Qui accanto protome in terracotta di cavaliere, dal tempio arcaico di Camarina. VI sec. a.C. Siracusa, Museo Archeologico Regionale «Paolo Orsi».

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SIRACUSA e DINTORNI

CAMARINA

A destra resti delle strutture riferibili all’agorà di Camarina. In basso l’elmo in bronzo a calotta sferica, di produzione corinzia, recuperato da un relitto localizzato nei pressi di Punta Braccetto. VI sec. a.C. Camarina, Museo Archeologico.

stretta con Atene in funzione antisiracusana durante la guerra del Peloponneso. Soggetta al dominio cartaginese tra il 405 e il 393 a.C. e poi abbandonata, Camarina risorse alla fine del IV secolo a.C. sotto Timoleonte raggiungendo la sua massima espansione urbanistica. A partire dal III secolo a.C., però, la città si avviò verso la decadenza. Occupata prima dai Mamertini (275 a.C.) e poi dai Romani (258 a.C.), sopravvisse fino all’età augustea finché in età imperiale fu utilizzata come porto per la vicina Caucana. Poche e labili sono le tracce dell’antica città: tratti delle mura, il porto-canale realizzato in età greca alla foce dell’Ippari, i resti del tempio di Atena, inseriti nel percorso museale e un settore dell’agorà. Da non perdere è la visita al Museo Archeologico Regionale, che offre un ampio ed esaustivo panorama sulla storia e la cultura materiale di Camarina, con una sezione dedicata al territorio. Il museo è stato allestito all’interno di un complesso di edifici rurali costruiti tra la fine del XIX e il XX secolo sulla sommità del promontorio in cui si stanziarono i primi coloni greci, in corrispondenza del punto in cui, anticamente, sorgeva il santuario di Atena. Le strutture superstiti del tempio furono

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incorporate nel casale ottocentesco e, attualmente, sono visibili nel cortile centrale del museo, dove si conserva un tratto del muro meridionale della cella, mentre a ovest sono visibili le fondazioni dell’adyton. Nella sala d’ingresso del museo sono raccolti i reperti subacquei, importante testimonianza della frequentazione del litorale dalla fondazione della colonia fino al Medioevo. Sono esposti in successione cronologica i materiali di diverse navi naufragate, i piú antichi dei quali si riferiscono al relitto detto «dell’elmo corinzio», affondato a Punta Braccetto, che ha conservato un raro elmo a calotta sferica in lamina bronzea degli inizi del VI secolo a.C. Nella stessa sala si trova anche un altro elmo a calotta carenata e paragnatidi mobili, risalente al IV secolo a.C. Il mare ha restituito, inoltre, due statuette in bronzo, una delle quali raffigura Arpocrate, figlio di Iside, e risale al III-II secolo a.C.; l’altra rappresenta Afrodite ed è un prodotto della corrente neoattica tipica della prima età imperiale. Da questa sala si accede al padiglione delle anfore, disposte su due piani, il primo dei quali esibisce le piú antiche, di epoca arcaica, rinvenute nella necropoli di Rifriscolaro, il secondo quelle di età classica, provenienti dalla necropoli di Passo Marinaro. Si tratta di vasi che dopo essere stati utilizzati come contenitori per il trasporto di vino e olio, furono impiegati nelle sepolture a enchytrismos nelle necropoli camarinesi. Nelle sale successive il percorso illustra le varie fasi di vita della città e del suo territorio attraverso l’esposizione dei materiali secondo criteri cronologici e topografici. Si passa dalla preistoria all’epoca arcaica, documentata, quest’ultima, dai materiali rinvenuti negli strati della città e nelle necropoli,

Lekythos attica a figure nere con Enea che fugge da Troia portando sulle spalle il vecchio padre Anchise. Già Collezione Pace. Camarina, Museo Archeologico.

tra cui diverse ceramiche di importazione (corinzie, ioniche, attiche, orientali). Ai culti di Camarina sono dedicate le stanze successive. Il gruppo piú cospicuo dei materiali esposti è rappresentato dalle statuette fittili femminili di offerenti (491-400 a.C.) rinvenute all’interno della stipe di un santuario attribuito a Persefone. Una sala a parte è dedicata al tempio di Atena, costruito nel primo quarto del V secolo a.C., di cui sono visibili parte del terrapieno di colmata nel lato orientale (IV secolo a.C.), la rampa di accesso al pronao e resti delle fondazioni in blocchi di calcarenite locale (V secolo a.C.). Un modellino ricostruisce la planimetria del tempio, che si articolava in pronao, naos e opistodomo (il vano posteriore della cella, formato, come il pronao, dal prolungamento dei muri della cella stessa, n.d.r.), con colonne solo sul lato orientale di accesso. Nel padiglione ovest del museo sono esposti i reperti relativi alla vita della città e del suo territorio dall’età classica all’epoca romana-repubblicana. In una vetrina si conservano le lamine in piombo scoperte all’interno del tempio di Atena, che rappresentano una testimonianza importante della vita politica della città. Su ognuna di esse, infatti, era inciso il nome di un cittadino insieme al numero del gruppo civico di appartenenza. Una sala è dedicata all’agorà, fulcro della vita cittadina, situata sull’estremità occidentale dell’acropoli, a dominio della baia e del porto, che era suddivisa da un portico in due settori, uno destinato alla vita civile e religiosa, l’altro all’attività commerciale. Nella parte meridionale del portico, tra la fine del IV e gli inizi del III secolo a.C., fu realizzato un deposito sotterraneo di anfore greco-italiche, di cui è esposta una ricostruzione.

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SIRACUSA e DINTORNI

GELA

GELA A destra piccolo altare in terracotta decorato a rilievo con la figura di Medusa che tiene sotto le braccia Pegaso e Chrisaor, da Bosco Littorio. 500-475 a.C. Gela, Museo Archeologico Regionale. Nella pagina accanto altare in terracotta con rilievo raffigurante tre divinità femminili, da Bosco Littorio. Inizi del V sec. a.C. Gela, Museo Archeologico Regionale. In basso l’area archeologica dell’acropoli di Gela, in località Molino a Vento.

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I

l territorio di Gela era frequentato già in epoca neolitica; necropoli con tombe scavate nella roccia documentano poi come durante l’età del Bronzo i villaggi si intensificarono sia sulla costa, sia nell’entroterra della regione, occupando perlopiú colline o alture. Nel 688 a.C., quando arrivarono i primi coloni greci provenienti da Rodi e da Creta, trovarono il sito della futura colonia già abitato da indigeni sicani. La città prosperò velocemente e solo cento anni piú tardi, nel 580 a.C., Gela estese il suo territorio, fondando Akragas sulla costa meridionale. Nel VI e V secolo a.C. Gela era politicamente una delle piú importanti e piú potenti colonie greche di Sicilia. Durante questi due secoli l’impianto urbano risulta perfezionato, nuovi templi monumentali ed edifici pubblici vennero costruiti sull’acropoli, ormai fortificata da una potente cinta muraria. Tutto finí quando, alla fine del V secolo a.C., i Cartaginesi sconfissero i Greci e rasero al suolo anche Gela. Durante il IV secolo a.C. la vita della città, cosí fiorente nel passato, si riprese lentamente, ma

l’acropoli venne occupata da quartieri artigianali e solo pochi edifici pubblici e sacri furono ricostruiti. Gela tornò a rifiorire con Timoleonte, ma la rinascita fu di breve durata; all’inizio del III secolo a.C. la città venne quasi del tutto abbandonata. Nella zona di Capo Soprano rimangono le imponenti fortificazioni ricostruite da Timoleonte nel 338 a.C. La cinta muraria, che si conserva per un tratto lungo circa 300 m, era costituita da un primo strato uniforme di blocchi squadrati di calcare, a cui se ne aggiunse un secondo in mattoni crudi per un’altezza complessiva di 8 m. L’area archeologica dell’acropoli di Gela si trova in località Molino a Vento, adiacente al Museo Archeologico Regionale. Non rimangono molti resti della colonia, un tempo cosí prosperosa e potente, a parte i basamenti di due templi di ordine dorico dedicati ad Atena, l’uno eretto nel VI secolo a.C., di cui si conservano alcuni frammenti della decorazione fittile nel museo di Siracusa, l’altro dopo la vittoria dei Greci contro i Cartaginesi nella battaglia di Himera (480


a.C.), che aveva una peristasi di 6 x 12 colonne, una delle quali ancora in piedi, ed era decorato con elementi marmorei policromi. Nel Museo Archeologico Regionale di Gela sono esposti e ordinati, secondo criteri cronologici e topografici, numerosi reperti riferibili al periodo indigeno dell’insediamento e alla colonia greca, oltre a una selezione di materiali provenienti dal territorio che vanno dalla preistoria al Medioevo. Di prim’ordine sono le collezioni Navarra e Nocera con splendidi vasi attici del VI e V secolo a.C., rinvenuti nelle necropoli della città. Nell’area archeologica di Bosco Littorio furono recuperati, nel 1999, tre altari in terracotta. In epoca greca, questo settore della città era occupato dal porto e dall’emporio, con magazzini e punti vendita delle merci veicolate via mare. Si tratta di due grandi altari e di uno piú piccolo, decorati con figure a rilievo sulla fronte. Sul primo altare è rappresentata la Medusa nel tipico schema arcaico con la testa e il torso di prospetto e le gambe in corsa di profilo; sotto le braccia tiene Pegaso e Chrisaor, i figli avuti da Poseidone. Sulla parte superiore dell’altare era un piano di appoggio con un incavo per le offerte, mentre i due grandi fori ai lati servivano a trasportarlo. Sul secondo altare sono rappresentate tre donne, probabilmente Demetra, Kore ed Ecate (o Afrodite), in posizione stante e frontale, vestite con un lungo mantello stretto in vita. La figura centrale tiene con le mani alzate i capelli intrecciati, le altre due hanno le braccia distese lungo i fianchi; anche in questo caso sono presenti la mensa di appoggio e i fori laterali per il trasporto. La scena sulla fronte dell’altare piú piccolo narra come Eos, la dea dell’Aurora con splendide ali, rapisce Kephalos, separandolo cosí dalla moglie. Le tre are fittili trovate nel complesso commerciale del porto di Gela si datano agli inizi del V secolo a.C., anche se mostrano uno schema iconografico piú antico. Nel 1988, a 1 km circa dalla costa e a 5 m di profondità, fu avvistato in mare il relitto di una nave greca. Una volta recuperato, lo scafo, accuratamente restaurato, sarà esposto nel

Museo Archeologico di Gela. Numerose anfore, provenienti da quasi tutti i grandi empori del bacino mediterraneo, destinate al vino e all’olio, ma anche canestri in fibre vegetali per prodotti alimentari, costituivano il principale carico della nave, che trasportava anche materiale di pregio, tra cui vasi attici a figure nere e rosse e oggetti di culto, quali arule fittili, una statuetta lignea e un piccolo tripode bronzeo.

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sublimi

agrigento

armonie


agrigento, con la sua valle dei templi, si offre all’ammirazione dei visitatori come uno straordinario manuale di architettura

Una veduta notturna del tempio F, detto della Concordia, ma del quale si ignora, in realtà, la divinità titolare. L’edificio prende

nome da un’iscrizione scoperta nel XVI secolo nelle vicinanze e l’attribuzione alla Concordia è del tutto casuale.


AGRIGENTO e DINTORNI

AGRIGENTO

AGRIGENTO (akragas)

L

Il tempio D, convenzionalmente detto di Giunone Lacinia. 460 a.C.

a città di Akragas, l’ultima grande colonia greca della Sicilia, venne fondata verso il 580 a.C. Piú o meno un secolo dopo la fondazione di Gela (688 a.C.), alcuni abitanti si misero insieme a nuovi coloni provenienti da Rodi in cerca di un luogo ideale per la costruzione di una nuova città sulla costa meridionale e approdarono su una propaggine rocciosa naturalmente fortificata e circondata da due fiumi, l’Akragas (odierno San Biagio) e l’Hypsas (odierno Sant’Anna), che garantirono ai nuovi abitanti l’approvvigionamento di acqua dolce in quantità sufficiente e resero fertile il suolo della campagna circostante. Topograficamente, il luogo era facilmente

difendibile su tre lati da una catena di colline verso l’entroterra e da due fiumi che confluivano poco avanti per sboccare insieme nel mare. Inoltre, Akragas non era situata direttamente sulla costa, ma abbastanza vicino al litorale per controllare ogni movimento di avvicinamento con qualsiasi nave. Già nei primi anni di vita della nuova colonia divampò un’accanita lotta fra le diverse famiglie aristocratiche, ognuna delle quali decisa a prendere il potere politico. Nel 570 a.C. Falaride si impose e istituí, secondo le fonti antiche, una delle piú feroci tirannidi di tutti i tempi. Verso l’inizio del V secolo a.C., Akragas era la seconda città in


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Nella seconda metà del V secolo a.C., Akragas conobbe un regime democratico e la città visse un periodo di prosperità, che ne fece un importante centro intellettuale e

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Schema urbanistico

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Pace e prosperità

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Sicilia, superata in forza economica e politica solo da Siracusa. Il nuovo tiranno, Terone, si alleò con Gelone di Siracusa per instaurare la supremazia greca su gran parte dell’isola, contro i Cartaginesi e gli indigeni, che vennero sempre piú relegati verso l’entroterra e la costa occidentale. La vittoria sui Cartaginesi nella battaglia di Himera portò alle due città greche alleate un bottino enorme e molti prigionieri di guerra. La prosperità e l’enorme ricchezza di Akragas perdurarono per tutto il V secolo a.C., accresciute dalle prede belliche, ma anche dal commercio e dall’agricoltura fiorente.

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In alto pianta di Agrigento: 1. tempio di Atena (oggi S. Maria dei Greci); 2. necropoli; 3. tempio di Demetra; 4. santuario rupestre delle divinità ctonie; 5. quartiere ellenistico e romano; 6. tempio di Giunone Lacinia; 7. tempio della Concordia; 8. agorà; 9. tempio di Eracle; 10. tempio di Zeus Olimpio; 11. santuario delle divinità ctonie; 12. tempio di Vulcano; 13. tempio di Esculapio. A sinistra litografia francese raffigurante il tiranno Falaride che condanna lo scultore Perillo al supplizio del «toro di bronzo». 1873.

| Il tiranno Falaride | Diodoro Siculo descrive il «toro di bronzo», un terribile apparecchio di tortura: «Si tramanda che il tiranno abbia costruito il toro di bronzo che divenne famoso per essere riscaldato dal fuoco che ardeva di sotto per martoriare quelli che venivano sottoposti alla terribile prova». Infatti, il condannato veniva rinchiuso nel grande toro e un fuoco era acceso sotto di esso. Il bronzo si faceva incandescente, causando la morte della vittima, le cui urla, dirette da un sistema di tubi verso le narici, erano simili ai suoni emessi da un toro infuriato. Si racconta che il popolo di Akragas odiava questo strumento di tortura a tal punto che, dopo la caduta di del tiranno nel 554 a.C., il toro venne affondato nel mare.

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AGRIGENTO e DINTORNI

AGRIGENTO

seguenti la città si confermò come piccolo centro commerciale e agricolo, ormai escluso dalle importanti rotte commerciali.

Tutti i tesori di Akragas

artistico del mondo greco. Era l’epoca del filosofo agrigentino Empedocle, ma accorsero nella città anche pensatori, poeti e scultori di grande talento, come Pindaro, Pitagora, Mirone, Zeusi. In pochi anni vennero eretti due peripteri quasi identici, il tempio di Giunone Lacinia e il tempio della Concordia. Nella grande guerra che oppose Siracusa ad Atene verso la fine del V secolo a.C., Akragas rimase neutrale, ma un altro pericolo comparve all’orizzonte: la potente Cartagine. La vita tranquilla e prosperosa dei cittadini di Akragas ebbe un brutale risveglio nel 406 a.C. quando i Cartaginesi rasero al suolo la città e cacciarono gli ultimi abitanti sopravvissuti all’assedio. Per lunghi anni, Akragas rimase deserta; solo nel 340 a.C., quando Timoleonte di Siracusa estese il suo dominio anche sulla costa meridionale, la città ricominciò a esistere, ma ben lungi dall’antico splendore. Durante le guerre puniche, Akragas si alleò con i Cartaginesi, e venne saccheggiata dai Romani una prima volta nel 262 a.C. per finire, poi, inglobata nell’impero, nel 210 a.C., con il nuovo nome di Agrigentum. Nei secoli

In alto un’altra veduta del tempio della Concordia, costruito intorno al 440 a.C. In primo piano si vedono alcune tombe di epoca paleocristiana.

È consigliabile cominciare la visita della città antica dalla «Collina dei Templi», cioè dall’entrata che si apre in prossimità del tempio di Giunone e poi proseguire sulla strada in discesa, davanti al tempio di Concordia e al tempio di Eracle. All’uscita della valle ci si trova di fronte alla Porta Aurea e, sull’altro lato della strada, alla zona archeologica con l’Olympieion, il santuario delle divinità ctonie e il tempio dei Dioscuri. Il tempio D, detto di Giunone Lacinia per una confusione generata nel Settecento con il tempio di Era di Crotone, fu costruito intorno al 460 a.C. o poco dopo. In realtà non abbiamo alcun indizio per una qualsiasi attribuzione a una divinità. Il periptero


presenta uno stilobate di circa 17 x 38 m, con una peristasi di 6 x 13 colonne e una cella costituita da pronao, naos e opistodomo. Un semplice rapporto numerico unisce tutte le singole parti del tempio, costruito con una simmetria armoniosamente equilibrata. Solo la grande scalinata che corre su tutta la larghezza della fronte orientale, una caratteristica tipica dei templi di Magna Grecia, disturba questo equilibrio. Anche l’altare, con i quasi 29 x 10 m, esibisce dimensioni maggiori di quelli contemporanei nella madrepatria ed era sicuramente il fulcro del culto. Nel Settecento un terremoto lo danneggiò fortemente; la ricostruzione parziale che vediamo oggi si data dal 1785. L’incantevole posizione sulla dorsale della collina, con il crepuscolo sull’orizzonte e il sole che si rispecchia nel mare, ispirò molti pittori del periodo romantico. Seguendo le mura verso il tempio della Concordia, si notano piccole tombe a fossa, a nicchia o ad arcosoli, scavate direttamente nel sottosuolo o nelle mura. Le tombe cristiane sono databili nel IV e V secolo d.C. Il tempio F, detto della Concordia, ma del quale si ignora, in realtà la divinità titolare, trae il suo nome da un’iscrizione scoperta nel XVI secolo nelle vicinanze: l’attribuzione alla Concordia è del tutto casuale. Il periptero rappresenta una delle maggiori

In alto la tomba di Terone in un’incisione del Settecento. In basso il tempio di Ercole, costruito intorno al 490-480 a.C.


AGRIGENTO e DINTORNI

AGRIGENTO

In alto testa in terracotta di kouros, dal tempio di Eracle. VI sec. a.C. Agrigento, Museo Archeologico Regionale. Nella pagina accanto, in basso copia in cemento dell’unico telamone superstite, collocata tra i resti dell’Olympieion, il colossale tempio in onore di Zeus Olimpico.

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creazioni dell’architettura sacra greca per l’equilibrio e la perfezione negli elementi strutturali e per l’abile applicazione del canone dorico. Il periptero di quasi 39 x 17 m nello stilobate e con 6 x 13 colonne, venne costruito intorno al 440 a.C., sicuramente prendendo come modello il tempio di Giunone Lacinia. Entrambi, infatti, hanno le stesse misure, la stessa pianta e la stessa proiezione verticale. Possiamo ragionevolmente ipotizzare che anche l’architetto e gli operai fossero gli stessi per i due templi. Nonostante queste corrispondenze, si notano diversi sviluppi nella disposizione generale: la simmetria è piú ponderata, i dettagli eseguiti in maniera piú precisa. In appena dieci o venti anni la pianificazione e l’esecuzione si erano perfezionate, da un lavoro esatto si raggiunse una precisione millimetrica. Oltre alle scale a chiocciola fra il pronao e il naos che si trovano in diversi templi sicelioti, troviamo due grandi aperture nei timpani della cella che sicuramente facevano parte del piano originale greco e non hanno niente a che vedere con le trasformazioni seguenti. Tramite le scale a chiocciola era possibile accedere a una specie di ballatoio davanti a

queste aperture o finestre. Non sappiamo a quale scopo servissero queste finestre, forse per apparizioni mistiche durante il culto. Il tempio della Concordia venne trasformato sullo scorcio del VI secolo d.C. in chiesa cristiana, murandone gli intercolunni e aprendo arcate a cella per creare uno spazio continuo a tre navate. Allo stesso tempo venne anche spostata l’entrata dalla facciata orientale su quella occidentale. Nel Settecento, la chiesa fu sconsacrata e tutte le aggiunte rimosse. Oggi è uno dei tre monumenti sacri del mondo greco meglio conservati. Il tempio A (o di Eracle) prende il nome da un passo di Cicerone, in cui è attestato un tempio dedicato a Eracle nei pressi del mercato, ma che si trattasse di questo edificio è del tutto ipotetico. Costruito intorno al 490/480 a.C., il periptero dorico esemplifica in maniera stringente lo sviluppo politico ed economico della giovane città sotto il tiranno Terone, pronto a mettere in rilievo la superiorità sulla altre colonie greche. Si tratta del primo grande periptero dorico della città e anche del piú grande di Akragas, con l’eccezione di quella strana e megalomane costruzione che è l’Olympieion. Per la prima volta in Occidente, la cella viene intesa come organismo simmetrico, con un pronao sul lato orientale e un opistodomo su quello occidentale che si corrispondono perfettamente; la cella non ha l’adyton, la sala tipica dei templi greci in Sicilia per la collocazione della statua di culto. La simmetria delle fronti viene però disturbata da una grande scalinata su tutta la larghezza della fronte orientale. Per la prima volta incontriamo anche le due scale a chiocciola alla fine del pronao che sembrano rispondere a una nuova destinazione dell’interno del tempio. L’edificio mostra cosí uno stile di transizione che porterà da qui a poco alla maturità dell’età classica; rimane comunque il prototipo per quasi tutti i templi greci del V secolo a.C. in Sicilia. Le otto colonne del lato meridionale vennero rialzate durante il restauro del 1924. La Porta Aurea, accesso principale alla città, si trovava direttamente a ridosso del tempio di Eracle. Il grande solco nella roccia, dove oggi passa la strada moderna, venne scavato solo


nel Medioevo. Al di fuori delle mura, ai piedi della collina, si trovano le necropoli meridionali di epoca greca. La cosiddetta «tomba di Terone», che si erge al centro delle necropoli non ha alcuna relazione con il famoso tiranno del V secolo a.C. Si tratta di un monumento funerario o di un heroon di epoca romana, eretto intorno al 70 a.C., che commemorava probabilmente un eroe o un importante cittadino, morto lontano dalla patria. Diodoro Siculo racconta che per la costruzione dell’enorme Olympieion (tempio B) si fece ricorso a prigionieri di guerra. Se cosí fu, poteva trattarsi solo dei prigionieri cartaginesi, deportati a Siracusa e ad Akragas, dopo la vittoria greca di Himera nel 480 a.C. Una particolarità del tempio salta subito agli occhi: per la sua costruzione vennero usati blocchi molto piccoli, il che fa pensare a una messa in opera rapida, con molti operai impiegati contemporaneamente. Tutti gli elementi del tempio mostrano una pianificazione decisa e un ordinamento chiaro

e preciso, un’organizzazione del cantiere che funzionava alla perfezione. Sembra che lo scopo primario della costruzione non fosse soltanto la sua imponenza, ma anche la velocità nell’avanzamento dei lavori. Iniziato poco dopo il 480 a.C. per volere del tiranno

Qui sotto modello del tempio di Giove nel Museo Archeologico Regionale di Agrigento.

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AGRIGENTO e DINTORNI

AGRIGENTO

L’angolo del tempio dei Dioscuri divenuto il simbolo di Agrigento, ma che, in realtà, è frutto di un pastiche assemblato nell’Ottocento.

Terone, l’edificio, dedicato a Zeus, si orientò nelle dimensioni sicuramente al monumentale tempio di Apollo a Selinunte, superandolo di qualche metro in lunghezza per dimostrare al mondo di essere i piú grandi e i piú potenti. Dal punto di vista architettonico, il tempio rappresentò un’esperienza molto innovativa, che rende difficile comprenderne il significato e la destinazione, anche perché l’esperimento non trovò successori. La peculiarità piú suggestiva di questo tempio di Giove sono i «telamoni» o «atlanti», le grandiose statue maschili di circa 8 m di altezza distribuite sui muri degli intercolunni. Una di queste statue si può ammirare nel museo, mentre sul sito, in mezzo al tempio giace un calco in cemento. Sul posizionamento delle figure non tutte le domande hanno ancora trovato una risposta convincente. Di sicuro avevano una funzione

prettamente decorativa: sembrano reggere la trabeazione del tetto, ma staticamente sono inutili. Rimane, però, incerta la loro collocazione esatta nella parete e le dimensioni della mensola sulla quale si appoggiavano. Sembra probabile che i telamoni personificassero i Cartaginesi soggiogati, costretti a servire il massimo dio greco, Zeus, sostenendo la sua casa. La cella è articolata con robusti pilastri e mostra alle estremità un piccolo pronao e un opistodomo. Il naos, senza colonne centrali, è molto allungato, ed era sicuramente a cielo aperto. A differenza del tempio G di Selinunte, l’Olympieion di Akragas fu completato e in uso come edificio di culto,


come prova il grande altare di fronte. L’Olympieion venne distrutto nel 406 a.C. dai Cartaginesi e, poi, venne usato come cava. Il santuario delle divinità ctonie era in origine un santuario siculo, risistemato nel VI secolo a.C. dai Greci, con importanti ampliamenti nel V secolo a.C. Nel centro si trova un grande altare rotondo, di circa 8 m di diametro, mentre all’intorno si dispongono altri altari, dedicati a divinità ancora non identificate. Non lontanto si trovano gli scarni resti del tempio L, costruito verso la metà del V secolo a.C.: quasi tutti i blocchi in pietra utilizzati per la sua costruzione furono asportati per essere reimpiegati altrove. Una sorte analoga toccò al tempio E, forse consacrato ad Atena, che era un periptero dorico con 6 x 13 colonne, costruito secondo il modello del tempio di Giunone Lacinia. Probabilmente verso il 430

a.C. in questa zona venne eretto un altro periptero, il tempio dei Dioscuri (o tempio I), seguendo lo stesso canone classico. Il famoso angolo ricostruito di questo santuario, che oggi può essere considerato l’emblema di Agrigento, in realtà, è un pastiche di diversi templi, rialzato nell’Ottocento con materiali circostanti. Il tempio di Vulcano (tempio G), l’ultimo periptero dorico costruito ad Agrigento, si trova verso la periferia occidentale della città, su uno sperone roccioso. L’edificio dipendeva nelle misure e nella pianta dal tempio di Giunone Lacinia, come mostrano chiaramente i resti delle colonne che presentano lo stesso diametro. Alcuni dettagli confermano che il tempio di Vulcano non fu mai ultimato. Probabilmente era ancora in costruzione quando i Cartaginesi assaltarono e saccheggiarono la città nel 406 a.C.


AGRIGENTO e DINTORNI

AGRIGENTO

| Il sarcofago di Fedra | La chiesa tardo-medievale di S. Nicola custodisce lo splendido sarcofago romano in marmo bianco, databile al III-II secolo a.C., che narra il mito di Fedra e Ippolito (foto qui sopra). Fedra, la moglie di Teseo, si innamorò del figliastro Ippolito, ma fu respinta. Furiosa e offesa dal rifiuto, si vendicò accusando Ippolito di stupro. Teseo, incline a credere alla moglie, maledisse il figlio e lo fece uccidere. Troppo tardi la verità venne alla luce e l’innocenza del giovane riconosciuta: Ippolito era morto, Teseo inconsolabile. Memore dei fatti e tormentata dai rimorsi, Fedra si impiccò per la disperazione.

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Sulla strada che porta dalla zona archeologica al museo si trova un vasto scavo, comunemente detto «quartiere ellenistico». Il sistema urbanistico regolare sorse nella seconda metà del IV secolo a.C. sopra un impianto piú antico. L’abitato si mantenne per tutta l’epoca ellenistica, poi romana, fino al V secolo d.C., quando fu abbandonato definitivamente e i pochi abitanti rimasti si misero al sicuro dalle invasioni barbariche sulla collina. La struttura urbana è ancora ben conservata: si possono individuare magazzini, taverne, pozzi e alcune sontuose case di tipo ellenistico con peristilio o di tipo italico con atrio centrale. Nella parte orientale di Akragas si trovava la cosiddetta roccia di Atena, la cima piú alta dentro le mura cittadine. Ai piedi della roccia si vede oggi una piccola chiesetta di epoca normanna, S. Biagio, costruita sui ruderi di un tempio greco. Dedicato a Demetra e Kore, l’edificio misura 30 x 13 m circa; aveva sicuramente due colonne in antis, e si data intorno al 480-460 a.C. Fuori delle mura, in prossimità del tempio, si trovava un santuario rupestre, in uso già prima della fondazione della colonia greca, databile verso la fine del VII secolo a.C. Realizzato da genti sicane per una divinità ignota, il luogo di culto fu trasformato dai Greci e consacrato a Demetra. Davanti al Museo Archeologico e alla chiesa di S. Nicola si estende una zona archeologica nella quale è compreso l’ecclesiasterion, un edificio per le assemblee del popolo a forma di teatro, costruito forse già nel III secolo a.C. Le 19 file di gradini sono scavate direttamente nella roccia e davano posto a circa 3000 persone, raggruppate in un cerchio a tre quarti. Al centro si trovava il podio per gli oratori. Nel I secolo a.C., quando venne abbandonato, si costruí a fianco dell’ecclesiasterion un tempietto, con un altare davanti, sul lato orientale. A una fila di quattro colonne ioniche sulla fronte seguivano un pronao e un naos coperto di circa 6 x 5 m. In epoca imperiale il piccolo tempio venne probabilmente sconsacrato e usato come tomba per una matrona romana benestante. Nel Medioevo la


struttura faceva parte del complesso cistercense che si ergeva in questa zona. Il nome del monumento, Oratorio di Falaride, si basa su una tradizione orale che volle su questo luogo un palazzo del tiranno Falaride. Il Museo Archeologico Regionale di Agrigento è stato inaugurato nella sua sede attuale in contrada S. Nicola nel 1967, con una finalità prettamente territoriale: accogliere i reperti archeologici degli scavi agrigentini. Le collezioni del museo sono esposte secondo un criterio storico-topografico, con un primo itinerario essenziale relativo alla città antica di Akragas e un altro che riguarda il territorio delle attuali province di Agrigento e Caltanissetta. Una grande sala al livello inferiore è destinata al monumentale tempio di Zeus Olimpico (l’Olympieion), il piú grande luogo di culto d’Occidente, e anche il piú stravagante per le sue soluzioni architettoniche originali. Al centro della sala un grande plastico in legno ricostruisce la metà inferiore del monumento, dando cosí una buona idea generale della sua originalità. Sulla parete di fondo è stata alzata l’unica figura gigantesca di telamone trovata in situ e ricostruita già nel 1825 utilizzando vari frammenti sparsi tra le rovine del tempio. Qui vicino sono esposte anche le teste superstiti di altri telamoni, trovati durante gli scavi ottocenteschi dell’Olympieion. Molto importante è la collezione di vasi antichi, rinvenuti ad Akragas stessa o sul territorio dell’odierna regione. Interessante è una coppa prodotta da un atelier di Gela alla fine del VII secolo a.C. e proveniente da una tomba a Palma di Montechiaro (poco distante da Agrigento), che mostra sul fondo il motivo della triskelés, il simbolo di tre gambe con triplice simmetria rotazionale.

L’Efebo di Agrigento, statua in marmo di un giovane atleta, rinvenuta presso il tempio di Demetra. Agrigento, Museo Archeologico Regionale.

Si tratta del primo esempio conosciuto in cui il motivo venne adottato con un significato geografico: la composizione fu in seguito chiamata trinacria (da treis àkra, tre promontori) ed è divenuta sinonimo di Sicilia. Eccellente ed esposta in maniera esemplare è la collezione di vasi attici a figure nere e a figure rosse del VI e V secolo a.C. Troviamo per esempio una lekythos attica a figure nere, attribuita al Pittore di Gela e datata intorno al 520 a.C., con la rappresentazione di Eracle che porta appesi a una pertica con testa in giú i Cercopi (scena che si trova anche su una metopa da Selinunte oggi conservata nel Museo Archeologico di Palermo). Fa parte della collezione anche il cratere a calice a figure rosse del Pittore di Kleophrades degli anni 500-490 a.C. con la deposizione di un guerriero morto, probabilmente Patroclo, e una scena di danza durante i giochi funebri in suo onore. Di particolare rilevanza, per la rarità di questi esemplari, è il cratere a calice a fondo bianco del 430 a.C. circa, attribuito al Pittore della Phiale di Boston, con la raffigurazione di una scena tratta probabilmente da una tragedia perduta di Eschilo o Sofocle, nella quale vediamo, come dice l’iscrizione, l’attore Euaion nel ruolo di Perseo in ammirazione davanti alla bellezza di Andromeda, legata ai pali sulla destra. Alla fine del settore dei vasi greci è esposta la statua marmorea di guerriero caduto, il Guerriero di Agrigento, databile nel primo stile severo intorno al 480 a.C., trovato in diversi frammenti tra l’Olympieion e il tempio di Eracle. Con tutta probabilità, la figura faceva parte di un ensemble di statue nel frontone di un tempio. Agli stessi anni si può datare il famoso Efebo di Agrigento, la statua in marmo greco di un giovane atleta, rinvenuta sulla Rupe Atenea, in prossimità del tempio di Demetra. Si nota come la tipica rigidità del kouros greco arcaico cominci ad ammorbidirsi, come la gamba destra avanzi, quella sinistra si fletta leggermente, le braccia si scostino dai fianchi e anche il rigido «sorriso arcaico» si dissolva in un’espressione piú naturale del viso.

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capitolo

Eraclea Minoa (herakleia minoa)

S

econdo Erodoto, Minoa venne fondata come sub-colonia di Selinunte nella metà del VI secolo a.C. Intorno alla fine del secolo, la città passò sotto il dominio di Agrigento, cambiando il nome in Eraclea Minoa. Un trattato del 405 a.C. legava la città ai Cartaginesi, i quali la fortificarono, usandola come caposaldo punico fino alla fine del IV secolo a.C. Durante il III secolo a.C. Eraclea Minoa visse un periodo di prosperità, anche se risulta occupata prima da Pirro, poi di nuovo dai Cartaginesi. Sembra che durante le guerre puniche fosse una delle piú importanti basi navali della Sicilia in mano ai Cartaginesi e una delle ultime città ad arrendersi al comandante romano Marcello, poco dopo la caduta di Siracusa. In seguito, Eraclea Minoa divenne colonia romana, ma subí il saccheggio di Verre e, verso la fine del I secolo a.C., cadde in stato di totale abbandono. La città sorge su un bianco promontorio con alte pareti rocciose sulla sinistra del fiume Platani, in splendida posizione panoramica

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Qui sopra pianta schematica dell’assetto urbanistico di Eraclea Minoa in età ellenistica.

sul mare. Gli scavi hanno messo in luce un impianto urbanistico regolare racchiuso da un’imponente cinta muraria. Sono stati individuati due strati di abitazioni sovrapposte, uno di età ellenistica (IV-III secolo a.C.), l’altro realizzato in epoca repubblicana (fine del II secolo a.C.), probabilmente in occasione della deduzione della colonia dopo la prima guerra servile. Le case di questo periodo risultano di dimensioni piuttosto piccole, spesso


Nella pagina accanto, in alto gli scavi di Eraclea Minoa in una ripresa aerea. A destra il Museo Archeologico di Eraclea Minoa. In basso la zona residenziale del sito.

costituite solo da due vani gravitanti attorno a un cortile. L’assetto urbano, con i suoi lotti rettangolari delimitati da una rete di strade ortogonali, seguiva l’impianto precedente. Dell’abitato ellenistico sono state messe in luce due case di forma quadrata, chiuse intorno a un piccolo atrio con corte centrale, di cui una (casa A) a un solo piano, con il larario a nord del cortile, l’altra (casa B) a due piani, con i muri molto ben conservati e le pareti rivestite di intonaco dipinto. Il teatro, costruito probabilmente nel III secolo a.C., si trova nella cavità di una piccola collina a nord dell’abitato. Purtroppo la visibilità dell’edificio è compromessa dalla struttura provvisoria che copre le gradinate. Si vedono ancora bene il semicerchio della cavea e i due analemmata (muri che contenevano la cavea, n.d.r.), mentre i blocchi delle gradinate risultano per lo piú asportati. Il piccolo Antiquarium, ubicato all’ingresso dell’area archeologica, illustra la lunga storia di Eraclea, dall’Eneolitico (III millennio a.C.) fino all’epoca bizantina. Il primo abitato (seconda metà del VI secolo a.C.) è documentato da vasi attici a figure nere e dalla coroplastica votiva, rappresentata da statuine in terracotta con divinità assise in trono e da arule fittili, tra cui se ne distingue una con scena di zoomachia.

| Il nome di Eraclea Minoa | La città si chiamava in origine solo Minoa, con riferimento al mito di Minosse, ucciso in Sicilia dal re Kokalos. Il leggendario re aveva incaricato Dedalo di realizzare a Creta un labirinto per il Minotauro. Ultimata l’opera, Dedalo vi fu rinchiuso insieme al figlio Icaro, ma riuscí a uscirne e fuggí in Sicilia, dove si rifugiò presso Kokalos. Minosse lo perseguitò e chiese a Kokalos la consegna di Dedalo. All’arrivo in Sicilia, Minosse fondò una città sulla costa meridionale, Minoa, che ricevette in un secondo tempo il nome di Eraclea per Dorieo, figlio del re spartano Anassandrida, venuto in Sicilia per fondare una colonia in onore di Eracle, dal quale si vantava di discendere. Dorieo morí combattendo contro gli indigeni che si opposero al suo progetto; i superstiti spartani occuparono allora Minoa, dandole il nome della loro colonia non-fondata, Eraclea.

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AGRIGENTO e DINTORNI

PIAZZA ARMERINA

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PIAZZA ARMERINA villa del casale

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scritta dal 1997 nella lista UNESCO del Patrimonio Mondiale dell’Umanità, la Villa del Casale di Piazza Armerina venne edificata verso l’inizio del IV secolo d.C. sopra un insediamento piú antico. Del proprietario della villa non si sa molto. Oggi si può considerare infondata e improbabile l’ipotesi, lungamente proposta, di un committente imperiale, piú precisamente l’imperatore tetrarchico Marco Valerio Massimiano, comandante delle regioni d’Occidente dal 286 d.C. fino alla sua abdicazione nel 305 d.C., oppure suo figlio, l’imperatore Massenzio (305-312 d.C.). Gli elementi a favore di un’attribuzione imperiale della villa, ovvero la grandiosità del

complesso, lo sfarzo e il programma iconografico dei mosaici, si sono attenuati negli ultimi anni, soprattutto da quando sono venute alla luce in Sicilia ville simili per struttura e qualità dell’apparato decorativo: come quelle del Tellaro (vedi a p. 60) e di Patti Marina (vedi a p. 41). La Villa del Casale sembra essere appartenuta a un esponente dell’aristocrazia romana dell’età costantiniana, forse un governatore della Sicilia o un prefetto urbano. Nel V o VI secolo d.C. venne ristrutturata e trasformata in un borgo di strutture abitative autonome e fortificate. Sembra che quest’abitato sia fiorito fino all’epoca

Nella pagina accanto particolare di uno dei mosaici della Villa del Casale di Piazza Armerina raffigurante un personaggio nobile, protetto da due soldati armati, nel quale si può probabilmente identificare il proprietario della sontuosa dimora. In basso pianta della Villa del Casale: 1. ingresso monumentale; 2. corte porticata; 3. peristilio; 4. corridoio della Grande Caccia; 5. basilica; 6. sala della Piccola Caccia; 7. portico ovoidale; 8. «ragazze in bikini»; 9. mosaico di Orfeo.

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Terme

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Pars publica Pars privata Pars servilis Hospitalia

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capitolo

Il mosaico con le «ragazze in bikini», nel quale si vedono giovani donne impegnate in gare atletiche. IV sec. d.C.

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normanna, quando venne distrutto nel 1160 e gli abitanti furono trasferiti nella nuova città fortificata dell’odierna Piazza Armerina.

La scoperta dei mosaici Negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento tornarono alla luce oltre 3500 mq di pavimenti musivi, il piú grande documento d’insieme di mosaici antichi pervenutoci finora. La conservazione in situ di quest’enorme superficie musiva pose immensi problemi, risolti con la messa in opera di strutture di protezione in plastico laminato, innovative all’epoca, ma non del tutto soddisfacenti sia per il flusso turistico, sia per la salvaguardia dei mosaici. Negli ultimi anni si è proceduto a ulteriori interventi conservativi, che hanno tuttavia sollevato non poche perplessità, soprattutto per le soluzioni architettoniche adottate per le nuove strutture di protezione. Già in epoca romana la villa doveva essere piuttosto isolata e raggiungibile solo dopo un viaggio lungo e faticoso. L’ingresso era perciò monumentale, strutturato come un magnifico arco trionfale con tre porte, dal quale si entrava in un grande cortile porticato a forma di ferro di cavallo con una fontana quadrata al centro e ninfei nei piloni dell’arco. Da qui il visitatore

aveva due possibilità: poteva essere accompagnato direttamente nella villa, oppure accedere, tramite la cosiddetta «edicola di Venere», alle strutture termali. L’edicola di Venere era una sala di transito absidata che prende il suo nome dal ritrovamento di frammenti marmorei appartenenti a una statua di Venere. Da qui, attraverso un vestibolo, si passava alla palestra, oppure, sul lato opposto, al cortile con la grande latrina porticata. Le terme erano composte da una magnifica sala centrale, il frigidarium, di forma ottagonale con quattro grandi esedre che servivano da spogliatoi. Attigui erano gli ambienti riscaldati, il grande tepidarium, i calidaria e il laconicum, con i tre forni all’esterno per il riscaldamento. Del pavimento delle sale riscaldate rimangono solo poche tracce, mentre si riconosce molto bene il sistema a ipocausto, con il doppio pavimento sorretto da colonnine in laterizio e i tubuli per riscaldare anche le pareti. Sul lato orientale del frigidarium si apriva la magnifica palestra, alla quale si poteva anche accedere direttamente dalla villa tramite un ingresso privato. Il pavimento è decorato con la rappresentazione di una corsa di quattro


quadrighe nel Circo Massimo di Roma. Davanti alla palestra si trovano le piccole latrine, con mosaici che raffigurano diversi animali, un asino, un gattopardo, una lepre, una pernice. L’ingresso privato che collega le terme direttamente al grande peristilio della villa presenta il mosaico di una donna riccamente vestita e adornata, accompagnata dai propri figli, o seguita da servitori che portano gli accessori necessari per il bagno; si tratta probabilmente della domina della villa. Tornando indietro nel cortile porticato, segue il vero ingresso alla villa. La prima sala è il vestibolo, una stanza quadrangolare per l’accoglienza degli ospiti. Al centro della sala era probabilmente rappresentato il dominus della villa, una sorta di ritratto propagandistico per impressionare gli ospiti. Continuando, si entrava nel peristilio rettangolare con una grande fontana al centro del giardino. Il pavimento del quadriportico è ornato di mosaici con protomi di animali selvatici circondati da corone d’alloro, rivolti sempre in direzione dello spettatore, seguendo il portico sia a sinistra, sia a destra. All’inizio del percorso, subito dopo il vestibolo, si trova il larario, il sacello per il culto delle divinità protettrici della casa. Intorno al peristilio si distribuiscono i vari ambienti, sia per gli ospiti, sia per la famiglia stessa. Gli appartamenti privati del proprietario e della sua famiglia si dispongono nella parte orientale della villa, adiacente alla grande basilica, e ben separati dalle altre zone grazie all’ampio ambulacro nord-sud con la rappresentazione musiva della Grande Caccia. Sul lato nord del peristilio si trovavano ambienti di servizio, decorati con semplici mosaici geometrici, e la cucina della quale non si conosce il pavimento. Le stanze centrali, ornate con motivi geometrici, scene di genere, disegni a stelle e rosoni, erano destinate agli ospiti. Interessante, in un’altra sala, è il mosaico con eroti su quattro barche che pescano nel mare con diverse tecniche: rete, lenza, nassa. A est segue un grande ambiente aperto verso il peristilio con ingresso colonnato, probabilmente un soggiorno o una sala da

pranzo invernale, con la cosiddetta Piccola Caccia, un mosaico raffigurante una battuta di caccia, disposta su cinque registri, con il sacrificio a Diana al centro: si vedono un cacciatore con due cani al guinzaglio, cani che inseguono una volpe, la cattura dei cervi spinti verso una rete, un cavaliere che infilza una lepre nascosta nel sottobosco, un cinghiale ferito che carica un giovane a terra, una colazione dei cacciatori all’aria aperta. Il lungo corridoio che da una parte collega il peristilio alla basilica e dall’altra separa gli appartamenti privati della famiglia dal resto della villa, presenta l’eccezionale mosaico della Grande Caccia, la rappresentazione di una battuta per catturare animali feroci e mandarli a Roma per le venationes nel Colosseo. L’opera non lascia dubbi sull’audace impresa che la caccia grossa implicava: vengono catturati antilopi, leoni, cinghiali, ma anche struzzi, rinoceronti, elefanti e perfino animali mitici come il grifone. Al centro del mosaico è rappresentata una grande nave, pronta al trasporto degli animali. Nella parte sud, davanti al piccolo peristilio dell’appartamento privato si trova un personaggio nobile, protetto da due soldati armati, che assiste alla cattura degli animali: con molta probabilità, è il proprietario della villa. Sul lato sud del peristilio si aprono altre stanze di servizio e di rappresentanza. A un vestibolo segue una sala inizialmente con mosaico a motivi geometrici, poi, in una fase piú tarda, ristrutturata con un pavimento sovrapposto con la rappresentazione di donne impegnate in gare

Particolare del mosaico della Grande Caccia raffigurante un rinoceronte che viene guidato verso l’imbarco sulla nave destinata a portarlo a Roma per le venationes.

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AGRIGENTO e DINTORNI

PIAZZA ARMERINA

Qui sopra particolare del mosaico in una stanza degli ospiti con due amorini pescatori su una barca. In alto mosaico raffigurante la domina accompagnata dai figli o da ancelle che accede al bagno.

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atletiche, le famose «ragazze in bikini»: vediamo il lancio del disco, il salto in avanti con pesi in mano, la corsa, il gioco con la palla, ma anche la proclamazione delle vincitrici che ricevono la corona di fiori e la palma della vittoria. La grande sala rettangolare con esedra, al centro del portico meridionale, aveva un ingresso aperto colonnato come il triclinio della Piccola Caccia di fronte e serviva probabilmente da sala da pranzo estiva o sala da musica. Il pavimento musivo mostra Orfeo seduto su una roccia mentre suona la lira e con la sua melodia incanta gli animali che volgono lo sguardo verso di lui.

A sud si esce dall’ambulacro della Grande Caccia per arrivare al triclinio con il grande portico ovoidale davanti, zona non ancora restaurata e tuttora protetta dalle strutture in plastico laminato degli anni Sessanta. I mosaici del pavimento raccontano le dodici fatiche di Ercole: vi sono raffigurati il leone di Nemea, l’idra di Lerna, il cinghiale di Erimanto, il toro di Creta, ma anche il cane Cerbero e tutti gli altri mostri vinti dall’eroe. L’abside centrale mostra l’uccisione di cinque Giganti con le frecce avvelenate lanciate da Ercole. Il programma iconografico appare piuttosto eloquente e rivela la mania di grandezza del proprietario che si paragona all’eroe mitologico. Il grande portico ellittico, il cosiddetto xystus, circondava un cortile mosaicato a cielo aperto con diverse fontane nel mezzo, ed era chiuso sul lato ovest da un sontuoso ninfeo semicircolare. Sui lati del portico si aprono sei piccole stanze, probabilmente di servizio o per accogliere ospiti. I mosaici di questi ambienti mostrano scene di amorini impegnati su un lato nelle diverse fasi della produzione del vino, sull’altro in una battuta di pesca. Gli appartamenti privati della famiglia si trovavano nella parte orientale, dietro l’ampio corridoio con la Grande Caccia, a sinistra e a destra dell’imponente basilica. Il percorso prevede prima la visita delle stanze private della domina e dei bambini, come si può facilmente dedurre dalle scene dei mosaici. Dall’ambulacro della Grande Caccia si accedeva da due porte a un atrio semicircolare con una fontana marmorea al centro, circondato da un portico con colonne ioniche, il cuore dell’appartamento femminile. Oggi, invece, si accede da fuori, passando prima per le camere dei bambini. Nel vestibolo è rappresentata una gara al Circo Massimo di Roma come nella palestra delle terme; questa volta, però, i carri sono guidati da bambini e trainati da volatili. Nella camera rettangolare con grande abside – sicuramente il dormitorio delle figlie del padrone –, il pavimento presenta mosaici floreali con due ragazze sedute su cesti intorno a un albero, occupate nella confezione di


corone di rose; mosaici con attori e suonatori di vari strumenti adornano il pavimento nel resto della camera. La stanza centrale, aperta con due colonne verso l’atrio, era probabilmente la grande sala di soggiorno della padrona. Al centro del pavimento si trova Arione, il famoso citarista dell’isola di Lesbo, seduto su un delfino e circondato da un corteo marino con diversi animali, Nereidi, Tritoni e amorini. Sull’altro lato dell’atrio si trovavano il vestibolo e il cubicolo dei figli, con mosaici che raffigurano la lotta tra Pan ed Eros, sotto la sorveglianza dell’arbitro della gara, mentre un corteo dionisiaco su un lato e dei bambini sull’altro incoraggiano i combattenti. Su un tavolo al centro del pavimento vengono esposti i premi per il vincitore, i rami di palma, i diademi, i sacchetti pieni di monete. I mosaici della camera da letto retrostante rappresentano un’ulteriore scena di caccia, questa volta però i cacciatori sono bambini che infilzano chi una lepre chi un caprone, mentre altri vengono morsi da volatili. Fa parte di questa camera anche il mosaico con scene di fanciulle che raccolgono fiori e li depongono in ceste e di un ragazzo che trasporta due ceste piene di fiori appese a una lunga pertica. Fuori dell’appartamento, dietro la villa e in prossimità dell’acquedotto, si trova una piccola latrina ottagonale, destinata ai bambini del padrone, che cosí non dovevano attraversare tutta la villa fino ai bagni nelle terme. La basilica nel cuore della villa e rialzata rispetto agli altri ambienti veniva utilizzata per importanti ricevimenti ufficiali. È l’unica sala con pavimento a lastre di marmo policromo, che si estendevano anche sulle pareti. Si tratta sicuramente del luogo piú importante di tutta la residenza. A nord di quest’aula seguono tre ambienti con mosaici figurativi, sicuramente parte dell’appartamento privato del padrone della villa. Nel vestibolo è raffigurato il mito di Ulisse e Polifemo dentro la grotta con Ulisse che offre il vino al Ciclope per inebriarlo. Non solo viene raccontata una leggenda locale – la grotta di Polifemo si trova alle pendici dell’Etna –, ma il padrone si paragona a Ulisse, che, con la furbizia e l’intelligenza,

batte ogni avversario, anche i mostri giganti. Il vestibolo dà accesso a due cubicoli, probabilmente camere da letto. La prima stanza, con un’alcova rettangolare, presenta mosaici geometrici e alcuni medaglioni tondi ed esagoni con busti femminili. Al centro della sala si trova il medaglione con scena erotica, mentre la soglia d’ingresso dell’alcova mostra quattro bambini che giocano, forse i figli del padrone. L’altro cubicolo, con grande abside, esibisce mosaici geometrici con medaglioni figurativi nei quali si riconoscono vari tipi di frutta, dall’anguria al melograno, dalla pera ai fichi, dalle pesche all’uva.

Mosaico raffigurante un bambino su un cocchio trainato da volatili.

| Monte Saraceno: una continuità eccezionale | Situato lungo la valle del Salso, il sito di Monte Saraceno di Ravanusa, che si distribuisce sulla vetta e il versante meridionale del monte, ha avuto una continuità di vita dall’età preistorica fino al III secolo a.C. Intorno alla metà del VI secolo a.C. l’abitato si dette un impianto urbano regolare, cinto da mura, con aree per il culto e necropoli. In questa fase, conclusasi alla fine del V secolo a.C., il centro raggiunse la massima fioritura. I risultati degli scavi condotti a Monte Saraceno sono presentati nel Museo Civico di Ravanusa «Salvatore Lauricella». Il percorso comprende due sale e segue un criterio cronologico-topografico. Il villaggio indigeno è documentato da ceramica di produzione locale riferibile all’VIII secolo a.C., mentre la fase arcaica è rappresentata da frammenti di terrecotte architettoniche. Dalle necropoli provengono corredi funerari con vasi di importazione corinzia, attica e greco-orientale.

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AGRIGENTO e DINTORNI

MORGANTINA

morgantina Il teatro greco di Morgantina. III-II sec. a.C.

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l sito archeologico della città greca di Morgantina si trova a pochi chilometri da Aidone, in località Serra Orlando. Secondo la leggenda, la città trae il suo nome dai Morgeti, un popolo italico che nell’XI secolo a.C., sotto la guida del re Morges, attraversò lo Stretto di Messina e si stabilí in quest’area, mescolandosi pacificamente con gli indigeni siculi già presenti. Verso la fine dell’VIII secolo a.C. si intensificarono i rapporti con i Greci, soprattutto con i coloni calcidesi di Catania, attratti dalla fertilità del territorio. Durante il VI secolo a.C. Morgantina si ellenizzò sempre di piú, come documentano la tecnica costruttiva degli edifici di chiara impronta greca e la frequente presenza di ceramica ellenica nelle tombe. All’inizio del V secolo a.C. la città cadde sotto il dominio del tiranno Gelone di Siracusa, che controllava quasi tutta la parte sudorientale della Sicilia. Intorno al 460 a.C. i popoli indigeni, guidati dal re siculo Ducezio, si ribellarono al dominio greco e occuparono Morgantina. Dieci anni dopo, sconfitto ed esiliato Ducezio, i Greci ripresero Morgantina. Non è ancora del tutto chiaro se la ricostruzione di Morgantina, non piú sul monte Cittadella, ma ai suoi fianchi, su un allungato pianoro, sia attribuibile a Ducezio o ai Greci

dopo la riconquista della città. Sicuramente, alla metà del V secolo a.C., la città venne rifondata sul pianoro ondulato di Serra Orlando con uno schema urbanistico ortogonale tipicamente greco. Nel IV e III secolo a.C. Morgantina, sempre piú nell’orbita della potente Siracusa, conobbe un periodo molto florido, in cui si estese sulle colline e nelle vallate di Serra Orlando, seguendo le linee del piano urbanistico originario. Verso la fine del III secolo a.C. la città scelse male il suo alleato nelle guerre puniche: i Romani la saccheggiarono nel 211 a.C. Caduta nelle mani di mercenari ispanici, Morgantina subí un declino inarrestabile, finché il sito fu abbandonato definitivamente nel I secolo d.C. L’agorà di Morgantina si dispone su due pianure di diverso livello, raccordate da una scalinata. La piazza superiore di forma trapezoidale era delimitata su tre lati da lunghi portici, costruiti nel III secolo a.C. La stoà nord serviva da ginnasio, con vani per le attività sportive e ricreative. Sul lato ovest si trovava un portico con botteghe prospicienti, mentre il portico sul lato est lambiva la collina retrostante. Nell’angolo nord-est dell’agorà era una fontana monumentale, costruita verso la metà del III secolo a.C., a forma di stoà con


quattro colonne e con due bacini, il primo per il pubblico, il secondo di riserva, accessibile solo dall’interno; un’edicola sul bordo del bacino interno sosteneva le travi del tetto. Nella stessa zona si vedono i resti del bouleuterion, sala per le udienze del consiglio cittadino, con gradini disposti a semicerchio, costruita nel III secolo a.C. e distrutta in età romana. Al centro della piazza superiore venne costruito dopo la conquista romana, nel II secolo a.C., il macellum, il mercato coperto, con botteghe intorno a un cortile porticato e con tholos centrale. Verso sud l’agorà superiore è delimitata da una parte dal muro di recinto del teatro e d’altra dalla scalinata che scendeva sulla piazza bassa, ma serviva probabilmente anche da ekklesiasterion per le pubbliche riunioni. La scalinata, con quindici gradini, segue il dislivello con tre tratti di varia lunghezza, disposti a formare uno spazio trapezoidale, al centro del quale rimangono i resti di un podio per gli oratori. L’agorà inferiore è piú piccola, ed era delimitata verso ovest dal teatro, costruito sul fianco della collina grazie a un terrapieno artificiale. L’edificio, risalente al III secolo a.C., o forse solo alla fine del II secolo a.C., poteva accogliere circa 5000 spettatori. Al centro dell’agorà inferiore si trova il santuario dedicato a Demetra e Kore, costituito da due settori rettangolari distinti ma correlati. Il primo settore ruotava intorno a un cortile a cielo aperto con diversi ambienti per la produzione, la vendita e la deposizione di statuette votive; il settore meridionale era invece destinato al culto, con al centro un grande altare cilindrico per il sacrificio degli animali e una fossa circolare per la raccolta del loro sangue e di altre offerte votive. Piú a est, ai piedi della collina, erano situati magazzini per conservare il grano, il granaio pubblico. I quartieri residenziali presentano un impianto urbanistico con isolati rettangolari molto regolari, probabilmente già impostato nella metà del V secolo a.C. in occasione della rifondazione della città. Le case, invece, si datano quasi tutte in epoca ellenistica, spesso ristrutturate e divise in piú piccole unità abitative durante l’età romana. Nella maggior

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parte dei casi si articolano intorno a un cortile o a un peristilio interno, con muri chiusi verso la strada o la casa vicina. Nel quartiere a est dell’agorà sono grandi dimore a peristilio di epoca ellenistica. Per la posizione centrale e panoramica sopra l’agorà e per la ricchezza delle decorazioni, si tratta sicuramente di un quartiere aristocratico. Gli ambienti della Casa del Capitello dorico si raggruppano intorno a un cortile a cielo aperto centrale con quadriportico colonnato, il peristilio. Resti di una scala documentano che la In alto assonometria ricostruttiva di Morgantina: 1. teatro; 2. ekklesiasterion; 3. area sacra; 4. bouleuterion; 5. stoà nord; 6. stoà est; 7. granaio. A destra la dea di Morgantina, statua raffigurante una divinità femminile, forse identificabile con Afrodite. 420-410 a.C. Aidone, Museo Archeologico Regionale.

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AGRIGENTO e DINTORNI

MORGANTINA-MONTE ADRANONE

Qui sotto fontana monumentale a forma di stoà. III sec. a.C. Aidone, Museo Archeologico Regionale. In basso, a destra una phiale mesomphalos (patera umbelicata) e una pisside con coperchio figurato dal tesoro di Eupolemos. VI-III sec. a.C. Aidone, Museo Archeologico Regionale.

casa aveva un piano superiore; le stanze erano pavimentate in cocciopesto con mosaici monocromi. Verso sud-est segue la Casa di Ganimede, una delle dimore piú lussuose di Morgantina, cosí chiamata per un mosaico con la scena del ratto di Ganimede che decora una delle stanze. Gli ambienti si articolano intorno a un grande peristilio rettangolare, scandito da un colonnato di colonne doriche in pietra arenaria. Costruita nella seconda metà del III secolo a.C., la casa subí importanti trasformazioni in epoca romana, quando venne suddivisa da un muro che taglia il peristilio in due settori. Il Museo Archeologico Regionale di Aidone, con sede nel convento dei Cappuccini, espone materiali provenienti dagli scavi di Morgantina e dal territorio circostante, databili dal Neolitico al Medioevo. L’opera piú celebre è la Dea di Morgantina. Trafugata negli anni Ottanta del Novecento, è stata restituita all’Italia nel 2011

dal J. Paul Getty Museum di Malibu, che l’aveva acquistata nel 1986. Si tratta di una scultura alta poco piú di 2,20 m, con il corpo realizzato in calcare e le parti nude in marmo. L’identificazione della dea non ha ancora trovato un riscontro definitivo, per alcuni si tratta di Afrodite per altri di Demetra, Kore, oppure Era. La statua, che proviene dal territorio di Ragusa, è un’opera siciliana eseguita probabilmente da uno scultore ateniese negli anni 420-410 a.C. I sedici pezzi d’argenteria del tesoro di Eupolemos avevano funzioni diverse: alcuni erano destinati al simposio conviviale, altri erano utilizzati per un culto sacro, forse durante il banchetto cerimoniale. L’incisione del nome Eupolemos su diversi oggetti potrebbe indicarne l’ultimo proprietario. Tutti gli argenti erano lavorati magnificamente a sbalzo e cesello, spesso con foglia d’oro sovrapposta. I manufatti, databili all’età ellenistica, tra la fine del IV e la seconda metà del III secolo a.C., furono nascosti probabilmente durante la conquista romana di Morgantina nel 211 a.C. Vennero trafugati dopo il 1978, venduti a collezionisti ed esposti per anni al Metropolitan Museum of Art di New York. Nel 2010 il tesoro venne finalmente restituito all’Italia. Il cratere attico a figure rosse, attribuito al pittore Euthymides e datato alla fine del VI secolo a.C., fu rinvenuto nel 1959, in frammenti, all’interno di un edificio pubblico di Morgantina. Riparato già in età antica con grappe metalliche, il vaso presenta sul lato principale la rappresentazione della battaglia di Eracle contro le Amazzoni e, sul lato secondario, una scena di simposio.


monte adranone L

e imponenti rovine di Monte Adranone, situato su un’altura nei pressi di Sambuca di Sicilia, sorgono in un’area interessata sia dall’influenza sicana, sia da quella elimo-punica. L’incontro con queste diverse culture si riflette nella complessa fisionomia del sito che, in epoca ellenistica, divenne un caposaldo dell’eparchia punica in Sicilia. Il centro, per cui si è proposta l’identificazione con Adranon, ricordata da Diodoro come città che i Romani non riuscirono a conquistare nel corso della prima guerra punica, visse tra l’VIII e il III secolo a.C. L’area archeologica si estende sui terrazzamenti della collina con le necropoli ubicate alle pendici meridionali, caratterizzate da sepolture a camera ipogeica, tra cui la cosiddetta tomba della Regina (VI-V secolo a.C.), e a cassa (IV secolo a.C.). Gli scavi nell’abitato, difeso da imponenti mura di fortificazione a partire dal VI secolo a.C.,

hanno rivelato un edificio sacro con due betili, ai piedi dell’acropoli, appartenente alla sfera religiosa punica. Stessa matrice culturale presenta un tempio tripartito con spazio ipetrale al centro costruito in cima all’acropoli, che subí varie trasformazioni connesse all’affermarsi del culto di Baal-Hammon e Tanit nelle aree sotto l’orbita cartaginese. Fuori dalla città, a sud, fu costruito un piccolo santuario ellenistico dedicato a Demetra e Kore. Nell’Antiquarium «Monte Adranone» a Sambuca di Sicilia, è esposta una selezione di reperti rinvenuti nei diversi contesti di scavo: l’acropoli, l’abitato, che ha restituito alcuni cinturoni in bronzo decorati a sbalzo e la necropoli, con vasi di produzione indigena e ceramica attica a figure nere e rosse. L’area archeologica di Monte Adranone. L’insediamento può forse essere identificato con Adranon, città che, secondo lo storico Diodoro Siculo, i Romani non riuscirono a conquistare durante la prima guerra punica.

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AGRIGENTO e DINTORNI

SELINUNTE

SELINUnTE N

In basso e a destra una veduta e la pianta del tempio E di Selinunte, edificato intorno al 470-50 a.C. e ricostruito nel 1956.

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el VII secolo a.C. la zona sud-ovest della Sicilia era sotto il dominio cartaginese. Nel 628 a.C., quando abitanti di Megara Iblea, insieme a coloni della città madre in Grecia, decisero di fondare una nuova colonia sulla costa meridionale, poco lontano dagli empori fenici, sembra che i Cartaginesi non si opposero. Tutto lascia pensare a una vita tranquilla a Selinunte nei primi anni dopo la sua fondazione, con intensi scambi economici tra Greci, indigeni e Cartaginesi. Tuttavia, neanche due generazioni dopo, si intensificarono le tensioni con gli Elimi di Segesta fino ad arrivare a una prima guerra verso il 580 a.C. I Greci di Selinunte subirono una grave sconfitta, ma l’economia non ne risentí in maniera particolare e la città continuò a prosperare, come evidenzia la costruzione di grandi peripteri nella prima metà del VI secolo a.C.

Selinunte fiorí per piú di centocinquant’anni, finché, nel 409 a.C., venne distrutta e rasa al suolo dai Cartaginesi. Poco dopo, Ermocrate, tiranno di Siracusa, ricostruí l’acropoli e Selinunte rimase per due o tre generazioni un importante avamposto greco. Nella seconda metà del IV secolo a.C. la città passò definitivamente ai Cartaginesi e sopravvisse con modesta prosperità. I coloni punici si insediarono fra i ruderi dell’acropoli greca e ricostruirono alcune case, mentre adattarono


alcuni templi alle loro esigenze cultuali. Poi, per non cadere nelle mani dei Romani, gli abitanti rasero al suolo Selinunte e la abbandonarono verso il 250 a.C. in maniera definitiva. In epoca bizantina si insediò sul posto un piccolo villaggio di contadini. Nel Medioevo, un forte terremoto colpí Selinunte e fece crollare i resti della città greca, tra cui i templi monumentali. Il parco archeologico di Selinunte è molto esteso, e la visita si concentra su tre zone diverse, facilmente raggiungibili a piedi: la collina orientale con i tre templi E, F, G; l’acropoli con lo schema urbanistico regolare, la zona sacra e le mura di fortificazione; i santuari di Demetra Malophoro e di Zeus Meilichio in contrada Gaggera. Per chi lo desideri, esiste la possibilità di effettuare la visita con veicoli elettrici. Il tempio E fu costruito poco dopo la battaglia di Himera, verso il 470-450 a.C., con 6 x 15 colonne su uno stilobate di 25 x 68 m circa e

A destra metopa con Eracle e l’Amazzone, dal tempio E di Selinunte. Palermo, Museo Archeologico Regionale «Antonio Salinas».

una cella con pronao, naos e adyton. L’edificio crollò completamente durante un terremoto nel Medioevo e fu ricostruito nel 1956. Le cinque metope, eseguite nel calcare locale con aggiunte delle parti nude del corpo femminile si trovano nel Museo Archeologico Regionale di Palermo. Stranamente non c’è traccia di un altare davanti all’edificio, ma sembra comunque che il tempio fosse in uso. Il tempio F è il primo periptero sulla collina

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SELINUNTE

orientale, costruito intorno al 530 a.C., cioè poco dopo il tempio C sull’acropoli, e infatti, si basa fondamentalmente su di esso. La lunghezza rimane accentuata – si tratta di una caratteristica comune a tutti i templi della Sicilia –, ma non è piú cosí sproporzionata come il suo modello. Con 6 x 14 colonne su uno stilobate di 24 x 62 m circa, il periptero è piú ponderato, con relazioni piú chiare tra lati lunghi e corti, tra cella e porticato. Del tutto insolita è la chiusura degli intercolumni del porticato con pareti di quasi 5 m di altezza. L’unico accesso al tempio era perciò l’apertura centrale, tra la terza e la quarta colonna del lato orientale. Insieme all’Olympieion di Akragas, il tempio G è uno dei due piú grandi santuari mai costruiti in Sicilia. Su uno stilobate di 50 x 110 m circa si erge un colonnato di 8 x 17 colonne. I lavori iniziarono intorno al 520 a.C., ma sembra che nel 409 a.C. il tempio non fosse ancora completato. La cella presenta un pronao nella parte orientale e un opistodomo simmetrico

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elino Santuario di Demetra Malophoros

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Necropoli

occidentale; il naos a cielo aperto era suddiviso in tre navate, circondando un piccolo naiskos quadrangolare isolato, l’adyton. Per fare posto, nella zona dell’acropoli, ai templi A e O venne distrutto un quartiere abitativo. Il tempio A presentava 6 x 14

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A destra le colonne rialzate del lato nord del tempio C, costruito verso il 560 a.C.; al di sotto della foto è la pianta del santuario. In basso cartina del Parco Archeologico di Selinunte.

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AGRIGENTO e DINTORNI

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Baglio Florio (Antiquarium)

Marinella di Selinunte

Tempio G Tempio F Tempio E

Piazzale Iole Bovio Marconi

Acropoli Necropoli

Foce del Fiume

Tempio D Tempio C Tempio B Tempio A Porto Tempio O (interrato) Torre Polluce Foce del Fiume

Mar Mediterraneo | sicilia | 94 |

Stazione Piazza Stesicoro

Ingresso Parco Archeologico

P.le Martiri Selinuntini Dune

Piazzale delle Metope

Piazzale Efebo

Piazza Empedocle


colonne su uno stilobate di 40 x 16 m circa. Lateralmente, all’inizio del naos, erano due scale a chiocciola, come in molti altri templi della Sicilia. Del tempio si conservano quasi unicamente le fondamenta. Molti blocchi risultano reimpiegati altrove nella città. La costruzione del tempio O era stata appena cominciata quando i Cartaginesi distrussero la città nel 409 a.C. Verso il 560 a.C. venne costruito il tempio C, che, rispetto al tempio di Apollo di Siracusa, mostra uno sviluppo decisivo verso una normalizzazione e una coerenza della pianta generale. Come a Siracusa, il colonnato orientale fu raddoppiato e la scalinata si estese su tutta la larghezza della fronte. La cella ha un pronao, un naos e un adyton per la statua di culto. Sulla piazza davanti al tempio si ergeva un grande altare per i sacrifici cultuali. Se il tempio di Apollo a Siracusa può essere considerato come prototipo del periptero greco in Sicilia, il tempio C di Selinunte fu il modello per la maggior parte dei templi successivi. L’aspetto odierno, con alcune delle

colonne rialzate sul lato settentrionale, è frutto della ricostruzione degli anni 1925-27. Le metope arcaiche e il grande rilievo in terracotta della Gorgone si conservano oggi nel Museo Archeologico Regionale di Palermo. Pochi metri piú in là si trova il tempio D, un

Dall’alto in primo piano, i resti del tempio F, e, in secondo piano, quelli del gigantesco tempio G, con una colonna rialzata a metà, sulla sinistra; piante dei templi F e G.

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AGRIGENTO e DINTORNI

SELINUNTE

periptero costruito verso il 540 a.C. L’edificio presenta un grande passo in avanti verso il canone dorico della madrepatria. La lunghezza si accorcia, e la struttura sembra molto piú leggera in tutte le sue parti. La cella rimane chiusa nella parte occidentale con il consueto adyton, tipico per la Magna Grecia. Come i templi piú antichi, il naos del tempio D aveva due colonne fra le ante, in questo caso eseguite in forma di mezze colonne. La strada principale di Selinunte, con una larghezza di 8 m, attraversa tutta l’acropoli da sud a nord, intersecandosi a intervalli regolari con delle vie perpendicolari. Una seconda arteria principale andava da est a ovest e collegava i due porti della città, incrociando la prima all’altezza della zona sacra. Già nella sua prima fase, al momento della fondazione della colonia, venne creato il

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sistema urbanistico. Verso la metà del VI secolo a.C. le originarie, semplici case a traliccio con travi in legno furono ricostruite in muratura, ora a due piani. In epoca cartaginese, nel IV e III secolo a.C., vennero erette nuove case sui resti delle precedenti. Nei primi decenni di vita, in epoca greca arcaicoclassica, tutta la città, un’area di circa 110 ettari, fu circondata da imponenti mura, costruite con blocchi di tufo rettangolari, scandite a distanza regolare da torri di difesa; poi, nel 409 a.C. i Cartaginesi rasero al suolo le mura, che non vennero mai piú ricostruite cosí estese. L’evoluzione delle fortificazioni dopo la vittoria dei Cartaginesi fino all’abbandono della città intorno al 250 a.C. si vede ancora bene nella zona della Porta Settentrionale. Poco dopo il 409 a.C. si costruí un semplice muro di cinta intorno alla collina meridionale e,


in seguito, probabilmente all’inizio del IV secolo a.C., il muro settentrionale venne rinforzato e fiancheggiato da due torri rettangolari per la protezione dell’ingresso. Verso la fine del secolo si rinforzarono le fortificazioni intorno alla Porta Settentrionale con un impianto difensivo all’avanguardia per il suo tempo che prevedeva anche manovre offensive preventive in caso di assedio. Tutto il materiale per la costruzione di queste imponenti fortificazioni era di reimpiego e proveniva da ruderi della città greca di epoca arcaico-classica. Il propylon, l’entrata monumentale con colonne del santuario di Demetra Maloforo, venne costruito nell’ultimo quarto del V secolo a.C., mentre il santuario doveva essere già in uso prima dell’arrivo dei Greci. Si tratta sicuramente di un santuario fenicio del VII secolo a.C.,

rimaneggiato e dedicato a Demetra poco dopo la fondazione della colonia. Intorno al 600 a.C. i Greci costruirono un megaron, che subí in seguito diversi restauri e ampliamenti, per diventare un tempio rettangolare senza peristasi, diviso all’interno in tre ambienti. Davanti al tempio era un grande altare con offerte votive di età arcaica, oggi conservate nel Museo Archeologico di Palermo. Del santuario di Demetra Maloforo faceva probabilmente parte anche il santuario di Zeus Meilichio, che misura 17 x 17 m circa. All’interno si trovava un piccolo tempio di 5 x 3 m circa, con due colonne monolitiche all’ingresso, altari e piccoli vani di ignoto uso. Verso la fine del V secolo a.C. tutto il santuario di Demetra Maloforo venne recintato da mura, e l’entrata monumentalizzata con delle colonne. A circa 5 km di distanza dalla città si trovano le cave da dove proveniva quasi tutto il materiale litico da costruzione. Le pietre per il grande tempio G, invece, vennero trasportate dalle Cave di Cusa, cosí chiamate da un ex proprietario, il barone Cusa, e situate a circa 13 km in direzione ovest, verso Campobello di Mazara. Probabilmente furono la compattezza e il colore della pietra che portarono allo sfruttamento di queste cave. In situ si possono osservare i vari stadi del lavoro di estrazione della pietra, sia dei blocchi quadrati e rettangolari, sia delle colonne. Alcuni tamburi di colonne in diverse fasi di scavo, dall’abbozzo fino all’abbandono sulla strada, mostrano l’incompletezza del tempio. Altri, ancora attaccati al suolo, presentano crepe e lesioni e ne venne perciò abbandonata l’estrazione. Il lavoro cominciava dall’alto: con delle seghe tonde, acqua e sabbia si isolava il rocchio della colonna, per poi spezzarlo orizzontalmente dalla roccia.

A sinistra disegno ricostruttivo di Selinunte. Sulla sinistra, l’acropoli fortificata, con i templi A e O, C e D. A destra, la collina orientale con i templi E, F e G. In alto a sinistra si vede la Contrada Gaggera con il Santuario di Demetra Maloforo.

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AGRIGENTO e DINTORNI

MAZARA DEL VALLO

Mazara del Vallo il museo del satiro danzante

S

ituato nella ex chiesa di S. Egidio, il Museo del Satiro Danzante ospita la celebre statua in bronzo, riemersa fortuitamente dai fondali del Canale di Sicilia. La storia è nota. Era la notte del 5 marzo 1998, quando il motopeschereccio di Mazara del Vallo Capitan Ciccio fu protagonista di una pesca a dir poco miracolosa: nella rete a strascico, gettata a circa 480 m di profondità tra Pantelleria e Capo Bon, era rimasto impigliato un giovane Satiro danzante di bronzo, che dopo secoli di buio tornò a volgere il suo sguardo estatico al cielo del Mediterraneo. L’eccezionale scoperta era stata preceduta, un anno prima, dal rinvenimento, sempre casuale, di una gamba in bronzo, la sinistra, che poi risultò appartenere alla medesima statua. Dopo un accurato restauro il Satiro fu esposto a Roma nel 2003, a Palazzo Montecitorio, presso la Camera dei Deputati, per poi tornare nel luogo del rinvenimento dove oggi lo si può ammirare in tutto il suo splendore. Negli ultimi dieci anni, a testimonianza del grande interesse suscitato dalla scoperta, è stata prodotta una ricca bibliografia sulla statua che, tuttavia, non trova gli studiosi concordi sulla cronologia, né sullo stile e sull’originaria collocazione del bronzo. C’è chi lo vuole sulla prua di una nave che mentre solcava il mare di Sicilia lo perse accidentalmente o in seguito a un naufragio e chi, invece, lo ritiene un bottino di guerra o parte del prezioso carico di un mercante d’arte dell’epoca, affondato con la sua nave. L’unico punto sul quale tutti concordano è che la figura rappresenti un satiro, come svelano le orecchie equine e il foro di innesto della coda nella zona lombare, mentre danza sfrenatamente in preda all’ebbrezza dionisiaca, a tal punto da

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essere fortemente flesso sul fianco destro e con il capo rivolto verso l’alto in modo innaturale. Questo schema è abbastanza ricorrente fin dal IV secolo a.C. sia nell’ambito della pittura vascolare sia in quello della scultura in pietra e della piccola bronzistica. Un’interpretazione vede nel bronzo un originale del IV secolo a.C. attribuito a Prassitele, il satiro peribòetos ricordato da Plinio il Vecchio. Altri studiosi, sulla base di una serie di confronti, escludono che il satiro possa risalire a prima della fine del III secolo o, addirittura, al II secolo a.C.

Tre immagini del Satiro danzante recuperato dai fondali del Canale di Sicilia nel 1998. Mazara del Vallo, Museo del Satiro danzante.

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marsala | SICILIA | 100 |


tra fenici e

greci

Posto alle estreme propaggini orientali della Sicilia, lo stagnone di Marsala racchiude un piccolo gioiello archeologico, l’isola di Mozia. La cui suggestione è superata forse solo da quella del grande tempio greco che, dal Monte Barbaro, domina la città di Segesta

Sulle due pagine Mulini a vento delle saline di Marsala. Sullo sfondo, in

trasparenza, un particolare dell’auriga di Mozia (vedi a p. 111).

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MARSALA e DINTORNI

MARSALA

MArsala (lilibeo) A destra un tratto del decumano massimo della città romana di Lilybeum. Nella pagina accanto, in alto l’area archeologica di Capo Boeo. Nella pagina accanto, in basso la sala del Museo archeologico «Baglio Anselmi» in cui è esposto il relitto della nave punica. In basso la statua di Venere Callipigia rinvenuta nel 2005 nell’area della chiesa di S. Giovanni Battista al Boeo.

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L

ilibeo, il cui nome deriva dall’omonima sorgente ricordata dalle fonti, fu fondata sul promontorio di Capo Boeo dai Cartaginesi, dopo la distruzione di Mozia del 397 a.C., per insediarvi i cittadini superstiti. La città venne eretta sull’estrema punta occidentale della Sicilia, in un luogo facilmente difendibile, anche grazie ai bassi fondali che non consentivano un facile accesso alla città dal mare. Dotata di mura di fortificazione poderose, rafforzate da torri e protette su due lati dal mare, Lilibeo divenne la roccaforte dell’epicrazia punica in Sicilia. La città, che resistette all’assedio di Dionisio I nel 368 a.C., fu conquistata dai Romani nella battaglia delle Egadi che, nel 241 a.C., pose fine alla prima guerra punica. Sotto i Romani, Lilibeo raggiunse un elevato livello di prosperità economica e Cicerone, che fu questore della città (76-75 a.C.), nelle Verrine la definisce «splendidissima civitas». Divenuta municipio in età augustea, ottenne lo status di colonia agli inizi del III secolo d.C., con il nome di Helvia Augusta Lilybitanorum. Il parco archeologico di Capo Boeo conserva una parte dei resti dell’antica Lilybeum, che si estendeva fino al mare; il resto della città antica si trova sotto l’odierna Marsala. L’impianto urbano della città romana,

sviluppatosi sul precedente insediamento punico, era organizzato su cinque decumani orientati in senso nord-ovest/sud-est, che si incrociavano ortogonalmente a 21 cardini, creando una griglia di isolati di forma rettangolare. Le vie principali erano due: il decumanus maximus, ricalcato dall’attuale viale Vittorio Veneto e il cardo maximus, che lo incrociava ad angolo retto corrispondente all’odierno viale Isonzo. Recenti indagini archeologiche hanno portato in luce un tratto del decumano massimo, finemente lastricato, un imponente settore della linea delle fortificazioni costiere – realizzate con mura a doppia cortina, fornite di un camminamento superiore e con un accesso monumentale alla città dal porto antistante –, un edificio termale pubblico costruito nel III secolo d.C. sulle fortificazioni cadute in disuso, e un santuario risalente nelle sue prime fasi di


| I l Museo Archeologico «Baglio Anselmi» e il relitto della nave punica |

vita al II secolo a.C. Il tempio fu dedicato a Iside e al suo compagno Serapide nel II secolo d.C., ma il culto sembra sia durato fino al IV secolo d.C., età in cui l’edificio venne restaurato con marmi di un certo pregio. Nel quartiere del Boeo, indagato per la prima volta nel 1939, è stata localizzata un’insula quasi quadrata, con misure differenti rispetto agli altri isolati rettangolari della città antica, tipici dell’impianto punico-ellenistico. Fu probabilmente realizzata in epoca romana, nell’ambito di un programma di ampliamento e riorganizzazione della città. Nell’età imperiale (fine del II-inizi del III secolo d.C.) l’isolato subí trasformazioni radicali: una grande domus si sovrappose a due abitazioni precedenti, di cui conserva i due cortili aperti, uno scandito da quattro colonne (tetrastilo), l’altro a peristilio, che continuano a rappresentare il fulcro della casa. Gli ambienti che gravitano intorno al settore meridionale del peristilio erano riservati alla vita sociale e a quella familiare del padrone di casa. Nell’ala settentrionale della dimora si trovavano gli alloggi dei servi, le cucine e le terme organizzate intorno a una stanza centrale (frigidarium), decorata da un bel mosaico pavimentale con scene di felini in atto di attaccare degli erbivori. A est e a ovest del frigidarium erano le stanze per le vasche, il tepidarium e il calidarium. L’accesso all’impianto termale avveniva passando per una stanza decorata da un mosaico pavimentale con figura di cane legato alla catena, una sorta di avvertimento che voleva dire «cave canem» (attenti al cane).

Allestito nell’ex stabilimento vinicolo omonimo (1880), il Museo Archeologico «Baglio Anselmi» espone sia i rinvenimenti subacquei, tra i quali spicca il relitto di una nave punica, sia le testimonianze archeologiche di Lilibeo e del suo territorio, illustrate in ordine cronologico e topografico, dalle origini all’età medievale. Le sale ospitano anche reperti appartenenti alla collezione «Giuseppe Whitaker» di Mozia. Il relitto della nave punica, affondata a Marsala nel tratto di mare al largo di Isola Lunga, presso Punta Scario, è una testimonianza storica importante. Il naufragio risale al III secolo a.C., quando era in corso la battaglia delle Egadi. Il relitto conserva la parte della poppa e la fiancata di babordo, per una lunghezza di circa 10 m. Si tratta di una nave da combattimento a remi, costituita da fasciame, rivestito sul lato esterno da lamine di piombo, con un’ossatura di madieri e ordinate in regolare alternanza. Sul fasciame sono incise e dipinte le lettere dell’alfabeto fenicio, a conferma della velocità con cui venivano costruite le navi puniche, già nota alle fonti classiche. I corsi di fasciame e le parti strutturali venivano realizzati in serie e contrassegnati in modo da poter essere assemblati rapidamente e consentire l’allestimento di una flotta in pochi giorni. Insieme al relitto sono stati recuperati reperti vascolari, facenti parte del carico, cordami e persino resti di cannabis.

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MARSALA e DINTORNI

MOZIA

mozia In basso veduta aerea dell’isola di Mozia. Sullo sfondo, in alto, a sinistra, l’isola di Favignana.

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«N

on lontano da questo monte [Erice] c’era la città di Mozia, colonia dei Cartaginesi, che essi usavano soprattutto come base per le operazioni contro la Sicilia. La stessa città si trova in un’isola, distante sei stadi dalla Sicilia, costruita in maniera sommamente artistica, per la moltitudine e la bellezza delle case, grazie alla ricchezza degli abitanti. [Dionisio] sperava, una volta impadronitosene, di riportare non pochi

vantaggi sui nemici. Era stato anche costruito uno stretto passaggio che la univa alla costa della Sicilia, distrutto in quell’occasione dagli abitanti di Mozia perché i nemici non avessero nessuna possibilità di arrivare a loro». Con queste parole, lo storico greco Diodoro Siculo descrive Mozia, ricordando anche le misure adottate dalla città per difendersi dall’attacco dei Siracusani. L’antica Mozia è stata identificata con l’isola di


San Pantaleo, al centro dello Stagnone di Marsala, una vasta e bassa laguna naturale caratterizzata da un ecosistema unico, ricco di sale e pesce. Secondo una recente interpretazione, l’etimologia del nome Motye, tramandato dalle fonti classiche, ricollegata a una forma semitica da una radice che significa «attorcigliare, avvolgere», andrebbe letta nel significato plurale di «attracchi». Scelta dai Fenici come approdo naturale ben protetto, Mozia, per vari secoli, fu un polo di irradiamento della cultura fenicio-punica nel Mediterraneo, e sviluppò un fecondo contatto culturale con gli Elimi dell’entroterra e i Greci di Sicilia. Il primo stanziamento fenicio a Mozia risale al secondo quarto dell’VIII secolo a.C. e si concentrò, inizialmente, nel quadrante sudoccidentale dell’isola («Quartiere di Porta sud»). La scelta di questa area per l’antico abitato fu dovuta, probabilmente, alla presenza

di una sorgente d’acqua dolce che affiorava dalla falda freatica, alimentando un piccolo stagno a pochi metri della spiaggia. Pozzi scavati nel banco di marna argillosa e una grande struttura tripartita con funzioni di magazzino facevano parte del piú antico abitato fenicio che gravitava intorno al tempio eretto pochi metri piú all’interno della sponda meridionale dell’isola, nell’area del kothon. La vita dei Moziesi doveva scorrere serena finché Dionisio I, divenuto tiranno di Siracusa, desideroso di liberarsi della presenza punica, nel 397 a.C. mosse le sue truppe e la sua flotta contro Erice e Mozia. Dionisio disponeva di un esercito imponente, composto da 80 000 fanti, oltre 3000 cavalieri, 200 navi da guerra e 500 navi che trasportavano nuove macchine da guerra per espugnare le città. I Cartaginesi accorsero in aiuto di Mozia con 100 navi, guidate da Imilcone, ma la potenza della flotta

Qui sopra e in alto due immagini del kothon. Secondo una nuova interpretazione, si trattava di una piscina cultuale collegata a una grande area sacra adiacente. In primo piano il tempio del kothon, in secondo la piscina.

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MARSALA e DINTORNI

MOZIA

Strada sommersa

Birgi Necropoli

Porta Ovest

Fortezza Occidentale

S. Maria

Necropoli Porta Nord Antico quartiere industriale Santuario del «Cappidazzu»

Resti dell’antico abitato

Isola Grande La Scuola

Tofet

Strada sommersa

MO ZIA

Mura urbiche

S. Pantaleo (Mozia)

Mura urbiche

Casa delle anfore

Casa del sacello domestico Casa del corno di conchiglia Casa dei mosaici Kothon

Museo

Tempio del Kothon Porta Sud

Carta dell’isola di Mozia e la sua ubicazione nello Stagnone di Marsala.

siracusana, superiore per numero e dotata di catapulte in grado di lanciare grappoli di frecce a centinaia di metri, fece desistere il generale, che rientrò a Cartagine lasciando Mozia al suo destino. Un destino che per l’isola e i suoi abitanti fu terribile: i soldati di Dionisio invasero la città, ne massacrarono la popolazione, saccheggiarono le ricchezze, incendiarono e rasero al suolo gli edifici. La splendida Mozia non c’era piú e i pochi superstiti si rifugiarono a Lilibeo, la moderna Marsala. L’anno successivo i Cartaginesi rioccuparono Mozia e cacciarono i Siracusani, ma l’isola, seppur nuovamente abitata, come attestano gli scavi archeologici, perse la sua importanza e il suo ruolo centrale.

Alla scoperta di Mozia Appena sbarcato sul piccolo molo dell’isoletta e dopo aver percorso un vialetto contornato da piante e vegetazione, il visitatore trova sulla destra il Museo Whitaker e procedendo in senso orario, nell’area sud-orientale dell’isola, raggiunge il settore noto come Casa dei Mosaici. Le strutture si dispongono su due livelli distinti, che degradano fino alla costa. Il settore a valle era diviso in due gruppi di costruzioni realizzate con murature in «opera a telaio», una tecnica usata anche nel Vicino Oriente e che i Romani chiamavano opus Punicum. In questo settore di carattere

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200 mt

artigianale, separato dal superiore, sono stati individuati vari pithoi, grandi contenitori per derrate alimentari. La parte alta è costituita da un’ampia terrazza, allungata verso est, in un avancorpo affacciato verso il mare. La struttura è caratterizzata da un grande cortile rettangolare con peristilio, sul quale si aprivano ambienti a uso residenziale. Il portico colonnato della corte era pavimentato con un mosaico a ciottoli alternati bianchi e neri, con figure di animali reali e fantastici: capridi in posizione araldica, cavallino al galoppo, pannello con ippocampi e pesci, zoomachia con grifone che attacca un cavallo e un felino che azzanna un toro. Alla tradizionale interpretazione di un’opera ellenistica si è affiancata anche quella di un lavoro maturato nella tradizione figurativa fenicio-punica, sul modello di alcuni esemplari iberici. Proseguendo verso il litorale, si incontrano i primi resti delle mura che circondavano interamente la città antica per una lunghezza di circa 2,5 km, consentendo un controllo decisamente efficace della costa. La città era dotata di quattro porte di accesso, orientate secondo i punti cardinali, di cui se ne conservano due. La Porta Nord è preceduta da due possenti bastioni e ha un ingresso non in asse rispetto alla strada che conduce all’interno, fino al santuario del Cappiddazzu.


Due sacelli collocati enfaticamente di fronte alla porta e la strada sommersa che attraversa lo Stagnone fino alla terraferma raggiungendo Birgi – oltre alla presenza di numerosi resti sommersi appartenenti a un grande impianto portuale – caratterizzano questa struttura come uno dei due accessi alla città antica. Sul versante opposto dell’isola si trova la Porta Sud, rivolta in direzione di Capo Boeo, nel punto in cui le navi si immettevano dal mare aperto alla laguna dello Stagnone; presenta lo stesso impianto, con due bastioni monumentali posti a protezione del passaggio. La cinta muraria, risultato di continue modifiche e ricostruzioni tra il VI e il IV secolo a.C., ci appare oggi come un impianto massiccio, costituito da blocchi squadrati di calcarenite, scheggioni di calcare e masse di mattoni crudi. A intervalli regolari, la linea di fortificazione è rafforzata da torri quadrate, tra cui la torre orientale, affiancata da scale che permettevano la comunicazione con l’esterno e il bastione a ovest di Porta Sud, eretto a protezione dell’imboccatura del kothon. I risultati degli scavi che la Missione Archeologica a Mozia della Sapienza Università di Roma conduce da un decennio in questo settore dell’isola hanno indotto a correggere l’originaria interpretazione come porto del kothon, l’invaso artificiale posto nei pressi della Porta Sud, utilizzato come salina nel Medioevo. Il nome della struttura deriva dal greco kothon, «grande vasca», ed è generalmente riferito a una tipologia di bacini artificiali di carenaggio fenici simili a quello di Cartagine, i kothona. Indagini geomorfologiche effettuate nelle isole dello Stagnone hanno però escluso tale funzione, dal momento che sarebbe stato quasi impossibile per grandi navi entrare in quello spazio di laguna poco profondo. Il recente ritrovamento di un’imponente area sacra con diversi edifici templari eretti all’interno di un grande recinto circolare che comprende anche la vasca del kothon, oltre alla scoperta di una fonte sorgiva di acqua dolce che confluisce all’interno dello specchio d’acqua, hanno fatto riconoscere nel kothon una piscina cultuale, collegata ai riti che si celebravano nell’adiacente area sacra.

Il primo edificio di culto a essere eretto fu il tempio C5, realizzato con grandi pietre e blocchi di calcare locale appena sbozzati, con planimetria rettangolare tripartita, a cui fu aggiunta una navata a est. Nel cortile centrale erano posti un pozzo sacro, un obelisco e due stele/betili; la navata settentrionale ospitava il fulcro del luogo di culto, costituito da un adyton con un altare. A lato dell’altare era un mundus, un’imboccatura con lastre a raggiera attraverso cui si entrava in contatto con il mondo sotterraneo. Alla metà del VI secolo a.C. il tempio C5, come molti altri edifici di Mozia, fu completamente distrutto e tutti gli arredi di culto furono sepolti nella grande favissa (fossa votiva) a nord del tempio. Le rovine del tempio C5 furono quindi livellate e l’intera area fu ricostruita secondo un impianto che comprendeva un nuovo edificio sacro (tempio C1, 550-480 a.C.), una piscina sacra rettangolare (kothon), in cui confluiva l’acqua dolce, collegata direttamente al cortile del tempio, ma, soprattutto, un grande recinto circolare (temenos), che includeva al centro la piscina sacra e altri edifici collegati. Il tempio fu ricostruito in forme monumentali, con porta d’accesso inquadrata da due lesene o semicolonne e architrave con cornice a gola egizia. Ai lati del passaggio erano due pilastrini, secondo un’usanza dei templi fenici. Nel cortile

I resti delle mura che circondavano la città antica di Mozia per una lunghezza di circa 2,5 km.

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MARSALA e DINTORNI

MOZIA

Sulle due pagine la zona del tofet, il santuario fenicio per il sacrificio dei bambini.

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erano allineate varie installazioni cultuali: il pozzo sacro, un obelisco e due stele. Una nuova distruzione segnò la fine di questa fase e fu seguita dalla ricostruzione dell’edificio di culto, con poche ma significative modifiche, la piú importante delle quali fu l’aggiunta di un’ala tripartita sul lato orientale, caratterizzata da un portale d’accesso monumentale. Seguendo il costume tipico dei luoghi di culto vicino-orientali, il kothon è orientato secondo i punti cardinali. Per quanto riguarda i culti praticati, i materiali rinvenuti nella favissa, tra cui ceramica greca e fenicia, e le offerte gettate in uno dei pozzi, rimandano a divinità ctonie, connesse ai riti di passaggio. L’attestazione in un contesto fenicio di pratiche rituali riferibili alla ritualità greca, documenta il ruolo di sincretismo e interazione culturale svolto dall’area sacra del kothon. Un frammento di basalto e ciottoli di pietra bianchi e neri si possono riferire a Baal-AddirPoseidon, la divinità tutelare del tempio del

kothon, attestata anche da un’iscrizione, mentre semi, mandorle e il rituale del sacrificio della testuggine rimandano a Demetra. A nord del tempio maggiore, in un settore della Fortezza occidentale, era un piccolo sacello dedicato ad Astarte, paredra di Baal, nel suo aspetto ctonio, legata alla fecondità e ai cicli di rinascita. Il piccolo edificio, costituito da un vestibolo e una cella con nicchia ha restituito la testa di una statua in calcarenite identificabile con Astarte, databile per lo stile al VI secolo a.C. Nell’area sacra del kothon, quindi, l’originaria coppia Baal-Addir-Astarte, titolare dei templi maggiori fin dall’VIII secolo e in particolare nel periodo arcaico, nel corso del V secolo, fu progressivamente assimilata alla coppia Poseidon-Demetra, pienamente inserita nella koinè culturale dell’epoca. Tornando verso il museo, una strada sulla sinistra conduce direttamente al tofet e alla necropoli. Il primo è il santuario nel quale venivano deposti i resti combusti delle


sepolture infantili. La stessa parola tofet si può ricollegare a una parola ebraica che indica il «passaggio per il fuoco», alludendo cosí a sacrifici umani in onore del dio Moloch. Quello di Mozia ha restituito oltre 1000 deposizioni, accompagnate da cippi e stele figurate, alcune con dedica a Baal Hammon, distribuite su sette strati, raggruppati in tre fasi, oltre ad altre installazioni di culto che coprono un arco cronologico compreso tra la seconda metà dell’VIII e la fine del IV secolo a.C. Tra i piú noti ritrovamenti del tofet moziese, si distingue la maschera dal sorriso ghignante, verosimilmente di significato apotropaico. Le campagne di scavo 2010-2011 hanno evidenziato che mentre nella prima configurazione il tofet con il suo campo di urne dovette essere nettamente separato dal tessuto urbano, in una zona periferica della città, chiuso allo sguardo da alti muri, con la ricostruzione di Mozia, alla metà del VI secolo a.C., venne inserito nel circuito delle mura

insieme ad altre installazioni cultuali costruite a sud del campo deposizionale. Subito dopo il tofet, procedendo lungo la costa occidentale, si incontra la necropoli, in uso tra la fine dell’VIII e la metà del VI secolo a.C. Il cimitero sorge su un affioramento di roccia calcarea, in parte tagliato dalle fortificazioni erette nel corso del VI secolo a.C., ed è costituito da tombe a incinerazione. Si distinguono tre tipi di sepolture: a) cinerari costituiti da sei lastre di pietra; b) pentole o anfore cinerarie; c) cinerario formato da un blocco di pietra scavato al centro e chiuso da una lastra. Il corredo era posto all’esterno del cinerario e comprendeva prevalentemente vasi di tradizione fenicia, associati a ceramica di importazione greca, soprattutto corinzia, talvolta accompagnati da armi in ferro e ornamenti femminili in oro, argento e bronzo. Intorno alla metà del VI secolo a.C. la costruzione delle fortificazioni determinò la restrizione dello spazio per le sepolture in

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MARSALA e DINTORNI

MOZIA

I resti del tempio dentro il santuario del Capiddazzu sull’isola di Mozia.

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quest’area. In precedenza, si pensava che gli abitanti di Mozia, abbandonata la necropoli arcaica a causa dell’espansione dell’abitato e del cambiamento di rituale dalla cremazione all’inumazione, avessero trasferito la loro necropoli sulla terraferma, a Birgi dove le tombe rinvenute sono a cassone litico e presentano materiali in sequenza cronologica con quelli moziesi. È stato invece dimostrato che la necropoli recente di Mozia si è sviluppata sulla stessa isola, fuori delle mura, lungo la fascia costiera settentrionale, tra la Torre Orientale e il tofet, dove sono state rinvenute diverse inumazioni in fossa o in cassa litica, che documentano l’esistenza di sepolture almeno fino al IV secolo a.C. Proseguendo dalla costa verso l’interno, si incontrano due aree destinate alle attività produttive, denominate T e K. La zona T presenta fosse circolari, scavate nella roccia, probabilmente destinate alla tintura dei tessuti, come attesta la scoperta di molte conchiglie di murex, il mollusco dal quale si ricavava la porpora. Sono stati rinvenuti forni da vasaio anche nell’altra zona produttiva. Si tratta di strutture di forma ovale o circolare a due piani: quello inferiore, generalmente interrato, con la camera di combustione; il superiore adibito a camera di cottura. La zona K fu usata dal VI al V secolo a.C. e, nel corso dell’assedio di Dionisio, venne in parte obliterata da cumuli di detriti ammucchiati intenzionalmente, forse per creare uno sbarramento interno alle mura in funzione difensiva. Sotto questi detriti fu

rinvenuta la statua dell’auriga di Mozia, in posizione supina, forse nascosta ai nemici. Continuando il percorso, in uno dei punti piú alti dell’isola, si incontra il santuario del Cappiddazzu, costituito, nella sua struttura piú recente, da un tempio e un recinto rettangolare. Il nome siciliano sta per «cappellaccio», e, a quanto sembra, deriva dalla leggenda di uno spettro che portava un grande cappello, il fantasma di un eremita a Mozia, che si pensava infestasse l’area. Appare piú logico pensare al cappellaccio di uno spaventapasseri. L’area occupata dal tempio fu destinata al culto fin dalla seconda metà dell’VIII secolo a.C., al tempo del primo insediamento urbano di Mozia. Il luogo venne usato inizialmente come un’area a cielo aperto, nella quale si praticavano sacrifici di animali e si depositavano le offerte. In epoca arcaica (VI-V secolo a.C.) venne eretto un edificio sacro a pianta rettangolare, le cui strutture in pietrame grezzo sono state inglobate nell’edificio piú recente, un tempio tripartito circondato da un temenos. I materiali edilizi dell’edificio di terza fase furono riutilizzati nel tempio della successiva e ultima fase, un edificio monumentale a tre navate. La navata centrale è suddivisa da un muro trasversale che serviva verosimilmente a delimitare l’adyton, ma, nel IV secolo a.C., questo settore del santuario subí una radicale spoliazione. Sembra pertanto probabile che la statua dell’auriga di Mozia provenisse proprio dall’area del tempio. La piú recente fase architettonica del Cappiddazzu è stata


| Il museo «Giuseppe Whitaker» e l’auriga di Mozia | Il nucleo originario del Museo «Giuseppe Whitaker» è costituito dalla collezione composta da Joseph Whitaker grazie agli scavi eseguiti nei primi anni del Novecento. Nel 2001 il museo è stato ampliato con l’aggiunta di reperti restituiti dagli scavi condotti nella seconda metà del XX secolo. Il percorso inizia con la sala didattica che presenta un plastico dell’isola e l’indicazione delle aree archeologiche, corredato da pannelli con informazioni sulla storia e la civiltà dei Fenici. Nella sala seguente è esposta la statua dell’auriga, rinvenuta nel 1979 sotto un cumulo di detriti e frammenti architettonici nell’area K, la zona industriale a nord del Cappiddazzu. Seguono le sale con le vetrine e i pannelli relativi ai reperti di epoca preistorica, ai materiali rinvenuti nelle fortificazioni e in diversi settori dell’abitato di Mozia. Sono poi esposti i reperti provenienti dalle aree sacre del Cappiddazzu e del tofet, con le stele iscritte, le maschere e i numerosi vasi relativi alla lunga vita del santuario. Infine alcune vetrine sono riservate ai corredi della necropoli arcaica di Mozia, con materiali fenici e greci, datati dalla fine dell’VIII secolo al V secolo a.C., e della necropoli di Birgi, scavati nel 1996.

L’auriga di Mozia. La statua, attribuita a un maestro greco attivo in un periodo di poco anteriore alla metà del V sec. a.C., è stata recentemente identificata con Alcimedonte, il capo mirmidone greco, figlio di Laerce, ricordato da Omero nei libri XVI e XVII dell’Iliade, descritto come «ottimo auriga»; guidò il carro di Achille, trainato dagli immortali destrieri Balio e Xanto, fuori dallo scontro per la contesa del corpo di Patroclo. È stato possibile risalire all’identità del personaggio raffigurato nella statua grazie al nome Alchimedon iscritto su un cratere attico rinvenuto nell’area del tempio del kothon.

ricondotta a una tipologia ben attestata nel coevo mondo punico, quella dei templi a pianta rettangolare a tre celle, noti nella Sicilia occidentale dal tempio del Sacello Punico del Monte Adranone e dal tempietto dell’area sacra di Solunto, ma con riscontri anche in ambito etrusco (tempio del Belvedere di Orvieto). Dopo la distruzione dell’ultimo edificio sacro, l’area del santuario fu rioccupata in età romana, bizantina e islamica, conservando la destinazione cultuale, come documenta la costruzione di una chiesetta normanna intitolata a san Pantaleo. Superata la Porta Nord, che era l’accesso principale a Mozia da terra, fiancheggiata da due bastioni e attraversata da una strada lastricata sulla quale sono ancora visibili i segni lasciati dalle ruote dei carri, si raggiunge un grande isolato di forma rettangolare, la Zona A. L’isolato si compone di piú unità abitative, solo parzialmente indagate, che documentano la continuità di vita dal VII secolo a.C. al periodo post-dionigiano. Si distingue la Casa delle Anfore, che prende nome dalla presenza sul pavimento di ventidue anfore di tipo punico, produzione moziese del IV secolo a.C.

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MARSALA e DINTORNI

SEGESTA

Segesta L

a data della fondazione di Segesta, città elima, non è del tutto chiara. Agli inizi del VI secolo a.C. il sito era sicuramente abitato, poi, negli anni 580-576 a.C., seguí una prima guerra tra Segesta e Selinunte, che vide gli Elimi uscire vincitori. Per il resto del VI e per tutto il V secolo a.C. le controversie si susseguirono, sfociando di tanto in tanto in guerra aperta. Nel 415 a.C. Segesta chiese aiuto ad Atene e provocò la grande spedizione in Sicilia. La città elima rimase alleata dei

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Cartaginesi anche durante il IV e III secolo a.C., subendo ripetuti attacchi da parte dei Siracusani, ma ogni volta si riprese. Nel 260 a.C. Segesta si sottomise ai Romani e conobbe una nuova fase di prosperità. La città occupava la sommità del Monte Barbaro, dove si trovava l’acropoli. L’abitato si sviluppò già nel VI secolo a.C. lungo le pendici del monte. Scavi archeologici documentano la vita molto lunga di alcune case arcaiche, con vari rimaneggiamenti e ristrutturazioni fino


all’epoca medievale. Una cinta muraria, costruita tra la fine del VI e gli inizi del V secolo a.C., proteggeva il versante nord e fu sostituita in età romana da nuove mura cittadine, erette a una quota superiore. Il tempio di Segesta è l’ultimo grande periptero costruito in Sicilia in epoca greca, iniziato intorno al 420 a.C. e sicuramente abbandonato prima del suo compimento. Dell’edificio rimangono oggi in piedi, sopra uno stilobate di circa 23 x 58 m, l’intero

colonnato di 6 x 14 colonne con la trabeazione, l’architrave, il fregio dorico e i due timpani sui lati corti. Lo stilobate è rimasto incompiuto, manca infatti l’ultimo piano della crepidine, come mostrano i blocchi squadrati sotto le colonne (l’ordine dorico non prevede mai una base sotto la colonna). Molti blocchi presentano ancora le bozze per facilitare la messa in opera, che venivano tagliate solo in fase di rifinitura. Manca anche la scanalatura delle colonne,

Il tempio di Segesta. La costruzione del grandioso edificio fu avviata intorno al 420 a.C., ma non venne portata a termine.

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capitolo

ulteriore segno dell’incompiutezza del tempio. Del tutto assente è la cella, sebbene nuove analisi abbiano dimostrato che era stata prevista e ne era stata avviata la costruzione. Non è chiaro il motivo per cui gli Elimi volessero costruire un periptero greco secondo il canone dorico; per questo fecero arrivare manodopera greca, probabilmente da Selinunte. Durante il V secolo a.C. Segesta aveva sicuramente raggiunto un alto grado di ellenizzazione, ma rimaneva pur sempre città elima, con tradizioni e riti diversi. Sappiamo troppo poco sulla religione degli Elimi, ma i grandi templi greci facevano

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difficilmente parte dei loro culti. Probabilmente il periptero segestano era una manifestazione propagandistica, voluta per attirare gli Ateniesi in Sicilia, e non era destinato a un culto preciso. L’agorà, situata nell’area dell’attuale piazza in cui sosta la navetta, presenta diverse fasi edilizie, dalla protostoria al Medioevo. L’edificio piú importante finora scavato è il bouleuterion di età ellenistica. All’interno di una struttura rettangolare si vedono i resti delle sette gradinate disposte a semicerchio dove si riunivano i consiglieri della città. Alcuni materiali sembrano indicare una fase


Contrada Barbaro

Tempio Teatro

Torri

Rovine della città antica

Monte Barbaro

Contrada Mango Altare elimo

anteriore dell’edificio, databile intorno al IV-III secolo a.C. Piú a sud si trovano ancora i resti di un complesso con colonnato che dava accesso all’agorà. Recenti scavi condotti in questo settore hanno individuato un portico monumentale, su due piani, di circa 100 m di lunghezza, costruito in età ellenistica e databile negli ultimi decenni del II secolo a.C. La stoà era a forma di «L» e divisa nella parte inferiore in due navate da una fila di colonne ottagonali. Verso la piazza, il portico era scandito da colonne doriche sormontate da una trabeazione anch’essa di tipo dorico; il piano superiore era di stile ionico con

semicolonne collegate da balaustre. Il pavimento era in semplice terra battuta, mentre le pareti interne erano rivestite da un intonaco rosso e bianco. Nell’angolo nord-est si trovava un ambiente rettangolare, raggiungibile tramite un ingresso monumentale dall’interno del portico, forse una sala di riunione o un archivio. A est seguivano altri ambienti, per il momento di ignota destinazione. Quasi tutti i resti scavati sull’acropoli, tra l’agorà e il teatro, si datano in epoca medievale e confermano la continuità di vita dell’insediamento fino alla metà del XIII secolo. Sul versante nord dell’acropoli venne costruito, con blocchi di calcare locale, un teatro con la cavea delimitata da possenti mura di sostegno. L’accesso principale per gli spettatori era dall’alto con due entrate disposte in maniera non simmetrica fra la summa cavea; altri due ingressi laterali erano dalle parodoi, fra i muri di sostegno e la scena. Solo alcuni blocchi della scena sono conservati: doveva trattarsi di un edificio a due piani, l’uno in stile dorico, l’altro in stile ionico, fiancheggiato da due ambienti laterali avanzati. Nuove indagini archeologiche sembrano confermare la datazione del teatro di Segesta alla metà del II secolo a.C., in una fase in cui la città visse una nuova prosperità.

In alto pianta dell’area archeologica di Segesta, con l’indicazione dei monumenti principali. Nella pagina accanto una veduta aerea del teatro e dell’acropoli.

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palermo

il porto degli

aranci Coperchio di un’urna cineraria in terracotta policroma raffigurante la defunta riccamente abbigliata e con un ventaglio nella mano destra. Palermo, Museo Archeologico Regionale Antonio Salinas.


l’antica palermo, città di fondazione fenicia, fu da sempre considerata un approdo perfetto. alla sua fortuna contribuí, inoltre, la fertile pianura chiamata «conca d’oro» per i suoi rigogliosi aranceti

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PALERMO e DINTORNI

PALERMO

palermo U

In alto, sulle due pagine piazza della Vittoria con il Palazzo dei Normanni in secondo piano. In questo settore della città sono venute alla luce importanti testimonianze della città antica, tra cui alcune domus signorili di grande pregio. Nella pagina accanto, in basso, a sinistra pianta schematica di Palermo con l’area occupata dall’antica Panormos. Nella pagina accanto, in basso, a destra un tratto superstite delle mura puniche di Panormos.

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na continuità di vita eccezionale e una stratificazione storica plurisecolare caratterizzano Palermo, che i Greci chiamarono Panormos (da pan hormos, «tutto porto»), per la peculiare configurazione geomorfologica ricca di insenature marine protette. La città, di fondazione fenicia, sorge su una piattaforma calcarenitica risalente al Pleistocene, affacciata sul mare e delimitata da due corsi d’acqua, il fiume Papireto e il torrente Kemonie. Alle sue spalle, si estendeva un’ampia e fertile pianura, chiusa a ovest da alti rilievi, che venne chiamata in seguito «conca d’oro» per la presenza di rigogliosi aranceti. Per quanto riguarda le piú antiche fasi di vita della città, le fonti, a parte la menzione di Tucidide relativa al primo emporion, non danno molte informazioni. Notizie piú dettagliate riguardano il conflitto tra Greci e Cartaginesi del 480 a.C. e sono riferite da Diodoro Siculo che descrive il porto di Panormos come l’approdo in cui trovò riparo la flotta di Amilcare proveniente da Cartagine e diretta a Himera. Lo scrittore racconta inoltre che, nel 409, il territorio panormita venne saccheggiato da Ermocrate di Siracusa. In seguito, la città rimase sempre fedele a Cartagine, ma nella prima guerra punica, dopo un lungo assedio, Panormos venne definitivamente conquistata dai Romani. Racconta Diodoro: «I Romani penetrati nel porto, ormeggiano le navi presso le mura e, sbarcato l’esercito, chiusero la città con una palizzata ed un fossato (…). Quindi i Romani buttarono giú le mura e, impadronitisi della città esterna, uccisero parecchi nemici; gli altri fuggirono nella città vecchia e mandati ambasciatori ai consoli, chiesero di essere risparmiati». Per l’epoca successiva alla conquista romana, le testimonianze archeologiche attestano la notevole fioritura della città sul piano economico, di cui sono prova i resti delle lussuose dimore di piazza della Vittoria, ornate da pregevoli pavimenti musivi geometrici e figurati. Il periodo romano di Palermo si concluse con la conquista di Belisario nel 535

d.C. e per tutta l’epoca bizantina la città fu un importante centro politico e religioso. Le prime attestazioni archeologiche risalgono alla fine del VII secolo a.C., ma si fanno piú frequenti a partire dal VI secolo a.C. I rinvenimenti interessano un ampio settore delle necropoli della città che rappresentano la testimonianza piú completa dell’antico emporio fenicio-punico. Il percorso di visita all’interno dell’area della caserma Tukory, in corso Calatafimi, di grande interesse e molto ben realizzato, consente la fruizione di alcune sepolture – arricchite dai calchi degli scheletri e


Necropoli punica

Museo Archeologico

Porto

Palazzo Branciforte Cattedrale

Limiti dell’antica Panormo Palazzo dei Normanni

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PALERMO e DINTORNI

PALERMO

| Un percorso iniziatico | Il mosaico delle Stagioni dell’edificio A di piazza della Vittoria presenta un percorso ideologico raggruppato in tre grandi settori: la prima serie di tre pannelli rappresenta figure sedute di sapienti; nella seconda si succedono tre pannelli con gli amori di Zeus; la terza costituisce un pannello centrale, attorno al quale si dispongono quattro busti di divinità agli angoli, di cui rimangono Helios, Nettuno ed Ercole. Tra Helios e Nettuno si trova il pannello con Dioniso e il grifone e, al di sotto, Europa e Zeus in forma di toro. L’insieme delle raffigurazioni e il loro simbolismo richiamano la sfera dionisiaca e alludono a un percorso iniziatico (III secolo d.C.).

In alto particolare del mosaico delle Stagioni, dall’edificio A di piazza della Vittoria. Palermo, Museo Archeologico Regionale «Antonio Salinas». III sec. d.C. In basso tombe della necropoli punica scoperta all’interno della caserma Tukory.

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dei corredi – e la possibilità di accedere a due tombe a camera monumentali. Le analisi antropologiche effettuate su un campione di individui hanno rivelato la loro appartenenza etnica a popoli afromediterranei arcaici, a conferma dello stretto legame che univa le genti dell’antico emporio fenicio con Cartagine. Le deposizioni coprono un arco cronologico compreso tra il VI e gli inizi del III secolo a.C. e sono generalmente ricavate nel banco di calcarenite marina ricoperto di terra rossa. Sono attestati i riti dell’incinerazione e dell’inumazione, e, per quanto riguarda le

tipologie, risultano diffuse le tombe a camera ipogeica o le inumazioni in sarcofago litico. Oltre a evidenziare un livello economico abbastanza elevato, i reperti ceramici restituiti dagli scavi rivelano una profonda commistione culturale tra genti di origine punica e Greci. Il primo nucleo dell’abitato, la Paleapolis (città vecchia), di cui non si conservano strutture evidenti, era dislocato nella parte alta del Cassaro (dall’arabo al-qasr, castello), nel settore della città in cui oggi si trovano Palazzo dei Normanni e piazza della Vittoria. Nel corso del V secolo a.C. la città si ampliò verso est e venne aggiunto un nuovo nucleo, la Neapolis (città nuova), che sembra occupasse tutto lo sperone roccioso fino alle aree portuali e agli ormeggi. L’imponente sistema difensivo punico, realizzato con blocchi di calcarenite perfettamente squadrati, di cui sono visibili i tratti monumentali in diversi punti del Cassaro, garantiva la sicurezza. Il tratto piú consistente è stato portato alla luce nel Palazzo dei Normanni, sotto le cinquecentesche sale Duca di Montalto ed è inserito nel percorso di visita della Cappella Palatina. Per quanto riguarda l’organizzazione urbanistica, la Paleapolis e la Neapolis sembrano svelare, fin dall’età tardo-arcaica, elementi tipicamente greco-coloniali e caratteri ricorrenti nelle città puniche d’Occidente, tra


Particolare del mosaico delle Stagioni raffigurante Zeus che, camuffato da satiro, seduce Antiope, dall’edificio A di piazza della Vittoria. Palermo, Museo Archeologico Regionale «Antonio Salinas». III sec. d.C.

cui la supposta adozione di un’unità di misura punica. L’orientamento del piano urbanistico si basava sull’unico asse portante est-ovest, oggi ricalcato piú o meno da corso Vittorio Emanuele, intersecato da una viabilità secondaria nord-sud, secondo una distribuzione per strigas (cioè secondo strisce oblunghe longitudinali), fortemente condizionata dalla morfologia dei luoghi e parzialmente riflessa nell’attuale maglia stradale. Le indagini archeologiche nel Palazzo Arcivescovile hanno documentato la riorganizzazione del piano urbano relativo ai secoli IV-II a.C., riportando alla luce un tracciato stradale, uno degli stenopoi, in terra battuta, di cui sono stati riconosciuti almeno sei livelli d’uso. Un percorso parallelo è emerso dagli scavi di piazza Sant’Angeli e tra i due oggi si apre l’ampio sagrato della Cattedrale normanna che, molto probabilmente, in epoca romana doveva coincidere con l’area del foro.

La Paleapolis sembra riservata a un’edilizia residenziale di pregio, come documentano le lussuose dimore di piazza della Vittoria; la Neapolis, in particolare nell’area vicino al porto, in età ellenistica e repubblicana era destinata a modeste abitazioni dotate in qualche caso di piccoli impianti di tipo artigianale forse connessi ad attività produttive e commerciali. Nell’area di piazza della Vittoria venne casualmente alla luce, nel 1868, il complesso di domus romane, note come edificio A ed edificio B, comprese nella Villa Bonanno. Le strutture dell’edificio B appartengono a una dimora lussuosa, della quale si conservano alcuni ambienti disposti intorno al peristilio. Il porticato era costituito da nove sostegni verticali sui lati lunghi e sei sui lati brevi, mentre i lati est, ovest e sud erano ritmati da un doppio ordine di colonne doriche. Sul lato nord del peristilio si apriva una sala di rappresentanza (segue a p. 124)

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PALERMO e DINTORNI

PALERMO

In alto metopa con il Ratto di Europa, da un tempio arcaico di Selinunte. Inizi del VI sec. a.C. Palermo, Museo Archeologico Regionale «Antonio Salinas». In basso gronda in calcare a testa di leone, dal tempio della Vittoria di Himera. 480-470 a.C. Palermo, Museo Archeologico Regionale «Antonio Salinas».

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| Il Museo Archeologico Regionale «Antonio Salinas» | Il Museo Archeologico di Palermo ha sede dal 1866 in piazza Olivella, nell’ex Casa Conventuale dei Padri della Congregazione di San Filippo Neri, adiacente alla chiesa di S. Ignazio Martire. Gravemente danneggiato da bombardamenti aerei durante la seconda guerra mondiale, venne ricostruito e dedicato ad Antonio Salinas, professore universitario di archeologia e direttore del museo dal 1873 fino alla sua morte nel 1914. Nel 1987, in occasione dell’assegnazione del nuovo statuto di Museo Archeologico Regionale con direzione autonoma, seguirono altri importanti restauri dell’edificio e in parte una nuova esposizione dei reperti. Dal 2011 il museo è chiuso al pubblico per lavori di restauro. Qui di seguito, ne descriviamo comunque alcune delle opere di maggior pregio. Il piccolo santuario di Zeus Meilichio in località Gaggera a Selinunte era dedicato in origine a un’antichissima divinità ctonia, poi assimilata dai coloni greci appunto a Zeus Meilichios («mellifluo»), signore del mondo sotterraneo. Al suo interno vennero consacrate piccole stele votive, spesso con due facce, che rappresentavano probabilmente una coppia di defunti, databili dal VI secolo a.C. fino all’età ellenistica. Le stele mostrano una sensibilità e raffinatezza molto lontana dal mondo greco e facevano presumibilmente parte della religiosità fenicia. Le metope di Selinunte conservate nel museo di Palermo provengono da diversi templi di Selinunte e mostrano nella loro squisita qualità l’evoluzione iconografica, tecnica e artistica della scultura greca, dall’età arcaica all’età classica. Le sei piccole metope in pietra calcarea di età arcaica dell’inizio del VI secolo a.C. vennero trovate reimpiegate nelle fortificazioni costruite dopo il saccheggio della città nel 409 a.C. Il rilievo è molto piatto, ma lavorato con precisione, come si vede bene nella metopa che raffigura Europa rapita, seduta sul dorso del toro che attraversa il mare, accennato con due delfini in basso. Si tratta della prima e piú antica rappresentazione di questo motivo iconografico finora conosciuta. Tre metope provengono dal tempio C e si datano verso la metà del VI secolo a.C. La prima rappresenta una quadriga con Apollo, Artemide e Leto, loro madre, con i quattro cavalli raffigurati frontalmente. Nella seconda vediamo Perseo con lo sguardo distolto che uccide la Medusa dal cui sangue nasce Pegaso; sulla sinistra assiste Atena. Poi ci troviamo di fronte a Eracle che trasporta appesi a una pertica con la testa in basso i Cercopi, due gemelli ladroni che, burlandosi dell’eroe, lo fanno ridere e si salvano cosí la vita. Anche la grande maschera in terracotta policroma di Gorgone viene dal tempio C ed era collocata nel frontone orientale. Le metope del tempio E rivelano il grande progresso nell’evoluzione scultorea. Eseguite verso il 470-460 a.C., riflettono le nuove tendenze artistiche e oppongono tutte e quattro il mondo maschile al mondo femminile. I visi e le parti scoperte delle figure femminili sono aggiunte in marmo bianco per differenziarsi da quelle maschili. Interessante è la metopa con Zeus seduto su una roccia sul monte Ida che con la mano destra toglie il velo alla sua sposa e sembra del tutto soddisfatto, mentre Era sta in piedi davanti a lui, consapevole della sua bellezza e della sua grazia.


Nel 1929 l’archeologo Pirro Marconi trovò i resti del tempio dorico di Himera, eretto dai Greci per commemorare la vittoria riportata sui Cartaginesi nel 480 a.C. Nel Museo di Palermo si trovano 19 docce di gronda in forma di teste di leone della sima (cornice terminale dell’edificio), in origine dipinte in vivace policromia: la criniera in azzurro, le orecchie in rosso, il muso in giallo. L’ariete di bronzo faceva parte in origine di una coppia, databile al IV secolo a.C., che ornava nel tardo Medioevo la fortezza Maniace. A partire dal Seicento i due arieti si trovavano nel Palazzo Reale di Palermo, dove una delle statue andò distrutta durante la rivoluzione siciliana del 1848. L’altra fu in seguito regalata al Museo di Palermo da Vittorio Emanuele II. L’ariete è raffigurato disteso con la testa alzata e rivolta verso lo spettatore, la bocca leggermente aperta, le orecchie tese come se avesse sentito qualcosa che suscitava la sua curiosità. La zampa sinistra sembra anticipare un movimento, dando un dinamismo e una vivacità alla scultura che rivela un notevole livello artistico. Tutte le caratteristiche dell’opera sembrano ricondurre alla cerchia lisippea. Dagli scavi romani di piazza della Vittoria proviene il grande mosaico del III secolo d.C. con Orfeo seduto su una roccia, con l’inseparabile lira in mano. Animali di ogni tipo lo circondano, ascoltando la sua musica incantevole.

In alto particolare del mosaico romano con Orfeo tra gli animali, dagli scavi di piazza della Vittoria. Età severiana, III sec. d.C. Palermo, Museo Archeologico Regionale «Antonio Salinas». A sinistra l’ariete di bronzo, opera greca del IV sec. a.C. Palermo, Museo Archeologico Regionale «Antonio Salinas».


PALERMO e DINTORNI

PALERMO-MONTE IATO

| Palazzo Branciforte | Nel maggio 2012 è stato aperto al pubblico Palazzo Branciforte, una magnifica dimora aristocratica del Settecento, acquistata nel 2005 dalla Fondazione Banco di Sicilia e restaurata dall’architetto Gae Aulenti. Nella sala della Cavallerizza, in origine la scuderia del palazzo, è stata allestita la collezione archeologica della Fondazione Sicilia, formata in primo luogo da reperti provenienti dal mercato antiquario, ma anche da materiali concessi in deposito dalla Soprintendenza o restituiti da scavi archeologici finanziati dal Banco di Sicilia. La collezione archeologica di Palazzo Branciforte è costituita prevalentemente da ceramiche di produzione greca, siceliota e indigena, databili tra il VII e la fine del IV secolo a.C. Molti di questi vasi provengono dagli scavi delle necropoli di Selinunte, dove, negli anni Sessanta del Novecento l’allora soprintendente Vincenzo Tusa, grazie ai finanziamenti del Banco di Sicilia, riuscí a contrastare il saccheggio illegale, coinvolgendo gli scavatori clandestini in scavi sistematici e salvaguardando cosí un enorme patrimonio culturale.

decorata da un prezioso mosaico con la rappresentazione della «caccia di Alessandro». Al centro del peristilio rimangono sei plinti in arenaria che sostenevano supporti verticali a sostegno, probabilmente, di un pergolato. L’edificio fu danneggiato dal sisma del IV secolo d.C. e in seguito depredato. A est dell’edificio B si trovano i resti di un’altra lussuosa dimora, l’edificio A, formata da due nuclei distinti, probabilmente collegati tra loro: a nord la zona abitativa disposta attorno al peristilio, a sud un insieme di ambienti probabilmente a carattere termale. L’edificio A, nella sua ultima fase, e l’edificio termale risalgono all’età severiana. L’articolato sistema di ambienti fa pensare piú che a una domus a una schola, sede di un’associazione, forse connessa a un culto orfico-dionisiaco, al quale rimanda il mosaico delle Stagioni, che allude a un percorso iniziatico.

In alto l’allestimento della collezione archeologica della Fondazione Sicilia a Palazzo Branciforte a Palermo. A sinistra un’erma bifronte di età romana. Palermo, Palazzo Branciforte.


monte iato I

l Monte Iato si innalza con i suoi 852 m di altezza al di sopra dei paesi San Giuseppe Iato e San Cipirello. Il sito ebbe una lunga e ininterrotta continuità di vita, che, come hanno documentato gli scavi, va dal I millennio a.C. fino alla distruzione per mano di Federico II nel 1246 d.C. Il nome greco dell’insediamento è stato letto su tegole e monete che lo riportano al genitivo «IAITOY» (di Iaitas); il nome latino, riportato dalle fonti romane, tra cui Silio Italico era invece Ietas. Non si hanno notizie sulle prime fasi di vita di Iaitas, ricordata dalle fonti solo a partire dal IV secolo a.C. quando era sotto il dominio di Cartagine. In seguito viene ancora menzionata nell’ambito del conflitto tra Timoleonte e Pirro e nel corso della prima guerra punica, quando i suoi abitanti si consegnarono ai Romani. Nella prima età

imperiale le fonti la annoverano tra i 50 abitati piú importanti della Sicilia. L’insediamento, che si estende sull’ampio pianoro alla sommità del Monte Iato, fu abitato inizialmente da comunità autoctone, genericamente definibili sicano-elime. Alla fine del VII secolo a.C. risalgono i primi contatti con il mondo greco da cui scaturí un graduale processo acculturativo degli indigeni, ben attestato dalla costruzione di edifici sacri di cui il piú antico è il tempio dedicato ad Afrodite (metà del VI secolo a.C.). Sulla sommità del monte si apre l’ampia agorà, pavimentata con lastre di arenaria e scandita sui lati nord e ovest da portici a doppia navata, mentre quello a est era a un’unica navata. Il portico settentrionale, ritmato da due file di 17 colonne doriche, formava un

Pianta dell’abitato di Monte Iato, l’antica Iaitas, con l’indicazione dei monumenti piú importanti.

Teatro

Casa a Peristilio

Tempio di Afrodite

Agorà

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PALERMO e DINTORNI

MONTE IATO

| La decorazione del teatro | Tra i vari elementi posti a decoro dell’edificio scenico originario si distinguono per interesse e originalità le quattro sculture di calcare in altorilievo che rappresentano due Satiri e due Menadi, personaggi del thiasos dionisiaco, con i loro attributi. Le due Menadi sono vestite con il peplo dorico e hanno la testa cinta da una corona d’edera con foglie e frutti; i Satiri, con barba e orecchie equine, portano sui fianchi un gonnellino e una corona d’edera a tracolla. Le statue, datate nel 300 a.C., svolgevano una duplice funzione, decorativa ma anche di sostegno all’architettura scenica. Le cariatidi e i telamoni di Monte Iato, scolpiti con le braccia sollevate e ripiegate indietro, rientrano nella tipica architettura teatrale della Sicilia.

In alto le due menadi dal teatro di Iaitas. San Cipirello, Antiquarium di Case d’Alia.

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unico complesso insieme al bouleuterion, destinato ad accogliere non piú di 70 persone, una sala con pavimento rosso in opus signinum e un peristilio con ambienti intonacati di bianco. Il settore occidentale della piazza si configura come un complesso architettonico unitario, realizzato nel II secolo a.C., che include tre edifici: il portico a due navate con 5 colonne doriche, il nuovo bouleuterion, la cui capienza era di 200 posti, e un tempio su podio a sei gradini con altare antistante. Sul lato meridionale dell’agorà, che non era chiuso da monumenti per lasciare libera la vista sulla vallata, sono venuti alla luce due edifici sacri: un tempio a oikos (sacello privo di colonnato) eretto nel 480-70 a.C. e ricostruito al momento della sistemazione dell’agorà ellenistica, forse dedicato a Tyche,

come indicherebbe il frammento di una scultura rinvenuta nelle vicinanze, e un edificio sacro di tipo punico, datato al IV secolo a.C. Situato a nord-ovest dell’agorà, il teatro fu eretto nel IV secolo a.C. La cavea era costituita da 35 gradinate e poteva accogliere circa 4400 spettatori. La pianta è a semicerchio allungato; le tre gradinate inferiori, riservate ai magistrati, ai sacerdoti e agli ospiti della città, erano decorate all’estremità da zampe di leone. L’edificio scenico, ben conservato, ha svelato diverse fasi ricostruttive a partire dal 200 a.C., ma il crollo finale risale al V secolo d.C. La struttura originaria era costituita da una lunga sala con due elementi sporgenti ai lati (parasceni) che delimitavano il palcoscenico, leggermene rialzato e pavimentato in cocciopesto. Agli inizi del II secolo a.C. si ebbero le prime ristrutturazioni: fu rialzato il palcoscenico su pilastri lignei, spostandolo leggermente in avanti verso l’orchestra, secondo un uso diffusosi all’epoca nella Sicilia occidentale. Ai primi anni del I secolo a.C. risale l’ultimo rifacimento, probabilmente rimasto incompiuto, con l’aggiunta di una sala porticata sul retro dell’edificio scenico e di un corridoio sul lato ovest. Ubicato nel quartiere residenziale occidentale, il tempio di Afrodite fu costruito intorno al


Reperti ceramici dagli scavi di Iaitas. San Cipirello, Antiquarium di Case d’Alia.

550 a.C. L’attribuzione alla dea deriva da un’iscrizione dedicatoria graffita su un kantharos (coppa a due manici). La tipologia del tempio è quella a oikos, che non prevede un colonnato esterno. La pianta è tripartita e presenta il vano posteriore chiuso (adyton). Davanti al tempio era l’altare, costruito con grossi blocchi. Il culto rimase attivo fino alla distruzione definitiva del tempio, che si colloca intorno al 50 d.C. La casa a Peristilio 1 è una lussuosa dimora signorile costruita intorno al 300 a.C., che si articola su due piani ed è dotata di numerosi ambienti, per un totale di circa 1600 mq di superficie abitata. Il peristilio rettangolare era scandito da 12 colonne a doppio ordine, dorico al piano inferiore, ionico e siceliota al livello superiore. Sul lato settentrionale, in entrambi i piani, si aprono le tre stanze di rappresentanza, l’esedra centrale e le due sale da banchetto laterali, ciascuna delle quali poteva contenere nove letti conviviali. Intorno al 200 a.C. la dimora fu arricchita da un settore di servizio aperto su un cortile con due colonne e da una straordinaria stanza da bagno, perfettamente conservata, dotata di una vasca e di un lavandino addossato alla parete, la cui acqua scorreva da un condotto in calcare configurato all’estremità a

protome leonina. Il bagno fu ristrutturato due volte e rimase in uso fino alla distruzione della casa nel 50 d.C. Costruita intorno al 500 a.C., la grande casa a cortile tardo-arcaica ha dimensioni molto ampie (18 x 26 m). L’edificio ha una pianta a «L», con un cortile centrale piuttosto stretto e ambienti che si aprono sui lati nord, sud e ovest. Il settore orientale della casa era a due piani e in quello superiore erano le stanze di rappresentanza tra cui la sala per il banchetto. Nello stato di crollo sono stati rinvenuti numerosi vasi utilizzati nel simposio, alcuni di produzione greca, altri di tradizione autoctona. Il proprietario della casa deve essere probabilmente il greco Mentor, il cui nome è inciso sul piede di una coppa. L’area archeologica di Monte Iato è attualmente chiusa al pubblico, ma è aperto l’Antiquarium, allestito in una villa rustica dell’Ottocento, che merita la visita. Il percorso espositivo si articola in sette sezioni disposte su due piani che illustrano la storia del sito e dei suoi monumenti, l’urbanistica, l’architettura religiosa, civile e domestica, e la cultura materiale. Nella struttura sono inoltre esposti alcuni dei reperti piú pregiati rinvenuti negli scavi della città, tra cui le sculture che ornavano la scena del teatro.

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PALERMO e DINTORNI

SOLUNTO

solunto C

L’area archeologica di Solunto.

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ome Mozia e Palermo, Solunto venne fondata dai Fenici tra l’VIII e il VII secolo a.C. contemporaneamente alla prima colonizzazione greca. Conosciamo il nome greco della città, di origine semitica, Soloeis, Solous, il cui significato è «roccia», e il suo corrispondente latino Solus, Soluntum. Il toponimo Soluntum ricorre nell’Itinerarium Antonini, datato alla metà del III secolo d.C. e nella piú tarda Tabula Peutingeriana, che inserisce la città lungo il percorso della via Valeria che in epoca romana univa Messina a Lilibeo. Il toponimo fenicio si può forse riconoscere nella scritta «k f r», «villaggio» che si legge sul retro di una serie di monete in bronzo e argento della fine del V secolo a.C. Le informazioni delle fonti letterarie su Solunto sono piuttosto scarne. Ecateo di Mileto riferisce che l’antico toponimo Soloeis si ricollega al brigante Solus ucciso da Eracle, assimilato al dio punico Melkart, durante le tappe del suo viaggio in Sicilia. Diodoro Siculo ci racconta che l’antico abitato soluntino di

fondazione fenicia fu saccheggiato e distrutto dal tiranno siracusano Dionisio I nel corso della guerra contro l’elemento punico di Sicilia terminata con la conquista di Mozia del 397 a.C. La città fu ricostruita sulle pendici del Monte Catalfano nel corso del IV secolo a.C., tra il 367 a.C., epoca a cui risale il trattato di pace tra Siracusa e le città puniche sconfitte, e il 307 a.C., quando nella nuova Solunto si stanziò l’esercito di Agatocle di ritorno dalla spedizione in Africa. Durante la prima guerra punica, nel 254 a.C., la città fu conquistata dai Romani e successivamente venne inclusa da Cicerone tra le civitates decumanae sottoposte alle vessazioni di Verre. Solunto sembra essere stata abbandonata volontariamente a partire dal III secolo d.C., contemporaneamente alla ruralizzazione del territorio in età tardo antica. La localizzazione dell’antica Solunto è rimasta a lungo ignota. Le probabilità che l’antico insediamento si trovasse nei pressi della città ellenistica divennero evidenti quando negli


anni Settanta/Ottanta del secolo scorso vennero alla luce sul promontorio di Solanto, in contrada San Cristoforo, un nuovo settore della necropoli punica databile a partire dal VI secolo a.C. e resti di strutture artigianali. La prima comunità di coloni, come indicano i numerosi scarti di fornace relativi a ceramica fenicia arcaica, occupò il promontorio di Solanto a partire dai decenni finali del VII secolo a.C. La consistenza dei materiali di

importazione, di cui fanno parte vasi greci e indigeni, associati a forme tipiche della produzione fenicia, consente di ipotizzare che gli originari contesti archeologici di provenienza siano da ricondurre a una necropoli e a un tofet nei dintorni. Testimonianze dell’esistenza del tofet di Solunto lungo il margine settentrionale del promontorio, sono i monumentali cippi rinvenuti nello strato di crollo della grande fornace ellenistica, per la cui costruzione furono riutilizzati. Ci troveremmo di fronte a una topografia simile a quella di Mozia, dove si susseguono aree di produzione artigianale, la necropoli arcaica e il tofet. Le relazioni che le comunità fenicie intrattenevano sia con le genti autoctone dell’hinterland, attestate a Pizzo Cannita – da dove provengono due sarcofagi antropoidi di tipo sidonio dei primi anni del V secolo a.C. – e a Montagnola di Marineo – identificata con la città sicana di Makella –, sia con la colonia greca di Himera documentano l’attitudine prevalentemente commerciale dell’antica Solunto, dedita a intessere una rete di rapporti socio-economici. La città fu ricostruita nella seconda metà del IV secolo a.C. sul declivio del Monte Catalfano in posizione panoramica, dopo la distruzione del primitivo abitato costiero

| Baal Hammon come lo Zeus capitolino | Identificata come Baal Hammon punico, la statua qui accanto proviene da Solunto ed è una rielaborazione del tipo dello Zeus capitolino, rappresentato nello stile tardo-ellenistico siceliota, databile al II secolo a.C. La scultura è stata realizzata in pietra locale; il collo, il volto fino al labbro superiore sono in marmo bianco, i capelli e la barba sono integrati con stucco. I piedi del trono sono riccamente scolpiti con figure a rilievo: Marte coronato dalla Vittoria, Venere, Eros e le Grazie. L’opera è conservata al Museo Archeologico «Antonio Salinas» di Palermo.

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PALERMO e DINTORNI

SOLUNTO 1 5

A destra Solunto, pianta della città antica: 1. teatro; 2. odeon; 3. edificio sacro a due navate; 4. agorà; 5. cisterna pubblica; 6. via dell’agorà; 7. via degli ulivi; 8. via Ippodamo da Mileto.

a opera di Dionisio I. Il nuovo insediamento si articola su terrazze digradanti ed è costruito secondo i criteri dell’urbanistica ortogonale, con la ripartizione razionale delle zone della città in base alla funzione svolta. La maglia urbana è definita dall’incrocio di tre assi nord-sud (plateiai) con otto vie est-ovest (stenopoi), disposte in forte pendenza sul declivio della collina, che forma insulae larghe 40 m e lunghe 80, suddivise da un canale per lo scorrimento e smaltimento delle acque piovane in eccedenza (ambitus). Sebbene si attenga ai dettami urbanistici di tradizione ellenica, l’impianto soluntino sembra ideato e realizzato sulla base dell’unità di misura punica (il cubito di 0,515 m). L’accesso alla città, agevole soltanto dal lato sud-orientale, avveniva tramite strade lastricate, alcune delle quali presentano rivestimenti con materiali pregiati. Un bell’esempio è la pavimentazione in mattoni della via e della piazza dell’agorà, dedicata dall’evergete Asklapos, che apparteneva a una facoltosa famiglia di Solunto.

3 2 4

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6 8

Le zone pubbliche costituite da agorà, teatro e bouleuterion, sono incluse in due grandi terrazze comunicanti, poste all’estremità settentrionale della città, e occupano lo spazio di due intere insulae. L’agorà è una grande piazza rettangolare su cui si trovano le fondazioni di vari monumenti votivi. Sul lato occidentale si erge un portico a corpi laterali aggettanti a due piani, scandito da nove esedre, una delle quali con nicchia che fungeva da base per due statue in bronzo e due epigrafi dedicatorie per Apollonio e Aristione, appartenenti alla stessa famiglia e sacerdoti preposti al culto di Zeus Olimpio. Attraverso una scala a due rampe si passava

| Astarte e le sfingi | Questa scultura oggi priva della testa, realizzata in calcarenite, raffigura probabilmente la dea punica Astarte assisa su un trono con due sfingi alate laterali. Forse proveniente da Pizzo Cannita è attualmente conservata presso il Museo Archeologico Regionale «Antonio Salinas» di Palermo, ed è databile al VI sec. a.C. L’iconografia è ampiamente attestata nel mondo fenicio, anche se le sottili pieghe della veste della divinità suggeriscono un influsso ionico.


nella terrazza del teatro. Edificato nell’ambito di un programma di rifacimento edilizio dell’area pubblica, quest’ultimo poteva accogliere 1500-1600 spettatori. L’edificio scenico si configura come una struttura a due piani realizzati con l’ordine dorico e ionico; il basamento del palco era decorato all’estremità da figure di cariatidi di dimensioni ridotte, come nel teatro di Iaitas. A sinistra del teatro era il bouleuterion, sede delle riunioni del consiglio cittadino e, a volte, di rappresentazioni musicali. A destra del teatro fu edificata la palestra, impiantata, come l’edificio per spettacoli, al di sopra di alcune abitazioni piú antiche. La struttura era costituita da un ampio peristilio – di cui rimangono solo le basi delle colonne –, preceduto da un ambiente di passaggio ai lati del quale si succedevano vani di servizio. Sul peristilio si apre una grande esedra collegata a un ambiente a pianta circolare, una tholos (falsa cupola), destinata alla sauna secca o umida. Nei pressi dell’agorà si trova l’area sacra punica, testimonianza della piú antica religiosità soluntina. All’interno di uno spazio sacrificale all’aperto sorge un edificio di culto con altare a tre betili, stele verticali che simbolizzano l’immagine aniconica della divinità, a lato dei quali è una vasca per raccogliere il sangue degli animali sacrificati. Seguono un vano utilizzato per le cerimonie religiose e, sul retro, nove ambienti, disposti su due piani intorno a un cortile, che hanno restituito ex voto e ossa di animali. La planimetria del santuario è affine a quella del Cappiddazzu moziese e dell’area sacra eretta a Selinunte dopo la conquista cartaginese del 409 a.C. Sulla terrazza sopra il teatro si estende una piú ampia area sacra di evidente carattere pubblico, contraddistinta da un grande edificio a due navate suddiviso internamente in due vani rettangolari, che sul retro presentano nicchie in una delle quali è stata rinvenuta la statua di Zeus-Baal Hammon assiso in trono. Un altro edificio simile, ma di dimensioni minori, che si trova piú a nord e in preciso rapporto con l’asse del teatro, ha restituito una

Solunto, la casa di Arpocrate. In primo piano il pavimento in cocciopesto decorato da un rosone centrale. I sec. a.C.-I sec. d.C.

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PALERMO e DINTORNI

SOLUNTO

Statua di Musa con rotulo, dalla casa di Leda. II sec. a.C. Solunto, Antiquarium.

statua femminile acefala di divinità in trono raffigurante la dea punica Astarte. Le dimore lussuose di maggior rilievo, costruite lungo la piú importante arteria cittadina, la via dell’agorà e le strade principali, rientrano nella tipologia della casa a peristilio ellenistica, articolata intorno a un cortile centrale colonnato e con un piano superiore, di grandezza variabile tra i 400 e i 520 mq. Le abitazioni piú ricche erano talvolta dotate di ambienti circolari, verosimilmente bagni privati, documentati anche a Iaitas. Sul prospetto dell’insula, inoltre, si aprivano direttamente sulla strada diverse tabernae costituite da un solo locale. Il cosiddetto «ginnasio», dalla dedica a un ginnasiarca, è in realtà una ricca abitazione privata disposta su tre livelli principali di cui quello aperto sulla via dell’agorà aveva quattro botteghe. Il piano principale presenta un peristilio dorico con quattro colonne per lato, attorno al quale si dispongono vari ambienti; di fronte all’entrata è un’esedra ornata da un bel pavimento musivo e da pitture del II stile pompeiano. Il piano superiore, che occupava tutta la superficie della casa, era dotato di un peristilio ritmato da colonne di ordine dorico sormontate da un secondo livello di ordine ionico. La casa di Leda è l’abitazione piú rappresentativa, sia per lo stato di conservazione delle strutture, sia per il pregevole apparato decorativo. La lussuosa dimora a peristilio si articola su tre livelli ed è dotata di portico ionico sia nell’ordine inferiore, sia nel piano superiore. Al livello residenziale sono disposti un’esedra affiancata da due cubicula sul lato settentrionale e il tablinum, ornato di preziose pitture, sul lato occidentale. Al piano superiore si accedeva tramite due scale ai lati del tablinum, che immettevano anche negli ambienti di servizio posti a metà livello e dotati di un ingresso indipendente dalla strada. Il settore piú prestigioso della casa è decorato da un mosaico monocromo bianco e uno dei cubicula conserva un


emblema in opus vermiculatum con la rappresentazione di una sfera armillare che, per la particolarità del tema e dell’esecuzione, è probabilmente opera di un artista alessandrino. Per quanto concerne le pitture parietali, di pregevole fattura sono quelle del tablino con soggetti mitologici di Leda con il cigno, degli Imenei e dei Dioscuri, databili tra II e III stile pompeiano. La casa del Cerchio a mosaico è cosí chiamata per la decorazione musiva di un pavimento in opus signinum dell’oecus decorato con un grande rosone e da un reticolo di rombi. L’impianto architettonico di questa dimora si avvicina a quello delle tradizionali case a cortile. Il grande tablino conserva tracce della decorazione parietale in stucco bianco, arricchite in una seconda fase da cornici a stucco e da festoni colorati su fondo giallo. La casa delle Maschere si dispone su due livelli e gli ambienti si articolano intorno all’ampio peristilio decorato da un pavimento in opus scutulatum, costituito da scaglie irregolari di calcare bianco alternate a frammenti di marmo policromo. La dimora ha restituito un importante ciclo di affreschi in II stile pompeiano, esposti al Museo Archeologico di Palermo, che riproducono elaborati festoni di ghirlande ed elementi vegetali da cui pendono maschere teatrali, sia della commedia sia della tragedia. Per l’iconografia e lo stile, le pitture sono affini agli affreschi della villa di Publio Fannio Sinistore a Boscoreale del I secolo d.C. La casa di Arpocrate prende nome dal rinvenimento di un piccolo gruppo di bronzi tra cui, appunto, una figurina del dio Arpocrate del I secolo d.C. La dimora è dotata di un piccolo peristilio centrale a quattro colonne, decorato da un semplice pavimento in cocciopesto, sul quale si aprono ambienti di rappresentanza e stanze private. La casa delle Ghirlande, si trova all’estremità settentrionale della città, oltre l’agorà, e trae il suo nome dall’elegante pittura in III stile posta a decoro del tablino, con ghirlande sospese a esili tirsi a candelabro.

Al piccolo complesso termale, nella zona sud della città, si accedeva da una stradina parallela alla via dell’agorà, mentre nel piano inferiore si aprivano varie tabernae. Il percorso di benessere prevedeva il passaggio dallo spogliatoio (apodyterium), alla sala con le vasche di acqua fredda (frigidarium), decorata da un bel mosaico pavimentale, per poi raggiungere un vano absidato con temperature tiepide (tepidarium) e successivamente la stanza per i bagni caldi (calidarium). In fondo si apriva l’ambiente per la sauna secca (laconicum) e un vano di questo settore era utilizzato per unzioni e massaggi, come suggerisce il mosaico con scena di vaso per unguenti del I secolo a.C, data del primo impianto termale. Rifacimenti successivi risalgono al I secolo d.C. L’Antiquarium di Solunto presenta due settori espositivi corredati da un apparato didattico, dedicati rispettivamente all’insediamento fenicio e alla città ellenistica. Le testimonianze relative all’emporio fenicio sono esposte in ordine cronologico, con una selezione di reperti ceramici di produzione locale oltre a corredi di epoca arcaica e classica. I materiali pertinenti all’epoca ellenistica e romana riferibili alla «seconda» Solunto sono illustrati secondo le principali categorie tipologiche e cronologiche di riferimento. Tra i reperti piú pregevoli spiccano la bella statua femminile in marmo greco insulare, da identificare verosimilmente con la «Musa con rotolo» della fine del II secolo a.C., e i frammenti provenienti dal ciclo pittorico della casa delle Maschere.

Frammenti di pitture parietali provenienti dalla casa delle Maschere. I sec. a.C. Solunto Antiquarium.

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capitolo

imera (himera) L

In alto veduta della Contrada Buonfornello a Termini Imerese. Qui si trovava in età greca la città bassa di Himera. Al centro della foto si riconoscono i resti del tempio della Vittoria.

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a città, nata nel 648 a.C. a ridosso della foce del fiume Himera Settentrionale (l’attuale Salso), fu fondata, secondo Tucidide, da coloni di origine mista, in parte calcidesi provenienti da Zancle (Messina), in parte dorici esiliati da Siracusa, i Miletidi. L’irregolare morfologia del territorio, caratterizzata da un’alternanza di aree pianeggianti e zone con una pendenza molto accentuata, ha condizionato l’assetto dell’abitato che si dispone su tre pianori, articolati su due livelli ben distinti e separati da una ripida parete. L’impossibilità di riunire le due zone in un unico spazio urbano costrinse gli Imeresi a progettare, nel VI secolo a.C., due impianti, differenti per orientamento, misure degli isolati e dimensioni delle case. La città bassa occupava parte della piana costiera di Buonfornello. L’assetto urbanistico prevedeva isolati orientati nordsud, attraversati al centro da stretti canali che garantivano il deflusso delle acque; grandi strade (plateiai) assicuravano la viabilità in senso est-ovest. Sulla base di recenti

indagini, è stato ipotizzato che l’agorà fosse ubicata nella città bassa, in un ampio slargo privo di edifici, a nord-ovest del tempio della Vittoria, presso la foce fluviale. Nei pressi dell’agorà doveva trovarsi il porto, la cui esistenza si può dedurre dal racconto di Tucidide (VII,1). Il ruolo strategico di questo settore della città è confermato dalla presenza di un quartiere suburbano di carattere prevalentemente commerciale e artigianale, che, nato nei primi decenni del VI secolo a.C. a ridosso della foce orientale del fiume, venne abbandonato agli inizi del V secolo a.C. L’importanza topografica dell’area traspare, soprattutto, dalla decisione di erigervi il tempio della Vittoria, che sorse in una zona già occupata da edifici arcaici. Il monumentale tempio, attribuito al culto di Atena, fu costruito per celebrare la vittoria riportata nel 480 a.C. dalla coalizione di Imeresi, Siracusani e Agrigentini contro l’esercito punico guidato da Amilcare. L’edificio è un periptero dorico, con la cella dotata di pronao, naos e opistodomo. La città alta si estendeva sui rilievi collinari


| I leoni per la Vittoria | soprastanti, con il temenos di Atena in posizione scenografica sul ciglio della collina, che racchiuse i principali culti della città. All’interno dello spazio, accessibile da un propileo sul lato occidentale, sono venuti alla luce tre edifici sacri, tutti del tipo a oikos orientati in senso est-ovest, un grande altare e una serie di ambienti rettangolari. Nella fase piú antica, fino alla fondazione coloniale, il culto doveva svolgersi all’aperto, intorno a una base in calcare a forma di dado, forata superiormente, forse, per l’alloggiamento di un simulacro. Negli ultimi decenni del VII secolo a.C. venne eretto il tempio A a pianta bipartita, realizzato in conci squadrati. Al suo interno fu trovato un ricco deposito votivo (fine del VII-metà del VI secolo a.C.), con vasi, armi e una bella laminetta aurea lavorata a sbalzo raffigurante una Gorgone in ginocchio. Alla metà del VI secolo, l’edificio fu sostituito dal piú grande tempio B, che inglobò le fondazioni dell’edificio precedente e rimase in vita fino al 409 a.C. Il tempio, con pianta a oikos tripartito (pronao, naos e adyton), fu decorato con pregevoli sculture sul frontone e metope sui lati lunghi. Intorno al 530-20 a.C. venne costruito il tempio D, a ridosso del muro sud del

Una serie di protomi leonine eseguite con vivace policromia costituiva le docce di gronda della sima (cornice terminale dell’edificio) del tempio della Vittoria. La criniera delle fiere era dipinta in azzurro, le orecchie in rosso, il muso in giallo, mentre la superficie esterna della sima era ornata da un meandro e da una sequenza di palmette e fiori di loto. Le maschere leonine sono stilisticamente differenti: lungo il lato nord hanno testa quadrangolare con criniera breve e movimentata, occhi piccoli e selvaggi, lungo il lato sud presentano una maggiore cura nei dettagli sia nelle cavità orbitali, profondamente incavate, sia nella criniera a collarino e nelle fauci spalancate.

santuario, che era dedicato ad Atena come attestano l’iscrizione su una kylix attica e varie terrecotte, rinvenute in zona, con la dea rappresentata in assetto di combattimento. L’ultimo edificio è il tempio C, dei primi decenni del V secolo a.C., sorto all’estremità settentrionale del temenos; si tratta di un oikos, con profondo pronao davanti alla cella, che aveva il tetto decorato con antefisse a maschere gorgoniche e a palmette pendule. All’interno del tessuto urbano esistevano anche piccoli santuari «di quartiere», funzionali alla religiosità quotidiana dei cittadini. L’abitato era racchiuso da un unico muro di cinta che inglobò le due parti della città. Saggi effettuati a varie riprese tra il 2002 e il

In alto gronde a testa di leone, dal tempio della Vittoria a Himera. V sec. a.C. Palermo, Museo Archeologico Regionale «Antonio Salinas».

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PALERMO e DINTORNI

IMERA

2007 nella città bassa hanno messo in luce nuovi settori delle fortificazioni in muratura e mattoni crudi, che furono rinforzate con una torre angolare. Si tratta di una scoperta importante sul piano storico, essendo il primo tratto di mura emerso nella piana di Buonfornello, quasi certamente il fronte contro cui sferrarono l’attacco gli eserciti punici nel 480 a.C. e nel 409 a.C. Le necropoli erano direttamente collegate alla città bassa, disposte su lunghe fasce

A sinistra Brocca attica a figure nere, dall’acropoli di Himera. VI sec. a.C. Termini Imerese, Antiquarium di Himera. A destra necropoli occidentale di Himera con fosse comuni di soldati greci caduti nella battaglia del 480 a.C.

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PALERMO e DINTORNI

IMERA

parallele alla spiaggia, probabilmente lungo gli antichi percorsi in uscita da Himera. Il sepolcreto occidentale è situato sulla piana di Buonfornello, quello orientale sulla Piana di Pestavecchia, a est del fiume Himera Settentrionale. Il numero complessivo delle sepolture esplorate nelle necropoli imeresi è di oltre 8400. La necropoli orientale fu utilizzata per tutto il periodo di vita della

| Un gradito ritorno | La phiale di Castelvuturo, capolavoro dell’oreficeria ellenistica tornato in Italia dopo complesse vicende legate al commercio clandestino di oggetti d’arte, fu rinvenuta casualmente nel territorio di Castelvuturo. Si tratta di una phiale mesomphalos (in latino, patera umbelicata), una forma bene attestata nel mondo greco, legata alle libagioni e alle offerte alle divinità nel corso di cerimonie religiose. Datata alla seconda metà del IV o alla prima metà del III secolo a.C., la coppa, custodita presso l’Antiquarium di Himera a Termini Imerese, presenta, all’esterno, una preziosa decorazione, con api e fiori di loto stilizzati. Secondo l’iscrizione sul bordo, sarebbe stata dedicata dal Damarco Achyrio, o da Damarco figlio di Achyrio.

colonia, dalla metà del VII alla fine del V secolo a.C., quella occidentale funzionò dalla prima metà del VI alla fine del V secolo a.C. Le tombe sono disposte su vari livelli, senza cura per la sequenza cronologica, e anche la distribuzione delle diverse tipologie appare casuale. Sono documentate la cremazione, la sepoltura entro grandi contenitori di terracotta (enchytrismòs) e l’inumazione, prevalente rispetto alle altre, sia nel tipo alla «cappuccina», sia in casse di legno e in cassa formata da tegole, oppure in semplice fossa. Dal punto di vista storico, si è rivelata eccezionale la scoperta, nella necropoli occidentale, di sette fosse comuni che sembrano riconducibili ai soldati caduti nel conflitto del 480 a.C., in cui i Greci di Sicilia (Imeresi, Siracusani e Agrigentini) alla guida di Gelone sconfissero l’esercito punico di Amilcare. La battaglia, combattuta sulla pianura costiera, davanti alle mura occidentali, suscitò all’epoca un’impressione tale che gli storici antichi la paragonarono alle coeve vittorie greche sui Persiani a Salamina e Platea. Le fosse, risalenti agli inizi del V secolo a.C., sono allineate in senso nord-sud. I defunti furono sepolti simultaneamente, affiancati, stretti l’uno vicino all’altro, con orientamento est-ovest e la testa a est, quasi fossero schierati in battaglia; una scelta celebrativa, per onorare il sacrificio di quei caduti. I morti sono tutti di sesso maschile, verosimilmente greci, di un’età compresa tra i 25 e 30 anni e presentano sia ferite traumatiche alla testa, sia armi ancora all’interno dei corpi (lame, punte di lance e frecce). A queste fosse comuni sembrano riconducibili anche alcune sepolture di cavalli, non associate a resti umani, che potrebbero essere morti nello scontro, nel quale, come racconta Diodoro Siculo, la cavalleria siracusana ebbe un notevole peso.


Nella necropoli occidentale, poco lontano dalle sepolture collettive precedenti, è stata rinvenuta anche un’altra eccezionale fossa comune con almeno 59 corpi, tutti maschili, disposti piú confusamente, con orientamento nord-sud, che è stata riferita ai caduti dell’assedio punico della città nel 409 a.C. Preziosi indicatori per la cronologia sono alcuni oggetti di corredo della fine del V secolo a.C. Nell’Antiquarium si conservano i piú importanti reperti rinvenuti a Himera e in altri siti della Sicilia centro-settentrionale. Pannelli didattici introducono il visitatore alla conoscenza della storia e della topografia della città. Nello spazio dedicato al tempio della Vittoria è esposta una delle gronde a testa leonina (480-470 a.C.) che decoravano l’edificio; le altre si trovano al Museo Archeologico di Palermo. Il piano superiore è dedicato agli scavi del temenos di Atena e presenta i materiali rinvenuti nell’area sacra, tra cui si distinguono le terracotte architettoniche e la laminetta aurea con Gorgone in ginocchio, raffinata opera di oreficeria risalente alla fine del VII secolo a.C. Nel piano centrale trovano posto gli oggetti provenienti dall’abitato, che offrono un quadro esauriente sulla vita cittadina e la sua produzione artigianale e artistica. Il livello inferiore è dedicato alle necropoli imeresi con l’esposizione di corredi e una selezione di contenitori utilizzati per la sepoltura, tra cui un gruppo di produzione indigena che attesta contatti e scambi con i Sicani dell’entroterra. Altre testimonianze archeologiche provengono dagli abitati sicani di Terravecchia di Cuti, sede di un importante santuario extraurbano dedicato a Demetra e Kore, Monte Riparato dove è stata scavata una necropoli ellenistica, e Mura Pregne, che ebbe una lunghissima frequentazione dal Paleolitico all’età medievale. Si segnala infine il mosaico policromo geometrico con stelle a otto punte, formate da quadrati incastrati riempiti con motivi sempre diversi (pesci, svastica, una pianta) dalla villa romana di Settefrati, posta a strapiombo sul mare, a ovest di Cefalú.

Una sala dell’Antiquarium di Himera a Termini Imerese con l’esposizione di anfore.

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isole eolie | SICILIA | 140 |


le figlie del

vento

nella maggiore delle eolie, lipari, omero collocò la dimora di eolo, facendone una delle tappe delle peregrinazioni di ulisse. un racconto suggestivo, che evocava l’importanza strategica dell’arcipelago, crocevia di scambi commerciali e culturali fin dalla preistoria

Veduta aerea di Panarea. In secondo piano, Stromboli. L’arcipelago delle Eolie, di origine vulcanica, è composto da sette isole: Lipari, la piú grande, Salina, Filicudi, Alicudi, Panarea, e due

vulcani attivi, Vulcano e Stromboli. Fin dalla preistoria, grazie alla produzione dell’ossidiana di Lipari, le Eolie furono al centro di vasti e ramificati scambi commerciali e culturali.

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capitolo

isole eolie L’

Panarea. Il promontorio del Milazzese, situato all’estremità sud-orientale dell’isola: nell’età del Bronzo vi sorse un villaggio di capanne, i cui resti furono scoperti nel 1948 e scavati sistematicamente nel 1949-50.

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arcipelago eoliano è formato da 7 vulcani compositi, appartenenti all’arco insulare originatosi dallo sprofondamento della placca eurasiatica sotto quella africana. Note già nel Neolitico per i giacimenti di ossidiana di Lipari – dai quali il nero vetro vulcanico si irradiò in tutto il bacino mediterraneo –, a partire dall’età del Bronzo le isole Eolie rafforzarono il ruolo di crocevia dei traffici transmarini e di punto di passaggio strategico nel basso Tirreno. L’arcipelago era un importante punto di appoggio per la rotta percorsa dai Micenei che veicolava lo stagno dalla Cornovaglia verso l’Egeo attraverso lo stretto di Messina. Proprio durante la facies culturale di Capo Graziano fanno la loro comparsa le prime importazioni di ceramiche dell’Elladico Medio e Miceneo I e II a partire dal 1550 a.C. che si protrassero fino al Miceneo III (1425-1400 a.C.). Questa accresciuta vitalità culturale è documentata sul piano archeologico dalla nascita di nuovi insediamenti su tutte le isole, composti da capanne circolari con zoccolo di pietrame. In una prima fase (2300-1700 a.C.) gli abitati si dispongono sulle piane costiere (Piana di Diana a Lipari o Piano del Porto a Filicudi), successivamente (1700-1430 a.C.) si spostano su alture difese naturalmente (Acropoli di Lipari, Montagnola di Filicudi, San Vincenzo a

Stromboli). I contatti con l’area egea sono attestati nel periodo piú inoltrato della facies di Capo Graziano dalla presenza di ceramica micenea e dagli scambi transmarini testimoniati dal relitto di Pignataro di Fuori. L’organizzazione degli abitati della facies di Capo Graziano prevedeva l’unione di piú strutture disposte a circolo intorno a spazi comuni. A questa fase è ascrivibile il villaggio individuato al Castello di Lipari, composto da capanne riferibili a unità abitative poco numerose, tra le quali ne emerge una le cui dimensioni sono cinque volte piú grandi di quelle delle comuni capanne. Il villaggio di San Vincenzo a Stromboli ha fornito informazioni importanti su questa fase. Come i coevi siti della Montagnola di Capo Graziano e dell’acropoli di Lipari, esso occupa un pianoro difeso naturalmente, delimitato da fianchi scoscesi. Le nuove indagini, condotte tra il 2009 e il 2011, hanno restituito parte del settore abitativo, tra cui una grande capanna, con pavimenti sovrapposti in terra battuta, corrispondenti a vari piani d’uso, e un focolare. Un villaggio riferibile alla facies di Capo Graziano è stato messo in luce anche nell’istmo di Milazzo, dove sono state individuate cinque capanne, una delle quali si distingue per dimensioni e tecnica costruttiva: il suo interno è diviso da un tramezzo che isola


Stromboli

Isole Eolie o Lipari

Ginostra

(Messina)

Filicudi Filo Braccio

Alicudi

Basiluzzo

Panarea Capo Graziano

Promontorio del Milazzese

Salina Malfa

S.Marina Salina Rinella Lipari Quattropani Canneto Terme Lipari di S.Calogero Porto di Levante

M a r T i r r e n o

Vulcano G o lf o d i M ila z z o Gioiosa Marea

Torre Faro

Messina

Milazzo Spadafora Barcellona-Pozzo di Golfo

un’abside, in cui si apre un ulteriore ambiente e presenta aree funzionali diversificate. A Panarea, sul promontorio del Milazzese, sono stati trovati i resti di un villaggio la cui cultura materiale ha dato il nome alla facies. Con il Milazzese le Eolie entrano nell’orbita culturale della Sicilia. Appartiene a questa epoca il riassetto urbanistico del sito della Montagnola di Capo Graziano a Filicudi, con la creazione di un’ampia piazza che si sovrappone a una precedente. L’esplorazione archeologica di Filicudi ebbe inizio nel 1952 con saggi sulla Montagnola di Capo Graziano. Le indagini portarono alla luce un insediamento con capanne ovali sorto su un terrazzo, sulle pendici della Montagnola stessa, e un altro sito dell’età del Bronzo Antico in contrada Filo Braccio. Quest’ultimo è stato oggetto di una nuova campagna di scavo, nel 2009. L’insediamento doveva estendersi sulla pianura dell’istmo ed era costituito da capanne singole o da gruppi di ambienti, alternati ad ampi spazi liberi, che presentano una pianta ovale. I muri sono stati eretti con pietre, ciottoli di mare e grandi massi che costituiscono il naturale sottosuolo dell’istmo. L’area archeologica è stata resa fruibile tracciando al suo interno un percorso corredato da tabelloni didattici. Secondo le fonti (Tuc. VI, 1; Dion. 1, 22; Diod.

Cartina delle Isole Eolie, con l’indicazione delle principali località.

San Vincenzo Stromboli

Reggio Calabria

V, 7) Lipari sarebbe stata occupata da Liparo, capo degli Ausoni, una popolazione italica localizzata nella Campania settentrionale. La suggestiva coincidenza di quanto riferito dalla tradizione con la cesura culturale che si verifica nell’arcipelago eoliano nell’età del Bronzo Recente (XIII-XII secolo a.C.) e Finale (XI-X secolo a.C.) ha portato a definire i due periodi Ausonio I e Ausonio II. L’esistenza di intensi rapporti tra il mondo egeo e le isole Eolie nel corso della prima età del Bronzo, ben attestata dai rinvenimenti archeologici, suggerisce che la rocca del Castello di Lipari, erta a picco sul mare e circondata da altissimi dirupi, possa identificarsi con la leggendaria isola di Eolo alla quale si riferiscono i versi del libro X dell’Odissea di Omero: «Arrivammo all’isola Eolia, ove abita Eolo figlio di Ippote, caro agli dei immortali, in un’isola galleggiante e intorno ad essa è un muro di bronzo insuperabile e una rupe liscia la circonda». Gli scavi condotti nella zona archeologica del Castello hanno rivelato l’esistenza di un altissimo deposito stratificato, i cui livelli piú profondi risalgono al Neolitico Medio e Superiore (IV millennio a.C.) e all’Eneolitico (III millennio a.C.). Le strutture piú antiche appartengono a capanne della prima età del Bronzo risalenti alla facies culturale di Capo

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ISOLE EOLIE

ISOLE EOLIE

In alto Filicudi. Le capanne del villaggio scoperto sulla Montagnola di Capo Graziano, riferibili a piú fasi di frequentazione nel corso dell’età del Bronzo.

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In basso veduta di Lipari, dominata dal Castello, nella cui area in antico sorgeva una rocca forse identificabile con quella descritta da Omero nel X libro dell’Odissea.

Graziano alle quali se ne sovrappongono altre della media età del bronzo, riferibili alla cultura del Milazzese (1430 -1270). Il periodo successivo del Bronzo Tardo (Ausonio I, prima metà XIII-fine XII a.C.) è documentato da strutture tra le quali si distingue, nella zona sud, una grande capanna ovale conservata proprio davanti alla Cattedrale. Altre capanne riferibili a questa fase si trovano nell’area settentrionale, una delle quali si conserva per 2 m in altezza con quello che sembra essere, forse, l’accenno di una volta. Nell’età del Bronzo Finale (Ausonio II, fine del XII-fine del X secolo a.C.) si assiste a un radicale mutamento nelle tipologie abitative, piú ampie, ben documentate da una capanna che misura internamente circa 15 x 7 m e aveva sui lati lunghi dei pali verticali che sorreggevano un tetto a doppio spiovente. Le strutture dell’Ausonio II sono state distrutte da un incendio sviluppatosi verso la fine del X secolo a.C., come rivelano tracce molto evidenti nello scavo. Le necropoli dell’Ausonio I e II si differenziano


nettamente dalle tipologie sepolcrali tradizionali della Sicilia. Al posto delle inumazioni ipogeiche plurime si diffondono la sepoltura individuale e l’incinerazione. Questi cambiamenti improvvisi sembrano riferibili all’arrivo di gruppi umani di provenienza esterna, in accordo con le fonti. Una violenta distruzione segna la fine dell’abitato sul Castello di Lipari nella prima età del Ferro. Non rimangono testimonianze delle tre epoche successive (IX-VII secolo a. C.), né della nuova Lipàra fondata dagli Cnidi al tempo della 50a Olimpiade (580-576 a.C.). All’età greca arcaica risale una fossa votiva (bothros) nella quale furono deposte le offerte per un santuario che secondo l’iscrizione incisa su di un vaso sarebbe stato dedicato a Eolo. Il bothros, alto oltre 7 m, conteneva per oltre la metà dell’altezza frammenti ceramici dai quali è stato possibile ricomporre vari contenitori esposti nel museo. Resti di un’urbanizzazione creata ex novo, risalente probabilmente alla metà del II secolo a.C., è stata rivelata dagli scavi. È venuta alla

In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum quis et volenimenis dolorib ercillit fuga. Accationes reperiam res sa conemolorum.

luce un’ampia strada mediana che attraversava l’acropoli in senso nord-sud ed era incrociata perpendicolarmente da due vie minori parallele. Questo nuovo impianto è stato in gran parte distrutto dalle costruzioni medievali e post-medievali. Il Museo Archeologico Regionale Eoliano, intitolato al grande archeologo Luigi Bernabò Brea (1910-1999), occupa una serie di edifici compresi nell’area del Castello di Lipari che hanno assolto nel corso dei secoli a mansioni diverse tra cui quella, prima sotto i Borboni e poi fino al secondo dopoguerra, di carcere e campo di confino. Allo stato attuale esso si articola in cinque sezioni, rispettivamente dedicate all’età preistorica, alla preistoria delle isole minori, all’età classica, all’archeologia subacquea e alla vulcanologia. I materiali esposti documentano in maniera ampia e significativa tutte le piú importanti vicende delle quali l’arcipelago eoliano fu protagonista e sono in larghissima parte frutto della pluridecennale attività di ricerca svolta da Bernabò Brea. Nelle aree esterne alle varie sedi del museo, in un amalgama di grande effetto sono visibili i resti degli insediamenti messi in luce durante gli scavi degli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso e che attestano la lunghissima frequentazione del sito, abitato fin dall’età neolitica.

In alto le sale dedicate all’archeologia subacquea nel Museo Archeologico Regionale Eoliano «Luigi Bernabò Brea», a Lipari. Vi sono esposte anfore recuperate da piú di una ventina di relitti localizzati nelle acque dell’arcipelago. A sinistra Lipari, Castello. Il settore nord dell’area archeologica, nella quale sono stati scoperti i villaggi preistorici che documentano la lunghissima frequentazione del sito, occupato già in età neolitica.

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