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archeo monografie le grandi leggende dell’archeologia
Bimestrale - My Way Media Srl - Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c.1, LO/MI.
le grandi
leggende dell’archeologia Ur Avventure in Mesopotamia ♦ persepoli Per la gloria di Dario ♦ petra Il mistero dello sceicco bianco ♦ cnosso Sotto il segno del minotauro ♦ delfi L’ombelico del mondo ♦ troia Quando il mito diventa realtà ♦ baalbek L’ultimo canto degli dèi ♦
€ 7,90
N°5 (Febbraio 2015)
le grandi leggende
dell’archeologia di Massimo Vidale e Andreas M. Steiner
6. presentazione
I sette pilastri dell’Eurasia
14. ur
Misteri e tesori nella casa della luna
32. persepoli
Al centro dell’universo
48. petra
Dove nulla è quel che sembra
68. cnosso
Il sogno di Sir Arthur
86. delfi
Nella città dell’oracolo
100. troia
Quando il mito si fece realtà
114. baalbek
I giganti del dio Sole
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I sette pilastri dell’Eurasia Sette grandi siti archeologici, rivisitati in questa Monografia, ripercorrono altrettanti nodi culturali cruciali per la genesi e le trasformazioni dell’identità euroasiatica: i «luoghi della leggenda» ispirano ancora meraviglia, curiosità e lezioni inesauribili
Q
uesta Monografia di «Archeo» vi accompagna in un viaggio che tocca sette grandi località archeologiche del continente che sempre piú spesso viene chiamato «Eurasia», a sottolineare la profonda continuità storica e culturale che in esso ha congiunto, in pace, in guerra e nelle idee, le genti dell’Est a quelle dell’Ovest. Visitando le rovine di queste città perdute, ripercorreremo la storia delle imprese archeologiche che, negli ultimi due secoli, hanno portato alla loro riscoperta; incontreremo colpi di fortuna e intuizioni di genio, ma anche gravi pregiudizi ed errori che, invece del passato, fanno trasparire i condizionamenti ideologici dell’era moderna. Ogni storia, ogni scoperta e idea si avvinghia all’altra, sino a formare, sui «luoghi della leggenda», altrettanti grandi e compositi «pilastri» sui quali si è consolidata parte della nostra stessa identità culturale. Se immaginiamo l’Africa come la nostra culla, e i continenti del Nuovo Mondo e dell’Australia come gli scenari di una nostra piuttosto improbabile «maturità», l’Eurasia è infatti il continente dove si è svolta la turbolenta giovinezza della nostra specie.
un’operazione inarrestabile
Ogni leggendaria località, ogni «pilastro» fa parte sí della nostra giovinezza, ma anche di una continua, inarrestabile opera di costruzione e re-interpretazione del passato, che è impossibile fermare. Sopravvissuti miracolosamente sino a oggi, siti e monumenti sono sospesi su una fragile tela fatta della cultura e degli interessi delle comunità e delle nazioni che li ospitano, come di congiunture della politica internazionale che è quasi impossibile prevedere e gestire. A volte – come è successo per la disastrosa distruzione delle colossali statue buddhiste di Bamiyan in Afghanistan – questa sottile trama si spezza, e con essa vengono cancellati ricordi, identità e potenzialità economiche. Ma nei siti che sopravvivono, continuano a intrecciarsi innumerevoli temi e
Baalbek (Libano). Il sole tramonta tra le colonne del tempio di Giove Eliopolitano.
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Varna Sofia
M a r N e ro
Bulgaria
Macedonia Grecia
Bursa
M ar C aspi o
Armenia
Ankara
Ma r Troia Egeo
Delfi
Georgia
Samsun
Istanbul
Tu r c h i a
Azerbaijan
Izmir Konya
Atene
Antalya
Creta
Teheran
Cipro
Cnosso
Mar
Mosul
Aleppo
Mersin
Rodi
Baalbek S i r i a Libano
Mediterraneo
Iran
Baghdad
Damasco
Esfahan
Iraq Alessandria Il Cairo
Amman
Israele
Giordania Ur
Petra
Bassora
Kuwait
Persepoli Shiraz
G ol fo Persi co Egitto
Mar R osso
Medina
valori dell’immaginazione collettiva, in scenari tanto vari quanto continuamente cangianti. In ogni sito, con la sensibilità di un osservatore della realtà odierna, è possibile intravedere un tema dominante.
ur, la regalità impossibile Per Ur, il tema conduttore è senza dubbio quello della «regalità impossibile». Impossibile, per il senso di misteriosa catastrofe che aleggia sulle colline erose di tutte le grandi città deserte dell’età del Bronzo dell’Asia Media e Meridionale, nella polvere dei mattoni crudi e cotti e tra le croste di sale affioranti; ma anche per la sua collocazione in un ambiente naturale annullato dall’inaridimento, dall’insabbiamento dei canali e piú ancora dai recenti, spietati conflitti. La regalità si rivelò impossibile, 4300 anni fa, per i signori vissuti in palazzi mai scavati, e sepolti nel Cimitero Reale scoperto da Leonard Woolley e sua moglie Katherine. Nel luogo, ai piedi della piú tarda ziqqurat del dio della luna Nanna, con scenografie funebri nel corso delle quali si seppellivano in cripte e bare tesori incredibili, e uccisioni rituali di massa dei propri sottoposti, i signori di Ur cercarono inutilmente di varcare in morte la soglia invisibile, ma inesorabile, che li separava dalla sfera dell’immortale e del divino. Fallirono: le liste reali sumeriche, che rimasero per secoli testi di propaganda dinastica per le mire
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politiche delle varie città-stato, mai li posero nel novero dei re favoriti dagli dèi. I loro nomi, ancora avvolti nell’ombrosa incertezza di una storia mai scritta, sono riaffiorati solo sui sigilli in pietra preziosa sepolti nelle camere funebri, a lato dei corpi degli inservienti uccisi. E nel nulla finí, intorno al 2000 a.C., il potente ma effimero impero creato proprio a partire dal centro di Ur da Ur-Nammak e da suo figlio Shulgi, gli ultimi grandi re sumeri.
persepoli, l’ ordine sospeso
A Persepoli, nel cuore dell’altopiano iranico, si coglie invece l’impressione, forse meno drammatica, di un «ordine sospeso». Quello che resta delle sale del trono, dei giardini, degli harem e delle tesorerie di Dario I, Serse e dei loro successori nella grande terrazza di Persepoli ricorda davvero poco quello che doveva essere l’aspetto della grande cittadella cerimoniale prima dei rovinosi saccheggi dell’esercito di Alessandro. Ma il Gran Re, il principe della corona e le guardie reali sono ancora seduti in trono, anche se ora compaiono tra porte, rilievi e scalinate sospese nel vuoto, toccate dal sole e dal vento di un vasto altopiano semidesertico, piuttosto che nella penombra di una sala ricca, profumata e animata dall’andirivieni dei cortigiani. Anche se la pietra, sulla vasta terrazza di Persepoli, è tornata alla pietra, l’intangibile principio del potere e l’ordine imperiale ancora aleggiano negli artigli e nei becchi dei grifoni, nella deferenza eterna delle file ordinate dei sottoposti, e, poco distante, nelle facciate delle tombe reali scavate nella roccia, che si espandono a croce verso i quattro angoli del mondo.
In alto illustrazione tratta da una tavola dedicata all’architettura del Vicino Oriente antico nel Meyers Konversations-Lexikon, un’enciclopedia universale in lingua tedesca pubblicata fra il 1839 ed il 1984. Nella pagina accanto Ur (Iraq). La scalinata monumentale della ziqqurat innalzata in onore di Nanna, dio della luna.
petra, le quinte del sogno La dimensione di Petra, la perduta capitale dei Nabatei, oggi in Giordania, è quella libera e leggera del sogno. Sogno è percorrere una gola stretta nell’ombra, incisa tra rocce multicolori, per duemila passi, per poi di colpo affacciarsi in una valle di montagne di pietra rosa, affogate in una luce violenta. Nei dirupi denudati, quasi a permetterne la tracimazione del colore, le costruzioni umane, piú che scavate nella roccia, sembrano da essa generate in una sorta di dormiente, possente vis plastica. Come in qualche sogno infantile, tutto è abbandonato, e il visitatore si ritrova «ultimo uomo» o «ultima donna» rimasti al mondo, a esplorare pazientemente, con meraviglia ma anche con una punta di sgomento – forse il senso di colpa del sopravvissuto? – quanto lasciato dalle moltitudini scomparse. Da sogno è anche che la vera città nabatea, quella dei mercati e delle truppe, fatta di case, mura, strade, pozzi e condotte d’acqua, è praticamente invisibile, come riassorbita da ghiaie e sabbia; sono invece cinquecento tombe rupestri, con straordinarie facciate che ricreano porticati e ingressi di fantastici palazzi, a creare l’illusione di un’altra città: questa volta semplicemente immortale.
Qui sopra Petra (Giordania). La maestosa facciata di ed-Deir (Il Monastero). Il monumento è, forse, un mausoleo commemorativo dedicato al re Oboda I o all’ultimo re nabateo, Rabbel II.
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Delfi (Grecia). I resti del tempio innalzato in onore di Apollo.
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In alto Cnosso (isola di Creta, Grecia). La sala del Palazzo detta «del Trono».
cnosso, il nodo insolubile dell’ esistenza
Pensando alla Cnosso del re Minosse, scenografia certo posticcia – ricreata come è dagli architetti di Arthur Evans, intensi partecipi dell’Art Noveau –, ma ormai immortalata nell’archeologia moderna, e vivificata nelle mille forme della diffusione mediatica, colpisce la totale dicotomia tra un senso pieno, gioioso della vita e il pauroso nodo mitico del sanguinario mostro a testa taurina. Ragioni di vita e mostri: chi non desidererebbe vivere in uno spettacolare palazzo multicolore con terrazze digradanti tra gli olivi, circondato da un mare assolutamente blu e solcato da eleganti imbarcazioni, tra principesse e giovani bellissimi? Ma il prezzo da pagare, sembra dirci il mito del labirinto e del minotauro, è la coscienza ineluttabile della dissoluzione e dell’oscurità che ognuno, alla fine dell’intricato e spesso confuso percorso della vita, dovrà affrontare. E quale mostro, meglio del minotauro divoratore di incolpevole gioventú, poteva esprimere questo incubo? Accettare la pienezza della vita, ma anche quella nera e totale della morte, era un ossimoro insolubile per l’autocoscienza del mondo greco; come inaccettabile resta che nei meravigliosi affreschi e nella luce blu dei grandi palazzi minoici, in una sinistra sovrapposizione, si celino le orride cavità del labirinto, e la stanza del suo ospite dalle fauci insanguinate.
Delfi, il sacrificio del serpente Dalle inquietudini inconsce di Cnosso, oltrepassati i solitari sogni di Petra, la dimensione onirica ci porta dall’altro lato del mare, alla volta della Focide e di Delfi – un po’ ripercorrendo le onde solcate da Teseo, che dimenticando di cambiare il colore della propria vela, al ritorno da Creta e Nasso, condannò a morte il padre Egeo. Questo (involontario?) parricidio avvicina i miti dell’Ellade a quello, moderno e potentissimo, dell’uccisione del padre nella psicanalisi freudiana. Apollo, dio dell’estasi solare, delle epidemie ma anche dell’etica e delle leggi, rovesciò proprio a Delfi il culto del serpente-drago Python, una divinità
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ctonia di sesso incerto, sulla quale si aggroviglia un sibilante nodo di nomi diversi (Krisa, Delphyne, Drakaina, Typhon), con quello di Gea, dea della terra. Apollo massacrò l’antichissimo rettile in quello che era l’esatto centro del mondo, scacciò Gea, e fece proprio il suo oracolo, nel nome dei nuovi ordini morali e politici a venire. In quest’atto, comunque sacrilego – l’uccisione cruenta di un dio ha le sue gravissime conseguenze – Apollo rinnegò nel sangue, con lo squamoso predecessore, anche la discendenza dei Greci dalle oscurità della preistoria. Secondo alcuni antichi interpreti, il nome stesso della Pizia, la sacerdotessa-profetessa che vaticinava nel tempio di Apollo seduta su un tripode, dopo aver respirato misteriosi vapori sotterranei, sarebbe derivato dal verbo pythein, «marcire», perché a Delfi impietosi raggi solari fecero decomporre a lungo la carcassa del grande serpente abbattuto. E proprio dalla putrefazione nascono fertilità e vita. Oggi, quando si giunge ai piedi del monte Parnaso, è con reverenza che ci si avvicina alle acque della fonte Castalia, dove tutto ciò avvenne; la sorgente mormora ancora tranquilla, spesso per turisti distratti e inconsapevoli, nella spaccatura tra due montagne.
Troia, le sabbie del mito Dopo Delfi, l’altro grande nodo mitico dell’Ellade sorgeva ai suoi confini piú remoti: Ilio (Troia), sulle rive dell’Ellesponto e alle porte dell’Asia. A Troia e al suo cantore Omero dobbiamo storie e personaggi che, tremila anni dopo,
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Enea fugge da Troia, olio su tela di Pompeo Batoni (1708-1787) e della sua bottega. Torino, Galleria Sabauda.
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continuano a riverberarsi sulle nostre identità europee. La forza di questo «pilastro» consiste nella sua capacità di forzare la coscienza dell’archeologia scientifica, spesso elitaria e celata ai piú, a esplorare quasi ciclicamente il filo tradizionale e piú avvincente delle grandi narrazioni epiche, che fanno parte molto piú intima di ognuno di noi. Saranno storicamente esistiti Agamennone, Elena, Achille, Ettore, Paride e Neottolemo? Ulisse veramente costruí il fatale cavallo di legno che, dopo Omero, cantarono altri poeti? Troia da quasi due secoli continua a emergere e sprofondare nelle sabbie mobili del mito, dopo aver sfiorato, a piú riprese e da molti lati, la storia, scontentando profondamente, a turno, i fautori della storicità e del carattere favoloso dell’intera vicenda. E ai miti antichi si sovrappongono già quelli moderni, in primis quello di Heinrich Schliemann (1822-1890) e della sua scoperta della storia precipitata nelle molteplici stratigrafie della collina: principio moderno e seducente, tanto piú che la scoperta avvenne a opera di un archeologo dilettante, come ognuno dei lettori, in fondo, potrebbe ben essere. Troia oggi simboleggia anche la nascita dell’archeologia moderna, la nostra capacità di esplorare il passato con la razionalità del pensiero scientifico. Ogni archeologo tuttavia sa, nell’intimo, quanto parziale e azzardato rimanga sempre il suo mestiere, e si chiede se in fondo non sia opportuno lasciare agli eroi e ai luoghi omerici i propri aloni di eterno mistero.
Baalbek (Libano). Le colonne superstiti del colossale tempio di Giove Eliopolitano.
Baalbek, l’ ultimo canto degli dèi
Infine, i lettori incontreranno i favolosi templi di Baalbek, l’antica Heliopolis, nella provincia romana di Siria. Queste enormi costruzioni sono in un certo senso gli antipodi delle Colonne d’Ercole del mito ellenico. Queste sorgevano, lo si sapeva, oltre lo stretto di Gibilterra, davanti all’immenso e invalicabile Atlantico, e simboleggiavano l’antichissima coscienza dei confini occidentali del continente. Rispetto ai grandi siti sinora visitati, i templi di Baalbek furono eretti relativamente tardi, in piena età imperiale romana, ai confini opposti del grande Mediterraneo. La loro immensità si spiega con la collocazione su un limite cruciale – politico, in quanto Heliopolis era forse l’estremo saldo possedimento dell’impero, prima delle pianure aspramente contese del Tigri e dell’Eufrate; cronologico, in quanto mai piú, dopo aver sfiorato l’apogeo, il mondo greco-romano intraprese costruzioni tanto ambiziose; e culturale, o meglio religioso. Ci piace pensare che i grandi rituali di Giove Eliopolitano, cosí come si svolgevano nel tempio maggiore, tra processioni, suppliche e fumosi sacrifici, siano stati davvero l’ultimo canto dei grandi dèi del monto antico – sorti grazie all’uccisione sacrificale del serpente di Delfi, e ormai destinati a essere dimenticati nell’epocale riemergere di una nuova religione orientale, che aveva radici profonde, e altrettanto antiche, nelle lontane terre del Levante. Massimo Vidale
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UR misteri e tesori nella casa della luna mesopotamia, 1922: l’archeologo inglese Leonard Woolley dà inizio agli scavi della «collina di pece». inizia cosí una delle piú emozionanti avventure archeologiche del novecento: tornano alla luce i resti di una città grande e potente, dominata da una colossale torre a gradoni, che ancora oggi si staglia sul sito. dalle ricerche emergono anche tesori favolosi e tracce di inquietanti sacrifici di massa...
Sulle due pagine uomini armati sostano presso i resti della città sumera di Ur (provincia del Dhi Qar, nell’odierno Iraq meridionale), in una foto del 1916. Nell’ottobre del 1919, al termine della prima guerra mondiale, l’Iraq, fino ad allora provincia ottomana, fu dichiarato
indipendente. Nel 1922, ebbe inizio lo scavo sistematico del sito di Ur, condotto da Charles Leonard Woolley (1880-1960). Nella pagina accanto la ziqqurat di Ur, innalzata per volere del re Ur-Nammu alla fine del III mill. a.C. e dedicata a Nanna, principale divinità cittadina.
••••ur ••••••••••••••••••••••••••••••••••
U
r, la Urim dei Sumeri, sorge nell’attuale provincia del Dhi Qar, a 16 km da Nassiriya, sulla riva destra dell’Eufrate. Era la «casa del dio Nanna», divinità della luna che a Ur abitava l’Ekishnugal («casa di alabastro, della luce fluorescente»), santuario collocato presso l’angolo nord-occidentale della ziqqurat costruita dal re Ur-Nammu nel XXI secolo a.C. Il nome moderno del sito, Tell el-Muqayyar («collina di pece»), probabilmente dipende molto piú prosaicamente dagli abbondanti rivestimenti in bitume che affioravano sulla superficie della ziqqurat. Ur era la piú meridionale delle grandi città-stato sumeriche, e deve aver controllato per secoli l’accesso al Tu r c h i a Tu
Nella pagina accanto l’archeologo inglese Charles Leonard Woolley sugli scavi di Ur. In basso cartina dell’Iraq, con il sito di Ur in evidenza. È indicato anche il tracciato dell’antica linea di costa: la città, all’epoca della sua fioritura, si trovava non lontano dal mare.
Mar Caspio
Lago di Urmia
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Bas Ba B ass sso sor orra o
200 Km
Golfo Persico/ Golfo Arabico
mare di buona parte dell’intera Mesopotamia. Questa posizione strategica poneva la città in contatto costante con le vie commerciali del Golfo Persico e gli emissari delle nazioni d’Oriente che fiorivano dall’altopiano iranico alla valle dell’Indo, e in costante attrito con le altre città-stato della terra dei due fiumi. La sua potenza è ancor oggi mostrata dall’estensione delle rovine della sua area sacra sulla piana attuale (1200 x 800 m circa). Abitata dal 5000 a.C. all’età di Alessandro (IV secolo a.C.), nel III millennio a.C. ospitava templi, palazzi, porti, cimiteri dal macabro splendore e una popolazione urbana di almeno 100 000-200 000 persone. Alla fine dello stesso millennio, lungo l’arco di un secolo, fu sede di una potente casa reale (nota come «Terza dinastia di Ur») che unificò l’intera Mesopotamia, giungendo a controllare parte del Vicino Oriente e il margine sud-occidentale del contiguo altopiano iranico. La città allora era protetta da una vasta cinta muraria di forma ovale, in mattone crudo e paramenti in cotto, con mura spesse quasi 20 m. I due principali accessi erano due porti fluviali, con lunghi moli e bacini in mattone cotto (vedi pianta a p. 20).
Un panorama malinconico Che cosa resta, oggi, di questa antica grandezza? «A 25 miglia dalle rovine di Ur corre la bassa scarpata del deserto superiore, una distesa ondulata di ghiaia e affioramenti di calcare che salgono all’altezza delle colline (...) ma dalla cima della ziqqurat non si vedono altro che le distese alluvionali dell’Eufrate. È un panorama malinconico. A sud le pianure sono rotte da una cresta allungata di sabbia portata
«E Terach prese Abramo, suo figlio e Lot, figlio di Haran (...) e Sarai sua nuora, moglie d’Abramo suo figlio, e uscirono insieme da Ur dei Caldei (Ur Kasdim) per andare nel paese di Canaan; e, giunti a Harran, vi si stabilirono» (Genesi 13: 31-32).
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tutte le tappe della riscoperta • 1 625 Pietro della Valle (1586-1652)
visita Tell el-Muqayyar (le rovine di Ur) e raccoglie alcuni mattoni e sigilli a cilindro con iscrizioni cuneiformi. • 1 849 Il geologo e naturalista inglese
William Kenneth Loftus (1820-1848) visita il sito. • 1 853-1854 John George Taylor, agente
della East India Company e vice console britannico a Bassora dal 1851 al 1858, disseppellisce quattro cilindri con iscrizioni cuneiformi ai quattro angoli del piano superiore della ziqqurat di Ur, con un’iscrizione di Nabonide (Nabunaid), ultimo re di Babilonia (539 a.C.), e una preghiera per il figlio Belshar-uzur, il Belshazzar del Libro biblico di Daniele. Scava anche un edificio paleobabilonese (1800-1600 a.C. circa) e alcune tombe. • 1 862 George Rawlinson (1812-1892)
pubblica The Seven Great Monarchies of the ancient eastern world, con la traduzione di cilindri con caratteri cuneiformi che menzionano «Orchamus» (Ur-Nammu), re di «Heir» (Ur) e
identifica Ur come la «Ur dei Caldei» menzionata dalla Bibbia.
• 1 925-1926 Scavo del Giparu
(tempio di Ningal).
• 1 918 La Mesopotamia diventa dominio
• 1 926-1931 Principali campagne di
britannico. Reginald Campbell Thompson (1876-1941) diviene agente archeologo per il British Museum ed effettua nuovi sondaggi a Ur.
scavo sul sito del Cimitero Reale.
• 1 919 Harry Reginald Hall scava parte
del palazzo di Ur-Nammu a sud-est della cinta muraria neobabilonese. • 1 922-1934 Scavi congiunti del British
Museum (Londra) e dell’Università della Pennsylvania (Filadelfia, USA) diretti dall’archeologo Sir Charles Leonard Woolley: scoperta della ziqqurat, della città e dei suoi monumenti e del Cimitero Reale con suoi tesori. • 1 922 Prima scoperta del Cimitero
Reale; lo scavo viene posticipato in attesa che gli operai acquistino l’esperienza necessaria. • 1 923-1924 Scavo della grande ziqqurat. • 1 924-1925 Scavo dei principali
monumenti dell’area sacra intorno alla ziqqurat.
• 1 929 Scavo della grande
«Fossa del Diluvio». • 1 991 Prima guerra del Golfo.
La ziqqurat di Ur viene colpita da bombe e numerosi proiettili. • 2 001 Nassiriya e l’area del sito di Ur
diventano il fronte piú avanzato dell’avanzata delle forze di coalizione contro l’esercito di Saddam Hussein. • 2 003-2010 Nel 2003 Nassiriya, nel
corso dell’invasione dell’Iraq, è teatro di scontri. Il sito di Ur viene disturbato dalla costruzione di una importante base statunitense. • 2 009-2011 Nuovi progetti italiani e
internazionali per la conservazione, la gestione, la valorizzazione e il restauro del sito di Ur. • 2014 Elaborazione di una nuova pianta del sito, basata sulle ricognizioni di superficie e l’impiego di droni.
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dal vento, che sottolinea la desolazione, e da un pinnacolo di fango (...) tutto ciò che resta di Eridu, che i Sumeri consideravano la piú antica delle loro città. A ovest il piano morto di sabbia e fango si estende a perdita d’occhio (...) a nord e nord-ovest pochi bassi monticoli nascosti nel lucore della calura, o sollevati dai miraggi a un rilievo irreale, testimoniano altri insediamenti perduti nel loro sudario di sabbia e polvere». (Charles Leonard Woolley, Ur Excavations, 1934). Un paesaggio desolante? Ci stiamo guardando allo specchio: è lo scenario piú vero delle origini della nostra stessa civiltà. Secondo la Bibbia, Abramo, con Nacor e Haran figlio di Terach, era un pastore che viveva a Ur. Nella città sposò la sorellastra Sarai, figlia dello stesso padre, ma di un’altra madre. Terach, Abram, Sarai e Lot (il figlio del fratello Haran) si spostarono a Harran, nella Mesopotamia settentrionale, dove il padre di Abramo sarebbe morto all’età di 205 anni.
Un’interpretazione suggestiva Nel racconto la città di Ur – nominata nel Vecchio Testamento piú di una volta – è chiamata con il nome dei Caldei, termine usato in età neobabilonese (dall’VIII secolo a.C. in poi) per designare gli abitanti della Mesopotamia meridionale. Il nome di Abramo, figlio di Sem, significa «Padre delle Moltitudini». Egli è riconosciuto sia come capostipite della nazione ebraica, sia come profeta, messaggero divino e prototipo del perfetto musulmano dall’Islam. A lui, quindi, riconducono le tre grandi religioni monoteiste degli ultimi quattro millenni. E, ripercorrendo a ritroso le tracce di Abramo, giungeremmo dunque a Ur, nel cuore di Sumer, al cospetto di una delle vicende fondamentali della nostra cultura e della nostra spiritualità. Ma questa interpretazione è viziata da problemi importanti. In primo luogo, quello riguardante la vicenda della partenza di Abramo: a giudizio universale degli studiosi, essa deve aver avuto luogo nella prima metà del II millennio a.C., periodo nel quale dei Caldei non si era ancora sentito parlare. La menzione dei Caldei è quindi
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un’interpolazione molto posteriore. Inoltre, vi sono molte altre città e località con nomi simili o compatibili con quello di «Ur» che meglio si collocano negli scenari storici della Mesopotamia settentrionale. Alcune città con nomi apparentemente simili compaiono in tavolette di Nuzi (un importante centro hurrita della prima metà del II millennio a.C.), Biblo ed Ebla. Le assonanze e i toponimi si confondono, e, tra le possibili località candidate troviamo centri nella regione di Urartu (il territorio che si estende dalle sponde del lago Van ai rilievi del Caucaso, cuore storico dell’Armenia) e in quella di Urfa (sede delle incredibili scoperte dei «templi piú antichi dell’umanità» di Göbekli Tepe). Urfa, inoltre, si trova a poca distanza da Harran (sulle sponde del fiume Balikh), un antico centro commerciale oggi in territorio turco, dove la famiglia di Abramo si stabilí; e molti hanno fatto notare che Harran si trova ben al di fuori di una possibile marcia dalla valle del Tigri e dell’Eufrate alla volta della regione siro-palestinese. Inoltre, tradizioni islamiche ancora vive indicano una grotta nei pressi di Urfa come il luogo di nascita del patriarca. L’acrimonia dei filologi e degli esegeti dei testi biblici, infine, continua a evidenziare dettagli geografici e ambientali incompatibili con la localizzazione a sud della patria di Abramo e Sem, mentre appare innegabile che la Mesopotamia settentrionale, da sempre, è la terra dei nomadi e dei pastori che muovono le greggi dalle ondulate e piovose distese dell’Assiria alle prime valli dei monti del Tauro e degli Zagros. Dovremmo, quindi, rinunciare alle suggestioni create dai primi archeologi (e da una filologia fortemente orientata a confermare scientificamente ogni aspetto della
In questa pagina ariete in lamina d’oro, rame, lapislazzuli e conchiglia, dal Cimitero Reale di Ur. 2550 a.C. Filadelfia, University of Pennsylvania, Museum of Archaeology and Anthropology.
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tradizione biblica), e togliere a Ur, almeno per cautela, la titolarità di «Patria di Abramo». Eppure, come fare a meno dell’immagine, quasi onirica, della famiglia del patriarca che abbandona una grande metropoli, scivolando nell’ombra lunare della grande ziqqurat, per addentrarsi nelle steppe desolate delle carovaniere del nord-ovest?
Nell’anno delle prime guerre Il viaggio di Abramo dal cuore di Sumer, dal paese delle torri di antichissime divinità alla volta delle sponde del Mediterraneo e alle radici di un mondo nuovo, ha valenze simboliche troppo forti ed esplicite per essere dismesso facilmente. Tanto piú che ciò
Le rovine di Ur. Sullo sfondo, l’imponente mole della ziqqurat. Il monumento fu il primo obiettivo degli scavi condotti da Leonard Woolley tra il 1922 e il 1934. Indagini che l’archeologo britannico documentò con rigore esemplare, in pubblicazioni ancora oggi fondamentali per gli studi sul Vicino Oriente antico.
avverrebbe nel nome di una pretesa esattezza scientifica che – influenzata da fascinazioni, religioni e nazionalismi di ogni genere – probabilmente non sarà mai tale. Non ci sembra allora, in fin dei conti, una grave forzatura lasciare che Ur rimanga, per tutti noi, la grande «Ur dei Caldei». Ricordiamo, poi, che Ur è anche menzionata da un testo ebraico minore, il Libro dei Giubilei, scritto intorno al II secolo d.C. Considerato apocrifo dalla maggioranza delle confessioni cristiane, ma sacro dalla Chiesa copta, il testo afferma che Ur sarebbe stata fondata nel 1688 Anno Mundi (una datazione incerta che può avere inizio, a seconda dei diversi calcoli, dal 5500 al 4000 a.C.) da Ur, figlio di Kesed, figlio di Arpachsad,
«Il richiamo del passato giunse ad afferrarmi. Vedere il luccichio dell’oro di un antico pugnale che emergeva dalle sabbie era romantico. Mi innamorai di Ur, con le sue incantevoli sere, l’ombra pallida della ziqqurat che si stagliava all’orizzonte, nell’ampio mare di sabbia con le sue delicate sfumature di albicocca, rosa, blu e malva che mutavano di istante in istante» (Agatha Christie, An autobiography, racconto pubblicato, postumo, nel 1977 e tradotto in italiano con il titolo La mia vita, Mondadori 2003).
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quel che resta di ur La città fu identificata nel 1854 dal vice console britannico a Bassora John Edward Taylor. Dopo le prime indagini, condotte nel 1919 da Harry Reginald Hall, il sito fu scavato, tra il 1922 e il 1934, dall’archeologo inglese Charles Leonard Woolley, su incarico del British Museum e dell’University Museum della Pennsylvania. Interrotti gli scavi, per mancanza di fondi, le N fragili strutture in mattoni crudi, risalenti per la maggior parte all’epoca O E di Ur III (fine del III millennio a.C.), furono abbandonate all’incuria, S rimanendo esposte alle intemperie. Al degrado si aggiunsero le devastazioni prodotte negli anni delle due guerre contro il regime di Saddam Hussein, quando il sito divenne inaccessibile perché inglobato all’interno di una base militare irachena prima, e statunitense in seguito. Una condizione che in qualche modo preservò, almeno in parte, l’area archeologica da scavi clandestini, saccheggi e danni collegati agli eventi bellici.
1. La ziqqurat
NO
NE
SO
SE
Tra i resti visibili dell’antica città rimane la maestosa mole della ziqqurat, dedicata al dio della luna Nanna, protettore di Ur. Realizzata su costruzioni precedenti dal sovrano Ur-Nammu e portata a termine dal figlio e successore Shulgi, essa si presenta come una torre a piani sovrapposti, di cui rimangono il primo e parte del secondo, alta piú di 20 m, con una base di 62,50 x 43 m. La ziqqurat di Ur, parte di un vasto complesso cerimoniale dedicato a Nanna, è oggi una tra le piú conservate della Mesopotamia, anche grazie alle operazioni di restauro condotte negli anni Sessanta del Novecento dall’archeologo iracheno Taha Baqer.
bacino portuale settentrionale
palazzo neobabilonese
recinto sacro
2
1
fortezza cassita
edublamah case dell’epoca della iii dinastia e successive
5
case dell’ epoca della iii dinastia e successive
3
6
mausoleo dei re della iii dinastia
bacino portuale occidentale 4
tempio di enki
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2. Enunmah
Nonostante per molto tempo sia stato considerato un edificio templare, era, probabilmente, il Tesoro Reale dei signori di Ur. Costruito nell’area sacra di Nanna dal re Amar-Sin (2046-2038 a.C.), l’Enunmah presentava pianta quadrata, e racchiudeva al suo interno un edificio minore, composto da quattro vani lunghi, di cui due piú corti, preceduti da una cella longitudinale.
3. Ehursag
È stato interpretato come il palazzo di re Shulgi (2094-2047 a.C.), sebbene nelle costruzioni compaiano anche mattoni iscritti con il nome del padre, Ur-Nammu. L’edificio a pianta quadrata (57 m per lato), aveva un ingresso situato forse presso il lato nord-ovest, e si componeva di una grande corte, due sale con funzione di anticamera e della sala del trono.
4. Case private
Del periodo di Isin e Larsa (2000-1800 a.C.). Le abitazioni, realizzate su due piani, erano costruite attorno a un cortile interno, e si aprivano su vie strette e irregolari.
5. Giparu
Costruito presso il lato sud-est del recinto sacro, comprendeva i templi minori di Nanna e della divinità femminile a lui associata, Ningal, insieme alla residenza delle addette al culto del dio. Il complesso fu distrutto durante il saccheggio degli Elamiti, nel 2004 a.C., e ricostruito sotto la dinastia di Isin.
6. Il Cimitero Reale
Nella necropoli, in uso tra il 2650 e il 2050 a.C., furono rinvenute 1850 sepolture, singole e multiple. Tra queste, 16 tombe in cui erano deposti personaggi di rango riferibili alla I (2600-2450 a.C.) e alla III dinastia (2112-2006 a.C.) regnante di Ur, accompagnati da corredi di straordinaria ricchezza e individui uccisi ritualmente.
antenato di Abramo; e aggiunge che, nello stesso anno della fondazione, ebbero inizio sulla Terra le guerre (Giubilei, 11:13). Un ricordo quasi profetico, anche solo a guardare i devastanti conflitti dell’ultimo ventennio.
Il mondo sull’orlo dell’abisso Tra il secondo e il terzo decennio del Novecento, l’Occidente viveva un’epoca difficile. Il 27 febbraio 1933 il il Reichstag (la sede del parlamento tedesco) fu distrutto da un incendio, forse appiccato da provocatori nazisti ma attribuito a terroristi comunisti, e Adolf Hitler approffittò di quel «segno celeste» – come egli stesso lo definí – per prendere il potere. Quasi contemporaneamente, Thomas Mann (1875-1955), che aveva vinto da pochi anni il Nobel per la letteratura, abbandonava la Germania in esilio volontario, ma vi pubblicò il primo volume della sua tetralogia Le Storie di Giacobbe; mentre Charles Leonard Woolley (1880-1960) si apprestava a chiudere la sua storica missione a Ur, dopo undici anni di lavoro, sull’onda di una crisi economica globale che, sembra storia d’oggi, sacrificava innanzitutto l’archeologia. Uno scaltro politico pronto a scatenare sull’intera Europa le sue ideologie razziste, un letterato tedesco e un archeologo britannico all’apice del successo: se il primo era già affascinato dalle mitologie nordiche e germaniche, e pronto a promuovere i sinistri incanti di un nazismo magico, il secondo era profondamente ammaliato dalle radici antichissime della tradizione cristiano-giudaica e dai suoi infiniti riflessi sulla cultura europea. Il terzo, l’archeologo, aveva dissepolto nelle trincee di Ur le prove piú eloquenti e drammatiche delle radici che univano l’eredità cristiana al Vicino Oriente antico, prove che Thomas Mann doveva avere attentamente osservato. Nella narrazione che lo scrittore fece
Nella pagina accanto pianta della città di Ur, con l’area sacra e i monumenti piú importanti. In basso testa in oro di toro, particolare della decorazione di un’arpa (o lira), da una tomba del Cimitero Reale di Ur. 2500 a.C. Baghdad, Museo Nazionale dell’Iraq.
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da villaggio a capitale • 5 000 a.C. Ur è un fiorente villaggio
della cultura calcolitica di Ubaid. Il sito è sepolto da uno strato alluvionale di 3,5 m di sabbia e fango, nel quale Woolley riconosce frettolosamente la prova del Diluvio Universale. • 4 000-3000 a.C. Ur deve aver
prosperato, ma le tracce materiali sono scarse. • 3 000-2000 a.C. Secondo la Lista
Reale sumerica (un testo cuneiforme semi-leggendario) Ur è la terza città che riceve la regalità «dopo il Diluvio». La città si arricchisce e si espande, ma la sua archeologia e storia restano mal conosciute. • 2 600-2400 a.C. I dinastia di Ur:
regnano, nell’ordine, Meskalamdug, Akalamdug, Mesanepada, Aanepada ed Elili. Forse, alla fine, Ur viene conquistata da Ur-Nanshe, dinasta della vicina città di Lagash. • 2 400-2300 a.C. II dinastia di Ur.
I governanti della città sono probabilmente tributari dei signori della vicina Lagash. Una o piú case nobiliari continuano a seppellire i propri «re» con incredibile sfarzo e centinaia di uccisioni rituali nel «Cimitero Reale». • 2 300 a.C. circa L’intera Mesopotamia
meridionale viene conquistata e politicamente unificata da Sargon di Akkad. Il re pone sua figlia Enkheduanna come prima sacerdotessa del tempio della dea Inanna a Ur. La posizione di Ur si rivela strategica per l’espansionismo di Sargon e dei suoi figli verso il Golfo Persico. • 2 250 a.C. circa Le città sumeriche si
ribellano a Rimush, uno dei successori di Sargon, ma vengono sconfitte. • 2 150 a.C. circa Rapido collasso
dell’impero akkadico. I Gutei (una popolazione dell’entroterra montuoso iranico) travolgono la Mesopotamia.
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• 2 100 a.C. circa Utukhegal di Uruk
rovescia i Gutei e pone sul trono di Ur un suo comandante, Ur-Nammu. Gudea consolida il suo potere sul trono della vicina Lagash. Ur-Nammu fonda la III dinastia di Ur. • 2 100-2000 a.C. Ur diviene la capitale
di un vasto impero unitario e raggiunge i 60-70 ettari d’estensione. Dopo Ur-Nammu, si succedono sul trono il figlio Shulgi, quindi Amar-Sin, Shu-Sin e Ibbi-Sin. Sistemazione definitiva dell’area sacra, con la costruzione della ziqqurat, dei templi, di nuove mura urbiche.
In alto figura maschile, frammento di intarsio in osso e conchiglia. Secondo quarto del III mill. a.C. Baghdad, Museo Nazionale dell’Iraq.
• 2 000 a.C. Dopo un lungo periodo di
crisi, Ur cade preda degli Elamiti e viene devastata. Ibbi-Sin viene fatto prigioniero e portato a Susa (in Khuzistan, Iran). • 2 000-1700 a.C. Ur, che ha perso
l’indipendenza, viene ricostruita dai sovrani della città di Isin. Uno di essi, Shuilishu, restituisce a Ur la statua del dio cittadino Nanna, che era stata portata a Susa. Ur diviene infine parte del dominio di Hammurabi di Babilonia. • 1 700-1300 a.C. I Cassiti, una etnia di
origine iranica, fondano in Mesopotamia un possente regno unitario. Ampie ristrutturazioni dell’area sacra della città. • 1 300-600 a.C. Ur viene coinvolta a piú
riprese nei conflitti tra l’Assiria e la Babilonia, come alleata di quest’ultima. • 6 00-560 a.C. Il re babilonese
Nabucodonosor II ricostruisce il muro di recinzione dell’area sacra di Nanna. • 5 60-540 a.C. Nabunaid, l’ultimo re
babilonese, restaura e ricostruisce l’area sacra di Ur. • 5 39 a.C. Conquista persiana
della Mesopotamia a opera di Ciro il Grande.
Qui sopra testa di leone in argento, conchiglie e lapislazzuli, dalla fossa sacrificale della regina Pu’abum. 2250 a.C. circa. Filadelfia, University of Pennsylvania Museum of Archaeology and Anthropology.
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del sogno di Giacobbe a Bethel, la terra e le sfere celesti sono unite da una scala tesa tra cielo e terra, fatta di infiniti gradini fiammeggianti, chiaramente immaginata come la gradinata della ziqqurat di Ur. Su di essa corrono, in moto perpetuo, angeli, guardie celesti e fiammeggianti, animali pennuti in forme umane, e vi compaiono divinità taurine accovacciate con perle sulla fronte, lunghi riccioli alle orecchie e barbe ben acconciate: come non pensare ai tori d’oro e lapislazzuli delle arpe trovate a Ur da Woolley, o alle creature mitiche dei sigilli in pietra dura e alle creature fantastiche degli avori di Nimrud? Come scrisse «con il cuore» André Parrot (1901-1980), un altro grande scopritore del Vicino Oriente antico: «La torre di Babele fu una scala; il tempio, che essa sorreggeva, una porta. Straordinaria e commovente anticipazione del grido di Isaia: Oh, se tu squarciassi i cieli e discendessi! Si sa che, nella notte di Natale, Dio discese» (da Archeologia della Bibbia, Newton Compton 1978).
Una straordinaria guerra di simboli Sarebbe impossibile tracciare il filo ombelicale che collega Sumer, la tradizione biblica e il cristianesimo in modo altrettanto sintetico e lampante. Lo scavo della grande Ur fu tutto questo: la scoperta di tesori da favola, l’esito di una straordinaria guerra di simboli che preannunciava un nuovo atroce conflitto, la riscoperta e, in una certa misura, la reinvenzione di arcaiche radici comuni con i Paesi dell’Oriente al tramonto del colonialismo, in una inevitabile e forzosa «normalizzazione» della diversità culturale di un passato ancora quasi completamente ignoto e incommensurabile. E, come ogni storia straordinaria, anche questa ebbe protagonisti di eccezione. Il modo migliore per avvicinarsi a Ur è forse quello di seguire le mosse della piú celebre scrittrice di romanzi gialli. Agatha Mary Clarissa Miller nacque il 15 Settembre 1890 a Torquay, Inghilterra. Il padre, Fred Miller, era un agente di cambio statunitense, e morí nel 1901.
Per volere della madre, l’inglese Clara Boehmer, Agatha fu istruita privatamente a casa, con il progetto di farne una pianista o una cantante lirica. Nel 1906 si recò a Parigi per studiare canto, ma si rese conto di essere troppo timida per esibirsi e tornò in Inghilterra. Qui si innamorò ardentemente di Archibald Christie, un aviatore dei Royal Flying Corps. I due si sposarono nel 1914 e, nel 1919, Agatha ebbe la sua unica figlia, Rosalind.
Quel detective nato in... ospedale Aveva anima totalmente britannica: non chiese mai la cittadinanza statunitense, sebbene ne avesse diritto, e, durante la prima guerra mondiale, lavorò come infermiera volontaria in un ospedale della Croce Rossa, dove fece preziose esperienze su medicinali e veleni, sino a superare l’esame di ammissione alla Society of Apothecaries (una società professionale di farmacisti). Anche nel secondo conflitto mondiale sarebbe tornata a lavorare come volontaria nella farmacia di un ospedale. La leggenda vuole che l’amore per le storie poliziesche le fosse venuto dai racconti che i degenti lasciavano in ospedale prima di essere dimessi per tornare a combattere. La sua prima opera, The Mysterious Affair at Styles (Poirot a Styles Court) uscí nel 1920. La vittima, nel romanzo, muore per avvelenamento; il libro, grazie alla felice invenzione del detective Hercule Poirot, fu un vero successo. Agatha ne ricavò un importante contratto per scrivere 12 altre storie con protagonista Poirot e i fondi per iniziare a viaggiare per il mondo. Tutto cambiò drammaticamente nel 1926, quando morí all’improvviso sua madre, e il marito le chiese il divorzio. Nessuno sa con esattezza che cosa sia accaduto, ma Agatha scomparve da casa, per essere ritrovata dieci
Nella pagina accanto, in basso statuetta di re, in terracotta, da Ur. 2100-2000 a.C. Istanbul, Museo Archeologico. In basso elmo d’oro decorato a sbalzo, di Meskalamdug, dalla tomba PG 755, nel Cimitero Reale di Ur. 2650-2550 a.C. Baghdad, Museo Nazionale dell’Iraq.
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Il restauro come un’inchiesta di Poirot Agatha Christie adorava pulire e restaurare gli oggetti ritrovati durante lo scavo, un processo che sentiva strettamente affine al disvelamento della nuda verità che operava alla fine dei suoi romanzi. In Death on the Nile (Poirot sul Nilo, 1937) leggiamo: «Nel corso dello scavo, quando un oggetto esce dal suolo, intorno a esso tutto viene rimosso e pulito con cautela (...) Questo è quanto io ho sempre cercato, eliminare la sostanza estranea per poter vedere la verità – la nuda, brillante verità». Maieutica a parte, Agatha aveva un amore sconfinato per la creatività dell’uomo del passato: «Ci si sente orgogliosi di appartenere alla razza umana quando si vedono le cose meravigliose che l’uomo ha creato con le sue mani. Gli uomini sono stati creatori – devono condividere un po’ della divinità del loro Creatore (...) Sono totalmente dedita agli oggetti d’arte e di artigianato che emergono dal terreno. Forse scavare sarà piú importante, ma per me nessun fascino può competere con il lavoro delle mani umane» (An Autobiography). Si sa che, nel corso degli scavi che il marito diresse nella grande reggia assira di Nimrud, Agatha usava pulire i delicati avori con una costosa crema per il viso. Il metodo non è certo raccomandabile, ma funzionava (e non sembra aver causato particolari danni ai manufatti).
In alto Agatha Christie fotografata sullo scavo dell’antica città di Balawat, in Iraq, nel 1956. Qui accanto Agatha con il secondo marito, Max Mallowan, nella loro casa di Winterbrook, nella contea inglese dell’Oxfordshire, in una fotografia del 1950.
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giorni dopo in stato confusionale in un albergo di una località termale scozzese dove si era incomprensibilmente registrata con il nome dell’amante di Archibald. Si parlò di una montatura pubblicitaria o di un caso di amnesia; nel 2001 un biografo cercò di provare che la scrittrice aveva voluto simulare il proprio omicidio nella speranza che ne fosse accusato il marito fedifrago. Agatha riprese a viaggiare, come se fosse in cerca di una nuova vita. A partire dal 1925, anno in cui fu scoperto il Cimitero Reale, aveva letto delle meravigliose scoperte di Ur nella Illustrated London News. Decise che avrebbe visitato quei luoghi. Nello stesso anno, un promettente studioso di 21 anni, Max Mallowan, si era unito alla missione di scavo a Ur: il destino elaborava le sue trame.
Il mondo visto dall’Orient Express Nel 1928 Agatha aveva progettato un viaggio nei Caraibi, «in cerca del sole». Ma due giorni prima di partire, incontrò a una festa un ufficiale di Marina che le parlò di Baghdad e degli scavi di Ur. Agatha cambiò subito i biglietti, e realizzò cosí il sogno di prendere l’Orient Express e di visitare il Vicino Oriente. Aveva sempre amato i treni e ne adorava i finestrini, che le permettevano di osservare a piacimento e in sicurezza il mutare del mondo. Soggiornò a Istanbul (l’albergo presso il quale si fermò è oggi stato musealizzato in ricordo del suo passaggio) e raggiunse poi Baghdad. Arrivata in Iraq, si recò a visitare il sito. Mallowan allora era assente. Alla casa della missione fu accolta calorosamente da Katharine, la moglie tedesca di Woolley, che era anche un’ammiratrice dei suoi romanzi. Woolley accompagnò la scrittrice a visitare gli scavi, e i due coniugi la invitarono a tornare a Ur in occasione della missione successiva. E, nel 1930, Agatha tornò a Ur. I Woolley e Mallowan avevano da poco finito di scavare,
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«Gli archeologi esaminavano piccoli, oscuri monticoli in tutta la regione, raccoglievano frammenti di cocci dipinti dovunque si recavano, li etichettavano, li sigillavano entro borse, e ne esaminavano attentamente i disegni – era tutto infinitamente interessante. Fui enormemente deliziata dalla mia prima esperienza di vita in una missione di scavo» (Agatha Christie, An autobiography).
con fatiche estenuanti ed emozioni indescrivibili, il Grande Pozzo della Morte (PG 1237) e i suoi tesori. Agatha giunse nel cuore di una interminabile tempesta di sabbia, e fu Katharine a insistere affinché il giovane Mallowan (1904-1978), ora assistente di Leonard, si prendesse personalmente cura della scrittrice, che lo descrisse come «un giovanotto magro, scuro, molto tranquillo». Cosí si legge nell’autobiografia di Max: «Quando Agatha venne per fermarsi a Ur nel marzo di quell’anno, Katharine Woolley, con i suoi modi imperiosi, mi ordinò di portarla a Baghdad e di farle vedere un po’ il deserto (...) era un giorno torrido e decidemmo di fare un bagno in un laghetto salato lí vicino, ma la macchina si insabbiò inesorabilmente (...) Fortunatamente avevamo una guardia, un beduino che ci era stato dato dalla polizia a Najaf, il quale, dopo aver pregato Allah, si mise in viaggio con noi per una marcia di 50 km. Ricordo di essere rimasto sbalordito dal fatto che Agatha non mi rimproverò per la mia incompetenza (...) Se fossi stato accompagnato da Katharine, questo è quanto sarebbe certamente successo, e cosí decisi che Agatha doveva essere una donna eccezionale». Ci sono molti modi di innamorarsi, e quello di non essere rimproverati ne rappresenta, evidentemente, una buona premessa. Il nome di Katharine incombe
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Pugnale in argento e oro con lama in bronzo, e fodero in oro con decorazione a filigrana, dalla tomba di Meskalamdug del Cimitero Reale. 2450 a.C. Baghdad, Museo Nazionale dell’Iraq.
sulla coppia, sin dal loro primo incontro. La scrittrice aveva allora 40 anni, 14 piú di Max. Non si può dire, guardando le foto del tempo, che fosse una donna bellissima, era, però, una delle scrittrici piú famose d’Europa e aveva certamente una personalità magnetica. Poiché Rosalind, la figlia di Agatha, si era ammalata gravemente, Max si offrí di accompagnare la compatriota nel viaggio di ritorno. Una volta a casa, fece la sua offerta di matrimonio, che fu accettata (non senza attente ponderazioni). I due si sposarono. Erano passati sei mesi dal loro primo incontro.
La rottura con i Woolley Katharine Woolley, per qualche motivo, aveva consigliato alla coppia di ritardare le nozze, e ne fu molto contrariata. Max aveva promesso di tornare a Ur a scavare in ottobre, ma Katharine dispose che i due non erano piú graditi alla missione. La rottura con i Woolley fu totale, e Max, l’anno successivo, accettò di scavare con
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Reginald Campbell Thompson. Iniziò cosí per Agatha una inaspettata carriera di archeologa, che la impegnò per lunghi anni come studiosa, fotografa e restauratrice sulla scena di rovine, trincee e deserti (vedi box a p. 24). Dal 1931 al 1939 lavorò, a fianco del marito, a Ninive, Arpachiyah, Chagar Bazar e Tell Brak, per poi intraprendere, alla fine del secondo conflitto mondiale, gli scavi di Nimrud, l’antica Kalah degli Assiri. Sei anni dopo la rottura con i Woolley, Agatha scrisse Murder in Mesopotamia (Non c’è piú scampo, 1936), dedicato ai suoi «numerosi amici archeologi in Siria e in Iraq». Nel romanzo, un Hercule Poirot irritato da scomodità di ogni genere deve scoprire chi, durante uno scavo, ha avvelenato la moglie di un famoso archeologo. Agatha Christie continuò a scrivere le sue storie poliziesche sulla scena di viaggi in Oriente (Egitto, Siria, Giordania, Iraq), collocando trame ed eventi su barche e vagoni ferroviari, e in qualche caso, come in Murder in Mesopotamia, nelle case delle missioni di scavo. L’ambientazione circoscritta permetteva alla scrittrice di scavare a fondo nei caratteri e nelle pulsioni che animavano i suoi personaggi.
L’innata attitudine alla gerarchia Non le era certo sfuggito che nelle missioni archeologiche orientali si formano – allora come oggi – piccole società segregate, nelle quali spesso ognuno dà il peggio di sé: ambizioni e frustrazioni, piaggerie e servilismi prendono forma attorno a direttori di scavo spesso tirannici e pronti ad abusare psicologicamente dei sottoposti; e, non di rado, le mogli dei direttori non erano da meno. La missione di scavo diviene quindi un concentrato, pericoloso, delle innate attitudini gerarchiche dell’essere umano. Nella finzione letteraria l’omicidio è la soluzione di questo brutale egoismo, la ricerca della verità la forma del riscatto sociale. Quando Agatha Christie «rubò» il timido Mallowan ai Woolley, lo scavo del Cimitero Reale e l’intero progetto di scavo di Ur volgevano ormai alla fine, e l’immagine storico-
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archeologica dell’antica città era già stata delineata come oggi la conosciamo. Nonostante Ur sia la città sumerica scavata meglio, e in maggiore estensione, essa conserva ancora gran parte dei suoi segreti. A cominciare proprio dalle tombe del Cimitero Reale. Delle 1850 sepolture scavate da Woolley presso l’angolo orientale del muro di recinzione dell’area sacra di età neobabilonese, 16 erano state costruite in modo anomalo e avevano corredi di una stupefacente ricchezza, tali da rivaleggiare con il tesoro di Tutankhamon (scoperto nel 1922, lo stesso anno in cui Woolley aveva iniziato a sospettare dell’esistenza del cimitero).
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Vittime sacrificali per i signori di Ur In molte di esse, inoltre, l’occupante principale della tomba (donna o uomo) era stato accompagnato da numerose sepolture accessorie, con corpi accostati alla bara oppure disposti in file e gruppi in pozzi collaterali. I corredi contenevano migliaia di preziose perle in cornalina, in gran parte importate dalla valle dell’Indo o fatte a Ur da artigiani indiani, e quasi tutto il lapislazzuli mai trovato nel Vicino Oriente antico, giunto dalla valle del Badakshan (Afghanistan nord-orientale). Vi erano arpe di rame, d’argento e di legni preziosi intarsiati di pietre dure e conchiglie; cosmetici; vasi d’oro, d’argento e di pietra dura; barchette d’argento che forse alludono a un viaggio su acque ultraterrene; uova di struzzo finemente lavorate; contenitori fatti di grandi conchiglie del Golfo Persico, probabilmente incise nell’attuale Baluchistan; e i carri e le slitte che avevano portato alla loro dimora i corpi dei signori di Ur. Questi tesori, scavati e restaurati
In alto frontale (1) in grani di lapislazzuli e cornalina, e pendenti in oro a forma di foglie, dal Grande Pozzo della Morte (PG 1237), nel Cimitero Reale di Ur. 2500 a.C. circa. Baghdad, Museo Nazionale dell’Iraq.
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i corredi del cimitero reale sono cosí ricchi da rivaleggiare con il tesoro di tutankhamon
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Pendenti in oro (2), collane in oro e lapislazzuli (3) e spillone (4) dal Grande Pozzo della Morte (PG 1237), nel Cimitero Reale di Ur. 2500 a.C. circa. Oxford, Ashmolean Museum.
A destra il copricapo e i gioielli indossati dalla regina Pu’abum (I dinastia reale di Ur, 2600-2400 a.C.), riprodotti in una stampa a colori.
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Elmi e gioielli per le «testemorte» In alcune delle sepolture del Cimitero Reale indagate da Leonard Woolley erano deposti personaggi di rango circondati da uomini e donne. Dopo lo scavo l’archeologo fece asportare in blocchi di terra una serie di teste, schiacciate dal peso del terreno e ancora coperte dagli elmi in rame (i maschi) o addobbate in acconciature cerimoniali (le donne). Nel 2009 due di questi blocchi, noti come deadheads (letteralmente «testemorte»), sono stati sottoposti a tomografia assiale computerizzata (TAC). Un cranio femminile sembra sfondato da un forte colpo, mentre quello maschile mostrerebbe due fori circondati da crepe radiali, il segno inconfondibile (per gli esperti di medicina legale) dell’impatto sulla tempia di un’arma simile a una piccozza. L’elmetto sembra intatto, quindi la vittima fu rivestita formalmente dopo essere stata uccisa. Scoperte che suggeriscono che tali individui siano stati violentemente uccisi prima di scomparire nelle sepolture di massa.
Pianta della camera sepolcrale della regina Pu’abum con l’indicazione dei numerosi oggetti del corredo. In basso, a sinistra il particolare di un cranio femminile ornato con oro, lapislazzuli e corniola, proveniente dal Grande Pozzo della Morte (PG 1237), nel Cimitero Reale di Ur.
da Woolley, oggi sono il vanto delle collezioni del Museo Nazionale di Baghdad, del British Museum e dell’University Museum di Filadelfia (Pennsylvania, USA). Insieme a tutto ciò, il Cimitero Reale ci ha lasciato mille interrogativi irrisolti. Non ne è stata stabilita l’esatta cronologia; mentre rare iscrizioni sembrano dire che tra i «re» vi sarebbero alcuni dei sovrani compresi nella I dinastia di Ur della Lista Reale sumerica (2600-2400 a.C. circa), altri sono del tutto ignoti; e i tesori delle tombe reali sembrano in buona parte posteriori. Molti dubitano che si tratti di re e regine, e sospettano – probabilmente a torto – che siano invece sacerdoti e sacerdotesse sacrificati in
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riti che simulavano matrimoni tra i sovrani e le divinità cittadine. Nel complesso, i morti che accompagnarono i signori nelle tombe, sono oltre 300. I Woolley avevano scavato il Grande Pozzo della Morte (PG 1237) nell’inverno 19291930. La tomba collettiva conteneva i resti di 78 persone, forse in gran parte giovani donne, riccamente addobbate e ingioiellate, che giacevano indisturbate e composte in file regolari sul pavimento. Ma come erano morte? La lettura del libro The Sumerians (New York 1929) rivela che Woolley, prima di questo scavo, pensava che fossero state vittime di uccisioni rituali di massa. Tutto indica che fu Katharine a suggerire al marito un’altra ipotesi, quella del suicidio volontario di massa mediante ingestione di droghe e veleni. Certamente ebbero un peso notevole, in questa nuova ricostruzione, le letture dei libri di Agatha Christie, nei quali l’avvelenamento è una comune «tecnica di morte». L’idea di una morte dolce e volontaria, inoltre, soddisfaceva la sensibilità neo-romantica di parte degli intellettuali del tempo, e non comprometteva l’idea di una civiltà evolutissima che gli scavi in Mesopotamia, per altri versi, non cessavano di alimentare. La scienza moderna sta cambiando radicalmente la ricostruzione degli eventi. Gli antropologi hanno scoperto segni di fratture violente sui pochi crani che gli scavatori portarono in Inghilterra e negli Stati Uniti, e studi accurati sui modi delle deposizioni rivelano che le persone uccise, dopo essere state lavate e sontuosamente rivestite, erano state portate nella camera sotterranea seguendo complessi rituali, e in assetti ispirati a vaste concezioni cosmologiche. Nessuno, comunque, è finora riuscito a spiegare come mai, di questi riti macabri e impressionanti non vi siano tracce nei testi cuneiformi dell’epoca.
Lo scavo della ziqqurat Leonard Woolley, che aveva un’intelligenza fine e concreta per i fatti pratici dello scavo, scelse di iniziare le ricerche dal monumento piú visibile, e forse meno complesso dal punto di vista delle tecniche di indagine, la ziqqurat.
L’enorme «torre» a gradoni (43 x 62,5 m alla base) era stata sfiorata, una settantina di anni prima, dagli scavi di John George Taylor. Nel 1913 gli scavi di Robert Koldewey a Babilonia avevano messo in luce, della mitica torre di Babele, solo fondazioni semidistrutte. Per questo, quando pensiamo alla torre di Babele, oggi, in realtà, visualizziamo le ricostruzioni che Woolley fece della ziqqurat di Ur, il tempio principale di Nanna, ben conservata sino al basamento del secondo piano. Tuttavia anche la ziqqurat e la sua storia sono tutt’altro che ben conosciute. Non si sa esattamente a quando risalga il primo impianto del III millennio a.C. Delle costruzioni precedenti la ziqqurat di Ur-Nammu ci sono giunti due nomi (Etemenniguru, il recinto originario, letteralmente «Spazio avvolto nel terrore», e Elugalgalgasisa, «casa del sovrano che fa prosperare il consiglio»). Sebbene sia noto che alcuni templi della Mesopotamia protostorica nacquero su vaste terrazze monumentali, quella di Ur è la prima «torre a gradoni» con regolare pianta quadrangolare conosciuta, ed è verosimile che sia stata ispirata da modelli iranici, dato che sull’altopiano costruzioni di quel tipo sono ben piú antiche. Nell’età della III dinastia di Ur,
Le operazioni di scavo nel Cimitero Reale.
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Il cosiddetto Stendardo di Ur, rinvenuto nel Cimitero Reale, nella tomba 779 (2600 a.C.), e conservato al British Museum di Londra, è una cassetta lignea decorata in madreperla e conchiglie su uno sfondo di lapislazzuli, con i lati maggiori suddivisi in tre registri separati da bande ornamentali, che si leggono dal basso verso l’alto. Su quello detto «della Guerra», qui illustrato, sono raffigurati, nella fascia inferiore, i nemici sconfitti travolti da carri trainati dagli onagri delle milizie di Ur; nella fascia mediana, i vinti sono fatti prigionieri e portati al cospetto del sovrano; nella fascia superiore, il re, raffigurato al centro e in dimensioni maggiori, attende i prigionieri. Sul lato opposto, detto «della Pace» è raffigurato un banchetto alla presenza del re.
l’area sacra doveva essere chiusa, come quella piú tarda di età neobabilonese, da un recinto murario di 200 x 250 m circa. Nell’angolo nordovest la ziqqurat era dotata di due, forse di tre piani (come pensava Woolley) e di un tempio sommitale. Tre scalinate convergevano sul lato nord-est, e di fronte a esse si apriva la grande Corte di Nanna, inserita nella recinzione generale dell’area sacra. Gli spessi rivestimenti di bitume del primo piano della ziqqurat avevano suggerito a Woolley che esso ospitasse dei giardini alberati, riproponendo un arcaico modello di «montagna sacra» ed evocando al tempo stesso i «giardini pensili di Babilonia», uno dei miti piú enigmatici del mondo antico; ma la suggestiva ipotesi, in seguito, non fu presa in seria considerazione.
Mattoni cotti e crudi Nella vasta recinzione sorgevano grandi edifici, costruzioni protette e ombrose, con spesse mura in mattoni cotti e crudi, e le pareti esterne animate, secondo le piú arcaiche tradizioni del Paese, da fitti giochi di recessi e contrafforti, che spezzavano l’urto di un sole accecante in lame verticali d’ombra, con l’effetto di slanciare visivamente in alto gli edifici. Vi era il Giparu, un vasto complesso quadrangolare con cortili interni, e un vero intrico di stanze lunghe e strette, forse in origine il magazzino del tempio. In seguito, il Giparu divenne tempio della dea Ningal e casa della sua sacerdotessa. Era un edificio forse riservato alle donne: gli archeologi credettero di
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aver trovato, sotto ai pavimenti delle celle interne, le tombe delle sacerdotesse, e una parte della costruzione potrebbe aver ospitato lunghi telai orizzontali. L’Enunmah, sul lato sud-est della Corte di Nanna, ospitava altri culti e il tesoro del tempio. Ancora piú a sud-est Ur-Nammu costruí il quadrangolare Ehursag, altro intricato edificio interpretato da Woolley come palazzo reale, forse adibito ai culti riservati ai sovrani. Il re Amar-Sin infine, costruí, come entrata monumentale al complesso della ziqqurat, l’Edublamah (termine che significa letteralmente «Casa cardine eccelso»), un vasto ingresso a camere consecutive tra il Giparu e l’Enunmah forse usato come camera per udienze e giudizi, poi gradualmente sacralizzato in tempio. Sembra che il muro sacro di Ur-Nammu, nell’angolo sud-orientale, escludesse l’area del cimitero arcaico, e lo stesso mausoleo dei re della III dinastia, un vero e proprio palazzo sotterraneo destinato al culto dei sovrani divinizzati, dotato di camere, scale, e di altari per i rituali e le libagioni presso le tombe. Il mausoleo, non meno delle tombe dei re piú antichi, doveva essere colmo di ricchezze inestimabili, ma fu saccheggiato dagli invasori iranici ai tempi della conquista di Ur, intorno al 2000 a.C. Quando Leonard Woolley ne riaprí le camere, vi trovò, caduti al suolo, preziosi inserti in oro a forma di astro radiante, che dovevano simulare, sulla volta del sepolcro, un estatico cielo stellato.
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perché è importante
• L ’antica Ur (oggi Tell el-Muqayyar, nell’Iraq meridionale)
fu occupata fin dal 5000 a.C. Nel corso del III millennio, il centro crebbe di dimensioni, raggiungendo il massimo splendore con Ur-Nammu (2112-2095 a.C. circa), che diede inizio alla III dinastia. Molto di quel che sappiamo delle antiche culture mesopotamiche è frutto delle scoperte compiute a Tell el-Muqayyar da Leonard Woolley.
• L a grandiosità delle rovine architettoniche, che ancora
oggi ricoprono la pianura, testimonia il ruolo che la città svolse, per oltre cento anni, nel controllo politico, amministrativo e militare del Paese, arrivando a dominare un’ampia zona della Mesopotamia.
• L e tombe del Cimitero Reale, rinvenute negli anni Trenta
del Novecento, rappresentano una delle scoperte piú straordinarie dell’archeologia orientale.
il sito nel mito
• I l fascino di Ur deriva dalla sua storia plurimillenaria e
dalle emozionanti fasi della sua riscoperta. Ad alimentare miti e misteri contribuiscono i numerosi enigmi irrisolti, primo fra tutti quello intorno alle sepolture collettive individuate nel corso degli scavi del Cimitero Reale. • Il sito è, nell’opinione comune, associato alla Ur dei Caldei, luogo leggendario che la Bibbia designa come città natale di Abramo. Ma si tratta, come è spiegato nell’articolo, di un’identificazione tutt’altro che certa e per la quale sono state avanzate diverse ipotesi alternative. • L’archeologo Leonard Woolley, che pure condusse esplorazioni che ancora oggi restano un modello esemplare di rigore scientifico, arrivò a ipotizzare che un poderoso accumulo di limo, localizzato al di sopra dei piú antichi livelli di occupazione del sito, potesse essere la traccia concreta del Diluvio Universale.
ur nei musei del mondo
• N el Cimitero Reale di Ur furono scoperti centinaia di
manufatti, testimoni del livello e della grandezza conseguiti dai Sumeri nel periodo di massimo splendore. Vasi in metallo prezioso, gioielli, armi, strumenti musicali, tra cui splendide arpe di rame e d’argento con intarsi in madreperla, sono oggi divisi, in misura maggiore, tra il Museo Nazionale di Baghdad, il British Museum di Londra e il Museum of Archaeology and Anthropology dell’Università della Pennsylvania, a Filadelfia (USA).
• T ra gli oggetti piú celebri vi è il cosiddetto «Stendardo di
Ur», utilizzato, probabilmente, nell’ambito di processioni rituali e oggi custodito al British Museum (foto a p. 30).
informazioni per la visita
• I l sito archeologico, restituito alle autorità irachene nel
quadro del processo di normalizzazione avviato all’indomani dei conflitti che hanno insanguinato il Paese, è oggi accessibile, ma non facilmente visitabile. In ogni caso, è opportuno verificare l’eventuale vigenza di avvisi o restrizioni sul sito www.viaggiaresicuri.it
Charles Leonard Woolley e la moglie Katharine sugli scavi di Ur.
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persepoli al centro dell’universo alla metà del I millennio a.C. i discendenti di achemene, il mitico sovrano «dall’animo consapevole», diedero vita a un impero di proporzioni sconfinate e ne posero il cuore nella piana di marv, nell’odierno iran sud-occidentale: una città magnifica, di cui ancora oggi si conservano resti imponenti. che non solo testimoniano la maestria di architetti e scultori, ma riflettono l’ambizioso disegno politico di cui i grandi re dell’antica persia si fecero promotori
Nel riquadro veduta di Persepoli: in secondo piano, al centro della foto, sono i resti della Sala delle Cento Colonne. Voluta da Serse, è il piú grande edificio dell’intero complesso. Nella pagina accanto una delle gradinate di accesso al palazzo di Dario I, la cui
costruzione, da lui stesso avviata, fu portata a termine dal figlio, Serse. VI-V sec. a.C. I rilievi mostrano i signori di 23 delle 28 nazioni comprese nell’impero achemenide che si recano in processione dal sovrano, portando doni e tributi.
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nvisibile – quasi fino all’ultimo – Persepoli resta ancor oggi agli occhi del visitatore, che attraversa in macchina o in autobus la distesa informe del Marv Dasht (la «piana deserta di Marv»), con gli occhi fissi su una cortina di rocce scure che si avvicinano gradualmente (il Kuh-e Rahmat o «montagna di grazia»); ma solo da pochi passi, quando si giunge ai piedi delle enormi terrazze che una volta sostenevano sale colonnate, soglie e portali, ciò che resta delle immense architetture perdute lo sorprenderà all’improvviso dai suoi sfondi rocciosi. Forse, questa assenza apparente, che in realtà si muta in subitanea rivelazione, è ancora dettata dai fantasmi dei grandi re, che per sei generazioni vissero e costruirono tra queste mura. Re invisibili, appunto, o almeno tali dovevano restare per la quasi totalità dei sudditi, sino al momento in cui sceglievano di apparire come sacre epifanie al culmine delle cerimonie piú solenni. Il Gran Re, come lo chiamavano i suoi sudditi di lingua greca d’Asia Minore, compariva allora come un’immagine inumana e ieratica, assisa su troni coronati da bestie e geometrie irreali, paludata di veli impalpabili tempestati di luci come stelle. Nei rilievi di Persepoli, nitidi come fotografie, il Gran Re ci appare, congelato nel suo potere, velato dallo sporco del mondo e persino dall’alito dei suoi piú alti funzionari, che a lui si genuflettono schermandosi il respiro, nel soffio di incensieri e turiboli dai profumi innaturali e stordenti.
Una visione distorta Facile, a questo punto, comprendere l’irritazione degli Iraniani di oggi nei confronti del film 300, pellicola facile e ingegnosamente fabbricata sull’onda del terrore rinnovato dall’attentato dell’11 settembre e delle paure crescenti per gli investimenti della Repubblica Islamica dell’Iran nei settori nucleari. Nel film, il re e i guerrieri di Sparta affrontano l’onda espansionistica di un buio impero del male, il cui imperatore è dipinto come un grottesco, enorme lottatore seminudo e dorato, dagli appetiti sessuali perversi e
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Mohammad Reza Pahlavi, con la regina Farah Diba, visita Persepoli, 1960 circa. L’ultimo shah dell’Iran (fu costretto ad abbandonare il potere dopo la rivoluzione islamica scoppiata nel 1978) celebrò piú volte la grandezza dell’impero persiano in chiave propagandistica.
«Guardate attentamente ai lati della colossale piattaforma, che si vede bene soprattutto dai lati ovest e sud, dove i blocchi di calcare, meticolosamente aggiustati gli uni agli altri, enormi per dimensioni e peso, salgono a circa 20 m di altezza. La stessa terrazza si estende per un’ampiezza di 450 x 300 m. Un grande muro di mattoni crudi, almeno in parte coperto di mattonelle policrome, sorgeva sul margine della piattaforma» (Sylvia Matheson, Persia: An Archaeological Guide, 2001).
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nel segno del gigantismo • 530 a.C. Ciro II, detto il Grande,
fondatore dell’impero persiano, muore in battaglia contro gli Sciti Massageti della regina Tomiri, nell’attuale Turkmenistan, ed è sepolto a Pasargade. Mentre qui immense costruzioni rimangono non finite, il figlio e successore Cambise II sceglie il pendio del Kuh-i Rahmat, circa 50 km a nord dell’attuale Shiraz, come sede di una nuova capitale dinastica
• 5 18 a.C. Dopo una grave crisi dinastica,
Dario I («Colui che possiede il bene», 522-486 a.C.) avvia una grande stagione di fastose, costosissime costruzioni. Dario pianifica l’enorme terrazza in pietra e la dota di raffinati sistemi idraulici. Inizia la costruzione dell’Apadana (la sala delle udienze, con colonne che sorgono da corolle di fiori di loto, coronate da teste di leoni, grifoni e tori), con due scalinate che, coperte di bassorilievi, celebrano il sovrano nelle vesti di Re dei Re. Nelle immagini, i signori di 23 nazioni si recano in processione dal monarca, portando doni e tributi. Il palazzo di Dario I e quello del principe della corona, Serse, sorgono dietro all’Apadana. A Dario I è attribuita anche la costruzione del Tesoro. • 486 a.C. Muore Dario I e il figlio Serse
(«Colui che regna sugli eroi», 486-465 a.C.) completa l’Apadana. Serse realizza la Sala delle Cento Colonne (che ospitava il suo trono), il piú grande edificio del complesso (70 x 70 m), e costruisce anche il cosiddetto harem (gli appartamenti femminili), e la grande Porta di Tutte le Nazioni, protetta da imponenti tori androcefali (lamassu). Un’iscrizione su tavoletta rivela che nel 467 a.C., alla fine del regno di Serse, il Tesoro costruito dal padre ospitava piú Le rovine del palazzo di Dario a Persepoli in un’incisione ottocentesca. Milano, Castello Sforzesco.
di 1300 dipendenti. Al regno di Serse, o alle decadi posteriori, si attribuisce anche il Tripylon (Tripla Porta) che sorge tra l’Apadana e la Sala delle Cento Colonne. • 465 a.C.Alla morte di Serse, la Sala
delle Cento Colonne non è ancora finita, e viene completata dal suo successore, Artaserse I (465-424 a.C.). • 400 a.C. circa La Sala delle Cento
Colonne si trasforma in magazzino, forse come sede accessoria del Tesoro reale, insufficiente a raccogliere il patrimonio della corte. • 358-330 a.C. Gli ultimi tre sovrani
achemenidi (Artaserse III, Artaserse IV, Dario III Codomano) sono ancora impegnati in cantieri costruttivi e nella ristrutturazione degli accessi alla reggia, ma la cosiddetta Porta Non Finita e l’incompleta Via processionale a essa collegata testimoniano l’improvvisa invasione macedone. • 330 a.C. Poco prima della morte
dell’ultimo re achemenide, Dario III Codomano, Alessandro distrugge col fuoco i palazzi di Persepoli. • 1620-1892 Le rovine cadono nell’oblio
fino agli inizi del XVII secolo, quando la città comincia a essere visitata da viaggiatori occidentali. La prima descrizione scientifica del complesso si deve a George Curzon (Persia and the Persian Question, 1892). • 1931-1934 Prime campagne di scavo
dell’Oriental Institute di Chicago, dirette Ernst Herzfeld. • 1934-1939 Campagne di scavo di Eric
Schmidt (Oriental Institute di Chicago, University Museum di Philadelphia e Museum of Fine Arts di Boston). • 1939-1964 Scavi e ricerche condotte dal
Servizio Archeologico Iraniano. • 1964-1978 Restauri, ricostruzioni e
scavi da parte dell’IsMEO (Istituto Italiano per il Medio ed Estremo Oriente, Roma).
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••••persepoli ••••••••••••••••••••••••••••••
animato dall’unica aspirazione di schiacciare chiunque gli si opponga. I Persiani, in 300, sono fantasmi anonimi, col volto coperto da uno straccio nero, che combattono con metodi sleali e muoiono a migliaia da codardi. Senza indulgere nelle ironie piú facili (in Grecia l’omosessualità era piú che tollerata, e fatta palese istituzione pedagogica; e proprio gli Spartani ne fecero le spese un paio di secoli dopo, travolti dai «battaglioni sacri» dei guerrieri omosessuali tebani), possiamo rimproverare a regista e scenografi di avere totalmente sbagliato strada. L’essenza del potere dei Persiani, pienamente riflessa dall’intangibile e lucida perfezione dei rilievi di Persepoli, era infinitamente piú sottile. Infatti, come ha scritto Marguerite Del Giudice, in un reportage pubblicato qualche anno fa dal National Geographic, «ciò che piú colpisce
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nelle rovine di Persepoli (…) è la mancanza di scene di violenza su ciò che rimane delle sue mura in pietra. Tra i rilievi figurano i soldati, ma senza combattere. Vi sono le armi, ma non sono sguainate. I simbolismi piuttosto suggeriscono che in queste sale si svolgesse qualcosa di umano, genti di diverse nazioni che si riunivano pacificamente, portando doni, appoggiando amichevolmente le mani gli uni sulle spalle degli altri».
Guidati da un re giusto e caritatevole Un impero retto a pacche sulle spalle? In effetti, le scene di aggressione e violenza sono limitate a lotte in cui figurano belve e animali fantastici, quasi a suggerire che, se gerarchia e sopraffazione fanno parte di questo mondo, il consesso delle genti, sotto l’egida di un sovrano giusto e caritatevole, ispira un ordine
Uno dei grandi rilievi che ornano il Tripylon (Tripla Porta), che sorge tra l’Apadana e la Sala delle Cento Colonne. La sua costruzione viene attribuita al regno di Serse (486-465 a.C.) o ai decenni immediatamente successivi. La scena raffigura un leone nell’atto di abbattere un toro, da intendere come allusione al trionfo delle forze del bene su quelle del male.
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In alto ancora un particolare dei rilievi del Tripylon (Tripla Porta), con un corteo di guardie reali persiane.
ben diverso. Per dirla alla greca, ciò che resta di Persepoli, 2500 anni dopo la sua distruzione, simboleggia ancora un omphalos, un ombelico universale di stabilità, lealtà e onore, che attira le genti al centro del potere con la persuasione e l’esempio; premiandone le diversità, piuttosto che schiacciare, opprimere e travolgere le periferie straniere dell’impero. E un potere che seduce, coinvolge e premia è ben piú pericoloso di uno costretto a dilapidare le sue risorse per minacciare e annientare. Certo si tratta di propaganda, ma geniale e terribilmente efficace. Persepoli, da ogni punto di vista, ben simboleggia la duplice natura del primo, grande potere imperiale. Nelle Storie di Erodoto, il Gran Re compare a volte come icona seducente del sovrano razionale e filosofo, vicino a uno «stato di natura» nel quale le sorti della società umana si avvicinano
– pur nella stranezza di una cultura del tutto aliena – a ideali paradisiaci. In altri casi, ai Persiani si attribuiscono l’indole selvaggia e incontrollabile dei barbari, il gusto per il sangue e le vendette piú efferate; e, agli occhi dell’Ellade, fu certamente assecondando quest’ultimo aspetto – simboleggiato dallo scoppio di hybris (sacrilega e violenta rabbia) – che Serse, nel varcare il confine dell’Asia, fece frustare le onde dell’Ellesponto, colpevoli di aver infuriato contro gli scafi della sua immensa flotta, a difesa dei Greci.
Nella terra degli Arya «Iran» significa «terra degli Arya», con riferimento alle aristocrazie guerriere che sarebbero penetrate nell’altopiano iranico, tra le valli dell’Afghanistan e la pianura mesopotamica, tra il II e il I millennio a.C. Tra gli studiosi di oggi cresce il consenso intorno all’idea di una comunità linguistica indo-aria che, alcuni secoli dopo la soglia del 2000 a.C., si sarebbe scissa in due tronconi, uno orientale, rivolto all’Afghanistan meridionale e quindi alle pianure del Punjab, nell’attuale territorio del Pakistan, e l’altro occidentale, destinato a penetrare e a influenzare in profondità, appunto, l’altopiano iranico. Tracce consistenti di queste antiche (segue a p. 41)
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••••persepoli ••••••••••••••••••••••••••••••
tutto il mondo in un impero • 4000-2400 a.C. Potenti dinastie di lingua
La Mesopotamia viene invasa ripetutamente e i suoi centri sottoposti a saccheggio. Nel XII secolo a.C. la stele sulla quale è iscritto il codice di norme emanato dal re babilonese Hammurabi (XVIII secolo a.C.) viene rubata e portata come bottino nella capitale elamita di Susa.
e religione sconosciuta fondano in diverse regioni dell’altopiano iranico le prime civiltà urbane, monopolizzando redditizi commerci e inventando metallurgia e scrittura, in parallelo a quanto avveniva in Mesopotamia. • 2400-600 a.C. circa Le dinastie dei regni
rivelazione del profeta Zarathustra, che chiama gli uomini a prendere parte attiva in un cosmico scontro tra il bene e il male a fianco del dio supremo Ahura Mazda, elaborando i concetti dell’inferno e del paradiso, del libero arbitrio, della resurrezione dopo la morte, del giudizio finale, e la fede nell’esistenza degli angeli, che possono aver profondamente influenzato le successive religioni monoteiste.
• 1800-600 a.C. circa In questo arco di
elamiti, nella porzione sud-ovest dell’altopiano, costruiscono città e imponenti ziqqurat (torri sacre a gradoni).
tempo mal definito gli storici collocano, tra accesi contrasti, la vita e la
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L’impero persiano da Ciro a Dario (VI-V sec. a.C.). Come si può vedere, i sovrani achemenidi giunsero a dominare gran parte del mondo allora conosciuto.
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• 1000 a.C. circa Tribú nomadiche che
Persiani, i loro vicini della regione di Parsa (l’attuale Fars).
parlano lingue indoeuropee penetrano nell’altopiano iranico dai confini settentrionali e divengono importanti potenze regionali.
• 539 a.C. Il persiano Ciro I, «Il Pastore»,
prende Babilonia e mostra la sua clemenza rispettando i culti locali e liberando gli Ebrei dalla prigionia.
• 600-550 a.C. circa Nel graduale declino
dei regni elamiti, i Medi, una confederazione tribale di questo gruppo, conquista una effimera supremazia, alleandosi con i Babilonesi. Sono presto sopraffatti e sostituiti dai
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• 641 d.C. Le armate arabe, sull’onda della
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divengono religione e chiesa ufficiale dello Stato, e i sovrani realizzano Numero d’ordine delle progetti edilizi. L’impero viene grandiosi satrapie secondo Erodoto gradualmente indebolito da secoli di e loro probabili confini sanguinose guerre con Bisanzio. Battaglie dei Persiani
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ultimo grande impero iranico.
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Mazda» – come recitano le iscrizioni regali – i re persiani della dinastia achemenide dominano gran parte del mondo conosciuto, dalle coste dell’Asia •all’avvento 247 a.C.-227 d.C. Dalla roccaforte di I Persiani Minore a ovest sino alle valli di Ciro (558 Nisa, a.C.) i Parti conquistano la dell’Hindukush (l’antico Gandhara, Mesopotamia, Impero dei Medi (549 a.C.) la parte nord alle porte dell’India) verso est. dell’altopiano iranico e importanti I re di ogni terra pagano tributo Regno di Lidia (546 a.C.) territori ancora piú orientali. e prestano alleanza politica e militare in Regno di Babilonia (539 a.C.) Per quattro secoli un «secondo impero cambio della sicurezza e dell’autorità iranico» contende il dominio dei Massima estensione dell’Impero carismatica emanata achemenidecommerci (550-330 a.C.) internazionali a Roma (verso dal «Gran Re». ovest) e agli Stati cinesi (verso est), Territori conquistati • 330-129 a.C. Alessandro e il suo esercitoda Ciro il Grande (558-528 a.C.) impedendo un contatto diretto tra le due rovesciano inesorabilmente le armate euroasiatiche. Conquiste disuperpotenze Cambise (530-522 a.C.)
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Lago dell’Oxo (Lago d’Aral)
• 539-330 a.C. «Con il favore di Ahura
I
Issar
imperiali persiane. I Macedoni e i loro alleati giungono rapidamente fino al confine orientale, e cancellano in pochi anni di vittorie, razzie e rivolte il primo impero universale della storia umana. Dalle rovine dell’impero persiano sorge il potere della dinastia seleucide (da Seleuco, uno dei generali e compagni di Alessandro), gradualmente esautorata, a sua volta, dalla nascente fortuna dei Parti.
IX
Numero d’ordine delle satrapie secondo Erodoto e loro probabili confini
predicazione di Maometto, travolgono le truppe dell’ultimo imperatore sasanide, ma al crollo dell’antico Iran, che si verificherà poco dopo la morte del Profeta, si accompagna un drammatico scisma religioso e dinastico. L’Iran riconosce la legittima discendenza del califfato di Ali, marito di Fatima, unica figlia di Maometto e a Hussein, suo nipote. La loro sconfitta e il loro martirio nel sud della Mesopotamia separa la confessione sciita (letteralmente «quelli del partito») dall’ortodossia islamica (i sunniti). Esuli zoroastriani emigrano con il fuoco sacro nell’India occidentale, fondando una comunità religiosa ancor oggi nota col nome di «Parsi».
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••••persepoli ••••••••••••••••••••••••••••••
Ricostruzione virtuale del probabile aspetto originario della Porta di Tutte le Nazioni, un’altra delle realizzazioni attribuite al regno di Serse (486-465 a.C.). Il monumentale ingresso è «sorvegliato» da due grandi tori androcefali, chiamati lamassu.
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«Un grande dio è Ahura Mazda, che ha creato questa terra, che ha creato il cielo, che ha creato l’uomo, che ha creato la felicità per l’uomo, che ha fatto Serse re, unico re di molti re, comandante di molti comandanti. Io sono Serse, il Gran re, il re dei re, il re di tutti i paesi e delle moltitudini, il re di questa terra vasta in ogni direzione, il figlio di Dario, un Achemenide» (iscrizione di Serse sulla Porta di Tutte le Nazioni, ripetuta in antico persiano, babilonese ed elamita).
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nel corso della nascita e del collasso dei tre grandi imperi (achemenide, partico e sasanide) che oggi definiamo «persiani», nel millennio tra il 500 a.C. e il 500 d.C. Anche se i primi signori ad adottare ufficialmente questo nome furono quasi certamente gli ultimi, i Sasanidi, è per noi difficile dissociare questo concetto dalle costruzioni di Persepoli, e dall’ideologia imperiale che le ispirò.
Nostalgie imperiali
comunità linguistiche e della loro preistorica contiguità compaiono negli inni sacri dell’Avesta, attribuiti allo stesso Zarathustra, e in quelli del Rgveda, il nucleo piú arcaico della tradizione religiosa indiana. In realtà, ciò che definiamo oggi «Iran» è un’idea di universalità difficile da ricondurre a precise coordinate storiche e geografiche, maturata lentamente
I resti oggi visibili, in situ, della Porta di Tutte le Nazioni.
Nel 1971, lo Shahanshah («Re dei Re») Mohammad Reza Pahlavi decise di celebrare 2500 anni di monarchia persiana con una fastosa celebrazione delle rovine. Davanti all’ingresso dell’area archeologica fu costruita una lussuosa tendopoli, in cui furono ospitati, a decine, re e capi di Stato di ogni parte del mondo, quasi a replicare – e l’allusione non era affatto sfumata – la sfilata dei re e dei dignitari che sulle scalinate della reggia persiana si recavano a omaggiare e a rendere tributo al Gran Re. Furono costruiti padiglioni con bagni e pavimenti lastricati di marmi preziosi; aerei militari trasportavano i cibi piú raffinati da Parigi e dalle altre capitali europee. Lo shah rinverdiva i fasti degli Achemenidi, ma, allo stesso tempo, lasciava che un’onda di modernizzazione occidentale si rovesciasse sull’intera nazione, e sulla popolazione piú disagiata di una capitale in crescita vertiginosa. A ben pochi Iraniani fu concesso di assistere alla fastosa cerimonia, e (segue a p. 44)
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quel che resta di persepoli Turkmenistan
Teheran
IRAN Iraq Kuwait Arabia Saudita
Afghanistan
Mar Caspio
Persepoli
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La riscoperta di Persepoli da parte degli Occidentali comincia nel 1621, quando il nobile romano Pietro della Valle inviò a un amico un saggio di scrittura cuneiforme copiata da una struttura dell’antica città. I primi scavi ebbero inizio nel 1931, grazie all’Oriental Institute di Chicago. La ricostruzione che presentiamo mette in evidenza la struttura piatta dei tetti, realizzata con travature in legno di cedro, tipica dell’architettura palaziale achemenide.
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LEGENDA 1. Porta di Tutte le Nazioni; 2. Fortificazione nord; 3. Apadana; 4. Palazzo di Dario; 5. Palazzo H; 6. Palazzo di Serse; 7. Palazzo G; 8. Tripylon; 9. Harem; 10. Tesoro; 11. Sala delle 100 Colonne; 12. Sala delle 32 Colonne; 13. Porta non finita; 14. Piazza d’Armi; 15. Tomba di Artaserse III.
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Le ricostruzioni virtuali di Persepoli sono dello studio K. Afhami & W. Gambke/ www.persepolis3D.com. e sono visitabili sul sito.
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«L’originale splendore di queste costruzioni può essere immaginato solo a fatica, malgrado le impressionanti rovine ancora visibili, perché le grandi porte di legno erano coperte da lamine d’oro dai delicati disegni, pesanti tende ricamate in oro tenevano lontani gli spifferi; mattonelle invetriate in blu, giallo e rosa ritraevano leoni, tori e piante». (Sylvia Matheson, Persia: An Archaeological Guide, 2001).
• l’indignazione popolare che ne seguí, secondo gli analisti politici, ebbe un ruolo fondamentale nella rivolta che, sette anni piú tardi, portò alla destituzione dell’imperatore e alla nascita della nuova Repubblica Islamica (che qualcuno ha definito «un eccezionale esperimento di teocrazia costituzionale»). In seguito alla rivoluzione islamica, la venerazione delle fondamenta dell’antico impero dei Persiani cadde in oblio e discredito, e non mancò chi, nei settori piú oltranzisti del clero, chiese a gran voce di radere al suolo l’intero complesso archeologico di Persepoli. Da una decina d’anni, il popolo e gli intellettuali iraniani sono tornati a essere molto consapevoli delle antichissime origini della propria cultura, e del ruolo che i tre imperi, per un millennio, avevano avuto nel dare forma alla storia politica del continente euroasiatico, e in prospettiva al mondo intero. Oggi alcuni Iraniani progressisti tornano a recare omaggio alla possente Tomba di Ciro, nella vicina città di Pasargade (primo centro del potere dinastico degli Achemenidi); l’idea è che Ciro («il Pastore»), visto come un sovrano «giusto e democratico» rappresenti
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l’archetipo di un potere autorevole e assoluto, ma anche inevitabilmente aperto alle richieste e alle suppliche degli strati piú deboli e non socialmente protetti delle genti persiane. Paradossalmente questa interpretazione si basa su un’operazione propagandista, a suo tempo pianificata e messa in atto dallo shah Mohammad Reza Pahlavi, incentrata su un’iscrizione achemenide trovata in Mesopotamia: il cosiddetto «cilindro di Ciro».
La prima carta dei diritti delle nazioni Il cilindro era stato scoperto dall’archeologo anglo-assiro Hormuzd Rassam a Babilonia, nel 1879, nelle fondazioni dell’Esagila (il tempio di Marduk), e celebrava il carattere pacifico della conquista persiana di Babilonia. Oggi, ricomposto da due frammenti, è conservato al British Museum (vedi foto alle pp. 47/48). La sua iscrizione è considerata da molti una sorta di «prima carta dei diritti delle nazioni». Nel 1971, il cilindro di Ciro fu esibito dallo shah come cardine della propria propaganda imperiale, in quanto antico manifesto delle libertà religiose, e consegnato
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simbolicamente alle Nazioni Unite. In realtà, l’interpretazione «libertaria» ignora il fatto che l’iscrizione segue un formulario standardizzato e canonico, in cui vi è ben poco di innovativo; inoltre, del testo circolarono e ancora circolano traduzioni del tutto false, che celebrano la liberalità e la tolleranza del sovrano ben oltre il dovuto. Eppure il cilindro è la migliore illustrazione del «lato benevolo» del potere assoluto dei sovrani achemenidi, come essi ci appaiono nei rilievi di Persepoli. Vi si legge, infatti: «Io sono Ciro, re dell’universo, il grande re, il re potente, re di Babilonia, re di Sumer e Akkad, re delle Quattro Parti del Mondo, figlio di Cambise, gran re, re della città di Anshan, nipote di Ciro, il grande re, re di Anshan, discendente di Teispes, il grande re di Anshan, seme perenne della regalità, amato dal regno di Marduk e Nabu (...) Quando sono andato come augurio di pace a Babilonia vi ho fondato la mia reggia all’interno del palazzo, tra feste e gioia (…) Ogni giorno rispetto Marduk con soggezione. Il mio grande esercito marciò pacificamente in Babilonia, e Sumer e Akkad nulla ebbero da temere.
In alto, a sinistra rilievo che orna una delle pareti del Tesoro. La scena mostra un funzionario dei Medi (popolazione iranica il cui regno era stato conquistato da Ciro il Grande), nell’atto di rendere omaggio a Dario I. 515 a.C. circa. In alto, a destra ricostruzione tridimensionale dell’ambiente del Tesoro in cui era scolpita la scena, che si ipotizza fosse in origine policroma.
Ho rispettato la città di Babilonia e tutti i suoi santuari. Marduk, il gran signore, si rallegrò della mia buona condotta e pronunciò una benedizione benevola su di me, Ciro, il re che lo teme, e sopra Cambise, mio figlio, e su tutte le mie truppe, per farci vivere felici in sua presenza e nel benessere (…) Possano tutti gli dèi, che restituisco ai loro santuari, chiedere ogni giorno a Marduk e Nabu una lunga vita per me, e menzionino le mie buone azioni (…) Io sono stato capace di far vivere tutte le terre in pace».
Una storia in chiaroscuro È illusorio pensare che un impero sterminato come quello dei Persiani fosse stato unificato e gestito per due secoli con tanta bonomia, e uno stato di serenità imperturbabile. La storia politico-dinastica degli Achemenidi contiene pieghe oscure, nelle quali affiorano complotti, assassinii e usurpazioni, che rimasero tanto celebri da essere stati fedelmente riportati e commentati dagli informatori e storici greci. Nell’altopiano iranico – un agglomerato di placche geologiche schiacciate insieme e frammentate da titaniche forze geologiche in
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••••persepoli ••••••••••••••••••••••••••••••
una miriade di valli inaccessibili, separate da alcuni dei piú torridi e inospitali deserti del mondo – convissero popoli e nazioni del tutto diversi per lingua e cultura, uniti solo da interessi commerciali e da occasionali alleanze politico-militari. L’impero funzionava solo nella misura in cui le minacce militari del centro (la Persia) riuscivano a persuadere i regni regionali a pagare i tributi richiesti; ma non appena il potere centrale si indeboliva e non appariva in grado di rispondere con le armi, le periferie tendevano a riacquistare la propria indipendenza. Il conflitto con gli Ioni della costa occidentale dell’Asia Minore, poi divampato anche nella penisola greca, risponde a queste semplici dinamiche di fondo; e alla lunga, l’espansione a ovest dei conflitti finí per causare il collasso del potere achemenide.
La vendetta di Alessandro La versione che Diodoro Siculo (90-27 a.C. circa), Curzio Rufo (I-II secolo d.C.?) e Giustino (II-III secolo d.C.) danno del sacco e della distruzione del centro abitato di Persepoli, a ben vedere, è chiaramente propagandistica, ma davvero curiosa, e a suo modo rivelatrice. Nell’autunno del 331 a.C., Alessandro, già maldisposto nei confronti degli abitanti del grande centro cerimoniale, si sarebbe imbattuto in una folla di circa 800 Greci di età avanzata, vestiti di stracci e rovinati da orrende mutilazioni corporee. Sarebbero stati artigiani impiegati dai Persiani nei propri cantieri e nelle proprie industrie, poi crudelmente abbandonati dopo essere stati torturati e resi inabili alla fuga. Difficile non vedere in questa processione di poveri Greci deformi lo specchio orrendo dell’elegante incedere, sulle scalinate della reggia, dei ricchi dignitari di ogni paese. Sull’onda di una forte emozione, Alessandro avrebbe lasciato libere le sue truppe di trucidare tutti gli abitanti maschi di Persepoli e saccheggiarne sistematicamente ogni ricchezza. La storiella acquista cosí un forte valore simbolico (il volto crudele del potere smaschera quello benevolo). I resoconti greci parlano di violenze e devastazioni, di 25 000
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Il cilindro iscritto in caratteri cuneiformi nel quale Ciro il Grande celebra il carattere pacifico della conquista persiana di Babilonia. 539-530 a.C. Londra, The British Museum. Trovato a Babilonia, nel 1879, nelle fondazioni dell’Esagila (il tempio di Marduk), il reperto fu simbolicamente donato all’ONU, nel 1971, dallo shah Reza Pahlavi, come cardine della propria propaganda imperiale.
animali da soma portati dalla Mesopotamia e da Susa carichi d’oro, d’argento e di ogni sorta di manufatti preziosi. I palazzi reali erano stati risparmiati dalla devastazione; ma, nella primavera del 330 a.C., nonostante l’amato generale Parmenione cercasse di dissuaderlo dal rovinare le sue stesse proprietà – come racconta lo storico Arriano (II secolo d.C) – Alessandro decise di punire la devastazione dell’Acropoli di Atene e dei suoi templi operata dai Persiani nel 480 a.C. dando fuoco ai palazzi reali della città. Sebbene lo stesso Arriano dubitasse della veridicità di questa spiegazione, alcuni vi prestano fede, riconoscendo proprio nel cuore delle costruzioni di Serse il centro di origine del fuoco. Viene piuttosto da pensare che Alessandro non potesse permettere la sopravvivenza di una città cosí pregna di significati storici e di sacralità politica nelle sue retrovie. Deve aver pensato, molto lucidamente, di non poter rischiare che un nuovo «re persiano» si insediasse simbolicamente alle sue spalle, sull’antico trono degli Achemenidi. Se, come probabile, aveva già progettato di fondare la sua nuova capitale universale a Babilonia, e avendo bisogno di ricchezza in metalli preziosi per pagare le spese militari in un momento tanto critico per la sua spedizione, Alessandro non poteva certo comportarsi con la stessa generosità che Ciro aveva esibito a Babilonia.
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persepoli nei musei del mondo •T ra i palazzi di Persepoli, nell’edificio di quello che un
tempo era l’Harem di Serse, si trova oggi il Museo di Persepoli. Aperto nel 1937, espone reperti preistorici, achemenidi e islamici, perlopiú provenienti dagli scavi locali o dall’antica cittadina di Estakhr.
•N umerosi reperti provenienti da Persepoli sono conservati
presso il British Museum, a Londra. Tra questi, il cilindro di Ciro, con iscrizioni in alfabeto cuneiforme babilonese, che narra della conquista pacifica di Babilonia nel 539 a.C. e che fu rinvenuto nel 1879 nelle fondazioni del tempio di Marduk a Babilonia. Numerosi anche i rilievi provenienti dai fregi dei vari palazzi, che raffigurano sfingi, soldati in parata o sudditi.
perché è importante
•P ersepoli fu una città-simbolo dell’impero persiano,
dedicata a rappresentare il fasto imperiale e i principi ispiratori del potere degli Achemenidi. Le decorazioni dei palazzi fanno pensare a un regno basato sul mantenimento della pace e sul rispetto dei diversi popoli piú che sull’oppressione militare. Pur tenendo conto di un innegabile spirito propagandistico, traspare il fascino grandioso del progetto di governo di Dario I e dei suoi successori
• I resti oggi visibili sono quanto sopravvissuto alla
conquista di Alessandro Magno, che nel 330 a.C. saccheggiò e incendiò la città, secondo le fonti (greche) per vendicare la distruzione di Atene del 480 a.C. Ma anche, piú probabilmente, per scongiurare il risorgere dell’impero persiano, nonché per fronteggiare con il bottino le spese militari del suo esercito.
il sito nel mito
•P er ragioni tuttora inspiegabili, nessuno scrittore greco fa
menzione di Persepoli sino a quando la città non fu conquistata da Alessandro Magno. Eppure questa capitale cerimoniale dell’impero doveva apparire quanto mai fastosa e impressionante: basti pensare che, stando al racconto di Plutarco, lo stesso Alessandro dovette organizzare una carovana di ben 10 000 muli e 5000 cammelli per trasferire a Ecbatana le ricchezze trovate a Persepoli.
•A nche il Museum of Fine Arts di Boston annovera tra le sue
collezioni numerosi reperti provenienti da Persepoli. Tra questi, un frammento di fregio risalente al regno di Serse (486-465 a.C.), raffigurante un soldato, è riconducibile a un insieme che ritraeva la guardia scelta del re di Persia, anche chiamata dei Diecimila Immortali, perché si diceva che se uno di loro fosse caduto in battaglia, subito un altro si sarebbe lanciato in avanti a prendere il suo posto.
•U no dei reperti piú prestigiosi del museo dell’Oriental
Institute of Chicago è la gigantesca testa di uno dei due tori guardiani che fiancheggiavano il portico della Sala delle Cento Colonne. Di dimensioni colossali (altezza 2,16 m, diametro max 1,58 m), scolpita in pietra calcarea scura negli anni a cavallo tra i regni di Serse e Artaserse I (485-424 a.C. circa), è stata scavata dalla missione dello stesso Istituto Orientale nel 1932-33.
informazioni per la visita
• L ’Iran è collegato all’Italia da voli diretti per Teheran e,
volendo, anche per Shiraz, capoluogo della provincia di Fars da cui si può organizzare l’escursione a Persepoli, situata circa 75 km a sud-ovest. • In autobus: corse frequenti e regolari partono dal Karandish Bus Terminal a Shiraz, i tempi di percorrenza sono di circa 45 minuti. • Il taxi è una delle migliori opzioni per spostarsi a Persepoli da Shiraz. Assicuratevi che il prezzo concordato includa il tempo di attesa mentre visitate il sito.
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petra dove nulla È quel che sembra nell’estate del 1812, un esploratore SVIZZERO travestito da arabo riscopre una città fantasma, nascosta tra le montagne dell’antica terra di edom, nell’odierna giordania meridionale...
In questa pagina la decorazione della torre circolare al centro del Khazne Faraun (il «Tesoro del Faraone»). I sec. a.C.-I sec. d.C. Nella pagina accanto, nel riquadro il santuario musulmano con la tomba di Aronne, sul Gebel nebi Harun (la «montagna del Profeta Aronne»).
Tutte le foto in bianco e nero qui riprodotte sono state scattate tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento da fotografi della Colonia Americana di Gerusalemme. Si tratta del primo reportage realizzato nell’antica città rupestre.
Tutte le citazioni dal diario di Johann Ludwig Burckhardt sono tratte dalla traduzione italiana di Francesco Brunelli apparsa nel volume (purtroppo fuori commercio) Viaggio in Giordania, a cura di Luigi Marino (Cierre Edizioni, Verona 1994).
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Qui accanto cartina del Vicino Oriente con il percorso compiuto, nel 1812, da Johann Ludwig Burckhardt e culminato, il 22 agosto dello stesso anno, nella scoperta di Petra. Nella pagina accanto le montagne intorno alla valle di Petra. Al centro si riconoscono i resti del Qasr al-Bint Faraun (il «Palazzo della Figlia del Faraone»), uno dei principali santuari della città. In basso ritratto di Johann Ludwig Burckhardt nelle vesti di sceicco Ibrahim ibn Abdallah.
LIBANO Beirut
Mar Mediterraneo
Damasco
SIRIA
Lago di Shemskein Tiberaide Tiberiade Soueida Nazareth Daara
Haifa
Erbad Remtha
Beysan Scythopolis
Tel Aviv
Giordan o
ro particolarmente desideroso di visitare il Uadi Musa, delle cui antichità avevo sentito parlare dalla gente della regione in termini di enorme ammirazione; e quindi la mia speranza era di attraversare il deserto in linea d’aria fino al Cairo; ma la mia guida temeva i rischi di un viaggio nel deserto e insisteva affinché prendessi la via di Aqaba, l’antica Ezion Geber, all’estremità del braccio orientale del Mar Rosso, dove, egli diceva, potevamo unirci a qualche carovana (...). Io, invece, desideravo evitare Aqaba, poiché sapevo che il pascià d’Egitto mantiene colà una nutrita guarnigione per osservare i movimenti dei Wahabiti e del suo rivale, il pascià di Damasco; di conseguenza, una persona come me, proveniente dalle precedenti località, priva di qualsiasi documento che ne mostrasse l’identità o la ragione della scelta di quell’itinerario tortuoso, avrebbe sicuramente suscitato i sospetti dell’ufficiale di comando a Aqaba e gli effetti sarebbero stati per me pericolosi in mezzo alla soldataglia di quella guarnigione. Il cammino
Boszra Szalkhat
Szalt
Amman
Philadelphia
Gerusalemme
Mar Morto
Madaba
ARABIA SAUDITA
Kerak
ISRAELE
Tafyle Shobak
Petra
GIORDANIA
Uadi Musa
Maan Gharendel
EGITTO
«E
Aqaba Golfo di Aqaba
Quello «sceicco» nato a Basilea Nato il 24 novembre del 1784 da una famiglia di commercianti di Basilea, avviato alla carriera diplomatica, Johann Ludwig Burckhardt diviene presto un esponente della temperie culturale dell’Europa dei primi decenni dell’Ottocento, ancora impregnata delle conquiste dell’illuminismo. Sono gli anni in cui le potenze europee puntano a conoscere nuovamente il mondo extraeuropeo, alla ricerca di nuove aree d’intervento politico, economico e strategico. Burckhardt studia a Lipsia e Gottinga e, nel 1806 si trasferisce in Inghilterra. All’Università di Cambridge segue corsi di lingua araba, ma anche di astronomia, medicina, chimica e mineralogia. Nel 1809 la African Association accoglie la sua proposta di guidare una spedizione alla scoperta delle sorgenti del Niger. Nel marzo del 1809 giunge a Malta e, da lí, prosegue per la costa del Levante. Inizia cosí la sua vita di esploratore che, tra il 1810 e il 1816, lo porterà ad attraversare le terre del Vicino Oriente, dell’Egitto e dell’Arabia, fino ad allora disertate dai viaggiatori occidentali. Già a Malta abbandona il suo nome per assumere quello, arabo, di Ibrahim Ibn Abdallah, a cui fa precedere il titolo onorifico di «sheikh». E sotto l’identità di sceicco Ibrahim compirà i suoi viaggi che, nel 1814, durante il pellegrinaggio
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alla Mecca, lo condurranno all’interno stesso della grande moschea: Burckhardt/Ibrahim diventerà, cosí, il primo europeo a visitare il monumento piú sacro dell’Islam, la Kaaba, di cui stilerà un’accurata descrizione. Muore di dissenteria il 15 ottobre del 1817, al Cairo, dove viene sepolto – secondo le sue volontà – in un cimitero musulmano, dove la sua tomba si trova ancora oggi. Lasciò la sua vasta collezione di manoscritti orientali e tutti i suoi scritti (raccolti in 350 volumetti) in eredità alla biblioteca dell’Università di Cambridge. Il suo diario venne pubblicato, a Londra, nel 1822, con il titolo Travels in Syria and the Holy Land.
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cento anni di visite illustri • 1818. I primi viaggiatori sulle orme di
Burckhardt sono due inglesi, Charles Leonard Irby e James Mangles. Dall’alto dei 1510 m dello Gebel Harun (sul quale il Burckhardt non era riuscito a salire) i due riconoscono quel monumento che ancora oggi figura tra i capolavori di Petra, ed-Deir, «il Monastero». • 1828. Il francese Leòn de Laborde,
insieme al disegnatore Linant, visitano Petra. A quest’ultimo si deve la prima documentazione iconografica della città riscoperta. • 1835. Con la conoscenza dell’antica
città cresce anche il suo mito: lo studioso francese Étienne Marc Quatremère, autore di una Mémoire sur les Nabatéens, sostiene, sull’onda
dell’emozione, che i signori di Petra siano gli eredi di un passato ancora piú grandioso, ipotizzando che essi rappresentino il piú antico ramo della grande stirpe aramaica, che siano loro gli abitanti di Babilonia prima ancora dei Caldei, e che a essi si debba l’invenzione della magia, dell’astronomia, della medicina, insomma, di tutte le scienze, in genere. • 1836. Lo statunitense reverendo Edward
Robinson, considerato il fondatore dell’archeologia biblica, visita la città nabatea. • 1839. A Petra soggiorna lo scozzese
David Roberts, al quale si devono litografie colorate che ritraggono i principali siti vicino-orientali.
• 1840-1875. Studiosi inglesi, francesi e
tedeschi visitano, in rapida successione, le rovine di Petra. Tra di essi, gli esploratori Austen Henry Layard e Charles M. Doughty.
• 1896. Nella città nabatea arrivano gli
orientalisti e i padri domenicani Marie-Joseph Lagrange e Louis H. Vincent, dell’École Biblique di Gerusalemme.
• 1896-1907. Un contributo fondamentale
all’esplorazione di Petra viene dalle prime ricognizioni condotte da Rudolf Brunow, Alfred von Domaszewski, Gustaf Dalman e Alois Musil. • 1929. Primi scavi archeologici a opera
degli archeologi inglesi George Horsfield e la moglie Agnes Conway.
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da Shobak ad Aqaba (…) si snoda a est di Uadi Musa; e l’averlo abbandonato per la semplice curiosità di vedere l’uadi sarebbe apparso assai sospetto agli occhi degli Arabi. Rendevo quindi noto di aver fatto voto di sacrificare una capra in onore di Harun (Aronne), la cui tomba sapevo essere situata all’estremità della valle, e con questo stratagemma pensavo d’aver modo di vedere la valle nel mio tragitto verso la tomba. Al che la mia guida non ha saputo eccepire; il terrore d’attrarsi, opponendovisi, l’ira di Aronne lo ha zittito». Inizia cosí il racconto della riscoperta di Petra, luogo-simbolo dell’archeologia del Vicino Oriente. Fu scritto esattamente il 22 agosto del 1812. In quel giorno, infatti, l’esploratore svizzero Johann Ludwig Burckhardt (vedi box a p. 50), giunge nel Uadi Musa, la «Valle di Mosé», a conclusione di un viaggio che da
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Damasco lo aveva portato ad Amman e, da lí, sul percorso della celebre Strada dei Re, l’antichissima via carovaniera che univa la Siria con l’Egitto e la Penisola arabica.
Nei panni di un erudito Per motivi di sicurezza – e anche per non destare inutili sospetti – Burckhardt indossa il tradizionale abbigliamento dei beduini e si spaccia per un erudito islamico, di nome Ibrahim Ibn Abdallah. La sua attenzione si desta quando sente parlare di splendide rovine che sarebbero nascoste nella valle. Ma, ben conscio di non poter esprimere il suo interesse per quanto era comunque considerata opera di «infedeli», egli escogita lo stratagemma di cui ci narra nel suo diario: fa finta di voler offrire un sacrificio sul Gebel Harun, la «montagna di Aronne», dove,
Litografia acquarellata di David Roberts (1796-1864) raffigurante le Tombe Real: si riconoscono la Tomba Palazzo (a sinistra) e la Tomba Corinzia. All’artista scozzese si devono numerosi e accuratissimi ritratti di monumenti e città del Vicino Oriente, e di Petra in particolare.
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secondo la tradizione islamica (ma anche cristiana) si trova la tomba del fratello di Mosè. Cosí, accompagnato da una guida locale, si incammina verso il Gebel, attraversando in lungo le magnifiche e grandiose rovine della città morta, badando bene a non mostrare alcun segno di emozione. Quando il sole sta per tramontare si deve fermare perché la guida, a buona ragione, teme un’aggressione da parte dei beduini del luogo: troppo diffusa, infatti, è la convinzione che tra le misteriose rovine siano nascosti magnifici tesori. Annota il Burckhardt nel suo diario: «Mi rammarico di non essere in grado di offrire un resoconto esaustivo delle vestigia, ma conoscevo bene il carattere della gente qui intorno: ero indifeso in mezzo a un deserto dove non s’era mai veduto viaggiatore alcuno, e un esame approfondito di queste opere degli infedeli, cosí li chiamavano, avrebbe suscitato il sospetto ch’io fossi un mago in cerca di tesori; sarei stato quanto meno trattenuto e mi sarebbe stato impedito di proseguire il viaggio verso l’Egitto, e con ogni probabilità, sarei stato spogliato fino all’ultimo soldo che possedevo e, ciò ch’era infinitamente piú prezioso per me, del mio diario». E prosegue, profeticamente: «I viaggiatori futuri potranno visitare il sito sotto la protezione di una forza armata; gli abitanti si abitueranno maggiormente alle ricerche degli stranieri e le antichità di Uadi Musa saranno allora da annoverare tra i resti piú singolari dell’arte antica». Il giustificato timore che le sue vere intenzioni (nonché la sua reale identità) venissero svelate è ben esemplificato dalla reazione minacciosa cui si abbandona la guida, quando il Burckhardt si avvicina a quello che, in seguito, si rivelerà essere il piú importante santuario di Petra, il Qasr al-Bint Faraun (il «Palazzo della Figlia del Faraone»): «Lungo il mio itinerario ero entrato in varie tombe, con sorpresa della mia guida, ma quando mi ha veduto volgere i passi fuori dal sentiero verso il kaszr ha esclamato: “Ora vedo chiaramente che siete un infedele, con qualche compito particolare tra le rovine della città dei vostri antenati; ma non dubitate che
noi non sopporteremo che voi portiate via un solo pezzo di tutti i tesori quivi nascosti, perché sono nel nostro territorio e ci appartengono”. Ho risposto che era pura curiosità quella che mi induceva a visitare le antiche opere».
Il sacrificio della capra Dopo la visita alle antichità di Uadi Musa, Burckhardt procede a compiere il suo «dovere»: in vista della montagna di Aronne sacrifica la capra che aveva portato con sé e, il giorno dopo, con la sua guida abbandona la valle. Ma lasciamo, ancora una volta, la parola al nostro viaggiatore: «Il sole era già tramontato quando siamo arrivati sulla piana; era troppo tardi per raggiungere la tomba ed ero sovraffaticato; perciò mi sono affrettato a uccidere la capra (…) Ero sul punto di sgozzare l’animale, quando la mia guida ha gridato: “O Aronne, guardaci! E per te che sacrifichiamo questa vittima, O Aronne, proteggici e perdonaci! O Aronne, accontentati delle nostre buone intenzioni, perché è solo una magra capra!” (…) Abbiamo poi preparato le parti migliori della carne per il nostro pasto piú in fretta possibile poiché la guida temeva che il fuoco venisse avvistato e attirasse da quelle parti qualche predone». L’episodio sul Gebel Harun segna la conclusione del viaggio di Burckhardt il quale, il 26 agosto, riparte con una carovana composta da «nove persone, me compreso, e circa venti cammelli» in direzione del Cairo, dove giungerà il 4 settembre «senza aver perduto la salute o essermi esposto in modo ravvicinato a pericoli di sorta». Petra, dunque, è la tappa finale di un viaggio che, nel mese di giugno dello stesso anno, lo aveva visto partire da Damasco alla volta delle terre a est del Giordano e del Mar Morto, e a quelle situate tra quest’ultimo e il Mar Rosso: grosso modo, il territorio dell’odierna Giordania. Non fu il primo né l’ultimo viaggio dell’esploratore svizzero; certo, però, fu quello che gli procurò fama mondiale. È verosimile che lo stesso Burckhardt fosse consapevole dell’importanza della scoperta. (segue a p. 56)
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quel che resta di petra Sebbene nel corso della sua lunga esistenza abbia subito terremoti anche violentissimi, sia stato sottoposto all’erosione naturale e a manomissioni da parte dell’uomo (quando a Petra si insediarono i cavalieri crociati, per esempio, usarono le pietre degli antichi edifici per
costruire la loro fortificazione), il vastissimo complesso (che include anche il Siq el-Barid, la «Piccola Petra» a nord della città), forse per la sua natura di essere «scolpito nella roccia», figura tra quelli meglio conservati del Vicino Oriente.
Tomba di Turkmaniya
Monastero ed-Deir
Forte dei crociati
Tombe del Wadi Mu’Aisireh
Rovine del Villaggio Tombe Sentiero all’altura Umm Al Biyara
Casa di Doroteo
Tempio dei Leoni Alati
Tomba 731
Biz Mur an a tin e
Uadi Musa
Ua
Tomba di Sesto Fiorentino
Mu ra d ella citt à
Tomba Corinzia Tomba di Seta Tomba dell’Urna
di
Mu
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inferiore
Tomba di Uneishu
Ua Strada delle Facciate di Mu (Necropoli del Teatro) sa Siq Tomba del Timpano Rotto Tomba 229 Tesoro A Khazneh Tomba del Alto luogo dei Sacrifici Rinascimentale Triclinio Tomba del Tomba del Giardino Soldato Romano Obelischi Tomba 258 Monumento del Leone
Monumento del Serpente
rsi ped
onali
Ninfeo Uad i Mu sa lonnata Cardo M aximus
Strada co
Qasr Al Bint Terme Nabatee Tempio Grande
Perc
Chiesa Bizantina
Perco
Porta del Temenos
Tomba 803 Teatro Romano
Tempio Blu
Altare
Tomba del Palazzo
Colonna del Faraone Az-Zantur
Umm Al Biyara
Wu’Eira (Castello dei crociati)
ittà ac ell d ra Mu
Casa dipinta
Gruppo di Tombe del Convento Museo di Al-Habis Tomba incompiuta Colombario
Tombe Cristiane
Torre Conway
Triclinio dei Leoni Tomba dei Leoni
Acquedotto
Mughur An-Nassara
Mercato intermedio Mercato Alto Terrazza Superiore Temenos superiore del Mercato Basso Monumento dell’Aquila Ingresso Diga
Tunnel
Ginn Bab Assiq Tomba del Serpente Tomba dell’Obelisco e Triclinio di Bab As-Siq
Museo
Sentieri pedonali
Tombe Al Madras
Sentieri a gradini
Altri punti di interesse
Sentiero principale
Cappella Obodas
A sinistra un esempio dei giochi cromatici prodotti dall’erosione della roccia in cui sono scavate le tombe di Petra. Nella pagina accanto, in alto la spettacolare
facciata del Khazne Faraun (il «Tesoro del Faraone»), allo sbocco del Siq. Nella pagina accanto, in basso il costone roccioso lungo il quale si susseguono le Tombe Reali.
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I secoli di una città chiamata «roccia» • metà del i millennio a.c. I Nabatei si stabiliscono nelle terre tra il Mar Morto e il
Golfo di Aqaba. Petra diviene centro commerciale e religioso del loro regno. • 312 a.C. Prima menzione di Petra (roccia) nelle fonti greche. Fallita aggressione
al regno nabateo da parte del diadoco Antigono Monoftalmo. • 300-200 a.C. Massima fioritura dell’ellenismo.
I Tolomei regnano in Egitto, i Seleucidi in Siria, Asia Minore e Mesopotamia. • 168 a.C.-106 d.C. Si succedono i sovrani nabatei: Areta I (168 circa), Areta II
(115-96 a.C.), Oboda I (96-85 a.C.), Rabbel I (85-84 a.C. circa), Areta III (84-62/60 a.C.), Oboda II (62-60 a.C.), Malico I (59-30 a.C.), Oboda III (30-9/8 a.C.), Areta IV (9/8-40 d.C.), Malico II (40-70 d.C.), Rabbel II (70-106 d.C.). • 106 d.C. Occupazione romana. Il regno nabateo è compreso nell’impero ed entra
a far parte della Provincia Arabia. • 127 d.C. T. Aninius Sextius Florentinus diventa governatore romano della città
sotto Adriano. • 131 d.C. Visita di Adriano alla città. • 363 d.C. Un documento attribuito a Cirillo, vescovo di Gerusalemme, riferisce di
un violentissimo terremoto che, nella notte tra il 19 e il 20 maggio, aveva colpito tutta la regione della Palestina «da Cesarea a Filippi fino a Petra». • 446 d.C. La Tomba delle Urne viene trasformata in cattedrale. • 551 d.C. Un secondo terremoto colpisce la città. • 636 d.C. Inizio del dominio musulmano e progressiva decadenza della città. • 1 107 Il crociato Baldovino I, re di Gerusalemme, caccia le truppe di Damasco
dal Uadi Musa. • 1 118-1131 I crociati sotto Baldovino II si insediano a Petra e vi costruiscono la
loro fortificazione. • 1170-1188 I crociati abbandonano il Uadi Musa. • 1217 Il pellegrino Thietmarus visita Petra. • 1812 Riscoperta di Petra da parte di Johann Ludwig Burckhardt. • 1929 Inizio dei primi scavi archeologici.
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Altare
Il giorno 23 agosto, infatti, egli annota nel diario che «confrontando le testimonianze degli autori citati in Reland, Palaestina [lo studioso olandese Adriaan Reland, 1676-1718, fu uno dei primi orientalisti nonché apprezzato cartografo, n.d.r.], appare altamente probabile che le rovine di Uadi Musa siano quelle dell’antica Petra, ed è significativa l’affermazione di Eusebio secondo il quale la tomba di Aronne era indicata nelle vicinanze di Petra. Da tutte le informazioni che mi sono procurate, almeno di questo sono persuaso, che non esistono altre rovine tra le estremità del Mar Morto e del Mar Rosso di rilevanza tale da corrispondere a quella città. S’io abbia o meno scoperto i resti della capitale dell’Arabia Petraea lascio decidere agli studiosi dell’antica Grecia».
Antica come la metà del Tempo Pochi siti archeologici del Vicino Oriente suscitano un’emozione pari a quella di Petra, la grandiosa fortezza naturale nascosta tra deserti e aridi rupi a metà strada tra il Mar Morto e il golfo di Aqaba. Scolpita nell’arenaria dal vento, dall’acqua e, infine, dall’uomo, la leggendaria capitale dei Nabatei si sottrae a ogni sbrigativa
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definizione: è spettacolo della natura e opera dell’uomo, con le sue grandiose formazioni rocciose che si animano al sorgere del sole, colorandosi di grigio, viola e rosa, rivelando le facciate di antiche tombe scolpite, santuari nascosti, colonne crollate. Ancora oggi, quando all’imbrunire i turisti l’abbandonano e le sue rocce vengono avvolte da un silenzio appena interrotto dal gentile soffio del vento del deserto, torna alla mente la descrizione che di Petra diede John William Burgon, uno studioso biblista del XIX secolo: «La città rosso-rosa, antica come la metà del Tempo». Petra – il cui nome greco traduce quello biblico di ha Sela, «la roccia» – sorge sul margine occidentale dell’altopiano arabo, laddove esso si apre alla depressione dello Uadi Araba, il profondo solco che dal Mar Morto conduce al Golfo di Aqaba. Uno spettacolo unico si presenta al visitatore che vi giunge attraverso l’unica via d’acceso, il cosiddetto Siq, una stretta gola tagliata nella roccia, rossastra, corrosa, nervosamente scolpita dalle piogge stagionali, che dal villaggio di Uadi Musa porta al centro della città. Lungo il primo tratto, il Bab es-Siq («la porta della gola»), si incontrano
Qasr al-Bint
In alto le rovine del Tempio Grande, prospiciente la via colonnata, nel centro di Petra. Sulle due pagine pianta dei principali complessi monumentali che si affacciano sulla via colonnata di Petra. Nella pagina accanto, in basso il Qasr al-Bint Faraun (il «Palazzo della Figlia del Faraone»), in verità un santuario dedicato alle piú importanti divinità di Petra, Dushara e al-Uzza. Risalente al I sec.d.C., è il piú importante tempio di Petra.
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A destra stele votiva (betilo) con raffigurazione di una divinità nabatea, dal Tempio dei Leoni Alati di Petra. Amman, Museo Archeologico. Tempio dei Leoni Alati (Tempio settentrionale)
Uad iM usa
Palazzo Reale
Temenos
Uadi Musa
Porta del temen os Via Colonnata
Piccolo Tempio
Terme nabatee Mercato Basso
Mercato Intermedio
Mercato Alto
Tempio Grande
Zibb Fir‘ün
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Ninfeo
••••petra ••••••••••••••••••••••••••••••••
«Dopo aver proseguito per venticinque minuti tra le rupi, siamo giunti a un sito dove il passaggio si slarga e il letto di un altro corso d’acqua proveniente da sud si unisce al Siq. Sul lato della rupe a strapiombo, direttamente di fronte allo sbocco della valle principale, ha fatto la sua comparsa un mausoleo rupestre, la cui posizione e la cui bellezza sono concepite per suscitare un’impressione straordinaria sul viaggiatore (...) Tra le antiche rovine esistenti in Siria, queste si annoverano tra le piú mirabili; il loro stato di conservazione sembra quello di un edificio ultimato di recente (...) Gli indigeni designano questo monumento con il nome di Kaszr Faraoun, castello del Faraone, e sostengono che fosse la residenza di un principe» (J.L.Burckhardt, Travels in Syria and the Holy Land, London, 1822)
• numerose tombe, tra cui i cosiddetti «Blocchi dei Ginn», un gruppo di tre monumenti sepolcrali a forma di torre, databili al periodo di fondazione della città. Poco oltre si trova la Tomba degli Obelischi, sotto la quale si apre il cosiddetto Triclinio barocco – una vera e propria «sala da banchetti» provvista di tre file di letti scolpiti nella roccia – destinato alle commemorazioni del defunto. Quest’ultimo potrebbe essere stato un tale Abd Manku, il cui nome appare in un’iscrizione bilingue – greca e nabatea – sul lato opposto del sentiero.
Un tesoro misterioso Dopo un cammino di circa un chilometro e mezzo tra le pareti strette e alte, talvolta fino a 70 m, del Siq appare, tutto a un tratto, il piú straordinario monumento di Petra, il Khazne Faraun, il «Tesoro del Faraone», la cui facciata, alta quasi 40 m, è interamente scolpita a rilievo nella roccia. Non si conosce l’esatta funzione del «Tesoro», ma si ritiene che il grande mausoleo fosse la tomba del re nabateo Areta III, vissuto nel I secolo a.C. Il Khazne Faraun deve il suo nome a una tradizione locale
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Due vedute del Khazne Faraun (il «Tesoro del Faraone»), fotografato nei primi anni del Novecento. Da notare, nell’immagine in basso, il particolare del rilievo raffigurante un cavaliere, situato nella nicchia a destra dell’entrata (non visibile nella foto qui accanto).
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«Circa cinquanta passi sotto l’ingresso del Siq un ponte a una campata gettato sulla cima della fenditura è ancora intatto: subito al di sotto, su entrambe i lati, ci sono ampie nicchie scavate nella roccia, con eleganti sculture, destinate probabilmente ad alloggiare delle statue…» (J.L.Burckhardt, Travels in Syria and the Holy Land, London, 1822)
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secondo cui nella grande urna scolpita e posta a coronamento dell’edificio è contenuto un immenso tesoro. Fino a non molto tempo fa, i beduini di passaggio usavano sparare sull’urna posta a una quarantina di metri d’altezza, nella speranza di spezzarla e di ricavarne il tesoro.
Tutti a teatro Il Khazne è sicuramente il piú appariscente dei monumenti di Petra, ma non è il solo. Procedendo lungo il cosiddetto Siq esterno in direzione del centro cittadino, dopo poco piú di 500 m si apre la vallata e lo sguardo del visitatore è catturato da un altro spettacolo architettonico: il Grande Teatro, con le sue scalinate scolpite nella roccia rossa, e i resti del fronte scena, di cui oggi rimane solo qualche colonna. Costruito durante il regno di Areta IV (tra il 4 a.C. e il 27 d.C.), l’edificio poteva ospitare dai 7000 ai 10 000 spettatori, circa un terzo dell’intera popolazione di Petra.
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Sacre scritture e archeologia a confronto Dal racconto biblico sappiamo che, prima dei Nabatei, l’area era abitata dagli Edomiti, discendenti di Esaú (il fratello di Isacco) e, dunque, parenti lontani di Mosè. In un episodio dell’Esodo, narrato nell’Antico Testamento, il patriarca chiede al suo «fratello», re degli Edomiti, di poter attraversare con il suo popolo il territorio di Edom, e riceve risposta negativa. Ora, le vicende dell’Esodo sono tradizionalmente datate intorno al XIII secolo a.C., ma le testimonianze archeologiche negano che, nella terra di Edom di quell’epoca, vi siano stati insediamenti stabili o, come vorrebbe il racconto biblico, veri e propri «regni». Archeologicamente parlando, i primi insediamenti degli Edomiti compaiono – non solo a Petra, ma in tutta la terra denominata, appunto, Edom – intorno al VII secolo a.C. L’avvento dei Nabatei, dunque, si colloca nei secoli successivi. Gli studiosi concordano sul fatto che la loro penetrazione nell’ex terra degli Edomiti non sia avvenuta in maniera repentina quanto, piuttosto, come a una lenta e progressiva infiltrazione, durata parecchi decenni, se non secoli.
Sulle due pagine, da sinistra l’ingresso al Siq in una litografia acquarellata di David Roberts: all’epoca, era ancora intatto il ponte di cui riferisce Burckhardt nel suo diario; il Siq in una foto di Eric Matson, fotografo della Colonia Americana di Gerusalemme; tombe «di tipo Hegra» (dal nome antico del sito nabateo di Mada’in Saleh, nell’odierna Arabia Saudita) caratterizzate da gradoni e coronate da merlature.
Un centinaio di metri prima di giungere al teatro si incontra, sulla sinistra, un ripido sentiero a scalini che conduce a uno dei piú importanti luoghi di culto di Petra, la Grande piattaforma cerimoniale in cima al Zibb Atuf, una vetta rocciosa che sovrasta la città antica dal versante sud. Sulla spianata sorgono ancora oggi due obelischi di 6 m d’altezza. Le stele erano state probabilmente erette in onore delle divinità nabatee Dushara e al-Uzza. Da identificarsi con il cielo (forse addirittura con il sole) e con la stella mattutina, le due divinità, assimilate dai greci a Zeus e Venere, occupavano il primo posto all’interno del pantheon della religione astrale dei popoli arabi pre-islamici. In prossimità delle stele si trova l’area sacra vera e propria, una corte rettangolare, scolpita nella roccia, al cui interno si erge una struttura a forma di cubo, anch’essa scolpita nella roccia, e alla quale si accede mediante tre gradini: si tratta di un altare
sacrificale, tipico dei santuari a cielo aperto delle popolazioni semitiche nell’antica Arabia. Dal teatro, si accede al fondovalle che accoglie i resti della città vera e propria. Lungo la parete del massiccio roccioso che delimita a est l’area urbana si susseguono le «tombe reali» (ma la denominazione, suggerita dalla grandiosità dei monumenti, risale all’età moderna): la Tomba dell’Urna , la Tomba della Seta, la Tomba Corinzia e la Tomba del Palazzo. In posizione isolata è la Tomba di Sesto Fiorentino, governatore romano dell’Arabia, morto nel 128 d.C.
Il ruscello di Mosè A ovest delle tombe reali, nella spianata percorsa in direzione est-ovest dallo Uadi Musa («il ruscello di Mosè»), si estende il centro cittadino, costruito secondo i dettami della polis greco-romana: ai lati della grande Via Colonnata vi sono i Mercati, il Ninfeo e un’ampia area sacra. Sul lato nord si possono
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ammirare i resti di uno dei piú bei santuari della città, il Tempio dei Leoni Alati, cosí chiamato dalle sculture che, in origine, decoravano i capitelli del doppio colonnato del tempio. Infine, al termine occidentale della Via Colonnata si incontra il piú importante tempio di Petra, risalente al I secolo d.C.: il Qasr al-Bint Faraun (il «Palazzo della Figlia del Faraone»), in verità un santuario dedicato a divinità nabatee. Poco oltre il Qasr al-Bint, una ripida salita conduce in cima al Gebel ed-Deir (il «Monte del Monastero»), dove si trova un altro capolavoro di Petra, chiamato ed-Deir, il «Monastero», per le croci incise in cima alla roccia da monaci del IV-V secolo. Il «Monastero» regge bene il confronto con il «Tesoro del Faraone»: dalle dimensioni assai maggiori (è alto 45 m e largo 50) il monumento, dietro alla cui facciata si nasconde un’ampia sala con un altare, verosimilmente riuniva in sé la funzione di sepolcro regale e di luogo di culto.
Tende o case in muratura? A occidente, la vallata che ospita il sito di Petra è chiusa da un imponente masso roccioso, alto piú di 1200 m, il Umm el-Biyara. Ai suoi piedi, su un terrazzamento leggermente rialzato rispetto al fondovalle del cardo, si trovavano, molto probabilmente, i quartieri abitativi della città. Ma la questione intorno all’architettura domestica dei Nabatei è assai controversa e rappresenta uno dei numerosi «misteri» archeologici ancora irrisolti di Petra. L’antica città, infatti, presenta ancora moltissime zone d’ombra che riguardano la ricostruzione del suo assetto urbanistico, la definizione dell’effettiva estensione raggiunta nel periodo di massima fioritura e, appunto, la questione delle abitazioni: queste erano semplicemente costituite dalle tipiche tende delle popolazioni nomadi del deserto o, nella «citta della roccia» vi erano anche case in pietra? E quale peso si deve dare all’affermazione dello storico Diodoro Siculo quando dice dei Nabatei Una tomba scolpita nella roccia a el-Barid, la «piccola Petra» situata a nord della città.
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«Sotto il profilo della difesa, la posizione di questa città venne ben scelta, poiché poche centinaia di uomini potevano difenderne l’accesso contro un grande esercito; ma le comunicazioni con i dintorni dovettero essere soggette a grandi inconvenienti (…) Oltremodo opprimenti dovevano essere i caldi estivi, essendo il sito attorniato su tutti i lati da alte e nude rupi che concentrano il riverbero del sole, mentre impediscono ai venti occidentali di rinfrescare l’aria... La sicurezza fu quindi probabilmente l’unico obiettivo che indusse la popolazione a passar sopra a tali obiezioni e a scegliere un’ubicazione cosí singolare per una città» (J.L.Burckhardt, Travels in Syria and the Holy Land, London, 1822)
che «presso di loro è proibito seminare il grano, piantare alberi da frutto, bere il vino e costruire case; tutto ciò è punito con la pena di morte»? Sebbene Burckhardt affermi di aver «attraversato le rovine di abitazioni private», solo negli ultimi anni sono venuti alla luce i primi riscontri archeologici. Sulla base delle piú recenti scoperte si è fatta strada la seguente ipotesi: ancora nel tardo II secolo a.C. e nei primi decenni del I secolo a.C., le case degli abitanti di Petra non sarebbero state altro che ampie tende erette su piattaforme di pietra appositamente costruite mentre, nel contempo, avrebbero fatto la loro apparizione le prime abitazioni in pietra.
Tolomei vs Seleucidi Il Vicino Oriente ellenizzato non nasce come espressione diretta e immediata della conquista di Alessandro (il quale, tra l’altro, attraversò l’Eufrate, il Tigri e l’Indo, ma mai il Giordano!), quanto, piuttosto, come l’esito di un lungo processo di compenetrazione. Nelle terre dell’antica Palestina e della Transgiordania, questo articolato processo vede la partecipazione di numerosi gruppi, prime fra tutti le due contrapposte potenze
• Genti che non conoscono case, né agricoltura Un resoconto redatto dallo storico del I secolo a.C. Diodoro Siculo – il quale, a sua volta, cita quanto osservato in prima persona da un tale Ieronimo di Cardia (storico greco vissuto all’epoca dei diadochi, 370 circa-265 a.C.) – riporta la cronaca di uno scontro militare tra Greci e Nabatei. Nel 312 a.C., il generale Atenaio, al servizio di Antigono Monoftalmo – il piú importante dei diadochi che, dopo la morte di Alessandro Magno, regnava sulle terre dell’Asia Minore e della Siria –, attaccò Petra, alla testa di un esercito forte di 4000 soldati e 600 cavalieri. I beni della città – 500 talenti d’argento e una grande quantità di incenso e mirra – vennero saccheggiati. In seguito, però, i Nabatei attaccarono nottetempo l’accampamento nemico, sconfiggendolo. Narra Diodoro Siculo che essi, consapevoli della superiorità militare dei Greci, inviarono una missiva a Antigono, offrendo di deporre le armi. La nota era redatta in aramaico, la lingua franca dell’epoca. Contrariamente a questa caratterizzazione, per cosí dire, «colta», nelle testimonianze di Diodoro Siculo i Nabatei sono semplicemente chiamati «Arabi» che vivono all’aperto, non conoscono né case, né l’agricoltura, ma allevano cammelli e piccoli animali domestici e, soprattutto, si occupano del trasporto di sostanze aromatiche, dalle terre dell’«Arabia Felix» alla costa mediterranea. All’epoca in cui si era verificata la campagna di Atenaio, dunque, i Nabatei erano ancora una tipica popolazione nomade, fortemente radicata nelle tradizioni e nei modi di vita che erano loro propri prima che giungessero nella terra che oggi corrisponde alla Giordania meridionale, l’antica terra di Edom.
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Le «case di Dio» Una stele scolpita a rilievo e posta in una nicchia rettangolare, simile a una finestrella: è questa, forse, la rappresentazione piú elementare della religiosità nabatea. Stele simili, chiamate «betili» secondo l’espressione aramaica Beth-El (che significa «la casa di Dio»), si trovano in gran numero lungo le pareti rocciose di Petra. Lo stesso dio Dushara, il piú importante del pantheon nabateo, risiedeva in una pietra, anzi, veniva venerato in forma di pietra nera posta su un piedistallo d’oro. Talvolta le nicchie contengono due o piú betili di diversa altezza, spesso addirittura un intero gruppo. Tali «famiglie» di betili rappresentano forse varie personificazioni di una stessa divinità o, piú verosimilmente, un consesso di divinità, guidato da Dushara. Sono relativamente frequenti le rappresentazioni di una coppia di betili. Piú rara è la variante dei betili raffiguranti un volto umano molto stilizzato.
ellenistiche, quella dei Tolomei, con capitale Alessandria, e quella dei Seleucidi, con capitale Antiochia, sull’Oronte (l’odierna Antakya). Durante i due domini ellenistici, il greco viene introdotto come lingua ufficiale, anche se l’aramaico rimane la lingua parlata da tutti. Il dominio delle signorie ellenistiche, però, appare piú formale che sostanziale, tanto che esso permette l’affermarsi di significative e autonome entità politiche e culturali: in Palestina, il giudaismo si divide in una metà «filoellenica» e in un’altra fortemente tradizionalista e religiosa, contrapposizione che sfocerà nella rivolta antiellenica dei Maccabei e nella nascita di un nuovo regno indipendente ebraico, guidato dalla dinastia degli Asmonei. In Transgiordania, invece, le terre una volta appartenute a Edomiti e Moabiti verranno occupate dai Nabatei. Nel periodo della loro massima fioritura economica e culturale (un periodo che, con un po’ di approssimazione, possiamo collocare tra il III secolo a.C. e il I-II secolo d.C.), essi costruiranno la loro capitale Petra, dando vita, cosí, a uno dei piú grandiosi complessi monumentali del mondo. L’origine dei Nabatei, popolo che per quasi un millennio esercitò il proprio predominio economico, politico e culturale nelle terre desertiche della Giordania meridionale e del Negev, è ancora incerta e oggetto di diverse ipotesi. Verso la metà del I millennio a.C.,
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Veduta di ed-Deir (il «Monastero»). L’edificio, forse un mausoleo commemorativo dedicato al re Oboda I o all’ultimo re nabateo, Rabbel II, raggiunge un’altezza di circa 40 m.
probabilmente, genti provenienti dalla Penisola arabica (le cronache assire dell’VIII-VII secolo a.C. parlano di tribú nomadi dette «Nabatu») giunsero nella terra tra il Mar Morto e il Golfo di Aqaba, sospingendo verso nord-ovest gli Edomiti. Ma chi, esattamente, erano questi «Nabatu» e qual era la loro terra di origine? È accertato che, in epoca persiana, tribú nomadi forse provenienti dall’odierno Yemen o dall’Arabia nord-orientale entrarono nella terra di Edom, già distrutta, nel 552 a.C., dal re neobabilonese Nabonedo. Una penetrazione che, lo affermano i dati archeologici, è avvenuta in maniera pacifica: non vi sono, infatti, tracce di distruzioni e, addirittura, è dimostrata una continuità nella tecnica e nello stile della produzione di ceramica. Inoltre, i Nabatei assunsero all’interno del loro pantheon una divinità tribale edomita, il dio Qaus.
Padroni di un territorio sconfinato I Nabatei, dunque, si configurano come gli eredi degli Edomiti e assumono, al loro posto, il controllo della «Via dell’Incenso». Sin dalla metà del II secolo a.C., e partendo da una condizione di società nomade e tribale assai simile a quella degli odierni Beduini, essi diedero luogo a un vero e proprio Stato autocratico con, a capo, la figura di un re. Nel periodo della massima fioritura il loro regno si estendeva da Damasco, a nord, fino alla
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regione dell’odierna Mecca, nella Penisola arabica. Un territorio vastissimo, ai confini tra Asia e Africa, tra Mediterraneo e Mar Rosso, che metteva i Nabatei in diretto contatto con le diverse civiltà che li circondavano, quella degli Egizi e dei Fenici, degli Aramei, degli Ebrei e dei Greci. Da esse assunsero numerosi elementi, tra cui la scrittura aramaica (e aramaica era, verosimilmente, anche la loro lingua) e il sistema amministrativo, modellato su quello dei Greci. I Nabatei divennero il piú ricco e potente tra i popoli nomadi dell’Arabia. Una ricchezza che traeva origine proprio dalla particolare situazione geo-strategica del loro territorio, attraversato dalle piú importanti vie commerciali dell’antichità: la Via dei Re, che collegava l’Egitto con la Siria, e la Via dell’Incenso, che dall’Arabia meridionale conduceva fino a Gaza, sul Mediterraneo. Tutto il commercio nell’ambito siro-arabo-palestinese era costretto ad attraversare il territorio dei Nabatei, e questi ne trassero vantaggi enormi. Sembra che, almeno nei primi decenni del loro regno, i Nabatei intrattenessero buoni rapporti con i loro diretti vicini, primi fra tutti gli Ebrei. Ma l’amicizia tra le due popolazioni si incrinò intorno all’anno 100 a.C., quando Alessandro Ianneo, re della dinastia degli Asmonei, occupò Gaza con il suo importante porto nabateo. Nel 65 a.C. i Nabatei furono addirittura i protagonisti di un assedio a Gerusalemme, interrotto dal generale romano Pompeo. Nell’anno 24 a.C., l’imperatore Augusto incaricò il suo comandante Elio Gallo di procedere all’esplorazione e alla conquista dell’Arabia Felix, la mitica terra (l’odierno Yemen) da cui, lungo la via carovaniera controllata dai Nabatei, giungevano gli aromi e le spezie che, a Roma, erano ormai diventate richiestissime. L’iniziativa si risolse in un sostanziale fallimento e il commercio delle spezie via terra restò nelle mani dei Nabatei, fino alla metà del I secolo d.C. circa, quando il potere dello Stato carovaniero incominciò a incrinarsi. In seguito alla fallita missione in Arabia Felix, Augusto decise di inaugurare un
La grande urna posta a coronamento della facciata di ed-Deir.
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••••petra ••••••••••••••••••••••••••••••••
«Le pendici dei monti in prossimità dell’abitato sono costituite da terrazze artificiali coperte di campi di grano e frutteti. Sono irrigate dalle acque dei due ruscelli e di molte sorgenti piú piccole che scendono nella valle sotto Eldjy [il villaggio principale di Uadi Musa] dove pure il terreno è ben coltivato. Alcuni conci in pietra piú grandi, dispersi accanto all’attuale cittadina, segnalano la precedente esistenza di un’antica città in questo sito, la cui felice posizione dovette attrarre abitanti in tutte le epoche» (J.L.Burckhardt, Travels in Syria and the Holy Land, London, 1822)
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A sinistra una cascata nei pressi di Petra, in una foto scattata alla fine dell’Ottocento. Nella pagina accanto un monumento funerario nabateo lungo il percorso verso il Gebel Harun, la «Montagna di Aronne».
nuovo modo per approvvigionarsi delle preziose sostanze, puntando però sul trasporto marittimo, meno rischioso, piú economico e veloce. Lo spostamento del commercio delle spezie a favore di Roma rappresentò un duro colpo per i Nabatei e, in un certo senso, segna l’inizio della loro decadenza. È sorprendente, però, che proprio nel segno di una condizione economica divenuta all’apparenza piú precaria,
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inizi il periodo di massima fioritura del regno nabateo. Con Areta IV (9 a.C.-40 d.C.), il dominio dei Nabatei si estende da Hegra (in Arabia Saudita) al sud, fino a tutto il Negev, a nord. Numerosi e splendidi monumenti, tra cui il Khazne Faraun a Petra, testimoniano il grande fervore artistico e culturale.
Un’annessione incruenta Nel 106 d.C., quando Traiano annette il regno nabateo e crea la Provincia Arabia, il passaggio sotto l’egida dell’impero avviene senza grandi resistenze. Avraham Negev, uno dei maggiori archeologi della civiltà nabatea, descrive cosí i secoli che seguono: «Durante tutto il II secolo d.C. e per buona parte del III, l’intera provincia, inclusi i distretti un tempo appartenuti ai Nabatei nel Negev centrale, godettero di una fioritura economica e artistica che, per certi versi, superò quella del periodo dei grandi regni nabatei di Oboda II e di Areta IV». Ciononostante, con la perdita dell’autonomia politica viene lentamente meno anche quella dell’identità nazionale e, diremmo oggi, etnica dei Nabatei. Sul piano religioso, per esempio, il pantheon nabateo si adegua a quello del culto greco-romano e, successivamente, si dissolve nel cristianesimo. Dalla metà del III secolo, infine, la civiltà dei Nabatei vivrà soltanto nel ricordo dei suoi grandiosi monumenti.
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perché è importante
•P etra è la testimonianza unica dell’architettura nabatea e
di uno straordinario connubio artistico e culturale tra Oriente e Occidente. Le sue imponenti architetture uniscono facciate ellenistiche e romane a elementi tradizionali della cultura nabatea, come i templi e le tombe scavate nella roccia.
• L a fortuna di Petra si dovette in gran parte anche alla sua
posizione strategica lungo la via delle spezie, che la rendeva un punto di passaggio obbligato delle fiorenti rotte carovaniere e mercantili dell’antichità.
• L a messa a punto di un avanzato sistema di distribuzione
idrica permise ai Nabatei di fare di Petra un giardino rigoglioso nel mezzo del deserto. Per raccogliere l’acqua, gli abitanti utilizzarono i massicci circostanti la città, scavandovi cisterne e vasche che permettevano sia di immagazzinare le rare precipitazioni, sia di captare la rugiada che si condensava sulle rocce. Inoltre grazie a raffinate opere di sbarramento idrico e di canalizzazione, gli ingegneri nabatei riuscirono a creare persino fontane.
petra nei musei del mondo
•A ll’interno di Petra si trovano due musei, il Museo
archeologico di Petra (Al-Habis) e il Museo Nabateo, che ne raccontano la storia e conservano reperti emersi degli scavi effettuati nella città e nella regione circostante. Altri reperti sono esposti nel Museo Archeologico di Amman.
•U na delle maggiori raccolte di arte nabatea è conservata
negli Stati Uniti presso il Cincinnati Museum of Art.
informazioni per la visita
•A qaba, la città piú vicina a Petra, è collegata all’Italia da
voli diretti. Il Visitor Center, situato all’ingresso dell’area archeologica, è dotato di un punto di ristoro e offre anche la possibilità di affittare cavalli, muli o calessi per arrivare piú rapidamente all’imboccatura del Siq.
•S i possono trovare utili informazioni nel sito dell’agenzia
governativa che si occupa di Petra (in inglese) http://www. pdtra.gov.jo/ e si può ammirare una ripresa in diretta del Khazne Faraun all’indirizzo http://www.petralivecam.com/
il sito nel mito
•P etra rimase isolata dal mondo esterno per settecento anni.
Dopo la ritirata dei crociati nel 1189, fu l’esploratore svizzero Johann Ludwig Burckhardt, durante un viaggio in Giordania nel 1812, a sentir raccontare di una città fantasma nascosta nel deserto.
• L a tradizione vuole che nei pressi di Petra, sul Gebel Harun
(la «montagna di Aronne») si trovi il luogo di sepoltura del fratello di Mosè, Aronne. Sulla montagna è anche tramandata la presenza di un tempietto dedicato alla sorella di Mosè, Miriam, che sappiamo essere stato meta di pellegrinaggi ancora nel IV secolo, ma la cui posizione non è mai stata localizzata con certezza. Inoltre, la valle di Petra viene chiamata in arabo «Uadi Musa», cioè «valle di Mosè». Secondo la tradizione, Mosè fece scaturire l’acqua percuotendo con un bastone una di queste rocce.
•P er le vie di Petra ci si imbatte spesso in nicchie in cui si
trovano scolpiti i betili, ovvero pietre di forma rettangolare dal significato votivo-religioso. Derivano dal culto del dio Dushara, la principale divinità nabatea, venerata nella forma di una pietra nera rettangolare, su cui veniva sparso il sangue dei sacrifici animali in suo onore.
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cnosso il sogno di sir arthur siamo nell’isola di creta, alle soglie del 1900: un archeologo inglese, poco piú che quarantenne, acquistò una collinetta che aveva già suscitato l’interesse di un appassionato locale e dello stesso heinrich schliemann. Nessuno di loro, però, avrebbe potuto sospettare che sotto quel rilievo si celassero i resti di uno dei piú grandi complessi palaziali della civiltà minoica
A sinistra pendente aureo in forma di ascia bipenne. XVII-XVI sec. a.C. Würzburg, Martin-von-WagnerMuseum der Universität.
L’ archeologo inglese Arthur Evans (in alto, al centro), scopritore di Cnosso, fotografato sugli scavi durante la ricostruzione del Palazzo. Oxford, Ashmolean Museum.
••••cnosso •••••••••••••••••••••••••••••••
U
n mare blu che divide due continenti, e, al centro, un’isola lontana, ma scalo obbligato di grandi navi, insidiate nel lungo viaggio da onde, maremoti e pirati. Nel cuore dell’isola un palazzo di mille stanze, unite e divise da percorsi intricati, in cui vive un mostro orrendo. Da millenni, la storia è sempre la stessa: l’eroe viene attirato dagli eventi e dalla sua stessa natura in questo nodo inestricabile. La creatura innaturale deve essere uccisa, e si può farlo solo con il calcolo e l’astuzia, prima ancora che con la forza. Ma la lucida lama dell’ascia a doppio taglio dell’archeologia e dell’antica religione – labrys, l’arma che dà il nome stesso al labirinto – riflette, alla fine, il volto atterrito dell’eroe. È il momento della conoscenza, e l’arma ci ricorda che uccidere il mostro è anche un po’ uccidere noi stessi. Vittorioso, l’eroe dovrà ripercorerre a ritroso il suo cammino tortuoso, risorgere alla luce del sole e riacquistare la propria normalità, che però non sarà mai piú la stessa, perché labirinti e creature mostruose scavano nell’anima solchi incancellabili, e il vero «filo di Arianna» è una pista di sangue, dolore e innocenza perduta che salva, ma non redime, e non potrà mai essere cancellata. L’eroe paga sempre per tutti, semplicemente perché egli è tutti noi. È l’antichissimo mito del labirinto, ma è anche la trama dei miti piú popolari di oggi, esplorati dai romanzieri del mistero e dell’orrore. Da Omero a Stephen King: un percorso letterario intricato e incerto, e solo uno dei molti labirinti di esperienze e idee che, nella storia del Palazzo di Cnosso e della sua riscoperta, si incastrano gli uni negli altri.
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antiquario, geologo e numismatico, conosceva il latino e citava a memoria gli autori classici. I proventi dell’azienda di famiglia avrebbero M ai rterreni, M e dgli i t scavi e r r aenle eo pagato senza intoppi pubblicazioni di Cnosso. Evans frequentò le migliori scuole e un collegio di Oxford, dove intrecciò rapporti con l’aristocrazia inglese che contava, primeggiando in storia moderna e
Agiatezza e ottimi studi Il piccolo Arthur Evans aveva perso la madre Harriet all’età di sette anni, ma dalla vita era destinato ad avere comunque molto. Nato nel 1851 a Nash Mills, nell’Hertfordshire (il cuore dell’Inghilterra), era cresciuto in un ambiente culturalmente vivace: suo padre John, manager di una redditizia cartiera, era stato
Il Principe dei Gigli. Heraklion, Museo Archeologico. L’affresco, proveniente dal Palazzo di Cnosso, fu ricostruito da Emile Gilliéron (1850-1924), stretto collaboratore di Arthur Evans, sulla base di tre Apo po oll llo llo onia ia ia frammenti originali di intonaco dipinto: il capo, il tronco, e la coscia.
Sitia
Paleokastro Zakros
Cre Cret Cre re eta et ta
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il passaggio del testimone Dopo la morte dello scopritore del Palazzo di Cnosso, sir Arthur Evans, nel 1941, gli scavi a Cnosso proseguono, praticamente ininterrotti, fino ai giorni nostri, ad opera della British School of Archaeology, per chiarire la stratigrafia, la sequenza ceramica e le intricate vicende del complesso palaziale.
Ritratto di Arthur Evans, di William Blake Richmond (1842-1921). 1907 circa. Oxford, Ashmolean Museum.
• 1957. Scavo delle case
sud-occidentali. • 1957-1961.Scavo dei livelli arcaici,
delle case arcaiche lungo il fronte sud del palazzo e delle costruzioni a lato della «Strada Reale». • 1958-1981. Intensa attività di ricognizione e recupero dei resti archeologici in pericolo intorno al complesso palaziale. • Dal 1960 in poi. Pubblicazione
sistematica delle diverse aree di scavo del Palazzo alla luce delle note di scavo originali di Arthur Evans. • 1968-1969. Scavo della «Casa
Inesplorata». • 1973. Scavo del settore sud-ovest
del Palazzo, ambienti a est del «Corridoio Processionale». • 1978-1981. Scavo del «Sito del
Museo stratigrafico», scoperta dell’«Affresco delle Ghirlande». • Fine anni Ottanta-primi anni
Novanta. Scavo dell’ala sud-ovest del Palazzo; costruzioni esterne alla facciata orientale.
• 2005. Knossos Urban Landscape
Project (KULP): ricognizioni, rilievi architettonici, prospezioni geofisiche e studi sui cambiamenti geomorfologici.
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«L’infame adulterio della madre (Pasifae) diventava palese, per l’orrore del mostro dalle due forme. Minosse volle dunque allontanare lo scandalo dalla sua casa, e di racchiudere il mostro in una costruzione oscura, di mura aggrovigliate. Dedalo, maestro assoluto di architettura, fabbricò il labirinto, e nascose tutti i segni, in modo da confondere l’occhio con l’intrico delle molteplici vie (...) A stento lo stesso architetto sarebbe stato capace di ritrovare l’ingresso, tanto la pianta era ingannevole. Minosse vi racchiuse il mostro, mezzo uomo e mezzo toro. Ma dopo la terza spedizione di ragazzi tratti a sorte ogni nove anni, il mostro che si era nutrito per due volte di sangue ateniese, fu abbattuto, e Teseo, con l’aiuto di Arianna, raggomitolato il filo, ritrovò l’uscita nascosta che nessuno aveva mai varcata. Rapita Arianna, Teseo fece subito vela verso Naxos, e crudelmente abbandonò la sua amata su quell’isola». (Ovidio, Metamorfosi, VIII, 155-176).
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nelle questioni orientali, che allora scottavano, considerando l’incipiente dissoluzione dell’impero ottomano. Tra il 1870 e il 1875 il giovane Arthur fece viaggi avventurosi in Europa centrale, nei Carpazi e nei Balcani, poi in Scandinavia. Dopo essersi vista negata da Oxford una borsa di studio, Evans, che doveva aver maturato una certa insofferenza per l’accademia, partí nuovamente per i Balcani in fermento, in compagnia del fratello Lewis. Grazie al suo interesse per quelle regioni divenne un corrispondente politico per il Manchester Guardian. Nel 1878 sposò Margaret Freeman, figlia dello storico Edward Freeman, e, nel 1884, fu nominato curatore archeologico per l’Ashmolean Museum di Oxford, che a quel tempo versava in acque piuttosto cattive, e si mise alacremente al lavoro per incrementarne le collezioni. Fu cosí che gli capitò in mano il primo sigillo in pietra semipreziosa di provenienza cretese. L’archeologo, che ben conosceva le fortunate scoperte di Schliemann a Troia e Micene, si recò a Creta in cerca di altri sigilli, continuando a riflettere sugli strani segni
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In alto affresco parietale con scena di taurocatapsia (gara rituale consistente in un salto acrobatico sul toro, animale sacro nella Creta minoica) proveniente dall’ala est del Palazzo di Cnosso. 1425-1300 a.C. circa. Heraklion, Museo Archeologico. A destra skyphos (bicchiere a due manici) a figure nere detto Skyphos Rayet, da Tanagra (Beozia). 550 a.C. circa. Parigi, Museo del Louvre. Sulla faccia qui riprodotta compare la scena dell’uccisione del Minotauro da parte di Teseo.
scritti che vi comparivano; negli anni successivi pubblicò lavori che prefiguravano il riconoscimento delle scritture in seguito note come «Lineare A» e «Lineare B».
Un magazzino pieno di giare Nel 1899 i Turchi si ritirarono da Creta, ed Evans fu libero di usare il proprio denaro per acquistare una parte della collina di Kephàla, un rilievo che sorgeva a 5 km a sud di Heraklion dove, insieme alla British School of Archaeology di Atene e con la collaborazione dell’archeologo scozzese Duncan Mackenzie, iniziò gli scavi il 23 marzo 1900. Nel 1878, Minos Kalokairinos, mercante, antiquario e archeologo dilettante cretese, aveva già iniziato a scavare sul posto, trovando parte di un magazzino affollato di grandi giare, ma i lavori erano stati fermati dai proprietari. Altri sondaggi erano stati effettuati da Heinrich Schliemann, che però morí improvvisamente nel 1890, e vi avevano operato – ma con scarsi risultati – alcuni archeologi francesi.
Fu, insomma, una serie di eventi casuali a mettere nelle mani di Evans il famosissimo sito. In archeologia, intuito e fortuna non sempre vanno a braccetto, ma questa volta il successo fu travolgente. Già nelle prime settimane di scavo, vennero alla luce le murature di un vasto palazzo dell’età del Bronzo (2000-1800 a.C. circa), con resti di affreschi dipinti a colori vivaci e tavolette con (segue a p. 77)
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••••cnosso •••••••••••••••••••••••••••••••
quel che resta di cnosso Costruito intorno al 1900 a.C., il primo Palazzo fu distrutto in seguito a una catastrofe naturale nel 1600 a.C. circa e riedificato in forme piú ampie ed evolute. Gran parte di quanto risulta oggi visibile a Cnosso sono le rovine del secondo Palazzo, rimasto in funzione fino al 1400 a.C. circa, ampiamente integrate da Arthur Evans. LEGENDA 1. Base di altare; 2. Pozzi circolari; 3. Magazzini; 4. Propilei occidentali; 5. Stanza delle guardie; 6. Corridoio delle processioni; 7. Scala colonnata; 8. Casa Sud; 9. Corridoio Sud; 10. Propilei Sud; 11. Tempietto; 12. Anticamera; 13. Sacello centrale;
14. Cripta dei pilastri; 15. Corridoio del magazzino; 16. Sala del trono; 17. Rampa Nord; 18. Prigione; 19. Propilei Nord-Ovest; 20. Area di culto; 21. Strada reale; 22. Sala della dogana; 23. Atrio Nord-Est; 24. Magazzini Nord-Est; 25. Laboratorio di ceramisti (?); 26. Laboratorio di ceramisti; 27. Magazzini; 28. Stanza con bacino per l’acqua; 29. Laboratori di ceramisti; 30. Laboratori di tagliatori di pietre; 31. Veranda Est; 32. Scalinata; 33. Sala delle Doppie Asce; 34. Mègaron del re; 35. Mègaron della regina; 36. Bagni della regina; 37. Guardaroba della regina; 38. Bastioni Est; 39. Altare delle Doppie Asce; 40. Bacino lustrale; 41. Casa della Tribuna Sacra; 42. Casa Sud-Est. A sinistra Propilei sud del Palazzo, con l’emblema delle corna di toro, ricostruite in epoca moderna. Il propileo era decorato da figure dipinte a grandezza naturale e disposte in due serie sovrapposte raffiguranti alcuni portatori di offerte.
Tutto ebbe inizio con poche capanne • 7000-5000 a.C. Primo villaggio, riferibile al
Neolitico aceramico, sulla collina di Kephàla (Heraklion). • 5000-3000 a.C. Fiorenti comunità
calcolitiche, cioè dell’età del Rame, abitano per secoli un grande villaggio costruito in mattoni crudi. Kephàla è il solo sito simile a un tell (insediamento pluristratificato) orientale dell’Egeo.
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• 2000 a.C. circa Gli edifici sottostanti il
palazzo mostrano ormai l’orientamento dei successivi monumenti palaziali.
• 1900-1800 a.C. Prime costruzioni palaziali
di Cnosso. Prime distruzioni con incendio.
• 1700 a.C. circa Il palazzo viene distrutto
da un violento terremoto che investe l’area centro-settentrionale di Creta, e poi ricostruito.
• 1700-1400 a.C. Il grande palazzo prende
forma, con una complessa storia di distruzioni e ristrutturazioni. Iniziano i grandi affreschi palatini. Invenzione ed evoluzione del sistema di scrittura «Lineare A». • 1600 a.C. circa Data piú comunemente
accettata per l’eruzione e lo tsunami di Thera (Santorini), che ebbe effetti
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disastrosi anche a Creta. Nuove ricostruzioni monumentali, nuovi cicli di affreschi. • 1400 a.C. Per cause sconosciute, Cnosso
viene distrutta e bruciata insieme alle grandi residenze nobiliari cretesi. • 1400-1250 a.C. Cnosso viene rioccupata e
parzialmente ricostruita da una comunità che inizia a usare tavolette scritte in «Lineare B», in una forma di greco antico. • 1250-1200 a.C. Cnosso viene nuovamente
distrutta, con tutte le rocche micenee, dagli eventi bellici legati ai «Popoli del Mare», oppure da una migrazione
convenzionalmente considerata come dorica. • 1200-1000 a.C. Ultimo tardivo avamposto
miceneo a Cnosso, prima dell’affermazione generale delle componenti culturali doriche e greche. Abbandono della collina.
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«Minosse infatti fu il primo signore, di quanti ci è giunta notizia, ad avere una grande flotta e dominare in estensione il mare ora greco, a esercitare il dominio sulle isole Cicladi e colonizzarne le terre dopo aver scacciato da esse i Cari e avervi installato i suoi figli come signori. Eliminò per quanto possibile la pirateria del mare, per poter meglio riscuotere i tributi» Tucidide, La Guerra del Peloponneso, I, 4
• Assonometria ricostruttiva del settore est del Palazzo, in cui si trovavano gli appartamenti reali. Il vasto complesso, che occupava 24 000 mq circa, si sviluppava intorno a un grande cortile centrale rettangolare, sul quale si apriva una sequenza di ambienti uniti tra loro da un intricato sistema di corridoi.
segni di scrittura indecifrabili (in «Lineare A»). Lo scavo continuò ininterrottamente per otto campagne. Subito dopo Evans si dimise dall’Ashmolean Museum, per dedicarsi allo studio delle tavolette e alla pubblicazione dei quattro volumi del suo Palace of Minos at Knossos (Il Palazzo di Minosse a Cnosso), pubblicati tra il 1921 e il 1935. Anche se gli scavi continuarono sino al
1931, nel 1905 buona parte del palazzo era già stata riportata alla luce. Alla fine degli scavi, il palazzo appariva come uno sterminato complesso di piú di 1000 stanze, esteso in larghezza per 130 m. Era strutturato in quattro grandi blocchi residenziali, affacciati di fronte a un vasto cortile rettangolare, e circondati da altre corti e terrazze lastricate. Il tutto occupava 24 000 mq circa.
Alabastro e pitture policrome Costruzione tanto intricata e lussuosa quanto avanzatissima, se è vero, come sostengono gli archeologi, che un’ala era composta di quattro o forse cinque piani sovrapposti, che le murature erano percorse da condutture per le acque potabili (alimentate da un acquedotto che intercettava una fonte a 10 km di distanza) e da efficienti sistemi di smaltimento degli scarichi, e che le pareti erano rivestite di alabastro e di splendide pitture policrome. La «reggia» era provvista di cucine e bagni, di magazzini ricolmi di grandi pithoi (giare in terracotta da olio e da vino, ma usate anche per il pesce secco e i legumi) e da grandi ciste scolpite in pietra. La costruzione – l’unica con questa caratteristica nota per l’età del Bronzo – aveva facciate e ingressi articolati su piú piani lungo tutti e quattro i lati, che davano su corridoi tortuosi che, evitando magazzini,
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I «creatori» dell’arte minoica
L’ala est del Palazzo, frutto di una massiccia anastilosi.
ambienti privati e stanze di lavoro conducevano alla vasta corte centrale. Gli ambienti piú controllati e protetti, nei quali i locali si fanno piú piccoli e le planimetrie piú intricate, si trovano a ovest e a est del cortile: nell’ala ovest, forse adibita in prevalenza a scopi cerimoniali e religiosi, un atrio colonnato e una grande scalinata portavano a una «stanza di rappresentanza», mentre poco piú a nord furono scoperte la «Sala del trono», cripte sotterranee e altre sale interpretate come parte di tempietti e santuari palatini.
Il piú antico trono d’Europa La «Sala del trono» fu cosí chiamata per la presenza, al centro di una parete, di un trono in alabastro scolpito, che Evans definí e propagandò come «il piú antico trono d’Europa». La ricostruzione della sala non fu frutto di un unico progetto, ma di prolungati ripensamenti. L’archeologo dapprima protesse il sedile dalle piogge con uno scaffale, poi decise di installare nella sala quattro colonne di legno intonacato, quindi incaricò i suoi
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Curiosa e controversa è la vicenda dei due Emile Gilliéron omonimi, padre (1850-1924) e figlio (1885-1939), che operarono in squadra per trent’anni a Cnosso come capi-restauratori di fiducia di Evans. Il primo Emile, nato a Villeneuve, in Svizzera, era giunto in Grecia nel 1876 e aveva lavorato come disegnatore per Heinrich Schliemann, e maestro d’arte per la casa reale ellenica. Già prima della collaborazione con Evans, Emile aveva costituito una fiorente azienda domestica, che forniva copie in rame di un consistente numero di capolavori metallici preistorici, rivestiti in oro con metodo elettrolitico, comprese le due coppe di Vaphiò, la maschera aurea «di Agamennone» e le spade bronzee intarsiate di Micene. Per Evans, Emile padre restaurò il «Portatore di coppa» e il «Re-sacerdote» (nel quale il restauratore fu accusato di aver ricomposto l’immagine dai frammenti di tre figure diverse, inclusa parte di una sfinge piumata completamente diversa, ma la ricomposizione è in genere giudicata non del tutto arbitraria) e l’universalmente famoso pannello con gli atleti (o atlete) che saltano sul toro (qui solo la cornice esterna è considerata fasulla). Opera sua è anche il «Principe dei gigli» (1905) fatto con un piccolo frammento del capo, con un torso e parte di una coscia trovati, a quanto pare, in punti diversi dello scavo, e forse pertinenti a diversi dipinti. Emile padre restaurò e riprodusse anche dipinti di Micene, Tirinto e Hagia Triada (compresi quelli del celeberrimo sarcofago dipinto, su cui intervenne insieme al figlio). L’allievo piú famoso della «bottega» Gilliéron fu Giorgio De Chirico (1888-1978), il quale, piú tardi, avrebbe sfruttato la fascinazione della storia di Arianna e delle perdute architetture di Creta, assorbite dal maestro, per dare vita ai suoi celebri e surreali paesaggi urbani. Emile, figlio di Emile Gilliéron, nato ad Atene, iniziò a lavorare nel 1913 sul restauro dei resti degli affreschi di Cnosso portati al museo di Heraklion; ricreò inoltre spazi e ambienti nelle rovine ed è l’autore di numerose delle tavole pubblicate nel monumentale rapporto di scavo in quattro volumi scritto da Evans. A Emile figlio sono attribuiti i «Raccoglitori di zafferano». Le «Dame in blu», già restaurate dal padre con molta libertà, furono danneggiate da un terremoto nel 1926 e
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nuovamente restaurate dal figlio l’anno seguente. Padre e figlio lavorarono alla ricreazione della «Sala del Trono». Uno dei problemi era che i due integravano ampiamente le parti mancanti di importanti composizioni ispirandosi ad altre opere, con l’effetto involontario di creare uno «stile cretese» molto piú coerente e ripetitivo del vero. Emile figlio fu nominato dal governo ellenico «Artista di tutti i Musei in Grecia» ed ebbe cosí modo, con una sorta di monopolio, di maneggiare per decenni tutti i piú importanti manufatti archeologici sino ad allora scoperti. A lato di questi interventi, i due Svizzeri, che lavoravano ormai stabilmente in una sorta di fruttuosa e alacre azienda familiare, avevano inziato a rifornire i piú importanti musei europei e statunitensi (tra cui il Metropolitan di New York) di copie dei dipinti e delle loro stesse riproduzioni in acquerello. Con intonaco, gesso, legno, furono fedelmente riprodotti manufatti complessi (come il famoso trono, sul quale i due posero persino le focature nerastre dell’incendio che aveva devastato il palazzo). La pratica di esporre in mostra costose e fedelissime riproduzioni iniziò a declinare solo prima del secondo conflitto mondiale. Gran parte delle riproduzioni erano state legalmente
vendute come apparati didattici ed espositivi, con regolari marchi di fabbrica dei Gilliéron. Kenneth Lapatin, nel libro Mysteries of the Snake Goddess (Misteri della Dea dei Serpenti, New York 2002), sostiene che i due fossero gradualmente scivolati nel «lato oscuro» della loro professione, creando opere fraudolente e vendendole come originali con gran profitto: restauratori di giorno – come si è scritto – e falsari di notte. La lista delle opere dubbie includerebbe, oltre ad alcune «dee dei serpenti», anche opere di gioielleria; l’ombra del sospetto, come si sa, ha sfiorato anche il famosissimo disco in terracotta di Festos. Nemmeno Evans, che avrebbe autenticato o tenuto per sé opere dubbie, è del tutto esente dai sospetti; ma è probabile che l’archeologo, desideroso di veder confermate le sue audaci teorie, abbia autenticato i falsi senza sospettarne l’origine. Anche questo potrebbe essere un tema mitico: come aveva imparato Dedalo, la troppa abilità (unita a un insopprimibile interesse economico) può risultare infine deleteria. Singolare destino, che questo alone di sospetto si sia diffuso dal maestro Gilliéron all’opera del suo piú celebre allievo: anche molte opere di Giorgio De Chirico, infatti, tra furiose polemiche, sono state contestate e rifiutate dai critici.
Dame in blu, intonaco dipinto, riproduzione di Emile Gilliéron figlio (1885-1939), dell’affresco che ornava il vestibolo della sala del trono nell’ala orientale del Palazzo (datato al 1525-1450 a.C.). 1927. New York, Metropolitan Museum of Art.
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«È impossibile minimizzare il sospetto che i pittori (di Evans) abbiano sacrificato il proprio zelo per una ricostruzione accurata a una predilezione inappropriata per le copertine di vogue». Evelyn Waugh, Labels (1930)
• A sinistra il «Mègaron della regina» composto da una sala centrale con bagno privato, dotato di impianto per l’adduzione dell’acqua. Alla ricostruzione di questa stanza collaborò l’architetto Piet de Jong, che si occupò anche di realizzare una copia dell’affresco parietale dei delfini sulla base dei pochi frammenti originali rinvenuti.
Il talento (e l’inventiva) di un architetto Piet Christian Leonardus de Jong (1887-1967) è un altro dei «protagonisti nascosti» del restauro e dell’immagine archeologica di Cnosso. Figlio di un immigrato olandese e di madre inglese, nacque a Leeds, in Inghilterra. Studiò da architetto, distinguendosi immediatamente con una lunga serie di riconoscimenti e premi. Già a venticinque anni studiava architettura classica in Italia; nel 1916 andò al fronte come caporale dei corpi su bicicletta. Dopo la guerra, lo troviamo, affascinato dalle sirene del Sud, in Grecia e in Macedonia. De Jong non tardò a trovare la sua strada. Dal 1920 al 1923 lavorò a Micene, dove creò famose ricostruzioni dei circoli sepolcrali reali. Divenne l’architetto ufficiale della Scuola Archeologica Britannica di Atene, e, nel 1922, fu assunto da Sir Arthur Evans per documentare, ricreare e ricostruire le rovine degli scavi di Cnosso. De Jong era un disegnatore ricco di immaginazione e un acquerellista di talento, qualità che si sposarono immediatamente con la granitica (meglio sarebbe dire «cementizia») determinazione di Arthur Evans di far materialmente risorgere l’antica civiltà dell’isola. Dall’estetica Art Déco che dominava i media del tempo de Jong trasse un istinto viscerale per l’immagine, i colori caldi e pastosi, le linee curve e ridondanti, la ricerca dell’eleganza mediante effetti elaborati e stupefacenti.
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L’acquerello, a quel tempo, era l’unico mezzo esistente per fare accurate riproduzioni a colori della realtà, ed era largamente usato nel disegno scientifico. Nei termini delle convenzioni del moderno disegno archeologico, gli antichi vasi disegnati da de Jong non sarebbero accettabili, ma i disegnatori di un secolo fa erano talmente abili ed esperti che alcune delle loro opere, in quanto a informazione, appaiono superiori, a giudizio di molti, a qualsiasi odierna fotografia digitale. Piet de Jong ricostruí muri, ridipinse affreschi, riprodusse ceramiche e piccoli oggetti. Collaborò alla ricostruzione del Mègaron della regina e alla radicale ri-creazione di alcuni affreschi, primo tra tutti il celebre pannello con i delfini sulla porta di ingresso della Sala dei Colonnati. L’affresco fu ricostruito sulla base di frammenti davvero esigui, e molti ritengono che la collocazione sia totalmente posticcia (potrebbe infatti trattarsi di piccole porzioni del pavimento del piano superiore crollato piú in basso). Come tutti i grafici del tempo, de Jong era anche un eccellente caricaturista. Condannatosi da solo, per amor del mestiere, a vivere alle dipendenze degli archeologi, si vendicò lasciando ai posteri una serie di caricature di molti di essi: Arthur Evans, Alan Wace (lo scavatore di Micene) e molti degli altri «ellenofili» delle accademie archeologiche ateniesi del tempo.
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restauratori di ricreare pitture murarie conservate solo in scarse tracce: e cosí comparvero grifoni crestati accucciati nell’erba e giovani aristocratici dai lunghi riccioli. Il lato opposto della corte, a nord, ospitava probabilmente le residenze di servi e artigiani di palazzo, contigue a stanze magazzino. A sud, queste stanze davano accesso a quelle che Evans interpretò come parte degli alloggi reali, compreso il «Mègaron della regina». Questo era circondato da ambienti minori usati come bagni privati con vasche, archivi e santuari provvisti di altari e simboli di varia importanza (tra cui la «Sala delle asce bipenni», cosí chiamata per le incisioni visibili sulle pareti). Frammenti di affreschi si trovarono in numerosi accumuli interni alle stanze crollate; sulle pareti ne erano rimasti soprattutto alcuni lacerti. Ciò che restava rappresentava giochi, processioni, eventi di gruppo, cerimonie collettive e persino paesaggi con animali, mentre le scene di guerra, violenza e dominio politico note dall’Egitto e che emergevano dagli
scavi in Mesopotamia erano del tutto assenti. Le costruzioni sul lato nord della corte ospitavano un bagno lustrale, uno spazio aperto interpretato come «Teatro» per rappresentazioni religiose e una «Via sacra», forse destinata alle processioni cerimoniali. L’ingresso, su questo lato, avveniva tramite una grande sala animata da un propileo (sala colonnata), che Evans ritenne essere una «Dogana», abbellita da portici sopraelevati accessibili con scalinate.
Il «Mègaron della regina» in un acquerello di Arthur Evans del 1935. Parigi, Bibliothèque des Arts Decoratifs.
Una civiltà totalmente pacifica? Non si trovarono grandi fortificazioni esterne, e le stanze – almeno 1300, al tempo del massimo splendore dell’edificio – sembravano quasi sfumare lungo pendii alberati. Questo facilitò da un lato l’associazione con il labirinto del mito greco, dall’altro l’idea del carattere totalmente pacifico della nuova civiltà che emergeva, nel suo straordinario splendore, ai confini tra Europa e Vicino Oriente Antico. Evans, supponendo che i Greci dell’era arcaica
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Ma senza il suo coraggio e le sue «visioni», Cnosso non esisterebbe: Arthur Evans sul banco degli accusati Negli ultimi vent’anni, Sir Arthur Evans è stato oggetto di un vero e proprio processo, tanto personale quanto scientifico, ideologico e politico. Oltre alle disinvolte ricostruzioni archeologiche di Cnosso, gli si è rimproverato di essere un ricco imperialista, in quanto riuscí a scavare Cnosso solo perché aveva comprato l’intera collina. Biografi malevoli e all’ultima moda lo hanno accusato di condividere tutti i pregiudizi razzisti dell’aristocrazia britannica di età vittoriana: infatti Evans visse a Creta secondo tutti gli stereotipi dell’Inglese in forzoso esilio all’estero, importando a costi esagerati carne in scatola e marmellata inglese, gin, whisky e vini francesi, disprezzando il locale vino cretese. Piú articolata, se non fattuale, è l’accusa di aver re-inventato una civiltà preistorica nei termini delle sue personali ossessioni e convinzioni. Secondo alcuni, l’intera idea del culto della dea madre sarebbe stata addirittura un riflesso dei suoi traumi infantili (la precoce perdita della madre), e molti altri
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hanno letto nella sua ricostruzione della benigna e pacifica «talassocrazia» cretese un banale e nostalgico riflesso della fatiscente gloria del Commonwealth inglese sulla soglia del tracollo. Al cantiere di Cnosso, cosí insistentemente discusso già alla fine degli scavi, inoltre spetta il poco invidiabile primato della prima costruzione in cemento armato mai eretta sull’isola, subito seguito – come sottolineano i maligni – dalla vicina Villa Ariadne (Arianna), residenza privata dello stesso Evans, in seguito lasciata alla British School di Atene. Ma una valutazione piú oggettiva non può prescindere dal considerare il grande archeologo come un uomo del suo tempo. Evans era uno studioso della vecchia scuola, molto piú vicino per formazione e sensibilità a Heinrich Schliemann che ai giovani archeologi «scientifici» che si stavano allora formando. La cultura di età vittoriana aveva ogni genere di inquietanti preoccupazioni in materia di sessualità, e le idee della venerazione di principi sacri femminili, dell’alta considerazione delle donne e del matriarcato nell’antica Creta furono una comprensibile scappatoia per dare una spiegazione logica alle rappresentazioni di donne a seno nudo, in atteggiamento che i moderni percepiscono come provocante, che sembrano affollare l’iconografia dell’antico mondo minoico. Agli inizi del secolo scorso, tutti gli intellettuali europei, e particolarmente quelli inglesi, erano cresciuti in ambienti intrisi di razzismo e in qualche modo finanziati dall’imperalismo e dallo sfruttamento coloniale. Ma come sottolineano recenti e meno
schierati interpreti, era stato Tucidide, nel V secolo a.C. – 2300 anni prima di qualsiasi preoccupazione politica degli abitanti di una remota e fredda isola nord-europea – a dipingere Creta come la sede del trono di Minosse e di un possente impero marittimo. Non vi sono dubbi che i passi di Tucidide siano stati diretta fonte di ispirazione per la geniale intuizione dell’archeologo inglese. Infine, la «colpa» di aver re-inventato la civiltà minoica in termini senza dubbio leggendari deve essere condivisa da tutto il mondo archeologico del tempo. Fu l’intero ambiente culturale dell’epoca ad appoggiare e diffondere l’immagine di popolazioni minoiche pacifiche, proto-femministe, spirituali e contemplative, abitanti di solari dimore mediterranee, vittime predestinate dei Micenei guerrieri, militaristi, barbarici e indoeuropei, annidati in oscuri fortilizi (concezione falsa e ambigua, ma tutt’altro che estinta). Tutto si può rimproverare a Evans, tranne di non di aver avuto una visione coraggiosa e comunque autorevole, e di non avere amato profondamente l’archeologia dell’isola e la cultura alle quali dedicò, col maggiore successo possibile, una vita intera. Evans può avere ricostruito una Cnosso per molti versi posticcia, ma, come scrisse John Wilmott, conte di Rochester (1647-1680), cortigiano del re d’Inghilterra, mecenate e noto libertino, «Noi imitiamo solo ciò in cui crediamo e che amiamo». Anche se adesso tutti opererebbero in modo ben diverso, e molti dei pregiudizi di Evans ci appaiono politicamente scorretti, le condanne postume lasciano il tempo che trovano; la critica archeologica post-moderna, in ultima analisi, si è addentrata come Teseo nel labirinto per uccidere il mostro, ma ha finito per trovare... solo se stessa.
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avessero tramandato con stupore la memoria delle intricate planimetrie, fece precipitare questo processo, denominando la civiltà di Cnosso come «Minoica», con esplicito riferimento al Minosse dei miti arcaici dell’Ellade. Ricondusse in vario modo le sue scoperte a una serie di tesi fondamentali: la civiltà minoica aveva un tempo dominato culturalmente gli spazi del futuro mondo greco; era una monarchia di signori amanti della pace, a capo di flotte di navi commerciali, con le donne in posizione di notevole rilievo sociale e una possente dea-madre al centro di un pervasivo sistema religioso, forse rappresentata dalle strane figurine di «dea» o «sacerdotessa dei serpenti» (rare statuette nelle quali, purtroppo, si stenta oggi a discernere l’originale dal ricostruito).
Pelle bianca e pelle scura L’archeologa femminista Margaret Ehrenberg (in La Donna nella Preistoria, Milano, 1989) ha dedicato diverse pagine a una disamina obiettiva di queste tesi. Come nella ben piú tarda ceramica attica, le donne degli affreschi hanno la pelle bianca, e gli uomini sono scuri: nell’evoluzione della cultura greca, l’implicazione è che la donna lavora in casa, mentre gli uomini si abbronzano lavorando all’aperto. Costrizione o elevato grado sociale? Le figure a seno nudo, come nel mondo moderno, non implicano certo una maggior libertà femminile. La conclusione della studiosa è chiara: a fronte di indizi scarsi e ambigui, le interpretazioni di Evans parlano piú dell’ideologia vittoriana che del mondo antico; infine, «anche se possiamo ipotizzare che le donne, o almeno quelle di un ceto sociale superiore, godessero di una condizione sociale privilegiata nella Creta minoica, non è possibile affermare che effettivamente detenessero il potere. Allo stesso modo, tuttavia (...) non esistono
reperti che possano dimostrare che gli uomini detenessero il potere a spese delle donne». A sfondo di queste pesanti forzature, il radicale contributo dato da Evans all’archeologia scientifica non può essere dimenticato. Lo studioso fu il vero scopritore delle antiche scritture dell’isola, e ne stabilí correttamente la sequenza storica (sistema geroglifico, Lineare A, Lineare B). La sua ricostruzione della stratigrafia del grande palazzo fu altrettanto esatta, e ogni archeologo, lo ammetta o meno, invidia in cuor suo l’intuito e la visione di chi ha saputo leggere dietro le cortine di un grande mito, rivelarne le fondazioni storiche e passare cosí alla storia. Ma davvero si può far risorgere una civiltà sulle ali della fede in remote mitologie? Quella di Evans e dei suoi (altrettanto visionari) scenografi – perché di scenografie si trattava, anche se antichistiche – fu una suggestione quasi ipnotica, che travolse gli accademici di allora come buona parte dei visitatori odierni i quali (almeno un milione ogni anno, dato che Cnosso, dopo il Partenone, è il sito piú visitato dell’intera Grecia) si aggirano stupiti tra basse colonne rosse coronate da capitelli gonfi come cipolle, scalinate cerimoniali, piani superiori ricostruiti di sana pianta, affreschi dai colori sgargianti, facendosi le stesse domande (piú che legittime).
In alto frammento di affresco raffigurante una danzatrice, dal Palazzo di Cnosso. XVI sec. a.C. circa. Heraklion, Museo Archeologico. Nella pagina accanto rhyton (vaso per bere a protome animale) in steatite con incrostazioni in oro, madreperla e diaspro, a forma di testa taurina, dal Piccolo Palazzo di Cnosso. 1600 a.C. Heraklion, Museo Archeologico.
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Il porticato occidentale. La vasta residenza, riportata in luce e in gran parte ricostruita dall’archeologo Arthur Evans, risale all’epoca neopalaziale (1700 a.C.-1450 a.C.).
Dove Evans aveva incontrato o sospettato il legno, aveva fatto materializzare il cemento armato, poi storicizzato con pennellate di rosso e nero. Eppure le sue «ricostituzioni» – come le chiamava l’archeologo, piuttosto che restauri – rendono un’immagine plastica, cromatica e luminosa della vita di palazzo nell’età minoica, e questa immersione nel tempo (vera o falsa che sia) sarebbe stata altrimenti impossibile (come rivelano le visite ai siti minoici che non subirono il «trattamento modernista»). In fondo, basta crederci! Il tempo perduto non è, per definizione, una dimensione metafisica?
Una preistoria rassicurante «I capolavori dell’arte minoica non sono ciò che sembrano. I vivaci affreschi che una volta decoravano le pareti del palazzo preistorico a Cnosso oggi sono l’attrazione principale del Museo Archeologico di Heraklion (...). Databili tra l’inizio e la metà del II millennio a.C., sono alcune delle piú famose icone della cultura dell’Europa antica, riprodotte su innumerevoli
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cartoline e poster, magliette e calamite da frigorifero: il magnifico giovane «principe» con la sua corona floreale, che cammina in un campo di gigli; i cinque delfini blu che sorvegliano il loro mondo sottomarino tra pesciolini e ricci di mare; le tre “dame in blu” (uno dei colori minoici piú popolari), gesticolanti, come se colte in conversazione e con i loro riccioli neri. Il mondo preistorico che evocano sembra in qualche modo strano e remoto, ma, allo stesso tempo, rassicurante, in quanto riconoscibile, quasi moderno. La verità è che queste icone sono moderne. Come ogni acuto osservatore del Museo di Heraklion può vedere, ciò che sopravvive dei dipinti originali, in molti casi, ammonta a pochi decimetri quadrati. Il resto è piú o meno ricostruzione immaginifica (...) Grosso modo, piú celebre è oggi l’immagine, minore è la parte di essa che è effettivamente antica». (Cathy Gere, Knossos and the Prophets of Modernism, University of Chicago Press, Chicago 2009).
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perché è importante
•C nosso è il principale sito archeologico dell’età del Bronzo
sull’isola di Creta, celebre in tutto il mondo per il grande Palazzo, residenza dei sovrani dell’isola, legato agli antichi miti della Grecia classica.
• L ’esistenza sull’isola della «reggia» del mitico re Minosse,
suggerita da Heinrich Schliemann sulla base dell’interpretazione dei testi omerici, diede avvio alle ricerche dell’archeologo britannico Arthur Evans. Lo studioso, agli inizi del XX secolo, portò alla luce le rovine del Palazzo Reale, centro di potere politico, religioso ed economico della civiltà minoica, organizzato come una città in cui vivevano centinaia di persone alle dipendenze del sovrano.
• I resti del Palazzo di Cnosso, che documentano l’alto
livello di sviluppo raggiunto dalla società minoica, mostrano una pianta complessa, caratterizzata dalla mancanza di simmetria, con edifici a piú piani, cortili, una fitta rete di stanze e corridoi in cui Evans riconobbe l’intricato labirinto del mito.
il sito nel mito
cnosso nei musei del mondo
• I reperti provenienti dagli scavi del Palazzo sono esposti
nel Museo Archeologico di Heraklion, nelle cui sale si possono ammirare utensili, ceramiche dipinte nello stile detto di Kamares, grandi pithoi decorati, oltre a plastici e ricostruzioni dei principali palazzi minoici. Gli affreschi del Palazzo, parzialmente ricomposti in epoca moderna, sono collocati al piano superiore.
•T ra gli oggetti piú celebri, la «dea dei serpenti», statuetta
in faïence raffigurante una dea dai seni nudi, e il rhyton in steatite a forma di testa taurina, utilizzato come vaso per le libagioni, entrambi databili al periodo neopalaziale (1700 a.C.-1450 a.C.). Info www.odysseus.culture.gr; e-mail: amh@culture.gr
informazioni per la visita
• I l sito archeologico, che occupa l’altura di Kephàla, a
sinistra del fiume Katsaba, si trova sulla costa centro-settentrionale di Creta, 5 km a sud di Heraklion, a cui è collegato da un servizio di autobus. Info www.odysseus.culture.gr; e-mail: protocol@kgepka.culture.gr
• I l mito narra che Minosse, leggendario re di Creta, fece
rinchiudere il Minotauro – creatura mostruosa con corpo umano e testa taurina, nata dall’unione di un toro con Pasifae, moglie del re – in un labirinto realizzato dall’ingegnoso Dedalo. Per nutrire il Minotauro, che si cibava di carne umana, ogni nove anni da Atene giungevano 7 giovani uomini e 7 giovani donne: un «tributo di sangue» che la città, sottomessa a Creta, era tenuta a rispettare.
• Teseo, giovane figlio del re di Atene, Egeo, posto a capo
di una delle spedizioni, riuscí a uccidere il Minotauro spezzando questa catena di sacrifici, e a uscire dal labirinto seguendo il filo di un gomitolo procuratogli da Arianna, figlia di Minosse, un’astuzia suggerita da Dedalo.
• Quando Minosse scoprí il tradimento di Dedalo, lo
imprigionò nel labirinto insieme al figlio Icaro. Dedalo costruí allora due paia d’ali per fuggire, e ordinò al figlio di non volare troppo in alto, perché il calore del sole avrebbe potuto sciogliere la cera che teneva insieme gli intrecci delle ali. Icaro non tenne conto dei consigli paterni e, una volta fuori dal labirinto, volò talmente in alto che la cera si sciolse facendolo precipitare in mare.
La «dea dei serpenti», statuetta in faïence, dal Palazzo di Cnosso. XVII sec. a.C. Heraklion, Museo Archeologico.
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delfi nella città dell’oracolo sulle pendici del monte parnaso, una straordinaria scenografia di romantiche rovine custodisce il segreto di un antico culto dedicato ad apollo. e, per indagarne i misteri, alla fine dell’ottocento gli archeologi spostarono di sana pianta un intero villaggio...
A sinistra l’interno di una coppa a figure rosse con Zeus che interroga l’oracolo di Delfi. 440 a.C. circa. Berlino, Staatliche Museen. A destra tavola che illustra il ritrovamento di un busto di Apollo durante gli scavi condotti nel 1892 dall’équipe francese guidata da Teophile Homolle.
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D
elfi non è soltanto un simbolo della storia della cultura dell’uomo occidentale, è anche un luogo che suscita, ancora oggi, un’emozione forte, unica. Occupa un posto particolare tra i grandi siti archeologici della Grecia, e vediamone il perché. Innanzitutto, forse, per la sua posizione all’interno di un paesaggio grandioso, che colpisce il visitatore per la sua bellezza drammatica, creata da ripide GR montagne, ampie valli digradanti, lontane insenature del mare. Delfi sorse distante da ogni grande centro abitato – una caratteristica che gli è tuttora propria – a 550 m di altitudine, sulle pendici meridionali Mar Ionio del Monte Parnaso. Alle spalle del santuario, in direzione nord, lo sguardo del visitatore viene frenato dalla mole delle Fedriadi, imponenti pareti rocciose che s’innalzano quasi in verticale; voltandosi a sud, lo sguardo si perde in uno spettacolo senza confronti: uno scintillante e ininterrotto tappeto grigio-verde, formato da una miriade di alberi d’ulivo, si
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estende dal sito archeologico fino alla piana di Anfissa e al Golfo di Corinto. Il sito del tempio era stato scelto dallo stesso dio Apollo: era un luogo ai piedi del Parnaso, la dimora delle Muse, presso la limpida fonte Castalia, tra le due rupi Fedriadi, ardui e splendenti spuntoni di roccia che si innalzavano a creare una vera, titanica porta del sacro. Mare Egeo
ECIA Delfi Atene
L’ombelico del mondo
Qui si trovava, nel pensiero ellenico, l’ombelico del mondo, che Zeus aveva segnalato all’uomo facendovi atterrare una coppia di aquile giunte dai confini estremi dell’universo. L’ombelico, od omphalos, era una pietra ogivale cava, scolpita come se fosse coperta da una spessa rete annodata, custodita, in origine, insieme a un inestinguibile fucoco sacro, nel tempio di Apollo. Tradizioni successive identificarono l’omphalos di Delfi come il masso che Rea aveva fatto inghiottire a Crono, facendogli credere, beffandone gli appetiti, che si
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tutti si affidano alla pizia • 1400 a.C. circa Prime tracce di
insediamento umano, individuate nell’area in cui sorse poi il futuro santuario di Apollo. • VIII-VII secolo a.C. Vengono
costruiti i primi edifici sacri. Il rinvenimento di numerosi ex voto in bronzo, databili all’VIII secolo, attestano la presenza del culto tributato ad Apollo Pizio. • VI-IV secolo a.C. Età di massima
fioritura del santuario. Riorganizzazione dei Giochi Pitici. Nel santuario, le città greche dedicano sacelli votivi, i cosiddetti «tesori», in cui si custodiscono preziosi ex voto in oro, argento, avorio e legno. La fama dell’oracolo varca i confini del mondo greco ed egli viene consultato anche da sovrani stranieri. • III-II secolo a.C. Durante l’età
delle conquiste di Alessandro e dell’espansione di Roma, il santuario di Delfi subisce il contraccolpo della perdita di potere politico delle città greche. Per il complesso religioso inizia un periodo di sopravvivenza. • I secolo a.C.-III secolo d.C.
Divenuta provincia dell’impero romano, la Grecia conosce un lungo periodo di pace. Il santuario di Delfi partecipa al generale declino culturale e intellettuale del Paese. L’imperatore Adriano visita due volte Delfi. Il santuario subisce la spoliazione dei suoi preziosi doni e dei monumenti.
Testa femminile in avorio con corona e orecchini in oro, forse raffigurante la dea Artemide, da Delfi. VI sec. a.C. Delfi, Museo Archeologico Nella pagina accanto Delfi, il teatro. Costruito nel IV sec. a.C., l’edificio fu restaurato dal sovrano attalide Eumene II nel 159 a.C. e poi ancora in età romana.
• IV-VI secolo d.C. Fine del culto di
Apollo e trionfo del cristianesimo.
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••••delfi •••••••••••••••••••••••••••••••••
«Di là pieno d’ira, tu [Apollo] procedesti rapidamente verso la montagna e giungesti a Cresa, collina rivolta a Occidente, ai piedi del Parnaso coperto di neve. Su di essa incombe una rupe, e sotto si estende una valle profonda e scoscesa. Là Febo Apollo, il signore, decise d’innalzare l’amabile tempio» (cosí, nell’Inno omerico ad Apollo, viene raccontata la scelta del luogo in cui il dio fece sorgere il suo santuario).
• trattasse del piccolo Zeus. Certo è che nel santuario si celava la Pizia (o Pitonessa), la potente sacerdotessa che pronunciava gli oracoli nel nome di Apollo. Tracce del culto sono state ricondotte a età micenea, nel tardo II millennio a.C. Il santuario di Delfi era centro di politiche e progetti aristocratici. All’oracolo si attribuivano predizioni epocali, quali il diluvio universale e la rigenerazione del mondo operata da Decaulione, l’impresa degli Argonauti e l’esito della guerra di Troia.
Guerre e gare atletiche Piú concretamente, tra il VII e il VI secolo a.C., esso favorí con i suoi responsi l’espansione coloniale ellenica nel Mediterraneo. Sebbene fossero spesso insopportabilmente ambigui, gli oracoli di Apollo avevano una tale influenza che le case aristocratiche avevano stabilito una apposita istituzione, l’Anfizionia di Delfi, per regolarne l’«uso». Era un’alleanza formale tra dodici tribú elleniche, che doveva garantire la neutralità degli esiti e la portata degli oracoli: non senza che contrasti e dissapori sfociassero a volte in gravi conflitti e scontri armati (le Guerre Sacre), e addirittura, come avvenne intorno alla metà del VI secolo a.C., nell’incendio e nella distruzione generale del luogo di culto. In onore del dio e delle sue imprese, in alternanza alle Olimpiadi, si tenevano i Giochi Pitici, che comprendevano competizioni artistiche, danza, gare atletiche e corse con quadrighe disputate nell’apposito stadio (vedi box a p. 98). L’importanza dell’oracolo pizio cominciò a declinare all’epoca delle prime spedizioni persiane, in corrispondenza del tracollo delle
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principali case aristocratiche e del trionfo della politica democratica ateniese, che focalizzò il culto di Apollo sull’isola di Delo. Tuttavia, il culto delfico si perpetuò, senza interruzione, per quasi duemila anni, fino a che i decreti teodosiani (391-392 d.C.), una decina d’anni dopo aver dichiarato il cristianesimo religione ufficiale dell’impero, non proibirono di fatto gli antichi credi pagani. Delfi decadde rapidamente, mentre il santuario era coperto dai detriti e dalle frane del Parnaso. Secondo la Passione di Artemio, un’opera agiografica altomedievale di Giovanni il Monaco che descrive in modo romanzato la vita di sant’Artemio, che sarebbe stato perseguitato da Giuliano l’Apostata, quest’ultimo avrebbe mandato Oribasio (320-400 d.C. circa), il suo medico personale, a consultare la Pizia delfica. Costei si sarebbe espressa, per l’ultima volta, in modo insolitamente chiaro: «Dí al re che le sale splendide sono cadute, e che Febo (Apollo) non ha piú una capanna, o un alloro
Nella pagina accanto tavola a colori raffigurante la Pizia, la sacerdotessa addetta al culto oracolare di Apollo, da un dipinto di Henri-Paul Motte. 1890 circa. In basso i resti del tempio innalzato in onore di Apollo.
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un complesso unico al mondo Oggi il sito archeologico di Delfi, fortemente trasformato dalle ricostruzioni di età romana, è una delle mete piú frequentate della Grecia. Si presenta come una straordinaria scenografia romantica di rovine – di cui, nella pagina accanto, presentiamo il plastico, esposto nel Museo Archeologico di Delfi –, dovuta in parte agli scavi ottocenteschi della Scuola Archeologica Francese, in parte a limitati interventi di anastilosi (ricostruzione critica degli alzati degli edifici). Al santuario si accede risalendo i pendii del Parnaso lungo la Via Sacra, affiancata da resti di tombe e mausolei di età romana (I secolo a.C.-II secolo d.C.).
1. il teatro
Sul lato occidentale del tempio la Via Sacra sale fino al magnifico teatro (del IVIII secolo a.C.), da cui si gode di una vista grandiosa su tutta l’area sacra. Insieme al vicino stadio, era sede dei Giochi Pitici. L’edificio poteva accogliere 5000 spettatori e oggi è uno dei monumenti meglio conservati dell’antica città.
2. il tempio di apollo
Cuore del santuario delfico era il grande tempio di Apollo, di fronte al quale era posto il piú famoso e venerato dono votivo di Delfi: una colonna in bronzo a forma di serpenti che, in cima, recava un tripode dorato, in ricordo della battaglia di Platea del 479 a.C. Nella stessa area era ubicato il cosiddetto Altare di Apollo, rivestito con lastre di marmo policrome, donato nella prima metà del V secolo dagli abitanti di Chio.
3. i doni delle polis
La Via Sacra costeggia una serie di monumenti dedicati dalle città-stato greche, tra cui il porticato dei Lacedemoni e il monumento degli Ateniesi. Seguono i circa venti «tesori», monumenti votivi che contenevano preziosi doni: il tesoro di Sicione, quello dei Sifni, il tesoro dei Tebani. Proseguendo sulla via si giunge al tesoro degli Ateniesi, un armonioso edificio in marmo pario a forma di tempietto dorico, eretto verso il 490 a.C., e oggi ricostruito (foto qui accanto). Le metope del monumento (i cui originali si trovano all’interno del Museo) raffigurano il mito di Eracle e Teseo e la lotta contro le Amazzoni. La Via Sacra continua fino a diventare un piccolo slargo sul quale si affaccia una serie di monumenti votivi, tra cui la roccia della Sibilla, antenata della Pizia. L’intera area è delimitata a settentrione dall’imponente terrazzamento del Tempio di Apollo, sorretto dal Muro Poligonale, coperto da innumerevoli iscrizioni dedicatorie e votive. Davanti al muro si scorgono i resti di un portico lungo 28 m e sorretto da colonne ioniche.
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profetico, nè la fonte mormorante; anche l’acqua parlante è muta». Nel 279 a.C., quando un’armata celtica comandata da Brenno giunse alla porta del santuario di Delfi, questo doveva essere già in decadenza; ma è difficile che gli invasori fossero mossi da qualcosa di diverso dal miraggio delle grandi ricchezze che il tempio di Apollo e l’intero santuario dovevano ancora custodire. Tuttavia, con l’aiuto «soprannaturale» di frane, tuoni e fulmini scagliati dallo stesso Apollo, i Greci respinsero gli assalitori. Alle soglie del tramonto del mondo classico, il santuario doveva conservare quasi intatta la sua opulenza, attorniato da sacelli e tempietti tra i quali spiccavano le sagome delle statue bronzee e di altre offerte. Fu Silla (138-78 a.C.), nell’86 a.C., a impadronirsi del santuario e a saccheggiarlo, e Nerone (37-68 d.C.) rubò e trafugò a Roma altre 500 statue bronzee. Malgrado tali razzie, quando Pausania, nel II secolo d.C., visitò Delfi, la lista delle statue ancora presenti ci appare impressionante. Racconta Diodoro Siculo di come Kouretas, un pastore, attirato dagli strani belati di una delle sue capre, avesse scoperto l’accesso di un antro sotterraneo. Penetrato nella grotta, si sentí pervadere dalla presenza divina ed ebbe istantanee visioni del passato e del futuro. Poiché divenne chiaro che i maschi penetrati nella grotta perivano, l’accesso fu ristretto alle ragazze di giovane età, e, quando il luogo divenne un santuario, fu gestito con regole molto rigide da un gruppo di appositi sacerdoti.
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La dragonessa e il pitone I piú antichi miti di fondazione di Delfi parlavano di una dragonessa (drakaina) posta a guardia dell’oracolo. Il mostro si chiamava Delfina e il suo nome sopravviverebbe in quello antico e moderno della località (altre versioni, invece, imputavano il toponimo alle sembianze del delfino sotto le quali si celava Apollo quando avrebbe accompagnato una nave cretese al porto naturale della città). In strati mitologici successivi, alla drakaina, a volte confusa con i tratti del mostro serpentiforme Echidna, si
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Qui sotto il rilievo del frontone orientale del Tesoro dei Sifni, raffigurante Zeus che cerca di porre fine alla contesa per il tripode tra Eracle e Apollo. 530 a.C. circa. Delfi, Museo Archeologico. A destra la Sfinge che sormontava la colonna votiva dei Nassi, consacrata nel 550 a.C. Delfi, Museo Archeologico.
sovrappose l’immagine di un altro rettile mostruoso, Pitone. Il nome, secondo alcuni studiosi, si collegherebbe alla radice di un verbo greco, pythein, che significa «corrompere, far imputridire». Si tratterebbe della trasformazione di una creatura cosmologica della notte e dell’oscurità, avversaria del fulgore del sole, quindi del potere di Apollo. Pitone divenne poi la vittima, quasi sacrificale, dell’arco e delle frecce del dio, che simboleggiavano, appunto, i raggi solari. Apollo, con la morte del mostro, divenne Pizio; e, in qualità di sauroktonos – «uccisore della serpe» –, il dio sembra aver rifondato la sacralità stessa dell’oracolo nei termini delle nuove generazioni divine, dominate da principi maschili.
In questo straordinario gioco di inversioni tra l’animale e l’uomo, il maschio e la femmina, l’antica sacralità femminile del luogo di culto è ricordata dalla figura stessa della Pizia. Le piú antiche statuette di culto trovate nel sito risalgono all’XI-X secolo a.C., e, invece di Apollo, sembrano celebrare una ignota dea arcaica. Singolare è che nell’arte greca alcune raffigurazioni mostrino Apollo convivere pacificamente con il terribile nemico Pitone, tranquillamente acciambellato, come una vipera al sole, sull’ombelico del mondo. Come i pittori rinascimentali, i ceramografi attici
Nella casa dell’Auriga e della Sfinge Fondato nel 1903, il Museo Archeologico di Delfi si rivelò ben presto insufficiente ad accogliere i copiosi materiali restituiti dagli scavi della Scuola Francese di Atene. Un primo ampliamento si ebbe nel 1938 e poi, nel 1958, l’edificio venne interamente ristrutturato e ingrandito. Un ulteriore intervento si è avuto in anni recenti, in vista delle Olimpiadi disputate ad Atene nel 2004, ed è stato ultimato nel 1999: è stata ridisegnata la facciata dell’edificio e il Museo si è arricchito di nuovi spazi per servizi aggiuntivi, come la caffetteria e il bookshop. La ricchezza della sua collezione è tale da farne uno dei musei archeologici piú belli e importanti della Grecia. Oltre all’Auriga – una delle opere piú affascinati –, tra i capolavori che vi si possono ammirare figurano i due grandi kouroi, esempi della prima scultura monumentale «dorica» (600 a.C.), la Sfinge alata, posta in origina su una colonna alta 10 m, sotto il tempio di Apollo, il Fregio del Tesoro dei Sifni, con la rappresentazione di una Gigantomachia, nonché i frammenti di statue crisoelefantine (in oro e avorio), recuperate nel santuario di Delfi negli anni 1938/39.
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la terrazza dei marmi Qualche centinaio di metri piú a est della fonte Castalia, in una zona che nel Novecento venne chiamata Marmarià per i numerosi blocchi di marmo che la costellavano, si trovano i resti del secondo recinto sacro di Delfi, quello dedicato ad Atena. Un grande altare (sul quale si sacrificava alla dea) accanto a un tempio dorico di età tardo-arcaica (VI-V secolo a.C.) – il tempio di Atena Pronaia («custode del tempio»), con ancora alcune colonne in piedi – accolgono il visitatore. Pochi passi in direzione ovest e si incontrano le fondamenta, ben conservate, di due «tesori», risalenti alla prima metà del V secolo a.C. Il monumento immediatamente contiguo a essi è forse il piú noto di Delfi, anche a coloro che ancora non si siano recati in «pellegrinaggio culturale» al santuario: si tratta di una tholos, un elegante tempietto dorico dalla pianta rotonda, databile alla prima metà del IV secolo a.C. Delle originarie venti colonne che si elevavano su un basamento composto da tre scalini ne sono state rialzate solo tre, delle restanti sopravvivono i frammenti in situ. All’interno, la cella era decorata con semicolonne corinzie e pavimentata con lastre di marmo nero. L’esterno della cella era ornata da un fregio con triglifi e metope (conservate nel Museo di Delfi). I resti, in pietra calcarea, di un secondo edificio templare di epoca piú recente (IV secolo a.C.), il cosiddetto «nuovo» tempio di Atena Pronaia, concludono l’itinerario di visita al recinto sacro dedicato alla dea.
Marmarià
22 11
0
30 m
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1. Tempio arcaico o tesori 2. Altari 3. Primo tempio di Atena Pronaia (500 a.C. circa) 4. Tesoro dorico 5. Tesoro ionico dei Massalioti 6. Tholos 7. Ultimo tempio di Atena Pronaia (innalzato dopo il terremoto del 373 a.C.) 8. Casa dei sacerdoti (?)
In alto la tholos del santuario di Atena Pronaia. A sinistra l’area del santuario di Atena Pronaia, sulla terrazza di Marmarià. Si riconoscono, da sinistra: i resti del Tesoro dei Massalioti, la tholos, i resti del tempio di Atena Pronaia e quelli di un edificio forse destinato ad abitazione dei sacerdoti.
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quel che resta di delfi I resti oggi visibili del grande tempio di Apollo – la cui pianta misura 24 x 60 m e la cui cella era cinta, in origine, da 6 x 15 colonne – risalgono al IV secolo a.C. e sorgono su quelli di un edificio precedente, distrutto da un violento terremoto nel 373 a.C. Di una costruzione ancora piú antica, risalente all’età arcaica, sono stati trovati alcuni resti di colonne, capitelli e architravi. Secondo la tradizione mitologica, il tempio venne costruito sul luogo in cui lo stesso Apollo aveva posto un santuario di legno, rivestito di lamine di bronzo. All’interno del tempio, in origine riccamente decorato con preziosi avori, statue e crateri in oro e argento, era la sede, inaccessibile ai profani, in cui la Pizia pronunciava i suoi oracoli. A est del santuario di Apollo, all’imbocco di una profonda gola che si insinua tra le rocce delle Fedriadi, un piccolo cortile pavimentato segna il luogo della leggendaria sorgente della Castalia, la cui acqua serviva al culto e per le abluzioni rituali dei pellegrini. Da uno dei quattro lati del cortile sgorgava l’acqua da tre fontanelle a protome di leone. Una seconda, piú grande fonte fu scolpita nella parte superiore della roccia. Le nicchie scavate nella parete rocciosa, ancora oggi ben visibili, servivano per accogliere i doni votivi.
Teatro
Porta
Tempio
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edot
Acqu
Stoà Ovest
Porta
15
Porta 11 10
Porta 9 0
I resti della sacra fonte Castalia, presso la quale i pellegrini potevano effettuare le abluzioni ritenute indispensabili per la loro purificazione.
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LEGENDA 1. Ingresso 2. T oro di Corcira 3. M onumento votivo degli Ateniesi 4. M onumento votivo degli Spartani
5. M onumento votivo di Argo 6. Tesoro di Sicione 7. Tesoro dei Sifni 8. Tesoro di Megara 9. Tesoro di Tebe
30 m
10. Tesoro dei Beoti 11. Tesoro di Potidea 12. Tesoro degli Ateniesi 13. Tesoro dei Cnidi 14. Bouleuterion 15. Asclepieion
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rappresentavano la profetessa di Delfi come una giovanetta attraente, ma «assurdamente» seduta in un braciere bronzeo. Posizione e atteggiamento erano inconcepibili e sconvenienti per una donna delle classi elevate della Grecia antica, ma si riferivano forse al fatto che la profetessa parlava per Apollo, dopo essersi inebriata inalando i vapori di sostanze psicotrope emanati dalle braci. Per alcuni, si sarebbe trattato semplicemente di foglie di alloro, pianta sacra ad Apollo: mentre le sue proprietà aromatiche sarebbero dovute a limitati contenuti di acido cianidrico (la farmacopea popolare ancora attribuisce alle sue foglie proprietà allucinogene e la capacità di suscitare sogni profetici).
Lesche Lesche degli degli Cnidi Cnidi
Stoà di Attalo
26
27
Porta
25 24 23
22 21
Porta
L’oltraggio del generale
di Apollo 20
18
19
Sa
cr
a
17
Porta
Vi a
16
Halos 14 13
2
12
1
4 3
8
Via Sacra 7
6
16. Rocce e sorgenti sacre 17. Colonna dei Nassi 18. Tesoro di Corinto 19. Tesoro di Cirene 20. Prytaneion 21. Tripode dei Plateesi
5
22. M onumento votivo di Rodi 23. A ltare di Chio 24. M onumento votivo dei Siracusani 25. T esoro di Acanto 26. Temenos di Neottolemo 27. M onumento votivo dei Tessali
Il ruolo di Pizia, che secondo le fonti classiche, al culmine del prestigio del santuario, poteva essere contemporaneamente svolto da tre sacerdotesse diverse, richiedeva la castità e una purezza rituale assoluta. Nella Biblioteca Storica, Diodoro Siculo (II secolo d.C.) racconta di come Echecrate di Tessaglia, un generale di Tolomeo IV Filopatore (III secolo a.C.) avesse rapito e violentato la Pizia di Delfi; dopo questo crimine, fu deciso di sostituire le giovani con donne anziane. Vecchie o giovani che fossero, le prescelte rivestivano un ruolo politico di straordinaria rilevanza, tanto piú che ciò avveniva in una società profondamente maschilista, che alle donne, di regola, riservava una vita di sostanziale prigionia e scarso valore. Il portale del santuario delfico era sormontato dal celebre motto «gnothi seautòn» («conosci te stesso»), fatto proprio da Socrate. Come fare a conoscere se stessi e i propri destini? Non era cosa facile. La profetessa, nelle fasi piú antiche, parlava un solo giorno all’anno; successivamente, inziò a vaticinare nel settimo giorno di ogni mese, ma per soli nove mesi all’anno. Per interrogare la Pizia, i fedeli dovevano innanzitutto purificarsi con un bagno nella fonte Castalia e fare una sostanziosa offerta e contendere con una lunga «coda» l’ordine di accesso.
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Una capra veniva poi aspersa dell’acqua della fonte divina, e dai brividi dell’animale si traevano i primi auspici sulla divinazione. La capra veniva poi uccisa sull’altare e le viscere, soprattutto il fegato, erano lavate nella magica fonte che ancor oggi sgorga presso le rovine del tempio, per essere finalmente interpretate dagli aruspici. Se il vaticinio degli indovini era favorevole, il supplicante era ammesso nell’adyton, la camera sotterranea segreta del tempio di Apollo. La tradizione considerava l’antro una cavità naturale della roccia, probabile sede di culti di remota antichità. Qui la profetessa, a malapena visibile nell’oscurità, doveva apparire avvolta di un’aura di mistero e paura – e cosí paludata, tramite responsi piú o meno chiari, spesso tradotti e interpretati da sacerdoti specializzati –, aveva il potere di influenzare, per bocca del suo dio, le scelte di potenti famiglie, sovrani ed eserciti. In un passo dei suoi Moralia, lo storico greco Plutarco (50-125 d.C. circa) – che dal 95 d.C. fino alla morte serví come sacerdote al tempio di Delfi, e quindi dovrebbe essere considerato un testimone piú che attendibile – scrive che la Pizia, per ottenere le visioni, si rinchiudeva in
La statua bronzea dell’Auriga, uno dei simboli di Delfi. Grazie alla dedica, l’opera si data al 475 a.C. Delfi, Museo Archeologico.
Lo splendido dono del tiranno di Gela Prima che Delfi – insieme alle città di Olimpia, Istmia presso Corinto e Nemea – divenisse una delle sedi dei Giochi Panellenici, il santuario doveva già ospitare gare musicali. I Giochi Pitici, comunque, divennero vieppiú frequentati da concorrenti provenienti da ogni parte del mondo greco, sia per partecipare alle gare, sia per godersi quei magnifici giorni di festa, scanditi da rappresentazioni musicali e teatrali. Tra i monumenti che testimoniano l’importanza delle gare delfiche figurano il teatro e, soprattutto, il grande stadio, costruito al di sopra del santuario di Apollo, ancora oggi mirabilmente conservato. All’interno del Museo, inoltre, si può ammirare uno dei capolavori della statuaria in bronzo di stile severo, l’Auriga. L’opera ritrae il conduttore di un carro tirato da quattro cavalli (di cui si sono conservati solo pochi frammenti), dedicato al santuario dal tiranno di Gela, nel 475 a.C., dopo una sua vittoria ottenuta nei Giochi Pitici di quell’anno.
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un antro dove «dolci vapori» fuoriuscivano dalle pareti rocciose. Ma di quali sostanze poteva mai trattarsi? Nel 2000, alcuni geologi italiani sottolinearono che il tempio di Delfi sorge in corrispondenza di una importante e pericolosa faglia sismica (cosa ben nota, dato che il santuario era stato distrutto in antico da rovinosi terremoti). Proposero quindi che la grotta o fenditura naturale nel terreno che ospitava il vaticinio della Pizia si fosse aperta per effetto di un violento sisma, e che i misteriosi vapori che inebriavano le profetesse fossero semplicemente emissioni carboniose e solforose, a volte causate da simili fenomeni; infatti, se respirati intensamente, tali gas sarebbero stati capaci di indurre torpore, stati ipnotici ed estatici, allucinazioni.
Tracce sospette Sulla scia di questa ipotesi, negli anni successivi, un team formato da geologi, archeologi ed esperti di tossicologia analizzò l’acqua della fonte sacra e – poiché chi cerca in genere trova – vi rilevò tracce di metano ed etilene. L’idea fu che questi gas potessero essere stati liberati e diffusi nell’acqua e nell’atmosfera da faglie geologiche apertesi in calcari ricchi di sostanze bituminose. Specialisti in chimica e mineralogia hanno in seguito smentito queste ardite ipotesi, negando che i locali substrati rocciosi potessero generare significative emissioni di etilene e metano, e l’incertezza è tornata a dominare. Occorre inoltre considerare che, nel pensiero degli antichi, e sino al fiorire della «scienza» dell’alchimia, la terra, sotto l’azione dei raggi del sole, emetteva continuamente vapori benefici e malefici, come se fosse stata un organismo vivente; ma non vi era alcuna concezione precisa sulla composizione e sull’effettiva diversità dei vari tipi di tali gas. L’informazione di Plutarco potrebbe ben essere stata generica e di seconda mano. È divertente constatare come in simili casi, alla lunga, miti e leggende abbiano sempre la meglio sulla pretesa oggettività delle analisi scientifiche.
•
perché è importante
•D elfi è forse il piú famoso santuario del mondo greco.
Luogo di culto dedicato al dio Apollo e al suo oracolo, esso sorge nell’antica Focide, a 550 m di altitudine e riunisce in sé due particolarità: un grandioso scenario paesaggistico accanto a luoghi e monumenti legati al tempo del mito.
• I l pellegrinaggio a Delfi era uno dei momenti piú importanti
nella vita religiosa di un greco. L’esperienza mistica del pellegrino iniziava con l’ascesa al santuario, attraverso un percorso montano, alle pendici del Monte Parnaso, scandito da rocce e ulivi dai riflessi argentati, e, al crepuscolo, si concludeva con lo spettacolo dell’ultimo raggio di sole sul golfo di Corinto.
• I l santuario di Apollo ebbe una rilevante importanza
il museo di delfi
• I l primo Museo Archeologico fu costruito nel 1903 e da
allora ha subito varie ricostruzioni e ampliamenti. Conserva veri capolavori dell’arte greca, come la statua dell’Auriga, le sculture in avorio con applicazioni in oro (crisoelefantine), le statue in pietra dei gemelli Kleobi e Bitone, la grande Sfinge alata.
informazioni per la visita
•D elfi si trova a 169 km da Atene, da dove è raggiungibile
con la superstrada Atene-Corinto fino al bivio di Tebe; da qui si devono poi seguire le indicazioni per Levadia e per la stessa Delfi. Info http://odysseus.culture.gr e www.visitgreece.gr
politica oltre che religiosa sia nella fase greca che durante quella romana. I vaticini dell’oracolo potevano essere interpretati e strumentalizzati nei giochi di potere e in casi di conflitto.
•N el 1892 gli archeologi della scuola francese d’Atene
iniziarono gli scavi del santuario, dopo avere «spostato» l’intero villaggio moderno di Kastri, che sorgeva sull’area archeologica, nel suo sito attuale. Oggi il santuario di Delfi è uno dei pochi scavi greci completamente visitabile. Dal 1988 è stato inserito dall’UNESCO nella lista del Patrimonio Mondiale dell’Umanità. Ancora oggi è la Scuola francese a occuparsi delle ricerche nel santuario.
il sito nel mito
•P er i Greci, Delfi era il centro del mondo; qui, per volere di
Zeus, si erano incontrate due aquile partite da due estremità opposte della terra. Nel Museo Archeologico di Delfi si può vedere una riproduzione tarda della pietra conica (omphalos, ombelico) che segnava il luogo mitico dell’incontro dei rapaci.
• L a tradizione racconta che prima del tempio di Apollo
sorgeva qui il tempio di Gea, la grande madre, difeso dal serpente Python. Forse questo primo luogo di culto era nel sito dove oggi sorge la fonte Castalia. Apollo uccise il serpente (per cui l’appellativo «pizio») e sostituí il suo culto a quello di Gea e fece costruire un primo tempio, un santuario di legno rivestito di lamine di bronzo.
• È probabile che già nel culto di Gea ci fosse un oracolo
che venne mantenuto quando il santuario fu dedicato ad Apollo. Il dio parlava attraverso la sacerdotessa Pizia la quale vaticinava seduta su un tripode, dai sotterranei del tempio.
Testa in oro e avorio, forse raffigurante il dio Apollo. VI sec. a.C. Delfi, Museo Archeologico.
• Apollo e la Pizia fecero la fortuna del luogo in tutto il
mondo antico allora conosciuto, Greci e «barbari» venivano in pellegrinaggio a Delfi per consultare l’oracolo. Molti portavano doni o dedicavano monumenti votivi detti «tesori».
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troia quando il mito si fece realtà nel 1871, alle soglie dei cinquant’anni, heinrich schliemann corona il sogno di una vita: scavare la collinetta di hissarlik, situata all’entrata dell’Ellesponto, nell’odierna Turchia nord-occidentale. L’ex commerciante tedesco, che conosce a memoria i poemi di omero, è certo che proprio lí giacciano i resti della città che gli achei riuscirono a espugnare grazie al leggendario stratagemma ideato da ulisse
Disegno ricostruttivo di Troia nella sua VI fase, con la cittadella (acropoli) circondata da una città bassa, munita di mura difensive. All’epoca, siamo nel 1700 a.C., era uno dei piú vasti centri abitati dell’intera area egea.
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P
arlare di Troia, per un archeologo, è sempre difficile. Il confronto con la straordinaria «fortuna del dilettante» e con il fulmineo successo «mediatico» di Heinrich Schliemann – che forse poi tanto dilettante non era – non è facile per nessuno. Tanto piú che all’archeologo tedesco vanno riconosciute, insieme a formidabili ingenuità, la comprensione generale delle leggi della stratigrafia, dell’importanza dello studio e della catalogazione della ceramica per datare i contesti, e dell’enorme potenziale di una tecnologia innovativa, ma ancora sperimentale, quale era la fotografia, per documentare le operazioni di scavo. L’archeologia nasce a Troia, e Troia rinacque dai suoi ruderi, una volta di piú, nella visione straordinariamente moderna, spregiudicata e radicale di un commerciante di genio. Heinrich Schliemann (1828-1890) fu invidiato e guardato con sospetto e spesso con aperta derisione, dalla cultura accademica del suo tempo, ma era dotato di alcune armi essenziali, di cui ben
Istanbul
Troia Grecia
M ar Egeo
Tu r c h i a
Atene Micene
Itaca
Tirinto
Pilo
Sparta Rodi
M
Cnosso
a r
Creta
e o M e d i t e r r a n
«Io ho dimostrato che in una remota antichità nella pianura di Troia sorgeva una grande città, distrutta in antico da una spaventosa catastrofe; che questa città aveva nella collina di Hissarlik la sua acropoli, con i templi e altri grandi edifici, a sud e a ovest sul sito della piú tarda Ilion; e che, di conseguenza, questa città corrisponde perfettamente alla descrizione omerica della sacra Ilion» (Heinrich Schliemann, Troja, 1884)
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Mar Ner o
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dagli eroi achei ad augusto • 3200-3000 a.C. Primo insediamento sul
sito di Troia (Ilion). • 3000 a.C. Costruzione del primo muro di
difesa della città. • 2500 a.C. circa Allargato due volte, il
muro di difesa della cittadella raggiunge un diametro di 110 m. • 2000 a.C. circa La città di Troia viene
radicalmente trasformata e si copre di un fitto reticolo di case in pietra, che si estendono oltre l’antico muro difensivo. • 1700 a.C. L’insediamento noto come
Troia VI (la sesta città costruita sulle sue stesse fondazioni in ordine di tempo) è uno dei piú grandi agglomerati urbani dell’intera regione dell’Egeo.
Omero compone i suoi immortali poemi sulla «Sacra Ilio». Intorno alla rovinosa caduta della città e ai destini spesso tragici di protagonisti e superstiti fiorisce un intrico di nuove leggende. • 334 a.C. Alessandro Magno, sulla via
dell’Asia, visita il sito di Troia e compie sacrifici sulle tombe identificate dalla tradizione locale come quelle di Achille e Patroclo. • 306 a.C. Troia torna a essere il centro
egemone di una lega di città della regione prospiciente i Dardanelli. • 188 a.C. Troia (come Ilium Novum) viene
riconosciuta dai Romani come il centro celebrato da Omero, ed è pertanto esonerata dal pagamento delle tasse. • 85 a.C. Distruzione della città nel corso
del conflitto tra Roma e Mitridate. • 20 a.C. Nuova ricostruzione di Troia, per
diretto volere di Augusto, il quale ne aveva visitato personalmente le rovine. Augusto finanziò il restauro del tempio di Atena Ilias, del bouleuterion e del teatro. Il mito di Troia viene sfruttato da Augusto e Virgilio come storia di fondazione e legittimazione della supremazia imperiale romana.
• 1380 a.C. Fondazione dell’impero ittita. • 1350 a.C. L’insediamento di Troia VI è
colpito da un grave terremoto. Una nuova città, chiamata Troia VIIA, è prontamente ricostruita. Per gli archeologi e gli storici si tratterebbe della favolosa città descritta da Omero e distrutta da una coalizione di città greche. • 1250 a.C. circa In un testo ittita, il re
Hattusili III, nel rivolgersi a un re greco come a un «fratello», menziona la città di Wilusa (Troia) come oggetto di un conflitto tra i due Stati. • 1210-1180 a.C. In questo arco di tempo
cade la distruzione di Troia VIIA, in un attacco che sembra coincidere con l’episodio bellico della guerra di Troia, uno dei conflitti che opponevano gli immediati interessi delle città della costa anatolica alle scorrerie commerciali delle flotte delle città micenee. • 1200 a.C. circa Invasioni dei Popoli del
Mare, caduta di Ugarit, di Hattusa e delle cittadelle micenee. • 1000 a.C. Troia sopravvive ai rovesci,
ma intorno a questa data è praticamente abbandonata. • 800-700 a.C. Il sito è rioccupato da
Greci immigrati dalla vicina Lemno.
Incisione tratta da Ilios (1881), raffigurante il basamento del muro di Troia II (erroneamente identificata da Heinrich Schliemann con la città omerica) e la strada lastricata che conduce alla Porta Occidentale, presso la quale l’archeologo tedesco rinvenne il «tesoro di Priamo». Nella pagina accanto, in basso ritratto di Heinrich Schliemann, olio su tela di M. Aronson-Anurro. Mosca, Museo di Arti Figurative «Pushkin».
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«Le assi della nave erano appiccicose di resina fresca. Ci sporgemmo dalla fiancata per l’ultimo addio, con il legno caldo di sole contro lo stomaco. I marinai tirarono a bordo l’ancora, una pietra squadrata coperta di gusci ritorti, e liberarono le vele. Poi presero posto ai remi, che sbattevano come ciglia, in attesa del ritmo. I tamburi iniziarono a battere, i remi si alzarono e caddero, portandoci alla volta di Troia» (Madeline Miller, La Canzone di Achille, 2013)
• pochi dei suoi contemporanei disponevano: la libertà garantita da un buon capitale, un indubbio talento linguistico e organizzativo e una fede cieca e assoluta nel suo profeta ispiratore, il poeta Omero. Tuttavia, prima di procedere, spezziamo una lancia anche a favore di un «illustre sconosciuto», l’inglese Frank Calvert (1828-1908). Responsabile dell’ufficio consolare britannico del Mediterraneo orientale e archeologo autodidatta e dilettante, Calvert era il proprietario del terreno in cui sorgeva la collina artificiale di Hissarlik; aveva quindi «scoperto» Troia almeno sette anni prima di Schliemann, e, bisogna ricordarlo, era stato lui a convincere il tedesco a scavare sul posto.
L’inizio del disastro Immaginiamo una banale controversia, in una dimora palatina, per una tassa non pagata, un carro non portato a termine, o la fuga di un pastore con un gregge di buone pecore da lana. L’aggressione di un villaggio alla periferia dei domini cittadini contro un altro non viene punita con il consueto rigore; la festività di una importante divinità non viene celebrata come si deve, gli scribi interrompono la tediosa pratica dell’insegnare ai ragazzi le centinaia di segni che, sulle tavolette d’argilla, servono a gestire e verificare i conti del palazzo. È una crisi di autorità strisciante, ma in continua progressione. Le donne
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dell’aristocrazia lamentano che i servi mancano loro di rispetto. In breve, alle terre del re si affacciano gruppi sempre piú consistenti di migranti che procedono in grandi carrozze cariche di donne e bambini, che parlano lingue astruse e praticano una religione «diversa». La sensazione di insicurezza si trasforma in aperta paura quando i primi importanti centri abitati vengono presi d’assalto e saccheggiati. È l’inizio del disastro. È questo, insomma, lo scenario in cui l’archeologia colloca la leggendaria guerra di Troia. Tra il volgere del XIII secolo a.C. e l’inizio del secolo successivo, un generale sommovimento etnico e culturale portò alla rapida distruzione delle città-stato della costa siro-palestinese, alla caduta della potente
In basso Hissarlik. La casa abitata da Schliemann durante gli scavi condotti tra il 1871 e il 1879.
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le fasi di una città Per gli archeologi, i tell (colline formatesi artificialmente per il sovrapporsi di piú livelli di frequentazione) sono una preziosa miniera di conoscenze. Un attento sterro degli strati (letteralmente sigillati nel tempo fino all’inizio del secolo scorso) fornisce molti dati sulla cronologia del luogo e sulla storia dei suoi abitanti. Considerati verticalmente, i singoli strati di un tell possono essere paragonati alle pagine di un libro, il cui primo capitolo inizia con le costruzioni a ridosso del terreno. L’archeologo chiama stratigrafia l’analisi e l’interpretazione di una tale porzione di scavo attraverso un «pacchetto di
A destra, in alto disegno che mette a confronto la pianta di Troia VI (in rosso) con la cittadella e la città bassa circondata da un fossato e quella di Troia IX (in azzurro), con l’acropoli, il teatro e la rete viaria ortogonale. Qui accanto disegno che illustra i nove insediamenti succedutisi, nel VI corso dei millenni, sulla collina di Hissarlik/Troia.
V
IV
III
I
II
insediamento». Ciò che oggi deve essere perfettamente padroneggiato da ogni archeologo, e che gli viene trasmesso nei primi anni universitari come requisito imprescindibile, ai tempi di Heinrich Schliemann era ancora ai primordi.
IX
VIII
VII
Troia I (età del Bronzo Antico II, 2920-2350 a.C. circa); Troia II (età del Bronzo Antico II, 2600-2450 a.C. circa); Troia III-V (Bronzo Antico III/ Bronzo Medio, 2450-1700 a.C. circa); Troia VI (Bronzo Medio/Bronzo Tardo, 1700-1250 a.C. circa); Troia VII (Bronzo Tardo/prima età del Ferro, 1250-1040 a.C. circa); Troia VIII (prima del 700-85 a.C., la Ilion di età greca); Troia IX (85 a.C.-500 d.C. circa, la Ilion o Ilium di età romana).
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Una straordinaria galleria di personaggi L’Iliade ci ha donato una serie di figure indimenticabili, che, nella loro endemica irrequietezza, bene illustrano altrettanti aspetti della grande crisi della fine dell’età del Bronzo. Omero chiama Agamennone anax, cioè re. La parola riflette il termine wanax, usato con lo stesso significato nelle tavolette micenee. Guerriero fiero e robusto, di alta statura e dalle spalle possenti, Agamennone è l’arrogante despota del suo palazzo e capo di una schiera di signori di rango minore, che chiama a costituire l’esercito e la flotta piú temibile del mondo greco. Nella sua figura si raccolgono il carattere e i valori della tradizionale, arcaica regalità micenea. L’elegante e sensuale principe troiano Paride, abilissimo con l’arco, è uomo di altra e piú recente ispirazione: il suo innamoramento per Elena, al di là del romanzetto sentimentale, può Alcuni degli eroi della guerra di Troia, in un’incisione di scuola inglese del XIX sec.
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celare una condizione tanto critica quanto ricorrente nelle aristocrazie del tempo, quella di essere costretti dall’affollamento dinastico a cercar fortuna fuori dal proprio palazzo. Il principe, infatti, sedotta Elena, ne trafuga il personale tesoro e apre le vele alla volta di casa. Alla sua amante Elena vanno riconosciuti, oltre alla bellezza e all’aura tragica di una passione fatali, il calcolo politico e l’ammirevole coraggio dell’avventura. Come ha scritto lo storico Barry Strauss «Se Paride mirava a usare Elena per migliorare la sua posizione nella propria casa regale, e quella di Troia nello scacchiere internazionale, anche lo scopo di Elena era quello di usare Paride». I due amanti di Omero, quindi, si rispecchiano nella spregiudicata ricerca di destini personali che infrangono per sempre gli antichi valori aristocratici.
Achille ed Ettore sono i due volti contrastanti della stessa radicata passione per guerre e massacri: il primo vive le questioni di onore attraverso il nitido specchio dei sodalizi tradizionali con i suoi compagni maschi in armi; l’altro nel lacerante conflitto tra le esigenze dell’affetto domestico e la responsabilità nei confronti di una inedita comunità cittadina. E di questa nuova città, in fondo, è immagine immortale il re Priamo: nobile, ma cauto e intelligente, protetto da possenti bastioni e consigliato da altri saggi, rappresenta, con i suoi cento figli, l’immenso potenziale storico di un nuovo sogno – piú ancora che una nuova idea – di Stato urbano. Poco conta che la città sia condannata dalla furia devastatrice di Achille e dei suoi: è un sacrificio destinato a infondere linfa vitale nella storia che verrà.
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«Questa lettera la invia Penelope a Ulisse lento a tornare. Ma non rispondermi, vieni tu stesso. Troia, odiata dalle donne greche, è stata rasa al suolo: Priamo e Troia tutta a malapena valevano tanto! (...) Ma un dio giusto verso gli amori onesti è venuto in mio soccorso: Troia è ridotta in cenere, e mio marito si è salvato. I re dell’Argolide fanno ritorno, gli altari fumano, il bottino dei barbari viene offerto agli dèi dei nostri 40 padri; le giovani spose portano doni di ringraziamento per la salvezza dei mariti ed essi cantano i destini di Troia, vinti dai loro destini (...) E qualcuno, sulla tavola apparecchiata, narra delle cruente battaglie e dipinge con un po’ di vino Pergamo tutta: “Di qua scorreva il Simoenta, questa è la zona del Sigeo, qui si ergeva, una volta, la superba reggia del vecchio Priamo. Là aveva le tende il figlio di Eaco, là Ulisse, qui il corpo straziato di Ettore spaventò i cavalli lanciati in corsa”». (Ovidio, Le Eroidi, Lettera di Penelope a Ulisse)
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Hattusa – la capitale dei grandi re ittiti –, al saccheggio delle roccaforti micenee. In Egitto, i rilievi del tempio funeraio di Ramesse III (1185-1153 a.C.) a Medinet Habu ci mostrano il glorioso faraone mentre scaraventa nelle acque del delta del Nilo masse umane che si infiltrano in Egitto dai suoi varchi settentrionali. Ramesse III può anche aver trionfato, come narra la sua propaganda, ma è innegabile che poco dopo la sua morte l’Egitto perse per sempre la sua unica vera anima: l’unità politica e territoriale.
Eventi misteriosi in un’epoca «terribile» Oggi gli archeologi e gli storici associano due trasformazioni epocali agli eventi misteriosi di quegli «anni terribili»: l’introduzione della tecnologia del ferro – che avrebbe per sempre sconvolto l’assetto economico e militare del mondo antico – e l’invenzione della scrittura alfabetica, che strappava il monopolio della comunicazione scritta alle sale delle arcaiche aristocrazie palatine per aprirne i segreti a gruppi allargati di nuovi proprietari terrieri, commercianti e artigiani. In scala e in modi diversi, l’onda lunga di questi drammatici processi si fece sentire anche in Occidente, persino nella remota pianura padana. Qui la cultura delle terramare, fiorita tra il 1650 e il 1150 a.C., nell’età del Bronzo Recente (i due ultimi secoli di questo arco temporale) si spense nell’arco di qualche decennio: un fatto che gli storici di età romana ci hanno forse tramandato nel ricordo, un po’ confuso, di una grande crisi ambientale e demografica nella quale scomparve tragicamente l’intera nazione dei Pelasgi. La cronologia degli eventi tramandata da queste fonti è oltremodo significativa: un paio di generazioni prima della guerra di Troia, e il tempo stesso dell’epocale conflitto. Una crisi globale, quindi. Sulle sponde orientali del Mediterraneo, «uomini nuovi» armati di ferro imparavano a scrivere, leggere e far di conto in pochi mesi, divenendo nuovi artefici dei propri destini. Il militarismo divenne una normale condizione di vita, amplificata dalla
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prospettiva di impadronirsi facilmente dell’oro e del bronzo delle grandi case palatine al tramonto. Cosí il mondo cambiò, in una grande e sanguinosa «rivoluzione mediterranea». E non è certo un caso che, oltre all’archeologia, dai racconti di Troia, situata emblematicamente sulla cerniera tra Europa e Asia, siano nati, come si è giustamente sostenuto, l’epica, il romanzo, la tragedia e, in fondo, l’idea archetipica della storia in cui si è alimentata la cultura dell’Occidente. Artisti e poeti trovano l’ispirazione piú vera nelle acque della crisi e della trasformazione.
Troia, ventosa e multiforme Troia la «sacra agli dèi», Troia «la ventosa», dove soffi imperiosi accostavano o respingevano le navi di mercanti e pirati; a questi remoti appellativi omerici dovremmo forse aggiungere quello di Troia «la multiforme», poiché piú volte il nome della città è apparso, negli scritti di poeti, di archeologi, storici e antichisti, in luci completamente diverse. I primi pensatori dell’Europa post-rinascimentale, come reazione al classicismo accademico, erano molto scettici sulla storicità del contenuto dell’Iliade. Per esempio, nei Pensieri del filosofo Blaise Pascal (1623-1662) leggiamo che «Omero scrisse un romanzo, perché nessuno suppone veramente che Troia e Agamennone siano esistiti, piú delle mele delle Esperidi». Intorno al 1840, lo storico britannico George Grote (1794-1871) sostenne che gli scritti di Omero erano una fedele rappresentazione della Grecia della prima età del Ferro, ma che la storicità della guerra di Troia non era proponibile. Le due campagne di scavo di Heinrich Schliemann sulla collina di Hissarlik, condotte negli anni 1871-73 e 1878-79 presso la moderna città di Çanakkale, nell’angolo nord-occidentale della penisola anatolica, di fronte ai Dardanelli, cambiarono radicalmente questa percezione e fecero di Troia una realtà archeologica precisa, accettata da buona parte del mondo scientifico.
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Le opinioni di Schliemann furono suffragate dal suo successore Wilhelm Dörpfeld (1853-1940), che scavò Hissarlik tra il 1893-94, come dallo statunitense Carl William Blegen (1887-1971), già scavatore della rocca micenea di Pilo, che lavorò a Hissarlik nel periodo 1932-38. E come negare che i versi di Omero, a volte, descrivevano con assoluta esattezza manufatti micenei che ai tempi del poeta non erano piú in uso da secoli? Solo una fedelissima tradizione orale, o la conservazione per secoli degli stessi oggetti nei thesauroi dei templi greci, potevano spiegare razionalmente questo aspetto «archeologico» delle pagine dell’Iliade. Nel 1920, Troia e le vicende dei suoi celebri eroi erano state strappate dal «contenitore» elegante e un po’ statico dell’attenzione dei classicisti, per essere proiettati di colpo in una età del Bronzo globalizzata, nella quale Greci, Ittiti, Troiani e persino i faraoni d’Egitto avevano avuto contatti inattesi, essendo
coinvolti in convulsi conflitti ed estenuanti trattative internazionali. Questo nuovo quadro si deve alle intuizioni dell’assiriologo e ittitologo elvetico Emil Orcitirix Gustav Forrer (1894-1986), il quale affermò che in due località chiamate nei testi ittiti Wilusa e
Disegno ricostruttivo di un tratto delle mura di Troia VI all’altezza della Porta Sud della città bassa.
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Taruisa si dovevano rispettivamente riconoscere Troia (l’Ilion di Omero) e il suo territorio, chiamato, appunto, Troade.
Alla ricerca di una conferma Ciononostante, a Troia non erano stati trovati un archivio di tavolette, né iscrizioni che confermassero l’antico nome della città e le visioni ispirate degli archeologi. Inoltre, le varie date proposte per il conflitto (intorno al volgere del XIII secolo a.C.) coincidevano con un momento particolarmente oscuro della storia del Mediterraneo, quello della grande crisi di cui abbiamo già detto, e della caduta delle cittadelle micenee. Come poteva una flotta potente come quella descritta da Omero aver salpato proprio in quegli anni difficili e confusi? Inoltre, la cittadella fortificata di Troia, tra il 1700 e il 1200 a.C., appariva piccola e insignificante rispetto alla grandeur delle sue descrizioni poetiche. Molti studiosi, quindi, rimanevano scettici, e lentamente, dopo il secondo conflitto mondiale, l’ago dei pareri degli esperti tornò a pendere verso le ipotesi del romanzo e della
Veduta aerea del sito archeologico di Troia, con strutture risalenti alle diverse fasi di vita. In primo piano, le terme e l’odeon della Ilium Novum di epoca romana.
Ostriche e porpora Gli scavi di Troia hanno restituito ben 54 000 gusci di conchiglie marine, che formano la piú vasta raccolta di malacofauna dell’archeologia egea. Ostriche e gasteropodi venivano raccolti, a scopo alimentare, nelle vicine lagune di Karamenderes e Dümrek. L’importanza dei «frutti di mare» nella dieta diminuí gradualmente dal III millennio a.C. in poi, e, ai tempi di Priamo, Paride ed Elena, la loro raccolta non era piú un’attività di cruciale importanza economica. Gli archeologi Canan Çakirlar e Ralf Becks hanno però accertato che a Troia confluivano enormi quantità di conchiglie di Hexaplex trunculus, fonte della preziosa porpora; il massimo sfruttamento di questo mollusco si registra proprio nei secoli della tarda età del Bronzo, che comprendono l’apogeo e infine la distruzione bellica di Troia. Indirettamente, l’industria del pigmento testimonia l’importanza che a Troia rivestivano i laboratori di tessitura, anche sotto la crescente influenza delle attività commerciali promosse dalle vicine città minoiche e poi micenee.
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assonanze e suggestioni Dobbiamo al lavoro degli storici e dei filologi l’apertura, nell’ultimo decennio, di una prospettiva tra le piú affascinanti sul mondo omerico: l’intuizione che nell’Iliade rivivano personaggi storici, luoghi e vicende realmente accaduti, ma ripresi e trasfigurati, secoli dopo, nel racconto omerico. Molti dei nomi di persone e luoghi cantati dal poeta, infatti, sono stati rintracciati su alcune tavolette minoiche (in Lineare B) e in testi ittiti di quattro o cinque secoli piú antichi rispetto all’epoca di Omero. Riportiamo qui alcuni esempi.
achireu Nome proprio che si ritrova nelle tavolette
micenee di Pilo e Cnosso, è, quasi certamente, una versione arcaica del nome di Achille, che già circolava tra il XIV e il XII secolo a.C. Il nome probabilmente associa le radici dei termini greci achos («paura») e laos («gruppo di armati»). Achille, anche nel nome, è il piú terrificante guerriero mai esistito.
ahhiyawah Sembra essere stato il nome dato dagli Ittiti
al piú importante regno miceneo tra il XV e il XIII secolo. Si trovava sulla costa anatolica, a sud di Troia; nell’etnonimo riecheggia quello degli Achei, il termine che Omero usa per chiamare la confederazione greca riunitasi contro Troia. La capitale del regno era Millawanda. Un popolo con un nome non dissimile, Ekwesh, è ricordato dai testi egiziani tra i Popoli del Mare, le cui scorrerie, intorno al 1200 a.C., resero gravemente instabile il Mediterraneo orientale.
alaksandu Un re di Wilusa (Troia), di cui troviamo la menzione in un testo ittita, è nel nome molto simile al principe Alexandros (nome greco di Paride, figlio di Priamo, nei testi omerici). Tuttavia, la connessione è ancora incerta: Alaksandu visse un secolo prima degli scontri che si combatterono Troia, e potrebbe trattarsi della trascrizione ittita del nome greco. Pari-zitis, originale forma del nome omerico Paride, è un nome ittita di certa origine luvia. apaliunas È una divinità maschile citata in un testo ittita come nume titolare di Wilusa (Ilion); la coincidenza con la menzione omerica di Apollo, quale principale protettore divino di Troia, non può essere attribuita a caso. Aplu è un nome simile, dato dal popolo degli Hurriti (Siria settentrionale) al dio delle pestilenze, proprio come, per i Greci delle età successive, le piaghe della malattia erano dovute alle invisibili saette del dio del sole.
attarsiyya È il solo capo di Ahhiyawah del quale conosciamo il nome, ricordato dai testi ittiti come colui che condusse cento cocchi da guerra contro il proprio sovrano, e
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conquistatore di Alashiya (l’isola di Cipro). Alcuni studiosi sono propensi a riconoscervi il nome di Atreo, il mitico re di Argo e di Micene, padre di Agamennone e Menelao (che furono perciò detti Atridi).
danaja All’epoca dei faraoni della XVIII dinastia (15431292 a.C.), è il nome assegnato dagli Egizi alla sfera di influenza micenea: il termine risulta molto simile a quello che designa i Danai, vale a dire i discendenti di Danao (con quello di Argivi e Achei, viene frequentemente usato da Omero come appellativo dei Greci). Il paese di Danaja comprendeva allora Bayasta (Festos), Kanusa (Cnosso), Mukuna (Micene), Naplya (Nauplion). lazpa Nome ittita dell’isola di Lesbo. millawanda Base principale o capitale del regno di Ahhiyawah, identificata nella piú antica città costiera di Mileto. piyamaradu (o Piyama-Radu) Era un personaggio bellicoso e irrequieto, il cui nome compare spesso negli archivi reali del medio e tardo XIII secolo a.C. nell’Anatolia occidentale, per un arco di 35 anni. Ribellatosi contro ben tre diversi sovrani ittiti, Piyamaradu attaccò i Paesi della costa anatolica di Arzawa, Lazpa, Wilusa. Sulla base della parziale affinità del nome, alcuni lo identificano con il re Priamo dell’epica omerica. Ma la sua «carriera» mal si combina con l’immagine carismatica del vecchio patriarca di Troia celebrata nell’Iliade. Altri hanno invece associato Priamo al nome luvio Priimuua, che significherebbe «l’eccezionalmente coraggioso». taruisa Si tratta, probabilmente, del nome ittita della regione di Troia, la Troade. T-R-S (o Tursha) è il nome di un’altra nazione appartenente al novero dei Popoli del Mare citata dalle iscrizioni egiziane. wilusa È il nome che nei testi ittiti designa l’Ilion dei testi omerici. Il nome è considerato una trasformazione di un precedente toponimo Wilion.
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Un’assenza sorprendente A Troia, scavi vecchi e nuovi hanno spesso portato in luce frammenti di ceramiche fabbricate nello stile inconfondibile dei vasai del mondo miceneo. Si tratta dei vasi che avevano viaggiato negli scafi della potente flotta di Menelao e Agamennone, e nei quali gli eroi omerici avevano affogato ansie e dolori? Curiosamente, no. Un campione di piú di 150 frammenti di vasi micenei, raccolti da strati databili tra il XIV e la fine del XII secolo a.C., studiato con tecniche di analisi chimica, rivela, infatti, che i vasi fatti e decorati in stile «greco» erano stati fabbricati in tre diversi laboratori, tutti attivi nelle vicinanze di Troia. Solo pochi frammenti provengono dal territorio greco; e nessuno dall’Argolide, cioè dalla terra dei re di Micene. Le tazze da vino in terracotta di Agamennone, immerse nelle giare della riserva personale del re Priamo per festeggiarne la caduta, devono dunque essere ancora dissepolte...
Qui sotto vaso decorato con motivi marini, da Troia II. Atene, Museo Archeologico Nazionale.
leggenda... almeno fino al 1988, quando la storicità del conflitto e della grande città di Omero tornarono in auge. In quell’anno, infatti, iniziò a lavorare a Troia Manfred Korfmann, a capo di un progetto congiunto delle Università di Tubinga e Cincinnati. Korfmann decise di lavorare fuori dalla cittadella, scoprendo che quest’ultima, come moltissimi altri centri dell’età del Bronzo, era circondata da una «città bassa» di almeno 27 ettari, cinta da grandi opere monumentali di difesa, che, intorno al 1250 a.C., poteva avere
ospitato 7000-10 000 abitanti. Nel 1992, in particolare, la nuova missione aveva localizzato due ampi fossati perimetrali, scavati tra il 1700 e il 1500 a.C. e caduti in disuso proprio intorno alla fatidica data del 1200 a.C. Nel 1995, un sigillo circolare a due facce con un nome maschile e uno femminile scritti in luvio (una delle lingue ufficiali dello Stato ittita) dimostrò per la prima volta l’esistenza di un legame diretto tra Troia e il mondo ittita. Oggi molti studiosi, sulla scia delle interpretazioni di Korfmann (prematuramente
Qui accanto e in alto altri esemplari di vasi recuperati negli scavi di Troia. III mill. a.C. Istanbul, Museo Archeologico. Analisi chimiche sugli impasti ceramici hanno provato che la produzione era in larga parte assicurata da laboratori attivi nei pressi della città.
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A destra: la statua bronzea dell’auriga, uno dei simboli di Delfi. Grazie alla dedica, l’opera si data al 475 a.C. Delfi, Museo Archeologico.
scomparso nel 2005) e delle ricostruzioni degli ittitologi, considerano Troia, cioè la Wilusa della tarda età del Bronzo, come uno Stato vassallo dell’impero ittita. Tra il XIV e il XIII secolo a.C. Wilusa, a causa delle sue enormi potenzialità commerciali, rivolte agli spazi economici del Mar Nero, sarebbe stata aspramente contesa tra lo Stato greco di Ahhiyawah/Danaja e gli Ittiti. Gli Ahhiyawah – lo rivelerebbe la lettura degli scarni testi ittiti – avrebbero protetto un capo militare di nome Piyamaradu, un avventuriero di Millawanda, cioè di Mileto – contro le aspirazioni territoriali degli Ittiti.
Un dibattito che non potrà mai finire Sembra che in questo frangente la tensione tra le due potenze – Ahhiyawah (forse sotto l’influenza di Tebe), e Ittiti – sia aumentata, e che gli ultimi abbiano reagito, attaccando Millawanda, cosí da causare, come ritorsione, l’attacco greco a Wilusa/Troia. L’assenza di menzioni di Millawanda/Mileto nell’Iliade
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potrebbe essere spiegata proprio da un grave scacco subito in precedenza dalla sua comunità urbana e commerciale. Poco dopo questo episodio, entrambe le parti collassarono, ma il ricordo dello scontro era ben saldo, e si fissò subito nelle leggende e nella poesia epica, da dove Omero, quattro secoli piú tardi, attinse il suo materiale. Se oggi questo scenario storico, complesso e articolato, si rivela straordinariamente seducente, non è il caso di abbandonarci a facili certezze. Come certe isole che emergono dal mare per sprofondarvi subito dopo, Troia ha la capacità unica di sbucare d’un tratto dall’incertezza del mito, per rientrarvi ben presto. È facile prevedere che, in futuro, nuovi studiosi metteranno in discussione il quadro fin qui delineato, e propenderanno nuovamente per le ipotesi del racconto leggendario. È la legge della «questione omerica», e proprio in questo, in fondo, risiede tuttora buona parte del fascino della fatale città.
In alto particolare di un diadema in oro facente parte del cosiddetto «tesoro di Priamo», scoperto a Troia da Schliemann nel 1873. Scomparsi durante la seconda guerra mondiale, i preziosi reperti sono ricomparsi nel 1993, e sono conservati nel Museo Pushkin di Mosca.
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perché è importante
• L ’archeologia vive dell’impatto mediatico di Troia e della
fascinazione che continua a suscitare in un pubblico ben piú vasto di quello degli specialisti. Da questo punto di vista, la collina di Hissarlik è a tutti gli effetti la sala parto dell’archeologia moderna, sia dal punto di vista scientifico (pur considerando le ben note e gravi incertezze stratigrafiche dell’opera di Heinrich Schliemann), sia da quello dei suoi riflessi sulla cultura di massa.
il sito nel mito
•G razie all’Iliade, Troia e la sua fine hanno dato origine allo
scenario fondante di gran parte della cultura occidentale. Oltre all’Iliade, nell’Odissea e nelle leggende dei Nostoi («i ritorni») si cela il ricordo dell’espansione greca verso la penisola italiana e, in generale, la matrice storica della diffusione della cultura greca. La collocazione del mito troiano in un nodo geopolitico davvero cruciale alle porte dell’Asia ispirò per secoli, fino alla spedizione di Alessandro Magno, la retorica nazionale ellenica contro la minaccia persiana; per converso, la propaganda imperiale romana trovò in una fittizia discendenza dalla famiglia di Priamo una straordinaria giustificazione storica alle proprie politiche imperialiste nei confronti della Grecia.
troia nei musei del mondo
•A Troia non c’è ancora un Museo; l’architetto turco Omer
Selcuk Baz ha vinto un concorso per il miglior progetto per una futura costruzione: un enorme cubo d’acciao coronato da una fitta merlatura. In attesa della sua realizzazione, ci si può «consolare» con il «tesoro di Priamo», conservato nel Museo Pushkin di Mosca (www.arts-museum.ru). Una replica dei gioielli è esposta anche presso gli Staatliche Museen di Berlino (www.smb.museum), che da tempo sostengono un duro contenzioso con la Russia per la restituzione dei reperti.
informazioni per la visita
• I l sito di Troia si può raggiungere da Istanbul con la propria
auto, con bus o con i viaggi organizzati dalle agenzie di viaggio. Poiché il tragitto dura circa cinque ore, è consigliabile programmare l’escursione in modo da prevedere il pernottamento a Çanakkale o in un’altra località vicina. Lo sforzo sarà notevole, e qualcuno si aspetterà, invano, di vedere le stesse scenografie dei film hollywoodiani; ma nulla può sostituire, per i lettori di Omero, la vista che si gode dalla cima della cittadella... mentre i bambini potranno divertirsi a giocare con il cavallone di legno costruito ai piedi di Hissarlik.
Skyphos (bicchiere a due manici) a figure rosse, da Cerveteri. Pittore di Byrgos, 490 a.C. circa. Vienna, Kunsthistorisches Museum. Nella faccia qui riprodotta compare il celebre episodio cantato nell’Iliade in cui il vecchio re troiano Priamo supplica Achille di restituirgli il corpo del figlio Ettore, abbandonato sotto il letto del principe.
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baalbek i giganti del dio sole alla metà del settecento, il viaggiatore inglese robert wood ne descrisse il santuario come «Il piú ardito progetto architettonico mai visto». e ancora oggi, dopo oltre duemila anni, le sei colonne del tempio di giove eliopolitano si stagliano magnifiche sullo sfondo dei monti del libano
Baalbek, tempio di Giove. Le sei colonne lungo il peristilio sud-occidentale: alte oltre 20 m, sono le uniche ancora in piedi delle 54 che, in origine, delimitavano la cella. Le foto in bianco e nero riprodotte in questo articolo (con l’eccezione dell’immagine a p. 118 in alto) sono state scattate nei primi anni del Novecento da fotografi della Colonia Americana di Gerusalemme.
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Un’impresa quasi sovrumana In effetti, la decisione di costruire a Baalbek il piú grande complesso templare del mondo romano, fu certamente l’inizio di un’impresa quasi sovrumana: blocchi di pietra dal peso di centinaia di tonnellate (alcuni addirittura di 1000 t l’uno) vennero trasportati dalla vicina cava per costruire la vasta acropoli su cui sarebbero poi stati eretti i magnifici templi, in maniera tale che essi potessero essere visti già da molto
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La «città del sole» Kebir Baalbek, il toponimo corrente con cui oggi viene Tripoli Qurnat chiamato il sito e la as-Sawda cittadina sorta sul luogo del santuario di Giove Baalbek Eliopolitano, è un cosiddetto Zahlah Beirut a theophorikon, è cioè qa Be Babda composto in parte dal nome della divinità semitica Baal, Sidone l’Hadad cananeo. Siria Nabatia M. Hermon E anche l’originaria Tiro Li tani denominazione geografica N del luogo è, verosimilmente, cananea. Similmente a 0 50 Km Israele quanto si è verificato in molti altri luoghi del Vicino Oriente, anche nel caso di Baalbek, una volta cessato il dominio greco e romano, si è nuovamente imposto il suo originario e antichissimo nome. Ciò non toglie che, durante il quasi millenario dominio ellenistico e romano nel Vicino Oriente (che si protrasse dal IV secolo a.C. al VII secolo d.C.), il sito fosse conosciuto sotto il nome di Heliopolis, «la città del sole». te
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essuna rovina evoca ai nostri occhi la grande parabola di gloria e decadenza delle civiltà del mondo classico quanto le colonne dei templi greci e romani. Pressoché integre e «in compagnia», come quelle del Partenone, dei grandi santuari di Paestum e della Sicilia, solitarie e sopravvissute a metafora del proprio passato, come i resti del tempio di Poseidone a Capo Sunion, l’ormai singola testimonianza di quello di Hera Lacinia protesa sul Golfo di Taranto o le colonne dei monumenti repubblicani e imperiali del Foro Romano. Nessun’altra rovina della classicità, però, eguaglia in potenza evocativa le colonne superstiti del grande Tempio di Giove Eliopolitano a Baalbek: sei giganti che, ancora oggi, si stagliano magnifici su uno sfondo dominato dalle alture dei monti del Libano. Tra i numerosi siti archeologici sparsi nella valle della Beqaa, il fertile altipiano racchiuso tra le catene del Libano e dell’Antilibano, quello di Baalbek-Heliopolis è certamente il piú famoso. Una descrizione tuttora valida del complesso monumentale (miracolosamente sopravvissuto ai millenni e, in ultimo, alla guerra civile che per oltre quindici anni, dal 1975 in poi, ha segnato le sorti del Paese vicino-orientale) è offerta da Robert Wood, il viaggiatore inglese che insieme al suo compagno d’avventura James Dawkins, nel 1751 aveva visitato la regione: «Se confrontiamo le rovine di Baalbek con quelle di molte altre città antiche che abbiamo visitato in Italia, Grecia, Egitto e in altre parti dell’Asia, non possiamo fare a meno di pensare che quelle di Baalbek siano i resti del piú ardito progetto architettonico che abbiamo mai visto».
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lontano. Un progetto coronato da un successo «millenario», se si pensa che ancora oggi, provenendo da sud (per chi parte da Beirut o da Damasco), le sei gigantesche colonne in calcare superstiti del grande Tempio di Giove Eliopolitano s’impongono alla vista del viaggiatore già a molti chilometri di distanza. Eppure, anche se di una grandiosità che veramente conosce pochi confronti, i sei giganti di pietra (le colonne sono alte 20 m) rappresentano solo un ricordo, un accenno, di quello che doveva essere stato l’edificio nella sua interezza. Secondo il destino comune a tutti i monumenti dell’antichità, nel corso dei secoli anche i giganti di Baalbek dovettero cedere alle distruzioni causate dai terremoti e al saccheggio da parte dell’uomo. Le rovine di Baalbek non vennero comunque mai dimenticate del tutto. Certo, si perse il ricordo di chi le aveva, un tempo, costruite e, per lunghi secoli, la storia del piú grandioso complesso templare del mondo romano (segue a p. 122)
Nella pagina accanto particolare della ricca decorazione architettonica del tempio di Giove. La trabeazione sorretta dalle colonne raggiunge i 5 m di altezza e comprendeva un fregio decorato con teste di tori e di leoni e con ghirlande.
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i secoli del santuario Il sito di Baalbek sorge a metà della valle della Beqaa, un altipiano a circa 1000 m sopra il livello del mare, racchiuso tra le montagne del Libano e dell’Antilibano. In epoca romana, seguaci di Giove Eliopolitano e della cosiddetta «triade eliopolitana» (Giove, Venere e Mercurio) • 2900-2300 a.C. (età del Bronzo Antico).
Frammenti di ceramica dipinta e strumenti e schegge in ossidiana e selce sono i primi segni di occupazione umana del sito. • 1900-1600 a.C. (età del Bronzo
Medio). Resti di fondamenta di abitazioni in pietra. Sepoltura di un personaggio databile al periodo della dinastia egiziana degli Hyksos (1730-1580 a.C.). Il luogo ospita un santuario dedicato a Baal-Hadad.
giungevano in questo luogo lontano della provincia orientale da ogni parte dell’impero romano, per tributare il culto alle divinità. In seguito, durante la dominazione araba, il luogo venne trasformato in una cittadella fortificata capace di resistere ai piú feroci attacchi nemici.
• 301 a.C. La Siria diventa dominio dei Tolomei. Baalbek assume il nome di Heliopolis, la «città del sole». • II secolo a.C. L’antico santuario di Baal
viene trasformato nell’area sacra del dio Helios. • 15 a.C. Augusto fonda la Colonia Iulia Augusta Felix Berytus (l’odierna Beirut). A Baalbek-Heliopolis iniziano i primi lavori di ampliamento del santuario. • Fine del I secolo d.C. Il tempio di
Giove Eliopolitano è già in funzione, ma continuano i lavori di decorazione. • Fine del II secolo d.C. Sotto l’imperatore Antonino Pio inizia la costruzione del cosiddetto «tempio di Bacco». • Inizi del III secolo d.C. Sono completati i Propilei, il monumentale ingresso al santuario. • Metà del III secolo d.C. Filippo l’Arabo costruisce la corte esagonale. Viene eretto il cosiddetto «tempio di Venere». • IV-V secolo d.C. Sul piazzale antistante il tempio di Giove Eliopolitano sorge una grande basilica cristiana, i cui resti saranno rimossi definitivamente nel 1935.
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Che si getti luce su questa «veneranda città»... Nel 1860 il Libano divenne teatro di feroci lotte tra Drusi e Cristiani Maroniti, determinando l’intervento della Francia di Napoleone III a protezione di questi ultimi. Insieme all’esercito si recò in Libano una spedizione scientifica, guidata da Ernest Renan, allo scopo di censire i siti archeologici del Paese. Come conseguenza, gli studiosi di tutto il mondo incominciarono a interessarsi alla storia antica del Paese dei Cedri. La rinascita archeologica di Baalbek, però, non sarebbe dipesa dalla Francia, quanto da un’altra nazione europea che, allo scorcio del XIX secolo, si affacciava sulla scena geopolitica del Vicino Oriente dominata da un agonizzante impero ottomano e cioè la Germania dell’imperatore Guglielmo II. Nell’autunno del 1898 il kaiser intraprese un memorabile viaggio nei Paesi del Vicino Oriente, approdando al porto di Haifa e, sabato 29 ottobre, fece la sua spettacolare entrata a cavallo nella Città Vecchia di Gerusalemme. Il viaggio proseguí verso Beirut e Damasco. Il 10 novembre 1898 l’imperatore e la sua vasta delegazione giunsero a Baalbek. In seguito, il sultano autorizzò la Germania a inviare i suoi archeologi per «gettare luce sull’oscura storia di questa venerata città». Con grande disappunto dei circoli scientifici francesi (fino a quel momento, la Francia deteneva il
monopolio degli scavi archeologici in Siria e in Libano), dalla Germania partí immediatamente una équipe composta dai migliori tecnici, guidati da un famoso archeologo, il professor Otto Puchstein. I lavori iniziarono subito, partendo dai resti del grande tempio di Giove per passare, poi, a quelli del tempio Minore, quello detto «di Bacco». Venne eseguito un minuzioso lavoro di raccolta e di classificazione degli innumerevoli blocchi di pietra sparsi nell’area intorno ai due monumenti. Il Tempio Minore venne liberato dalla massa di detriti che ne ostruivano l’accesso. Vennero approntate le piante degli edifici insieme a un elenco accurato delle originali strutture romane nonché delle aggiunte di età musulmana. Dopo la morte di Puchstein, avvenuta nel 1911, i lavori a Baalbek furono proseguiti da altri archeologi tedeschi, fino al 1917. Dopo la prima guerra mondiale, con la sconfitta della Germania e della Turchia, il Libano e la Siria divennero mandato francese e le rovine di Baalbek furono nuovamente terreno di studio da parte di eminenti archeologi francesi. Studiosi di fama – tra cui René Dussaud e Daniel Schlumberger – si succedettero alla guida dei lavori di scavo e di restauro dei monumenti. In seguito e fino alla seconda metà del XX secolo, le
antichità di Baalbek furono restaurate e mantenute dalla Direzione Generale delle Antichità del Libano. In quest’ultimo secolo, le imponenti rovine sono sopravvissute anche alla guerra civile che per oltre quindici anni, dal 1975 in poi, ha segnato le sorti del Paese vicino-orientale. Oggi, le indagini archeologiche di Baalbek sono svolte dall’Istituto Archeologico Germanico, che ha esteso le sue esplorazioni anche all’area e alle campagne che circondano il complesso monumentale.
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Nella pagina accanto l’archeologo Otto Puchstein (al centro) con i suoi collaboratori nel tempio di Bacco. Sulle due pagine il monolite noto come hagar al-hubla («pietra della gestante»): si tratta di un blocco di proporzioni colossali, del peso di oltre 800 t, che ancora giace nella cava da cui era stato tratto.
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un complesso grandioso La visita al complesso di Baalbek avviene, oggi come nell’antichità, da est, attraverso i Propilei costruiti sotto l’imperatore Caracalla e composti da 12 colonne, in origine terminanti con capitelli in bronzo dorato. Da qui si entra in una corte esagonale (costruita sotto Filippo l’Arabo nella prima metà del III secolo d.C.), che si apre sul piazzale rettangolare (110 x 135 m), chiuso sui tre lati da un portico colonnato articolato a esedre. Sul lato aperto verso ovest, un’ampia scalinata, larga piú di 40 m, conduce al podio del tempio vero e proprio, la cui fronte, costituita da 10 colonne che reggevano il timpano, raggiungeva i 40 m dal piano della corte. Il tempio di Giove è il piú grandioso edificio di Baalbek. Conserva 6 delle 19 colonne corinzie che ne ornavano il peristilio sud-occidentale. In origine, senza contare le scalinate e le terrazze che lo circondavano, il tempio misurava circa 90 m in lunghezza e 50 in larghezza, e 54 colonne ne segnavano il perimetro. Per i muri esterni della sua enorme piattaforma, i Romani impiegarono blocchi monolitici, ognuno del peso di circa 400 t. Sopra sei di essi, posti lungo il muro occidentale del podio, sono stesi due dei tre
giganteschi monoliti, dal peso di oltre 1000 t l’uno, i famosi trilithon, un termine coniato in età bizantina e, da allora, divenuto sinonimo dell’edificio. Il terzo trilithon (detto «pietra della gestante») giace ancora oggi nella grande cava di Baalbek (vedi alle pp. 118/119). Scendendo le scale sul lato meridionale del santuario di Giove si trova il tempio Minore, chiamato anche «di Bacco», il piú intatto e meglio conservato di tutti i templi romani. Ai primi del Novecento venne attribuito al dio per le rappresentazioni di vigneti, nonché di una processione dionisiaca posta all’ingresso. In seguito, fu assegnato a Venere o, ancora, a Bacco-Mercurio. Rispetto al tempio di Giove, l’edificio ha dimensioni decisamente inferiori, eppure è notevolmente piú grande, per esempio, del Partenone. La cella misura 35 m in lunghezza per 19 di larghezza; la monumentale porta d’accesso è larga 6,5 m e alta quasi 13. Il tempio è costruito sopra un basamento alto 5 m e vi si accede per una scalinata di 33 gradini. In origine il peristilio era composto da 46 colonne, 15 su ogni lato lungo e 6 su quelli corti. L’aspetto piú rilevante dell’edificio è la sovrabbondante, fastosa decorazione a rilievo delle pareti e del soffitto della cella e del
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In basso le rovine di Baalbek in un acquerello di David Roberts, realizzato per l’opera The Holy Land, Syria, Idumea, Arabia, Egypt and Nubia, pubblicata a Londra tra il 1842 e il 1849.
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A destra veduta aerea degli edifici compresi nel santuario di Giove Eliopolitano.
gr an re d e ttang
torre quadrata
pia olazzal re e
piccola torre
cortile esagonale 3
peristilio, una decorazione che, in origine, doveva caratterizzare l’intero complesso eliopolitano. Il terzo tempio di Baalbek, situato un centinaio di metri a est dei santuari principali, detto «di Venere», è un grazioso edificio circolare dedicato alla dea Fortuna di Heliopolis. Il nome gli venne dato dai primi viaggiatori occidentali, perché alcune nicchie esterne dell’edificio erano decorate con motivi a conchiglia e a colombe, elementi generalmente associati con il culto, appunto, di Venere. All’avvento dell’Islam, il tempio di Giove e quello «di Bacco» vennero racchiusi da potenti fortificazioni, mentre il piccolo santuario circolare, posto ormai al di fuori dell’originario perimetro sacro, fu assorbito nell’impianto urbanistico medievale. Il tempietto, cosí come lo si può ammirare oggi, è stato interamente riesumato dagli scavi tedeschi che lo hanno liberato dalle case che, nei secoli, gli erano state costruite addosso.
1. tempio di giove eliopolitano
Eretto durante il I sec. d.C. sul luogo di un antico santuario semitico. Le sue dimensioni erano enormi (90 x 50 m) e il suo perimetro era segnato da 54 colonne di 20 m d’altezza.
2. il tempio minore detto «di bacco» Costruito verso la fine del II sec. d.C., l’edificio, anch’esso di dimensioni gigantesche, presenta – sulle pareti, sul soffitto della cella e del peristilio – una straordinaria decorazione scolpita.
3. propilei
Entrata monumentale al Santuario di Giove Eliopolitano, completata all’inizio del III sec. d.C.
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4. tempietto detto «di venere»
Innalzata nel III sec. d.C., la graziosa costruzione sorge al di fuori del recinto del santuario.
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«Ancora qualche scossa di terremoto e un paio di inverni particolarmente rigidi e anche le sei regali colonne giaceranno prostrate nella polvere. Beati allora quei viaggiatori cui sarà concesso di vedere Baalbek, anche nella sua attuale gloria in decadenza, prima che le implacabili forze della natura e la non meno implacabile mano dell’uomo ne avranno completata l’opera di distruzione» (Samuel Jessup, un missionario americano residente a Baalbek, 1881)
• rimase circondata dal mistero. Secondo una diffusa opinione popolare, l’origine dei monumenti era dovuta addirittura all’opera di giganti o di personaggi leggendari. Il geografo arabo della prima metà del XIV secolo, al’Umari, sosteneva, per esempio, che Baalbek fosse stata eretta nientemeno che dal biblico re Salomone, un’attribuzione prontamente ripresa dagli Europei che, nel XVI secolo, avevano riscoperto e iniziato a visitare il sito. Era già scoccato l’anno 1583, quando un nobile tedesco, il principe Nicola Radzivil, si chiedeva se le imponenti rovine fossero quelle del palazzo di Salomone menzionato dalla Bibbia nel I Libro dei Re (7, 2-7).
I primi resoconti Il primo tentativo di stilare un resoconto dettagliato dei resti monumentali venne però intrapreso dai già citati Robert Wood e James Dawkins, i quali giunsero a Baalbek nel 1751 muniti di un firmano (decreto, dal persiano farman, ordine, n.d.r.) del sultano e di una lettera di raccomandazione del pascià di Tripoli. I due iniziarono il loro lavoro prendendo misure e facendo disegni dei grandi monumenti. A quell’epoca erano ancora in piedi ben nove colonne del Tempio di Giove Eliopolitano. Quando, meno di
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quarant’anni dopo, arrivò a Baalbek lo storico e filosofo illuminista Constantin-François de Chasseboeuf conte di Volney (autore, tra altre opere, del Voyage en Egypte et en Syrie pendant les années 1783, 1784 et 1785), le colonne erano ridotte a sei. Le altre, molto probabilmente, erano cadute in seguito al violentissimo terremoto abbattutosi sulla regione nel 1759. Anche il piú piccolo dei due templi, quello detto «di Bacco», era stato fortemente danneggiato dal sisma; delle ventinove colonne ancora in piedi descritte da Wood e Dawkins, Volney ne contò solo venti. Inoltre, la pietra che, come un grande perno, fa da chiave di volta nell’architrave dell’ingresso al tempio, si era staccata ed era pericolosamente sospesa (oggi è stata nuovamente inserita al suo posto, al centro dell’architrave). Sempre secondo Volney, non erano però soltanto gli eventi naturali a distruggere Baalbek, ma anche l’avidità degli uomini, che avevano spogliato i monumenti delle grappe di metallo prezioso che per secoli avevano unito i blocchi di pietra. Sprovvisti di questi fondamentali elementi costruttivi, gli edifici divennero sensibili anche alla piú piccola scossa tellurica, capace di causare il distaccamento dei grandi blocchi scolpiti. Nel corso del XIX secolo furono numerosi i visitatori che si recarono
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In alto veduta della città con, in primo piano, sulla sinistra, il tempio detto «di Venere»: un edificio circolare dedicato alla dea Fortuna di Heliopolis. III sec. d.C. Nella pagina accanto bronzetto raffigurante Giove Eliopolitano, da Baalbek. Produzione fenicia, I sec. d.C. Parigi, Museo del Louvre.
a Baalbek, attratti dalla fama dei grandiosi monumenti che, ormai, si era diffusa negli ambienti colti del mondo occidentale. Tra i nomi piú illustri figurano quelli di Léon de Laborde, William Henry Bartlett e David Roberts. Quest’ultimo, artista famoso per i suoi disegni dei siti archeologici del Vicino Oriente, cosí descrisse il monumentale ingresso al tempio di Bacco: «Si tratta forse del piú elaborato manufatto – e il piú squisitamente curato nei suoi dettagli – di questo genere in tutto il mondo. La matita può restituire solo una vaga impressione della sua bellezza».
Un fondatore sconosciuto La storia di Baalbek (Heliopolis) inizia negli anni successivi alla morte di Alessandro Magno (323 a.C.), quando la regione dell’alta Beqaa divenne parte dei territori della dinastia tolemaica. Un sovrano locale, il cui nome è rimasto sconosciuto, costruí nel luogo dell’odierna Baalbek la sua capitale regionale, dal nome greco di Heliopolis, la «città del sole» (il toponimo semitico Baalbek non è attestato prima degli inizi del V secolo d.C., sebbene non si possa escludere una sua maggiore antichità). Nel 64 a.C. il luogo cadde sotto il controllo di Roma e, nel 15 a.C., la città divenne parte del territorio della Colonia Iulia Augusta Felix Berytus (l’odierna Beirut), con il compito di assicurare l’ordine nella nuova provincia romana di Siria Fenice (in seguito Baalbek
Forza, fertilità e giovinezza «È molto verosimile che a Baalbek non fu venerata una sola divintà, ma una triade divina. In linea con la tradizione cultuale del Vicino Oriente – che venera una divinità maschile (personificazione delle forze naturali), la sua consorte (una dea della fertilità) e un giovane dio – la presenza di questa triade è confermata anche, a Baalbek, da iscrizioni rinvenute su tre basi di colonne dei Propilei: si tratta di iscrizioni dedicatorie a Giove, Venere e Mercurio. Il culto della triade di Eliopoli si diffuse, a partire dal II secolo d.C., oltre i confini della Fenicia e della Siria e in tutto l’impero romano, specialmente dove erano di stanza guarnigioni siriane o negli empori raggiunti e frequentati dai mercanti di Beirut» (da Nina Jidejian, Baalbek Heliopolis. City of the Sun, Dar el-Machreq Publishers, Beirut 1975).
assurse a sua volta al rango di colonia, con il nome di Colonia Iulia Augusta Felix Heliopolis). Ed è a questo periodo che si può far risalire l’inizio dei lavori di costruzione del complesso, che si protrassero per oltre due secoli. Le fonti antiche non ci offrono molte informazioni sulla storia di Baalbek prima dell’arrivo dei Romani, salvo la nozione che il luogo era stato il centro di un culto dedicato al dio Baal-Hadad. Scavi archeologici svoltisi a Baalbek negli anni precedenti allo scoppio (segue a p. 127)
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quel che resta di baalbek Il disegno illustra la situazione attuale, con le parti tuttora conservate degli edifici compresi nel santuario della città.
tempio di giove eliopolitano
tempio di bacco 1
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LEGENDA 1. Tempio di Bacco, colonnato sud; 2. Tempio di Bacco, porta d’entrata; 3. Tempio di Bacco, cella; 4. Piazzale rettangolare; 5. Cortile esagonale
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A destra testa di Satiro a rilievo facente parte di una trabeazione, dalla Grande Corte. II sec. d.C. In basso il gocciolatoio in forma di testa di leone (vedi a p. 128) facente parte dell’apparato ornamentale del tempio di Giove.
della guerra civile, all’interno del grande cortile antistante il tempio di Giove Eliopolitano hanno portato in luce importanti tracce di età preromana. Fondazioni di case databili all’età del Bronzo Medio (1900-1600 a.C.) erano poste al di sopra di un livello ancora piú antico, riferibile all’età del Bronzo Antico (2900-2300 a.C.). Nel terreno, a breve distanza dai resti di questi antichissimi insediamenti, è stata scoperta una crepa naturale, profonda circa 50 m, sul fondo della quale si trova un piccolo altare scavato nella roccia. Si tratta di un luogo sacro di antichissima memoria che, in seguito,venne ampliato e munito di un cortile recintato: questo nuovo santuario era dedicato al culto di Baal-Hadad, la divinità semitica della pioggia e della tempesta. Proprio sopra a questo antichissimo luogo
Quando la Missione Archeologica Germanica iniziò le esplorazioni a Baalbek, tra il 1898 e il 1905, Otto Puchstein, uno degli scienziati che fece parte della spedizione, sostenne che il tempio era dedicato al dio Bacco: la decorazione scultorea dell’altare, infatti, raffigurava una processione dionisiaca, e il motivo dell’uva e della vite era presente ovunque sul fregio del tempio
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In questa pagina tempio di Bacco: il soffitto cassettonato del peristilio, e, in basso, un particolare della sua decorazione, con l’immagine di Igea, personificazione greca della salute, considerata come una figlia di Asclepio.
sacro sorse, in epoca romana, il gigantesco podio che ancora oggi sorregge i resti del grande tempio di Giove Eliopolitano. Il temine fenicio «Baal», corrispettivo dell’ebraico «Adon», significa semplicemente «signore» ed è il nome con il quale era designata la divinità celeste adorata in tutto il Vicino Oriente antico. Esso è menzionato anche nell’Antico Testamento in cui si fa riferimento al culto di Baal, diffusosi dalla città di Tiro anche nella terra di Israele, in seguito a matrimoni stipulati tra le casate reali dei due regni (I Libro dei Re 16,31-33; 18,19). Hadad, dispensatore di piogge o, se adirato, di siccità e inondazioni, era oggetto di un culto della fertilità della terra. I santuari eretti in suo onore erano ovunque.
Le statue nello scrigno Luciano di Samosata (II secolo d.C.) descrive il sacro scrigno all’interno del tempio di Heliopolis, la città sacra a sud di Karkemish, nella Siria settentrionale, in cui si veneravano Hadad e la dea Atargatis: «Nello scrigno – scrive Luciano – sono esposte le statue, una di esse è Hera (Atargatis), l’altra Zeus, anche se viene chiamato con un nome diverso. Entrambe le statue sono d’oro, entrambe
sedute. Hera è accompagnata da leoni, Zeus è assiso su tori». Come dio celeste, Hadad fu poi identificato con il dio-sole, assumendo, nel mondo greco-romano, il ruolo di Zeus e Giove. Ad Ambrosio Teodosio Macrobio, scrittore latino del V secolo d.C., dobbiamo l’unica testimonianza piú estesa e di un qualche rilievo a proposito del dio che, secondo appunto Macrobio, era chiamato Giove Eliopolitano: «La statua è d’oro – scrive – rappresenta una persona sbarbata che nella sua destra tiene
Una tecnica costruttiva sorprendente Tra le piú antiche testimonianze relative al santuario di Baalbek, vi è quella, preziosissima, lasciataci dal rabbino Beniamino di Tudela (1130 circa-1175 circa), il quale, dalla Spagna, si recò nel Vicino Oriente e vi soggiornò negli anni tra il 1160 e il 1173. Scrive il viaggiatore spagnolo: «Il palazzo [che gli abitanti dell’epoca sostenevano essere i resti della città di Balaath, costruita da Salomone per sua moglie, la figlia del faraone] è costruito con pietre di enormi dimensioni, che misurano venti spanne in lunghezza e dodici in larghezza; nessun materiale collante lega insieme queste pietre». Ciò che maggiormente stupí Beniamino di Tudela sorprende anche il visitatore di oggi: i grandi blocchi di pietra con i quali sono eretti i monumenti del santuario non sono legati da alcun tipo di malta o altro collante, ma semplicemente sovrapposti l’uno sull’altro e stretti da grappe di ferro o bronzo.
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A destra: la statua bronzea dell’auriga, uno dei simboli di Delfi. Grazie alla dedica, l’opera si data al 475 a.C. Delfi, Museo Archeologico.
una frusta, come un auriga, e nella sua sinistra un fulmine». Macrobio narra anche delle straordinarie doti divinatorie proprie del dio che risiedeva a Baalbek: in occasione di pubbliche cerimonie la statua aurea di Giove Eliopolitano veniva esposta alle masse convenute sull’acropoli. La fama dell’oracolo di Baalbek si diffuse in tutto l’impero. Quando Traiano attraversò la provincia della Siria nel corso della campagna militare contro i Parti, i suoi compagni lo convinsero a interrogare l’oracolo circa l’esito della spedizione.
La pergamena vuota Alcuni membri dell’ambiente intorno all’imperatore non si fidavano dei sacerdoti del tempio e, pertanto, misero alla prova l’oracolo: fecero inviare a Baalbek una pergamena sigillata e la richiesta che alla domanda in essa contenuta fosse risposto. Nello stupore generale, l’oracolo rispose ordinando che gli venisse portata una pergamena vuota e che questa venisse sigillata e rinviata all’imperatore. Traiano ne rimase molto
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In alto particolare di un gocciolatoio in forma di testa di leone, inserito nella decorazione che ornava il tempio di Giove (vedi anche a p. 126, in basso), e, sulla sinistra, il tempio di Bacco. Nella pagina accanto l’entrata del tempio di Bacco in una litografia acquerellata di David Roberts. Vi si può vedere la grande pietra centrale dell’architrave in procinto di crollare e che, in epoca moderna, è stata nuovamente inserita al suo posto.
impressionato, dal momento che anche lui, come prova, aveva inviato all’oracolo una pergamena sigillata ma… senza contenuto. Traiano inviò subito un secondo messaggio all’oracolo, chiedendo questa volta se egli sarebbe tornato vivo a Roma dopo la campagna contro i Parti. L’oracolo rispose inviando all’imperatore il bastone di un centurione, una delle offerte dedicatorie del tempio, rotto in piú pezzi e avvolto in un panno. Il sinistro presagio impressionò tutti e a buona ragione: per quanto Traiano riuscí a conquistare rapidamente l’Armenia e la Mesopotamia settentrionale, raggiungendo cosí il Golfo Persico, nel 116 d.C. i Parti sferrarono un micidiale contrattacco. Poco dopo l’imperatore si ammalò gravemente, abbandonò la campagna e tornò verso casa. Morí lungo il percorso a Selinus, in Cilicia, l’8 agosto del 117. Le sue ossa, come aveva vaticinato l’oracolo di Baalbek, furono portate a Roma. Proprio sopra a questo luogo sacro i Romani costruirono il gigantesco podio che ancora oggi sorregge i resti del grande tempio di Giove Eliopolitano.
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perchè è importante
•B aalbek (il cui nome in epoca romana era Eliopoli, da non
confondere con l’omonima città dell’Egitto) rappresenta uno dei piú estesi e meglio conservati complessi sacrali di tutto il mondo romano, anche se del suo principale santuario – quello dedicato a Giove Eliopolitano – rimangono solo sei colonne, alte 20 m, divenute il simbolo della cittadina nonché, insieme all’albero del cedro, di tutto il Libano. Nel 1984 il sito è stato dichiarato Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO.
•N otevolmente ben conservato è il secondo edificio
informazioni per la visita
•D alla capitale Beirut, la città di Baalbek dista circa 85 km
in direzione nord ed è raggiungibile in due/tre ore di automobile. La zona di Baalbek risente della situazione di instabilità che caratterizza questa zona del Vicino Oriente: sebbene la visita al sito archeologico e alla cittadina sia possibile senza alcun tipo di pericolo è consigliabile, tuttavia, viaggiare con una guida o con un gruppo organizzato. In ogni caso, è opportuno verificare l’eventuale vigenza di avvisi o restrizioni disposti dal Ministero degli Esteri sul sito www.viaggiaresicuri.it
templare, denominanto «di Bacco» per via degli elementi della sua ricchissima decorazione a rilievo. Un terzo tempio, di forma circolare, è impropriamente attribuito al culto di Venere.
• I l piú antico insediamento, situato all’interno dell’area
oggi occupata dal grande tempio di Giove, risale al Neolitico preceramico. Qui gli scavi archeologici hanno portato in luce strumenti litici e resti organici risalenti all’VIII millennio a.C. Il sito è stato abitato, quasi ininterrottamente, fino all’età ellenistica.
il sito nel mito
• L e notevoli dimensioni delle colonne e degli altri elementi
impiegati per la costruzione del complesso hanno, sin dal Medioevo, alimentato la leggenda che i monumenti fossero opera di giganti.
• I l nome preclassico «Baalbek» viene tradotto con «il
Signore della Sorgente», forse un riferimento alla presenza di una fonte che potrebbe essere alle origini stesse del santuario.
• La notevole continuità dell’importanza cultuale del
santuario è sottolineata anche dalle tre divinità – Giove, Venere e Mercurio – in esso venerate, e che rappresentano la versione «classica» del preesistente culto di una triade divina, tipico della tradizione religiosa del Vicino Oriente.
baalbek nei musei del mondo
•U n museo locale, inaugurato nel 1998 e che raccoglie
reperti restaurati o venuti in luce dagli scavi recenti, è allestito negli stessi criptoportici, perfettamente conservati, del tempio di Giove e all’interno di una fortificazione di età medievale situata nei pressi del santuario.
•A Parigi (Museo del Louvre) è conservata,
insieme a numerosi altri reperti, la celebre statua raffigurante Giove Eliopolitano (vedi a p. 122). Altri oggetti di età classica e medievale si trovano a Berlino (presso l’Antikensammlung e il Museo per l’Arte Islamica) e al Museo Archeologico dell’Università Americana di Beirut.
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monografie
n. 5 (Febbraio 2015) Registrazione al Tribunale di Milano n. 467 del 06/09/2007 Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Redazione: Piazza Sallustio, 24 - 00187 Roma Tel 02 21768.507 Collaboratori della redazione: Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Alessia Pozzato Gli autori: Andreas M. Steiner è direttore editoriale di «Archeo». Massimo Vidale è professore di archeologia delle produzioni all’Università degli Studi di Padova. Illustrazioni e immagini: Shutterstock: pp. 6-13 – Cippigraphix: cartina a p. 8 – Da p. 14 a p. 129 il corredo iconografico dell’opera è stato realizzato grazie alla documentazione redazionale della rivista «Archeo», e, in particolare, dai nn.: 325, marzo 2012 (pp. 40-57); 326, aprile 2012 (pp. 44-61); 328, giugno 2012 (pp. 52-67); 329, luglio 2012 (pp. 40-59); 335, gennaio 2013 (pp. 34-47); 336, febbraio 2013 (pp. 38-53); 352, giugno 2014 (pp. 42-55). Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Presidente: Pietro Boroli Amministratore delegato: Federico Curti Coordinatore editoriale: Alessandra Villa Segreteria marketing e pubblicità: segreteriacommerciale@mywaymedia.it tel. 02 21768.507 Direzione: via Ludovico d’Aragona 11, 20132 Milano tel. 02 21768 507 fax 02 21768 550 Sede legale e operativa: via Ludovico d’Aragona 11, 20132 Milano Distribuzione in Italia m-dis Distribuzione Media S.p.A. via Cazzaniga, 19 - 20132- Milano Tel 02 2582.1 Stampa NIIAG Spa Via Zanica, 92 - 24126 Bergamo Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: abbonamenti@directchannel.it Fax: 02 252007333 Posta: Direct Channel Srl Via Pindaro, 17 20128 Milano Informativa ai sensi dell’art. 13, D. lgs. 196/2003. I suoi dati saranno trattati, manualmente ed elettronicamente da My Way Media Srl – titolare del trattamento – al fine di gestire il Suo rapporto di abbonamento. Inoltre, solo se ha espresso il suo consenso all’ atto della sottoscrizione dell’abbonamento, My Way Media Srl potrà utilizzare i suoi dati per finalità di marketing, attività promozionali, offerte commerciali, analisi statistiche e ricerche di mercato. Responsabile del trattamento è: My Way Media Srl, via Ludovico d’Aragona, 11, 20132 Milano – la quale, appositamente autorizzata, si avvale di Direct Channel Srl, Via Pindaro 17, 20144 Milano. Le categorie di soggetti incaricati del trattamento dei dati per le finalità suddette sono gli addetti all’elaborazione dati, al confezionamento e spedizione del materiale editoriale e promozionale, al servizio di call center, alla gestione amministrativa degli abbonamenti ed alle transazioni e pagamenti connessi. Ai sensi dell’art. 7 d. lgs, 196/2003 potrà esercitare i relativi diritti, fra cui consultare, modificare, cancellare i suoi dati od opporsi al loro utilizzo per fini di comunicazione commerciale interattiva, rivolgendosi a My Way Media Srl. Al titolare potrà rivolgersi per ottenere l’elenco completo ed aggiornato dei responsabili.