N°13 Giugno 2016 Rivista Bimestrale
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ARCHEO MONOGRAFIE IL COLOSSEO
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MONOGRAFIE
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IL COLOSSEO
Biografia di un capolavoro
IL COLOSSEO Biografia di un capolavoro
di Luciano Frazzoni con la collaborazione di Lorella Cecilia, Stefano Mammini e Andreas M. Steiner
4. Presentazione
Il Colosseo, una nuova immagine interviste a Rossella Rea, Francesco Prosperetti e Diego Della Valle, a cura di Andreas M. Steiner
10. Le origini
Un modello di successo
20. La Valle del Colosseo Nella valle delle meraviglie
26. Gli anni dei Flavi 30. Il Colosso di Nerone
32. Storia del monumento I secoli di un simbolo
38. Chi ha finanziato il Colosseo? 42. A ciascuno il suo posto 45. Dai giochi ai funerali 62. Il monumento in miniatura
66. Tecnica e materiali Analisi di un capolavoro
74. Forse non tutti sanno che... 88. Le foto dell’epoca
94. Gli spettacoli
Gladiatori, fiere, sangue e violenza 100. Il Ludus Magnus 107. I gladiatori: classi e armamento 112. Miti da sfatare e aneddoti celebri 119. Frammenti di vita quotidiana 128. Il Colosseo come set
IL
COLOSSEO UNA NUOVA
IMMAGINE
Con questo numero monografico, «Archeo» rende omaggio a uno dei piú celebri edifici dell’antichità, l’Anfiteatro Flavio, meglio noto come il Colosseo. Nelle pagine che seguono, i lettori potranno ripercorrere la lunga storia del monumento, indagarne le complesse e formidabili tecniche di costruzione, assistere agli emozionanti spettacoli che vi si svolsero, immortalati nei racconti dei contemporanei e nelle infinite rappresentazioni scultoree e musive. L’occasione ci è offerta dal completamento della prima fase di una vasta e impegnativa operazione di restauro – avviata nell’ottobre del 2013 e resa possibile dal finanziamento messo a disposizione dal Gruppo Tod’s – che ha restituito all’anfiteatro la sua magnificenza originaria. Per quasi tre anni, la facciata esterna del Colosseo è stata ricoperta dai ponteggi che hanno permesso una minuziosa operazione di pulitura, realizzata quasi esclusivamente mediante l’applicazione di acqua nebulizzata, in grado di rimuovere i depositi e le incrostazioni senza intaccare la pietra e la sua patina antica. Oggi, dunque, il monumento si presenta ai visitatori di tutto il mondo con un’immagine nuova e, al contempo, antica. Ne abbiamo parlato con l’archeologa Rossella Rea, direttrice del Colosseo dal 2009 e che al grandioso edificio ha dedicato, per piú di trent’anni, ampia parte della sua attività professionale e scientifica. a cura di Andreas M. Steiner Dottoressa Rea, com’è cambiata la percezione del Colosseo – a livello nazionale ma anche internazionale – in questi anni? È cambiata moltissimo, e soprattutto nell’ultimo decennio. Pensi che, quando ho cominciato a lavorare nel Colosseo, nel 1985, l’ingresso era libero e il pubblico si contava in poche centinaia di visitatori al giorno. Tutto è cambiato verso la fine degli anni Novanta,
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quando le presenze iniziano a far registrare una decisa accelerazione, dovuta a molteplici ragioni, non ultima il successo del film Il Gladiatore (uscito nel maggio del 2000, n.d.r.), che ha esercitato un’influenza enorme sull’immaginario collettivo. Oggi il Colosseo è visitato giornalmente da circa 18 000 persone. Come ha risposto la Soprintendendenza a questa nuova richiesta?
Con una serie di iniziative che hanno aumentato «l’offerta culturale» del monumento: l’apertura di nuovi spazi visitabili – mi riferisco al terzo livello, ma anche a parte dei sotterranei –, l’allestimento di mostre temporanee e di un’esposizione permanente: oggi la visita al Colosseo non è solo un’occasione «contemplativa», ma rappresenta un’esperienza culturale vera e propria. Tra breve, inoltre, apriremo un nuovo percorso che consentirà di arrivare fino all’attico e godere, cosí, di una visione – davvero mozzafiato – dalla parte piú alta dell’anfiteatro su tutto l’interno dell’edificio.
Dal successo del «Gladiatore» alla visione di un «monumento libero» A sinistra uno scorcio del Colosseo dopo il restauro, che ha restituito le tonalità originarie ai materiali impiegati nella sua costruzione. In alto e in basso due immagini del cantiere di restauro.
Una nuova visione «dall’alto» che potrebbe affiancarsi a quella «dal basso», nell’ipotesi di una futura pavimentazione dell’arena… È un progetto al quale stiamo lavorando. Devo, però, ricordare ai lettori che il complesso dei sotterranei di questo anfiteatro, vera macchina scenica destinata ad allestire gli spettacoli imperiali, è assolutamente unico. Non esistono anfiteatri paragonabili al Colosseo, per quanto riguarda l’aspetto dell’apparato scenico. Si tratterà, dunque, di trovare una soluzione che non occulti la vista di questo straordinario sistema, ma che lo renda fruibile sia dall’esterno, sia dall’interno. Del resto, la possibilità di una visione dal basso – diciamo quella «dei gladiatori» – esiste già, grazie alla copertura parziale dell’arena nell’emisfero sud-est del Colosseo. Mentre mancava ancora quella «dei
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LE DATE DA RICORDARE 79-80 d.C. Dedica e inaugurazione dell’Anfiteatro Flavio sotto Tito. 217 Un grande incendio distrugge gran parte dell’anfiteatro.
523 Ultimo spettacolo di venatio nel Colosseo. Fine del V-inizi del VI secolo Definitivo interro degli ambienti sotterranei.
438 Abolizione dei combattimenti di gladiatori da parte di Valentiniano III.
Seconda metà del VI secolo-1796 Il Colosseo viene utilizzato come cava di materiali.
443 Un terremoto danneggia l’edificio (altri sismi negli anni 508, 801, 1349, 1703).
XII secolo Il Colosseo diventa fortezza dei Frangipane.
Il Colosseo attorniato dai visitatori: secondo i dati piú recenti, ogni anno il monumento fa registrare oltre 6 milioni di presenze.
plebei», che sedevano negli ultimi spalti, in alto, e che – come dicevamo – renderemo fruibile forse già a partire da questa estate. Che cosa augura al nostro monumento per i prossimi anni e decenni? A dispetto della sua nomea antica, il Colosseo non fu solo un luogo di sangue e combattimenti, in cui si consumava ogni sorta di violenze. Nei lunghi secoli successivi alla sua destinazione iniziale fu, invece, un luogo di vita e di lavoro, un universo dinamico, una vera «città nella città», come i lettori vedranno, sfogliando le pagine di questa monografia. Oggi il monumento è tornato a essere un luogo di grande «popolarità», in grado di offrire al visitatore una sorta di full immersion nel mondo antico. Una popolarità che assolutamente non gli nuoce: il Colosseo è una struttura enorme, robusta, capace di accogliere il pubblico anche in grande
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1501 Costruzione nell’arena della cappella di S. Maria della Pietà.
1806 Primo intervento di restauro al Colosseo (sperone Stern).
1742 Consacrazione dell’arena ai martiri cristiani, fine dell’uso indiscriminato del monumento.
1823-1826 Restauro di Giuseppe Valadier nel lato nord-ovest.
1750 Costruzione delle cappelle della Via Crucis.
2000 Parziale ricostruzione del piano dell’arena in occasione del Giubileo.
1805-1813 Vengono scoperti gli ambienti ipogei (scavi di Carlo Fea).
2016 Completamento del restauro della facciata esterna del Colosseo.
quantità. Per il futuro mi piace pensarlo come un monumento completamente vuoto, privo di ogni superfetazione, libero perfino dagli apparati didattici che pure oggi assolvono a una loro funzione importante: un monumento al quale si possa accedere da piú varchi – come nell’antichità – e in cui si possa circolare liberamente, magari con la sola compagnia di una guida cartacea o di uno smartphone. Per godere appieno e senza distrazioni di questa straordinaria, poderosa architettura, che deve essere, appunto, «vuota», libera… Un consiglio ai nostri lettori su quando visitare il Colosseo? Le condizioni ottimali – di luce e temperatura – si hanno nel pomeriggio, e nei mesi estivi sono addirittura preferibili le ore piú tarde. L’affollamento è minore – i gruppi si concentrano perlopiú nella mattina – e il Colosseo diventa luogo ideale per il visitatore singolo. Poi, naturalmente, ci sono le visite serali, che offrono uno «spettacolo» davvero meraviglioso …
Il Colosseo. Le prospettive per il futuro Parla il Soprintendente Francesco Prosperetti
Francesco Prosperetti ha assunto la guida della Soprintendenza Speciale per il Colosseo, il Museo Nazionale Romano e l’Area Archeologica di Roma nel marzo del 2015, quando erano già stati avviati i grandi lavori di restauro sponsorizzati dalla Tod’s. Negli stessi mesi era in corso la discussione intorno all’idea (proposta da Daniele Manacorda sulle pagine di «Archeo») di ricostruire l’arena del Colosseo. Un argomento che, insieme alla risistemazione della piazza antistante il celebre edificio e la realizzazione del nuovo centro servizi, saranno al centro delle prossime iniziative che riguardano il monumento. Ne abbiamo parlato con il Soprintendente… La proposta di riportare il Colosseo a una condizione di godibilità dello spazio che possa, in una qualche maniera, ricordare la condizione originaria – esordisce l’architetto Prosperetti – è certamente un
argomento affascinante. Esiste, però, una forte percezione delle problematiche tecniche, davvero enormi, da affrontare: ricordiamo, innanzitutto, che non disponiamo di una vera documentazione iconografica dell’aspetto reale dell’arena in età antica. L’unica cosa che sappiamo con certezza è come non era. Non era, infatti, una semplice spianata di terreno, ma qualcosa di molto piú complesso: basta considerare le tracce dei sessanta ascensori che servivano a portare in scena – dai sotterranei – gladiatori, fiere e scenografie, mediante un sistema efficiente e veloce di «cambi di scena». Tutto ciò fa pensare a un sistema complesso e dinamico, piú simile a un palcoscenico che non a una semplice arena. Cosa ne sarà, dunque, della proposta di ripavimentazione? Imposteremo il lavoro futuro della ricostruzione su una rigorosa analisi scientifica – tettonica, storica, archeologica, tecnologica – delle testimonianze che della struttura dell’arena sono arrivate fino a noi. Un esame molto attento dovrà, inoltre, riguardare le conseguenze che possono derivare da una simile ricostruzione. Ho voluto scartare l’ipotesi iniziale di una struttura che si rendesse indipendente dal sottostante complesso delle mura con una propria serie di appoggi, per procedere, invece, secondo la seguente tabella di marcia: tra breve bandiremo una gara per il risanamento idraulico, statico e funzionale degli ipogei del Colosseo, predisponendoli alla funzione di sostegno della «nuova» arena. Quale, però, sarà il suo aspetto ultimo, non saremo noi a stabilirlo. Lo deciderà un concorso internazionale, che sarà avviato in parallelo all’avanzamento delle conoscenze che emergeranno dai lavori di risanamento e di indagine degli ipogei. Indagini che ci consentiranno, da un lato, di capire come e dove questa nuova struttura potrà appoggiare, ma, soprattutto, riveleranno informazioni fondamentali per stabilire come essa dovrà rapportarsi all’antico. Sin da ora, possiamo dire che la nuova arena, quale che sarà il suo aspetto, non avrà un rapporto «mimetico» rispetto al suo contesto.
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Non potrà fingere di essere qualcosa che – come già ricordato – nemmeno sappiamo esattamente cosa fosse. È nostro compito, invece, offrire agli studiosi che parteciperanno al concorso la possibilità di progettare, in veste contemporanea, un insieme che potrebbe presentarsi come mobile e dinamico, addirittura mutevole. Perché non pensare, allora, a qualcosa che possa, all’occorrenza, trasformarsi in un palcoscenico a diverse quote, con un’area che possa anche ospitare il pubblico stesso? Il programma di restauro, previsto dalla sponsorizzazione di Diego Della Valle, non si limita alla pulitura della superfice appena terminata… Contiamo di proseguire il rapporto, rivelatosi di piena soddisfazione, con la Tod’s di Diego Della Valle per completare la pulitura interna degli ambulacri del pianterreno e del primo piano. Per quanto riguarda, invece, la parte interna dell’attico, è in programma un intervento finanziato dalla Metropolitana di Roma. Si tratta di un lavoro urgentissimo, anche in vista dei lavori per il nuovo tratto della metropolitana (il cui tracciato, per quanto in profondità, corre molto vicino ai monumenti dell’area archeologica centrale, n.d.r.), lavori che non potranno procedere se prima Ancora un’immagine dell’intervento di restauro, che ha costituito anche un’importante occasione di approfondimento delle conoscenze sulla struttura del Colosseo.
non si è provveduto alla messa in sicurezza di questa parte del monumento. C’è poi il problema della piazza antistante il Colosseo, un’area ampia e quasi sempre occupata dalle code dei turisti che si accingono a visitare il monumento… L’enorme afflusso di pubblico – attualmente contiamo 6,5 milioni di visitatori l’anno – e che si preannuncia ancora in crescita, ci impone di ripensare l’organizzazione di questo spazio. La piazza è diventata il luogo piú visitato di Roma, con circa 30 000 persone che vi transitano quotidianamente. La questione verrà risolta attraverso la progressiva pedonalizzazione di tutta l’area intorno al Colosseo: un primo intervento in questo senso – e la cui realizzazione considero urgente da parte dell’amministrazione comunale – riguarda la zona tra la parete nord del monumento e l’uscita della metropolitana. Inoltre, per ridurre le file dei visitatori, stiamo lavorando a un progetto che prevede un nuovo accesso, situato nella parte opposta rispetto a quello odierno, sul lato del Ludus Magnus. In questo modo, la piazza sarà libera (e non solo da bancarelle e camion-bar, che prima del provvidenziale intervento del sindaco Marino avevano pesantemente contribuito alla pessima immagine del luogo!) e potrà, finalmente, presentarsi come uno spazio aperto e gradevole. Rimane ancora da chiarire la questione del centro servizi, attualmente inesistente, ma che rappresenta un elemento indispensabile per un monumento come il Colosseo… Il centro verrà costruito sottoterra, nel tratto di via dei Fori Imperiali in corrispondenza della stazione metropolitana, in un’area archeologicamente sterile, corrispondente all’impronta della Velia (l’antica collina posta tra Oppio e Palatino, rimossa durante le trasformazioni urbanistiche degli anni Trenta del secolo scorso, n.d.r.). Sarà unicamente un centro di accoglienza e di informazioni, mentre la biglietteria, i servizi igienici e un punto di ristoro sorgeranno in una struttura separata, costruita sul lato opposto del Colosseo, tra l’aiola sotto il Clivo di Celio Vibenna e l’altro, grande monumento che adorna la piazza del Colosseo, l’Arco di Costantino.
Incontro con Diego Della Valle, presidente di Tod’s e sponsor dei lavori di restauro del Colosseo Il lato nord del Colosseo durante il restauro.
Dottor Della Valle, l’operazione Colosseo, una prima parte del grande progetto di restauro del monumento simbolo della civiltà di Roma si è conclusa in questi giorni, grazie alla collaborazione tra la Soprintendenza e il suo gruppo che, con un contributo di 25 milioni di euro, ne ha reso possibile l’attuazione. Il risultato è, oggi, sotto gli occhi di tutti. Qual è il suo personale bilancio di questi due anni e mezzo di lavori? Quando ho saputo che era stata avviata la ricerca di uno sponsor per il restauro non ho potuto fare a meno di pensarci e di farmi avanti. È un privilegio e un onore, per me e la mia famiglia, aver contribuito al recupero di uno dei monumenti piú belli e importanti al mondo. Oggi restituiamo al godimento di tutti un’opera d’arte meravigliosa, simbolo dell’Italia. Quali sono stati (se ci sono stati) i principali ostacoli a questa nuova forma di collaborazione tra pubblico e privato? Qualche difficoltà è insorta solo per una serie di ritardi, dovuti a problemi relativi a ricorsi. L’importante è che i lavori siano andati avanti nei tempi prestabiliti: come pianificato, infatti, oggi il Colosseo viene presentato nella sua «nuova veste» al pubblico internazionale. È il frutto del lavoro di grandi professionisti: per fortuna, in Italia possiamo contare su molte persone competenti.
Tod’s ha in programma altri interventi di questo tipo in futuro? Lo dico da tempo, l’arte e la cultura italiana sono le risorse piú importanti che abbiamo per rilanciare la nostra economia… Il governo dovrebbe supportare questo genere d’iniziative, favorendo anche imprenditori esteri nel sostegno della cultura italiana. Come Tod’s siamo anche soci della Fondazione Teatro alla Scala di Milano, un’altra eccellenza che ci rende orgogliosi di essere italiani. Secondo Lei sarebbe possibile, dunque, estendere la formula appena sperimentata con il Colosseo anche ad altri complessi storico-monumentali del nostro Paese? Quali sono le sue considerazioni a questo proposito? Conosco molti imprenditori che sarebbero disposti a fare molto in questo senso nel nostro Paese. Dobbiamo solo incoraggiarli con norme e procedimenti burocratici consoni a iniziative di questo genere. L’Italia è un Paese meraviglioso, dobbiamo parlare delle cose che funzionano e dar voce alle persone che ogni giorno contribuiscono positivamente alla crescita e allo sviluppo della nostra reputazione nel mondo.
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LE ORIGINI
Pompei. Veduta aerea dell’anfiteatro, il piú antico costruito in muratura a noi pervenuto. 70 (o 65) a.C. Addossato a un terrapieno, l’edificio è a struttura piena.
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UN MODELLO DI SUCCESSO Quell’invenzione campana che divenne il simbolo di Roma
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LE ORIGINI
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spressione esclusiva dell’architettura romana e senza precedenti nel mondo antico, l’anfiteatro nasce in Campania al tempo di Silla (fine del II-inizi del I secolo a.C.). Strutturalmente, questa classe di edifici si può dividere in due gruppi: a struttura piena e a struttura cava. I primi sfruttano il banco roccioso naturale nel quale vengono scavate la cavea e le gradinate; esempi di questo tipo sono l’anfiteatro di Sutri (40-30 a.C.), interamente ricavato in una collinetta di tufo, e quello di Leptis Magna in Tripolitania; altri, come quelli di Carmona, in Spagna, Cagliari e Treviri, in Germania, si addossano solo parzialmente alla roccia. Gli anfiteatri a struttura piena sono in genere edificati su un terrapieno; ne è un esempio quello di Pompei, il piú antico interamente costruito in muratura a noi pervenuto, offerto alla città da C. Quintus Valgus e M. Porcius, nel 70 o 65 a.C. Nell’iscrizione dedicatoria, l’edificio è definito spectacula, termine che
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allora designava questo tipo di monumenti. Altri esempi di anfiteatri a struttura piena si trovano a Mérida, in Spagna, a Siracusa, a Sabratha, Cartagine, El Djem e in Britannia.
Il primo teatro in muratura Gli edifici per spettacoli a struttura cava, che hanno il vantaggio di poter essere realizzati su qualunque tipo di terreno e permettono un maggiore sviluppo in altezza, trovano il loro primo esempio nel teatro fatto costruire nel 55 a.C. da Pompeo a Roma, che fu anche il primo realizzato interamente in muratura. Pompeo riuscí ad aggirare il divieto di costruire edifici stabili per spettacoli in città, ponendo sulla sommità delle gradinate il tempio di Venere Genitrice e dunque facendo figurare il teatro come una monumentale gradinata di accesso all’edificio sacro. A differenza dei teatri greci, la cui cavea poggia su un pendio naturale, il teatro di Pompeo consiste in una struttura le cui gradinate sono sostenute da
In alto disegno ricostruttivo del Teatro di Pompeo (55 a.C.), primo edificio per spettacoli costruito interamente in muratura, a struttura cava. Tale modello architettonico fu adottato anche per gli anfiteatri.
In basso disegno ricostruttivo dell’anfiteatro di Sutri, nel Viterbese (40-30 a.C.), uno degli esempi migliori tra quelli a struttura piena: le gradinate e la cavea sono interamente scavate nel banco tufaceo.
gallerie radiali, coperte da volte a botte. Una soluzione poi adottata da tutti i grandi edifici per spettacoli. Resti di anfiteatri interamente in muratura si trovano a Capua, Literno, Cuma (fine del II secolo a.C.), Pozzuoli e Telese (prima metà del I secolo a.C.).
Ai quattro angoli dell’impero (o quasi) A struttura cava è anche l’anfiteatro di Aosta (post 25 a.C.); nella Gallia Narbonensis, molte città furono dotate di anfiteatri monumentali: Arles, Nîmes (entrambi di età flavia, forse opera degli stessi architetti), Fréjus, Orange. Nella penisola iberica si può citare l’imponente anfiteatro di Italica (città d’origine di Traiano e Adriano), mentre in Africa quelli di Cartagine e
di El Djem. Quest’ultimo, datato tra il 230 e il 250 d.C., sostituisce il precedente a struttura piena, a cui si è poc’anzi accennato, ed è l’unico anfiteatro romano interamente in pietra calcarea. Nelle province orientali invece, gli anfiteatri non sono molto diffusi, poiché spesso si preferiva adattare l’orchestra dei teatri con strutture provvisorie, cosí da potervi svolgere gli spettacoli. In Gallia (per esempio a Grand, nella Gallia Belgica e a Lutetia Parisiorum, l’odierna Parigi), in Britannia, a Verulamium, a Lixus, nella Mauretania Tingitana, sono attestati edifici «misti», detti anche «anfiteatri a scena», «semi-anfiteatri» o «anfiteatri-teatri», costruiti tra il I e il II secolo d.C. Hanno dimensioni
LE ORIGINI
In alto la pianta del teatro e del portico di Pompeo, dalla Forma Urbis di Rodolfo Lanciani. 1893-1901. Nella pagina accanto statua rinvenuta nei pressi del Teatro di Pompeo, erroneamente identificata con un ritratto di Pompeo Magno. I sec. a.C. Roma, Galleria Spada. Secondo alcune fonti, sotto la scultura, probabilmente collocata nel portico antistante il Teatro di Pompeo, sarebbe stato ucciso Giulio Cesare.
modeste, con una pianta che si avvicina all’ellissi o con l’arena piú simile alla scena dei teatri, e la loro vicinanza a edifici di culto di tradizione celtica ha suggerito che potessero ospitare giochi di carattere religioso. Nelle province, l’anfiteatro è generalmente collocato alla periferia della città o all’esterno delle mura. Tale scelta era dettata da molteplici fattori: per la gran massa di spettatori richiamata dagli spettacoli; per il pericolo rappresentato dagli animali utilizzati nelle venationes (plurale di venatio, letteralmente caccia; per la descrizione, vedi il capitolo sugli spettacoli, alle pp. 94-129); per la necessità di avere un’area libera intorno all’edificio per il trasporto degli animali e delle attrezzature.
Cave a cielo aperto Come è accaduto per il Colosseo, molti di questi anfiteatri, dopo il loro abbandono, sono stati sfruttati come cave di materiali di reimpiego e, spesso, trasformati anche in abitati fortificati, con abitazioni ricavate nella facciata, nella cavea e nell’arena; né sono
mancati i casi in cui vi si impiantarono chiese (come nell’anfiteatro di Tarragona) o cimiteri, una funzione, quest’ultima, indotta dalla loro posizione periferica. Nella prima metà del I secolo a.C., a Roma, gli spettacoli gladiatori si svolgevano ancora in strutture interamente lignee, oppure nel Circo Massimo. Il termine amphitheatrum (attestato per la prima volta in un’iscrizione di età augustea da Lucera e derivante dal greco amphitheatron,«costruzione che ha i posti tutt’intorno per guardare») nasce probabilmente proprio nell’Urbe, intorno alla metà del I secolo a.C. Plinio il Vecchio (N.H. XXXVI, 116-120) racconta che Gaio Scribonio Curione, per i giochi funebri in onore del padre, nel 53-52 a.C. fece costruire due teatri in legno contrapposti, collegati tra loro da cardini girevoli. Lo spettacolo mattutino si svolgeva nei due edifici, orientati in direzione opposta, per evitare disturbi reciproci. Poi, facendoli ruotare, questi venivano congiunti, cosí da ottenere un anfiteatro, che nel pomeriggio ospitava i giochi gladiatori.
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LE ORIGINI
Scontro mortale
Lastra campana in terracotta raffigurante un combattimento fra gladiatori e belve. Prima metĂ del I sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo. Dalla costruzione sulla sinistra, due spettatori (o giudici) assistono allo scontro. Al centro, la struttura architravata su cui sono poggiate sette uova permette di collocare la scena nel Circo Massimo.
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L’evento, probabilmente, non tenne a battesimo solo il termine amphitheatrum, inteso appunto come doppio teatro, ma anche il primo edificio di questo genere a Roma. Tale soluzione fece esclamare a Plinio come in quel caso il popolo romano fosse diventato un gladiatore ingaggiato in un gioco ancor piú rischioso degli stessi combattimenti dell’arena, poiché venne fatto ruotare rimanendo sospeso in aria (sembra, infatti, che la rotazione dei due teatri lignei avvenisse con gli spettatori
ancora seduti sugli spalti): «A volerlo riconoscere, fu tutto il popolo romano che combattè nell’arena per la propria vita, ai giochi funebri per il padre di Curione».
Sulle due pagine l’anfiteatro di Capua (oggi Santa Maria Capua Vetere). Secondo per dimensioni solo al Colosseo, di cui probabilmente costituí il modello, è uno dei piú antichi esempi di edificio interamente in
muratura: sorse infatti alla metà del I sec. a.C. L’aspetto attuale è però quello conferito al monumento dai restauri effettuati da Adriano, tra il I e il II sec. d.C. Vi aveva sede una famosa scuola di gladiatori.
Per celebrare i defunti In origine, i giochi gladiatori venivano dunque organizzati in onore di importanti personaggi defunti. Se i combattimenti si svolgevano inizialmente in spazi aperti, forse delimitati da una palizzata e dotati di un palco in legno,
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LE ORIGINI
perlopiú nel Foro o in edifici lignei piú complessi, il primo anfiteatro in muratura a Roma fu quello fatto costruire da Statilio Tauro nel Campo Marzio, inaugurato nel 29 a.C. e andato distrutto nel grande incendio neroniano del 64 d.C. Secondo Filippo Coarelli, doveva trovarsi nel luogo in cui sorgeva il Circo Flaminio, da localizzare attualmente presso il Monte dei Cenci, una collina artificiale formatasi sulle strutture di un edificio antico. L’anfiteatro di Statilio doveva avere dimensioni limitate e pertanto gli spettacoli venivano spesso organizzati in altri luoghi. Sotto Tiberio, per esempio, nel 27 d.C., un imprenditore poco scrupoloso realizzò a Fidene un anfiteatro di legno che, a causa di difetti di costruzione, crollò sotto il peso degli spettatori accorsi da Roma, provocando piú di 20 000 morti e 30 000 feriti, secondo i racconti di In alto uno scorcio dell’anfiteatro romano di Arles. Sulla sinistra, svetta una delle torri aggiunte nel Medioevo, quando l’edificio venne trasformato in una cittadella fortificata.
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Tacito e di Svetonio. Caligola (37-41 d.C.) avviò quindi la costruzione di un altro anfiteatro in muratura presso i Saepta Iulia, nel Campo Marzio – dove già Augusto aveva offerto due spettacoli, nel 7 e nel 2 a.C. –, ma l’impresa venne abbandonata dal suo successore Claudio (41-54 d.C.). Nel 57 d.C., Nerone fece costruire, sempre nel Campo Marzio, un grande edificio interamente in legno, che ospitò naumachie con mostri marini, un munus e una venatio (per la descrizione, vedi il capitolo sugli spettacoli, alle pp. 94-129).
La fuga degli elefanti Prima della costruzione dell’Anfiteatro Flavio, anche le venationes si svolgevano prevalentemente nel Circo Massimo, come testimoniano alcuni rilievi e le fonti letterarie. Nel 55 a.C., per esempio, al tempo di Pompeo,
durante una di queste cacce, venti elefanti fuggirono, abbattendo le sbarre di ferro intorno alla pista e ferendo molti spettatori. In seguito a questo episodio, Giulio Cesare, nel 49 a.C., in occasione di uno spettacolo simile da lui offerto – in cui si scontrarono due schiere con 20 elefanti, 500 fanti e 30 cavalieri –, fece circondare l’arena da un fossato (poi eliminato da Nerone per aggiungere posti per i cavalieri) e demolire le mete, cosí da ricavare piú spazio di manovra (Plinio, N.H. VIII, 21-22; Svetonio, Cesare, XXXIX). Spettacoli di cacce alle belve si tennero sotto Augusto sempre nel Circo Massimo, nel Circo Flaminio in Campo Marzio – dove la pista fu allagata per farvi entrare dei coccodrilli –, nel Foro Romano e anche nel Foro di Augusto, quando il Circo Massimo era stato reso impraticabile da un’inondazione del Tevere (Dione Cassio, LV-LVI). In basso, sulle due pagine l’anfiteatro di Nîmes, forse opera dello stesso architetto che realizzò quello di Arles. Si calcola che i suoi 34 ordini di gradinate potessero accogliere oltre 20 000 spettatori.
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Castello di Versailles, Sala di Apollo. Vespasiano fa costruire il Colosseo, dipinto di Charles de La Fosse. 1679.
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NELLAVALLE DELLE
MERAVIGLIE
Dalla «casa d’oro» di Nerone al piú grande edificio per spettacoli dell’impero | COLOSSEO | 21 |
LA VALLE DEL COLOSSEO
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rima di prendere nome dal Colosseo, la valle delimitata dalle alture tufacee dei colli Fagutale, Oppio, Velia, Palatino e Celio fu occupata, nel settore occidentale, da abitati risalenti all’età del Ferro (IX-VIII secolo a.C.). In questo periodo la zona era segnata da corsi d’acqua che, dalle colline circostanti, confluivano a valle nel fosso Labicano, per poi proseguire verso l’area in seguito occupata dal Circo Massimo e da qui nel Tevere; lungo di essi, si impiantarono due strade, una con andamento nord-sud, che si snodava in direzione dell’Esquilino, deviando verso la Velia (corrispondente all’attuale via di San Gregorio), l’altra con andamento est-ovest che, dipartendosi dalla precedente, si dirigeva verso il Palatino e raggiungeva la zona in cui poi si snodò la Sacra Via e si svilupparono i
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monumenti del Foro Romano. A partire dal VI secolo a.C., quest’area acquitrinosa venne bonificata, i corsi d’acqua furono canalizzati e le due strade fatte correre al di sopra di questi ultimi. La loro biforcazione doveva trovarsi in un punto compreso nella zona dove in seguito furono innalzati dapprima la Meta Sudans e poi l’Arco di Costantino. Qui recenti indagini hanno rivelato la presenza di un muro, probabilmente un recinto pertinente a un’area sacra, che dal VI secolo a.C. ha avuto una continuità di culto fino all’incendio neroniano del 64 d.C.
Alle pendici del Palatino Secondo l’ipotesi di Clementina Panella, questo santuario presso le pendici del Palatino, posto lungo i percorsi delle processioni trionfali – che effettuavano il giro completo del pomerio
Ricostruzione della Domus Aurea, la sfarzosa residenza privata di Nerone (54-68 d.C.) che occupava l’intera Valle del Colosseo (sulla sinistra) e parte del Colle Oppio (a destra).
primitivo, il limite giuridico-sacrale della città fondata da Romolo – e che le fonti collocano per ima montis Palatini (Tacito, Annali, 12,24; Gellio, Notti Attiche, 13, 14, 2), potrebbe corrispondere alle Curiae Veteres, sede politico-religiosa dei cittadini divisi in curie da Romolo, e uno dei vertici del pomerio. In età tardo-repubblicana (II-I secolo a.C.), la valle del Colosseo venne ampiamente urbanizzata, popolandosi di domus e insulae, mentre in età augustea – sui due assi stradali Circo Massimo/Esquilino e Palatino/Foro –, si innestarono altrettante strade, una sul prolungamento dell’attuale via dei Santi Quattro (forse la via Tusculana), l’altra che, da Porta Capena (oggi scomparsa e situata in corrispondenza dell’omonima piazza, a ridosso del lato curvo del Circo Massimo, n.d.r.)
giungeva nella valle, percorrendo la pendice occidentale del Celio. Il punto di incrocio di queste quattro arterie (il cui impianto potrebbe essere anche precedente all’intervento augusteo), che fu occupato in epoca flavia dalla Meta Sudans, segnava il confine di quattro (o cinque) delle regioni in cui Augusto divise la città nel 7 a.C., cioè la II, la III, la IV, la X e, forse, la I. La fontana monumentale della Meta Sudans ricalcava forse un monumento analogo, distrutto dall’incendio neroniano.
Una casa grande come una città Tale evento, nel 64 d.C., devastò l’intero quartiere, segnando una cesura rispetto ai periodi precedenti nella destinazione d’uso dell’intera valle. Dopo lo sgombero delle macerie degli edifici bruciati e il recupero dei
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materiali (le fonti antiche riportano che Nerone utilizzò addirittura macchine belliche per abbattere le costruzioni superstiti e liberare l’intera area), lo spazio urbano, divenuto privo di dimore venne occupato dalla residenza esclusiva dell’imperatore, la Domus Aurea, di cui Svetonio fornisce una precisa immagine: «L’ampiezza della casa era tale, da includere tre portici miliari e uno stagno, anzi piuttosto un mare, circondato da edifici grandi come città. Alle spalle, ville con campi, vigneti e pascoli, boschi pieni di ogni specie di animali domestici e selvatici» (Nerone, 31). Anche le strade che attraversavano la valle
Una «casa» grande come una città
La Valle del Colosseo all’epoca in cui era occupata dalla Domus Aurea di Nerone. Da sinistra, si succedono il grande bacino artificiale (stagnum), definito da Svetonio «quasi un mare», e il
grande vestibolo-atrio della residenza, nel quale era collocata la statua colossale di Nerone come dio Sole, realizzata da Zenodoro.
A sinistra planimetria generale della Domus Aurea.
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vennero modificate in funzione di «servizio» o di ingressi monumentali della fastosa dimora: quella che congiungeva il Circo Massimo e l’Esquilino divenne un semplice raccordo tra i vari corpi di fabbrica della Domus, forse con una porta monumentale, configurandosi come una via tecta (coperta) in direzione del suo vestibolo-atrio; quella che dalla valle portava alla Sacra Via, venne rettificata e delimitata da due file di portici, fino al luogo in cui, piú tardi, fu innalzato l’Arco di Tito; le altre due strade vennero invece eliminate. Nell’area occidentale, oggi occupata dal Tempio di Venere e Roma, era stato ricavato il vestibolo-atrio della residenza, nel quale era collocata anche la statua colossale di Nerone come dio Sole (vedi box alle pp. 30-31); da qui una serie di edifici terrazzati degradava verso il grande stagno fatto scavare dal principe, di forma quadrangolare e circondato da portici su tre lati. A differenza di quanto ritenuto in passato, gli scavi hanno dimostrato che lo
specchio d’acqua fu creato artificialmente, scavando fino ai depositi alluvionali naturali della valle, che garantivano l’impermeabilità del bacino. Si suppone che la sua profondità oscillasse tra i 4 e i 6 m, mentre la sua superficie doveva essere pari a circa tre ettari e mezzo (quella poi occupata dal Colosseo è di circa mezzo ettaro): ecco perché Svetonio lo definisce «quasi un mare». L’invaso era alimentato dall’acquedotto Claudio, attraverso il ninfeo posto sul Celio, che sfruttava le sostruzioni del Tempio del Divo Claudio (le cui grandi nicchie sono ancora visibili su via Claudia). Unica traccia dello stagno è oggi una profonda fogna lungo il versante sud-est della valle, con andamento ad angolo retto.
Il giardino e poi le caserme La parte orientale della valle, attualmente compresa tra via Labicana, via di San Giovanni in Laterano, via Capo d’Africa e via dei Santi Quattro Coronati, era destinata a giardino della Domus Aurea. Qui vennero poi costruiti, probabilmente sotto Domiziano, tutti gli edifici di supporto all’anfiteatro, cioè le caserme dei gladiatori, l’obitorio, l’ospedale, la caserma dei
La valle torna ai Romani
La Valle del Colosseo cosí come si presentava nei secoli successivi alla demolizione della residenza neroniana: ai Flavi si deve la costruzione del Colosseo e della Meta Sudans, mentre il grandioso
Tempio di Venere e Roma, che sorse nell’area del vestibolo-atrio della «casa d’oro» di Nerone, fu innalzato al tempo di Adriano.
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Gli anni dei Flavi 9 d.C. Il 17 novembre Tito Flavio Vespasiano nasce a Falacrinae (Sabina) da una famiglia di rango equestre. 39 d.C. Il 10 dicembre nasce a Roma Tito Flavio Vespasiano, figlio maggiore di Vespasiano. 43-47 d.C. Vespasiano è legatus legionis Augustae in Britannia. 51 d.C. Vespasiano ricopre la carica di console. 51 d.C. Il 17 novembre nasce a Roma Tito Flavio Domiziano, figlio minore di Vespasiano. 61-63 d.C. Tito è tribuno militare in Britannia e in Germania. 62 d.C. Vespasiano ottiene il proconsolato d’Africa. 64 d.C. Grande incendio di Roma. 66 d.C. Viaggio di Nerone in Grecia. Vespasiano è al seguito dell’imperatore ed è incaricato di sedare la rivolta in Giudea.
67 d.C. Vespasiano conquista la Galilaea, catturando Flavio Giuseppe, che comandava il contingente nemico. Tito è con il padre in qualità di legatus legionis XV Apollinaris.
70 d.C. Vespasiano giunge a Roma. Tito conquista Gerusalemme e distrugge il Tempio. In Gallia scoppia la rivolta di Giulio Civile, sedata dall’esercito imperiale.
68 d.C. Vespasiano conquista la Peraea. Il 6 giugno Nerone si suicida e Servio Sulpicio Galba, governatore della Hispania Tarraconensis, viene proclamato imperatore dai pretoriani.
71 d.C. Vespasiano e Tito celebrano il trionfo congiunto per la vittoria giudaica.
69 d.C. A gennaio, Marco Salvio Otone, governatore della Lusitania, fa uccidere Galba dai pretoriani ed è proclamato imperatore dal Senato, mentre le legioni germaniche acclamano imperatore Aulo Vitellio Germanico, governatore della Germania Inferior. Ad aprile, Otone e Vitellio si scontrano a Bedriacum. Otone è sconfitto e muore suicida. In luglio, Vespasiano è acclamato imperatore dalle legioni d’Oriente. A dicembre, Vitellio è ucciso dai pretoriani a Roma. Il Senato proclama imperatore Vespasiano.
marinai di Miseno addetti a manovrare il velario, e il summum choragium, cioè il magazzino per le armi e le macchine sceniche destinate agli spettacoli. Prima di questo intervento, i macchinari del Colosseo venivano custoditi nel vestibolo neroniano e, anche dopo la costruzione del choragium, l’architetto Apollodoro di Damasco propose all’imperatore Adriano – che gli aveva fatto vedere il progetto del Tempio di Venere e Roma (costruito proprio dove era il vestibolo) – di sfruttare il suo alto basamento per alloggiarvi le macchine anfiteatrali, chiamate pegmata (Cassio Dione, 69,4,3.4). Una loro descrizione si legge nelle Metamorfosi (4,13) di Apuleio: «Macchine montate su pali, torri di solido tavolato
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73-74 d.C. Vespasiano e Tito rivestono la censura. 74 d.C. Ultimi focolai di resistenza in Giudea. Assedio e distruzione di Masada. 75 d.C. Termine dei lavori di costruzione del Templum Pacis a Roma. 79 d.C. Il 23 giugno Vespasiano muore a Reate. Gli succede il figlio Tito. Poco piú tardi, l’eruzione del Vesuvio distrugge Pompei ed Ercolano. 80 d.C. Un incendio sconvolge Roma, devastando il Campo Marzio, il Campidoglio e parte del Foro. Inaugurazione dell’Anfiteatro Flavio.
Nella pagina accanto, da sinistra ritratti di Tito (79-81 d.C.), Vespasiano (69-79 d.C.) e Domiziano (81-96 d.C.). I primi due busti sono conservati presso i Musei Capitolini di Roma, mentre il terzo si trova a Napoli, nel Museo Archeologico Nazionale.
81 d.C. Il 13 settembre Tito muore a Roma. Gli succede il fratello Domiziano. 83 d.C. Vittoria romana al Mons Grapius, in Britannia. Ritiro delle truppe dalla Scozia. 83 d.C. Fallisce la prima congiura ai danni di Domiziano. 83-85 d.C. Campagne militari negli Agri Decumates (una regione della Germania). 85 d.C. Domiziano assume la carica di censore a vita. 85-89 d.C. Campagne militari in Dacia. 86 d.C. Domiziano istituisce i ludi Capitolini. 88 d.C. Fallisce la seconda congiura ai danni di Domiziano. 89-97 d.C. Campagne militari contro i Sarmati. 96 d.C. Il 18 settembre Domiziano muore a Roma, vittima di una congiura.
semoventi, recinti per la caccia decorati da vivaci pitture». Recenti scavi nei sotterranei del Colosseo hanno riportato alla luce resti lignei con tracce di colore azzurro, forse riferibili proprio ai pegmata. Ispirata alle dimore dei re ellenistici (in particolare al palazzo tolemaico di Alessandria), la sfarzosa residenza neroniana, alla morte dell’imperatore e con l’avvento della dinastia flavia, fu obliterata dagli interventi realizzati a partire da Vespasiano. Questi, come i suoi figli e successori Tito e Domiziano, con un’operazione altamente demagogica, ispirata al recupero dei valori repubblicani,
La famiglia imperiale T. Flavius Sabinus-Vespasia Polla
† 69 d.C. T. Flavius Sabinus
T. Flavius Sabinus
T.Fl. Clemens
† 69 d.C. † 69 d.C. T. Flavius Vespasianus - Domitilla (Vespasiano imperatore) 69-79 d.C.
39-81 d.C. Marcia Fumilla - Titus F. Vespasianus (Tito imperatore) 79-81 d.C.
T.Fl. Sabinus - Iulia Titifilia
† ante 69 d.C. Domitilla
51-96 d.C. T. Fl. Domitianus - Domitilla (Domiziano imperatore) 81-96 d.C.
Domitilla - Clemens
T. Flavius Vespasianus
T. Flavius Domitianus
Flavia
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attuò una politica edilizia e urbanistica volta a restituire al pubblico godimento del popolo romano gli spazi occupati dalla Domus Aurea. Un esempio è la costruzione delle Terme di Tito, adattate sulle strutture dei bagni privati neroniani. Di questo impianto termale, di cui si sono conservate alcune strutture appartenenti a fasi successive, forse attribuibili all’età di Adriano, non si ha alcuna documentazione, salvo una pianta disegnata da Andrea Palladio nella prima metà del Cinquecento.
Per lo svago e il benessere del popolo Il suo schema architettonico – caratterizzato da un asse mediano lungo il quale si dispongono gli ambienti principali del percorso termale, e con gli ambienti annessi e le palestre disposti simmetricamente da una parte e dall’altra –
venne ripreso in tutti gli edifici termali successivi, su scala piú grande. Disposte su terrazze lungo le pendici della collina della Velia, le terme erano collegate all’anfiteatro da una rampa monumentale, creando cosí un unico sistema urbanistico di edifici destinati allo svago e al benessere. Successivamente, l’intero padiglione della Domus Aurea sul colle Oppio venne interrato per far posto alle piú grandiose Terme di Traiano, secondo un progetto probabilmente già elaborato da Domiziano.
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In basso rilievo proveniente dal mausoleo degli Haterii, rinvenuto nel 1848 presso Centocelle (Roma), sulla via Labicana. II sec. d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani, Museo Gregoriano Profano. Da sinistra, si riconoscono: l’arco di ingresso dell’Iseo in Campo Marzio; l’Anfiteatro Flavio; l’Arco di Tito, un arco situato sul tratto finale della via Sacra; il Tempio di Giove Statore.
Oltre alle terme, il grande progetto urbanistico della dinastia flavia si concretizza in questa zona, compresa tra le regioni II e III, con la realizzazione del piú grande edificio stabile per spettacoli gladiatori, di cui la capitale dell’impero non poteva piú fare a meno, realizzato da Vespasiano e poi dal figlio Tito con i proventi del bottino della guerra giudaica. A Domiziano si devono inoltre, come già detto, vari edifici connessi con l’anfiteatro, le quattro caserme (il Ludus Magnus, Matutinus, Dacicus e Gallicus) nell’area immediatamente a est del Colosseo (anche se da iscrizioni sappiamo che un Ludus Matutinus esisteva già al tempo di Claudio o Nerone), i castra misenatium, la caserma dove alloggiavano i marinai del porto militare di Miseno addetti alle manovre del velario, l’armamentarium (deposito delle armi
dei gladiatori), il saniarium (ospedale), lo spoliarium (obitorio) e il già ricordato summum choragium. Tutte queste strutture, alle quali va aggiunta la moneta, la zecca imperiale che doveva trovarsi sotto l’attuale basilica di S. Clemente e che sostituí quella collocata sull’Arx capitolina, occupavano la zona compresa tra il Colosseo e le chiese di S. Clemente e dei Ss. Quattro Coronati. La sola attualmente visibile è il ludus magnus, tra via Labicana e via di San Giovanni in Laterano. Le strutture neroniane vennero rase
al suolo e, al posto del lago, fu realizzato il grande anfiteatro, circondato da una pavimentazione in blocchi di travertino larga 17,5 m, delimitata da cippi, cinque dei quali ancora conservati nel lato settentrionale del Colosseo. L’invaso dello stagno fu utilizzato per gettarvi la massiccia fondazione dell’anfiteatro, e anche l’impianto idraulico della Domus Aurea fu in parte riadattato al nuovo edificio. Un altro importante monumento, realizzato poco dopo l’80 d.C. nel lato alle pendici del Palatino, è la già citata fontana monumentale della Meta Sudans, demolita nel 1936 e oggetto di scavi in anni recenti. La struttura era un unicum a Roma: la sua forma conica, nota da alcune monete di Tito, di Severo Alessandro e di Gordiano III e da foto scattate prima che venissa abbattuta, ricorda infatti le mete del
circo. La fontana sorse per volere dei Flavi, all’incrocio fra le due strade percorse dalle processioni ufficiali e da quelle trionfali, che coincideva anche con uno dei vertici del pomerio e in corrispondenza del quale si trovavano le Curiae Veteres. Un sito, dunque, pregno di significati, che la propaganda flavia volle sottolineare, monumentalizzandolo.
In basso planimetria della Valle del Colosseo e del Colle Oppio: 1. Colosseo (Anfiteatro Flavio); 2. Colosso di Nerone; 3. Meta Sudans; 4. Arco di Costantino; 5. Ludus Matutinus; 6. Ludus Magnus; 7. Basilica di S. Clemente; 8. Ludus Dacicus; 9. Domus Aurea; 10. Terme di Tito; 11. Terme di Traiano.
Nel segno della pace Anche il Tempio della Pace venne probabilmente realizzato da Vespasiano, tra il 71 e il 75 d.C., con il bottino della guerra giudaica, per celebrare la pace riconquistata dall’imperatore. Concepito come una vasta area porticata quadrangolare, con il tempio sul fondo, organizzata a giardino nello spazio aperto, accoglieva le numerose opere d’arte
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Il Colosso di Nerone L
a statua bronzea colossale di Nerone (alta 120 piedi romani, pari a 35 m, raggiungeva il III ordine del Colosseo), realizzata da Zenodoro, doveva superare in altezza il Colosso di Rodi, una delle sette meraviglie del mondo antico, che, sebbene crollato già da quasi tre secoli, godeva ancora di grande fama presso i Romani (Marziale, I, 70, 7-8). La scultura, da cui l’Anfiteatro Flavio prese il nome di Colosseo, era originariamente collocata nel vestibolo della Domus Aurea, probabilmente in uno spazio aperto, circondato da un portico, cosí da essere ben visibile dal Foro Romano. Alla morte di Nerone, Vespasiano fece rimodellare i lineamenti della statua, trasformandola nell’immagine del Sole (Helios) con la testa radiata. Il monumento rimase nel luogo originario, finché Adriano, forse tra il 126 e il 128 d.C., lo fece spostare nella piazza di fronte all’anfiteatro, per costruire il Tempio di Venere e Roma. Il Colosso doveva essere affiancato da una statua dedicata alla Luna, secondo un progetto, mai realizzato, del famoso architetto Apollodoro di Damasco. Se con Adriano il Colosso divenne anche personificazione dell’Aeternitas, con Commodo invece, la statua – dotata di clava, pelle ferina e probabilmente di barba –, assunse le sembianze dell’imperatore nelle vesti di Ercole. Con la sua morte e la successiva damnatio memoriae, la scultura riprese le sembianze del Sole, diventando l’unico attributo dell’Aeternitas, concetto strettamente collegato alla figura del principe: infatti, come il Sole è il solo re del cielo, cosí l’imperatore è l’unico sovrano della terra. Il Colosso incarnò cosí il simbolo della potenza e del destino della Città Eterna. Benché siano numerose le
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raffigurazioni di Nerone come dio Sole, di cui era l’incarnazione (secondo la dottrina orientale verosimilmente introdotta dallo stesso Nerone), l’unica documentazione iconografica per ricostruire l’aspetto del Colosso è costituita da due monete di Alessandro Severo (222-235 d.C.) e, soprattutto, da un’emissione di Gordiano III (238-244 d.C.), in cui compaiono al centro l’Anfiteatro Flavio, sulla destra un edificio colonnato (forse il portico di ingresso alle Terme di Tito), e, sulla sinistra, in primo piano, la Meta Sudans, con alle spalle il Colosso. Quest’ultimo ha la testa radiata, la gamba destra portante e la sinistra leggermente flessa; la mano destra sorregge un timone in posizione verticale, che probabilmente nascondeva un tirante per sorreggere il peso della statua, mentre nella sinistra stringe un globo. Dai Cataloghi Regionari sappiamo che il 6 giugno, durante le processioni in suo onore, il Colosso veniva coronato di fiori. Sotto l’imperatore Valeriano (253-260 d.C.), i cristiani venivano portati di fronte alla statua per abiurare la loro fede; qui venivano martirizzati e i loro corpi lasciati esposti come esempio. Nonostante la dubbia veridicità di quest’ultima notizia, riportata dalle cronache sui martiri cristiani, è significativo che tale tradizione qualifichi il Colosso del Sole come simbolo della religione pagana e il luogo in cui si ergeva, come teatro delle persecuzioni. L’ultima fonte scritta che attesti come ancora esistente il Colosso di Nerone è il calendario illustrato dal calligrafo di papa Damaso, Filocalo, relativo all’anno 354 d.C. (o Cronografo del 354); tutti i testi posteriori, infatti, riportano notizie precedenti. La scultura venne fusa,
per riutilizzarne il metallo, forse già durante le prime invasioni gotiche. Sicuramente, il Colosso era già distrutto al tempo del Venerabile Beda (673-735 d.C.), il quale riporta la famosa profezia «Quamdiu stabit Colyseus, stabit et Roma; quando cadit Colyseus, cadet et Roma; quando cadet Roma cadet et mundus» («Finché esisterà il Colosseo, esisterà anche Roma; quando cadrà il Colosseo, cadrà anche Roma; quando cadrà Roma, cadrà anche il mondo»). Tale predizione è in realtà precedente al tempo del monaco inglese ed è riferita non all’Anfiteatro Flavio, ma proprio al Colosso di Nerone. Nel Medioevo la sua memoria era ancora molto viva, sia perché ritenuto luogo di martirio dei primi cristiani, sia perché si identificava con la fortuna di Roma; il nome passò cosí a indicare il vicino anfiteatro, come testimonia il termine Amphiteatrum Colosei, attestato in un documento del 1061. Dopo il Medioevo si era persa traccia della collocazione della statua, fino agli scavi condotti nel 1828 da Antonio Nibby (1792-1839), che ne riportarono alla luce il basamento di età adrianea, documentato da foto ottocentesche e dai rilievi effettuati nel 1933, prima della sua definitiva – e deprecabile – distruzione nel corso dei lavori per l’apertura della via dei Trionfi. Dalla scarsa documentazione si ricava che era di forma quadrangolare, con paramento in cortina di mattoni rivestita da lastre di marmo. Nella piazza del Colosseo il luogo del basamento è oggi indicato da un’aiuola delimitata da blocchi di peperino. Ricostruzione ipotetica del Colosso di Nerone con le sembianze del Sole con la testa radiata, dopo la sua collocazione presso l’anfiteatro a opera di Adriano.
greca che Nerone aveva collocato nella sua residenza privata, e gli oggetti piú preziosi del bottino di guerra provenienti da Gerusalemme, tra cui il candelabro a sette bracci (menorah). Nel tempio vi era una colossale statua della Pace, mentre in una delle grandi aule laterali, probabilmente adibite a biblioteche, era esposta la Forma Urbis, la pianta marmorea di Roma di epoca severiana. Accanto al Tempio della Pace, Domiziano fece costruire il Foro Transitorio, inaugurato nel 97 dal suo successore, Nerva. Si tratta di uno stretto spazio aperto, con finti portici colonnati – cosí da creare un maggiore effetto di profondità –, probabilmente opera dell’architetto Rabirio, che funge da raccordo tra i Fori di Cesare, di Augusto, il Templum Pacis e il Foro Romano, di cui costituisce un accesso. Sul lato corto si trovava il Tempio di Minerva, evocata anche dalle scene scolpite sul fregio del colonnato.
La residenza degli imperatori Con Domiziano, inoltre, il Palatino venne definitivamente scelto come sede del potere imperiale, realizzandovi una vasta residenza prospiciente l’altro grande edificio per spettacoli della città, il Circo Massimo. Altri importanti interventi urbanistici di Domiziano interessarono il Campo Marzio e furono realizzati dopo un nuovo, grande incendio che, nell’80 d.C., aveva distrutto l’intera area. Anche qui si affermò la politica dei Flavi in favore della cittadinanza: fu costruita la porticus Minucia frumentaria, dove avvenivano le distribuzioni di grano (presso l’area sacra di largo di Torre Argentina); si mise mano al restauro dei teatri di Pompeo, di Balbo e di Marcello; furono realizzati uno stadio e un odeion in muratura, per spettacoli di carattere atletico e musicale, precedentemente effettuati in edifici provvisori in legno. Cosí, l’ultimo dei Flavi portò a compimento il programma politico e urbanistico non solo di evergetismo imperiale, ma soprattutto di controllo sociale, legando strettamente il principe al popolo, secondo il concetto del panem et circenses.
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I SECOLI DI UN
SIMBOLO
Una vicenda millenaria, dalla costruzione al riuso e alla valorizzazione moderna
Incisione raffigurante il Colosseo, cosí come doveva apparire nella seconda metà del Settecento, da Vedute di Roma. Tomo II, Opere di Giovanni Battista Piranesi, Francesco Piranesi e d’altri. Parigi, 1835-1839. All’interno dell’arena si vedono la cappella di S. Maria della Pietà, le edicole e la croce della Via Crucis, poi rimosse durante gli scavi del 1874.
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e principali fonti antiche sul Colosseo e sugli spettacoli che vi si svolgevano sono Marziale e Svetonio, i quali vissero all’epoca dei giochi inaugurali offerti da Tito nell’80 d.C. In particolare, Marziale, che assistè agli spettacoli, li descrive in una serie di epigrammi nota come Liber de Spectaculis (il titolo fu attribuito alla raccolta dal filologo olandese Jan Gruter nell’edizione del 1602). L’opera fu composta nell’80 e comprende 33 epigrammi, ma probabilmente alcuni furono scritti qualche anno piú tardi, sotto Domiziano. Stranamente, un solo componimento parla di un combattimento tra gladiatori, in questo caso finito in parità e con la palma della vittoria e il bastone del congedo concessi da Tito a entrambi i contendenti, Prisco e Vero (Lib. De
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Spect., 27). Marziale esordisce esaltando l’Anfiteatro Flavio, che supera in grandiosità e bellezza le altre meraviglie del mondo antico, le piramidi, i giardini pensili di Babilonia, il mausoleo di Alicarnasso; il secondo epigramma condanna Nerone, che aveva privatizzato l’area per edificarvi la sua sontuosa dimora, la Domus Aurea, e rende onore alla stirpe dei Flavi, che con l’anfiteatro e le terme restituirono al popolo ciò che il tiranno gli aveva tolto («Roma è stata restituita a se stessa, e sotto il tuo impero, Cesare, è diventato delizia del popolo ciò che era stato delizia del tiranno»). Dal quinto epigramma in poi, l’autore descrive i giochi, soffermandosi, in particolare, sullo stupore suscitato negli spettatori – giunti da ogni parte dell’impero per ammirare la
Il settore sud-est del Colosseo. L’anfiteatro è alto quasi 50 m; il diametro maggiore raggiunge i 188 m, il minore 156: misure che ne fanno il piú grande edificio del genere mai costruito dai Romani. L’anello esterno, in travertino, si conserva per circa due terzi.
L’edificio si articola in quattro piani: i primi tre sono scanditi da arcate incorniciate da semicolonne (tuscaniche quelle del primo, ioniche quelle del secondo, corinzie quelle del terzo). Il quarto è cieco, scandito da lesene, anch’esse corinzie, che ornano finestre quadrate.
nuova meraviglia – dalle apparizioni improvvise di grandi animali; altri spettacoli consistono nei supplizi di condannati a morte, mascherati in modo da rappresentare fatti mitologici, riferiti alle storie di Orfeo, Pasifae con il toro, Prometeo, Dedalo; vi sono quindi cronache delle cacce e dei combattimenti tra animali (in un solo giorno ne furono uccisi 5000), mentre gli epigrammi 24-26 illustrano una naumachia e giochi acquatici con Nereidi e Tritoni nell’arena riempita d’acqua.
Fonti letterarie ed epigrafiche Fonti piú tarde, come Cassio Dione (Historiae Romanae) e le vite degli imperatori della Historia Augusta, forniscono informazioni sul Colosseo e gli spettacoli, almeno fino al 284
d.C. Altre notizie si possono ricavare dalle testimonianze indirette di autori posteriori (Claudiano, Ammiano Marcellino) e, soprattutto, dalle iscrizioni rinvenute nel monumento, che documentano gli interventi di restauro effettuati durante l’ultima fase di utilizzo del Colosseo come edificio di spettacoli, tra il V e gli inizi del VI secolo d.C. Gli spettacoli in generale sono invece ampiamente raffigurati su mosaici (basti ricordare quelli rinvenuti nella villa di Torrenova, ora alla Galleria Borghese, o quelli di Zliten e El Djem), rilievi, oggetti con combattimenti tra gladiatori e venationes (plurale di venatio, che significa letteralmente «caccia», il termine indica gli spettacoli in cui cacciatori o gladiatori lottavano contro belve di ogni genere, n.d.r.), e
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STORIA DEL MONUMENTO
menzionati da testimonianze epigrafiche e archeologiche provenienti soprattutto da Pompei. Presso la caserma dei gladiatori della città vesuviana sono stati peraltro rinvenuti molti reperti facenti parte del corredo dei gladiatori (elmi, armi, schinieri). Oltre alle notizie sui giochi tenutisi per l’inaugurazione del monumento, le fonti danno conto di altri spettacoli offerti dai successori di Tito; tra questi, i piú sontuosi di tutta la storia del Colosseo sembrano essere stati quelli voluti da Traiano per celebrare il trionfo sui Daci del 107, che durarono 120 giorni e nel corso dei quali furono esibiti ben 11 000 animali. Il 217 segna un momento decisivo nella storia dell’edificio: come racconta Cassio Dione, che forse fu testimone oculare del disastro, in quell’anno il Colosseo fu colpito da un fulmine, che fece divampare un incendio. All’indomani dell’evento, il monumento cambiò aspetto, in quanto, nei successivi restauri, molte parti lignee del portico e dei sotterranei vennero sostituite con elementi marmorei, costituiti da colonne, capitelli e dalle transenne dei vomitoria, databili nei primi decenni del III secolo. Il furioso incendio distrusse la copertura e il pavimento ligneo del portico in summa cavea, e le travi che sostenevano il velario. I materiali incandescenti precipitarono nel piano dell’arena e nei sotterranei, devastando gli ambienti ipogei, molte delle cui strutture erano in legno.
Le fiamme e poi la pioggia L’eccezionale calore generato dalle fiamme (1000 gradi) e la pioggia che cominciò a cadere dopo il fulmine, provocando un improvviso sbalzo di temperatura, causarono inoltre spaccature e fessurazioni dei travertini e dei laterizi, e la fusione delle grappe bronzee. L’incendio trasformò l’anfiteatro in un immenso braciere e provocò la distruzione anche negli altri ordini, tanto da far affermare a Cassio Dione che l’anfiteatro si era spezzato sotto l’azione del fuoco. Dopo un periodo di inutilizzo, nel 222 d.C. il Colosseo fu riaperto e (segue a p. 40)
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Sfruttato fino «all’osso»
L’interno dell’Anfiteatro Flavio, cosí come si presenta oggi. Di vaste porzioni del monumento si conserva soltanto lo scheletro architettonico, poiché gli apparati decorativi e gli elementi strutturali di maggior pregio, primi fra tutti i blocchi in travertino, furono asportati in epoca medievale, quando l’anfiteatro si trasformò in una gigantesca cava di materiale edilizio a cielo aperto.
STORIA DEL MONUMENTO
Chi ha finanziato il Colosseo? F
in dall’epoca repubblicana, i generali vittoriosi facevano dono di templi ed edifici pubblici servendosi dei proventi derivanti dalla vendita dei bottini di guerra. Una prassi adottata anche da Augusto, che finanziò cosí la costruzione del Tempio di Marte Ultore, del Foro di Augusto e le donazioni al popolo e ai veterani, mentre Tiberio e suo fratello Druso finanziarono il restauro del Tempio dei Dioscuri nel Foro Romano. Dopo i Flavi, anche Traiano realizzò il Foro e i Mercati che portano il suo nome, attingendo all’immenso bottino della guerra dacica. Dopo un lungo assedio, Tito conquistò Gerusalemme, distruggendone anche il Tempio, nell’agosto (o settembre) del 70 d.C., durante il secondo anno di regno di Vespasiano; il trionfo fu celebrato a Roma da Vespasiano, Tito e Domiziano nel 71, con grande magnificenza e l’esposizione delle ricchezze che costituivano il bottino di guerra, in gran parte appartenenti alle decorazioni del Tempio di Gerusalemme. Una dettagliata descrizione del corteo trionfale è fornita da Flavio Giuseppe, nella Guerra Giudaica, e dai rilievi dell’Arco di Tito, dedicato dal fratello Domiziano nell’81. Questi ultimi mostrano solo la parte piú importante del bottino, costituita dagli oggetti simbolo del giudaismo, tra cui la menorah, il candelabro a sette bracci in oro massiccio. Cinque secoli piú tardi, Teodorico giudicò addirittura Tito uno scialacquatore, poiché aveva profuso fiumi di ricchezze (divitiarum profuso flumine) per costruire un edificio destinato a procurare la morte, riferendosi al Colosseo. Dunque da questo, come da altre fonti che parlano di edifici
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In basso l’iscrizione relativa al restauro del Colosseo effettuato da Rufus Caecina Felix Lampadius, dopo il sisma del 443 d.C.; il blocco riutilizza un architrave recante un’iscrizione piú antica (vedi il disegno qui sotto) che commemorava la costruzione dell’anfiteatro da parte di Vespasiano, poi corretta inserendo la «T» del prenome di Tito, che inaugurò il monumento dopo la morte del padre.
Rilievo nel fornice interno dell’Arco di Tito con il corteo trionfale dopo la guerra giudaica; tra il ricco bottino di guerra, figura la menorah, il candelabro d’oro a sette bracci, depredato dal Tempio di Gerusalemme. I sec. d.C.
costruiti dai Flavi in Siria e Palestina (ad Antiochia, Cesarea, Daphne) con il bottino giudaico, si ricava che l’anfiteatro e, probabilmente, anche il Templum Pacis, inaugurato nel 75 d.C., vennero costruiti con le medesime risorse. Un’ulteriore prova è l’iscrizione di Rufius Caecina Felix Lampadius, che celebra un restauro dell’Anfiteatro Flavio intorno alla metà del V secolo d.C., riutilizzando un blocco marmoreo di epoca flavia. Dallo studio dei fori in cui erano inserite le grappe che reggevano le lettere bronzee, lo storico ed epigrafista ungherese Geza Alföldy (1935-2011) ha ricostruito il testo originario, che celebrava Vespasiano, il quale «amphitheatrum novum ex manubis (…) fieri iussit» («realizzò il nuovo anfiteatro con i proventi del bottino di guerra»). La morte dell’imperatore, il 23 giugno del 79, impedí l’inaugurazione, pertanto tale iscrizione venne aggiornata nell’80, aggiungendovi una lettera «T»,a indicare il prenome di Tito, che inaugurò con una grandiosa celebrazione l’edificio e le vicine terme, come documenta anche il sesterzio emesso dal Senato il 1° luglio dell’80 d.C.: è la prova, dunque, che Vespasiano, con il bottino della guerra
giudaica, fece costruire l’anfiteatro, i cui lavori, iniziati alla fine del 70, terminarono nel 79, anno in cui venne probabilmente fatta una prima dedica. Dal Cronografo del 354 sappiamo che l’edificio, prima della morte di Vespasiano, era giunto fino al II ordine esterno, e al III ordine di gradinate; sotto Tito i lavori vennero ultimati, e, nell’80, vi furono una seconda dedica e inaugurazione, con giochi che durarono 100 giorni. In ogni caso, l’anfiteatro doveva essere già pronto nel 79 d.C., mentre la costruzione degli altri edifici a esso connessi, sicuramente già previsti nel progetto di Vespasiano, fu ultimata solo alla fine del regno di Domiziano. Il resto del bottino, tra cui il candelabro a sette bracci e altri oggetti presi nel tempio dei Giudei, fu conservato nel Tempio della Pace (Flavio Giuseppe, VII, 5, 7); il tesoro fu poi razziato da Genserico nel V secolo e sprofondò in mare durante un naufragio. Parafrasando Teodorico, possiamo dire che la costruzione del Colosseo fu pagata con il sacrificio di un intero popolo, quello ebraico, per consentire a quello romano di assistere ad altrettanti sacrifici inscenati nell’arena.
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nuovamente dedicato da Severo Alessandro, che con questo rito ne sancí la «rinascita», celebrata anche con l’emissione di monete. In questi cinque anni, i restauri furono eseguiti in fretta, per restituire al piú presto al popolo romano l’unico edificio nel quale poteva assistere ai giochi gladiatori e alle venationes. Ulteriori interventi furono realizzati oltre vent’anni piú tardi, sotto Gordiano III, tra il 235 e il 239, affidandoli al curator operis amphitheatri Attius Alcimeus Felicianus e celebrandoli con una nuova emissione monetale. Le fiamme devastarono nuovamente l’edificio nel 250, sotto Decio, o nel 252, sotto Treboniano Gallo, imponendo nuovi restauri, mentre l’incendio scoppiato nel 320 d.C. non sembra avesse provocato gravi danni e gli interventi nel portico colonnato del IV ordine dovettero avere carattere di ordinaria manutenzione.
Roma alla mercé di Alarico Nel 410 Roma subí il sacco dei Goti di Alarico; pur non essendoci prove archeologiche di danni patiti dal Colosseo in quell’occasione, una grande iscrizione del tempo di Onorio e Teodosio II (408-423 d.C.) – che correva tutt’intorno all’anfiteatro, redatta in due copie, ognuna collocata sulle due semiellissi dell’arena – ricorda il restauro del monumento curato dal prefetto urbano Iunius Valerius Bellicius, tra il 417 e il 423, e probabilmente celebrato anche con uno spettacolo. Nello stesso periodo, l’emissione di un contorniato (medaglione celebrativo) di Onorio testimonierebbe inoltre la ripresa delle attività nell’anfiteatro, sancendo cosí in qualche modo il ritorno alla normalità dopo i traumatici eventi del 410. Pochi anni dopo, l’iscrizione venne rimossa e cancellata, riutilizzandone i blocchi per incidervi un altro testo, anch’esso in duplice copia e disposto intorno all’arena.
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Elmo bronzeo di gladiatore mirmillone, dalla Caserma dei gladiatori di Pompei. Età giulio-claudia. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
L’epigrafe è relativa ai due imperatori Teodosio II e Valentiniano III (425-450) e al restauro effettuato dal prefetto dell’Urbe Flavius Paulus, forse nel 438, dopo il terremoto del 429, o forse da un altro personaggio, che avrebbe operato insieme a Rufio Cecina Felice Lampadio, dopo il sisma del 443. Non è facile desumere dal testo quali lavori siano stati eseguiti; potrebbe essersi trattato di un intervento sul sistema di smaltimento delle acque, che probabilmente avevano allagato i sotterranei dell’anfiteatro. Tra la prima e la seconda metà del V e gli inizi del VI secolo, il monumento fu danneggiato da vari episodi sismici (443 e 484 o 508), come ricordano alcune iscrizioni che testimoniano i restauri effettuati dopo tali eventi. L’epigrafe che riutilizzò quella relativa all’inaugurazione dell’anfiteatro, e di cui si è appena parlato, ricorda i lavori, eseguiti sempre sotto Teodosio II e Valentiniano III in seguito al terremoto del 443, dal prefetto urbano Rufio Cecina Felice Lampadio; i restauri interessarono le gradinate e comportarono la ricostruzione integrale dell’arena e di altre parti, tra cui il podio e le portae posticiae (o posticae). È ipotizzabile che l’opera di risanamento fosse già stata ultimata l’anno successivo, in tempo per festeggiare l’inaugurazione dell’anfiteatro per i vicennalia (venti anni di regno) di Valentiniano III, il 23 ottobre 444, come ricorda un’altra iscrizione rinvenuta nei sotterranei. Sembra dunque probabile che, fino al sisma del 443, l’edificio fosse ancora intatto, mentre in seguito alla scossa tellurica cominciarono a cedere alcuni settori, in particolare nella parte meridionale, che forse vennero chiusi. Un’altra iscrizione, redatta in piú copie, commemora un restauro effettuato da Messius Phoebus Severus nel 470, sotto Leone e Antemio (468-472), che interessò l’arena o la corona del podio.
L’ultimo intervento documentato nella storia del Colosseo, ricordato da tre basi marmoree (forse quattro, con una statua ritratto del personaggio), è quello di Decio Mario Venanzio Basilio, che restaurò a sue spese il muro del podio e l’arena, crollati in seguito a un tremendo terremoto (abominandi terraemotus). L’iscrizione si colloca nel 484 o, piú verosimilmente, nel 508; studi recenti suggeriscono che l’intervento di Venanzio nell’arena sia consistito nel definitivo interramento dei sotterranei con detriti e materiali inerti. Durante gli scavi condotti nei sotterranei da Pietro Rosa nel 1874-1875, si rinvenne infatti il 77% del colonnato del portico superiore, oltre a frammenti di epigrafi, elementi architettonici,
Ricostruzione immaginaria di una naumachia realizzata per l’opera Kupfer in Querfolio zur ersten (zweiten) Abtheilung des Versuches über das Kostum di Robert von Spalart. Vienna, 1817.
rivestimenti delle balaustre dei vomitoria, ed elementi lignei, forse pertinenti al piano dell’arena e ai macchinari scenici. A partire da questo momento, l’edificio presenta le gradinate deteriorate, i vomitoria privi di protezione, il piano dell’arena ormai interrato, molte zone ormai impraticabili.
Gli ultimi interventi di restauro Nella stessa epoca, alcune colonne del portico in summa cavea, vennero anche «affettate», per ricavarne blocchi con i quali restaurare la corona podii, su cui vennero incisi i nomi degli ultimi senatori conosciuti nell’anfiteatro. Quelli di Venanzio, in realtà, non furono gli ultimi interventi condotti nel Colosseo, almeno (segue a p. 45)
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STORIA DEL MONUMENTO
A ciascuno il suo posto I
l primo settore dell’anfiteatro, quello piú vicino all’arena, era riservato per legge ai senatori e alle loro famiglie, e non era composto da gradinate, ma da quattro ampi ripiani, sui quali venivano collocati i subsellia, i sedili mobili in legno. I senatori avevano diritto a posti riservati in virtú della Lex Iulia theatralis, varata da Augusto (Svetonio, Vita di Augusto, 44), il quale era rimasto impressionato dal fatto che, durante un affollato spettacolo nell’anfiteatro di Pozzuoli, nessuno avesse ceduto il posto a un vecchio senatore. Tra la fine del III e l’inizio del IV secolo, nel rinnovato clima politico creato dalle riforme costantiniane – che avevano restituito ai senatori un ruolo importante nella società e nell’amministrazione dell’impero –, si comincia a ribadire il privilegio di questa classe di occupare i posti migliori, indicando sui blocchi marmorei del parapetto del podio e delle transenne i loro nomi, preceduti in alcuni casi dal termine loca («posti di», «posti riservati a»). I nomi compaiono al plurale, segno che i posti non erano individuali, ma riservati alla famiglia. In un secondo gruppo di iscrizioni, databili tra la fine del IV e gli inizi del VI secolo, compaiono invece nomi di singoli personaggi, spesso su lastre di reimpiego, e poiché lo stesso posto, nell’arco di piú generazioni, fu usato da piú persone, le pietre, come riporta Rodolfo Lanciani, venivano spesso cancellate e riscritte, fino a quattro volte. L’ultimo personaggio attestato da un’iscrizione del Colosseo è Valerius, che fu console nel 521, cioè due anni prima dell’ultima venatio tenuta nell’anfiteatro di cui si abbia notizia. A famiglie senatorie strettamente imparentate tra loro venivano spesso assegnati loca vicini, a sottolineare l’importanza e il prestigio delle loro relazioni, come nel caso dell’epigrafe che si legge su una balaustra, relativa agli Abentii e ai Reburii. Alcune di queste iscrizioni, incise sull’alzata dei gradini della cavea, sono attualmente murate nella parte ricostruita delle gradinate, nel settore verso il Ludus Magnus. L’ordine equestre, secondo per importanza tra le classi
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sociali, non aveva posti riservati, ma occupava un settore subito dietro il primo ordine, nel maenianum primum. La sola iscrizione a oggi nota è quella del nome equitibus, che si legge su un gradino; secondo Lanciani, benché non incidessero mai il loro nome sui gradini, i membri dell’ordine equestre sedevano distinti per cariche: juniores, decoctores (cavalieri decaduti dal loro censo), liberti che avevano raggiunto il censo di cavalieri, tribuni militari e ufficiali superiori, decemviri stilibus iudicandis, tribuni plebis. A questo proposito, merita d’essere ricordata l’epigrafe, databile all’anno 80 d.C., degli Atti dei Fratres Arvali, che assegna a questo sacerdozio – composto da 12 membri – e ai loro familiari e aiutanti, i posti di un settore dell’anfiteatro, indicati in piedi romani. Poiché erano senatori, gli Arvali avevano diritto a sedere nell’ima cavea; gli altri posti indicati nell’epigrafe, riferibili a una settantina di persone, spettavano ai loro amici e clienti, ai liberti e agli schiavi di proprietà del collegio. Vi sono poi iscrizioni che documentano l’esistenza di posti riservati agli ambasciatori e agli ospiti stranieri – come quella riferita ai Gaditani (i rappresentanti della città di Cadice) –, ai giovani che non avevano ancora indossato la toga virile (praetextati) e ai maestri dei fanciulli (paedagogi puerorum). Altre categorie possono individuarsi negli apparitores dei magistrati pubblici, cioè gli scribi, i littori, gli araldi,
A sinistra galleria di servizio circostante il piano dell’arena: sulla sinistra, le nicchie del muro di fondo; sulla destra i blocchi di marmo dell’epigrafe di Teodosio II e Valentiniano III, originariamente collocati sulla sommità del muro del podio. Sul retro dei blocchi sono incisi i nomi dei senatori che occupavano i posti del settore piú basso della cavea. Nella pagina accanto, in basso gradino iscritto con l’indicazione del posto riservato a un senatore. In basso sezione ricostruttiva del Colosseo con indicazione dei settori di posti.
chiamate anche muliebri. Le sole donne alle quali era consentito occupare le prime file, accanto ai piú alti magistrati, erano le vergini Vestali. Ma quali erano le misure dei posti? Secondo Vitruvio, che nel De Architectura menziona solo una volta l’anfiteatro (1.7.1), la profondità dei sedili doveva essere compresa tra i 2 e i 2,5 piedi (60-75 cm), mentre l’altezza non doveva essere maggiore di 1 piede e 6 dita (42 cm). È stata anche stimata la larghezza massima di ciascun posto, che doveva aggirarsi intorno ai 40 cm. nonché nei militari (pretoriani, urbani, vigili, peregrini, equites singulares, Misenati, Ravennati, ecc.). Nei posti piú alti sedeva la plebe, divisa in 35 tribú e per stato civile: da una parte sedevano infatti le persone coniugate, dall’altra i celibi. Infine, nell’ultimo settore, il summum in ligneis, sedevano le donne. Sembra che l’obbligo di isolarle fosse stato introdotto da Augusto, ponendo fine all’uso di consentire alle donne di assistere agli spettacoli assieme agli uomini. Il provvedimento venne adottato in tutte le province, tanto che le ultime file dei teatri e degli anfiteatri furono 1 • Podium
1
3
4
5
2
2 • Maenianum primum (prima gradinata)
3 • Maenianum secundum imum (seconda gradinata inferiore)
4 • Maenianum secundum summum (seconda gradinata superiore)
5 • Maenianum summum in ligneis (gradinata superiore lignea)
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STORIA DEL MONUMENTO
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| Dai giochi ai funerali
N
el corso del V secolo, quando l’anfiteatro funzionava ancora come luogo per spettacoli o, meglio, durante il momentaneo disuso seguito all’assedio e al sacco di Alarico del 408-410, la valle del Colosseo, in parte già interrata, fu utilizzata a scopo funerario. Venne occupata da due nuclei di tombe, probabilmente riferibili a gruppi familiari, oltre a deposizioni isolate nei versanti nord, est e ovest, lungo i tracciati stradali circostanti l’edificio. Tutte le sepolture, scavate nel 1895, si trovavano al di là dell’area di rispetto dell’anfiteatro, oltre la linea delimitata dai cippi, il cui limite non venne mai superato: una ulteriore conferma del fatto che il monumento era ancora in uso e ne veniva in qualche modo curata la manutenzione. Le tombe erano perlopiú a cappuccina, alcune con lastre di marmo come copertura o come fondo, con pochi oggetti di corredo. Dopo il sacco di Alarico e la riapertura del Colosseo, l’area a nord venne bonificata, rialzando il livello stradale con un basolato che correva 2 m piú in alto di quello originario e che coprí le deposizioni del V secolo. Una seconda fase funeraria, comprendente 23 tombe e collocabile nell’ambito del VI secolo, occupò la parte interna del portico a nord del Colosseo. Si tratta in prevalenza di tombe a cappuccina, salvo quella di Gemmula, morta precocemente a dieci anni come ricorda la sua iscrizione funeraria (ora esposta ai Musei Capitolini), costituita da un cassone semicilindrico. Questa seconda area cimiteriale è forse riferibile al periodo compreso tra la guerra greco-gotica (535-553 d.C.), con gli assedi di Totila del 536 e 545, e la fine del VI secolo. I corredi funerari sono rari, costituiti da alcune brocchette, anforette, un anellino e alcune monete non identificabili, mentre numerose sono le tegole con bolli soprattutto di epoca teodericiana.
secondo un’altra iscrizione, nota solo da fonti d’archivio, relativa a restauri eseguiti dal senatore Anastasio, nel terzo decennio del VI secolo. L’inizio dello smantellamento dell’anfiteatro è testimoniato dall’iscrizione di Gerontius, incisa su uno dei pilastri del II corridoio anulare nel II ordine (arcate XIII e XV), nel settore meridionale danneggiato dal terremoto del 508. L’epigrafe riporta il nome di un senatore vissuto in epoca teodericiana, titolare di una concessione ricevuta dal sovrano
La totale assenza di sepolture dentro il Colosseo in entrambe le fasi di utilizzo della valle a scopo funerario prova che il monumento non era in abbandono e che, semmai, aveva cambiato la sua destinazione d’uso. Una circostanza che lo distingue da altri anfiteatri – come quelli di Venosa, Verona, Tarragona o Albano – che invece accolsero numerose sepolture, soprattutto in epoca altomedievale. La situazione cambiò molti secoli piú tardi, quando il Colosseo si trovava ormai in una posizione periferica: nel 1832, l’allora Segretario di Stato, cardinal Bernetti, propose addirittura di adibirlo a cimitero provvisorio, sfruttando l’arena e i portici adiacenti. La Sacra Consulta bocciò però la proposta, poiché i sotterranei si allagavano di continuo e gli effluvi generati dalle tombe si sarebbero riversati dalla valle nel centro abitato.
Le aree cimiteriali nella valle del Colosseo: in rosso le sepolture di prima fase (inizi V sec. d.C.), in blu quelle della seconda (metà-fine VI sec. d.C.); i puntini rossi indicano le sepolture isolate o in piccoli gruppi.
Nella pagina accanto base marmorea che ricorda il restauro dell’anfiteatro da parte di Decio Mario Venanzio Basilio. L’intervento si colloca nel 484 o piú probabilmente nel 508, ed è l’ultimo documentato nella storia del Colosseo.
per sfruttare il monumento come cava di materiali. Data la sua posizione, l’iscrizione dimostra anche che lo smantellamento di alcuni settori del monumento, ormai inutilizzati, avvenne anche in momenti in cui questo era ancora in uso. Nel 519 si svolsero i giochi per il consolato di Eutarico Cillica, mentre l’ultimo spettacolo tenutosi nel Colosseo di cui si abbia notizia risale al 523 d.C. In quegli anni il piano dell’arena fu ulteriormente innalzato di circa 85 cm.
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STORIA DEL MONUMENTO
Dal Medioevo all’età moderna C
ome piú volte ricordato, non si hanno testimonianze di spettacoli allestiti nel Colosseo dopo il 523 d.C. Se i combattimenti di gladiatori erano già stati aboliti nel 438 da Valentiniano III (altri tentativi da parte di Costantino nel 313 e di Onorio nel 403 erano falliti, perché si erano infranti contro la passione popolare per i giochi dell’anfiteatro), si continuò per circa un secolo ad allestire venationes, soprattutto con orsi, ed esibizioni acrobatiche. Tuttavia, all’indomani delle invasioni barbariche e del conseguente spopolamento della città, il progressivo degrado del Colosseo, favorito dai ripetuti terremoti, e gli alti costi degli spettacoli – ormai insostenibili, alla luce della profonda crisi economica – portarono non tanto al lento abbandono del monumento (come è stato
In basso sigillo aureo di Federico Barbarossa, con la città di Roma circondata da mura con porte e torri. Berlino, Staatliche Museen, Münzkabinett. L’edificio al centro raffigura probabilmente il Colosseo. La scritta riporta: ROMA CAPVT MVNDI REGIT ORBIS FRENA ROTVNDI.
spesso sostenuto fino a tempi recenti), quanto a un cambio nella sua destinazione d’uso, collocabile nel corso del VI secolo, quando il monumento fu considerato come una enorme cava di materiali da costruzione. Con gli eventi della guerra greco-gotica, che ridusse la popolazione di Roma – stremata da assedi, fame ed epidemie – a poche centinaia di persone (Procopio di Cesarea racconta che quando Totila entrò a Roma nel 545 vi trovò solo 500 abitanti), la necessità primaria non erano piú i giochi, ma la sopravvivenza.
Sbarramenti di tavole La chiusura definitiva (o temporanea) del Colosseo, disposta dall’autorità preposta alla conservazione degli edifici pubblici, fu attuata con sbarramenti di tavole lignee lungo tutto il perimetro esterno, che presero il posto delle cancellate metalliche originarie. Probabilmente nella seconda metà o sul finire del VI secolo, le barriere vennero rimosse e il portico perimetrale sul lato nord fu utilizzato come percorso coperto alternativo all’asse stradale che correva ai piedi del Colle Oppio. Lo smantellamento sistematico del Colosseo interessò soltanto il lato meridionale
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In alto e in basso strutture di epoca tardo-medievale del vano sottoscala XLVI; l’ambiente fu utilizzato come stalla con mangiatoia tra gli inizi del XIII fino almeno al XVII sec.
dell’anfiteatro rivolto verso il Celio, che risulta oggi completamente privo della fronte esterna e di quella interna, fino al II corridoio anulare. La parte settentrionale, invece, non fu mai smontata, perché si trovava su un’importante via di collegamento tra il Palatino, centro del potere politico, e il Laterano, sede pontificia. Occorre inoltre considerare che il settore meridionale del Colosseo poggia su un terreno geologicamente meno resistente rispetto all’area settentrionale della valle e fu dunque piú colpito dai dissesti causati dai terremoti. Le demolizioni per il recupero di materiali, non solo travertini e tufi, ma anche i metalli delle grappe, portarono anche ad adattare alcuni spazi dell’edificio ad ambienti per il loro deposito e smistamento, creando spesso soppalchi lignei tra i corridoi e i sottoscala. Sempre dalla seconda metà del VI secolo, gli stessi soppalchi permisero di utilizzare l’anfiteatro come enorme magazzino, per lo stoccaggio di grano, fieno e altri materiali, soprattutto negli ambienti del I ordine. Per aumentare lo spazio disponibile, vennero
inoltre demolite alcune delle scalinate interne, furono realizzati percorsi che, dall’esterno, permettevano l’ingresso dei carri per il carico e il trasporto: dagli accessi originari, i veicoli arrivavano fino al centro dell’arena, congiungendosi con la strada interna principale, che passava lungo l’asse maggiore e costituiva il tragitto piú breve per attraversare la valle del Colosseo.
I ricoveri per gli animali da tiro Nelle strutture perimetrali si addossarono vere e proprie baracche di legno, con tettoie a spiovente appoggiate al fronte esterno dell’anfiteatro, che hanno lasciato evidenti tracce; furono inoltre realizzati ricoveri per gli animali da tiro, che venivano legati ad anelli ricavati perforando lo spigolo di un blocco di travertino, facendovi poi passare le funi. All’interno dell’edificio si contano oltre trecento di questi anelli o «attaccaglie». L’asportazione dei blocchi di travertino delle pavimentazioni provocò il progressivo interramento degli spazi di risulta e, nel tempo, le baracche esterne
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CAPITOLO
furono sostituite da strutture in muratura, di cui si rinvennero tracce nel 1895. Dobbiamo dunque immaginare che, dalla seconda metà del VI secolo, la Valle del Colosseo non venne abbandonata, ma semmai percorsa da intensi traffici, legati ai cantieri di smontaggio dell’anfiteatro e al suo impiego come magazzino. È molto probabile, secondo l’ipotesi di Rossella Rea, che il controllo dell’anfiteatro per queste attività non fosse piú gestito dall’imperatore, ma dall’amministrazione ecclesiastica, che lo mantenne fino al XIV secolo, quando passò sotto la giurisdizione del Senato di Roma. L’utilizzo come magazzino sembra cessare nel VII secolo, mentre l’attività estrattiva continuò, tra la seconda metà dell’VIII e la prima metà del IX secolo, soprattutto dopo il terremoto dell’801, che provocò ulteriori crolli. Addirittura, nell’area della Meta Sudans, venne scavata una fitta rete di cunicoli di spoliazione – alla profondità di 8 m rispetto al piano di calpestio – che tagliarono anche alcune strutture della fondazione, spesse ben 4 m; la terra di riporto generata da queste attività determinò l’ulteriore innalzamento degli interri
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Immagini di falli disegnate sull'intonaco di un ambiente del Colosseo.
e del piano di calpestio, sia dentro che fuori l’anfiteatro. Intorno alla metà dell’VIII secolo, anche l’asse viario sul lato settentrionale fu avvicinato al monumento, mantenendo però la quota originaria, che venne poi rialzata, fino agli sterri del 1895, che la riportarono al livello dell’età flavia, che è lo stesso oggi percorribile.
Case con orti e cortili Tra la seconda metà del IX e l’inizio del X secolo si colloca l’intensa occupazione a scopo insediativo del Colosseo e dell’area circostante, come risulta dai reperti archeologici e dai documenti conservati nell’archivio di S. Maria Nova, che comprendono atti di vendita e di locazione delle unità immobiliari all’interno dell’anfiteatro di cui la chiesa era proprietaria. Il piú antico di questi documenti porta la data del 7 marzo 982 e di poco posteriori sono quelli in cui il monumento è citato come «Amphitheatrum Coliseum». Dagli atti si possono anche ricostruire i vari tipi di abitazioni, che non erano soltanto manufatti lignei, ma anche costruzioni in muratura: spesso erano a due piani (domus solarata) con un orto sul retro e un cortile antistante,
provviste di un tetto di tegole (domus tegolicia) e talvolta anche di un camino. L’uso del Colosseo a scopo abitativo si fece sempre piú intenso, fino a raggiungere l’acme nel XIII secolo, come testimoniano anche i numerosi graffiti e le impronte delle targhe di proprietà, conservati nel I ordine. Oltre ai nomi dei residenti, si trovano incisi anche numerosi falli, con evidente scopo apotropaico. Gli abitanti di queste case erano di estrazione sociale modesta: si trattava perlopiú di artigiani, come fabbri, calderai, calzolai, muratori, carrettieri, calcinai. Questi ultimi, ricavavano la calce dal travertino presente in abbondanza nel Colosseo che, per questo motivo, era noto anche cone calcararium. Gli atti notarili attestano anche la presenza di personaggi di ceto superiore, come qualche ecclesiastico, un impiegato della cancelleria
Il Colosseo con la chiesetta di S. Giacomo, in una incisione dell’artista olandese noto come Anonimo di Fabriczy. 1568-1572. Stoccarda, Graphische Sammlung.
papale, un avvocato e un nobile, che però forse non erano qui residenti ma proprietari. Dal XII secolo, nell’area circostante l’anfiteatro, cominciarono a operare anche i cambiavalute, che probabilmente intendevano trarre vantaggio dal transito dei numerosi pellegrini diretti verso il Laterano, tanto che l’area prese il nome di contrada cambiatorum. È in ogni caso importante ricordare che gli sterri condotti a partire dall’Ottocento hanno in gran parte cancellato tutte le strutture riferibili all’utilizzo del monumento nel corso del Medioevo.
Il palazzo dei Frangipane A partire dall’XI secolo, vari monumenti antichi di Roma furono occupati dalle grandi famiglie nobili, che li trasformarono in fortezze. Cosí fecero i Savelli con il Teatro di Marcello, i Colonna con il Mausoleo di Augusto, i Caetani
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STORIA DEL MONUMENTO
con la Torre delle Milizie, e la famiglia dei Frangipane, che occupò la zona compresa tra il Colosseo e il Palatino, importante punto di controllo dei principali accessi alla residenza papale del Laterano. Dagli inizi del XII secolo lo stesso Anfiteatro Flavio, sul lato meridionale, era stato trasformato in una sorta di cittadella fortificata, mentre l’Arco di Costantino, l’Arco di Tito (dove si impiantò la torre cartularia demolita solo nel 1829), il Settizodio, Il Circo Massimo e l’Arco di Giano presso il Foro Boario erano muniti di torrioni a difesa dei possedimenti della famiglia. Il palatium Frangipanis occupava tredici arcate del Colosseo, nel lato verso il Laterano. La comunicazione tra il piano corrispondente al I ordine e quello superiore, demolite le
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scalinate originali, avveniva mediante scale di legno collocate in aperture realizzate sfondando il pavimento del II ordine. In questa residenza i Frangipane ospitarono, tra gli altri, papa Innocenzo II (1130-1143). Alcune strutture del palazzo, ormai ridotto a rudere, si possono vedere in disegni della fine del XVI secolo.
Ripetuti passaggi di mano
Il Colosseo visto da sud-ovest, disegno di Jan Gossaert, detto Mabuse. 1509 circa. Berlino, Staatliche Museen.
Nel 1143 il Colosseo divenne proprietà del Senato Romano, che rivendicava i diritti del popolo sul monumento, confiscando tutti i possedimenti dei baroni ostili al governo popolare, ma già nel 1159 rientrò in possesso dei Frangipane. Successivamente passò agli Annibaldi, che nel 1244 ottennero dall’imperatore Federico II la cessione di metà
del monumento. Con un breve di papa Innocenzo IV dello stesso anno, su istanza del popolo romano, tale concessione venne però dichiarata nulla. Ciononostante, gli Annibaldi continuarono ad abitare nell’anfiteatro, nella sua parte piú interna, a cui si accedeva dal lato della basilica di S. Clemente: ne sono prova alcuni documenti che menzionano vari componenti della famiglia, chiamati «de Rota». Un Annibaldo de Rota (Colisei) compare in un atto del 1259, mentre un Messer Riccardo Annibaldi della Rota, ricordato nel 1309, è forse lo stesso Riccardo degli Annibaldi del Colosseo che fu senatore di Roma nel 1300. La prima menzione del toponimo Rota Colisei, con il quale si indicava il piazzale interno del monumento (cioè l’arena, che nel Medioevo era completamente interrata) per la forma quasi rotonda e perciò simile a una ruota, è un instrumento del monastero di S. Maria Nova del 19 gennaio 1157, in cui Romanuccio de Frasia cede al fratello ogni diritto su una casa «positam Rome intus rota Colosei». Dalla metà del XII secolo, il termine Rota Colisei indicava un ambito topografico (locus) di tipo amministrativo, facente parte di uno spazio urbano piú ampio, cioè la Regio Colossi o Colisei-Colosei. Di questa regione facevano parte cinque loci: Quatronis (nell’area del Tempio di Venere e Roma), Pallara (tra la Via
La città di Roma in una xilografia realizzata da Michael Wohlgemut per il Liber chronicorum di Hartmann Schedel. 1493. Collezione privata.
Sacra e il terrazzamento sull’angolo nord-orientale del Palatino), Arcum Trasi (presso l’Arco di Costantino), Caldararii (nel settore nord-occidentale della valle, comprendente anche la base del Colosso), caratterizzata dalla presenza di artigiani che fabbricavano caldaie per la corte pontificia, e infine la Rota, comprendente l’anfiteatro, la zona del Ludus Magnus, nella quale si trovavano alcuni edifici ecclesiastici, e, nel lato sud, le propaggini del Celio.
Ritorno alle origini Sotto il pontificato di Clemente V (1305-1314), l’anfiteatro tornò sotto la giurisdizione del Senato e del popolo romano; nel 1312, infatti, Arrigo VII costrinse gli Annibaldi a restituirlo al Comune di Roma. Durante l’esilio dei papi ad Avignone (1309-1377), il Senato romano incaricò l’Arciconfraternita del SS. Salvatore ad Sancta Sanctorum di sorvegliare e ripulire la zona del Colosseo, divenuto dimora di ladri e prostitute. Nel 1332, in occasione della visita in città di Ludovico il Bavaro, l’anfiteatro ospitò per l’ultima volta uno spettacolo: un combattimento di tori, offerto dal Senato e accolto con entusiasmo dal popolo. La descrizione dell’evento, che inconsapevolmente riportò il monumento alla sua funzione originaria – di cui si era del tutto
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persa memoria nel corso dei secoli (solo gli umanisti Poggio Bracciolini e Flavio Biondo, molto piú tardi, compresero a quale scopo fosse stato costruito l’edificio) –, è descritta in una cronaca di Ludovico Bonconte Monaldeschi, e in un codice appartenuto al barone Pietro Ercole Visconti. Si racconta che furono costruiti per l’occasione palchi lignei, riservati alle nobildonne e che al combattimento con i tori parteciparono molti esponenti della nobiltà (Iacopo Cencio, Galeotto Malatesta di Rimini, ecc.).
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Durante lo spettacolo furono uccisi undici animali, ma persero la vita anche diciotto partecipanti, mentre nove riportarono ferite.
Le chiese per il Salvatore Dopo questo episodio cruento, le cacce ai tori, benché ripetutamente proposte, non furono mai piú organizzate. Negli anni successivi, nel monumento si impiantò una chiesa, S. Salvatore in Rota Colisei, ricordata in un breve di Pio II del 1461. Secondo l’archeologo Mariano Armellini (1852-1896), nei pressi
Corsa di tori alla maniera antica, olio su tela di Maerten Van Heemskerck. 1552. Lille, Palais des Beaux-Arts. La scena si ispira alla tradizione medievale che descriveva la
commerciali che intorno a esso gravitavano, l’edificio visse una fase di isolamento e abbandono, conteso tra l’attività di tutela e manutenzione a cura del Senato romano e gli interessi della Camera Apostolica, piú propensa al suo sfruttamento come cava di materiali. L’area che lo circondava fu occupata da prati e vigne, le chiese abbandonate e trasformate in fienili, mentre i pastori che vi portavano a pascolare le greggi vi impiantarono i loro ricoveri: una situazione che perdurò almeno fino alla seconda metà del Cinquecento.
Fra conservazione e sfruttamento
presenza nell’arena del Colosseo di una statua di Apollo con in mano una sfera, simbolo di Roma che regge il mondo: una commistione evidente tra il Colosso e l’anfiteatro.
dell’anfiteatro sorgevano altre piccole chiese dedicate al Salvatore: una forse addossata al monumento nel lato verso S. Giovanni in Laterano (S. Salvatore de Insula), l’altra presso l’Arco di Costantino (S. Salvatore de Arcu de Trasi), di cui non rimane piú alcuna traccia. Nel 1338 i Frangipane cedettero a Orso Orsini alcune case e palazzi nel Colosseo, che furono poi gravemente danneggiati dal terremoto del 1349. Da questo momento, inoltre, con il trasferimento della sede pontificia dal Laterano al Vaticano, e di conseguenza delle attività
L’atteggiamento ambiguo dei pontefici nei confronti del Colosseo era dovuto al fatto che essi volevano lasciare un segno del proprio papato con la costruzione di nuovi edifici, conservando, al contempo, il monumento antico, che però permetteva anche di reperire con facilità e a buon mercato il materiale edilizio. Il compromesso fu trovato lasciando intatta la facciata sul lato settentrionale dell’anfiteatro, posta sull’asse stradale battuto dalle processioni religiose alla presenza del papa stesso, come una quinta scenografica, mentre il lato meridionale venne completamente smantellato, insieme alle parti interne di quello settentrionale. Tra il 1366 e il 1369, la Confraternita del Santissimo Salvatore ad Sancta Sanctorum cominciò ad acquistare case nel Colosseo e, nel 1381 (o 1386), il Senato Romano donò alla stessa Confraternita, che gestiva il vicino ospedale di S. Giacomo con annessa chiesa (riprodotta in un’incisione dell’Anonimo di Fabriczy del 1568-1572; vedi a p. 49), la terza parte del Colosseo. In questa occasione, su alcuni archi lungo l’asse maggiore, vennero apposti lo stemma del Senato Romano e l’insegna della Confraternita con l’immagine del Santissimo Salvatore, in versione sia dipinta (arco LXV) che scolpita (arco LXIII e arcata centrale orientale) tuttora visibili. Aperto nel 1383 all’estremità orientale dell’asse maggiore e, stando a un documento del 1435, riservato alle donne, l’ospedale era collegato a una
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L’interno del Colosseo in un disegno di William Pars. 1775 circa. Londra, Tate Gallery. Si notano la croce al centro dell’arena, la cappella di S. Maria della Pietà e le edicole della Via Crucis.
strada selciata che passava all’interno dell’anfiteatro, lungo l’asse maggiore. La chiesa di S. Giacomo, ancora funzionante nel XV secolo, fu trasformata in fienile nel XVII secolo, dopo il trasferimento del nosocomio al Laterano, e demolita agli inizi dell’Ottocento per realizzare lo sperone orientale; nel 1895 se ne trovarono le fondazioni, che furono subito smantellate. Il Colosseo venne dunque diviso in tre proprietà: un terzo del Senato capitolino, un terzo della Camera Apostolica e un terzo della Confraternita del Santissimo Salvatore ad Sancta Sanctorum.
Sacre rappresentazioni Nel 1490 Innocenzo VIII concesse alla Compagnia del Gonfalone di poter allestire rappresentazioni sacre all’interno del Colosseo. Nacque cosí la tradizione di rappresentare nell’arena la Passione di Cristo il Venerdí Santo, su un palco appositamente costruito nel settore orientale della cavea. La messa in scena fu ripetuta ogni anno, fino al tempo di Paolo III, che la soppresse nel 1539, per via dell’alto costo della sua organizzazione. Tra la fine del XV e gli inizi del XVI secolo, la Compagnia del Gonfalone costruí, in uno dei fornici, la cappella di S. Maria della Pietà, la cui prima notizia si trova in un atto notarile del 4 settembre 1501, successivamente ricostruita nel 1622 dall’Arciconfraternita del Gonfalone. Tra le poche pitture conservatesi nel Colosseo, ve n’è una, sulla superficie interna dell’arcata centrale dell’ingresso occidentale, che raffigura la città di Gerusalemme, risalente al XVI secolo, mentre un’immagine di Roma, eseguita nel 1675 e ora scomparsa, era stata dipinta sulla facciata dell’arcata opposta. Nel suo progetto di rinnovamento edilizio di Roma, Sisto V dispose che i Maestri delle strade liberassero il Colosseo dagli interri che lo avevano circondato, ma l’operazione fu sospesa alla morte del pontefice, nell’agosto
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del 1590. Uno dei progetti del papa prevedeva anche, nella sua fase originale, la demolizione completa dell’anfiteatro, per realizzare tre assi stradali, destinati a collegare la valle con il Laterano, il Campidoglio e il Quirinale. Fu probabilmente il popolo romano a opporsi al drastico intervento, anche se la strada tra il Colosseo e il Laterano venne comunque realizzata, senza che però la sua creazione favorisse lo sviluppo urbanistico della zona, che si ebbe solo nel XVIII secolo. Sisto V intendeva anche installare una filanda nel monumento e, secondo il progetto dell’architetto Domenico Fontana, l’impianto avrebbe avuto i laboratori industriali nel I ordine, mentre le case degli operai e le botteghe avrebbero occupato i piani superiori. L’uso «industriale» del Colosseo divenne realtà qualche anno piú tardi: nel 1594, infatti, i guardiani dell’Arciconfraternita del
Gonfalone, all’insaputa delle autorità comunali, concessero in affitto alcune arcate del II ordine, nel lato verso S. Clemente, per impiantarvi una fabbrica di colla animale, detta «cerviona». Quando il Comune ne venne a conoscenza, i Conservatori fecero imprigionare i fabbricanti di colla, «acciocchè nessuno si arrogasse di avere jurisdizione di detto loco publico». Gli artigiani vennero scarcerati solo dopo essersi impegnati a sgomberare immediatamente i locali.
In basso stampa ottocentesca che allude alle dispute sugli interventi nel Colosseo, corredata dalla didascalia (non riprodotta) «Iscrizione che serve all’Architetti per fissare l’epoca dei principali Ristauri visibili ne’
sotterranei all’Arena dell’Anfiteatro Flavio». Roma, Gabinetto Comunale delle Stampe. A destra Il Colosseo a Roma, olio su tela di Hubert Robert. 1780-1790. Madrid, Museo del Prado.
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Il commercio delle pietre cadute Un documento del 1606, di proprietà della Confraternita del Santissimo Salvatore, ribadisce che la vendita dei travertini per la costruzione del Palazzo Senatorio doveva riguardare solo le pietre cadute dagli ultimi piani e, il 6 agosto 1639, i Conservatori concessero a Brandimarte Basso, licenza di
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A destra un operaio al lavoro nel cantiere allestito per i recenti restauri dell’anfiteatro. Nella pagina accanto il settore sud-ovest del Colosseo. Si notano i restauri di Giuseppe Valadier e di Nicola Salvi e, al centro, l’iscrizione che ricorda gli interventi durante i Giubilei del 1675, sotto Clemente X, e del 1750, sotto Benedetto XIV, nonché i restauri di Pio IX.
cavare pietre cadute nel Colosseo per la costruzione di Palazzo Barberini. Dopo il terremoto del 1703, papa Clemente XI donò i travertini caduti nell’anfiteatro per la fabbrica del porto di Ripetta, che, nel 1707, poté utilizzare anche quelli scartati dal cantiere di restauro del Palazzo Senatorio, in quanto la loro misura non era adatta ai pilastri che ne sorreggevano il salone.
Deposito di concimi e immondizie Nel corso del XVIII secolo, oltre che come cava di materiale, il monumento cominciò a essere usato, sfruttandone varie arcate come deposito di concimi e immondizie, dai quali ricavare il salnitro per le polveri da sparo della polveriera attiva presso la vicina chiesa di S. Pietro in Vincoli. In questa circostanza, molte arcate esterne vennero chiuse con muri, mentre altre da cancellate. L’appalto per il salnitro era stato concesso direttamente dal papa, senza consultare i rappresentanti del popolo romano, i quali, durante la pubblica udienza del 14 aprile 1714 se ne lamentarono, chiedendo a Clemente XI che le chiavi dei cancelli fossero
consegnate ai Conservatori, che dunque sarebbero stati i soli custodi del monumento, cosí come di altri edifici antichi della città. Negli anni successivi vi furono nuove lagnanze nei confronti del produttore di salnitro, tal signor Sforza-Costa, citato nei documenti come «appaltatore della Salara di Roma», perché la sua attività era considerata lesiva dei diritti del Comune sull’edificio e, in particolare, per l’incuria derivante dall’apertura dei cancelli dei grottoni nei quali si custodiva il salnitro, «dando cosí adito a potere entrare e salire sopra le mura del Colosseo». Da una congregazione dell’11 giugno 1742 risulta che l’appaltatore provvide a restaurare i cancelli e i muri dell’anfiteatro, ma poiché il monumento continuava a rimanere aperto, l’8 febbraio 1744 fu emanato il seguente bando: «Clemente XI fece recingere di muri i primi archi del Colosseo e munir di cancelli quelli che servir dovevano per l’ingresso delle carrette e bestiami che ci portano il letame, per servizio della fabrica dei salnitri; cosí N.S. [Benedetto XIV] ha fatto riattare detti muri e ordinato che stia sempre chiuso, comminando severe pene
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ai carrettieri che lasciassero aperto dopo aver scaricato il letame». Con un editto promulgato nello stesso 1742, il pontefice consacrò l’arena ai martiri della fede, fondando anche l’Arciconfraternita di Gesú e Maria e ponendo cosí fine al riuso indiscriminato del monumento. Proclamando sacra la terra dell’arena in quanto bagnata dal sangue dei martiri, e pertanto intoccabile, l’editto papale costituiva, in qualche modo, il primo atto di tutela del Colosseo; che però si tradusse anche in un ostacolo ai successivi interventi di scavo e restauro, che vennero considerati quasi una profanazione. Si dovette infatti arrivare alla fine del secolo e, soprattutto, agli inizi dell’Ottocento per poter effettuare i primi interventi sull’anfiteatro.
La prima Via Crucis Per l’Anno Santo del 1750, nell’arena del Colosseo vennero costruite per la prima volta le cappelle della Via Crucis, per iniziativa del padre francescano ligure (e poi santo) Leonardo da Porto Maurizio (1676-1751), il quale ne aveva ottenuto il permesso dai Conservatori del Comune. In quell’occasione il papa, che era ancora Benedetto XIV, fece porre anche l’iscrizione marmorea ancora visibile sulla facciata occidentale del monumento, che sostituiva quella dipinta per il Giubileo del 1675 e che ricordava la consacrazione del Colosseo alla memoria dei martiri. Nel 1767 la confraternita degli Amanti di Gesú e Maria fu autorizzata a piantare nel mezzo dell’arena una croce di legno, mentre a un’altra pia istituzione, chiamata degli «operai dei poveri», che si riuniva presso il monumento per istruire e far pregare gli indigenti, furono concesse due arcate per ricavarne altrettante stanze in cui svolgere la propria missione. Nel 1786 la confraternita degli Amanti di Gesú e Maria si vide revocare la concessione della chiave, in quanto aveva apportato alcune modifiche all’edificio senza l’autorizzazione del Comune e aveva incaricato un proprio guardiano dell’apertura e della chiusura dei (segue a p. 64)
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Il Colosseo e la Meta Sudans in una foto scattata intorno al 1880.
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Il monumento in miniatura S
ulla base di una tradizione sviluppatasi a Napoli già dal XVI secolo, cioè la creazione di modelli in sughero degli edifici da inserire nei presepi, nella seconda metà del Settecento prende avvio, anche a Roma, la moda delle repliche in scala dei monumenti antichi (felloplastica, da phellos, sughero). Abili artigiani, spesso sulla base di rilievi diretti, realizzarono cosí rappresentazioni tridimensionali delle antichità di Roma e della Magna Grecia, che avevano il duplice scopo di souvenir di lusso per i viaggiatori del Grand Tour e di sussidio per lo studio della storia dell’architettura. Spesso, inoltre, questi plastici hanno un importante valore documentario, poiché riproducono parti di edifici in seguito distrutti o modificati. L’inventore di questa tecnica modellistica è ritenuto Agostino Rosa (1738-1784), napoletano ma residente a Roma, che collaborò anche con Piranesi. Di lui è noto un plastico del Colosseo eseguito intorno al 1774. Poco piú tardi, un altro napoletano, Giovanni Altieri, basandosi sul rilievo eseguito dall’architetto Thomas Hardwick (che aveva effettuato un piccolo scavo nel Colosseo nel 1778), realizzò un modello del monumento, purtroppo perduto. Altri due plastici dell’anfiteatro (ora conservati a Kassel e a Darmstadt), furono eseguiti da Antonio Chichi, tra gli anni 1777 e 1790. Chichi, che probabilmente lavorò nella bottega di Piranesi, si può considerare il piú famoso modellista del suo tempo e aveva un catalogo di ben 36 edifici diversi. Nell’esemplare di Kassel, una parte del monumento è riprodotta nello stato in cui era, con l’interro esterno e il piano dell’arena prima degli interventi ottocenteschi, mentre un’altra sezione ricostruisce sia la crepidine esterna, non ancora visibile, sia le gradinate della cavea
Uno dei plastici del Colosseo realizzati da Antonio Chichi. 1777-1790. Kassel, Staatliche Kunstsammlungen.
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con i vomitoria, seppure con qualche imprecisione (come la mancanza del retro podio, non ancora visibile a causa degli interri). Non vi sono rappresentate le edicole della Via Crucis, né la croce centrale, in quanto non pertinenti all’edificio antico. I modelli furono eseguiti sui disegni di Carlo Fontana e offrono un’immagine del Colosseo prima degli scavi francesi e la realizzazione dei due speroni di Stern e Valadier. Nel 1814 il governo provvisorio francese affidò a Chichi la riproduzione delle murature dei sotterranei dell’arena, da poco rinvenute; il progetto non fu realizzato a causa del ritorno a Roma del papa e di queste strutture rimangono pertanto solo i rilievi eseguiti da Luigi Maria Valadier. Il modello piú famoso è tuttavia quello in legno, in scala 1:60, che ricostruisce l’anfiteatro nel momento successivo alla colmata degli ambienti ipogei. L’opera si deve all’ebanista Carlo Lucangeli, che vi lavorò per 22 anni, dal 1790, eseguendo anche vari saggi di scavo per ricostruire esattamente le strutture; durante queste esplorazioni, nel 1798, Lucangeli scoprí il muro in laterizio del retro podio, con le 24 nicchie quadrate, da lui erroneamente considerato il margine dell’arena, mentre nel 1805 individuò il cosiddetto «passaggio di Commodo», nonché parte delle 32 nicchie perimetrali degli ipogei e i passaggi che immettevano nelle camere di manovra a «L» nei due criptoportici dell’asse maggiore, prima, dunque, degli sterri del governo francese. Nel 1812, Lucangeli venne anche nominato «custode» dell’anfiteatro, ma, nello stesso anno, morí prematuramente, cosicché il plastico fu completato dal genero, Paolo Dalbono. Grazie alle conoscenze e ai ritrovamenti fino ad allora acquisiti, in particolare nell’arena – dove si rinvennero le colonne –, nel modello
In questa pagina il plastico del Colosseo iniziato da Carlo Lucangeli e ultimato dal genero, Paolo Dalbono, tra il 1790 e il 1812, con un particolare del prospetto tra i fornici XLVI-L (a destra). Per garantire l’attendibilità del modello, Lucangeli condusse vari saggi di scavo nel monumento.
fu riprodotto il portico colonnato in summa cavea, differenziandosi dalla ricostruzione di Chichi, che vi aveva invece collocato i pilastri. A Dalbono si deve la ricostruzione dei sotterranei dell’arena, scoperti solo dopo la morte di Lucangeli in seguito agli scavi di Fea. Nel 1813 venne data alle stampe una pubblicazione, forse elaborata sugli scritti di Lucangeli, che descriveva il modello; l’opera fu ristampata due anni dopo in francese, corredata da una dichiarazione dell’eccellenza del plastico firmata, tra gli altri, da Canova, Valadier e Stern. Nella descrizione dei sotterranei presente in questa edizione, scritta forse da Dalbono, si ipotizza l’uso di alcune strutture in tufo del corridoio centrale come appoggi di rampe per sollevare sull’arena gli animali. Dopo altre ristampe, un’edizione del 1851 presenta anche un breve saggio di Pietro Ercole Visconti sulle statue presenti nelle arcate esterne del Colosseo. Dopo varie vicissitudini, tra cui la perdita di alcuni particolari decorativi (capitelli, statue) e del velario, il modello fu portato nel 1895 nel Colosseo. Oltre a quello ricostruttivo, tra il 1792 e il 1805, Lucangeli aveva realizzato un altro modello, alla stessa scala e in sughero, che documentava lo stato di conservazione del monumento, preludio alla realizzazione di quello ricostruttivo. Tale opera fu acquistata nel 1809 dall’École des Beaux-Arts di Parigi, dove si trova tuttora. Un altro plastico, anch’esso in scala 1:60 e che presenta il monumento dopo la realizzazione dei due contrafforti di Stern e di Valadier, ma prima dei restauri promossi da papa Gregorio XVI (1821-1846), si deve ai fratelli
Georg e Maximilian May. Conservata nel castello di Aschaffenburg, l’opera fu iniziata nel 1849 e ultimata nel 1854, quando i restauri erano già terminati e il lato meridionale del monumento era profondamente mutato: il plastico ne offre perciò un’immagine accurata (sono presenti le edicole e la chiesetta all’interno dell’arena), ma ormai superata. Da allora in poi, in ogni caso, la ricostruzione del monumento non venne piú affidata ai plastici, ma alle restituzioni grafiche, il cui massimo autore fu Luigi Canina.
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cancelli; la chiave fu quindi affidata all’eremita dell’Arciconfraternita del Gonfalone, che divenne dunque il solo custode dell’edificio. L’ultima asportazione di travertini del XVIII secolo avvenne nel 1796 e i materiali furono venduti per conto della Camera Capitolina. Gli ultimi interventi delle autorità comunali sul Colosseo, prima del governo napoleonico, furono invece alcuni sterri praticati nei fossi che circondavano l’anfiteatro, soprattutto verso l’Arco di Costantino, nell’agosto 1797.
Scavi e restauri Le prime indagini archeologiche all’interno del Colosseo si devono a Carlo Lucangeli, che, già nel 1793, chiese un permesso di scavo,
Benito Mussolini in posa con il Colosseo sullo sfondo. 1940 circa.
finalizzato alla migliore conoscenza del monumento in vista della costruzione del suo modello in legno (vedi box alle pp. 62-63). L’intervento fu effettuato impiegando come manodopera molti detenuti delle carceri romane, che, per motivi di sicurezza, dovevano lavorare con le catene ai piedi. Nell’Ottocento si ebbero nuovi scavi o, per meglio dire, sterri, nonché i primi interventi di consolidamento; sotto Pio VII, tra il 1805 e il 1806, e sotto il governo francese, tra il 1811 e il 1813, Carlo Fea scavò la metà a nord dell’arena, senza però giungere al piano originario degli ipogei, a causa dell’allagamento degli ambienti. Nello stesso periodo si mise mano anche ai primi restauri: la parte dell’edificio verso il Laterano minacciava di crollare e Pio VII, nel 1806, ordinò quindi la realizzazione dello sperone nella parte est, progettato da Raffaele Stern e la cui costruzione doveva essere ancora in corso nel 1822, come testimonia una stampa dell’epoca. Pochi anni piú tardi, tra il 1823 e il 1826, sotto Leone XII, Giuseppe Valadier realizzò il consolidamento del muro esterno nel lato nord-ovest.
Un intervento filologico A differenza dello sperone di Stern, che non aveva tenuto in alcun conto l’architettura originaria del Colosseo, limitandosi a un’opera di sostegno strutturale, la proposta di Valadier considerò anche l’aspetto estetico, con la realizzazione di un supporto formato da arcate in mattoni e travertino, che riprendevano lo stile architettonico del monumento. Durante il pontificato di Gregorio XVI, anche il settore del lato sud-est verso il Celio – dove già era crollato l’anello esterno – venne restaurato da Gaspare Salvi (1831-1846), con la ricostruzione di sette arcate del I ordine e di otto del II. Dopo la sua morte, nel 1849, i lavori furono portati a termine da Luigi Canina insieme a Luigi Poletti e Clemente Folchi. L’ultimo grande restauro ottocentesco si deve a papa Pio IX, il quale, nel 1852, affidò a Canina il consolidamento del settore settentrionale, verso l’Esquilino, precisamente nell’ingresso
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imperiale, come ricorda anche l’iscrizione tuttora presente in questo settore. Dopo il 1870, passato allo Stato italiano, il Colosseo fu oggetto di nuovi scavi e restauri. Nel 1874, il Soprintendente agli Scavi Pietro Rosa riprese l’esplorazione degli ipogei, nel settore orientale dell’arena, arrivando al piano originale in opus spicatum, che non era stato raggiunto da Fea. Nell’occasione furono abbattute la croce e le edicole della Via Crucis, suscitando feroci polemiche da parte dell’ambiente clericale, che vide nell’intervento un gesto di profanazione del luogo consacrato da Benedetto XIV al culto dei martiri. Un anno dopo gli scavi vennero comunque sospesi a causa dell’allagamento dell’arena. Nonostante le proteste del Soprintendente Alberto Terenzio, nel ventennio fascista l’arena ospitò le adunate avanguardiste, che causarono danni a capitelli e colonne. Negli stessi anni furono anche realizzati vari interventi arbitrari, come l’errata ricostruzione, nel 1933, di una porzione dell’ima cavea nel settore nord-orientale, ripristinando una successione di gradini, là dove, in realtà, erano collocati i sedili in legno destinati ai senatori.
Il monumento in una foto aerea scattata intorno al 1946.
Si dovettero attendere gli scavi condotti da Luigi Cozzo, tra il 1938 e il 1939, per poter liberare interamente le strutture degli ipogei, anche se, contestualmente, vennero demolite molte strutture ritenute non pertinenti.
Dal riuso alla valorizzazione Nel 1940 venne realizzato il solaio in cemento armato nell’ingresso occidentale che tuttora consente il transito e l’affaccio sui sotterranei, e, pochi anni piú tardi, furono costruiti, al I e II ordine alle estremità interne degli assi, i belvedere che permettono di osservare le strutture ipogee. Durante la seconda guerra mondiale il Colosseo fu utilizzato come rifugio e deposito di armi dei paracadutisti tedeschi. Dopo aver svolto la funzione di spartitraffico fino agli anni Settanta del Novecento, epoca a cui risalgono le prime indagini archeologiche condotte con metodo scientifico e interventi di restauro con criteri moderni, l’Anfiteatro Flavio, negli ultimi decenni dello stesso secolo, grazie alla sistemazione a verde e a isola pedonale dell’intera valle del Colosseo, è tornato a essere il simbolo di Roma, di cui è da anni il monumento piú visitato.
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Veduta aerea dell’Anfiteatro Flavio, che permette di apprezzarne la pianta ellittica, tipica di questo genere di edifici.
ANALISI DI UN CAPOLAVORO Un organismo architettonico «perfetto»: è questo il segreto del Colosseo
TECNICA E MATERIALI
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ebbene complessa, la struttura del Colosseo si basa su alcuni caratteri essenziali, individuabili nel tipo di materiale utilizzato (travertino, tufo e laterizio) e nella tecnica di messa in opera. La costruzione gioca sulla ripetizione di tre elementi architettonici principali: il pilastro con semicolonna, l’arco e la cornice. Come osservò l’archeologo Giuseppe Lugli (1890-1967), il Colosseo è il migliore esempio di utilizzo razionale dell’opera quadrata (muratura composta da blocchi tagliati in forma di parallelepipedi e disposti, orizzontalmente, in filari, n.d.r.), in questo caso realizzata a secco, unendo gli elementi squadrati con perni e grappe metalliche. Tale sistema di costruzione, che permetteva il lavoro contemporaneo di almeno quattro cantieri diversi, assicurò solidità e rapidità nella realizzazione. Anche le tecniche di sollevamento furono diverse: si fece ricorso a paranchi sospesi su ponti lignei sporgenti, poggiati sulle mensole dei pilastri; a piani inclinati forniti di verricelli; oppure a montacarichi tirati da argani multipli.
Una «ciambella» come sostegno Sfruttando lo spazio occupato dal bacino artificiale dello stagno neroniano (il cui fondo poggiava in parte su precedenti abitazioni di epoca repubblicana), fu realizzata dapprima una massiccia struttura di fondazione, profonda 13-14 m, in calcestruzzo e pezzami di leucitite, una pietra vulcanica molto solida e impermeabile. Tale fondazione, di forma probabilmente a «ciambella», consta di due elementi sovrapposti: quello inferiore, alto 7 m, circa, e quello superiore, che ne misura circa 6 e costituiva anche il piano di spiccato del pavimento in opus spicatum degli ipogei (un tipo di pavimentazione eseguita con laterizi disposti a spina di pesce, n.d.r.). Questa seconda fondazione, divisa in quattro
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La costruzione
La struttura dell’anfiteatro fu realizzata con blocchi di travertino nei muri perimetrali e nei pilastri portanti e in opera laterizia (mattoni) e blocchi di tufo per le scale e i muri radiali. L’edificio è a pianta ellittica, con l’asse maggiore di 158 m e il minore di 156. Al momento dell’inaugurazione fatta da Vespasiano non era ancora terminato; Tito portò a termine i lavori, e, nell’80 d.C., fece una seconda inaugurazione.
Assonometria ricostruttiva delle fasi di cantiere del Colosseo; per il sollevamento dei materiali furono utilizzate tecniche diverse: paranchi sospesi su ponti lignei sporgenti poggiati sulle mensole dei pilastri; piani inclinati forniti di verricelli, o montacarichi tirati da argani multipli.
spicchi – nei quali vennero ricavati i criptoportici e gli altri ambienti disposti sugli assi maggiore e minore – è circondata, all’esterno e all’interno, da due muri poderosi, con nucleo in calcestruzzo e rivestimento a cortina laterizia; in quello interno vennero ricavate le nicchie perimetrali degli ipogei. Sotto la fondazione, si realizzarono anche quattro grandi collettori fognari e, sopra questo robusto basamento, fu steso un sottile strato di calce bianca ricavata dalla polvere di travertino, per uniformare la superficie della pavimentazione, costituita da due platee di blocchi di travertino spesse 1 m ciascuna. La platea inferiore costituiva anche il piano di spiccato dei pilastri, l’ossatura portante dell’edificio, nonché il sottofondo della pavimentazione vera e propria, mentre in quella superiore vennero alloggiati i condotti idraulici radiali, che collegavano il canale anulare interno con quello esterno, ricavato nel muro perimetrale esterno della struttura di fondazione.
Travertino tiburtino e tufo dell’Aniene
I cantieri
Costruito sopra una spianata di calcestruzzo, il Colosseo fu innalzato partendo da una gabbia portante di pilastri e archi raccordati da volte su cui poggia la cavea. Nel cantiere si lavorava contemporaneamente in basso e in alto e, nel caso del cantiere inferiore, si lavorava anche nei giorni di maltempo. Si calcola che all’anfiteatro lavorassero forse quattro cantieri diversi.
Ultimato l’apprestamento di questa imponente fondazione, si proseguí costruendo una enorme gabbia di pilastri e archi di travertino (proveniente da cave situate presso le Terme di Tivoli), in corrispondenza dei vari piani, collegandoli tra loro con volte rampanti di travertino o mattoni su cui doveva poggiare la cavea; gli spazi intermedi, che opponevano una resistenza minore, furono quindi riempiti con blocchi di tufo dell’Aniene (proveniente perlopiú dalle cave di Tor Cervara) e peperino; infine,
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Qui sopra tre frammenti di transenne dei vomitoria (vedi A nel disegno alla pagina accanto). A sinistra capitello corinzio figurato dal colonnato della porticus in summa cavea (vedi B nel disegno alla pagina accanto).
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vennero innalzati i muri radiali e le altre strutture, utilizzando laterizi legati da calcestruzzo.
Un gigante in quattro ordini L’Anfiteatro Flavio è articolato all’esterno in quattro ordini architettonici in opera quadrata di travertino, che poggiano su una crepidine di blocchi, anch’essi in travertino, che formano due gradini. I primi tre ordini sono scanditi da 80 arcate, aventi una luce di 4,20 m circa e che poggiano su pilastri con semicolonne larghi 2,70 m circa. Il I ordine presenta capitelli tuscanici, sormontati da un architrave a tre fasce, un fregio liscio e una cornice modanata.
Marmi a profusione A Nei vari settori della cavea si aprivano numerosi varchi,
detti vomitoria, che consentivano l’ingresso e l’uscita degli spettatori; le aperture erano circondate su tre lati da transenne di protezione (vedi anche il disegno in alto).
Nel II ordine i capitelli sono di tipo ionico e non vennero rifiniti, in quanto la loro posizione elevata avrebbe impedito di apprezzarne una lavorazione piú accurata. Il III ordine è provvisto di semicolonne che poggiano su una base formata da un plinto e un toro; i capitelli sono corinzi, con una doppia corona di foglie lisce. Il IV ordine si presenta come una parete piena, divisa da lesene su un alto piedistallo aggettante, che formano 80 riquadri, nei quali si aprono, a intervalli regolari, 40 finestre, una ogni due arcate degli ordini sottostanti, in origine intervallate da scudi di bronzo dorato (clipei), qui collocati probabilmente da Domiziano e di cui si ha testimonianza dal Cronografo del 354 e dalle monete. Ciascun riquadro accoglieva 3 mensole, dunque in tutto 240, sulle quali venivano alloggiati i travi lignei che sostenevano il velario. L’altezza degli archi del I ordine è di 7 m circa, mentre quella dei due
B In origine, il portico colonnato in summa cavea del Colosseo doveva essere in legno e fu poi interamente ricostruito in marmo, ornandolo con colonne e capitelli.
B
A
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Entrata e uscita 1 Dalla Porta Triumphalis
faceva il suo ingresso nell’arena la pompa, il corteo dei gladiatori accompagnato da musicanti.
2
La Porta Libitinensis, a est, era utilizzata per l’uscita dei gladiatori alla fine dello spettacolo (vivi o morti) e collegava l’anfiteatro con l’adiacente Ludus Magnus.
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Gli accessi nella parte sud-orientale erano utilizzati dal pubblico, mentre all’imperatore e alle autorità erano riservati gli ingressi meridionale e settentrionale.
La numerazione
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parte del III ordine e alla parete dell’attico. I meniani erano separati tra loro da corridoi anulari con parapetti di sicurezza (praecinctiones) e da gradinate verticali, che dividevano la cavea in spicchi (cunei); i varchi di accesso alla cavea erano chiamati vomitoria. Un alto muro (podium), circondava l’harena, lo spazio riservato agli spettacoli.
Percorsi differenziati
I corridoi d’accesso ordini superiori è di 6,50. Le misure non sono costanti, ma, anzi, nella stessa struttura, si riscontrano differenze anche notevoli, indice della fretta con cui l’edificio venne costruito e della presenza di piú imprese operanti contemporaneamente. Delle 80 arcate del I ordine, 68 erano destinate all’ingresso del pubblico; tra le restanti 12, le 6 disposte ai due estremi dell’asse minore erano riservate all’imperatore e alle massime autorità; le altre, sull’asse maggiore, all’ingresso dei gladiatori e degli altri protagonisti degli spettacoli. La cavea interna, cioè lo spazio occupato dalle gradinate (spectaculi gradus) era divisa in cinque settori (maeniana) di posti (loca), cosí disposti, partendo dal piano terra: I e II settore, corrispondente al I ordine esterno; III settore, corrispondente in altezza al II ordine esterno; IV e V settore, corrispondente a una minima
In alto un corridoio di accesso alla cavea; si notano alcune delle colonne del portico superiore «affettate» per ricavarne blocchi, sui quali vennero incisi i nomi degli ultimi senatori conosciuti nel Colosseo. Nella pagina accanto, in alto uno dei numeri ancora leggibili su una delle arcate del settore nord-ovest, indicante l’ingresso LII (52) inciso.
Molto complesso era il sistema di accessi alle varie gradinate dall’ingresso; si possono distinguere cinque diversi percorsi, due diretti, riservati ai senatori e ai cavalieri, e tre indiretti che, tramite rampe di scale presenti nel II e III ordine, conducevano ai settori piú alti (maenianum secundum e summum in ligneis). Grazie a questo sistema di ingressi e percorsi, ogni spettatore aveva il posto assegnato, scritto sulla «tessera», che corrispondeva ai numeri ancora ben visibili sulle arcate del piano terra. Tutti gli archi erano infatti contrassegnati all’esterno da un numero, scritto con grandi cifre incise al di sotto delle cornici; la numerazione iniziava dall’arcata posta a est dell’ingresso meridionale e terminava con il LXXVI nell’arcata a ovest del medesimo ingresso. Solo i quattro accessi principali disposti sugli assi maggiore e minore erano privi di numero, in quanto riservati alle autorità e ai protagonisti degli spettacoli. Altre indicazioni per raggiungere il proprio posto dovevano trovarsi sugli archi di accesso ai vomitoria: oggi non ne rimane traccia, ma erano ancora visibili agli inizi del Novecento. Ciò permetteva anche il deflusso ordinato del pubblico, senza calca e confusione, rispettando inoltre le differenze sociali: man mano che si saliva agli ordini piú alti, diminuiva la classe sociale di appartenenza. Con questo sistema, senatori e cavalieri non avevano possibilità di incontrarsi; semmai, gli esponenti della classe media potevano imbattersi, limitatamente al III corridoio anulare, in un senatore o un cavaliere, mentre la plebe non poteva avere alcun contatto con le altre categorie. (segue a p. 76)
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TECNICA E MATERIALI I NUMERI DEL COLOSSEO • 48,3 m l’altezza dell’anello esterno
• 35 m
l’altezza del Colosso di Nerone
• 188 m
il diametro maggiore dell’ellissi esterna
• 156 m
il diametro minore dell’ellissi esterna
• 3600 mq
la superficie
dell’arena
• 527 m il perimetro • 2,5 ettari la superficie occupata, inclusa l’area di rispetto delimitata da cippi in travertino
• 100 000 mc
di travertino impiegato
• 45 000 mc
di travertino solo per la facciata
• 4 piani sovrapposti • 45-50 file di gradini in marmo
• 300 t di ferro impiegato per le grappe
• 240 le mensole e i fori nel cornicione per sostenere i pali del velario
• 80 arcate al pianterreno • 5 ambulacri concentrici • 8 gli anni per costruirlo (dal 72 all’80 d.C.)
• 68 000-75 000 gli spettatori
• 56 file di sedili delle gradinate
•8 7 000 piedi romani lo sviluppo lineare della cavea secondo i Cataloghi Regionari (1 piede= 29 cm circa)
• 100 giorni consecutivi
di giochi per l’inaugurazione sotto Tito
• 5000 le fiere uccise
in un solo giorno durante l’inaugurazione
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Forse non tutti sanno che... 1
L
e parti fondamentali dell’anfiteatro sono l’arena, la cavea – nella quale sono distribuite le gradinate per gli spettatori – e i sotterranei, dove il personale di servizio provvedeva alla movimentazione dei macchinari scenici, delle attrezzature e degli animali. La forma ellittica dell’arena, risponde alle esigenze non solo dei protagonisti degli spettacoli, ma anche a quelle del pubblico, offrendo a tutti una visuale completa.
1. La copertura
Poiché gli spettacoli riempivano l’intero arco della giornata, dal mattino al tramonto, un grande telo a spicchi, il velarium, riparava dal sole gli spettatori. Era sorretto da pali inseriti nel cornicione del quarto livello dell’anfiteatro e alla sua manovra era addetta una squadra di marinai appartenenti alla flotta di stanza a Capo Miseno.
2. L’arena
Il piano dell’arena, sotto il quale si snodavano gli ambienti ipogei, era costituito da un tavolato ligneo ricoperto di sabbia (da cui il termine), ed era circondato da un alto muro, il muro del podio, sormontato da una balaustra su cui potevano essere collocati i pali a cui fissare una rete metallica, per maggiore sicurezza degli spettatori. Dietro il muro del podio, correva un corridoio di servizio, diviso in due o quattro parti dalle gallerie disposte sull’asse maggiore e minore, che mettevano l’arena in comunicazione diretta con l’esterno.
innalzare belve e gladiatori, gabbie e tutto ciò che occorreva allo svolgimento dei giochi, comprese spettacolari scenografie che emergevano sull’arena grazie a un sistema di contrappesi.
3. I sotterranei
4. La cavea
Sotto l’arena erano stati ricavati gli ambienti sotterranei che ospitavano una serie di servizi: montacarichi per
La cavea era divisa in 5 settori e poteva contenere fino a 75 000 spettatori: una prima fascia di pochi
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5. I varchi d’accesso gradini (podium) era oltre la recinzione dell’arena; seguivano poi altri 4 settori. Il pubblico si distribuiva nei posti secondo una gerarchia sociale, senatori, cavalieri, sacerdoti, ecc.; gli ultimi posti, con gradini di legno, nell’attico dell’anfiteatro, erano riservati alle donne. La cavea aveva un’inclinazione di circa 35
gradi, che aumentava nella parte superiore, ed era suddivisa in ima, media e summa. Scale radiali la dividevano in settori trapezoidali (cunei), mentre ripiani piú larghi (praecinctiones), concentrici al perimetro, la suddividevano in fasce di dimensioni minori (maeniana).
80 arcate al piano terra davano accesso alle scalinate e, da qui, alla cavea. Sopra a ciascuno degli archi d’ingresso era indicato il numero che corrispondeva al biglietto (tessera) di cui era munito lo spettatore. Le indicazioni sono tuttora ben visibili, nonostante molte arcate risultino consunte dall’essere state adibite, nel Medioevo, a fornaci per la produzione della calce.
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Il maenianum summum in ligneis era l’ultimo piano destinato al pubblico, ma non il piú alto percorribile; sul prospetto interno dell’attico, conservato nella parte settentrionale del monumento, si vedono infatti le impronte di una ripida scala, che permetteva agli addetti al velario di accedere a un corridoio, che correva sulla sommità dell’anfiteatro. Oggi ne resta solo il parapetto esterno in blocchi di travertino e, probabilmente, le scale erano in origine quattro, una per ogni quarto dell’edificio.
L’ingresso dell’imperatore Due ingressi disposti sugli assi minori conducevano ai palchi, di cui non rimane traccia, destinati all’imperatore e al suo seguito e alle massime autorità dello Stato. La monumentalità di questi accessi era sottolineata all’esterno da due protiri – imponenti avancorpi leggermente aggettanti dal perimetro dell’edificio – costituiti da due colonne sulle quali si impostava un basamento In basso particolare del rilievo del mausoleo degli Haterii raffigurante l’ingresso principale del Colosseo, in corrispondenza del quale era stato eretto un portico sormontato da una quadriga. II sec. d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani, Museo Gregoriano Profano.
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In alto particolare di un’incisione del conte di Crozat che riproduce un disegno di Giovanni da Udine raffigurante la decorazione in stucco del passaggio centrale dell’ingresso nord: vi si vedono, tra gli altri, figure femminili, amorini e una donna alata. Parigi 1729. A sinistra Colosseo, settore nord-est. Il riquadro indica l’ingresso principale, riservato all’imperatore.
che ospitava una quadriga. Questi elementi, di cui si conserva qualche traccia nel pavimento della crepidine in cui erano alloggiate le colonne, sono noti dalle raffigurazioni del Colosseo sulle monete e dal rilievo del mausoleo degli Haterii (una famiglia di costruttori che, nei primi anni del II secolo d.C., aveva eretto il proprio sepolcro lungo l’antica via Labicana facendolo ornare con sculture oggi conservate nei Musei Vaticani, n.d.r.).
Marmi pregiati e sculture Smantellati forse già in epoca tardo-antica, i palchi (pulpita) riservati all’imperatore e al suo seguito erano verosimilmente strutture imponenti, rivestite da marmi pregiati e ornate da sculture. Vi si accedeva per un corridoio riccamente decorato negli intradossi delle volte da stucchi figurati, mentre le pareti erano
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rivestite di marmo. Scarse tracce si conservano della decorazione in stucco dell’ingresso nord, ma si vede ancora parte del disegno preparatorio; alcuni disegni eseguiti nel Rinascimento permettono di ricostruirne l’apparato figurativo, forse ascrivibile all’età flavia. Un’incisione del conte di Crozat, pubblicata nel 1729 e che riproduce un perduto disegno di Giovanni da Udine, ne documenta lo schema compositivo: all’interno di riquadri, compaiono amorini, figure ammantate e la premiazione di un vincitore dei giochi; un fregio con figure femminili, amorini e un tritone, ai cui lati era una decorazione entro quattro metope, ciascuna contenente una figura, separate da singoli personaggi. Alle estremità dell’asse maggiore, orientato in senso N-O/S-E, vi erano gli ingressi attraverso i quali si accedeva direttamente nell’arena.
In alto il settore del Colosseo nel quale si snoda un tratto del corridoio sotterraneo noto come «passaggio di Commodo», che permetteva all’imperatore di raggiungere indisturbato il palco meridionale.
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L’accesso era pavimentato con lastre di travertino e, a partire dal II corridoio anulare, con un piano di legno, nel quale si aprivano varchi per il passaggio dei montacarichi utilizzati per sollevare gli impianti scenici, in corrispondenza degli ambienti di servizio sotterranei. Dall’ingresso nord-ovest, detto Porta Triumphalis, entrava il corteo (pompa) dei gladiatori e degli altri protagonisti degli spettacoli, che – accompagnati da musici – facevano il giro dell’arena e rendevano omaggio all’imperatore e alle autorità. 3
4
Dalla parte opposta, la Porta Libitinensis (dalla dea Libitina, protettrice dei funerali), i combattenti uscivano, vivi o morti. Il lato est dell’asse maggiore era collegato direttamente con il Ludus Magnus, la vicina caserma dei gladiatori, da dove, attraverso un percorso sotterraneo, essi potevano raggiungere direttamente l’arena.
Attentato nel criptoportico Un secondo corridoio sotterraneo – un criptoportico realizzato probabilmente in età domizianea scavando direttamente nella fondazione dell’anfiteatro –, denominato galleria nord-sud o «passaggio di Commodo», in quanto, secondo Cassio Dione (72,4), questi vi avrebbe subíto un attentato, era destinato esclusivamente all’imperatore, che poteva raggiungere indisturbato il palco meridionale, dove tale passaggio finiva. L’accesso a questa galleria è attualmente visibile presso la terrazza del lato meridionale. Non si conosce il punto di partenza esterno di questo passaggio, che fu oggetto di scavi condotti negli anni 1810-1814 e 1874-1875, ma non ultimati, e in seguito ai quali Sulle due pagine immagini relative alla struttura e alla decorazione del «passaggio di Commodo»: 1. un tratto del «passaggio»; 2. stucchi dell’intradosso della volta, con menadi entro medaglioni; 3. disegno preparatorio della decorazione in stucco di una delle nicchie, con scene di giochi acrobatici con belve; 4. particolare della decorazione pittorica con una figura maschile.
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TECNICA E MATERIALI CAPITOLO
C
D
A
Ludus Magnus A L’arena per gli allenamenti
al combattimento.
B L’ingresso principale, a cui si scendeva dalla via sovrastante per una scalinata. C
L’edificio di tre piani che ospitava le celle per i gladiatori e il personale addetto al loro addestramento.
D La cavea, formata da nove gradinate, che poteva accogliere oltre 1000 spettatori.
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B
venne nuovamente interrato. Nella parte oggi nota, il criptoportico non ha un andamento rettilineo, essendo costituito da tre bracci, due dei quali con andamento est-ovest, e il terzo, di raccordo con gli altri due, con direzione nordsud. La copertura è a volta a botte, con aperture a bocca di lupo per la luce e l’aria. Essendo riservato all’imperatore, era riccamente decorato. Il pavimento, non conservato, era forse a mosaico o in marmo; le pareti erano rivestite probabilmente in alabastro, che creava effetti suggestivi, riflettendo la luce che filtrava dai lucernari aperti nelle volte del I ordine;
Nella pagina accanto disegno ricostruttivo del Ludus Magnus, una delle quattro caserme dei gladiatori. In basso il criptoportico orientale del Colosseo, che collegava l’anfiteatro al Ludus Magnus.
successivamente, rimosse le lastre marmoree, le pareti furono affrescate con figurazioni entro riquadri e schemi architettonici semplificati. L’intradosso delle volte era decorato da stucchi con scene dionisiache e menadi entro medaglioni e riquadri con elementi vegetali, forse riferibili all’età flavio-antonina. Molto interessanti risultano invece le raffigurazioni in stucco, di cui rimangono i disegni preparatori, sulle pareti delle due nicchie che si aprono nel criptoportico, in origine facenti parte di una galleria di servizio circostante l’arena. Vi sono rappresentate scene di spettacoli anfiteatrali molto in voga dalla seconda metà del II fino al VI secolo d.C. In un caso, una figura armata di frusta affronta un leone, trattenuto per la criniera da un secondo personaggio, mentre un terzo, con in mano una sorta di tamburello, volteggia sopra la belva (vedi foto a p. 79, in basso a sinistra).
Le porte «ingannatrici» Una seconda scena rappresenta lo stesso gioco; un’altra raffigurazione rappresenta invece le portae posticiae (porte ingannatrici), che si aprivano lungo il muro del podio sull’arena e si vedono anche su alcuni dittici consolari di Costantinopoli del VI secolo d.C. Da queste porte, il personale, nascosto nella galleria di servizio sotto il podio, tendeva agguati e trabocchetti agli animali, disorientandoli e innervosendoli, e suscitando cosí l’ilarità degli spettatori. Spesso su queste porte erano anche dipinte figure umane, per ingannare maggiormente gli animali. Dopo essere stato spogliato degli elementi di rivestimento, il passaggio di Commodo fu interrato e reso inutilizzabile, probabilmente tra la fine del V e il corso del VI secolo d.C. Intorno all’arena, al di sotto del I settore e comunicante sia con il retrostante IV corridoio anulare che con il piano dell’arena stessa, correva una galleria di servizio coperta da volta, rigorosamente chiusa al pubblico mediante porte di cui restano gli alloggi per i cardini. Tale galleria, di cui rimane solo un breve tratto nel settore meridionale, non aveva un
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andamento continuo, ma era ripartita in quattro spicchi, non comunicanti tra loro, che si interrompevano in corrispondenza dei palchi delle autorità e degli ingressi destinati ai protagonisti dei giochi, alle estremità degli assi maggiore e minore. Il muro perimetrale del podio, ricostruito in laterizi nell’Ottocento, era in origine in blocchi di travertino forse rivestiti, nel lato verso l’arena, da lastre di marmo. Una parte della galleria fu inglobata in epoca domizianea nel passaggio di Commodo. Aveva funzione di servizio per i numerosi addetti allo svolgimento dei giochi e comunicava con l’arena mediante varie porte (le portae posticiae a cui si è accennato prima) che si aprivano lungo il muro del podio. Nel muro posteriore del podio si aprono 24 nicchie rettangolari, 6 per ogni
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settore in cui è diviso l’edificio, pavimentate in cocciopesto e con le pareti decorate originariamente da stucchi. Sotto alcune di esse passano condotti con copertura a cappuccina, confluenti nel canale di scolo delle acque che corre lungo tutto il perimetro ipogeo dell’arena. L’utilizzo di queste nicchie non è ancora ben chiaro: venivano forse utilizzate come depositi di attrezzature di vario tipo, o come rifugio temporaneo degli addetti che, nei momenti di inattività, potevano risultare di intralcio al resto del personale al lavoro. L’unica testimonianza figurata del muro del podio che circonda l’arena – articolato, come si è detto, in nicchie e porte di servizio – è una lastra marmorea con disegno graffito, ora perduta, rinvenuta nei sotterranei nel 1874. Vi si notano le nicchie, coperte da cancellate,
L’interno del Colosseo. Il piano dell’arena è stato in parte ricostruito dopo il Giubileo del 2000.
con alcuni elementi decorativi, tra cui un tripode (alcuni tripodi in marmo sono stati anche rinvenuti durante gli scavi); da due porte escono altrettante figurine, che rappresentano probabilmente due bestiari addetti agli spettacoli. Sopra il muro è poi raffigurata una grande transenna, che doveva proteggere i senatori seduti nelle prime file. Nelle arcate esterne del I ordine e fra i pilastri intermedi tra il I e il II corridoio anulare interno, erano collocate robuste cancellate metalliche, aventi la duplice funzione di protezione dalle intrusioni nell’edificio nei momenti in cui non era aperto al pubblico e di barriera, tale da impedire agli spettatori di immettersi nei corridoi adiacenti ai settori di ingresso.
La rigida divisione dei settori Le cancellate piú esterne, la cui altezza arrivava alle mensole di imposta degli archi, si aprivano infatti verso l’interno, mentre quelle del corridoio interno si aprivano verso l’esterno. Si veniva cosí a creare uno sbarramento che incanalava il pubblico in un unico settore, impedendo di passare in quelli vicini. Nel corso di sterri e scavi effettuati nel XIX secolo negli ipogei, nell’ambulacro e nell’arena, vennero alla luce diversi frammenti pertinenti alle transenne di marmo che recingevano gli accessi alla cavea (vomitoria), da riferire forse a interventi di restauro successivi al grande incendio scoppiato nel 217 d.C. durante l’impero di Macrino. Le transenne, che avevano il duplice scopo di corrimano e di protezione da cadute nel vuoto per gli spettatori, erano poste sui tre lati dei vomitoria. Quelle laterali presentano decorazioni con animali fantastici, soprattutto sfingi e leogrifi con cornucopie, e animali reali in corsa, con il muso rivolto verso il basso, in modo da dare l’impressione di precipitarsi dai gradini della cavea verso l’arena. Vi compaiono antilopi inseguite da levrieri, felini che ghermiscono una lepre o un cavallo, delfini. Le balaustre orizzontali, che formavano la parte di congiunzione tra gli elementi obliqui posti ai lati delle rampe di accesso, presentano invece una decorazione vegetale con palmette e cespi
di acanto; sul retro, non decorato, alcune riportano iscrizioni che indicano i posti riservati a personaggi di rango senatorio o altre categorie sociali elevate. In un caso, il nome Amato, insieme a una palma e una foglia d’edera, potrebbe invece riferirsi a un famoso gladiatore vittorioso.
Nomi ed esclamazioni di incitamento Immagini di combattimenti e venationes sono state incise da ignoti spettatori su alcuni lastroni di marmo che rivestivano le gradinate della cavea. I personaggi sono talvolta anche indicati per nome oppure accompagnati da esclamazioni di incitamento. Su una lastra si vede un retiarius (per la descrizione, vedi il capitolo sugli spettacoli, alle pp. 94-129), che avanza con il tridente nella mano destra; in un’altra compare una venatio, in cui due bestiari, armati di lancia, combattono contro leoni e orsi; una terza lastra raffigura un combattimento misto: nel registro superiore si affrontano un retiarius armato di rete e tridente e un secutor (l’inseguitore, specializzato nei combattimenti contro il retiarius), con il caratteristico piccolo scudo a punta; in quello inferiore è una scena di caccia, con un cane che insegue una gazzella o una lepre, e un toro trafitto da una lancia che cade agonizzante. Tra il maenianum secundum imum e il summum, si trova un alto muro in laterizio, originariamente decorato da intonaco bicromo, nel quale si aprono nicchie e vomitoria. Nelle nicchie erano collocate statue, di cui furono rinvenuti due busti femminili, nel corso degli sterri del III ordine condotti nel 1806. Questo prospetto serviva a marcare la divisione tra la media e la summa cavea, accentuando anche l’inclinazione delle ultime file di gradinate, che venivano a trovarsi in posizione piú elevata. Nella fase iniziale, il portico colonnato in summa cavea del Colosseo era probabilmente interamente in legno, come riporta un’iscrizione relativa ai posti riservati al collegio degli Arvali (un sodalizio sacerdotale che prese nome da arva, campi, perché il suo culto era rivolto alla produzione agricola, n.d.r.).
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Il suo completamento va attribuito a Domiziano, ma i resti superstiti non appartengono a quello originario, bensí a interventi successivi, che sostituirono le strutture in legno con basi, colonne e capitelli in marmo, ancora visibili all’interno del monumento, sebbene non piú in situ. Si conservano, infatti, oltre 60 capitelli, quasi tutti corinzi (uno solo è di tipo ionico liscio, databile al IV secolo d.C.), alcune colonne in marmo cipollino e in granito, e alcune basi modanate di colonne.
I restauri dopo l’incendio e i terremoti Tutti questi materiali, in parte di reimpiego, suggeriscono che, all’indomani del già citato incendio di Macrino del 217 d.C., vi sia stato un primo rifacimento del portico in summa cavea, promosso sotto Elagabalo e Alessandro Severo, e un secondo alcuni
decenni piú tardi, sotto Gordiano III. Alcuni capitelli, databili nei primi decenni del V secolo, testimonierebbero, infine, i restauri disposti da Teodosio II e Valentiniano III, dopo il terremoto del 429 o del 443-444 d.C. Nelle monete in cui compare l’anfiteatro sono raffigurate statue nelle arcate del II e III ordine; nel rilievo del mausoleo degli Haterii le statue sono solo nel II ordine, mentre nel III sono raffigurate alcune aquile. Di queste statue, di cui rimangono alcuni piedistalli sotto le arcate del Colosseo, si conservano pochissimi frammenti, rinvenuti in occasione degli sterri eseguiti agli inizi dell’Ottocento al III ordine e tra l’Ottocento e la prima metà del Novecento nei sotterranei. Come già ricordato, lungo la parete esterna dell’attico e tra una finestra e l’altra, erano collocati i grandi scudi bronzei (clipei), raffigurati sulle antiche immagini del
I gladiatori prima del loro ingresso nell’arena, olio su tela di Stepan Vladislavovich Bakalowicz. 1891. San Pietroburgo, Museo Statale di Russia.
Colosseo e qui posti secondo le fonti da Domiziano, di cui rimangono sulla muratura i fori di ancoraggio. Nell’Historia Langobardorum, Paolo Diacono scrive che gli scudi sarebbero stati trafugati da Costante II nel 663 d.C.; in realtà, è piú probabile che siano stati in parte fusi dall’incendio del 217, e che quelli restanti fossero allora già stati rimossi.
Quel che il pubblico non vedeva... Le strutture ipogee del Colosseo, di cui si ignorava l’esistenza (anche se già l’architetto ed ebanista Carlo Lucangeli aveva individuato alcune nicchie del muro perimetrale durante gli scavi da lui effettuati tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento), vennero scoperte nel corso dei primi sterri, effettuati durante il pontificato di Pio VII tra il 1805 e il 1806, e
poi sotto l’amministrazione napoleonica, tra il 1811 e il 1813, a opera dell’archeologo Carlo Fea (1753-1836). Di queste ultime indagini, che interessarono solo la metà settentrionale dell’arena, abbiamo una preziosa testimonianza negli splendidi rilievi eseguiti dal figlio di Giuseppe Valadier, Luigi Maria (ritrovati presso l’Archivio di Stato di Roma e in precedenza noti grazie ad alcune copie di Louis-Joseph Duc), un documento prezioso per conoscere la situazione degli ipogei subito dopo il primo scavo, che fornisce lo stato di conservazione delle strutture al momento del loro definitivo interro in età teodoriciana. Sebbene in questa fase non fosse stato raggiunto il piano originario in opus spicatum, fermandosi gli scavi a 3,5 m dal piano dell’arena, la scoperta degli ipogei provocò un acceso dibattito sulla loro
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datazione e l’utilizzo per le naumachie. Le fonti antiche, in particolare Marziale e Cassio Dione, riportano infatti che – durante i giochi per l’inaugurazione nell’80 – nell’anfiteatro si svolsero anche spettacoli acquatici.
Studiosi a confronto Nacque cosí un’aspra polemica tra Fea e Lorenzo Re e Pietro Bianchi: il primo riteneva le strutture di epoca medievale e le assegnò ai Frangipane, mentre i secondi le consideravano contemporanee all’anfiteatro, con la funzione di ospitare i macchinari scenici e le gabbie per gli animali indispensabili per lo svolgimento dei giochi. Nella controversia si inserí anche Giovanni Francesco Masdeu, il quale riteneva che l’arena fosse stata originariamente piú bassa, e che gli ipogei fossero stati realizzati solo in età tarda. Il problema è stato risolto solo grazie alle indagini condotte in tempi recenti.
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Le nuove ricerche hanno infatti fornito evidenti testimonianze della presenza – prima della realizzazione delle strutture in blocchi di tufo e laterizi – di una «pre-arena» di legno, che poteva essere velocemente montata, modificata e rismontata secondo le esigenze. E la presenza di strutture temporanee per sostenere il piano dell’arena è pienamente compatibile con l’utilizzo dell’invaso dell’arena per gli spettacoli acquatici dell’80 d.C.
Cassio Dione riferisce di due spettacoli acquatici offerti da Tito: uno con esibizione di animali (lo stesso di cui parla Marziale, con protagonisti Tritoni e Nereidi) e l’altro in cui fu rappresentato uno scontro navale tra Corciresi e Corinzi. Svetonio riporta che anche Domiziano offrí una naumachia nel Colosseo, evidentemente prima della realizzazione delle strutture murarie; come riferisce il Cronografo del 354, egli costruí gli ipogei e completò
Nella pagina accanto una foto che mostra gli elementi lignei scoperti in occasione degli scavi condotti da Pietro Rosa nel 1874-1875: si tratta di pali pertinenti ai macchinari scenici, ai binari dei montacarichi e alle scenografie (pegmata), nonché al sostegno degli argani e al piano pavimentale del secondo livello ipogeo. A sinistra Colosseo, sotterranei. Pilastri in blocchi di
tufo della fase flavia, con tracce degli incassi per i montacarichi. Si nota anche parte del piano pavimentale in opus spicatum, con al centro la base in travertino per l’alloggiamento degli argani. In basso disegno ricostruttivo del sistema di montacarichi e piani inclinati dei sotterranei dell’Anfiteatro Flavio.
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l’anfiteatro «usque ad clipea». Una seconda naumachia offerta da Domiziano, si svolse infatti in un bacino circolare scavato lungo le rive del Tevere, dotato di gradinate; tale edificio fu poi distrutto e le sue pietre utilizzate per restaurare il Circo Massimo.
Pali di legno perfettamente conservati Dopo gli sterri di Fea, gli ambienti furono ben presto reinterrati, a causa del loro allagamento. Altri scavi, nella metà orientale, furono intrapresi da Pietro Rosa nel 1874-1875 e portarono alla luce, finalmente, il pavimento in opus spicatum originario, rimuovendo la colmata databile tra la fine del V e gli inizi del VI
Le «foto» dell’epoca P
oche sono le immagini antiche dell’Anfiteatro Flavio giunte sino a noi. Le piú importanti, per ricostruire alcuni elementi del monumento ora scomparsi, sono alcune monete, in particolare un sesterzio bronzeo emesso nel luglio dell’80 d.C., durante l’ottavo consolato di Tito (se ne conservano vari esemplari al British Museum e al Cabinet des Medailles di Parigi), dunque nel momento immediatamente successivo all’inaugurazione del Colosseo, presumibilmente durante i 100 giorni di giochi offerti per l’occasione, e un altro emesso nell’81, dopo la morte dello stesso Tito. Su entrambe le emissioni è raffigurato, al dritto, Tito togato, seduto sulla sella curulis, con un ramo nella destra e un volumen nella sinistra, circondato da armi; al rovescio, compare invece il Colosseo, con una visione frontale dall’esterno che permette di vedere anche parte della cavea interna. A sinistra dell’edificio è rappresentata la monumentale fontana della Meta Sudans, mentre, a destra, è un edificio porticato a due piani, interpretato come il portico che collegava l’anfiteatro con le vicine Terme di Tito. Al di sopra dell’arcata centrale dell’anfiteatro è rappresentato uno dei due protiri, con colonne
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Tito (D)
Tito (R)
aggettanti e sormontato da una quadriga, che segnavano l’ingresso riservato all’imperatore. Benché tali elementi non siano piú conservati, ne rimangono alcune tracce; nell’ingresso nord-est, dove è murata l’iscrizione che ricorda il restauro eseguito nel 1852 sotto il pontificato di Pio IX, la cornice esterna infatti si interrompe, e nel piano pavimentale davanti all’arcata si possono notare tracce della presenza di due colonne. Lo stesso portico è raffigurato sul rilievo del sepolcro degli Haterii. Nelle monete di Tito, inoltre, si vedono le statue nelle arcate del II e III ordine, e i clipei bronzei alternati alle finestre nell’attico. All’interno dell’anfiteatro sono raffigurati il meniano summum in ligneis – diviso in dieci tabulationes contenenti gli spettatori, resi con puntini, e ornato da ghirlande –, il meniano secundum summum, distinto dall’imum da una praecinctio; quest’ultimo settore, che conteneva il maggior numero di posti, è diviso in tre cunei da due gradinate. Al centro compare un elemento ad arco al cui interno siede un solo spettatore, probabilmente l’imperatore, a cui era riservato il palco in media cavea. Sebbene alcuni elementi del Colosseo (come gli scudi di bronzo) siano dovuti
secolo d.C., e i primi interri della seconda metà del V secolo. Durante questi lavori affiorarono, in perfetto stato di conservazione, moltissimi elementi lignei, pertinenti ai macchinari scenici, ai binari dei montacarichi e alle scenografie (pegmata), ai pali di sostegno degli argani e al piano pavimentale del secondo livello ipogeo. Nulla si conserva, purtroppo, di questi reperti, anche se residui di elementi in legno sono stati recentemente individuati in alcuni settori degli ambienti perimetrali e del criptoportico orientale. Nel corso degli sterri ottocenteschi emerse anche una quantità considerevole di reperti marmorei facenti parte dell’arredo della cavea, come i parapetti dei vomitoria, il colonnato, i rivestimenti delle gradinate e numerose epigrafi: in pratica, tutto il materiale
Nella pagina accanto una foto che documenta l’allagamento del Colosseo nel 1883. L’evento impose la sospensione degli scavi avviati da Pietro Rosa nel 1874-1875.
che, incidentalmente o volutamente, era stato gettato nei sotterranei tra la metà del V e gli inizi del VI secolo. A causa dell’allagamento, gli scavi dovettero interrompersi (salvo un breve intervento di Giovanni Battista De Rossi nel 1878-1879) fino al 1883, quando fu realizzato il grande collettore dell’Esquilino, che permise di prosciugare l’area; un intervento che però comportò il taglio del collegamento tra gli ipogei e il Ludus Magnus nel settore orientale.
Esplorazioni e demolizioni Piú tardi, con la costruzione della galleria per la linea B della metropolitana, venne troncato anche il criptoportico del lato occidentale. Gli ambienti ipogei furono infine scavati, nella loro interezza, da Luigi Cozzo, fra il 1938 e il
a Domiziano e dunque a un momento successivo poche raffigurazioni del grande Colosso del Sole. all’emissione di queste monete, è probabile Altra veduta del Colosseo è quella che si che su di esse si sia voluto comunque osserva su un rilievo proveniente dal già rappresentare l’edificio completo, come citato mausoleo degli Haterii: in questo risultava dal progetto originale. caso l’edificio presenta solo tre ordini di Altre monete con la rappresentazione arcate, all’interno delle quali vi sono del Colosseo risalgono al 222 d.C., al statue di Ercole, Apollo ed Esculapio regno di Alessandro Severo, e a quello nel II ordine e tre aquile nel III. di Gordiano III (238-244 d.C.). Una planimetria dell’edificio è infine Alcune differenze sono attribuibili agli riportata in alcuni frammenti della interventi sul monumento e sugli edifici Forma Urbis, la grande pianta di Roma vicini, operati dopo il periodo flavio. Nella realizzata tra il 205 e il 208, al tempo monetazione di Alessandro Severo viene dell’imperatore Settimio Severo, e raffigurato il Colosseo dopo alcuni anni di originariamente esposta nel Tempio della Pace. Alessandro Severo inagibilità causata dai danni subiti nel 217 d.C., Una lastra marmorea con un disegno graffito, per effetto dell’incendio di Macrino; sulla rinvenuta nell’arena durante gli sterri effettuati destra, si vede ancora la Meta Sudans, mentre, nel 1874 da Pietro Rosa, ora perduta, nel lato opposto, si riconosce il portico costituisce infine una preziosa delle Terme, non piú in piano, ma con testimonianza dell’aspetto della fronte del copertura a doppio spiovente. L’ingresso podio, oggi completamente scomparsa; sul lato breve è sempre rappresentato si tratterebbe dell’unica immagine del con un protiro sormontato da quadriga. muro circostante l’arena, articolato in Le due alte figure presso la Meta nicchie e porte di servizio (portae Sudans sono forse riferibili a una posticae), da cui escono anche due nuova dedica dell’edificio agli dèi, in bestiarii (o altri addetti ai ludi). occasione della sua riapertura. Al di sopra si vedono le grate che La moneta di Gordiano III, sulla quale si chiudevano le aperture ad arco e le vede un combattimento nell’anfiteatro tra un sovrastanti transenne, che reggevano la rete toro e un elefante con una figura sul dorso, al metallica installata per proteggere dalle belve gli Gordiano cospetto dell’imperatore, presenta inoltre una delle spettatori che sedevano nelle prime file.
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1 1939, purtroppo demolendo anche 1626 metri cubi di murature, perché ritenute pericolanti o non pertinenti alla fase flavia dell’edificio. Gli ipogei sono formati da 14 strutture murarie, realizzate in opera quadrata con blocchi di tufo di due diverse qualità e con laterizi; si articolano su due livelli, collegati da scale in legno e da una gradinata in muratura a due rampe nel lato meridionale di uno dei corridoi (B), che raggiungeva un livello posto a 3,30 m circa.
Quasi un labirinto I setti murari ripartiscono gli ambienti ipogei in 15 corridoi di lunghezza e spessore variabili; 6 con andamento ellittico, concentrico al muro perimetrale (A, B, C, nord e sud) e 9 con andamento rettilineo, disposti sull’asse maggiore (D, E, F, G, nord e sud), compreso il corridoio centrale (H), piú largo. Il muro perimetrale (o di contenimento) è costituito da una struttura a cortina laterizia spessa 2,80 m, nella quale si aprono 32 nicchie e 8 corridoi; di questi, 4, disposti alle estremità degli assi maggiore e minore, portano a gallerie, altri 4 alle camere di manovra sull’asse est-ovest. Rilievi eseguiti dall’Istituto Archeologico Germanico di Roma hanno permesso di individuare quattro fasi costruttive, che hanno rinforzato le murature originarie in blocchi di
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tufo, in alcuni casi chiudendo o restringendo i passaggi tra i vari corridoi, per assicurare maggiore stabilità, in quanto gli ipogei erano sottoposti a continue sollecitazioni durante gli spettacoli, o in seguito a terremoti. Sull’asse maggiore, si allineavano inoltre due gruppi di ambienti simmetrici, sottostanti gli ingressi principali che dalla cavea portavano nell’arena (quelli per i quali entravano e uscivano i protagonisti dei giochi). Questi ambienti sono costruiti entro la struttura di fondazione e si dispongono ai lati di un criptoportico centrale; quelli verso il centro dei sotterranei sono delimitati da una coppia di gallerie – o camere di manovra – a forma di «L» rovesciata, convergenti verso il centro. Il criptoportico orientale era direttamente collegato con il Ludus Magnus (una diramazione collegava anche il Ludus Matutinus nel quale alloggiavano gli addetti agli spettacoli di cacce e gli animali ingabbiati),
Sulle due pagine planimetria dei sotterranei del Colosseo. Studi recenti hanno accertato che nella loro realizzazione si susseguirono quattro fasi costruttive.
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fisse (20 nel corridoio E nord e sud, 40 nel corridoio G nord e sud). Le fonti riportano che sull’arena comparivano contemporaneamente centinaia di animali, pertanto occorre immaginare una perfetta catena di montaggio, grazie alla quale le gabbie raggiungevano la posizione voluta, venivano aperte e poi allontanate, per fare posto ad altre gabbie, e cosí via. Dato il poco spazio a disposizione, le operazioni dovevano svolgersi con estrema precisione, per non compromettere la buona riuscita degli spettacoli. Gli animali in attesa nelle gabbie, venivano probabilmente sistemati all’esterno dell’anfiteatro, nella zona del Ludus Matutinus, presso l’attuale via Claudia.
Verso l’abbandono
E, sotto l’arena, un mondo... 1 Corridoi ellittici 4 Muro perimetrale 2 Corridoi rettilinei 5 Camere di manovra 3 Corridoio centrale 6 Gallerie
mentre quello occidentale usciva nella valle, in prossimità delle pendici della Velia. In questi ambienti erano collocati 24 argani, dei quali rimangono gli incassi in travertino e, in alcuni casi, anche l’inserto cilindrico in bronzo, con cui si potevano spostare velocemente gli scenari nel corridoio centrale, posizionandoli sui piani inclinati dai quali, mediante contrappesi, venivano innalzati fino al piano dell’arena.
Come una catena di montaggio Nei sotterranei avevano luogo le operazioni necessarie per lo svolgimento degli spettacoli, tra cui i cambi di scenografie e il sollevamento dei combattenti e degli animali. In età flavia i montacarichi nei sotterranei dovevano essere 28 (corridoio B). Ogni gabbia, alta 1 m circa, poteva contenere uno o due animali di grandi dimensioni (o piú, se di taglia ridotta). Probabilmente dopo l’incendio del 217, gli ascensori vennero sostituiti da 60 piattaforme
Gli ipogei rimasero in uso fino al V secolo, poi, dalla seconda metà dello stesso secolo, si trasformarono in una discarica per i materiali di risulta dei crolli dell’edificio, finché non vennero completamente interrati nei primi decenni del VI secolo, quando anche la quota del piano dell’arena fu innalzata fino al livello del IV corridoio anulare. A quell’epoca, dunque, gli apparati scenici non servivano piú per gli spettacoli dell’anfiteatro; aboliti i combattimenti gladiatori, vi si realizzavano prevalentemente, con scenografie diverse, giochi acrobatici con animali, spesso ammaestrati, documentati da alcuni dittici in avorio da Costantinopoli. Il piano dell’arena, oggi del tutto perduto, era costituito da un tavolato ligneo, poi ricoperto da sabbia, che poggiava su una doppia serie di travi di legno ortogonali tra loro, di cui le inferiori ancorate alle strutture murarie sottostanti. A intervalli regolari, si aprivano le botole da cui, all’improvviso e contemporaneamente, uscivano uomini e animali, ma anche scenari (pegmata), che ricostruivano, durante le venationes, gli ambienti naturali d’origine delle fiere impiegate nei giochi. In occasione del Giubileo del 2000, nel settore orientale, è stato realizzato un nuovo tavolato, che permette di transitare nell’arena, su circa un settimo della sua superficie totale.
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Come altri anfiteatri sorti nei territori dell’impero (Tarragona, Capua, El Djem, Italica, Mérida, Pozzuoli), il Colosseo era provvisto di un complesso sistema idraulico, che alimentava fontane, vasche, forse latrine, e che consentiva lo scarico sia delle acque piovane che di quelle nere, che confluivano nel sistema fognario presente sia all’interno che all’esterno dell’edificio.
Un problema ricorrente Del resto, uno dei maggiori problemi posti dall’edificio, sin dalla sua costruzione e fino ai tempi recenti, è proprio lo smaltimento delle acque, sia quelle piovane che quelle provenienti dalla falda acquifera del fosso
In basso traccia a forma di croce su un blocco di travertino, riferibile a una fontana a due bocchette. A destra ricostruzione (in prospetto e in sezione) di una delle fontane messe a disposizione degli spettatori che si recavano nell’anfiteatro.
Labicano, che passa al di sotto delle fondazioni. Il frequente interramento dei collettori di scarico, infatti, portava all’allagamento dei sotterranei di servizio sotto l’arena e richiedeva interventi di bonifica, documentati anche dalle iscrizioni. Nel I ordine, ai lati degli ingressi ai corridoi radiali che provengono dall’esterno, nel III ambulacro, erano collocate 44 fontane; altre dovevano trovarsi negli ambulacri degli ordini superiori. Probabilmente nel I ordine, nella galleria adiacente l’arena, si trovava una latrina, di cui non rimane traccia, destinata ai senatori,
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mentre un’altra si trovava forse nella galleria intermedia tra il II e il III ordine. In un momento successivo, le fontane del II e III ordine vennero chiuse, forse perché richiedevano una manutenzione troppo complessa, lasciando in funzione solo quelle del I ordine.
Una derivazione dell’acquedotto Claudio L’acqua giungeva al Colosseo dall’acquedotto Claudio, con una derivazione di epoca neroniana, che originariamente serviva la Domus Aurea e passava presso l’attuale basilica di S. Clemente. Per alimentare sia le fontane che le latrine, fu realizzato un complesso sistema di gallerie sotterranee, nel quale erano alloggiate le tubature di piombo che, attraverso riseghe nei muri, potevano raggiungere anche i piani superiori. Il sistema di scarico delle acque piovane prevedeva che dalle gradinate l’acqua defluisse verso l’arena e, da qui, nel sistema fognario degli ambienti ipogei. Dagli ordini superiori, le acque delle fontane e delle latrine defluivano nel I ordine in corrispondenza del III ambulacro, da dove si incanalavano in un sistema fognario esterno all’anfiteatro, mentre quelle del I ordine finivano in parte in questo sistema esterno, in parte in quello degli ipogei. Qui una o piú fogne conducevano l’acqua all’esterno, nel sistema fognario della Valle del Colosseo, da dove raggiungevano il Tevere attraverso una fogna che passava sotto l’attuale via di San Gregorio, che, a sua volta, si immetteva nella cloaca in asse con il Circo Massimo. Tracce della presenza di tubazioni in piombo, costituite da profondi solchi, sono ancora visibili nei blocchi di travertino alla base dei pilastri che delimitano i corridoi; alcune di esse, a forma di croce, sono relative a fontane con due bocchette. Dalle indagini condotte nei sotterranei, in parte ancora interrati, si è potuto stabilire che intorno all’anfiteatro corrono due anelli di gallerie, poste a livelli differenti, collegati al Colosseo attraverso vari rami di cunicoli e tratti a cappuccina. È probabile che, per mezzo di quella posta a quota piú alta, piú vicina al
Colosseo, settore nord-est. Uno dei cippi in travertino dell’area esterna. Contrariamente a quanto sostenuto in passato, tali cippi non servivano per sostenere le funi del velario, ma semplicemente a delimitare l’area di rispetto dell’edificio dal traffico veicolare della strada lastricata.
monumento, attraverso tubazioni in piombo, l’acqua in pressione alimentasse i servizi e le utenze; quella a quota piú bassa, di maggiori dimensioni e parallela al sistema fognario della valle, costituiva, invece, il sistema di scarico delle acque bianche e nere. L’area circostante l’anfiteatro, larga 17,5 m circa, era lastricata con blocchi di travertino e delimitata da cippi, anch’essi in travertino e semplicemente infissi nel terreno: oggi ne rimangono solo cinque. Tra un cippo e l’altro vi erano barre metalliche, di cui si conservano ancora gli incassi per l’alloggiamento. I cippi e le barre sostenevano una catena, che delimitava cosí lo spazio destinato ad area pedonale. Il fatto che i cippi siano semplicemente infissi nel terreno dimostra che non servivano a sostenere le funi del velario, come è stato sostenuto da molti studiosi in passato, ma semplicemente a delimitare l’area di rispetto dell’edificio dal traffico veicolare della strada lastricata.
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Un venator, di nome Meliio, ha trafitto con la lancia un leopardo mentre questo gli sta balzando addosso, particolare di uno dei mosaici detti ÂŤBorgheseÂť (immagine intera e dettagli alle pp. 116-117).
GLI SPETTACOLI Gladiatori, fiere, sangue e violenza
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li spettacoli che si svolgevano nell’anfiteatro potevano durare anche piú giorni e avevano una successione ben precisa. Gli annunci dipinti su vari edifici di Pompei, in cui alcuni notabili locali facevano pubblicità ai giochi da loro offerti, ne riportano il programma e le caratteristiche. Oltre al numero di coppie di gladiatori e alla venatio, che si svolgeva di mattina, vengono specificate la presenza del velario per proteggere gli spettatori dalle intemperie o dal sole, e le manifestazioni di generosità dell’editor nei riguardi del pubblico: spesso, infatti, durante la giornata si effettuavano lanci di generi alimentari, monete, pietre preziose o tessere che davano diritto a ritirare oggetti vari, e sparsiones, cioè vaporizzazioni di essenze profumate o di zafferano, per rinfrescare i presenti e coprire il forte odore emanato dalle numerose belve impiegate nei giochi. Dall’età augustea, la giornata-tipo di uno spettacolo (munus iustum atque legitimum,
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«un combattimento gladiatorio giusto e legittimo») venne cosí fissata: la mattina si svolgevano le venationes, in tutte le loro variazioni (combattimenti tra venatores e fiere, o anche tra animali di specie diverse, legati insieme da catene o corde) e le esecuzioni dei damnati ad bestias; l’intervallo del pranzo era riservato alle esecuzioni capitali e a spettacoli di intrattenimento di mimi, giocolieri e buffoni (paegnarii), che si esibivano mascherati e armati di bastoni; nel pomeriggio, era la volta del munus, con i combattimenti di gladiatori. La sera prima degli spettacoli si svolgeva una cena offerta dall’editore ai gladiatori e aperta al pubblico, che poteva cosí conoscere i combattenti e scommettere su di loro. L’inizio degli spettacoli prevedeva il corteo solenne (pompa), nel quale sfilavano i magistrati editori preceduti dai littori, i musicisti – che accompagnavano l’evento per tutta la giornata –, i portatori di cartelli sui quali venivano indicate le motivazioni delle condanne
Rilievo funerario raffigurante i giochi di Pompei, dalla Necropoli marittima della città vesuviana. 20-50 d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Nei tre registri sono rappresentati tutti i momenti degli spettacoli anfiteatrali, dal corteo accompagnato dai musici alle venationes e ai combattimenti di gladiatori.
e la composizione delle coppie di gladiatori, e, infine, i protagonisti principali: gladiatori, venatores e condannati. Di questi cortei abbiamo una vivace rappresentazione su un rilievo funerario dalla Necropoli marittima di Pompei, nel quale è anche raffigurato l’intero svolgersi dei giochi, mentre in un mosaico da Zliten si vede l’orchestra, composta da un suonatore di tuba, da una suonatrice di organo ad acqua e due suonatori di corno.
Nelle pitture di Paestum L’origine dei combattimenti di gladiatori (munus) è da ricercare probabilmente in area osco-sannitica: a Paestum sono state rinvenute tombe dipinte (databili alla prima metà IV secolo a.C.), in cui sono raffigurate corse di bighe, incontri di pugilato e combattimenti tra uomini armati che ricondurrebbero ai giochi gladiatori. Appare evidente l’origine funeraria di questi spettacoli, offerti appunto in onore di importanti personaggi defunti. Secondo
Tertulliano e, soprattutto, Servio, in origine, presso le tombe di grandi personaggi, venivano sacrificati prigionieri di guerra o schiavi acquistati appositamente, in ossequio alla credenza secondo la quale, per assicurarsi il favore dei defunti, bisognava assolvere all’obbligo o impegno (da cui il termine munus con il quale si indica il combattimento tra coppie di gladiatori) di versare sangue umano. Ma, come dice Servio «dopo che quest’uso venne considerato crudele, si decise che davanti alle tombe combattessero gladiatori». Se dunque la gladiatura nacque dal sacrificio umano compiuto per placare i Mani, cioè gli spiriti dei defunti, non è chiaro se i Romani avessero importato tali giochi direttamente dall’area campana o se vi sia stata una mediazione da parte degli Etruschi, come sembra invece suggerire un passo dello storico e filosofo greco Nicola Damasceno, attivo nel I secolo a.C. L’origine campana dei giochi resta comunque l’ipotesi piú probabile, poiché
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GLI SPETTACOLI
proprio in Campania sorsero i primi anfiteatri in muratura (a Pompei, Capua, Pozzuoli, Telese). Secondo le fonti letterarie (Servio, Livio, Valerio Massimo), a Roma tali giochi vennero realizzati per la prima volta nel 264 a.C., nel Foro Boario, per iniziativa di Decimo e Marco Bruto, in onore del defunto padre Bruto Pera. Dal III secolo a.C. e in quello successivo, in occasione dei funerali di importanti membri delle gentes piú nobili, vennero offerti altri combattimenti, effettuati prevalentemente nel Foro. Insieme ai munera (plurare di munus), venivano anche offerti banchetti, distribuzioni pubbliche di carne e spettacoli teatrali.
«Fuga» dal teatro La crescita dell’interesse per tali spettacoli è testimoniata dal numero di gladiatori ingaggiati, che vanno dalle ventidue coppie reclutate per i funerali di Marco Emilio Lepido del 216, alle sessanta assoldate per quelli di Publio Licinio del 183 a.C. A conferma del crescente gradimento riscosso da queste forme di intrattenimento è stato tramandato un aneddoto secondo il quale, durante la rappresentazione di una commedia di Terenzio, gli spettatori, avendo appreso che stavano per cominciare i combattimenti in onore di Lucio Emilio Paolo, abbandonarono il teatro, per correre ad assistervi. Nel corso del II secolo a.C. i munera si diffusero in tutta l’Italia e nelle altre province. Inoltre, se dalla media età repubblicana e fino alla prima epoca imperiale i giochi gladiatori ebbero carattere privato e funerario (Cicerone definí il gladiatore bustuarius, perché combatteva intorno alla pira – bustum – del defunto durante il rito funebre), il favore che incontrarono presso il popolo romano fece sí che si trasformassero in un importante strumento di propaganda politica ed elettorale. Con un provvedimento varato dal Senato nel 105 a.C., i munera divennero spettacoli pubblici a tutti gli effetti, favoriti
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dallo Stato per contrastare la diffusione di giochi di matrice greca, ritenuti potenzialmente lesivi delle tradizioni romane. Cosí, alla fine della repubblica, molti personaggi offrivano giochi gladiatori per sostenere la propria candidatura alle cariche pubbliche, mentre già sotto Augusto essi assunsero carattere di munificenza da parte del principe nei confronti del popolo, per celebrare una vittoria o per onorare la famiglia imperiale. A partire dal I secolo d.C., almeno a Roma, l’organizzazione dei giochi divenne peraltro una prerogativa esclusiva dell’imperatore. L’unica deroga veniva concessa ai giovani questori (senatori all’inizio della carriera), che, a partire dall’età di Claudio (41-54 d.C.), furono obbligati a organizzare annualmente i munera, ripartendosi le ingenti spese.
Per lo svago dei Teatini
Particolare del fregio del sepolcro di C. Lusius Storax con giochi gladiatori. 20-40 d.C. Chieti, Museo Archeologico «La Civitella». Il rilievo commemora il munus offerto da Lusius alla città di Teate (Chieti). Si riconoscono coppie di traci (con elmo sormontato da protome di grifo), oplomachi con l’elmo crestato, opposti ai mirmilloni con lo scudo rettangolare e la manica al braccio destro.
Mosaico pavimentale da una domus di Smirat (Tunisia). III sec. d.C. Sousse, Museo Archeologico. La raffigurazione celebra uno spettacolo di caccia al leopardo offerta da Magerius, forse il proprietario della residenza, acclamato nell’iscrizione; sono anche menzionati i Telegenii, una sorta di agenzia di cacciatori che si esibivano negli spettacoli.
Il luogo preferito per i combattimenti era il Foro Romano, dove si allestivano spazi provvisori in legno per contenere gli spettatori, sempre piú numerosi. Secondo il grammatico Festo (II secolo d.C.), maenianum, il termine che indicava la divisione dei settori nell’anfiteatro, deriverebbe dal censore Gaio Menio, il quale, nel 348 a.C. – dunque molto prima dei giochi offerti dai figli di Bruto Pera –, avrebbe fatto costruire balconate lignee sopra le botteghe del Foro, per ampliare la capienza degli spazi destinati agli spettatori durante i munera.
Un velario sul Foro Romano Nel 46 a.C., per celebrare il suo quadruplo trionfo, Giulio Cesare offrí numerosi giochi, comprendenti un munus, spettacoli teatrali, corse nel circo, gare atletiche e una grande battaglia navale (Svetonio, Divus Iulius, 38-39).
Per i combattimenti di gladiatori, Cesare fece coprire con un velario tutto il Foro Romano, la Via Sacra a partire dalla sua residenza (la Regia) e il clivo fino al Campidoglio, un’opera considerata piú mirabile dei giochi stessi (Plinio, N.H. 19.6.23); egli fece costruire anche un grande anfiteatro ligneo intorno alla piazza (teatro cinegetico), con due settori compresi tra le basiliche Emilia e Giulia, raccordati da gradinate semicircolari nei lati est e ovest. Inoltre, al di sotto della piazza, venne realizzata una serie di gallerie collegate alla superficie da montacarichi. Con Augusto, i munera continuarono a svolgersi nel Foro, ma anche nei Saepta Iulia in Campo Marzio, come accadde nel 7 e nel 2 a.C. L’allestimento dei giochi gladiatori, come anche delle venationes, richiedeva una complessa (segue a p. 103)
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GLI SPETTACOLI
Il Ludus Magnus I
l ludus era la caserma in cui i gladiatori, i maestri d’armi (doctores) e altro personale si allenavano e vivevano. Una delle piú importanti era quella di Cn. Cornelius Lentulus Batiatus, a Capua, da cui, nel 73 a.C., dilagò la famosa rivolta di Spartaco. Per l’epoca repubblicana, a Roma e in altre città i ludi erano di proprietà di ricchi privati, spesso di rango senatorio; le fonti riportano che anche Cesare possedeva ludi e famiglie di gladiatori a Capua e Ravenna. In età imperiale, accanto a quelli privati erano diffusi anche
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ludi e gladiatori di proprietà dell’imperatore. Con la costruzione dell’Anfiteatro Flavio, Domiziano (ma il progetto era stato già previsto da Vespasiano) fece costruire anche quattro ludi nelle vicinanze e in stretta funzione del Colosseo, come riportano il Cronografo del 354 e i Cataloghi Regionari: il Ludus Matutinus (destinato ai bestiarii delle venationes) e il Ludus Gallicus nella II regione (Caelimonitium), il Ludus Magnus e il Ludus Dacicus nella III (Isis et Serapis). Dai frammenti della Forma
Urbis severiana si può conoscere la posizione di questi ultimi due e, forse, del Matutinus. Il Dacicus va collocato tra l’attuale via Labicana e le Terme di Traiano, nell’odierno parco del Colle Oppio; il Matutinus presso il vicus Capitis Africae, a sud del Ludus Magnus. Quest’ultimo, il piú grande, è l’unico di cui si conservi parte delle strutture, visibili tra le attuali via Labicana e via di San Giovanni in Laterano. Scoperte tra il 1937 e il 1961, costituiscono circa la metà dell’edificio: non sono però riferibili alla fase originaria domizianea, ma, in gran parte, a un rifacimento traianeo. Sul lato nord, una scalinata scendeva dall’antica strada (oggi corrispondente a via Labicana) nell’edificio, interamente realizzato in laterizi e organizzato su tre piani, disposti intorno a un cortile porticato, con quattro fontane agli angoli. Al centro del cortile vi era un piccolo anfiteatro, con una cavea formata da nove gradini, in grado di ospitare circa 1200 spettatori; i lati nord e sud ospitavano le tribune per i personaggi di rango elevato. Nell’arena, a cui si accedeva da due ingressi sull’asse maggiore, si svolgevano gli allenamenti dei gladiatori;
sul lato est vi era un grande ambiente colonnato, probabilmente il santuario del culto imperiale. Le celle in cui vivevano i gladiatori, che potevano ospitare un migliaio di persone, erano disposte sugli altri tre lati dell’edificio, su tre piani. Una galleria collegava la caserma direttamente con i sotterranei del Colosseo, sul lato est. Come già
Nella pagina accanto, in alto planimetria della Valle del Colosseo dalla Forma Urbis di Rodolfo Lanciani. 1893-1901. Non vi compare il Ludus Magnus, perché scoperto fra il 1937 e il 1961. Nella pagina accanto,
in basso i resti del Ludus Magnus. In basso il Colosseo (A), il Ludus Magnus (B) e il Ludus Matutinus (C) nel plastico della Roma imperiale di Italo Gismondi. 1933-1955. Roma. Museo della Civiltà Romana.
ricordato in apertura, il Ludus Magnus (a cui soprintendeva un procurator di rango equestre) ospitava non
solo i gladiatori, ma anche medici e maestri d’armi, ognuno specializzato nell’allenamento di una sola delle loro classi.
A
B C
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Caracalla e Geta, olio su tela di Lawrence Alma-Tadema 1905-1907. Collezione privata. L’artista ha ricostruito il palco del Colosseo che veniva riservato all’imperatore e al suo seguito; le strutture, forse smantellate già in epoca tardo-antica, dovevano essere imponenti, rivestite da marmi pregiati e ornate da sculture.
struttura organizzativa (ratio ad muneribus), a cui era addetto personale di rango equestre o scelto tra i liberti e gli schiavi imperiali. Tra i funzionari, conosciuti attraverso le iscrizioni, figuravano quelli addetti ai costumi dei gladiatori e dei cacciatori (a veste gladiatoria et venatoria) o quelli appartenenti alla ratio summi choragi, che si occupava dei macchinari e degli apparati scenici. Di rango equestre erano i procuratores familiarum gladiatoriarum, che controllavano le caserme di gladiatori sparse in Italia e nelle province dell’impero; tra questi, il piú importante era naturalmente il procuratore addetto al Ludus Magnus.
La munificenza come obbligo Se nell’Urbe l’imperatore era spesso il solo editor dei giochi, nelle altre città l’organizzazione dei munera toccava ai magistrati locali (duoviri, aediles), obbligati a finanziare la costruzione di opere pubbliche o l’offerta annuale di spettacoli gladiatori, attingendo in parte da fondi pubblici, ma piú spesso facendosi carico dell’intera spesa. Tra gli editores di spettacoli figuravano anche senatori e cavalieri, sacerdoti e flamini del culto imperiale, seviri augustali e ricchi liberti. Questi si rivolgevano al lanista, cioè a un impresario che reclutava i gladiatori, li addestrava e li affittava per gli spettacoli. L’editore pagava una somma per i gladiatori che sopravvivevano, mentre comprava quelli morti durante i combattimenti. L’imperatore, invece, disponeva di proprie caserme, nelle quali i gladiatori vivevano e si allenavano (come i Ludi nei pressi del Colosseo). I condannati a essere sbranati dalle fiere, invece – in genere disertori, traditori e criminali comuni –, dipendevano dai magistrati competenti, ai quali ci si poteva rivolgere per disporne negli spettacoli. Durante il principato di Tiberio (14-37 d.C.), il Senato emanò un provvedimento che vietava di offrire spettacoli a chi disponeva di un patrimonio inferiore ai 400 000 sesterzi, corrispondente a quello dell’ordine equestre. In alcuni casi furono istituite fondazioni perpetue, alle quali si potevano destinare per
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GLI SPETTACOLI
testamento somme anche ingenti per l’organizzazione dei munera, sotto il controllo di curatores munerum publicorum. I costi degli spettacoli, soprattutto a partire dal II secolo d.C., erano molto elevati, sia perché il pubblico esigeva un numero sempre piú consitente di coppie di gladiatori (gladiatorium paria) che di fiere, sia perché spesso i giochi si protraevano per piú giorni. I lanisti, inoltre, aumentarono progressivamente le loro pretese, chiedendo tariffe sempre piú esose per l’affitto dei propri campioni. La figura del lanista veniva paragonata a quella del lenone ed era oggetto di disprezzo, tanto da essere esclusa dai consigli municipali. Se però i guadagni degli impresari erano cospicui, il giro d’affari legato agli spettacoli anfiteatrali assicurava un enorme gettito anche alle casse imperiali, poiché gli introiti erano tassati dal fisco. L’aumento vertiginoso dei costi per l’allestimento di munera e venationes provocò spesso il dissesto finanziario degli editores, tanto che sotto Marco Aurelio e
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In basso mosaico con combattimento di una coppia di gladiatori, Habilis e Maternus, alla presenza di due arbitri, da Roma. III sec. d.C. Madrid, Museo Archeologico Nazionale. Nel registro superiore, Habilis è stato atterrato e l’avversario si appresta a finirlo. Le altre iscrizioni acclamano Simmaco, homo felix che ha offerto lo spettacolo.
Commodo fu emanato un provvedimento che poneva un tetto alle spese per l’affitto dei gladiatori, fissandolo a un massimo oscillante tra i 5000 e i 15 000 sesterzi (il costo di un intero spettacolo poteva oscillare tra i 30 000 e i 200 000 sesterzi). Molti e di varia natura furono i provvedimenti emanati nel tempo sugli spettacoli gladiatori: oltre a quelli, appena ricordati, che miravano a contenerne i costi, altri cercarono di reprimere le frequenti risse tra spettatori (famosa fu quella tra Pompeiani e Nucerini, scoppiata dentro e fuori l’anfiteatro di Pompei) o di diminuire il numero di spettacoli offerti dal medesimo magistrato, o anche di imporre una quota massima di gladiatori per spettacolo.
L’arruolamento Ma come venivano arruolati i gladiatori? Si trattava, in prevalenza, di prigionieri di guerra (tanto che venivano indicati secondo le diverse armature, tipiche di alcuni popoli vinti: Sanniti, Galli, Traci, Sarmati); altri erano invece schiavi. Secondo le leggi, alcuni potevano essere venduti dal padrone al lanista, oppure costretti a praticare il mestiere di gladiatore in seguito a una condanna. Non mancavano, tuttavia, liberti, cioè schiavi liberati – spesso appartenenti alla famiglia imperiale (si conoscono, per esempio, i nomi di C. Iulius Iucundus, Tiberius Claudius Firmus e T. Flavius Incitatus) – e perfino uomini liberi, facenti parte delle classi senatoria ed equestre; famoso, infine, è il caso dell’imperatore Commodo, che amava combattere nel Colosseo indossando l’armatura dei secutores. È inoltre probabile che anche i gladiatori i cui nomi (noti da iscrizioni e graffiti) sono costituiti dal solo cognome non fossero esclusivamente schiavi; poteva infatti trattarsi di uomini liberi, che avevano adottato un nome di battaglia, derivante dall’aspetto fisico (Ferox, Leo, Invictus) o da figure mitologiche (Castor, Hercules). Una categoria a parte era poi quella degli auctorati, ossia uomini liberi che si facevano ingaggiare spontaneamente come gladiatori, rinunciando per tutta la durata del
contratto ai diritti di cittadino, dietro un compenso fissato in 2000 sesterzi dalla lex Italicensis, norma che regolava anche i costi degli spettacoli. Provenienti da regioni diverse dell’impero (tra cui Egitto, Spagna, Tracia, Germania), i gladiatori vivevano nelle caserme, dove si allenavano, e costituivano una familia. Venivano reclutati tra i 17 e i 18 anni e raramente sopravvivevano oltre i 30. Dalle fonti epigrafiche, si ricava che ciascuno di
Mosaico con combattimento di gladiatori alla presenza dell’arbitro, armato del bastone (rudis) simbolo del suo ruolo, dalla villa di Nennig (Germania). III sec. d.C. Saarbrücken, Saarland Museum.
loro doveva combattere, al massimo, due volte all’anno, in quanto il pubblico richiedeva atleti sempre nuovi; ciononostante, sono noti i casi di gladiatori che in carriera vinsero 36 volte, come Massimo a Roma o combatterono 34 volte, come Fiamma, morto a Palermo all’età di 30 anni, oppure 27, come Generoso, a Verona. I pochi che riuscivano ad arrivare al congedo (rudiarii) rimanevano spesso all’interno della caserma come istruttori (doctores) o come (segue a p. 110)
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GLI SPETTACOLI
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I gladiatori: classi e armamento L
e classi dei gladiatori hanno subíto nel tempo alcuni mutamenti. Le piú antiche prendevano nome dall’armamento dei principali popoli nemici di Roma, come Samnites, Galli e Thraeces: questi ultimi continuarono a esistere fino alla tarda età imperiale, mentre i Galli assunsero il nome di murmillones già in età tardo-repubblicana e i Samnites scomparvero all’inizio dell’età imperiale. Dall’età augustea, le varie classi erano ormai definite e ne riportiamo l’elenco nelle pagine che seguono.
A sinistra elmo bronzeo di un mirmillone, con la visiera che copre interamente il viso e due aperture circolari munite di grate per gli occhi, dalla caserma dei gladiatori di Pompei. Prima metà del I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
THRAECES caratterizzati dall’elmo con un’alta cresta a forma di grifone, erano armati di una corta spada ricurva (sica) e portavano alti schinieri per coprire le gambe (cnemides), una protezione al braccio (manica) e un piccolo scudo rettangolare. RETIARII il loro equipaggiamento consisteva in una placca metallica fissata sulla spalla sinistra per proteggere la gola (galerus) e una manica al braccio sinistro, nella rete, nel tridente e in una spada corta. EQUITES conosciuti da un rilievo su un monumento pompeiano, probabilmente aprivano i munera, dapprima a cavallo, utilizzando le lance, poi a terra con le spade (un po’ come nei tornei medievali); indossavano una tunica corta, un elmo a tesa circolare e protezioni alle gambe. SAGITTARII classe assai rara, che combatteva con archi e frecce (sagittae).
Qui sopra una scena dal film Il gladiatore, di Ridley Scott (2000). Nella pagina accanto stele funeraria di un gladiatore trace, da Thyateira, Akhisar (Turchia). III sec. d.C. Parigi, Museo del Louvre.
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GLI SPETTACOLI
ESSEDARII
combattevano sui carri (essedae).
VELITES utilizzavano probabilmente giavellotti come unica arma. PROVOCATORES, SECUTORES, CONTRARETIARII
erano categorie affini, con armamento simile a quello dei murmillones e si battevano contro i retiarii.
SPATHARII definizione
che non indica una classe, ma l’armamento particolare di gladiatori che usavano una spada lunga (spatha),
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come attestano alcune iscrizioni che menzionano, per esempio, murmillones spatharii e thraeces spatharii.
MURMILLONES erano
la classe piú comune, contrapposta nei combattimenti a quella del thraex; il loro armamento difensivo comprendeva un elmo con tesa ripiegata sui lati, uno scudo rettangolare ricurvo, un gambale alla gamba sinistra (ocrea) e una manica al braccio destro; come arma di offesa avevano invece il gladio.
OPLOMACHI gladiatori con armamento pesante, in genere opposti al thraex e al murmillo, che compaiono in alcuni rilievi da Pompei con alte ocreae alle gambe, scudo circolare e lancia. Sulle due pagine armi dalla caserma dei gladiatori di Pompei: 1. pugnale in ferro con il manico in osso, tipico del retiarius; 2. scudo circolare (parmula) con testa di Medusa, tipico dell’oplomachus. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
In alto, sulle due pagine uno dei mosaici detti «Borghese», raffigurante duelli tra coppie di gladiatori di cui vengono riportati i nomi, alla presenza degli arbitri, dalla via Labicana (odierna Casilina), località Torrenova. Fine del III-inizi del IV sec. d.C. Roma, Galleria Borghese.
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Se nel periodo repubblicano vi fu una maggiore variabilità nelle tipologie di gladiatori, in età augustea furono definiti gli armamenti di ogni classe, nonché i loro accoppiamenti nei combattimenti. Un’evoluzione si osserva nella tipologia degli elmi, testimoniata da rilievi e da esemplari provenienti dalla caserma dei gladiatori di Pompei. Dapprima, i copricapi differivano di poco da quelli militari, con paranuca e paragnatidi, e cimieri piú o meno sviluppati e decorati con piume. Dalla piena età augustea e per tutta quella giulio-claudia, compare un nuovo tipo, chiuso sul volto, con due fori per gli occhi protetti da griglie, e una larga tesa circolare al posto del paranuca. Tra Nerone e i Flavi, il modello assume una forma che rimase invariata per tutta l’epoca medio-imperiale: la tesa si ripiega sui lati, per proteggere meglio la testa, mentre i fori per gli occhi vengono sostituiti da un’apertura unica, comunque protetta da una rete metallica, che permette una migliore visibilità.
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Fonti letterarie e iconografiche documentano l’uso di ferri arroventati con cui gli addetti toccavano i gladiatori che sfuggivano ai combattimenti («ure!», «Brucialo!», gridavano gli spettatori) o quelli uccisi per accertarne la morte. Rilievi precedenti la riforma augustea provano che i gladiatori non combattevano soltanto tra di loro, ma anche contro le fiere, quando ancora non venivano distinti dai bestiarii protagonisti delle venationes. Alcuni autori (Marziale, Dione Cassio, Giovenale, Svetonio) riferiscono anche di donne che combattevano nell’arena, sia come gladiatrici che come bestiarie: doveva certamente trattarsi di prigioniere di guerra, schiave, condannate a morte, prostitute e donne di basso rango. Petronio e Seneca ci hanno infine tramandato la formula del giuramento che si pronunciava nelle scuole di addestramento: «Giuro di sopportare di essere bruciato, incatenato, ucciso dal ferro del pugnale, della spada, della lancia o del tridente».
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GLI SPETTACOLI
arbitri nell’arena (summae e secundae rudes), come si vede in molti mosaici, nei quali li si vede impugnare il bastone (rudis) che era simbolo della loro posizione. Alcuni riuscirono anche a formarsi una famiglia, come ci dicono alcune iscrizioni in cui si legge che la moglie provvide alla loro sepoltura (anche se, nella maggior parte dei casi, dell’incombenza si facevano carico amici e colleghi).
Sia grazia ai valorosi Non sempre, il gladiatore perdente veniva ucciso mediante il taglio della gola (iugulatio), soprattutto se si era battuto bene e riusciva a rimanere in piedi (stans), e Augusto, nella sua legislazione, aveva proibito combattimenti in cui non fosse prevista la grazia per il vinto. Del resto, un gladiatore ben allenato e istruito costituiva un investimento per il lanista, che dunque, al pari dell’organizzatore dei giochi, non aveva alcun interesse a perderlo. Per il pubblico, inoltre, il divertimento non consisteva nel veder uccidere, ma nell’assistere alla destrezza, alla bravura e al coraggio dei duellanti. Gli spettatori potevano peraltro chiedere la grazia anche per gli animali, agitando un lembo della toga. Se innumerevoli sono le testimonianze iconografiche di scontri tra gladiatori – dalle lucerne ai mosaici ai rilievi in marmo –, l’unico riscontro letterario sembra essere quello che ricorda il duello tra Prisco e Vero, tenutosi nell’80 d.C. nel corso dell’inaugurazione del Colosseo, alla presenza di Tito, e celebrato da Marziale nel Liber de Spectaculis. In questo caso il combattimento si risolse senza spargimento di sangue, con un pareggio,
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Mosaico con scena di combattimento con un orso, dalla villa di Nennig (Germania). III sec. d.C. Saarbrücken, Saarland Museum.
e lo stesso imperatore fece pervenire ai contendenti ricchi riconoscimenti, concedendo a entrambi la palma del vincitore (sebbene sia probabile che Marziale abbia voluto adulare Tito, da cui era protetto, esaltandone la generosità). Il vincitore riceveva una palma e una corona di alloro, a cui spesso si aggiungevano premi in denaro oppure oggetti preziosi; alla fine del combattimento eseguiva un giro d’onore di corsa intorno all’arena. I gladiatori che si cimentavano nel loro primo combattimento erano detti tiro (da cui tirocinio), mentre all’apice della carriera ricevevano il titolo di primus palus e venivano congedati con la consegna del già citato bastone simbolico (rudis), divenendo cosí rudiarii, cioè istruttori e arbitri. Chi trovava la morte combattendo, veniva portato via su una barella (sandapila) da inservienti mascherati da divinità infere, Caronte o Mercurio, attraverso la Porta Libitinaria, e veniva spogliato dell’armatura nello spoliarium, il locale adibito a obitorio situato vicino all’anfiteatro.
Tifosi eccellenti Gli spettatori, ma anche molti imperatori, si dividevano in tifoserie che sostenevano le varie categorie, come quella dei parmularii, che prediligevano i traci dal piccolo scudo rotondo (parmula), o gli scutarii, che parteggiavano per i mirmilloni, dotati del piú grande scutum. Svetonio afferma che Caligola combatteva con le armi del trace, per i quali parteggiava anche Tito, mentre Domiziano era probabilmente tifoso degli scutarii. È stato calcolato che in tutto l’impero romano dovevano essere attivi, negli oltre 200 anfiteatri di cui si ha conoscenza (ai quali vanno aggiunti altri spazi, adattati in occasione dei giochi),
circa 16 000 gladiatori, pari a tre legioni di soldati dell’esercito romano. A questi si devono sommare quelli che operavano a Roma e che, secondo quanto riporta Plinio, prima della costruzione del Colosseo e durante l’imperio di Caligola, erano circa 20 000. Secondo altre stime, ogni anno ne morivano in combattimento circa 8000. Dalla vendita dei gladiatori, le casse imperiali ricavavano tra i 20 e i 30 milioni di sesterzi
Ancora un mosaico della villa di Nennig con due gladiatori armati di frusta e bastone. III sec. d.C. Saarbrücken, Saarland Museum.
l’anno, e il giro di affari complessivo era compreso trai 60 e i 120 milioni di sesterzi.
La fine della gladiatura L’ultima testimonianza di munera realizzati a Roma sembra risalire al 434-435 d.C. ed è un contorniato emesso sotto Valentiniano III, che su un lato mostra una venatio nel Circo Massimo e, sull’altro, un combattimento di (segue a p. 116)
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GLI SPETTACOLI
Miti da sfatare e aneddoti celebri
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«MORITURI TE SALUTANT»
In molta letteratura e cinematografia popolare, ai gladiatori che prima del combattimento rendono omaggio all’imperatore viene attribuita la frase «Ave Caesar, morituri te salutant» («Salve, Cesare, ti salutano quelli che vanno a morire»). In realtà, queste parole vengono riportate una sola volta, da Svetonio (Claudio, V, XXI), quando narra della naumachia offerta da Claudio nel lago del Fucino prima del suo prosciugamento. In questa occasione, in cui si scontrarono una flotta siciliana e una di Rodi di dodici triremi ciascuna, prima del combattimento i «naumachiarii» resero omaggio all’imperatore, gridando «Have imperator, morituri te salutant», ed egli rispose «aut non» (cioè «potrebbe anche non essere cosí»). Credendo allora di essere stati graziati, i contendenti si rifiutarono di scontrarsi e, solo dopo preghiere e minacce, Claudio ottenne che si cimentassero nella naumachia. Oltre a essere nota solo per questo avvenimento, la frase, dunque, non è neanche attribuita ai gladiatori e si può perciò escludere che sia mai stata pronunciata nel Colosseo o in altri anfiteatri.
POLLICE VERSO
Pollice verso, olio su tela di Jean-Léon Gérôme. 1872. Phoenix, Heard Museum.
Il gesto di abbassare il pollice da parte del popolo e dell’imperatore, per indicare che il gladiatore sconfitto doveva essere ucciso dal suo avversario, o graziato, se la folla lo puntava verso l’alto, è un altro mito almeno in parte da sfatare. In realtà, non sappiamo se per decidere la sorte dello sconfitto il pollice dovesse essere diretto verso l’alto o verso il basso. Inoltre, le fonti danno conto di numerosi casi di gladiatori che, anche se sconfitti, venivano graziati, soprattutto se avevano combattuto bene. Addirittura un provvedimento emanato da Augusto (ma poi abolito) proibiva l’allestimento di spettacoli che non prevedevano la grazia per il gladiatore sconfitto (Svetonio, Augusto, XLV; Cassio Dione, 54.2.4). Infine, occorre considerare che l’addestramento di un gladiatore era un investimento per il suo lanista, pertanto non era conveniente che venisse ucciso. Sebbene siano molte le raffigurazioni di gladiatori uccisi, spesso essi morivano a causa delle ferite riportate. I combattimenti potevano infatti essere sine missione, concludendosi con la morte di uno dei contendenti, o finire con la richiesta di missio da parte dello sconfitto: quest’ultimo protendeva l’indice della mano sinistra tesa o sollevata, oppure metteva le mani dietro la schiena o si inginocchiava abbandonando lo scudo e offrendo la spada all’avversario, assumendo una
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GLI SPETTACOLI
posizione di inferiorità. A quel punto il vincitore non poteva piú colpire l’avversario, e l’arbitro imponeva il rispetto della norma. Gli spettatori potevano condizionare la decisione dell’editore (in genere l’imperatore), agitando un pezzo di stoffa e gridando «missus» se il gladiatore sconfitto si era battuto bene e se era rimasto in piedi, o «iugula», «verbera», «ure» («sgozza», «frusta», «brucia») in caso contrario, indicando con il pollice in basso o coprendolo con le altre dita. La richiesta della grazia si esprimeva invece puntando il pollice teso contro il petto. L’editore comunicava allora la sua decisione all’arbitro, potendo anche rifiutare la missio; in questo caso, il vincitore finiva l’avversario, tagliandogli la gola. Si deve comunque notare che le fonti non parlano mai di rifiuto della grazia, ma di ordine di uccidere lo sconfitto. Sembra che, a partire dal III secolo d.C., la decisione sull’eventuale grazia venisse rimessa al vincitore, come accadde nel 215 d.C. a Nicomedia: un gladiatore sconfitto domandò la grazia a Caracalla, che rispose di chiederla direttamente al suo avversario, in quanto lui non poteva salvarlo (Cassio Dione, Historiae Romanae, LXXII, 19,5). E si conosce perfino un’iscrizione funeraria nella quale il gladiatore defunto si pente di aver risparmiato il suo avversario, che lo uccise in un duello successivo.
MARTIRI CRISTIANI
Benché la tradizione indichi il Colosseo come luogo di martirio dei primi cristiani, non vi sono testimonianze in tal senso. È vero che nell’arena si eseguivano le condanne «ad bestias», nelle quali la vittima veniva legata e lasciata in balia di leoni o altri animali feroci, ma questo riguardava soprattutto disertori e criminali comuni. Il caso di un cristiano sbranato dalle belve nel Colosseo potrebbe essere quello di sant’Ignazio, vescovo di Antiochia, che visse al tempo di Traiano. In alcune lettere indirizzate alla comunità cristiana di Roma, scritte durante il viaggio per la sua condanna a morte, egli anticipa la pena che lo attende: «Potessi gioire
delle bestie per me preparate, e mi auguro che mi si avventino subito. Le alletterò perché presto mi divorino e non succeda, come per alcuni, che intimorite, non li toccarono» (Lettera ai Romani, cap. V). Solo alcuni scrittori cristiani, come Tertulliano, indicano il Colosseo come il luogo in cui fu versato il sangue dei martiri, e soltanto molti secoli piú tardi l’anfiteatro assunse il valore di simbolo religioso che ancora oggi riveste per la Chiesa cattolica, che vi celebra ogni anno il rito della Via Crucis, alla presenza del pontefice.
STORIE DI STRUZZI E DI CAPPONI
L’imperatore Gallieno, uomo di spirito, volle giocare un tiro a un tale che aveva venduto a sua moglie alcuni gioielli di vetro, spacciandoli per veri. Durante uno spettacolo nel Colosseo, lo fece arrestare e condurre nell’arena per essere sbranato dai leoni, ma dalla gabbia, invece delle bestie feroci, uscí un timido cappone. L’imperatore avrebbe allora fatto proclamare dall’araldo al pubblico stupito: «Ha compiuto un inganno, un inganno ha subíto». In generale, abbondano gli episodi che mettono in cattiva luce anche molti altri imperatori. Si dice per esempio che Caligola, essendo rimasto a corto di criminali da giustiziare, fece gettare in pasto alle belve alcuni spettatori presi a caso dalle gradinate. Domiziano, invece, faceva combattere tra di loro alcuni rappresentanti della classe senatoria. Infine, Cassio Dione racconta delle centinaia di combattimenti a cui avrebbe partecipato come gladiatore Commodo, anche se con finte spade di legno, e delle centinaia di orsi e altri animali (tra cui una tigre, un ippopotamo e un elefante) da lui uccisi nell’arena. In un’altra occasione, lo stesso Commodo uccise uno struzzo decapitandolo; poi, con la spada insanguinata in una mano e la testa dell’animale nell’altra, accostandosi ai senatori, avrebbe cominciato a sogghignare, senza dire nulla, in modo da far intendere che avrebbe potuto riservare loro la stessa sorte. In casi del genere, il Colosseo si faceva teatro del perpetuo contrasto tra l’imperatore e la classe aristocratica.
In alto medaglione con i ritratti di Gallieno e della moglie Salonina. 253-260 d.C. Boston, Museum of Fine Arts. Nella pagina accanto Famiglia de’ primitivi cristiani vicini ad essere divorata dalle fiere, olio su tela di Agostino Caironi. 1852.Milano, Accademia di Belle Arti di Brera.
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GLI SPETTACOLI
gladiatori. Oltre all’influenza del pensiero cristiano, a partire dal IV secolo gli alti costi degli spettacoli portarono lentamente ad abbandonare la gladiatura. In alcune province, come in Gallia e Spagna, non si offrivano piú munera agli inizi del IV secolo, dopo le invasioni della seconda metà del secolo precedente, mentre in Africa e in Oriente ancora se ne realizzavano sporadicamente intorno alla metà del IV secolo. A Roma la situazione era diversa, in quanto il popolo era ancora appassionato a questo tipo di spettacoli. Con l’avvento di Diocleziano (284 d.C.), la città cessò di essere la residenza dell’imperatore (tranne che per i sei anni del regno di Massenzio, 306-312 d.C.) e perciò, nel corso del IV secolo, gli spettacoli, oltre ai giorni fissi per i munera offerti dai questori – che erano soltanto dieci all’anno, concentrati nel mese di dicembre, come riporta il Calendario di Filocalo del 354 d.C. –, venivano allestiti solo nel caso di un soggiorno a Roma del principe.
Un provvedimento di scarso successo È quanto accadde, per esempio, durante la breve permanenza nell’Urbe di Costantino, nel 312, quando furono allestiti giochi in cui il popolo romano potè contemplare il sovrano. Nel 325 d.C., con l’editto di Berytos – che abolí la condanna all’esercizio della gladiatura, commutandola nella pena ai lavori in miniera (ad metalla), Costantino aveva inoltre inferto un duro colpo al reclutamento di gladiatori. Il provvedimento restrittivo, tuttavia, si rivelò inefficace, perché i munera erano ancora assai apprezzati dal popolo. È noto poi l’episodio del suicidio collettivo, nel Ludus Magnus, di 29 prigionieri sarmati, che avrebbero dovuto combattere nei giochi organizzati da Quinto Aurelio Simmaco per la nomina a questore del figlio, nel 393 d.C.; l’accaduto indusse Simmaco a optare per gli auctorati, perché offrivano maggiori garanzie, testimoniando come alla fine del IV secolo, nonostante il clima sfavorevole nei confronti dei giochi gladiatori – definiti cruenta spectacula –, vi fossero ancora persone
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disposte a essere reclutate. Sebbene nessuna fonte antica fornisca la data ufficiale della fine degli spettacoli di gladiatori, nei primi decenni del V secolo l’alto costo dei munera e il basso livello professionale di quanti vi si cimentavano fecero scemare la passione del pubblico. Venne anche abolita la damnatio ad bestias, sicché nell’anfiteatro continuarono a svolgersi solo le venationes e, probabilmente, le esecuzioni pubbliche di pene corporali.
Il mattino si addice alla caccia Il termine venatio (caccia) indica spettacoli di vario genere con animali come protagonisti, che si svolgevano la mattina e precedevano i combattimenti di gladiatori. Potevano consistere in cacce in cui venivano ricostruiti
Un altro dei mosaici «Borghese» raffigurante venatores in lotta con leopardi, dalla via Labicana (odierna Casilina), località Torrenova. Fine del III-inizi del IV sec. d.C. Roma, Galleria Borghese.
artificialmente gli habitat tipici delle specie esposte oppure in lotte tra belve. In epoca tarda vennero in parte sostituite da giochi di abilità animati da acrobati e belve, soprattutto tori e orsi, spesso ammaestrate. Secondo Plinio, il primo spettacolo di caccia alle fiere si tenne nel 252 a.C., nel Circo Massimo, con elefanti catturati in Sicilia (ma forse, piú che di una caccia, si trattò di una semplice esibizione dei pachidermi). Fino alla costruzione dell’Anfiteatro Flavio, il Circo Massimo fu il luogo esclusivo per le venationes, ma anche dopo vi si svolsero sia cacce che spettacoli di gladiatori, come riportano fonti letterarie e alcuni rilievi con scene di lotte tra uomini e fiere. Infatti, pur essendo nato per ospitare le corse dei carri, il
Circo Massimo possedeva caratteristiche strutturali che si rivelarono particolarmente adatte anche alle venationes, sia per le dimensioni dell’arena – dove potevano muoversi agevolmente animali grandi come gli elefanti e potevano svolgersi simultaneamente cacce con numerose belve –, sia per la capienza della cavea, che si stima potesse ospitare tra i 250 000 e i 320 000 spettatori (anche se i Cataloghi Regionari riportano la cifra di ben 485 000!). Tuttavia, venationes si svolsero anche altrove: per esempio, nel Circo Flaminio – nella cui arena, appositamente allagata, vennero uccisi, nel 2 d.C., 36 coccodrilli – e nel Circo Vaticano. Il fascino di questi spettacoli consisteva nel poter ammirare animali esotici, spesso
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riccamente bardati, i paesaggi ricreati all’interno dell’arena, i costumi da parata dei cacciatori. Numerosi mosaici ci hanno conservato scene di venationes, da cui è possibile ricostruirne la grandiosità. Per esempio, un mosaico da Radès (ora al Museo del Bardo di Tunisi), mostra una moltitudine di animali, ognuno indicato per nome – Simplicius, Gloriosus, Braciatus – e in un altro si leggono nomi ancor piú sanguinari: Victor, Crudelis, Omicida. Tra le specie piú utilizzate, oltre a leoni e tigri, compaiono tori, ippopotami, cinghiali, iene, rinoceronti, elefanti, coccodrilli, struzzi, gazzelle, cervi, pantere, orsi. I grandi plantigradi
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Calco del rilievo marmoreo oggi appartenente alla collezione Torlonia con scena di lotta fra tre venatores che combattono con un leone, una pantera e un orso; un quarto combattente giace a terra. Roma, Museo della Civiltà Romana.
animarono spettacoli particolari, gli ultimi offerti nel Colosseo alla fine del suo utilizzo. La distinzione principale era comunque tra animali erbivori e carnivori. Non è ben chiara, invece, la differenza tra bestiarius e venator.
Seminudo, in balia delle fiere Secondo alcune ipotesi, il bestiarius sarebbe un condannato a morte, che però veniva prima addestrato a maneggiare le armi per difendersi dagli assalti delle fiere; in genere è raffigurato seminudo, con un pugnale o una spada come arma. Il venator sarebbe invece un professionista che disponeva di un armamento migliore, prevalentemente una lunga lancia,
| Frammenti di vita quotidiana Gli scavi nei sotterranei e in alcuni collettori del Colosseo, condotti dal 1864-65 e fino agli anni Novanta del secolo scorso, hanno restituito molte ossa di animali, sia domestici che selvatici. Tra i primi, figurano polli, suini, oche, bovini, ovini (resti di pasto degli spettatori), cavalli, asini (animali da trasporto usati nei sotterranei), anche se per alcuni non si può escludere un loro utilizzo anche per le venationes. Le specie selvatiche comprendono leoni, pantere, leopardi, orsi, struzzi, cinghiali. Alcuni presentano chiari segni di ferite, causate dai morsi di altri animali e dalle armi dei venatores. È però significativo il fatto che il numero di capi rinvenuti risulti molto esiguo rispetto alle migliaia di bestie che secondo le fonti sarebbero state esibite e uccise nell’anfiteatro. Basti pensare alle 5000 fiere abbattute in un solo giorno durante i giochi di inaugurazione del monumento offerti da Tito, o ancor di piú agli 11 000 animali delle venationes offerte da Traiano per celebrare i suoi trionfi nel 107, che durarono 120 giorni (i piú grandiosi spettacoli mai tenuti nel Colosseo). La discrepanza si spiega considerando che molti degli animali uccisi nelle cacce venivano poi distribuiti al popolo e ai venatores superstiti,
con la parte verso l’asta ricurva, in modo da impedirne l’uscita dopo aver inferto il colpo mortale. Il suo abbigliamento era costituito da una corta tunica, che garantiva libertà di movimento, con le maniche lunghe o corte, su cui erano varie applicazioni in cuoio o metallo (orbiculi), per proteggere le spalle e il torace, oltre a bracciali e fasce ai polsi e alle caviglie. Alcuni rilievi, come quello di Villa Torlonia, mostrano scene di venationes a cui partecipano personaggi con l’armatura tipica dei gladiatori; è da supporre che, almeno fino agli inizi del I secolo d.C., non vi fosse una netta distinzione tra gladiatori e venatores.
In questa pagina reperti dai sotterranei del Colosseo: resti di pasto (ossa di pollo; noccioli di pesca, ciliegie, meloni, olive, uva) e due lucerne, utilizzate dal personale di servizio per illuminare gli ambienti ipogei.
mentre le carni dei felini servivano per nutrire le belve custodite nei vivaria imperiali. Inoltre, alcune parti venivano recuperate, come le zanne degli elefanti e le pelli di tigri, leopardi, giaguari, pantere. Si deve quindi immaginare, durante e soprattutto dopo gli spettacoli, un’intensa attività di macellazione delle carogne, i cui resti venivano poi gettati nelle fogne. Oltre alle ossa animali, sono stati rinvenuti resti di spuntini consumati dagli spettatori, come gusci di pistacchi, dadi da gioco per passare il tempo negli intervalli, aghi crinali persi da qualche matrona, e numerose lucerne che illuminavano i sotterranei, una delle quali ancora provvista dello stoppino.
Per procurarsi gli animali, esistevano appositi mercati di bestie, soprattutto in Asia e Africa, presso i quali si potevano acquistare gli esemplari catturati (alle battute, in età imperiale, partecipava anche l’esercito). Alcuni imperatori, come Nerone, possedevano anche serragli privati.
Agenzie specializzate Conosciamo inoltre i nomi di vere e proprie «agenzie» di venatores ben addestrati in Africa, a cui potevano rivolgersi gli editori di spettacoli, ognuna contraddistinta da simboli. La piú famosa era quella dei Telegenii, che
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avevano come emblema un’asta con un crescente lunare, forse lo strumento usato per spingere le belve nell’arena. Altre erano quelle dei Pentasii, dei Taurisci, dei Leontii, note attraverso rappresentazioni musive della Tunisia.
Dai combattimenti alle acrobazie Lo spettacolo piú in voga nel VI secolo è raffigurato in alcuni dittici consolari da Costantinopoli degli inizi del VI secolo (tre riferiti al consolato di Aerobindo del 506, due di Anastasio del 517), in alcuni stucchi e in un graffito del Colosseo, mentre una sua descrizione si legge in una lettera inviata da Teodorico al console Anicio Massimo poco prima dei giochi che questi allestí nel 523 (Cassiodoro, Variae, 5,42). Durante questi spettacoli, alcuni bestiarii uscivano all’improvviso dalle porte posticiae che si aprivano nel muro del podio, pungolando gli animali che rimanevano disorientati. Altri giochi consistevano in esibizioni di acrobati che affrontavano le belve, come il contomonobolon, in cui uno o piú personaggi eseguivano salti acrobatici con l’aiuto di un’asta, scavalcando gli animali. Vi erano poi alcune attrezzature, come la cochlea (chiocciola), una sorta di porta girevole a due o quattro ante fissate su un perno centrale, con cui i protagonisti del gioco, facendola girare velocemente, innervosivano gli animali, riparandosi dietro i pannelli; l’ericius (il riccio), una gabbia ovale di canne con un uomo all’interno, che veniva fatta probabilmente rotolare contro un orso; un altro attrezzo era costituito da un palo centrale, a cui erano agganciati due cesti dentro i quali stavano due uomini, aggrappati alla corda che teneva i cesti; strattonando da una parte e dall’altra la corda, si facevano salire e scendere i cesti, che
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In basso la faccia interna di una delle valve del dittico di Areobindo. Parigi, Musée de ClunyMusée national du Moyen-Âge. Nella parte inferiore figurano i giochi di destrezza con animali offerti dallo stesso Areobindo durante il consolato del 506 d.C. e tipici dell’età tardo-antica, dopo l’abolizione dei combattimenti di gladiatori.
inoltre potevano anche girare intorno al palo centrale, provocando il disorientamento dell’animale che non riusciva ad afferrare le prede. Teodorico descrive anche altri giochi, mentre sui dittici compare spesso un fantoccio di paglia (palea) con cui si stuzzicavano le fiere (da cui il termine «uomo di paglia»). Questo tipo di intrattenimento, al quale partecipavano spesso animali ammaestrati, tra cui leoni e soprattutto orsi, piú simile agli spettacoli circensi che alle cacce del primo periodo imperiale, non aveva piú bisogno delle imponenti scenografie utilizzate per i munera e le venationes tradizionali, ma erano sufficienti il piano dell’arena e le porte lungo il muro del podio. Ciò spiega anche perché i sotterranei del Colosseo, tra la fine del V e gli inizi del VI secolo, fossero stati definitivamente interrati.
Supplizi ed esecuzioni Nell’intervallo tra le cacce e i combattimenti dei gladiatori, l’arena ospitava le esecuzioni dei condannati a morte, in genere disertori, prigionieri di guerra e criminali comuni. Poiché si voleva che la punizione fosse di esempio, essa doveva svolgersi in uno spazio pubblico e quale luogo poteva essere piú adatto dell’anfiteatro, sulle cui gradinate sedevano tutte le classi sociali, dall’imperatore ai senatori, al popolo minuto? Il diritto romano aveva fissato una notevole differenza non tanto nel delitto commesso, quanto nello stato giuridico del colpevole: la damnatio ad bestias, cosí come la crocifissione o l’essere bruciati vivi, erano condanne ritenute particolarmente infamanti, che non potevano essere comminate a un cittadino romano (basti pensare che gli apostoli Pietro e
Dittico d’avorio con scene di caccia alle fiere. V sec. d.C. San Pietroburgo, Museo Ermitage.
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Paolo, colpevoli dello stesso delitto, subirono due diversi tipi di supplizio: il primo venne crocifisso, mentre il secondo, cittadino romano, fu decapitato). Il primo supplizio a opera delle belve attestato dalle fonti sembrerebbe risalire al 167 a.C., quando Emilio Paolo fece calpestare dagli elefanti i disertori stranieri dell’esercito romano, dopo la vittoria su Perseo. Probabilmente, infatti, questo tipo di esecuzione – che secondo Polibio (1,84,8) i Romani avrebbero ripreso dai Cartaginesi – era in origine riservato solo ai disertori e ai prigionieri di guerra, e soltanto in seguito fu esteso anche ai criminali comuni. Numerose testimonianze, letterarie e iconografiche, descrivono queste crudeli esecuzioni. In particolare, alcuni mosaici provenienti dalla Sollertiana domus di El Djem in Tunisia (dove sembra di vedere dei prigionieri berberi) e da Zliten, in Libia, mostrano con crudezza il supplizio di uomini sbranati da leopardi e leoni; in quello di Zliten, inoltre (databile agli inizi del
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III secolo d.C.), i condannati (forse prigionieri Garamanti) vengono sospinti dagli inservienti verso le fiere, legati a un palo posto su un carrozzino a due ruote.
La noia di Seneca Questi spettacoli, per noi inconcepibili, erano molto apprezzati dal popolo e piú di un autore non li condanna per la loro atrocità, ma semmai perché li giudica di cattivo gusto o perfino noiosi, come scrive Seneca: «Al mattino gli uomini sono dati in pasto ai leoni e agli orsi, il pomeriggio agli spettatori»; piú avanti, il filosofo spiega che i supplizi avvenivano «mentre nell’arena c’è l’intervallo tra gli spettacoli. Ma quello è un ladro, ha ucciso un uomo. E allora? Per il fatto di aver ucciso, egli ha meritato tale pena, ma tu, sciagurato, che delitto hai commesso per dover assistere a un tale spettacolo?» (Epistole, 7,4-5). Spesso, al pari delle venationes, le esecuzioni di damnati ad bestias venivano trasformate in rappresentazioni mitologiche: da Marziale
Mosaico dalla villa di Zliten (vicino Leptis Magna, in Tripolitania), con la raffigurazione di una giornata di spettacoli anfiteatrali, probabilmente offerti dal proprietario della residenza. Fine del I-inizi del III sec. d.C. Tripoli, Museo Archeologico. Accanto ai combattimenti di gladiatori, compaiono i musicisti che accompagnavano i giochi: una donna all’organo idraulico, due suonatori di corno seduti e un suonatore di tuba.
sappiamo di supplizi in cui le vittime rappresentavano personaggi come Prometeo (con la variante che il condannato venne appeso a una croce e dato in pasto a un orso caledonio), Orfeo (sbranato da un orso «ingrato»), Dedalo, Pasifae che si congiunge con il toro; mentre da Tertulliano abbiamo notizia di altri episodi mitologici «interpretati» da condannati costretti a mettere in scena l’evirazione di Attis, Issione legato a una ruota infuocata, o il rogo del monte Oeta, sul quale venne fatta salire una vittima travestita da Ercole. I pyrricharii (la pyrricha era la danza guerriera spartana) dovevano invece indossare una tunica sontuosa e un mantello purpureo, imbevuti di sostanze infiammabili; dopo aver iniziato la danza, si appiccava il fuoco alle vesti, cosí che lo sventurato, avvolto dalle fiamme, continuasse a contorcersi freneticamente sotto gli occhi degli spettatori. Negli Atti dei martiri – che spesso riportano documenti della cancelleria imperiale relativi ai processi, agli arresti e alle esecuzioni – si legge
che molti cristiani vennero condannati alle fiere, anche se, come si è visto, non si ha alcuna notizia di fedeli uccisi nel Colosseo. Simili esecuzioni avvennero in altri anfiteatri, come quello di Cartagine – dove subirono il martirio Felicita, Perpetua e i loro compagni nel 203 – o quello di Lione, dove furono messi a morte Blandina e i suoi compagni nel 177. Con l’avvento del cristianesimo, il diritto romano abolí i supplizi, la forca, la crocifissione e la damnatio ad bestias, proprio in virtú del ricordo della morte di Cristo e dei martiri, mentre rimase la condanna al rogo.
Fautori e detrattori I giudizi degli autori antichi sugli spettacoli dell’anfiteatro sono spesso discordanti e certamente non coincidono con il nostro modo di vedere. Come già ricordato, molti, come per esempio Seneca, non li condannarono per la loro crudeltà, quanto per la noia che potevano suscitavare. Anche Cicerone, parlando di cinque giorni di spettacoli ai quali aveva
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assistito, affermò che non era piacevole, per un uomo di cultura, vedere un uomo dilaniato da una belva o un magnifico animale trafitto da una lancia; piú avanti scrisse di aver provato addirittura compassione per degli elefanti, ma poi aggiunse che si trattava di cose viste e riviste (ad Familiares, 7.1). Dal canto suo, l’imperatore Marco Aurelio riteneva che non vi fosse cosa piú noiosa e monotona degli spettacoli dell’anfiteatro, sebbene il figlio Commodo ne fosse appassionato, tanto da parteciparvi personalmente. Se altri autori fornirono nude cronache degli spettacoli, venate di adulazione nei confronti dell’imperatore (come nel caso di Marziale per Tito), altri, soprattutto gli scrittori cristiani, li disprezzarono. Tertulliano (170-212 circa d.C.), ricordandone l’origine nei sacrifici umani sulle tombe dei defunti per attenuare il dolore e ingraziarsi le divinità infere con il sangue delle vittime, li definí addirittura opera del diavolo e sostenne che l’anfiteatro era il tempio di tutti i demoni (De Spectaculis, XII, 6). In un passo delle Confessioni, sant’Agostino descrisse invece il fascino irresistibile che quegli spettacoli esercitavano sul pubblico, e l’attrattiva che la visione del sangue e delle crudeltà suscitarono nel suo discepolo Alipio (che, probabilmente, è un alter ego dello stesso Agostino): condotto controvoglia a uno spettacolo, si lasciò condizionare dall’entusiasmo della folla e ne divenne un fervente appassionato, trascinandovi in seguito altri amici. Al di là dell’evidente senso morale
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dello scritto, il dottore della Chiesa e santo testimonia il senso di crudele passione che tali spettacoli riuscivano a suscitare anche negli spettatori di animo piú elevato. In alcuni casi, nell’assistere ai munera poteva esserci anche un tornaconto personale: per Flavio Vopisco di Siracusa (III-IV secolo), lo spettacolo piú divertente fu infatti quello offerto da Probo, in cui si annunciò che tutte le bestie utilizzate nei giochi sarebbero divenute, al termine dell’esibizione, proprietà di chi fosse riuscito a impossessarsene, vive o morte, cosicché la folla, alla fine, si precipitò nell’arena per catturare un animale e portarselo via (Historia Augusta, 19, 1-8).
Sulle due pagine ancora un mosaico da Zliten con scene di damnati ad bestias. Fine del I-inizi del III sec. d.C. Tripoli, Museo Archeologico. Sulla sinistra, un condannato, legato su un carrozzino a due ruote, viene spinto contro le belve, mentre un addetto aizza un leopardo.
Fortuna di un capolavoro G
li umanisti del Quattrocento furono i primi a studiare e analizzare il Colosseo. Leon Battista Alberti, per esempio, in opere sugli edifici antichi (De re edificatoria, Descriptio Urbis Romae), elaborò progetti per nuove costruzioni che facevano riferimento all’Anfiteatro Flavio: ne propose la successione degli ordini architettonici nel palazzo Piccolomini di Pienza; e altrettanto fece Antonio da Sangallo il Giovane per Palazzo Baldassini, Palazzo Farnese, Palazzo della Cancelleria, Palazzo Venezia a Roma. Anche Andrea Palladio, nel monumento del convento della Carità a Venezia, ripropose lo schema architettonico del Colosseo. Innumerevoli sono poi gli artisti che hanno scelto il Colosseo per i loro quadri: basti citare l’inglese William Turner, il fiammingo Gaspar van Wittel, o i francesi Jean-Antoine Constantin e François-Marius Granet. Oltre che dal punto di vista storico-artistico, queste opere sono estremamente importanti per gli archeologi, in quanto spesso offrono un’immagine del monumento e di quelli vicini, prima degli sterri effettuati a partire dagli inizi del XIX secolo, che hanno cancellato le stratigrafie tardo-antiche e medievali; molte sono anche le vedute dell’interno dell’edificio, che ne documentano
l’utilizzo come abitazione, luogo di transito (per attraversare la valle) o di devozione, con la cappella di S. Maria della Pietà. Ma il monumento ricorre anche in letteratura: Johann Wolfgang Goethe, nel Viaggio in Italia, descrive in poche righe la sua ultima visita al Colosseo nell’aprile 1788, in una sera di chiaro di luna, dopo essere sceso dal Campidoglio e aver percorso la Via Sacra; lo scrittore, definisce «venerande reliquie» le strutture dell’anfiteatro ed è colto da un brivido che lo spinge a tornare sui suoi passi, dopo aver «spinto lo sguardo all’interno [del monumento] attraverso la cancellata»; nello stesso anno, nasceva il poeta George Byron, il quale, in Manfredi, descrive una sua visita nel Colosseo in una notte di chiaro di luna, evidentemente un topos per i viaggiatori del Grand Tour.
Visite a luci rosse e blu La citazione fu ripresa nella prima edizione di una famosa guida per turisti inglesi, il Murray’s Handbook to Central Italy (1843), in cui si raccomandava al viaggiatore vittoriano proprio la visita al monumento al chiaro di luna, specificando che, per goderne appieno, si doveva salire fino al punto piú alto, tramite la scala costruita appositamente per i turisti, che portava ai piani superiori; addirittura, le edizioni successive della guida indicavano come ottenere i permessi per visitare l’edificio, e, per i piú ricchi, godere di uno spettacolo «privato» in cui il Colosseo, previa autorizzazione della polizia, veniva illuminato con luci rosse e blu al
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Nella pagina accanto Il Colosseo visto da sud-est (particolare), olio su tela di Gaspar van Wittel. 1700 circa. Cambridge (USA), Harvard Art Museums, Fogg Museum. In basso pianta di cappero che spunta da un elemento architettonico, da Flora of the Colosseum di Richard Deakin. 1855.
prezzo di 150 scudi (corrispondenti a un anno di salario di un operaio inglese dell’epoca). Nel romanzo di Nathaniel Hawthorne Il fauno di marmo (1860), la visita romantica al Colosseo è invece descritta piú realisticamente, tra una massa di persone che all’interno dell’edificio, all’ombra delle arcate, schiamazzano, amoreggiano, cantano sui gradini della croce al centro dell’arena o si intrattengono in giochi popolari. Durante il suo viaggio in Italia, Charles Dickens scrisse di apprezzare di piú il monumento ridotto in rovina, rispetto a come doveva presentarsi quando vi si svolgevano i sanguinosi combattimenti, e anche la protagonista del romanzo Corinna, di Madame de Staël, definisce il Colosseo «la rovina piú splendida di Roma». Per altri scrittori la visita notturna al Colosseo poteva rivelarsi letale, poiché vi si respirava un’aria tanto malsana da causare la malaria, la cosiddetta «febbre romana», fatale per la Daisy Miller di un romanzo di Henry James; un morbo che diviene addirittura protagonista dell’omonimo racconto di Edith Wharton. Per finire in maniera piú lieve, si può citare il grande umorista Mark Twain, che, nel suo resoconto di un viaggio europeo scritto dopo il 1860, Gli innocenti all’estero, descrive un immaginario combattimento nel Colosseo (da lui definito «il re di tutte le rovine europee») alla maniera di un moderno spettacolo di Broadway, con tanto di manifesto pubblicitario in cui si annunciava «un’onesta ed elegante Carneficina generale!». Il compilatore del già citato Murray’s Handbook
to Central Italy si rammaricava del fatto che presso il Colosseo non si vendessero, come souvenir, fiori secchi raccolti nel monumento, ricco com’era di specie floreali, anche rare.
Quasi un orto botanico In effetti, fin dal 1643, il botanico Domenico Panaroli, aveva intrapreso lo studio e la classificazione delle piante presenti nell’edificio. Se nel XVII secolo egli elencava ben 337 specie diverse, già nel 1815 il responsabile dell’Orto Botanico di Roma, Antonio Sebastiani, in un lavoro interamente dedicato alle «piante selvatiche che crescono nell’Anfiteatro Flavio», ne classificava solo 261, probabilmente a causa degli interventi di scavo e restauro condotti agli inizi del secolo, che avevano bonificato l’area. Nel 1855, nella sua opera magnificamente illustrata Flora of the Colosseum, l’inglese Richard Deakin individuò ben 420 specie diverse di piante. Altri studi sulla flora del monumento si devono alla contessa Elisabetta Fiorini Mazzanti, che in alcune comunicazioni pubblicate tra il 1875 e il 1878 presso l’Accademia dei Lincei, descrive la situazione dell’anfiteatro prima dei diserbi effettuati dopo l’Unità d’Italia, «affinchè non vada perduta la memoria delle piante che ivi allignavano»; l’accademica critica aspramente quegli interventi, in quanto mentre prima «natura piacevasi vestir di Poesia le venerande mura (…) con il vago ornamento di piante e fiori (…) ora cupidigia archeologica tutto distrusse». In tempi a noi piú vicini, nuovi studi sono stati condotti da Bruno Anzalone (1951) e da un gruppo di lavoro dell’Università Sapienza di Roma, che, nel 2001, ha recensito circa 240 specie, concentrate perlopiú negli ambienti ipogei. Comparando i vari lavori, da quello di Panaroli a oggi, si è potuto stabilire che il Colosseo, in circa 350 anni, ha ospitato 684 specie diverse, con un picco nella metà dell’Ottocento (420 di Deakin) e un calo fino alle 242 di oggi, a causa degli interventi di restauro, di diserbo, ma anche dei cambiamenti climatici vissuti in questo arco cronologico. Da segnalare inoltre che, presso il Museo
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| Il Colosseo come set Una delle scene che hanno fatto la storia del cinema è quella del gigantesco gorilla King Kong, arrampicato sulla sommità dell’Empire State Building di New York con la amata Ann in pugno, che viene attaccato da una squadriglia dell’aviazione, prima di cadere al suolo, nel celebre film del 1933.
Ebbene, una sequenza simile venne ambientata nel Colosseo nel film A 30 milioni di km dalla Terra, diretto nel 1957 dal regista austriaco Nathan Juran: sulla sommità del monumento si arrampica infatti il mostro alieno Ymir, un lucertolone creato da Ray Harryhausen, che
Herbarium dell’Università Sapienza di Roma, sono ancora conservati numerosi campioni appartenenti agli erbari «storici» raccolti al Colosseo da Sebastiani, dalla Fiorini Mazzanti e da Anzalone, importante testimonianza naturalistica e storica delle diverse specie floreali che negli ultimi secoli hanno fatto parte del paesaggio dell’Anfiteatro Flavio.
Stato dell’arte e prospettive Il Colosseo è oggi uno dei monumenti piú visitati in Italia e nel mondo, con oltre 6 milioni di visitatori all’anno (occorre tuttavia considerare che il dato si riferisce al circuito che, oltre all’Anfiteatro Flavio, comprende il Foro Romano e il Palatino, i cui singoli componenti non hanno biglietto singolo). Vi vengono allestite importanti mostre
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viene poi abbattuto dai militari che fanno fuoco dall’interno dell’anfiteatro e stramazza al suolo davanti all’Arco di Costantino. Pochi anni prima, il Colosseo era stato utilizzato anche da Alberto Sordi, per il film Un americano a Roma (con la regia di Steno), nel
temporanee, prevalentemente a tema archeologico, e realizzati eventi e concerti, sia all’esterno che all’interno, sulla parte di arena ricostruita dopo il Giubileo del 2000. Con un intervento sulle pagine di «Archeo» (vedi n. 353, luglio 2014), uno dei piú noti archeologi italiani, Daniele Manacorda, si è detto favorevole a un possibile progetto di ricostruzione del piano dell’arena del Colosseo, in modo da restituire almeno in parte l’immagine originaria dell’anfiteatro e salvaguardare le strutture ora esposte dei sotterranei. In poco tempo, la proposta ha fatto il giro del mondo, ottenendo reazioni contrastanti. Ma il fatto stesso che un’idea del genere abbia suscitato un dibattito cosí acceso prova quanto il Colosseo sia conosciuto e apprezzato a livello planetario.
Sulle due pagine, da sinistra scene tratte da film ambientati nel Colosseo: il combattimento «all’ultimo sangue» tra Bruce Lee e Chuck Norris ne L’urlo di Chen terrorizza anche l’Occidente (1972); due momenti de Il gladiatore (2000), in cui Joaquin Phoenix ha vestito i panni dell’imperatore Commodo e Russell Crowe quelli di un generale di origine ispanica chiamato Massimo Decimo Meridio.
quale il suo personaggio, Ferdinando (Nando) Mericoni, si arrampica sul monumento, deciso a gettarsi nel vuoto pur di ottenere la cittadinanza statunitense (e va detto che questo «utilizzo» del Colosseo come luogo di protesta perdura ancora oggi). Tra le gallerie dei piani superiori si svolge anche un «epico» combattimento di kung fu, tra Bruce Lee e Chuck Norris nel film L’urlo di Chen terrorizza anche l’Occidente, del 1972 (diretto dallo stesso Bruce Lee). Solo grazie alle ricostruzioni al computer, invece, si può rivivere il clima dei combattimenti nell’arena ne Il Gladiatore di Ridley Scott, del 2000, la pellicola forse piú famosa tra le tante che rievocano, piú o meno fantasiosamente, il mondo dei gladiatori. Peraltro, l’anfiteatro utilizzato da Scott non è il Colosseo, ma quello di El Djem in Tunisia, che, per ben due volte, benché la vicenda narrata si collochi al tempo di Commodo, viene anacronisticamente chiamato «Colosseo», anziché «Anfiteatro Flavio».
Per saperne di piú Come è facile immaginare, la bibliografia sul Colosseo e sugli spettacoli anfiteatrali è sterminata; qui ci si limita, pertanto, a suggerire soltanto alcune delle pubblicazioni piú recenti. AA.VV., Anfiteatro Flavio. Immagine Testimonianze Spettacoli, Edizioni Quasar, Roma 1988 Ada Gabucci (a cura di), Il Colosseo, con contributi di Filippo Coarelli, Gian Luca Gregori, Leonardo Lombardi, Silvia Orlandi, Rossella Rea, Cinzia Vismara; Electa, Milano 1999 Adriano La Regina (a cura di), Sangue e Arena, (catalogo della mostra; Colosseo, 22 giugno 2001-7 gennaio 2002), Electa, Milano 2001
Rossella Rea (a cura di), Rota Colisei. La valle del Colosseo attraverso i secoli, Electa, Milano 2002 Domenico Augenti, Spettacoli del Colosseo nelle cronache degli antichi, «L’Erma» di Bretschneider, Roma 2001 Filippo Coarelli (a cura di), Divus Vespasianus. Il bimillenario dei Flavi, catalogo della mostra (Colosseo. Curia e Criptoportico neroniano, 27 marzo 2009-10 gennaio 2010), Electa, Milano 2009 Si segnala anche, perché fondamentale per l’epoca: Mariano Colagrossi, L’anfiteatro Flavio (il Colosseo). Nei suoi venti secoli di storia, Arbor Sapientiae, Roma 2015 (ristampa dell’edizione originale, pubblicata a Firenze nel 1913).
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MONOGRAFIE
n. 13 (giugno 2016) Registrazione al Tribunale di Milano n. 467 del 06/09/2007 Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Redazione: Piazza Sallustio, 24 - 00187 Roma tel. 02 00696.352 Collaboratori della redazione: Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Davide Tesei Gli autori: Luciano Frazzoni è direttore del Museo Civico «F. Rittatore Vonwiller» di Farnese. Illustrazioni e immagini: Mimmo Frassineti: copertina – Andreas M. Steiner: pp. 4, 5 (basso, a sinistra), 6-7 – Cortesia Gruppo Tod’s: pp. 5 (alto e basso, a destra), 8-9 – Shutterstock: pp. 10/11, 16/17, 34-37, 58, 66/67, 72 (alto), 73, 76/77, 82/83 – Francesco Corni: disegni alle pp. 12-13 – Mondadori Portfolio: AKG Images: pp. 14, 40 (e p. 107, alto), 41, 71, 80, 87, 99, 102/103, 109 (basso), 110-111, 122-125; AGE: pp. 18-19: Rue des Archives/Tallandier: pp. 64-65; Electa/Giuseppe Schiavinotto: p. 81; Leemage: pp. 84/85, 121; Electa: pp. 96/97; Rue des Archives/RDA: p. 107 (basso); Album: pp. 128-129 – Da: Rodolfo Lanciani, Forma Urbis Romae, Edizioni Quasar, Roma 1988: pp. 15, 100 (alto) – DeA Picture Library: pp. 56, 77, 112/113, 115, 126/127; A. Dagli Orti: p. 16; G. Dagli Orti: pp. 20/21, 94/95, 104, 106; G. Nimatallah: p. 93; A. De Gregorio: p. 98 – Altair4 Multimedia: pp. 22/23, 24 (alto), 25, 30/31 – Doc. red.: pp. 24 (basso), 27-29, 32/33, 38-39, 42, 44, 50, 62, 76, 89, 127 – Da: Ada Gabucci (a cura di), Il Colosseo, Electa, Milano 1999: pp. 42/43, 43, 45, 46/47, 47, 49, 70, 72 (basso), 78/79, 86/87, 90/91, 92 – Foto Scala, Firenze: BPK, Bildagentur für Kunst, Kultur und Geschichte, Berlino: p. 46; Tate, Londra: pp. 54/55; Museo Nacional del Prado: pp. 56/57; Austrian Archives: pp. 60/61; The Trustees of The British Museum: p. 88 (basso); su concessione MiBACT: pp. 108 (basso), 108/109, 116/117; AGF: pp. 119 – Getty Images: AFP: p. 48; Pacific Press/Andrea Ronchini: p. 59 – Bridgeman Images: pp. 51, 114; Artothek: p. 105; Ancient Art and Architecure Collection: p. 118 – Archivi Alinari, Firenze: PBA, Lille, Dist. RMN-Grand Palais/image Palais des beaux-arts de Lille: pp. 52/53; RMN-Grand Palais (Musée de Cluny-Musée national du Moyen-Âge)/Thierry Ollivier: p. 120 – Da: Sangue e arena, catalogo della mostra, Electa, Milano 2001: pp. 63, 78 (basso), 79 – Studio Inklink, Firenze: disegni alle pp. 68/69, 74/75 – Istituto Archeologico Germanico, Roma: p. 86 – Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, Roma: p. 88 (alto) – Marka: Rene van der Meere: p. 100 (basso) – Araldo De Luca: p. 101. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. In copertina: uno scorcio del Colosseo, nome con cui è universalmente noto l’Anfiteatro Flavio, inaugurato dall’imperatore Tito nell’80 d.C.
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